Cent'anni di cinema italiano. Volume 1: Dalle origini alla seconda guerra mondiale. Volume 2: Dal 1945 al giorni nostri [Voll. 1-2] 8842038512, 9788842038511

Roma, 20 settembre 1905: si proietta La presa di Roma di Alberini. Così comincia la storia del cinema italiano che dal p

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Cent'anni di cinema italiano. Volume 1: Dalle origini alla seconda guerra mondiale. Volume 2: Dal 1945 al giorni nostri [Voll. 1-2]
 8842038512, 9788842038511

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BRUNETTA



CENT ’ANNs T QN-ÌMA ITALIANO

EDITORI

© 1991, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1991

Gian Piero Brunetta

CENT’ANNI DI CINEMA ITALIANO

EDITORI LATERZA

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel settembre 1991 nello stabilimento d'arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-3851-X ISBN 88-420-38512

Introduzione

Questo libro, scritto a dicci anni di distanza dalla Storia del cinema italiano, c nato da una sfida, dalla constatazione di un vuoto di mer­ cato e dall’esigenza di rifare il punto sull*argomento, alla luce delle nuove acquisizioni storiografiche c di nuove ipotesi storico-critiche. Sono stato sfidato a pensare a un profilo storico del cinema ita­ liano che, pur mettendo a frutto l’esperienza anteriore, non fosse né un sommario, né un'editio minor del precedente. E a immaginare un saggio del tutto nuovo che, senza essere una vulgata, si ponesse obict­ tivi di divulgazione e offrisse, nel minor numero di pagine, il raccon­ to di una grande avventura che ha fatto dell’Italia un punto di rife­ rimento internazionale in vari momenti del secolo. Nonostante i seri propositi di non occuparmi più di problemi ge­ nerali del cinema italiano, ho accettato con entusiasmo, sapendo di non avere barriere immunitarie efficienti c che il fenomeno di dipen­ denza, anziché attenuarsi, si è ormai cronicizzato. Credo, in effetti, di aver stabilito un legame tanto profondo e indissolubile con l’og­ getto, in venticinque anni di convivenza quotidiana, da non saper più distinguere tra l’attrazione provata come studioso e quella di un au­ tentico coinvolgimcnto, di una passione, che il passare del tempo non accenna a spegnere. Pur accettando i limiti imposti dalle ragioni editoriali, ho conce­ pito c cercato di dare al lavoro la forma di una «sintesi distesa», di una visione aerea con obiettivi variabili che mi consentissero di stabilire più nette relazioni tra le parti c di mettere a fuoco alcuni argomenti di cui mi occupavo anche a rischio di sottovalutarne o ignorarne altri. Ho volutamente sacrificato c messo da parte alcuni procedimenti e modi del lavoro accademico a favore di una discorsività che mi con­ sentisse di raggiungere destinatari diversi: dal lettore desideroso di una prima informazione generale allo studente di storia del cinema allo specialista di discipline non cinematografiche, dallo storico al lin­

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Introduzione

guista. Gli storici del mondo contemporaneo, che certo storceranno il naso per l’eccessiva pretesa di attribuire ai film e al cinema ruoli di fonti primarie per la storia, sono interlocutori privilegiati di questo lavoro. Ultimo e non certo minore tra i destinatari ideali è un ipote­ tico lettore straniero a cui vorrei far conoscere insieme cent’anni di storia del cinema e di storia italiana. Non sono stato spinto ad affrontare questa nuova impresa da al­ cuno spirito catastale e notarile, anche se sono convinto che nell’am­ bito del cinema i sani paradigmi positivistici, in altri campi indici di municipalità, arretratezza e sottosviluppo, possano costituire ancora elementi fondamentali in una delicata fase di crescita e maturazione della coscienza filologica e storiografica. Negli ultimi dieci anni la storiografia cinematografica italiana, so­ prattutto per quanto riguarda le origini — per merito di un manipolo di studiosi non accademici — ha operato una vera e propria rivolu­ zione copernicana rispetto al passato. Rivoluzione che riguarda la capacità di ricostruzione di fenomeni del cinema muto, la volontà di esplorazione diretta del terreno, oltre alla necessità-dovere di spor­ carsi le mani con la bassa cucina filologica. Quello che solo dieci anni fa appariva come un vero e proprio buco nero, grazie alle ricerche di Aldo Bernardini e ai lavori filmografici di Vittorio Martinelli, è di­ ventato ormai un terreno familiare, un «luogo comune» per un pic­ colo esercito irregolare di ricercatori sparsi in Italia e all’estero. Il cinema si presenta oggi non come un oggetto dato, una storia orien­ tata e orientabile in una sola direzione, ma come un sistema «molto grande» — direbbero i fisici — capace, per la sua ricchezza e com­ plessità, di battere qualsiasi osservatore, per quanto dotato. D’altra parte, la circolazione delle idee, il confronto dei risultati, la conver­ genza degli studi internazionali su oggetti simili, l’abbandono pro­ gressivo del lavoro storico basato sulla memoria e sulla biblioteca di casa, hanno, in un certo senso, contribuito a dare giuste misure, a ridefinire le cartografie delle terre incognite del cinema muto di tutti i paesi. Anche se ritengo la confraternita o la corporazione degli storici del cinema ancora in via di formazione, ho sempre posto come principio fondante del mio lavoro il rispetto del pluralismo e il riconoscimento dell’utilità di modi di concepire e coltivare il lavoro storico molto dis­ simili e distanti. Pensando alle classificazioni delle specie di storici suggerite da Witold Kula, ai «cronisti» preferisco gli storici «investi­ gatori», ma se dovessi indicare la professione più contigua a quella del mio storico ideale non esiterei a pensare all’urbanista, ossia a qualcuno capace di far coesistere realtà architettoniche diverse do­ tandole di tracciati e servizi comuni nel maggiore rispetto possibile degli insediamenti anteriori. Il mio lavoro è spesso stato arricchito e

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illuminato da piccoli contributi di ridefinizione di porzioni minime di un territorio; molto spesso mi affascinano i saggi che hanno la strut­ tura di un «data base» piuttosto che più autorevoli e brillanti lavori in cui la bibliografia di riferimento oscilli tra Barthes, Genette, Derrida, Baudrillard, Foucault e due o tre autocitazioni dell’autore. Ho tenuto conto, con la massima attenzione, di tutte le ricerche in atto ed ho idealmente dialogato nel corso dei diversi capitoli con vari critici e studiosi accettandone o rifiutandone ipotesi e tesi e cercando, per quanto mi è stato possibile, di mettere a frutto i risultati dei miei lavori più recenti e di interrogare l’oggetto con nuove domande, di pormi da punti di vista differenti rispetto al passato e rendere i per­ corsi subito evidenti e continui lungo le diverse tappe. Sono convinto che il processo di maturazione storiografica in atto sul piano internazionale, all’interno del quale l’Italia sta esercitando un’inedita e meritata leadership, imponga comunque un progressivo rallentamento di dipendenza dai dati e un maggior sforzo di raccordo e rafforzamento degli strumenti interpretativi. Le principali ipotesi che hanno guidato il lavoro sono le seguenti: 1) In che misura è possibile attribuire al cinema italiano il ruolo di fonte o punto di passaggio obbligato per studiare la storia culturale, politica, sociale dell’Italia lungo tutto il ventesimo secolo? 2) Da che momento e in che modo lo schermo accoglie e fissa i simboli di identità di una nazione unita da pochi decenni? 3) È possibile, pur rispettando la pluralità delle esperienze indi­ viduali, lavorare su un macrotesto in cui riuscire a far coesistere e riconoscere i livelli medi e le evoluzioni stilistiche e linguistiche del sistema e i loro rapporti con i terreni contigui della letteratura, del teatro e della pittura, o con gli sviluppi paralleli del linguaggio delle altre cinematografie? 4) Con quali strumenti e attingendo a quali fonti si può oggi in­ cludere nella storia dello sviluppo di una cinematografia, la storia dei «segni dei sogni» collettivi, il racconto della modificazione della geo­ grafia e storia mentale dello spettatore, le oscillazioni del gusto, il modificarsi dei suoi bisogni e dei suoi desideri? In sostanza, all’interno di una periodizzazione in cinque fasi di differente durata, ho cercato di sviluppare il discorso attorno a questi temi guida: 1) La storia e la geografia dello sviluppo produttivo in rapporto alle dinamiche sociali, economiche e politiche del paese. 2) La diffusione delle mitologie divistiche e dei modelli linguistici e culturali. 3) Le differenti percezioni dell’identità nazionale e della rappre­

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sentazione del paese attraverso l’invenzione di spazi immaginari o la conquista di spazi reali. 4) La verifica dei poteri degli autori e dei generi e al tempo stesso il riconoscimento di un tessuto connettivo che legittima un uso e delle interpretazioni non cinematografiche né estetiche dei macro e dei mi­ crotesti. 5) La presenza degli spettatori e la modificazione dei gusti nel corso del tempo. La struttura di questo libro — rispetto alla Storia antecedente, co­ struita in forma di grafo con un vasto numero di nodi ed archi con­ nettivi e sviluppata disponendo gli argomenti a macchie di leopardo — è più ordinata: fissa un punto di partenza comune ai vari capitoli, mantiene un senso di periodica circolarità e ripresa dei motivi ricor­ renti e si viene dilatando tanto più ci si avvicina agli ultimi decenni. Non poche affinità per quanto riguarda il piacere della narrazione si potrebbero riscontrare con il mio lavoro precedente, Buio in sala del 1989. Naturalmente quanto più allo sguardo e alle precauzioni dello storico si sostituisce, parlando del presente o del passato prossimo, quello dello spettatore comune, i rischi di ottusità visiva e miopia cri­ tica aumentano. Mi auguro che le incomprensioni, le idiosincrasie, le amnesie, le rimozioni più o meno volontarie e le assenze più o meno giustificate, non giungano a pesare in modo determinante sul giudi­ zio complessivo e sulle possibilità d’uso di quest’opera. Senza alcun ordine di importanza e priorità ho cercato di far di­ venire oggetti di studio i modelli sociali, le modifiche nei comporta­ menti collettivi, le caratteristiche antropologiche dei riti della visione, le strutture narrative, l’interazione con i modelli iconologici e icono­ grafici contigui e anteriori, la capacità di produzione di miti e di sim­ boli, l’inclusione diretta o la metamorfosi simbolica dei segni della storia... E inoltre le manifestazioni dei sogni, il transfert dei desideri, le unificazioni e scomposizioni dei pubblici, le ragioni delle crisi ci­ cliche, le debolezze strutturali deH’industria, le caratteristiche gene­ tiche forti e quelle deboli, l’irradiazione a largo raggio, nel breve e nel medio-lungo periodo, di svariati fenomeni. Alcuni di questi fenome­ ni — come quello divistico e linguistico — sono interamente ripensati e intendono arricchire il quadro del mio lavoro anteriore. Il profilo linguistico che ho tentato di delineare, suggerendo ulte­ riori linee di ricerca, costituisce la retta ortodromica che unisce i di­ versi punti della nuova mappa, in cui spariscono interi territori ri­ spetto al passato e altri vengono messi a fuoco in modo più definito. La percezione dell’Italia, sia in senso reale che metaforico, è uno dei grandi motivi conduttori della ricerca: da questo punto di vista si spiega la maggiore attenzione dedicata a certi film e a certi autori rispetto ad altri e la rimozione di vari fenomeni, che ho considerato

Introduzione

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facilmente integrabili da chi ha interessi settoriali. Il numero delle forze e dei percorsi possibili, nel passaggio dalla struttura del grafo a quella del suo poliedro, si è ristretto, ma spero non risulti semplificato né impoverito. Svariati nodi ed archi di collegamento, soprattutto relativi ai piani e agli spazi del lavoro intellettuale, al ruolo delle isti­ tuzioni, alle forme di controllo e censura, sono stati evitati da una strategia operativa che mirava a ottimalizzare un cammino entro un numero inferiore di piani. Ho puntato a elaborare una specie di al­ goritmo risolutivo che desse ragione della complessità dei fenomeni e aiutasse ad attraversarli lungo le vie più brevi e significative. Nelle mie intenzioni l’orizzonte implicito ed esplicito dei problemi, se si effettua tra le mie due opere sul cinema italiano un processo di ad­ dizione e non di sottrazione, dovrebbe risultare comunque conside­ revolmente dilatato e non solo sovrapposto. Il lettore italiano di questo profilo, rispetto a quello a cui mi ri­ volgevo dieci anni fa con la Storia del cinema italiano, riceve quotidia­ namente dosi massicce di film nazionali dagli anni trenta ad oggi dai canali televisivi pubblici e privati. Il suo consumo di cinema è au­ mentato in proporzione geometrica — in pratica tutto il cinema so­ noro è ormai a portata di telecomando — mentre, in misura eguale e contraria, è diminuita la sua capacità di distinguere, di stabilire re­ lazioni corrette all’interno del menu. Di fronte al flusso indifferen­ ziato di immagini, di opere, di autori e attori, il nuovo spettatore a cui la televisione fornisce un apporto ipernutritivo di proteine e ca­ lorie cinematografiche quotidiane, è portato a non chiedersi a che insiemi appartengano e come sulle singole opere si sia esercitata una diversa pressione da parte della storia. Se non si sono volute offrire chiavi e letture che suggerissero ine­ dite esperienze estetiche privilegiate, né elaborare alchimie critiche che distillassero nuove gerarchie di valori (e per quanto è stato pos­ sibile si sono repressi gli umori e controllati gli amori), si è puntato a servirsi di tracciati che dessero ragione della diacronia e del costante gioco di scacchi del cinema con la storia. La riduzione del ricorso alle fonti o ai documenti, o meglio la loro assimilazione nel continuum discorsivo, nasce da una scelta di fóndo, dalla volontà di alleggerire quanto più possibile l’imbarcazione dalla zavorra del lavoro accademico per facilitare il viaggio del lettore: mi auguro che la rinuncia agli apparati e la voluta mimetizzazione del lavoro di ricerca non dissimulino del tutto le novità e le intenzioni non ricapitolative, ma in buona parte propositive rispetto ai lavori anteriori. Nonostante i momenti di vuoto produttivo e ideale, l’improvvi­ sazione e la fragilità delle sue strutture imprenditoriali, nel suo no­ vantennio di vita il cinema italiano ha lasciato tracce profonde della

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Inlroduzionf

sua storia al di fuori dei confini nazionali ed ha saputo raccogliere e conservare, nella varietà delle sue fonti, il senso generale delle dina­ miche culturali, sociali e linguistiche, economiche, immaginative, dei sogni, desideri e aspirazioni di una nazione alla ricerca di una propria unità. Il libro vuole raccontare una storia collettiva in cui, accanto alla salvaguardia dei diritti dei grandi autori, che hanno modificato in alcune occasioni l'intero sistema internazionale, siano rispettati quel­ li dei «piccoli maestri» e soprattutto alcuni processi intertestuali ven­ gano accostati e studiati nella loro complessità e capacità di intera­ zione economico-culturale. Un sistema non omogeneo, costituito da elementi e forze diffor­ mi, dove micro c macrofenomeni si intrecciano e scontrano senza mai giungere a uno stato uniforme e stabile, viene ordinato e definito da alcuni tracciati che lo attraversano con continuità. Di questo territo­ rio si osservano superficie e profondità, mutamenti delle prospettive spazio-temporali e si misurano i singoli movimenti delle figure nel paesaggio con i flussi collettivi, si registra la polvere dei sogni c si identificano personaggi che spesso appaiono c scompaiono con la ve­ locità di una cometa. Una storia gloriosa e miserabile, esaltante e dolente, di ascese im­ provvise ai massimi vertici espressivi c cadute verso il grado zero del­ l’invenzione e della carica produttiva. Una storia degna delle tradi­ zioni del mecenatismo rinascimentale e dei fasti della commedia dell’arte. Una storia di alterne fasi di dissipazioni e di miserie, di trionfi internazionali e pura sopravvivenza. Una storia di luci ed om­ bre, di un edificio costruito grazie alla genialità di grandi e piccoli registi e al lavoro di sceneggiatori e produttori, operatori c scenogra­ fi, riuniti idealmente in una sola grande famiglia. Tutti insieme au­ tori, maestri, tecnici ed esecutori, hanno saputo creare nuovi metri, nuove misure di scala, nuovi interpreti capaci di ridefinire, in più di un momento, l’intera logistica e topografia del paesaggio artistico in­ ternazionale del novecento. Una storia di storie che si vuole pensare ancora aperta e ricca di futuro, nonostante la gravità della crisi, la caduta di energia produt­ tiva, la fuga del pubblico e il fatto che l’Italia com’è sembri piacere sempre meno ai suoi cantori visivi, che, anziché osservarla, preferi­ scono immaginarla com’era c in molti casi come avrebbe potuto es­ sere. G.P.B. Padova-Asiago, febbraio 1989-gcnnaio 1991

Cent’anni di cinema italiano

CAPITOLO PRIMO

Il navigar visionario: elementi per una mappa del territorio delle origini

1. Il battesimo di Porta Pia Roma: è la sera del 20 settembre 1905. Migliaia di persone af­ fluiscono agli inizi della via Nomentana per assistere alla proiezione della Presa di Roma, «speciale ed artistico lavoro» cinematografico di Filoteo Alberini. Il cinema da anni non è una novità e tuttavia ben pochi si rendono conto di essere testimoni e padrini di battesimo del primo film italiano a soggetto. Tutti avvertono invece le stesse esal­ tanti emozioni di rivivere eventi grazie a cui ha avuto inizio la nuova storia nazionale. A giudicare dalle «entusiastiche acclamazioni» regi­ strate dal cronista della «Tribuna» c dalla «commossa partecipazione agli episodi che trentacinque anni or sono fecero palpitare i cuori di tutti gli italiani» si direbbe che la gente non avverta la presenza dello schermo steso proprio di fronte alla breccia di Porta Pia e provi, tutta insieme, l’impressione di essere attrice dcH’evento, di mescolarsi coi bersaglieri per celebrare, al loro fianco, l’apoteosi della nascita dello Stato unitario. Non è certo per fortunate congiunzioni astrali che Alberini, come atto inaugurale, ha scelto un episodio in cui sono subito visibili arte­ fici c simboli dell’unità nazionale (nell’ultimo quadro Cavour, Maz­ zini, Garibaldi e Vittorio Emanuele li, ai piedi di un’Italia «una, libera e indipendente» vedono realizzarsi il loro sogno) e ha voluto far coincidere il luogo della storia con quello della sua prima rappresen­ tazione. E non c neppure casuale che, rispetto alla produzione con­ temporanca, il realizzatore non provi alcun complesso di inferiorità, ne voglia esibire o dissimulare alla meglio il ritardo decennale e la gracilità e ipotonia finanziaria c tecnica. Coi suoi 250 metri, articolati in 7 «quadri», l’accurata ricostru­ zione degli avvenimenti e degli «scenari riprodotti dal Prof. Cicognani su fotografie del Tumincllo eseguite il 21 settembre 1870», la re­

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Ceni 'anni di cinema italiano

citazione affidata ad attori di teatro, la precisione e la cura con cui sono riprodotte le uniformi, la veridicità dei gesti e delle azioni mi­ litari, l’interazione di spazi reali e simbolici, l’alternanza di riprese in studio e in esterni, La presa di Roma mette subito in chiaro le sue am­ bizioni. Per le riprese in esterni il Ministero della guerra ha «accor­ dato soldati, cavalleggeri, artiglieri, uniformi ed armi» (Bernardini, 1983). Nell’atto stesso in cui Alberini e Santoni presentano le cre­ denziali sul tavolo della produzione internazionale attuano un attac­ co frontale alle convenzioni in uso, e fissano l’indicatore segnaletico per la cinematografia nascente. La presa di Roma ha, per il cinema italiano, lo stesso valore di ma­ nifesto visivo che per la Rivoluzione francese ha assunto II giuramento degli Grazi dipinto da David nel 1785. E un documento vivente ed ha già la forma del monumento. I bersaglieri che muovono all’assalto, e passano attraverso la brec­ cia di Porta Pia, sono gli ideali battistrada di un gigantesco esercito di attori e comparse che, lungo la loro scia, muoverà, di lì a poco, in tutte le direzioni, alla conquista dello spazio e del tempo e dell’impero dei sogni collettivi.

2. Luce dei Lumière e di Edison «Decisamente vegnarà el giorno che caminaremo co le gambe par aria»: così l’anonimo cronista del «Visentin» accoglie, il 1° novembre 1896, l’arrivo a Vicenza dello spettacolo Lumière. Le prime reazioni di fronte alla nuova «meraviglia della scienza» sono di ammirazione, stupore, sensazione di non saper bene dove, di questo passo, si andrà a finire. «Qualche cosa di meraviglioso, che lascia stupiti, pensosi, impressionati» scrive Arnaldo De Mohr sul settimanale «L’Attualità» nel maggio 1896. «Il cinematografo fa addirittura furore» si legge sul «Mattino di Napoli»; «Non si può che dire: meraviglioso!» troviamo scritto sulla «Gazzetta di Treviso». E così «Il Messaggero» descrive uno spettacolo a Roma il 29 marzo: «Tutti battevano le mani ieri sera al Cinematografo posto in via del Mortaro 17, applausi entusiastici e battimani a misura che i diversi soggetti con il movimento e la verità della vita passavano avanti agli occhi degli spettatori meravigliati». Le decine di giornalisti che sul «Veneto» di Padova — o sul «Cor­ riere» di Napoli, sull’«Indipendente» di Trieste, sull’«Ordine-Corrie­ re delle Marche» o sulla «Gazzetta di Messina e delle Calabrie» — raccontano l’arrivo del Cinematografo Lumière o del Vitascopio Edi­ son (dopo aver descritto le caratteristiche dell’apparecchio, la magia dello schermo che prende vita e le reazioni del pubblico), intonano all’unanimità un coro di lodi al progresso della scienza.

1.-2. I bersaglieri all assalto di Porta Pia e il finale allegorico in due fotogrammi della Presa di Roma di F. Alberini (1905).

Cent'anni dt cinema italiano

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ESTE TEATRO SOCIALE Mercoledì 23 Dicembre 1896 alle «re 8 e mezza poni.

OUESTA SERA PER E ULTIMI VOLTI sì riprlerann» gli espcrinrili di proiezioni di fol&grafir aitale renlianr, col mio apparcrrìiio nmwo

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3. Annuncio di uno spettacolo cinematografico a Este alla fine del 1896.

«Andèmo, andèmo alle vedute vive!» diventa quasi una parola d’ordine per il pubblico veneziano che confluisce in massa al Teatro Minerva in via XXII marzo a vedere, dal 22 agosto 1896, le riprese dell’operatore Premio: Approdo di una gondola ai SS. Giovanni e Paolo, I piccioni di San Marco, I vaporetti a Rialto. Grazie ad alcuni lavori d’insieme di Bernardini in particolare, che hanno fissato le coordinate generali e a una notevole messe di con­ tributi di studiosi locali, conosciamo bene le date delle prime proie­ zioni a Gemona e Trieste, Imperia e Montagnana, Messina e Anco­ na, Este e Reggio Emilia... Ogni microelemento ha le caratteristiche di un genotipo rintracciabili non solo su scala nazionale. Di fatto però se sui Lumière, e sulle imprese e deambulazioni dei loro operatori e concessionari — da Giuseppe Filippi a Ernesto Galli, da Angelo Cor­ vini a Luigi Roatto — sappiamo ormai molte cose, non è stato finora sottolineato il fatto che il sistema di concessione degli apparecchi e film Lumière si accompagnava a una capillare distribuzione di ma­ teriali informativi a cui attingevano i giornalisti per lo più copiando­ li letteralmente. Questo spiega come le prime informazioni sul cine­ matografo e le sue caratteristiche coincidano in sostanza con la de­

I. Il navigar visionario: elementi per una mappa del territorio delle origini

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scrizione dell*apparecchio inventato dai Lumière piuttosto che con quella del Kinetografo Edison. Il 19 settembre 1896 e nei giorni se­ guenti appaiono sulla «Gazzetta di Parma» due lunghe colonne di descrizione di un doppio spettacolo di pantomima e cinematografo che riproducono i testi forniti dalla casa lionese: «Dopo la pantomima si avrà uno spettacolo curioso e nuovo per i parmigiani, ma che ovun­ que ha ridestato la più grande meraviglia: intendo parlare della ri­ produzione di alcune fotografie animate ottenute col cinematografo Lumière... Il cinematografo dei signori Lumière è un ingegnoso apparecchio che permette non solamente di raccogliere mediante la fotografia... tutte le scene più varie, ma eziandio di riprodurle fedelmente, in gran­ dezza naturale sopra uno schermo... Riesce così possibile, mercé que­ sta notevole invenzione, di sviluppare le scene della vita reale nei suoi più piccoli dettagli: la vita è sorpresa là dove si diresse l’obiettivo». Nella miriade di invenzioni che si accavallano sulla scena sociale il cinematografo è subito adottato per la capacità di rappresentare i fenomeni di modernizzazione in atto e per il suo porsi come ultimo anello di una catena che vanta un albero genealogico secolare. Un linguista improvvisato, il marchese Colombi, nota, nell’aprile del 1896, che, a voler essere veramente pignoli, l’apparecchio, la cui base etimologica proviene dal greco Kinema, dovrebbe chiamarsi cinemalelettrofotografo. Per ragioni di economia, suggerisce di usare termini co­ me anemografo o cinegrafo o ctfo, ma già qualche anno dopo si impor­ ranno — come sappiamo dalle ricerche del linguista Sergio Raffaelli (1978) — cinema, cinema e cine. Il cinema è — in pratica — l’ultimo arrivato sulla «piazza uni­ versale» dei mestieri dello spettacolo e costituisce il punto d’arrivo naturale di ricerche e fenomeni che si sono sviluppati, come avrebbe detto Foucault, con una «pendenza lieve» nel corso dei secoli. La rapidità dell’acquisizione della nuova «meraviglia» della scien­ za e del processo di alfabetizzazione visiva di pubblici sparsi in tutto il mondo si spiega solo se si riconosce, come hanno fatto Brusatin e Costa per la voce Visione de\V Enciclopedia Einaudi (1982), il senso di una con­ tinuità di esperienza visiva e culturale effettuata lungo tre secoli uti­ lizzando i medesimi canali, forme, tecniche di pubblicizzazione e co­ struzione degli spettacoli in una sorta di grandiosa «mise en abime».

3. I viaggi deiricononauta Quando ho cominciato il primo volume della Storia del cinema ita­ liano (1979) con la frase «In principio fu Lumière» mi interessava,

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Cent ’anni di cinema italiano

mediante una facile figura retorica di paronomasia, valorizzare il mo­ mento dell’invenzione tecnologica: non intendevo però rimuovere il fatto che, nel momento in cui il cinema cominciava ad andare alla ricerca del suo pubblico, lo faceva in modo umile, cercando di non porsi in conflitto, ma anzi di dichiararsi parente e raccogliere l’ere­ dità di una serie assai ampia di forme di spettacolo e di cultura an­ teriori. Queste forme nascono e si ritrovano con forti caratteristiche comuni in quegli aspetti della visione e degli spettacoli popolari che si possono far risalire fino alle prime teorizzazioni leonardesche sulla camera oscura, ma che vanno ristudiate anche in rapporto al pubbli­ co, ai luoghi e alle occasioni in cui l’evento spettacolare si inseriva, al sogno utopico di poter dar vita a una lingua visiva universale. E, soprattutto in rapporto a una specie umana, che mi piace chiamare degli Icononauli, i cui attributi più marcati sono Viconofagia, l’iconolatria e l’iconodipendenza. Questa specie, che comincia a diffondersi e ad essere ben ricono­ scibile dai primi decenni del settecento, grazie all’abnorme prolife­ razione dell’industria delle immagini, vedrà — poco per volta — mo­ dificarsi la propria geografia mentale e conoscitiva e i propri codici genetici e darà vita, nel lungo periodo, alla sottospecie dell’Atwio ci­ nematographies (Brunetta, 1988). In certi momenti della vita associativa, in determinate ricorrenze, i pubblici popolari si ritrovavano alle fiere, alle feste di carnevale, nelle sagre, ad assistere a differenti tipi di spettacoli. Lo scopo di al­ cune forme di visione legate a principi ottici e fisici da cui dipende anche il cinema — pensiamo alle lanterne magiche o alle vedute per i Mondi Nuovi, o Pantoscopi, o alle fantasmagorie — era di offrire, per pochi soldi, al destinatario popolare le meraviglie del mondo, del vicino e del lontano, di produrre, come per magia, apparizioni e me­ tamorfosi, e insegnargli a dominare, con regole diverse, le categorie dello spazio e del tempo. Gli argomenti o gli oggetti della visione po­ tevano essere i più eterogenei: dal corpo ingrandito di un coleottero si passava alla veduta del palazzo di Versailles, o ai miracoli dei santi. La lanterna magica, a partire dall’indomani della Controriforma, era diventata uno strumento didattico e una prova materiale della verità dell’oratoria gesuitica. La «Magia naturalis» offriva nuovi poteri e crediti alla predicazione: le penne dell’angelo Gabriele vengono so­ stituite dalle immagini delle tentazioni di Sant’Antonio, o dalle fiam­ me che bruciano le anime dell’inferno. La parola del predicatore riac­ quista un nuovo potere perché produce fatti. Non è la macchina che crea la visione, ma la parola: dall’incontro tra la lexis del predicatore e Vopsis del pubblico nasce il Vero. I meccanismi attivati sono gli stessi anche se lo spazio della visione, poco per volta, non è più quello delle chiese, ma delle piazze e degli spazi mondani.

I. It navigar ririonario; elementi per urta mappa del territorio delle origini

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Tra le migliaia di personaggi che improvvisano spettacoli all’a­ perto — buffoni, cantastorie, saltimbanchi, istrioni, cantafavole, acrobati, burattinai — i lanternisti che battono il territorio europeo quasi metro per metro, intrecciano una trama e un ordito indispen­ sabili per capire la formazione della visione popolare. Grazie alla loro azione missionaria si diffonde dal settecento una cultura e una lingua visiva nel cui solco il cinema si immette senza soluzione di continuità. Questa cultura, al di là della varietà delle forme, è dunque legata a scadenze, appuntamenti, ed è tutta coesa e sintonizzata su identici piani comuni, incurante delle barriere linguistiche nazionali. Una fol­ la di viaggiatori instancabili percorre, per diffonderla, distanze enor­ mi, ritrovandosi e disperdendosi in tutte le direzioni. Non sono solo i savoiardi con le loro lanterne a vendere sogni o favorire i primi grandi viaggi mentali di massa. Dalle montagne del Trentino si diramano per il mondo, col loro carico di stampe appena uscite dalle tipografie Remondini di Bassano, ragazzi che spesso non troveranno più la strada di casa. Dalle montagne dell’altopiano di Asiago emigra, sul finire dell’ottocento, Tónte Bintarn, il protagoni­ sta del racconto di Mario Rigoni Stern {La storia di Tènie, 1978) e prende la strada verso l’Est europeo, come hanno fatto molti suoi compaesani da più di un secolo. Le sue stampe sono in prevalenza oleografie, frutto di tecniche tipografiche sofisticate e modelli, negli anni seguenti, per le prime scenografie del cinema italiano. Il discorso visivo che queste immagini trasmettono contribuisce a unificare ulteriormente i saperi delle comunità. In occasione delle fe­ ste, dei mercati e delle fiei.e, agisce dunque una folla di chierici va­ ganti della visione e del sapere popolare: colporteurs col loro carico di stampe e libri, lanternisti, venditori di almanacchi e pianeti della for­ tuna... Le stesse aggettivazioni, le stesse tecniche pubblicitarie, gli stessi colori e le stesse tipografìe sono usate per pubblicizzare gli spet­ tacoli di burattini o i Panorami, le performances dei galli sapienti e le prime apparizioni degli spettacoli Lumière. Si tratta di riconoscere, anche in funzione di ricerche future a più vasto spettro, una specie di grammatica e lessico della visione popo­ lare che accompagna, in regioni e nazioni assai diverse, un tipo di circolazione delle immagini che non ha bisogno della parola, ma ri­ corre a determinati moduli comuni, a un lessico visivo limitato e tut­ tavia abbastanza vasto, che rimbalza dalle xilografìe al cinema, dalle rappresentazioni di avvenimenti mostruosi, alle raffigurazioni degli ibridi, metà uomo e metà animale, alle vedute di paesi lontani. Sog­ getti e motivi passano da una forma all’altra dello spettacolo popolare e sono usati come mezzi di comunicazione di massa: il senso della rete che unisce più forme di rappresentazione, di immagini, modelli nar­ rativi è così molto forte ed evidente (Brunetta, 1987).

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Col cinema si raccolgono le fila di una cultura anteriore di lunga durata e le si ridistribuiscono in sostanza lungo due filoni. Il primo, che scavalca direttamente l’invenzione dei Lumière, è quello del fan­ tastico, della magia, dell’immaginario, del mondo dei fait divers, delle notizie mostruose. Questo filone nella cultura popolare ha un’enor­ me importanza, perché, come per il carnevale, costituisce, prima di tutto, una trasgressione delle norme, un’entrata oltraggiosa in uno spazio considerato tabù dalla morale corrente. L’accesso ai Luna Park, ai padiglioni delle meraviglie, è accesso al proibito, a qualco­ sa che trasgredisce in modo violento la quotidianità. E entrata al co­ spetto di una cultura altra che sta del tutto al di fuori del proprio mondo. Gli spettacoli di cui il cinema viene ad essere la forma più avan­ zata, costituiscono una valvola di sfogo collettiva ed è pertanto legit­ timo pensare che i programmi delle lanterne magiche e di certe prime proiezioni degli ambulanti, promettano esperienze straordinarie e in­ cursioni in zone finora invalicabili. E lo stesso percorso compiuto, quasi ottani’anni dopo, lungo gli stessi itinerari, da parte delle sale a luce rossa, che hanno tentato di unificare le forme popolari e margi­ nali della visione cinematografica promettendo — ad ogni film — di mostrare, per la prima volta, certe combinazioni erotiche, di rag­ giungere una nuova tappa o un nuovo traguardo inviolato nella sca­ lata al sesso. Il secondo filone — lungo il quale si è mossa la storia del cinema italiano — è quello che si propone di spezzare il pane della scienza a favore delle classi popolari e di far abbeverare le masse alle fonti del sapere universale secondo la lezione positivista e socialista. La cono­ scenza del mondo è trasmessa grazie a forme di giornalismo che af­ fidano al messaggio visivo gran parte delle loro funzioni comunica­ tive. Nell’albero genealogico delle macchine ottiche ottocentesche le stereoscopie — per esempio — pur figlie della fotografia, sembrano collegarsi direttamente alle vedute d’ottica del Mondo Nuovo. Le se­ rie di fotografie stereoscopiche riproducono gli stessi soggetti paesag­ gistici, fantastici, o erotici delle vedute d’ottica, introducendo conti­ nui elementi di modernizzazione: l’uomo che guarda attraverso l’apparecchio stereoscopico («Around the World Without Leaving Your Home. Just like Being There») si sente partecipe di una civiltà in via di trasformazione grazie a tutti i segni ed elementi che hanno profondamente mutato il paesaggio urbano (Uricchio, 1989). Il cinema aumenta il senso di verosimiglianza del mostrato, ren­ dendo vero e presente non solo ciò che accade oggi, ma anche la storia del passato. Uno spettacolo Lumière si compone, in genere, di una decina di soggetti (vedute di città, vedute militari, feste, scene comi­ che, viaggi di importanti personalità come i presidenti della repub-

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4. Stampa popolare con spettacolo di Mondo Nuovo.

blica francese o i sovrani tedeschi, esposizioni universali, vedute co­ miche o fantasmagoriche) in cui la categoria del vicino, dello specchio e dell’identificazione si coniuga, o entra in tensione, con quella del lontano, con l’esigenza di portare nella casa dell’uomo comune i pro­ tagonisti della storia, visti in pubblico, nelle cerimonie ufficiali, o in privato, spogliati della loro aura e riportati a dimensioni familiari e quotidiane.

4. Fiat Lux I miti del progresso, l’ideologia della modernizzazione, investono le città italiane che non hanno abbandonato del tutto i ritmi della Chiesa e della civiltà contadina ed esigono i sacrifici di molte attività artigianali, la scomparsa di molteplici forme associative, di gesti, luo­ ghi, riti, e modi d’incontro sopravvissuti per secoli. Proprio al vol­ gere del secolo, quando sulla scena dello spettacolo giunge il cinema­ tografo e, da buon ultimo arrivato, si accontenta di sistemazioni di fortuna, il processo di evoluzione genetica riceve una spinta e un’ac­ celerazione decisiva grazie all’avvento della luce elettrica che crea le condizioni indispensabili per la diffusione della «luce dei Lumière».

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Se negli Stati Uniti si inneggia alla luce artificiale come alla poesia della scienza, in Italia l’installazione di impianti elettrici diventa uno dei primi atti politici e amministrativi unificanti un paese ancora di­ viso da confini linguistici, culturali, economici e da un fortissimo spi­ rito campanilistico. A Napoli e a Trieste, a Pavia e a Cuneo, le am­ ministrazioni comunali accolgono, una dopo l’altra, le richieste della popolazione che comincia subito a godere dei nuovi poteri offerti dal­ la luce. L’illuminazione notturna consente a masse di persone che lavorano nelle fabbriche, negli uffici, nei negozi, di avere più ore a disposizione, di andare in giro con la coscienza di essere nuovi sog­ getti sociali. Le insegne luminose, le luci dei lampioni, sembrano in­ vitare la gente a occupare la notte: è come se a tutti fosse concesso un supplemento di vita elargito generosamente grazie alla spesa pubbli­ ca. Si dilata il tempo e si moltiplicano i luoghi del divertimento. La notte è sconfitta. La piccola borghesia, grazie alla luce, parte baldan­ zosamente alla conquista di frontiere finora precluse. Accanto alla diminuzione progressiva del ruolo della piazza si può toccare con ma­ no — sfogliando la stampa dell’epoca — il senso di stupore ed ecci­ tazione collettiva che dà a una folla molto dinamica l’impressione di poter andare non più ogni tanto, ma ogni giorno, alla conquista di territori sconosciuti all’interno del proprio habitat. Il movimento sociale è accelerato daU’elettrificazione dei mezzi di trasporto e si sviluppa lungo direttrici che saltano direttamente il cen­ tro e puntano verso i poli periferici. L’immaginario urbano è del tut­ to ridisegnato nella testa della gente. Le popolazioni cominciano a dimostrare una fame e un bisogno di divertimenti differenziati, di maggiore socializzazione, un desiderio di consumare ore di vita me­ scolandosi a persone sconosciute, immergendosi in realtà capaci di provocare una serie di emozioni visive, tattili, olfattive, inedite. La domanda e l’offerta di divertimento crescono in proporzione geome­ trica. Le famiglie piccolo borghesi e operaie in certi casi, le donne e i bambini, i militari, le donne di servizio, come i pionieri che anda­ vano alla conquista dell’Oregon («Go West» giovane italiano e cresci con la tua città!) si fanno trasportare dai tram, dirigendosi ora ad ovest, ora ad est, ora a sud della città. I binari dei tram diventano le spine dorsali della ristrutturazione urbanistica. Le mura vengono varcate e i nuovi luoghi del divertimento popolare si offrono in tutto il loro splendore di giardini incantati o paradisi terrestri. Non a caso il nome Eden viene usato per designare sale cinematografiche, bir­ rerie, alberghi, cafe chanlant... Nelle sere d’estate migliaia di perso­ ne confluiscono nei ritrovi estivi all’aperto per assistere a spettacoli d’operetta o di intrattenimento vario, ma soprattutto spinte dal bi­ sogno di stare insieme («per godere il fresco e qualche cosa in più»), dal desiderio inedito di sentirsi letteralmente investire i cinque sensi

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5. Facciata di uno dei tanti Padiglioni delle meraviglie che animano le Here agli inizi del novecento.

da ondare di piaceri ed emozioni sconosciute. Gli scambi dei messag­ gi visivi, il bere, il mangiare, il mescolarsi delle voci e dei suoni, il contatto fisico, i profumi, gli odori, cooperano a favorire la conquista progressiva della scena urbana da parte di gruppi sociali che si sen­ tono, come nel Ballo Excelsioi, legittimati ad assumervi il ruolo di pro­ tagonisti.

5. L’irresistibile ascesa del Cinematografo Il cinema entra in questa fase con estremo tempismo nella vita della città e non solo aderisce ai nuovi ritmi, ma ne diventa il rap­ presentante più emblematico. Per qualche anno a Parigi, a Londra, nel New Jersey, a Napoli e Venezia, lo spettacolo cinematografico non c in grado di reggersi da solo e dev’essere servito come dessert alla fine di spettacoli i cui piatti forti sono numeri di varietà, illusio­ nismo, acrobazie, magia, canto, contorsionismo... Poi, lentamente, afferma la sua autonomia ed egemonia. I pubblici che, poco alla volta, scoprono il cinema nei decenni precedenti, hanno incrementato la loro frequenza agli spettacoli tea­ trali e nelle cronache mondane del tempo molto spesso sono visti co­ me i veri protagonisti. Gli spazi scenici si moltiplicano e compagnie

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grandi e piccole — possiamo ricordare alla rinfusa almeno quelle di Emilio Zago e Gustavo Salvini, Giacinta Pezzana ed Emma Gramatica, Ermete Zacconi e Giovanni Grasso, Ermete Novelli e Virgilio Talli, Eleonora Duse e Nicola Maldacea... — si alternano su palco­ scenici di ogni tipo, muovendosi con lournées che coprono ogni anno decine di piazze lungo la penisola. Repertori, attori, moduli recitativi di compagnie grandi e piccole diventeranno l’humus o il plancton necessario allo sviluppo del primo cinema italiano. In anni in cui la stampa cattolica sferra attacchi decisi contro il modernismo, il malcostume dilagante e autorizzato dallo Stato, il ci* nema, imprevedibilmente, viene visto dai cattolici con un occhio be­ nevolo e se ne incoraggia la diffusione. Dapprima lo si abbina nella provincia ai festeggiamenti in onore di qualche santo, poi se ne estende l’uso perle occasioni più varie. Lo spettacolo cinematografico diventa, poco a poco, il clou di manifestazioni con programmi nutritissimi in cui le cerimonie religiose si alternano a concerti bandistici, fuochi artifi­ ciali, corse ciclistiche, giochi popolari, corse nei sacchi, arrampica- te sull’albero della cuccagna... E possibile seguire, in questo periodo, alcuni tipi di incontri, incroci, coabitazioni all’interno di un campo ormai tutto in tensione. Negli spettacoli dell’illusionista e trasformista Leopoldo Fregoli della fine dell’ottocento, ad esempio, il Fregoligraph rappresenta solo una minima parte del programma e una variazione di supporto alle straordinarie doti dell’interprete. Fregoli acquista un apparecchio dai Lumière per moltiplicare in modo iperbolico, come in un gioco di specchi, i suoi poteri trasformistici e proteici. Con il suo esempio l’uomo-orchestra mostra come, all’interno di un identico contenitore, il pubblico riesca a passare dall’esperienza teatrale a quella cinemato­ grafica senza rendersi conto del mutamento di stato e di fase. In questa galassia di luoghi, personaggi, emozioni, immagini, suoni, il cinema si fa strada senza fretta, anche se il suo movimento appare presto opposto a molti di quelli finora osservati che puntano alla distruzione dell’idea di centro urbano e all’animazione e spetta­ colarizzazione di tutti gli spazi della città. Lo spettacolo cinemato­ grafico, con spostamenti progressivi, lenti e costanti, assorbe, una dopo l’altra, le forme di spettacolo popolare da cui ha attinto vita e con cui ha coabitato. Già verso la fine del primo decennio del nove­ cento potremo rilevare l’esistenza, in tutte le città italiane, di sale cinematografiche disposte in spazi così ravvicinati nei centri urbani da formarvi quasi un nucleo atomico. In ogni caso l’apertura, in base a un sincronismo quasi perfetto, di decine e decine di sale nelle maggiori città italiane dal 1907 è il punto d’arrivo o l’inizio di un nuovo stadio di sviluppo che mette fine

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6. Gli spettacoli ottici grazie agli ambulanti viaggiano in tutta Europa. Il padi­ glione di un ambulante tedesco.

a una più che decennale attività di spettacoli cinematografici presen­ tati nei circhi, sotto tendoni smontabili, da imprenditori ambulanti come i Blàser, i Salvi, i Roatto, gli Zamperla...

6. Pìccola epopea degli ambulanti Il 1° maggio 1901 nasce il quindicinale «L’Aurora», organo uffi­ ciale della «Società Internazionale tra i proprietari di Spettacoli.viag­ gianti» in sostituzione di due riviste, «La Bussola» e «La rivista degli spettacoli», che, nel decennio precedente, hanno contribuito a for­ mare un sodalizio a difesa degli interessi di categoria sul modello delle società di Mutuo Soccorso (Zilio, 1989). Non a caso il motto araldico scelto per «L’Aurora» è: «Lavoro, onestà, fratellanza» e in uno dei discorsi programmatici del presidente, Guglielmo Cattaneo, si affer­ ma con forza: «noi siamo industriali come tutti gli altri, impresari di novità che lungi dall’essere zingari, vivendo di rapina, sporchi, un­ tuosi, dalle facce incolte e patibolari, arrischiamo vistosi capitali man­ tenendo una vita onestissima». L’associazione vuol avere un carattere internazionale: in effetti i problemi, il tipo di percorsi, le caratteristiche economiche di queste

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piccole imprese, si assomigliano in Italia e in Germania, in Francia e in Inghilterra. La vicenda dell’epopea nei Paesi Bassi dell’ZZedro Im­ periai Bioscope di Carmine Riozzi, ex cameriere di un ambasciatore, ex venditore di stoffe porta a porta, è abbastanza simile a quella del­ l’inglese Animated Picture Show o del Cinematografo Gigante di Salvatore Spina, o del Re dei cinematografi di Luigi Roatto. In base a una legge di Pubblica sicurezza del gennaio 1889 le ca­ tegorie degli ambulanti vengono raggruppate in modo da non distin­ guere tra saltimbanchi, suonatori, cantanti, venditori di immagini o candele votive, facchini di piazza. Tutte queste altre attività conso­ relle sono viste con sospetto e circondate da una specie di cordone sanitario moralizzatore ovunque venga segnalata la loro presenza. Nel luglio del 1901, per esempio, con un articolo intitolato Cose del Medio Evo «L’Aurora» denuncia il seguente episodio accaduto alla fie­ ra di Susio in provincia di Bergamo: il parroco del paese, dopo aver aizzato la popolazione contro l’ambulante Eugenio Carrera, minac­ cia di scomunica i proprietari che gli hanno affittato il terreno. A Milano, un signor Risi, consigliere comunale, propone la soppres­ sione delle tradizionali fiere di Porta Vittoria e Porta Genova, foco­ lai, a suo parere, di immoralità e veicoli privilegiati di ogni sorta di malattie. En passant è appena il caso di ricordare che la tubercolosi mieteva ancora in Italia, ai primi del novecento, più di centomila vittime l’anno. In molte città italiane le autorità non concedono spazi agli ambu­ lanti in base a motivi d’ordine pubblico o di igiene: dove ciò avviene ambulanti e locali sono sottoposti a controlli sanitari, a disinfestazioni e ispezioni nel corso degli spettacoli. Proprio negli anni in cui gli ap­ parecchi cinematografici fanno la loro apparizione a fianco delle gio­ stre a vapore, dei musei delle cere, dei tiri al bersaglio, dei baracconi coi fenomeni viventi, l’associazione inizia a emettere comunicati in cui chiede ai suoi soci attenzione nei confronti dell’estetica e dell’i­ giene dei padiglioni, e invita a isolare imbroglioni e truffatori e a con­ dannare ogni forma di commercio illegale che si possa svolgere den­ tro o fuori i padiglioni. Il carnevale è il primo elemento di congiunzione e continuità col passato: nel carnevale confluiscono e si sistemano, in un insieme ru­ tilante e caotico, spettacoli ed eventi che, in parte, hanno una vitalità effimera e in parte continuano a riprodursi nello spazio e nel tempo lungo tutto l’anno. Oltre al carnevale, come si è detto, vi sono le fiere, le feste del santo patrono, i mercati e tutte quelle ricorrenze che consentono la nascita di microstrutture urbane mobili e la loro pe­ riodica apparizione e sparizione. Accanto alle esibizioni all’aperto dei mangiatori di fuoco cominciano a giungere i circhi, che offrono spet­ tacoli integrati di vario tipo e consentono un rapporto ravvicinato con

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7. Facciata del cinematografo ambulante di Giovanni Zamperla.

esseri diversi e mostruosi (Pretini, 1985). Il tempo dei circhi coincide solo in parte con quello delle feste e l’esibizione pubblica delle fiere e dei mostri di natura comporterà un importante processo di trasfor­ mazione nei momenti partecipativi e di visione dello spettacolo e un contatto ravvicinato con personaggi e figure che sembrano custodi di segreti e misteri naturali, di realtà ctonie, terribili, affascinanti e, al tempo stesso, estranee al vissuto collettivo. I circhi, che hanno bisogno di grandi spazi e spostano — nel caso del Wild West Circus di Buffalo Bill — ingenti masse di materiali e persone, sono fattori esterni che concorrono alle spinte per lo sposta­ mento degli assi di sviluppo dei diversi centri urbani. Confinati ai margini delle città, soggetti a una serie di vincoli e balzelli assai gra­ vosi, gli spettacoli ambulanti riescono egualmente a far muovere e attirare, con i loro suoni, le luci, le promesse, i colori, folle transu­ manti e provenienti da ogni parte del territorio urbano ed extraur­ bano. Ancor oggi i circhi e le giostre, vere e proprie metafore dell’e­ sistenza, hanno il potere di farci regredire — come ci insegna Fellini — in un mondo che si credeva perduto per sempre, di regalarci una doppia sensazione esaltante di perdita di identità e di avventura in uno spazio labirintico nel quale si possono ritrovare, al più alto grado di concentrazione, emozioni visive, olfattive, tattili, che nessun altro tipo di spettacolo è riuscito di fatto a sostituire. Pur apparendoci co­

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me espressioni residuali di civiltà lontane, forme di spettacolo desti­ nate a morire e rinascere sotto altre forme, le performances ambulanti hanno avuto un ruolo chiave nella costituzione della moderna civiltà dello spettacolo. Il cinema viene adottato, svezzato e si muove all’interno di questi insiemi come in uno spazio placentare. Nel giro di poco tempo su oltre 130 aderenti alla Società, il gruppo dei proprietari di padiglioni cinematografici diventa uno dei più con­ sistenti: Eugenio Dacomo, Luigi Roatto, Vittorio Todescato, Taddeo e Franz Kullmann, Rosa Santoli, Carlo Bòcher, Antonio Antoniotti, Alfonso Masi, Oreste Covini, Paride Tentolini, Carlo Luzzato... A questi nomi vanno aggiunti quelli dei burattinai Salvi, degli Zamperla proprietari di circhi, dei Leilich, Sereni, Gentili, di Salvatore Spina, unanimemente ammirato per il suo Cinematografo Gigante, e del di­ stributore Ercole Pettini, che era in grado di organizzare spettacoli della durata eccezionale di un paio d’ore, ecc... Nel 1907, come apprendiamo da una notizia della «Rivista FonoCinematografica», alla fiera milanese di Porta Genova, i padiglioni cinematografici hanno ormai un peso quantitativo superiore a tutti gli altri: di fatto sono presenti, tra i vari baracconi, ben 10 Cinema­ tografi («che fecero affari d’oro»), 12 tiri a segno, 8 altalene, 3 stabi­ limenti fotografici, 3 cosmorami, 3 circhi equestri, 5 giostre, più un serraglio, un museo anatomico, un labirinto, un cavallo marino, una donna ragno... I pionieri della prima ora puntano a diffondere lo spettacolo sia mediante il circuito ambulante che attraverso accordi con teatri e locali pubblici: il «Royal Bio», ad esempio, diffonde un questionario in cui chiede, oltre alle condizioni d’affitto, le dimensioni del pal­ coscenico, il numero di posti, anche 1’esistenza di energia elettrica. Grazie a questo documento possiamo capire come i circuiti di dif­ fusione della luce dei Lumière fossero in pratica circoscritti alle aree urbane. L’esodo verso il mondo rurale e le periferie è causato dal­ l’apertura nelle città di sale stabili. Per qualche tempo lo spettacolo cinematografico è posto a conclusione di serate in cui si esibiscono compagnie teatrali, di illusionisti, cabarettisti, marionettisti e tra­ sformisti. Così si presenta uno spettacolo battezzato col nome di Watrygraff: «I lavori che formano il repertorio della Compagnia di Cesare Watry vengono presentati al pubblico come nessun’altra Compagnia ha mai eseguito. Vi sono applicati tutti i nuovi e me­ ravigliosi progressi della scienza fisico-meccanica e costituiscono uno spettacolo ameno scientifico morale e istruttivo delle maggiori novità dell’epoca». Ernesto Fournier — che diffonde il Fregoligraph — invece si definisce, nelle locandine pubblicitarie, come «Profes­

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sore di scienze astratte, laureato in scienze fisiche, capace di elucu­ brazioni notturne ed evocazioni medianiche». Il vero sforzo degli ambulanti, di cui possiamo in parte ricostruire i frammenti di storia basandoci sugli archivi comunali, sulla stampa d’epoca e sui dati della rivista «L’Aurora» e di altre riviste contem­ poranee, è quello di poter disporre di un baraccone autonomo capace di garantire un profitto offrendo solo spettacoli cinematografici. Nel giro di qualche anno, come si è visto, i padiglioni cinemato­ grafici diventano una delle attrazioni di maggior successo all’interno delle fiere: l’aspetto esterno si arricchisce di decorazioni, lampadine, figure di automi semoventi, scritte, organi Marenghi o Gavioli, ruote per generare corrente elettrica. Ai lati dell’ingresso si pongono l’im­ presario e l’imbonitore, mentre al centro viene collocato, come la bus­ sola nelle chiese, il botteghino per i biglietti, dove una bella ragazza ha quasi il valore di pegno e anticipazione delle meraviglie che si ve­ dranno all’interno. La superficie occupata, se usiamo come fonte si­ gnificativa una domanda di concessione di Luigi Roatto, è di circa 42 metri per 12: ciò significa che all’interno del padiglione possono tro­ var posto almeno duecento persone. Per ottenere il consenso dei pubblici benpensanti e delle autorità molti proprietari organizzano periodici spettacoli di beneficenza, an­ che se, superato il primo periodo di curiosità, una buona parte dei programmi degli ambulanti si rivolge a pubblici per soli uomini. E non si tratta solo delle speciali «Serate nere» che mobilitano al com­ pleto le comunità maschili al Nord e al Sud nelle grandi città e nei borghi rurali, ma anche di scenette pruriginose mescolate ai normali programmi di riprese dal vero, comiche e drammi in sette quadri, che richiamano l’attenzione dei pubblici sia minorenni che maggiorenni. In alcuni casi questo tipo di proiezioni costituisce anche la doppia iniziazione cinematografica e sessuale di ragazzi che si introducono furtivamente all’interno del padiglione. Filippo Sacchi, uno dei primi critici cinematografici italiani, così rievocava la propria esperienza: «Io vidi la prima proiezione cinematografica da ragazzino, forse nel 1899 a Vicenza, in un baraccone di periferia di pupazzi meccanici (senz’altro quello dei fratelli Salvi, n.d.a.) piantato in Campo Marzio. Arguisco la data dal fatto che mi misero a dodici anni in collegio per­ ché avevo il viziaccio di scappare quando potevo di casa la sera. Ora fu appunto una di quelle sere che trovandomi coi miei amici monelli come me questi mi avvertirono, tutti eccitati che, dopo l’ora di chiu­ sura, si poteva entrare, purché alla chetichella, dalla parte di dietro del baraccone di pupazzi, dove, pagando pochi centesimi, il padrone faceva vedere le donne nude. Così al momento buono, con le tenebre propizie, ci infilammo nel baraccone insieme ai clienti adulti e lì, fat­ to buio, vedemmo proiettati su un lenzuolo teso dei pezzetti di pel-

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licola con velleità polissonnes, dei quali, per la verità, viva nel ricordo, soprattutto per l’occulto e il proibito che lo accompagnò, mi rimase soltanto una scenetta di una donna in camicia che entrava in un ma­ stello per fare il bagno». Le reazioni a questo tipo di spettacoli sono immediate e infuocate e coinvolgono, in egual misura, le forze cattoliche e quelle socialiste, che in tema di moralismo non vogliono essere seconde a nessuno. Fin dal ’97, dopo proiezioni di scenette intitolate La pulce in camera da letto, Il bagno di un’artista, nel Veneto bigotto e ipocrita, a Verona, come a Vicenza e Treviso, si registrano unanimi proteste da parte di gior­ nalisti e lettori che reclamano drastici e immediati provvedimenti. Sull’«Arena» di Verona del 16 maggio ’97 si può registrare una vera e propria scalata di proteste: «Ci si fa giustamente osservare — tro­ viamo in un articolo che all’inizio ha un tono molto garbato — che l’impresa dovrebbe omettere la proiezione di Bagno di un ‘artista. L’os­ servazione viene fatta da parecchi padri di famiglia e non a torto... Queste sono luridezze da gabinetti riservati tutt’al più e non ci ca­ pacitiamo come persone preposte allo spettacolo abbiano permesso una simile sconcezza». In una fase successiva l’obiettivo diventa il Questore in persona che ha consentito la proiezione di II pittore in cerca di modelle: «Si è ella accontentata di quella larga reale che si chiama maglia per eludere la legge? E si è accontentata perché non si fece forte delle lamentele e più del disgusto del pubblico permettendo la riproduzione. E sì che il signor Questore assisteva allo spettacolo. Diciamo subito che infamia più scellerata non si poteva permettere». Ad Ancona, come a Messi­ na, i resoconti giornalistici si assomigliano tutti e potrebbero avere come titolo: Cronaca di uno scaldalo annunciato. Lo scandalo è alimento e diventa componente fondamentale della fortuna di questo tipo di spettacoli. A una società repressa, alla ricerca di piccole trasgressioni e scosse non provocate solo dalla corrente elettrica, questi spettacoli svelano nuovi orizzonti del desiderio. Le vie della laicizzazione e dell’inizia­ zione sessuale passano anche per le serate nere al cinema teatro Ga­ ribaldi di Padova o al Reinach di Parma, o al padiglione tedesco che sosta in piazza Bressa a Treviso e propone un programma con titoli come La nascita di Venere, Mercato di Schiave in Oriente, Baci d’amanti, Scultore e modelle, La pulce e II bagno di un ’artista («una giovane e bella ragazza in deshabillé prende nuda il suo bagno aiutata dalla sua ca­ meriera») (Fantina, 1988). Non a caso le comunità maschili delle città e delle zone rurali, che già qualche anno prima hanno potuto acce­ dere alle fotografie stereoscopiche dei Gabinetti per adulti, si recano compatte alle serate nere («non adatte per signorine») che propongo­ no titoli carichi di promesse come Scandalo in un albergo, Bagno delle

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dame di corte, Il membro del comitato, Notte d’amore di un vecchio Ubertino, La domatrice, Mondane al bagno, Il portinaio è sulle scale, La confessione, Carte trasparenti, Il giudizio di Paride, Il coricarsi della sposa, Flagrante adulterio... Gli ingressi hanno costi variabili dai 30 centesimi alle due lire: il pub­ blico è composito e per qualche anno i rischi degli esercenti sono com­ pensati da floridi incassi. Trait d’union tra l’esercizio ambulante e l’inizio di una nuova fase di conquista di spazi stabili nelle città si possono considerare le figure degli imprenditori Almerigo e Luigi Roatto. Dopo alcuni anni di at­ tività di organizzatori di spettacoli cinematografici in varie piazze del Nord-Est dell’Italia i Roatto entrano nel 1903 a far parte della «So­ cietà internazionale dei proprietari di spettacoli viaggianti» (Monta­ naro, 1984). Le domande che in quegli anni rivolgono alle ammini­ strazioni comunali delle città in cui vogliono mostrare il loro «Museo artistico-plastico-meccanico» li mostrano assai mobili e attivi su un fronte che si allarga sempre più verso l’Istria da una parte e dall’altra giunge fino alla Liguria a Ovest e le Marche a Sud. Nel luglio del 1905 Luigi mette in vendita il proprio apparecchio cinematografico dotato «di perforazione americana, in ottimo stato, quasi nuovo, con lampada, lanterna e cavalletto, a vero prezzo d’oc­ casione» e qualche mese dopo, in dicembre, assieme al fratello Almerigo, inaugura a Venezia la prima sala stabile, il cinema Edison. Da una parte Luigi continua per qualche anno l’attività ambulante — diventando presidente del sodalizio e direttore dell’« Aurora» — al­ largando la propria sfera d’azione a un’area sempre più vasta, dal­ l’altra comincia a costituire una rete di sale stabili che comprende città come Udine, Cividale, Ferrara. Oltre all’incremento di sale a Venezia (accanto all’Edison si aprono anche il Marconi, il Re e il Gigante), affidate alla gestione di Almerigo, si affianca anche l’atti­ vità di produzione di alcuni brevi film a soggetto: Disgraziate avventure della signora Manetta di Belluno, Le disgrazie di Sior Bortolo, La corsa alla Luganeca, Anima Santa e Biasio el luganegher. Nel 1908 entra a far parte della casa milanese saffi e l’anno dopo fonda a Venezia Tunica (Unione Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini). Tra il 1905 e il 1910 Roatto appare come uno degli elementi di congiunzione indispensabili a capire il passaggio dall’attività foranea a quella stabile del cinema e del tentativo di dar vita a imprese a sviluppo verticale in cui l’attività produttiva sia integrata con quella distributiva e di esercizio. Roatto, che non ha certo l’importanza sto­ rica di Alberini, è una figura di piccolo impresario coraggioso e mo­ derno non meno ricca di sfaccettature e legami con le forze che ac­ celerano la dinamica iniziale da un sistema all’altro.

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7. Spettacoli di magia urbana Nell’aprile del 1907 il primo numero della «Rivista Fono-Cinematografica» riporta la seguente notizia: Se Berlino conta 340 cinematografi, Parigi 120, Napoli 70, Roma 52, Milano ne conterebbe 1000 se i signori proprietari di case non fossero tanto restii a concedere i loro locali. Difatti sono legione gli interessati che vanno alla pesca di locali per uso cinematografico, e sappiamo che taluno ha offerto perfino mille lire di regalo a chi gli procura un locale. In Francia almeno sono rimaste vuote parecchie chiese e si comincia ad adibirle ad uso di ci­ nematografo, ma in Italia, e specialmente a Milano, si vorrebbe fare il con­ trario [...]. Totale: una dozzina di cinematografi, qua e là sparpagliati, e con i continui reclami dei vicini, dei padroni, della vigilanza [...]. A che pro tanto osteggiamento se questa è la moderna scuola del popolo, il giornale del domani, il libro dell’avvenire?

In realtà, i problemi denunciati per Milano sono superati presto, perché già nel 1909 è una delle città italiane a maggior concentrazio­ ne di sale. A partire dal 1907, con un sincronismo quasi perfetto, si aprono a decine i locali cinematografici («la nostra città — scrive un cronista fiorentino — è letteralmente invasa da uno sciame di cine­ matografi») con nomi come Edison, Volta, Marconi, Olympia, Ga­ ribaldi, Iris, Margherita, Radium, Excelsior. A Lucca si inaugura un Cinematografo Splendor, ad Alessandria la prima sala stabile si chia­ ma Stella d’Italia, a Savona Sempione, a Pisa nasce nel Lungarno regio il Cinematografo Lumière negli ex locali del caffè dell’Ussaro. Nel 1907 Roatto è proprietario ormai di una trentina di sale stabili in tutta Italia, tra cui a Venezia il Marconi in Calle dei Fuseri, il Gi­ gante al Ponte della Piavola e il Re in Rio Terà alla Maddalena. Nel­ la maggior parte dei casi, come si può capire dalla notizia milanese, le sale cinematografiche subentrano ad esercizi economici in crisi. In questa cartografia iniziale dei luoghi e della formazione dei pubblici e dei rituali, si registrano fenomeni che appaiono come variazioni delle teorie evoluzionistiche applicate «dio spettacolo e alle sue forme e a tutti gli insiemi che lo compongono. Nel 1909 si possono leggere sul «Veneto» di Padova alcune righe che all’apparenza sembrano uno dei tanti annunci a pagamento, in realtà sono frammenti emblematici di un racconto di magia urbana: Aveva l’aspetto di un tempio, ma era, in effetto, un magazzeno di colo­ niali della ditta Pezziol. Un bel giorno quello spirito bizzarro di Adolfo Zanini vide nel magazzeno il vero ambiente per un Café Chantant. E passò alla trasformazione. Sparì in breve tempo con la facciata l’uscio antiquato. E dove erano scansi e si posavano sacchi di zucchero e caffè, il pubblico trovò

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un palcoscenico e platea con molta luce e molte dipinture. Il Café Chantant ebbe artisti di cartello e folla di pubblico. Ma l’ottimo Adolfo fu il primo a stancarsene. E la sala trovò la sua giusta destinazione. Divenne la sala del Cinematografo Hesperia. E in fondo il fenomeno dell’evoluzione con risul­ tati più felici.

Nello stesso periodo, sempre a Padova, un racconto analogo de­ scrive la trasformazione di un deposito di carrozze per far nascere «con uno di quei miracoli edilizi che sanno caratterizzare quest’epoca di modernismo, nientemeno che un cinematografo». Lo stupore, la rapidità delle metamorfosi, il senso di spaesamento, si mescolano spesso, nelle parole dei giornalisti che in questi anni registrano la trasformazione a vista del volto delle loro città, con una vena di nostalgia per ciò che si perde. Nel momento in cui si è testimoni di un mutamento urbanistico sconvolgente, non ci si può non interrogare su quello che ciò possa significare per le abitudini della popolazione. Quasi per effetto di una serie di giochi di prestigio la topografia subisce mutamenti radicali («se un padovano rimasto assente dalla nostra città una decina d’anni ri­ tornasse oggi non la riconoscerebbe», troviamo scritto nel Catalogo degli esercenti della provincia di Padova del 1914). In effetti non solo i locali han­ no mutato d’uso, sono nati nuovi tipi di esercizio, si sono affacciate sulla scena economica nuove categorie di imprenditori, ma tutte le cit­ tà della penisola sembrano contagiate dalla stessa febbre che spinge ad adottare nuove forme architettoniche e urbanistiche, nuovi mezzi di trasporto, nuovi linguaggi visivi e rituali sociali. Proprio in questa fase la sala comincia a diventare uno dei luoghi privilegiati della vita col­ lettiva. Nel momento in cui raggiunge sedi stabili il cinema stabilisce e impone, per alcuni decenni, un rituale che tende a distinguersi da quelli degli altri spettacoli popolari che l’hanno preceduto e a model­ larsi soprattutto sulle funzioni religiose, come la messa. Per conquistare pubblici sempre nuovi ogni mezzo diventa lecito: «Il vecchio Alberini — ricorda nelle sue memorie Lucio D’Ambra — riusciva a mettere insieme folle domenicali a furia di promettere l’e­ strazione a sorte di una piccola dote a favore di una delle fanciulle...». Le sale milanesi offrono, compresa nel prezzo del biglietto, una tazza di birra, quelle napoletane una lucidatura col lustrascarpe automati­ co, o, a piacere, un bel barometro tascabile o «un ventaglino del va­ lore superiore al prezzo del biglietto». Il pubblico dapprima sosta e — in un certo senso — si purifica, nell’attesa di accedere allo spazio della sala vero e proprio: gli atri hanno la stessa funzione degli spazi destinati ai catecumeni nelle ba­ siliche. Il segno della purificazione potrebbe essere dato dal fatto che i sindaci del Nord Italia emanano decreti in base ai quali tutte le sale

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devono essere dotate di sputacchiere. Segno evidente di richiesta alla gente di adattarsi a nuove leggi di comportamento civile in un perio­ do in cui ancora nelle osterie, oltre che nelle strade, si sputa per terra, si orina, si bestemmia, si viene alle mani. Nell’atrio delle sale dei cinema e dei teatri ci si ritrova per vedere e controllare l’andamento della moda, per guardare e ancora una volta per essere guardati: Anche le signore blasées in fatto di spettacoli — si legge sull’/l/manacco Bemporad del 1907 — trovano un gran gusto a ritornare al teatro dopo un paio di mesi d’assenza. Musica, prosa, cinema, tutto diverte, più ancora per l’ambiente elegante che per lo spettacolo in se stesso. Si rivedono persone sconosciute, si osservano i primi vestiti di stagione dal taglio o dalla combi­ nazione inedita, ci pare di trovarci nel nostro elemento dopo un lungo ab­ bandono.

Negli atri delle sale cinematografiche si verificano fitti scambi di messaggi secondo codici subito registrati dai cronisti. Un giornalista trevigiano, che si firma con lo pseudonimo di Malapelle, rivela in un articolo le caratteristiche di un inedito sistema di comunicazione tra­ mite fazzoletti. Se la donna lascia cadere il fazzoletto questo significa «saremo amici», se lo fa girare tra le mani vuol dire che la persona le è indifferente, se lo avvicina alla guancia dichiara «Vi amo», se lo tiene fra le mani invece dice «Vi detesto», se lo piega manifesta l’in­ tenzione di parlare e se lo mette nel taschino chiude la conversazione. Sostare in un atrio vuol dire anche assaporare e anticipare, magari con l’aiuto di un bar o di un caffè, una parte di piaceri che poi la sala promette di dischiudere come un vero e proprio Nirvana. Una volta entrati però le cose cambiano: non sempre l’atmosfera è paradisiaca come ci si aspetterebbe. Spesso si ha l’impressione, piuttosto, di es­ sere capitati in una bolgia infernale in cui può accadere di tutto. Le raccomandazioni che i giornalisti inviano periodicamente ai vigili perché procurino di sedare «nel loggione, al buio, il turpiloquio vio­ lento» paiono destinate a restare lettera morta. Il buio appare ricco di pericoli e sorprese, di avventure e mentre fa socchiudere gli sguardi degli innamorati («l’oscurità favoriva il convegno delle coppie amo­ rose» ricorda lo scrittore vicentino Giuseppe Cogo) aguzza la vista dei moralisti e dei cattolici. Molti di costoro si accorgono che al cinema non è tanto la luce dello schermo che uccide, quanto il buio della sala che attenta alle virtù delle anime innocenti e indifese. Le sale urbane, nel giro di pochi mesi, sono diventate veri e propri fari del vizio, sen­ tine della promiscuità sessuale e trappole mortali. Il morbo cinema­ tografico viene denunciato per la sua degenerazione «a causa della foia speculatrice, in spettacolo di corruzione e indecenza». Di fronte agli occhi sgomenti di magistrati, madri di famiglia, giornalisti, pro­ fessori, ecclesiastici, militari, dilagano storie «di ladri audaci, assas­

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sini guazzanti nel sangue, necroscopie, operazioni cruente, disastri marittimi, misteri dell’inquisizione e della Passione, gli uni e gli altri raccapriccianti, angosciosi, laidi fattacci della cronaca e della storia nei quali si strazia, si martoria, si scanna». Comunque se di fronte a questi quadri il censore potrà tagliare un bacio sullo schermo non potrà invece impedire che avvengano scene ben più pericolose nell’oscurità della sala. Diffìcilmente, per esem­ pio, il poliziotto o il carabiniere sarà in grado di sorprendere in fla­ grante il ladruncolo che, con destrezza, ruba a Vicenza il portafoglio contenente 26 lire a «Buson Paolo d’anni 49, che sedotto dall’aspetto magnifico del Cinematografo Gigante voile assistere allo spettacolo...». In un poderoso volume del 1912, intitolato L’Italia: l’ambiente fisico e psichico lo studioso Giuseppe Bettolini descrive come funzionano le trappole per le ragazze sole che si avventurano nelle sale cinemato­ grafiche e, in conseguenza, dimostra come qualcosa si sia irrimedia­ bilmente spezzato nel mondo e in un sistema di valori stabili della società veneta. Alcune di queste ragazze non solo non protestano per gli sconfinamenti delle mani di giovanotti sul loro corpo, ma accol­ gono immediatamente l’invito e rispondono a loro volta con eguale destrezza manuale. Il cinema consente alle donne che lavorano, alle mamme con i bambini, «alle bambinaie e servette dalle forme procaci e dallo sguar­ do furbo e malizioso» di trovare un luogo comune, uno spazio ideale di divertimento alternativo rispetto alle osterie per tradizione riser­ vate a un pubblico maschile. Questo pubblico che parla, commenta, ride, applaude, si commuove, impreca, si unisce nello stesso processo di identificazione e galvanizzazione, sceglie il cinema come spettaco­ lo preferito. In breve tempo, si creano fenomeni di assuefazione e dipendenza. Fino al 1915 pubblici e luoghi dello spettacolo crescono a vista d’occhio, si moltiplicano in proporzione geometrica, comunicano l’e­ saltante esperienza di una società che si muove e varca, grazie al ci­ nema, la soglia del mondo industriale. L’Italia è un paese povero, con grandi squilibri economico-sociali, ad economia in prevalenza agricola: il cinema, in parte, diventa uno dei fattori che più ne acce­ lerano le dinamiche e i processi di crescita e unificazione. La guerra è una sorta di epilogo che non fa spegnere le luci all’interno della città, ma dilata la logistica spettacolare e ne moltiplica le fonti lumi­ nose. Una parte del pubblico — soprattutto quello delle aree nord orientali — vede il proprio territorio illuminato a giorno da mezzi diversi e volge lo sguardo verso l’alto attirato dallo spettacolo degli aerei e delie loro acrobazie, dai fuochi e dai rumori delle cannonate lontane, dalle riprese aeree cinematografiche e fotografiche dei teatri di guerra. Nel 1917, Manfred Von Richtofen, meglio conosciuto co­

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me il Barone rosso, progetta, per le sue squadriglie, la tattica del circo volante, raggruppando gli aerei in squadre e addestrando i piloti a eseguire difficili figure acrobatiche. Grazie ad alcuni di questi episodi la scena bellica raggiunge il climax spettacolare e riceve applausi ca­ lorosissimi da un pubblico che partecipa e si sente più vicino per me­ rito del cinema e delle canzoni. Questa fase, per molte città italiane del Nord, assomiglia a uno spettacolo pirotecnico: i botti si succedo­ no, aumentano d’intensità, raggiungono il parossismo ed esplodono in quantità iperbolica. Poi tutto piomba nel buio e nel silenzio.

CAPITOLO SECONDO

Nascita dell industria cinematografica

1. Una mattina d’ottobre un inventore... L’11 ottobre 1895 alle ore 11,30 un impiegato dell’istituto Geo­ grafico Militare di Firenze, Filoteo Alberini, si presenta alla locale Prefettura per brevettare un’invenzione battezzata col nome di Kinetografo Alberini. Sa di essere stato preceduto di alcuni mesi dal bre­ vetto francese n. 245032 dei fratelli Lumière di Lione «servant à l’obtention et à la vision des épreuves chronophotographiques», ma non può immaginare che manchino solo due mesi alla prima esibizione pubblica e a pagamento del Cinématographe. I Lumière hanno alle spal­ le una struttura industriale in espansione mentre lui può dedicarsi nei ritagli di tempo alle ricerche sull’animazione della fotografia e, per il momento, non ha i mezzi per realizzare un prototipo della sua in­ venzione. E un uomo privo di capitali, ma ricco di spirito d’iniziativa e anche se gli saranno necessari dieci anni per esordire nell’avventura produttiva, vi approda dopo essere passato attraverso la gestione di un paio di sale a Firenze (in piazza Vittorio Emanuele, oggi piazza della Repubblica e in via Vecchietti) e a Roma (in piazza Esedra). Questo decennio si può considerare come una fase di sfruttamen­ to parassitario del mercato foraneo e di irresistibile azione di conqui­ sta del cuore delle città. Sempre a Firenze, nel 1900, apre una Sala Edison, in piazza Vittorio Emanuele, di proprietà di Rodolfo Remondini. A Torino Vittorio Calcina, dopo aver organizzato nell’ex ospedale della Carità la prima dello spettacolo Lumière e regolari proiezioni dal novembre 1896, inaugura — nel 1899 — una sala in via Maria Vittoria 25. Un paio d’anni dopo Roberto Omegna, im­ piegato presso la Cassa Pensioni, apre, con Domenico Cazzulino, il Cinema Edison. Poi, con progressione inarrestabile, si registrano ovunque aperture di nuove sale. Perché il processo produttivo sia in grado di mettersi in moto è

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necessaria però una percezione meno improvvisata e dilettantesca dell’esercizio ed è indispensabile che il cinema appaia come un ter­ reno capace di far fruttificare presto in vestimenti modesti. Solo quando Alberini decide di passare dall’esercizio alla produ­ zione si può registrare l’atto di nascita della cinematografia italiana. Accanto a lui, altri a Torino, Milano, Napoli, Roma, Venezia, sono pronti a lanciarsi nell’impresa. Quest’avventura è dominata dalla precarietà dei capitali, dall’ignoranza delle leggi di mercato, dalla congiunzione fortunata di fattori astrali, dalla capacità di alternare ciclicamente scintillanti boom e altrettante cicliche crisi devastanti. Si tratta di un’economia i cui attributi sono quelli dell’improvvisazione, rischio, incompetenza diffusa, incapacità di previsione. Le costanti fluttuazioni consentono di osservare una sorta di cronica instabilità nei rapporti tra capitale e prodotto. In Italia, dalle origini del cinema ad oggi, si possono creare prodotti in assenza quasi totale di capitale. Le case creano un consiglio d’amministrazione, fissano un capitale, emettono azioni, senza preoccuparsi dell’esito finale del film. Si po­ trebbe parlare di uniformità dell’economia cinematografica nel senso di mantenimento di una costante, paradossale indipendenza tra ca­ pitale e prodotto. In tutta la sua storia, l’industria del cinema non si è mai trovata in uno stato di uniformità in quanto non c’è mai stato un rapporto analizzabile tra capitale o investimenti e prodotto. Solo così si spiegano gli incredibili processi di ascesa e caduta, di morte presunta e resurrezione, di crisi ricorrenti e non prevedibili, di pro­ fitti non desiderati e di rovesci economici che non provocano danni irreparabili come nel cinema americano. Questa è la sua fragilità, ma anche il suo fascino e la sua «differenza»: un cinema che si è svilup­ pato puntando a valorizzare i capitali di idee è riuscito a trovare sem­ pre anche chi vi investiva capitali reali a fondo perduto. Nel cinema americano da subito la crescita del prodotto è correlata alla crescita della quantità di lavoro impiegato, dal numero di ore lavorate. Esiste uno standard lavorativo dall’inizio che organizza non questa o quella casa di produzione, ma l’intera industria cinematografica. Nel cine­ ma italiano il numero di ore lavorate è indipendente dalle caratteri­ stiche del prodotto e può significare un aumento della durata, ma anche un calo quantitativo. Questo cinema vuole e non vuole essere un prodotto industriale, vuole e non vuole essere un prodotto dell’in­ gegno. Così quasi sempre nel cinema muto la quantità di lavoro — visti i costi minimi della mano d’opera per unità di prodotto — è superiore a Hollywood, mentre la quantità di capitale per unità di prodotto è inferiore. Fino a che i divi non invertono le regole del gioco questa cinematografia viene a trovarsi in situazione di privilegio, co­ me si può capire. Nel primo periodo il sistema presenta uno sviluppo policentrico:

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le capitali sono almeno quattro. Da un lato ha caratteristiche di im­ presa a conduzione familiare, con un'esistenza legata al successo di un solo prodotto. Dall'altra cerca di raggiungere un assetto in linea con lo sviluppo della contemporanea industria tessile e meccanica. In questo secondo caso si tratta di un’avventura resa possibile grazie a consistenti capitali finanziari. I primi a rischiare sono liberi profes­ sionisti, operatori e fotografi (come Luca Comerio o Arturo Ambro­ sio), pìccoli imprenditori, con esperienza specifica di settore (come i Roatto), e solo quando la stabilizzazione urbana delle sale e l’incre­ mento del mercato offrono maggiori garanzie di profitti cominciano a venir attirati capitali bancari e di persone con forti patrimoni. Lo sviluppo economico e produttivo iniziale dipende anche dalla collocazione geografica e dal grado di sviluppo del tessuto industriale in cui si colloca. E tuttora da studiare, nelle sue peculiarità e nei suoi sviluppi, ora paralleli ora sfasati e divergenti, la geografia, oltre che la storia dei sistemi di produzione, dei modelli narrativi, delle perce­ zioni e capacità di sfruttamento dei mercati. Esistono piccole imprese a Genova, Venezia, Pisa, Palermo: in pratica tutto il territorio è toc­ cato dalla febbre produttiva e dal miraggio di guadagni facili, iper­ bolici e a breve termine. Questo tipo di miraggio spinge personaggi privi di coperture a un rischioso ed entusiasmante salto nel vuoto. Si pensi anzitutto ad Al­ berini, all’avvocato Roberto Troncone di Napoli, al ragionier Arturo Ambrosio, proprietario di un negozio di articoli ottici e fotografici a Torino, a Carlo Rossi, della Rossi e & C., sempre a Torino, a Gu­ stavo Lombardo, a Roatto, e a tutti coloro che, dal 1905, li seguono in questa gold rush verso lo schermo.

2. Le capitali del cinema: Roma Alberini, assieme a Dante Santoni, costituisce, nel 1905, la Ma­ nifattura di pellicole per cinematografi della ditta Alberini e Santoni. Dit­ ta che, già nei primi mesi del 1906, si trasforma in Società Anonima per Azioni con capitale iniziale di lire 250.000. La nascita della Cines, dal corpo dell’Alberini e Santoni, è del 1° aprile 1906 e vede l’ingresso nel consiglio d’amministrazione dell’ingegner Adolfo Pouchain, proveniente da una solida famiglia di industriali. Lo sviluppo rapido della Cines, le sue ambizioni di conquista dei mercati inter­ nazionali sono favorite dall’immissione di capitali di Pouchain con l’appoggio del Banco di Roma. E la prima volta che il capitale finan­ ziario partecipa a un’impresa di cui si ignorano le reali capacità di profitto, ma è proprio questo tipo di intervento a consentire un primo importante passaggio di livello produttivo.

8. Costruzione del primo stabilimento della Cines a Roma nel 1907.

Per annullare al più presto il ritardo rispetto alla concorrenza fran­ cese vengono ingaggiati, a partire dal 1906, tecnici stranieri e, in bre­ ve, lo standard si assesta a livelli competitivi tanto che, nel 1907, la casa è in grado di diramare il seguente comunicato: In considerazione del nuovo sistema di vendita teniamo ad informare che, con la prossima stagione, inizieremo la regolare produzione settimanale di più soggetti cinematografici di grande interesse Questa maggiore produ­ zione è resa possibile dai nuovi e vasti laboratori che abbiamo costruiti, dal macchinario più completo e dai nuovi teatri di posa affidati a valenti direttori artistici. Nutriamo fiducia che la SA’, non vorrà stringere contratti che li­ mitano ogni libertà, offendono ogni interesse e minacciano lo sviluppo del­ l’industria cinematografica in Italia.

Nel 1907 la Cines è in grado di produrre una cinquantina di titoli l’anno. Il nuovo stabilimento è «costruito su un’area dell’estensione di oltre 2000 metri quadrati e comprende un grande teatro di posa, una vasca immensa per i soggetti acquatici, parecchie camere oscure, molte sale apposite per la coloritura, in una parola tutto l’occorrente a riprodurre, con meticolosa esattezza di particolari, qualunque sce­ na, qualunque avvenimento reale, fantastico ed umoristico». Nel 1906, in un articolo di Giustino Ferri su «La Lettura», inti­ tolato Tra le quinte del cinematografo, assistiamo materialmente alle pri­ me riprese di un film all’interno della Cines. Il regista è il francese Gaston Velie: «La scena in fondo alla sala si allestiva con diligenza minuziosa. Su un bricco sopra un vassoio fumava della cicoria au­

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tentica che doveva essere bevuta con una sincera smorfia di disgu­ sto... Il signor Velie esponeva prima il soggetto, nel suo italiano facile e rapido, accennando a gesti di mimica, ripetuti dagli attori e modi­ ficati via via quando non apparivano abbastanza significativi e sicuri. Occorrendo il direttore ricominciava, si metteva al posto occupato dal personaggio... Poi quando tutto procedeva regolarmente, entra­ va anch’egli nel triangolo con l’operatore fotografo e la macchina si metteva a girare. Se il quadretto appariva ben riuscito con un’altra macchina ordinaria Io si fissava per i cataloghi da spedire nelle città italiane e all’estero». L’espansione internazionale della Cines è fulminea. Nel 1907 inaugura una filiale a New York (al n. 145 della 23 a Strada) e lancia nuovi prodotti sulle riviste specializzate americane, pubblicizzandoli per la loro eccezionale qualità e per la specializzazione in argomenti storici ed artistici. Nel 1909 esistono filiali a Londra (in Arundel Street), Parigi (in Rue S. Augustin), Berlino (in Friedrichstrasse), Mosca (Ponte des Maréchaux), Copenaghen (Havnegade 7), Barcel­ lona (Pasco de Grazia 59) e agenzie a Marsiglia, Stoccolma, Lisbona. Madrid, Vienna, Pietroburgo, Varsavia, Kiev, Odessa, Buenos Ai­ res, Rio de Janeiro... Nello stesso periodo, mentre la Biograph distribuisce negli Stati Uniti i film Ambrosio, Rossi e Aquila, l’itala ha filiali a Londra, Co­ penaghen, Vienna, Singapore, New York, Bombay, Città del Mes­ sico, e dichiara di produrre 10 chilometri giornalieri di pellicola im­ pressionata. L’Italia dipende dall’estero per l’approvvigionamento di pellicola vergine e i pochi tentativi di raggiungere l’autonomia anche su que­ sto piano (come il progetto della Cines di far nascere una fabbrica a Pontevigodarzere, nei pressi di Padova, nel 1909) falliscono. Merito di Alberini e della Cines è di aver pensato subito in gran­ de, dopo l’incendio che distrugge il primo stabilimento e di averne costruito un secondo, dotato di attrezzature moderne e capace di una produzione annua di un centinaio di titoli. In ogni caso, se osservia­ mo la foto di gruppo dei primi imprenditori, vediamo fissarsi subito V imprinting di un codice genetico destinato ad accompagnare tutta la storia successiva. Col suo dichiarato impegno artistico e culturale e la sua produ­ zione storica la Cines punta a diffondere nel mondo il verbo della cultura, della storia e dell’arte italiana. Su questa strada si muoveranno anche i produttori dell’Ambrosio, Itala, Pasquali, tutti inve­ stiti dallo stesso spirito evangelizzatore di far rivivere sullo schermo i sogni di dominio del mondo della Roma imperiale. Nel consiglio d’amministrazione della casa romana entrano, in ordine sparso, figure di nobili come il principe Prospero Colonna,

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Pietro Moncada principe di Paternò, il barone Gian Alberto Blanc, il barone Passini, il marchese Theodoli deputato al Parlamento... Qualcuno giungerà a osservare che, grazie alla Cines, la storia di Roma si suddivide in tre periodi: imperiale, papale e cinematografi­ co. Dopo la Cines nascono a Roma, la Celio, la Morgana, la Roma Film, la Latium, la Fratelli Pineschi... Il paesaggio della città risulta sconvolto e la città del cinema, a poco a poco, si impadronisce e schiaccia, come una piovra, quella dei Cesari e dei Papi. Questa sen­ sazione la comunica con forza al giornalista Enrico Roma, Pirandello dalla sua casa di via Nomentana agli inizi degli anni venti:

Il poeta, facendomi l’elogio del paesaggio mi additava con rammarico una vasta tettoia di vetro, spalancata proprio davanti alla finestra, che ne guastava l’incomparabile bellezza. Era il teatro di posa di uno dei cento sta­ bilimenti cinematografici, i quali avevano rinchiuso la città imperiale in una cinta inespugnabile di celluloide, nei cui margini perforati erano riprodotte fatalmente rimpicciolite, le arcate solenni dell’Acquedotto di Claudio.

3. Milano, capitale mancala A Milano il primo a far nascere degli stabilimenti alla Bovisa è Luca Comerio. Nei primi tempi la Comerio Film realizza di tutto, mescolando attualità, soggetti storici e trascrizioni di testi letterari. Poco tempo dopo si fonde con la saffi (Società Anonima Fabbrica­ zione Films Italiani) legata ad alcuni noleggiatori di pellicole ed eser­ centi. Il capitale sociale è portato a 500.000 lire e i programmi pun­ tano sulla qualità e la regolarità d’uscita. Alla fine del 1908 c’è un’ulteriore trasformazione in Milano Film. Lo studio di questa casa di produzione è considerato il più grande e attrezzato del mondo e per coprirlo Comerio acquista la tettoia della stazione di Trastevere a Roma. I lavori sono appena terminati che Comerio abbandona il consiglio d’amministrazione. Ufficialmente per motivi di salute, di fatto per forti contrasti economici. Continuerà a produrre in proprio con criteri artigianali e a vendere i suoi servizi di inviato speciale in tutto il mondo. Il nuovo consiglio è composto dal barone Paolo Airoldi di Reb­ biate, dal principe Urbano del Drago, dal nobile Roberto Camozzi. Dal 1909 troviamo nobili in tutte le maggiori case di produzione milanesi e romane. Conti, principi, marchesi, personalità che inve­ stono briciole dei propri capitali fondiari nel cinema considerandolo un giocattolo attraverso cui effettuare, prima di tutto, un’opera di apostolato culturale. Si ha l’impressione che un mondo che lenta­ mente scivola ai margini della scena sociale trovi ancora nel cine­

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ma un solido punto d’appoggio per acquisire crediti e affermare la propria esistenza. La Milano Film, in ogni caso, non presenta una storia produttiva di particolare rilievo e interessa di più per quanto riguarda le periodi­ che svalutazioni e rivalutazioni del capitale sociale che per i segni la­ sciati nell’evoluzione linguistica. I suoi due momenti di massimo splendore sono la realizzazione deU’/n/érao e deil’CWùjfa nel 1911 e quello successivo del Ballo Excelsior del 1914 con cui si tenta, in modo maldestro e teatrale dal punto di vista stilistico e spettacolare, di ri­ spondere all’exploit torinese di Cabiria e tuttavia ci si lancia nell’apo­ teosi della nuova potenza umana («L’uomo può ciò che vuole!... L’uo­ mo aligero ha vinto del peso il giogo eterno... L’uomo alato ha vinto la Materia, lo Spazio, il Tempo, il Fato»). Nei bilanci di sette anni — dal ’10 al ’ 16 — vi sono due annate in pareggio, una in attivo (di 692 lire!) e quattro in rosso con perdite che variano dalle 78 mila lire del 1911 alle 321 mila del ’12 alle 191 mila dei primi cinque mesi del ’16. Il tonfo commerciale del Ballo Excelsior è così clamoroso da travolgere e tron­ care per un lungo periodo ogni ulteriore ambizione produttiva. In effetti Milano è una capitale mancata del cinema italiano dal punto di vista produttivo (non certo da quello culturale) e tale rimarrà anche nei decenni successivi, almeno fino all’avvento della televisione.

4. Napoli, una città come scenario e protagonista « Rispetto.alla produzione delle altre capitali, che vanno alla ricerca dei pubblici senza conoscerli e cercano di alfabetizzarli con immagini della storia prese direttamente dai libri di testo delle elementari, il cinema napoletano si dichiara subito erede delia sua grande tradizio­ ne teatrale. Il Salone Margherita, l’Elgé e le decine di sale che, nel giro di po­ chissimi anni, si fisseranno in maniera stabile in tutti i quartieri della città, intendono continuare il lavoro del Teatro San Carlino e del San Ferdinando, dove, rispettivamente, i napoletani per secoli andavano «per ridere» o «per piangere», a seguire la recitazione di Silvio Fiorillo, Vincenzo Cammarano, Antonio Petito e soprattutto Eduardo Scar­ petta, il creatore dell’indimenticabile Felice Sciosciammocca. Ai pubblici di questi attori, ai pubblici delle sceneggiate e dei café chantanl, si rivolge il primo cinema napoletano, cercando di portare sulle scene un repertorio di drammi, canzoni e situazioni ben note a tutti i livelli sociali. Il passaggio avviene dunque senza tutti quei drammi e levate di scudi moralistici di intellettuali e artisti che guar­ dano al cinema, ancora per qualche tempo, come a una forma di di­ vertimento inferiore. Una delle ragioni più evidenti della vitalità di

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questo cinema consiste nel fatto che, in ogni periodo della sua storia, riesce a iscrivere in modo perfetto il pubblico nel cerchio del messag­ gio. Quasi nessun film fallisce il bersaglio e ciò consente anche alle produzioni più povere di vivere a lungo, prevedendo, con una certa sicurezza, la resa economica del prodotto. Raccontare il cinema napoletano significa ricomporre i frammen­ ti di un mosaico di storie di improvvisati produttori geniali, di intere famiglie di piccoli imprenditori che si occupano di tutto, dalla sce­ neggiatura alla recitazione, alla coloritura a mano della pellicola alla proiezione dei film. Di una città che non resta mai sfondo delle vi­ cende ma irrompe, prima tra tutte, da protagonista sulla scena e sa rivestire tutti i ruoli, da quelli più drammatici ai più teneri e senti­ mentali. Di un pubblico grazie a cui cade da subito l’illusione della quarta parete. Di un pubblico per cui anche sullo schermo si ripro­ duce miracolosamente il miracolo di San Gennaro e figure di scian­ tose e «piccerille», guappi e nani diventano di carne e sangue, grazie al calore del contatto con la sala. Per merito di questi fattori la pro­ duzione, che inizia nel 1905 con i fratelli Troncone, identifica subito il suo destinatario locale, ma si sviluppa anche all’estero, tra le co­ munità di emigrati e non cerca di affrontare platee di cui non pre­ supponga la complicità. Su questa linea, ricollegandosi alla tradizio­ ne della sceneggiata e dei romanzi popolari di Mastriani (La Medea di Porta Medina) o di Carolina Invernizio (Il nano rosso o la fata di Borgo Loreto), si muove per due decenni la Dora Film, vero pilastro della produzione popolare napoletana (Masi e Franco, 1988, Troianelli, 1989 e Bruno, 1990). Un’economia precaria, che riuscirà a resistere negli anni della grande crisi meglio di strutture più solide e affermate nel mondo. Si è detto in vari modi che mancano nella storia economica del ci­ nema italiano delle origini figure di tycoons paragonabili a quelle hol­ lywoodiane dei Mayer, Fox, Goldwyn, o dei fratelli Warner. Con al­ meno un’eccezione, che troviamo proprio a Napoli: Gustavo Lom­ bardo. Per lucidità imprenditoriale, conoscenza di tutti i problemi del mercato, convinzioni ideologiche (da giovane aveva militato tra le file socialiste), Lombardo è una figura anomala in un panorama egemo­ nizzato da nobili e notabili che non brillano certo né per intelligenza industriale, né per progressismo ideologico. Lombardo crede nel ci­ nema come a un grande mezzo di emancipazione sociale e culturale. Parte da zero, senza capitali alle spalle, comprando e vendendo pellicola. Nel 1909 inizia un’attività di regolare distribuzione di film di produzione straniera della Gaumont, Eclair, Vitagraph; fallisce il suo progetto di concentrazione monopolistica dell’attività distributi­ va, ma da subito è evidente il suo ruolo di leader nel mercato. Nel 1908 fonda la rivista «Lux» che, pur nata con compiti pubblicitari, ospita

II. Nascita dell ’indutlria cinematografica

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interventi legati alle possibilità educative e culturali del cinema. A varie riprese, scrittori come Roberto Bracco, Matilde Serao, o uomi­ ni politici come Arturo Labriola, vi intervengono su temi come II cinematografo e la scuola, Il cinematografo e la sua influenza sulla cultura del popolo, Lafunzione demoestetica della cinematografia. Mescolando in giuste dosi messaggi socialisti e cultura del positivismo, su queste pagine si può sostenere con forza che «ieri la cultura veniva trasmessa unica­ mente dal libro, dalla rivista, dal giornale, oggi il cinematografo, col suo fascino immenso, ha superato in efficacia questi mezzi». Nel 1911, con una mossa coerente con quanto detto finora, Lom­ bardo acquista i diritti di^distribuzione in esclusiva dell’/n/wTio, pro­ dotto dalla Milano Film. E questo il film che apre la strada nel mondo ai clamorosi successi dei kolossal di Guazzoni, Vidali e Pastrone degli anni seguenti. Lombardo conosce bene il mercato, ne tasta il polso nella realtà napoletana e cerca di esplorarne tutte le possibilità, non sempre te­ nendo come primo obiettivo la logica del profitto. In questa chiave si spiega la sua iniziativa di distribuire i film futuristi da Vita futurista a Perfido incanto a Thais. Soltanto nel 1918 effettua il passaggio decisivo dalla distribuzione alla produzione e la sua sarà una delle poche case a non aderire all’iniziativa di concentrazione monopolistica dell’uci. A Napoli nel 1914 si costituisce, con capitale sociale di 700.000 lire, la Società Anonima Industrie Cinematografiche che ha nel proprio consiglio d’amministrazione i conti Giulio Antamoro (anche Diret­ tore artistico), Carlo Carafa D’Adnia e Francesco Pironti. Punta di diamante della produzione napoletana, come si è detto, sono i film di Elvira Notari, realizzati per la Dora (casa fondata nel 1909 in via Leonardo da Capua 15 ai Ponti Rossi) servendosi di una struttura rigorosamente familiare. Questi film raccontano vicende ispirate a canzoni di successo, o tratte da sceneggiate, storie di scu­ gnizzi e «piccerille» che si perdono (il bravo ragazzo che abbandona la vecchia madre e la fidanzata per seguire la «malafemmina», o la dolce Carmela, la sartina di Montesanto, dal romanzo omonimo di Da­ vide Galdi, che è in balia del contino Luigi Partenna, assassino e pervertito) e, nel giro di qualche anno, diventano il simbolo della produzione nata all’ombra del Vesuvio. Il pubblico locale segue que­ sti film con tale entusiasmo e partecipazione che la Prefettura in al­ cuni casi è costretta a consentire le proiezioni alle 9,30 di mattina. Questa produzione punta alla conquista dei mercati del Sud, di quelli degli emigrati e, poco a poco, si diffonde anche in direzione della Turchia e dell’Europa orientale, e soprattutto degli Stati Uniti dove il locale rappresentante distribuisce con successo tutti i titoli della ca­ sa ribattezzati Mary the Crazy Woman, Blood and Duty, The Orphan of Naples, From Piave to Trieste...

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Cent’anni di cinema italiano

5. Torino fìlmopoli Se finora abbiamo sottolineato le caratteristiche di una produzio­ ne priva di una vera e propria spina dorsale e di una mentalità in­ dustriale, per Torino bisogna invece parlare di grande e neppure tan­ to megalomane progetto industriale. Non a caso alla vigilia di Cabiria un giornalista della «Stampa» la battezza «Filmopoli» e non a caso Stephen Bush, inviato dal «Moving Picture World» in Italia nel 1913, in un articolo dal titolo Italy’s Film Center, la descrive come la capitale del cinema italiano. La Torino che si affaccia sulla scena cinematografica è ancora la capitale delle grandi tradizioni artigianali ottocentesche: è la città del­ le corporazioni dei Confettieri, degli Acquavitai, dei Maestri Tolai e Carrozzieri, dei Bindellai e Passamantieri: è la città che nel 1840 può vantare, all’interno dell’industria delle «vestimenta» in cui operano migliaia di persone, l’azienda di un sarto come Vincenzo Bonino, che impiega quaranta operai solo per rifinire le divise militari di galloni, greche e guarnizioni dorate. Torino è capitale della moda con i suoi «velours de la reine» e i suoi lampassi, ma è anche capitale della bel­ lezza femminile («Les femmes de Turin sont trés bien faites»...). Alla conquista della città giungono, agli inizi del secolo, nuove figure di imprenditori destinati a trasformarne la fisionomia e ridi­ segnarne la struttura urbanistica e i ritmi di vita. Sono i pionieri del­ l’automobile, seguiti a ruota da quelli del cinema. I destini di questi uomini si incrociano più volte nel corso della giornata: in molti casi i nomi delle fabbriche sono così simili da con­ fondere assai spesso i rispettivi acquirenti. La Savoia, L’Aquila, l’i­ tala, sono nomi comuni alle due industrie e non di rado personaggi come Aristide Faccioli, Michele Lanza, Goria Gatti, Giovanni Agnel­ li e molti altri proprietari delle fabbriche Antoniotti, Lux, Padus, Gal­ lia, Lancia, Taurinia, si incontrano con i produttori e pionieri del cinema come Omegna, Ambrosio, Pastrone, Pasquali, Sciamengo. Frequentano gli stessi bar, il Molinari, il San Carlo, il Burello, si muovono lungo gli stessi itinerari, il Valentino, via Po, le rive della Dora. Adottano gli stessi ritmi industriali. Partono alla conquista de­ gli stessi mercati. Fanno le stesse file per registrare i loro brevetti... Agnelli giunge a Torino da Villar Perosa nel 1892 e, nel giro di due decenni, riesce a ricostruire la città a misura della sua fabbrica automobilistica. Negli stessi anni i pionieri dell’industria cinemato­ grafica da una parte guardano a lui come modello da imitare, dal­ l’altra sembrano volersi ispirare a Wells nella manipolazione della macchina del tempo, agli architetti Antonelli e Juvara nella deliran­ te fantasia di invenzione scenografica e a Verne nel frenetico bisogno di viaggiare con tutti i mezzi attraverso il mondo.

II. Nascita ddl'ìndustria cinematografica

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Niente improvvisazione, bandita la conduzione familiare dell’im­ presa, i produttori torinesi non sentono alcun complesso di inferiorità nei confronti delle produzioni francesi e puntano presto la loro rotta verso i mercati americani. La sindrome di onnipresenza e il modello di viaggiatore alla Phileas Fogg contagiano operatori come Vitretti, Omegna, Calcina e Fiorio. Anno dopo anno, girando migliaia e mi­ gliaia di metri, Vitretti riesce a spingersi verso l’Asia, la Turchia, la Georgia, la regione dell’Ararat, la Tunisia, la Libia. Torna in Italia in tempo per indossare la divisa e partire volontario come operatore sul fronte della prima guerra mondiale. Prima di Hollywood Torino è la Mecca del cinema: non Torino come Hollywood (è il titolo di un saggio di Rondolino, 1980), ma Hol­ lywood come Torino. A Torino giungono, dai primi anni, diventan­ done officianti di grande prestigio, registi come Luigi Maggi e Febo Mari. Pastrone vi lavora per far raggiungere all’itala il primato as­ soluto nella grandiosità degli sforzi spettacolari e Ambrosio opera, con Pastrone e Pasquali, per fare della città la capitale mondiale del cinema. Proprio ad Ambrosio — la cui impresa, fino al 1915, sarà sempre in attivo — spetta il ruolo di ideale presidente e trascinatore dell’industria del cinema torinese. In origine è un ragioniere con un piccolo esercizio di sviluppo e stampa e vendita di articoli fotografici. Grazie ad alcune circostanze fortunate, alla conoscenza di fotografi di talento — da Edoardo di Sambuy a Omegna e Vitretti — muove i primi passi nel terreno del cinema, rendendosi conto che le sale di Torino sono affamate di pellicola e l’offerta è sempre al di sotto della domanda. I primi titoli del suo catalogo puntano a celebrare i capolavori meccanici delle industrie concorrenti e a mostrare le rombanti Lancia e Fiat in gara sui tornanti della corsa automobilistica Susa-Moncenisio. Di sua invenzione è una piccola clausola di pochi metri, che non fa altro che riprendere i congedi delle lastre degli spettacoli di lanterna magica: Buona sera alla finestra, Buona sera bambina, Buona sera fiori, Domani un nuovo programma. Nei primi mesi del 1907 i suoi sta­ bilimenti «in una vasta ed elegante palazzina posta fuori della Bar­ riera di Nizza» vengono considerati «tra i più grandiosi che siano in Italia». Nel 1908, mentre la produzione internazionale è assestata su una durata di 250 metri, Maggi gira per l’Ambrosio la prima versione degli Ultimi giorni di Pompei che raggiunge i 400 metri. Per alcuni anni i film con il marchio Ambrosio offrono una qualità fotografica e una capacità di messa a fuoco di tutti i piani, dal dettaglio all’infinito, pressoché sconosciuta alle altre case cinematografiche. Per capire me­ glio il problema degli obiettivi Ambrosio si reca all’estero a lavorare come operaio in una fabbrica di ottica e in seguito a questa esperienza

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Cent ‘anni di cinema italiano

brevetta alcuni obiettivi grazie a cui il potere visivo degli operatori è enormemente arricchito. Nel 1911, all’Esposizione di Torino, accanto al padiglione della tecnica, in cui fanno la prima apparizione le macchine da scrivere Olivetti, il cinema occupa già il posto d’onore, in quanto gode di un padiglione tutto per sé ed è rappresentato in vari altri settori dell’in­ dustria internazionale. Ambrosio fa man bassa al concorso interna­ zionale vincendo sia nella sezione artistica con Nozze d’oro, sia in quel­ la documentaristica con La vita delle farfalle su testo di Gozzano. Il marchio comincia a diffondersi nel mondo: anche se il volume di esportazioni della Cines, ad esempio, è superiore, la qualità dei suoi prodotti viene sempre riconosciuta dalla critica ed è una vera garan­ zia anche per alcuni letterati — da Gozzano a D’Annunzio e Verga — che accettano gli inviti delle sirene cinematografiche dopo aver fatto bene i loro conti a tavolino. I primi film tratti da soggetti dan­ nunziani (L’innocente, La Gioconda, La fiaccola sotto il moggio, tutti del 1912) piacciono in Italia, un po’ meno all’estero dove viene preferito Lo schiavo di Cartagine, con i fondali di cartapesta. Se il barone Passini, come vedremo, è il primo a stabilire legami solidi con George Kleine e il mercato americano, Ambrosio si pone sulla sua scia con gli Ultimi giorni di Pompei e con un contratto per altri quattro titoli da realizzare nel corso di un anno per cui riceve un anticipo di un milione di lire. E vero, come ci hanno insegnato le vecchie storie del cinema, che i film italiani venivano comprati a scatola chiusa, ma alla luce dei documenti del fondo Kleine conservati alla Library of Congress di Washington è oggi possibile affermare che gli acquirenti stranieri sa­ pevano già cosa vi sarebbe stato nelle scatole, in quanto ne avevano contrattato analiticamente contenuto e ingredienti. Di questi quattro soggetti due sono ambientati a Venezia: uno è l’Otello e l’altro II leone di Venezia. Un terzo, La Du Barry, è tratto da un dramma di David Belasco. Accanto ad Ambrosio si collocano, quasi in un rapporto trinita­ rio, Pastrone dell’itala Film e Pasquali della ditta omonima. L’Itala nasce nel 1906 come Carlo Rossi & C. e nel 1909 assume una nuova ragione sociale e una nuova sigla, spostandosi dai primi­ tivi stabilimenti in corso Casale a quelli di Ponte Trombetta, una località ai piedi della collina dove oggi si apre piazza Hermada. Pastrone introduce per primo le comiche, reclutando André Deed in Francia e preferendolo a Max Linder. Il successo lo spinge a pun­ tare su produzioni più impegnative e ambiziose, non senza aver pri­ ma consolidato la sua posizione attraverso la distribuzione dei film americani della Bison e della Triangle. Il primo sensibile mutamento qualitativo è dato dalla realizzazione della Caduta di Troia ne) 1911.

9. Studio di posa dello stabilimento dell’itala

Poco dopo recluta in Francia l’operatore spagnolo Segundo de Chomon, il cui ruolo sarà decisivo per l’affermazione del marchio tori­ nese. I film Itala abbonderanno, dal 1912, di trucchi e di effetti straor­ dinari grazie alla genialità di Chomon la cui filmografia è stata ricostruita di recente (Tharrats, 1986). Pastrone rivela non comuni doti organizzative e produttive: Ca­ biria, comunque lo si voglia considerare, è il film che meglio rappre­ senta le ambizioni e la politique de grandeur del cinema italiano del pe­ riodo. Nelle intenzioni di Pastrone Cabiria avrebbe dovuto esser presto superato in grandiosità ed investimenti di capitali da un altro kolossal, una Bibbia, di cui erano già state costruite le prime sceno­ grafie. Il progetto è interrotto all’inizio della guerra: le costruzioni vengono smantellate e il regista-produttore opta per un’attività più legata al presente e a un nuovo tipo di domanda. Quanto alla Pasquali il suo stabilimento era in via Savonarola, una laterale di corso Stupinigi. Ernesto Maria Pasquali è l’intellet­ tuale del gruppo degli industriali torinesi. E stato giornalista, com­ mediografo e, dopo una breve esperienza all’Aquila Film, fonda la Pasquali & Tempo nel 1909. Dalla sua fabbrica escono soggetti di grande eleganza, ambientati in prevalenza nel mondo dei nobili e della borghesia. Ma anche le comiche di Polidor. Il suo massimo im­ pegno produttivo è Spartaco. Sono anche da ricordare I due sergenti e Salambò che, per certi aspetti, vorrebbe essere Tanti Cabiria.

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Cent'anni di cinema italiano

Tra il 1907 e il 1914 nascono a Torino una quindicina di case: l’Aquila, la Navone, la Società Italiana Cinematografica, la Savoia, la Gloria, la Cenisio, la Bonnard e la Photodrama di proprietà di Kleine con sede a Grugliasco. Nel 1913 emerge in Piemonte e Liguria, accanto alle figure di pro­ duttori, anche quella di un giovane distributore: Stefano Pittaluga. In un primo tempo distribuisce in esclusiva i film della Celio, Cines, Mi­ lano e Aquila, poi, mentre l’intera struttura produttiva comincia a mostrare i primi sintomi di crisi, incrementa l’attività distributiva e investe nell’esercizio costruendo, senza fretta, passo a passo, una struttura integrata che gli consentirà, nel giro di una decina d’anni, di diventare la figura più importante di tutta l’industria cinematografica, la più lungimirante e l’unica capace di sopravvivere.

6. Film d’arte e ruota della fortuna «Società italiana per la film d’arte. Costituita: 1909. Sede sociale: Roma. Teatro di posa: Roma. Scopo: indicato dal titolo». La Film d’arte è la sola tra tutte le imprese dell’industria cinema­ tografica nascente a dichiarare di non voler perseguire fini commer­ ciali. Le altre, dall’Ambrosio alla Cines, ammettono che il loro scopo è quello della «produzione e smercio di pellicola cinematografica». Però la prima dichiarazione forma l’immagine dominante e proietta la sua ombra lunga su tutta la storia successiva. Nel 1909, proprio quando si fa evidente una prima crisi del mer­ cato ed è necessario procedere a un ripensamento generale in termini di investimenti, obiettivi culturali ed economici e tecniche realizzative, entrano in gioco, al Nord e al Sud, i nobili e le banche che in­ vestono nel cinema i propri capitali fondiari e immobiliari. Molte di queste figure di nobili, dai Pacelli ai Colonna ai Capece Minutolo, trovano, come si è osservato, un modo di apparire come elementi determinanti nella crescita del sistema e guide illuminate per il mi­ glioramento della sua qualità artistica e culturale. Dal punto di vista propriamente industriale non si percepisce mai, da parte dei membri dei consigli d’amministrazione delle case romane o milanesi, il fatto che il cinema è un prodotto legato a un meccanismo che può anche produrre profitti. L’atteggiamento unanime è quello di far fronte alla crisi aumentando gli investimenti e la qualità dei prodotti, raddop­ piando i rischi, compiendo un considerevole salto di qualità senza comprimere la spesa e sfruttando al massimo i capitali esistenti. Que­ sto tipo di politica dà subito frutti positivi nel senso che consente la conquista immediata dei pubblici borghesi nazionali e internazionali e facilita la creazione di una lingua comune che si diffonde soprat­

IL Nasata dell'industria cinematografica

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tutto in Europa. Una seconda mossa vincente è quella di garantirsi la collaborazione di letterati di fama come Di Giacomo, Bracco, D’An­ nunzio, Capuana, Gozzano, Verga, Martoglio... Oscillanti tra mo­ delli di mecenatismo rinascimentale e quelli dei giocatori d’azzardo, questi produttori non cercano che in parte e in certe aree produttive di gestire le imprese con le tecniche dei moderni capitani d’industria. Grazie anche alla loro politica dell’eccesso, dello spreco, del lusso, il cinema italiano riuscirà a trasmettere nel mondo non l’immagine di un paese povero, con sacche di miseria e di arretratezza diffuse e ter­ ribili, quanto di un paese in grado di vivere entro gli standard delle nazioni più ricche e di riconquistare una leadership culturale. Il disinteresse per i problemi materiali dei bilanci, la mancanza di una mentalità finanziaria e imprenditoriale, non favoriranno certo il consolidamento del sistema e costituiranno, sul medio e lungo perio­ do, un modello negativo. Nessuno dei bilanci delle maggiori case nel 1914, anno di massimo splendore, è in attivo. Il vero atout e punto di forza rispetto alle altre cinematografie, almeno nel primo decennio, è dato dalla concorrenzialità nei costi della mano d’opera e della ma­ teria prima. La scoperta e la possibilità di sfruttamento intensivo del filone storico da parte della Cines, Ambrosio, Pasquali, è anche di­ sponibilità di una materia prima umana in quantità illimitata e al più basso costo possibile. In ogni caso il travolgente successo dei film storici prima e delle dive nel periodo bellico, l’invenzione di procedimenti espressivi e nar­ rativi che modificano il sistema internazionale, la volontà di far cre­ scere il coefficiente culturale de! prodotto cinematografico, fanno sì che questa cinematografia, con tutte le sue manchevolezze di strut­ tura, eserciti per alcuni anni un’egemonia culturale, linguistica ed economica sul mercato internazionale. Se il triennio ’12-’14 segna la fase dell’espansione e del consoli­ damento — nel primo anno si esportano 12.681 Kg di pellicola nei soli Stati Uniti — la crisi ha manifestazioni vistose che, però, per qualche tempo, sembrano colpire solo le iniziative più avventurose e casuali. Bisogna tener conto che, ancora nel 1914, le case operanti sul terri­ torio nazionale sono una cinquantina e la maggior parte ha nel cata­ logo titoli che a malapena raggiungono l’intero mercato interno. Già all’indomani della dichiarazione di guerra la produzione avverte un primo contraccolpo e si cominciano a chiudere i primi stabilimenti. «Il 4 agosto 1914 segna una data nera della cinematografia italiana — sostiene un editoriale della “Vita cinematografica” di Torino —. Allo scoppio della guerra le nostre case erano travagliate da dissesti gravissimi, dalla pazza concorrenza, dalle paghe enormi, dall’errata loro organizzazione finanziaria, dai difettosi sistemi di vendita...». Da quel momento la stella economica del cinema italiano inizia la

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Cent ‘anni di cinema italiano

sua discesa, anche se non tutti i produttori sembrano rendersene su­ bito conto. Per il momento il mercato nazionale non è in grado di coprire i costi, mentre quelli esteri si chiudono uno dopo l’altro. Ogni prodotto è già in perdita nel momento in cui viene pensato. A queste condizioni diventa chiaro a molti che è assai più conveniente rifor­ nirsi di film all’estero. Ben pochi, comunque, sono in grado di capire tutti i pericoli in­ terni ed esterni e di proporre strategie corrette. La cecità (o la miopia visiva) dei produttori va di pari passo con l’ottusità degli uomini po­ litici. Nel 1918 Fon. Belletti propone un’interpellanza parlamentare in cui si denunciano i pericoli del cinema: «Basta forse un’ora, ba­ stano cinquanta centesimi per traviare una vita e gettare il germe della rovina in un patrimonio spirituale e morale». Non è sufficiente che Tomaso Monicelli gli risponda dalle pagine di «In Penombra» dicendogli che «Il cinematografo non è uh tempio, non è solo arte, letteratura, storia... ma soprattutto industria» e che «come ogni industria questa nuova arte richiede, da parte dello Stato, per vivere e vincere, non un controllo impacciato e ritardatore, ma una protezione alacre, una fattiva solidarietà d’intento per aprirle la via dei grandi mercati». La richiesta non ottiene risposta, ma indica una strada che con­ sentirà in seguito al cinema di ottenere un appoggio decisivo da parte dello Stato. I produttori, nella maggior parte, continuano a ritenere di poter vivere di rendita sui fasti del passato e sottovalutano la tra­ sformazione in atto sia nei prodotti stranieri che nella domanda. In­ tanto qualcuno ha cominciato a vedere e capire le ragioni della crisi e a stabilire i primi confronti tra prodotti nazionali e americani. Qual­ cuno indica nei film di Chaplin il vero pericolo immediato.

La produzione americana ha raggiunto un grado di perfezione che non può essere facilmente superata dai concorrenti. Non può esserlo per i mezzi di cui dispone, le attitudini singolari dei suoi artisti, la sapienza delle sue organizzazioni, l’audacia dei suoi operatori. Il pericolo americano è più grande di quello che possa sembrare a prima vista. Il pericolo, di fatto, è così grande da aver innescato un processo irreversibile. L’Italia vittoriosa, comincia a perdere sul fronte inter­ no, sala dopo sala, spettatore dopo spettatore. Eppure, nonostante le manifestazioni si facciano sempre più clamorose, i produttori conti­ nuano ad aumentare i compensi ai divi, ad accumulare titoli su titoli, a rievocare i successi del passato, senza mai pensare di entrare in quelle sale per vedere cosa desideri la gente, quali siano i nuovi sogni di pubblici da troppo tempo considerati come beni di natura, inca­ paci di distinguere ed esercitare consapevolmente una propria scelta.

CAPITOLO TERZO

La scena e il racconto

1. La costituzione del menu Il fatto che la produzione inizi con un decennio di ritardo non è un handicap che ne condizioni la crescita. Anzi, in prospettiva, i primi documentari e film a soggetto godono del privilegio di rivolgersi a pubblici già battezzati e svezzati da regolari contatti con lo schermo e possono prendere per mano lo spettatore per fargli compiere più spericolate e ambiziose avventure di viaggio nello spazio e nel tempo. La composizione degli spettacoli si presenta come un menu con piatti fissi e varianti progressive che puntano a dilatare le coordinate del visibile e dello spazio narrativo. L’equilibrata combinazione di riprese documentarie e melodrammi, lo sminuzzamento e distribu­ zione delle briciole della storia, ci fanno vedere come vi siano costanti e variabili nella mentalità e strategia dei proto-impresari che mirano a tracciare alcune possibili linee per una rotta comune. Esemplare, in questo senso, un programma del cinematografo ambulante di Roatto del 1906 in cui, assieme alla Presa dì Roma, vi sono altri cinque titoli che vanno dalla Lanterna magica di Méliès alla fantasia giapponese Fio­ ri viventi, al Romanzo d’un Pierrot in 12 quadri, al dramma Nozze tragiche al ballo-pantomima Malia dell’oro. Nel giro di poco tempo si forma un sistema narrativo dotato di tratti distintivi, di vincoli che stabiliscono delle relazioni tra le varie componenti e consentono alla neonata cinematografia di affermare le proprie linee di comportamento e specificità narrative e spettacolari. In una prima fase gli uomini della Cines o dell’Ambrosio guar­ dano al mercato tentando di adeguarsi agli standard francesi. La Pathé è il modello privilegiato, il vivaio a cui attingere mano d’opera specializzata. Una delle strade per recuperare il ritardo tecnico e lin­ guistico è quella di reclutare in Francia attori e tecnici attirandoli con compensi degni del mecenatismo rinascimentale. A Gaston Velie,

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Cent anni di cinema italiano

10. La spedizione del barone Franchetti in Uganda ripresa nel 1911 da L. Comerio.

punta di diamante della Pathé, la Cines offre, nel 1906, un contratto di mille franchi al mese, più due franchi per ogni metro di pellicola realizzata. Con lui giungono a Roma anche l’operatore André Wenzele e gli scenografi Dumesnil e Vasseur, la cui esperienza sarà de­ terminante per il decollo della prima produzione a soggetto. La Pathé accuserà la Cines di concorrenza sleale e plagio — Velie riprende, con minime varianti, storia, scenografie e trucchi di Viaggio in una stella, da poco girato in Francia — ma si rifarà, a un anno di distanza, convincendo il transfuga a tornare e ripetere negli studi parigini i titoli realizzati per la casa romana (Bernardini, 1981). Prima della realizzazione della Presa di Roma, negli anni di «laten­ za produttiva» all’anagrafe cinematografica vengono registrati alcuni titoli di documentari e tentativi di realizzazione di brevi storie a sog­ getto. Già a soli sette giorni di distanza dalla morte di Umberto I, nell’agosto del 1900, si proiettano i suoi Solenni funerali in 17 quadri con la sfilata di tutte le rappresentanze ufficiali, dalle truppe alpine ai soldati a cavallo, dal sindaco e giunta municipale di Roma con gon­ falone, ai rappresentanti della società di tramway e omnibus. Operatori negli anni seguenti sono presenti in cerimonie pubbli­ che, riprendono scene di vita quotidiana, o documentano disastri ed

III. La scena e il racconto

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episodi di cronaca cittadina. A Roma, nel 1903, Rodolfo Kanzler — direttore del museo cristiano in Vaticano — ricostruisce una cata­ comba per girarvi la Deposizione del corpo di una martire. Una volta en­ trati in campo, comunque, i neoimprenditori dimostrano come sia possibile ridurre in tempi brevissimi il divario tecnologico e puntano a realizzare prodotti in cui il tempismo si unisca alla qualità delle riprese, alla curiosità e soprattutto alla valorizzazione di elementi sto­ rici, artistici, turistici... Presto si capisce che le immagini cinemato­ grafiche possono giocare un ruolo di supporto propagandistico per le industrie non inferiore ai manifesti e alle forme pubblicitarie che, pro­ prio nel primo decennio del secolo, stanno modificando l’arredo ur­ bano. Nel 1917 Luciano Ramo potrà scrivere un trattato sul lavoro del pittore al servizio della pubblicità le cui affermazioni sono adat­ tabili perfettamente all’operatore cinematografico: «Non è più il mi­ gliaio di persone a lui dinanzi, ma la città tutta, ma il pubblico tutto, ma la folla, l’immensa folla che vive, si muove, si agita, corre, si moltiplica al suo interno. Egli deve parlare a tutti costoro, egli deve fermarli, percuoterli: bisogna che egli suggestioni, faccia vibrare le sensazioni di tutta una massa enorme, di ogni cervello e ogni età». L’Alberini e Santoni, presto divenuta Cines, presenta una produ­ zione iniziale limitata, di buona fattura e qualità, grazie all’apporto dei tecnici stranieri, e con costi inferiori del 30% rispetto ai francesi.

2. Gli apostoli del nuovo verbo visivo Ambrosio vuole anzitutto conquistare il suo pubblico con la tem­ pestività dei suoi servizi giornalistici: «Potemmo offrire — ricorda lui stesso, in un’intervista a Oreste Fasolo su “Natura e arte” — nel 1905 la sera del martedì, in un salone torinese, lo svolgersi della corsa SusaMoncenisio avvenuta la domenica e cioè meno di 48 ore prima!». Accanto a lui l’operatore Roberto Omegna racconta di essere sta­ to anche sul Vesuvio «tra il gragnolare di lapilli infuocati, durante l’ultima eruzione, e in Calabria nei giorni terribili del terremoto, do­ vunque prendendo impavido delle negative» e di essere ora sul piede di partenza alla volta dell’America del Sud per filmare la caccia al leopardo. Tempestività, curiosità, amore del rischio, spingono i primi ope­ ratori a uscire dagli studi e guardare all’intero globo terrestre come allo scenario naturale delle loro imprese. Qualcuno non ha difficoltà a considerarli artisti, viaggiatori, pionieri, soldati, esploratori... In effetti Omegna, Vitretti, Comerio, Fiorio, ci appaiono come pervasi dal demone della molteplicità, dell’ubiquità, o dell’onnipresenza e onnipotenza visiva. Spinti dalla molla dell’emulazione li troviamo —

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Cent 'anni di cinema italiano

negli stessi mesi — in località agli antipodi tra loro: mentre Omegna va in India, Cina, Birmania o Sud America, Comerio segue le partite di caccia grossa del barone Franchetti in Uganda e Vitretti viaggia attraverso la Russia dal Baltico fino in Georgia girando migliaia di metri di pellicola e giocando un ruolo non secondario nella nascita della cinematografia russa. Per costoro la macchina da presa diventa una protesi, una specie di terzo occhio, che consente di spingersi sia verso la soglia dei territori dell’invisibile che di testimoniare di qual­ siasi evento percepibile e raggiungibile. Omegna — la cui personalità è stata ricostruita in un documen­ tario del 1974 da Virgilio Tosi (Roberto Omegna. Un pioniere del cinema scientifico) — ricordava che per la realizzazione di Farfalle, il docu­ mentario vincitore del Premio all’Esposizione di Torino del 1911, aveva cominciato a raccogliere duecento bruchi mesi prima e li aveva curati con molta pazienza ogni giorno. Sarà lui a filmare nel 1908 le esperienze del professor Negro sui malati di mente a Torino. Il do­ cumentario che ne risulta presenta 24 episodi diversi di «nevropatici d’ogni specie» la cui patologia era descritta direttamente dal professor Negro. L’occhio dell’operatore non pare conoscere limiti: le diverse di­ mensioni del visibile si presentano come territori di conquista e beni da trasformare in patrimonio conoscitivo comune. Gli uomini politici e gli scienziati avvertono presto la portata sociale del mezzo: lo spet­ tacolo cinematografico può essere palestra intellettuale, asilo, scuola e università popolare. All’università di Padova, come a Torino, pro­ fessori di medicina si servono già dal 1904 di filmati per le loro lezio­ ni. Grazie a documentari medico-chirurgici il cinema si rivela come uno strumento privilegiato di supporto al lavoro scientifico. Il pro­ fessor Negro, come ha dimostrato Alberto Farassino in un articolo su «Immagine» (marzo-giugno 1983), è consapevole sia delle possibilità scientifiche che delle funzioni spettacolari del materiale ed elabora i vari casi usando solo i più significativi e scartando quelli in cui si vede la costruzione dello spettacolo scientifico. Non vi sono settori dove non si possa prevedere l’uso del cinema, dalla topografia alla fisiolo­ gia alla geologia, dalla botanica all’agricoltura. Gli operatori se ne rendono conto e si possono mettere al servizio ora dell’industria, ora della scienza, ora dell’esercito... La loro disponibilità è totale. Nel 1908 Vitretti alterna il lavoro di operatore di soggetti girati in studio a riprese nella fabbrica della Cinzano a realizzazione di vari reportages d’attualità (tra cui uno sui funerali di Edmondo De Amicis). Nel 1910 parte alla volta della Russia; nel 1911 è a Tripoli; nel 1915 si arruola come volontario e diventa operatore della sezione cinemato­ grafica dell’esercito. Omegna presenta analoghe manifestazioni di iconofagia: il suo sguardo si impadronisce con eguale interesse e cu­

Ill, La scena e il racconto

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riosità di esperimenti scientifici e degli effetti del terremoto a Reggio Calabria, delle cacce al leopardo o delle distese del Gran Chaco. Nel 1911 scrive dalla Birmania: «Ho trovato gli elefanti. Presto ve li por­ terò». Dal canto suo Comerio, già al lavoro dal 1898 — presto diventa fotografo ufficiale della Real Casa —, nel 1907 immortala rincontro tra i re d’Italia e d’Inghilterra e l’anno seguente offre una filmografìa ricca di una sessantina di titoli tra documentari e film a soggetto. E anche lui a Messina e Reggio Calabria per il terremoto, ma non si perde, a pochi giorni di distanza, un disastro ferroviario a Varallo, o una gara di sci in Valsassina. Terremoti, sciagure, fait divers d’ogni tipo, incontri tra teste co­ ronate, o protagonisti della letteratura e della politica, apparizioni delle sovrane della scena, reportages turistici e culturali da tutti gli an­ goli della terra...: gli operatori cinematografici sono spinti da un’os­ sessione e frenesia continua, da uno spirito nazionalistico rivendicato ogni volta se ne presenti l’occasione. Comerio, per esempio, non manca di riprendere in Africa l’attraversamento di un fiume da parte dei portatori della spedizione del barone Franchetti con un ragazzo nero che quasi affoga per impedire alla bandiera tricolore spiegata al vento di bagnarsi. Non meno importante, nella meccanica e ideolo­ gia di conquista visiva, il culto modernistico della velocità, la capacità di spostarsi da un continente all’altro per celebrare le conquiste del­ l’uomo sulla natura, per cantare la guerra, le cacce, le armi, i cava­ lieri di terra e mare e i nuovi cavalieri del cielo. Forse Comerio — come ha suggerito Paul Virilio (1986) — è il vero e unico interprete dello spirito futurista. La sua attività documentaristica non gli impe­ disce comunque di effettuare le riprese della prima grande impresa spettacolare del cinema italiano, L’Inferno del 1911. Il fatto che tutti questi operatori lavorino in studio alle dipendenze di un regista e siano in proprio cacciatori di immagini favorisce la rapida crescita di competenze e capacità narrative. Mentre nei do­ cumentari gli operatori sono anche autori del testo visivo, nei film di finzione vengono espropriati della paternità del loro lavoro. Sul set diventa presto chiaro che l’operatore è «una mano che gira la mano­ vella» come magistralmente racconta Pirandello nei Quaderni di Sera­ fino Gubbio operatore del 1916. E evidente che, nel momento in cui la figura del direttore artistico comincia ad assumere importanza e ruo­ lo dominante nel processo realizzativo, l’operatore diventa un mec­ canismo dell’ingranaggio e perde quel senso di assoluta libertà crea­ tiva che ne aveva guidato i primi passi alla scoperta del mondo. La fine dell’era degli operatori-reporters — che usano la macchi­ na da presa come protesi, penna, macchina da scrivere o arma ed ora guardano ai loro soggetti esotici con la curiosità di un entomologo,

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Ceni 'anni di cinema italiano

ora usano l’obiettivo come un mirino e fanno sentire il senso esaltante della loro avventura di cacciatori di immagini, ora assumono le vesti di missionari e apostoli del nuovo verbo visivo — viene dall’apertura del set, dallo sfondamento delle sue pareti teatrali, dall’aumento della domanda di spettacoli di finzione. Per un’improvvisa e curiosa in­ versione di rapporti di scala, il mondo più lontano e sconosciuto ac­ quista nelle immagini quasi una dimensione miniaturizzata, mentre il set si dilata in modo ipertrofico e iperbolico e non sembra volersi porre limiti spazio-temporali.

CAPITOLO QUARTO

Suddivisione dei generi

1. Signore e signori il catalogo è questo... La produzione dal 1905 al 1909 consente di definire lo spazio nar­ rativo, fissare i modelli, esplorare e segnare il terreno, far emergere tendenze dominanti, stabilire confronti diretti con ciò che avviene negli altri paesi. Il principale obiettivo delle diverse case è quello di saturare il territorio, costruire cataloghi capaci di soddisfare ogni tipo di domanda e ribattere, titolo su titolo, alle case di produzione estere che si intendono sfidare. I generi pertanto sono tutti contemplati e praticati — dal drammatico al comico, dall’avventuroso al «dal vero» — senza esclusioni, anche se, dal 1908, la produzione fantastica su­ bisce una prima crisi e poco dopo viene abbandonata. Il cinema di Méliès, per la verità, non costituisce un vero punto di riferimento narrativo o linguistico, al di là di una fase di indispensabile acquisi­ zione di trucchi ed effetti illusionistici. Il cinema italiano non ama mettere in scena le féerie; e neppure dimostra interesse per fenomeni legati alle paure collettive, quanto piuttosto aspira a porsi come tran­ sfert delle aspirazioni di un’intera nazione che si affaccia solo da po­ chi decenni sulla scena internazionale e che, agli occhi del mondo, non presenta credenziali che la rendano riconoscibile. I film si pon­ gono, tra gli obiettivi immediati, quello di fissare e trasmettere i sim­ boli di un’identità tutta da immaginare e fondare. Naturalmente esiste, all’interno dello spazio narrativo, una scan­ sione in fasi, una varietà e un mutamento di rapporti che mostra co­ me possano mutare gli oggetti del desiderio, i simboli, i codici morali, i sistemi narrativi di riferimento, così come la dinamica ritmica, sin­ tattica e linguistica da genere a genere. Se nel film storico il lavoro avviene all’interno dell’organizzazio­ ne della scena e non sul piano della concatenazione narrativa, la co­

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Cent 'anni di cinema italiano

mica godrà di una libertà combinatoria da consentire alla sintassi di procedere in modo più rapido. Nel pieno rispetto delle regole dell’industria delle immagini da cui il cinema discende si nota un’immediata suddivisione di generi e stili, fin dalla pubblicazione dei primi cataloghi della Cines o dell’Ambrosio. Rispetto alle altre cinematografie la produzione sembra orche­ strata soprattutto da un esercito di maestri e professori, preoccupati di alfabetizzare, o incrementare la cultura del destinatario, senza al­ terare alcun modello o stereotipo iconografico né le nozioni di base trasmesse dai testi scolastici. Nel momento in cui — dal 1908 — ci si muoverà alla conquista del pubblico urbano, lo spettacolo di magia, il racconto fantastico appaiono come sottoprodotti destinati.a pubbli­ ci infantili, mentre gli obiettivi che si vogliono raggiungere sono, da questo momento, ambiziosi e presto vengono enunciati come vere e proprie dichiarazioni di guerra alla produzione internazionale.

2. I bambini come prezzemolo narrativo Se i bambini non vengono considerati come destinatari privile­ giati occupano invece, dai primi vagiti produttivi, un ruolo fonda­ mentale come soggetti di racconto. In effetti il mondo infantile offre la possibilità di sfruttare motivi patetici, o proporre esempi edificanti contro ogni tipo di sfondo possibile. Nei cataloghi Cines, pescando alla rinfusa, troviamo titoli di carattere deamicisiano come Cuore di biricchino o Piccolo garibaldino, Piccolo violinista, Congiura di bimbe, Piccolo cantoniere, Il piccolo vandeano, Il tamburino di Austerlitz, mescolati ad altri di carattere più truculento e più esplicita derivazione dal feuilleton, come L’oifanella dell’assassinato o L’orfano e l’omicida. Nella schiera di orfani e derelitti, c’è anche L’orfanella riconoscente per l’edificazione di benefattori e dame di carità. Tematiche religiose, drammi familiari, malattie incurabili, figli abbandonati, madri diseredate dalla famiglia e costrette a spingere i bambini all’accattonaggio sulle porte delle chiese, racket del lavoro minorile, disconoscimenti di paternità e agnizioni...: tutto l’armamentario del romanzo popolare filtrato, at­ traverso la letteratura parareligiosa, si intreccia a motivi nazionali­ stici e antioperai, mescolando intenzioni diverse senza abbandonare mai l’idea che i bambini non siano solo il prezzemolo per condire il dramma, ma lo strumento ricattatorio per risolvere ogni tipo di con­ flittualità interpersonale e sociale. Molti soggetti a cui si è fatto rife­ rimento non sono altro che surrogati dei sermoni domenicali, o ne costituiscono il pendant laico non meno ipocrita e ricattatorio. I motivi dell’abbandono dei figli, che troviamo per esempio nel Natale di Pie­ rino dell’Ambrosio (1910), o dello sfruttamento del lavoro minorile

IV. Suddivisione dei generi

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11, Il piccolo garibaldino realizzato dalla Cines nel 1909

che vediamo denunciato qualche anno più tardi nel Piccolo connato di Genina del 1914, vengono usati a scopi di elevazione morale e non di comprensione sociale. I bambini del primo cinema italiano non sono esseri in carne ed ossa, che si muovono in spazi reali, ma immagini ritagliate dalle stam­ pe d’Epinal o dalle figurine Liebig. In questi film la famiglia, insi­ diata da molteplici agenti corruttori — alcolismo, indifferenza reli­ giosa, esche sessuali, passione per il gioco — va salvata a ogni costo. II ruolo di mediatori è affidato appunto ai bambini, spesso vittime sacrificali dei mali del mondo. A questa produzione, che anestetiz­ za anche i drammi più profondi, non è concesso grattare oltre la su­ perficie della convenzione iconografica o ideologica. Nel Piccolo cerinato, per esempio, la censura giolittiana impone di sopprimere una scena in cui un individuo assolda un gruppo di bambini e li sguin­ zaglia col carico di candele per la città in quanto ritenuta «brutale e inumana». In effetti quando lo sfondo comincia a tentare di imporsi sull’in-

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Cent 'anni di cinema italiano

12. Una cartolina tratta da un fotogramma dell’edizione del 1913 dei Promessi sposi diretta da E. Ridolfi per l’Ambrosio.

treccio scattano i rifiuti e le critiche progenitrici di una morale che ha accompagnato a lungo le pratiche di censura diretta e indiretta nella storia del cinema italiano: «Purtroppo — scrive un giornalista della “Vita cinematografica” a proposito di un film Ambrosio — al di là delle Alpi, l’eco delle nostre cronache cittadine ha una ripercussione dolorosa. Perché a tanto voler aggiungere una prova lampante di co­ me avvengono presso di noi i delitti e quali le cause che generano gli stessi nella bassa classe del popolo?».

3. La grande

migrazione

In principio fuit traductio. Sono gli anni che precedono l’inizio della guerra di Libia. Anni in cui Pascoli parla della «grande proletaria» che si è mossa. Gli storici dell’emigrazione non si sono mai curati dei piccoli fe­ nomeni di emigrazione culturale nel territorio delle arti e dello spet­ tacolo verso il Nuovo Mondo del cinema. Né di quelli di travaso dei generi narrativi. Fenomeni che ne hanno mutato in modo profondo la topografia e i sistemi di comunicazione interna. «Il genere — dice Michail Bachtin — è il rappresentante della memoria creativa nel processo letterario». Tra il 1905 e il 1912 il cinema italiano, nato «ritardato» (e quindi

/K Suddivisione dei generi

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costituzionalmente ipotonico), ci fa assistere a una massiccia immis­ sione di vitamine e proteine letterarie nel suo corpo. «In principio fuit traductio»: già dai primi soggetti si assiste a un processo di conver­ sione, ridefinizione e riduzione di tutti i motivi della memoria storica e letteraria, concepita come un unico testo, un giacimento aureo ine­ stinguibile entro cui attingere a larghe mani senza il minimo com­ plesso di inferiorità. L’epica, il romanzo, il teatro, la poesia, la let­ teratura popolare, subiscono lo stesso trattamento. Questo processo di contrazione o condensazione dei testi originali attorno a nuclei vi­ sivi dotati di grande forza è in atto da decenni nell’editoria — basti pensare alle litografìe dei classici di Dorè, alle stampe di Pinelli, al­ l’illustrazione dei Promessi sposi di Gonin. Per molto tempo i «direttori artistici» non sembrano avere coscienza delle regole che organizzano il loro elementare sistema di testi: fatti salvi identici principi di di­ sposizione, animano i singoli quadri attingendo l’ispirazione da sce­ nografie teatrali, oleografie e stampe popolari, cartoline illustrate. Il cinema inventa in misura minima le proprie tecniche di riduzione: ricorre piuttosto alla memoria di testi preesistenti, ispirandosi a pro­ cessi di riproduzione tecnica dell’opera d’arte in atto assai prima del­ l’invenzione della fotografia. Si allaccia alla tradizione dei sommari e centoni medioevali, delle Bibliaepauperum, cercando di giungere a una rapida canonizzazione delle tecniche di abbreviatiti e di tutte le varianti letterarie e iconografiche successive. Nei primi anni il cinema italiano non introduce nel suo spazio visivo, e nel suo elementare sistema com­ binatorio, alcun elemento nuovo: la riduzione del testo ai suoi ele­ menti minimali consente di fissare nell’immaginazione del destina­ tario, o riproporre, in una variante animata, immagini e stereotipi letterari noti. I momenti risultanti da questa operazione sono quelli forti, Ì gesti quelli codificati dalla tradizione dei manuali ottocente­ schi di recitazione teatrale e lirica. La novità più notevole è data dal­ l’abbandono dei fondali dipinti a favore di riprese en plein air. Dal 1905 si osserva il principio di una cosciente alternanza dì riprese in studio e all’aperto, che rendono più verisimile l’azione, liberano i movimenti dei personaggi e consentono una rapida percezione delle possibilità di includere lo spazio come soggetto e coprotagonista at­ tivo dell’azione. Inoltre il fatto che ci si ponga, dai primi passi, di fronte alla letteratura di tutti i tempi, come a un unico e indifferen­ ziato grande testo isomorfico, apre un problema specifico: quello del­ l’esistenza di un’ideale «biblioteca dell’italiano» elaborata dall’indu­ stria letteraria alla fine dell’ottocento, che pesca i suoi modelli ideali e i testi di base nelle biblioteche di Don Ferrante e del sarto dei Pro­ messi sposi, che si tenta di convertire — in base alla proprietà transi­ tiva — in una corrispondente filmoteca ad uso nazionale e interna­ zionale. Il cinema, nella logica dei produttori, diventa mezzo di

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Ceni ‘anni di cinema italiano

allargamento degli orizzonti culturali, privilegiato e potenziale pro­ duttore di una cultura di massa veicolo forte di esportazione della cultura italiana. O una lingua franca, un’alternativa all’esperanto, che rende possibile l’esecuzione e trascrizione visiva di qualsiasi testo letterario. La biblioteca di riferimento, pur non illimitata, è ricca di titoli ricorrenti o che tengono conto dell’allargamento progressivo del pubblico ideale. Prima dell’esplosione dei film della romanità si vede come Dante e Omero possano convivere con Zévaco e Sue, Carolina Invernizio, Pietro Cossa e Raffaello Giovagnoli. Opere religiose di carattere edificante coabitano e si contrappongono allo spirito laico forse serpeggiante qua e là nei kolossal e nelle scene ricorrenti e molto curate di cristiano-fagìa. Sull’esistenza di un’ideale biblioteca di ba­ se, di una serie di testi chiave che favoriscono e accompagnano la scalata al mercato internazionale, si fonda una strategia coerente e di lungo periodo. Da un certo momento in poi non si deve comunque più parlare di ruolo di riduttore del cinema nei confronti della lette­ ratura quanto piuttosto di amplificatore, di iperbolico estensore della qualità di informazione nei confronti di pubblici mai raggiunti dalla letteratura in maniera così uniforme e diffusa. Il Pietro Micca dell’Ambrosio del 1907 ha come antecedente un’o­ pera di Bencivenni; Il Fomaretto di Venezia, dello stesso anno, è tratto dal dramma omonimo di Dell’Ongaro, periodicamente ripreso in tut­ ti i decenni di storia del cinema italiano. Tra 1’8 e il ’23 si realizzano cinque versioni dei Promessi sposi, nel 1913 viene prodotta un’impor­ tante trascrizione del Pilgrim's Progress di John Bunyan destinata so­ prattutto al mercato americano. Nel 1908 un Rigoletto apre la strada a un filone ricchissimo di trascrizioni cinematografiche di opere liri­ che. L’anno successivo entra in campo Shakespeare. La Saffi tenta di muoversi dai classici ai contemporanei, dal feuilleton al libro di suc­ cesso contemporaneo. Nel 1909 la Saffi, oltre a un contratto con D’Annunzio per la realizzazione di sei film tratti dalle sue opere, rea­ lizza la prima versione dei Promessi sposi e una Sepolta viva dal roman­ zo omonimo di Mastriani. L’anno successivo sarà la volta di Xavier de Montépin, mentre tutte le case, dalla Film d’arte alla Cines, saccheggeranno la storia, il teatro, la Bibbia, i Vangeli, la letteratura popolare, passando dalla Beatrice Cenci di Francesco Venosta a Cirano de Bergerac di Rostand, o a Capitan Fracassa di Gautier. L’epica trova subito i suoi cantori, mentre bisognerà attendere il solstizio divistico per vedere un sistematico travaso dei repertori teatrali contempora­ nei. Dei film tratti da romanzi storici o ispirati a eventi storici ci oc­ cuperemo in un capitolo successivo.

Una nuova Terra promessa. Una particolare attenzione va dunque por­ tata ai modi e alla cura con cui avvengono questi processi di conver­

ZK Suddivisile dei generi

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sione da un sistema all’altro. Questi sono i fenomeni di maggior evi­ denza: travaso e trasformazione di modelli anteriori; contaminazione e riduzione delle strutture narrative; amplificazione della potenza cul­ turale e del valore esemplare; percezione delle «risonanze» tra oggetti eterogenei, che paiono pulsare a frequenze simili e iniziano a scam­ biarsi energia; relazioni tra le strutture verbali delle didascalie e quel­ le visive delle inquadrature; progressiva formazione di una gramma­ tica, una retorica, una metrica e una sintassi cinematografica. E su un piano diverso, ma collidente, la consapevolezza che gli stessi let­ terati, assunti presto nei processi di produzione, vengono ad avere di questi inediti stati di instabilità professionale e percezioni di nuovi orizzonti. Il proletariato intellettuale — e non solo quello — dal pri­ mo decennio del novecento comincia a dirigersi, prima in ordine spar­ so e poi in maniera compatta, verso il cinema. Una Terra promessa, una terra da seminare con le briciole del proprio corpo letterario e arare con procedimenti del tutto nuovi. L’intero territorio appare a molti come il paese di Cuccagna, o l’Eldorado, un luogo da cui dare inizio a una nuova era culturale. «La scena — scrive D’Annunzio — è come una femmina isterilita da cui aspettiamo la nascita di qualche cosa». La scena cinematografica stimola inedite energie creative negli intellettuali che si dirigono verso di lei e ne viene presto fecondata in maniera più o meno visibile, più o meno diretta. Una prima ipotesi, relativa ai tipo di rapporti, è la seguente: il cinema esercita sui letterati italiani che stanno prendendo coscienza di una loro diversa identità e funzione, «un’attrazione fatale». Certo nel 1908 sulla rivista «Lux» di Napoli possiamo trovare questa presa di posizione del commediografo e scrittore Roberto Bracco: «Non ve­ do di buon occhio il cinematografo perché fo commercio di teatro ai quale il nuovo trattenimento sottrae una parte del pubblico». Già po­ chi mesi dopo, dal 1909, si registrano continuati o semplici contatti occasionali con la nascente industria del cinema che costringono mol­ ti a fare i conti con problemi di etica e identità professionale, di ri­ conoscimento della paternità e proprietà artistiche finora del tutto sconosciuti. Non c’è letterato che, costretto a rivelare resistenza di quei rapporti, non si senta nelle vesti del marito scoperto in flagrante adulterio. Non c’è scrittore che non avverta o denunci il proprio sen­ so di colpa, non provi una sensazione di sdoppiamento e degradazio­ ne delle sue migliori qualità («Sono a Torino — scrive Gozzano a Salvator Gotta — per mettere in scena la Statua di carne e le appendici di Zévaco [...] coloro che godono di veder la poesia e i poeti profanati possono esultare [...]») e non confessi di aver, comunque, provato qualche forma di piacere, godimento e gratificazione nel corso del rapporto.

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Cent annt di cinema italiano

Per un Gozzano che sulla «Vita cinematografica» già nel 1910 am­ mette di aver ridotto per il cinema «fiabe per grandi e piccini sceneg­ giate con grande sintesi di trama e scaltrezza di effetti», c’è un Verga che si rivolge con tono colpevole all’amica contessa Dina di Sordevolo, a cui regala le riduzioni di molte sue opere, da Cavalleria rusticana a Tigre reale, Èva e Una peccatrice-. «Vi prego, vi scongiuro, non dite mai che io abbia messo le mani in questa manipolazione culinaria delle mie cose». L’autore dei Malavoglia si vergogna di ciò che sta facendo e ne è affascinato: «Il cinematografo che ha preso il posto del teatro è proprio una fantasmagoria». Basteranno pochi anni perché altri scrittori (come Delteil in Fran­ cia) giungano a dichiararsi figli del cinema, capovolgendo l’albero genealogico («il cinema è mio padre. Dona sangue e porpora alla let­ teratura»). Definitivo, comunque, è l’atteggiamento di D’Annunzio. Anche se le parole che seguono sono rimaste inedite, i suoi atti cine­ matografici hanno un valore di legittimazione assoluta e di invito a rompere gli indugi e le ipocrisie: «La recente industria del cinema­ tografo deve essere considerata come un’ausiliaria provvidenziale di quegli artisti coraggiosi e severi che, nell’ignobile decadenza del tea­ tro d’oggi, aspirano a distruggere per riedificare... Poiché abbiamo invocato invano un Erostrato che incendi le vecchie baracche [...] bisogna sperare nella virtù serpentina della ‘pellicola’ Che i poe­ ti seguano il mio esempio, attribuendo al Cinematografo una virtù di liberazione e distruzione Consideriamo intanto il Cinematogra­ fo come uno strumento di liberazione I miraggi economici, i bagliori di compensi inconcepibili per un equivalente lavoro editoriale, costituiscono un minimo comun deno­ minatore, una ragione primaria del fascino esercitato dal cinema, ma certo non sufficiente a produrre un fenomeno tanto massiccio e dif­ fuso di attraversamento del limes culturale conosciuto e di creazione — per individui molto diversi — di spazi, piani e linee di sviluppo e riferimento convergenti e comuni. Il senso di spaesamento, l’atteggiamento di diffidenza — contra­ riamente a quanto si è sempre sostenuto — è apparente e in molti casi serve da alibi nei confronti del super-ego artistico. In realtà il nascen­ te mercato trova in gran copia la manovalanza intellettuale e compra — senza troppe difficoltà — se non l’intero, almeno parte del corpo letterario o teatrale di moki autori. Nel nuovo mercato della cultura i letterati accorrono in massa a esporre la loro mercanzia e a cercare di venderla alle migliori condizioni. Abbiamo decine e decine di prove, di lettere di scrittori, poeti o uomini di teatro, in cui l’occasione cinematografica è vista come l’aiu­ tante magico delle fiabe capace di risolvere, in un sol colpo, gravis­ sime situazioni economiche: nel Natale del 1911 così scrive Gozzano:

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.-.f-viH tìr'.r ■ -. ■ H\ F 1 t *■> - F.-1 C 45 Sk^l C- M . TflxC. !□ i«j. ' ■ *■■!>•■ Romero Marchcnt 1968 Io sono un autarchico di N. Moretti 1977

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Filmografia

L‘ira di E. Bcncivcnga 1918 Irene, Irene di P. Del Monte 1975 Un ’isola di C. Lizzani 1987 L‘isola di A riuro di D. Damiani 1962 Isole delfuoco (Doc.) di V. De Seta 1955

Italia-Germania 4 a 3 di A. Barzini 1990 Le italiane e l’amore di L. Mazzetti-F. Maselli 1961 Italia! Nel tuo nome per la tua grandezza (Doc.) 1916 Italiani, brava gente di G. De Santis 1964 Ivan il terribile di S.M. EjzcnStejn 1945

Jazz Band di P. Avati 1978 Joe, cercati un posto per morire di G. Carminco 1968 Jolanda la figlia del Corsaro nero di V. Di Stefano 1922

Jolly, cane da circo di M. Camerini 1924 Johnny Oro diS. Corbucci 1966 Jules et Jim di F. Truffaut 1961

K Kali Yug, la dea della vendetta di M. Camerini 1963 Kaos di P. e V. Taviani 1984 Kapò di G. Pontecorvo 1960 Katiuscia di S. Laurenti Rosa 1923 KiJfTebby di M. Camerini 1927 King Kong

di J. Guillermin 1976 Kiss Kiss, Bang Bang di D. Tessari 1966 Kitra, fiore della notte di M. Corsi 1919 Kleinhoff Hotel di C. Lizzani 1977 Kri Kri e il "Quo vadis?» (Cines) 1912 Kri Kri e la suocera (Cines) 1913

Lacrime di sposa di S. Chimirri 1955 Ladri di biciclette di V. De Sica 1948 Ladri di saponette di M. Nichetti 1988 Ladro lui, ladra lei di L. Zampa 1957

Il ladrone di P. Festa Campanile 1980 Laggiù nella giungla di S. Reali 1987 La lampada della nonna di L. Maggi 1912 // lavoro (cpis. di Boccaccio ’70) di L. Visconti 1962

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Filmografia

Lazzarella di C.L. Bragaglia 1957 Lefarò da padre di A. Lattuada 1974 La legge della tromba di A. Treni 1962 La leggenda del Piave di M. Negri 1923 La leggenda del santo bevitore di E. Olmi 1988 £a leggerezza del tocco di F. Calogero 1987 Legion d’honneur di J. Fcyder 1934 Le legioni di Cleopatra di V. Cottafavi 1961 Leonardo da Vinci di M. Corsi 1918 Leone di Damasco di C. D’Errico 1942 Il leone di Venezia di A. Frusta 1913 Il leone mansueto di G. Raicevich 1919 Lettera aperta a un giornale della sera di F. Maselli 1970 Lettere di una novizia di A. Lattuada 1960 Libera, amore mio! di M. Bolognini 1975 La liceale di M.M. Tarantini 1976 Lisa Fleuron di R. Roberti 1920 La locandiera di L. Chiarini 1944 Lo chiameremo Andrea di V. DeSica 1972 Lolette di G. Forti 1919 Lontano da dove di F. Marciano c S. Casini 1983

Lost Patrol (The) di J. Ford 1934 Lotte di giganti di M. Guaita 1919 Lotte nell’aria di L. Mele 1920 Lo vedi come sei? Lo vedi come sei? diM. Mattoli 1939 Luce nelle tenebre di M. Mattoli 1941 Lucia di Lammermoor di P. Ballerini 1946 Luciano di G.V. Baldi 1962 Luciano Serra pilota di G. Alessandrini 1938 Luci del varietà di A. Lattuada e F. Fellini 1951 Lucky Luciano di F. Rosi 1973 Ludwig di L. Visconti 1972 Lui è peggio di me di E. Oldoini 1984 La luna di B. Bertolucci 1979 La lunga notte del ’43 di F. Vancini 1960 Lunga vita alla signora di E. Olmi 1987 I lunghi capelli della morte di A. Marghcriti 1964 Il lungo giorno del massacro di A. Cardone 1968 Il lungo inverno di I. Barnabò Micheli 1987 La lupa di A. Lattuada 1953 La lussuria di E. Bencivenga 1919

M Maccheroni di E. Scola

1985

La macchina cinema di M. Bellocchio

1982

686

Maciste di G. Pastrone 1915 Maciste di G. Brignone 1926 Maciste all "inferno di G. Brignone 1926 Maciste alpino di G. Pastrone 1916 Maciste atleta diV.Denizot 1918 Maciste contro lo sceicco di M. Camerini 1925 Maciste e il nipote d’America di E. Ridolfi 1924 Maciste imperatore di G. Brignone 1924 Maciste innamorato di L.R. Borgnetto 1919 Maciste in vacanza di L.R. Borgnetto 1920 Maciste medium diV.Denizot 1918 Maciste nella gabbia dei leoni di G. Brignone 1926 Maciste poliziotto di R.L. Roberti 1918 Maciste salvato dalle acque di R.L. Borgnetto 1921 Màdchen in uniform di L. Sagan 1931 Maddalena di A. Genina 1953 Maddalena Ferat di F. Mari 1920 Maddalena zero in condotta di V. De Sica 1940 Madonna che silenzio c "è stasera di M. Ponzi 1982 Madre di R. Roberti 1916 Il maestro di Vigevano di E. Petri 1963 Mafioso di A. Lattuada 1962 / magliari di F. Rosi 1959 Il magnifico cornuto di A. Pietrangeli 1964

Filmografia

Il mago di Oz di V. Fleming 1939 Màieoi diM. Brenta 1989 Malafemmina di A. Palermi 1920 Ma l’amor mio non muore! di M. Cascrini 1913 Maledetti vi amerò di M.T. Giordana 1980 Un maledetto imbroglio di P. Germi 1959 Malia dell "oro di G. Velie 1906 Malizia di S. Samperi 1973 Malombra di M. Soldati 1942 Mambo di R. Rosscn 1954 Mamma Ebe di C. Lizzani 1985 Mamma mia, che impressione! di R. Savarese 1951 Mamma Roma di P.P. Pasolini 1962 La mandragola di A. Lattuada 1965 Le mani sulla città di F. Rosi 1963 La mano guantata di bianco di V. lettoni 1920 Ma non è una cosa seria di A. Camerini 1920 Ma non è una cosa seria di M. Camerini 1936 Manon Lescaut di M. Gargiulo 1918 Marakatumba, ma non ì una rumba di E. Trapani 1949 Marcantonio e Cleopatra di E. Guazzoni 1913 Marchese del Grillo diM. Monicclli 1982 Marcia nuziale di M, Ferreri 1966 Marcia su Roma diD. Risi 1962

Filmografia

Marcia trionfale di M. Bellocchio 1976 Marco Polo di G. Montaldo 1982 Marco Visconti di A. De Benedetti 1923 Mare malto di R. Castellani 1963 Maria Antonietta 1910 Maria Zef di V. Cottafavi 1981 Marion, artista di caffè concerto di R. Roberti 1920 // marito di G. Puccini e N. Loy 1957 Il marito che gettò la moglie dalla finestra di L. D’Ambra 1918 Un marito per Anna Zaccheo di G. De Santis 1953 Mariute di E. Bencivenga 1918 Marrakesch Express di G. Salvatores 1989 I martiri d’Italia di D. Gaido e S. Laurenti Rosa 1927 La maschera di F. Infascclli 1988 La maschera del demonio di M. Bava 1960 La maschera e il volto di A. Genina 1919 Matemale di G. Gagliardo 1981 Matrimonio all’italiana di V. De Sica 1964 Il maltatore di D. Risi 1960 Medea di P.P. Pasolini 1969 La Medea di Portamedina di E. Notari 1919 Mediatori e carrozze di A. Trotti 1984 Il medico della mutua di L. Zampa 1968

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Il medico perforza di C. Campogalliani 1931 Il membro del comitato 1897 La memoria dell’altro di F. Degli Abbati 1914 Menzogna di U.M. Del Colle 1952 Le meravigliose avventure di Guerin Me­ schino di P. Francisci 1951 Mercante di schiave 1897 Il mercenario di S. Corbucci 1968 Mery per sempre di M. Risi 1988 La messa èfinita di N. Moretti 1985 Messalina di E. Guazzoni 1923 Messalina, Venere imperiale di V. Cottafavi 1960 Il Messia di R. Rossellini 1975 Metello di M. Bolognini 1970 Mia moglie, un corpo per l’amore di M. Imperoli 1972 La mia signora di T. Brass 1964 La mia vita (memorie di un cane) di A. Frusta 1908 Il microfono è vostro di G. Bennati 1951 Mignon di M. Gargiulo 1919 Mignon è partita di F. Archibugi 1988 Milano rovente di U. Lenzi 1973 Milano violenta di M. Caiano 1975 Milarepa di L. Cavani 1974 Miliardi, chefollia di G. Brignone 1942

688 Mille Km. al minuto di M. Mattoli 1939 Mille lire al mese di M. Neufeld 1939 1860 di A. Blasetti 1933 Mi manda Picone di N. Loy 1983 Mimi metallurgico fiorito nell’onore di L. Wertmuller 1972 Il minestrone di S. Citti 1981 Minnesota Clay di S. Corbucci 1965 Mio Dio, come sono caduta in basso! di L. Comencini 1974 A/rófiglio Nerone di Steno 1956 A/mfiglio profiessore di R. Castellani 1946 Il mio nome è Nessuno diT. Valerii 1973 Mi permette, Babbo? di M. Bonnard 1956 Miracolo a Milano di V. De Sica 1951 Miranda di T. Brass 1985 Miseria e nobiltà di M. Mattoli 1954 Le miserie di monsù Travet di M. Soldati 1946 I misteri di Roma di C. Zavattini 1963 Il mistero di Oberivald di M. Antonioni 1980 Mitico Gianluca di G. Lazotti 1987 La moglie bella di A. Genina 1924 La moglie del prete di D. Risi 1970 Moglie di Claudio di G. Zambuto 1918 Le mogli e le arance di L. D’Ambra 1916 La moglie più bella di D. Damiani 1970

Filmografia

Molti sogni per le strade di M. Camerini 1948 Il momento della verità di F. Rosi 1965 Il momento più bello di L. Emmer 1957 Mondane al bagno 1897 Mondo baldoria di A. Molinari 1914 Mondo di notte (Doc.) di L. Vanzi 1960 Il mondo nuovo di E. Scola 1982 Montevergine di C. Campogalliani 1939 Il moralista di G. Bianchi 1959 Mordi e fiuggi di D. Risi 1970 Morocco di J. Von Stcmberg 1930 La mortadella di M. Monicelli 1971 La morte al lavoro di G. Amelio 1978 Morte a Venezia di L. Visconti 1971 La morte civile di E. Bencivenga 1919 Mosca addio di M. Bolognini 1987 I mostri di D. Risi 1963 Il mostro di Frankenstein di E. Testa 1920 Il mulatto di F. De Robcrtis 1949 Il mulino del Po di A. Lattuada 1949 La muraglia cinese di C. Lizzani 1959 Musketeers ofiPig Alley di D.W. Griffith 1911 Mussolini Speaks di R. Lowell 1933 Mussolini, ultimo atto di C. Lizzani 1974

Filmografia

Napoletani a Milano di E. De Filippo 1951 Napoli, eterna canzone di S. Siano 1949 Napoli milionaria di E. De Filippo 1950 Napoli, serenata calibro 9 di A. Brescia 1978 Napoli si ribella di M.M. Tarantini 1977 Napoli spara di M. Calano 1977 Napoli violenta di U. Lenzi 1976 La nascila di Venere 1897 Nata di marzo di A. Pietrangeli 1957 Natale al campo 119 di P. Francisci 1949 Il natale di Pierino di A. Frusta 1910 Navajo Joe di S. Corbucci 1966 La Nave di G. D’Annunzio e G. Jacoby 1921 La nave di M. Ricci 1986 £