Autori del reale. Studi su Kiarostami, Loach, Moretti, Olmi
 9788845608926, 8845608921

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IN COPERTINA: Illustrazione di Anton Sˇpacapan Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali Università degli Studi di Udine

Cinema Questo volume a cura di Campanotto Editore è stato impresso a Pasian di Prato nel laboratorio d’arte Grafiche Piratello nel mese di giugno 2007 © 2007 Copyright Campanotto Editore Via Marano, 46 33037 Pasian di Prato (UD) Italia Tel. 0432/699390 Fax 0432/644728 c/c postale 16083339 e-mail: [email protected] sito internet: http://www.campanottoeditore.it È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della legge n. 633 del 22.04.1941. All rights reserved. No part of this book may be reproduced in any form or by any electronic or mechanical means including information storage and retrieval systems without permission in writing from the publisher, except by a reviewer who may quote brief passages in a review.

ISBN 978-88-456-0892-6

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a cura di Roy Menarini

AUTORI DEL REALE Studi su Kiarostami, Loach, Moretti, Olmi

Campanotto Editore 5

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SOMMARIO

INTRODUZIONE

Pag.

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PER UN CINEMA DEL REALE I film di Ken Loach tra forma e sostanza



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IL SAPORE DEL CINEMA Abbas Kiarostami e Ermanno Olmi nel segno di Rossellini



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VERTIGINI DELL’IO Il cinema di Nanni Moretti tra fenomenico e astratto. Riflessioni su Caro diario e Aprile



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INTRODUZIONE

Qualche nota esplicativa sul testo che avete tra le mani. Il titolo indica che si tratta di una silloge di saggi dedicati ad autori attivi nel cinema contemporaneo, anche se di generazioni diverse tra di loro. In tutti i casi citati, infatti, viene messa in discussione la vexata quaestio del realismo. Il termine, assai dibattuto in passato e tuttavia ancora lontano dall’essere compreso nella sua estensione, viene per solito utilizzato con disinvoltura dalla critica. Non è questo il caso di una polemica terminologica, e nemmeno vi è spazio per una disquisizione metafisica sul reale. Preme anzi invitare il lettore ad addentrarsi nei tre lunghi saggi che seguono per vedere in quanti modi si può applicare la nozione. I registi scelti per queste analisi appartengono a una “famiglia” di cineasti che non si accontenta di guardare al reale da un punto di vista esclusivamente tematico. A loro interessa il rapporto che si instaura tra il cinema – ancora considerato come un mezzo di riproduzione del reale – e il mondo esperito. In maniera differente ma omologa, Loach, Kiarostami, Olmi e Moretti hanno passato la vita artistica a definire meglio questo percorso, non di rado influenzandosi a vicenda e dialogando fittamente con altri autori venuti prima di loro, Rossellini in primis. Insieme a pochi altri registi di oggi (Lars von Trier, i fratelli Dardenne, Gianni Amelio, per citare i più noti), mostrano di credere alla necessità filosofica del cinema per poter comprendere l’umano. Che abbiano ragione o meno, non è questione che interessa il presente libro. Unica preoccupazione delle righe che 9

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seguono è quella dell’analisi e delle possibili interpretazioni che l’opera dei quattro autori suggerisce. Il presente volume trae origine da precedenti lavori, che ho considerato pronti per essere prima riscritti e poi raggruppati sotto l’egida della critica del realismo. I saggi su Kiarostami/Olmi e su Loach provengono dai cataloghi del Premio Internazionale Sergio Amidei alla migliore sceneggiatura 2004 e 2005. In particolare: “Per un cinema del reale. I film di Ken Loach tra forma e sostanza”, in Premio Amidei 2004. Catalogo, Gorizia, 2004 (cui si aggiungono materiali dalla rivista Cinergie, n. 13, 2007); “Il sapore del cinema. Abbas Kiarostami e Ermanno Olmi nel segno di Rossellini”, in Premio Amidei 2005. Catalogo, Gorizia, 2005. Il saggio su Moretti, invece, ha una genesi più complessa. Alcune sue sezioni facevano infatti parte del mio testo Studiare il film. Alcune analisi del cinema di Nanni Moretti, Edizioni del Battello Ebbro, Bologna, 2001, pubblicato in edizione limitata e ora esaurito. Altre sezioni del volume si trovano adesso nel mio Nanni Moretti. Bianca, Lindau, Torino, 2007. In tutti i casi – e non si tratta di una formula retorica – i saggi sono stati rivisti, ripensati e largamente rielaborati, anche a causa dell’aggiornamento bibliografico che richiedevano, oltre che per le nuove opere che ciascuno dei registi ha nel frattempo realizzato, di cui era necessario dare conto. Per questo motivo, ringrazio i committenti originari dei saggi: Giuseppe Longo, direttore del Premio Amidei e amico generoso; Giacomo Martini, direttore della collana di Porretta e affettuoso compagno di strada. Un ringraziamento anche ad Alice Autelitano, per i suggerimenti redazionali e l’aiuto nella lavorazione del volume. Ancora grazie, infine, a tutti i colleghi del Dams di Gorizia, con cui lavoro proficuamente da anni. 10

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PER UN CINEMA DEL REALE I film di Ken Loach tra forma e sostanza

Se esiste un cineasta inquieto nel panorama cinematografico internazionale, questo è certamente Ken Loach. È curioso, invece, come i suoi film siano spesso accolti da una stima che nasconde l’apatia, da una ricezione favorevole che dissimula l’abitudine, da un atteggiamento di scarsa curiosità che proviene sovente proprio da coloro che maggiormente sembrano sentirsi compresi e rappresentati nelle opere del regista inglese. Il rischio di identificare Loach esclusivamente con le storie che racconta e con le posizioni politiche e sociali dei suoi film è un fatto naturale. È un rischio che corrono molti cineasti. Eppure, nessuno pensa a tutti i registi che – pur dedicando film alla povertà, all’emarginazione e ai temi più importanti della nostra società – si sono persi, sono stati via via ignorati, hanno abbandonato il campo o, più semplicemente, sono stati dimenticati. Perché questo non è accaduto a Ken Loach? In fondo, parliamo di una carriera lunga ormai più di quarant’anni (Catherine è datato infatti 1964), e non si può certo dire che siano numerosi gli artisti che hanno saputo mantenere una tensione talmente forte sul proprio lavoro da attraversare un così lungo lasso di tempo (quattro decenni sono poco meno della metà dell’intera storia del cinema, tanto per intenderci). Tuttavia, va detto senza pudore, una parte della critica pensa: a) che Loach tutto sommato sia un cineasta di cui si conoscono idee e stile, per cui i suoi film – per quanto apprezzabili – non possono costituire sorpresa, e b) che Loach possieda grandi contenuti ma uno stile invisibile, medio e tutto al servizio del rac11

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conto. Nulla di più sbagliato. Se Loach ha saputo tenere alta la qualità del suo cinema è proprio in virtù di una spasmodica attenzione alla messa in scena, di un ragionamento inflessibile sui modi del racconto e dello stile, di una conoscenza puntuale della macchina-cinema e delle sue potenzialità. Non è vero che Loach sappia girare solo questo tipo di cinema. Anzi, i suoi film sono il frutto di una scelta estetica ponderata e riflessiva: è possibile affermare che ogni film di Loach è la negazione di tutte la altre possibilità con cui quella storia avrebbe potuto essere raccontata. E che ciascuna sua opera rappresenta al tempo stesso un partito preso del cinema che esclude tutti gli altri, secondo il celebre slogan di François Truffaut. Inoltre, chi enfatizza la casualità e la ripetitività del metodo Loach non conosce a fondo la sua filmografia. Il regista britannico è a ben vedere uno sperimentatore. Nella sua carriera ha cambiato numerose volte modi narrativi, varianti stilistiche, contesti produttivi, mezzi tecnologici, formati, durate, persino “generi”, come più avanti cercheremo di dimostrare. In pratica, voglio da subito impostare il saggio che segue come uno studio su Ken Loach in quanto cineasta “puro”, che individua nell’incontro problematico tra cinema e rappresentazione della realtà il luogo stesso della sua poetica. Da questa premessa derivano dunque le riflessioni che seguono.

Per una periodizzazione del cinema di Loach Gli studiosi più seri del cinema di Loach hanno impostato una possibile periodizzazione della sua opera. Alcuni di essi – giustamente – hanno incluso anche i lavori televisivi, che rivestono un’importanza non inferiore all’attività cinematografica nella carriera del regista inglese. Il più acuto dei suoi critici italiani, Luciano De Giusti, distingue ad esempio le fasi cinematografiche (1967-1971, 1979-1981, 1990-oggi) e le fasi televisive (1964-1969, 1971-1975, 1980-1984), andando alla ricerca di simmetrie e opposizioni interne ritmate dal diverso approccio 12

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esperito nei diversi mezzi espressivi. Jacob Leigh, al contrario, non segue l’ordine cronologico, e cerca di distinguere le fasi tematiche dell’opera di Loach a seconda degli elementi di spicco interni ai singoli film. Di qui la scelta di raggruppare, per esempio, i film della “Experience of History” (The Big Flame, 1969, The Rank and the File, 1971, Days of Hope, 1975) in un ambito separato da quelli indicati come “The Core of What’s Happening” (Piovono pietre, 1993, Ladybird Ladybird, 1994, Terrà e libertà, 1995). Al contrario, Graham Fuller – nel ricco libro-intervista che ha dedicato a Loach –, suddivide i film di Loach in “Primi sguardi”, “Plays of Hope”, “Conflitto”, “Assedio” e “Rinascita”, seguendo l’ordine cronologico ma separando nettamente le diverse fasi. Si tratta di tentativi di sistematizzazione intelligenti e spesso complessi, che dimostrano quanto sia folta la produzione del cineasta e quanto difficile da ordinare. Non voglio tuttavia rinunciare al cimento, per cui proverò a offrire la mia periodizzazione: 1) 1964-1966: periodo della ricerca di un linguaggio; 2) 19671971: periodo dei “film della famiglia”; 3) 1973-1980: periodo della “riflessione sociale”; 4) 1981-1990: periodo della “eruzione della politica”; 5) 1991-1994: periodo dei “generi sociali”; 6) 1995-1999: periodo delle “conferenze internazionali”; 7) 20002004: periodo della “resistenza alla fine del lavoro”. Vediamo le varie fasi una per una. 1) Si tratta, con tutta evidenza, degli esordi di Loach. Come le biografie raccontano, sappiamo che Ken Loach compie il suo apprendistato alla BBC, prima come collaboratore poi come regista di episodi della serie Z Cars. Il dato importante è che si tratta di televisione in diretta, secondo una prassi tipica del piccolo schermo degli anni Cinquanta e Sessanta, introdotto dalla new wave americana (Lumet, Frankenheimer, Penn). Questo è solo il primo dato in grado di dimostrare l’importanza che per Loach riveste il momento della messa in scena. Il primo vero lavoro come regista che firma la propria opera è Catherine, capostipite di una lunga serie di ritratti femminili. A detta dello 13

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stesso autore, poi, gli episodi della serie Diary of a Young Man a lui affidati nel 1964 assumono un certo valore considerando la libertà di sperimentazione che gli era permessa. Il lavoro sul linguaggio cinematografico non può che dirigersi in senso emulativo verso le novità provenienti dalla Nouvelle Vague e dal Free Cinema, influenza su cui tornerò poiché è stata sottovalutata dalla maggior parte dei commentatori. In questi anni, Loach dirige alcuni plays teatrali adattandoli alla televisione con aggressività e spigliatezza – e ricevendo anche un premio della British Tv Guild –, e giunge con Up the Junction (1965) – cronaca minuziosa e sociologica della vita di tre operaie – a modificare fin dal profondo le convenzioni del linguaggio televisivo, grazie a una macchina da presa mobile e osservatrice e a un montaggio ancora una volta godardiano. Cathy Come Home, del 1966, rappresenta la vetta della prima parte della carriera del regista. La ricerca di un linguaggio sembra a buon punto. Il film racconta la vita di una coppia di disperati, cui lo stato prima toglie la casa e poi anche i figli, anticipando di anni la vicenda narrata in Ladybird Ladybird. La storia è interrotta spesso da statistiche e cifre sociali elencate da una voce over. L’osservazione, pur ottenuta attraverso formule antinaturalistiche e momenti di straniamento narrativo, giunge al cuore dei personaggi e impone in Gran Bretagna il nome di Kenneth Loach (solo più tardi si firmerà con l’abbreviativo Ken). 2) Il 1967 segna l’esordio cinematografico di Loach. Come abbiamo visto, sarebbe sbagliato pensare che tra il mezzo televisivo e il grande schermo, per il regista inglese, vi sia una differenza quantitativa, o che il primo venga subordinato al secondo. Al contrario, la carriera televisiva di Loach non si ferma qui e anzi prosegue, pur diradando negli ultimi anni i lavori per il piccolo schermo, fino a oggi. Poor Cow (1967) dunque, è il suo primo film per il cinema. Si tratta di una pellicola a colori, scelta che – secondo lo stesso regista – impedirebbe al film di sprigionare la forza e la rabbia necessarie. Molta critica tende a convenire con Loach rispetto allo scarso esito del film. Al contrario, la figura di Joy – indecisa, volubile, maltrattata protago14

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nista che passa da un galeotto a un altro – esibisce una originalità fuori discussione, e tradisce alcuni degli elementi ritornanti dei personaggi femminili successivi (l’impotenza di fronte all’aggressività maschile, la pervicacia nel mettere al mondo figli come unica forma di speranza, il sacrifico). Proprio la fragilità di questa donna senza grandi virtù – e certamente non quella della fedeltà – la rende umana e credibile. Tanto quanto la Kate di In Two Minds (1967), importante lavoro televisivo dello stesso anno che porta sullo schermo un testo di David Mercer, poi trasposto al cinema anni dopo dallo stesso Loach – in una sorta di autoremake – con Family Life (1971). Qui l’ispirazione proviene dalle teorie anti-psichiatriche di Ronald Laing, tuttavia il “fuoco” del discorso è sempre mantenuto sulle storture dell’ambiente famigliare e sui soprusi che un intero sistema sociale giunge a far penetrare fin nei recessi della vita domestica. La “malinconia” di Kate, travolta da elettrochoc e cure forsennate, non è altro che la resistenza passiva di una persona di fronte a un mondo dominato da leggi assurde. Questi sono, in fondo, i “film di famiglia” di Loach, che in questa fase sembra soprattutto interessato a mettere l’indice sulle devastazioni prodotte dalla piccola borghesia, parodia di un capitalismo intemerato. Anche Kes (1969) è la storia di una famiglia, sebbene questa volta il protagonista prescelto sia un ragazzino con la passione degli uccelli (in particolare di un gheppio). La violenza del fratello maggiore, abbinata all’indifferenza di genitori e insegnanti, fa il resto. Tra gli altri film televisivi di questi anni – dedicati quasi tutti a problemi sociali e lavorativi – spicca, non a caso, oltre a The Rank and the File, After a Lifetime (1971) che mette in relazione le lotte sindacali dei padri con quelle intraprese dai figli. E, infine, il nuovo lungometraggio per il cinema, Family Life, che riprende la storia di Mercer e la divulga a un più ampio spettro di pubblico, questa volta internazionale, che ne decreta un successo lusinghiero. 3) Loach sembra essersi spinto troppo in là. I progetti cinematografici languono, i produttori esitano, il clima nella vecchia Gran Bretagna sembra farsi molto cupo. Ancora lavori televisi15

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vi, tra cui Days of Hope sceneggiato lungo e complesso su un celebre sciopero di minatori degli anni Venti (che Luciano De Giusti chiama correttamente “uno Heimat inglese”, a chiarire il respiro narrativo di cui – se vuole – è capace il regista), o The Price of Coal (1977); e persino un film in costume, questa volta per il cinema, Black Jack (1979), storia più lieve tratta dal romanzo di Leon Garfield. Ad accompagnarlo in questi anni, il fido produttore Tony Garnett. È il periodo della riflessione sociale, di una specie di “ritirata strategica” in attesa di mettere a punto nuove forme di discorso, di osservazione apparentemente distante dove si cela un continuo lavorio, un incessante studio delle possibilità di racconto della società. 4) Looks and Smiles (1981) – a tutt’oggi uno dei capolavori di Ken Loach – impone una concretezza che covava sotto la cenere. È la storia di due giovani amici, che bighellonano in una Sheffield deprimente e priva di qualsiasi prospettiva. Uno dei due è sempre alle prese con liti e insoddisfazioni, l’altro – non meno sbandato – decide di seguire l’invito dell’esercito ad arruolarsi e viene mandato nella pericolosa Irlanda del Nord a sedare l’insurrezione armata. Questa volta, Loach gira in un bianco e nero color pece, perfettamente modulato da Chris Menges, direttore della fotografia molto importante per la messa a punto delle idee visive del cineasta. L’infelicità di Mick, il protagonista, è almeno mitigata dalla presenza di Karen, sua giovane compagna. Entrambi, però, scontano una situazione famigliare sconfortante – infatti Karen fugge dalla madre e dal patrigno per raggiungere il padre, che intanto si è rifatto una vita e una famiglia. Oltre alle figure di donne adulte e sole, a Loach interessano i protagonisti adolescenti, strozzati da un futuro impossibile (come in Kes, e come nello straziante Sweet Sixteen, 2002). Lo scacco è squisitamente politico. Ed è proprio la politica, senza più mediazioni famigliari o allegoriche, ora a erompere. Loach gira alcuni documentari militanti (The Red and the Blue e Questions of Leadership, 1983, Which Side Are You On?, 1984), dedicati ai partiti e ai lavoratori. È il periodo che ospita due importanti film di Loach, o almeno due tra i più 16

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coraggiosi mai girati, il poco conosciuto Fatherland (1986) e L’agenda nascosta (1990). Se nel primo caso, Loach fa i conti con il comunismo dell’Est Europeo – senza falsi pregiudizi e anzi con una quota di dolore personale esposta in nome della sincerità –, nel secondo si va ad affrontare a muso duro la scottante situazione nord irlandese. Se si pensa che nemmeno i laburisti – almeno prima dell’arrivo dell’uomo forte Tony Blair, che ha cercato di risolvere la lunga guerra costringendo al tavolo delle trattative le due parti – hanno mai potuto esporsi più di tanto sui sanguinosi fatti irlandesi, si può capire come un film che mette in scena un complotto e che accusa direttamente i capi politici e militari dell’occupazione britannica, abbia creato lo stesso baccano di La battaglia di Algeri (1966), se non di più. Questa volta Loach imposta un “crescendo” vicino al genere thriller, o meglio al thriller politico, non immemore – crediamo – delle opere di Francesco Rosi. The Arthur Legend (19901991), documentario dedicato agli attacchi politici e mediatici nei confronti del leader “rosso” dei minatori Scargill, conclude un decennio “furioso”, che pone Loach al centro dell’attenzione, delle polemiche (viene accusato, come spesso accade a chi vuole ragionare senza fanatismi, di essere “fiancheggiatore dei terroristi”, in questo caso l’IRA), e del cinema d’autore. Sui termini teorici della questione torneremo tra poco. 5) Il 1991 è l’anno della consacrazione mondiale. Il film RiffRaff, grazie alla sapiente produzione di Channel Four, lancia l’opera del cineasta. Per molti spettatori, persino per qualche giornalista disinformato, si tratta dell’esordio di un nuovo grande regista inglese. Il che la dice lunga sull’invisibilità della precedente produzione, non solo televisiva, di Loach e del cinema britannico in generale. Inoltre, il film apre una vera e propria British Renaissance, che in verità c’entra poco con Loach se non per il fatto che da quel momento in poi il connubio tra commedia e pamphlet sociale diventa una moda (si pensi agli enormi successi di film “annacquati” come Full Monty – Squattrinati organizzati, 1997, o Grazie, signora Thatcher, 1997). Riff-Raff sembra lavorare al meglio sui codici che erano 17

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tipici della commedia all’italiana bagnati però in un approccio linguistico fatto di modernità e realismo “camera a mano”. Il racconto di un gruppo di manovali che lavorano in nero senza alcuna garanzia sindacale né sanitaria, e la cronaca delle loro peripezie per arrangiarsi a sbarcare il lunario restano nell’immaginario collettivo. L’apologo, pur non essendo il più efficace tra quelli del regista, si impone per forza espressiva e cura dei personaggi. Volti, dialoghi, elementi colti dal vivo, come fossero morsi di realtà staccati a colpi di macchina da presa, conquistano quasi senza grancassa mediatica il pubblico dei cinema d’essai. E fanno di Riff-Raff una specie di “long seller”, ma anche una matrice dalla quale Loach faticherà poi a divincolarsi. Per questo motivo, il seguente Piovono pietre viene da alcuni erroneamente percepito come un Riff-Raff parte II, solo per il fatto che al centro dell’attenzione c’è di nuovo la classe proletaria e si riaffacciano quartieri, case, persone simili. Si tratta di un effetto-rimbalzo dovuto al fatto che pochi ancora comprendono come per Loach quell’universo sia lo scenario della propria opera-mondo, del proprio infinito romanzo sociale, del proprio affresco alla Zola e alla Balzac. Di nuovo, vi è il pregiudizio inconsapevole che inchioda chi fa film “sociali” al contenuto degli stessi, per cui si finisce col considerare ridondante ogni messaggio che appaia simile a quello precedente. In verità, Piovono pietre appare più amaro del film di due anni prima. Esso possiede qualche similitudine con Prima comunione (1950) di Alessandro Blasetti – prova ulteriore di una qualche conoscenza del cinema realista italiano da parte di Loach –, anche se vira verso una tragedia sociale di vaste dimensioni. La funzione ironica, in questo caso, non serve a distanziare criticamente i personaggi, bensì ad avvicinarli attraverso forme di empatia. D’altra parte, è la prima volta che Loach mette in scena così esplicitamente la tensione verso l’illegalità prodotta da disoccupazione e mancanza di prospettive. Bob, il padre che cerca in tutti i modi di trovare i soldi per acquistare la veste da prima comunione per la figlia, è una figura ingenua e sfortunata, che finisce col precipitare – di lavoro umile in lavoro umile – 18

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tra le braccia di uno strozzino. Uccisolo involontariamente dopo una dura colluttazione, Bob si confessa all’amico prete, che gli consiglia di non dire nulla alla polizia. Il comportamento del religioso, che ha scatenato non poche indignate proteste in una parte della stampa, mostra la sicurezza con cui Loach ormai tratta i propri argomenti. Fare il cineasta di parte non significa, dunque, ricorrere a tattiche ed espedienti per dimostrare una tesi, ma far scorrere di fronte alla macchina da presa vita e scelte, anche le più criticabili, dei propri personaggi. Essi sono umani, come umano è il prete rappresentato, solo questo conta per il regista. Dalla “dimostrazione del mondo” sorge la tesi, non prima. Dalla consapevolezza che Loach non “forza” alcuna situazione emerge l’esigenza politica (la redistribuzione sociale, la solidarietà commerciale e così via). Dopo una commedia e una sorta di thriller a orologeria, si passa a un melodramma proletario, a parere di chi scrive l’opera più importante e strategica della carriera di Loach. Ladybird Ladybird racconta una storia ispirata a un fatto di cronaca, l’odissea umana e giudiziaria di una donna cui vengono strappati i quattro figli (da quattro padri diversi) per opera dei servizi sociali, quindi anche i due avuti dal nuovo compagno. È necessario comprendere che l’esplosione internazionale di Loach coincide con un movimento di “generi sociali” che identifica la fase della carriera di cui stiamo parlando. Evidentemente non si tratta, per il cineasta, di giocare con una tradizione codificata, bensì di accogliere, senza paura, anche elementi configurativi di narrazione che non ostano al principio realista e che aumentano il grado retorico (nel senso etimologico del termine) necessario alla disposizione dei materiali del racconto. 6) Si apre con Terra e libertà la fase più discussa del cinema di Loach. Per la prima volta, infatti – se si escludono le pellicole in costume – il regista si allontana dal mondo inglese e scozzese per indagare gangli ancora irrisolti della storia dell’idea socialista, ieri e oggi. Ispirandosi piuttosto platealmente al modello di Orwell (Omaggio alla Catalogna, come ammette il fido sceneggiatore Jim Allen), qui egli racconta la storia di David, giovane 19

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idealista della Liverpool del 1936, che parte per la Spagna allo scopo di dar manforte ai gruppi di opposizione antifascista. La vicenda di David, entrato nel POUM (gruppo di guerriglieri di ispirazione marxista e dalle venature anarchiche) diventa un vero e proprio romanzo di formazione politica, che sfocia però in tragedia. Non è infatti la violenza dei fascisti a distruggere l’esperienza rivoluzionaria, bensì i drammatici dissidi tra la Brigata Internazionale, egemonizzata da Stalin, e il resto degli insorti. Per Loach, Terra e libertà non è dunque solo il nostalgico ritorno a un momento, brutale e terribile, nel quale nascevano le grandi idee collettive e, diciamolo pure, comuniste, ma uno dei momenti-chiave della storia della sinistra, destinata per sempre a dividersi. È chiaro che di fronte a un film dallo sforzo economico senza precedenti, almeno nella carriera di Loach, il regista si trova forzatamente ad adeguare anche il proprio stile ai momenti epici. La trasformazione non è indolore, e si comprende bene come il cineasta si trovi più a suo agio nei momenti “polifonici” che gli sono cari, dove le voci si sovrappongono, il reale si intorbidisce, i personaggi si moltiplicano, come nel caso della celebre scena della discussione sulla collettivizzazione delle terre. Quelle che abbiamo chiamato “Conferenze Internazionali”, proseguono con l’ottimo La canzone di Carla, 1996, scritto da un avvocato, Paul Laverty, che aveva speso due anni della sua vita in Nicaragua, nel periodo della controrivoluzione somozista ai danni dei sandinisti. Il film, per la prima volta in Loach, è definitivamente spaccato in due. Una prima parte racconta, a Glasgow, dell’amore di un conducente d’autobus per la bellissima Carla, nicaraguese d’origine. La seconda, invece, trasporta il protagonista proprio nel paese centroamericano, dove la violenza e la barbarie dei somozisti appoggiati dalla CIA travolgono il sogno di amore e pace sociale del protagonista. Si tratta di una specie di incontro tra i due mondi che Loach ha narrato fino a quel momento, o tra il suo cinema precedente e quello di Terra e libertà. Ancora una volta, parte della critica storce il naso, specie di fronte ad alcune sequenze di battaglia e guerriglia, che tradirebbero le qualità non eccelse del 20

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regista al di fuori dei propri confini estetici. Non si sottolinea abbastanza, al contrario, il coraggio e la messa a prova continua del proprio cinema da parte di Loach, che ormai non sembra temere più alcuna sfida. In questa fase andrebbe anche inserito – anche se fuori “periodo” – il meno riuscito Bread and Roses (2000), dedicato alla disoccupazione in America. 7) E a sua volta, My Name Is Joe (1998) anticipa l’ultima parte della carriera di Loach, che abbiamo chiamato “resistenza alla fine del lavoro”. Joe, come tutti i protagonisti successivi, affronta il mondo del capitalismo che ha trionfato, della fine del comunismo, del modello sociale americano che ha permeato di sé anche i paesi a guida socialdemocratica. Il pessimismo di Loach nasce proprio nel periodo della famosa “terza via” (sostenuta dall’SPD tedesco, da Prodi, da Clinton, da Blair) e dalla disillusione prodotta dalle sterzate a destra del capo dei laburisti. Non è ancora tempo di destre al governo (Aznar, Bush, Sharon, Berlusconi), che naturalmente a un uomo di sinistra come Loach fanno semplicemente orrore. Non si tratta, secondo lui, di una vera e propria contrapposizione sui modelli sociali, bensì di un’interpretazione più o meno aggressiva del capitalismo. Quel che rimane è una progressiva distruzione del mondo del lavoro. Ciò che prima era ai limiti dell’illegalità, ora diventa progetto economico. Se My Name is Joe è un film su un uomo sfortunato in ogni momento della sua vita, privata e professionale, Paul, Mick e gli altri (2001) cita esplicitamente il lavoro interinale, anzi è un grande romanzo, il primo dell’era postmoderna, sul senso del lavoro a termine. In molti hanno notato come Paul, Mick e gli altri offra una sensazione di rinnovata energia, di atteggiamento crudo e aspro, di ritorno alla polemica degli esordi. È così. Il nuovo Loach torna a chiedere carburante espressivo alla prima parte della sua opera, persino agli esordi televisivi. La morte di Jim Allen nel 1999 e la rinnovata stima in Paul Laverty (che firma anche il successivo Sweet Sixteen) fanno sì che per il regista voltare pagina diventi un’attività periodica. Proprio Sweet Sixteen torna a raccontare l’adolescenza. Ogni volta che un’epoca si apre, o che una stagione di ingiu21

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stizie sociali si inasprisce, infatti, Loach torna a parlare dei minorenni, e dei danni che i padri e le madri fanno ai proprio figli. Il film diventa poi una sorta di Quattrocento colpi calata nell’oscuro budello della vita di una città scozzese. La malavita e la mancanza di futuro si attraggono, come sempre, in uno dei ritratti più sentiti e impietosi di un maestro del cinema giunto al pieno controllo dei propri mezzi espressivi, un cineasta che continua a scegliere la pluralità alla perfezione e la forza realista allo spettacolo d’autore (che pure ormai si potrebbe permettere). E così, nel film collettivo 11 settembre 2001 (2002) dedica il proprio episodio al ricordo di un altro, spaventoso e persino più sanguinoso 11 settembre, quello del 1974 in cui morirono migliaia di cileni durante il colpo di stato ai danni di Allende.

Il realismo di Loach: questione di stile È certamente vero che il cinema del regista britannico può essere definito “realista” senza pericolo di incorrere in errore. A una funzione di rappresentazione della realtà sociale lo chiama il cineasta, a una testimonianza sociale lo collega lo spettatore, ed è intorno a queste forme di referenzialità che discutono giornali, televisioni e cronache quando hanno a che fare con i film di Loach. Tutto bene, quindi. Salvo che è necessario, da parte di una critica che non si accontenti dell’ovvio, riflettere su quello che comporta questo concetto di realismo. Anzitutto, va ricordato che – di tutti i realismi possibili – quello di Loach è il più garantito, nel senso che egli si occupa di personaggi “situati” storicamente e socialmente, il cui contesto funge da garanzia veridica. Inoltre, egli parla quasi sempre di un mondo che mostra di conoscere, instaura cioè un patto fiduciario con lo spettatore in virtù del fatto che egli – uomo di sinistra, regista militante, persona fiera e colta – quelle cose “le vive”. D’altra parte, si tratta di un realismo assai diverso da quello ipotizzato in alcuni momenti della storia del cinema. Pensiamo per esempio alla teoria della fotogenia, che pretende che sia il 22

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dispositivo a “svelare” le potenzialità estetiche del reale, o a Bazin che giudica il cinema ontologicamente realista a causa della natura del mezzo o ancora al Dogma, che fa del pauperismo tecnico un viatico fondamentale per raggiungere il cuore stesso della realtà. In Loach, al contrario, non esiste un partito preso programmatico atto a facilitare l’incontro col reale. Egli, per fare un esempio, non è certo un fanatico del piano-sequenza, figura linguistica che invece – da Bazin in poi – è diventata il passaporto “ontologico” di molto cinema d’autore (da Godard a Hou Hsiao-hsien, da Straub a Reygadas e mille altri ancora). Ciò non esclude però che operi scelte coerenti con ciò che intende raccontare. E qui si trova il piano più nascosto dell’estetica loachana: la messa in scena. Si tratta di un approccio indefinibile, che unisce apparente casualità a forme strutturali predeterminate, che ammette l’idea dell’attesa e della rivelazione (il cineasta zen che chiede al fenomenico di restituire ciò che di più proprio), che ha una natura antropocentrica e narrativamente forte. Riff-Raff è esemplare in questo senso, poiché innesta un’architettura di commedia in un contesto ultra-realista e quasi cronachistico. Questo effetto – che peraltro infastidisce i detrattori di Loach – è ottenuto grazie a un uso della macchina da presa che potremmo definire di “improvvisazione controllata”. Non sono più gli attori – come in Cassavetes, per esempio – a costituire l’elemento irriducibile dell’operazione filmica, bensì la regia stessa. Loach non ammette di scegliere a priori dove posizionare la macchina da presa, se non in rari casi. D’altro canto, però, non è un giansenista della messa in scena, per citare un famoso aforisma, e nulla gli interessa dell’inquadratura e del piano come forme linguistiche di un qualche peso. Il suo stile è così fatto di tagli secchi, di movimenti apparentemente casuali, di attenta registrazione di quel che accade – nei dialoghi, per esempio, la macchina tende a seguire il parlante “dopo” che questi ha preso la parola, come se fosse cioè un ascoltatore che volge lo sguardo per ascoltare. Loach non desidera evitare l’uso del campo/controcampo o delle convenzioni classiche, semplicemente ne libera le potenzialità obbedendo prima di tutto al 23

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contesto. Conta di più la “presenza” del reale che non il consenso teorico a qualche forma di dogma. A volte, questo metodo alimenta qualche sospetto di incuria o di rozza staticità della regia. Non si tratta di questo. Lo stile di Loach è unico proprio perché egli è uno dei pochi cineasti che fa dell’assenza di stile il proprio punto di forza. Un po’ cinémaverité, un po’ documentario, un po’ dramma tradizionale, un po’ cinema a tecnica leggera, la “mano” di Loach è riconoscibile tra mille, più della macchina da presa affannata e traballante dei Dardenne, più dei piani infiniti di Pedro Costa, più delle geometrie euclidee di Almodòvar, più dello sporco digitale di von Trier, e così via. I suoi ambienti “pesano” più degli altri, i volti che mette in scena “dicono” meglio di tutti, la rappresentazione sociale scandisce la propria autenticità in maniera inequivocabile. Come scrive Michele Marangi: “Al di là dell’understatement tipicamente inglese, la scelta di Loach appare non solo dettata da questioni economiche, quanto dal rigore narrativo: dopo pochissime inquadrature ha già contestualizzato un ambiente – fisico e sociale – e individuato un protagonista, che sempre appare in costante dialettica tra le caratteristiche sociali e quelle personali”. A sua volta, in un acuto saggio sul realismo di Loach, Norman Gobetti mette in luce come esso produca di fatto un atteggiamento morale, per via di ciò che potremmo definire la “affermazione e la difesa dell’esperienza personale di fronte all’ideologia e al feticcio professionale; una affermazione estetica: la fiducia nella spendibilità filmica di questa esperienza (si potrebbe dire nella porosità della pellicola cinematografica rispetto alla vita); e una scelta di campo politico: lavorare il più possibile all’interno della classe operaia”. Certo, esistono altri elementi in grado di enfatizzare l’impressione di realismo. Per esempio, la scelta degli attori, non di rado individuati tra i lavoratori della classe sociale che rappresenta il soggetto del film, o tra coloro che hanno vissuto in prima persona drammi simili a quelli dei personaggi (Crissy Rock e Vladimir Vega, esule cileno, impiegato poi anche – struggentemente – per 11 settembre 2001). Ciò, naturalmente, non signifi24

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ca contraddire quanto scrivevamo all’inizio, rispetto alla turbolenza artistica – incompresa – di Loach. Si pensi a un film come Poor Cow, dove, pur essendo presenti temi e figure del cinema loachano, si fanno strada scelte destinate a non ripetersi, come i cartelli godardiani, le finte interviste, gli sguardi in macchina, le libertà strutturali, l’aria un po’ Swingin’ London. Pensiamo alla differenza tra quel ritratto femminile e Ladybird Ladybird. In quest’ultimo caso, l’accensione realista ha un motore tutto diverso. Si tratta, in fondo, di un women film ambientato nel sottoproletariato inglese. L’oscillazione tra il caso particolare di accanimento giudiziario e la denuncia generale degli abusi sociali è perenne, e permette al film di trarne beneficio, rendendolo palpitante. La natura ambigua di Ladybird Ladybird è dovuta anche all’inedita forma melodrammatica che la narrazione sembra assumere. Loach, pur di non sottrarre un’oncia alla crudeltà della situazione, mostra la protagonista quando ha già subito la perdita dei primi figli, e ne racconta il ritorno alla vita, l’incontro con un uomo buono e onesto, la ricerca di una sia pur provvisoria felicità. Per una volta, la famiglia – almeno quella nuova – può funzionare da argine alla violenza di una vita segnata dal disordine, ma a distruggere tutto interviene l’autorità giudiziaria, pronta a prendere con sé i neonati della donna. La gravidanza come atto di ribellione alle proprie sfortune diventa un’atroce coazione a ripetere, ogni figlio – nella sua unicità – diventa eguale agli altri per difetto: infatti, Maggie li perde tutti, impotente, uno per uno. È il film in cui Loach – in questo rispettando la scelta interpretativa di Crissy Rock – lascia più spazio alla rappresentazione del dolore, e il cui meccanismo di strangolamento narrativo punta alla commozione incredula dello spettatore. Non deve essere un caso se proprio questo film è stato il più discusso e variamente interpretato dalla critica. De Giusti è tra i pochi a nominare, non senza ragione, la tragedia. Scrive, infatti: “È l’ombra cupa di questo aspetto barbarico che, oscurando l’immensa tenerezza della storia d’amore, ha dettato al film la sua forma, quella della tragedia. Una tragedia moderna. Ladybird 25

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Ladybird costituisce una variazione in chiave contemporanea della strenua lotta ingaggiata dall’individuo contro una forza soverchiante. Come la tragedia antica, possiede un nucleo mitico: Maggie patisce la violenza primordiale della madre che vede reciso, da un potere arbitrario, il legame di sangue con i figli”. Leigh, che invece suggerisce eloquentemente di considerare il film “a melodrama of protest”, insiste sul fatto che – d’accordo con le caratteristiche melodrammatiche individuate da studiosi come Christine Gledhill o Steve Neale – anche Ladybird Ladybird sottenda elementi di “sproporzione narrativa” e strategie dell’eccesso. Ovvero, come in tutti i melodrammi, Loach disporrebbe a piacimento dello spettatore per portarlo alla completa adesione rispetto al punto di vista di Maggie, attraverso l’uso di flash-back arbitrari e scene-madri di dolore e passione. A sua volta, Francis Rousellet si concentra su questo film in quanto sintetizza vari momenti della carriera di Loach, così come Maggie – tanto simile alla Cathy di Cathy Come Home – riassume un po’ tutte le donne dipinte dal regista: deboli, sfruttate, oppresse, brutalizzate, fragili, spesso “sbagliate” ma profondamente compassionevoli e umane, a differenza degli uomini. Looks and Smiles, invece, considerato come film di apertura di una fase cinematografica nuova e per certi aspetti più consapevole, aveva destato l’attenzione dei Cahiers du Cinéma. L’estensore dell’articolo – il futuro cineasta Olivier Assayas –, pur ammettendo di non amare particolarmente l’opera di Loach, non può fare a meno di notare che il regista riesce a “trascendere il dogmatismo del suo progetto grazie a una eccezionale capacità di dare vita a personaggi e ad esprimere un sentimento di tenerezza nei loro confronti”. È proprio la tendresse di cui parla Assayas che si prova di fronte a certe donne e certi uomini dei suoi film. Il passaggio di questo sentimento dal cineasta allo spettatore rappresenta la cerniera di congiunzione tra le varie forme stilistiche adottate nelle diverse fasi della carriera, quel nocciolo umanista che il cinema di Loach non ha mai disperso. Quella tendresse non manca nemmeno alle opere internazio26

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nali di Loach, a cominciare da Terra e libertà, che ha fatto tanto discutere storiografi e intellettuali (basti pensare al duro e leale scambio di opinioni – rispettivamente negativa e positiva – sul film da parte di Manuel Vázquez Montalbán e Rossana Rossanda, ora in apertura del libro omonimo edito da Gamberetti Editore). È la garanzia di una posizione antropocentrica, come si è detto, che trascende i singoli momenti storici nei quali i personaggi si trovano a esistere. Forse, Terra e libertà dà più di un problema poiché proprio la nozione di realismo, dalla quale siamo partiti, scricchiola. In che senso? Per l’argomento stesso. Si può offrire una “promessa (esaudita) di realismo” se si parla di Liverpool, Manchester, Glasgow o Sheffield e di quei quartieri operai che sembrano comunicare da soli il proprio disagio. Si rischia di più, ovviamente, se si decide di ricostruire – intendo dire anche materialmente, su un set che non è più quello reale degli slums operai – un evento storico di tale portata. Segno, si diceva, dell’insofferenza di Loach alla monotonia, della tendenza alla sperimentazione che lo contraddistingue.

Influenze e originalità del cinema di Loach Ci si è spesso chiesti da dove “provenga” il cinema di Loach. Le definizioni che ne sono state date sono numerose, e mutevoli a seconda del momento. Docu-drama, realismo sociale, kitchen sink drama, Free Cinema, dramma proletario, neorealismo all’inglese, commedia drammatica, cinema di denuncia, filone civile, sono solo alcune delle etichette – più o meno di comodo – con le quali i recensori hanno cercato di spiegare ai propri lettori che tipo di film sarebbero andati a vedere. Appena conosciuto il cinema di Loach, in verità, non c’è più bisogno di farsi queste domande. Gli spettatori lo seguono in virtù di un rapporto ormai consolidato ed estremamente confidenziale. Tuttavia, anche in questo caso, non bisogna sottrarsi all’analisi. I primi lavori di Loach non possono che tenere conto del clima culturale e cinematografico che si respira in quel momen27

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to in Europa. I primi anni Sessanta – per chiunque faccia cinema fuori da Hollywood – sono segnati dal clamore che ha destato la Nouvelle Vague. Il linguaggio cinematografico – grazie ai francesi ma anche a tutte la altre “onde” che seguono – subisce una costante innovazione, sia in senso espressivo che strutturale. L’aggressione che Godard in particolare compie verso il racconto cinematografico tradizionale e verso codici e convenzioni che lo sorreggono, è imitato da mezzo mondo. Non è una sorpresa, quindi, constatare come il giovane Loach sia propenso a utilizzare alcuni strumenti antinaturalistici (tipici di quegli anni) anche nei lavori televisivi. A distinguere radicalmente i due autori c’è però l’impegno politico. L’anarcoide e selvaggio Godard si politicizza lentamente, fino alla svolta del ’68 e alla rinuncia della “firma” per il collettivo Dziga Vertov. Per Loach, invece, è da subito naturale immettere alcune delle svolte linguistiche suggerite dal “nuovo cinema” in un contesto di granitico realismo. Anche in questo caso, lo studio del contesto britannico aiuta a comprendere. Il cinema inglese, come noto, non ha una vera e propria Nouvelle Vague per come la intendono a Parigi, ma da qualche anno – già dagli anni Cinquanta – si muove il cosiddetto Free Cinema, movimento fondato da Karel Reisz e Lindsay Anderson che intende posizionarsi a fianco della new wave teatrale degli Angry Young Men. Si tratta, come si è spesso detto, di un contenitore più che di una scuola poetica, che avvicina registi tra di loro differenti per sensibilità e formazione, in grado tuttavia di lavorare ai fianchi la tradizione cinematografica britannica. L’evoluzione formale è minima, la scelta dei soggetti invece rivoluzionaria (si pensi a opere come Io sono un campione, 1963, di Anderson, Sabato sera domenica mattina, 1960, di Reisz, I giovani arrabbiati, 1959, Gioventù, amore e rabbia, 1962, di Richardson, solo per citare le pellicole dei primi anni Sessanta). Lo spirito anti-istituzionale e la scelta di raccontare vite alternative anima i film di finzione di molti registi del periodo, sebbene il documentario sembri il terreno d’elezione del movimento. Debolezze strutturali a parte, il Free Cinema influenza chiaramente Loach, che pensa di rapirne grin28

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ta e concretezza senza rinunciare alle preziose suggestioni che giungono dal cinema francese. Come terzo punto di riferimento, sembra chiaro che Loach guardi al neorealismo, che del resto era riconosciuto come modello sia dalla Nouvelle Vague – un po’ più “disimpegnata” – sia dai “nuovi cinema” del centro e sud America, di ispirazione politica, sociale e rivoluzionaria. Del Free Cinema Loach mantiene la tendenza a conservare l’integrità della narrazione, alla Nouvelle Vague chiede invece il propellente necessario per disfarsi delle obsolescenti strutture narrativo-formali del cinema precedente (in Inghilterra: le commedie degli Ealing Studios e gli autori alla David Lean). L’elemento operaista emerge in sintonia con registi come Tony Richardson e Richard Lester (che pure compie un percorso un po’ diverso), per i quali porre l’attenzione sull’adolescenza o sul mondo dei proletari equivale a mostrarsi arrabbiati nei confronti di una società – quella britannica – incapace di rinnovarsi. Proprio il lento declino della grandiosità coloniale del Regno Unito è indicato da molti storici come il motivo essenziale della nascita di movimenti di protesta, da quelli teatrali a quelli cinematografici, per arrivare alla nascita del punk con i Sex Pistols. I fermenti di disgregazione imperiale offrono a cineasti come Ken Loach la possibilità di indirizzare in un discorso squisitamente politico anni di frustrazione, ingiustizia sociale e ignoranza dei più elementari diritti del lavoro. I crimini perpetrati in nome di un nazionalismo in via di rapido declino non sono più perdonati. Quel che più sorprende nel rapporto con le nouvelles vagues è la capacità di travasare l’elemeno anarchicamente sperimentale (e gioioso e libero) di Godard & Co. in un contesto lavorativo così concreto e preciso. Si può dunque ipotizzare che l’arte di Loach provenga dall’inedita fusione di questi elementi, ovvero dalla messa in opera delle istanze di rinnovamento provenienti da diverse cinematografie europee. Tra esse, quella francese – più spigliata e apolitica – e quella inglese – meno disinvolta ma più attenta al sociale –, fungono da poli magnetici in grado di 29

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venire disposti e manipolati (nel senso più creativo del termine) dal regista britannico. Inoltre, non va dimenticata una qualche analogia con il cinema ceco, che in quegli anni sta producendo una propria nouvelle vague, chiamata Nova Vlna, con centro catalizzatore a Praga. Qui opera Milo$ Forman, un regista che Loach ha indicato più volte come suo spontaneo compagno di strada, almeno fino al viaggio hollywoodiano dell’autore praghese. Effettivamente, film come L’asso di picche (1963) sembrano essere assai vicini allo spirito di Loach, per come sanno affiancare un affettuoso umorismo verso i proprio personaggi e una sintonia completa nei confronti dell’universo dei lavoratori. A riprova di questa intima relazione con le poetiche più rivoluzionarie degli anni Sessanta, vi è un’opera come Sweet Sixteen, che sorprendentemente omaggia I quattrocento colpi di Truffaut, scoprendo la citazione solo nel finale – con il protagonista interdetto sulla spiaggia a scrutare un futuro che non c’è. Sia chiaro: nulla, durante questa storia di sopraffazione e deriva criminale, rimanda all’opera di Truffaut, eppure la sequenza conclusiva non lascia adito a dubbi. In fondo, quel che cerca il cinema di Loach non è proprio un rapporto di intimità quasi autobiografica con i personaggi, un’idea di condivisione e appartenenza, una promessa di verità nei confronti dello spettatore? In nome di questo metodo, personale e svincolato da ogni legge o convenzione, si fonda la vicinanza tra universi cinematografici così diversi. Tutto il resto è costituito da scelte: ad esempio scegliere di cantare il romanzo dei proletari invece delle disavventure adolescenziali di un giovane a Parigi. O farsi “incantare” dagli errori del proprio protagonista, fino a seguirlo nei passi più disastrosi. Sweet Sixteen, a quasi quarant’anni dall’inizio della carriera del cineasta, diventa forse il film che più di ogni altro evidenzia la matrice nouvelle del suo cinema, e che chiarisce simbolicamente il rapporto con i maestri francesi (Truffaut/Godard lavati al secco del dramma proletario e della depressione sociale). Inoltre, non si può dimenticare come Loach faccia riferimento a un’intera cultura di sinistra, in grado cioè di rimettere in 30

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discussione abitudini e certezze di ogni disciplina umana e sociale. Con l’idea che qualsiasi aspetto della vita venga modellato dall’interpretazione che le istituzioni ne danno, nasce un’opposizione aspra e polemica ai metodi di controllo sociale e cura dei cittadini. Ad esempio, il movimento antipsichiatrico che fa riferimento alle teorie di Laing è certamente l’influenza più importante su opere come In Two Minds e soprattutto Family Life; quest’ultimo rappresenta, tra l’altro, una delle vette del cinema loachano, per la capacità di rappresentare senza arrestarsi di fronte a nulla la capacità delle leggi statali di ferire a fondo una persona. Per Loach – e per l’autore del testo, David Mercer – la protagonista non ha altra colpa che quella di essere stata poco amata da una famiglia indifferente e ignorante, e di avere una tendenza alla malinconia e alla depressione. La violenza con cui parenti e società si abbattono su di lei genera inevitabilmente nuovo disagio sino a costituirne – in forma di paradossale cura – la principale causa. Il meccanismo implacabile con cui tutti infieriscono su Janice non è dissimile da quello di Ladybird Ladybird. Proprio in questi ritratti di donne incomplete e vessate sembra esaltarsi la narrazione più “potente” del regista, quella in cui l’apparente casualità di messa in scena, la trasparenza di un linguaggio spezzato ma antropico trovano perfetta sintesi. Il ventre oscuro della società dà in questi casi il peggio di sé, poiché – alla base del sistematico esercizio di ingiustizia – non vi è alcuna reale volontà di colpire quella determinata persona ma una più generale, indegna abitudine a rifiutare di rispettarne le relazioni umane, affettive, emozionali, che vengono così travolte per ignoranza. Last but not least, il cinema italiano. È piuttosto evidente come il “gesto” neorealista funzioni anche per Loach come una vera e propria tradizione sorgiva dalla quale ottenere la verità poetica tanto agognata. Come si diceva, tuttavia, non sembra interessargli tanto la lezione del Rossellini moderno, quella che poi trattengono proprio i Cahiers du Cinéma e la successiva Nouvelle Vague, che introduce un elemento di sospensione e riattualizzazione del linguaggio per adeguarlo al complesso e 31

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cangiante rapporto con la realtà. A ben pensarci, si potrebbe persino immaginare un Ken Loach immodesto al punto tale da cercare una propria, personale rifondazione del cinema realista attraverso la lezione italiana e la fusione degli elementi nouvelle vague, riportati nell’alveo principale da cui erano partiti, il neorealismo rossellinaino. A parte tutto, di neorealista in Loach c’è davvero tanto: l’utilizzo di set naturali, e di case, palazzi, cortili, strade, pub, vicoli, negozi, uffici scelti dentro il tessuto urbano delle città in cui il film viene ambientato; l’abitudine di individuare attori che provengono – in alcuni casi – dalla stessa classe proletaria di cui si narra, il più delle volte senza esperienze dirette nell’ambito del cinema o del teatro; di scoprire interpreti poco noti (che poi ricevono grande impulso dall’incontro con Loach, basti pensare ai casi di Robert Carlyle o Peter Mullan); la capacità di girare con troupe ridotte, mezzi limitati, macchine da presa mobili e leggere, enfatizzando l’aspetto documentario che proviene da un’utilizzazione così concreta delle cose e dei luoghi. D’altra parte, al cinema italiano, Loach sembra guardare in senso più ampio. Ciò che stupisce, infatti, è quella sensazione da “commedia all’italiana” all’opera che traspare dai film apparentemente più lievi del regista, quelli in cui c’è spazio anche per una comicità amara e consapevole (in particolare, Riff-Raff, Piovono pietre, Paul Mick e gli altri). In questo senso, viene il sospetto che si tratti di qualcosa di più che non una semplice coincidenza. Questa capacità di cogliere sul vivo il farsi della società, di criticare ironicamente la modernizzazione (pretesa) della comunità contemporanea, l’attenzione all’intreccio tra lavoro e vita privata, la sensibilità nel modellare personaggi la cui caratterizzazione è al limite – mai sorpassato – del grottesco rimandano proprio all’esperienza italiana – sia pure deprivata dell’aspetto carnevalesco e volgare che proviene squisitamente dalla nostra tradizione artistica. Concludiamo con una breve nota sul film più recente di Ken Loach. Il vento che accarezza l’erba (2006) si afferma come 32

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passo decisivo in avanti per il Loach “in costume” e opera di straordinaria forza emotiva, che ha meritato la puntuale Palma d’Oro al Festival di Cannes 2006. Inutile ricordare il tema del film: gli anni della ribellione irlandese all’occupazione britannica, tra 1919 e 1920, poco prima degli accordi che portarono a una limitata sovranità delle contee del Sud e alla riconferma del dominio inglese su quelle del Nord. Per la prima volta, citando a memoria, la guerra di liberazione è narrata dal punto di vista delle campagne. Non è dunque il fascino “metropolitano” della lotta irlandese, che tante volte ha stregato il grande schermo, a costituire il centro della pellicola, quanto piuttosto l’ambiente rurale, non estraneo alla penetrazione dell’ideologia marxista. Ciò che unisce questo film di Loach a Terra e libertà è proprio l’intrecciarsi di fatti bellici e disegni politici. Il regista inglese crede, infatti, che nessuna rivoluzione a un dominante che pratica il fascismo possa esistere se non intrecciata a una visione socialista del mondo. E in questo senso attribuisce ai personaggi che – dopo la prima fase della rivolta – vogliono proseguire la battaglia d’indipendenza, un credo tipicamente marxiano, mentre individua nei trattativisti i “riformatori” che certamente non ama. Il cineasta, tuttavia, conferma una volta di più la sua vocazione alla pluralità, riuscendo (grazie a strategie di messa in scena non ancora sufficientemente indagate) nel difficile compito di condurre lo spettatore in una rete aperta di opinioni, conflitti verbali, scontri urgentissimi di tattica politica e comportamentale. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che in questa visione della lotta irlandese si faccia strada un certo manicheismo, ma non c’è bisogno di militare nell’estremismo ideologico per affermare che quella britannica era una dominazione disgustosa e violenta, e che gli atti di sopraffazione, stupro e uccisione indiscriminata rappresentati nel film non sono per nulla enfatici rispetto a quanto ci hanno tramandato le fonti storiche. Caso mai, per Loach non è stato semplice – e forse non del tutto vincente – il faticoso cimento di mostrare la specificità della lotta irlandese, ovvero l’inedito impasto di nazionalismo, cattolicesi33

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mo e marxismo che ne ha contraddistinto gli albori. D’altra parte invece, egli sembra aver compreso con grande intelligenza la dimensione dell’ingenuità presente nel popolo irlandese, ovvero quella mistura di coraggio, sconsideratezza e utopismo che ne hanno segnato i momenti più drammatici. Il punto di vista dei protagonisti, perciò, è forzatamente semplificato, perché così è stato – in larga parte – il passaggio dalla sopportazione alla ribellione per molti irlandesi: improvviso e poco meditato. In questo senso Loach dona un aspetto di sorgiva spontaneità alla sollevazione popolare e può fondere la ricostruzione di un’identità psicologica nazionale con il suo proverbiale cinema didattico. Ora, è chiaro che se qualcuno non sopporta l’esistenza stessa di un cinema pedagogico, o di un cinema che pretende di incidere sulla società, considerando questa aspirazione niente più che un arnese da vecchi comunisti, ha legittimamente il diritto di rifiutare il film. Purché lo faccia in partenza, visto che – date le premesse – Il vento che accarezza l’erba non poteva essere realizzato in altro modo, o meglio di così. Loach inoltre – a differenza di quel che pensano molti detrattori – affianca a questa pratica un ulteriore strumento militante: la morale della messa in scena. È così che le scene di violenza, parecchie e sorprendenti per chi conosce la filmografia del regista, vengono dirette con grande attenzione a come si rappresenta il dolore. Esplosioni di crudeltà improvvise, torture al limite del fuori campo, o persino fuori campo assoluti, come per la morte del ragazzino informatore, che segna simbolicamente il passaggio dalla guerra allo straniero alla guerra fratricida. Loach stesso, poi, ha accreditato nelle proprie dichiarazioni una lettura metaforica del film come forma di “allusione” alla resistenza contro i militari britannici nell’Iraq degli anni Duemila. In questo caso, il dissenso di chi scrive è netto, almeno per il fatto che non è accettabile paragonare la rivolta irlandese (che senza dubbio, prima dell’IRA, ha mantenuto un certo codice di comportamento rivoluzionario) al caos iracheno, dove si uccidono indiscriminatamente donne, bambini, innocenti in 34

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nome dell’appartenenza religiosa. Forse Loach parla di una sola componente della lotta irachena, ovvero quella “nazionalista”, non infiltrata dall’estremismo sunnita o sciita. Ma, abbandonando le tesi di Loach, se Il vento che accarezza l’erba ha un obiettivo polemico, questo è Tony Blair. Sembra infatti assai più interessante vedere come un ministro laburista sia stato capace di rispolverare il mai rimpianto imperialismo britannico con la spedizione in Medio Oriente, piuttosto che speculare sulla vicinanza simbolica tra ribelli di allora e di oggi. Sono dunque i compatrioti inglesi quelli cui è consegnata la tesi più incendiaria del film: ogni occupazione novecentesca e ora del XXI secolo da parte inglese è una ripresa subdola di un colonialismo mai del tutto spazzato via dal DNA e dall’agenda politica del paese. Questo sì, è materia di scandalo per il paese guidato da Blair e motivo di orgoglio, coraggio e dirittura morale da parte di Ken Loach.

“Io penso che sia possibile filmare qualcosa che sia pienamente reale” (Ken Loach).

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Testi citati Aa.Vv., Ken Loach, “Garage”, Scriptorium, Torino 1995. Jim Allen, Ken Loach, Terra e libertà, Gamberetti, Roma 1995. Olivier Assayas, “Le Gentil prolétaire”, Cahiers du Cinéma, ottobre 1981. Luciano De Giusti, Ken Loach, Il Castoro, Milano 1996. Sveva Fedeli, a cura di, Ken Loach, Quaderni della Mediateca, Firenze 1992. Graham Fuller, Loach secondo Loach, Ubulibri, Milano 1990. Jacob Leigh, The Cinema of Ken Loach, Wallflower, London 2002. Francis Rousselet, Ken Loach, un rebelle, Cerf-Corlet, Paris 2002.

Ulteriore bibliografia su Ken Loach Dino Audino, Stefania Ughi, a cura di, Ken Loach, Dino Audino Editore, Roma 1995. Massimo Chirivi, a cura di, Ken Loach, Quaderni del Circuito Cinema (n. 48), Venezia 1993. Raymond Durgnat, A Mirror for England: British Movies from Austerity to Affluence, Faber & Faber, London 1970. George McKnight, a cura di, Agent of Challenge and Defiance: The Films of Ken Loach, Flicks Books, Trowbridge 1997. Julian Petley, Ken Loach – La mirada radical, 37 Semana de Cine, Valladolid 1992.

Film di Ken Loach citati Catherine (1964) Diary of a Young Man (1964) Up the Junction (1965) Cathy Come Home (1966) In Two Minds (1967) Poor Cow (1967) 36

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The Big Flame (1969) Kes (1969) After a Lifetime (1971) Family Life (1971) The Rank and the File (1971) Days of Hope (1975) The Price of Coal (1977) Black Jack (1979) Looks and Smiles (1981) Questions of Leadership (1983) The Red and the Blue: Impressions of Two Political Conferences – Autumn 1982 (1983) Which Side Are You On? (1984) Fatherland (1986) L’agenda nascosta (The Hidden Agenda, 1990) The Arthur Legend (1990-1991) Riff-Raff (1991) Piovono pietre (Raining Stones, 1993) Ladybird Ladybird (1994) Terra e libertà (Land and Freedom, 1995) La canzone di Carla (Carla’s Song, 1996) My Name is Joe (1998) Bread and Roses (2000) Paul, Mick e gli altri (The Navigators, 2001) Sweet Sixteen (2002) 11 settembre 2001 (11’09’’01 – September 11, Youssef Chanine, Amos Gitai, Alejandro Gonzáles Iñárritu, Shohei Imamura, Claude Lelouch, Ken Loach, Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Sean Penn, Danis Tanovic, 2002) Il vento che accarezza l’erba (The Wind That Shakes the Barley, 2006)

Altri film citati Prima comunione (Alessandro Blasetti, 1950)

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I giovani arrabbiati (Look Back in Anger, Tony Richardson, 1959) I quattrocento colpi (Les Quatre cents coups, François Truffaut, 1959) Sabato sera domenica mattina (Saturday Night and Sunday Morning, Karel Reisz, 1960) Gioventù, amore e rabbia (The Loneliness of the Long Distance Runner, Tony Richardson, 1962) L’asso di picche (%erny´ Petr, Milo$ Forman, 1963) Io sono un campione (This Sporting Life, Lindsay Anderson, 1963) La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, 1966) Full Monty – Squattrinati organizzati (The Full Monty, Peter Cattaneo, 1997) Grazie, signora Thatcher (Brassed Off, Mark Herman, 1997)

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IL SAPORE DEL CINEMA Abbas Kiarostami e Ermanno Olmi nel segno di Rossellini

Quando si ebbe la notizia del fatto che Abbas Kiarostami, Ken Loach ed Ermanno Olmi avrebbero girato un film insieme, a episodi, molti rimasero colpiti, credendo che l’unico legame tra i tre cineasti fosse in fondo la propria appartenenza all’alveo del cinema d’autore internazionalmente riconosciuto. Tre personalità differenti, tre diversi modi di intendere la società, tre idee politiche poco conciliabili, persino tre sguardi sulla religione assai stridenti (se si pensa al cattolico Olmi e al marxista ateo Ken Loach). Le perplessità, tuttavia, appartenevano a coloro che non conoscono a fondo il cinema dei tre registi, un po’ per la ridotta distribuzione italiana dei film di uno di loro (Kiarostami), un po’ per la scarsa dimestichezza con il primo cinema di Olmi, un po’ per la comune credenza che l’opera di Loach cominci da Riff-Raff (1991), mentre essa è ormai ricca di oltre quarant’anni di storia. L’idea di un festival come il Premio Internazionale Sergio Amidei 2004 di premiare Ken Loach era dovuta proprio all’ascendenza neorealista e all’attenzione – inapparente – verso il processo di scrittura moderna che avvicina il cineasta britannico all’opera di Amidei, senza contare naturalmente la straordinaria importanza della carriera loachana al di là di qualsiasi valutazione interpretativa. Tickets, uscito nel 2005 e largamente sottovalutato dalla critica, esprime perciò una continuità che non può essere limitata soltanto al fatto produttivo o simpatetico, tant’è vero che nel 2005 il Premio all’Opera è stato attribuito proprio agli altri due compagni di strada del vincitore 2004. 39

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Evidentemente i tre, come dimostra questo film collettivo tutt’altro che casuale, condividono un “mestiere delle armi” cinematografico di cui, nelle prossime righe, proveremo a saggiare le caratteristiche.

Abbas Kiarostami: il cinema come ritorno al punto di partenza Tra i suoi innumerevoli meriti, Abbas Kiarostami ha anche quello di avere guidato una vera e propria “nouvelle vague” del cinema iraniano. Senza la sua stella polare non avremmo certamente avuto la possibilità di conoscere le opere di Mohsen e Samira Makhmalbaf, Jafar Panahi, Babak Payami, Bahman Ghobadi, Abolfazl Salili, Darius Mehrjui (esponente in verità più anziano del gruppo), e molti altri emersi nell’epoca postkhomeinista. Tutti quanti sembrano condividere le novità estetiche apportate da Kiarostami, oltre che una forma di collaborazione che sconfina nel “dono” creativo. I soggetti passano da uno all’altro, le famiglie vengono coinvolte nei progetti, il denaro per realizzare i film viene prestato e restituito, secondo un’etica di gruppo che fa della nuova onda iraniana l’unica scuola poetica degna di questo nome e del passato cui si riferisce (il neorealismo italiano, soprattutto) nel cinema contemporaneo. Certo, qualcuno ha voluto individuare negli ultimi anni una certa involuzione del cinema iraniano, ancorato a schemi fabulatori sempre riconoscibili, e tuttavia il crinale tra ripetizione e rimodulazione di un mondo narrativo senza precedenti è davvero sottile. Per quanto riguarda Abbas Kiarostami, invece, il problema della stagnazione artistica non è certo all’ordine del giorno. Se si pensa all’ultimo trittico di opere – Dieci (2002), Five (2004) e 10 on Ten (2004) – ci si accorge di come il cineasta iraniano abbia scelto una volta di più di ricollocare radicalmente il proprio cinema, anticipando ogni cedevolezza alle retoriche d’autore e spiazzando nuovamente gli spettatori. Si può certo affermare che Kiarostami non è mai dove si pensa di trovarlo. Le sue idee viag40

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giano più veloci, forse perché la sua poetica è quanto di più originale il cinema internazionale abbia di recente prodotto. Nel cinema contemporaneo, dove è in atto uno scontro tra il cinema hollywoodiano risorto e il cinema d’autore strettamente inteso, i film di Kiarostami rappresentano un punto di riferimento riconosciuto anche dai detrattori. Certamente, si tratta di un cinema che chiede molto allo spettatore, almeno in termini di concentrazione e pazienza nei confronti del rappresentato. Ma andiamo con ordine. Kiarostami è nato a Teheran nel 1940, e si è laureato in pittura nella sua stessa città. Appassionato di fotografia, sviluppa la passione per il “quadro” fisso che diverrà poi il suo marchio anche quando si avvicina al mezzo cinematografico. È grafico e autore di pubblicità, attraverso le quali guadagna il sapere tecnico necessario alla realizzazione dei film. Già dal 1969 ha l’idea di edificare un certo tipo di produzione nell’istituto Kanun, dove in seguito molti dei cineasti che abbiamo nominato trovano modo di sfruttare le proprie capacità. È dal 1970 che Kiarostami è attivo alla regia. Come per Ken Loach, anch’egli viene conosciuto all’estero relativamente tardi: il suo Dov’è la casa del mio amico? (1987) giunge ai festival dopo diciassette anni di corti e lungometraggi realizzati e visti praticamente solo in patria. Non stiamo parlando di poca cosa: sedici corti e tre lunghi (i quali sono, per completezza: Il viaggiatore, 1974; Il rapporto, 1977; Gli alunni della prima classe, 1984; i titoli vanno intesi come traduzioni dell’iraniano, e sono stati utilizzati per le rare proiezioni retrospettive italiane dedicate al regista). È però il Pardo di Bronzo, vinto nel 1989 al festival di Locarno, a permetterne la conoscenza nel mercato occidentale. Dov’è la casa del mio amico? è un film esemplare per comprendere il cinema di Kiarostami. Esso narra infatti la storia del piccolo Ahmad, che scopre di avere infilato per errore nella propria cartella il quaderno di un compagno di classe. Il bambino decide di riportarlo all’amico per evitargli una brutta punizione, ma non sa dove abiti. Comincia così un lungo viaggio in quartieri e luoghi sconosciuti alla ricerca della casa del suo compa41

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gno. Il film è costruito attraverso una “questua” infinita, caratteristica essenziale di questi film: un personaggio cerca qualcosa, un elemento casuale o un gruppo di persone gliela nega, e il protagonista intraprende un percorso – il più delle volte concreto, spaziale – allo scopo di aggirare il divieto. Le sequenze sono lunghissime, il che ha fatto parlare della “nouvelle vague” iraniana come di un “cinema della lentezza” (e sortito le ironie degli anti-cinefili); la figura più sfruttata è quella del pianosequenza, il dialogo e l’utilizzo di attori non professionisti, specie bambini, accrescono la riconoscibilità delle opere. Il successivo I compiti a casa (1989) sembra una nota a margine del precedente: si tratta di un documentario realizzato con le interviste ai bambini di una scuola iraniana. L’elemento educativo, lo sguardo dell’infanzia interessano a Kiarostami in quanto permettono un punto di vista inedito sul mondo. Il bambino, come nel neorealismo, è portatore di uno sguardo ottico e sonoro puro, come intuito felicemente dal filosofo Gilles Deleuze a proposito del cinema italiano del dopoguerra. Close Up (1990), premiato a Riminicinema nel 1990, radicalizza la riflessione di Kiarostami sul linguaggio cinematografico. La trama, in questo senso, chiarisce tutto: Sabzian, un poveraccio appassionato di cinema, decide di fingersi il regista Makhmalbaf. Con questo stratagemma, riesce quasi a farsi produrre un film da una famiglia abbiente. Una volta scoperto, l’uomo finisce in tribunale, dove si pente e viene perdonato. Insieme al vero Makhmalbaf, infine, si reca dalla famiglia ingannata per chiedere scusa. Non è tutto: il fatto narrato è accaduto veramente. Infatti assistiamo al processo ripreso dalla macchina da presa di Kiarostami. Solo in seguito, il regista ha chiesto a Sabzian, il vero protagonista della truffa, di interpretare se stesso nella ricostruzione fittizia dei fatti. In questo film c’è praticamente l’intera poetica kiarostamiana: l’apparente gioco di specchi e citazioni tra realtà e finzione (ovvero il dialogo intertestuale tra Kiarostami e Makhmalbaf, la continua allusione al cinema come mezzo e all’autore come centro di produzione creativa e come simbolo di posizione sociale) viene servito allo 42

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spettatore attraverso una spontaneità e una naturalezza innegabili. Sembra interessare al regista assai più l’avventura umana spogliata di qualsiasi secondo grado piuttosto che la gara cinefila e la grana metacinematografica. Eppure, la riflessione sull’arte è davvero vertiginosa. Close Up si interroga sul concetto di fare cinema, sulle conseguenze sociali che questo mestiere determina, sulle responsabilità del cineasta. Come scrive Eugenio Premuda: “L’equivoco che intrappola Sabzian è forse proprio questo: recita la parte di un regista, cercando in questa parte un ruolo più affine alla sua essenza, un ruolo da recitare nella recita quotidiana del consorzio umano; l’essenza di Sabzian sembra allora essere quella dell’attore e non più del regista”. Non è un caso che uno dei registi più influenzati da Kiarostami, Nanni Moretti (plateale la matrice kiarostamiana di Caro diario), abbia girato un cortometraggio intitolato Il giorno della prima di Close Up (1996), piccola cronaca della proiezione del film presso il cinema Sacher di Roma, ideata come omaggio e prosecuzione della mise en abîme del regista iraniano. Il viaggio dentro il cinema prosegue con E la vita continua (1992), dove si racconta l’Iran sconvolto dal terribile terremoto del 1990. Il paesaggio è annientato, la situazione è neo-neorealista (un nuovo azzeramento dello spazio percettivo, simile e forse peggiore di quello causato dai bombardamenti, costringe a reinventare lo sguardo sulle cose). Un regista, in compagnia del figlioletto, si reca in automobile nel villaggio di Potché, alla ricerca del protagonista del suo film Dov’è la casa del mio amico? Ancora una forma di autoreferenzialità che viene – al contrario di quanto si immagina – proiettata sull’esterno. L’alter ego di Kiarostami, il regista in cerca dei suoi attori forse scomparsi, è testimone vivente del disastro e, attraverso la sua probabile perdita, dice meglio di qualsiasi racconto di finzione lo smarrimento e il dolore dell’annullamento. Il viaggio attraverso macerie, cumuli di stracci, tendopoli e luoghi impervi è davvero accecante: la camera car diventa figura centrale di questo universo, che entra dal finestrino con 43

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casualità e innocenza. Intervallato solo da alcune inquadrature in campo totale dove la macchina del protagonista si inerpica sempre più lontano, il racconto ha un andamento rapsodico e rispettoso della durata, della fatica, della frantumazione determinata dalla tragedia. La messa in scena è qui completamente compromessa col dato documentario, la moralità del cinema viene messa alla prova nell’atto stesso del suo farsi. In uno dei finali più commoventi della recente storia del cinema, il ragazzo non viene effettivamente ritrovato, anche se forse appare in lontananza, un po’ controluce, con la macchina da presa lontanissima che abbraccia il quadro accompagnato dalla musica di Vivaldi, senza spiegare di più. Il finale aperto è per Kiarostami una costante. Egli spiega, infatti: “Il viaggio è un elemento costitutivo della nostra cultura ed è legato al misticismo. Per noi non è importante la meta che si vuole raggiungere, ma il percorso che si deve compiere”. In questa ottica va letto l’intero film E la vita continua, visto che, come bene spiega Pier Paolo Loffreda: “la ricerca è inesauribile, conosce soste, ripensamenti, nuovi tentativi, slanci, e il mancato raggiungimento dell’obiettivo preposto produce un disorientamento fecondo di possibilità”. Il successivo Sotto gli ulivi (1994) vince il Premio Rossellini (non a caso) al 47° Festival di Cannes e il premio per il miglior film al Bergamo Film Meeting. Stavolta si racconta di un villaggio del nord Iran, colpito duramente dal terremoto, dove giunge una troupe per realizzare un film intitolato E la vita continua. Un muratore è chiamato a recitare la parte di un ragazzo in procinto di sposare la donna amata. Caso vuole che l’attrice sia la donna che l’operaio veramente ama: l’uomo cerca così di far coincidere le riprese e la vita reale, corteggiando insistentemente la ragazza. Inutile commentare il grado di raffinatezza compositiva raggiunto qui da Kiarostami, che sembra tornare ossessivamente al suo cinema per dare continuamente un seguito al fuori set. Quel che sconvolge è – oltre alla già citata sensazione di autenticità emanata dalle opere – il riappropriarsi infinito del mezzo cinematografico attraverso la realtà. Come a dire, portando alle 44

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estreme conseguenze il gesto neorealista: il cinema è a tutti gli effetti la realtà, immerso in essa e da essa formato, tanto che il “film” è di per sé un paniere di possibili storie. Non c’è in verità un profilmico vero e proprio o un “al di qua” della finzione, poiché, grazie all’effetto-domino del film successivo, ogni dimensione segreta della finzione viene illuminata e resa evidente. Il mondo occidentale è finalmente sensibile al cinema di Kiarostami, come dimostra un lungo articolo che Peter Handke gli dedica in occasione dell’uscita di Sotto gli ulivi a Berlino. E Alberto Pezzotta scrive acutamente: “Sotto gli ulivi è uno studio sul fuori campo, la soggettiva e la voce off: spesso non si vede chi parla (neanche una mano o un altro indizio), ma se ne sente solo la voce. Lo spettatore, in questo modo, più che introiettato nell’occhio della cinepresa, è sbilanciato, estroflesso, buttato nella realtà di questa remota regione iraniana terremotata”. Il piano fisso e il fuori campo insistono nel cinema di Kiarostami come uniche “parole” possibili per il rispetto della realtà. Inoltre, nel film, i più esperti sono in grado di riconoscere con sollievo il bambino protagonista di Dov’è la casa del mio amico?, il che ci dice contemporaneamente (ma Kiarostami non lo esplicita in alcun modo, moltiplicando questo cinema dell’ambiguità e della chiarezza insieme): 1) il ragazzo è vivo e continua persino a fare l’attore 2) se Sotto gli ulivi ci parla del set di E la vita continua, allora ciò significa che quel bambino era presente nel film, e che quel ragazzino quasi invisibile in fondo all’ultima inquadratura era proprio lui. Vertigini, una volta di più; sensazione di non riuscire più a riprendere le fila di questo universo pirandelliano e intimamente rosselliniano (del Rossellini post-neorealista, però, quello di Stromboli terra di Dio, 1949, Francesco giullare di Dio, 1950, Viaggio in Italia, 1953, e soprattutto Siamo donne, 1953, dove tutti gli episodi sono interpretati da attrici nella parte di se stesse e uno in particolare, quello con Ingrid Bergman, diretto da Rossellini, assume i connotati di un esperimento linguistico tra l’home movie e il film di finzione). Il sapore della ciliegia (1997) è a tutt’oggi il più importante 45

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successo di Kiarostami, Palma d’Oro al Festival di Cannes dello stesso anno. È la storia del signor Badii, che se ne va in giro sulla sua macchina bianca in cerca di qualcuno che lo aiuti a suicidarsi. Meglio: a coprire di terra la tomba che si è scavato o a riportarlo a casa nell’eventualità di un ripensamento. L’uomo incontra molte persone, tra cui un seminarista afgano e un soldato curdo, che si rifiutano di aiutarlo. Un vecchietto, invece, pur avendogli elencato tutte le cose belle della vita (il sapore delle ciliegie, per esempio), alla fine decide di aiutarlo. Alla fine, Badii forse non si suiciderà. “Forse” è termine doveroso visto il dubbio sul finale del film. Kiarostami, infatti, ne ha girati due. In uno, quello distribuito in Europa, nel momento finale vediamo improvvisamente la troupe al lavoro, e il protagonista svelato nel ruolo di attore. L’arte si ritrae di fronte alla morte? Forse, ma c’è anche la possibilità che Kiarostami intenda che il cinema stesso si rechi volontariamente verso la fine in attesa di un aldilà garantito dalle nuove tecnologie. In fondo, questa sequenza è girata in video digitale, lo stesso cui Kiarostami consacra Dieci. Il resto del film riporta al centro della rappresentazione le riprese in camera car e l’ostinato fuori campo in cui rimane il protagonista mentre dialoga con l’interlocutore, un metodo che il regista utilizza in favore dello spettatore, chiamato così “sull’abisso” dell’inquadratura a interagire con i parlanti. Ne Il vento ci porterà via (1997), un gruppo di viaggiatori arriva in un piccolo paese per filmare la morte di un’anziana all’insaputa degli abitanti. Presto, però, l’ozio coglie i realizzatori e altri eventi distraggono il protagonista. Si tratta di una variazione, meno importante delle altre, sul cinema di Kiarostami, anche se una sequenza è da antologia: il viaggio reiterato di uno dei personaggi forestieri sulla collina per trovare “campo” al suo telefono cellulare, ironica constatazione dell’impossibilità del dialogo tra modernità e ruralità in Iran (“il film è una generalizzata indagine sul disorientamento”, secondo Marco Dalla Gassa). In effetti, è difficile soffermarsi sul valore simbolico che 46

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molte delle storie narrate hanno per l’Iran. Ci è difficile attingere alle metafore sociali che comunque questi film contengono, pur riconoscendo alcune figure piuttosto evidenti. Kiarostami, per solito, ama depositare i ragionamenti più esteriori nelle sceneggiature scritte per altri, tra cui ricordiamo almeno Il palloncino bianco (1995) dell’ex assistente Jafar Panahi, e Oro rosso (2004), vicenda tragicomica di un reduce di guerra obeso e stolto che attraversa tutta Teheran in motorino finendo nei guai, girato anch’esso da Panahi. Più tardi, nel marzo 2000, Abbas Kiarostami accetta la proposta del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD), che gli chiede di girare un documentario sulla sorte degli orfani dell’Uganda, che a causa della guerra civile prima, dell’Aids poi, ammontano ad oltre 1.600.000. Il regista iraniano accetta e soggiorna a lungo nel paese africano. Il risultato è ABC Africa (2001) che ottiene un grande successo a Cannes. ABC Africa evidenzia una grande tensione morale. Il regista iraniano qui incontra in qualche modo il documentario puro e agisce per paradosso, ovvero tanto i suoi film narrativi sconfinano nella “non fiction” quanto ABC Africa è scritto e attentamente preparato: basti vedere l’impressionante sequenza della stanza d’ospedale dove vengono assistiti i bambini infettati dall’Hiv. Sequenza apparentemente casuale – sembra quasi sia frutto di una repentina scoperta da parte della troupe – in realtà preparata da un Kiarostami che per l’occasione si è posto anche davanti alla macchina da presa. Quella ugandese è una terra allo stremo, non differente dall’Iran terremotato, un luogo dove la morte è di casa e dove anche coloro che si prodigano per aiutare la popolazione sono al contempo tra i maggiori responsabili della diffusione del morbo. Tutto è ottenuto grazie alla forza della visione: il dettaglio incongruo del cartellone pubblicitario di un condom, dove la parziale nudità dei modelli è coperta da un telo, rende in un istante, senza parole, l’ambivalenza della posizione della chiesa cattolica in Africa. E così, mantenendo tutte le apparenze di un lavoro su – per quanto degnissima – commissione, Kiarostami impartisce un’ulteriore lezione di etica del cinema. 47

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Come detto, Dieci riapre il fronte del suo cinema. Sul numero di settembre 2002 della rivista francese Cahiers du Cinéma, la recensione del film termina con questa frase: “Dieci è il nuovo nome che il cinema assume da oggi, per noi”. Eccessivo? Neanche un po’. Il nuovo film di Kiarostami, clamorosamente sottostimato dai nostri critici o tutt’al più salutato con stima di sufficienza, è al contrario il più ardito e geniale tentativo di fare cinema e parlare “di” cinema per un autore nel 2002. Il film racconta attraverso dieci sequenze carattere e vicende di alcuni personaggi, tra cui cinque donne e un bambino. Ad unificare gli episodi, una giovane e bellissima donna di Teheran, la “conduttrice” (in tutti i sensi) della trama, recentemente separata dal marito e alle prese con un figlio piccolo ma già intelligente e polemico. Il film è tutto ambientato dentro l’automobile della donna, e durante gli infiniti spostamenti da casa propria alla scuola del figlio, dalla scuola alla casa della nonna, dalla moschea ai negozi, dai negozi alla periferia, e così via. Ogni volta, la donna carica persone diverse, in qualche caso anche solo per dar loro un passaggio. Nasce così un mosaico di dialoghi, ripresi con una videocamera digitale, che ora inquadrano il parlante ora solamente il destinatario. La telecamera è posta sul cruscotto, un po’ come avviene nelle trasmissioni di sequenze “rubate” del tipo reality show. La novità tecnica diventa, però, per Kiarostami una nuova soluzione linguistica, che permette – oltre all’abbattimento dei costi e alla leggerezza della messa in scena – di proseguire quel rapporto problematico col realismo che da sempre ha costituito la chiave di accesso alle operazioni del regista iraniano. Infatti, Dieci non si esaurisce nell’idea della sua struttura, né nel consueto ritratto della società iraniana, che questa volta straripa dai finestrini come sfondo ingombrante. L’idea straordinaria del regista è stata quella di costruire un women film, una specie di melodramma femminile attraverso la tecnica del microrealismo con telecamera. Il percorso iniziatico e l’emancipazione della protagonista avvengono nel contesto di alcuni viaggi in auto, mentre la macchina drammaturgica, lungi dallo scomparire, assume nuove e inedite forme di racconto. Si finisce con l’affe48

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zionarsi a queste protagoniste, si finisce col commuoversi di fronte a queste donne divise tra il rispetto di una tradizione soffocante e i problemi comuni a tutte le persone di sesso femminile di questo mondo. Il confronto tra i due dialoghi con il figlio, quello iniziale, stretto solo sul viso del bambino, e quello finale, breve e sereno, spiega come in questi novanta minuti sia passata tutta la storia dei rapporti umani, affettivi e amorosi. Tra l’altro, la pellicola sembra mostrare che Kiarostami si trova a suo agio nei confronti delle narrazioni codificate. In fondo, per un cineasta poco attratto dalla scrittura convenzionale e ancora meno dalle sceneggiature ferree, il ricorso al film “episodico” (come poi in Tickets) appare cosa quanto meno curiosa. A ben vedere, tuttavia, la sfida tra durata e rappresentazione, tra scorrimento del reale e racconto, tra forme esibite del tempo narrativo e ciclicità della vita fonda il cuore stesso della sua opera. È dunque credibile che il regista iraniano lavori proprio “ai limiti” del cinema ufficiale, accettandone – più che i compromessi – alcune regole commerciali per insinuarvi la contraddizione latente. Più Dieci è strutturato, meno si confà al cinema d’essai internazionale. Più lo si vorrebbe comprensibile, meno il film si adagia sul ritratto femminile socialmente prevedibile che qualcuno gli chiede. Si è sentito persino dire – da spettatori occidentali! – che le donne di Dieci sono poco credibili, troppo emancipate. Quali dati questi commentatori possano avere per fare affermazioni del genere è un mistero. Anzi, Kiarostami – attraverso i suoi film, uno diverso dall’altro – è in grado probabilmente di gettare luce su una società che non conosciamo per nulla e che la stessa propaganda di questi ultimi tempi porta a confondere con i governi che di volta in volta ne reggono le sorti. Se Dov’è la casa del mio amico? aveva aperto un “ciclo” di film (il film, l’attore del film, il film sull’attore del film forse perito nel terremoto, il film sul film intorno all’attore del film, ecc.), Dieci a sua volta si pone come luogo di attivazione delle poetiche del cinema. Basti vedere, in questo senso, i film presentati a Cannes 2004: Five è costituito da cinque lunghissime 49

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inquadrature fisse di un quarto d’ora l’una ottenute con una macchina digitale; in più, non ci sono attori, e forse – suggerisce qualcuno – nemmeno bisogno di un occhio attivo dietro la macchina da presa. Barattoli, rane, cani, cose, persone, animali attraversano l’inquadratura in questo trionfo del cinema-inquanto-tale che, curiosamente, somiglia però alle poesie del cineasta (ad esempio, “Al primo assalto del vento autunnale/una schiera di foglie/si è rifugiata in camera mia”: è la natura ad attraversare il mondo e il cinema, non quest’ultimo a racchiuderle, secondo un esempio di assoluta modernità cinematografica); 10 on Ten, invece, consiste – come scrive Leonardo Gandini – in una “operazione paratestuale sul film precedente”, ovvero un documentario in dieci capitoletti su come è stato realizzato Dieci; stessa struttura, stessa durata, ma un film sull’altro film dalla fisionomia identica. Una sfida infinita, dunque, quella di Kiarostami con la forma del cinema e con se stesso. Non dimentichiamo, inoltre, che anche Rossellini faceva riferimento al frammento e al catalogo: il suo Francesco giullare di Dio imita la silloge dei Fioretti proprio per mettere a prova la tradizionale scansione narrativa del film. Si sa bene come il cinema di Rossellini, e specialmente quello inquieto del postneoralismo, abbia compiuto sul cinema un’operazione di rilievo internazionale, e che la sua partecipazione al cinema episodico sia tutt’altro che occasionale: Paisà (1946), ma anche i singoli episodi in film collettivi come Siamo donne, dove Ingrid Bergman interpreta se stessa riuscendo a rendere di proficua ambiguità il rapporto tra testo e contesto, o – se si preferisce – tra realtà e finzione scenica. Venendo ad aspetti più teorici, va detto che le riflessioni sul cinema del cineasta iraniano hanno ormai raggiunto un grado di elaborazione più che soddisfacente. Di Kiarostami, per esempio, si sono occupati anche filosofi del calibro di Jean-Luc Nancy, che nel volume Abbas Kiarostami – L’evidenza del film (vincitore del Premio Umberto Barbaro 2004, istituito da Filmcritica) costruisce un discorso eminentemente teoretico intorno al lavoro del regista. Nancy lavora su Kiarostami come Deleuze ha 50

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lavorato sul cinema nella sua complessità. Lo immagina, cioè, come un luogo di “movimento ideale”, che trascende i limiti testuali – che sembrano intrigare assai poco l’autore – per prendere invece il partito preso delle “idee” presenti nel pensiero kiarostamiano. Vale la pena citarne l’incipit: “Ecco un cinema che enuncia, con potenza e ritegno, con grazia e severità, una necessità di sguardo e di utilizzo dello sguardo. Non una nuova problematica della rappresentazione che verrebbe ad aggiungersi a quelle che hanno scandito, a giusto titolo, la storia del cinema, ma piuttosto un’assiomatica dello sguardo: l’evidenza e la certezza di uno sguardo cinematografico come riguardo per il mondo e per la sua verità”: questa idea di “riguardo” e “ritegno”, davvero suggestiva ed esatta, secondo Nancy attraversa l’intera opera di Kiarostami sovrintendendo di conseguenza alle scelte stilistiche e alle pratiche linguistiche del cineasta iraniano. Il libro, suddiviso in capitoletti (“Sguardo”, “Reale”, “Pregnanza”, ecc.), si sofferma a lungo sull’idea, un po’ bergsoniana, che in Kiarostami lo sguardo e il reale siano “mobilitati insieme”. In un paragrafo intitolato evocativamente “Cosa che rotola”, Nancy spiega: “Ma che cos’è il movimento che in tal modo è l’essere del cinema (non il suo oggetto, né ciò che esso rappresenterebbe o restituirebbe, come si crede allorquando si pensa il cinema tutto intero solo come un ‘disegno animato’)? Il movimento è ciò che ‘si fa soltanto se il tutto non è dato né può essere dato’ (Deleuze)”. Il dialogo filosofico tra Nancy, il citato Deleuze e le sovrastrutture di Bergson segnala, quanto meno, che nel cinema di Kiarostami è in gioco un’intera visione del mondo, e che ad essa consegue una messa a punto di procedimenti tecnico-stilistici consustanziali a questa stessa idea. Ecco perché il piano fisso, la camera car, il piano sequenza e il fuori campo (magari tutti riuniti nella stessa occasione) non sono cascami cinefili adottati da registi amati (Bresson, si è detto; Rossellini, naturalmente; Straub e Huillet, forse) bensì l’unica possibile messa in scena per questi film. Non è un caso che Kiarostami compaia in molti dei volumi 51

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divulgativi intorno al linguaggio del cinema. Si veda, per esempio, l’agile studio di Emmanuel Siety intorno all’inquadratura: egli analizza la seconda sequenza di Dov’è la casa del mio amico?, in cui alcuni ragazzini giocano e si azzuffano fuori dalla scuola fino a che decidono di lanciarsi all’inseguimento di un volatile. Ebbene, scrive Siety, “il quadro lascia filare via i suoi occupanti senza battere ciglio, delegando a una nuova inquadratura il compito di racciuffare i ragazzini durante la loro corsa”. Il critico francese inserisce Kiarostami tra i registi che possiedono un’“etica dell’inquadratura”, in compagnia di Roberto Rossellini, Johan van der Keuken e Jacques Rivette (in base soprattutto al celebre saggio “Il carrello di Kapò o dell’abiezione”). Questi cineasti permettono alle cose di “dire la loro” e di attendere il reale, anche quando, come nel caso di Rivette, si fondano su pratiche più letterarie. Ancora, per citare la mobilitazione interpretativa che il regista iraniano ha saputo far sorgere, bisogna citare lo studio di Mehrnaz Saeed-Vafa e Jonathan Rosenbaum (uno dei critici e studiosi americani più stimati ed esperti), di stampo prettamente accademico, frutto di una ricerca pluriennale per la University of Illinois. Qui gli autori si soffermano soprattutto sul significato culturale e politico dei film di Kiarostami, indagandone lo stile per scoprirne le finalità ideologiche (per Rosenbaum ad esempio “le difficoltà dei viaggi narrati nei suoi film sono un buon esempio di come la vita di tutti i giorni in Iran riesca immediatamente ad assumere un carattere poetico o filosofico”). Inoltre, come si diceva, l’autore iraniano opera anche nel campo della pittura, della fotografia e della poesia. Per quanto riguarda la fotografia, bisogna far riferimento – oltre che alle mostre come quella organizzata dalla Cineteca Comunale di Bologna nel giugno di quest’anno o al Museo Nazionale del Cinema di Torino nel 2003 – al volume Kiarostami edito da Electa nel 2003 dove sono raccolti molti scatti del regista. Per la maggior parte si tratta di fotografie senza titolo, dedicate a paesaggi vuoti e immagini naturali quasi astratte. Il merito del libro è quello di aprire una dimensione inedita di Kiarostami, quella 52

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dell’artista che opera attraverso diversi mezzi di espressione: in un saggio contenuto nel volume, infatti, il direttore dei Cahiers du Cinéma Jean-Michel Frodon si sofferma proprio sulle opere para-cinematografiche, come il cortometraggio Nascita della luce (1997), dove il sorgere del sole viene colto in cima a una montagna, o come l’installazione Sleepers, realizzata per la Biennale di Venezia 2001, dove viene mostrata la videoregistrazione di una coppia che dorme in forma di provocazione nei confronti dei divieti della Repubblica Islamica; o le brevi sequenze girate dal regista in riva al Mar Caspio nel 2002, mute e estatiche, che secondo Frodon rimandano alla struttura dell’haiku. Curiosamente, proprio agli haiku fa riferimento anche Riccardo Zipoli, curatore e traduttore italiano della raccolta di poesie di Kiarostami intitolata Un lupo in agguato. Quello che Zipoli afferma essere un “repertorio del sentire umano” fa risaltare la tendenza dell’autore a illustrare la vita tramite le sue contrapposizioni. Ancora una volta – e si noti l’identità di conclusioni cui giungono studiosi di estrazione opposta – “alla realtà viene negata la possibilità della stasi, e ciò contribuisce a sottolineare il ruolo centrale che il concetto di movimento ha nella poetica di Kiarostami”. Anche per Zipoli la ricchezza e la densità espresse in forma semplice richiamano l’atmosfera degli haiku giapponesi “che lo stesso Kiarostami riconosce tra le sue fonti di ispirazione” (esempio: “Un fumo bianco/su un cielo azzurro/da una capanna/di fango”; oppure: “I bagagli/sono pronti/ho voglia di sdraiarmi/ma non ho il tappeto”). Forse questi esempi chiariscono meglio di qualsiasi altro testo ciò che Kiarostami intende quando afferma: “Non credo che il cinema possa inventare qualcosa di nuovo. Credo invece che sia costretto suo malgrado, a ritornare alla semplicità, al punto di partenza”.

Ermanno Olmi: il cinema come indagine sul punto di partenza Non avrebbe senso costruire lo stesso tipo di indagine critica fin qui espressa per Kiarostami anche sul cinema di Ermanno 53

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Olmi, per almeno due ordini di motivi: 1) Olmi è un cineasta più anziano e dalla carriera maggiormente strutturata e 2) la critica su Olmi ha raggiunto ormai l’esaustività, e nulla di quanto possiamo dire qui riuscirebbe ad approfondire ulteriormente. Tuttavia, non dimentichiamo la scommessa di partenza: cercare di comprendere se Kiarostami e Olmi – come pensiamo – abbiano concepito insieme Tickets per motivi assai più che occasionali. Intanto Olmi è un regista che vive anch’egli di “letture” parziali. Non è raro – anche se molto meno spesso, di recente – che i film di Olmi abbiano pagato la pregiudiziale anti-cattolica della critica italiana. Questo, alle volte, ha portato a etichettare le sue pellicole in maniera frettolosa, e comunque a non sottoporle alla seria analisi che avrebbero meritato. La maturità, o – dicendolo senza ipocrisie – la vecchiaia del regista hanno fatto sì che egli meritasse il rispetto che si deve agli autori importanti. Per fortuna, tale atteggiamento preconcetto ha riguardato solo una parte del giornalismo cinematografico italiano. Ma soprattutto: il cinema di Olmi ha a che fare con quello di Kiarostami? A prima vista, naturalmente, no. La migliore definizione del cinema olmiano ce la forniscono Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra che, all’interno della voce dedicata al regista nel Dizionario universale del cinema curato dal compianto Fernaldo Di Giammatteo, parla di “magia dei gesti e dei volti”. In effetti, si è parlato spesso anche di “realismo fantastico” e di “fiabesco quotidiano” per definire certe opere di Olmi, anche se l’impressione è che questi giudizi siano calibrati soprattutto sui suoi film più “recenti” come L’albero degli zoccoli (1978) o Il segreto del bosco vecchio (1993). Prima (gli esordi) e dopo (le ultime opere) le cose non sono così semplici. “Magia del gesto”, invece, è altra cosa, più vicina alla rivelazione del momentaneo che non alla matrice culturale e letteraria. Il primo punto di contatto con Kiarostami (e con Loach, se è per questo: ma non insisteremo oltre sull’argomento) è dato dalla frequentazione del documentario. Film come Cantiere d’acciaio (1955), La diga d’inverno (1955), Tre fili fino a Milano (1961) e 54

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tanti altri hanno costituito un apprendistato non dissimile da quello del collega iraniano. Si tratta, inoltre, di opere complesse, che hanno costituito nel panorama del documentario (industriale e non) italiano un tratto di sicura originalità. Ne scriveva con la consueta intelligenza Alberto Farassino: “Olmi non sa filmare le macchine senza gli uomini, ma non sa nemmeno filmare gli uomini senza le macchine o mettere in scena la filosofia morale senza il paesaggio industriale”. Filosofia, paesaggio. Termini che ritornano, che creano un legame indissolubile tra ciò che la macchina da presa “attraversa” e ciò che finisce col “pensare”. Non è un caso, del resto, che per la critica francese, meno impelagata di quella italiana con l’eredità neorealista, Olmi sia un rappresentante della “modernità” cinematografica, in sintonia con un approccio rosselliniano e libero alla materia trattata, al tempo stesso affrontata con rigore ma apertura linguistica. Ne parla soprattutto Jean-Louis Comolli in un lungo saggio comparso sui Cahiers du Cinéma nel 1964 e citato anche dalla brillante ricostruzione della fortuna critica del maestro di cui è autrice Laura Buffoni. I primi, grandi film olmiani sono certamente Il posto (1961), I fidanzati (1963), Racconti di giovani amori (1967), Un certo giorno (1968), e I recuperanti (1969), opera da alcuni considerata secondaria e invece assolutamente imprescindibile per comprendere lo sfondamento di ogni barriera tra documento paesaggistico e finzione, pari almeno al celebrato esordio di Il tempo si è fermato (1959). Se non fosse che Olmi interroga il mondo per trovarvi le tracce di una spiritualità, potremmo definire alcune delle sue inquadrature come haiku. “Chi è stato ad Asiago i ricuperanti li incontra tutti i giorni; vanno a cercare i pezzi della Prima Guerra Mondiale, ma per un artista come Olmi questi non sono pezzettini da recuperare e vendere per farsi un ‘bianchetto’: queste sono le reliquie della storia e della morte, delle battaglie e dei valori”, scrive in una bellissima nota Don Antonio Balletto all’interno di un saggio eloquentemente intitolato “La dimensione religiosa nel cinema di Ermanno Olmi”. Don Balletto, poi, aggiunge una citazione di Rilke, proveniente dalla Nona elegia: 55

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“Forse siamo sulla terra solo per dire rosa, acqua, ciliegio…”, frase che ci riporta una volta di più nel mondo delle cose concrete, della natura e dei luoghi vissuti. Sia Olmi che Kiarostami partono da questo dato, possiedono uno sguardo che si mette in movimento col reale, posano gli occhi su quello che scorre e rotola. Certo, si potrà obiettare, nella seconda parte della sua carriera Olmi intraprende un cinema completamente diverso, favolistico, realizzato attraverso costruzioni imponenti di set e certamente lontane dal gusto per la semplicità degli esordi. Nulla di più vero: e nessuno, del resto, vuole negare a un cineasta così importante il dono dell’inquietudine, la passione per le svolte – anche brusche – della propria poetica. Eppure, quel gesto (rosselliniano, se si permette) di partire dal fenomenico, di lasciare che il mezzo cinematografico, al di là dei procedimenti stilistici scelti, si faccia modificare dal mondo davanti all’obiettivo è certamente lo stesso, come la stessa è l’avventura umana. Con Ipotesi Cinema, in fondo, Olmi ha fondato una scuola e un centro di produzione, così come ha fatto Kiarostami in Iran: in entrambi i casi, il cinema è vissuto come autorialità, certo, ma anche come condivisione e apertura. Ecco, proprio sull’apertura all’altro, al circostante, all’accidentale si fonda una filosofia comune, anche quando l’uno chiede al mondo esteriore di restituirgli il barlume della divinità, e l’altro pone all’universo domande filosofiche. Certo, entrambi di fronte al sapore della ciliegia non vogliono privarsi della cosa-in-sé e – arrivati sino in fondo alla polpa – credono che dell’esperienza qualcosa si metta in funzione, si carichi di significato, si accenda di trascendente. Ecco che cosa scriveva Giovanni Buttafava a proposito di I fidanzati: “Il principio documentaristico e la frammentazione complessa della struttura permettono di sottrarsi al determinismo più o meno naturalistico che domina la narrativa (anche cinematografica) più diffusa, per raggiungere i più alti eventi cinematografici basati sul principio del ‘caso’”. Quel I fidanzati che “riesce a darci dopo tanti film una Sicilia nuova” (Ugo Casiraghi, L’Unità, 17/5/1963). “Olmi, agli inizi, è un autore che constata: è il suo modo di 56

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essere rosselliniano. Per ritrovare questo sguardo depurato, questo cinema di ‘prosa’ (non a caso Pasolini contrappose il primo Olmi de Il tempo si è fermato al moderno cinema di poesia di Prima della rivoluzione in una memorabile conferenza-conproiezioni alla Mostra di Pesaro del 1965) alle preziose testimonianze […] della sopravvivenza di una visione utopica del mondo, dove permane l’armonia fra l’uomo e la natura, fra l’uomo e il mondo, fra l’uomo e il creato”, scrive Adriano Aprà. E proprio a Rossellini è indirizzata una lettera di Olmi datata luglio 1970, dove il regista di Asiago, con grande affetto, spiega al maestro la sensazione di solitudine provata dai “poeti”, da coloro che al contempo parlano a persone come loro ma devono comunque avere un pubblico perché l’opera viva (“Personalmente credo ai poeti, e anche che ciò che essi dicono non andrà perduto. E dato che un’opera di poesia non è legata a un fatto di costume o a un momento storico, essa continuerà a vivere, a trovare chi l’ascolta. Il pubblico di un poeta non è dunque in un tempo determinato, o in una determinata categoria di persone, ma è nell’umanità, nella storia. Il resto non mi interessa molto”). Ecco dunque che, da questo fitto reticolo di rapporti, somiglianze, luoghi elettivi, assonanze concettuali, il cinema di Olmi si dimostra di matrice rosselliniana (più che genericamente “neorealista”) e la stessa cosa si potrebbe dire di Kiarostami. Entrambi raccolgono del neorealismo l’eredità più teorica, quella sistemata da André Bazin e da Godard, per intenderci, non quella della tradizione italica dei contenuti e del risarcimento sociale dell’arte. E si approda dunque a Tickets. Le ultime stagioni cinematografiche, hanno sancito la rinascita del film a episodi. Quel che sembrava un ricordo del passato, infatti, sembra riaffermarsi di recente. Bene, se Manuale d’amore (2005) e Manuale d’amopre 2 – Capitoli successivi (2006) di Giovanni Veronesi hanno costituito l’atteso ritorno della commedia episodica all’italiana, Eros (2004) ha invece ricollocato lo spettacolo d’autore internazionale, che sembrava scomparso con gli ultimi fuochi degli 57

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anni Settanta. Laddove Antonioni, Soderbergh e Wong Kar-wai hanno palesemente girato i propri scarti narrativi, per cause probabilmente diverse l’uno dall’altro, Olmi, Kiarostami e Loach si sono accordati sulla cornice strutturale del film e hanno condiviso la genesi di una pellicola fortemente voluta dalla Fandango e coprodotta dalla Sixteen Films di Loach. Il treno su cui si svolge il film, in effetti, viaggia dal nord Europa verso Roma, il che fa comprendere come locations e maestranze siano per lo più nostrane; del resto, lo stesso Kiarostami lavora per la prima volta con attori italiani, sortendo per di più effetti decisamente positivi. Olmi perciò diventa un po’ il regista-ospitante e Ken Loach il co-autore dell’iniziativa. Nel primo caso, l’episodio olmiano appare come una variazione dichiaratamente senile delle opere più meditabonde del regista, con Carlo Dalle Piane che sembra incastrato nello spazio-tempo della propria memoria immediata e prova la nostalgia di un micro-abbandono e di una rinuncia d’amore (l’oggetto del desiderio lasciato sul binario è Valeria Bruni Tedeschi). Sul treno si agitano poliziotti e soldati, quasi a far presagire un attentato o semplicemente a suggerire l’atmosfera paranoica dei viaggiatori post-11 settembre. Bisogna però ammettere che tutte le circostanze politiche appartengono a un contesto piuttosto vago. Il piccolo film di Loach, invece, rinnova quella fragilità aspra che il regista britannico ha sempre saputo catturare in maniera ammirevole. Ecco infine – ma in verità l’episodio è quello centrale in ordine cronologico dei tre – il film di Kiarostami, che tra l’altro pareva intenzionato a “staccarsi” dai due colleghi e dare un seguito alla storia raccontata attraverso un nuovo lungometraggio autonomo (caso inedito, se la memoria non ci inganna, di sequel personale di un episodio tratto da film collettivo). Le esasperanti vessazioni che il giovane obiettore subisce dall’intrattabile signora che accompagna non rendono giustizia al sostrato squisitamente kiarostamiano del frammento. Costruito come una serie di confronti a due, di dialoghi a camera fissa e di rappresentazioni del fuori campo, il racconto permette una commedia di caratteri amara e nostalgica. Si pensi al piccolo mistero che circonda il rapporto 58

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tra il ragazzo e le adolescenti che lo riconoscono, e allo squarcio di passato che riemerge dal dialogo: Kiarostami riesce, senza forzare alcuna soluzione, a sussurrare un mondo provinciale e infantile che non c’è più, che appartiene al passato e ai ricordi di ciascuno dei personaggi eppure toccato dalle punture della malinconia. Il proverbiale dominio della parola e dell’esperienza dialogica (anche nel senso che Bacthin dava alla parola) permette a Kiarostami di indicare, oltre che la strada del buon cinema, persino una possibile riappropriazione degli spazi poetici che competono al cinema italiano. Il suo episodio è il più “italiano” di tutti, e al contempo il più lieve, il più ricercato, il più enigmatico, secondo una formula verbocentrica e dolceamara che rimanda ai nostri modelli degli anni Cinquanta. Per ciò che concerne la pratica critica, è come al solito quasi impossibile formare un discorso interpretativo sui film a episodi firmati da più registi. Nessuno infatti parla più di Ro.Go.Pa.G (1963) ma piuttosto di La ricotta, e così via. Quando i singoli segmenti si sono staccati per chiara fama dal corpo principale è difficile che si riesca a ricomporli, anche nei casi dall’ispirazione più coesa (come per Paris vu par…, 1965). Nel nostro caso, oltre alla classica ricomparsa di alcuni personaggi tra un episodio e l’altro (tecnica narrativa assai sfruttata atta a solidificare il testo che tende a frantumarsi), di importante c’è almeno l’ambientazione in treno, che non è scelta da poco. Inutile ricordare quanto sia fotogenico questo mezzo di locomozione, almeno a giudicare da La signora scompare (1938), Le iene di Chicago (1952), A 30 secondi dalla fine (1985) o Europa (1991). In Tickets, invece, il tema del viaggio e le caratteristiche visuali del treno vengono affrontate dal solo Olmi. Gli altri preferiscono ragionare sul senso simbolico dello spostamento di civiltà e sulla costrizione spaziale cui sono sottoposti i protagonisti. All’automobile si sostituisce dunque il treno, nella visione kiarostamiana del movimento. Si chiude un cerchio, forse, dopo il quale il cinema di Kiarostami, Olmi e Loach troverà nuove strade poetiche. Fuori di metafora: è un cinema che non scomparirà dalla storia. È un 59

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cinema contemporaneamente “improvviso” (tanto quanto lo è un terremoto, una morte, l’acquazzone su un villaggio) e “duraturo”, in virtù della persistenza delle immagini riprodotte. Ecco dunque che il cinema non rifà se stesso, piuttosto rinasce guardandosi al punto di partenza, al grado zero della sua natura. Basta trovare cineasti, come Olmi e Kiarostami, che lo accendano di realtà.

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Testi citati Alberto Barbera, Elisa Resegotti, Kiarostami, Electa, Milano/Torino 2003. Gilles Deleuze L’immagine tempo, Ubulibri, Milano 1989. Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma 1993. Leonardo Gandini, “Ten on Ten”, Cineforum, luglio 2004. Pier Paolo Loffreda, “E la vita continua”, Cineforum, aprile 1994. Marco Dalla Gassa, Abbas Kiarostami, Le Mani, Genova 2000. Jean-Luc Nancy, Abbas Kiarostami. L’evidenza del film, Donzelli Editore, Roma 2004. Alberto Pezzotta, “Sotto gli ulivi”, Segnocinema, luglio-agosto, 1996. Eugenio Premuda, “Close-Up: gioco di ruolo per volto e macchina da presa”, in Aa.Vv., Il mondo dal finestrino – Il cinema di Abbas Kiarostami, Edizioni della Battaglia, Palermo 2002. Jacques Rivette, “Il carrello di Kapò o dell’abiezione”, Cahiers du Cinéma, giugno 1961. Mehrnaz Saeed-Vafa, Jonathan Rosenbaum, Abbas Kiarostami, University of Illinois, Urbana/Chicago 2003. Emmanuel Siety, L’inquadratura, Lindau, Torino 2004. Riccardo Zipoli, “Il realismo ideale di Abbas Kiarostami”, in Abbas Kiarostami, Un lupo in agguato, a cura di Riccardo Zipoli, Einaudi, Torino 2003. “Speciale Dieci”, Cahiers du Cinéma, settembre 2002. Adriano Aprà, a cura di, Il cinema di Ermanno Olmi, Incontri Internazionali Ponticelli Terme, Parma 1979. Don Antonio Balletto, “La dimensione religiosa nel cinema di Olmi”, in Elisa Allegretti, Giancarlo Giraud, a cura di, Ermanno Olmi – L’esperienza di Ipotesi Cinema, Le Mani, Genova 2001. Laura Buffoni, “La fortuna critica di Ermanno Olmi”, in Adriano Aprà, a cura di, Ermanno Olmi – Il cinema, i film, la televisione, la scuola, Marsilio/Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Venezia 2003. Giovanni Buttafava, “Presenze”, in Tullio Masoni, Adriano Piccardi, Angelo Signorelli, Paolo Vecchi, a cura di, Lontano da Roma. Il

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cinema di Ermanno Olmi, La Casa Usher, Firenze 1990. Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra, “Ermanno Olmi”, in Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario universale del cinema, vol. 2, Editori Riuniti, Roma 1985. Jean-Louis Comolli, “Retour en Italie 2”, Cahiers du Cinéma, luglio 1964. Alberto Farassino, “Un metro di pellicola è lungo cinque”, in Aa.Vv., Europacinema ’85, catalogo 1985. La lettera di Olmi a Rossellini è stata pubblicata su Positif nel gennaio 1978, e ora è in A. Aprà, a cura di, op. cit.

Ulteriore bibliografia su Abbas Kiarostami Aa.Vv., Abbas Kiarostami. Textes, entretien, filmographie complète, Éditions de l’Étoile/Cahiers du Cinéma, Parigi 1997. Michel Ciment, a cura di, “Dossier Kiarostami”, Positif, dicembre 1997. Marco Della Nave, Alessandro Dardari, Antonio Desideri, Fabrizio Leone, Il cinema secondo Kiarostami, Cacm/FICC, 1994. Marco Della Nave, Abbas Kiarostami, Il Castoro, Milano 1999. Goffredo Fofi, “Abbas Kiarostami”, in Come in uno specchio. I grandi registi della storia del cinema, Donzelli Editore, Roma 1995. Ilaria Gatti, Lo sguardo discreto: il cinema dell’interiorità da Virginia Woolf a Kiarostami, Le Mani, Genova 2005. Zaven Goukasian, Abbas Kiarostami, a Collection of Criticism & Essays On His Films, Didar Publishers, Teheran 1997. Bruno Roberti, a cura di, Abbas Kiarostami, Dino Audino Editore, Roma 1996.

Ulteriore bibliografia su Ermanno Olmi Aa.Vv., Ermanno Olmi: le radici dell’albero, Rapallo 1979. Giuliana Callegari, Nuccio Lodato, a cura di, Ermanno Olmi terzo tempo, Quaderni di Documentazione, Amministrazione 62

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Provinciale di Pavia, Pavia 1978. Marilia D’Addio, a cura di, Ermanno Olmi, Festival Tertio Millennio, Roma 1998. Jeanne Dillon, Ermanno Olmi, Il Castoro, Milano 1985. Luca Finatti, Stupore e mistero nel cinema di Ermanno Olmi, ANCCI, Roma 2000. Tullio Kezich, Ermanno Olmi – Il mestiere delle immagini: diario in pubblico di un’amicizia, Falsopiano, Alessandria 2004. Mauro Pecchenino, Il poeta con la cinepresa: Ermanno Olmi, Edizioni Alkaest, Genova 1979. Giorgio Tabanelli, Ermanno Olmi. Nascita del documentario poetico, Bulzoni, Roma 1987.

Film di Kiarostami citati Il viaggiatore (Mossafer, 1974) Il rapporto (Gozaresh, 1977) Gli alunni della prima classe (Avaliha, 1984) Dov’è la casa del mio amico? (Khane-ye doust kodjast?, 1987) I compiti a casa (Mashgh-e Shab, 1989) E la vita continua (Zendegi va digar hich, 1992) Close Up (Nema-ye Nazdik, 1990) Sotto gli ulivi (Zire darakhatan zeyton, 1994) Il sapore della ciliegia (Ta’m e guilass, 1997) Il vento ci porterà via (Le Vent nous emportera, 1997) ABC Africa (2001) Dieci (Ten, 2002) Five (2004) 10 on Ten (2004)

Film di Ermanno Olmi citati Cantiere d’acciaio (1955) La diga d’inverno (1955)

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Il tempo si è fermato (1959) Tre fili fino a Milano (1961) Il posto (1961) I fidanzati (1963) Racconti di giovani amori (1967) Un certo giorno (1968) I recuperanti (1969) L’albero degli zoccoli (1978) Il segreto del bosco vecchio (1993) Tickets (Abbas Kiarostami, Ken Loach, Ermanno Olmi, 2005)

Altri film citati La signora scompare (The Lady Vanishes, Alfred Hitchcock, 1938) Paisà (Roberto Rossellini, 1946) Stromboli terra di Dio (Roberto Rossellini, 1949) Francesco giullare di Dio (Roberto Rossellini, 1950) Le iene di Chicago (The Narrow Margin, Richard Fleischer, 1952) Siamo donne (Alfredo Guarini, Gianni Franciolini, Roberto Rossellini, Luigi Zampa, Luchino Visconti, 1953) Viaggio in Italia (Roberto Rossellini, 1954) Ro.Go.Pa.G. (Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Ugo Gregoretti, 1963) Paris vu par… (Claude Chabrol, Jean Douchet, Jean-Luc Godard, Jean-Daniel Pollet, Eric Rohmer, Jean Rouch, 1965) A 30 secondi dalla fine (Runaway Train, Andrei Konchalovsky, 1985) Europa (Lars von Trier, 1991) Riff-Raff (Ken Loach, 1991) Caro diario (Nanni Moretti, 1993) Il palloncino bianco (Badkonake sefid, Jafar Panahi, 1995) Il giorno della prima di Close Up (Nanni Moretti, 1996) Oro rosso (Talaye Sorkh, Jafar Panahi, 2004) Eros (Michelangelo Antonioni, Steven Soderbergh, Wong Kar-wai, 2004) Manuale d’amore (Giovanni Veronesi, 2005) Manuale d’amopre 2 – Capitoli successivi (Giovanni Veronesi, 2006) 64

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VERTIGINI DELL’IO Il cinema di Nanni Moretti tra fenomenico e astratto. Riflessioni su Caro diario e Aprile

Il cinema di Nanni Moretti ha assunto negli anni una coerenza invidiabile, sia pure all’interno di un percorso dalle molte svolte. La presenza fagocitante dell’autore – che parecchi commentatori, a differenza di chi scrive, considerano da tempo un limite poetico – si è declinata in maniera originale e affascinante. Fin dal primo, programmatico Io sono un autarchico (1976), Moretti ha voluto esprimere una completa indipendenza creativa, fino a coprire – nel corso degli anni – tutte le fasi del fare cinema: regia, recitazione, scrittura, produzione, persino esercizio, distribuzione, assegnazione di premi e direzione di festival. Ecce Bombo (1978) si propone come riflesso della generazione del ’77, e specchio della disillusione extraparlamentare verso una riformabilità del sociale e del culturale, gestito attraverso una parodia dei discorsi comunitari e dell’invadenza dei mass media. Sogni d’oro (1981), film tuttora poco compreso, mostra l’ascendenza nascostamente felliniana del cinema morettiano che, grazie all’ardita riflessione sul mezzo cinematografico e sulla nevrosi dell’autore, dice qualcosa di unico sul mondo delle immagini in Italia. Già con questi primi tre film, il regista dimostra di aver intrapreso una vera e propria avventura dell’io, quale poi non verrà più abbandonata nelle opere successive. In fondo, l’intera filmografia di Moretti può essere considerata un viaggio all’interno dell’ego: i generi prescelti vanno dal romanzo moderno, alla commedia, dalla scrittura diaristica ed episodica fino al pamphlet politico. Tutti presi dal “messaggio” politico, i critici di rado sono riu65

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sciti a cogliere il lavoro sulla messa in scena ideato da Moretti (lavoro di grande attenzione allo spazio dell’inquadratura e alla costruzione narrativa attraverso i ritmi del piano), e l’operazione proustiana, novecentesca sul personaggio. Se Bianca (1984) e La messa è finita (1985), visto l’apporto di Sandro Petraglia in sceneggiatura, sembrano, insieme a La stanza del figlio (2001), i film più equilibrati (da un punto di vista strutturale) della filmografia del cineasta, Palombella rossa (1989) e Il caimano (2006) tornano a far coppia in virtù di assonanze interne e progetti politologici complessi. E il realismo, in tutto ciò? Esso viene convocato dalle forme rappresentative morettiane, isolate e ignorate dalla critica, più propensa a leggere il suo cinema in chiave sociologica. E soprattutto dai due film degli anni Novanta, Caro diario (1993) e Aprile (1998) i quali, pur separati da ben cinque anni, formano un dittico di comune ispirazione.

Perdersi nel reale Caro diario è considerato il film della svolta per Nanni Moretti. Non si intende in questo modo introdurre un giudizio di valore su questa sua opera in particolare rispetto alle altre, ma solo evidenziare il chiaro segnale di discontinuità a fronte dei film precedenti. Il precedente Palombella rossa, infatti, pareva aver esaurito, con il suo luogo concentrazionario di azione e narrazione – la piscina – e la riflessione sofferta e a volte involuta sulla politica, il percorso di Moretti dagli autarchici esordi al ruolo di rappresentante del cinema d’autore italiano in Italia e all’estero. Vicende personali drammatiche – la malattia, poi raccontata nel film – e crisi creative hanno fatto sì che Caro diario diventasse un film attesissimo, e di conseguenza un testo su cui critici e studiosi hanno apposto come poche altre volte la propria lente di ingrandimento. Caro diario introduce una serie di cambiamenti nello stile morettiano, dalla scelta di suddividere il racconto in tre episodi all’assunzione del nome proprio come regi66

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sta/personaggio, dalla mescolanza di finzione e documentario – assai più sviluppata in Aprile, dove i materiali non fiction hanno una loro autonomia e poi vengono diegetizzati –, alla chiara influenza di Kiarostami e del cinema iraniano nella definizione di un dispositivo nuovamente in relazione col reale, eredità del neorealismo zavattiniano – magari quello più tardo, delle cineriviste –, ibridato con una forte coscienza metalinguistica. Non di meno, la mano di Moretti si sente eccome: il ricorso alla parodia dei linguaggi istituzionali, la satira dei costumi borghesi, la scelta di girare scene brevi e fortemente icastiche, la forma del gag morettiano – riconoscibile tra mille – e molto altro ancora. Alla sua uscita, Caro diario spiazzò molti critici per la radicalità con cui metteva in gioco eventi personali, grazie a una libertà strutturale impensata e a uno stratagemma, quello del diario, che ha forse offerto la palingenesi al cinema del regista. Pratica estetica e momento esistenziale ora più che mai in Moretti coincidono, come dimostra il terzo episodio – il più stordente –, nel quale rivivere la propria malattia equivale un po’, per il regista, a esorcizzarla di fronte a milioni di spettatori. Abbiamo deciso, per questo film, di offrire la segmentazione, allo scopo di un’analisi più dettagliata. Ritenendo decisiva, dunque, la scomposizione del testo, procediamo all’elenco delle sequenze.

Segmentazione del film Titoli di testa Scritti in bianco su sfondo completamente rosso. L’impressione, per lo spettatore, è che vengano in qualche modo “sfogliati”. Episodio I: “In Vespa” 1) Caro Diario Il diario del titolo viene inquadrato. La mano del protagonista, che parla in voce over, scrive che c’è una cosa che ama fare più di tutte le altre. 67

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2) Girando Nanni gira per la città d’estate, completamente vuota. Impossibile andare al cinema: elenca i generi presenti nelle poche sale aperte, poi continua a guidare. 3) Al cinema Nanni si reca in sala per vedere un piagnucoloso film italiano, in cui i protagonisti in crisi rimpiangono di aver detto cose stupide durante gli anni della contestazione. Nanni, ripresa la Vespa, sostiene di aver gridato cose giuste e di essere uno splendido quarantenne. 4) Attici Moretti prosegue il suo itinerario un po’ casuale; gira per la Garbatella, studia gli attici e le case che un giorno vorrebbe, chissà, comprare. Ammette che il suo sogno è quello di saper ballare bene, e che Flashdance e la protagonista, Jennifer Beals, sono in cima alle sue preferenze. Una musica latino-americana aumenta di volume. 5) Musica 5a) Merengue Nanni trova una piazzetta con un’orchestra di merengue in cui si improvvisa vocalist, divertendosi a guardare gli altri che ballano. 5b) Spinaceto Visita a Spinaceto, sulle note sfumanti del merengue. 5c) Strade Nanni continua a viaggiare, “danzando” in Vespa sulle note di Khaled. Visita Casalpalocco, luogo di villette e di una vita fatta di tute, pantofole e videocassette. 5d) Jennifer Nanni incontra la Beals insieme al marito regista Alexander Rockwell. La loda, imbarazzandola, per le sue comode calzature. 5e) Solo case 68

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Mentre la musica di Khaled imperversa, Nanni immagina un film fatto di sole case, di cui si succedono le inquadrature. 6) Pioggia di sangue 6a) Henry Nanni si reca a vedere Henry, pioggia di sangue. Ne esce disgustato e sconvolto. Cerca di ricordare chi avesse parlato così bene del film. Trova la recensione e la copia sul diario come esempio negativo. 6b) Il critico Nanni immagina di torturare il critico che ha scritto quelle infamie, leggendogli ciò che lui stesso ha scritto. 7) Pasolini Nanni, dopo aver letto vecchie copertine che parlano dell’uccisione di Pasolini, decide di andare all’idroscalo di Fiumicino per rendere omaggio al cippo memoriale e al poeta che rappresenta.

Episodio II: “Isole” 1) Lipari Nanni, dopo che un’altra pagina del diario ha annunciato il secondo episodio, è sul traghetto per Lipari, dove andrà a far visita all’amico Gerardo. Lipari è invasa dal traffico. Nanni e Gerardo si rifugiano in un bar dove, in Tv, si vede un film con la Mangano che danza. Di nuovo il desiderio di ballare. Altri rumori assordanti in strada. 2) Salina 2a) Figli Nanni e Gerardo decidono di cercar pace a Salina. Mentre Gerardo si sfoga con la visione continua di soap-opera, Nanni è 69

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soggiogato da amici comuni che parlano solo dei propri figli. 2b) Solo Nanni passeggia solo. 2c) Sempre figli Altri dialoghi assurdi tra genitori e figli padroni del telefono e della comunicazione. 2d) La palla Nanni scrive il diario e, trovato un pallone, comincia a palleggiare. 2e) Il lettone Nanni e Gerardo vengono invitati nel “lettone” con gli amici e il figlio. 3) Stromboli 3a) Il sindaco Giunti a Stromboli, Nanni e Gerardo cercano casa insieme al sindaco che li accoglie e racconta loro i progetti hollywoodiani per rilanciare l’immagine dell’isola. 3b) Vulcano Nanni e Gerardo visitano il vulcano, ma Gerardo, che incontra alcuni americani, ne approfitta per chiedere lumi sul futuro di Beautiful. 3c) Addio I due salutano il sindaco, sempre più infervorato con i suoi ambiziosi progetti, e se ne vanno verso Panarea. 4) Panarea Appena scesi, una manager da discoteca li importuna e li invita a feste in onore del cattivo gusto. I due si voltano e risalgono sull’aliscafo. Dove discutono di Chi l’ha visto? 5) Alicudi 5a) Da Lucio Un isolano scorbutico li scorta fino a casa di Lucio, scrittore che 70

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li ospiterà. L’isola è dura e selvaggia. 5b) Notte Incapace di concentrarsi o riposare, Nanni subisce il delirio televisivo di Gerardo e le farneticazioni di Lucio. 5c) TV Appena Gerardo viene a sapere che non esistono televisori sull’isola, si precipita verso l’aliscafo gridando tutto il suo amore per i generi di consumo.

Episodio III: “Medici” 1) Appunti Terza pagina di diario che dà il titolo all’episodio. Nanni promette che tutto ciò che leggerà è vero: ricette, frasi, appunti. 2) Chemio Nanni in seduta chemioterapica. È l’ultima, girata in Super8, dal vero. 3) Nascita della malattia 3a) Pelle secca Nanni si reca dal dermatologo a causa di un fastidioso prurito. Il medico diagnostica un problema di pelle secca e gli prescrive farmaci. Nessun miglioramento. Nanni torna al Centro Dermatologico. 3b) Stress Il secondo dermatologo parla di stress. Nulla da fare. Nanni va dal sostituto del “principe” dei dermatologi. Che gli vieta di bere caffè. Nanni non si fida più. 3c) Allergia Prova con l’allergologo. Ordina i vaccini per i cibi che non può mangiare – un’infinità. Il prurito continua. 3d) Maniche lunghe Il grande dermatologo in persona gli prescrive mille farmaci e gli impone in piena estate calze di cotone e camicie a maniche lunghe. 71

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4) Insofferenza Nanni segue le cure. Niente migliora. La notte non dorme. Di giorno scende in spiaggia vestito. Si accorge dell’inutilità di molti farmaci e li getta. Arrivati i vaccini; un amico immunologo però li sconsiglia: le allergie provocano orticaria, non prurito. 5) Altri medici 5a) Psicosomatico L’ennesimo dermatologo afferma che si tratta di una malattia psicosomatica. Nanni si chiede dove ha sbagliato. 5b) New age Nanni non riesce a dormire più di due ore per notte. Una riflessologa gli massaggia i piedi e gli consiglia cibi alternativi. 5c) Agopuntura Prova con i rimedi cinesi. Ma comincia a perdere peso. 5d) Radiografia Su consiglio del medico cinese Jang, Nanni fa una radiografia, che evidenzia una massa scura intorno al polmone. 6) Hodgkin 6a) Sarcoma Dapprima pare che si tratti di un sarcoma al polmone che non lascia scampo. 6b) Linfoma Poi la Tac mostra, per fortuna, che Nanni è affetto da un linfoma di Hodgkin, curabile. 6c) Enciclopedia Nanni trova l’Enciclopedia Medica Garzanti ed elenca i sintomi della voce linfomi: prurito, sudore, dimagrimento. 7) Un bicchiere d’acqua Circondato da scatole di medicine, Nanni afferma di aver compreso che i medici non sanno ascoltare. Ora beve un buon bicchiere d’acqua ogni mattina. Così fa, anche questa volta. 72

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Quella di Caro diario è una segmentazione meno semplice del previsto. È vero però che la “disposizione” del testo offre non poche indicazioni, a cominciare evidentemente dalla tripartizione del racconto. Inevitabile, dunque, scegliere i tre episodi come “guida” per la scomposizione. D’altra parte, non è certo possibile accontentarsi di segnalare queste tre macro-sequenze. Tanto più che, all’interno di ogni capitolo, la struttura della narrazione risulta assai complessa. Il primo episodio, in particolare, sembra seguire il filo invisibile della riflessione morettiana ora sul cinema e ora sulla composizione socio-urbanistica della sua città. La scelta, quindi, è stata quella di mantenere, ove possibile, il ritmo degli stacchi del regista e di raggruppare alcuni momenti o scene che apparivano chiaramente ispirate a uno stesso blocco tematico: ad esempio la sequenza 5 contiene cinque sotto-sequenze dominate dall’idea di musica, sia essa rappresentata, extradiegetica, diegetica, o metonimicamente citata grazie alla presenza in carne e ossa di Jennifer Beals, protagonista di Flashdance (1983). L’episodio II, “Isole”, può essere segmentato apprezzando i continui cambiamenti di località dei protagonisti, e assumendo quindi come unità tematico-narrativa – al di là della singola estensione della permanenza – quella geografica. Del resto ogni approdo a un’isola corrisponde evidentemente a un micro-episodio interno; Lipari, Salina, Stromboli, Panarea, Alicudi diventano, perciò, cinque sequenze dotate a loro volta di altre sottosequenze – alle quali, volendo, si può anche rinunciare; in questo caso le abbiamo inserite per completezza: non sono indispensabili, purché vi sia una chiara sinossi degli avvenimenti. Infine, l’episodio III, il più drammatico anche dal punto di vista dei contenuti, che abbiamo risolto – non senza molti dubbi, a dire la verità – in sette sequenze, di cui alcune provviste di sottosequenze. I blocchi più rilevanti corrispondono, secondo noi, alle sequenze 3 e 6, ovvero il pellegrinaggio presso i vari medici e la più precipitosa diagnosi della vera malattia, in cui si passa da una previsione di morte certa a un più ottimistico – si fa per dire – responso. 73

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In Caro diario gran parte degli eventi è sottratta in tutto o in parte a un’ordinaria, omogenea progressione temporale. L’asse su cui si muovono i processi di definizione e significazione del film è quello del suono, o, per meglio dire, quello della colonna sonora in rapporto problematico con la parte visiva. Come anche in Aprile, infatti, Nanni Moretti mette in conflitto la propria tendenza all’autonomia della singola scena con le tessiture della colonna sonora, nella quale non di rado una musica o una voce over collegano sequenze altrimenti irrelate. Il film, narrativamente e tematicamente, riguarda lo “spostarsi”, il déplacement continuo del protagonista di fronte al mondo che lo circonda, quasi a fuggire una condizione di infelicità, anche se poi almeno “In Vespa” ritrae un Moretti soddisfatto – apparentemente – di come ha raggiunto i propri quarant’anni e la logica che lo muove sembra più quella di un volitivo flâneur che non di un viaggiatore coatto spinto da chissà quale pondus animi. Detto questo, tuttavia, appare ancor più evidente che il film è caratterizzato dalla non simultaneità dello stacco visivo e dello stacco sonoro fra una sequenza e l’altra. La musica ottiene continue prolessi e analessi del suono rispetto alle immagini, cosa che accade non di rado anche per le voci di alcuni personaggi. La sequenza 7 del primo episodio, per esempio, è piuttosto emblematica: essa comincia con Moretti alle prese con la solita lettura di giornali e riviste, la sua voce over riflette sul fatto che non ha mai avuto il tempo di andare a visitare il cippo commemorativo per la morte di Pasolini, all’Idroscalo. Già in questo momento, la musica di Keith Jarrett – lo splendido The Köln Concert – fa la sua comparsa. Poco dopo, vediamo Moretti in Vespa alla ricerca del monumento funebre, viaggio solenne che viene commentato dalla stessa musica che ha collegato sintatticamente le due immagini. Questo è solo uno degli esempi possibili all’interno di un film che utilizza tale strategia in tutta la sua durata. In “Medici”, invece, ad esempio tra sequenza 2 e sequenza 3, o tra sottosequenza 3b e 3c, notiamo che è la voce a reggere gli sfasamenti di una cronaca – drammatica – raccontata con una certa indefi74

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nitezza cronologica. Il lavoro sul sonoro da parte di Moretti non termina qui. Vi sono, infatti, altri due elementi: l’utilizzo di musiche scelte accuratamente all’interno del repertorio contemporaneo; spesso, nei film precedenti, Moretti ha fatto ricorso alla musica leggera italiana, da una parte in funzione ironica, dall’altra per sottolinearne la tendenza melodica che incidentalmente sfiora il sublime; questa volta, il dialogo che Moretti instaura col mezzo musicale appare più serio e più colto, almeno a giudicare dalla qualità universalmente riconosciuta degli artisti chiamati in causa. Anche questo è un elemento che deve entrare a far parte dell’analisi filmica: interrogarsi sul motivo e sulla funzione di una citazione musicale di Keith Jarrett in luogo dell’utilizzo di una musica di repertorio o di un qualunque altro brano. Inoltre, Moretti propone spesso uno slittamento tra musica diegetica ed extradiegetica: il ponte tra le sequenze 4 e 5, e in seguito tra le sottosequenze 5a e 5b, è tutto impostato sulla diegetizzazione progressiva di una musica sudamericana – il merengue. Prima ci appare come un commento musicale extradiegetico, poi scopriamo che proviene da una piazza dove si tiene un piccolo ballo, infine – mentre Moretti si reca a “esaminare” Spinaceto –, la musica, tornata extradiegetica, sfuma lentamente. Tutti questi esempi, chiaramente, non hanno solamente un valore empirico. Dobbiamo, infatti, interrogarci sul senso che assumono. Anche Caro diario, insomma, è un testo pensato e costruito secondo abili strategie di significazione. Il progetto del film è indicato già dal proprio peritesto: il titolo è piuttosto chiaro. Lo spettatore sta per assistere a un prodotto narrativo che si poggia sulla tecnica della scrittura diaristica. Essa, anche solo come espediente romanzesco, sembra la più adatta per traghettare il personaggio di Michele Apicella verso quello di Nanni Moretti, ma pur sempre di un Nanni Moretti dello schermo. Niente, salvo le conoscenze dello spettatore, dovrebbe indurci a sovrapporre il Moretti autore con il Moretti personaggio. Eppure, gran parte di Caro Diario e di Aprile lavorano enunciativamente sull’ambiguità che si va a instaurare tra un io enun75

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ciatore e un tu enunciatario – per utilizzare i termini di Francesco Casetti e del suo Dentro lo sguardo. Di più: il Moretti recente – escluso La stanza del figlio, che tende a nascondere le marche di enunciazione più plateali, motivo per cui viene considerato un film maggiormente “maturo” e “composto”, ma qui l’analisi ci porterebbe troppo lontano – sembra lasciare uno spazio assai sottile, almeno agli occhi dello spettatore meno preparato, tra enunciatore e narratore. La presenza di Moretti nel ruolo di regista, sceneggiatore, attore, personaggio pubblico che non fa mistero delle proprie opinioni e idee, non può che rendere fruttuosamente ambiguo un percorso che mai, durante gli anni Settanta e Ottanta, aveva assunto toni tanto radicali. Sia chiaro: in queste analisi abbiamo voluto mettere in evidenza, da una parte, le caratteristiche di costrutto di testi che spesso potrebbero apparire casuali o persino dettati da una tendenza all’improvvisazione – luogo comune che speriamo di aver dissolto –, dall’altra, la presenza di forti elementi di distanziazione tra il Moretti personaggio e il Moretti autore. Caro diario, dunque, primo momento della progressiva presentificazione dell’io morettiano, adduce la tecnica diaristica, suddivide il racconto in tre parti, riduce al minimo l’impressione di finzionalità – anzi, esalta l’ambizione modernista del cinema di mettere in contatto problematico macchina da presa e realtà – salvo poi produrre momenti di falsificazione assoluta. Il terzo episodio, come ricordato, parte dalla terribile sequenza di una seduta di chemioterapia: essa appare dopo che Moretti ha avvertito che “nulla di questo capitolo è inventato”. La scelta di una tecnica – il Super8 – differente dalle altre fa pensare che si tratti di cinema-verità, ovvero della ripresa di una vera sessione di cura. Se così non fosse – non vi sono altri elementi se non quelli extratestuali per conoscere la riposta – ci troveremmo già di fronte a una contraddizione rispetto a quanto promesso dalla voce narrante di Moretti. Inoltre, il resto dell’episodio ripercorre le vicende personali di Moretti – che promette di aver conservato ogni ricetta e ogni diagnosi –, attraverso il filtro della memoria del protagonista. Il patto di fiducia con lo spettatore, quindi, è tri76

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plice: per prima cosa, si chiede allo spettatore di credere che Nanni Moretti sia stato realmente ammalato negli anni passati – e Flavio De Bernardinis ricorda che la notizia era trapelata sino a diventare una vera e propria leggenda metropolitana –; in seconda istanza, di credere alla sentenza d’apertura, “tutto è vero”, a cominciare dalla sequenza in “bassa fedeltà”, che altrimenti non sarebbe stata sottolineata con uno scarto nel codice visivo; infine, lo spettatore deve credere che la “via crucis” morettiana attraverso istituti, medici, ricette, farmacie, ospedali sia il frutto effettivo della schedatura memoriale del protagonista. A ben pensarci, quindi, Caro diario è un film davvero disomogeneo, almeno se pensiamo al rapporto che lega i tre episodi. Dapprima, “In Vespa”, Moretti racconta una Roma che esiste davvero, scrive una piccola storia culturale e urbanistica di una città semi-deserta, e non fa nulla per sottrarre spazio al lato documentario del capitolo – salvo forse l’incontro surreale con Jennifer Beals, grande idea di “citazione vivente” à la Godard. Poi, “Isole”, che appare come un breve racconto umoristico, in cui i legami con la biografia morettiana sono assai labili e la forma tradizionale della narrazione comico-umoristica non vengono davvero mai messi in dubbio come invece accade nel terzo episodio. Infine, appunto, “Medici”, nel quale la nozione di “realismo” assume significati sempre più intricati, e dove – non di meno – si assiste a un inevitabile lavoro di falsificazione dei materiali, non fosse altro che per il fatto di essere stati girati “dopo”. Viene in mente F come Falso (1976) di Orson Welles con la sua dimostrazione che il falso è dappertutto, e con quella celebre promessa di sincerità presto smentita. Non crediamo, davvero, che Moretti volesse citare direttamente il film di Welles e giocare un macabro tiro agli spettatori, inventandosi una malattia e fingendo di ripercorrere un fatto autobiografico indubbiamente dolorosissimo. Ciò non toglie, però, che i regimi enunciazionali e i patti comunicativi con lo spettatore siano, in Caro Diario, di formidabile complessità. Le principali recensioni di Caro diario presenti nei maggiori quotidiani e periodici sembrano quasi tutte schierate a favore 77

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del film, di cui elogiano originalità e qualità cinematografiche. Da sempre, come abbiamo già scritto, la critica cinematografica italiana sembra dimenticare l’analisi della messa in scena morettiana, anche in termini generici ed empirici, e privilegiare sempre e comunque una lettura culturale, politica e ideologica dei contenuti dei film del regista. La critica francese – che citiamo, va ripetuto, perché è quella che ha più approfondito il lavoro visivo di Moretti, e che lo ha eletto, ben più di quella italiana, autore di respiro internazionale – ha una volta di più dimostrato ampiezza di vedute e spericolatezza interpretativa. Viaggio, solitudine, autoironia, coraggio sono le parole che più spesso compaiono negli scritti italiani. In particolare, colpisce molto l’immaginario di tutti il terzo episodio, “Medici”, che sembra sempre al limite tra suprema spudoratezza e lirica confessione. Curiosamente, non sono frequenti gli accenni alla costruzione diaristica del racconto. Tutt’al più si fa riferimento al film come a una sommatoria – più o meno riuscita, a seconda del recensore – degli ingredienti dell’opera, approccio tra i più frequenti (e discutibili) presso la critica quotidianista: Luciano Grandi, sul Resto del Carlino (5 dicembre 1993) scrive: “Diversamente dalle ultime prove del regista, qui c’è ritmo, una colonna sonora azzeccata, gusto del racconto”. Più attento, Luigi Paini sul Sole 24ore (28 novembre 1993): “Nel primo episodio […] Moretti si lascia catturare dalla città deserta e […] in tutti e tre i capitoli non è neutrale, non rinuncia a giudicare, eppure doppia con eleganza lo scoglio mortale del moralismo”. Sempre sul Sole 24ore, e sempre il 28 novembre, anche il noto Roberto Escobar interviene sull’opera e, al contrario di molti colleghi, sembra voler affrontare di petto l’interessante rapporto tra Moretti autore e Moretti personaggio, e la questione riguardante il tipo di focalizzazione che caratterizza il film. Egli scrive, infatti: “La macchina da presa diventa uno specchio discreto in cui lui insieme con noi osserva un suo doppio, l’immagine di sé che era e non è più”. Irene Bignardi, su la Repubblica (13 novembre 1993), definisce Caro diario “un geniale esempio di 78

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saggistica in soggettiva”, intendendo con questo termine più la tendenza morettiana a parlare in prima persona che non la figura stilistica della convenzione cinematografica. A rigore, infatti, nell’episodio “In Vespa” c’è un numero di soggettive non particolarmente apprezzabile, mentre assai più insistente è il ricorso al camera car a seguire o a precedere Nanni Moretti e, in alcuni casi, a semi-soggettive in grado di orientare lo sguardo dello spettatore verso l’illustrazione della città che la voce over del protagonista sta operando. Interessante il commento del decano Morando Morandini, su Il Giorno (19 novembre 1993): “Attenzione: Moretti dice sentimenti, non idee… Moretti dice storie forse soltanto per comodità: almeno in senso stretto, le sue non lo sono. Si chiamano In Vespa, Isole, Medici… A rifletterci bene, sono tre traversate. Non è un film a episodi, in fondo: ‘capitoli’ è già meglio. Mettiamola così: è una sonata in tre movimenti, andante con moto, allegro ma non troppo, adagio sostenuto.” Morandini ha il merito di rendere più problematica la nozione di “episodi” che troppi recensori hanno acriticamente accolto giudicandola omologa rispetto alla tradizione italiana del film a episodi, mentre – un po’ per il filo rosso del protagonista che collega le tre parti, un po’ per la concezione diaristica del film – il testo qui analizzato non si presta a una semplice disarticolazione delle sue componenti. Sui periodici, va ricordata almeno l’entusiastica accoglienza al film data da Enzo Siciliano sull’Espresso. Egli parla di “Un io prepotente che fa diario di se stesso attraverso i fotogrammi” e giudica Caro diario una vera e propria gemma del recente panorama italiano. Tra le riviste specializzate, che hanno il tempo di “lavorare” sul film un po’ più a lungo, bisogna almeno ricordare la bella recensione di Roberto Ellero su Segnocinema, gennaio-febbraio 1994, dove si legge: “Narcisismo? Troppo spesso, nel caso di Moretti, si è fatto ricorso all’espediente dell’autostima esagerata per rimuovere l’imbarazzo nei riguardi di un autore assai poco propenso alle mediazioni del discorso astratto e impersonale, 79

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pur affidando all’immaginario Michele Apicella il compito di travasare nel personaggio le tensioni ed emozioni del proprio sé. Ma in Caro diario succede che persino quell’ultimo diaframma venga a mancare, caricando di ogni possibile obbligo l’io narrante: l’autobiografismo come soluzione e risorsa estrema di un cinema che voglia continuare a testimoniarsi in quanto realtà non meramente effimera, fortemente soggettiva nella rivendicazione del proprio punto di vista, giacché la realtà del cinema è certamente la realtà di un punto di vista sulla realtà del mondo, ma senza alcun ulteriore fuorviante infingimento. È lecito continuare a ritenere frutto di narcisismo tutto ciò?”. La domanda retorica di Ellero prevede dunque una risposta negativa. No, non è possibile. Ed è il caso, una volta per tutte, di classificare Moretti tra i cineasti ancora attratti dalla “modernità”, da quell’idea di cinema che mette in relazione problematica la macchina da presa e la realtà, senza cercare di espungerla dall’audiovisivo – come fa da sempre Hollywood. Se in questa fortuna critica decidiamo di ospitare anche i frutti saggistici più meditati e di lungo respiro, allora dobbiamo citare anche Flavio De Bernardinis che, nella sua monografia su Moretti, afferma giustamente: “Cinema/film, dentro/fuori, personaggio/autore: queste opposizioni non cadenzano la consueta progressione dialettica, nel qual caso Moretti potrebbe affermarsi solo negando Michele, o il film avanzerebbe se sapesse fagocitare il cinema. Proprio Caro diario chiarisce come il testo sappia slittare continuamente nel contesto, il film fiorisca istantaneamente in cinema, l’autore scarti a ripetizione nel personaggio: l’esperienza del transito, insomma, e cioè la Vespa, le isole, i medici. Il film si rompe, non si nega”. In un numero monografico della rivista Garage, invece, datato 1999, Federica Villa – nel bel saggio intitolato “‘Oggi farò delle belle riprese, sì, anche se mi vergogno un po’’. Percorso nel raccontar leggero” – interpreta perfettamente alcune figure scelte da Moretti, quasi in risposta all’accenno sopra esposto di Irene Bignardi. Villa scrive, infatti: “A nostro avviso, il ribaltamento della soggettiva iniziale nell’interpellazione finale segna 80

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ancora una volta la clamorosa espressione della vergogna di Nanni Moretti: guardando lo spettatore negli occhi viene a mancare l’evidenza del diario, dove tra il lettore-spettatore e il soggetto percepito – letto o visto – non esiste mediazione, ma un rapporto diretto. Viene sottratta cioè la regola prima del patto autobiografico che sanziona come credibile la concessione data al lettore-spettatore di entrare direttamente in contatto con la realtà privata, intima, di chi parla”. In Francia, invece, le riviste specializzate incominciano a parlare di Caro diario già prima della sua presentazione al Festival di Cannes e della successiva distribuzione nelle sale francesi, indice dell’impazienza che la lunga attesa del nuovo film di Nanni Moretti ha generato nel corso di quattro lunghi anni. Mai, in precedenza, un film di Nanni Moretti ha occupato così tanto spazio nelle revues: i Cahiers dedicano al film la copertina, due critiche e una lunga intervista, ma ritorneranno anche successivamente a parlarne; lo stesso fa Positif. In più, alle abituali riviste che si sono sempre occupate di Moretti, si aggiungono due critiche sul film de Le Mensuel du Cinéma e uno speciale di venticinque pagine redatto da Trafic, l’innovativa rivista lanciata nel 1991 da Serge Daney, la quale coglie l’occasione dell’uscita del nuovo film del regista per riflettere su tutta l’opera morettiana. L’ottica con cui il film viene affrontato dai critici francesi è dunque duplice: da una parte si scorge l’attenzione tradizionalmente offerta dalla critica transalpina alle forme della messa in scena, esaltate e non depresse – come spesso si è creduto in Italia – da Nanni Moretti; dall’altra l’ottica antiberlusconiana, visti i tempi che corrono, fa sì che Moretti cominci a diventare il vero rappresentante della sinistra in Italia agli occhi dei media francesi. Il critico dei Cahiers, Nicolas Saada, dimostra come i desideri espressi dall’autore, intento a circolare con la sua Vespa, in voce over, immediatamente si realizzino: “Nanni rêve de film à faire: ‘Je rêverais de tourner un film entièrement fait de maison’. A l’image, on ne voit alors que des maisons de Rome. Ce rêve du cinéaste se matérialise sous nos yeux. Caro diario comble en permanence ce fossé qui sépare une idée de sa réalisation”. 81

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Nel loro saggio su Trafic, Julien Husson e Mathieu PotteBonneville interpretano l’episodio anche come sorprendente, quanto originale, percorso di ricostruzione storica, economica e sociale della città: “Caro diario invente une mémoire de Rome, transformant le désoeuvrement, la pornographie d’une ville au mois d’août (relayé par la programmation des salles de cinéma, des films X aux navets gore encensés par l’extrême gauche), en leçon de géographie. Peu à peu, apparaît la ségrégation douce qui marque la ville, comme une géologie historique. Garbatella le quartier popu, les beaux immeubles aux loyers inaccessibles”. A tal proposito Lorenzo Codelli su Positif cita correttamente le inchieste zavattiniane, in particolare quell’Amore in città del 1953, tardo frutto di un neorealismo in piena ed emozionante – quanto presto abortita – ridefinizione, per rivedere strade e quartieri di Roma diventare protagonisti attivi di un film ed essere filmati con altrettanta passione. Codelli individua, però, nell’episodio anche altri elementi. Per il critico di Positif, tutti i personaggi che il protagonista incontra durante la sua passeggiata in Vespa, sono rappresentativi di un’incomunicabilità che ricorda quella dei film di Antonioni: “Les rares rencontres, les arrêts dus aux hasards pour communiquer en phrases hachées son propre émerveillement, se révélent des sommets d’incommunicabilité au sens antonionien, comme dans le finale déshumanisé, désert, de L’Eclipse: la star Jennifer Beals se moque doucement de lui, le traite de jeune fou; un automobiliste gassmanien le laisse monologuer sans le contredire”.

Un incantevole aprile Passiamo ora a un’altra opera di Nanni Moretti, quell’Aprile che segna un momento assai diverso nella carriera del regista. Impregnato di vicende personali, mescolato indissolubilmente a fatti reali e passaggi documentari, il film è stato accolto come una raccolta di “note a margine”, se non di nugae, da parte di un autore in debito di ispirazione. Se ci si permette lo spazio per un breve giudizio critico, a noi sembra al contrario che Aprile rap82

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presenti una bella sfida: da un certo punto di vista, che cosa c’è di più provocatorio che far attendere cinque anni dal film precedente – Caro Diario – per poi presentarsi con un’opera che a stento supera l’ora e un quarto e racconta piccoli episodi della propria vita messi a confronto con le svolte dell’Italia? Come suggerito da Giacomo Manzoli, inoltre, il film sembra una letterale applicazione del desueto concetto di caméra-stylo teorizzato da Astruc nel 1948: un film girato come si scriverebbe una memoria personale – un diario? –, leggero ma pensoso, che non rispetta gli snodi drammatici tradizionali, e forse si offre comunque come apax per la nostra cinematografia, sempre più standardizzata. Davvero sembra un’operetta morale che ha un sapore al contempo letterario e cinematograficamente “modernista”, tanto che si potrebbe supporre che Caro Diario e Aprile costituiscano un esempio, se si vuole estremo e contraddittorio, di quell’eredità neorealista che Moretti, e forse Kiarostami, oggi, declinano con grande originalità. Nominiamo Abbas Kiarostami, e più in generale il cinema iraniano, perché in esso, programmaticamente, si rifonda l’estetica rosselliniana, e perché Moretti, ammettendo così le forti influenze subite, ha dedicato al regista orientale il cortometraggio Il giorno della prima di Close Up. Per convincere lo scettico della complessità di costruzione di Aprile, a dispetto dell’apparente svagatezza e incuria del testo, niente di meglio che esercitare le armi dell’analisi. Una segmentazione del film, ad esempio, costringe l’analista a incunearsi nella scrittura cinematografica fatta di piccoli episodi dell’opera, e scandagliarne la struttura soggiacente. Vediamo, dunque, un esempio di segmentazione di Aprile.

Titoli di testa 1) Didascalia: 24 marzo 1994. La sera dei risultati elettorali 1a) Appartamento della mamma di Nanni Annuncio della vittoria di Silvio Berlusconi da parte di Emilio 83

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Fede da uno schermo televisivo. Il protagonista si lamenta, attacca i politici della sinistra poco coraggiosi, si accende uno “spinello” gigantesco di fronte agli occhi della madre. 1b) La Resistenza Dopo un colloquio con un giornalista francese, in cui Nanni viene esortato a girare un documentario sulla caotica situazione politica italiana, il protagonista decide di filmare la manifestazione del 25 aprile. Piove, ed egli, posizionato in alto, non riesce a riprendere che una suggestiva distesa di ombrelli. 2) Didascalia: Un anno e mezzo dopo 2a) Il musical Nanni annuncia di essersi messo a lavorare su un vecchio progetto di musical in costume, ambientato durante gli anni Cinquanta. Per questo motivo, decide di incontrare Silvio Orlando, nei panni di se stesso, per offrirgli la parte del protagonista, un pasticcere. 2b) Silvia è incinta Nanni apprende che la sua compagna aspetta un bambino. Pur frastornato, accoglie con entusiasmo la notizia, tanto da mettersi a pensare ai nomi di attori nati nella stessa data prevista per il parto. Convengono che sarebbe meglio non diventasse un attore. 3) Didascalia: Il primo giorno di riprese Dopo una giornata stressante di blocchi e ripensamenti sul set, Nanni decide che quel film non s’ha da fare. Incarica Angelo Barbagallo, suo produttore, di comunicarlo agli attori. Orlando è costernato. 4) Didascalia: Primavera ’96. Arrivano le elezioni 4a) Elezioni Nanni ha deciso di girare finalmente il famoso documentario sull’Italia. Lo comunica ai suoi collaboratori, mentre veniamo a 84

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sapere che ci sono in vista nuove elezioni. 4b) Giornali Nanni, davanti a un’edicola, fa un iperbolico elenco di giornali che lo interessano. Senza soluzione di continuità, mentre continua a parlare, eccolo steso su un “tappeto” di ritagli incollati tra loro, tanto numerosi che ci si può arrotolare. 5) Didascalia: “Sono pronto, sono quasi pronto” 5a) Bambino in arrivo Una breve successione di scene ci mostra Silvia e sua madre nell’intento di preparare la stanza del nascituro; una discussione tra Nanni e Silvia sul nome da dare al bambino; vestitini per il neonato in arrivo: Nanni prepara ben otto paia di scarpine, sua vecchia ossessione. 5b) Strani giorni Nanni e Silvia scelgono che film andare a vedere. Viste le idiosincrasie di Nanni, l’operazione non è semplice. Scelgono, infine, Strange Days. In sala, lui è schifato; a casa, insonne, ripete desolato alcuni dialoghi che considera pacchiani. 5c) Non ancora Nanni ammette di non essere pronto per il grande passo. Cerca di comunicare col piccolo Pietro attraverso la pancia della mamma. 5d) Dì qualcosa di sinistra Di fronte a un dibattito televisivo nel quale Berlusconi al solito imperversa, Nanni inveisce contro D’Alema, colpevole di stare in silenzio. Poi gira per la città, deluso dalle strategie della sinistra. Infine raggiunge l’amico regista Daniele Luchetti su un set pubblicitario, ma lo provoca per il solo gusto di litigare. 5e) Distratto Evidentemente nervoso per le scadenze incipienti, Nanni non ascolta né Silvia né i propri collaboratori, poi rimette in discussione il documentario in favore del musical. 5f) Comizi Nanni gira in pullman nell’intento di filmare alcuni comizi. 85

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Finisce col guardarne uno di Berlusconi in una sala buia. 5g) Hyde Park Dopo aver rinunciato a un congresso della sinistra, Nanni ricorda che a Londra, in Hyde Park, “c’è un angolo in cui, la domenica, qualsiasi matterello può dire ciò che vuole”. Ed ecco Nanni che, in una scena chiaramente onirica, comincia a leggere alcune lettere di riflessioni e a distribuirle alla piccola folla intorno. 6) Didascalia: “Oggi non sono molto in forma” 6a) Stajano Nanni vuole intervistare il senatore Stajano, che ha deciso di non ricandidarsi. Il colloquio procede a fatica, interrotto dal trasloco del politico. Nanni, poco in forma, rinuncia. 6b) Contrazioni Giunge il momento. Nanni, nervoso, conduce Silvia in ospedale. 6c) Telefonate Nanni racconta le fasi del parto a un telefono pubblico. Poi tenta di appendere un cartello in favore dell’epidurale; quindi, sempre per telefono, quattro volte, informa lo spettatore che si è passati alla decisione del cesareo. Ultima telefonata: Pietro è venuto alla luce, sano. Silvia sta bene. 6d) Tiberina Passeggiata lungo la sponda del Tevere. Rientro a casa. 6e) Incontri Nanni in ospedale incontra amici e collaboratori. 7) Didascalia: “È un risveglio” 7a) Elezioni Dopo una lezione sui sondaggi di cui capisce poco, Nanni si reca a Botteghe Oscure per riprendere alcune interviste. Poi dice di andare al bar, ma in verità scompare. È in ospedale per la prima poppata di Pietro. 7b) Vittoria 86

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L’Ulivo ha vinto. Nanni lo apprende da Prodi in Tv. Di notte gira in vespa per le strade in festa. Esulta gridando il peso di suo figlio. 7c) Pietro piange Vari momenti in cui Pietro piange. I genitori vorrebbero resistere, ma poi corrono da lui, ignorando i consigli del pediatra. 8) Didascalia: “Devi uscire allo scoperto tu!” 8a) Dubbi Nanni chiede consiglio a un’amica su come affrontare il ruolo di padre. 8b) Giochi Nanni e Silvia fanno il bagnetto al piccolo. Nanni balla e canta tenendo in braccio il “fagotto”. 9) Didascalia: “Come faceva a darmi il latte?” 9a) Madri Nanni si chiede come facesse la madre a lavorare allattandolo. Sua madre gli racconta il modo in cui si organizzava. 9b) Passeggiate Dopo aver sistemato i ritagli, Nanni passeggia con Pietro in una cesta. 10) Didascalia: “Noi, popoli della Padania…” 10a) Leghisti Nanni decide di andare a filmare un raduno dei leghisti sul Po. Su un motoscafo, cercano di riprendere, sia pure con imbarazzo, l’arrivo della flotta padana. Da un palco, poco dopo, Bossi arringa la folla. 10b) Venezia Nanni, a Venezia, mentre dovrebbe dirigere le riprese, ripensa al musical e comincia assurdamente a ballare.

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11) Didascalia: Tagli, ritagli e copertine 11a) Altri ritagli Nanni sta ritagliando le copertine dell’Espresso. Con lui c’è Pietro, insieme immersi in una montagna di carta da giornale. 11b) Brindisi A Brindisi, Nanni, poco dopo la tragedia del traghetto albanese affondato, filma alcune interviste a gente del centro profughi. Poi si pente, e attacca la sinistra che nemmeno si è presentata sul luogo del disastro. Una nuova nave giunge in porto. Nanni interrompe il documentario. 11c) Compleanno Nanni compie 44 anni. L’amico regista De Maria gli ricorda che gli anni trascorrono, e Nanni, pensando alla durata dell’età, corre un po’ in Vespa, infilandosi una mantella quasi da supereroe. 11d) Musical, finalmente Senza soluzione di continuità, Nanni giunge a una vecchia fabbrica e scopre che è già il set del suo fatidico musical. Grida “Motore” e partono le danze. Titoli di coda.

Come si è potuto notare, Aprile è un film assai problematico per chi vuole osarne una scomposizione. Da una parte, vi è lo stile di Nanni Moretti, che da sempre privilegia l’autonomia della singola scena – e di conseguenza il montaggio interno ai danni del montaggio di concatenazione –, in più portato al parossismo per adeguarsi, con tutta probabilità, ai temi trattati, famigliari e diaristici. Dall’altra, la tentazione di considerare Aprile un’opera semidocumentaria, in cui la narrazione non può essere individuata. Dunque, abbiamo scelto di farci guidare nell’individuazione delle sequenze da segni grafici, che abbiamo chiamato didascalie, che il testo offre come “guida” alla consultazione spettatoriale. Non esiste alcun motivo per il quale l’analista dovrebbe 88

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rifiutare la suddivisione offerta dal film, salvo riconoscervi evidenti depistaggi operati dal testo e dall’autore. Ma, a parte l’estrema eterogeneità dei singoli blocchi, anche da un punto di vista cronologico, la periodizzazione interna appare piuttosto accettabile. I problemi, caso mai, vengono dopo. Non è altrettanto semplice accettare queste sequenze come entità autosufficienti e bastanti per la segmentazione del racconto. È anzi piuttosto evidente che bisogna fare ricorso all’istituto della “sottosequenza”. Ecco che, in questo caso, l’analista può – e in questo caso, deve –, rifiutare la strada più comoda, che sarebbe quella di registrare semplicemente le varie “scene” offerte dal film ed elencarle all’infinito quasi fosse un catalogo di quadri. Vi sono, secondo noi, precise strategie narrative all’interno di Aprile che portano Moretti alle volte a far coincidere scena e sottosequenza, e altre volte a collezionare una breve serie di scenette su un singolo tema: si veda, in questo senso, la sottosequenza 6c, in cui alcune telefonate, interrotte da stacchi visibili, non si offrono come momenti tematico-narrativi diversi, ma vanno raccolti all’interno di un unico blocco: ovvero il racconto del parto, brillantemente risolto da Moretti all’interno di questa versione “in differita” della sua prima esperienza di padre. Concentriamoci sulla prima sottosequenza. Sequenza 1a) Inq. 1 (18”) PP, mdp fissa, frontale. Voce di un conduttore proveniente da un televisore Un televisore acceso, di cui si intravedono i bordi, riempie completamente l’inquadratura. La Tv trasmette un telegiornale in cui Emilio Fede commenta la vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche italiane. Inq. 2 (16”) FI, mdp fissa sui due personaggi seduti di spalle. Sullo sfondo si vede ancora lo schermo, che illumina la scena con la luce artificiale. 89

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Come sopra. Nanni e sua madre sono seduti in salotto, mentre guardano la Tv prima inquadrata. Egli fa un piccolo cenno di delusione in direzione della mamma. Inq. 3 (11”) Come inq. 1. Come sopra. Dallo schermo, il conduttore prosegue la sua analisi della vittoria politica. Inq. 4 (3”) Mdp fissa, frontale ai personaggi ripresi a MF in CM leggermente più ravvicinato di quello precedente di spalle. Come sopra. Nanni e la madre guardano fissi in camera. Sullo sfondo, una lampada accesa. Inq. 5 (19”) Come inq. 1. Come sopra. Continua il discorso di Fede. Inq. 6 (9”) Come inq. 4. Voce di Nanni e della madre sovrapposta a quella della TV. Primi commenti. Nanni: “Che dici?”. Madre: “E che vuoi dire?”. “È andata così…è andata così”. Inq. 7 (15”) Come inq. 1. Voce della cronista televisiva. Una giornalista del TG5 parla astiosamente dell’assenza di dirigenti del PDS in sede. Nessuno di loro, evidentemente, vuole commentare i risultati.

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Inq. 8 (28”) Come inq. 1. Il protagonista è voltato leggermente a sinistra, la madre a destra. Voce del protagonista. Nanni: “Preparati, preparati! Allora, se vinci, ti prepari un discorso, un vestito, una faccia, scendi giù e parli. Se perdi, e abbiamo sempre perso – no? –, scendi e fai un discorso fermo e dignitoso. Sono le undici e mezza e ancora non si vede nessuno. ‘La sera del 28 marzo del 1994 quando vinse la destra, per la prima volta mi feci una canna’”. Inq. 9 (14”) MF, mdp fissa frontale rispetto alla madre, a 90° rispetto a Nanni. Voce di Nanni, televisore in sottofondo. Nanni fuma uno spinello gigante sotto gli occhi della madre, per nulla turbata. Inq. 10 (10”) Come inq. 1. Voce di Berlusconi in Tv. Berlusconi parla della vittoria Inq. 11 (5”) PP, mdp fissa frontale rispetto allo sguardo. Voce di Berlusconi in Tv. Nanni guarda in macchina e continua a fumare. Inq. 12 (4”) Come inq. 1. Voce di Berlusconi in TV. Berlusconi conclude una storiella su di lui e suo figlio.

Ogni volta che scegliamo una sequenza da analizzare, come dicevamo all’inizio, dobbiamo saper giustificare il motivo per 91

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cui ci è sembrata importante. In questo caso, si evidenzia il progetto del film Aprile. Proviamo a vedere quali sono i nodi tematici che vengono alla luce da questa sequenza, e che ci sembrano ripetersi per tutto il film: - la sovrapposizione tra pubblico e privato. Per Nanni, durante tutto il film, l’intrecciarsi del piano politico, di quello professionale e di quello personale è continuo. Qui la vittoria di Berlusconi, non a caso annunciata attraverso le sue reti televisive e non attraverso qualunque altro mezzo di comunicazione, appare questione di grande importanza per Nanni, tanto da spingerlo a farsi una canna per la prima volta in vita sua. - la storicizzazione dell’esperienza. La sequenza si apre con una didascalia, e inoltre, durante l’inq. 8, la voce di Nanni passa dal colloquio con la madre a raccontare ciò che ci si aspetterebbe da una voce over. Si tratta di un espediente di diegetizzazione diretta, straniante, che rappresenta solo il primo dei casi in cui Moretti lavora sulla voce, o sul suono, per collegare diverse situazioni temporali – come in questo caso, mantenendo l’unità di tempo, luogo e azione –, o tematiche. - la costruzione del gag. In un contesto di assoluta verosimiglianza e quotidianità, Moretti inserisce un effetto comico basato sull’iperbole, uno dei preferiti dal regista romano. Lo spinello, infatti, assume dimensioni impressionanti. Una buona competenza intertestuale del cinema di Moretti farà sì che non solo l’analista riconosca il comico morettiano, ma che lo metta in relazione, come allusione o omaggio, al barattolo di Nutella, altrettanto iperbolico, di Bianca. A livello stilistico, viene introdotto il principio delle inquadrature brevi, preferibilmente a macchina da presa fissa, senza soluzioni particolarmente virtuosistiche. Abbiamo già detto di come lo stile di Moretti sia stato più volte rimproverato proprio a causa di una presunta staticità della messa in scena. In verità, i giudizi di questo 92

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genere si sono letti per lo più sui quotidiani dove, come noto e al di là di fulgide eccezioni, la critica non brilla per approfondimento. E dunque, proprio con Aprile, quello di Moretti, già affermatosi come uno stile personale, viene portato alle estreme conseguenze, sbriciolandosi in una serie di piccoli quadri e brevissime scene, come Moretti non usava fare almeno dai tempi di Ecce Bombo. D’altra parte, Moretti non è nemmeno un cineasta del “pianosequenza”, di quelli che tendono la durata del quadro sino all’esasperazione. Di qui i fraintendimenti sulle sue capacità di regista. Ognuna di queste inquadrature rispetta la scelta fatta dall’autore e, anzi, introduce chiaramente le caratteristiche del film: l’ambiente famigliare è spoglio, quasi anonimo; la contrapposizione tra la normalità della vita quotidiana e i cambiamenti storico-politici della storia italiana rappresenta l’asse, anche stilistico, su cui poggia il film, e dice della responsabilità di intellettuale che Moretti raccoglie in tutta la sua problematicità, anche ammettendo la crisi di questo concetto. Non è un caso che, poco dopo questa sequenza, Nanni (personaggio) decida di filmare la manifestazione del 25 aprile e subisca lo scacco di poter riprendere solo ombrelli: è anch’esso, a suo modo, un gag ottenuto con materiali documentari. Il piano più suggestivo su cui si muove il film è senza dubbio quello enunciativo. Limitiamoci, per ora, all’analisi empirica di questa sottosequenza. Notiamo, in essa, la presenza di forme di appello diretto, figure attraverso cui il racconto filmico si rivolge allo spettatore chiamandolo in causa direttamente. La prima volta compare proprio nella prima sequenza dell’opera: dopo che abbiamo visto l’ambiente nel quale Nanni e la madre stanno guardando il televisore, e dopo che più volte il televisore stesso è andato a occupare lo spazio intero dell’inquadratura, troviamo i due personaggi ripresi frontalmente: il loro sguardo è diretto proprio verso la macchina da presa e, in certo modo, verso lo spettatore (inq. 4). Usiamo cautela, perché non si tratta propriamente di quella che Casetti chiama “enunciazione enunciata”. Si tratta, propriamente, di uno sguardo in macchina diegetico, ovvero giustificato dal fatto che è verso il televisore, al cui posto è stata collocata la macchina da presa, che i due guardano. 93

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L’effetto che si produce, oltre che ironico a causa dell’espressione rassegnata del protagonista, in netto contrasto col trionfalismo mediatico, è quello di creare un primo, forte legame con lo spettatore. Nanni, infatti, guarda metaforicamente verso tutti quegli spettatori che, con buona probabilità, hanno reagito con la stessa rassegnazione al medesimo annuncio. L’autore, forse, sta già, dalla prima sequenza – in pratica dall’ingresso del testo –, selezionando il suo modello. A questo punto, però, occorre fermarsi. La scelta dell’analista dovrebbe essere stata preliminare. Dovrebbe, cioè, aver già decretato che la questione enunciativa gli preme, e forse si può rivelare decisiva per fornire un’interpretazione del film. Non è il caso, dunque, di anticipare tutti i ragionamenti in sede di analisi della sequenza, e tanto meno nella discussione, sia pure animata, delle singole inquadrature. Meglio mantenere qualche cartuccia per l’impegno successivo.

Una interpretazione Aprile, dunque, appare come un film in cui la famigliarità del racconto e i modi scelti per metterlo in scena – sia narrativi che stilistici – presuppongono alcune strategie testuali in grado di attrarre lo spettatore e dialogare quasi direttamente con lui. Tra queste strategie, una è sicuramente quella dello sguardo in macchina, che non sempre assume le forme di una interpellazione diretta, ma serve in ogni caso a costruire un regime di affinità comunicativa. Pensiamo, infatti, alla sequenza 5d: ancora una volta, all’inquadratura dello schermo televisivo segue quella del protagonista che guarda dritto verso di noi. La diegesi permette di comprendere che cosa egli sta effettivamente fissando, ma anche in questo caso insieme all’effetto comico si instaura un rapporto di complicità immediata con lo spettatore. Leggermente diverso lo sguardo in macchina della sequenza 4b: in quel momento, infatti, abbiamo davvero l’impressione che Nanni si rivolga a noi, anche perché le prime parole che pronun94

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cia potrebbero essere intese come formule di saluto – salve, salute, come stai? –; il controcampo successivo, però, mostra il protagonista di spalle davanti a un’edicola, rivelando quindi a chi era diretto lo sguardo. La chiamata nei confronti dello spettatore è diretta: non si tratta più, in questo caso, di utilizzare primi piani frontali e inattesi in una dinamica di campi e controcampi, ma di tendere una trappola allo spettatore, che in un primo momento ha l’impressione di subire una interpellazione diretta, e in un secondo tempo “rientra” in una più tradizionale diegetizzazione degli sguardi. Infine, possiamo annoverare anche lo sguardo di Orlando nella sequenza finale del film, giustificato dal fatto che viene rivolto alla macchina da presa in azione sul set del musical – quindi del film nel film –: esso è una specie di simmetrico del primo sguardo di Nanni, nella sequenza d’apertura, e potrebbe valere come congedo, ma è anche offerto da un personaggio che, sia pure importante in alcuni momenti di Aprile – in particolare quelli più paradossali in cui si discute della possibilità di girare il benedetto musical sul pasticcere trotzkista –, non sembra in grado di orientare definitivamente le dinamiche autore/spettatore – o se si preferisce autore implicito/spettatore modello – che reggono il resto del film. Un’altra forma di appello diretto rintracciabile nel film è costituita, evidentemente, dalle didascalie. In questo caso, si tratta di una figura in grado di fornire istruzioni esplicite da un punto di vista enunciativo. L’istanza narrante interviene direttamente nella narrazione sostituendosi letteralmente alle immagini. In Aprile il ricorso alle didascalie ha prevalentemente la funzione di organizzare la struttura della narrazione, articolarla in undici parti, organizzarla come se fossero i capitoli di un romanzo. Il codice grafico, nel film, presenta due differenti caratteristiche: da una parte vi sono le didascalie “esplicative” – del tipo: “24 marzo. La sera dei risultati elettorali” o “Il primo giorno di riprese” –; dall’altra, troviamo didascalie “enunciative”, che riportano brandelli di dialogo, sembrano sottintendere a un monologo interiore o comunque non hanno più funzione 95

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descrittiva – del tipo: “Sono pronto, sono quasi pronto”, oppure “Devi uscire allo scoperto tu!”. Il fatto curioso di queste ultime è che spesso riportano parole pronunciate da personaggi a dir poco secondari all’interno della storia, se non addirittura semplici comparse – l’amica, Piepoli, Bossi etc. Un’ultima forma di appello di cui va segnalata l’esistenza è la voce over. Si tratta di una voce narrante esterna alla diegesi, che rappresenta cioè una esplicita figurativizzazione dell’istanza narrante. In Aprile il ruolo della voce over assume aspetti di forte complessità. Il narratore è lo stesso protagonista – persino il regista stesso, con nome e cognome, ma come vedremo non vi sono in pratica zone di sovrapposizione tra persona e personaggio –, che parla al presente e in prima persona di ciò che accade al personaggio, delle sue azioni e dei suoi pensieri. Lo fa, però, spesso “distaccandosi” dal personaggio che, in scena, di solito non parla molto, limitandosi a fare cose o a dialogare, sì, ma con altri personaggi in scena, con una voce che si sovrappone e progressivamente sostituisce quella del narratore. La presenza di questa voce over è particolarmente importante: serve a “distaccare” i piani di sovrapposizione tra Nanni e Moretti – se ci si passa il bisticcio –, e a raffreddare un’identificazione che porterebbe lo spettatore a considerare tutto ciò che vede come frutto della registrazione della realtà. Spieghiamoci: la presenza di immagini girate dal vero o l’utilizzo di materiale televisivo originale potrebbero far scattare nello spettatore l’adesione a un patto fiduciario con l’autore, in base al quale tutto ciò che egli mostrerà sarà accolto come vero; la voce narrante è lì invece a spiegarci che quello a cui stiamo assistendo è pura fiction, sia pure largamente ispirata ai fatti personali – e anche pubblici – di un regista ampiamente conosciuto e celebre. Moretti-attore recita la parte di se stesso, e il passaggio dal semi-documentario all’antirealismo è, come al solito nell’opera di questo regista, quasi impalpabile. Ecco perché diventa così importante l’inquadratura 8 della sequenza 1a: in quel momento stiamo assistendo a un dialogo tra Nanni e la madre, o meglio tra Nanni e il televisore. Il personaggio in scena, quasi d’improvviso, cambia tono 96

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di voce e si “astrae” dalla sequenza, mettendosi a parlare come una voce over: “era la sera del…”: al ruolo di personaggio subentra quello del narratore; l’incipit dichiara immediatamente sia la sovrapposizione dell’esperienza personale e di quella narrativa, che il carattere di costrutto del testo che stiamo guardando, una specie di “differita” della vita di un intellettuale di fronte all’urgenza della cronaca e della vita politica nazionale – oltre che della vita personale, rappresentata come un’estensione di quella pubblica, almeno fino a quando il rapporto tra i due universi non si ribalta di segno. Quello dell’inquadratura 8 è comunque l’unico momento in cui il narratore del film si rende visibile in maniera così esplicita. Nel seguito della narrazione, del resto, ascoltiamo il narratore in voce over e vediamo il personaggio, senza più momenti di ambiguità come quelli che Moretti ha preferito dichiarare all’inizio del film. L’intero film, tra l’altro, è costellato di marche enunciative che fanno la propria comparsa in modo piuttosto netto. Basti pensare alla sequenza 6d, quella in cui Nanni scende sul lungo Tevere e l’inquadratura dall’alto dell’isola tiberina si allarga lentamente in un campo lunghissimo all’interno del quale il personaggio rimpicciolisce fin quasi a scomparire. Vi è, in questo caso, un progressivo passaggio di campi nella scala dei piani, che porta da un campo medio a uno lunghissimo che, in qualche modo, si “mangia” il personaggio. Se si pensa che ciò accade poco dopo che abbiamo assistito al parto di Silvia in via del tutto indiretta – tutta la sequenza, come si ricorda, è raccontata attraverso le telefonate di Nanni ad amici e parenti, come in “sottrazione” – ecco che l’istanza narrante ci sembra particolarmente propensa a prendere decisioni nette e a giocare con il personaggio Nanni e con lo spettatore senza paura di rischiare la propria credibilità. La presenza di parecchie oggettive irreali, propone lo stesso genere di problemi enunciativi. Ma, insomma, dopo questa lunga analisi sulla narrazione, la messa in scena e l’apparato semio-pragmatico del film, che cosa si vuole dimostrare? Beh, pensiamo sempre al fatto che Aprile si colloca in un contesto preciso, in cui non si può ignorare lo 97

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spettatore. Il destinatario di Moretti, infatti, è duplice. Da una parte, lo spettatore d’essai, che ha scelto di vedere quel film perché sa che si tratta della nuova fatica di un regista che ama, e che fruisce dell’opera magari apprezzandone la costruzione e godendo delle scelte estetiche di Moretti; dall’altra, un diverso tipo di spettatore, un po’ più “fanatico”, che ha seguito le vicende personali di Moretti attraverso i mass media, che è preparato all’ambiguità dell’io con cui Moretti si presenta in scena, e che probabilmente possiede un’enciclopedia intertestuale – per dirla con Eco – particolarmente articolata, che gli permette di riconoscere nei personaggi di Silvia e Angelo la vera compagna di Nanni e il vero produttore Barbagallo, e che al contempo nota che il Nanni del film racconta, sì, le vicende del Moretti reale, ma come interpretandone le reazioni alla luce del vecchio personaggio Apicella. Gli effetti comici di esagerazione o iperbole – lo spinello –, o i momenti paradossali – le otto paia di scarpine – ricordano allo spettatore avvertito che c’è sempre all’opera il personaggio di Bianca, tanto per citare il più ossessivo della sua galleria. La questione prende persino connotati sinistri, se pensiamo che il film della dichiarata felicità di Moretti è ancora costellato delle manie provenienti dal personaggio di un film in cui si scopriva essere niente meno che un assassino di giovani coppie innocenti. Come si vede, il terreno di scambio tra testo e co-testo è friabile, o se si preferisce è talmente ricco da perdercisi. Il ricorso a interpellazioni, marche intertestuali forti, didascalie, deissi, e quant’altro possa instaurare un dialogo enunciativo con lo spettatore non è altro che la conseguenza del progetto estetico di Aprile, un film che costruisce il proprio spettatore con una lucidità fuori dalla norma. Tutto questo avviene all’interno di un testo che, manco a dirlo, è stato liquidato anche dagli appassionati difensori del regista con analisi semplificative e di stampo puramente contenutistico, appunto come se si trattasse – si diceva poc’anzi – di nugae, di sciocchezze girate a margine dei film importanti. L’analisi del film dovrebbe, come in questo caso, servire anche a gettare luce sulla struttura di opere assai 98

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più complesse di quel che poteva sembrare a una prima visione. E dall’analisi – o almeno da una buona analisi –, può scaturire una buona interpretazione, oltre che di conseguenza una migliore comprensione del testo anche da un punto di vista critico e valutativo. In conclusione di questo percorso analitico, alcune note su Il caimano. Del film si è parlato molto già prima che uscisse. A questo ha contribuito anche il tradizionale mistero di cui si circonda ogni nuova realizzazione morettiana. Certamente si sapeva che la nuova pellicola avrebbe avuto a che fare con Berlusconi, e altrettanto bene si poteva immaginare che Moretti si sarebbe tenuto lontano da libelli polemici in stile Michael Moore. Tuttavia, alla sua uscita ufficiale, Il caimano è riuscito a spiazzare comunque le attese degli spettatori. Nel film, infatti, convivono le due anime del Moretti contemporaneo: da una parte, la tentazione, discutibile, di portare il proprio cinema in territori più popolari e più riconoscibili, poggiando quindi su sceneggiature di maggior trasparenza e circondandosi di collaboratori molto attuali nel panorama del cinema italiano; dall’altra, la tendenza all’astratto, all’ulteriore gioco sull’io e all’inquinamento delle fonti cronachistiche. Dentro Il caimano, infatti, si parla effettivamente di Berlusconi, tuttavia il personaggio pubblico viene isolato all’interno di una finzione borgesiana, e di un labirinto di specchi narrativi a tratti vertiginoso. Basti pensare che il Cavaliere viene interpretato da diversi attori: c’è il Berlusconi “immaginato” dalla sceneggiatura della protagonista, c’è il Berlusconi che sembra a un certo punto dover essere interpretato da Michele Placido nei panni (più o meno) di se stesso, c’è il vero Berlusconi nelle sequenze di repertorio e infine c’è il Berlusconi cui lo stesso Moretti – con mossa spregiudicata e geniale – offre il volto. Quel che stupisce e lascia abbastanza interdetti, semmai, è l’ossessione del cineasta per l’antagonista politico e culturale: l’idea che all’allora capo del governo si facciano risalire trent’anni di malcostume italico non è di per sé scandalosa. Lo è 99

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di più che questi tre decenni siano in fondo gli stessi del cinema morettiano. Proprio quando Berlusconi, infatti, muoveva i primi passi nella televisione commerciale, facendo leva sulla Legge di riassetto televisivo del 1975, Moretti cominciava autarchicamente a fare film. Il faccia a faccia – giocato anche nelle piazze e in occasione dei girotodondi, oltre che naturalmente in Aprile – si sarebbe dunque protratto per tutto questo tempo, e non solo durante l’ultima fase, convulsa, della politica italiana. Moretti, dunque, in spregio a ogni somiglianza fisica, decide di “divorare” il nemico diventando lui, sostituendosi a lui nell’ultima sequenza, giudicata giustamente apocalittica. È chiaro, perciò, che ci troviamo di fronte a una ennesima metamorfosi di Moretti, il quale – a metà film – impersona di nuovo se stesso nell’atto di rifiutare la parte, in quanto fare un film su Berlusconi non avrebbe avuto senso. La negazione morettiana vale per assurdo a confermare la necessità del film, come a dire: “solo in questa chiave, quella che state vedendo, è possibile oggi parlare di Berlusconi”. E non può essere un caso, che, seguendo Truffaut, Moretti voglia esprimere la propria opposizione personale e sociale a Berlusconi attraverso un filmnel-film, riconfermando una volta di più la veemenza astratta del suo metacinema. Il risultato è al tempo stesso diretto e fortemente teorico. Mentre nella parte dedicata ai problemi famigliari del protagonista interpretato da Silvio Orlando, il film si fa stranamente tradizionale, persino conservatore – e in certo senso deludente –, in quella “politica” si gioca la dimensione riflessiva e filosofica del cinema morettiano. Oggi il poeta civile deve dunque ricorrere ancora una volta agli specchi deformanti: nessuno è più in grado, a fine film, di distinguere il Berlusconi fittizio da quello vero, ma ciò vale anche per Moretti, che in questo modo afferma il valore “spettacolare” della persona pubblica che si trova a voler combattere. Qualcuno giustamente ha notato che, in fondo, si fissano negli occhi due self made men, due autarchici: colui che ha voluto assumere su di sé l’intera idea di cinema italiano e colui che, con forme paradossali e iperboliche, ha 100

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incarnato l’Italia aziendale e politica saldandole d’un colpo. Dove si nasconde, a questo punto, la realtà? O meglio: esiste una realtà documentale cui fare riferimento per la lettura, anche di primo grado, dell’opera? Difficile a dirsi: si tratta infatti di un controcampo, o di un fuori campo, dei saperi pregressi su cui Moretti è abile a montare il metafilm di cui stiamo parlando. Ogni conoscenza in più intorno al passato (anche artistico e testuale) di Moretti contribuisce alla causa, innervando di rimandi intertestuali, intratestuali e dialogici il pamphlet sulla personalità più conosciuta del Paese. Si tratta, perciò, di un’ammissione di sconfitta per Moretti? Non si può che parlare di Berlusconi? A questa domanda, probabilmente, sarà possibile rispondere tra vari anni, quando si sarà compreso che ruolo ha giocato Il caimano nella carriera morettiana. A complicare ulteriormente le cose, c’è poi un altro film. All’uscita del DVD di Il caimano, lo spettatore scopre un “extra” piuttosto importante, intitolato Il diario del Caimano. A pochi giorni dall’uscita, i critici si accorgono che si tratta di qualcosa di più serio del normale “making of” affidato ai collaboratori. Ci si trova di fronte, invece, a un vero e proprio film “ulteriore”, dove il commento a margine è recitato in voce over da Moretti stesso, in forma di diario, e le immagini sono per la gran parte inedite. Il diario del Caimano è tante cose insieme: è un film parallelo a quello principale, quasi fosse uno dei possibili modi in cui si poteva girare Il Caimano, come “cronaca di un film”, alla maniera di Aprile; è un proseguimento dell’esperienza di Caro diario e Aprile, in cui tornano le esperienze reali e fittizie di un personaggio di nome Nanni Moretti, vicinissimo a quello reale ma distante quel tanto che basta a farne una figura narrativa; e trovano ospitalità anche le ossessioni tipiche del cineasta, a cominciare dai dolci – la troupe, per volere di Moretti, si ferma presso una pasticceria di Ostia a mangiare un krapfen – e a proseguire con le vicende famigliari, come quando il piccolo Pietro (protagonista indiscusso di Aprile) viene chiamato sul set a seguire la realizzazione del film. Ciò che, inoltre, stupisce è il programmatico appropriarsi da parte di Moretti del 101

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film apparentemente “plurale” che ha girato. Quasi temesse, appunto, di aver offerto l’impressione di un film “rappresentativo” di una comunità del cinema italiano o di una collettività di sinistra, egli rivendica la propria minorità: se la prende con Prodi e con le sue frasi sul film, con i media, con il nemico storico Berlusconi (di cui offre un contributo audio tratto da una intercettazione telefonica assai sorprendente), e con gli inetti della troupe. La nevrosi è meno esibita di un tempo, e la bonarietà del Moretti maturo sembra mitigarne gli aspetti. In ogni caso, Moretti-ego torna a fagocitare la propria creatura, annettendo (giustamente) a se stesso tutte le scelte poetiche e artistiche di un film difficile. In certi momenti, è Moretti stesso a sostenere i provini per testare gli attori, o a sostituire i protagonisti nell’offrire le battute di dialogo. Che sia il primo film nel quale egli non compare come attore protagonista è fatto degno di nota, tanto è vero che Moretti stesso lo ricorda a inizio “diario”. Ciò non toglie che Il diario del Caimano appartenga in tutto e per tutto alla filmografia morettiana, e che costituisca – insieme a Caro diario e Aprile – un tassello importante e vertiginoso di quell’avventura dell’io romanzesco costruita in trent’anni di carriera.

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Testi citati Aa.Vv., Nanni Moretti, Paravia/Scriptorium, Torino 1999. Francesco Casetti, Dentro lo sguardo, Bompiani, Milano 1986. Flavio De Bernardinis, Nanni Moretti, Il Castoro, Milano 2006 (prima ed. 1987). Julien Husson, Mathieu Potte-Bonneville, “Moretti sur la ligne de crête”, in Trafic, autunno 1995. Per quotidiani e settimanali si rimanda al testo.

Ulteriore bibliografia su Nanni Moretti Giuseppe Coco, Nanni Moretti: cinema come diario, Bruno Mondadori, Milano 2006. Roberto De Gaetano, La sincope dell’identità. Il cinema di Nanni Moretti, Lindau, Torino 2002. Piera Detassis, a cura di, Caro Diario, Edizioni del Centro Studi, Lipari 2003. Jean A. Gili, Nanni Moretti, Gremese, Roma 2006 (prima ed. 2001). Marco Giovannini, Enrico Magrelli, Mario Sesti, Nanni Moretti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1986. Ewa Mazierska, Laura Rascaroli, Nanni Moretti: Dreams and Diaries, Wallflower Press, London 2004 (trad. it. ampliata e riveduta: Ewa Mazierska, Laura Rascaroli, Il cinema di Nanni Moretti. Sogni e Diari, Gremese, Roma 2006). Roy Menarini, Studiare il film. Alcuni esempi di analisi del cinema di Moretti, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme/Bologna 2000. Georgette Ranucci, Stefanella Ughi, a cura di, Nanni Moretti, Dino Audino Editore, Roma 1993. Paola Ugo, Antioco Floris, a cura di, Facciamoci del male. Il cinema di Nanni Moretti, CUEC, Cagliari 1990. Federica Villa, Nanni Moretti. Caro diario, Lindau, Torino 2007. 103

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Roy Menarini, Nanni Moretti. Bianca, Lindau, Torino 2007.

Film di Nanni Moretti citati Io sono un autarchico (1976) Ecce Bombo (1978) Sogni d’oro (1981) Bianca (1984) La messa è finita (1985) Palombella rossa (1989) Caro diario (1993) Aprile (1998) Il giorno della prima di Close Up (1996) La stanza del figlio (2001) Il caimano (2006) Il diario del Caimano (2006)

Altri film citati L’amore in città (Carlo Lizzani, Michelangelo Antonioni, Dino Risi, Federico Fellini, Francesco Maselli, Alberto Lattuada, 1953) Flashdance (Adrian Lyne, 1983) F come Falso – Verità e menzogne (F for Fake, Orson Welles, 1976)

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Zeta Cinema COLLANA DI STORIA E TEORIA DEL CINEMA diretta da Leonardo Quaresima

HENRI STORCK: IL LITORALE BELGA a cura di Michele Canosa CARLO L. RAGGHIANTI. I CRITOFILM D’ARTE a cura di Antonio Costa DESIDERI IN FORMA DI NUVOLE. CINEMA E FUMETTO a cura di Michele Canosa e Enrico Fornaroli MODULAZIONI DI FREQUENZA. L’IMMAGINARIO RADIOFONICO TRA LETTERATURA E CINEMA Franco Minganti LO SGUARDO DISCRETO Marco Rossitti L’IMMAGINE DELL’UOMO Marco Rossitti PICCOLO SCHERMO Mariapia Comand LA VOCE E IL CORPO - L’OPERA LIRICA AL CINEMA Guglielmo Pescatore 107

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MASCHERE E MARIONETTE Francesco Pitassio OMBRE SILENZIOSE Francesco Pitassio VENEZIA NEL CINEMA ITALIANO Luca Giuliani LA STRANA COPIA Roy Menarini AI MARGINI DEL FILM. TITOLI DI TESTA Valentina Re MARINETTI E IL CINEMA Wanda Strauven MULTIPLE AND MULTIPLE-LANGUAGE VERSIONS CINEMA AND OTHER MEDIA/VERSIONI MULTIPLE CINEMA E ALTRI MEDIA a cura di Veronica Innocenti CRONOSISMI - IL TEMPO NEL CINEMA POSTMODERNO Alice Autelitano IL RESTAURO CINEMATOGRAFICO. PRINCIPI, TEORIE, METODI a cura di Simone Venturini AUTORI DEL REALE - STUDI SU KIAROSTAMI, LOACH, MORETTI, OLMI Roy Menarini

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Il volume, privo del triangolo a margine indicato, vale esclusivamente quale SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO fuori commercio e come tale fuori campo applicazione IVA (D.P.R. 26/10/1972, n. 633 art. 2, lett. d) e esente da bolla di accompagnamento (D.P.R. 6/10/1978, n. 627, art. 4, n. 6)

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