Cioran l'antiprofeta. Fisionomia di un fallimento
 9788884833396

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MIMESIS

ETEROT O P I

E

Collana fondata da Ubaldo Fadini, Paolo Ferri, Tiziana Villani

La collana Eterotopie si propone di esplorare un versante importante del pensiero e della realtà contemporanei: quello in cui le trasformazioni, i processi di innovazione tecnica incontrano domande, soggetti, corpi e figure che dal passato sono transitate sino a noi. Si tratta di guardare in modo non dogmatico ma critico il corpo del nostro presente. In questo percorso sono presenti temi e autori che hanno voluto scommettere la propria ricerca nel tempo contraddittorio del mutamento. La collana ospita testi di filosofia, estetica, antropologia, architettura, che non si limitano a fotografare i problemi ma che intendono costituire un vero e proprio laboratorio di idee, incontri grazie ai quali possa essere possibile la messa in opera di un progetto forte e indipendente dalle mode.

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Piccola Biblioteca dell’Orsa Questo volume è stato pubblicato in collaborazione con

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Fabio Rodda

CIORAN, L’ANTIPROFETA FISION OMIA DI UN FALLIMENT O

ETEROT O P I

E

MIMESIS

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I ndice

PREMESSA

p.

7

Ringraziamenti

p.

11

INTRODUZIONE – Le forme del dire: il linguaggio lirico, l’aforisma – Annotazioni tecniche – Breve cronologia della vita e delle opere

p. 13

I.

LA ROMANIA

p. 33

1. Al culmine della disperazione – Il pensare vivo – La lucidità come canone necessario al superamento del reale per la ricerca del vero – La distruzione della filosofia – Il lirismo – Contro la filosofia; verso l’uomo – La parola

p. 35 p. 36 p. p. p. p. p.

41 46 56 59 61

2. 1936/1940. Gli anni della crisi – Le livre des leurres – Lacrime e santi – Cioran, fascista?

p. p. p. p.

64 64 70 79

II. PARIGI L’indagine lucida come metodo euristico

p. 16 p. 27 p. 28

p. 113 p. 121

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1. Il capolavoro di Cioran: il Précis – La mediazione di una nuova lingua – Il balzo metodologico: dalla Weltanshauung privata alla filosofia – L’addio alla filosofia. L’impossibilità della verità – La “polemica a distanza” con Sartre

p. 126 p. 128

p. 144 p. 147

2. Dopo la sintesi di tutte le decadenze dello spirito – La filosofia di Cioran: la tentation d’exister

p. 152 p. 155

p. 137

III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA. L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

p. 165

Oltre il tempo e lo spazio

p. 177

1. La caduta nel tempo. Il canone della lucidità. Oltre il nichilismo – Il “materialismo fenomenologico” di Cioran: un ritorno alla “realtà” dell’uomo – Il silenzio – I Cahiers, lo Zibaldone postumo di Cioran: accenni

p. 179 p. 185 p. 191 p. 194

CONCLUSIONI

p. 199

BIBLIOGRAFIA

p. 203

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P remessa Aggrappato a brandelli di idee, a simulacri di sogni, approdato alla riflessione per caso o per isteria e non per amore del rigore, fra le persone civili mi sento un intruso, un troglodita innamorato della caducità, assorto in preghiere sovversive, in preda a un panico che nasce non da una visione del mondo, ma dai soprassalti della carne e dalle tenebre del sangue inaccessibile alle sollecitazioni della chiarezza e alla contaminazione latina, sento l’Asia scorrermi nelle vene: sono il rampollo di qualche inconfessabile tribù o il portavoce di una razza a suo tempo turbolenta e oggi muta? Sono spesso tentato di costruirmi una genealogia diversa, di cambiare antenati scegliendomeli fra quelli che, ai tempi loro, seppero spargere il lutto fra le nazioni […] Si, nelle mie crisi di fatuità tendo a credermi l’epigono di un’orda illustre per le sue razzie, con l’animo di un turanico, un legittimo erede delle steppe, l’ultimo dei mongoli...1

ono passati ormai dieci anni dalla S scomparsa di Emil Cioran. Era il venti di giugno del 1995. A Parigi, il pensatore rumeno si spegneva in

un ospedale cittadino anche se, come ricorda Mario Andrea Rigoni, «avevamo perduto Cioran prima ancora di ricevere la notizia della sua morte: da qualche anno, per una sorte di cui non si può non lamentare l’ironia feroce e desolante, un eroe della lucidità contemporanea si era eclissato per sempre, scivolando nel silenzio e nell’ombra. Fra gli orrori della vecchiaia o della malattia non credo avesse messo nel conto il peggiore di tutti, quello di essere morto in vita».2 Con la sua morte taceva una delle voci più geniali del secolo appena passato: non esistono termini di paragone per spiegare quello che fu, secondo chi scrive, uno degli ultimi della razza dei filosofi – malgrado egli odiasse questa definizione –, di coloro che fanno filosofia e non si limitano a discuterne. Nei sui scritti c’è la rabbia di Camaco, la genialità di Beckett, la danza lieve su parole di pietra di Nietzsche. La poesia di Shakespeare, la ricerca di Pascal, la massima morale di Montaigne e potrei continuare così all’infinito.

1 2

Lettera a Noica, Paris 1957, in E. M. Cioran, C. Noica, L’ami lontain, Criterion, ParisBucarest 1993, trad. it. di R. Ferrara, L’amico lontano, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 44. M.A. Rigoni, In morte di Cioran, in «Corriere della Sera», 21/6/1995.

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Eppure nulla di più unico ed originale è stato probabilmente scritto nel Novecento: Celine della filosofia, Cioran ha inventato un vero e proprio stile divenuto unico e riconoscibile: “alla Cioran” verrebbe da dire per spiegare la forma dei suoi petites poèmes en prose tradotti in tedesco, non a caso, da uno dei massimi poeti della storia: Paul Celan. E allo stile si unirà un pensiero complesso ed articolato, negativo in ogni sua espressione e mai definitivo, scettico fino a dubitare del proprio stesso dubbio. Una Weltanshauung unica, chiara nel suo dipanarsi attraverso mezzo secolo di scritti, nella sua struttura e nel suo metodo, ma sempre espressa per frammenti, per esplosioni liriche. Ponendo ironia e sarcasmo al posto di sistema e categoria, lirismo ed aforismi per norma e logica, Cioran si è scavato una nicchia solitaria nella storia del pensiero, rimanendo unico per forma e contenuto, ma destinando se stesso all’oblio della cultura ufficiale. In effetti, devo riconoscere che il mio stupore fu grande quando, dopo aver conosciuto casualmente la sua opera ed aver deciso di dedicarvi la mia tesi di laurea, ho iniziato un lungo lavoro di ricerca per trovare lavori suoi e dei suoi critici: il materiale era scarsissimo. Ma Cioran non era quel solitario del pensiero che pur restando lontano dalla Sorbona – che frequentò fino a quarant’anni solo per usufruire della sua mensa gratuita – veniva «segnalato da Benn, tradotto da Celan, antologizzato da Auden»,3 conosciuto in tutto il mondo ancora in vita, cui grandi della letteratura di quasi ogni nazione d’Europa dedicarono interviste e articoli, prefazioni e saggi? Eppure nelle università il silenzio. Indimenticabile la risposta, data al mio insistere sul perché di una così scarsa quantità di lavori sull’opera di Cioran, dall’eccelso studioso che mi concesse la tesi, rifiutata per mancanza di interesse accompagnato da assoluta ignoranza sull’argomento da mezzo Dipartimento di Filosofia: «perché con una tesi così su Cioran non si va a fare un dottorato, con una su Sartre, sì». Chiaro. L’accademia non è pronta per un pensatore così particolare, per uno che non ha fondato scuole e non ha, quindi, proseliti che lo divulghino. Assistiamo adesso, finalmente, alla riscoperta di autori geniali quali Bataille e Deleuze e dalla Francia arrivano spinte alla ricerca su Althusser o Canguilhem; forse verrà anche il tempo di una seria Cioran renaissance. Non sistematico, in constante contrasto con se stesso, lirico e prosatore, incendiario e pacato allo stesso tempo, Cioran rimane un enigma per lo scienziato delle lettere, un caso clinico unico per lo studioso di psicanalisi, un paradosso per l’intellettuale inserito nel sistema.

3

8

M. A. Rigoni, Un ritratto di Cioran, in «Corriere della Sera», 29/4/1990.

PREMESSA

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Oggi, ciononostante, assistiamo ad una riscoperta tutta da discutere dell’opera del romeno: la riproposizione, dagli anni novanta ma soprattutto dalla sua morte, dell’opera politica scritta tra la Romania e la Germania negli anni trenta, la sua fascinazione per l’hitlerismo e il movimento “pseudo-fascista” di Codreanu hanno riportato alla ribalta alcuni intellettuali romeni del novecento, tra cui spiccano Eliade, Ionesco e proprio Cioran. Un’ampia sezione di questo lavoro è dedicata alla delicata questione oggi trattata, a mio avviso, in maniera insufficiente. Recentissime opere di studiosi francesi (LaignelLavastine, Bollon) e ora anche italiani (Costantini, Rotiroti) hanno contribuito non poco a fare un minimo di chiarezza, ma la portata filosofica di quel materiale che si è “dimenticato” per cinquant’anni non è ancora stata, a mio avviso, compresa. Cioran non è autore per tutti: leggere la sua opera è un’esperienza esistenziale, formativa: se ne resta colpiti ed accarezzati allo stesso tempo. Un’esperienza fondamentale e per cui ringrazio il caso che mi ha portato tra le mani una delle sue opere. Questo libro vuole essere un omaggio ad un genio troppo poco ascoltato, un tentativo di recupero di tutta quella parte di pensare che il tempo sta corrodendo. Se anche solo uno, come accadde a me in un meraviglioso pomeriggio d’autunno, scoprirà tra gli scaffali di una libreria uno dei suoi capolavori e se questo avverrà grazie al mio saggio, avrò portato a buon fine il mio lavoro.

FABIO RODDA

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Ringraziamenti

Il primo “grazie” va ad Emil Cioran, che il destino non ha voluto farmi incontrare ma che tanto mi ha dato anche se solo attraverso le parole dei suoi capolavori. Con questo libro, indegno dono, io mi sdebito. Al dott. Paolo Ciuchini, storico dallo sguardo lucido e curioso di tutto, tra i cui libri e papiri scovai, un pomeriggio di novembre, i Syllogismes de l’amertume. Al dott. Federico Colli, che in modi e tempi non proprio ortodossi mi ha aiutato a sviscerare i problemi più sfuggenti. Al prof. Barnaba Maj, grazie al quale ho potuto intraprendere un lavoro magnifico e difficile all’interno di un’università ormai stanca ed annoiata. Al prof. Giovanni Pierini (o Capitano…), compagno insostituibile di tutti i miei progetti, sempre capace di seguirmi nei miei voli pindarici su massimi e minimi sistemi. Al prof. Mario Andrea Rigoni, che con poche parole ha saputo indirizzarmi nella giusta direzione. Al prof. Cesare Sughi, il cui contributo pratico, gli archivi giornalistici altrimenti irreperibili, ed affettivo è stato importante. Agli amici dell’Osteria dell’Orsa e della sua meravigliosa Accademia e ai miei soci e famiglia acquisita Marco e Franco, per l’appoggio fondamentale a questo lavoro e perché se un progetto è impossibile, loro ci si buttano con me. A tutti gli amici: Davide (Telo), Angelo, Francesco, Enrico e tutti quelli che si sono lasciati ossessionare, per più di tre anni, con le mie “scoperte” su questo sconosciuto pensatore. A mia sorella, sempre vicina e con lei a tutta la mia famiglia. A mia madre, alfa e omega di tutte le mie ricerche interiori. Infine, la prima. A Camilla che per troppo tempo mi ha visto inseguire fantasmi. Adesso ti racconterò solo di castelli e principesse…

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I ntroduzione Non sono mai riuscito a scrivere se non in preda al cafard delle notti d’insonnia, e per sette anni ho stentato a chiudere occhio. Credo che in ogni scrittore si avverta subito se i pensieri che occupano la mente sono pensieri del giorno o della notte. Io ho bisogno del cafard e ancora oggi prima di scrivere metto un disco di musica tzigana ungherese.1

ioran pubblicò una quindicina di C saggi, oltre a prefazioni, interviste e brevi scritti. Ognuno dei suoi volumi differisce dagli altri per stile e

temi trattati; tuttavia sono chiaramente riconoscibili lo stesso “tono” e uno “sfondo comune”: un insieme di temi e pensieri entro il quale Cioran si muove liberamente ma mai in modo casuale o “scoordinato”. La danza del suo pensiero e dello stile avviene sempre sullo stesso palco e con alle spalle la stessa scenografia. Per visualizzare il movimento del pensare di Cioran (perché si tratta di un pensiero vivo e, come tutto ciò che vive, si trasforma, cambia, quindi, si muove), la sua “struttura fisica”, possiamo immaginare una spirale: un cerchio non concluso, esteso nello spazio. Una linea infinita che ruota sempre su se stessa, che pare allontanarsi ma torna sempre verso il proprio asse. Un pensiero fatto di parole (demoni creatori ma anche pietose consolatrici) che ritornano sempre, di motivi che si ripropongono, sempre nuovi eppure sempre gli stessi, per tutta l’opera e la vita del pensatore. La “spirale” del pensare di Cioran attraversa l’uomo e l’umano come un faro che, pur illuminando, non ha la pretesa di dimostrare nulla. La sua voce sommessamente racconta ciò che vede senza desiderare d’esser capita ed aborrendo proseliti e fedeli: in ogni uomo sonnecchia un profeta, e quando si risveglia c’è un po’ più di male nel mondo…2

È impossibile inquadrare Cioran in una categoria, in una “corrente filosofica” se non attuando brutali semplificazioni e forzature e forse 1 2

E. M. Cioran, intervista con François Bondy in Entretiens, Gallimar, Paris 1995, trad. it. di Tea Turolla, Un apolide metafisico. Conversazioni, Adelphi, Milano 2004, p. 14. E. M. Cioran, Précis de décomposition, Gallimard, Paris 1949, trad. It. di M.A. Rigoni e Tea Turolla, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano 1996, p. 16.

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questo fatto di per sé accenna già a quello che è il pensiero di Cioran e ne fa un genio dell’umano. Uno dei pochi che ha distrutto, quasi involontariamente e solo esprimendo se stesso, i costrutti fasulli della filosofia e della religione vissute come atti di fede cieca; lasciando, quindi, il pensiero alla propria libertà originaria, spogliandolo dell’armatura hegeliana in cui da secoli l’occidente ha costretto ogni guizzo degno di nota. I costrutti sistematici sono, secondo il pensatore transilvano, gabbie che soffocano l’originalità, strutture asservite al bisogno di coerenza ma prive di verità, che è fatta, come l’uomo, di contraddizioni. E riesce a tal punto nella sua opera di distruzione, da creare immediatamente un problema quasi irrisolvibile a chi voglia studiare il suo pensiero: le parole di Cioran sono un insieme vivo, pulsante, cangiante, frammentario; l’analisi, per definizione, è uno strumento in grado di dissezionare qualcosa che è fermo, immobile nella sua espressione ultima e compiuta. Allora, come possiamo tentare di analizzare il pensiero di Emil Cioran pur sapendo che i nostri normali strumenti sono destinati a tutt’altro uso e dimenticando la lezione di chi disse che «Ogni parola è una parola di troppo»? Non sarebbe come, per usare un paragone dai retaggi wildeiani, tentare di sentire il profumo di una rosa attraverso un olfattometro? Purtroppo si, ma forse il fine di riproporre un tale pensiero giustifica i nostri insufficienti mezzi. Possiamo solo provare a rispettare Cioran cercando di “raccontarlo” più che analizzarlo, un po’ come se cercassimo di descrivere, a chi non l’avesse mai sentito, il profumo della nostra rosa. Scrittore rumeno di adozione parigina, nato a Ra⁄¶inari, in Transilvania, l’8 aprile 1911 e morto a Parigi il 20 giugno 1995, Emil Cioran è uno degli ultimi pensatori che abbia avuto l’ardire di cercare di fare filosofia, e non discutere di filosofia. Nel secolo in cui il monito di Heidegger (filosofo non amato dal rumeno, soprattutto a causa della complessità delle elaborazioni linguistiche) sul prossimo sopravvento dell’era tecnologica che avrebbe schiacciato l’umano si rivelava in uttta la sua tragica veridicità, i filosofi sono diventati statistici della filosofia, o scienziati, analisti del linguaggio, dei sistemi, ecc. Di fronte alla sfida del secolo della tecnica, il pensiero ha risposto con la paura ed è diventato il più possibile un’altra forma di tecnica. In questo coro di sconfitti, poche voci si sono innalzate scandalizzando o venendo prontamente liquidate dai pensatori ufficiali: tra queste vi è il “tragico verbo” di un rumeno emigrato a Parigi nel 1937 con una borsa di studio e mai più tornato in patria (anche se con essa terrà aperto un dialogo costante attraverso altri rumeni quali Ionesco, Eliade e Noica). Un esule che poco prima della metà

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INTRODUZIONE

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del secolo deciderà di passare definitivamente alla lingua francese diventandone uno dei migliori “artigiani” del ‘900 L’idea di abbandonare la madrelingua mi venne soltanto nel 1947. Fu una decisione improvvisa.3

e che mai più scriverà nulla in romeno. Pacato e solitario, Cioran ha attraversato in punta di piedi il secolo che ha visto trionfare scienza e violenza, donando un ultimo richiamo all’importanza del pensiero come distruttore di menzogne e creatore di coscienza: un grido disperato seppur sommesso nel tentativo di riportare l’uomo con tutta la sua carica di dubbi ed incertezze al centro del suo stesso mondo rubato dai fideismi e dalle scienze specialistiche, ultime religioni di questo nuovo millennio. Nessuno vive fuori del tempo o dello spazio e riconoscere che anche il pensiero più alto si fonde nel tempo e nello spazio di chi lo crea non toglie nulla alla grandezza o all’“eternità” di quel pensiero. Al contrario, vedere dove e perché nasce un’idea, un modo di pensare, come e attraverso cosa si trasforma, rende dignità al pensiero stesso, che non può più essere in balia di critiche false o d’interpretazioni fuorvianti: «Un sistema di pensieri deve sempre avere un organismo architettonico, ossia tale, che sempre una parte sostenga l’altra, ma non questa anche sostenga quella: la pietra fondamentale sostiene tutte le parti, senza venir da esse sostenuta; il vertice è sorretto, senza sorreggere».4 Con queste parole, Schopenhauer sembra descrivere alla perfezione la struttura della filosofia del pensatore di Ra⁄¶inari – che, d’altronde, riconosce proprio in Schopenhauer, oltre che in Nietzsche e Baudelaire, un “padre spirituale”. Studiare Cioran non è impresa facile: la sua non-struttura di pensiero, il suo “scivolare” costantemente fuori d’ogni categoria (dalla politica alla teoretica, dalla teologia alla morale) non permette di riordinare facilmente un pensiero espresso sempre in maniera frammentaria, coerente dal punto di vista contenutistico ma costantemente riproposto in forma differente. È come se l’autore del Précis de décomposition ci avesse dato un quadro completo della sua filosofia fotografandolo, di volta in volta, da differenti prospettive e scoprendone sempre una piccola porzione.

3 4

E. M. Cioran, trad. it di M. A. Rigoni, L’uomo che trasformò la vita in un incubo, in «Corriere della sera», 15/6/1989. A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Brockaus, Lipsia 1818, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, RomaBari 1982, p. 3.

FABIO RODDA

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Ancora, non è da dimenticare l’ulteriore difficoltà imposta dal passato politico del “Cioran rumeno”, ormai riemerso dopo la morte del pensatore e della compagna Simone. Il materiale tornato in luce ha riaperto un dibattito che, se da un lato è proficuo per capire compiutamente il “primo” Cioran, dall’altro rischia di adombrare tutto il percorso filosofico del pensatore transilvano, ponendo sotto i riflettori un capitolo della vita di Cioran personalmente molto importante e fondamentale per comprendere l’opera nella sua interezza, ma facilmente travisabile e delicato da analizzare e comprendere. Credo che per rendere giustizia ad un pensiero difficile e sfaccettato come quello di Cioran, che tocca filosofi come Heidegger, Nietzsche, Simmel, Bergson e Schopenhauer solo per citarne alcuni, si debba eliminare l’errore principale di decontestualizzare un pensiero per poi processarlo alla luce di posizioni arbitrarie e di conclusioni semplicistiche. Alla luce delle lettere private, dei racconti di conoscenti e amici, dei fatti storici e biografici e, naturalmente, di tutto ciò che Cioran ci ha lasciato nei suoi libri, si ottiene un quadro sufficientemente chiaro che ben poco spazio offre a critiche gratuite o, peggio, interpretazioni filistee o politiche che non hanno nessun rigore e, ancor più grave, nessuna base reale d’essere. Se vogliamo far dire a qualcuno quello che desideriamo, basta togliere la “sua parola” dalla “sua bocca”, dal suo tempo e dalla sua casa, e potremo farne ciò che più ci piace. Ma se ci costringiamo al confronto con l’uomo, il tempo e la casa, il nostro spazio d’azione si limita a cogliere i passaggi, le differenze, i motivi, senza poter inventare alcuno scopo o alcun fine non espressamente dichiarati. Le forme del dire: il linguaggio lirico, l’aforisma Può sembrare un controsenso che per affrontare una scrittura tanto scorrevole quale è quella di Emil Cioran, occorra puntualizzare un argomento che sembrerebbe scontato, ma non è così. Leggendo una a caso fra la quindicina di opere pubblicate dal pensatore di Ra⁄¶inari, ci si rende subito conto di quanto sia facile cadere nell’errore più banale, ma altrettanto grave, di “scivolare” sulle parole senza accorgersene: di scorrere le pagine senza soffermarsi sui concetti chiave, spesso nascosti in una battuta sarcastica o in un lamento lirico, di non capire dove stia la critica feroce e la semplice derisione. Chiunque può prendere in mano uno dei suoi volumi e leggere senza incontrare parole sconosciute o strutture grammaticali difficoltose (chi ha letto, al contrario, Heidegger o Gadamer, maestri dei costrutti linguistici complessi necessari a formalizzare l’informe, sa di cosa sto parlando).

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INTRODUZIONE

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Tutto ciò non è affatto casuale: Cioran, proprio per la natura del pensiero che vuole esprimere, rifiuta lo schematismo classico della filosofia abbandonandone la struttura (ci troviamo di fronte ad un pensatore nonsistematico) ed il linguaggio che le sono più propri. Scrive per aforismi o capitoletti (petits poèmes en prose, come verranno definiti dai suoi contemporanei francesi) che somigliano più ad un “quadretto filosofico” che ad un vero e proprio trattato, ed il linguaggio utilizzato sfiora sovente la poesia abbandonando totalmente tecnicismi e toni pretenziosi: Quando vi sono certezze, viene meno lo stile: la cura dell’espressione è la prerogativa di coloro che non possono addormentarsi in una fede. Mancando di un solido appoggio, essi si aggrappano alle parole – simulacri di realtà; gli altri, invece, forti delle loro convinzioni, disprezzano l’apparenza delle parole e si abbandonano all’agio dell’improvvisazione.5

La ricerca costante, l’impossibilità di trovare una “parola ultima”, il senso stesso di un pensiero fatto “di carne e di sangue” Quanto a me, amo solo le verità vitali, organiche, perché so che non esiste LA verità, ma solo le verità vive, frutto della nostra inquietudine.6

costringe l’autore ad utilizzare una nuova forma di comunicazione: abbandonata ogni pretesa pedagogica, caduta ogni “missione” da compiere, non rimane altro che l’uomo solo di fronte alla propria ricerca. Questa nuova condizione esistenziale ci porterà a rifiutare le quotidiane (false) convenzioni formali, fino a renderci incapaci di comunicare con i nostri simili. Ecco che il linguaggio come codice logico, come strumento grazie al quale possiamo comunicare una serie infinita di dati, perde completamente importanza, gettando colui che vive tale esperienza nel puro solipsismo. A questo punto sembra persa ogni ragione che ci possa spingere a cercare di comunicare con gli altri. Fu proprio Cioran ad ammettere in più occasioni che avrebbe potuto scrivere cento libri oppure ridursi al silenzio più assoluto, compiendo in realtà la stessa operazione e raggiungendo lo stesso risultato. È, dunque, l’angoscia della solitudine a spingerci ancora verso una comunicazione, una ricerca di mezzi per raccontare a tutti o nessuno la nostra esperienza tragica. Ed è così che ci troviamo ad aver bisogno

5 6

E. M. Cioran, Syllogismes de l’amertume, Gallimard, Paris 1952, trad. it. di C. Rognoni, Sillogismi dell’amarezza, Adelphi, Milano 1993. p. 12. E. M. Cioran, Pe culmile dispera⁄rii, Fundatia pentru literatura⁄ ¶i arta⁄ “Regele Carol II”, Bucarest 1934, trad. it. di Fulvio del Fabbro e Cristina Fantecchi, Al culmine della disperazione, Adelphi, Milano 1998, p. 103.

FABIO RODDA

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di un nuovo mezzo, una nuova struttura che ci permetta di trasmettere non più dei dati logicamente ordinati (abbiamo già perso ogni fede nella logica), ma delle esperienze esistenziali da cui nascono nuovi occhi con cui guardare il mondo. Una volta accettato che ogni uomo vive un mondo unico, fatto di interpretazioni irripetibili e di sensazioni intraducibili, di contraddizioni costanti, abbiamo bisogno di trasmettere completamente un’esperienza dalla quale colui che ci ascolta possa estrapolare la propria interpretazione, avvicinandosi a ciò che abbiamo vissuto noi. Non, quindi, una descrizione dell’esperienza, ma l’esperienza vera e propria. Ma come possiamo riprodurre un evento fisico, reale, attraverso un codice che per sua natura è legato al formale ed alla logica, madre primigenia di tutte le falsità? In realtà una strada possibile c’è: si tratta di usare un’altra forma di linguaggio, ed abbinarlo ad un’altra struttura formale. Il problema di fondo è chiaro: si scrive perché si ha voglia di dire qualcosa7

e su questo “qualcosa” ci si deve concentrare, evitando di perdersi nei giochi della forma: Il vero scrittore scrive sugli esseri, le cose e gli avvenimenti, non scrive sullo scrivere, si serve di parole ma non indugia sulle parole, non ne fa l’oggetto delle propri rimuginazioni. Egli sarà tutto, salvo che un anatomista del Verbo. La dissezione del linguaggio è la mania di quelli che, non avendo nulla da dire, si relegano nel dire.8

Se conoscere veramente è conoscere l’essenziale, tanto più ci occupiamo delle parole e tanto meno ci avviciniamo alla conoscenza. La forma di comunicazione dovrebbe quindi prescindere il più possibile dalla struttura, dalla parola stessa. Ma il silenzio è esistenzialmente insostenibile: come uomini, abbiamo necessità di comunicare; al di là di ogni volontà di far capire, sentiamo il bisogno di dire, di liberarci, come per Dostoevskij, dai nostri demoni, o, più semplicemente, di sentirci meno soli. Comunichiamo per sperare che l’aver coinvolto un altro essere umano nella nostra esperienza (il comunicato) ci porti ad una maggior “vicinanza”; ad una minor solitudine.

7 8

18

E. M. Cioran, Écartèlement, Gallimard, Paris 1979, trad. it. di M. A. Rigoni, Squartamento, Adelphi, Milano 1981, p. 92. Ibid., p. 113.

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La “vera vita” è fuori della parola. E tuttavia la parola ci obnubila e ci domina: non siamo giunti fino al punto di farne scaturire l’universo? E non abbiamo assimilato le nostre origini alle chiacchiere, alle improvvisazioni di un dio parolaio?9

Con la creazione del linguaggio, l’uomo compie il suo peccato capitale: come la creazione del mondo, voluta da un dio capriccioso, è l’origine di tutto il male, così l’uomo, divenendo coocreatore, nella parola si danna e si perde. La parola, in quanto creata, porta in sé lo stesso male di tutte le creature del mondo. La redenzione sta nel “ritorno al padre”, nel silenzio, unica espressione priva di “male” (ovvero, di creazione), ma impossibile per l’uomo, timoroso della solitudine. Ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso che pare senza uscita: se solo nel silenzio siamo fuori dalla falsità della creazione, come possiamo esprimerci senza perdere la volontà di “stare nel vero”? Occorre un compromesso: accettato che solo il silenzio riconduce all’essenza che stiamo cercando, rimane esprimibile l’esperienza del silenzio che ci ha avvicinato al nostro fine, quello di uscire dalla falsità del reale per ricercare il vero. Ma quest’esperienza deve essere trasmessa il più possibile integra ed il meno possibile compromessa dall’uso della parola. Ci occorre un frammento, una forma di espressione non canonica ma efficace: il linguaggio lirico. In realtà il passaggio è meno difficile ed artificioso di quanto possa sembrare; si basa semplicemente, come tutto il pensiero di Cioran, sull’esperienza: quante volte ognuno di noi ha tentato inutilmente di spiegare ad un altro con “normali parole” come ci si sente quando si è innamorati, o tristi, o in qualsiasi altro stato mentale o condizione esistenziale? Solo dei goffi tentativi. Ma allora perché basta leggere una poesia d’amore di Pablo Neruda per essere certi in quel momento di possedere, inesprimibile ma presente, la sensazione dell’amore; o un sonetto di Leopardi per sprofondare in un senso di “vago” cui non siamo in grado di dare nome, ma che sappiamo, anzi sentiamo, che è proprio quella verità cui tendeva il Poeta? Perché, credo, esiste una forma di comunicazione differente da tutte le altre, che prescinde dalla logica e dalla consequenzialità, che parte direttamente dall’essenza intima e mira alle altre essenze come “vettore d’esperienze”, non di spiegazioni d’esperienze. Un linguaggio che non vuole narrare, ma trasportare direttamente un evento da un soggetto ad un altro, costringendo chi lo riceve a rivivere l’esperienza fatta da colui che la vuole tramandare: 9

E. M. Cioran, La tentation d’exister, Gallimard, Paris 1956, trad. it. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti, La tentazione di esistere, Adelphi Milano 1984, p. 187.

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Diventiamo lirici quando la vita dentro di noi palpita a un ritmo essenziale, e quando ciò che stiamo vivendo è talmente forte da sintetizzare il senso stesso della nostra personalità. Ciò che abbiamo di unico, di specifico, si compie in una forma così espressiva che l’individuale si eleva al livello dell’universale.10

Anche il lirismo è un’esperienza: è l’esperienza della pienezza dei nostri sensi messi di fronte alla pochezza dei nostri mezzi comunicativi, la sensazione elevata all’ennesima potenza fino a diventare straziante e, in quello stesso momento, assoluta. In Cioran linguaggio lirico e pensiero lucido sono imprescindibili l’uno dall’altro in quanto componenti gemelli della strada che muove verso la verità e la pienezza del vivere: senza lirismo non avremmo la minima speranza di poter accennare le scoperte degli occhi svelati dalla lucidità raggiunta. Il lirismo ci permette quel “salto mortale”, quel compromesso necessario per non doversi lasciar naufragare nel silenzio più assoluto, ma ci costringe all’indeterminato, al non-concluso, al non-sistematico: Non chiederci la parola che squadri da ogni lato L’animo nostro informe, e a lettere di fuoco Lo dichiari e risplenda come un croco Perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l’uomo che se ne va sicuro Agli altri ed a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.11

Anche nello spiegare la funzione del linguaggio lirico la poesia stessa ci viene in aiuto: ecco che gli ultimi due versi di Non chieder la parola aprono le porte a ciò che cerca di dire Cioran attraverso tutti i suoi scritti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Ma per esprimere queste negazioni non è più sufficiente il normale vocabolario a nostra disposizione perché formato, contrariamente alle nostre necessità, sul dire ciò che siamo, ciò che vogliamo. E così un

10 11

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E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., pp. 16-17. E. Montale, Ossi di seppia, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984.

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nuovo modo di raccontare diventa il nostro unico strumento per comunicare, ma ci obbliga anche ad accettare la perdita di ogni speranza pedagogica: non possiamo insegnare ciò che non si può nemmeno dire con normali parole e costrutti verbali. Cioran invidia chi riposando in mezzo alle parole, ci vive ingenuamente, come per un accordo riflesso, senza metterle in causa né assimilarle a dei segni, come se corrispondessero alla realtà stessa o fossero dell’assoluto sparso nel quotidiano;12

il vero scrittore, al contrario, non può permettersi il lusso di questa banalità e deve servirsi delle parole senza riempirsi di esse, senza perdere di vista, in loro favore, il “qualcosa” che volgiamo dire. Ci troviamo di fronte ad una prima costante del pensiero che stiamo analizzando: convincimento e perplessità si muovono fianco a fianco, s’intersecano generando un senso di non risolto, di non concluso che è forse il più vero testimone dello stato dell’animo umano. La parola, cui Cioran riconosce un valore consolatorio nei confronti dell’assoluto silenzio che ci è insopportabile, è allo stesso tempo il primo passo verso la falsità dei costrutti logici che dominano la nostra vita e la colpa della creazione: «avendo Cioran una pessima opinione della creazione, ne consegue la pessima opinione delle parole: attraverso di esse l’uomo, coocreatore, si macchia della colpa del suo Dio».13 «Cioran non perdona a se stesso di continuare a scrivere. Solo il silenzio è grande. Egli è della razza di coloro che non ignorano ciò, ma che non sono in grado ciò nonostante di rinunciare alla parola, alla scrittura soprattutto. Cioran il disperato è uomo di lettere. Contraddizione cui è sensibile. Ulteriore occasione di prendere in giro se stesso con un sogghigno non certamente privo di compiacenza. Per nulla vittima inoltre di questo nuovo sotterfugio, ne denuncia a sua volta il ridicolo, non senza una nuova complicità con questa parte menzognera di se stesso che egli nuovamente mette sotto accusa. E così di seguito: scivolando sempre più lontano nella negazione, Cioran rintraccia indefinitamente in se stesso un frammento di attaccamento alla vita del quale non viene a capo».14 Ecco che questa nuova forma d’espressione, il linguaggio lirico, cerca di occupare la “linea d’ombra” tra parola e silenzio, tra la 12 13 14

E. M. Cioran, La tentazione di esistere, cit., pp. 178-179. A. M. Tripodi, Cioran, metafisico dell’impossibile, Japadre, L’Aquila 1987, p. 19. C. Muriac, E.-M. Cioran, in L’alitérature contemporaine, Albin Michel, Paris 1958, pp. 221-231, trad. it. in A. M. Tripodi., cit., pp. 20-21.

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pochezza del dire quotidiano e la grandezza del tacere; perché sa bene il Nostro quanto il silenzio sia preferibile alla voce inutile e quante volte le parole non siano lo strumento adatto a comunicare sensazioni troppo grandi da stringere in un simbolo fonetico. Ma non basta. Oltre ad un linguaggio “ad hoc”, il pensatore transilvano cerca e sceglie anche una struttura, una forma linguistica “ad hoc”: l’aforisma. Perché? «Nell’ambito della letteratura europea moderna e contemporanea, il termine aforisma (o aforismo) assume due diverse valenze: la prima fa riferimento alla tradizione – di grande rilievo soprattutto nella cultura francese – di raccolte di sentenze moraleggianti, tendenti a fornire precetti di vita e di comportamento […]; la seconda si forma nel Preromanticismo e Romanticismo tedesco, dove Aphorismen sono frasi sorprendenti nella loro sinteticità, che comunicano una forte verità derivata da un’illuminazione improvvisa».15 Così Renzo Tosi nel tracciare una breve storia dell’aforisma. Perché Cioran sceglie questa particolare forma espressiva, tanto inusuale nel mondo della filosofia – «Nella sua varietà, l’attività filosofica mira in ogni caso alla costruzione di teorie. Teorie a proposito di che cosa è vero, è buono, è giusto, è bello, e così via […] ; una teoria di qualcosa dovrà inevitabilmente rendere conto delle connessioni fra qualcosa e qualcos’altro, offrendoci criteri per l’identificazione di qualcosa come la stessa cosa e per la reidentificazione durevole di quanto è oggetto della teoria a sé preso e nella rete delle sue connessioni con altro».16– e più legata al mondo della letteratura, sciolta dalla necessità, ma anche dalla possibilità, della “spiegazione”? Perché è la materia stessa del dibattuto ad imporre una tale nonstruttura. Non è possibile dipanare in un sistema un pensiero vivo e, in quanto tale, in continuo sviluppo, contraddizione, ritorno su se stesso. La filosofia di Cioran, perché di filosofia possiamo e dobbiamo parlare di fronte allo sviluppo non sistematico ma costante dei temi trattati, impone un discorso non-consequenziale, fatto di intuizioni e ritorni sulle stesse intuizioni, di opere in costruzione senza un fine ultimo prefissato. Nicola Abbagnano ci ricorda che, per la nostra tradizione, il termine aforisma17 fu dapprima riservato quasi esclusivamente ai precetti medici, quali le regole di vita dettate da Ippocrate. Bacone espresse

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Eco, Ruozzi, Tosi, Calcoli, Pasquini, Biason, Cantarutti, Elam, Veca, Rigoni, Viviani, Teoria e storia dell’aforisma, Mondadori, Milano, 2002, p. 1. Ibid., p. 126. N. Abbagnano, «aforisma» in Dizionario di filosofia, Utet, Torino 2001, p. 11.

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sotto questa forma le sue osservazioni contenute nel Novum Organum, probabilmente per ostentare il loro valore pratico e normativo. Abbagnano sostiene che una ragione simile abbia convinto Schopenhauer a chiamare Aforismi sulla saggezza della vita, le proprie massime per ridurre l’infelicità umana nei Parerga und Paralipomena. L’aforisma non è, storicamente, una forma filosofica del dire. Come abbiamo già spiegato, il motto breve e diretto non si giustifica con una premessa e non lascia spazio ad ulteriori conclusioni. L’aforisma ha la pretesa di riassumere in sé tutti i rimandi ed i passaggi logici che le altre forme letterarie (nella forma più classica, il saggio) estrinsecano con moltitudini di parole. Solo una scuola, nella lunga storia della filosofia, si è proposta di ragionare per aforismi: gli Stoici formulavano le loro sentenze etiche in forma di brevi frasi «per la retorica dell’antiretorica».18 Per Cioran, scrivere usando principalmente aforismi o brevi pensieri è naturale: da un lato la concisione tiene lontana la retorica delle parole inutili, dall’altro il “frammento letterario” esprime alla perfezione un pensiero non-definitivo, per l’appunto frammentario, impossibile da sistematizzare perché vivo. «L’aforisma, come forma o stile di pensiero, è per natura adialettico o antidialettico: sopprimendo o trascurando proprio il terzo momento del processo hegeliano, la sintesi, garante della totalità e insieme del progresso, esso descrive un mondo irredento e, forse, irredimibile».19 Questa, elaborata da Mario Rigoni, è la condizione fondamentale della filosofia di Cioran: un pensiero in costante movimento ma privo di qualunque giustificazione del presente o, tanto peggio, speranza nel futuro, non può che esprimersi in una forma non canonica, diretta, che non insegue giustificazioni, e, colpendo fin dal primo impatto, costringe chi legge ad una forma di attenzione particolare, molto più emotiva che logico-razionale. Libri come Al culmine della disperazione, o Précis de décomposition, solo per citarne alcuni, non vogliono esporre delle teorie con delle premesse e delle giustificazioni. Non vogliono giustificare nulla, semmai distruggere il più possibile a colpi di pensieri espressi puri come sono nati, senza orpelli espressivi a fiaccarne l’essenza: «se, nel nostro parlare e comunicare, mirassimo all’essenziale, eliminando quella sovrabbondanza e ripetizione di parole rassicuranti e compiaciute, precettanti e dimostrative, giustificative e accusanti, intimidatorie e ricattatorie, tutto questo coacervo superfluo di emozioni manipolatorie, resterebbero

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R. Tosi, Teoria e storia dell’aforisma, cit., p. 11. Ibid., p. 147.

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poche frasi brevi, intense, incisive, memorabili. Aforismi. Ora è vero che non si può vivere di sola fiamma, di solo ardore: è necessaria anche la sicurezza, la rassicurazione. Ma il problema è l’opposto: è che oggi si vuole vivere di sola rassicurazione, di solo pane».20 «Bisogna parlare solo quando non è lecito tacere; e solo di ciò che si è superato, – ogni altra cosa è chiacchiera, “letteratura”, mancanza di disciplina»,21 e in Cioran è ben presente una “disciplina”, fatta non di regole sistematiche ma pragmatiche, programmatiche se vogliamo: la ricerca della “lucidità” procede regolare attraversando l’etica, l’estetica, la teoretica, la mistica, mantenendo la stessa forma espressiva: l’unica in grado, per brevità e semplicità, di offrirsi sempre di nuovo come materia di discussione e oggetto da superare. Oltre all’ovvia efficacia “scenica”, l’aforisma in Cioran assume la struttura dell’aforisma filosofico descritta da Veca: «Essi [gli aforismi] diventano accettabili solo come conclusione di un ragionamento soggiacente che li dimostra. L’aforisma filosofico è la punta di un iceberg che ne è la teoria giustificativa»,22 l’iceberg è composto dall’insieme dei “quadretti filosofici” che troviamo nelle opere più “estese” e ragionate. Ad una domanda di Fernando Savater che, ricordando Nietzsche, poneva dei dubbi sulla probità dell’ambizione sistematica della filosofia, Cioran rispondeva: A proposito di probità, le dirò una cosa. Quando uno comincia a scrivere un saggio di quaranta pagine su un qualsiasi argomento, parte da alcune affermazioni preliminari e ne rimane prigioniero. Una certa idea della probità lo obbliga ad andare sino in fondo rispettandole, lo obbliga a non contraddirsi; tuttavia, a mano a mano che prosegue, il testo gli prospetta altre tantazioni, che è costretto a respingere perché si allontanano dalla via prefissata. Siamo rinchiusi in un cerchio che abbiamo tracciato noi stessi. Ed è in questo modo che, volendo essere probi, si cade nella falsità, nella mancanza di veracità. Se questo succede in un saggio di quaranta pagine, che cosa non accadrà in un sistema! Qui sta il dramma di ogni riflessione strutturata: non permette la contraddizione. E così si cade nel falso, si mente a se stessi per salvaguardare la coerenza. Se invece si compongono frammenti, è possibile dire nello stesso giorno una cosa e il suo contrario. Perché? Perché ogni frammento nasce da una esperienza diversa, e perché queste esperienze sono vere: sono l’essenziale. Si dirà che ciò significa essere irresponsabili; ma in tal caso lo si sarà al modo stesso in cui è irresponsabile la vita. Un pensiero frammentario riflette tutti gli aspetti della tua esperienza; un pen-

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Ibid., p. 151. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches, trad. it. di S. Giametta, Umano, troppo umano (in Opere, vol. IV, tomo 3), Adelphi, Milano 1965, p. 3. S. Veca, cit., p.129.

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siero sistematico ne riflette uno solo: l’aspetto controllato, e per ciò impoverito. In Nietzsche, in Dostoevskij si esprimono tutti i tipi di umanità possibili, tutte le esperienze. Nel sistema parla soltanto il controllore, il capo. Il sistema è sempre la voce del capo: proprio per questo ogni sistema è totalitario, mentre il pensiero frammentario rimane libero.23

Se volessimo trattare Cioran come un filosofo mancato, potremmo riassumere tutti i suoi libri e desumerne una filosofia in senso strettamente accademico. Ma non è questa la strada e preferisco rispettare il pensiero ed il “modus operandi” di un pensatore che, raccogliendo l’eredità morale di Heidegger, intento più a trovare nuovi “sentieri” filosofici che imporre mastodontiche quanto scricchiolanti verità ultime, non ha mai voluto mettere dei punti conclusivi al proprio pensiero, lasciandolo vivo e quindi criticabile a trecentosessanta gradi, ma, allo stesso tempo, capace di superarsi sempre lasciando intravedere porte socchiuse, la cui apertura o meno spetta a chi vive “qui ed ora” in ogni momento dell’esistere umano: «Il serpente che non può disquamarsi, perisce. Così pure gli spiriti, ai quali si impedisce di mutare le loro idee; cessano di essere spiriti»,24 e il pensatore di Ra⁄¶inari volle tutto in vita, tranne che fossilizzarsi in uno schema, in un pensiero concluso e, quindi, morto. Rispettando la sua eredità, possiamo comunque leggere Cioran e riconoscere dei “momenti”, delle trattazioni che riempiono le differenti discipline della “filosofia”. Credo, infatti, che sia fondamentale cogliere il pensiero anche quando questo non si mostra come direttamente “filosofico”, rispettoso di strutture logico-formali, espresso secondo la norma (scientifica, non filosofica) dell’ipotesi e della sua dimostrazione attraverso nessi causali. Tuttavia, devo riconoscere che leggere Cioran per arrivare a capire, o meglio, a sentire Cioran non è semplice come potrebbe sembrare ad un primo impatto: è necessaria una certa predisposizione, un elevato grado di empatia o una grande capacità di comprendere ad un livello istintivo e non solo razionale, non logico. Cogliere la bellezza o la forza di un pensiero a volte prescinde dalle capacità di analisi formale e si basa su forme di conoscenza del tutto differenti: Schopenhauer scriveva della conoscenza intuitiva; secondo il poeta-vate de Le vergini delle rocce era compito proprio dei poeti, possessori del “terzo occhio” o della preveggenza (di cui Rimbaud fu l’e23 24

E. M. Cioran, Un apolide metafisico, cit, pp. 27-28. Nietzsche, Morgenröthe, in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe Fünfte Abteilung, herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, Erster Band, Walter De Gruyter & Co., Berlin 1971, trad. it. di F. Masini e M. Montinari, Aurora e frammenti postumi (in Opere, vol. V, tomo 1), Adelphi 1964, p. 268.

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sempio più fulgido), scrutare il presente per cogliere le dinamiche inconoscibili ai più. Enzo Melandri, dimenticato genio da non molto scomparso, dedicò diversi lavori al concetto di analogia25 come possibile superamento della sola logica, strutturalmente limitata ed insufficiente per spiegare tutto il regno dell’umano. Dobbiamo cogliere Cioran nei suoi momenti, ascoltarlo attraverso le sue contraddizioni e ri-proposizioni. Cogliere la musicalità dei suoi “poemetti filosofici” senza perdere di vista la linea di pensiero che attraversa tutti i suoi lavori dando loro valore filosofico al di là dei “meriti” letterari: «Cioran est donc un prosateur. On peut le considérer comme un descendant – “métèque” – des moralistes français des XVII° et XVIII° siècles et, en cela, comme un représentant particulièrement remarquable du genre protéiforme de la prose d’idées discontinue dans la deuxième moitié de notre siècle».26 Per far questo è necessario capire il suo pensiero attraverso le strutture che egli ha voluto per se stesso, senza perdere di vista l’obbiettivo di riconoscere, qualora vi fosse, l’iceberg di cui parla Veca. Dobbiamo essere capaci di “lasciarci divorare” dai libri di Cioran, dobbiamo vivere quella febbre esaltante e distruttrice da cui sgorgò la sua prima opera, unica salvezza dal suicidio: Il fenomeno capitale, il disastro per eccellenza è la veglia ininterrotta, questo nulla senza tregua. […] L’insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il paradiso stesso in un luogo di tortura. Qualsiasi cosa è preferibile a questa allerta permanente […] ecco in quale condizione di spirito ho concepito questo libro, che è stato per me una specie di liberazione. […] Se non lo avessi scritto, certamente avrei messo fine alle mie notti.27

Se non possiamo condividere l’eccesso di pienezza Il crollo nascerà allora da un eccesso di pienezza. Esistono stati e ossessioni con cui è impossibile convivere. La salvezza non consiste quindi nell’ammetterli?28

che fa “ribollire il sangue” scatenando quel percorso che attraverso l’esperienza dell’agonia ci porterà alla lucidità, non siamo in grado di

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26

E. Melandi, La linea e il circolo studio logico-filosofico sull’analogia, Il Mulino, Bologna 1968. P. Moret, Tradition et modernité de l’aphorisme Cioran, Reverdy, Scutenaire, Jourdan, Chazal, Droz, Genéve 1997, p. 234. E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., pp. 11-12. Ibid, p. 16.

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comprendere veramente l’opera del genio rumeno ed il significato profondo delle sue parole che paiono danzare lievi sulla pesantezza dei concetti che stanno esprimendo. «Le pagine di Cioran sono percorse da fremiti contrastanti: sovente si ha l’impressione che non venga offerta alcuna via d’uscita: nella fattispecie ci siamo sentiti ripetere che la parola è vuota ed il silenzio, in fondo, inutile. Nella realtà poi Cioran riesce a sommergerci con un mare di pensieri, suggestioni, sentimenti e fa ciò attraverso una lingua non sua, ma che non lo ha certo privato della sua identità, avendola egli incarnata come pochi altri contemporanei, e non per fare solo della letteratura».29 Forse nessuno come lui è riuscito a tradurre in vita consapevolmente i contrasti del sentire umano, la doppiezza di tutti i pensieri e l’aporia che, inevitabile, conclude ogni tentativo di spiegazione esaustiva di un qualcosa (l’uomo) che è per sua natura non perfetto, un “discorso” sempre aperto. La filosofia deve andare oltre i prorpi limiti formali e cogliere il pensiero “nel suo movimento” al di là della sua struttura, riconoscendone il fulcro senza separarlo dal suo contesto e dalla sua espressione. Leggere Cioran è, come voleva l’autore, un’esperienza esistenziale, un momento di vita: preparasi a vivere un pensiero diviene il punto di partenza per intraprendere un cammino nel nuovo mondo che nasce tra le righe di uno dei “filosofi” più contraddittori ed inafferrabili che mai abbiano scritto. Usare gli strumenti della Filosofia, quella che ci insegna a ragionare in ogni direzione, a cogliere il “tutto”, a capire anche ciò da cui non può esser tratta una pedagogia, ci permetterà, successivamente, di trovare le linee giuda di un pensiero che sfugge tra le pagine di libri che sfiorano la poesia per raccontare l’indicibile. L’aforisma è la forma d’espressione più vera perché è la più vicina al silenzio. Il lirismo è la lingua di ciò che non riusciamo ad esprimere con la “metrica quotidiana”. In questa doppia forma Cioran ha messo tutto la sua filosofia. Ai lettori il compito di “trovarla”. Annotazioni tecniche Cioran ha scritto in rumeno fino al 1940, in francese da allora. In Italia l’opera dagli anni quaranta in poi è stata tradotta quasi integralmente e pubblicata da Adelphi. Per Gallimard, sono state pubblicate tutte le opere francesi e quasi tutte quelle rumene.

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A. M. Tripodi, cit., p. 20.

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Solamente Schîmbarea la fata a României (1936) non è ancora disponibile né in francese, né in italiano, anche se alcune parti ne sonostate tradotte e riportate in alcuni recenti saggi (si veda, a riguardo, G. Rotiroti, Il demone della lucidità. Il “caso Cioran” tra psicanalisi e filosofia, Rubbettino, Catanzaro, 2005). La traduzione francese è, anche se in maniera frammentaria, rintracciabile nelle opere di Bollon e Laignel-Lavastine. Inoltre, gli articoli dello stesso periodo, tematicamente sullo stesso piano di Schîmbarea, sono stati raccolti in buona parte (1991) e appena pubblicati in Francia (2004) nel volume Solitude et destin. Per questioni di comodità, ho deciso di usare il più possibile la traduzione italiana, anche per i riferimenti bibliografici, delle opere sia francesi sia romene. Solamente per i Syllogismes de l’ameurtume ho scelto di utilizzare sia l’edizione italiana, sia quella francese per dare il giusto rilievo alla forma originale dell’espressione. Conscio dell’importanza dello studio stilistico riguardo al capolavoro di Cioran, il Précis de décomposition, ho, ad ogni modo, preferito non usare la formula adottata per i Syllogismes. L’utilizzo della versione originale del Précis de décomposition avrebbe dato ragione dello stile del capolavoro di Cioran, ma avrebbe aumentato considerevolmente la complessità di questo volume. Ho preferito “spiegare” quanto più possibile il testo riportandone svariate parti in italiano rinunciando, in parte, a trattarne “l’estetica” nella lingua originale. Quasi tutte le annotazioni biografiche sono tratte dai diversi Entretiens pubblicati in Francia (e recentemente tradotti per Adelphi da Tea Tutolla col titolo Un apolide metafisico-Conversazioni) e da anedotti e dati riportati in articoli, introduzioni a opere e dal confronto fra le memorie di persone che hanno conosciuto il pensatore rumeno. A volte, non ho riportato in nota una singola fonte relativa a fatti avvenuti poiché questi sono stati desunti da diverso materiale confrontato. Infine, ho deciso di non riportare note che non siano solamente indicazioni bibliografiche, al fine di rendere più snello il volume e piacevole la lettura. Breve cronologia della vita e delle opere 1911

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Nasce l’8 di aprile secondo di tre figli a Ra⁄¶inari, villaggio della Transilvania poco a sud di Sibiu, da Emilian Cioran, pope ortodosso della comunità e da Elvira, nata Comaniciu, presidentessa dell’associazione locale delle donne ortodosse. La cittadina faceva parte dell’impero asburgico col nome di Hermannstad ed il padre, in segno di protesta verso la politica imperiale di magiarizzazione, chiama i figli (due maschi ed una femmina) con nomi latini: Virginia, Emil, Aurel. Qui tra-

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scorre un’infanzia felice, tanto da ricordare per tutta la vita quei tempi e quei luoghi come un vero e proprio paradiso perduto: «si le mot paradis a un sens, il s’applique à cette période-là de ma vie».30 Emil, ancora bambino, si trasferisce a Sibiu, presso una famiglia sassone, per proseguire gli studi fino al liceo “Gheorghe-Laza⁄r”. Il padre Emilian, nominato protopope della città di Sibiu, vi si trasferisce con tutta la famiglia. A quindici anni, Cioran comincia ad interessarsi alla filosofia e alla letteratura. In un suo quaderno d’appunti di studio del 1926 troviamo riferimenti a Dostoevskij, Diderot, Balzac, Flaubert, Schopenhauer, Nietzsche. Conosce Eliade attraverso «Cuva⁄ntul», di cui diviene appassoniato lettore. Frequenta la biblioteca tedesca della città multietnica in cui vive e conosce i classici della letteratura e della filosofia. S’iscrive alla facoltà di lettere e filosofia di Bucarest. Soffre di crisi d’insonnia ed è ossessionato dall’idea della morte. Studia meticolosamente la filosofia tedesca, prediligendo Simmel e Nietzsche. Legge anche Bergson e Sestov. Conosce Eliade, Tutea, Vulcanescu e Noica con i quali passa lunghe giornate a discutere di filosofia e politica soprattutto nell’ormai famosa Birreria Capsa sul viale della Vittoria, punto d’incontro della giovane intellighenzia rumena. Maître a penser dei giovani studenti è Nae Ionescu, professore di metafisica all’università di Bucarest e figura cui rimarrà vicino per tutta la vita. Si laurea il 23 giugno all’Università di Bucarest con una tesi su Bergson. Critica fortemente il concetto di “ragione” basandosi su quello di “vita”. Appena laureato comincia a studiare psicologia: l’oggetto che più stimola la sua ricerca intellettuale è l’uomo e il suo dialogo costante col divino. Al termine del percorso di studi la sua posizione è chiara: contro ogni formalismo ed astrazione, il pensiero deve tornare alla vita e scorrere in essa. In questa prospettiva anche la scrittura cessa di essere un esercizio formale e diviene una forma terapeutica, un modo salutare d’oggettivare le proprie ossessioni ed idee. Inizia ad occuparsi di politica scrivendo alcuni articoli su «Vremea», «Azi», «Florea de Foc» ed altre riviste rumene. È vicino alla Guardia di Ferro di Codreanu, di cui ammira più la mistica religiosa che il progetto politico. Grazie ad una borsa di studio della fondazione Humboldt parte per Berlino e Monaco dove segue i corsi di Nicolai Hartmann e Ludwig Klages. È affascinato dal buddismo e da Hitler, dal vitalismo del nuovo pensiero tedesco e dall’idea di “popolo” che si respira nelle vie di Berlino. Pubblica Pe culmile dispera⁄rii, opera prima che gli vale il premio dell’Accademia Reale per giovani autori. Torna in patria. Legge Proust e Leopardi, ma anche l’Ecclesiaste, e studia il Libro di Giobbe. Prosegue la sua attività politica in sostegno

Lettera a Aurel Cioran, 24 agosto 1971, G. Liiceanu, Itinéraires d’une vie: E. M. Cioran, suivi «Les continents de l’insomnie», Michalon, Paris 1995, p. 73.

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della Guardia di Ferro con articoli dallo spiccato fervore nazionalista e filo-hitleriano. chiamato alle armi per svolgere il servizio militare come soldato semplice d’artiglieria, ma in breve tempo riesce a farsi assegnare ad un ufficio. Conosce per la prima volta in maniera diretta lo spirito soldatesco che spesso aveva esaltato dalle colonne dei suoi articoli incendiari. Occupa il primo e ultimo posto di lavoro della sua vita come insegnante al Liceo “Andrei-Saguna” di Brasov, esperienza che ricorderà come catastrofica. I suoi filosofi di riferimento rimangono Nietzsche e Simmel, ma insegna anche i moralisti francesi; inserisce nel programma autori quali Baudelaire e soprattutto Dostoevskij e Shakespeare. Si lega fortemente a Ionescu e ancor di più a Petre Tutea, sconosciuto all’estero ma notissimo filosofo e studioso di teologia in patria. Pubblica Cartea ama⁄girilor (Il libro delle illusioni) e Schîmbarea la fata a României (La trasfigurazione della Romania), il testo che più di tutti segnerà la sua “caduta filosofica” nella politica degli anni trenta, e che fomenterà le accuse di nazismo ed antisemitismo mosse dai suoi contemporanei soprattutto dopo gli anni sessanta in Francia. Scrive Lacrimi si Sfinti (Lacrime e Santi). La sua simpatia per i Legionari della guardia inizia a vacillare: Cioran avverte la distanza umana e d’intenti che lo separano dalla politica della Romania di Codreanu. Nello stesso anno vince una borsa di studio grazie alla quale si reca a Parigi – «la sola città del mondo dove si poteva essere poveri senza vergogna senza complicazioni, senza drammi... la città ideale per essere un fallito» –. Prima di partire per la Francia pubblica a proprie spese Lacrime e Santi. Borsista dell’Istituto francese di Bucarest, Cioran, ventiseienne, s’installa a Parigi, presso l’hotel Marignan, in rue Sommerand n. 13. Non si occupa realmente della tesi di dottorato. L’anno seguente s’iscrive alla Sorbona per seguire dei corsi, ma soprattutto per usufruire della mensa universitaria (noto l’episodio che lo vide protagonista di un’imbarazzante “cacciata” dalla mensa per “raggiunti termini d’età” da parte di un responsabile della struttura dopo quindici anni di quotidiana frequentazione); in quello stesso periodo comincia a viaggiare in bicicletta: cento chilometri al giorno per fiaccare il corpo e con esso l’insonnia. Girerà così la Costa Azzurra, la Provenza, la Spagna e la Svizzera. Non s’inserisce nell’ambiente universitario, non conosce i suoi docenti e così non ottiene alcuna lettera di raccomandazione per proseguire gli studi. La borsa di studio, comunque, sarà mantenuta fino al 1944. Esce in romeno Amurgul Gândurilor (Il tramonto dei pensieri). Il 12 marzo comincia a scrivere Bréviaire des vaincus, sesto ed ultimo libro scritto in romeno da Cioran. Da qui in poi scriverà soltanto in francese («lingua adatta per il laconismo, la definizione, la formula...»). Torna in autunno in Romania dove rimane per qualche mese. Versione definitiva del Bréviaire. Comincia a frequentare il Café Flore, famosissimo ritrovo dei pensatori francesi. Passa lì intere giornate, forse alla ricerca, finalmente, di un riconoscimento pubblico del proprio lavoro. Non avrà successo: il suo carattere e la sua distanza filo-

INTRODUZIONE

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sofica dai contemporanei non gli permetteranno mai una reale vicinanza coi filosofi “engagés” della Francia post-seconda guerra mondiale. Rimarrà famoso l’episodio (confermato da più fonti) che lo vide protagonista quando Camus, famoso e già maître a penser della cultura francese del tempo, lo invitò a discutere con altri le proprie posizioni filosofiche espresse nei diversi libri pubblicati in Francia, pare, invitandolo in questo modo: – è ora che lei entri nella circolazione delle idee… –; la risposta del pensatore di Sibiu, sempre secondo diverse fonti, fu di uscire dal café mormorando: – vai a farti fottere – all’indirizzo del ben più noto interlocutore. Leggenda o fatto reale, questo “quadretto” esprime bene le contraddizioni del Cioran francese e i diversi bisogni da cui si sentiva trasportato: da un lato, probabilmente, l’umano desiderio di affermazione; dall’altro, la necessità di proseguire nel cammino del solitario demiurgo che era fin dai tempi di Pe culmile dispera⁄rii. Traduce Mallarmé in romeno. Mentre lavora alla traduzione, Cioran ha una vera e propria illuminazione: racconterà quasi quaranta anni dopo di aver compreso come per scrivere in una lingua straniera fosse necessaria una sorta di perdita d’identità, una prova di alterità assoluta. Torna a Parigi dal villaggio della regione di Dieppe in cui si trovava spinto dalla nuova “missione”: diventare possessore del francese e con questo passaggio trasfigurarsi nella nuova lingua. Nasce così Précis de décomposition, che attenderà due anni per essere pubblicato da Gallimard, continuazione ideale del libro d’esordio romeno, ma con un profondo mutamento stilistico, oltre che linguistico. Esce il Précis che non conosce fortuna, fino alla sua riedizione in formato tascabile. Ottiene una piccola borsa dallo Stato francese dopo la pubblicazione del Précis. Viene insignito del premio Rivarol che accetta (unico nella sua vita). Dirà, successivamente, che un rifiuto del premio, da parte di un giovane autore straniero, sarebbe stato letto come un atto di superbia inaccettabile. Pubblica i Syllogismes de l’amertume. Paul Celan traduce il Précis in tedesco: Ledere von Zerfall: Essays pubblicato ad Amburgo due anni dopo. Nemmeno in Germania conosce un grande successo. Breve soggiorno in Spagna a Santander. Pubblica La tentaxion d’exister, il suo maggiore successo editoriale. Smette di vivere nei miseri alberghi ed ostelli della gioventù e si trasferisce nella mansarda (modestissima, due piccole stanze e niente più) in rué de l’Odeon 21, a due passi dal famoso teatro, dove passerà tutto il resto della sua vita accanto alla compagna Simone, professoressa d’inglese. Pubblica Histoire et utopie. Pubblica La chute dans le temp. Pubblica Le mauvais démiurge, censurato in Spagna. Concede rarissime interviste malgrado la sua notorietà superi ormai i confini della Francia, ma non ne sarà mai felice: «J’ai donné une interview – en allemand – à la télévision suisse, mais je dois reconnaître que ce genre

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d’activité me déplait. Dès qu’on veut gagner un peu d’argent, on se déshonore».31 Pubblica per l’Éditions de l’Herne Valéry face a ses idoles. Pubblica De l’inconvénient d’ être né. Scrive la prefazione del saggio del Savater Ensayo sobre Cioran, ed. Taurus, Madrid. Rifiuta il premio “Roger Nimier” confermando la propria avversione per i riconoscimenti pubblici Esce, di nuovo per Gallimard, Écartèlement. L’Eliseo mette il telefono del suo appartamento sotto controllo nel programma di prevenzione del terrorismo attuato negli anni ottanta in tutta la Francia. Viaggio all’estero: invitato ad Atene per una conferenza, approfitta dell’occasione e gira il Peloponneso. Pubblica Exercices d’admiration Essais et portrait, riprendendo la tradizione dei grandi ritrattisti francesi, da Saint-Simon a Tocqueville, che tanto amava. Pubblica Aveux et Anathèmes, “libro testamento” ed ultima fatica pubblica di Cioran. Il 20 giugno, martedì, muore in un ospedale della capitale francese. Da anni soffriva del morbo di Helzeimer. Pubblicazione postuma dei Cahiers 1957-1972. L’opera, presentata all’editore Gallimard dalla compagna di tutta la vita di Cioran, Simone Boué, è paragonabile allo Zibaldone leopardiano: una raccolta di appunti e pensieri privati cominciata nel 1957 e terminata nel 1972, stesa in trentaquattro quaderni il cui destino era, secondo l’autore, l’oblio. Simone dedicò i due anni successivi alla morte del pensatore di Ra⁄¶inari alla scelta e trascrizione del materiale per i Chaiers. Subito dopo, di settembre, un incidente sulle rive dell’Atlantico pose fine alla sua vita, quasi si fosse compiuto il suo destino.

Dalla lettera al fratello Aurel, 5 gennaio 1971, G. Liiceanu, Itinéraires d’une vie: E. M. Cioran, cit., p.73.

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I a Romania

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Ogni conoscenza spinta sino in fondo è pericolosa e malsana, dato che – parlo della vita stessa e non delle conoscenze cosiddette filosofiche – la vita è sopportabile esclusivamente perché non si va fino in fondo. Una impresa è possibile soltanto quando si abbia un minimo di illusioni, altrimenti non è possibile, così come non lo è un’amicizia. La lucidità totale equivale al nulla.1

ioran in Romania scrive cinque C libri: Pe culmile dispera⁄rii (Al culmine della disperazione), Cartea amagirilor (Le livre des leurres), Schîmbarea la

fata a României (La trasfigurazione della Romania), Lacrimi si Sfinti (Lacrime e Santi), Amurgul Gandurilor (Le crépuscule des pensées). Successivamente, a Parigi, tra il 1940 ed il 1944 compone Indreptar patimas (Bréviaire des vaincus), “libro cerniera” dell’opera di Cioran, perché scritto in Francia ma ancora in lingua rumena. Per scelta, tralascio quest’ultimo (verrà trattato più avanti) e Schîmbarea, cui è dedicata l’ultima parte di questa sezione, centrata sul Cioran “storico” e “politico” e sui suoi rapporti con l’hitlerismo, di cui il volume è, assieme ai vari articoli scritti negli anni trenta, il documento più importante. Una raccolta di questi articoli è recentemente apparsa in Francia: E. M. Cioran, Singuratate si destin, trad. fr. di Paruit, Alain, Solitude et destin, Gallimard, Paris 2004. L’opera ha suscitato molto interesse offrendo agli studiosi materiale fin’ora inedito, ma ha sollevato altrettante perplessità per la non-contestualizzazione (questione fortemente dibattuta e criticata nel presente lavoro) degli scritti.2 Cominciare ad analizzare il pensiero di Cioran partendo dall’analisi delle singole opere è un’impresa ardita e, probabilmente, errata fin dal suo nascere: schematizzare il pensiero di colui che più di tutti ha rifiutato lo schema significa dimenticare il tratto fondamentale del pensiero del rumeno, e cioè che nella

1 E. M. Cioran, intervista con Michael Jakob in Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 333. 2 Si veda, a riguardo, la recensione di A. Laignel-Lavastine, Un Cioran très politiquement correct, in " Le Monde ", 2/7/2004.

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sua parte di silenzio nasconde le cose migliori che egli aveva da dire, proprio come Sissi, la principessa d’Austria, nascondeva il bel viso dietro un ventaglio.3

Cioran non è un filosofo, se per filosofo intendiamo un autore sistematico o un accademico di carriera; lo è se alla filosofia riconosciamo il valore di massima aspirazione umana, di ricerca infinita della “verità”. Lo è come lucido osservatore del mondo e creatore del frammento e del suo inevitabile residuo, unica filosofia possibile dopo Nietzsche e il fallimento dei sistemi positivi hegeliani. Ogni volume scritto da Cioran è una rielaborazione, una riesposizione di cose già dette, idee già spiegate, perché nulla di nuovo può essere detto, ma tutto ciò che possiamo pensare può essere detto ogni volta in maniera differente aprendo nuove strade alla speculazione. Tuttavia, se volgiamo provare a raccontare la storia del pensatore di Ra⁄¶inari, non possiamo prescindere dalla cronologia delle opere, dal riconoscimento di un mutamento costante attraverso i diversi libri che si susseguono rapidi fino al silenzio degli ultimi anni francesi. Non possiamo, quindi, che partire dall’inizio: dalla sua prima opera. Ma se non c’è un sistema da dipanare, una pedagogia da estrapolare, cosa rimane a chi legge Cioran e, soprattutto, a chi lo vuole narrare ai propri contemporanei? Rimane il delicato mestiere dello spiegare ciò che non siamo abituati ad ascoltare, del dipanare un pensiero tanto vivo da sfuggirci sempre proprio quando sembrava di averlo “incatenato”, del trasmettere l’emozione che colpisce leggendo i suoi aforismi e del riconoscere una Weltanshauung completa ma espressa non sistematicamente, che ci appare nel momento in cui “possediamo” tutte le parole che il grande Romeno ha scritto in quasi settant’anni di pensare.

3 E. M. Cioran, L’amico lontano, cit., p. 75.

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I. LA ROMANIA

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1. Al culmine della disperazione L’insonne vive in un’altra temporalità? Certamente; in un altro tempo e in un altro mondo, dato che la vita non è sopportabile se non grazie alla discontinuità. In fondo, perché si dorme? Non tanto per riposare, quanto per dimenticare. Uno che si alza al mattino dopo una notte di sonno ha l’illusione di cominciare qualcosa. Ma se stai sveglio tutta la notte, non cominci proprio un bel niente. Alle otto del mattino sei nelle stesse condizioni che alle otto di sera, e tutta la prospettiva delle cose necessariamente cambia. Io penso che se non ho mai creduto nel progresso, se non sono mai caduto in questo inganno, è stato anche per via dell’insonnia.4 Ho scritto questo libro nel 1933, all’età di ventidue anni, in una città che amavo, Sibiu, in Transilvania. Avevo finito gli studi, e per ingannare i miei genitori, ma anche per ingannare me stesso, feci finta di lavorare a una tesi. Devo confessare che il gergo filosofico lusingava la mia vanità, e mi rendeva sprezzante verso chiunque usasse un linguaggio normale. A tutto questo pose termine uno sconvolgimento interiore che finì col rovinare tutti i miei progetti. Il fenomeno capitale, il disastro per eccellenza è la veglia ininterrotta, questo nulla senza tregua. Per ore e ore passeggiavo di notte nelle strade deserte, o talvolta in quelle dove bazzicavano prostitute solitarie, compagne ideali nei momenti di supremo smarrimento. L’insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il paradiso stesso in un luogo di tortura. Qualsiasi cosa è preferibile a questa allerta permanente, a questa criminale assenza di oblio. È durante quelle notti infernali che ho capito la futilità della filosofia. Le ore di veglia sono, in sostanza, un’interminabile ripulsa del pensiero attraverso il pensiero, è la coscienza esasperata da se stessa, una dichiarazione di guerra, un infernale ultimatum della mente a se medesima. Camminare vi impedisce di lambiccarvi con interrogativi senza risposta, mentre a letto si rimugina l’insolubile fino alla vertigine. Ecco in quale condizione di spirito ho concepito questo libro, che è stato per me una specie di liberazione, di esplosione salutare. Se non lo avessi scritto, certamente avrei messo fine alle mie notti.5

Con queste parole un giovanissimo Cioran apriva la sua prima opera rumena e con essa iniziava a delineare i caratteri del suo pensiero. Tutto il pensiero, tutta la tensione, tutte le contraddizioni che

4 E. M. Cioran, intervista con Michael Jakob in Un apolide metafisico. Conversazioni, cit., pp. 326-327. 5 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., pp. 11-12.

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caratterizzeranno l’opera del pensatore transilvano sono già depositate in quello che è il suo primo libro, ma che sarebbe potuto esserne anche l’ultimo. Lo stesso Cioran ha più volte ripetuto che ne Al culmine della disperazione è contenuta tutta la sua Weltanschauung, tutta la sua disperazione ed il suo sarcasmo. Di unico rimarrà lo stile, tagliente, feroce e disperato come mai più, come solo l’opera di un genio di ventidue anni, insonne ed aspirante suicida poteva creare. Il pensare vivo Cioran conosce la filosofia tedesca, legge Kant, si appassiona a Schopenhauer e Nietzsche, ma soprattutto è affascinato da Bergson e Simmel, dal vitalismo che pulsa nelle nuove definizioni di durata e spazio incontrate nel Saggio sui dati immediati della coscienza.6 Cerca un pensiero “nuovo” e forte, una “filosofia del martello” balcanica che rompa la tradizione europea dei decadenti filosofi e la tendenza, tipica delle genti della sua terra, a lasciarsi cadere nella malinconia e nel sentimento d’ineluttabilità, con una spinta vitale e travolgente. Professa il caos, brama la barbarie delle folle contro l’intellettualismo dei singoli, tutto proteso verso lo smantellamento delle antiche credenze in nome del pensiero vivo e pulsante. Pe culmile dispera⁄rii è un libro “rapido”, che “vuole” essere letto, quasi divorato, ma che, al contrario, va preso con molta calma. Nemmeno centocinquanta pagine in cui si parla dell’ assurdo, del sentimento dell’agonia, dell’Apocalisse, del caos, ma anche del culto dell’infinito, dell’idea di trasfigurazione. Nemmeno centocinquanta pagine in cui Cioran condensa il proprio pensiero e lo esprime nel proprio stile, lasciando un’opera incompiuta nel senso di non-conclusa, ancora aperta. Un primo sasso scagliato contro il “palazzo” della filosofia da chi crede che “fare filosofia” possa essere soltanto sinonimo di vivere fin nel profondo di sé il pensiero che conserva un profumo di sangue e di carne.7

Fin da questa prima opera, e poi per tutte le altre, varrà la stessa regola: non è possibile desumere un “metodo” nella sua accezione classica. Questo sembrerebbe inficiare di per sé il valore filosofico del pen-

6 H. Bergson, Essai sur les donnéès immédiates de la conscience, Presses Universitaires de France, Parigi 1889, trad. it. di F. Sossi, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina, Milano 2002. 7 E. M. Cioran, Al cumine della disperazione, cit., p. 33.

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I. LA ROMANIA

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siero di Cioran. Tuttavia, fermarsi ad un livello superficiale di analisi sarebbe un errore e, infatti, ci accorgiamo immediatamente che, se non è possibile definire Pe culmile dispera⁄rii un trattato morale o teoretico, o una ricerca in ambito ermeneutico; se non possiamo estrapolarne un metodo filosoficamente accettato o accettabile, ne possiamo però estrarre un “atteggiamento”, una serie di considerazione che “messe in fila” determinano un “modus operandi” chiaro e non casuale e, quindi, un particolare ma valido metodo. D’altra parte, con Feyerabend potremmo ricordare che: «la condizione della coerenza, la quale richiede che le nuove ipotesi siano in accordo con teorie accettate, è irragionevole, in quanto preserva la teoria anteriore, non la teoria migliore. Le ipotesi in contraddizione con teorie ben affermate ci forniscono materiali di prova che non possono essere ottenuti in alcun altro modo. La proliferazione delle teorie è benefica per la scienza, mentre l’uniformità ne menoma il potere critico. L’uniformità danneggia anche il libero sviluppo dell’individuo».8 Senza voler aprire un dibattito sulla validità di un metodo anarchico della conoscenza, possiamo comunque dare per accettata l’ipotesi che non siano necessari un metodo ed un sistema aprioristicamente dichiarati per fare della filosofia. Cercherò di mettere un po’ d’ordine e di trattare l’argomento nella maniera più chiara possibile aiutandomi fin da ora con le parole del pensatore che visse e studiò a Sibiu: Gli uomini, in genere, si dividono in due categorie: quelli a cui il mondo offre occasioni di interiorizzazione e quelli per i quali esso rimane esteriore, oggettivo e insignificante»;9 «[…] un’esperienza soggettiva profonda eleva al piano dell’universalità, come l’attimo a quello dell’eternità».10

Ancora: La vera interiorizzazione conduce a un’universalità inaccessibile a quanti restano in superficie. L’interpretazione volgare dell’universalità vede in essa più una forma di complessità in estensione che la ricchezza di una comprensione qualitativa.11

8 P.K. Feyerabend, Againist Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, New Left Book, London 1975, trad. it. di L. Sosio, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 2002, p. 40. 9 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 128. 10 Ibid., p. 87. 11 Ibid, p. 17.

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Una prima distinzione chiarita da Cioran è di tipo esistenziale. Esistono due “generi” d’uomini: quelli che vivono nel loro presente, nella casuale contingenza (nell’esser-si, se volessimo accennare ad Heidegger) e se ne sentono parte senza moti d’animo ulteriori, e quelli che sono costretti dalla propria natura ad interiorizzare il mondo, a domandarsene senza tregua, a ricercare una parola ultima sapendo già che essa non vi sarà mai. Esiste, quindi, un’alterità tra uomini che, potremmo dire, si lasciano vivere dal proprio presente, e uomini che vivono autenticamente nella ricerca continua. Non vi è, però, una scelta consapevole alla base del ricercare e, quindi, del filosofare: la base della filosofia diviene la malattia, nel senso del distacco dalla naturale esistenza inconsapevole degli esseri umani come facente parti della Natura. Chiunque non ami gli stati caotici non è un creatore, chiunque disprezzi gli stati morbosi non ha diritto di parlare dello spirito. Vale solo ciò che sorge dall’ispirazione, ciò che scaturisce dal fondo irrazionale dell’essere, dal centro della soggettività […] La scissione dalla vita corrisponde a una perdita totale dell’ingenuità, dono meraviglioso distrutto dalla conoscenza, nemica dichiarata della vita […] Non esistono che due atteggiamenti fondamentali: l’ingenuo e l’eroico. I restanti non ne sono che sfumature. Se non si vuol soccombere all’imbecillità, la sola scelta possibile è questa.12

È il distacco dalla vita intesa come assecondamento delle nostre pulsioni minime, animali, a causare la corruzione del vivere ingenuo costringendoci al dubbio perchè lo spirito è il frutto della malattia della vita, così come l’uomo è solo un animale degenere. L’esistenza dello spirito è un’anomalia nella vita.13

Cerco di riassumere il punto di partenza: il fatto stesso che l’uomo (o meglio, alcuni tra gli uomini) sia consapevole di sé e che, per questo, si ponga delle domande è un’anomalia nella Vita, nella Natura. È la “fuoriuscita” dal ritmo, dal meccanismo della natura a causare la filosofia come malattia, corruzione dello Spirito dallo stato naturale, in cui esso è assente o soggiogato alle superiori leggi naturali: «L’uomo si allontana dalla natura, e quindi dalla felicità, quando a forza di esperienze d’ogni genere, ch’egli non doveva fare, e che la natura aveva provveduto che non facesse (perchè s’è mille volte osservato ch’ella si nasconde al possibile, e oppone milioni di ostaco-

12 Ibid., pp. 53-59. 13 Ibid., p. 61.

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I. LA ROMANIA

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li alla cognizione della realtà); a forza di combinazioni, di tradizioni, di conversazione scambievole ecc., la sua ragione comincia ad acquistare altri dati, comincia a confrontare, e finalmente a dedurre altre conseguenze sia dai dati naturali, sia da quelli che non doveva avere. E così alterandosi le credenze, o ch’elle arrivino al vero, o che diano in errori non più naturali, si altera lo stato naturale dell’uomo; le sue azioni non venendo più da credenze naturali, non sono più naturali; egli non ubbidisce più alle sue primitive inclinazioni, perchè non giudica più di doverlo fare, né più ne cava la conseguenza naturale, ecc. E per tal modo l’uomo alterato, cioè divenuto imperfetto relativamente alla sua propria natura, diviene infelice».14 Il tema non è di certo nuovo, e Cioran riconosce spessissimo il proprio “debito” concettuale: Con Baudelaire la fisiologia è entrata nella poesia; con Nietzsche, nella filosofia. Grazie a loro le turbe organiche furono elevate al canto e al concetto: toccava ad essi, proscritti della salute, assicurare una carriera alla malattia.15

E, pur non ricercando l’originalità teorica, Cioran abbozza un’ipotesi sulla causa ontologica del tanto decantato mal di vivere: l’uomo che per natura è segnato da esperienze tragiche, Il crollo nascerà allora da un eccesso di pienezza. Esistono stati e ossessioni con cui è impossibile convivere. (…) Diventiamo lirici quando la vita dentro di noi palpita a un ritmo essenziale, e quando ciò che stiamo vivendo è talmente forte da sintetizzare il senso stesso della nostra personalità. Ciò che abbiamo di unico, di specifico, si compie in una forma così espressiva che l’individuale si eleva al livello dell’universale16

si trova a vivere la pienezza dei propri sensi, ovvero un’esistenza malata nei confronti di ciò che dovrebbe essere per natura. È il “prescelto” per la ricerca filosofica, l’infelice la cui missione sarà quella di spingere la propria analisi interiore fino al parossismo – quell’eccesso di pienezza – per cui sarà costretto a dire, a gridare, le verità più difficili da accettare perché ormai non avrà più nient’altro a cui aggrapparsi […] quando “l’inconveniente di essere nati” risulta talmente insopportabile che non si può più rinunciare a mettere in opera

14 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondatori, Milano 1983, p. 278. 15 E. M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, cit., pp. 17-18. 16 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., pp. 16-17.

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l’unica possibile vendetta che ci è data, quella della parola. Per vomitare finalmente i propri segreti.17 È la malattia, quindi, a divenire generatrice dello stato mentale necessario a carpire quel pensiero che sa di carne e di sangue che contraddistingue la filosofia “vera” da quella morta delle accademie. Ma “da dove arriva” la malattia, e a cosa porta? Occorre essere dei predestinati? In questo Cioran è, come tutti gli autori che vedono nel pensare uno status necessario per la propria essenza e non un mestiere, fortemente settario: sono pochi, e mai per scelta, quelli adatti ad un tale sforzo: Non so se ammirare o disprezzare un uomo che, prima dei trent’anni, non abbia subito il fascino di tutte le forme di estremismo; non so se considerarlo un santo o un cadavere. Non vi pare che si sia posto al di sopra o al di sotto del suo tempo per mancanza di risorse biologiche? Poco importa che la deficienza sia positiva o negativa! Privo di desiderio e di volontà di distruggere, è sospetto: ha avuto la meglio sul demone o, peggio ancora, non è stato mai posseduto.18

La possessione diviene in Cioran un tema costante: riprendendo il “daimon” spiegato da Socrate come «intermediario e intercessore dal mondo umano alle divinità, e dal divino mondo all’uomo […] Dio all’uomo non si mischia: l’intera trama dei rapporti, il colloquio fra divinità e uomo, nella vita sveglia o dei sogni, si svolge tramite il semidivino»,19 egli trova nella malattia come degenerazione dello stato mentale “normale” l’esaltazione, l’elevazione del proprio spirito oltre i limiti della logica e dell’essere umano, la condizione necessaria per cogliere tutto ciò che c’è oltre la contingenza, al di là del presente comunemente accettato. Se per Husserl il “metodo” necessario all’analisi del reale e alla ricerca delle essenze era un’astrazione dal proprio contesto, un’epoché fenomenologica ottenuta sospendendo ogni affermazione implicita di realtà, con Cioran l’atteggiamento fenomenologico si mantiene (come sospensione dell’affermazione di realtà dell’oggetto-mondo) ma viene attuata restando ben calato nel mondo.

17 F. Marcoaldi, Voci rubate: Canetti, Junger, Berlin, Hrabal, Cioran, Edelman, Paz, Einaudi, Torino 1993, p. 94. 18 E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., p. 29. 19 Platone, Simposio [202].

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I. LA ROMANIA

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La lucidità come canone necessario al superamento del reale per la ricerca del vero Forse è azzardato parlare di una nuova epoché cioraniana, ma, di fatto, il pensatore rumeno attua, o, sarebbe meglio, subisce un processo “organico” che, allontanandolo dalla normalità della vita, gli permette di trovare la lucidità necessaria a superare gli schematismi logici e i giudizi a priori infusi in noi dal nostro vivere in un contesto. La differenza tra questo evento e l’idea di epoché è chiara: Cioran subisce (non c’è volontarietà ma destino) un evento (la malattia) e ne ottiene un nuovo canone, un nuovo metodo d’indagine del mondo restando in quel contesto. Ecco perché il richiamo alla possessione, a quello stato mentale che causa un’astrazione assoluta dall’ambiente in cui siamo senza smettere di farne parte. Il concetto di lucidità è in tutta l’opera di Cioran fondamentale: se nel suo primo libro viene introdotta come un prodotto dell’esperienza drammatica dell’agonia, ed un nuovo punto di vista con cui scrutare la realtà (e vederne l’inconsistenza), nelle opere della maturità francese diverrà addirittura un vero e proprio metodo euristico per scindere vero da reale. Nel momento in cui diventiamo lucidi entriamo in quel particolare stato mentale da cui nasce la vera filosofia e da cui sgorga tutta la disperazione di chi ha potuto vedere l’abisso: toute lucidité est la conscience d’une perte.20

Ma nelle prime opere tutto questo è solo sentito, intuito. Centrale resta l’emotività, che, stimolata dall’esperienza della caduta, dell’agonia che proviamo solo davanti ad un evento capitale (la morte, o la veglia ininterrotta che lo tormentava da giovane), ci permette di trascendere il nostro “status” di essere umano intriso dell’ambiente in cui vive. Scopertosi egli stesso contingente, caduto nel mondo, l’uomo si trascende scorgendo l’abisso di cui già Nietzsche aveva detto e rivivendo la caduta da uno stato di grazia precedente, che ormai non ha più nulla a che fare con sé. Dialoga con Dio, ultima tappa di un cammino, punto estremo della solitudine21

e riconosce nello specchio del divino il proprio destino infelice.

20 E. M. Cioran, Amurgul Gandurilor, Dacia Traiana, Sibiu 1940, trad. du roumain par Mirella Patureau-Nedelco, Le crépuscule des pensées, L’Herne, Paris 1991, p. 86. 21 Intervista con Sylvie Jaudeau 1988 in E. M. Cioran, Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 251.

FABIO RODDA

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Ma il distacco dal sé, dal proprio essere inserito in un ambiente, in un sistema, è portatore di follia: l’assoluta perdita delle coordinate che separano realtà da immaginazione comporta un distacco dalla propria individualità e da tutto l’ambiente circostante con la conseguente perdita di quella che chiamiamo ragione. Porsi al di fuori degli schemi, di tutti gli schemi, compresi quelli che formano i nostri sistemi logici e relazionali, diviene funzione necessaria alla ricerca della verità. Diviene, nella sua tensione febbrile, quel “surriscaldamento dei nervi” che brucia il bisogno di realtà e ci spalanca gli occhi sull’abisso che ci circonda «L’uomo è un cavo tesa tra la bestia e il superuomo, – un cavo al di sopra di un abisso»22 diceva Zarathustra agli abitanti del villaggio al limite della foresta e questo, probabilmente, sentiva Cioran quando componeva Pe culmile dispera⁄rii. La follia è uno stato mentale dato dall’esaltazione nervosa, dalla tensione violentissima ed incontrollabile verso qualche cosa di superiore e totalmente altro: Quasi ci si fosse sollevati ad altezze straordinarie alle quali si è colti da vertigini, si vacilla, si perdono la sicurezza e la percezione normale del concreto e dell’immediato.23

Il peso che soffoca la mente dà voce alla «tremenda realtà organica da cui sorgono le nostre esperienze» e da cui nasce il terrore. Non si tratta del terrore della morte La nostalgie de l’infini, trop vague, prend forme et contour dans le désir de mort. Nous cherchons de la précision même dans la torpeur rêveuse ou dans la défaillance poétique. La mort introduit de toute façon un certain ordre dans l’infini. N’est-elle pas sa seule direction?24

che soffoca l’umano fino ad annichilirlo, ma di un senso di panico attraversato da bagliori, forse il riconoscimento drammatico della gretta materialità di tutto il nostro esistere comprese le sensazioni più alte di cui siamo capaci, sempre e comunque causate da fatti o cose materiali e dell’infinito; il parametro ultimo di tutti i nostri confronti, quella sorta di cielo irraggiungibile che ci schiaccia l’anima quale meta irraggiungibile eppure già dentro di noi. 22 Nietzsche, Friedrich, W., Also sprach Zarathustra Ein Buch für Alle und Keinen, ed. it. a cura do Colli, G. e Mazzino, M., Così parlò Zatathustra Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1968, p. 8. 23 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 30. 24 E. M. Cioran, Le crépuscule des pensées, cit., p. 87.

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«Con la sua prosa agile e netta che ricorda Paul Valery e uno scavo impietoso nel caos che evoca la penna forsennata di Albert Camaco, Cioran sembra ripetere la domanda che fu di Kierkegaard – Chi ma ha giocato il brutto tiro di gettarmi nel mondo? – ma riducendola all’ossessione, rischiarando il percorso di lumi che non appartengono a nessuna ragione, ad una specie di aura epilettica che inchioda il pensiero a una lucidità esasperata. […] Cioran rovescia i temi della questione attribuendo il possibile, la libertà e la gioia allo stato anteriore alla disdetta di nascere».25 La condizione umana, la resa dei conti ultima con (contro) Dio trova in Cioran un narratore spietato e passionale, pronto a descrivere nella maniera più realistica, e quindi dura, lo stato naturale dell’uomo: animale di carne e sangue e istinti costretto ad una vita di materia ma consapevole che questa non basta, che non è tutto qui, che non era stato creato per un tale mondo. Quasi che un angelo cadendo all’alba dei tempi dal cielo avesse sparso nei primi uomini un po’ di essenza divina, essi seppero da subito che quel lasso di tempo trascorso nella materia non era né l’unico, né il più importante periodo della propria essenza. In Cioran, la consapevolezza di questa condizione di caduta dal divino al terreno diviene, sul piano fisico, malattia e degenerazione della salute mentale, sul piano metafisico, caduta nel tempo e allontanamento dall’Albero della Vita, dal ritmo del tutto. Il dramma sta nella perdita assoluta, nel tormento intollerabile del sapere che nulla, nel regno dell’esistere, può più tornare all’indeterminato: Tout le processus de décadence n’est qu’un détachement progressif de l’existence; non pas un détachement par la transcendance, par le sublime ou le renoncement, mais par une fatalité pareille a celle qui jette à terre le fruit pourri de l’arbre.26

Siamo caduti, come esseri umani, nel regno della vita, della determinazione, della negazione della possibilità e dell’ indeterminato che appartiene al tutto, l’abisso la cui vista ci porta all’esperienza della veglia costante: Prima di conoscere l’insonnia ero una persona quasi normale. Per me è stata una rivelazione. Quando ho perduto il sonno mi sono reso conto di

25 R. Carifi, in AA.VV., Luoghi ritrovati: E. M. Cioran e P. Tutea a confronto, I quaderni del battello ebbro, Porretta Terme 1995, p. 6. 26 E. M. Cioran, Cartea amagirilor, trad. du roumain par Grazyna Klewek et Thomas Bazin, Le livre des leurres, Gallimard, Paris 1992, p. 26.

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come esso sia una cosa straordinaria. Perché la vita è sopportabile solo grazie al sonno. Ogni mattina inizi una nuova avventura, o la stessa avventura, ma con un’interruzione. L’insonnia è una rivelazione straordinaria perché sopprime l’incoscienza.27

e questa mancanza conduce all’agonia e alla malattia. La malattia di cui parla Cioran è un fenomeno complesso che riguarda tutto l’uomo, mente e corpo: è lo spleen di Baudelaire, il tedio di Leopardi, è quella guerra col foglio bianco che Ungaretti sentiva di dover combattere appoggiando la punta della penna su una pagina vergine, quella veggenza che portò Rimbaud a morire dopo aver detto: «Par quel crime, par quelle erreur, ai-je mérité ma faiblesse actuelle? […] Moi, je ne puis pas plus m’expliquer que le mendiant avec ses continuels Pater et Ave Maria. Je ne sais plus parler!»28 e «Je sais les cieux crevant en éclairs, et les trombes / Et les ressacs et les courants: je sais le soir, / L’Aube exaltée ainsi qu’un peuple de colombes, / Et j’ai vu quelquefois ce que l’homme a cru voir».29 È la distanza fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, o peggio, fra ciò che siamo e ciò che sentiamo che dovremmo essere o che siamo stati. Ma è anche malattia in senso fisiologico: malattia del corpo che muta, che non si riconosce e non accetta di svolgere le sue funzioni più normali. Il corpo è fondamento dell’uomo tanto quanto lo spirito, e nulla che agisca su di esso può prescindere dalla fisicità, dal sangue e dalla carne. Siamo forse angeli cacciati dal paradiso e caduti in questo giardino non più divino ma sofferente, puniti con l’eterno ricordo sempre più sfumato delle meraviglie per cui fummo creati? O siamo veramente figli di Dio ed agogniamo quindi all’immortalità ed onniscienza ed onnipotenza paterna che sentiamo come un’eredità dovuta? In Cioran queste domande prendono la forma tormentata di una veglia ininterrotta che lascia libera la mente dagli schematismi della logica, portando il pensiero a toccare il fulcro del problema esistenziale e trascinando la parola (consolazione dal silenzio, tragica verità ultima) nel lirismo, unico mezzo letterario per tradurre in carta scritta sensazioni inesprimibili con le parole dettate da una logica ormai superata in questo volo metafisico verso l’ignoto. Potrei azzardare che, se con la fenomenologia la domanda sull’esistere viene posta in maniera logica (in Heidegger il riconoscimento del

27 AA.VV., Luoghi ritrovati: E. M. Cioran e P. Tutea a confronto, cit., p. 34. 28 A. Rimbaud, Matin in Poésies Une saison en enfer Illuminations, Gallimanrd, Paris 1999, p. 202. 29 A. Rimbaud, Le bateau ivre, in Poésies Une saison en enfer Illuminations, cit., p. 123.

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nostro “esser-gettati”, dell’“esser-ci”, “esser-si”, ecc.), con Cioran tutto questo trascende nel piano emotivo e, per questo, si avvicina più facilmente all’arte che alla filosofia. La risposta viene dalla fisiologia, più che dal pensiero logico. Ecco che il lirismo diventa una necessità, l’unica strada percorribile per esprimere questi stati d’animo e la follia (quella vera, irrimediabile perdita del sé) diventa uno spauracchio peggiore della morte stessa: Nella follia perdiamo la nostra specificità, tutto ciò che si pensa ci individualizzi nell’universo, la nostra prospettiva particolare e un preciso orientamento della coscienza… Così, benché persistente ed essenziale, la paura della morte è meno bizzarra di quella della follia, in cui la nostra semipresenza è un fattore di inquietudine ben più complesso rispetto all’organica paura dell’assenza totale che si prova davanti al nulla.30

Il terrore indotto dalla follia è in realtà la paura della lucidità nel caos, dell’essere ancora sospesi su di un nulla incomprensibile. È folle colui che ha visto, che si è avvicinato troppo al fuoco della conoscenza e per questo viene punito con la disgregazione del sé che crolla nel caos. Ricordando il destino di Prometeo, punito per aver portato agli umani in un gambo di ferola i semi di fuoco sottratti alla ruota del carro del Sole, Cioran teme di spingersi troppo, di lasciar uscire la mente dai propri schemi tanto che essa non vi rientrerà mai, costretta a vagare nel non-umano che voleva conoscere. Ma ecco poi che il pensatore rumeno ritrova tutta la sua ironia per dire: Vorrei perdere la ragione a un unico patto: essere sicuro di diventare un pazzo allegro, brioso ed eternamente di buon umore, senza problemi né ossessioni, che ride senza motivo dalla mattina alla sera.31

Moderno Zarathustra, di cui raccoglie in pieno il testamento – La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poichè essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perchè essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano nell’altra riva. […] Io amo colui l’anima del quale trabocca da fargli dimenticare se stesso, e tutte le cose sono dentro di lui : tutte le cose divengono così il suo tramonto.32 – Cioran cerca la stessa via di Nietzsche, senza usare le sue parole di fuoco, ma disperandosi e get30 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 31. 31 Ibid., p. 31. 32 Nietzsche, Cosìparlò Zarhatustra, cit., pp. 8-9.

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tando su di sé tutte le colpe del mondo, diventandone cattivo demiurgo e inseguendo sempre quell’oltreuomo che vuole essere per stare veramente al di là del bene e del male. Ma poi, tornando a pensare alla disperazione della ricerca e al male conseguente la missione dello scoprire (Pascal), tornando uomo tra gli uomini, carico anch’esso di tutti i drammi che riconosce nei suoi simili, si trova a scrivere: Desidero infinitamente estasi luminose, eppure allo stesso tempo non ne vorrei, perché ad esse fanno inevitabilmente seguito le depressioni. Vorrei invece che un bagno di luce scaturisse da me e trasfigurasse il mondo intero, un bagno che, lungi dalla tensione dell’estasi, conservasse la calma di un’eternità luminosa. Avrebbe la leggerezza della grazia e il calore di un sorriso. Vorrei che il mondo intero galleggiasse in questo sogno di luce, in questo incantesimo di trasparenza e di immaterialità; che non vi fossero più ostacoli, materia, forme o confini. E in questa visione, vorrei morire di luce.33

La distruzione della filosofia Denunciare le pretese assurde della filosofia è per Cioran un primo momento di verità: bisogna fare tabula rasa delle false credenze e degli obbiettivi impossibili. Egli è creatore di un pensiero discontinuo, non sistematico, sempre in bilico tra il nichilismo e la mistica, ma con un primo punto fermo: la critica del presente filosofico, il rifiuto del pensiero logico: «il dubbio mette in scacco la ragione, ne denuncia la fragilità, l’impossibilità di essere criterio a se stessa, di uscire dalla minore età disancorandosi dal suo fondamento»34; il pensiero moderno ha dimenticato che è logicamente impossibile che noi ci innalziamo al di sopra di essa [la ragione] per riconoscerne o contestarne la validità.35

Dobbiamo insinuare il dubbio nelle fedi, siano esse in Dio o nelle scienze, perché portano sempre in sé l’errore assoluto: la resa ad un pensiero ultimo positivo e definitivo, in cui non c’è più posto per le domande. Il dubbio non è una scelta. È la malattia che ci prende, come le malattie in senso medico, senza motivo, alla sprovvista, gettandoci nella vertigine di fronte al vuoto che, improvviso e terribile, ci si apre davanti.

33 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 32. 34 A. M. Tripodi, Cioran, metafisico dell’impossibile, cit., p.28. 35 E. M. Cioran, La chute dans le temp, Gallimard, Paris 1964, trad. it. di Mario Andrea Rigoni, La caduta nel tempo, Adelphi, Milano 1995, p. 65.

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Troviamo in Cioran di nuovo l’idea del filosofo come “prescelto”, del “destinato” alla propria missione, solo che, in questo caso, non è il filosofo a scegliere la missione da intraprendere: non più uno Zarathustra che scende dalla montagna per diffondere il sapere di cui oramai trabocca tra gli uomini, ma un dannato, costretto a portare un peso non chiesto, un dono di Pandora che grava su chi non può far altro che “sopportare” la missione inflitta. Un ribaltamento di prospettiva, una nuova teoretica della negazione che ci permette alcune considerazioni: non esiste una scala di valori per cui l’uomo consapevole è in qualche modo “migliore” dell’uomo inconsapevole. Quest’ultimo, casomai, sarà oggetto d’invidia perché: I più infelici sono coloro che non hanno diritto all’incoscienza.36

L’assenza di una scala di valore etico secondo cui collocare gli uomini permette a Cioran di dare lo stesso “peso morale” al più grande eroe come all’ultimo dei mendicanti. Nemmeno l’essere “olteruomo”, o, se volgiamo, lo stare nell’esser-ci e non nell’esser-si diventa matrice di distinzione, perché, oramai, veduto l’abisso, niente ha più valore positivo. La missione, necessaria e non ricercata o desiderata, diventa assoluta: la scoperta del vero, la distruzione delle comode menzogne su cui basiamo la nostra vita fatta solo di contingenza e di realtà elevata (senza vero motivo) al grado di verità non comporta nessun premio, nessun riconoscimento, nessun Dio ad applaudirci o perdonarci, nessun Padre che ci apra la porta di un qualsivoglia Paradiso, fosse anche il più misero immaginabile. Si rimane soli, consapevoli della propria solitudine e della menzogna del mondo. Che cosa ci rimane? Quanto a me, amo solo le verità vitali, organiche, perché so che non esiste LA verità, ma solo le verità vive, frutto della nostra inquietudine.37

Rimane la vita, rimaniamo noi, rimane l’umano come il riassunto del reale e della metafisica: tutto è in noi, perché noi siamo il tutto, e quindi il nulla. Avvicinandosi alle filosofie orientali ed al buddismo, Cioran torna a riconoscere un’unità del tutto: a causa della carne, del nostro essere corporei, pretendiamo uno statuto ontologico a sé stante. Il corpo appare

36 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 56. 37 Ibid., p. 103.

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come un’impostura, come un raggiro, come un travestimento che non ricopre nulla,38

riconoscere il proprio niente ci avvicina allo sguardo lucido che otteniamo solo cadendo dal nostro trono di certezze. Ne Al culmine della disperazione, ma più genericamente in tutto il pensiero di Cioran, realtà (intesa propriamente come materialità, carne e sangue) e metafisica (il “mondo superiore” abitato dai concetti astratti ma anche da quel Dio che ci torna come termine ultimo e doloroso di paragone) sono in costante lotta e, allo stesso tempo, unione. Se da un lato, infatti, il pensiero non terreno, l’uomo astratto, travolto dalle sue questioni sulla logica e dalle sue domande sulla forma, dovrebbe lasciare il posto ad un pensiero materiale forgiato dall’esperienza vissuta, dalla fisiologia, motore di ogni nostro pensare vivo; dall’altro il pensiero diventa vero quand’è assoluto, slegato dalle forme contingenti e dalla logica soffocante: quand’è sentire e quindi nel momento in cui si fa partecipe anche della metafisica, o meglio quando la riprende “riportandola a terra”: All’uomo astratto, che pensa per il piacere di pensare, si contrappone l’uomo organico, che pensa sotto l’effetto di uno squilibrio vitale, e che è al di là della scienza e dell’arte. Amo il pensiero che conserva un profumo di sangue e di carne, e a una vuota astrazione preferisco mille volte una riflessione sorta da un’esaltazione dei sensi o da una depressione nervosa…Perché non vogliamo accettare il valore assoluto delle verità vive, che si generano in noi e rivelano realtà e valori che fanno parte di noi? Perché non capiamo che si può pensare in modo vivo alla morte, ai problemi più vertiginosi?39

I concetti di per sé non significano nulla, non hanno valenza e non esprimono niente; tutto assume una forza ed un senso quando viene riportato nel pieno del pensare vivo. Così anche la morte va ripensata soltanto in un discorso che parta dalla vita e le consideri assieme: la morte come realtà autonoma non esiste,40

essa va discussa come un cambiamento di percorso della vita che prosegue mutando forma in qualche cosa che non possiamo conoscere ma che non ha valore fuori dalla vita stessa.

38 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., p. 53. 39 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 33. 40 Ibid., p. 33.

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Metafisica e religione ci hanno mostrato la morte come un qualcosa di nuovo nel suo trionfale passaggio ad un mondo altro e migliore, ma questa è una mistificazione: l’esperienza dell’agonia dimostra inequivocabilmente l’immanenza della morte nella vita. Il non sentirla è caratteristica comune dell’uomo superficiale che sente la propria esistenza come definitiva e la morte come la sua negazione. Il fatto che, malgrado la morte sia immanente alla vita, la coscienza di ciò renda impossibile il vivere, dimostra il carattere demoniaco (daimon – intermediario tra uomo e dio – malattia) della vita stessa ed il suo sostrato metafisico. Lontano dall’ingenua illusione della vita, avere la coscienza di una prolungata agonia significa separare l’esperienza individuale della sua cornice d’ingenuità per smascherarne la nullità e l’insignificanza, intaccare le stesse radici irrazionali della vita. È vedere la dialettica demoniaca che crea forme al solo fine di distruggerle, e l’esperienza dell’ingenuità ne è la sola salvezza. A portare all’esperienza dell’agonia è la malattia, la cui missione filosofica è di svelare quanto sia illusorio il sentimento di eternità dell’esistenza e di riportare la morte nella vita: Senza dubbio, le sole esperienze davvero autentiche sono quelle che nascono dalla malattia. Tutte le altre hanno fatalmente un marchio libresco, poiché un equilibrio organico non consente che stati suggeriti, la cui complessità è più frutto di un’immaginazione esaltata che di una reale effervescenza,41

ma Ogni malattia implica eroismo, un eroismo della resistenza.42

Un eroismo senza medaglie, senza nemmeno la serenità di aver compiuto una scelta terribile ma definitiva, determinante, che ci abbia messo “sulla strada giusta”. Il fatto è che non esiste una strada giusta, non c’è nulla da insegnare e quindi nessuno potrà imparare ed essere “migliore”. Possiamo solo compiere l’enorme (e moralmente inutile) sforzo di riconoscere tali verità e sopportarle senza perdere la lucidità guadagnata con la visione dell’abisso accettando, per di più, che la distinzione tra io e morte (quando c’è il primo è assente la seconda e viceversa) è artificiosa e ciò viene dimostrato dall’esperienza della progressiva agonia, forse l’esperienza più fondante per tutto il pensiero di Cioran.

41 Ibid., p. 37. 42 Ibid., p. 38.

FABIO RODDA

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Ma che cosa ci rimane? Abbiamo rifondato un nichilismo assoluto e paralizzante senza vie d’uscita? Tutto è possibile e niente lo è; tutto è permesso e niente. Qualsiasi direzione s’imbocchi non sarà migliore di un’altra. Realizzare qualcosa o niente, credere o no, è lo stesso, come lo è tacere o gridare. Si può trovare una giustificazione a ogni cosa, come si può non trovarne alcuna. Tutto è nello stesso tempo irreale e reale, naturale e assurdo, straordinario e piatto. Nessuna cosa può essere anteposta a un’altra, come nessuna idea è migliore di un’altra. Perché rattristarsi della propria tristezza e gioire della propria gioia? Che importa se le nostre lacrime sono di piacere o di dolore? Ama la tua infelicità e detesta la tua felicità, mescola tutto, confondi tutto. Rinuncia alle distinzioni, alle differenziazioni e ai piani. Sii come una piuma sospinta dal vento o un fiore portato dalle onde. Resisti quando non serve, e sii vile quando bisogna resistere. Chissà se in questo modo non ci guadagni? E se così non fosse, che importa se ci perdi? C’è forse qualcosa da guadagnare o da perdere in questo mondo? Ogni guadagno è una perdita, come ogni perdita è un guadagno. C’è forse una ragione per aspettare un determinato atteggiamento, idee precise e parole appropriate? Sento che dovrei sputare fuoco a mo’ di risposta a tutte le domande che mi sono state o non mi sono state mai poste.43

«E allora ? Non resta che fare della propria vita un fallimento; solo così si perverrà al distacco, unica forma di libertà concessa all’uomo».44 Io mi distruggo, è quello che voglio; nell’attesa, in questo clima asmatico creato dalle convinzioni, in questo mondo di oppressi, io respiro; respiro a modo mio. Un giorno, chissà, conoscerete forse questo piacere di mirare a un’idea, di colpirla, di vederla agonizzare, e poi ricominciare l’esercizio con un’altra, con tutte; questa voglia di prendervi cura di un essere, di stornarlo dagli antichi appetiti, dagli antichi vizi, per imporgliene di nuovi, più nocivi, affinché a causa di questi perisca; di accanirvi contro un’epoca o contro una civiltà, di scagliarvi contro il tempo e martirizzarne gli istanti; di volgervi poi contro voi stesso, di suppliziare i vostri ricordi e le vostre ambizioni, e, esaurendo il vostro respiro, appestare l’aria per meglio soffocarvi… un giorno forse conoscerete questa forma di libertà, questa forma di respirazione che è liberazione da sé e da tutto. Potrete allora impegnarvi in qualsiasi cosa senza aderirvi.45

Negando con tutte le sue forze la positività del mondo, l’unico atteggiamento plausibile, che salvi dal non-senso, è il distacco da tutto. Ma 43 Ibid., pp. 132-133. 44 A. M. Tripodi, Cioran, metafisico dell’impossibile, cit., p. 30. 45 E. M. Cioran, La tentazione di esitere, cit., p. 103.

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questo distacco rimane solo paventato, immaginato nella lettura delle vite dei Santi che tanto affascinavano Cioran. Egli sa, ed è troppo onesto per far finta di dimenticarsene, che siamo uomini e che la fisiologia pesa su di noi almeno quanto il pensiero e accetta, di conseguenza, l’impossibile della propria metafisica, se conciderata come assoluta e allontanata dal mondo della vita, dal corpo. Secondo la Tipodi: «Viene così delineandosi una metafisica della regressione, per la quale la resistenza al proprio annullamento suona come un’imperdonabile scortesia verso se stessi. Ma è proprio sulla possibilità/volontà dell’annullamento che c’è da discutere, è proprio la eventualità incessante di fallimento dell’incarnazione dell’“uomo all’infuori di tutto” che giustifica il nostro interrogativo: Cioran, metafisico dell’impossibile? “Provocante e indisponente” per Popescu, “squartatore misericordioso” per Ceronetti, “Pascal senza religione” per Mauriac, “metafisico antimetafisico” per Najera, Cioran attinge le profondità metafisiche della psicologia umana, viviseziona l’uomo ma, non distante, non eretico, non enigmatico, è amico che porge la mano, confida ciò che pensa, confessa i propri vissuti. Torna di continuo alle radici dell’esistenza dell’uomo e del mondo, ne denuncia l’inconsistenza, ma ne rimpiange l’innocenza».46 Ed è in questa mano costantemente tesa, anche quando il desiderio è di abbandonare gli altri e rinchiudersi in se stessi, che sta, a mio avviso, la grandezza assoluta e l’originalità di Cioran: non occore, pare dirci il romeno, credere nella bontà dell’uomo o sperare in utopie fideiste per riconoscersi in comunione col prossimo. Anche ammettendo la nostra disperante condizione ontologica possiamo restare nel mondo, avvicinarci ai nostri simili con la dignità e l’onestà di chi fa una cosa poiché sa che quella è l’unica possibile da fare, ma che nulla ne ritornerà, che non cambierà il destino metafisico di nessuno, ma che, a volte, bisogna darsi tregua e accettare, ad esempio, la consolazione fasulla delle parole. In questa sua prima opera, Cioran non afferma nulla, se non soltanto perché l’affermazione è imprescindibile dal discorso, ma quando lo fa è sempre e solo per negare qualche idea o discorso precedente. L’insonnia, forse le origini geografiche, il tempo ed il luogo della scrittura ma, soprattutto, la fisiologia, il corpo costringono un giovanissimo Cioran ad interrogarsi instancabilmente sulle domande ultime, sulle prese di coscienza più disperanti. È il suo corpo che non riesce più a dormire, che lo costringe a riconsiderare in una nuova ottica il mondo terreno e quello divino e che lo obbliga a cercare la 46 A. M. Tripodi, Cioran, metafisico dell’impossibile, cit., p. 32.

FABIO RODDA

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consolazione della scrittura, la liberazione, lo sfogo. È una ricerca morale, uno smantellamento delle credenze, un imposizione di nuove frontiere di pensiero in cui l’emozione ha un essenza da confrontare e correlare con quella della realtà con cui origina la vita dell’essere umano. È allo stesso tempo un lavoro teoretico, con i suoi slanci verso tutto ciò che non siamo in grado di considerare appartenente a noi stessi in quanto uomini. Nella situazione di caos fisiologico determinato dalla veglia prolungata, (chiunque abbia provato a non dormire anche per pochi giorni sa di cosa parlo), un’anima grande, tesa già di per sé al pensiero creativo, alla domanda costante, alla non accettazione della propria ovvietà o dell’illusoria semplicità della vita umana, trova sfogo senza più remore: dialoga con se stesso, con l’infinito o il niente gettando lampi di genio che piovono a rischiarare il buio della menzogna dei saperi teorici e sistematici. Travolto dalla malattia che rende il suo sguardo lucido, sprofonda nell’abisso per incontrare l’ultimo cielo ed in esso parlar con Dio. E, nello stesso momento, assurto alla gloria senza medaglie del sapere, alla grandezza senza riconoscimenti della consapevolezza, incontra la nullità propria e di tutto, l’inutilità di qualsiasi pensiero, di qualsiasi vita, brevissimo battito d’ali nell’eternità caotica dell’esistente. E allora cade, sprofonda nella melanconia estetica o nella depressione che saranno poi terreno fertile per nuove febbri ed eccitazioni, nuove malattie dell’anima che si rigetterà volente o nolente alla ricerca di verità. Con questo circolo vizioso ma illuminante, Cioran, attraversando Pascal e Nietzsche, Leopardi e Schopenhauer, Heidegger e Rimbaud, oltre a riassumere il susseguirsi degli stati emotivi e degli eventi esterni che incrociamo nell’atto della ricerca pura di noi e delle essenze ultime, riassume in sé, nella sua propria dinamica, il ciclo dell’umanità intera nel mondo: quest’assurdo nascere e morire, credere e cadere, ricercare per trovare il nulla, unico fondamento ultimo di quel tutto che siamo noi uomini. Tutto ciò che è forma, sistema, categoria, quadro, piano o schema … deriva da una mancanza di contenuti, da una carenza di energia interiore, da una sterilità della vita spirituale.47

Ecco che un evento a metà tra fisiologia e intelleto, la lucidità, derivata dalla dinamica emotiva innescata dall’esperienza dell’agonia, diviene

47 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 53.

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I. LA ROMANIA

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faro e guida per scoprire quello che la razionalità non può raggiungere, per arrivare a quelle intuizioni che sono la sola porta sull’essenza. Così l’estasi, come l’agonia, diventa esperienza ultima del sapere: L’estasi è una presenza totale priva di oggetto, un vuoto pieno. Un brivido attraversa il nulla, invasione di essere nell’assenza assoluta. Il vuoto è la condizione dell’estasi, come l’estasi è la condizione del vuoto.48

Quasi uno psicanalista nella sua ricerca degli stati nervosi e dei loro legami con la realtà contingente (la melanconia, ad esempio, non arriva mai ad uno stato profondo ed è stimolata dagli spazi aperti, la tristezza si manifesta soprattutto in un ambiente chiuso e per una causa concreta e precisa, ecc.), Cioran trova in alcune emozioni fondamentali le matrici del sapere. Se per Cartesio era il pensiero a far da fondamento col suo cogito, ergo sum, per Cioran potremmo dire che il ruolo del cogitare cartesiano è attribuito alla sensazione e soprattutto alla sensazione del dolore: nel momento in cui soffro mi riconosco come esistente e allo stesso tempo imperfetto. Nel dolore comprendo il distacco e quindi la mia nascita maledetta. Nella negazione della mia esistenza come individuo unico (ma privo di senso) colgo il tutto (specchio del nulla) da cui sono caduto. Il pensiero è un qualcosa di demoniaco, di sublime. Dobbiamo abbandonare il sillogismo o la causalità che formano i nostri pensieri nel vivere quotidiano: il vero pensare somiglia a un demone che intorbida le fonti della vita, o a una malattia che ne intacca le radici.49

Pensatore della compenetrazione tra realtà oggettiva ed emotività, ovvero tra realtà esteriore ed interiore, Cioran crede fermamente nella corrispondenza tra elementi dei due ambiti che s’influenzano vicendevolmente: La stanchezza è la prima causa organica della conoscenza, poiché crea le condizioni indispensabili a una differenziazione dell’uomo nel mondo.50

48 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, Bucarest 1937, trad. fr di S. Stolojan, Des larmes et des saints, L’herne, Paris 1986; trad.it di D. Grange Fiori, a cura di S. Stolojan, Lacrime e Santi, Adelphi, Milano 1990, p. 45. 49 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 56. 50 Ibid., p. 43.

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La paura della morte è paura del ritorno nel silenzio originario; il desiderio della morte è la volontà di ritornare nella materia primordiale dalla quale la vita è tragicamente emersa: perché solo purificando l’esistenza dai suoi elementi contingenti si può raggiungere una zona essenziale. Il sentimento metafisico dell’esistenza è di natura estatica, e ogni metafisica affonda le sue radici in una forma particolare di estasi…Pervenire alle radici del mondo, conseguire l’ebbrezza suprema, l’esperienza dell’originale e del primordiale significa vivere un sentimento metafisico sorto dall’estasi degli elementi essenziali dell’essere.51

In quest’opera prima ritroviamo forte e ripetuto un grido contro il mondo e il Dio che l’ha creato. La rabbia che lo porta ad affermare di voler vedere bruciare il mondo, gettare nel caos la realtà fino a che nulla di quello che ora c’è rimanga tale è in realtà un desiderio profondissimo ed incontrollabile di una trasfigurazione che nasce dall’angoscia per la tragica condizione umana. Se Zarathustra disperava perché, sceso dal monte per donare, rinnovato Prometeo, il suo sapere agli uomini, ne veniva scacciato e si ritirava rabbioso nella propria solitudine, Cioran che grida contro il mondo lo fa per un motivo ancora più tragico: non è il mancato compimento di una missione pedagogica o la rabbia di un sapiente verso i discepoli indisciplinati e sciocchi, ma il dolore di un fratello che vede la propria stessa essenza sprecata senza motivo in vite poco più che animali, mentre vorrebbe rubare il cielo agli angeli, mentre sogna per tutti una trasfigurazione che già sa essere impossibile. La rabbia di un demiurgo che vede i suoi pazienti incapaci di ricevere le cure. Cioran è, come tutti, carne e sangue; e lo è a tal punto che definisce persino il suo pensiero corporeo e pieno di nervi e sangue, tanto da domandarsi come sia possibile mettere quella distanza fra sé e l’oggetto del pensiero che ha creato tutta la metafisica e le inutili disquisizioni logiche del passato. La sua è una sofferenza fisica, vissuta su se stesso, per non poter indicare la via che porta al Parnaso dei poeti, per non poter sollevare tutta l’umanità che sembra ancorata al misero scoglio di terra su cui pascola tutta la vita. E allora esplode la rabbia (verbale) della delusione, della speranza infranta. È un grido contro Dio, il mondo, se stesso e tutto quello che lo circonda. La sua è una ricerca sempre rivolta all’uomo e al suo essere. Eccolo allora ammettere tutti i limiti pensabili mentre si proclama eroe della 51 Ibid., p. 49.

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vita senza speranza e riconosce l’umanità profondissima dei suoi pensieri più elevati. Ecco l’ammissione del monopolio della sofferenza che ognuno vede come unica e irrimediabile; eccolo denigrare coloro che sostengono che il suicidio sia un’affermazione della vita in quanto scelta razionale e determinata, mentre è solo la conseguenza di uno squilibrio interno, organico. Ecco che la morale si lega inscindibilmente al corpo produttore dei moti che regolano i nostri pensieri. Anche i concetti-limite possono essere compresi soltanto come esperienze, come qualcosa di vissuto; così persino l’eternità può essere colta secondo categorie soggettive: poiché la comprensione dell’uomo è limitata dalla propria finitudine materiale, egli non può comprendere un concetto oggettivo di eterno. L’eternità può essere sentita dal singolo ed il suo livello di comprensione cambierà a seconda dell’intensità con cui questa viene avvertita nel superamento delle connessioni “momento-momento successivo” e così via, per far restare soltanto il vissuto esasperato dell’attimo che proietta l’individuo direttamente nell’eterno: Se si isola ogni attimo nella sua successione, gli si accorda un carattere di assoluto – non oggettivamente ma soggettivamente… Nell’eternità si vive senza rimpiangere né aspettare alcunché.52

Persino il tempo viene portato con violenza a terra, nella vita: il tempo esiste in quanto insieme di istanti che seguono e costituiscono la vita come attività dinamica e progressiva (quindi, determinata dal tempo senza cui perderebbe il carattere fondamentale); l’eternità può essere compresa se interrompiamo questo normale scorrere di momenti e fermiamo l’attimo per contemplarlo nel suo dilatarsi all’infinito, semplicemente isolandolo dalla sua catena sequenziale. Questo distacco, per l’uomo che osserva e vuole cogliere l’eternità, assume la forma di una lotta drammatica con la categoria comune del tempo: una volta raggiunta la contemplazione dell’eterno tutto è trasfigurato ma la serenità non riempie l’animo di chi osserva la nuova verità svelata. Diversamente dalle teorie orientaleggianti, il tutto che vediamo, specchio del nulla, ci è ormai precluso e la sua vista non può che lasciarci sgomenti. È il desiderio di superare l’umano che porta il pensatore rumeno alle sue affermazioni più violente. È la consapevolezza del fallimento necessario a riportarlo tra gli uomini. 52 Ibid., pp. 78-79.

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Il dramma di Cioran è, per assurdo, filantropico: la solitudine esistenziale determinata dalla lucidità, imposta dalla malattia e non certo desiderata, diviene causa del dolore ma fonte (anche se inevitabile) di una nuova visione e, quindi, di una nuova esistenza comunque solitaria. Come potrei rallegrarmi della luce che un altro non può vedere o del suono che non può udire? La pietà e la consolazione non solo non servono a niente, ma sono anche offensive. E poi, come compatire l’altro quando soffriamo infinitamente noi stessi?53

Ecco svelata la falsa filantropia, cui Cioran contrappone la propria visione metafisica: i sentimenti costruiti secondo un’ottica ben precisa (religiosa) sono impietosamente smascherati e ad essi si contrappone di nuovo quel pensiero che odora di carne e di sangue. Questo è il senso ultimo di ciò che potremmo (paradossalmente) indicare come l’umanesimo di Cioran: come una marea, la sua volontà si allunga verso l’umanità per bagnarla di tensione verso l’infinito, ma s’infrange impotente sulla battigia e si ritrae ferita e conscia di non poter cambiare il destino proprio e altrui, prima di rituffarsi con tutta la sua forza addosso alla sua meta che continuerà in eterno a respingerla. La passione di Cioran per l’essere umano, è un sentimento destinato a ripetersi all’infinito ed a non appagarsi mai: un continuo movimento verso l’uomo. Ma il suo è un sentire profondo, vero; un desiderio che scaturisce, come tutto, da quello stato febbrile in cui vive il pensatore di Ra⁄¶inari, e per tanta fatica nell’esistere, nel desiderare, nell’amare, non sono accettabili i minuscoli concetti dell’uomo comune. Ed ecco, allora, il sarcasmo verso gli atteggiamenti più deboli e avvilenti ma anche contro i momenti alti, ma sempre fasulli, dei costumi e della storia, quasi non facesse differenza, dell’umanità: in questo mondo, nessuno è mai morto per la sofferenza altrui. Quanto a colui che ha asserito di morire per noi, non è morto: è stato messo a morte.54

Il lirismo A la poésie s’oppose la poétique comme ce qui l’annihile, ou tout au moins la dévitalise. Au fondement de cette critique, l’idée essentielle, et que l’on retrouve de façon très récurrente dans l’ensemble de l’œuvre de Cioran, que la conscience de soi, ou ce que Cioran appelle la

53 Ibid., p. 75. 54 Ibid., p. 75.

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“conscience de la conscience” dans l’essai sur Valéry, est pour l’homme un malheur, une distance aliénante, paralysante.55 Cosa comporta, dunque, la coscienza della coscienza? E come può venir espressa la conseguenza di una presa di coscienza capitale come quella della consapevolezza di sé, della propria ontologia sbagliata ? Fin dalla prima opera di Cioran questo malheur – cafard – , conseguenza della distanza da sé, dello sguardo lucido sul mondo e su se stessi, viene espressa nella forma espressiva, nei colpi lirici vibrati anche contro i modi del dire classico. Questa rabbia giovanile, questo fervore di nervi e innalzamento della temperatura, assume la forma del dissidio interiore violento che vorrebbe dilaniare fin nelle carni il pensatore rumeno. È lirismo assoluto: Vorrei fondermi nel mondo, vorrei che il mondo si fondesse in me, e che nel nostro delirio generassimo un sogno apocalittico, strano come le visioni della fine e magnifico come i grandi crepuscoli […] Il lirismo assoluto è quello degli istanti ultimi.56

Momento ultimo e quindi anche primo, distruttore e quindi creatore, questo stato estremo non solo dell’animo ma di tutto l’essere, della carne, del sangue, del pensiero è il culmine della disperazione, la meta dell’esperienza dell’agonia e, allo stesso tempo, la totale oggettivazione del sé. È il fondo di se stessi rovesciato e messo di fronte alla verità, lo specchio senza veli in cui cercare la propria individualità al di là del contingente. Di nuovo, nella caduta assoluta senza freni o illusioni avviene anche la scalata alla vetta più alta, nel crollo verso l’abisso c’è già la luce dell’inutile redenzione terrena, redenzione dal falso, dall’illusorio. Perché ogni uomo è una corda tesa sopra l’abisso, ma è proprio l’abisso il punto in cui cercare la vita autentica, il proprio essere, l’oggettivazione assoluta di se stessi senza barriere o veli mistificatori. In questa nuova luce di conoscenza e saggezza ogni giudizio cade. Ogni valore si relativizza, ma non in favore di un sentir comune o di una tacita accettazione di codici. Al contrario, in questo nuovo caos, alleggeriti dal fardello del vecchio mondo morente di logiche, causalità e discorsi teorici, possiamo finalmente divenire artefici di una rinascita cosciente. Possiamo finalmente vedere tutto come continua possibilità che richiede una scelta, una consapevole presa di posizione “gratuita” nel senso

55 P. Moret, Tradition et modernité de l’aphorisme, cit., Genève 1997, p. 223. 56 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 69.

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che già conscia di non ricevere alcun premio né alcuna pena e, quindi, autentica, pura. In questo nuovo caos ci troviamo finalmente uomini privi di pregiudizi, pieni di dubbi ma sulla strada che ci porta agli dei che abbiamo creato per giustificare le nostre paure. Qui non contano solo la sensibilità o l’intelligenza, ma tutto l’essere, il corpo intero, tutta la tua vita, col suo ritmo e le sue pulsioni […] È il coincidere dell’atto con la realtà; giacché l’atto non è più una manifestazione della realtà, ma la realtà stessa.57

Come per Samuel Beckett «tout langage est un écart de langage», così secondo Cioran «ogni parola è una parola di troppo». Per questo il discorso di Cioran non si distende verso l’argomentazione completa e sistematica, ma, al contrario, mira a trovare quell’unica parola invalidante di tutto il discorso per insistere ferocemente su quella. Quando leggiamo Cioran abbiamo l’impressione di capire immediatamente, di trovarci di fronte ad un testo chiaro. Niente di più vero: la semplicità è il modo d’espressione della demistificazione, proprio perché gli inutili voli pindarici della parola sono la mistificazione. Ma la chiarezza di questi testi non va confusa con la volontà divulgatrice del testo scientifico-didattico in cui l’oblio della forma è dettato dalla supposta densità concettuale da esprimere: per Cioran parola e contenuto non si separano e la concisione della prima apre le porte alla negatività del secondo in modo tale che la scarna puntualità di entrambi corrisponda perfettamente. Resta le ton, il tono. Più che stile, un vero e proprio livello di comprensione e comunicazione trascritto attraverso un “timbro” che rimane quasi fosse un marchio di fabbrica. Malgrado la lontananza dal barocco letterario, dalla formula ardita, un aforisma di Cioran rimane inconfondibile proprio per quel suo ton che mantiene il dire sempre al livello dell’espressione ultima, della possibile conclusione di tutto il dire possibile. Ogni frase, ogni petit poême en prose, potrebbe essere conclusivo, esaustivo. Ogni pensiero potrebbe riassumere e concludere l’intera opera nell’inutilità di proseguire, anzi, di cominciare un qualsiasi percorso: «Quello che la lucidità rivela è l’inconsistenza; l’ordine del mondo si vuole stabile, giustificato e moderatamente felice, ma per chi vede, nessuno di questi attributi resta in piedi, essendo sostituiti da un’immonda fragilità che riproduce se stessa, senza fondamento valido e terribilmente sfortunata».58 57 Ibid., p. 69. 58 F. Savater, Ensayo sobre Cioran, Noche oscura, Madrid, 1974, trad. it. di C. Valentinetti, Cioran, un angelo sterminatore, Frassinelli, Milano, 1998, p. 143.

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Contro la filosofia; verso l’uomo. Niente di più facile che sbarazzarsi della filosofia, perché la filosofia ha radici che si arrestano alle nostre incertezze, mentre le radici della santità oltrepassano in profondità la sofferenza stessa. Il coraggio supremo della filosofia è lo scetticismo. Al di là di esso la filosofia non riconosce che il caos. Un filosofo sfugge alla mediocrità solo grazie allo scetticismo o alla mistica – le due forme della disperazione di fronte alla conoscenza.59

Cioran, nella sua lucida analisi della follia che sta alla base della conoscenza autentica, ritrova quel circolo vizioso che da sempre attanaglia l’uomo: animale nel corpo, pieno di bisogni e sofferenze, ma divinità nella mente, capace di sentirsi immortale, di trasfigurarsi nel sentimento dell’eternità, di pensare a tutto ciò che non dovrebbe fare costituzionalmente parte del mondo degli uomini. In questo esistere mutilato, o sovraccaricato ma mai pago e quieto, l’uomo si muove tra la superficialità della vita comune e la disperazione della ricerca profonda possibile solo tramite uno sconvolgimento dei sensi: la presenza dello spirito indica sempre una carenza di vita, molta solitudine e una sofferenza prolungata. Com’è possibile parlare di salvezza attraverso lo spirito?60

Ma allora, qual’è, se ce n’è una, la salvezza? Cancellato Dio, la metafisica, la morale, il valore dell’esistenza, che cosa ci rimane? Per la prima volta, e già nella sua prima opera, Cioran accenna alla “doppiezza” del suo pensiero che accompagnerà costantemente il lavoro di negazione e svelamento del falso reale: dopo aver fatto della morte un’affermazione della vita, trasformato il suo baratro in una finzione salutare, esaurito i nostri argomenti contro l’evidenza, il marasma ci aspetta in agguato: è la rivincita della nostra bile, della nostra natura, di quel demone del buon senso che, un tempo sopito, si desta per denunciare l’insulsaggine e il ridicolo della nostra volontà di accecamento. Un intero passato di visione spietata, di complicità con la nostra perdizione, di consuetudine con il veleno delle verità, e tanti anni passati a stare a guardare le nostre spoglie da cui trarre il principio del nostro sapere! Tuttavia, dobbiamo imparare a pensare contro i nostri dubbi e contro le nostre certezze, contro le nostre ubbie onniscienti, dobbiamo soprattutto, forgiando in noi un’altra morte, una morte incompatibile con le nostre carogne, acconsentire all’indimostrabile, all’idea che qualcosa esista… Il nulla era senz’altro più confortevole. Com’è difficile dissolversi nell’Essere!61 59 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 33. 60 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 24. 61 E. M. Cioran, La tentazione di esistere, cit., p. 215.

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L’“apertura” di Cioran alla realtà è fondamentale. Una volta riconosciuta la menzogna alla base della vita, una volta stabilito che l’esistere è di per sé una malattia, che tutto il quadro in cui l’uomo ha vissuto fin’ora si regge su costrutti falsi, su giochi logici e su speranze mai dimostrate, il baratro che ci si apre di fronte è devastante: dal punto di vista “filosofico”, teoretico se vogliamo, non ci rimane che il nulla, ma un “nulla” che non siamo ancora in grado di concepire e, quindi, un vuoto spaventoso da cui non esiste via d’uscita e di fronte al quale diventiamo impotenti. Ma noi, volenti o nolenti, siamo fatti di carne e sangue e la carne vuole vivere, il sangue vuole pulsare. Cioran concorda con Dostoevskij: «dove mai ho letto che un condannato a morte, un’ora prima della morte, dice o pensa che, se gli fosse toccato vivere in qualche posto in alto, su uno scoglio, e su uno spiazzo così ristretto da poterci posare solo i due piedi e tutt’intorno ci fossero stati abissi, l’oceano, un’eterna tenebra, un’eterna solitudine e un’eterna tempesta, e rimaner così, in piedi su un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d’anni, un’eternità anche allora sarebbe stato meglio vivere così che morir subito? Pur di vivere, vivere e vivere! Vivere in qualsiasi modo, ma vivere!…Quale verità! O Signore, quale verità! Vigliacco è l’uomo! E vigliacco è colui che per questo lo chiama vigliacco».62 Un’indulgenza nei confronti della vita “reale” e contingente? Forse, o forse un’ulteriore, difficile, presa di coscienza: posto che siamo qui ed ora, malgrado tutto ciò che siamo in grado di pensare o anche solamente “cogliere”, noi restiamo vivi qui ed ora, in un mondo fatto di oggetti e di enti reali. Se filosoficamente non ci rimane che ammettere il nulla che non solo ci circonda ma ci costituisce, per tutto il resto, nel nostro quotidiano, al di là delle nostre elucubrazioni restiamo corpo. Non possiamo fingere di non considerare tutto questo. In Pe culmile dispera⁄rii, addirittura, viene accennata un’altra forma di “salvezza”, da considerare solo nel campo del reale e del contingente, ma pur sempre da considerare: l’amore, che si realizza attraverso il particolare,63

diviene idea universale solo attraverso il sentimento vivo ed unico, indirizzato verso un soggetto presente e reale, quindi contingente e singolare. 62 F. M. Dostoevskij, Prestuplenie i nakazanie, trad. it. di S. Poledro, Delitto e Castigo, Rizzoli, Milano 1951, pp. 170-171. 63 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 97.

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I. LA ROMANIA

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Di nuovo l’esperienza singola vissuta al suo culmine diviene universale: amo un essere; ma poiché questi è il simbolo del tutto, in modo inconsapevole e ingenuo partecipo ontologicamente all’essenza del tutto.64

In modo inconsapevole ed ingenuo (Cioran non perde mai di vista le distanze), ma pur sempre in un modo, partecipo attraverso l’amore all’essenza del tutto. Dell’argomento rimane solo un accenno, una possibilità e forse una delle rarissime speranze, non un tema sviluppato e ripreso (come avviene invece, ad esempio, per la musica) in tutta la sua opera successiva. Tuttavia, vale la pena prenderlo in considerazione per comprendere in maniera ancora più decisa “l’umanesimo” di Cioran, mosso da un profondo desiderio di comunanza con ciò che, egli sa, l’uomo potrebbe essere, ma pieno di altrettanta indulgenza per ciò che, invece, l’uomo realmente è. Nelle pagine del rumeno non troveremo la furia di Nietzsche o lo la rassegnazione di Heidegger nel guardare i propri simili. Cioran è più “umano”, più tagliente, ironico. Colpisce di fioretto col sarcasmo, sapendo che un colpo di punta ben assestato ottiene lo stesso effetto del fendente di un’enorme sciabola. Uno Zarathustra veramente traboccante di sapere, di un sapere che comprende anche la natura umana, ed il suo modo d’agire nella vita quotidiana. Un sapere che lo porta a non potersi stupire delle brutture che combatte a colpi di lacrime e risate amare, e che quindi lo obbliga ad una certa forma di indulgenza verso chi non ha mai sentito ribollire il sangue, non ha mai scorto l’abisso, ma si limita a svolgere, inconsapevole, il suo compito primigenio: perpetuare l’errore della vita. La parola Ecco allora che le parole fiammeggianti si spengono nel compatimento del proprio essere diverso, o nell’ironia tagliente dei suoi aforismi e dei suoi “quadretti filosofici”: Vada alla malora la storia! Niente più dovrebbe interessarmi; lo stesso problema della morte dovrebbe sembrarmi ridicolo; la sofferenza, limitata e incapace di rivelare alcunché; l’entusiasmo, impuro; la vita, razionale; la dialettica della vita, logica e non demoniaca; la disperazione, trascu-

64 Ibid., p. 97.

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rabile e parziale; l’eternità, non più che una parola; l’esperienza del nulla, un’illusione; la fatalità, uno scherzo…A pensarci seriamente, che senso ha tutto questo? Perché porsi dei problemi, cercare di far luce o accettare delle ombre? Non farei meglio a seppellire le mie lacrime nella sabbia in riva al mare, nella più completa solitudine? Ma io non ho mai pianto, perché le lacrime sono diventate pensieri, amari come le lacrime.65

Ma perché dare sfogo a questi pensieri, perché non tacere di fronte all’abisso che induce solo al silenzio, in cui si avverte la verità che non possiamo esprimere? Perché parlare? Ancora di più, perché scrivere, soprattutto dopo aver ammesso la mancanza di ogni intento pedagogico e di ogni volontà di fama: J’ai tout fait pour susciter des malentendus, des jugements ingénieux et séduisants mais infondés. L’es autres portent d’habitude un masque pour s’angrandir; moi, pour me diminuer.66

Cosa rimane una volta smantellata la realtà, la filosofia, la fede? Rimangono le lacrime, dirà qualche anno più tardi Al giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime,67

ma rimangono anche le parole. Perché? Sembra un controsenso: non ci possono essere più parole se abbiamo accettato che nulla di ciò che è reale è vero, che niente ha valore e che non possiamo credere in nulla. E, ancora di più, le parole, in quanto tali, sono creatrici e quindi demoniache: creando un verbo, forgiando un concetto attraverso la parola, io manifesto la mia natura corrotta tutta tesa a creare qualche cosa (in questo, pienamente figlio di Dio), primo passo verso il male della determinazione. Ancora una volta, Cioran ci mostra la sua doppiezza, le differenti prospettive considerate: se la verità va cercata, da un lato, senza esitazioni e mistificazioni, distruggendo tutto ciò che ci allontana da essa; dall’altro, nella vita reale, non possiamo non tollerare ciò che rimane il prodotto della natura, l’uomo innocente nella sua debolezza e incapacità. Rimangono, quindi, le parole perché sono consolazione al dolore: Tout ce qui est formulé devient plus tolérable. L’expression! Voilà le remède à quoi rime finalement d’aller se confesser à un prête ? cela nous

65 Ibid., p. 48. 66 E. M. Cioran, Lettre à Gabriel Liiceanu, 28 juin 1983 in G. Liiceanu, Itineraires d’une vie, cit., p. 7. 67 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 15.

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libère. Tout ce qui est formulé perd en intensité. C’est cela la thérapeutique, le sens de la thérapeutique par l’écriture. Si je n’avais pas écrit, les états dépressifs que j’ai connus m’auraient sans aucun doute mené à la folie ou auraient fait de moi un raté complet.68

La solitudine esistenziale, senza rimedio, imposta dal silenzio assoluto ci è insopportabile; l’isolamento che avvertiamo quando ci priviamo della comunicazione è soffocante, claustrofobico come il percorso della trilogia di Samuel Beckett. Allora parliamo «quando l’inconveniente di essere nati risulta talmente insopportabile che non si può più rinunciare a mettere in opera l’unica possibile vendetta che ci è data, quella della parola. Per vomitare finalmente i propri segreti».69 Il dramma è assoluto. Eppure, leggendo Cioran si ha l’impressione che ogni schiaffo dato alle nostre certezze sia curato da una carezza concessa alla nostra anima, alla nostra parte più intima: la speranza che non riconosciamo più filosoficamente ci è data materialmente dalla vicinanza coi nostri simili, dalla possibilità di parlare, di raccontare, pur riconoscendo l’assoluta inutilità di quello che stiamo facendo. Tutto questo, che può sembrare una giustificazione allo sbocco nullificatore della filosofia di Cioran, è in realtà, a mio avviso, indice della grandezza dell’uomo Cioran, in grado di demolire la filosofia delle accademie, ma anche di accettare le difficoltà reali della vita di ogni uomo e, soprattutto, l’impossibilità della coerenza tra pensiero e vita: ogni scrittore, filosofo, poeta che si sia spinto nella ricerca metafisica ha vissuto diversamente da come affermava si dovesse vivere durante le lezioni all’università o tra le righe delle sue opere. Ma Cioran lo ha ammesso, anzi, ne ha fatto un’ulteriore motivo d’indagine, senza preoccuparsi di distruggere l’ennesimo feticcio sbandierato con fin troppa leggerezza soprattutto dalla filosofia engagée dei francesissimi anni sessanta: la coerenza è concepibile in un ben preciso e delimitato campo d’azione. Diviene una delle tante mistificazioni, quando vogliamo che sia coerente un comportamento concreto in relazione ad un concetto limite, che possiamo avvertire e pensare, ma mai dominare e controllare. Così per la vita stessa del genio transilvano: avrebbe potuto, anzi, per coerenza, dovuto ridursi fin da subito al silenzio e continuare a 68 Continua: «à quoi rime finalement d’aller se confesser à un prête ? cela nous libère. Tout ce qui est formulé perd en intensité. C’est cela la thérapeutique, le sens de la thérapeutique par l’écriture. Si je n’avais pas écrit, les états dépressifs que j’ai connus m’auraient sans aucun doute mené à la folie ou auraient fait de moi un raté complet». E. M. Cioran, in G. Liiceanu, Itinereais d’une vie, cit., p. 85. 69 F. Marcoaldi, Voci rubate, cit., p. 94.

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pedalare attraverso la Francia per stremarsi e sconfiggere l’insonnia. Avrebbe dovuto fare del fallimento reale il motivo della propria esistenza senza accettare un qualsiasi ruolo (in quanto tale, attivo) nel suo tempo. Ma Emil Cioran era un uomo, consapevole della propria condizione al punto di divenire incoerente col proprio pensiero poiché quest’ultimo non poteva adattarsi alla volontà del corpo, alla natura, alla realtà. E, piuttosto che mentire, meglio tradire con le parole l’unica verità riposta nel silenzio, ammettendo le proprie mancanze. Noi non possiamo che continuare a leggerlo e (se vogliamo) cercare di raccontarlo, concordando con Bollon che «Detout, il cherchait à extraire non point la morale, mais un enseignement allant dans le sens de ce qui constituait pour lui le but supreme, ultime, de la pensée: savoir vivre, apprendre à exister».70 2. 1936/1940. Gli anni della crisi Il periodo che va dalla metà circa degli anni trenta e i primi del decennio successivo è fondamentale per l’opera di Cioran: dopo la pubblicazione di Pe culmile dispera⁄rii ed il soggiorno tedesco (con tutte le sue conseguenze filosofiche sulle opere seguenti), lo studioso rumeno torna a casa ed ottiene, dopo il servizio militare, un posto come professore nel liceo di Brasov (esperienza che ricorderà come terrificante, malgrado gli studenti della scuola ritenessero un onore poter essere allievi dell’inquieto e già famoso pensatore transilvano). In questi anni (1936-1937) scrive Cartea ama⁄girilor, Schîmbarea la fata a României e Lacrimi si Sfinti. A questi testi vanno affiancati una grande quantità di articoli per riviste e giornali. Dedicherò l’ultima parte di questo capitolo al complesso ragionamento sul periodo politico di Cioran, sui suoi articoli e su Schîmbarea, unica opera sistematica di tutta la sua produzione e a se stante per i temi in trattati. Le livre des leurres Con Cartea ama⁄girilor (Il libro delle illusioni) troviamo un Cioran dai toni più dimessi, la cui partecipazione a ciò che scrive viene mitigata da una riflessione più profonda. Quasi che con lo sfogo terapeutico del primo libro si fosse svuotato momentaneamente dei toni terribili di Sulle cime della disperazione, in Le

70 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, Gallimard, Paris 1997, p. 23.

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livre des leurres (questa la traduzione francese di Grazyna Klewek e Thomas Bazin) ritroviamo i temi, accennati qualche anno addietro, con la stessa carica filosofica ma una minore tensione emotiva. La rabbia sembra diventare tristezza, la disperazione malinconia. Si parla fin dalle primissime pagine di musica e amore, le uniche due fonti di salvezza nella vita dell’uomo: Ce ne que dans la musique et dans l’amour qu’on éprouve une joie à mourir, ce spasme de volupté à sentir qu’on meurt de ne plus pouvoir supporter nos vibration intérieures. […] Il n’y a de sensations uniques que dans la musique et dans l’amour; de tout son être, on se rend compte qu’elles ne pourront plus revenir et l’on déplore de tout son cœur la vie quotidienne à laquelle on retournera.71

Ma le leurres, che ci derivano dalla sensazione di perdita di determinazione (e quindi ritorno alla primigenia forma di caos in cui tutto, non esistendo, non cade nel dramma della nascita come determinazione) che solo la musica o l’adorazione della persona amata possono donare, rimangono un momento, un sollievo dallo sguardo lucido, dopo il quale non restano che du plus grand regret… regret de ne pas avoir réalisé la vie pure en soi, d’être infesté de conscience, d’esprit, d’idées et de valeurs; d’avoir été tourmenté de regrets, de déspoirs, d’obsession et de supplices; de s’être senti mourir a chaque pas, à chaque ritme et à chaque istant de la vie; d’avoir été torturé a tout moment par la peur du néant, la pensée de l’inanité et la crainte d’exister.72

La condizione esistenziale non è mutata: rimaniamo dei “caduti” nel tempo e nella determinazione, nostra gabbia d’infelicità. Anche l’amore, di cui già abbiamo letto ne Pe culmile dispera⁄rii, rimane un inganno della mente, un accenno a qualcosa di cui possiamo occuparci soltanto consci del suo valore di illusione, leurre, per l’appunto. Rimane centrale il discorso sulla sofferenza come passaggio esistenziale, esperienza fondamentale nella vita dell’uomo: la souffrance n’est-elle pas en définitive le fait de la bête? Les souffrances sont inadmissibles et pourtant, elles rèlevent plus de la vie que les joies,73

e ritorna la spinta autobiografica:

71 E. M. Cioran, Le livre des leurres, cit., p. 16. 72 Ibid., pp. 10-11. 73 Ibid., p. 21.

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pourquoi faut-il qu’on continue de souffrir après moi? Peut-il y avoir encore des angoisses et des douleurs après les miennes? Certains hommes sont nés pour supporter les douleurs de ceux qui ne souffrent pas.74

Ancora, ritroviamo un’analisi del mondo attraverso i propri occhi; grazie alla propria esperienza dell’insonnia e, quindi, alla propria visione dell’abisso. In Cioran, come ho già più volte ripetuto, tutto proviene dall’esperienza perché tutto è ad essa riconducibile: ciò che vogliamo distaccato da noi stessi, dalle nostre percezioni, dal nostro essere è un costrutto, una teoria, una filosofia nell’accezione negativa che viene sempre rimarcata dal pensatore rumeno. Sono solo le parole vuote dei teologi a riempire la filosofia teoretica, castelli in aria che si basano sulla logica; le parole dei Santi, invece, sono pervase di realtà, e, attraverso il riconoscimento di essa ed il suo superamento, toccano il caos dell’abisso da cui siamo stati gettati a popolare il mondo: il mondo si genera nel delirio – fuori di esso tutto è chimera… Come non sentirsi vicini a santa Teresa che, essendole apparso Gesù, uscì di corsa e si mise a ballare in mezzo al convento, in un trasporto frenetico, battendo il tamburo per chiamare le sorelle a condividere la sua gioia?75

Ma la centralità dell’esperienza riconduce il mondo all’uomo: siamo noi, noi esseri umani, a meritare l’attenzione e il fulcro del discorrere filosofico. Non Dio, non la natura. Perché in noi esseri umani è Dio ed è la natura. L’uomo torna il centro del pensiero, in positivo ed in negativo l’ago della bilancia della filosofia. Possiamo parlare di Dio solo ascoltando un uomo che prega, possiamo discutere la natura soltanto osservandola con i nostri occhi, ovvero gli occhi degli uomini. Data una presa di posizione radicale fin dal principio – ogni sensazione, ma anche un qualsivoglia metodo per una filosofia, deve derivare dall’esperienza, perché essa è la nostra forma di contatto con ogni cosa, col reale e l’immaginato – ogni passaggio logico successivo non può allontanarsi dall’unica certezza che abbiamo: possiamo conoscere solamente attraverso l’esperienza. Tutto il resto è menzogna e mistificazione. Anche ciò che riteniamo inesperibile va trattato attraverso il parametro dell’esperienza: è l’aver provato fisicamente l’agonia dell’insonnia a permetterci la visione dell’abisso da cui veniamo, sono le lacrime a parlarci di Dio. Niente esula dalla nostra esperienza, dal nostro corpo. 74 Ibid., p. 21. 75 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 13.

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Cioran, in realtà, non fa nulla di clamoroso asserendo l’obbligata centralità dell’esperienza, nega solamente i salti mortali di chi ha preteso che si potesse dire qualcosa che non riguardasse l’uomo in ogni sua forma, presente, passata, ma anche futura, (sotto forma di ipotesi sul “domani” metafisico dell’uomo) attraverso il pensiero e il corpo dell’uomo. Tutto è in noi per il semplice fatto che pensando ad un qualcosa noi lo interiorizziamo e lo “lavoriamo” attraverso noi stessi, con la nostra logica e le nostre forme d’espressione. Tutto il mondo è in me, per il solo fatto che io lo vedo solo ed esclusivamente attraverso i miei occhi, lo sento attraverso le mie orecchie, lo penso attraverso il mio spirito. Nulla può stare all’infuori di me e, alla mia morte, esso sparirà con me, perché nessuno lo guarderà più con i miei occhi e lo penserà con la mia mente. Il resto, concorderebbe Cioran, è solo chiacchiera. Ma ritornando al centro del discorso, l’uomo perde il privilegio, donatogli dalle religioni, di non essere mai protagonista della propria esistenza, e di poter, quindi, scaricare la colpa delle sofferenze umane su qualcos’altro: deve tornare a porsi questioni etiche, è obbligato a riconoscere la propria “responsabilità” in ogni frangente dell’esistenza contingente, senza potersi appellare a nulla. Come se vivesse in un eterno paradosso del soldato sartriano, l’uomo di Cioran è costretto nella responsabilità della propria esistenza da un lato e nella consapevolezza della propria impossibilità ontologica dall’altro: responsabile di sé nella contingenza, distante da sé nella ricerca oltre il reale momentaneo, conscio della propria indeterminazione nel mondo dell’assoluto cui naturalmente tende ma obbligato nella sua (involontaria) determinazione come esistente ad essere pure responsabile della propria vita. Scorto il “tragico” del vivere, il paradosso dell’esistenza mutilata dell’uomo, non resterebbe che appellarsi a Dio. Ma per Cioran non c’è nessun Dio buono o cattivo, o almeno non quello di cui parlano le religioni codificate, e il male dell’uomo è tutto umano. Esistiamo come errori, come degradazioni nella fisicità del caos che era prima di noi. Il nostro divenire individui, determinarci come esistenti, ha soffocato l’infinita possibilità che stava prima di noi e che non possiamo smettere di rimpiangere. Determinandoci, ci siamo scoperti come individui, e quindi doppiamente condannati: a vivere mutilati dell’assoluto cui sentiamo di appartenere, e allo stesso tempo ad essere pienamente responsabili e giudicabili, malgrado l’innocenza ontologica, per la nostra condotta (imposta) nel vivere quotidiano.

FABIO RODDA

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A noi mortali non rimangono che le lacrime, sembra dirci il genio romeno: J’aurais voulu que la vie circulât en moi avec une plénitude insoutenable, qu’elle y messine ses mouvements anonymes d’avant l’individuation, désir exclusif de la vie d’être partout, et d’être parallèle à la mort,76

perché non possiamo più tornare alla casa del Padre, l’abisso da cui siamo caduti divenendo qualcuno, prendendo un corpo e, quindi, un’individuazione. Non dobbiamo confondere questo passaggio con la volontà di mortificare il corpo, ad esempio, dei mistici medievali – malgrado Cioran stesso vi faccia riferimento: Il n’y a pas de moyen plus efficace de supporter la doileur que la mortification et l’autorture77 –

perché qui la colpa non è del corpo, gabbia dell’anima, ma del destino, della nostra natura, che ci ha voluto dare una nascita. Il dramma dell’uomo non sta, quindi, solamente nella sua “fisicità”, ma nel fatto stesso di esistere ed essere quindi determinato, mentre con tutta la nostra anima, se così vogliamo chiamare la nostra tensione all’infinito, la nostra volontà, desideriamo l’indeterminato, la possibilità: Quelle joie d’avoir vaincu un istant la tristesse, de se sentir vide jusqu’à l’immatérialité!78

Ma non possiamo più ambire a tutto questo. Siamo destinati a passare la nostra esistenza nel regno della determinazione, del reale, ma, purtroppo, manteniamo un sentore delle nostre origini, cui dobbiamo attribuire un nome, una sostanza, e, in questo modo, inventiamo Dio. Tuttavia, nella sua parabola esistenziale, l’uomo ha la possibilità di cambiare atteggiamento, di spostare l’obbiettivo del proprio domandare tendendo all’infinito sentito attraverso l’esperienza della malattia – degenerazione di un sistema creato per un preciso scopo – e della sofferenza: Seule la souffrance change l’homme. Aucune autre expérience, aucun autre phénomène, ne parvient à changer essentiellement son tempérament

76 E. M. Cioran, Le livre des leurres, cit., p. 16. 77 Ibid., p. 17. 78 Ibid., p. 23.

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ou à creuser certaines de ses dispositions au point de la transformer de fond en comble.79

La sofferenza diviene ago della bilancia di tutta la vita. Non solo essa è il primo momento della, chiamiamola così per comodità di spiegazione, acquisita autocoscienza ed assume, quindi, un ruolo attivo nell’esistenza di una persona; ma diventa anche il primo parametro per capire la nostra condizione esistenziale, il primo momento da cui desumere un’ontologia dell’uomo: «Anima. Io non ho ancora appreso nulla; cominciando a vivere in questo punto: e da ciò dee provenire ch’io non t’intendo. Ma dimmi, eccellenza e infelicità straordinaria sono sostanzialmente una cosa stessa? O quando sieno due cose, non le potresti tu scompaginare l’una dall’altra? Natura. Nelle anime degli uomini, e proporzionalmente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle anime importa maggior intensione della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento dell’infelicità propria; che è come se io dicessi maggiore infelicità».80 Si la lutte contre ses propes afflictions est si difficile, c’est parce qu’il esiste en nous un fond de tristesse, indépenant des causes extérieures. De celles-là, on peut triompher; mais impossibile de vaincre le substrat caché, source d’afflictions infinies. Dans ce fond de tristesse, je ne vois rien d’autre que la tristesse d’être (corsivo dell’autore), la véritable tristesse métaphysique. Dans notre for intérieur, il y a l’inquiétude de la distance qui nous sépare du mond; bien plus profonde cependant est la tristesse d’être, car elle jaillit de notre existence comme telle, de la nature intrinsèque de l’être, tandis que l’inquiétude de notre distance au mond, résulte seulement d’un rapport, d’une relation.81

In questo passo, come nella precedente citazione del Poeta di Recanati, è racchiusa la storia dell’uomo, del suo distacco dal mondo in quanto non sequenziale alla natura, ma cosciente e presente a se stesso e della sua nascita, del vero peccato originale: essere nati e, quindi, essersi determinati. Quand on vit de manière extrêmement intense, les contenus de l’être débordent les limites de l’existence individuelle; on a alors l’impression que palpitent en nous des forces inconnues, obscures et lointaines, et que

79 Ibid., p. 28. 80 G. Leopardi, Dialogo della natura e di un’anima in G. Leopardi, Operette morali, Rizzoli, Milano 1998. 81 E. M. Cioran, Le livre des leurres, cit., p. 30.

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se consomme un destin dont on n’est plus responsable. La valeur nulle de la décision rationnelle apparaît alors dans toute sa douloureuse évidence. […] c’est pur cela qu’elle [notre insuffisance individuelle] nous donne l’impression d’un infini intérieur, tout en nous laissent conscients que l’individualité est fatalement bornée.82

La nostra individualità è la causa del nostro dolore metafisico e pragmatico: nel primo caso è il sentore della nostra caduta da un regno totalmente altro (la nostra originaria “casa”) nella determinazione contingente a costringerci al rimpianto per il paradiso perduto; nel secondo, il mio essere determinato come individuo è la causa principale della solitudine, dell’incapacità di relazionarsi serenamente con l’altro da noi, quindi, della tristezza quotidiana. Le prime quaranta pagine di Cartea ama⁄girilor contengono una prima trattazione “filosofica” del tema fondamentale della metafisica di Cioran: la caduta nel determinato. Già è notevole la distanza dalla tensione emotiva di Pe culmile dispera⁄rii, dalle parole incendiarie del primo libro. Qui assistiamo ad un vero e proprio tentativo di descrizione della condizione umana e ad una serie di ipotesi metafisiche formulate lontano dalla tensione parossistica cui ci aveva abituato l’autore di un libro devastante come Sulle cime della disperazione. È interessante vedere come questo primo distacco dai modi del dire disperati delle prime pagine scritte a poco più di vent’anni, nasca nello stesso periodo in cui Cioran scrive le sue parole più tragiche in Schîmbarea e sulle pagine di Vremea, nei tumultuosi anni trenta. Filosofia e politica, per quel momento in cui si sono toccate, hanno avuto per Cioran interesse e valore differenti (e tali saranno le forme d’espressione correlate), tanto che una sarà la matrice di una vita intera, l’altra il peccato capitale subito fuggito e rimpianto per tutti i giorni a venire. Lacrime e santi Quando sono stato a Brasov, ho attraversato una grande crisi e ho letto a lungo i mistici. E mi sono reso conto che in me esiste un’impossibilità di credere. Sono stato tentato dalla religione e ho letto a fondo tutti i grandi mistici, sia per il loro contenuto, sia come scrittori; ma mi sono accorto che era un’illusione da parte mia, che non ero fatto per credere. È una fatalità che io non possa salvarmi malgré moi. Quando ho pubblicato Lacrime e Santi, mia madre mi ha scritto una lettera in cui mi diceva – non ti rendi conto con quanta tristezza abbia letto il tuo libro, devi pensare a tuo padre, non va pubblicato – Le ho risposto che quello era il solo libro religioso apparso in Romania.83 82 Ibid., p. 32. 83 AA.VV., Luoghi ritrovati, cit., p. 54.

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Così raccontava Cioran del suo “libro blasfemo”. Figlio di un pope ortodosso, affascinato fin giovanissimo dalla morte, travolto da uno stato esistenziale tormentato dal dubbio e dall’impossibilità di accettare il reale come l’unico dato possibile in nostro possesso, Cioran, a Brasov, dove già conosciuto ed ammirato insegnava in un liceo, si lascia travolgere dalla tensione verso l’infinito e riprende il pensiero religioso originario, quello dei Santi, dei mistici, dell’esaltazione e della disperazione che la fede, o la sua mancanza, possono dare: La mistica è un’evasione dalla conoscenza, lo scetticismo una conoscenza priva di speranza. Due modi per dire che il mondo non è una soluzione.84 La filosofia è senza risposta. Al suo contrario la santità è una scienza esatta (…) ha per metodo il dolore, e il suo fine è Dio.85

Ecco, potremmo dire, da dove nasce Lacrime e Santi. Ecco quale bisogno spinge il suo autore: la ricerca dell’irraggiungibile cui mira, invano, la filosofia, e a cui dà risposte certe solamente la fede. Non si tratta, sia chiaro, di una “svolta religiosa”, tutt’altro: la mistica, e non la religione nella sua canonizzazione, nella sua “scolastica” è parametro per confrontare il fallimento della filosofia, pur rimanendo una risoluzione non vera al problema del mondo. Con la mistica Cioran abbandona il metodo dell’indagine lucida per abbracciare momentaneamente quella febbre che l’insonnia può insinuare in una mente geniale, ed ecco l’esplosione del senso dell’infinito, del bisogno, inappagabile di Dio. Grazie a questo “tuffo” nello studio della fede, Cioran trova un nuovo parametro per spiegare ancora quello che è l’unico obbiettivo sempre sotto tiro nella sua ricerca: l’uomo ed il suo “perché esistenziale”, la sua ontologia: l’uomo, essere profondamente demoniaco, è stato creato col suo mondo per DISTRARRE il suo creatore, che adesso guarda divertito lo spettacolo di varietà che ha creato su questa terra,86 […] Dio s’insedia nei vuoti dell’anima.87

Cioran non nega mai la possibilità dell’esistenza di Dio. Tutt’altro. Dio esiste, o almeno ciò che noi uomini mascheriamo col nome di Dio: 84 85 86 87

E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 33. Ibid., p. 32. Ibid., p. 36. Ibid., p. 37.

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la non-coscienza, la perfezione da cui è assente il dubbio; di nuovo, la non determinazione che ci precede e cui ambiremmo se fossimo abbastanza sofferenti da non accettare la vita per come ci viene, casualmente e dolorosamente, offerta. Un punto insostanziale al quale bisogna pur dare un nome, attribuire un’esistenza fittizia.88 Perdonerò mai alla terra di avermi contato fra i suoi solo a titolo d’intruso?»89

si domanda nuovamente tormentato. I toni tornano vicini a quelli di Pe culmile dispera⁄rii, di nuovo il dolore rivive nella sua pienezza, non mediato dalla trattazione e dall’elaborazione che troviamo ne Le livre des leurres e di nuovo l’esperienza privata viene portata a matrice del pensare: ancora la biografia di Cioran s’insinua nelle pagine di questo libro per narrare tutto quello che dal suo dolore discende inondando il suo pensare. Il dovere di un uomo solo è di essere ancora più solo. […] “La sofferenza è la causa unica e sola della coscienza” (Dostoevskij). Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che lo hanno capito, e gli altri. […]Né abbastanza infelice per essere poeta, né abbastanza indifferente per essere filosofo, io sono soltanto lucido, abbastanza però per essere condannato. Come capisco Michelangelo quando dice: “Io vivo di ciò di cui muoiono gli altri”! Non c’è altro da aggiungere sulla solitudine…90

Non ci viene dato scampo: la mistica, la fede, l’idea di Dio, ci avvicinano solamente alle leurres che attenuano la sofferenza del vivere. Ma nulla di “positivo” è ricavabile da ciò che si basa sull’assenza di conoscenza, sull’abbandono delle proprie facoltà mentali. E così la fede non ci è di conforto, semmai, se facciamo parte della categoria di chi ha capito la frase di Dostoevskij, essa rimane una delle speranze cui sappiamo di non poter ambire, perché troppo legati alla chimera della verità al di là di ogni scappatoia, quale sembra essere la religione. Se per Marx la religione è l’oppio dei popoli, per Cioran è la menzogna dell’umano, la scusante di un mondo che non ha scuse, il tentativo affannato di giustificare un’ontologia senza giustificazione:

88 Intervista con Sylvie Jaudeau, 1988, in E. M. Cioran, Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 251. 89 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 92. 90 Ibid., p. 66, p. 78, p. 81.

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I mortali parlano di Dio per mascherare la propria follia. Fino a che vi occuperete di Lui, avrete delle scuse per i vostri smarrimenti. Dio? Una demenza accettata, ufficiale. […] Ogni versione di Dio è autobiografica. Non solo nasce da noi, ma è anche una nostra interpretazione personale. Si tratta di una doppia visione introspettiva, che ci rivela la vita dell’anima come io individuale e come Dio. Noi ci riflettiamo in lui ed Egli si riflette in noi. […]Si comincia a credere per orgoglio – il che è pur sempre “onorevole”, benché poco attraente. Se non ci si appassiona per Lui, ci si occuperà necessariamente degli uomini. Si potrebbe cadere più in basso?91

Dio, quindi, è soltanto una delle “scuse” che l’uomo adduce alla propria miseria, che impianta nella propria inquietudine per giustificare la propria esistenza. Soprattutto, per non morire di solitudine. Ritroviamo, come nei primi due testi analizzati, una sorta di dualismo: se da un lato assistiamo alla sistematica (unica traccia di “sistema” in tutto il suo pensiero) distruzione delle nozioni comuni riguardo la filosofia e, in questo specifico caso, la religione, dall’altro troviamo una sempre presente capacità d’intendere i fenomeni studiati e filosoficamente annichiliti nella loro portata “pratica”. Ecco allora che la funzione consolatrice della religione viene riconosciuta anche se criticata e alla mistica si riconosce un valore per la sua assenza di conoscenza rasserenatrice. E allora può domandarsi: Signore, sei tu nient’altro che un errore del cuore, come il mondo è un errore della mente?,92

ed affermare, nelle stesse pagine, che: La religione è un sorriso che plana sopra un non-senso generale, un profumo residuo sopra un’onda di nulla. È per questo che, quando è a corto di argomenti, la religione ripiega sulle lacrime. Esse sole possono, a questo punto, assicurare, sia pure di poco, l’equilibrio dell’universo e l’esistenza di Dio. Una volta esaurite le lacrime, anche il desiderio di Dio scomparirà.93

Non vi è contraddizione in un atteggiamento che, secondo il parametro già incontrato della lucidità, riconosce il vero mascherato, ne distrugge la maschera, riabilitando però ciò che ne rimane nel regno del reale, in cui l’uomo è costretto. Tuttavia questa riabilitazione non arriva mai alla giustificazione: riconoscere la realtà di un evento non significa accettarlo, e, se così non

91 Ibid., p. 47, p. 60, p. 88. 92 Ibid., p. 20. 93 Ibid., pp. 52-53.

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fosse, Cioran avrebbe dovuto, in fine, abbracciare una religione; ma questo non avvenne mai. Il deserto interiore non è sempre destinato alla sterilità. La lucidità, grazie al vuoto che lascia intravedere, si trasforma in conoscenza: essa, allora, è mistica senza assoluto. La lucidità estrema è il grado ultimo della coscienza; ti dà la sensazione di avere esaurito l’universo, di essergli sopravissuto. Chi non ha provato questa tappa ignora una varietà insigne della delusione, quindi della conoscenza. Gli entusiasti cominciano a diventare interessanti quando si confrontano con il fallimento, e quando la disillusione li rende umani. Colui a cui tutto riesce è necessariamente superficiale. Il fallimento è la versione moderna del nulla: per tutta la vita, ho subito la sua attrattiva. Un minimo di squilibrio è di dovere. All’essere perfettamente sano, psichicamente e fisicamente, manca un sapere essenziale. Una salute perfetta è a-spirituale.94

Cioran riconosce la forza della fede, sente l’importanza della religione ma non accetta l’abbandono ad essa: la fede rimane una caduta della coscienza nell’illusione, nella menzogna. Ma l’attrattiva verso l’assoluto, verso Dio, rimane fondante: «Un dibattito sull’ateismo di Cioran sarebbe fuori luogo e confonderebbe le carte. Ciò che importa non è l’esistenza di Dio, ma il solo fatto che egli ci ossessioni, e che ci porga uno specchio in cui fissiamo le nostre mancanze. Dio, in quanto nostalgia dell’assoluto, acuisce la coscienza e il disagio di essere. Le imprecazioni che gli vengono rivolte altro non sono che preghiere negative, in cui si esprime il rimpianto della sua perdita. Smarrita la via dell’assoluto, costretto a rinunciare a Dio per mancanza di fede, Cioran non riesce a guarirne. Scaglia ingiurie contro un Dio definitivamente assente, “funzione della nostra disperazione”, poiché “anche le ingiurie gli sono più vicine della teologia” (Lacrime e Santi). Esse dimostrano che non c’è stato oblio, che il rimpianto rimane come una scheggia nella carne: Cioran è un romantico che si fa beffe del suo romanticismo, consumato da una nostalgia che gli suggerisce le posizioni più estreme».95 Il richiamo a Dio è fondamentale quando ad esso attribuiamo il significato di punto estremo del nostro cammino, momento ultimo della solitudine; non ha nulla a che fare con la fede, comodo mezzo per risolvere i problemi esistenziali.

94 S. Jadeau, Entetiens avec Cioran, trad. it. di C. Leopoldo: Conversazioni con Cioran, Guanda, Parma 1993, pp. 19-20. 95 S. Jaudeau, Mistique et sagesse, trad. it. di C. Leopoldo: Mistica e saggezza in Conversazioni con Cioran, cit., pp. 39-40.

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I. LA ROMANIA

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Ancor più ferma risulta la condanna della “sistematizzazione” della fede, della sua rappresentazione attraverso la teologia, rinuncia estrema alla nostra verità, in nulla differente da un beato ed ottuso ateismo: La teologia è la negazione di Dio. Che idea bizzarra, mettersi in cerca di argomenti per provare la sua esistenza! Tutti quei trattati non valgono un’esclamazione di Santa Teresa.96

Ecco di nuovo chiarita la profonda distinzione tra mistica e fede in Cioran: se la prima è un retaggio insuperabile dell’intuizione dell’infinito (che noi occidentali, figli del cristianesimo, chiamiamo Dio), la seconda ne è la traduzione ingannatrice in motivo di sollievo dal dolore del vivere. Ma oltre ad essere falsa, essa tende a nasconderci proprio quell’evento che ci può permettere una scoperta di noi stessi più profonda, quella sensazione che ci avvicina veramente a Dio: proprio il dolore, la sofferenza come sensazione della distanza tra noi e l’altro da noi che avvertiamo come sempre presente. Mascherare quello che ci indica la strada da seguire per cercare Dio e quindi la verità di noi stessi è l’unico sommo peccato capitale della storia dell’uomo. La fede dell’uomo superbo è il vero insulto a Dio e a noi stessi: Non la conoscenza ci avvicina ai santi, bensì il destarsi delle lacrime che dormono nel più profondo di noi. Soltanto allora, grazie alle lacrime, approdiamo alla conoscenza e comprendiamo come si possa diventare santo dopo essere stato uomo.97

Con queste parole si apre Lacrime e Santi, e in queste parole riposa già il senso della mistica di Cioran: è attraverso il dolore che riconosciamo la nostra mancanza, e questa è diretta discendente della caduta nel determinato dall’infinito. Senza le lacrime, mezzo del dolore, non possiamo giungere a nessuna conoscenza di Dio, e la sua versione positiva, la fede, altro non è che la strada opposta per incontrare ciò che stiamo cercando. Soffocando nell’illusione e nella menzogna la nostra sofferenza, la fede ci getta ancor più a fondo nel determinato allontanandoci quanto più possibile dal padre che abbiamo perduto, ma di cui ci rimane un segno, appunto, nelle nostre lacrime. Non possiamo cercare Dio se non nella ribellione, nel crollo:

96 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 56. 97 Ibid., p. 13.

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Ogni rivolta è diretta contro la Creazione. Il minimo gesto d’insubordinazione compromette l’ordine universale, accettato dagli schiavi del Creatore. Non si può essere con Dio e contro la sua opera, ma si può, per amor suo, dimenticare la Creazione o perfino disprezzarla. Non ci si può ribellare nemmeno in nome di Dio, foss’anche contro il peccato. Perché agli occhi del Reazionario supremo l’unico peccato è l’anarchia, protesta contro l’ordine iniziale. Ogni ribellione è atea. La non-aderenza a una frazione infinitesimale della Creazione equivale a un disintegrarsi dell’infinito divino. L’anarchia non è prevista nel progetto della Creazione. Sappiamo che nell’Eden gli animali erano tranquilli e soddisfatti, fino al giorno in cui uno di essi, non accettando più la propria condizione e rinunciando alla felicità, si fece uomo. Su questa disobbedienza iniziale si è integralmente fondata la storia.98

L’esperienza per antonomasia della mistica è la vertigine, che nulla a che vedere con i dogmi delle fedi. L’essenza che solo si intuisce colti da vertigine ci inizia ad una ricerca che va di pari passo con lo stravolgimento, la trasfigurazione di se stessi, e questa passa attraverso le lacrime. Se non c’è turbamento dei sensi non c’è avvicinamento a Dio. I sensi, l’esperienza, rimangono centrali anche nella ricerca di Dio; anzi, il turbamento dei sensi ne diviene l’unico parametro di autenticità, perché non abbiamo altra prova di stare vicino al totalmente altro da noi se non uno stravolgimento delle nostre sensazioni, abituate soltanto al nostro reale. L’esperienza mistica diviene, quindi, unica strada per avvicinarsi a Dio da un lato, e base della conoscenza dell’illusorietà del mondo dall’altro: una volta sentito che esiste qualche cosa di indeterminabile, di completamente diverso da noi ma a cui noi tendiamo, e che tocchiamo nei momenti di rapimento estatico non possiamo che accettare che il mondo è solo il luogo delle apparenze. L’unica realtà è l’abisso in cui le differenze svaniscono, quel Nulla che si confonde con il Tutto evocato da ogni mistico.99

L’uomo, dopo essersi scoperto nel paradosso dell’esistenza che è in contraddizione con l’assoluto, diviene la prima fonte della negazione di Dio. Proprio l’esistere determinato dell’uomo implica il non-esistere indeterminato di Dio. Questo se ci obblighiamo a pensare ad una sola dimensione, in un solo reale. Ma l’esperienza dell’estasi costituisci un “ponte” con l’altro da noi, e attraverso lo sconvolgimento dei sensi da essa derivato possiamo intuire l’assoluto, Dio.

98 Ibid., p. 58. 99 S. Jadeau, Conversazioni con Cioran, cit., p. 56.

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All’interno dello studio sulla mistica di Cioran, la musica merita un breve, ma necessario, discorso a parte. Fin dalla prima opera, e in tutte le successive, la musica è investita di un valore fondamentale: assieme all’estasi mistica, è la prima e più forte consolazione, e, allo stesso tempo, una delle fonti primigenie di distacco da se stessi. Che la musica appartenga al campo della mistica è un fatto evidente, confermato dalla maggior parte delle tradizioni di pensiero: la voce dell’infinito si fa sentire nell’armonia musicale;100

fin dall’Antica Grecia, armonia e ritmo venivano individuati come le qualità dell’Uno da cui tutto procede (Plotino), e in Nietzsche, solo per portare un esempio palese e conosciuto, la musica è uno dei temi centrali in tutta l’opera, fino a divenire modo del pensiero che danza come su note musicali. Qualsiasi esperienza musicale tende alla vicinanza con l’assoluto e per Cioran diviene uno dei momenti più alti di quella che Schopenhauer chiamò conoscenza intuitiva. La musica è e rimane un’illusione; ma, con l’amore e più di esso, è l’unico inganno della mente e dei sensi a non svalutare l’essere: costituita di materia e spirito assieme, propone una via mediana rispetto all’assoluto fasullo della fede (qualsiasi fede, anche quella nella realtà delle cose) ed alla vertigine dell’abisso che ci precede e verso cui tendiamo; presuppone un atteggiamento contemplativo che ci autorizza ad inserirla nel sfera della mistica. Come in Schopenhauer la musica è l’unica arte libera da se stessa, dall’essere rappresentazione in quanto direttamente collegata col mondo delle Idee (e affrancata dal regno della causalità in quanto percepita solo nel tempo e attraverso il tempo), in Cioran essa supera anche il tempo immolandolo nella sua organizzazione ritmica, divenendo infine l’emanazione finale dell’universo:101 Esclusa dal campo abituale della rappresentazione e del concetto, la musica rimane esente dagli impicci della visione dualistica. Nessun bisogno di ricorrere all’astrazione, per cogliere un senso che si offre di primo acchito, essendo il segno in perfetta corrispondenza con il suo contenuto.102

100 Ibid., p. 93. 101 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 43. 102 S. Jaudeau, Conversazioni con Cioran, cit., p. 98.

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La musica s’impone senza dover ricorrere al significato, senza dover essere discussa nella sua forma o nel suo essere, ma mostrando direttamente ciò che è nella sua essenza; potremmo dire, nella sua ontologia. Non occorre squarciare alcun velo di maja, basta lasciarsi condurre dalla musica all’infinito di cui essa è direttamente essenza e non rappresentazione: la materia musicale non trae origine dal residuo di un senso a lei trascendente, è la condizione stessa del senso, che rende tangibile quella presenza da cui lo gnostico si sente esiliato in eterno. Tale materia, in qualche modo redenta, non sarebbe più il luogo della caduta, della pietrificazione dello spirito, ma la fonte della sua miracolosa liberazione.103 L’organo trasmette il brivido interiore di Dio. Unendoci alle sue vibrazioni ci autodivinizziamo, ci dissolviamo in Lui:104

priorità della verità sentita sulla verità dimostrata, la musica, capace di dissipare i languori della noia, proietta l’orecchio predisposto in una dimensione di eternità salvifica, avvicinandolo all’estasi e quindi a quella fusione con Dio (assoluto Nulla in cui tutto l’indeterminato può esistere nella sua non-forma, quindi nella verità) cui solo le lacrime possono avvicinare. La possibilità del miracolo che salva, per un istante, questo mondo senza luce, e che Cioran talora evoca, sorge per merito di una grazia musicale, in un breve slancio fuori dal tempo. È grazie alla musica che lo gnostico intravede il mondo perduto da cui proviene. Essa è l’affacciarsi, su questa terra derelitta, di una grazia che riscatta il tempo.105

Con essa possiamo ambire alla purezza che nella determinazione ci è estranea, fino a poterci domandare, tra le lacrime dell’estasi, sarò, un giorno, abbastanza puro da riflettermi nelle lacrime dei santi?106 […] perché «al giudizio finale verranno pesate solo le lacrime.107

103 104 105 106 107

78

Ibid., p. 99. E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 20. S. Jaudeau, Conversazioni con Cioran, cit., p. 102. E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 14. Ibid., p. 15.

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Che serve all’uomo conquistare il mondo, se per farlo deve perdere l’anima sua? Conquistare il modo e perdere l’anima! Io ho fatto meglio: ho perso l’uno e l’altra.108

Cioran, fascista? Non c’è uomo politico al mondo d’oggi che m’ispiri più simpatia e ammirazione di Hitler.109

Sono parole di Cioran del luglio 1934. Dal settembre dell’anno prima, grazie ad una borsa di studio della Fondazione Humbolt, si trovava a Berlino dove seguiva ammirato i corsi di Ludwig Klages, teorico del ritmo vitale e dell’eros cosmogonico. La Germania stava cambiando: dalle sue viscere ferite un “uomo nuovo” era stato gettato nel mondo a ridisegnare il destino dell’Europa. Da una quindicina d’anni circa, in diversi paesi del vecchio continente movimenti di estrema destra si erano fatti largo fra le intellighenzie raffinate ed il ventre molle di paesi sfiniti dalla prima guerra mondiale, dalla fame, dalla crisi economica che aveva cancellato in pochi anni un secolo di crescita tecnologica e sociale. La Romania non fu esentata dalla deriva nazionalista, ed il Movimento Legionario di Corneliu Zelea-Codreanu emerse nel cupo dopoguerra balcanico. Le camicie verdi, di cui Nae Ionesco, ammirato professore di filosofia, fu ideologo, affascinarono il giovane Cioran che, pur non militando direttamente nel movimento, esprimeva pubblicamente le proprie convinzioni: «l’invasione ebraica di questi ultimi decenni ha fatto dell’antisemitismo un tratto essenziale del nostro nazionalismo», scriveva in Schîmbarea la fata a României (Trasfigurazione della Romania) del 1936, condannando inoltre la Chiesa ortodossa per la sua «mancanza d’intolleranza». Per il riscatto della Romania, riteneva necessaria «un’esaltazione confinante con il fanatismo». La Germania nazista diventava così il modello da seguire per ottenere l’agognata “trasfigurazione” del paese, la rinascita che, in quanto tale, sarebbe arrivata soltanto dopo la morte e la distruzione. In una serie di articoli scritti per il quindicinale di estrema destra Vremea, Cioran dichiarò la sua fascinazione per il culto dell’hitlerismo, diventando in breve tempo un giovane intellettuale conosciuto e rite-

108 E. M. Cioran, Le mauvais démiurge, Gallimard, Paris 1969, trad. it. di D. Grange Fiori, Il funesto demiurgo, Adelphi, Milano 1986, p. 104. 109 E. M. Cioran, Impresii din München. Hitler în constiinta germana, «Vremea», VII, n. 346, 15-7-1934.

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nuto una delle menti del movimento rivoluzionario favorevole alla Guardia di ferro. Ancora nel 1940, in un’intervista radiofonica per celebrare la scomparsa di Codreanu, egli parlò del fondatore del movimento come di colui che aveva ispirato l’onore a una nazione di schiavi; […] reinsegnato l’orgoglio a un gregge d’invertebrati […]; dato un volto all’uomo rumeno […]. Il merito di Hitler è di aver saputo annientare lo spirito critico di tutta una nazione,110

ridando fiducia al popolo in un’epoca in cui «non tutti gli uomini meritano di essere liberi. La libertà per tutti è un pregiudizio vergognoso. L’umanitarismo è “un’illusione” e il pacifismo solo “masturbazione politica”». Tutto questo tra il 1933 ed il 1935 sulle pagine di Vremea. «Li chiamarono “la generazione del ‘27”. Avevano in mente un programma di rinnovamento della cultura romena che si richiamava a quello dei grandi Spagnoli del ’98. Erano un gruppo di giovani letterati e filosofi […] che sarebbero diventati famosi nel mondo. Animati da un vigore intellettuale feroce e settario, comparvero sulla scena decisi a travolgere tutto e a far parlare di sé. Ma non fu solo il desiderio di farsi strada a ispirarli. L’impulso di alcuni – come appunto Cioran, nato nella Transilvania dominata a suo tempo dagli Ungheresi – , fu il bisogno di sapersi vivi, di medicare la peggiore delle umiliazioni che un uomo possa conoscere, “quella di nascere servo”. La volontà di riscatto fu tanto forte in quella generazione che persino un mite studioso di Cartesio e di Kant come Costantin Noica, così lontano dalla “mistica esaltata” dei nazionalisti, si lasciò convincere, dopo l’assassinio di Corneliu Zelea-Codreanu (1938), a partecipare, anche se solo per un paio di mesi, alla vita politica del Paese. Cosa che non avrebbe mai più ripetuto, neppure negli anni della tirannide e della persecuzione di Ceausescu».111 Occorre fare, a questo punto, un po’ di chiarezza. Pur non essendo questa la sede adatta ad aprire un dibattito sul tema del fascismo o meglio dei “fascismi”, è bene ricordare brevemente alcune considerazioni fondamentali su tale argomento. Concordo con l’Hobsbawm nel ricordare che riconoscere nelle destre che presero il potere in diversi Paesi un movimento unitario che coinvolse l’Europa del primo dopoguerra è un errore d’inter-

110 Ibid. 111 L. Sampietro, Caro Cioran, neghiamo pure ma per costruire. Tuo Noica, in «Il Sole 24 Ore», 18/4/1993.

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pretazione storica. Malgrado alcuni caratteri comuni (l’uso della forza e del terrore come dinamica politica, il controllo assoluto dei mezzi d’informazione, l’anti-parlamentarismo in chiave assolutista) di tipo prettamente pragmatico, sia per caratteristiche pratiche, ma soprattutto per base ideologica, non possiamo a ragione individuare una sufficiente somiglianza nei regimi “a matrice nazi-fascista”. Un esempio per tutti è il carattere “reazionario” attribuito a questi movimenti: se reazionaria era certamente l’Action Française, decisa a considerare come nullo o non avvenuto tutto quanto era accaduto in Francia dopo il 1789, non altrettanto si può dire di Mussolini, che certamente non intendeva rifare l’Italia della Destra Storica, né di Hitler, che evidentemente non aveva nulla a che fare con la visione istituzionale o economico-sociale della Germania di Guglielmo II. Semplificando, la categorie politiche di “destra” e “sinistra”, si rifacevano all’inizio del secolo a due idee distinte alla base dalle differenti visioni antropologiche: la sinistra fidava nella necessità storica di uno sviluppo in chiave ottimista (marxista) dell’umanità, legata strettamente al progresso degli eventi. Lo scetticismo verso una tale idea di fondo e, quindi, la credenza nell’immutabilità della natura umana e nella conseguente esigenza di porre dei limiti e dei freni alla libertà, la fede nell’irrazionalismo e nel “nuovo giorno” caratterizzavano i partigiani di un’autorità che non doveva giustificarsi di fronte al corpo sociale cui era imposta, e quindi la nuova destra (che, solitamente, non aveva più legami con la destra storica). Ma nei primi vent’anni del ‘900 si assistette alla formazione di movimenti che potremmo chiamare di «sinistra pentita»:112 non che si fosse rinunciato ad un ideale di umanità nuova, tutt’altro, solo che era venuta a mancare la fiducia nel processo che avrebbe dovuto portare a quell’ideale. Dopo mezzo secolo di pace (un secolo se consideriamo che le guerre post-napoleoniche non ebbero mai carattere continentale), dopo un secolo di conquiste insperate nel campo del progresso materiale e del benessere collettivo, improvvisamente la Storia, che avrebbe dovuto progredire verso il culmine dell’umanesimo, s’era impantanata tra le trincee della Grande Guerra, riportando l’orologio indietro di cent’anni. Le nuove minoranze oppresse, le tensioni sociali e politiche che erano esplose utilizzando come loro mezzo di guerra e morte proprio la scienza che aveva illuminato l’ottocento e doveva accompagnare l’umanità alla propria massima espressione, non potevano che infon-

112 M. Ambri, I falsi fascismi Ungheria, Jugoslavia, Romania 1919-1945, Jouvenice, Roma 1980.

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dere quantomeno un profondo scetticismo nei confronti del positivismo socialista. In questo clima le voci di chi invocava un cambiamento fatto più di avventura esaltante e rischiosa che di schemi logici non potevano che trovare un’eco assolutamente inimmaginabile pochi anni prima. La realtà è che si affermarono dei movimenti sulla base di “certe idee” e attraverso “certi fatti” noti a tutti. Si dissero di destra o di sinistra, ma in effetti quelle denominazioni non avevano più nulla a che vedere col passato: erano fenomeni totalmente differenti da tutto quello che era stato prima. Non facevano parte della destra storica e borghese perché nemici giurati del vecchio ordine, ma non erano di sinistra perché non credevano più alla razionalità della storia né ai suoi sviluppi, rivelatisi tanto deludenti. Persino in Germania il giovane Hitler dovette epurare le frange “di sinistra”, di matrice socialista ben presenti nel partito nazionalsocialista, prima di lanciare il proprio assalto al potere. Il fascismo italiano nasceva con una forte base sociale e populista, cercando nei ceti più bassi, sfiduciati dalle prospettive della lotta di classe, un appoggio politico e pragmatico. Destre e sinistre rivoluzionarie si contendevano il consenso del proletariato distinte da una visione del mondo radicalmente differente, ma facendo pressione su bisogni e sentimenti ben distanti da quelli alla base dei movimenti conservatori borghesi. La situazione politica era, quindi, molto più complessa di quanto si sia voluto pensare dopo l’orrore di Aushwitz. In Romania, nel 1926 il partito Nazionale di Iuliu Maniu, dopo due anni di collaborazioni col partito NazionalDemocratico di Cuza e Iorga,113 si fondeva con quello contadino della Transilvania giungendo inaspettatamente al potere. Ma la crisi economica mondiale, col crollo dei prezzi agricoli, e l’inaspettato rientro, nel 1930, del non certo amato principe ereditario Carol, che aveva lasciato il paese rinunciando ai diritti monarchici per condurre una vita sentimentale ritenuta poco consona al prestigio della corona (si ripresentava due anni dopo la morte del padre rivendicando la discendenza reale e accompagnandosi alla propria amante ebrea, per questo invisa ai romeni) portarono in breve alla capitolazione dell’esperimento politico nazionalista di Maniu, aprendo la strada a Codreanu. Dopo aver aderito al partito NazionalDemocratico fondato dallo storico Nicolae Iorga e dall’economista Alexandru Cuza ed essere stato a capo del movimento studentesco dell’università di Ia¶i, il giovane

113 Si veda, a riguardo, E. Costantini, Nae Ionuscu, Mircea Eliade, Emil Cioran Antiliberalismo nazionalista alla periferia d’Europa, Morlacchi, Perugia 2005.

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I. LA ROMANIA

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moldavo, xenofobo e convinto della necessità di una politica più d’azione che di parola, lasciava i vecchi maestri per formare prima la LANC, ovvero Liga Apa⁄rarii Nazionale Cristine (Lega di Difesa Nazionale Cristiana) e poi la famigerata Guardia di Ferro. «Che i metodi a cui il suo maestro rimaneva fedele erano inefficaci: mai la classe dirigente avrebbe permesso lo sviluppo e l’affermazione di un movimento sorto al di fuori del suo sistema, e contro di esso. I mezzi di cui disponeva erano sempre gli stessi e sempre inefficaci; se la stampa era relativamente libera, l’alto tasso di analfabetismo faceva si che qualsiasi propaganda si arrestasse alle soglie dei villaggi. E qui era la Sicuranta che dominava, intimidendo, arrestando e se necessario dando delle salutari lezioni ai potenziali avversari del governo. Dalla constatazione che gli strumenti legali erano praticamente inutilizzabili, Codreanu giunse alla conclusione che bisognava ricorrere ad altri metodi: assieme a pochi compagni progettò di attentare alla vita di alcune personalità note per “essere amiche degli ebrei”, nonché di qualche esponente della collettività ebrea. A quanto pare la cospirazione non andò oltre la preparazione della lista delle future vittime; ma la polizia, informata da uno dei congiurati, arrestò tutti gli altri».114 Liberati inaspettatamente dalle autorità, e sostenuti dall’opinione pubblica, Codreanu e i suoi si riorganizzarono in una forma di partito atipica, basata non sulla normale adesione ad un programma fondato su poche linee guida, ma poi aperto alle diversità di visione politica degli iscritti; bensì su di un vero e proprio atto di fede nei confronti d’un intero movimento che sarebbe dovuto nascere per superare e sconfiggere tutta la vecchia classe politica in nome di una Grande Romania. C’est à l’arrière-plan de cette conscience nationale malheureuse, marquée par l’humiliation d’appartenir à une culture mineure (“Je rêve d’une Roumanie qui aurait le destin de la France e la population de la Cine”115) que Cioran croit reconnaître dans le mouvement légionnaire, et en son chef charismatique, Corneliu Zalea Codreanu.116

Il 24 giugno 1927, dopo aver formalmente preso commiato dal maestro Cuza, assieme a pochi compagni, quasi tutti ex studenti dell’università di Ia¶i, Codreanu fondava la “Legione dell’Arcangelo Michele”. Nel 1928 Maniu, alla guida della coalizione Partito Contadino-Partito Nazionale, diventa Presidente del Consiglio.

114 M. Ambri, I falsi fascismi, cit., p. 218. 115 E. M. Cioran, Scîmbarea la fata a României, editura Vremea, Bucarest 19362, p. 96. 116 G. Liiceanu, Itinereais d’une vie, cit., p. 36.

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Il movimento legionario non aveva un programma ma una fede. «Se più umile e più sfruttata, ma anche la più genuinamente romena, quella dei contadini, sarebbe stata una conseguenza pratica inevitabile di questa rivoluzione spirituale».117 D’accordo con l’interpretazione del medievalista italiano Franco Cardini, citata da Claudio Mutti (Le penne dell’arcangelo), possiamo dire che la Legione era più un movimento religiosomilitare che un progetto politico. Il suo fine era una completa rivoluzione interiore, morale più che ideologico-politica e «l’antisemitismo diventò l’anello di congiunzione tra intellettuali e politica da una parte e tra politica e masse dall’altra».118 Riassumendo: misticismo religioso, xenofobia derivata dalla storia politica e sociale del recente passato, nazionalismo vissuto più che altro in chiave anti-straniera erano le fondamenta del nuovo movimento politico romeno costituito per lo più da giovani studenti di origini umili ma con un’importante preparazione culturale. Un movimento che, pur nascendo sotto l’ala dell’intellighenzia romena, sfociava quasi subito nel folle progetto, più “mistico” che politico, di Codreanu, non appena i suoi fondatori primi vennero destituiti. Fra di questi spiccano le figure di Mircea Eliade e di Nae Ionescu: «Professeur de métaphisique à l’Université de Bucarest, théoricien d’un nacionalisme organiciste, antisémite fervent et prestigieux idéologue de la Garde de fer de 1933, Nae Ionescu – dont Eliade fut l’assistant de 1934 à 1938, et qu’il continuerà de vénérer bien des décennies plus tard - exerça de fait un immense ascendant sur leur génération. A l’aube des annéès 1990, Cioran lui-meme maintiendra le caractère somme tout “bénéfique” de son influence. A cause de Nae Ionescu, poursuit Liiceanu en 1945, tout sont devenus fascistes. Il a créé une Roumanie réactionnaire, stupide et terrifiante. Après lui, c’est Eliade le plus coupable (…). Il et toute la jeunesse intellectuelle…».119 La situazione romena è, quindi, a sé stante rispetto alla Germania dell’avvento di Hitler o all’Italia già da tempo fascista. Per capire il perché del periodo politico di Cioran dobbiamo ritornare sulla sua biografia e sulla storia dell’Europa tra le due guerre. Berlino, 1933: il giovane studente transilvano si trovava in Germania con una borsa di studio. Dopo una laurea a Bucarest su Bergson e le critiche alla cultura balcanica incapace di passare, a suo

117 M. Ambri, I falsi fascismi, cit , p. 223. 118 E. Costantini, Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran Antiliberalismo nazionalista alla periferia d’Europa, cit., p. 45. 119 A. Laignel Lavastine, Cioran, Eliade, Ionesco: l’oubli du fascisme. Trois intellectuels roumains dans la tormente du siècle, Presses Universitaires de France, Paris 2002, p. 15.

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I. LA ROMANIA

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avviso, da una cultura del “rimpianto” romantica (e della vergogna per la propria storia di popolo dominato) ad un’etica della responsabilità, Cioran incontrava un dinamismo ed un fervore culturale (e politico) totalmente assente nella terra natia: «La Transfiguration est traversée par une idée fixe: arracher la Roumanie à son indolence collective et au mépris de soi – attitude que Cioran incarne pourtant mieux que personne – pour en faire, au prix d’une “métamorphose de son mode de vie tout entier” (Cioran, E., La Transfiguration, chap. II: – L’adamisme roumain – , p. 47), une nation porteuse d’un dynamisme, d’une historicité et d’une capacité d’affirmation qui n’ait rien à envier aux grandes nations européennes».120 All’Università Friedrich-Wilhelm di Berlino l’affluenza ai corsi di Klages era tanto grande che l’aula anfiteatro da quattrocento posti non era sufficiente a contenere la folla di studenti, ed il professore era obbligato a tenere i suoi corsi nella sala delle feste dell’università. In questo clima esaltante, Cioran subisce il fascino della convergenza delle teorie vitalistiche con l’idea del “caos”, della nuova “barbarie” contro la decadenza della civilisation, esalta la Germania del rinnovato spirito tedesco: Il y a dans la Weltangst, qui est devenue en Allemagne un sentiment unanime (en France, on voit régner au contraire une atmosphère de plate médiocrité et de scandaleuse inactualité), une fort tension, une intensification d la totalité du contenu de l’être. Car l’homme est vivant non seulement dans l’enthousiasme ou dans l’élan, mais également dans ce qu’on appelle en général les états négatifs. Lorsque Mircea Eliade parlait de l’ “heure des jeunes”, il mésestimait cet aspect qui individualise spécifiquement la jeunesse actuelle. Penserait-il que nous pouvons encore être vivants et spontanés grâce à un élan positif ou à un généreux gaspillage d’énergie ? Les jaunes sont vivants grâce à la passion démoniaque qu’ils dispensent en vivant à une altitude périlleuse, où l’orientation positive devient illusoire, où disparaît le sens de la naïveté créatrice.121

Carpisce le teorie spengleriane dell’incomprensione tra le nazioni: Le temps est venu d’accepter les irréductibilités historiques comme autant de fatalité, et de comprendre que tout rapprochement entre cultures est aussi stérile qu’impossible.122

120 Ibid., p. 128. 121 E. M. Cioran, Où vont donc les jeunes?, Calendarul, 18/11/1932 in E. M. Cioran, Singura⁄tate ¶i destin, trad. fr. di Paruit, Alain, Solitude et destin, Gallimard, Paris 2004 p. 151. 122 E. M. Cioran, E., L’Allemagne et la France ou les illusions de la paix, Vremea, Natale 1933, in G. Liiceanu, Itineraires d’une vie, cit., p. 44.

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Il superamento dell’internazionalismo in favore della ricerca dell’universale diventa uno stimolo alla ricerca politica e nella Germania nazista egli trova un modello di “scuotimento dell’animo”, di risveglio dello spirito critico totalmente assente in patria come nella Francia, esempio di decadenza. In una lettera indirizzata a Mircea Eliade datata 15 novembre 1933, scrive: Je me sent très bien à Berlin et suis même enthousiasmé par l’ordre politique qui y règne;123

e ancora in un’altra missiva datata 27 dicembre 1934: Certains de nos amis penseront que je suis devenu hitlérien par opportunisme. Pour te dire la vérité, il y a des choses ici qui me plaisent et je suis convaincu qu’un régime de dictature parviendrait à triompher de notre marasme autochtone. En Roumanie, seule la terreur, la brutalité et un harcèlement continu pourraient changer quelque chose. Il faudrait arrêter tous les Roumains et les battre jusqu’au sang ; je ne vois pas d’autre solution pour qu’un peuple aussi superficiel puisse enfin se mettre à l’Histoire […] mais qu’ai-je bien pu faire au ciel pour avoir à laver ainsi la honte qui entache ce peuple sans histoire?124

In Germania il giovane Cioran sembra trovare la risposta alla questione più pressante: come superare le decadenze dello spirito che si manifestano nella decadenza sociale e politica? La nuova “barbarie” tedesca avrebbe spazzato via le vecchie culture morenti per lasciar rinascere una Grande Europa, in cui avrebbe trovato posto una Grande Romania? Forse si. La borsa di studio Humbolt arriva ad esaurirsi nell’estate del 1935 e Cioran rientra in Romania dove rimane due anni prima d’ottenere la borsa dell’Istituto Culturale Francese che lo porterà a Parigi dalla fine del 1937 all’autunno del ’40. Tra il 1935 ed il 1937 accadono due fatti importanti per la vita del pensatore transilvano: viene richiamato dall’esercito a Sibiu per svolgere il servizio militare come soldato semplice dell’artiglieria, posto che riuscirà presto a lasciare per una scrivania; subito dopo viene nominato professore di filosofia al liceo Andrei-Saguna di Brasov per

123 Cioran, E. Lettres à ceux qui sont restés au pays, Humanitas, Bucarest, 1996, in E. M. Cioran, Solitude et destin, cit., p.46. 124 E. M. Cioran, Manuscriptum, Bucarest, 1998, in G. Liiceanu Itineraires d’une vie, cit. p. 42.

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I. LA ROMANIA

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l’anno scolastico 1936-1937. Sarà l’unico posto di lavoro che occuperà in tutta la vita. Era gia famoso in patria, tanto che, ricorda Stefan Baciu, allievo di Cioran al liceo di Brasov, quando entrò la prima volta dall’aula salirono applausi spontanei al suo indirizzo; applausi cui il giovane professore rispose: «Au lieu de m’applaudir, vous feriez mieux de chanter La Marche funébre de Chopin. C’est une honte d’être reçus premier».125 Il professore era già conosciuto come “enfant prodige” della filosofia romena ed il suo atteggiamento a metà fra il dandy decadente ed il rivoluzionario, più ancora che la sua opera, lo rendeva popolare tra i corridoi della scuola come tra i giovani della Guardia di ferro: essere un allievo di Cioran, ricorda ancora Baciu, era in quegli anni «un titre de gloire».126 In quel periodo nasce il legame con la Legione: è nel 1934 che Cioran incontra Codreanu (lo dirà lui stesso nell’apologia radiofonica del Capitano diffusa nel novembre 1940), figura quasi, ai suoi occhi, inquietante e senza dubbio è in questo periodo che il romeno si apre maggiormente alle spinte del nazionalismo romeno scrivendo le frasi più “compromettenti”, come quando, nel febbraio 1937, affermò di confidare in «quell’ eroismo che comincia con la brutalità e finisce nel sacrificio». L’adesione alla Croce di Ferro sembra assoluta, anche se dobbiamo, per onore di verità, ricordare che nessun documento o testimonianza dimostrano la mai avvenuta partecipazione di Cioran ad alcuna attività della Guardia, ma sempre e “solo” un legame intellettuale con le idee che muovevano Codreanu e i suoi legionari. Ma questo conta poco: è indubbio che Emil Cioran, negli anni che vanno dal 1933 al 1939, fu un fervente nazionalista e che ebbe legami ideologici con la Legione dell’Arcangelo Michele e col suo fondatore Corneliu Zelea-Codreanu. Egli stesso ammise, in una lettera indirizzata a Noica e redatta a Parigi nel 1957: Vivere davvero significa rifiutare gli altri; per accettarli, occorre saper rinunciare, farsi violenza, agire contro la propria natura, indebolirsi: la libertà non è concepibile se non per se stessi; solo a prezzo di sforzi estenuanti la si estende a chi ci è vicino. Di qui la precarietà del liberalismo, sfida ai nostri istinti, scommessa breve e miracolosa, stato eccezionale agli antipodi dei nostri imperativi profondi. Esso ci è naturalmente estraneo e diventiamo capaci di accoglierlo solo quando l’usura fa scemare le nostre forze. Miseria di una razza che deve infiacchirsi da un lato per elevarsi dall’altro;

125 S. Baciu, «Un professeur de lycée dénommé Emil Cioran», in AA.VV., Pour et contre Emil Cioran. Entre idolatrie et pamphlet, Humanitas, Bucarest 1998, p. 365. 126 Ibid., p. 372.

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nessuno dei suoi membri si uniforma a dei principi “umani” se non in virtù di una senilità precoce. Nata dallo spegnersi di una passione, da uno squilibrio non per eccesso, ma per difetto di energia, la tolleranza non può piacere ai giovani…

Tuttavia sarebbe un errore di analisi storica associare completamente gli scritti degli anni trenta di Cioran con l’impianto filosofico (se è possibile ritrovarne uno) della Guardia: già nel dicembre del 1935 il futuro professore liceale scriveva all’amico Eliade che: la différence entre moi et nos nationalistes [i legionari] est si grande que mon activité ne pourrait que les désorienter. Je n’ai en commun avec eux que l’intérêt pour la Roumanie. Comment peux-tu t’imaginer qu’on puisse reformer une mentalité réactionnaire?127

Dal punto di vista pratico, per fare un esempio, la Guardia era legata al modello rurale dei villaggi del nord, mentre per Cioran questi potevano essere al massimo la “base biologica” per la nazione, ma in alcun caso ne sarebbero stati l’elemento motore. Il modernismo che lo portava a guardare ammirato alla Russia rivoluzionaria non aveva nulla a che vedere con la visione passatista di Codreanu, intento a costituire i “nidi” legionari, rispettosi delle «sei regole di disciplina, lavoro, silenzio, perfezionamento del proprio carattere e della propria preparazione, la cooperazione e l’onore»128 molto più simili a precetti di un qualche ordine monastico che a regole di un partito politico. La retorica populista con cui i Legionari facevano proseliti nei villaggi contadini era incentrata sull’esaltazione della “ruralità” come matrice storica del popolo romeno, sulla necessità di essere anti-borghesi, anti-modernisti. Non essendoci un concreto piano politico, ma un ostentato rifugiarsi nella fedeltà al movimento, già dai suoi primi anni di vita la Legione prese la direzione del “piccolo terrorismo”, delle missioni punitive, delle rappresaglie fini a se stesse. Non possiamo dire che con tutto questo Cioran non ebbe nulla a che fare; né possiamo negare che il pensatore romeno abbia creduto nella violenza come forma di espressione radicale, ultima speranza per “risvegliare” le coscienze morenti. Tuttavia la deriva del movimento dal ’40 in poi (Codreanu era stato ucciso alla fine del ’38), la perdita della matrice mistico-religiosa ed il suo abbandono ad atti di violenza da “banda di strada” ormai fuori

127 E. M. Cioran, Solitude et destin, cit., p. 549. 128 M. Ambri, I falsi fascismi, cit., p. 227.

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controllo non poteva avere più nulla a che fare col pensiero, pur esaltato, dello scrittore romeno. Rimane da capire perché Cioran si sia tanto avvicinato non solo alla Legione in Romania, ma all’hitlerismo (più che al nazismo) nella Germania degli anni trenta. Occorre, di nuovo, considerare la storia: come ho già detto, fin dalla metà dell’ottocento un tratto comune alla storia della Romania era la forte pressione esercitata sul Paese dalle potenze esterne: «un aspetto dell’ingerenza delle potenze nella situazione interna romena consisteva nel fatto che esse avevano assunto la tutela dei numerosi commercianti, industriali, affaristi stranieri che dominavano la vita economica del paese. La preponderante presenza di codesti stranieri non era un elemento nuovo; essa era la conseguenza di una situazione che risaliva la periodo del dominio ottomano. Le autorità turche solevano infatti concedere, contro il pagamento di ingenti contributi, ai loro sudditi greci il privilegio di esercitare le più succose attività commerciali e finanziarie nelle due province di Valacchia e Moldavia. […] Nella seconda metà dell’ottocento ai greci si erano aggiunti armeni, ebrei e quindi anche russi, tedeschi ed austriaci».129 La popolazione locale, prevalentemente composta di contadini, si era così trovata, dopo l’indipendenza, a svolgere una funzione subalterna nel suo stesso paese composto da territori etnicamente diversificati: ungheresi per lo più proprietari terrieri, tedeschi commercianti ed ebrei professionisti e finanzieri erano il motore dell’economia di una Romania sospesa tra la due guerre. Malumore e frustrazione portarono da un lato ad un atteggiamento fatalista: se il popolo romeno non è stato in grado di assumere il controllo della propria terra, esso deve venir guidato da una forza straniera; dall’altro da una volontà di “neutralizzare” la presenza straniera per dimostrare di poter essere gli artefici del proprio destino: «Non sarebbe esatto ritenere che l’ostilità per gli stranieri avesse dei connotati razzistici; la pretesa superiorità del popolo romeno era affermata dagli scrittori nazionalisti non già come una qualità naturale della stirpe, ma piuttosto come il prodotto delle influenze culturali della latinità e della religione ortodossa. Ne conseguiva che i romeni non erano contrari alla assimilazione degli stranieri se questi vi fossero stati disposti, rinunciando alle loro particolarità. Non razzismo, dunque, ma xenofobia nazionalistica, resa più acuta dall’atteggiamento delle grandi potenze ostili a qualsiasi limitazione dell’attività degli stranieri, alcuni dei quali erano loro cittadini».130

129 Ibid., p. 225. 130 Ibid., p. 226.

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In questo quadro politico-sociale cresce un giovane studente, allievo proprio dei fondatori del movimento nazionalista rumeno, poi mandato con una borsa di studio in Germania, nel pieno dell’esplosione del fanatismo hitleriano. Continuo a riferirmi all’hitlerismo, e non al nazismo a ragion veduta: concordando con Fest, l’hitlerismo fu un movimento concettuale a se stante, molto più forte dell’ideologia nazionalsocialista, in cui sfociava per ovvi motivi. Ma l’esaltazione di un uomo dai poteri quasi sovrannaturali, in grado da solo di risollevare un paese dalla crisi fu di gran lunga più importante delle tesi naziste. Tesi, per altro, spesso contraddette e rivedute dallo stesso Hitler negli anni del suo dominio. Del nuovo fürer osannato in Germania, Cioran scriveva: Esiste qualcosa di irresistibile nel destino di quest’uomo, per il quale ogni atto della vita acquista significato solo attraverso la partecipazione simbolica al destino storico di una nazione… La mistica del Fürer in Germania è pienamente giustificata… Il merito di Hitler è di avere rapito lo spirito critico di una nazione.131

In questo clima esasperato, l’idea di una spinta portentosa, di una vera e propria rivoluzione che sarebbe scaturita dall’affidarsi ciecamente al destino di un uomo solo, toccò punte inverosimili. È storia la volontà di non sopravvivere ad Hitler di alcuni tedeschi convinti che non fosse più possibile un mondo senza la guida del Fürer, ormai assolutamente scisso dal suo ruolo storico e dal suo impianto ideologico. Dal nazismo Cioran prese l’idea della politica totale, di un’azione che coinvolgesse ogni aspetto dell’essere umano squotendolo nella pretesa trasfigurazione in un uomo nuovo. La politica come assoluto indiscutibile, come atto di fede da imporre per portare le coscienze di un secolo decadente verso una nuova alba. Ma torniamo in Romania. Cioran è figlio di un pope ortodosso e di un’insegnate, nato in una terra “occupata”, frustrato come tutti gli intellettuali romeni del tempo. L’origine geografica e sociale sono un carattere, a mio avviso, fondamentale per comprendere la situazione: «…un cenno particolare merita il clero che, vivendo nei villaggi, faceva parte integrante del mondo contadino (talvolta i preti lavoravano essi stessi il proprio campo). Va anzitutto notato che – diversamente da quello della Russia zarista e , sotto alcune forme, della Serbia e poi della Jugoslavia – il clero romeno non aveva legami istituzionali con lo

131 E. M. Cioran, Impresii din München., cit.

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Stato. Esso non si sentiva perciò solidale con le strutture del potere, specie quando queste entravano in conflitto con la popolazione».132 È uno studioso di Bergson e Klages e affascinato dalle teorie “vitalistiche”, da un’idea anche di politica lontana dalla teoria fatta a tavolino ed intrisa di slancio, di voluntas; “naturalmente” vicino proprio alla “mistica esaltata” dei nazionalisti che in Romania legavano l’azione politica ai valori alti dell’etica autoeleggendosi casta di monaci guerrieri, detentori della saggezza la cui missione era svegliare il popolo addormentato dagli stranieri. È un eccentrico giovane pensatore avvezzo ai pensieri ultimi, alle catastrofi, alla disperazione, all’idea di un pensiero vivo, vibrante di dolore fisico. Si trova, per nascita e condizione, vicino al nuovo pensiero che vuole una trasformazione collettiva totale, una rigenerazione del popolo corrotto dalla mollezza e dal pragmatismo occidentali. Codreanu, leader di un partito più simile ad una chiesa armata che ad un movimento politico, offriva la speranza di spazzar via la democrazia corrotta e vacillante (si susseguivano ormai da anni “rimpasti” di governo e cambi al vertie con frequenza incredibile) in favore di una nuova concezione etica. In una tale situazione è quasi banale comprendere come il giovane Cioran sia scivolato nell’arena politica del suo tempo. Non poteva non appassionarsi ed infiammarsi per il suo popolo, per la sua Nazione, perché spinto da quella volontà, da quell’idea di pensiero vivo che lo caratterizzerà in tutta la sua opera: «L’ensemble de ses écrit politiques de l’époque résonnent de la honte que lui inspire la prospective d’une auto condamnation de la Roumanie à un destin éternellement médiocre, porte par une population tiède, fade et passive».133 Il sentimento di un fallimento ineluttabile, dell’impossibilità per il proprio Paese di crescere in una forma nuova e superiore a tutte quelle del passato diventa per il giovane Cioran quasi un’ossessione: nulla è più triste che vedere in Romania un ritmo vitale rallentato, un rilassamento vacillante dell’energia vitale e la caduta drammatica della nostra esistenza storica (un popolo non si afferma nella storia se non ha un substrato vitale, pronto costantemente a esplodere.134

Ancora, ci viene in aiuto lo studio storico comparato alla biografia del pensatore di Ra⁄¶inari: «È necessario tener presente la particolare

132 M. Ambri, I falsi fascismi, cit., p. 210-211. 133 G. Liiceanu, Itinereais d’une vie, cit., p. 36. 134 E. M. Cioran, Cultul puterii, « Vremea », VII, n. 351, 26-8-1934.

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posizione dei maestri elementari e dei membri del clero per spiegarsi l’atteggiamento nel ventennio 1920-1940 di molti giovani provenienti dalle loro famiglie. Ciò che per i loro padri era soltanto affermazione di valori religiosi e spirituali si sarebbe gradualmente tramutato per essi in azione politica. Questi giovani si trovavano infatti alla confluenza del malcontento dei contadini in mezzo ai quali erano vissuti e della “cultura” assorbita nelle mura di casa. Quando poi giungevano nelle città per completare gli studi si scontravano con una realtà e con valori totalmente diversi; e, su un piano pratico, con la massiccia presenza di coetanei non-romeni e principalmente ebrei, il che non presagiva nulla di buono per il momento in cui dalle aule universitarie sarebbero dovuti uscire per affrontare la lotta per la vita».135 La “scena” politica romena sembrava esser stata creata appositamente per “assonanza” con il percorso esistenziale del giovane pensatore transilvano. Se a tutto questo sommiamo gli studi filosofici volti in una ben determinata direzione (lo slancio vitale e la forza del pensiero “vivo” superiore per natura alle vuote teorie), la storia privata del romeno, la sua attitudine all’esasperazione e al disequilibrio, e ancora l’esperienza tedesca, Klages e il neo-vitalismo germanico non possiamo non capire come il giovane Cioran sia arrivato ad incontrare l’hitlerismo e ad appropriarsene sia dal punto di vista politico (matrice “pragmaticosociale”), sia da quello mistico-spirituale (matrice esistenziale-privata). Cioran si trovava a confrontare il proprio percorso esistenziale e le proprie inquietudini con gli “spettri” dell’intera Romania, ritrovandosi in un idea politica nuova, riformatrice, così carica di fede ( Lacrime e Santi con la sua invettiva antifideistica non era ancora stato pensato) e di valori morali “alti”, superiori a qualsiasi praxis. Così nasceva Schîmbarea e così presero vita gli articoli pubblicati in quegli anni su Vremea che costarono al pensatore, in vita, il silenzio della filosofia “ufficiale” e, dopo la morte, una lunga serie di travisamenti critici. I rappresentanti della nuova cultura romena, «nous, les épaves d’une culture naufragée» dirà lo stesso Cioran, si aggrapparono con giovanile e disperato fervore ad un miraggio, quello della libertà, della riappropriazione delle proprie terre, dei propri “ruoli” nella società. Volevano fare “tabula rasa” di un passato vergognoso di sopraffazione e dominio e si unirono all’Europa dell’ovest nella foga antisemita, mischiandola con l’irrazionalismo e la mistica religiosa.

135 M. Ambri, I falsi fascismi, cit., pp. 211-212.

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I. LA ROMANIA

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Ainsi il m’advint, bien avant la trentaine, de faire une passion pour mon pays, une passion désespérée, agressive, sans issue, qui me tourmenta pendant des années […]. Une espèce de mouvement se constitua vers ce temps-là – qui voulait tout réformer, même le passé. Je n’y crus sincèrement un seul instant. Mais ce mouvement était le seul indice que notre pays pût être autre chose qu’une fiction.136

Nulla di più ovvio, quindi, della sua adesione intellettuale alla Legione. Si cerca una riforma assoluta del modo di pensare e di pensarsi: una strada nuova che superi il dualismo tra occidentalismo ed “autoctonismo”, ma anche quello fra Kultur e Civilisation, ormai divenuto «stérile et irritante»,137 una nuova via originale che sia “un’avventura romena” e che riporti il popolo romeno a se stesso. La “rivoluzione-conservatrice” (Laignel-Lavastine) di Cioran fu un tentativo di nuova fondazione, di rinascita del popolo romeno basata sul superamento della stessa tradizione, ormai obsoleta e concausa dei fallimenti storici del proprio Paese, e sul recupero dell’irrazionalistico vitalismo tipico della Weltanschauung balcanica. A tutto questo va sommato uno spirito fatalista, tipico delle genti balcaniche, che se Cioran riconosceva e spesso criticava nei suoi compatrioti, certamente permeava, con la convinzione che l’uomo può ben poco sul destino del mondo, anche le sue idee politiche: In Germania, per non essere intossicato o contagiato dall’hitlerismo, ho cominciato a studiare il buddhismo. La meditazione sul nulla mi ha aiutato a capire, per contrasto, l’hitlerismo meglio di ogni altra ideologia… Se in Romania morissero tutti gli attuali militanti dell’idea dittatoriale, essa nondimeno evolverebbe verso la dittatura.138

Paradossalmente, la politica, in tutto questo, rimane un aspetto marginale. La “spinta” alla base di ogni discorso è “ideale”, teorica e, a ben vedere, opposta all’ideologia di Codreanu, un modernismo “pratico” esteso a tutto, dal pensiero puro alla politica, alla sociologia è la speranza di Cioran, una rivoluzione che traduca in fatti i processi storici arrivati al loro culmine: Le moment historique auquel nous vivons est caractérisé par une tendance à amener sur un plan actuel la somme des valeurs qui se sont dérou-

136 E. M. Cioran, Mon pays, Humanitas, Bucarest, 1996, p. 66. 137 E. M. Cioran, Entre occidentalisme et autochtonisme, Bucarest, 5 aprile 1936, in A. Laignel-Lavastine, Cioran, Eliade, Ionesco, cit., p. 129. 138 E. M. Cioran, In preajma dictaturii, «Vremea», X, n. 476, 21-2-1936.

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lées historiquement dans la culture moderne, à actualiser ce qui s’est réalisé au cours d’un processus. La multiplicité des directions et des manifestations issues d’un vécu naïf, d’une sphère limitée de valeurs, d’un rétrécissement de la prospective, se présente à l’homme d’aujourd’hui dans toute sa riche variété. Notre époque est celle des grandes synthèses. L’homme ne s’insère plus naïvement et spontanément dans l’existence ; il essaie de comprendre dans une vaste prospective les diverses formes de la culture et de l’esprit.139

Il sogno di una “trasfigurazione” collettiva, di un’energia vitale messa a capo dell’esistenza deponendo i fossili di un pensiero ormai decadente sono tutte “idee” la cui applicazione politica è una conseguenza ovvia ma secondaria, derivata da un discorso molto più ampio. Si tratta di superare il passato con un colpo di mano che è nella sua essenza totale, assoluto, esistenziale: La culture représente une diminution de l’irrationnel présent dans la vie, diminution exécutée soit dans les actes de création, soit dans la conscience acquise pendant l’évolution des grandes cultures. La culture s’oppose à la spontanéité irrationnelle de la vie, elle lui fait marquer un arrêt. Et ce, non pas parce que sa structure originelle se serait constituée hors de la vie, mais parce qu’elle ne peut naître que la ou la vie subit un arrêt. Son opposition ne doit pas être prise pour une transcendance. Au cors de son évolution historique, la culture tend à l’autonomie par rapport à la vie, ce qui entraîne un dualisme entre les deux. Cependant, ce dualisme ne peut pas être complètement irréductible, parce qu’il n’est pas originel. Ce n’est pas un hasard qui lie les grandes créations culturelle à la souffrance et à la maladie.140

La politica diviene fondamentale perchè totalizzante, ma, in quanto tale, essa è lontanissima dalla nostra idea di politica: Cioran crede nella necessità storica di un cambiamento rivoluzionario che occupi ogni ambito della vita romena, delle sue polis ed in questo senso in un cambiamento politico. Ma questo è diretto discendente di un’etica, di un’idea. La politica è manifestazione di un nuovo pensiero totalizzante ed etico. I modelli sono la Germania hitleriana fanatica, storidita dal fare messianico del suo leader e la Russia bolscevica armata, potente e rivoluzionaria. In questo quadro, il governare democratico perde, necessariamente, ogni possibilità d’essere. Cioran non si sente democratico, ma il suo convincimento sul piano politico si basa su assunti più pratici che teorici:

139 E. M. Cioran, Le sens de la culture contemporaine, Azi, Aprile 1932, in E. M. Cioran, Solitude et destin, cit., p. 75. 140 E. M. Cioran, L’irrationnel dans la vie, Gandirea, Aprile, 1932, in E. M. Cioran, Solitude et destin, cit., p. 93.

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La democrazia, in Romania, non era vera democrazia. Ero antidemocratico perché la democrazia non sapeva difendersi. Ho attaccato la democrazia a causa della sua debolezza141.

La democrazia va bene per i periodi “classici”, i tempi di pace, prosperità e speranza nel futuro; ma di fronte alla crisi del dopoguerra non resta che riporre fiducia nella dittatura che cancella con l’azione i «veleni del pensiero». Qualunque cosa si dica, il radicalismo porta da qualche parte. Ma dov’è che porta lo spirito ponderato ed equilibrato? Piuttosto di un equilibrio mediocre e sterile, meglio una catastrofe. E da una catastrofe, è sempre grazie al radicalismo che si esce.142

Ma dal punto di vista teorico, Cioran non crede nella democrazia: malgrado sia accettata come pratica unica di governo “giusto” dagli uomini di questo secolo ed in buona parte da quelli del ‘900, essa è soltanto un modello di esercizio del potere, uno dei molti che si sono susseguiti nella storia e che probabilmente, come tutti gli altri, sarà destinato a finire ed evolvere in altra forma. Negli anni trenta, in Europa, la nuova possibile forma di potere assumeva le sembianze, care a Cioran, di uno slancio vitale potente ed irrazionale. Oggi l’uomo occidentale investe il termine democrazia di determinati caratteri etici e morali di cui essa non necessariamente è portatrice. Democrazia significa soltanto “governo del popolo”: identificato un “demos” come la parte di umanità che determina l’uso del potere, lo s’investe del diritto di determinare la politica effettiva del luogo in cui siamo. In quanto forma di governo, la democrazia è soltanto un mezzo di amministrazione del potere, eppure ad essa vengono attribuiti valori etici e morali e la sua esistenza è giustificata in base a questi valori. In oltre, il concetto stesso di democrazia, che dovrebbe nascere per opposizione ai concetti di monarchia ed oligarchia, non diviene mai realmente ciò che dovrebbe essere materializzandosi, di fatto, come una forma di “oligarchia allargata”. Ci troviamo di fronte ad un paradosso: «nell’esperienza delle città antiche “tentate” dal modello democratico […] le soluzioni che si sono fatte strada, suscitate dalla pregiudiziale della “competenza”, sono state di due tipi. Da un lato il rifiuto frontale, e quindi la ricerca o il ribadimento di altri modelli. Dall’altro l’accettazione, unita al sostanziale svuotamento, del “modello” democratico. […] Da coloro che,

141 E. M. Cioran in M. Jakob, Cioran scrittore del nulla, in «Il giornale», 21/1/1995. 142 E. M. Cioran, Necesitatea radicalismului, «Vremea», VIII, 27-10-1935.

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come Platone o il “vecchio oligarca”, non trovano nulla da salvare nel sistema democratico, e ad esso oppongono altri modelli, a coloro che, pur consapevoli degli enormi difetti del sistema democratico, decidono non solo di accettarlo ma di dirigerlo. I primi propugnano, con dovizia di argomenti, l’opportunità di attribuire il potere ad una élite capace e competente; i secondi non lo teorizzano ma lo fanno. Senza peraltro contrapporsi frontalmente al sistema ma sapendo che di fatto non può che essere una élite – quella cui essi stessi appartengono per cultura e preparazione tecnica alla politica e al comando militare – a svolgere la funzione direttiva»143. L’essere anti-democratico di Cioran è anche una conseguenza del suo atteggiamento filosofico davanti alle cose della vita, la conseguenza di quell’epoché cioraniana che cercherò di spiegare nel secondo capitolo. Egli vive per la ricerca della verità al di là delle differenti forme di realtà e, per conseguenza, non può avere fedi, non crede nella stabilità e nel sistema che soffoca ogni guizzo e movimento: nella vita di una nazione, il regime democratico è adatto soltanto ai periodi classici, quando la nazione può ingrassare nella libertà, quando le divergenze non sono dissoluzione e la libertà non è un eccesso… Le epoche torbide, insicure, nelle quali l’uomo oscilla tormentato alla ricerca di un fanatismo che lo leghi in modo fatale e diretto a qualcosa, recano necessariamente la dittatura come una forma che offre all’uomo un ancoraggio durevole e una coscienza di grande stabilità… La dittatura deve essere intesa come una fatalità.144

La democrazia è uno dei modelli di gestione del potere politico possibili e ad esso sono adatti solo alcuni periodi e alcuni tipi di uomo. Stesso discorso vale per la libertà data agli uomini dalla democrazia: vi sono uomini che possono respirare solo in democrazia, così come altri possono respirare solo in dittatura… si tratta di decidere in tempo e di non optare per una soluzione soprastorica145.

La questione sulla possibilità o sull’opportunità di un regime democratico è, per Cioran, un dibattito aperto, discutibile sempre, senza che la democrazia assuma di per sé i valori che oggi le vengono normalmente attribuiti. Considerato tutto questo, resta che il rifiuto del concetto teorico di democrazia come unica forma buona di governo non conduce per forza 143 L. Canfora, Critica della retorica democratica, Latreza, Bari 2002. 144 E. M. Cioran, Dictatura si problemele tineretului, «Vremea», VII, n. 358, 7-10-1934. 145 E. M. Cioran, In preajma dictaturii, cit.

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alla Guardia di ferro romena, mentre, nella Romania degli anni trenta, Cioran auspica fortemente una dittatura che «risvegli le coscienze», un trauma che scuota lo spirito di un popolo fatalista e dormiente prima della catastrofe totale, dell’abbandono ad un destino di miserie. Ammira Mussolini che dichiara la nascita dell’impero portando l’Italia al cospetto del mondo: col fascismo, l’Italia si è proposta di diventare una grande potenza. Risultato: è riuscita a interessare seriamente il mondo… Senza il fascismo, l’Italia sarebbe stato un paese fallito… Il grande merito di Mussolini è di avere inventato per l’Italia la forza.146

L’adesione al movimento rivoluzionario è, in chiave teorico-ideologica, pressochè totale. Considerato tutto questo, credo che emerga l’aspetto più interessante dal “periodo politico” di Cioran, ovvero l’improvviso cambio d’atteggiamento riguardo un parametro che ho già definito come fondamentale per l’opera e il pensiero del romeno: la lucidità. L’adesione al fanatismo degli anni trenta, specie a quello proposto dalla Legione, prevede infatti un vero e proprio atto di fede, in assoluto contrasto, quindi, con la mentalità e il percorso attuato fino a quegli anni. Questo è il nodo da dipanare riguardo la visione politica di Cioran, poiché il non essere democratico “in assoluto” non sarebbe che un normale sbocco del rifiuto di ogni fideismo cieco, compreso quello di una fede politica. Ma le pagine de La trasfigurazione della Romania, non ci lasciano una critica del modello democratico in generale, ma un trattato di fanatismo xenofobo e militante. Su questo non ci sono dubbi. A questo punto, analizzata la situazione romena e la parabola privata di Cioran, si può azzardare una prima conclusione fondamentale: il legame con la politica va visto, nella biografia del romeno, come un derivato ovvio ma non centrale dell’aspetto filosofico: la Legione è stata una parentesi politica nella vita del pensatore. Il pesatore di Ra⁄¶inari era travolto dal lato mistico del movimento di Codreanu, dal nuovo pensiero germanico che finalmente “sapeva di carne e sangue”, che nulla aveva a che spartire con gli ammuffiti filosofi delle intellighenzie della vecchia Europa, da una proposta politica volta a risvegliare le coscienze, a riformare radicalmente un sistema morente qual’era quello dell’Europa borghese agli occhi di un giovane studente romeno pieno di rabbia a furore. Non si deve dimenticare, a riguardo, che Cioran espresse più volte una profonda ammirazione

146 E. M. Cioran, Este Italia o mare putere?, «Vremea», IX, n. 439, 31-5-1936.

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per la Russia e la sua spinta rivoluzionaria, vedendo in Lenin un salvatore della patria simile ai capi rivoluzionari delle destre dell’Europa occidentale. A Cioran, semplificando, della Germania nazista interessava Klages, il destino fatale di Hitler, della Legione l’irruenza di Codreanu, la nuova religione che richiamava i miti antichi e l’ansia vendicatrice parossisticamente lanciata contro i dominatori stranieri. Era l’idea che contava, o meglio, il ritorno ad una politica fatta di idee intese in senso quasi neoplatonico: non schemi e categorie da rispettare, ma pulsioni, voluntas. Non dimentichiamoci che parliamo di un giovane balcanico affascinato da Schopenhauer, da Nietzsche, dall’élan vital; di un teorico del non-equilibrio. Non è un caso che Schîmbarea venga scritta tra Le livre des leurres e Lacrime e Santi, tra lo smascheramento delle illusioni e l’esplorazione del mondo della fede. Lungo questa via Cioran ha incontrato Codreanu, Klages, Hitler, Bergson, Noica, Eliade, la mistica, perfino il buddhismo, ecc.; ma non ha imboccato quella via per incontrare la Legione: è accaduto l’esatto contrario. Tutto questo, sia chiaro, non vuole affatto essere una sorta di apologia della “buona fede” di Cioran nel cadere nell’errore politico; tutt’altro: vuole solo essere un’onesta analisi dei fatti che la storia e le testimonianze ci hanno lasciato e che, a mio avviso, se presi per quello che sono senza intenti aprioristicamente ideologici, descrivono un quadro chiaro e spiegano da soli perché un pensatore acuto e mai banale sia crollato di fronte alla “prova” più difficile del secolo passato, quella della filosofia e dei suoi legami con la politica dannata dell’Europa degli anni venti. Cioran ha sempre cercato una “via filosofica” alla questione contingente considerata, il cui risvolto pragmatico e politico ne era soltanto uno sbocco secondario. Tutto ciò non rende Schîmbarea un libro meno violento e inutile, ma ci apre gli occhi su una questione che deve essere analizzata per quello che è: le pagine soppresse dallo stesso Cioran perché ritenute troppo compromettenti sono certamente xenofobe e antidemocratiche, ma non hanno nulla a che vedere con le teorie del Mein Kampf; vi si legge: gli ebrei, al massimo, hanno ritardato l’ora solenne della Romania; ma non sono loro, in nessun caso, l’origine della nostra miseria, della nostra miseria di sempre. […] Ma l’antisemitismo non risolve né i problemi nazionali né quelli sociali di un popolo. […] La limitatezza d’orizzonti del nazionalismo rumeno dipende dal fatto che esso deriva dall’antisemitismo.147

147 E. M. Cioran, Schîmbarea la fata a României, cit., pp. 127-135.

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Tutto ciò non diminuisce la “colpa storica” della sua fascinazione per l’hitlerismo, della sua adesione alla Legione, né giustifica gli scritti degli anni trenta, ma ci mette sulla “via critica” da seguire: non l’aspetto politico, ma quello filosofico deve essere posto al centro del dibattito. E non è una presa di posizione da poco: seguendo questa linea interpretativa si nega la possibilità di strattonare l’opera di Cioran per farne un apologia di un movimento politico, o anche solo per inserirla in una categoria politicizzata di pensatori. Così facendo compiamo due atti dovuti, a mio avviso, alla memoria del pensatore romeno e all’onestà della ricerca: da un lato ridiamo valore filosofico (e non politico) alla crisi giovanile; dall’altro rimettiamo il suo pensiero dove deve stare nell’immensa biblioteca del sapere umano: al di là delle categorie dettate dalla contingenza storica, al di sopra dei concetti parziali e momentanei di “destra” o di “reazionario”. Studiando Cioran, la storia non deve essere accantonata, tutt’altro: è proprio a partire da un’approfondita analisi storica che possiamo giungere ad una critica “super partes” che riesca a leggere il suo pensiero per quello che è e non per un’ideologia ad appannaggio di una forza politica. Si tratta di un approccio più legittimo al problema, un metodo che evita anche l’errore grave che parte della critica sta facendo in questi anni nell’analizzare il “periodo romeno” di Cioran, e cioè di giudicare quegli anni un “errore di gioventù” quasi da non considerare, come se un pensiero potesse fare tabula rasa dalle proprie premesse. Non è così: gli anni a cavallo fra il 1933 ed il 1937 sono stati fondamentali non solo per il Cioran “uomo”, ma per la sua filosofia. Senza Schîmbarea, a mio avviso, non ci sarebbe stato il Précis e tutta l’opera francofona: negare le matrici del “periodo francese” assomiglia a voler ammirare un palazzo dopo averne demolite le fondamenta. È un errore grave chiudere gli anni romeni in una delle due categorie più in uso oggi: quella dell’indirizzo politico, secondo la quale questo pensiero va letto come un prodotto della destre reazionarie, e quella dell’errore giovanile da dimenticare per avvicinarsi al periodo realmente creativo, dopo il 1940 a Parigi. Dobbiamo avere il coraggio critico di ammettere che la stessa scelta di abbandonare la patria da esule per non dire più nulla nella lingua natia abbia profonde radici negli anni trenta e che quella breve ma intensa parabola esistenziale romena segnò irrimediabilmente il pensatore che a quel periodo fece riferimento per tutta la vita. Il compito ci è reso più arduo dal fatto che Cioran in vita fu riservato e quasi impenetrabile per quello che riguardava la propria visione politica, sebbene, come ricorda Munzi: «Provava un odio inesauribile per il comunismo. E così odiava Sartre che ne era l’apostolo parigino.

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Sedevano uno accanto all’altro al caffé Flore senza scambiarsi neanche una parola. Aveva incontrato Albert Camus che gli aveva detto: – È ora che lei entri nella circolazione delle idee. Risposta di Cioran: – Vai a farti fottere. I suoi libri erano proibiti al di là della cortina di ferro».148 Ma la sua reticenza, la sua volontà di non proferire mai un “mea culpa” pubblico per il periodo di Vremea rientra compiutamente nel “quadro” dell’uomo-Cioran, di colui che negava qualsiasi valore alla contingenza, di colui che passò la vita a cercare quell’abisso indicibile nel quale sta la “verità” dimenticata dagli uomini. Dopo tutto il fervore degli anni di Codreanu, la Romania del 1940 è in mano alla “nuova” Guardia di Ferro, capitanata da Sima e Antonescu, che controlla quasi tutti i ministeri, gli organi di stampa e le prefetture. La notte tra il 26 ed il 27 novembre i Legionari massacrano 64 prigionieri politici nella prigione di Jilava, vicino a Bucarest. In giornata erano stati prelevati dalle loro abitazioni l’anziano ministro delle finanze Virgil Magdearu ed il grande storico Nicolae Iorga. Entrambi vennero giustiziati nei boschi vicini alla capitale. Mircea Eliade definirà (Memoire II, 1988) quelli del 26-27 novembre dei «crimes odieux». Nel frattempo la radio trasmetteva l’apologia scritta da Cioran per il Capitano Codreanu. Non sappiamo se la trasmissione fosse in diretta o se si trattasse di un discorso precedentemente registrato, ma poco importa: la Romania è nel caos, così come il pensatore, in cui s’insinua un dubbio sempre più radicale nei confronti della possibile realizzazione delle teorie esaltate negli anni precedenti. Le feste collettive nella Germania nazista, la “foresta fanatica” dei grandi cerimoniali, lo sforzo propagandistico che sfociava nelle adunate oceaniche qui come nell’Italia fascista facevano tremare l’ingegno del pensatore rumeno che iniziava a temere di trovarsi nel pieno di una “follia collettiva” ormai incontrollabile. «Si l’on veut résumer sa période allemande, on peut donc dire que Cioran y trouve intellectuellement la confirmation de son vitalisme. Face à la démocratie, il prend le parti non point tant de la dictature; mais, on dira mieux, d’une sorte d’insurrection pure, sans doctrine ni vraie prospective non plus: de “révolte du nihilisme”, pour paraphraser le titre du célèbre livre d’Hermann Rauscning, qui se laisse aller comme avec plaisir à son propre vertige»;149 ma la “nuova barbarie”, che avrebbe dovuto abbattere il vecchio “sistema” sulle cui macerie costruire un’inedita forma di pensiero, si era trasformata in una bruta-

148 U. Munzi, Cioran l’ultimo cavaliere del nulla in «Corriere della sera», 21/6/1995. 149 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 107.

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le arma d’invasione fine a se stessa. Era l’inizio della fine del sogno di una “Nuova Europa”. La politica totale si mostra per quello che è: un nuovo feticcio, una fede fasulla. La spinta vitale tanto cantata diviene la soglia del terrore e della tragedia. Il progetto è fallito, l’uomo non è cambiato, lo spirito del popolo non s’è risvegliato in nessun modo, si è solo ubriacato per una breve parentesi di tempo. Di tutto lo slancio è rimasta la miseria di un mondo ormai in guerra come venticinque anni prima. Nessuna trasfigurazione, nessun uomo nuovo alle porte: Cioran ha fallito. È caduto. Alla fine del febbraio 1941 abbandona la patria (una lettera spedita da Vichy a Petru Comarnescu è datata 1° marzo). Un mese più tardi, il 6 aprile, Vremea annuncia la dodicesima edizione de La trasfigurazione della Romania, quasi un regalo di compleanno al filosofo che due giorni dopo festeggerà i suoi trent’anni. Dopo essersi trasferito a Parigi, Cioran tenta una “rimozione” del periodo romeno, cercando di passare sotto silenzio le attività e le opere più compromettenti. Così negli anni novanta, in occasione di una nuova riedizione a Bucarest del suo “libro dannato”, Trasfigurazione della Romania, fa eliminare le parti a suo avviso più discutibili: le pagine del IV capitolo sull’antisemitismo. Questa reticenza ha però finito per nuocergli e, dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1995, i dubbi e le illazioni sul suo “fascismo” finirono quasi per mettere in ombra la sua opera. In vita, i suoi detrattori furono diversi e, ovviamente, per la maggior parte ebrei o marxisti. Il caso storico più evidente fu quello di Luciene Goldmann, figura di rilievo della sociologia marxista francese del secondo dopo guerra: nato a Bucarest nel 1913 e stabilitosi a Parigi nel ’45, ebbe una conoscenza diretta degli scritti antisemiti e filo-hitleriani di Cioran (essendone connazionale e quasi coetaneo) e non smise mai di esprimere il proprio malessere per il silenzio colpevole sul proprio passato del pensatore rumeno e dei suoi amici compatrioti emigrati a loro volta in Francia. Per Cioran Goldmann fu un vero e proprio incubo, tanto da indicarlo, tra le annotazioni ritrovate nei suo Cahiers, come il maggiore artefice del suo fallimento nella carriera universitaria (malgrado non risulti niente di simile) e come colui che lo aveva infangato per vent’anni agli occhi di tutta Parigi con calunnie sul suo passato. Goldmann, autore del Dieu caché (1956) morì nel 1970, ma con la sua scomparsa le polemiche sul “fascismo” di Cioran non cessarono. Il dibattito o, meglio, la condanna, proseguiva, ma trovava spazio quasi esclusivamente su riviste di scarsa diffusione e pressoché soltanto in Israele.

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Ma il colpo più duro arrivò nel 1981 su La Quinzaine littéraire e ancora per mano di un suo vecchio compatriota: il filosofo lukacsiano Nicolas Tertulian. In un articolo intitolato La période roumaine de Cioran150 il filosofo riportava alla luce alcuni tra i passaggi più violenti e palesemente filohitleriani degli scritti degli anni trenta. Il quadro che ne uscì, specie nella Francia perennemente engagée, fu di una durissima condanna. Il 30 dicembre 1998, «Le Monde» dedicò una recensione ad un volume uscito a Bucarest, il Diario dello scrittore ebreo Mihail Sebastian, documento sull’impegno dell’élite culturale romena e sui suoi legami con la Guardia di Ferro. A cioran erano dedicate solo un paio di righe, ma il “caso” veniva riaperto. Cioran, per parte sua, non fece mai alcuna dichiarazione sul suo periodo rumeno, anzi: nel 1986, intervistato da Fritz J. Raddatz per il quotidiano tedesco Die Zait, ad una domanda sulla sua fascinazione giovanile per il “fascismo rumeno” rispose apertamente di si, ammise la sua vicinanza ai nazionalisti del tempo. Ma alla successiva domanda sulla stessa adesione al nazismo tedesco egli negò fermamente. Nel 1968 dichiarò: «Sono metafisicamente ebreo». In vita, Cioran non ha mai voluto chiarire oltre la vicinanza giovanile all’estrema destra, forse per non dover iniziare un discorso troppo difficile ed indigeribile per la moderna Europa certa del valore assoluto della democrazia e mai guarita dalle ferite del Nazismo e della sua folle deriva; forse per non dover affrontare uno spettro personale che mai smise di tormentarlo malgrado le parole consolatrici di Ionesco, che attribuiva la passione di Cioran per il movimento di Corneliu Zelea Codreanu al lato mistico della Legione. «Des calomnies atroces» fu la sua ultima parola riguardo gli attacchi continui di Goldmann. Sembrerebbe assurdo domandarsi se sia giusta questa definizione a fronte dei dati storici acquisiti dopo la caduta del comunismo e la pubblicazione in inglese, nel 1991, dell’opera di Leon Volovici, storico e sociologo dell’univeristà di Gerusalemme, Nationalist Ideology and Anti-Semitism: The Case of Romanian Intellectuals in the 1930’s (Pergamon Press, Oxford, 1991), ulteriore fonte di materiale provante le accuse di Golmann. Eppure Cioran continuò a negare, o quantomeno a non ammettere le sue “colpe” malgrado non scrivesse più da anni. Ma, allora, perché non cogliere l’occasione di chiedere perdono, di venire riabilitato, come molti in Europa, dopo un partecipato “mea culpa” sul proprio passato?

150 N. Tertulian, La période roumaine de Cioran, in «La Quinzaine littéraire», n° 351, I, 15/7/1981.

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Nel 1947 Cioran scrive il suo capolavoro: dato alle stampe nel 1949, il Sommario di decomposizione s’insinuava in un ambiente assillato dall’engagement politico ed in aperto contrasto col pensiero “impegnato” della Parigi di Sartre. Un testo tanto permeato di antistoricismo e antiumanesimo dovette trovare non poche difficoltà ad essere accettato in un ambiente culturale così marcatamente indirizzato verso spinte opposte del pensiero sociale avanguardista. Non è un caso, infatti, che nel 1953 sia Paul Celan, probabilmente il più grande lirico tedesco della seconda metà del ‘900, a tradurre in Germania l’opera del pensatore rumeno, apprezzandone ed esaltandone sopra ogni cosa lo stile, la nuova dimensione linguistica capace di fondere prosa e lirismo in “quadretti filosofici” che diverranno il biglietto da visita dell’opera di Cioran. In Francia l’apprezzamento per il francese più bello del secolo correva di pari passo con il disinteresse per l’indirizzo apparentemente reazionario di quel pensiero che pareva danzare lieve su parole di piombo, totalmente alieno al nuovo spirito sociale ed alla neo-rivoluzione intellettuale dei professori politicizzati ed impegnati. Ma questo fu per il nostro il momento rivoluzionario assoluto: Cioran con il Précis e, ancor prima, con la decisione di trasferirsi a Parigi e non scrivere mai più una sola riga in romeno Che cosa vuole che faccia col mio romeno a Parigi? Avevo rotto con la Romania: non esisteva più per me. (…) Ad ogni modo, la Romania per me rappresentava solo il passato. Perché, allora, scrivere in romeno?151

muterà la propria condizione esistenziale divenendo un “esule”: un uomo che ha abbandonato la propria casa non perché stanco di essa, ma perché bisognoso di allontanarsene, di staccarsi dalla propria terra, dall’aria che gli faceva pulsare le tempie nelle notturne ricerche insonni della “verità ultima”. Un uomo che smettedi scrivere nella propria lingua per non affogare più in quel “pensiero che sa di carne e di sangue” che l’aveva ispirato e distrutto in gioventù ma che ora deve venire superato per una ricerca più esaustiva e pacata (per quanto possa essere pacato Cioran), mitigata dall’ironia tagliente che sarà uno dei tratti tipici della penna francese ma che era assai raro in tutto ciò che aveva scritto prima. Esule e non sradicato, perché quest’ultimo dimentica la patria, fa del proprio essere apolide un punto di partenza o di forza per un nuovo

151 M. Jakob, Cioran scrittore del nulla, in «Il giornale», 21/1/1995.

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pensiero; il nostro invece non smise mai un dialogo con la terra natia, con una patria da cui era dovuto fuggire per non crollare negli abissi del delirio cui un pensiero forte e acuto, lasciato totalmente libero, tende per natura. In vita, abbiamo detto, Cioran non ha mai fatto pubblicamente il suo mea culpa a proposito del libro maledetto, né del periodo romeno xenofobo e filo-hitleriano. È un fatto che ci abbia lasciato senza un “testamento etico” che spiegasse quel momento, quel pensiero. Nel 1996 però, un suo giovane biografo romeno, capofila degli scrittori liberali di Bucarest, Gabriel Ljiceanu, pubblica un testo inedito del filosofo, risalente ai primi anni cinquanta e ritrovato dalla compagna, Simone Boué, dal titolo Tara Mea, Il mio paese. In esso Cioran spiega in quale clima culturale e politico fosse nata la sua partecipazione ai movimenti populisti di Condreanu e alla sua “Legione dell’Arcangelo Michele” del ’26: affascinata dagli spettacoli trionfali del fascismo italiano e del nazismo tedesco da un lato, dall’esaltazione del primo quinquennio del comunismo russo dall’altro, la gioventù romena venne colpita da una vera e propria crisi d’identità nella quale la preoccupazione per il destino della nazione, il significato della propria “romanità”, assunse forme ossessive. Il disequilibrio sociale e “mentale” della Romania del primo dopoguerra, la frattura di un paese ricco di giovani intellettuali d’estrazione popolare cresciuti coi libri di Nietzsche, Simmel, Dostoevskji e socialmente sottosviluppato, con un regime parlamentare mal radicato, corrotto e mediocre, fu inevitabile e, come in ogni nazione spezzata, l’idea “nuova”, “forte” e violenta divenne il simulacro di una nuova speranza. Eravamo una banda di disperati nel cuore dei Balcani. […] Fu un movimento crudele, misto di preistoria e di profezia mistica, di preghiera e rivoltella, […] aveva commesso l’inespiabile colpa di dare un avvenire a ciò che non ne aveva.152

Fu una ricerca di “assoluto”, in Romania con Cioran, Noica ed Eliade (tutti discepoli dello storico nazionalista Jorga) come in Francia, per esempio, con La Rochelle, Nizan e Malraux, in Germania con Klages. Ci troviamo di fronte ad un sottobosco di pensiero pan-europeo che, con appartenenze politiche anche opposte, ha riempito il dopoguerra di quasi tutto un continente, dalla Spagna alla Russia, dalla Grecia alla Germania.

152 F. Fejto, Volevo la Romania smisurata e potente, in «Il giornale», 31/7/1996.

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I. LA ROMANIA

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Cambiavano i colori delle bandiere ed anche le ideologie che muovevano i governi o le insurrezioni politiche, ma l’idea (intesa in senso non politico ma prettamente filosofico, quasi platonico) alla base fu la stessa: fu uno sfrenato bisogno di rinascita, di superamento del passato in una proiezione futurista che gettava ogni speranza per il presente in un ipotetico futuro. Fu la violenza della volontà contro l’esistente: non a caso anche Schîmbarea, testo definito filo-hitleriano, «résonne ainsi de déclarations d’admiration envers Lénine et la révolution russe»,153 a dimostrazione del fatto che l’adesione politica alla destra rumena fu solamente una conseguenza, come ho già sostenuto, del proprio pensiero filosofico e del quadro cultural-politico del tempo. Soltanto il futuro e la sfida a qualunque forma di canone ed istituzione coinvolta nel recente passato parevano essere i dignitari della speranza di intere nazioni distrutte da un inizio secolo che aveva messo in discussione la sopravvivenza stessa dei popoli in tutto il continente euro-asiatico. La risposta ad un passato di dolore ed un presente d’incertezza fu ovunque un tuffo nel vuoto di un futuro in cui la grandezza dell’antichità ritornava matrice della speranza: “torniamo dove già fummo” dicevano le camicie nere, in Germania il saluto romano richiamava il desiderio di far parte di un qualcosa tanto grandioso da aver superato la polvere dei secoli per rimanere il più grande impero della storia dell’uomo. A queste spinte occidentali, certamente molto sentite in Romania, forse il paese più europeo dei Balcani, dobbiamo sommare una forte influenza della Russia, improvvisamente esplosa alle porte nella sua rivoluzione d’ottobre. Addirittura, concordando con Bollon, posso affermare che Cioran abbracciò la destra rumena e non si richiamò al bolscevismo russo solamente per una questione pragmatica: i rumeni si rendevano conto che se avessero preso parte alla rivoluzione bolscevica sarebbero rimasti, ancora, una provincia di un Impero. La loro voglia di libertà e di affermazione di caratteri unici ed autoctoni eliminò quasi completamente il pensiero filo-russo dalla Romania. Il fatto che Cioran alluda spesso a Lenin con toni ammirati malgrado l’assenza di un “humus” favorevole a tali fascinazioni è un’ulteriore prova di quanto detto fin’ora riguardo la lettura che si dovrebbe fare del periodo politico del pensatore di Ra⁄¶inari. I giovani romeni potevano guardare oltre i confini della propria nazione in ogni direzione e vedere bandiere e lingue diverse, ideologie

153 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 113.

FABIO RODDA

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politiche opposte, ma lo stesso desiderio e soprattutto la stessa idea, la stessa vera matrice emotiva (ribadisco, non politica né programmatica) ad ispirare l’Europa. I concetti di voluntas ereditata da Schopennhauer e oltreuomo di Nietzsche, stravolti nel delirio politico di giovani intellettuali carichi di forza e desiderio di cambiamento, ma ormai delusi dalla fiducia nel divenire proposto dalle ideologie rivoluzionarie e illuministe dei secoli passati, fece sgorgare dall’anima dell’Europa tutto quel fuoco e tutto quel sangue. «Ma le influenze non dimostrano molto: né gli uomini né i paesi vivono nel vuoto; essi assorbono, più o meno coscientemente, lo spirito del tempo che li costringe a rivestire le loro idee, i loro interessi e le loro azioni nei panni di moda. Per fare un esempio, si pensi alla lotta dei croati per la loro indipendenza, ed ai toni apparentemente fascisti che essa assunse, ed alle solidarietà internazionali che ricercò (ed ottenne); e dall’altra parte all’attuale analoga lotta di certi gruppi baschi e palestinesi, proclamata socialista».154 Diventano fondamentali, per un’analisi onesta della questione, il luogo ed il tempo. Se non consideriamo il contesto in cui tutto questo è nato, siamo volontariamente incapaci di comprendere e spiegare il “caso” Cioran, magari perché è più conveniente immolarlo sull’altare della cultura politicizzata, o perché viene più facile ignorare una questione spinosa. La Romania rimase schiacciata: il movimento di Codreanu denotò subito il suo carattere suicida, finendo nel terrorismo e negli attentati, e l’intellighenzia del Paese si spaccò. Molti fuggirono, alcuni rimasero scavando nicchie di libero pensiero in una terra soffocata dalla dittatura, come fece Noica. Cioran ebbe la fortuna o il buon senso di staccarsene in tempo per non essere del tutto compromesso. Si disingannò, rinunciò a fare la storia del suo paese e lo abbandonò per divenire un esule cacciato dalla patria che aveva tradito: Ho perduto persino il gusto di giocare alla frenesia, alla follia…Quando ci penso ora, ho l’impressione di ricordare gli anni di un altro. Ed è quello lì che rinnego, tutto me stesso è altrove, a mille leghe da quello che fu.155

Rimane difficile, a questo punto, capire il perché di tale deriva politica soltanto se ci ostiniamo a non “semantizzare il discorso” ed inserire il giovanissimo Emil nella Transilvania del primo dopoguerra. In

154 M. Ambri, I falsi fascismi, cit., p. 224. 155 F. Fejto, Volevo la Romania smisurata e potente, cit.

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I. LA ROMANIA

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questo scenario, descritto in precedenza, va inserita la parabola umana e filosofica del giovane Cioran e da questa non possiamo prescindere per considerare il Cioran maturo. Per lui, come per gli ideologi della Legione, la rivoluzione materiale sarebbe stata una conseguenza necessaria della rivoluzione spirituale: «Se un’idea vera e una falsa si oppongono in una elezione…è concepibile che cinquanta voti decidano tra la verità e la menzogna?».156 Rimane “sospesa” una domanda: se abbiamo capito qual è la matrice storica dell’opera romena di Cioran, se abbiamo accettato che la sua deriva politica sia un dato da ascrivere al “quadro generale” del tempo e soprattutto, e questo è il nodo di fondo, se abbiamo capito che «la vérité est beaucoup plus simple: Cioran n’est rien d’autre, à l’époque, qu’un extrémiste pur. Comme il l’écrira au reste très clairement dans un artiche de Vremea en 1937, c’est un adepte du mouvement pour le mouvement»157 e siamo, quindi, pronti a comprendere il suo “errore”, allora perché il pensatore non ha voluto chiudere in vita questo capitolo nero? Perché, ormai famoso e conosciuto in tutto il mondo, non ha voluto chiedere scusa al passato ed abbassare definitivamente il sipario su un argomento già troppo discusso a scapito di tutto quello di cui si dovrebbe discutere dopo aver letto le sue opere? Non possiamo che fare delle supposizioni. In una lettera al fratello Aurel, Cioran parla del rimorso per gli anni giovanili e non cessa di ripetere quanto rimpianga di aver scritto Schîmbarea: Ogni tanto mi domando come io abbia davvero potuto scrivere La trasfigurazione della Romania. Qualsiasi partecipazione alle vicissitudini temporali è una agitazione vana. Se tiene a conservare una qualunque dignità spirituale, l’uomo deve dimenticare il suo status di contemporaneo. Oggi io ne sarei talmente più lontano se avessi già saputo ciò a vent’anni.158

Ecco da dove dobbiamo partire per arrivare ad una seconda conclusione: il problema di fondo non deve essere quale parte politica abbia abbracciato Cioran, ma il fatto stesso che ne abbia abbracciata una: Sul finire dell’adolescenza si è fanatici per definizione ; lo sono stato anch’io, fino al ridicolo. Ricordate il tempo in cui snocciolavo frasi incendiarie non tanto per amore dello scandalo, ma per bisogno di sottrarmi ad

156 C. Z. Codreanu, Eisterne Garde, Berlino 1939 p. 284 in M. Ambri, I falsi fascismi, cit., p. 225. 157 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 114. 158 F. Fejto, Volevo la Romania smisurata e potente, in «Il giornale», 31/7/1996.

FABIO RODDA

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una febbre che, senza lo sfogo della violenza verbale, mi avrebbe sicuramente consumato?159

Cioran non se n’è andato senza lasciarci una “confessione” riguardo agli anni di Vremea, solo che non siamo stati capaci di coglierla. L’errore vero, il più grave, fu quello di occuparsi della contingenza, di cadere nel tranello dell’attualismo che fa perdere di vista l’obbiettivo ultimo della propria ricerca: la verità oltre il velo mistificatore della realtà. Il dramma che Cioran confessa al fratello non è quello della vergogna per la vicinanza d’idee con le destre del tempo, ma quello della vergogna per la propria, giovanile, partecipazione al tempo, per la sua momentanea caduta nel tempo. Supponendo che una volta io vivessi nel tempo, che cos’era e in che modo rappresentarmene la natura? L’epoca in cui mi era familiare mi è estranea, ha disertato la mia memoria, non appartiene più alla mia vita. E credo addirittura che mi sarebbe più agevole radicarmi nella vera eternità che reinsediarmi in esso. Pietà per colui che fu nel Tempo e non potrà mai più esservi! (Decadenza inaudita: come ho potuto invaghirmi del tempo, quando ho sempre concepito la mia salvezza al di fuori di esso, così come sempre sono vissuto con la certezza che stava per esaurire le sue ultime riserve e che, roso dal di dentro, colpito nella sua essenza, mancava di durata?)160

Ecco il testamento di Cioran, la sua confessione, la sua autocritica storica e morale: Adesso, quando ripenso a quei momenti di furore esaltato, alle insensate speculazioni che devastavano e ottenebravano la mia mente, non le attribuisco più a dei sogni di filantropia e di distruzione, all’assillo di chissà quale purezza, ma ad una tristezza bestiale che, nascosta dietro la maschera del fervore, si alimentava a mie spese e di cui pure mi sentivo complice, felice com’ero che non mi toccasse, come a tanti altri, di scegliere tra l’insulso e l’atroce. A me spettava l’atroce, che potevo augurarmi di meglio? […] Non vi dirò in che modo e con quale intimo travaglio riuscii a liberarmi di tante frenesie […] Quali che fossero i miei argomenti, non rappresentarono certo l’unica causa del mio mutato orientamento. Vi contribuì per molto un fenomeno più naturale e più sconfortante: l’età, con i suoi sintomi che non mentono, cominciavo a dare sempre più spesso segni di tolleranza […] non avevo più la forza di augurarmi la morte dei miei nemici. Al contrario, li capivo, confrontavo il loro fiele col mio: loro esistevano e, decadenza senza nome,

159 E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., p. 30. 160 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., p. 125.

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ero contento che esistessero. Davo l’addio a L’unico e la sua proprietà; la saggezza mi tentava: ero finito? Bisogna esserlo per diventare un sincero democratico. Mi accorsi, con grande sollievo, che non era esattamente così, che restavano in me tracce di fanatismo, residui di giovinezza: non venivo a patti su nessuno dei miei principi; ero un liberale intransigente.161

Ecco il vero “mea-culpa” del pensatore che ci ha lasciato, da vivo, la chiave interpretativa del problema: l’errore capitale non fu l’adesione ad un movimento, ma l’adesione al Tempo, la caduta nella fede che, a breve, analizzerà nel suo Lacrime e Santi. La sconfitta di colui che voleva scorgere, oltre le categorie e le strutture in cui viviamo, la verità ultima è spiegata in quelle poche righe racchiuse tra le ultime pagine del suo La chute dans le temp. Dobbiamo sforzarci di capire questo passaggio perché si tratta, a mio avviso, del punto focale di tutto il dibattito (inutile) che da una decina d’anni occupa il tempo di giornalisti e biografi: il crollo, il disastro che Cioran ricorda inquieto fino a confidarsi col fratello, non è quello di aver creduto in Codreanu (problema secondario), ma di aver creduto, di essere passato dalla parte di quelli che …passano di affermazione in affermazione: la loro vita – una serie di sì… Plaudendo al reale o a ciò che a loro sembra esserlo, danno il loro consenso a tutto e non provano alcun imbarazzo a dirlo. Non c’è anomalia che non spieghino o non classifichino tra le cose “che capitano”. Quanto più si lasciano contaminare dalla filosofia, tanto più, di fronte alla vita e alla morte, sono spettatori indulgenti. Per altri, abitudinari della negazione, affermare esige non soltanto una volontà di obnubilazione, ma uno sforzo contro se stessi, un sacrificio: che fatica il più piccolo sì! Che rinnegamento! Sanno che un sì non viene mai solo, che ne implica un altro, tutta una serie: come arrischiarsi a cuor leggero?162

Quel sì è stato il vero fallimento, il motivo di vergogna. Ma è motivo di una sofferenza privata, troppo lontana dalla discussione politica contemporanea e dai normali parametri degli uomini che credono se stessi il centro del mondo e così “sognano” il reale, sguazzando nel pantano della vita senza cercare nulla di più alto, di totalmente altro. Ma per Cioran «La vérité ne rêve jamais»,163 ed il suo peccato di gioventù fu quello di sognare come gli altri, di lasciarsi catturare dal feticcio del mito e di credere per un attimo in qualcosa, perdendo quella

161 E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., p. 32. 162 E. M. Cioran, La tentazione de esistere, cit., p. 199. 163 E. M. Cioran, Indreptar patimas, trad. du roumain par Alain Paruit, Bréviaire des vaincus, collection arcades édition Gallimard, Paris 1993, p. 24.

FABIO RODDA

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lucidità che l’esperienza dell’agonia delle infinite notti insonni gli aveva donato. Cioran non poteva da vivo spiegarci tutto questo, perché sarebbe stato di nuovo un cadere nel bisogno della contingenza. Non voleva spiegarci quello che aveva già chiaramente scritto tra le righe dei suoi libri. Lasciamo agli storici il resoconto del peso che può aver avuto Schîmbarea sulla cultura balcanica, o gli scritti per la rivista Vremea sull’ “internazionalismo pseudo-fascista”; il nostro compito è capire non solo perché (e credo sia stato spiegato) un uomo come Cioran possa aver avuto giovanili passioni per il nazionalismo romeno, ma, soprattutto, comprendere cos’abbia significato per il suo pensiero tutto questo. Bisogna avere il coraggio di ammettere che gli anni ’30 sono stati per il genio romeno anni fondamentali e che da essi nasce tutto ciò che amiamo dell’autore che ripeteva: Si è liberali solo esclusivamente per spossatezza, democratici per ragione, e l’infelicità è cosa dei giovani;

sono stati gli anni dell’errore, della caduta dal metodo acquisito del pensiero lucido alla vita quotidiana, con le sue passioni e le sue fedi, sempre e comunque false per chi ha fatto della demistificazione del reale l’unica missione. A questo punto non resta che unire le due conclusioni tratte fin’ora: da un lato abbiamo capito perché Cioran si sia tanto avvicinato ad un pensiero politico che sfociò in Romania nelle brutalità della Guardia di Ferro, dall’altro ho tentato di ipotizzare un motivo per spiegare la reticenza del pensatore sull’argomento, cercando di spostare l’obbiettivo dell’indagine su quello che, penso, sia il vero motivo di discussione, il vero errore che cambiò per sempre la vita dell’autore di Schîmbarea. Da qui, a mio avviso, dobbiamo partire per comprendere l’esilio volontario in Francia, l’appropriazione di una nuova lingua basato su regole imposte, mediatrici di un pensiero logorante. Come raccontarvi nei dettagli la storia del rapporto che mi lega a quest’idioma non mio, con tutte quelle parole pensate e ripensate, affinate, sottili fino all’inesistenza, schiacciate dalle esigenze della sfumatura, inespressive a forza di esprimere tutto, spaventosamente precise, colme di stanchezza e di pudore, discrete anche nella volgarità? Sarebbe quasi affrontare il resoconto di un incubo. Come può uno sciita adattarvisi, coglierne il significato preciso, maneggiarle con scrupolo e onestà? Non c’è n’è una che, con la sua eleganza estenuata, non mi dia le vertigini: non recano più traccia di terra, di sangue, d’anima.164 164 E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., pp. 27-28.

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I. LA ROMANIA

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Così, in una delle lettere inviate a Noica in Romania, Cioran spiegava la scelta di una nuova lingua e di una nuova terra, malgrado ammettesse la sofferenza mai appagata per il paradiso natale perduto: darei tutti i paesaggi del mondo per quello della mia infanzia.165

Non è corretto, quindi, asserire che la “questione rumena” non sia mai stata chiarita da Cioran: semplicemente, chi cercava delle risposte poneva le domande sbagliate, o non ascoltava quello che gli veniva ripetuto in rare interviste e in moltitudini di appunti, pensieri, libri. Il “caso” degli anni “politici” di Cioran è, e spero sia stato chiarito in questa sezione, risolvibile sotto ogni punto di vista: non rimangono aporie a mettere in crisi il critico o mancanze materiali che rendono impossibile una ricostruzione ed un’esegesi soddisfacente della questione. Bisogna però essere in grado di cogliere i diversi aspetti in gioco e, soprattutto, l’eccezionalità del soggetto che vogliamo studiare e capire, maestro dell’essere in costante contrasto con se stesso. Una volta appresa la giusta chiave di lettura del periodo in discussione tutto si palesa da sé e, come abbiamo appena finito di spiegare, possiamo asserire con relativa certezza le cause e le conseguenze dei tanto mistificati anni trenta romeni. Dobbiamo bruciare, si domanda Alexandra Laignel-Lavastine al termine del suo saggio,166 le opere di Cioran? No. Ovviamente concordo con lei, ma aggiungo anche che quelle opere hanno un valore che trascende il fatto politico e persino quello storico. Le opere degli anni trenta possono, da un lato, aiutarci a chiarire la storia recente dell’Europa, molto più sfaccettata e sfumata di come parte della storiografia la vorrebbe; dall’altro, ci permettono di comprendere come e dove è nato quello che diventerà a breve in Francia il grande lucido Emil Cioran. Dimenticare quegli anni è un gravissimo errore, oltre che storico, interpretativo e critico. Concludendo, non rimane che rispondere alla domanda posta all’inizio: Cioran è da annoverare tra i pensatori “di destra” ? No. Non è possibile classificare in una generica posizione politica chi ha fatto di tutto nella propria opera per allontanarsi dalla contingenza. Le sue opere politiche sono esempi del conservatorismo borghese? No. A meno che non si voglia considerare qualunque esperienza delle destre rivoluzionarie come conservatrice.

165 Ibid., p. 28. 166 A. Laignel-Lavastine, Cioran, Eliade, Ionesco, l’oubli du fascisme, cit.

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Cioran è stato legato a Codreanu e affascinato da Hitler e dal Nazismo? Si. È indubbio. Altri dovranno valutare il peso delle sue opere politiche. D’altro canto, esso, di qualunque portata sia, non può, a mio avviso, inficiare mezzo secolo di pensiero eccezionale. Purtroppo i testi di Cioran sono apparsi spesso, in Europa, in sedi quantomeno discutibili: in Italia, ad esempio, dagli anni sessanta si è tentata una lettura politica di Cioran come pensatore della destra. Sono stati pubblicati saggi malamente tradotti da editori della destra radicale compiendo un’opera di volontaria mistificazione sul pensiero di Cioran. Nel 1971 la Edizioni il Borghese pubblica Le mauvais démiurge col titolo I nuovi dei, otto anni dopo la Ciarrapico Editore stampa una seconda edizione (precedentemente pubblicata ad opera sempre de Edizioni il Borghese) di Storia e Utopia con una postfazione dal Gianfranco De Turris dal titolo Mito, storia e utopia secondo Emil Cioran. L’appropriazione furtiva di idee che non appartengono, in realtà, al proprio retroterra culturale è un’azione tipica da parte di chi ha poco da dire e meno da pensare. Spesso l’ignoranza (giustificabile) di chi legge va a braccetto con la malafede (imperdonabile) di chi non sa come giustificare la propria pochezza e stravolge il pensiero altrui per creare un retroterra altrimenti assente. Lo studio attento e spassionato, credo, rimane il miglior antidoto ai lavori da saltimbanco.

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II arigi

P

Io cerco ciò che è. La mia ricerca è priva d’oggetto. Avviamoci al Giudizio Universale con un fiore all’occhiello.1

el 1937 Emil Cioran lascia Bucarest N e la Romania per trasferirsi a Parigi, la città decadente della filosofia occidentale, ma anche il centro

del mondo dell’accademia, della cultura e dell’arte. Come borsista dell’Istituto Francese di Bucarest, il futuro autore del Précis de décomposition s’installa in rue Sommerand n° 13, presso l’hotel Marignan, una delle tante e misere pensioni ed ostelli in cui vivrà fino al definitivo trasferimento, nel 1960, nella mansarda di rue de l’Odeon, a due passi dal celeberrimo teatro, nel cuore del quartiere latino. Il giovane esule romeno passa le sue giornate camminando per i Giardini del Lussemburgo, i «suoi giardini» come amava definirli, o girando in bicicletta le campagne fuori città come ricorda Marcoaldi: «Cento chilometri al giorno e lunghe soste nei cimiteri, dove se ne sta sdraiato per ore senza far niente, fumando una sigaretta dietro l’altra»,2 abitudine che in breve tempo lo porterà, soprattutto per sconfiggere insonnia e tensione, a pedalare in giro per Francia, Svizzera e Spagna. Ho definito più volte Cioran un esule. Tuttavia, per consuetudine è definito esule chi va, appunto, in esilio o, ancora meglio, chi viene mandato in esilio. Un esule è un diseredato: un disperato scacciato che fugge, per vergogna o dolore o ricerca di un miglioramento della propria condizione, la terra natia. Nella fuga vive la speranza per un futuro migliore (o solamente vivibile) ed il ricordo doloroso di un passato difficile: «L’exilé s’installe dans une situation anthropologique favorable à l’expérience de la spiritualité et de la nudité intérieure. […] D’où une nostalgie qui est comme la réminiscence confuse de cette unité perdue, le sentiment persistant d’un infini qui échappe à l’homme le lyrisme de l’âme si sensible de Cioran».3 1 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 71. 2 F. Marcoaldi, Voci rubate, cit., p. 91. 3 S. Jaudeau, Cioran ou le dernier homme, José Corti, Paris 1990, p. 31.

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La letteratura francese, la poesia soprattutto, dall’ottocento in poi è affascinata dal mito post-romantico del deraciné. Sradicati erano i poeti “postparnassiani”, lo era Rimbaud, lo erano gli artisti maudits del secolo che ereditavano il Werter romantico e lo trascinano fino alla belleépoque glorificando l’esistenza condotta ai margini, lontano dalla proprie origini e dagli affetti. Lo sradicato vive la propria condizione volontariamente e nega peso ed importanza esistenziale alla propria nascita geografica: si sente, o quantomeno vuole sentirsi, un cittadino del mondo; un uomo che, in quanto tale, non necessita dei limiti di una qualsiasi appartenenza. Oppure è un esploratore, un solitario che cerca nell’isolamento e nella vita condotta ai margini un motivo esistenziale o un metodo d’indagine per se stesso e il mondo. La differenza fondamentale sta, a mio avviso, nella volontarietà di uno status (quest’ultimo), e nella necessità dell’altro (l’esilio). Tutto questo non comporta un giudizio quantitativo (soffre maggiormente un esule o uno sradicato?), ma una differenza qualitativa: l’esilio non è mai volontario. È un’imposizione: sia essa voluta da una forza incontrastabile o determinata da una decisione su se stessi, rimane un momento di distacco violento e doloroso. Nello specifico, Cioran non fu cacciato da alcuno dalla madre patria. Decise in tutta libertà di andarsene poco prima che gli eventi politici precipitassero verso la conquista della Romania da parte delle forze Russe, nemiche naturali della fazione politica rumena di cui Cioran era un acceso sostenitore. Quella del transilvano sembra più una fuga vergognosa che una condanna all’esilio, ma non credo che la mia analisi pecchi di romanticismo affettuoso. Il crollo, la caduta dell’avventura politica di Cioran, del suo momentaneo tuffo nello studio della realtà più manifesta è ormai avvenuto. Non resta che staccarsi da sé, abbandonare il luogo, il mondo in cui si è immerso per poter tornare a ricercare la verità, lontanissima da tutto ciò che è momentaneo, realtà, contingenza. S’egli avesse lasciato la Romania per non dire più nulla, probabilmente sarebbe oggi ricordato solamente in patria e con il disprezzo che meritano i fuggiaschi dei vari regimi di tutta l’Europa del secondo dopoguerra. Può darsi, ma non è andata così. Un esiliato può essere cacciato come indesiderato politico, allontanato dalla comunità di potere; oppure può essere, ed è il caso di Cioran, l’artefice della propria cacciata: può riconoscere l’impossibilità di proseguire un cammino, la necessità di abbandonare se stesso per rinascere in qualcos’altro. In tutto questo, nonostante sia volontaria e non imposta l’idea di abbandonare la patria, rimane preponderante una perdita, un venire a mancare che conserva la violenza dell’ostracismo.

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II. PARIGI

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Non c’è esperienza mistica senza trasfigurazione: la passività non può portare ad alcun risultato. […] L’unica esperienza profonda è quella che si fa nella solitudine. Ogni frutto di un contagio resta in superficie: l’esperienza del nulla non è un’esperienza di gruppo.4

Ed egli scelse la solitudine, la cacciata dalla terra dell’infanzia che per tutta la vita avrebbe ricordato dicendo: si le mot paradis a un sens, il s’applique à cette période-là de ma vie.5

Abbandonata la Patria e con essa gioventù e interessi legati alla propria esistenza materiale, Cioran trova a Parigi la solitudine esistenziale ed il silenzio esteriore necessari a lasciar sgorgare i pensieri, a rinascere trasfigurato. Deve tornare, dopo la passione politica e l’esplorazione del mondo (inarrivabile) della fede e della mistica, a se stesso: distaccato da qualunque paese, da qualsiasi tendenza, gruppo, indirizzo di pensiero o ideologia, un “apolide metafisico”, come certi filosofi stoici della fine dell’Impero Romano, come “cittadino del mondo” e di nessuna parte.6

In questo senso Cioran può essere ritenuto un apolide; ma dal punto di vista emotivo, contingente, egli è un esule, uno scacciato che vive la perdita di una parte di sé e grazie a questa mancanza ritrova la via giusta del pensare, abbandonata per errore nel dedicarsi ai fatti della propria patria, cui era troppo legato per mantenere la lucidità necessaria ad un percorso tanto difficile. E il sunto di tutto questo ce lo dona, ancora una volta, lo stesso Cioran traslando la proria biografia: A torto ci immaginiamo l’esiliato come qualcuno che abdica, si ritira e si tiene in disparte, rassegnato alle sue miserie, alla sua condizione di relitto. Se lo osserviamo, scopriremo in lui un ambizioso, un deluso aggressivo, un amareggiato e un conquistatore insieme. […] Colui che ha perduto tutto, conserva come ultima risorsa la speranza della gloria e dello scandalo letterario. Tutto accetta di abbandonare, fuorché il suo nome. Ma il suo nome, come riuscirà ad imporlo dal momento che scrive in una lingua che i civilizzati ignorano o disprezzano? Si cimenterà con un altro idioma? Non gli sarà facile rinunciare alle parole in cui scorre il suo passato. Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra, cambia d’identità, anzi di delusioni. Eroicamente traditore, rompe con i suoi ricordi, e fino a un certo punto con se stesso.7 4 E. M. Cioran, E., in S. Jaudeau, Mistique et sagesse, cit., p. 18. 5 Lettera ad Aurel Cioran, 24 agosto 1971 in G. Liiceanu, Itineraires s’une vie, cit., p. 73. 6 J. Uscatescu, Cioran e l’esilio metafisico, in Saggi di cultura e filosofia, Studio Editoriale di Cultura, Genova 1981, p. 280. 7 E. M. Cioran., La tentazione di esistere, cit., p. 57.

FABIO RODDA

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Chiuso definitivamente il “capitolo politico” (che lo perseguiterà comunque per tutta la vita e che causerà profonde distorsioni nell’interpretazione del suo pensiero), Cioran si dedica alla stesura definitiva del suo Indreptar pa⁄tima¶ (Bréviaire des vaincus), ultima opera scritta in rumeno e “libro cerniera” tra il periodo rumeno e quello francese, iniziato il 12 marzo 1940 (viveva in rue Sommerard presso l’hotel Marignan) e terminato nel 1944 mentre soggiornava all’hotel Racine, rue Racine. Cioran vive la sua solitudine nel caos della città dei lumi, si sente straniero nel «languore parigino» in cui lo sguardo degli uomini non è diverso da quello dei suoi compatrioti lontani, e il senso della sconfitta dettata da un destino pregresso a qualsiasi nostra possibilità di scelta diventa, assieme alla propria condizione esistenziale, il tema fondamentale del Bréviaire: Mes semblantes, je les connais. J’ai lu plus d’une fois dans leurs yeux absents et vides la déraison de mon destin, quand je ne reposais pas mes révoltes dans les sommeils de leur regards. Je ne suis pourtant pas étranger à leur tourment. Ils veulent, ils veulent sans cesse. Et, puisqu’il n’y a rien à vouloir, je marchais sur leurs brisées hérissées d’épines, ma sente serpentait dans la fange de leurs désirs et blanchissait, sous un nimbe dérisoire, leur quête toujours dans les limbes.8

La ricerca segue la strada segnata da Lacrime e Santi e da Le crépuscule des pensées e la sua metafisica dell’estraneità rimane il cardine del pensare. In questo confrontarsi costante dell’uomo con Dio in una sorta d’antico paradosso per cui senza Dio tutto è nulla. E Dio? Nulla supremo,9

nasce l’atteggiamento metafisico di Cioran, la sua volontà di porsi sullo stesso piano di Dio; di fronte a Dio come colui che è, l’uomo si pone come colui che non è ed in questo porsi si cela, in un certo senso, tutta la ribellione di Cioran: Dio rappresenta l’ultima tappa di un percorso, traguardo estremo della solitudine, punto insostanziale al quale bisogna pur dare un nome, attribuire un’esistenza fittizia. Svolge in sostanza una funzione: quella del dialogo. Anche chi non crede aspira a conversare con il “Solo”, poiché non è facile intrattenersi con il nulla.10 8 E. M. Cioran, Bréviaire des vaincus, cit., p. 11. 9 E. M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 66. 10 E. M. Cioran, in S. Jaudeau, Mistique et sagesse, cit., p. 22.

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II. PARIGI

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Da qui nasce quel senso dell’estraneo e quella ricerca della propria estraneità che lo spingerà a scrivere tutti i suoi libri. In questo ribellarsi, l’uomo è sì un’autocoscienza, ma “sporca”; in un certo senso negativa, destinata a vagabondare senza una precisa meta. Tutto diviene rarefatto, il contesto in cui siamo immersi e che ci dà fondamento non vi è più e al suo posto un immenso vuoto, spaventoso e affascinante. Occorre reinventare le ragioni della propria esistenza, oppure riconoscerne l’assenza: Vago attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi.11

Si tratta di una ricerca di un “contorno”, una sorta di tentativo di ricostruzione di quei valori troppo abusati dalla storia e quindi dal tempo del “sono”; storia come “essere caduti nel tempo”, ma cui si affianca una più inquietante problematica, quella cioè di un’ulteriore e forse più drammatica caduta dalla storia e quindi dal tempo del “sono”. L’uomo di Cioran è solamente un Io che vaga tra le cose alla ricerca di una sostituzione del tutto propria ed intimista di quel paradiso che non spiega più nulla; In fondo ci siamo Lui ed Io, ma il suo silenzio ci smentisce entrambi.12

Il silenzio è la sua rassegnazione a vagare in un mondo che procede lungo e attraverso la propria storia, un mondo al quale aggrapparsi o dal quale lasciarsi cadere. Da qui ne deriva la convinzione che oltre l’assoluto dell’uomo non ci sia niente, ma un niente che scava come privazione interiore: quindi al niente fuori si pone come confronto un niente dentro. Rimane la sfera delle emozioni come la privilegiata, o meglio, l’unica in grado di far trovare la strada giusta per ricercare il reale e, dopo di esso, avvicinarci al vero: Dans ce qui est transitoire – or, tout l’est – , recueillons avec nos sens des essences et des intensités. Où chercher le réel ? Nulle part, certes, si ce n’est dans la gamme des émotions. Qui ne monte pas jusqu’à elles rampe dans une sorte de non-être. Un univers neutre est plus absent qu’un univers fictif. Seul l’artiste rend le monde présent et seule l’expression sauve les choses de leur irréalité.13 11 E. M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 43. 12 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 32. 13 E. M. Cioran, Bréviaire des vaincus, p. 16.

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Si tratta, come spesso avviene in Cioran, di un movimento apparentemente contraddittorio, irrealizzabile. Come possiamo essere certi di essere nulla, ma allo stesso tempo di esistere come determinazione di un infinita possibilità caduta nel tempo? Solo un Dio avido di imperfezione in sé e fuori di sé, solo un Dio devastato poteva immaginare la creazione; solo un essere così esacerbato può aspirare a un’operazione del genere.14

Siamo allora burattini alla mercè di un Dio pazzo che si diverte a vedere i nostri inutili affanni? Ma, soprattutto, qualunque sia stata la volontà, buona o cattiva o nessuna delle due, di quel Dio inconoscibile nel momento della creazione, ora come possiamo determinare il nostro “regno”? Dove stanno i suoi confini? Come distinguere realtà e menzogna? Semplicemente, non possiamo. Noi siamo, in quanto caduti nel tempo (e quindi determinati) degli errori ontologici. Detto questo, capiamo perchè la nostra pretesa di verità sia di per sé assurda, vista la nostra stessa natura di “ombre” di Dio. Ma allora non rimane che porci sullo stesso piano del creatore per mettere in crisi un sistema chiuso da cui non possiamo liberarci: dobbiamo sfidare a duello il padre che possiamo amare solo attraverso l’odio e la ribellione ponendoci come negazione della sua affermazione, come alterità rispetto alla sua, certa, perché avvertita, “emozionalmente sentita”, esistenza. Ecco allora il riconoscimento unico cui giungiamo: siamo qualcos’altro rispetto a Dio, ma il nostro motivo, la nostra nascita è comunque imposta da una volontà esterna a noi, e questo dramma ontologico rimane insanabile. E allora siamo colti da smarrimento: Dio si insedia nei vuoti dell’anima. Sbircia i deserti interiori, perché a somiglianza della malattia egli predilige occupare i punti di minor resistenza. Una creatura armoniosa non può credere in Lui. Sono stati i poveri e gli infermi a “lanciarlo”, ad uso e consumo di chi si tormenta e dispera.15

Questo è un dato di fatto per Cioran, e nessun’ipotesi di redenzione è indicata come possibile. Al contrario, oltre che “l’essere caduti nel tempo”, vi è un’altra pos-

14 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., p. 109. 15 E. M. Cioran, Lacrime esanti, cit., p. 37.

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II. PARIGI

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sibilità di tragedia nella nostra vita: quella di cadere dal tempo, dramma cui sono dedicate le ultime sette pagine di La chute dans le temp, a detta dello stesso Cioran, la cosa più seria che abbia mai scritto. E di tale destino il pensatore romeno si sente vittima: Gli altri cadono nel tempo, io invece sono caduto dal tempo. All’eternità che si ergeva sopra di esso succede quest’altra che si pone al di sotto, zona sterile dove non si prova più che un solo desiderio: reintegrare il tempo, innalzarsi ad esso a ogni costo, appropriarsene una particella per insediarvisi, per darsi l’illusione di una dimora propria. Ma il tempo è chiuso, ma il tempo è fuori portata: e proprio dell’impossibilità di penetrarvi è fatta questa eternità negativa, questa cattiva eternità.16

Torno su questo passaggio: dopo essere, come tutti gli uomini, caduto nel tempo dall’eterno nulla che lo precede, regno dell’indeterminato e, quindi, del possibile, Cioran ha speso la vita a cercare il proprio passato, ontologicamente inteso, e a domandarsi il perché della propria condizione. Dopo aver esperito lo smarrimento della scoperta della verità su Dio, l’ebbrezza della battaglia col creatore (tutte sempre esperienze emotive, non riconoscimenti logici, causate dalla malattia, ovvero dal mutamento del nostro sentire di per sé calibrato in modo da sopportare quietamente l’esistenza senza necessitare una ricerca o una meta oltre la vita “qui ed ora”) e la certezza della propria condizione di caduto nel tempo, Cioran ha colto il passaggio successivo: il dramma della caduta dal tempo, ovvero la presa di coscienza dell’impossibilità, una volta conosciuta la nostra condizione, di tornare indietro e ricominciare a vivere come se nulla fosse successo, ancora ignoranti della verità del tempo e quindi suoi (illusi) padroni. Non possiamo farci restituire i giorni per soddisfare quel nostro primigenio bisogno, anzi, il nostro pieno essere: Volere significa mantenersi a ogni costo in uno stato di esasperazione e di frenesia. Lo sforzo è estenuante, e non è detto che l’uomo possa sempre sostenerlo. […] Non è naturale volere, o meglio, bisognerebbe volere solo quanto basta per vivere; non appena si vuole un po’ di più o un po’ di meno, prima o poi ci si deteriora e si finisce per precipitare.17 Tutto ciò che l’uomo intraprende si rivolta contro di lui. Qualsiasi azione è fonte di disgrazia, visto che agire è contrario all’equilibrio del mondo, è prefiggersi un obbiettivo e proiettarsi nel divenire. Il minimo movimento è nefa-

16 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., p. 124. 17 Ibid., p. 131.

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sto; si scatenano forze che finiscono con lo schiacciarci. Vivere veramente è vivere senza scopo: la saggezza orientale, che ha ben colto gli effetti negativi dell’agire, lo raccomanda. Non una sola scoperta che non abbia conseguenze funeste. L’uomo perirà a causa del suo genio: ogni forza che mette in azione gli nuoce. È un animale che ha tradito: la storia è la sua punizione.18

Cioran sente di non avere più tempo per se stesso, per la sua caduta nel tempo, mentre il suo ancor vivo volere chiede giorni, tempo, istanti che si susseguono, e non momentanee eternità estatiche. Sul filo del crollo nel nichilismo all’uomo non resta che aggrapparsi all’unica cosa certa e data: l’essere, in altre parole, in cammino verso il niente. Ecco perché Cioran si può, e forse si deve, considerare come il bohémien della metafisica, una mano tesa verso un silenzioso assoluto. Nell’epoca della crisi, il simbolo perde la forza di significare; così Cioran ad un fanatismo dogmatico oppone un edonismo quasi suicida: si tratta, forse, del più crudele assassinio, quello della propria anima, come tentativo di livellarsi all’assoluto, dunque al niente. Santità e demoniaco attraversano l’opera di Cioran molto più che logica e filosofia vera e prorpia. Ma cosa rimane all’uomo? Quale parametro di realtà? Les doctrines manquent de vigueur, les enseignements sont stupides, les convictions ridicules, et stériles les fleurs des théories. Dans tout ce que nous sommes, il n’est de vie que dans les raidissements de l’âme. […] Oubliez un instant de surveiller votre âme; et voilà qui décampe en direction du ciel.19

Ma cosa spinge la nostra anima a cercare il cielo, a volere dio? La caduta nel tempo, nella sua menzogna: Rien ne nous précède, rien ne nous côtoie, rien ne nous succède. L’isolement d’une créature est l’isolement de toutes. L’être est un jamais absolu. […] Hier, aujourd’hui, demain. Des catégories de domestiques. Je cheminai sur les sentiers des hommes et je n’en croisais pas d’autres. Des larbins et des souillons.20

Sentire che il nostro “essere è un giammai assoluto”, un irrealizzato, o meglio, la realizzazione monca di un’infinità meravigliosa di cui abbiamo sentore attraverso la mancanza, il dolore.

18 E. M. Cioran, in S. Jaudeau, Mistique et sagesse, cit., p. 24. 19 E. M. Cioran, Bréviaire des vaincus, cit., p. 20. 20 Ibid., p. 37.

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Nessun dolore è irreale: il dolore esisterebbe anche se il mondo non esistesse. Quand’anche fosse dimostrato che esso non è di alcuna utilità, potremmo ancora trovargliene una: quella di proiettare una certa sostanza nelle finzioni che ci circondano. Senza il dolore, saremmo tutti dei fantocci, non ci sarebbe più alcun contenuto dove che sia; con la sua sola presenza, esso trasfigura qualsiasi cosa, perfino un concetto. Tutto ciò che tocca è promosso al rango di ricordo; lascia traccia nella memoria, che dal piacere è solo sfiorata: un uomo che ha sofferto è un uomo segnato (come si dice di un debosciato che è segnato – e a ragione, visto che la dissolutezza è sofferenza). Il dolore dà coerenza alle nostre sensazioni e unità al nostro io, e resta, una volta abolite le nostre certezze, la sola speranza di sfuggire al naufragio metafisico. […] Soffrire significa essere totalmente sé, significa accedere a uno stato di non coincidenza con il mondo, giacché la sofferenza è generatrice di intervalli; e quando ci attanaglia, non ci identifichiamo più con nulla, nemmeno con essa; è allora che, doppiamente coscienti, noi vegliamo sulle nostre veglie.21

Ci resta il dolore, la consapevolezza dolorosa della nostra condizione. Il nostro “stato di natura” è quello di un malato conscio della gravità della sua condizione ma incapace di curarsi, anzi, certo dell’impossibilità di farlo. L’indagine lucida come metodo euristico Le radici del dubbio sono profonde quanto quelle della certezza. Il dubbio è soltanto più raro, come la lucidità, e la vertigine che essa provoca.22

Il concetto di “lucidità” è introdotto da Cioran fin dalla sua prima opera: L’insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il paradiso stesso in un luogo di tortura.23

L’essere lucidi è quindi una sofferenza dettata dalla malattia dello spirito che conduce alla conoscenza. È un passaggio fondamentale dell’esperienza vitale dell’uomo per arrivare al dubbio e quindi alla ricerca autentica della verità oltre la contingenza. Nei primi lavori l’idea di lucidità è legata completamente all’aspetto esperibile e psicologico: è un fenomeno dettato da una condizione mentale imposta dal sentore (involontario) della nostra caduta nel

21 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., pp. 89-90. 22 E. M. Cioran, in S. Jaudeau, Mistique et sagesse, cit., p. 26. 23 E. M. Cioran, al culmine della disperazione, p. 11.

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tempo dall’infinito che ci precede. È un atteggiamento indotto. Uno “stato” imposto dai nostri nervi, dalla nostra natura. Dopo la “rinascita francese” essa assume, come quasi tutto ciò che il pensatore balcanico aveva discusso nelle opere romene, sfumature differenti: tende ad uscire dal vincolo dell’esperienza “causata”, dello stato mentale imposto dall’esperienza drammatica della malattia. L’essere lucidi, ora, è dato per scontato. Può finalmente slegarsi dal momento, dalla contingenza in cui s’è insinuata la malattia e diventare uno stato dell’essere sempre presente. Rimane esperienza, non potrebbe essere nient’altro, ma ora è qualcosa che ci ha già posseduto, che nel farci sua vittima ci ha lasciato qualche cosa: uno sguardo lucido. È divenuta parte di noi. La presenza della malattia dello spirito che conduce alla lucidità rimane fondante, ma è ora data per scontata. Può diventare un metodo. Si tratta di una “parabola temporale”, di un superamento concettuale che non fa tabula rasa del passato, ma lo considera come acquisito e si rivolge al presente: in uno spirito malato (e questa è l’esperienza ormai data per necessaria e scontata) la lucidità appare come momento, come apice, precedente solo all’estasi, di un movimento interiore che ci porta a conoscere la nostra condizione esistenziale (la caduta). Ora invece l’essere lucidi, una volta esperito ed oltrepassato col superamento della disperazione e dell’annichilimento, può diventare un modo stabile del nostro essere: una volta diventati lucidi, rimaniamo lucidi; diventa un modo del nostro essere, una parte imprescindibile di noi, che ci costringe a non lasciarci più cullare dalle menzogne della caduta nel tempo. Tutto questo sempre nei limiti ristrettissimi della necessità della propria essenza: nessuno può inventarsi lucido. È una necessità interiore, lo sfogo della malattia (e nessuno può scegliere di ammalarsi) contro cui non possiamo nulla e verso cui non siamo assolutamente in grado di andare volontariamente. In pratica, i prescelti alla malattia, i portatori inconsapevoli del germe della lucidità (e solo loro) possono appropriarsi dell’esperienza della lucidità e farne una costante al di là dello stato mentale momentaneo, senza più bisogno di estasi e degenerazione. L’insonnia, punizione per questo istinto filosofico,24

ci impone un nuovo status: l’essere lucido.

24 E. M. Cioran in AA.VV., Luoghi ritrovati: E. M. Cioran e P. Tutea a confronto, cit., p. 37.

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II. PARIGI

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La coscienza è una fatalità,25

ma ora è acquisita e fa parte dell’uomo “risvegliato”. Il passaggio è fondamentale: se prima (nell’opera rumena) l’esperienza, in quanto tale, necessitava della propria temporalità e quindi era momentanea, ora essa si rende sempre presente in noi diventando una nostra costante, uno stato dell’essere permanente, e può divenire il metodo con cui ci rapportiamo al mondo per smascherarlo. Tutti gli esseri sono infelici, ma quanti lo sanno? La coscienza dell’infelicità è una malattia troppo grave per figurare in un’aritmetica delle agonie o nei registri dell’incurabile. […] Soffrire davvero significa accettare l’invasione dei mali senza la scusa della causalità, come un favore della natura demente, come un miracolo negativo… Nella frase del Tempo gli uomini s’inseriscono come le virgole, mentre tu, per arrestarlo, ti sei immobilizzato in un punto.26

Fermandoci, cadendo dal tempo rendiamo non più momentanea la coscienza. Creiamo la coscienza della coscienza: Coscienza non è lucidità. La lucidità, monopolio dell’uomo, rappresenta il punto di arrivo del processo di rottura fra lo spirito e il mondo; è necessariamente coscienza della coscienza, e se noi ci distinguiamo dalle bestie, il merito o la colpa sono esclusivamente suoi.27

Il passaggio filosofico è importantissimo: dal momento all’eterno presente, trasformiamo una condizione esperibile nel tempo in uno stato fuori dal tempo: in un modo d’essere costante e sempre presente. Questa caduta non avviene spontaneamente; abbisogna di una condizione minima necessaria: l’abbandono della propria contingenza, del proprio “stare nel mondo qui e ora” per smantellarne le categorie e rientrarvi con un nuovo sguardo capace d’indagare ciò che prima era insondabile. Ma questo movimento non è teorico, deve avvenire. Non a caso Cioran è in grado di coglierlo ed analizzarlo dopo l’abbandono del proprio “essere momentaneo”: rumeno, politicamente impegnato, intriso di contingenza. Solo la rottura, la nuova caduta dalla propria condizione e quindi l’esilio francese, un nuovo idioma per esprimere i pensieri ed il conse25 Ibid., p. 37. 26 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 45. 27 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., p. 89.

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guente abbandono di ogni interesse intriso di “presente” ha permesso il compimento di un movimento di tale portata. Solo l’abbandono della propria vita presente, la perdita della condizione attuale, permette quella che chiamavo epoché cioraniana, ed il conseguente sguardo lucido sul mondo. Ecco che di nuovo la pratica, il fatto e non la teoria, rende possibile un passaggio mentale, l’appropriazione di un nuovo modo, di un metodo grazie al quale possiamo assumere una nuova e costante prospettiva: L’origine dei nostri atti sta nella propensione inconscia a ritenerci il centro, la ragione e l’esito del tempo. I nostri riflessi e il nostro orgoglio trasformano in pianeta la briciola di carne e di coscienza che noi siamo. Se avessimo il giusto senso della nostra posizione nel mondo, se confrontare fosse inseparabile dal vivere, la rivelazione della nostra infima presenza ci schiaccerebbe. Ma vivere significa ingannarsi sulle proprie dimensioni…28

Il Cioran francese si è abbandonato, è fuggito dal proprio essere presente e si è riconosciuto come demistificatore, cattivo demiurgo di una tribù di illusi: «Il sistema aspira a fondare; la lucidità scopre la mancanza di fondamento».29 L’errore, quindi, è di prospettiva: noi ci riteniamo il centro di un tutto da cui in realtà siamo caduti per divenire «la briciola di carne e di coscienza che siamo». A questo punto, non ci resta che accettare l’inaccettabile (la nostra natura), oppure ribellarci (contro natura a Dio) e scovare l’abisso che scorre sotto la nostra fragile esistenza. Dobbiamo risvegliarci, ma questo è possibile solo per poche coscienze sofferenti, differenti per malattia dallo “standard” necessario a vivere: Non c’è vera ispirazione che non sorga dall’anomalia di un’anima più vasta del mondo… Nell’incendio verbale di uno Shakespeare e di uno Shelley avvertiamo la cenere delle parole, ricaduta e miasma dell’impossibile demiurgia.30

Ecco l’essenza del risveglio: il dubbio. La prima cosa in cui lo sveglio progredisce è in sospetto…Il sospetto e il dubbio precedono la diagnosi che segnala la deficienza nel manto verbale che copre il re del mondo. Si incomincia a gridare che il re è nudo, ma si finisce per dubitare della sua stessa regalità, cioè della sua “realtà”.31 28 29 30 31

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E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 17. F. Savater, Cioran, un angelo sterminatore, cit., p. 4. E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 90. F. Savater, Cioran, un angelo sterminatore, cit., p. 23.

II. PARIGI

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Ecco che il dubbio diviene un’arma sovversiva, l’unica conoscenza veramente disinteressata, perché mossa da una forza distruttrice in cui sono assenti impeto vitale e prospettive rivolte al futuro. Ecco che la lucidità, da sensazione necessaria allo svelamento primario della falsità del reale, diviene vero e proprio metodo euristico per cercare il vero: Lo sguardo penetra e denuda l’opacità del suo oggetto, volatilizzando l’argomentazione che lo protegge. Questa visione chiaroveggente, questa “percezione dell’irrealtà”, esclude l’ingegno per trovare delle soluzioni alle deficienze scorte.32

E scopriamo, attraverso il dolore della mancanza che ci risveglia, la nostra solitudine e la falsità del reale. Tuttavia, questa presa di coscienza non corrisponde alla salvezza: non ci può essere salvezza o redenzione se non nel dolore, nelle lacrime, ma esse non possono essere trasmesse, insegnate. L’impossibilità di una qualsiasi pedagogia si dimostra da sé in quanto causa di un circolo vizioso insanabile. Il risveglio ci pone solo in un’ottica differente, altra dal mondo: lucida, ma non salvifica, né trasmissibile e quindi fonte di vicinanza con la nostra specie. Tutt’altro: l’essere lucidi ci dà immediatamente la dimensione esistenziale della nostra assoluta ed inevitabile solitudine, della nostra noia, la cui pena, abbiamo visto, può solo essere alleviata dalla musica, e, in un piano ancora più illusorio, dall’amore. A toutes nos questions, l’Ennui donne la même réponse: ce monde est éventé. Alors, nous décidons de tout faire contre lui. La nouveau n’existe qu’en nous. Pas dans les choses, pas dans les êtres. Le réel est une féerie d’apparences qui nous charment aussi longtemps que notre chanson s’accorde au rythme de leur danse. Sans notre connivence, le voile flottant sur le spectacle nommé vie se déchire, et de l’illusion qui nous brouillait la vue il reste quelques lambeaux floconneux, à peine des ombres du réal chimérique.33

La noia, esperienza fondante, fa crollare le certezze, svuota di senso ogni cosa e ci avverte che non cè nulla da fare né in questo mondo né nell’altro, che non ci può essere nulla al mondo in grado di alleviare le nostre pene, di soddisfare i nostri bisogni. Torniamo a porci la stessa domanda: cosa ci resta? Cosa rimane all’uomo? Tutto sembrerebbe condurre al nichilismo assoluto: gettati

32 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 37. 33 E. M. Cioran, Bréviaire des vaincus, cit., p. 57.

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per errore nel mondo, consci della nostra condizione irreparabile, troviamo la salvezza (se di salvezza vogliamo ancora parlare) nel dolore, nelle lacrime che si avvicinano all’infinito. Allora, la nostra corsa è tesa al nulla; ma nella vita pratica, nell’esistenza di tutti i giorni, tutto questo che riscontro trova? Come dobbiamo comportarci? Cosa dobbiamo fare? Cioran, in un intervista con Fernando Savater del 1977, vuole una precisazione imprescindibile riguardo le conseguenze dell’esperire la noia: l’esperienza che sto descrivendo non è necessariamente deprimente, poiché essa è a volte seguita da un’esaltazione che trasforma la vita in un incendio, in un inferno desiderabile.34

L’inferno desiderabile menzionato nell’intevista era stato dipinto molti anni prima nel capolavoro del genio romeno: il Précis de décomposition. 1. Il capolavoro di Cioran: Il Précis E forse la vita è proprio questo, senza volere usare paroloni, il fare cose alle quali si aderisce senza crederci, si, è suppergiù questo.35 Il principio del male sta nella tensione della volontà, nell’inattitudine al quietismo, nella megalomania prometeica di una razza che scoppia di ideale, che esplode sotto le proprie convinzioni e che, per essersi compiaciuta di irridere il dubbio e la pigrizia – vizi più nobili di tutte le sue virtù – , ha imboccato una via di perdizione: la via della storia, miscuglio indecente di banalità e apocalisse…36

Cioran, nel primo dei suoi “petites poèmes en prose” sembra chiudere la porta a qualsiasi volontà di speranza. E lo fa senza mezzi termini, perché anche la richiesta di una speranza è pur sempre una domanda che proviene dalla volontà, causa del nostro male perché manifestazione della nostra separazione dall’infinito e della nostra caduta nel regno della contingenza. Ma la volontà è allo stesso tempo quella parte di noi che malata, cioè allontanata dal suo scopo primigenio (instaurare il desiderio al fine di

34 Intervista con Fernando Savater in E. M. Cioran, Oeuvres, Gallimard, Paris, 1995, p. 1748 (trad. dell’autore). 35 Intervista con Michael Jakob in E. M. Cioran, Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 359. 36 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 14.

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proseguire l’esistenza), invertita contro la propria natura diviene volontà del nulla, del non volere, ricerca (dolorosa perché contro se stessa) della propria negazione. Nell’Introduzione avevo fatto riferimento, per usare un termine di paragone fisico, alla spirale per cogliere il movimento del pensiero di Cioran; ora troviamo il senso di quanto accennato in precedenza: come può la causa del male, la volontà, manifestazione della nostra determinazione (e quindi caduta) rovesciarsi e lottare contro se stessa senza porre fine alla propria esistenza? Lo può fare grazie ad un intervento su di essa di un qualcosa esterno ad essa: la malattia. E la malattia, fiaccando il corpo e l’animo, stravolge i sensi e permette loro di cogliere l’invisibile e li costringe a lottare contro la loro “madre”, la loro natura. Sembrerebbe la fine dell’uomo. La caduta ultima. L’allontanamento, il distacco da sé e quindi il desiderio di abbandonarsi, di eliminarsi perché consci della propria condizione e del proprio esistere come errore in un sistema senza di noi perfetto. Eppure, da questa lotta non può generarsi la volontà di suicidio, perché ancor piena volontà, affermazione. Possono nascere solo delle negazioni: L’origine dei nostri atti sta nella propensione inconscia a ritenerci il centro, la ragione e l’esito del tempo.37

Possiamo solo negare. Questo ci è concesso. Il semplice fare qualche cosa è già fallace, l’atto positivo ha ragione di esistere solo se necessario a negare una positività: La tragedia dell’uomo, animale separato dalla vita, sta nel fatto che non può più rimanere soddisfatto dei dati e dei valori di questa38

perché il fatto che io esisto prova che il mondo non ha alcun senso.39

Il Précis de décomposition, nasce nel 1949, dopo due anni di tentativi e rielaborazioni (col nome originario di Esercizi negativi). È la ripresa e continuazione ideale del primo capolavoro Al culmine della disperazione e la base di tutte le opere successive. Anche lo stile è unico: riprendendo la forma del piccolo poema in prosa, Cioran scrive in quello che 37 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 17-18. 38 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., pp. 125-126. 39 Ibid., p. 25.

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molti hanno definito il francese più bello del secolo (tradotto, non a caso, dal sommo Celan) narrando attraverso dei “quadretti filosofici” ciò che il saggio non avrebbe potuto dire con tanta forza e ciò che l’aforisma non avrebbe potuto condensare. È l’unica opera, oltre ad Al culmine della disperazione, di Cioran ad abbracciare completamente questa forma: prima e dopo ci troviamo di fronte ad aforismi o a brevi saggi, composti sì in maniera originale e lontana dalla trattazione sistematica, ma non riconducibili agli sprazzi di luce che il pensatore transilvano sembra gettare in questo che è, considerando assieme forma e contenuto, il suo capolavoro assoluto. Nel Précis c’è tutto Cioran, quello precedente e quello ancora da venire: sembra quasi di trovarsi di fronte ad una piccola enciclopedia della lucidità che voglia raccontare, nonostante l’assenza di ogni interesse pedagogico, tutta la filosofia del pensatore di Ra⁄¶inari. Insignito del premio Rivarol, il libro non conobbe grande fortuna fino alla pubblicazione, sempre per Gallimard, della versione tascabile che si diffuse molto più della prima. Spiegare il Précis è impresa assurda, ridicola. Posso, come sempre quando si tratta di un qualcosa scritto da Cioran, tentare di “raccontarlo”, anche se verrebbe spontaneo riportare riga per riga, tutt’al più con l’aggiunta di qualche commento e rimando ad altri testi per lasciar intuire l’organicità dell’opera del romeno. In questa sede, e per lo scopo specifico del presente lavoro, tenterò di cogliere i passaggi-cardine dell’opera, indicandone il più possibile le origini e gli sviluppi. […] A partire dal mio arrivo in Francia nel 1937, la tentazione della mistica si allontana, e sono invaso dalla coscienza del fallimento; mi rendo conto di non appartenere alla razza di coloro che trovano, che il mio destino è di tormentarmi e languire. Il Précis rappresenta il risultato di questo periodo.40

È lo stesso Cioran, che da ora in poi aggiungerà al proprio il secondo nome Michel, probabilmente in omaggio alla nazione che lo ospitava (Castronuovo), a spiegare in uno dei suoi entretiens come arrivò a pensare il Précis. E, in effetti, in ogni pagina non troviamo che un ritorno, una rielaborazione di temi già incontrati fin dalla primissima opera. Uno sviluppo e una maturazione, un “allargamento” al di là del proprio sentire privato, ma con lo stesso oggetto di prima: il mondo, la sua contrapposizione esistenziale e cioè l’uomo, la sua contrapposizione ontologica: Dio.

40 S. Jaudeau, Mistique et sagesse, cit., p. 21.

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La mediazione di una nuova lingua Come raccontarvi nei dettagli la storia del rapporto che mi lega a quest’idioma non mio, con tutte quelle parole pensate e ripensate, affinate, sottili fino all’inesistenza, schiacciate dalle esigenze della sfumatura, inespressive a forza di esprimere tutto, spaventosamente precise, colme di stanchezza e di pudore, discrete anche nella volgarità?41

Come spiegare all’amico lontano Noica (per altro molto critico verso la scelta del connazionale di abbracciare una lingua straniera) cosa avvenne di tanto grande da far decidere un nazionalista appena emigrato ad abbandonare il proprio idioma, ad abbracciare un linguaggio, e quindi un pensiero, che non gli appartiene? Agonizzante e sistematico, fatto per teorizzare e profetizzare, il francese era la lingua madre di tutto ciò che il transilvano odiava: fermava l’attimo, faceva smettere di pulsare il concetto; ingabbiava nelle rigide regole grammaticali e sintattiche la volontà. Ho cominciato a scrivere in francese a trentasette anni. E credevo che fosse facile. Non avevo mai scritto in francese, salvo delle lettere a qualche donna, lettere di circostanza. E improvvisamente ho avuto enormi difficoltà a scrivere in questa lingua. E stata per me una sorta di rivelazione, questa lingua completamente sclerotizzata. Il rumeno è una mescolanza di slavo e latino, una lingua estremamente elastica. Si può farne ciò che si vuole, non è una lingua cristallizzata. Il francese invece è una lingua rigida. E io mi sono reso conto che non potevo permettermi di pubblicare la prima stesura, che è poi l’unica vera. Non era possibile! Nel rumeno non c’era quella esigenza di chiarezza, di precisione, e io capivo che in francese bisognava essere precisi. Ho cominciato ad avere il complesso del meteco, di quello che scrive in una lingua non sua. Soprattutto a Parigi… È una cosa molto importante.42

Un passaggio non facile, doloroso ma necessario: Mi sono messo a scrivere in francese, il che è stato molto difficile, perché la lingua francese non si addice alla mia indole: io ho bisogno di una lingua selvaggia, di una lingua da ubriachi. Il francese è stato per me come una camicia di forza. Scrivere in un’altra lingua è un’esperienza terrificante. Si riflette sulle parole, sullo stile. […] Quando mi sono messo a scrivere in francese tutte le parole mi si sono imposte alla coscienza; le avevo davanti a me, fuori di me, nelle loro cellette, e andavo a prenderle: “Tu ora, e ades-

41 Lettera a Noica, Parigi 1957, in E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., p. 27. 42 Intervista con Jean-François Duval, 1979 in E. M. Cioran., Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., pp. 44-45.

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so tu”. […] Cambiando lingua, ho subito liquidato il passato: ho completamente cambiato vita. Ancora adesso mi sembra di scrivere in una lingua che non è legata a niente, una lingua senza radici, una lingua di serra.43

Una scelta non condivisa da alcuni amici, specie, ovviamente, tra i compatrioti. Così, ad esempio, Noica cercava di redarguire l’amico dopo averne letto l’opera francese: «Venite a incidere l’indicibile sulla sabbia di una lingua in agonia. E invece non verrete. La Francia vi ha inculcato troppo a fondo il veleno della lucidità e della prudente saggezza»44, ma ormai era troppo tardi. Dobbiamo, ancora, ricordare la biografia di Cioran ed inquadrare storicamente questo passaggio fondamentale per capirne ragioni e conseguenze. Dal 1937 al 1940 Cioran è ufficialmente a Parigi con una borsa di studio, erogata dall’Istituto francese di Bucarest, di mille franchi al mese per tre anni, con l’obbligo, da parte sua, di portare ad ogni riapertura annuale dell’università due lettere di raccomandazione firmate dai suoi professori. Tale borsa era giustificata da un progetto ambizioso: «connexer les idées sur l’intuition» di Bergson con «la fonction gnoséologique de l’extase» nella mistica e «le trascendant dans l’acte de connaissance intuitive».45 In realtà, in questi tre anni Cioran non farà niente di tutto questo. Andrà raramente ai corsi del professor Èduard Le Roy (studioso di Bergson e suo successore alla cattedra di filosofia al Collegio di Francia) e incontrerà, pare, solo una volta Jean Baruzi (autore di una monumentale opera su S. Jean de la Croix e segnalato nella sua lettera d’intenti come riferimento francese per lo studio della mistica) ai giardini del Lussemburgo per tentare di farsi firmare una delle necessarie lettere di raccomandazioni. «Au lieu de l’intense activitè intellectuelle qu’il fasait miroiter dans sa note d’intentions, il se contente, en fait, simplement, de 1937 à 1940…de se laisser vivre […] Paris et le mode de vie de ses habitants l’intriguent infiniment plus que les dernier raffinements des études bergsoniennes».46 Nell’autunno del 1940 torna per qualche mese nella Romania “legionaria” del generale Antonescu, dove incontra lo storico Alphonse

43 Intervista con Fernando Savater, 1977 in E. M. Cioran, Un apolide metafisicoConversazioni, cit., pp. 34-35. 44 Lettera di Noica, Parigi 1957, in E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., p. 51. 45 Nota d’intenzioni all’Istituto francese di Bucarest per ottenere la borsa di studio in Francia, in G. Liiceanu, Itineraires d’une vie, cit., p. 48. 46 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 123.

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Dupront, direttore dell’Istituto francese di Bucarest e grande amante della Francia, al quale riesce, con un fastoso discorso sulla bellezza delle regioni francesi (conosciute girando il Paese in bicicletta, abitudine che non abbandonerà fino agli anni sessanta), ad estorcere un prolungamento (ingiustificato) della borsa di studio fino al 1944: Alla fine mi hanno lasciato la borsa di studio perché hanno ritenuto che aver pedalato in lungo e in largo per la Francia fosse pur sempre un merito.47

Il suo breve soggiorno rumeno non è però privo d’importanti novità: con l’appoggio di Hora Sima, il successore di Codreanu, lo studente Emil viene inserito nel servizio culturale della delegazione romena al governo francese di Vichy. Il tutto avviene però senza tener conto dell’allontanamento tra Antonescu, nuovo leader, ed i legionari. Nulla permette di asserire che Cioran abbia partecipato al tentato colpo di stato dei militanti romeni la notte tra il 20 ed il 21 gennaio 1941, ma è certo che il giovane transilvano scappò precipitosamente da Bucarest per tornare a Parigi – pare (come raccontato dal fratello Aurel e riportato in Bollon e Laignel-Lavastine) senza portarsi alcun vestito oltre a quello che aveva addosso – mentre in patria la radio trasmetteva il suo discorso in memoria di Codreanu, motivo per cui, almeno così sosteneva Cioran, temette di essere arrestato o ucciso dai nuovi fanatici legionari. Di certo sappiamo che nel gennaio del 1941 rientra a Parigi e chiude i neonati rapporti con la delegazione romena a Vichy e con la politica in ogni senso. A Parigi Cioran riprende la vita da studente squattrinato che conduceva prima, frequentando diversi esuli rumeni o dell’Europa dell’est: Benjamin Fondane (che tenterà disperatamente di salvare, fallendo, dalla deportazione durante l’occupazione nazista), Sestov, Adamov e poi, dopo la liberazione, Eliade e la poetessa Vacaresco erano sue frequentazioni abituali. Dal 1941 al 1944 lavora al suo ultimo libro scritto in rumeno: Indreptar patimas. Nel 1945 è terminata la versione definitiva del Bréviaire, summa della riflessione sulla solitudine e sul proprio sentirsi straniero («Y avait-il boulevard Saint-Michel un étranger plus étranger que moi?») che lascia il posto, come spesso avviene per Cioran, al sentimento contrario: quest’esistenza marginale, esasperata e portata ai suoi limiti da un orgoglio immenso, crolla nell’umiliazione e nel desiderio di riscatto. 47 Intervista con F. Bondy, 1970 in E. M. Cioran, Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 15.

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L’autore di cinque volumi pubblicati in Romania è, a Parigi, nessuno. Per un anno, tutte le mattine, si reca al Café Flore dove rimane quasi dodici ore al giorno in cerca, probabilmente, di attenzione e, allo stesso tempo, come volesse svolgere una “ricognizione sul campo” prima della battaglia. Nel 1947 è finalmente pronto. Sa di poter scrivere nel francese dei migliori autori assiepati al Flore, se non meglio di loro. Questa consapevolezza nasce in un piccolo paese vicino a Dieppe dove, per diletto, traduceva Mallarmé in rumeno quando fu colto dalla sensazione dell’assurdità di tale impresa: a che scopo tradurre Mallarmé in una lingua che nessuno, o quasi, conosceva? Meglio forse scrivere direttamente in francese. Tornato a Parigi riprende la prima bozza del lavoro dal titolo Exercices négatifs e la rielabora non meno di quattro volte fino ad ottenere il Précis. Allora, e sembra senza alcuna premeditazione, decide di fare di Parigi la propria casa da qui alla fine dei suoi giorni: Non le perdonerò mai di avermi legato allo spazio né il fatto che, per colpa sua, appartengo ad un luogo. Ciò detto, non dimentico un solo istante che, come già notava Chamfort, i quattro quinti dei suoi abitanti “muoiono di dolore”. Aggiungo anche, per vostra edificazione, che gli altri, i rari privilegiati dei quali faccio parte, non se ne danno pensiero, anzi invidiano alla grande maggioranza il privilegio di cui gode: sapere di che morire.48

«Ce qu’il cherche, c’est bien évidemment des leçons de style»,49 lezioni che impara in breve tempo divenendo maestro della nuova lingua. Il passaggio fondamentale, però, non sta nella bravura di Cioran nell’impossessarsi del nuovo idioma facendolo proprio e divenendone un maestro, il punto della questione è il fatto stesso di passare dalla propria lingua madre, con la quale siamo in grado di esprimere immediatamente il nostro pensiero, ad un’altra che svolge necessariamente un ruolo di mediazione fra il pensiero e l’espressione: «Ses premiers livres […] émanaient en effet d’un tout autre parti pris esthétique. […] Aucun désire de beauté, ou presque, ne venait en contrarier le caractère “spontanée”. Constituant l’objet véritable, sinon unique de l’écriture, l’intention devait pouvoir se passer, à la limite, de tout travail sur la formulation. L’authenticité du premier jet prévalait absolument contre toute recherche stylistique. La sincérité, non la perfection, était la valeur suprême».50 48 Lettera Noica, Parigi 1957, in E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., p. 45. 49 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 127. 50 Ibid., cit., p. 130.

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Come per tutti gli intellettuali rumeni ribelli degli anni venti e trenta, lo stile era solo manierismo, forma cadaverica che imbrigliava la verità immediata, espressa direttamente e “di getto”: Vorrei esplodere, insieme a tutto ciò che è in me – tutta l’energia, tutto il contenuto –, vorrei colare, decompormi; in un’espressione immediata la mia distruzione sia la mia opera, la mia creazione e la mia ispirazione: realizzarmi nella distruzione, elevarmi, nello slancio più folle, al di là dei confini, e che la mia morte sia il mio trionfo. Vorrei fondermi nel mondo, vorrei che il mondo si fondesse in me, e che nel nostro delirio generassimo un sogno apocalittico, strano come le visioni della fine e magnifico come i grandi crepuscoli. È il coincidere dell’atto con la realtà; giacché l’atto non è più una manifestazione della realtà, ma la realtà stessa.51

Contenuto e forma d’espressione vengono a coincidere nel “primo” Cioran, nell’opera rumena. Non rimane nulla al “modo” perché conta solo ciò che si vuole dire nella sua forma più diretta, immediata. Ogni mediazione è una caduta del contenuto che perde di valore inseguendo le parole. Questa era la posizione di Cioran rispetto alla forma, al modo di esprimere il contenuto nel suo periodo rumeno: l’unico modo d’espressione corretto era quello che annullava la distanza tra atto e realtà, e per l’unica scrittura per esprimersi possibile era il lirismo che si avvicina alla poesia per togliere la funzione mediatrice delle parole. Ma già in Lacrime e Santi Cioran riconosce il valore “consolatorio” delle parole, la loro funzione di “riempimento” del vuoto esistenziale avvertito con lo sguardo lucido, il loro effetto di mediazione, di “calmante”, tra il pensiero e la sua espressione. Ma in che modo la parola elaborata e studiata rende meno drammatico il pensiero? Ci sono due considerazioni da fare: da un lato il fatto stesso di passare del tempo a rielaborare lo stesso pensiero in diverse forme rende quel pensiero più distante, lo trasforma in un “oggetto” da rielaborare. La nostra attenzione si sposta dal contenuto alla forma, la nostra fatica si concentra sul modo per dire e mettiamo da parte, rielaboriamo almeno un poco ciò che vogliamo dire. Dall’altro, rendendo il pensiero un oggetto da meditare nella sua forma, ne “perdiamo” l’unica proprietà, lo relativizziamo rispetto a noi stessi e al mondo; in un certo senso, ce ne liberiamo e, non essendo più solamente nostro, il pensiero può “espandersi” fino a diventare universale: Sono certo che se non fossi stato un imbrattacarte mi sarei ucciso da un pezzo. Scrivere è un enorme sollievo. E pubblicare anche. Le sembrerà ridicolo, eppure è verissimo. Un libro è la tua vita, o una parte della tua vita 51 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., pp. 68-69.

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che ti rende estraneo. Ci si libera contemporaneamente di tutto quello che si ama e soprattutto di tutto quello che si detesta.52

La nuova lingua agisce in due indistinte e fondamentali maniere sul pensatore di Ra⁄¶inari: lo costringe, con il necessario lavoro che sta dietro ad ogni formulazione, a “fermare” il proprio pensiero sempre travolgente e, tramutandolo in un oggetto da rielaborare, lo rende universale, non più “sfogo privato”. «C’est donc sur ce caractère “naturel”, cette conception naturaliste de l’écriture, que reviendra d’abord Cioran quand il adoptera le français ce qui ne manquera pas, non plus, d’influer sur ses idées d’origine. Difficile, en effet, de maintenir telle quelle une position strictement vitaliste – et la sienne, nous l’avons vu, était extrême –, quand on s’emploie à célébrer par ailleurs, en quelque sorte de l’autre main, via le style, la valeur de vérité du plus grand des artifices!»53 La “dimensione del balzo” è ancor maggiore se consideriamo che l’idioma da cui proviene Cioran è lontanissimo dal francese: una lingua che, scritta, esiste da poco più di un secolo (prima si usavano diversi dialetti locali, ma non vi era una lingua rumena unitaria) e profondamente “slavizzata” (la chiesa ortodossa utilizzava lo slavo come lingua liturgica ufficiale) rispetto alla sua matrice romana. Una lingua “nuova” e in crescita, in costante movimento. Il francese era la lingua dell’espressione bella, della perfezione, dello stile. Era la chiave di volta per frenare un pensiero impetuoso e far si che potesse tornare su se stesso, per non rimanere solo “sfogo” e assurgere a filosofia. Solo nel fermarsi, nel riguardarsi e rielaborare se stesso, Cioran è “rinato” e ritornato a cercare col suo sguardo lucido; a distruggere con la sua voce tagliente ed ironica le menzogne del mondo: «le Cioran d’après cette date [1947] sera, en effet, plus “objectif”, parce que, aussi, plus autocritique. Il entretiendra moins d’adhésions, d’adhérence, avec ses idées qu’auparavant, et commencera à se détacher de ses affects».54 Possiamo dire che dopo il 1947 per Cioran inizia un “secondo periodo”, in cui la novità non è l’argomento trattato o le conclusioni raggiunte, bensì il modo di pensare e la forma dell’espressione: una nuova distanza da se stesso, una più profonda presa di coscienza delle sue stesse parole

52 Intervista con Fernando Savater, 1977, in E. M. Cioran, Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 21. 53 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 131. 54 Ibid., cit., p. 135.

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Quando ci si rifiuta di ammettere l’intercambiabilità delle idee, scorre il sangue… Sotto le risoluzioni ferme si leva un pugnale. Gli occhi ardenti preannunciano l’assassinio. Lo spirito esitante, preso da amletismo, non è mai stato dannoso: il principio del male sta nella volontà nell’inattitudine al quietismo, nella megalomania prometeica di una razza che scoppia d’ideale55

gli permetterà quel distacco necessario per rendere anche un dato “intrattabile” come la propria esperienza una base valida per una filosofia. Il passaggio al francese avviene rapidamente, in maniera imprevista perché dettata dalla necessità di un nuovo modo di pensare il già pensato, per “lasciarlo uscire” dai confini del privato. Così il Précis è, essenzialmente, la prosecuzione e rielaborazione di Pe culmile dispera⁄rii, rivisto attraverso lo stesso pensiero che torna su se stesso per “guardarsi” ed eventualmente prendere le necessarie distanze da sé. Abbandonata, questa volta per sempre, la terra natia, chiuso l’errore capitale della politica con le sue implicazioni e la sua caduta nella contingenza, aperto ad un nuovo modo di cercare, Cioran avverte comunque che questa nuova forma pretende una contropartita: la perdita di qualunque innocenza, la faticosa rielaborazione di ogni “sentore” e l’impossibilità di tornare indietro. Nel 1957 scrive all’amico Noica: Disgraziatamente me ne sono accorto solo a cose fatte, quando era troppo tardi per rivolgermi altrove, altrimenti non avrei mai abbandonato la nostra [lingua], che mi capita di rimpiangere per quell’odore di fresco e di marcio, per quel misto di sole e di fango, quella bruttezza nostalgica, quella regale sciatteria.56

Ma non tornò mai alla madrelingua. Rimarrà il Cioran che si butta nell’estremo, che scaglia massi contro i “filosofi”, che rimpiange di non aver taciuto, che non vuole essere capito: C’est un véritable malheur pour un auteur que d’être compris; Valéry l’a été de son vivant, il l’a été depuis. Etait-il donc si simple, si pénétrable ? Assurément non. Mais il a eu l’imprudence de fournir trop de précisions et sur soi et sur son œuvre, il s’est révélé, dénoncé, il a livré mainte clef, dissipé pas mal de ces malentendus indispensables au prestige secret d’un écrivain : au lieu de laisser aux autres la besogne de le devenir, il l’a assumée lui-même ; il a poussé jusqu’au vice la manie de s’expliquer.57

55 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 14. 56 Lettera a Noica, Parigi 1957, in E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., p. 28. 57 E. M. Cioran., Valéry face a ses idoles, L’Herne, Paris 1970, pp. 7-8.

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Tuttavia sarà un Cioran diverso, in cui la lucidità passerà, come già detto, da sensazione necessaria alla comprensione a metodo euristico ed il pensiero accetterà la propria, necessaria, caduta nella parola. Pur non riconoscendo alcuna positività nell’azione, pur rimarcando la convinzione dell’assenza assoluta di ogni fondamento, il Cioran francese è senza dubbio più aperto, meno direttamente coinvolto dalle emozioni e, rispetto al passato, espressivamente più pacato, magari sarcastico ma meno infuocato e violento. Forse un uomo maturato, capace di accettare che malgrado il principio ontologico non sia mutato e l’errore del parlare al cospetto del silenzio rimanga accettato, in contrasto con se stesso continua a scrivere e dire, perché forse l’ascesi schopenhaueriana, a cui in ultima istanza sembra arrivare anche Cioran col suo giudizio sul male come agire: Il principio del male sta nella tensione della volontà, nell’inattitudine al quietismo,58

può essere interiorizzata anche senza salire, come un nuovo Zarathustra, sul monte più alto. Cioran rimane qui, sulla terra, nel mondo. E senza rinunciare a nulla del proprio pensiero continua ad andare contro se stesso nella grandiosa ricerca che prosegue pur conscio di non poter arrivare ad un risultato; anzi, di non poter ambire ad alcun risultato. Il sentiero (Heidegger) e l’ascesi (Schopenhauer) non sono incompatibili, purché si abbia la forza e l’onestà di non abbandonarsi a Dio (anche se persino Nietzsche annunciava il crollo ai piedi della croce come ultima possibilità) e si resista alla tentazione della semplificazione, del “far quadrare i conti” positivista. È un nuovo stoico che, col suo fardello personale, sussurra tra le voci delle accademie parole pesantissime, mitigate da sorrisi amari ed autoironia. Nel 1947 a Parigi “rinasce” un grande filosofo, che ha avuto l’ardire di inseguire le vette più alte del pensiero senza dare la mano a Dio e senza piegarsi alle categorie, restando allo stesso tempo a camminare fra i mortali. Un esempio chiarificatore, fra i tanti, lo dà Bollon nel suo ottimo studio, parlando proprio del mutamento avvenuto in Cioran in conseguenza della nuova lingua usata, soprattutto a livello della durezza delle affermazioni, mitigata nell’opera francese rispetto a quella rumena anche quando si riferisce ad uno stesso oggetto: «…dans Le Crépuscule des pensées de 1940, on relève ce bel aperçu,

58 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 14.

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quoique, il faut en convenir, à la limite de l’intelligible, à propos de l’auteur d’Hamlet: “Il y a tant de crime et de poésie en Shakespeare que ses drames semblent être conçus par une rose en folie.” Considérablement épurée, l’image resurgit douze ans plus tard dans les Syllogismes, avec cette formule aussi économe qu’une définition de mots croisés: “Shakespeare: rendez-vous d’une rose et d’une hache…” Ramenée a sa plus simple expression, cette maxime est beaucoup plus claire et, cependant, plus suggestive, énigmatique et profonde, que la phrase initiale – comme si le choix méticuleux des mots restaurait la poésie perdue par l’abandon de l’obscur “rose en folie”».59 Malgrado l’opera di Bollon possa, in questo caso, peccare leggermente di un “amor di patria” tipicamente francese e quindi “esagerare” il “salto di qualità” ottenuto con la nuova lingua (tra le prime opere, per intenderci, rimangono dei capolavori che non perdono di valore se confrontate con i lavori francesi), è indubbio che, col francese, Cioran attua una presa di distanza sempre più grande dalla “sensazione” in se e per sé, avanzando nell’applicazione della “lucidità” e mitigando l’operazione con l’umorismo nero e l’eleganza stilistica e lessicale di cui il francese è indubbiamente maestro. Il Précis è certamente il capolavoro stilistico di Cioran; rappresenta la massima forma del suo modo di dire a metà tra il breve trattato ed il frammento. Consacrato dal massimo poeta tedesco Paul Celan che nel 1953 traduce il Précis in tedesco (Ledere von Zerfall: Essays pubblicato ad Amburgo due anni dopo), ed insignito del Premio Rivarol nel 1950, con questa sua prima opera francese Cioran s’impone all’attenzione della critica, anche se non del pubblico. Egli è ufficialmente un prosatore francese, anzi, uno dei migliori; e la bellezza del Précis sta a dimostrarlo. Il balzo metodologico: dalla Weltanschauung privata alla filosofia Come ho più volte ricordato, il Précis segna la ripresa, a volte speculare, dei temi già formulati ne Pe culmile dispera⁄rii. Il passaggio che dobbiamo desumere è però capitale e sta nella portata del suo “nuovo” dire: la mediazione della lingua francese che “incatena” le parole, le costringe a tornare su se stesse, senza poter divenire consolazione immediata di un pensiero troppo doloroso, comporta un superamento

59 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 137.

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della propria individualità in favore di una verità superiore, o meglio, di una ricerca della verità “stando nella verità”. Cioran si supera, trasformando la propria (acquisita grazie allo strappo con la patria e col passato) condizione esistenziale (lo straniero esiliato) nel fondamento di un pensiero che si può finalmente staccare dalla contingenza, come avrebbe voluto fare, ma non poteva per vicinanza emotiva ai fatti della “realtà” intrisi di biografia, fin dalle prime righe della sua prima opera. «Cioran ne se reconnaît qu’une qualité, ne revendique qu’un seul titre, celui d’étranger. Il l’a cultivé, approfondi et tout s’explique chez lui par cette conscience fondamentale. Il se donne pour un métèque, chante les avantages de l’exil et adhère pleinement à cette condition de non-appartenance à une communauté: il se veut étranger au plus profond de son âme afin de ne s’assoupir en aucune terre et de garder toujours présent à la conscience le caractère transitoire d’une vie d’homme. L’exil géographique qu’il s’impose creuse en lui le malaise existentiel. L’être humain conscient, rejeté de la plénitude originelle, tombe dans le tems avec lequel il ne parvient pas à coïncider, sans cesse hanté par une nostalgie sans remède. Drame de la conscience humaine catapulté dans l’histoire, ce temps de l’exil qui signe sa mort spirituelle, mais le livre à la conscience cauchemardesque du devenir».60 Il “salto di qualità”, il vero segno che separa il Cioran rumeno da quello francese, è il mutato atteggiamento da cui discende un nuovo metodo: la condizione esistenziale (perché comunque l’esperienza rimane la base del pensiero ed il suo unico possibile fondamento) dell’esule, il non aver possesso immediato del tempo (la lingua rallenta drammaticamente il proprio movimento non essendo più espressione diretta, quasi istintiva, come avviene con la propria lingua madre) e dello spazio (la nuova casa risulta sconosciuta e difficilmente conoscibile per la mancanza di quel retaggio culturale e linguistico che ognuno ha della propria “casa” e non ritrova in terra straniera) lo costringe da un lato a “ripensarsi” prendendo le distanze da se stesso, dalle sue sensazioni più dirette, lo dirige, dall’altro, verso l’universalità e l’eternità del suo dire (la rottura del legami “spaziali” del suo essere straniero non sono che preludio alla frattura dei legami “temporali” col mondo) mantenendo comunque l’origine sempre sensibile del suo pensare. Cioran, nei suoi “petit poèmes en prose” compie un passaggio fondamentale di cui è necessario prendere coscienza per riuscire a ricostruire il

60 S. Jaudeau, Cioran ou le dernier homme, cit., pp. 27-28.

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II. PARIGI

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suo pensiero come una filosofia completa e non soltanto una lunga serie d’intuizioni ed elaborazioni sui temi più diversi: dopo aver esposto in cinque libri la propria filosofia (propria anche in senso spazio-temporale, in quanto direttamente ricavata dall’esperienza e quindi calata nel tempo e nello spazio), dopo aver riconosciuto l’impossibilità di trovare delle verità mentre “stiamo nel tempo” (il che è una nostra caratteristica esistenziale), Cioran, mutando condizione esistenziale, esce dal vincolo del proprio spazio e, conseguentemente, del proprio tempo. Attua quella che ho precedentemente indicato come epoché cioraniana: quella trascendenza del dato empirico restando (al contrario di Husserl) nel soggetto psicologico. Il mondo viene “messo tra parentesi” attuando la riduzione eidetica che esigeva la fenomenologia ed il residuo fenomenologico è lo stesso che aveva individuato il filosofo di Prossnitz, ma il punto di partenza di questa resta l’esperienza necessitata, non l’atto volontario. Rimane fondante la noesis prima della trascendenza. L’io trascendentale messo in luce dalla riduzione fenomenologica rimane legato all’io empirico e naturale dell’uomo (di nuovo, contrariamente a quanto sosteneva Husserl e con lui la fenomenologia novecentesca) perché essi non sono scindibili, anzi, non esistono presi come scissi l’uno dall’altro. È un ritorno all’immediatezza del sentire del proprio corpo, alla volontà di Schopenhauer senza negare la fenomenologia. Il nuovo metodo di Cioran si riduce, in ultima istanza, all’applicazione costante ed assoluta della lucidità. Ma questa non è altro che una nuova metodologia fenomenologica, una nuova noesis riempita della volontà (e della sua capacità di conoscere) di Schopenhauer e imposta dall’esperienza della malattia, dalla degenerazione della vita. Così, l’io trascendentale non può esistere come distinto dall’io corporeo, considerato che è proprio e sempre il corpo a darci coscienza dell’esistente, anche del trascendente la realtà stessa. Noi non conosciamo se non attraverso il corpo, ma, grazie alla nuova esperienza dell’essere strappato dalla propria casa, il corpo assume una capacità conoscitiva che prima era mascherata dal desiderio, dalla vicinanza emotiva. È ancora il corpo a conoscere, è ancora il pensiero che “sa di carne e di sangue” l’unico capace di ricercare la verità, o, perlomeno, di stare nella verità. Ma ora questo corpo non avverte più la lucidità come momento esistenziale drammatico e prossimo all’estasi: scisso dal proprio spazio (terra) e dal proprio tempo (parola) l’essere lucido diventa un nuovo modo di porsi necessario (potremmo azzardare, naturale) e svelante nei confronti del fenomeno-mondo che ora ci sta davanti demistificato.

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Così, quello che in Pe culmile dispera⁄rii è una presa di coscienza drammatica e carica di dolore (da cui le parole infuocate e gli eccessi, anche linguistici, dell’opera), qui diviene lucida analisi. Pacato, verrebbe da dire obbiettivo, Cioran continua a scagliarsi contro le falsità del mondo e della filosofia, ma lo fa con nuova ironia, con tagliente sarcasmo. Siamo lontani dalle invettive apocalittiche della prima opera, malgrado questo libro ne sia la naturale prosecuzione, la lingua diviene “bella” in contrasto al contenuto che si sta esponendo. Dagli spazzini agli snob, tutti prodigano la loro generosità criminale, tutti dispensano ricette di felicità, tutti vogliono dirigere i passi di tutti: la vita in comune diviene per ciò intollerabile, e la vita con se stessi più intollerabile ancora: quando non si interviene negli affari altrui, si è così preoccupati dei propri che si converte in religione il proprio io, oppure, apostoli alla rovescia, lo si nega: siamo vittime del gioco universale…61

Siamo stilisticamente lontani da: la vita come agonia prolungata e cammino verso la morte non è che una formulazione diversa della dialettica demoniaca che le fa partorire forme al solo fine di distruggerle con un accanimento cieco.62

Eppure non ne siamo minimamente distanti per ciò che si vuole dire, per i concetti che rimangono (anche se modificati nella loro appartenenza non più solo all’uomo Cioran, ma al tutto che lo circonda) e per il tono essenziale, malgrado il “modo” differente con cui vengono espressi: L’origine dei nostri atti sta nella propensione inconscia a ritenerci il centro, la ragione e l’esito del tempo. I nostri riflessi e il nostro orgoglio trasformano in pianeta la briciola di carne e di coscienza che noi siamo.63

Nel Précis rimane tutta la “carica” del Cioran rumeno, tutta la sua sofferenza, metro della comprensione come della volontà; ma viene a mancare l’elemento “psicologicamente” autobiografico. Cioran si occupa un po’ meno di se stesso – cinquantanove secondi per ciascuno dei miei minuti, rimuginavo per strada, sono stati dedicati alla sofferenza o… all’idea della sofferenza. Magari

61 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 17. 62 E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 36. 63 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 17.

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II. PARIGI

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avessi avuto la vocazione della pietra! Il cuore: origine di ogni supplizio… Aspiro all’oggetto, alla benedizione della materia e dell’opacità.64

– per “vedere meglio” il mondo, per domandarsene sempre, e necessariamente, attraverso se stesso, ma rinunciando alla propria ansia di essere primo ed unico soggetto. La sua sofferenza, la sua esperienza della malattia, dell’agonia, imprescindibile per tutto il suo pensiero e fondante di tutta la sua filosofia, diviene un dato acquisito ed “archiviato”; entra a far parte del metodo d’indagine lasciando campo libero all’oggetto che prima doveva dividere col suo immenso “se stesso” lo sguardo lucido. La noia diviene così percezione tautologica del mondo, tetro ondeggiamento della durata65

e l’amore, indicato nella prima opera quasi come una salvezza (al pari della musica), persa la spinta emotiva dell’io, assume qui l’unica funzione […] di aiutarci a sopportare i pomeriggi domenicali, crudeli e incommensurabili.66

Cioran cerca le stesse cose, con la stessa volontà demistificatrice, ma dopo aver capito che per desiderare qualcosa di fondamentalmente altro, bisogna essere disinvestiti dello spazio e del tempo, e vivere in una scarsissima affinità con il luogo e con il momento,67 – perché – essere strappati al suolo, esiliati nella durata, recisi dalle proprie radici immediate, equivale a desiderare una reintegrazione nelle fonti originarie, anteriori alla separazione e alla lacerazione.68

Con questo “balzo metodologico”, con questo nuovo approccio filosofico Cioran esce definitivamente dal “privato” verso una pura ricerca teoretica e, quindi, scavalca la letteratura e si affaccia all’“assoluto”, alla filosofia. Votato alla distruzione del presente filosofico – l’ossessione dei rimedi segna la fine di una civiltà; la ricerca della salvezza quella di una filosofia,69 64 65 66 67 68 69

Ibid., p. 39. Ibid., p. 45. Ibid., p. 38. Ibid., p. 48. Ibid., p. 49. Ibid., p. 52.

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estremo nelle considerazioni morali sulla condizione umana – nati in prigione, con fardelli sulle spalle e sui pensieri, non arriveremmo al termine di un solo giorno se la possibilità di farla finita non ci incitasse a ricominciare il giorno dopo… I ceppi e l’aria irrespirabile di questo mondo ci tolgono tutto, tranne la libertà di ucciderci; e questa libertà ci infonde una forza e un orgoglio tali da trionfare sui pesi che ci opprimono.70

Cioran prosegue attraverso la sua ontologia negativa: nel mondo niente è al proprio posto, a cominciare dal mondo stesso. […] La decomposizione presiede alle leggi della vita: più vicini alla nostra polvere di quanto non lo siano alla loro gli oggetti inanimati, noi soccombiamo prima di questi e corriamo verso il nostro destino sotto lo sguardo delle stelle apparentemente indistruttibili. Ma anch’esse andranno in polvere in un universo che solo il nostro cuore prende sul serio per poi espiare nei tormenti la sua mancanza di ironia…71

Lontano dai (falsi) profeti – in ogni uomo sonnecchia un profeta, e quando si risveglia c’è un po’ più di male in noi72

– con una lingua tagliente come una risata amara – osservate il vostro corpo in uno specchio: capirete di essere mortali; passate le dita sulle vostre costole come su un mandolino, e vedrete quanto siete vicini alla tomba. È proprio perché siamo vestiti che ci illudiamo di essere immortali: come si può morire quando si porta una cravatta?73

– Cioran si svela nel suo capolavoro. «Il Précis non è meno lirico dello Spleen de Paris; né forse è un caso che il primo lettore del libro sia stato un poeta, Jules Supervielle, e che il traduttore tedesco sia stato ancora una volta un poeta, Paul Celan. Tuttavia, se Baudelaire voleva ritrarre una vita “più astratta”, oltre che più moderna, di quella dipinta da Bertrand, Cioran compie un passo ulteriore, perché si consacra al compito di scrivere ciò che potremmo chiamare un’epopea della lucidità. La narrazione è sostituita da una filosofia lirica. Descrizioni, sogni, fantasie e aneddoti lasciano il posto all’“ossessione

70 71 72 73

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Ibid., p. 54. Ibid., pp. 58-59. Ibid., p. 17. Ibid., p. 211.

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dell’essenziale”: alle disanime e alle denunce, alle imprecazioni e alle frivolezze, agli orgogli e agli abbandoni generati dallo scandalo dell’essere, dalle verità definitive e impraticabili, dalla saggezza della polvere. È evidente che il libro rappresenta, vuole rappresentare, la dissoluzione della storia del pensiero, anzi della storia tout court, vissuta nell’attualità precaria e ardente di un io anch’esso sull’orlo della fine; una rassegna di tutte le malattie, una concentrazione di tutti i veleni, una sintesi di tutte le decadenze dello spirito, divenuta per l’appunto précis, ossia compendio o breviario o sommario di decomposizione, con quella sfumatura d’ironia che ricorre spesso in Cioran come reazione o correzione minima all’enormità del vuoto, all’eccesso del male».74 Così sintetizza splendidamente Mario Andrea Rigoni. Ironia e negazione sono l’antidoto alla menzogna negli anni dell’engagement universale ed obbligatorio, espressi con un timbro mai incontrato nella prosa della nostra epoca: fuori del dramma privato, Cioran riesce al elevare il tono della scrittura per esprimere il dramma del mondo. La voce è quasi quieta, priva della violenza delle prime opere; ma il timbro, il famoso tono di cui spesso parlava il rumeno, della scrittura risulta ancora devastante. Possiamo aprire a caso questo libro, di cui tutte le opere successive saranno una rielaborazione (senza nulla togliere alla bellezza stilistica ed alla grandezza concettuale di libri quali La tentaxion d’exister, La chute dans le temp o Écartèlement), e saremo comunque costretti a fermarci, ad ascoltare il verbo di questo pensatore transilvano che riesce a rapirci con una voce mai sentita prima. «Sarebbe difficile ritrovare in altre opere del Novecento una tale alleanza fra l’astrazione e la carne, la filosofia e il sangue, il concetto e l’anima – al servizio di una delle requisitorie più tempestose e più limpide che mai qualcuno abbia scritto contro l’uomo, la vita, il mondo, la civiltà, insomma l’esistente, anzi, contro il possibile stesso; anche per questo il Précis è stato così vicino a noi da imporsi come un vangelo segreto della nostra esperienza intellettuale».75 Rimane difficile Cioran, quasi oscuro nel suo essere inclassificabile, nel suo scagliarsi contro tutto senza mai proporre una strada che porti ad una conclusione, senza individuare mai un pensiero teleologico. Ma proprio in questa assenza d’affermazione sta la grandezza di un pensiero che ha avuto la forza di andare soprattutto contro se stesso, contro ogni punto d’arrivo nella pretesa che questo sia un punto di partenza e mai una fine. 74 M. A. Rigoni, Intorno al « Précis de dècomposition », in E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., pp. 226-227. 75 Ibid., p. 229.

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Rimane una sola presa di posizione imprescindibile e “propositiva”, quella del metodo: l’essere lucido, l’avere in sé la forza di superarsi infinitamente, senza mai accettare nulla come un dato esaustivo. E in questo modo, avvicinandosi ad Heidegger, stare nella verità riconoscendo con onestà che la verità non è possibile. La verità non è oggetto della ricerca se non come termine ultimo accettato come concetto limite irraggiungibile. La verità può stare solo nel metodo, nella negazione costante di un telos: Ho visto Tizio perseguire un certo scopo e Caio perseguirne un altro; ho visto gli uomini attratti da oggetti disparati, affascinati da progetti e da sogni vili e indefinibili insieme… […] Giustificabile è soltanto colui che pratica, in piena coscienza, l’irragionevolezza necessaria a ogni atto e che non adorna di sogni la finzione a cui si abbandona, così come ammirevole è soltanto un eroe che muore senza convinzione, tanto più pronto al sacrificio perché ne ha intravisto il fondamento.76

Quello che ribadisce il Précis in maniera dirompente per la coscienza dell’uomo è l’impossibilità di ogni fondamento, ma allo stesso tempo la necessità di un atto d’eroismo: resistere a quest’assenza, superare l’impasse ontologica, guardare l’abisso che ci sottende come esseri umani e sopportare il dramma di tale visione. E, in nome di tale visione, divenirne lo specchio; costringere la menzogna a svelarsi al nostro cospetto senza accettare la nostra stessa natura che ci chiede con tutta la sua tensione, la sua volontà, di chiudere gli occhi, di lasciarsi andare al naturale vivere, all’alternanza di desiderio e sonno fino alla fine dei giorni. La passività era un ideale per me inaccessibile. Mi è stato chiesto perchè non optassi per il suicidio. Ma per me il suicidio non è qualcosa di negativo. Anzi. L’idea che esista il suicidio mi ha consentito di sopportare la vita e di sentirmi libero. Non sono vissuto da schiavo bensì da uomo libero.77

L’addio alla filosofia. L’impossibilità della verità Addio alla Filosofia è il titolo di uno dei “petit poèmes en prose” che compongono il Précis e ne diventa la sintesi programmatica. Mi sono allontanato dalla filosofia quando mi è diventato impossibile scoprire in Kant qualche debolezza umana, qualche accento vero di tri-

76 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., pp. 60-61. 77 Intervista con Helga Perz, 1978, in E. M. Cioran, Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 38.

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II. PARIGI

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stezza; in Kant e in tutti i filosofi. Rispetto alla musica, alla mistica e alla poesia, l’attività filosofica discende da una linfa svigorita e da una profondità sospetta, che non hanno attrattiva se non per i timidi e i tiepidi. D’altronde, la filosofia – inquietudine impersonale, riparo presso idee anemiche – è la risorsa di tutti coloro che rifuggono dall’esuberanza corruttrice della vita. Quasi tutti i filosofi sono finiti bene: questo è l’argomento supremo contro la filosofia. La fine di Socrate non ha niente di tragico: è un malinteso, la fine di un pedagogo – e lo stesso Nietzsche è sprofondato nella follia in quanto poeta e visionario: ha espiato le sue estasi, non i suoi ragionamenti. […] Si è filosofi sempre impunemente: un mestiere senza destino che riempie di pensieri voluminosi le ore neutrali e vacanti, le ore refrattarie a Bach e a Shakespeare. […] I grandi sistemi non sono in fondo che brillanti tautologie. […]78

In questo breve scritto Cioran torna, spogliato del furore espressivo delle opere rumene, al «pensiero che puzza di carne e di sangue», alla vita che pulsa e scavalca il pensare fine a se stesso, allo smascheramento di ogni menzogna: Ma non dimentichiamo che la filosofia è l’arte di mascherare i propri sentimenti e i propri supplizi interiori al fine di ingannare il mondo sulle vere radici del filosofare.79

La filosofia di Cioran, al contrario, vuole smascherare i propri processi, esternare le aporie al fine di disingannare il mondo sulle vere radici del filosofare: il baratro che avvertiamo quando riconosciamo la nostra caduta nel tempo. Tutto questo pare in netto contrasto con le conclusioni cui giunge il pensatore di Ra⁄¶inari: il principio del male sta nella volontà nell’inattitudine al quietismo, nella megalomania prometeica di una razza che scoppia d’ideale.80

Ma questo non è che uno dei passaggi “contro se stesso” che riempiono le opere di Cioran e che trova la sua spiegazione nelle stesse parole del romeno: Il paradosso della mia natura è che provo amore per l’esistenza ma nello stesso tempo ogni mio pensiero è ostile alla vita.81

78 79 80 81

E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., pp. 67-68-69. E. M. Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 40. E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 14. Intervista con Helga Perz, 1978, in E. M. Cioran, Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 38.

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Il vuoto avvertito, la noia che Cioran identifica con la parola cafard, lo porta a camminare in bilico, sospeso tra opposti inscindibili: dovremmo tacere, ma solo nell’espressione possiamo liberarci delle nostre ossessioni. Temiamo la morte, ma solo l’idea di poterci suicidare ci rende liberi di fronte alla vita. Cogliamo l’esistenza di Dio, ma questa rende impossibile il mondo e noi stessi. Avvertiamo, al culmine della contraddizione, la falsità della contingenza grazie alla nostra volontà, fondamento allo stesso tempo di tutto il nostro male. Ma in quest’eterna contraddizione sta la via che ci avvicina alla verità, (o a ciò che di vero ci è concesso in vita): nell’accettare la possibile convivenza degli estremi opposti poiché questa è il nostro fondamento ontologico. Noi non dovremmo esistere e da qui in poi non possiamo che incontrare aporie e negazioni. La grandezza di Cioran sta nell’affrontarle tutte senza lasciarsi trascinare nel nichilismo assoluto e senza voler decidere mai quale sia la risposta, perché una risposta non c’è. Esistono solo delle risposte che dobbiamo esser pronti a rimettere in discussione daccapo qualora ne cogliessimo una ulteriore in contrasto con le precedenti, senza arrampicarsi su sistemi tesi solo a giustificare le nostre mancanze: Hegel è il grande responsabile dell’ottimismo moderno. Come ha potuto non vedere che la coscienza muta soltanto le sue forme e le sue modalità, ma non progredisce affatto? Il divenire esclude un compimento assoluto, un fine: l’avventura temporale si svolge senza una mira esterna ad essa, e finirà quando le sue possibilità di avanzare saranno esaurite. Il grado di coscienza varia con le epoche, senza che tale coscienza si accresca in virtù della loro successione.82

Ecco perché occorre ammalarsi per tendere al dubbio, ed ecco perché occorre essere un eroe che muore senza convinzione, tanto più pronto al sacrificio perché ne ha intravisto il fondamento.83

Ecco perché, infine, dobbiamo abbandonare la “filosofia”, se per essa intendiamo l’opera di ricerca della consolazione o di giustificazione in nome di un’idea a priori, o di un “partito” cui dare fondamento o il tentativo di giustificare il nostro presente al cospetto dell’eternità. Quella che, in maniera azzeccata, Bollon chiama «philosophie des ruines», è per Cioran l’unica via: «Penser contre soi, se saper continuel-

82 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., pp. 182-183. 83 Ibid., pp. 60-61.

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lement et systématiquement, représente ainsi pour lui beaucoup plus qu’un idéal ou qu’une méthode de pensée: c’est la seule façon vrai, rigoureuse et, pourrait-on dire aussi, naturelle, de réfléchir. A l’inverse, les systèmes, participant toujours d’une volonté de cohérence posée a priori, d’un confort, voire d’un conformisme, trahissent chez le philosophe assermenté un manque radical d’authenticité, d’indépendance d’esprit, de véracité».84 Il male assoluto dell’uomo, dopo la caduta nella determinazione, è proprio la ricerca del sapere: nel giardino della creazione all’albero della vita si contrappone l’albero della conoscenza, padre del male in quanto padre della consapevolezza del proprio essere maledetto. Non vi e soluzione al circolo vizioso formato dalla necessità terapeutica del dire e dalla malvagità del conoscere e Cioran lo ammette riconoscendo anche in sé il fallimento e individua nei solitari, estremi irrealizzati, o nell’ascesi l’unica vicinanza alla verità. Ma queste soluzioni di vita non vengono proposte. Il proponimento non fa parte di questo pensatore balcanico che non vuole dare insegnamenti perché non vuole discepoli: rimangono sullo sfondo, ammirate e rimpiante, osservate come tutto ciò che fa parte della bizzarra esistenza del genere umano. La “polemica a distanza” con Sartre Potremmo proseguire ad analizzare il Précis riga per riga e troveremmo sempre un compendio, una ripresa, una riproposizione, un motivo per soffermarci in quel punto ed aprire una discussione. Ma, come ho spiegato, non è questa la sede adatta a svolgere esaurientemente un tale lavoro. Vorrei invece introdurre, anche se brevemente, una questione che il pensatore di Ra⁄¶inari ha accennato in un’intervista del giugno 1979 con Jean-François Duval: la sua polemica “a distanza” con Sartre. Abbiamo già ricordato che il Précis esce nel pieno della cultura dell’engagement francese, nel 1949. Nel 1943 era stato pubblicato, anch’esso per Gallimard, L’être et le néant, monumentale opera del filosofo engagé per eccellenza, Jean-Paul Sartre. Darò per scontate, per non dover scrivere un libro nel libro, le tesi sulla fenomenologia e sul rapporto tra scoperta del sé, esistenza degli altri e problema del nulla, e mi soffermerò, invece, sulle conclusioni sartreane con cui entra in polemica Cioran: «[…] Ma l’ontologia e la psicanalisi esistenziale (o l’applicazione spontanea ed empirica che gli uomini hanno

84 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 153.

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sempre fatto di queste discipline) devono scoprire all’agente morale che esso è l’essere per cui i valori esistono. È appunto allora che la sua libertà prenderà coscienza di se stessa e si scoprirà nell’angoscia come l’unica sorgente del valore, e il nulla mediante il quale il mondo esiste».85 Sulla base di presupposti fenomenologici, Sartre delinea il proprio esistenzialismo. L’uomo è coscienza, trascendimento continuo di sé. La sua esistenza consiste in questo trascendersi ininterrotto: egli non è qualcosa, ma diviene sempre; nella sua vita non esplicita un’essenza prefissata, ma la costruisce “mano a mano”. In tal senso, secondo Sartre, contrariamente a quanto si era sostenuto fino a quel momento, l’esistenza precede l’essenza. L’uomo ha la responsabilità decisiva di dare significato e valore all’esistenza, dunque, è l’uomo che dà senso al mondo: senza l’uomo il mondo non avrebbe significato. La coscienza non può non sentire il mondo e non può astenersi da attribuirle un significato. La coscienza dell’uomo è determinante rispetto al mondo in sé: la coscienza determina la realtà e non viceversa. Da questo riversarsi dell’ontologia nella morale, Sartre trarrà l’etica della responsabilità che trasferirà poi sul piano politico divenendo l’icona dell’intellettuale engagè. Duval, nel suo entretien con Cioran accenna ad un parallelismo tra il Précis e L’être et le néant, ma viene subito interrotto: Nel Sommario di decomposizione c’è una pagina contro Sartre, il capitolo che s’intitola “Su un impresario di idee”. Naturalmente ci sono alcuni punti in comune, perché ho letto più o meno gli stessi filosofi […] Nonostante tutto, il brav’uomo ha dei lati generosi. Però è anche di un’ingenuità che per me è incomprensibile.86

Qual è “l’ingenuità incomprensibile” di Sartre, secondo il pensatore di Ra⁄¶inari? Pensatore senza destino, infinitamente vacuo e meravigliosamente vasto, egli sfrutta il proprio pensiero, vuole che sia sulle labbra di tutti. Nessuna fatalità lo perseguita: e se fosse nato nell’epoca del materialismo, ne avrebbe seguito il semplicismo e gli avrebbe dato un’estensione insospettabile; se fosse vissuto in quella del romanticismo, avrebbe messo insieme una summa di fantasticherie; e se fosse comparso in piena epoca teologica, avrebbe maneggiato Dio come qualsiasi altro problema.87 85 J. P. Sartre, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943, trad. it. di G. Del Bo, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, Est, Milano 1997. 86 Intervista con J. F. Duval, 1979 in E. M. Cioran, Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 65. 87 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., pp. 213-214.

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II. PARIGI

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Sartre manca, in ultima analisi, di pensiero vivo e vitale. Questo è il problema fondamentale posto da Cioran. Il Parigino è certamente un geniale poligrafo, adattabile ad ogni genere letterario e con una mente incredibilmente pronta: ma è intrinsecamente apoetico, parla del nulla ma non ne conosce il brivido; i suoi disgusti sono riflessi; le sue esasperazioni, controllate e come inventate a posteriori; al tempo stesso, però, la sua volontà, di un’efficacia sovrannaturale, è così lucida che egli potrebbe essere poeta se lo volesse e, aggiungerei, santo, se ci tenesse… Poiché non ha né preferenze né prevenzioni, le sue opinioni sono accidenti […].88

Sartre non vive ciò che proclama dal pulpito della fama. Non scrive quando ha voglia di tirarsi un colpo di rivoltella (come dirà di sé Cioran nei suoi Cahier), non ha scorto l’abisso, l’ha solo messo sotto l’uomo perché Nietzsche ed Heidegger avevano fatto la stessa cosa. Sartre, sempre secondo Cioran, non ha mai tremato davanti ad un pensiero; tutto il contrario: Abbraccia tutto e tutto gli riesce; non c’è niente di cui non sia contemporaneo. Tanta energia negli artifici dell’intelletto, tanta facilità nell’abbordare tutti gli ambiti dello spirito e della moda – dalla metafisica fino al cinema – abbaglia, deve abbagliare.89

Egli è tutto ciò che Cioran non è mai stato e non ha mai voluto essere: è un profeta, è un pedagogo. È famoso, è capito e discusso. Può dire qualunque cosa e sa che verrà ascoltato. Niente di più lontano dalla visione del fallimento che per Cioran è l’unica possibilità. Sartre è «figlio di un’epoca, ne esprime le contraddizioni, l’inutile crescita»; è un prodotto del suo tempo, e questo basta a Cioran per sentirsi in disaccordo assoluto col filosofo che rifiutò il Nobel. In oltre, l’autore de La nausée (1947) è marxista, e farà del suo impegno politico il fulcro della seconda metà della sua vita d’intellettuale, mentre sappiamo quanto Cioran guardasse con tristezza alla Madrepatria in cui il Regime vietava ogni libertà e la possibilità stessa di una vita dignitosa. È palese, quasi imbarazzante, la distanza fra i due, o meglio, la speculare opposizione: Sartre sembra il rovescio di Cioran e viceversa, ed in questo c’è qualche cosa di vero. Nella sua intervista con Duval, lo stesso Cioran ammette che tra le loro filosofie ci sono dei punti in

88 Ibid., p. 214. 89 Ibid., p. 213.

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comune, e di non poco conto: l’angoscia come rivelazione, in primo luogo, è un momento condiviso delle weltanshauung dei due pensatori. Se in Cioran l’angoscia è il fondamentale stato d’animo che ci allontana dalla vita sana e ci conduce verso la comprensione, per Sartre l’angoscia è il sentimento che sottende il riconoscimento del nostro status ontologico, e, allo stesso tempo, il sentore del nostro esser obbligati ad essere liberi. D’altro canto, l’idea di responsabilità – spiegata anche grazie al paradosso del soldato: «Così, totalmente libero, indistinguibile dal periodo di cui io ho scelto di essere il senso, profondamente responsabile della guerra come se l’avessi dichiarata io stesso, non potendo affatto vivere senza integrarla nella mia situazione, senza impegnarmi completamente e segnarla con il mio sigillo, io debbo essere senza rimorsi e rimpianti come sono senza scusa, perché, dal momento del mio sbocciare all’essere, io porto il peso del mondo tutto da solo, senza che niente o nessuno possa alleggerirlo».90 – è fondamentale per Sartre, mentre non ha alcuna valenza per Cioran. Se la nostra esistenza è un errore ontologico, tutto ciò che ne discende non può essere ritenuto nostra responsabilità. L’uomo di Sartre è colpevole nel senso cattolico del termine: si è macchiato, nel nascere, del peccato originale. L’uomo di Cioran è uno sbaglio senza colpe di cui dovrà portare sulle spalle, innocente, il fardello fino alla morte: […] il mondo ha infestato la nostra solitudine; su di noi le tracce degli altri diventano indelebili. […] Se con ogni nostra parola riportiamo una vittoria sul nulla, è solo per subirne ancora di più il dominio. Noi moriamo in proporzione alle parole che spargiamo intorno a noi. […] La vita non è altro che questa impazienza di decadere, di prostituire le solitudini verginali dell’anima mediante il dialogo, negazione immemoriale e quotidiana del Paradiso. L’uomo dovrebbe ascoltare solo se stesso nell’estasi senza fine del verbo intrasmissibile, forgiarsi parole per i propri silenzi e accordi percettibili unicamente ai propri rimpianti. E invece è il chiacchierone dell’universo: parla a nome degli altri; il suo io ama il plurale. E chi parla a nome degli altri è sempre un impostore. I politici, i riformatori e tutti coloro che si appellano a un pretesto collettivo sono dei truffatori. […] La definizione è la menzogna dello spirito astratto, la formula ispirata la menzogna dello spirito militante: c’è sempre una definizione all’origine di un tempio.91

Ma Cioran, così dicendo, non giustifica l’errore nell’azione deresponsabilizzando l’uomo; nega il senso dell’agire, mentre l’etica sar90 J. P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p.488. 91 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., pp. 30-31.

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II. PARIGI

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treiana cerca tramite l’idea di responsabilità di fondare un mondo giusto. Si tratta solo di una conseguenza della differente visione ontologica: l’idea di libertà (da cui discende quella di responsabilità) di Sartre è un (bellissimo) salto mortale dall’ontologia maligna dell’uomo alla sua morale. Cioran non accetta di questi balzi. Egli è, nel seguire il proprio metodo, molto più rigoroso: non c’è motivo di confidare nell’uomo per nessuna ragione. Non esiste una speranza che non sia fondata sulla fede. Sogni mostruosi popolano le drogherie e le chiese: non vi ho sorpreso nessuno che non vivesse nel delirio. Poiché il più piccolo desiderio nasconde una fonte d’insania, è sufficiente conformarsi all’istinto di conservazione per meritare il manicomio.92

Nulla di più distante dalla fenomenologia sartreiana. Ma ciò che li distanziò di più, come possiamo capire dalle righe dedicate a Sartre nel Précis, fu lo spirito con cui vissero le loro stesse parole, i loro pensieri. Cioran non poteva che entrare in polemica con un uomo sano che pretendeva di aver qualcosa da dire sul nulla e la sua percezione, senza farsene sfiorare, prendere, divorare. Al di là della questione politica, e malgrado la differente visione fenomenologica, tra Sartre e Cioran si possono trovare dei punti in comune, specie nella tendenza a mantenere uno sguardo attento sui due piani della filosofia: Il tutto (Dio, caos, universo, poco importa definirlo) da una parte, e l’uomo dall’altra. Due campioni della filosofia, si potrebbe azzardare, che vissero all’estremo opposto punti di vista simili e allo stesso tempo lontani. Cioran, poco letto e povero, proseguì la sua opera di demistificazione, convinto dell’inutilità, anzi, del male dell’agire, dalla sua mansarda di rue de l’Odeon; Sartre, negli stessi giorni, a pochi passi da lui, dirigeva le folle sessantottine sugli Champs Élysée verso un nuovo mondo (che non si realizzò). Se uno dei due abbia avuto ragione, non sta a questo volume deciderlo. Certamente i loro destini furono profondamente diversi: mentre Sartre, convinto della sua missione di unificatore del pensiero occidentale ed orientale e politicamente impegnato, rifiutava il Nobel, Cioran concludeva il suo capolavoro domandandosi: Perché insorgere ancora contro la simmetria di questo mondo quando il Caos stesso non è altro che un sistema di disordini? Dato che il nostro desti-

92 Ibid., p. 219.

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no è quello di marcire con i contenuti e con le stelle, trascineremo, come malati rassegnati, e sino alla fine del tempo, la curiosità verso un epilogo previsto, spaventevole e vano.93

2. Dopo la sintesi di tutte le decadenze dello spirito Intorno a me tutti si danno da fare, si affermano, mentre io mi consumo, mi consumo.94

N el 1952, Cioran pubblica una delle opere più “taglienti” e che più lo faranno conoscere in Francia e nel mondo: i Syllogismes de l’ameurtume. Una raccolta di “sillogismi dell’amarezza”, come recita il titolo: una lunga serie di aforismi e brevissimi “colpi di penna” che sembrano gettati senz’ordine sul foglio bianco. Dei “lampi di luce” che colpiscono la coscienza e l’intelletto costringendoci a prestar attenzione a questo pensatore inquietante. Il lettore attento, tuttavia, sarà in grado di riconoscere nelle poche parole, spesso cariche di un sarcasmo feroce, la “punta dell’iceberg” di tutto l’impianto filsofico di Cioran. Riprendendo la tradizione dei moralisti francesi e degli antichi, il pensatore trapiantato a Parigi, ormai uomo “maturo” (ha superato la quarantina), condensa in pochi tratti geniali tutto il proprio pensiero. Così, in quest’opera breve ma immensa tornano i temi sempre presenti nel pensiero del romeno: dal suicidio Je ne vis que parce qu’il est en mon pouvoir de mourir quand bon me semblera: sans l’idée du suicide, je me sarais tué depuis toujours,95

alla letteratura le romanticisme anglais fut un mélange heureux de laudanum, d’exil et de phtisie; le romanticisme allemand, d’alcool, de province et de suicide;96

dalla morale être un Raskolnikov – sans l’excuse du meurtre,97

93 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 222. 94 E. M. Cioran, Cahiers 1957 – 1972, Gallimard, Paris, 1997, trad. it. di Tea Turolla, Quaderni, Adelphi, Milano, 2001, p. 441. 95 E. M. Cioran., Syllogismes de l’ameurtume, cit., p. 74. 96 Ibid., pp. 11-12. 97 Ibid., p. 14.

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II. PARIGI

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alla religione

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j’ai voulu me fixer dans le Temps; il était inhabitable. Quand je me suis tourné vers l’éternité, j’ai perdu pied.98

Ci sono aforismi dedicati alla musica, all’amore, alla fede, a tutto quello che ha sempre inseguito Cioran: la fenomenologia dell’essere umano, la sua ontologia, i suoi confini. Anche in quest’opera traspaiono le caratteristiche fondamentali del “Cioran francese”: l’oggetto della ricerca si espande a trecentosessanta gradi andando a cogliere gli aspetti più disparati della vita, dalle sue manifestazioni più intense – l’amore, la fede, il tempo – ai sentimenti più diversi. Sono citati Hegel, Rousseau, Lutero, Goete, Hitler. Si parla di musica, buddismo, morte, Dio. Ironia e sarcasmo sono ai massimi livelli espressivi: dans les épreuves cruciales, la cigarette nous est d’une aide plus efficace que les Evangiles99;

contrapposti a fulminanti ma intensissimi pensieri: point du salut, sinon dans l’imitation du silente. Mais notre loquacité est prénatale. Race de phraseurs, de spermatozoïdes verbeux, nous sommes chimiquement liés au Mot100; […] dans la stupidité il est un sérieux qui, mieux orienté, pourrait multiplier la somme des chefs-d’œuvre101; […] devoir de la lucidité: arriver à un déspoir correct, a une férocité olympienne.102

Dopo un’accoglienza piuttosto fredda, come per quasi tutte le opere di Cioran d’altronde, i Syllogismes diventarono il suo volume più letto, il più diffuso forse perché il più “immediatamente rivelatore”. Lontano dalla ricercatezza e dalla perfezione linguistica del Précis, l’ormai conosciuto e “francesizzato” pensatore rumeno torna stilisticamente alle origini, al suo bisogno di sintesi, di lampi creativi che squartano il buio del mondo, legando a questa tendenza innata l’acquisita padronanza di una lingua “nobile” che permette tutt’altro stile, ma, soprattutto, tutt’altre sfumature al motto arguto, l’arringa, l’aforisma sarcastico. 98 99 100 101 102

Ibid., p. 99. Ibid., p. 99. Ibid., p. 21. Ibid., p. 10. Ibid., p. 34.

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Un ritorno, dopo la fatica di un capolavoro, all’immediato, alla consegna istantanea del sé. Un’immediatezza, comunque, sempre “frenata” e ridiscussa dalla lingua usata, padroneggiata ma non mai lingua madre, lingua in cui si pensa il pensiero più improvviso: «[…] à l’horizon de Cioran, pas de philosophie donc au sens assertif ni unitaire de ce terme, et encore moins de système; mais bien simple “somme d’aptitudes” nécessairement contradictoires, erratiques, puisque reflétant les états changeants d’une âme prise en tenaille entre plusieurs postulations opposées, à la recherche d’un équilibre momentané – de sa vérité minuscule, fugitive, mais qui seule importe pour lui, de l’instant».103 Non un sistema, non ce ne sarà mai uno; non un impianto completo, ma un insieme di attitudini. Questo è ciò che si palesa da sé, ma sarebbe un grave errore ritenere questa “somme d’aptitudes” come il punto finale di una critica ai Syllogismes, che sono certamente anche lo specchio di una somma d’attitudini, ma, più profondamente, sono il “prontuario” della filosofia del genio transilvano, il sunto in “formule da interpretare” delle diverse strade cui tende e giunge il suo pensiero. Oppure, possiamo leggerlo solamente come quell’insieme di colpi di genio che è quale si mostra immediatamente. Non sviliremmo l’opera, ma perderemmo, ancora una volta, la possibilità di capire la grandezza del lascito di quest’uomo, che alla fine della propria vita scelse la purezza del silenzio, ma per oltre quarant’anni, in precedenza, si macchiò, per nostra fortuna, della parola con cui oggi noi possiamo consolarci o fremere di tensione. Forse per aver conosciuto “la paura in mezzo alle parole” – ne cultivent l’aphorisme que ceux qui ont connu la peur au milieu des mots, cette peur de crouler avec tous les mots104

– , dopo aver dato alla luce quel “trattato sul bordo di un precipizio” che è il Précis, o, chissà, forse solamente per dare libero sfogo all’invettiva, all’ironia, a se stesso senza alcuna forma di mediazione, Cioran si “sveste” tra le righe di un piccolo gioiello da leggere e rileggere. Non possiamo pretendere di trovarvi una Weltanshauung esplicita (sempre sottesa e palese agli occhi di conosce da vicino il pensatore di Ra⁄¶inari), ma gustarne l’invettiva feroce e disillusa senza censure né regole, di colui che arrivò a scrivere, al culmine del suo disperato sarcasmo, vago attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi.105

103 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 151. 104 E. M. Cioran., Syllogismes de l’ameurtume, cit., p. 15. 105 Ibid., p. 43.

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La filosofia di Cioran: La tentation d’exister Quattro anni dopo, nel 1956, Cioran pubblica quello che sarà il suo più grande successo commerciale: La tentation d’exister. Accenno brevemente a questo che, assieme a La chute dans le temps, è una vera e propria raccolta di brevi saggi. Torna esplicita la tendenza ad alternare la parola “curativa”, quella dell’aforisma, lampo che scarica anche la propria forza e tensione divenendo liberatorio, col pensiero più compiuto, la parola che, semplicemente, racconta: dopo lo “sfogo” dei Syllogismes, Cioran torna a “meditare”, a pensare l’Occidente, l’esilio, il destino, il popolo ebraico, la mistica dipingendone dei piccoli “trattati”. Vero e proprio manuale del pensare contro se stessi, insieme di brevi saggi dell’aforista francese per eccellenza, La tentation d’exister ci offre spunti di riflessione che verranno ripresi e compiuti soprattutto nelle opere subito successive, in cui la trattazione di una filosofia della storia fa da “sfondo” costante. In questo breve accenno, mi preme considerare due saggi che per questo studio sul pensiero di Cioran e sulla sua contestualizzazione sono imprescindibili: il primo «Pensare contro se stessi», ed il quinto «Un popolo di solitari». Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori alle nostre violenze, all’esacerbarsi del nostro squilibrio. Persino Dio, per quanto ci incuriosisca, non lo scorgiamo nell’intimo di noi stessi, bensì al limite esterno della nostra febbre, esattamente nel punto in cui, la nostra rabbia fronteggiando la sua, ne risulta una collisione, uno scontro rovinoso per Lui non meno che per noi. Colpito dalla maledizione insita nell’atto, il violento non forza la propria natura, non va al di là di se stesso se non per farvi ritorno come un forsennato, come un aggressore, seguito dalle proprie imprese venute a punirlo per averle suscitate. Non c’è opera che non si ritorca contro l’autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l’avvenimento l’uomo d’azione. Colui che, rispondendo alla propria vocazione e portandola a compimento, si agita dentro la storia, è causa della propria rovina; l’unico a salvarsi è chi sacrifica talenti e dono per potere, sgombro della sua qualità di uomo, sprofondare nell’essere. Se aspiro a una carriera metafisica, a nessun costo posso conservare la mia identità: devo liquidarne il minimo residuo che mi rimanga; e se, al contrario, mi avventuro in un ruolo storico, il compito che mi spetta sarà quello di esasperare le mie facoltà fino ad esplodere con esse. Si perisce sempre a causa dell’io che si assume: portare un nome è rivendicare un modo esatto di crollare.106

106 E. M. Cioran, La tentazione di esistere, cit., pp. 11-12.

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Ho riportato l’intero passo iniziale di questo primo saggio perché in esso vi è un “manifesto programmatico”, la formulazione di come ci si debba porre, una volta smascherate le menzogne della filosofia e della fede, nei confronti del nostro agire: nulla, nell’azione, ha carattere positivo: essa è giustificabile solo nell’atto (positivo in quanto atto) di negare; lo abbiamo più volte ricordato. Detto questo, non possiamo poi illuderci che ogni nostro agire non “si rifaccia” su di noi, non si “vendichi” per “essere stato azione”. Colui che tende verso il compimento della propria tensione nella storia, ovvero, nel tempo (dimensione dell’errore ontologico), della caduta, dovrà necessariamente fallire. Non esiste compimento a “buon fine”: solo nel fallimento della nostra tensione scopriamo e, quindi ci avviciniamo al vero. Solo nella fede “mancata”, vissuta come desiderio, bisogno inappagato si conosce Dio e solo grazie allo lo scontro con Dio si conosce l’uomo. Un fedele non potrà mai conoscere Dio perché già vi crede, perché nella sua fede s’è già perduto realizzando il suo intendimento. Il fallimento diviene la matrice della scoperta. Lo scontro il presupposto della conoscenza. Ma tutto questo non è un’“apologia dell’autoflagellazione”, della punizione cristiana del corpo per liberare lo spirito. Tutt’altro, anzi, all’opposto: è la vita vissuta fino allo stravolgimento dei sensi la chiave della conoscenza; è lo stravolgimento dei nervi che conduce a “toccare”, in uno stato quasi estatico, ciò che sta oltre la contingenza. D’altro canto, questo passaggio pretende, necessariamente, una contropartita: la violenza contro se stessi. Ogni pensiero che non vada contro colui che pensa, contro la propria realizzazione momentanea, che non conduca ad un fallimento, rimane “in superficie”, non si avvicina alla verità e nemmeno sta nella verità, in quel camminamento che abbiamo riconosciuto come la massima verità che nella vita sia possibile. La volontà, di per sé maligna perché manifestazione della nostra distanza dall’assoluto cui ambiremmo ritornare, può diventare un mezzo per smascherare la contingenza e tendere alla verità. Ma per divenire non più il male assoluto ma una possibile “strada” verso la comprensione del Caos, essa si deve ammalare, deve smettere di volere solo quello per cui è nata, ed essere costretta a volere estremamente di più, a tendere verso il necessario fallimento. Allora, come negazione costante, accenderà una lotta irrisolvibile contro il sé, degenerando e tendendo al fallimento, primo gradino della conoscenza, verso l’estasi come fuoriuscita dall’errore del tempo. Tutto questo potrebbe essere superato in un solo momento se fossimo in grado di vivere realmente l’ascesi, l’abbandono di se stessi allo scorrere imperturbabile delle cose. Ma vita è uguale a volontà, e qualsiasi distacco passivo reale ci è impossibile:

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Nulla mi pare più contrario alle nostre abitudini che l’apprendistato della passività. (L’epoca moderna inizia con due isterici: Don Chisciotte e Lutero). Se elaboriamo il tempo, se lo produciamo, è perché ci ripugnano l’egemonia dell’assenza e la sottomissione contemplativa che essa presuppone. Considero il taoismo la prima e l’ultima parola della saggezza: eppure vi sono refrattario, i miei istinti lo rifiutano, così come rifiutano di subire qualsiasi cosa, a tal punto pesa su di noi l’eredità della ribellione. Il nostro male? Secoli di attenzione al tempo, di idolatria del divenire.107

Non un’apologia dell’ascesi, quindi. Al contrario: una serena accettazione dell’impossibilità, per noi occidentali, di ambire, attraverso discipline antitetiche alla nostra natura, ad un sistema che non ci appartiene ed il cui supposto possesso è sempre fasullo. In anticipo sui tempi, Cioran critica già la tendenza all’ignorante vagheggiamento orientalista, (oggi lo chiameremmo “new age”) che a breve avrebbe riempito le metropoli europee con la speranza di ritrovare una supposta “via verso se stessi” che il ritmo della vita occidentale oscurerebbe. Il pensatore balcanico, carico di esperienza di vita e conscio della fissità della natura umana e delle caratteristiche dei popoli, nega ogni falsa speranza; attacca chi percorre strade impossibili pensando di poter raggiungere mete a noi assolutamente precluse: […] ma la sua saggezza è una contraffazione, la sua liberazione un raggiro. Io non accuso soltanto la teosofia e i suoi adepti, ma tutti coloro che si fanno forti di verità incompatibili con la loro natura. Più d’uno ha l’India facile e s’immagina d’averne colto i segreti, mentre nulla in realtà ve lo predispone, né il carattere, né la formazione, né le inquietudini. Che pullulare di falsi “liberati” che ci guardano dall’alto della loro salvezza! Hanno la coscienza a posto; non pretendono forse di porsi al di sopra dei loro atti? Sopruso intollerabile.108

Pensare contro se stessi e, quindi, contro le facili soluzioni, le mendaci soluzioni. Questo è, per Cioran, il primo passo per liberarci dalle menzogne delle fedi, siano religiose, filosofiche, scientifiche, storicistiche. Di nuovo il Cioran reazionario, che nega la possibilità di uno sviluppo dell’essere umano? Sì, se siamo ancora tanto positivisti o tanto ciechi da credere nella possibilità di una crescità dell’umanità tutta, come se questa fosse una categoria esistente, vivente. 107 Ibid., p. 14. 108 Ibid., p. 14.

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No, se crediamo che siano gli individui, ogni singolo essere umano, a poter (dover) risvegliarsi dal nuovo sonno dogmatico. Per ognuno di noi è indicata la propria via verso la ricerca del vero e questa si manifesta dopo lo smantellamento delle false credenze e la negazione di ogni fede. Ma per fare tutto questo, riconosce con onestà il transilvano, occorre che ognuno viva un percorso la cui teorizzazione è del tutto inutile, se non mistificatrice e menzoniera. Il pensiero vivo, che puzza di sangue e carne, può essere vivo solo considerato singolarmente, per un uomo, non per l’umanità. L’umanità, ci dice Cioran, non esiste, è un’invenzione di chi ha trovato più comodo pensare a teorie adatte ad un insieme di algoritmi, che ammettere l’impossibilità di costruire tesi adattabili ad un insieme di differenti, appartenenti alla stessa specie, ma assolutamente distinti l’uno dall’altro. Vi è un coraggio, un’onestà intellettuale in queste righe da lasciare stupefatti. Non era arrivato persino Nietzsche, l’uomo del “filosofare col martello” ad ammettere che alla fine si poteva solo crollare sotto il peso della croce? Cioran non lo fa, ma non pretende nemmeno di abbatterla: continua a cercarla, e a buttar via ciò che incontra quando pensa di essere arrivato alla conclusione della sua ricerca, perché il risultato è necessariamente errato. Nessuna conclusione, nessuna parola ultima che non lasci aperta la strada ad una parola nuova è accettabile; in questa presa di coscienza fondante sta il ribaltamento del pensiero di Cioran: da uno scontato nichilismo al più imperativo degli stoicismi. Lottare sempre, non cedere mai e, soprattutto, combattere il nemico più difficile, cioè noi stessi e il nostro bisogno di cadere in una fede di una qualsiasi cosa più grande di noi: Noi respiriamo troppo velocemente per poter cogliere le cose in se stesse o denunciarne la fragilità. Il nostro ansimare le postula e le deforma, le crea e le sfigura, e ad esse ci incatena. Mi agito, emetto così un mondo altrettanto sospetto della speculazione con cui lo giustifico, aderisco al movimento, il quale mi trasforma in generatore di essere, in artigiano di finzioni, mentre il mio brio cosmogonico mi fa dimenticare che, trascinato dal turbine degli atti, non sono altro se non un complice del tempo, un emissario di universi caduchi.109

Ecco qua l’impianto filosofico di Cioran, la traduzione teoretica e morale della sua ontologia negativa.

109 E. M. Cioran, La tentazione di esistere, cit., p. 17.

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Ecco la negazione costante che non ha nulla a che vedere col nichilismo, né con l’ascesi. Ecco un pensiero tanto onesto da riconoscere che solo nel proprio fallimento vi è la possibilità di una nuova fondazione e, quindi, di avvicinarsi, in un movimento costante, alla verità, al superamento della contingenza e delle sue imposizioni. Ecco il suo metodo che coincide col suo stare nella verità. Ora dobbiamo ben ammetterlo: abbiamo il fenomeno nel sangue. Possiamo disprezzarlo o aborrirlo, non per questo cessa di essere il nostro patrimonio, il nostro capitale di smorfie, il simbolo dei nostri spasmi di quaggiù. Razza di convulsionari, al centro di una farsa che ha proporzioni cosmiche, abbiamo impresso all’universo le stimmate della nostra storia, e mai saremo capaci di questa illuminazione che invita alla placidità nella morte.110

Il «sorriso del Buddha»111 rimane uno sfondo, un’altra cosa, che può essere parametro della nostra schizofrenia, ma non meta dell’Occidente e dei suoi figli, fondati sul respiro affannoso e non sul sorriso estatico. Dobbiamo cercare le nostre estasi da un’altra parte, dentro noi stessi ma contro noi stessi. Contro i nostri punti d’arrivo, le nostre conclusioni. Il sistema non può esistere perché mira alle conclusioni, al risultato che è, per natura, errato. Nel fallimento dell’azione, che apre la strada ad altre azioni ed altrettanti fallimenti, è lo stare nella verità. E la nostra difficoltà nell’accettarlo è il fardello di secoli di sistemi necessari e giustificatori, senza i quali, ormai ci pare non si possa più vivere. Cioran, con questo breve saggio che è la sua summa filosofica, l’esposizione del suo metodo, della sua fenomenologia, abbandona le strade del nichilismo e della fede. Ci mostra, con una forza intellettuale a tutt’oggi insuperata, che solo nel crollo, nello scontro con noi stessi, nel fallimento, apriamo la porta alla ricerca non mistificata, mascherata, positiva. Un pensiero più difficile da spiegare, da dipanare che da cogliere. Torniamo al lirismo, alla vita: è molto più semplice sentire tutto questo che analizzarlo e capirlo proprio per la sua natura, per la sua essenza sfuggente in quanto viva. Possiamo esperire tutto questo ma fatichiamo a comprendere, perché siamo ormai abituati da troppo ad usare solo un canone di comprensione, la logica ed il suo nesso causale. Grandi pensatori, tra i quali il più geniale fu probabilmente Enzo Melandri, hanno speso la vita a discutere di canoni alternativi, ricono-

110 Ibid., p. 18. 111 Ibid., p. 18.

FABIO RODDA

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scendo la centralità della logica, ma non dimenticando che, per buona parte della storia, gli uomini hanno ragionato anche secondo altre modalità aprendo un dibattito importante (a Parigi nasceva l’Archeologia del sapere di Focoult) sul tema della contrapposizione logica/analogia che la filosofia contemporanea, ormai figlia e non più sorella (o madre) delle scienze, oggi non riesce a proseguire. La conoscenza, ci dice Cioran, nasce dall’alterità assoluta, dalla distanza da se stessi, dal pensare contro se stessi. La logica è soppiantata da un’altra forma di ragionameno che non ha più nulla a che fare con i nessi causali che utilizziamo quotidianamente. Urge un ribaltamento della prospettiva, uno stravolgimento dei canoni, forse un ritorno all’idea di analogia,112 ma in Cioran tutto questo rimane sotteso, intuito ma mai spiegato perché la teoria, ormai lo sappiamo, occupa un posto di gran lunga secondario rispetto alle analisi legate al corpo, alla materialità. Così, nel volume più “filosofico” tra tutti quelli scritti da Cioran, vi è un altro saggio che riassume diversi concetti fondamentali di quella che sto definendo la filosofia del pensatore transilvano, ma lo fa discutendo di un tema che in apparenza non ha nulla a che fare coi problemi epistemologici o metafisici: si tratta del quinto saggio Un popolo di solitari, dedicato all’ebraismo. Cioran, come ho già avuto modo di raccontare, fu “braccato” in Francia dall’accusa di antisemitismo mossa prima da alcuni esuli dell’est Europa, poi dai lettori di Schîmbarea e dai ritrovati articoli pubblicati sulle riviste di destra rumene soprattutto tra il 1935 ed il 1940. Che in Schîmbarea vi fossero delle decise affermazioni antisemite è innegabile. Che queste si rifacessero, da un lato, alla storia della Romania e nascessero, dall’altro, da un pensiero poco attento alla politica ma basato sulle idee, l’ho già chiarito, senza voler dare nessuna giustificazione storica o piltica, precedentemente. Nel 1968, durante un’intervista Cioran si dichiarò «metafisicamente ebreo». Nel 1957, pubblicando La tenation d’exister riprende un argomento difficile, che gli costò più di ogni altra cosa, a mio avviso, la fama e l’attenzione che avrebbe meritato ma che non ebbe mai: Poiché è restio alle classificazioni, quel che di preciso se ne può dire è inesatto; nessuna definizione gli si addice. Per meglio comprenderlo, dovremmo ricorrere a qualche categoria particolare, giacché tutto è insolito in lui: non è forse stato il primo ad aver colonizzato il cielo, ad avervi posto il suo dio? Tanto impaziente di creare miti quanto di distruggerli, si è forgiato una

112 E. Melandri, La linea e il circolo: studio logico-filosofico sull’analogia, cit.

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II. PARIGI

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religione di cui si vanta, di cui si vergogna… Malgrado la sua chiaroveggenza, sacrifica di buon grado all’illusione: spera, spera sempre troppo…113

Popolo guerriero, indisposto a deporre le armi malgrado il numero infinito di nemici, la stirpe ebraica vive l’eterna contraddizione dell’esaltazione e vergogna di sé: Essere uomo è un dramma; essere ebreo, un altro ancora. Così l’Ebreo ha il privilegio di vivere due volte la nostra condizione. Egli rappresenta l’esistenza separata per eccellenza, o, per usare un’espressione con cui i teologi qualificano Dio, l’assolutamente altro. […] Migliore e peggiore di noi, l’Ebreo incarna gli estremi a cui aspiriamo senza riuscire a raggiungerli, è noi oltre noi stessi… Poiché il suo coefficiente di assoluto supera il nostro, egli offre nel bene come nel male l’immagine ideale delle nostre capacità.114

Ancora “popolo eletto”, ma non perché eletto da Dio, ma dal proprio essere “scisso” da sempre, per il proprio vivere la doppiezza dell’amore e dell’odio per se stessi come chiave esistenziale, il popolo ebreo viene descritto in queste pagine come il più “naturalmente” vicino allo stare nella verità per “tradizione”, per il dramma stesso insito nella nascita di un ebreo: il doppio distacco dal Dio posto e poi deposto, e per la caduta consapevole in un tempo e luogo cui non appartiene. Riprendendo il tema dell’esiliato, Cioran attribuisce al popolo ebraico, esiliato per antonomasia (esiliato dalle proprie terre e dal figlio del proprio Dio lasciato morire sulla croce), una doppia capacità di vivere (per natura) la scissione, la distanza dal tutto che ci precede, dall’abisso di cui ci sentiamo parte. Sotto qualsiasi forma si presenti e indipendentemente dalla sua causa, l’esilio, agli inizi è una scuola di vertigine115:

non conta perché o da chi si è stati esiliati, ma conta che questo status privato ci rende capaci di una vicinanza maggiore, rispetto alle coscienze “sane”, con il concetto di distacco e da qui, abbiamo già visto, nasce il percorso che ci indirizza allo stare nella verità. L’Ebreo, secondo Cioran Essere metafisico per eccellenza, rimarrà il baluardo della domanda di Dio, della ricerca dell’assoluto, proprio per la sua natura “malata” (per come Cioran intende la malattia):

113 E. M. Cioran, La tentazione di esistere, p. 63. 114 Ibid., p. 64. 115 Ibid., p. 59.

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Quando le chiese saranno per sempre disertate, gli Ebrei vi faranno ritorno o ne costruiranno di nuove, o più probabilmente isseranno la croce sulle loro sinagoghe.116

Attraverso la parabola del popolo eletto, Cioran ridiscute il suo metodo: solo nel pensare contro se stessi (dramma che l’Ebreo vive per la propria natura scissa due volte) vi è la strada che rimane nel vero, almeno come metodo. Non c’interessa la logica, il nesso causale, non dobbiamo dare delle spiegazioni né delle dimostrazioni scientifiche: dobbiamo cogliere l’essenza della condizione umana, l’assenza di ogni fondamento e l’impossibilità di ogni cambiamento. Ma la presa di coscienza sulle questioni ultime, su Dio, sul tempo, sulla nostra natura non sono elaborabili attraverso i normali canali conoscitivi dettati dalla logica. Occorre rovesciare completamente la prospettiva, scindersi da se stessi e pensare contro la propria natura affermativa. Il popolo ebraico qui diviene metafora di quel pensare contro se stessi che sta alla base della filosofia di Cioran. Ma quello che ci interessa in questi passi, al di là dell’idea di per sé interessante del popolo eletto non per mano di Dio ma per la propria vicenda, ad essere la genia metafisica per eccellenza e la metafora filosofica che esso diviene, è la questione storica che grava su questo saggio. Ho già ampliamente trattato il dibattito sull’antisemitismo di Cioran, ma questo breve saggio ci aiuta ulteriormente nella sua comprensione. Anche se storicamente si è dimostrata da sé la fine di ogni adesione anche tacita a qualsiasi teoria o pratica antisemita (l’amicizia con Fondane e i tentativi di salvarlo dalla deportazione ne sono dati inconfutabili), ora possiamo aggiungere un altro tassello al difficile mosaico dell’evoluzione del pensiero di Cioran. Il pensatore rumeno riprende la questione ebraica (dibattuta in Francia della cultura engagé del tempo, si pensi a Sartre su tutti) per mostrarne la naturale tendenza metafisica. Non una parola su questioni politiche o sociali, ma soprattutto, e questo è di fondamentale importanza, non una lusinga gratuita, che sarebbe, forse, bastata da sé come “mea culpa” accettato dall’intellighenzia del secondo dopoguerra. Gli ebrei sono descritti nella loro condizione esistenziale di doppio dramma, sono «migliori e peggiori di noi» per la loro attitudine metafisica, non migliori o peggiori in qualsiasi altro senso. Sono i depositari della ricerca di Dio, ma sono anche coloro che «probabilmente isseranno la croce sulle loro sinagoghe».

116 Ibid., p. 66.

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II. PARIGI

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Di nuovo, non si vuole con questo giustificare il periodo romeno, né tanto meno (sarebbe un’offesa alla sua memoria, oltre che un errore grave d’interpretazione) mostrare un Cioran redento dopo l’esilio. Niente di tutto ciò. Dobbiamo però riuscire, e non è facile, a cogliere il piano differente su cui va posta la questione dopo l’abbandono della patria. Dobbiamo riuscire a capire che l’apologia del popolo eletto, scritta da Cioran in questo saggio, nulla ha a che vedere con la “questione ebraica” come la intendiamo normalmente, ma si rifà solamente ad un discorso filosofico; ad uno studio metafisico: Amari e insaziabili, lucidi e appassionati, sempre all’avanguardia della solitudine, gli Ebrei rappresentano l’insuccesso in movimento.117

In tutte queste formule non va cercato un”giudizio di merito” o una “volontà di riallacciamento” dopo lo strappo del periodo rumeno. Dobbiamo leggere, tra queste appassionate righe, l’apologia di un modello umano tendente alla metafisica che l’occidente ha dimenticato e che non siamo più in grado di cogliere. Questo breve saggio non deve essere, quindi, letto come un encomio allo sventurato popolo d’Israele, un’apologia dell’“essere ebreo nel mondo” (sarebbe vergognoso da parte di chi ha scritto articoli filohitleriani), ma come una narrazione di un dramma storico e umano che ha portato un popolo ad essere capace di proiettarsi, più degli altri, verso quella malattia, quel dramma che Cioran riconosce come il fondamento della metafisica. Forse è per questo che, chi ha colto la grandezza di un tale discorso che trascende la storia ed il suo (inesistente) tribunale, come Guido Ceronetti, vi riconosce una delle descrizioni più belle di un popolo da sempre giustificato in ogni nefandezza e punito per ogni respiro, sempre e solo alla luce dei fatti della storia e dei sensi di colpa da essi indotti. Cioran, ancora una volta, mischia le carte in tavola e fa di uno dei temi storici più dibattuti nel secolo appena passato (il suo secolo) un tema filosofico, un motivo di discussione metafisica: Insomma, benché legati a questo mondo, essi non ne fanno veramente parte: c’è qualcosa di non terrestre nel loro passaggio sulla terra. Furono in un lontano passato testimoni di uno spettacolo di beatitudine di cui conservano la nostalgia? E che cosa allora dovettero vedere che si cela alle nostre percezioni? La loro inclinazione all’utopia non è che un ricordo proiettato nel futuro, vestigio tramutato in ideale. Ma è la loro sorte, mentre aspirano al Paradiso, urtare contro il Muro del Pianto.118 117 Ibid., p. 79. 118 Ibid., p. 91.

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Nessuna agiografia, nessuna scusa per le lettere infuocate scritte vent’anni prima; semplicemente, un discorso che con quel passato non ha nulla a che vedere, un pensiero che della storia non sa che farsene e che ha come unico orizzonte la metafisica. «[…] Esemplare anche, di passione, di novità, il saggio Un peuple de solitaires, nella raccolta La tentation d’exister (1956), una visione di storia ebraica che riconferma, in termini inaspettati, l’unicità e l’elezione. Lo raccomando anche a chi faccia o ricerchi esegesi biblica non di rimasticature storiografiche e teologiche. È un vero omaggio al popolo d’Israele, e dovrebbe essere letto il sabato nelle sinagoghe per invitare quei pochi riuniti a non separarsi del tutto dalla loro identità».119

Ceronetti, spirito affine a Cioran, ha colto l’essenza del saggio Un popolo di solitari, superando il vincolo storico che buona parte degli studiosi del pensatore transilvano non riesce a lasciarsi alle spalle, continuando a confondere i piani del discorso e perdendo, in ultima istanza, il valore delle parole del rumeno.

119 G. Ceronetti, Cioran, lo squartatore misericordioso, introduzione al volume E. M. Cioran, La tentazione di esistere, cit., p. 18.

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III a filosofia della storia L’impossibile della verità

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L

Oggi come oggi dovrei sentirmi europeo, occidentale; ma non è affatto così. Dopo un’esistenza durante la quale ho conosciuto molti paesi e letto molti libri, sono giunto alla conclusione che era il contadino rumeno ad avere ragione. Quel contadino che non crede in niente e pensa che l’uomo sia perduto, irrimediabilmente perduto,quel contadino che si sente schiacciato dalla storia. Questa ideologia da vittima è anche la mia concezione attuale, la mia filosofia della storia.1

inevitabile, dopo aver letto Cioran, È ed averne discusso la metafisica, porre la questione della storia, e della sua negazione, l’utopia: Noi tutti, qui come da voi, siamo a un punto morto, ugualmente decaduti da quella ingenuità in cui si elaborano le divagazioni sul futuro. La vita senza utopia, a lungo andare, diventa intollerabile, almeno per le masse: il mondo ha bisogno di un delirio nuovo o rischia di pietrificarsi. Ecco l’unica evidenza che scaturisce dall’analisi del presente. E intanto la nostra situazione qui continua ad essere curiosa. Immaginate una società dove il dubbio imperversa, dove, ad eccezione di pochi sprovveduti, nessuno crede veramente in qualcosa, una società in cui tutti, privi di superstizioni e di certezze, invocano la libertà e nessuno rispetta la forma di governo che la difende e la incarna. Ideali senza contenuto o, per ricorrere ad una parola altrettanto sofisticata, miti senza sostanza. Voi siete delusi per delle promesse che non potevano essere mantenute; noi, più semplicemente, per mancanza di promesse. Se non altro siamo consapevoli dei vantaggi che un’intelligenza ricava da un regime che, per il momento, la lascia libera di svilupparsi a piacer suo, senza sottoporla ai rigori di nessun imperativo. Il borghese non crede a nulla, è un fatto; ma proprio in questo, se così posso dire, sta l’aspetto positivo del suo nulla, perché la libertà si manifesta solo nel vuoto delle credenze, nella mancanza di assiomi e là dove le leggi non hanno più autorità di una semplice ipotesi.2

1 E. M. Cioran, Entretien avec Fernando Savater, 1979 in E. M. Cioran., E. M. Cioran, Un apolide metafisico – Conversazioni, p. 24. 2 Lettera a Noica, Parigi 1957, in E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., pp. 36-37.

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Nel 1960 Cioran, dopo essersi trasferito in rue de l’Odeon, nel cuore del quartiere latino, e dopo aver accettato la stabilità di una casa (una mansarda) abbandonando definitivamente pensioni, alberghi e ostelli, si dedica alla pubblicazione di un’opera breve quanto importante: Histoire et utopie. Il volume è aperto da una Lettera ad un amico in cui Cioran, proseguendo il mai interrotto dialogo con Noica, e quindi con la patria abbandonata, ci offre importanti delucidazioni sulla propria visione del mondo contemporaneo e sulla propria maturità politica. Rispondendo alla sofferenza dell’amico per la condizione disperata della Romania della dittatura comunista, paragonata alla libertà dell’occidente in cui era fuggito, Cioran ridiscute alcuni temi fondamentali della propria concezione politica, prendendo ancora le distanze dal “periodo rumeno”: Chi, prima della trentina, non ha subito il fascino di tutte le forme di estremismo, non so se devo ammirarlo o disprezzarlo, considerarlo un santo o un cadavere.3

Si racconta nel suo cambiamento, nel suo invecchiare: I miei odii, fonte delle mie esultazioni, si placavano, diminuivano giorno per giorno e, allontanandosi, si portavano via il meglio di me stesso. Che fare? Verso quale abisso sto per scivolare? […] Decisamente non ero più giovane: l’altro mi appariva concepibile e perfino reale. Davo l’addio all’Unico e la sua proprietà; la saggezza mi tentava: ero finito? Bisogna esserlo per diventare un democratico sincero. Con mia grande gioia, mi accorsi che conservavo tracce di fanatismo, qualche vestigio di gioventù: non transigevo su nessuno dei miei nuovi principi, ero un liberale intrattabile. Lo sono tuttora. Felice incompatibilità, assurdità che mi salva.4

Come sempre, Cioran parte dall’aspetto più immediato, biografico, per passare a riflessioni che si ampliano fino a divenire riflessioni sul mondo in generale: La differenza fra i regimi è meno importante di quanto appaia; tu sei solo per costrizione, noi lo siamo senza costrizione. È così grande la differenza tra l’inferno e un paradiso desolante?5;

3 E. M. Cioran, Histoire et utopie, Gallimard, Paris 1960, trad. it. di Mario Andrea Rigoni, Storia e utopia, Adelphi, Milano 1982, p. 13. 4 Ibid., pp. 16-17. 5 Ibid., p. 23.

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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i grandi temi della politica vengono discussi a partire dalle considerazioni intime di una lettera privata, così una nuova definizione dei caratteri della libertà appare, improvvisa, tra le considerazioni tra la vita della Parigi libera e della Bucarest occupata: Per manifestarsi la libertà esige, come ti dicevo, il vuoto: lo esige – e vi soccombe. La condizione che la determina è la stessa che l’annulla.6

Cioran, in questo volume discute di Russia e di marxismo, di occidente e di libertà, di tirannia: Mentre i popoli occidentali si logoravano nella loro lotta per la libertà e, ancor più, nella libertà acquisita (niente esaurisce tanto quanto il possesso o l’abuso della libertà), il popolo russo soffriva senza consumarsi, giacchè non ci si consuma se non nella storia, e poiché esso ne fu escluso, dovette necessariamente subire gli infallibili sistemi di dispotismo che gli furono inflitti,7

mantenendo le forza che oggi lo rendono l’ago della bilancia del pianeta. Il destino prossimo della Russia, dice Cioran con inaspettato spirito d’osservazione dei fatti contemporanei, è strettamente legato a quello i tutto il mondo nel prossimo futuro. Di nuovo, ci troviamo difronte ad un’opera che si presta a diversi tipi d’interpretazione: i piani di lettura sono, a mio avviso, fondamentalmente due: da un lato, Storia e Utopia è un viaggio attraverso la storia del mondo vista dalla Parigi del 1960. Ci sono ipotesi sul prossimo futuro, sulla forza della Russia comunista votata all’Apocalisse, sulla decadenza delle democrazie occidentali: quasi un breve ma incisivo (come solo Cioran sa essere nello smascherare sempre l’oggetto osservato fulminandolo senza lasciare spazio a repliche) trattato di storia contemporanea. Dall’altro, in questo volume, il cui seguito ideale si trova nel saggio Dopo la storia contenuto in Écartèlement, vengono mostrate e discusse le due grandi menzogne del nostro (suo) tempo: la Storia, folle entusiasmo accecato nella contingenza, e l’Utopia, illusione fornita dalla storia stessa per uscire da essa. Ritorna il grande tema dell’origine del dolore dell’uomo: l’allontanamento dalla Vita e la ricerca, al suo posto, della conoscenza; la caduta dall’eterno presente di cui Dio è solamente inutile ripetizione, privo di domande perché senza passato né futuro, al tempo scisso dell’azione, della determinazione, della Storia.

6 Ibid., p. 24. 7 Ibid., p. 39.

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«La modernità nasce precisamente con questa drammatica scoperta: il vero uccide la vita, che solo l’oblio rende possibile. – Tutto il piano della natura intorno alla vita umana – diceva Leopardi nel Frammento sul suicidio – si aggira sopra la gran legge di distrazione, illusione e dimenticanza. quanto più questa legge è svigorita, tanto più il mondo va in perdizione –. Ma, sventuratamente, la lucidità è un cerchio dal quale non si può più uscire una volta che vi si sia messo piede e, in effetti, almeno dal Sette-Ottocento in poi, non si contano, in tutti gli ambiti dell’espressione, le opere che recano in qualche modo le stigmate di questa rivelazione crocefiggente, insieme privilegiata e maledetta, liberatoria e paralizzante, perché non si avanza nella conoscenza, non si accede al fondamentale senza cadere nell’inestricabile, non ci si emancipa senza andare incontro alla vacuità e alla stagnazione».8 Cioran, respingendo ancora ogni sorta di professionismo intellettuale, ogni categoria, esprime la condizione dell’uomo completamente disingannato, in precario equilibrio tra saggezza, disperazione e farsa. La contaminazione totale, l’assenza di ogni punto di vista pregresso gli permette le analisi spietate ma indiscutibili che permeano tutta la sua opera e che in Storia e Utopia toccano livelli altissimi: la Storia viene degradadata a semplice storia, senza preoccuparsi a priori di cosa potrebbe accadere dallo svelamento di un mito moderno tanto potente che alcuni vi hanno visto il tribunale del mondo. Viene svelata oltre le categorie date e le prese di posizione fideiste. Cioran non ha nulla da perdere, lo dice lui stesso: ha già toccato il culmine della disperazione, è già sprofondato nell’abisso; non solo, come tutti, è caduto nel tempo, ma se ne è reso conto, cadendo così anche dal tempo. Vive una dimensione di assoluto, di caos, e non si preoccupa di ciò che verrà dalla sua parola. Il paradosso è il termine ultimo di quest’ennesimo svelamento di una delle più grandi menzogne dell’umanità, la storia e, sua conseguenza fideistica, lo storicismo: Tutto è già esistito. La vita mi pare un’ondulazione priva di sostanza. Le cose non si ripetono mai, ma sembra che noi viviamo nei riflessi di un mondo passato, di cui prolunghiamo gli echi tardivi. La memoria non è soltanto un argomento contro il tempo, essa va anche in senso contrario a questo mondo, rivelandoci confusamente i mondi probabili del passato e il loro coronamento nell’Eden. Regredire nella memoria fa di voi un metafisico; raggiungere le origini, un santo.9 Ieri, oggi, domani sono categorie a uso dei servi. Per l’ozioso insediato sontuosamente nella Sconsolatezza e afflitto da ogni istante che scorre, pas8 M. A. Rigoni, Contaminazione totale, in E. M. Cioran, Storia e utopia, cit., p. 148. 9 E. M. Cioran, Lacrime e Santi, cit., p. 29.

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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sato, presente, futuro non sono altro che parvenze variabili di uno stesso male, identico nella sostanza, inesorabile nel suo insinuarsi e monotono nel suo persistere.10

Quale filosofia della storia? Nessuna, pare risponderci Cioran: la storia, alla stregua di tutte le altre classificazioni dell’umano, appare come una falsificazione, un tentativo di ordinare l’umano in base al tempo, primo parametro della caduta dal Caos: Squilibrio ininterrotto, essere che non cessa di frantumarsi, il tempo è propriamente un dramma di cui la storia rappresenta l’episodio più rilevante. Che cos’è, in fondo, la storia, se non uno squilibrio anch’essa, una rapida, violenta frantumazione del tempo stesso, un impeto verso un divenire in cui nulla più diviene? Allo stesso modo che i teologi parlano a buon diritto della nostra epoca come di un’epoca post-cristiana, si parlerà un giorno della fortuna e della sfortuna di vivere in piena post-storia.11 Il divenire esclude un compimento assoluto, un fine: l’avventura temporale si svolge senza una mira esterna ad essa, e finirà quando le sue possibilità di avanzare saranno esaurite. Il grado di coscienza varia con le epoche, senza che tale coscienza si accresca in virtù della loro successione. Noi non siamo più coscienti di quanto lo fossero il mondo greco-romano, il Rinascimento o il XVIII secolo; ogni epoca è perfetta in se stessa-e peritura.12

Quella che, nel leggere questi passi, appare come una profonda sfiducia nel leggere questi passi, è in realtà una conseguenza diretta e necessaria del metodo d’indagine che, non mi stancherò mai di ripetere, muove tutta l’opera di Cioran: l’essere lucidi. La Storia, ed ancor di più il suo tribunale, non sono che invenzioni dell’uomo. Invenzioni tese, alla stregua delle religioni, a consolare, a dare speranza all’unico animale che necessita di una tale illusione per sopravvivere. Ma la storia non può avere alcuna pretesa né di poter insegnare qualche cosa, né, a maggior ragione, di poter “moralizzare” in un qualche modo il genere umano. La Vita si muove lontano dalla storia, razionalizzazione del particolare a discapito del ritmo, del continuo che sta all’origine del vivere naturale: «la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la

10 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 74. 11 E. M. Cioran, Écartèlement, Gallimard, Paris 1979, trad. it. di M. A. Rigoni, Squartamento, Adelphi,, Milano 1981, p. 55. 12 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., pp. 182-183.

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ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione».13 La storia è l’ennesima menzogna causata dalla volontà di determinanzione, di particolare e di sapere che hanno dannato l’uomo irrimediabilmente. Tutta la storia non è che la riproposizione della caduta nel tempo, dell’errore ontologico manifestatosi nell’essere umano. Come possiamo sperare di trarre dalla manifestazione del più grande sbaglio (l’individuazione di sé, l’autocoscienza di essere volontà irrimediabilmente caduta dal paradiso dell’indeterminato) un qualsiasi insegnamento per il futuro? Ne deriva che, nell’opera di Cioran, Il tribunale della storia hegeliano non ha senso se non nel suo fasullo sistema imposto, impossibile; costruito per far “quadrare i conti”, per unificare ciò che non può essere unificato nella speranza che la scoperta non porti in sé anche una caduta: Tutta la Storia è in putrefazione; i suoi miasmi avanzano verso il futuro: noi corriamo loro incontro, non fosse altro che per la febbre insita in ogni decomposizione. È troppo tardi perché l’umanità si emancipi dall’illusione dell’atto, soprattutto è troppo tardi perché si innalzi alla santità dell’ozio.14

Nella storia la volontà si palesa negando la possibilità stessa della non-azione. La storia è storia del “fare” e, quindi, dell’errore: come ogni agire (ne abbiamo parlato nella sezione precedente), l’agire nella storia si ritorce contro l’agente, perché non c’è evento che non chieda al suo esecutore il riscatto dell’azione. L’uomo fa la storia; la storia, a sua volta, lo disfa. Egli ne è l’autore e l’oggetto, l’agente e la vittima. Ha creduto fino ad ora di dominarla, adesso sa che gli sfugge, che si sviluppa nell’insolubile e nell’intollerabile: un’epopea insensata, il cui esito non implica nessuna idea di finalità. Come assegnarle uno scopo? Se ne avesse uno, lo raggiungerebbe soltanto quando fosse giunta al termine. Ne trarrebbero vantaggio solo gli ultimi discendenti, i superstiti, i resti, essi soli sarebbero appagati, profittando del numero incalcolabile di sforzi e di tormenti che avrà conosciuto il passato. Visione davvero troppo grottesca e ingiusta. Se si vuole ad ogni costo che la storia abbia un senso, lo si cerchi nella maledizione che pesa su di essa, e da nessun’altra parte.15

Ma, nella storia, per sopportare il male dell’agire l’uomo è riuscito a creare la sua negazione illusoria: l’utopia. L’uomo, dannato dalla pro-

13 G. Leopardi, Zibaldone, cit., p. 16. 14 E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, cit., p. 64. 15 E. M. Cioran, Squartamento, cit., pp. 58-59.

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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pria volontà, rifiuta la felicità offerta dall’albero della Vita e preferisce compiere il peccato primo invaghendosi dell’albero della Conoscenza. Caduto nella determinazione, nel tempo, esso continua a ricreare un sistema di illusioni che gli permetta di sopravvivere a se stesso. Inventa, così, l’idea della felicità, che va a sostituire la felicità rifiutata in partenza, creando l’utopia, specchio illusorio della storia. Come possiamo sperare in una menzogna tanto palese da mostrare essa stessa sempre la strada per uscire dal vincolo (inesistente) della storia (se stessa), ovvero l’utopia? L’uomo, nel suo disperato bisogno di certezze, di rassicurazioni, di consolazione, erige a semi-dio un susseguirsi di eventi temporali, pretendendo di poter imparare da questa serie di casualità, di azioni, una legge morale per poter poi farla cessare rendendo eterno un utopico (quindi, fuori dalla storia, ma creato nella storia e per la storia) futuro in cui i nostri desideri siano realtà. È l’ennesimo smascheramento, forse il più drammatico perché il più legato al mondo degli uomini, a quello che chiamiamo realtà. La distruzione dell’Utopia, dimostrata come menzogna, apre un nuovo, ulteriore, corso: «Histoire et Utopie, en 1960, marque […] le grand tournant de Cioran. La critique impitoyable des utopies, de l’Utopie en tant que principe, définie comme toutes les abstractions supérieures à la réalité, à laquelle il procède dans ce livre, n’a pu un effet que l’amener à rompre avec ce qui restait en lui d’idéalisme. Désormais, comme le proclame le titre d’un chapitre du Mauvais Démiurge, ses pensées seront des pensées étranglées, car trouvant sans cesse leur limite dans leur opposé, coupant ainsi la route à ses affect vitalistes. Cela ne veut pas dire que toute idée de vérité sera bannie de son univers, mais que celle-ci ne pourra plus s’énoncer dorénavant comme telle, ni telle quelle. Seules ses limites extérieures de validité pourront être tracées».16 Bollon riconosce perfettamente quello che potremmo identificare come il “terzo periodo” di Cioran: dopo il vitalismo sfrenato, dopo l’esaltazione della lucidità come nuovo parametro per superare la menzogna, di fronte alla storia l’autore del Précis realizza l’impossibilità ulteriore di ogni pronunciamento. Dice bene Bollon, non tutte le idee della verità saranno bandite dal suo universo, ma esse non potranno più essere enunciate come tali: solo i limiti esteriori della loro validità potranno essere riconosciuti. Un nuovo “capitolo” della filosofia della negazione: se prima solo l’azione della negazione si salvava dal male insito nell’agire stesso (perché prodotto della volontà) e alla ricerca della verità (impossibile) si

16 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., pp. 157-158.

FABIO RODDA

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sostituiva una costante caccia alle verità, ora Cioran si rende conto, di fronte al tribunale della stroria (che, la storia stessa dimostra, non può esistere), che nessuna verità può essere enunciata in quanto tale. Il Tempo diventa l’occupazione principale di Cioran, il limite metafisico fondamentale e la sua percezione sensibile si pone come la negazione della storia: questo secondo è svanito per sempre, si è perduto nella massa anonima dell’irrevocabile. Non tornerà mai più. Ne soffro e non ne soffro. Tutto è unico – e insignificante.17

Histoire et Utopie è il libro dell’ennesimo disincanto, ma allo stesso tempo, come sempre avviene in Cioran, risulta appassionato, acuto, capace di analisi storiche (per l’appunto) che possiamo leggere oggi e sempre trovandole di profonda (e triste) attualità: Ogni civiltà crede che il suo modo di vivere sia il solo buono e il solo concepibile, che debba convertire il mondo a esso oppure infliggerglielo; questo modo di vivere equivale per essa a una soteriologia esplicata o camuffata; in realtà, a un imperialismo elegante, che però cessa di esserlo non appena si accompagna all’avventura militare.18

Ricco di lucide quanto difficili affermazioni oltre i miti dettati dal tempo in cui viviamo: in una repubblica, paradiso della debolezza, l’uomo politico è un tirannello che si sottomette alle leggi.19

È un’analisi lucida del quadro storico-politico del tempo e dell’assoluta inconsistenza ed inutilità di un tale quadro. È l’ennesimo libro di Cioran che nega se stesso: che mentre si dipana, riga dopo riga, entra in conflitto non tanto con le sue conclusioni, ma con le sue premesse. Poichè tutto ci ferisce, perchè non rinchiuderci nello scetticismo e tentare di cercarvi un rimedio alle nostre piaghe ? Sarebbe un ulteriore inganno, dato che il Dubbio non è che un prodotto delle nostre irritazioni e dei nostri torti, e come lo strumento di cui lo scorticato si serve per soffrire e

17 E. M. Cioran, De l’inconvénient d’etre né, Gallimard, Paris 1973, trad. it. di L. Zilli, L’inconveniente di essere nati, Adelphi, Milano 1991, p. 41. 18 E. M. Cioran, Storia e utopia, cit., pp. 42-43. 19 Ibid., p. 63.

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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far soffrire. Se demoliamo le certezze non è per scrupolo teorico o per gioco, ma per la rabbia di vedere che si sottraggono, e anche per il desiderio che non appartengano a nessuno, dal momento che ci sfuggono e non ne possediamo nessuna. E con quale diritto gli altri dovrebbero trarre profitto dalla verità? Per quale ingiustizia essa si sarebbe svelata a loro, che valgono meno di noi?20

Come aveva ben compreso Bollon, Cioran, nel suo scavare con la vanga della lucidità, dopo aver sradicato le menzogne della fede e della filosofia, ora, al cospetto della storia, sfondo dell’esistenza, trova che la lucidità stessa, come tutte le altre azioni, si rivolge su se stessa, contro se stessa e non può più cogliere nessuna verità. Può trovare soltanto la sua valenza nella dimensione (momentanea, incompleta, maligna nel suo essere il luogo della determinazione) del tempo, della stessa storia. Una cura cattiva e non benefica, attuata da un cattivo demiurgo, incapace ormai di far altro che riconoscere l’inevitabilità del dolore. La verità viene suggerita, accontentandosi della sua incompletezza, della sua impossibilità oltre il momento in cui è stata enunciata. Sarcastico anche mentre si appresta a distruggere una delle ultime speranze dell’umanità, il concetto di utopia – ma mi meraviglio ancora di più che, essendo la società quella che è, qualcuno si sia sforzato di concepirne un’altra, del tutto diversa. Da dove può provenire tanta ingenuità, o tanta follia?21

– Cioran propone un’antropologia basata sulla negazione, non sull’affermazione e quindi contraria ai concetti di storia ed utopia: «Cette anthropologie pessimiste, ou réaliste – chacun choisira le terme qui lui sied – , qui, assure Cioran avec force, n’est jamais quel la leçon d’infamie délivrée par l’historie (la quelle, précise-t-il dans un de ses Entretien, se confond “aux trois quart avec l’histoire de tyrannies, de l’esclavage humain”), le conduit à ce que qu’on pourrait appeler une véritable politique de la “cruauté”, au sens où Artaud employait ce terme. Délaissant tout jugement moral, Cioran ne peut, en effet, que repérer froidement partout à l’œuvre l’action de ce rapport quasiment sadomasochiste qui scelle sans exceptions, à des degrés divers et sous habillages de circonstance, tous les pouvoirs, quels qu’ils soient ou presque».22

20 Ibid., pp. 99-100. 21 Ibid., p. 101. 22 P. Bollon, Cioran, l’hérétique, cit., p. 177.

FABIO RODDA

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Unico aspetto positivo della storia è la scoperta della malinconia, richiamo al totalmente altro che ci precede e verso cui tendiamo. Tramite la malinconia, sentimento della mancanza delle origini, comprendiamo il nostro “stare” come in una dimensione che non ci appartiene, ma oltre ciò non possiamo andare. Nessuna salvezza ci viene offerta, neppure dalla storia. Nell’analisi pragmatica, senza fedi né pietà per l’uomo e le sue menzogne, le sue debolezze, Cioran distrugge l’utopia e la speranza stessa che la politica possa qualcosa nell’esistere umano: se l’utopia è l’illusione ipostatizzata, il comunismo, spingendosi ancora oltre, sarà l’illusione decretata, imposta: una sfida lanciata all’onnipresenza del male, un ottimismo obbligatorio.23

E, alla fine, non lascia spazio che alla fredda, quasi scientifica, analisi della situazione di fatto, al di là delle utopie e di tutte le altre bugie: caduti senza scampo nell’eternità negativa, in questo tempo sparpagliato, che si afferma solo annullandosi, essenza ridotta a una serie di distruzioni, somma di ambiguità, pienezza il cui principio risiede nel nulla, viviamo moriamo in ognuno dei suoi istanti, senza sapere quando esso è, perché in verità non è mai.24

Di Histoire et Utopie rimane la passione dell’analisi “ampia”, non vincolata né al proprio tempo né al proprio luogo, l’interesse per le “cose umane” malgrado l’impossibilità ultima di pronunciarsi in qualsivoglia direzione. Posso dirmi in pieno accordo con Ceronetti quando dice: «Di Cioran amo anche la passione permanente per la storia, una passione puramente umana, mossa dall’interesse per il destino umano, non dall’idolatria di un principio, non da (mio Dio, siamo nell’anti-ideologia più radicale!) fanatismo ideologico, non certo infetta dall’indecenza hegeliana Weltgeschichte ist das Weltgericht (“Storia del mondo uguale Tribunale del mondo), questo baccalà triste che piace tanto ai mangiatori di stupidità; passione di tormento per la fine dell’Occidente, per la Russia, per le grandi catastrofi, per i fatti insensati, passione di profeta, più vicino al fato del suo popolo che desideroso di scendere nelle anime dei personaggi, lasciati in ombra, nominati di rado».25

23 E. M. Cioran, Histoire et utopie, cit., p. 119. 24 Ibid., p. 128. 25 G. Ceronetti, Cioran, lo squartatore misericordioso, cit., p. 16.

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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Detto questo, alla storia non rimane alcuna valenza, nessuna possibilità di salvezza, nessun possibile insegnamento. E a colui che ricerca la verità, o, per lo meno, lo stare nella verità (anche se, abbiamo detto, nessuna verità è più affermabile) non resta che riconoscere che L’uomo era condannato in partenza. Dimenticata, nell’azione, la pienezza primordiale che lo preservava dal tempo e della morte. Di sua iniziativa si è votato alla rovina. La storia, originata dal tempo e dal movimento, è condannata all’autodistruzione. Nulla di buono può derivare da ciò che fu, in origine, l’effetto di un’anomalia.26

Non resta, quindi, che il dovere intellettuale di riconoscere il fallimento dell’idea della storia nella sua visione teleologica o, ancor peggio, etica. Concludendo il discorso, non posso che riconoscere, con Silvie Jaudeau, che le vrai penseur, pour ne pas dire philosophe, terme auquel s’attache une connotation trop speculative que Cioran refuse à une pensée authentique, fait abstraction de ses particularismes individuels autant que de son temps. Il se place deliberement hors du temps, hors de l’histoire.27

Il problema, allora, diviene l’eredità di questo volume. Affianchiamo Storia e Utopia agli articoli di «Vremea» del periodo rumeno, avviciniamo la visione antililiberale del pensiero politico degli anni trenta di Cioran e le sue considerazioni metafisiche sulla storia: Il gregge umano disperso sarà riunito sotto la guardia di un pastore spietato, sorta di mostro planetario dinanzi al quale le nazioni si prostreranno, in uno stato di sgomento vicino all’estasi. […] A giudicarla dai tiranni che ha prodotto, la nostra epoca sarà stata tutto, tranne che mediocre. Per ritrovarne di simili bisogna risalire all’impero romano o alle invasioni mongoliche. Molto più che a Stalin, a Hitler spetta il merito di aver dato il tono al secolo. Egli è importante, non tanto per se stesso quanto per quello che annuncia, abbozzo del nostro avvenire, araldo di un fosco avvento e di un’isteria cosmica, precursore di quel despota su scala continentale, che compirà l’unificazione del mondo attraverso la scienza, destinata non a liberarci, ma ad asservirci. Tutto questo, un tempo lo si sapeva; un giorno lo si saprà di nuovo. Siamo nati per esistere, non per conoscere; per essere, non per affermarci.28

26 E. M. Cioran in S. Jaudeau, Mistique et sagesse, cit., p. 23. 27 E. M. Cioran in S. Jaudeau, Cioran ou le dernier homme, cit., p. 35. 28 E. M. Cioran, Storia e Utopia, cit., pp. 56-57.

FABIO RODDA

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Ecco di nuovo la spiegazione della questione politica sotto il lume del pensiero metafisico di Cioran: «la libertà», come scrive nella lettera a Noica del 1957 con cui apre Storia e Utopia, per manifestarsi, ha bisogno del vuoto: lo esige – e vi perisce. La condizione che la determina è la stessa che la annulla. La libertà non ha basi: più sarà completa, più sarà fuori sesto, perché ogni cosa, compreso il principio da cui promana, rappresenta per lei una minaccia. L’uomo tanto poco adatto a sopportarla o a meritarla che soccombe al beneficio stesso che ne ricava.29

Il popolo è destinato alle menzogne della fede, di cui la Storia è una rappresentante; la libertà non è possibile sotto un punto di vista metafisico, la sua realizzabilità pratica rimane secondaria. Cioran, anche quando si occupa di storia o politica, ne osserva la questione metafisica, scava alle origini dell’esistenza, non si accontenta, non s’interessa di dibattere una questione pratica. Il problema non è se sia giusto o meno estendere la libertà a quanta più gente, il problema è se sia possibile e metafisicamente sensato. Non dobbiamo mai perdere di vista il punto focale del pensiero di Cioran: la carne e il sangue, il mondo individuale e fisico, si rapporta con la metafisica, il mondo che fu e forse sarà in un ottica in cui l’oggi è solo un momento privo d’interesse generale. Così concetti come l’umanità resta un indeterminato per il pensiero fatto di carne e di sangue ed inutile per un idea che tende al di là della contingenza. Ecco che torniamo a vedere come il pensiero di Cioran, intriso del mondo, per nulla lontano dall’uomo, non può, allo stesso tempo, essere analizzato come un ragionamento pratico, una filosofia nel senso novecentesco del temine, scienza sociale che dona i natali a rami specializzati. Quella di Cioran è una filosofia, un pensiero che ritorna al concetto di filosofia antico: è una metafisica anche dell’immanente, un sentiero attraverso il mondo e la sua negazione. La verità, anche la verità della storia, scoperta impossibile perché figlia di una fede, torna ambizione, concetto limite da indagare. Le manifestazioni del mondo, della contemporaneità, rimangono un attimo insignificante nella storia infinita della cosmogonia. Da tutto questo, ma l’ho già affermato, si desume come necessariamente le interpretazioni “scientifiche” (storiche, sociologiche, psicologiche) delle opere di Cioran rimangono necessariamente parziali e poco significanti, quando non errate e devianti.

29 E. M. Cioran, C. Noica, L’amico lontano, cit., p. 39.

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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Oltre il tempo e lo spazio Che cos’altro aspettarsi da una carriera iniziata con un’effrazione alla saggezza, con un’infedeltà al dono d’ignoranza che il Creatore ci aveva elargito? Precipitati nel tempo del sapere, fummo simultaneamente dotati di un destino. Giacchè non v’è destino se non fuori del paradiso.30

La caduta nel tempo esce per Gallimard nel 1964. In un affresco metafisico semplice e diretto ma allo stesso tempo stilisticamente impeccabile, Cioran torna a ribadire la condizione “storica” dell’essere umano: la tentazione dell’uomo fu quella dell’albero della conoscenza, non dell’albero della vita. Il desiderio fu somigliare a Dio nel sapere più che nel vivere di per sé, nell’immortalità. L’uomo è caduto nel tempo, nel destino, quando ha rinunciato all’innocenza dell’ignoranza, allo status primordiale di esistenza pura e semplice, non corrotta dalla consapevolezza dell’esistenza. Ma se la condizione di disperazione dell’uomo è dettata dall’origine stessa della propria storia, se è connaturata al proprio essere e se l’uomo è, quindi, ontologicamente un errore, cosa rimane? Esiste una possibilità? Una speranza? Siamo di fronte al dilemma di tutti i pensatori che riconoscono nell’uomo i germi del proprio male. Da Schopenhauer a Nietzsche, a molti artisti e pensatori del ‘900 il nichilismo rimane approdo e timore, ovvia conseguenza inaccettabile. Cioran offre, a mio avviso, una nuova via: se è vero che non esiste speranza in assoluto, se è vero che l’errore sta nell’essenza stessa dell’uomo e non nelle sue caratteristiche contingenti, se il male pare fondamento irrimediabile della nostra esistenza rimane comunque uno spiraglio proprio nella vita contingente, reale. È l’assenza stessa del fondamento che diviene base del vivere cosciente: la consapevolezza velenosa di essere uno sbaglio dalla nascita non conduce alla desolazione del nichilismo, ma alla forza, alla determinazione stoica di una vita basata sul nulla e non per questo destinata a nullificarsi. Per spiegarmi, se è vero che le categorie di giusto o sbagliato, ad esempio, perdono valore di fronte al riconoscimento della nostra condizione ontologica e dell’impossibilità di una Verità Unica superiore all’uomo, allo stesso tempo, nel vivere quotidiano di ogni singolo individuo, esse sono, per ogni individuo, riconoscibili e una morale è perseguibile con ardore e senza compromessi. Solo che non ci si può appellare a qualcosa di “superiore”, di giustificato: l’uomo, una volta riconosciuta la propria condizione ontologica, può comunque scegliere da

30 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., p. 13.

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individuo singolo (categorie collettive come umanità perdono completamente senso alla luce di queste riflessioni) una strada e perseguirla malgrado tutto se ne riconosce l’unicità e, soprattutto, l’infondatezza. Ma come possiamo agire, come scegliere, se privati di un “bene superiore”, di un fine o di una speranza verso cui muovere, verso cui tendere? A cosa dobbiamo riferirci per decidere? Il fatto è che Cioran, come Nietzsche, riconosce una possibilità all’uomo che la maggior parte dei pensatori, ma anche degli uomini “comuni”, non riescono ad accettare: l’uomo è un ponte, una corda tesa sopra l’abisso e questa corda tende all’oltre uomo, non un super uomo, un campione di una nuova razza, ma un essere che ha nella stoica accettazione del proprio non-fondamento la reale “novità”. L’uomo nuovo proposto da Nietzsce e dipinto per contrasto (Cioran non propone nulla, descrive e distrugge, sottende solamente alcune vie aperte riconoscibili in ciò che non viene descritto, non viene raccontato) dal Nostro è un essere conscio del proprio dramma, consapevole del fatto che viene dal nulla e ad esso tende, certo dell’assenza di verità ultime e, tuttavia, pronto ad affrontare la propria esistenza con la dignità di chi non teme il fallimento ma lo riconosce come ovvio risultato. Ma se il fallimento è ciò che ci attende, nella strada verso questa caduta ogni individuo incontra prove e situazioni in cui la propria scelta è determinante e morale al di là dell’impossibile fondazione di un’etica assoluta e non relativa. Se, insomma, il nostro margine di scelta, nell’arco di tutta una vita, è ristretto a pochissime oscillazioni tra i binari imposti dal caso e dalla nostra condizione, questo margine è tutto nostro, nel senso che appartiene ad ognuno di noi esseri umani, che determiniamo, con le nostre scelte, tali oscillazioni. Il tutto con la consapevolezza che non c’è un fondamento cui fare riferimento, né un Padre da cui tornare, né una Verità cui tendere, né (alla Sartre) un mondo da fondare con il nostro comportamento. Ci siamo solo noi, singoli esseri umani al cospetto della nostra vita. Responsabili solo ai nostri stessi occhi di tutto ciò che ci accade malgrado la nostra innocenza ontologica. Occorre rifondare la propria vita sull’assenza di fondamento: riconoscere una propria morale nell’assenza di un’etica assoluta; agire come se tutto il destino del mondo dipendesse da sé nella convinzione della propria inutilità. Aderire, come abbiamo già visto, a qualche cosa senza crederci, perché non si può credere in nulla, se non nell’impossibilità di credere; sopportare il peso dell’assoluto relativismo perché ogni altra forma e modello è ontologicamente falso. Questa è la vita, secondo chi scrive l’unica strada che dia un vero valore alla manciata di anni che trascorriamo su questo mondo,

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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descritta per difetto (in ciò che non viene detto, nel contrario di quello che viene esclamato) da Cioran in tutta la sua opera ma puntualizzato e chiarito tra la fine degli anni cinquanta ed il decennio successivo. Sono gli anni filosoficamente più fecondi e importanti per il romeno: senza perdere il tono, l’impatto estetico che aveva contraddistinto tutta l’opera fino a questo momento, Cioran elabora opere di altissimo livello filosofico in cui chiarisce la propria posizione riguardo l’unico vero oggetto della ricerca di una vita, ossia l’uomo: La tentazione d’esistere (1956), Storia e utopia (1960), La caduta nel tempo (1964). 1. La caduta nel tempo. Il canone della lucidità. Oltre il nichilismo 7 gennaio 1968 Anni e anni per svegliarmi da quel sonno in cui gli altri si crogiolano; e poi anni e ancora anni per sfuggire a questo insopportabile risveglio.31 Se l’uomo avesse avuto la minima vocazione per l’eternità, invece di correre verso l’ignoto, verso il nuovo, verso le devastazioni che porta con sé l’appetito di analisi, si sarebbe accontentato di Dio, nella cui familiarità egli prosperava. Ha voluto invece emanciparsi, strapparsi da lui, e vi è riuscito oltre ogni speranza. […] non appena l’uomo, separato dal Creatore e dal creato, divenne individuo, vale a dire frattura e incrinatura dell’essere, e non appena, accettando il proprio nome sino alla provocazione, seppe di essere mortale, il suo orgoglio si accrebbe, non meno che il suo smarrimento. Moriva finalmente a modo suo, e ne era fiero, ma moriva del tutto, e questo lo umiliava.32

Dalle prime pagine de La caduta nel tempo, in assoluto l’opera filosoficamente più complessa tra quelle del rumeno, Cioran torna a raccontare la storia dell’uomo, della sua individualizzazione, della sua caduta nel tempo. Con uno stile paragonabile soltanto a quello del Précis, con una vena poetica e tagliente allo stesso tempo, con quel tono ritenuto fondamentale dallo stesso autore la tragedia dell’uomo viene mostrata in tutta la sua potenza, la sua ferocia: è l’invidia per Dio a muovere un essere debole verso il volere, conducendolo all’iperbole che lo avvicinerebbe al divino. La volontà, come per Schopenhauer, è motore unico del vivere ma, allontanando l’uomo dalla propria origine e spingendolo sempre più verso l’esaltazione del sé al di sopra di tutto, aggravando, per

31 E. M. Cioran, Quaderni, cit., p. 601. 32 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., pp. 14-15.

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così dire, la condizione di determinato che già pesa sull’uomo dalla nascita, essa è anche motore dell’allontanamento da Dio, dall’indeterminato, dall’eden del non essere individuo. L’uomo, non incline alla Vita, attratto dal Divenire e dal Sapere è caduto nel tempo, si è determinato nell’individuo e nell’azione; nella scelta perpetra il peccato originale, la colpa che ci ha allontanato non tanto da Dio, nostro apatico e pentito Creatore, quanto dall’albero della Vita, dall’essere gettandoci nel volere. Più si è, meno si vuole,33

leggiamo nel primo capitolo de La caduta nel tempo: Qualificare, nominare gli atti significa cedere alla mania di esprimere opinioni; ora, come ha detto un saggio, le opinioni sono “tumori” che distruggono l’integrità della nostra natura e la natura stessa. Se potessimo astenerci dall’esprimerne, entreremmo nella vera innocenza e, bruciando le tappe a ritroso, attraverso una regressione salutare rinasceremmo sotto l’albero della vita.34

Ecco che la Storia, riflesso funesto nel tempo della luce divina, diventa per noi una lunga espiazione, un pentimento affannoso, una corsa in cui eccelliamo senza credere ai nostri passi35;

ecco che l’uomo, invidioso di Dio, abbraccia la fede nella propria evoluzione come se essa dovesse per forza portarlo al più alto grado di perfezione. Ma, considerata la nostra condizione e la nostra perenne fuga verso l’avvenire, non dovremmo essere colti da un dubbio? Non verranno, la nostra avidità e la nostra frenesia, dal rimorso di aver solo sfiorato la vera innocenza, il cui ricordo non può non assillarci?36

La nostra condizione esistenziale, vista nel proprio manifestarsi quotidiano, non è dettata da una fuga, un desiderio profondo e ormai inconscio di dimenticare? Da cosa scappiamo affannandoci per l’inte-

33 34 35 36

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Ibid., p. 21. Ibid., pp. 24-25. Ibid., p. 25. Ibid., p. 26.

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ro arco della nostra esistenza? Quale terrore ci muove ad un ritmo che non è il nostro, che ci affatica ed avvelena? Cioran, fin dagli articoli giovanili e dal capitolo Attimo ed Eternità del suo primo libro, analizza una questione fondamentale: il tempo. Giovanni Rotiroti, autore di un pregevole studio sul “caso” Cioran, dedica un capitolo fondamentale alla questione del tempo, trovando, giustamente, in esso il motore principale del pensiero del rumeno: il tempo, movente della noia, esperienza fondamentale per aprirsi al canone della lucidità, è l’onnipresente consapevolezza della nostra dimensione, lo specchio in cui vedere riflesse le proprie miserie ed i propri affanni. Il tempo della decadenza, differente dal tempo dell’uomo classico ritmicamente in sintonia col proprio tempo, è portatore d’infelicità: «Il tempo nei suoi contenuti interiori è assimilato in modo immanente dalla vita. Le opere di creazione in “stile classico” fanno vedere il sentimento positivo del tempo dove l’istante diventa il riflesso e l’esperessione dell’idea seducente dell’eterno»;37 il tempo delle epoche decadenti perde l’equilibrio con la vita che esce dal ritmo, per così dire, creando un tempo “secondario”, il tempo della coscienza. Gli attimi vengono avvertiti, sperati o disperati anziché vissuti. Il presente non è più momento decisivo per l’essere umano ma momento di ricordo per il passato o speranza per il futuro, ansiogeno nella sua eterna presenza o disperante perché mai “a disposizione”. Ma, tornando alla domanda sul perché di questa fuoriscita dal tempo, perché l’uomo moderno, l’uomo occidentale del ‘900 vive una distanza assoluta tra la propria esistenza e la dimensione del tempo? Cosa lo spinge a domandarsi sugli istanti anziché viverli? La risposta è in tutte le opere di Cioran: il ricordo di ciò che non siamo mai stati. Quella melanoconia, che coglie apparentemente senza un oggetto da rimpiangere, da desiderare. La sensazione di mancanza, dovuta al tempo della coscienza, di un qualcosa che non possiamo definire perché non è mai stato nostro, ma di cui avvertiamo, inesorabilmente, il bisogno. Secondo Cioran, la causa primigenia del nostro cafard, dello spleen, del tedio leopardiano è l’ansia per l’eden che ci era promesso e che, per un attimo, abbiamo sfiorato ed ammirato. Come ragazzini colti in fragrante a copiare un compito in classe, vorremmo bloccare il tempo, paralizzare i secondi e scomparire il più lontano possibile, fingere di non esserci mai stati per paura e vergogna. Paura della nostra nuova condizione, vergogna per quella perduta a causa nostra.

37 G. Rotiroti, Il demone della lucidità. Il «caso Cioran» tra psicanalisi e filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2005, p. 93.

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L’uomo sa cosa ha perso con la sua arroganza e l’assurda fede nella conoscenza e nell’evoluzione. Sa qual è stata la punizione per aver sfidato Dio mangiando all’Albero della Conoscenza dimenticando l’Albero della Vita e ne paga, inconsciamente, le conseguenze producendosi inutilmente in una fuga eterna dalla propria natura. Volontà e arroganza diventano gli strumenti di questa fuga forsennata, dolore e solitudine ne sono le conseguenze. Un’interpretazione psicanalitica (il saggio di Giovanni Rotiroti ne è un esempio) potrebbe riprendere l’idea di archetipo; un’analisi più mirata alla filosofia dovrebbe riconoscere temi vicini al platonismo, all’innatismo delle idee che ci costituiscono come “struttura mentale”. In realtà, per Cioran, non si tratta nemmeno di questo: l’idea è forse più semplice e ardita: il nostro malessere, la nostra non-perfezione visibile agli occhi di qualsiasi osservatore deriva dal ricordo involontario e non razionale dell’eden perduto. Noi sappiamo da dove veniamo; e lo sappiamo talmente bene da avvertire la frattura che siamo diventati nel nostro cadere nel tempo e nell’individualità. Questo ricordo di una condizione naturale mai vissuta è fomentatore, negli spiriti più sensibili, della malattia che conduce alla lucidità. E così Cioran chiude il cerchio: se l’uomo è un errore e sa di esserlo, è il ricordo della condizione mai vissuta ma attesa per natura a scatenare la reazione malata alla nuova condizione imposta dalla nascita. La malattia, a sua volta, genererà quello stato di stravolgimento del corpo che permetterà di riconoscere il mondo per quello che è, dopo aver compreso la nostra intima natura. A questo punto non rimarrà che la disperazione. Eppure Cioran lascia sempre una porta aperta: le sue parole non sanno mai di conclusione, di verdetto; ed è qui, nello spazio che il romeno lascia a chi lo ascolta, che possiamo, a mio avviso, intravedere la possibilità. Dopo la disperazione, l’uomo può lasciarsi cullare nel dolore del nichilismo, oppure reagire stoicamente non contro, ma verso la propria natura: se è vero che siamo fondati da un’assenza di fondamento, ebbene, sia quell’assenza il motivo della nostra vita. Sia l’accettazione di una condizione maledetta a muovere un esistenza volta al bello, al bene non certo universali (non esistono, ormai ne siamo certi) ma unici per noi e, quindi, per tutto il nostro mondo. In quanto fratture col nostro passato noi rifondiamo tutto il mondo: ogni volta che un essere umano viene alla luce, con lui nasce un nuovo mondo, il suo, quello che soltanto lui vedrà in quel modo, coi suoi occhi, con il suo spirito. Allora, in questo mondo che è solo mio ma di cui partecipano gli altri, io ho il diritto (o addirittura il dovere?) di vivere responsabil-

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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mente secondo la mia etica, relativa al mio mondo e quindi sincera anche se non fondante, basata sul nulla che mi precede. Se è vero che ogni azione è ontologicamente male, che dovremmo rimanere immobili, privi di volontà e pulsioni per avvicinarci alla nostra condizione naturale antecedente al dramma della definizione individuale, è anche vero che proprio a causa della nostra natura demoniaca siamo condannati a non poter non-esserci come corpi desideranti, come manifestazione di volontà e pulsione. A questo punto, riconosciuta l’impasse, non rimane che balzarne fuori, trovare la falla nella spirale negativa ed essa si trova, a mio avviso, nella possibilità di accettare l’assenza di fondamento che ci fonda. A questo punto non rimarrà che la scelta, di per sé priva di qualsiasi valore e senso, di agire in un determinato modo, secondo una propria etica che non vale nulla per l’umanità (che però, abbiamo già capito, non esiste) ma vale tutto per noi presi singolarmente, consci, allo stesso tempo, che l’azione, in quanto tale, rimane portatrice di male perché contraria all’origine indeterminata e priva di volontà della nostra essenza. Ma Cioran sa che siamo esseri umani, conosce i nostri vizi e le nostre virtù, e, soprattutto, le nostre possibilità: si tratta di scegliere sapendo che mai nessuno ci darà atto di aver scelto, di assumerci tutte le responsabilità quando non ce ne toccherebbe nessuna, di accusarci di ogni avvenimento quando siamo, per natura, assolutamente innocenti. Nessun premio finale, nessuna redenzione cristiana o paradiso di qualsiasi religione, ma nemmeno la soddisfazione di sapere che col proprio agire morale creiamo il mondo e lo miglioriamo passo dopo passo. Siamo ben consci della nostra nullità nei confronti del mondo (come mondo anche degli altri) e, soprattutto, del nostro destino demoniaco. Rimane una scelta eroica nel senso che prevede grandi fatiche senza alcuna ricompensa, se non la convinzione di aver intrapreso l’unica strada che conduce ad un esistenza onesta e coraggiosa, priva dei conforti della fede e dell’ideologia: rimane il ritono all’essere possibilità e non determinazione. Possiamo riavvicinarci, anche se non giungere mai alla meta, al nostro stato primigenio, all’indetrminato che ci precede e la cui lontanaza ci affanna, possiamo tornare ad essere quello che Nietzsche definì possibilità: un qualcosa in eterna formazione e mai concluso. Niente di più lontano dalla deriva degli uomini del nuovo millennio, attenti a cercare per sé e per gli altri ruoli grazie ai quali giocare a dadi col mondo e terrorizzati da parole come “relativismo” e “differenza”. Ma tutto questo nelle opere del rumeno non viene mai affermato. Cioran, l’ho ripetuto molte volte, non afferma nulla. Analizza e distrugge, ma, quando serve, lascia degli spiragli, delle porte socchiuse. Sta a

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chi lo legge, a chi lo vive aprire quelle porte e cercare una strada, un percorso che chi scrive ha individuato nei concetti appena esposti. Rimane indiscutibile che tutto l’impianto, per così dire, di Cioran è sempre e comunque negativo nel senso che nega e non afferma, distrugge e non costruisce (sarà questa una delle accuse mossegli dalla filosofia contemporanea), avverte della tragedia senza nessun intento pedagogico o umanitario. Il canone della lucidità rimane faro distruttore delle false verità proposte da filosofia e scienza, metodo per indagare la realtà da un lato, per vivere nel mondo dall’altro. L’esser lucido diviene il motore per riportare l’essere di Heidegger nella sua casa, nel mondo dell’esserci e non dell’essersi. Del vivere onestamente la propria singolarità con coscienza di tutto ciò che essa comporta e del non rifugiarsi nella comodità degli altri, della comunità che giustifica e perdona i nostri errori e ci sgrava delle scelte capitali. Il canone della lucidità diviene, in Cioran, metodo filosofico in quanto euristico, luce che rischiara il panorama e permette di capire gli errori e smascherare le falsità; ma è metodo filosofico per quello che Cioran intende come filosofia: un pensiero che puzza di carne e di sangue, che non esiste, non ha senso se privato del corpo e, quindi, dell’esistenza materiale. Essere lucidi significa vedere metafisicamente in un certo modo, ma anche vivere materialmente secondo un certo canone. Non dobbiamo, però, ragionare seguendo le solite categorie: il fatto che si viva secondo (o meno) un canone, non significa tendere ad una punizione o ricompensa: non vi è mai nessuna visione teleologica, nessun premio, nessuna consolazione, nessuna punizione (la vita lo è di per sé). La lucidià è il modo onesto dell’essere, ma quest’onestà non porta a nulla e non verrà premiata da nessuno. E, allora, quale senso ha? Perché noi esseri umani, già in quanto tali sbagliti e sofferenti, dovremmo sforzarci di cercare qualcosa che non ci condurrà a nulla? Perché il fatto che non ci sia un fine è connaturato alla nostra reale natura, spogliata delle menzogne di religioni e ideologie o fedi scientifiche e la scelta rimane pura, privata di ogni motivo. Si sceglie perchè si sceglie, senza aspettarsi niente, senza chiedere niente. La morale eroica cui conduce, a mio avviso, il pensiero di Cioran è quella di chi vive secondo il canone della lucidità perché questo è, semplicemente, l’unico possibile, anche se l’unico che non promette nulla, nemmeno la compiacenza di sé per l’essere nel giusto offerta dalla morale della responsabilità di Sartre. Nessuno riconoscerà mai nulla e, soprattutto, nemmeno chi agisce lucidamente si sentirà appagato da ciò, perché proprio l’esser lucido lo

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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costringerà a sapere sempre che la sua azione non vale niente nell’economia del mondo e che l’agire rimane, comunque, una delle radici del male, l’allontanamento dall’eden che ci attendeva. È il vivere necessitato dalla malattia, il superamento di tutte le categorie, la ricerca interiore pura che non tende ad alcun risultato perché sa già che nessun risultato può essere atteso. È il vivere di chi può giudicare se stesso ogni istante e sente di non poter esprimere verbo su nient’altro. Ma, tornando all’opera di Cioran, non dobbiamo pensare che egli abbia scritto per mandare un messaggio, fosse di speranza o disillusione. Non dobbiamo agiograficamente dire che la benevolenza, la quiete che emanava, ricordata da chi ha avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, riempia le pagine dei suoi libri. Cioran scrive per necessità, per liberarsi dalle parole che lo opprimono o, soprattuto, per quello che egli stesso definì le cafard, il malessere, lo spleen; non per indicare una via a qualcuno. I suoi libri potevano venir letti da milioni di persone e da nessuno che per l’autore, dal punto di vista metafisico, non sarebbe cambiato nulla. Il “materialismo fenomenologico” di Cioran: un ritorno alla “realtà” dell’uomo La filosofia di Cioran non è una filosofia che vuole affossare l’umano, ma nemmeno una proposta di rivoluzione. La filosofia di Cioran non può, per se stessa, per la propria natura e origine, proporre nulla, può solo negare e indicare le vie sbagliate, senza curarsi poi che vengano percorse o meno: Sono un filosofo urlatore. Le mie idee, ammesso che esistano, abbaiano; non spiegano nulla, strepitano.38

L’uomo in ogni suo aspetto fu, per Cioran, l’oggetto di ricerca di tutta una vita; l’umanità un concetto privo di ogni interesse. Ogni singola persona era qualcosa di cui dolersi e a cui tendere una mano amica. Non vi è contarsto tra questi concetti che sono la base di quello che chiamo materialismo fenomenologico del romeno: analizzare il mondo seguendo l’approccio Husserliano (ne ho parlato nei capitoli precedenti) ma senza distaccarsene, restando materialmente (quindi con la carne e col sangue, coi sentimenti) legato, invischiato nella vita reale; questo fu l’apprioccio e la base della sua filosofia, di una fenomenolo-

38 E. M. Cioran, Quaderni, cit., p. 16.

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gia che si rifiuta di abbandonare il mondo perché riconosce di esserne parte, di pulsare come la terra. Non voglio dare una definizione o creare una corrente di pensiero ad hoc per inquadrare l’opera di Cioran: sarebbe, oltre che un errore di analisi, uno sgarbo alla sua memoria. Il pensiero, il verbo di Cioran rimangono una cosa a sé: un viaggio attraverso la vita con gli occhi spalancati e attenti a tutto quello che accade, un’avventura filosofica solo cominciata e mai finita perché la vera filosofia ha un inizio e non una conclusione, indica un sentiero e non pretende un sistema. È del tutto inutile, oltre che fuorviante, definire il pensiero di Cioran. È troppo vivo, troppo libero per rimanere costretto tra le lettere di una formula. Ho voluto utilizzare materialismo e fenomenologia solamente per indicare una direzione, far capire in maniera, spero, semplice come ho osservato l’impianto filosofico di un’opera che ad occhi disattenti può sembrare priva di contiunuità ed evoluzione. Cioran vuole Dio, lo sfida, ma è un uomo e non se ne dimentica mai. Odia le fasulle categorie imposte dalla scienza sociale e per questo verrà considerato un reazionario; ne riconosce la dobbia menzogna: prive di verità, agognata ma impossibile nel nostro mondo determinato, esse sono anche prive di realtà, la forma che riconosciamo ormai perfettamente grazie al nostro sguardo lucido. Se non possiamo ambire alla verità che ci rimane nascosta nel cielo indiviso da cui siamo caduti determinandoci nel tempo, pare dirci Cioran, dobbiamo pretendere la realtà che abbiamo scoperto e smascherato dalle menzogne grazie al metodo della lucidità. Se il paradiso perduto ci è ormai precluso, se non vi può essere redenzione, se la nostra condizione di errore ontologico è irrisolvibile, rimane, anzi, si rende indispensabile al fine di vivere quanto meno onestamente, riconoscere e ritornare alla realtà dell’uomo, alla sua forma di esistenza nel mondo senza fustigarlo perché non è un angelo, né adorarlo perché non è un demonio. L’uomo è, finalmente, in Cioran esattamente uomo, con la propria natura, i propri eccessi e le proprie debolezze. Distruggere verbalmente le menzogne che l’uomo si racconta per sopravvivere ad una condizione ontologicamente drammatica non si separa mai, in tutta l’opera (se escludiamo i primi scritti “politici”), dal tendere una mano a quello stesso uomo deriso per le proprie debolezze, ma compatito, sofferto come un fratello claudicante per i dolori che sono comuni a tutto il nostro genere. Chi ha letto Cioran ha frequentemente notato come mai la sua parola incendiara e devastante sia annichilente. Come, anzi, leggendo i drammi e le disperazioni di Cioran si sia facile preda di una strana euforia, di un desiderio di forza che supera la desolazione.

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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«Vivere è attraversare il male della vita nella figura del tempo, della storia e della scrittura. La vera libertà di Cioran è di decidere di non scegliere per la libertà»39, eppure egli, da uomo, da fallimento, decise di scrivere e di dire l’indicibile, anche se questo andava contro tutte le premesse e tutte le posizioni. In questo, forse, risiede l’effetto benefico, quasi l’euforia che danno parole che dovrebbero annichilire. È il ritorno a noi stessi: il riconoscere la verità, contingente e non assoluta, non mi stancherò mai di ricordarlo, che sta nelle parole del romeno che indaga la realtà lucidamente per riportare l’uomo nella sua casa. Né oggetto da infilare in un sistema di per sé funzionante alla Hegel, né un pupazzo mosso da Dio, né una macchina abitata da uno spirito, né un Dio in potenza che non si è ancora liberato. L’uomo è solo l’uomo, tutto il resto sono sciocchezze. Ma l’uomo ha in sé la possibilità di gestire quella briciola di spazio di scelta lasciato dal caso, vera potenza che domina le cose, e in quello spazio ristretto si gioca la differenza tra la vita ed un suo pallido riflesso. Nella consapevolezza o meno della propria condizione sta il punto di partenza, nell’accettare la propria infondatezza e, malgrado essa, vivere liberi dal cinismo e dalle menzogne della fede risiede il centro dell’esistenza umana nel suo massimo sforzo, nella sua somma espressione, non per niente sono i Santi il sempre presente punto di riferimento per Cioran: è l’uomo che si è trasfigurato andando contro tutto il proprio essere uomo, uscendo dal tempo della coscienza per tornare nell’eternità e quindi nel nulla, a diventare il nostro doppio nel dialogo con Dio. È colui che nasce uomo e muore non-uomo a costringerci alle domande sulla verità e sulla nostra potenza. Ma i Santi popolano il cielo della fede, la terra è ricoperta da uomini e questi sono punto di partenza e di approdo per il pensatore di Ra⁄¶inari. Giobbe, incapace di comprendere il perché della sua sventura, riamane lo specchio di Cioran; i Santi solo un mito da osservare senza poterne condividere lo stato. Ovviamente, queste premesse hanno delle conseguenze. Il ragionamento sul tempo, sul male del tempo si riperquotono sull’atteggiamento di Cioran: naturalmente non poteva essere un filantropo socialista, naturalmente non poteva accettare categorie super-umane come l’idea di umanità o di democrazia; in questi sarcofaghi di pensiero, totalmente privi di realtà, non scorreva sangue, non vi era carne; non poteva esserci volontà e quindi non avevano nulla a che fare con la raltà dell’umano ed erano fasulli o modelli impossibili.

39 G. Rotiroti, Il demone della lucidità, cit., p. 13.

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Ecco il perché del continuo contrasto con le idee progressiste basate sulla tendenza più o meno scientifica di migliorare a tavolino la condizione umana: l’uomo non può essere migliorato perché è quello che è; l’umanità non può essere migliorata perché è solo una parola che non indica nulla di reale, di presente. Ogni uomo, tuttavia, può passare da una vita “fasulla” perché non consapevole, ad un’esistenza onesta perché immersa nella realtà e comunque in lotta con essa; ma questo non cambierà di una virgola l’andamento delle cose, non le migliorerà né le peggiorerà. L’uomo può, non deve. Qui sta la differenza tra l’umanesimo di Cioran e le visioni socialiste o storiciste. Non vi è alcun obbligo, alcuna necessità di cambiare il proprio status. Niente lo impone, nessun cambiamento storico, nessuna messianica discesa dal cielo, nessuna certa, sempre prossima, rivoluzione. L’uomo può; ma non è tenuto a fare nulla. Egli è comunque innocente perche gettato nel mondo dalla sua origine sospesa e priva di dolore e costretto ad un esistenza in una forma che non gli appartiene; non deve niente a nessuno, né a Dio, né alla società. Alla prospettiva più filosofica, se ne aggiunge un’altra più storica o pragmatica: dopo il male assoluto, dopo Auschwitz, dopo la deportazione dell’amico Benjamin Fondane, dopo la dittatura feroce nella Romania degli anni comunisti, come possiamo guardare alla Storia con speranza o innocenza? La nota biografica torna a farsi sentire: la deriva del genere umano, la fine, la catastrofe imminente è forse riflesso dell’esperienza personale? Certamente sì. Tuttavia un’attenzione esagerata all’approccio psicanalitico torna fuorviante: anche prima della catastrofe nulla giustificava un’utopia che non fosse assolutamente utopica, cioè non pianificabile perché assolutamente impossibile da applicare al mondo degli uomini. Anche prima del nazismo e della sua deriva, del comunismo e dei suoi orrori rumeni, prima delle privazioni francesi, del silenzio delle accademie, della separazione dagli affetti; prima di tutto ciò che si riduce a biografia, insomma, la storia non poteva che essere manifestazione del male, del male del tempo, della frammentazione dell’unico. Visto tutto questo, considerato l’impianto filosofico nel suo complesso, dovrebbe essere chiaro, ora, il perché della posizione mai progressista di Cioran, al di là della parentesi propriamente degli anni trenta, il cui errore dovrebbe, per altro, essere ormai chiarito nella sua portata filosofica più che propriamente politica. L’uomo prosegue il percorso di distacco da se stesso, la civilizzazione ne è la meta sperata, la storia lo strumento principe:

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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residui di umanità se ne trovano ancora soltanto presso quei popoli che, lasciati indietro dalla storia, non hanno alcuna fretta di raggiungerla;40

il disastro è sempre di più dietro l’angolo. La caduta nel tempo determinato della storia prima, l’allontanamento dal ritmo originario della non-creazione poi, hanno indirazzato l’uomo su di un sentiero che non può condurre da nessuna parte se non verso la nullificazione del nostro essere umani. Ci avviciniamo agli automi che ancora non abbiamo creato ma che immaginiamo, ci allontaniamo dalla coscienza giorno dopo giorno. L’esser lucidi, abbiamo visto, è un processo che inverte questa tendenza: ci fa scontrare violentemente con essa e non per niente nasce dalla malattia, dal non pulsare in armonia col ritmo del mondo. L’esser lucidi è un obbligo imposto da una fisiologia particolarmente inadatta all’evoluzione che ci stiamo imponendo, non è una scelta. Tuttavia, abbiamo anche detto che l’esser lucidi diviene metodo, canonone della nostra esistenza una volta che la malattia si radica in noi, ci svela le menzogne e ci costringe ad aprire gli occhi. Ora siamo liberi dal falso, ancora lontanissimi dal vero, consci del reale e del suo male. E poi? Se il disastro è il destino dell’umanità intesa come la massa di chi ancora ha gli occhi ben serrati, quale destino attende il malato, nuova forma dell’Uebermensch di Nietzsche? Dopo aver sciupato l’eternità vera, l’uomo è caduto nel tempo, dov’è riuscito, se non a prosperare, per lo meno a vivere: la cosa certa è che vi si è adattato. Il processo di questa caduta si chiama Storia. Ma ecco che lo minaccia un’altra caduta, di cui è ancor difficile valutare l’entità. Questa volta non si tratterà più per lui di cadere dall’eternità, ma dal tempo; e cadere dal tempo significa cadere dalla storia; significa, una volta sospeso il divenire, arenarsi nell’inerzia e nel languore, nell’assoluto della stagnazione, dove il verbo stesso si arena, non potendo sollevarsi fino alla bestemmia o all’implorazione. Imminente o no, questa caduta è possibile, anzi inevitabile. Quando toccherà in sorte all’uomo, egli cesserà di essere un animale storico. Allora, avendo perduto finanche il ricordo della vera eternità, della sua prima felicità, egli volgerà lo sguardo altrove, verso l’universo temporale, verso quel secondo paradiso da cui sarà stato bandito.41

Nessun destino, niente di diverso da quello di tutti gli altri, è la risposta. Perché l’uomo “risvegliato” di Cioran, il malato oltreuomo non ha alcuna missione. È un preveggente, se vogliamo, ma non può

40 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., p. 33. 41 Ibid., p. 129.

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nulla contro il destino di tutti, nemmeno pretendere di essere ascoltato, da cui la disillusione pedagogica. Al risvegliato tocca solamente sapere prima verso dove stiamo andando, verso quale nuova e fatale caduta ci stiamo spingendo. Il languore e l’inerzia che ci caratterizzavano prima della caduna nel tempo non sono più possibili, sono stati avvelenati dalla Storia e dalla determinazione in cui siamo crollati. Il passaggio successivo, che il lucido ha previsto ammalandosi e quindi allontanandosi dalle categorie comunemente accettate, è quello di fermarsi dopo questa folle corsa e vedere il tempo, avvertirne lo scorrere, diventarne spettatore allontanandosene, uscendo dal tempo e cadendo un’altra volta in una nuova condizione di inerzia disperata e non serena come fu quella dell’origine. A quel punto, soffocati dagli istanti che ci assillano, dispereremo e pregheremo di poter tornare nella corsa folle ed inutile della Storia. Quali saranno gli effetti di questa caduta e quando essa avverrà per l’umanità, dice Cioran, non è dato saperlo ora; tuttavia nulla di tutto ciò è ormai evitabile e la prova ci viene dai risvegliati, dai lucidi malati che già vivono questa condizione di seconda caduta, in questo stato di annullamento dell’eterno presente e rielaborazione del passato che fa perdere ogni possibilità di futuro. Il destino dell’uomo, sia esso dormiente o malato è segnato. L’errore ontologico della creazione deve, prima o poi, fare i conti con se stesso e con la propria impossibilità: tutti gli esseri muoiono; soltanto l’uomo è chiamato a decadere. Egli è in bilico rispetto alla vita (come la vita, del resto, lo è ripsetto alla materia). Più si allontana da essa; sia innalzandosi sia cadendo, più si avvicina alla propria rovina. Che giunga a trasfigurarsi o a sfigurarsi, in entrambi i casi erra. E bisogna anche aggiungere che tale errore, egli non può evitarlo senza eludere il suo destino.42

Ne La caduta nel tempo, capolavoro filosofico di Cioran, egli condensa l’ultimo verbo sulla storia dell’uomo, annuncia l’impossibilità metafisica e pratica di sfuggire al proprio destino, già inscritto nell’impossibile ontologico della determinazione. Non eravamo fatti per questo mondo, ci dice il genio di Ra⁄¶inari. Qualcuno, ammalandosi, se ne è reso conto ma non può fare nulla perché il destino non si compia; gli altri vi cadranno senza nemmeno rendersene conto, ma nulla porterà nessuno alla salvezza dal compimento di un percorso inevitabile fin dal primo respiro, dal primo momento in cui un dio perverso ed incapace –

42 Ibid., p. 131.

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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Solo un dio avido d’imperfezione in sé e fuori di sé, solo un dio devastato poteva immaginare e realizzare la creazione; solo un essere così esacerbato può aspirare a un’operazione del genere. Se tra i fattori di sterilità viene per prima la saggezza, è perché essa si adopera a riconciliarci con il mondo e con noi stessi: la saggezza è la maggior disgrazia che si possa abbattere sulle nostre ambizioni e sui nostri talenti, perché li modera, vale a dire li distrugge, e attenta alle nostre profondità, ai nostri segreti…43

– s’è voluto prender gioco di noi creandoci così come siamo, inadatti al mondo su cui pretendiamo di regnare, incompleti sotto ogni punto di vista e, soprattutto, consci, almeno in potenza, della nostra condizione. Eravamo fatti per vegetare, per dispiegarci nell’inerzia, non per perderci nella velocità […] Avremmo dovuto, pidocchiosi e sereni, limitarci alla compagnia delle bestie, marcire accanto a loro ancora per millenni, respirare l’odore della stalle piuttosto che quello dei laboratori, morire delle nostre malattie e non dei nostri rimedi, girare attorno al nostro vuoto e sprofondarvi dentro dolcemente,44

ma non l’abbiamo fatto: l’Albero della Conoscenza, tentatore, ci ha soggiogato. E così, ad esso abbiamo sacrificato l’Albero della Vita, divendo l’errore vivente che siamo. Non c’è speranza, non c’è redenzione. La metafisica dell’uomo non offre possibilità di salvezza: i rimedi sono possibili solo come palliativi nella nostra esistenza contingente e materiale (amore, musica, li abbiamo già incontrati) ma nulla potrà evitare il compiersi del nostro destino. I lucidi, soltanto, se ne rendono conto prima degli altri, e prima ne patiscono: Rari sono i giorni in cui, proiettato nella post-storia, io non assista all’ilarità degli dèi al termine dell’episodio umano. Occorre pure una visione di ricambio, quando quella del Giudizio non accontenta più nessuno.45

Il silenzio Un pericolo minaccia il poeta sradicato: quello di adattarsi alla propria sorte, di non soffrirne più, di compiacersene. Nessuno può salvare la freschezza delle proprie pene; le pene si consumano. Così avviene per il mal di patria, per ogni nostalgia. I rimpianti perdono in loro smalto, essi pure

43 Ibid., p. 109. 44 Ibid., p.34. 45 E. M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, cit., p. 15.

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avvizziscono e, al pari dell’elegia, diventano presto desueti. Che cosa di più normale allora che stabilirsi nell’esilio, Città del Nulla, patria alla rovescia? Più vi si compiace, più il poeta dilapida la materia delle sue emozioni, le risorse della sua sventura, così come il suo sogno di gloria. […] Scacciato dall’inferno, invano tenterà di farvi ritorno, di rituffarvisi: le sue sofferenze, ormai placatesi, lo avranno reso per sempre indegno. […] Rassegnato all’anonimato e quasi incuriosito dalla mediocrità, presto assumerà la maschera di un borghese di nessun luogo. Eccolo al termine della sua carriera lirica, al punto più stabile del suo declassamento.46

Ecco Cioran che si racconta, indossando la maschera del poeta, ne La tentation d’exister. Dopo Histoire et Utopie (1960), verranno alla luce capolavori come La chute dans le temp (1964), Le mauvais démiurge (1969) censurato in Spagna, De l’inconvénient d’etre né (1973) ed Écartèlement (1979). Ma, lentamente, il desiderio di scrivere, forse anche con l’andare dell’età; il bisogno di scrivere per liberarsi dal cafard, tormento e motore dell’opera di tutta una vita, vengono meno e l’autore di una quindicina di libri tra i più belli che il ‘900 abbia prodotto tace. Il 19 giugno 1990, rilasciando a Gabriel Liiceanu una videointervista nella sua mansarda parigina dichiarava al connazionale che non avrebbe più scritto nulla: Quelque chose s’est cassé, s’est…brisé en moi.47

Che cosa si era rotto, consumato; cosa poteva far smettere di scrivere un pensatore che aveva sempre concordato sul fatto che “ogni parola è una parola di troppo”, ma, malgrado questo, aveva pubblicato un libro ogni quattro o cinque anni per mezzo secolo? Qual’è stata l’ultima parola di troppo, quella oltre la quale rimaneva soltanto il silenzio? Forse la risposta sta nella fisiologia, e allora, come scritto ne Il funesto demiurgo, non esiste cura alla tristezza: In quale autore antico ho letto che la tristezza è dovuta a un “rallentamento” del sangue? Proprio così: è sangue stagnante.48

Certamente è colpa del corpo e, come in Écartèlement, non possiamo non ricordare che «Noi dimentichiamo il corpo, ma il corpo non ci dimentica. Maledetta memoria degli organi».49 Di sicuro non si sono

46 47 48 49

192

E. M. Cioran, La tentazione di esistere, cit., pp. 60-61. G. Liiceanu, Itinereais d’une vie, cit., pp. 83-84. E. M. Cioran, Il funesto demiurgo, cit., p. 117. E. M. Cioran, Squartamento, cit., p. 157.

III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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esauriti i pensieri, o meglio, quelli sono sempre stati esausti ed inutili: è dal 1934 che Cioran lo ripete attraversando tutto il mondo dell’umano col lume “disillusorio” della lucidità. Dopo aver attraversato la metafisica, aver cercato la fede; dopo aver studiato la storia e l’utopia, forse, è arrivato alla saggezza: ha praticato l’ascesi che Schopenhauer aveva solamente ipotizzato, pensato. Ma, se leggiamo i suoi libri, è la sua stessa voce che, dopo aver confidato la fascinazione subita dal buddismo e dalle filosofie orientali, ne decreta l’impossibilità per noi occidentali, per noi che siamo pieni di vita e non possiamo rinunciare alla nostra essenza, alla nostra costituzione. Forse, ultimata la caduta dal tempo non rimaneva niente da dire, niente da pensare: Io accumulo passato, non cesso di fabbricarne e di precipitarvi il presente, senza dargli la possibilità di esaurire la sua stessa durata. Vivere significa subire la magia del possibile; ma quando si scorge nel possibile stesso un passato a venire, tutto diventa virtualmente passato, e non vi è più né presente né futuro. Ciò che distinuguo in ogni istante è il suo ansito e il suo rantolo, e non la transizione verso un altro istante. Elaboro tempo morto, mi abbandono all’asfissia del divenire.50

Forse, ancora, la ribalta che le opere politiche troveranno nella Francia di quegli anni e la rinascita dei dubbi sul suo passato rumeno lo fiaccarano definitivamente. Proprio nel 1990, il tentativo sciocco di far cancellare da una riedizione romena de La trasfigurazione della Romania (1936) il capitolo IV, contenente le dichiarazioni più compromettenti di antisemitismo e fascinazione per l’hitlerismo e il movimento di Codreanu, riaprì la polemica mai del tutto spenta sul ruolo di Cioran tra gli intellettuali dell’estrema destra nella Romania degli anni venti e trenta. Molta carta e molto inchiostro vennero sprecati (anche diversi anni dopo, fino a giungere ai giorni nostri) nel tentativo cieco di buttare Cioran, Ionescu ed Eliade nel calderone dei pensatori reazionari i cui libri si dovrebbero bruciare. In realtà, dopo il 1990 la voce di Cioran si continuerà a sentire in sempre più rare interviste e nei volumi riediti da Gallimard. Certo è che dopo Aveux et anathèmes del 1987 Cioran non si dedicherà più alla stesura di nuove opere; tutto ciò che viene pubblicato dopo questa data è una riedizione di materiale già prodotto negli anni precedenti. Non possiamo sapere perché Cioran smise di scrivere. Rimane che,

50 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, cit., p. 123.

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scomparso il pensatore e la compagna di una vita, Simone, nessuno potrà più rispondere al quesito. E forse non è nemmeno importante domandarsi il perché, il quando: la sua metafisica, il suo pensiero vivo e guizzante era tutto nel primo capolavoro, Al culmine della disperazione, come nelle ultime righe. Sta a chi lo legge e lo leggerà ricostruire, intrecciare e cogliere i molteplici legami che fanno di tutta la sua opera una filosofia degna dei più grandi pensatori del ‘900. I Cahiers, lo Zibaldone postumo di Cioran: accenni Nel 1997 Gallimard pubblica i Chaiers, 1957-1972 come opera postuma: si tratta della trascrizione di una selezione dei trentaquattro quaderni “da distruggere” (come recitava su alcune delle loro copertine) ma ordinati e conservati con cura da Cioran nella sua mansarda a due passi dai giardini del Lussemburgo. Sorta di diari privati e quaderni da appunti, i Cahiers seguono parallelamente per una quindicina d’anni l’opera di Cioran, integrandola, ampliandola e riportando tutta una serie di annotazioni private che permettono di ricreare il mondo in cui egli viveva nella Parigi che lo vide assurgere a fama internazionale restando, allo stesso tempo, incredibilmente ai margini della vita culturale della città. Nel 1969 Cioran vi scrive: «Mi aggrapperò a questi quaderni, perchè sono l’unico contatto che io abbia con la “scrittura”. Da mesi non scrivo più niente». Nel 1971 ipotizza di raccoglierne i pensieri per dare vita ad un opera che potrebbe chiamarsi Interiezioni o L’errore di nascere, ma non ne farà mai nulla, anzi, sulle copertine dei volumi I, II, IV, VIII, X scrive “Da distruggere”, fugando ogni dubbio sul destino che l’autore aveva infine ipotizzato per le sue carte private. Per nostra fortuna, dopo la morte del pensatore, la compagna Simone Boué ha raccolto e trascritto buona parte dell’enorme quantità di materiale e l’ha consegnata all’editore Gallimard, che ha così potuto donarci un altro, grandioso, sprazzo del pensiero di Cioran. Dall’autoanalisi sconsolata Sono finito, sono sull’orlo della preghiera,51

all’eccesso dettato dal nulla 19 febbraio 1958. Felicità intollerabile! Migliaia di pianeti si espandono nell’illimitato della coscienza. Felicità terrificante.52

51 E. M. Cioran, Quaderni, cit., p. 21. 52 Ibid., p. 21.

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III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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Dall’annotazione arguta In un libro di Bertrand Russel trovo questa giusta osservazione: “Si può definire classico un libro che la gente crede di conoscere senza averlo mai letto”,53

al pensiero che nasce autobiografico, ma si supera verso l’assoluto Scrivere è un decadimento; non scrivere più dovrebbe essere una liberazione.54

Nei Cahier c’è tutto il Cioran “privato” e quello “pubblico”. L’uomo che si guarda e scruta il mondo; la rielaborazione dei contenuti delle opere già pubblicate e scritte in parallelo agli appunti dei quaderni, gli incubi, le confessioni. Non a caso ho definito i Cahiers 1955-1972 lo Zibaldone di Cioran, avvicinando il pensatore di Ra⁄¶inari al Poeta di Recanati e mettendo in parallelo le due opere. Se tanto hanno in comune i due autori, dal pessimismo cosmico, alla poetica eroica, fino alla profonda pietà per la condizione umana – i lavori di Mario Andrea Rigoni su Leopardi sono chiarificatori in questo senso –, ancora di più possono, a mio avviso, essere raffrontate nello specifico le due opere. Come nel Leopradi dello Zibaldone, indice dei pensieri più spontanei e quindi disordinati, non argomentati ma allo stesso tempo fondanti di un momento particolare, nel Cioran dei Cahiers i pensieri si ripuliscono ulterirmente, sono liberi di assumere la forma del frammento più esasperato, privo di necessaria contiguità con qualsiasi altra cosa. Niente a che fare con un diario in cui annotare le faccende avvenute in una giornata – nulla avrebbe potuto interessare meno Cioran – i Quaderni rimangono una testimonianzza del Cioran più vero e intimo, del genio che tra un appunto e uno schizzo su un amico (o un nemico) annota lo stato delle proprie insonnie o le lunghe camminate meditabonde segnando date e luoghi solo per indicare gli eventi “fisiologici” che lo colpiscono. Il resto sono lampi di genio, guizzi, frammenti annotati febbrilmente su questi quaderni dalle copertine tutte uguali che per quindici anni rimasero, uno per volta, sulla sua scrivania ad aiutarlo, forse, a fare i conti con se stesso, la propria solitudine, il proprio destino. Sul primo, ottavo e nono quaderno, Cioran ha scritto e sottolineato «tutti questi quaderni sono da distruggere», ma, fa notare Simone Boué, li ha conservati tutti con cura e, grazie ad un attento recupero, oggi pos-

53 Ibid., p. 725. 54 Ibid., p. 982.

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siamo leggere la più completa integrazione dell’opera di Cioran fornitaci dall’autore stesso. Analisi sulla propria condizione: Finalmente so che cosa sono le mie notti: ciò che mi fa risalire col pensiero la distanza che mi separa dal Caos,55 […] Quanto futuro irrealizzato c’è nel mio passato!,56 […] In me tutto inizia dalle viscere e finisce con la formula;57

annotazione biografiche: Suicidio di E.: un’enorme voragine si apre nel mio passato. Ne escono mille ricordi deliziosi e strazianti. Lei amava tanto il decadimento! Eppure si è uccisa per evitarlo,58 […] 23 luglio – Notte atroce, formicolio doloroso alle gambe, e tutti i nervi tesi, straziati. Questo corpo assediato dal dolore.59

Sono citati Sartre, Mallarmé, Valery, Tocqueville, si legge di poesia, degli Ebrei, di Parigi. Vi sono vere e proprie riprese di temi presenti in tutte le opere (lucidità, suicidio, dio, malattia) analizzati in forme differenti, si trovano riflessioni sulla Storia, sui Valori degli esseri umani e note sugli incontri, sui vicini di casa, sui parigini. La quotidianità, del tutto assente nel suo aspetto “diaristico” dalle pagine dei Quaderni, diviene spesso motivo di una riflessione sarcastica su un evento banale, un pensiero suscitato dalla vista delle altre persone, dalle situazioni pratiche di tutti i giorni: Nel mio caseggiato abita un ex contabile, invalido di guerra, che si lamenta in continuazione della sua salute, si tormenta, esagera i suoi mali. Ha settantacinque anni. Gli dico che bisogna prendere le cose con “filosofia”. “Obbligatoriamente” è stata la sua risposta. Sull’utilità degli avverbi…».60

L’ultima indicazione temporale che abbiamo porta la data del 14 novembre 1972, dopo di che pochi altri pensieri e più nulla. Domandarsi il perché dell’inizio e della fine del lavorare di Cioran ai Cahiers non avrebbe senso, dato che egli non ne volle fare un libro, non ne volle trarre una nuova opera, ma annotò centinaia e centinaia di brevi note che oggi sono un fenomenale compendio allo studio del genio di Ra⁄¶inari. Dobbiamo cogliere l’importanza di quest’opera confrontando55 56 57 58 59 60

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E. M. Cioran, Quaderni, cit., p. 18. Ibid., p. 452. Ibid., p. 643. Ibid., p. 17. Ibid., p. 664. Ibid., p. 669.

III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA L’IMPOSSIBILE DELLA VERITÀ

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la costantemente con le altre (operazione resa più semplice dalle annotazioni cronologiche) per evidenziare lo sviluppo, l’evoluzione del pensiero di Cioran, da un lato; dall’altro possiamo leggere i Quaderni come magnifico sentiero che ci guida attraverso il Cioran più intimo, ancora più slegato da qualsiasi ruolo e, quindi, più libero e sincero. Mi fermerò a questo breve accenno sui Quaderni poiché la struttura particolare dell’opera invita lo studioso ad una lettura completa e comparata con le altre opere. Ci sarà molto da scrivere. Rimane fondamentale, a mio avviso, leggerne attentamente ogni riga non tanto per compiere uno studio “filologico” dell’opera di Cioran, quanto per avvicinarsi all’uomo che a sessantun’anni, accusato d’essere un fascista, convinto dell’assoluta vanità del tutto e dell’impossibilità di ogni redenzione, annotava nel suo quaderno la commozione per il cadere delle foglie d’autunno ai giardini del Lussemburgo. Il destino volle Simone morta in un incidente l’11 settembre 1997, alla vigilia della correzione delle bozze consegnate all’editore: annega, travolta da un’onda in riva all’oceano. Qualcuno, probabilmente in un eccesso di romanticismo “noir”, ha ipotizzato che si sia tolta la vita, dopo aver svolto il suo ultimo “compito terreno”. Fatto sta che, con la sua scomparsa, viene a mancare l’ultima fonte, il miglior interlocutore per ogni discussione sull’opera e, soprattutto, sulla vita di Cioran. Non possiamo più porle domande sul perché della fine dei Quaderni o sul motivo che spinse Cioran a cercare il silenzio assoluto al termine di una lunga vita di parole, non possiamo che fare delle ipotesi. Di certo c’è che Cioran si ammalerà di Helzeimer e morrà di martedì, il 20 giugno 1995, in un ospedale della capitale. La mente fiaccata dal morbo o, chissà, dagli eccessi di una vita di pensiero troppo intensa, di fatiche oltre-umane, di esasperata tensione al “Paradiso perduto”. Mario Andrea Rigoni, il 21 giugno 1995 pubblica sul «Corriere della Sera» un bellissimo addio61 all’amico e filosofo, così come Fernando Savater sul «Paìs». Forse Cioran, vecchio e conscio di quella tremenda verità che da sempre cercava, se ne restò semplicemente solo ed in attesa del momento in cui l’ultima energia fosse spesa e, forse, il suo ultimo testamento, l’ultimo verbo della lucidità, sta in due righe scritte ne Le mauvais démiurge: La sorte di chi si è ribellato troppo è di non aver più energie se non per la delusione.62 61 M. A. Rigoni, In morte di Cioran, in In compagnia di Cioran, Il Notes Magico, Padova, 2004, p. 71. 62 E. M. Cioran, Il funesto demiurgo, cit., p. 119.

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C onclusioni Lo scetticismo è la mia droga. Mi ricarica e mi annienta1

o già espresso (soprattutto nella H Terza Sezione) quelle che sono le mie conclusioni sulle varie questioni che compongono il “caso”

Cioran. Mi guardo dall’annoiare nel riproporle ulteriormente e rubo ancora poche righe per congedarmi da questo mio lavoro. Sono passati, ormai, diversi anni da quando incontrai, grazie ad un amico dotato di raro istinto e profonda lucidità, i Sillogysmes de l’amertume. Per me fu quasi una rivelazione: Nietzsche privato di ogni missione, Scopenhauer senza oriente, Camaco al di là della nota diaristica e della questione psicanalitica. Mi affascinò, mi stregò: sembrava di aver trovato la materializzazione dell’impossibile, del poeta veggente spogliato di bohéme, del filosofo senza cattedra, dell’antiprofeta senza fede nella pedagogia. Cominciai a leggerlo, a studiarlo. Poi considerai i suoi critici (pochissimi) o anche solo conoscitori. Parlai con Mario Andrea Rigoni, traduttore prima, curatore poi di tutte le opere di Cioran tradotte per Adelphi, il quale, con poche parole al tempo della mia tesi di laurea, seppe indirizzarmi sulla giusta strada da seguire per comprendere Cioran: cercare l’opera francese non tradotta, la critica. Creare un quadro completo del suo pensiero. In pieno accordo con i suggerimenti cominciò un lungo lavoro di ricerca per scovare, prima di tutto, i volumi mai tradotti in italiano; in secondo luogo qualche opera secondaria francofona un po’ superiore alle pochissime cose uscite in Italia. Il metodo era chiaro: non abbandonarsi al frammento, malgrado esso sembri perfetto, riconoscere la continuità. Oggi, quasi tre anni dopo, il mio lavoro si conclude. Cioran odiava la critica: riteneva impossibile, da buon romantico

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E. M. Cioran, Quaderni, cit., p. 673.

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quale era in ultima istanza, dire qualcosa su qualcuno, su di un opera. Dire, in generale, qualche cosa che non sia originale è un atto privo di senso: già così ogni parola è una parola di troppo. Malgrado non creda che il mio libro sia una critica a Cioran, tuttalpiù una narrazione del “mio” Cioran, comunque mi sono occupato di lui, ho scritto di lui e forse egli si sarebbe adirato per questo. Me ne dispiaccio, ma ho sentito il bisogno profondo di compiere un tale sforzo per tutto quello che la lettura di Cioran ha dato a me. Si tratta, con probabile arroganza, di un regalo ad un amico che non ho potuto conoscere e, ancora con più supponenza, di un tentativo di difendere la sua opera geniale dalla banalità e dal vuoto del tempo in cui io vivo: in questi anni ho letto, nella pur scarsa produzione sull’argomento, recensioni completamente fuorvianti, tesi campate in aria, trattatelli scritti da chi, evidentemente, dei libri di Cioran non ha letto che i retro di copertina. Ho letto di un Cioran banalmente nichilista, di un distruttore votato al suicidio, di un padre del pensiero reazionario, di un qualsiasi fascista degli anni trenta. Ho sentito il bisogno di raccontare l’emozione d’incontrare un genio di tale portata, spogliata dalle menzogne dovute a malafede o incapacità (da cui non mi reputo esente ma che spero non abbia intaccato questo lavoro). Come dicevo nell’introduzione, ho cercato di “mettere in fila” (e non di tirarne le fila) le opere di Cioran e di capire che cos’era successo, dove nascevano quei capolavori. Ne è uscito un pensiero in costante evoluzione eppure sempre uguale a se stesso: un Cioran più profondo col passare degli anni, stratega dei propri squilibri nell’alternare frammenti di rara bellezza e violenza a opere più posate e riflessive. Un appassionato osservatore del mondo, un pensatore in grado di creare una complessa filosofia negando ogni possibilità di sistema, un poeta che amava passeggiare nei “suoi” giardini meditando sulla prossima fine del mondo o commuovendosi per il cadere delle foglie in autunno. Quest’opera, d’altro canto, non può avere scopo. Credo quanto il genio di Ra⁄¶inari nel fallimento di ogni pedagogia, nell’impossibilità di “spiegare”. Tuttavia ho voluto “raccontare” il mio personale incontro con Cioran e narrarne i passagi, le emozioni, le conclusioni convinto di una cosa: oggi più che mai, in questa sorta di neomedioevo culturale in cui l’occidente ha caparbiamente deciso di tuffarsi, credo che i lampi di genio di quest’uomo in perenne discussione, difficile e scomodo tanto che l’università beatamente se ne dimentica, come si scorda di Enzo Melandri e chissà di quanti altri grandi del libero pensare, siano una vera e prorpia forma di terapia, di cura.

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CONCLUSIONI

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Forse, leggere il punto di vista di uno scettico perenne, relativista al punto tale da non poter dirsi sicuro nemmeno delle proprie conclusioni appena espresse e non per gioco ma per convinzione; forse, dicevo, incontrare il pensiero di colui che personalmente reputo l’erede di Nietzsche, il distruttore capace di ridere della propria necessità senza vedervi alcuna missione, può aiutare a risvegliare dal coma profondo in cui sembrano cadute buona parte delle intelligenze del mondo. Negli anni che io vivo inquieto per il destino di un mondo che sembra sempre sul punto di esplodere, i cui vertici politici e religiosi non riescono ad uscire dall’impasse dello scontro frontale arrivando ad inventare categorie storico-politiche mai esistite pur di giustificare ogni nefandezza, nel tempo delle guerre preventive e del terrore cattolico per ogni relativismo; negli anni dei ragazzini suicidi per una follia collettiva in nome di un intransigente ed ignorante radicalismo religioso cui i colti e preparati politici delle democrazie occidentali non sanno rispondere se non aggressivamente, riscoprire la disillusione, la pacatezza incendiaria di chi ha negato tutto senza cadere nel vincolo del nichilismo fine a se stesso dà fiato al respiro affannoso e preoccupato. Certamente, bisognerebbe leggere Cioran con gli stessi occhi con cui egli guardava il mondo, col timbro che dava ai suoi lampi di genio, con impressa nella mente la Weltanshauung da cui è scaturita tutta l’opera. È impossibile? Può darsi e, d’altro canto, senza compartecipazione sentimentale al mondo che viene continuamente svelato e smantellato nelle sue opere, senza una sorta di affinità elettiva con tutto il suo essere, credo che l’opera del genio rumeno non possa che restare oscura e incomprensibile. Un tentativo è, tuttavia, obbligatorio. Mi conforta soltanto vedere che chi si è occupato in quella che io ritengo la “giusta maniera” di Cioran, vale a dire Rigoni, Ceronetti, Citati, Savater, Jaudeau per citarne alcuni, rimane tra le rare intelligenze cui guardo con ammirazione e speranza. Speranza che, paradossalmente, sembra invadere chi legge e sente nel proprio profondo le parole disperate di Cioran. Magia del lirismo, del suo tatto, del suo guardare contemporaneamente verso e contro ogni cosa. Come definire, alla fine, Emil Cioran? Pensatore? Filosofo? Prosatore? Artista? Proprio in un intervista con Fernando Savater, Cioran diede di sé una delle definizioni più belle, con cui mi piacerebbe, concludendo, ricordarlo: Per parte mia, sono certo che la storia non è la via al paradiso. Eppure, se sono un vero scettico, non posso neanche essere sicuro della catastrofe… diciamo che ne sono quasi sicuro! Ecco perché mi sento distaccato da qual-

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siasi paese, da qualsiasi gruppo. Sono un apolide metafisico, un po’ come quegli stoici della fine dell’Impero romano che si sentivano “cittadini del mondo”, il che è come dire che non erano cittadini di nessun luogo.2

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Intervista con F. Savater in Un apolide metafisico – Conversazioni, cit., p. 31.

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B ibliografia

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“Il libro delle lusinghe”, non ancora tradotto in italiano, è stato scritto in Romania nel 1936 ed in parte pubblicato dalle Edizioni Cugetarea di Bucarest. de La Trasfigurazione della Romania esiste una riedizione ampiamente epurata, rivista e corretta dallo stesso Cioran edita da Humanitas, Bucarest 1990, con un’avvertenza dell’autore. Lacrime e Santi (Lacrimi si Sfinti) è stato pubblicato a Bucarest nel 1937. La versione francese (Des larmes et des saints) di Sanda Stoloian comporta importanti soppressioni e modifiche volute dall’autore. Il Bréviaire è stato scritto tra il 1940 e il 1944 a Parigi ma in lingua rumena.

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Raccolta d’interviste con François Bondy, Fernando Savater, Helga Perz, JeanFrançois Duval, Léo Gilet, Luis Jorge Jalfen, Verena Von Der Heiden-Rynsch, J. L. Almira, Lea Vergine, Gerd Bergfleth, Esther Seligson, Fritz J. Raddaz, François Fejto, Benjamin Ivry, Silvie Jadeau, Gabriel Liiceanu, Bernard-Henri Lévy, Georg Carpat Focke, Branka Bogavac Le Compte, Michael Jakob.

BIBLIOGRAFIA

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Cioran, Emile M., Cahiers 1957-1972, Gallimard, Paris 1997, trad. it. di Turolla, Tea, Quaderni 1957-1972, Adelphi, Milano 2001. Cioran, Emile M., Singura⁄tate ¶i destin, trad. fr. Di Paruit, Alain, Solitude et destin, Gallimard, Paris 2004.6 Cioran, Emile M., Noica, C., L’ami lontain, Criterion, Paris-Bucarest 1993, trad. it. di Ferrara, R., L’amico lontano, Il Mulino, Bologna 1993.7 Cioran, Emile M., Tara mea, Mon pays, Humanitas, Bucarest 1996.8 Cioran, Emile M., a cura di Rigoni, Mario Andrea, Fascinazione della cenere : scritti sparsi (1954-1991), Il notes magico, Padova 2005. Cioran, Emile M., Singura⁄tate ¶i destin, trad. fr. di Paruit, Alain, Solitude et destin, Gallimard, Paris 2004. 2) Articoli estratti da quotidiani e riviste AA.VV., I have no nationality – the best possible status for an intellectual, in «The Guardian», 1995, 23 giu. Benedetto, E., Cioran, la felicità finisce a Vienna, in «La Stampa», 1997, 4 nov. Jakob, M., Cioran scrittore del nulla, in «Il giornale», 1995, 21 gen. Capecelatro, G., Cioran, l’attrazione fatale del nulla Quando il pensiero debole era in fasce, in «L’Unità», 1997, 24 ott. Castronuovo, A., Emil Michel Cioran, in «Belfagor», L. S. Olschki, Firenze, a. 57, n° 341, fasc. 5, set. 2002. Cioran, Emile M., L’uomo che trasformò la vita in un incubo, trad. dal francese di Rigoni, M. A. in «Corriere della sera», 1989, 15 giu. Citati, P., Cioran: oggi la vita ha bisogno di utopia, in «Corriere della sera», 1982, 25 giu. Citati, P., Cioran, la vita come imprevisto, in «Corriere della sera», 1986, 21 mar.

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Raccolta di articoli pubblicati in Romania tra il 1931 ed il 1943. Breve carteggio Cioran-Noica. Scritto negli anni 50 e fatto pubblicare da G. Liiceanu.

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Citati, P., Emile Cioran, Un infinito diario della mente e dell’anima, in «La repubblica», 2001, 25 ott.

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Citati, P., Cioran un’ombra sul mondo in «La repubblica», 1995, 18 ott. Fejto, F., Volevo la Romania smisurata e potente, in «Il giornale», 1996, 31 lu. Gambero, F., L’anima nera di Cioran, in «La repubblica», 1997, 23 magg. Giuliani, A., Vi presento il sotto-dio, in «La repubblica», 1986, 26 mar. Guicciardi, E., I diari segreti di un filosofo urlante, in «La repubblica», 1997, 6 nov. Jelloun, T., Peccati di gioventù, in «La repubblica», 1995, 20 giu. Laignel-Lavastine, A., Un Cioran très politiquement correct, in «Le Monde», 2004, 2 lu. Magrelli, V., Effetti speciali di un dandy nichilista, in «L’Unità», 1995, 21 giu. Magris, C., I professionisti del pessimismo, in «Corriere della sera», 1982, 28 nov. Manganaro, P., D-io: la coscienza occidentale contemporanea di fronte al divino: ovvero il racconto biblico della caduta nel tempo secondo Emile Cioran, in «Aquinas», 42 III (1999), 619-627. Milan, T., La mia vita con Cioran pessimista e divertente, in «Il giornale», 1996, 31 lu. Munzi U., Cioran: l’ultimo cavaliere del nulla, in «Corriere della sera», 1995, 21 giu. Pontiggia, G., Aforisma. Come dire il massimo con il minimo, in «Corriere della sera», 1990, 29 apr. Quirini, P., Emile M. Cioran Io sono il fiore nero al vostro occhiello, in «Il Sole 24 Ore», 1998, 1 nov. Rigoni, M. A., Cioran, un nichilista per il regno dei cieli, in «Corriere della sera», 1990, 29 apr. Rigoni, M. A., Denunciò con parole di fuoco tutte le menzogne del pensiero, in «Corriere della sera», 1995, 21 giu Rigoni, M. A., Il nulla contro la storia, in «Corriere della sera», 1996, 20 ott. Sampietro, L. Caro Cioran, neghiamo pure ma per costruire. Tuo Noica, in «Il Sole 24 Ore», 1993, 18 apr.

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Scaraffia, G., Cioran Le confessioni di un antimoderno, in «Corriere della sera», 1997, 11 dic. Tertulian, N., La période roumaine de Cioran, in «La Quinzaine littéraire», n° 351, I, 1981, 15 lu. Zolla, E., L’orrore senza fine del nulla, in «Corriere della sera», 1999, 12 ott. 3) Scritti su Cioran AA.VV., Luoghi ritrovati: E. M. Cioran e P. Tutea a confronto, I quaderni del battello ebbro, Porretta Terme 1995.9 AA.VV., Pour et contre Emil Cioran. Entre idolatrie et pamphlet, Humanitas, Bucarest 1998. Bollon, Patrice , Cioran, l’hérétique, Gallimard, Paris 1997. Costantini, Emanuela, Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran Antiliberalismo nazionalista alla periferia d’Europa, Morlacchi, Perugia, 2005. Jaudeau, Sylvie, Cioran ou le dernier homme, José Corti, Paris 1990. Jaudeau, Sylvie, Mistique et sagesse, trad. it. di Carra, Leopoldo, Jadeau Sylvie, Mistica e saggezza in Conversazioni con Cioran, Guanda, Parma 1993. Jarrety, Michel, La morale dans l’écriture. Camus Char Cioran, Presses Universitaires de France, Paris 1999. Kluback, William and Finkenthal, Michael, The temptations of Emile Cioran, Lang, New York 1997. Laignel Lavatine, Alexandra, Cioran, Eliade, Ionesco: l’oubli du fascisme: trois intellectuels roumains dans la tormente du siècle, Presses Universitaires de France, Paris 2002. Cahn, Zilla Gabrielle, Suicide in french tought from Montesquieu to Cioran, Lang, New York 1998. Liiceanu, Gabriel, Itinéraires d’une vie: E. M. Cioran, suivi de les continents de l’insomnie : entretien avec E. M. Cioran, Michalon, Paris 1995. 9

Il volume edito nella collana “I quaderni del battello ebbro”, è in realtà la trascrizione di un’intervista fatta da Liiceanu a Cioran ed al filosofo e teologo rumeno Tutea da cui nacque un filmato con interventi dei tre e del fratello di Cioran, Aurel, sulle differenti filosofie dei due pensatori e sul loro legame con la Romania.

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Marcoaldi, Franco, Voci rubate: Canetti, Junger, Berlin, Hrabal, Cioran, Edelman, Paz, Einaudi, Torino 1993. Moret, Philippe, Tradition et modernité de l’aphorisme Cioran, Reverdy, Scutenaire, Jourdan, Chazal, Droz, Genève 1997. Rigoni, Mario Andrea, In compagnia di Cioran, Il notes magico, Padova 2004. Rotiroti, Giovanni, Il demone della lucidità: il “caso Cioran” tra psicanalisi e filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2005. Savater, Fernando, Ensayo sobre Cioran, Noche oscura, Madrid, 1974, trad. it di Valentinetti, C., Cioran, un angelo sterminatore, Frassinelli, Milano 1998. Tripodi, Anna Maria, Cioran, metafisico dell’impossibile, Japadre, L’Aquila 1987. Uscatescu J., Cioran e l’esilio metafisico, in Saggi di cultura e filosofia, Studio Editoriale di Cultura, Genova 1981. Vizioli, Raffaello e Orazi, Lucia, La depressione creative di E. Cioran Quasi un dizionario, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2002. 4) Altri testi considerati AA.VV. (Eco, Ruozzi, Tosi, Calcoli, Pasquini, Biason, Cantarutti, Elam, Veca, Rigoni, Viviani), Teoria e storia dell’aforisma, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2002. Abbagnano, N., Dizionario di filosofia, Utet, Torino 2001. Ambri, M., I falsi fascismi Ungheria, Jugoslavia, Romania 1919-1945, Jouvenice, Roma 1980. Baffi, M., La Romania alla ricerca di Roma, Nagard, Roma 1984. Bataille, Georges, Théorie de la Religion, Gallimard, Parigi 1973, trad. it di Piccoli, Renzo, Teoria della religione, SE, Milano 1995 Beckett, Samuel, En attendant Godot, Les éditions de minuit, Paris 1952, trad. It. di Carlo Fruttero, Aspettando Godot, Einauidi, Torino 1956. Bergson, Henri, Essai sur les donnéès immédiates de la conscience, Presses Universitaires de France, Parigi 1889, trad. It di Sossi, Federica, Saggio sui dati immediati della coscienza, Cortina, Milano 2002. Bertrand, Aloysius, Gaspard de la nuit (édition de Max Milner augmentéé d’une étude de Saint-Beuve), Gallimard, Paris 1980.

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Camaco, Albert, Bréviaire du chaos, L’age de l’homme. Lausanne 1982, trad. it. di Turolla, Tea, Breviario del caos, Adelphi, Milano 1998. Camaco, Albert, Post Mortem, L’age de l’homme, Lausanne 1968, trad. it. di Turolla, Tea, Post Mortem, Adelphi, Milano 1984. Canfora, L., Critica della retorica democratica, Latreza, Bari 2002. Dostoevskij, Fedor, M., Prestuplenie i nakazanie, trad. it. di Poledro, Silvio, Delitto e Castigo, Rizzoli, Milano 1951. Eliade, M., Breve storia della Romania e dei rumeni, Europa, Roma 1980.10 Evola, J., La tragedia della guardia di ferro, a cura di Mutti, C, Europa, Roma 1996. Feyerabend, Paul K., AGAINST METHOD Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, New Left Book, London 1975, trad. it di Libero Sosio, CONTRO IL METODO Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 2002. Heidegger, Martin, Nur noch ein Gott kann uns helfen,a cura di Marini, Alfredo, Ormai soltanto un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987.11 Iorga, N., Storia dei romeni e della loro cultura, trad. dal romeno del dott. Jean Antohi, Hoepli, Milano, 1928. Leopardi, Giacomo, Operette Morali, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1998. Leopardi, Giacomo, Zibaldone di pensieri, Mondatori, Milano 1937. Melandri, E., La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Il Mulino, Bologna 1968. Montale, Eugenio, Tutte le poesie, Mondatori, Milano 1984. Nietzsche, F., W., Also sprach Zarathustra Ein Buch für Alle und Keinen, ed. it. a cura di Colli, G. e Montanari, M., Così parlò Zatathustra Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1968. Nietzsche, F., W., Morgenröthe, in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe Fünfte Abteilung, herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, Erster Band, Walter De Gruyter & Co., Berlin 1971, trad. it. a cura di Colli, G. e Montanari, M., Aurora, Adelphi, Milano. 10 11

L’editore non è riuscito a rintracciare la casa editrice rumena. Intervista apparsa sul settimanale «Der Spiegel» il 13 maggio 1976.

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Nietzsche, F., W., Menschliches, Allzumenschliches, trad. it. di Sossio Giametta, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 1965. Rimbaud, Arthur, Poésies Une saison en enfer Illuminations, Gallimanrd, Paris 1999. Rigoni, Mario Andrea, Il pensiero di Leopardi, prefazione di E. M. Cioran (tit. originale della prefazione: Un mot sur Leopardi, trad. it. di Paola Sodo, 1984), Rizzoli, Milano 1997. Sartre, Jean-Paul, L’ Être et le néant, Gallimard, Paris 1943, trad. It. di Del Bo, Giuseppe, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, Est, Milano 1997. Schopenhauer, Arthur, Die Welt als Wille und Vorstellung, Brockaus, Lipsia 1818, trad. it di Paolo Savj-Lopez e Giuseppe De Lorenzo, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 1982. Trione, Aldo, L’estetica della mente (dopo Mallarmé), Cappelli, Bologna 1987. Valéry, Paul, Essais quasi politiques in Oeuvres, vol. I, Gallimard, Paris 1957, trad. it. di Nicole Agosi edizione italiana a cura di Stefano Agosti, La crisi del pensiero (e altri “saggi quasi politici”), il Mulino, Bologna 1994.

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EtEROToPiE

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Collana fondata da Ubaldo Fadini, Paolo Ferri, Tiziana Villani



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AMATO Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività, pp. 200, ISBN 8884832330, scritti di Pierandrea Amato, Claudia Giordano, Sandro Gorgone, Paolo Primi, Emilio Raimondi, Ugo Rossi, Giuseppe Saccone, Adriano Vinale, € 16,00 ARTAUD Antonin, CsO: il corpo senz’organi, a cura di Marco Dotti, 2003, pp. 155, ISBN 8884831644, € 11,00 BAZZANELLA Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari, 2005, pp. 200, ISBN 8884832632, € 12,00 BERNI Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault, 1998, pp. 113, ISBN 8887231273, € 8,26 BERTUCCIOLI Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito, 2004, pp. 251, ISBN 8884831709, € 16,00 BATAILLE Georges, La condizione del peccato, a cura di Andrea Sartini, 2002, pp. 100, ISBN 8888791000, € 8,00 BONAIUTI Gianluca - SIMONCINI Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale, 2004, pp. 364, ISBN 8884832268, scritti di Gianluca Bonaiuti, Alessandro Simoncini, Didier Bigo, Ayse Ceyhan, Michele Chiaruzzi, Emilio Diodato, Dimitri D’Andrea, Elspeth Guild, Raffaele Laudani, Achille Lodovisi, Giovanna Procacci, Emmanuel Terray, Massimiliano Tomba, € 19,00 BUCHBINDER David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili, 2004, pp. 143, ISBN 8884832160, € 14,00 CARBONE Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto, 2001, pp. 281, ISBN 8884830273, € 14,46 CARMAGNOLA Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale, 2000, pp. 185, ISBN 8887231877, € 12,39 COZZO Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa, 2004, pp. 335, ISBN 8884832152, € 18,00 DAL BO Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida con un inedito di Jacques Derrida: I limiti del consenso, 2002, pp. 218, ISBN 8884830575, € 13,00 DE BEAUVOIR Simone, La donna e la creatività, a cura di Tiziana Villani, 2001, pp. 80, ISBN 888483046X, € 8,50 DELEUZE Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant, a cura di Tiziana Villani e Luisella Feroldi, 2000, pp.70, ISBN 8887231753, € 7,75 DELEUZE Gilles, Istinti e istituzioni, a cura di Ubaldo Fadini e Katia Rossi, 2002, pp. 123, ISBN 8884830990, € 8,00 DELEUZE Gilles, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, a cura di Sandro Palazzo, 2004, pp. 132, ISBN 8884832918, € 12,00 DE MICHELE Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana, 2000, pp. 206, ISBN 8887231605, € 12,39 FADINI Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale, 1999, pp. 282, ISBN 8887231281, € 14,46 FERRI Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet, 1999, 20012, pp. 206, ISBN 8887231591, € 12,40

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FOUCAULT Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di Salvo Vaccaro, 2001, pp. 100, ISBN 8884830028, € 8,30 GALLUZZI Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità, 2004, pp. 189, ISBN 8884831822, € 16,00 LEGHISSA Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione, 2004, pp. 160, ISBN 888483256X, € 13 MAISTRINI Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard, 2004, pp. 128, ISBN 8884832608, € 12 MARCENÒ Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina, 2004, pp. 250, ISBN 8884832594, € 18 MARZOCCA Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia, 1998, pp. 212, ISBN 8887231109, € 13,43 MELLO Patrizia (a cura di), Spazi della patologia patologia degli spazi, 1999, pp. 242, ISBN 888723129X, scritti di Francesco Gurrieri, Romano Del Nord, Patrizia Mello, Ubaldo Fadini, Massimo Canevacci, Luisa Leonini, Massimo Ilardi, Tiziana Villani, Michele Sernini, Lucilla Frattura, Ferdinando Terranova, Ezio Manzini, Elena Pacenti, Donatella Cozzi, Giandomenico Montinari, Giuseppe Cardamone, Andrea Grillo, € 14,46 MONTANARI Moreno, Il Tao di Nietzsche, 2004, pp. 235, ISBN 8884832217, € 16,00 MOULIAN Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo, a cura di Davide Danti, 2003, pp. 283, ISBN 8884831504, € 14,00 PIRRONE Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo, 2002, pp. 240, ISBN 8884830915, € 13,00 RICCIO Franco, VACCARO Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore, 2000, pp. 278, ISBN 8887231702, scritti di Theodor W. Adorno, Hans G. Gadamer, Marx Horkheimer, Michel Foucault, Gilles Deleuze, Franco Riccio, Keith Ansell-Pearson, James A. Leigh, Vincent P. Pecora, Arieh Botwinick, Scott Lash, Salvo Vaccaro, € 14,46 PAQUOT Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco, traduzione di Enrico Rudelli, 2002, pp. 90, ISBN 8884830591, € 8,50 PETRILLI Susan, PONZIO Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza, 1999, pp. 430, ISBN 888723132X, € 14,46 POIDIMANI Nicoletta, Oltre le monocolture del genere, con una postfazione di Porpora Marcasciano, 2006, pp. 156, ISBN 8884832683, € 14,00 PREBISCH Raúl, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa, 2005, pp. 203, ISBN 8884832611, € 17,00 SCOPELLITI Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari, 2005, pp. 252, ISBN 888483175X, € 17,00 SIMONE Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani, 2002, pp. 117, ISBN 888483080X, € 9,00 THEA Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte, 2003, pp. 124, ISBN 8884831407, € 12,00 VACCARO Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano, con due testi di Gilles Deleuze, 1997, pp. 289, ISBN 8887231028, scritti di Franco Riccio, Rosi Braidotti, Jordi Terré, Paolo Fabbri, Franco Berardi Bifo, Pieraldo Rovatti, Salvo Vaccaro, Fabio Polidori, Federico Montanari, Comunità filosofica Uazzapallah, Mario Coglitore, Gaspare Polizzi, Tiziana Villani, € 14,46 VACCARO Salvo Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità, 2004, pp. 209, ISBN 8884832020, € 16,00 VACCARO Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione, 2002, pp. 190, ISBN 8884830877, scritti di Abel Béjaoui, Noam Chomsky, William Church, Alessandro Dino, Vittorio Giacopini, Pina Lalli, Robert Nideffer, Alan Pittman, Gordon Poole, Jean Seaton, Danny Schechter, Tamara Straus, Salvo Vaccaro, R.S. Zaharna, € 12,00

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VACCARO Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group dIinformation sur les prisons), 2005, pp. 222, ISBN 888483385X, € 17,00 VERCELLONI Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa, 2005, ISBN 8884833663, € 16,00 VIRILIO Paul, La velocità di liberazione, a cura di Ubaldo Fadini e Tiziana Villani, 2000, pp. 190, ISBN 8887231907, € 12,39

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