L'estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità 8843029312, 9788843029310

Ci sono eventi storici che segnano un confine oltre il quale l'esperienza estetica è destinata a modificarsi in mod

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L'estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità
 8843029312, 9788843029310

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Filosofia Ci sono eventi storici che segnano un confine oltre il quale l'esperienza estetica è destinata a modificarsi in modo irreversibile. Hegel pensava che dopo il cristianesimo l'arte, troppo "amica del sensibile", non avrebbe mai più assolto al compito di esprimere la spiritualità di un popolo. Secondo un verdetto ancor più radicale Adorno è certo che la Shoah abbia segnato un altro di questi confini. Può avere ancora corso, dopo Auschwitz, una comprensione "estetica" dell'arte- cioè quel modo tipicamente moderno di intendere l'opera come poiesis che occasiona un piacere pregno di riflessioneo ci troviamo di fronte all'obbligo di un ripensamento integrale? L'intera esperienza dell'arte contemporanea e della riflessione teorica che l'accompagna gravita nell'ambito di questa domanda ineludibile, talvolta fronteggiandola, talvolta cercando di eluderla o di aggirarla in nome di criteri metodici oggettivi. Il libro si propone di chiarificare questa situazione problematica- che ci riguarda da vicino e che resta aperta- offrendo e commentando un'ampia documentazione dei testi che la assumono e delle proposte che vi si profilano.

Pietro Montani insegna Estetica nella Facoltà di Filosofia dell'Università "La Sapienza" di Roma. Tra le sue opere più recenti: Estetica

ed ermeneutica (20033); Antigone e la filosofia. Un seminario (2001); Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea, con A. Ardovino e D. Guastini (20022).

ISBN 88-430-2931-2

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STUDI SUPERIORI / 455 FILOSOFIA

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore

via Sardegna 50, 00187 Roma, telefono o6 42 81 84 17, fax o6 42 74 79 31

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L'estetica contemporanea Il destino delle arti nella tarda modernità A cura di Pietro Montani

@ Carocci editore

Ia edizione, marzo 2004 ©copyright 2004 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel marzo 2004 dalle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino ISBN 88-430-2931-2

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione di Pietro Montani

II

T. W. Adorno

35

Estetica e marxismo. Lo statuto dell'arte nella tragedia della storia a cura di Renato Caputo

41

Bertolt Brecht Gyorgy Lukacs Jean-Paul Sartre Herbert Marcuse Ernst Bloch Bibliografia

42 49 54 61 67 75

2.

L'estetica scientifica a cura di Gianluca Consoli

79

2.1. 2. 2. 2.3 . 2.4. 2. 5. 2.6. 2.7.

Rom an Jakobson Jurij Michajlovic Lotman Umberto Eco Nelson Goodman Jerrold Levinson Richard Rorty Emilio Garroni Bibliografia

8o 88 96 103

I.

I. I.

1 . 2. 1.3. 1 .4. I. 5·

III II9

127 133 7



L'altro della fenomenologia. Forme e tempo dell'alterità a cura di Manuela Pallotto

137

3·1. 3 .2. 3 ·3 · 3 ·4·

Maurice Merleau-Ponty Emmanuel Lévinas Maurice Blanchot Jacques Derrida Bibliografia

138 145 152 16 2 170



L'estetica in prospettiva teologico-politica. Arte e religione tra nichilismo e testimonianza a cura di Adriano Ardovino e Alessio Scarlato

173

4·1. 4. 2. 4·3· 4·4· 4· 5· 4. 6 . 4·7· 4.8.

Martin Heidegger Ernst Jiinger Paul Celan (Paul Antschel) Emmanuel Lévinas Paul Ricoeur Hans U rs von Balthasar Luigi Pareyson Michail Michajlovic Bachtin Bibliografia

174 185 193 197 203 208 216 221 226



Estetica e filosofia pratica a cura di Giandomenico Bonanni e Daniele Guastini

23 5

5·1. 5.2. 5·3· 5·4· 5·5·

Hans Robert Jauss Hans Georg Gadamer Paul Ricoeur Joachim Ritter Gianni Vattimo Bibliografia

23 6 241 247 252 257 26 1

6.

L'immagine cinematografica. L'opera d'arte e il documento a cura di Luca Venzi

26 5

Serge Daney

266

6 .r.

8

6.2. 6. 3. 6.4. 6. 5.

Jean-Luc Godard Gilles Deleuze André Bazin Abbas Kiarostami Bibliografia

274 281 286 293 299

Fonti

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Introduzione di Pietro Montani Die Kunst ins Unbekannte hinein , die einzig noch mogliche, ist weder heiter noch ernst; das Dritte aber zugehangt, so, als ware es dem Nichts eingesengt, dessen Figuren die fortgeschrittenen Kunstwerke beschreiben. (L'arte che si addentra nell'ignoto, l'unica ancora possi­ bile, non è né serena né seria - ma il terzo è precluso, co­ me se fosse immerso nel nulla le cui figure le opere d' ar­ te progredite descrivono.) T. W.

Adorno, Noten zur Literatur

r. Ci sono eventi storici che segnano un confine oltre il quale l'e­ sperienza estetica è destinata a modificarsi in modo irreversibile, o a diventare altro. Hegel pensava che con l'annuncio al mondo del dio cristiano - che, a differenza di quelli greci, «si presenta nel pensiero e allo spirito come spirito» 1 e non si lascia adeguare da nessuna for­ ma sensibile - l'arte avrebbe potuto sopravvivere solo come «qual­ cosa di passato», come una forma definitivamente inadeguata di pre­ sentare il vero. L'arte, infatti, si muove nel dominio del sensibile, di cui anzi è fin troppo «amica», mentre gli interessi spirituali decisivi dell'uomo storico (la religione, la morale, la politica) tendono, per Hegel, verso un'incoercibile ricomprensione ideale, destinata a pren­ dere un congedo senza ritorno dalla fase in cui fu il sensibile a mani­ festarli nel modo più vero e dispiegato. Secondo un verdetto ancor più radicale - «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di bar­ barie» 2 -, Theodor Wiesengrund Adorno sembra certo che la Shoah abbia segnato un altro di questi confini. Se Adorno ha ragione, l'arte e l'estetica contemporanee sarebbero allora chiamate a rispondere, in modo esplicito o indiretto, a una domanda che secondo una formu­ lazione semplificata (e dunque da restituire alla sua complessità) suo­ nerebbe così: è ancora lecito, dopo Auschwitz, che l'arte si ritenga al­ l' altezza di un compito veritativo? Adorno, in realtà, non ha mai posto la domanda in questi termi­ ni. Il durissimo verdetto sulla barbarie della poesia convive, infatti, 1. G. W. F. Hegel, Lezioni di estetica. Corso del I823, Laterza, Roma-Bari 2ooo, p . 34 · 2. T. W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972, p. 22.

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nei suoi testi con asserzioni altrettanto spinte, come per esempio il giu­ dizio inappellabile - e quasi paralizzante - che, in un passo della Dia­ lettica negativa (r966) , denuncia che «tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura»3, ma anche con de­ finizioni più mediate, come per esempio questa riflessione che com­ pare nel saggio conclusivo delle Note per la letteratura (r96r-68 ) : «Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è sta­ to possibile e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un'arte serena»4• L'ultima opera di Adorno, in­ fine, è una grande e incompiuta Teoria estetica (19 7 0) 5, nella quale si dice - senza alcun indietreggiamento di fronte al rischio di interferi­ re con la sovrana autonomia dell'opera - a che condizioni l'arte è te­ nuta a sussistere nonostante Auschwitz e sullo sfondo di Auschwitz: e sono condizioni di rifiuto non negoziabile di quella "positività " - di quel "porre " , "com-porre" e "pro-porre" immagini - che resta, non­ dimeno, un tratto inalienabile delle opere d'arte, il loro modo di es­ sere «amiche del sensibile». L'ultimo Adorno, dunque, imbocca decisamente la strada, a lui congeniale, del paradosso (la ritroveremo in molti dei testi qui rac­ colti, con punte estreme in Lévinas e Celan ) : l'opera d'arte deve sa­ per disdire quanto ha di più proprio, impegnandosi tuttavia a ripri­ stinarlo in questa medesima disdetta, che dunque non può essere una semplice negazione e dev'essere, piuttosto, una «negazione de­ terminata»: un modo di "rappresentare" nella sua verità - cioè ne­ gandolo - il mondo in cui Auschwitz è stato, ed è ancora possibile6. Così, l'intero corredo delle figure che per secoli hanno garantito l' au­ tonomia dell'opera - l'armonia, la coerenza, la bellezza, l'unità, la consonanza - dev'essere rimesso in questione, ma in maniera tale che questa stessa revoca assuma uno statuto figurale, impegni l'estremo sforzo etico di apparire e di automotivarsi a sua volta come forma au­ tonoma. Solo a queste condizioni l'opera d'arte - ogni singola opera,

3· Id ., Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 331. 4· Id . , È serena l'arte?, in T. W Adorno, Note per la letteratura, Einaudi, Torino 1979, p. 277. Si tratta del testo che apre la presente antologia. 5· Cfr. Id . , Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975. 6. Si sente spesso dire che la memoria deve preservarci dalla possibilità che l'or­ rore ritorni. Chi fa queste affermazioni, dimentica che la politica dei campi di ster­ minio è stata ed è ancora presente, nel mondo globalizzato, dai Balcani a Guantana­ mo, al Canale di Sicilia.

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poiché d i una negazione determinata non s i può fare una regola ge­ nerale - può sperare di opporre resistenza al movimento che già dà segni di volerla inglobare nell'indistinto livellamento dell' «industria culturale» in cui l'arte diventa semplice in trattenimento e sostanzia­ le conferma dell'esistente. Nella sua intransigenza, la posizione di Adorno è limpida (il te­ sto che apre questa antologia, come si vedrà, non lascia nulla nel­ l'implicito): qualcosa come l'arte può continuare a sussistere solo in quelle opere che di volta in volta sappiano «rinunciare da sé» alla «se­ renità» che per secoli ha garantito la «serietà» della sfera estetica e sappiano «addentrarsi nell'ignoto» di una nuova sfera d'azione arri­ schiandosi a descriverne le figure. Ma, al di là delle tesi specifica­ mente adorniane, i termini di fondo della domanda che ne abbiamo ricavato debbono essere chiariti secondo un disegno più generale, a cominciare dalle parole con cui fin qui li abbiamo indicati come se andassero da sé: estetica, arte, poesia, immagine . . . In particolare, bi­ sogna chiedersi: perché «dopo Auschwitz» queste nozioni sarebbero diventate quanto meno problematiche? Quali presupposti, quali pro­ getti, quali valori dell'estetica in senso moderno Auschwitz avrebbe rimesso radicalmente in discussione? Che senso ha quel «dopo» che così ossessivamente ritorna nelle formulazioni di Adorno? E perché, infine, l'orrore dei campi di sterminio avrebbe una relazione signifi­ cativa, e anzi cogente, con l'arte? Cominciamo dall'ultima domanda. La relazione tra i campi di sterminio e l'arte riguarda il problema della rappresentabilità e quel­ lo, che gli è connesso, del piacere estetico. In una formulazione più ampia essa suonerebbe così: ci sarebbe un modo di rappresentazio­ ne "adeguato" all'orrore dei campi o non è vero piuttosto che qua­ lunque rappresentazione si convertirebbe, con ciò stesso, in un atto di conciliazione, tanto più indecente in quanto intimamente sostenu­ to da quel sentimento di piacere che qualifica l'arte tra le altre forme dell'esperienza umana? Eppure dei campi si è narrato (Antelme, Améry, Bettelheim, Le­ vi . . . ), sui campi si è fatto cinema difficile (Lanzmann, Resnais . . . ) e ci­ nema spettacolare (Benigni, Mihaileanu, Spielberg . . . ), si è dipinto, si è costruito, si è composta musica e poesia. L'irrappresentabile si è la­ sciato rappresentare, spesso ad opera di testimoni diretti; l'orrore si è lasciato coniugare perfino con la bellezza e la contemplazione. Ascoltiamo Simone de Beauvoir nella Prefazione al libro in cui Claude Lanzmann ha trascritto il testo integrale del suo film Shoah: «La coI3

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struzione di Claude Lanzmann non risponde a un ordine cronologi­ co, direi invece - se si può usare questo termine a proposito di un soggetto simile - che è una costruzione poetica. [ . . . ] Aggiungo che non avrei mai immaginato una simile mescolanza di orrore e di bel­ lezza. Certo l'una non serve a mascherare l'altro, non si tratta di este­ tismo: al contrario essa lo mette in luce con tanta inventiva e tanto rigore che siamo consci di contemplare una grande opera. Un puro capolavoro» 7. Se de Beauvoir non esita a considerare Auschwitz come un «sog­ getto» e Shoah come un «capolavoro» offerto alla nostra «immagina­ zione» ciò significa che il suo punto di vista è quello dell'estetica in senso moderno. Bisognerà soffermarsi sulle sue buone ragioni, prima di mostrare che «dopo Auschwitz» esse non lo sono più, prima di mo­ strare, cioè, che Auschwitz segna una svolta nel regime della rappre­ sentazione e del piacere estetico, e non solo di quello contemplativo. Il dispositivo concettuale presupposto dal commento che abbia­ mo appena ascoltato è quello che inaugura, nel modo più prestigio­ so, il paradigma dell'estetica moderna. Nella terza e ultima delle sue Critiche, la Critica della facoltà di giudizio (1790), Kant gli dà il nome di «idee estetiche»8• Si tratta di un nome significativo, quasi un os ­ simoro perché le «idee» - le idee razionali, i concetti con cui la ra­ gione pensa i fini e orienta l'agire - sono in via di principio irrap­ presentabili: «nessuna rappresentazione dell'immaginazione può es­ sere loro adeguata», dice Kant, e nessuna immagine sensibile (nes­ suna aisth esis) potrebbe esibirle in modo appropriato. Nella sezione della terza Critica che Kant riserva al «sublime», e che precede i capi­ toli dedicati all'arte e li prepara, si dimostra però come proprio que­ sta inadeguatezza dell'immaginazione sia tale da suscitare in noi il sen­ timento di una «destinazione soprasensibile»: di fronte allo spettaco­ lo di un cielo stellato noi avvertiamo con sgomento che non potrem­ mo mai procurarci un'intuizione (cioè un'immagine finita) dell'infini­ to, che pure pensiamo come «un tutto», ma questa impossibilità, per contro, ci fa sentire in accordo profondo con ciò che in noi «eccede ogni misura sensibile», e questo accordo profondo, pur connesso con un iniziale senso di impotenza e spaesamento, è appunto «sublime». La sublimità è dunque un modo di esperire l'infinito che abita il fini­ to, l'impresentabile sul cui sfondo si dà ogni presenza. 7· Cfr. C. Lanzmann, Shoah, Bompiani, Milano 2ooo, p. 8 . 8. Cfr. I. Kant, Critica della facoltà d i giudizio, Einaudi, Torino 1999, pp. 148-55 .

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È stato spesso osservato, per esempio da Jean-François Lyotard9, come la questione del sublime introduca il tema dell'irrappresenta­ bile al centro dell'estetica moderna. La modernità concepisce l'im­ maginazione come una facoltà che rappresenta, che mette in imma­ gine, ma la concepisce anche, e inseparabilmente, come una facoltà che trascende la rap-presentazione e piuttosto " presenta " , rende in qualche modo "presente" il fatto che «c'è dell'irrappresentabile». Con ciò avrebbe termine - posto che sia mai sul serio iniziato - il re­ gime della mimesis riproduttiva 10, l'idea che l'immagine non debba far altro che rispecchiare qualcosa che già esiste "là fuori" . È un' os­ servazione giusta ma parziale, che va integrata con quanto Kant met­ te in chiaro discutendo dell'opera d'arte. Secondo Kant, infatti, nel­ la grande opera d'arte, nell'opera geniale (nel «capolavoro») , l'im­ maginazione avrebbe precisamente il potere di esibire idee estetiche, le quali sono il «corrispondente (pendant)» delle idee razionali. Ma il modo in cui Kant enuncia questo parallelismo (o forse si dovreb­ be dire: questo chiasma che incrocia concetti non adeguatamente rappresentabili - le idee razionali - con rappresentazioni non ade­ guatamente concettualizzabili - le «idee estetiche») è di gran lunga più importante del parallelismo o del chiasma stesso. «Per idee este­ tiche - scrive - intendo quelle rappresentazioni dell'immaginazione, che danno occasione a pensare molto, senza che però un qualunque pensiero determinato, cioè un concetto, possa essere loro adeguato e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili» [corsivo mio] Le «idee estetiche», in altri ter­ mini, non solo mostrano un 'inesauribile eccedenza della forma sen­ sibile rispetto al lavoro dell'unificazione concettuale (o, se si vuole, un'eccedenza dell'immaginazione poietica e del senso rispetto all'in­ telletto discorsivo e ai significati linguistici; o ancora, una manifesta­ zione del potere di ridescrizione del mondo che l'immagine è capace di esercitare) , ma sono anche tali da "occasionare" molti pensieri, so­ no un'esemplare occasione donativa di pensiero e di linguaggio. An­ zi, per dirla fino in fondo (e un po' oltre la lettera del testo kantiano) , 11•

9· Cfr. J.-F. Lyotard, Leçons sur l'analitique du sublime, Galilée, Paris 1991; Id. , Anima minima, Nuova Pratiche Editrice, Parma 1995. 10. Sull'interpretazione autentica del concetto antico di mimesis cfr. , in/ra, i te­ sti di Ricoeur e Gadamer. Sulle differenze tra la poetica antica e l'estetica moderna, cfr. D. Guastini, Prima dell'estetica. Poetica e filosofia nell'antichità, Laterza, Roma­ Bari 2003. n. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 149. 15

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sono il modello eminente di un rapporto virtuoso tra un "dar da pen­ sare" e un "pensare" ciò che è dato (vale a dire: ciò che il pensiero non può che ricevere in dono dall'altro da sé perché non potrebbe darselo da solo). L'esperienza moderna dell'opera d'arte si lascia in larghissima parte ricondurre a questo fondamentale dispositivo estetico che co­ niuga il sublime, il felice difetto dell'immaginazione " rap-presentati­ va" , con il geniale, l'altrettanto virtuosa sovrabbondanza dell'imma­ ginazione produttiva, la sua capacità di arrischiarsi in territori ignoti per offrire al pensiero concettuale l'occasione di espandersi e al lin­ guaggio l'occasione di riorganizzarsi. Avremo modo di tornarci indi­ cando le linee portanti delle estetiche a carattere scientifico (quelle linguistiche e semiotiche in particolare) come anche, almeno in par­ te, di quelle fenomenologiche (che, per altri versi, dovranno distan­ ziarsi in modo sostanziale da questa poiesis donativa) , e ne vedremo infine un significativo ritorno nelle domande che l'immagine cine­ matografica ha saputo porre al suo statuto insieme produttivo e ri­ produttivo, poietico e documentale. Qui va invece osservato che, nel trattare l'opera d'arte in termini di «idee estetiche», Kant non fa al­ cun accenno tematico alla questione del " piacere" - che invece sus­ siste nel sublime come «piacere negativo», piacere legato a uno spae­ samento e a un'impossibilità. Gli si può senz' altro attribuire, tuttavia, il presupposto secondo cui il sentimento di quella generale e profon­ da riorganizzazione dell'esperienza che è in gioco nell'arte sia, ap­ punto, una peculiare forma di piacere, il piacere della comprensione colta allo stato nascente: insomma, il piacere di quella poiesis creati­ va (e ricettiva) che mentre dà forma alla materia sensibile (o la rice­ ve) , la coordina anche con «molti pensieri». In altre parole, l'espe­ rienza dell'opera d'arte non è mai concepita da Kant nei termini del­ la quieta contemplazione del bello (e dunque ha ragione chi tende a correlarla con l'inquietudine del sublime) , ma ciò che più importa è che l'estetica moderna ha ereditato da lui proprio il carattere attiva­ mente poietico dell'opera, la sua capacità di rimettere in questione l'esistente rimodellandolo secondo nuove regole di comprensione, sia sul versante produttivo sia sul versante ricettivo; la sua capacità, infine, di riconfigurare interminabilmente i rapporti tra l'irrappre­ sentabile e la rappresentazione, l'indicibile e il linguaggio. Resta da domandarsi, prima di procedere oltre, se e fino a che punto questa concezione dell'opera - i cui vantaggi esplicativi sono sotto gli occhi di tutti - possa avere ancora corso quando la questione dell'irrapr6

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presentabile e dell'indicibile assume i l profilo (o si rifiuta d i assu­ merlo) dell'orrore dei campi. Se torniamo al giudizio espresso da de Beauvoir sul film di Lanz­ mann, ci rendiamo facilmente conto dei pregi e dei limiti di una ta­ le concezione. Nessun dubbio che il film di Lanzmann dia molto da pensare. Nessun dubbio che la materia sensibile (le immagini) orga­ nizzata in quel film ecceda, e di gran lunga, i concetti che vi si pos ­ sono e vi si debbono correlare, contribuendo, così, ad attivare una riflessione che non avrebbe alcuna ragione di acquietarsi in un pa­ cifico afferramento conclusivo. Nessun dubbio, infine, che il " pia­ cere estetico " congiunto a questa complessa esperienza ricettiva non abbia nulla di edonistico, di euforico, o di gratificante e assomigli, piuttosto, a una " passione" nel senso greco del termine. Più che di un piacere, infatti, si tratta di un pathos che attira il pensiero fin den ­ tro l'orrore che esso forse non vorrebbe assumere come sua materia (il «soggetto» di cui parla de Beauvoir) mentre già si sorprende a do­ versi riconoscere proprio in questo movimento ambivalente (come nel sublime) , e cioè a pensare l'impensabile nell'occasione di una forma sensibile che glielo " dona" , sì, ma come un dono che com­ porta un obbligo infinito. E, tuttavia, questa descrizione per tanti versi adeguata non ci soddisfa fino in fondo, e anzi ci disturba . Ci di­ sturba perché noi sentiamo che qui l'orrore dei campi è stato schiac­ ciato sulla questione più generale dell'irrappresentabile " in quanto tale " ; e dunque avvertiamo che in questo modo non gli rendiamo giustizia perché gli stiamo togliendo ciò che ha di più " proprio " 12 e che reclama testimonianza, che vuol essere " rappresentato " anche nel senso giuridico del termine. E allora ci si fa chiaro che questa " proprietà, inalienabile e non generalizzabile resta, nell'essenziale, estranea al paradigma moderno della rappresentazione dell'irrap­ presentabile - per il quale, come abbiamo appena visto, siamo già del tutto preparati e concettualmente attrezzati - perché piuttosto allude al paradosso di una testimonianza inattestabile- per il quale invece siamo ancora largamente impreparati e sforniti di appropria­ ti strumenti concettuali. Il punto allora è: questi strumenti ce li potrebbe fornire un 'este­ tica o non dovremmo piuttosto andare a cercarli altrove? O anche: 12. Su questo punto ha richiamato l'attenzione, con finezza, J acques Rancière in S'il y a de l'irreprésentable, in AA.W., !}art et la mémoire des camps. Représenter. Ex­ terminer, Seuil, Paris 2001, pp. 81-102.

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possiamo ancora chiamare "opera d'arte" l'occasione che potrebbe volerceli suggerire, o questa nozione - opera d'arte - ne risulterebbe già così profondamente alterata da non potersi più collocare nel qua­ dro categoriale dell'estetica in senso moderno? In altre parole, l'estetica e l'arte in senso moderno ci hanno da lun­ go tempo addestrati, e perfino assuefatti, al compito poietico di "dire l'indicibile" o di annunciare "che c'è dell'irrappresentabile" . Ciò che invece sembra ricacciare entrambe in una condizione di sostanziale in­ digenza è il compito etico di " attestare l'inattestabile" . Ma, infine, per­ ché l'arte e l'estetica dovrebbero farsi carico di un compito etico? For­ se perché un compito del genere le attraversa in modo costitutivo (e questo, in fondo, lo vediamo con relativa facilità) 13, ma anche perché, se si tratta dawero di una costitutiva dimensione etica e non di una ge­ nerica attitudine a incidere sul mondo della praxis, questo compito non può che tormentarle nel profondo precisamente in questo: che al­ cuni eventi inauditi - e Auschwitz è uno di questi - le obbligano a ri­ pensare integralmente il rapporto tra la poiesis e la praxis. In modo tal­ mente integrale da arrivare a porre alla poiesis una richiesta brutale sul suo diritto di prelazione: «Che ci si lasci in pace con il poiein e altre sciocchezze del genere», scrive Celan a un amico14• E intende dire - lo si leggerà nelle nitide e ardue pagine del Meridiano qui antologizzate ­ che il poema non è niente di poietico, nel senso che non ha di mira, in­ nanzitutto, la messa in forma delle cose, quanto «la rettitudine della re­ sponsabilità [verso l'altro] , prima ancora di ogni apparizione di forme, di immagini, di cose», secondo il commento di Lévinas 15, che meglio di chiunque ha saputo interpretare il gesto iconoclasta di Celan 16• È stato Giorgio Agamben - in diverse circostanze e nell'ambito di una com p lessa proposta filosofica che talora non può sottrarsi dal­ l' assumere i temi dell'estetica - a porre la questione della testimo­ nianza inattestabile nel modo più radicale17• La radicalità sta in que13. Il tema, come si vedrà, percorre con pochissime eccezioni i contributi antologizzati in questo libro. 14. Cit . in E. Lévinas, Nomi propri, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 51. 15. lvi, pp. 47-54. 16. Aggiunge Lévinas: «Le cose appariranno, certo- il detto di questo dire poe­ tico; ma all'interno del movimento che le porta all'altro, come figura di questo mo­ vimento» (ivi, p. 51) . 17· Cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. /;archivio e il testimone, Bol­ lati Boringhieri, Torino 1998. Dello stesso autore sono da vedere anche Homo sacer, Einaudi, Torino 1995 e Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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sto: che per Agamben l'inattestabile, ciò che non h a parola e sfugge a ogni presa diretta della parola, è non solo l'oggetto della testimo­ nianza ma anche la sua più autentica condizione di possibilità. Testi­ moniare di Auschwitz, così, non significa solo parlare in nome di chi non ha parola. Non significa solo parlare in nome dei «musulmani» - come erano chiamati coloro che il campo aveva espropriato di ogni capacità di resistenza per cui, ben al di là della più terribile degrada­ zione della vita, essi si awiavano verso una morte «che si esita a chia­ mare morte» (Primo Levi, citato da Agamben) , incarnando «l'orrore speciale che il musulmano introduce nel campo e che il campo in­ troduce nel mondo»: «che la morte di un essere umano non possa più essere chiamata morte (non semplicemente che non abbia importan­ za - questo è già successo - ma che precisamente non possa essere chiamata con quel nome)»18• Non significa solo tutto questo, ma an­ che e più essenzialmente che «Auschwitz fu un evento unico di fron­ te al quale il testimone deve in qualche modo sottoporre ogni sua pa­ rola alla prova di un 'impossibilità di dire». Il che significa, infine, che proprio da questa situazione paradossale risulta che «l'autorità del testimone consiste nel suo poter parlare unicamente in nome di un non poter dire» [corsivo mio] . Agamben invita a riconoscere nella condizione estrema che, so­ la, può fondare l' auctoritas del testimone, un movimento linguistico che va nello stesso senso del gesto del poeta, «dell' auctor per eccel­ lenza». «La tesi di Holderlin - scrive - secondo cui " ciò che resta, lo fondano i poeti (Was bleibet, stt/ten die Dichter)" non va intesa nel senso triviale secondo cui l'opera dei poeti è qualcosa che dura e ri­ mane nel tempo. Essa significa, piuttosto, che la parola poetica è quella che si situa ogni volta in posizione di resto, e può, in questo modo, testimoniare. I poeti - i testimoni - fondano la lingua come ciò che resta, che soprawive in atto alla possibilità - o all' im possi­ bilità - di parlare» 19. Come si vede, lo spostamento dall'irrappresentabile all'inatte­ stabile non è senza conseguenze per la comprensione dello statuto dell'arte «dopo Auschwitz». In realtà, le osservazioni di Agamben sul linguaggio del poeta - che restano, sì, marginali nell'economia generale del suo testo e tuttavia vi assumono il rango di un'esem-

18. Agamben, Quel che resta d i Auschwitz, cit ., p . 64. 19 . lvi, pp. 150-1.

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plarità che richiede di essere ulteriormente interrogata - si rivelano molto utili per raggiungere alcuni chiarimenti a proposito delle tesi estetiche di Adorno; con le quali, del resto, convergono in modo so­ stanziale, se si pensa che la definizione del testimone come colui che può e deve «parlare unicamente in nome di un non poter dire» coin ­ cide senza residui con quanto Adorno dichiara, a proposito dell' ar­ te, nella sua Teoria estetica . E va sottolineato che, in entrambi i ca­ si, a fare la differenza con il paradigma moderno del " dire l'indici­ bile" - che è un paradigma opzionale - sta precisamente quell' av­ verbio - «unicamente» - che ne marca il tenore etico, trasformando l'opzione in un dovere. In primo luogo, dovrà dunque essere chiaro che la sentenza di Adorno, qualunque sia la sua formulazione testuale (e abbiamo visto che ce ne sono diverse) 20, sta comunque a significare che Auschwitz delinea uno spartiacque decisivo perché l'evento disumanizzante che vi si è consumato ha l'effetto di aver messo fuori gioco il regime rap­ presentativo della modernità e, più precisamente, la sua piena fami­ liarità con la presentazione dell'irrappresentabile e con la funzione poietica dell'arte (nel senso che abbiamo indicato riprendendo, e perfino estendendo, il concetto kantiano di «idee estetiche») . C'è dunque, dawero, un tratto hegeliano nella posizione di Adorno: nel­ le sue Lezioni di estetica , come si è già osservato all'inizio, Hegel 21 aveva potuto sostenere che dopo l'evento storico del cristianesimo i contenuti spirituali decisivi di una comunità non avrebbero mai più potuto farsi adeguare da una forma sensibile cosicché l'arte avrebbe dovuto continuare a sussistere solo riconoscendosi in questa perdita definitiva del primato che era già stato il suo e assumendola riflessi­ vamente (o teorizzando il paradosso di un'immediatezza riflessa) ; al­ lo stesso modo, Adorno vede in Auschwitz un fatto storico che va a incidere direttamente e irreversibilmente sullo statuto della rappre­ sentazione e del piacere estetico, i quali debbono sapersi ripensare sul piano di un'etica della forma. Non che, «dopo Auschwitz», non possano più comparire opere d'arte, anche grandi, nel senso estetico moderno. Il problema, piut­ tosto, è che quelle opere che non sappiano mettersi all'altezza del compito etico estremo posto da Auschwitz, quelle opere che non sa p20. Sul senso delle diverse declinazioni del verdetto di Adorno, cfr. E. Ferra­ rio, Adorno-Ce/an. Colloquio sulla poesia, relazione inedita presentata al convegno Theodor W Adorno I90J-200J. r;estetica. r;etica, Roma 16-18 ottobre 2003. 21. Hegel, Lezioni di estetica, cit .

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piano condurre fino a un'interpretazione formale la stessa messa in crisi della loro natura poietica, saranno condannate senza appello a farsi riassorbire nel meccanismo micidiale dell' «industria culturale», che tutto confonde e tutto finalizza nel suo potente sistema di sup­ porto alla produzione e riproduzione del mondo in cui Auschwitz è stato ed è ancora possibile. Se questo è, a grandi linee, il quadro che fa da sfondo alla do­ manda che Auschwitz ha posto all'arte e alla riflessione sul senso del­ l' arte, si tratterà ora di vedere in che modo l'estetica della seconda metà del XX secolo, di cui questo libro intende fornire una mappa si­ gnificativa, l'abbia assunta e abbia provato a darle risposta, o anche con quali argomenti abbia cercato di aggirarla o di attenuarla o di elu­ derla. Ma dovrà essere fin d'ora chiaro che non potrebbe risultarne in nessun caso una proposta coerente e omogenea - qualcosa come un'estetica della tarda modernità - perché si tratta, piuttosto, di un insieme eterogeneo di posizioni, talora in contrasto, più spesso in dia­ logo, nelle quali l'elemento comune non va molto oltre l'urgenza di un ripensamento, o di un superamento, del paradigma poietico del­ l' estetica in senso moderno. Ciò non significa che questo libro ri­ nuncerà a prendere posizione. Al contrario, la sua ambizione è quel­ la di delineare un percorso motivato e di mostrarne, via via, i raccor­ di, assumendo da ultimo (CAP. 6) la responsabilità di indicare un pos­ sibile terreno di rilancio progettuale. 2. Due punti, in particolare, sono emersi dalla discussione condot­ ta fin qui. Il primo riguarda la questione del "piacere estetico " che anche nella sua forma più nobile, quella di un "piacere della com­ prensione " , ci ripugnerebbe associare alla testimonianza dell' orro­ re. Il secondo riguarda la valenza etica dell'arte, che sembrerebbe volersi emancipare dal suo vincolo con la poiesis per farsi ricono­ scere in una più ardua funzione testimoniale, quella di «poter parla­ re unicamente in nome di un non poter dire». Su entrambi i punti, le prospettive aperte dagli autori presentati nell'antologia offrono una pluralità di interpretazioni che dev'essere assunta nella sua ca­ pacità di dialogare con le tesi di Adorno, non tanto per contrastar­ ne la radicalità - anche se questo è l'intento esplicito di Jauss (PAR. 5.!) e, a titolo assai diverso, di Celan (PAR. 4.3) - quanto per meglio definirne la posta. Adorno, infatti, mette fuori gioco il piacere este­ tico per assumerlo solo in negativo, ma questa opzione non sottrae per nulla la sua teoria alla tutela dell'estetica in senso moderno che 21

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anzi, lo abbiamo visto, eredita dal sublime kantiano la cifra essen­ ziale di questa negatività. La questione del " piacere" , in realtà, deve essere distinta da quel­ la assai più ampia del "sentire" , di cui non è che una forma derivata. Kant lo sapeva benissimo quando intrecciava nella definizione del sentire sia l'accordo occasionato dal bello sia il disaccordo occasio­ nato dal sublime e li poneva entrambi (piacere e dispiacere) a fon­ damento del giudizio estetico - che per lui, si badi, non è affatto un giudizio sulle opere d'arte (come si continua a dire con ingiustifica­ bile abbaglio) , ma è il rappresentante empirico e contingente di un 'a­ pertura originaria al " senso " : qualcosa che riguarda la possibilità del­ l'esperienza in genere, compreso quel modo particolare di esperire che è il conoscere 22• Si dovranno far valere allora, su questo punto, le ragioni dell'e­ stetica di orientamento marxista (CAP. I) e delle estetiche di tipo scien­ tifico (CAP. 2) , che restano ragioni diverse e non comparabili se non in questo: che il tema del sentire vi gioca un ruolo di primo piano sporgendosi, rispettivamente, sul problema (etico-politico) del valo­ re critico ed emancipatorio dell'arte e su quello (epistemologico) del­ la sua esemplarità in quanto peculiare esperienza cognitiva. Lo stes­ so tema - ma lo vedremo più avanti - coinvolge in parte le estetiche fenomenologiche (CAP. 3) e quelle di ascendenza ermeneutica (CAP. 5), con la differenza che in queste ultime due si fa avanti il tema dell'al­ terità, ossia una declinazione specifica (benché, a sua volta, irriduci­ bile a un fondamento univoco) dell'importo etico dell'esperienza estetica. Basteranno qui poche indicazioni di lettura da integrare con quel­ le, molto più ampie e pertinenti, presentate nei testi che introducono i brani antologizzati. Che autori di ascendenza marxista come Brecht, Lukacs , Sartre, Marcuse e Bloch si sentissero direttamente investiti dalla provoca­ zione di Adorno è evidente. È meno ovvio, invece, che la loro dife­ sa dell'arte faccia leva su motivazioni volte a tener fermi i valori uni­ versali dell'esperienza estetica e, in particolare, quella sua «amicizia col sensibile» (per dirla con le parole di Hegel) che la razionalità moderna mortificherebbe proprio perché ne teme il potere critico22. Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso. r:estetica, filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari 1986; Id . , Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992; Id. , In­ troduzione, in Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit . , pp. XI-LXXXV .

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eversivo e utopico-progettuale. Sotto u n certo profilo, comunque determinante, questa filosofia dell'arte, in genere affrettatamente ri­ condotta nel contesto di una poetica dei contenuti, appare in tal mo­ do largamente in debito con l'idea schilleriana di un' «educazione estetica» 23 intesa come compito interminabile di umanizzazione del­ l'uomo. Ma è interessante che il profilo in questione sia, precisa­ mente, un profilo "critico " nel senso kantiano del termine (e infatti Schiller fu, senza alcun dubbio, il miglior interprete dell'estetica di Kant, cui si preoccupò di annettere un progetto politico senza for­ zarne in nessun modo l'impianto) , per cui al di là delle differenze, che restano rilevanti, l'opzione di fondo di cui i testi antologizzati of­ frono un 'ampia rassegna consiste proprio nel procedere a una per­ vasiva riabilitazione del sensibile (dell' aisth esis che lo coglie e della forma che lo fissa) e nell'attualizzare storicamente la missione uni­ versale dell'arte, intendendola come capacità di s-figurare in modo ironico la pretesa alla necessità esibita dall'esistente, di con-figurar­ ne l'opaca potenza nei termini di una mimesis spietata e disvelante e, infine, di pre-figurare tutto il possibile che l'esistente stesso tiene sequestrato in una zona di interdizione iperprotetta e tuttavia pene­ trabile. Il giudizio critico e la progettazione utopica, in altri termini, passano per una via patemica e il sentire è il loro veicolo più effica­ ce, proprio in quanto ne costituisce, in ultima analisi, la più origina­ ria condizione di possibilità. L'arte, così, non può indietreggiare di fronte allo scandalo della disumanizzazione (nel quale la Shoah non avrebbe particolari motivi per rivendicare la sua irriducibile singo­ larità) perché, piuttosto, è tenuta ad assumerlo come un luogo emi­ nente del riconoscimento cui l'uomo storico è interminabilmente chiamato dal suo esser-uomo, dalla sua " umanità" . Altrettanto universalistica è la proposta delle estetiche di tipo scientifico e analitico. Nei due casi, infatti, l'arte si legittima a parti­ re dalla sua capacità di manifestare e di tenere in esercizio aspetti del linguaggio e dell'attività cognitiva che risultano costitutivi sia per l'u­ no che per l'altra. Per un linguista come Jakobson (PAR. 2.I) , infatti, il testo poetico - in sé storico e contingente - non fa che conferire un'evidenza empiricamente registrabile e positivamente analizzabile 23. Sulla peculiare elaborazione critica delle schilleriane Lettere sull'educazione estetica dell'uomo mi permetto di rinviare a P. Montani (con A. Ardovino e D. Gua­ stini) , Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea. Un'introduzione all'e­ stetica, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 222-39.

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a una delle condizioni di possibilità - necessarie e sovrastoriche - del linguaggio in quanto tale: vale a dire, la facoltà di dissociare il segno dal riferimento e di farcelo in tal modo sentire nella sua disponibilità per nuove descrizioni del mondo. Analogamente, per un filosofo co­ me Goodman (PAR. 2-4), l'esperienza estetica non è che una modalità peculiare del nostro lavoro simbolico e l'opera d'arte non è che un dispositivo per elaborare costrutti cognitivi specificamente orientati a metterne in evidenza e a tenerne in esercizio le insurrogabili com­ ponenti patemiche - vale a dire quel " sentire " da cui la conoscenza rigorosa è tenuta a distinguersi solo in quanto ne ha potuto benefi­ ciare nella sua fase istruttoria, e a cui deve far comunque ricorso ogni volta che aspira a rinnovarsi. Posizioni largamente conformi si regi­ streranno in autori come Lotman (PAR. 2.2) ed Eco (PAR. 2.3 ), sul ver­ sante della semiotica, e come Levinson (PAR. 2. 5), sul versante della fi­ losofia analitica. Ci si deve domandare a che titolo queste tesi che sembrerebbero garantire il sicuro radicamento dell'arte nell'ambito delle prestazio­ ni simboliche dell'uomo in genere possano dialogare con quelle di Adorno. La risposta è che se in esse il problema del piacere estetico non può più confondersi con la trivialità «gastronomica» di una sem­ plice gratificazione (sensuale o culturale è lo stesso) , allora si do­ vrebbe chiedere ad Adorno fino a che punto la sua teoria estetica, che non senza ragioni profonde può arrivare a considerare il piacere come «un atto di barbarie», potrebbe riservare la stessa condanna al " sentire" che l'arte esemplarmente mette in opera. Ma è anche evi­ dente che, una volta attivato il dialogo sui termini autentici del pro­ blema, l'ipoteca metastorica, che senza alcun dubbio grava (forse, in parte, inavvertitamente) sulle posizioni delle estetiche marxiste e (consapevolmente) sulle tesi delle estetiche scientifiche, dovrebbe essere francamente rimossa. In questo senso, si leggeranno i contri­ buti di Rorty (PAR. 2.6) e di Garroni (PAR. 2. 7 ) come due vie di fuga - pragmatica la prima, critica in senso radicale la seconda - da un 'i­ stanza fondativa che proprio nel farsi garante di una qualche "neces­ sità" dell'arte la espropria della forza che essa può ricavare solo dal­ la sua impregiudicata contingenza. Per Rorty, infatti, l'arte non è che un modo per salvare le ragioni delle singolarità. Come già a suo tem­ po aveva ben compreso Hannah Arendt interrogando la terza Criti­ ca kantiana 24, l'orizzonte del giudizio estetico (cioè l'orizzonte del 24. Cfr. H. Arendt, Teoria del giudizio politico, il melangolo, Genova

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"sentire" o del "senso" che noi uomini possiamo condividere proprio perché non smettiamo di ridisegnarne i confini) si apre sullo spazio della pluralità e delle irriducibili singolarità. In una parola, esso si apre sulla scena del "politico " . E dunque l'arte - così la pensa Rorty - è intimamente politica perché non riguarda in nessun caso l'uomo (l'esser-uomo dell'uomo) ma gli uomini, delle cui ragioni, di volta in volta singolari, si fa rappresentante (e allora si capisce perché Rorty possa accordare al romanzo un indiscutibile primato). Da parte sua Garroni, spingendo ai limiti estremi (e dunque fino al suo più genui­ no statuto liminare) il pensiero critico kantiano, avverte che non sus­ siste alcuna garanzia che l'arte, in quanto esemplare portatrice della questione del senso e del sentire, possa aspirare a una qualche sovra­ storica universalità. Al contrario, la delega del tutto provvisoria che la modernità le ha conferito può venir meno in ogni momento, e an­ zi oggi (dopo Auschwitz? Certo, dopo Auschwitz) essa sembra pro­ prio essersi consumata, potendo continuare a resistere (si tratta in­ fatti di un atto di resistenza) solo a condizione di assumere in modo esplicito e problematico (e dunque con un insuperabile importo di autoriflessività) il compito che fu per lungo tempo il suo. Il che si­ gnifica, infine, che la saldatura tra l'etico e l'estetico ne risulta evi­ denziata e rafforzata, con singolare ritorno del tema del «poter par­ lare unicamente in nome di un non poter dire» che Garroni ricono­ sce perspicuamente nell'opera di Thomas Bernhard. Le due "vie di fuga" , rispettivamente di Rorty e di Garroni, in­ troducono in un territorio in cui tutto si ridefinisce perché nulla è più garantito 25 - benché questa infondatezza sia l'esito imprevedibile (ma ciò vale solo per la riflessione di Garroni) di un pensiero che muove da un 'interrogazione sulle condizioni universali e necessarie del com­ prendere e vi resta fino in fondo, senza alcun esonero relativistico. Ciò che si va profilando in questo territorio è una diversa definizio­ ne dei due problemi - il sentire e gli aspetti etici dell'esperienza este­ tica - da cui abbiamo preso le mosse: a questa altezza del percorso ne vediamo meglio la connessione, ma anche - e il salto è brusco e può lasciare interdetti - la grande incertezza progettuale. Il capitolo " fenomenologico " di questa antologia ce ne restitui­ sce una declinazione essenzialmente orientata sul senso dell'alterità

25. Prescindo qui dalla critica diretta che Garroni muove a Rorty cogliendo nel­ la sua definizione neopragmatica dell'arte un modo per garantirne la persistenza gra­ zie anche all'indistinzione con la filosofia.

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- o meglio sui suoi diversi sensi, se è vero che l' " altro" si lascia pen­ sare sia sotto un profilo antologico (come ciò che concede la pre­ senza ma non ha luogo tra gli enti presenti se non nel modo della sot­ trazione o della differenza), sia sotto un profilo ontico (come l'altro uomo, la singolarità irriducibile) : in entrambi i casi, dunque, po­ nendo alla "manifestazione" (all'apparire) il problema ineludibile dei suoi limiti e delle sue condizioni in-apparenti. Ma se in Merleau­ Ponty (PAR. 3 . 1 ) la questione riesce ancora ad attestarsi su uno sfon ­ do poietico, facendosi esemplificare dall'interminabile configura­ zione del mondo visibile cui lo sguardo del pittore (l'in-apparente che di quel mondo è parte) conferisce la facoltà di manifestarsi sem­ pre di nuovo «allo stato nascente», in Lévinas (PAR. 3 . 2) e Derrida (PAR. 3.4), sia pure con diverso grado di emarginazione, il " fare" del­ l' arte tende a ritirarsi (e il salto, qui, è addirittura vertiginoso) in una zona in cui la donatività del sensibile non ha più corso, traducen ­ dosi in figure di scrittura, in protesi di un ' aisthesis " iconoclasta" te­ se all'intercettazione di qualcosa che può darsi (donarsi) solo nella forma irriducibile del volto (Lévinas) o in quella paradossale della «data» (Der rida) . Ossia, rispettivamente, come precedenza dell'al­ tro, che ci obbliga alla responsabilità, o come sua traccia assoluta­ mente singolare e non condividibile che nondimeno - ecco un "nuo­ vo" , paradossale statuto per la poiesis, o più precisamente per la "poesia" - non rinuncia a muovere verso un possibile spazio di con­ divisione - quello stesso spazio di cui, appunto, il «meridiano» trova­ to da Celan (PAR. 4. 3) ritaglia virtualmente la s-partizione del proprio con altri. In Blanchot (PAR. 3.3 ), infine, l'istanza "iconoclasta" sembra chiudersi su se stessa e autoesibirsi nella sua impossibilità di addurre testimonianza dell'altro perché «Non c'è racconto di Auschwitz» se non , appunto, la scrittura che ne dice il ritorno agli inferi, lo sprofondamento nell'oblio quale fu, per Euridice, lo sguardo «incu­ rante» di Orfeo, concentrato sul salvataggio dell'opera irrealizzabi­ le (e non ancora iniziata) e non della vita (che già si è ritratta preci­ samente là dove la scrittura inizia) . Al d i l à dell'asprezza d i queste posizioni (con l'esclusione di quel­ la merleau-pontyana) - che si valuteranno singolarmente, con l' ausi­ lio degli apparati introduttivi - lo sforzo di questo gruppo di autori è in tutta evidenza quello di delineare per l'arte e per la scrittura poe­ tica una sfera di azione che riesca a raccogliere dall'estetica in senso moderno nient'altro che l'esposizione etica: il debito (forse insolvibi­ le) con l'altro e con il pre-cedente che ci tiene in ostaggio, l' assogget-

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tamento nei confronti d i ciò che mette in presenza m a non è dell'or­ dine della presenza, la dipendenza da ciò che consente il discorso (il «detto» in Lévinas) ma non è dell'ordine del discorso (il «dire» in Lé­ vinas , la «scrittura» in Derrida, l' «opera» di Blanchot) . Tutte figure, come si vede bene, dell'attestazione dell'inattestabile, ora aperte al possibile, ora sigillate in una chiusura awertita come l'unico modo di fare spazio all'altro: forme eminenti, in ogni caso, della disciplina te­ stimoniale che l'arte ha sentito di doversi dare dopo la svolta di cui stiamo esplorando gli esiti. La tensione tra poiesis e testimonianza, del resto, raggiunge qui il suo punto più alto, tanto da rendere addirittura plausibile (in Lévi­ nas , per esempio) il collasso effettivo della parola di fronte all'esor­ bitanza del compito di raccogliere in un «detto» l'istanza del «dire» che gli è totalmente altra. E tuttavia è significativo che tra il capitolo fenomenologico e quello che segue, dedicato alle prospettive di un'e­ stetica " teologico-politica" , sia stato possibile istituire almeno due ri­ levanti aree di intersezione nelle quali, rispettivamente, si consolida l'idea che la " poesia" possa e debba ricomporre in modo inedito il territorio che fu della poiesis- è il caso di Celan (PAR. 4.3) il cui testo è in larga parte l'oggetto delle considerazioni svolte da Derrida nel capitolo precedente - e si rovescia, almeno in parte, l'interdetto levi­ nasiano per opera dello stesso Lévinas , che qui ricompare in qualità di autore di uno schietto riconoscimento del valore di verità (che per lui significa verità testimoniale) imputabile a un testo di finzione - te­ ma che tornerà, con differenti argomentazioni, in Jiinger (PAR. 4. 2), Ricoeur (PAR. 4. 5), Bachtin (PAR. 4.8) e Pareyson (PAR. 4. 7 ) e, in forme ancora diverse, nel CAP. 6. Ci troviamo di fronte, dunque, a un' ulteriore svolta, o meglio, a un "tornante" , a un movimento di ritorno che ci presenta il medesi­ mo tema (quello della poiesis) sotto un profilo che aspira a riorien­ tarlo in modo autentico dopo lo sviamento subito nell'ambito del­ l' estetica in senso moderno e, più profondamente, dopo le trasfor­ mazioni con cui il mondo della tecnica lo ha assunto fino a inten­ derlo, secondo l'analisi adorniana, come produzione industriale di beni culturali. Il che non significa affatto, si badi, decidere che la " poesia" andrebbe risarcita di un legame col sacro che l'epoca della tecnica e del nichilismo avrebbe, per l'appunto, nullificato; al con­ trario, significa rimetterla, o più precisamente, riscoprirla nel fram ­ mezzo tra l'umano e il divino alla ricerca - arrischiata, infondata, ipotetica - delle nuove misure che potrebbero ancora renderlo ahi27

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tabile per l'uomo di oggi, per l'uomo che viene dopo Auschwitz (PAR. 4.3 ) e che si sente assediato dal nulla (PAR. 4.2). Così, Heidegger (PAR. 4. 1 ) , cui è affidato il compito di aprire il CAP. 4 all'insegna di questo ripensamento della poiesis, intende la poesia come un condurre a pa­ rola le misure decisive dell'abitare storico dell'uomo e può persua­ sivamente collegarla a un modo della poiesis che concepisce il " fare" nei termini di un essenziale «ricevere» o «attingere» - e se ne veda la peculiare ripresa in un teologo come Balthasar (PAR. 4.6) -, nei ter­ mini, cioè, di una passività o di un patire capaci di esporsi all' estra­ neità del divino (nessuno spazio è così intimamente straniero all'uo­ mo quanto lo è quello che si è aperto tra il dio sicuramente fuggito e il dio che forse viene) , accogliendo il rischio di farsi ricettacolo dei suoi cenni possibili. Ma, nel contesto di questa decisiva ridefinizione del poietico, le posizioni, come si vedrà, sono molto differenziate. Il lettore se ne farà un'idea avvalendosi anche di apparati introduttivi cui è stato neces­ sario accordare uno spazio più ampio del solito. Qui, dev'essere sot­ tolineato un punto che merita un'attenzione particolare. In tutti gli autori presenti nel CAP. 4, infatti, si fa strada la persuasione che ri­ flettere sulla poiesis nell'orizzonte testimoniale del sacro significa an­ che, e necessariamente, riflettere sul rapporto tra arte e pensiero. Si ricorderà, allora, che questo rapporto noi lo abbiamo già incontrato: precisamente nel cuore di quell'estetica in senso moderno che l'e­ vento storico di Auschwitz avrebbe messo in questione e revocato. Come si deve interpretare questa ripresa? Non certo come un ritor­ no su posizioni pregresse, ma appunto come una loro ri-presa radi­ cale. Non basta dire che l'opera d'arte " dà da pensare", si deve dire, piuttosto, che l'opera sarà tale se e solo se sarà capace di occasionare pensiero. Ma si deve anche aggiungere che il pensiero cui l'opera ri­ lascia ciò che dev'essere pensato non potrebbe esonerarsi dal man­ dato, che il " dono" poietico gli conferisce come un obbligo, di rico­ noscersi in un debito costitutivo con un orizzonte determinato della praxis (quello del nichilismo, o della tecnica, o della duplice assenza del divino) . L'obbligo, insomma, a " uscire fuori di sé" , come già l'o­ pera ha dato segno di saper fare, per inserirsi nel «mondo dell'agire e del patire» (Ricoeur) facendosi altro: azione resistenziale Gunger) , o profetica in senso rigoroso (Heidegger) o, infine, politica nel senso «chenotico» (Bachtin , Balthasar, Pareyson ) del Cristo che scende tra gli uomini e si confonde con essi, come nella dostoevskijana Leggen­ da del grande inquisitore.

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Questa soglia segna i l passaggio a l CAP. 5, dedicato a i rapporti tra estetica e filosofia pratica, o praxis tout court, quali si prospet­ tano in alcuni autori più o meno direttamente riconducibili all'area ermeneutica. L'averne collocato solo a questa altezza le proposte sostanzialmente conciliate potrebbe sembrare discutibile, ma la scelta si giustifica col fatto che l'ermeneutica ha saputo dar forma allo sconfinamento pratico dell'esperienza estetica con una fran ­ chezza che è difficile ritrovare in altre linee disciplinari. Così, ciò che questi testi perdono in radicalità lo acquistano in positiva e per­ spicua progettualità, ma il loro rapporto con le linee discusse nel capitolo precedente dev'essere tenuto ben in vista (come del resto è ribadito dalla presenza, in entrambi i capitoli, di un filosofo co­ me Ricoeur) . Ma in che modo, dunque, il "positivo" si ritaglierebbe uno spa­ zio nell'ambito di una direttrice di pensiero le cui prime movenze traggono origine dalla dialettica "negativa" di Adorno? Per J auss (PAR. 5 . 1 ) , che apre il capitolo, non ci sono dubbi: con il loro intolle­ rante ascetismo le tesi adorniane sull'autonomia dell'opera non solo inibiscono ogni seria interpretazione pratica delle tre funzioni eser­ citate dall'arte (poiesis, aisthesis, katharsis) ma impediscono anche di cogliere gli importanti aspetti etici presenti nel fenomeno estetico di base che, per Jauss, resta quello del godimento. A condizione, però, di intendere quest'ultimo come una forma particolare di «piacere comprendente», e precisamente come un «godimento di sé nel go­ dimento dell'altro» 26 , un modo di restituire l'espressione "piacere " ( Genuss) alla sua più originaria radice linguistica, vale a dire a quel geniessen che designa il fruire di un bene e al tempo stesso e indis­ sociabilmente il condividerlo con altri. Jauss si astiene dall'interro­ gare criticamente lo schietto soggettivismo poietico (mediato da Valéry) che sostiene la sua proposta, ritenendolo evidentemente compensato dall'apertura intersoggettiva che per lui è parte inte­ grante dell'esperienza estetica di base, cioè del piacere compren­ dente. Ciò lo colloca in una linea di discendenza kantiana assai più diretta di quanto l'autore (che talvolta legge Kant in modo inade­ guato) non supponga. Un processo di esplicita e intransigente desoggettivazione è in­ vece all'opera nella proposta estetica integrata nell'ermeneutica filo26. Cfr. H. R. Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria I. Teoria e sto­ ria dell'esperienza estetica, Il Mulino, Bologna 1987, p. 101.

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sofica di Gadamer (PAR. 5.2) , di cui le considerazioni sul gioco, in quanto esperienza irriducibile alla contrapposizione soggetto/ogget­ to, ci forniscono il paradigma primario. A imporsi, qui, è il movi­ mento dell'assunzione critica dei contenuti trasmessi, rispetto ai qua­ li il "soggetto" sconta di necessità una posizione passiva: la tradizio­ ne a cui apparteniamo, infatti, dispone di noi almeno quanto noi di­ sponiamo dei suoi contenuti, ma in ogni caso è stato il riceverli ad averci formati e noi siamo tenuti a interpretarli prima di poterli, even­ tualmente, contestare. Ma quel che più interessa è che il momento at­ tivo dell'assunzione interpretativa, benché Gadamer non sottovaluti in nessun modo il suo necessario aspetto poietico, sia restituito a una figura ermeneutica peculiare - l' applicatio- che ne mette in eviden­ za un decisivo importo di responsabilità: interpretare un testo non si­ gnifica capirlo riflessivamente, significa rispondere delle sue applica­ zioni a situazioni nuove. Ed è evidente come, da questo punto di vi­ sta, il carattere creativo dell'interpretazione passi nettamente in se­ condo piano rispetto agli esiti direttamente pratici dell'applicazione e come l'opera d'arte, che di questo complesso movimento ermeneu­ tico e pratico è forma eminente, possa essere presentata da Gadamer come una «trasmutazione in forma» della condizione di coappar­ tenenza tra il giocare e l'esser giocati e come un correlativo «incre­ mento d'essere» della " cosa " , di volta in volta, in gioco . L'opera non " rispecchia " il mondo né lo " rappresenta" , piuttosto, in forza dell' attività interpretativa con cui essa si trasmette storicamente in modo autentico (in forza, cioè, di ciò che Gadamer definisce la sua Wirkungsgeschichte, la sua «storia degli effetti») , l'opera concresce e si dispiega negli eventi applicativi che introduce nel mondo della praxis modificandolo. Questa notevole posizione (in cui appaiono fon­ danti il chiarimento e la riabilitazione del concetto antico di mimesis) trova qui una ripresa - e per certi aspetti un compimento - nella ri­ flessione ricoeuriana sul rapporto tra narratività e referenza (PAR. 5.3) che dovrà essere letta in stretta relazione con il testo dello stesso au­ tore riportato nel capitolo precedente. La ripresa sta nel fatto che Ri­ coeur concepisce la lettura e l'interpretazione dei testi narrativi in esplicita connessione col concetto gadameriano di applicatio. Il com­ pimento, invece, sarà piuttosto da vedere nella franca messa in mora delle categorie dell'estetica moderna di cui Ricoeur può tranquilla­ mente fare a meno senza intaccare in nessun modo la congruenza del suo problema, le cui implicazioni etiche e testimoniali (il racconto della «storia delle vittime») si saranno già fatte chiare nel brano p re30

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sentato nel capitolo precedente (PAR. 4. 5). Anche in Ricoeur, del re­ sto, e in modo forse ancor più determinante, è in atto una decisiva ti­ comprensione dei concetti guida della poetica antica. Il rilievo etico-pratico ormai indissociabile dalla stessa com ­ prensibilità dell'esperienza estetica trova infine due testimonianze teoriche di notevole specificità nei contributi di Richter (PAR. 5.4) e di Vattimo (PAR. 5.5). Per il primo, l'arte può trovare oggi un 'inedita ragione di sussistenza nella sua capacità di «compensare» l' ampiez­ za crescente di ciò che il sapere scientifico non è più in grado di coordinare con un'adeguata rappresentazione intuitiva. Per il se­ condo, l'arte si candida a farsi puntuale rappresentante non solo del­ la pluralità delle ragioni di volta in volta adducibili dal singolo che si metta in grado di dar loro figura e renderle condividi bili - e in que­ sto la tesi di Vattimo è parallela a quella di Rorty (PAR. 2.6) -, ma an ­ che della pluralità in quanto tale, del peculiare spazio «eterotopico» che, secondo una lettura originale della filosofia di Nietzsche, si of­ fre agli uomini della tarda modernità come un 'opportunità emanci­ pativa tenuta in riserva dalla crisi di tutti i valori connessa all'even­ to epocale del nichilismo. L'ultima stazione del percorso, dedicata al cinema (e, più in ge­ nerale, all'audiovisivo) , si propone di esplorare un territorio che sem­ bra presentare tutte le condizioni per costituirsi come un autentico punto d'arrivo e di rilancio. Il cinema, infatti, sconta una doppia esposizione che lo rende eccezionalmente sensibile a tutti i problemi che sono stati fin qui riepilogati e discussi. Si tratta, da un lato, della sua incerta assunzione sotto la tutela dell'estetica moderna, che in fondo non ha mai smesso, nonostante gli sforzi prodigati da alcuni autori eminenti (e basterà fare il nome di Ejzenstejn), di far valere qualche buon motivo per ammettere nel suo dominio questa forma espressiva "tecnicamente assistita" solo dietro estorsione di pesanti cauzioni o incongrue ricusazioni. N el suo certificato di nascita, infat­ ti, il cinema reca un marchio che lo esclude da ogni " sacralità" este­ tica (cioè da quell' «aura» che avvolge e qualifica la fruizione di un evento contemplato nella sua unicità e irripetibilità) , come per primo vide Benjamin 27 , cogliendovi inedite potenzialità, ma come solo po­ chi cineasti hanno saputo rivendicare con la spregiudicatezza che si richiedeva (e qui va fatto almeno il nome di Dziga Vertov) . Dall'altro 27. Cfr. W. Benjamin, !}opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2ooo.

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lato, è in gioco il fenomeno fondamentale della riproduzione foto­ grafica, che pone in via di principio il cinema nella condizione di non potersi sottrarre a una domanda sulla veridicità della sua testimo­ nianza o, se si vuole, a una domanda sul debito inestinguibile - an­ che se in ogni momento eludibile con la più grande facilità - che il suo sguardo contrae con le cose su cui si porta, perfino quando dà mostra di non averle trovate ma di averle prodotte e costruite di sa­ na pianta (che altro sarebbe il montaggio, secondo una concezione certo corriva ma del tutto legittimabile sul piano teorico, se non que­ sto trionfo della composizione fantastica ? ) . Così, doppiamente espo­ sto all'industria della falsificazione e dell' intrattenimento conniventi col potere (in questo modo lo percepiva Adorno) 28, e alla prova di verità della sua insuperabile natura testimoniale, il cinema è tenuto a praticare la difficile disciplina di una severa responsabilità della for­ ma prima ancora di potersi candidare a raccogliere, o a respingere, l'eredità dell'estetica in senso moderno. È tenuto, come dice Daney (PAR. 6. 1), a preoccuparsi della «giustezza» delle immagini prima an­ cora di curarne la bellezza (e non è forse, questa, una perspicua pa­ rafrasi di una tesi levinasiana?). È tenuto, insomma, a inventare il suo modo d'espressione in una intimità così costitutiva con le forze che potrebbero corromperlo (il potere economico, la produzione indu­ striale) o annullarlo in quanto forma (il prelievo effettuato diretta­ mente e meccanicamente sulle cose reali) , da mantenersi costante­ mente in una lacerazione nella cui apertura, di estensione ignota, de­ ve saper ricavare uno spazio figurale autonomo di cui la tradizione estetica non gli ha rilasciato alcun modello (e questa, forse, è una pa­ rafrasi del nostro esergo, a dispetto della singolare cecità dimostrata dal suo autore nei confronti del cinema) . Non ci si dovrà, dunque, stupire che l'ordine dell'autolimitazio­ ne e perfino dell'interdetto, per definizione ripugnante all'estetica in senso moderno - che nulla potrebbe proibire e anzi ricerca e perse­ gue l'effrazione e il trasgressivo -, compaia sotto diversi aspetti in molte pagine dell'ultimo capitolo: a cominciare dal testo di Daney, che ce ne restituisce una versione addirittura intollerante, per molti versi parallela alla formulazione più dura della sentenza di Adorno di cui condivide in modo esplicito anche l'oggetto specifico, la rappre-

28. Cfr. M. Horkheimer, T. W. Adorno, /;industria culturale. Illuminismo come misti/icazione di massa, in Idd . , Dialettica dell'Illuminismo, Einaudi, Torino 1966, pp. 130-80.

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sentabilità dei campi d i sterminio. M a il punto determinante che, si potrebbe dire, colloca il testo di Daney proprio in uno degli incroci possibili del «meridiano» trovato-tracciato da Celan (PAR. 4.3 ) , è che l'immagine "giusta " , l'immagine che rende giustizia in quanto attesta e rappresenta (in tutti i sensi della testimonianza, da quello docu­ mentario a quello narrativo e finzionale e in tutti i sensi della rappre­ sentanza, da quello giuridico a quello figurativo) , questa immagine per Daney è possibile, e anzi si dovrebbe dire che è " dovuta" , che il cinema la deve cercare e insieme la deve produrre (e appare qui signi­ ficativo che il difficile concetto heideggeriano di una poiesis ricettiva - il concetto, cioè, di un produrre inteso come un attingere- trovi nel cinema che sappia porsi alla sua altezza un'esemplificazione tanto im­ mediata e naturale) . L'immagine "giusta" è possibile, e forse è possibile solo al cinema, come prospetta Godard (PAR. 6.2), e tuttavia per lui il cinema non ha saputo cogliere la più decisiva delle sue opportunità e il più urgente dei suoi compiti - fare la storia, far accadere autenticamente la storia come immagine - permettendo che ciò fosse preso in carico in modo degradato e inautentico dall'immagine televisiva. La quale, fa notare Godard, si è imposta, o meglio «ha preso il posto del mondo», preci­ samente nel momento in cui «non si è più voluto vedere il mondo nel­ lo stato in cui lo avevano messo i campi», precisamente nel momento, cioè, in cui il cinema, che poteva e doveva farlo, avrebbe invece ri­ nunciato al suo compito storico e insieme storiografico: dare testimo­ nianza del mondo "dopo Auschwitz" , mostrare che cosa ne è del mon­ do dopo la svolta impressa dai campi all'istituto stesso della visione. Il che, appunto, non significa mostrare in che stato si fosse ridotto il mondo, quanto piuttosto mostrare in che modo lo si dovesse guarda­ re e (far) vedere. Il compito storico e storiografico della visione cine­ matografica sarebbe dunque un progetto del tutto disatteso? Non co­ sì per Deleuze (PAR. 6.3): per lui, infatti, l'ordine dell'interdetto - nel­ la fattispecie, un interdetto nei confronti del racconto in quanto prin­ cipio pervasivo di coerenza testuale - si sarebbe autoprodotto con la forza di una necessità impersonale nel momento in cui il cinema "mo­ derno " ha cominciato a emanciparsi dall' «immagine-movimento» (che, nella terminologia filosofica qui adottata resta un'immagine che "dà da pensare") orientandosi sull'«immagine-tempo» (che invece è un'immagine che "pensa in proprio" , o meglio è un'immagine che ri­ qualifica il fatto stesso del pensare, disseminandolo nei «mille piani» di un decentramento visionario interminabile) . 33

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Per fare la storia (in senso godardiano) con le immagini - una sto­ ria pensante - il cinema dovrebbe dunque rinunciare del tutto a " rac­ contare" storie e a rendere testimonianza? O non dovrebbe piutto­ sto "deterritorializzare " lo spazio del racconto e della testimonianza per ritrovarlo altrove, magari proprio lungo la linea virtuale del «me­ ridiano» celaniano dove ciò che non è condividibile - la singolarità, il volto, la data - potrebbe diventare miracolosamente condiviso? E non è forse vero che la singolarità, il volto, la data sono proprio la ma­ teria prima del cinema? Deleuze rilutta, si direbbe, a determinarsi per questa soluzione. Non altrettanto Bazin (PAR. 6.4) e Kiarostami (PAR. 6. 5), un teorico francese degli anni cinquanta e un cineasta iraniano nostro contem­ poraneo, che, pur lontani nel tempo e nello spazio, chiudono il capi­ tolo - e il libro - nel segno di una proposta unitaria che va precisa­ mente nella direzione appena indicata. Per entrambi, infatti, il cine­ ma non può che perlustrare lo spazio di ibridazione che si apre tra il dato e il costruito riconoscendovi per quanto è possibile ciò che Ba­ zin una volta ha felicemente definito una «fenomenologia della sto­ ria» 29, vale a dire un venire alla presenza (un fenomenizzarsi) delle tracce testimoniali e narrative che la visione riesce a raccogliere nel mondo delle cose e degli uomini proprio e solo nel momento in cui riesce a costruire (a formare e a mettere in comune) la condizione eti­ ca della loro essenziale inviolabilità, proprio e solo nel momento in cui riesce a mostrare «a che distanza da me comincia l'altro» (Daney) con il suo volto, la sua vicenda singolare, le sue date incondivise e nondimeno " date a vedere" 3 o . Questo libro è stato pensato e costruito " in comune" da un gruppo di gio­ vani studiosi che ho avuto l'opportunità di ascoltare e di coordinare. I sei capitoli di cui si compone (identificati da numeri arabi) sono introdotti da un breve testo redatto dal rispettivo curatore (o curatori) che, di volta in vol­ ta, ne espone la linea tematica e ne chiarisce le scelte antologiche. I capitoli sono chiusi da una nota bibliografica ragionata e selettiva (limitata alla let­ teratura più importante e a quella di più facile reperibilità). I singoli brani antologizzati, i cui titoli sono per lo più redazionali, sono a loro volta pre-

29 . A. Bazin, Che cos'è il cinema?, Garzanti, Milano 1986, p . 3n. 30. Questo lavoro era già in bozze al momento dell'uscita del bel libro di Geor­ ges Didi-Hubennan, Images malgré tout (Minuit, Paris 2003) , che affronta la que­ stione della rappresentabilità e della testimonianza dei campi in un quadro che pre­ senta rilevanti convergenze con la linea qui sviluppata.

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ceduti da un testo introduttivo. I testi introduttivi (e relative bibliografie) sono, qui di seguito, identificati da un doppio numero arabo e attribuiti ai rispettivi autori: 1.1, 1.2, 1.3, 1.4, 1.5 (Renato Caputo); 2.1, 2.2, 2.3, 2.4, 2.5, 2.6, 2.7 (Gianluca Consoli); 3.1, 3.2, 3.3, 3·4 (Manuela Pallotto) ; 4.1, 4.2, 4.4, 4. 6 (Adriano Ardovino) ; 4.3, 4. 5, 4.7, 4.8 (Alessio Scarlato); 5.1, 5.2, 5·3 (Daniele Guastini) ; 5.4, 5·5 (Giandomenico Bonanni); 6.1, 6.2, 6.4, 6.5 (Luca Venzi); 6.3 (Alessio Scarlato).

T. W Adorno Testi È SERENA L' ARTE?

Le parole «Seria è la vita, serena è l'arte» concludono il prologo al Wallen­ stein di Schiller. Esse imitano una locuzione dei Tristia di Ovidio: «Vita ve­ recunda est, Musa iocosa mihi». Si può qui forse attribuire un'intenzione alla leggiadra astuzia dell'antico poeta. Egli, la cui vita era così serena da sembrare intollerabile all'establishment augusteo, forse occhieggiava ai suoi mecenati facendo regredire la sua allegria alla letterarietà dell'A rs amandi e facendo trasparire, tutto contrito, una seria condotta di vita co­ me atteggiamento della sua persona. Quel che gli importava era esser gra­ ziato. Di tale astuzia latina il poeta di corte dell'idealismo tedesco non vol­ le saper niente. La sua sentenza alza l'indice senza avere scopi. In tal mo­ do diventa completamente ideologica, incorporata nel borghese tesoro di famiglia, citabile all'occasione. Infatti essa conferma la consolidata e po­ polare separazione di lavoro e tempo libero. Quel che risale al tormento di un lavoro prosaicamente non libero e a una repulsione nei suoi confronti, peraltro per niente ingiustificata, si ritiene una legge eterna della separa­ zione netta delle due sfere. Nessuna va mescolata con l'altra. Proprio gra­ zie al suo edificante carattere disimpegnato l'arte viene inserita e sottopo­ sta alla vita borghese come completamento che la contraddice. Si può già intravedere la configurazione del tempo libero che poi ne sarebbe risulta­ ta. Essa è l'esilio in cui crescono le celesti rose che le donne devono in tes­ sere nella terrena vita, la quale è così orrenda. All'idealista si nasconde la possibilità che un giorno le cose possano cambiare realmente. Egli pensa all'effetto dell'arte. Nonostante tutta la nobiltà del gesto, egli anticipa se­ gretamente quella situazione che nell'industria culturale prescrive l'arte come un'iniezione di vitamine per uomini d'affari stanchi. Hegel fu il pri­ mo che, stando appostato al passo dell'idealismo, protestò sia contro l'e35

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stetica dell'effetto, risalente al XVIII secolo, Kant incluso, sia anche contro la ricordata opinione sull'arte, sostenendo che questa non è un giocattolo utile o piacevole alla Orazio. 2 Tuttavia l'insulsaggine sulla serenità dell'arte ha il suo quantum di verità. Se per gli uomini essa non fosse una fonte di piacere, per quanto mediata, non avrebbe potuto conservarsi nella semplice esistenza, che essa contraddice e cui resiste. E ciò non le è per nulla esterno ma parte della sua stessa defini­ zione. La formula kantiana della finalità senza scopi vi allude, pur se non ci­ ta la società. Il «senza scopi» dell'arte è il suo essere scampata alle coerci­ zioni dell'autoconservazione. Essa incarna qualcosa come la libertà in mez­ zo all'illibertà. E il suo uscire, con la sua semplice esistenza, dalla signoria imperante, la associa a una promessa di felicità che in qualche modo espri­ me in prima persona con l'esprimere la disperazione. Anche sulle recite di Beckett il sipario si alza come sulla stanza natalizia. Invano l'arte, nello sfor­ zo di liberarsi del proprio carattere di parvenza, si logora nel tentativo di spogliarsi di quel residuo di beatificazione in cui fiuta il tradimento, il pas­ saggio al consenso. Sulla tesi della serenità dell'arte occorre molta precisio­ ne. Essa è valida per l'arte nel suo insieme, non per le singole opere. Queste possono mancare completamente di serenità, misurandole sull'orrore della realtà. Serenità nell'arte è, se così si vuole, il contrario di quel che facilmen­ te si suppone: non il suo contenuto ma il suo atteggiamento, l'astrazione, il suo essere in generale arte e il suo albeggiare su ciò della cui violenza al tem­ po stesso rende testimonianza. Qui trova conferma il pensiero del filosofo Schiller che riconobbe la serenità dell'arte nella sua natura di gioco e non in quel che essa enuncia di spirituale anche al di là dell'idealismo. A priori, an­ tecedentemente alle sue opere, l'arte è critica della serietà animalesca che la realtà infligge agli uomini. Col chiamare la sventura per nome l'arte crede di attenuarla. Questa è la sua serenità; e naturalmente è anche la sua serietà, come mutamento della coscienza di volta in volta sussistente.

Ma l'arte, che come la conoscenza riceve tutto il suo materiale e in definiti­ va tutte le sue forme dalla realtà, e precisamente dalla realtà sociale, per tra­ sformarle, si avviluppa così nelle sue inconciliabili contraddizioni. La sua profondità si misura dalla sua capacità di sottolineare, attraverso la conci­ liazione che la sua legge formale fa delle contraddizioni, e anzi propriamen­ te attraverso questa, la loro reale inconciliatezza. Nelle sue più remote me-

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diazioni resta l'onda di tremore della contraddizione, come nel pianissimo estremo della musica il rintronare dell'orrido. Lì dove la superstizione cul­ turale ne celebra l'armonia, come in Mozart, essa proclama la dissonanza nei confronti del dissonante e di questa dichiarazione fa la propria sostanza. Questa è la tristezza di Mozart. Solo attraverso la metamorfosi di ciò che nondimeno viene conservato negativamente, del contraddittorio, l'arte compie quel che viene calunniato non appena la si trasfiguri in un essere po­ sto al di là dell'esistente, indipendente dal suo contrario. I tentativi di defi­ nire il pacchiano solitamente falliscono; non sarebbe tuttavia il peggiore quello che facesse dipendere il pacchiano dalla capacità di un prodotto ar­ tistico, sia pure insistendo sulla contrapposizione alla realtà, di plasmare la coscienza della contraddizione o dal suo ingannare in proposito. Sotto que­ sto aspetto a qualsiasi opera d'arte va richiesta serietà. L'arte vibra fra que­ sta e la serenità, essendo scampata alla realtà e nondimeno compenetrata da essa. Solo questa tensione costituisce l'arte. 4 L'importanza del movimento contraddittorio di serenità e serietà nell'arte ­ della loro dialettica - forse si spiegherà con semplicità grazie a due distici di Holderlin, che il poeta accostò, certo con intenzione. Il primo, intitolato So/ocle, suona: «Molti hanno cercato invano di dir con gioia la più grande gioia l qui essa parla finalmente a me, qui dentro la tristezza». La serenità del tragico non andrà ricercata nel contenuto mitico del suo teatro, forse nemmeno nella conciliazione che egli concede ai miti, bensì nel dirlo stesso, nell'esprimersi; queste due espressioni vengono apparentate con enfasi nei versi di Holderlin. La felicità è nella lingua, che rinvia al di là del semplice esistente. - Il secondo distico è intitolato Gli amici scherzosi: «Sempre gio­ cate e scherzate? Dovete? O amici, questo l mi ferisce il cuore, perché do­ verlo, lo devono solo i disperati». Dove l'arte vuoi essere serena di propria iniziativa e così si acconcia a quell'uso al quale secondo Holderlin niente di sacro più si adatta, viene livellata sul bisogno degli uomini e tradisce il suo contenuto di verità. La sua prescritta allegria si inserisce nel meccanismo. Essa ripete autorevolmente agli uomini di seguitare a sopportarlo, a stare al passo. Questa è la forma che assume la disperazione obiettiva. Se si prende il distico sufficientemente sul serio, esso condanna tutta la natura afferma­ tiva dell'arte. Da quei tempi l'affermazione, sotto l'imposizione dell'indu­ stria culturale, si è sviluppata a onnipresenza, lo scherzo a maschera ghi­ gnante della pubblicità sic et simpliciter. [. .. ]

[. . . ]

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6 Da quando l'arte è stata presa per la cavezza dall'industria culturale e si al­ linea fra i beni di consumo, la sua serenità è sintetica, falsa, stregata. Nes­ suna serenità è conciliabile con l'arbitraria imposizione al cliente. Il rap­ porto pacificato della serenità con la natura esclude ciò che questa mani­ pola e calcola. La distinzione che la lingua fa tra battuta e freddura ne ren­ de conto in maniera precisa. Lì dove oggi la serenità si mostra è deformata perché comandata, fino all'infausto «eppure» di quella tragicità che si con­ sola sostenendo che la vita è fatta così. L'arte, che non è più affatto possi­ bile se non riflessa, deve da sé rinunciare alla serenità. Ve la costringono in­ nanzitutto gli avvenimenti più recenti. Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato possibile e resta possibile per un tempo im­ prevedibile, non ci si può più immaginare un'arte serena. Essa degenera obiettivamente in cinismo, per quanto prenda in prestito la bontà dell'u­ mano comprendere. Del resto l'impossibilità della grande poesia è stata av­ vertita, per la prima volta da Baudelaire, quasi un secolo prima della cata­ strofe europea, poi anche da Nietzsche e dalla scuola di George con la sua rinuncia all'umorismo. Questo si è trasferito nella parodia polemica. Lì es­ so trova temporaneamente riparo finché resta inconciliabile, senza riguar­ do al concetto di conciliazione, che una volta si aggrappava al concetto di umorismo. La figura polemica assunta dall'umorismo è poi a poco a poco diventata altrettanto problematica. Essa non può più contare su gente che la capisca e la polemica non può sparare a vuoto, ammesso che lo possa una qualsiasi forma artistica. Alcuni anni fa c'è stato un dibattito sulla liceità di rappresentare il fascismo in maniera comica o parodistica senza oltraggia­ re le vittime. È indisconoscibile il ridicolo, il guittesco, il subalterno, l'affi­ nità elettiva di Hitler e dei suoi col giornalismo da grancassa e coi soffioni di polizia. Ma non c'è niente da ridere. La sanguinosa realtà non era di uno spirito o di un non spirito di cui lo spirito possa farsi beffe. Erano ancora tempi felici, con angoletti riparati e sciatterie in mezzo al sistema dell' orro­ re, quando Hasek scriveva Svejk. Ma le commedie sul fascismo si sono fat­ te complici di quella folle abitudine di pensiero che lo ritiene battuto in an­ ticipo perché si dice che i battaglioni della storia del mondo, più forti, gli stanno contro. Meno che a tutti, assumere la posizione del vincitore si ad­ dice ai nemici dei fascisti perché hanno il dovere di non essere in niente uguali a coloro che si trincerano in quella posizione. Le forze storiche che hanno prodotto l'orrore derivano dalla struttura della società in sé. Non so­ no forze superficiali e sono troppo potenti, così che non compete a nessu­ no di trattarle come se avesse alle spalle la storia del mondo e come se i du-

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ci fossero effettivamente i clowns le cui scempiaggini divennero solo i n un secondo tempo simili ai loro discorsi da assassini. 7 Ma poiché il momento della serenità consiste nella libertà dell'arte dalla semplice esistenza, libertà conservata ancora dalle opere disperate, anzi da esse conservata sul serio, storicamente il momento di serenità o di comi­ cità non viene da esse semplicemente espunto. Esso sopravvive nella loro autocritica, come comicità della comicità. Gli elementi di insensatezza e storditezza artistica, che nelle opere d'arte radicali del presente irritano tanto i positivi, non sono tanto regressione dell'arte a uno stadio infantile quanto il suo comico giudizio sul comico. Il lavoro chiave di Wedekind contro l'editore del Simplizissimus ha per sottotitolo: La satira della satira. Cose affini contiene Kafka, nella cui prosa d'urto vari suoi interpreti, an­ che Thomas Mann, avvertirono l'umorismo, mentre il suo rapporto con Hasek viene indagato da autori slovacchi. La categoria del tragico poi si affida completamente al riso nel caso dei lavori teatrali di Beckett, al mo­ do stesso in cui essi liquidano ogni umorismo consenziente. Essi testimo­ niano di uno stadio della coscienza che non ammette più nel suo com­ plesso l'alternativa serietà-serenità e nemmeno la miscela del tragicomico. La tragicità si disfa in virtù della manifesta nullità delle preteste della sog­ gettività che dovrebbe far la tragica. Invece del riso subentra il pianto sen­ za lacrime, prosciugato. Il lamento è diventato lamento di occhi cavi, vuo­ ti. Nei lavori di Beckett l'umorismo viene salvato perché essi contagiano col riso sulla risibilità del ridere e sulla disperazione. Questo processo si lega a quello della riduzione artistica, una via verso il minimo esistenziale quale minimo di esistenza rimasto. Questo minimo sconta la catastrofe storica, forse per sopravviverle. 8 Nell'arte contemporanea si delinea un estinguersi dell'alternativa di sere­ nità e arte, di tragicità e comicità, quasi di vita e di morte. In tal modo l' ar­ te nega tutto quanto il suo passato, certo perché l'usata alternativa esprime una situazione scissa tra la felicità della vita che prosegue e la sciagura. L' ar­ te, al di là della serenità e della serietà, può essere tanto cifra di concilia­ zione quanto di orrore, in forza del completo disincanto del mondo. Tale arte corrisponde tanto alla nausea per l'onnipresenza della pubblicità, aperta e mascherata, a favore dell'esistenza, quanto alla riluttanza al cotur­ no, che con l'eccesso del dolore prende di nuovo partito per la sua immu-

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tabilità. Se l'arte non è più serena, nemmeno è più del tutto seria, rispetto al recentissimo passato. Nasce il dubbio se sia mai stata tanto seria quanto la cultura cerca di persuadere gli uomini. Non le è più lecito, come invece alla poesia di Holderlin, che si sentiva tutt'una con lo spirito del mondo, equiparare il dire la tristezza alla massima gioia. Il contenuto di verità della gioia sembra essere diventato inaccessibile. Ne discende che i generi si sfran­ giano, che il gesto tragico sembra comico e la comicità appare desolata. La tragicità imputridisce perché avanza pretese sul senso positivo della negati­ vità, quel senso che la filosofia chiamò negazione positiva. Esso non è ri­ scattabile. L'arte che si addentra nell'ignoto, l'unica ancora possibile, non è né serena né seria; ma il tertium è precluso come se fosse immesso nel nul­ la le cui figure le opere d'arte progredite descrivono.

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Estetica e marxismo . Lo statuto dell' arte nella tragedia della storia a cura

di Renato Caputo

Tutti gli autori presentati in questo capitolo si sono posti in modo esplicito una domanda sul senso dell'arte dopo l'orrore di Auschwitz. Eppure anche chi, come Herbert Marcuse o Ernst Bloch, appare maggiormente influenzato dalla teoria estetica di Adorno, si è misu­ rato criticamente con la tesi estrema per cui dopo la Shoah l'arte do­ vrebbe riconsiderare radicalmente il suo statuto, fino al paradosso dell' autonegazione. Seppure con diversi accenti, questi autori con­ siderano anche le manifestazioni più drammatiche del male nella storia un movente della produzione artistica e vedono nell'esperien­ za estetica un momento di resistenza o di liberazione. Benché per es­ si un rapporto attivo e oppositivo nei confronti del disumano (in ogni sua forma) sia costitutivo della produzione artistica, Auschwitz non segna, come per Adorno, una cesura così netta da rimettere in questione il paradigma estetico moderno. Ciò non significa, n a tu­ ralmente, sottovalutare i crimini perpetrati dai regimi nazifascisti (tanto più che questi pensatori non solo furono tra i primi a denun­ ciarli e combatterli, ma scontarono in prima persona le conseguen­ ze della loro opposizione con la prigionia o con l'esilio) . Significa che, dal punto di vista storico, l'esperienza disumana dei campi non va concepita come un unicum, ma come una manifestazione della decadenza del dominio della borghesia, in continuità tanto con i ge­ nocidi del colonialismo, quanto con le brutalità compiute dopo la se­ conda guerra mondiale nel contesto di un processo di nascente glo­ balizzazione, caratterizzato dallo sfruttamento economico e dalla re­ pressione politica.

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I.I

Bertolt Brecht (1898-19 5 6) Tra i massimi drammaturghi, registi teatrali e poeti del Novecento, Brecht partecipa da protagonista negli anni giovanili al movimento delle avanguardie. La piena adesione al marxismo lo porta a svilup­ pare una produzione e una riflessione sull'arte in cui la rivoluzione formale dei primi decenni del XX secolo è ripensata a partire dal ruo­ lo delle masse nella vita politica e culturale. Durante il lungo e tor­ mentato esilio, cui è costretto dalla presa del potere di Hitler, Brecht inizia una profonda e costante rielaborazione delle sue tesi sull'arte, che lo pone in contrasto con le tendenze del realismo socialista. A partire dal Breviario di estetica teatrale del 1948, Brecht apre una vivace polemica - che sotto diversi punti di vista anticipa quella di Jauss (PAR. 5.!) con Adorno - nei confronti della tendenza dell'ar­ te contemporanea a estromettere dall'esperienza estetica il momento del godimento. Si tratta di una presa di posizione che trae con sé due fondamentali implicazioni, solo apparentemente contraddittorie: la netta critica ad ogni tentativo di riduzione della complessità dell'e­ sperienza estetica alle esigenze dello scontro ideologico e il rifiuto di sottrarre la produzione e la ricezione dell'arte alle responsabilità nei confronti del mondo storico-politico in cui si colloca. La rivalutazio­ ne del godimento estetico non implica, quindi, in Brecht il rifiuto del­ la politicizzazione dell'arte prospettata insieme a Walter Benjamin negli anni trenta. L'opera non può assistere in modo semplicemente passivo alla manifestazione del tragico nella storia, ma deve interve­ nire sul corso del mondo favorendo nel pubblico l'acquisizione di un punto di vista critico sull'ordine sociale esistente, senza con ciò ri­ nunciare alle sue caratteristiche specifiche. Questa prospettiva segna uno scarto essenziale all'interno dell'opera brechtiana e porta a una profonda revisione che spesso assume i toni di un 'impietosa autocri­ tica della produzione artistica e teorica giovanile. Inoltre, la terribile esperienza del nazifascismo e del secondo conflitto mondiale spinge Brecht a elaborare, anche sul piano teorico, la cesura già esplicitata nella sua attività poietica. Si tratta di un ripensamento che non con­ cerne unicamente la riflessione sulla funzione dell'arte nella tragedia storica, ma implica anche una revisione più generale della preceden­ te valutazione del rapporto tra arte e tecnica. Alla produzione, negli anni venti e trenta, di opere tese a far emergere gli elementi di rottu­ ra nei confronti dell'arte tradizionale si sostituisce, a partire dagli an42

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ni quaranta, un progressivo e sempre più deciso allontanamento dal­ le stesse avanguardie. La fase di rottura, corrispondente alla presa di coscienza delle trasformazioni imposte all'opera d'arte dall'epoca della tecnica, è ora considerata una fase necessaria, ma esaurita. Essa rappresenta una negazione semplice dell'arte tradizionale, una rottu­ ra salutare, ma in sé ancora insufficiente per la produzione di un'o­ pera pienamente adeguata alla nuova epoca storica. Se nella produzione drammaturgica questa cesura è segnata dal passaggio dai drammi didattici degli anni trenta al dramma epico del­ la piena maturità, nell'ambito della riflessione estetica, la prima con­ cezione domina le tesi dell'Acquisto dell'ottone (r937- 5I) , la seconda quelle del Breviario di estetica teatrale (1948). Il primato del conte­ nuto, che aveva spinto Brecht a considerare ogni attenzione per il godimento degli spettatori come un cedimento nei confronti del­ l'industria culturale borghese, è ora considerato una deviazione for­ malistica, che perde di vista la totalità dell'esperienza estetica, di cui il godimento rappresenta una componente imprescindibile. Si trat­ ta, allora, di recuperare con franchezza la dimensione sensibile e lo stesso divertimento del pubblico precedentemente sacrificati a una concezione astratta, intellettualistica e puramente negativa dell'e­ sperienza estetica. Ciò non va inteso come una radicale rottura con la concezione estetica e poetica degli anni giovanili. Per Brecht l'aspetto didattico, che deve caratterizzare l'opera in un'epoca dominata dalla scienza, non può essere abbandonato. Non si tratta però semplicemente di mediare in una forma piacevole determinati contenuti, di fornire ve­ ste artistica a una sostanza scientifica; per Brecht «un determinato ti­ po di apprendimento rappresenta il principale godimento della no­ stra epoca» (Diario di lavoro, p. 913 ) .

Testi DALLA CRITICA DELL'OPERA «CULINARIA» ALLA RIABILITAZIONE DEL GODIMENTO ESTETICO

[ ... ] Le indicazioni e gli enunciati teorici, polemici o tecnici, pubblicati oc­ casionalmente sotto forma di note alle opere dello scrivente, non facevano che sfiorare i problemi estetici, senza accordar loro grande interesse. In quelle note, un particolare tipo di teatro estendeva e delimitava la sua fun-

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zione sociale, ampliava o sceverava i suoi mezzi artistici, e, quando la di­ scussione ve lo portava, prendeva piede nel campo dell'estetica rifiutando o facendo propri, secondo le condizioni della lotta, i vigenti precetti della morale o del gusto. Così gli accadeva di difendere la sua inclinazione a esprimere tendenze sociali, mostrando le tendenze sociali di opere gene­ ralmente riconosciute, che però in quelle non disturbavano, proprio per­ ché erano le tendenze ormai riconosciute. Denunciava come sintomo di de­ cadenza il disinteresse della produzione contemporanea per le cose più de­ gne d'interesse: accusava questi spacci di divertimento serale d'aver fatto del teatro un ramo del commercio borghese di stupefacenti. Le false raffi­ gurazioni della vita sociale sulle scene, comprese quelle del cosiddetto na­ turalismo, gli facevano rivendicare ad alta voce rappresentazioni scientifi­ camente esatte, e invocare, di fronte al basso culinarismo delle insensate de­ lizie offerte agli occhi e all'anima, la bella logica della tavola pitagorica. Ri­ pudiava sdegnoso il culto del bello che andava di pari passo coll' avversio­ ne all'apprendere e col disprezzo dell'utile, tanto più che nulla di bello or­ mai veniva prodotto. Si aspirava a un teatro dell'era scientifica, e quando costava troppa fatica prendere a prestito o rubare dall'arsenale dei concet­ ti estetici quel tanto che bastava per tenere a rispetto gli esteti del giornali­ smo, si minacciava semplicemente di «fare del mezzo di godimento un og­ getto di studio e di trasformare certe istituzioni, da luoghi di divertimento che erano, in organi di pubblicazione», ossia di emigrare dal regno del «pia­ cevole». L'estetica, retaggio di una classe depravata e ormai parassitaria, era caduta in condizioni così pietose che un teatro guadagnava prestigio e li­ bertà d'azione se si faceva chiamare «taetro» piuttosto che «teatro». Tutta­ via, quello che si realizzava sotto l'insegna di teatro dell'era scientifica, non era scienza, bensì teatro; e poiché durante il nazismo e la guerra si sono ac­ cumulate le innovazioni teoriche mentre mancava la possibilità pratica di sperimentarle, ora pare opportuno tentar di esaminare questo genere di teatro riguardo alla sua posizione estetica, o almeno di tracciare i linea­ menti di una sua possibile estetica.

[. ] ..

Da che mondo è mondo, compito del teatro, come di tutte le altre arti, è di ricreare la gente. Questo compito gli conferisce sempre la sua speciale di­ gnità: non gli occorre altro attestato che il divertimento; questo però gli è in­ dispensabile. Non lo si nobiliterebbe affatto facendone, per esempio, un mercato della morale; anzi, è ben più probabile che lo si degraderebbe, ciò

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che puntualmente avverrebbe qualora non riuscisse a rendere l a morale di­ vertente, e divertente proprio per i sensi - dalla qual cosa, certo, la morale non può che trarre vantaggio. E nemmeno sarebbe da imporgli l'obbligo di insegnare o, ad ogni modo, d'insegnare cosa più utile di quanto non sia il sa­ pere come ci si muova piacevolmente, sia col corpo che con lo spirito. Il tea­ tro, infatti, deve assolutamente poter restare una cosa superflua, il che si­ gnifica, beninteso, che è per il superfluo che si vive. Meno di qualsiasi altra cosa i divertimenti abbisognano di essere difesi.

[ .. .] 12 Anche il godimento che ci procura il teatro deve essersi indebolito in con­ fronto a quello degli antichi, seppure le nostre forme di convivenza umana siano ancora abbastanza simili alle loro da permettere che quel godimento si produca. Noi ci appropriamo delle vecchie opere mediante un procedi­ mento relativamente nuovo, quello dell'immedesimazione, cui esse vera­ mente non si prestano troppo: dimodoché gran parte del nostro godimen­ to si alimenta a fonti diverse da quelle che tanto potentemente dovettero schiudersi ai nostri maggiori. Ci atteniamo, cioè, prudentemente alle bel­ lezze della lingua, all'eleganza degli svolgimenti, ai punti che evocano in noi immagini di carattere autonomo; insomma, agli accessori delle opere anti­ che, a quelli che sono gli artifizi poetici e teatrali destinati a nascondere le incongruenze della vicenda. I nostri teatri non hanno più né la capacità né il gusto di raccontare in modo chiaro queste vicende (nemmeno quelle del grande Shakespeare che non sono poi tanto vecchie) , ossia di rendere ve­ rosimile la connessione dei fatti. Eppure, secondo Aristotele - e su questo siamo d'accordo con lui - la vicenda è l'anima del dramma. Sempre più ci disturbano la primitività e la trascuratezza con cui viene rappresentata la convivenza sociale, e non soltanto nelle opere antiche, ma anche in quelle contemporanee fatte sul vecchio stampo. Tutto il nostro modo di godere comincia a farsi inattuale.

[ .. .] 20 Scienza e arte s'incontrano in ciò: che lo scopo di entrambe è di agevolare la vita degli uomini, l'una curandosi del loro mantenimento, l'altra della lo­ ro ricreazione. Nell'era che s'annuncia, l'arte attingerà il divertimento dal­ la nuova produttività, la quale è in grado di migliorare di molto il nostro 45

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benessere e potrebbe, qualora non ostacolata, costituire essa stessa il dilet­ to più grande. 21 Se dunque vogliamo darci interamente a questa grande passione del pro­ durre, quali saranno allora le nostre raffigurazioni della convivenza uma­ na? Quale sarà l'atteggiamento produttivo nei riguardi della natura e della società che noi, figli di un'era scientifica, assumeremo con diletto nei no­ stri teatri? 22 Sarà un atteggiamento critico. Rispetto a un fiume esso consiste nel regola­ re il corso del fiume; rispetto a un albero fruttifero consiste nell'innestare l'albero; rispetto alla locomozione, nel costruire veicoli e velivoli; rispetto al­ la società, nel rivolgimento della società. Le nostre raffigurazioni dell'uma­ na convivenza sono destinate agli arginatoti di fiumi, ai coltivatori di frutta, ai costruttori di veicoli e ai trasformatori della società, che invitiamo nei no­ stri teatri, pregandoli di non dimenticarvi i propri vivaci interessi e con lo scopo di affidare il mondo ai loro cervelli e ai loro cuori, perché lo trasfor­ mino a proprio talento.

[. .. ] 24 Questo, però, facilita al teatro l'accostarsi quanto più possibile alle istitu­ zioni d'insegnamento e di studio. Infatti, anche se non gli si può imporre ogni sorta di materie scientifiche che gli toglierebbero il carattere dilette­ vole, pure esso è libero di divertirsi con lo studio e l'indagine. Produce al­ lora quelle immagini praticabili della società che sono in grado d'influen­ zarla, e le produce come vero e proprio «gioco»: per gli edificatori della so­ cietà espone le esperienze vissute dalla società, quelle passate e quelle pre­ senti, in modo tale che diventino «godibili» le reazioni, le conoscenze, gli impulsi che i più appassionati, i più saggi e attivi fra noi traggono dagli av­ venimenti del giorno e del secolo. Essi si diletteranno della saggezza che viene dalla soluzione dei problemi, dell'ira in cui può utilmente trasfor­ marsi la compassione per gli oppressi, del rispetto di fronte al rispetto del­ le cose umane - che è amore dell'uomo -, di tutto ciò, insomma, che può ricreare coloro che producono.

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25 Allora il teatro potrà anche far godere ai suoi spettatori la particolare mora­ lità della loro epoca, quella che deriva dalla produttività. Quando il teatro ha saputo trasformare la critica, ossia il grande metodo della produttività, in fonte di godimento, la morale non gli impone altri obblighi, ma gli lascia cer­ to molte possibilità. Anche dai fenomeni asociali la società può in questo modo trarre godimento, purché siano presentati come grandi e vitali: ché al­ lora rivelano spesso intelligenza e doti di particolare valore, seppur impie­ gate a fini distruttivi. La società può benissimo godere anche della grandio­ sità di un fiume rovinosamente straripato, purché sia capace di dominarlo: allora esso le appartiene.

[. .. ] 75 E ancora una volta ricordiamo che è loro compito ricreare i figli dell'era scientifica, in maniera sensuale e in letizia. Questo non lo si ripeterà mai ab­ bastanza, specialmente per noi tedeschi, così inclini a scivolare nell'incor­ poreo e nell'invisibile, per poi metterei a parlare di Weltanschauung, di vi­ sione del mondo, proprio quando il mondo non è più visibile. Lo stesso ma­ terialismo, da noi, è poco più di un'idea. Noi trasformiamo le gioie del ses­ so in doveri coniugali, assoggettiamo il godimento artistico all'istruzione, e per studio non intendiamo una lieta conoscenza, ma essere obbligati a stru­ sciare col naso sulle cose. Il nostro «fare» non è un allegro affaccendarsi; e per attestare le nostre capacità non parliamo del piacere che ci ha procura­ to una cosa, ma del sudore che ci è costata.

[. .. ] 77 Giacché le rappresentazioni dovranno cedere il passo alla cosa rappresen­ tata, alla convivenza degli uomini; e il piacere di vederle perfette si raffor­ zerà nel piacere più eletto di vedere che le norme di questa convivenza, ora messe in luce, sono state trattate come prowisorie e imperfette. Così il tea­ tro può conservare al pubblico la sua produttività, oltre il mero fatto dello spettacolo. Nel suo teatro lo spettatore può godere come divertimento il ter­ ribile e infinito lavorio che gli procura da vivere, e anche la terribilità del suo incessante trasformarsi. Possa il teatro consentirgli di prodursi nel modo più lieve: poiché, dei vari modi d'esistenza, il più lieve è l'arte.

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Si tratta soltanto di fare in modo che l'arte presenti in forma divertente co­ se degne d'essere app rese. La contraddizione tra imparare e divertirsi dev'essere rigorosamente conservata come un elemento importante, in tem­ pi in cui si acquisiscono nozioni per rivenderle al prezzo più alto possibile e chi le acquista, anche pagandole a prezzo altissimo, può ancora sempre sfruttarle e guadagnarci sopra. Soltanto quando la produttività si sarà libe­ rata dai suoi ceppi, l'imparare potrà diventare divertimento e il divertimen­ to istruzione. Se oggi si è abbandonato il concetto di «teatro epico» non si è tuttavia ri­ nunziato al passo verso l'esperienza consapevole che esso ha reso e rende tuttora possibile. Ma questo concetto è troppo esile e vago per il teatro che intende designare; va arricchito con più precise indicazioni di finalità; deve dare di più. Inoltre esso si trovava su posizioni troppo rigide di fronte al fat­ to drammatico, che presupponeva, spesso con eccessiva ingenuità, più o me­ no nel senso che «ovviamente» si trattava pur sempre d'uno svolgersi di fat­ ti recanti molti, se non tutti, i contrassegni del momentaneo ! (Nello stesso modo, non sempre scevro di pericoli, noi presupponiamo che malgrado tut­ te le innovazioni il teatro rimanga teatro - e non divenga qualcosa di simile a una dimostrazione scientifica ! ) E neppure il concetto di «teatro dell'era scientifica» è vasto abbastanza. Nel Breviario di estetica teatrale si è spiegato forse già a sufficienza che cosa deb­ ba intendersi per «era scientifica», ma il termine di per se stesso, così come viene usato generalmente, è ormai troppo intorbidito. Il godimento dei lavori antichi diviene tanto maggiore quanto più noi pos­ siamo abbandonarci ai nuovi generi di divertimento, più adatti a noi. Perciò dobbiamo affinare il senso storico - necessario anche per godere i lavori mo­ derni - fino al livello d'una vera e propria sensualità. Nei tempi iracondi e fecondi della sovversione, i tramonti delle classi in de­ clino coincidono con le aurore delle classi in ascesa. Questi sono i crepuscoli in cui la civetta di Minerva spicca il suo volo. Il teatro dell'era scientifica può trasformare la dialettica in godimento. Le sorprese dell'evoluzione procedente secondo una logica oppure a sbalzi, dell'instabilità di tutte le situazioni, del sale delle contraddizioni e via di­ cendo ci fanno godere della vitalità degli uomini, delle cose, dei processi, esaltano l'arte del vivere come la gioia della vita. Tutte le arti contribuiscono alla più grande di tutte le arti: l'arte di vivere.

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1.2

Gyorgy Lukacs (188 5 -1971) Indubbiamente il più sistematico, e forse il più rigoroso, filosofo marxista del Novecento, Lukacs si forma in Germania con Simmel e i neokantiani del Baden . Giovanissimo è commissario all'istruzio­ ne nella Repubblica sovietica ungherese; poi per molti anni è co­ stretto all'esilio prima in Germania e, dopo l'avvento dei nazisti, in Unione Sovietica. Rompe con lo stalinismo nel 1951 e nel 1956 è mi­ nistro dell'Istruzione nel governo N agy, esperienza che paga ancora una volta con l'esilio. Pur avendo posto costantemente al centro delle sue riflessioni il problematico rapporto tra arte e corso del mondo, pur avendo ri­ pensato a fondo - in particolare nell'Estetica (1963 ) - il peculiare sta­ tuto mimetico e " defeticizzante" dell'opera di fronte all'alienazione dominante nel mondo moderno, è in particolare in uno scritto del 1948 , Thomas Ma nn e la tragedia dell'arte moderna , che Lukacs af­ fronta in modo programmatico la questione del ruolo e della funzio­ ne dell'arte nella tarda modernità. Qui, egli liquida duramente gran parte delle opere d'avanguardia, considerandole incapaci di assume­ re un atteggiamento realmente critico nei confronti del loro tempo. Molto spesso, anzi, proprio quelle opere che Adorno tende a cele­ brare quali suprema espressione di un'estetica negativa, per Lukacs mostrano la subalternità degli intellettuali alla tragedia storica che es­ si vivono, limitandosi a una semplice descrizione dell'esistente o alla sua negazione astratta in una prospettiva soggettivistica. L'unica figura capace di staccarsi da questo sfondo è quella di Thomas Mann che, pur non essendo in grado di superare le contrad­ dizioni dell'arte borghese, ha portato alla sua massima espressione la rappresentazione della tragedia moderna, in particolare nel Doctor Faustus (1947 ) . Per Lukacs, tuttavia, anche quest'opera può soltanto indicare nella direzione di un'arte capace di porsi al di là della m era rappresentazione del tragico moderno, arrivando a superare poten­ zialmente il demoniaco attraverso la capacità di negare non solo que­ sto mondo, ma anche se stessa. Secondo Lukacs - che qui sembra re­ cuperare un elemento decisivo della sua riflessione giovanile - la po­ sizione autocritica e ironica dell'opera di Thomas Mann rappresenta la meta ultima raggiungibile dalla produzione artistica nella tarda modernità, visto che in essa l'ordine instaurato sul vuoto spirituale prodotto dall'individualismo borghese è ora esplicitamente smasche49

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rato e denunciato come tale. Certo, Lukacs contempla - o piuttosto auspica - la possibilità di una forma d'arte in grado di oltrepassare la coscienza ironica e autoriflessiva del dramma borghese e, tuttavia, nella piena consapevolezza dei mediocri risultati raggiunti da questa tendenza (il "realismo socialista" ) , egli non può che optare infine per un'opera " borghese" , che si dimostra capace di indicare la direzione di un positivo autosuperamento solo chiudendosi in una irriconcilia­ bile negatività.

Testi LA TRAGEDIA DELL' ARTE MODERNA

Thomas Mann appartenne sempre alle poche eccezioni che in questo tem­ po di declino hanno proceduto contro la corrente dell'evoluzione borghe­ se dell'arte, della trasformazione della letteratura e dell'arte in nature mor­ te rapp resentate con artificio e raffinatezza. In questo caso egli, sicura­ mente in consapevole opposizione all'impoverimento spirituale della lette­ ratura e dell'arte moderna, ha creato un'opera nella quale la plasticità alta­ mente differenziata dei personaggi si potrebbe dire esser sorta direttamen­ te dallo spirito. [. . .] Quel che Thomas Mann ci dà in questo romanzo è l'analisi della pro­ blematicità di tutta quanta l'arte moderna. Egli mostra come il momento pu­ ramente soggettivo, l'estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni co­ munità da un lato sorga necessariamente dal moderno individualismo bor­ ghese del periodo imperialistico, e come questo, altrettanto necessariamen­ te, annulli tutti i vincoli vecchi e nuovi con la società e nell'opera stessa. Per­ ciò l'atteggiamento parodistico di Adrian è un tratto della sua dirittura in­ tellettuale. Dall'altro lato Thomas Mann mostra come da questa stessa si­ tuazione nasca continuamente l'aspirazione alla sintesi, all'esser dominato, all'ordine e all'organizzazione, tuttavia senza alcun fondamento reale nella vita del popolo, nel mondo sociale, perciò per quella stessa soggettività che crea lo sfacelo e proprio per questo costituisce un'altrettale tendenza, indi­ retta, alla decomposizione, proprio per questo annulla se stessa. L'amico di gioventù e biografo di Adrian una volta lo chiama "maestro di scuola rivoluzionario all'antica" . E Adrian stesso parla della libertà che si annulla da se stessa nella vita e nell'arte moderna. Egli dice di questa aspi­ razione alla sintesi: "Essa potrebbe però, oltre a ciò, indicare qualche cosa di necessario nel tempo, una promessa di rimedio in un'epoca di convinzio50

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n i distrutte e d i dissolvimento d i tutti gli obblighi oggettivi: nel senso, in­ somma, d'una libertà che comincia a depositarsi come golpe sull'ingegno e a rivelare indizi di sterilità" . L'aspirazione alla sintesi ruota quindi su se stes­ sa, è l'espressione soggettiva del circulus vitiosus dell'attuale arte e cultura borghese: da una parte essa rimane estremamente soggettivistica, fondata esclusivamente nel soggetto altrettanto quanto la libertà in decomposizione, dall'altra parte essa contiene in sé il desiderio di un ordine a qualsiasi costo, la disposizione a sottoporsi ad un ordine qualsiasi purché questo, sempre con qualsiasi mezzo, ponga fine all'arbitrio della libertà ormai divenuto pri­ vo di vie d'uscita. [ . . .] In tal modo quest'aspirazione all'ordine e alla sintesi, che nasce dalla moderna disgregazione dell'individualità, ma rimane puramente soggetti­ va, giunge a sfiorare continuamente dal punto di vista concettuale e ideo­ logico quelle tendenze che portano al rafforzamento della reazione impe­ rialistica, anzi addirittura al fascismo. In ciò si manifesta l'immanente pre­ disposizione dell'arte moderna, come sintesi formale, alle ideologie reazio­ narie dell'epoca. Dietro la musica di Leverkiihn dunque si cela la disperazione più profon­ da di un vero artista nella socialità dell'arte, anzi addirittura nella società bor­ ghese del nostro tempo. Tutti i suoi tentativi di apertura - che certo riman­ gono artisticamente immanenti - aumentano solo questa interiore contrad­ dittorietà, questa autodissoluzione dell'arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch'essa si pone per principio. Questi tentativi conducono oggetti­ vamente alla morte dell'arte. L'amico e biografo dell'eroe, che possiede per l'arte un abbandono che è ancora umanistico alla vecchia maniera, pure scri­ ve in un momento tragico: "Lungi da me l'intenzione di negare la serietà del­ l' arte, ma quando si fa sul serio si ripudia l'arte e non se n'è più capaci " . [. .. ] Perciò l'amico e biografo di Adrian Leverkiihn accenna, proprio nella descrizione di una delle sue più importanti composizioni, l'Apocalisse, al­ la "vicinanza fra estetismo e barbarie " e all"' estetismo come precursore della barbarie " . [. . . ] N ella ulteriore analisi di quest'opera egli stabilisce, del tutto inconsapevolmente, il rapporto in cui si trova la musica di Leverkiihn con le tendenze più profonde della disumanizzazione dell'arte nell'epoca imperialistica. [. .. ] E poiché questa è la cima creativa e spirituale più alta della produzione di Leverkiihn è quanto mai importante che tutto quel che c'è di buono e di nobile nell'evoluzione dell'umanità sia qui ripreso con profonda coscienza e ad alto livello artistico. Questa produzione è dunque un trionfo del diavolo. 51

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Questa però non è ancora l'ultima parola dell'opera, nemmeno di Adrian Leverki.ihn. Nell'ultimo, tragico riconoscersi e nella tarda autocriti­ ca ch'egli può fare immediatamente prima di cadere nel completo ottene­ bramento spirituale, egli celebra un processo critico al demonio, al suo stes­ so demoniaco dilaniarsi nella produzione, al suo aristocratico nihilismo. [ . . .] Anche qui dunque, in modo più greve, meno brillantemente che in Goethe, senza apoteosi, anzi con uno spaventoso auto-annientamento, si of­ fre una prospettiva oltre il demonio e oltre il demoniaco. La mancanza del­ l'apoteosi non è qui una questione esteriore, né alcunché di formale. Espri­ me piuttosto la fondamentale differenza per cui il Faust goethiano ha supe­ rato agendo, cioè nell'opera, il principio demoniaco, mentre quello man­ niano l'ha superato soltanto per il fatto che egli nell'ultima tardiva condan­ na di tutta la propria attività ha criticamente riconosciuto e smascherato questo principio demoniaco.

Con queste ultime parole di Adrian Leverki.ihn la sua tragedia di musicista si muta non solo in una tragedia della musica, dell'arte, della cultura dell'im­ perialismo - questo riferimento specifico sussisteva, come abbiamo indicato, intimamente già dall'inizio - ma al tempo stesso nella tragedia della Germa­ nia, dell'umanità che oggi vive in quella forma di vita che è la borghese. Anche questo nesso solamente alla fine consegue il punto culminante del processo verso la consapevolezza e verso la coscienza di sé. In sé esso non solo è presente dall'inizio, ma determina addirittura tutta la forma epi­ ca dell'opera. Alla fine soltanto dall'in sé nasce per sé; il culmine ideale è qui al contempo giustificazione spirituale ed artistica di tutta la struttura, di tut­ ti i principi della composizione. E ancora questo collegamento della tragedia personale dell'artista con quella della nazione e dell'umanità, si esprime in una forma estremamente peculiare, che va studiata un po' più da vicino poiché è in questa sua pecu­ liarità strutturale che giunge ad espressione chiara l'esteriore vicinanza e l'intima, profonda lontananza, anzi l'opposizione fra Thomas Mann, il suo stile, e lo stile narrativo moderno, particolarmente del romanzo. N atural­ mente si tratta del problema della configurazione del tempo, del suo svol­ gersi, nella quale le diverse correnti innovatrici del romanzo hanno nel frat­ tempo celebrato delle vere orge. Per quanto si possa decisamente rifiutare gli esperimenti nati in quest'epoca, spesso completamente vuoti, puramen­ te artificiosi, quasi fossero escogitati in un laboratorio, pur è chiaro che que­ sta tendenza (anzi questa moda) non è affatto stata una semplice stravagan­ za di letterati, bensì il rispecchiamento artistico - spesso deformato, di ma52

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niera, divenuto addirittura u n giuoco - del rapporto dell'individuo, della sua vita personale, con il proprio ambiente sociale, più precisamente con l'e­ poca storica, con quel decorso storico, di cui una frazione, un momento è costituito da questo " curriculum vitae " individuale. [ . . .] Certamente non è un caso che questa tragedia sia stata scritta dal tedesco Thomas Mann. Infatti oggi non c'è alcun altro scrittore che abbia sofferto tan­ to profondamente sia lo spirito tedesco che quello borghese, e che abbia così tenacemente lottato con la problematica che sorge da questi due momenti del­ la realtà, fra loro strettamente congiunti. È vero che Thomas Mann - ed è una caratteristica anche di questo romanzo - riesce quasi altrettanto poco che i personaggi da lui creati a tratteggiare un'immagine concreta delle forze reali che nella vita e nella cultura si oppongono al demoniaco, l'immagine del nuo­ vo "grande mondo" del popolo che va liberandosi e che si è liberato. Le dra­ matis personae spirituali di tutta la sua opera sono il dissolventesi umanesimo borghese e quelle forze reazionarie, demagogiche e mistificatrici, che questa dissoluzione utilizzano a favore del capitalismo monopolistico. Poiché egli però ha vissuto e meditato questa tragedia più dolorosamente e più profon­ damente di qualsiasi altro fra i suoi contemporanei borghesi, egli tuttavia ve­ de all'orizzonte quanto della nuova soluzione del tragico conflitto è artistica­ mente necessario ad imprimere ad esso una svolta definitiva e universale. Tho­ mas Mann scrisse molti anni fa: "Dicevo allora che le cose sarebbero andate bene in Germania e che essa avrebbe trovato se stessa soltanto quando Carlo Marx avrà letto Federico Holderlin . . . Dimenticavo di aggiungere che una co­ noscenza unilaterale avrebbe dovuto rimanere sterile" . Ma questo giudizio si­ gnifica in Mann stesso qualcosa di completamente diverso dalle occasionali vi­ sioni critiche di Adrian e di Serenus, astrattamente simpatizzanti con il nuo­ vo mondo che sta sorgendo. Questo giudizio è per Thomas Mann - ed inve­ ro in misura rilevante - una prospettiva della dissoluzione della cultura bor­ ghese del nostro tempo, in sé senza via d'uscita sospinta verso la barbarie. Per quanto dunque quel "grande mondo" , che si prepara nel popolo (senza vir­ golette), non possa ricevere in Thomas Mann alcun contenuto concreto, è tut­ tavia per lui ovunque abbastanza presente perché imprima alle tragiche de­ terminazioni del mondo che tramonta il loro ultimo inasprimento, e rappre­ senti come prigione demoniaca e mortifera il "piccolo mondo" del "puro spi­ rito", cosa che coloro che in esso vivono riescono a sentire soltanto oscura­ mente, ma senza rendersene conto fino all'ultimo, senza riuscire a mutare ta­ le sentimento in forza capace di trasformare la vita. [ . . .] Questo è il senso e la funzione artistica e spirituale dell'ultima tragica confessione di Adrian Leverkiihn: 53

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" . . . e invece di provvedere saggiamente a ciò che occorre sulla terra af­ finché la vita vi sia migliore, e di contribuire con ingegno acché tra gli uo­ mini si ristabilisca quell'ordine che offre all'opera bella motivo di vita e one­ sto adattamento, l'uomo marina la scuola e s'abbandona all'ebbrezza infer­ nale: la onde ci rimette l'anima e fa la fine delle carogne . . . " Abbiamo dovuto riportare ancora una volta queste parole perché in es­ se si esprime chiaramente questo momento nuovo: la trasformazione delle reali basi economiche e sociali della vita come premessa del risanamento di spirito e cultura, di pensiero ed arte. Il tragico eroe di Thomas Mann qui ha trovato la via che conduce a Marx, almeno nelle sue ultime chiare parole ha rotto con la vanità demoniacamente tragica del proprio cammino (quello della cultura e dell'arte borghese) , ha indicato il nuovo cammino, la via ver­ so un nuovo "grande mondo" , nel quale sarà di nuovo possibile una nuova grande arte, legata al popolo, non più demoniaca. Che il suo amico e bio­ grafo a questo punto non lo capisca, che nella propria fedeltà ad Adrian egli intraveda una fuga dal fato tedesco, che il crollo del fascismo per lui signifi­ chi la confutazione di tutta quanta la storia tedesca, tutto ciò è soltanto la necessaria cornice realistica a questa prospettiva di Thomas Mann: le ulti­ me parole di Adrian Leverkiihn sono solamente la necessaria conseguenza prospettica della tragedia della Germania e della tragedia dell'arte borghe­ se. È obiettivamente così, ma non ancora come svolta dell'intelligenza bor­ ghese verso la nuova luce, verso una azione di polverizzamento delle spesse pareti di quel carcere che è il suo "piccolo mondo" . Tuttavia l a semplice formulazione - e sia pure finemente artistica - del­ la prospettiva di una nuova situazione mondiale, per quanto sterile sia, ba­ sta a togliere a questa tragedia la sua desolazione. Thomas Mann appone qui il punto finale ad un'evoluzione di parecchi secoli. Ma, proprio per questo, tale epilogo è al tempo stesso un prologo. Il momento tragico permane in tutta la sua tetraggine, e tuttavia, - riguardato dal punto di vista dello svi­ luppo dell'umanità, - è altrettanto poco pessimistico quanto le grandi tra­ gedie di Shakespeare.

1 .3 Jean-Paul Sartre (190 5 -1980) Tra i più autorevoli e influenti uomini di cultura, scrittori e pensa­ tori francesi del Novecento, Sartre è stato profondamente influen ­ zato nella sua formazione filosofica da Husserl e Heidegger. L' espe­ rienza della Resistenza e la prigionia durante l'occupazione nazista lo portano ad avvicinarsi al pensiero di Hegel e Marx, che egli si sfor54

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za di coniugare con l'esistenzialismo e la fenomenologia. La barba­ rie della seconda guerra mondiale provoca in Sartre una reazione so­ stanzialmente opposta a quella di Adorno: ai crimini del nazifasci­ smo egli risponde con un 'estetica e poetica dell'impegno, in cui l' ar­ te assume valore per la sua capacità di negare il negativo e di opporsi alla pulsione di morte della guerra. A partire dal saggio Che cos'è la letteratura (1947) , il preponderante valore mimetico e referenziale della narrativa rispetto ad altre espressioni artistiche, meno idonee a esprimere adeguatamente la carica etica del " sopravvissuto" , è visto come un potente strumento d'opposizione in grado di affermare la vita di fronte alla potenza distruttrice del negativo. Così, anche Sar­ tre contesta la centralità del godimento nell'esperienza estetica e, benché in forma negativa, sembra comprendere le ragioni di Ador­ no: di fronte agli orrori della storia, un 'arte incapace di svincolarsi dal godimento estetico perde valore e assume, hegelianamente, un carattere di passato. In Sartre, come in Bachtin (PAR. 4. 8 ) , all' oriz­ zonte di senso che la parola poetica dischiude e insieme sigilla nel suo ambito autoreferenziale (PAR. 2. 1) , si oppone la significazione aperta della parola prosastica, il cui orizzonte non è più confinabile all'interno dell'opera perché, piuttosto, mira a presentarsi come strumento di un 'azione che irrompe nella tragedia della storia. Ogni opposizione tra forma e contenuto va pertanto eliminata: è un de­ terminato contenuto, imposto dalla scelta etica dell'impegno, a sug­ gerire allo scrittore una determinata forma, che poi egli riconfigu­ rerà nel proprio stile personale. Solo in seguito al progressivo venir meno della fiducia nelle ca­ pacità trasformative della letteratura - che coincide con lo spegner­ si della speranza in una radicale palingenesi della società dovuto al­ l'involuzione del blocco sovietico - l'arte finisce per assumere in Sartre, come in Adorno, il significato di una totale negazione dell'e­ sistente. Così egli modifica sensibilmente la sua concezione della let­ teratura, incentrata sul significato, a vantaggio di una concezione non semantica, vicina a quella di Jakobson (PAR. 2. 1) , in cui non a ca­ so è la poesia ad assumere un valore esemplare. Alla parola prosa­ stica, inizialmente esaltata per la sua capacità di trasformarsi imme­ diatamente in azione, si sostituisce ora la parola poetica, che ha la caratteristica di negarsi alla dominanza del significato, per negare a sua volta un reale ridottosi a mero esistente. Dalla poetica dell' im­ pegno , che chiedeva al singolo scrittore di superare la dimensione individualista, si passa così a un recupero della dimensione esisten55

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ziale del soggetto e al suo vissuto; dalla trasformazione rivoluziona­ ria dell'esistente, all'apertura di un mondo che gli è parallelo e irri­ ducibile (PAR. 4. 2) .

Testi DALLA PROSA DELL' IMPEGNO ALL' AUTONOl'vi.IA DELLA PAROLA POETICA

Se ci limitiamo, del resto, a considerare quella struttura secondaria del­ l'impresa che è il momento verbale, risulta che il grave errore degli stilisti puri è di credere che la parola sia uno zefiro che corre lievemente sulla su­ perficie delle cose, che le sfiora senza alterarle. E che il parlatore sia un pu­ ro testimone, il quale riassume con una parola la propria contemplazione inoffensiva. Parlare è agire: la cosa che viene nominata non è già più la stes­ sa, ha perduto la propria innocenza. Dare un nome alla condotta di un in­ dividuo è rivelargliela: lui si vedrà. E poiché, contemporaneamente, voi la presentate con un nome a tutti gli altri, lui sa di essere visto intanto che si vede; il gesto furtivo, che dimenticava proprio al momento di compierlo, comincia a esistere con evidenza, a esistere per tutti, si integra nello spiri­ to oggettivo, assume dimensioni nuove, viene recuperato. Dopo di che, può l'individuo continuare ad agire come prima? O persevererà nella sua condotta per ostinazione e con conoscenza di causa, oppure l' abbando­ nerà. Così, nel parlare, svelo la situazione mentre progetto di cambiarla; la svelo a me stesso e agli altri per cambiarla; la colpisco nel suo nocciolo, la trafiggo e la fisso agli sguardi di tutti; ora ne dispongo, a ogni parola che dico m'impegno sempre di più nel mondo, e nel tempo stesso ne emergo un po' di più, dato che lo supero in direzione dell'avvenire. Così il prosa­ tore è un uomo che ha scelto un certo modo d'azione secondaria che si po­ trebbe chiamare l'azione per rivelazione. È quindi legittimo porgli questa seconda domanda: che aspetto del mondo vuoi svelare, quale cambia­ mento vuoi apportare al mondo con questa rivelazione? Lo scrittore «im­ pegnato» sa che la parola è azione: sa che svelare è cambiare, e che non si può svelare se non progettando di cambiare. Ha abbandonato il sogno im­ possibile di dare un quadro imparziale della Società e della condizione umana. L'uomo è l'essere di fronte al quale nessun essere, nemmeno Dio, può restare imparziale; Dio, infatti, se esiste, sarebbe, come hanno giusta­ mente individuato certi mistici, «in situazione» rispetto all'uomo. L'uomo è anche l'essere che non può vedere una situazione senza cambiarla, per­ ché il suo sguardo congela, distrugge o scolpisce o, come fa l'eternità, cam-

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bia l'oggetto i n se stesso. È nell'amore, nell'odio, nella collera, nella pau­ ra, nella gioia, nell'ammirazione, nella speranza, nella disperazione che l'uomo e il mondo si rivelano nella loro verità. Senza dubbio lo scrittore impegnato può essere mediocre, può perfino aver coscienza di esserlo, ma siccome non si può scrivere senza l'intento di riuscire alla perfezione, co­ sì la modestia con cui egli considera la sua opera non deve impedirgli di costruirla come se questa dovesse avere la più vasta risonanza. Non deve mai dirsi: «Bah, avrò al massimo tremila lettori»; ma invece: «Che acca­ drebbe se tutti leggessero ciò che scrivo? ». Deve ricordare la frase di Mo­ sca di fronte alla carrozza che portava via Fabrizio e la Sanseverina: «Se la parola amore viene pronunciata tra di loro, sono perduto». Sa di essere l'uomo che dà un nome a ciò che ancora non ha un nome o che non osa dirlo, sa di far «nascere» la parola amore e la parola odio e, con esse, l'a­ more e l'odio fra uomini che non avevano ancora preso alcuna decisione circa i propri sentimenti. Sa che le parole, come dice Brice-Parain, sono «rivoltelle cariche». Se parla, spara. Può tacere, ma poiché ha deciso di sparare bisogna che lo faccia da uomo, mirando al bersaglio, e non come un bambino, a caso, chiudendo gli occhi e per il solo piacere di udire la detonazione. Cercherò, in seguito, di definire quale potrebbe essere lo scopo della letteratura. Ma fin d'ora possiamo concludere che lo scrittore ha scelto di svelare il mondo e, in particolare, l'uomo agli altri uomini, per­ ché questi assumano di fronte all'oggetto così messo a nudo tutta la loro responsabilità. Nessuno può ignorare la legge, perché c'è un codice, e la legge è scritta: dopodiché, liberi di violarla, ma conoscendo i rischi che si corrono. Analogamente, la funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo o possa dirsene innocente. E poiché si è impe­ gnato una volta per tutte nell'universo del linguaggio, non può più finge­ re di non saper parlare: se si entra nell'universo dei significati, non si può più uscirne; se si lascia che le parole si organizzino in libertà, formeranno delle frasi e ogni frase contiene l'intero linguaggio e rimanda a tutto l'uni­ verso; anche il silenzio si definisce in rapporto alle parole, come la pausa musicale prende senso dai gruppi di note che l'affiancano. Il silenzio è un momento del linguaggio; tacere non significa esser muti, ma rifiutarsi di parlare, quindi ancora parlare. Perciò, se uno scrittore ha scelto di tacere su un aspetto qualsiasi del mondo o - secondo una locuzione che dice be­ ne ciò che vuoi dire - di passarlo sotto silenzio, si ha il diritto di porgli una terza domanda: perché hai parlato di questo, piuttosto che di quest'altro e - dal momento che parli per cambiare - perché vuoi cambiare questo, piuttosto che quest'altro? Tutto ciò non impedisce affatto che ci sia modo e modo di scrivere. Non si è scrittori solo perché si è scelto di dire certe cose, ma perché si è 57

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scelto di dirle in un certo modo. E lo stile, senza alcun dubbio, dà valore alla prosa. Ma deve passare inosservato. Poiché le parole sono trasparenti e lo sguardo le passa da parte a parte, sarebbe assurdo far scivolare in mez­ zo dei vetri offuscati. La bellezza, in questo caso, è solamente una forza dol­ ce e insensibile. Da un quadro erompe subito, in un libro si nasconde, agi­ sce per via di persuasione, come il fascino d'una voce e d'un viso; non co­ stringe, ma persuade senza averne l'aria, sì che si crede di cedere di fronte a certi argomenti mentre si è invece attratti da un fascino invisibile. Il ceri­ moniale della messa non è fede, ma dispone l'animo alla fede; l'armonia del­ le parole, la loro bellezza, l'equilibrio delle frasi dispongono le passioni del lettore senza che questi se ne accorga, le ordinano come la messa, la musi­ ca, o una danza; se il lettore si mette a considerarle una per una, ne smar­ risce il senso e non resta che un tedioso ondeggiare. Nella prosa, il piacere estetico è puro soltanto se viene oltre al resto. Si arrossisce di dover ram­ mentare idee così semplici, eppure oggi sembrano dimenticate. Altrimenti non ci verrebbero forse a dire che stiamo meditando l'assassinio della let­ teratura, o più semplicemente, che l'impegno nuoce all'arte di scrivere? Se la contaminazione d'una certa prosa da parte della poesia non avesse con­ fuso le idee dei nostri critici, penserebbero forse ad attaccarci sulla forma quando abbiamo sempre parlato della sostanza? Sulla forma non c'è nien­ te da dire a priori, e noi non abbiamo detto niente: ognuno inventa la pro­ pria, e la si giudica in seguito. È vero che i temi propongono lo stile: ma non lo impongono; non ce n'è a priori, al di fuori dell'arte letteraria. Prendiamo il proposito di attaccare la Compagnia di Gesù: un argomento più impe­ gnato e noioso è addirittura impensabile, eppure Pasca! ne ha la fatto le Pro­ vinciales. Si tratta, insomma, di sapere su che cosa si vuoi scrivere: sulle far­ falle o la condizione degli ebrei. E quando lo si sa, resta da decidere in che modo scrivere. Spesso le due scelte si confondono in una sola, ma, nei buo­ ni scrittori, la seconda scelta non precede mai la prima. So che Giraudoux diceva: «L'unico problema è trovare il proprio stile, l'idea viene dopo». Ma aveva torto: l'idea non è venuta. Se si considerano gli argomenti come pro­ blemi sempre aperti, come istanze, attese, appare evidente che l'arte non perde nulla a impegnarsi; al contrario. Come la fisica propone ai matema­ tici sempre nuovi problemi che li obbligano a produrre un nuovo simboli­ smo, così le rinnovate esigenze della società o della metafisica impegnano l'artista a trovare una lingua nuova e nuove tecniche. Se non scriviamo co­ me nel secolo XVII è perché la lingua di Racine e di Saint- Évremond non si presta a parlare delle locomotive o del proletariato. Dopodiché i puristi ci impediranno, forse, di scrivere sulle locomotive. Ma l'arte non è mai stata dalla parte dei puristi.

[. .. ]

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Appena h o detto: buongiorno, come sta? , non so più se i o uso u n linguag­ gio oppure se è il linguaggio che usa me. Lo uso: ho voluto salutare nella sua particolarità un uomo che ho il piacere di rivedere; mi usa: io non ho fatto altro che riattualizzare - con intonazioni particolari, è vero - un luo­ go comune del discorso, che si afferma attraverso me e, da questo istante, tutto il linguaggio è presente e, nella conversazione che segue, vedrò le mie intenzioni deviate, limitate, tradite, arricchite dall'insieme articolato dei morfemi. Così il linguaggio, strano modo di collegamento, mi unisce come altro all'altro in quanto altro, nella misura in cui esso ci unisce come mede­ simi, cioè come soggetti comunicanti intenzionalmente. Lo scopo dello scrittore non è, in nessun modo, quello di sopprimere tale situazione para­ dossale, ma di sfruttarla al massimo e di fare del suo essere-nel-linguaggio l'espressione del suo essere-nel-mondo. Egli utilizza le frasi come agenti di ambiguità, come presentificazione di quel tutto strutturato che la lingua è, egli gioca sulla pluralità dei sensi, si serve della storia dei vocaboli e della sintassi per creare dei sovrasignificati assurdi; ben lontano dal voler com­ battere i limiti della sua lingua, ne fa uso in maniera da rendere il suo lavo­ ro quasi incomunicabile ad altri che non siano i suoi compatrioti, rinca­ rando la dose a proposito del particolarismo nazionale nel momento in cui offre dei significati universali. Ma nella misura in cui fa del non -significan­ te la materia propria della sua arte, non pretende di produrre giochi di pa­ role assurdi (anche se la passione per i calembours - come si vede in Flau­ bert - non è una cattiva preparazione alla letteratura) ; egli mira piuttosto a presentare i significati sfocati come si presentano attraverso il suo essere­ nel-mondo. Lo stile, effettivamente, non comunica alcun sapere: produce l'universale singolare mostrando contemporaneamente la lingua come ge­ neralità, la quale produce lo scrittore e lo condiziona interamente nella sua fatticità, e lo scrittore come awentura, che si ripiega sulla propria lingua oppure ne assume gli idiotismi e le ambiguità per dare testimonianza della sua singolarità pratica e per imprigionare il suo rapporto con il mondo, in quanto vissuto, nella presenza materiale delle parole. «L'io è detestabile; lei, Mi ton, lo copre ma non lo caccia». Il significato in questa frase di Pasca! è universale, ma il lettore lo apprende attraverso questa brusca singolarità non significante - lo stile - che ormai si attaccherà così bene a esso che egli potrà pensare l'idea solo attraverso questa singolarizzazione, cioè attraver­ so Pasca! che la pensa. Lo stile è la lingua nella sua totalità, che prende su di sé, per la mediazione dello scrittore, il punto di vista della singolarità ! Non è, beninteso, che un modo - ma fondamentale - di presentare l'esse­ re-nel-mondo. Ve ne sono cento altri, di cui bisogna far uso simultanea­ mente, e che connotano lo stile di vita dello scrittore (scioltezza, durezza, vivacità folgorante dell'attacco o, al contrario, lenti incipit, preparazioni sa59

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pienti, che sfociano poi in bruschi e rapidi scorci, ecc.) . Tutti sanno di co­ sa voglio parlare: di tutti quei caratteri che presentano un uomo come se si sentisse quasi il suo respiro ma senza farlo conoscere. Questo uso fondamentale del linguaggio non può neppure esser ten­ tato se non per fornire nello stesso tempo alcuni significati. Senza signifi­ cato, nessuna ambiguità, l'oggetto non viene ad abitare la parola. Come parlare allora dei rapidi scorci? Scorci di che cosa? Il proposito essenziale dello scrittore moderno, che è quello di lavorare l'elemento non signifi­ cante del linguaggio comune per far scoprire al lettore l'essere-nel-mondo di un universale singolare, voglio chiamarlo: ricerca del senso. È la presen­ za della totalità nella parte: lo stile è al livello della interiorizzazione del­ l' esteriorità, nello sforzo singolare di superamento verso i significati; è ciò che si potrebbe chiamare il sapore dell'epoca, il gusto del momento stori­ co così come essi appaiono a una persona formata singolarmente dalla stes­ sa storia. Ma, benché fondamentale, tutto questo resta in secondo piano poiché non raffigura che l'inserimento nel mondo dello scrittore: ciò che viene pre­ sentato in tutta chiarezza, è l'insieme significante che corrisponde al mon­ do davanti, così come appare, universale, sotto una angolazione condizio­ nata dal mondo di dietro. Ma i significati non sono che dei quasi-significa­ ti, e il loro insieme non costituisce che un quasi-sapere: prima di tutto per­ ché essi sono scelti come i mezzi del senso e perché si radicano nel senso (in altre parole perché essi sono costituiti a partire dallo stile, espressi dallo sti­ le e, come tali, sfocati fin dalla loro origine) , e poi perché di per sé essi ap­ paiono come ritagliati nell'universale mediante una singolarità (così com­ prendono, essi stessi, l'unità e la contraddizione esplosiva del singolare e dell'universale). Tutto ciò che può essere dato in un romanzo può appari­ re come universale, me è una falsa universalità che denuncia se stessa o che è denunciata dal resto del libro. [. .. ] Non è possibile, oggi, che uno scrittore non viva il suo essere-nel-mon­ do sotto forma di essere-nel-One World, cioè senza sentirsi colpito, nella sua vita, dalle contraddizioni dell'One World (ad esempio: armamento ato­ mico, guerra di popolo, con quello sfondo permanente: la possibilità per gli uomini di distruggere radicalmente la specie umana, la possibilità di an­ dare verso il socialismo). Ogni scrittore che non si proponesse di rendere il mondo della bomba atomica e delle ricerche spaziali così come egli lo ha vissuto nell'oscurità, nell'impotenza e nella preoccupazione, parlerebbe di un mondo astratto, non di quel mondo, e non sarebbe che un giocherel­ lone o un ciarlatano. Poco importa il modo con cui renderà conto del suo inserimento nella congiuntura: basta che un'angoscia pur vaga che si tra6o

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scini d i pagina i n pagina riveli l'esistenza della bomba, non c ' è allora alcun bisogno di parlare della bomba. Bisogna invece che la totalizzazione si fac­ cia nel non-sapere e viceversa; in quanto la vita è il fondamento di tutto e negazione radicale di ciò che la mette in pericolo, la totalizzazione non è passivamente interiorizzata ma colta dal punto di vista dell'importanza unica della vita. L'ambivalenza che è il fondamento dell'opera letteraria sa­ rebbe molto ben etichettata da una frase di Malraux, «una vita non vale niente, niente vale una vita», che unifica il punto di vista del mondo di die­ tro (producente e schiacciante ogni vita nell'indifferenza) e il punto di vi­ sta della singolarità che si scaglia contro la morte e che si afferma nella sua autonomia.

1 .4 Herbert Marcuse (1898-1979) Sostenitore di una concezione innovativa del marxismo, Marcuse, che si era formato filosoficamente con Heidegger e Husserl, è stato tra i massimi esponenti della Scuola di Francoforte. Costretto all'esi­ lio negli Stati Uniti dall'avvento del nazismo, divenne tanto in Ame­ rica quanto in Europa uno dei punti di riferimento dei movimenti di contestazione degli anni sessanta. Marcuse definisce nel modo più limpido il suo pensiero sull'arte nella Dimensione estetica (I97 6- 77 ) , una sorta di testamento spiritua­ le che sancisce il valore ineliminabile dell'arte in quanto critica, ne­ gazione e trascendimento dell'ordine costituito. Così, pur condivi­ dendone le premesse, le conclusioni cui perviene Marcuse sono pa­ radossalmente opposte a quelle di Adorno: di fronte all'esigenza di ricucire la lacerazione aperta dall'idealismo tra un reale abbandona­ to al dominio della ragione strumentale e un dover essere consegnato alla sfera utopica dell'ideale, Marcuse non può accettare che l'arte taccia. Al trionfo del potere omologante della ragione strumentale del mondo borghese, alla logica di un ordine che reprime ogni impulso sensibile e ogni differenza individuale, Marcuse oppone quindi il po­ tere liberatorio della dimensione sensuale dell'esperienza estetica, sviluppando alcune celebri considerazioni di Eros e civiltà (1956) ispi­ rate dalla psicoanalisi freudiana. Così, pur teorizzando una conce­ zione schiettamente negativa del senso dell'opera, connessa con la ra­ dicale negazione e col totale rifiuto dello pseudo-senso di cui si am­ manta l'ordine costituito, Marcuse - come Bloch - riconosce all'arte 6r

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un ruolo guida nell'ideazione di una società futura, capace di supe­ rare le degradanti contraddizioni dell'esistente. N ella Dimensione estetica Marcuse lascia cadere ogni riserva nei confronti del potere libera torio dell'arte che, in opere precedenti come Cultura e società. Saggi di teoria critica (1 9 3 3 - 65 ) , era esposto al sospetto di costituire una fuga o un palliativo di fronte all'infeli­ cità del mondo reale. La realtà contemporanea sembra aver perdu­ to definitivamente la possibilità di accogliere un senso che, sottrat­ to alla sfera storico-politica, può ormai essere ritrovato solo nella dimensione negativa e surreale dell'opera d'arte. È in questa pro­ spettiva che Marcuse, pur nella consapevolezza del rischio che l' ar­ te assuma una funzione consolatoria, insiste a lungo sull'importan­ za del bello , distanziandosi da Adorno e in polemica con il " reali­ smo socialista" . Nel rifiutarsi al ruolo di mero appagamento di bi­ sogni esteriori, cui intenderebbe ridurla l'industria culturale, la di­ mensione estetica - di cui il bello è parte essenziale - finisce per co­ stituire l'ultima possibilità di riscatto di fronte a un tragico moder­ no che perde i contorni determinati della sua storicità, per assume­ re quelli di una metafisica esistenziale. Sullo sfondo di questa in ­ terpretazione pantragica della storia, in cui l' esistente coincide pun ­ to per punto con il reale, la dimensione estetica assume una nuova centralità anche grazie alla capacità di riappropriarsi della forza cri­ tica e negativa che le riconosce Adorno e di delineare un ordine ir­ riducibile al costituito.

Testi LA DIMENSIONE ESTETICA

Il mondo sotteso nell'arte non è mai e da nessuna parte solamente il mondo dato della realtà quotidiana, ma non è nemmeno un mondo di mera fanta­ sia, illusione e così via. Esso non contiene nulla che non esista anche nella realtà data, le azioni, i pensieri, i sentimenti e i sogni di uomini e donne, le loro potenzialità e quelle della natura. Ciononostante il mondo di un' ope­ ra d'arte è «irreale» nel senso comune della parola. È una realtà fittizia. Ma è «irreale» non perché sia meno, ma perché è più reale oltre che qualitati­ vamente «altro» rispetto alla realtà stabilita. Come mondo fittizio, come il­ lusione (Schein ) esso contiene più verità di quanta ne contenga la realtà quotidiana. Perché quest'ultima è mistificata nelle sue istituzioni e nelle

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sue relazioni, che rendono la necessità una scelta e l'alienazione un'auto­ realizzazione. Solo nel «mondo illusorio» le cose appaiono come ciò che sono e ciò che possono essere. In virtù di questa verità (che solo l'arte può esprimere in una rapp resentazione sensuale) il mondo è invertito: è la realtà data, il mondo ordinario che ora appare come una realtà bugiarda, falsa, ingannevole. Il mondo dell'arte come apparenza di verità, la realtà quotidiana come bugiarda, deludente; questa tesi dell'estetica idealistica ha trovato formula­ zioni scandalizzanti: .. .l'intera sfera della realtà empirica interiore ed esteriore deve essere chiamata, in un senso più forte di quello riservato all'arte, un mondo di m era illusione e di un in­ ganno più amaro, piuttosto che il mondo della realtà. La vera realtà va trovata solo oltre l'immediatezza della sensazione e degli oggetti esterni.

La logica dialettica può fornire significato e giustificazione a queste affer­ mazioni. Esse trovano la loro verità materialistica nell'analisi marxista del­ la divergenza tra essenza e apparenza nella società capitalistica. Ma nel con­ fronto fra arte e realtà esse diventano una beffa. Auschwitz e My Lai, la tor­ tura, la fame e la morte - questo intero mondo deve essere pensato come «mera illusione» e «inganno più amaro»? Al contrario quel che resta è piut­ tosto la realtà «più amara» e quasi inimmaginabile. L'arte si sottrae a que­ sta realtà perché non può rappresentare il dolore senza sottoporlo alla for­ ma estetica e quindi alla catarsi mitigatrice, al godimento. L'arte è inesora­ bilmente infestata da questa colpa. Eppure questo non libera l'arte dalla ne­ cessità di ricordare sempre ciò che può sopravvivere persino ad Auschwitz e forse un giorno renderlo impossibile. Se anche questa memoria dovesse essere ridotta al silenzio, allora davvero la «fine dell'arte» sarebbe arrivata. L'arte autentica conserva questa memoria nonostante e contro Auschwitz; questa memoria è il terreno nel quale l'arte ha sempre avuto origine, que­ sta memoria e il bisogno di creare immagini del possibile «altro». L'ingan­ no e l'illusione hanno sempre caratterizzato la realtà costituita nel corso della storia documentata. E la mistificazione è una caratteristica non solo della società capitalistica. L'opera d'arte, d'altro canto, non nasconde ciò che è: lo rivela. La potenzialità dell' «altro» che appare nell'arte è metastorica in quan­ to trascende qualunque e ogni situazione storica specifica. La tragedia è sempre e dovunque mentre la satira la segue sempre e dappertutto; la gioia svanisce più velocemente del dolore. Questa intuizione, espressa intrinseca­ mente nell'arte, se pure può ben infrangere la fede nel progresso, può anche tuttavia tenere in vita un'altra immagine della prassi e dei suoi obiettivi, cioè la ricostruzione della società e della natura secondo il principio dell'a cc re-

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scimento del potenziale umano di felicità. La rivolta è per amore della vita, non della morte. Qui è forse l'affinità più profonda tra arte e rivoluzione. La risoluzione di Lenin di essere incapace di ascoltare le sonate di Beethoven, che ammirava così tanto, testimonia della verità dell'arte. Lenin stesso lo sa­ peva e rifiutava questa consapevolezza . . . . troppo spesso non riesco ad ascoltare la musica. Essa agisce sui nervi. Uno prefe­ rirebbe balbettare sciocchezze e accarezzare la testa di persone che vivono in uno sporco inferno e che, ciononostante, riescono a creare tanta bellezza. Ma oggi uno non può accarezzare la testa di nessuno - gli staccherebbero la mano con un morso. Bisogna picchiare le teste, picchiare senza pietà - anche se idealmente siamo contro ogni violenza.

In realtà l'arte non sottostà alla legge della strategia rivoluzionaria. Ma for­ se quest'ultima incorporerà un giorno un po' della verità insita nell'arte. L'affermazione di Lenin «mi vien voglia di. .. » esprime non una preferenza personale ma un'alternativa storica, un'utopia da tradurre nella realtà. C'è inevitabilmente, nell'arte, un elemento di hybris: l'arte non può tra­ durre la sua visione nella realtà. Essa rimane un mondo «fittizio», anche se come tale vede attraverso e anticipa la realtà. Così l'arte corregge la propria idealità. La speranza che essa rappresenta non dovrebbe restare meno idea­ le. Questo è l'imperativo categorico nascosto dell'arte. La sua realizzazione resta fuori dall'arte. Certo, la «umanità pura» dell'Ijigen ia di Goethe si rea­ lizza nella scena d'addio del dramma, ma solo lì, nel dramma stesso. È as­ surdo concludere che noi abbiamo bisogno di più Ifigenie che predichino il vangelo dell'umanità pura e di più re che le accettino. Inoltre, sappiamo da molto tempo che l'umanità pura non redime tutte le afflizioni e i crimini umani: piuttosto diventa la loro vittima. Così essa rimane ideale: il grado del­ la sua realizzazione dipende dalla lotta politica. L'ideale entra in questa lot­ ta solo come fine, telos; esso trascende la prassi data. Oggi la «umanità pu­ ra» ha forse trovato la propria rappresentazione letteraria più vera nella fi­ glia sordomuta di Madre Coraggio, che è uccisa da una banda di soldati men­ tre sta salvando la città con il suo rullo di tamburo. Sorge ora la domanda: gli elementi trascendenti, critici, della forma este­ tica sono operativi anche in quelle opere d'arte che sono prevalentemente affermative? E viceversa: la negazione estrema nell'arte contiene ancora l'af­ fermazione? La forma estetica, in virtù della quale un'opera si erge contro la realtà costituita, è, allo stesso tempo, una forma di affermazione attraverso la ca­ tarsi riconciliante. Questa catarsi è un evento antologico piuttosto che psi­ cologico. È fondato sulle qualità specifiche della forma stessa, sul suo or­ dine non repressivo, sul suo potere conoscitivo, sulla sua immagine di sof'

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ferenza che è arrivata alla fine. Ma la «soluzione», l a riconciliazione che offre la catarsi, preserva anche l'irriconciliabile. La relazione interna fra i due poli può essere illustrata con due esempi di affermazione estrema e di negazione estrema: il «Tiirmerlied» (il canto del custode della torre) nel Faust di Goethe: Thr gliicklichen Augen, Was je ihr geseh'n, Es sei wie es wolle, Es war doch so schon.

Voi occhi felici Ciò che avete visto Sia come sia Era così bello.

E le ultime parole nell'ultima scena del Vaso di Pandora di Wedekind: O Verflucht !

Maledizione !

Si può ancora parlare di affermazione estetica in quest'ultima scena? Nella sporca soffitta in cui J ack lo Squartato re compie la sua azione, l'orrore fini­ sce. Anche qui la catarsi ha ancora il potere di affermazione? Le ultime pa­ role della duchessa morente Geschwitz («Maledizione !») sono una maledi­ zione pronunciata in nome dell'amore, amore brutalmente distrutto e umi­ liato. Il grido finale è quello della ribellione; esso afferma in tutto quell'or­ rore il potere impotente dell'amore. Persino qui, nelle mani dell'assassino e accanto al corpo massacrato dell'amata Lulu, una donna emette il grido del­ l'eternità della felicità: «Mein Engel ! - Lass dich noch einmal sehen ! Ich bin dir nah ! Bleibe dir nah - in Ewigkeit ! . . . O Verflucht ! » [Mio angelo ! - La­ sciati guardare ancora una volta ! Io ti sono vicino ! Ti resterò vicino - per l 'eternità . . . Maledizione ! ] . In modo simile, nei drammi più terribili di Strindberg, dove uomini e donne sembrano vivere solo di odio, di vuoto e di malizia, risuona l'urlo del Traumspiel: «Es ist Schade um die Menschen» [È un peccato per gli uomini] . Questa unità d i affermazione e negazione prevale anche nell'esuberan­ te e apollineo canto della vendetta del castello nel Faust? Il «ciò che hai vi­ sto» invoca la memoria del dolore passato. La felicità ha l'ultima parola, ma è una parola di ricordo. E, nell'ultima riga, l'affermazione porta un tono di dolore e di sfida. Nella sua analisi della poesia di Goethe iiber allen Gipfeln . . . (canto not­ turno del viandante . . . ), Adorno ha mostrato come la forma letteraria più al­ ta preservi la memoria dell'angoscia nel momento di pace: Le opere liriche più grandi devono la loro dignità precisamente alla forza con cui l'Io, ritornando dall'alienazione, invoca l'immagine (Schein) della natura. La loro pu­ ra soggettività, quella che sembra intatta e armoniosa in loro, testimonia l'opposto:

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l a sofferenza in un'esistenza aliena a l soggetto, così come all'amore di questa esi­ stenza. Certo, la loro armonia in realtà non è altro che l'accordo fra tale sofferenza e tale amore. Persino il 'Warte nur, balde l ruhest du auch' [Aspetta, fra poco l ripo­ serai anche tu] ha il gesto di consolazione: la sua bellezza abissale non può essere se­ parata da ciò che tiene sotto silenzio: l'immagine di un mondo che rifiuta la pace. So­ lo perché il tono della poesia commisera questo dolore, esso può sostenere che ci do­ vrebbe tuttavia essere la pace.

La produzione della forma estetica obbedisce alla legge del Bello e la dia­ lettica dell'affermazione e della negazione, della consolazione e del dolore è la dialettica del Bello. L'estetica marxista ha rifiutato nettamente l'idea del Bello, la categoria centrale dell'estetica «borghese». Sembra dawero difficile associare questo concetto con l'arte rivoluzionaria; sembra irresponsabile, snobistico parlare del Bello di fronte alle necessità della lotta politica. Inoltre, l'Establishment ha creato ed effettivamente venduto bellezza sotto forma di purezza plasti­ ca e piacevolezza - un'estensione dei valori di scambio alla dimensione este­ tico-erotica. Ciononostante, in contrasto con tali realizzazioni conformiste, l'idea della Bellezza appare ancora in movimenti progressivi, come un aspet­ to della ricostruzione della natura e della società. Quali sono le origini e in cosa consiste questo potenziale politico radicale? Prima di tutto nella qualità erotica del Bello, che persiste attraverso tut­ ti i cambiamenti nel «giudizio di gusto». Per quanto riguarda il dominio del­ l'Eros, il Bello rappresenta il principio del piacere. Così si ribella contro il prevalente principio di realtà della dominazione. L'opera d'arte usa il lin­ guaggio della liberazione, ed evoca le immagini liberatorie della sottomis­ sione della morte e della distruzione alla volontà di vivere. Questo è l' ele­ mento emancipa torio nell'affermazione estetica. Tuttavia, in un certo senso, il Bello sembra essere «neutrale». Può esse­ re una qualità di totalità (sociale) sia regressiva che progressiva. Si può par­ lare della bellezza di una festa fascista (Leni Riefenstahl l'ha filmata ! ). Ma la neutralità del Bello si mostra come inganno se ciò che sopprime o nascon­ de è riconosciuto. La chiarezza e l'immediatezza della presentazione visiva impedisce questo riconoscimento; può reprimere l'immaginazione. In contrasto, la rappresentazione del fascismo diventa possibile in let­ teratura perché la parola, non zittita o sopraffatta dall'immagine, porta li­ beramente il riconoscimento e la denuncia. Ma la funzione cognitiva della mimesi può raggiungere solo i protagonisti e i loro seguaci, non il sistema che essi incorporano, né l'orrore dei loro misfatti, che sono oltre il potere di bandire della mimesi catartica. Così, la stilizzazione pietrifica i signori del terrore in monumenti che soprawivono, blocchi di memoria che non devo­ no essere consegnati all'oblio. 66

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I n u n numero d i opere (per esempio l e poesie d i Brecht, l a sua Resisti­ bile ascesa di Arturo Ui e Terrore e miseria del Terzo Reich; I sequestrati di Al­ tona di Sartre, Anni di cane di Giinter Grass; Fuga di morte di Paul Celan), la mimesi trasformante termina nel riconoscimento dell'infame realtà del fa­ scismo, nella sua concretezza quotidiana, sotto la sua apparenza storica mondiale. E questo riconoscimento è un trionfo: nella forma estetica (del dramma, della poesia, del romanzo) il terrore è evocato, chiamato per nome e costretto a testimoniare, a denunciare se stesso. È solo un momento di trionfo, un momento nel flusso di coscienza. Ma la forma l'ha catturato e gli ha dato la sua permanenza. In virtù di questa conquista della mimesi, que­ ste opere contengono la qualità della Bellezza nella sua forma forse più su­ blimata: come Eros politico. Nella creazione di una forma estetica, nella quale l'orrore del fascismo continua a urlare nonostante tutte le forze di re­ pressione e di oblio, gli istinti di vita si ribellano contro la fase sadomaso­ chista globale della civiltà contemporanea. Il ritorno del represso, raggiun­ to e preservato nell'opera d'arte, può intensificare questa ribellione. L'opera d'arte compiuta perpetua la memoria del momento di gratifi­ cazione. E l'opera d'arte è bella nella misura in cui oppone il proprio ordi­ ne a quello della realtà, il proprio ordine non repressivo dove persino la ma­ ledizione è ancora pronunciata in nome dell'Eros. Appare nel breve mo­ mento di appagamento, di tranquillità, nel «bel momento» che arresta la di­ namica incessante e il disordine, il bisogno costante di fare tutto ciò che de­ ve essere fatto per continuare a vivere. Il Bello appartiene all'immaginario della liberazione.

1.5 Ernst Bloch (188 5 -1977) La concezione dell'esperienza estetica sviluppata da Bloch assume il punto di vista della dialettica negativa, ma lo orienta in una direzione del tutto autonoma rispetto ad Adorno. Esponente tra i maggiori del marxismo occidentale, Bloch fu costretto per motivi politici e razzia­ li a lasciare la Germania all'avvento del nazismo. Dopo la guerra si stabilì nella Repubblica Democratica Tedesca, dove per la prima vol­ ta ottenne una cattedra di filosofia. Tuttavia la sua concezione utopi­ co-messianica del marxismo lo pose in contrasto con i settori più or­ todossi del governo fino a indurlo, nel 1 9 61, a emigrare nella Repub­ blica Federale di Germania. Alla riflessione sull'arte svolta da Bloch è stato mosso il rilievo di aver sottovalutato la serietà del tragico e la cesura apertasi con la

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Shoah . E in effetti, nella vasta mole di scritti da lui dedicati al tema

estetico, il problema di un mutamento della funzione dell'arte dopo la tragedia della seconda guerra mondiale non sembra aver corso, mentre si conserva, coerentemente, la sua concezione dell'opera d' ar­ te come manifestazione di una dimensione utopica, portatrice di una prospettiva liberatoria volta a rimettere in questione il tentativo del­ le classi dominanti di ipostatizzare l'esistente come prodotto di un 'i­ nevitabile necessità trascendente. Tuttavia, in un testo non tematica­ mente estetico, Ateismo nel cristianesimo ( r 9 68 ) , l'epoca moderna e l'ottimismo razionalistico dei suoi albori, rappresentato dal pensiero illuministico ormai destituito di senso, sono osservati sotto il profilo di una cesura tragica. Così quell'utopia concreta , di cui anche l'opera riuscita partecipa, rifiuta qui ogni via di fuga di fronte alla forza del negativo, al male radicale che minaccia il corso del mondo; e la sfera oppressiva del presente e del meramente dato mostra di poter essere trascesa solo prendendo coscienza, fino in fondo, del lato oscuro ce­ lato dietro la sua apparenza trionfante. In parallelo con queste riflessioni "teologico-politiche" (CAP. 4), la concezione blochiana dell'arte - al contrario di quella di Marcuse e di Lukacs - tende a considerare autenticamente rappresentative dell'epoca moderna solo le opere di quegli autori che più radical­ mente hanno saputo rompere con il classicismo (Beckett, Brecht, Frisch , Handke, Walser, Weiss ) , considerandole come le più ade­ guate a svolgere il compito di rottura con l'esistente che è proprio dell'arte. Lo stesso piacere estetico è in tal modo assunto tra i tratti distintivi del classicismo, la cui funzione, nonostante il ruolo deter­ minante svolto in altre epoche storiche, nel mondo contemporaneo finirebbe per occultare l'esigenza di contrastare l'irrazionalità e l'op­ pressione dell'ordine costituito.

Testi L' ESPERIENZA ESTETICA TRA PRINCIPIO SPERANZA E DIALETTICA NEGATIVA

All 'antichità il male non sembrò una debolezza, ed il suo solo fantasma costi­ tuiva per la vita originaria una grande minaccia. Ma tutto cambiò quando gli uomini trovarono una maggiore sicurezza e la realtà esterna apparve meno pe­ ricolosa. Si smise il trotto da minorenni, si osò servirsi del proprio intelletto. 68

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Questo atteggiamento divenne più generale e d evidente nei tempi dell'illumi­ nismo (che anche etimologicamente significa chiarificare, dissolvere la caligi­ ne) . L'illuminismo del XVIII secolo fu il più cosciente e, rispondendo alla vo­ lontà borghese di allora, si sforzò di andare verso il limpido abbandonando il tetro, l'oppressivo e l'oscuro in cui così a lungo si era rimasti. In queste pro­ spettive l'esser-ci apparve allora sereno e gentile e, messi a parte gli inganni dei principi e dei sacerdoti, le bende caddero dagli occhi. La fedeltà al mondo fe­ ce sì che si distogliesse lo sguardo dal male che ovunque perdura, dalla mise­ ria, dalle malattie, dalla guerra e da ogni inquietudine, come se tutto ciò non foss'altro che illusione o, peggio ancora, relitto medievale. Dapprima ci si sba­ razzò in maniera salutare dell'immensa angoscia dei fantasmi e degli orrori del­ la caccia alle streghe, iniquità aggiunte a quelle reali e ancor capaci di supe­ rarle. In questo l'illuminismo si dimostrò nemico mortale della notte, quand'essa malvagiamente incita ai parti infernali racchiudendoli in sé. Ci si appellò all'uomo intelligente ponendolo al posto dell'uomo coraggioso ma an­ cor preda delle superstizioni, ci si volse " contro le tentazioni dell'orrore della notte" e contro ogni complice partecipazione a ciò. [. .. ] Ma quando il terre­ moto di Lisbona nel 1 755 fece nascere l'orrore per questo mondo, il migliore di tutti, allora il male non sembrò più una semplice assenza del bene. Non si sep­ pe far altro che ripresentare una Bibbia dispotica secondo gli antichi canoni ri­ fiutati dallo stesso illuminismo, per inquadrare di nuovo l'infuocata spaccatu­ ra all'interno della pace della natura: questa era la pena che il Padre celeste, al­ trimenti tanto mite, infliggeva. Ma il trauma di Lisbona venne dimenticato, an­ che se lentamente. Tornò l'ottimismo generale, e si mantenne fino alla rivolu­ zione francese ed oltre; la luce dell'illuminismo pagava così il suo tributo al mantenimento della calma che tanto premeva ai signori. Fu decisivo a questo proposito che l'elemento satanico, molto più che il teistico, fin dai tempi del­ l'illuminismo (da quando cioè con decreti non soltanto rivoluzionari si volle tener lontano il Maligno, il Male, il Demonio), fosse evocato non dall'emozio­ nante letteratura in voga, ma dal concetto che filosoficamente illumina. Ove il­ luminare non significa tanto denunciare la realtà antiluminosa per renderla vi­ sibile, per poterla descrivere nella sua struttura e nelle sue manifestazioni ed impostarla quindi per una lotta. All'ottimismo illuministico il male appare sol­ tanto come una piccola debolezza, una semplice stonatura nella bellezza di un mondo altrimenti perfetto. Ma se si vuole impostare la lotta in maniera radi­ cale non è sufficiente, per giungere fino al nocciolo, la denuncia soggettiva del­ la follia e dell'istinto di aggressione, e neppure quella sociale-oggettiva delle re­ pressioni, delle guerre e di tutte le inumanità del sistema classista di produ­ zione e scambio: così non si chiariscono fenomeni come Auschwitz, anzi, non si perviene neppure ad un linguaggio che li sperimenti a posteriori. [. . . ]

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Ben diverso è quanto si verifica in genere: la generazione che dall'ombra vuoi passare alla luce esprime infatti il suo odio per la tenebra tentando di !imitarla ed eliminarla, o almeno di relativizzarla: come se l'illuminismo fos­ se già stato acquisito toto coelo) toto inferno. C'è qualcosa di singolare nel fatto che anche la fiaba, questo primo esperimento illuministico, rimpic­ ciolisca sia il male sia il malvagio; il suo diavolo, che ci appare semplice­ mente sciocco, ha la sola funzione di far coraggio. Su un altro piano qual­ cosa di simile opera nell'illuminismo quando la più alta poesia e la più gran­ de filosofia si ingegnano, senza nulla concedere al dualismo e al manichei­ smo, a ridurre il demoniaco, facendone una figura ausiliaria sconfitta ed in­ timamente annientata dal trionfo definitivo e certo. [ . . . ] Identificare il ma­ le ed il falso con il diavolo e ridurli ad un soggetto particolare, mentre essi in realtà hanno un carattere universale. Ma anche là dove falso e male ven­ gono ipostatizzati, sufficientemente distinti nei confronti di una mitica per­ sona troppo triviale anche esteticamente (del negativo della dialettica he­ geliana dunque) , e dove il " dolore e la serietà del negativo" vengono con tanta forza sottolineati e mantenuti (nella sfera dunque in cui secondo He­ gel "Dio non abita " ) si trova, garantito dall'ottimismo, un passaggio al frut­ to che " elimina" il negativo in sé. Dove il bisogno si fa più pressante Dio è più prossimo che mai, dice anche il giustiziere; ed all'omicidio della croce, proprio in questa estrema "notte della differenza" segue così con panlogi­ ca garanzia la Pasqua: ed ecco, di nuovo tutto era buono, tutto è buono sub specie lucis. Con il che l'insuperato biblico teocratico, l"' ecco tutto era buo­ no" si fece strada nella luce totale e quasi senza eccezioni dell'ottimismo il­ luministico e nella sua serenità così fedele al mondo; e si insinuò anche nel­ la serenità di Hegel, che sulla base dell'illuminismo conserva nei confronti del mondo una posizione di suprema immanenza. Ma anche di per se stes­ so l'illuminismo, senza l'apporto di tutte queste estranee secolarizzazioni, non concedeva al male nessun posto immediato, nessuna Lisbona e nessu­ na Auschwitz, nemmeno nascoste. Il venir meno della fede in Dio com­ portò automaticamente la scomparsa della fede terribile nel suo antagoni­ sta. Qui ora si nasconde il problema: di fronte alla catastrofe di Lisbona an­ che per il Candide di Voltaire era più facile tenere per reali i demoni piut­ tosto che l'ottimismo illuministico del mondo nella luce del giorno. Rim­ picciolire il male fino a renderlo invisibile non ha in ogni caso avuto l' ef­ fetto di por fine al suo successo; il trave del satanico infatti è empiricamente molto più duro di quello teistico, dotato di rari angeli e di un dio superno di solito invisibile. Anche la chiarezza può ingannare se vuoi troppo abbellire. Ma quanto è vi­ vo il vento che porta con sé, che stronca i brontolii di chi assicura che tutto

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v a male e lascia le cose come stanno. E quanto umano e salutare fu quel­ l'incomodo illuminismo che non veniva certo per abbellire, ma per versare un'acqua ben diversa da quella comune delle lacrime. Esso spense i fuochi dei roghi, fermando l'infernale vertigine e la superstizione. L'orrore si alleò con la stupidità, e ben lo seppero i preti che se ne servirono; ma irruppe il chiarore dell'illuminismo, e tutto all'intorno apparve simile alla luce del giorno. E tuttavia la mera e ridotta sicurezza che l'uomo in sé è buono e la natura è sempre perfetta quando il corrotto non giunge con la sua pena, que­ sto ottimismo, in breve, si trasformò in gran parte in un parco di protezio­ ne per tutto ciò che aveva trascurato. [ .. .] Ma apparve subito chiaro che non è affatto nell'interesse del male e del suo successo, il mettersi in mostra fa­ cendo di sé il punto principale: il male, quando è in cammino, si presenta co­ sì innocuo come l'illuminismo lo vide. "Voi vedete un uomo come gli altri " , dichiara tranquillo Mefistofele nascondendo il piede caprino; e d h a ragio­ ne. [. .. ] Per esprimere fenomenologicamente il significato di ciò che la nuo­ va letteratura e la nuova storia intendono per demoniaco, diremo che que­ sta realtà celata dà il meglio di sé quando entra in scena ammantata e non sciupa nessuna serietà metafisica. In altre parole: ciò che si intende per " de­ moniaco" "vuole" persino nella sua "essenza" che non si creda in esso; men­ tre ciò che si intende per " divino", sia nel politeismo che, molto prima, nel monoteismo, "pretende" eo ipso fede per sé. E tanto più ne ha bisogno per­ ché sulla fede si basa " realiter" ciò che si intende per divino; mentre il ma­ le, il nemico che devasta ed annienta anche in forza del suo apparire empi­ rico, è di fatto più che sufficiente a se stesso e non ha perdite di nessun tipo essendo senza fede non solo nella semplice visione eidetica ma anche nella reale fenomenologia: al contrario ogni volta esso ci guadagna. Ma ora come opera questa aporia sulla più grande e più liberatrice azione luminosa del­ l'illuminismo, sul suo a-teismo, su questo apparente pendant per l'elimina­ zione dell'infernale in assoluto? In primis, l'ateismo fece sì che si abbando­ nasse ogni timore non penetrato, ogni turpe oscurantismo al servizio ed al fine dell'autorità feudale sempre voluta da Dio e riconobbe nell'ipostasi de­ mifisticata e dissolta del Dio signore l'umano stato di minorità e la sua au­ toalienazione. Questa funzione umanistica dell'ateismo, di quella realtà che assolutamente deteocratizzata è grande e manifesta, e tanto diversa dall' ot­ timismo, straordinariamente utile all'emancipazione del satanico. Così che anche là, dove l'ateo si identificò con l'Anticristo, in Nietzsche dunque, poté farsi strada nell'ateismo qualcosa che fece esplodere le innate coltri e l'in­ ferno. Morta l'antica fede in Dio in Nietzsche apparve un ateismo pieno di audacia utopica. [. .. ] In questa conclusione pur sbalorditiva e così pregna di significati Nietzsche mostra tuttavia, come ogni ateismo ancora astratto, qual cuna delle gravi riduzioni che l'ottimismo illuministico aveva operato su

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quanto doveva essere negato, anche se l'oggetto si spostò dal trave satanico a quello teistico (o viceversa). Infatti abolendo così semplicemente l'iposta­ si divina, come è possibile far emergere quanto essa si adatta ad ogni tutela, ad ogni gerarchia, ad ogni statica signore-servo? Ancora non viene svelato l'avversario, certo avvolto in veli miti ci e proiettato verso la trascendenza, ma non per questo meno pericoloso. [. .. ] Balza agli occhi a questo punto che la negazione piattamente ottimistica del male nel mondo, questo illumini­ smo troppo a buon mercato, può trovare un rifugio in quel tipo di ateismo che "nello stesso modo" si rifiuta di prendere in esame anche il male con­ nesso con la rappresentazione di Dio e la sua ipostasi trascendente, anche se questo esula da un quadro meramente mitologico. Il negativo perde così di rilievo anche in quella visione metafisica che non è per nulla mitologica e che non è neppure un'ulteriore ipostatizzazione della mitologia, ma che scende nel più profondo, nella profondità del terribile e del salutare passando at­ traverso il recondito mondo. In essa il male non può certamente venir esa­ gerato né isolato, come fu di moda nell'eccessiva esaltazione della dispera­ zione ovvero nel ;argon di Adorno della inautenticità del bene. [ .. .] La di­ sperazione reificata ha allora lo stesso valore (beninteso su un piano assai di­ verso, ma altrettanto non autentico) della sicurezza reificata che fin dall'an­ tichità l'autorità della chiesa ci tramanda in un "siate consolati" del tutto conformistico. La compiuta sicurezza ci appare sotto la forma dell'appara­ to clericale nella gerarchia del possesso e nel possesso della gerarchia, e rag­ giunge lo stesso effetto del disfattismo e della rivoluzione impedita. Di fat­ to queste due esagerazioni, la negatività pigra e la positività garantita, non abbandonano per nulla la costrizione, l'occultamento e la copertura che an­ che Nietzsche vide esplodere ad opera dell'ateismo, ma al contrario per­ mangono sempre laddove la statica viene rifiutata solo verbaliter. Entrambe solo verbaliter rendono nuovamente onore ad una realtà così aperta e che ha deciso per la lotta e per la speranza: l'una in maniera più decorativa - quasi un debole profumo dal bel suono, per così dire - l'altra come una sorta d' ar­ madio dell'argenteria della provvidenza collocato contemplativamente alla tradizionale conclusione della predica. Ma la chiarezza della speranza - pro­ prio perché essa non vede affatto il suo oggetto così compiuto come lo ve­ dono invece la disperazione e la sicurezza - non ha nulla di più prossimo a sé per senso e per concetto del non-raggiunto e del non-ancora del rag­ giunto; tutto accade nell'interesse della lotta da compiere, del processo del­ la storia da realizzare. A partire di qui, in ogni speranza messa alla prova ed in ogni reale e quindi militante ottimismo, vive il passaggio attraverso ciò che cerca e ciò che annienta, che si scava nel processo in modo sempre più vio­ lento come facoltà della contro-utopia, contro la capacità e la possibilità del trionfo della utopia-luce. [. . . ]

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E poiché il male non vuole che s i creda nella sua esistenza, allora qual­ cosa di importante si può opporre alla sua ipostasi puramente mitica, qual­ cosa di significativo che lotti realmente contro di essa; qualcosa di più effica­ ce, in ogni caso, delle riduzioni e delle perdite usuali di ogni sfondo, di ogni profonda dimensione. [. .. ] Ed allora nello stesso processo in quanto tale prende forma il suo negativo in una qualificazione non mitologica che lo mo­ tiva come processo di scioglimento e di guarigione; non esiste alcun proces­ so che non porti in sé qualcosa che non dovrebbe esserci e che continua a mi­ nacciare. "Questa è la categoria del pericolo o dell'oggettivo carattere non garantito tipico anche della speranza mediata, della docta spes; nessun risul­ tato fisso ha mai portato ad una situazione che non sia oscillante. E nessuna è così oscura da convincerci che la possibilità di decisioni, il novum e le pos­ sibilità oggettive sono spente, da convincerci che nessuna battaglia perduta può essere ancora una volta meglio combattuta. Ma quel limpido, anzi lim­ pidissimo senso che si lega all'esserci senza alienazione, al chiaro bene dive­ nuto maturo e naturale, non implica certo alcuna assenza di situazione. L'ot­ timismo è perciò giustificato soltanto come militante, mai come concluso; al­ trimenti l'effetto che ha sulla miseria del mondo non è solo perverso ma di scarso intelletto" (Das Prinzip Hoffnung, p. r624) . [ . . . ] Come un essere che fi­ nalmente ci appaia in tutta la chiarezza di un adeguato significato, un essere dalla permanente e cosciente memoria che non legittima il negativo mondo della preistoria soltanto in vista della lotta e non per affermare un panlogi­ smo sempre presente o, in altre parole, una fine buona, tutta buona. Sì, che cosa sarebbe ed " a-che-scopo" verrebbe affermato il primato militante dia­ lettico del principio speranza se esso non si fondasse sul postulato del tutto, sul postulato della possibile pienezza totale, se non avesse un rapporto co­ stante ed ancora non compiuto con il nulla e dunque con la definitiva fru­ strazione del tutto, sempre possibile? Come avrebbe potuto altrimenti 1'0mega apocalittico, l'Omega della speranza, " avvicinarsi" e tendere alla visio­ ne finale che ancora ci è estranea, senza lo sfondo tenebroso del male esami­ nato fenomenologicamente nella apparenza anticipata del suo trionfo, senza il suo "morte, dov'è il tuo pungiglione, inferno, dov'è la tua vittoria? " . An­ che l'illuminismo metareligioso, insito cioè nell'oggetto stesso, oltre che nella conoscenza di esso, deve implicare il male dietro di sé, intorno a sé, dinanzi a sé, per non essere solo chiarore, ma per poter cacciare le tenebre con la rea­ le chiarezza, in una lotta senza pari. È certo infatti che bisogna abbandonare la lotta se si assolutizzano anche in minima parte il negativo ed il positivo, co­ me se il processo storico teso alla "naturalizzazione dell'uomo, all'umanizza­ zione della natura" fosse già reso vano ovvero già realizzato.

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La parola adotta fin dal principio altre misure se mira molto lontano. Ha in sé una tensione, un presagio mai ancora consolidatosi e divenuto accessibile. Da quattro secoli l'espressione poetica si muove prospetticamente ed è sba­ gliato considerare solo come romantica questa natura che difficilmente si dà un limite. Anche più sbagliato è voler escludere dall'arte questo moto del de­ siderio e ciò che è e resta tendenzioso. Alla maniera del neoclassicismo e poi dei suoi epigoni di modo che la volontà nell'arte si addormenta e questa «è sempre alla sua meta». Per cui l'arte dunque non conterrebbe autentici pae­ saggi ispirati dal desiderio e non potrebbe mai essere articolata in funzione loro quali suoi oggetti, senz' altro i più appassionati. Il tratto fondamentale dell'estetica classicistico-borghese che nasce in tal modo non è la speranza (e la volontà che essa anima), bensì la contemplazione (e il tranquillo godimen­ to che essa concede). Il bello qui soffoca illusoriamente la materia mediante la forma, una forma indifferente alla materia trattata, anzi alla tendenza pre­ sente in essa. L'estetica della contemplazione pura comincia in Kant con il concetto del «piacere disinteressato nella semplice rappresentazione dell' og­ getto» (che non importa sia o no materialmente presente). Assurge a metafi­ sica in Schopenhauer in quanto il piacere disinteressato si estende a inizio della liberazione dell'uomo dalla volontà di vivere. L'essere, certo, continua ad essere terribile, ma la contemplazione è beata, soprattutto nel «puro oc­ chio del mondo dell'arte». L'arte in Schopenhauer dischiude immediata­ mente la beatitudine nel fenomeno, perciò qui «è sempre alla sua meta». Co­ sì l'estetica neoclassica (e il puro «occhio del mondo» schopenhaueriano vi rientra assolutamente anche nella recezione della musica, anch'essa pacifica­ ta) riduce il rapporto con il bello alla pura contemplazione e il bello stesso al­ le sue forme purificate. Limita l'oggetto del bello ad un ambito interamente ripulito dagli interessi dell'esistenza presente e futura. Ovunque qui l'arte è un tranquillante, non un appello e neppure un canto consolatorio; perché già questo presuppone l'inquietudine del volere. Ovunque qui il mondo è legit­ timato come fenomeno estetico, uniformemente, sul piano della perfezione formale idealistica e perciò così ben arrotondata. I danni del mero piacere contemplativo si estendono a tal punto, che la stessa «corona del bello» nel­ l' estetica di Hegel, per quanto nel suo antiformalismo sia ricca di contenuti, variegata e intrecciata con la storia, si libra nell'etere della contemplazione acquietante. Anzi un genere determinato di formalismo, conseguentemente un apparire astratto (con una chiusura del pensiero che non tollera disconti­ nuità, quindi prevalentemente antiquaria) è un pericolo ovunque la realtà concepita esteticamente, con l'intera sua ricchezza, venga interpretata solo per mezzo di un paio di categorie, che restano quasi sempre le stesse, e vie­ ne quindi ridotta a uno schema privo di tensione. Una simile tappezzeria con­ cettuale di contemplazione pura, applicata ad ogni cosa e uniforme, è un pe-

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ricolo anche per diversi tentativi d i estetica marxista, anche dove questi, sul­ la base di un mezzo concetto di realtà sempre concluso, si presentano come realistici. Nello stesso Lukacs talvolta opera ancora l'apparire astratto della rotondità idealistica, un carattere costruito, precisamente estraneo al mate­ rialismo dialettico. In quanto questo è teoria di un mondo non concluso e della ricchezza effettiva, cioè processualmente aperta della realtà proprio nel­ la prospettiva della sua totalità. Per cui un'arte contenutisticamente materia­ le insieme con la sua teoria non può fare a meno di essere un'arte non inca­ sellata, ma prospettica, un'arte del processo reale, anziché del processo me­ ramente affermato. Di conseguenza l'arte contenutisticamente materiale in­ sieme con la sua teoria non può fare a meno di essere un'arte non chiusa, ben­ sì una rappresentazione della tendenza e della latenza dei suoi oggetti che av­ viene alla maniera del p re-apparire condotto al suo limite finale. A causa della sua natura di pre-apparizione anche l'arte non è un intero concluso, ma solo ovunque prospettiva su di esso, una prospettiva elaborata negli oggetti rap­ presentati sul compimento immanente di questi oggetti.

Bibliografia I. Gli scritti di estetica teatrale di Brecht sono raccolti in tre volumi in B. Brecht, Scritti teatrali (1948), Einaudi, Torino 1975. I saggi maggiormente si­ gnificativi di Brecht sulle arti, in larga parte dedicati alla letteratura, si pos­ sono leggere in traduzione italiana in Id. , Scritti sulla letteratura e sull'arte (1966) , Einaudi, Torino 1973. In Id. , Diario di Lavoro, 2 voli. , Einaudi, Tori­ no 1976, si trovano, infine, importanti considerazioni relative alla poetica di Brecht. Per un quadro generale dell'estetica e poetica teatrale moderna cfr. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 1962. Per un'introdu­ zione all'opera brechtiana cfr. C. Molinari, Bertolt Brecht, Laterza, Roma-Ba­ ri 1996. Per quanto riguarda la letteratura secondaria sulla riflessione esteti­ ca di Brecht, restano essenziali le considerazioni di Benjamin raccolte in W. Benjamin, I:opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966 e Id., Avanguardia e rivoluzione: saggi sulla letteratura, Einaudi, Torino 1973. Per un'analisi comparata delle riflessioni di Brecht e Benjamin cfr. F. Masini, Brecht e Benjamin. Scienza della letteratura e ermeneutica materiali­ sta, De Donato, Bari 1977. Per quanto concerne il confronto-scontro con la concezione estetica di Lukacs cfr. P. Chiarini, Brecht, Lukdcs e il realismo, La­ terza, Bari 1970 e D. Pike, Lukdcs und Brecht, Niemeyer Verlag, Tiibingen 1986. Per un quadro d'insieme delle implicazioni filosofiche della riflessione di Brecht sul suo lavoro di drammaturgo cfr. K. H. Ludwig, Bertolt Brecht. Philosophische Grundlagen und Implikationen seiner Dramaturgie, Bouvier

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Verlag, Bonn 1975. Tra i pochi studi dedicati all'estetica di Brecht ricordia­ mo: D. Schottker, Bertolt Brechts Asthetik des Naiven, Metzler, Stuttgart 1989 ; }. Knopf, Brecht-Handbuch. I. Theater: eine Asthetik der Widerspriiche. II. Lyrik, Prosa, Schrz/ten. Mit einem Anhangy Film, Metzler, Stuttgart 1996; R. Caputo, Immaginazione e critica nell) ((Inzwischenzeit", in L. Piccioni, R. Viti Cavaliere (a cura di), Il pensiero e l'immagine, Edizioni Associate Internazio­ nali, Roma 2001, pp. 316-35. 2. Tra i moltissimi scritti dedicati da Lukacs all'estetica nel secondo do­ poguerra ci limitiamo qui a ricordare: G. Lukacs, Contributi alla storia del­ l'estetica, Feltrinelli, Milano 1957, di taglio storico; Id. , Estetica, 2 voli., Ei­ naudi, Torino 1970, di taglio estetico e speculativo; Id. , Scritti sul realismo, a cura di A. Casalegno, Einaudi, Torino 1977, in cui sono raccolti i principali saggi dedicati da Lukacs alla letteratura. A proposito di Lukacs interprete di Thomas Mann, ci limitiamo a rin­ viare a un articolo di F. Fortini, G. Lukdcs, Thomas Mann e la tragedia del­ l'arte moderna, in "Il Ponte" , 1956, 5, pp. 866-8. Per una visione d'insieme della Lukdcs/orschung sino alla fine degli anni cinquanta cfr. C. Cases, Su Lukdcs. Vicende di un 'interpretazione, Einaudi, Torino 1985. Per un quadro generale dell'estetica di Lukacs rinviamo a C. Carbonara, l} estetica del par­ ticolare di G. Lukdcs, Libreria scientifica, Napoli 196o; T. Pedini, Utopia e prospettiva in Gyorgy Lukdcs, Dedalo, Bari 1968; H. G. Althaus, Lukdcs oder Biirgerlichkeit als Vorschule einer marxistischen Asthetik, Francke, Bern-Miinchen 1962 e, infine, N. Tertulian, Georges Lukdcs. Étapes de sa pensée esthétique, Le Sycomore, Paris 1980. Senza tralasciare il recentissi­ mo G. Prestipino, Realismo e utopia: in memoria di Lukdcs e Bloch, Edito­ ri Riuniti, Roma 2002, che contiene diversi saggi dedicati a Lukacs. In un 'ottica maggiormente politico-ideologica cfr. inoltre M. Vacatello, Lukdcs da ((Storia e coscienza di classe" al giudizio sulla cultura borghese, La Nuova Italia, Firenze 1968; A. Asor Rosa, Lukdcs teorico dell'arte borghese, in "Contropiano" , 1968, 1. Per uno sguardo più generale sul pensiero di questo autore, nella prospettiva della critica contemporanea, cfr. i volumi: AA.W. , Gyorgy Lukdcs nel centenario della nascita, I885-1985, a cura di D. Lo­ surdo, P. Salvucci, L. Sichirollo, QuattroVenti, Urbino 1986, e U. Bermbach, G. Trautmann (hrsg.), Georg Lukdcs. Kultur, Politik, Ontologie, Westdeutscher Verlag, Opladen 1987. 3· Oltre a J.-P. Sartre, Che cos'è la letteratura, Il Saggiatore, Milano 1960, volume che contiene le traduzioni di quasi tutti gli scritti sulla letteratura, occorre menzionare Id., Situations I-VII e IX, Gallimard, Paris 1947-72, in cui sono inserite gran parte delle riflessioni di Sartre sull'arte e la letteratura. Si ricordino, inoltre, i lavori su Genet e su Baudelaire che segnano delle tappe decisive nello sviluppo della concezione estetica di Sartre: Id. , Santo Genet,

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commediante e martire, I l Saggiatore, Milano 1972; Id. , Baudelaire, précédé d'une note de M. Leiris, Gallimard, Paris 1975. Per un quadro generale della filosofia di Sartre ricordiamo: G. Cera, Sartre tra ideologia e storia, Laterza, Roma-Bari 1972; S. Moravia, Introdu­ zione a Sartre (1983) , Laterza, Roma-Bari 19935; A. Cohen-Solal, Sartre (1985), Il Saggiatore, Milano 19862; G. Farina, I.;alterità. Lo sguardo nel pensiero di ]. -P Sartre, Bulzoni, Roma 1998; AA.W. , Sartre contro Sartre. Quindici anni dopo, a cura di G. Farina e C. Tognonato, Atti del convegno, Poppi-Arezzo 12-13 maggio 1995, Cosmopoli, Bologna 1996; F. Jeanson, Sartre. Teatro e fi­ losofia, Editori Riuniti, Roma 1996. Nella vasta gamma di studi dedicati alla concezione dell'arte e alla teoria della letteratura di Sartre, ci limitiamo a ri­ cordare: H. Krauss, Die Praxis der ((littérature engagée" im Werk ]ean-Paul Sartres I938-I948, Winter, Heidelberg 1970; L. Pollmann, Sartre and Camus. Literature o/ Existence, F. Ungar Pub. Co. , New York 1970; C. Howells, Sartre's theory o/literature, Modern Humanities Research Association, London 1979; E. Caldieri, ]ean-Paul Sartre, gli uomin� gli artisti: il problema estetico nell'antologia esistenzialista, Franco Angeli, Milano 1999; e infine P. Tamas­ sia, Politiche della scrittura. Sartre nel dibattito francese del Novecento su let­ teratura e politica, Franco Angeli, Milano 2001. 4· Per quanto riguarda i diversi contributi dati da Marcuse all'estetica, ci limitiamo qui a richiamare: H. Marcuse, La dimensione estetica e altri scrit­ ti: un 'educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di P. Perticari, Guerini e Associati, Milano 2002; Id. , Cultura e società. Saggi di teoria criti­ ca I933-I965, Einaudi, Torino 1969, che contiene diversi saggi di Marcuse an­ che antecedenti il secondo conflitto mondiale, in cui è tematizzato il rap­ porto tra l'arte e il corso del mondo; infine Id., Eros e civiltà, Einaudi, Tori­ no 1964, in cui Marcuse ripensa la sua concezione dell'arte e del godimento estetico a partire dalla psicoanalisi freudiana. Per un'introduzione al pensiero di Marcuse ci limitiamo a ricordare L. Casini, Marcuse maestro del '68, Il poligono, Roma 1981; B. Katz, Herbert Marcuse an d the Art o/Liberation: An Intellectual Biography, Verso, London 1982. AA.W. , Kritik und Utopie im Werk von Herbert Marcuse. Vortriige der internationalen Fachkon/erenz anliisslich der Eroffnung des Herbert Marcuse Archivs I990, herausgegeben von Institut fiir Sozialforschung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1992, contiene diversi contributi volti a reinterpreta­ re il pensiero di Marcuse alla luce della teoria critica francofortese, mentre in A. Schmidt et al. , Antworten au/ Herbert Marcuse, herausgegeben von J. Habermas, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1968 (trad. it. Risposte a Mar­ cuse, Laterza, Bari 1969), si trova un tentativo di analisi critica del pensiero di Marcuse in questa prospettiva. Tra le diverse monografie dedicate a indagare il pensiero estetico di Marcuse ci limitiamo a ricordare: D. Paz, La dialettica dell'estetica. Saggio

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sul pensiero estetico di Herbert Marcuse, Ponte Nuovo, Bologna 1972; G. Pa­ lombella, Ragione e immaginazione. Herbert Marcuse I928-I955, De Donato, Bari 1982; L. Casini, Eros e utopia: arte, sensualità e liberazione nel pensiero di Herbert Marcuse, Carocci, Roma 1999. 5· Oltre a E. Bloch, Il principio speranza (1959), vol. II, Garzanti, Milano 1994, occorre ricordare la raccolta di saggi dedicati all'analisi della lettera­ tura in Id. , Literarische Au/siitze, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1984, di cui si attende ancora la traduzione italiana. Per uno sguardo d'insieme sulla filosofia di Bloch, !imitandoci alle ope­ re tradotte in italiano, rinviamo a R. Bodei, Multiversum: Tempo e storia in Ernst Bloch. Il confronto di Bloch con la tradizione fi'loso/ica da Platone a Hei­ degger, Bibliopolis, Napoli 19832• Diverse sono le monografie dedicate al Principio speranza o a una rilettura del pensiero di Bloch alla luce di que­ st'opera: S. Zecchi, Utopia e speranza nel comunismo. Un'interpretazione del­ la prospettiva di Ernst Bloch, Feltrinelli, Milano 1974; G. Cunico, Essere co­ me utopia. Ifondamenti dellafi'losofi'a della speranza di Ernst Bloch, Le Mon­ nier, Firenze 1976; AA.VV. , Materialen zu Ernst Blochs ((Prinzip Hoffnung", he­ rausgegeben von B. Schmidt, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1978; L. Boella, Trame della speranza, J a ca Book, Milano 1987; AA.vv. , Attualità e pro­ spettive del ((principio speranza". I.:opera fondamentale e il pensiero di Ernst Bloch, a cura di G. Cunico, Atti del convegno di Genova, 27-28 febbraio 1995, La Città del Sole, N apoli 1998. Molto meno ricca è la letteratura secondaria dedicata all'analisi dell'AteZ:S.mo nel cristianesimo: E. Kruttschnitt, Ernst Bloch und das Christentum. Der geschichtliche Prozess und der philosophische Begriff der ((Religion des Exodus und des Reiches", Griinewald Verlag, Mainz 1993. G. Cacciatore, Bloch, il male, l'utopia, in P. Amadio, R. De Maio, G. Lissa (a cura di) , La Sho'ah tra interpretazione e memoria, Convegno internazionale, Napoli 5-9 maggio 1997, Vivarium, Napoli 1999, pp. 337-59, dopo aver rico­ struito le accuse rivolte al pensiero e all'estetica di Bloch di non aver dato il giusto peso alla tragedia nella storia e in particolare alla Shoah, si sforza di scagionare questo pensiero. Per ciò che concerne, infine, i diversi saggi de­ dicati da Bloch all'analisi della musica, cui non abbiamo potuto far cenno nella nostra brevissima introduzione, rinviamo a E. Matassi, Bloch e la mu­ sica, Edizioni Marte, Salerno 2001.

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L'estetica scientifica a cura

di Gianluca Consoli

Il percorso antologico si muove all'interno dell'estetica di imposta­ zione scientifica, con particolare riferimento alla tradizione sernio­ dca e a quella analitica. Il tratto che le accomuna è la tesi secondo cui la comprensione dei fenomeni artistici può avvenire per via me­ todica. Questo capitolo si muove dunque all'interno della " razio­ nalità oggettivante" criticata in modo esplicito da altri autori (PARR. 4. 1 , 5 . 2, 4·? ) .

I brani antologizzati sono tenuti insieme d a u n preciso filo con­ duttore: la necessità di riformulare le categorie epistemologiche pro­ prie di una comprensione della scienza e dell'arte che si fonda sulla netta divisione tra il conoscere e il sentire. Questo paradigma - emer­ so dalla rivoluzione scientifica, centrale nella prima metà del Nove­ cento nel neopositivismo - è criticato sulla base di tre conclusioni che emergono dall'insieme del percorso antologico: 1. il piacere estetico è il tratto distintivo del rapporto tra l'opera d'arte e chi ne fa espe­ rienza e si differenzia dal piacere dei sensi in quanto permeato di pen­ siero; 2. all'in terno dell'estetica di impostazione scientifica, questa re­ lazione è analizzata come un dato metastorico, cioè come una pro­ prietà universale del rapporto tra interprete e opera d'arte. In questo senso, l'analisi non aspira a collocarsi storicamente; 3· l'arte mostra, in modo esemplare, che il sentire non è un fenomeno aggiuntivo o trascurabile ma che, al contrario, costituisce un fattore essenziale del­ l' apparato cognitivo. Questi tre risultati prendono forma attraverso un 'analisi che si muove, per così dire, dall'oggetto al soggetto, dalla struttura dell'o­ pera alle condizioni soggettive della comprensione, mostrando l'u­ nità tra i due poli attraverso i seguenti momenti: la struttura dell'o­ pera G akobson) , i modelli culturali (Lotman), l'autore e il lettore mo­ dello (Eco) , la collaborazione tra il conoscere e il sentire (Goodman) , il piacere estetico e l a riflessione (Levinson). 79

' L ESTETICA C O N TE M PO R A N E A

Il capitolo si conclude con due autori, Rorty e Garroni, i quali, da prospettive diverse, mostrano le insufficienze dell'impostazione metodica. Rorty - inizialmente vicino alle tesi della filosofia analiti­ ca - porta alle estreme conseguenze l'esigenza di una riformulazio­ ne delle categorie epistemologiche e condanna la possibilità stessa di un 'indagine basata sul paradigma della razionalità oggettivante. Ab­ bandonare questo paradigma significa riscoprire la natura anties ­ senzialista dell'arte e il suo profondo significato politico e sociale. Garroni - inizialmente vicino alle tesi della semiotica - radicalizza l'interrogazione in chiave storica, mettendo in luce l'imprevedibilità e l'incalcolabilità del destino dell'arte, intimamente aperto, contin­ gente e arrischiato.

2. 1 Roman Jakobson (1896-1982) Alcune tra le principali domande che caratterizzano l' approccio scientifico all'arte prendono forma nell'opera di J akobson, persona­ lità poliedrica, uno dei padri fondatori della linguistica funzionalista. Nato a Mosca, si trasferisce nel 1920 a Praga, dove fonda e presiede nel 1926 il Circolo Linguistico. L'invasione nazista del 1939 lo costrin­ ge all'esilio che termina negli USA. Tipico della sua biografia intellet­ tuale l'impegno etico, che si palesa sia nel rigore con cui conduce la ricerca scientifica, sia nella passione politica che emerge in alcuni scritti, come per esempio nel saggio Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskzj' del 1930. All'interno della linguistica, Jakobson assegna particolare rilievo alla «poetica», intesa come l'analisi oggettiva della poesia quale arte del linguaggio, centrata sull'individuazione di una " differenza speci­ fica " che la distingue dagli altri comportamenti verbali. La poetica ha un ruolo centrale in quanto l'indagine sulla poesia non ha uno statu­ to meramente tecnico, ma riguarda una delle condizioni strutturali del linguaggio stesso. Secondo il modello della comunicazione ela­ borato da Jakobson, ogni atto linguistico è composto da sei costi­ tuenti: il mittente, il destinatario, il contesto, il codice, il contatto (ca­ nale fisico della comunicazione e connessione psicologica) , il mes­ saggio . A ciascun componente corrisponde una funzione del lin ­ guaggio. In ogni atto comunicativo le funzioni sono tutte presenti, ma il prevalere di una di esse determina la diversa struttura del messag8o

' 2 . L ESTETICA SCIENTIFICA

gio. L'esercizio del linguaggio dipende, in uguale misura, da una con­ dizione transitiva e comunicativa, la funzione referenziale, rivolta al­ l' esterno; e da una condizione intransitiva, autoriflessiva, la funzione poetica. Nella prima l'intenzione cade sul significato, sul mondo og­ getto di discorso, mentre il linguaggio, semplice veicolo di significa­ ti, si annulla. Nella seconda l'intenzione cade sul segno, che diviene l'oggetto del discorso e si fa sentire come tale. Dunque la funzione poetica ha un valore universale, è presente in ogni atto linguistico ed è resa esperibile in modo esplicito, quale principio di generazione, nei testi poetici. Per comprendere la natura della funzione poetica occorre ricor­ dare che, per J akobson, ogni processo di costruzione linguistica si fonda su due operazioni del linguaggio: la selezione e la combinazio­ ne. La prima riguarda la selezione delle unità, opera al livello del co­ dice e sul piano della simultaneità, ed è relativa ai rapporti di equiva­ lenza, che si snodano lungo diversi gradi, dall'identità alla sinonimia, dall'antinomia all'opposizione. La seconda riguarda la combinazione delle unità in contesti sempre più ampi, opera al livello del contesto e sul piano della contiguità, ed è relativa ai rapporti di sequenzialità. «La funzione poetica - dice Jakobson - proietta il principio di equi­ valenza dall'asse della selezione all'asse della combinazione», e ciò si­ gnifica che la sequenza è strutturata come reiterazione regolare di unità equivalenti. Prima di tutto si tratta della reiterazione di unità foniche, ma il parallelismo si estende dal livello fonico a quello se­ mantico, in modo tale che parole foneticamente affini siano collega­ te anche sul piano del significato. In quanto costituito da una rete di parallelismi, nella quale ogni unità è virtualmente correlabile con tutte le altre, il testo poetico è per sua natura ambiguo e polisemico, suscettibile di molteplici in ­ terpretazioni. Poiché, inoltre, tutti gli elementi del codice - l'a­ spetto fonetico e quello semantico, le categorie sintattiche e quel­ le morfologiche - sono caricati di senso, nella poesia il linguaggio non è intercambiabile come nel discorso comune e quindi non si può tradurre, ma solo trasporre creativamente. Infine, proprio in quanto la parola poetica non è un mero sostituto dell'oggetto e si fa percepire come tale, il lettore fa esperienza di una felice antino­ mia: è cosciente dell'identità tra il segno e l'oggetto, ma anche del­ la loro diversità . Questa antinomia consente al rapporto segno­ realtà di non atrofizzarsi e di mantenersi aperto e dinamico. Per­ tanto i testi basati sulla dominanza della funzione poetica mostra81

' L ESTETICA C O N TE M PORA N E A

no, in modo esemplare, che quest'ultima permette di emancipare il segno dall'oggetto, consentendo un lavoro ininterrotto di rige­ nerazione del senso.

Testi LA STRUTTURA DELL' OPERA

Mi è stato chiesto di tracciare delle note riassuntive sulle relazioni fra poeti­ ca e linguistica. Il compito fondamentale della poetica consiste nel rispon­ dere a questa domanda: Che cosa è che fa di un messaggio verbale un'opera d'arte? Poiché questo compito concerne la differenza specifica che contrad­ distingue l'arte della parola in relazione alle altre arti e specie di comporta­ menti verbali, la poetica ha diritto al primo posto fra gli studi letterari. La poetica tratta problemi di struttura verbale, esattamente come l' ana­ lisi della pittura si occupa della struttura pittorica; quindi dato che la lin­ guistica è la scienza che investe globalmente le strutture linguistiche, la poe­ tica può essere considerata come parte integrante della linguistica. Le obiezioni contro una tale asserzione richiedono un'attenta disami­ na. Molti processi studiati dalla poetica non sono evidentemente circoscrit­ ti all'arte del linguaggio. Basta pensare che è possibile trasporre Wuthering Heights (Cime tempestose) in un film, trasferire leggende medievali in affre­ schi e miniature, o I.;Après-midi d'un Faune (Il pomeriggio di un Fauno) in un componimento musicale, in un balletto, in un'opera d'arte grafica. Per quanto ridicola possa sembrare l'idea di tradurre l'Iliade e l'Odissea in fu­ metti, certi tratti strutturali dell'azione sussistono, nonostante la sparizione della veste linguistica. Il fatto che si ponga il problema se le illustrazioni di Blake alla Divina Commedia sono adeguate al testo, è la prova migliore che arti diverse sono comparabili tra loro. I problemi del barocco, o di qualsia­ si altro stile storico, oltrepassano il quadro di una sola arte. Quando si vo­ glia studiare la metafora nei surrealisti difficilmente si potrebbero passare sotto silenzio le pitture di Max Ernst o le pellicole di Luis Buiiuel (I:Età d'o­ ro e Il cane andaluso). In breve, molti tratti poetici appartengono non sol­ tanto alla scienza del linguaggio, ma alla teoria dei segni nel suo insieme, cioè alla semiotica generale. Questa asserzione, d'altra parte, è valevole non solo per l'arte della parola, ma anche per tutte le varietà del linguaggio, poiché il linguaggio ha molti caratteri in comune con qualche altro sistema di segni o anche con l'insieme di tali sistemi (tratti pansemiotici). Allo stesso modo, una seconda obiezione non ha in sé nulla che si rife­ risca specificamente alla letteratura: il problema delle relazioni fra la parola 82

' 2 . L ESTETICA SCIENTIFICA

e il mondo riguarda non soltanto l'arte della parola, ma effettivamente tut­ te le forme di discorso. La linguistica è in grado di indagare tutti i problemi possibili dei rapporti fra il discorso e !'"universo del discorso" : di esamina­ re che cosa, in questo universo, si traduce in parole attraverso un dato di­ scorso, e in qual modo. I valori di verità, tuttavia, nella misura in cui sono (per dirla coi logici) "entità extralinguistiche " , trascendono, evidentemen­ te, tanto la poetica, quanto la linguistica in generale. Talvolta si sente dire che la poetica, in opposizione alla linguistica, ha compiti valutativi. Questa separazione dei due campi si fonda su un'inter­ pretazione corrente, ma erronea, del contrasto fra la struttura della poesia e altri tipi di strutture verbali: si sostiene che questi ultimi si oppongono per la loro natura "fortuita" , e non intenzionale, al carattere intenzionale, "non fortuito" , del linguaggio poetico. Effettivamente, ogni comporta­ mento verbale è orientato verso uno scopo, ma gli obiettivi variano - e la congruenza fra i mezzi usati e l'effetto a cui si mira costituisce il problema che preoccupa sempre più i ricercatori che operano nei vari campi della comunicazione verbale. Vi è una stretta corrispondenza, molto più stretta di quanto non pensino i critici, fra la questione dell'espansione dei feno­ meni linguistici nel tempo e nello spazio e quella della diffusione spaziale e temporale dei modelli letterari. Anche forme di espansione discontinua, come il riaffermarsi di poeti trascurati o dimenticati (per es. la scoperta po­ stuma e la conseguente canonizzazione di Gerard Manley Hopkins [m. 1889] , la celebrità tardiva di Lautréamont [m. 1870] fra i poeti surrealisti, la notevole influenza di Cyprien Norwid [m. 1883] , fino allora ignorato, sulla moderna poesia polacca) trovano paralleli nella storia del linguaggio stan­ dardizzato, dove si verifica la tendenza a risuscitare modelli arcaici, talvol­ ta dimenticati da tempo. Così accadde per il cèco letterario, che, all'inizio del XIX secolo, si volse a modelli del XVI. Purtroppo, la confusione terminologica tra "studi letterari" e " critica" induce lo studioso di letteratura a sostituire con un giudizio soggettivo e censorio la descrizione dei valori intrinseci dell'opera letteraria. L' etichet­ ta di " critico letterario" , assegnata a uno studioso di letteratura, è altret­ tanto erronea quanto quella di " critico grammaticale (o lessicale) " che si volesse attribuire ad un linguista. La ricerca sintattica e morfologica non può essere soppiantata da una grammatica normativa; allo stesso modo, nessun manifesto che proclami i gusti e le opinioni personali di un critico sulla letteratura creatrice può sostituirsi ad un'analisi scientifica obiettiva dell'arte del linguaggio. [ . . .] Il linguaggio dev'essere studiato in tutta la varietà delle sue funzioni. Prima di prendere in considerazione la funzione poetica, dobbiamo stabili-

' L ESTETICA C O N TE M PORA N E A

re qual è il suo posto fra le altre funzioni del linguaggio. Per tracciare un quadro di queste funzioni, è necessaria una rassegna sommaria dei fattori costitutivi di ogni processo linguistico, di ogni atto di comunicazione ver­ bale. Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il " referen­ te" , secondo un'altra terminologia abbastanza ambigua) , contesto che pos­ sa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verba­ lizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzial­ mente, comune al mittente e al destinatario (o, in altri termini, al codifica­ tore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione. Questi diversi fattori in­ sopprimibili della comunicazione verb ale possono essere rappresentati schematicamente come segue: CONTESTO MITTENTE

MESSAGGIO

DESTINATARIO

CONTATTO CODICE

Ciascuno di questi sei fattori dà origine a una funzione linguistica diversa. Sebbene distinguiamo sei aspetti fondamentali del linguaggio, difficilmente potremmo trovare messaggi verbali che assolvano soltanto una funzione. La diversità dei messaggi non si fonda sul monopolio dell'una o dell'altra fun­ zione, ma sul diverso ordine gerarchico fra di esse. La struttura verbale di un messaggio dipende prima di tutto dalla funzione predominante. Ma, an­ che se l'atteggiamento (Einstellung) verso il referente, l'orientamento ri­ spetto al contesto (in breve, la funzione cosiddetta referenziale "denotati­ va" , " cognitiva" ) è la funzione prevalente di numerosi messaggi, la parteci­ pazione accessoria delle altre funzioni a tali messaggi deve essere presa in considerazione da un linguista attento. [. . . ] Ci siamo soffermati su tutti i fattori implicati nella comunicazione ver­ bale eccetto uno: il messaggio. La messa a punto (Einstellung) rispetto al messaggio in quanto tale, cioè l'accento posto sul messaggio per se stesso, costituisce la funzione poetica del linguaggio. Questa funzione non può essere studiata con profitto se perdiamo di vista i problemi generali del linguaggio, e, d'altra parte, un'analisi minuziosa del linguaggio stesso esi­ ge che si prenda seriamente in considerazione la sua funzione poetica.

' 2 . L ESTETICA SC IENTIFICA

Ogni tentativo di ridurre la sfera della funzione poetica alla poesia, o di limitare la poesia alla funzione poetica sarebbe soltanto una ipersemplifi­ cazione ingannevole. La funzione poetica non è la sola funzione dell'arte del linguaggio, ne è soltanto la funzione dominante, determinante, men­ tre in tutte le altre attività linguistiche rappresenta un aspetto sussidiario, accessorio. Questa funzione, che mette in risalto l'evidenza dei segni, ap­ profondisce la dicotomia fondamentale dei segni e degli oggetti. Quindi, trattando della funzione poetica, la linguistica non può limitarsi al campo della poesia. [. . . ] Ora che la nostra rapida descrizione delle sei funzioni base della comu­ nicazione verbale è relativamente completa, possiamo integrare lo schema dei fattori fondamentali con un corrispondente schema delle funzioni: REFERENZIALE EMOTIVA

POETICA

CO NATIVA

FATICA METALINGUISTICA

Secondo quale criterio linguistico si riconosce empiricamente la funzione poetica? In particolare, qual è l'elemento la cui presenza è indispensabile in ogni opera poetica? Per rispondere a queste domande occorre ricorda­ re i due processi fondamentali di costruzione usati nel comportamento linguistico: la selezione e la combinazione. Sia "bambino" il tema del mes­ saggio: il parlante compie una scelta in una serie di termini relativamente simili, come bambino, bimbo, marmocchio, monello, tutti più o meno equi­ valenti da un certo punto di vista; poi, per dichiarare il tema, sceglie uno dei verbi semanticamente affini: dorme, dormicchia, riposa, sonnecchia. Le due parole scelte si combinano nella catena parlata. La selezione è opera­ ta sulla base dell'equivalenza, della similarità e della dissimilarità, della si­ nonimia e dell'antinomia, mentre la combinazione, la costruzione della se­ quenza, si basa sulla contiguità. La funzione poetica proietta il principio d'equivalenza dall'asse della selezione all'asse della combinazione. L'equi­ valenza è promossa al grado di elemento costitutivo della sequenza. In poesia ogni sillaba è messa in rapporto d'equivalenza con tutte le altre sil­ labe della stessa sequenza; un accento tonico è uguale ad ogni altro ac­ cento tonico; atona uguaglia atona; lunga (prosodicamente) si appaia a lunga, breve a breve; limite di parola corrisponde a limite di parola, as­ senza di limite corrisponde ad assenza di limite; pausa sintattica corri­ sponde a pausa sintattica; assenza di pausa corrisponde ad assenza di pau-

' L ESTETICA C O N TE M PO R A N E A

sa. Le sillabe si trasformano in unità di misura, ed accade lo stesso delle more e degli accenti. [. . . ] Senza dubbio il verso è prima di tutto "motivo fonico" ricorrente; pri­ ma di tutto, ma non esclusivamente. Ogni tentativo di confinare convenzio­ ni poetiche come il metro, l'allitterazione, la rima al livello fonico, rappre­ senta un ragionamento astratto senza la minima giustificazione empirica. La proiezione del principio di equivalenza sulla sequenza ha un significato mol­ to più vasto e più profondo. La concezione che Valéry ha della poesia come "hésitation prolongée entre le son e le sens " , è molto più realistica e scien­ tifica di tutte le forme d'isolazionismo fonetico. Quantunque la rima sia basata, per definizione, sulla ricorrenza regola­ re di fonemi, o gruppi di fonemi equivalenti, considerare la rima soltanto dal punto di vista del suono sarebbe una semplificazione arbitraria. La rima im­ plica necessariamente una relazione semantica fra le unità che rimano fra lo­ ro ( " comp agni di rima" , rhyme - /ellows, secondo la terminologia di Hopkins) . [. . . ] La rima non è che un caso particolare, quasi concentrato, di un proble­ ma molto più generale, anzi del problema fondamentale della poesia: il pa­ rallelismo. E una volta di più, a questo proposito, Hopkins, nei suoi primi saggi del 1865, dà prova di una prodigiosa intuizione riguardo alla struttura della poesia: "Quanto vi è di artificio nella poesia, e sarebbe giusto dire ogni forma di artificio, si riduce al principio del parallelismo. La struttura della poesia è caratterizzata da un parallelismo continuo, che va dai cosiddetti parallelismi tecnici della poesia ebraica e dalle an­ tifone della musica liturgica, fino alla complessità del verso greco, italia­ no o inglese. Ma il parallelismo è necessariamente di due specie: o l'op­ posizione è chiaramente marcata, o essa è piuttosto di transizione, cro­ matica. Soltanto il primo tipo, quello del parallelismo marcato, è in rap­ porto con la struttura del verso: nel ritmo (ricorrenza di una certa suc­ cessione di sillabe), nel metro (ricorrenza di una certa successione ritmi­ ca), nell'allitterazione, nell'assonanza, nella rima. Ora, la forza di questa ricorrenza consiste nel suscitare un'altra ricorrenza o un parallelismo cor­ rispondente nelle parole o nel pensiero; insomma, tenendo conto che si tratta di una tendenza piuttosto che di un risultato costante, si può dire che il parallelismo più marcato nella struttura (sia di elaborazione sia di enfasi) genera il parallelismo più marcato nelle parole e nel senso . . . Al ti­ po di parallelismo marcato o improvviso appartengono la metafora, la si­ militudine, la parabola ecc. (nelle quali l'effetto è ricercato nella somi86

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glianza delle cose) , e l'antitesi, il contrasto, ecc. , nei quali esso è cercato nella dissimiglianza " . I n breve: l'equivalenza del suono, proiettata nella sequenza come suo principio costitutivo, implica inevitabilmente l'equivalenza semantica, e, ad ogni livello linguistico, ogni costituente di una tale sequenza suggerisce una delle esperienze correlative definite finemente da Hopk.ins " comparazione per somiglianza" e "comparazione per dissimiglianza " . [.. . ] In poesia non soltanto la sequenza fonematica, ma così pure ogni se­ quenza di unità semantiche tende a stabilire un'equazione. La sovrapposi­ zione della similarità alla contiguità conferisce alla poesia quell'essenza sim­ bolica, complessa, polisemica che intimamente la permea e la organizza; quell'essenza che è suggestivamente adombrata da Goethe: Alles vergiingli­ ches ist nur ein Gleichnis ("Tutto ciò che passa non è che immagine " ) . Cioè, in termini tecnici: ogni elemento della sequenza è una similitudine. In poe­ sia, dove la similarità è proiettata sulla contiguità, ogni metonimia è lieve­ mente metaforica, ed ogni metafora ha una sfumatura metonimica. L'ambiguità è un carattere intrinseco inalienabile di ogni messaggio con­ centrato su se stesso; è, insomma, un corollario della poesia. Possiamo dire con Empson: "Gli artifizi dell'ambiguità sono le radici stesse della poesia " . Non solo il messaggio stesso, m a anche il mittente e il destinatario diventa­ no ambigui. Oltre all'autore e al lettore, esiste l'"io" del protagonista lirico o del narratore fittizio e il "tu" o il "voi" del supposto destinatario dei mo­ nologhi drammatici, delle suppliche, delle epistole. Per esempio il poema Wrestling ]acob è rivolto dal protagonista eponimo al Salvatore e nello stes­ so tempo rappresenta un messaggio soggettivo del poeta Charles Wesley ai suoi lettori. Ogni messaggio poetico è, virtualmente, una specie di discorso semicitato con tutti quei problemi particolarmente complessi che il " di­ scorso inserito nel discorso" presenta al linguista. Il predominio della funzione poetica rispetto a quella referenziale non annulla il riferimento, ma lo rende ambiguo. Ad un messaggio disèmico cor­ risponde un mittente sdoppiato, un destinatario sdoppiato, un riferimento sdoppiato. Ciò risulta in modo evidente nei preamboli delle fiabe di vari po­ poli: tale è, per esempio, l'esordio abituale dei narratori maiorchini: Azxo era y no era ( ''Era e non era " ) . Applicando il principio di equivalenza alla se­ quenza, si acquisisce un principio di ricorrenza che rende possibile non so­ lo la reiterazione delle sequenze costitutive del messaggio poetico, ma anche quella del messaggio nella sua totalità. Questa possibilità di reiterazione im­ mediata o differita, questa reificazione del messaggio poetico e dei suoi ele­ menti costitutivi, questa trasformazione del messaggio in una permanenza, rappresentano un'intrinseca, effettiva proprietà della poesia.

' L ESTETICA C O N TE M PO R A N E A

2. 2 Jurij Michajlovic Lotman (1922-199 3 ) Il tratto fondamentale del funzionalismo di Jakobson è che la regola di generazione del testo poetico è una legge strutturale oggettiva e universale, indipendente dalla qualità del testo. Ciò, però, non signi­ fica, come spesso si è sostenuto, che l'intervento dell'interprete sia opzionale: nel modello di Jakobson ogni atto comunicativo implica sempre un destinatario che è tenuto a interpretare le caratteristiche del messaggio in base ad assunzioni storico-pragmatiche. Questo aspetto emerge con chiarezza nell'approfondimento del modello del­ la comunicazione di Jakobson sviluppato da Lotman . Quest'ultimo è il fondatore della «tipologia della cultura», disciplina che, sfruttando gli strumenti della linguistica, della semiotica e della critica letteraria, mira a mettere in luce la genesi, i meccanismi di sviluppo, l' organiz­ zazione e la funzione dei sistemi culturali. Secondo Lotman, il modello di Jakobson ha il pregio di unifica­ re le diverse situazioni comunicative, ma va precisato. Nella dina­ mica della cultura l'informazione è comunicata attraverso due ca­ nali: il canale Io-Egli e quello Io-Io . Nel primo, l'Io è il soggetto del­ la trasmissione e il depositario dell'informazione, mentre l'Egli è il destinatario; il codice e il messaggio restano costanti; l'informazio­ ne è data in anticipo e nel processo cambia solo depositario. Nel se­ condo si ha un processo di autocomunicazione, nel quale mittente e destinatario coincidono. Il depositario dell'informazione è lo stes ­ so, ma la comunicazione acquista informazione supplementare per­ ché il messaggio originario è ristrutturato grazie all'introduzione di un altro codice, caratterizzato da un 'organizzazione puramente for­ male e sintattica. Tra i due codici si sviluppa una tensione, di modo che gli elementi semantici del messaggio originario, inseriti in una costruzione sintattica complementare, assumono nuovi significati relazionali. Tanto più forte è l'organizzazione sin tattica, tanto più ai nessi semantici, divenuti più liberi, si attribuiscono significati asso­ ciativi individuali extratestuali. Grazie a questo processo, il mitten­ te-destinatario riorganizza la sua personalità, costruendo un nuovo ordine di senso. L' autocomunicazione, come collisione di due principi eterogenei, un messaggio con funzione semantica e un codice supplementare pu­ ramente sintattico, è il meccanismo che sta alla base della creazione poetica. L'arte nasce quando si sviluppa una tensione tra il codice 88

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adoperato come messaggio e il messaggio adoperato come codice. In base all'approssimazione a uno dei due componenti, il testo funzio­ na come poesia o prosa. La struttura di un'opera, però, non è suffi­ ciente a stabilire se si tratta di poesia o di prosa: decisivo è l'intervento dei modelli culturali. Per evitare un possibile fraintendimento occorre però precisare che l' autocomunicazione non è mai chiusa in una dimensione m ono­ logica e ciò in vista di due caratteristiche della «semiosfera», il siste­ ma generale che produce la cultura. In primo luogo, il mondo della semiosi è un «dialogo plurilingue», ossia è uno spazio costituito dal dialogo incessante tra le varie «strutture pensanti», tra una pluralità di linguaggi che si intersecano, si sovrappongono, si contrastano. In secondo luogo, nella «semiosfera» l'identità coabita con la costante presenza dell'altro, l' «esterno al sistema» che, irrompendo nel siste­ ma, lo dinamizza e lo rigenera. La «semiosfera» è un complesso sistema auto-organizzantesi, in cui convivono, condizionandosi reciprocamente, durata e innova­ zione. In particolare, esistono due modalità di cambiamento, anche queste prese in un rapporto di mutuo condizionamento: lo svilup­ po graduale e quello esplosivo; il primo prevedibile, il secondo im ­ prevedibile. L'arte è «figlia dell'esplosione», è, cioè, un'esplosione di senso che rom p e la prevedibile successione di cause ed effetti. L'artista, pertanto, è depositario del compito di spingere il mecca­ nismo della semiosi verso produzioni sempre nuove. L'arte è il mec­ canismo di «nascita e rinascita» del senso che impedisce l' atrofiz­ zarsi di una cultura.

Testi I MODELLI CULTURALI

Il legame organico tra cultura e comunicazione costituisce uno dei fonda­ menti della moderna culturologia. Conseguenza di ciò è il trasferimento nella sfera della cultura di modelli e di termini presi in prestito dalla teoria della comunicazione. L'uso del modello basilare elaborato da R. J akobson ha consentito di connettere alla teoria dei sistemi comunicativi una ampia cerchia di problemi concernenti lo studio della lingua, dell'arte e, in gene­ re, della cultura. Com'è noto, il modello proposto da R. Jakobson si confi­ gurava così:

' L ESTETICA C O N TE M PORA N E A

CONTESTO MITTENTE

MESSAGGIO

DESTINATARIO

CONTATTO CODICE

La creazione di un modello unitario delle situazioni comunicative ha dato un contributo essenziale alle scienze d'impostazione semiotica e ha trovato eco in molti lavori di ricerca. Tuttavia, il trasferire automaticamente nel campo della cultura concezioni già esistenti pone una serie di difficoltà. Fondamen­ tale è la seguente: nella meccanica della cultura la comunicazione si realizza, come minimo, attraverso due canali organizzati in maniere diverse. Ci è già capitato, a questo proposito, di far notare la necessità della pre­ senza, nel meccanismo unitario della cultura, di nessi figurativi e verbali che si possono considerare come due canali della trasmissione dell'informazione organizzati differentemente. Ambedue questi canali, però, vengono descritti dal modello di J akobson e, sotto questo rapporto, sono dello stesso tipo. Ma se ci si prefigge di costruire un modello della cultura a un livello più astratto, risulterà possibile distinguere due tipi di canali della comunicazione, uno so­ lo dei quali sarà descritto servendosi del modello classico. A tale scopo è ne­ cessario, in un primo tempo, distinguere due possibili direzioni della tra­ smissione di un messaggio. Il caso più tipico è la direzione " IO-EGLI " , in cui " Io " è il soggetto della trasmissione, il possessore della informazione, e " EGLI " è l'oggetto, il destinatario. In questo caso, si presuppone che all'inizio del­ l'atto comunicativo un messaggio sia noto "a me" e non "a lui". Il predominio delle comunicazioni di questo tipo nella cultura che ci è familiare nasconde un'altra direzione della comunicazione, che potrebbe es­ sere schematicamente caratterizzata come la direzione " IO-IO " . Il caso in cui il soggetto trasmette un messaggio a se stesso, cioè a colui che già lo cono­ sce, si presenta paradossale. Tuttavia, nella realtà, non è certamente raro, e nel sistema generale della cultura ha un ruolo non trascurabile. Quando parliamo della trasmissione di un messaggio " IO-IO " , trascu­ riamo, in primo luogo, i casi in cui il testo assolve una funzione mnemoni­ ca. Qui il secondo " Io " , che percepisce, è funzionalmente equiparato alla terza persona. La differenza si riduce tutta al solo fatto che nel sistema "Io­ EGLI " l'informazione viaggia nello spazio, mentre nel sistema " IO-IO " viag­ gia nel tempo. Anzitutto, ci interessa il caso in cui la trasmissione dell'informazione da "Io" a "Io " non si accompagna a una frattura nel tempo e esegue non una funzione mnemonica, ma una qualche altra funzione culturale. La comuni­ cazione a se stessi di un'informazione già nota si verifica, in primo luogo, tut­ te le volte che si eleva contemporaneamente anche il rango del messaggio. 90

' 2 . L ESTETICA SC IENTIFICA

Così, quando il giovane poeta legge un suo componimento già stampato, il messaggio rimane testualmente il medesimo della redazione manoscritta a lui familiare. Tuttavia, essendo tradotto in un nuovo sistema di segni grafici che possiedono un più alto grado di autorità in una data cultura, esso rice­ ve una significazione supplementare. Analoghi sono i casi in cui la veridicità o la falsità o il valore sociale di un messaggio si trovano a dipendere dal fat­ to che esso sia espresso a parole o solo sottinteso, detto o scritto, scritto o stampato ecc. Anche in una serie di altri casi, però, si ha trasmissione di un messaggio " da Io " a " Io " . Sono tutti i casi in cui l'uomo si rivolge a se stesso: in parti­ colare, le annotazioni diaristiche che si fanno non per fissare il ricordo di de­ terminate notizie, ma allo scopo, per esempio, di chiarire il proprio stato d'a­ nimo, chiarimento che senza un'annotazione non avverrebbe. Il rivolgersi a se stessi con testi, discorsi, ragionamenti è un fatto essenziale non solo per la psicologia, ma anche per la storia della cultura. Qui di seguito, tenteremo di dimostrare che il posto dell' autocomuni­ cazione nel sistema della cultura è molto più rilevante di quanto si potreb­ be supporre. Come si realizza tuttavia, una situazione talmente strana da far sì che il messaggio trasmesso nel sistema " IO-IO " non divenga del tutto ridondante e acquisti una nuova informazione supplementare? Nel sistema " IO-EGLI " risultano variabili gli elementi del modello che fanno da cornice (al mittente si sostituisce il destinatario) ; costanti sono il codice e il messaggio. Il messaggio e l'informazione in esso contenuta sono costanti; cambia invece il depositario dell'informazione. Nel sistema " IO-IO " il depositario dell'informazione rimane lo stesso, mentre il messaggio, nel processo comunicativo, viene riformulato e acqui­ sta un nuovo significato. Ciò è la conseguenza del fatto che viene introdot­ to un secondo codice supplementare, e il messaggio di partenza è ricodifi­ cato nelle unità della sua struttura, ricevendo così i connotati di un messag­ gio nuovo. Lo schema della comunicazione, in questo caso, è il seguente: contesto I

dislocazione del contesto

contesto 2

IO --+ messaggio I --+ messaggio I --+ messaggio 2 --+ IO

codice I

codice 2

codice 2

Se il sistema comunicativo " IO-EGLI " assicura solo la trasmissione di un vo­ lume costante di informazione, nel canale " IO-IO " ha luogo invece una tra­ sformazione qualitativa dell'informazione, con conseguente riorientamento di questo stesso " Io " . Nel primo caso, il mittente trasmette il messaggio a un 9I

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altro, al destinatario, mentre egli rimane immutato nel corso di quest'atto. Nel secondo, trasmettendo a se stesso egli riorienta interiormente la propria essenza, giacché l'essenza della personalità può venir trattata come un as­ sortimento individuale di codici socialmente significativi, e qui, nel proces­ so dell'atto comunicativo, tale assortimento cambia. La trasmissione del messaggio attraverso il canale " IO-IO " non ha un ca­ rattere immanente, in quanto è condizionata dall'intrusione dall'esterno di codici supplementari e dalla presenza di spinte esterne che dislocano la si­ tuazione del contesto. [. .. ] Il meccanismo della trasmissione dell'informazione nel canale " IO-IO " può essere rappresentato come segue: si introduce un messaggio espresso in una lingua naturale, poi viene introdotto un codice supplementare che co­ stituisce una organizzazione puramente formale, strutturata in un determi­ nato modo sotto il profilo sintattico e, nello stesso tempo, o liberata dai va­ lori semantici o tesa a una simile liberazione. Tra il messaggio originario e il codice secondario sorge una tensione che porta a interpretare gli elementi semantici del testo come se fossero inclusi in una costruzione sin tattica com­ plementare e ricevessero da questa interconnessione nuovi significati (rela­ zionali) . Tuttavia, il codice secondario mira a trasformare gli elementi con significazione primaria in elementi liberati dai nessi semantici del linguag­ gio comune, senza però riuscirei. Infatti, la semantica del linguaggio comu­ ne rimane, ma a essa se ne sovrappone una secondaria, formatasi a spese del­ le dislocazioni che nascono allorché, dalle unità significanti della lingua, vengono costruite le diverse serie ritmiche. Ma la trasformazione semantica del testo non si limita a questo. La crescita dei nessi sin tattici all'interno del messaggio attenua i nessi semantici primari, e il testo, a un determinato li­ vello di percezione, può comportarsi come un messaggio asemantico dalla costruzione complessa. Senonché i testi asemantici ad alta organizzazione sintagmatica tendono a diventare organizzatori delle nostre associazioni. A essi vengono attribuiti significati associativi. Così, scrutando il disegno del­ la carta da parati o ascoltando della musica non descrittiva, attribuiamo agli elementi di simili testi precisi significati. Quanto più è sottolineata l' orga­ nizzazione sin tattica, tanto più i nessi semantici diventano associativi e libe­ ri. Perciò il testo nel canale " IO-IO " tende a vestirsi di significati individuali e riceve la funzione di organizzatore delle associazioni disordinate che si ac­ cumulano nella coscienza dell'individuo. Esso riorienta la personalità che partecipa al processo di autocomunicazione. In tal modo, il testo veicola un triplice ordine di significati: i primari, appartenenti al linguaggio comune; i secondari, che sorgono a spese della riorganizzazione sintattica del testo e della contrapposizione reciproca del-

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le unità primarie, e infine quelli di terzo grado, a spese dell'immissione nel messaggio e dell'organizzazione, secondo gli schemi costruttivi di tale gra­ do, delle associazioni extratestuali dei vari livelli: dai più generali ai più in­ dividuali. Non c'è bisogno di dimostrare che il meccanismo qui descritto può con­ temporaneamente essere rappresentato anche come una caratterizzazione dei processi che sono alla base della creazione poetica. Una cosa, tuttavia, è il principio poetico, un'altra sono i testi poetici rea­ li. Sarebbe una semplificazione identificare i secondi con i messaggi tra­ smessi attraverso il canale " IO-IO " . Il testo poetico reale viene trasmesso con­ temporaneamente attraverso due canali (fanno eccezione i testi sperimenta­ li, le glossolalie, i testi del tipo delle "conte" asemantiche infantili e la zaum', come pure i testi in lingue sconosciute all'uditorio); ed esso oscilla tra i si­ gnificati trasmessi nel canale " IO-EGLI " e quelli formati nel processo del­ l' autocomunicazione. A seconda dell'approssimazione a tale o talaltro asse e dell'orientamento del testo su tale o talaltro tipo di trasmissione, esso vie­ ne percepito come "versi" o come "prosa" . Certo, l'orientamento del testo su un messaggio linguistico primario, oppure su una complessa riorganizzazione dei significati e un accrescimen­ to dell'informazione, non significa ancora, di per sé, che esso funzionerà co­ me poesia o come prosa: qui entra in gioco l'interrelazione con i modelli cul­ turali generali di questi concetti in una data epoca. Possiamo dunque concludere che esistono due modi di costruire il si­ stema delle comunicazioni umane. In un caso, abbiamo a che fare con un'informazione data in anticipo, che viene trasferita da un uomo all'altro, e con un codice che rimane costante nell'ambito dell'intero atto comuni­ cativo. Nell'altro, invece, si tratta di un aumento dell'informazione, di una sua trasformazione e riformulazione secondo altre categorie; inoltre, non vengono introdotti nuovi messaggi, ma nuovi codici, mentre il destinatario e il mittente coincidono. In questo processo autocomunicativo ha luogo an­ che una riorganizzazione della personalità, e a ciò si connette una gamma assai vasta di funzioni culturali, dal senso della propria individualità, ne­ cessario all'uomo in determinati tipi di cultura, all'autoidentificazione e al­ l' autopsicoterapia. Il ruolo di simili codici può essere svolto da strutture formali di vario ti­ po, che tanto più fruttuosamente assolvono la funzione di riorganizzare i si­ gnificati quanto più asemantica è la loro propria organizzazione. Sono tali gli oggetti spaziali del tipo degli arabeschi o degli insiemi architettonici de­ stinati alla contemplazione, oppure oggetti temporali come la musica. Più complessa è invece la situazione dei testi verbali. Poiché il carattere autocomunicativo di un nesso può venir mascherato e assumere le forme di 93

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altre specie di comunicazione (per esempio, la preghiera può essere sentita come una comunicazione non con se stessi, ma con una possente forza ester­ na; la lettura ripetuta, la lettura di un testo già noto, può essere concepita, per analogia con la prima lettura, come una comunicazione con l'autore ecc. ), il destinatario che percepisce il testo verbale deve decidere che cosa gli è trasmesso: se il codice o il messaggio. Si tratterà, in larga misura, del­ l'orientamento di colui che percepisce, giacché un medesimo testo può svol­ gere il ruolo sia di un messaggio che di un codice, oppure, oscillando tra questi due poli, svolgere i due ruoli contemporaneamente. [ . . .] L'arte non nasce nella serie dei testi del sistema " IO-EGLI " o del sistema " IO-IO " . Essa si vale di ambedue i sistemi di comunicazione, così da oscilla­ re nel campo della loro reciproca tensione strutturale. L'aspetto estetico na­ sce nel momento in cui il codice comincia a essere adoperato come messag­ gio, mentre il messaggio comincia a essere impiegato come codice allorché il testo passa da un sistema di comunicazione a un altro, pur conservando nella coscienza dell'uditorio un legame con entrambi. La natura dei testi artistici, in quanto fenomeno mobile connesso con­ temporaneamente a tutti e due i tipi di comunicazione, non esclude che i singoli generi letterari siano, in maggiore o minor misura, orientati sulla per­ cezione dei testi come messaggi o come codici. Certo, una lirica e un saggio non sono correlati nella stessa maniera con questo o quel sistema comuni­ cativo. Tuttavia, a parte l'orientamento dei generi letterari, in determinati momenti, per ragioni storiche, sociali ecc., questa o quella letteratura nel suo complesso (e, più estesamente, l'arte nel suo insieme) può essere caratteriz­ zata da un orientamento sull' autocomunicazione o, al contrario, sulla co­ municazione dominante nel sistema delle lingue naturali. È indicativo come un atteggiamento negativo verso il testo-stereotipo sia un buon criterio di la­ voro per giudicare dell'orientamento generale di una letteratura sul mes­ saggio. Una letteratura orientata sull'autocomunicazione non solo non ri­ fuggirà dagli stereotipi, ma paleserà la tendenza a trasformare i testi in ste­ reotipi e a identificare ciò che è " alto", "buono" , "vero" con ciò che è "sta­ bile" , "eterno" , ossia con uno stereotipo. Tuttavia, l'allontanamento da un polo, e magari il suo ripudio, la pole­ mica cosciente con esso non significano affatto una fuga dalla sua influenza strutturale. Per quanto un'opera letteraria imiti il testo di un messaggio giornalistico, essa conserva, a esempio, un connotato tipico dei testi auto­ comunicativi quale la reiterazione della lettura. Rileggere Guerra e pace è un'occupazione molto più naturale che rileggere le fonti storiche utilizzate da Tolstoj. Nello stesso tempo, per quanto un testo artistico verbale, per ra­ gioni di polemica o di esperimento, miri a cessare di essere un messaggio, 94

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questo non si verifica mai completamente come ci si può facilmente con­ vincere da tutta l'esperienza artistica. I testi poetici, evidentemente, si formano a spese di una particolare "oscillazione" delle strutture: i testi creati nel sistema " IO-EGLI " funziona­ no come autocomunicazioni e viceversa; i testi diventano codici, i codici messaggi. Seguendo le leggi dell' autocomunicazione (scomposizione del te­ sto in segmenti ritmici, riduzione delle parole a indici, indebolimento dei nessi semantici e sottolineatura di quelli sintagmatici) , il testo poetico en­ tra in conflitto con le leggi del linguaggio naturale. E infatti, la sua perce­ zione come testo nella lingua naturale è la condizione senza la quale la poe­ sia non può esistere e assolvere la sua funzione comunicativa. Ma anche la completa vittoria della concezione della poesia solo come messaggio nel lin­ guaggio naturale condurrà alla perdita della sua specificità. L'elevata capa­ cità modellizzante della poesia è legata appunto alla sua trasformazione da messaggio in codice. Il testo poetico oscilla come una sorta di pendolo tra i sistemi " IO-EGLI " e " IO-IO " . Il ritmo si eleva al livello dei significati, men­ tre i significati si compongono in ritmi. L'arte è un interlocutore esigente. È molto diffusa l'idea che scopo dell'arte sia arricchire di informazioni le nostre conoscenze. Ma se la riduciamo a questa pedagogia applicata non possiamo poi non rimproverarle l'inutile so­ vrabbondanza e complicazione. Il processo di comprensione dell'arte è in­ vece duplice, del tutto diverso dalla trasmissione di un oggetto di mano in mano o dalla lezione scolastica, in cui un maestro spiega nel modo più chia­ ro per gli allievi ciò che a lui stesso è già chiarissimo. Il processo di trasmissione dell'informazione artistica nasce da una esplosione di senso: una cosa sino a quel momento ignota viene improvvi­ samente illuminata dall'incontro con qualcosa di inatteso, imprevedibile, e d'un tratto diventa chiara, ovvia. Il passo successivo consiste nella trasfor­ mazione di questa esplosione in un testo da trasmettere all'uditorio. La cul­ tura possiede in sé un ininterrotto processo dinamico di nascita e rinascita del senso il cui meccanismo è proprio l'arte. Tempo fa, accesa la radio, mi è capitato casualmente di ascoltare una le­ zione sull'essenza della cultura. Qualcuno spiegava, serissimo, che l'arte rappresenta una forma primitiva, barbarica, di utilizzo antieconomico del pensiero umano. L'autorevolezza dell'arte nella cultura russa veniva spiega­ ta, senza ombra di esitazione, con l'arretratezza: il futuro avrebbe visto la so­ stituzione dell'arte con diverse forme di sviluppo tecnico. Si tratta di idee certo non nuove che, nonostante la loro volgarità, rispuntano regolarmente in determinati periodi storici. Tralasciando la fastidiosa sicumera e il tono 95

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didattico di questo loro adepto, può valere la pena di interrogarsi sulla pe­ riodica ricomparsa di queste idee, peraltro assurde. La disputa si può di fatto riassumere così: lo sviluppo della cultura è un processo graduale e privo per principio di imprevisti, o si tratta viceversa di una catena di esplosioni imprevedibili? Basta porre la questione in questi termini per rendersi conto di quanto sia assurda. Ci troviamo di fronte a due facce di una stessa inscindibile unità, che possono essere separate soltanto in un gioco di astrazione, o per la malattia di una società agonizzante. Né un sistema costituito di sole esplosioni né un sistema che ne sia del tutto privo possono esistere come organismo sano. Non è mai successo. N oi viviamo un periodo di crisi profonda. L'umanità, se avrà un futuro, costituirà imman­ cabilmente una unità strutturale, fondata su un processo di sviluppo unita­ rio. Ma questa unità sarebbe impossibile e fatale se frutto di un livellamen­ to indifferenziato, e non della complessa intersezione di strutture eteroge­ nee. Il graduale sviluppo e spostamento nell'imprevedibilità devono dare forma a una unità complessa: l'imprevedibilità esperita nella sfera dell'arte può trasferirsi nella vita in forma blanda, priva di catastrofismo, e, come un vaccino, conferire all'organismo una sicura immunità.

2. 3 Umberto Eco (19 3 2) Come è emerso dal modello della comunicazione di Jakobson, svi­ luppato da Lotman , ogni opera postula un interprete che, inseren­ dosi nel gioco istituito dalla struttura dell'opera, la attualizzi. La coo­ perazione attiva del lettore è il punto centrale della semiotica inter­ pretativa di Eco. Allievo di Pareyson (PAR. 4· 7 ) , Eco è senz' altro uno degli autori più importanti nel campo della semiotica. A lui si deve il maggiore sforzo di sistematizzazione della disciplina, culminato nel Trattato di semiotica generale, pubblicato per la prima volta nel 1 975. Fin dalle prime opere, Eco si concentra sullo studio della «dialettica tra i diritti dei testi e i diritti dei loro interpreti». La conclusione a cui arriva è che il testo è un congegno costituito da una doppia strategia: il lettore modello e l'autore modello. Il primo indica la strategia in­ terpretativa ottimale, vale a dire le condizioni che devono essere sod­ disfatte da parte del lettore perché il testo sia pienamente e coeren­ temente interpretato. Il secondo indica la strategia, ricostruibile sul­ la base delle tracce che essa lascia nel testo, tesa a produrre il lettore modello. Come si vede, autore e lettore modello sono in un rappor-

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to dialettico che converge nell' intentio operis, che Eco definisce co­ me l'insieme dei requisiti strutturali oggettivi del testo che postulano un lettore modello. I concetti di autore e lettore modello, messi a punto da Eco negli anni settanta, stabiliscono uno stretto dialogo con due diversi filoni di indagine: da una parte, la linea "semiotico-strutturale" con i con­ tributi di Barthes , Lotman, Uspenskij , Hirsch; dall'altra, la linea "er­ meneutica" , con i lavori di Gadamer (PAR. 5 . 2) e della Scuola di Co­ stanza, in particolare di Jauss (PAR. 5.1) e di Iser. Il punto di contatto essenziale della semiotica con la tradizione ermeneutica è la condivi­ sione del «vecchio ma ancora valido circolo ermeneutico». I testi pos­ sono essere più o meno aperti (quelli estetici lo sono eminentemen­ te) , l'intervento del lettore può essere più o meno libero, e tuttavia l'interpretazione non è mai un'operazione meccanica o, al contrario, anarchica, ma sempre circolare (dalla parte al tutto e dal tutto alle parti) e congetturale (le ipotesi interpretative possono essere conser­ vate solo se il testo non le falsifica) . Nelle opere degli anni novanta, Eco dedica molto spazio alla con­ danna della prospettiva decostruzionista o reader-oriented secondo la quale il lettore sarebbe libero di cercare nel testo ciò che vuole tro­ varvi. Eco considera questa teoria dell'interpretazione nient'altro che una nuova forma di «idealismo magico» - ogni opzione è in mano al­ l'interprete senza che la struttura del testo svolga alcun ruolo - a cui è necessario opporre una netta distinzione tra «uso» e «interpreta­ zione». Benché uso e interpretazione siano due schemi astratti, sem­ pre compresenti negli effettivi atti ermeneutici, l'attività di coopera­ zione del lettore non può essere intesa come un libero uso dei testi in quanto le opere, prevedendo il proprio lettore modello, costruisco­ no e delimitano l'universo delle interpretazioni legittimabili. Per Eco - che qui fa sua la posizione di Pareyson - interpretare è, pertanto, una «dialettica di fedeltà e libertà». Infine, nel recente saggio Kant e l' ornitorinco , oltre a presentare alcuni ripensamenti di fondo rispetto al Trattato, Eco sottolinea la na­ tura non interamente costruttiva della sua semiotica. Sotto questo profilo, l'interpretazione testuale si configura come modello perspi­ cuo del rapporto semiotico che l'uomo intrattiene col mondo. È ve­ ro, infatti, che il mondo è formato, anche dal punto di vista percetti­ vo, attraverso atti interpretativi, ma è anche vero che la conoscenza non è un'arbitraria costruzione del soggetto e che il mondo dell'e­ sperienza, proprio come i testi, non tollera costrutti interpretativi 97

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inefficaci. In altri termini, proprio come nell'analisi dei testi, la deri­ va soggettivistica dell'interpretazione intesa come uso non fornisce alcuna reale comprensione, così in epistemologia occorre rifiutare il principio anarchico di Feyerabend secondo il quale anything goes. Ciò che ci chiama a significare - l'essere - è percorso da linee di re­ sistenza che pongono dei limiti al discorso e che a volte, come nelle rivoluzioni scientifiche, ci costringono a cambiare paradigma. Occorre solo un piccolo passo per mettere in luce come nella ri­ flessione di Eco, in particolar modo nelle ultime opere, si configuri­ no in modo chiaro, pur se non direttamente esplicitate, le linee di un'etica della storiografia per la quale il lavoro ermeneutico dello sto­ rico, pur se infinitamente articolabile, è fortemente ancorato a una realtà fattuale i cui tratti essenziali possono e debbono essere ricono­ sciuti e attestati.

Testi L' AUTORE E IL LETTORE IDEALE

Uno dei campioni più scoperti del testualismo forte, J. Hillis Miller (1980: 6n) , ha detto che "le letture della critica decostruzionista non rappresenta­ no la caparbia imposizione di una teoria soggettiva al testo, ma sono deter­ minate dal testo stesso" . In Lector in fabula ho proposto una distinzione fra interpretazione e uso dei testi e ho definito come corretta interpretazione la lettura che Derrida ha dato (in "Le facteur de la vérité " ) della "Lettera rubata" di Poe. Derrida osserva, per condurre la sua lettura psicoanalitica in polemica con la lettura lacaniana, che egli intende analizzare l'inconscio del testo e non l'inconscio dell'autore. Ora, la lettera viene trovata in un portacarte che ciondola ap­ peso a un minuscolo pomo d'ottone sotto la cornice del camino. Non è im­ portante sapere quali conclusioni Derrida tragga dalla posizione della lette­ ra. Il fatto è che il pomo d'ottone e il centro del camino esistono come ele­ menti dell'ammobiliamento del mondo possibile delineato dalla storia di Poe e che, per leggere la storia, Derrida ha dovuto rispettare non solo il les­ sico inglese ma anche il mondo possibile descritto dalla storia. In questo senso ho insistito sulla distinzione fra interpretazione e uso di un testo, e ho detto che quella di Derrida era interpretazione mentre quello di Maria Bonaparte, che usava il testo per trarre inferenze sulla vita privata di Poe, immettendo nel discorso prove che ricavava da informazioni bio­ grafiche extratestuali, era semplice uso. Questa distinzione torna ora buona

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per discutere della differenza tra ricerca della intentio operis (Derrida) e so­ vrapposizione della intentio lectoris (Bonaparte). L'interpretazione di Derrida è sostenuta dal testo, indipendentemente dalle intenzioni di Poe autore empirico, perché il testo afferma e non esclu­ de che il punto focale della storia sia il centro del camino. Si può ignorare questo centro del camino nel corso della prima lettura, ma non si può fin­ gere di averlo ignorato alla fine della storia, salvo raccontare un'altra storia. Agostino nel De doctrina christiana diceva che un'interpretazione, se a un certo punto di un testo pare plausibile, può essere accettata solo se essa verrà riconfermata - o almeno se non verrà messa in questione - da un altro p un­ to del testo. Questo intendo con intentio operis. Una volta Borges ha suggerito che si potrebbe e dovrebbe leggere il De Imitatione Christi come se fosse stato scritto da Céline. Splendido suggeri­ mento per un gioco che inclini all'uso fantasioso e fantastico dei testi. Ma l'ipotesi non può essere sostenuta dalla intentio operis. Io ho cercato di se­ guire il suggerimento borgesiano e ho trovato in Tommaso da Kempis pagi­ ne che potrebbero essere state scritte dall'autore del Voyage au bout de la nuit: "La grazia ama le cose semplici e di basso livello, non è disgustata da quelle dure e spinose e ama gli abiti sordidi" . È sufficiente leggere Grazia come Disgrazia (una grazia dif-ferita) . Ma ciò che non funziona in questa let­ tura è che non si possono leggere nella stessa ottica altri passi del De Imita­ tione. Anche se ne riferissimo forzosamente ogni frase all'enciclopedia del­ l'Europa tra le due guerre, il gioco non potrebbe durare a lungo. Se al con­ trario ci riferissimo all'enciclopedia medievale e interpretassimo medieval­ mente le categorie dell'opera, tutto funzionerebbe e avrebbe senso, in mo­ do testualmente coerente. Anche se non mi occupo della intentio auctoris e ignoro chi sia Tommaso da Kempis, c'è pur sempre una intentio operis che si manifesta ai lettori forniti di senso comune. [. . . ] L'iniziativa del lettore consiste nel fare una congettura sulla intentio ope­ ris. Questa congettura dev'essere approvata dal complesso del testo come tutto organico. Questo non significa che su un testo si possa fare una e una sola congettura interpretativa. In principio se ne possono fare infinite. Ma alla fine le congetture andranno provate sulla coerenza del testo e la coe­ renza testuale non potrà che disapprovare certe congetture avventate. Un testo è un artificio teso a produrre il proprio lettore modello. Il let­ tore empirico è colui che fa una congettura sul tipo di lettore modello po­ stulato dal testo. Il che significa che il lettore empirico è colui che tenta con­ getture non sulle intenzioni dell'autore empirico, ma su quelle dell'autore modello. L'autore modello è colui che, come strategia testuale, tende a pro­ durre un certo lettore modello. 99

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Ed ecco che a questo punto la ricerca sulla intenzione dell'autore e quel­ la sulla intenzione dell'opera coincidono. Coincidono, almeno, nel senso che autore (modello) e opera (come coerenza del testo) sono il punto vir­ tuale a cui mira la congettura. Più che parametro da usare per validare l'in­ terpretazione, il testo è un oggetto che l'interpretazione costruisce nel ten­ tativo circolare di validarsi in base a ciò che costituisce. Circolo ermeneuti­ co per eccellenza, certo. C'è il lettore modello dell'orario ferroviario e c'è il lettore modello di Finnegans Wake. Ma il fatto che Finnegans Wake preve­ da un lettore modello capace di trovare infinite letture possibili non signifi­ ca che l'opera non abbia un codice segreto. Il suo codice segreto sta in que­ sta sua volontà occulta, che diventa palese quando sia tradotta in termini di strategie testuali, di produrre questo lettore, libero di azzardare tutte le in­ terpretazioni che vuole, ma obbligato ad arrendersi quando il testo non ap­ prova i suoi azzardi più libidinali. [. .. ] A questo punto vorrei stabilire una sorta di principio popperiano non per legittimare le buone interpretazioni ma per delegittimare le cattive. J. Hillis Miller (1970: IX) dice: " Non è vero che. . . tutte le letture siano ugual­ mente valide . . . Certe letture sono certamente sbagliate . . . Rivelare un aspet­ to dell'opera di un autore spesso significa ignorarne o !asciarne in ombra de­ gli altri. Alcune interpretazioni colgono con più profondità di altre la strut­ tura di un testo" . Pertanto un testo deve venir preso come parametro delle proprie interpretazioni (anche se ogni nuova interpretazione arricchisce la nostra comprensione di quel testo, ovvero, anche se ogni testo è sempre la somma della propria manifestazione lineare e delle interpretazioni che ne sono state date). Ma, per prendere un testo come parametro delle proprie interpretazioni, dobbiamo ammettere che, almeno per un istante, ci sia un linguaggio critico che agisce come metalinguaggio e che permetta la com­ parazione fra il testo, con tutta la sua storia, e la nuova interpretazione. Capisco che questa posizione possa parere offensivamente neopositi­ vistica. È infatti contro la nozione stessa di metalinguaggio interpretativo che si pone l'idea derridiana di decostruzione e deriva. Ma io non sto di­ cendo che ci sia un metalinguaggio diverso dal linguaggio ordinario. Sto di­ cendo che la nozione di interpretazione richiede che un pezzo di linguag­ gio possa essere usato come interpretante di un altro pezzo dello stesso lin­ guaggio. Questo è in fondo il principio peirciano di interpretanza e di se­ miosi illimitata. Un metalinguaggio critico non è un linguaggio diverso dal proprio lin­ guaggio oggetto. È una porzione dello stesso linguaggio oggetto, e in tal sen­ so è una funzione che qualsiasi linguaggio svolge quando parla di se stesso. [. .. ] IOO

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Difendere un principio di interpretanza, e una sua dipendenza dalla intentio operis, non significa certo escludere la collaborazione del destina­ tario. Il fatto stesso che si sia posta la costruzione dell'oggetto testuale sot­ to il segno della congettura da parte dell'interprete mostra come intenzio­ ne dell'opera e intenzione del lettore siano strettamente legate. Difendere l'interpretazione contro l'uso del testo non significa che i testi non possa­ no essere usati. Ma il loro libero uso non ha nulla a che vedere con la loro interpretazione, per quanto sia interpretazione sia uso presuppongano sempre un riferimento al testo-fonte, se non altro come pretesto. Uso e interpretazione sono certamente due modelli astratti. Ogni let­ tura risulta sempre da una commistione di questi due atteggiamenti. Talo­ ra accade che un gioco iniziato come uso finisca col produrre lucida e crea­ tiva interpretazione - o viceversa. Talora misinterpretare un testo significa disincrostarlo da molte interpretazioni canoniche precedenti , rivelarne nuovi aspetti, e in questo processo il testo risulta tanto meglio e tanto più produttivamente interpretato, secondo la propria intentio operis, attenua­ ta e oscurata da tante precedenti intentiones lectoris camuffate da scoperte della intentio auctoris. C'è infine una lettura pretestuale, che assume le forme dell'uso spre­ giudicato, per mostrare quanto il linguaggio possa produrre semiosi illimi­ tata o deriva. In tal caso la lettura pretestuale ha funzioni filosofiche, e tali mi sembrano gli esempi di decostruzione provvisti da Derrida. Ma " deco­ struzione non significa muoversi da un concetto all'altro, bensì nel rove­ sciare e spiazzare un ordine concettuale o il non -ordine concettuale con cui il testo è articolato" (Derrida 1972) . Derrida è più lucido del derridismo. Credo vi sia differenza tra questo gioco filosofico (la cui posta non è un te­ sto singolo, ma l'orizzonte speculativo che esso rivela o tradisce) e la deci­ sione di applicarne il metodo alla critica letteraria - o di fare di tale meto­ do il criterio di ogni atto di interpretazione. È possibile che esistano anche regioni dell'essere di cui non siamo in gra­ do di parlare. Pare strano, visto che l'essere si manifesta sempre e soltan­ to nel linguaggio, ma diamolo per concesso - visto che nulla vieta che un giorno l'umanità possa elaborare linguaggi diversi da quelli noti. Attenia­ moci però a quelle " regioni " dell'essere di cui di solito parliamo, e affron­ tiamo questo nostro parlare alla luce non di una metafisica, ma di una se­ miotica, quella di Hjelmslev. Noi usiamo segni come espressioni per espri­ mere un contenuto, e questo contenuto viene ritagliato e organizzato in forme diverse da culture (e lingue) diverse. Su e da che cosa viene rita­ gliato? Da una pasta amorfa, amorfa prima che il linguaggio vi abbia ope-

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rato le sue vivisezioni, che chiameremo il continuum del contenuto, tutto l'esperibile, il dicibile, il pensa bile - se volete, l'orizzonte infinito di ciò che è, è stato e sarà, sia per necessità che per contingenza. Parrebbe che, prima che una cultura non l'abbia linguisticamente organizzato in forma del contenuto, questo continuum sia tutto e nulla, e sfugga quindi a ogni determinazione. Tuttavia ha sempre imbarazzato studiosi e traduttori il fatto che Hjelmslev lo chiamasse in danese mening, che è inevitabile tra­ durre con " senso" (non necessariamente nel senso di " significato" ma nel senso di " direzione " , nello stesso senso in cui in una città esistono sensi permessi e sensi vietati) . Che cosa significa che ci sia del senso, prima d i ogni articolazione sen­ sata operata dalla conoscenza umana? Hjelmslev lascia a un certo momen­ to capire che dipende dal "senso" il fatto che espressioni diverse come pio­ ve, il pleut, it rains, si riferiscano tutte allo stesso fenomeno. Come a dire che nel magma del continuum ci sono delle linee di resistenza e delle possibilità di flusso, come delle nervature del legno o del marmo che rendano più age­ vole tagliare in una direzione piuttosto che nell'altra. È come per il bue o il vitello: in civiltà diverse viene tagliato in modi diversi, per cui il nome di cer­ ti piatti non è sempre facilmente traduci bile da una lingua all'altra. Eppure sarebbe molto difficile concepire un taglio che offrisse nello stesso momen­ to l'estremità del muso e la coda. Se il continuum ha delle linee di tendenza, per impreviste e misteriose che siano, non si può dire tutto quello che si vuole. L'essere può non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi vietati. Ci sono delle cose che non si possono dire. Non importa che queste cose siano state dette un tempo. In seguito ab­ biamo per così dire " sbattuto la testa" contro qualche evidenza che ci ha convinto che non si poteva più dire quello che si era detto prima. C'è da evitare un fraintendimento. Quando si parla dell'esperienza di qualcosa che ci obbliga a riconoscere delle linee di tendenza e di resi­ stenza, e a formulare leggi, non si pretende affatto di dire che queste leg­ gi rappresentino adeguatamente le linee di resistenza. Come a dire che, se lungo il sentiero che percorro nel bosco, trovo un masso che mi ostruisce il cammino, certo dovrò voltare a destra o a sinistra (o decidermi a torna­ re indietro) , ma ciò non mi rassicura affatto che la decisione presa mi aiu­ ti a conoscere meglio il bosco. Semplicemente l'incidente interrompe un mio progetto e mi induce a escogitarne un altro. Affermare che ci siano delle linee di resistenza non significa ancora dire, con Peirce, che ci siano leggi universali operative in natura. L'ipotesi delle leggi universali (o l'i­ potesi di una legge specifica) è solo uno dei modi in cui si reagisce all'in­ sorgere di una resistenza. Ma Habermas, nel cercare il nocciolo della cri-

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tica di Peirce alla cosa in sé kantiana, sottolinea che il problema peircea­ no non è di dire che qualcosa (nascosto dietro alle apparenze che vorreb­ bero rispecchiarlo) ha, come lo specchio, un lato posteriore che sfugge al­ la riflessione, un lato che siamo quasi sicuri, un giorno, di scoprire, pur­ ché riusciamo ad aggirare la figura che vediamo: è che la realtà impone re­ strizioni alla nostra conoscenza solo nel senso che rifiuta interpretazioni false (Habermas 1995: 251). Affermare che ci siano linee di resistenza vuole soltanto dire che, anche se appare come effetto di linguaggio, l'essere non lo è nel senso che il lin­ guaggio liberamente lo costruisce. Anche chi affermasse che l'essere è puro Caos, e quindi suscettibile di ogni discorso, dovrebbe per lo meno esclude­ re che esso sia Ordine duro. Il linguaggio non costruisce l'essere ex nova: lo interroga, trovando sempre e in qualche modo qualcosa di già dato (anche se essere già dato non significa essere già finito e completo) . Anche se l'es­ sere fosse tarlato, ci sarebbe pur sempre un tessuto la cui trama e l'ordito, confusi dagli infiniti buchi che lo hanno smangiato, in qualche modo osti­ nato sussistono. Questo già dato sono appunto le linee di resistenza.

2. 4 Nelson Goodman (1906-1998) Nella semiotica di Eco il rapporto interpretativo che lega il lettore modello al testo (e a quello estetico in particolare) mostra in che mo­ do lavori il comprendere in generale. È possibile approfondire le condizioni soggettive dell' interpretazione attraverso l' analisi di Goodman , uno dei maggiori rappresentanti della filosofia analitica e tra i principali protagonisti del passaggio dall'epistemologia neo­ positivistica a quella postpositivistica. N el quadro della filosofia di Goodman , l'arte non riceve attenzione in quanto tale. Al contrario, la filosofia dell'arte fa tutt'uno con la teoria della conoscenza poiché i problemi dell'arte fanno parte dello studio generale e unificato dei modi di simbolizzazione. Il motivo centrale per cui l'estetica è con­ siderata parte integrante dell'epistemologia è da vedere nella neces­ sità di abbandonare la tradizionale dicotomia tra scienza e arte, co­ noscere e sentire, cognitivo ed emotivo. Secondo l'interpretazione di Goodman , nella visione tradizionalmente legata alla scienza moder­ na, l'esperienza estetica è concepita come apprensione diretta di un dato immediato, libera da ogni concettualizzazione, fondata sul pia103

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cere immediato. L'arte, cioè, non ha niente a che fare con il cono­ scere ed è priva di ogni valore di verità. Da parte sua, il conoscere è identificato con il discorsivo, con il concettuale, con la sfera del lin­ guaggio e della logica. Secondo Goodman , invece, arte e scienza sono connotate da una radicale unità di fondo: in quanto entrambe sono manipolazio­ ne di simboli, esse condividono un essenziale importo cognitivo . Come modo di simbolizzazione, l'esperienza estetica ha un caratte­ re dinamico, attivo, mobile. Essa si configura come un atteggia­ mento di ricerca e di esplorazione, nel quale, lungi da ogni con ­ templazione passiva, sono in gioco il riconoscimento del sistema simbolico, discriminazioni accurate, relazioni sottili. Come per la scienza, la simbolizzazione in opera nell'arte è giudicata per come essa esplora il mondo, lo informa, lo analizza e lo organizza. Il co­ noscere, d'altra parte, deve includere tutti gli aspetti della sfera co­ gnitiva, dalla discriminazione percettiva, all'intuizione emotiva, al­ l'inferenza logica. La percezione, il sentimento, la concettualizza­ zione operano in combinazione, e con pari diritti, come strumenti di esplorazione e di scoperta, cosicché un'analisi del processo co­ gnitivo in elementi distinti nettamente circoscritti risulta a rigore impossibile. Ciò significa che mentre in sede di giustificazione razionale il sentire può e deve essere escluso, quando conosciamo attraverso l'arte «tutto è percepito nel nostro corpo», in modo tale che la sen­ sibilità prende direttamente parte all'invenzione e all'interpretazio­ ne. Nell'esperienza estetica il carattere cognitivo delle emozioni e il loro statuto non «insulare», consueto anche nella vita quotidiana, è dunque esaltato e simbolicamente connotato. All'interno della stra­ tegia esplorativa dell'opera le emozioni si configurano come stru­ menti di discernimento che enfatizzano, sopprimono, organizzano, correlando l'opera con il complesso delle nostre esperienze e col mondo oggettivo. Che arte e scienza siano attività cognitive non comporta che esse siano identiche. È vero, invece, che la loro differenza non va indivi­ duata nella contrapposizione tra sentimento e inferenza o tra passio­ ne e azione, ma nel predominio di certe caratteristiche simboliche. Secondo la proposta di Goodman, l'arte è connotata da cinque pro­ prietà - o «sintomi» - del funzionamento estetico di un sistema sim­ bolico (densità sintattica e semantica, saturazione relativa, esemplifi­ cazione e riferimento complesso) . 104

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Testi LA COLLABORAZIONE TRA IL CONOSCERE E IL SENTIRE

Un'ostinata tradizione dipinge l'atteggiamento estetico come contempla­ zione passiva del dato immediato, apprensione diretta di ciò che viene pre­ sentato, incontaminata da qualsiasi concettualizzazione, isolata da tutti gli echi del passato e da tutte le minacce e le promesse del futuro, esente da ogni iniziativa. Con riti purificatori volti a spogliarci di ogni pregiudizio e interpretazione, siamo chiamati a inseguire una visione originaria, imma­ colata, del mondo. Non è necessario che io torni a sottolineare le aporie fi­ losofiche e le assurdità estetiche di una siffatta concezione, a meno che qualcuno giungesse seriamente ad asserire che il giusto atteggiamento este­ tico davanti a una poesia sia, in sostanza, quello di guardare la pagina stam­ pata senza leggerla. Ho sostenuto, al contrario, che dobbiamo leggere un quadro tanto quanto una poesia, e che l'esperienza estetica è dinamica e non statica. In es­ sa è necessario operare discriminazioni delicate e scorgere relazioni sottili, identificare sistemi simbolici e caratteri propri di questi sistemi, e che cosa questi caratteri denotano ed esemplificano, interpretare opere e riorganiz­ zare il mondo nei termini delle opere e le opere nei termini del mondo. Gran parte delle nostre esperienze e delle nostre competenze vi hanno un ruolo, e possono essere trasformate nell'incontro. L' «atteggiamento» estetico è un atteggiamento mobile, di ricerca, di esplorazione è meno atteggiamento che azione: creazione e ri-creazione. Ma che cosa distingue tale attività estetica dagli altri comportamenti intelligenti, come la percezione, la condotta nella vita quotidiana, e la ri­ cerca scientifica? Una risposta immediata è che l'estetico non è diretto a un fine pratico, non ha a che fare con l'autodifesa o la conquista, con l' ac­ quisizione di beni necessari o di lusso, con la previsione e il controllo del­ la natura. Ma se l'atteggiamento estetico non riconosce come propri gli scopi pratici, tuttavia l'assenza di scopi non è sufficiente. L'atteggiamento estetico è esplorativo, in opposizione all'atteggiamento acquisitivo e auto­ conservativo, ma non ogni esplorazione disinteressata è estetica. Pensare che la scienza abbia le sue motivazioni ultime in scopi pratici, e sia giudi­ cata o giustificata a partire dai ponti, dalle bombe e dal controllo della na­ tura, significa confondere la scienza con la tecnologia. La scienza ricerca la conoscenza senza pensare alle conseguenze pratiche, ed è interessata al­ la previsione non come guida per il comportamento ma come prova di ve­ rità. La ricerca disinteressata include tanto l'esperienza scientifica che quella estetica. -

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Si è spesso tentato di distinguere l'estetico in termini di piacere imme­ diato; ma qui le difficoltà si affacciano moltiplicate. Ovviamente, la pura quantità o intensità del piacere non può costituire la discriminante. Non è affatto chiaro se un quadro o una poesia forniscano maggior piacere di una dimostrazione matematica; e alcune attività umane, che non hanno rappor­ ti con nessuna di queste cose, forniscono piacere maggiore tanto da rende­ re insignificante qualsiasi differenza di quantità o di grado fra tipi diversi di ricerca. La pretesa che il piacere estetico sia di qualità diversa e superiore è ormai uno stratagemma troppo palese perché valga la pena di prenderlo in seria considerazione. La proposta che inevitabilmente segue - l'esperienza estetica è distinta non per il piacere, ma per l'emozione estetica che dà - può essere lasciata cadere nella lunga serie delle spiegazioni sul tipo della