Che cos'è il cinema
 8868434210, 9788868434212

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Indice

Introduzione

Attorstudio Toni Servilio e Carlo Verdone Sean Connery Meryl Streep Al Pacino Valeria Golino

Leggende David Cronenberg DavidLynch Terrence Malick ArthurPenn Emir Kusturica Wim '\"lenders

Contemporanea Olivier Assayas Giuseppe Tornatore Nicolas Winding Refn

Remember Silvana Mangano Suso Cecchi D~mico Francesco Rosi Mario Monicelli

Testimonianze Per non vedere col paraocchidi di Gianni Canova L'arte dell'intervista di Valerio Cappelli La scoperta dell'emozione

di Fulvia Caprara Dalla nascita dell'Auditorium alla creazione della Festa di Carlo Fuortes A distanza ravvicinata di Domenico Starnone

Che cosa è il cinema

Introduzione Che cosa è il cinema? Un dispositivo impeccabile di riproduzione della realtà, un linguaggio fatto di immagini e suoni che implica ricche competenze e complesse tecnologie, il punto di intersezione tra la rappresentazione del mondo e la pressione strepitosa delle nostre fantasie? Le conversazioni che compongono il presente libro offrono uno spostamento sensibile e non ordinario di queste consolidate prospettive. Il cinema, per chi lo fa e per chi lo riceve, è innanzitutto un processo di profonda sperimentazione della soggettività: un film si vede con gli occhi e si abita con tutto il proprio corpo. Per questo c'è sempre un corpo immaginario tra le inquadrature di un film, un nostro avatar che, come un cane dietro una lepre, insegue qualcosa che è stato posto all'inizio della successiva inquadratura da un io che non conosciamo (l'autore di un film: che è poi un autore collettivo formato dal regista moltiplicato chiunque vi abbia messo le mani per realizzarlo). Nonostante sia trasparente come la luce e privo di peso come le idee, un film è qualcosa che ha a che fare con la carne e la pelle almeno quanto il cinema ha avuto a che fare in passato con la coltre trasparente di una pellicola. È fatto di corpi capaci di possedere un controllo da arte marziale (Servilio), di avere una reattività da atleta che gli consente, ad ogni stimolo, di procedere «per conto suo» (Verdone), di essere a capo di ogni sua parte, dalle sopracciglia alle spalle che riempiono uno smoking o il taglio di una giacca (Connery). Il cinema stesso è fatto di corpi trasformati in contrasti di l uce che scorrono su uno schermo: nessuno degli sguardi degli attori che attraversano l'inquadratura sarà mai in grado di vedere le persone che sono in sala al buio, nessuno degli sguardi che dalla sala raggiungono lo schermo potrà mai davvero attraversarlo. L'inquadratura, in fondo, diaframma impalpabile, è tenuta in equilibrio da due sguardi ciechi che non potranno mai toccarsi. Gli attori fanno finta di non sapere che ci siamo noi che li guardiamo. Noi facciamo finta di non esserci. Il cinema è questa partita di fantasmi giocata, senza risparmio di investimento, da corpi vivi. In questa transazione quella dell'attore è l'esperienza di maggiore incandescenza: ad essa è dedicata la prima parte del libro. Da questi dialoghi emerge che recitare significa affrontare esperienze, per certi versi, non meno radicali e vere della ,;ta reale, come la profonda incertezza (Meryl Streep) o la paura (Al Pacino), il tumulto della pressione di emozioni intense e difformi che è la fornace dentro la quale nasce la forza espressiva di un attore. Che è il punto di massima concentrazione degli sguardi: di un regista, di una troupe, del pubblico. Una concentrazione che è una sorta di focolaio di energia, ma anche la condizione inesorabile di stress, solitudine, consumo psichico. Tanto che, a volte, passare dall'altra parte della macchina da presa significa assicurarsi una vacanza: «Per una volta non volevo essere il mio corpo», scopre Valeria Golino che acquisisce i diritti di un libro con l'idea di diventare la protagonista del film che se ne può trarre e finisce invece per non «scritturarsi», decidendo di realizzarne un film come regista. «Facendo questo lavoro sei molto spesso nella condizione di essere felicemente guardato, se no che lo fai a fare 'sto lavoro. Detto questo: se negli anni sei guardato, guardato, guardato e poi ti ritrovi in questa situazione in cui sei solo tu che vedi, allora ti rilassi». Guardare, guardare e poi guardare. L'intensità non è un monopolio dell'esperienza dell'attore. Non si capisce il cinema di autori così personali e inno,,ativi come Cronenberg o Lynch se non si capisce che prima di essere una professione o uno strumento per esprimersi, per essi il cinema è innanzitutto un luogo di sfida indi,;duale insostituibile o inaudito: il film diventa allora quel simulacro di un corpo attraverso il quale sperimentare immagini e suoni destinati a spostare il limite estremo del rapporto tra la nostra realtà fisica e le tecnologie, l'apparenza ordinaria del nostro quotidiano e il mistero che ogni dettaglio isolato può celare, la possibilità di creare mondi completamente diversi dal nostro per mirarli terrorizzati o stupefatti. Le forme di migrazione della soggettività capaci di ritagliarsi in uno schermo, precipitare dentro uno sguardo, disperdersi in un paesaggio sono l'officina di chi crea i film: non c'è grande autore che in un dialogo in profondità non riveli che il desiderio da cui nasce un

film è innamitutto la possibilità di esserne spettatori o l'insopprimibile necessità di diventarlo. Nei film di Terrence Malick, ancor prima dell'eccellenza di una visione, del virtuosismo di un linguaggio, della stratificazione di un racconto, ciò che il pubblico avverte è l'allarme di una sensibilità che dispone del potere sublime di una visione e il dolore dell'irreparabilità del mondo. Può tra essi, almeno il cinema, realizzare solo per un istante un accordo? La prima, immediata, incontrovertibile esperienza di un film è la contaminazione tra il flusso dei nostri pensieri e quello delle immagini e dei suoni del

film. A chi appartiene questo ibrido di entrambi? Come nella fisica subatomica, c'è un momento in cui è impossibile capire dove si trova ciò che appartiene al mio sguardo e ciò che è la materia, l'altro da me: il limite oltre il quale non è più possibile dividere ciò che dice «io» nel m io corpo da ciò che fa la stessa cosa in un film, il quale sembra lasciare un vuoto, una concavità im,; sibile in cui è il mio sguardo ad adagiarsi per avere accesso alle cose, a/are la realtà. Per questo il cinema di grandi autori può essere anche descritto come un viaggio per mettere in gioco «il modo in cui costruiamo la realtà nella mente» (Cronenberg). Il cinema può avere questo potere, ma non può mai liberarsi completamente del mondo delle cui apparenze è fatto il suo linguaggio. Ogni inquadratura è sempre una contraddizione tra la libertà della mia immaginazione e l'indifferente oggettività delle cose che il cinema può riprodurre nell'illimitata precisione dei suoi dettagli. Ci sono molti grandi registi il cui cinema può essere descritto come la realizzazione simbolica di questa equazione impossibile. Il potere del cinema, l'incondizionata refrattarietà della vita. I film, da questo punto di vista, sono gli involucri immateriali di un ossimoro impronunciabile: qualcosa che nella realtà non può darsi ma che il cinema, attraverso uno stile, è in grado di consegnare agli spettatori come un dono. Il cinema come festa permanente, rito dionisiaco, carnevale ininterrotto, come flagrante obiezione nei confronti della gravità del mondo e della storia, si è generato negli occhi, nel cuore e nella musica di un regista nato in uno dei luoghi più drammatici del mondo, come racconta Kusturica. Altre volte invece, il cinema appare come una radura sacra, il luogo dell'intelligenza e dell'empatia, quasi un abitacolo socratico dove gli uomini si conoscono e lavorano insieme realizzando standard di intimità etica ed estetica sconosciuti al vissuto di ognuno. Arthur Penn, uno dei più grandi registi di tutti i tempi (mai un suo film che somigli ad altri suoi film e raramente a qualcos'altro fatto prima), l'uomo che ha diretto hfarlon Brando, Paul N ewman, Anne Bancroft, Robert Redford, Warren Beatty, Jack Nicholson, Jane Fonda, Gene Hackman descrive la collaborazione con un attore come un gesto di fraternità e abbandono che rimanda a forme di relazioni intersoggettive profonde ed esclusive. Tornatore racconta il set come una comunità la cui condivisione di emozioni, valori, idee è una sorta di elezione involontaria, di avventura esistenziale non meno che professionale capace di cambiare il destino di vite ordinarie e, di nuovo, di incidere in modo cruciale sul profilo della soggettività: sull'idea che abbiamo di noi, sui rapporti che abbiamo con gli altri, su chi siamo e su cosa fame di noi stessi. Il cinema, come la fotografi.a per W1mders, significa prendere la mira sul mondo: il rinculo di quello sguardo finisce per includerci «nel paesaggio», per proiettare l'ombra del nostro profilo su ciò che abbiamo guardato, come scrisse una volta Serge Daney, forse il più grande critico cinematografico francese contemporaneo. La grandezza delle foto di Salgado non è data proprio da quel mix indiscernibile di bellezza e tremore, stupore e disperazione in cui oggetto e soggetto del pun to di vista (che non

è solo il punto da dove si guarda ma anche il punto che si gua1·da) diventano indistingUJ"bili? Anche in questo caso, il cinema diventa il luogo immaginario di qualcosa che non c'è e non si dà in narura: la fusione della nostra coscienza con lo spazio, gli oggetti, i volti. Un corpo impossibile e volatile in agguato in ogni area del visibile. Le foto di Salgado, del resto, somigliano così tanto al cinema, che sembrano inquadrature di un film, mai realizzato (come dimostra l'inizio del bel film di Wenders, Il sale della

terra, che si apre con delle immagini titaniche di un'immensa miniera a cielo aperto in Brasile, piena di un'umanità miserabile, che potrebbero tranquillamente essere delle foto di scena di un film perduto di Murnau o von Stroheim). La condizione del cinema non è, o non è soltanto, il movimento delle immagini, ma quel qualcosa, quel puncrum (direbbe Barthes) in cui l'immagine si stacca dal mondo e diventa linguaggio, ovvero qualcosa di nuovo e ancora rzon visto nel mondo. È ancora possibile? Come si chiede Assayas, con spietata lucidità: «Se i film che realizziamo e le immagini che ritraiamo sono sempre derivativi, fotocopie di fotocopie di fotocopie di cose fatte mille altre volte o se, anche quando proviamo a essere più liberi e spontanei con le nostre immagini, siamo paralizzati da tutte le immagini che conosciamo, qual è il nostro rapporto con la realtà?». Nonostante tutto, nonostante l'evoluzione di un linguaggio che ha da tempo imboccato la stagione barocca, neoclassica, postmoderna dopo più di cento anni di vita, nonostante un'intensa attività teorica abbia circondato il cinema da subito dopo la sua nascita, la speranza di ogni inquadratura rimane la stessa da quando il primo uomo sulla terra ha girato la prima inquadratura: che la camera possa scoprire, incontrare, preservare, capire qualcosa che l'occhio non potrebbe. È ancora Assayas, che è anche un eccellente critico, a dirlo meglio di t utti: «Per me l'immaginazione fa parte della realtà, l'autenticità delle emozioni fa parte della realtà, la questione è dunque come riuscire a ritrovare non solo la realtà ma la potenza del reale e la potenza delle emozioni vergini». Non si può separare il vedere dal

serztire: il cinema è la moltiplicazione del secondo con le forme del primo. Il mezzo per restituire agli eventi del mondo «quella potenza che era stata loro sottratta dallo schermo opaco del cervello umano» (Jacques Rancière). Tuttavia sembra proprio il caso di chiedersi se, dallo smartphone all'iPad al portatile, la molteplicità di schermi che ci circondano «non sia diventata tanto una metafora del nostro isolamento e del sentimento di futilità del rapporto con il mondo quanto la causa di questa impotenza,. (Da,,id Thomson). L'idea originale, che peraltro è una traccia luminosa che attraversa il più grande cinema italiano del dopoguerra da Rossellini a Fellini e Pasolini, era tutt'altro dalla natura virtuale che le nuove tecnologie sembrano inseguire. Il cinema più che da un'estetica si lascia esplorare e conoscere da una somatica, una scienza dei corpi che parte dall'idea che ogni corpo sia un eccesso di senso, un plusvalore del visibile, e dalla nozione molto sensuale che filmare sia un prolungamento della fisicità con altri mezzi: «Fare lln film è esattamente uguale a qualsiasi atto creativo - penso alla scrittura o alla pittura. Ha un potente elemento di seduzione, perché qualsiasi atto di creativ;tà

è sessuale: quando riesce, eccome se riesce. Se, invece, non funziona, se senti che non è quello che volevi fare, che il risultato non è quello che volevi, è come se in quel momento finisse il mondo» (Jonathan Winding Refn). L'intervista, nella letteratura sul cinema, non è un genere qualunque: il più noto dei libri di cinema (Il cinema secondo

Hitchcock di François Truffaut) è una lunga intervista e così anche uno dei più belli, secondo me (Io, Orson We/les di Peter Bogdanovich). Queste conversazioni, tuttavia, sono delle interviste in pubblico e quindi, in qualche modo, contemplano un terzo personaggio, uno spectator in fabula, per cosi dire, che non solo reagisce a ciò che viene detto ( e nella parte finale partecipa alla conversazione con proprie domande) ma trasmette calore o entusiasmo, passione o divertimento, stupore o disappunto, esattamente come al cinema. Questi incontri, come un film, sono stati innanzitutto delle esperienze collettive vissute con un coinvolgimento che chi è sul palco percepisce nella forma di dense ondate successive, come un respiro o un battito. Questo libro è anche di tutti coloro che insieme a me hanno avuto il piacere di incontrare i protagonisti che lo popolano ed è dedicato alle migliaia di persone che sono state ansiose e curiose di ascoltarli insieme a me: anche per questo il libro contiene testimonianze di giornalisti, intellettuali, operatori culturali che hanno vissuto queste esperienze come spettatori e cronisti e, in un caso (Carlo Fuortes), come ideatori, con me. Ma è dedicato anche a coloro che nessuno può più incontrare. Il libro include infatti ricordi di grandi autori o attori scomparsi, nella con,;nzione che, come si dice nelle pagine di un grande scrittore e in un bel film, la più toccante e nobile delle visioni, la più sorprendente e sperimentale delle inquadrature (quella di un soggetto senza più soggetto, di uno sguardo senza più corpo) sia proprio cercare di vedere il mondo con gli occhi di chi non c'è più.

I testi che compongono questo libro sono in parte inediti e in parte sono stati pubblicati su «la Repubblica», «Micromega» o «Film 'Iv». Sono resoconti di una serie di incontri che si sono tenuti lungo un arco di quasi dieci anni, quasi tutti a Roma (all'Auditorium o al };Lo\.XXI). Il primo (quello co.n Sean Connery) è del 2006, l'ultimo (con Jonathan Winding Refn) del 2015. Sono nati come esperimento di programmi di cinema all'Auditorium Parco della Musica guidato da Carlo Fuortes, il loro successo è stato la prima cellula dalla quale ha preso le mosse la Festa del Cinema e successivamente ne sono diventati il tratto più amato e riconoscibile. Io ne sono stato l'ideatore e il curatore, ma in più di un caso c'è assolutamente un altro nome ch e va fatto (che viene più volte ricordato nella stesura degli incontri) ed è quello di Antonio Monda: nel caso di Meryl Streep, Al Pacino, David Lynch, se si trattasse di film Antonio andrebbe accreditato come coautore. Durante tutti questi anni, e questi incontri, sul set ho avuto a fianco l'ufficio cinema (con Alessandra fontemaggi) e tutta la Fondazione Cinema per Roma, l'ufficio stampa di Cristiana Caimmi e spesso Jacopo Mosca e Marta Giovannini, e notevole intesa c'è stata con Giovanna Melandri e Alessandro Bianchi del l\1.-\XXJ che è diventato rapidamente una delle scene di cinema più interessanti della capitale. L'organizzazione e la pianificazione di queste conversazioni ha un rituale più articolato e ricco di insidie di quanto si sospetti. Senza di loro molti di questi incontri non si sarebbero realizzati. Nicola Calocero, Tommaso Sesti e Vera Viselli hanno lavorato con accanita meticolosità e intelligenza all'edizione delle clip che sono state una parte importante di questo rituale a metà tra spettacolo, divulgazione e formazione che Francesco Casetti ha chiamato «piccolo teatro di parola». Roma, ottobre 2015

~l. S.

Attorstudio

Toni Servilio e Carlo Verdone «Carlo ha una qualità che trovo straordinaria in ogni grande attore comico: non mette mai al centro di quello che fa il proprio Io». «Quella di Toni è una finta immobilità, riesce a trasmettere mobilità pur stando fermo. Trasmette delle vibrazioni anche attraverso piccoli gesti, attraverso particolari e cose minuscole». Due attori: l'uno, Carlo Verdone, che ha rispecchiato questo paese, come un torrenziale effetto speciale, per più di trent'anni, con un polimorfismo mimetico così ricco, rivelatore e fotografico che chiunque ci ritrova anche la propria, di faccia - da coatto, da figlio dei fiori, da sottosegretario, da portaborse, da salumiere, da adultero, da cardiologo ecc.; l'altro, Toni Servilio, che ha speso buona parte della sua prodigiosa formazione sulle tracce di Molière o Peppino de Filippo, Marivaux o Viviani o Goldoni, fin quando il cinema lo scopre quasi per caso (grazie a Paolo Sorrentino). E dopo non lo abbandona più. Al punto che ne diventa uno dei solisti più virtuosi, affascinanti, misteriosi. L'uno, Verdone, è considerato l'emblema del mainstream della commedia, di un cinema di satira e intrattenimento che ha da sempre rappresentato la risen,a più importante del grande schermo più popolare in Italia; l'altro si è fatto le ossa nell'avanguardia della messa in scena teatrale ed è la quintessenza dell'attore come consapevolezza di tecnica e ricerca, fisicità e interpretazione, metodo e talento. Insomma, è come se due polarità egualmente vibranti, ma distanti, invece di respingersi, si incontrassero per la prima volta. Chi scrive ne è stato testimone e ha avuto la fortuna di trasformarlo in un incontroduetto, in pubblico, alla Festa del Cinema di Roma, nel 2008:

la sala era gremita e radiosa, i due - manco a dirlo -

perfettamente in possesso dei propri tempi e delle proprie parole, con le quali hanno commentato la scelta di sequenze (ognuno dei due ha selezionato quelle che più ama dell'altro) proiettate durante l'incontro. Quello che segue è il resoconto di un incontro preparatorio da me registrato qualche mese prima del festival. È una conversazione che processa idee e avventure, tecnica ed etica della recitazione con una profondità inconsueta e una dedizione palpabile. Cosa significhi «polverizzarsi» in una fuga di maschere, cosa significhi davvero la parola improvvisazione o muoversi rimanendo immobili, cosa significhi interpretare un ruolo e dirigerne altri contemporaneamente, cosa sia il piacere e l'investimento fisico e psichico che ciò comporta (il non riconoscersi mai, quando ci si rivede dopo), insomma, di cosa parliamo quando parliamo di attori. In questa conversazione Verdone e Servilio, come due fuoriclasse che palleggino con grazia e destrezza ai limiti dell'area, lo affrontano, lo discutono, se lo raccontano, come è davvero raro che accada, soprattutto nel mondo dello spettacolo in Italia. Per un attimo, il lettore/spettatore ha l'impressfone che, nell'intimità di un camerino, davvero, come due capocomici con uno sterminio di serate alle spalle, aprano la propria valigia d'attore per mostrarsi l'un l'altro segreti, gioielli, ricordi, monili, costumi o indumenti di scena, accumulati in anni e anni sotto i riflettori: ed è allo ra che l'uno, a \·olte, prega l'altro di porgergli un oggetto per esamina.rio più da vicino mentre l'altro ricambia con una pacca sulle spalle oppure, semplicemente, si scambino uno sguardo muto che è un cenno d'intesa, silenzioso, di rispetto e appartenenza, stima e affezione. SERVII.LO: Ho avuto il piacere di conoscere Carlo Ve.rdone

durante una premiazione dei David di Donatello. Alla fine della cerimonia gli sono andato vicino per attestargli tutta la mia ammirazione come spettatore. Credo che in questo mestiere sia fondamentale conoscere la parte di spettatore che c'è in te. Quando al cinema vado a vedere un film con Carlo ritrovo proprio un lato particolare di me stesso: attraverso di lui, cioè, ritrovo un sorriso liberatorio cbe sento di avere dentro e che, come tutti i grandi sorrisi, contiene toni e strutture armoniche che non rimandano solo alla sterilità della comicità pura e semplice. È una caratteristica dei grandi comici e delle grandi maschere, della comicità intesa nel senso più nobile del termine, quella che è possibile ritrovare in Totò e nei grandi protagonisti del teatro dell'arte. È il caso di quei grandi interpreti, anche tele;;sivi, che conservano intatta la capacità di fare «commedia» su un tema dato; cioè di coloro che, su un tema prestabilito, riescono a convogliare l'aspetto umano e l'aspetto tecnico in un risultato che è sempre straordinario. Inoltre, Carlo ha una qualità che trovo straordinaria in ogni grande attore comico: non mette mai al centro di quello che fa il proprio Io. Non ha cioè la pesantezza di sé, riesce a polverizzarsi, a smaterializzarsi in una serie infinita di individui; è come se dentro di lui ci fosse un su per pubblico con cui fa i conti ogni volta. È il numero delle maschere che gestisce e il modo in cui spende la propria ,;ta sulla scena, mettendo in gioco anche la sfera profonda del proprio essere, e riuscendo a moltiplicare il tutto entrando in sintonia con le grandi masse di pubblico: queste sono le qualità che riconosco in lui ed è da questo che è nato il mio desiderio di incontrarlo, perché secondo me è un grande attore, della più alta tradizione italiana, perché sono un suo fan, un suo sincero ammiratore. Vorrei che questa cosa fosse testimoniata perché mi sembra già di per sé una notizia, visto che di solito si ritiene che tra un cinema

di un certo tipo e uno di un altro ci debbano essere degli steccati. E questo a prescindere dalla possibilità concreta di lavorare un giorno insieme. C'è un'altra cosa che tengo molto a sottolineare. E cioè la possibilità che in determinate condizioni un attore ha di amministrare onestamente la propria carriera e di poter dire di no a certi progetti o personaggi. Ed è il momento in cui quella parie di spettatore che c'è in me è talmente soddisfatta da quello che vede, del modo in cui un attore interpreta un personaggio, come nel caso di Carlo, da farmi sentire inibito dall'andare nella medesima direzione, in quanto so che sarebbe solo la riproposizione di qualcosa che c'è già. È una cosa che abbassa notevolmente la vanità di un attore nel suo lavoro. VERDONE: La circostanza in cui io e Toni ci siamo incontrati

per la prima volta è davvero singolare. Era, come diceva lui, una serata di premiazione per i Davìd. Lui veniva verso di me per farmi i complimenti e allo stesso tempo io stavo andando verso di lui per la stessa ragione. Praticamente ci siamo incontrati nel mezzo, nel momento in cui l'uno voleva fare i complimenti all'altro per la sua performance. Per cui prima di una naturale simpatia, c'era tra di noi una forte stima reciproca. È importante per un attore percepire una cosa del genere, dà un senso in più al tuo lavoro. Prima di allora avevo sentito spesso parlare di Toni e ne avevo già percepito la forza, ma credo che il momento in cui davvero ho intravisto la sua grandezza è stata dopo la proiezione di Le conseguenze dell'amore di Paolo Sorrentino. E questo perché è un film difficilissimo. A parte il fatto che Sorrentino esce completamente fuori dai soliti binari del cinema italiano dando vita ad atmosfere assolutamente inconsuete, ciò che colpisce è che Toni, con due o tre battute, riesce a reggere un intero fùm. È una caratteristica che solo un attore raffinato può avere, la capacità di percepire ogni volta la sottile differenza tra una scena e l'altra e caro biare la pur minima vibrazione riuscendo a sostenere un intero film anche stando semplicemente immobile. Credo che sia l'attore, oggi, dotato di maggiore autorevolezza nell'intero panorama italiano. Il suo ,;so, la sua fisicità, il modo stesso di stare in scena sono l'espressione di una filosofia interna che gli permette di reggere ruoli drammatici e allo stesso tempo misteriosi.

Mi domando se nel considerare questa stima e curiosità reciproca non abbia anche qualche significato il fatto che per entrambi l'esperienza teatrale sia stata importante. SERVlllO: La prima volta che ho visto Carlo in teatro e.r a

all'Alberico, dove avevo visto anche Benigni. In quel periodo, parliamo della fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta, a Roma avevi la possibilità di vedere in quel teatro degli attori come loro che stavano in una tradizione riconoscibile come nostra, e gruppi come lo Squat Theatre che provenivano ad esempio dall'avanguardia newyorchese. Cioè: c'erano avanguardia e teatro tradizionale, che si alternavano sulla stessa scena. E questo generava una complessità feconda e nutriente che non creava steccati ma, al contrario, una molteplicità di proposte e di stimoli. Ho visto Carlo Verdone, per la prima volta, in teatro ed è una cosa che nel suo lavoro si ritrova. Lo dico senza alcuno snobismo. Il teatro fornisce una poliedricità, una capacità di spendersi che in genere non ritrovi in un attore di cinema puro, specie quando si tratta di moltiplicare le proprie facce. Guardandolo, mi rendo conto che invece Carlo, pur avendo imposto una faccia, che è quella di Carlo Verdone, riesce sempre a restare un passo indietro rispetto al personaggio o al massimo corre con lui. Non succede mai che il personaggio sia avanti a lui e lui dietro, che lo rincorra, e nello stesso tempo non c'è mai avanti Carlo Verdone e il personaggio che lo segue : procedono sempre appaiati, l'uno accanto all'altro.

E quand'è, invece, che Verdone ha visto per la prima volta Servilio? VERDONE: La prima volta che l'ho visto è stato al cinema in

Morte di un matematico napoletano di Mario Martone. Ricordo che mi colpì la sua capacità di controllo, di impassibilità. Sì, del controllo perfetto del corpo. La sua è una finta immobilità, riesce a trasmettere mobilità pur stando fermo . Trasmette delle vibrazioni anche attra\·erso piccoli gesti, attraverso particolari, cose minuscole. Quello era un ruolo davvero complicato, arriverei a dire proibitivo per qualsiasi attore, perché ci voleva un senso della misura spaventoso. Chi fa questo lavoro è in grado di individuare la grandezza di un attore. SERVILLO: Grazie, Carlo. VERDONE: È la verità.

Entrambi avete esaltato la forza e la centralità della tecnica. Su questo tema in genere c'è una retorica spaventosa; ma se doveste definire l'arte della recitazione concretamente, come sifa per un atleta e le sue performance, quali parole utilizzereste? VERDONE: La recitazione è l'arte di nascondere l'arte. SER\IILLO: Io credo che, nel caso di Carlo, ma in genere in ogni

attore, la tecnica sia qualcosa che ti rende libero, non è un legaccio o una costrizione. Intanto non deve mai essere evidente, deve essere sempre un fatto nascosto, anche perché sarebbe facile dire di aver fatto qualcosa utilizzando questo metodo piuttosto di quest'altro. Credo che la tecnica sia un concentrato dì disciplina e di rinunce, di approfondimenti che, nel momento in cui l'attore si esprime, lo rendono libero. E libero significa che può continuare a mandare segnali che vanno in più direzioni contemporaneamente. VERDONE: Sì, ha ragione. Perché hai in mano gli strumenti

necessari per affrontare quello che devi fare. SERVII.LO: È esattamente il contrario dell'improvvisare o,

meglio, di improvvisarsi partendo dal nulla. Perché partendo dal nulla si arrh•a al nulla. Io sento che dietro il lavoro di Carlo c'è invece un allenamento costante, perché poi è in grado di liberare quella vis comica che mette noi spettatori nella condizione di buttarci in una zona che non è quella della quotidianità, una zona che per qualche minuto ci alza da terra, ci solleva, ci porta verso quella risata liberatoria che ti fa riconoscere e ci pone tutti nella stessa barca: libera. Secondo me la tecnica è un accessorio fondamentale perché si possa essere liberi nell'espressione.

Un'altra cosa che mi veniva in mente riflettendo sul vostro percorso è che Verdone è molto braoo ne/fare film comici che a w1 certo punto liberano una disperazione che è quasi intollerab11e in quella comicità. Ci sono nei suoi film dei personaggi che subiscono dalla vita delle umiliazioni, dei drammi che lui poi porta fino in fondo . Servilio, invece, sopratMto per quello che porta in teatro, con autori comeMarivaux, Eduardo, Molière, costella ogni costruzione con degli elementi di comicità ricercati con destrezza. Quello che voglio dire è che c'è un rapporto tra comicità e tragicità che, a i.stinto, credo appartenga costitutivamente all'attore italiano. SERVJLLO: Quando io parlo di comico mi riferisco a una

tradizione alta. Molière era un grande comico all'interno della tradizione secentesca francese. Molière, un po' per i suoi noti problemi di balbuzie, un po' per il modo in cui veniva trattato rispetto ad altri autori, perché aveva scelto il genere comico, era una sorta di Totò francese: la gente lo andava a vedere per sbellicarsi dalle risate. Ma Molière era anche al tempo stesso l'uomo che si faceva mettere in un sacco e picchiare q uando faceva le furberie di Scapino: è quello che nel Misantropo ha scritto, a detta di Voltaire, i versi più belli e alti della poesia francese. Per cui il comico è, secondo me, quello che riesce a raccontare l'aspetto umoristico, comico, della vita nella più profonda disperazione, e l'aspetto più disperato della vita attraverso la più profonda comicità. L'importante è mantenere l'equilibrio ed è quello cui porta la commedia, la quale impone questa lettura prismatica della vita, che contiene queste due forze apparentemente contrarie che quando raggiungono il loro zenit sono l'una la faccia dell'altra, rispecchiandosi reciprocamente nella loro profondità. VERDOl\'E: Comicità e tragicità in qualche modo vanno sempre

a braccetto. Pensa al mio primo film, Un sacco bello, che ha avuto un grosso successo. Si ride molto, perché un personaggio ha gli occhi strabuzzanti nel vuoto, per come parla quell'altro, perché il bullo si mette l'ovatta nella patta dei pantaloni, o perché nella sua agendina alla «S» c'è Stadio Olimpico, alla «O» c'è Olimpico Stadio... Però poi alla fine tutti questi elementi testimoniano solo una grande solitudine, una profonda tristezza di fondo. Non c'è da parte mia commiserazione, ma di certo la solitudine è un elemento che metto in evidenza. In genere la solitudine di un personaggio è una cosa che mi interessa molto. Nelle mie storie io cerco sempre di essere messo in difficoltà, di trovarmi in una situazione difficile, preferibilmente a causa di personaggi femminili. È una cosa che mi mette a mio agio perché credo che la donna in qualche modo sia più forte dell'uomo. Per cui io certamente ho rappresentato personaggi che, pur facendo ridere, erano di una solitudine spaventosa. Messi tutti insieme fanno davvero paura.

Entrambi siete registi di voi stessi, per quanto riguarda Servillo, a teatro. Per un profano risulta estremamente difficile capire come sipossafare una cosa del genere: essere attori e direttori allo stesso tempo. SERV1LLO: Anche a me risulta difficile capirlo. Poi credo che al

cinema essere attore-regista sia ancora più complicato. In teatro il termine stesso di regia è un po' ambiguo. Io mi considero piuttosto una sorta di primo violino in un'orchestra d'archi, neJ senso che concerto con gli altri attori l'interpretazione del testo affidandone loro l'esecuzione e, in fondo, l'interpretazione ultima. In teatro tu sei totalmente coinvolto nell'atto: è come il regista in campo, sei talmente coinvolto nell'azione che la orienti modificandola di sera in sera. Al cinema invece c'è un doppio salto mortale perché il regista è regista anche in fase di ripresa e forse lo diventa ancora di più nel momento in cui procede con il montaggio, una fase che per noi in teatro corrisponde alle repliche: finita, cioè, la lavorazione monti definitivamente la rappresentazione. In teatro, invece, io questo non lo vivo perché non abbandono mai lo spettacolo. Non c'è un progetto a monte che affido a una compagnia che poi lo porta in giro. Io seguo lo spettacolo dalla prima alla quattrocentesima replica e sono direttamente coinvolto nelle trasformazioni, negli assestamenti, nei mutamenti della regia sempre come un attore capocomico che organizza e orienta il lavoro sera per sera.

Tu però hai anche scelto le scenografie, i costumi e le luci dei lavori che hai diretto come per la Trilogia della villeggiatura, che è un lavoro che compete alla regia a tutti gli effetti... SERVILLO: Certo, ma è comunque una parte del progetto. Non

ho un atteggiamento mistico, semplicemente organizzo i materiali. Perché l'oggetto su cui davvero si fanno le prove è dato da tutto quello che si capisce nel corso delle repliche, è la reazione del pubblico in teatro la parte essenziale, e proprio a partire da un triangolo composto da pubblico-attore-testo. È lì che si capisce se si riesce ad andare in profondità. Questa è una delle ragioni per cui, nonostante siano in molti a chiedermelo, io non sono passato alla regia cinematografica. E poi bisogna avere la consapevolezza dei propri limiti e non allargare il proprio ego con la com,i nzione di sapere e potere fare tutto. Io faccio già regie liriche, regie teatrali, ho la fortuna di poter fare l'attore al cinema e mi basta così. E poi non credo che ci riuscirei perché non ho, del regista cinematografico, la forma di pensiero. Non ho sufficientemente in testa la struttura intera del film per affrontare la lavorazione e poi quel momento, solitario, che è il montaggio. Per me l'esperienza condivisa con l'équipe è necessaria perché è lì che riesco a esercitare una qualche abilità di regista. Quell'aspetto di solitudine che fa somigliare un regista a uno scrittore...

... e che i registi amano molto. SERV1LLO: Esatto, è una cosa che non appartiene alla mia

formazione.

Invece per quello che riguarda te, Carlo, parlando con le troupe dei tuoi film ho notato che spesso, chi ne fa parte, sembra dare per scontato la transizione continua tra i due ruoli e la dimestichezza con la quale entri in scena senza avere bisogno di ciò di cui spesso gli attori hanno bisogno, e cioè avere dietro un regista che ti dice cosa fare. Una volta che ho catturato pienamente il carattere del personaggio io so fin dove questo si può spingere. Improvviso molto ma con molta saggezza, vale a dire che ho il senso della misura. Non mi metto a provare e riprovare perché so che la freccia prediletta nel mio arco è quella dell'improvvisazione VERDOl\1E:

istantanea. Prima di entrare c'è un lavoro intenso e faticoso, ma cerco di provare il meno possibile perché so che mi scaricherei e diventerei meccanico. Tutta la mia attenzione, invece, va agli attori cui do le battute. Li seguo, spesso faccio io la parte prima di loro, cerco di indicare loro un gesto, una pausa, li faccio conta.r e dentro una, due, tre volte fino a quando non riescono. Ci vuole un po' di tempo, ma poi alla fine ciò che desidero viene fuori. È solo una piccola guida che fornisco io come regista quando mi trovo di fronte a un attore non bravissimo. Tutta la mia attenzione è rivolta a quello che mi circonda. Soprattutto negli ultimi tempi, cerco di provare il meno possibile. Prima avveniva esattamente l'opposto. Ora invece entro e mi rendo conto che il mio corpo procede per conto suo. Spesso andandomi a rivedere nel monitor del controllo video, subito dopo un ciak, noto delle cose che probabilmente anche con una prova dietro l'altra non sarebbero mai uscite. Sono gesti molto veri, molto naturali, è una forma di sicurezza che puoi ottenere solo dopo anni di lavoro. Non mi faccio molte domande su quanto devo spingere l'acceleratore.

Con l'esperienza hai anche imparato a capire quale sarà l'effetto sul pubblico di ciò che fai e dici di fronte alla macchina da presa? VERDO:t\TE: Al contrario: spesso non capisco il meccanismo che

porta a far ridere il pubblico per certe cose e non per altre. C'è un cinquanta per cento di cose in cui mi aspetto una grande risata e invece ciò che accade è una reazione assolutamente normale e, per contro, momenti in cui mi aspetto un semplice sorriso e invece c'è un boato. Io non vacl!o a indagare le ragioni di tali reazioni semplicemente perché, se cominciassi a farlo, diventerei cervellotico e pazzo. Faccio ciò che sento e continuo così perché in questo lavoro è anche bello avere delle sorprese. Credo che

anche a Toni in teatro succeda improvvisamente qualcosa che non si aspettava, una risata improvvisa o un silenzio improvviso. Per un istante hai paura ma poi subito dopo vieni salvato da un qualcosa cui non avevi dato peso. È questa la bellezza di essere un attore: che il tuo corpo manda segnali che ti erano sfuggiti durante le prove, segnali di cui non eri cosciente. Queste ovviamente sono cose che non puoi ottenere immediatamente, fin dai primi anni di carriera, addirittura provando poco e via.

Queste sono cose che avvengono solo con l'esperienza e con molti anni di lavoro.

Ilfatto di essere attori che lavorano su altn' attori è certamente una cosa positiva e un vantaggio; ma può essere anche un limite, nel senso che c'è in voi una natura di attore che può entrare in antagonismo? VERDOì'IE: A me

non è mai successo.

SERV1LLO: lo ho sempre incontrato nella mia vita, forse perché

sono io che me li scelgo - e credo che la stessa cosa valga per Carlo-, attori felici di essere diretti da altri attori. D'altronde la nostra grande tradizione, specie teatrale, ha visto la maggior parte delle volte un grande regista che prima era un attore, che magari ha smesso di recitare ma ha cominciato recitando. Nella tradizione napoletana a cui faccio riferimento, la più nobile, è tutto orizzontale: chi scrive è capocomico, recita, dirige. Basta pensare a Viviani, a Eduardo, a Scarpetta. E questo perché si priVJlegia la disponibilità all'atto per cui c'è una preparazione scrupolosa, ma poi, a un certo punto, il corpo arriva a una capacità di reattività che crea in lui una particolare disponibilità all'evento. Cioè: tu crei alcune ,condizioni affinché qualcosa arrivi anche dal pubblico restituito nella comprensione del testo. Se si parte da una condizione troppo ermeneutica per cui il testo lo capisce sempre e solo l'altro, ciioè il regista, che poi lo spiega agli spettatori, il teatro non esiste. Se si crea invece una condizione per cui il pubblico capisce qualche cosa che tu non avevi capito, proprio come si diceva prima, allora si crea quella disponibilità all'evento di cui parlavo. È una cosa che un attore che dirige altri attori favorisce più naturalmente, perché parte dalla medesima condizione naturale di interpretabilità del testo.

Che effetto vifa rivedervi dopo una performance? SERVILLO: È ovvio che in teatro è impossibile rivedersi. ll

luogo comune vuole che un attore non ami rivedersi, è un'affermazione che hanno fatto tutti i grandi attori. Da principio credevo fosse solo un gesto di vanità, di falsa modestia, ora mvece ... VERDONE: ... la verità

è che quando ti rivedi non sei più tu.

Ormai la maschera è cambiata, non ti appartiene più. SERVILLO: Esatto. La cosa bella per un attore è che appartiene

interamente agli altri. E questo fa sempre parte di un atteggiamento onesto che favorisce l'involontarietà delle cose, un'involontarietà positiva, un andare avanti. È chiaro che il luogo comune rimane, per cui la stessa osservazione te la può fare l'attricetta o il piccolo attore. Ma non è quello il problema. La cosa sta invece nel fatto che ti passa davanti agli occhi qualcosa che lì, in quell'istante, è fermo e che invece in te non c'è già più perché sei passato ad altro e non ti appartiene più, lo rifiuti perché sei in un processo che ti porta da un'altra parte.

Come è cambiata la vostra idea di attore, cosa è cambiato nell'idea stessa di attore, rispetto a come la concepivate una volta? SERVILLO: Io non credo nelle vocazioni, nelle chiamate sulla

via di Damasco per cui improvvisamente scopri che vuoi fare l'attore. Io l'ho scoperto facendolo. Credo nei bilanci, credo che nel momento in cui uno sarà impedito e non potrà più fare quello che vuole allora do.,,-rà guardarsi dentro di sé e chiedersi cosa ha fatto. Lì allora capisci se tutto ha avuto un senso. La vita di un attore rappresenta la rinuncia a tante altre ipotesi che la vita ti può offrire e che hai scartato per dedicarti a quell'appuntamento serale, a quel lavoro quotidiano, a quella a quell'osservazione ostinata della realtà che è parte del tuo lavoro. Per cui alla fine credo che sia una cosa da analizzare e concepire solo a bilancio. Non nascondo che, ultimamente, col tempo, sento una certa fatica nel ricoprire il triplo ruolo di sceneggiatore, regista e attore. Però c'è stata una cosa che mi è capitata una VERDONE:

volta, alle due di notte, e che mi ha fatto a un tempo ridere e pensare su quello che stavo facendo. Si era fermata una motocicletta, probabilmente di due scippatori e, appena mi hanno visto, hanno detto «guarda c'è Carlo Verdone! A Roma ce sei solo te e er papa. Peccato che mo' nun c'è luce e non te posso fa 'na foto». Io stavo tesissimo e quello continua: «A Ca', grazie per il sorriso che hai dato a un'adolescenza di merda». E me lo dice urlando. All'inizio mi è sembrato un pazzo, poi ci ho riflettuto e ho pensato a quanto in verità siamo utili, cioè siamo utili per una risata, perché comunichiamo attraverso un sentimento. Quindi mi sono detto che alla fine bisogna continuare. Recitare non è sempre dimostrare qualcosa. Deve essere anche un divertimento, perché già è molto pesante; per cui, se non ci fosse neppure quello, sarebbe davvero inaffrontabile. Per ogni parte che devo recitare io mi muovo, in realtà, sempre per il contesto che ho intorno, vivo per gli attori che ho intorno, gli altri lo sanno, sanno di questa cosa che dagli altri viene percepita come generosità e disponibilità e che a me sembra invece una cosa normale: tu devi condividere con gli altri attori ciò che fai, altrimenti non esisti neppure tu. Io amo la regia, e se ami la regia devi anche amare quello che c'è intorno.

Sean Connery

«n movimento dovrebbe essere minimo, animalesco, e sofisticato». «If you want to keep a secret don' teli the boss!» : se vuoi mantenere un segreto, non dirlo al capo. È una battuta che il personaggio di Sean Connery, un vecchio poliziotto di grande esperienza e stagionatura, dice a Kevin Costner ne Gli intoccabili.

È la prima cosa che mi è venuta in mente incontrandolo a Edimburgo, per la prima volta. Stesse sibilanti, stesso gusto per il motto popolare. Prima dell'intervista gli racconto tutto quello che la Festa del Cinema di Roma intende fare in suo onore: retrospettiva, premio in Campidoglio, incontro con pubblico e giornalisti. Annuisce senza entusiasmo e con un'aria di incombente sarcasmo che circola tra le basette, il labbro superiore pronto ad angolarsi e le sopracciglia - un tratto fisico decisivo per il linguaggio espressivo del suo stile. Il fatto che gli dedichiamo un libro sembra interessarlo quanto la pubblicazione di un elenco telefonico (come racconta nella conversazione, è sempre rimasto stupito dalla quantità di inesattezze dei libri scritti su di lui). Si anima solo quando gli dico che il premio alla carriera (Acting Award) gli sarà consegnato al Teatro dell'Opera dopo un concerto di Riccardo Muti. Il concerto e il maestro Muti sembrano le uniche cose in questo programma in grado di incuriosirlo ed entusiasmarlo. Come si fa a far capire a Sean Connery quanto si può essere interessati a parlare di Sean Connery, a vederlo in giro per ]a città, a guidare il red carpet (saluterà il pubblico dietro le transenne e sugli spalti con gesti ampi e regali - gli stessi che gli abbiamo visto fare in tutti i re che ha interpretato sul grande schermo - corretti da risatine di bonaria autoironia lanciati di lato a tutta la delegazione), a stare con lui in ascensore per scambiarsi una battuta o a un party a versargli un bicchiere di vino? La conversazione che segue è stata concessa qualche mese prima del festival (anche se poi ce ne sarebbe stata una pubblica tenuta nella sala Sinopoli dell'Auditorium) e le ultime parole che mi ha detto, al telefono, prima di partire da Roma, sono state: «Se passa dalle Bahamas, mi raccomando, mi venga a trovare». Credo di essermi sentito dire: «Certo, se passo, la chiamerò sicuramente». Ma non c'è stato un momento di questa conversazione in cui Sean Connery, franco, curioso, concreto, semplice e ironico, non sia stato Sean Connery. Stesso sguardo pieno e carico, stessa falcata cauta e sicura: la stessa che gli consentirebbe di mettere agevolmente i panni di un cacciatore del neolitico o di un pirata. Un grande attore è fatto anche dell'attrazione di qualcosa di bello in modo inconsapevole e involontario: un bell'albero, una bella roccia, un bell'animale. Qualche mese dopo, in realtà, mi ha richiamato, dalle Bahamas, per chiedermi se potevamo fargli avere altre copie del libro in doppia lingua che avevamo curato. Voleva regalarlo ai nipoti e per l'occasione ha detto anche che gli era molto piaciuto. Chissà se l'ha mai letto. CONNERY: Se non fossi diventato un attore cosa avrei fatto

nella vita? Be', come si sa, la necessità fa virtù: a nove anni lavoravo consegnando latte a domicilio. Ho lasciato la scuola a tredici anni. Quando ne avevo nove - era il 1939 - c'era la guerra e non era facile avere un'istruzione. Io non avevo alcun diploma. Alla fine mi sono messo a fare il garzone del latte e ho anche fatto lavori faticosi, come l'operaio (mescolavo il cemento). Per un po' ho lucidato le bare in un negozio di pompe funebri. Poi mi sono arruolato in Marina, nella British Legion, che organizzava corsi per ex soldati disabili. Ho fatto tanti lavori diversi, anche il bagnino. Devo ammettere che non ero molto bravo a lucidare le bare, ma era comunque un modo come un altro per guadagnarmi da vivere. Poi sono partito per Londra, dove ho fatto l'esperienza di partecipare a Mister tJniverso. Da li è cambiato tutto. Diciamo che la mia vita è stato il tipico caso in cui l'unica possibilità era applicare il motto: «Fai ciò che puoi con quel che hai a disposizione».

Vista la sua esperienza, che cosa ha consigliato a suo figlio Jason quando le ha comunicato che voleva fare il suo stesso mestiere? Sua madre è un'attrice e io sono un attore, lui è sempre stato partecipe del nostro lavoro e ha incontrato tanti altri attori e registi. Era molto introdotto nell'ambiente del cinema e del teatro. Ovviamente l'ho un po' guidato e lui è diventato a mio avviso un ottimo attore di teatro. L'ho visto più volte al lavoro sul palco. Ha fatto anche una serie televisiva di grande successo,

RobinHood. Il tutto sembrerebbe, inevitabz1mente, un terreno di confronto un po' edipico. Sì, ma penso che avrebbe dovuto restare in Gran Bretagna, e fare teatro, si era costruito una buona rete di contatti, di rapporti di lavoro. Ma lui ha scelto di andare a Hollywood e ora si occupa di regia e di produzione, un lavoro che trova più stimolante. Gli auguro una grande fortuna.

Da quel che capisco, non ha gran bisogno di consigli. Infatti. Anche se in un certo senso sa accettare una guida. Ma, come si dice dalle mie parti, «dopo i ventuno bisogna arrangiarsi da soli».

È anche la ragione per la quale la sua vita è stata piuttosto

awenturosa. Dopo averla annunciata, ha rinunciato a scrivere la sua autobiografia. Perché? Avevo accettato di scrivere la mia autobiografia, ma poi ho lasciato perdere perché ho scoperto che c'erano già dieci libri in circolazione e non ne avevo letto neanche uno. Ho letto il primo e mi sono reso conto che non c'è modo di fermare qualcuno che vuole scrivere un libro, e che io non avevo alcuna voce in capitolo. Un mio collaboratore a un certo punto ha letto tutti e dieci i libri, allora ho capito che avrei passato il resto della mia vita a cercare di correggere le inesattezze che vi erano scritte. Non sono certo disposto a pagare un prezzo così alto, perciò ho lasciato stare.

Cosa ha pensato quando ha letto il primo (e unico)? Be', ci ho perso talmente tanto tempo sopra che il mio avvocato, a Londra, un giorno mi disse: «Ti rendi conto che stai riscrivendo il libro?» . Perché il libro conteneva notizie che l'autore aveva raccolto dai giornali dando per scontato che, poiché erano scritte, dovevano essere vere. E se cerchi di rettificare gli errori, allora finisci per fare tu tutto il lavoro. Perciò non mi sono mai occupato di tutti quei libri, né li ho mai letti. Non si può fare altro. Non intendo ripetere la prima esperienza.

Ha più volte affermato che le sarebbe piaciuto molto dirigere un film dal Macbeth. Perché? E ha ancora intenzione di farlo? Ne ho scritto la sceneggiatura. L'ho portato in scena in Canada e mi ha sempre affascinato. È probabilmente la migliore storia mai portata sullo schermo. Ed è assolutamente sbagliato quello che Shakespeare scrive del protagonista che dà il titolo al dramma, perché in realtà Macbeth era un re meraviglioso, aveva visitato Roma diverse volte e non ha affatto assassinato Duncan. Tutte le storie intorno alla strega sicuramente sono nate per via di Giacomo I, che era ossessionato dall'assicurarsi il trono. Ma Macbeth rimane dentro di me. Sfortunatamente i tempi in cui ho cercato di realizzarlo erano sbagliati: in quel momento c'era il

Macbeth di Polanski in produzione e il ricordo di quello di Orson Welles era ancora piuttosto recente. Si tratta di due lavori ricchi e notevoli . Tuttavia, quando scopri chi era il vero Macbeth, è difficile accettare il modo in cui viene rappresentato.

Se ho capito bene,facendone un film, lei avrebbe divulgato la verità su Macbeth. Persino contro Shakespeare. In realtà ho scoperto la verità solo in un secondo tempo e devo dire che per me è sempre stato un po' un tarlo perché la tragedia shakesperiana è senza dubbio stupenda. Chissà, forse c'è una maledizione in tutto questo!

Lei è diventato famoso per aver interpretato tanti re che sembrerebbero vicini all'idea del re scozzese di cui parlava prima, ovvero del Macbeth così come forse la Storia lo ha conosciuto. Più in generale, perché pensa che pubblico, produttori, registi, pensano che lei sia così a suo agio nei panni di un monarca? Tutto ciò ha a che fare con il fatto che ho iniziato a recitare questi personaggi a teatro e poi ho vestito i loro panni anche al cinema. E comunque non ho alcun problema a indossare costumi, che si tratti di una corona o di qualsiasi altra cosa. Penso che sia più facile per un inglese recitare il ruolo di un re perché gli americani, che sono attori altrettanto bravi, se non più bravi, a volte, hanno un problema con la figura del monarca perché non ce l'hanno mai avuto. Anzi: l'hanno rifiutato. Quindi non riescono a relazionarsi con tale personaggio, c'è qualcosa che gli manca nell'interpretazione. Spesso, ad esempio, sono eccessivamente rispettosi.

Forse c'è un atteggiamento nostalgico dovuto al fatto di non aver mai avuto un re. È l'ordine sociale che è diverso, per questo il film tratto dal Nome del.la rosa non ha avuto successo in America. Tuttora ha un pubblico di nicchia che lo apprezza, ma il film quando è uscito ha incassato nelle prime due settimane in Europa sei milioni di dollari, mentre in America, per tutto il tempo in cui è stato al cinema, ha fatto solo due milioni di dollari. Questo per dare un'idea.

Ho letto da più parti che è 11no dei suoi film preferiti. Oh sì, credo sia un film meraviglioso. Quando ho iniziato a leggere il libro ho pensato che non ce l'avrei mai fatta a finire quelle cinquecento pagine, poi, invece, mi ha preso, così come mi ha conquistato il suo autore. Ho avuto il piacere di incontrare Umberto Eco di persona ed è un uomo fantastico, la persona più interessante che abbia mai conosciuto dal punto di vista della conversazione. Abbiamo parlato tantissimo. Presumo che il film gli sia piaciuto, ma non l'ho mai saputo per certo. È stato un film difficile da girare, perché abbiamo iniziato in Germania nel gelido freddo invernale; poi abbiamo sospeso le riprese per cinque settimane, e quindi ci siamo trasferiti a Roma, dove abbiamo costruito un monastero all'esterno di un set a Cinecittà. Nevicava quell'inverno a Roma, e ricordo che alcuni alberi caddero sulle auto parcheggiate. C'era un'atmosfera molto strana. Comunque il film mi è piaciuto molto. Tornando all'interpretazione di personaggi di sovrani, ho l'impressione che alla base di tutto ci sia la convinzione di ciò che stai facendo. Se in qualche modo ti senti fuori posto, o assurdo o estraneo, questi stati d'animo trapelano e non dai il meglio di te.

Ma, se posso parlare anche da parte del pubblico, c'è una dignità particolare nella sua presenza.fisica che il pubblico percepisce, qualcosa chepassa nello spettatore come unafom1a del tutto particolare di convinzione. Be', in questo senso devo fare i complimenti a un uomo di nome Yat Malmgren, un insegnante con cui ho studiato a Londra; fra gli altri attori che hanno studiato con Yat ci sono .4.nthony Hopkins e il regista Tony Richardson. Ha lavorato spesso con il National Theatre ed è diventato un regista affermato in una scuola di recitazione. Era uno svedese esperto di balletto e di coreografia, che aveva anche studiato con un uomo di nome Van Laban, specializzato nelle ricerche sul tempo e il movimento. Il suo studio fu utilizzato anche dagli operai delle fabbriche per evitare incidenti durante il lavoro. Tutto ciò, più la danza, il trucco e !'«internalizzazione», la motivazione interna, costituivano il bagaglio di quell'insegnamento. Yat ha messo insieme questi elementi e ha organizzato dei corsi in cui ci stendev-amo per terra per apprendere il controllo fisico, il movimento di tutte le parti del corpo, per percepire la completezza in termini di peso, spazio, tempo. Anche mio figlio ha imparato queste cose, perché gli ho passato tutti i miei appunti.

Quindi, qualche consiglio lo ha accettato. Sì. Il fattore del peso e l'utilizzo dello spazio e di come esprimi queste cose. È uno studio a sé. Ci parla di questo film del 19621 The Bowler and the Bunnet, che

abbiamo incluso nella retrospettiva a lei dedicata dalla Festa del Cinema di Roma? È l'unica sua regia. Siamo molto curiosi di L'ederlo. È cominciato tutto molti anni fa, quando ho incontrato un

uomo chiamato Cyril Stewart, che era un convinto conser\'atore e un golfista, membro del comitato del campionato di golf. Siamo diventati ottimi amici. Lui mi parlò di un esperimento governativo che consisteva nel costruire delle navi seguendo un'idea innovativa che prevedeva la partecipazione degli operai e del management alla loro produzione. Mi sembrò un'idea fantastica e quindi andai a vedere come lavoravano. Prima andai un weekend, in inverno, poi decisi che in un mese avrei girato il documenta rio, l'avrei diretto, m i sarei occupato dei dialoghi e l'avTei anche interpretato, tutto questo per la tv. Lo abbiamo intitolato The Bowler and the Bunnet, e la cosa più strana è che quando interpretai La tenda rossa di Michail Kalatozov, prodotto da Franco Cristaldi, Kalatozov mi chiamò per dirmi che ne avevano una copia a Mosca. Questa è la storia di The Bowler and

theBunnet. Lei pensa che riusciremo ad averne una copia? Sì, certo. Io non ne ho neanche una. Pensi quanto sono stupido.

È in bianco e nero? Sì, è in bianco e nero. È un documentario, si tratta di fotografie, è un documento interessante. L'hanno proiettato solo una volta in Scozia e non è mai arrivato in Inghilterra.

Il che ci porta alla domanda che riguarda il Partito nazionale scozzese, al quale lei è molto vicino.È wi orientamento che ha respirato sin da piccolo, a casa? Epensa di essere stato danneggiato dall'aver esplicitamente appoggiato quelle idee politiche? Non è una tradizione di famiglia. Non mi sono mai occupato di politica, ma penso che quando si vive all'estero si ha una migliore prospettiva del proprio paese rispetto a chi ci vive. Questo è il motivo per cui penso che uno studente debba girare il mondo. Bisogna studiare la storia, perché purt roppo non sembriamo imparare dai nostri errori. Se sono stato danneggiato dal mio orientamento politico? È un dato di fatto. Perché in Scozia i media - che non sono controllati dal paese appartengono a gente che ha altre priorità. Ad esempio, il giornale più diffuso, lo «Scotland Herald», è di proprietà degli americani, mentre lo «Scotchman» appartiene ai fratelli Barclay, i sindacalisti, che paradossahnente sono interessati solo al Regno Unito. Ho sempre detto, sin dal giorno in cui abbiamo avuto il nostro Parlamento «de,roluto» nel 1997, che non ci sarà mai un vero Regno Unito fin quando non saremo tutti uguali. Di questo sono ancora convinto.

Perciò lei si sente isolato dal mondo dei media inglesi. Se la sua domanda è se ne sono stato danneggiato, la risposta è sì. Perché non vogliono dire le cose come stanno. n mio rammarico è che questi quattro paesi che compongono il Regno Unito non sono eguali, mentre do,Tebbero esserlo. I media controllano molto nel paese. Io ho sostenuto queste idee in tutti i modi, finanziariamente, spiritualmente, anche con interventi politici.

Lei ha lavorato con alcuni dei più grandi registi del cinema, da Hitchcock a Spielberg. Si èfatto un'idea di come dovrebbe essere il regista ideale? E perché spesso ama lavorare con giovani registi? I registi sono tutti diversi, secondo me. Così come gli attori. La risposta a entrambe le domande è che la prima cosa che guardo ed esamino con attenzione è il copione. Se non c'è il copione, allora non c'è un progetto, non si ha idea di cosa si debba fare. Persino Hitchcock fu molto sorpreso quando gli risposi che per prima cosa volevo leggere il copione, quando mi ha chiamato per Marnie. Non so spiegarglielo, ma bo bisogno di una mappa per riuscire a partecipare, altrimenti non so quando e come devo intervenire. Questo è uno dei motivi che mi ha spinto a rifiutare ottime parti. In quei casi mi sono ritrovato spesso a dire: «Sicuramente troverete un altro americano, inglese o francese che lo può fare al mio posto». Perciò, la prima cosa è il copione, perché non c'è film, per quanto il regista possa essere bravo, che alla fine viene fuori come era stato concepito. Se non sono informato su quello che devo fare, allora non riesco a percepire il valore della mia partecipazione, né riesco a immaginare il film. Sa - restando su Hitchcock - che lui parlava molto bene di lei, cosa che non faceva così frequentemente con i suoi attori?

Ho avuto un bellissimo rapporto con Hitchcock e di solito non do mai molto credito a quello che leggo o sento dire di qualcuno; non avevo pregiudizi quando l'ho incontrato. L'ho t rovato una persona e.stremamente conviv;ale e amichevole, che ama dare sostegno in modo molto professionale. Sembrava un po' distaccato, ma in realtà era molto simpatico, ed è stato divertente lavorare con lui. Anche sua moglie lavorava con lui, nel montaggio, non riesco a ricordare il nome... Anna?

Alma Reville. Ab sì. Comunque ho uno splendido ricordo di Hitchcock.

Le è talvolta capitato di non riuscire ad andare d'accordo con il regista a causa della sua personalità, del suo metodo o del modo di dirigerla? No, la maggior parte dei rapporti con i registi sono stati ottimi, sono ancora amico dei registi e degli scrittori con cui bo lavorato, da Micbael Crichton a Steven Spielberg, Martin Ritt, Alfred Hitchcock. Non ho mai avuto problemi; l'unica volta è stata con La leggenda degli uomini straordinari, il cui regista dovrebbe essere dichiarato pazzo. Penso fosse davvero matto, ma l'ho scoperto purtroppo solo il primo giorno di riprese. Forse era un po' troppo tardi. Con un budget di 85 m ilioni di dollari, lui aveva controllo su qualsiasi cosa ed è stata una guerra fra noi fino all'ultimo giorno. Ma generalmente non ho avuto problemi con i registi, né con gli attori o con le attrici. Non mi ,;ene in mente nulla: forse dovrebbe chiederlo a loro. In realtà, quando lavoro, l'unica cosa che ho in testa è il film.

Pm·lando di attori: lei è molto ammirato dai giovani colleghi. Qual è la sua opinione rispetto agli attori famosi con cui ha lavorato in passato? Be', fra i giovani attori mi piacciono Ewan :McGregor, Jude Law, Brad Pitt. Ad esempio Brad Pitt ha fatto un film, Troy, che secondo me è bellissimo e lui l'ha interpretato benissimo. Purtroppo ha avuto più successo all'estero che negli Stati Uniti. Ewan McGregor è molto versatile, anche lui un tipo diverso di attore, molto «fisico»; e Jude Law - a parte il fatto che è un uomo molto bello - è anche un attore molto bravo. Comunque non bo lavorato con nessuno di loro.

Forse conosce ,',,fcGregor? Non bene. L'ho incontrato a Parigi per il Mondiale, quando il Brasile ha battuto la Scozia nella prima partita. Ma ho sentito molto parlare di lui e ho parlato con dei registi che hanno lavorato con lui. Purtroppo non sono riuscito a vedere il suo Bulli

e pupe che è stato in scena a Londra. Mi è dispiaciuto.

Lei va spesso a teatro? Ci va.do più a New York, quando sono lì, che a Londra. Perché in qualche modo mi è più facile. Ho prodotto un paio di spettacoli a Londra e ho prodotto Art a Broadway che ha vinto il Tony Award. Mi chiedo seArtsia mai stato messo in scena in Italia. È un lavoro meraviglioso, parla di tre uomini, è molto interessante: è sull'amicizia, sulle stronzate e sull'arte. Ha tutti gli elementi che ci devono essere in un lavoro del genere: è artistico e commerciale.

Perché ha scelto di diventare anche produttore di cinema e teatro? Sono produttore esecutivo da oltre vent'anni, ho avuto una società di produzione a Hollywood, la Fountainbridge, che poi bo chiuso. È un modo per avere più controllo e voce in capitolo. Normalmente, è qualcosa che richiedo per contratto, ma in una situazione come la lavorazione del film Scoprendo Forrester, il modo in cui bo fatto quel film, anche in qualità di produttore, era il modo migliore per quel tipo di film . Sono andato in Canada e ho portato con me lo sceneggiatore che aveva il compito di curare gli attori che non avevano mai recitato in ruoli da protagonisti. Abbiamo provato per due settimane e abbiamo girato con l'autore del copione sul set per tutto il film. Il film è costato 41 500 milioni di dollari, che è tanto ma niente rispetto a quello che costerebbe ora. Entrapment è un altro esempio.

Essere un produttore è un lavoro molto impegnativo. Sl, ma mi piace molto il lavoro di squadra in un film. ì\ii piace

il cameratismo ed è questo il motivo per cui ho lavorato con registi come Spielberg e Sidney Lumet, perché la partecipazione è al cento per cento dal primo giorno. Ad esempio, con Sidney Lumet, si prendeva il copione, si leggeva pagina dopo pagina fino alla fine, si parlava di qualsiasi cosa, si chiamavano gli attori e si provava come a teatro. Poi si usciva e si girava il film a un ritmo molto professionale, in sole sette settimane. È così che mi piace lavorare. Non mi piace lo spreco di tempo. È difficile unire la recitazione, che è un lavoro di concentrazione,

con la regia e la produzione di un.film, che sono anche impegni multiformi e complessi? Sì, in un certo senso. Ma io, ad esempio, quando lavoro a un

film, preferisco dopo le prove affrontare le scene della settimana successiva di lavoro, e voglio che gli attori mi seguano. Tutti sanno come lavoro e si abituano a questo metodo. Significa che ci vuole tempo per digerire quello che bisogna fare ma, in questo modo, la volta dopo, quando torni sul set dopo una settimana o il week-end successivo, sai già quello che devi fare. Ho fatto la stessa cosa con John Houston e Michael Caine nell' Uomo che

volle farsi re. Sta dicendo che fare i.I produttore di un film in cui recita è un modo per familiarizzare con le persone con cui lavora e ottenere così migliori risultati? Sì. In questa maniera coloro che lavorano sul film iniziano a lavorare dopo essersi già incontrati: e se ciò accade sul set questo incontro genera un atteggiamento molto più «autentico».

Cosa pensa oggi di James Bond? Il punto di vista di oggi. Non saprei come rispondere, ma penso di sapere il perché del suo successo quando arrivò nelle sale. Erano i tempi del teatro impegnato degli anni cinquanta e sessanta, in cui si metteva a nudo la vita della classe operaia inglese, e sicuramente Agente 007- Licenza di uccidere era una boccata d'aria fresca. Inoltre, c'era il fatto che Fleming voleva gente come Cary Grant e ch e il budget del film era di 1 milione di dollari, che poi alla fine fu tagliato a 960 ooo a causa della svalutazione del dollaro. È un tipo di cinema che portò un grande cambiamento nei film. Aveva cose che gli altri n.o n avevano.

E cosa dice del controllo nella recitazione? Se penso alle altre opzioni, David Niven o Cary Grant, penso che lei abbia apportato al personaggio più sobrietà o reticenza di quanto avrebbero fatto loro. Uno degli aspetti fondamentali del libro da cui è stato tratto il primo film con James Bond è che non ha umorismo. Con il regista, Terence Young, avevo già fatto un film, Il bandito

dell'Epiro. Non era un film particolarmente bello ma eravamo amici, ci divertivamo molto insieme, avevamo un senso dell'umorismo simile. Lui, tra l'altro, si vestiva benissimo. Young capì, e questo ci scioccò, che Bond doveva indossare abiti particolari, come i pantaloni corti: il che era una cosa assolutamente estranea alle mie abitudini. E lo è ancora. Capì che l'abbigliamento era un elemento essenziale, così come era importante il distacco ... a meno che non avesse a che fare con le donne, l'alcol e l'azione. Dove,•a esserci un aspetto di pericolo e di minaccia. Questi erano i concetti chiave per me. Penso che un attore possa davvero fare qualsiasi cosa. Il mm;mento dovrebbe essere minimo, molto mobile, animalesco, elegante e sofisticato. E poi improvvisamente deve esplodere la battaglia. Maneggiare le armi - una cosa in cui non ho mai primeggiato - doveva sembrare molto più facile di quello che in realtà non è.

Guardando oggi questo genere di film mi sembra che la sua pe,jonnance - considerando i fu.turi James Bond - sia dotata di un mix, apparentemente contraddittorio, di eleganza e umorismo, come se venissero giocati l'uno contro l'altra. Io cerco sempre l'umorismo in ogni ruolo che interpreto, perché per me l'umorismo è un fattore di grande equilibrio. Puoi farla franca in qualsiasi contesto, grazie all'umorismo. Ho fatto un film di Sidney Lumet chiamato Sono affari di famiglia, che non ba avuto successo ma il mio personaggio, il padre, è molto interessante. È cattivo, ma è realistico ed è divertente.

Qual è l'ultima volta che ha visto un film di James Band? Qualche volta mi capita di vederne uno alla tv, quando sono in Italia. Ci sono così tante emittenti.

Quali sono le sue reazioni quando si rivede nei panni di James Bond? Be', bo anche dei nipoti che conoscono benissimo quei film. Conoscono le battute a memoria, i dialoghi, le scene. Io invece non mi ricordo i dialoghi. Assolutamente. Considero questi film come qualcosa che ha a che vedere unicamente con il momento in cui sono stati fatti. Penso che durino, ad esempio, perché i vestiti o le pettinature non sono datate come quelle di altri film. n taglio inglese, le giacche sportive, i completi da uomo, i cappelli, le cravatte, i colori pastello e tutte quelle caratteristiche che sono consolidate e non sono mai cambiate. Mentre quando si vede un film in cui ci sono capelli lunghi, basette e pantaloni a campana, immediatamente si fa un salto nel tempo. Questo non c'è in James Bond. È per tale ragione che, tra tutti, quello che più bo amato è Dalla Russia con amore, perché mi sembra una storia molto buona, in cui appaiono come sfondo paesi diversi come la Turchia, la Bulgaria e poi alla fine si arriva a Venezia.

Ha mai pensato a chi potrebbe essere l'attore ideale per interpretare un.film sulla sua vita? Un film sulla mia vita: non ho idea. I critici dicono sempre che tutto ciò che faccio, alla fine, ba qualcosa di scozzese, ma io credo che le emozioni siano internazionali. Si può anche cercare di migliorare l'accento, ma alla fine l'emozione è la chiave di tutto e penso che essa sia internazionale. Se inizio a concentrarmi su un accento più britannico e più raffinato perdo di vista il ruolo, il suo valore, e quindi, per scelta, intendo restare come sono e quindi non so chi vorrebbe mai interpretare la storia della mia vita.

Pensa che il suo lavoro abbia in qualche modo lasciato un'eredità ad altre generazioni di attori? E se è così, di quale eredità si tratta e chi ne sono i beneficiari? Non saprei. Sono appena stato a Hollywood per l'American Film Institute Award, e non avevo idea che sarebbe stato così importante, così emozionante. Hanno rintracciato tutti gli attori con cui avevo lavorato: è stato molto commovente e c'era anche la mia famiglia. Questa penso che sia la cosa più vicina all'idea di eredità. Non so se ci sarà mai qualcuno che vorrà fare un film su di me, in ogni caso ciò che mi interessa sono l'affetto e le emozioni che devo al mio lavoro. Se ho ben capito, la sua eredità sorto le reazioni della gente che la

ama e il lavoro da lei svolto. Sì, è così.

l\,1eryl Sh·eep «Noi attori possiamo capfre il senso, della vita: sappiamo benissimo che non c>è nulla su cui possiamo contare e niente di cui possiamo essere assolutamente

certi». Su Bob De Niro nel Cacciatore: «È ,-ero, oonoscendolo o incontrandolo, si potrebbe cadere in errore: è sì un uomo di

poche parole, ma non perché sia meno intelligente o, in q,ualche modo, più lento" degli altri. A1 contrario, ha una marda in più». Su Il diavolo veste Prada: «Poche ,·olte ho avuto soddisfazioni come quella di vedere Anna \Vintour, alla quale si ispirava il mio personaggio nel film, ridere di se stessa mentre vedeva il fil m in sa)a. Non potrò mai dimenticare neanche queUo che successe-alla fine delle riprese, quando tutti non vedevano l'ora di aprire i 0

guardaroba per accaparrarsi ciò che potevano, tra scarpe e vestiti.

Anche. i dirigenti dello studio erano li in fila •· Su ùz scelta di Sophie: «Un personaggio che mi ba procurato molte paoche sulla spalle: le donne, in ognuno dei vari paes~ parlano in un modo che poi risu)ta avere un certo effetto sul linguaggio corpore.o, sul loro modo di muoversi e di gesticolare. Conos:ce\'O delle donne polacche che venivano da una certa classe sociale, erano donne di

una cena cultura, e vedevo ehe parlavano in un modo ben diverso dalle solite chiacchierone americane)),. Bre\·i frammenti dalla conversazione, da poco sbobinata, a distanu di anni (ottobre 2009). che io e Antonio Monda tenennno in pubblico con Meryl Streep all'Auditorium di Roma~ successiva.mente trasmessa da

Studio Universal. In s.:ùa c'era un tifo con una pr,essione sonora da finale della coppa del mondo. La Streep arriva alPincontro

dopo il più lungo red carpet della Festa del Cinema (quasi un'ora): forse il più )ungo di sempre. Firma centinaia di autografi tenendo stretta sottobraccio la borsetta: su} nero delle scarpe e del \.·estito si irradia la luce della pelle bianc.a dell'ampio

décolleté, della spilla di c.>rati, della pasta incandescente dei capelli biondi tirati all'indietro. Sfilerà sul tappetto rosso fino a l centro della cavea~ dove allargherà le braccia e guarderà verso J•aJto come. una santa o una regina di fronte all'omaggio di un popolo. Decidemmo insieme a le.i - visto che la sala era già pie.n a e. il pubblico attendeva - di far proiettare nel frattempo un documentario su John Cazale, l'attore che interpreta Fredo nel

Padrino~ che fu il suo primo marito e che morì di tumore senza mai riuscire a vedere Il cacciatore, il suo ultimo film. Un a ttore diventato leggendario in una ridottissima manciata di film, come

avrebbe raccontato Coppola. A dispetto di tutte le leggende sui , che è lo stesso verbo che si usa per colui che spara. Chi fotografa, infatti, subisc(!. come. un piccolo rinculo: fotografare ci fa spostare all'indietro, poiché la foto parla non solo di ciò che si vede ma anche di colui che l'ha scattata. n sale della terra, il film che \Venders1 e i] figlio di Salga.do, Juliano, hanno d edicato al fotografo, pre.s entato in anteprima italiana al Festiva} intemazionala del Film di Roma (che ha portato fortuna alla distribu2ione italiana che ha registrato un lusioghié.ro succèsso in sala), è u1)à di1nostraziooE!

di questa idea. Le foto di Salgado, realiuate nei luoghi di maggiore sofferenza del mondo~dal Sahel ai Balcani al Ruanda~ sono allo stesso tempo un resoconto delle condizioni materiali di un ambiente e di una comunità e un fiotto invisibile di incandescente pietà e allarme nei confronti del dolore di cui è stato testimone chi ha fatto la foto. Il rinculo è altrettanto impressionantè della for2a visiva dell'oggetto fotografato. ln ogni caso, è piullo.slo l:tffascin::inte 5ooprire per l'ennesima. volta che il cinema, il luogo per antonomasia delle immagini in movimento, è anche lo stesso in cui le belle fotografie, !e immagini ferme, diventano bellissime. Sarà la luce che emanano e riflettono (quando guardiamo una fotografia, normalmentei non abbiamo le condizioni di perfetta concentrazione e luminosità del cinema.), sarà il magnetismo un po' oscuro che hanno le immagini fisse: gli oceani e le pianure, le nevi e g}i

animali e tutto ciò che fa del mondo ciò che è. Ma è lo stesso Salgado a essere il volto di un paesaggio indecifrabile. Di fronte alla macchina da presa sembra quasi intimidito e a disagio, sospeso tra stupore e terrore: un sentimento molto simile a ciò che, in fondo, quasi ogni sua fotogra.fia sembra pa.s.sarci come una. scarica elettrica. La conversazione che segue, tra Wenders e me,

parla di tutto questo. WENDERS: Più invecchio e meno capisco il significato della fotografia. Il tutto è reso ancora più complesso dal1'evoluzione d21la téCnologia digitale. ).fa c'è un fenomeno c.lie mi affascina da se.mpre: ~ come se in ogni fotografia ci fosse un 'opera delle dimensioni st raordinarie come que1la Bergman, che restò sempre fedele a se stesso e alla sua ispirazione, con un'integrità straordinaria. Bergman non si è mai discostato dalla purezza della sua ispirazione. Quello che i grandi artisti ci dicono è che non esistono esempi né formule da adottare; ogni artista deve inventare la propria arte e il proprio cammino. E il fatto che i grandi artisti siano andati tanto lontano dimostra quanto questo s ia vero, quanto sia possibile.

Giuseppe Tomatore «Quando stai facendo un film e senti da ciò che dice la troupe che l'avventura li s ta coinvolgendo: be', allora la mattina vai sul set oon più energia. È il primo test: i

primi spettatori del tuo film sono i tuoi compagni di set». Conosco Giuseppe Tornatore da quando, come cronista di «Paese Sera•, partecipai a un evento oggi, per certi versi, storico:

la prima conferenza stampa di Nuovo Cinema Paradiso, nel 1986, nell'ufficio del proàuttore Franco Cristaldi. Ricordo benissimo l'eccitazione con la quale comunicava ai cronisti che

stava per aspettare il «sì• definitivo di un graude attore fraucese (Noiret) di cui ancora non poteva rivelare il nome. Da allora mi è capitato molte volte di incontrarlo. Mai per routine: per « L>Espresso» facemmo u1\a lunga chiacchierata sulla morte di

Fellini, e per lo stesso settimauale mi diede la prima intervista esclusiva per Una pura formalità. Ho fatto con lui auche le interviste per gli extra dei dvd della Sconosciuta e di Baaria, ho fatto insieme a lui nel mese di settembre di quest'anno una

masterclass, affollatissima: a) MAXXI (per il Rome Creative Contest). Ho fatto un bel duetto con lui e Gabriele Muccino alla Festa del Cinema, e Giuseppe, con il fratello Francesc0:, ha prodotto un mio film documentario su 8½, intitolato L'ultima

sequenza, che nel 2003 è stato selezionato al Festival di Cannes. Insomma, io e Tornatore, pur non frequentandoci al di là del cinema, quando ci vediamo ci salutiamo come se avessimo fatto il militare o il Jiceoassie,me. Una sera a Taormina ci siamo resi conto che ci conosciamo da quasi trent1anni. Ho fatto tante conversazioni, pubbliche e private, sul cinema con lui. Ma ho scelto qualcosa di totalme.nte inedito che, secondo me, somiglia a Tornatore più di tutto quello che ho fatto prima. Quella che segue è una conversazione tratta da una serie documentaria sui mestieri

dP..l cine.ma che sarà prodotta da Erma Production e Sky Arte.

Non c'è nessuno che sappia raccontare come Giuseppe Tornatore la vita del set, nessuno che sappia indagarla e narrarla con la stessa penetrazione: mentre i r@gistl, anche qu@Hi bra";, in genere

raccontano sempre, più o meno, le stesse cose Oa fatica, l'aV\·entura, la formazione prowisoria di solidarietà di gruppo, la generosità degli attori ecc.}, non c'è stata una volta ch e, parlando

con lui, non abbia svelato un'angolazione inedita, un aspetto non convenzionale, una cronaca sorprendente. Come accade nella conversazione che segue: la cinefilia ha sperimentato molteplici forme di mitologia per celebrare 1a passione per il cinema~ ma Tornatore è il primo, che io sappia, a s.aper raccontare un set, non solo come oggetto di desiderio, devozione, amore, ma come un luogo allo stesso tempo misterioso e diverso) un'area franca e

inaudita dell'esistenza, un «posto» diverso politicamente e antropologicamente, in cui si stabilisoono legami umani soonosciuti alla vita ordinaria e in cui l'attenzione: la cura e anche la lealtà e )'affetto sembrano attingere a fonti remote capaci di rendere le.persone diverse e talvolta migliori. TORNATORE: Allora ti dicevo: il set è un luogo speciale per

tantissime ragioni. Che un po• oonosciamo. Ma anche per altre meno not@. Per esempio: è un luogo in cui chi dimostra qualcosa di più e di diverso rispetto al ruolo che ha - che so, un'attitudine speciale, una vocazione, un'abilità - viene.immediatamente notato. Se sul set si capisce chs un tlzio ha una parricolars

vocazione per una funzione che al momento non sta svolgendo, al prossimo film fa quell'altra cosa - se non già nello stesso film. È un luogo in cui è facile guadagnarsi i galloni di una nuova funzione. Ciò è molto be.Ho. Si comincia a girare, poi dopo tre

settimane senti dire: •È quel ragazzo lì, il runner: quello è bravo, sa tutto del cinema». Senti qualcuno che dice questo, poi dopo una settimana vedi che quel runner non fa più il runner, sta ll che so, 2ccanto al fonico oppur e accanto a un elettricista e tu dici: «Ma che è successo?». Ti rispondono: «Eh, sai, quello è bravo. Il capo elettricista se lo è messo vicino per aiutarlo nelle scene più difficili». Insomma, un bel giorno gli vedi fare. cose. che all'inizio

del film nessuno gli avrebbe affidato. Succede su un set. Non spessissimo, però è una cosa consueta. Il contrario dcll7talia: il set è il luogo del merito. Esattamente. Il set è. il luogo del merito. Chi sa fare una cosa la fa. È una legs@ naturalé. Tu magari ment.ré giri vadi uno di

quelli che stanno lì intorno che ha un modo di muoversi che tu noti. J\lagari ascolti anche una battuta che si scambia con qualcun altro. Senti che ha spirito, ti colpisce. e un bel giorno puntualme.nte succede ne.I film che il tuo aiuto dice: «Senti, per

quel personaggio li, siccome giriamo il campo a Roma e il . Quaudo poi io vinsi l'Oscar gli mandai un assegno da wi

milione.

Gli hai spedito un assegno da un milione di lire? E per forza. Lui poi mi disse: do me lo vorrei conservare... ».

«Allora fai una cosa: lo incassi p erò prima fai la fotocopia e ti conse.r vi la fotocopia» . Lui si fece una fotocopia che si è messo in

una cornice. Ma quello fu un set davvero particolare. lo riuscii a fare cose, in quel set, che dopo non ho mai potuto fare. Per esempio, c>era un>inquadratura: quella con tutte le campane che suonano. ln quella inquadratura ci doveva essere un carrello che attraversa il campanile. Cristaldi sosteneva che non la dovessi realiz2are perché era troppo complicata e richiedeva un tempo

sproporzionato rispetto alla funzione e alVimportanza dell'inquadratura. Mi disse: «Lei in fondo potrebbe fare una cartolina fissa del campanile, la gira in mezz'ora e basta, invece quP.-~to ~arreno l;:i impP.gnP.rà mezza giornata».

Vì davate del lei? Con Franco Cristaldi ci siamo dati sempre del lei per tutta la lavorazione del film. Sempre. Poi quando abbiamo mostrato il film per la prima volta al pubblico a Bari uel 1988, }'e.sito con il pubblico fu esaltante e lui mi convocò nella sua stanza d'albergo e

si fece trovare con una bottiglia di champagne. Vaprì e disse: «Ci

diamo del tu~. E io: • Guardi, aspettiamo che esca il film. Se dovesse andare bene ci daremo del tu altrimenti continueremo a darci del lei». E lui rispose: «No~ diamoci del tu; abbiamo fatto un

bel fiJm». ~fa torniamo all'inquadratura del campanile. C'era una grande sensibilità, una grande tensione positiva, p roprio lo sentivo. A loro piaceva quando giravamo quelle sequenze dentro

il cinema con le proiezioni, quando partiva la proiezione si creava sempre un momento di grande e mozione. Però, appunto, Cristaldi, a proposito del carrello e del campani!~, mi disse: «Non lo faccia~ richiede troppo tempo». E mi ricordo che aggiunse:

«Duccio farebbe un'inquadratura fissa del campanile• e si riferi,1a a Tessal1 (lo citava spesso quando doveva fare quakbe esempio di regista capace di risol\Tere facilme.n te dei problemi) e

io gli dissi: •Sa, però, è importante questo carrello perché è la scoperta del paese intero• . ~sì, sì tutto quello che lei mi dice è giusto però sta di fatto che per realizzarla come dice lei ci vuole meiza giornata. Come dieo io, o come direbbe Duccio, impiegherebbe solo mezz'ora. Oppure, la tagli: non è Unporlante». Nel gioco