Che cos'è la sociologia della cultura
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CHE COS’È LA SOCIOLOGIA DELLA CULTURA

DE

LE BUSSOLE Chiare, essenziali, accurate: le guide di Carocci per orientarsi nei principali temi della cultura contemporanea

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SCIENZE SOCIALI CHE COS’È LA SOCIOLOGIA DELLA CULTURA Negli ultimi tempi, i processi culturali hanno acquisito una nuova centralità nel discorso sociologico. Il libro affronta diversi temi, quali, ad esempio, il rapporto fra cultura e società, il problema della conoscenza nella vita quotidiana, l’industria culturale, i rituali collettivi del mondo contemporaneo, il dibattito sulla globalizzazione. L’intento è essenzialmente didattico: fornire agli studenti che affrontano per la prima volta questa materia gli strumenti e le conoscenze di base. Rocco De Biasi è ricercatore presso la Facoltà di Scienze della formazione dell'Università di Genova, dove insegna Sociologia. Ha pubblicato Gregory Bateson (Milano 1996) e You'll Never Walk Alone. Il mito del tifo inglese (Milano 1998) e ha curato, con A. Dal Lago, Un certo sguardo. Introduzione a ll’etnografia sociale (Roma-Bari 2002).

Ia edizione, aprile 2002 © copyright 2002 by Carocci editore S .p A , Roma Finito di stam pare nell’aprile 2002 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali S r l Urbino ISBN 88-430-2160-5 Riproduzione vietata ai sensi di legge (a rt 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno 0 didattico. 1 lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Via Sardegna 50 OOI87 Roma. te l 06 42 81 84 17 fa x

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Rocco De Biasi

Che cos'è la sociologia della cultura

Carocci editore

Indice Introduzione

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1.

Cultura e società

l i. LZ 1.3. 14 . 15 .

Il concetto di cultura u Kart Marx e la critica dell'ideologia 13 Max Weben cultura e razionalizzazione 18 Il condizionamento sociale del pensiero 22 Durkheim e la cultura come rappresentazione collettiva Per riassumere...

il

31

2.

Conoscenza e vita quotidiana

2.1. 2.2. 2.3. 24. 2.5.

Conoscenza e costruzione sociale della realtà La dimensione oggettiva della realtà sociale La dimensione soggettiva della realtà sociale Le agenzie di socializzazione 40 Conoscenza ordinaria e conoscenza scientifica Per riassumere»

32 32 34 37 42

49

3.

La dimensione simbolica della vita sociale

3.1. 3.2. 3.3. 3-4-

Simboli e pratiche sociali 51 Rituali e interazione sociale 55 Riti d’oggi: il caso delle partite di calcio 59 L’esperienza religiosa in una società complessa Per riassumere».

26

67

4.

La produzione della cultura

4.1. 4.2.

L’industria culturale 69 La mediatizzazione della cultura

69 70

64

51

4-34.4-

4.5.

Consumi culturali e tempo libero 73 Cultura e comunicazione 77 Rivoluzione digitale e innovazione culturale Per riassumere.-

81

86

5.

Cultura e globalizzazione

5.1. 5.2. 5.3. 5.4. 5.5.

Che cosa si intende per globalizzazione 88 Migrazioni, esclusione sociale e razzismo Icone della globalizzazione: il caso di McDonald’s Globalizzazione e diversità culturale 99 Conclusioni: come ripensare la cultura? 101 Per riassumere-

Bibliografìa

104

106

88 91

96

Introduzione Questo libro è un’introduzione alla sociologia della cultura: intende offrire al lettore una guida e degli strumenti utili a familiarizzare con un campo di ricerca alquanto complesso e variegato. Benché la socio­ logia non si occupi esclusivamente dei cosiddetti processi culturali, questi ultimi, in tempi recenti, hanno acquisito una rinnovata cen­ tralità nel discorso sociologico. I temi che si cercherà di affrontare sono numerosi: dal rapporto fra cultura e società al problema della conoscenza nella vita quotidiana, dallo studio dei vari ambiti di pro­ duzione dei beni culturali ai rituali collettivi del mondo contempora­ neo, fino al dibattito sulla diversità culturale nell’epoca della globa­ lizzazione. Non ci si limiterà dunque a definire in maniera astratta i concetti chiave della disciplina: li si vedrà, per cosi dire, all’opera al­ l’interno dell’esame di casi concreti, di una costellazione di argomen­ ti che nel loro insieme costituiscono la dimensione culturale della nostra vita sociale. Per questo, accanto all’illustrazione dei nuclei te­ matici della materia, verranno analizzati fenomeni specifici: dall’in­ venzione del libro al tifo calcistico, dalle origini di Internet all’esame di McDonald’s quale “ icona” della globalizzazione. L’intento del presente lavoro è essenzialmente didattico. Si è cercato di tenere conto sia delle esigenze degli studenti per i quali l’incontro con la sociologia della cultura costituisce soltanto una breve tappa del proprio percorso formativo, sia di coloro che, essendo iscritti a corsi di laurea in cui le scienze sociali risultano basilari o caratteriz­ zanti, avranno in seguito l’opportunità di approfondire ulteriormen­ te la materia. Ora, il campo di indagine della sociologia della cultura è piuttosto vasto e questo ha imposto la necessità di operare delle scelte, dunque di essere selettivi, privilegiando, nel corso dell’esposizione, soltanto alcuni argomenti (ovviamente a scapito di altri) ritenuti prioritari per un breve volume introduttivo. Una più estesa e organica tratta­ zione della materia avrebbe richiesto la stesura di un saggio assai più ampio, se non di un manuale vero e proprio. D ’altra parte, i rimandi bibliografici presenti nel testo sono finalizzati proprio ad aiutare il lettore eventualmente interessato a costruire dee-li irinerari rii anni-«-

fondimento dei singoli temi affrontati nel presente lavoro. Anche per questo, la bibliografìa che si propone in calce al volume è composta quasi esclusivamente da libri o saggi disponibili in lingua italiana e dunque più facilmente reperibili o di più agevole consultazione. Nell’introdurre il lettore alla sociologia della cultura si è scelto di procedere per temi invece che per scuole o per autori: in sintesi, il filo rosso che lega i cinque capitoli che seguono è l’interesse nei confronti della problematica del mutamento, cioè delle conseguenze dello svi­ luppo delle società moderne e contemporanee su quella che gli scien­ ziati sociali - certo in modo tutt’altro che unanime - definiscono “ cultura” . Poiché si tratta di un concetto controverso, al fine di evita­ re equivoci si cercherà di fare tesoro della preziosa indicazione di Clifford Geerz secondo cui la cultura, più che un “ potere” è essen­ zialmente un contesto in cui gli eventi sociali e i prodotti dell’attività umana divengono intelligibili e dotati di senso. Il primo capitolo descrive le origini della sociologia della cultura. Molti sono i pensatori implicati nella genesi di questo campo di stu­ di. Nel presente lavoro si farà riferimento solo ad alcuni di essi: si tratta di esponenti della sociologia classica quali Marx, Weber, Dur­ kheim, Simmel e Mannheim. Ora, le espressioni “ cultura” e “socie­ tà” non sono propriamente sinonime, ma complementari: entrambe rimandano ad aspetti cruciali dello studio dell’organizzazione dell’e­ sperienza umana. Del resto, al centro delle opere dei padri fondatori della sociologia si colloca proprio il tentativo di comprendere il nuo­ vo assetto sociale e culturale determinato dall’avvento del mondo moderno. Già Marx aveva tematizzato l’uomo quale insieme di rap­ porti sociali e descritto come l’economia capitalistica aveva modifica­ to tali rapporti, ma la sua prospettiva materialista privilegiava la di­ mensione dei rapporti di produzione (la “struttura”) rispetto a quella della cultura (considerata una “ sovrastruttura”). Eppure, la critica marxiana dell’ideologia ha contribuito a mostrare come la cultura sia socialmente condizionata e in che misura le idee possano mascherare occultandoli dietro al velo di false apparenze - gli specifici interessi dei gruppi sociali dominanti. In una diversa prospettiva, Max Weber sosteneva che l’uomo è un “essere culturale” che assume posizione nei confronti del mondo e che la cultura è l’oggetto privilegiato delle scienze storico-sociali. In particolare, la razionalizzazione, per We­ ber, è un fenomeno destinato a pervadere ogni ambito della vita mo­ 8

derna. Contemporaneo di Weber, Emile Durkheim ha analizzato la cultura nei termini di una “ rappresentazione collettiva” . A partire dall’esame dei fenomeni religiosi intesi come fonte primaria del lega­ me sociale, egli si è soffermato sui rituali quale forma simbolica di azione che esemplifica il potere morale che la società esercita sugli individui. Il secondo capitolo verte sul problema della conoscenza nella vita quo­ tidiana. Se Durkheim considerava i fatti sociali come “ cose”, come una realtà “oggettiva” , Weber aveva conferito una centralità ai signi­ ficati soggettivi attribuiti dagli individui alle loro azioni. Secondo Pe­ ter Berger e Thomas Luckmann queste due prospettive sono da con­ siderare complementari, dato che la società è certo una realtà fattuale ma, nel contempo, è la risultante di una fitta trama di azioni che esprimono significati soggettivi. L’integrazione di questi due punti di vista costituisce la base per una riflessione inerente alla cosiddetta co­ struzione sociale della realtà. Particolare rilievo, in questo capitolo, verrà conferito allo studio sociologico della conoscenza. Sia nel caso della conoscenza ordinaria (o di “ senso comune”), sia nel caso della conoscenza scientifica (espressione di una razionalità eminentemente moderna), abbiamo comunque a che fare con aspetti della cultura in­ tesa quale prodotto dell’attività sociale degli esseri umani. Nel terzo capitolo viene analizzata la dimensione simbolica della vita sociale. Se il mondo è una “foresta di simboli”, interpretare una cul­ tura implica allora la necessità di decodificare quei simboli. Più spe­ cificamente, il rituale costituisce una delle più importanti forme sim­ boliche dell’azione sociale. I piccoli e grandi riti della nostra epoca, lungi dal ridursi ad aspetti marginali della cultura contemporanea, spesso sono in grado di evocarne le caratteristiche essenziali. La poli­ tica, i media, le relazioni interpersonali, le attività ricreative e altri campi della vita umana risultano ancora fortemente ritualizzati. Cer­ to, diversamente dai rituali religiosi osservabili nelle società tradizio­ nali, i riti d’oggi sono in larga misura “secolari”. Come vedremo, la “ secolarizzazione” è un processo tipico della cultura moderna che rende la gran parte degli ambiti della vita sociale autonomi dal con­ trollo delle autorità religiose tradizionali; eppure vecchie e nuove for­ me di religiosità (siano esse di stampo ecclesiastico o, al contrario, eminentemente laiche) convivono in un mondo pluralistico, nel quale le “visioni ultime” della realtà di ciascun individuo sono frutto 9

di una scelta personale o privata e non più qualcosa di imposto o di già dato. Tutto questo comporta una profonda trasformazione nel rapporto che intercorre fra l’individuo e la società. Il quarto capitolo è dedicato alla produzione della cultura. I beni cul­ turali, in una società fondata sull’economia di mercato, costituiscono una merce fra le altre. L’odierna industria culturale trasforma gli in­ dividui in “consumatori” di cultura. Si tratta di un tema sul quale le scienze sociali hanno ampiamente riflettuto nella seconda metà del Novecento. Tuttavia, se i mezzi di comunicazione di massa sono stati a lungo considerati come la matrice culturale del mondo contempo­ raneo, da un’altra angolatura quel che più conta è come la nostra esperienza sociale si sia progressivamente trasformata in esperienza di un mondo mediato. Rispetto alla fruizione spesso passiva dei messag­ gi veicolati dai tradizionali mass media, l’innovazione tecnologica più recente - e in particolare la “ rivoluzione digitale” —, è evocativa di un passaggio d’epoca (come si vedrà, un caso emblematico in tal senso è rappresentato proprio dallo spazio sociale interattivo di In­ ternet). Infine, il quinto capitolo affronta il tema della globalizzazione. Si trat­ ta di un argomento attuale e controverso, che ha aperto un confronto serrato anche fra gli stessi sociologi. L’eterogeneità culturale di un mondo che si erge a unità si nutre della dialettica fra “locale” e “ glo­ bale” , fra le spinte omologanti dei tentativi di occidentalizzazione del pianeta, da un lato, e la contaminazione e l’incontro tra culture, dal­ l’altro. È il nuovo orizzonte di ricerca verso il quale convergono le di­ verse scienze sociali. L’interrogazione relativa a questo scenario con­ temporaneo diviene così inseparabile da una riflessione sulla natura stessa di quei saperi —sociologia compresa —che hanno per oggetto proprio la “cultura” .

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1. Cultura e società 1.1. Il concetto di cultura Cultura deriva dal latino colere (“ colti­ vare”) e nel nostro lessico quotidiano siamo soliti impiegare questo termine per chiamare in causa i prodotti, per così dire, più “ nobili” deU’attività umana: per esemplo la pittura, la musica, la letteratura classica o, nella sua accezione filosofica, la morale. Quel che ci inte­ ressa, in questa sede, è inquadrare il concetto di cultura in una pro­ spettiva più vasta. Oggigiorno gli scienziati sociali si riferiscono alla cultura per designare le norme, i valori, le credenza e i simboli che in­ contriamo sul nostro cammino nella vita di ogni giorno e che ci consentono di conferire un senso a quel che ci accade (Griswold, *997)- Certo, una tale concezione potrà giustamente apparire ancora troppo astratta, ma in questo volume tenteremo, nel corso dell’espo­ sizione, di darle via via una maggiore concretezza. Senza per questo voler apparire troppo pedanti, è utile segnalare al lettore la definizione di cultura che uno dei primi antropologi moderni, Edward Bumett Tylor, propose all’attenzione della comu­ nità intellettuale nel 1871: «la cultura, o la civiltà [...] è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità acquisita dall’uomo come membro di una società» (Tylor, 1970, p. 7). Il carattere universale, anche se controverso, di questa definizione è emblemadco del tenta­ tivo, oggi forse apparentemente ovvio ma all’epoca alquanto ardito, di considerare le differenti società umane con pari dignità, al di là del loro presunto stadio evolutivo, “ moderno” o “ primitivo” che fosse. È pur vero che “cultura” e “società” non sono termini esattamente sinonimi (per esempio molti sostengono che alcune specie animali costituiscano una società, mentre la cultura è indubbiamente un fe­ nomeno tipicamente umano). Poiché sarebbe arduo operare una di­ stinzione precisa sin da subito, tra queste due nozioni, in termini sin­ tetici (quantomeno in fase di osservazioni preliminari), è importante invece sottolineare che, dal punto di vista del metodo delle scienze sociali, cultura e società sono due termini complementari, e in un

1.1.1. Cultura e scienze umane

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certo senso concorrenti: in definitiva, nel linguaggio scientifico, cor­ rispondono a due modalità diverse (ma che possono tuttavia essere integrate l’una con l’altra) di tracciare una mappa dello stesso territo­ rio. Del resto, come ben sappiamo, una mappa non potrà mai coinci­ dere con il territorio, ma la possibilità di disporre di mappe costruite in base a criteri selettivi efficaci di rappresentazione della “ realtà ter­ ritoriale” ci potrà aiutare nell’esplorazione del nostro mondo socia­ le). Nel presente saggio proporremo un particolare tipo di “ mappatura” : e parleremo di processi culturali proprio per evidenziare la pro­ spettiva storica o dinamica, orientata al cambiamento, dei fenomeni che sono oggetto di indagine della nostra materia. L’avvento del mondo moderno ha comportato notevoli conseguenze sul piano dell’orga­ nizzazione sociale. Il mutamento culturale che ne è scaturito è parte integrante dell’oggetto di indagine della prima generazione di socio­ logi. Il termine “ sociologia” venne in origine introdotto da Auguste Comte (1798-1857), il quale riteneva che per capire il nuovo assetto sociale fosse necessario il ricorso a una particolare forma di conoscen­ za scientifica, scevra da ipoteche di tipo metafisico. I progressi rag­ giunti all’epoca nel campo delle scienze naturali convinsero Comte della possibilità di fondare una conoscenza “positiva” (vale a dire cer­ tificata su basi scientifiche) anche per quel che riguardava lo statuto teorico e il metodo di una disciplina sociologica. Tuttavia, pur riven­ dicando l’esigenza di un metodo scientifico distaccato, Comte si li­ mitò a elaborare unafilosofia della scienza sociale ispirata dalla fiducia nell’idea di progresso che animava la corrente del positivismo. Fu una successiva generazione di studiosi a inaugurare il percorso di ricerca della sociologia intesa quale disciplina accademica specializzata. Come vedremo, Max Weber in Germania ed Emile Durkheim in Francia furono coloro che dettero un impulso decisivo all’afferma­ zione della sociologia quale campo del sapere autonomo separato dalla speculazione filosofica e fondato sulla ricerca empirica di fonti attendibili e su criteri metodologici innovativi. Su un altro versante teorico, intorno alla metà del xdc secolo, Karl Marx elabora una particolare concezione della storia e della società che, pur non essendo ascrivibile alla disciplina sociologica, sarà desti­ nata a stimolare una risposta critica da parte dei sociologi del “perio­

1.1.2. La modernità come problema sociologico

12

do classico” (quello a cavallo fra l’Otto e il Novecento). Sia per gli esponenti della sociologia classica, sia per Marx e per i suoi discepoli, il compito scientifico da assolvere era quello di fornire un’interpreta­ zione dei cambiamenti sociali determinati dall’avvento del mondo moderno. Si tratta ovviamente di interpretazioni contrastanti, dalle quali scaturiranno infatti le differenti tradizioni della teoria sociolo­ gica, ma il punto di partenza rimane il medesimo: fornire una rispo­ sta agli interrogativi sollecitati da un’epoca di grandi trasformazioni. Come riassume Anthony Giddens, uno dei più prestigiosi sociologi contemporanei, l’avvento del mondo moderno è la conseguenza di due grandi rivoluzioni. La prima è la rivoluzione industriale, che ha introdotto la produzione meccanizzata e il libero scambio di merci sul mercato, accompagnata dal fenomeno dell’urbanizzazione e da un aumento della popolazione mai verificatosi prima. La seconda è la rivoluzione francese (1789), che simboleggia le trasformazioni politi­ che dell’epoca moderna. Il declino della tradizione e le sue conse­ guenze sociali, insieme al sorgere di nuove forme di conflitto e di di­ sordine, rappresentano un contraltare a quello che i positivisti aveva­ no esaltato come un “progresso” della civiltà umana. Il contesto sto­ rico della nascita della sociologia è, in altri termini, quello di un’epo­ ca di mutamento ma anche di disagio, caratterizzata da seri problemi di natura sociale (Giddens, 1983). Esamineremo dunque le diverse proposte elaborate dai sociologi della cultura del periodo classico in­ cominciando dalla “provocazione” lanciata dal materialismo storico di Marx per poi soffermarci sull’opera di studiosi come Weber, Sim­ mel, Mannheim e Durkheim, i quali, fornendo una lettura diversa da quella del marxismo, hanno affrontato per primi i problemi fon­ damentali di una moderna sociologia della cultura.

1.2. Karl Marx e la critica dell’ideologia 17..1 .

Cultura e rapporti sociali di produzione Come abbiamo afferma­ to, pur non essendo un vero e proprio sociologo, Karl Marx (1818-1883) ha conferito un contributo notevole allo sviluppo delle scienze sociali. L’opera di questo pensatore è alquanto complessa e diversificata, e molti studiosi tendono a dividerla in più periodi, indi­ viduando una discontinuità tra gli scritti giovanili e le opere maggio­ ri. Senza entrare nel merito di tale questione, nelle pagine che seguo­ 13

no ci limiteremo ad affrontare gli aspetti salienti della concezione marxiana della cultura. Va però menzionato il ruolo assolto, nell’ela­ borazione di questa concezione, da Friedrich Engels, amico e colla­ boratore di Marx, un pensatore rimasto nell’ombra per lungo tempo ma particolarmente sensibile agli argomenti più propriamente socio­ logici dell’analisi del capitalismo moderno. Per comprendere Marx è cruciale familiarizzarsi con la sua termino­ logia. Mentre alcuni dei primi sociologi parlano della moderna socie­ tà industriale, Marx privilegia l’espressione società capitalista. Egli de­ finisce modo di produzione capitalistico la base economica della socie­ tà moderna. In questa concezione “ materialistica” della storia il dive­ nire delle società appare caratterizzato da una successione di “ modi di produzione” (fra gli altri, i modi di produzione “ asiatico”, “ anti­ co” e “ feudale”). Per illustrare questa tesi è necessario riportare un noto passo di Marx tratto da Per la critica dell’economia politica, del 1857: «nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entra­ no in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volon­ tà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali [...]. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita» (Marx, 1970a, pp. 10-1). Qui Marx intende affermare che alla base di ciascuna società vi è uno specifico modo di produzione, cioè l’insieme delle forze produttive materiali (per esempio la fabbrica moderna), da un lato, e, dall’altro, l’insieme dei rapporti sociali, nei quali gli individui sono immersi, che sono subordinati all’attività produttiva e che dunque vengono defini­ ti rapporti di produzione. Tale struttura è la base «reale» o materiale della società: questa a sua volta determina la cultura (appunto gli aspetti “spirituali”, oltre che “politici”, della vita di una società). Di conseguenza la cultura altro non è che una sovrastruttura. Tra strut­ tura e sovrastruttura non esiste per Marx un condizionamento reci­ proco: infatti la seconda dipende dalla prima. Anche se probabilmen­ te numerosi studiosi hanno interpretato in modo troppo rigido e unilaterale il rapporto struttura-sovrastruttura, rimane il fatto che in Marx esiste una indubbia preminenza dei fattori economici e mate­ riali nei confronti di quelli spirituali. In questa prospettiva l’ideologia dominante condiziona la coscienza degli individui che fanno parte 14

della classe subalterna (il proletariato industriale) poiché fornisce loro una visione distorta e parziale della propria condizione. Per Marx l’individuo è un «insieme di xapporti sociali» e la cultura un «riflesso» di tali rapporti sociali. La questione è solo apparente­ mente ovvia. Consideriamo per esempio il caso della religione: Marx adotta un punto di vista materialista e concepisce Dio nei termini di una creazione umana, una sorta di oppiaceo, come afferma un cele­ bre detto. Lo stesso principio vale per le altre sfere della cultura (per l’arte e la letteratura, per la morale, per il diritto). Vale per la stessa politica, laddove lo Stato liberale borghese non è altro che una “ co­ munità illusoria” in quanto espressione del dominio di una classe so­ ciale sull’altra. Poiché il dominio della borghesia si riflette anche sul piano delle idee e dei valori, la classe subalterna (il proletariato) risul­ ta ingannata dall’ideologia di coloro che detengono tale dominio. La critica dell'ideologia, cioè lo smascheramento di questo inganno (dunque delle idee che dietro un velo celano le reali disuguaglianze sociali nel tentativo di giustificare l’ordine esistente) costituisce uno degli aspetti sociologicamente più rilevanti del pensiero di Marx. La critica dell’ideologia in Marx nasce come critica della nozione idealista di “ coscienza” congiunta a un riesame dell’economia politi­ ca classica. Vediamo di chiarire brevemente questi due riferimenti teorici. Nell’idealismo di Hegel il divenire storico era un’emanazione dello Spirito: Marx ribalta questo punto di vista considerando la sfe­ ra spirituale un prodotto della realtà sociale materiale. Quel che ri­ mane di Hegel, nel pensiero di Marx, è la visione dialettica dei pro­ cessi. Per Hegel il movimento dello Spirito nel corso della storia ca­ povolgeva tutti i concetti nel loro contrario, sulla base della triade “ tesi-antitesi-sintesi” : l’antitesi nega il concetto, ma la sintesi supera la contraddizione perché in essa confluiscono e si fondono i due con­ cetti antagonisti. Sin qui la dialettica appare come qualcosa di meta­ fìsico: per Marx tale concezione va ribaltata all’interno di una più concreta visione del processo dialettico inerente alla dimensione ma­ teriale dei rapporti di produzione. La dialettica consiste qui in un rapporto di antagonismo tra classi sociali che lottano l’una contro l’altra. I rapporti di produzione, abbiamo detto, vanno intesi come la base o struttura di una società. Nel caso del capitalismo si tratta di un rap­ porto di “sfruttamento”, che genera una contraddizione tra la classe 15

dominante (che detiene i mezzi di produzione) e la classe subalterna (composta da coloro che si vedono costretti a vendere la propria forza lavoro, cioè tutto quel che possiedono, in cambio del salario). Sin qui abbiamo a che fare con una descrizione della società capitalista che potremmo definire, con le debite cautele, “sociologica” . Tuttavia, questa analisi, che si colloca nel più vasto quadro della concezione politica di Marx, sfocia in una “dottrina della rivoluzione” che va al di là del tentativo di una descrizione scientifica della società. Va co­ munque riconosciuta l’intuizione di Marx relativa all’importanza dell’antagonismo fra le classi quale conseguenza dell’avvento del ca­ pitalismo industriale, anche se oggi quel genere di conflitto, assai più limitato, è stato riassorbito dalle istituzioni, è profondamente regola­ mentato e non rappresenta più una minaccia per l’ordine sociale esi­ stente, così come la struttura di classe della società contemporanea è indubbiamente più differenziata e variegata rispetto alla semplice contrapposizione borghesia-proletariato. Veniamo ora all’economia politica: Marx la definisce «l’anatomia della società borghese». In altri termini, l’organizzazione di una so­ cietà si fonda sul modo di produrre. Nel mondo moderno, sorto con la rivoluzione industriale, il capitalismo subentra al modo di produ­ zione feudale. Ma nel capitalismo, dietro l’apparenza ingannatrice della libera concorrenza quale «ultimo sviluppo della libertà umana», si nasconde per Marx «la più completa soppressione di ogni libertà individuale e il più completo soggiogamento dell’individualità alle condizioni sociali, le quali assumono la forma di poteri oggettivi, anzi, prepotenti» (Marx, 1971, voi. 11, p. 335). Riassumendo, il modo di produ­ zione condiziona la vita spirituale e politica: in questo senso le idee che dominano in una società sono quelle della classe dominante e dunque, nel moderno capitalismo, quelle della borghesia. Scrive Marx nel 1857: «L’insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si ele­ va una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza sociale [...]. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza» (Marx, 1970a, pp. 10-1).

1.2.2. Falsa coscienza e alienazione

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Ora, per Marx esiste un legame tra le ideologie e la dominazione so­ ciale: poiché i rapporti di dominazione si fondano sulla proprietà pri­ vata dei mezzi di produzione da parte della borghesia, soltanto me­ diante la trasformazione rivoluzionaria della realtà sociale sarà possi­ bile un superamento della coscienza ideologica. Finché la classe ope­ raia accetterà passivamente l’ideologia borghese persisterà in essa una falsa coscienza, cioè un falso senso dei propri interessi. Inoltre, il ca­ rattere ideologico del pensiero dominante nella società borghese si radica nell'alienazione economica. In questa prospettiva il lavoratore finisce con il sentirsi estraneo al prodotto del proprio lavoro e al pro­ cesso di produzione, non si riconosce più in esso. L’operaio salariato percepisce il lavoro come qualcosa di distante del quale è stato “ espropriato”, come qualcosa che, scrive Marx, «non appartiene al suo essere». Anche se gli individui sono «formalmente liberi», essi di­ pendono totalmente dai rapporti sociali di produzione ai quali sono inevitabilmente vincolati e dai quali emerge una separazione tra pro­ prietà e lavoro: «la proprietà si presenta, dalla parte del capitalista, come il diritto di appropriarsi del lavoro altrui non retribuito ossia il prodotto di esso, e, dalla parte dell’operaio, come impossibilità di riappropriarsi del proprio prodotto» (Marx, 1970b, p. 640). Aliena­ zione e falsa coscienza sono dunque due aspetti dello stesso fenome­ no: si tratta appunto del problema centrale alla critica dell’ideologia, il cui obiettivo è Io “ smascheramento” di questo stato di cose. Si deve sottolineare che qui la critica dell’ideologia non assume solo una valenza sociologica, ma è innanzitutto finalizzata alla prassi poli­ tica, cioè alla prospettiva di un capovolgimento rivoluzionario della società capitalista. Tuttavia, al di là della ben nota componente poli­ tica e agitatoria del pensiero di Marx, insita nella sua dottrina della rivoluzione, quello che potremmo definire come il problema del con­ dizionamento sociale delpensiero risulterà un punto di partenza obbli­ gato anche per quegli scienziati sociali che, successivamente, si sfor­ zeranno di criticare il punto di vista marxiano. Come vedremo fra poco, Max Weber elaborerà una spiegazione delle origini del capitali­ smo, basata sul ruolo dell’etica religiosa, in profondo disaccordo con il carattere a suo avviso rigido e unilaterale del modello marxiano del­ la struttura-sovrastruttura. Quanto alla critica dell’ideologia, essa verrà ripresa all’interno della sociologia della conoscenza di Mann­ heim, il quale, tuttavia, cercherà di mettere in luce come Io stesso 17

punto di vista di Marx affondi le proprie radici in una visione a sua volta permeata da fattori ideologici oltre che utopici. Infine, come si vedrà nel p a r . 4.2, alcuni importanti sociologi neomarxisti del Nove­ cento hanno ripreso i concetti di alienazione e di falsa coscienza al­ l’interno dello studio degli effetti sociali dell’industria culturale e dei consumi di massa.

1.3. Max Weber: cultura e razionalizzazione Max Weber (1864-19x0), nel suo ce­ lebre studio L ’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05), muove dalla consapevolezza dell’insufficienza della spiegazione mar­ xiana delle origini e della natura del capitalismo moderno. Animato dalla convinzione che le idee (o più in generale i vari aspetti della cul­ tura) esercitino un condizionamento nei confronti dello sviluppo economico-sociale, Weber trova «unilaterale» e «grossolana» la con­ cezione materialista, per la quale - egli scrive - le idee «vengono alla luce come “ riflessi” o “soprastrutture” di situazioni economiche [...], il voler parlare qui di un riflesso delle condizioni materiali della so­ prastruttura ideale sarebbe pura stoltezza» (Weber, 1984, p. 135). Tuttavia, quando Weber analizza le motivazioni etiche e religiose della condotta del moderno imprenditore capitalista, non intende fornire una spiegazione delle origini di un fenomeno economico in termini puramente spirituali o in chiave idealista. Infatti, per Weber, l’influenza della religione sull’etica economica non è la causa del ca­ pitalismo, ma soltanto una delle sue determinazioni. In altri termini, il sorgere e il diffondersi del protestantesimo (e in particolare della sua variante calvinista) è una condizione necessaria, ma di per se stes­ sa non sufficiente, dell’affermazione del moderno capitalismo. Men­ tre in Marx lo sviluppo storico-sociale assume una determinazione univoca (o monocausale), Weber non crede nell’esistenza di leggi ge­ nerali dell’agire sociale e del corso della storia, ed elabora un modello di spiegazione pluricausale. Di conseguenza, egli non nega l’impor­ tanza dei fattori materiali, bensì focalizza l’attenzione sulla relazione che intercorre tra le diverse religioni e l’avvento del capitalismo nel mondo occidentale. Che cosa intende Weber per «spirito del capitalismo»? Egli si riferi­ sce a uno specifico atteggiamento dell’imprenditore, il quale reputa 1.3.L Lo spirito del capitalismo

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la propria attività economica non già nei termini di un mero impulso al guadagno, bensì come una vocazione spirituale. Nel corso della sua indagine Weber scopre che il capitalismo moderno si è imposto in origine laddove era preponderante la religione protestante (e in particolare quella calvinista), mentre nei territori in prevalenza catto­ lici tale sviluppo era avvenuto in ritardo o addirittura non era avve­ nuto affatto. Ora, il tratto distintivo dello spirito capitalista è il razio­ nalismo economico, cioè, scrive Weber, «quella coscienza che tende professionalmente a un guadagno sistematico e razionalmente legitti­ mo [...], quella tendenza ha trovato nell’impresa moderna la sua for­ ma più adatta, e d’altra parte ha avuto in essa l’impulso spirituale più adeguato» (ivi, p. 121). Mentre nel cristianesimo medievale il creden­ te era convinto di raggiungere la propria salvezza dedicandosi alla vita contemplativa e alla preghiera, all’interno di una condotta asceti­ ca lontana dalle cose terrene e dalla ricchezza, il cristianesimo rifor­ mato promuove un altro modello di ascesi (termine che significa in origine “esercizio” e che designa qui la condotta e l’impegno del cre­ dente nel rispetto dei precetti divini). Al centro dell’esistenza dell’in­ dividuo si colloca ora la realizzazione della propria vocazione nella vita terrena, nell’adempimento «dei propri doveri mondani». Il pro­ testantesimo introduce quindi un «apprezzamento della vita profes­ sionale laica» che, per Weber, genera un modello di ascesi mondana. Tale forma di ascesi conferisce un profondo significato morale all’at­ tività professionale e al successo economico. Riassumendo, nel prote­ stantesimo ascetico, il moderno imprenditore capitalista assume un atteggiamento metodico che lo conduce a perseguire in maniera ra­ zionale e sistematica il profitto per reinvestirlo, rinunciando invece all’immediato godimento materiale della ricchezza accumulata. In particolare, la dottrina calvinista ha esercitato un ulteriore condi­ zionamento psicologico sulla condotta dell’imprenditore capitalista. Calvino ha rafforzato il dogma della predestinazione, in base al quale Dio avrebbe già sancito il destino di ognuno, stabilendone a priori la salvezza o la dannazione. Vengono banditi il perdono, l’indulgenza, il pentimento, poiché Dio ha già deciso chi farà parte della cerchia degli eletti. Di fronte a questa condizione di incertezza, la realizzazio­ ne della vocazione individuale negli affari diventa ima ricerca di sicu­ rezza, il successo economico la traccia di una salvezza eterna, il segno di una possibile predestinazione. Oltre a rendere più sopportabile per 19

l’individuo una condizione psicologica di incertezza rispetto alla pro­ pria predestinazione, l’accento posto dall’etica calvinista sulla voca­ zione professionale, sull’abnegazione e sull’impegno coerente nell’at­ tività economica favorisce lo sviluppo di un atteggiamento formal­ mente razionale, basato sul calcolo e sulla capacità di coniugare i mezzi con i fini. Weber concepisce questa inclinazione alla razionali­ tà nell’agire economico come parte di un più vasto processo, la “ ra­ zionalizzazione”, destinato a pervadere tutti i vari aspetti della vita sociale. I.3.2. Il processo di razionalizzazione Abbiamo visto che Weber con­ sidera la sfera delle idee una determinante delle azioni degli uomini e una delle cause del mutamento sociale. È importante sottolineare che l’unità di analisi, in Weber, non è la società nel suo complesso (una nozione, questa, che egli reputa troppo astratta e generica), bensì Va­ gire sociale. Weber parla di «senso soggettivamente intenzionato» del­ le azioni degli uomini per sottolineare come il compito del sociologo sia quello di cogliere i significati attribuiti dagli individui a quel che fanno: solo dopo questa operazione diviene possibile spiegarne le cause e gli effetti. Per interpretare l’agire sociale è però necessario comprenderlo: per esempio, nel caso appena discusso dell’imprendi­ tore calvinista, bisogna capire quel che per lui rappresentava la con­ dotta economica alla luce della dottrina della predestinazione. Com­ prendere le motivazioni soggettive delle azioni degli uomini ci con­ sente di interpretarle. Dunque, se le azioni sono significative, compi­ to di una sociologia comprendente è l’analisi della ragnatela di signifi­ cati che avvolge la vita sociale degli uomini e le loro azioni. Si tratta di qualcosa di diverso dal metodo delle scienze naturali: presupposto di ogni scienza della cultura, scrive Weber, «non è già che noi ritenia­ mo fornita di valore una determinata cultura, ma che noi siamo esseri culturali, dotati della capacità e della volontà di assumere consape­ volmente posizione nei confronti del mondo e attribuirgli un senso» (Weber, 1958, p. 96). Questa citazione di Weber ci fornisce un’idea dell’importanza da egli attribuita ai fenomeni culturali in ambito so­ ciologico. Ovviamente non tutti i fenomeni possono divenire ogget­ to di indagine di una sociologia comprendente: non esiste un sapere in grado di spiegare la realtà nella sua totalità, ma soltanto alcuni aspetti di essa. La cultura è uno di questi aspetti, ma è anche l’oggetto

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privilegiato delle scienze storico-sociali. Scrive ancora Weber: «“ La cultura” è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vi­ sta dell’uomo» (ibid.). È opportuno sottolineare che, nonostante l’analisi di Weber della ge­ nesi del capitalismo abbia al centro la motivazione religiosa dell’agire economico, lo stesso Weber ha avuto modo di precisare che l’agire economico tende a riprodursi svuotandosi del suo originario conte­ nuto etico. Quel che trionfa, nel mondo moderno, è la razionalità formale di quella condotta economica, un tipo di agire basato sul cal­ colo e sulla capacità di coniugare i mezzi con i fini. Non soltanto l’e­ conomia, ma le più svariate sfere della vita sociale (dalla scienza al di­ ritto, dalla politica alla musica) sono pervase da un processo di razio­ nalizzazione tipico della modernità così come si è affermata nell’Oc­ cidente. La stessa religione ha perso il suo primato sugli altri campi della vita umana, spianando il terreno a quello che Weber definisce disincanto del mondo. La razionalizzazione, scrive Weber, implica al­ lora «la coscienza o la fede che ogni cosa, in linea di principio, può esser dominata dalla ragione. Il che significa disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per in­ graziarsi gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono simili po­ tenze. A ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici. È soprattutto questo il significato della intellettualizzazione come tale» (Weber, 1983, p. 20).

Tra i vari ambiti della vita sociale emblematici di questo processo di razionalizzazione, Weber ha considerato in particolare l’organizza­ zione burocratica moderna. Burocrazia significa letteralmente “ go­ verno degli uffici”. Ora, non solo nelle organizzazioni pubbliche, ma anche in quelle private, la moderna burocrazia è l’apparato ammini­ strativo più razionale ed efficiente, poiché è in grado di operare in modo imparziale incorporando i principi della razionalità formale: il carattere anonimo, l’impersonalità, l’universalità e la calcolabilità (requisiti che nel loro complesso mancavano negli apparati burocra­ tici delle società tradizionali). La complessità del mondo moderno ri­ chiede l’organizzazione di procedure amministrative razionalizzate e codificate, regole astratte e una divisione del lavoro tra uffici con competenze diverse. 21

Come sappiamo, con il trascorrere del tempo sono sorte enormi macchine burocratiche che hanno finito con il fagocitare l’esistenza dei membri di una società. La moderna burocrazia, nata come una soluzione, è divenuta a sua volta un serio problema. D ’altra parte, è bene precisare che Weber, quando parlava di razionalizzazione, si ri­ feriva alla superiorità tecnica del tipo ideale di burocrazia rispetto ad altre forme di amministrazione (il “ tipo ideale” è un’astrazione co­ struita a tavolino dallo studioso per descrivere quali sono in linea di principio le caratteristiche salienti di alcuni fenomeni sociali). In real­ tà Weber intuì quelle che sarebbero state le distorsioni dello sviluppo del fenomeno burocratico nei loro aspetti più inquietanti, sottoli­ neando come la stessa razionalizzazione può determinare degli effetti irrazionali.

14 . Il condizionamento sociale del pensiero In Weber il processo di razionalizzazione è una caratteristica distintiva della società moderna. Nella riflessione di Georg Simmel (1858-1918), amico e collega di Weber, ritroviamo qualcosa di analogo in riferimento a un argomen­ to di indagine differente: gli effetti dell’economia monetaria sulla cul­ tura. Simmel focalizza l’attenzione sulle caratteristiche impersonali dei rapporti sociali e sulla crescente intellettualizzazione della vita psichica, dovute al prevalere di una particolare forma di relazione so­ ciale: lo scambio monetario. Il denaro è qui l’emblema delle relazioni sociali moderne: esso è divenuto una sorta di rappresentazione sim­ bolica del rapporto che intercorre non solo tra gli individui e le cose, ma anche tra individui e individui. Tutto viene ricondotto a un’uni­ ca “ cifra”: la quantificazione in termini monetari. Si tratta di rappor­ ti astratti mediad dall’intellettualizzazione, ovvero dal calcolo razio­ nale più che dagli stati emotivi. Questa forma sociale riduce la “ qua­ lità”, ovvero la sostanza individuale di cose e persone, alla “quanti­ tà”, cioè al denaro. Il denaro «misura tutte le cose con spietata oggettività» (Simmel, 1984, p. 609). Tutto questo esercita un crescente condizionamento sulla vita dell’individuo moderno. È bene chiarire che Simmel non usa il termine “vita” in senso generico: l’esperienza individuale, la vita psichica dei membri di una società, è possibile solo nel momento 14 -1. Georg Simmel e il conflitto della cultura

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in cui si esprime e si cristallizza in una determinata forma: per esem­ pio l’arte, la scienza, i giochi, la religiosità, ma soprattutto lo scambio economico. Le forme si distaccano dai contenuti che le avevano rese possibili, divengono un’oggettivazione dello spirito che si cristallizza nel mondo esterno. Scrive Simmel nel 1911: «Il soggetto vive innu­ merevoli tragedie nel profondo contrasto di forma tra la vita sogget­ tiva, che si muove senza posa ma è temporalmente finita, e i suoi contenuti che, una volta creati, sono immobili ma atemporalmente validi» (Simmel, 1993, p. 189). La cultura è intesa come l’incontro tra due elementi: l’anima spirituale soggettiva e il prodotto spirituale og­ gettivo (per esempio, da un lato, l’impulso creativo dell’artista e, dal­ l’altro, l’opera d’arte che assume ima sua oggettività autonoma e in­ dipendente). Si determina cosi un senso di estraneità tra la soggetti­ vità vissuta degli individui e le forme del mondo esterno che della vita dell’uomo erano, in origine, un’espressione o una creazione. Così, la «tragedia della cultura» tematizzata da Simmel consiste in un conflitto cronico, in ima tensione irrisolvibile, che caratterizza la dia­ lettica tra vita e forme: le forme divengono indipendenti dalla vita, possono addirittura divenire ostili a essa. Come Weber, anche Simmel assume un atteggiamento critico nei confronti di Marx. Per Simmel quella che Marx aveva chiamato alie­ nazione (l’estraniazione del lavoratore nei confronti dei suoi prodot­ ti) è solo una forma particolare del «destino generale dei contenuti culturali» (il conflitto cronico tra vita e forme). Lo stesso rapporto struttura-sovrastruttura, nel quale Marx riconduceva la cultura a un riflesso della base economico-materiale della società, risulta agli occhi di Simmel un semplice capovolgimento dell’idealismo hegeliano. Come vedremo adesso, anche altri esponenti della sociologia tedesca del primo Novecento si sono confrontati con la teoria marxiana criti­ candone gli strumenti concettuali al fine di elaborare una visione so­ ciologica alternativa, soprattutto per quel che concerne la nozione controversa di “ ideologia” . 1 -4-3- La sociologia della conoscenza di Karl Mannheim Abbiamo illu­ strato come la critica marxiana dell’ideologia si ponesse il compito di smascherare un inganno: l’ideologia borghese dominante fornisce una rappresentazione distorta della realtà sociale perché cerca di giu­ stificare l’ordine sociale esistente occultando, con la sua retorica, le 23

reali disuguaglianze tra le classi. Al di là della curvatura politica del ragionamento di Marx, questa tesi cosdtuisce in fondo una variante particolare di un tema che caratterizzerà successivamente la riflessio­ ne di altri importanti pensatori a cavallo tra l’Otto e il Novecento. Anch’essi, talvolta in maniera del tutto indipendente dall’eredità di Marx, muovono dal fatto che dietro le affermazioni o le idee di un individuo o di una collettività può celarsi qualcosa di ben differente: a seconda dei casi un più concreto interesse particolaristico dal quale trarre un vantaggio, o una particolare visione del mondo, oppure una qualche forma di autoinganno psicologico. Può trattarsi di una falsi­ ficazione inconsapevole o, al contrario, deliberata, ma la tesi della ne­ cessità di uno smascheramento delle apparenze ingannatrici, dunque delle idee e delle ragioni addotte dagli individui o dalle collettività per giustificare un determinato modo di fare, ha accomunato studio­ si alquanto distanti tra di loro (da Friedrich Nietzsche a Sigmund Freud, a Vilfredo Pareto). Riassumendo, un tema di fondo accomuna questi pensatori pur nella loro diversità: l’intenzione di uno smascheramento dell’ingan­ no esercitato da determinate idee o dalla stessa coscienza. Un per­ corso sociologico che abbraccia questa prospettiva è quello di Karl Mannheim (1893-1947). Anch’egli sostiene che l’ideologia è un sape­ re illusorio, ma nel contempo intende mettere in luce come ciascuna forma di pensiero sia in definitiva socialmente condizionata. Già Max Scheler, nella sua Sociologia del sapere (1926), aveva affermato che le “visioni del mondo” ( Weltanschauungen) sorgono da metafisiche na­ scoste; scopo della sua ricerca era una teoria relativa alla nascita e alla diffusione di determinate forme di Weltanschauungen. In particolare, per Scheler le ideologie sono una determinata visione del mondo e della storia, caratterizzate da uno specifico interesse di classe. Egli si pone tuttavia nell’ottica del superamento del marxismo quale mera ideologia degli oppressi. Rispetto al materialismo economicista di Marx, la sociologia del sapere di Scheler considera tra le cause delle azioni non solo i fattori “ reali”, ma anche quelli “spirituali” . Mann­ heim, contemporaneo di Scheler, conferisce una centralità ancora maggiore alla nozione di ideologia, considerandola un oggetto privi­ legiato della sociologia della conoscenza. Entrambi riprendono in esame Marx, si confrontano con la sua dottrina e talvolta ne adotta­ no la terminologia assumendo però una ben diversa intonazione. 24

In particolare, Mannheim ritiene che l’idea di Marx, per la quale il condizionamento ideologico del pensiero si basa su un mero interes­ se materiale (o di classe), sia troppo limitata. Infatti la riflessione di Mannheim sulla sociologia della conoscenza verte più in generale sulle molteplici forme di condizionamento sociale del pensiero. Ora, il pensiero dell’uomo quale “ essere sociale” non può essere conside­ rato come qualcosa di solitario o indipendente dalle forme di associa­ zione alle quali ciascun individuo è vincolato. Il problema della so­ ciologia della conoscenza diviene allora quello di indagare il sistema complessivo delle visioni del mondo, i criteri attraverso i quali il pen­ siero umano risulta socialmente condizionato, dunque la struttura universale del rapporto che intercorre tra le forme del pensiero e i fe­ nomeni sociali. Qui il ragionamento di Mannheim relativo all’esi­ stenza nel corso della storia di una sorta di «totalità delle visioni», dalla quale dovrebbero scaturire le specifiche visioni del mondo so­ cialmente e storicamente date, slitta sul piano filosofico e sembra ri­ mandare al dominio della metafisica, poiché non riesce a fornire una risposta accettabile nei termini di una sociologia scientifica. D ’altra parte, in termini più concred, Mannheim ha il merito di aver approfondito la riflessione inerente a come l’ideologia conduca l’uo­ mo ad assumere una coscienza distorta. L’ideologia è per Mannheim un pensiero “inadeguato” alla realtà sociale, una contraffazione di quest’ultima. L’ideologia è “ incongrua” con l’essere sociale, ma pur sempre funzionale ai gruppi sociali dominanti, poiché contribuisce a mantenere e a giusdficare il loro dominio. L’ideologia va allora di­ stinta dall’utopia: quest’uldma, espressione del pensiero delle classi subalterne in lotta per il potere, contiene una forza rivoluzionaria in grado di influire sul cambiamento della società e del corso della sto­ ria. Inoltre, rispetto ai sociologi marxisti del suo tempo, Mannheim non si limita a prendere in considerazione le classi economico-sociali come il principale raggruppamento, bensì conferisce rilievo all’inda­ gine degli “strati intellettuali” , cioè del raggruppamento sociale for­ mato dai produttori di idee e ideologie, i principali creatori dei pro­ dotti culturali di una data epoca. Pur insistendo sulla necessità di una consapevolezza del carattere socialmente condizionato della cono­ scenza, Mannheim cerca di distanziarsi dal semplice relativismo con­ trapponendo a questo la tesi del “ relazionismo”. Si tratta, come rias­ sumono Peter Berger e Thomas Luckmann, «non di una capitolazio­ 25

ne del pensiero di fronte alle relatività socio-storiche, ma di una luci­ da ammissione che la conoscenza deve sempre essere una conoscenza da una certa posizione» (Berger, Luckmann, 1995, p. 25). Ma in che misura, a questo punto, è possibile un pensiero libero dal sospetto di ideologia? La questione rimane ancor oggi aperta, e pro­ babilmente lo stesso Mannheim non è riuscito a dare una risposta soddisfacente a questa domanda. All’epoca egli nutriva ima certa fi­ ducia nei confronti della “ intellighenzia”, cioè di quel particolare raggruppamento di intellettuali in grado di assumere un atteggia­ mento più autonomo e distaccato dalle ideologie di classe e dunque tendenzialmente veritiero e adeguato alla missione di «tutelare gli in­ teressi spirituali di tutta l’umanità». Benché questa indicazione possa oggi apparire piuttosto debole, dobbiamo a nostra volta ricondurla sociologicamente all’epoca in cui venne formulata in Ideologia e uto­ pia (del 1929), in un contesto storico di crisi e di disagio. In conclusione, i temi di sociologia della cultura e della conoscenza che abbiamo sin qui discusso hanno sollecitato la riflessione dei mag­ giori pensatori classici della sociologia tedesca (compreso l’ungherese Mannheim, formatosi intellettualmente in Germania). Nelle pagine che seguono prenderemo in considerazione l’altra importante tradi­ zione sociologica europea, quella che si sviluppa in Francia a partire da Emile Durkheim.

1.5. Durkheim e la cultura come rappresentazione collettiva «La vita collettiva non è nata dalla vita individuale; al contrario, la seconda è nata dalla prima»: questo motto di Emile Durkheim (1858-1917) sintetizza il principio basilare della sua concezione della sociologia. Mentre gli utilitaristi e gli economisti classici (ma anche un illustre sociologo come Herbert Spencer) vedevano l’ordine sociale come il risultato della mutua in­ fluenza degli egoismi individuali, Durkheim sostiene che la società trascenda gli individui e che costituisca un ordine superiore, una realtà sui generis. La sociologia deve muovere dall’analisi dei fatti so­ ciali. «Riconosciamo il fatto sociale —egli scrive —in base alla coerci­ zione esterna che esercita o che è in grado di esercitare sugli indivi­ dui» (Durkheim, 1979, p. 31). Questo vuol dire che lo studio dei fe­ nomeni sociali non deve ricercare delle cause negli stati della coscien­

1.5.1. Fatti sociali e coscienza collettiva

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za dell’individuo, bensì all’interno di una realtà sociale che precede l’individuo e che esiste indipendentemente da esso. Anche determi­ nati fenomeni che potremmo ascrivere all’interno della sfera della cultura, quali la morale, il diritto, le credenze e le mode, si impongo­ no socialmente all’individuo e ne sanzionano l’esistenza e i compor­ tamenti. La società nel suo complesso svolge un’azione regolatrice, in quanto promuove la solidarietà tra gli individui ponendosi nei con­ fronti di essi come un’autorità morale. Per meglio comprendere tale punto di vista è importante menzionare un altro concetto centrale della sociologia di Durkheim, quello di co­ scienza collettiva-, essa è l'insieme delle credenze e ilei sentimenti comuni alla media dei membri della società. Quanto più la coscienza collettiva è intensa e trascinante, tanto più viene garantita la coesione sociale. Ma il fatto che ima concreta società storica possa essere coesa non è affatto scontato: Durkheim esamina il fenomeno deìl’anomia, cioè quell’assenza di regole nel tessuto sociale che può condurre a uno scollamento tra l’individuo e la collettività. Esemplare, in tal senso, è il caso del suicidio, che Durkheim non spiega in chiave psicologica, bensì alla luce del fenomeno sociale dell’anomia. Il tasso dei suicidi cresce quando si indeboliscono i legami sociali: «lo stato di non rego­ lamento, o di anomia, si rafforza dunque perché le passioni sono meno disciplinate proprio quando sono più bisognose di una disci­ plina» (Durkheim, 1969, p. 308). Ora, le trasformazioni determinate­ si con l’avvento della società industriale hanno prodotto un indeboli­ mento dei valori tradizionali e un vuoto normativo (l’anomia incar­ nata qui dall’aumento del tasso dei suicidi). Tuttavia Durkheim non mette in discussione il fatto che l’assetto sociale moderno rappresenti un progresso, bensì ritiene che l’anomia sia dovuta «alle particolari condizioni in cui questo mutamento è avvenuto» (e in special modo alla velocità con la quale si sono dissolte le forme di solidarietà tradi­ zionali). Egli è interessato a una riforma sociale che introduca «quan­ to occorre a inquadrare l’individuo, tirarlo fuori dall’isolamento mo­ rale» (ivi, p. 347). Mentre le società tradizionali traevano coesione da una solidarietà meccanica (basata sulla somiglianza, su un’immediata identità dei sentimenti e dei valori), le moderne società industriali, assai più complesse e differenziate, avrebbero richiesto un nuovo tipo di solidarietà (che Durkheim definisce organica) nella quale gli indi­ vidui potessero raggiungere una consapevolezza della propria dipen­ 27

denza reciproca nella cooperazione, cioè nella divisione del lavoro e nella complementarità delle funzioni assolte da ciascun membro del­ la società. L’anomia costituisce una forma di “ patologia” sociale. Infatti, Durk­ heim concepisce la società alla stessa stregua di un organismo biolo­ gico e, in quanto tale, può rivelarsi sana oppure malata. Un altro concetto-chiave di Durkheim viene mutuato dal lessico della biolo­ gia: quello di junzione, vale a dire quell’attività che risponde a un bi­ sogno dell’organismo. In questa prospettiva, come avremo modo di approfondire, la religione assolve la funzione di rafforzare la coesione di una società. Tale enfasi conferita al tema dell’ordine e dell’integra­ zione sociale (nel tentativo di esorcizzare il problema del conflitto) attraversa l’intera opera di Durkheim e ne costituisce un tratto di­ stintivo anche all’interno della sua concezione della cultura. Come riassume Franco Crespi, «la cultura, in quanto insieme di rappresen­ tazioni, credenze, valori e norme, ha pertanto la funzione di fondare la coesione e il consenso sociali, stabilendo un sistema di controllo, sostenuto da sanzioni e ricompense, che orienterà, di volta in volta, l’agire degli individui, limitando i loro desideri e indicando le finalità concrete che essi devono perseguire» (Crespi, 1996, p. 80). Durkheim parla di rappresentazioni collettive per designare quei feno­ meni sociali che scaturiscono dai rapporti tra i membri di una socie­ tà: «esse non derivano dagli individui presi isolatamente, ma dalla loro cooperazione» (Durkheim, 1979, p. 157). Questa visione, che potremmo definire “ determinismo societario”, assume una partico­ lare rilevanza all’interno dell’ultima opera di Durkheim, nella quale egli enuncia i principi della sua particolare concezione della sociolo­ gia della conoscenza a partire dall’indagine dei fenomeni religiosi. Come per Marx, anche per Durkheim la religione è un prodotto sociale, ma mentre il primo intravedeva nel credo religioso un contrassegno del­ l’alienazione, il sociologo francese considera la religione come la for­ ma principale di legame sociale. Già in un breve saggio di critica del materialismo storico, del 1897, Durkheim (1972, p. 269) afferma: «Sociologi e storici tendono sempre più a incontrarsi nella definizio­ ne comune secondo cui la religione è il primo di tutti i fenomeni so­ ciali. Da essa sono emerse, attraverso trasformazioni successive, tutte

15.2. L’idea di religione e la sociologia della conoscenza

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le altre manifestazioni dell’attività collettiva, diritto, morale, arte, scienza, forme polinche ecc. In principio tutto è religioso». In Le forme elementari della vita religiosa, del 1912, Durkheim, sulla base di fonti di tipo storico e antropologico, fornisce una definizione ben precisa: «una religione è un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre [...] le quali uniscono in un’unica comunità mo­ rale [...] coloro che vi aderiscono». Con il termine sacro Durkheim fa riferimento a un tratto universale di tutte le società storicamente date: sacro è quel complesso di oggetti e di credenze che in ciascuna religione viene concepito come qualcosa di separato e di superiore rispetto alle cose e alle occupazioni quotidiane profane (quelle cioè, che rimangono letteralmente fuori dal tempio - dal fanum). Per esempio, le faccende quotidiane legate al calcolo utilitario rientrano nella sfera del profano, mentre le cerimonie religiose in quella del sacro. Alcune particolari azioni simboliche, i rituali, consentono agli individui di entrare in relazione con la sfera del sacro. Ogni religio­ ne stabilisce quali condotte rituali vanno adottate all’interno di que­ sto contesto separato: esse comunicano rispetto, producono solida­ rietà, rigenerano periodicamente un sentimento di appartenenza collettiva. Come vedremo nel terzo capitolo, al di là della religione intesa come rituale archetipico, nel mondo contemporaneo la dimensione simbo­ lica dei riti sociali si ripropone in una pluralità di contesti (piccoli o grandi che siano le dimensioni dei gruppi o delle istituzioni coinvolte a seconda dei casi): si tratta dei riti cosiddetti “ secolari”, che hanno perso il loro originario contenuto religioso ma che mantengono una forma simbolica e una valenza morale non trascurabili ai fini di un’indagine sociologica della cultura. In questo senso, al di là dei li­ miti della concezione funzionalista di Durkheim (in particolare l’i­ dea che la società vada analizzata come se fosse un organismo biolo­ gico e l’enfasi eccessiva sulla coesione a scapito delle dinamiche socia­ li di conflitto), l’eredità del sociologo francese è ancora al centro della discussione e ha rappresentato un punto di partenza obbligato per vari ricercatori. Nella tesi originaria di Durkheim, ciascuna cultura presenta una mo­ dalità sua propria, comune a tutti gli individui che ne fanno parte, di rappresentarsi il mondo del sacro. L ’oggetto di culto non è la divinità postulata dalla singola religione, bensì la società stessa trasfigurata 29

simbolicamente. Nel culto più primitivo, il totemismo, un animale o un vegetale (scelto come totem) incarna una divinità, che di fatto simbolizza una determinata comunità (il clan). Se da una parte si tratta della forma visibile della divinità totemica, dall’altra esso è il simbolo di questa società (il clan). Esiste una «attitudine della società a ergersi a divinità» (Durkheim, 1971, p. 237): questo vale per le mo­ derne religioni monoteiste così come per quelle primitive: ciascuna società è per i suoi membri quel che un dio è per i suoi fedeli. Tutta­ via, l’intera opera di Durkheim certifica un declino della religiosità nella società moderna, dunque il dileguarsi di un’importante funzio­ ne integratrice, problema al quale egli cercò incessantemente di tro­ vare una soluzione sul piano delle riforme sociali e auspicando l’av­ vento di nuove forme di solidarietà. Accanto ai temi della religione, del sacro e del rituale, nell’ultima opera di Durkheim compare una riflessione sull’originaria matrice religiosa delle varie rappresentazioni collettive e, in particolare, delle categorie del pensiero. Lo spazio, il tempo e altre nozioni essenziali della conoscenza (numero, causa, genere ecc.) non sono categorie “ a priori”, né il mero frutto dell’esperienza sensibile, sono bensì pro­ dotti del pensiero collettivo, il quale assume forme diverse all’inter­ no delle differenti società storicamente date. La scansione tempora­ le, per esempio, di un determinato calendario, «esprime il ritmo del­ l’attività collettiva, oltre a garantirne la regolarità» (ivi, p. 13). Parimenti, la rappresentazione sociale dello spazio riflette modelli diversi di organizzazione sociale. Così, in alcune tribù australiane «lo spazio è concepito sotto forma di un cerchio immenso, perché l’accampa­ mento ha anch’esso una forma circolare» {ibid.). Quali che siano le varianti della categorizzazione di spazio e tempo in ciascuna cultura, «la società non può abbandonare le categorie al libero arbitrio dei singoli, senza abbandonarvisi essa stessa» (ivi, p. 19). Riassumendo, la sociologia della conoscenza di Durkheim è un’ulteriore esemplifi­ cazione del suo “ determinismo societario” per il quale le rappresen­ tazioni collettive scaturiscono da una matrice religiosa: «Se la reli­ gione - conclude Durkheim - ha generato tutto ciò che c’è di essen­ ziale nella società, è perché l’idea di società è l’anima della religione» (ivi, p. 459). In conclusione, anche se le prospettive sin qui analizzate rappresenta­ no diverse declinazioni del rapporto che intercorre tra cultura e so­ 30

cietà, talvolta alquanto distanti tra loro, esse hanno fornito ai socio­ logi delle generazioni successive uno stimolo alla riflessione e soprat­ tutto alla ricerca. Come nel periodo storico nel quale venne fondata la sociologia, anche nell’epoca attuale sono in atto cambiamenti pro­ fondi e alquanto rapidi. Nei capitoli che seguono cercheremo di met­ tere in luce come il mutamento culturale quale oggetto di indagine abbia assunto una crescente importanza nelle scienze sociali.

Per riassumere». • Abbiamo esposto le differenti visioni del rapporto tra cultura e società elaborate dai principali esponenti del periodo classico della storia del pen­ siero sociologico. Dopo una prima fase di riflessione filosofica sulla fonda­ zione della sociologia da parte dei pensatori positivisti, Durkheim in Fran­ cia e Weber in Germania inaugurano due tradizioni aU'interno delle quali la sociologia diviene una scienza fondata sulla ricerca empirica e su meto­ di innovativi. • Durkheim focalizza l’attenzione sulla cultura quale rappresentazione collettiva e, movendo dall’esame dì fenomeni come il suicidio, la divisione del lavoro e soprattutto la religione, pone l’accento sulla sua funzione di controllo e di consenso sociale. Weber, nei suoi studi suU’origine religiosa dell'etica economica del capitalismo moderno, sviluppa una “sociologia comprendente” orientata all’interpretazione e alla spiegazione del signifi­ cato dell’agire sociale, secondo cui noi siamo esseri culturali inclini ad as­ sumere posizione nei confronti del mondo. Georg Simmel vede invece la cultura come l’incontro tra l'anima spirituale soggettiva (la vita) e i prodot­ ti sociali oggettivi (le forme). m Le teorizzazioni dei sociologi del periodo classico costituiscono alme­ no in parte una risposta alla visione conflittuale della società elaborata da Marx e dai suoi discepoli. Per Marx la cultura è una sovrastruttura che ri­ flette la base economica, o struttura, della società capitalista. La sua critica dell'ideologia consiste nello smascheramento di un inganno, poiché le idee dominanti riflettono il dominio di una classe sulle altre e giustificano, oc­ cultandole, le reali disuguaglianze sociali. • Il problema dell’ideologia viene ripreso all’inizio del Novecento da al­ cuni sociologi in una prospettiva differente da quella di Marx: in particola­ re, Mannheim ha analizzato come le più diverse visioni del mondo (com­ presa quella dei marxisti) siano socialmente condizionate. 31

2. Conoscenza e vita quotidiana 2 .1. Conoscenza e costruzione sociale della realtà Nel pe­ riodo “ classico” della sociologia Durkheim e Weber delinearono due differenti prospettive teoriche. Durkheim guardava ai fatti sociali come “ cose”, come se fossero una realtà oggettiva. Weber si soffer­ mava sui significati soggettivi attribuiti dagli individui alle loro azio­ ni. Come mostrano Peter Berger e Thomas Luckmann in un fortu­ nato saggio del 1966, queste due prospettive non vanno necessaria­ mente considerate incompatibili: «La società effettivamente possiede una oggettiva fattualità, e la società è davvero costruita da un’attività che esprime significati soggettivi» (Berger, Luckmann, 1995, p. 37). L’integrazione di questi due punti di vista costituisce la base di par­ tenza per una riflessione intorno alla cosiddetta costruzione sociale tiel­

la realtà. Normalmente non siamo solid ragionare come uno scienziato socia­ le: ognuno di noi vive la propria esperienza ordinaria della società senza porsi questioni inerenti all’essenza del mondo sociale che ci cir­ conda: consideriamo scontata la “ realtà” della nostra vita quotidiana intesa come “ la realtà” per eccellenza. Certo, è anche possibile adot­ tare uno sguardo sociologico ed esaminare le nostre esperienze in modo diverso, ma un simile atteggiamento teoretico è solo una delle nostre possibili scelte: gran parte di noi vive l’esperienza quotidiana su un piano che potremmo definire preteoretico o non-teoretico. Ber­ ger e Luckmann, rifacendosi ad Alfred Schutz e alla “fenomenolo­ gia” (la descrizione di ciò che appare, dei “fenomeni” intesi quale “ orizzonte” dei vissuti soggettivi), sottolineano la necessità di analiz­ zare sociologicamente quelle esperienze e quelle attività in cui siamo immersi per la maggior parte del tempo e sulle quali di norma non ci soffermiamo a riflettere. In questa prospettiva, l’unità di analisi va identificata nel mondo della vita quotidiana che diamo per scontato. Come afferma il filosofo Ludwig Wittgenstein, «gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quoti­ dianità (non ce ne possiamo accorgere perché li abbiamo sempre sot­ to agli occhi)» (Wittgenstein, 1967, p. 70). Se nello scorso capitolo abbiamo esaminato cosa i primi sociologi pensavano della loro stessa 32

scienza (quindi su un piano teorico o “ teoretico”), cercheremo ora di affrontare un altro ordine di questioni: anche il cosiddetto uomo del­ la strada, o più precisamente il membro ordinario di una collettività, ha le sue modalità di conoscenza del proprio mondo sociale, ma si tratta di un insieme di conoscenze preteoretiche la cui validità non ri­ chiede il ricorso al tribunale della scienza. Riteniamo ovvie queste co­ noscenze pratiche per il semplice fatto che anche agli occhi delle altre persone la loro validità appare scontata. Si tratta della conoscenza di senso comune, di “ ciò che tutti sanno” . Tale conoscenza implica una sorta di interscambiabilità ¿lei punti di vista delle persone. Facciamo esperienza della realtà della nostra vita quotidiana nei termini di un mondo intersoggettivo e ne condividiamo la familiarità con gli altri. Comunicare mediante il linguaggio, assumere dei ruoli sociali già de­ finiti dalle istituzioni, usare il denaro come mezzo per acquistare o vendere un bene, persino infrangere una norma sapendo di trasgre­ dirla sono tutte attività in qualche modo banali, scontate appunto: il fatto che esse comportino l’esistenza di un corpus di conoscenze con­ divise con gli altri non costituisce un rompicapo per il membro di una società. L’immediata interscambiabilità dei punti di vista tra noi e gli altri semplifica le nostre attività incanalandole verso routine ben codificate. Eppure, per riprendere il passo di Wittgenstein citato in precedenza, non ci accorgiamo di quanto siano importanti questi aspetti ovvi del­ la nostra quotidianità proprio perché li abbiamo sempre sotto agli occhi. Come spiegano Berger e Luckmann, fintanto che proseguono senza interruzione, le routine della vita quotidiana vengono percepite come non problematiche. Certo, i membri di una società considera­ no come scontata la conoscenza della realtà quotidiana e del senso comune; tuttavia, essa va considerata dal sociologo un importante settore di indagine. Si tratta di problematizzare l’ovvio. Di conse­ guenza, la sociologia della conoscenza «si deve occupare di tutto ciò che passa per “conoscenza” nella società [...] il principale centro di interesse della sociologia della conoscenza deve essere la “ conoscen­ za” del senso comune piuttosto che delle “idee”» (Berger, Luck­ mann, 1995, pp. 31 e 42). Il mondo della vita quotidiana è il nostro mondo per eccellenza. Ma da un punto di vista sociologico, quali sono i processi attraverso i quali questo mondo viene costruito? 33

2.2. La dimensione oggettiva della realtà sociale Abbiamo detto che la vita quotidiana è in larga misura composta da routine, da sequenze di azione reciproca - o interazioni - tra individui dotati di una comune conoscenza del mondo sociale del quale condividono le strutture significative. Così, viene condivisa la sua struttura tempora­ le (guardare l’orologio è quasi un obbligo per coordinarci con gli al­ tri); sono condivisi gli atti espressivi mediante i quali ci si intende re­ ciprocamente (primi fra tutti gli atti linguistici); sono condivise an­ che le categorie nelle quali inquadrare le esperienze comuni; si tratta in quest’ultimo caso di schemi astratti che possiamo definire come ti­ pizzazioni. In altri termini, all’interno di ciascuna situazione, i mem­ bri di una società, invece di considerare isolatamente gli “ oggetti” della propria esperienza, sono inclini a operare delle astrazioni rap­ portandosi alle proprie esperienze precedenti o a quelle altrui. Il mondo che ci circonda è fatto di oggetti e di enti che non sono unici nel loro genere, poiché li possiamo classificare o tipizzare. Per esem­ pio, siamo in grado di distinguere un animale da un altro, un cane da un gatto e, scendendo più in basso nella scala dei livelli di astrazione, un setter irlandese da un pastore tedesco. Questa semplice modalità di tipizzazione, per il membro ordinario di una società, non è un fat­ to personale o eminentemente soggettivo, bensì è in qualche modo un’elaborazione “anonima” , nel senso che dovrebbe essere valida per chiunque altro. Al di là del diverso grado di astrazione dell’attività di tipizzazione, ogni singola esperienza della vita quotidiana richiede incessantemente un confronto con altre esperienze “ tipiche”. La conoscenza sociale, e in particolare la conoscenza di senso comu­ ne, ci fornisce gli schemi di tipizzazione necessari per affrontare le va­ rie routine quotidiane. Naturalmente non tutti dispongono dello stesso grado di conoscenza sociale, ma, tranne rare eccezioni, tutti confidano su una corrispondenza tra le proprie tipizzazioni e quelle altrui. All’interno di quella che Berger e Luckmann classificano come «realtà oggettiva», incarnata in particolare dalle istituzioni, è possibile rinvenire una sorta di campionario delle tipizzazioni socialmente di­ sponibili. Infatti, le istituzioni costituiscono qualcosa di oggettivo e di “esterno” rispetto all’individuo inteso nella sua singolarità, sono il prodotto storico di tipizzazioni reciproche di azioni e ci forniscono a loro volta degli schemi di condotta ben precisi. 34

Affinché vi possa essere un’istituzione è necessaria una qualche forma di controllo da parte della società nei confronti degli individui che appartengono a essa. Questo vale per qualunque collettività storica­ mente data. Supponiamo che una legge sancisca che chi infrange il tabù dell’incesto debba venire decapitato: «Questo provvedimento può essere necessario perché ci sono stati casi in cui gli individui han­ no violato il tabù. È improbabile che questa sanzione debba essere applicata continuamente [...]. Perciò ha poco senso dire che la ses­ sualità umana si controlla socialmente decapitando certi individui; piuttosto essa viene socialmente controllata dalla sua istituzionalizza­ zione nel corso di un particolare momento storico» (Berger, Luckmann, 1995, p. 85). Il tabù dell’incesto, allora, non è altro che la com­ ponente negativa all’interno di una classe di tipizzazioni che sancisce quali sono i comportamenti sessuali da considerare “ incestuosi” e quali non debbano essere definiti tali. In termini generali, l’istituzio­ nalizzazione «è incipiente in ogni situazione sociale durevole» (ibid..) e le istituzioni costituiscono un’oggettivazione dell’attività umana stabilitasi nel corso della storia. Al fine di trascendere la natura biolo­ gica degli esseri umani, la dimensione istituzionale si impone a ogni collettività: la sessualità, il potere, l’adattamento all’ambiente circo­ stante sono tutti fenomeni che possiamo rinvenire in varie società animali, ma che nel caso della specie umana assumono una ben di­ versa connotazione. In particolare, limitandoci a gettare uno sguardo sul mondo attuale, possiamo affermare che la famiglia, la scuola, il mercato, la religione, il potere politico, sono tutte istituzioni distinti­ ve delle società umane, la cui forma tuttavia varia a seconda delle col­ lettività prese in esame. Ciascuna condotta istituzionalizzata richiede l’esistenza di ruoli spe­ cifici. I ruoli, infatti, “ rappresentano” le istituzioni in una duplice ac­ cezione. Innanzitutto colui che svolge un ruolo non adotta un com­ portamento libero e spontaneo, bensì una condotta che è caratteristi­ ca di quel ruolo (in un tribunale un giudice deve “ giocare la parte” del giudice e non quella dell’avvocato o dell’usciere). Inoltre, un ruo­ lo è rappresentativo di un più vasto complesso di condotte istituzio­ nali (così, un giudice deve rapportarsi a tutti gli altri ruoli che nel loro insieme incarnano e rappresentano l’istituzione giudiziaria). Na­ turalmente, la conoscenza specifica dei ruoli da parte degli individui dipende dalla distribuzione sociale della conoscenza in generale: una 35

società deve strutturarsi in maniera tale che determinati individui possano dedicarsi alle proprie specializzazioni. Tutto questo implica una crescente differenziazione all’interno delle società più complesse, poiché in esse si moltiplicano gli ambiti istituzionali, gli individui si trovano a rivesdre un numero crescente di ruoli nella loro vita quoti­ diana e la loro esperienza del mondo sociale appare sempre più fram­ mentata. Le norme sociali, in questi ambiti, si prefigurano come “ ra­ zionalizzate”, poiché da un lato rispondono alle esigenze dell’istitu­ zione, ma, dall’altro, gli ambiti istituzionali assumono una crescente autonomia e le norme che li governano diventano inevitabilmente “ razionali” soltanto all’interno di quella sfera, in relazione a essa e dunque sono inevitabilmente limitate nella loro facoltà di conferire un significato all’esistenza individuale intesa nel suo complesso. Di conseguenza, la segmentazione dell’ordine istituzionale pone la questione della presenza (o dell’assenza) di “significati integrativi” in grado di dare un senso unitario alla società nel suo complesso e di ali­ mentare «un contesto globale di senso oggettivo all’esperienza e alla conoscenza sociale» (ivi, p. 21) alla luce del carattere frammentario della vita quotidiana e della biografia dell’individuo. Infetti, le socie­ tà contemporanee sono tendenzialmente pluralistiche, presentano cioè un «universo-nucleo comune a tutti e dato per scontato» che coesiste tuttavia con differenti «universi parziali», ciascuno retto da sistemi di significato particolari e talvolta in conflitto tra loro. Non sempre un individuo, nella vita di ogni giorno, si sente “a casa pro­ pria”, ma spesso deve fare i conti con culture diverse nelle quali non si identifica o, più semplicemente, con persone con una mentalità differente: in definitiva egli deve adattarsi a contesti sociali retti da regole che non sempre combaciano con i suoi valori e con le sue aspi­ razioni. O ancora, l’individuo può trovarsi nella condizione di dover scegliere autonomamente uno tra i molteplici punti di vista dai quali è possibile conferire un senso all’esperienza. Anche per questo l’ordine sociale, riproducendosi nel tempo, richie­ de una continua legittimazione delle proprie istituzioni, deve cioè po­ ter essere spiegato e giustificato agli occhi delle generazioni che si sus­ seguono: la preminenza delle definizioni istituzionali delle situazioni deve essere salvaguardata al di sopra dei tentativi individuali di ridefi­ nizione. Fra i vari fattori della legittimazione, Berger e Luckmann conferiscono centralità agli universi simbolici, «corpi di tradizione 36

teoretica che integrano diverse sfere di significato e abbracciano l’or­ dine istituzionale in una totalità simbolica» (Berger, Luckmann, 1995, p. 136). Gli universi simbolici costituiscono una matrice unita­ ria di significati alla luce della quale ricondurre l’intera esperienza umana (qualcosa di simile alla nozione di religione nell’accezione di Durkheim): «l’universo simbolico crea un ordine per la percezione soggettiva dell’esperienza biografica. Le esperienze appartenenti a sfe­ re di realtà diverse sono integrate dall’incorporazione nello stesso universo simbolico che le abbraccia tutte» (ivi, p. 139). Dunque, si tratta di un sistema di significato che connette l’esperienza immedia­ ta del mondo della vita quotidiana a una dimensione che la trascen­ de, che si pone al di là e al di sopra di essa ma che a essa conferisce (o dovrebbe conferire) un ordine. In tal senso, nelle società tradizionali le istituzioni religiose garantivano una concezione del mondo “ og­ gettiva”, un modello di significato globale che consentiva di integrare le diverse esperienze sociali di ciascun individuo. Tuttavia, come avremo modo di approfondire nel p a r . 3.4, nel mondo contempora­ neo la stessa religione è soggetta a un processo di specializzazione isti­ tuzionale (le chiese sono delle istituzioni fra le altre) e il credo religio­ so diviene spesso oggetto di una scelta privata o personale. Riassumendo, le istituzioni sono l’espressione delPoggettivazione della realtà sociale così come la percepiamo. Ciò nonostante, la capa­ cità delle istituzioni (non solo di quelle religiose) di fornire a tutti i membri di una stessa società una visione del mondo unificata e coe­ rente non può più essere data per scontata. Diversamente da quelle tradizionali, le società contemporanee più complesse e pluralistiche non presentano un unico universo simbolico integrato.

2.3. La dimensione soggettiva della realtà sociale II mon­ do istituzionale viene vissuto dagli individui come una realtà oggetti­ va ed esterna, qualcosa che esisteva già prima della loro nascita. Ep­ pure, si tratta pur sempre di un prodotto degli esseri umani: cioè di un’attività umana “ oggettivata” . L 'oggettivazione conduce a vedere i prodotti dell’attività umana come qualcosa di indipendente da colo­ ro che li hanno creati. D ’altra parte la costruzione sociale della realtà è un processo dialettico, l’oggettivazione delle strutture sociali avvie­ ne in concomitanza dell’ interiorizzazione-, il mondo sociale esterno e oggettivo “ entra” nella coscienza dell’individuo grazie alla socializza­ 37

zione. In particolare, la socializzazione primaria è quel processo nel corso del quale il bambino diviene un membro della società. Questo avviene non solo in termini oggettivi (con l’ingresso di fatto in un mondo sociale), ma anche sul piano dell’esperienza soggettiva: la so­ cietà stessa, infatti, viene a sua volta introiettata dal bambino. Nella prima infanzia l’individuo si insedia in un mondo sociale del quale già altri sono partecipi. In questa fase il bambino arriva a conoscere progressivamente la realtà sociale “ esterna” a lui, ma si tratta di un processo di apprendimento non esclusivamente cognitivo, poiché la componente emotiva risulta cruciale: «il bambino si identifica con le persone che influiscono su di lui in una varietà di modi emotivi. Qualunque cosa essi siano, l’interiorizzazione avviene solo quando avviene l’identificazione: il bambino assume i ruoli e gli atteggiamen­ ti delle persone per lui importanti, cioè li interiorizza e li rende pro­ pri» (Berger, Luckmann, 1995, p. 182). Da un lato il bambino si iden­ tifica con le persone più prossime a lui, dall’altro si appropria dell’identità che gli altri gli assegnano. Con il tempo, tuttavia, egli svilup­ pa una capacità di astrazione che gli consente di identificare non più i soli individui concreti, ma anche il cosiddetto altro generalizzato, rappresentativo della società in quanto tale. In altri termini, egli di­ viene cosciente di cosa rappresentino socialmente i ruoli in generale. Nella prima infanzia il bambino si rapporta agli “ altri” che appaiono ai suoi occhi più significativi sul piano affettivo (per esempio il padre e la madre). L’assunzione dell’altro generalizzato implica invece la capacità di identificare i ruoli sociali astraendo dagli individui che li interpretano (scoprirà per esempio che anche gli altri bambini hanno dei genitori e individuerà le caratteristiche del ruolo di genitore in

generale). Il gioco è un esempio paradigmatico per illustrare questo passaggio: nella fase del gioco spontaneo (play) il bambino si limita a emulare un ruolo (per esempio quello del giocatore di calcio) colpendo libe­ ramente un pallone. Successivamente diverrà in grado di partecipare a giochi organizzati e retti da regole {games): non si ridurrà più, cioè, a imitare il ruolo del calciatore, lo interpreterà in relazione agli altri ruoli e alle regole del gioco (sarà in grado di distinguere il ruolo del difensore da quello dell’attaccante e di distinguere e identificare le funzioni assolte dall’arbitro, dal portiere ecc.). Il gioco non è più a questo punto un’attività del tutto libera e spontanea, poiché prevede 38

l’assunzione di ruoli specifici e una condotta retta da regole. Pur ri­ manendo un’esperienza ludica, si tratta di un fenomeno che implica l’apprendimento di qualcosa di analogo a quanto egli dovrà mettere in pratica nella vita seria. Al termine della socializzazione primaria, con l’assunzione dell’altro generalizzato, il bambino ha dunque ac­ quisito una conoscenza dei ruoli e si accinge a entrare in contatto con un universo sociale più vasto. Infetti, se nella socializzazione primaria gli individui rimangono all’interno di un «mondo di base» costituito dal microcosmo delle relazioni familiari e dalla prossimità con altri significativi (che identifica su base affettiva), nella socializzazione se­ condaria egli accederà a dei «sottomondi» particolari, governati da re­ gole e da istituzioni specializzate che prevedono ruoli specifici e che sono basate sulla divisione del lavoro. In questa seconda fase la componente emotiva non è più cruciale: per esempio, è decisivo che un bambino nutra affetto nei confronti della propria madre, ma non della propria maestra. Inoltre, mentre nel corso della socializzazione primaria la realtà sociale interiorizzata è quasi automaticamente una realtà indiscutibile, nella socializzazione secondaria il più vasto macrocosmo della società deve essere reso «convincente» agli occhi dell’individuo. Riassumendo, la socializzazione primaria conduce a interiorizzare una realtà che il bambino percepisce come “ inevitabile”, mentre la socializzazione secondaria può apparire come qualcosa di «artificia­ le». Questo fetto può comportare problemi per l’individuo, il quale può trovarsi nella condizione di dover mutare radicalmente il pro­ prio atteggiamento. Infetti, la socializzazione è un processo aperto, del quale è difficile individuare una conclusione. In taluni casi pos­ sono verificarsi, nel corso della biografia dell’individuo, dei momen­ ti di «risocializzazione» o di «ristrutturazione» radicale della persona­ lità, come nei casi emblematici della conversione religiosa o della psicoterapia o più semplicemente della migrazione o dell’ingresso in contesti sociali profondamente differenti dalla propria comunità di origine. L’idea di un’identità chiara e durevole cede il passo a una costante ridefinizione del sé: l’individuo non è solo in grado di trasformare oggettivamente la propria identità nelle fasi successive del suo per­ corso biografico, ma è anche soggettivamente consapevole di queste continue trasformazioni. Come rileva Zygmunt Bauman (1999b), se 39

il mondo contemporaneo è soggetto a mutamenti molto rapidi che comportano un processo di aumento dell’incertezza o di instabilità sociale, allora anche i progetti di vita individuali non trovano più un terreno stabile nel quale radicarsi e si alimentano di questa in­ certezza.

2.4. Le agenzie di socializzazione

II processo di socializzazio­ ne coinvolge diverse istituzioni. Per “ agenzie di socializzazione” i so­ ciologi intendono gli ambiti specifici nei quali gli individui appren­ dono come si diventa membri di una collettività. La sociologia della famiglia, la sociologia dell’educazione e la sociologia delle comunica­ zioni di massa sono tre importanti settori della sociologia dei processi culturali che hanno per oggetto lo studio delle agenzie di socializza­ zione. La fa m ig lia è l’istituzione all’interno della quale ciascun membro della società incomincia il proprio percorso biografico. Benché sia presente nelle varie comunità umane in diversi periodi storici, essa, nella nostra epoca e in particolare nel mondo occidentale, ha assunto delle caratteristiche ben specifiche. Mentre gli antropologi si sono preoccupati di studiare e classificare i vari tipi di famiglia presenti nella pluralità delle culture storicamente date, per lungo tempo gli studi condotti dai sociologi si sono soffermati prevalentemente sulla famiglia coniugale o, come dicono alcuni, “ nucleare-coniugale”. Nel secondo dopoguerra, di notevole importanza sono stati gli studi sul­ la famiglia condotti negli Stati Uniti, in particolare da Talcott Par­ sons (1902-1979) e da altri esponenti dello struttural-fiinzionalismo, una corrente che concentrava l’attenzione sulle funzioni assolte da ciascuna istituzione - e dai suoi ruoli sociali specifici - nel mantene­ re la stabilità e l’integrazione del sistema sociale inteso nel suo com­ plesso. Tali ricerche hanno posto al loro centro la dimensione edu­ cativa e affettiva della vita familiare. Va tuttavia precisato che la fa­ miglia non è unicamente un’agenzia di socializzazione. Esistono in­ fatti altri aspetti della vita familiare, il più delle volte trascurati dalla tradizione funzionalista, legati alla differenza (e alla disuguaglianza) fra i sessi (o differenza di genere), alle sue conseguenze sulla divisione sociale del lavoro e al rapporto che intercorre tra famiglia e stratifica­ zione sociale. Infetti, lo studio della famiglia consente di compren­ dere meglio la condizione sociale degli individui, le loro possibilità 40

di vita, e di identificare la loro posizione di classe o di ceto. Inoltre, i mutamenti sociali più recenti impongono al sociologo di prendere in considerazione il crescente affermarsi di più strutture familiari, comprese le famiglie di fatto (cioè basate sulla convivenza more uxo­ rio), quelle ricostituite in seguito a un divorzio o quelle composte da un solo genitore. L’instabilità che caratterizza talvolta l’istituzione della famiglia non ne intacca tuttavia l’importanza nel processo di socializzazione: al di là delle sue varianti, essa continua a costituire il mondo “ di base” dal quale prende le mosse il percorso di vita di un membro della società. Nei moderni sistemi sociali, la nascita di nuove agenzie di socializza­ zione —per esempio la scuola - ha sottratto alla famiglia alcuni dei compiti ai quali era tradizionalmente preposta. Come abbiamo visto, con l’inizio della socializzazione secondaria l’individuo entra in con­ tatto con un universo sociale più vasto e differenziato e con nuovi ambiti di esperienza governati da istituzioni specializzate. L’ingresso nell’istituzione scolastica sancisce questo passaggio. A partire dal secondo dopoguerra l’espansione dei sistemi educativi delle società occidentali avanzate e le sue conseguenze (prima fra tut­ te la progressiva eliminazione dell’analfabetismo) hanno reso le isti­ tuzioni scolastiche - sia pubbliche che private - la più grande orga­ nizzazione formale esistente. Dunque non si tratta soltanto di un’a­ genzia di socializzazione: il sistema scolastico seleziona gli individui, ne certifica le competenze, ne condiziona gli sbocchi professionali e rappresenta a sua volta un complesso di aziende e di apparati buro­ cratici. È accertato che nei paesi dell’Unione europea i tassi di disoccupazio­ ne diminuiscono con la crescita del titolo di studio posseduto. D ’al­ tra parte, in Italia, la scuola è un’organizzazione formale particolar­ mente refrattaria al cambiamento e questo ne ostacola l’adeguamen­ to agli standard dei paesi più avanzati dell’Unione europea. Inoltre, cosi come il processo di socializzazione, inteso in termini generali, appare sempre più aperto (non termina mai una volta per tutte), an­ che la formazione e l’istruzione degli individui non si esauriscono più nel conseguimento di un titolo di studio all’interno del sistema scola­ stico tradizionalmente inteso. La formazione diviene qualcosa di per­ manente, che prosegue nel mondo del lavoro o parallelamente a esso, dato che l’aggiornamento e l’acquisizione di nuove conoscenze sono 41

ormai un requisito indispensabile per poter mantenere un’identità lavorativa. In altri termini, il lavoratore non è più inchiodato a un unico compito per tutta la vita, bensì gli è richiesta una certa flessibi­ lità, una capacità di adattarsi alle trasformazioni di un mondo della produzione in continua evoluzione, alle innovazioni tecnologiche che rendono talvolta obsolete le conoscenze acquisite sui banchi di scuola. Oltre alla famiglia e alla scuola, anche i mezzi di comunicazione di massa concorrono al processo di socializzazione. Infatti, nella nostra epoca, la formazione del sé non si limita più all’esperienza condotta in prima persona negli ambienti più immediati della vita quotidiana, bensì coinvolge in larga misura l’esposizione ai messaggi veicolati dai media, un’esperienza che, con un aggettivo di moda, potremmo defi­ nire “virtuale” , ma che non per questo risulta priva di conseguenze concrete. Ci soffermeremo più a fondo nel quarto capitolo sulle ca­ ratteristiche sociologiche dei moderni mezzi di comunicazione. Quel che ci interessa evidenziare sin d’ora è che essi hanno trasformato una parte significativa della nostra esperienza del mondo sociale in espe­ rienza di un mondo mediato, divenendo un fattore determinante di quella che abbiamo definito costruzione sociale della realtà.

2.5. Conoscenza ordinaria e conoscenza scientifica Nel ca­ pitolo precedente abbiamo descritto come le visioni del mondo, o Weltanschauungen, costituissero un oggetto di indagine privilegiato per la sociologia della conoscenza tradizionale del periodo classico. Abbiamo poi sottolineato nel presente capitolo che, come osservano Berger e Luckmann, in ciascuna società soltanto un gruppo ristretto di persone trascorre il proprio tempo a teorizzare nel campo delle Weltanschauungen, mentre in vari modi tutti sono partecipi del pro­ cesso di “conoscenza” del mondo sociale quotidiano nel momento in cui ne fanno esperienza. A partire dagli anni sessanta, l’identificazio­ ne della conoscenza quotidiana quale fenomeno sociologico ha favo­ rito un’intensa attività di ricerca sul campo. Più specificamente, Ha­ rold Garfinkel ha dato vita all’etnometodologia (lo studio della logica dell’azione e del ragionamento pratico nelle situazioni quotidiane) elaborando un approccio volto ad analizzare le attività più comuni 2.5.1. Il senso comune come oggetto di indagine sociologica

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attraverso i metodi utilizzati dagli stessi membri di una società per dare un senso al loro agire. Ogni dettaglio della vita ordinaria, anche se apparentemente banale, può rivelare i meccanismi che rendono possibile l’ordine sociale nelle interazioni più spicciole. Già Alfred Schutz aveva rilevato che gli individui di norma non met­ tono in questione l’oggettività del mondo della vita quotidiana: essi si limitano, in ciascuna situazione di routine, a conservare la propria fede nell’esistenza del mondo sociale considerandolo come “ reale” e “oggettivo” . Garfinkel propone invece al ricercatore di estraniarsi da ciò che reputiamo ovvio per capire in che modo il mondo quotidiano sia socialmente costruito. I membri di una società ricorrono a moda­ lità di ragionamento pratico in tutti i casi in cui avvertono la necessità di spiegare un fatto o un evento, in definitiva la propria realtà sociale. Tali modalità di ragionamento pratico si risolvono spesso in meri au­ tomatismi e in conoscenze date per scontate: si tratta di qualcosa di cui gli individui sono in larga misura inconsapevoli. All’etnometodologo spetta il compito di rendere visibili simili dinamiche. Ma se lo scienziato sociale ha a disposizione i suoi metodi per spiegare i fatti sociali, anche i membri di una società hanno i loro. Quel che accade normalmente nella vita quotidiana può essere descritto e spiegato: in fondo, ciascuno di noi, nelle proprie conversazioni ordinarie, non fa altro che raccontare degli eventi e fornirne una spiegazione. Garfin­ kel, in particolare, sottolinea 1’accountability dei fatti quotidiani, nor­ malmente osservabili e descrivibili (vale a dire accountable) da chiun­ que disponga di un determinato repertorio di conoscenza di senso comune. In questa prospettiva, gli accounts, cioè le spiegazioni e i re­ soconti offerti dai membri della società, costituiscono un’unità di analisi piuttosto rilevante per il sociologo. Le varie modalità che presiedono all’elaborazione degli accounts rela­ tivi al funzionamento del mondo sociale non possono però essere se­ parate da ciò che descrivono. Tale carattere può essere definito rifles­ sività: le spiegazioni dei filtri quotidiani non possono essere distinte dai fotti che prendono in considerazione (Schwarz, Jacobs, 1987). Inoltre, i resoconti che permettono agli individui di dare un senso ai fatti sociali sono intelligibili solo all’interno di un contesto specifico o in relazione a esso. Gli individui formulano un account facendo ri­ corso a espressioni linguistiche il cui significato non è “oggettivo” ma indicale (vale a dire dipendente da un contesto). Espressioni come 43

• »» j » _ r> • ____* r i io , a . tu» , « qui• n , a adesso , « questo assumono un significato che cambia con il variare delle situazioni sociali e dei ruoli implicati. Consideriamo un esempio apparentemente banale. “ Come va?” è una domanda di routine che, come sappiamo, non assume sempre lo stesso significato: Garfinkel propose ai suoi studenti di provare, nelle occasioni in cui incorrevano in quel rituale, a chiedere spiegazioni al­ l’interlocutore circa il senso preciso della domanda “come va?” . At­ traverso tale strategia, si intendeva evidenziare che rispondere a quel­ l’interrogativo ricorrendo a ulteriori domande insolite per quel tipo di conversazione (“ Cosa vuoi sapere esattamente? Ti riferisci alla mia salute, alla mia situazione economica? Alla mia serenità interiore?” ecc.) è qualcosa che provoca una frattura nella “ normalità” della con­ versazione, facendo nello stesso tempo emergere il carattere eminen­ temente convenzionale (e in tal senso indicale) di una “ comune” espressione linguistica e le regole tacite che disciplinano un’attività di routine in un contesto ben specifico (un rituale di saluto è infatti qualcosa di differente da un colloquio di lavoro o da una conversa­ zione fra amici). Se assumiamo come irrimediabile la natura indicale delle azioni e delle conversazioni quotidiane, risulterà arduo cercare di rinvenire una qualche oggettività delle espressioni linguistiche a qualunque li­ vello: infatti questo vale sia per l’uomo della strada, sia per lo scien­ ziato. Sebbene il sociologo impieghi un metodo e un linguaggio dif­ ferenti da quelli del membro ordinario della società, la spiegazione che egli fornisce non è mai del tutto oggettiva: del resto lo stesso im­ pegno di ricerca etnometodologico si presta, in linea di principio, a divenire riflessivamente oggetto di indagine etnometodologica. Il mondo sociale e colui che lo descrive si collocano in una relazione di reciproca appartenenza: per Garfinkel non si possono distinguere la “società” da una parte e dall’altra le modalità di osservazione e di spiegazione della società stessa: esse sono inseparabili. L’adozione di tale punto di vista microsociologico implica una critica della sociologia convenzionale, dato che respinge il valore di verità di quelle “grandi teorizzazioni” , inerenti ai macrosistemi sociali, che astraggono dalle situazioni concrete, e riconosce l’interazione faccia a faccia come 1’«nica unità di analisi da prendere in esame. D ’altro canto, se all’inter­ no del discorso sociologico decidiamo di mettere fra parentesi la fun­ zione assolta da astrazioni come “ il sistema”, “ i valori” , “le istituzio­

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ni” (tipiche della macrosociologia), che cosa tiene unita una società? Secondo Randall Collins - uno dei maggiori studiosi del rapporto fra micro e macrosociologia - , la risposta di Garfinkel si articola su un duplice livello. In primo luogo la realtà mantiene una sua integrità nel momento in cui nessuno la mette in questione. Esistono cioè del­ le procedure che consentono agli individui di evitare di mettere in dubbio la realtà sociale ed è su queste che si concentrano le indagini etnometodologiche. In secondo luogo, «le indicalità e le riflessività potenzialmente sono sempre presenti, ma noi evitiamo di vederle» (Collins, 1992, p. 358): ogni qual volta esse irrompono sulla scena delle concrete situazioni sociali quotidiane, noi facciamo di tutto per arginarle, per evitare che il “ nostro” mondo possa rivelarsi privo di un fondamento, cosa che peraltro rischierebbe di condurci a un’ansia e a un disordine mentale insostenibili. Si tratta di un punto di vista la cui radicalità ha provocato a suo tem­ po reazioni piuttosto critiche o perplesse nell’ambito della sociologia ufficiale. In seguito, l’etnometodologia si è guadagnata un posto di rilievo in settori particolari della ricerca sociale, per esempio nell’ana­ lisi delle conversazioni e del linguaggio ordinario. Inoltre, proprio a partire dall’esame della conoscenza quotidiana come fenomeno so­ ciologico, l’etnometodologia ha contribuito ad allargare gli orizzonti della ricerca inerente anche alla conoscenza scientifica. Infatti, se da un lato la conoscenza di senso comune è preteoretica o non teoretica, dall’altro anche il sapere scientifico - pur collocandosi nella sfera del­ le produzioni teoretiche, astratte e intellettuali - è anch’esso il pro­ dotto culturale di un’attività sociale. Il lavoro degli scienziati è in fin dei conti una delle pratiche quotidiane che coinvolgono coloro che detengono un determinato sapere specialistico e rivestono un ruolo specifico nella divisone del lavoro. Questo modo di concettualizzare la scienza non è condiviso soltanto dagli aderenti all’etnometodologia, ma da un più vasto insieme di ricercatori, tutti interessati alla co­ struzione sociale dei fatti scientifici. Rispetto ad altre for­ me sociali di conoscenza, la conoscenza scientifica esercita un prima­ to per quel che concerne l’oggettività e l’universalità. La fede nei con­ fronti della verità scientifica si differenzia da altre forme di “ creden­ za” che caratterizzano le culture in varie epoche (il mito, la magia, la

2.5.2. La sociologia della conoscenza scientifica

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religione, ma anche più semplicemente il senso comune). Potremmo dire, con un gioco di parole, che un assunto di senso comune (o una semplice credenza) viene reputato vero in quanto collettivo (cioè con­ diviso da tutti), mentre al contrario un’asserzione scientifica diviene collettiva in quanto vera. Ciò nonostante, si tratta di una semplifica­ zione: la stessa razionalità scientifica non è qualcosa di immobile e fìsso, bensì è soggetta storicamente al cambiamento ed è essa stessa un prodotto sociale. Nel corso del Novecento alcuni filosofi della scienza si sono sforzati di individuare le caratteristiche logiche e formali del metodo scienti­ fico per definire una precisa demarcazione tra scienza e pseudoscien­ za, tra le verità fondate su un metodo sperimentale e le semplici cre­ denze. D ’altro canto, nel solco di una tradizione di ricerca che anno­ vera Robert K. Merton fra i suoi massimi esponenti, numerosi socio­ logi hanno condotto studi sul condizionamento sociale della cono­ scenza scientifica. L’oggetto di queste indagini, condotte a partire dal secondo dopoguerra, era inizialmente costituito in prevalenza dalle politiche della ricerca o dal profilo sociologico della professione dello scienziato - inteso come una professione fra le altre —, dunque dal­ l’impresa scientifica considerata come una delle varie organizzazioni complesse basate sulla divisione del lavoro (Gallino, 1989). Tuttavia, negli sviluppi più recenti della ricerca sociale, l’osservazione del mon­ do quotidiano degli scienziati e delle loro pratiche effettive ha pro­ gressivamente condotto a focalizzare l’attenzione sulle modalità di costruzione della verità: esattamente come nel caso del senso comune, anche la verità scientifica è il prodotto di pratiche cognitive radicate all’interno di un ben preciso contesto sociale (Dal Lago, 1994). Il dibattito su questi temi è alquanto controverso e non si è limitato a coinvolgere i sociologi. Per vari decenni, infetti, i filosofi della scien­ za (o “epistemologi”) si sono imposti in questa discussione quali guardiani dell’ortodossia del metodo scientifico, respingendo l’idea che ci potesse essere un’influenza di variabili sociali esterne alla scien­ za nella produzione della “verità” e dell’“oggettività”. Già negli anni venti del Novecento, la corrente del neopositivismo rimproverava alla sociologia di trascurare i fondamenti logici della scienza. I neopositi­ visti concentrarono la loro attenzione sulle caratteristiche logico-for­ mali delle proposizioni del linguaggio scientifico; le asserzioni dello scienziato assumono un senso soltanto se verificabili: i riferimenti a 46

fenomeni inaccessibili all’osservazione empirica sono dunque privi di senso. Successivamente, uno dei maggiori filosofi della scienza, Karl Pop­ per, nella Logica della scoperta scientifica, del 1934, riconobbe l’impor­ tanza di un elemento speculativo nella formulazione delle teorie scientifiche: senza nuove congetture non ci potrebbe essere alcuna nuova scoperta e nel corso della storia le teorie scientifiche sono sog­ gette a una revisione. Popper ribalta il problema della validità scienti­ fica di una teoria, sostenendo che questa risiede non già nella sua ve­ rificazione empirica, bensì nella “ falsificabilità” di un sistema (Pop­ per, 1970). In altri termini, sono scientifiche quelle ipotesi che si pre­ stano a essere “falsificate”, confutate, cioè che sono valide fino a pro­ va contraria (non risponderebbero a questo requisito le semplici cre­ denze fondate sul mito o sull’ideologia, o dottrine come la psicoana­ lisi e il marxismo). In varie opere scritte nell’arco di più di cinquan­ tanni Popper manifesterà un persistente atteggiamento di chiusura nei confronti del discorso sociologico: per lui non esiste una scienza sociologica - o psicologica o storica - in grado di rispondere all’inter­ rogativo: “ Che cos’è la scienza?” . In La struttura delle rivoluzioni scientifiche, del 1962, Thomas Kuhn imprime una svolta a questo dibattito. Egli afferma che «un elemento arbitrario, composto da accidentalità storiche e personali, è sempre presente, come elemento costitutivo, nelle convinzioni manifestate da una data comunità scientifica in un dato momento» (Kuhn, 1978, p. 23). La nozione-chiave di Kuhn è quella di paradigma. Con questo termine egli ha indicato inizialmente un insieme «di conquiste scien­ tifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un campo di ricerca» (ivi, p. 10). La condivisione di un paradigma da parte dei membri di una comunità di ricercatori li im­ pegna a osservare le medesime regole e gli stessi modelli nella loro at­ tività scientifica. Nel Poscritto del 1969 a La struttura delle rivoluzioni scientifiche Kuhn avverte che nel corso del suo libro il termine «para­ digma» è stato usato in una duplice accezione: da una parte esso indi­ ca l’intero complesso di credenze, valori, e tecniche condivisi dai membri di una determinata comunità scientifica; dall’altra parte esso denota un elemento specifico di quel complesso: le concrete «soluzio­ ni-di-rompicapo» della «scienza normale». 47

Durante la fase governata dalla scienza normale gli scienziati non sono impegnati a elaborare nuove teorie. Il concetto di scienza nor­ male, nella prospettiva di Kuhn, designa una ricerca basata in manie­ ra stabile sui risultati raggiunti storicamente dalla scienza in un de­ terminato momento, nei quali una specifica comunità scientifica, per un certo arco di tempo, identifica il fondamento della sua prassi cor­ rente. La scoperta di fenomeni nuovi e inaspettati, che fanno sorgere dei «rompicapo» irrisolvibili nel quadro della scienza normale, si tra­ duce nella percezione di un’anomalia da parte dei ricercatori. Se il paradigma ufficiale non riesce a fornire la soluzione di rompicapo «anomali», l’episodio rompe lo sviluppo cumulativo della ricerca normale e crea una situazione di emergenza. La crisi può risolversi soltanto attraverso un mutamento paradigma­ tico che comporta una sorta di cambiamento delle regole del gioco. La transizione da un paradigma all’altro può avvenire in svariati modi, ma presuppone sempre l'incommensurabilità dei due quadri concettuali in conflitto. La nuova teoria risulta incompatibile con il vecchio paradigma: abbandonare un paradigma implica la decisione di accettarne un altro, e i motivi che conducono a questa decisione si basano sia su un raffronto dei paradigmi con i fenomeni naturali stu­ diati, sia su un paragone tra un paradigma e l’altro. Il sorgere di una nuova teoria “rivoluzionaria” a partire da un rompicapo apparente­ mente irrisolvibile implica una rottura con la prassi scientifica tradi­ zionale e l’introduzione di una nuova prassi che avrà luogo secondo regole nuove e all’interno di un differente universo di discorso. Pur rimanendo un filosofo, nel Poscritto del 1969 Kuhn radicalizza il suo interesse in senso sociologico quando asserisce che un paradigma go­ verna, in primo luogo, un gruppo di ricercatori piuttosto che un campo di ricerca. Soprattutto, egli ribadisce la tesi dell’incommensurabilità dei paradigmi: «Non esiste alcun algoritmo per la scelta di teorie diverse, non v’è nessun procedimento sistematico che, pro­ priamente applicato, debba condurre ciascun individuo alla stessa decisione» (Kuhn, 1978, p. 240). La teoria di Kuhn presenta alcune debolezze, com’è stato evidenzia­ to successivamente da vari studiosi. La stessa nozione di paradigma appare ambigua e sfuggente. Tuttavia, Kuhn ha contribuito a rivalu­ tare il ruolo delle variabili storiche e sociali che concorrono a costrui­ re la verità scientifica. In questa direzione si è sviluppata la “nuova” 48

sociologia della scienza, che si occupa dell’osservazione delle modali­ tà concrete attraverso le quali gli scienziati operano nella loro vita quotidiana e partecipano collettivamente all’impresa sociale della scienza. Così, negli ultimi trent’anni, si sono moltiplicate le analisi sociologiche della prassi scientifica e, fra queste, le indagini etnogra­ fiche dei luoghi della produzione della scoperta scientifica, come ad esempio i laboratori nei quali viene condotta la sperimentazione e la ricerca. Come afferma David Bioor, uno degli esponenti della cosiddetta Scuola di Edimburgo, tutte le forme di conoscenza - dunque anche la conoscenza scientifica - devono poter essere indagabili sociologi­ camente. Bioor ha identificato quattro punti qualificanti di quello che egli definisce il “ programma forte” [strongprogrammé) di una so­ ciologia della conoscenza scientifica: • la sociologia deve fornire una spiegazione dei fenomeni conosci­ tivi distinguendo tuttavia le cause di natura sociale da quelle di altro tipo (come già suggeriva Durkheim; cfr. PAR. 1.5.1); • la verità e l’errore sono entrambi fenomeni da sottoporre a una spiegazione “imparziale” , senza cioè che la sociologia debba privile­ giare l’interesse nei confronti dei meri casi di pseudoscienza: il che vuol dire ammettere che la conoscenza scientifica può essere incline all’errore e che anche gli scienziati talvolta sbagliano, ma anche, per converso, che la costruzione di credenze scientifiche vere può essere studiata sociologicamente; • di conseguenza, è necessario cercare lo stesso tipo di cause per le credenze vere e per quelle false; • infine, essendo la sociologia una scienza, deve essere essa stessa considerata un possibile oggetto di indagine alla stregua delle altre discipline scientifiche: se ciò non fosse possibile, la sociologia si autoconfuterebbe (Bioor, 1994).

Per riassumere... • Abbiamo affrontato ¡I rapporto tra conoscenza e vita quotidiana. Come suggeriscono Berger e Luckmann, il mondo sociale del quale facciamo esperienza ogni giorno costituisce la nostra “realtà” preminente. La cono­ scenza di questo mondo si basa innanzitutto sulla nostra esperienza diret49

ta e sulle categorie forniteci dal senso comune - ovvero da “ciò che tutti sanno” - , dunque da conoscenze che in larga misura diamo per scontate. Oggetto di indagine di una sociologia della conoscenza è allora “tutto ciò che passa per conoscenza nella società” e non soltanto il pensiero teoreti­ co o astratto. • Possiamo individuare una dimensione “oggettiva” della realtà sociale costituita dalle istituzioni - e una sua dimensione “soggettiva”, relativa a come gli individui fanno esperienza del proprio mondo. Lo studio della so­ cializzazione e delle varie agenzie in essa coinvolte - famiglia, scuola e mass media - risulta determinante per indagare la complessa dialettica che intercorre fra individuo e società. • L’identificazione della conoscenza quotidiana come fenomeno sociolo­ gico è al centro dell' etnometodologia - lo studio della logica dell’azione e del ragionamento pratico nelle situazioni quotidiane - il cui obiettivo è quello di mettere in questione ciò che i membri ordinari della società dan­ no per scontato. • Diversamente dalla conoscenza di senso comune, la conoscenza scien­ tifica rivendica un primato di universalità e di oggettività. Tuttavia, anche la scienza può essere oggetto di indagine sociologica, poiché essa è in pri­ mo luogo un’impresa sociale. In particolare, più di recente la ricerca si è concentrata sull’osservazione delle modalità concrete attraverso le quali gli scienziati operano nella loro vita quotidiana e partecipano al processo di costruzione sociale della verità.

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3. La dimensione simbolica della vita sociale 3.1. Simboli e pratiche sociali

Percepiamo l’ambiente che ci circonda nei termini di un mondo dotato di significato, ma tale si­ gnificato non è un attributo intrinseco degli oggetti della nostra espe­ rienza, bensì è frutto di un processo interpretativo. Tale modalità di interpretazione e di attribuzione di senso è eminentemente sociale. È pressoché impossibile interpretare “alla lettera” quel che accade in natura: adoperiamo sempre e inevitabilmente degli schemi interpre­ tativi che attingiamo dalla nostra società e dalla nostra cultura. Ora, laddove c’è significato esiste anche un riferimento simbolico. Alcuni poeti hanno definito il mondo nei termini di una «foresta di simbo­ li». Un simbolo è “ qualcosa che sta per qualcos’altro” . Il linguaggio è il mezzo che ci consente di riflettere e di parlare di tale caratteristica della nostra esperienza sociale; eppure, lo stesso linguaggio è a sua volta un complesso di simboli. Non esiste alcuna affinità fra la parola “ sedia” e l’oggetto denominato “sedia”, ciò nonostante diamo per scontata la nostra capacità di intenderci intorno al significato di que­ sta parola e alla sua facoltà di designare un oggetto. Persino i diversi colori, una volta che disponiamo di un codice condiviso, assumono un significato sociale: se viaggiamo in automobile sappiamo che un cartello di colore verde indica l’ingresso in un’autostrada, mentre quello di colore blu una strada statale dove non pagheremo un pe­ daggio. Eppure, non esiste in natura alcun rapporto obbligatorio fra quei colori e le strade che indicano, tant’è che in un paese confinante quale la Francia il significato del colore dei cartelli è addirittura l’op­ posto: il blu per l’autostrada, il verde per le strade statali. Di conse­ guenza, la relazione che lega un sistema di segni (in questo caso la se­ gnaletica stradale) a dei simboli (in questo caso i colori), che assumo­ no a loro volta un significato, può essere del tutto arbitraria o con­ venzionale. Fra i vari fenomeni sociali più elementari, il gioco può illustrare effi­ cacemente la facoltà umana di saper impiegare simboli: una volta che entriamo nel mondo del gioco, i nostri gestì, le nostre parole e persi-

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no gli oggetti che manipoliamo assumono un altro significato rispet­ to a quello normalmente conferito loro nella vita “seria” . Consideria­ mo il gioco degli scacchi: il cavallo —come qualunque altro pezzo di­ stribuito sulla scacchiera - non è un cavallo “ reale” , ma neanche un mero pezzo di legno o di plastica. È un semplice simbolo del cavallo, qualcosa che assume un rilievo concreto e delle conseguenze pratiche solo nel momento in cui partecipiamo a una partita a scacchi. Come afferma Goffman (1979, p. 23), «i giochi sono attività che costruisco­ no mondi». Se entriamo nello stato d’animo ludico previsto dal con­ testo sociale del gioco, ciascun evento che accade in quel contesto non va più interpretato “ alla lettera” , ma va codificato simbolicamente seguendo regole ben precise: «i giochi pongono una “ cornice” intorno a un Busso di eventi immediati e determinano il tipo di “ sen­ so” che verrà dato a ciascuna cosa entro la cornice» (ivi, p. 16). Il rituale, esattamente come il gioco, è una forma espressiva di tipo simbolico. Anch’esso non va preso alla lettera giacché denota qualco­ s’altro. In particolare, abbiamo visto come nella teoria durkheimiana della moralità e del simbolismo i rituali siano quella specifica catego­ ria di azioni che consente di entrare in relazione con la sfera del sacro. Un rituale prevede sempre un sistema di segni in grado di veicolare dei messaggi dotati di senso; delle specifiche routine di comporta­ mento; un rapporto convenzionale tra le azioni simboliche che fanno parte della condotta rituale e il significato sociale di quest’ultima. In altri termini, i rituali sono azioni dalle quali scaturisce la forza morale di un gruppo canalizzandola verso l’attenzione e il rispetto dei simbo­ li - gli oggetti “ sacri” - dell’appartenenza al gruppo medesimo. Come riassumono Fele e Giglioli (2001, p. 14), «il rituale si realizza pienamente solo nell’esecuzione coordinata e sincronizzata dei gesti dei partecipanti, perché solo questa esecuzione dimostra scenicamen­ te, pubblicamente, non solo agli “ altri” (spettatori, osservatori, antropologi e sociologi) ma a coloro stessi che vi partecipano, che lì c’è un “ gruppo unito”». Abbiamo osservato (PAR. 1.5.2) che al di là della concezione della reli­ gione come rituale archetipico, nel mondo contemporaneo la dimen­ sione simbolica dei rituali sociali si ripropone in una pluralità di con­ testi (piccoli o grandi che siano le dimensioni dei gruppi o delle isti­ tuzioni coinvolte): si tratta dei rituali cosiddetti “ secolari”, che han­ no perso il loro originario contenuto religioso ma che mantengono 52

una forma simbolica e una valenza morale non trascurabili. Le prati­ che rituali si distinguono da ogni forma di agire “ strumentale” (cioè finalizzato a massimizzare un interesse o al conseguimento di uno scopo pratico ben preciso) proprio per la loro natura non utilitaristi­ ca. Quel che risulta determinante, dal punto di vista sociologico, ri­ guarda non già gli specifici contenuti di un sistema di simboli ogget­ to di venerazione, bensì quei processi, basati sul cerimoniale e sul ri­ tuale, che legano l’individuo all’ordine morale di una comunità. Ora, già nell’analisi originaria di Durkheim relativa alle forme ele­ mentari della vita religiosa emerge l’importanza di pratiche rituali di­ verse da quelle religiose. In tal senso, il fenomeno più significativo è la magia, la quale, pur essendo anch’essa costituita da credenze e riti, non rappresenta il simbolo del legame sociale, bensì persegue fini egoistici o strumentali. II mago, scrive Durkheim, non ha una chiesa o non riflette una comunità morale, bensì dispone di una clientela. Il mago agisce isolato, sovente le sue cerimonie si arricchiscono di ele­ menti religiosi ma finiscono con il profanare le cose sacre. Al contra­ rio, i riti religiosi creano e rigenerano i legami in una collettività. Anche se Durkheim individua in queste caratteristiche i confini fra i due domini e definisce le pratiche rituali dei maghi come fondamen­ talmente antireligiose, egli tuttavia non trascura del tutto l’importan­ za che assumono alcuni elementi magici nelle società tradizionali. In particolare, Marcel Mauss (1872-1950), nipote e discepolo di Dur­ kheim, ha focalizzato la sua attenzione proprio su alcune pratiche magiche che hanno Io stesso carattere collettivo della religione. La parola-chiave di Mauss è mana, termine con il quale alcune tribù del­ le isole del Pacifico designano determinate forze spirituali. «Il mana è ciò che dà valore alle cose e alle persone, valore magico, valore reli­ gioso e valore sociale»: pur essendo l’elemento simbolico che si pone alla base della magia, esso «appartiene allo stesso ordine della nozione di sacro» (Mauss, 1965, pp. 110 e 121). Il mana genera un’energia emotiva che contagia e attrae gli individui: viene impiegato sul piano collettivo nell’ambito della religione o, al contrario, per fini privati all’interno delle pratiche magiche; ma in ogni caso, nella prospettiva di Mauss, in una collettività l’importanza delle cose o il rango delle persone (ad esempio di un capo tribù) dipendono dal mana che in­ carnano. Di particolare rilievo è lo studio realizzato da Mauss sul dono. Il dono è uno scambio simbolico di tipo rituale che implica 53

l’obbligo della reciprocità. Infatti, l’accettazione e la restituzione dei doni genera un legame sociale, crea quella fiducia senza la quale non si potrebbero tessere relazioni di scambio di natura più eminente­ mente materiale o economica. Cosi, Mauss sottolinea come nelle so­ cietà preletterate i doni rituali precedano —e rendano possibili - le forme primitive di scambio commerciale. In questa direzione, Mauss riprende l’idea di Durkheim, per la quale le transazioni basate sul cal­ colo utilitaristico richiedono una fiducia precontrattuale, cioè il rico­ noscimento reciproco del carattere morale della relazione sociale nel­ la quale avviene lo scambio economico. Quello descritto da Mauss e dall’ultimo Durkheim è un “mondo di rapporti simbolici” all’interno del quale le pratiche rituali rivestono un ruolo di primo piano. Lo sguardo dei due studiosi è in larga misu­ ra rivolto alle società del passato; ciò nonostante, invece di ridursi alla persistenza di forme arcaiche in una società razionalizzata, il ri­ tuale si configura anche oggi come una delle principali dimensioni simboliche dell’agire sociale. Infatti, lo studio dei riti contemporanei richiama inevitabilmente in causa la tradizione di studi inaugurata da Durkheim, all’interno di nuovi scenari. Se “ rituale” è una parolachiave non più soltanto dell’antropologia, ma anche della sociologia contemporanea, è pur vero che il significato di questo concetto rima­ ne difficile da fissare, da definire in modo assiomatico, poiché esso dipende dall’uso che se ne fa, rimanda quindi a una molteplicità di pratiche eterogenee, non facilmente assimilabili l’una all’altra. Per esempio, lo studio dei riti della politica è al centro di quelle ricerche che analizzano le pratiche simboliche legate al potere e al dominio. Un congresso di partito o un comizio elettorale costituiscono un’oc­ casione cerimoniale che, grazie all’effervescenza collettiva che la ca­ ratterizza, consente di rigenerare il senso di appartenenza politica dei seguaci, da un lato, e di consolidare una determinata leadership, dal­ l’altro. Anche una seduta del Parlamento può essere analizzata alla luce della sua struttura liturgica, che segue precise prescrizioni rituali. Persino le campagne elettorali televisive sono ormai pervase da “duelli rituali” tra i candidati, ciascuno dei quali segue una sua litur­ gia ben codificata. Esistono poi numerose altre applicazioni della categoria del “rituale” all’esame di fenomeni sociali contemporanei. Nell’ambito degli studi sulla comunicazione di massa, diversi sociologi hanno interpretato 54

gli eventi mediali alla luce della loro natura “ cerimoniale”: è questo il caso di alcuni avvenimenti eccezionali ripresi dai media in tutta la loro solennità (per esempio: alcune apparizioni pubbliche di papa Giovanni Paolo n durante l’ultimo Giubileo, l’incoronazione di un sovrano o l’investitura di un capo di stato, i funerali di Lady Diana nel 1997, l’inaugurazione dei giochi olimpici ecc.)- E ancora, che dire dei grandi rituali collettivi che rinveniamo nella sfera del divertimen­ to e dell’intrattenimento, dagli stadi di calcio alle discoteche? Si trat­ ta di contesti sociali troppo frivoli per scomodare un dispositivo teo­ rico, il rituale appunto, tradizionalmente legato a una zona della teo­ ria apparentemente più nobile, la riflessione sul sacro? In definitiva, benché il significato di tutte queste pratiche rituali non sia certo sem­ pre lo stesso, possiamo comunque legittimamente affermare che la nostra vita sociale è ancora profondamente ritualizzata.

3.2. Rituali e interazione sociale

Durkheim si era soffermato sulla funzione assolta dai “grandi” rituali. Tuttavia, nella vita di ogni giorno, anche una qualsiasi sequenza di interazione spicciola fia per­ sone fisicamente copresenti assume inevitabilmente un carattere ri­ tuale e cerimoniale. Erving Goffman (1922-1982) ha inaugurato una tradizione di studi relativa alle microinterazioni quotidiane parago­ nando la nostra vita ordinaria a una rappresentazione teatrale: «Ciò che a me veramente interessa è studiare l’interazione faccia-a-faccia quale campo dotato di confini naturali e analiticamente coerente» (Gofïman, 1988b, p. 7). L’interazione faccia-a-faccia designa l’in­ fluenza reciproca che gli individui fisicamente compresenti nella stes­ sa situazione sociale hanno gli uni sugli altri. Goffman rammenta che, in un capitolo delle Forme elementari della vita religiosa, Durkheim sostiene che «i riti celebrati per le rappresen­ tazioni della collettività possano essere celebrati per l’individuo stes­ so»; scopo di Goffman è allora quello di «esaminare alcuni dei sensi in cui, nel nostro mondo urbano e secolare, all’individuo è concessa una certa sacralità, che viene manifestata e confermata da atti simbo­ lici» (Goffman, 1988a, p. 51). Tutto questo avviene sulla scena del “teatro” della vita quotidiana. In molte situazioni ordinarie un individuo si trova ad agire insieme ad altri e in loro presenza: per poter cooperare queste persone devono condividere la medesima “ definizione della situazione” . Debbono 55

cioè intendersi —anche solo tacitamente —sulla risposta da dare all’e­ ventuale domanda: “ Che cosa sta succedendo qui?”. Sovente l’indi­ viduo deve fornire informazioni sul proprio conto che aiutino gli al­ tri a capire quel che possono aspettarsi da lui (e viceversa); in altri termini, l’individuo, una volta che si trova in presenza di altre perso­ ne, deve proiettare una determinata immagine di sé. Tale immagine dovrà essere il più possibile convincente e, per renderla tale, l’indivi­ duo dovrà fare leva sulla propria espressività, dovrà in sostanza “ reci­ tare una parte”, indossare una maschera, contribuire a mettere in sce­ na una rappresentazione. Goffman distingue dunque fra Vattore (co­ lui che recita una parte) e il personaggio (cioè l’immagine di sé che l’attore tenta di proiettare in modo convincente sugli altri parteci­ panti) ed è in questo senso che la sua sociologia si fonda su una “ me­ tafora drammaturgica” . In altri termini, si tratta di descrivere le qua­ lità teatrali delle nostre azioni quotidiane. Dato che ciascun attore, in una qualsiasi situazione sociale, si trova a interpretare un ruolo (cioè una condotta regolata da un insieme di diritti e doveri dettati da una certa posizione sociale) di fronte a un pubblico (costituito dalle perso­ ne con le quali interagisce), egli dovrà sempre esercitare un controllo delle impressioni che suscita sugli altri partecipanti all’interazione al fine di rendere convincente l’immagine di sé che intende proiettare. La questione non è affatto banale: numerosi ruoli sociali richiedono agli individui di indossare una maschera, di recitare una parte. Così, l’arbitro di una partita di calcio tenderà quasi sempre a prendere de­ cisioni tempestive per poter apparire sicuro di sé anche quando avrebbe bisogno di qualche istante di riflessione per poter valutare le proprie scelte. L’allievo seduto in prima fila durante una lezione assu­ merà un’espressione attenta anche se dentro di sé sta pensando ad al­ tro. Il conferenziere che decide di leggere un discorso scritto dovrà comunque farlo impostando teatralmente la voce al fine di dare l’il­ lusione di un “ parlato spontaneo”, esattamente come gli speaker ra­ diofonici, che si trovano a leggere in modo “ iperscorrevole” testi dei quali non sono autori e che spesso non hanno potuto esaminare in anticipo. La hostess in servizio a bordo di un aereo che si trova ad at­ traversare una forte turbolenza cercherà, modulando i registri del proprio comportamento espressivo, di tranquillizzare i passeggeri eventualmente presi dal panico per ricordare loro che la turbolenza costituisce, per chi vola, un problema di ordinaria amministrazione. 56

Certo, molto spesso gli individui sono davvero convinti del ruolo che incarnano, ma questo non basta: comunque dovranno cercare sem­ pre di evitare di adottare una condotta incoerente con la parte che re­ citano, poiché una qualunque dissonanza tra apparenza e realtà fini­ rebbe con lo screditare la definizione della situazione concordata dai partecipanti. Persino un gesto involontario come una semplice gaffe rischia di compromettere l’esito di una messa in scena: l’attore dovrà in tal caso fare ricorso a piccoli rituali “di riparazione” , chiedendo scusa o minimizzando l’incidente (si pensi al classico colpo di tosse con il quale un’annunciatrice televisiva può cercare di rimediare a una “ papera”). Si tratta insomma di una sorta di gioco di maschera­ mento (e di smascheramento) che non implica necessariamente, da parte dell’attore, l’intenzione di “ ingannare” gli altri, bensì il conse­ guimento di uno scopo pratico: la buona riuscita di una rappresenta­ zione sociale. A tal fine l’attore deve comunicare in modo convincen­ te l’immagine del sé richiesta dalla definizione della situazione. Non a caso Goffman, coerentemente con la metafora drammaturgica adottata, distingue fra due territori sociali separati: la ribalta, cioè il luogo dove avviene la rappresentazione, e il retroscena, cioè il luogo nel quale l’attore non è ancora personaggio e si prepara, al riparo da­ gli occhi indiscreti del pubblico, a recitare la propria parte. Ognuno di noi ha bisogno di spazi di retroscena: ciascun individuo, a casa propria, dispone del suo “ camerino” dove potrà prepararsi alla rappresentazione o rilassarsi una volta uscito da un ruolo sociale in­ terpretato in precedenza. Il retroscena deve essere inaccessibile al pubblico: in un ristorante i clienti non possono entrare nella cucina, in un ospedale i parenti possono entrare nelle camere dei degenti du­ rante l’orario di visita, ma non negli studi dello staff medico o nella camera operatoria (una zona di retroscena, quest’ultima, caratterizza­ ta da un’attività assai più delicata della semplice «gestione delle appa­ renze»), Lo stesso luogo fisico può fungere da ribalta in un determi­ nato momento e diventare retroscena successivamente. In uno studio televisivo, per esempio, quando le riprese non sono ancora in onda gli speaker dei telegiornali assumono un atteggiamento da retrosce­ na: gettano, per così dire la maschera, talvolta un po’ imprudente­ mente. Non a caso esiste un vasto repertorio di gaffe e di comporta­ menti incongrui, documentato per esempio da trasmissioni come Blob, che testimonia come l’irruzione inaspettata del pubblico nel re­ 57

troscena provochi un imbarazzante smascheramento degli attori. Ciascuna équipe - cioè quell’insieme di individui che cooperano nell’inscenare una rappresentazione - deve quindi tutelare i segreti del retroscena, evitare incongruenze che possano mettere in discussione la definizione della situazione che si intende proiettare, proprio come in teatro una compagnia di attori deve risolvere dietro le quinte, e non sul palcoscenico, tutti i problemi e le dispute che possono sorge­ re al suo interno. Come riassume Collins (1992, p. 257), «la rappresentazione dramma­ turgica è un rituale. Essa crea un senso di realtà condivisa [...]. Nella misura in cui il rituale ha successo esso crea simboli sociali che sono investiti di forza morale». Abbiamo già descritto come, sul piano ma­ crosociologico (cioè relativo allo studio della società nel suo comples­ so) Durkheim sostenesse che Dio è il simbolo della società e che cia­ scun individuo, nel mondo moderno, assume una sua sacralità. Goffman traspone questa concezione su un piano eminentemente micro­ sociologico (cioè relativo all’osservazione dei contesti nei quali avviene una qualunque interazione tra individui): «Per Goffman, i riti che costituiscono la sacralità dell’individuo e ne sostengono socialmente il culto non vanno più cercati nelle grandi cerimonie pubbliche alle quali pensava Durkheim, ma nei piccoli e apparentemente banali ri­ tuali che costellano l’interazione nella vita quotidiana - nel tatto, nella cortesia, nella deferenza, nel contegno» (Giglioli, 1998, p. 21). In conclusione, quello che Goffman chiama sé - o self—non è l'iden­ tità psicologica dell’individuo e nemmeno la sua soggettività interio­ re, ma l’immagine che questi proietta in ciascuna interazione fàcciaa-faccia. Detto in termini quasi pirandelliani, non è decisivo che dietro le numerose maschere indossate dall’individuo si celi un volto autentico. Tuttavia, oltre a essere un “ effetto drammaturgico”, il self è anche un “ oggetto cerimoniale” , dotato di ima sua sacralità, nei confronti del quale va adottata una certa “ attenzione rituale”. Persino un piccolo rito come il saluto rimanda a questa dimensione, non solo perché non salutare qualcuno è una sorta di dichiarazione di ostilità, ma anche perché quel gesto apparentemente secondario rimarca la comune appartenenza a una comunità morale. Di conseguenza, se il ^ d e l l ’individuo è qualcosa di sacro, esso è anche inevitabilmente suscettibile di una profanazione rituale. Goffman, in uno studio et­ nografico sui manicomi, si è soffermato proprio sulle modalità con­ 58

crete di profanazione del ¿^descrivendo in modo minuzioso le dina­ miche interattive di degradazione degli internati, le condizioni di vita di individui —ridotti al rango di non-persone - che lottano per man­ tenere spazi di autonomia, per salvaguardare il proprio sé di fronte al rischio incessante di una mortificazione, di un annientamento. La descrizione microsociologica dei piccoli riti quotidiani svolta da Goffman è inevitabilmente assai più ricca e suggestiva di qualsiasi tentativo di riassumerla. Egli si è rivelato uno dei maestri AÆ etno­ grafia sociale contemporanea, cioè di uno stile di ricerca e di analisi: la descrizione di un particolare mondo sociale in base a una prospet­ tiva non scontata (Dal Lago, De Biasi, 2002). Pur rimanendo un so­ ciologo, egli ha contribuito a una sorta di rimpatrio dell’antropologia, riuscendo ad analizzare in modo virtuoso alcuni dettagli della nostra odierna cultura con la profondità di sguardo tipica dei grandi antropologi del passato. Dettagli solo apparentemente ovvi, ma in grado di evocare le caratteristiche basilari dell’organizzazione sociale dell’esperienza quotidiana.

3.3. Riti d’oggi: il caso delle partite di calcio

Cercheremo di analizzare sociologicamente uno dei più significativi rituali collettivi di tipo secolare. Infatti, sotto diversi punti di vista, gli spettacoli sportivi hanno ereditato alcuni tratti caratteristici di antiche pratiche ritualistiche un tempo associate alla religione. Come rileva Susan Birrell (1981), se il significato religioso dei riti sportivi è andato perduto, laforma di tali attività rimane e assume si­ gnificati nuovi. Lo sport può essere esaminato dal punto di vista della sua matrice rituale. Negli sport moderni gli individui sono impegnati in una competizione atletica, che tuttavia si svolge nel contesto di una cerimonia che assolve funzioni sociali comparabili a quelle delle cerimonie religiose, all’interno di un’arena in grado di creare leader simbolici oggetto di venerazione. Questi aspetti del rituale sportivo contribuirebbero ad assolvere lo stesso compito: riaffermare i valori dell’ordine sociale. Birrell riprende infatti il concetto durkheimiano di religione e la nozione di rituale quale regola di condotta che pre­ scrive i comportamenti da adottare nella sfera del sacro. Ora, la cosa interessante, dal punto di vista sociologico, riguarda non già gli spe­ cifici contenuti di un sistema di simboli oggetto di venerazione, ben­ sì quei processi, basati sul cerimoniale e sul rituale, che legano l’indi­ 59

viduo all’ordine morale di una comunità. In tal senso, nota Birrell, anche alcune cerimonie secolari come la celebrazione americana del Memorial day o l’investitura di un capo di stato rappresentano una modalità di riaffermazione dei valori morali di una comunità analoga a quella identificata in origine da Durkheim nella religione. All’eroi­ smo dell’atleta, spesso accompagnato da una virtù carismatica che i media contribuiscono a esaltare, segue il rispetto, l’ammirazione, o addirittura la venerazione degli spettatori che condividono quell’e­ sperienza senza poterne essere protagonisti in prima persona. Eppure, queste osservazioni, per quanto suggestive, riflettono una concezione dello sport limitata prevalentemente alle competizioni più popolari nella classe media statunitense. Se invece, per esempio, consideriamo il caso della popolarità del calcio nel nostro paese, pos­ siamo notare qualcosa di profondamente diverso. Infetti, rispetto al­ l’immagine dello sport tratteggiata dalla Birrell, in Italia la specifica autonomia del contesto sociale del comportamento del pubblico di una partita di calcio genera forme differenti di percezione dell’eticità delle norme sportive. Bisogna allora spostare l’accento s\A\'opposizio­ ne simbolica che pervade, anche sugli spalti, la tensione emotiva tipi­ ca di una competizione di squadra orientata alla vittoria. Il calcio non è semplicemente uno sportfra gli altri. Più che rafforzare i valori morali di una comunità, il rituale collettivo dello stadio di calcio si fonda su quella che potremmo definire, certo in termini puramente metaforici, “ opposizione totemica” (un fenomeno anch’esso, co­ munque, indissolubilmente legato al rituale). In uno stadio di calcio sia gli spettatori sia i giocatori schierati in campo vivono l’evento come una sorta di metafora bellica (cfr. Dal Lago, 2001), dunque nei termini di una battaglia simulata. Anche se il calcio non è l’unico sport competitivo, l’opposizione simbolica che caratterizza il confronto fra i tifosi sugli spalti o fia le squadre schiera­ te in un campo di calcio rasenta —ritualmente - l’eccesso: si tratta pa­ radossalmente di un «controllato allentamento del controllo delle emozioni» (Elias, Dunning, 1989). Fra gli spettatori di una partita di calcio esiste una contrapposizione analoga a quella presente sul terreno di gioco. Gli spettatori non si li­ mitano a prestare attenzione soltanto a quel che accade in campo: in alcuni settori dello stadio, gruppi di tifosi rivali mettono in scena un duello simbolico a distanza basato sulla provocazione e sull’insulto 60

rituale. Certo, se l’ostilità rituale nei confronti della comunità dei ti­ fosi rivali pervade anche le chiacchiere da “ Bar Sport” che coinvolgo­ no comunemente gli appassionati di calcio, tale forma ritualizzata di ostilità assume una visibilità e ima risonanza che rendono i tifosi or­ ganizzati coprotagonisti dell’evento della partita (si pensi all’autospettacolarizzazione del tifo organizzato operata dai cosiddetti gruppi ultras). Si tratta senza dubbio di un rituale collettivo di tipo secolare. Esisto­ no numerosi studi storico-antropologici che hanno cercato di mo­ strare una convergenza originaria tra sport e culto religioso. Come riassume Alien Guttmann, le società tradizionali, o “ primitive”, «spesso conservano nei loro riti e nelle loro cerimonie religiose la cor­ sa, il salto, il lancio, la lotta e anche il giocare con una palla» (Gut­ tmann, 1994, p. 128). Non si trattava di attività sociali profane, ma di eventi che al contrario esibivano un legame con la sfera del sacro: essi non erano autotelici (cioè fini a se stessi), non si ispiravano all’idea di un divertimento puro, bensì erano caratterizzati da altre finalità la­ tenti, come ingraziarsi la fiducia delle divinità per assicurarsi la ferti­ lità della terra. I giochi olimpici dell’antica Grecia erano anch’essi circondari da un’aura di sacralità (come ricorda Guttmann, persino l’insospettabile Platone, in gioventù, si era distinto nella lotta nei giochi pizii, nemei e istmici). Le origini storiche dei folk games dai quali discende il calcio moderno sembrerebbero tuttavia alquanto profane. Al di là del presunto esor­ dio “ fiorentino” del calcio, vari ricercatori convergono sull’idea delle origini medioevali, francesi e britanniche, di questo sport. Per folk game si intende qualcosa di estremamente distante dagli sport colti­ vati negli ambienti aristocratici. Ad esempio, qualcosa di lontana­ mente simile al calcio, nel Medioevo, «era giocato dall’intero villag­ gio o, più probabilmente, da un villaggio contro un altro» (Gutt­ mann, 1994, p. 52). Ovviamente non si trattava di una competizione sportiva disciplinata e razionalizzata nell’accezione moderna: i gioca­ tori lottavano per la palla «come cani intorno a un osso». Norbert Elias ed Eric Dunning evidenziano che, in Inghilterra, in origine le gare di calcio erano assai «selvagge e turbolente». Nel Medioevo «il re e le autorità cittadine avevano cercato per secoli di impedire che si giocasse a football, tra l’altro perché le partite finivano sempre con uno spargimento di sangue o, se si giocava per le strade della città, 61

perlomeno con una gran quantità di finestre rotte» (Elias, Dunning, 1989, p. 148).' Siamo qui agli antipodi della logica degli sport moder­ ni, prodotti dalla razionalizzazione. Persino uno sport di squadra come il basket (che in fin dei conti assomiglia, in apparenza, al calcio moderno, anche se la palla è giocata con le mani), nasce razional­ mente, come invenzione deliberata, “a tavolino”, non come codifica­ zione di un folk game. Anche i moderni giochi olimpici, che rappresentano una sorta di inaugurazione delle competizioni sportive cosi come oggi le cono­ sciamo, hanno per lungo tempo osteggiato l’entrata del calcio tra le discipline ammesse. Il secolarismo degli sport moderni si basa sulla celebre massima del fondatore dei giochi olimpici, Pierre de Coubertin («l’importante è partecipare»): una massima che nella retori­ ca del tifo calcistico viene normalmente rimossa e che viene sem­ mai recuperata ad hoc solo quando è inevitabilmente necessario. D ’altra parte, rispetto all’antico folk game, l’avvento del moderno professionismo e l’istituzionalizzazione del calcio rendono questo sport più “serio” e predeterminato; la partecipazione del pubblico diviene consumo sportivo, un’organizzazione di tipo industriale fa del calcio qualcosa di più di un semplice gioco o di una festa popo­ lare di tipo tradizionale. Da cosa deriva il “frastuono” del tifo calcistico? Alcuni sostengono che si tratti dell’eredità di un “rito tribale”, altri hanno cercato delle analogie con il comportamento collettivo del pubblico degli antichi combattimenti di gladiatori. Eppure si tratta nel contempo di un fe­ nomeno tipicamente moderno. Per esempio, nell’Inghilterra del Set­ tecento, Rough music era un termine che designava «forme rituali di ostilità nei confronti di quegli individui che hanno infranto determi­ nate regole della comunità». Il frastuono della Rough music compren­ deva «grida laceranti, risa stridule e impietose, e mimiche oscene» (E. P. Thompson, 1981, p. 135). Si trattava di manifestazioni di massa ritualizzate. La stessa fanfara irriverente della Rough music la ritrovia­ mo nelle manifestazioni studentesche (ma anche in quelle operaie) negli anni immediatamente successivi al 1968 e, più di recente, è sta­ to possibile osservare qualcosa di simile nelle au re degli stadi. Esiste una tradizione di studi sulle radici storiche dei riti popolari associati a questo sport, in particolare in Gran Bretagna. In alcune ricerche di un certo rilievo il significato sociale del calcio, e degli sport in genera­ 62

le, viene analizzato all’interno del quadro di riferimento concettuale di Norbert Elias (1897-1990). Il processo di civilizzazione determina la necessità, per gli individui, di un apprendimento dell’autocontrol­ lo. Parallelamente, cresce la ricerca di eccitamento nel tempo libero. Gli sport agonistici, vere e proprie “ battaglie simulate”, risultano in tal senso emblematici, in quanto permettono un “piacevole” allenta­ mento delle emozioni (cfr. Elias, Dunning, 1989). L’allentamento delle costrizioni e l’intensità del piacere dell’eccitamento collettivo fanno di una gara di calcio una «forma acuta di tensione in compa­ gnia di altri», ma persiste il rischio che l’eccitamento possa «sfuggire di mano” ». Ora, essendo collocato nella sfera “ non seria” della vita sociale, il cal­ cio —e lo spettacolo sportivo in generale —non sempre ha suscitato un interesse sincero da parte delle scienze sociali. Eppure, come affer­ ma Christian Bromberger, possiamo definire il calcio come un fatto sociale totale-. «Sono rari gli avvenimenti che possono essere qualificati “ fatti sociali totali” se con questo si intende - secondo Marcel Mauss, e non secondo alcuni suoi continuatori, che hanno svilito il concetto - “ fenomeni che mettono in moto in certi casi la totalità della società e delle sue istituzioni”» (Bromberger, 1990, p. 181). È opportuno precisare che i rituali dello stadio di calcio costituiscono qualcosa di assai più specifico e definito rispetto al calcio inteso quale fatto sociale totale più ampio. Il carattere rituale del comportamento collettivo del pubblico degli stadi muove dalla condizione dell’as­ sembramento e dall’effervescenza della folla, da una copresenza fisica che Durkheim definiva un «eccitante fattore di potenza». Il coinvol­ gimento rituale del pubblico del calcio assume ben altra valenza nel contesto della ricezione televisiva dell’evento della partita. In fondo, la quantità degli spettatori che frequentano gli stadi è risibile di fron­ te all’audience televisiva. Ci siamo soffermati sul culto dello stadio e sui riti a esso associati, ma non va trascurata l’importanza della cre­ scente simbiosi tra calcio e network televisivi. La televisione non si li­ mita a “presentare” le partite di calcio, bensì le ripresenta, le rico­ struisce narrativamente con una particolare successione delle inqua­ drature, con una regia e dei commenti spesso arbitrari e fuorviami. La fruizione dell’evento genera vÆ audience una carica emotiva deterritorializzata, che nel complesso dà vita a un’esperienza incom­ mensurabile con quella dello stadio. 63

In altri termini, la televisione non registra l’evento della partita, bensì lo ricrea da capo. Le performance mediali “ dal vivo” dei tifosi pre­ senti fisicamente in uno stadio sono addirittura parte del prodotto televisivo fruito (ormai spesso a pagamento) dall 'audience (Craw­ ford, 1998). Quanto resta del grande rituale all’interno delle pareti domestiche dove i telespettatori si dedicano volentieri alla pratica dello zapping? Cosa rimane delle modalità locali di identificazione collettiva quando i grandi club, nell’epoca della globalizzazione, re­ clutano le tifoserie fra le poltrone domestiche nei luoghi più dispara­ ti, a scapito delle tradizionali identità locali celebrate negli stadi e delle quali ci parla, fra gli altri, anche Bromberger nei suoi lavori? Certo, in occasione dei grandi eventi mediali legati all’industria del calcio risorge episodicamente una certa effervescenza collettiva, an­ che se dispersa e atomizzata nelXaudience domestica. Ma “ oltre il sen­ so del luogo” , il calcio virtuale, mediale - ricreato, più che racconta­ to, dal mezzo televisivo, privo della dimensione corporea della com­ presenza fìsica di tanti tifosi in uno stadio - può essere visto come un autentico rituale collettivo? Probabilmente no. Eppure, anche di fronte a questo nuovo scenario - o proprio a partire da esso e dalle contraddizioni che produce - l’idea guida di Bromberger (1999) del tifo calcistico quale «linguaggio universale sul quale ogni collettività imprime il proprio marchio» rimane quanto mai attuale.

3.4. L’esperienza religiosa in una società complessa

Ab­ biamo appena descritto alcune pratiche rituali tipiche di un mondo secolarizzato. Il termine “secolarizzazione” - che in origine designava la perdita di giurisdizione delle istituzioni ecclesiastiche su un deter­ minato territorio - è forse la parola-chiave della riflessione sociologi­ ca sul ruolo della religione nel mondo occidentale. Così come nume­ rosi riti d’oggi esibiscono un carattere secolare (hanno perso cioè il loro legame con la sfera del trascendente) e presentano una matrice laica o non ecclesiastica, anche la maggior parte degli ambiti dell’e­ sperienza sociale si è progressivamente resa autonoma dalle norme e dai valori strettamente religiosi. Si pensi solo all’importanza assunta dalla scienza e dalla tecnica: si tratta di fenomeni tipici della nostra cultura, nei quali non può evidentemente trovare posto la dimensio­ ne della fede religiosa. Nel p a r . 1.2 .2 abbiamo visto che, secondo Max Weber, il processo di razionalizzazione comporta fra le sue con­ 64

seguenze un disincantamento del mondo. Come riassume Peter Ber­ ger, «se è vero che molti scienziati sono stati persone molto religiose, è altrettanto vero che la scienza moderna stimola un modo di pensare che non tollera il mistero e che cerca spiegazioni razionali invece che causalità soprannaturali» (Berger, 1994, p. 23). In molti paesi occidentali avanzati la religione mantiene una sua im­ portanza per la maggior parte delle persone, ma le istituzioni eccle­ siastiche non si collocano più al centro della cosiddetta sfera pubbli­ ca. Trattandosi di sistemi sociali pluralistici, al loro interno le Chiese non cosdtuiscono più le istituzioni depositarie delle definizioni uffi­ ciali della realtà. Esse propongono ancora una visione del mondo unificata e coerente, ma non sono in grado di imporla a tutù: la fede è divenuta una scelta, non è più un obbligo. Del resto il pluralismo di quesd sistemi sociali è anche e inevitabilmente un pluralismo reli­ gioso: diverse fedi o confessioni si trovano a convivere legittimamente nel rispetto della diversità che ispira i moderni regimi democratici, proprio mentre in altri paesi più distanti risorgono i fondamentali­ smi e gli integralismi religiosi. Naturalmente esiste una differenza fra il pluralismo religioso presen­ te negli Stati Uniti - paese nel quale esiste quasi un marketing che governa la competizione fra Chiese diverse - e quello che si è affer­ mato in Europa, dove in ciascun paese è presente una chiesa tradizio­ nalmente maggioritaria rispetto alle altre, come la Chiesa cattolica nel caso dell’Italia. La maggior parte degli italiani si dichiara di fede cattolica. Questo però non esclude la coesistenza del cattolicesimo con altre fedi (si pensi solo alla possibilità, in occasione della compi­ lazione del modulo della dichiarazione dei redditi, di destinare una piccola quota d ell’iR P E F al sostégno di Chiese diverse da quella cat­ tolica). Inoltre, il fatto che l’elettorato italiano, in occasione di alcuni referendum (nel 1974 e nel 1981), si sia schierato a favore del divorzio e dell’aborto è un chiaro sintomo del processo di secolarizzazione: l’I­ talia è rimasta un paese prevalentemente cattolico, ma su alcune que­ stioni rilevanti sul piano dell’etica e della morale sociale ha operato delle scelte diverse dalle prescrizioni ufficiali della Chiesa. Proprio per questi motivi, in tutte le società contemporanee plurali­ stiche e altamente differenziate, la ricerca empirica sulla religione ri­ chiede l’elaborazione e l’applicazione di categorie sociologiche in gra­ do di cogliere, interpretare e misurare le diverse sfaccettature del fe­ 65

nomeno religioso in tutta la sua complessità. Acquaviva e Pace (1992), riprendendo alcune indicazioni di Charles Y. Glock, indivi­ duano cinque dimensioni della religiosità, ciascuna delle quali assu­ me una sua precisa autonomia sul piano analitico: • la credenza; • l’esperienza; • la pratica; • l’appartenenza; • la conoscenza. La credenza religiosa riguarda gli atteggiamenti che gli individui assu­ mono rispetto alla dimensione della trascendenza (le fede nei con­ fronti di un’entità divina superiore, dell’aldilà, dell’idea di salvezza ecc.). Hesperienza religiosa concerne le modalità attraverso le quali gli individui si rapportano al sacro. La pratica religiosa è la modalità di partecipazione alla vita di un’istituzione religiosa (per esempio la partecipazione alla messa domenicale, la preghiera, la lettura di testi sacri ecc.). L 'appartenenza riguarda il coinvolgimento dei fedeli al­ l’interno di un gruppo religioso e le sue conseguenze (attivismo, pro­ selitismo, distinzione sociale in base al credo religioso ecc.). Infine, la conoscenza religiosa concerne il tipo di sapere sociale che la religione diffonde tra i fedeli e che consente loro di interpretare la realtà (le co­ noscenze relative all’aldilà, all’origine del bene e del male, alla nascita dell’universo ecc.). Se il concetto di religione può risultare astratto o sfuggente sul piano operativo, l’indagine di queste differenti dimen­ sioni della religiosità consente invece di osservare empiricamente e di spiegare fenomeni sociali ben precisi. Questo complesso di indicatori della religiosità può essere riferito sia alle religioni istituzionali o codificate, sia a fenomeni contemporanei che parrebbero evocare l’esistenza di una «religione fuori dalle reli­ gioni» (Acquaviva, Pace, 1992, p. 174). In altri termini, pluralismo e laicizzazione convivono con la persistenza della fede e della religiosità in Italia come in altri paesi occidentali. In un saggio comparso in ori­ gine nel 1963, divenuto poi un “classico” della sociologia della reli­ gione e ancora profondamente attuale, Thomas Luckmann ha de­ scritto come si sia verificata una progressiva specializzazione delle isti­ tuzioni religiose da un lato, ma anche, dall’altro, come sia entrato in crisi l’assunto dell’identità tra Chiesa e religione. In questa prospetti­ va, si fanno strada nuove forme di religiosità individuale. Se le rap­ 66

presentazioni religiose costituiscono per il singolo un sistema sogget­ tivo di significanza ultima (relativo cioè a una visione complessiva del senso del mondo e dell’esistenza), queste rappresentazioni posso­ no essere il prodotto di una scelta personale e privata. Così come, nella società moderna, l’individuo è divenuto libero di costruire la propria identità, di progettare la propria esistenza sociale, egli «può scegliere come meglio gli pare un assortimento di significad “ ulti­ mi” - guidato soltanto dalle sue preferenze determinate dalla sua biografia sociale» (Luckmann, 1969, p. 139). Di conseguenza, il “ co­ smo sacro” cessa di rappresentare una gerarchia di valori obbligatoria e coerente: esso diviene un assortimento di significati ultimi costrui­ to autonomamente e creativamente da ciascun individuo, una situa­ zione del tutto diversa da quella delle società arcaiche, nelle quali i si­ gnificad ultimi erano già dad, cioè indipendend dalla volontà indivi­ duale. Luckmann arriva infatti a tematizzare l’individuo come un «consumatore» che sceglie gli elementi del proprio cosmo sacro sul «mercato di significati ultimi», cioè all’interno di un assortimento di rappresentazioni religiose. Questa privatizzazione della religiosità co­ stituirebbe una «trasformazione radicale nel rapporto tra l’individuo e l’ordine sociale» (ivi, p. 163). In questa prospettiva possiamo collocare la nuova ricerca di spiritua­ lità sorta all’interno di contesti religiosi del tutto nuovi (un caso em­ blematico è il sincretismo della New Age o l’interesse verso il buddi­ smo) o eminentemente “secolari” (si pensi all’importanza quasi reli­ giosa che gli hobby o certi interessi culturali assumono per numerosi individui: dalla passione per alcuni idoli musicali al collezionismo, dal tifo calcistico all’interesse per forme specifiche di produzione arti­ stica ecc.). Potrà sembrare un’esagerazione, ma, all’interno dell’o­ dierna diaspora del sacro, anche in alcune scelte di semplice consumo gli individui esprimono una ricerca di senso e di legami sociali che presentano, a modo loro, degli elementi secolarizzati di religiosità.

Per riassumere... • Il mondo sociale è «una foresta di simboli»: alcune delle nostre azioni quotidiane non vanno interpretate alla lettera, bensì assumono una valen­ za simbolica, come nel caso del gioco e del rituale. 67

• Se Durkheim si era occupato della funzione assolta dai “grandi rituali”, Erving Goffman ha descritto come tutte le nostre microinterazioni quoti­ diane siano immerse in piccoli rituali che custodiscono la sacralità del sé dell’individuo. Goffman, paragonando la vita quotidiana a un teatro, ha evidenziato l'importanza del comportamento espressivo e drammaturgico per la costruzione sociale del sé. • Gli odierni rituali “secolari”, pur avendo perduto il loro originario con­ tenuto religioso, mantengono una forma simbolica e una valenza morale di un certo rilievo. Abbiamo esaminato come lo spettacolo delle partite di cal­ cio possa essere legittimamente analizzato nei termini di uno dei più signi­ ficativi rituali collettivi contemporanei. • La religione è tradizionalmente il principale veicolo di mediazione simbolica tra l'individuo e la società alla quale appartiene. Tuttavia, nel mondo contemporaneo l’esperienza religiosa sì è modificata radicalmente: accanto al parziale declino delle istituzioni ecclesiastiche, l’individuo con­ tinua la sua ricerca di senso e di “significati ultimi”, che si esprime preva­ lentemente nella sfera privata.

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4. La produzione della cultura 4.1. L’industria culturale

In una società basata su un’economia di mercato e sulla produzione industriale di beni di consumo, i pro­ dotti della cultura assumono il carattere di merce. Con l’avvento del mondo moderno, la produzione di beni culturali diviene parte inte­ grante dell’organizzazione capitalistica: da un lato una crescente quantità di persone può accedere all’acquisto di beni di consumo, dall’altro la produzione di oggetti che incorporano simboli, credenze e valori estetici (che nel loro insieme hanno, in senso lato, una valen­ za culturale) diviene uno specifico settore merceologico che segue le stesse leggi che governano le altre sfere della produzione industriale e del mercato capitalisdco. Inoltre, le innovazioni tecnologiche, a par­ tire dall’invenzione della stampa nel x v secolo fino all’avvento dei moderni mezzi di comunicazione come la radio e la televisione, mo­ dificano radicalmente la struttura stessa dei prodotti culturali. Anche la formazione del sé dell’individuo - le modalità attraverso le quali egli acquisisce le proprie conoscenze, modella la sua personalità, sce­ glie i propri valori e organizza la propria esistenza - dipende in larga misura dalla continua esposizione ai messaggi veicolati dalla cosid­ detta industria culturale e dal consumo (non necessariamente passi­ vo) dei beni da essa prodotti. Abbiamo detto che generalmente siamo soliti impiegare il termine “ cultura” per chiamare in causa i prodotti, per cosi dire, più nobili dell’attività umana (per esempio la pittura, la musica, la letteratura classica ecc.), mentre dal punto di vista sociologico ci riferiamo alla “ cultura” per designare le norme, i valori, le credenze e i simboli che incontriamo sul nostro cammino nella vita di ogni giorno e che ci consentono di conferire un senso a quel che ci accade. Limitarci alla prima definizione ci condurrebbe a privilegiare una dimensione elitaria, la cosiddetta cultura alta, a scapito della possibilità di inter­ pretare la complessità culturale del mondo contemporaneo. L’av­ vento dell’industria culturale comporta infatti la trasformazione de­ gli individui in “ consumatori” di cultura, e questo implica da un lato l’allargamento del pubblico in grado di acquistare beni culturali (spesso destinati al tempo libero), dall’altro l’ascesa di nuovi mezzi 69

di comunicazione, capaci non solo di diffondere i prodotti della cultura, ma anche di modificarne le caratteristiche più essenziali. Per esempio, in campo artistico oggi la produzione industriale si af­ ferma in un contesto nel quale la serialità di un’opera (cioè la sua riproducibilità) subentra alla sua unicità e la riduzione dell’arte a merce di consumo assume una diversa problematicità - come rileva Thompson (1998) sulla scorta di Walter Benjamin - giacché l’opera consiste nelle copie e viene ideata già in origine come bene destinato al mercato di massa. D ’altra parte siamo inclini a conferire alle opere dei secoli passati un più elevato valore estetico e tendiamo a collocarle nell’ambito della cultura “alta”, contrapposta alla leggerezza dei beni di consumo dif­ fusi dall’industria culturale contemporanea. Spesso, però, fruiamo di un’opera del passato nello stesso “formato” che ci consente di consu­ mare gli odierni prodotti della cosiddetta “cultura di massa” : il me­ desimo lettore di compact disc può riprodurre un concerto di Bach oppure un brano di musica rap; possiamo acquistare nello stesso ne­ gozio un libro di fumetti o un volume sulla pittura rinascimentale, oggetti fisicamente identici perché incorporati in un supporto uni­ versale in grado di riprodurre opere differenti e di diverso valore estetico. Sappiamo che il parere dei critici non necessariamente coincide con quello del pubblico, ma non è nostro compito stabilire in questa sede una gerarchia di valori estetici. Da un punto di vista sociologico, quel che ci interessa è invece lo studio delle trasformazioni avvenute nel­ l’ambito della produzione culturale nelle odierne società complesse, dove il sorgere di un pubblico di consumatori e la diffusione di nuovi mezzi di comunicazione —e di nuovi “supporti” per la “ fissazione” delle forme della produzione culturale - rappresentano il necessario punto di partenza dell’analisi.

4.2. La mediatizzazione della cultura

Intorno alla metà del secolo Johann Gutenberg, orafo di Magonza, una piccola cittadi­ na sul Reno, mise a punto un nuovo metodo (la stampa a caratteri mobili), rimasto pressoché identico nei tre secoli successivi, che con­ sentiva la riproduzione a stampa di testi. La copiatura di libri e docu­ menti era ancora monopolio esclusivo degli amanuensi e, sino ad al­ lora, i testi copiati a mano erano destinati a un’élite estremamente riXV

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stretta. L’invenzione di Gutenberg determinò la diffusione del libro presso un pubblico via via più vasto, il sorgere di un mercato destina­ to alla circolazione della merce-libro e infine la progressiva trasfor­ mazione della bottega dell’editore-stampatore in impresa capitalisti­ ca. Ebbe così inizio quella che è stata definita dalla storica Elisabeth Eisenstein (1995) una «rivoluzione inavvertita»: l’invenzione del libro a stampa e la sua diffusione favorirono un cambiamento culturale che possiamo annoverare fra le cause che diedero origine al mondo moderno. L’avvento del libro costituì una sorta di rivoluzione, anche se meno visibile e per questo rimasta a lungo quasi inavvertita persi­ no presso gli storici e i sociologi. Tale innovazione si aggiunge ad al­ tri fattori più eminentemente economici e strutturali, che abbiamo già menzionato, quali l’avvento della produzione e dell’industria ca­ pitalistica, l’urbanizzazione, l’ascesa politica della borghesia e il con­ solidarsi dello Stato-nazione. La diffusione di testi sacri - e in primo luogo la possibilità, per chi era in grado di leggere, di possedere la “ propria” copia della Bibbia senza dover ricorrere alla mediazione dell’interpretazione ufficiale imposta dal monopolio della Chiesa —favorì una maggiore autono­ mia individuale nell’ambito della teologia e contribuì alla stessa Ri­ forma protestante. Non è un caso che la diffusione delle tesi di Lute­ ro, esposte per la prima volta nel 1517, subì un’accelerazione proprio grazie alla moderna stampa. L’invenzione del libro a stampa fu dunque una delle cause del pro­ cesso di disgregazione della cristianità, accompagnato da fenomeni quali il pluralismo religioso e la secolarizzazione. Come abbiamo vi­ sto, secondo Max Weber l’erica protestante influì profondamente, quale fattore di cambiamento, sulla genesi del mondo moderno. La “ rivoluzione del libro”, dal canto suo, favorì l’ascesa del protestante­ simo, e spinse la Chiesa romana a compilare, nel 1559, un primo indi­ ce delle opere da mettere al bando. Nonostante l’attività censoria del­ la Chiesa, la nascente industria del libro si impose quale primo ele­ mento di mediatizzazione della cultura (J. B. Thompson, 1998). Dopo il libro, la stampa periodica, a partire dal x v i i secolo, legò la sua nascita a quella di un più ampio pubblico di lettori nell’ambito della nuova classe borghese. Nei caffè sorti in Francia e in Inghilterra a cavallo tra il x v i i e il x v m secolo, alla semplice lettura della stampa periodica si aggiunse l’abitudine - tipica della nascente figura del 71

borghese - di discutere con i propri pari le notizie e i commenti ri­ portati dai giornali. In queste discussioni il borghese incomincia a esercitare la propria funzione di critica nei confronti delle autorità politiche legate all’aristocrazia e alla monarchia, o di quelle mercanti­ li in ambito economico, auspicando un sistema basato sulla libera concorrenza. Sorge cosi la cosiddetta opinione pubblica borghese, destinata a influenzare i cambiamenti politici e istituzionali che se­ gnarono il passaggio da un’organizzazione sociale di tipo tradizionale a una di tipo moderno. Jurgen Habermas, autore di un importante studio sulla nascita del­ l’opinione pubblica, sottolinea che, se nella prima modernità si di­ stingue un pubblico culturalmente critico (rappresentato da un nuo­ vo soggetto emergente, il borghese-cittadino), la sfera pubblica bor­ ghese ha oggi subito una disgregazione profonda. All’attività critica del pubblico si sostituisce la pratica del consumo di cultura: una cul­ tura «di integrazione», secondo Habermas. In questa prospettiva gli individui non ragionano più per farsi un’opinione su fatti di pubbli­ co interesse, ma sono vittime della «costruzione del consenso», di una strategia Analizzata all’educazione dei «consumatori» piuttosto che dei «cittadini» (Habermas, 1998). Ora, come sostiene J. B. Thomp­ son (1998), la tesi di Habermas «accentua eccessivamente la passività degli individui» quali consumatori manipolabili. A tale proposito è importante sottolineare che la critica habermasiana dell’odierna in­ dustria culturale si inserisce nel solco di una tradizione sociologica novecentesca piuttosto influente, rappresentata dalla Scuola di Fran­ coforte, sulla quale è opportuno soffermarsi. Di derivazione marxista, gli esponenti della Scuola di Francoforte, e in particolare Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Adorno (1903-1969), nei primi decenni del secondo dopoguerra furono i so­ stenitori di una “ teoria critica” della società e dell’industria culturale. Come abbiamo visto nel p a r . 1.2.2, secondo Marx, l’ideologia bor­ ghese ottocentesca creava «falsa coscienza»: analogamente, per Hork­ heimer e Adorno, la produzione industriale dei beni culturali (il cui scopo principale è quello del conseguimento del profitto economico) «corrompe» gli individui e li riduce a consumatori, ne manipola le coscienze e li distoglie dai propri interessi reali. I mezzi di comunica­ zione diffondono valori fittizi e modelli conformisti che assicurano la passività delle masse e il consenso verso l’ordine costituito. Al valore 72

intrinseco dei beni culturali —o “valore d’uso” —subentra la priorità del loro valore commerciale —o “valore di scambio” (Horkheimer, Adorno, 1966). Herbert Marcuse (1898-1979), altra figura di spicco della Scuola di Francoforte, descrive il consumatore come un sogget­ to dell’alienazione «che viene inghiottito dalla sua esistenza alienata», perché i prodotti dell’industria culturale (ridotta a industria “del di­ vertimento”) «indottrinano» e «manipolano» (Marcuse, 1967). Le tesi della Scuola di Francoforte, che abbiamo qui brevemente sin­ tetizzato, hanno dato vita, nella seconda metà del Novecento, a un orientamento di un certo rilievo nelle scienze sociali. Tuttavia, è op­ portuno constatare che se, da un lato, l’odierna industria culturale e i mass media sono caratterizzati da evidenti strategie di persuasione e di condizionamento dei consumatori, è pur vero che le tesi degli esponenti della Scuola di Francoforte «erano eccessivamente negative e radicate in una concezione discutibile delle società moderne e delle loro tendenze di sviluppo» (J. B. Thompson, 1998, p. 16). Il pessimi­ smo della Scuola di Francoforte si colloca nell’ambito delle cosiddet­ te visioni apocalittiche dell’industria culturale, che in quest’ultima in­ dividuano prevalentemente un sistema di condizionamenti e un im­ poverimento dello spirito. In un fortunato saggio del 1964 Umberto Eco contrapponeva alla figura dell’apocalittico quella dell’integrato, il quale intravede invece un progresso nell’allargamento della base so­ ciale dei fruitori di cultura e di informazione. Le figure dell’apocalit­ tico e dell’integrato vanno considerate come due estremi, come due idealtipi che si riferiscono alla formulazione di due opposti giudizi di valore sulla cultura di massa, ma che di quest’ultima non consentono di indagare gli effetti sociali. Quello che ci interessa in questa sede è invece delineare una prospettiva interpretativa in grado di cogliere la natura della metamorfosi della vita sociale avvenuta con l’avvento dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento e dei moderni mezzi di comunicazione, fattori che nel loro insieme hanno trasfor­ mato una parte significativa della nostra esperienza del mondo socia­ le in esperienza di un mondo mediato.

4.3. Consumi culturali e tempo libero

La cultura di massa è in larga misura legata alla crescita del tempo libero nelle società avan­ zate. Essa dunque si riferisce a quello che gli individui “coltivano” in un tempo di vita non lavorativo. Il lavoro è innanzitutto un’attività 73

strumentale, spesso finalizzata prevalentemente all’acquisizione di reddito. Anche se l’attività lavorativa può essere fonte di gratificazio­ ne personale, essa è il più delle volte un mezzo, dunque una necessità, uno strumento e non un fine dell’esistenza individuale. La ricerca di un significato e di un ambito di identificazione avviene per molti al­ l’interno di quello spazio sociale privato, tipico della condizione del­ l’individuo contemporaneo e assente in altre epoche storiche, dove si è liberi di scegliere come trascorrere una parte del proprio tempo di vita. Il tempo libero può “ controbilanciare” le limitazioni che la sfera lavorativa impone al comportamento sociale. Mentre la vita “seria” prescrive un contenimento dell’emotività, le attività del tempo libero possono assolvere una funzione “deroutinizzante”, che consente di vivere emozioni più intense, ma pur sempre socialmente accettate come lecite. La possibilità di acquistare e consumare beni soddisfa un bisogno di senso dell’individuo che trascende la semplice sopravvivenza in ter­ mini materiali. Infatti, anche se da un punto di vista strettamente materiale potremmo attribuire un carattere superfluo alla gran parte dei beni di consumo, compresi alcuni beni culturali, questi sono co­ munque dotati di un significato sociale. Dunque, consumare è una funzione che contiene un senso. Anche i beni di consumo più con­ creti o strumentali sovente non si limitano a soddisfare un semplice bisogno primario dell’organismo, ma assumono un significato sim­ bolico: possono comunicare delle differenze di status (in questo caso si parla di “consumo ostentativo”), possono aiutare l’individuo a vei­ colare messaggi relativi alla propria identità o alla propria apparte­ nenza (si pensi alla scelta di un abbigliamento particolare, da parte di numerosi giovani, che consente di distinguersi dagli altri e nel con­ tempo di identificarsi con un gruppo ben preciso). Più semplicemen­ te il godimento di un bene permette di colmare quel sentimento di insoddisfazione personale che rientra tra gli stati emotivi più diffusi nell’ambito della vita lavorativa. In generale, un innalzamento del proprio tenore di vita è un obiettivo condiviso dalla maggior parte delle persone, un fine in grado di conferire un significato al progetto biografico individuale. Ciascun membro della società, ovviamente a seconda delle proprie possibilità economiche, si trova nella condizio­ ne di scegliere che cosa acquistare o consumare all’interno di un va­ sto assortimento di beni materiali o simbolici. Anche se esistono nu­ 74

merose strategie di persuasione messe in atto dai produttori per in­ durre i consumatori ad acquistare determinati beni, le scelte di con­ sumo dell’individuo contemporaneo tendono spesso alla ricerca della distinzione personale e non necessariamente all’omologazione in una massa generica o anonima. Ora, se consumare è un’attività che contiene un senso, l’industria dell’intrattenimento e dello spettacolo non si limita a “ coprire” il tempo libero degli individui, ma costituisce ima sfera della vita socia­ le nella quale essi raggiungono gratificazioni estetiche e nel contem­ po rinvengono valori e modelli di identificazione. Il cinema, la televi­ sione, la musica di largo consumo possono essere considerati a secon­ da dei casi come qualcosa di “frivolo” o di “edificante”, ma rientrano a pieno titolo nella sfera della cultura. Quale sia poi il “livello cultu­ rale” di un’opera (alto, basso ecc.) è un quesito che non investe ne­ cessariamente il mezzo attraverso il quale essa viene diffusa: un com­ pact disc o la pellicola di un film sono semplicemente dei supporti in grado di riprodurre opere il cui valore estetico, morale o sociale varia considerevolmente a seconda dei casi. In altri termini, l’industria cul­ turale si rivela depositaria di quello che si è soliti definire immagina­ no collettivo: un complesso di dispositivi simbolici, di modelli di identificazione, di miti e di fantasie, di narrazioni in grado di evocare una sorta di autorappresentazione di una società. Secondo Edgar Morin (1963), l’immaginario collettivo è organizzato intorno ad alcuni archetipi, a “ modelli-guida dello spirito umano” che rinveniamo per esempio nei miti e nelle grandi narrazioni ro­ manzesche. Se la creazione artistica e letteraria produce archetipi talvolta, letteralmente, li inventa - d’altra parte l’industria culturale ne snatura l’originalità conformandoli a una produzione standardiz­ zata. In altri termini, gli archetipi diventano stereotipi (cioè prodotti standardizzati fedeli a un cliché). I consumatori sono alla ricerca di prodotti sempre nuovi, ma la novità autentica (quella che produce archetipi) rischia di apparire troppo insolita agli occhi di un pubblico di massa. Di conseguenza i prodotti dell’industria culturale sono il frutto di una continua mediazione tra l’esigenza di un’innovazione e quella di una standardizzazione. Partendo da queste premesse, proviamo a prendere in considerazio­ ne, per fere un esempio, la musica di largo consumo genericamente identificata come “ rock”. Da un lato si tratta di un tipo di musica 75

che si fonda da decenni sulla stessa struttura (i suoi canoni fondamentali derivano addirittura dal blues e dal jazz del primo Novecen­ to), dall’altro nella storia del rock individuiamo dei momenti di straordinario rinnovamento. Negli anni sessanta i Beades sono passa­ ti alla storia come grandi innovatori, eppure essi hanno largamente attinto a un repertorio già consolidatosi negli anni cinquanta rom­ pendone però alcune convenzioni. La musica rock è fortemente ripe­ titiva, altamente standardizzata, eppure continua a riproporsi sul mercato grazie a una certa dose di inventiva. I musicisti migliori sono quelli che riescono a conciliare le due spinte contrastanti dell’innova­ zione (senza la quale non ci sarebbe produzione artistica) e della standardizzazione (senza la quale non ci sarebbe un mercato di mas­ sa). Questo paradosso pervade vari generi della produzione culturale di massa (persino le soap-opera, che si assomigliano un po’ tutte, de­ vono potersi distinguere l’una dall’altra). Il cinema è stato ormai consacrato al rango di un’arte vera e propria, eppure la maggior parte dei film non nasce dalla ricerca di nuove frontiere espressive, bensì tende a uniformarsi agli standard imposti dall’esistenza di diversi ge­ neri codificati. Anche se persiste un condizionamento inevitabile da parte del mer­ cato e del sistema della produzione industriale, negli ultimi decenni l’idea di una “ massificazione” dei consumi culturali è apparsa sempre •più inadeguata alla descrizione della realtà sociale. L’espressione “ cultura di massa” rischia di evocare l’immagine di un appiattimen­ to, di un’omologazione, di una realtà sociale indifferenziata. Quel che invece sembra imporsi nella fase attuale, all’alba del terzo millen­ nio, è una moltiplicazione degli ambiti di produzione e di consumo di cultura. Il caso della televisione è emblematico in tal senso. Infatti, accanto alla televisione “ generalista” (simbolo di un’epoca di omolo­ gazione dell’offerta e di massificazione del pubblico) sorgono le emit­ tenti televisive “ tematiche”, specializzate a soddisfare la domanda di utenti interessati a prodotti particolari e a generi specifici. Se il teleu­ tente, naturalmente in base al proprio potere d’acquisto, è in grado di accedere a questo nuovo mercato, allora egli cessa di essere un ele­ mento anonimo e passivo all’interno di una massa indistinta di spet­ tatori, mentre diviene egli stesso fautore di un proprio palinsesto per­ sonalizzato e confezionato su misura. 76

L’innovazione tecnologica in campo informatico consente inoltre di approdare all’integrazione di mezzi di comunicazione differenti —la cosiddetta multimedialità. L’avvento di Internet ha modificato il flusso di informazioni e di comunicazioni da una forma unidirezio­ nale (dall’emittente ai destinatari) a una bidirezionale o interattiva. Come rilevano Abruzzese e BorreUi, la transizione dai linguaggi della società di massa (per esempio la grande stampa o la televisione generalista) ai lin g u aggi cibernetici dei personal media (la cui essenza è in­ formatica e multimediale e il cui principio è l’interattività) rende ob­ soleta l’espressione tradizionale “ industria culturale”, mentre evoca quella di tecnologia culturale', un passaggio d’epoca «in cui la cultura rivela in questo modo la sua nanna tecnologica e in cui, contempora­ neamente, la tecnologia rivela sempre più la sua qualità culturale, li­ berandosi dei confini rigidi in cui l’aveva costretta il pensiero tradi­ zionale» (Abruzzese, Borrelli, 2000, pp. 251-2).

4 -4* Cultura e comunicazione Le nuove tecnologie dell’infor­ mazione e della comunicazione hanno ridefinito drasticamente il senso dello spazio e del tempo degli individui e della loro vita sociale. Com’è noto, Marshall McLuhan, nel 1964, riferendosi ai moderni mezzi di comunicazione, ha affermato che essi hanno ridotto «il glo­ bo a poco più che un villaggio». Nel dibattito più recente, il cosid­ detto processo di globalizzazione viene spesso descritto come una di­ retta conseguenza dello sviluppo delle grandi reti di comunicazioni. All’interno dello scenario di questi mutamenti tecnologici e sociali, “ informazione” e “ comunicazione” non vanno tuttavia considerate nozioni sinonime o intercambiabili. La confusione o la sovrapposi­ zione di questi due concetti costituisce infatti un grave errore pro­ spettico. Bisogna dunque operare una distinzione fra la teoria inge­ gneristica o matematica dell’informazione e la teoria della comunica­ zione in senso stretto. Nella classica teoria di C. E. Shannon e W. Weaver (1971), è comu­ nicazione la trasmissione di informazioni da parte di una “sorgente” nei confronti di un “ destinatario” . La diffusione del messaggio avvie­ ne attraverso un “canale” e consiste in una quantità di informazioni misurabili in cifre binarie o bit. Tale modello comprende inoltre un “codificatore” tra sorgente e canale e un “decodificatore” tra il canale e il destinatario. La quantità di informazione equivale alla quantità di 77

incertezza rimossa. Shannon e Weaver intendevano fornire un para­ digma matematico per la misura dell’informazione che si è rivelato utile per lo sviluppo delle tecnologie informatiche, ma che non con­ cerne tuttavia il contenuto semantico delle informazioni veicolate. GU esseri umani, rispetto ai calcolatori digitali, non si limitano a trat­ tare informazioni, bensì appaiono continuamente immersi in un processo comunicativo, basato sull’attribuzione di un significato so­ ciale ai messaggi veicolati. I significati di qualunque atto comunicativo dipendono dal contesto sociale nel quale avvengono, ma la comunicazione stessa contribuisce a definire la situazione sociale in cui i messaggi assumono un deter­ minato tipo di senso. Come ha mostrato Gregory Bateson (1976), una sequenza comunicativa implica la coesistenza di due livelli di astrazione differenti, giacché ogni comunicazione è sempre accompa­ gnata da determinati messaggi metacomunicativi (che hanno per og­ getto la comunicazione stessa e che si collocano quindi a un più ele­ vato livello di astrazione). Tali metamessaggi delineano il contesto nel quale interpretare un flusso di segnali. Dunque, la metacomunicazione consente di inquadrare in una sorta di cornice metaforica o frame sia le espressioni linguistiche, sia quelle non verbali. Per esempio, in­ dividuare la cornice metacomunicativa di un messaggio permette di distinguere un’asserzione metaforica da una letterale, un’espressione seria da una battuta umoristica: in definitiva essa genera un contesto per l’interpretazione. Quando cambia la cornice metacomunicativa cambia il significato da attribuire a espressioni o messaggi apparente­ mente identici. Nelle situazioni ordinarie gli individui si trovano a interagire faccia â faccia, cioè a comunicare in contesti nei quali essi sono fisicamente compresenti. Il flusso di comunicazioni tra un individuo e l’altro è reciproco e bidirezionale, è caratterizzato da “ retroazioni” (o feed­ back) immediate. I moderni media elettronici hanno però introdotto nuove forme di interazione comunicativa. In tal senso, J. B. Thomp­ son (1998) distingue tra interazione mediata e quasi-interazione me­ diata: nel primo caso (conversazioni telefoniche, scambi epistolari, comunicazioni via Internet ecc.) viene mantenuta una dimensione dialogica e dunque una cornice interattiva condivisa. Nella quasi-interazione-mediata (libri, giornali, radio, televisione ecc.) il flusso del­ la comunicazione è prevalentemente unidirezionale (in tal senso si 78

tratta di una “quasi” interazione). Esiste in questo caso un’asimme­ tria strutturale tra emittente e ricevente che rende problematico l’uso stesso della nozione di comunicazione in termini dialogici. Rispetto ai media tradizionali, i nuovi media sono caratterizzati da un alto grado di reciprocità (o interattività) del flusso di comunicazioni. La vita sociale nel mondo contemporaneo è costituita in misura sem­ pre maggiore da forme d’interazione non dirette. Abbiamo detto che, nonostante si parli comunemente di comunicazione “di massa”, il termine stesso “massa” rischia di trarre in inganno: si tratta più semplicemente di comunicazioni rivolte a una pluralità di destinatari (non necessariamente a una quantità enorme di individui). L’aspetto decisivo è quindi non già la presunta dimensione “di massa” della comunicazione mediata da mezzi elettronici, bensì la trasformazione dell’esperienza quotidiana, nella società globale, in esperienza di un mondo mediato, nel quale «la crescente disponibilità di prodotti me­ diali procura agli individui gli strumenti simbolici per prendere le di­ stanze dai contesti spazio-temporali della loro vita quotidiana e co­ struire il loro progetto esistenziale attraverso l’incorporazione riflessi­ va delle idee mediate che ricevono» (J. B. Thompson, 1998, p. 300). Per lungo tempo gli studi sulla comunicazione mediata, e in partico­ lare sulla televisione, si sono concentrati sugli effetti sociali dei media e sulla loro capacità di influenzare il pubblico. I media sono tra i principali depositari di un potere di tipo simbolico. Sulla falsariga di Thompson, possiamo distinguere infatti quattro tipi di potere: eco­ nomico, politico, coercitivo e simbolico. Si tratta di una distinzione analitica, poiché nella realtà effettuale questi poteri possono sovrap­ porsi o intrecciarsi. Differentemente dal potere economico e politi­ co, e dal potere “coercitivo” (basato sull’uso della minaccia: per esempio il potere militare), il potere simbolico o culturale consiste nella capacità di influenzare le idee degU individui e di indurli a pen­ sare o ad agire in un determinato modo. In varie epoche storiche le istituzioni religiose hanno esercitato un potere di questo tipo. Le odierne istituzioni educative e scolastiche, oltre a costituire delle agenzie di socializzazione, dispongono di un forte potere di condizio­ namento relativo alla trasmissione e alla distribuzione sociale della cultura. Tuttavia, i mezzi di comunicazione, in grado di veicolare verso una pluralità di destinatari messaggi dotati di senso, rappresen­ tano oggi il principale strumento per l’esercizio del potere culturale o 79

simbolico e l’industria dei media è l’istituzione sociale che si pone alla sua base. In sociologia è noto il detto di William H. Thomas secondo il quale «se gli uomini definiscono una situazione come reale, essa sarà reale nelle sue conseguenze». I mezzi di comunicazione hanno indub­ biamente il potere di definire determinate situazioni sociali come “reali”: negli Stati Uniti, nel 1938, un giovane attore, Orson Welles, durante una trasmissione radiofonica, riuscì a far credere ad alcune migliaia di ascoltatori che fosse davvero in corso un’invasione di extraterrestri. Se proviamo a pensare a casi più recenti, e alla più vasta audience dell’odierno sistema radiotelevisivo globale, gli episodi in cui i media hanno mostrato di esercitare un potere definitorio delle situazioni sociali sono molteplici. Più in generale, difficilmente met­ tiamo in dubbio il fatto che sia “vero” quello che ci mostrano la tele­ visione e i telegiornali. Tuttavia, se il potere di condizionamento dei media implica la possibilità stessa di definire come “ reali” delle noti­ zie o degli eventi, l’attività di ricezione dei destinatari dei prodotti dei media è assai meno passiva di quanto si pensi. Il dibattito sul po­ tere dei media - per esempio nel condizionare le scelte dell’elettorato o nell’indurre comportamenti antisociali mostrando con eccessiva frequenza scene di violenza —è piuttosto acceso e ha coinvolto al suo interno gli stessi scienziati sociali, i quali sovente non esitano a pren­ dere una posizione personale. D ’altra parte, negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi empirici finalizzati a comprendere quanto siano forti o, al contrario, limitati, gli effetti dei media sul loro pub­ blico e in che misura tali effetti si manifestano nel breve oppure nel lungo periodo. Poiché una rassegna di tali studi richiederebbe troppo spazio, in que­ sta sede ci limitiamo a evidenziare il fatto che, anche se la capacità dei consumatori dei media di decodificare in modo autonomo, critico od originale i messaggi veicolati varia notevolmente a seconda dei gruppi sociali, l’idea del pubblico quale “ massa” indifferenziata - im­ pegnata ad assorbire come una “spugna” i contenuti dei messaggi appare oggi troppo riduttiva. Da numerosi studi empirici relativi alla fruizione sociale dei media emerge che l’interpretazione dei messaggi dipende dal contesto in cui essa avviene e dalle risorse ermeneutiche possedute dai destinatari. Diversi telespettatori possono applicare ai messaggi veicolati da un telefilm, da un telegiornale o da un talk 80

show differenti chiavi interpretative: «neU’appropriarci del messaggio lo adattiamo alle nostre esistenze e contesti di vita» (J. B. Thompson, 1998, p. 66). In questa prospettiva, lo studio dei mezzi di comunicazione sposta il suo centro di interesse dal contenuto intrinseco del messaggio veico­ lato all’attività di ricezione che si svolge all’interno dei contesti sociali della vita quotidiana. Così, per esempio, un numero crescente di so­ ciologi risulta oggi incline a considerare la televisione non già come un oggetto di studio a se stante, bensì come un mezzo che occupa un posto ben preciso nella nostra vita sociale ordinaria. L’attenzione si focalizza in questo caso sulle situazioni concrete all’interno delle qua­ li i telespettatori, interagendo e discutendo fra di loro - per esempio nello spazio domestico - elaborano attivamente una specifica inter­ pretazione del messaggio televisivo ricorrendo innanzitutto alle risor­ se culturali o simboliche a loro disposizione, giacché la collocazione sociale non è la stessa per tutti i membri del pubblico: «le persone si danno sempre un gran da fare per cercare di riconciliare o mantenere un non facile equilibrio tra i mold messaggi che ricevono, o tra que­ so e i valori incorporad nelle pratiche abituali della loro vita quoti­ diana» (ivi, p. 250).

4.5. Rivoluzione digitale e innovazione culturale I mezzi di comunicazione tradizio­ nali e, successivamente, i nuovi media elettronici hanno ristrutturato una vasta gamma di situazioni sociali despaziai ¡zzandone gli scenari fisici, situazioni che divengono «sistemi informativi» e che, come suggerisce Joshua Meyrowitz (1995), vanno ridefinite oltre il senso del luogo. Tale movimento di “ deterritorializ^azione” raggiunge il cul­ mine con l’avvento delle reti telematiche globali, e in particolare di Internet, “ la rete delle red” . Il cosiddetto cyberspazio non ha luogo, ma fonda un legame interattivo e comunicadvo tra i soggetti di una “civiltà deterritorializzata”. La metafora della navigazione, che perva­ de il lessico sorto intorno all’uso di Internet, rimanda all’attraversa­ mento di uno spazio virtuale che non è fisicamente localizzato, a co­ municazioni che paradossalmente avvengono senza “avere luogo”. I media tradizionali si basano su uno schema di comunicazione “ a stella” , uno-molti (cioè il messaggio viene emesso unidirezionalmen­

4.5.I. Sociologia del cyberspazio

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te da una sorgente ed è diretto a una pluralità di destinatari, come nel caso della televisione), o “ a rete”, uno-uno, come nel caso del telefo­ no (il flusso è bidirezionale, ma coinvolge solo due utenti). Nel caso di Internet opera un dispositivo molti-molti: il numero degli emit­ tenti e dei destinatari delle comunicazioni è virtualmente illimitato e implica inoltre un rapporto interattivo. L’avvento di Internet rappre­ senta un passo decisivo verso l’integrazione di più mezzi di comuni­ cazione: la telefonia mobile, la televisione digitale, il compact disc ecc. divengono parti di un unico sistema complesso di comunicazio­ ne globale. Il computer cessa di essere un mero strumento di calcolo (la sua denominazione originaria era intesa in quell’accezione) e di­ viene un intermediario della comunicazione all’interno di una rete di rapporti sociali. Come nasce Internet? Nel 1969, in California, l’Agenzia per i proget­ ti di ricerca avanzata del ministero della Difesa statunitense (a r p a ) realizza a r p a n e t , una rete informatica destinata alla gestione delle informazioni militari. Successivamente, nel 1983, la Fondazione scientifica nazionale o n s f acquisisce la divisione civile di a r p a n e t (la rete militare o m i l n e t divenne un’entità a se stante) al fine di fa­ cilitare lo scambio di informazioni nell’ambito della ricerca scientifi­ ca e tecnologica. Internet è inizialmente il nome del protocollo di trasmissione che, a partire da quell’anno, permise agli utenti di diver­ se reti di entrare in connessione tra loro su scala globale o planetaria; un processo sancito definitivamente nel 1991 dall’avvento del world wide web, la “ ragnatela” che collega un numero virtualmente infini­ to di computer e che consente a ciascun “navigatore” di costruire un proprio percorso sfogliando degli ipertesti, cioè delle pagine che ri­ mandano ad altre pagine collegate tra loro dai cosiddetti links. La rivoluzione digitale, della quale Internet costituisce l’espressione più dirompente, comporta delle trasformazioni dei rapporti sociali ed economici che investono l’intero pianeta e che ristrutturano pro­ fondamente l’organizzazione sociale dello spazio e del tempo. Sul piano più concreto della vita quotidiana, l’uso della rete diviene uno dei molteplici piani dell’esperienza sociale e forse uno dei più signifi­ cativi. Emblematiche, in tal senso, sono le ricadute nella rivoluzione digitale sull’immaginario collettivo: lo stesso termine “ cyberspazio”, ormai d’uso corrente per designare la dimensione sociale e relaziona­ le di Internet, venne coniato in origine dallo scrittore di fantascienza 82

William Gibson, nel romanzo Neuromante del 1984, proprio per evo­ care la nuova frontiera della metamorfosi sociale generata dalla rivo­ luzione digitale. Più concretamente, l’ambito interattivo del cyber­ spazio diviene lo “spazio senza territorio” all’interno del quale un numero crescente di esseri umani si organizza tessendo nuove rela­ zioni sociali, dando vita a comunità virtuali, cioè a forme di associa­ zione svincolate dalla condivisione di uno stesso luogo fisico, ma ba­ sate su un’intensa attività comunicativa e relazionale: «la solidarietà praticata nelle reti non si fonda tanto sulla condivisione di fini uni­ versali, quanto piuttosto sul riconoscimento della diversità e della di­ gnità dei fini particolari» (Abruzzese, Borrelli, 2000, p. 228). Riassumendo, l’avvento di Internet favorisce, in un mondo globaliz­ zato, la circolazione sempre più vasta non solo di beni, servizi e de­ naro, ma anche di idee e di culture. Infatti, se da un lato la rete ap­ pare come una risorsa per le grandi aziende multinazionali e come una nuova fonte di profitto economico, dall’altro alcune comunità di utenti di Internet hanno dato vita “ dal basso” a dibattiti e mobilita­ zioni intorno ai cosiddetti diritti digitali (per esempio: il diritto all’accesso, il diritto alla privacy, il diritto al software gratuito, il di­ ritto all’anonimato). La rete si configura dunque come un vero e pro­ prio sistema sociale nel quale si ripropongono conflitti e vertenze intorno al tema della cittadinanza, cioè al problema delVinclusione sociale in un sistema di garanzie (e del suo opposto: l’ esclusione). Non è un caso che nei regimi totalitari l’accesso alla rete sia fortemente limitato o del tutto precluso. Si tratta, in altri termini, della defini­ zione di un assetto di regole che possa riprodurre in Internet la pro­ spettiva di una democrazia piuttosto che quella del dominio (e della tutela dell’interesse) di pochi rispetto ai molti. Dunque, la posta in gioco riguarda le dinamiche di autoregolazione di quel sistema di relazioni umane che trova in Internet il proprio spazio sociale e co­ municativo. In un mondo mediato la compresenza fi­ sica (dunque il contatto, o interazione, faccia-a-faccia) non costitui­ sce più l’unica situazione sociale significativa nell’organizzazione del­ l’esperienza degli individui. La tecnologia culturale, abbiamo visto, svolge una funzione determinante in tal senso poiché modifica le coordinate spazio-temporali della vita quotidiana. Ora, per com-

4.5.2. Verso un sé digitale?

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prendere questa metamorfosi sociale, consideriamo ad esempio il fe­ nomeno della sorveglianza: ciascuna società storicamente data eserci­ ta un controllo sui propri membri e alcune istituzioni sono preposte alla raccolta di informazioni relative alle persone che possono rappre­ sentare un pericolo per l’ordine sociale. I grandi regimi totalitari del Novecento portarono all’esasperazione le varie forme di sorveglianza burocratica e poliziesca; tuttavia, è innegabile che anche nei sistemi democratici i cittadini siano inevitabilmente soggetti al controllo so­ ciale. Come già aveva ampiamente descritto Max Weber, la raziona­ lità delle società moderne si incarna nella burocrazia: in questa pro­ spettiva, anche uno stato democratico deve poter raccogliere dati e informazioni su tutti i cittadini per operare calcoli e previsioni e per garantire l’efficienza della macchina amministrativa. Di conseguen­ za, una sorta di schedatura su base personale dei cittadini è presente inizialmente nella forma del “ fascicolo cartaceo” - in tutte le buro­ crazie. Questo implica una crescente “trasparenza” della vita dell’in­ dividuo contemporaneo, non soltanto nei termini di una sorveglian­ za, per così dire, poliziesca: con l’avvento del welfare state (cioè di uno stato che tutela e garantisce il benessere dei propri cittadini) l’i­ dentificazione burocratica dell’individuo sulla base del “ fascicolo personale” consente, ad esempio, una corretta certificazione dei dirit­ ti sociali di ciascuno (il diritto alle prestazioni della sanità pubblica, al trattamento previdenziale ecc.). Ora, la rivoluzione digitale ha ampliato le possibilità di un tale siste­ ma di controlli. Anche le modalità di sorveglianza delle persone so­ cialmente pericolose si arricchiscono delle opportunità offerte dalla tecnologia digitale. Michel Focault (1976) ha messo in evidenza come la possibilità di sorvegliare “ a vista” le persone fosse un tratto distintivo delle società moderne. Egli riprese l’idea del Panopticon, “ il luogo dove tutto è visto” da un controllore che rimane invisibile. Panopticon è il nome di un carcere modello, progettato alla fine del X V III secolo, le cui peculiarità architettoniche erano tali da rendere i detenuti costantemente osservabili senza che questi potessero mai ve­ dere il proprio sorvegliante. Anche se tale carcere non venne mai co­ struito, il “panoptismo” rimane una caratteristica tendenziale delle moderne istituzioni della sorveglianza e dei loro programmi discipli­ nari, un modello di funzionamento generalizzabile non solo nelle prigioni, ma anche negli ospedali, nelle fabbriche e persino nelle 84

scuole (si pensi solo alla possibilità di impedire di copiare durante gli esami). Con l’avvento delle tecnologie digitali il potere di sorveglianza non presuppone più la compresenza fisica: l’immagazzinamento informa­ tico dei dad personali, all’interno di numerosi database, da pane di varie istituzioni pubbliche e private rende visibile quello che il socio­ logo britannico David Lyon (1997) ha definito il sé digitale di un in­ dividuo, cioè l’immagine che può essere ricostruita collegando tutte quelle informazioni, relative a una persona, che sono disperse in nu­ merose banche dati ma che, una volta “ incrociate” o raffrontate gra­ zie ai computer, possono rendere chiunque, spesso a sua insaputa, una sorta di “ uomo di vetro” , trasparente, sorvegliabile e prevedibile. Tutto questo non riguarda solo i criminali o le persone socialmente pericolose, ma in generale i cittadini. Si pensi alle specifiche pratiche di sorveglianza della vita quotidiana della gente comune: dal monitoraggio delle città (video e telesorveglianza), al corpo umano quale fonte di informazione (come nel caso estremo della schedatura “ bio­ metrica” del d n a ) . Più in generale, una vasta gamma di comportamenú quotidiani di ciascun individuo sono sottoposti allo sguardo elettronico. Fra gli esempi più elementari, l’uso del bancomat e della carta di credito, la richiesta di un rimborso per malattia, il prestito bibliotecario di un libro, la visita di alcuni siti Internet. I computer registrano i nostri movimenti o le nostre transazioni e chi ha il potere di farlo effettua controlli incrociati con le informazioni presenti nei database di altri computer. Tutto questo ha indotto Lyon e altri studiosi a tematizzare l’idea di un Panopticon elettronico, dato che la vita della gente appare sem­ pre più trasparente non solo agli occhi delle autorità amministrative o poliziesche, ma anche nell’ambito del mercato. In questa prospetti­ va, l’immagine contemporanea dell’individuo socialmente integrato corrisponde a quella di un consumatore affidabile, all’interno della nuova logica dell’esclusione e della cittadinanza. Infatti, mentre colo­ ro che non sono in grado di accedere ai consumi divengono dei deviami - e subiscono un processo di esclusione sociale, che coincide con la mancanza di credito e talvolta con l’assenza di diritti di citta­ dinanza - anche la sorveglianza elettronica delle persone comuni si sposta nell’area del consumo: l’imprenditoria dei dati personali, la sorveglianza commerciale, la violazione della privacy divengono 85

aspetti significativi della prassi di chi impiega il marketing per per­ suadere i consumatori ad acquistare beni o servizi. Tutto questo par­ rebbe evocare non già l’immagine del “ Grande Fratello” tratteggiata da George Orwell in 1984, bensì di tanti “ Piccoli Fratelli” esperti del­ la sorveglianza commerciale. D ’altra parte, la possibilità, per un qual­ siasi individuo, di essere accettato a tutti gli effetti quale membro della società appare legata alle capacità di consumo. Il “ sé digitale” del consumatore è dunque la prova della sua eventuale rispettabilità redditizia. Potremmo poi aggiungere che nell’odierno capitalismo cibernetico chi non ha un “ passaporto”, una carta di credito, chi in sostanza non è contemplato o non esiste in determinati database non può accedere alle forme di consumo contemporaneo (si pensi per esempio all’E-commerce o alle varie forme di denaro elettronico e alle altre nuove frontiere del consumo in una società globale e informa­ tizzata). In conclusione, se da un lato Lyon e altri studiosi hanno sviluppato un’idea della sorveglianza elettronica che potrà apparire a tratti un po’ eccessiva o apocalittica, essa ha il merito di evocare alcune carat­ teristiche del mutamento sociale in atto e di mostrarci come l’impat­ to delle tecnologie digitali comporti conseguenze rilevanti sul piano dell’organizzazione quotidiana della vita di ciascuno di noi. Tali tra­ sformazioni si inseriscono nel quadro di un altro processo di ampia portata che contraddistingue la nostra epoca, sul quale ci soffermere­ mo nel prossimo capitolo: la globalizzazione.

Per riassumere... • Nel mondo moderno, in una società basata su un’economia di mercato, anche i prodotti della cultura assumono il carattere di merce e gli individui diventano consumatori di beni culturali. A partire dall’invenzione del libro a stampa nel xv secolo, sino all’avvento dei nuovi media elettronici, si ve­ rifica un progressivo processo di mediatizzazione della cultura. • Se da un lato gli esponenti della Scuola di Francoforte hanno intravi­ sto nell’industria culturale e nei mass media una fonte di alienazione e di manipolazione delle coscienze, dall'altro l'idea di una “massificazione” dei consumi culturali appare oggi inadeguata alla descrizione della realtà so­ ciale. Emerge piuttosto la moltiplicazione degli ambiti di produzione e di 86

consumo della cultura, all'interno di un mondo sociale che si configura in maniera crescente come un mondo mediato. • Negli studi sociologici sui mezzi di comunicazione - e in particolare sulla televisione - l’idea di un'audience intesa quale “massa” indifferen­ ziata che assorbe passivamente i contenuti intrinseci dei prodotti mediali ha ceduto il passo a una concezione attiva e creativa della ricezione dei messaggi mediali, secondo la quale i destinatari adottano diverse chiavi interpretative a seconda dei contesti sociali nei quali si collocano e delle risorse ermeneutiche che possiedono. • La rivoluzione digitale favorisce il passaggio dai mass media ai perso­ nal media - basati sull’interattività - che consentono di integrare i vari mezzi di comunicazione tradizionalmente separati. Con l'avvento di Inter­ net si crea progressivamente un unico sistema complesso di comunicazio­ ne, nel quale il computer non va considerato più un semplice strumento di calcolo o di elaborazione elettronica di informazioni, bensì come un inter­ mediario della comunicazione in una rete globale di rapporti sociali. • La rivoluzione digitale rivela un carattere ambivalente: da un lato si moltiplicano le chances di comunicazione e le comunità “virtuali”, dall’al­ tro sorge l'insidia autoritaria delle nuove forme di controllo sociale tele­ matico o di sorveglianza digitale. Di conseguenza, i temi della cittadinanza “digitale” e l’idea di una democrazia “elettronica" costituiscono uno dei punti nodali del dibattito contemporaneo.

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5. Cultura e globalizzazione 5.1. Che cosa si intende per globalizzazione Uno dei più il­ lustri sociologi contemporanei, Zygmunt Bauman, ha scritto recen­ temente: «La parola “globalizzazione” è sulla bocca di tutti; è un mito, un’idea fascinosa, una sorta di chiave con la quale si vogliono aprire i misteri del presente e del futuro; pronunciarla è diventato di gran moda» (Bauman, 1999a, p. 3). Ora, benché il significato di que­ sto termine sia alquanto controverso e solo apparentemente ovvio, la maggior parte degli scienziati sociali condivide l’idea che “ globalizza­ zione” designi un passaggio d’epoca, una trasformazione radicale del nostro modo di vivere che coinvolge l’intero pianeta in una fitta rete di interdipendenze. Al fine di incominciare a definire cosa si intende per globalizzazione è necessario sottolineare che essa può essere analizzata a più livelli. È innanzitutto un processo economico inerente alla circolazione delle merci e dei capitali su scala mondiale. La liberalizzazione del com­ mercio a livello planetario implica il dominio delle imprese “ transna­ zionali” e la tendenza alla deregulation dei movimenti del capitale ad esempio la mobilità o il “ nomadismo” degli investimenti e degli investitori, non più vincolati a un luogo fisso o a un territorio nazio­ nale - e l’affermarsi dei mercati finanziari globali. Minimizzando i costi e massimizzando i profitti, la globalizzazione produce nuova ricchezza, ma anche nuove povertà. Come riassume Giddens (1994, p. 71): «Il risultato non è per forza di cose una serie generalizzata di mutamenti che agiscono in una direzione univoca, bensì una serie di tendenze reciprocamente opposte. La crescente prosperità di un’area urbana a Singapore può avere un nesso causale [..,] con l’impoveri­ mento di un sobborgo di Pittsburgh i cui prodotti hanno perso com­ petitività sui mercati mondiali». Sul piano politico la globalizzazione implica almeno in parte un decli­ no dello Stato-nazione. Come riassume Ulrich Beck (1999, p. 16): «La società mondiale che, in seguito alla globalizzazione, si è svilup­ pata in molte direzioni (non solo in quella economica), sfugge, rela­ tivizza lo Stato-nazione perché una pluralità, non legata a un luogo, di sfere sociali, reti di comunicazione, rapporti di mercato, modi di 88

vita, avviluppa i confini territoriali dello Stato-nazione». Insomma, viviamo in una società mondiale priva di uno Stato e di un governo mondiali. L’economia si svincola dal controllo dei singoli Stati, i quali mantengono tuttavia una sovranità sul loro territorio, per esempio in campo fiscale e soprattutto le funzioni di controllo e di polizia (Mezzadra, Petrillo, 2000). Se sul piano economico viene fa­ vorita la libera circolazione delle merci, le politiche dei singoli stati, tesi ad arginare i nuovi flussi migratori, riducono la libertà di movi­ mento delle persone e dunque la libera circolazione di forza lavoro (Dal Lago, 1999). La mobilità geografica, cioè la possibilità di spo­ starsi sul territorio planetario, diviene il principale fattore della strati­ ficazione sociale (vale a dire della disuguaglianza e della divisione in classi). Essa distingue i “globali” dai “ locali”: ai primi consente di deterritorializzarsi nella loro libertà di movimento, libertà della quale i secondi risultano privi. Ai “locali” , per riprendere ancora un esempio di Bauman, non rimane che pagare in contanti (per viaggiare nell’affollata stiva di una nave di clandestini) più di quanto i “globali” pa­ ghino con denaro elettronico per un posto di business class in aereo. Il nuovo ordine mondiale che si è venuto a determinare dopo il crol­ lo del muro di Berlino del 1989, che ha sancito la fine del bipolarismo U SA -U R SS, non si rivela affatto privo di contraddizioni. Crescono in particolare i conflitti militari in diverse aree del pianeta e una diffusa frammentazione di singole nazioni, spesso, quest’ultima, favorita delle contraddizioni che sorgono in seno all’eterogeneità culturale dei vari paesi: se al termine della Seconda guerra mondiale si conta­ vano all’incirca cinquanta paesi, oggi se ne contano quasi duecento. All’unificazione dei mercati, al mondo che si erge a unità globale, si contrappone, sul piano politico e culturale, un «mondo di frammen­ ti» (Geertz, 1999). In altri termini, la globalizzazione si rivela profon­ damente ambivalente: essa «unisce mentre divide, divide mentre uni­ sce» (Bauman, 1999a, p. 4). Se, sul piano dei consumi e degli stili di vita, assistiamo a una pro­ gressiva occidentalizzazione del pianeta, questa non si risolve in un’o­ mologazione delle culture: semmai crescono l’eterogeneità culturale, il metissage e l’ibridazione: «nella sfera della letteratura o della musica popolare, nell’arte o nel cinema, l’intrecciarsi di temi tratti da diffe­ renti tradizioni - questa continua ibridazione della cultura - è stato il 89

nutrimento di alcune delle opere più originali ed esaltanti» (J. B. Thompson, 1998, p. 287). Nel 1964 Marshall McLuhan affermò che i moderni mezzi di comu­ nicazione avevano ridotto il globo pressoché alle stesse dimensioni di un villaggio. In effetti, l’espressione “villaggio globale” è entrata a far parte del linguaggio comune molto prima che la parola “globalizza­ zione” contagiasse il lessico delle scienze politiche e sociali. I circuiti globali della comunicazione vengono ormai considerati pressoché al­ l’unanimità come il fattore tecnico basilare di un processo mondiale che travalica i confini dei singoli Stati-nazione. In tal senso, Ulrich Beck riporta un esempio alquanto suggestivo: il servizio annunci dell’aeroporto di Tegel a Berlino, nella fascia oraria successiva alle diciotto, viene fornito on line dalla California, per una semplice questione di convenienza economica legata al costo del la­ voro notturno in Germania. L’odierno sistema delle telecomunica­ zioni lo consente, rendendo obsoleto uno degli assunti dell’organiz­ zazione del lavoro delle società industriali moderne: l’obbligo di con­ dividere lo stesso luogo al fine di produrre beni o servizi (Beck, 1999 )Secondo J. B. Thompson, l’inizio della globalizzazione può essere addirittura ricondotto all’allargamento degli scambi commerciali av­ venuto a cavallo tra il x v e il xvi secolo. L’invenzione del libro a stampa, abbiamo visto nel p a r . 4.2, aveva favorito una più ampia cir­ colazione delle idee e dei prodotti culturali ben oltre i confini dei luoghi nei quali quelle stesse idee erano sorte e quei prodotti erano stati elaborati. Nei secoli successivi, lo sviluppo del colonialismo e la rivoluzione industriale determinarono progressivamente una rete di interdipendenze su scala internazionale che consentì ai paesi occi­ dentali l’importazione di materie prime dai paesi periferici - sottopo­ sti al loro dominio - e l’esportazione dei prodotti dell’industria manufatturiera in diverse regioni del mondo. L’innovazione tecnologi­ ca, a partire dal x ix secolo, rese davvero possibile l’esistenza di reti di comunicazione mondiali. Nel 1865 venne costruita una linea telegra­ fica diretta tra l’Inghilterra e l’India. Nell’anno seguente venne ulti­ mata una rete transadantica di cavi sottomarini. Tutto questo sancì l’esistenza tangibile dei primi sistemi di comunicazione transconti­ nentali: sistemi che sconvolsero le tradizionali coordinate spazio­ temporali relative alla trasmissione di informazioni. Parallelamente, 90

la nascita delle prime agenzie internazionali di informazione lavori un’accelerazione della circolazione di dati e di notizie non solo presso il pubblico che era in grado di accedere agli organi di stampa, ma an­ che, più specificamente, fra gli operatori del commercio, modifican­ do inoltre la natura stessa delle relazioni fra i vari centri del potere politico sparsi per il pianeta e dunque i loro rapporti diplomatici. A cavallo fra l’Otto e il Novecento l’avvento dei mezzi di trasmissio­ ne fondati sullo sfruttamento delle onde elettromagnetiche costituì un salto di qualità decisivo: superato il problema della necessità del supporto di cavi fissi, il mezzo radiofonico, nelle sue varie versioni, consentì un’intensificazione dei flussi di informazione e comunica­ zione a tal punto che, già nel 1906, in occasione di una conferenza in­ ternazionale organizzata a Berlino, emersero i primi problemi tecnici relativi alla cosiddetta scarsità dell’etere, insieme alla necessità di una regolamentazione della distribuzione delle concessioni delle frequen­ ze. Nell’arco di meno di un secolo le reti di comunicazione transna­ zionale hanno assunto poi una funzione decisiva sul piano economi­ co, politico e militare, anche se, come conclude Thompson, «abbia­ mo dovuto attendere gli anni sessanta e il lancio dei primi satelliti geostazionari perché la comunicazione per trasmissione elettroma­ gnetica diventasse di ampiezza veramente globale» (J. B. Thompson, 1998, p. 224). Da ultimo, come abbiamo già visto, le nuove tecnolo­ gie digitali, le reti telematiche e in particolare Internet, vanno consi­ derate a un tempo causa ed effetto della globalizzazione: esse incarna­ no quella compressione dello spazio e del tempo che segna la riduzio­ ne del mondo a un’unità complessa, a una sorta di metastruttura che connette una fitta trama di relazioni culturali, politiche ed economi­ che mai vista prima in qualsiasi altra epoca storica.

5.2. Migrazioni, esclusione sociale e razzismo Per migra­ zione si intende un movimento di popolazione che coinvolge diffe­ renti aree geografiche collocabili sia all’interno dello stesso territorio nazionale - come accadde in Italia negli anni sessanta durante il co­ siddetto boom economico - , sia al suo esterno, come nel caso delle migrazioni internazionali tipiche dell’epoca contemporanea. Dal punto di vista della sociologia dei processi culturali, le migrazio­ ni sono state spesso studiate in relazione alle modalità di adattamen­ to di differenti gruppi sociali all’interno di un nuovo contesto. In 91

particolare, negli anni venti e trenta del Novecento, gli studiosi della Scuola di Chicago (R. E. Park, W. H. Thomas, F. Znaniecki e altri) analizzarono le conseguenze sociali delle trasformazioni avvenute nella metropoli americana quando popolazioni di migranti prove­ nienti da numerosi paesi europei si trovarono a convivere in una me­ tropoli sorta in maniera disordinata nell’arco di pochi decenni (Dal Lago, De Biasi, 2002). L’oggetto dell’indagine sociologica era rappre­ sentato da un lato dal fenomeno della disorganizzazione sociale (cioè la perdita di influenza delle norme sociali nei confronti dei membri individuali dei vari gruppi di immigrati), dall’altro da una possibile “ riorganizzazione” , dall’inserimento dei migranti in un nuovo tessu­ to sociale. Termini tuttora in uso nel dibattito corrente, come “ inte­ grazione” e “assimilazione”, nacquero in quel contesto quali sinoni­ mi di “americanizzazione”. In questa prospettiva, i migranti subiva­ no un processo di “ integrazione” nel momento in cui dimenticavano di appartenere a una patria d’origine e abbracciavano l’ideale della fe­ deltà alla nuova patria (Mezzadra, 2001). La riflessione della sociologia contemporanea sulle nuove migrazioni internazionali sembra porsi invece il problema della custodia della diversità culturale piuttosto che quello dell’assimilazione. D ’altra parte, diviene difficile, nelle scienze sociali, isolare un aspetto specifi­ co (la “cultura”, in questo caso) di fenomeni così profondamente complessi, giacché, innanzitutto, le migrazioni contemporanee sono legate al processo di internazionalizzazione dell’economia e si ali­ mentano del divario, in termini di ricchezza, che divide i paesi occi­ dentali da quelli più poveri (questi ultimi non più unicamente circoscritti a quello che un tempo si definiva “Terzo mondo”: si pensi per esempio all’Europa dell’Est). Gli studi più recenti si soffermano su diversi aspetti del fenomeno migratorio: dalla funzione assolta dai lavoratori stranieri - sia nel mercato ufficiale, sia nella cosiddetta economia sommersa —alle poli­ tiche sanitarie e di accoglienza, sino all’inserimento scolastico degli immigrati “di seconda generazione”. Inoltre, l’indagine dei progetti migratori consente di ricostruire il punto di vista dei soggetti, le loro intenzioni e le loro motivazioni alla mobilità: progetti che spesso ri­ velano una pluralità di scopi e di obiettivi che vengono costantemen­ te ridefiniti nel corso del processo della migrazione. Un settore di in­ dagine particolarmente privilegiato in questi ultimi anni è costituito 92

dai fenomeni di criminalità e di devianza riconducibili alla presenza straniera, e dalle modalità di disciplinamento e di controllo sociale delle istituzioni coinvolte. Quest’ultimo argomento si è rivelato al­ quanto controverso. Infatti, al di là delle dimensioni concrete dei comportamenti illegali attribuiti ai cittadini stranieri, il nesso immi­ grazione-criminalità è uno dei punti nodali dei discorsi relativi al fe­ nomeno migratorio in qualunque contesto: dalla politica ai media sino alla chiacchiera quotidiana dei cittadini comuni. L ’enfasi attri­ buita alla pericolosità sociale dei migranti ha così contribuito ad am­ plificare l’allarme sociale e sovente a ridurre un fenomeno così com­ plesso, qual è quello migratorio, a un mero problema di ordine pub­ blico. Dal punto di vista sociologico, gli atteggiamenti con i quali le popolazioni residenti reagiscono alle nuove migrazioni sono indub­ biamente un argomento di interesse cruciale. Si tratta di un fenome­ no i cui risvolti problematici possono essere osservati a occhio nudo, quotidianamente, anche nella nostra esperienza sociale diretta. Ora, l’inserimento dei migranti nelle società locali contribuisce ad accrescere la complessità culturale del mondo contemporaneo: da una parte si presenta l'opportunità di una convivenza e di un incon­ tro tra individui e collettività di origini diverse, dall’altra si registra spesso una reazione di chiusura e di ostilità nei confronti del fenome­ no migratorio. La stessa terminologia delle scienze sociali rischia tal­ volta di rimanere succube dei pregiudizi di senso comune: la defini­ zione di “ immigrato” , che rispecchia prevalentemente il punto di vi­ sta della società di “accoglienza”, può occultare la dimensione com­ plessiva dei processi migratori. Il termine “ migranti”, che abbiamo scelto di adottare, indica «la condizione sociale dei soggetti che ab­ bandonano il loro spazio nazionale», mentre il termine “ immigrati” si riferisce piuttosto «al modo in cui le nostre società li trattano e li etichettano» (Dal Lago, 1999, p. 17). Se da un lato i migranti partecipano attivamente al sistema economi­ co produttivo dei paesi del Nord ricco del mondo, dall’altro il loro inserimento nelle cosiddette società di accoglienza viene spesso osta­ colato da pratiche discriminatone messe in atto sia da attori istituzio­ nali, sia dai cittadini comuni nella vita quotidiana più spicciola. In­ fatti, se il verificarsi di determinati flussi migratori è un fenomeno ti­ pico dell’epoca della globalizzazione, tuttavia esso viene spesso vissu93

to, a livello locale, in termini prevalentemente allarmistici. L’emer­ genza immigrazione richiede politiche finalizzate all’inserimento dei migranti, ma il più delle volte i media e l’opinione pubblica locale pongono l’accento sulla necessità di risposte poliziesche o repressive nei confronti degli “stranieri” quali “ soggetti pericolosi” . L’esistenza di un sentimento di insicurezza nell’opinione pubblica locale, tutta­ via, non dovrebbe indurre il sociologo a limitare la propria attenzio­ ne alla pericolosità sociale dei migranti, bensì ad analizzare anche come quello stesso sentimento di insicurezza sia a sua volta social­ mente costruito. Ora, secondo il già citato “ teorema di Thomas”, se gli uomini defini­ scono una situazione sociale come reale, essa sarà reale nelle sue con­ seguenze: un’eccessiva amplificazione da parte dei media della peri­ colosità sociale dei migranti ha provocato una paura diffusa nei loro confronti che tenderà ad autoconvalidarsi nell’esperienza concreta, troverà in ogni singolo episodio di cronaca nera pertinente la prova di una minaccia per l’ordine pubblico generalizzabile a tutti gli “stra­ nieri” . In Italia questo fenomeno si è verificato anche in presenza di una diminuzione oggettiva o misurabile dei reati attribuiti agli “ stra­ nieri” . Alcune ricerche svolte sull’argomento mostrano infatti «la ca­ pacità di una definizione allarmistica di diventare oggettiva, e quindi predominante» (Dal Lago, 1999, p. 73). Abbiamo definito la “ cittadinanza” come il sistema d eïïinclusione so­ ciale in un complesso di garanzie. I migranti ai quali non vengono ri­ conosciuti determinati diritti sono quindi oggetto di un processo di esclusione. Essi divengono non-persone, individui che certo esistono come entità biologiche, ma che risultano spogliati dello status di per­ sona, cioè di un complesso di diritti e di riconoscimenti. Il processo di inferiorizzazione che si trovano a subire i migranti “ esclusi” non investe solo il piano delle garanzie giuridiche. Per riprendere alcuni termini sociologici introdotti nel secondo capitolo, esso rimanda a ti­ pizzazioni sociali ben precise che spesso alimentano il senso comune. Dal punto di vista delle scienze sociali, esistono vari termini che desi­ gnano aspetti specifici degli atteggiamenti di ostilità o di discrimina­ zione nei confronti di coloro che vengono percepiti come “altri” o come “ stranieri” . Seguendo la classificazione operata da Pierre-André Taguieff (1999), possiamo distinguere tra: 94

• etnocentrismo: l’atteggiamento di autopreferenza di un gruppo che valuta le cose esclusivamente in base alle proprie norme e ai pro­ pri valori, ritenuti intrinsecamente superiori. Di conseguenza, si trat­ ta di un atteggiamento di disprezzo o comunque sfavorevole nei con­ fronti degli altri gruppi umani; • xenofobia: l’atteggiamento di ostilità o di paura verso gli stra­ nieri; • pregiudizio: l’opinione preconcetta che sorge da una generalizza­ zione indebita e che conferisce tratti stereotipati (negativi o positivi a seconda dei casi) a un’intera categoria sociale o a determinati gruppi umani; • razzismo: costruzione ideologica o pseudoscientifica tesa a inferiorizzare diversi gruppi umani secondo una scala gerarchica. Mentre il tradizionale razzismo “ biologico” individuava alcune caratteristi­ che innate dell’inferiorità di determinati gruppi umani, l’odierno razzismo “culturale” muove dall’inferiorizzazione di elementi quali usi, costumi, religione ecc. In altri termini, l’inferiorità culturale de­ gli stranieri o dei “ diversi” subentra a quella biologica. È di importanza cruciale evidenziare che il termine “ razza” è stato definitivamente abolito dal lessico delle scienze sociali, poiché lo stu­ dio della diversità dei gruppi umani non può e non deve essere fina­ lizzato a stabilire una scala gerarchica. Rimane opportuno, inoltre, distinguere tra etnocentrismo e razzismo. L ’etnocentrismo è stato un fenomeno tipico della cultura occidentale moderna: esso opponeva i “civilizzati” ai “selvaggi”. Ancor oggi il rifiuto dell’alterità culturale assume spesso i connotati dell’etnocentrismo. Il razzismo ha invece biologizzato le differenze: ha indebitamente reso “ naturale” la diver­ sità culturale e ha avanzato la pretesa di poterlo dimostrare scientifi­ camente. Poiché il razzismo non è unicamente un atteggiamento, bensì anche una pratica, esso ha potuto in alcuni casi estremi giustifi­ care l’annientamento totale di un gruppo (si pensi all'olocausto, cioè allo sterminio degli ebrei nella Seconda guerra mondiale, o alle varie altre forme di genocidio degli ultimi decenni). Oggi l’assunto scien­ tifico dell’unicità della specie umana è generalmente riconosciuto, insieme al carattere universale dei diritti umani ma, come abbiamo visto, nelle società avanzate contemporanee possono sorgere modali­ tà o strategie di demonizzazione e di ostilità nei confronti di altri gruppi umani che fanno leva sulla loro presunta inferiorità culturale. 95

53 - Icone della globalizzazione: il caso di McDonald’s Esi­ stono alcune icone, altamente evocative, relative ai consumi e agli sti­ li di vita nell’epoca della globalizzazione. Cosi come il marchio della Coca-Cola, durante la cosiddetta guerra fredda, simboleggiava il do­ minio internazionale del “consumismo” e dell’opulenza degli Stati Uniti (e, agli occhi dei suoi avversari politici, l’imperialismo norda­ mericano), oggi McDonald’s rappresenta uno dei bersagli polemici privilegiad della critica politica della globalizzazione. Infatti i McDo­ nald^ sono presenti ovunque e questa onnipresenza può essere anche interpretata come l’emblema di una “ norma mercantile” che, a parti­ re dall’annullamento delle diversità delle culture culinarie, cancella le differenze e le tradizioni locali. Si tratta dunque di cattedrali di un consumismo globalizzato, di un fattore di “omologazione”, di non­ luoghi assolutamente anonimi? Di metafore di una socialità “ fred­ da”, coatta, predeterminata e a tratti anche disumana? Ovviamente, almeno dal punto di vista della sociologia, non esiste ima risposta privilegiata a una siffatta domanda del tutto retorica. Quel che ci in­ teressa in questa sede è invece il fatto che le caratteristiche del proces­ so che è stato definito da alcuni studiosi come “mcdonaldizzazione del mondo” vanno al di là della semplice trasformazione avvenuta in uno specifico settore del commercio (nella fattispecie quello della ri­ storazione), e investono vari aspetti significativi della nostra vita so­ ciale. Quando visitiamo un paese straniero, come semplici turisti, talvolta non conosciamo le modalità interattive che regolano l’acquisto di un prodotto nel microuniverso locale, in un suk o in un bazar, ma in un qualsivoglia non-luogo certamente siamo al corrente dei codici neu­ tri, universali e standardizzati che governano le transazioni finalizzate al consumo. In un McDonald’s, a Roma come a New York o a Pe­ chino, non soltanto troviamo gli stessi prodotti, lo stesso hamburger (che ovunque avrà lo stesso peso e lo stesso sapore), ma anche il me­ desimo arredamento e gli stessi codici di interazione sociale standar­ dizzata (come prendere il vassoio in fretta e andarsene subito dopo aver consumato). Non avremo neanche bisogno di pagare con la mo­ neta locale, giacché il denaro elettronico (per esempio una carta v i ­ s a ) ha una valenza anch’essa neutra e universale, che porta alle estre­ me conseguenze il ragionamento di Simmel (cfr. PAR. 1.4 . 1) relativo 96

al denaro quale cifra del moderno, che «misura tutte le cose con spie­ tata oggettività». La scelta di pranzare da McDonald’s, piuttosto che in un ignoto ri­ storante tipico del luogo esotico che stiamo visitando da turisti, è emblematica dell’alternativa tra due codici, uno universale, uno par­ ticolare, l’uno globale, l’altro locale. Nel primo caso sappiamo cosa ci aspetta, perché l’hamburger sarà presumibilmente lo stesso lì come altrove e il suo prezzo sarà codificato e non contrattabile. Nel caso del ristorante locale potremmo invece assaggiare specialità gustose del tutto inedite, ma anche, al contrario, rimanere delusi da una cu­ cina alquanto distante dal nostro palato, se non del tutto indigesta, e infine rimanere sorpresi dalla presentazione di un conto più salato di quello che sembrava “sulla carta” Ovviamente non possiamo saperlo a priori: sta a noi decidere se ridurre l’incertezza facendo affidamento sulle qualità già note del fast-food o se rischiare un’avventura gastro­ nomica - nel bene e nel male —dagli esiti imprevisti. Secondo George Ritzer, un mondo “mcdonaldizzato” è però in gra­ do di offrirci, a tutti i livelli, efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo. Si tratta infatti delle quattro caratteristiche che Max We­ ber - come abbiamo illustrato nel p a r . 1.2.2 - aveva individuato nel­ la burocrazia moderna intesa quale paradigma della razionalizzazio­ ne. In questa prospettiva, McDonald’s non si limita più a incarnare un “ mito americano”, bensì subentra alla struttura burocratica quale nuovo modello del processo di razionalizzazione. Abbiamo detto che McDonald’s esiste quasi dappertutto: già nel 1992 aprì un locale a Pechino - il più grande in assoluto, con oltre settecento posti a sede­ re - e lì come altrove offre al consumatore i vantaggi dell 'efficienza, della calcolabilità, della prevedibilità e del controllo. Soffermiamoci dunque sulla natura di queste caratteristiche del fenomeno. L’industria del fast-food, organizzata in base a una catena di montag­ gio che snellisce il processo della preparazione e del servizio, garanti­ sce efficienza al cliente a tal punto da fargli fare una parte del lavoro che spetterebbe ai camerieri. McDonald’s garantisce calcolabilità: si tratta di un universo sociale nel quale la quantità trionfa sulla qualità. Infatti, benché si sia costretti a mangiare “di corsa” , sappiamo a prio­ ri quanto mangeremo, quanto tempo ci metteremo a farlo e quanto spenderemo. Tutto questo grazie anche all’impiego di una tecnologia che, nell’organizzazione del lavoro, subentra all’uomo e garantisce 97

tempi prefissati nella preparazione del prodotto e un rispetto mate­ matico del peso e delle misure standard di quest’ultimo. La prevedibilità (intesa qui quale terza dimensione della mcdonaldizzazione) è una caratteristica di quesd sistemi che rende possibile il (atto che il servizio risulti identico dovunque e in qualsiasi istante: dalla standardizzazione degli ambienti e dell’arredamento dei fastfood ai protocolli che prescrivono i rituali di comportamento dei dipendend, sino all’offerta di prodotti pressoché uguali in ogni punto vendita sparso sul globo. Del resto, «in una società razionale le perso­ ne preferiscono sapere cosa aspettarsi in ogni circostanza» (Ritzer, 1997, p. 139). Il controllo (la quarta dimensione della mcdonaldizzazione) implica la sosdtuzione di una parte del lavoro “vivo” dell’esse­ re umano con l’automazione. Non solo gli strumend meccanici svol­ gono alcune funzioni assolte tradizionalmente dai lavoratori, ma la stessa tecnologia ricopre in modo impeccabile una funzione di con­ trollo sulle persone: sia per quel che riguarda la resa del lavoro dei di­ pendenti, sia al fine di condizionare i clienti stessi con l’obiettivo di trasformarli «in più docili collaboratori dei processi mcdonaldizzati» (ivi, p. 199). Naturalmente, questa descrizione pressoché ineccepibile della razio­ nalizzazione di tali processi considera anche l’altro lato della meda­ glia. Come già aveva ammonito Weber, infatti, esiste una sorta di in­ comprimibile “ irrazionalità” della razionalizzazione: la “ razionalità” (cioè la mera inclinazione al calcolo formale del rapporto fra mezzi e fini) non coincide con la “Ragione” con la R maiuscola e nemmeno con la ragionevolezza. Ci siamo già soffermati sul fatto che Weber avvertì a suo tempo quelle che sarebbero state le distorsioni dello svi­ luppo del fenomeno burocratico nei loro aspetti più inquietanti. Egli aveva intuito il fatto che la stessa razionalizzazione avrebbe poi deter­ minato degli effetti irrazionali. Secondo Ritzer, i sistemi mcdonal­ dizzati possono rivelarsi nocivi per la salute dei clienti (quantomeno a parere dei nutrizionisti più pignoli: preoccupazione comunque le­ gittima dopo l’esplosione del problema dei rischi legati al consumo di carne bovina) e pericolosi per l’ambiente (producono tra l’altro una notevole quantità di rifiuti non biodegradabili). Nella descrizio­ ne di Ritzer, i sistemi mcdonaldizzati possono inoltre apparire “disu­ mani” per gli addetti che lavorano al loro interno: l’assoluta inter­ cambiabilità dei lavoratori impiegati nel fast-food li rende “ un mero 98

ingranaggio” , inibisce le doti creative e l’iniziativa dei singoli, dun­ que rende il lavoro ripetitivo e alienante. Infine, nonostante tutti gli sforzi tesi alla razionalizzazione del processo di ristorazione, un bana­ le guasto al modem che consente di pagare il conto con moneta elet­ tronica o il semplice formarsi di lunghe code alla cassa divengono in­ cidenti inevitabili e generano una tensione che, come avrebbe impie­ tosamente notato Erving Goffman, rischia di far saltare quello stesso rapporto di «finta cordialità» tra gli addetti e i clienti prescritto dalla regola numero 17 del mansionario dei dipendenti del fast-food: «Sor­ ridi sempre» (Ritzer, 1997, p. 221). In conclusione, benché l’analisi di Ritzer, che abbiamo qui somma­ riamente discusso, possa apparire a tratti eccessivamente apocalittica e poco imparziale, essa ha il merito di indicarci il nuovo volto assun­ to dalla razionalizzazione weberiana in una società globale. Efficien­ za, quantificazione, calcolo, prevedibilità e controllo pervadono ogni ambito della vita sociale ormai ben oltre i confini del “vecchio” mon­ do occidentale.

5.4. Globalizzazione e diversità culturale Come riassume l’antropologo U lf Hannerz (2001, pp. 17-8), «Ogni volta che si cita il termine globalizzazione ci si aspettano reazioni di entusiasmo o di condanna. Per gli uomini d’affari e i giornalisti si tratta di un termine dai risvolti in genere positivi - maggiori notizie, maggiori opportuni­ tà. Sul piano dell’“ imperialismo culturale” , invece, la globalizzazione diventa qualcosa di negativo [...] in certi casi, la “globalizzazione” appare una minaccia». Abbiamo affermato che la globalizzazione ge­ nera, almeno in parte, una progressiva occidentalizzazione del piane­ ta e che tuttavia questa non si risolve in un’omologazione delle cultu­ re. Per esempio, i prodotti del sistema radiotelevisivo americano han­ no conquistato una quota rilevante del mercato àc\Yaudience nell’a­ rena globale, ma non si tratta di un processo di influenza culturale a senso unico: «Quanto più i materiali simbolici circolano su scala glo­ bale, tanto più il processo di ricezione appare legarsi ai contesti locali. È qui che i prodotti globalizzati dei media vengono interpretati dagli individui e incorporati nella loro vita quotidiana» (J. B. Thompson, 1998, p. 247). In ciascun contesto specifico di ricezione, gli individui ricorrono alle loro risorse ermeneutiche - spesso legate a una specifi­ ca tradizione - per appropriarsi di prodotti mediali globalizzati. 99

Esclusi i paesi che rimangono ostinatamente chiusi e refrattari alla “ contaminazione” culturale (paesi che spesso vivono in un regime di isolamento politico o di integralismo religioso), l’eterogeneità e la pluralità coesistono con i tentativi di “occidentalizzazione” attribuiti correntemente all’industria culturale e al sistema radiotelevisivo nor­ damericano. Quel che le scienze sociali rilevano nell’epoca contem­ poranea non è un processo di omogeneizzazione globale della cultura mondiale, bensì una crescente dialettica globale/locale ben lontana dal provocare la “ morte” della diversità culturale. Le società complesse e altamente differenziate dell’Occidente sono caratterizzate da una forte eterogeneità: la coesistenza di differenti forme culturali e di gruppi sociali provenienti da tradizioni diverse pone sul tappeto la questione del riconoscimento dell’alterità o, in al­ tri termini, il problema delle regole per una convivenza solidale (Cre­ spi, 1996, cap. 6 ). Se il mondo moderno è sorto parallelamente all’imporsi della rivendicazione di un diritto all’ uguaglianza, nell’epoca contemporanea sorge la questione del diritto alla differenza. Fra i teo­ rici del “ multiculturalismo”, Charles Taylor si è concentrato sul tema del riconoscimento, cioè sulla rivendicazione di un eguale valore per culture differenti: è «La richiesta di non lasciarle soltanto soprav­ vivere, ma di prendere atto che sono preziose» (Taylor, 1993, p. 91). Tuttavia, questo discorso rimanda inevitabilmente al dominio dell’e­ tica: si tratta di un ragionamento filosofico relativo alla sfera del “do­ ver essere”, non a una descrizione empirica della realtà sociale. In al­ tri termini, “ multiculturalismo” è un’espressione che si è affermata in un dibattito tutto interno al ceto intellettuale delle società del Nord ricco del mondo al fine di pensare una risposta etica a una si­ tuazione di disagio o di pericolo: prescrive un modello di dialogo e di confronto, ma non descrive, né tantomeno spiega, la natura asimme­ trica e conflittuale delle differenze osservabili, invece, dallo scienziato sociale. In tal senso, risulta sociologicamente ingannevole definire la società contemporanea come “ multiculturale” solo per il fatto che essa è culturalmente eterogenea (Dal Lago, 1999). Come abbiamo vi­ sto nel caso delle migrazioni, il rapporto tra “ noi” e “ loro” non si configura empiricamente, cioè nei fatti, come una relazione “ oriz­ zontale”, paritaria, di apertura o di dialogo (questo a prescindere dal fatto che dal punto di vista della filosofia morale quel tipo di relazio­ ne sarebbe giusta o auspicabile). Certo, la sociologia della cultura 100

può contribuire a pensare la convivenza con l’altro, ma non come un mero esercizio di retorica filosofica, bensì indicando le contraddizio­ ni e i paradossi del mondo sociale, la sua ambivalenza, i suoi conflitti, rinunciando con disincanto alla tentazione di confondere le interpre­ tazioni sociologiche con prescrizioni normative o con linee d’azione che finirebbero col dare risposte semplici a domande complesse. In definitiva, come rileva Bauman, se per alcuni la globalizzazione è una «conquista», un supplemento di libertà, per altri essa rappresenta una sorta di destino «non voluto» e «crudele»: «mettere in discussione le premesse apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere può essere considerato il più urgente dei servizi che dobbiamo svol­ gere per noi e per gli altri» (Bauman, 1999a, p. 8).

5.5. Conclusioni: come ripensare la cultura?

I temi trattati in questo capitolo sollecitano alcune considerazioni che investono l’intero complesso di problematiche affrontato nel volume. Infetti, se da un lato l’oggetto di studio della sociologia dei processi culturali ha subito delle trasformazioni profonde, dall’altro è legittimo pensare che nel contempo questa stessa disciplina abbia anch’essa assunto un volto e delle caratteristiche nuove. In tal senso, non intendiamo esporre qui dei concetti o delle nozioni, bensì una riflessione che in­ tende rilanciare l’idea di un carattere dinamico e aperto della discipli­ na che abbiamo cercato di introdurre in questo libro. Negli anni venti del Novecento William Fielding Ogburn coniò l’e­ spressione «ritardo culturale» per designare lo scarto esistente tra i cambiamenti materiali, sempre più veloci, da un lato, e la cultura (i valori, la tradizione, gli atteggiamenti ecc.), dall’altro. L’assenza di una corrispondenza tra queste due dimensioni poteva generare diver­ si problemi nella società moderna. Ogburn distingueva fra la «cultu­ ra materiale» («case, macchine, fàbbriche, materie prime, prodotti manufatti, sostanze alimentari» ecc.) e la «cultura adattiva», cioè «quella parte di cultura non materiale che si adegua alle condizioni materiali» (Griswold, 1997, p. 89). Tuttavia, nelle scienze sociali odierne, l’idea di un ritardo della “ cultura” rischia di essere inganne­ vole. L’opinione che una cultura debba necessariamente adattarsi a un cambiamento, o che comunque alla fine lo faccia, anche se lenta­ mente, non pare prestarsi a spiegare i problemi posti dalla globalizza­ zione. Diversamente dall’epoca della loro fondazione, oggi le scienze 101

sociali non intendono indicare o prescrivere una via maestra dello sviluppo storico, di conseguenza non sono più così ingenue da affer­ mare che esiste un qualche “ritardo” rispetto a un’ipotetica via già tracciata, o a degli stadi predeterminati, del divenire storico-sociale. Abbiamo precisato sin dall’inizio che il termine “ cultura” , nelle scienze sociali, rimanda a una distinzione analitica con la quale designamo alcune dimensioni particolari dell’esperienza umana. Nel corso dell’esposizione abbiamo cercato di descrivere e interpretare determinati processi culturali senza tuttavia enfatizzare troppo il concetto stesso di “ cultura”, soffermandoci altresì su fenomeni ben precisi: dalla conoscenza alla socializzazione, dalla comunicazione ai rituali. «La cultura - afferma Geertz - non è un potere, qualcosa a cui possiamo causalmente attribuire eventi sociali, comportamenti, istituzioni o processi; essa è un contesto, qualcosa entro cui questi eventi possono essere descritti in maniera intelligibile» (Geertz, 1987, p. 22). Nell’antropologia contemporanea il concetto di cultura - che è poi la parola-chiave di quella disciplina - è stato di recente oggetto di un profondo ripensamento critico. Così, alcuni studiosi hanno discusso sull’opportunità di declinare questo termine al plurale. Se l’antropo­ logia è lo studio della diversità umana, le culture potevano essere con­ siderate «le unità principali di tale diversità» (Hannerz, 2001, p. 8). La preoccupazione era dettata dal timore che, nella descrizione del presente, la globalizzazione comportasse l’estinzione stessa della di­ versità culturale. Altri studiosi hanno coniato il termine metacultura per designare un livello più astratto di interconnessione delle diffe­ renze. Quando Hannerz conclude la propria riflessione sullo statuto della disciplina con una battuta lapidaria - «Teniamoci la cultura» egli intende sollecitare l’antropologia a «criticare» e «riformare» la sua nozione-chiave per tutelarne la custodia. Geertz - che è certamente un altro illustre critico innovativo del con­ cetto di cultura —ha tematizzato il lavoro dei grandi antropologi del Novecento come il tentativo di leggere un manoscritto “ straniero”, “sbiadito” , come la narrazione dell’incontro dell’Occidente con il suo Altro. Con la fine del colonialismo e la scomparsa di società “pri­ mitive” ancora isolate o incontaminate, oggi il compito del ricercato­ re è mutato profondamente. Per esempio, nel lavoro sul campo, la fonte primaria dei resoconti etnografici dei grandi antropologi scatu­ 102

riva da una dicotomia divenuta ormai inservibile, quella che oppone­ va il “civilizzato” al “selvaggio” . L’antropologo era tradizionalmente uno studioso che lasciava il proprio paese per studiarne uno lontano. L 'essere qui (nella nostra società occidentale) e l'essere là (cioè immer­ so nello studio di una cultura “ altra” ) sono diventate sempre più en­ tità ambigue che hanno mutato la loro stessa natura. In questo senso si tende a parlare di un “ rimpatrio” dell’antropologia (Dal Lago, De Biasi, 2002). Oggi, nell’epoca della globalizzazione, la crescita della cosiddetta complessità sociale è l’emblema di quel disordine, di quel­ la sovrapposizione del “ là” e del “ qui” . Nello studio delle culture che convivono nelle nostre società avanzate e altamente differenziate, lo scarto fra l’esotico e il familiare giunge a un tempo all’esasperazione e all’unificazione degli opposti. Rispetto alla condizione dell’antropo­ logo classico, oggi il sociologo non deve inventarsi un accesso a una cultura “ altra”, deve fare i conti con la propria, semmai distanziarse­ ne per vederla in tutt’altra luce. In altri termini, lo studioso che si ac­ cinge a interpretare la propria cultura vivrà inevitabilmente una sen­ sazione di estraniamento, non più semplicemente per il fatto che si trova a doversi distanziare dal mondo sociale al quale appartiene, ma anche perché quel mondo non gli è più del tutto familiare: anche per il sociologo la differenza culturale non rimanda più all’esotico, grazie alle conseguenze della globalizzazione pervade ora la sua società. Come abbiamo illustrato nel p a r . 2.5.1, una particolare corrente mi­ crosociologica, l’etnometodologia, si è sforzata di rendere problema­ tico quel che diamo per scontato nella vita ordinaria, ma questo im­ plica per il ricercatore l’assunzione della riflessività del proprio reso­ conto scientifico. Nel p a r . 2.5.2 abbiamo visto come alcuni sviluppi della sociologia della scienza hanno suggerito una traiettoria analoga pur movendo da un altro campo di studi. Nel 1970, Alvin Gouldner, al termine di una lunga analisi di quella che definiva la «crisi della sociologia», che pareva caratterizzare quel periodo (una crisi legata al declino di un paradigma dominante: il funzionalismo), rilanciava l’idea di una sociologia riflessiva in grado di rivolgersi a se stessa (Gouldner, 1980). Più in generale, nell’episte­ mologia delle scienze naturali e sociali è emersa la necessità di reinte­ grare l’osservatore nell’osservazione, vale a dire il riconoscimento del fatto che ogni descrizione del mondo coinvolge colui che lo descrive 103

in una relazione circolare e riflessiva di reciproca influenza. “ Riflessi­ vità” è infine divenuta una parola-chiave della teoria sociologica con­ temporanea: le scienze sociali hanno assunto esse stesse come oggetto del proprio discorso. Seppur in modi diversi, con stili di analisi diffe­ renti, alcuni dei più illustri esponenti della sociologia contempora­ nea, da Pierre Bourdieu ad Anthony Giddens, hanno adottato “ ri­ flessività” quale termine fondamentale del linguaggio sociologico. La sfida che la complessità culturale dell’epoca della globalizzazione lan­ cia alle scienze sociali verte proprio su questo: se la ricerca sociologica è parte integrante del processo di costruzione sociale della realtà, essa deve assumere riflessivamente la consapevolezza di questo dato nel proprio metodo e nelle proprie analisi. Senza sovrastimare in modo retorico o nominalistico il concetto di cultura, possiamo allora legit­ timamente affermare che, se vogliamo comprendere il mondo con­ temporaneo, ancor oggi persiste una centralità dello studio dei pro­ cessi culturali. Per concludere con le parole di Clifford Geertz, «Rite­ nendo con Max Weber che l’uomo è un animale imprigionato in una ragnatela di significato che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste reti».

Per riassumere... • La maggior parte degli scienziati sociali condivide l’idea che la globa­ lizzazione segni un passaggio d’epoca, una trasformazione radicale del no­ stro modo di vivere che coinvolge l’intero pianeta in una fitta rete di inter­ dipendenze. • Le nuove migrazioni internazionali costituiscono un aspetto importan­ te dell’odierna globalizzazione, legato al problema della “cittadinanza” come sistema dell’ inclusione sociale in un complesso di garanzie. I mi­ granti ai quali non vengono riconosciuti determinati diritti sono quindi og­ getto di un processo di esclusione, in forza del quale divengono non-persone. Le pratiche di discriminazione possono scaturire da atteggiamenti di inferiorizzazione dei gruppi sociali differenti quali l’etnocentrismo, il pre­ giudizio, la xenofobia e il razzismo. • McDonald’s è diventato una sorta di icona della globalizzazione, che evoca trasformazioni sociali che vanno al di là dei cambiamenti avvenuti in uno specifico settore del commercio. Efficienza, quantificazione, calcolo. 104

prevedibilità e controllo pervadono ogni ambito della vita sociale ormai ben oltre i confini del “vecchio" mondo occidentale. • Le società complesse e altamente differenziate dell’Occidente sono ca­ ratterizzate da una forte eterogeneità: la coesistenza di differenti forme culturali e di gruppi sociali provenienti da tradizioni diverse sollevano la questione del riconoscimento della diversità culturale e delle regole per una convivenza solidale.

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Bibliografìa Letture consigliate Capitolo 1

Sul dibattito relativo alle origini del concetto di cultura nelle scienze umane ricordia­ mo l’antologia, a cura di P. r o s s i , I l concetto di cultura. 1fondamenti teorici della scien­ za antropologica, Einaudi, Torino 1970. Per un’esposizione sistematica dei temi e delle aree di ricerca della sociologia della cultura, comprensiva di un’ampia bibliografìa, cfr. in particolare c r e s p i (1996). Per una più agile introduzione cfr. g r i s w o l d (1997). 1 testi che illustrano il pensiero dei padri della sociologia sono ormai numerosi: riman­ diamo in particolare a l . c o s e r , 7 maestri del pensiero sociologico, il Mulino, Bologna 1983, il quale dedica capitoli specifici anche a Simmel e Mannheim, autori che solita­ mente compaiono in secondo piano nella manualistica disponibile. Capitolo 2

Sul rapporto tra vita quotidiana e senso comune in A. s c h ü t z si vedano i suoi Saggi sociologici, UTET, Torino 1979. Sull’idea di “costruzione sociale della realtà” rimane fondamentale il saggio di b e r g e r , l u c k m a n n (1995). Sul processo di socializzazione nelle sue varie implicazioni cfr. m . g h i s l e n i , r . m o s c a t i , Che cosi la socializzazione, Carocci, Roma 2001. Sul rapporto tra etnometodologia, microsociologia e teoria so­ ciale si vedano c o l l i n s (1992, cap. 8) e P. p. g i g l i o l i , Rituale, interazione, vita quo­ tidiana, CLUEB, Bologna 1990; per un primo approccio si consiglia la lettura di G. f e l e , Etnometodologia, Carocci, Roma 2002. Per un’esposizione sintetica dei temi e dello sviluppo storico della sociologia della scienza cfr. g a l l i n o (1989); per una rassegna del dibattito più recente rimandiamo a a . p i c k e r i n g (a cura di), La scienza come pra­ tica e cultura, Comunità, Milano 2001 (ed. or. 1992). Capitolo 3

Per una formulazione del problema della “ mediazione simbolica” quale caratteristica essenziale del rapporto fra individuo e società cfr. F. c r e s p i , Le vie della sociologia, il Mulino, Bologna 1985, cap. 1. Sulla nozione di “ rituale” nella sociologia classica cfr. in particolare d u r k h e im (1971). Un’ampia riflessione introduttiva relativa ai rituali “ se­ colari” del mondo contemporaneo è presente nel cap. 6 del manuale di c o l l i n s (1992). Sulla “ metafora drammaturgica” e l’interpretazione dei microrituali interper­ sonali si veda l’ormai classica monografia di e . g o f f m a n , La vita quotidiana come rap­ presentazione, il Mulino, Bologna 2000. Sul tema dei rituali contemporanei segnalia­ mo R iti d ’oggi, numero monografico di “ aut aut”, 303, 2001, che raccoglie diversi studi empirici. Per un’applicazione della nozione di rituale al fenomeno del tifo calcistico

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cfr. BROMBERGER (1999) e d a l l a g o (1001). Per una ricostruzione storica del rappor­ to che intercorre fra lo sport e il rituale rimandiamo a g u t t m a n n (1994). Sulle diver­ se dimensioni dell’esperienza religiosa cfr. a c q u a v iv a , p a c e (1992). Sulla relazione tra fede, secolarizzazione e religione rimandiamo a b e r g e r (1994). Capitolo 4

Sull’industria culturale cfr. a b r u z z e s e , b o r r e l l i (2000); sulla comunicazione di massa e la mediatizzazione della cultura cfr. j. B. T h o m p s o n (1998). Il volume a cura di E. d i n a l l o , I l significato sociaU ilei consumo, Laterza, Roma-Bari 1997, costituisce un’utile antologia di testi relativi alla sociologia dei consumi. Il tema della nascita del­ l’opinione pubblica è stato affrontato inizialmente da h a b e r m a s (1998); per una criti­ ca delle sue tesi cfr. ancora J. b . T h o m p s o n (1998), cap. 2. Sulla sorveglianza elettro­ nica cfr. l y o n (1997). Per una trattazione socioantropologica della rivoluzione digita­ le, accessibile anche ai non specialisti, rimandiamo a p. l é v y , Cybercultura. G li usi so­ ciali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano 1997. Le origini di Internet sono state raccontate efficacemente da k . h a f n e r , m . l y o n in La storia del futuro, Feltrinelli, Milano 1997. Capitolo 5

Le pubblicazioni che affrontano il fenomeno della globalizzazione sono ormai nume­ rose; per un’introduzione al problema cfr. b e c k (1999); per una bibliografia ragionata rimandiamo a m e z z a d r a , p e t r il l o (2000). Sul rapporto fra migrazioni ed esclusio­ ne sociale cfr.

d a l lago

(1999). Per un primo approfondimento del problema del raz­

zismo e delle varie modalità di discriminazione cfr. t a g u i e f f (1999). Sulla cosiddetta mcdonaldizzazione della società globale cfr. r i t z e r (1997). Sulla diversità culturale cfr.

(2000). Sull’idea di “ multiculturalismo” cfr. infine Ta y l o r (1993).

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