Città e capitali nella tarda antichità 9788879169455, 8879169459

Partendo da Roma, dai suoi cambiamenti e trasformazioni affrontati in seguito alla creazione di altre capitali, i contri

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Italian, English, French Pages 260 [256] Year 2020

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Città e capitali nella tarda antichità
 9788879169455, 8879169459

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Città e capitali nella tarda antichità A cura di Beatrice Girotti e Christian R. Raschle

STUDI E RICERCHE

COMITATO DI DIREZIONE Monica Barsi Claudia Berra Fabio Cassia Francesca Cenerini Iole Fargnoli Roberta Lanfredini Marita Rampazi

Le opere pubblicate nella Collana sono sottoposte in forma anonima ad almeno due revisori.

ISSN 1721-3096 ISBN 978-88-7916-945-5 Copyright © 2020 Via Cervignano 4 - 20137 Milano Catalogo: https://www.lededizioni.com

I diritti di riproduzione, memorizzazione e archiviazione elettronica, pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche, i supporti digitali e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da: AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108 - 20122 Milano E-mail [email protected] sito web www.aidro.org

In copertina: Ravenna. Mausoleo di Teodorico Giornate Europee del Patrimonio 2019 foto di Giovanni Assorati

Videoimpaginazione: Paola Mignanego Stampa: Litogì

Sommario

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Introduzione

PARTE I Roma, caput mundi Saint Augustin et Rome: le rendez-vous manqué Stéphane Ratti 

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Roma nella Historia Augusta Tommaso Gnoli 

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PARTE II Roma aeterna e le nuove capitali L’aeterna seconda? Su Costantinopoli e Roma e sulla legittimazione di Giuliano romanus Beatrice Girotti

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Constantinople and Rome, Christian Capitals: Discussing Power between Councils and Emperors (382) María Victoria Escribano Paño

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Gérer la pauvreté au VIe siècle à Constantinople: le cas de la novelle 80 de Justinien Vincent Nicolini

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Note sull’istruzione superiore nella Ravenna tardoantica e alto medievale Giovanni Assorati

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PARTE III Capitali, città e socialità La criminalità comune a Roma e nelle città dell’Occidente: la repressione del furto in età tardoantica Valerio Neri

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Le ‘città nobili’ della Historia Augusta Paolo Mastandrea

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Sommario

Tutela e reficere: aspetti della politica edilizia nel Tardoantico Salvatore Puliatti

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Una capitale intermittente: la vicenda di Antiochia di Siria nel IV secolo d.C. Marilena Casella

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La construction édilitaire civile dans les capitales et les cités de l’Égypte tardive (IVe-VIIe siècles): acteurs et financements Christel Freu

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Sancta ecclesia catholica Syracusana, A.D. 501 Alessandro Pagliara

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I Curatori e gli Autori

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Introduzione

Accogliendo la felice affermazione di Paul Erdkamp, ‘Città’ e ‘Capitale’ sono concetti troppo di frequente declinati seguendo logica e utilità spesso limitate all’analisi economica. È infatti vero che, stando almeno alle testimonianze delle fonti, gli antichi non percepivano una città come solo una semplice concentrazione di molte persone in un unico posto, ed è altrettanto vero che per loro la città e la capitale erano un simbolo di prosperità e cultura civile che poteva essere rappresentata secondo tante prospettive 1. Aderendo a questi concetti appena esplicitati, la raccolta di contributi che qui viene presentata medita e approfondisce, almeno si crede, queste riflessioni spingendosi oltre e fornendo al lettore una vasta gamma di casi di studio, che spaziano tra l’Impero romano orientale e occidentale ed esplorano al contempo possibilità di comparazioni interregionali. La ravvicinata e numericamente consistente pubblicazione di volumi che hanno per tema la città o la capitale (non solo tardoantica) consente, nel momento in cui ci accingiamo a introdurre questo volume, una prima ‘libertà’, perché autorizza in un certo senso a liberarsi dalla consueta giustificazione metodologica relativa alla scelta del tema. Nello stesso tempo però un così largo numero di contributi dedicati ai temi per esempio di città, cittadinanza, capitali, socialità, urbanizzazione, economia, politica, diritto, religione, edilizia abitativa obbligano anche, paradossalmente, a dovere difendere la scelta stessa di un argomento tanto dibattuto, non solo in campo storiografico ma anche in quello economico, archeologico, o altro. Molto è stato scritto e molto ancora non è stato detto. L’avver1 P. Erdkamp, Urbanism, in W. Scheidel (ed.), The Cambridge Companion to the Roman Economy, Cambridge 2012, 241-265. Nel contesto qui ripreso viene usato il termine ‘limitata’ perché la divisione tra città e capitale, e tra città, capitale e la netta distinzione con altre realtà quali la campagna e simili si sovrappongono in modo molto imperfetto a concetti economicamente rilevanti. Particolarmente significativa questa affermazione introduttiva al Companion che riflette almeno in parte anche lo spirito di questo nostro volume: «Rome was the largest city in the ancient world. As the capital of the Roman Empire, it was clearly an exceptional city in terms of size, diversity and complexity. While the Colosseum, imperial palaces and Pantheon are among its most famous features, this volume explores Rome primarily as a city in which many thousands of men and women were born, lived and died».

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Beatrice Girotti - Christian R. Raschle

timento iniziale allora, che è doveroso fare, è quello di precisare che ciò che emergerà dalla lettura di questo volume, il quadro che si rileverà dai dati raccolti non sarà certo definitivo ma sarà certamente suscettibile di ulteriori precisazioni, sebbene tenga in larga parte conto degli autorevoli studi già fatti e tenda e collocarsi in continuità con questi 2. Certamente i caratteri fondamentali delle città e delle capitali tardoantiche sono ben noti, ma restano da chiarire molti aspetti ed è su alcune di queste problematiche che si vogliono indirizzare i casi di studio raccolti in questo volume, concentrati nell’arco temporale che va dal IV al VI secolo 3. Lo scopo primario è quello di offrire una panoramica su tanti micro e macro aspetti delle città e delle capitali tardoantiche, con uno sguardo profondo sui diversi processi di trasformazione e ridefinizione dei modelli culturali, degli spazi urbani e abitativi, delle controversie religiose, a tutto ciò che insomma è stato definito «dynamism of ancient cities» 4. Obiettivo comune a tutti i contributi è quello di partire dall’analisi delle trasformazioni all’interno delle capitali e delle città e delle loro relazioni esterne, nonché dalla trasformazione del loro paesaggio e dei collegamenti regionali. Dentro al discorso relativo al concetto di trasformazione ci si è concentrati sulle innovazioni nelle strutture e negli edifici urbani, sul miglioramento dei servizi urbani, sul diverso uso degli spazi pubblici, sulla creazione di nuove relazioni culturali e religiose, sulle diverse forme di comunicazione, sui cambiamenti delle relazioni di potere dentro i diversi gruppi sociali come lo sviluppo di nuove aristocrazie, sul 2 Si rammentano, perfettamente consapevoli dell’incompletezza, solo alcuni dei tanti studi dedicati all’argomento città/capitale: P. Manent, Les métamorphoses de la cité. Essai sur la dynamique de l’Occident, Paris 2010; A. Jacobs, What Has Rome to Do with Bethlehem? Cultural Capital(s) and Religious Imperialism in Late Ancient Christianity, Classical Receptions Journal 3.1 (2011), 29-45; T. Fuhrer - F. Mundt - J. Stenger (eds.), Cityscaping: Constructing and Modeling Images of the City, Berlin 2015; E. Rizos (eds.), New Cities in Late Antiquity: Documents and Archeology (Bibliothèque de l’Antiquité Tardive 35), Paris 2017; N. Andrade - C. Marcaccini - G. Marconi - D. Violante (eds.), Ancient Cities, 1, Roman Imperial Cities in the East and in Central-Southern Italy. Atti del Convegno internazionale «La citt̀ romana imperiale», Roma 2019; M. Humphries, Cities and the Meanings of Late Antiquity, Leiden 2019; J. Stenger, Learning Cities in Late Antiquity, London 2019; C. Machado, Urban Spaces and Aristocratic Power in Late Antique Rome, Oxford 2020. 3 I contributi di Nicolini, Girotti, Freu e Neri sono a cura di Ch.R. Raschle; i contributi di Ratti, Gnoli, Assorati, Escribano Paño, Casella, Puliatti, Mastandrea e Pagliara sono a cura di B. Girotti. Un sentito ringraziamento va ai revisori anonimi, che leggendo pazientemente hanno fornito consigli utili al miglioramento di ogni singolo saggio. 4 La definizione è di A.S. Lewin, nella sua prefazione al volume Andrade - Marcaccini - Marconi - Violante 2019, 16 (cfr. n. 1).

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Introduzione

trasferimento di élites amministrative, sul rapporto con gruppi marginali, su nuove forme di esperienze di vita collettiva e familiare. Il confronto tra sviluppi storici in diverse aree geografiche e le interconnessioni esistenti hanno portato i contributori a questo volume a focalizzarsi su diverse problematiche che al di là dei contenuti e degli approcci dei singoli saggi, trova la ragione di fondo nel tema complessivo che ruota intorno a Roma, capitale aeterna, e alle sue relazioni con le altre città e capitali, che pì volte sottolineano la dimensione ‘romana’ del mondo, definita nella sua estensione e nei suoi confini in funzione di educazione intellettuale e politica. Si sono dunque declinati sotto diversi aspetti molteplici campioni tematici. Prendendo come punto di partenza ideale proprio Roma, e nello specifico partendo dagli scritti di Agostino, che riflette una posizione anomala rispetto alla pubblicistica coeva le ragioni della sua estraneità spirituale e sentimentale nei riguardi Roma, atteggiamento che nasceva da considerazioni di ordine religioso e rispondeva, nel pensiero agostiniano sulla storia umana, a una scala di valori estranea alla cultura tradizionale (Ratti), si passerà poi al problema della datazione della raccolta di biografie imperiali della Historia Augusta, lette esaminando un aspetto particolare, cioè la conoscenza topografica di Roma nell’opera, con particolare attenzione per le Vitae attribuite a Flavio Vopisco e soprattutto per la Vita Aureliani (Gnoli). Ancora Historia Augusta nel rapporto studiato tra Roma e le cosiddette città nobili: qui l’attenzione si sposta anche sulle cerimonie fondative della città di Costantinopoli (Mastandrea). Non topografia ma veri e propri fenomeni urbanistici sono oggetto dello studio sul fenomeno dell’edilizia civile tardoantica sulla base dell’archeologia e dell’epigrafia civica, nonché sulla concreta documentazione della prassi (i papiri) di uno specifico territorio provinciale (l’Egitto) attraverso una suddivisione per tipologie di finanziatori, committenti, committenze (Freu). E ancora, da un punto di vista sociale, uno studio che si segnala per la padronanza delle diverse categorie di documentazione, per l’analisi delle fonti e per le considerazioni sulla sociologia urbana di Roma fino alla metà del V secolo e consegna un’ampia e approfondita conoscenza della marginalità sociale in età tardoantica (Neri). Sempre socialità, attraverso l’analisi della Novella 80 di Giustiniano: la contrapposizione fra povertà ‘buona’ e povertà ‘cattiva’, fra stato di ‘indigenza’ e stato di ‘miseria’, fra le condizioni di svantaggio oggettivo degli individui colpiti da malattia per i quali è prevista l’assistenza, e l’impoverimento economico delle classi disagiate delle campagne che, non compromettendo le capacità lavorative, viene considerata ‘colpa’, e non appare dunque meritevole di aiuto pubblico ma semmai viene ritenuta causa di disordine sociale (Nicolini). Da un punto di vista giuridico, con 9

Beatrice Girotti - Christian R. Raschle

riferimento specifico al giurista Callistrato, la problematica della regolamentazione edilizia romana di età imperiale su consumo del suolo e tutela del decoro urbano. Vengono analizzati passi salienti della riflessione sulla materia di Callistrato, pì attento all’esigenze della conservazione che a quella della costruzione degli edifici, e dunque alla necessità del reficere e del garantire tutela (Puliatti). Altro punto fondamentale che viene indagato è poi l’annoso e complicato rapporto fra Roma e Costantinopoli, come altrettanto stimolanti si presentano i rapporti tra Roma e Antiochia e le relazioni tra Roma e Ravenna. Il rapporto Roma/Costantinopoli viene sezionato sia sul piano dei concreti rapporti politici, sia sul piano religioso e culturale, in questo caso l’idea di una conflittualità fra le due capitali nelle fonti cristiane sostenuta da alcuni studiosi va attenuata (Girotti). Per ciò che concerne Roma/Antiochia, l’analisi è centrata sulla grande capitale regionale le cui funzioni di sede imperiale temporanea si esprimono con una discontinuità di fasi legate alla residenza, in certi periodi e per certe esigenze (in genere militari), della corte e dei connessi apparati di potere (Casella). Nel caso della capitale Ravenna, l’elemento determinante viene individuato nel trasferimento della corte imperiale e soprattutto nella presenza del governo ostrogotico (Assorati). Roma e Costantinopoli sono inoltre coinvolte e interessate da un punto di vista delle relazioni ecclesiastiche fra chiese orientali e chiese occidentali (Escribano Paño), e diversi e pì specifici aspetti ecclesiastici si ritrovano pure nel tardo ambiente siciliano (VI sec. d.C.), dove è indagato il magistero pastorale di Eulalio al centro dello snodo siracusiano tra Graecitas, Romanitas e Latinitas (Pagliara). È pì che un dovere ricordare che questo volume si pubblica anche grazie al finanziamento del progetto internazionale Joint Lab UniboUdeM. A partire dall’anno accademico 2016/2017, il Centre d’Études Classiques, il Département d’Histoire dell’Université de Montréal e il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna hanno infatti avviato una cooperazione strutturale volta a istituire un laboratorio di ricerca congiunto su aree di ricerca strategica di interesse comune focalizzate sulla rilevanza del mondo antico e nel confronto di diversi modelli storici e storiografici (Joint Lab). La ricerca e i corsi collegati si sono concentrati, e si concentrano tuttora, su temi trasversali quali mentalità, relazioni, società e istituzioni. Grazie ai finanziamenti ottenuti dalle due università nell’anno accademico 2017/2018, il Joint Lab ha potuto iniziare la sua prima attuazione attraverso un’iniziativa specifica volta a migliorare i collegamenti tra le facoltà e coinvolgere gli studenti laureati nella cooperazione di ricerca. L’argomento individuato per l’anno accademico 2017/2018 aveva il titolo di 10

Introduzione

«Scambi interculturali, modelli e trasformazioni contrastanti. Le capitali della tarda antichità come caso di studio». La scelta del tema si è fondata sulla base delle aree comuni di interesse perseguite da diversi gruppi di ricerca delle due Università e ha avuto l’obiettivo di favorire un dialogo interdisciplinare come uno degli elementi fondanti del Joint Lab. L’iniziativa si è articolata nelle seguenti azioni: a. Un’unità di corso di lavoro congiunto sul campo della tarda antichità che ha coinvolto 20 studenti laureati e 10 studenti universitari in un corso integrato di Storia della Tarda Antichità (Girotti) e Histoire de l’Antiquité Tardive (Raschle) svolta congiuntamente a Unibo e UdeM tra gennaio e maggio 2018. Lungo la durata di tutto il corso gli studenti hanno lavorato in gruppi transnazionali su argomenti di ricerca che si focalizzavano sull’argomento scelto per l’anno accademico e su questo tema gli studenti di entrambi i corsi hanno quindi discusso le loro relazioni e papers durante un viaggio di istruzione nelle tre capitali imperiali dell’Occidente: Roma, Milano e Ravenna (6 giugno - 14 giugno 2018). b. Uno scambio congiunto di ricerca universitaria e formazione a partire da tre brevi residenze per gli studenti laureati per svolgere la loro ricerca di tesi in entrambe le università e quattro residenze per ricercatori post-doc tra marzo 2017 e ottobre 2018. c. Due incontri scientifici aperti a studiosi internazionali a Montréal (6-7/9/2018) e a Bologna (23-24/10/2018) incentrati sull’argomento di lavoro annuale. d. Tre studenti laureati che hanno svolto ricerca e formazione professionale all’interno dell’ampia area del laboratorio comune grazie a una borsa di studio del progetto. e. Un nuovo corso congiunto con lo stesso tema e un secondo viaggio di istruzione in cui si sono aggiunte come attività la visita a Napoli e Pompei (giugno 2019) e una giornata al Museo Nazionale dove gli studenti hanno partecipato a una lezione di formazione e istruzione su possibili esperienze di tirocinio. Desideriamo esprimere un particolare ringraziamento ai Direttori dei Dipartimenti di Storia Culture Civiltà dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, del Département d’Histoire dell’UdeM e del Centre d’Études Classiques de Montréal, che ancora oggi ci permettono attraverso il loro sostegno di portare avanti un’intensa e proficua collaborazione. Il ringraziamento è esteso inoltre a tutti i colleghi, a tutti gli amici e soprattutto a tutti gli studenti del corso congiunto che hanno partecipato e partecipano ancora oggi alle impegnative attività previste dal progetto «Joint Field Work on Late Antiquity». Tutto quello che è stato messo in 11

Beatrice Girotti - Christian R. Raschle

atto per questo progetto non sarebbe stato possibile senza il supporto quotidiano, le energie e le idee preziose di Carla Salvaterra. I mesi in cui si è concentrata la stesura finale di questo lavoro sono stati caratterizzati dalla nota emergenza Covid-19, a causa della quale la terza edizione del progetto (febbraio-giugno 2020, che prevedeva oltre ai corsi un viaggio di istruzione a cui alle mete consuete si era aggiunta Aquileia) è stata sospesa. Gli studenti della terza edizione hanno seguito pazientemente e con genuina partecipazione i corsi in modalità on-line e sono riusciti con forza ad affrontare tutti i cambiamenti causati dalla situazione, ma soprattutto hanno lavorato ai loro posters e papers ben sapendo che avrebbero dovuto rinunciare agli incontri italo-canadesi in presenza e al viaggio di istruzione. A loro, e al loro speciale entusiasmo nonostante tutto, è dedicato questo libro. Bologna - Montréal, giugno 2020 Beatrice Girotti Christian R. Raschle

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Saint Augustin et Rome: le rendez-vous manqué Stéphane Ratti *

RÉSUMÉ: La relation de saint Augustin avec Rome est complexe. Il est, en effet, passé de la fascination, dans sa jeunesse, à la méfiance, une fois devenu évêque. Augustin décida de gagner Rome à l’âge de vingt-neuf ans poussé par l’amour de la paideia qu’incarnait à ses yeux un homme comme Hierius. Rome est ainsi pour lui d’abord une langue, le latin. Augustin, ensuite, n’a jamais admiré la totalité de l’histoire de Rome, mais éprouvait une préférence pour la période républicaine. On peut trouver trois raisons à l’impasse que fait Augustin sur la période historique de l’Empire: une raison philosophique (la felicitas de l’Empire païen), une raison historique (la tolérance religieuse de certains princes païens comme Alexandre Sévère ou Gallien) et une raison plus personnelle (la méfiance d’Augustin envers l’administration et le pouvoir). Rome, enfin, finit par représenter aux yeux d’Augustin, au moment de la mort de Marcellinus, l’arbitraire impérial. ABSTRACT: Saint Augustine’s relationship with Rome is complex. He went from fascination, in his youth, to distrust, once he became a bishop. Augustine decided to go to Rome at the age of twenty-nine, driven by the love of paideia that a man like Hierius embodied. For him, Rome is first of all a language, Latin. Augustine, then, never admired the entire history of Rome, but had a preference for the Republican period. We can find three reasons for the impasse that Augustine made over the historical period of the Empire: a philosophical reason (the felicitas of the pagan empire), a historical reason (the religious tolerance of certain pagan emperors like Alexander Severus or Gallienus ) and a more personal reason (Augustine’s distrust of administration and power). Finally, Rome represented in the eyes of Augustine, at the time of the death of Marcellinus, the imperial arbitrariness. KEYWORDS: arbitrary power; histoire de l’Empire romain; history of the Roman Empire;

paideia; pouvoir arbitraire; Roma; Rome; Saint Augustin.

Un débat passablement enflammé avait lors du «Congrès international augustinien» de 1954, tenu à Paris (et dont les Actes en trois forts volumes sont connus sous le titre de Augustinus Magister), divisé les spécialistes de saint Augustin. Il s’agissait de savoir si ce dernier méritait le qualificatif * Université de Bourgogne Franche-Comté.

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Stéphane Ratti

«d’ennemi» de Rome, «d’anti-romain» ou bien si sa «romanité» était plus profonde et donc s’il l’on pouvait parler de son «patriotisme romain». Ce débat a naguère été bien éclairé et, en grande partie dépassé, par André Mandouze dans sa thèse parue en 1968 1. Je voudrais ici évoquer cette question en d’autres termes et je me demande si la notion, un peu trop sentimentale sans doute, de «rendez-vous manqué» entre Augustin et Rome ne serait pas davantage opérationnelle. Ce faisant je poursuis le travail que j’ai engagé dans mon livre de 2016, Le Premier saint Augustin 2, selon la méthode qui préfère l’histoire incarnée – quitte à souligner certaines faiblesses de l’homme Augustin – plutôt que l’hagiographie. Dans le De Trinitate (13, 3, 6) Augustin écrit: Nam conditam Romam tam certum habeo in rebus humanis quam Constantinopolim, cum Romam uiderim oculis meis, de illa uero nihil nouerim, nisi quod aliis testibus credidi; «Parmi les réalisations humaines, je suis aussi certain que Rome existe que Constantinople alors que j’ai vu Rome de mes yeux et que je ne sais rien de l’autre si ce n’est sur la foi des témoignages d’autrui» 3. On peut hésiter sur le sens exact de cette phrase. Comme elle figure dans un développement qui voudrait prouver qu’on ne peut jamais vraiment connaître de manière fiable la volonté d’autrui ni être absolument sûr de ses affirmations ni de ses intentions – aliud est uidere uoluntatem suam, aliud, quamuis certissima coniectura, conicere alienam dit Augustin: «c’est une chose de connaître sa volonté, c’en est une autre de conjecturer celle d’autrui même si c’est sur des conjectures parfaitement sûres» –, on pourrait être tenté de la comprendre ainsi: «Parmi les réalisations humaines, je ne suis pas plus certain que Rome existe que Constantinople  […]». Est-ce à dire qu’Augustin n’a jamais cru réelle la Rome dans laquelle il séjourna entre 383 et 384? Dénierait-il à ce séjour la moindre réalité? Y aurait-il un déni de nature psychanalytique qui ferait que Rome, chez Augustin, aurait été comme effacée de sa mémoire et gommée de son œuvre? Naturellement Rome est souvent mentionnée par Augustin – on verra plus bas quelle Rome exactement – et tient une place évidemment centrale dans les développements historiques des premiers livres de la Cité de Dieu. Mais Rome n’y est jamais présentée comme un objet d’amour ou d’admiration, et ce même quand Augustin débarque à Ostie à l’âge de trente ans.

1 Mandouze 1968, 304-321. Les expressions entre guillemets sont des emprunts à la p. 314 de l’ouvrage. 2 Ratti 2016a. 3 Je suis responsable de toutes les traductions dans cette étude.

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Saint Augustin et Rome: le rendez-vous manqué

1. AUGUSTIN ET LA ‘PAIDEIA’ Mais pourquoi Augustin entreprit-il ce voyage à Rome alors qu’il occupait une chaire enviable à l’université de Carthage? Était-il poussé par le désir de la connaissance? Comme le rappelle Alain Besançon, «il n’était nullement nécessaire a priori que le christianisme eût besoin de science et de philosophie» 4. Augustin est un pur produit de l’école romaine, de ses modèles et de ses valeurs culturelles, même si toute sa formation fut reçue en Afrique. Ce modèle est cicéronien, la dimension politique en moins. Son premier ouvrage, le De pulchro et apto, date de son professorat à Carthage. Il témoigne à la fois par son titre et ce qu’on peut deviner de son contenu de l’empreinte décisive que la paideia a imprimée sur son auteur. Ce qu’on désigne du mot grec de paideia, c’est l’encyclopédisme littéraire, acquis par la pratique des arts libéraux, qui est le cadre de vie et de pensée de tout intellectuel romain, l’essence même de la civilisation antique, c’està-dire du paganisme. La paideia correspond à ce qu’on appelait naguère «les humanités», dans l’acception pleine que donne à ce mot l’auteur des Nuits attiques, Aulu-Gelle: «Le mot ‘humanité’ n’a pas le sens qu’on lui donne ordinairement. Ce sont plutôt les puristes de la langue qui ont donné à ce mot sa signification propre. Les créateurs de la langue latine qui, à ce titre, en ont fait un usage correct, n’y voyaient pas un synonyme du mot ‘humanité’, à savoir ce qu’ordinairement on entend par le grec ‘philanthropie’ et qui désigne une espèce de bienveillance ou d’attention portée à tous les hommes, mais ils entendaient par ‘humanité’ plutôt ce que les Grecs appellent ‘culture’ (paideia) et ce que nous autres nommons ‘érudition’ et ‘éducation’ aux arts. Ceux qui sont intimement portés à ces arts et les cultivent sont plus que tous les autres parfaitement humains» 5. Autre indice de grand poids sur les ambitions d’Augustin encore jeune universitaire: il dédie ce traité perdu à un dénommé Hierius. Il ne fait guère de doute que ce Hierius était non seulement un orateur romain de grande réputation, un homme d’origine syrienne mais qui savait parBesançon 2018, 1348. Aulu-Gelle, Noctes Atticae 13, 17, éd. par M. Hertz, Leipzig, Teubner, 1877, t. 2, 84-85: «Humanitatem» non significare id, quod uolgus putat, sed eo uocabulo, qui sinceriter locuti sunt, magis proprie esse usos. Qui uerba Latina fecerunt quique his probe usi sunt, «humanitatem» non id esse uoluerunt, quod uolgus existimat quodque a Graecis φιλανθρωπία dicitur et significat dexteritatem quandam beniuolentiamque erga omnis homines promiscam, sed «humanitatem» appellauerunt id propemodum quod Graeci παιδείαν uocant, nos eruditionem institutionemque in bonas artes dicimus. Quas qui sinceriter cupiunt adpetuntque, hi sunt uel maxime humanissimi. Cf. aussi Brague 2013, 11. 4

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faitement le grec et le latin, mais aussi un païen militant fréquentant le cercle de Symmaque et de Nicomaque Flavien senior. Il a d’ailleurs à ce titre été le maître d’œuvre d’une réédition des déclamations apocryphes de Quintilien qui avaient une portée polémique antichrétienne. Hierius fut le premier amour intellectuel d’Augustin, celui auquel il ambitionnait de s’égaler: «Ce rhéteur était ce genre d’homme que j’aimais et auquel je rêvais de m’identifier» (Confessions 4, 23). Sans doute le départ même d’Augustin pour Rome fut-il motivé par le désir de rencontrer Hierius, pour lui offrir le traité qu’il lui avait dédicacé et se gagner ainsi un protecteur influent. L’ambition première et constante d’Augustin fut de faire en Italie une carrière brillante au service de laquelle il mettrait ces armes de la rhétorique qu’il maîtrisait si bien. Il l’avoue sans fard: «J’étais conduit par mon orgueil» (ibid.). Saint Augustin s’était fixé dans le troisième ouvrage par ordre chronologique que nous avons conservé de lui, le traité Sur l’ordre (De ordine), rédigé à l’automne 386, un plan très précis de travail. Au printemps 386 le futur évêque n’est même pas encore baptisé. Ses cours et sa fonction de panégyriste officiel à la cour de Milan le déçoivent beaucoup, au point de provoquer crises d’angoisse et maux de poitrine, même si ses ambitions terrestres demeurent en lui dévorantes: «Et en plus, cet été même, mes poumons n’en pouvaient plus, sous l’effet de l’extrême fatigue due à mon métier de professeur; ma respiration était pénible et des douleurs dans la poitrine indiquaient qu’ils étaient atteints; ils ne me permettaient plus de m’exprimer à haute et intelligible voix. Cela m’avait, dans un premier temps, perturbé d’être contraint de déposer la charge de cette chaire pour ainsi dire par la force des choses ou, si j’avais pu guérir et reprendre des forces, pour le moins de prendre un congé» (Confessions 9, 4). Il n’a pu rencontrer personnellement (en tête à tête) Ambroise qu’à deux reprises sans doute et, malgré les sermons de l’évêque de Milan qu’il allait écouter parfois à la basilique Portiana, Augustin, tout catéchumène qu’il était, demeurait foncièrement un intellectuel fraîchement dépris du manichéisme, encore imprégné des enseignements de la Nouvelle Académie et sur le point, après la lecture des libri Platonicorum et l’assimilation des prêches d’Ambroise sur le De Isaac et le De bono mortis eux-mêmes nourris de Plotin, d’embrasser avec zèle les thèses néoplatoniciennes. À l’automne de la même année, au moment de rédiger le De ordine, les choses ont bien changé: Augustin a entendu le récit du prêtre Simplicianus sur les convertis de Trèves et s’est lui-même converti au cours de la fameuse scène du jardin de Milan à l’été 386. Le plan de travail annoncé dans le De ordine 2, 35-44 prévoyait une étude systématique des arts libéraux: la grammaire, la rhétorique, la dia18

Saint Augustin et Rome: le rendez-vous manqué

lectique, la musique, la géométrie, l’astronomie. Les chapitres 36 et 37 y sont consacrés à la grammaire plus précisément. Le chapitre 36 décrit une science très technique, fondée sur l’étude des sons (on y trouve une typologie des voyelles classées en voyelles simples, semi-voyelles et muettes), des nombres (ou rythmes qui scandent les textes en prose classiques) et de la mesure ou cursus (un type d’ornementation fondé sur l’alternance de syllabes accentuées et non accentuées propre à l’Antiquité tardive). Le chapitre 37 rappelle que grammaire se dit aussi litteratura en latin et que, par conséquent l’héritage entier des lettres latines relève de son domaine d’étude. Augustin a beau être converti et proche du baptême, les dialogues philosophiques rédigés à Cassiciacum, sans doute sous la forme d’une réécriture de notes prises pendant des conversations qui eurent réellement lieu, furent dédicacés à des intellectuels qu’il admirait. Déjà le De pulchro et apto, rédigé encore en Afrique, avait été dédicacé à Hierius, le De uita beata est dédicacé à Manlius Theodorus, converti mais surtout homme de lettres (on possède de lui un traité de scansion, le De metris) réputé et auteur de traités de philosophie, le Contra Academicos est adressé à Romanianus et à ses compatriotes d’Afrique, tous sympathisants de la secte manichéenne. Dans sa retraite philosophique de Cassiciacum Augustin entend bien poursuivre les études qui ont été les siennes depuis toujours, lui, l’ancien professeur de Thagaste, l’universitaire de Carthage et le panégyriste de Milan. Il le dit à Zenobius au début du De ordine: «Certains soignent les blessures que les sens leur ont infligées en les cautérisant dans la solitude, tandis que d’autres les guérissent par la médication des arts libéraux» 6. Ce vaste programme défini dans les pages fameuses du De ordine devait déboucher sur un ensemble de manuels regroupés sous le titre de Diciplinarum libri qu’Augustin avait entrepris de rédiger. De cet ensemble Augustin n’a réalisé que les six livres du De musica (sur douze prévus initialement) et deux opuscules inachevés, les Principia dialecticae et les Principia rhetorices.

2. ROME EST D’ABORD UNE LANGUE Dans le projet encyclopédique de Cassiciacum figure l’étude de la grammaire. Or nous possédons une Ars grammatica rédigée de la main d’Au6 De ordine 1, 3: qui plagas quasdam opinionum, quas uitae quotidianae cursus infligit, aut solitudine inurunt, aut liberalibus medicant disciplinis.

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gustin, parfois considérée, sans que cela soit absolument certain, comme un simple abrégé d’un texte plus complet et perdu. Cette grammaire, dont l’authenticité ne doit plus être remise en question, très technique, semble bien avoir été conçue dans un but pratique et pédagogique. Rien sur la foi (en dehors d’une exemple insignifiant tiré de saint Paul latinisé) dans ce traité sans véritable portée littéraire. Une seule exception, en partie tacite: les premières lignes de l’ouvrage qui définissent la grammaire comme une forme particulière de la raison (et donc du plan divin). Mais en cela Augustin insiste plus sur l’autorité de la raison que sur celle du Maître divin. L’apparition ici du mot ratio («raison») doit être rapprochée de l’importance de Ratio, cette allégorie présentée comme un interlocuteur à part entière du dialogue, dans le De ordine puisque ce même mot apparaît à dix reprises dans les vingt-cinq premiers paragraphes de ce traité philosophique. Le sous-titre parfois donné à ces pages n’est-il pas: «Sur l’ordre qui dispose les choses humaines et la volonté?». À bien des égards le De ordine est un éloge de «la beauté de la raison, qui règle et gouverne toutes choses, qu’elles en aient conscience ou non», «raison qui attire à elle ses zélateurs pleins de désir pour elle par où et où qu’elle commande d’être cherchée». Cette raison supérieure qui gouverne toutes choses, des plus nobles aux plus modestes (Augustin donne l’exemple du port altier et des plumes du coq!), une forme de transcendance empreinte de souvenirs néoplatoniciens, «réglant tout d’en haut» (De ordine 1, 25), pourquoi ne serait-elle pas invoquée comme donnant ses règles à la grammaire elle-même? Le lexique et la pensée d’Augustin sont cohérents en ces années 386-387. Ce que dit Augustin de la «latinité» (latinitas: une langue et une civilisation; une grammaire et une raison) peut s’entendre de la paideia. Pour Augustin, Rome est d’abord une langue: La latinité réside dans le respect d’un mode d’expression sans faute et conforme à la langue de Rome (Romana lingua). Elle repose sur trois fondements qui sont la raison, l’autorité et la pratique. La raison se vérifie d’après l’art, l’autorité d’après les écrits qui font eux-mêmes autorité, la pratique d’après l’usage de la langue qui a été approuvé et adopté. 7

Augustin, Ars grammatica 1: Latinitas est obseruatio incorrupte loquendi secundum Romanam linguam. Constat autem modis tribus, id est ratione, auctoritate, consuetudine: ratione secundum artem, auctoritate secundum eorum scripta quibus ipsa est auctoritas adtributa, consuetudine secundum ea quae loquendi usu placita adsumptaque sunt. Sur la riche postérité de cette définition, latinitas est obseruatio incorrupte loquendi secundum Romanam linguam (Audax, Maximus Victorinus, Diomède), cf. le commentaire de Bonnet 2013, 51-52. 7

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Comment dès lors expliquer que cet intellectuel épris de latinité ait si peu parlé de Rome, n’ait jamais décrit ses richesses ni ses monuments et se soit tu sur ces beautés qu’Ammien Marcellin célébrera à l’occasion de l’aduentus de Constance II à Rome en 357? Cette description de Rome à l’occasion de la visite de Constance II a été rédigée précisément entre 384 et 388, sans doute plus près de la première date que de la seconde. Ammien Marcellin écrit cette page probablement, à une ou deux années près, au moment même où Augustin découvre de son côté Rome. L’auteur des Confessions, comme l’empereur, a donc dû voir ceci (mais il n’en parle pas!): À son entrée dans Rome, sanctuaire de l’Empire et de toutes les vertus, et de la grandeur, il s’était rendu aux Rostres. Il demeura frappé d’admiration à la vue du forum qui représentait si parfaitement l’antique puissance. Son regard, de quelque côté qu’il se tourne, est ébloui par l’accumulation de prodiges […]. Puis, entre les sommets des sept collines, sur les pentes ou dans la plaine, il contempla les différents organes de la Ville et de ses faubourgs. Il croyait que ce qu’il venait de voir allait l’emporter sur tout le reste: le temple de Jupiter Tarpéien, qui dominait autant que ce qui est divin l’emporte sur ce qui est terrestre; les thermes, dont l’étendue les égalait à des provinces; la masse de l’amphithéâtre solidement bâti grâce à l’agencement de la pierre de Tibur, et dont la vision humaine atteint à peine le sommet; le Panthéon, aussi vaste qu’un quartier circulaire et dont la voûte atteint à une hauteur spectaculaire; les piliers élevés, jusqu’aux sommets desquels on peut accéder, et qui portent les effigies des princes du passé; le temple de la Ville, le forum de la Paix, le théâtre de Pompée, l’Odéon, le Stade, et d’autres merveilles encore de la Ville éternelle. Mais quand il fut parvenu au forum de Trajan, une construction unique sous tous les cieux, et digne, à notre sens, de susciter l’admiration des dieux mêmes, il s’arrêta interdit, laissant son esprit parcourir ces constructions gigantesques qui défient la description et qui ne sauraient plus jamais être reproduites par les mortels. 8

Augustin ne pouvait pas se lancer dans une description archéologique de Rome qui n’aurait pas manqué de virer au panégyrique. Il savait se défier de ses enthousiasmes. Saint Jérôme, lorsqu’il pleure, dans sa correspondance, la chute de Rome en 410, le fait en tant que Romain, c’està-dire citoyen de Rome où il a passé sa jeunesse, après avoir quitté sa petite patrie Stridon, près d’Aquilée. C’est à Rome qu’il a été promis à tous les honneurs, c’est à Rome qu’il a été secrétaire de Damase, le pape lettré et amateur d’archéologie paléochrétienne, et qu’il a manqué de peu, à la mort de ce dernier, d’être porté lui-même sur le siège de saint 8

Ammien Marcellin 16, 10, 13-15.

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Pierre. Jérôme était attaché aux grandeurs, au moins intellectuellement. Il aimait suffisamment l’histoire romaine pour avoir traduit du grec en latin la Chronique historique d’Eusèbe de Césarée et l’avoir même prolongée de 325 à 378 en focalisant son attention sur la littérature latine et sur les empereurs romains. C’est pour cette raison que Jérôme, après la cabale dont il fut victime, voulut tout quitter, grandeurs romaines, vie sociale auprès des Grands du moment, ambitions pontificales et travaux d’érudition profanes. Il avait approché ces milieux et les avait connus de l’intérieur, intimement. Une rupture était inévitable et Jérôme partit pour Bethléem. Or, rien de tel ne s’est passé pour Augustin, qui n’a pas eu à rompre avec un monde auquel il n’a jamais appartenu. Il ne décrit pas Rome, ni en bien ni en mal, une cité à laquelle il n’appartient pas. Ce n’est pas son sujet. On peut supposer que la présence de saint Jérôme à Rome avait laissé des traces parfaitement visibles. L’homme avait, on l’a dit, manqué de peu la succession de Damase en 384 mais il avait laissé dans les librairies de Rome son manuscrit de la Chronique, achevée en 381-382 Au contraire d’Augustin, Sulpice Sévère la lira de près pour nourrir ses propres Chronica. Le texte de Jérôme, ouvertement prosénatorial et suffisamment patriotique – il était largement d’inspiration livienne et, du fait de sa composition même en colonnes qui se réunissaient à la fin en une seule contenant l’histoire du populus praeualens, il était par essence romanocentriste – pour attirer les bonnes grâces de l’aristocratie romaine, avait dû ulcérer Augustin par le parfum de grandeur profane qu’il dégageait. Peut-être fut-ce là le premier contact, purement littéraire, entre les deux hommes et le premier sujet de discorde bien avant la querelle qui naîtra autour de l’année 395 au sujet du recours au mensonge dans l’Épître aux Galates.

3. AUGUSTIN ET L’HISTOIRE DE ROME Hervé Inglebert a naguère proposé une lecture approfondie des pages de la Cité de Dieu dans lesquelles Augustin expose sa relation à l’histoire 9. On peut en faire ici un résumé critique. On trouve les principaux éléments concernant l’histoire romaine dans aux livres 2-5 et 18 de la Cité de Dieu. Le livre 2 développe notamment un thème polémique, celui de la corruption morale des Romains par leurs dieux. Augustin livre une 9

Inglebert 1996, 427-455.

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série d’exempla. Il décrit surtout les temps avant l’Incarnation parce qu’il veut incriminer les dieux païens, sans que leurs dévots puissent dire que les malheurs de ces temps étaient dus au christianisme naissant. Cela permet aussi à Augustin de ne pas poser la question de l’Empire et de sa relation avec le christianisme. On peut, avec Hervé Inglebert, retenir trois idées essentielles d’Augustin: • Les dieux sont des démons qui ont corrompu les Romains. C’est le cas, par exemple, de Scipion Nasica (neveu de l’Africain, consul en 162) devenu fidèle de la Mère des Dieux (ciu. 2, 5). La cité et les individus ont été corrompus par les fêtes, les jeux, le théâtre, les fictions des poètes 10: • Les Romains ont parfois été moralement bons, mais seulement sous la crainte: au moment de l’expulsion des rois (Brutus, Lucrèce), entre la deuxième et la troisième guerre punique. Mais la corruption s’est aggravée avec la chute de Carthage en 146: Augustin s’appuie sur Salluste et Cicéron. On peut donner comme exemples l’épisode de Camille ou les guerres civiles (ciu. 2, 17-19; 2, 21-24) 11. • Le christianisme améliore les mœurs (ciu. 2, 28): désormais, par exemple, les hommes et les femmes sont séparés dans les églises. Augustin présenterait donc la Royauté comme une époque injuste à partir du seul exemple du rapt des Sabines. Mais il n’est pas tout à fait exact qu’Augustin ne dise rien sur l’asylum romuléen. On trouve en effet une allusion polémique à cet épisode en ciu. 2, 29: «l’asile qu’on y trouve (dans la religion chrétienne), d’une certaine manière, c’est la vraie rémission des péchés». La République aurait ainsi connu deux périodes remarquables: les premières années et les guerres puniques (en fait surtout l’intervalle entre les deux). Augustin insiste sur la corruption de la fin de la République. Il faudrait, pour notre propos, et dans notre perspective, ajouter ceci aux excellentes analyses d’Hervé Inglebert: ce qui est révélateur pour notre sujet c’est qu’Augustin ne parle ni des origines de Rome ni de l’Empire. C’est une grande différence avec Tite-Live (Romulus en 1, 8) et surtout cela le distingue des païens qui ont constitué, probablement à la même époque, le corpus Aurelianum du pseudo-Aurélius Victor (l’Origo gentis romanae, les Caesares d’Aurélius Victor, et le De Viris illustribus). Ce corpus a évidemment une saveur païenne prononcée, même si tous 10 Cf. ciu. 2, 4 et les fêtes en l’honneur de Caelestis à Carthage: cf. cette page commentée dans Ratti 2016b, 31. 11 Les guerres civiles du premier siècle furent «plus néfastes que toutes les guerres étrangères […] et ont absolument détruit la République» (ciu. 3, 30).

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les lecteurs n’en reconnaissent pas toujours les épices 12: pour le De Viris illustribus, la chose a été, à juste titre, réaffirmée par son éditeur récent dans la Collection des Universités de France (Budé), en 2016, Paul-Marius Martin; l’Origo, de son côté, est nourri de mythologie plus que d’histoire puisqu’il commence avec l’arrivée de Saturne en Italie et ne va pas au-delà du règne de Romulus, c’est-à-dire qu’il ne franchit pas l’époque mythique; il correspond donc à la théologie mythique telle que la définissait Varron, précisément attaqué par Augustin (ciu. 6, 6). Les Caesares, de leur côté, sont la plus ambitieuse histoire au sens noble du terme des empereurs romains d’Auguste à Constance II. Mais ce livre que son auteur voulait digne de Tacite est un vaste panégyrique du restaurateur du paganisme, l’empereur Julien qui en est la figure centrale, rehaussée par les reproches adressés au dédicataire de l’œuvre, le fils de Constantin, Constance II. Il correspond donc, en faisant l’éloge de la pax deorum, à la théologie civile chère à Varron. Si l’on ajoute qu’Aurélius Victor avait été loué par Ammien Marcellin et que l’Histoire Auguste rédigée entre 392 et 394 précède de peu la Cité de Dieu on comprend mieux pourquoi Augustin a fui l’histoire impériale comme s’il risquait d’entrer en terrain miné. Pour Augustin, l’Empire  était une énigme historique: la période avait vu le développement du christianisme, certes, mais la corruption des hommes et des structures était durant cette période insupportable à ses yeux. Comme la République s’était avilie avec les guerres civiles, il fallut la remplacer par un pouvoir monarchique. Ce pouvoir est aux yeux d’Augustin moins bon que la République et demeure un pis-aller historique. Enfin, Augustin appelle le principat d’Octave «un pouvoir royal» (ciu. 1, 31: potestas regia; 3, 21: regale imperium). Augustin n’aime pas les rois ni la Royauté qui pour lui a coïncidé avec une perte de liberté. Son amour pour la République est à la fois culturel et politique, mais n’a de loin pas la force de celui de Jérôme habité par un patriotisme romain inconnu d’Augustin.

4. L’OMISSION DE L’EMPIRE PAR AUGUSTIN: TROIS EXPLICATIONS

Pour Hervé Inglebert, l’absence de la période impériale dans la Cité de Dieu est volontaire. On pourrait la croire justifiée par le fait que l’Incar12 Voir le compte rendu excessif de Martin 2016 par Zugravu 2018 et, contra, Ratti 2016c, 259-262.

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nation commence avec l’Empire. Il convient cependant d’examiner de près la phrase importante qui est en ciu. 18, 46: «Hérode étant roi de Judée et César Auguste étant empereur chez les Romains alors que le statut de l’État avait déjà changé [mutato rei publicae statu: cf. Tacite, ann. 1, 4: uerso ciuitatis statu] et que par son entremise [per eum = Auguste] le monde a été pacifié, le Christ naquit à Bethléem» 13. Il n’y a là aucun lien de cause à effet en apparence. Mais peut-être ce lien est-il dissimulé sous les ablatifs absolus, à charge pour le lecteur de se faire une idée? Ce passage est-il si objectif qu’on pourrait le penser à première lecture? J’y décèle plutôt l’indice de la prise de conscience par Augustin qu’un changement de monde se produisit à cette date. De plus, pour les païens la période de référence est la République. Depuis Tibère les païens avaient compris que l’Empire était une décadence, celle de leur liberté. Au IVe siècle la République est devenue un modèle que la distance historique rendait acceptable dans son approximation: c’est le sens du De Viris illustribus anonyme qui s’arrête avec César et Cléopâtre et enfin Octave. Ce texte parut sans doute vers 390, comme le rappelle son éditeur dans la CUF qui accepte à cet égard mes propres conclusions 14. On peut donc comprendre qu’Augustin répond aux arguments des sénateurs païens. En guise de prolongement, j’irai encore jusqu’à dire que le silence d’Augustin sur l’Empire païen est comparable au silence de l’Histoire Auguste sur le règne de l’empereur prétendument chrétien, aux dires de saint Jérôme, Philippe l’Arabe (244-249) 15. On était alors gêné d’évoquer les questions religieuses qui ne cadraient pas avec la thèse générale que l’on voulait présenter. Augustin a omis l’Empire pour trois raisons selon moi. La première est mentionnée par Hervé Inglebert 16 qui en donne des motivations en partie différentes de celles que j’expose ci-dessous, les deux autres me sont personnelles: une raison philosophique, une raison historique et une raison personnelle. 1.  –  La première raison, celle qui est philosophique, est l’existence de l’Empire païen d’Auguste à Dioclétien. Ce fut un âge de paix, de prospérité, de concorde intérieure, de calme aux frontières et en grande 13 Ciu. 18, 46: Regnante ergo Herode in Iudaea, apud Romanos autem iam mutato rei publicae statu imperante Caesare Augusto et per eum orbe pacato natus est Christus … 14 Ratti 2012, 61-62. 15 Sur le christianisme supposé de Philippe, cf. Eusèbe, Hist. eccl. 6, 34-36 et l’existence d’une correspondance entre Origène et le couple impérial Philippe et Severa. 16 Inglebert 1996, 445-447.

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partie de paix religieuse: comment le nier? comment en parler? Eusèbe avait fait de cette période la preuve que l’alliance que l’arrivée du christ (messianisme) coïncidait avec la prospérité impériale. Rufin d’Aquilée et Prudence diront la même chose, mais pas Augustin qui n’a jamais été césaro-papiste. Augustin ne peut accepter cette théorie pour des raisons philosophiques, on l’a dit. D’un point de vue philosophique, pour Augustin la felicitas est toute spirituelle et non matérielle: Dieu fait ses dons, comme la paix, à tous, même aux méchants comme Néron, c’est la thèse générale du De peccatorum meritis. La grâce est gratuite. Augustin refuse le do ut des païen: ciu. 15, 7: «Tel est le propre de la cité terrestre: honorer Dieu ou les dieux afin de régner par leur secours dans les victoires et la paix terrestre, non par la charité qui se dévoue, mais par la passion de dominer (cupiditas dominandi)». Mais ne pourrait-on voir en ces lignes une attaque à peine voilée contre Constantin et la vision du Pont Milvius? Décidément Augustin n’aimait pas Constantin  dont le règne n’est pas, contrairement à la vision eusébienne, l’exact opposé du siècle des persécutions. Le supposé éloge de Constantin en ciu. 5, 21 et 25 est en réalité très ambigu, voire critique: Constantin est un bon empereur, mais moins que Théodose. 2.  –  Mais surtout, Augustin ne pouvait faire l’éloge de l’Empire du IIIe  siècle pour une deuxième raison, qui est historique. Car c’est dans un ouvrage historique païen, l’Histoire Auguste, que l’on trouve la meilleure description de la prospérité et de la tolérance religieuse qui régnaient sous le règne de l’optimus princeps Alexandre Sévère, au cœur du IIIe siècle (222-235). Ce prince païen ne faisait-il pas cohabiter dans son laraire personnel Abraham et Apollonios de Tyane? Orphée et le Christ? Faut-il rappeler que Nicomaque Flavien en personne, l’auteur de l’Histoire Auguste, connut au début de sa carrière une brève mais dense expérience africaine lorsque, en 376-377, il exerça le vicariat d’Afrique à quarante-deux ans. J’ai raconté ailleurs la façon dont Flavien avait alors détourné la confiance placée en lui par l’empereur Gratien et mis son autorité au service d’une implacable politique antichrétienne sous le couvert des ordres qui lui avaient été donnés de combattre les donatistes. Saint Augustin, vers 405-411, s’en souvenait encore quand il évoquait le souvenir que lui avait laissé le nom de Flavien 17. Pour des raisons liées à l’image morale désastreuse de Gallien (260-268) les chrétiens ne pouvaient faire l’éloge de la petite paix de l’Église (quatre décennies tout 17

Augustin, epist. 87, 8 à Emeritus. Voir Ratti 2012, 109.

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de même) instaurée par ce prince et qui perdura entre 260 et 303, soit jusqu’à la persécution de Dioclétien. 3. – La troisième raison est d’ordre personnel. Elle est liée à la méfiance constante d’Augustin envers l’administration et le pouvoir, celui notamment d’un empereur romain quel qu’il soit. Cette raison est aussi liée à l’épiscopat et à l’histoire personnelle d’Augustin. Elle relève moins, contrairement à ce que pensait André Mandouze, de la hantise qu’aurait éprouvée Augustin d’une possible compromission de l’Église avec le pouvoir que de sa crainte de l’arbitraire des Grands. Comme Chateaubriand qui, affirmait-il, n’aimait pas les lieux de pouvoir, Augustin aurait pu s’écrier: «À la joie que j’ai toujours éprouvée en sortant d’un château (ici les Tuileries de Bonaparte), il est évident que je n’étais pas fait pour y entrer» 18. Contrairement à Eusèbe ou à Lactance, Augustin, en effet, n’a jamais approché le moindre empereur: il n’a fait qu’envoyer des émissaires et des lettres à Honorius qu’il n’a jamais vu. S’il a fini par emporter l’appui du prince dans la condamnation du donatisme, ses interventions politiques solitaires n’ont pas toutes été couronnées de succès. Il lui arrive ainsi de se vexer et souffrir de voir sa dignité épiscopale méprisée par la hiérarchie administrative. Dans un sermon en 409 (sermon 302, 17) il se plaint de devoir faire antichambre, de voir à Carthage passer avant lui des gens moins dignes et d’essuyer des rebuffades: Souvent on se demande à notre propos: Pourquoi court-il trouver telle autorité? Qu’est-ce qu’un évêque peut avoir à faire avec telle autorité ? Vous savez tous pourtant que vos propres besoins nous contraignent à aller là où nous ne voulons pas: nous sommes forcés à guetter, à faire le pied de grue à la porte, à attendre qu’entrent les grands et les petits, à nous faire annoncer, à être enfin tout juste admis, à essuyer les humiliations, à supplier, à obtenir de temps en temps, et d’autres fois à ressortir avec tristesse. Qui voudrait supporter tout cela sans y être forcé ? Qu’on nous laisse en paix, qu’on ne nous impose pas cela, que nul ne nous contraigne: voilà ce qu’on demande pour nous, débarrassez-nous de ce fardeau. Nous vous en prions, nous vous en conjurons, que nul ne nous force plus: nous ne voulons pas avoir affaire avec les autorités (nolumus habere rationem cum potestatibus). Dieu sait qu’on nous fait violence. 19 Chateaubriand 1951, 533. Sermon 302, 17: Saepe de nobis dicitur: Quare it ad illam potestatem? Et quid quaerit episcopus cum illa potestate? Et tamen omnes nostis quia uestrae necessitates nos cogunt uenire quo nolumus: obseruare, ante ostium stare, intrantibus dignis et indignis exspectare, nuntiari, uix aliquando admitti, ferre humilitates, rogare, aliquando impetrare, 18

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Ce témoignage de l’amertume d’Augustin, si significatif de sa sensibilité à fleur de peau, révèle les limites de la christianisation au début du Ve siècle et des limites du pouvoir d’un évêque. L’administration réagit en corps laïc, jaloux de ses prérogatives et de son autonomie. Augustin avait songé un moment à une solution administrative qui consistait à faire nommer un defensor ciuitatis, un médiateur doté d’un contre-pouvoir. Augustin souhaitait la création d’un nouveau fonctionnaire 20, mais ce rêve n’a jamais dû aboutir … En 411, à la fin de l’année, précisément le 11 décembre, donc six mois après la victoire d’Augustin sur les donatistes, Honorius promulgue une loi qui semble réduire les privilèges judiciaires des évêques 21. En effet depuis Constance II et une loi de 355, ces derniers bénéficiaient d’un traitement de faveur: ils relevaient d’une juridiction spécifique, composées uniquement d’autres évêques 22, sauf en cas d’accusation criminelle 23. C’est ce privilège qu’Honorius semble affaiblir en évoquant la possibilité que des évêques fussent exclus de l’Église, ce qui ne dut guère faire plaisir à Augustin, même s’il n’était naturellement nullement concerné. La défiance du pouvoir impérial envers ces évêques si puissants se retournait de leur part en crainte pour l’absolutisme impérial.

5. AUGUSTIN FACE À L’ARBITRAIRE IMPÉRIAL On doit donc, pour finir, insister sur un point quelque peu négligé voire tu par les biographes d’Augustin: cette peur qu’il éprouvait en face de l’arbitraire impérial. L’épisode de l’exécution de Marcellinus en 413 est à cet égard très révélateur. Les biographes d’Augustin passent en général sous silence la responsabilité d’Augustin dans cette mort. On évoque simplement «la cruauté toute gratuite et sans nécessité» du comes Marinus 24. Peter Brown ne mentionne même jamais le nom de Marcellinus dans son

aliquando tristes abscedere. Quis uellet haec pati, nisi cogeremur ? Dimittamur, non illa patiamur, nemo nos cogat: ecce concedatur nobis, date nobis ferias huius rei. Rogamus uos, obsecramus uos, nemo nos cogat; nolumus habere rationem cum potestatibus; nouit ille, quia cogimur. 20 Augustin, epist. 22, 4: incerti sumus utrum militantem liceat impetrare … 21 Code Théodosien 16, 2, 41. 22 Code Théodosien 16, 2, 12. 23 Code Théodosien 16, 2, 23. 24 Maier 1989, 184.

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livre de 2012, traduit en 2016 sous le titre À travers un trou d’aiguille, et dans sa biographie d’Augustin de 1967 il se gardait d’évoquer le sujet. Honorius avait nommé Marcellinus président de la conférence de Carthage en 411. Son frère Apringius était proconsul d’Afrique en 411. Augustin s’était lié d’amitié avec Marcellinus. Il appréciait en lui le chrétien curieux et exigeant, curieux de théologie et de philosophie. On pourrait même soupçonner qu’il y avait en lui un reste de paganisme 25. Marcellinus avait lu d’Augustin (par tactique?) le De peccatorum meritis (et remissione) et cette lecture avait soulevé en lui des questions, auxquelles Augustin répond par le De spiritu et littera écrit et dédié à Marcellinus en 412. Marcellinus fait part à Augustin de son émotion: était-il concerné par le péché …? 26 Marcellinus, en outre, a été assez proche d’Augustin pour qu’il lui dédie les trois premiers livres de la Cité de Dieu. Augustin appréciait aussi le proconsul, son frère Apringius. Or, en 413 Marcellinus et Apringius sont subitement emprisonnés, peut-être au motif qu’ils auraient soutenu l’usurpation d’Heraclianus. Augustin leur rend visite dans leur geôle. Leur sort dépend du comte Marinus, vainqueur d’Heraclianus en Italie et qui l’a remplacé aussitôt à son poste en Afrique comme comes Africae. Marinus laisse sortir les deux frères de prison en leur octroyant une grâce, mais c’est pour mieux délivrer un jugement sommaire et obtenir une exécution capitale qui eut lieu le 13 ou le 14 septembre 413. Augustin quitte alors Carthage «à la dérobée». Dans sa lettre à Caecilianus Augustin accuse Marinus de «perfidie» et «d’un grand crime» 27. Marinus est d’autant plus le coupable de la mort de Marcellinus désigné par Augustin que son nom n’est jamais cité dans cette lettre 151 qui pourtant l’accable. À la nouvelle de la mort de Marcellinus donc Augustin s’enfuit: Je quittai aussitôt Carthage; je cachai mon départ de peur que les véhémentes supplications et les cris de tous ces gens si importants qui s’étaient réfugiées dans l’église pour fuir son glaive [celui de Marinus] ne me retiennent, eux qui s’imaginaient que ma présence pouvait être de quelque utilité pour eux. J’aurais été contraint de demander de sauver leur vie à celui qui n’était même pas digne d’être supplié pour le salut de sa propre âme. Quant à leur salut physique, les murs de l’église le protégeaient suffisamment. 28 Cf. Augustin, epist. 151, 8: in doctrina studium. Cf. Augustin, Retract. 2, 37. 27 Augustin, epist. 151, 3. 28 Augustin, epist. 151, 3: Continuo sum a Carthagine profectus, occultato abscessu meo, ne tot ac tanti qui eius intra ecclesiam gladium formidabant, uiolentis fletibus et gemitibus me tenerent, putantes meam sibi aliquid posse prodesse praesentiam, ut quem 25

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Augustin ne revint pas à Carthage avant trois années! L’évêque d’Hippone, malgré ses dénégations, semble bel et bien soupçonner ce Caecilianus qui lui avait écrit en lui demandant la raison de son retrait dans son diocèse. Il semble le croire complice de Marinus. Augustin lui répond qu’il était retenu à Hippone par ses travaux … Ce Caecilianus était un envoyé spécial d’Honorius et ancien préfet d’Italie et encore catéchumène. Augustin explique encore qu’il avait peur de Marinus et qu’il ne voulait surtout pas subir le sort d’Aurelius, l’évêque de Carthage, qui avait été humilié par le pouvoir: Quant à moi, j’étais pris dans un piège cruel: d’un côté cet homme [Marinus] ne pouvait me supporter tel qu’il me fallait être et, d’un autre côté, j’étais contraint de faire ce qui ne convenait pas. Je souffrais également de la situation faite à mon vénérable confrère évêque chef d’une si grande Église: on disait qu’on lui imposait le devoir de s’humilier devant un homme coupable d’une faute si funeste pour que les autres fussent épargnés. Je l’avoue: puisque je n’aurais eu aucunement la force morale de supporter une si ignoble humiliation, je partis. 29

Décidément Augustin n’a pas l’autorité politique qu’Ambroise avait manifestée lors de l’affaire de Thessalonique ni sa fermeté avec les puissants. Il craint l’arbitraire impérial et celui de ses créatures. Son éloignement physique et sa fuite à Hippone en 413, au moment même où il entamait la rédaction de la Cité de Dieu 30, a son corollaire dans le silence relatif dans lequel il ensevelit l’histoire de l’Empire.

satis digne pro eius anima obiurgare non possem, pro illorum corporibus etiam rogare compellerer. Quam tamen eorum corporalem salutem satis parietes ecclesiae muniebant. 29 Augustin, epist. 151, 3: Ego autem duris coarctabar angustiis, quod neque ille me pateretur, qualem oporteret; et insuper facere cogerer quod non deceret. Dolebam etiam grauiter uicem uenerabilis coepiscopi mei tantae rectoris Ecclesiae, ad cuius pertinere dicebatur officium, post hominis tam nefariam fallaciam adhuc se praebere humilem, quo caeteris parceretur. Fateor; cum tantum malum nullo pectoris robore potuissem tolerare, discessi. 30 Les 3 premiers livres furent publiés dès leur achèvement. Marcellinus, dédicataire des livres 1-3 (son nom est cité au livre 1 et 2), fut exécuté le 13 septembre 413. Ces 3 livres ont circulé en 413-414 car Macedonius dit qu’il les a lus avec avidité (epist. 155, 2).

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BIBLIOGRAPHIE Besançon 2018 Bonnet 2013

Brague 2013 Chateaubriand 1951

Inglebert 1996 Maier 1989 Mandouze 1968 Martin 2016

Ratti 2012 Ratti 2016a Ratti 2016b Ratti 2016c Zugravu 2018

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Roma nella Historia Augusta Tommaso Gnoli *

RIASSUNTO: L’anonimo autore della Historia Augusta non conosceva Roma. Non era

un membro dell’aristocrazia senatoria urbana della tarda Roma antica, ma, forse, qualcuno nato da qualche altra parte nell’impero durante l’età di Valentiniano III. L’analisi della Praefatio della Vita divi Aureliani e degli altri passaggi di ‘Flavius Vopiscus’, uno degli avatar fittizi dello scrittore Anonimo, testimonia la sua totale ignoranza delle evidenti caratteristiche topografiche dell’Urbs. Al contrario, l’Anonimo era ben consapevole del nuovo ruolo che il Forum Traiani – oggi noto come Forum Ulpium – ha svolto nella cultura del V secolo come memoriale della grandezza passata di Roma. ABSTRACT: The Anonymous author of the Historia Augusta didn’t know about Rome. He was not a member of the urban senatorial aristocracy of late-antique Rome, but, maybe, someone born somewhere else in the empire during the age of Valentinian III. The analysis of the Praefatio of the Vita divi Aureliani and of the other passages by ‘Flavius Vopiscus’, one of the fictitious avatars of the Anonymous writer, testifies to his complete ignorance of obvious topographic features of the Urbs. On the contrary, the Anonymous was well aware of the new role which the Forum Traiani – nowadays known as Forum Ulpium – played in the culture of the fifth century as a memorial of the past greatness of Rome. KEYWORDS: Aureliano; Aurelianus; Forum Traiani; Historia Augusta; Late Antiquity; Roma; Rome; Tarda antichità.

Nella ormai più che secolare, accanita, ricerca sulla Historia Augusta (HA), da quando Herrmann Dessau disvelò il carattere apocrifo dell’opera 1, non credo siano rimaste strade lasciate intentate. Filologi e storici di ogni scuola hanno scandagliato con acribia spesso straordinaria quell’opera imponente ed elusiva, nel tentativo, fino ad ora senza successo, di riuscire a determinare ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’, come si direbbe nelle aule di un tribunale, la verità circa l’autore e la data di composizione. Il premio che da questa eventuale scoperta deriverebbe alla comu* Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. 1

Dessau 1889.

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Tommaso Gnoli

nità scientifica internazionale sarebbe di tale importanza da giustificare ampiamente gli sforzi inesausti che sono stati profusi a tal fine, eppure sembra che, nonostante la distanza che ancora ci separa dall’agognata meta, si possano contare alcuni risultati dati per lo più come acquisiti. Tra questi, quelli che possono contare oggi una più ampia diffusione tra gli specialisti, sono soprattutto due, e cioè: 1. la data di composizione – convergente attorno alla metà del decennio 390; 2. l’ambiente cui l’autore apparteneva, direttamente o indirettamente: l’aristocrazia senatoria romana. Personalmente, ritengo molto incerti entrambi questi assunti, e tutt’altro che acquisiti. Quel che è peggio, è che mi pare che essi siano stati costruiti soprattutto a partire da un punto di partenza errato, e cioè che, al centro delle preoccupazioni dell’ignoto compositore della grande raccolta di biografie, vi fosse il ‘conflitto tra paganesimo e cristianesimo’, per parafrasare il titolo di un libro epocale 2. Qui non si tratta tanto di prendere posizione sull’entità di tale conflitto – che com’è noto è stato in tempi recenti ridimensionato e addirittura negato da alcuni, confermato e acutizzato da altri – quanto piuttosto verificare se, all’interno della HA – le tematiche religiose siano vive e presenti con un ruolo centrale. Tale tema, tuttavia, eccederebbe di molto lo spazio di questo breve intervento, così che mi è sembrato opportuno concentrare la mia attenzione su un punto essenziale relativo alla seconda delle questioni sopra menzionate, la presunta appartenenza del nostro fantomatico biografo all’aristocrazia romana. Tale questione verrà affrontata non tanto sul piano della complessa e spesso dissimulata ideologia sottesa all’opera, quanto su una questione più triviale, per così dire, ma proprio per questo più decisiva: il fantomatico biografo conosceva direttamente Roma?

1. DA VON DOMASZEWSKI A KOLB L’assunto che l’autore della HA fosse ignaro della topografia di Roma era già al centro di una comunicazione apparsa nel 1916 nei Sitzungsberichte dell’Accademia di Heidelberg a opera di Alfred von Domaszewski. Negli anni compresi tra il 1916 e il 1920 lo studioso austriaco tornò per cinque volte sul tema della HA con una serie di contributi apparsi tutti negli atti di quell’Accademia 3. I primi due, apparsi nel 1916 appunto, 2 3

Momigliano 1963. Domaszewski 1916a-b; 1917; 1918; 1920.

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avevano una notevole uniformità di approccio: Die Topographie Roms bei den Scriptores Historiae Augustae e Die Geographie bei den Scriptores Historiae Augustae. Gli altre tre contributi, dedicati rispettivamente alle forme di datazione (1917), ai nomi di persona (1918), allo Stato (1920), ci interessano meno in questa sede. Von Domaszewski in quei lavori argomentava in modo coerente le sue idee sulla HA, un’opera che appena una generazione prima era stata completamente reinterpretata da Hermann Dessau 4. Le posizioni di von Domaszewski potrebbero essere definite «temerarie», se misurate con il metro della prudenza mommseniana 5, e senz’altro «estreme» col metro di un giovane e arrogante De Sanctis 6. Non solo lo studioso austriaco faceva proprie senza riserve tutte le tesi del Dessau, ma anzi egli si faceva convinto assertore di una datazione ancora più tarda dell’opera – che sarebbe così slittata dagli ultimi anni del quarto (datazione proposta da Dessau) addirittura alla fine del sesto secolo – e di una sua derivazione da un ambiente non urbano. Le preferenze del Domaszewski ricadevano su un ambiente gallico e su un circolo di intellettuali che, a suo parere, sarebbe stato attivo a Nîmes. La formazione di von Domaszewski non era prettamente filologica. Abituato a ragionare innanzi tutto sulla mutevole concretezza delle fonti epigrafiche, sulle quali aveva costruito lavori ancora oggi importanti relativi all’esercito imperiale e all’amministrazione dell’impero 7, in quegli anni, nei decenni in cui la scienza epigrafica stava rapidamente piantando solide radici in terra tedesca, il ruolo di von Domaszewski fu senza dubbio importante. Uno dei perni sul quale egli poté costruire la tesi di una sostanziale estraneità dell’autore della HA agli ambienti romani fu proprio quello di una manifesta ignoranza dell’ABC della geografia dell’Urbe, tante volte riscontrabile, a suo parere, nella grande raccolta di biografie. Mi limito per ora a rilevare un punto: in una recente monografia, non priva di luci e di ombre, Eliodoro Savino 8 ha potuto riproporre ancora oggi, nel 2017, la tesi di fondo di von Domaszewski, giungendo perfino a dare un nome al compositore dell’opera: quello del non notissimo grammatico Tascius Victorianus del quale ci parla in una epistola Sidonio L’articolo princeps per la moderna Historia-Augusta-Forschung (HAForschung) è Dessau 1889, seguito a breve da Dessau 1892 e 1894. 5 Mommsen 1890 costituì la prima reazione ufficiale a Dessau 1889. 6 De Sanctis 1896. 7 Si citi, a mero titolo d’esempio, Domaszewski 1908. 8 Savino 2017. La coincidenza è naturalmente sull’ambiente gallico, non sulla datazione, oggi non più sostenibile della HA alla fine del VI secolo. 4

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Apollinare (8, 3, 1). Lasciamo per il momento lo spericolato tentativo di Savino e torniamo a von Domaszewski. Gli anni in cui lo studioso austriaco rifletteva sull’enigma rappresentato dalla HA erano anche gli anni in cui un giovane, brillante allievo di Kornemann, Ernst Hohl, iniziava i lavori preparatori per una nuova edizione del testo della HA che vedrà la luce solamente postuma nel 1965, grazie alle cure di due suoi allievi, Christa Samberger e Wolfgang Seyfarth. La qualità dello studioso, l’impegno di una vita che gli si stava aprendo davanti, le non comuni capacità di analisi e di critica, dovettero fare ben presto di Hohl una delle autorità più competenti e ascoltate nel campo della HAForschung. Nel 1915, 1924, 1937 Hohl pubblicò tre rendiconti sullo stato degli studi sulla HA nello Jahresbericht über die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft, noto anche come Bursians Jahresbericht 9. Il secondo di questi Berichte, quello del 1924, nonostante prenda in considerazione 23 lavori, è in sostanza, per oltre quattro quinti, un attacco frontale alle tesi di von Domaszewski. L’esito della recisa confutazione da parte di Hohl fu evidente: i lavori di von Domaszewski vennero da allora immancabilmente menzionati sì nella letteratura successiva, ma sempre con il rinvio alle devastanti critiche di Hohl. I temi che von Domaszewski aveva tentato di porre all’attenzione della comunità scientifica ebbero vita veramente brevissima. Le critiche di Hohl non erano di poco conto. Al di là dei toni, forse troppo recisi, alcune teorie di von Domaszewski appaiono effettivamente azzardate, alcuni punti forzati, altri francamente errati. In genere, i lavori di von Domaszewski, nel loro complesso, appaiono troppo fragili per resistere al vaglio critico di Hohl. Tuttavia, leggendo le tante pagine nel secondo dei Berichte di Hohl si constata con facilità che le critiche del filologo colpiscono soprattutto gli ultimi contributi di von Domaszewski (particolarmente gravi le critiche alla lunga memoria sui nomi di persona nella HA). Il contributo sulla topografia di Roma non viene praticamente toccato. Esso viene respinto solamente sulla base di una critica generale delle opinioni di von Domaszewski. È per questo motivo che il tema della strana topografia di Roma desumibile dalle anonime biografie imperiali resterà a lungo in un limbo, colpito senza evidenti colpe dalla damnatio caduta sul resto del lavoro di von Domaszewski. Esso verrà ripreso solamente molti anni dopo da un acuto studioso, i cui contributi alla HAForschung sono sempre meritevoli della massima attenzione. 9

Hohl 1915; 1924; 1937.

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Nel suo Zur Topographie Roms in der Historia Augusta 10 Frank Kolb analizzò per la prima volta nel 1994, a quanto ne so, dettagliatamente alcune argomentazioni avanzate quasi settant’anni prima da von Domaszewski. I risultati dell’indagine di Kolb confermano quelli di Hohl. Le tesi di von Domaszewski vengono definitivamente abbandonate anche su quest’ultimo tipo di argomentazioni, per così dire di carattere archeologico-topografico.

2. SPECIFICITÀ DI ‘FLAVIUS VOPISCUS’ A questo punto, però, devo introdurre un altro tema in via preliminare, anche questo interno, per così dire, alla HAForschung, ma necessario alla comprensione di quanto sto per proporre. Uno dei problemi più dibattuti e irrisolti che riguardano la HA è quello della logica sottesa alla fittizia attribuzione delle singole monografie costituenti la raccolta. Il susseguirsi e l’alternanza capricciosa dei sei autori impedisce di individuare uno schema univoco che consenta una chiara soluzione del problema. Il tentativo più completo compiuto in questo senso, quello di Tony Honoré 11, non ha avuto una buona accoglienza, e credo a ragione. Non m’illudo certo di poter fare di meglio, ma mi limiterò a mettere in evidenza come io ritenga più che utile necessario distinguere nettamente in due parti la HA, per quanto attiene il problema dei sei pseudo-autori. Se infatti non credo sia obiettivamente possibile orientarsi nella capricciosa attribuzione delle prime Vitae – quelle fino alla lacuna, per intenderci – dopo la cosa si fa più chiara. Al nome di Trebellius Pollio vengono attribuite le Vitae fino al 270, al siracusano Flavius Vopiscus le ultime Vitae, quelle da Aureliano fino alla fine della raccolta 12.

Kolb 1994. Honoré 1987. 12 Si tratta di un punto spesso rilevato nella HAForschung da parte di chi, non a caso, ha cercato di ricostruire la ‘personalità letteraria’ dell’ultimo pseudo-autore, Flavius Vopiscus. Giova ricordare che è stato proprio questo il punto di partenza per le decisive ricerche di un giovanissimo Hohl (1911; 1912). Com’è noto, il dibattito su Vopiscus si è acceso fin da quando, prima del decisivo articolo di Dessau, Rühl 1888 aveva ritenuto di identificare un anacronismo in grado di certificare nell’avanzato regno di Costantino l’esistenza – allora ritenuta certa – di Vopiscus. Successivamente, proprio a causa dell’apparente definizione di questo vuoto avatar, Emilienne Demougeot aveva costruito proprio attorno a Vopisco una intelligente tesi conciliativa che voleva identificare in Vopisco l’alter ego di Virio Nicomaco Flaviano (Demougeot 1953). 10

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Questo limite cronologico, il 270, anno primo di Aureliano, non è un anno neutro dal punto di vista storiografico, tutt’altro. È l’anno in cui termina l’opera di uno storico, l’ateniese Publius Herennius Dexippus, che ha costituito una fonte certissima per la tradizione storiografica seguita dalla HA o dalle sue fonti fino a quell’anno 13. Stando al gioco imbastito dall’anonimo autore, potremmo dire che gli storici greci contemporanei, Cassio Dione, Erodiano 14 prima e Dexippo poi 15 hanno costituito una solida base documentaria per le biografie degli pseudo-autori fino a Trebellius Pollio, ma vengono drammaticamente meno per l’ultimo ‘biografo’, Flavius Vopiscus. Intendo dire che considero piuttosto attraente l’ipotesi che il passaggio da Trebellius Pollio a Flavius Vopiscus indichi una drammatica cesura nella tradizione storiografica a disposizione dell’anonimo autore. In effetti il 270 costituisce una faglia, una cesura profondissima nel continuum storiografico tra terzo e quarto secolo, e l’esistenza di questo abisso che divide le piattaforme continentali della storiografia di terzo da quella di quarto secolo è ben documentabile nel dettaglio 16. Gli esiti per l’affidabilità della tradizione storiografica sono particolarmente gravi proprio per il decennio 270, dominato, nella prima metà, dall’imperatore Aureliano, al quale sto dedicando una monografia. Da tutto questo consegue che, mutando il nome da Trebellius Pollio a Flavius Vopiscus cambiano anche le fonti contemporanee sulle quali il nostro ignoto biografo ha costruito i suoi racconti, dando sempre maggior spazio a quelle affabulazioni che diventavano via via sempre più necessarie per dissimulare il vuoto documentario sottostante 17.

3. ROMA NELLA «HISTORIA AUGUSTA» Se si accettano queste indicazioni di metodo, è chiaro che, per indagare le reali conoscenze dell’anonimo autore delle biografie, le ultime vite delSu questo punto specifico cfr. ora Gnoli 2019, 34-39. Sul ruolo di Cassio Dione ed Erodiano come fonti per la HA cf. Kolb 1972. 15 I frammenti di Dexippo hanno avuto due recenti edizioni: Martin 2006 e Mecella 2013, cui va aggiunto il nuovo frammento rinvenuto in un palinsesto viennese, ed. princeps Martin - Grusková 2014, con aggiornamento bibliografico in Grusková - Martin 2017. 16 Cf. Gnoli 2019. 17 Illusoria e fuorviante è la pluralità di fonti menzionate con irridente acribia da Flavius Vopiscus. Non si capisce pertanto l’utilità di averne collazionato i presunti ‘frammenti’; Migliorati 2017. 13

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la raccolta, quelle firmate da Flavius Vopiscus, sono le più significative. Una corretta indicazione topografica contenuta, ad esempio, nella vita di Marco Aurelio, o in quella di Elagabalo potrebbe infatti non essere indicativa dell’effettivo rapporto del biografo con Roma, quanto del fatto che l’indicazione poteva essere contenuta nella fonte da lui utilizzata. Allo stesso modo, un errore contenuto in quelle vite difficilmente potrà essere utilizzato per provare la mancata conoscenza di un determinato particolare dell’Urbe o per datare un effettivo mutamento intervenuto nella città, perché l’errore o la variazione potrebbe essere in realtà nella fonte utilizzata. Questo è naturalmente vero solamente in parte: da lungo tempo si sono infatti individuate con una certa chiarezza quali parti, anche nelle Vitae precedenti la lacuna, siano in realtà frutto dell’inesauribile immaginazione del biografo. Le prefazioni, le parti connesse ai pretesi documenti, molto spesso le sezioni dedicate all’infanzia degli imperatori, agli omina etc. possono senz’altro essere attribuite al biografo più che alle sue fonti. Tuttavia, sfortunatamente per noi, sono anche le parti più raramente contenenti chiari riferimenti topografici alla città di Roma. Ora, tornando al relativamente recente lavoro di Kolb summenzionato, è facile constatare come tutti gli esempi di ‘riabilitazione’ delle conoscenze topografiche e toponomastiche urbane del nostro ignoto biografo siano tratte dalle biografie precedenti la lacuna, mentre per le indicazioni francamente sorprendenti contenute nelle biografie attribuite a Flavius Vopiscus, Kolb si rifugia spesso in affermazioni imbarazzate o poco convincenti. Sarà pertanto necessario partire proprio dai dati topografici contenuti nella Vita di Aureliano.

4. LA PREFAZIONE DELLA «VITA DI AURELIANO» Questa biografia, la seconda per lunghezza di tutta la raccolta, si apre con una celebre prefazione sulla quale si è giustamente scritto moltissimo. Da ultimo Mastandrea ha potuto istituire un confronto molto stringente, e a mio parere per molti versi conclusivo, tra alcune delle espressioni che qui si discutono e il testo dei Saturnali di Macrobio 18. Il lungo brano, che occupa i primi due paragrafi della biografia e le prime 2 pagine dell’edizione Hohl, è una specie di sciarada. Il preteso incontro tra Flavius Vopiscus e il praefectus Urbis Iunius Tiberianus è talmente infarcito di più o meno sottili anacronismi e allusioni da rappresentare un vero e 18

Mastandrea 2014.

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proprio capolavoro compositivo. Un rebus dove l’ignoto autore vuole in qualche modo apparire dietro la dramatis persona di Flavius Vopiscus. Non è questo il luogo per analizzare in maniera puntuale il brano, basti qui il rinvio di prammatica alla monografia di den Hengst specificamente dedicata alle prefazioni delle diverse Vitae 19. Sarà sufficiente rilevare che la prima parola, che apre questa cruciale prefazione, è Hilaribus, mentre la sententia conclusiva è un aforisma da molti ritenuto una delle chiavi di lettura di tutta la raccolta. Iunius Tiberianus direbbe infatti al nostro Vopiscus: scribe ut libet. securus, quod velis, dices, habiturus mendaciorum comites, quos historicae eloquentiae miramur auctores (HA, Aur. 2). La scena del preteso incontro è stata anch’essa al centro di vivaci dibattiti, che hanno interessato da una parte la personalità di Iunius Tiberianus, identificabile con due diversi personaggi effettivamente attestati in età tetrarchica l’uno, costantiniana l’altro, 20 dall’altra il fatto che il praefectus Urbis avrebbe fatto salire il conoscente Vopiscus a bordo del carro di servizio, un iudicialis carpentum 21. Nelle due righe di testo in cui viene descritta questa scena sono concentrati ben tre anacronismi, riguardanti la celebrazione della festa carnevalesca delle Hilariae, la titolatura del prefetto, la questione del carro di servizio, che venne concesso all’alto magistrato solamente nell’età di Costanzo II 22. È in questo contesto che, con apparente non-chalance, Vopiscus descrive il percorso compiuto sul cocchio dai due mentre chiacchieravano precipue de vita principum 23. A Palatio usque ad hortos Varianos (HA, Aur. 1). Si tratta di un tragitto certamente legittimo tra due diversi luoghi dell’Urbe. Uno, notissimo, il Paden Hengst 1981. Il dibattito su questo personaggio è iniziato addirittura prima del fondamentale articolo di Dessau più volte citato, perché ritenuto all’epoca elemento essenziale per la datazione di tutta quanta la HA: Rühl 1888. I dati cronologici evidentemente inventati e fuorvianti contenuti in questa Praefatio sono ancora inspiegabilmente ritenuti veri e acclarati da Romano 1975 e 1976, che si mostra del tutto ignaro dei quasi cento anni precedenti della ricerca. 21 Attorno al tema del carpentum e delle possibili indicazioni che se ne potevano trarre in termini di cronologia assoluta per la composizione della HA si registra una vivace polemica: Alföldi 1934; Enßlin 1939, su cui, un po’ in ordine sparso, Momigliano 1964; Chastagnol 1970, 25-28; Clemente 1972. Buono status quaestionis di Domenico Vera in Simmaco 1981, 55-56. 22 Per una visione d’insieme dei singoli problemi, con relativa bibliografia essenziale, cf. l’ottimo commento di Paschoud nella edizione delle Belles Lettres, ad loc. 23 Anche questa precisa espressione è stata da qualcuno ritenuta come disvelatrice del possibile titolo della raccolta di biografie (la designazione come Historia Augusta è pure desunta dall’opera, ma lì è riferita all’opera di Tacito in genere, e solo in tempi moderni ha finito con essere adottata alla nostra anonima raccolta): cf. Mommsen 1878; Hohl 1914. 19

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latino, l’altro un po’ più problematico, ma certamente identificabile con gli horti di Elagabalo, che altrove la HA dice esser stato chiamato Varius (HA, Hel. 1, 1 e 6, 2, 1-2). Questi giardini si trovavano su un luogo di allora recente monumentalizzazione, ai margini orientali dell’Urbe, non lontano da Porta Praenestina, in un luogo che aveva costretto Aureliano a deviare non poco per includerlo nel nuovo circuito murario, dove in seguito Elena, la madre di Costantino, costruì il suo Palazzo, dove, infine, verrà costruita Santa Croce in Gerusalemme 24. La collocazione certa di questi due luoghi rende quanto mai problematica l’aggiunta di una tappa della quale non è chiaro se debba intendersi come sosta intermedia del percorso, oppure come punto finale. Il tempio del Sole di Aureliano, il monumento la cui esistenza avrebbe costituito il pretesto per la composizione della biografia, sorgeva infatti esattamente in Piazza San Silvestro, nei pressi dell’incrocio tra Via del Tritone e Via del Corso 25. Nemmeno il più callido dei tassisti di Roma, dovendo portare un cliente dal Palatino a Santa Croce in Gerusalemme passerebbe per Piazza San Silvestro. L’evidente stranezza di questo percorso è stata ovviamente da molto tempo rilevata. L’ampia maggioranza dei critici considera giustamente fittizia tutta la scena e pertanto poco significativa questa breve elencazione di luoghi, limitandosi ad evidenziarne l’incoerenza. Una sparuta minoranza, a mio parere consapevole delle implicazioni che deriverebbero dall’accertamento di un errore da parte del biografo, ha tuttavia tentato di difendere questo strano percorso. Il liber vacaret, grammaticalmente riferito all’animus a causis atque a negotiis publicis solutus, può legittimamente intendersi allusivo di un bighellonare dei due interlocutori. Non si deve pertanto immaginare necessariamente un percorso diretto dal Palatino a Santa Croce in Gerusalemme, bensì un casuale girovagare che potrebbe aver ben condotto i due fino a Piazza San Silvestro. Tutto questo è ovviamente possibile, ma a mio parere altamente improbabile. Questa percezione dello spazio urbano è per noi resa possibile dal fatto che è oggi intuitivo pensare allo spazio in due dimensioni. Tre punti collocati su un piano sono per noi congiungibili da un numero presso che infinito di percorsi, se questi non devono essere necessariamente retti, mentre sarà per noi banale calcolare con esattezza la distanza minima tra due punti, tramite il tracciato di una retta. Una successione 24 Per una recente, splendida mappa di Roma antica, cf. Carandini 2012. Sugli Horti Spei Veteris, divenuti quindi Variani e che hanno ospitato prima il Sessorium quindi S. Croce in Gerusalemme, cf. Colini 1955; Coarelli 1996; Colli 1996; Papi 1996; Paterna 1996; Barbera 2001; Borgia et al. 2008. 25 Calzini Gysens - Coarelli 1999.

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Palatino, Santa Croce in Gerusalemme, Piazza San Silvestro potrebbe benissimo costituire le tappe di un giro turistico di Roma. Tuttavia questa visione dello spazio non è la stessa che vigeva nell’età premoderna. È merito di Pietro Janni aver divulgato in Italia e aver generalmente richiamato all’attenzione degli specialisti, il concetto di ‘spazio odologico’, creato per la prima volta da uno psicologo, Kurt Lewin, nel 1934 26. Gli antichi, così come gran parte delle persone fino a non molte generazioni fa, prima dell’ubiquità di Google Maps, era solita pensare lo spazio come ‘distanza’. La concezione dello spazio, pertanto, in quanto distanza intercorrente tra due punti, era prettamente unidirezionale. Molto raramente tale distanza era la minore possibile, perché molto raramente il percorso per congiungere due punti distanti può essere retto. Con le parole di Janni: La distanza che separa i due punti, in conseguenza, non è quella che si misura lungo una retta, bensì è identica alla lunghezza della via [che abbiamo già definito]; essa è misurata dal numero di passi che debbono fare per andare dall’uno all’altro, dalla somma di fatica, di tempo e di spesa che debbo consumare. Nello spazio odologico, inoltre, la distanza AB non è necessariamente uguale alla distanza BA. L’esempio più ovvio lo fornisce un sentiero di montagna: la via che conduce dalle pendici di un monte alla sua cima è sempre cosa diversa da quella del ritorno, da molti punti di vista, anche se il percorso è lo stesso. 27

Le implicazioni che si possono trarre dal concetto di spazio odologico per il nostro discorso sono chiare: in assenza di una visione cartografica dello spazio urbano il percorso compiuto da Flavius Vopiscus e Iunius Tiberianus sarebbe risultato incomprensibile ai conoscitori dei luoghi. Quel che è peggio, una persona che avesse avuto una buona dimestichezza con la topografia di Roma non avrebbe mai concepito una simile sequenza casuale di luoghi. Ancora: esistevano ben note rappresentazioni cartografiche dell’Urbe, che hanno accompagnato la straordinaria crescita urbana della capitale del mondo per tutta l’età imperiale – quella a noi più nota è la forma Urbis di età Severiana – ma quanti lettori della HA avranno avuto sotto gli occhi rappresentazioni cartografiche di Roma? Qui non si sta parlando, ovviamente, di una presunta incapacità di concepire lo spazio a due dimensioni, bensì del fatto che, prevalentemente e normalmente, lo spazio era concepito come spazio odologico. Anche autori dottissimi in tema di geografia come Strabone mischiavano tra loro rappresentazioni cartografiche (si pensi al Peloponneso a forma di foglia di Platano) e descrizioni odologiche. 26 27

Janni 1984. Janni 1984, 84.

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Le cose riguardanti il percorso di Flavius Vopiscus e Iunius Tiberianus non migliorerebbero nemmeno se si accettasse che uno dei tre punti individuati, gli horti Variani, che non compaiono altrove in questa precisa forma, non fossero da identificare con i giardini di Eliogabalo ma fossero uno dei tanti luoghi di fantasia, che spuntano qua e là nella raccolta biografica: a questo punto cadrebbe ogni possibilità di restituire in qualche modo il percorso della passeggiata, ma affiorerebbe con tutta chiarezza l’incapacità dell’ignoto biografo di costruire una fiction credibilmente ambientata nell’Urbe.

5. ALTRI DETTAGLI TOPOGRAFICI URBANI IN

FLAVIUS VOPISCUS

Gli altri riferimenti topografici alla città di Roma contenuti nelle biografie firmate da Flavius Vopiscus non dissipano i dubbi suscitati dalla Praefatio della Vita di Aureliano. Eccone di seguito tutti i riferimenti: 1 2 3 4 5 6 7 8

Terme invernali a Trastevere Horti Sallusti(ani) Horti Domitiae (Lucillae) Curia Pompiliana Palazzo dei Quintilii Tempio di Silvano Terme di Diocleziano Palazzo di Tiberio

Aur. 45, 2 Aur. 49, 1 Aur. 49, 1 Tac. 3, 2 Tac. 16, 2 Tac. 17, 1 Prob. 2, 1 Prob. 2, 1

Un numero di menzioni pari a quelli di tutto il resto dell’Urbe è quello riferito al Foro di Traiano o a sue specifiche parti: 9 10 11 12 13 14 15 16

Bibliotheca Ulpia

Forum Ulpium Porticus porphyretica

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Aur. 8, 1 Aur. 25, 7 Tac. 8, 1 Prob. 2, 1 Caro 11, 3 Aur. 39, 3 Tac. 9, 2 Prob. 2, 1

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Da questo elenco sono stati eliminati i riferimenti al Tempio del Sole a Roma, citato più volte nella Vita di Aureliano e in Tac. 9, 2; le mura fatte costruire dall’imperatore; il campo di Marte, riferimenti troppo generici per essere indicativi di qualcosa. Allo stesso modo sono stati eliminati i riferimenti generici a circhi e anfiteatri non meglio precisati; i templi di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio e quello di Concordia, anch’essi ritenuti troppo noti a chiunque per poter essere considerati indicativi delle effettive conoscenze della topografia urbana da parte del nostro biografo. 1. Le Thermae hiemales in Transtiberina regione sono state prese tanto sul serio dagli archeologi che non se ne trova traccia nel Lexicon Topographicum Urbis Romae. 2. Gli horti Sallustiani vengono ricordati come residenza di Aureliano in Aur. 49, 1, notizia in se credibile, anche se non circostanziata da altre testimonianze. Non posso dimostrare in questa sede come io ritenga questa citazione in realtà desunta da un particolare riferito a Costantino (Pan. 8, 14, 4). 3. Gli horti Domitiae (Lucillae) vengono menzionati nello stesso luogo come residenza alternativa di Aureliano. Tutte le altre testimonianze di questo luogo provengono esclusivamente dalla Vita di Marco Aurelio, ma sembrerebbero confermate dal ritrovamenito di bolli e fistulae. 4. La Curia Pompiliana che compare in Aur. 41, 3 e Tac. 3, 2 non compare altrove. Forse è da riconnettere a una tradizione molto dubbia alla quale alluderebbe Amm. 14, 6, 6. In questo caso si tratterebbe di una denominazione alternativa per la curia Iulia, che nella tarda antichità divenne nota come curia Libertatis e simili. 5. Il palazzo dei Quintilii non compare altrove. 6. Il tempio di Silvano, menzionato in Tac. 17, 1, sarebbe l’unica testimonianza di un tempio dedicato a questa divinità in tutto il mondo antico. Proprio questa menzione può costituire, se mai, uno dei tanti supporti a una datazione molto più tarda della HA rispetto alla communis opinio che individua nel decennio 390 la possibile data di composizione della raccolta. Perché mai un letterato pagano che vive in un mondo ancora almeno in parte votato alla religione tradizionale dovrebbe inventarsi un nome di un dio inesistente? Un simile ‘errore’ si spiegherebbe molto meglio in un contesto di V secolo inoltrato, quando i legami mnemonici e culturali con i vecchi culti erano oramai sbiaditi. 7. Le Terme di Diocleziano sono un edificio ovviamente ben noto, ma qui citato per un preteso trasloco di libri dalla Bibliotheca Ulpia, del quale Vopiscus sarebbe unico testimone. Sulla Bibliotheca Ulpia cf. infra. 44

Roma nella «Historia Augusta»

8. La domus Tiberiana, ricordata anche nella Vita di Antonino Pio 10, 4, sorgeva sulle pendici settentrionali del Palatino e ospitava una biblioteca ricordata anche da Gellio (13, 20, 1) e da Frontone (Ep. ad M. Caes. 4, 5).

6. IL FORO DI TRAIANO Se le allusioni sparse a veri o presunti monumenti e luoghi di Roma contenuti nelle Vite firmate da Vopiscus non consentono di supportare l’idea che l’ignoto biografo potesse essere un membro dell’alta aristocrazia urbana, più interessanti appaiono le numerose e insistite allusioni al Foro di Traiano. L’immagine che se ne trae contribuisce infatti a indirizzarci verso un’età per la redazione delle biografie che non è quella di Teodosio I, bensì di Valentiniano III. Innanzi tutto la terminologia. L’unica altra fonte letteraria che chiama il Foro di Traiano Forum Ulpium è Sidonio Apollinare, Carm. 2, 544. Tale denominazione è attestata anche per via epigrafica, ma solamente su due iscrizioni, entrambe di quinto secolo: CIL VI, 1724, una dedica Flavio Merobaudi, aeque forti et docto viro, fatta collocare da Teodosio II e Valentiniano III nel 435 28, e su CIL VI, 1749, la dedica a Petronio Massimo collocata nel 421 29. Tutte le attestazioni letterarie di un Foro di Traiano ospitante statue di clarissimi con le loro iscrizioni onorarie provengono dalla HA (Aur. 22, 7; Alex. 26, 4; Tac. 9, 2) o, ancora una volta, da Sidonio Apollinare (Carm. 8, 8; 9, 301). Delle 20 iscrizioni che si pensa, con vario grado di certezza, provengano dal Foro di Traiano 30, 7 sarebbero di II secolo. Di queste, l’unica EDR134901 (Orlandi) conservata nei magazzini del Foro di Traiano. EDR122364 (Crimi) conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze (inv. Uffizi 935). Questa iscrizione, che contiene con altre l’espressione senatus amplissimus, è stata versata nella discussione sulla HA da un articolo postumo di Philippe Bruggisser, che però giunge, per quanto riguarda la questione dell’ambiente in cui la HA venne creata, a conclusioni opposte alle mie: essa sarebbe stata prodotta nell’ambiente senatorio romano, Bruggisser 2014. 30 CIL VI, 959 = EDR103981 (Pastor, a. 112 d.C.); CIL VI, 996 = EDR104037 (Pastor, a. 104-137 d.C.); CIL VI, 1377 = ILS 1098 = EDR093412 (Ferraro, a. 170-180 dedica a M. Claudius Fronto, ligoriana); CIL VI, 1540 = ILS 1112 = EDR029594 (Ferraro, Orlandi, a. 301-500 [datazione su base paleografica]); CIL VI, 1549 = ILS 1094  = EDR093416 (Ferraro, a. 170-190, ligoriana); CIL VI, 1566 = EDR111358 a. 193-197 (Ferraro, a. 193/197 su base prosopografica); CIL VI, 1599 = ILS 1326 = EDR093411 (Ferraro, a. 179-180 d.C., non è chiara la pertinenza con il Foro di Traiano); CIL VI, 1653a = EDR115756 (Ferraro, a. 339-341 su base paleografica, pertinenza dal Foro 28

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rimasta è la dedica del Foro, che consente la datazione dell’inaugurazione del complesso al 112 d.C. (CIL VI, 959), tutte le altre sono ligoriane o di pertinenza non certa; delle 6 iscrizioni di IV secolo 4 sono ligoriane (una sola di queste vanta molti altri testimoni manoscritti), una, attualmente alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, molto breve, è di dubbia pertinenza, mentre CIL VI, 1736, la dedica a M. Iulius Festus Hymetius, corrector Tusciae et Umbriae, etc., dedicata nel 376 non è certo che provenga dal Foro di Traiano, essendo stata rinvenuta nel non lontano Palazzo Savorelli (Piazza dei SS. Apostoli). Le 6 iscrizioni di quinto secolo, invece, sono tutte conservate e ben visibili o nei Magazzini del Foro di Traiano, o nei Musei Nazionali di Napoli e di Firenze, oppure, infine, ai Musei Vaticani. A queste ultime, scavi recenti hanno aggiunto un altro testo, degno di menzione in questa sede 31. Si tratta di un pragmatico di Valentiniano III, con cui si dà disposizione al praefectus urbis (Flavius Rufius Praetextatus) Postumianus 32 di collocare una statua di bronzo dorato loco caeleberrimo, per onorare un personaggio vivente di cui non è rimasto il nome. L’iscrizione può essere circoscritta agli anni 440-447 sulla base della carriera del prefetto Postumiano, personaggio, sia detto per inciso, ben noto a chi, come Mastandrea, propone una datazione della HA ben addentro al V secolo, tramite cogenti confronti con Macrobio e Sulpicio Severo, e il cui nome va molto plausibilmente restituito in una corruttela del testo della prefazione della Vita di Aureliano 33. Alcuni giri di frase suonano molto familiari ai lettori dei dodi Traiano non chiara, oggi a Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen); CIL VI, 1683 = ILS 1221 = EDR130290 (Orlandi, a. 334-335 su base prosopografica, ligoriana); CIL VI, 1710 = ILS 2949 = IGUR I, 63 = EDR111227 (Tozzi, a. 400-402 su base paleografica, oggi al Museo Archeologico di Napoli, menziona esplicitamente il Forum Traiani); CIL  VI, 1721 = ILS 1244 = EDR137679 (Grossi, a. 355-360 su base prosopografica, ligoriana); CIL VI, 1724 = ILS 2950 = EDR134901 (Orlandi, a. 435 d.C., magazzini della Basilica Ulpia, inv. 3440); CIL VI, 1725 = ILS 1284 = EDR136330 (Orlandi, a. 441-445 Musei Vaticani, Cortile della Pigna, inv. 22647); CIL VI, 1727 = ILS 1275 = EDR137769 (Grossi, a. 401-476 Musei Vaticani, Museo Chiaramonti, inv. 1848, menziona esplicitamente il Forum Traiani); CIL VI, 1728b = EDR123611 (Crimi, a. 391 su base prosopografica, con molti testimoni manoscritti); CIL VI, 1736 = ILS 1256 = EDR130289 (Orlandi, a. 376 da Palazzo Savorelli, probabilmente dal Foro di Traiano, oggi ai Musei Vaticani, Cortile della Pigna, inv. 22646); CIL VI, 1749 = ILS 809 = EDR122364 (Crimi, a. 421, ora al Museo archeologico di Firenze); CIL VI, 1764 = ILS 1255 = EDR137773 (Grossi, a. 365/367 su base paleografica, ligoriana ma con particolari sul ritrovamento); CIL VI, 1783 = ILS 2948 = EDR075061 (Orlandi, a. 431 su base paleografica, magazzino del Foro); CIL VI, 31640 = ILS 1098 = EDR093412 (Ferraro, a. 170-180 su base prosopografica, ligoriana). 31 Scaroina - La Regina 2014. 32 PLRE II, Postumianus 4, 901-902. 33 Mastandrea 2014, 328.

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cumenti falsi contenuti nella HA, così come dei documenti veri riportati nelle Novellae Marcianae, in quelle di Teodosio, giù giù fino a Cassiodoro. Lo studio del patrimonio epigrafico proveniente dal Foro di Traiano richiede molto lavoro per poter giungere a risultati sicuri. Sembra certo che il Foro potesse ospitare fin da epoca molto risalente una galleria di uomini illustri, ma quel che però conta, in questo contesto, è il nuovo ruolo di centro della memoria civica, dei viri clarissimi sempre più lontani dagli effettivi centri del potere, che il Foro di Traiano, oramai divenuto Foro Ulpio, ebbe per buona parte del V secolo. Si tratta di un ruolo accresciuto e quindi nuovo, che deve essere valutato assieme alla contemporanea decadenza di altri luoghi tradizionalmente deputati a questi scopi, prevalente nel nuovo habitus epigrafico della Roma post-teodosiana, che vide una polarizzazione per le dediche pubbliche tra il Foro Romano, per generalissimi del calibro di Stilicone e Aezio, e, appunto, il Foro di Traiano 34. Il letterato che scrisse, non senza rozzezze e cadute di stile, la HA, viveva quest’epoca di rinnovato splendore del Foro di Traiano che in un’Urbe progressivamente depauperata proprio nei suoi luoghi del potere civile, sembrava conservare in questo monumento un ricordo della sua antica grandezza. Non è un caso che ben 19 leggi del Codex Theodosianus vennero promulgate nel Foro di Traiano tra 319 e 451. È questa l’epoca in cui meglio si spiega l’insistenza di Flavius Vopiscus sul Foro di Traiano. Le fantasiose allusioni a presunti dettagli minimi – egli arriva perfino a dichiarare la collocazione di un inesistente volume nella Bibliotheca Ulpia – può considerarsi un ulteriore indizio per collocare in un ambiente provinciale – la Gallia immaginata da von Domaszewski è solamente l’opzione più plausibile – l’anonimo autore della HA, attivo nell’età di Valentiniano III (419-455).

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L’aeterna seconda? Su Costantinopoli e Roma e sulla legittimazione di Giuliano romanus Beatrice Girotti *

RIASSUNTO: Il rapporto tra Roma e la ‘Nuova Roma’, Costantinopoli, viene qui analizzato sia a livello di relazioni politiche concrete, sia a livello religioso e culturale. L’idea del conflitto tra le due capitali nelle fonti cristiane potrebbe forse essere considerevolmente attenuata, anche in considerazione del fatto che Roma mantiene, almeno nella maggior parte delle fonti occidentali, un primato su Costantinopoli che è innegabile. Non si deve trascurare che il primato romano era principalmente di un ordine ideale, come dimostrano le versioni discordanti di almeno Ammiano e Zosimo sul rapporto tra Giuliano e Roma e Giuliano e Costantinopoli. ABSTRACT: The relationship between Rome and the ‘New Rome’, Constantinople, is here analyzed both on the level of concrete political relations, and on the religious and cultural level. The idea of the conflict between the two capitals in Christian sources could perhaps be considerably attenuated, also in consideration of the fact that Rome maintains, at least in the majority of western sources, a primacy over Constantinople which is undeniable. It should not be overlooked that the Roman primacy was mainly of an ideal order, as shown by the discordant versions of at least Ammianus and Zosimus on the relationship between Julian and Rome and Julian and Constantinople. KEYWORDS: Constantinople; Costantinopoli; Genius publicus; Giuliano; Julian; patria

genitalis; Roma; Rome.

INTRODUZIONE È cosa nota che affrontare il problema del primato di Roma, o della posizione rispetto a questo primato da parte di Costantinopoli, in un periodo ampio e variegato come quello dal IV al VI secolo d.C. amplia il campo di indagine non solo sulle due città in senso stretto, ma anche sui rapporti tra Oriente e Occidente. Tra Roma e Costantinopoli, le due capitali * Alma Mater Studiorum - Università di Bologna.

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Beatrice Girotti

dell’impero, l’unica e la sola ad essere definita aeterna, o a essere associata all’aeternitas con vari sinonimi, è Roma 1. Riguardo alle due capitali, un altro motivo storiografico che spesso viene trattato è quello che ruota intorno ai termini di ‘tensione’, forse da intendere come rivalità, e quello di ‘conciliazione’ nel trattamento delle fonti rispetto alla rappresentazione di queste due città, anche in concomitanza con l’applicazione di una metodologia più moderna. Il problema dei rapporti tra le due capitali non è nuovo alla ricerca tardo-antichistica e da tempo ormai si è manifestata l’esigenza di affrontare il tema sia da un punto di vista teorico che politico e storiografico. Nonostante le teorie non cessino di sollevare critiche e dibattiti, indiscutibile è la valenza dei risultati raggiunti per stabilire il carattere e il risultato di una precisa evoluzione e di una particolare costruzione rappresentazionale. Di recente in effetti questi due termini, tensione e conciliazione, sono stati usati in un brillante lavoro di Lucy Grig, ma nonostante i notevoli risultati dello studio citato, credo si possa affermare che essi indichino a noi contemporanei in realtà una situazione di rivalità, o di conflitto, presente anche solo tra le fonti pagane e quelle cristiane, più forte di quello che in realtà ci fu. Questa affermazione può essere confortata dal fatto che, come ho dichiarato proprio all’inizio, è Roma che mantiene, almeno nella maggioranza delle fonti occidentali, un primato rispetto a Costantinopoli che è innegabile 2. Vero è che la fondazione di Costantinopoli «può essere a buon diritto considerata un evento epocale», ma «nemmeno la città di Costantino aveva, forse all’inizio, la pretesa di coaequare Roma» 3. Se proviamo ad affrontare la tematica qui accennata in termini forse più antropologici che storici, potremmo definire la situazione di Roma e Costantinopoli come la creazione di un bipolarismo tra una capitale reale e una capitale immaginata: intorno a quella immaginata (o rimpianta?), luogo fisico reale in effetti ma non più ufficialmente detentore del primaPaschoud 1967; Cracco Ruggini 2003, 366-382; Parker 2003; Ross 2015, 356-373. Cf. il recentissimo Icks 2020, partic. 4-9 (su Ammiano); Grig 2012, 31-52 e cf. anche Heckster 1999; Kelly 2003, 588-607; Jacobs 2011, 22-45; Grig - Kelly 2012; Praet 2016, 277-319. La Roma pagana o cristiana, non più capitale, mantiene un’aura e uno splendore perduranti ancora nel V e nel VI secolo. Chiaro è che a questo splendore si deve attaccare un concetto fondamentale, che è quello di romanità e di appartenenza alla romanità: Kelly 2003, 588-607. Cf. anche le considerazioni iniziali e almeno il capitolo I di Papadopoulos 2018 (partic. vd. I.VI, A Rome too much: The uncomfortable relationship between Rome and Constantinople in the fourth century AD, pp. 30-34); ancora, cf. Van Nuffelen 2013, 130-152. 3 Così Pellizzari 2013, 183-199. Il verbo coaequare è usato da Pellizzari su base del testo di Lact. De mort pers. 7, 8-10 relativo alla costruzione di Nicomedia da parte di Diocleziano. 1

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to viene dunque costruito e ricostruito, dalle fonti, e poi rappresentato nei secoli, uno spazio per così dire ideale a cui inevitabilmente si associano ricordi e descrizioni di carattere religioso, culturale, intellettuale 4. È allora proprio in questo senso che possiamo non solo ben comprendere, ma anche sviluppare, il termine ‘tensione’ usato da Lucy Grig e che tanto colpisce. La tensione, da intendersi quindi non come l’acuirsi di un contrasto, ma come quel sentimento tragico e talvolta drammatico, che, anche nelle opere teatrali, prelude alla catastrofe, se applicata alle fonti antiche potrebbe essere per esempio quella di Gerolamo quando nelle sue opere è intento nel rappresentare le due capitali. Come afferma ancora Lucy Grig, Gerolamo è spesso un testimone non completamente attendibile e imparziale, e i suoi animati e spesso conflittuali resoconti relativi a Roma senza dubbio forniscono significativi sguardi sulla città/ capitale non più unica durante un periodo di transizione 5. Ma bisogna non dimenticare quanto sia necessario leggere nel testo di Gerolamo l’influenza che risente della propaganda del messaggio cristiano: Roma è infatti variamente dipinta nei colori virgiliani come Troia e frequentemente paragonata con le città bibliche di Babilonia, Betlemme e Gerusalemme. Un passo di Gerolamo che desidero richiamare propone però una singolare testimonianza, certo molto nota. Nel suo Chronicon, scritto mentre si trova in Siria, Costantinopoli è descritta come capitale costruita attraverso la spogliazione, cioè la nuditas di quasi tutte le altre città 6. Costantinopoli si qualifica dunque come una ladra, essa ha rubato alle altre città e capitali i fondi per costruirsi 7. Il giudizio così espresso da un cristiano fa riflettere sul grado di influenza che dovettero probabilmente avere su di lui, in Siria, le opinioni dei letterati orientali sulla costruzione di Costantinopoli, tanto più che nel passo in questione si parla anche dell’enorme statua di Costantino. Questa testimonianza in Gerolamo si pone come un unicum, e viene poi oscurata dai vari passi in cui Gerolamo si pone contro Roma ed è un’osservazione che è più vicina all’atteggiamento delle fonti orientali, in particolari antiochene, che a quello delle Clifford 2015. Cf. Anche Manent - Paris 2010; Fuhrer - Mundt - Stenger 2015. Grig 2012b, 129. 6 Hier. Chron. A. 334, 232, 22: alexandriae XVIIII ordinatur episcopus athanasius dedicator constantinopolis omnium paene urbium nuditate. Su questo passo Barnes 1981, 126-131, che non dubita che la vecchia Bisanzio venne del tutto rasa al suolo e dimenticata; Stuart 2003; Harries 2012. 7 Per una diversa traduzione, o comunque un dubbio sul concetto espresso da Gerolamo: Spivey 2013, 303: «Jerome intended nudity as a description of the statues or the process of stripping others cities in not clear … perhaps it was merely a question of emphasizing the status of Constantinople as the ‘New Rome’ (Nea Roma)». 4

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fonti occidentali coeve che insistono sul tema di Costantinopoli aemula Romae. La posizione di questo ‘secondo piano’ di Costantinopoli può essere espressa più o meno esplicitamente 8, oppure può essere toccata implicitamente attraverso quelli che sono stati definiti, soprattutto per Ammiano, i silenzi su Costantinopoli 9. Non si può non essere d’accordo con Kelly relativamente alle sue posizioni su certi silenzi ammianei che portano a poche citazioni riguardo alla capitale Costantinopoli nelle Res Gestae (RG), ma credo di potere aggiungere rispetto a questa posizione ben strutturata dallo studioso che la funzionalità dei silenzi ammianei sulla città sia da collegare anche ad altro rispetto alla sola e semplice ostilità nei confronti della seconda capitale, e all’ostilità nei confronti del suo fondatore, Costantino. Più specificatamente, i silenzi su Costantinopoli sono, credo, da collegare a quegli elogi di Roma, e della Romanitas, espressi anche, ma non solo, nelle note digressioni romane di Ammiano, e servono all’autore delle RG a rendere più legittimi l’ascesa e l’operato dell’imperatore Giuliano, che nelle RG diventa il romanus ideale, nonostante l’evidente e innegabile paradosso che lo contraddistingue, e cioè che non è mai stato a Roma, né ha mai espresso l’intenzione di recarvisi. È in effetti singolare che tra tutti gli imperatori descritti da Ammiano il solo Costanzo II è stato a Roma 10. Insomma, i silenzi su Costantinopoli portano a pensare a un Ammiano (e di conseguenza al suo idealizzato Giuliano), come a difensori dell’ideale della Romanitas. Diversi sono i momenti in cui Ammiano utilizza Roma e/o l’attaccamento all’idea della Romanitas nella creazione dell’immagine di imperatore e nel conseguente disegno di un imperatore romano esemplare. Questa, che ora definisco dunque ‘romanizzazione’ di Giuliano nel testo di Ammiano, si può a mio avviso notare attraverso una serie di segnali, quali le apparizioni del Genius publicus, la menzione dell’attenzione dell’imperatore ai culti tradizionali romani, la scienza degli aruspici fino all’affermazione che Giuliano avrebbe dovuto essere sepolto a Roma e alla sua indifferenza per il significato politico di Costantinopoli che egli onora solamente come sua città natale 11.

È il caso di fonti come Aurelio Vittore, o Festo: cf. Neri 1992, 53-63 e passim. Kelly 2003, 588-607. 10 E Amm. 16, 10 ce ne descrive in maniera memorabile l’adventus: cf. almeno Neri 1984. 11 Cf. infra tutti i dettagli dei passi e relativa discussione. 8

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1. LEGITTIMAZIONE DI GIULIANO ‘ROMANUS’ Un primo passo che sottopongo all’attenzione è quello in cui Giuliano nelle RG è messo in rapporto con Costantinopoli: in questo particolare frangente, nel momento in cui Giuliano sta per lasciare Costantinopoli per dirigersi verso Antiochia, la città viene definita patria genitalis 12. Questo passo, sebbene non sia il primo in ordine cronologico a dare spunti di romanità giulianea, può essere considerato come punto di partenza per le riflessioni sulla costruzione ammianea di un Giuliano romanus 13: A una prima lettura, il nesso patria genitalis può semplicemente sembrare un’ovvietà, ma se leggiamo patria genitalis alla luce delle considerazioni introduttive, questa frase non esprime soltanto quello che è oltremodo noto, e cioè che Giuliano è nato a Costantinopoli, ma si configura come un nesso scelto con estrema cura da Ammiano per ricordare al lettore una metafora biologica, e precisamente, credo, le varie definizioni di Roma genetrix, contrapposta alla spesso usata definizione Costantinopoli filia 14. Genitalis non è ovviamente una caratteristica della città; Costantinopoli è genitalis in rapporto a Giuliano e a tutti coloro che vi hanno avuto i natali. Ma la cosa interessante è che genitalis esprime un rapporto privato dal quale è assente ogni risvolto politico: Giuliano quindi non riconosce alla città una qualità particolare, tanto meno quella di essere capitale o la città di Costantino. Con questa espressione quindi Ammiano evidenzia certamente il dato reale della nascita e dell’origine di Giuliano, ma nello stesso tempo mette in rilievo il distacco reale tra biologia e appartenenza, attaccamento, riconoscenza e legame. Essere figlio indica legame di sangue, ma non necessariamente identità comune o attaccamento. Giuliano è nato a Costantinopoli, città creata per essere cristiana, ma si comporta da romano: è quindi distaccato nei confronti della sua patria. Se si considerano i passi in cui Ammiano descrive l’entrata di Giuliano a Costantinopoli, si deve sottolineare come si tratti di un adventus del tutto anomalo: la descrizione è concentrata da Ammiano in poche righe e si risolve infatti in una tonalità moderata di adventus, che non contiene alcun tipo di esaltazione. 12 Amm. 22, 9, 2: Omnibus igitur, quae res diversae poscebant et tempora, perpensa deliberatione dispositis, et militibus orationibus crebris stipendioque conpetenti ad expedienda incidentia promptius animatis, cunctorum favore sublimis Antiochiam ire contendens reliquit Constantinopolim incrementis maximis fultam: natus enim illic diligebat eam ut genitalem patriam et colebat. 13 Neri 1985, 41-42 e nn. 89 e 99. 14 Solo in altro contesto e per altra città Ammiano utilizza la metafora biologica legata alla maternità, per Nicea: Nicaea, quae in Bithynia mater est urbium (26, 1, 3).

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Credo si possa ritenere che questo particolare momento venga descritto così velocemente e in maniera del tutto distaccata da Ammiano proprio perché l’autore non vuole dare l’impressione di un adventus solenne in Costantinopoli. La conferma a questa teoria viene dal confronto con il testo di Zosimo. Qui, proprio a proposito del rapporto di Giuliano con Costantinopoli, lo storico rileva il dato di fatto, come già Ammiano, che Giuliano onora la città come sua città natale 15. Ma Zosimo III 11 descrive con dovizia di particolari l’adventus e ci informa soprattutto del fatto che Giuliano concede a Costantinopoli di avere un senato come quello di Roma. Nel testo di Zosimo, e questo è piuttosto singolare, si suggerisce implicitamente che Giuliano riconosce alla città il ruolo di una sorta di altera Roma. Questo dettaglio, per nulla insignificante, viene completamente omesso da Ammiano. La notizia della creazione del Senato è in effetti isolata al testo di Zosimo, e non è da prendere alla lettera, dato che il Senato venne con tutta probabilità creato da Costantino, ma posto sullo stesso piano di quello romano negli ultimi anni del regno di Costanzo II 16. Probabilmente l’avversione a Costantino di Zosimo porta a questa affermazione su Giuliano, e viene a creare in un certo senso quella che Paschoud definisce una deformazione encomiastica a favore di Giuliano, in contrasto con quello che lo stesso Zosimo dice su Costantino, e precisamente che aveva installato dei senatori a Costantinopoli 17. Quello che però preme sottolineare dal confronto tra Ammiano e Zosimo è l’assoluto silenzio in Ammiano su qualsiasi azione di Giuliano a Costantinopoli: che si tratti di un silenzio voluto è dimostrato anche da un altro nesso nel medesimo passo delle RG. Ammiano infatti afferma semplicemente e in maniera assai sbrigativa che Giuliano reliquit Costan15 Zos. III 11, 2-3: Ὡς δὲ καὶ τὰ τῶν ἀστρῴων συντρέχειν ἐδόκει κινήσεων, ὄντι κατὰ τὴν Νάϊσον ἐκ τῆς Κωνσταντινουπόλεως αὐτῷ πλῆθος ἱππέων ἀπήγγειλεν ὡς Κωνστάντιος μὲν ἐτελεύτησε, καλοίη δὲ Ἰουλιανὸν ἐπὶ τὴν τῶν ὅλων ἀρχὴν τὰ στρατόπεδα· δεξάμενος δὴ τὸ παρὰ τοῦ θείου δεδωρημένον εἴχετο τῆς ἐπὶ τὰ πρόσω πορείας· ἐπεὶ δὲ εἰς τὸ Βυζάντιον παρεγένετο, πάντες μὲν αὐτὸν σὺν εὐφημίαις ἐδέχοντο, πολίτην καὶ τρόφιμον ἑαυτῶν ὀνομάζοντες οἷα δὴ ἐν ταύτῃ τεχθέντα τε καὶ τραφέντα τῇ πόλει, καὶ τὰ ἄλλα θεραπεύοντες ὡς μεγίστων τοῖς ἀνθρώποις αἴτιον ἐσόμενον ἀγαθῶν. Ἐν ταύτῃ τῆς πόλεως ἅμα καὶ τῶν στρατοπέδων ἐπιμελούμενος ἔδωκε μὲν τῇ πόλει γερουσίαν ἔχειν ὥσπερ τῇ Ῥώμῃ, λιμένα δὲ μέγιστον αὐτῇ δειμάμενος, τῶν ἀπὸ τοῦ νότου κινδυνευόντων ἀλεξητήριον πλοίων, καὶ στοὰν σιγματοειδῆ μᾶλλον ἢ εὐθεῖαν, ἐπὶ τὸν λιμένα κατάγουσαν, ἔτι δὲ βιβλιοθήκην ἐν τῇ βασιλέως οἰκοδομήσας στοᾷ καὶ ταύτῃ βίβλους ὅσας εἶχεν ἐναποθέμενος, ἐπὶ τὸν κατὰ Περσῶν παρεσκευάζετο πόλεμον· δέκα δὲ διατρίψας ἐν τῷ Βυζαντίῳ μῆνας κατέστησε στρατηγοὺς Ὁρμίσδην καὶ Βίκτορα, καὶ τοὺς ταξιάρχους αὐτοῖς καὶ τὰ στρατόπεδα παραδοὺς ἐπὶ τὴν Ἀντιόχειαν ἤλαυνε.

16 Secondo la testimonianza dell’Anon. Val. 30 Costantino aveva creato un senato di viri clari, non clarissimi. 17 Zos. II 31, 3.

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tinopolim incrementis maximis fultam. Anche qui è utile il confronto con il già menzionato passo di Zosimo al libro III 18. Zosimo fornisce molti dettagli su questo soggiorno costantinopolitano. Giuliano, acclamato concittadino e pupillo, accolto con tutti gli onori, oltre al senato costruisce un porto per proteggere le navi minacciate dal vento del sud, costruisce un portico che conduceva al porto, ma soprattutto fa costruire nel portico una biblioteca dove depone tutti i libri che possiede. Tutti questi dettagli, assenti in Ammiano, e soprattutto la mancata menzione della creazione della biblioteca, fatto singolare, dato che Ammiano è molto attento all’esaltazione della cultura di Giuliano, e non solo della sua, e ricorda per esempio con orrore l’incendio delle biblioteche da parte di Valentiniano 19, inducono a ritenere che lo storico antiocheno voglia intenzionalmente eliminare la ‘creazione agiografica’ su Giuliano a Costantinopoli. Il Giuliano ammianeo non ha, nei confronti di Costantinopoli, nessuna considerazione del ruolo politico della capitale: certamente questa rappresentazione riflette l’opinione di Ammiano ma anche di gran parte della letteratura occidentale pagana. Ritengo sia utile a questo punto richiamare anche un passo piuttosto particolare del panegirico letto da Mamertino a Giuliano, nel 362. Il Panegirico è pronunciato a Costantinopoli 20. Il console ricorda al suo pubblico il fatto che è la città e questo tempio tanto augusto del pubblico consiglio a pretendere da lui l’obbligo del discorso. La città, dice il panegirista, ha un nome nuovo, ma un’antichissima nobiltà. Il nome di Costantinopoli non viene però nemmeno fatto: vero è che il panegirista nel passo richiama il fatto che la città è la patria di Giuliano, e, si ricorda, il tema della patria è anche in Ammiano come in Zosimo. Mamertino richiama i concetti di concittadini e di compatrioti (stessa tematica in Zosimo), ma nel finale dei due paragrafi introduttivi, Mamertino velocemente rievoca, come suo dovere solo retorico, quanto Giuliano ha fatto per la patria e per l’estero (domi forisque gessisti) dicendo però immediatamente che queste cose saranno da lui tralasciate per arrivare all’argomento dell’elogio vero e proprio, che si dipana su tutto tranne che su ciò che Giuliano ha fatto per Costantinopoli 21. Zos. III 11, 2, 3, cf. supra. Amm. 31, 14. 20 Cf. almeno Galletier 1949-1952 e per le traduzioni più recenti Nixon - Rodgers 1994; Lassandro - Micunco 2000; Rees 2002. 21 Tutte queste tematiche sono comparabili con gli stessi argomenti che leggiamo in Ammiano e in Zosimo; nel particolare di quest’ultima menzionata, il parallelo è con il solo Ammiano. Zosimo rimane dunque testimonianza isolata dei molti doni a Costantinopoli da parte di Giuliano. Pan. Lat. (III) XI, 362 d.C.: [1] Porro in decernendo 18

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In un altro punto del suo discorso il panegirista si riferisce ancora a Costantinopoli, definita nuovamente patria di Giuliano. Anche in questo caso la menzione è breve e ambigua: Giuliano è a Naisso, quindi non ancora arrivato a Costantinopoli; la sua mente però è rivolta a Roma, in quel periodo (siamo nel 359) afflitta da carestia. Secondo il racconto di Mamertino, per aiutare la città di Roma Giuliano attinge al suo personale patrimonio, attinge ai tributi delle province e comprato del grano ne riempie la città fino al benessere e all’abbondanza. Mamertino aggiunge ancora un particolare piuttosto interessante, affermando che in seguito a queste azioni di Giuliano Costanzo II elude la sorveglianza e fa in modo che il grano vada a Costantinopoli e non a Roma. Ai lamenti dei suoi collaboratori, Giuliano risponde di non essere preoccupato e di considerare non perduto il grano finito genericamente ad hanc urbem (già da questa frase non si coglie nessun cenno di un attaccamento di Giuliano, non nomina nemmeno direttamente Costantinopoli). La chiusa del panegirista è significativa; dice infatti Mamertino: «noi credevamo dicesse così per il suo amore ben noto verso la patria, mentre, in realtà, il suo giro di parole celava una rivelazione di fatti futuri: già allora Giuliano prevedeva l’avvento della felicità futura» 22. Parafrasando, per comodità, il testo del consulatu remotis utilitatibus tuis rationem meae solum dignitatis habuisti. [2] Nam in administrationibus labos honori adiungitur, in consulatu honos sine labore suscipitur; in illis si laeteris cupidae ambitionis esse videaris, in hoc nisi aperte et propalam laeteris ingratus sis. [3] Huc accedit quod ipsa haec urbs atque hoc augustissimum consilii publici templum officium huius orationis efflagitant. Haec tibi nominis novi sed antiquissimae nobilitatis civitas patria est, hic primum editus, hic quasi quoddam salutare humano generi sidus exortus . [4] Hi cives et populares tui silere me non sinunt, nec patiuntur ut quisquam alius auspicatissimo die apud te ac de te loquendi munus usurpet quam is qui amplissimo sit praeditus magistratu. [5] Putant aliquid adicere ad splendorem laudum tuarum consulis nomen, et recte putant; adicitur enim laudum dignitati honore laudantis. [6] Ac licet, maxime imperator, publico iudicio et nomine agere tibi gratias debeam, tamen illa quae pro summa re domi forisque gessisti nunc ex parte maxima praetermittam, ut quanto ocius ad ea quae propria sunt perveniat oratio. 22 Pan. Lat. (III) XI, 362 d.C.: [1] Cum igitur inter egregia negotia itinere confecto usque ad Thraciae fines perventum foret, cursim disposito exercitus commeatu ad Romanam urbem annonae vacuam mentem reflexit. [2] Quemlibet alium a subveniendi conatibus gravissima fames et tristissimum rei publicae periculum deterruisset. Sed stipendiis provinciarum et patrimonii sui fructibus, tum undique frumentis coemptis usque ad opulentiam abundantiamque esurientem iam Vrbem refersit. Dicet aliquis: «Quomodo tam multa tam brevi tempore?» et recte. [3] Sed imperator noster addit ad tempus quod otio suo detrahit. Nihil somno, nihil epulis, nihil otio tribuit; ipsa se naturalium necessariarumque rerum usurpatione defrudat; totus commodis publicis vacat. [4] Itaque grandaevum iam imperium videbitur his qui non ratione dierum aut mensium sed operum multitudine et effectarum rerum modo Iuliani tempora metientur. [5] Cum Romani populi victus et exercitus commeatus esset in manibus, in media expediendae annonae trepidatione nuntius venit plurimas naves Africano tritico graves litus Achaicum praetervectas Constantinopolim

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panegirista, sembra si possa affermare che Mamertino voglia consegnare il messaggio che presto Giuliano sarebbe stato imperatore e quindi il grano sarebbe andato ugualmente a Roma. Giuliano, nel testo del panegirico, non afferma che interviene su Costantinopoli nel preciso momento in cui il grano è lì, ma aspetta di essere riconosciuto anche su Roma, per riportare il grano dove esattamente deve andare. Sulla scia di questo passo, il potere definitivo di Giuliano e il recupero del grano sembrano essere veramente collegati solo alla città (capitale) Roma e al momento in cui Giuliano sarà riconosciuto anche a Roma. Il contenuto reale e nello stesso tempo velatamente ironico della frase ha senza dubbio un altro fine: anche Mamertino (come Ammiano, e come Zosimo e come tutti in realtà) è consapevole della provenienza e della natalità di Giuliano, ma non si preoccupa affatto di fare emergere alcun tipo rapporto che non sia esclusivamente privato con la città di Costantinopoli. In tutto il contesto, il centro politico e ideologico, reale, rimane sempre e comunque Roma, nonostante il discorso sia pronunciato a Costantinopoli. Roma è la città che è nei pensieri di Giuliano e di conseguenza anche di chi si occupa, come Mamertino, della propaganda politica di Giuliano; è Roma che è ancora nel 362 d.C. il simbolo e luogo di definizione finale e assoluta del suo potere. Giuliano anche nel panegirico è rappresentato come sicuro di quello che succederà, cioè della sua elevazione ad Augusto; poco importa che Giuliano non si preoccupa in realtà del destino di Roma in senso stretto, anzi ignora quasi totalmente il problema creato da Costanzo. Se il testo del panegirico va letto anche nella sua particolare veste letteraria, e quindi ciò che vi viene detto va forse considerato non del tutto libero da alcune esagerazioni retoriche, per contro, l’autore delle RG, storico attendibile, mostra una spiccata tendenza a disegnare una vera e propria tradizione agiografica di Giuliano in rapporto all’altra capitale, Roma, città dove, come già si ha avuto modo di affermare, Giuliano Augusto non si è mai recato. Forse proprio per non sottolineare questa reale mancanza di Giuliano, Ammiano elabora una doppia strategia narrativa e comunicativa: la prima parte della strategia va individuata nel raccontare in maniera molto soffusa l’adventus di Giuliano a Costantinopoli. Come già detto, la

pervolasse. Permoti omnes et adversus eos qui oram maritimam tuebantur irati venimus ad principem; desidia iudicum tantum perisse frumenti certatim pro se quisque conquerimur. [6] At maximus imperator serenum renidens: nihil esse peccatum, non sibi perisse quae ad hanc urbem frumenta venissent. Nos vocem illam noti amoris in patriam putabamus, cum proditionem futuri verborum ambago celaret; iam tum enim venturae felicitatis eventum conscius divini animus praevidebat.

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struttura delle RG concede solo pochi paragrafi a questo cerimoniale 23. Ammiano si limita a registrare come tutti a Costantinopoli escono dalle loro case per vedere l’arrivo di colui che sembra disceso dal cielo, e viene così accolto nella città nel dicembre del 361 dall’applauso concorde della gente comune e con ossequi da parte del senato. Se paragonate al discorso e alla lunga trattazione dell’adventus di Costanzo a Roma nel 357, queste poche righe sembrano davvero volere fare escludere ogni enfasi circa il soggiorno costantinopolitano 24. La seconda strategia, legata al rapporto Giuliano/Roma è messa in evidenza da un altro passo: quasi paradossalmente Ammiano evidenzia il mancato adventus romano evocando per Giuliano, e solo per lui, una sorta di avdentus tardivo, e cioè l’entrata dell’imperatore da morto a Roma. Qui Roma è senza dubbio la capitale sola e unica, aeterna dunque per culto, per memoria e per amor civicus/Romanitas, ad essere destinata all’onore della sepoltura di Giuliano, sepolto invece a Tarso 25. Va innanzitutto notato che Giuliano è l’unico imperatore per cui Ammiano chiede una sepoltura a Roma, quasi ad indicare che Giuliano sia l’unico imperatore degnamente romanus. L’essere degno di essere sepolto a Roma viene da un disegno abilmente creato e vòlto a legittimare sempre di più quella che ho provato a definire come la Romanitas di Giuliano; si nota, in tutta l’opera di Ammiano, una certa insistenza dell’autore su questo tema di Romanitas giulianea. Un esempio può essere fornito dal racconto del viaggio dell’imperatore Giuliano da Costantinopoli ad Antiochia. Appare singolare che in questo contesto, l’unico atto di culto che Ammiano ricorda è quello in onore della Magna Mater a Pessinunte; lo storico lascia inoltre intendere che si tratta di un gesto di 23 Amm. 22, 2, 4-5: Quo apud Constantinopolim mox conperto effundebatur aetas omnis et sexus tamquam demissum aliquem visura de caelo. Exceptus igitur tertium Iduum Decembrium verecundis senatus officiis et popularium consonis plausibus, stipatusque armatorum et togatorum agminibus, velut acie ducebatur instructa, omnium oculis in eum non modo contuitu destinato sed cum admiratione magna defixis. [5] Somnio enim propius videbatur adultum adhuc iuvenem exiguo corpore, factis praestantem ingentibus, post cruentos exitus regum et gentium ab urbe in urbem inopina velocitate transgressum, quaqua incederet accessione opum et virium famae instar cuncta facilius occupasse, principatum denique deferente nutu caelesti absque ulla publicae rei suscepisse iactura. 24 Amm. 16, 10: cf. Neri 1985, 123-127. In particolare si leggano le considerazioni relative all’antagonismo di Costanzo nei confronti dello splendore e dell’eternità della città di Roma. 25 Amm. 25, 10, 5: exindeque egredi nimiu m properans, exornari sepulchrum statuit Iuliani, in pomerio situm itineris, quod ad Tauri montis angustias ducit, cuius suprema et cineres, siqui tunc iuste consuleret, non Cydnus videre deberet, quamvis gratissimus amnis et liquidus, sed ad perpetuandam gloriam recte factorum praeterlambere Tiberis intersecans urbem aeternam divorumque veterum monumenta praestringens.

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omaggio all’antichità del culto, non solo ignorando, con ogni probabilità volutamente, l’interesse di Giuliano per il suo contenuto mistico 26 ma soprattutto evidenziando che Giuliano devia la strada del suo viaggio proprio verso destra per rendere omaggio alla dea (unde dexstrorsus itinere declinato Pessinunta convertit). Il richiamo ai culti tradizionali romani praticati da Giuliano ha una estensione verso culti e sacrifici non espressamente romani ma comunque tradizionali (egiziani/antiocheni), ma appare evidente il fatto che rimane in lui la prevalenza dei culti romani. Un’altra conferma a questa superiorità romana viene per esempio dalle parole usate nel descrivere la prosecuzione del viaggio: Ammiano afferma infatti che ad Antiochia Giuliano sacrifica a Giove sul monte Casio 27. Di fronte a una città come Antiochia, e al rifiuto di Antiochia rispetto ai culti pagani 28, Giuliano sembra, dal racconto di Ammiano, legarsi sempre di più ai culti patri, e compie molti sacrifici. La notizia è testimoniata anche da Libanio, che nell’Or. 18, 168, sostiene che in due anni Giuliano compie più sacrifici di tutti quelli fatti dai Greci. E ancora, terminato il sacrificio, a Giuliano viene consegnato uno scritto del governatore dell’Egitto che afferma che era stato finalmente trovato un bue Api, segno di buon augurio. È oltremodo significativo che a Giuliano vengano poi mosse le critiche che su questo piano si riassumono nel rimprovero di non esercitare un culto conforme ai nòmoi tradizionali 29. Riguardo al bue Api, ad Amm. 22, 9, 5: Pessinunta convertit, visurus vetusta Maths Magnae delubro, a quo oppido bello Punico secundo, carmine Cumano monente, per Scipionem Nasicam simulacrum translatum est Romam. 27 Amm. 22, 14, 4: Denique praestituto feriarum die Casium montem ascendit nemorosum et tereti ambitu in sublime porrectum, unde secundis galliciniis videtur primo solis exortus. Cumque Iovi faceret rem divinam, repente conspexit quendam humi prostratum, supplici voce vitam precantem et veniam. Interrogantique ei, qui esset, responsum est praesidalem esse Theodotum Hierapolitanum, qui profectum a civitate sua Constantium inter honoratos deducens adulando deformiter tamquam futurum sine dubietate victorem, orabat lacrimas fingens et gemitum ut Iuliani ad eos mitteret caput perduellis ingrati, specie illa, qua Magnenti circumlatum meminerat membrum; cf. Neri 1985, 101 n. 112. 28 Il rapporto Giuliano/Antiochia e l’atteggiamento degli antiocheni di fronte a quello che sembra essere, almeno dal racconto di Ammiano, uno «smisurato zelo pagano» (Viansino 2001, II, 366) non può certo essere ridotto a queste poche righe. Si veda Iul. Misop. 359c, in cui Giuliano accusa gli Antiochieni di essere colpevoli di àmousia e si legga Lib. Or. 18 in cui invece il retore fornisce un racconto positivo del soggiorno ad Antiochia di Giuliano. Ancora cf. Iohann. Cris. 50, 554 PG secondo cui gli antiochieni si rifiutano di raccogliersi attorno a Giuliano. 29 Amm. 22, 14, 6-7. Sul problema del rimprovero di Giuliano, con riflessioni sul termine legitimus usato da Ammiano, cf. Neri 1985, 153: «All’interno della narrazione degli acta di Giuliano, le critiche all’attività cultuale dell’imperatore riguardano esclusivamente gli eccessi nei sacrifici compiuti dall’imperatore ad Antiochia, prima di intraprendere la spedizione persiana (hostiarum tamen sanguine plurimo aras crebritate 26

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esempio, Ammiano dedica ben tre paragrafi alla spiegazione di questo culto, di cui le RG si trovano ad essere l’ultima fonte a farne menzione 30; il sacro rito di questo culto divino è collegato ovviamente a Giuliano ed è quantomeno singolare lo spazio che gli è dedicato all’interno dell’opera, dato che Ammiano consacra più posto nella narrazione a questo particolare di quanto ne abbia occupato l’adventus di Giuliano a Costantinopoli. Quello che si ritiene insomma di mettere in evidenza è che in Ammiano Giuliano ha un generale interesse per i culti tradizionali, e in questo contesto hanno una posizione preminente i culti romani. Importanti ai fini di una completa appartenenza alla Romanitas di Giuliano risultano essere anche i molti paragrafi del libro 23, che si caratterizza come disseminato di presagi negativi per l’imperatore. Come noto, Giuliano sta tentando di restaurare il tempio di Gerusalemme 31, ma il tentativo di ricostruzione in Ammiano appare legato al fatto che l’edificio era stimato per tradizionalismo e per il rispetto conservato verso le proprie radici, e non è un caso che cercando di provvedere invano ai lavori di ricostruzione, Giuliano sacrifica al Genius 32. Ancora, mentre Giuliano è in marcia attraverso la Mesopotamia, fermatosi per dare forza a un presagio, a Callinico, il 27 Marzo, giorno in cui si celebra a Roma la cerimonia del lavacro del simulacro della Magna Mater, Giuliano sacrifica alla dea secondo le consuetudini antiche, litando (cioè, secondo il rituale romano, la divinità accetta il sacrificio) e soddisfacendo alla solennità dei sacri riti (prisco more – e si addormenta poi laetus) 33. Il sacrificio è testimoniato da Giuliano stesso, nella Or. 5: ma va nimia perfundebat … augebantur autem cerimoniarum ritus immodice cum ̀mpensarum amplitudine antehac inusitata et gravi). A questo proposito Ammiano dichiara di condividere critiche di matrice antiochena, che sono chiaramente dello stesso tenore di quello alle quali risponde Libanio nel passo citato dell’orazione XII». 30 Cf. HA, Adr. 2, 1; Svet. Vesp. 5 (presagi alla consacrazione operata da Tito); Herod. 3, 27 considera il bue Api un buon auspicio. 31 La notizia testimoniata da Iul. Ep. 89b e 295c; ma anche dai testi cristiani: Iohann. Cris. 47, 835 e 900 PG; Ruf. 10, 37; Socr. 3, 20; Theod. 3, 20; Zon. 13, 12, che in realtà dicono che Giuliano sfruttava il fanatismo religioso ebraico per i suoi scopi anticristiani. 32 Amm. 23, 1, 6: praecesserat aliud saevum. namque kalendis ipsis ianuariis ascendente eo gradile Genii templum e sacerdotum consortio quidam ceteris diuturnior nullo pulsante repente concidit animamque insperato casu efflavit, quod adstantes – incertum per inperitiam an adulandi cupiditate – memorabant consulum seniori portendi nimirum Sallustio, sed ut apparuit non aetati sed potestati maiori interitum propinquare monstrabatur. 33 Amm. 23, 3, 7: et paulisper detentus, ut omen per hostias litando firmaret, Davanam venit castra praesidiaria, unde ortus Belias fluvius funditur in Euphraten. hic corporibus cibo curatis et quiete, postridie ventum est ad Callinicum; Amm. 23, 1, 7: super his

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assolutamente letta la differente modalità di presentazione dell’evento. Infatti, nel testo di Giuliano il rito alla Madre degli dei viene de-romanizzato rispetto al contesto ammianeo e assume interpretazioni neoplatoniche. Questo particolare non può essere trascurato: è dunque Ammiano che tenta di legittimare (o creare) un vero e proprio Giuliano romanus, dato che Giuliano stesso, nella sua opera, sembra non preoccuparsi di questo aspetto di Romanitas. Gli esempi potrebbero essere molti altri, e molti di essi già sono stati studiati 34; ma considero però per altre riflessioni il passo in cui Giuliano compie ancora un sacrificio a Marte Ultore dal quale emergono presagi infausti 35. Qui, invece della laetitia del passo sopra richiamato, il Giuliano rappresentato da Ammiano si indigna e urla a gran voce chiamando Giove a testimone che non avrebbe più fatto sacrifici a Marte. È significativo che nell’accecamento tragico che prelude alla sua fine Giuliano entri, nella narrazione di Ammiano, in conflitto con la religione romana, Marte Ultore e gli aruspici. Le pratiche divinatorie che Ammiano attribuisce a Giuliano sono dunque quasi sempre quelle tradizionali; in particolare va segnalata una concentrazione notevole nei confronti dell’aruspicina. Su questa, lo storico antiocheno mette in rilievo il carattere tradizionale delle pratiche esercitate da chi crede negli dei 36. Questo interesse prevalente nelle RG che si alterna tra rappresentazione-politica-legittimazione, in particolare l’interesse mostrato per la complessità religiosa della parabola giulianea è condizionato dunque intensamente dalla romanità, forse acquisita, ma di certo ostentata del Giuliano ammianeo e si nota inoltre in maniera molto forte nei discorsi di politica internazionale, proprio perché in quelli Giuliano fa esplicito rialia quoque minora signa subinde quid accideret ostendebant. inter ipsa enim exordia procinctus Parthici disponendi nuntiatum est Constantinopolim terrae pulsu vibratam: quod horum periti minus laetum esse pronuntiabant aliena pervadere molienti rectori. ideoque intempestivo conatu desistere suadebant, ita demum haec et similia contemni oportere firmantes, cum inruentibus armis externis lex una sit et perpetua, salutem omni ratione defendere, nihil remittente vi mortis. isdem diebus nuntiatum est ei per litteras Romae super hoc bello libros Sibyllae consultos, ut iusserat, imperatorem eo anno discedere a limitibus suis aperto prohibuisse responso. 34 Cf. Neri 1985, 103-107 e passim. 35 Amm. 24, 6, 16: quibus visis exclamavit indignatus acriter Iulianus Iovemque testatus est nulla Marti iam sacra facturum nec resecravit celeri morte praereptus. 36 Amm. 21, 2, 4: haruspicinae augurii usque intentas, et ceteris quae deorum semper fecere cultores. Sulla stessa linea sono anche altri passi, per esempio a 22, 1, 2; 23, 5, 10 e 23, 5, 13; e ancora, 25, 3, 7. Limiti di spazio impediscono il commento di ognuno di loro, il rinvio è ancora all’analisi di Neri 1985, partic. 40-43.

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ferimento alla tradizione romana. Il miles Giuliano, seppur graecus come Ammiano, è pienamente inserito nella tradizione romana 37. È interessante per esempio a questo proposito il discorso che in Ammiano Giuliano rivolge alle truppe all’inizio della guerra persiana: qui vi figurano assunzioni efficaci in cui l’impresa è posta in continuità con la più antica storia romana, dai conflitti con Fidene e Veio. Giuliano si presenta come peritus antiquitatum 38. Il passo ha suscitato diverse interpretazioni, che richiamano più o meno tutte un grado elevato di erudizione giulianea e un semplice ricordo degli exempla di storia romana che tanto sono presenti nelle RG, e che giustificano la volontà di Giuliano di essere all’altezza degli antichi modelli 39. Ma se leggiamo in altra prospettiva tutto il libro 23, di cui già ho richiamato anche altri paragrafi e a cui va ad aggiungersi ora anche questo paragrafo 21, il contesto generale è frutto di un costante contrapporsi di altra tematica, e precisamente vede la contrapposizione tra aruspici e prodigi e filosofia tradizionale 40. Gli aruspici appartengono alla tradizione della Romanitas: Ammiano inscena un conflitto interessante tra questi aruspici romani e i filosofi neoplatonici, teurgisti, che si considerano unici interpreti del divino (anche se, in realtà, nella narrazione ammianea, i filosofi propongono una spiegazione razionalistica e non mistica del fenomeno in questione), e il conflitto rispecchia proprio il contrapporsi tra la religione e la cultura occidentale e la religione e la cultura greca di cui la filosofia fa parte. E la ragione, per Ammiano, sta in ciò che viene letto dagli aruspici. Questo conflitto di culture arriva fino al discorso di Giuliano peritus antiquitatum: qui AmmiaTradizione nella quale è inserito lo stesso Ammiano. Cf. Kulikowski 2008. Amm. 23, 5, 21: haec ut antiquitatum peritus exposui, superest ut aviditate rapiendi posthabita, quae insidiatrix saepe Romani militis fuit, quisque agmini cohaerens incedat, cum ad necessitatem congrediendi fuerit ventum, signa propria secuturus sciens, quod, si remanserit quisquam, exsectis cruribus relinquetur. nihil enim praeter dolos et insidias hostium vereor nimium callidorum. Ammiano usa altrove il termine antiquitatum, accostandolo a quello che viene a configurarsi come il contrario di peritus, per evidenziare la distanza da una concezione provvidenzialistica della storia che emerge a proposito di un altro avvenimento cruciale nella storia del IV secolo: la battaglia di Adrianopoli. In questo caso Ammiano polemizza apertamente con gli antiquitatum ignari. Gli antiquitatum ignari, nella cui affermazione si manifesta probabilmente una polemica di tipo provvidenzialistico, hanno il torto per lo storico di mettere in ombra o di ignorare (per esempio Lib. Or. 14.5) il peso determinante nella valutazione del disastro di Adrianopoli, della crisi morale e politica della società romana. Cf. Neri 1985, 37 e 103; Pellizzari 2004, 647-653. 39 Cf. ancora la lunga analisi di Neri 1985, 137 con n. 59, in cui sono segnalati gli exempla e i modelli di imitatio a cui Giuliano si collega (Marco Aurelio, Scipione etc.). Cf. anche Pellizzari 2013, 101-128. 40 Ancora Neri 1985, 124-128. 37

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no non sta facendo sfoggio di erudizione; il discorso che lo storico fa fare a Giuliano, sebbene molto retorico, non credo vada (solo) interpretato come un actio o elocutio elaborata da Ammiano 41. Il discorso tenuto da Giuliano è una conferma del suo appartenere a certa tradizione: Giuliano è attorniato dalla corona delle più alte autorità e dalla simpatia concorde di tutti. Di fronte a prodigi e presagi negativi, il discorso che tiene ai soldati bilancia la situazione il cui pericolo è sottovalutato, o meglio, porta nuovamente più in alto il valore di Giuliano e il suo volere continuare quella tradizione e quell’exemplum non solo storico, ma di romanità pura. Di quella romanità di cui Giuliano porta la virtù per eccellenza, che è la verecundia. Se analizziamo in successione le varie tappe di Ammiano nella rappresentazione di Giuliano, troviamo allora un collegamento tra questo discorso ammianeo e le descrizioni dei libri da 20 a 25, e ritengo di potere affermare che proprio alla lettura in successione appaia nettamente la costruzione ammianea di un imperatore disegnato sempre più romanus. Si tratta, almeno apparentemente, di un assunto piuttosto semplice per quanto riguarda il libro 23: Giuliano è legato normalmente ai filosofi teurgici, Ammiano è legato agli aruspici e alla tradizione, e con la simbologia qui presentata collega Giuliano alla Romanitas. Se procediamo a ritroso, si può arrivare a credere allora che non sia un caso che nel discorso che Costanzo tiene per elevare Giuliano a Cesare, Giuliano viene scelto non solo per l’affetto e dunque per il legame familiari, ma perché dotato di un carattere misurato e per operosità (verecundiam recte spectatum et industriae) 42. Quello che tengo a segnalare è che Ammiano usa il termine verecundia, e non accenna alla virtù poi variamente usata per Giuliano della moderatio. Altrove ho sostenuto che la verecundia è un aspetto della moderatio, e ho tradotto questo termine proprio con moderazione, evidenziando comunque che il termine è utilizzato in Ammiano per il solo Giuliano 43. Ma ampliando la riflessione su questa definizione, e su questa scelta così precisa di Ammiano, si può affermare certamente che la moderatio fa parte della verecundia, ma che, in questa situazione particolare, la virtù delle verecundia serve non come semplice sinonimo di moderatio ma viene usata in maniera ancora più sottile. Essa infatti non può essere una virtù attribuita casualmente al solo Giuliano: Non sulla stessa linea Ferrero 2016, 131-146, che ritiene questo discorso come contraltare ai discorsi di Valentiano e Valente. 42 Amm. 15, 8: Iulianum hunc fratrem meum patruelem, ut nostis, verecundia, qua nobis ita ut necessitudine carus est, recte spectatum iamque elucentis industriae iuvenem in Caesaris adhibere potestatem exopto, coeptis, si videntur utilia, etiam vestra consensione firmandis. 43 Girotti 2017, 34 (con richiamo al significato ciceroniano) e 95. 41

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la verecundia, secondo la bella definizione di Rita Lizzi, è propria dell’etica aristocratica romana e «modulo comportamentale di riconoscimento aristocratico», in netta contrapposizione con il sentimento cristiano dell’umiltà 44. In sede conclusiva mi limito allora all’accennare ad un tema essenziale e complesso nella costruzione ammianea di un Giuliano ‘romano’, e precisamente intendo insistere sul modo di descrivere la presenza del Genius publicus che in Gallia appare a Giuliano non solo per legittimare la sua ascesa alla dignità di Augusto 45 ma anche che con toni drammatici lo prega di accettare la nomina voluta dai soldati 46. Ammiano usa l’immagine del Genius publicus presentandola con la sua valenza originale: il Genius publicus è una figura specifica di Genius, il Genius populi Romani, divinità protettrice del popolo romano. Interessante però che né Libanio 47 né Giuliano stesso 48 menzionino l’apparizione del Genius. Libanio addirittura fa menzione non di un aiuto divino, ma di una forza interiore che fa assumere a Giuliano il potere; Giuliano invece nella lettera a Oribasio racconta di avere fatto un sogno relativo all’accessione del potere, ma si limita solo a questo. Ancora, lo stesso Giuliano nell’epistola agli Ateniesi dichiara di aver richiesto ed ottenuto un segno da Zeus al momento dell’acclamazione ad Augusto 49. Eunapio 50 accenna al fatto che Oribasio e altri due personaggi dettero a Giuliano il potere e la forza, attraverso riti magici. Evidentemente il disegno di Ammiano va Lizzi Testa 2004, 345. Ammiano però parlando dell’atteggiamento di alcuni vescovi provinciali, e mettendolo a confronto con l’alterigia dei vescovi romani, traduce con il concetto di verecundia anche l’umiltà cristiana (ut puros commendant et verecundos); cf. Girotti 2021. 45 Amm. 20, 5, 10: Nocte tamen, quae declarationis Augustae praecesserat diem, iunctioribus proximis rettulerat imperator per quietem aliquem visum, ut formari genius publicus solet, haec obiurgando dixisse «olim Iuliane vestibulum aedium tuarum observo latenter, augere tuam gestiens dignitatem et aliquotiens tamquam repudiatus abscessi: si ne nunc quidem recipior, sententia concordante multorum, ibo demissus et maestus. Id tamen retineto imo corde quod tecum non diutius habitabo». 46 Cf. Selem 1979, 131-170, partic. 141-149, che mette in rilievo il fatto che Ammiano pone in ombra il mitraismo giulianeo, pur mostrando di esserne informato, e maschera il carattere mistico di taluni atti di culto dell’imperatore, presentandoli come atti del culto politico tradizionale, come nel caso del sacrificio a Marte Ultore, o del rito compiuto in onore della Magna Mater a Callinico; cf. Athanassiadi Fowden 1981 ma anche Neri 1985, 101, secondo il quale le epifanie del Genius publicus hanno pure, e forse soprattutto, un significato politico, e sono chiaramente funzionali all’accento che Ammiano pone sulla primarietà dei valori etico-politici su quelli religiosi nel regno di Giuliano. Cf. anche MacCormack 1981, 131-150. 47 Lib. Or. 18, 99. 48 Iul. Ep. 14. 49 Iul. Ep. At. 284c. 50 Eun. VS 476. 44

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oltre, nel richiamare una figura come il Genius publicus e il legame con la romanità. Il discorso che Ammiano mette in bocca al Genius publicus è molto più ampio ed articolato ed accenna molto vagamente all’acclamazione militare, insistendo particolarmente sul fatto che già altre volte Giuliano aveva rifiutato di assumere il ruolo prestabilito per lui dagli dei. Zosimo 51 parla di un’apparizione della divinità solare alla quale sembra alludere Ammiano parlando di una imago quaedam splendidior. È però una scelta solo ammianea quella di porre l’accento sull’apparizione del Genius publicus piuttosto che sull’apparizione solare, legittimando così, come pienamente inserita nella tradizione romana, quella che non deve assolutamente passare come l’usurpazione di Giuliano. L’apparizione a Giuliano del Genius publicus non credo possa essere ritenuta un’invenzione ammianea e forse nemmeno una creazione filogiulianea in ambienti romani. Credo invece che si tratti di un motivo della propaganda giulianea rivolto al pubblico ed al senato romano. Come già ho ricordato, lo stesso Giuliano nell’epistola agli Ateniesi ha richiamato un segno ricevuto da Giove. Mi sembra un’ipotesi suggestiva ritenere che una legittimazione religiosa di conio romano possa essere stata contenuta nell’epistola che Giuliano inviò al senato romano.

2. CONCLUSIONI Questo preponderante ricorso a elementi di romanità sembra qualificarsi come un canale prevalente in Ammiano per fare si che la legittimazione di Giuliano avvenga anche attraverso quella trasformazione di Roma quale capitale ideale che si configura nelle mentalità delle élites come spazio intellettuale/cultuale, e soprattutto attraverso la ridefinizione della natura della comunità urbana romana (l’Urbs formata dal senato e dal populus Romanus), che fino ad allora si era espressa in pratiche rituali nei tradizionali luoghi pagani del foro e del Campidoglio che cambia l’utilizzo e il significato dei luoghi che erano stati il fulcro dell’identità della città romana antica, secondo un processo che Lellia Cracco Ruggini ha felicemente definito di pseudomorfosi 52. Nonostante il sopravvivere di molte forme esteriori antiche (per esempio monumenti e manufatti, ecc.), in un certo particolare momento il loro significato apparve a tutti quasi Zos. III 9, 6. Cracco Ruggini 2010, 103-118, partic. 104. Cf. anche, per medesime considerazioni applicate a altro contesto storico e culturale, Marconi 2018, 1-38, partic. 14. 51

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inavvertitamente ma radicalmente mutato 53. Nel passaggio all’età tardoantica, dunque, a Roma fu selezionata e valorizzata una delle funzioni dell’antico centro civico-religioso, quella culturale, e gli indizi a nostra disposizione lasciano supporre che Ammiano faccia adattare Giuliano perfettamente e culturalmente a questa rinnovata e richiamata e voluta eccellenza. Giuliano, in Ammiano, pare essere l’unico e l’ultimo a difendere l’aeternitas di Roma e la Romanitas: questo avviene anche in piena corrispondenza con la definizione totalmente condivisibile che dell’Apostata ha dato Ignazio Tantillo, e cioè quella di un Giuliano che detiene «l’indiscutibile fascino di ultimo difensore del mondo antico» 54.

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53 Cf. Marrou 1932, 107-108, che individuava un collegamento diretto tra la riorganizzazione delle esedre del Campidoglio costantinopolitano e le scholae del foro di Traiano: la prima si sarebbe ispirata alle seconde, ancora attive nel VI secolo. Similmente, Albana 2004, 75 n. 53, ritiene che l’organizzazione degli studi superiori di Costantinopoli fu modellata su quella di Roma. Cf. ancora Marconi 2018, 17. 54 Tantillo 2015, 2.

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Constantinople and Rome, Christian Capitals: Discussing Power between Councils and Emperors (382) *  

María Victoria Escribano Paño **

ABSTRACT: The Council of Constantinople of 382 does provide a particular perspec-

tive regarding relations between Constantinople and Rome. Some relevant aspects of their development are discussed by Theodoret of Cyrrhus. Gregory Nazianzen, Socrates and Sozomen pay scant attention to it. When reporting the circumstances of the convening of the council of 382 and the questions dealt with there, Theodoret inserts the synodal epistle that the bishops who were present in Constantinople in 382 sent to their colleagues in the West declining the invitation to the Roman council of that same year 1. The letter is a complex and in some respects unique document which reveals the controversial agenda of the meeting to discuss relations between the two Christian capitals, their churches and their emperors. This paper examines the context in which the synodal letter was written, which to a great extent shapes its ultimate purpose; I also intend to underscore the arguments of doctrine and authority put forward by the eastern bishops to justify the validity and legitimacy of their decision to elect bishops independently from the West. Whereas they did not ultimately aspire to shatter ecclesiastical unity or to create a competing Church, by writing the synodal letter conflicting images of the two episcopates were created which reflected differences that had arisen in the recent past. Gratian and Theodosius are also tacitly compared in the synodal epistle. KEYWORDS: Ambrosius; episcopal elections; Gratianus; sinodal; Theodosius.

INTRODUCTION As recent research establishes, Theodosius I played a decisive role in turning Constantinople into an imperial capital both in terms of its * This paper is part of the research project «HAR2016-77003-P», funded by the State Research Agency (Spain). ** Universidad de Zaragoza. 1 Theodoret. hist. eccl. 5, 8, 11-12; 9, 1-18. Concerning the date when he wrote his Historia ecclesiastica see Leppin 1996, 281-282.

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urban and monumental development and of the rites and ceremonies attached to the presence of the emperor and his court on a permanent basis within the city from November 380 onwards 2. He also made a truly Christian-Nicene capital out of Constantinople – striving to consign heretics beyond the city walls 3 – and positioned it second amidst leading Christian cities 4. Particular attention has been given to the emperor’s determination to promote and deliver political and religious unity within his empire from the outset 5. The constitutio Cunctos populos (CTh. 16, 1, 2), addressed from Thessalonica to the people of Constantinople in February 380, anticipating his predilection for the Nicene faith 6 prior to entering the imperial capital, plus the three councils held in the city under his patronage from 381 to 383, constitute crucial contributions in the early process of religious renovation and unification 7. This process, however, remained unfinished by August 394 when Theodosius left Constantinople for what would turn out to be his last time 8. The Council of Constantinople of 382, which though not totally overlooked has attracted little interest amongst scholars and has always been subordinate to the council of 381 9, does provide a different perspective on these early stages, particularly regarding relations between Constantinople and Rome. Some relevant aspects of their development are discussed by Theodoret of Cyrrhus. Gregory Nazianzen, Socrates and Sozomen pay scant attention to it and tend to focus on the other two councils, either out of personal conviction or because of their historiographic and political context 10. When reporting the circumstances of Croke 2010, 237-260; Van Nuffelen 2012, 183-200. Cf. Kelly 2003, 588-607. CTh. 16, 5, 6 (381); 5, 12 (381); 5, 13 (384). Nonetheless, four years after the Cunctos populos (CTh. 16, 1, 2) was issued the space used by Nicene Christians in Constantinople remained far from exclusive. See Blaudeau 2009, 295-313; Escribano Paño 2019, 22-42. 4 Hunt 2007, 57-68. See Gwynn 2015, 206-220, for whom the construction of Theodosian Constantinople, both physically and ideologically, was possible thanks to the policies of Constantine’s successors some decades before and to the expansion of the ecclesiastic authority. 5 Lenstrup Dal Santo 2015, 99-120. 6 Soz. hist. eccl. 7, 4, 5-6. See the discussion in Errington 1997b, 398-443, which restricts the scope of application to Constantinople, and Leppin 2003, 71-73. 7 See Errington 1997a, 21-72. 8 See Destephen 2016, 157-169: 166. 9 See McLynn 2012, 345-363, where he dismantles the anti-Alexandrian, antiRoman and Caesaropapist hypothesis of Canon 3 of the council of Constantinople of 381. 10 Gregory Nazianzen turned down Theodosius’ invitation to attend yet tried to have an influence in it: Greg. Naz. epp. 130-131, 132-133, 135-136. See McLynn 2010, 2

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the convening of the council of 382 and the questions dealt with there, Theodoret inserts the synodal epistle that the bishops who were present in Constantinople in 382 sent to their colleagues in the West declining the invitation to the Roman council of that same year 11. The letter is a complex and in some aspects unique document which reveals the controversial agenda of the meeting to discuss relations between the two Christian capitals, their churches and their emperors. It also illustrates the contents of East-West exchanges in Theodosius’ early years, after the decisive council of Constantinople of 381 had proclaimed honorary primacy for the bishop of Constantinople, after the bishop of Rome, in line with the status of Constantinople as New Rome (Canon 3) 12. Theodoret reproduces the epistle in his Historia Ecclesiastica as part of his apologetics for the church of Antioch 13. His choice and the chronological distortion regarding the epistola and the tomus Damasi placed later on 14 in the narration do not detract from its significance. The text revolves around two questions: the justification of the eastern bishops’ refusal to accept the invitation (5, 9, 2-10), and episcopal successions in Constantinople, Antioch and Jerusalem (5, 9, 11-18). Taking his audience into consideration, in the introductory summary to the synodal epistle 15 Theodoret highlights the refusal to embark on a pointless journey. He stresses the passivity of western bishops during the persecution carried out by Valens and uses this to justify the decision not to accept the invitation, and links the doctrinal section of the text to apostolic thought, emphasizing the antiquity of the faith of oriental churches. 215-239. Socrates makes no reference: Soc. hist. eccl. 5, 8-10. He deals with the council of 383. See regarding this Wallraff 1996, 309-317. See also Urbaincznk 1997, 169-176 on his choice of topics. Sozomen only mentions it as a chronological landmark to set the background for the council of Constantinople convened by Theodosius in 383: Soz. hist. eccl. 7, 12, 1; 7, 7, 6; 9, 7, 8. See Harries 1986, 45-52. A comparative analysis of Sozomen and Socrates can be found in Urbainczyk 1997, 355-373. 11 Theodoret. hist. eccl. 5, 8, 11-12; 9, 1-18. Concerning the date when he wrote his Historia ecclesiastica see Leppin 1996, 281-282. 12 Mansi, III, 560. See McLynn 2012, 355-356, where the synodal epistle is briefly reviewed. On the designation of Constantinople as New or Second Rome prior to 381 see Grig - Kelly 2012, 3-30: 11-12. 13 The church of Antioch plays a major part in Theodoret’s Ecclesiastical History, both in terms of the sequence of events and in the choice of documents. See Martin Bouffartigue - Pietri - Thelamon 2009, especially 13-90. Among other works see Urbainczyk 2002, 29-39; Clayton 2007; Millar 2007, 105-126; Schor 2010; Bevan 2011, 61-87. 14 See Martin - Bouffartigue - Pietri - Thelamon 2009, 23-64. Pietri 1976, I, 873884. 15 Theodoret. hist. eccl. 5, 8, 12.

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He ignores, however, the central matter dealt with in the synodal letter i.e. the succession of the bishops of Constantinople and Antioch. This paper examines the context in which the synodal letter was written, which to a great extent shapes its ultimate purpose; I also intend to underscore the arguments of doctrine and authority put forward by the eastern bishops to justify the validity and legitimacy of their decision to elect bishops independently from the West. Whereas they did not ultimately aspire to shatter ecclesiastical unity or to create a competing Church, by writing the synodal letter conflicting images of the two episcopates were created which reflected differences that had arisen in the recent past. Western bishops are portrayed as opportunists and reluctant defenders of eastern orthodoxy. Eastern Nicene bishops, in contrast, who had just been rescued from heresy by Theodosius, describe themselves as defenders of orthodoxy, vigilantly abiding by council canons. The oriental bishops had not violated the established procedures of episcopal election and consecration or exceeded the limits of their authority, for they had not meddled in western matters. Gratian and Theodosius, as allies of the bishops, are also tacitly compared in the synodal epistle.

1. FROM CONSTANTINOPLE TO ROME: AN UNFEASIBLE TRIP IN THE SUMMER OF

382

The synodal epistle transmits the rejection of the invitation extended by the western bishops to their colleagues in the East to attend the council Gratian had convened in Rome with ecumenical purposes 16 in the summer of 382. The letter was written under the leadership of the Nicene representatives from a Constantinopolitan viewpoint, defending the authority and orthodoxy of the agreements reached by the council of 381. Indeed, authority and orthodoxy pervade the preamble to the text 17, written by bishops fully aware of having been the authors of Canon 3 of the council held the previous year, as the addressees are specified –though not the see – as well as the senders of the letter. The addressees – Damasus of Rome (who most probably had issued the invitation to the bishops of the East to attend the council of Rome convened by a basiléos grammáton of Gratian), Ambrosius of Milan, Britto of Trier, Valerian of Aquileia, Acholius of Thessalonica, Anemius of Sirmium and 16 17

See the discussion of this concept in Destephen 2008, 103-118. Theodoret. hist. eccl. 5, 9, 1.

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Basil, of unknown see 18 – were the much venerated, reverend brothers and colleagues in the episcopate, gathered in the megalopolis of Rome. The author of the epistle was the Holy Synod of Orthodox Bishops assembled at Constantinople and convened by Theodosius. The synodal epistle was addressed from capital to capital 19, conveying the idea of the equal status held by the two Romes. In the opening, the evocation of the collegiality of the addressees and the orthodoxy of the senders denotes equating the sees, the synods and, by extension, the convening emperors. Since neither the list of attendees nor their subscriptions are preserved their standpoint is hard to establish 20. According to Theodoret, upon returning home after the council of Constantinople of 381, these bishops met again in Constantinople the following summer to deal with ecclesiastical matters 21. From Theodoret’s brief remarks a significant fact, confirmed by the synodal epistle, may be gathered: those attending the council were practically the same as those who had participated in the council of Constantinople the previous year – revealing a predominance of the Anatolians 22. The selection of the majority, with some notable exceptions, had corresponded to the Nicene community of Constantinople led by Gregory of Nazianzus in close cooperation with Gregory of Nyssa and Meletius of Antioch, well aware of the affiliation of the episcopate in the East 23. Gregory Nazianzen, however, declined the invitation to attend the meeting of 382 citing health reasons 24 though he did try to influence its decisions through letters he sent to a group of generals and high officials who were close to the court in the summer of 382 and in a position to sway the emperor’s decisions 25. Gregory’s testimony reveals that the actual reason behind the convening was division between the churches and dissent between the East and the West arising from the succession in Antioch. Eastern bishops needed to justify why they would not attend the meeting in Rome. They raised questions of time, occasion and procedure 26 from which it may be inferred that Theodosius had coordinated See Pietri 1976, I, 867. Idea underlined by McLynn 2012, 356. 20 Destephen 2008, 106. 21 Theodoret hist. eccl. 5, 8, 11. 22 Ritter 1965, 30. 23 See Errington 1997a, 43. 24 Greg. Naz. epp. 130-131. See McLynn 1997, 298-308: 304. Acholius did not attend either; he accepted the invitation of Damasus to the council of Rome. 25 Greg. Naz. epp. 132-133, 135-136. McLynn 1997, 304; Van Dam 2003, 141-142, 146-147, 151-153, 221. 26 Theodoret. hist. eccl. 5, 9, 2-10. 18

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their response and indirectly indicated that western bishops were ultimately responsible for such hindrances. The bishops from the East deployed two major arguments. The first reason to justify their refusal to attend the synod of Rome was the short time that had elapsed since the recovery of their churches after the persecution endured under the Arians and the fact that the risk of losing them again persisted. They evoked the recent past to counter the argument of concord as the reason for convening the council in Rome and provided direct testimony to the situation in the East, especially in Constantinople, before and after the death of Valens. Delivering an emphatic and detailed recollection of the evils inflicted by the tyranny of the Arians, i.e. Valens’ persecuting policy, they described the catalogue of measures taken against them which included exile, fines and imprisonment, plus the extreme violence of the heretics after their return, with instances of lapidation as in the case of Eusebius of Samosata, struck by an Arian woman in Dolikha. The introduction of the effective claim of persecution and martyrdom evinced how weak the piety of the western bishops was, having never in the times of Valens shown any inclination to intervene. The bishops of the East reproached their colleagues in the West for inviting them in times of concord amongst the emperors – an implicit reference to the Nicene affiliation of Gratian and Theodosius – but extending no invitation to them in the times of Valens 27. The description of the precarious situation of the Nicenes, particularly in Constantinople where Arians, Eunomians and Novatians maintained their structure and activities after Theodosius’ ingressus despite his legislation, have been addressed by McLynn, Errington, Vaggione, Van Nuffelen, amongst others 28 which exempts us from having to discuss the matter further. We know that the appeals for help from the eastern bishops to their western colleagues while facing persecution and exile under Valens had fallen on deaf ears. In this sense, the letter sent in 376 by Basil of Caesarea, Eusebius of Samosata and other Nicene oriental bishops to the bishops of Italy and Gaul is highly eloquent. In this they asked the western bishops to exert their influence over the Augustus of the West to make him aware of the situation in oriental churches. They also sug27 They omitted any reference to the measures implemented by Gratian, which had facilitated their return from exile, and also overlooked Theodosian legislation. See Snee 1985, 395-419. Cf. Lenski 2002, 211-263. 28 McLynn 1997, 298-308, and 2010, 215-239; Errington 1997a, 24-41; Vaggione 2000, 319-334; Van Nuffelen, 2010, 425-451.

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gested that western bishops should visit the East 29. This was not the only attempt. On several occasions Basil strived to secure the mediation of Athanasius to foster communion relationships with western bishops 30. Neither the emperor nor the bishops had heeded these pleas. The justification they gave revealed a subtle analysis of the duties of bishops 31 which contrasted with the image of half-heartedness and feebleness cast by western bishops. The lack of harmony between the churches of the East and the West also became apparent, as well as the fact that the council of Constantinople of 381, with its theologically loaded canons, had failed to defuse the force of the Arians 32. The second argument put forward concerned the occasion. This constituted the political side of the response. Indeed, the bishops had received the letter when they were together in Constantinople that same summer of 382, where they had been convened by Theodosius after he had received the letter sent by the western bishops to the Augustus of the East following the closure of the council of Aquileia, held in September of 381 33. The bishops thus established an explicit correspondence between the synodal letter and the epistle engaging in a dialogue of power between the two episcopates and the two emperors. The epistle adduced that the reason behind the oriental council was the Sanctum animum 34 which Ambrosius et ceteri episcopi Italiae had sent to Theodosius probably in October of 381 35, challenging the election of Flavian and Nectarius (2-3), through this order, to the sees of Antioch Bas. ep. 243, 1. Bas. epp. 66, 67, 69, 80, 82. See Duppuy 1987, 361-377. See also De Mendieta Amand 1963, 122-166; Simonetti 1975, 418-420. 31 See Rapp 2005, 3-154. 32 See an analysis of the consequences of the council of Constantinople of 381 in Simonetti 1975, 528-542; Hanson 1988, 805-823. 33 Theodoret. hist. eccl. 5, 9, 9. The dates of the beginning and end of the council may not be established with certainty. We only know the day when the sessions began: 3 September 381: Conc Aquil. 1, CSEL 82, 3, 326, II, 1-2. See Duval 2002, 421-437. 34 Ambr. ep. extra. coll. 9 (Maur. 13). Errington 1997a, 70-72 considers that the epistle Sanctum animum is not the letter referred to in the synodal epistle issued by the council of Constantinople of 382. Duval 2002, 421-437 believes that the letter alluded to in the synodal epistle of the council of Constantinople of 382 is ep. extra coll. 6 (Maur. 12). Nonetheless, Theodoret points out that it was sent to Theodosius, not to the three emperors, after the council of Aquileia. Furthermore, the synodal epistle is addressed to the colleagues in the episcopate of the West, to Damasus in the first place. 35 Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 4: nos igitur in sinodo ea … nihil temere statuendum censemus. Concerning the council of Aquileia see Gottlieb 1979, 287-306; Gryson 1980, 101-172; McLynn 1994, 123-128; Williams 1995, 154-184; Duval 2002, 421-437; Zelzer 2002, 439-446. 29

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and Constantinople and claiming that Maximus the Cynic was the legitimate bishop of Constantinople (4-5). Theodosius had already been informed of the solution proposed by the western episcopate regarding the crisis of Antioch, as Ambrosius recalls at the beginning of the letter 36. Once the council of Aquileia was over, Ambrosius had fostered the epistle addressed to the three emperors, Gratian, Valentinian II and Theodosius – though it was actually only intended for the latter – deploying three main arguments: they requested the emperors’ assistance in putting an end to the dissensiones afflicting the churches of Alexandria and Antioch, they expressed their wish to respect the alleged succession agreement between Meletius and Paulinus in the case of Antioch 37, and they suggested holding a general council in Alexandria under the patronage of Theodosius to decide who should be offered communion with the western churches represented in Aquileia and with whom communion ought to be maintained 38. Yet, the epistle Quamlibet which stressed the prestige and regard accorded to the church of Alexandria by the western episcopate 39, omitted any explicit reference to the council of Constantinople ending in July 381 and to the decisions taken therein, and did not implicate Gratian in the blatant interference of the West in the events occurring in the East. Conversely, the epistle Sanctum animum, solely addressed to Theodosius, was written by Ambrosius and ceteri episcopi Italiae and posed a question of authority directly to the emperor of the East. Its tone and contents reveal that Ambrosius had further information regarding the agreements reached in the council of Constantinople of 381. On the one hand, he considered that the appointment of Flavian of Antioch, not explicitly mentioned, had been secured contra fas atque ecclesiasticum ordinem 40; on the other hand, he questioned the correctness of the 36 Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 2: Scripseramus dudum ut quoniam Antiochena ciuitas duos haberet episcopos, Paulinum et Meletium … 37 Ambr. ep. extra coll. 6 (Maur. 12), 5. According to Theodoret, well informed of the events of Antioch, such pact had never existed precisely because of Paulinus’ refusal to accept Meletius’ offer: Theodoret. hist. eccl. 5, 3, 15-16. Cf. Soc. hist. eccl. 5, 5, 2-6; Soz. hist. eccl. 7, 3, 2-6. 38 Ambr. ep. extra. coll. 6 (Maur. 12), 4-6: Ideoque petimus uos, clementissimi et Christiani principes, ut Alexandriae sacerdotum catholicorum omnium concilium fieri censeatis, qui inter se plenius tractent atque definiant quibus impertienda communio quibus seruanda sit. 39 Ambr. ep. extra. coll. 6 (Maur. 12), 6: Nam etsi Alexandrinae ecclesiae semper dispositionem ordinemque tenuerimus et iuxta morem consuetudinem que maiorum eius communionem indissolubili societate seruemus … 40 Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 2: Scripseramus dudum ut quoniam Antiochena ciuitas duos haberet episcopos, Paulinum et Meletium, quos fidei concinere putaremus, aut inter ipsos pax et concordia saluo ordine ecclesiastico conueniret aur certe, si quis eorum

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ordinatio of senator Nectarius 41 against the longer standing rights of Maximus, who had been made bishop of Constantinople in 380. The rights of the latter had been acknowledged by the participants in the council of Aquileia (3). Canon 4 of the council of Constantinople, which explicitly declared that Maximus was not a bishop establishing that his ordination had been illicit, was thus directly contested 42. Furthermore, the intervention of Theodosius—who had summoned the bishops to the capital, swayed their agenda, sanctioned their agreements 43 and played a decisive part in appointing Nectarius 44—was questioned. Nectarius’ episcopate in the see of Constantinople had actually been declared legal in the constitutio Episcopis tradi in July of 381 45. Whereas Ambrosius welcomed the intervention of the Augustus of the East to return churches to Catholics 46, he openly expressed his misgivings about the Augustus’ capacity to reach a consensus (facilius expelli potuisse haereticos quam inter catholicos convenire) 47 and took it upon himself to propose alternative solutions: returning the see of Constantinople to the person who had been previously ordained, that is, Maximus, or holding a nostrum orientaliumque council in Rome to deal with the ordinations of Maximus and Nectarius (6) 48. Proposing Rome instead of Alexandria constituted an attempt to balance the primacy of honour granted to Constantinople in the previous council and denied eastern bishops autonomy to make appointments outside Roman communion.

altero superstite decessisset, nulla subrogatio in defuncti locum; at nunc Meletio defuncto Paulino superstite … contra fas atque ecclesiasticum ordinem in locum Meletium non tan subrogatus quam superpositus asseritur. 41 Praetor urbanus: Ruf. hist. eccl. 2, 21. See PLRE I, Nectarius 2, 621. 42 See McLynn 2012, 360-361. Cf. Dvornik 1964, 38-39; Errington 1997a, 61. 43 See Metz 1965, 651-664; Ritter 1965, 41-44; Errington 1997a, 21-72: 55, and 2006, 228-230; Gautier 2002, 388, 395-399, and 2005, 67-75; Ayres 2004, 253-254. Cf. McLynn 2010, 215-239. 44 Sozomen emphasizes Theodosius’s role: Soz. hist. eccl. 7, 8, 1-8. Cf. Soc. hist. eccl. 5, 8, 12. Socrates attributed Nectarius’s election to popular wish. See Dagron 1974, 452-453 and 461-463; Van Nuffelen 2010, 425-451: 451. 45 CTh. 16, 1, 3 (381): Episcopis tradi omnes ecclesias mox iubemus … quos constabit communioni Nectari episcopi Constantinopolitanae ecclesiae … 46 Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 1: quod catholicos ecclesiis reddidisti; CTh. 16, 5, 6 (381): ut cunctis orthodoxis episcopis, qui nicaenam fidem tenent, catholicae ecclesiae toto orbe reddantur. See comment in Errington 1997a, 48-51; Escribano Paño 2004, 133-166; McLynn 2010, 226 n. 49. 47 Cf. Ambr. ep. extra coll. 6 (Maur. 12), 1. 48 Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 6: Nec uidemus eam posse aliter conuenire; nisi aut is reddatur Constantinopoli, qui prior est ordinatus: aut certe super duorum ordinatione sit in urbe Roma nostrum Orientaliumque concilium.

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In fact the representative capacity of the council of Constantinople was minimized (4) 49. At the end of the letter Ambrosius anticipated the objections it might raise and claimed to have written it not for any personal reasons or contentious zeal (domestico studio et ambitione contentio), but out of concern about the rupture of the communio 50, making two observations which reveal the actual aim of the text. While he justifies the involvement of the West in matters of the East arguing that Acholius, de occidentalibus partibus, had been summoned to the council of Constantinople of 381 51, Ambrosius also contends that his proposal was shared by the Augustus of the West – to whom Theodosius owed his throne – stating that the letter had been written to Theodosius admonitus by Gratian (8). This was tantamount to a warning and a reminder which directly implicated Gratian in challenging the decisions of the council of Constantinople of 381 and the proposed solutions therein. Theodosius replied to Ambrosius’ provocative letter in the autumn of 381 as may be surmised from the epistle extra coll. 8 Ambrosius later sent to Theodosius 52. In his letter, not preserved, Theodosius rebuffed the need for a general council in Rome to resolve the Constantinople matter 53, which meant ignoring Gratian’s recommendation as invoked by Ambrosius. Besides, Theodosius drew attention to a serious issue for the West: the expansion of Apollinarism in Italy, a heresy banned by Damasus in 377 and by Canon 1 of the council of Constantinople of 381 54. This was a subtle way of signalling the direction Ambrosius and Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 3-5. Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 6: Nec quaedam nos angit de domestico studio et ambitione contentio sed communio soluta et dissociata perturbat. Mclynn 1994, 141 suggests that these words were aimed against the rebuke expressed by Theodosius in a letter in reply to ep. extra coll. 6, not preserved. 51 Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 7: Neque enim indignum uidetur, Auguste, ut Romanae ecclesiae antisitis finitimorumque et Italorum episcoporum debeant subire tractatum, qui unius Acholi episcopi ita expectandum esse putauerunt iudicium, ut de occidentalibus partibus Constantinopolim euocandum putarent. 52 Ambr. ep. extra coll. 8 (Maur. 14), 4. McLynn suggests the possibility that Theodosius may have previously replied to epistle extra coll. 6. McLynn 1994, 141 n. 221. 53 Ambr. ep. extra coll. 8 (Maur. 14), 6: Sane allegata texuimus, non definiendi, sed instruendi gratia: et qui iudicium petiuimus, non deferimus praeiudicium. Neque ullum eorum aestimandum conuicium fuit, cum rogarentur ad concilium sacerdotes, quorum frequenter praesentior absentia fuit, quando in commune consuluit. 54 Ambr. ep. extra coll. 8 (Maur. 14), 4: Non solum enim de his de quibus clementia tua dignata est scribere, sed etiam de illis, qui dogma nescio quod, Apollinaris asseritur, in ecclesiam conantur inducere. Cf. CTh. 16, 5, 12 (383); 13 (384); 14 (388). Regarding Damasus’ prohibition in 377, see Pietri, 1976, I, 833-840. 49

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Gratian’s concerns ought to take. Theodosius could have felt his authority was undermined by the support given by Gratian to the proposals of the bishop of Milan, which may have influenced his forceful letter. Yet, the actual response came from the synodal epistle of the council of Constantinople where western bishops were ultimately made responsible for the summoning of the bishops to Constantinople. It was unfeasible for the eastern bishops to travel to Rome for the sole purpose of deciding whether the see of Constantinople should be Maximus’ or Nectarius’. They nonetheless presented a further obstacle: procedure. The oriental episcopate only availed of the agreement of the bishops who had remained in their provinces to attend the synod and had not anticipated a long journey, since they had received no news of the council of Rome prior to their meeting in Constantinople and had not had enough time to warn their colleagues and form a new delegation. This justification yields two relevant issues. Firstly, those attending the council were the deputies of the bishops in their provinces and had no autonomy to act. In order to attend another council they would need to receive fresh authorization from their colleagues 55. Secondly, after receiving Ambrosius’ Sanctum animum epistle which proposed holding a joint council in Rome, it was Theodosius who decided against such a gathering and replied by convening a council in Constantinople. The bishops of the East had received the news about the Roman council, as they stated, through the invitation received when they were already gathered in Constantinople. They thus argued that the council of Constantinople was prior in time and that it was Theodosius who had decided that the eastern bishops should meet again in Constantinople, which amounted to declaring autonomy in taking political-ecclesiastical decisions. They primarily abided by their bishops and their emperor over the obedience they owed to Rome 56. As a token of good will, they sent three legates to the Roman meeting: Cyriacus of Adana, in Cilicia; Eusebius of Epiphania or of Chalcis, in Syria; and Priscian of Nicopolis in Palestine. The choice of envoys was not accidental. All three had attended and subscribed to the councils of 381 and 382 and could defend the agreements reached therein and were in a position to dispatch the synodal epistle to Rome. We know that they were escorted by court officers 57. Cyriacus was a key member of the 55 56 57

n. 230.

See Destephen, 2008, 106. See recent research compiled in Dunn 2015, particularly, Hornung 2015, 57-72. Aulici, following the report of Pope Boniface, ep. 15, 6. MacLynn 1994, 144

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embassy: he had been in charge of instructing Nectarius in the rules of the priestly order 58 and could defend the suitability of his appointment on sounder grounds.

2. ORTHODOXY, CANONS, CONSENSUS AND THE PRIMACY OF

CONSTANTINOPLE

In harmony with the hierarchy of topics in Ambrosius’ letter, the central issue in the synodal text concerned the successions of bishops, a matter which the bishops at Constantinople dealt with after demonstrating their orthodoxy as the source of their authority. Their determination to prove their doctrinal purity indicates that suspicions of pro-Arian attitudes lingered over them still by 382 and that the effectiveness of Theodosius’ early legislation against heretics was limited. The bishops felt compelled to show their adherence to evangelical faith, ratified in Nicaea of Bithynia by 318 fathers, and contributed a definition of Trinitarian orthodoxy compatible with the position of the western bishops, in an evident effort to reach terminological convergence 59. They also openly distanced themselves from Sabellius and from Eunomians, Arians and Pneumatomachians to dispel the faintest suspicion of heretical deviation and referred to the council of Antioch of 379, as well as to the council of Constantinople of the previous year, despite the differences between the Nicene Creed and the Creed of Constantinople 60. Mentioning the oriental councils of 325, 379 and 381 as sources of doctrine implicitly meant that the eastern bishops did not need to travel to Rome to receive the badge of orthodoxy. Such was their theological response. As well as orthodoxy, the bishops in the East deployed the argument of regulations and consensus to support their disputed decisions. The council participants presented the rhetorical argument of canons and emphasized their loyalty to tradition and to the rule approved in Nicaea (Canon 4) whereby the bishops in the province and, should they agree, their colleagues in bordering provinces should perform the ordination of bishops. In reality they were adjusting the contents of the canon to their needs, for the canon advised that a bishop should be appointed by all the Soz. hist. eccl. 7, 10, 1. Teodoret. hist. eccl. 5, 9, 11-13. 60 Hanson 1988, 816, provides a list of 12 differences. Cf. Abramowski 1992, 481513. See also Ortiz de Urbina 1963, 182-205; McLynn 2012, 352-354. 58

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bishops in the province; should this be inconvenient due to emergency or distance, three bishops were to meet in the same place to ordain a bishop and the written consent and endorsement of all non-attendants was demanded. The final word always belonged to the metropolitan bishop 61. The eastern bishops could have been aware of ordinations which did not fully comply with the canon and of power struggles and conflicting interests within the Nicene community 62. They knew that in most cases the final election resulted from negotiation and compromise so the norm could be ignored if convenience so dictated 63. Nonetheless, the eastern bishops wished to convey an image of uniformity and claimed that all the churches in the East, including the most prominent, observed the rules. This, however, did not apply to Alexandria, governed by its own principles and customs 64. The episcopal elections of Constantinople, Antioch and Jerusalem were next referred to, in that order. The first two had been dealt with by Ambrosius though in a different order. In letter extra coll. 9 Ambrosius questioned the consecrations of Antioch and Constantinople, in that order. Probably because Ambrosius had more information on Antioch, or he might not have known the particulars of what had happened in Constantinople – or simply out of his own volition so as to belittle the see of Constantinople – he had prioritized the Syrian matter over Constantinople despite the fact that the election of Nectarius had preceded Flavian’s. Nectarius had been elected in July 381 by the council of Constantinople after the death of Meletius 65. Flavian, who as a presbyter had accompanied Meletius to Constantinople, was elected over Paulinus on his return from the council, after July 381 66. Ambrosius himself declares in his letter that Nectarius had advised replacing the deceased Meletius at the head of the Church of Antioch 67. It may be argued that swapping the order in which the sees are mentioned in the synodal epistle and adding Jerusalem was a deliberate act arising from a wish to grant prioNoce - Dell’Osso - Ceccarelli Morolli 2006, 21. See Norton 2007, 216-223. 63 Van Nuffelen 2007, 243-258. 64 Wipszycka 2011, 259-291. 65 Soc. hist. eccl. 5, 8, 12; Soz. hist. eccl. 7, 8, 1; Theod. hist. eccl. 5, 8, 9. 66 His name does not figure in the constitutio Episcopis tradi of 30 July 381. Theodoret. hist. eccl. 5, 24, 1. Cf. Soc. hist. eccl. 5, 9, 4, where the version in favour of Paulinus is given. 67 Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 3: … atque hoc factum allegatur consensione et consilio Nectario. 61

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rity to Constantinople as had been done in 381. This hypothesis is further supported when analysing the terms in which the distinguishing qualities of the three cities are referred to, especially bearing in mind that alluding to the antiquity of the cities signifies that the order in which they were mentioned was not chronological, without expressly stating it. Listing the sees also involved comparing them. In all three cases a distinction is drawn between the see and the episcopal election. In the case of the church of Constantinople 68, its distinguishing feature was that it had been constituted again after it had been recovered from Arian control through the will of God. No part was given to the emperor who had placed there a Nicene bishop and dispossessed the Arians of churches 69. Its reconstitution, which amounted to purifying the heretic stain through the expulsion of the Arians 70, was recent yet meant it surpassed others because it was part of the divine agenda. From a more pragmatic viewpoint, the allusion to its rescue from Arian hands also put Nectarius’ election in context as the process had not fully complied with the Nicene canon. In his letter to Theodosius, Ambrosius had defended the rectitude of Maximus’ consecration, performed by three bishops intra priuatas aedes because the Arians were in control of the churches in the city 71. The eastern bishops prioritised consensus over Nicene canonical procedure 72. The election of Nectarius had taken place with the agreement of the bishops gathered in an ecumenical council 73, with the consent of the emperor, the clergy and the people 74 of the city expressed through voting. Even God had played a part in the consensus, declaring a predilection for Nectarius. The participants in the council simplified to the point of deforming the complex process which made Theodosius choose the lay senator Nectarius 75, and invoked consensus to Theodoret. hist. eccl. 5, 9,15. Regarding the marginal relevance contemporary sources attribute to Theodosius’ legislation see Errington 1997b, 398-443; Lizzi Testa 2011, 467-491: 468. 70 Cf. CTh. 16, 5, 6 (381). See Escribano Paño 2009, 39-66. 71 Ambr. ep. extra coll. 9 (Maur. 13), 3. Cf. Greg. Naz. Carm. II, De vita sua 1, 11, PG 37, 909, 1092. 72 Cf. Van Nuffelen 2011, 245. 73 The adjective ‘ecumenical’ is used twice to refer to the council of Constantinople of 381 (Theodoret. hist. eccl. 7, 9, 13; 15). Regarding its authenticity see discussion in Destephen 2008, 105 n. 12. I agree with McLynn 2012, 356 n. 53 that it seems consistent with the context. 74 See Van Nuffelen 2010, 449 regarding popular intervention in episcopal elections. 75 See circumstances surrounding the election in Errington 1997a, 21-72. Greg. Naz. Carm. II, De vita sua 1, 11, 1741-1744 alludes to anarchy and the power of the 68

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mark the contrast with the consecration of Maximus the Cynic. Despite being the youngest see, the bishops were consistent with the primacy of honour granted the previous year 76 and emphasized Nectarius’ election through consensus by the bishops gathered in an ecumenical council. While episcopal ecumenism and consensus did not fully fit the Nicene canon, neither did they openly contravene it. Antioch of Syria is credited with apostolic antiquity and being the first city where Christians had been honoured with that name. In this case, Flavian’s consecration had complied with canonical principles as the bishops of the province and of the dioceses of the East had intervened together after all the church had unanimously honoured him. In this case, rules, consensus and the ratification of the entire synod of 382 concurred, making the appointment irreproachable 77. Nevertheless Antioch, despite its greater antiquity 78, was mentioned second in order. It could be argued that the order in which Constantinople and Antioch were mentioned corresponded to the order of episcopal consecrations. However, mentioning Cyril of Jerusalem in third place 79 precludes that option. Jerusalem was certainly called the mother of all churches, which means it was the most ancient, and it was there that the council recognized Cyril as the legitimate bishop because he had been canonically appointed by the bishops of the province and had confronted the Arians under various circumstances. This affirmation of the status of Cyril, who attended the council of Constantinople of 381, was a response to the unfavourable western tradition since his dubious consecration by Acacius of Caesarea and Patrophilus of Scythopolis in 348 80. Jerusalem also completed a trio of oriental churches firmly set in antiquity, orthodoxy, compliance with the rules and respect for consensus – a triad whose significance was boosted when taking into account the omission of Alexandria. Such silence could be due to the fact that the legitimacy of masses in the council of Constantinople before his departure. See Gautier 2005, 73 n. 26. 76 Contrarily McLynn 2012, 345-363. 77 Theodoret devotes an entire chapter to report the conflict in Antioch and the dissent with westerners because of Paulinus: Theodoret. hist. eccl. 5, 24, 1-12. 78 Theodoret. hist. eccl. 5, 9, 16. 79 Theodoret. hist. eccl. 5, 9, 17. 80 Soc. hist. eccl. 2, 38, 2. See Bihain 1962, 81-91; cf. Lebon 1924, 181-210, 357-386. Cyril had endured three exiles, the last under Valens from 367 to 378, and returned to his see in Jerusalem under Theodosius (Hier. vir. ill. 112). Soc. hist. eccl. 5, 8, 1 and Soz. hist. eccl. 7, 7, 3 state that in the council of Constantinople of 381 he figured as an orthodox after having been a Macedonian and later repenting. Regarding the cursus and theology of Cyril, see Hanson 1988, 398-413.

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Timothy had not been questioned by the West, which allowed the council to avoid a thorny matter which could weaken the consensus of the council in the face of the West. But it is also consistent with the restrictive nature of Canon 2 of the council of Constantinople of 381 whereby the bishop of Alexandria could only manage the affairs of Egypt. The lesser antiquity of the church of Constantinople and its primacy is not expressed in terms of a Christian tradition or a legal framework, however its mention in first place, above the churches of Antioch and Jerusalem – which had explicitly been declared older – and the reference to the fact that Constantinople had held two consecutive ecumenical councils therefore equate to a confirmation of the primacy of honour evoked in Canon 3 of the first council of Constantinople, even though that primacy did not take jurisdictional effect until Canon 28 of the council of Chalcedon 81. Changing the order in which the churches were mentioned, different from that order laid out in the letter of Ambrosius which the writers seem to have had in front of their very eyes, constitutes a deliberate act. The bishops granted intrinsic authority to the church of Constantinople despite it being younger because of its political status and, it should be added, to suit the wishes of Theodosius, referred to as the patron of the council and an active player in the election of Nectarius. They were aware that the bishop of the imperial capital was second in rank after the bishop of Rome and did not hesitate in bringing together the three bishops under the umbrella of legality, canonicity and consensus at the end of the synodal letter 82. The temperate tone of the text did not conceal the implicit contrast between the two churches – the church of the East and the church of the West – and, by extension, between the two emperors. The synodal epistle was brought by the legates sent to the council of Rome. They also dispatched the response of the Augustus of the Orient to the proposals previously formulated by Ambrosius. The reception of both letters could explain the rectification featured in the letter which Ambrosius later sent to Theodosius 83. In fact, the bishop of Milan reasserted his positions in a moderate yet patronising tone, avoiding further mention of episcopal successions in Antioch and Constantinople and focussing on the need to convene an ecumenical council in Rome. Theodosius’ reference to the leverage of the heresy of Apollinaris of Laodicea in Italy was the pretext for insisting upon the advisability of holding a 81 82 83

Dagron 1974, 454-487; Matthews 1984, 109-120; Blaudeau 2012, 364-386. Theodoret. hist ecl. 5, 9, 17-18. Ambr. ep. extra coll. 8 (Maur. 14), 4.

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joint council, omitting the fact that the council of Constantinople of 381 had already condemned the Apollinarian heresy and so had the council of Rome earlier in 377 84. He chose Rome for reasons of accessibility and lack of public disorder caused by heretics (3), which was not exactly true 85, adducing the concern of the West in matters of the East, where greater unrest existed. This allusion confirms the use of heresy to deliver an accusation 86 in the dialogue between the East and the West in 382. He also appropriated the motivation towards consensus and unity to defend the council of Rome and the invitation dispatched to the bishops of the East. He even strived to allay any suspicion that he would demand primacy as he remarked that it was not at all strange to suggest the celebration of an ecumenical council in the West, since a presbyter from Constantinople had suggested one should be held in Acaya 87. The unsolicited excuse revealed his actual intention and could hardly hide the contrast between the two positions. Invoking the case of Athanasius of Alexandria as a precedent to justify the ecumenical council did nothing but confirm feelings that his actual purpose was to discuss the silenced episcopal elections. Fair diplomacy between the council of Constantinople and the council of Rome resulted in compromise in Rome. The bishops from the West maintained their unwavering support of Paulinus as the only legitimate bishop of Antioch, whereas oriental legates in the council of Rome of 382 received communion letters from Damasus to Nectarius 88. Theodosius, who had included Damasus of Rome as a standard of orthodoxy in his Cunctos populos, saw his episcopal choice for the capital of the East ratified. The imperial allusion to the expansion of Apollinarism in Italy in the letter sent to Ambrosius made an impact on the West, as the Apollinarianist theology was discussed in Rome 89.

Pietri 1976, I, 833-840; McLynn 1994, 143-144. The map of heresies in Rome by the end of the fourth century (Valentinians, Marcionites, Montanists, Sabellians, Novatianists, Manichaeans) competed with the holy geography of the city. See Maier 1995, 231-249. Theodosius’ imperial sacra of 391, prescribing the cleansing from all cities and uici of the heretics’ contagious stain to eradicate their conciliabula publica uel latentiora, reveals that heretics unrelentingly held their assemblies not only in public but also in private spaces inside and outside the city: CTh. 16, 5, 20 (391). 86 Le Boulluec 2015, 15-26. 87 Ambr. ep. extra coll. 8 (14), 6. 88 Pietri 1976, I, 867 includes a list of those attending the council of Rome of 382, among them Paulinus and Epiphanius of Salamis (Hier. ep. 108, 6; 127, 7). 89 Hier. adv. Ruf. 2, 20. 84

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CONCLUSION This paper tries to underline the peculiarity of the synodal epistle of the council of Constantinople of 382 sent to the council of Rome held that same year in terms of its contents and the circumstances in which it was drafted. Its date is a fundamental factor. After having approved prerogatives of honour for Constantinople in 381, the bishops of the East turned down the bishops of the West, rebuffing a joint council in Rome to debate episcopal elections in Constantinople and Antioch. I have examined the reasons of time and procedure presented by the eastern bishops to explain why their trip was unfeasible, and the arguments of authority and doctrine put forward to defend the legitimacy and lawfulness of the election of Nectarius of Constantinople and Flavian of Antioch, challenged by the West. From the analysis it may be concluded that not only were emperors committed to the ecclesiastical decisions of their bishops but also the complicity that bishops attributed to them to support their contending views. In this sense the synodal epistle shows the relationships between the two Christian capitals and reproduces the differences between the two Romes, the old and the new, and the two Christian emperors, Gratian and Theodosius, in 382. Gratian had subscribed to and therefore backed the convening of an ecumenical council in Rome with the participation of eastern and western bishops; Theodosius had averted eastern participation, calling a council in Constantinople 90. The emperors did not confront each other and neither did the two churches, for they all defended orthodoxy, legislation and consensus. But the new Rome demanded its own area of influence, which forces us to revise casuistically the policy of unity implemented by emperors in the 4th and 5th centuries 91. In the particular case dealt with here, the synodal episJerome, in his epistle 108, 6 when dealing with the council of Rome of 382 points out that imperial letters had taken the bishops from the East and the West to Rome because of some disagreements within the church. The western bishops were the three legates sent by the bishops gathered in Constantinople. 91 See arguments in favour of unity in Inglebert 2015, 9-25; cf. Millar 2006, 54; Salway 2013, 327-354 recalls the differences between Rome and Constantinople in the fifth century: «CTh. 16.2.45 preserves a law issued by Theodosius II to Philippus, his praetorian prefect of Illyricum, on 21 July 421, asserting the right of the bishop of Constantinople to be a judge of ecclesiastical matters in the prefecture, which comprised the Latin speaking provinces of the Diocese of Dacia as well as the Greek speaking ones of the Diocese of Macedonia. Preserved in the sixth-century Collectio ecclesiae Thessalonicensis, along with letters of Pope Boniface on the matter, there is a response from his western, senior, colleague Honorius, reasserting the jurisdiction of the See of Rome throughout Illyricum. There follows a reply from Theodosius, stating that he has written to the prefects of Illyricum to respect the privileges of Old Rome (Bonifatius, Ep. 11)». 90

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tle is a further element in the open and debated matter of the relations between Gratian and Theodosius 92. The text reveals that the council of Constantinople of 382, convened and sponsored by Theodosius, was conceived as a response to Ambrosius’ epistle Sanctum animum and a ratification in extenso of the decisions taken by the council of Constantinople of 381 in the matter of church organization. Constantinople, a megalopolis comparable to Rome, held its own councils convened by the emperor with the assistance of the eastern bishops, who were equal in terms of orthodoxy. From a broad perspective, the synodal letter constitutes an example of the use of council canons and consensus as arguments to defend a situation of discord between the churches of the East and the West. Based on their orthodoxy, the authority of the norms and general consensus, the oriental bishops defended the legitimacy and canonicity of the elections for the sees of Constantinople and Antioch. A product of circumstances rather than the outcome of a debate whose main purpose would have been to redefine the hierarchy of churches in the East, the fact that the text mentions the sees in a peculiar order, drawing comparisons between them, confirms the prerogatives granted to Constantinople by virtue of Canon 3 of the council of Constantinople of 381. The synodal letter is about authority and doctrine but also about remembering the struggle against the Arians. In this respect, the interpretation of the recent past is not quite the same in Rome as in Constantinople; that is, amongst the Nicene majority in the West, united and uniform against the Arian minority, and amongst oriental Nicenism, still challenged by a heretical majority 93. The collective testimony of oriental bishops regarding Nicenism in the East after the legislative endeavour undertaken by Theodosius actually contributes to providing a sound background to Theodosian legislation from 380 to 382. The synodal epistle from the council of Constantinople to the council of Rome in 382 deserves to be singled out amongst sources dealing with Theodosius’ early government and the relations between the East and the West, analysed and reviewed in a masterly way by Errington, Leppin and McLynn 94, amongst others.

See Lizzi Testa 1996, 323-361, who denies the existence of any indication of orchestrated religious policy between Gratian and Theodosius; Duval 1981, 317-331 to whom the dual convening of the councils of Aquileia and Constantinople (381) would reflect the religious competition between both emperors. See also Errington 1996, 438453; Sivan 1996, 198-211; Escribano Paño 2004, 133-166. 93 See Simonetti 2017, 81-92. 94 Errington 1997b, 398-443; Leppin 2003, 35-86; McLynn 2010, 215-239. 92

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Gérer la pauvreté au VIe siècle à Constantinople: le cas de la novelle 80 de Justinien Vincent Nicolini *

RÉSUMÉ: La novelle 80 de Justinien vise à régler le problème des migrants et de la pauvreté à Constantinople. À travers une analyse du discours de la novelle, cet article insiste sur la vision chrétienne des pauvres et de la pauvreté qui y est développée. Il montre comment la novelle institutionnalise des mesures disciplinaires à l’égard des pauvres dans le but de les corriger moralement.

ABSTRACT: Justinian’s novel 80 aims to solve the problem of migrants and poverty in Constantinople. Through an analysis of the discourse of the law, this article insists on the Christian vision of the poor and poverty that develops there. It shows how the short story institutionalizes disciplinary measures against the poor to correct them morally. KEYWORDS: Antiquité tardive; Byzantine Empire; Constantinople; Empire byzantin;

Justinian’s novels; Late Antiquity; novelles de Justinien; pauvreté; poverty.

Durant l’Antiquité tardive, au gré de la christianisation de la société et du pouvoir impérial, l’aide aux pauvres acquiert une dimension sociale, religieuse et politique importante 1. Associée à la philanthropia, elle devient graduellement une vertu impériale cardinale 2. Plus que tout autre empereur, Justinien s’est appliqué à en établir les bases juridiques, en définissant étroitement les compétences ecclésiastiques en la matière 3. Il a aussi lui-même financé la construction ou la rénovation de nombreux hospices pour pauvres, étrangers ou malades, comme l’atteste Procope * Université de Montréal.

1 Voir en général Constantelos 1968; Patlagean 1977; Mazza 1982; Neri 1998; Holman 2001; Brown 2002; Freu 2007; Allen - Neil - Mayer 2009. 2 Constantelos 1968, 43-61, en partic. 43-49 pour l’Antiquité tardive. 3 Patlagean 1974; Boomjamra 1975.

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Vincent Nicolini

de Césarée 4. Ce dernier mentionne en outre qu’après la prise d’Antioche par les Perses en 540, Justinien «s’intéressa aussi au sort des pauvres de la cité qui souffraient d’infirmités physiques en construisant en leur intention de petites bâtisses et en leur fournissant l’ensemble des moyens favorables au traitement et à la disparition de leurs maladies […]» 5. En parallèle à ces démonstrations de piété et de charité impériales existe toutefois une attitude beaucoup plus ferme à l’égard de la pauvreté économique et sociale. C’est en effet ce que suggère la novelle 80 6. Celle-ci nous permet d’appréhender la façon dont le pouvoir impérial concevait la pauvreté comme phénomène économique et social. Les pauvres dont s’occupait Justinien étaient un type particulier de pauvres (malades, infirmes, veuves, orphelins, etc.). Si ces derniers pouvaient bénéficier de ce que le sociologue Robert Castel a appelé le «social-assistanciel», une grande partie de ceux qui souffraient de la misère n’avaient pas la même chance 7. Comme nous le verrons à travers l’analyse de la novelle 80, cela tient en bonne partie à une distinction idéologique entre «bons» et «mauvais» pauvres. Identifiables au Christ, la pauvreté visible et corporelle des malades et infirmes, ainsi que celle des faibles, veuves et enfants, avaient droit à la charité et à la compassion. Justinien se montre logiquement ému face à leur condition: «Qui est plus pauvre que ces hommes, soumis à l’indigence et reclus dans un hospice où ils souffrent dans leur corps, qui ne peuvent obtenir la nourriture nécessaire par leurs propres moyens?» 8. Les autres pauvres, victimes des inégalités sociales structurelles et des conjonctures économiques, n’ont pas droit à ce traitement: pour eux, la novelle 80 institue tout un dispositif disciplinaire visant à les contrôler et à les discipliner.

1. LE CONTEXTE DE LA NOVELLE La novelle 80, promulguée en 539, n’est pas une loi sur les pauvres à proprement parler. Elle complète la novelle 13 de 535, qui instaurait Procop. De Aed. I 2, 16; 9, 12-13; V 6, 25. Procop. De Aed. II 10, 25 (trad. Roques 2011, 171-172). 6 Sur cette loi, voir ls livres importants de Franciosi 1998, qui fournit aussi des documents supplémentaires, et de Laniado 2015, 195-200, 215-235. Ces deux auteurs couvrent exhaustivement les différents aspects de la loi, mais ils se concentrent presque exclusivement sur l’aspect juridique. 7 Castel 1995, 47-64. 8 CJ 1, 3, 48, 3 (ed. Krueger 1954): «quis enim pauperior est hominibus, qui et inopia tenti sunt et in xenonem repositi et suis corporibus laborantes necessarium victum sibi non possunt adferre?». 4

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la magistrature de préteur du peuple 9. La loi plaçait cette magistrature dans la lignée de la préture romaine. L’empereur définit ainsi le rôle du détenteur de cette nouvelle magistrature: Ces choses [essentiellement l’argent lié à la corruption], ceux qui occupent désormais le poste de préteur du peuple doivent les haïr et s’en détourner; ils doivent aussi garder leurs mains propres, mettre fin à tout délit, vol ou autre, qui leur est rapporté, purger la ville de ces bêtes qui commettent des vols […] Ils devront aussi instruire les crimes, quel que soit leur gravité, ramener le calme lors des tumultes de la foule, ne se rapportant pas, pour ce faire, au préfet de cette ville glorieuse et impériale, mais à nous-même […]. 10

Le préteur du peuple devait donc faire régner l’ordre dans la capitale et mettre fin à la corruption endémique liée à la collaboration entre criminels et fonctionnaires. Dans la préface de la novelle 80, Justinien rappelle les dispositions de la novelle 13 et place la nouvelle loi dans la continuité de celle-ci 11. À l’image de la novelle 13, un des objectifs de la novelle 80 est d’endiguer la criminalité et de punir les criminels. Pour ce faire, l’empereur crée une nouvelle magistrature, le questeur du peuple 12. La création de cette magistrature ne semble pas avoir été motivée par une augmentation subite de la criminalité. Le législateur ne dit pas que la criminalité a augmenté et se félicite même du succès de la magistrature du préteur du peuple 13. Pour justifier la création d’une nouvelle fonction, il fait plutôt référence à l’arrivée d’une foule de gens dans la capitale: Nous avons découvert que, puisque les provinces ont été peu à peu dépouillées de leurs habitants, notre grande cité s’est remplie d’une masse d’hommes de diverses origines, en particulier des paysans, qui ont abandonné leur cité et la culture de la terre. 14

Cet afflux de provinciaux pouvait effectivement être vecteur de désordre, dans une capitale déjà bien peuplée, qui gardait en mémoire les destructions causées par la révolte Nika de 532 15. En outre, l’«exode rural» avait 9 En utilisant le terme praetor, Justinien désire clairement se placer dans la continuité des magistratures romaines. Sur cet aspect, voir en particulier Maas 1986. 10 J. Nov. 13, 4 (ed. Schoell 1963). 11 J. Nov. 80, pr. 12 Encore une fois, le lien avec les institutions de la Rome antique est clairement souligné. 13 J. Nov. 80, pr. 14 Ibidem. 15 Croke 2005, 67 parle d’une population de 500.000 habitants. Cela demeure une estimation, certes peut-être un peu élevée, mais elle suggère tout de même que maintenir l’ordre dans une ville avec une telle densité de population ne devait pas être de tout

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des conséquences économiques et fiscales importantes, de nature à inquiéter le pouvoir impérial 16. Mais avant de se pencher plus précisément sur les motivations qui sous-tendent la promulgation de la loi, il convient de circonscrire le phénomène d’exode rural qu’elle pointe. Des sources contemporaines suggèrent que le phénomène auquel la novelle fait référence existait bel et bien. C’est notamment le cas de Jean le Lydien, qui affirme que l’exode important de paysans avait pour cause les réformes fiscales commandées par Justinien et mises en place par son préfet du prétoire Jean de Cappadoce 17. En effet, l’augmentation du fardeau fiscal des paysans aurait conduit une partie d’entre eux à quitter leur terre et prendre la route: Les contribuables, eux, n’avaient plus de ressources et on ne leur en avait pas laissé à cause des ventes à prix forcés, des réquisitions pour le service public et des corvées qui s’ensuivaient: nourrissons accrochés au sein, les femmes portaient des fardeaux et transportaient les espèces depuis l’intérieur éloigné des terres jusqu’à la mer: autant de cadavres restant sur la route du voyage, sans recevoir ni pitié ni sépulture. 18

Jean dépeint une situation chaotique dans les provinces, où les percepteurs de taxes font la loi et dépouillent sans vergogne les contribuables. Le harcèlement fiscal des percepteurs se joignait à la violence physique des armées partant en campagne, si bien que «l’ensemble des sujets supputait que serait plus légère à supporter l’invasion des barbares que la domination des siens» 19. L’oppression ordinaire des propriétaires, le passage des armées et les demandes fiscales insatiables du gouvernement impérial n’étaient toutefois pas le seul malheur affligeant les paysans. En 536-537, la lumière du soleil fut obstruée sur une bonne partie de la planète, probablement en raison d’éruptions volcaniques importantes 20. Bien que Jean le Lydien ne fasse pas de liens entre cette catastrophe et l’exode des paysans, Cassiodore note clairement que les récoltes furent affectées 21. En somme, une concaténation de phénomènes naturels et hurepos. En ce sens, Durliat 1990 parle de la novelle 80 comme d’une loi, comme il s’en fait ponctuellement, visant à limiter la surpopulation de «parasites» incapables de trouver un travail dans la capitale. 16 La majorité des individus concernés étaient des coloni adscripti: J. Nov. 80, 4. 17 Laniado 2015, 232 (avec bibliographie supplémentaire) attribue la promulgation de la loi à l’échec des réformes administratives des années 530. 18 Joh. Lyd. De mag. III 70, 1 (Dubuisson - Schamp 2006). 19 Joh. Lyd. De mag. III 70, 2. 20 Sur cet événement, voir Patlagean 1977, 75; Stathakopoulos 2016, 265-268. En 535, une famine sévère avait affectée la province de Thrace: J. Nov. 32. 21 Cassiod. Var. XII 25.

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mains avait sans doute aggravé la situation déjà précaire de certains paysans, au point de les contraindre à migrer. Dans le cadre d’une économie proche de la subsistance, surtout dans les villes intérieures de province, il n’en fallait pas beaucoup pour précipiter une partie de la population dans le dénuement; la combinaison famine épisodique/impôts élevés était en particulier destructrice. En dépit de sa dénonciation des conséquences des réformes fiscales et de son apparente compassion à l’égard des paysans, Jean le Lydien voit plutôt d’un mauvais œil le fait que ces derniers quittent leurs terres et cherchent refuge ou justice dans la capitale. Il affirme ainsi qu’ils auraient eu un rôle à jouer dans la révolte Nika de janvier 532, ce qui apparaît peu probable: la novelle 80 date de 539 et les réformes fiscales que Jean dénonce ont été implantées surtout dans le deuxième mandat de Jean de Cappadoce (novembre 532-540). En outre, les factions, protagonistes principaux de la révolte Nika, n’étaient pas nécessairement composées de gens humbles, bien que ces derniers pussent naturellement gonfler leurs rangs dans les situations de crise 22. Par conséquent, le fait que Jean le Lydien associe directement cette situation à l’arrivée massive de provinciaux dans la capitale en dit plus sur sa vision de l’ordre social que sur les conséquences réelles du phénomène. En effet, il n’hésite pas à remettre en question la moralité des paysans migrants: Dès lors, ces raisons, ou plutôt ces tragiques situations, firent qu’abandonnant les terres de leur naissance tous préféraient vagabonder que travailler en gens raisonnables, droit qu’on ne leur avait même pas accordé, et remplirent à flot la Ville impériale de foules inutilisables; la portée de la loi qui réprimait l’infinité des délits s’étendit considérablement, à la mesure de la population, de sorte qu’on en vint à promouvoir des magistratures tombées en désuétude dans le passé, préteurs et questeurs, suivant l’usage qui avait jadis prévalu à Rome, comme nous l’avons décrit précédemment. 23

Bien qu’il dénonce globalement la situation et la qualifie de tragédie, Jean n’a pas particulièrement de sympathie pour les victimes, au-delà de quelques figures rhétoriques. Ainsi, malgré la crise économique engendrée par les réformes, il ne peut s’empêcher de condamner moralement les paysans. Ceux-ci profiteraient de la situation pour être indolents et aller gonfler les rangs des foules inutilisables de capitale. Ce faisant, les pauvres paysans harcelés par les percepteurs d’impôts, sitôt arrivés en 22 Sur la composition sociale des factions, voir Cameron 1976, 74-104, en partic. 100-101, où il qualifie les membres des factions de «jeunesse dorée». 23 Joh. Lyd. De mag. III 70, 3.

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ville, deviennent objets de mépris, et constituent un problème social qui doit être géré par l’appareil judiciaire. C’est à la gestion de ce problème, comme Jean le Lydien le note clairement, que la novelle 80 se consacre. Voyons comment elle procède. La magistrature du questeur créée par la novelle 80 a d’abord et avant tout un rôle de surveillance 24. Il doit recenser la population afin d’identifier les individus qui n’ont pas le droit d’être dans la capitale. Le législateur énumère par le fait même ceux qui possèdent le privilège d’y résider: les religieux, les avocats, les détenteurs de dignités sénatoriales. Il identifie ensuite la population visée par la loi: les paysans. Parmi ces derniers, certains attendent que leur cause soit traitée devant un juge. Le magistrat doit veiller à ce que ces causes soient tranchées le plus rapidement possible. Les paysans qui viennent avec le propriétaire des terres qu’ils cultivent doivent aussi retourner le plus rapidement possible dans leur province. Enfin, ceux qui viennent en groupe se plaindre d’un propriétaire terrien doivent laisser deux ou trois personnes dans la capitale pour les représenter. Le législateur passe ensuite aux dispositions à prendre dans le cas des gens qui ne sont pas dans la ville en raison d’un procès. Ceux-là, bien qu’il y ait sans doute une raison économique ou sociale à leur venue dans la capitale, sont tout de suite stigmatisés. Ils viendraient dans la ville pour mendier ou pour s’adonner à divers crimes: S’il y a parmi eux des individus qui sont dans notre ville sans avoir de litige juridique ou de moyens de subsistance, de sorte qu’ils vivent en mendiant ou, si cela ne suffit pas à leurs désirs, en perpétrant des crimes, il devra inspecter leur condition physique. 25

Le langage est celui de la condamnation morale: on leur impute des mauvaises intentions. Pour ces gens, il y a deux options: s’ils sont esclaves, le questeur devra les rendre à leurs maîtres; s’ils sont libres, il devra les renvoyer dans leurs provinces et cités d’origine 26. Les étrangers qui n’ont pas de travail dans la capitale et qui n’y sont pas non plus pour régler des affaires doivent donc être déportés au plus vite 27. Si les individus inspectés sont nés dans la capitale, une disposition différente est à prendre. On voit bien que la loi dépasse le cadre que le législateur s’était fixé dans la préface. Il ne s’agit plus de contrôler uniquement les nouveaux arrivants dans la capitale, mais bien de gérer 24 25 26 27

J. Nov. 80, 1. J. Nov. 80, 4. Ibidem. Sur cette question, voir Laniado 2014.

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l’ensemble des pauvres inactifs 28. Ceux-ci sont d’ailleurs décrits dans des termes tout aussi péjoratifs que les paysans venus chercher un meilleur sort dans la capitale. Car le législateur ordonne au magistrat de ne pas permettre à ces gens d’être une charge pour la communauté. Il doit les pousser à travailler chez les divers artisans de la capitale, mais il ne précise pas dans quelles conditions salariales: S’ils sont nés en ces terres et qu’ils profitent d’un corps valide, mais qu’ils n’ont pas de moyens de subsistance décents, qu’il [le questeur] ne leur permette pas d’être inutilement une charge pour la terre, mais qu’il les place au plus vite au service des artisans des travaux publics, aux responsables des boulangeries, aux jardiniers ou à tout autre métier ou ouvrage dans lequel il sera en mesure de travailler, d’être nourri, transformant ainsi pour le mieux une vie marquée par l’indolence. 29

S’ils refusent de travailler, ils seront expulsés de la ville. Pour le pouvoir impérial, l’inactivité est donc vectrice de désordre. Avec le travail forcé, puisque c’est de cela qu’il s’agit, on administre un remède à une partie de la population que l’on juge moralement condamnable: si ces gens n’ont pas de travail, ce n’est pas parce que ce dernier manque, mais parce qu’ils se complaisent dans une vie dissolue, propre à les transformer à tout moment en criminels ou en factieux. Ce point de vue est clairement énoncé quelques lignes plus bas. Le législateur se targue d’agir pour leur bien: «Nous ordonnons ces dispositions en étant magnanime à leur égard, pour ne pas, alors que leur indolence les mène à commettre des actes illicites, qu’ils soient mis en accusation et traînés devant nos juges» 30. Une vie inactive conduit tout droit à la criminalité ou, du moins, à des activités qui sont moralement condamnables. Le travail, en revanche, redresse les mauvais penchants et fait du paresseux un individu diligent et utile à la société. En ce sens, le législateur entretient l’idée que le travail forcé possède une valeur éducative, au sens où il corrige les défauts de l’individu 31. Une disposition différente est à prendre dans le cas des individus qui ne seraient pas jugés physiquement aptes au travail: «Nous ordonnons que les blessés ou encore les handicapés et les vieillards demeurent sans être inquiétés dans cette ville, et qu’ils soient assignés à ceux qui veulent agir pieusement» 32. Les institutions caritatives, hospices, hôpitaux, or28 29 30 31 32

Krumpholz 1992, 45 parle ainsi d’Armenpolizei, de «police des pauvres». J. Nov. 80, 5. Ibidem. Hillner 2015, 210-211. J. Nov. 80, 5.

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phelinats, doivent prendre en charge les pauvres qui ne peuvent pas subvenir eux-mêmes à leurs besoins en raison de leur condition physique. Comme dans la loi citée dans l’introduction, le pauvre qui doit être aidé est celui dont le corps est défaillant. Cette défaillance est liée soit à l’âge, comme avec les enfants et les vieillards, soit à une maladie ou encore à une infirmité. On voit donc que la condition physique, entendue comme capacité à travailler, est ce qui distingue légalement les «vrais» et les «faux» pauvres: on n’enquête pas sur l’origine géographique ou sur les activités des infirmes, malades ou vieillards, puisque les entretenir est un devoir chrétien. Si elle est appréhendée à partir des dispositions qu’elle prend envers les individus jugés oisifs et, par conséquent, «indésirables», ainsi que par la division qu’elle élabore entre «vrais» et «faux pauvres», il apparaît manifeste que la novelle 80 avait une dimension morale et idéologique importante. C’est d’ailleurs un aspect que n’avaient pas manqué de signaler Procope de Césarée et Jean le Lydien. Ce dernier, dans son Des magistratures de l’État romain, qualifiait le questeur d’«investigateur de très haut rang des crimes liés au genre de vie» 33. Procope est beaucoup plus acerbe, affirmant que le questeur avait pour fonction de punir les pratiques sexuelles jugées déviantes (pédérastie, adultère, sodomie, etc.) et les païens (plus largement ceux qui s’adonnaient à des cultes extérieurs à l’orthodoxie) 34. Puisque ces deux auteurs écrivent tout au plus une quinzaine d’années après la promulgation de la loi, il n’est pas impossible que les compétences du questeur aient été élargies, d’autant plus que des lois édictées entretemps, comme les novelles 77 et 141, visaient à punir entre autres les déviances sexuelles dont parle Procope 35. En tout cas, ce qui semble assuré, c’est que les punitions à l’égard des pauvres n’étaient pas un simple dommage collatéral de la novelle 80. 33 Joh. Lyd. De mag. II 29, 3. La traduction est de Feissel 2009, 347, aussi reprise par Laniado 2015, 226. Elle diffère de celle de Dubuisson - Schamp 2006, qui traduisent par «très auguste enquêteur chargé des causes capitales». 34 Procop. Anec. XX 9. Il est possible que ce dernier confonde la fonction du questeur telle que détaillée dans la novelle 80 et les compétences accordées au préfet de la ville par la novelle 77. Voir la note suivante. 35 Si on en croit Meier 2016, les catastrophes naturelles ayant frappé l’empire, surtout à partir des années 540, auraient eu un effet transformateur sur les mentalités, ce qui explique l’importance de plus en plus grande des «valeurs» chrétiennes dans les agissements du pouvoir impérial et les représentations qu’il désirait transmettre. Voir plus largement Meier 2003. J. Nov. 77 fait d’ailleurs un lien direct entre les péchés à caractère sexuel de certains individus et les catastrophes naturelles (tremblements de terre, peste, etc.) qui frappent certaines cités. Mais il revient au préfet de la ville de Constantinople de punir ces individus et non au questeur.

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Avec celle-ci, le législateur se donnait bel et bien comme objectif de corriger les individus qu’il estimait être une menace pour l’ordre, entendu non au sens strictement policier, mais aussi au sens moral, c’est-à-dire au niveau des mœurs individuelles. Il reste donc à montrer comment le traitement judiciaire des pauvres oisifs reflète une mentalité chrétienne plus large, qui justifie les mesures disciplinaires prises à leur égard.

2. PAUVRETÉ, TRAVAIL ET DISCIPLINE Nous avons clairement montré ci-haut comment la novelle 80 jette les bases légales d’une distinction entre, d’une part, les pauvres invalides devant être pris en charge par les diverses institutions caritatives et, de l’autre, les pauvres valides que l’appareil judiciaire se doit de discipliner de façon à les remettre sur le droit chemin. Reste à se questionner sur les aspects idéologiques de cette loi. La novelle 80 reprend en bonne partie les dispositions d’une loi de Gratien datant de 382 36. Dans celle-ci, l’empereur détaille les mesures à prendre à l’égard des mendiants qui abusent de leur condition: «Si la mendicité qui entreprend de tirer un gain public tente certains, que l’on évalue, après avoir inspecté chacun d’entre eux, l’intégrité de leur corps et la vigueur de leur âge» 37. La loi stipule ensuite que les oisifs (inertibus) et ceux qui ne souffrent d’aucune infirmité (absque ulla debilitate miserandis) deviendront, s’ils sont esclaves, la propriété de celui qui les dénonce ou seront contraints, s’ils sont libres, au colonat perpétuel. On voit bien que, contrairement à la novelle 80, la loi de 382 ne fonde pas de nouvelles magistratures, mais compte sur l’appât du gain des délateurs pour résoudre le problème de la mendicité 38. Que cette loi, «sage dans son principe, mais violente dans sa sanction pénale» comme le note un commentateur du XIXe siècle 39, ait été conservée par les rédacteurs du Code Justinien suggère qu’elle était encore jugée pertinente au VIe siècle. La nouveauté principale de la novelle 80 se trouve donc dans son institutionnalisation du problème: un magistrat mandaté par le pouvoir impérial évalue la condition physique des mendiants, dans le but de remettre au travail ceux qui en ont la capacité. En ce sens, elle contient un aspect disciplinaire en bonne partie absent de 36 CTh. 14, 18, 1 (edd. Mommsen - Meyer 1905); CJ 11, 26. Sur cette loi voir en particulier Freu 2007, 352-358 (avec bibliographie supplémentaire). 37 Ibidem. 38 Neri 1998, 81. 39 Naudet 1837, 85.

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la loi de 382. La punition principale établie par cette dernière était de replacer le contrevenant dans sa condition sociale d’origine: l’esclavage aux esclaves, le colonat perpétuel aux paysans. La novelle 80, si elle remet bel et bien les esclaves à leurs propriétaires et renvoie les paysans dans les terres où ils sont enregistrés, prend, en ce qui concerne les mendiants constantinopolitains, des dispositions que l’on est en droit de qualifier de nouvelles. En prenant en charge l’examen corporel des pauvres ou mendiants, le pouvoir impérial exerce, par l’entremise de la magistrature du questeur, un pouvoir coercitif indéniable. Mais l’objectif n’est plus seulement de maintenir l’ordre social en renvoyant les «mauvais» mendiants à leur condition sociale d’origine; le législateur se donne aussi le devoir de les corriger en participant à leur fortification morale. En ce sens, si la loi a un caractère répressif, elle ne se contente pas de punir. On peut alors se demander d’où vient cette volonté de corriger et fortifier moralement. Pour répondre à cette question, il convient de rechercher les liens discursifs et idéologiques entre la novelle 80 et la pensée chrétienne sur le travail. Une caractéristique importante de la novelle 80 est en effet, comme nous l’avons déjà effleuré, son insistance sur l’importance du travail. Le législateur qualifie de charge (onus) pour la communauté tout individu qui ne travaille pas et stipule clairement que l’absence de travail, par le relâchement moral qu’elle induit, conduit directement à criminalité. On peut faire un rapprochement entre les propos du législateur et la Deuxième Épître aux Thessaloniciens, dont l’auteur exprime de la façon suivante l’importance du travail au sein de la communauté chrétienne: Car, lorsque nous étions chez vous, nous vous disions expressément: si quelqu’un ne veut pas travailler, qu’il ne mange pas non plus. Nous apprenons, cependant, qu’il y en a parmi vous quelques-uns qui vivent dans le désordre, qui ne travaillent pas, mais qui s’occupent de futilités. Nous invitons ces gens-là, et nous les exhortons par le Seigneur Jésus Christ, à manger leur propre pain, en travaillant paisiblement. 40

Le travail accorde donc le droit de participer pleinement à la communauté: chacun doit mériter son propre pain, assurant ainsi une forme de discipline dans la communauté, comme le suggère l’opposition nette entre travail et vie désordonnée. Le chrétien doit en outre éviter d’être une charge pour l’ensemble de la communauté: 40 2Th 3, 10-12. Sur la conception du travail dans le christianisme, voir en général Vallin 1983. Pour la conception du travail dans les premiers siècles chrétiens et chez les auteurs patristiques, voir Lamarche 1991.

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Nous n’avons pas eu une vie désordonnée parmi vous, nous ne nous sommes pas fait donner par personne le pain que nous mangions, mais de nuit comme de jour nous étions au travail, dans le labeur et la fatigue, pour n’être à la charge d’aucun de vous. 41

Si on ne peut affirmer que le législateur a intégralement repris la vision du travail présentée dans la Deuxième Épître, les parallèles entre les deux textes demeurent frappants. Dans les deux cas, le travail apparaît comme une forme de devoir qui détourne d’une vie désordonnée et qui sert à la fortification morale. Cette idée est reprise pratiquement telle quelle dans les Constitutions apostoliques, texte datant vraisemblablement de la fin du IVe siècle. Adressé à des clercs, le texte exprime néanmoins le mépris que la pensée chrétienne entretenait à l’égard de l’oisiveté. Dans une section consacrée à cette dernière, l’auteur y va de cette exhortation, citant au passage la Deuxième Épître aux Thessaloniciens: Travaillez donc sans cesse; l’oisiveté est un vice incurable. Chez vous, si quelqu’un ne travaille pas, qu’il ne mange pas non plus (2 Th 3, 10). En effet, le Seigneur notre Dieu hait les oisifs; aucun des fidèles de Dieu ne doit donc être oisif. 42

Le chrétien ne saurait donc éviter le travail, et encore moins s’il est évêque ou moine. Dans une autre section du texte, ceux qui sont en droit de bénéficier de la charité sont clairement identifiés: le jeune orphelin, le vieillard infirme, le gravement malade et les parents ayant de nombreux enfants. Face à eux, l’auteur condamne ceux qui mendient par paresse (argia) ou par hypocrisie 43. Le pauvre ordinaire, celui qui est pauvre simplement par sa situation économique, n’est pas pris en compte. Il n’y a au demeurant pas de place pour lui dans un imaginaire qui ne connaît que, d’un côté, des malades, des infirmes et des orphelins, et de l’autre, des escrocs et des paresseux. Par conséquent, il n’est pas surprenant que dans la distribution de la charité, on cherchait constamment à identifier les pauvres non méritants. Ambroise de Milan insiste par exemple sur la nécessité de bien choisir les pauvres, car les gens viennent en bonne santé, viennent sans avoir aucune raison, si ce n’est celle d’errer, et veulent épuiser les secours destinés aux 41 42 43

2Th 3, 7-8. Cf. 1Th 2, 9. Const. App. II 63, 6 (éd. et trad. Metzger 1985). Const. App. IV 3, 1-3; 4, 1.

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pauvres, réduire à rien la dépense en leur faveur, et non contents de peu, ils réclament davantage, cherchant à obtenir, par l’étalage de leurs vêtements, un appui à leur requête et, par la simulation sur leurs origines, marchandant des accroissements de gains. 44

Un peu comme le législateur de la novelle 80, Ambroise assimile les individus en bonne santé demandant de l’aide à des escrocs. Leur principal problème n’est pas leur pauvreté mais leur faiblesse morale, faiblesse qui les pousse à vouloir s’enrichir sur le dos des vrais pauvres plutôt que de travailler comme tout le monde. Ils inventent alors des prétextes pour se faire passer pour pauvres. Afin de déterminer qui dit vrai et qui simule, l’évêque devra enquêter sur les malheurs dont ces gens se disent victimes. Dans ce contexte, nous dit Ambroise, si on veut que l’argent soit destiné au vrai pauvre, il vaut mieux se fier aux yeux qu’aux oreilles: l’infirmité, la maladie, voire la prison en disent plus long sur la misère que les historiettes racontées par les uns et les autres. Si l’évêque de Milan ne s’est jamais attaqué aux mendiants qu’il dénonçait 45, il n’en demeure pas moins que son discours est très proche de ceux de la loi de 382 et de la novelle 80: les gens valides qui demandent de l’aide sont toujours soupçonnés d’être, au minimum des paresseux, au pire des escrocs. Les mêmes idées se manifestent chez Jean Chrysostome 46. Commentant la Deuxième Épître aux Thessaloniciens, il note que seuls ceux qui ne sont plus en mesure de travailler et ceux qui enseignent ont le droit à l’aumône 47. Aucun autre prétexte ne saurait exonérer le chrétien du travail. L’oisiveté est donc à proscrire, d’autant plus qu’elle est nuisible à l’âme comme au corps. Jean Chrysostome la compare à l’eau stagnante, au métal qui rouille, à la terre laissée au repos: elle engendre le dépérissement de toute chose 48. En dépit de l’importance qu’il accordait à la valeur morale du travail et du mépris qu’il entretenait à l’égard de l’oisiveté, Jean Chrysostome était conscient qu’il ne fallait pas juger trop sévèrement les mendiants qui paraissaient valides. Dans une de ses Homélies sur l’Épître aux Hébreux, il exhorte ses fidèles à cesser de voir le mendiant comme un escroc potentiel: «Mais voilà que vous éclatez en reproches amers contre cet indigent. Pourquoi ne travaille-t-il pas? Pourquoi favoriserais-je sa fainéantise et Ambros. Off. II 16 (éd. et trad. Testard 2002). Freu 2007, 353-354. Freu note qu’Ambroise n’est pas l’instigateur de la loi de 382, plutôt liée aux affaires internes de la ville de Rome. 46 Sur Jean Chrysostome et le travail voir en général Daloz 1959. Sur l’attitude de Jean Chrysostome à l’égard des pauvres et de la pauvreté voir Mayer 2006. 47 Chrys. hom. 1-5 in 2 Thess. 5, 2 = PG 62, 494-495. 48 Chrys. hom. 1-2 in Rom. 16:3 1, 5 = PG 51, 193-194. 44

45

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sa paresse?» 49. Certains, sans doute parmi les plus fortunés, étaient apparemment réticents à donner aux mendiants, estimant que leur misère était souvent feinte. Jean Chrysostome doit leur rappeler que personne n’est à l’abri d’un revers de fortune, qu’on peut devenir pauvre du jour au lendemain. Il laisse ensuite entendre qu’en général, seule l’exhibition d’une mutilation ou d’une infirmité arrivait à générer une réelle compassion chez ses fidèles, attitude qu’il dénonce par ailleurs 50. En dépit de l’aspect rhétorique du passage, qui vise à susciter certaines émotions chez le public, on peut penser que Jean Chrysostome décrit des opinions et des attitudes assez répandues parmi ses fidèles. En tout cas, il est au moins possible de constater que cette séparation entre les «vrais» et les «faux» pauvres se joue encore une fois sur le terrain de l’apparence corporelle: la pauvreté d’un mendiant valide marque beaucoup moins les esprits et ne suffit pas à créer un sentiment de compassion. Sa misère n’est pas entièrement reconnue et on lui attribue toutes sortes de défauts moraux. Bref, s’il mendie, c’est parce qu’il ne veut pas travailler. Et s’il ne veut pas travailler, c’est parce qu’il est moralement corrompu. On l’accuse alors de tromper pour vivre sur le travail et le revenu des autres. Bien que nous n’ayons pas couvert de façon exhaustive la pensée sur le travail et la pauvreté des auteurs analysés ci-haut, nous avons néanmoins relevé de nombreuses constantes. Chez ces auteurs, on retrouve un discours qui insiste sur l’importance morale du travail, condamne l’oisiveté et qui établit une dichotomie – quoique souvent non appliquée dans la réalité – entre vrai et faux pauvre. À la lumière de ces textes, la vision du législateur de la novelle 80 apparaît, d’une part, être en phase avec la pensée chrétienne sur le travail et, de l’autre, représenter en bonne partie les attitudes sociales à l’égard des pauvres. En ce sens, la novelle 80, comme nous l’avons déjà noté plus haut, institutionnalise en quelque sorte la vision chrétienne de la pauvreté. Le pouvoir impérial s’occupera de séparer le bon pauvre du mauvais pauvre, s’assurant ainsi que la charité est orientée vers les premiers. Quant aux seconds, l’arsenal disciplinaire mis en œuvre vise à les corriger et les forcer à travailler, ce qui signifie aussi les conduire vers une vie chrétienne bien ordonnée.

49 50

Chrys. hom. 1-34 in Heb. 11, 5 = PG 64, 94. Chrys. hom. 1-34 in Heb. 11, 5 = PG 63, 95.

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CONCLUSION En somme, si on l’aborde en ayant à l’esprit la pensée chrétienne sur le travail, les objectifs de la novelle 80 deviennent beaucoup plus clairs: en remettant les individus valides au travail, le législateur désire les discipliner et les remettre sur le droit chemin. Les mendiants valides, ou les pauvres plus généralement, sont ainsi perçus comme des individus ayant des défauts moraux qui les empêchent de participer à la vie économique et sociale. En ce sens, la novelle n’est pas uniquement motivée par des considérations économiques. Loin de n’être qu’une loi sur la criminalité, les mendiants ou les pauvres, la novelle 80 témoigne de la nature du gouvernement de Justinien: derrière les objectifs pratiques et politiques se cache un programme idéologique chrétien visant à discipliner les individus pour les rendre conformes aux exigences d’une société chrétienne. Comme nous l’avons vu en comparant le texte avec le discours chrétien sur les mendiants, ces derniers sont toujours soupçonnés de tricher et d’élaborer toutes sortes de stratagèmes pour éviter de partager le «fardeau» commun que constitue le travail dans la société chrétienne. À l’image des pécheurs et des hérétiques 51, ils doivent être corrigés, et c’est le pouvoir impérial qui se charge de cette tâche. Plus largement, une analyse du discours de la novelle 80 montre que le contrôle administratif et politique des pauvres indésirables s’inscrit dans une idéologie chrétienne qui se manifeste bien avant le bas Moyen Âge occidental 52. Le mépris envers les pauvres, le soupçon constant qui pèse sur eux, la tendance à leur attribuer des défauts moraux justifiant leur condition, ne sont pas des inventions du Moyen Âge ou de l’époque moderne. Dès l’Antiquité tardive, le pouvoir politique tente d’institutionnaliser des dispositifs de correction des pauvres, ancêtres de toutes les mesures de contrôle administratif qui frappent indistinctement chômeurs, pauvres et migrants, ceux que l’on accuse d’être des «assistés».

51 Sur les exclus et la logique de l’exclusion, en plus de Neri 1998, voir, pour le Moyen Âge, l’important livre de Todeschini 2007. 52 Sur la répression de la pauvreté au bas Moyen Âge et à l’époque moderne, voir Geremek 1987.

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Note sull’istruzione superiore nella Ravenna tardoantica e alto medievale Giovanni Assorati *

RIASSUNTO: Nell’ambito delle ricerche sulla cultura a Ravenna in età gota ed esarcale, la presenza di forme istruzione superiore è stata postulata o negata come corollario nell’ambito di ricerche su diversi aspetti, soprattutto l’eventuale ruolo della sede esarcale nella tradizione giuridica da Roma all’Europa. Analizzando le fonti e gli ambiti di interesse noti nella Ravenna tardoantica e alto medievale, ed in particolare nel fervente periodo teodoriciano, è possibile formulare l’ipotesi dell’esistenza, almeno per un breve periodo, di una struttura di istruzione superiore legata al palazzo reale dalla quale alcuni insegnamenti sono proseguiti anche in età esarcale. Protagonista e perno di questa potrebbe essere stato Cassiodoro, poi protagonista dell’organizzazione degli studi nella sua Vivarium. Nei secoli successivi le forme di istruzione superiore si perderanno man mano che la cultura antica a Ravenna si spegne. ABSTRACT: In the research on culture in Ravenna (Goth and exarcal age), the presence of higher education forms was postulated or denied as a corollary in the context of research on various aspects, above all the possible role of the headquarters in the legal tradition from Rome Europe. Analyzing sources and areas of interest known in late ancient and early medieval Ravenna, and in particular in the fervent Theodoric period, it is possible to formulate the hypothesis of the existence, at least for a short period, of a higher education structure linked to the royal palace from which some teachings continued even in the exarchical age. The protagonist and pivot of this may have been Cassiodorus, then protagonist of the organization of the studies in his Vivarium. In the following centuries the forms of higher education will be lost as the ancient culture in Ravenna dies out. KEYWORDS: Ravenna; Boethius; Boezio; Cassiodoro; Cassiodorus; higher education in late antiquity and early middle ages; istruzione superiore tardoantica e alto medievale; palatium di Teodorico; Theoderic the Great’s palatium.

Nessuna fonte antica menziona una schola per l’insegnamento secondario e superiore a Ravenna: nondimeno, l’esistenza di insegnamenti 1 di livello * Alma Mater Studiorum - Università di Bologna.

1 Per esempio la citano come dato di fatto: Fontaine 2008, 740; Munkhammar 2011, 32; Savigni 2017, 22 e n. 64; Rosso 2018, 47. Lozovsky 2016, 325 e Cecconi 2007,

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Giovanni Assorati

superiore è postulato sia per la tarda antichità che per l’alto medioevo per i testi e le personalità che ivi si collocano. Come noto, l’arrivo della corte imperiale a Ravenna agli inizi del V secolo ha segnato una svolta radicale per la città adriatica: da centro periferico diviene polo del potere imperiale Occidentale nel segno della dinastia teodoside e del suo legame con la Chiesa 2. Per tutto il V secolo però la città non emerge come centro particolarmente importante di cultura, certo anche per la presenza non continuativa degli imperatori che a volte preferiscono altre sedi 3: anche se non mancano indizi, è difficile individuare luoghi stabili di conservazione e trasmissione del sapere 4. Questa condizione, acuita dalla crisi del potere imperiale nella seconda metà del secolo, sarà superata dall’insediamento di re Teodorico nel 493 d.C., l’inizio del periodo di massimo splendore culturale del palatium 5. Tra la fine del V e la metà del VI secolo la corte ravennate diventa un importante centro intellettuale, come attestato dai testi e dalle personalità che vi si possono attribuire, e che testimoniano diversi interessi 163 la citano ma come centro di formazione minore. Sull’istruzione antica ancora basilare Marrou 19656, per quella alto medievale Riché 19993, sintesi aggiornata in Rosso 2018; su evoluzione e caratteri dell’educazione tardoantica e alto medievale con gli apporti del cristianesimo Fontaine 2008; sull’istruzione superiore in area bizantina dal IV all’XI secolo, Markopoulos 2013; sulla legislazione legata allo studio e la sua evoluzione tra Nerva e Teodorico, Di Pinto 2013; esempi di sviluppi e tematiche nei recenti Stenger 2019 e Agosti - Bianconi 2019. È probabile che anche a Ravenna ci fossero insegnanti di base di grammatica, retorica e medicina di base, con docenti protetti da immunitates secondo direttive imperiali risalenti da almeno Antonino Pio e Marco Aurelio, su cui Giomaro 2011, 157-160; Germino 2012 e Di Pinto 2013, 71-89. 2 Su Ravenna antica e alto medievale essenzialmente: Susini 1990; Carile 1992a; Manzelli 2000; Ravenna capitale 2005; Cirelli 2008; Mauskopf Deliyannis 2010; Cosentino 2015; approfondimenti in Herrin - Nelson 2016 e, all’interno di studi sull’Italia ostrogota, in Arnold - Bjornlie - Sessa 2016. Una recente sintesi complessiva è in Novara  - Luparini 2016, 9-166. Una panoramica sulla cultura intellettuale ravennate del periodo tardoantico e alto medievale a partire dai testi superstiti in Assorati 2011. 3 Cavallo 1991, 90; Augenti 2010 sulla realtà di Ravenna nel V secolo, sede imperiale ma città secondaria rispetto a Roma. 4 Tra le presenze culturali quelle più significative appaiono Merobaude, che parla del palazzo imperiale sotto Valentiniano III di cui fu comes sacri consistorii (carm. 1, 1-24 e 2, 1-6 su cui Pierpaoli 1984, 140-142; sul poeta Martindale 1980, 756-758), e Fl. Rusticius Helpidius Domnulus che, seguendo le correnti identificazioni, è stato poeta profano e cristiano, quaestor sacri palacii di Maioriano e a Ravenna emendatore di testi geografici e storici (Martindale 1980, 374-375, 537; Oppedisano 2013, 241-243; Lozovsky 2016, 327). 5 Riché 19993, 14-16 sintesi sulla rinascita culturale; Pilara 2005 su Teodorico e il suo progetto politico, su cui anche Cardini 20172, 99-107 e 110-111 sullo splendore della fase ostrogota di Ravenna. Sulle difficili ricerche sul palatium: Baldini Lippolis 1997; Manzelli 2000, 207-211; Cirelli 2008, 78-92; Novara - Luparini 2016, 72-75.

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in vari campi dell’attività scientifica e intellettuale antica, soprattutto in senso speculativo. Le fonti suggeriscono che nella Ravenna teodoriciana sono argomenti d’interesse agrimensura, architettura, aritmetica, geografia, geometria, gnomonica, grammatica, matematica, medicina, musica, storiografia (soprattutto annalistica e cronachistica), e la conoscenza del greco non è ritenuta cosa straordinaria 6: tutto questo viene coltivato nell’applicazione, ma anche attraverso la riproduzione e trasmissione di saperi e, naturalmente, testi. Quest’attenzione è indirettamente evidente nella distinzione che il re ostrogoto ha idealmente mantenuto tra gli ambiti destinati ai Romani rispetto a quelli dei Goti, come emerge da alcuni passaggi delle Variae di Cassiodoro: considerando la tradizione dei nuovi venuti e la posizione di potere assunta con le vittorie belliche, per i conquistatori (o almeno per l’élite) si pensa ad un’educazione di tipo marziale nei gymnasia, o scholae martiae 7, lasciando ai Romani i gymnasia litterarum e forensis 8, le attività di studio e speculazione, tra cui quelle utili alla gestione amministrativa dello stato. Spia e conseguenze di questo atteggiamento risaltano nella vicenda dell’educazione di Atalarico tramandataci da Procopio: Amalasunta ha scelto per il giovane figlio e re un’educazione mista, affidata a γραμματιστοί, insegnanti elementari di lettere, e a tre anziani goti che devono garantire l’insegnamento delle tradizioni; per la nobiltà guerriera era invece preferibile una maggiore educazione alla pratica militare e di comando, magari proprio nelle strutture del palatium 9. Aldilà delle elaborazioni procopiane, si può sottolineare 6 Assorati 2011, 124-129; Savigni 2017, 17 e n. 25; Marconi 2019, 117-118 sulla diffusione del greco negli ambienti aristocratici dell’Italia settentrionale, Restani 1997, 59-67 sulla conoscenza musicale, inevitabilmente legata a quella della cultura greca, nella Ravenna teodoriciana. 7 Cass. var. 5, 23. Pilara 2005, 433-436 e Cardini 20172, 101-102, 114-117 e 122 sull’idea teodoriciana di un soggetto politico romano e germanico unico, con nette distinzioni iniziali ma con elementi di fusione in prospettiva come, forse, quelli suggeriti in Cass. var. 9, 23 nell’esaltazione della famiglia senatoriale di Fl. Decius Paulinus, o in var. 8, 21 nella sottolineatura che i figli del patricius Cyprianus imparano l’arte della guerra, come il padre, e con essa la lingua gotica; nell’altro senso Lozovsky 2016, 322 richiama i nomi dei phylosophi Gothorum Attanaridus et Eldevaldus atque Marcomirus citati nella Ravennatis Anonymi Cosmographia (4, 13) e non altrimenti noti, ma considerati come geografi della corte teodoriciana. Inoltre Loschiavo 2017 su atti fiscali come prospettiva, stavolta fallimentare, di integrazione tra Goti e Romani dopo le iniziali differenziazioni. Panoramica sui caratteri di distinzione e integrazione effettivi nell’Italia ostrogota in Swain 2016, 215-220. 8 Cass. var. 8.13 e 19 rivolte a nuovi quaestores. Sull’attenzione di Teodorico all’istruzione Di Pinto 2013, 205-209. 9 Proc. bell. 5, 2, 6-7 e 12, con la sottolineatura, probabilmente esagerata, che Teodorico (cf. Martindale 1980, 175-176) non aveva mai permesso che un Goto frequentasse un maestro elementare; Kooper 2016, 300-301 sulla vicenda e passim su Amalasunta

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che la scelta delle modalità di preparazione del figlio al regno da parte di Amalasunta è dettata dall’esperienza di Teodorico a Costantinopoli ma anche dalla propria: ancora Cassiodoro nelle Variae loda la regina in quanto Atticae facundiae claritate diserta est, Romani eloquii pompa resplendet, nativi sermonis ubertate gloriatur, ovvero la esalta perché istruita nella retorica in ben tre lingue ad un livello più alto che quello elementare 10. Nell’attenzione all’istruzione superiore della corte ostrogota sono centrali le caratteristiche di Severino Boezio e Cassiodoro, entrambi protagonisti nella Ravenna teodoriciana 11. Del secondo sono le Variae, che rappresentano uno specchio, diretto ed indiretto, delle principali necessità di cultura intellettuale nella sede della corte regia: l’attenzione alla cura della ‘cosa pubblica’ e all’organizzazione burocratica che caratterizzano lo stato ostrogoto nei piani di Teodorico richiamano la necessità di una buona conoscenza giuridica e grammaticale. Infatti, questi principi si ritrovano non solo nelle Variae, ma anche nelle altre opere di Cassiodoro del periodo ravennate: la continuità con lo stato romano, e soprattutto con la civilitas, è resa concreta nella Chronica, nella perduta Historia Gothorum (in parte conoscibile dall’utilizzo fattone da Giordane) e nell’Ordo generis Cassiodororum. Queste opere coprono tutta la storia umana e valorizzano il presente e le vicende più personali dell’autore: così la sua famiglia e gli Ostrogoti diventano parte degli eventi e dei personaggi più importanti, quelli relativi a Roma e alla sua espansione inclusiva e civilizzatrice, inseriti in una visione ormai profondamente cristianizzata 12. L’inin Procopio. Sull’insegnamento elementare Marrou 19656, 355-360; sull’importanza del grammaticus nell’istruzione e nella cultura del fanciullo Giomaro 2011, 166. 10 Cass. var. 11, 1, 6 su cui Lozovsky 2016, 321-322. Marconi 2012/13, 24-30 con esempi di presenza di donne nell’istruzione nella tarda antichità, svolta però in domus (che qui è, comunque, il palatium). 11 Cavallo 1991, 93-94. Boezio e Cassiodoro sono stati a Ravenna come magistri officiorum rispettivamente nel 522-523 e nel 523-527: il secondo anche come quaestor negli anni 507-511 e praefectus praetorio tra 533 e 537 forse non continuativamente. Su Boezio cf. Marenbon 2009. Su Cassiodoro in sintesi Cardini 20172, 71-98, 109-118 sul ruolo nel progetto teodoriciano (su cui anche Lozovsky 2016, 322-324), 139-149, 159-165, soprattutto 90-91 sulle Variae su cui anche Lozovsky 2016, 323-324 e Pilara 2005, 451 e n. 48 con bibliografia selezionata sugli aspetti politici, il tutto in attesa del completamento dell’edizione complessiva avviata nel 2014. Attraverso Cassiodoro, i re spesso esaltano la preparazione scolastica dei loro funzionari come per esempio in var. 1, 12, 2 (i litterati dogmatis studia del magister officiorum Eugenito); 2, 15, 4 (i litterarum studia del comes domesticorum Venanzio, di famiglia senatoria); 5, 3, 1 (i bonarum artium studia del questore Onorato); 8, 18, 3 (la litterata dignitas del quaestor Fedele). 12 Heydemann 2016, 26-29; Cardini 20172, 85-90 e 109-110; Marconi 2012/13, 1718 sull’importanza della civilitas di Teodorico negli elogi, e nelle speranze, di Cassiodoro

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teresse per il diritto è invece più sfuggente, in quanto non sono sopravvissuti testi che illustrino una riflessione sull’argomento a parte l’utilizzo del diritto nelle stesse Variae: come dato certo c’è che Ravenna è stato un centro di copiatura e diffusione del Codex Theodosianus 13. Accanto a Cassiodoro avrà avuto un ruolo anche Boezio nei suoi anni ravennati, soprattutto per la componente greca della cultura teodoriciana, come si può intuire da Variae 1, 45, 3-4: in essa è lo stesso Teodorico che plaude la sapienza greca di Boezio e la sua capacità di congiungerla con la lingua latina, perché permette una maggiore comprensione di autori e temi interessanti per lui come per la corte, ovvero Pitagora musicus, Tolomeo astrologus, Nicomaco arithmeticus, Euclide geometricus, Platone theologus, Aristotele logicus e Archimede mechanicus 14. La vicinanza di interessi suggerisce la collaborazione di entrambi o, più probabilmente, l’influenza culturale di Boezio su Cassiodoro 15. Già da questi elementi si può dedurre che nel periodo ostrogoto, più che nei precedenti, a Ravenna come nelle altre città più importanti della penisola, in controtendenza con la situazione generale 16, sono presenti ed Ennodio; Lozovsky 2016, 323, 325 sull’opera dei due autori di legittimazione degli Amali come successori degli imperatori; Girotti 2009, 391-408 sul rapporto tra Cassiodoro e Giordane nei Getica; Klassen 2010 sulla Chronica e i suoi risvolti storiografici. In generale sulla storiografia ‘teodoriciana’: Croke 2003, 352-375, 387-388; Cosentino 2008, 335-337; Zecchini 2016, 232-235 con ancora sottolineatura dell’ideale della civilitas. 13 Liebs 2016, 3 e 4. 14 Moorehead 2009, 22-30 su grecità e filosofia di Boezio; Riché 19993, 15-16 sull’importanza culturale. 15 Cf. Cass. var. 2, 40, sul loro rapporto, sul quale cf. Stahl 1962, 261-265, 271-279; De Marini Avonzo 2007, 37-38; Moorhead 2009, 15-16, 29. 16 Cass. var. 9, 21, 5 cita la schola liberalium di Roma su cui Marconi 2012/13, 4143 e 46-47 sulla crisi generale delle strutture educative nell’Italia del V-VI secolo. Rosso 2018, 47-48 cita i centri principali in Roma, Ravenna, Milano e Pavia. Panoramica sulle scuole di diritto nella tarda antichità in Giomaro 2011, 13-34 (soprattutto Roma, Costantinopoli, Berytus) e Dareggi 2007 (Berytus – Sidone e Costantinopoli). Altri esempi più specifici in: Marrou 19656, 383 (Berytus), 392 (Roma, Milano, Napoli), 398 (Roma e Atene), 403-404 (Costantinopoli); Riché 19993, 15 (Roma e Milano); Di Paola 2007 e De Marini Avonzo 2007, 35-38 (Roma); Di Pinto 2013, 185-188 (Antiochia di Libanio), 206-209 (Roma nel VI sec. come meta di studi); Marconi 2012/13, 5 e 30-33 (Roma), 33-40 (Milano di Ennodio); Markopoulos 2013, 31-36 (Antiochia di Libanio e Costantinopoli da Temistio a Giustiniano); Pellizzari 2018 (Antiochia di Libanio); Marconi 2019, 97-125 (Milano, Roma, Costantinopoli); Chiaradonna 2019 (Pergamo e spunti sull’insegnamento della filosofia nella tarda antichità). Panoramica sulla pluralità dei centri di formazione (con particolare attenzione a Roma) e sulla relativa e normale mobilità studentesca in tutto il mondo romano tardoantico in Cecconi 2007; panoramica sulle vicende delle scuole di istruzione superiore di Costantinopoli e dei principali centri della cultura greca tra IV e VI secolo in Markopoulos 2013, 29-36, con le importanti sottolineature che la maggior parte di questi centri erano one-man schools, cioè legati ad

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strutture per accogliere e trasmettere il sapere intellettuale, ovvero biblioteche, scriptoria e forse un’organizzazione di istruzione superiore, come sarà del resto a Vivarium 17. Di centri scrittorii le fonti sono avare di informazioni, ma la loro esistenza è suggerita almeno dalle opere prodotte in loco, già dal V secolo 18: la produzione libraria doveva essere di alto livello viste le testimonianze antiche e le opere sopravvissute 19. Il termine schola è presente in diverse occorrenze nelle opere di Cassiodoro e sempre nell’accezione scolastica: tra gli altri, sono importati i riferimenti alla schola liberalium di Roma, dove erano impiegati a spese del senato grammatici, oratores e iuris expositores, e alle scholae philosophicae di Atene 20. Si può ipotizzare che lo stesso Cassiodoro possa essersi curato dell’organizzazione di simili strutture a Ravenna secondo modalità che, dopo lo sfortunato tentativo romano, lo hanno portato ad organizzare gli studi a Vivarium come indicato nelle Institutiones divinarum et saecularium litterarum 21. Naturalmente, la finalità delle due esperienze sarà una figura di riferimento, la cui morte o trasferimento poteva far tramontare la scuola a prescindere dalla sua persistenza (32 dall’esempio di Berytus, 36), e che, a prescindere da riconoscimenti e sussidi, l’insegnamento rimase sostanzialmente sempre un’iniziativa privata e non una istituzione statale in senso moderno (31, 34, 38-39). 17 Fontaine 2008, 747-748; Cardini 20172, 139-140; Cavallo 2014, 208 accenna alla probabile biblioteca di Cassiodoro a Ravenna da inst. 1, 31, 2; 2, 2, 10 e 2, 3, 18; Cavallo 1991, 84, 86 sullo scirptorium di Viliaric e l’ipotesi della sua collocazione a Ravenna. 18 Una struttura bibliotecaria è ipotizzata nelle parti murarie più antiche di S. Giovanni Evangelista da Cantino Wataghin 2010, 55-58 ripresa da Cavallo 2014, 220 e passim sulle caratteristiche che dovevano avere simili luoghi, per esempio l’uso di armaria lignei. Indicazioni su consistenze bibliotecarie si possono ipotizzare da Agnello storico e dalla Ravennatis Anonymi Cosmographia, ma la loro localizzazione rimane incerta. Sulla necessità di biblioteche e scriptoria Rosso 2018, 65, Markopoulos 2013, 34 su Costantinopoli. 19 Savigni 2017, 22, e ampia analisi in Cavallo 1991, 90-110: è da rimarcare come i disiecta membra della produzione ravennate, quindi anche sottoscrizioni e codici non sempre completi, siano legati ad alcuni dei principali temi d’interesse della corte teodoriciana, ovvero la storia, la geografia e la medicina; ne è una significativa eccezione culturale il In somnium Scipionis di Macrobio copiato ed emendato a Ravenna da Macrobius Plotinus Eudoxius, probabilmente nipote dell’autore, e da Q. Aurelius Memmius Symmachus, suocero di Boezio, caput senatus a Roma e vittima di Teodorico nel 525 (Martindale 1980, 413, 1044-1046; Restani 1997, 61-62; Lozovsky 2016, 327, 330, 331-332). Munkhammar 2011 sulla produzione in gotico, tutta di tipo religioso e di cui rimane il prezioso Codex Argenteus. Cf. Rosso 2018, 65-66 sulla produzione libraria tardoantica. 20 Cass. var. 1, 45, 3 (Atene) e 9, 21, 5 (Roma) su cui Di Pinto 2013, 205 n. 121 e Di Paola 2007, 96-100 su Roma. Giomaro 2011, 157-176 e Di Pinto 2013, passim sul rapporto tra scuole e stato tra II e VI secolo; Marconi 2019, 121-123 ipotizza che il modello finanziato dallo stato sia stato applicato anche nella Milano del VI secolo. 21 Cf. Stahl 1962, 270-278; Riché 19993, 31-32; Fontaine 2008, 747-748; Marconi 2012/13, 43-46; Cavallo 2014, 214-216; Cardini 20172, 94-97.

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stata diversa: non formare monaci cristiani istruiti, ma l’élite palatina in grado di supportare l’opera di re Teodorico, come lo stesso Cassiodoro e Boezio facevano negli officia del palatium 22. Questo legame può spiegare come mai il Senator bruzzese non citi mai una schola ravennate: se l’istruzione superiore è legata al palatium e alle sue necessità, può trattarsi non di un istituto a sé, quindi di una schola, ma di un percorso di formazione riconosciuto come parte della struttura degli officia e quindi sostenuto dal re 23. L’ipotesi ha un riscontro nelle testimonianze di studenti nella Ravenna ostrogota, mentre significativamente mancano per qualsiasi altro periodo. Atalarico ed Amalasunta sono casi particolari in quanto membri della famiglia reale, ma la grammatica e la rhetorica che caratterizzano la loro educazione sono le basi della scuola romana. Così, è significativa la vicenda di Venanzio Fortunato per la sua importanza nella trasmissione della cultura classica nella Gallia ormai dominata dai Franchi: è Paolo Diacono a due secoli di distanza a sottolineare le eccellenze del poeta veneto maturate dopo l’esperienza scolastica, vissuta tra i circa 20 e 25  anni, scrivendo Ravennae nutritus et doctus in arte gramatica sive rhetorica seu etiam metrica clarissimus extitit 24. Ulteriore testimonianza è data da Aratore: egli, appartenente alla nobiltà ligure, studia retorica e legge a Milano sotto Partenio, nipote di Ennodio; il vescovo di Pavia poi lo spinge, assieme al suo maestro, a Ravenna forse attorno ai 20 anni: l’obiettivo, riuscito, è quello di approfondire gli studi e, grazie all’appoggio di Cassiodoro, entrare nella corte di Teodorico, prima di trasferirsi a Roma dove diverrà diacono e poeta cristiano 25. 22 Pilara 2005, 435-440 sui piani politico sociali di Teodorico per l’Italia, e Marconi 2012/13, 35-36 su Ennodio che professa queste stesse necessità con le basi della schola liberalium romana. Sulle finalità dell’insegnamento cf. n. 39. 23 Sulle scuole di diritto in età imperiale e tardoantica diversi contributi specifici in Crifò - Giglio 2007; struttura e funzionamento in Giomaro 2011; Markopoulos 2013, 32 su Antiochia come esemplare per l’Oriente; note sul dibattitto sulla legislazione e le sovvenzioni in Marconi 2019, 121-123; Cecconi 2007, 138 e 140 sulla pluralità dei centri aldilà del loro statuto prima di Giustiniano. 24 Paul. Diac. hist. lang. 2, 13 ripreso da Regin. chron. 548 a sottolinearne l’importanza in area franca. Di Brazzano 2001, 15-38 sul poeta, partic. 16-18 sulla permanenza a Ravenna e la sua importanza, e sulla figura di Felice, compagno di studi poi vescovo di Treviso, citato in Ven. Fort. v. Mart. 665-666: nato intorno al 535/540, è stato a Ravenna per alcuni anni prima del 565. Cavallo 1991, 95-96 sull’istruzione a Ravenna con la sottolineatura delle forti presenze virgiliane. 25 Arator, ep. ad Parthenium 33-42 sull’istruzione avuta da Partenio, protetto di Ennodio come sottolinea Marconi 2012/13, 16-17 e cf. 13-14 sul valore della retorica per lo stesso Ennodio; Lozovsky 2016, 338-339 sul suo atteggiamento rispetto alla cultura classica; Marconi 2019, 97-99 e 116 dove si suggerisce che sia arrivato a Ravenna

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La carriera ecclesiastica dei due ex studenti suggerisce che anche i religiosi ravennati potevano avere la medesima formazione scolastica, fatto che ben si inserisce nel progetto teodoriciano e nelle esigenze ecclesiastiche del tempo 26. Ovvero, è possibile che anche i futuri membri del clero, niceno ortodosso e ariano, abbiano frequentato i corsi di base cassiodorei: la sua lamentela, posta nelle prime parole delle Institutiones, che gli studia saecularia coinvolgono multa pars hominum mentre le Scripturae sono poco conosciute soprattutto dai magistri publici 27, riflette il dato che i modelli di riferimento per la retorica, da cui partiva l’insegnamento del diritto, e per la grammatica rimanevano quelli basilari romani 28; questo può corrispondere anche alla formazione ravennate nel senso che lo studio delle Scripturae sarà stato certamente presente nei corsi, ma non sarà stato quello più importante e sarà stato, forse, pure molto semplificato rispetto ai dibattiti teologici del tempo. A partire dalla documentazione, pur non potendo parlare di scuole cristiane 29 si può però affermare che nei rispettivi episcopi si sia approfondita la Bibbia 30, ma in già per il lavoro a corte. Cass. var. 8, 12 sulla sua presenza a corte. Aratore può essere nato attorno al 495 ed essere arrivato a Ravenna tra 510 e 515. 26 Marconi 2012/13, 21-30 sull’emergere della necessità dell’istruzione retorica dei religiosi nella vicenda ennodiana con le soluzioni di Roma e Milano. 27 Cass. inst. praef. 28 Riché 19993, 25, 29-30; cf. Marrou 19656, 367-368 sulla centralità di Virgilio e Cicerone come modelli, mentre Lozovsky 2016, 317 cita come autori di scuola nel VI  secolo Virgilio, Silio Italico Terenzio e Ovidio, e 317-319 sulla centralità della retorica come base dell’istruzione anche superiore per Cassiodoro ed Ennodio; Marconi 2012/13, 19-20 sui modelli della Paraenesis, soprattutto Marziano Capella. De Salvo 2007; Langer 2007; Martini 2007 e Di Paola 2007, 88-91, 93 sul legame tra insegnamento del diritto e retorica in età romana, soprattutto sul momento fondamentale del periodo centrale del IV secolo quando funzionari e avvocati sono sempre più costretti conoscere la legge da esperti, e la conseguente riluttante posizione di Libanio; Giomaro 2011, 166-168 sul valore della retorica associato alla filosofia nella formazione culturale e morale dello scolaro; Di Pinto 2013, 51-52 e 79-85 sulle disposizioni di Traiano e Marco Aurelio che associano la protezione statale dell’insegnamento alla valorizzazione del legame tra retorica e filosofia per una migliore qualità degli insegnanti. 29 Cf. Marrou 19656, 428-429; Marconi 2012/13, 46 sulla definizione di schola christiana. 30 Per Stahl 1962, 270 con Cassiodoro si diffonde il principio per cui la Bibbia è il fondamento dell’educazione, ma il suo debito è evidente soprattutto con Agostino: sulla cui importanza e incisività sul rapporto con la Bibbia, sull’istruzione scolastica in senso cristiano, sulla ‘conversione’ della retorica e sul rapporto con la tradizione classica, si vedano i contributi di Moretti, Devoti e Vandone in Gasti - Neri 2009, 19-77, 177-182. Sull’educazione cristiana fino al VII secolo Marrou 19656, 411-438; sui cambiamenti educativi tra IV e VI secolo con l’emergere del cristianesimo e i problemi posti Marconi 2012/13, 3-5 e a 12 l’enunciazione dei principi educativi cristiani di Ennodio; sul rapporto tra cultura classica ed educazione cristiana, differente a seconda di luoghi e protagonisti, tra VI e VII secolo: Riché 19993, 27-41; Fontaine 2008, 746-757; Neri 2007

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modo differente a seconda dalla traduzione di riferimento, gotica per gli ariani, latina per i cattolici: le ipotesi sui mosaici superiori della navata di S. Apollinare Nuovo, con scende della vita di Gesù, e su quelli del cosiddetto Battistero degli Ariani 31 e la forte attività culturale degli arcivescovi del VI secolo 32 suggeriscono anche una forte vivacità di dibattito e studio nei rispettivi ambiti. La possibilità di ‘proseguire gli studi’ non è limitata agli studi teologici: l’agrimensura è una disciplina che nella Ravenna ostrogota gode di particolare attenzione e preparazione, ancora per esigenze dello stato 33. Importante è la medicina: l’attività e soprattutto i testi dei medici Antimo, Elpidio, Agnello yatrosophista col suo allievo Simplicius, Leonzio e Gaudioso arciater, la loro importante posizione a corte, dove si registra la presenza di un comes archiatrorum, e la copia locale di testi di medicina in greco e in traduzione latina documentano la pratica dei metodi galenici e si legano all’attestazione di una schola greca, che, aldilà della forma istituzionale, doveva essere basata sui principi della scuola medica alessandrina tardoantica, seguirne il metodo d’insegnamento, e che può essere esistita fino almeno alla fine del VI secolo se non alla prima metà del successivo 34. con l’esempio di Giovanni Crisostomo, precoce ma già con gli elementi che poi saranno di Agostino, Cassiodoro, Venanzio Fortunato, etc.; Lozovsky 2016, 337-342 sull’Italia del VI secolo, partic. 338 su Ennodio e 340-342 su Cassiodoro dalle Institutiones. 31 Penni Iacco 2011 sulla lettura in senso ariano dei mosaici e sull’arianesimo degli Ostrogoti, su cui anche Luiselli 2005. Pilara 2005, 443-444 e 452-456 sulla lotta di Costantinopoli all’arianesimo come causa scatenante della crisi finale tra Teodorico e i romani. 32 Panoramica in Savigni 2017, 23. 33 Del Lungo 2004, 17-72. 34 Cavarra 1993; Montero Caselle 2005; Pasi 2011, 43-57. Su Antimo, membro della cerchia teodoriciana, Paolucci 2002: il suo arrivo da Costantinopoli come esiliato potrebbe essere all’origine della schola greca; su Elpidio, diacono e medico, vicino anche a Teodorico, Martindale 1980, 537; su Agnello e Simplicius, redattore dell’opera del maestro (154, 13-14: ex voce Agnello yatrosophista ego Simplicius Deo iuvante legi et scripsit in Ravenna feliciter), Davis - Westerink 1981 e Restani 1997, 64-67: il manoscritto che conserva l’opera, Ambrosianus G 108 inf., copiato nel IX secolo, è forse un’antologia di studio per scuola medica considerata di origine ravennate (Restani 1997, 62-66; scheda a https://manus.iccu.sbn.it//opac_SchedaScheda.php?ID=37364); Leonzio, medicus ab schola greca, e padre di Eugenius, palatinus sacrarum largitionum, è citato nel 572 d.C. in Tjäder 1982, nr. 35, su cui Pilsworth 2009, 375-377; la figura del comes archiatrorum reale è regolata in Cass. var. 6, 19, su cui Lozovsky 2016, 319-320 anche sull’importanza della medicina per il re e per Cassiodoro. Alla prima metà del VII secolo è datato dagli editori ChLA 45 nr. 1349, un documento di vendita rogato a Ravenna che presenta tra i testimoni Gaudiosus vir clarissimus arciater, non altrimenti noto: è plausibile che un corpo medico palatino sia rimasto a servizio dell’esarco, almeno per un certo periodo.

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Pertanto, tenendo conto delle mutate condizioni che Cassiodoro visse a Ravenna e a Vivarium, si può notare come la struttura delle Institutiones, esplicita nei tituli, se invertita si avvicini ai programmi noti per gli studenti citati. Si può pertanto ipotizzare che un giovane già in età adolescenziale, di buona famiglia e con una istruzione di base 35, nella prima metà del VI secolo poteva raggiungere Ravenna per frequentare corsi di istruzione superiore (forse qui non distinta dalla secondaria 36) con delle lezioni fatte di commenti ed esercizi su testi ‘classici’ (Cicerone e Virgilio come base, ma anche Terenzio e Silio Italico e grammatici come Velio Longo e Diomede), giuridici (probabilmente elementi dal Codex Theodosianus e dai commentari maggiori, ovvero quelli di Gaio, Ulpiano, Paolo e Papiniano) e, secondariamente, cristiani (le Sacre Scritture, forse Vulgata e LXX, e opere esegetiche di autori come Ambrogio e Agostino) in latino e in greco per acquisire una piena cultura umanistica 37. Nel corso di 4 o 5 anni, seguendo pochi maestri, sperabilmente preparati 38, e probabilmente con pochi compagni di corso, lo studente avrà così fatto proprie grammatica, retorica, dialettica (inst. 2, 1-3) ed elementi di diritto, assieme a metrica, che comprendeva il canto melodico secondo modalità che sono probabilmente alla base del canto liturgico cristiano (cf. inst. 2, 5-6: de musica e de geometria, cf. sulla musica anche var. 2, 40), ortografia (inst. 1, 30) e storiografia (cf. inst. 1, 17) in modo che, da giovani cristiani, ci si possa preparare alla carriera burocratica o forense, magari

35 Marrou 19656, 353-354 su gradi ed età dell’istruzione romana; Lozovsky 2016, 317 sulla persistenza delle modalità di istruzione nell’Italia ostrogota. 36 Cf. Marrou 19656, 363-373 che illustra l’istruzione secondaria come quella del grammaticus mentre a 375-383 l’istruzione superiore è soprattutto affidata a retori e giuristi. 37 Marconi 2012/13, 17 su Ennodio che definisce Romanitas dialettica e diritto mentre Christianitas i valori morali cristiani da assumere con la Bibbia. Marrou 19656, 365-373, 377-378, 381-383 e Riché 19993, 25-26 su metodi e programmi, su cui utile cf. col greco in Libanio da Pellizzari 2018, 306 sui programmi, forse in parte validi anche in Occidente, e 306-313 sul metodo; Rosso 2018, 49 sull’istruzione di base nell’Italia del VI secolo e 65 sulla modalità di insegnamento medievale; Giomaro 2011, 35-36 e 120 sui commentari giuridici maggiori stabiliti già forse dal III secolo e cf. 65-120 sulla struttura e i contenuti dei quattro anni di studio del diritto nella tarda antichità, da cui si può ipotizzare che, in mancanza di una schola strutturata, a Ravenna il diritto fosse insegnato e studiato nei suoi lineamenti essenziali alle necessità amministrative. La presenza abituale del greco per i letterati e la sua progressiva perdita sono evidenti per Cassiodoro da diversi passaggi come per esempio inst. 1, 23; 14, 4 e 17, 1. 38 Cf. Nocchi 2019 sulle critiche ai maestri di retorica nei testi antichi, anche in ossequio alle preoccupazioni imperiali sul valore dei docenti, su cui, per il IV secolo, Di Pinto 2013, 203-205.

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nel palatium 39. Lo studente avrà poi avuto modo di approfondire o di specializzarsi in altri campi, in scholae specializzate e/o nei luoghi della pratica, soprattutto per medicina (inst. 1, 31) e teologia, senza mai tralasciare del tutto, anche nei gradi precedenti, l’aritmetica e l’astronomia, presentate nella seconda parte del secondo libro delle Institutiones (inst. 2, 4 e 7) 40. Le vicende biografiche di Venanzio Fortunato ed Aratore, oltreché dello stesso Cassiodoro, confermano l’ormai basilare ruolo della cultura cristiana, che nella redazione delle Institutiones diventa preponderante; inoltre suggeriscono pure la vivacità artistica di questi ambienti, valutabile dalle composizioni poetiche che avranno risentito e beneficiato della permanenza ravennate. La partenza di questi personaggi entro i primi anni della guerra gotica può essere assunta come un punto finale della principale stagione intellettuale della Ravenna tardoantica e alto medievale, ma forse non come la fine dell’istruzione superiore 41. Una contrazione delle conoscenze e degli studi dovuti alla guerra e alle sue conseguenze per tutta la penisola si può scorgere nella scomparsa della schola greca di medicina, ma la base dell’insegnamento grammaticale e retorico rimane attiva. La Ravenna esarcale rappresenterà un punto fermo del potere imperiale bizantino in Italia almeno fino agli inizi dell’VIII secolo e così si spiega la sua relativa stabilità e floridità rispetto ad altre città, passate o meno sotto il controllo longobardo 42. Cf. n. 22. Su corsi e finalità Marrou 19656, 407-409. Cf. Riché 19993, 25-26 dove grammatica, poesia e rhetorica sono la base dell’insegnamento laico, così com’è nella Paraenesis di Ennodio in Marconi 2012/13, 8 e 12-13 sui giovani aristocratici cristiani destinatari dell’opera. Sulla normale finalità di carriera amministrativa della formazione superiore, mutata solo con le scuole monastiche alto medievali: Di Paola 2007, 87-88 con nn. 12 e 13, 93 (in modo problematico); Cecconi 2007, 138; Giomaro 2011, 162; Markopoulos 2013, 30, 34; Di Pinto 2013, 183; Marconi 2019, 121 e 117 su Ennod. op. 9 (ep. 1.5) dove grammatica, retorica, latina e greca, ed elementi di diritto sono le basi dell’istruzione di un futuro console e funzionario del regno: esempio precoce in Neri 2007, 583-584 dove Giovanni Crisostomo ad Antiochia frequenta lezioni di retorica e filosofia in previsione di un impiego nella cancelleria imperiale prima di convertirsi ad una vita religiosa cristiana. Restani 1997, 47-48, 59 sulla musica in Cassiodoro e Boezio e la sua importanza anche politica nella Ravenna teodoriciana (per esempio var. 1, 45 è una richiesta reale a Boezio di realizzare un horologium idraulico-solare da inviare come dono al re burgundo Gundobado). 40 Restani 1997, 67 sull’insegnamento superiore della medicina, anche a Ravenna, come uno degli apici di un percorso che richiedeva geometria, astronomia, musica, filosofia, grammatica e retorica. Cf. Marrou 19656, 390 sulla carriera scolastica di Virgilio: anche in questo si può assumere a modello! 41 Cavallo 1991, 95. Cf. Fontaine 2008, 738-742, 745-759 con panoramica della situazione culturale europea tra VI e VII secolo in relazione all’istruzione scolastica. 42 Pilara 2006/09, passim e soprattutto 142 dove puntualizza il ruolo preminente di Ravenna nel piano giustinianeo, politico e strategico, come emerge dalla Pragmatica 39

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Relativamente all’istruzione superiore, la principale testimonianza di permanenza è fornita dallo storico Agnello a proposito del proprio avo Giovannicio. Egli, vissuto a cavallo tra VII e VIII secolo, risalta nel quadro agnelliano come un eccezionale intellettuale, uno dei pochissimi in grado di padroneggiare greco e latino nella Ravenna esarcale, e per questo apprezzato ed impiegato dagli arcivescovi e poi dagli esarchi. Le sue abilità, esaltate nel motto facundus poeta, indicano un’istruzione basata ancora su grammatica, retorica (legata ad elementi basilari di diritto) e metrica, con solide basi sia latine che greche e soprattutto cristiane: ne risulta che, mantenendo sempre la condizione laica, è in grado di redigere componimenti liturgici sia in latino che greco nonché opere esegetiche scritturistiche, e di leggere e tradurre documenti ufficiali provenienti da Costantinopoli nella sua prima visita alla corte esarcale 43. La conoscenza del greco ad un buon livello, tanto da potersi rapportare con le più alte autorità imperiali, accomuna Giovannicio a diversi prelati dal VI agli inizi dell’VIII secolo: questo suggerisce che dopo la fine del regno ostrogoto, probabilmente già all’indomani della guerra gotica e all’ingresso nell’orbita bizantina, l’istruzione superiore a Ravenna sia stata assorbita dalla curia arcivescovile che l’ha proseguita su una linea molto vicina a quella cassiodorea. Come per il periodo ostrogoto, non ci sono fonti che citino una scuola, in questo caso episcopale, ma la presenza e la necessità di notarii, lectores, cantores, scriniarii, etc., rendono possibile l’esistenza di strutture e pratiche di formazione 44. Anche le due più ampie e significative opere dell’alto medioevo ravennate avallano l’ipotesi della continuità dell’istruzione superiore a Ravenna secondo gli schemi cassiodorei ma in seno all’ambiente arcivescovile. La Ravennatis Anonymi Cosmographia si presenta come il prodotto di un clericus passato per l’istruzione superiore attorno alla metà del VII secolo: Sanctio. Sull’Italia bizantina Cosentino 2008; sul governo esarcale Ravegnani 2011; sul ruolo politico della chiesa di Ravenna Ortenberg West-Harling 2016. 43 Agn. 120, e con 125, 137-138, 140, 141 (dove la definizione citata), 146-148 sono tutte le informazioni possedute su questo personaggio, su cui Savigni 2017, 26-27 e 20 sul greco nel VII secolo. Cf. Riché 19993, 222-284 e 297-306 su contenuti e testi dell’insegnamento alto medievale: tra i testi, sin dalle elementari, oltre alla Bibbia ce ne sono ancora diversi dalla tarda antichità come i Disticha Catonis, le favole di Avieno, le opere di Cicerone, Boezio e Marziano Capella. 44 Cf. Riché 19993, 190-191 sulle tipologie delle scuole medievali, partic. su quella episcopale, 237-245 su lectores, cantores e notarii: a Ravenna i notarii sono estensori dei documenti arcivescovili, mentre lectores, cantores e scriniarii fanno parte della struttura ecclesiastica come da Agn. 60, 121, 146 e 152, Benericetti 1999-2010, nrr. 124 e 181. La conoscenza del greco da parte di alti ecclesiastici ravennati si desume da Agn. 115, 131 e 143.

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nonostante il basso livello linguistico ed il tenore compilatorio, la presenza di grecismi, l’interesse geografico e le fonti utilizzate e citate, per lo più autori ostrogoti altrimenti ignoti e forse anche testi agrimensori, confermano lo studio di e in biblioteche ravennati e la formazione in esse 45. A metà del IX secolo, l’autore del carme premesso al Liber Pontificalis ecclesiae Ravennatis si definisce scolasticus: si tratta probabilmente di un confratello dell’autore, lo storico Agnello 46, a cui il termine si può ugualmente applicare. Infatti anche in questo testo, il più importante dell’alto medioevo ravennate, si può riscontrare la base scolastica fatta di testi scritturistici e classici, con Virgilio come protagonista: nonostante volgarismi e cadute stilistiche, l’esito è una buona padronanza del latino scritto dell’amministrazione e della liturgia, come per il suo avo; e come per questo, si può ipotizzare un apprendimento presso un’istituzione ecclesiastica che poteva essere l’episcopio 47. Appare mutato il rapporto con la lingua greca, sicuramente per l’evoluzione politica ravennate: pur avendo una qualche nozione di greco, l’impero d’Oriente e i suoi rappresentanti nella storia cittadina sono poco presenti o hanno connotati negativi e distanti, così che anche la cultura greca non ha per Agnello lo stesso prestigio ed attrattiva, né la stessa importanza che aveva per il suo avo 48. Rimane aperto il dibattito sulla formazione dei tabelliones, se si possa definire scolastica, di studio, o solo pratica, imitativa: in un documento del VII secolo è citata una scola forensium che non può riferirsi ad un’istituzione ufficiale di insegnamento del diritto, ma probabilmente alla sede di un’associazione, come attestato in più casi nella documentazione ravennate per il termine scola 49. La prassi documentaria suggerisce una formazione di tipo pratico, ma le attestazioni di conoscenza della legislazione e le necessità arcivescovili sembrano indicare che ci possano essere Sulle fonti dell’Anonymus: Assorati 2011, 103-104 e n. 2; Savigni 2017, 25; sui geografi ostrogoti cf. n. 7. 46 Su Agnello Mauskopf Deliyannis 2006, aspetti specifici in Savigni 2017, 20-22, utile sintesi in Cosentino 2008, 341-342. 47 Savigni 2017, 21 con indecisione tra vescovado e il monastero di S. Maria delle Blacherne da cui però non si hanno altri indizi, 30-31 sui volgarismi. Donnini 1996 sulle presenze virgiliane. 48 Sulla conoscenza del greco nella Ravenna dell’VIII secolo, con diversa prospettiva, Savigni 2017, 22 e 25-27; nell’Occidente alto medievale Riché 19933, 92-96. 49 Giomaro 2011, 175 sulle scuole di Berytus e Costantinopoli come uniche riconosciute per l’insegnamento alto del diritto dal 533 d.C. La scola forensium è citata in ChLA 29 nr. 865; oltre a quella graeca succitata (su cui Pilsworth 2009, 375 per cui è soprattutto sede che istituzione), altre scolae sono citate in documenti del X secolo in: Benericetti 1999-2010, nrr. 48 (scola piscatorum); 77, 78 e 336 (scola negociatorum); 213, 248 e 276 (scola callegariorum). 45

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state strutture di formazione di base, una civica per i tabelliones, forse decaduta durante l’VIII secolo, e una ecclesiastica per i notarii già esistente nel VI secolo 50. A parte il problematico caso di Vilgardus, narrato da Rodolfo il Glabro, mancano possibili attestazioni di continuità dell’istruzione superiore nella Ravenna del IX e X secolo, nonostante l’importanza della città 51. Rimane così l’impressione di un progressivo spegnimento della cultura antica e, quindi, dell’istruzione superiore nella Ravenna alto medievale, non solo nella quantità di testimonianze, ma anche nella qualità: il carattere compilatorio della Cosmographia, ma già dello yatrosophista Agnello, l’orizzonte limitato dell’Agnello storico, l’inerte rapporto col diritto romano e col Corpus Iuris Civilis, attestano una lunga crisi anche di metodi e capacità critica 52. Quando, negli stessi anni di Rodolfo, attorno a Ravenna emergeranno la figura di Pier Damiani e i prodromi della scuola bolognese di diritto, questi saranno il segno di una cultura intellettuale e di un’educazione ormai mutate 53. 50 Il dibattito sull’insegnamento del diritto nell’alto medioevo in Italia è ad oggi concentrato sulla sua presenza e qualità a Roma, mentre Ravenna ne è esclusa: Grossi 2006, 62-63; Radding - Ciaralli 2007, 44, 45 sull’assenza di attestazioni nella documentazione e 73-78 contro lo studio del Corpus nella Ravenna del X-XI secolo; Corcoran 2016, 175-177 e 188-191 rimarca l’assenza di specialisti ed insegnanti di diritto e una conoscenza formulare delle leggi nel V-VI secolo come nei secoli successivi; Loschiavo 2014 menziona Ravenna solo per il famoso passaggio di Odofredo nel XIII secolo, senza dare ad esso alcun valore. La conoscenza e l’uso del Corpus sono invece documentati da: Nicolaj 2005, 765-767, 781, 789; Santoni 2011, 22-24; Tarozzi 2014, 83 e 84 (e 90 sulla conoscenza e la ‘creatività’ dei tabellioni ravennati); Rabotti 2010, 4, e 5-7 sull’ipotesi di una scuola di diritto; Novara - Luparini 2016, 176-177 sulla formazione di tabelliones e notarii. 51 L’importanza è attestata da Liut. Ant. 2, 48: Ravennatae sedis, secundus qui post Romanum archierean archipraesulatus habebatur. La problematica vicenda è riportata da Rud. Gl. hist. 2, 12, 23 su cui Gledhill, 2016, 327; Savigni 2017, 34: attorno alla metà del X secolo a Ravenna un certo Vilgardus era un così appassionato studioso dell’artis gramatice da essere ingannato da tre demones apparsigli con l’aspetto di Virgilio, Orazio e Giovenale ed essere diventato eretico e quindi scomunicato e condannato a morte; oltre ad essere altrimenti ignoto né associabile alla nobiltà locale, non è neppure chiaro se egli fosse originario di Ravenna o almeno qui istruito. Cf. sulla Ravenna del X secolo Carile 1992b, Novara - Luparini 2016, 140-165. 52 Stahl 1962, 283-284, 294, 331-345; Assorati 2011, 128-130; cf. Riché 19993, 2627 sulla fine della cultura intellettuale antica anche negli aspetti speculativi. Cavarra 1993, 350 e Pasi 2011, 46 sui limiti di Agnello archiater; Savigni 2017, 28-29 sulla visione localistica. 53 Gledhill 2016 e Novara - Luparini 2016, 167-169 su Pier Damiani e Ravenna; Riché 19993, 137-161 sull’importanza della cultura monastica medievale e 335-344 sulle ormai definitivamente mutate condizioni dell’XI secolo; Grossi 2006, 154-160 sugli elementi della c.d. riscoperta del Corpus nell’XI secolo e, di conseguenza, della sua quiescenza nella giurisprudenza alto medievale.

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Giovanni Assorati

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Cosentino 2008 Cosentino 2015

Crifò - Giglio 2007

Croke 2003

Dareggi 2007

Davis - Westerink 1981 Del Lungo 2004 De Marini Avonzo 2007

De Salvo 2007

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Giovanni Assorati

Lozovsky 2016 Luiselli 2005

Manzelli 2000 Marconi 2012/13 Marconi 2019

Marenbon 2009 Markopoulos 2013 Marrou 19656 Martindale 1980 Martini 2007

Mauskopf Deliyannis 2006 Mauskopf Deliyannis 2010 Montero Caselle 2005

Moorhead 2009 Munkhammar 2011

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La criminalità comune a Roma e nelle città dell’Occidente: la repressione del furto in età tardoantica Valerio Neri *

RIASSUNTO: Questo contributo riguarda la definizione di tipi specifici di furto urbano, in particolare nella città di Roma, sia in luoghi pubblici che in abitazioni private, insulae e domus, che viene effettuata in relazione alla loro repressione criminale da parte della giurisprudenza severiana. Sono soprattutto furti nei bagni pubblici di personaggi balnearii e furti di abitazioni con o senza furto con scasso da parte di derectarii e effractores. La sorveglianza e la repressione a Roma furono esercitate dal prefetto dei vigili di notte, dalle coorti urbane e poi dalle corporazioni durante il giorno. Il furto è stato considerato un peccato grave dalla chiesa, con la comprensione, tuttavia, sul livello umano e sociale della povertà come la causa principale del piccolo crimine. ABSTRACT: This contribution deals with the definition of specific types of urban theft, particularly in the city of Rome, both in public places and in private homes, insulae and domus, which is carried out in relation to their criminal repression by the Severian jurisprudence. They are especially thefts in public baths by fures balnearii and house thefts with or without burglary by derectarii and effractores. The surveillance and repression in Rome was exercised by the prefect of vigiles at night, by urban cohorts and then by corporates during the day. Theft was considered a serious sin by the church, with understanding, however, on the human and social level of poverty as the main cause of petty crime KEYWORDS: condanne penali; criminal convictions; criminalità urbana; furto; furto come peccato; police repression; repressione poliziesca; theft; theft as a sin; urban criminality.

I ladri sono avvertiti, soprattutto nelle città, come una presenza ben mimetizzata nel tessuto sociale, ma proprio per questo più inquietante, disposti in silenziosi agguati vedono senza essere visti, simili in questo, nella letteratura cristiana, per la instancabile tenacia degli assalti, al diavolo * Alma Mater Studiorum - Università di Bologna.

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Valerio Neri

stesso. Tra i pericoli che minacciano e rendono insicuro il possesso di ogni ricchezza mobile, qualunque siano le precauzioni che si assumono per proteggerla, sono i ladri, quelli domestici e quelli esterni. L’insistenza dei moralisti pagani e poi di quelli cristiani su questa insicurezza a sostegno della necessità ma anche dell’opportunità dell’elemosina che trasferisce, secondo i vangeli, i tesori in cieli dove nessun ladro può insidiarli, fa certamente leva su questa preoccupazione diffusa a tutti i livelli sociali. Le società ideali passate, come l’età dell’oro nella cultura pagana o il paradiso terrestre in quella cristiana o future come il paradiso sono talora immaginate come società senza ladri 1. Non si possono non richiamare, per testimoniare dell’allarme sociale che il furto sollevava nel mondo romano, le imprecazioni magiche contro i ladri contenute in molte tabellae defixionum 2. Nel diritto romano il furto, quando non comportasse esiti violenti, era considerato un delitto privato, che non aveva sanzioni penali ma veniva punito solo con un ammenda a favore del derubato del doppio del valore della refurtiva, se il ladro veniva colto in flagrante, del quadruplo, in caso contrario 3. Una svolta importante che individuava alcune tipologie di furto sottoposte ad una sanzione penale avviene in età severiana ed i giuristi di quella età, a partire da Ulpiano, forniscono preziose descrizioni delle modalità di questi furti e dei contesti nei quali avvenivano. È interessante invece, anche se non ne comprendiamo pienamente le ragioni, che la rapina non venga inclusa tra le categorie di furto penalmente perseguite, una situazione che perdura ancora alla fine del IV secolo, come emerge da una costituzione del 400: viene punita come il furto manifesto con un’ammenda del quadruplo, così com’era nella giurisprudenza classica, in quanto ovviamente il raptor non celava la sua azione furtiva, ma la compiva scopertamente. In questo contributo mi occuperò delle tipologie di furto urbano e della loro repressione, con particolare attenzione alla situazione romana. Una tipologia di furto urbano diffusa in tutto il mondo antico ma che viene perseguibile penalmente solo a partire dalla giurisprudenza di età severiana, agli inizi del III secolo, è il furto

1 Cf. Neri 1998, 329-334. Giovenale descrive l’inizio del regno di Giove come un tempo in cui cum furem nemo timeret caulibus et pomis et aprto viveret horto (Iuv. Sat. 6, 14-15); Agostino descrive il Paradiso terrestre come un luogo in cui nullus certe vicinus metuebatur invassor, nullus limitis perturbator, nullus fur, nullus aggressor (De Gen. ad litt. 8, 10). 2 Particolarmente interessanti e significative sono le defixiones contro i ladri nelle terme di Bath. Cf. Adams 1992, 1-26; Tomlin 1999, I, 553-565. In generale sulla magia in ambiente termale cf. recentemente Alfayé 2016, 28-37. 3 Cf. Santalucia 1994, 785-797; Fenocchio 2008; Pelloso 2008.

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nei bagni, compiuto dai fures balnearii 4. Questo genere di furto aveva come oggetto beni di scarso valore, soprattutto capi di vestiario e calzature e veniva compiuto prevalentemente da schiavi o da persone di umile condizione 5, tuttavia Ulpiano li pone sullo stesso piano dei fures noctur­ ni, nella forma del procedimento penale extra ordinem e nella pena che non doveva superare un periodo definito di lavori forzati in opere pubbliche 6. La ragione di questa accresciuta severità sta indubbiamente nell’allarme sociale che il fenomeno generava. Nella stessa età severiana Tertulliano in un’opera del periodo montanista scritta tra il 213 ed il 220, il De fuga in persecutione, colloca i fures balnearii all’interno di una lista di cattivi soggetti, come osti, biscazzieri, e simili che le forze di polizia tenevano d’occhio, accanto ai cristiani 7. Una fonte giuridica della fine del III secolo o degli inizi del IV, le Sententiae Pauli richiama l’uso della violenza in questo genere di reato associando i fures ai raptores balnearum e richiamando per entrambi una condanna ai lavori forzati in opere pubbliche o nelle miniere, opus publicum e metallum, secondo la valutazione del giudice il cui criterio è la frequenza dei delitti e quindi l’allarme sociale che essi provocano, pro frequentia admissorum 8. È importante osservare che determinante nella penalizzazione di questo genere di furti è il luogo in cui sono compiuti: al di fuori dei balnea vengono puniti, soprattutto se manca la recidività, con qualche frustata. Un altro luogo pubblico che in tutta l’antichità romana gode di una pessima fama, come luogo frequentato da gaglioffi di ogni risma e come teatro di crimini di vario genere, tra i quali il furto, sono le locande, le cauponae, fama certo amplificata dalla letteratura comica e satirica e dal romanzo 9, Ulpiano, affermando la responsabilità del gestore della caupona in rapporto ai beni a lui affidati in deposito, la giustifica come disposizione per scoraggiare la collusione fra

4 Cf. Neri 1998, 292-295. Sulla frequentazione delle terme in età romana cf. Nielsen 1990; Jegul 1992; DeLaine - Johston 1999. 5 Per esempio Apuleio racconta del furto di calzature da parte di uno schiavo (Metam. 9, 21), Orazio del furto di uno strigile (Sat. 2, 7, 109-110). 6 D. 47, 17, 1: Fures nocturni extra ordinem audiendi sunt et causa cognita punien­ di, dummodo sciamus in poena eorum operis publici temporarii modum non egrediendum. idem et in balneariis furibus. sed si telo se fures defendunt vel effractores vel ceteri his similes nec quemquam percusserunt, metalli poena vel honestiores relegationis adficiendi erunt. 7 Tert. De fug. in pers. 13: Nescio dolendum an erubescendum sit, cum in matrici­ bus beneficiariorum et curiosorum, inter tabernarios et ianeos et fures balnearum et aleo­ nes et lenones christiani[s] quoque uectigales continentur. 8 PS 5, 3, 3. 9 È ancora utile Kleberg 1957.

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osti e ladri ai danni dei clienti dell’esercizio 10. Negli spazi pubblici erano frequenti borseggi e furti con destrezza. Ulpiano richiama la tecnica di far cadere dalle mani di qualcuno monete di metallo prezioso perché un compare le raccolga 11. In greco esisteva un termine tecnico per i borseggi, βαλαντοτόμος, tagliaborse, per la tecnica di tagliare i cordoni che legavano le borse piene di denaro alle cinture. In latino non abbiamo un termine equivalente, se si esclude il termine di sector zonarius che ha un’occorrenza solo in Plauto ed è evidentemente un calco del termine greco 12. Tuttavia, in contrasto con opinioni illustri, tra le quali quella di Mommsen, si può pensare che il termine saccularii designi i borseggiatori. Ulpiano definisce i saccularii qui vetitas in sacculos artes exercentes partem subducunt, partem subtrahunt 13. Il termine sacculus può indicare anche la borsa di denaro che si portava con sé, richiamando il celebre sacculus ple­ nus aranearum di Catullo 14 e le arti impiegate per sottrarre il denaro senza che il derubato se ne accorga, nei verbi subducere e subtrahere, la cui differenza non è del tutto perspicua 15, possono alludere a tecniche di furto con destrezza. Questo può forse spiegare la relativa mitezza con cui questo genere di furti viene perseguito penalmente, punito anche solo, a discrezione del giudice, con qualche frustata. Negli spazi aperti delle città venivano talora compiute azioni furtive clamorose, come il tentativo in pieno giorno nel centro di Cartagine da parte di un giovane di tranciare con un’ascia i cancelli di piombo che sovrastavano il vicus argentarius, che Agostino racconta dettagliatamente nelle Confessiones 16. Nella Roma D. 4, 9, 1, 1. D. 47, 2, 52, 13. 12 Plaut. Trin. 862. 13 D. 47, 11, 1. 14 Catull. Carm. 13, 4-6: haec si inquam attuleris uenuste noster / cenabis bene nam tui Catulli / plenus sacculus est aranearum. 15 Mommsen 1961, 777 formula l’ipotesi che il verbo subducere sia da porre in rapporto al furto compiuto al momento dell’insaccamento, mentre subtrahere al furto compiuto aprendo il sacco già chiuso. 16 Il rumore dell’azione aveva provocato la reazione degli argentarii ed anche di gente che risiedeva nel foro, gli inquilini fori, che arrestarono Alipio, l’amico di Agostino, che si trovava lì per caso e che aveva raccolto l’ascia abbandonata dal ladro fuggiasco. Alipio venne poi scagionato e, ad opera dell’architetto al quale era affidata la cura degli edifici pubblici della città, il vero colpevole fu ritrovato sulla base della testimonianza del suo stesso schiavo che aveva identificata come appartenente al padrone l’ascia usata nel tentativo di furto (Aug. Conf. 6, 9). Gli argentarii del vicus potrebbero essere, secondo le indicazioni dello stesso Agostino in altre opere, banchieri o artigiani che lavorano l’argento. In Enarr. in ps. 38, 12 parla di ricchezze depositate per sicurezza nel vicus argentarius, mentre in De civ. Dei 7, 4 parla di vasi prodotti da artigiani nel vicus argentarius. 10

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ostrogotica un genere di furto del tutto particolare era l’asportazione dal foro di statue di bronzo, anche equestri, i cui mandanti potevano essere i membri dell’aristocrazia ostrogotica, desiderosi di possedere e di esporre i segni più prestigiosi di uno stile di vita romano, Ne parla in una Varia Cassiodoro a proposito dell’incombenza assegnata al comes Romanus di esercitare una sorveglianza contro questo genere di furti, mettendo ovviamente in rilievo che con una sorveglianza adeguata sarebbero stati pressoché impossibili 17. Lo stesso Cassiodoro ricorda una situazione analoga anche a Como. Un editto di Teoderico a Tancila, presumibilmente comes della città di Como, tratta del furto di una statua di bronzo e insieme fornisce indicazioni sui comportamenti da seguire per tentarne il recupero. Bisogno in primo luogo offrire una ricompensa di ben cento solidi e, nel caso che essa fosse stata inefficace, procedere all’interrogatorio degli artigiani della città nella presunzione evidentemente che senza la collaborazione di un personale qualificato quel furto sarebbe stato impossibile 18. Evidentemente mancava nella città un adeguato servizio di sorveglianza notturna. Si tratta comunque di un genere di furto che richiedeva un’organizzazione complessa e che avveniva presumibilmente su commissione di personaggi abbienti. Vengono poi categorizzati dai giuristi di età severiana varie tipologie di furti domestici, in cui si possono individuare richiami più o meno evidenti alla situazione romana. Una tipologia che non trova paralleli in altri testi è quella dei derectarii che Ulpiano nel De offi­ cio proconsulis definisce come qui in aliena cenacula se dirigunt furandi animo 19. Ulpiano definisce cenaculum un appartamento in affitto situato ai piani superiori di una abitazione che può essere ripartito in varie unità abitative subaffittate o donate, fermo restando che il locatario, il cenacula­ rius, può riservare a sé stesso una parte dell’alloggio 20. Un altro testo di Ulpiano indica chiaramente che la locazione di un cenaculum è un contratto stipulato con il proprietario dell’insula, che lascia all’affittuario libertà di lucrare da un contratto di subaffitto, la pactio cenacularii 21. Nel I secolo d.C. il giurista Alfeno Varo presenta il caso in cui il locatario di un’intera insula ricavi dal subaffitto dei cenacula più dell’affitto pagato per l’insula (l’esempio è di 40 solidi a fronte dei 30 pagati per l’affitto dell’insula). Ancora, in un’iscrizione ritrovata presso il Foro Boario riguarda il lascito ereditario alla figlia dell’insula Sertoriana, contenente sei 17 18 19 20 21

Cassiod. Var. 7, 13. Cassiod. Var. 7, 14. D. 47, 11, 7. Cf. Neri 1998, 301-302. D. 9, 3, 5, 1. D. 13, 7, 11, 5.

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cenacula e undici tabernae 22. L’autore di un accurato studio recente sull’evoluzione storica del termine cenaculum, Jacques Suaudau, a partire dalla definizione varroniana nel de lingua latina sostiene che questa definizione, che fa derivare il termine cenaculum da cenare per la consuetudine di pranzare al piano superiore della casa, è adeguata alla strutture di alcune domus di Pompeii ed Ercolano, con una stanza al piano superiore al di sopra del tablinum ed un colonnato centrale affacciato sull’atrium 23. Ciò renderebbe più evidente che le definizioni di cenaculum che abbiamo visto nei giuristi si riferiscano soprattutto alla situazione romana. Ritornando ai nostri directarii è evidente che essi si introducono nei cenacula senza forzarne gli ingressi, non sono cioè effractores e la loro pena oscilla tra una semplice battitura con i bastoni (fustibus castigantur et dimittun­ tur) alla condanna all’opus publicum, se appartenenti al ceto degli humi­ liores 24, in relazione alla gravità dell’azione criminosa commessa dal reo, alla sua recidività o alla volontà del giudice di irrogare una condanna esemplare in una situazione di allarmante frequenza di questo genere di crimini. Ma Ulpiano prevede anche la possibilità che autore del furto sia un appartenente al ceto degli honestiores, dal momento che la punizione può essere l’esilio, la relegatio. Si può pensare che questo genere di furto possa essere compiuto principalmente dagli abitanti stessi dell’insula, o forse, ancor più, dagli abitanti dei vari spazi abitativi in cui può essere ripartito il cenaculum attraverso un subaffitto, come abbiamo visto. Una tipologia di furto particolarmente rilevante data la frequenza con cui compare non solo nella codificazione fino ai codici romano barbarici, ma anche in altri testi, è il furto con effrazione, compiuto cioè forzando l’ingresso in un ambiente chiuso o forzando un mobile che contiene oggetti preziosi 25. Ancora Ulpiano afferma che questo genere di furto avveniva, anch’esso, prevalentemente nelle insulae, facendo riferimento probabilmente ad una situazione romana, o negli horrea, definendo in questo modo «le stanze del tesoro», ubi homines pretiosissimam partem fortunarum suarum reponunt 26. Non c’è una precisa corrispondenza tra il termine latino effractor e il termine greco τοιχωρύχος. Questo propriamente allude alla tecnica di perforare i muri, mentre quello è ordinariamente posto in relazione alla forzatura di porte o serrature di mobili, anche se in qualche caso le due tecniche venivano assimilate come in un passo di Ulpiano che 22 23 24 25 26

CIL VI, 29791 = ILS 6054 = ILCV 4432b. Cf. Buonocore 1987, 97-99. Suaudeau 2012, 109-146. D. 47, 11, 7. Cf. Neri 1998, 302-305. D. 1, 15, 3, 2.

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considera effractor un cavaliere romano che ha perforato una parete a scopo di furto e descrive la sua azione come effracto perforatoque parie­ te 27. La maggiore frequenza che afferma Ulpiano delle effracturae nelle insulae piuttosto che nelle domus si può facilmente attribuire alla maggiore protezione di cui godono le domus per il numero e la specializzazione degli schiavi al loro interno: c’era spesso, alloggiato in un cubiculum presso l’ingresso uno schiavo portiere ostiarius con un cane da guardia che poteva mobilitare rapidamente la familia servile contro l’intruso. Per quanto riguarda la forzatura degli horrea, Ulpiano aggiunge una considerazione importante: custodes plerumque puniuntur, in quanto gli schiavi ai quali era affidata questa funzione veniva considerato responsabile sia per la sua negligenza, sia per la sua eventuale complicità con gli effractores. I furti con effrazione possono verificarsi di giorno e soprattutto di notte e sono puniti con grande severità, con la condanna ai lavori forzati nelle miniere a tempo determinato ma della severità delle pene loro irrogate, abbiamo poche tracce oltre la giurisprudenza severiana. Agostino in un sermone richiama la condanna ai lavori forzati nelle miniere degli effrac­ tores (ex effractore erit metallicus) 28, come anche alla fine del IV secolo Giovanni Crisostomo per dei ladri dei quali non specifica il genere. Data però la persistenza in età tardoantica degli ambienti e dei contesti sociali in cui i generi di furti che abbiamo richiamato venivano compiuti si può ben pensare che questi furti continuassero ad essere compiuti e severamente penalizzati. Più complessa è la questione dell’incarcerazione dei ladri, dal momento che, se l’incarcerazione è proibita dalla giurisprudenza, soprattutto da Ulpiano, come misura penale e permessa solo per la detenzione di rei in attesa di giudizio o di esecuzione della sentenza, essa è ampiamente utilizzata dai giudici, come riconosce lo stesso Ulpiano, spesso in mancanza di alternative praticabili, per ogni genere di reati 29. Giovanni Crisostomo attesta spesso per l’Antiochia del IV secolo la detenzione in carcere di ladri e tagliaborse accanto a vari generi di criminali e a schiavi fuggiaschi 30. Con il compito della sorveglianza antiincendio e del pattugliamento soprattutto notturno contro la criminalità e particolarmente contro i furti erano state istituite da Augusto nel 6 d.C. le sette coorti dei vigili, ciascuna delle quali esercitava questa funzione in due D. 47, 18, 1, 2. Aug. serm. 125, 5. 29 D. 48, 19, 8, 9: Solent praesides in carcere continendos damnare aut ut in vinculis contineantur: sed id eos facere non oportet. nam huiusmodi poenae interdictae sunt: carcer enim ad continendos homines, non ad puniendos haberi debet. 30 Joh. Chrys. Ad Stag. a daem. Vex. 2, 12 (PG 47, 471); In Ioh., hom. 60, 5-6 (PG 59, 333-334); In epist. I ad Cor., hom. 9, 1 (PG 61, 77). 27

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delle quattordici regiones in cui era suddivisa l’Urbe, sotto il comando di un praefectus vigilum nominato direttamente dall’imperatore 31. Gli stabilimenti termali erano sottoposti, ovviamente durante il giorno, a una specifica sorveglianza. Da uno dei graffiti murali dell’excubitorium della VII coorte dei vigili a Trastevere apprendiamo che un distaccamento della stessa svolgeva stabilmente un servizio di guardia presso le Terme Neroniane 32. Al prefetto dei vigili era attribuita la giurisdizione sui reati che cadevano nel suo ambito di sorveglianza, ad esclusione dei casi più gravi la cui giurisdizione del prefetto urbano 33. Sempre nell’ambito della sorveglianza delle terme, il prefetto dei vigili aveva giurisdizione sugli abusi commessi dai capsarii, gli addetti a pagamento alla custodia del vestiario dei frequentatori delle terme 34. Nella seconda metà del IV secolo si assiste ad una drastica ristrutturazione dei corpi di polizia presenti a Roma. Le coorti urbane e le coorti dei vigili potrebbero essere state sostituite da corpi più ridotti e non militarizzati 35. Da una relatio del prefetto urbano Simmaco nel 384 apprendiamo che il servizio antiincendio a Roma era esercitato da corporati 36, di cui esisteva un omologo a Costantinopoli almeno dai primi decenni del V secolo secondo la testimonianza della Noti­ tia urbis Constantinopolitanae 37 e da una costituzione datata al 420 38. Quesri corporati sono presumibilmente tratti dalle corporazioni le cui competenze tecniche potevano tornare utili nello spegnimento degli inCf. da ultimo Santalucia 2012. CIL VI, 3052, Cf. Sablayrolles 1996, 108 nn. 138-139. 33 Vd. le indicazioni di Paolo in D. 1, 15, 3, 1: Cognoscit praefectus vigilum de incendiariis effractoribus furibus raptoribus receptatoribus, nisi si qua tam atrox tamque famosa persona sit, ut praefecto urbi remittatur. et quia plerumque incendia culpa fiunt inhabitantium, aut fustibus castigat eos qui neglegentius ignem habuerunt, aut severa in­ terlocutione comminatus fustium castigationem remittit. 34 D. 1, 15, 3-5: Adversus capsarios quoque, qui mercede servanda in balineis vesti­ menta suscipiunt, iudex est constitutus, ut, si quid in servandis vestimentis fraudulenter admiserint, ipse cognoscat. Il capsarius, attestato epigraficamente anche come capsara­ rius è uno schiavo facente parte del personale dei bagni pubblici, almeno a partire dal III  secolo  d.C. addetto alla sorveglianza del guardaroba. Secondo l’Edictum de pretiis dioclezianeo la sua tariffa massima è di due denari, che è la stessa che viene pagata per l’ingresso ai bagni. Cf. DizEp II, 101-102; Ginouvés 1962, 215 n. 2; Nielsen 1990, 129130. 35 Cf. Chastagnol 1960, 255-256. 36 Symm. Rel. 14, 3: per alios [scil. corporatos] fortuita arcentur incendia. Cf. Chastagnol 1960, 260; Vera 1981, 120-121. 37 Il testo della Notitia urbis Contantinopolitanae è contenuto nell’appendice all’edizione della Notitia Dignitatum di Seeck, 230: collegiatos qui e diversis corporibus ordinati incendiorum solent casibus subvenire. Sull’opera cf. Matthews 2012, 81-115; Havaux 2017, 3-54. 38 CJ 4, 63, 5. 31

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cendi come fabri, centonari e dendrophori. Se però apprendiamo che i corporati potevano essere occasionalmente mobilitati in operazioni di polizia diurna, come nel caso dei conflitti a Roma tra i sostenitori dei due pretendenti all’episcopato romano, Bonifacio ed Eulalio 39, non abbiamo alcuna testimonianza del loro impiego nel pattugliamento notturno contro i ladri ed altri criminali. Diversamente dall’opinione di André Chastagnol, che sostiene che i corporati ereditano pienamente le funzioni dei vigili, si può pensare che le due funzioni, quella antiincendio ed il pattugliamento notturno, fossero esercitate da corpi diversi a partire dalla seconda metà del IV secolo, ma che ai vigili ed al loro prefetto continuasse a competere la sorveglianza notturna. In età ostrogotica sia la formula in Cassiodoro del prefetto dei vigili romano 40 sia di quello ravennate 41, insistono esclusivamente infatti solo sulla funzione di polizia notturna attribuita al prefetto dei vigili. La sua attività è paragonata ad una caccia, una venatio nocturna 42 o, con efficace ossimoro, ad un bellum pacatum, ad una guerra senza spargimento di sangue, nella quale alla mattina vengono esibiti alla cittadinanza i ladri ed i rapinatori catturati 43. Fuggevolmente le Variae di Cassiodoro, più chiaramente e più estesamente la Novella 13 di Giustiniano, che tratta delle funzioni di polizia attribuite al praetor ple­ bis, accennano alla possibilità di corruzione e di collusione con i criminali anche da parte del comandante del corpo. Tuttavia, se i corpi di polizia potevano esercitare un’azione più o meno efficace nella repressione di furti manifesti o fungere da deterrente contro i criminali, la repressione è assai più difficile e complessa nel caso di ladri non scoperti in flagrante. In questo caso l’indagine veniva compiuta principalmente privatamente dai derubati stessi. Si offrivano ricompense per informazioni che permettessero di catturare il ladro 44, come affermano le cosiddette Sententiae Coll. Avell. 14, 3; 32, 3-4. Questi corporati sono presumibilmente i membri del corpo speciale addetto alla sorveglianza antiincendio non genericamente membri delle corporazioni romane. Accanto ad essi il prefetto urbano afferma di avere allertato anche officiales e curatores regionum, che sono funzionari pubblici. 40 Cassiod. Var. 7, 7. 41 Cassiod. Var. 7, 8. 42 Cassiod. Var. 7, 7: actus tuus uenatio nocturna est, quae miro modo si non cerni­ tur, tunc tenetur. 43 Cassiod. Var. 7, 8: Tibi enim commissa est fortunarum securitas, ciuitatis ornatus, utilitas omnium, scilicet ut contra domesticos grassatores bellum pacatum gereres, si quem ciuium laedendum esse sentires. 44 Dione Crisostomo menziona banditori che offrivano ricompense a chi fornisse indicazioni utili a rintracciare ladri o schiavi fuggitivi, sostenendo però che era opportuno che i poveri non praticassero queste attività che dovevano essere riservate agli schiavi (Or. 7, 123). 39

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Pauli alla fine del III o agli inizi del IV secolo: questa ricompensa era dovuta per legge (iure debetur) 45. Vengono impiegati nella ricerca dei ladri strumenti meno razionali e presumibilmente meno efficaci, quale la consultazione di astrologi e maghi. Ulpiano si occupa del caso di un astrologo che abbia indicato erroneamente un ladro: in questo caso non può essere chiamato in causa per iniuria in quanto la sua attività è già punibile in sé per legge 46. Gli astrologi danno indicazioni sullo status politico del ladro (se è concittadino o straniero), l’origine sociale, l’età ed il sesso. Doroteo di Sidone fornisce anche dettagli fisiognomici raffinati: la sproporzione fra la parte superiore e quella inferiore del corpo, gli occhi caprini, l’odore emanato dalla pelle, la conformazione delle rughe 47. La consultazione di maghi e indovini per individuare i ladri era praticata anche durante l’impero cristiano. Cesario di Arles descrive con tratti vivaci questa pratica: si trattava di recarsi in un determinato luogo dove veniva evocata, forse con un rito necromantico, una persona capace di rivelare l’identità del ladro. Perché il rito fosse efficace bisognava però non farsi il segno della croce 48. Un’ovvia influenza nella frequenza e nel controllo dei reati di furto aveva la condanna ecclesiastica del peccato di furto 49. Sostegno scritturale di questa condanna era oltre al settimo comandamento, le varie liste di peccati che compaiono nella letteratura paolina. È da sottolineare però che il furto compaia come peccato grave, che esclude dal regno di Dio, in una sola di queste liste, 1Cor 6, 9-10. Partendo proprio da questo testo paolino Agostino afferma che non si può non considerare il furto un peccato mortale combattendo però l’opinione di chi nella chiesa riteneva che i peccati mortali fossero solo tre, l’omicidio, la fornicazione e l’idolatria 50. Se gli scrittori cristiani non possono non riconoscere che la necessità materiale spinge al furto, nessuno afferma in età tardoantica che questa possa costituire una giustificazione. Se questo fosse accettato, scrive Gerolamo, ogni peccatore potrebbe addurre a sua giustificazione la spinta irresistibile di una pulsione irrazionale, come la libido per i peccati sessuali o l’ira per i peccati violenti 51. Tuttavia a questa decisa conPS 2, 31, 25. D. 47, 10, 15, 13. 47 Cf. Wolff 2011, 135-154. 48 Caes. Arel. serm. 184, 4. 49 Cf. Neri 1998, 355-361. 50 Aug. Spec. 29. Cf. anche Hieron. In epist. ad Gal. 3. 51 Hieron. In Es. 16, 58, 10. Cf. anche Hieron. Ep. 55, 3; Ioh. Chrys. Exp. in ps. 140, 7 (PG 55, 438); De proph. obsc., hom. 2, 8 (PG 58, 188); In Ioh., hom. 37, 3 (PG 59, 210). 45

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danna del furto come peccato si accompagna la compassione per chi è costretto al furto dalla necessità materiale e l’esortazione, come in Gregorio Magno, alla tolleranza nei confronti della piccola criminalità dei ceti poveri 52. D’altra parte, se il furto per necessità non fosse stato condannato come peccato grave, questo non solo avrebbe tolto ogni remora al proliferare della piccola criminalità ma l’avrebbe sottratta al controllo da parte della chiesa. Il peccato di furto avrebbe dovuto essere confessato, il ladro avrebbe dovuto accettare la penitenza, che però appare moderata, e impegnarsi a non peccare più, il vescovo avrebbe potuto convincerlo a restituire il maltolto impegnando insieme il derubato a rinunciare all’azione penale (un esempio ne è l’epistola 153 di Agostino). Il conflitto tra ladro e derubato sarebbe stato portato dunque ad una composizione extragiudiziale, evitando il dispiegamento della durezza del diritto penale nei confronti, come abbiamo visto, di molte categorie di furto.

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RIASSUNTO: Scopo di questo intervento è la verifica di validità cui sottoporre una argomentazione di tipo geopolitico, negli ultimi decenni adoperata spesso e volentieri dagli studiosi della Historia Augusta, al fine di ricavarne spunti utili per datare la scrittura della raccolta. Si aggiunge in coda una nuova ipotesi di soluzione ad un annoso problema cronologico (e prosopografico) riguardante le cerimonie fondative della città di Costantinopoli, cui secondo la notizia offerta dal De mensibus di Giovanni Lido (4, 2) avrebbe preso parte Vettio Agorio Pretestato († 384) con il ruolo attivo di pontefice. ABSTRACT: In recent times many good scholars of the Historia Augusta have shared the idea that the absence from the biographies of insulting allusions towards Ravenna (unlike towards some other cities of the Roman world where emperors resided) can give a useful reason for dating the work not later than the very first years of the fifth century. This paper demonstrates the inconsistency of such a conclusion. At the ending there is a proposal of solution to a perennial, chronological and prosopographical problem: the presence of the pagan Roman pontiff Vettius Agorius Praetextatus († 384) at the foundation ceremonies of Constantinople (324, 328, 330). KEYWORDS: Historia Augusta; Constantinople; Costantinopoli; Ravenna; urbes nobiles; Vettio Agorio Pretestato; Vettius Agorius Praetextatus.

1. – La serie delle Vite di augusti, cesari e tyranni che si susseguono da Adriano in poi fino a Caro, Carino e Numeriano, presenta con regolare frequenza vari nomi di città dell’orbe romano che, dopo l’età tetrarchica, sarebbero divenute – per un tempo più o meno lungo – sedi imperatorie. I modi con cui di esse fanno menzione i presunti Scriptores sono stati oggetto d’indagine negli ultimi decenni, al preciso scopo di estrarne qualche elemento necessario a determinare la cronologia della Historia Augusta. In un suo pregevole saggio del 1976, Klaus-Peter Johne aveva creduto di saper cogliere negli accenti riservati ad alcune urbes dell’impero una specie di animosità, un sotterraneo disprezzo che toccherebbe ogni ‘capitale’ altra da Roma; inclusa Costantinopoli, ma eccettuata Ravenna, * Università Ca’ Foscari - Venezia.

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dove per urgenti motivi di sicurezza militare furono trasferiti da Milano gli officia palatini a partire dal 402. Il presupposto sembrava dare una base accettabile sopra cui stabilire un terminus ante quem alla stesura del testo: comunque fu più volte usato e messo di traverso alle idee di Santo Mazzarino e di Johannes Straub, che propendevano sensatamente a dilazionare nel pieno V secolo quella strana miscela di realtà storica e amenità narrativa, composta da un falsario anonimo sotto sei pseudonimi. Il giovane autore della monografia era invece fiducioso di poter iscrivere l’opera entro una forbice restringibile al decennio 394-404 – ossia l’arco dell’attività letteraria di Claudiano 1. Questa teoria riscosse da subito un ascolto attento e diffuso 2: ricevendo inoltre la sanzione del riconoscimento da una penna autorevole, oltremodo affilata. In testa al tomo V.1 della Histoire Auguste, edito per la Collection Budé nel 1996, François Paschoud riprendeva infatti le precedenti conclusioni del collega berlinese e così le condensava 3: Très fort me paraît l’argument dévéloppé par Johne à partir des mentions des capitales et résidences impériales de l’antiquité tardive dans l’HA. Toutes sont l’objet de commentaires marquant leur infériorité par rapport à Rome dans des contextes inventés, seule la ville de Ravenne échappe à ce traitement, ce qui suggère que la dernière main a été mise à la collection avant qu’apparût définitive l’installation de la cour d’Honorius dans cette ville, verse 404.

La data di redazione dell’opera è solo uno dei tantissimi interrogativi – non certo il meno rilevante – offerti dall’enigmatico testo antico e lasciati ad oggi senza unanime risposta 4; occorre però avvertire come viga un 1 Il riferimento specifico è a Johne 1976, 41-44; aggiunge poco Johne 1978/79. Le pagine recenti di Zinsli 2014, 281-290 offrono nel complesso una panoramica ricca e affidabile. 2 Faccio solo un paio di esempi: Kenney 1982, 918 s. (in coda a una perfetta sintesi della questione cronologica: tanto più apprezzabile in uno strumento finalizzato all’alta informazione generale); Soverini 1983, 51 s. e passim. 3 Paschoud 2002, XVI. L’unico altro argomento a favore di una stesura avvenuta negli stessi anni (l’agosto del 406 al più tardi) starebbe nel fatto che nel Divus Aurelianus (18, 5 - 21, 4) l’imperatore richiama i senatori all’indifferibile necessità di consultare i libri Sibyllini per ottenere la vittoria sui barbari nemici (a quell’epoca, Marcomanni). Secondo l’opinione dello studioso elvetico, «la défaite du païen Radagaise à Fiésole par les troupes romaines chrétiennes ruinait la démonstration implicite contenue dans le passage en question de la uita Aureliani, qui doit donc être antérieur à cette date». L’assunto appare in sé piuttosto debole, data la spregiudicatezza inventiva e narrativa del sedicente Vopisco; e deve comunque perdere peso, a misura della distanza temporale del punto di osservazione dell’indisciplinato «cronista». 4 Fra i possibili rinvii a una bibliografia sterminata, e in costante incremento, segnalo ancora per insuperabile chiarezza di sintesi e amabilità verso i lettori, Chastagnol 1994.

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accordo silenzioso (osservato da una buona maggioranza degli specialisti) a collocare la stesura finale delle Vitae nei dintorni prossimi all’anno 400. Mi sono adoperato altrove a radunare le evidenze oggettive che invalidano tali supposizioni, cercando nuovi esempi di comparazione esterna 5 e accumulando i numerosi indizi interni al testo che paiono alludere ad avvenimenti posteriori 6: sicché un termine abbastanza sicuro – ma neppure esso davvero invalicabile – si aggancia alla riproduzione di ampi stralci della Vita dei Maximini duo da parte di Memmio Simmaco iunior († 525/526), il suocero di Boezio che fu console eponimo nel 485, prefetto urbano, patricius e caput senatus. A mezzo del secolo successivo, il solo a conservare queste essenziali informazioni entro la sua Storia dei Goti è Giordane, già notarius al servizio degli Amali, poi vescovo cattolico di Crotone 7; un uomo fedele al papa Vigilio per la durata del penoso soggiorno forzato sulle sponde del Bosforo; ecco la sinossi dei luoghi da richiamare a confronto 8: Esiste in rete una scheda «Historia Augusta» curata da François Paschoud per www. oxfordbibliographies.com, al momento in cui scrivo (aprile 2020) aggiornata al 29 giugno 2015. 5 È il caso della cronologia relativa fra Vita Aureliani di Vopisco e Saturnalia di Macrobio, per la quale vd. Mastandrea 2014; ivi notizie riguardo a tentativi analoghi diretti allo stesso scopo, già compiuti attraverso raffronti di scrittori latini e greci, pagani e cristiani, che operavano nel quarto e quinto secolo. 6 Per un elenco degli indizi che consigliano di spostare il terminus post quem in avanti (se si guarda all’ultima mano, anche di molto) e delle relative coordinate bibliografiche, vd. Mastandrea 2011, 234-237; merita segnalare a parte, considerando l’efficacia e l’energia con cui mette in dubbio la vulgata, il saggio di Birley 1978. Diversi argomenti di ordine storico-economico e monetario hanno offerto Kohns 1966 e Yelo Templado 1980. Infine, l’autore delle Vitae degli imperatori che vanno da Aureliano a Numeriano porta un nome e cognome (di fantasia) tale da prefigurare una specie di pastiche linguistico, possibile suggestione di ‘eco prosopografica’ emessa da un luogo di Sidonio Apollinare. Suona così la prosa che chiude il carme 22: Si quis autem carmen prolixius eatenus duxerit esse culpandum, quod epigrammatis excesserit paucitatem, istum liquidum patet neque balneas Etrusci neque Herculem Surrentinum neque comas Flauii Earini neque Tibur Vopisci neque omnino quicquam de Papinii nostri siluulis lectitasse. Il testo è databile ad anni compresi fra il 461 e il 465. 7 Per uno studio dei rapporti fra gli alti personaggi che interloquiscono tra loro in un quadro di estrema complessità (sotto vari aspetti: storico e religioso, politico e geografico, culturale e letterario), sia lecito rinviare alle ricostruzioni proposte altrove: Mastandrea 2006; Bjornlie 2013, 113-117 e passim. 8 Riproduco quasi letteralmente da Mastandrea 2011, 214-216. La generosa fatica spesa sopra una nuova collazione dei passi paralleli da Paschoud 2018, 17-45, comporta nulla di serio in favore delle opinioni ricevute: ad eloquenti, sebbene imbarazzanti, dati di fatto, si contrappongono (23-25) bocciature pregiudiziali, ovvero congetture deboli (purtroppo non meglio verificabili: Festy 2014), già formulate in precedenza (Paschoud 2012, 384-385, e 2013, 197). E poi, è difficile immaginare che non il goto e agrammatus Giordane, ma un titolato storiografo, esponente dell’alta aristocrazia, capo

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IORDANES, GETICA 15 83 Et quia iam superius diximus eos [scil. Gothos] transito Danubio aliquantum temporis in Mysiam Thraciamque uixisse, ex eorum reliquiis fuit et Maximinus imperator post Alexandrum Mamaeae. Nam, ut dicit Symmachus in quinto suae historiae libro, Maximinus, inquiens, Caesar mortuo Alexandro ab exercitu effectus est imperator, ex infimis parentibus in Thracia natus, a patre Gotho nomine Micca, matre Halana, quae Ababa dicebatur. Is triennio regnans, dum in Christianos arma commoueret, imperium simul et uitam amisit. 84 Nam hic Seuero imperatore regnante et natalis diem filii celebrante, post prima aetate et rusticana uita de pascuis in militiam uenit. Princeps si quidem militares dederat ludos; quod cernens Maximinus, quamuis semibarbarus aduliscens, propositis praemiis patria lingua petit ab imperatore, ut sibi luctandi cum expertis militibus licentiam daret. 85 Seuerus, admodum miratus magnitudinem formae (erat enim, ut fertur, statura eius procera ultra octo pedes), iussit eum lixis corporis nexu contendere, ne quid a rudi homine militaribus uiris eueniret iniuriae.

MAXIMINI DVO IULI CAPITOLINI 1, 4 Maximinus senior sub Alexandro imperatore enituit. Militare autem sub Seuero coepit. 5 Hic de uico Threiciae uicino barbaris, barbaro etiam patre et matre genitus, quorum alter e Gothia, alter ex Alanis genitus esse perhibetur. 6 Et patri quidem nomen Micca, matri Hababa fuisse dicitur. 7  Sed haec nomina Maximinus primis temporibus ipse prodidit, postea uero, ubi ad imperium uenit, occuli praecepit, ne utroque parente barbaro genitus imperator esse uideretur.

2, 1 in prima … pueritia fuit pastor, iuuenum etiam procer … 3 Innotescendi sub Seuero imperatore prima haec fuit causa: 4 natali Getae, filii minoris, Seuerus militares dabat ludos propositis praemiis argenteis, id est armillis, torquibus et balteolis. 5 Hic adulescens et semibarbarus et uix adhuc Latinae linguae, prope Thraecica imperatorem publice petit, ut sibi daret licentiam contendendi cum his, qui iam non mediocri loco militarent. 6 Magnitudinem corporis Seuerus miratus, primum eum cum lixis conposuit, sed fortissimis quibus ne disciplinam militarem conrumperet.

dell’amplissimus ordo, possa compiere lo svarione di Get. 88, 5 – obliterando cioè l’esistenza stessa dei Gordiani, per cui il senato di Roma ripristinava la legalità interrotta violentemente dall’elezione militare del barbaro Massimino. Qui il commentatore minuzioso (Paschoud 2018, 42-43, 45) parla pudicamente di «segment problématique», laddove si tratta di falsificazione motivata da chiari intenti provvidenzialistici (come ipotizzavano giustamente Zecchini 1993, 84-87; Baldini 2007, 23-25): la cui responsabilità va però ascritta alla penna di Giordane, e non di Simmaco.

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Tum Maximinus sedecim lixas tanta felicitate prostrauit, ut uincendo singulos nullam sibi requiem per intercapedinem temporis daret. Hic captis praemiis iussus in militiam mitti, primaque ei stipendia equestria fuere. Tertia post haec die, cum imperator prodiret in campum, uidit eum exultantem more barbarico iussitque tribuno, ut eum cohercitum ad Romanam inbueret disciplinam. Ille uero, ubi de se intellexit principem loqui, accessit ad eum equitan-temque praeire pedibus coepit. 86 Tum imperator equo ad lentum cursum calcaribus incitato multos orbes huc atque illuc usque ad suam defatigationem uariis deflexibus impediuit ac deinde ait illi: ‘Num quid uis post cursum, Thracisce, luctare?’ respondit: ‘Quantum libet imperator’. Ita Seuerus ex equo desiliens recentissimos militum cum eo decertari iussit. At ille septem ualentissimos iuuenes ad terram elisit, ita ut antea nihil per interualla respiraret, solusque a Caesare et argenteis praemiis et aureo torque donatus est; iussus deinde inter stipatores degere corporis principalis.

7 Tum Maximinus sedecim lixas uno sudore deuicit, sedecim acceptis praemiis minusculis non militaribus, iussusque militare. 3, 1 Tertia forte die cum processisset Seuerus ad campum, in turba exsultantem more barbarico Maximinum uidit iussitque statim tribuno ut eum coherceret et ad Romanam disciplinam inbueret. 2 Tunc ille, ubi de se intellexit imperatorem locutum, suspicatus barbarus et notum se esse principi et inter multos conspicuum, ad pedes imperatoris equitantis accessit. 3 Tum uolens Seuerus explorare quantus in currendo esset, equum admisit multis circumitionibus et cum senex imperator laborasset neque ille a currendo per multa spatia desisset, ait ei: ‘Quid uis Thracisce? Numquid delectat luctari post cursum?’. Tum ‘Quantum libet’, inquit, ‘Imperator’. 4 Post hoc ex equo Seuerus descendit et recentissimos quosque ac fortissimos milites ei conparari iussit. 5 Tum ille more solito septem fortissimos uno sudore uicit solusque omnium a Seuero post argentea praemia torque aureo donatus est iussusque inter stipatores corporis semper in aula consistere.

87 Post haec sub Antonino Caracalla ordines duxit ac saepe famam factis extendens plures militiae gradus centuriatumque strenuitatis suae pretium tulit. Macrino tamen postea in regnum ingresso recusauit militiam pene triennio tribunatusque habens honorem numquam se oculis Macrini optulit, indignum ducens eius imperium, quod perpetrato facinore fuerat adquisitum. 88 Ad Eliogabalum dehinc quasi ad Antonini filium reuertens tribunatum suum adiit et post hunc sub Alexandrum Mamaeae contra Parthos mirabiliter dimicauit.

4, 4 Hic diu sub Antonino Caracallo ordines duxit centuriatos et ceteras militares dignitates saepe tractauit. Sub Macrino, quod eum, qui imperatoris sui filium occiderat, uehementer odisset, a militia desiit. 4, 6 Ubi Heliogabalum quasi Antonini filium imperatorem comperit, iam maturae aetatis ad eum uenit petitque, ut quod auus eius Seuerus iudicii circa se habuerat et ipse haberet. 4, 8 Tum ille ubi uidit infamem principem sic exorsum, a militia discessit. 5, 1 Fuit igitur sub homine inpurissimo tantum honore tribunatus, sed numquam ad manum eius accessit, numquam illum salutauit, per totum triennium huc atque illuc discurrens.

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Eoque Mogontiaco militari tumulto occiso ipse exercitus electione absque senatus consultu effectus est imperator, qui cuncta bona sua in persecutione Christianorum malo uoto foedauit occisusque Aquileia a Puppione regnum reliquit Philippo. Quod nos idcirco huic nostro opusculo de Symmachi hystoria mutuauimus, quatenus gentem, unde agimus, ostenderemus ad regni Romani fastigium usque uenisse. IORD. Rom. 280 (Alexander) Mogontiaco tumulto occiditur militari; 281 Maximinus … sola militum uoluntate ad imperium concedens, bellum aduersus Germanos feliciter gessit indeque reuertens, contra Christianos mouens intestino proelio, uix tres annos regnans, Aquileia a Puppieno occisus est.

OROS. 7, 18, 8 Alexander … militari tumultu apud Mogontia-cum interfectus est. 19, 1 Maximinus nulla senatus uoluntate imperator ab exercitu, postquam bellum in Germania prospere gesserat, creatus persecutionem in Christianos exercuit. Sed continuo, hoc est tertio quam regnabat anno, a Puppieno Aquileiae interfectus et persecutionis et uitae finem fecit. CASSIOD. chron. 931 Alexander occiditur Mogontiaci tumultu militari. Cui successit Maximinus regnans annis tribus, primus omnium ex corpore militari imperator electus.

Grazie anche alla suppletiva testimonianza di Cassiodoro 9, protettore e mentore di Giordane, sappiamo che la Historia Romana circolò a Costantinopoli fra gli aristocratici italiani – ecclesiastici e laici – emigrati in oriente a causa della guerra; qui dovette incontrare l’attenzione di persone e ambienti della dissidenza politico-intellettuale dell’oriente: élites grecofone (senatori, professori, giuristi, alti burocrati), sia pure in cauto modo ostili alla deriva autocratica del potere giustinianeo, non rassegnati a quel metodico sterminio dei contrappesi istituzionali Mi sono spinto ad ipotizzare, sulla base di omologie per lo più inspiegabili altrimenti, che le Vite degli imperatori e la Storia di Simmaco fossero (almeno nella forma a quell’epoca nota) una sola cosa. Ma è certo che la raccolta, concepita forse un secolo prima per il divertimento colto di circoli intellettuali ristretti, rimasta inedita e chiusa dentro le biblioteche private di grandi famiglie senatorie, rivela stratificazioni di pura tecnica compositiva accoppiate ad evoluzioni più profonde e più sostanziali 10; 9 Il cosiddetto Anecdoton Holderi dà qualche ragguaglio biografico sul personaggio (ad interessarci sono soprattutto le parole conclusive): Symmachus patricius et cons. ordinarius uir philosophus, qui antiqui Catonis fuit nouellus imitator, sed uirtutes ueterum sanctissima religione transcendit. Dixit sententiam pro allecticiis in senatu parentesque suos imitatus historiam quoque Romanam septem libris edidit. 10 L’ha sostenuto con autorevolezza Callu 1992, che della genesi e successivi sviluppi dell’opera in varie fasi e tempi, sino alle forme attuali, ha proposto una narrazione avvincente nella Introduction générale all’edizione Budé.

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soprattutto gli ultimi tre gruppi di Vitae (quelle attribuite nei codici a Capitolino, Pollione e Vopisco) 11, se degradano nel senso di una minore credibilità storiografica, progrediscono moltissimo quanto ad impulso ideologico. Lo scenario sociale di vita contemporanea che lasciano presumere sullo sfondo gli Scriptores è offerto da esclusivi circoli di estrazione aristocratica 12; «Romani de Roma» in possesso di smaliziata ironia oltreché di istituzione e cultura bilingue; di orientamento tradizionalista in materia di religione e di costumi; patriottardi, malevoli contro gli stranieri se non xenofobi, però pacifisti; nostalgici del passato, e insieme non privi di un ottimismo utopico riguardo al futuro. Tutto questo ben si confà al clima dei decenni immediatamente successivi al 476, allorché il senato rientrò in possesso di competenze giuridico-amministrative che non più deteneva dai remoti secoli della libera repubblica 13; provvedendo a chiudere una parentesi durata oltre cinquecento anni con l’atto di rimettere le insegne imperiali dell’occidente al lontano Augusto di Bisanzio 14. Sembrava che il peggio fosse ormai alle spalle, e il programma politico confusamente vagheggiato dalla Historia Augusta trovasse vera realizzazione. 2. – Ma è ormai la volta di entrare in argomento e di affrontare il tema proposto. L’espressione urbes nobiles viene dal titolo di un poemetto di Ausonio 15, chiamato a confronto – come vedremo – da vari studiosi a cominciare da Johne e Paschoud 16. Il primo, in un ampio capitolo sulle «residenze imperiali» che chiude la sua monografia, passa in rassegna 11 Corrispondenti precisamente ai libri 5, 6, e 7 (come pare possa provarsi, accogliendo assieme a Callu 1985 la notizia del’antico catalogo di Murbach su una ripartizione delle Vitae in sette libri: Mastandrea 2011, 231-235). 12 In particolare, la biblioteca di famiglia e i salotti privati dei Simmachi-Nicomachi, come ipotizzò Callu 1997. Si tratta di un pubblico discreto e fidato, complice e selezionato nel perseguire fini edonistici; una audience colta che amava l’intrattenimento letterario, apprezzando massimamente del racconto gli aspetti comici e spiritosi, frivoli e paradossali. 13 Su ciò è intervenuto più volte chi scrive (da ultimo, Mastandrea 2017, 215-222 ), pur senza conoscere lo studio recente di Marotta 2014. 14 A condurre le trattative con Zenone, dopo la deposizione del Kaiserkind Romolo, fu il senato di Roma e non il rex gentium di Ravenna; l’ambasceria a Costantinopoli, sulla quale resta unica fonte di notizia un frammento di Malco, completava gli atti per cui la curia romana si assumeva la responsabilità dell’accaduto, onde non era più necessario alla pars occidentis eleggere un proprio imperatore. Chi scorra i nomi delle persone che ricoprirono le alte cariche civili sotto Odoacre, verifica che in quegli anni l’Italia fu governata attraverso l’aristocrazia senatoria; e un tale stato di cose non doveva granché mutare nei tempi della nuova dominazione gotica; vd. Mastandrea 2011, 211. 15 Edizione commentata: Di Salvo 2000; studio storico-archeologico: Reboul 2007. 16 Paschoud 1996, 318 s. (anche qui sulle orme di Johne 1976, 166 n. 2).

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una serie di località che per periodi più o meno lunghi videro la presenza degli imperatori – da Adriano in poi. Il catalogo è corposo, e oltre a Bisanzio (di cui ci occuperemo in seguito, perché rappresenta propriamente un caso a sé) annovera anzitutto le sedi di Augusti e Cesari dell’epoca della tetrarchia, dunque possibili «concorrenti» del caput mundi: Nicomedia, Milano, Treviri e Sirmio; poi Antiochia, York, Salonicco, eccetera. La trattazione (e la pura documentazione) sulle cause di disprezzo verso questa o quella città è copiosa, ma spesso generica, e quasi mai pertinente o utile, se deve servire a suffragare l’assunto dichiarato. Per esempio, appare ben poco significativo che Adriano odiasse a morte gli Antiocheni (Hadr. 14, 1: Antiochenses inter haec ita odio habuit, ut Syriam a Phoenice separare uoluerit, ne tot ciuitatum metropolis Antiochia diceretur), se la notizia transita in un contesto dove il suo viaggio procede tra punizioni di governatori delle provincie asiatiche (13, 10) ed eliminazioni di rivoltosi giudei (14, 2). E se Marco Aurelio fu poco entusiasta del matrimonio di sua figlia Lucilla, il motivo non sembra dato tanto dalla patria di nascita, quanto dall’età matura e dal rango sociale del genero (Aur. 20, 66: filiam suam … grandaevo equitis Romani filio Claudio Pompeiano dedit genere Antiochensi nec satis nobili – quem postea bis consulem fecit – cum filia eius Augusta esset et Augustae filia eqs.). Si fatica a rilevare un qualsiasi tratto di offesa, finalizzata o precisa, nella notizia relativa agli antenati di un imperatore secondario, il cui nonno paterno proveniva da Milano, mentre quello materno da Adrumeto (Did. 1, 2: avus paternus Insubris Mediolanensis, maternus ex Hadrumetina colonia); il fatto che nelle orazioni ciceroniane, da giudicare inesauribile deposito di materiali per l’inventiva lessicale e onomastica degli Scriptores, il termine Insuber sia sinonimo di barbarus, non comporta avallo sufficiente per formulare ulteriori congetture – tanto meno a distanza di qualche secolo. E non meglio avvertibile è alcuna intenzione diffamante ai danni di Sirmio, che dall’età costantiniana in poi sarebbe divenuta sede di prefettura del pretorio, in ordine alla nascita di due Soldatenkaiser illirici (Aur. 3, 1: ortus … Sirmii familia obscuriore e Prob. 3, 1 oriundus … ciuitate Sirmiensi, nobiliore matre quam patre). L’altezzosità dello sguardo di chi narra punta solo a censurare l’estrema modestia (o la difettosa nobiltà) delle rispettive famiglie d’origine. Il testo presenta ragioni di interesse ben maggiori in rapporto a talune città di entrambe le parti dell’impero, enumerate in appendice alla Vita Taciti di Vopisco (c. 18). Leggiamo il contesto intero sopra le pagine dell’edizione curata e commentata per la CUF 17: 17

Paschoud 2002, 247-249, 317-320.

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1 Et quoniam me promisi aliquas epistulas esse positurum, quae creato Tacito principe gaudia senatus ostenderent, his additis, finem scribendi faciam. Epistulae publicae: 2 ‘Senatus amplissimus curiae Carthaginensi salutem dicit. Quod bonum, faustum felix salutareque sit rei publicae orbique Romano, dandi ius imperii, appellandi principis, nuncupandi Augusti ad nos reuertit. 3 Ad nos igitur referte quae magna sunt; omnis prouocatio praefecti urbis erit, quae tamen a proconsulibus et ab ordinariis iudicibus emerserit. 4 In quo quidem etiam uestram in antiquum statum redisse credimus dignitatem, si quidem primus hic ordo est qui recipiendo uim suam ius suum ceteris seruat’. 5 Alia epistula: ‘Senatus amplissimus curiae Treuirorum. Vt estis liberi et semper fuistis, laetari uos credimus. Creandi principis iudicium ad senatum rediit, simul etiam praefecturae urbanae appellatio uniuersa decreta est’. 6 Eodem modo scriptum est Antiochensibus, Aquileiensibus, Mediolanensibus, Alexandrinis, Thessalonicensibus, Corinthiis et Atheniensibus.

Come insegna Paschoud attraverso un densissimo apparato di annotazioni, queste lettere ufficiali (evidentemente false, benché rivelatrici) arrangiano temi cari alla cosiddetta «ideologia senatoria» tardoantica, sviluppati dallo stesso Scriptor sia in precedenza, sia nel seguente c. 19: 1 Priuatae autem epistulae haec fuerunt: ‘Autronio Iusto patri Autronius Tiberianus salutem 18. Nunc te, pater sancte, interesse decuit senatui amplissimo, nunc sententiam dicere, cum tantum auctoritas amplissimi ordinis creuerit, ut reuersae in antiquum statum rei publicae nos principes demus, nos faciamus imperatores, nos denique nuncupemus Augustos. 2 Fac igitur ut conualescas, curiae interfuturus antiquae: nos recepimus ius proconsulare, redierunt ad praefectum urbi appellationes omnium potestatum et omnium dignitatum’. 3 Item alia: ‘Claudius Sapilianus Cereio Maeciano patruo salutem. Obtinuimus, pater sancte, quod semper optauimus: in antiquum statum senatus reuertit. Nos principes facimus, nostri ordinis sunt potestates. 4 Gratias exercitui Romano et uere Romano: reddidit nobis, quam semper habuimus potestatem. 5 Abice Baianos Puteolanosque secessus, da te Vrbi, da te curiae: floret Roma, floret tota res publica; imperatores damus, principes facimus; possumus et prohibere, qui coepimus facere. Dictum sapienti sat est’. 6  Longum est omnes epistulas conectere, quas repperi, quas legi. Tantum 18 A proposito del raro gentilizio Autronius, che potrebbe davvero trascinare con sé un’assonanza avvertibile, dunque un parallelo allusivo al nome di Ausonius (figlio e padre), il commento rimanda con esclusiva certezza ad un omonimo personaggio di Sallustio (Catil. 18, 2). Aggiungerei che un altro Autronius è protagonista (pure assieme al figlio) di un exemplum storico evocato da Macrobio nei Saturnalia (1, 11, 3): dove il narrante (lo segnalo per curiosità) è Pretestato in continua tensione polemica verso Evangelo – figura negativa e antipatica, forse l’unico cristiano del dialogo, cui si fa svolgere nella fiction una parte simile a quella giocata cinquant’anni prima, nella realtà dei salotti romani, da Girolamo.

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illud dico senatores omnes ea esse laetitia elatos, ut in domibus suis omnes albas hostias caederent, imagines frequenter aperirent, albati sederent, conuiuia sumptuosiora praeberent, antiquitatem sibi redditam crederent.

Dall’euforia del periodo finale, dal tono ovunque percepibile entro i documenti – e tanto meglio per l’esserne contraffatti i contenuti – si capisce che avviene un trasferimento nel passato 19 di obiettivi da raggiungere in futuro, magari grazie al ripristino di forme e modalità di governo più vicine agli assetti, se non dell’antica repubblica, almeno della fase antoniniana della storia di Roma, quando a designare il princeps erano legittimamente chiamati i soli senatori. Ma a noi qui interessa la scelta delle nove città via via menzionate da Vopisco, che sono (in ordine di elenco): Cartagine, Treviri, Antiochia, Aquileia, Milano, Alessandria, Salonicco, Corinto, Atene. Seguendo sempre le orme di Johne, questa lista Paschoud ha voluto comparare con quella stilata da Ausonio per l’Ordo urbium nobilium, che dopo Roma e Costantinopoli include: Carthago, Antiochia, Alexandria, Treveris, Mediolanum, Capua, Aquileia, Arelas, Hispalis/Emerita 20, Corduba, Tarraco, Bracara, Athenae, Catana, Syracusae, Tolosa, Narbona, Burdigala. A me pare che poco si ricavi da questo confronto, salvo la prova di un’ottica regionalista che nel professore di Bordeaux spiega l’inserimento di alcune località della Gallia e della Spagna 21. Semmai vantaggioso è lo spoglio del primo elenco, allo scopo di individuare una logica che stia a monte della scelta. André Chastagnol, esperto di audace genialità, suggerì l’ipotesi che Vopisco facesse spedire dal Senato romano delle lettere anche alle assemblee dei Tessalonicesi e dei Corinzi per emulazione del prototipo di San Paolo 22. Aggiungerei che un’idea così bizzarra poteva venire al contraffattore tardoantico dalla prossimità interna del toponimo Atene, dunque da uno spontaneo collegamento della propria memoria con il famoso discorso dell’apostolo agli areopagiti (act. 17, 22-34). Diversamente interpretabile – sulla base dei contenuti dei messaggi – è invece l’indirizzo del senatus amplissimus alle due curie di Cartagine e Il tempo reale della cornice narrativa si colloca nell’autunno del 275. L’una o l’altra distinta urbs della Spagna compare alternativamente nei due rami principali della tradizione: Scafoglio 2012/13, 281-283. 21 Non si capisce se questo spieghi l’estromissione di Sirmium: ai suoi tempi, centro di primaria importanza strategica e politica; peraltro nominato con enfasi in altri componimenti, come la lettera a Probo e soprattutto la Gratiarum actio. 22 Chastagnol 1980, 59; non disapprova Paschoud 2002, 319; per taluni aspetti di evidente condivisione di una cultura ormai cristiana (o almeno di una buona conoscenza delle Scritture) nella Historia Augusta, Mastandrea 2017, 208 ss. 19

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di Treviri. Nel primo caso, solo una cronologia non anteriore agli anni quaranta del V secolo – dunque successiva alla caduta della capitale d’Africa in mano ai Vandali – può giustificare la stretta congruità col testo di una novella di Valentiniano III che sottomette le province africane al giudizio d’appello del praefectus urbi Romae 23. E solo un panorama storico nel quale l’orgogliosa Augusta Treverorum sia ormai passata sotto il controllo dei Franchi può dare un senso alle fantasie del biografo imperiale riguardo alla Roma Belgica 24. In definitiva, l’unico reale (e tangibile con certezza) spunto polemico riguarda Bisanzio, o meglio, i suoi abitanti sopravvissuti ai fatti bellici esposti nel resoconto di Gallieni duo (6, 8-9): Ac ne quid mali deesset Gallieni temporibus, Byzantiorum ciuitas, clara naualibus bellis, claustrum Ponticum, per eiusdem Gallieni milites ita omnis uastata est, ut prorsus nemo superesset. Denique nulla uetus familia apud Byzantios inuenitur, nisi si aliquis peregrinatione uel militia occupatus euasit, qui antiquitatem generis nobilitatemque repraesentet.

Il toponimo Constantinopolis non poteva esistere ancora, ai tempi in cui le Vitae (o la maggior parte di loro) si fingono redatte 25; e però, se l’impostura narrativa proibiva espliciti accenni ai mutamenti intervenuti dopo la ‘rifondazione’ della regia ciuitas sul Bosforo 26, le strane allusioni nell’ulti23 Se ne era accorto già Chastagnol 1960, 135 s. Il documento in questione (sotto il titolo «De tributis fiscalibus et de sacro auditorio et de diuersis negotiis», con data di Roma, 21 giugno 445) si trova in Nov. Valent. 13, 12: Quicumque etiam intra prouincias Africanas ad ius nostrum pertinentes a cuiuslibet iudicis sententia prouocauerint, quoniam decreti antiquitus cognitoris cessat officium, inlustris urbanae praefecturae examine ex appellatione se nouerint iurgaturos; sed quia transmarinae regionis sunt, indutias tempori annum debere praestari. Le ultime parole dichiarano il fatto che l’Africa proconsularis era priva di magistrato romano a causa della invasione vandalica: così Jones 1974, 1063 n. 24; Hohl 1985, 414 n. 98. 24 Hohl 1985, 414 n. 99. Il panorama geo-politico delle province occidentali che si delinea di conseguenza non è affatto compatibile con la cronologia assegnata di solito alla Historia Augusta; ma i pensieri dei commentatori tedeschi (pur così ‘destabilizzanti’ a tale riguardo) non hanno dovuto subire contrasti polemici all’altezza delle aspettative da parte di Paschoud 1996, 318-319. 25 Dai sedicenti Scriptores alcune delle Vitae sono dedicate ad augusti e cesari del periodo tetrarchico, altre a Costantino e ai suoi figli, immediati successori; Chastagnol 1994, LI. 26 Val la pena rileggere un’altra fonte tardoantica che dà notizie su eventi militari più tardi (324: la vittoria su Licinio di Costantino e suo figlio Crispo), ma fondamentali ai fini della scelta di allocare proprio a Bisanzio la sede della nuova capitale dell’impero; nel racconto della Historia Augusta il frasario dell’Anonymus Valesianus sembra aver lasciato qualche segno (1, 5-6): Dehinc fugiens Licinius Byzantium petit; quo dum multitudo dissipata contenderet, clauso Byzantio Licinius obsidionem terrenam maris securus agitabat. Sed Constantinus classem collegit ex Thracia. … Crispus cum classe Constantini

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mo periodo al fatto che non un solo esponente della nobiltà locale sopravvisse al massacro avvenuto durante una scorreria dei Goti nel 262/263, lascia scorgere in controluce la massima disistima verso i membri di una istituzione ben identificabile dai lettori: il senato della «seconda Roma» 27. Su questa base pressoché sicura 28 Johne innalzava il suo castello di argomenti probatori in materia di cronologia, volti a ridefinire i limiti da non oltrepassare, all’indietro come in avanti. Un procedimento che gli serviva per statuire via via dei termini post quos sfruttando allusioni malcelate a circostanze storiche collocabili sugli scorci del IV secolo, secondo ideali di stampo ‘repubblicano’ che comportano una serie di denunce: contro lo strapotere degli eunuchi, la inaccessibilità di un princeps ormai divenuto autocrate, le dinamiche della successione dinastica, le reggenze in nome di principi fanciulli, eccetera 29. L’elenco è lungo, e numerose le tracce cosparse nei propri scritti dal falsario, più o meno intenzionalmente; comunque nessuno degli anacronismi – lo si accennava all’inizio  – fornisce un punto fermo per segnare l’estremo temporale opposto: viceversa, i decenni che seguono l’enorme crisi del 406-410 offrono spesso ambientazioni e situazioni non meno adatte a evocare i contenuti del racconto. Ci sono ghiotti motivi perché una studiosa abbia scherzosamente definito la Historia Augusta «the hottest potato in historiographical research» 30.

Callipolim peruenit; ibi bello maritimo sic Amandum uicit, ut uix per eos qui in litore remanserant uiuus Amandus refugeret. Classis vero Licini uel oppressa uel capta est. Licinius, desperata maris spe, per quod se uiderat obsidendum, Chalcedonam cum thesauris refugit. Byzantium Constantinus inuasit, uictoriam maritimam Crispo conueniente cognoscens. … Constantinus autem ex se Byzantium Constantinopolim nuncupauit ob insignis uictoriae memoriam. Quam uelut patriam cultu decorauit ingenti et Romae desiderauit aequari: deinde quaesitis ei undique ciuibus diuitias multas largitus est, ut prope in ea omnes regias facultates exhauriret. Ibi etiam senatum constituit secundi ordinis; claros uocauit. 27 Un’assemblea in tutto e per tutto equiparata a quella della prima Roma dalla legislazione di Costanzo II nel 359. Di ‘presenze occulte’ della nuova capitale nella Historia Augusta si accorse, in uno dei suoi ultimi interventi (e pubblicato postumo) Chastagnol 1997. Il tema gode ora di grande dovizia di studi, per cui conviene rimandare a Moser 2018. 28 Proprio nel passo di cui parliamo si trova uno dei primi elementi sicuri individuati da Dessau (subito riconosciuto da Mommsen) quali indizi utili a smascherare la montatura su cui l’intera opera si regge. 29 Precisi rinvii ai luoghi del testo si trovano nella Introduction générale di Chastagnol 1994, CL e passim. 30 Nel contesto di una recensione critica a Cameron 2011: si tratta di Kahlos 2013, 343.

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3. – Sembrava arrivata l’occasione buona per archiviare un convincimento diffuso, ma errato: cioè che i (presunti) giudizi espressi dai (presunti) biografi intorno alle residenze imperiali, o ad altre urbes nobiles, comportino reali sostegni nel circoscrivere la cronologia dell’opera. Ma durante l’intervallo fra la relazione orale al convegno bolognese e l’attuale stesura a stampa – era la fine del 2018, quindi poche settimane dopo lo svolgimento del seminario – vedeva la luce il tomo IV.1 della Histoire Auguste, curato per la Collection Budé da François Paschoud. Abbiamo appreso allora, sulle pagine introduttive al volume con le Vite dei due Massimini, dei tre Gordiani e di Massimo e Balbino, come le idee del professore elvetico a proposito del terminus ad quem si siano tacitamente e quasi insensibilmente evolute: sebbene la probabile data di composizione del testo per lui continui ad oscillare all’altezza solita 31, era sparito qualunque esplicito richiamo alle Kaiserresidenzen 32. Con ciò, il fine dialettico se non l’intero senso del lavoro presentato al convegno rischiano di andare smarriti, venendo meno l’interlocutore più autorevole sulla specifica materia, il polemista più rigido verso le opinioni contrarie. Se così fosse, mi scuso con i lettori cui ho fatto perdere il loro tempo. Quanto ai rapporti fra le «due Rome» e agli statuti speciali di Costantinopoli, il problema presenta vari risvolti: conviene ora parlarne lasciando da lato l’Historia Augusta, cercando piuttosto di dare spiegazione ai quesiti sollevati dalle scarne notizie contenute nel De mensibus di Giovanni Lido 33 riguardo ai riti di fondazione della città. A tali cerimonie, accreditate di somma importanza giuridico-religiosa dagli studiosi contemporanei 34, ma pressoché neglette dalle fonti storiografiche bizantine, avrebbe preso parte di persona una delle figure più luminose dell’aristocrazia senatoria occidentale, rappresentante della cultura conservatrice Cioè, attorno all’anno 400: Paschoud 2018, XLIV. Grazie anche alla disinvolta cautela di un «più o meno rapidamente», Paschoud 2018, XXXIX si è risolto ad allargare l’intervallo: «La fourchette la plus vraisemblable reste pour moi celle qui s’ouvre avec le Frigidus et se referme plus ou moins rapidement après 410». 33 Il testo è quello fissato da Wuensch 1898. Svolge ora un ottimo servizio anche la traduzione inglese (accompagnata da agile commento) di Hooker 2017; dal curatore generosamente depositata a pubblico vantaggio presso l’indirizzo web www. roger-pearse.com/weblog/wp-content/uploads/2017/12/John-Lydus-On-the-Monthstr.-Hooker-2nd-ed.-2017-1.pdf; una sommaria recensione se ne può rinvenire in rete: bmcr.brynmawr.edu/2018/2018.09.05 (J. McAlhany). 34 Base di partenza per ogni esame dei documenti resta Mazzarino 1974, 122-131; nei decenni successivi la bibliografia si è incrementata, dividendosi nelle interpretazioni: da ricordare almeno Follieri 1981, oltre a quanto raccoglie nella sua ottima dissertazione Kahlos 2002, 17-20. Meritano comunque una visita le pagine à rebours di Cameron 2011, 609-613. 31

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romana: il pontefice Pretestato, che morì alla fine del 384, pochi giorni prima di entrare in carica quale console ordinario per l’anno successivo. La testimonianza viene da un passo del quarto libro dell’opuscolo lidiano dove si tratta del primo mese del calendario romano, Ἰανουάριος. Lo riportiamo col suo vicino contesto, che mostra ampie analogie 35 con un excursus sul dio Ianus, effettuato in apertura dei Saturnalia di Macrobio (1, 9) proprio dal personaggio di Pretestato. Si noti subito come la festività delle calende di Gennaio è qui menzionata esplicitamente almeno un paio di volte (mens. 4, 2): ὁ δὲ Βάρρων ἐν τῇ τεσσαρεσκαιδεκάτῃ τῶν θείων πραγμάτων φησὶν αὐτὸν παρὰ Θούσκοις οὐρανὸν λέγεσθαι καὶ ἔφορον πάσης πράξεως καὶ Ποπάνωνα διὰ τὸ ἐν ταῖς Καλένδαις ἀναφέρεσθαι πόπανα. Φοντήϊος δὲ ἐν τῷ περὶ ἀγαλμάτων ἔφορον αὐτὸν οἴεται τοῦ παντὸς χρόνου τυγχάνειν, καὶ ταύτῃ δωδεκάβωμον εἶναι τὸν αὐτοῦ ναὸν κατὰ τὸν τῶν μηνῶν ἀριθμόν. ὁ δὲ Γάβιος Βάσσος ἐν τῷ περὶ θεῶν δαίμονα αὐτὸν εἶναι νομίζει τεταγμένον ἐπὶ τοῦ ἀέρος, καὶ δι’ αὐτοῦ τὰς τῶν ἀνθρώπων εὐχὰς ἀναφέρεσθαι τοῖς κρείττοσι· ταύτῃ δίμορφος εἶναι λέγεται ἔκ τε τῆς πρὸς ἡμᾶς ἔκ τε τῆς πρὸς θεοὺς ὄψεως. καὶ ἐν τῇ καθ’ ἡμᾶς Φιλαδελφείᾳ ἔτι καὶ νῦν ἴχνος τῆς ἀρχαιότητος σώζεται· ἐν γὰρ τῇ ἡμέρᾳ τῶν Καλενδῶν πρόεισι ἐσχηματισμένος αὐτὸς δῆθεν ὁ Ἰανὸς ἐν διμόρφῳ προσώπῳ, καὶ Σατοῦρνον αὐτὸν καλοῦσιν οἷον Κρόνον. ὅ γε μὴν Λουτάτιος Ἥλιον παρὰ τὸ ἑκατέρας πύλης ἄρχειν, ἀνατολῆς ἴσως καὶ δύσεως. φασὶ δὲ τὸν αὐτὸν καὶ ἔφορον τῶν ἐπὶ πόλεμον ὁρμώντων τυγχάνειν καὶ διὰ μὲν τῆς μιᾶς ὄψεως ἀποπέμπειν διὰ δὲ τῆς ἑτέρας ἀνακαλεῖσθαι τὸ στράτευμα. ὁ δὲ Πραιτέξτατος ὁ ἱεροφάντης, ὁ Σωπάτρῳ τε τῷ τελεστῇ καὶ Κωνσταντίνῳ τῷ αὐτοκράτωρι συλλαβὼν ἐπὶ τῷ πολισμῷ τῆς εὐδαίμονος ταύτης πόλεως, δύναμιν αὐτὸν εἶναί τινα βούλεται ἐφ’ ἑκατέρας Ἄρκτου τεταγμένην καὶ τὰς θειοτέρας ψυχὰς ἐπὶ τὸν σεληνιακὸν χορὸν ἀποπέμπειν. καὶ ταῦτα μὲν οἱ Ῥωμαίων ἱεροφάνται κτλ. 36 35 Citazione dalle Antiquitates divinae di Varrone (cf. Macr. Sat. 1, 9, 16: in ditione autem Iunonis sunt omnes Kalendae, unde et Varro libro quinto Rerum divinarum scribit Iano duodecim aras pro totidem mensibus dedicatas), esplicito e autobiografico riferimento alla città di Filadelfia di Lidia: occasione per ribadire la vitalità di una festa assai popolare – il Capodanno – vanamente contrastata dalle autorità ecclesiastiche lungo i secoli, già a partire dal tempo dei Teodosidi. Si porti attenzione sul particolare modo in cui, nel contesto del racconto (anche infra, sul principio di mens. 4, 3), gli accenni alla festa delle calende di gennaio si intrecciano alla notizia su Pretestato. Si veda inoltre, qui sotto, la n. 42. 36 «Nel libro quattordicesimo Rerum divinarum, Varrone afferma che Giano dagli Etruschi è chiamato ‘Cielo’, e ‘Ispettore’ di ogni azione, e anche ‘Popanone’, in virtù del fatto che focacce [gr. popana] gli sono offerte nel giorno delle Calende. Nell’opera De statuis, Fonteio ritiene che egli debba essere il controllore generale del tempo: per questo il tempio di Giano ha dodici altari, in parallelo col numero dei mesi dell’anno. Gavio Basso, nel trattato De dis, lo considera il demone preposto allo spazio aereo, per il cui tramite le preghiere umane si innalzano alla potenza dei numi; perciò è detto biforme, avendo lo sguardo rivolto sia verso di noi che verso gli dèi. Nella città di Filadelfia

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La sorprendente notizia finale, relativa a Pretestato e ai «pontefici romani», ha provocato autorevoli discussioni e giustificazioni ingegnose, ma nessuna capace di rimuovere i dubbi fondamentali sull’attendibilità del racconto 37; certo è difficile accordare la cronologia dei contenuti con quanto già sappiamo sulla prosopografia di un personaggio nato intorno al 320; a meno di immaginarsi un bambinello atto a sovrintendere riti religiosi di suprema importanza per le sorti della nuova città e dell’impero stesso, quali la inauguratio del 18 novembre del 324, la consecratio del 26 novembre del 328, soprattutto la dedicatio del 330, avvenuta l’11 maggio. 38 Nei secoli futuri quest’ultima data del calendario avrebbe coinciso con il dies natalis della Nuova Roma. Il sospetto che vi sia stato uno sbaglio di Lido, o delle sue fonti, o di chi in seguito abbreviò il testo, pare legittimo: eventuali confusioni dipenderanno pure da una certa frettolosità, rilevabile altrove nei suoi scritti 39; ma se il compilatore sbrigativo potrà essere talvolta accusato di occasionali sciatterie o inaccuratezze, in nessun caso egli si fa trovare responsabile di alterazioni fraudolente e metodiche della realtà storica – del tipo che rinveniamo ad apertura di libro nella Historia Augusta. Esiste una maniera per interpretare l’errore (o forse meglio: l’equivoco) in cui Lido sembra essere caduto; per non dover spiegare l’altrimenti inspiegabile (o almeno improbabile) presenza di Pretestato al polismòs di Costantinopoli, in tempi così precoci rispetto all’età della sua vita. Dal cursus delle cariche pubbliche da lui ricoperte, e da testimonianze storioancor oggi si conserva questa traccia dell’antichità; il giorno delle Calende lo stesso Giano procede, addobbato allegoricamente con doppia fronte: e lo chiamano Saturno, cioè Crono. Lutazio invece crede vada identificato con il Sole, per via del fatto che presiede ad entrambe le porte celesti – dell’oriente e dell’occidente. Dicono pure sia il protettore di quanti vanno in guerra: per una delle due fronti fa uscire l’esercito, per l’altra lo richiama indietro. Il pontefice Pretestato, collaboratore alla fondazione di questa fortunata città unitamente al sacerdote Sopatro e all’imperatore Costantino, vuole che Giano sia una entità posta a dominare sulle due Orse, così da spedire le anime più divine al coro lunare. Sin qui le teorie dei sacerdoti Romani». 37 Così almeno conclude Kahlos 2002, 204-205; al serrato dibattito hanno preso parte fra gli altri, Cracco Ruggini 1979 e Calderone 1993, nel tentativo di difendere la compatibilità cronologica della data di nascita di Pretestato e dei riti cui egli avrebbe (quanto meno) presenziato; scettico Fraschetti 1999, 67-68, che pensava invece a un suo omonimo parente. Se è davvero lui il bersaglio del carmen contra paganos, si ricava che Pretestato aveva sessant’anni esatti (Anth. Lat. 4, 67: sexaginta senex annis durauit ephebus) al momento della morte, caduta alla fine del 384. 38 Per una discussione allargata ad aspetti inattesi del problema, Del Ponte 2003, 146-150; Iannelli 2014, 267-273. 39 Su analoghe perplessità relative al trattamento delle fonti, ho fornito saggi sul metodo di lavoro del compilatore e una bibliografia aggiornata in altre occasioni: Mastandrea 2012; 2012b; 2013.

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grafiche di assoluta fiducia, apprendiamo che il pontefice risiedette per qualche tempo nella capitale sul Bosforo, in circostanze quasi altrettanto rimarchevoli per significato politico e ideologico. Erano gli inizi del 362 e da meno di un mese – dopo venticinque anni – il mondo romano si trovava riunificato sotto un solo Augusto. Ma cerchiamo di offrire coordinate storiche più precise agli avvenimenti. Il predecessore di Giuliano, il cugino Costanzo, che noi moderni possiamo considerare ‘primo imperatore d’oriente’, era stato proclamato Cesare da suo padre lo stesso giorno della rifondazione (e ridenominazione) di Bisanzio 40. Sembra piuttosto plausibile che il nuovo principe cercasse di reinstaurare al più presto quelle sacre cerimonie e riti tradizionali che – come il solo Lido ricorda – da Costantino erano stati regolarmente compiuti, ma dopo di allora (forse del tutto) trascurati. La presenza fisica a Costantinopoli del pontefice Pretestato – da poco nominato proconsole di Achaia – poteva offrire un robusto sostegno per rinvigorire l’antagonismo allo strapotere del cristianesimo, favorito sino a poche settimane prima dal piissimus Costanzo. Il racconto di Ammiano Marcellino è al riguardo piuttosto esteso ed esplicito. Nell’autunno del 361, durante la marcia alla testa delle sue legioni verso la capitale sul Bosforo, il giovane imperatore ‘ribelle’ venne a sapere che il cugino era morto, indicando lui come legittimo successore (Amm. 22, 2, 1). Poté dunque entrare pacificamente a Costantinopoli il giorno 11 dicembre, accolto dall’unanime plauso del senato e del popolo, dei militari e dei burocrati. Sin dai primi adempimenti richiesti alla sua autorità – che lo storiografo narra nei particolari minuti, con rara onestà di intelletto e imparzialità di giudizio – Giuliano agì risolutamente; sino ad allora aveva praticato i riti del politeismo occultissime, ma ora che i timori non avevano più ragion d’essere (22, 5, 2) «manifestò le segrete credenze del suo petto, con decreti chiari e non equivocabili decise si riaprissero i templi, si portassero vittime agli altari, insomma si ristabilisse il culto degli dèi» 41. Arrivò presto la ricorrenza delle calende di gennaio, che oltre a segnare l’inizio dell’anno civile con l’entrata in carica dei nuovi consoli, dava luogo a riti domestici intensi e feste popolari assai frequen-

Era il giorno 18 novembre del 324, come si è visto. Amm. 22, 5, 1-2: et quamquam a rudimentis pueritiae primis inclinatior erat erga numinum cultum paulatimque adulescens desiderio rei flagrabat, multa metuens tamen agitabat quaedam ad id pertinentia, quantum fieri poterat, occultissime. Vbi uero abolitis quae uerebatur, adesse sibi liberum tempus faciendi quae uellet aduertit, pectoris patefecit arcana et planis absolutisque decretis aperiri templa arisque hostias admouere et reparari deorum statui cultum. 40

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tate 42. Lasciamo ancora parlare Ammiano, nel capitolo delle Historiae che si intitola «Iulianus Constantinopoli saepe ius dicit in curia» etc. (22, 7) ed inizia così enfaticamente: 1 Adlapso itaque Calendarum Ianuariarum die cum Mamertini et Neuittae nomina suscepissent paginae consulares, humilior princeps uisus est, in officio pedibus gradiendo cum honoratis, quod laudabant alii, quidam ut adfectatum et uile carpebant.  2  Dein Mamertino ludos edente circenses, manu mittendis ex more inductis per admissionum proximum, ipse lege agi dixerat, ut solebat, statimque admonitus iuris dictionem eo die ad alterum pertinere, ut errato obnoxium decem libris auri semet ipse multauit. 3  Frequentabat inter haec curiam agendo diuersa, quae diuisiones multiplices ingerebant. Et cum die quodam ei causas ibi spectanti uenisse nuntiatus esset ex Asia philosophus Maximus, exsiluit indecore eqs. …

Sappiamo quale entusiasmo spingesse Giuliano verso la misteriosofia e la teurgia dei neoplatonici. E qui, accanto all’ormai anziano maestro orientale Massimo di Efeso, fa comparsa nella narrazione una figura destinata per oltre un ventennio successivo a vivere da protagonista le principali vicende storiche, politiche, religiose della vecchia Roma, in un turbinìo di metamorfosi sociali e culturali senza precedenti per il mondo antico 43: 6  Aderat his omnibus Praetextatus, praeclarae indolis grauitatisque priscae senator, ex negotio proprio forte repertus apud Constantinopolim, quem arbitrio suo Achaiae proconsulari praefecerat potestate.

La sensibilità del nuovo principe avrà allora avvertito un impulso esigente di ‘risacralizzare’ (il che significava un tentativo di ‘decristianizzare’) la regia urbs: nella quale sorgeva da meno di due anni, proprio accanto al Magnum palatium, sul sito della odierna basilica di Ayasofya, la Μεγάλη Ἐκκλησία fatta costruire da Costanzo II 44. L’ipotesi è quindi che Lido abbia unificato la cronaca di fatti diversi, fondendo assieme le varie cerimonie inaugurali tenutesi alla presenza di Costantino, con i riti per l’entrata in ca42 Gli studi sulla festa delle calende, aperti dal saggio veramente pionieristico di Meslin 1970, hanno mostrato la vitalità e popolarità della festa pagana: malgrado la strenua opposizione della Chiesa, capace di adattarsi e convivere coi rituali del cristianesimo nei secoli del medioevo e oltre. Eccellente, da ultimo, Graf 2015, 128-162, 219-225. 43 Si avverte un qualche legame narrativo e linguistico fra l’espressione di Ammiano Aderat his omnibus Praetextatus e il racconto di Lido, con quel Πραιτέξτατος … συλλαβὼν ἐπὶ τῷ πολισμῷ di Costantinopoli: parallelismo che suggerisce schemi prosopografici speculari dove il pontefice romano da una parte affianca nella realtà l’imperatore Giuliano e il filosofo Massimo di Efeso, dall’altra ha per compagni fittizi l’imperatore Costantino e il filosofo Sopatro di Apamea. 44 Si veda da ultimo lo specifico studio di Taddei 2017.

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rica dei nuovi consoli nel gennaio del 362, mentre era da poco imperatore il nipote Giuliano. Un avvicendamento erroneo di situazioni separate nel tempo da tre o quattro decenni, prodottosi forse per responsabilità incolpevole (ad esempio, la giustapposizione affrettata di schede cronologiche e dossografiche), forse per timoroso ritegno a citare l’Apostata. È lecito supporre che un burocrate ‘criptopagano’ di età giustinianea 45 provasse un genuino interesse verso la figura del pontefice Pretestato (il cui nome egli poteva ricavare da gran numero di fonti a lui care), ma a distanza di due secoli abbia mescolato cerimonie e rituali diversi, anticipando alle varie fasi e date della rifondazione della città una presenza a Costantinopoli che è attestata invece nel 362, alla festa delle calende di gennaio, in occasione dei vota per l’entrata in carica dei consoli. Se di malizia comunque si trattò, l’anacronismo intenzionale di Lido consiste nel fatto che Pretestato non avrebbe potuto svolgere il ruolo di ‘fondatore di Costantinopoli’, per la giovane età; ma a distanza di un paio di secoli, la sua vita rappresentava ancora un modello esemplare di civismo politico e moralità patriottica, di studio devoto al misticismo neoplatonico e insieme ai culti romani tradizionali; una figura di altissimo profilo, per ciò stesso divenuto bersaglio di intolleranza faziosa e ostilità implacabile da parte degli avversari religiosi 46; di contro, da princeps religiosorum e sacrorum omnium praesul protagonista autentico di quei Saturnaliorum libri che potevano offrire il migliore dei paralleli tematici e dei riferimenti ideologici alla sua trattazione Περὶ τῶν μηνῶν. Sicuramente, come Kaldellis ha scritto per inciso, «Lydos can in some ways be considered the Macrobius of the eastern empire».

Della dissidenza verso Giustiniano tracciano un quadro a tinte piuttosto marcate gli studi di Kaldellis 2003; Kaldellis 2005; inoltre Mastandrea 2012a; Pellizzari 2016. La citazione a chiusura del presente articolo è in Kaldellis 2013, 195. 46 Egli è con tutta evidenza (o certezza: Cameron 2011, 273-319) il bersaglio dell’anonimo Carmen contra paganos. Dopo la morte del miserabilis Praetextatus, San Girolamo lo chiamava homo sacrilegus et idolorum cultor; fornisce le testimonianze complete (anche di segno opposto, compresi i rinvii al dialogo di Macrobio) Kahlos 2002, 11-12. 45

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Appendice di opinioni sulla Historia Romana di Simmaco e la divisione in libri della Historia Augusta

CROKE 1983, 94: What is remarkable about this passage is that closely resembles that of the ‘Historia Augusta’ on Maximinus. Indeed, the resemblance is so close that, were it not for the fact that the ‘HA’ is so firmly dated now to the late fourth century, one would be tempted to suspect that Symmachus was its author. CALLU 1985, 119: Dans l’Ordo generis Cassiodororum la grammaire n’interdit pas de poser parentesque suos imitatus … edidit en facteur commun aussi bien à Historiam Romanam qu’à septem libris. Puisque, par ailleurs, Symmaque descend en droite ligne des Nicomaque, l’un, auteur des Annales dédiées à Théodose, l’autre, l’éditeur présumé de l’Histoire Auguste […] on serait tenté de boucler la boucle et de conclure: au moment où il rédigeait son Histoire Romaine, c’est-à-dire vers 520, Symmaque disposait, dans une certaine mesure, comme modèle d’une Histoire Auguste redistribuée en sept livres. ZECCHINI 1993, 46-47: […] per Simmaco l’Historia Augusta costituiva un bene di famiglia, una preziosa eredità, […] è molto probabile che egli [ne] curasse una vera e propria nuova edizione; […] l’oggi perduto codice Murbacense […] conservava infatti traccia di una suddivisione dell’HA in 7 libri. BALDINI 2007, 16, 22, 27: […] proiettando da Massimino agli altri imperatori, se questi erano trattati in maniera analoga, l’immagine della Storia Romana [di Simmaco] diventa quella di un’opera estremamente massiccia; e che pensare ancora dei periodi precedenti e seguenti a quelli compresi nella Historia Augusta? Oppure, questa Storia Romana era un pura e semplice trascrizione in forma storica, con interventi letterari qua e là, della Historia Augusta? […] se operiamo una proiezione su scala generale di quanto è in questo solo passo, siamo costretti ad immaginare un’opera storica dalla configurazione aberrante, se per ogni imperatore era compreso quanto è nelle singole Vite dell’Historia Augusta; […]. Ipotizzare sulla base di Jordanes gli estremi comprensivi di questa Storia Romana, dove cioè iniziasse e dove finisse, sarebbe allo stato presunzione ai limiti dell’arroganza. È sufficiente forse suggerire che si occupasse di storia imperiale, ricalcando l’intelaiatura enmanniana, con puntualizzazioni o arricchimenti tratti da altre opere del patrimonio culturale della famiglia, segnatamente Orosio e la Historia Augusta. GIROTTI 2009, 408: Della Storia Romana di Memmio Simmaco rimane un passo citato da Jordanes nei Getica, relativo a Massimino il Trace. In questo passo Simmaco viene sì citato, ma in pratica quanto gli viene attribuito non è altro che uno spezzone della vita di Massimino dalla Historia Augusta.

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Tutela e reficere: aspetti della politica edilizia nel Tardoantico Salvatore Puliatti *

RIASSUNTO: Il saggio intende illustrare l’attenzione rivolta in particolare dal giurista Callistrato, in età severiana, ad alcuni orientamenti della politica edilizia di Antonino Pio. Dalla attestazione del giurista in D. 50, 10, 7 emerge con chiarezza una linea rivolta al contenimento delle spese per attività edilizia che privilegia il tutari e il reficere rispetto alla realizzazione di operae novae. Si tratta peraltro di una linea che, come il saggio evidenzia, trova conferma in età tardoimperiale, in particolare attraverso alcuni provvedimenti di Valentiniano I. ABSTRACT: The essay focuses on the interest shown especially by Callistratus, a jurist of the severian age, for some policy building guidelines of Antoninus Pius. A fragment of Callistratus handed down in D. 50, 10, 7 sheds light on a policy of cost-containment that favors tutari and reficere more than the creation of operae novae. It’s a line which, as the essay highlights, finds confirmation in the late imperial age, in particular through some provisions of Valentinian I. KEYWORDS: Antonino Pio; Antoninus Pius; Callistrato; Callistratus; Roman law;

Impero tardoantico; Late Empire; legge romana; Roman law; Valentinian I; Valentiniano I.

È noto come di recente siano state presentate numerose proposte di legge in tema di contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato 1. Lo sfruttamento eccessivo del suolo, così come il suo stato di degrado ed eccessiva cementificazione, non rappresenta purtroppo una novità 2. Spinte al contenimento nell’utilizzo del suolo e al contrasto a * Università degli Studi di Parma.

1 In proposito cf. Bencardino 2015, 217-237; Iovino 2015, 491-514 (con bibliografia in argomento). 2 Il suolo è una risorsa non rinnovabile che l’uomo, con le sue attività, consuma: le abitazioni, le strade, le ferrovie, i porti, le industrie occupano porzioni di territorio

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impieghi di risorse non razionali o dettati da puri intenti speculativi non sono estranee all’esperienza storica e in particolare a quella del mondo romano. Che una disciplina edilizia e specifiche linee politiche di intervento non siano mancate in quell’età è testimoniato non solo dalle norme risalenti (XII Tavole) che stabilivano limiti e distanze tra le costruzioni e fissavano criteri e regole secondo cui organizzare l’assetto urbano e rurale 3, ma anche dalle numerose disposizioni emanate nel corso dell’età imperiale che estesero le restrizioni poste alla proprietà privata dalla tutela degli interessi dei proprietari finitimi alla considerazione delle ragioni di pubblico interesse legate all’assetto edilizio complessivo dell’ambiente urbano. In quest’ottica particolare rilievo assunse la crescente regolamentazione della costruzione e sopraelevazione degli edifici e dell’uso dei materiali da costruzione, che, se da un lato finì col porre ulteriori limiti alla libera esplicazione del diritto di proprietà, dall’altro intese corrispondere ai disagi che andavano diffondendosi nei centri urbani più congestionati, tra i quali soprattutto Roma 4. Per ovviare a questi inconvenienti numerotrasformandole in modo pressoché irreversibile. Il ritmo di questi processi è cresciuto parallelamente allo sviluppo delle economie: quello dell’aumento del consumo di suolo è dunque divenuto un fenomeno globale, ma che risulta più problematico in paesi di antica e intensa antropizzazione come il nostro, in cui, per la scarsità di suolo edificabile, l’avanzata dell’urbanizzazione contende il terreno all’agricoltura e spinge all’occupazione di aree sempre più marginali, se non addirittura non adatte all’insediamento, come quelle a rischio idrogeologico. Non è estranea a questo fenomeno la spinta speculativa giocata sul differenziale di valore dei suoli conseguente allo svuotamento della funzione abitativa della città, con il suo allontanamento dai centri urbani. Uno spazio urbano meno presidiato e un territorio rurale suburbanizzato sono tra i risultati di questo processo. Di qui il largo dibattito generatosi nell’opinione pubblica e la ricerca di strumenti legislativi volti a disciplinare il fenomeno. 3 In forza di tali regole, ad esempio, il proprietario di un fondo non poteva utilizzare il terreno sino al confine, ma doveva lasciare libera per il passaggio una striscia, adiacente al confine, di due piedi e mezzo, sicché tra edifici o fondi confinanti venisse a determinarsi una striscia, libera e inusucapibile, detta rispettivamente ambitus o iter, di complessivi cinque piedi (cf. XII Tab. 7, 4). 4 Inizialmente, in particolare quest’ultima, era stata costruita in modo razionale e ordinato, secondo i criteri etruschi e con l’osservanza delle norme decemvirali sulle distanze tra gli edifici. Ma poi, all’indomani del rovinoso incendio gallico del 387, la ricostruzione del centro della città venne realizzata frettolosamente in aperta violazione delle disposizioni vigenti, non tanto per la necessità di approntare in tempi brevi le abitazioni, quanto per l’avidità di alcuni astuti speculatori, che colsero l’occasione dell’emergenza per lucrare lauti guadagni dall’edificazione di case a più piani (insulae), prive di adeguati impianti fognari, costruite in economia, con materiali scadenti e senza il rispetto delle distanze legali. Tra l’altro la desuetudine di tali distanze determinò il fenomeno del muro comune, giuridicamente regolato dalle norme sulla comunione. Ne conseguì una situazione insostenibile di sovraffollamento, che, per l’angustia dei vicoli e delle intercapedini e per l’altezza di palazzine dalla pessima statica, cagionò una serie di crolli e di incendi. Se la crescita in altezza degli edifici fu in origine un espediente

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se limitazioni furono progressivamente poste, tra Principato e Impero, a specifico carico dei proprietari, in ordine alla costruzione degli edifici urbani e alla libera disposizione degli immobili rustici. Augusto intervenne per vietare la costruzione di edifici più alti di 70 piedi (circa 21 mt), che corrispondevano a un massimo di sei piani 5. Durante l’epoca di Traiano la massima altezza consentita fu ridotta a 60 piedi, forse proprio a causa di molti crolli 6. Non si sa tuttavia fino a che punto i costruttori si attenessero a questi limiti. È possibile che li rispettassero solo per quel che riguardava le facciate, e che nelle parti rivolte verso l’interno si alzassero altri piani. Ci sono comunque evidenti indizi che attestano l’aggiramento delle prescrizioni 7 e in seguito fu più volte ribadito l’obbligo di osservare le distanze legali tra le abitazioni. Inoltre nel corso dell’età imperiale si avvertì l’esigenza di preservare l’aspetto dell’edilizia di pregio e allora, per tutelare il decoro urbano, numerosi senatoconsulti e alcune leggi vietarono la demolizione di edifici per riutilizzarne i materiali e l’asportazione di ornamenti dei palazzi 8. Se ciò è vero per quanto riguarda l’edilizia privata, non minore incisività assunse l’intervento della normazione imperiale per quanto riguarda l’edilizia pubblica. Sia sotto il profilo del consumo del suolo che sotto quello del decoro urbano le attestazioni dei giuristi ci testimoniano come comprensibile e sensato, al fine di bilanciare gli alti prezzi delle aree fabbricabili nel centro cittadino (data la loro scarsità) e per contenere il consumo di suolo, e se Vitruvio (De arch. 2, 17) poteva verso la fine della Repubblica ancora descrivere le abitazioni dei piani superiori come dotate almeno di «bella vista» – chiudendo tuttavia, ad maiorem Urbis gloriam, gli occhi di fronte ai rischi di cui era perfettamente consapevole –, alcuni decenni dopo la speculazione irresponsabile e gli squali dell’edilizia avevano talmente rovinato la qualità e la sicurezza delle insulae, che chiunque interpretava la frase di Giovenale, d’una «Roma per la maggior parte basata su deboli pilastri» (sat. 3, 1-20), come un’allusione alla precaria stabilità di molte case d’abitazione. In argomento cf. Murga 1976, 153-187; Sargenti 1983, 265-84; Robinson 1992, 29-51; Sargenti 1992, 637-655; AA.VV. 2000, partic. 173-315; Nasti 2006, 161-224; Bottiglieri 2010, 1-28. 5 Cf. Strab. Geog. V 3, 7; Tac. Hist. 2, 71; Gell. Noct. Att. 15, 1, 2; Mart. Epigr. 1, 117, 7. Per la lex Iulia de modo aedificiorum, Rotondi 1912, 447. 6 Aur. Vit. Epit. de Caes. 13, 13. 7 Anche se i 200 stadi – circa 30 mt – menzionati da Marziale (Epig. 6, 38, 6) vanno accolti come una licenza poetica. Cf. in proposito Wallace-Hadrill 2000, 173-220, partic. 202-203, ove lo studioso sottolinea come, se da un lato gli imperatori spingevano «per imporre l’ordine», dall’altro le costruzioni private erano «nelle mani di tutta una serie di speculatori privati». 8 Interventi già sul finire del I secolo, legati all’attività di ricostruzione dell’area vesuviana, sono testimoniati dai Sc. ‘Osidiano’ e ‘Volusiano’ rispettivamente del 47 e del 56 d.C., su cui cf. Buongiorno, CIL X, 1401 e il senatus consultum ‘Osidiano’, in IURA 58 (2010), 234-251. Per un più ampio esame delle politiche seguite e delle provvidenze poste in essere in età classica e postclassica si veda Franchini 2016, 693-736.

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numerose furono le prese di posizione degli imperatori in età del Principato. Da questo punto di vista particolare rilievo assume la figura di Callistrato, uno degli ultimi rappresentanti della giurisprudenza di età severiana, di origine provinciale, attento ai riflessi sociali ed economici dei fenomeni giuridici 9. Di questa peculiarità 10 forniscono testimonianza numerosi frammenti a lui riferibili e tra questi a offrire indicazioni particolarmente utili a formulare considerazioni più approfondite riguardo al tema in esame è D. 50, 10, 7: D. 50, 10, 7 (Call. l. 2 de cogn.): Pecuniam quae in opera nova 11 legata est, potius in tutelam eorum operum quae sunt convertendam, quam ad inchoandum opus erogandam divus Pius rescripsit: scilicet si satis operum civitas habeat et non facile ad reficienda ea pecunia inveniatur.

9 È noto come la personalità di Callistrato si distingua per spiccate note di originalità nel panorama della giurisprudenza di età tardoclassica. La propensione ad affrontare tematiche nuove si collega con le peculiari scelte metodologiche del giurista, volte a offrire precisi inquadramenti sistematici delle materie affrontate. Le trattazioni dedicate allo ius fisci e alla cognitio extra ordinem rappresentano chiare manifestazioni di queste tendenze proponendo uno sforzo significativo di sistemazione organica di quelle materie, cui sul finire del Principato con più attenzione e più adeguata maturità si rivolgeva la riflessione giurisprudenziale. Una chiara indicazione delle linee di tendenza della produzione del giurista e degli orientamenti prevalenti da lui seguiti in Bonini 1964, 6 e 11-28, che già nelle pagine introduttive precisa come in Callistrato si delinei «una personalità ricca di interessi nuovi, formatasi a stretto contatto con la pratica provinciale, ma tendente ad elevarsi ad una visione unitaria e meditata dei fenomeni vissuti, e addirittura ad una loro sistemazione didattica». Considerazione del rilievo assunto in questi scritti del giurista dai profili di trattazione organica della materia in Puliatti 1992, 24-34, ove, con riferimento al De cognitionibus, si sottolinea come la sistemazione non si esaurisca nello schema classificatorio delle singole realtà istituzionali su cui si struttura il processo, ma aspiri a una prospettiva di natura teorica, implicante un’operazione di logica giuridica capace di trascendere quelle stesse realtà. 10 In quest’ottica anche la legislazione imperiale perde il proprio carattere contingente per inserirsi in un più armonico quadro degli istituti considerati e su di essa non manca di esercitarsi lo sforzo interpretativo di Callistrato, con risultati talvolta più efficaci e acuti di quelli offerti da altri giuristi, ottenuti attraverso il ricorso ad analogie e adattamenti spesso assai arditi. Accanto a queste linee di tendenza un’altra caratteristica metodologica della trattazione di Callistrato emerge con notevole evidenza dai suoi scritti: l’interesse del giurista per un esame dei problemi giuridici più completo di quello esclusivamente formale. É in questo quadro che particolare rilievo assume l’attenzione per gli aspetti sociali ed economici delle questioni esaminate. Proprio questo dato costituisce una delle componenti più nuove e importanti della personalità del giurista. Così Bonini 1964, 67. 11 Per il problema della soppressione del termine nova dal brano di Callistrato in conseguenza del contrasto ravvisato con la disciplina di D. 50, 8, 7 (5) di Paolo cf. Bonini 1964, 73 e n. 60.

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Nel frammento Callistrato affronta il problema della convertibilità del modus apposto a un legato a favore di una comunità 12. Il giurista si rifà in proposito a un rescritto di Antonino Pio, il quale stabiliva che le somme legate per nuove opere dovessero essere piuttosto impiegate nel restauro di quelle esistenti anziché nell’iniziarne altre 13. L’ammissibilità della conversione, sia pure dietro autorizzazione imperiale, appare dunque confermata attraverso il riferimento al testo della disposizione antonina 14. Anzi, il giurista si distacca dalla precedente impostazione seguita in proposito da Aburnio Valente (fine I - inizio II sec.), che nella sua opera de fideicommissis aveva accentuato l’indirizzo della inconvertibilità mitigata dal possibile intervento imperiale: D. 50, 8, 6 (4) (Val. 2 fideic.): Legatam municipio pecuniam in aliam rem quam defunctus voluit convertere citra principis auctoritatem non licet. Et ideo si unum opus fieri iusserit, quod Falcidiae legis interventu fieri non potest, permittitur summam, quae eo nomine debetur, in id, quod maxime necessarium rei publicae videatur, convertere: sive plures summae in plura opera legantur et legis Falcidiae interventu id quod relinquitur omnium operum exstructioni non sufficit, permittitur in unum opus, quod civitas velit, erogari …

Proprio in apertura del frammento da lui dedicato all’argomento Callistrato accentua invece, mettendola in evidenza, la diversa linea preferita 15, ossia il profilo della convertibilità, a testimonianza della sua ormai acquisita praticabilità, richiamando la disciplina favorevole stabilita dall’intervento imperiale in proposito 16. Il giurista non si ferma però al 12 Quello di disporre un legato a favore di una città onerandola contestualmente dell’incarico di eseguire determinate prestazioni era la modalità usuale utilizzata per la destinazione di beni economici al perseguimento di finalità di utilità collettiva; la perpetuità dell’ente onerato assicurava infatti la continuità della prestazione richiesta. Attestazioni circa disposizioni di questa natura e del regime relativo in D. 30, 122 pr. (Paul. 3 reg.) e in D. 30, 117 (Marc. 13 inst.). Più ampi richiami in Vocia 1967, 424 e n. 96. 13 La datazione del rescritto rimane incerta e lo stesso tenore letterale del testo imperiale così come riportato dal giurista, in forma indiretta, ha suscitato perplessità. In proposito cf. Bosso 2006, 277-286. 14 In proposito per la riferibilità del testo in esame e più in generale dell’opera di Callistrato ad aree periferiche cf. Talamanca 1976, 146-159. 15 La presa di posizione del giurista ricordato, nell’opera De fideicommissis, appartiene peraltro a epoca assai più risalente rispetto alla soluzione proposta da Callistrato nel De cognitionibus. Per l’applicazione dei limiti della lex Falcidia nel legato ad opus publicum faciendum con riguardo alla politica imperiale seguita in età severiana e in particolare alle linee rigide osservate da Alessandro Severo cf. Nasti 2006, 204-212. 16 L’affermazione del principio della convertibilità era frutto di una evoluzione storica di cui peraltro non è possibile ricostruire i particolari. In proposito cf. Suet. Tib. 31; D. 33, 2, 16 (Mod. 9 resp.); D. 33, 2, 17 (Scaev. 3 resp.); D. 50, 8, 1 (Ulp. 10 disp.).

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semplice richiamo del rescritto di Antonino Pio, ma si propone di evidenziare come fossero necessarie precise ragioni per giustificare l’ammissibilità della conversione. A questo fine a essere sottolineati sono proprio i fattori economici, a testimonianza della importanza loro assegnata da Callistrato. E così egli precisa come vadano ricercati nella presenza sufficiente di opere nella città e nell’insufficienza di denaro per il loro restauro i criteri di cui tener conto nella concessione dell’autorizzazione imperiale 17. Il rescritto pone dunque come prioritaria un’esigenza di razionalizzazione delle risorse e di risparmio dei mezzi utilizzabili in realizzazioni pubbliche, mettendo in luce non solo la particolare attenzione dedicata dal giurista a quegli aspetti, ma anche l’interesse partecipe per le linee programmatiche seguite dall’imperatore in questo campo 18. Una considerazione delle medesime problematiche non era mancata nella riflessione giurisprudenziale che già con Paolo aveva sottolineato la priorità del reficere sulla realizzazione di una nova opera: D. 50, 8, 7 (Paul. 1 sent.): … Nisi ad opus novum pecunia specialiter legata sit, vetera ex hac reficienda sunt.

Il giurista precisava infatti che, se non c’era una destinazione specifica del legato alla realizzazione del novum opus, le somme dovevano essere destinate alla refectio. Callistrato però, diversamente da Paolo, non solo precisa che anche nel caso di destinazione generica a una nuova opera doveva prevalere la finalità della conservazione – in sintonia con la linea imperiale –, ma pone più propriamente l’accento sulla tutela dell’opera. Mentre infatti il reficere sottintende, come la restauratio, la rimessa in efficienza o la ricreazione, sottolineando una finalità insieme ricostruttiva e politica di rinnovamento o trasformazione di monumenti per esaltare, con la continuità della tradizione, il committente o l’imperatore 19, il termine tutela pare significare più modestamente un’attività di manuten17 Sottolinea questo aspetto Bonini 1964, il quale evidenzia come la parte finale del frammento, da scilicet in poi, contenga un chiarimento personale del giurista, «preoccupato della generalizzazione d’una soluzione legata a presupposti variabili per ogni caso». 18 Testimonia dell’attenzione di Antonino Pio per una attiva politica edilizia l’Historia Augusta (Vita Pii 4, 10 e 8, 4), su cui vd. infra nel testo. 19 L’attività del reficere andava dunque realizzata dove esistesse piena disponibilità di fondi e limitatamente a quei centri ove realmente mancassero edifici o questi fossero andati distrutti. In proposito si deve ad Adriano, con riferimento all’area asiatica (epistola Ad Strationicenses Hadrianopolitas del 127), l’obbligo della refectio coattiva degli edifici crollati e pericolanti (dalla quale il proprietario poteva liberarsi con l’alienazione della costruzione), ripreso poi in D. 1, 18, 7 di Ulpiano (3 opin.), che demandava ai praesides provinciarum di imporre ai proprietari la ricostruzione degli edifici pericolanti,

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zione, ancor meno esosa del reficere e da preporre ai progetti di nuove costruzioni. Del limitato ricorso a questa particolare e più circoscritta forma di intervento nel campo dell’edilizia pubblica reca traccia anche lo scarso utilizzo del termine tutela 20. Un accenno troviamo soltanto in Plinio il Giovane che, in un’epistola a Gallo, riferendosi alla propria villa affermava come essa necessitasse di una non sumptuosa tutela 21. Il ricorrere nel frammento di Callistrato di entrambe le espressioni, tutela e reficere, indicanti una linea contenitiva negli indirizzi economici seguiti, testimonia di quali fossero le principali scelte di politica edilizia dell’imperatore nelle province. La natura stessa del De cognitionibus e le probabili origini greche di Callistrato fanno presupporre che le indicazioni fossero rivolte soprattutto ad aree provinciali, probabilmente dei territori orientali, al fine di risolvere crisi locali nate da sperperi economici prodotti dalla aemulatio municipalis 22.

operazione accollata ai fondi pubblici ricavati dalla vendita dell’immobile in caso di mancato adempimento dell’obbligo. 20 Sottolinea come il termine tutela trovasse poca applicazione nel campo dell’edilizia pubblica Bosso 2006, 280, il quale rileva come di esso non si trovi traccia né nella trattatistica in materia, come il De architectura di Vitruvio, o in opere di erudizione, come il De lingua latina di Varrone, né nei testi giuridici. Questi, come visto, intorno alla metà del I secolo d.C. si erano rivolti più che altro a limitare, con i Sc. Hosidianum e Volusianum, le demolizioni negotiandi causa al fine di mantenere il decoro urbano da un lato e di frenare le speculazioni dall’altro. Il concetto di restauro di un immobile, per noi moderni sufficientemente chiaro, nell’antichità dava invece luogo a problemi, in quanto spesso veniva confuso con quello di ricostruzione. Nell’antichità, infatti, la ricostruzione di un edificio pubblico distrutto si configurava in parte come tale, ma in parte anche come restauro in quanto, per le difficoltà di reperimento e di trasporto del materiale per l’edilizia, nella ricostruzione venivano riutilizzati fino all’esaurimento tutti gli inerti giacenti nel circondario e ancora utilizzabili. Si trattava, dunque, di un lavoro di tipo misto, nello stesso tempo di reimpiego dell’esistente e di ricostruzione ex novo, una filosofia edilizia che si sviluppò particolarmente in età tardoantica, quando ci si trovò di fronte da un lato a una imponente presenza di manufatti provenienti dei secoli passati, dall’altro alla difficoltà di sostenere gli alti costi di reperimento di nuovi materiali edilizi. Così Piacente 2012, 377-387. 21 Plinio, Ep. 2, 17, 15: C. Plinius Gallo suo. Miraris cur me Laurentinum vel (si ita mavis), Laurens meum tanto opere delectet; desines mirari, cum cognoveris gratiam villae, opportunitatem loci, litoris spatium … Villa usibus capax, non sumptuosa tutela. [4] Cujus in prima parte atrium frugi, nec tamen sordidum; deinde porticus in D litterae similitudinem circumactae, quibus parvola sed festiva area includitur … Inde balinei cella frigidaria spatiosa et effusa, cujus in contrariis parietibus duo baptisteria velut ejecta sinuantur, abunde capacia si mare in proximo cogites. Adjacet unctorium, hypocauston, adjacet propnigeon balinei, mox duae cellae magis elegantes quam sumptuosae; cohaeret calida piscina mirifica, ex qua natantes mare aspiciunt, [12] nec procul sphaeristerium quod calidissimo soli inclinato iam die occurrit. 22 Così Bosso 2006, 277.

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La situazione economica dell’Asia minore, a partire dalla prima metà del II secolo, non era infatti particolarmente florida 23. Il benessere economico restava appannaggio di pochi e soprattutto nelle città si manifestava una sproporzione evidente tra i mezzi a disposizione e le crescenti esigenze, soprattutto in campo edilizio, che si intendeva soddisfare. Abbiamo conoscenza ad esempio, attraverso la corrispondenza tra Plinio e Traiano e i discorsi di Dione di Prusa, delle difficoltà cui erano andate incontro le città della Bitinia, che nei loro programmi edilizi avevano sperperato le finanze della comunità 24. Si veniva pertanto a creare una sorta di contrasto tra ricaduta sociale e convenienza economica dell’opera publica. Ad ovviare a questi inconvenienti si dirige appunto la politica edilizia e più in generale economica di Antonino Pio, che si rivolge a privilegiare la manutenzione del bene economico esistente rispetto a una nuova realizzazione, dando prevalenza a un’attenta valutazione delle risorse finanziarie da impegnare secondo una precisa scala di possibilità di intervento, di cui fornisce precisa rappresentazione il frammento di Callistrato in esame. Numerose altre testimonianze documentano dei ripetuti interventi correttivi posti in essere in campo edilizio da Antonino Pio. Nella medesima linea di tendenza volta a un contenimento delle spese per attività edilizia si colloca, in particolare, un suo successivo rescritto. In esso l’imperatore sanciva il principio fondamentale che la promessa di costruzione di un’opera pubblica non dovesse portare alla paupertas e alla rovina del donante: D. 50, 12, 9 (Mod. 4 diff.): Ex pollicitatione, quam quis ob honorem apud rem publicam fecit, ipsum quidem omnimodo in solidum teneri: heredem vero eius ob honorem quidem facta promissione in solidum, ob id vero, quod opus promissum coeptum est, si bona liberalitati solvendo non fuerint, extraneum heredem in quintam partem patrimonii defuncti, liberos in decimam teneri divi Severus et Antoninus rescripserunt. Sed et ipsum donatorem pauperem factum ex promissione operis coepti quintam partem patrimonii sui debere divus Pius constituit.

Riprendendo una precedente disposizione traianea in proposito, riguardante la promessa di opere alla città ob honorem 25, il giurista richiama 23 In quell’area si palesava infatti l’apparire dei primi sintomi di una crisi economica che si delineava con i segni di una forte frattura tra la ricchezza dei ceti medio-alti urbanizzati e la situazione delle campagne, dove la popolazione contadina era in forte difficoltà a causa della pressione fiscale esercitata dal potere centrale. 24 Numerose sono le attestazioni di come diverse opere pubbliche nelle città di Nicea e Nicomedia non fossero state completate o fossero divenute presto fatiscenti per l’inadeguatezza dei fondi a disposizione. In proposito cf. Gros - Torelli 1988, 382. 25 Si tratta della disposizione ricordata in D. 50, 12, 14 (Pomp. 6 epist. et var. lect.). In essa si stabiliva il principio che la pollicitatio honoris causa era dovuta in solidum

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dapprima una disposizione di Severo e Caracalla 26 la quale stabiliva che, in caso di difficoltà nella realizzazione dell’opera intrapresa, gli eredi estranei del pollicitator rispondono con un quinto di quanto loro assegnato mortis causa, mentre i figli eredi debbono rinunciare a favore della città alla decima parte del patrimonio ereditario. Nel frammento Modestino sottolineava poi, richiamando una disposizione di Antonino Pio, come il donante, depauperato dalla realizzazione dell’opera iniziata, dovesse in ogni caso lasciare la quinta parte del suo patrimonio 27. La disposizione dunque, se da un lato mostra l’attenzione per la conservazione dei patrimoni e per la riduzione delle spese eccessive dettate da meri intenti emulativi, dall’altro non manca però di evidenziare l’interesse riservato alle finanze cittadine e al perseguimento di una politica edilizia che, pur non prosciugando le ricchezze private, consenta alle città di giovarsi di queste al fine della realizzazione di nuove opere 28. tanto dal promittente quanto dal suo erede. Nel brano peraltro Pomponio, nel commentare la disposizione traianea, aveva cura di precisare come, in caso di opera intrapresa ma non completata per morte del pollicitator, l’erede estraneo avesse la possibilità di scelta tra il completare l’opera e il corrispondere alla città la quinta parte del patrimonio ereditario, mentre i figli eredi potessero liberarsi rinunciando alla decima parte del patrimonio secondo la disposizione di Antonino Pio. 26 In apertura del frammento Modestino ricorda, in sintonia con la disposizione traianea in proposito (D. 50, 12, 14), come in linea di principio per l’esecuzione dell’opera promessa fossero tenuti in solidum tanto il promittente quanto il suo erede. 27 Ampia discussione del testo di Modestino D. 50, 12, 9 in relazione a D. 50, 12, 14 in Lepore 2005, 45-113, il quale affronta i diversi nodi problematici posti dai due frammenti, specie in relazione all’unità sostanziale della loro trattazione. 28 Osserva Bosso 2006, 280, come la donazione ob honorem o gratuita costituisse un correttivo e vero motore finanziario, tanto da essere considerata necessaria anche se comunque subordinata alla sussistenza di effettive risorse del donante. Gli indirizzi di politica economica seguiti da Antonino Pio corrispondono dunque al problema della effettiva carenza di risorse da destinare al sostentamento e alla realizzazione di opere urbanistiche all’interno delle città delle province. Certo non mancano attestazioni di una certa disponibilità dell’imperatore a impegni economici più gravosi. Un accenno all’utilizzo di risorse da parte di Antonino Pio per completare opere avviate dai suoi predecessori è fatto nella Historia Augusta: SHA, Ant. Pius 4, 10: Et ad opera Hadriani plurimum contulit et aurum coronarium, quod adoptionis suae causa oblatum fuerat, Italicis totum, medium provincialibus reddidit. SHA, Ant. Pius 8, 4: Multas etiam civitates adiuvit pecunia, ut opera vel nova facerent vel vetera restituerent, ita ut et magistratus adiuvaret et senatores urbis ad functiones suas. La fonte peraltro (oltretutto essa non è coeva al periodo considerato, anzi successiva al De cognitionibus in quanto attribuibile alla fine del IV-V sec.) si colloca in una prospettiva diversa da quella del frammento di Callistrato. Mentre infatti questo riguarda gli interventi privati a favore dell’edilizia pubblica, il brano dell’Historia Augusta si riferisce a iniziative condotte direttamente dall’imperatore con fondi statali e si inserisce nell’insieme delle realizzazioni attuate in Italia durante il suo Principato. Nella stessa ottica si colloca il brano di Elio Aristide, che nella sua Eis Romen (94) celebra in tono encomiastico la magnificenza delle città

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D’altra parte a riprova delle reali difficoltà della situazione economica che con i propri provvedimenti l’imperatore si volgeva ad affrontare stanno le modalità delle effettive realizzazioni testimoniate dalle opere attuate durante il suo Principato 29. È in particolare l’edilizia civile a dimostrare la piena convergenza tra quanto disposto dal rescritto riportato da Callistrato e le scelte operate in concreto. Gli interventi sono attuati per lo più in spazi della città che già da tempo hanno assunto una loro connotazione precisa, senza stravolgerne gli assetti o cambiarne la destinazione urbanistica, operando per il completamento o il ripristino di realizzazioni già esistenti mediante investimenti attuati con precisa attenzione alla effettiva esistenza di reali disponibilità economiche. Sono però gli ultimi anni del regno di Antonino Pio a segnare un più marcato rallentamento. Sul finire del suo Principato si assiste da parte dell’imperatore a una sorta di presa d’atto della gravità della situazione economica, e il tutari e il reficere assumono ormai il ruolo di linee chiave della sua politica edilizia in attesa dell’ultimo slancio, sia pur sostanzialmente fittizio, dell’età severiana 30. Alla fine del III secolo d.C., infatti, la lunga fase, prima di declino e poi di dissoluzione, dell’impero romano non poteva non incidere sull’assetto urbano ed edilizio. Le città, soprattutto quelle di più antica fondazione, versavano in una situazione di grave decadenza ed erano perciò bisognose di rilevanti e costosi lavori di ripristino, in specie dell’edilizia pubblica, riportando in primo piano il tema del restauro di quel patrimonio. Alla disciplina delle modalità di intervento ritenute più idonee si dirige la legislazione tardoimperiale che, riprendendo le linee della politica di Antonino Pio in materia, si rivolge, nell’impiego delle risorse pubbliche prima ancora che di quelle private (cui non accenna), verso una linea di conservazione dell’esistente piuttosto che a nuove realizzazioni 31. Tuttavia fino al IV secolo la documentazione riguardante la normativa sul restauro degli edifici pubblici è molto carente. Solo nel V secolo dell’Impero abbellite con opere e monumenti, a sottolineare il benessere e la condizione privilegiata del Principato di Antonino Pio. 29 Queste fanno quasi esclusivo riferimento a interventi su manufatti preesistenti: completamenti, restauri, cambi di destinazione, modifiche a singole parti costituiscono gli interventi prevalenti realizzati in quest’epoca. In proposito per un attento riscontro, attraverso l’esame delle risultanze materiali, delle linee di politica edilizia seguite durante il Principato di Antonino Pio nelle diverse parti dell’Impero cf. Bosso 2006, 281-285. 30 Per la politica edilizia in età severiana e i provvedimenti normativi adottati cf. Guidobaldi 2000, 315-321; Nasti 2006, 161-224. 31 Affrontano l’esame degli orientamenti della normazione tardoimperiale in materia edilizia Janvier 1969; De Dominicis 1975, 119-141; Murga 1979a, 239-263, e 1979 b, 307-36; Lizzi Testa 2001, 671-707.

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il Codex Theodosianus registra in un titolo specifico (il 15, 1: de operibus publicis) un elenco di ben 53 costituzioni imperiali relative agli edifici pubblici e alla loro manutenzione. La maggior parte di esse tocca vari problemi, per lo più di carattere generale, relativi alla costruzione di opere di pubblica utilità. Delle 53 costituzioni il Codice di Giustiniano ne riporta 23 nell’omologo titolo (8, 11: de operibus publicis), con l’ultima mutila 32. Ebbene va rilevato in proposito che dieci delle costituzioni ‘teodosiane’ sono distribuite in un arco cronologico di circa quarant’anni (dal 365 al 406), ma soprattutto che esse trattano ripetutamente di un unico argomento, che costituiva evidentemente un problema molto sentito ancora nel IV secolo, ma proveniente dai secoli passati: esse insistono infatti in maniera quasi ossessiva sul concetto secondo cui, prima di procedere a nuove costruzioni, si doveva obbligatoriamente provvedere al restauro di quelle già esistenti, che eventualmente avessero avuto bisogno di tale tipo di intervento 33. Di queste linee di tendenza reca particolare testimonianza una disposizione di Valentiniano I, emanata intorno al 364, i cui riflessi hanno trovato larga incidenza durante il periodo di carica del praefectus urbi Volusianus Lampadius (365). A questi è ascritto un ambizioso piano di ristrutturazione urbanistica dell’Urbe, atto a ricreare l’aspetto monumentale della città, tentando di valorizzarne l’ormai perduta centralità. Tale progetto, sebbene condotto su un piano «strettamente personalistico» 34 (Volusiano, secondo il racconto di Ammiano, giunse addirittura a ristrutturare edifici antichi per potersene attribuire la costruzione attraverso opportune epigrafi commemorative 35), corrispondeva agli intenti del Senato di Roma, sensibile all’idea di restituire i fasti dell’antica capitale. Le ambizioni del prefetto trovavano tuttavia un argine preciso nella disciplina stabilita da Valentiniano I 36. Questa disponeva infatti un divieto Sulla normativa del Codice Teodosiano cf. Bottiglieri 2009 e 2010, 130 ss. Dopo questa prima fase dedicata al ripristino del patrimonio edilizio pubblico presente, ma prima ancora di procedere alla costruzione di nuove opere pubbliche, era indispensabile completare manufatti lasciati incompiuti, per i motivi più vari, da altri. Facevano eccezione le costruzioni di nuovi templi (CTh. 15, 1, 3 del 326), nonché le strutture per il ricovero di animali (CTh. 15, 1, 16 del 365) e gli horrea secondo CTh. 15, 1, 17 sempre del 365. 34 Sottolinea questo aspetto Biavaschi 2018, partic. 55-70, che ricostruisce il progetto e la figura di Volusiano, cercando di individuare le ragioni dell’insuccesso della sua iniziativa e della sua prematura rimozione. 35 Amm. Marc. 27, 3, 7-10. 36 Sulle tendenze dell’imperatore in materia edilizia cf. Andreotti 1931, 456-516; Baldini 1979, 568-82. 32

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reciso, espresso in maniera sintetica ma severa (poi ribadito in varie costituzioni risalenti proprio a quegli stessi anni), di costruire nuovi edifici a spese pubbliche: CTh. 15, 1, 11: Impp. Valentinianus et Valens aa. ad Symmachum praefectum Urbi 37. Intra urbem Romam aeternam nullus iudicum novum opus informet, quotiens serenitatis nostrae arbitria cessabunt. Ea tamen instaurandi, quae iam deformibus ruinis intercidisse dicuntur, universis licentiam damus. Dat. VIII kal. iun. Philippis divo Ioviano et Varroniano conss. (364 mai. 25).

Secondo il disposto della costituzione gli amministratori dovevano, dunque, limitarsi a restaurare con i fondi pubblici i monumenti antichi, la cui manutenzione già richiedeva risorse difficilmente reperibili, senza intraprendere nuove iniziative. Si trattava, come visto, di una linea di tendenza non nuova, che trovava un riscontro significativo nella stessa legislazione di Valentiniano I, a sottolineare il radicamento di quell’orientamento. La costituzione in CTh. 15, 1, 15, emanata da Valentiniano a Milano nel febbraio 365, ribadiva infatti, in modo stringato ma deciso, che bisognava anteporre la ristrutturazione di antichi edifici alla realizzazione di nuove opere: CTh. 15, 1, 15: Idem aa. ad Dracontium. Lex sancientibus nobis rogata est, quae iudices omnes et rectores provinciarum edicto suo adque auctoritate cohibet aliquid novi operis adripere, priusquam ea, quae victa senio fatiscerent, repararent. Quae nunc etiam credidimus repetenda. Dat. XIIII kal. mar. Mediolano Valentiniano et Valente aa. conss. (365 feb. 16).

Al rigoroso divieto così stabilito erano ammesse poche eccezioni 38. In particolare la costituzione in CTh. 15, 1, 17, diretta al consularis Piceni, specchio della politica in campo edilizio di Valentiniano I, ammetteva solo precise deroghe. Essa consentiva infatti di costruire a spese pubbliche unicamente ricoveri per le bestie e granai: CTh. 15, 1, 17: Idem aa. ad Valentinianum consularem Piceni. Si quid sinceritas tua his urbibus, quibus praeest, putaverit deferendum, instaurare antiquum opus rectius poterit quam novum inchoare. Sane si quid reparationi alicuius operis postulandum erit, non in pecunia, sed in ipsis speciebus postulare te par est. Si loca aliqua indigent novis stabulis aut horreis, videris exaedificare etiam, si emolumenta publica adverteris postulare. Dat. prid. non. octob. Valentiniano et Valente aa. conss. (365 oct. 6). 37 Si tratta di Lucio Aurelio Avianio Simmaco, padre di Q. Aurelio Simmaco e praefectus urbi nel 364-365 sotto Valentiniano I, prima di Volusio Lampadio. Cf. PLRE I, 869. 38 In proposito Biavaschi 2018, 56.

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Una linea di tendenza, quella evidenziata dalle disposizioni di Valentiniano I, che, pur risalendo all’antico, trovava nuove giustificazioni negli assetti propri del tardo impero. Se infatti da un lato i provvedimenti imperiali – secondo l’impostazione tradizionale del Mazzarino 39 – corrispondevano alle istanze di una parte della popolazione romana «avvilita dalla sconsiderata politica di demolizioni e nuove edificazioni portate avanti dai prefetti», dall’altro essi venivano incontro alle istanze dell’aristocrazia romana, interessata alla realizzazione di lavori di restauro strettamente legati al recupero degli antichi valori e dei tradizionali monumenti della Roma pagana più che al fervore costruttivo che segnava la nascita di una nuova Roma (da attribuirsi piuttosto alla componente cristiana) 40. Valentiniano, in ultima analisi, avrebbe continuato a seguire la linea degli imperatori precedenti, risalente al principato, indirizzata all’emanazione di provvedimenti che sostanzialmente proteggevano le opere pubbliche antiche dallo spoglio e dalla distruzione che avevano caratterizzato soprattutto il III secolo. Non meraviglia dunque il fallimento del progetto di recupero e rilancio urbanistico portata avanti dal prefetto Volusianus Lampadius Volusianus narrato da Ammiano: Amm. Marc. 27, 3: Advenit post hunc urbis moderator Lampadius ex praefecto praetorio, homo indignanter admodum sustinens si, etiam cum spueret, non laudaretur, ut id quoque prudenter praeter alios faciens … [7] Vanitatis autem eius exemplum, ne latius evagemur, hoc unum sufficiet poni leve quidem sed cavendum iudicibus. Per omnia enim civitatis membra, quae diversorum principum exornarunt inpensae, nomen proprium inscribebat, non ut veterum instaurator sed conditor … [10] Aedificia erigere exoriens nova… non ex titulis solitis parari iubebat inpensas sed, si ferrum quaerebatur aut plumbum aut aes aut quicquam simile, apparitores inmittebantur, qui velut ementes diversa raperent species, nulla pretia persolvendo …

Volusianus mirava a procurarsi notorietà secondo modalità tipiche della tradizione romana, ossia attraverso la realizzazione di monumenti architettonici, ma contrarie alle aspirazioni e alle linee che guidavano la politica imperiale nell’età considerata. Egli puntava infatti a un riassetto urbanistico profondo, che prevedeva il ricorso a procedure a dir poco ambigue (attraverso il recupero forzoso dei mezzi necessari), ma 39 Mazzarino 1974, 398 ss. e 416 ss., che riconduce le costituzioni in CTh. 15, 1, 11 e 12 alla polemica sollevata dall’anonimo poeta cristiano contro le eccessive demolizioni favorite dal furor aedificandi di alcuni prefetti tra cui Avianius Simmacus, predecessore di Volusiano Lampadio. 40 Per tale interpretazione cf. Cracco Ruggini 1979, 3 ss. 90, 100 ss.; Lizzi Testa 2001, 671 ss., e 2004, 62 ss., 71, 340 ss.

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che consentissero nuove edificazioni (aedificia erigere exoriens nova) più che semplici restauri di monumenti esistenti 41. Di qui la rimozione senza terminare l’anno di carica e la sostituzione con Viventius, funzionario di origine pannonica che godeva della fiducia dell’imperatore 42. Nonostante l’ambizione di funzionari, interessati a guadagnare fama attraverso complessi programmi edilizi, e le effettive esigenze di nuove infrastrutture essenziali alla collettività orientassero verso programmi più incisivi, le linee di politica edilizia seguite dal potere imperiale nel corso del tardo impero non si discostarono dagli indirizzi espressi dalla legislazione di Valentiniano, anzi ne confermarono gli orientamenti. In particolare una costituzione del 380, indirizzata da Tessalonica a Giuliano, prefetto dell’Egitto, dagli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio, stabilì con puntualità che il governatore provinciale dovesse destinare ben due terzi dei finanziamenti disponibili al restauro di edifici che vel incuria vel vetustate si trovassero in precarie condizioni, mentre solo un terzo poteva essere riservato a nuove costruzioni: CTh. 15, 1, 20: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius aaa. Iuliano praefecto Aegypti. Iudex, qui ad provinciam fuerit destinatus, duas partes vel incuria vel vetustate collapsas ad statum pristinum nitoris adducat adque tertiam construat novitatis, si tamen famae et propriis cupit laudibus providere. Dat. XVI kal. april. Thessalonicae Gratiano a. V et Theodosio a. I conss. (380 mar. 17).

Più avanti gli imperatori Arcadio e Onorio nel 395, per evitare che in conseguenza di vetustà potessero cadere in degrado i centri cittadini, stabilirono che un terzo dei canoni di locazione dei fondi delle città fossero destinati al restauro delle mura e delle terme che avessero urgente necessità di interventi, a conferma delle linee di tendenza evidenziate della politica edilizia imperiale: CTh. 15, 1, 32: Impp. Arcadius et Honorius aa. Eusebio comiti sacrarum largitionum. Ne splendidissimae urbes vel oppida vetustate labantur, de reditibus fundorum iuris rei publicae tertiam partem reparationi publicorum moenium et thermarum subustioni deputamus. Dat. XI. kal. iul. Mediolano, Olybrio et Probino coss. (395 giu. 21).

41 In tal senso Biavaschi 2018 62, che evidenzia come «Ammiano, pur criticando sarcasticamente il prefetto per la sua abitudine di apporre sui monumenti restaurati il proprio nome come se fosse il costruttore, pone in primo piano, prima di menzionare l’opera di restauro, il fatto che Volusiano fece erigere anche nuovi edifici». 42 Cf. PLRE I, 972.

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Alcuni giorni dopo gli stessi imperatori impartivano analoghe disposizioni, con la medesima quota di riserva, ancora una volta per il ripristino delle mura urbane 43. Una linea costante di tendenza, quella evidenziata, che ha una sua involuzione soltanto sul finire dell’età tardoimperiale. Se si guarda infatti al Codice giustinianeo si può rilevare come nessuna delle 10 costituzioni contenute nel Codice Teodosiano che stabilivano la precedenza da dare ai restauri rispetto alle nuove costruzioni 44 risulti recepita in quel codice. Ciò potrebbe risultare conseguenza di una diversa linea di tendenza affermatasi nel VI secolo, volta a privilegiare le nuove costruzioni «abbandonando le vecchie ad un degrado fatalmente inarrestabile» 45. Ma questo orientamento, che teneva conto forse della maggiore recenziorità di Costantinopoli e di altre città orientali rispetto a quelle occidentali, giunge solo a conclusione di un percorso costante che aveva portato all’elaborazione di una normativa apposita, come quella contenuta nel Codice Teodosiano, le cui disposizioni rigorose e cogenti segnano piuttosto una precisa urgenza che aveva caratterizzato l’età tardoantica: quella di procedere al ripristino di immobili pubblici che il passare del tempo aveva portato a un evidente stato di degrado, preservando le tracce di una funzionalità e di una civiltà ineguagliata.

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43 CTh. 15, 1, 33 del 5 luglio 395: Idem aa. Have, Vincenti, karissime nobis. Praecipua nobis cura est, ne aut provinciales nostri superindictionibus praegraventur aut opera publica pereant vetustate collapsa. Singuli igitur ordines civitatum ad reparationem moenium publicorum nihil sibi amplius noverint praesumendum praeter tertiam portionem eius canonis, qui ex locis fundisque rei publicae quotannis conferri solet, sicut divi parentis nostri Valentiniani senioris deputavit auctoritas. Dat. III non. iul. Mediolano Olybrio et Probino conss. (395 iul. 5). 44 CTh. 15, 1, 3; 14; 15; 16; 17; 20; 21; 27; 29; 35. 45 In tal senso Piacente 2012, 385.

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Una capitale intermittente: la vicenda di Antiochia di Siria nel IV secolo d.C. Marilena Casella *

RIASSUNTO: Grazie alla congerie di informazioni estrapolabili dal retore Libanio di Antiochia, è possibile selezionare le due facies della città sull’Oronte nella tarda antichità, ossia Antiochia capitale amministrativa (della provincia di Siria; della diocesi d’Oriente), e Antiochia capitale imperiale (pur non essendo capitale imperiale in senso stretto, essa ha di fatto giocato il ruolo di ‘capitale episodica’). Il presente contributo vuole soffermarsi proprio su Antiochia ‘capitale imperiale ad intermittenza’, mettendo in evidenza le implicazioni di carattere economico e logistico (approvvigionamento in funzione della presenza della corte); quelle di carattere urbanistico-monumentale (nuovi edifici già a partire da Diocleziano); il rapporto con le altre città (rivalità con Costantinopoli). ABSTRACT: Thanks to the mass of information that can be extrapolated from Libanius of Antioch, it is possible to select the two facies of the city on the Oronte in Late Antiquity, i.e. Antioch as administrative capital (of the province of Syria; of the Diocese of the East), and Antioch as imperial capital (although not in the strict sense: but the city played the role of ‘episodic capital’). This contribution aims at focusing on Antioch as ‘imperial capital intermittently’, highlighting: the implications both at economic- logistical (supply related to the presence of the court) and urban-monumental level (new buildings already starting from Diocletian) as well as the relationship with the other cities (the rivalry with Constantinople). KEYWORDS: Antioch; Antiochia; city planning; Constance II; Costanzo II; Giuliano;

Jiulian; Libanio; Libanius; urbanistica.

Fondata nel 300 a.C. da Seleuco I Nicator 1, Antiochia diventa capitale del Regno dei Seleucidi verso la metà dello stesso secolo mantenendone lo status fino all’annessione a Roma, quando ricopre il medesimo ruolo nella * Università degli Studi di Messina.

1 Nel discorso 11 di Libanio, trasmesso con il titolo di Antiochicos, un elogio di Antiochia sull’Oronte pronunciato dal retore antiocheno in occasione dei Giochi Olimpici del 356 (come stabilito dalla solida ricostruzione cronologica di Petit 1956, 479-509), si ha la narrazione dettagliata delle origini e della fondazione di Antiochia

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vasta provincia romana di Siria, per assurgere con Diocleziano al rango di capitale della diocesi d’Oriente, insignita a più riprese della veste di residenza degli imperatori romani. La posizione strategica – situata com’era su una delle diramazioni della famosa via della seta che stabiliva un contatto diretto con l’Iran ed il mare – ne faceva di fatto una grande capitale politica caratterizzata da una peculiare importanza militare ed economica insieme. Le molteplici funzioni della città – di cui manca un dettagliato «inventario» come sottolineato da M. Sartre 2 –, ed i diversi ruoli da essa ricoperti, hanno influenzato concretamente la facies della πόλις antiochena, che veniva a configurarsi come una μητρόπολις prima della provincia di Siria 3 e successivamente dell’Asia 4, a conferma di come una città sia il prodotto della propria storia: capitale regale prima (III sec. a.C. 63  a.C.), città imperiale poi, che ha ambito al rango di capitale, fino a quando ad esso non venne elevata l’antica Bisanzio sulle rive del Bosforo, divenuta polo economico e politico dell’impero in Oriente, ossia quella Costantinopoli che Libanio evita sempre di citare esplicitamente, servendosi degli artifici retorici. Il titolo onorifico di «metropoli d’Asia» restava tuttavia per Antiochia una sorta di riconoscimento di una situazione molto antica, nella quale la stessa Costantinopoli non avrebbe mai potuto soppiantarla, poiché «il ne saurait exister deux métropoles de l’Asie» 5. Come già accennato, il fatto di ricoprire più funzioni amministrative era la caratteristica peculiare di Antiochia già a partire dall’età ellenistica, che continuò a distinguerla fino al IV secolo d.C., quando diviene anche sede del comes Orientis, designato da Libanio con espressioni che fanno riferimento all’estensione territoriale del suo potere (che abbracciava appunto più province 6: la sua competenza si estendeva dall’Isauria alla Mesopotamia e dall’alto Eufrate alla Palestina) 7. La presenza nella città sull’Oronte di questo nuovo officium che, stando ad una costituzione del 394 8, constava di 600 apparitores, offre la misura dell’impatto e delle conseguenti ricadute che esso doveva avere sull’approvvigionamento cit(§§  44-56), nonché della sua storia sotto i Seleucidi (§§ 78-128) – al primo dei quali risale appunto la fondazione storica della città. 2 Sartre 2000, 492. 3 Strab. 16, 2, 5. 4 Lib. or. 11, 130, 187. 5 Casevitz - Lagacherie - Saliou 2016, 129. 6 ὁ ἄγων πλείονα (Lib. or. 46, 13); ὁ ἄρχων ἐθνῶν (Lib. orr. 6, 5; 19, 36; 41, 10); ὁ ἐφεστηκὼς ταῖς ἑῴαις πόλεσι πλείοσι (Lib. or. 57, 8); ὁ ἐφεστηκὼς πλείοσιν ἔθνεσιν (Lib. or. 36, 5); ὁ ἐπὶ τὸν μείζω θρόνον ἥκων (Lib. or. 1, 206); ἡ μείζων ἀρχή (Lib. orr. 37, 6 e 33, 27). 7 ND 22, Seeck, 48-50. 8 CTh. 1, 13, 1.

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Una capitale intermittente: la vicenda di Antiochia di Siria nel IV secolo d.C.

tadino e sull’impianto urbanistico. Proprio su quest’aspetto, ossia sulle implicazioni di carattere urbanistico-monumentale e su quelle di carattere economico della presenza del comes Orientis, sarà incentrato il presente lavoro, oltre che, naturalmente, sulle ripercussioni della permanenza dell’imperatore nella città antiochena, che, più volte residenza imperiale nel corso del IV secolo così da ricoprire il ruolo di capitale episodica dell’impero romano – Costanzo II, Gallo, Giuliano e Valente vi soggiornarono per periodi più o meno lunghi 9 –, fu pertanto costretta a dotarsi di quegli edifici necessari ad ospitare l’imperatore e la sua corte, il comes ed i suoi apparitores.

1. IMPLICAZIONI SULL’ASPETTO MONUMENTALE DELLA CITTÀ E SULL’URBANISTICA

La città è per eccellenza il luogo dove gli spazi, gli edifici e la loro distribuzione riflettono il funzionamento di una società. Le costruzioni, quelle pubbliche in particolare, a loro volta, hanno un notevole significato politico, poiché sono l’espressione dell’interesse che la città suscitava in chi ne era il promotore – nel caso peculiare di questo studio, l’imperatore in persona o il comes Orientis. Dal regno dei Costantinidi – senza però tralasciare l’interesse già di Diocleziano per la città sull’Oronte 10 – fino a quello di Teodosio, ad Antiochia è possibile rintracciare una serie di edifici fatti costruire da imperatori o da rappresentanti del potere imperiale proprio partendo dall’analisi delle fonti letterarie, ed in particolare dalle orazioni e dalle lettere di Libanio 11. Nonostante la tendenza libaniana ad evitare i toponimi ed insieme ad utilizzare elementi costanti della topica dell’elogio della città, si possono riscontrare infatti nell’opera del retore peculiarità specifiche del paesaggio urbano antiocheno, connotate da un reale valore documentario. 9 Teodosio invece non si recò mai ad Antiochia, nonostante lo avesse promesso più volte, e nonostante i ripetuti inviti in tal senso dello stesso Libanio: vd. or. 22, 46; ep. 945, 5 (sull’epistola, cf. Pellizzari 2017, 164-166). 10 Antiochia fu la residenza principale di Diocleziano dal 299 al 302. 11 Sulla base di tali fonti, già nel 1839 C.O. Müller riuscì a tracciare una pianta della città. Nel 1961, Downey ha proposto una sintesi di una nuova pianta della città, sempre basata per lo più sulle fonti scritte (e per la quale ha attinto anche ad una descrizione di Antiochia ad opera di un viaggiatore cinese nella traduzione di Fr. Hirt, China and the Roman Orient, Leipzig - Shangai 1885; rist. 1938, 1975), che rimane un punto di riferimento.

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Uno degli edifici che Libanio descrive in maniera dettagliata 12 è proprio il palazzo imperiale, che, secondo Malala 13, sarebbe stato completato dall’imperatore Diocleziano 14: la presenza nel vestibulum 15 di una statua di Galerio Cesare costituisce un importante elemento datante della struttura, in quanto ne conferma la costruzione come avvenuta prima dell’ascesa del tetrarca all’augustato, e quindi in una data antecedente al 305. L’edificio, del resto, doveva essere ultimato già nel 303, dal momento che ad esso si diresse il τύραννος Eugenio nel suo tentativo di usurpazione del potere 16. Designato con l’aggettivo βασίλειος, al neutro sostantivato ed utilizzato indifferentemente al singolare o al plurale 17, il palazzo occupava una grande superficie, circa un quarto dell’isola dell’Oronte 18, la città nuova 19, che con la sua forma circolare 20 richiamava quasi la fondazione romulea, ed il cui centro, equiparato da Libanio ad un ὀμφαλός 21, dà il la all’efficace metafora in cui lo spazio urbano viene assimilato al corpo umano. A nord, dal lato dell’Oronte, l’edificio si estendeva fino al muro di cinta 22, su cui era stato elevato un grande portico a due piani con due 12 Oltre al santuario delle Ninfe o Ninfeo, situato nella città antica, la città Palaia (§§ 196-202), che si estendeva con un andamento longitudinale tra il fiume Oronte e la montagna (a nord verso Aleppo, a sud verso Daphne). 13 Mal. 12, 38 (236, ll. 85-86 Th.): καὶ ἔμεινεν ὁ αὐτὸς Διοκλητιανὸς ἐν Ἀντιοχείᾳ. καὶ

ἔκτισεν ἐκεῖ παλάτιον μέγα, εὑρὼν θεμελίους τεθέντας πρῴην μὲν ὑπὸ Γαλλιηνοῦ τοῦ καὶ Λικιννιανοῦ. Cf. Downey 1961, 259 n. 126, 318-323, 643-647; Saliou 2009, 242-243.

Le fondamenta, stando al passo di Malala di n. 19, risalirebbero a Gallieno. Amm. 25, 10, 2. 16 Lib. or. 11, 161. 17 Lib. or. 11, 155 (τὸ βασίλειον); Lib. or. 11, 161 (τὸ βασίλειον); Lib. or. 11, 206207 (τὰ βασίλεια); Lib. or. 11, 250 (τὰ βασίλεια); Lib. or. 12, 81 (τὰ βασίλεια); Lib. or. 22, 9: τὰ βασίλεια. Alla stessa maniera Teodoreto (Thdt. HP 2, 19: τῶν βασιλείων τὰς θύρας; Thdt. HP 8, 8: ἐκ τῶν βασιλείωv; Thdt. HE p. 265, l. 2 Parmentier Scheidweiler = 4, 26, 3-5 [1-3] SC: τῶν βασιλείων) ed Evagrio (Evagr. HE  2, 12, ll.  19-31 p.  64, l. 4 Bidez-Parmentier: Τῶν βασιλείων ὁ πρῶτος καὶ δεύτερος οἶκος, mentre altre fonti di lingua greca ricorrono alla traslitterazione del termine tecnico latino palatium (Amm. 14, 7, 19): ps.-Athan. Petit Arian. 4, titulus (PG 26, col. 821, ll. 45-46): πρὸς τῷ πυλῶνι τοῦ παλατίου; Mal. 12, 38 (236, ll. 85-86 Th.): παλάτιον; Mal. 13, 19: ἔξω τοῦ παλατίου. 18 Lib. or. 11, 206: τέταρτον μέρος τῆς ὅλης. Dal momento che gli scavi archeologici effettuati tra il 1932 e il 1938 non hanno consentito né di identificare il palazzo, né di proporne una localizzazione, Downey 1953, 109-110 ha supposto che dovesse trovarsi nella zona nord-orientale dell’isola, anch’essa dai contorni ricostruiti in maniera ipotetica. Per una analisi più recente cf. Poccardi 1994, 993-1023, e 2001, 155-172. 19 ἡ νέα (Lib. or. 11, 203-204, 208-209, 250); ἡ καινή (Lib. or. 11, 211); ἡ νεωτέρα τῆς πόλεως μοῖρα (Lib. or. 11, 119). 20 Lib. or. 11, 204. 21 Ibidem. 22 Lib. or. 11, 206. 14 15

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torri, una a destra e l’altra a sinistra 23, ad evocare la facciata 24 di una villa maritima, come quella, ad esempio, del palazzo di Spalato 25. Ai piedi di questa loggia, tra il palazzo e il fiume, vi era una strada, sporgendosi sulla quale l’imperatore poteva rivolgersi ai passanti 26. L’attenzione per la facciata, la vista piacevole 27 e la localizzazione periferica sono tratti peculiari dell’architettura residenziale di prestigio della tarda antichità 28, così come i dettagli forniti da Libanio nell’enumerazione di elementi architettonici, che potrebbero adattarsi a numerose residenze di epoca tarda: camere riservate alla sfera privata, portici, sale destinate ai banchetti 29, giardini 30, bagni 31. Quanto alla sfera pubblica, Ammiano Marcellino menziona le travi del consistorium: potrebbe trattarsi di una sala qualunque utilizzata come luogo di riunione del consiglio imperiale, ovvero di una sala specifica destinata ad accogliere quest’ultimo 32. Per ospitare la sede del comes Orientis, il nuovo funzionario nominato in occasione della campagna persiana del 334-335 sotto il regno dell’imperatore Costantino, sarebbe stato rimodulato un complesso architettonico preesistente, il βουλευτήριον: si legge in Malala, infatti, che il πραιτώριον (δικαστήριον è il termine invece che ricorre nell’opera libaniana) del comes Orientis sarebbe stato ricavato all’epoca di Costantino presso il santuario delle Muse 33, adiacente per l’appunto al βουλευτήριον.

Thdt. HP 8, 8: ἐκ τῶν βασιλείωv; Thdt. HE  p. 265, l. 2 Parmentier Scheidwei4, 26, 3-5 (1-3) SC: τῶν βασιλείων. La testimonianza di Teodoreto conferma quella libaniana a proposito dell’esistenza di un muro di cinta, sebbene non vi sia alcuna testimonianza archeologica a tal riguardo: Saliou 2009, 240. 24 Una delle facciate del palazzo è molto probabilmente raffigurata sull’arco di Galerio a Tessalonica: Downey 1953, 110-111; Laubscher 1975, 52-57, p. 29, 1-2, pls. 4042; Meyer 1980, 403-404, secondo cui si tratterebbe della facciata principale; contra Pond Rothman 1977, 441-442. Pure sul mosaico detto di Yaqto si è voluto vedere la rappresentazione della facciata del palazzo imperiale: Lassus 1934, 149. 25 Anche il palazzo di Diocleziano aveva un portico con due torri: Wilkes 1993, 28-29; cf. la ricostruzione di Hébrard 2002, 300. 26 Thdt. HE 4, 26, 1-2; cf. Saliou 2009, 243. 27 Lib. or. 11, 206: θέα βασιλεῖ πρέπουσα κατεσκεύασται τοῦ ποταμοῦ μὲν ὑπορρέον­ τος, τῶν προαστείων δὲ πανταχόθεν εὐωχούντων τὰς ὄψεις. 28 Duval 1987, 463-490; 1994, 447-470; 1997, 143-147. 29 Lib. or. 11, 207: εἰς τοσούτους θαλάμους καὶ στοὰς καὶ ἀνδρῶνας διῃρημένον. 30 Lib. or. 1, 121: ἐν τῷ κήπῳ τοῦ βασιλείου. In questi giardini l’imperatore Giuliano aveva fatto costruire un tempio e faceva sacrifici agli dei: Lib. orr. 12, 81; 18, 127. Cf. Saliou 2009, 243. 31 Thdt. HP 8, 9; Evagr. HE 2, 12, p. 63, ll. 30-32 Bidez-Parmentier  32 Amm. 25, 10, 2: in consistorio trabes. 33 Mal. 13, 4, 3 (244, ll. 51-54 Th.): ποιήσας αὐτῷ πραιτώριον τὸ ἱερὸν τῶν Μουσῶν; cf. Saliou 2015a, 51-52, e 2015b, 103. 23

ler =

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1.1. Interventi imperiali Nel momento in cui un imperatore sceglieva di soggiornare in una determinata città, che durante la sua permanenza considerava come una capitale, la vita municipale ne risultava inevitabilmente influenzata, con tutte le positive ricadute dell’interesse imperiale verso il suo decoro, la sua grandezza e la sua prosperità: nel caso di Antiochia, ciò è ben evidenziato dall’esempio di Costanzo II, ma soprattutto da quello di Valente, più sfarzoso nei suoi interventi, che lo videro impegnato in opere ed edifici di carattere pubblico. All’epoca di Costanzo II, che il continuo stato di guerra sul fronte persiano portò a scegliere Antiochia, la vera capitale del figlio superstite di Costantino e che tale doveva apparire ad un suddito della pars orientale 34, come la sede più idonea per sovrintendere alle operazioni militari, oltre ad un’intensa attività edilizia 35 in genere di cui beneficiava la città, si devono il completamento e la consacrazione 36, nel 341 37, della Grande Chiesa 38, un edificio a pianta ottagonale 39 che spiccava per le dimensioni notevoli e le decorazioni policrome 40, e la cui costruzione era stata iniziata dal padre Costantino 41 nel 327 42. In assenza di evidenze archeologiche, l’edificio sacro è stato ipotizzato come sito accanto al palazzo imperiale, e, partendo dalla descrizione di Eusebio, è stato identificato con l’edificio ottagonale che compare sul mosaico di Yacto; tuttavia, ol34 Descrizione del mondo e di tutte le sue genti 23: … Antiochia …, civitas regalis et bona in omnibus, ubi et dominus orbis terrarum sedet. 35 Lib. or. 11, 193-195; 227. Costanzo fu promotore, tra l’altro, dei lavori di sistemazione del porto di Seleucia: Lib. or. 11, 263. 36 Soz. 3, 5, 1, SC 418, 68: ἐξεργασθείσης τῆς ἐνθάδε ἐκκλησίας ἣν … ἔτι περιὼν Κωνσταντῖνος ὑπουργῷ χρησάμενος Κωνσταντίῳ τῷ παιδὶ οἰκοδομεῖν ἤρξατο; Mal. 13, 17, Thurn 250: Κωνστάντιος ὁ υἱὸς αὐτοῦ … ἀνεπλήρωσε τὴν μεγάλην ἐκκλησίαν. 37 Theoph. Chron. a. 5833 (341), Bidez 212, 7-9: ἡ ἐγκαινισθεῖσα ἐκκλησία σφαι­ ροει δὴς ἒξ ἒτεσι κτισθεῖσα ὐπὸ Κωνσταντίνου τοῦ μεγάλου θεμελιωθεῖσα, ὑπὸ Κωνσταντίου δὲ πληρωθεῖσα καὶ ἐγκαινισθεῖσα. 38 Mal. 13, 17, Thurn 250: τὴν μεγάλην ἐκκλησίαν; Thdt. HE 3, 12, 1, SC 530, 132: τῆς μεγάλης ἐκκλεσίας. 39 Theoph. Chron. a. 5819 (327), Bidez 205, 19: τὸ ὀκτάγωνον κυριακὸν ἒρξατο οἰκο­ δομεῖσθαι. 40 Eus. Triak. 9, 15, GCS 7, 221: τὸν … νεών; Eus. VC 3, 50, 2, SC 569, 414: μονο­

γε νές τι χρῆμα ἐκκλησίας μεγέθους ἔνεκα καὶ καλλοῦς ἀφιέρου … τὸν πάντα νεών … τὸν εὐκτήριον οἶκον. 41 Mal. 17, 16, Thurn 347: ἡ δὲ μεγάλη ἐκκλησία Ἀντιοχείας ἡ κτισθεῖσα ὑπὸ Κων­ στα νίνου τοῦ μεγάλου Βασιλέως; Socr. 2, 8, 2, SC 493, 34: τῆς ἐκκλησίας, ἣν ὁ πατὴρ μὲν τῶν Αὐγούστων κατασκευάζειν ἤρξατο; Soz. 3, 5, 1, SC 418, 68.

42 Hier. Chron. a. 327, Helm 231: dominicum quod vocatur aureum; Chron. 724, Bidez 212, 19: ecclesia quae est σφαιροειδὴς ἐπληρώθη intra XV annos.

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tre alla fragilità di una ricostruzione basata sulla topografia deducibile dal mosaico 43, bisogna sottolineare che la Chiesa non compare nella lista dettagliata dei monumenti distrutti dal sisma del 458 redatta da Evagrio (2, 12). Un passo di Teodoreto la situa in prossimità dell’Oronte, e, nel descrivere la processione della folla che festeggiava la fine dello scisma nel 341, delinea un tragitto che fa pensare piuttosto alla città antica 44. Tale intervento edilizio è un esempio di come il confronto-scontro tra cristiani e pagani sotto gli occhi di tutti si traducesse anche in rapide trasformazioni edilizie e mutamenti urbanistici. Alla volontà dell’imperatore Valente, che fece di Antiochia la sua residenza dal 371 al 377, si deve la costruzione del celebre foro detto appunto di Valente ed attestato solo da Malala 45, stando al quale non dovette trattarsi di una fondazione ex nihilo, ma del risultato della trasformazione di una parte del centro urbano. Affascinato dal clima e dalle sorgenti della città, l’imperatore avrebbe fatto costruire il Foro a partire dalla demolizione della basilica denominata Kaisarion, che si trovava vicino bagno pubblico di Commodo, convertito in praetorium del governatore di Siria; avrebbe proceduto poi al restauro dell’abside della basilica ed alla costruzione di una nuova basilica di fronte al bagno di Commodo; avrebbe fatto adornare le basiliche con grandi colonne di marmo di Salona, e su una colonna grandissima al centro fatto ergere una statua del fratello Valentiniano 46. Sul Foro di Valente venivano così a coesistere

Mayer - Allen 2012, 72-73. Thdt. HE 5, 37, 4, SC 530, 478: ἀπὸ τῆς ἑσπέραν τετραμμένης πυλίδος μέχρι τοῦ μεγίστου νεώ. 45 In effetti, che il Foro di Valente sia attestato solo dalla Cronografia sembra essere alquanto strano, soprattutto in rapporto alla portata dei lavori intrapresi, che coinvolsero parecchi edifici; tuttavia, appare coerente l’attribuzione all’imperatore che soggiornò a più riprese nella città dell’Oronte (cf. la descrizione del Foro di Costantinopoli Mal. 13, 8). 46 Mal. 13, 30 (261, ll. 50-60 Th.): Γενόμενος οὖν ὁ αὐτὸς Βάλης ἐν Ἀντιοχείᾳ τῆς 43

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Συρίας … τερφθεὶς τῆς τοποθεσίας καὶ τῶν ἀέρων καὶ τῶν ὑδάτων, πρῶτον τὸν φόρον, ἐπιβαλόμενος μέγα κτίσμα, λύσας τὴν βασιλικὴν τὴν λεγομένην πρῴην τὸ Καισάριον τὴν οὖσαν πλησίον τοῦ ὡρολογίου καὶ τοῦ Κομμοδίου δημοσίου, τοῦ νυνὶ ὄντος πραιτωρίου ὑπατικοῦ Συρίας ἄρχοντος, ἕως τοῦ λεγομένου Πλεθρίου, καὶ τὴν κόγχην ἀνανεώσας αὐτῆς καὶ εἰλήσας ἁψῖδας ἐπάνω τοῦ λεγομένου Παρμενίου χειμάρρου ποταμοῦ, κατερχομένου ἀπὸ τοῦ ὄρους κατὰ μέσον τῆς πόλεως Ἀντιοχείας. καὶ ποιήσας ἄλλην βασιλικὴν κατέναντι τοῦ Κομμοδίου καὶ κοσμήσας τὰς τέσσαρας βασιλικὰς κίοσι μεγάλοις Σαλωνιτικοῖς, καλαθώσας δὲ τὰς ὑποροφώσεις καὶ καλλωπίσας γραφαῖς καὶ μαρμάροις διαφόροις καὶ μουσώσει, μαρμαρώσας δὲ ἐπάνω τῶν εἰλημάτων τοῦ χειμάρρου πᾶν τὸ μέσαυλον ἐπλήρωσε τὸν φόρον αὐτοῦ, καὶ ταῖς τέτρασι βασιλικαῖς διαφόρους ἀρετὰς χαρισάμενος καὶ ἀνδριάντας στήσας, ἐν δὲ τῷ μέσῳ στήσας μέγα πάνυ κίονα, ἔχουσαν στήλην Βαλεντινιανοῦ βασιλέως, ἀδελφοῦ αὐτοῦ.

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edifici fatti costruire o ricostruire dall’imperatore, ed edifici più antichi restaurati per l’occasione 47.

1.2. Interventi dei comites Orientis Ad Antiochia, accanto alle costruzioni dovute all’attività evergetica degli imperatori, vi era tutta una serie di edifici ed opere pubbliche legata allo zelo dei comites, che potevano attingere a fondi imperiali, privati o, più spesso, locali 48. All’iniziativa del comes Orientis Modesto 49, che ricoprì la carica dal marzo-aprile 358 fino alla seconda metà del 362, si deve la costruzione di un «portico […] caro a Dioniso» 50, detto appunto portico di Modesto, realizzato tra il 359 ed il 361 51. A tal fine, il comes avrebbe compiuto degli abusi con richieste onerose a buleuti e honorati, come attestato dalle pagine libaniane, in particolare da una lettera 52 in cui il retore lo esorta a non pensare solo a realizzare grandi opere, ma anche a non vessare nessuno nel costruirle. Nel 360 il comes avrebbe voluto imporre, infatti, ai buleuti di occuparsi del trasporto di colonne da Seleucia 53 ad Antiochia, presentando la richiesta come un favore 54. La βουλή avrebbe obbedito senza proferire parola 55, se alcuni ex-governatori, gli honorati per l’appunto, non avessero espresso la loro disapprovazione nei confronti del progetto: denominarono il portico «la dimora del comes», mostrandosi preoccupati del rischio che simili richieste eccezionali potessero un giorno diventare la norma proprio sulla base di questo precedente 56. Dopo avergli proposto di lanciare semmai un appello ai volontari, in modo che 47 Secondo Balty 1991, 281-284, il Foro di Valente, essendo il risultato del ripensamento e della restaurazione dell’agorà di epoca ellenistica ed imperiale, doveva coincidere con quest’ultima, mentre Downey (1961, 621-641) riteneva che il Foro di Valente andasse distinto dall’agorà. 48 Lib. or. 11, 194. 49 PLRE I, Modestus 2, 605-608; Petit 1994, 165-172. 50 Il riferimento a Dioniso sembra indicare che il portico dovesse sorgere nel santuario di Dioniso o nei suoi pressi, e dovesse rappresentare quasi una sorta di atto di devozione verso la divinità: Saliou 2015a, 41. 51 Lib. ep. 242 F = 68 B. 52 Lib. ep. 196 F = F.-K. 30 = N 68 = C 38. Cf. Liebeschuetz 1972, 133. 53 De Giorgi 2016, 144 pensa a colonne prese da edifici di Seleucia, ma l’ipotesi è resa dubbia dall’esistenza di leggi imperiali che vietavano il trasferimento di spolia da una città all’altra. 54 Lib. ep. 196, 3. 55 Ibidem. 56 Lib. ep. 196, 3-4. 

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nessuno potesse recriminare contro l’opera, sulla stessa scia dell’esordio il retore conclude auspicando un’opera più modesta, ma di cui tutti potessero rallegrarsi, piuttosto che le mura di Babilonia 57. Al comes Orientis Proculo, che ricoprì la carica dal 382 al giugno del 384, risale il progetto di estensione del Plethron 58 in occasione dei giochi olimpici del 384. Questa impresa, che è perfettamente coerente con la mania edificatrice del comes, diventa oggetto di critica da parte di Libanio, che nell’epistolario 59, invece, presenta la politica edilizia del comes con toni encomiastici al punto da fare di lui un rappresentante onorario di Antiochia: aveva costruito strade, portici, bagni e piazze 60, che costituivano interventi fondamentali per l’abbellimento delle città 61. Il progetto di estensione dell’edificio sportivo quadrangolare dell’ampiezza di un plethron, teatro delle gare di lotta durante i giochi olimpici 62, suscita tutta la riprovazione di Libanio, che era solito dedicare interi discorsi a questioni di gestione urbana riguardanti l’organizzazione di spazi o la cura di edifici specifici, come nel caso del discorso Sul Plethron, in cui polemizza con il progetto che avrebbe portato ad aggiungere pietre su pietre, ed avrebbe richiesto nuovi lavori e una nuova spesa solo per la mania di superare i tre stadi precedenti 63 – la conformazione originaria, l’ampliamento ad opera di Argirio e quello successivo di Fasganio 64. L’iniziativa in sé, in realtà, non era censurabilee, dal momento che avrebbe consentito ad un pubblico più numeroso di assistere agli spettacoli; eppure Libanio si concentra su tutta una serie di aspetti negativi: 57 Lib. ep. 196, 5. Da tale gravosa liturgia, che aveva suscitato malumore, Libanio cerca di mettere in guardia il comes anche altrove nella corrispondenza epistolare: ep. 617 F = 73 B, § 3. 58 Libanio, ad eccezione dei casi in cui ricorre ad una perifrasi, utilizza sistematicamente lo pseudo-toponimo Πλέθρον per designare questo luogo, mentre Malalas ricorre alla forma Πλέθρι(ο)ν (Downey 1961, 634 n.  13, 688 n.  1, e index). Lib. ep. 852, 1-2. Pellizzari 2011, 129-132. 59 Si tratta di lettere risalenti all’anno 388. 60 Lib. ep. 852, 1-2. Sull’evergetismo cittadino di Proculo vd. anche epp. 840, 8; 847, 2; 851, 4. 61 Pellizzari 2011, 129-132. 62 Lib. or. 11, 219: θεάτρων εἴδη … ἀθληταῖς ἐναγωνίσασθαι πεποιημένα; Lib. or. 10, ΠΕΡΙ ΤΟΥ ΠΛΕΘΡΟΥ, et passim; cf. Martin 1988, 215-221. Secondo Malala 12, 16, l’edificio sarebbe stato costruito da Didio Giuliano nel 193; Downey 1961, 237-238 pensa alla possibilità di una costruzione unitaria di Xyste e Plethron sotto Commodo; Remijsen 2012 colloca l’introduzione della competizione olimpica nel 212, il che comporta che il Plethron non dovette venire edificato prima di questa data. 63 Lib. or. 10, 20: ὁ δὲ τί μαθὼν λίθους ἐπὶ λίθοις δεικνύει καὶ πόνον ἕτερον καὶ δαπά­ νην ἄλλην καὶ προθυμίαν πολλὴν πειρωμένην νικῆσαι τὰ τρία. 64 Martin 1988, 320; cf. Lib. or. 10, 12-13.

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ancora una volta si trattava di un’opera a spese della boulé, come lascia intendere il passo del discorso in cui il comes sembra aver consultato l’assemblea municipale 65, e per di più la sua realizzazione avrebbe comportato demolizioni e costruzioni indiscriminate 66. Quella del retore, pronto nei suoi discorsi a tacciare i governatori di essere come bramosi di popolarità presso gli amministrati, era tuttavia una voce isolata tra gli Antiocheni, che riconoscevano invece a Proculo il merito di aver reso grande la città da piccola qual era al momento dell’assunzione della sua carica 67. Così, il comes diventa nell’immaginario popolare – in stretta coerenza, del resto, con la riabilitazione del personaggio all’interno della stessa corrispondenza epistolare libaniana – il benefattore di Antiochia in quanto costruttore di strade e portici, bagni e piazze 68. Antiochia rifletteva anche nell’articolazione dei suoi spazi il suo status peculiare: la presenza dell’imperatore e della sua corte, del comes Orientis e dei suoi apparitores e dei più importanti personaggi dell’amministrazione imperiale – ognuno dei quali lasciava una traccia nel paesaggio urbano – determinava una complessa appropriazione spaziale, che era trasformazione del paesaggio piegato alla praxis umana: lo spazio fisico, divenendo spazio pubblico, offriva la sintesi del rango istituzionale della città, che, continuamente rimodellata nel processo di appropriazione del territorio urbano da parte di chi deteneva il potere, diveniva per l’appunto vetrina monumentale del potere nel Mediterraneo.

2. IMPLICAZIONI DI CARATTERE ECONOMICO Libanio definisce Antiochia «l’antica residenza invernale degli imperatori» 69, che era in grado di provvedere al mantenimento sia dei suoi cittadini che degli stranieri, sia dell’imperatore che del suo seguito, esercito compreso, grazie ad artigiani di ogni sorta, ad una moltitudine di commercianti, alle sorgenti, al fiume, ad inverni miti ed estati sopportabili, e ad una terra che donava tutto il necessario in quantità 70. Il retore, in sin65 Lib. or. 10, 2: Ἐγκαλέσαι δ’ ἄν τις οὐ Πρόκλῳ μᾶλλον εἰκότως ἢ τοῖς πολιτευομένοις. οἷς ἐξῆν μὲν ἀντειπεῖν ἐπὶ τῷ συμφέροντι καὶ βουλευόμενον ἐπισχεῖν.

Lib. or. 42, 41. Lib. or. 10, 23: μικρὰν ὁ Πρόκλος τὴν πόλιν παραλαβὼν μεγάλην ἐποίησεν. 68 Lib. ep. 852; cf. Cabouret 2004, 175-177. 69 Lib. or. 15, 15: παλαιὸν βασιλέων χειμάδιον ἡ πόλις. 70 Lib. or. 15, 16. Da sottolineare che l’or. 15 è stata scritta in un periodo di crisi e ciò, come del resto va detto anche per la testimonianza antitetica di Socr. h.e. 3, 17, 2-4, 66 67

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tesi, paragona la sua città ad una grande e stabile nave da carico capace di trasportare ingenti quantità di vettovagliamento 71. Nel delineare l’immagine della sua πόλις come luogo di prosperità, Libanio si sofferma sull’elogio dell’importanza strategica ed economica dell’Oronte per il trasporto fluviale, e sull’attività del porto di Seleucia 72, attraverso cui giungevano i prodotti dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa, mentre, come sottolinea C. Saliou, non si accenna al ruolo giocato dalla principale città della Siria nelle dinamiche commerciali intrattenute con ogni località dell’impero – un ruolo favorito dalla sua posizione strategica, che la vedeva posta, come già detto, nei punti di convergenza delle rotte carovaniere 73. Il gigantismo della città richiedeva naturalmente lo sfruttamento di un vasto territorio 74 già al fine di garantire il sostentamento della sua popolazione 75, per cui in maniera inevitabile la presenza di elementi estranei al corpo cittadino, sottraendo una parte delle risorse disponibili, finiva con il privare gli Antiocheni stessi del necessario in congiunture particolari. Libanio sottolinea l’elevato numero delle ἀρχαί presenti ad Antiochia e del conseguente personale al seguito di ciascuna di esse 76, evidenziando i risvolti negativi insiti nell’essere questa città, allo stesso tempo, la sede del consularis Syriae e del comes Orientis nei caustici attacchi contro i governatori che esercitavano il potere locale in nome dell’imperatore 77. Avidi ed insaziabili, gli uomini che costituivano l’officium al servizio di un ἄρχων avevano bocche definite dal retore antiocheno più voraci delle fauci dei lupi 78. potrebbe indebolirne la portata storica; tuttavia, si può supporre che il retore volesse alludere alla situazione ideale, in cui è l’autorità stessa a far fronte con eventuali importazioni alle necessità dell’approvvigionamento. 71 Lib. or. 15, 17: ἡ μὲν γὰρ ἔοικεν ὁλκάδι μυριοφόρῳ μεγάλῃ καὶ ἰσχυρᾷ. 72 Lib. or. 11, 263. 73 Casevitz - Lagacherie - Saliou 2016, 193. 74 La chora, che comprendeva la piana di Antiochia, una parte della valle dell’Oronte e numerose komai dal confine con Seleucia fino al massiccio calcareo che dipende in gran parte da Antiochia (Cabouret 2004, 119). 75 Liebeschuetz 1972, 92 computa 150.000 abitanti per la seconda metà del IV secolo. 76 Lib. or. 46, 11: πολλαὶ μὲν αἱ ἀρχαί, ἔνι δὲ καθ’ ἑκάστην φάλαγξ, καὶ τούτων αὖ

καθ’ ἑκάστην κήρυκες, ἡμεροδρόμοι, βασανισταί, ἔνι δὲ καὶ ἄλλα ἄττα ἔργα ποιοῦντα προσ­ ηγορίας (traduzione e commento in Casella 2010, 119, 286-287). 77 Lib. or. 46, 13: τούτους ἀρίθμει, βασιλεῦ, τοὺς ὑπὸ τῷ τὸ ἔθνος ἄγοντι, τοὺς ὑπὸ τῷ πλείονα, τοὺς ὑπὸ τῷ στρατηγῷ καὶ μηδὲ δύ’ ἄρχοντε πίνοντε παραλίπῃς, οἷς ἀγροὶ τὰ ἐρ γαστήρια μικροῦ πάντα. ἀφ’ ὧν γὰρ ἕκαστοι πωλοῦσι λαμβάνουσι τῷ λογιστῇ προσ γινομέ­ νου τοῦ συνδίκου (traduzione e commento in Casella 2010, 119, 287-291). 78 Lib. or. 46, 42: τίς γὰρ ἂν ἐνέγκαι τοσούτων ὑπηρετῶν στόματα νικῶντα τὰ τῶν λύκων. Da sottolineare la variabilità dei referenti della metafora del lupo, che va dai

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L’essere un centro di potere polivalente, dove città, provincia, diocesi, impero erano come tanti cerchi concentrici in cui le diverse autorità competenti si alternavano, l’essere, insomma, un luogo di esercizio e di trasmissione del potere centrale a livello locale, e quindi di coesistenza e coabitazione tra le più alte autorità della gerarchia imperiale e la classe dirigente locale, esponeva Antiochia agli stessi problemi delle capitali imperiali, rispetto alle quali però mancava, almeno nel IV secolo, delle istituzioni annonarie 79, cui si ricorse, come vedremo, solo in situazioni eccezionali. Se la città sull’Oronte sembrava rispecchiare l’ideale platonico-aristotelico secondo il quale una πόλις doveva aspirare all’autarkeia, nel momento in cui essa oltrepassa i confini della città-stato per diventare una megalopoli alla minima difficoltà congiunturale la troviamo reagire in maniera ufficiale seguendo vie così standardizzate da poter essere inventariate e definite come istituzionali: controllo del mercato (agoranomia, sitophylarchia), fissazione dei prezzi, requisizioni, distribuzioni o vendita di riserve pubbliche, procedura di acquisto sui mercati stranieri (sitonia). Durante la seconda metà del IV secolo, sembrano verificarsi notevoli difficoltà per quanto riguarda l’afflusso ed insieme la distribuzione dei generi alimentari ad Antiochia, come dimostrano le crisi che si sono avvicendate con una certa frequenza. Si ha notizia di quella del 354-355 (sotto Gallo, Cesare d’Oriente), di quella del 362-363 (sotto l’imperatore Giuliano, allora ad Antiochia), ed ancora di quelle del 382-383 (sotto il comes Orientis Filagrio) e del 384-385 (sotto il comes Orientis Icario). Tali sommosse consentono di cogliere il gioco di forze differenti e spesso antitetiche all’interno della città, e di comprendere meglio la posizione rispettiva delle autorità politiche antiochene: ogni crisi si presentava, infatti, come un catalizzatore che esacerbava i rapporti di forza.

quattrocento membri della claque all’archon tyrannos ai funzionari che erano al suo servizio, poiché essa, ben lungi dall’esprimere la peculiarità di un gruppo rispetto ad un altro, mira a dare l’idea dello spietato agire di vari individui, indipendentemente dal loro rango di appartenenza, ai danni dei cittadini di Antiochia (cf. Casella 2011, 56-62). 79 Non vi è alcuna testimonianza per il IV secolo di distribuzioni gratuite di tipo imperiale; resta l’eccezione rappresentata dall’imperatore Probo per il III secolo, ma attestata solo da Malala (12, 33: ἐβασίλευσεν Ἤλιος Πρόβος … ὁ δὲ αὐτὸς βασιλεὺς καὶ τὰς σιτήσεις τῆς αὐτῆς πόλεως Ἀντιοχείας ἐκ τοῦ δημοσίου ἔταξεν; cf. Carrié 1975, 1073-1074; Nicolet 2000, 742).

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2.1. Provvedimenti imperiali Durante il regno di Costanzo II, e precisamente sotto il cesarato di Gallo in Oriente, si aggirava nella metropoli antiochena l’inediae metum 80, in seguito ad una carestia originata da un cattivo raccolto, ed intensificata poi da un più generale problema di approvvigionamento. A tal proposito, risulta ancora aperto il dibattito sulle cause multiple della carestia: secondo Petit 81, la crisi frumentaria sarebbe stata aggravata, infatti, dalla presenza dell’esercito in procinto di partire per Ierapolis; secondo Durliat, la crisi sarebbe invece scaturita dall’insufficienza del raccolto, visto che il grosso dell’esercito si trovava vicino all’Eufrate (e ciò sarebbe avvalorato da Ammiano, il quale afferma che fu Gallo a partire per Ierapolis, e non il Cesare con il suo esercito) 82. In realtà, procedendo nella lettura dello storico antiocheno, emergono ulteriori dettagli: l’imperatore Costanzo II avrebbe sottratto al Cesare gli adiumenta adducendo come pretesto il fatto che i soldati, sempre inclini ai tumulti nei periodi di inattività, potessero altrimenti cospirare a suo danno, e lo esortò, quindi, ad accontentarsi delle sole truppe palatine 83. Oltre ad attestare la cattiva condotta di Gallo, il resoconto ammianeo sembra confermare la presenza di un cospicuo numero di soldati al seguito del Cesare, che l’imperatore vuole sottrargli con un éscamotage, spinto a ciò proprio dalla violenza e dalla crudeltà del suo delegato in Oriente, che ad Antiochia aveva dimostrato di essere incapace a rappresentarlo nell’esercizio del potere imperiale. Nel momento in cui Costanzo scrive a Gallo di accontentarsi delle sole truppe palatine, si presume che per le vie di Antiochia dovessero aggirarsi liberamente, oltre a questi, anche altri corpi di milizie. Del resto, le pagine libaniane non mancano di passi che vedono i soldati artefici di requisizioni 84. Amm. 14, 7, 5. Petit 1955, 108, sulla base di Amm. 14, 7, 5: Gallus Hierapolim profecturus, ut expeditioni specie tenus adesset. 82 Durliat 1990, 360, con interpretazione evidentemente divergente del passo di Ammiano citato alla nota precedente. 83 Amm. 14, 7, 9. 84 Lib. or. 46, 13: τὸν δὲ ἐγκαθήμενον λόχον τί οἴει; ἆρα ἀγαπᾶν τῇ παρὰ σοῦ τροφῇ; 80

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καὶ τίς οὐκ οἶδε τὴν ἁρπαγὴν ἣν ὁ πωλῶν ἐπισχεῖν μὲν οὐκ ἐπιχειρεῖ, μὴ παροξύνῃ, δεῖται δὲ ἐλάττω γενέσθαι; οὗτοι δὲ οἱ στρατιῶται πάνθ’ ἁπλῶς ἐπέρχονται πανταχόθεν ἕλκοντες καὶ εἰ μὴ κρέας ἤ τι τῶν τοιούτων ἔνι, φέροντες ἀργύριον (traduzione e commento in Casella

2010, 119, 291-292). Sulle ‘vendite’ forzose di vino o di carne, o ancora di grano, di orzo, di fieno o paglia ad opera dei soldati, cf. MacMullen 1963, partic. 84-86, le cui conclusioni sono comunque un po’ forzate; per un bilancio più misurato vd. Pollard

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Il Cesare Gallo, anziché ricorrere alle misure di competenza del potere centrale, che in tale situazione di crisi avrebbe dovuto svolgere un ruolo di supporto a quello dei responsabili locali, riequilibrando le risorse a livello generale, anche facendo giungere derrate dalle province limitrofe, additò alla moltitudine il consularis Syriae Teofilo 85, su cui fece ricadere ogni responsabilità 86. Colui che rappresentava il potere imperiale ad Antiochia finì così per accrescere l’audacia del popolo al punto che, spinto dalla fame e dal furore, arrivò ad incendiare la dimora del notabile Eubulo, ed a dilaniare il corpo del governatore provinciale, dopo che cinque χαλκεῖς lo assalirono all’ippodromo durante una corsa di cavalli 87 con pugni e calci 88. Gallo, insomma, stando al resoconto di Ammiano, che tra l’altro coincide con la visione libaniana dei fatti 89, avrebbe fallito nell’assolvere i doveri propri della sua carica, imponendo una soluzione locale ad un problema che per portata andava oltre tale prospettiva. Antiochia attraversò un altro momento difficile nel 362-363, dovuto ad una serie di concause sullo sfondo di una crisi economica che tormentava la metropoli ormai da anni, aggravata di nuovo dalla necessità di provvedere alle esigenze delle numerose truppe stanziate in Siria in vista della campagna contro i Persiani, e di una crisi finanziaria che si palesava con l’impoverimento dei buleuti 90 ed il conseguente ritardo nel pagamento delle imposte.

2000. Le diverse forme di estorsione ad opera delle truppe e dei loro ufficiali sono ben descritte in Lib. or. 47, 29-33, cf. anche Sines. ep. 130 – «spostando le truppe dove maggiore fosse […] la possibilità di saccheggio» (trad. it. Garzya, 313). 85 PLRE I, Theophilus 1, 907; Petit 1994, 254: viene presentato sia da Ammiano che da Libanio come una vittima innocente di un tradimento di Gallo, che lo addita come responsabile dell’approvvigionamento (Amm. 14, 7, 5: Id assidue replicando quod, invito rectore, nullus egere poterit victus). 86 Amm. 14, 7, 5. 87 Lib. or. 1, 103; 19, 47; ep. 386. Vd. anche Iul. misop. 42, in cui l’attenzione è focalizzata sul comportamento del demos che, pur mosso da una giusta rabbia, avrebbe superato ogni limite: ὁ δῆμος ἐπὶ τὰς οἰκίας τῶν δυνατῶν ξὺν βοῇ τὴν φλόγα καὶ ἀποκτιννὺς τὸν ἄρχοντα, δίκην δὲ αὖθις ἀποτίνων ὑπὲρ τούτων, ὧν ὀργιζόμενος δικαίως, ἔπραξεν οὐκέτι μετρίως. Per un’interpretazione delle gare ippiche diversa da quella di spettacolo mera-

mente sportivo e privo di incidenze politiche cf. Casella 2007, 107. 88 Amm. 14, 7, 6. 89 Il retore detesta il Cesare e difende i buleuti (nella fattispecie, ebbe modo di vedere il fumo scaturito dall’incendio: 1, 103: καὶ καπνὸς οὑτοσί, τοῦ πυρὸς ἄγγελος, αἴρεται καὶ ὁρᾶν ἔξεστιν); allusioni all’evento anche in Lib. or. 46, 30: cf. Casella 2010, 126-127 e 318-319. 90 Lib. or. 49, 2: τῶν ἐπὶ τὸν Τίγρητα πεμπομένων βουλευτῶν ταῖς ἐκεῖ βλάβαις τὰ πατρῷα πωλούντων. οἱ δ’ οὐκ οἶδ’ ὁπόθεν ἥκοντες ἐωνοῦντο ῥᾳδίως γεωργοῦντες τὰ βασί­ λεια. Cf. Casella 2016, 272.

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Sebbene le fonti non facciano riferimento alcuno alla crisi economica antiochena, nella corrispondenza libaniana, tuttavia, si possono trovare delle tracce interessanti a riguardo, come ad esempio nelle lettere di risposta del retore alla missiva inviatagli nel 359-360 dal praeses Euphratensis Prisciano I 91, incentrata sulla povertà che regnava nella sua provincia: la situazione non sembra apparire diversa neppure ad Antiochia, anzi sembra trattarsi di una condizione generalizzata – ἡ πενία κοινὸν νῦν ἀνθρώποις 92. Quanto alle cause della difficoltà di approvvigionamento negli anni 362-363, si chiama in causa una siccità persistente, che avrebbe avuto ripercussioni sul raccolto, anche se, secondo l’imperatore Giuliano, tale siccità non sarebbe stata la causa determinante la crisi, dal momento che sul mercato antiocheno le merci erano presenti in gran copia ma venivano vendute a prezzi esorbitanti, come avevano urlato gli stessi Antiocheni a teatro poco dopo l’adventus imperiale nel luglio del 362 93. È probabile che la siccità avesse aggravato la situazione resa già difficile non solo dal raccolto andato male, ma soprattutto dalle requisizioni militari – buona parte del grano di tutta la Siria andava a finire sulle frontiere –, accentuatesi con l’arrivo dell’imperatore accompagnato da un seguito numeroso 94. In tale congiuntura Giuliano incarna lo stato-Provvidenza 95, che interviene per rimediare alle défaillances locali: egli fa giungere dalle città vicine di Calcide e Ierapoli, e poi direttamente dai granai imperiali d’Egitto, notevoli quantità di grano, destinate normalmente alle capitali ufficiali, fissandone un prezzo politico di vendita 96. Il grano fatto giungere dall’Egitto configura una percezione di Antiochia da parte dell’imperatore come di una capitale imperiale, ma allo stesso tempo conferma che, tranne per l’eccezione di Probo, non esisteva un’annona civica riservata al popolo antiocheno 97. L’esortazione di Libanio al comes Orientis Rufino 98 – che aveva osato riguardo al grano prendere iniziative peculiari di Roma – a lasciare libero PLRE I, Priscianus 1, 727; Petit 1994, 206-210. Lib. ep. 143 = 60 N; vd. anche ep. 149 = 61 N: ἃ δὲ περὶ τῆς πενίας ἔγραψας μείζω τὴν ἐκεῖ τῆς τῇδε πειρώμενος δεικνύναι, ῥητορεύοντος, οὐκ ἀληθεύοντος ἦν. 93 Iul. misop. 41, 368c: πάντα γέμει, πάντα πολλοῦ. 94 Petit 1955, 111. 95 Sulle virtù di Giuliano, la pronoia in questo caso, cf. Casella 2014, 169-195. 96 Iul. misop. 41, 369a-b: ἔδοξέ μοι πέμπειν εἰς Χαλκίδα καὶ Ἱερὰν πόλιν καὶ πόλεις 91

92

τὰς πέριξ, ἔνθεν εἰσήγαγον ὑμῖν μέτρων τετταράκοντα μυριάδας … Ἀπὸ τῆς Αἰγύπτου κομισθέντα μοι σῖτον ἔδωκα τῇ πόλει, πραττόμενος ἀργύριον οὐ κατὰ δέκα μέτρα, ἀλλὰ πεντεκαίδεκα τοσοῦτον, ὅσον ἐπὶ τῶν δέκα πρότερον. 97 98

Durliat 1990, 1076. PLRE I, Rufinus 11, 775-776; Petit 1994, 221-222.

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il mercato antiocheno 99 è sintomatica di come venisse percepito il dirigismo imperiale a livello locale. La politica interventista è presentata come autoritaria e descritta con fastidio anche da Ammiano, il quale attesta che gli Antiocheni rilevavano come l’imperatore si preoccupasse di far scendere i prezzi dei generi di consumo solo per amore di popolarità 100.

2.2. Provvedimenti dei comites Orientis Antiochia conosce un nuovo periodo di crisi alla fine del IV secolo, sotto l’imperatore Teodosio il quale, nonostante le promesse, non si recò mai in questa città 101. La situazione di Antiochia che non ricopriva più il ruolo di residenza imperiale, tornava così quella di una grande metropoli provinciale, ma restava sempre gravata degli oneri che le derivavano dall’essere tra l’altro anche sede della comitiva Orientis. Una crisi di approvvigionamento si colloca negli anni 382-383, sotto il comes Orientis Filagrio 102: a determinare lo stato di carestia fu la siccità dell’inverno 382 e della primavera del 383 103, fatale in un’area dal clima mediterraneo con estati secche 104. La situazione si aggravò in seguito all’imperversare di un’epidemia di peste 105, e delle piogge eccessive dell’inverno 384-385, che provocarono inondazioni, con il conseguente crollo di un ponte che compromise del tutto l’approvvigionamento 106; a completare il quadro sopraggiunse lo sciopero dei σιτοποιοί, una reazione collettiva di una corporazione di mestiere 107 che, fuggendo dalla città per trovare rifugio sulle montagne a causa del trattamento inflittole dal comes

99 Lib. ep. 1379: τὰ δ’ αὖ περὶ τὸν σῖτον σὺ μὲν καὶ ταῦτα ἄξια τῆς Ῥώμης τετόλμηκας, ἡμῖν δὲ ἔδοξεν ἄμεινον εἶναι καὶ ταύτῃ τὴν ἀγορὰν αὐτόνομον ἀφεῖναι.

Amm. 22, 14, 1: superfluum videbatur, quod, nulla probabili ratione suscepta, popularitatis amore, vilitati studebat venalium rerum. 101 Lib. or. 22,46; ep. 945; cf. Casella 2010, 267. 102 PLRE I, Philagrius 2, 693; Petit 1994, 197-198. 103 Lib. or. 1, 205: ἀπολελαύκει μὲν οὐ χρηστοῦ τοῦ χειμῶνος ἡ γῆ, μετριωτέρα δὲ 100

οὐδὲν ἡ μετ’ ἐκεῖνον ὥρα. καρπῶν δὲ τῶν μὲν οὐδ’ ἀναφύντων, τῶν δὲ ὡς ὀλιγίστων καὶ οὐδὲ αὐτῶν ὑγιῶν.

104 Sembra che lo stato di siccità caratterizzasse in quella contingenza tutti i Paesi mediterranei, Roma e l’Egitto compresi. 105 Lib. or. 1, 233: Τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ λιμοῦ καὶ ἅμα ἀπὸ τοῦ λοιμοῦ λύπην, ἐξ ὧν πολὺ τὸ θνῆσκον, οὐδ’ ἂν εἰπεῖν ὅση μοι κατέσχε τὴν ψυχήν, δυναίμην; or. 27, 8: καὶ μὴν ὅτι μὲν αἱ πόλεις εἰς τὸν ἀριθμὸν ἐζημίωνται τῶν σωμάτων διὰ τὸν λιμόν τε καὶ λοιμόν. 106 Lib. or. 27, 3. 107 τὸ τῶν σιτοποιῶν ἔθνος (Lib. or. 1, 206), sul modello dei pistores di Roma e Costantinopoli.

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Orientis Proculo 108, proclive alle punizioni corporali o a comminare addirittura la pena di morte 109, finì con il causare la scomparsa del pane dal mercato 110. Nella città in piena carestia ed in balìa di un episodio sedizioso, paragonata da Libanio ad una nave in mezzo alla tempesta 111, fa allora il suo adventus il nuovo comes Orientis Icario 112, la cui nomina suscita la reazione ostile del popolo: il comes, infatti, viene schernito a teatro 113, dove gli astanti reclamarono misure contro i σιτοποιοί. Si trattava, come spiega lo stesso Libanio ad Icario, della reazione spontanea di una folla affamata, cui si univano gli intrighi oscuri dei gruppi politici: Icario viene infatti attaccato anche dai sostenitori del suo predecessore Proculo, che istigano la folla contro di lui 114. L’espediente delle urla levate durante uno spettacolo per reclamare delle misure era un fenomeno ricorrente nel IV secolo, il medesimo che si era verificato già sotto Giuliano all’ippodromo, dove l’imperatore era stato accolto allo stesso modo dalle urla della popolazione affamata 115. Interessante, ai fini del nostro studio, è proprio cercare di cogliere il ruolo dei rappresentanti imperiali di fronte a situazioni che potevano presentare sviluppi pericolosi. Filagrio, senza ricorrere alla forza, onde evitare il precipitare della vicenda, che avrebbe portato la città alla condizione di una nave priva del suo equipaggio nel caso di un’eventuale fuga dei σιτοποιοί, invitò questi ultimi ad essere «più giusti»: l’aggettivo δικαιότερος è un invito alla moderazione e, quindi, ad un contenimento dei prezzi 116. Dal canto suo, Icario fissò il prezzo del pane, assecondando le richieste 117; stabilì una vendita regolamentata, o meglio una misura di PLRE I, Proculus 6, 746-747; Petit 1994, 213-217. Lib. or. 1, 212-224. 110 Lib. or. 1, 226. 111 Lib. or. 1, 226: ἡ μὲν οὖν πόλις οὐδὲν διέφερε χειμαζομένης νεώς. 112 PLRE I, Icarius 2, 455-456; Petit 1994, 134. 113 Lib. or. 26, 8. 114 Lib. or. 26, 8: è proprio Libanio che spiega al nuovo comes la dinamica di queste azioni in un discorso dal tono paternalistico ed amichevole in cui lo tranquillizza, e lo esorta a non inquietarsi dal momento che si trattava di una folla di individui che non avevano nulla in comune con la popolazione antiochena, e dei partigiani di Proculo, una ventina di persone o al massimo il doppio, che avrebbero voluto imporre il ritorno dell’ex-comes mostrando a tutti l’incapacità del suo successore. Questi manifestanti venivano pagati per organizzare il tumulto, senza che le loro istanze corrispondessero a quelle della maggioranza dei cittadini, favorevoli al nuovo comes (cf. Casella 2010, 168-169). 115 Lib. or. 18, 195. 116 Lib. or. 1, 206: παρεκάλει μὲν τὸ τῶν σιτοποιῶν ἔθνος εἶναι δικαιοτέρους, ἀνάγκας 108

109

δὲ οὐκ ᾤετο δεῖν ἐπάγειν, δεδιὼς τὴν ἐπὶ πλεῖον ἀπόδρασιν, ᾧ ἂν εὐθὺς ἐβαπτίζετο τὸ ἄστυ, καθάπερ ναῦς ἐκλιπόντων τῶν ναυτῶν. 117

Lib. or. 29, 2.

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controllo contro l’esportazione fraudolenta di pane fuori dalla città, ed a tal proposito propose di collocare dei soldati alle porte di Antiochia per assicurarsi che nessuno uscisse dalle mura cittadine con più di due pani 118. Ciò attesta il fatto che in periodi di crisi vi era un movimento che dalla campagna portava alla città, meglio approvvigionata grazie alle misure dei governatori. Le porte di Antiochia diventavano così la linea di confine nella polarizzazione città-campagna, al fine di bloccare quelle correnti interne che normalmente garantivano gli scambi costanti di mercato. L’uso dello spazio nelle relazioni sociali, e nei comportamenti violenti delle categorie più diverse che la città ospitava e che la caratterizzavano peculiarmente, offre la misura della sua condizione di una megalopoli in cui i fenomeni sociali erano strettamente influenzati anche dalla disponibilità e dalla fruizione delle merci, oltre che dalla permanenza di un virtuoso dinamismo produttivo.

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118 Lib. or. 27, 14: Βούλει σοι καὶ τὴν καλὴν φυλακὴν εἴπω, τοὺς ἐν ταῖς πύλαις στρα­ τιώ τας, οἷς τὸ μὲν πρόσχημα κωλύειν πλὴν δυοῖν ἄρτοιν ἐξαγαγεῖν τὸν γεωργόν.

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Una capitale intermittente: la vicenda di Antiochia di Siria nel IV secolo d.C.

Casella 2014-2015

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La construction édilitaire civile dans les capitales et les cités de l’Égypte tardive (IVe-VIIe siècles): acteurs et financements *  

Christel Freu **

RÉSUMÉ: On s’intéresse ici aux chantiers de la construction édilitaire dans les cités de

l’Egypte tardo-byzantine. Tout en rappelant que les revenus publics qui permettaient au Haut-Empire de financer de tels chantiers se sont en partie taris à partir de Constantin, on montre que des responsables, nommés par l’administration impériale, continuaient dans les cités à avoir en charge construction, réparation et entretien des rues et monuments publics, notamment des thermes. Les capitales de province furent sans doute privilégiées dans ces réparations par le pouvoir impérial. L’article considère enfin la qualité des constructions tardives et montre que le savoir-faire édilitaire des professionnels du bâtiment était resté de haut niveau. En plus des métiers communs de la construction, les villes égyptiennes tardives abritaient des spécialistes hautement qualifiés dans les secteurs de l’adduction d’eau (plombiers) ou dans la décoration architecturale (verriers, marbriers, etc.).

ABSTRACT: We are interested here in the construction of public buildings in the cities of Late-Byzantine Egypt. While recalling that the public revenues which enabled the High Empire to finance such works have partially dried up from Constantine, we show that officials, appointed by the imperial administration, continued in the cities to be in charge of construction, repair and maintenance of streets and public monuments, in particular thermal baths. The provincial capitals were doubtless privileged in these repairs by the imperial power. The article finally considers the quality of late construction and shows that the know-how of building professionals had remained of high level. In addition to the common building trades, the late Egyptian cities were home to highly qualified specialists in the water supply sectors (plumbers) or in architectural decoration (glassmakers, marble workers, etc.) KEYWORDS: architect; architecte; civic officials of building sites; construction édilitaire; civic building; Égypte tardive; Late Antique Egypt.

* Cet article a bénéficié de discussions avec Jean Gascou sur différents points. Qu’il en soit ici remercié. ** Université de Laval.

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Christel Freu

La construction édilitaire a toujours été un des postes budgétaires les plus lourds pour une cité; depuis des siècles, les cités devaient régulièrement choisir à quoi consacrer leurs revenus, bâtiments, défense ou spectacles 1. Dans l’Antiquité tardive, que l’on décrit volontiers comme l’époque du repli matériel et économique, le secteur du bâtiment est pourtant resté florissant en certaines régions, particulièrement en Orient où les restaurations de bâtiments publics ont continué durant toute la période tandis que les constructions d’églises, de monastères et de lieux d’accueil chrétiens, mais aussi d’ouvrages défensifs, étaient un moteur du secteur 2. Cependant, si on construit encore, et parfois de très beaux bâtiments, et qu’on restaure aussi beaucoup, on ne le fait pas partout, ni toujours sur fonds publics impériaux ou municipaux. Laissant de côté les constructions religieuses, très étudiées du point de vue architectural comme de celui des commanditaires, on essaiera ici de mesurer la place qu’occupait encore à l’époque tardive la construction civile, en étudiant ses acteurs et ses financements. Nous proposons de considérer la question à partir des papyrus et d’autres documents provenant d’Égypte, pays morcelé en deux, puis quatre et enfin six provinces – et autant de capitales d’ἐπαρχίαι – et devenu diocèse à la fin du IVe siècle. L’Égypte tardive et byzantine n’est pas la région la mieux connue en matière de construction édilitaire. Mal fouillé et saccagé au XIXe siècle par le pillage de ses bâtiments antiques encore debout, le pays n’a livré presque aucun centre urbain monumental en bon état 3. La plupart n’existent plus. Quelques sites fouillés plus ou moins récemment – à 1 Voir, pour comparaison, le livre de Migeotte 2014, part. 372-381, pour différentes cités du monde grec; 635-642, pour la caisse sacrée d’Apollon à l’époque de l’indépendance (en partic. 638: «les travaux se sont toujours taillé la part du lion», puisqu’il fallait acheter des matériaux coûteux, parfois venus de loin, payer entrepreneurs et ouvriers, d’autant plus cher s’ils étaient spécialisés et étrangers); 668-669 pour la cité de Délos. Les sources de financement sont en partie les mêmes qu’à l’époque romaine: évergésies royales ou privées, contributions, fonds publics ou sacrés. 2 Sur la vitalité du secteur du bâtiment à l’époque tardive, voir Sodini 1979, 7280 (pour l’Orient) et Wilson 2006, en partic. 232-234, qui a bien montré combien ce secteur signalait une bonne santé économique générale et combien il s’effondra dans les régions qui avaient été coupées, telle la Bretagne, des réseaux marchands romains et des commandes de l’État («the contrast with the eastern Mediterranean, where fired brick continued to be a feature of Byzantine architecture, may in part reflect the role of the state there in continuing to fund large building projects […] sustaining an economic climate in which mass-production of standardised elements by private brick makers continued to be economically viable»); voir encore Carrié - Freu 2019, 50-55, pour une synthèse des recherches récentes sur le secteur du bâtiment. 3 Voir récemment Gascou 2019, en partic. 215-217, sur Hermoupolis à l’époque tardive, ses vestiges et ses fouilles; voir aussi Davoli 1998 pour les villes du Fayoum.

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La construction édilitaire civile dans les capitales et les cités de l’Égypte tardive

Alexandrie, au Fayoum ou dans les Oasis de Kharga et Dakhla – offrent tout de même des informations importantes sur l’architecture, les techniques et les matériaux, que l’on utilisera en complément des papyrus. L’Égypte souffre ensuite d’une autre lacune documentaire: l’épigraphie civique, qui donne en général les noms des commanditaires des bâtiments, y est beaucoup plus rare qu’ailleurs, du fait du développement tardif des cités dans le pays 4. Il reste donc essentiellement les papyrus, ainsi que les importantes sources littéraires. Du côté papyrologique, nous manquons très rapidement dans la seconde moitié du IVe siècle d’archives municipales conséquentes. Les plus nombreuses datent on le sait de la grande floraison classicisante des IIe-IVe siècles où les cités égyptiennes se mettaient au diapason monumental et artistique de leurs homologues d’Asie, de Syrie ou d’Occident. Après les années 340, les documents concernant la construction édilitaire se font plus rares, mais ne disparaissent pas. Les informations qu’on peut en tirer, quoique dispersées, recoupent pour l’essentiel celles apportées par la riche épigraphie orientale. Les papyrus apportent même des détails uniques sur la chaîne des responsabilités de la construction édilitaire. On le verra. Qui commande ces constructions et en contrôle l’exécution? Qui les réalise, et avec quels matériaux et savoir-faire? C’est ce qui va nous intéresser et l’on verra combien, durant ces trois siècles, les responsables publics des constructions ont changé, quand les professions du bâtiment et les techniques édilitaires paraissent être demeurées assez stables. On étudiera ici la question en trois temps, en considérant d’abord la question des sources de financement des constructions d’époque tardive, puis celle des responsables des chantiers publics, enfin celle de la perpétuation des techniques et des savoir-faire des professionnels du bâtiment.

1. QUI FINANCE? Dans un article important paru en 1999, Claude Lepelley avait détaillé les quatre sources possibles de financement des constructions édilitaires au IVe siècle: l’empereur, les évergètes, les caisses municipales et la souscription des citoyens 5. Les chantiers égyptiens sont pareillement financés du IIe au IVe siècle, même si les dons évergétiques sont moins documentés

4 5

Voir Bingen 1999, 613-624 (en partic. 615) et Feissel 2000, 85. Voir Lepelley 1999, 234-247.

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Christel Freu

dans le pays 6. En cette époque de monumentalisation classicisante, les préfets d’Égypte veillaient au budget des grands chantiers des thermes, bâtiments officiels, basiliques, comme les autres gouverneurs le faisaient ailleurs dans l’Empire. Qu’en fut-il par la suite à l’époque plus tardive?

1.1. L’empereur et les caisses impériales Dans les cités égyptiennes, de grands bâtiments civiques – les temples, puis surtout les bains – étaient désignés comme «divins» ou «impériaux» ou identifiés du nom d’empereurs célèbres. Dédier ces bains aux souverains ne signifiait pas nécessairement que les empereurs avaient financé leur construction, même s’ils pouvaient l’avoir autorisée 7. On sait cependant que, pour certains projets monumentaux qui ne pouvaient être financés par les seules cités, les empereurs financèrent bien le chantier. Ainsi, au IVe siècle, des constructions et restaurations de thermes sont réalisées en Occident, dans des cités de Gaule ou d’Italie 8, grâce au fisc impérial, tandis qu’à Alexandrie on a supposé l’intervention directe des empereurs dans certains grands chantiers, comme celui des thermes fondés sous la dynastie valentinienne au sud de l’agora de la capitale. Selon l’archéologue qui les fouilla dans le quartier de Kom el-Dikka aux côtés d’un petit théâtre, de quartiers d’habitation et des fameux auditoria pour les conférences des professeurs, le chantier des thermes ne put qu’être le fruit d’une initiative impériale achevée à l’époque de Gratien 9. Ce projet 6 Les constructions étaient au Haut-Empire essentiellement financées sur les fonds des cités, alimentés par les sommes dues par les magistrats et curateurs des bâtiments en poste, auxquels s’ajoutaient les souscriptions civiques, et quelques dons supplémentaires: voir Łukaszewicz 1986, 89-138. Pour le manque de grands évergètes en Égypte, voir aussi Van Minnen 2000, 458-459, et 2002, 298-302 (mais le faible nombre d’inscriptions est un biais important). 7 Voir les références papyrologiques dans Łukaszewicz 1986, 66-67, qui estimait que ces dénominations renvoyaient à des fondations impériales. Saliou 2014, 664 a beaucoup nuancé cette idée au sujet des thermes d’Antioche: «de telles désignations n’impliquent pas en elles-mêmes que l’empereur soit intervenu dans le projet de construction ou dans son financement. En effet, un établissement construit par la cité ou par un évergète peut avoir été dédié à un empereur, pour l’honorer, et c’est de cette dédicace que le nom garde la mémoire». 8 Constantin donne des thermes, sur argent du fisc, à Reims (ILS 703) et Constance II intervient de même pour restaurer ceux de Spolète détruits par le feu (CIL XI 4781 et ILS 739). 9 Kołątaj 1992, 49-51. Serait-ce le «bain de Gratien» mentionné par une leçon du manuscrit de Théophane le Confesseur pour l’année A.M. 5949, non retenue par De Boor qui a conservé la leçon «bain de Trajan»? Calderini 1935, I, 96-97 (suivi par

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La construction édilitaire civile dans les capitales et les cités de l’Égypte tardive

monumental fit clairement appel aux techniques romaines de construction: le plan de l’édifice était romain, comme l’étaient les murs de soubassement en opus caementicum et mixtum. L’usage massif de la brique pour les murs, les hypocaustes, les voûtes et les arches était aussi romain, même si d’autres éléments de l’architecture du demosion loutron annonçaient les bains byzantins par l’usage de la vapeur humide, l’absence de tubulures et l’utilisation du caldarium pour servir alternativement aux bains chauds et froids 10. Par la suite, au Ve siècle, des mentions précises de la Chronique byzantine de Théophane le Confesseur, suivant pour Alexandrie une source locale bien informée 11, font état de nombreuses restaurations de balaneia, de citernes et de stoa, ainsi que des constructions d’un bain et d’une citerne sous Théodose II, Marcien et Léon 12. Si l’origine, impériale et/ou municipale, du financement de tous ces chantiers n’est pas précisée par la Chronique, il est possible que le financement fût au moins mixte pour les chantiers les plus importants. On aimerait en savoir davantage sur les architectes et artisans qui coordonnèrent ces constructions d’envergure. En Occident, des transferts de main d’œuvre spécialisée sont parfois attestés dans ce genre de Gascou 2012, 308-318, en partic. 314-317) estime qu’il est possible qu’il ait existé un bain de Gratien à Alexandrie. Par ailleurs, la réédition par Gascou 2012 de P. Oxy. XXXIV 2719 a fait ressurgir aux lignes 5-6 du texte un «bain de Valens» (τῶν θερμῶν Οὐά[λεν]τ ̣ος), très certainement situé à Alexandrie. J. Gascou remarque alors avec Lenski 2002, 277-278 et 393-401, l’intérêt des empereurs de la dynastie valentinienne pour la construction édilitaire, notamment celle des bains (cf. Themistios, Or. XI 150-152 sur Constantinople et l’aqueduc achevé par Valens; Socrate, HE 4, 9, 5; Sozomène, HE 6, 9, 3; Notitia urbis Const. 8, 17 et 10, 8 sur les bains construits dans la capitale par l’empereur. On pourrait y ajouter le tétrapyle d’Athribis, érigé sous Valens, sur lequel on reviendra). 10 Voir Kołątaj 1992, 62-92 et 173-182; McKenzie 2007, 212-214. 11 Voir l’introduction de Mango- Scott 1997, LXXIV s., en partic. LXXVIII-LXXX, concernant une des sources importantes de Théophane, une chronique alexandrine touchant aux événements des années A.M. 5786-6009 (293/294 ap. J.-C. 516/517 ap. J.-C.): ses informations concernant les restaurations et constructions dans l’Alexandrie tardive sont sûres et ne se retrouvent nulle part ailleurs. Cf. note suivante pour les références. 12 E.g. Theoph. Chronographia, A.M. 5933 - 440/441 ap. J.-C. (éd. De Boor, 96: τούτῳ τῷ ἔτει ὁ Κάνθαρος τὸ βαλανεῖον ἐν Ἀλεξανδρείᾳ ἐπληρώθη); A.M. 5945 452/453 ap. J.-C. (éd. De Boor, 107: τούτῳ τῷ ἔτει ἐκτίσθη τὸ Διοκλητιανοῦ βαλανεῖον ἐν Ἀλεξανδρείᾳ); A.M. 5949 - 456/457 ap. J.-C. (éd. De Boor, 109: αὐτῷ δὲ τῷ ἔτει ἀνε­ νεώθη ἐν Ἀλεξανδρείᾳ τὸ Τραιανὸν βαλανεῖον καὶ ἡ βασιλικὴ μεγάλη εἰς τὸ Στοιχεῖον); A.M. 5959 - 466/467 ap. J.-C. (éd. De Boor, 115: τούτῳ τῷ ἔτει ἐστράτευσεν Ἀλεξάνδρεια ἄνδρας τρι σχι λίους καὶ ὁ μέγας λάκκος ἐκτίσθη εἰς τὰ Ἰωάννου καὶ τὰ δύο βαλανεῖα ἡ Ὑγεία καὶ ἡ Ἴασις). Cf. Calderini 1935, I, 96-97 («Tutto ciò è la prova che varî imperatori deb-

bono essere sembrati benemeriti della città col fondare e riattare stabilimenti pubblici di bagni; fra essi Settimio Severo, Diocleziano, Graziano»).

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Christel Freu

chantier 13; mais, pour Alexandrie, grande ville encore au IVe siècle et haut lieu du savoir architectural et mécanique, les spécialistes locaux devaient suffire et proposer même des solutions originales alliant le meilleur du savoir-faire grec et romain. Comme Judith McKenzie l’a récemment montré, ce n’était pas en effet Alexandrie qui importait alors les techniques architecturales les plus avancées, mais bien plutôt Constantinople qui les recevait d’Alexandrie 14.

1.2. Élites civiques, gouverneurs et autres acteurs des chantiers On sait par ailleurs que des changements importants eurent lieu à l’époque tétrarchique en matière de finances civiques. D’abord, l’intervention impériale dans l’arbitrage des dépenses des cités se fit sous la Tétrarchie encore plus contraignante qu’auparavant 15 et c’est de cette même époque que datent les nouvelles institutions civiques qui allaient peu à peu marginaliser le rôle des boulai dans les projets de chantier. Ensuite, il semble que, sous Constantin et ses successeurs, les cités n’ont plus disposé à leur guise des revenus qu’elles tiraient auparavant des terres, pâturages ou bâtiments publics ou des vectigalia locaux. Elles virent dès cette époque leurs terres en partie confisquées 16 et il est très Voir le panégyrique d’Eumène prononcé en 298 à Autun pour la reconstruction des scholae de la ville, Paneg. V (9), où les empereurs Maximien et Constance font venir pour diriger le chantier des artifices transmarinos (cf. Hostein 2016, 324). 14 Voir McKenzie 2007, 230-235 et 322-350; voir encore Cuomo 2000, 16-46, sur l’influence du savoir mathématique alexandrin en architecture et l’intérêt que les empereurs portaient aux architectes. 15 CJ 11, 42, 1. Dioclétien répond qu’un gouverneur a eu raison de transférer l’argent des jeux d’une cité à la réfection des remparts (entre 286-293, rescrit venant sans doute du Code Hermogénien). 16 Lepelley 1999; Liebeschuetz 2001, 175-178, qui, même s’il reste assez flou sur la chronologie, «from the mid-fourth century», estime toutefois que les terres et les revenus des cités ont bien été confisqués; Delmaire 1989, 276-282 qui décrit la mainmise des Largesses sur les uectigalia des cités non comme «une gourmandise insatiable du fisc», mais comme «une intervention dans la ligne de la politique impériale pour empêcher les cités de se livrer à des dépenses excessives»; Lenski 2016, 173-179 et n. 35, qui à partir de Sozomène, V 5, 3 (Ἡνίκα γὰρ Κωνσταντῖνος τὰ τῶν Ἐκκλησιῶν διέταττε πράγματα, 13

ἐκ τῶν ἐκάστης πόλεως φόρων τὰ ἀρκοῦντα πρὸς παρασκευὴν ἐπιτηδείων ἀπένειμε τοῖς παν ταχοῦ χλήροις, καὶ νόμῳ τοῦτο ἐκράτυνεν, ὠς καὶ νῦν κρατεῖ; «en effet, du temps où

Constantin réglementait les biens des Églises, il avait attribué partout aux clercs sur les revenus (fiscaux) de chaque cité, ce qui suffisait à leur fournir le nécessaire, et il avait sanctionné cette mesure par une loi qui est en vigueur aujourd’hui encore»). Ce récit peut être complété par ce que dit une loi de Julien (CTh. 10, 3, 1) datée de mars 362, qui prévoyait de rendre aux cités leurs biens confisqués par ses prédécesseurs,

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La construction édilitaire civile dans les capitales et les cités de l’Égypte tardive

clair que la res priuata, pour les terres, et le fisc, pour les revenus, ont au IVe siècle géré l’essentiel des revenus civiques, ne reversant qu’une partie de ceux-ci aux cités. Ainsi s’explique l’édit d’Éphèse que l’empereur Valens adressa en 372 au gouverneur de la province d’Asie, Eutrope: rappelant qu’il avait réattribué aux cités une partie de leurs revenus pour restaurer leurs ruines, l’empereur se plaint que celles-ci n’ont pas reçu des administrateurs de la res priuata l’intégralité des sommes qui leur étaient dues 17. De la même façon, plusieurs constitutions impériales édictées au IVe siècle et conservées au Code Théodosien évoquent le pourcentage des revenus des terres civiques ou des uectigalia retournant aux cités par la grâce des empereurs 18. L’État romain n’a donc accordé que parcimonieusement aux cités leurs précédents revenus, pour l’entretien du decor ciuitatis. Ces redistributions aléatoires, selon la bonne volonté du prince, ont entraîné au cours du IVe siècle des fluctuations certaines dans les possibilités d’investissement des cités dans la pierre, à quoi s’ajouta peut-être l’impact de la grande inflation sur les fortunes des curiales 19. Alors qu’au Haut-Empire les magistrats et liturges se chargeaient annuellement d’une partie des travaux, ils en auraient été moins capables à partir de l’époque tétrarchique; et c’est donc l’État, ses gouverneurs et ses intermédiaires dans les cités, qui décidèrent des chantiers à mener. En effet, quand les chantiers étaient importants et nécessitaient des montants dépassant ceux qui étaient alloués à la ville, c’était le gouverneur qui autorisait les dépenses supplémentaires et s’attribuait sur les inscriptions dédicatoires le mérite de la restauration ou de la construction, parfois avec l’aide du afin qu’elles puissent à nouveau les louer et financer leurs restaurations. Enfin, une loi d’Honorius parle également des confiscations qui eurent lieu sous Constantin (CTh. 10, 10, 24 du 6 novembre 405). 17 Cf. IKEph. 42. Le texte dit à plusieurs reprises que les revenus doivent servir ad instaurand[am mo]enium faci[em … (l. 2) ou in reparandis moenibus (l. 12) (pour le sens de moenia désignant les bâtiments publics en général et non les seules «murailles», voir Chastagnol 1994 [1986], 151). Pour comprendre le lien entre les revenus restitués et la restauration des bâtiments, voir les lignes 9-12 où Valens propose, pour expérimentation, une première restitution de ses revenus à Ephèse, «capitale de l’Asie» (caput Asiae). Ce texte, édité pour la première fois en 1905, fut réédité et commenté longuement par Chastagnol 1994 (1986). 18 Au sujet des uectigalia, voir CTh. 4, 13, 5, constitution de juillet 358, où Constance II attribue au diocèse d’Afrique un quart des vectigalia des cités pour leur restauration ut ex his moenia publica res[tau]rentur uel sarcientibus tecta substantia ministretur. Pour les revenus tirés des terres, voir la loi de Julien de 362 conservée par fragments en CTh. 10, 3, 1 et CJ 11, 70, 1. 19 Van Minnen 2007, 206-225 (en partic. 209 n. 10) est le seul à avoir souligné l’incidence possible de l’inflation sur les fortunes curiales, qui devrait toutefois être évaluée de près avant d’être tout à fait assurée.

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curateur de cité, mais sans mention de pecunia publica: Claude Lepelley l’a très bien démontré 20. Au VIe siècle le système fonctionnait en Égypte encore ainsi, l’État attribuant certaines recettes régulières à des postes de dépenses municipales. Grâce à l’Édit XIII de Justinien réformant les districts administratifs égyptiens et leur imposition en 538, on sait ainsi que la taxe à l’export du florissant commerce alexandrin (l’ἐξαγώγιον) finançait sous Anastase l’entretien et le chauffage des bains publics de la capitale; 497 sous d’or annuels étaient alloués à ce budget 21. L’époque byzantine connut toutefois une nette diversification des sources de financement. Si les curiales collaborent encore avec l’administration impériale sur quelques chantiers, c’est de plus en plus rare du fait du net déclin de leur rôle dans la gestion municipale 22. On les voit seulement comme en haute Thébaïde au VIe siècle agir de concert avec l’administration impériale ou le nouvel homme fort de la cité, l’évêque. Ainsi, la réfection du mur de Syène est due à l’intervention du comte, de ses subordonnés, des curiales de Latôpolis (Esna) et de l’épimélète Amonios, dont le titre semblait avoir disparu depuis le IVe siècle 23. Sous notre Seigneur le très magnifique et très glorieux Comte Flavios Etythrios Damianos et sous le très illustre tribun Théodosios, le préposé Isakios et le primicier Pateirènè, par les soins des curiales de Latopolis et d’Amonios, épimélète de l’ouvrage, cette partie du rempart a été construite avec le concours de l’oikodomos en chef. Le premier jour du mois de Choiak de la 3e indiction.

Plus au sud, à la frontière, il n’est plus question de magistrats ou de membres des cités dans les chantiers de restauration. Ainsi, dès le milieu du Ve siècle, un comte du consistoire responsable du limes de la Thébaïde restaure les murs de la forteresse de Philae sur la rive droite du fleuve, endommagés par l’importante révolte des Blemmyes, grâce au «zèle et à l’efficacité du très pieux évêque» (σπουδῇ καὶ ἐπιεικείᾳ | τοῦ εὐλαβ(εστάτου) ἐπισκόπου), Apa Daniel, qui fournit aux dépenses 24, sans Lepelley 1999. Ed. XIII, c. 15; cf. Delmaire 1989, 282. Voir aussi Laniado 2002, 96 et plus largement 95-99. 22 Laniado 2002, 35-36 (sur la possible éviction des bouleutes des conseils municipaux sous Anastase) et 95-102. Voir infra, section 2, pour plus de détails. 23 I. Thèbes-Syène 236. Gascou 1994, 323-342 (en partic. 336 n. 75), a interprété autrement qu’A. Bernand la ligne 8 de l’inscription: l’éditeur voyait en Λάτων un nom de curiale, alors qu’il s’agit couramment dans les papyrus du nom de Latôpolis (Esna), ville à près de 140 km au nord de Syène (Λάτων πολις). 24 I. Philae II, 194, ll. 6-8. L’«efficacité de l’évêque» est précisée par une seconde inscription sur un autre tronçon de la muraille: I. Philae II, 195, ll. 4-9 (ἀνε[νεώθη]  | 20

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que soit mentionnée l’intervention d’élites civiques. Un siècle et demi plus tard, à Syène, c’est encore l’évêque et «la foule» du peuple (παντòς τοῦ | ὄχλου συνυπουργοῦντος) qui se chargent de restaurer et reconstruire, après nettoyage du lieu par le numerus local, sous les ordres de différents officiers et d’«autres notables» (λοιποῖς πρώτοις – sont-ce des militaires ou des civils?), un ancien logement pour soldats bâti quelques décennies auparavant, pour le transformer en hôtellerie. Le travail est accompli, précise le texte, ἄνευ δημοσίας συνόψεως, sans «devis public», c’est-à-dire avec le concours gratuit de la population civile 25. Aux VIe-VIIe siècles, les contributeurs et acteurs des chantiers publics se sont donc beaucoup diversifiés. En plus des évêques dont le rôle dans les constructions civiles est désormais bien connu 26, les grandes maisons (oikoi) des riches contribuables sont également sollicitées: les cités ne disposant plus en propre que d’une part amoindrie de leurs revenus, c’est directement sur les parts d’impôts des principaux contribuables fonciers, comme des corporations, que des dépenses édilitaires sont assurées. Ce sont toujours des dépenses civiques, mais assurées par les honorati et les propriétaires fonciers, sur leur part de munus. Ainsi à la fin du VIe ou au début du VIIe siècle à Oxyrhynchos, les peintures à l’encaustique du «nouveau bain du nord» (σύνοψις τῶν ἐγκαυμά(των) τοῦ δημοσ(ίου) βορρινοῦ νέου λουτρ(οῦ) 27), ainsi que des travaux dans un

καὶ τοῦτο τò μέρ[ος τοῦ] | τείχους, τῶν ἀνα[λω]|μάτων παρεχομ[ένων] | παρ(ὰ) τοῦ εὐλαβ(εστάτου) ἐπ[ισκόπου] «a été rénovée cette partie de la muraille, grâce à de l’argent

fourni par le très pieux évêque»). Les remparts de la forteresse de Philae ne vont cesser d’être restaurés au cours du VIe siècle par les ducs du limes, parfois aidés de l’évêque de la région (cf. Van Minnen 2000, 466-468): I. Philae II, 216-226 (inscriptions souvent datées du dernier quart du VIe siècle). Pour le contexte régional, le statut et la situation de Philae et de Syène dans l’Antiquité tardive, voir Dijkstra 2008, 23-36 et 51-63, qui date I. Philae II, 194-195 des années 460 (ibid., 56-58). L’absence d’élites civiques dans cette zone frontière n’est toutefois pas représentative du reste de l’Égypte, Syène ne devenant cité qu’au VIe siècle et Philae ne l’ayant jamais été (ibid., 34: «Syene, Contra Syene and Elephantine continued to have a special administrative position within the nome in Late Antiquity»). 25 I. Syène I, 196, ll. 3-14. Le texte – le 2e sur la pierre et en ordre chronologique – a été réédité et traduit par Gascou 1994. Cf. en partic. ll. 8-13: ἐξ ὑπομνήσεως καὶ ὑποβολῆς καὶ | ἐπιεικείας τοῦ ἐπισκόπου κ(αὶ) παντòς τοῦ | ὄχλου συνυπουργοῦντος ἀνανεώθη ὁ | αὐτòς τόπος καὶ ᾠκοδομήθη ἀπò θεμε­|λίου ἕως ἄνω εἰς οἰκ[η]τήρ[ι]ου τῶν | ξένων καὶ πα ρερ χομένων. Voir ensuite Van Minnen 2000, 467-468 pour cette inscription et sa réinterprétation de la mention de ἄνευ δημοσίας συνόψεως à la ligne 14 (cf. Bingen

BE, 2001, 540 et Feissel 2006, n° 981). 26 Voir surtout l’enquête d’Avraméa 1989, 829-835. 27 P. Oxy. XVI 2040, 1-2. Cf. Gascou 1972, 60-72, en partic. 64-69, et 2008a, 168 (1985, 46-48), a compris les ἐγκαύματα comme des peintures à l’encaustique et non

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bourg proche de la capitale de province, Takona, sont payés par un collectif de propriétaires sur leur part de munus: Devis des peintures du nouveau bain public du nord: des 27 sous d’or et du sou d’or et 19 carats ¼ pour la 15e indiction pour (des travaux à) Takona, total 28 sous d’or et 19 carats ¼, pour toute la cité (sont répartis) ainsi: Par l’intermédiaire de la glorieuse maison, 8 sous et 15 carats, desquels seront pris pour Takona, pour la 15e indiction, 1 sou et 19 carats ¼; il reste (à payer) 6 sous et 19 carats ¼ Par l’intermédiaire de la sainte église, 3 sous et 7 carats ¼ Par l’intermédiaire de la maison du très glorieux Komès, 4 sous 8 carats Par l’intermédiaire des héritiers du très glorieux Ptolémaios 2 sous 19 carats ¼ […]. 28

D’autres documents, comme l’édit XIII, tendent à montrer la même évolution vers la fiscalisation des dépenses civiques 29. Ainsi, en trois siècles, le financement public n’a pas disparu; il s’est simplement métamorphosé et n’a plus reposé sur la seule classe curiale et ses richesses, qui restaient trop faibles, ou sur les seuls revenus des cités; sans disparaître, les curiales collaborent désormais avec bien d’autres acteurs: l’évêque et les notables nommés par le pouvoir, logistès puis pater, qui ne rendent des comptes qu’à l’administration impériale et à ses agents sur place.

2. GESTION DES FONDS ET SUPERVISION DES CHANTIERS: L’ÉVOLUTION DES RESPONSABILITÉS DANS LES CITÉS DE L’ÉGYPTE TARDIVE

Ces changements importants dans la gestion des budgets ont entraîné dès la Tétrarchie la création d’institutions nouvelles pour la supervision des chantiers, en lien avec l’administration provinciale; ce ne sont plus de comme le chauffage des bains, comme l’avaient compris les éditeurs, sens aussi possible, mais moins fréquent qu’ἐγκαυσις. 28 P. Oxy. XVI 2040, 1-9. 29 En Ed. XIII, c. 15, Justinien demande au nouveau duc et augustal des deux Égyptes de prendre connaissance dans la notice accompagnant la loi – perdue pour nous – en quels lieux, sous quels titres d’imposition, pour quelle raison et par quelles personnes ces dépenses doivent maintenant être assurées (ἥτις ἀπογραφὴ δηλώσει σαφῶς ἐκ ποίων τε ταῦτα συνάγεται τόπων καὶ τίτλων ἤτοι προφάσεων καὶ προσώπων καὶ πόσα ἐστὶ καὶ ὄντινα προσήκει διοικεῖσθαι τρόπον δηλαδὴ τῶν σολεμνίων καὶ ὅσα πολιτικὰ).

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véritables magistrats, mais de quasi-fonctionnaires publics, appointés sur proposition de la boulè par le pouvoir impérial et en charge des budgets. Quoique recrutés au sein des curiales, ils ne rendent plus de comptes à la boulè; ils s’en remettent au gouverneur. Il y a là un contraste très net avec les documents du IIIe siècle. À partir du début du IVe siècle – en 303 à Oxyrhynchos – et jusqu’au milieu de ce même siècle, le chef des magistrats locaux, nommé par codicille, avec le statut envié de Flavius depuis 324, est le logistès, parfait pendant du curator ciuitatis occidental 30. Il supervise alors l’essentiel de l’administration de la cité: les liturgies, les comptes, une partie de la justice locale, les bâtiments et marchés publics, etc. C’est au bureau du logistès que s’adressent mensuellement les corps de métiers pour déclarer les prix de leurs produits ou pour tout ce qui concerne les chantiers publics, dont il est le grand responsable au IVe  siècle 31. Sont ainsi adressés au logistès les devis de travaux établis par des professionnels ou des corporations pour la restauration de bâtiments; en 316 un peintre d’Oxyrhynchos envoie son devis pour la peinture des bains d’Hadrien 32; en 326 la corporation des verriers de la ville, par l’intermédiaire de son président, adresse le devis pour la restauration (ll. 9-10: εἰς χρείαν ̣ [ἐπι]σκε[υ]ῆ ̣ς) de salles chaudes et du portique d’un des bains publics de la ville: Sous le consulat de nos maîtres Constantin Auguste pour la 7e fois et Constance, le très illustre César pour la première fois. [À Flavius Leucadius] logistès du nome Oxyrhynchite de la part de la corporation des verriers de la glorieuse et très glorieuse cité des Oxyrhynchites par mon intermédiaire à moi Aurèlios Zôïlos […]. En réponse à votre demande d’un compte de toutes les affaires touchant à notre profession et concernant la restauration des thermes du bain public de la cité, je l’ai dressé par nécessité et te l’ai soumis de sorte que ta grâce en soit avertie. Ainsi, pour le travail aux bains chauds […] x centaines de livres. Lepelley 1999; pour le curator ciuitatis, voir aussi Lepelley 1979, 85-193. Voir notamment l’Appendice I de R.A. Coles sur les logistai d’Oxyrhynchos (303-346) dans P. Oxy. LIV (1987), 222-229. Pour ses fonctions, voir aussi Łukaszewicz 1986, 103-104; Bowman 1971, 124, et surtout Rees 1954, 83-105 (en partic. 98-104); pour son statut, voir Keenan 1973, 37-63 (en partic. 44-49) et ZPE 13 (1974), 283-304 (en partic. 290-297 et 302): le logistès a le gentilice tétrarchique de Valerius avant 324, puis celui de Flavius, gentilice de Constantin. Il en sera de même ensuite de l’ekdikos au Ve siècle (Keenan 1973, 60). Ce point est important, car le gentilice assimile ces officiers civils à des membres de la militia impériale. Les données égyptiennes sont parfaitement concordantes avec le dossier épigraphique étudié par Lepelley 1999. 32 P. Oxy. VI 896, col. I. Que le document provienne d’un τόμος συγκολλήσιμος est assuré par la mention de la feuille du rouleau (ρκη, c’est-à-dire 128) où se trouve compilée cette déclaration au logiste. 30

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Pour le travail au portique x centaines de livres, Au tarif de 22 talents pour 100 livres, Total: 6000 livres, total 1320 talents, dont nous avons fait rapport. Sous le-dit consulat, Epeiph […]. Moi Aurèlios Zôïlos, j’ai présenté cela comme établi plus haut. 33

Le logistès reçoit ensuite les inventaires des ruines dressés par les spécialistes de la construction en vue des futurs chantiers de restauration, comme le montre la série des rapports adressés entre janvier 315 et février 316 au logistès Valerius Ammônianos, alias Gerontius, et compilés dans ses bureaux en un τόμος συγκολλήσιμος (P. Oxy. LXIV 4441): certaines des colonnes du tomos répertorient les bâtiments publics à réparer, ainsi que les constructions privées dont les ruines menacent le domaine public (col. III, 5-8: «nous avons été mandés par ton administration d’inspecter par toute la ville les bâtiments qui lui appartiennent ainsi que tous ceux qui sont dans la très vieille ville et qui tombent en ruine du fait de déprédations ou de l’usure du temps, afin de garantir la sécurité aux bâtiments de la ville») 34. Si le mauvais état des bâtiments publics a pu parfois au cours du IVe siècle être attribué à des séismes (celui de 320 touchant Alexandrie et l’Égypte plus au sud ou le grand tremblement de terre de 365 touchant tout l’Orient 35), les bâtiments détruits recensés à Oxyrhynchos en 316 l’ont sans doute été du fait de causes anthropiques – κατὰ βίαν κ ̣α ̣ὶ ̣ [χρ]όν̣ ̣ον̣ dit le texte (où [χρ]όν̣ ̣ον̣ est toutefois très peu lisible), évoquant peut-être la période troublée par les usurpations et la reconquête tétrarchique de la toute fin du IIIe siècle 36. Enfin, un autre document officiel de facture assez similaire, mais dont le titre du destinataire se trouve dans la très lacuneuse col. I, inventorie pour sa part les matériaux en pierre ou en marbre laissés à l’abandon dans une des principales artères à portique d’une grande ville, Ptolémaïs Euergetis, d’où provenaient les pétitions au préfet du recto, ou 33 P. Coll. Youtie 81 = P. Oxy. XLV 3265 (juin/juillet 326). Pour le prix du verre et la discussion de ce papyrus, voir Morelli 2019, 175-176. Les 6.000 livres représentent la commande importante d’environ 2.000 kg de verre. Il semble avoir existé plusieurs édifices de bains publics à Oxyrhynchos à la fin du IIIe siècle: P. Oxy. I 43 v. (fév. 295) = W. Chrest. 474: πρ(ὸς) τῷ δείῳ βαλανίῳ – l. θείῳ βαλανείῳ (verso col. III, 24); πρ(ὸς) τῷ Καιρος βαλανίῳ – l. Καίρος βαλανείῳ (verso col. IV, 24). En outre, on a mention de bains de Trajan-Hadrien (P. Oxy. VI 896, 7-8), Hadrien (P. Oxy. I 54, 14) et Antonin (P. Oxy. XVII 2128, 12). Cf. Łukaszewicz 1986, 67-68. 34 P. Oxy. LXIV 4441, col. III, 5-8. 35 Sur le séisme, suivi d’un tsunami, de 365, voir assez récemment Lenski 2002, 278 et 385-391 (en partic. 387), avec la bibliographie antérieure. 36 Papaconstantinou 2013, 216-231, en partic. 227, qui traduit comme l’éditeur κατὰ βίαν κ ̣α ̣ὶ ̣ [χρ]ό ̣ν ̣ο ̣ν de P. Oxy. LXIV 4441, col. III, 8: «from hard usage and time».

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Oxyrhynchos, lieu de provenance du document 37. Cet inventaire devait servir à user en remploi des fûts de colonnes et chapiteaux gisant au sol. Le logistès devait donc aussi contrôler le marché des matériaux usagés 38, notamment pour la pierre et le marbre, matériaux coûteux et, pour le marbre, importés. Au IVe siècle, des ensembles monumentaux sont en partie bâtis avec des pierres de remploi: ainsi en est-il des thermes impériaux d’Alexandrie décrits plus haut 39. Si, dans la seconde moitié du IVe siècle, le logistès a peu à peu perdu de sa prééminence, abandonnant toute la justice locale – et ainsi le contrôle des propriétés, de la fiscalité et de l’économie – au defensor/ekdikos, il a dû rester en charge des travaux publics pendant encore quelques décennies 40. Ainsi, c’est peut-être du bureau d’un logistès de Diospolis Parva en Thébaïde que provient un livre de compte sur codex où des versements à des briquetiers sont enregistrés par deux fois au IVe siècle 41. Et c’est assurément un logistès de la cité d’Athribis qui en 374 sous l’empereur Valens est encore chargé par le préfet de l’Aegyptus, dont dépendait alors la ville, d’ériger un tétrapyle à neuf (ἐκ θεμελίων ἐκτίσθη) sans doute au carrefour des rues principales, comme en témoigne l’inscription retrouvée sur place: λογιστεύοντος καὶ ἐπικειμένου τῷ κτισθέντι τετραπύλῳ Φλαουίου Κύρου πολιτευομένου «étant curateur et préposé à l’érection du tétrapyle, Fl. Kyros, curiale» 42.

37 Voir l’importante discussion et réédition de P. Lond. III 355 dans Papaconstantinou 2013, 216-231 (= P. Bagnall 43), où l’auteure commente la riche bibliographie sur les spolia (223-228). 38 Voir Barker - Marano 2018, 833-850. L’Alexandrie ptolémaïque était déjà massivement décorée des obélisques et statues colossales prises aux temples pharaoniques, dont certains désaffectés servaient de carrière: voir Empereur - Grimal 1997, en partic. 701-710. À la fin de l’Antiquité, cependant, le remploi de blocs provenant de bâtiments ruinés s’accélère: voir, pour comparaison, Fauvinet-Ranson 2006, 63-65 et 142-143 concernant l’Italie ostrogothique. 39 Les marbres des colonnes et les ordres des chapiteaux sont mêlés et des fragments d’inscriptions attestent aussi que certains des chapiteaux ou des gros blocs en calcaire venaient du marché alexandrin de l’usagé: cf. Kołątaj 1992, 93-99; Łukaszewicz 1990, 133-136: «We may suppose that a private person had bought the column from a dismantled building» (133); un bloc de calcaire avec mention d’un nom d’ἀρχιτέκτων viendrait pour sa part d’un bâtiment de l’Alexandrie romaine. 40 Cf. Rees 1954. 41 P. Erl. Diosp. 1, 22 et 68 éd. Mitthof 2002 où il estime, 21-24, que l’auteur du texte devait être un membre des bureaux de l’exactor ou de ceux du curator/logistès. 42 OGIS II, 722 = SEG 24, 1194 = SB X, 10697, ll. 10-11. Voir Łukaszewicz 1986, 57; McKenzie 2007, 164-165, qui, dans le même livre, fait par la suite une confusion sur le lieu du tétrapyle: en 225-227, elle parle d’Akoris et non d’Athribis; Feissel 2017, 479 et 489.

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Il est maintenant sûr en revanche que le logistès a perdu son rôle édilitaire au profit du πατὴρ τῆς πόλεως sous le règne de Théodose II. Cette institution nouvelle, de mieux en mieux attestée dans de nombreuses cités de l’Orient tardif, avait ses compétences propres. Le pater s’occupait des finances et des dépenses, veillant particulièrement sur les bâtiments publics. Sur 46 inscriptions grecques mentionnant le πατήρ et répertoriées en 2017 par Denis Feissel, vingt-cinq concernent des dédicaces pour la construction ou la restauration de bâtiments publics: avant tout des «avenues, remparts et portes», mais aussi toutes sortes de bâtiments publics, utiles ou d’ornements, aqueducs et nymphée, bains et théâtre 43. Même si elle a parfois pu être cumulée à d’autres, la fonction du πατήρ n’a jamais été fondue dans la logisteia ou dans la charge du defensor 44. La patèria existe au contraire jusqu’au VIIe siècle, où le curiale et πατήρ Timotheos embauche un symmachos pour la garde des bains publics de la cité des Arsinoïtes 45. Dans deux autres reçus, on le voir encore payer des maîtres d’ouvrage pour des constructions dans un village du nome arsinoïte 46. En Égypte, ces pères de cités sont attestés dans les plus grandes villes des provinces du diocèse: la cité des Arsinoïtes, on l’a dit, mais aussi les capitales de province et les villes secondaires d’assises: Péluse, capitale de l’Augustamnica 47; Oxyrhynchos, capitale de l’Arcadie tardive, où la paVoir le bilan, avec la bibliographie antérieure, de Feissel 2017, 473-500, en partic. 477, pour le transfert au Ve siècle des fonctions édilitaires au pater et, 486, pour les références épigraphiques. Pour l’Égypte, voir aussi les références dans l’introduction au P. Oxy. LXIII 4393 n. 1 (J. Rea). Gascou 2008a, 166-167 (1985, 44) nn. 257-258, avait déjà parlé de la patrice Gabrièlia qui exerçait les «magistratures conjointes de pater et curator ciuitatis, ainsi que la présidence du sénat local» en 553. 44 Contrairement à ce qu’a dit Liebeschuetz 2001, 192-202 («in the sixth century, the three offices had been combined into one», 193), on ne peut aller jusqu’à parler de fusion des fonctions civiques du pater, du logistès et du defensor. 45 P. Ross. Georg. III  47, 1: [☧ ἐπληρώθην ἐ]γὼ Μέλας σύμμαχος τοῦ δημοσίου λου τροῦ ταύτης τῆς Ἀρσινοιτῶν πόλεως. Voir l’introduction de S. Tost au dossier de Timotheos: SPP III2 1, LXXVIII-LXXIX, dont on a les reçus SPP III2 1 111, SPP III2 2, 176, P. Ross. Georg. III 46 et 47. Pour l’identité de ce Timotheos, voir BL VIII 436. 46 SPP III2 1, 111, «reçu de salaire» (cf. verso: ἀπόδειξ(ις) μισθοῦ) de deux constructeurs pour des travaux de fondation (l. 3: [ὑπὲρ τῶν] κτισθέντων σοι παρʼ ἡμῶν) dans le bourg d’Alexandrou Nèsos; SPP III2 2 176, autre reçu où le charpentier Kosmas, τέκτων οἰκοδόμος, s’adressant au patèr Timotheos, atteste la réception de son salaire pour des travaux dans ce même bourg. 47 P. Mich. XV 795. La référence nous intéresse moins ici, puisqu’elle ne concerne pas la construction édilitaire; elle a cependant l’intérêt de montrer certaines des institutions de Péluse dans un des très rares textes provenant de cette ville. Il a donc bénéficié d’un important commentaire de son éditeur T. Gagos (qui a ensuite proposé quelques corrigenda en ZPE 134 [1998]). 43

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trice Gabrièlia et Fl. Apion dans les années 570 assument la patèria de la cité; Hèrakleoupolis où deux «pères» sont connus: le premier πατήρ attesté en Orient sous Théodose II, Fl. Nemesiôn, mentionné en CPR XXIII 32 48, ainsi que le clarissime Kosmas, actif au début du VIIe siècle 49. Ces attestations, quoique moins nombreuses que celles retrouvées dans les provinces à la riche épigraphie, sont liées aux lieux des grandes découvertes papyrologiques: Oxyrhynchos et la cité des Arsinoïtes notamment. Il est donc probable que d’autres «pères» existaient ailleurs, sans qu’on en ait trace. Les papyrus les plus complets offrent par ailleurs l’intérêt de détailler le processus des commandes publiques des chantiers. Ainsi, le 20 juillet 450, le pater d’Hèrakleoupolis, Fl. Nemesiôn, accompagné d’un autre responsable et de l’architecte de la cité (ἀρχιτέκτων τῆς αὐτῆς πόλεως) 50, rend compte au gouverneur d’Arcadie de l’inspection des bâtiments publics de la cité, dont il les avait chargés. Ils ont, disent-ils, inspecté le théâtre et le tribunal (βῆμα) et l’architecte a dressé un devis (σύνοψις, l. 9) pour leur restauration: à Fl. Arius, le clarissime [et très magnifique gouverneur de la province d’Arcadie] de la part des Flavii Nemesiôn, curiale et père de la cité d’Hèrakleoupolis, et […] salut. Selon ce qui nous a été ordonné par ta magnificence à savoir que […] le théâtre et le tribunal (soient inspectés) par nous, de sorte que ce qui se trouve être en danger […] sans tarder, en tenant compte de la crainte de […], en étant accompagnés sur les lieux de l’architecte de la cité Iôhannes et en mettant le plus grand soin à ce que […] soit apporté à la restauration de […] ces lieux […] avec un devis de sa part […] seigneur préfet. Je souhaite que tu te portes bien longtemps, seigneur clarissime et magnificentissime. Je souhaite que tu te portes bien longtemps, seigneur clarissime et magnificentissime. Dans le port de Neiloupolis, le premier jour de Mesorè, dans le bureau des ab actis. Sous le post-consulat des Flavii Protogenes et Asturius, hommes clarissimes, le 26 d’Epeiph. 51

En étant accompagné d’un architecte pour dresser le devis des travaux, le père de cité suivait là un processus classique des commandes publiques, qu’on connaît aussi sur les chantiers romains contemporains. Ainsi, sous Sur la chronologie des mentions du πατήρ, voir Feissel 2017, 484. SPP III2 67. 50 Jones 1940, 238 avait cru ces architectes de cité disparus à la fin de l’époque hellénistique. Ce texte – et d’autres moins clairs – montre qu’il n’en était rien. 51 CPR XXIII 32. 48 49

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Théodose Ier, le chantier de la basilique Saint-Paul a été commandé par l’empereur au préfet de la Ville: celui-ci devait faire venir des architectes pour coordonner la décoration monumentale et aplanir le terrain. Il était ensuite prévu qu’un devis (synopsis) soit produit par les architectes et envoyé à la cour pour que les fonds destinés au chantier soient envoyés aux responsables de la main-d’œuvre 52. L’administration impériale continuait, on le voit, à surveiller de près les constructions publiques, particulièrement les chantiers la concernant au premier chef. Ainsi, à Hèrakleoupolis, le pater s’occupe de faire restaurer le théâtre et le βῆμα, c’est-à-dire le lieu de rassemblement pour le peuple et le tribunal pour les assises du gouverneur, où il venait siéger depuis sa capitale Oxyrhynchos 53. On retrouve en somme l’idée avancée par Wolf Liebeschuetz selon laquelle l’administration impériale aurait, tout en s’en défendant parfois, privilégié les capitales de province – ajoutons les villes d’assises – au détriment des autres cités 54. Valentinien II lui-même n’avait-il pas en 390 autorisé le préfet de l’Illyricum à transférer des fonds des revenus des cités moyennes vers les grandes pour embellir ces dernières (CTh. 15, 1, 26), alors que son père avait pour sa part interdit en janvier 365 que les grandes villes ne pillent les petites de leur matériel architectural, statues, marbres ou colonnes (CTh. 15, 1, 14) 55? Le père de cité fut donc à partir du Ve siècle le principal agent municipal des constructions publiques, mais les papyrus byzantins des VIe-VIIe siècles ne le montrent ensuite en charge que de financements de faible envergure et de budgets de routine, car les honorati, l’évêque et les grandes «maisons» prirent le relais des financements, sans plus passer apparemment par lui 56. Quant aux bâtiments à restaurer, ce sont au premier chef des bâtiments officiels pour les gouverneurs ou la poste Voir Liverani 2011, 529-539 et le rescrit de Théodose et Arcadius au préfet de Rome, Salustius, Collectio Avellana II, 3 CSEL 35, 46-47: ut et synopsis operis construendi fideli tendatur examine sumptuumque omnium iuxta pretia rerum, quae in sacratissima urbe, praetaxatio plenius ordinetur atque ad nostram clementiam debita maturitate referatur. 53 Fr. Mitthof, in CPR XXIII 32 n. 4 précise à raison que le βῆμα du texte est certainement le lieu du tribunal d’assises. 54 Liebeschuetz 2001, 37-38: «provincial governors strove to preserve the monumental appearance of their capitals, and took personal credit for the public works involved. The beautification of the capital of the province might be at the expense of other cities». 55 Voir Łukaszewicz 1986, 96; Lizzi 2001, 676. 56 Laniado 2002, 33-34 note, à propos des nouvelles fonctions du curator/logistès et du defensor/ekdikos: «toutes ces fonctions d’origine impériale perdent peu à peu de leur autorité en faveur des principales» à partir de la fin du IVe siècle. 52

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publique, répartis de façon inégale sur le territoire, mais aussi des bâtiments destinés aux loisirs du peuple, bains ou hippodrome, dont l’entretien était fiscalisé. Terminons sur la pérennité des techniques de construction.

3. PERMANENCES OU MUTATIONS DANS LES TECHNIQUES DE CONSTRUCTION?

Selon les registres fiscaux byzantins, le secteur de la construction représentait toujours en ville quelque 17% des métiers déclarés, moitié moins dans les bourgs secondaires 57. La vitalité du secteur jusqu’à la conquête arabe et au-delà 58 est donc incontestable 59. Quant aux corps de métiers impliqués dans les commandes publiques, ils sont bien toujours attestés dans leurs diverses spécialités à l’époque tardive et byzantine. De janvier 315 à février 316, les professionnels d’Oxyrhynchos, regroupés en associations, qui adressèrent différents rapports au logistès Ammônianos pour réparer les bâtiments publics et privés menaçant ruine sur le domaine public, sont les suivants: • les maçons/charpentiers (τέκτονες, équivalents des fabri tignarii latins) qui s’occupaient du bois de construction, importé ou local, pour les charpentes 60; • les constructeurs (οἰκοδόμοι) qui se chargeaient du pavage des rues 61 et des ouvrages en briques crues ou cuites, fournies en général par les briquetiers (πλινθευταί ou πλινθουργοί) comme le montrent les comptes de chantiers 62; 57 Van Minnen, 2007, 221-222 a rassemblé toutes les mentions d’artisans du bâtiment dans les sources les plus riches de l’époque proto-byzantine, celles des deux cités tardives les mieux connues (Oxyrhynchos et Arsinoè) qu’il a comparées au bourg d’Aphroditô. 58 Les conquérants arabes ont en effet utilisé le savoir-faire égyptien pour bâtir leur nouvelle capitale au Caire (l’antique Babylone): voir le volume de CPR XXX (éd. F. Morelli) consacré à l’archive de Senouthios anystès. 59 Cf. Sodini 1979, 72-80; Carrié - Freu 2019, 50-55. 60 Pour les τέκτονες, voir P. Oxy. LXIV 4441, col. XIV, 4-11. Sur le travail du bois, voir maintenant Ulrich 2007 (dont les sources sont toutefois surtout occidentales). 61 P. Oxy. LXIV 4441, col. XIV, 2-3: ἡμ]εῖς δὲ οἱ οἰκοδόμοι [ca.?] εἰς κατάστρωσιν στο ̣ᾶ ̣ς.̣ 62 Cf. Ruffing 2008, II, 719-722. Les mots pour désigner le briquetier changent selon les époques: alors qu’on n’a qu’une seule attestation de πλινθευτής à l’époque ptolémaïque (bien moins riche en papyrus, il est vrai), seulement 2 ou 3 au Ier siècle de notre ère, 22 pour le IIe siècle, beaucoup plus riche en papyrus, on en a 14 au VIe  siècle; πλινθουλκός est plus attesté à l’époque ptolémaïque (19 mentions aux IIIe-

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les tailleurs de pierre (λαξοῖ), bien connus à l’époque romaine et responsables des colonnes, chapiteaux, architraves et du gros appareil 63; • enfin, des spécialistes des conduites de plomb, des serruriers et des verriers adressent aussi leur devis au logiste 64. Tous ces métiers se retrouvent encore à l’époque byzantine, τέκτονες et οἰκοδόμοι apparaissant dans les comptes et les registres fiscaux comme les métiers les plus communs … et, de fait, les moins spécialisées 65. Ainsi, un long codex fiscal d’Hermoupolis daté du début du VIIe siècle donne une idée – non une statistique – du poids relatif de chacun des corps de métier. Les charpentiers y sont majoritaires (8 noms différents sont mentionnés), suivis des οἰκοδόμοι (4 noms) 66, mais d’autres corps de métier plus spécialisés, et peut-être spécifiquement urbains, y sont aussi mentionnés, comme ce πλακιστής, «sans doute un paveur ou un incrustateur de pierres décoratives (marbre)» 67 ou ce plombier (μολυβουργός 68), dont la spécialité est plus attestée à l’époque tardive qu’aux siècles précédents: les plombiers, comme les verriers, s’occupent en ville de restaurer les •

IIe  siècles  av.  J.-C., contre deux mentions seulement au Ier-IIe ap. J.-C.), πλινθουργός est le terme prédominant pour désigner le métier à l’époque romaine et byzantine (cf. Worp 2001, 734-739). 63 P. Oxy. LXIV 4441, col. III, 3, 24, 25, 27; ces tailleurs de pierre sont appelés aussi plus rarement λιθουργοί dans un compte d’Antinooupolis (P. Ant. I 46) comme dans l’Édit des prix de Dioclétien. En cette même colonne III, à la ligne 3, apparaîtraient des λαξολατόμοι, hapax qu’on pourrait traduire par «carriers». 64 P. Oxy. LXIV 4441, col. IX, 7, 26 (μολυβουργός: cf. Ruffing 2008, II, 666-667 n. 88 pour les références aux plombiers, très bien attestés en Égypte, notamment à l’époque byzantine); col. IX, 9 (κλῃδουργός; cf. Ruffing 2008, II, 593-595 pour la profession de serrurier – plus souvent désignée par le mot de κλειδοποιός – répandue en Orient depuis l’époque hellénistique); col. IX, 8 (ὑαλουργός). 65 Ruffing, 2008, II, 682-695 estime que οἰκοδόμος pouvait aussi bien désigner l’ouvrier construisant le mur que l’architecte concepteur d’un bâtiment (en partic. 694: «das Spektrum der Bedeutung dieser Berufsbezeichnung ist recht weit gefaßt, reicht es doch vom Maurer bis hin zum Baumeister, d.h. der Person, die den Bau eines Hauses leitet»). 66 P. Sorb. II 69 de 618-619 ou 633-634. Dans son introduction (p. 57), J. Gascou, évoque les «pertes textuelles considérables», et estime que «cette situation frappe à l’avance de vanité toute entreprise fondée sur les données chiffrées». On ignore ainsi le nombre exact des professionnels du bâtiment à Hermoupolis et dans ses alentours. 67 P. Sorb. II 69, col. 89 D5, comm. ad loc. de J. Gascou: «le mot est nouveau mais se retrouve peut-être en P. Ant. III 206, 16, qui fait état de paiements ὑπὲρ πλακ( ) Ἑρμοῦ πόλ(εως)». Voir aussi Van Minnen 1987 sur la spécificité des métiers en ville; ainsi, dans la capitale de la Thébaïde tardive, Antinooupolis, centre culturel très actif et siège de l’administration provinciale, un contrat d’association montre deux charpentiers spécialisés, τέκτονες λεπτουργοί (sans doute des menuisiers) travaillant en ville avec leur main d’œuvre: P. Cairo Masp. II 67158. 68 P. Sorb. II 69, col. 100 A, 1, 9.

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bains publics, toujours extrêmement fréquentés à l’époque byzantine 69. Ainsi, dans le dernier tiers du VIe siècle, un administrateur de Flavia Anastasia donne à un plombier pour les besoins des ouvrages de métal d’un bain public d’Oxyrhynchos 514 livres de plomb (ἐν ταῖς συν]όψε(σι)

τοῦ | αὐτ(οῦ) δημοσίο(υ) λουτρ(οῦ) μολύβδ(ου) κεντην(άρια) πέντε καὶ λί(τραι) | [δέκα τέσσαρες), sans doute financé sur la part d’impôt de l’aristocrate 70.

Un intéressant dossier sur ostrakon datant de la fin du VIe ou des débuts du VIIe siècle et en cours de publication par Tomasz Derda et Joanna Wegner 71, permet maintenant de saisir sur le vif tous les professionnels qui pouvaient s’affairer à l’époque tardive sur les chantiers. Dans une ville du sud d’Alexandrie, au bord du lac Mariout, on y voit des carriers, des plombiers (appelés dans le dossier molybades), des plâtriers (koniatai), des décorateurs et des peintres, ainsi que des charpentiers et des maçons, se succéder tour à tour pour construire ou restaurer des bâtiments défensifs, civils ou religieux de la cité. Les tailleurs de pierre calcaire ou de pierres colorées comme le granit n’ont pas non plus disparu, même si leurs mentions sont plus rares qu’au Haut Empire. Un intéressant compte de construction provenant de la capitale de la Thébaïde, Antinooupolis, dont on ne connaît pas le destinataire – fonctionnaire ou riche propriétaire – témoigne encore dans les années 338-347 de bâtiments construits en brique et pierre 72. Par ailleurs, le façonnement de chapiteaux corinthiens de type romain est encore attesté à Alexandrie comme dans les villes de la χώρα tardive, tant dans l’architecture civile, comme le rappelle le tétrapylon d’Athribis en style corinthien, que dans l’architecture religieuse 73. Ainsi, le devis four-

69 Pour l’importance des bains en Égypte romaine et byzantine, voir l’introduction de Redon 2017, ainsi que la synthèse des attestations archéologiques des bains de ce pays dans Redon et al. 2017. Les verrières sont un trait architectural propre des grandes salles des bains romains: les thermes publics alexandrins, comme ceux de Kom el-Dikka, avaient évidemment des fenêtres de verre (Kołątaj 1992), mais c’était le cas aussi des bains publics des villes d’Égypte: à la fin du IIIe siècle, trois verriers offrent leurs services pour la confection des fenêtres de trois grands bains de Panopolis, celui du gymnase, celui du prétoire et celui devant le kômastèrion: P. Got. 7 (Panopolis; pour la datation et le lieu de provenance du papyrus, voir BL III 69 et V 36). 70 SB VI 9368, 3-4. 71 Voir Derda - Wegner 2021 (à paraître). 72 P. Ant. I 46; cf. Bagnall 1985, 58 et 66-67 (pour la correction des données chiffrées et la datation, par ces mêmes données entre 337 et 348). 73 McKenzie 2007, 164-165 et 221-228 et 230-231 (pour les types de chapiteaux corinthiens d’époque romaine et tardive: il en est de deux sortes, les chapiteaux corinthiens de type ptolémaïque et ceux de type romain, qui coexistent partout jusqu’au IVe  siècle). L’auteure conclut ensuite que les savoir-faire se sont maintenus à l’époque byzantine quand ils existaient localement aux époques antérieures: «the evidence shows

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ni à la fin VIe - début VIIe siècle par le tailleur de pierre Philéas pour la reconstruction de l’église monumentale de Saint-Philoxène, un des saints les plus populaires d’Oxyrhynchos (ll. 1-2: γνῶσις λίθ(ων) μετρηθ(έντων) ἐν τῇ οἰκοδ(ομῇ) τοῦ ἁγί(ου) Φιλοξένου δι(ὰ) Φιλέου λαοξόου) montre que la maîtrise de la construction en pierre demeurait intacte, ce dont témoigne en abondance l’archéologie des bâtiments chrétiens du pays: Philéas s’engage ainsi à livrer 120 chapiteaux et 120 colonnes pour le chantier 74. La brique cuite reste aussi très attestée en Égypte tardive. Dans un pays où la plupart des habitations privées du pays étaient de briques crues, la brique cuite peut être vue comme un des effets de la romanisation dans l’architecture publique. Dans les bourgs du Fayoum, par exemple, les piscines des bains romains sont en brique cuite 75. De même, les bains construits sous Valens et Gratien à Kom el-Dikka attestent par ailleurs la grande qualité, toute romaine, de la construction monumentale en brique cuite capable de supporter les intenses chaleurs du praefurnium. Dans la χώρα d’époque tardive, cette expertise demeure. Une partie des monuments publics pouvaient être réalisés complètement en brique cuite, avec le même degré de précision que leur équivalent en pierre 76: les fouilles de Kellis montrent ainsi une ville dont les bâtiments publics ont les murs, colonnes ou chapiteaux en brique; en Haute Égypte, une supplique de moines d’un monastère pachômien à un évêque paraît concerner «des déprédations sur un grand four à briques, destinées à la construction d’une église» 77. that because there was already local expertise in classical architecture in the Roman period continuity was possible at a local level of skilled workmen for carving architectural decoration on Late Antique buildings at nearby sites» (228). 74 P. Oxy. XVI 2041. Cf. Papaconstantinou 2005, 185-186. Au vu des autres complexes connus comme le très célèbre centre de pèlerinage d’Abu Mina au sud d’Alexandrie, l’auteure estime que l’église ainsi construite devait avoir quelques 80 colonnes à l’intérieur et 40 pour l’extérieur ou inversement, et qu’il s’agissait peut-être d’un imposant complexe oraculaire, avec arcades dans la cour jouxtant l’église. 75 Voir e.g. Davoli 1998 pour la description des maisons communes en briques crues («mattoni crudi») du Fayoum. La brique cuite pour les bains est mentionnée ibid., 75 et 87-88 (thermes de Karanis), 279 et suivantes (thermes et structures de pressoirs à Théadelphie et Euhèmeria), 305 (thermes de Dionysias). Pour l’époque tardobyzantine, voir le commentaire par Morelli 2019, 116-119, des papyrus donnant les prix des briques crues et cuites employées dans la construction. 76 McKenzie 2007, 168-170. 77 P. Cair.Masp. I 67021, verso, 23-24: καὶ ὀπτοπλίνθων μ ̣εγάλην κάμειν ̣ο ̣ν (l. κάμινον) α․․․α ευ․․․․․εἰς οἰκοδ ̣ό ̣μ(ησιν) τῆς ἁγί̣ ̣(ας) ἐκκλ ̣(ησίας) ἄπα ̣ [Π]ετρωνίο(υ) / διηρπα[ς] commenté par Gascou 2008b, 275-282 (ici 279). Bien d’autres attestations de briques cuites en contexte privée: liste de briques pour des constructions de citernes sur des terres irriguées (mechanai) des Apions: P. Oxy. XVIII 2197; SPP X 259 (VIe siècle ou début VIIe siècle) synopsis – devis – d’architecte concernant le prix de matériaux de construc-

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Pour coordonner ces ouvrages, les οἰκοδόμοι servaient souvent de maîtres d’œuvre avec parfois le titre d’ἀρχιοικοδόμος 78 ou d’ἐπικείμενος 79; quant aux plus grands chantiers, ils restaient coordonnés par un ἀρχιτέκ­ των, aux larges connaissances techniques et réglementaires. En Occident, des architectes sont attestés à la cura des bâtiments publics à Rome sur le chantier de Saint-Paul, en Afrique, dans un récit d’Augustin, en Italie sous Théodoric; en Orient, une loi d’Anastase évoque un architecte public chargé à Constantinople de l’operis noui nuntiatio 80. Il n’est pas impossible, concluait Catherine Saliou, «qu’aient existé dans certaines villes de province, parmi les magistrats et les fonctionnaires locaux, des architectes dotés en tant que tels de compétences juridictionnelles»: c’est bien ce que le papyrus d’Hèrakléoupolis CPR XXIII 32 confirme maintenant.

CONCLUSION Malgré le caractère fragmentaire de la documentation, on voit donc que la part des constructions publiques dans le secteur du bâtiment s’est maintenue jusqu’à la fin de l’époque romaine, soutenue par l’administration impériale et ses agents sur place. S’il est probable que les capitales de province reçurent des fonds publics plus importants que les autres pour la restauration et l’entretien de leurs centres, d’autres villes bénéficiaient aussi de l’attention des autorités: les villes d’assises ou celles des frontières. On a vu en outre combien le processus de commandes publiques est demeuré identique tout au long de la période tardive: même chaîne des responsabilités administratives, même appel aux architectes en charge des travaux, même obligation d’établir un devis. Quant à l’architecture et au savoir-faire des spécialistes du bâtiment dans les cités tardives, ils sont restés à l’évidence de très haute qualité jusqu’à la fin de l’Égypte romano-byzantine. tion: pour le prix de 21 000 briques cuites, 3 nomismatia et demi (l. 9), gypse pour le plâtre. 78 I. Thèbes-Syène 236, l. 10. 79 Pour ce mot utilisé en ce sens, voir par exemple, en septembre 473, un ordre de paiement d’un sou d’or à un ἐπικείμενος chargé des fondations (εἰς τὴν κρηπῖδαν [sic]) d’un bâtiment en SB XXVIII 16884, 2 (et le commentaire ad. loc. de D. Hagerdorn et B. Kramer, in AfP 50 [2004], 167). 80 CJ 12, 19, 12, 1, constitution d’Anastase de 517, commentée par Saliou 1996, 85-88, au sujet du métier de l’ἀρχιτέκτων dans l’Antiquité tardive, attesté comme architecte public en Occident et en Orient (cf. aussi Aug. Conf. 6, 9, 5: architectus cuius maxima erat cura publicarum fabricarum; Cassiodore, Var. 7, 15).

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Alessandro Pagliara **

RIASSUNTO: Tra i vescovi che, nel corso dello scisma laurenziano, rimasero fedeli alla causa del legittimo pontefice Simmaco ricorre il nome di Eulalio di Siracusa, che prese parte (assieme ad altri tre vescovi dalla Sicilia) alla sinodo De rebus ecclesiasticis conservadis del novembre 501. La sede episcopale di Siracusa sotto la guida di Eulalio riceve la qualifica di catholica nella Vita Fulgentii (§ 23), un testo di circa trent’anni successivo agli eventi dello scisma laurenziano. L’analisi delle formule di sottoscrizione degli acta della sinodo del 501 inducono a ipotizzare la natura articolata della qualifica di catholica assegnata dalla Vita Fulgentii alla sancta ecclesia Syracusana, configurantesi in senso non meno «orthodoxe» (nei contrasti dogmatici) che «universelle» (nella scelta filosimmachiana). ABSTRACT: Eulalius from Syracuse is mentioned among the bishops who during the Laurentian schism remained faithful to the legitimate pope Simmachus. Together with three other bishops from Sicily he partecipated in the synod De rebus ecclesiasticis con­ servandis (November 501). The episcopal see of Syracuse under the guide of Eulalius got the qualification of catholica in the Vita Fulgentii (§ 23), which dates about thirty years after the Laurentian schism. The analysis of the subscription formulas from the acta of the 501 synod let us suppose the complex nature of the qualification of Catholic assigned by the Vita Fulgentii to the sancta ecclesia Syracusana, no less «orthodox» (in dogmatic contrasts) than «universal» (in its Simmachian choice). KEYWORDS: Catholica (ecclesia); Eulalio (santo e vescovo di Siracusa); Eulalius (saint and

bishop of Syracuse); Fulgentio di Ruspe (santo); Fulgentius of Ruspe (saint); Laurentian schism; scisma laurenziano; Simmaco (papa); Symmachus (pope).

Tra i vescovi che, nel corso dello scisma laurenziano, rimasero fedeli alla causa del legittimo pontefice Simmaco ricorre il nome di Eulalio di Sira* Con il mio ringraziamento per l’ospitalità ai Curatori del presente volume, approfondisco qui considerazioni che, in un contesto più ampio, avevo proposto in Pagliara 2001/02. Dedico queste pagine a Simona Rota, eruditissima et Graecis litteris et Latinis, antiquitatisque nostrae et in inventis rebus et in actis scriptorumque veterum litterate perita. ** Università degli Studi di Parma.

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cusa, titolare della sede episcopale a cui tra le siciliane primaria auctoritas, et dignitas jam inde ab Apostolorum temporibus, et initiis fidei, … delata est (come ritenne il Gaetani, non senza suscitare obiezioni già nel sec. XVIII) 1. Di Eulalio – utpote et ipse egregia sanctitate conspicuus – fa menzione Cesare Baronio tra gli attori dello scisma laurenziano, benché gli Annales ecclesiastici di quel vescovo e santo siracusano non riportino più che il ritratto oleografico che è dato leggere al § 23 (cap. XII) della Vita Fulgentii a quodam ejus discipulo conscripta, citata verbatim 2. Pur con la consueta, prodigiosa e sintetica acribia che fa loro elencare in apertura della notizia De S. Eulalio episcopo Syracusano in Sicilia tutta la (invero non abbondante) dottrina consolidata – dal Gaetani al Pirri – sul personaggio in esame, nemmeno i padri Bollandisti sono a loro agio con la biografia del nostro, di cui, tra i santi venerati il 16 febbraio, negli Acta registrano le scarne notizie superstiti, sempre derivandole per massima parte dalla medesima matrice della Vita fulgenziana a cui aveva attinto il Baronio. Gli AA.SS., però, a chiusa della scheda sul santo vescovo di Siracusa, aggiungono le seguenti informazioni derivate direttamente (ma con alcune imprecisioni) dagli atti dello scisma laurenziano: Interfuit S. Eulalius Synodo Romanae IV sub Symmacho Papâ, quae Palma­ ris est dicta, in quâ eiusdem Symmachi electio est confirmata, et lex Odoacris Regis, quia libertati Ecclesiasticae et Pontificis electioni repugnabat, sublata. Subscripsit quarto loco hac formulâ: Eulalius Episcopus Ecclesiae Syracusanae, huic constituto, à venerabili Papâ Symmacho facto, subscripsi 3. Constitutum Symmachi ita incipit: Flauiano Auieno viro clarissimo iuniore Consule (is est annus Christi DII) sub die VIII Iduum Nouembrium in basilica B. Petri Apostoli, residente venerabili viro Papa Symmacho etc. 4 Pro defensione huius quartae Synodi Romanae et Papae Symmachi scripsit libellum apologeticum Ennodius Diaconus: quem anno sequenti post ConGaetani 1723, 170. Cf. ex. gr. Sgarlata 279 n. 18, ma di fondamentale importanza è la riconsiderazione complessiva di tutti i temi relativi al più antico cristianesimo in Sicilia nella grande opera di sintesi di Rizzo 2006. 2 Baronio 1709 (1595), 477. 3 La sinodo a cui intervenne Eulalio – e i cui acta egli sottoscrisse – è in realtà quella De rebus ecclesiasticis conservandis, tenutasi appunto Fl. Avieno iun. v. c. consule sub die VIII id. Nov. in basilica Petri Apostoli (cf. Mommsen 1894, 438 ss.), e non la Quarta synodus habita Romae Palmaris, che si tenne l’anno dopo, Rufio Magno Fausto Avieno v. c. cons. sub die X kal. Nov. (cf. Mommsen 1894, 426 ss.), come risulta dalle subscriptiones ove il nome di Eulalio è assente (Mommsen 1894, 432-437). Vd. anche n. seguente. 4 I Bollandisti (come quindi Mommsen 1894, 438) datano il consolato di Flavio Avieno iuniore – e conseguentemente la sinodo De rebus ecclesiasticis conservandis alla quale intervenne Eulalio – al 502 e non al corretto anno 501: cf. PLRE II, Fl. Avienus iunior 3, 193; CLRE 536-537. 1

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sulatum Auieni; in quintâ Synodo Romanâ omnes Patres, qui ad CCXVII erant congregati, in suo consessu recitatum, unanimi plausu approbarunt. In­ ter hos S. Eulalius ita quarto loco suam notauit sententiam: Eulalius Episcopus Ecclesiae Syracusanae huic statuto à nobis inspirante Domino peracto subscripsi. Quamdiu post hanc Synodum vixerit non liquet 5.

Alla figura di Eulalio dedica pagine (pur nelle inevitabili sciovinistiche amplificazioni) ancora da leggere il Lancia di Brolo nel primo volume della sua Storia della Chiesa in Sicilia, nei primi dieci secoli del cristianesi­ mo 6. Nel 1894, come additamentum secundum alla sua epocale edizione delle Variae di Cassiodoro, Mommsen avrebbe criticamente pubblicato tra gli Acta synhodorum habitarum Romae anche quelli del concilio a cui presenziò il vescovo Eulalio 7. Nulla aggiungono ai Realien sulla figura di quel santo vescovo siracusano le poche righe dedicategli dal (generalmente informatissimo) Lanzoni 8. La Vita Fulgentii attribuita a Ferrando o al monaco Redemptus di Teleste (come sostiene il suo ultimo editore, A. Isola) e scritta probabilmente il 533, anno successivo a quello di morte del santo, descrive ai §§ 23-26 (= capp. XII-XIII) la tappa siracusana del viaggio che, tra il 499 e l’autunno del 500, portò Fulgenzio dall’Africa vandalica a Roma, ov’egli ebbe ad ammirare il trionfale ingresso di Teoderico (§ 27). Snodo centrale tra Sud ed Est del Mediterraneo ancora alla soglia cronologica del passaggio tra V e VI secolo, la grecanica Siracusa è stata valorizzata da F.P. Rizzo come locus consilii presso il quale l’originaria vocazione 5 AA.SS. II (1658), 888 E-F. La ripetuta subscriptio di Eulalio (come notato supra, a n. 3) è in realtà quella agli atti della sinodo De rebus ecclesiasticis conservandis: cf. Mommsen 1894, 451. 6 Lancia di Brolo 1880, 327 ss. 7 Mommsen 1894, 438, 447 s. (registrazione dell’intervento di Eulalio), 451 (sub­ scriptio). Cf. Rizzo - Pagliara 2006, 335, 337 nr. 160. Vd. supra, n. 4 per la corretta datazione del consolato di Flavio Avieno iuniore. Così efficacemente Sardella 2000c, 468 ha sintetizzato la questione molto complessa: «Numero, successione e datazione dei concili simmachiani, dal punto di vista storiografico, sono stati controversi. I.D. Mansi e H. Leclercq […] contano fino a sette concili, protrattisi fino al 504. Il Mommsen fissa i sinodi nel numero di tre, perché le numerose sedute del sinodo del processo facevano riferimento, comunque, a una sola convocazione conciliare. Mommsen aveva stabilito che il sinodo del processo era il secondo (501). E. Wirbelauer ha ritenuto che l’ordine dei concili stabilito da Mommsen andasse corretto: il sinodo del processo, in base alla successione cronologica dei concili fissata da Wirbelauer, è l’ultimo (502). Il sinodo del processo a Simmaco si tenne a Roma, sotto il consolato di Rufio Magno Fausto Avieno iunior, tra vicende drammatiche che ne videro lo svolgersi in più sedi: nella basilica Iulia (oggi S. Maria in Trastevere), nella basilica di S. Croce in Gerusalemme, nel palazzo Sessoriano, in un luogo detto Palma […]». 8 Lanzoni 1927, II, 638.

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eremitica lasciò il posto a quella Romanitas sotto il cui segno si pone tutta l’esperienza della maturità fulgenziana 9. Consigliere e motore della metamorfosi nella Vita appare la figura del vescovo Eulalio, che, accolto Fulgenzio inter alios peregrinos hospi­ talitatis officio, ne scopre ben presto ex ornatu sermonis et responsionum moderatione la natura d’uomo singularis scientiae, appena dissimulata sub monachico abitu, e si adopera attivamente, cupiens meliora sectari, a dissuaderlo dal pericoloso ‘miraggio’ eremitico in terra d’Egitto (terras ad quas pergere concupiscis, a communione beati Petri perfida dissensio separavit, § 24). La pittura dell’approdo di Fulgenzio a Siracusa, nella penna del suo biografo, si colora di quei toni di sospeso stupore che la novellistica medioevale araba e italiana d’epoca comunale condivideranno nei racconti di viaggi per mare con tante pagine del romanzo ellenistico: (23.) Ventis itaque flatu prospero consequentibus, Syracusanum contigit feliciter portum, Deique summi providentia gubernante ductus est ad hanc civitatem, ubi tunc Ecclesiam catholicam beatus papa Eulalius gubernabat, vir eximiae sanctitatis, admirabilis hospitalitatis, perfectissimae caritatis, in cujus corde thesaurus sapientiae spiritalis absconditus, multos talentorum dominicorum negotiatione ditabat. Virtute enim discretionis super omnia decoratus, monachorum professionem singulariter diligebat: habens etiam ipse monasterium proprium, cui sempre adhaerebat, quotiens ab ecclesiasticis actibus vacabat. (24.) Ad hunc ergo beatus Fulgentius veniens, inter alios peregrinos hospitalitatis officio libenter excipitur … 10

Il magistero pastorale di Eulalio è qui caratterizzato nel segno d’una ‘cattolicità’ 11 che merita qualche chiarimento, poiché essa – a mio modo di vedere – non si esaurisce nella valenza strenuamente antimonofisita che cogliamo nell’opera di dissuasione rivolta dal vescovo di Siracusa al pellegrino Fulgenzio (omnes illi monachi, quorum praedicatur mirabilis abstinentia, non habebunt tecum altaris sacramenta communia, Fulg. v. § 24): la ecclesia catholica del centrale snodo siracusano, ancora a que9 Rizzo 1988/89, 461; praes. Rizzo 1991. Sulla posizione di Siracusa nel tardo impero quale «capitale dell’isola» (in alternativa a Catania), in quanto sede del consularis, vd. Mazzarino 1980, 350 ss., 360. 10 Fulgentii Vita, cap. XII, § 23, di cui questo il sommario: Fulgentius meditatur iter in Aegyptum. Appellit Syracusas. S. Eulalius Syracusanus episcopus. Monasterium S. Eulalii. Ab itinere coepto revocatus propter Aegyptiorum monachorum schisma. Hospes hospitalitatem exercet (PL LXV [1847] 128 s.). Per la Vita Fulgentii andranno tenute presenti: l’edizione Lapeyre 1929, l’utile traduzione e commento di Isola 1987 e la recente edizione critica dello stesso Isola 2016. 11 Cf. Goetz 1906-1912; Leclercq 1910.

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sto livello cronologico fortemente intriso di Graecitas, sembra volgere le spalle all’Oriente non meno che all’Africa vandalica, mirando decisamente all’Urbe nell’ottica di una Romanitas che non si potrà (com’è ovvio) confondere tout court con la Latinitas 12. La sosta di Fulgenzio a Siracusa assume allora contorni meno casuali di quel che la serena prosa della Vita del Ruspense vorrebbe lasciar intendere. La vocazione ‘romana’ della chiesa di Siracusa sotto la guida di Eulalio acquista, infatti, anche un preciso significato antiscismatico – con ciò che ne consegue in termini di bilanciamento politico tra Oriente e Occidente – nell’ambito dell’intricata e dolorosa serie di eventi che tra il 498 e il 506 vide l’Urbe teatro dello scontro tra il legittimo pontefice Simmaco e la fazione devota alla causa ‘orientale’, riunita attorno al presbitero Lorenzo. Nell’ottica dell’equilibristico rapporto con la corte di Costantinopoli, grande sarà il peso nell’intera vicenda dell’iniziativa non disinteressata di Teoderico, dapprima (inizio 499) a Simmaco favorevole Rizzo 1988/89, 464 s.: «La grecità della chiesa siracusana è fuor di dubbio, come non è da escludere che la diversità delle lingue nascondesse differenziazioni anche di tipo etnico perduranti da secoli […]. La verità è che le molteplici attestazioni della grecità siracusana – per fare l’esempio più riccamente documentato – si inquadrano in un filone ininterrotto di testimonianze linguistiche dell’elemento ‘siceliota’, e che, al contrario, fu l’evento Belisario a costituire l’inizio della più generale conversione al latino» (che è la tesi autorevolmente fondata da Ferrua 1942, 214 ss.). Il problema della persistenza del greco e della parallela affermazione del latino in Sicilia in epoca imperiale fino all’ultima «vittoria del volgare siciliano sul trilinguismo (bilinguismo)», fu definito «il più grave della storia siciliana» da Mazzarino 1977, 9. Già lo stesso Mazzarino ne aveva impostato lo studio, sostenendo che «la latinizzazione linguistica si fondi, nell’Italia meridionale e in Sicilia, non soltanto sulle classi cittadine, ma anche e soprattutto sulle contadine […]. Insomma il fenomeno sembra svolgersi qui in senso quasi opposto a quello normale per esempio in Gallia ed Africa, dove la latinità linguistica penetra attraverso le città, ma è ostacolata dalle campagne» (Mazzarino 19883 [1956], 778 s.). Di tale tesi mazzariniana Manganaro 1993, 543 ss. (ma cf. già Manganaro 1988, 48 ss.) ha sostenuto un simmetrico capovolgimento. Non è questa la sede per sintetizzare un dibattito ancora vivo negli studi: vorrei però rilevare come, dal punto di vista metodologico, nell’analisi di un fenomeno tanto complesso e di definizione così ardua (anche nella dispersione del materiale documentario, prevalentemente epigrafico) appaia essenziale limitare le generalizzazioni (ciò che, al di là degli intenti programmatici, non sempre è dato rilevare in bibliografia), imponendo rigorosi paletti tanto geografici quanto cronologici a una ricerca che, per essere davvero innovativa, necessiterebbe d’un ben orchestrato lavoro d’équipe. E mi preme ancora sottolineare – con Rizzo 1980/81, 391 s. – la necessità «di intendere il significato politico del fatto linguistico. La Graecitas di una Sicilia da secoli sottomessa a Roma e la Latinitas di una Sicilia divenuta bizantina evidenziano una contrapposizione che, se non è totale e certamente non univoca per le due parti dell’Isola, tuttavia interessa nel suo insieme il processo di reazione politica e culturale dei Siciliani di fronte ai condizionamenti extra-isolani». Per un orientamento sulle varie fasi della storia degli studi, cf. anche ex. gr.: Maccarone 1915; Parlangèli 1959; Varvaro 1981, 221 ss.; Melazzo 1984, 51 ss.; Rohlfs 1984. 12

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nell’arbitrato sulla doppia elezione pontificia, quindi, dopo il soggiorno romano dell’anno 500, disposto a prestar credito alle accuse dei filolaurenziani sino al segno di chiamare il pontefice a Ravenna a discolparsi (estate-autunno 501). Come sapeva il Baronio – lo ricordavo in apertura di questa nota –, noi ritroviamo Eulalius episcopus sanctae ecclesiae Syracusanae tra i primi sottoscrittori (al nr. 4) della sinodo De rebus ecclesiasticis conservandis che Simmaco, pur arroccato in S. Pietro dopo il precipitoso rientro a Roma dalla via per Ravenna, riuscì a convocare il 6 novembre 501 13. In questo concilio centrato su questioni patrimoniali Eulalio non è il solo tra i vescovi siciliani: sottoscrivono con lui, infatti, Severinus episco­ pus ecclesiae Tundarinae (nr. 20, ove sarà forse preferibile la lezione Tyn­ darinensis fatta propria dal Thiel), Eucarpus episcopus ecclesiae Messanen­ sis (nr. 21) e Augustus episcopus ecclesiae Liparitanae (nr. 60) 14. Siracusa, dunque, e le città di quel ‘triangolo’ della Sicilia nord-orientale, che ha la sua base nella direttrice Tindari-Messana e il suo vertice in Lipari: ciò che sembra riproporre, per questo inizio del VI secolo d.C., convergenze territoriali di longue durée nella storia della Sicilia greca, dalla ‘camicia di Nesso’ del costante e sofferto vincolo tra Lipara e Siracusa sin dall’epoca della guerra del Peloponneso 15, al collegamento tra le tre citate poleis della cuspide nord-orientale dell’isola, che aveva dato qualche frutto già nella prima età di Agatocle 16. Significativa appare la presenza a Roma al fianco di Simmaco di quattro vescovi dalla Sicilia, ciò che induce a presupporre una precisa scelta politica: contravvenendo di fatto alle vecchie disposizioni del papa Leone I sull’intervento del presuli sicelioti ai concilî romani 17, nessuno 13 Vd. supra, nn. 4-5 e 7. Per il contesto storico, a parte il vecchio Lancia di Brolo 1880, 324 ss. (con la solita prospettiva centrata programmaticamente sulla Sicilia), rimando ex. gr. a Sardella 1996, 19-27; Rizzo 1999, 189; Sardella 2000a-c, 2006 e 2013. 14 Rizzo - Pagliara 2006, 337. 15 Libertini 1921, 95 ss.; Pagliara 1995, 80 ss. 16 Tropea 1901; De Sanctis 1996 (1909, 1895), 219; Pagliara 1995, 90 s. 17 Leo I epist. 16, cap. 7 (21 ottobre 447): De concilio quotannis Romae celebran­ do.  – Quare illud primitus pro custodia concordissimae unitatis exigimus, ut, quia salu­ berrime a sanctis Patribus constitutum est, binos in annis singulis episcoporum debere esse conventus, terni semper ex vobis ad diem tertium kalend. Octobr. Romam fraterno concilio sociandi, indissimulanter occurrant: quoniam, adjuvante gratia Dei, facilius poterit provideri ut in Ecclesiis Christi nulla scandala, nulli nascantur errores, cum coram bea­ tissimo apostolo Petro id semper in commune tractandum sit, ut omnia ipsius constituta, canonumque decreta apud omnes Domini Sacerdotes inviolata permaneant. Haec autem, quae vobis, inspirante Domino, insinuanda credidimus, per fratres et coepiscopos nostros Baccillum atque Paschasinum ad vestram volumus notitiam pervenire. Quibus referenti­ bus cognoscamus quam reverenter a vobis apostolicae sedis instituta serventur. Data XII

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dei quattro vescovi che sottoscrivono gli Acta della sinodo De rebus ec­ clesiasticis conservandis aveva preso parte – mentre durava il favore di Teoderico – alla sinodo indetta da Simmaco il 1° marzo 499 (p. c. Paulini v. c. die kal. Martiarum in basilica Petri apostoli), tra i primi atti ufficiali e dei più rilevanti di quel pontificato, in quanto mirata a definire le modalità d’elezione dello stesso vescovo di Roma 18. Al contrario, nel momento dell’ingerenza del potere politico sull’autorità pontificia, la Chiesa di quella Sicilia che pur era passata «senza contrasti agli Ostrogoti, nel 491, secondo le modalità pacifiche favorite da Cassiodoro» (il consularis Sici­ liae tra il 490 e il 491) 19, nel 501 farà quadrato attorno al legittimo vescovo di Roma, fautore della ragioni dell’Occidente contro Anastasio e promotore nell’Urbe del culto della catanese Agata con la fondazione della basilica sulla via Aurelia (una grata risposta di Simmaco alla solidarietà dimostratagli dai Siciliani ovvero una forma di captatio benevolentiae?) 20. kalend. Novembr. Calepio et Ardabure viris clarissimis consulibus (PL LIV 702 s. = Pagliara - Rizzo 2006, 290 nr. 115). Si noterà come la frequente disattenzione del precetto di recarsi periodicamente a Roma sia lamentata ancora da Gregorio Magno, reg. 7, 12 Norberg (lettera del 5 maggio 597 a Cipriano, rector patrimoniii Siciliensis): Nouit di­ lectio tua hanc olim consuetudinem tenuisse, ut fratres et coepiscopi nostri Romam semel in triennio de Sicilia conuenirent sed nos eorum labori consulentes constituisse ut suam hic semel in quinquennio praesentiam exhiberent. Et quia iam diu est, quod hic minime conuenerunt, eos hortari te uolumus, ut natale sancti Petri hic Deo perducente nobiscum debeant celebrare. Sed ne forte praetori aliqua possit nasci suspicio, si eos hic admonitos ue­ nire cognouerit, uoluntatem nostram intellegens ita hoc ex te facere stude, ut et ipsi, sicut praediximus, ad diem constitutum hic ueniant et nulla de eis praetori possit esse suspicio. Liparitanum uero et Regitanum episcopos ut hic ueniant pariter commonebis … Cf. Holm 1901-1906 (1898), 541. 18 Mommsen 1894, 399 ss. Cf. Sardella 1996, 24 s., 70 ss., e 2000c, 466 s., ove non si rileva l’assenza dei vescovi di Sicilia, che non era sfuggita al Lancia di Brolo 1880, 324. 19 Clemente, 476; cf. Holm 1901-1906 (1898), 508 ss.; Cracco Ruggini, 498; Pagliara 2009, 76 s.; complessivamente andrà tenuto presente Caliri 2012. Sul consularis Cassiodoro (padre dell’autore delle Variae): PLRE II, Cassiodorus 3, 264 s. 20 Lib. pont. I 267 Duchesne: Hic [scil. Symmachus] fecit basilicam sanctae martyris Agathae, via Aurelia, in fundum Lardarium: a fundamento cum fonte construxit, ubi posuit arcos argenteos II. Cf. Sardella 1996, 168, e 2000c, 472; Rizzo - Pagliara 2006 303 nr. 127. A questo interesse di Simmaco per il culto di Agata a Roma non si dà in genere negli studi il rilievo invece assegnato all’iniziativa di medesimo significato (anche politico) del 593 con la dedica alla martire catanese dell’antica basilica degli ariani nella Suburra ad opera di Gregorio Magno, dial. 3, 30, 2 De Vogüé: Arrianorum ecclesia, in regione urbis huius quae Subura dicitur, cum clausa usque ante biennium remansisset, placuit ut in fide catholi­ ca, introductis illic beati Sebastiani et sanctae Agathae martyrum reliquiis, dedicari debuis­ set. Quod factum est. Nam cum magna populi multitudine uenientes atque omnipotenti domino laudes canentes, eandem ecclesiam ingressi sumus (=  Rizzo - Pagliara 2006, 268 nr. 95); Cf. Lib. pont. I 312 Duchesne: Eodem tempore [scil. Gregorius] dedicavit eccle­ siam Gothorum quae fuit in Subora, in nomine beatae Agathae martyris (= Rizzo - Pagliara

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La presenza a Roma, in occasione di quell’importante snodo storico, del vescovo Eulalio al fianco di Simmaco conferma – a mio avviso – la natura articolata della qualifica di catholica assegnata dalla Vita Fulgentii alla ecclesia Syracusana, configurantesi in senso non meno «orthodoxe» (nei contrasti dogmatici) che «universelle» (nella scelta filosimmachiana) 21. La formula di sottoscrizione di Eulalio, episcopus sanctae ecclesiae Syracusanae, s’illumina del resto nel paragone con le analoghe adottate da Lorenzo, episcopus sanctae Mediolanensis ecclesiae, e da Pietro, episcopus catholicae Ravennatis ecclesiae (sede, questa, per la quale la natura di ca­ tholica andrà letta anche sullo sfondo della coabitazione con la corte e lo stesso Teoderico, ariano). Ma, mentre Simmaco sigla gli atti conciliari del 501 semplicemente quale episcopus ecclesiae Romanae 22, i rappresentanti delle principali sedi – e primi firmatari dopo lo stesso papa – ripetono nelle proprie la formula di sottoscrizione che, nel registro più solenne, era stata dal pontefice apposta agli atti della sinodo del 499: Coelius Sym­ machus episcopus sanctae ecclesiae catholicae urbis Romae 23. Se l’analisi sin qui condotta coglie nel segno, credo se ne possa concludere che in tal modo le prime tra le ecclesiae fedeli a Simmaco – e, prima tra le siciliane, quella catholica retta da Eulalio – intendessero confermargli, tanto singillatim quanto generatim atque universe (a dirla con Cicerone) 24, gli attributi di ortodossia e di universalità che, nel drammatico contesto in cui si svolse la sinodo del 501, il legittimo episcopus urbis Romae più che mai doveva allora rivendicare per sé e la propria causa.

2006, 303). Per le redazioni greche e latine degli Atti di Agata: BHL nov. suppl. 133-140; BHG 3 36-38b; Mioni 1950; Brusa 1959; Cracco Ruggini 1983, 221 s.; Morini 1991 e 1996; Stelladoro 2005. 21 Adatto al caso da me considerato la lucida analisi di Lemerle 1945, 94 s.: «Aux textes littéraires, dont les plus anciens témoignages sont peu sûrs, et qui n’emploient longtemps l’expression d’église ‘catholique’ que dans le sens général, dépourvu de valeur technique, d’église ‘universelle’, s’opposent les textes juridiques et épigraphiques. Ceux-ci ne sont pas antérieurs à la paix de l’Eglise. On peut poser comme règle qu’ils donnent à ‘catholique’ la signification d’‘orthodoxe’, et emploient l’expression d’église catholique lorsqu’il s’agit d’opposer celle-ci, de manière explicite ou implicite, à une église hérétique, ou à l’hérésie en général». 22 Mommsen 1894, 451. 23 Mommsen 1894, 405. 24 Cic. Verr. 2, 5, 143.

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Sancta ecclesia catholica Syracusana, A.D. 501

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Mazzarino 1977

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I Curatori e gli Autori

I CURATORI Beatrice Girotti è ricercatore all’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Si occupa di storia della tarda antichità, storiografia romana (con particolare attenzione alla storiografia tardoantica) e storia delle donne nel mondo classico e ha pubblicato diversi saggi su tematiche di storiografia tardopagana e cristiana. Nelle sue ultime ricerche particolare interesse è rivolto al lessico degli autori pagani confrontato con quello degli autori cristiani. Con LED Edizioni Universitarie di Lettere Economia e Diritto ha curato, in collaborazione con Valerio Neri, i volumi La  famiglia tardoantica. Società, diritto, religione (Milano 2016), La storiografia tardoantica. Bilanci e prospettive (Milano 2017) e di recente ha pubblicato la monografia Assolutismo e dialettica del potere nella corte tardoantica. La corte di Ammiano Marcellino (Milano 2017). Con Ch.R. Raschle organizza dal 2018 il corso congiunto Unibo-UdeM «Joint Field Work on Late Antiquity», laboratorio congiunto tra i due Atenei per i corsi di Storia della Tarda Antichità, che prevede lavori di ricerca e di didattica online e in presenza. Christian R. Raschle è Professore associato all’Université de Montréal, dove insegna Storia della Tarda Antichità. I suoi interessi principali convergono nella storia dell’amministrazione e del sistema politico dell’Impero romano, in particolare la riorganizzazione delle sue province nel periodo tardo imperiale, e nei temi di storia e mentalità culturali durante la tarda antichità. Tra le sue recenti pubblicazioni si ricordano ad esempio i saggi Provinznamen und Augustae im spätrömischen Reich e Bis wann bleibt der Kaiser «Kult»? Die Verehrung des Kaiserbildes als Akt der Zivilreligion in der Spätantike. Si occupa inoltre di storia della scienza nell’antichità e di temi storiografici legati alla scienza. Con B. Girotti organizza dal 2018 il corso congiunto Unibo-UdeM «Joint Field Work on Late Antiquity», laboratorio congiunto tra i due Atenei per i corsi di Storia della Tarda Antichità, che prevede lavori di ricerca e di didattica online e in presenza. 255

I Curatori e gli Autori

GLI AUTORI Giovanni Assorati è Dottore di ricerca in Storia Antica all’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Ha svolto incarichi di professore a contratto e ha condotto come borsista post-doc e assegnista presso l’Università di Bologna numerose ricerche su prosopografia e religiosità del patriziato romano altoimperiale. Si occupa soprattutto di prosopografia senatoriale e storia del territorio emiliano-romagnolo, sia altoimperiale che della tarda antichità e oltre. Oltre a diversi articoli, è autore della monografia I primi cristiani in Emilia-Romagna tra prosopografia e storia (Bologna 2014). Marilena Casella ha individuato come principali poli di interesse di ricerca il retore Libanio di Antiochia, e la tarda antichità, analizzata soprattutto nei risvolti del rapporto tra la retorica e la politica, e di quello tra la Chiesa e lo Stato nel IV secolo d.C. La sua produzione scientifica si compone di monografie dedicate a Libanio (2010) e a Galerio (2017), e di numerosi articoli e contributi in Atti di convegni ed in volumi miscellanei. Collabora a gruppi e a progetti di ricerca internazionali e fa parte del Comitato scientifico di Collane e Riviste. Maria Victoria Escribano Paño è Professore di Storia della Tarda Antichità presso il Departamento de Ciencias de la Antigüedad dell’Universidad de Zaragoza. Tra i suoi interessi di ricerca, la storia del cristianesimo antico, la storia e la politica legati alla dinastia teodosiana, lo studio della legislazione imperiale e del Codex Theodosianus. Ha coordinato diversi progetti nazionali e internazionali, tra i quali si ricordano per esempio «Las leyes contra los heréticos bajo la dinast́a teodosiana (379-455) y sus efectiva aplicacín» e «Intolerancia y exilio: las leyes teodosianas contra los eunomianos». Christel Freu è Professore associato all’Université de Laval. I suoi interessi principali vertono intorno alla storia sociale ed economica dell’Impero romano dal I secolo a.C. alla fine dell’antichità, alla storia delle società provinciali, in particolare quella dell’Egitto romano, alla storia del lavoro, al diritto e alla società. Tra i suoi lavori si ricordano Les figures du pauvre dans les sources italiennes de l’Antiquité tardive (Paris 2007) e ‘Libera curiositas’. Mélanges d’histoire romaine et d’Antiquité tardive en l’honneur de Jean-Michel Carrié (Paris - Turnhout 2016, con S. Janniard e A. Ripoll). Beatrice Girotti è ricercatore all’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Si occupa di storia della tarda antichità, storiografia romana (con particolare attenzione alla storiografia tardoantica e al metodo del256

I Curatori e gli Autori

la Quellenforschung) e storia delle donne nel mondo classico. Con LED Edizioni Universitarie di Lettere Economia e Diritto ha curato, in collaborazione con Valerio Neri, i volumi La famiglia tardoantica. Società, diritto, religione (Milano 2016), La storiografia tardoantica. Bilanci e prospettive (Milano 2017) e di recente ha pubblicato la monografia Assolutismo e dialettica del potere nella corte tardoantica. La corte di Ammiano Marcellino (Milano 2017). Tommaso Gnoli è Professore di Storia Romana all’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca si articolano in diverse macroaree, tra le quali lo studio delle province orientali dell’impero romano fino all’età tardoantica, sia da un punto di vista archeologico, sia storico-sociale e culturale, la religione romana, lo studio delle trasformazioni del potere imperiale dal principato augusteo al dominato tardoantico. Tra i suoi libri si ricordano Le guerre di Giuliano imperatore (Bologna 2015) e il volume Aspetti di Tarda antichità. Storici, storia e documenti del IV secolo d.C. (Bologna 2019). Paolo Mastandrea è Professore di Filologia Latina Imperiale e Tardoantica all’Università Ca’ Foscari - Venezia. Si occupa di lingua poetica latina, dalle origini agli autori italiani moderni dell’Otto-Novecento, di storia della tradizione dei classici, con riguardo ai mutamenti del passaggio fra tarda antichità e medioevo, di sfruttamento delle tecnologie informatiche ai fini dell’esegesi e della filologia dei testi. Con Alberto Cavarzere e Arturo De Vivo ha curato il manuale Letteratura latina. Una sintesi storica (Roma 2015). È co-direttore della rivista Lexis. Poetica, retorica e comunicazione nella tradizione classica. Valerio Neri è Professore di Storia Romana all’Alma Mater Studiorum Università di Bologna. La sua attività di ricerca si è svolta soprattutto nell’ambito della tarda antichità, indagata in un ampio ventaglio di contesti: sociale, economico, religioso, storiografico, culturale. Ha approfondito inoltre intersezioni fra storia sociale e culturale e diritto e letteratura cristiana. Tra le sue monografie: La bellezza del corpo nella società tardoantica. Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica e cristianesimo (Bologna 2004). Vincent Nicolini è Dottore di ricerca all’Université de Montréal, dove ha lavorato alla tesi dal titolo Les historiens dans l’Empire romain d’Orient (IVe-VIIe siècles). Le sue ricerche sono attualmente concentrate sull’analisi sociologica degli scritti di storici greci e latini del VI e VII secolo d.C., con l’obiettivo di di evidenziare le interazioni tra la scrittura della storia, vista come una pratica sociale, e la società tardo-romana. 257

I Curatori e gli Autori

Alessandro Pagliara insegna Storia Romana all’Università degli Studi di di Parma, dove è pure referente di Ateneo per il network «Università per la Pace» promosso dalla CRUI e organizzatore dei Seminari di Europa. I suoi interessi di ricerca possono essere accorpati attorno a quattro principali filoni di indagine: Italia preromana e romana; Magna Grecia e Sicilia; musica, etica, politica e oikonomia nelle fonti letterarie greche e latine e tarda antichità. In questo ambito, oltre a interessarsi della ricezione dell’opera di Flavio Claudio Giuliano tra Umanesimo ed età barocca, si occupa di storia politica e della Chiesa di Sicilia nei secoli III-V d.C. e di tradizioni agiografiche. Salvatore Puliatti è Professore di Istituzioni di Diritto Romano presso l’Università degli Studi di Parma. È membro dell’Associazione Italiana di Studi Bizantini ed è Presidente della sezione di Parma dell’Associazione Italiana di Studi Tardoantichi, di cui è anche componente del direttivo nazionale. Ha fatto parte di alcuni progetti di ricerca interuniversitari su temi concernenti il tardo impero e l’età giustinianea tra cui il PRIN 2008 dal titolo «Aspetti di normazione secondaria in età tardo imperiale: tutela degli amministrati e salvaguardia dei diritti del fisco negli Editti del prefetto del pretorio». Stéphane Ratti è Professore di Storia della Tarda Antichità all’Université Borgogne Franche-Comté e specialista nella storiografia delle relazioni pagano-cristiane nel IV e V secolo. Storico e filologo, è autore di numerosi articoli, saggi e monografie. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: L’Histoire Auguste. Les païens et les chrétiens dans l’Antiquité tardive (Paris 2016) e Le Premier Saint Augustin (Paris 2016); Saint Augustin ou les promesses de la raison (Dijon 2016); Les aveux de la chair sans masque (Dijon 2018).

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