Autobiografia e altre opere latine
 978885825507

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Leon Battista Alberti AUTOBIOGRAFIA E ALTRE OPERE LATINE a cura di Loredana Chines e Andrea Severi

C L A S S I C I

N U O VA EDIZIONE CLASSICI I TA L I A N I

Leon Battista Alberti

AUTOBIOGRAFIA e altre opere latine A cura di Loredana Chines e Andrea Severi

Testo latino a fronte

CLASSICI

Proprietà letteraria riservata © 2012 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-2550-7 Prima edizione digitale 2012 da edizione BUR Classici maggio 2012 Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.rcslibri.eu

INTRODUZIONE

Da tempo il panorama critico ha posto l’attenzione sul fascino e sulla complessità del «camaleonte»1 Leon Battista Alberti, la cui produzione latina, a cominciare dalle Intercenales, mostra i tratti di un volto umbratile, attuale nella cifra dell’inquietudine, che costituisce il controcanto – armonico proprio nella dissonanza – dell’unico homo universalis quattrocentesco accanto a Leonardo.2 L’ultimo trentennio ha visto infatti un proliferare di contributi scientifici e di prospettive critiche che hanno definito con sempre maggiore ricchezza l’ampia rilevanza e il grande apporto di modernità e originalità dell’umanista, mostrando come non sia possibile scindere l’Alberti architetto e teorico dell’arte dall’Alberti scrittore, l’Alberti volgare dall’Alberti latino. Le celebrazioni del sesto centenario della nascita (2004) hanno poi dato nuovo impulso a interessi e studi albertiani, fornendo, in questi anni, preziose e innovative chiavi di lettura per comprendere a pieno la cifra moderna e peculiare dell’umanesimo albertiano.3 1 La definizione è dell’umanista Cristoforo Landino «Tornami alla mente lo stilo di Battista Alberto, el quale come nuovo camaleonta sempre quello colore piglia el quale è nella cosa della quale scrive», cfr. Proemio al commento dantesco, in C. Landino, Scritti critici e teorici, a cura di R. Cardini, Bulzoni, Roma, 1974, I, p. 120. 2 Cfr. Garin, Studi albertiani; Garin, Il pensiero di Leon Battista Alberti; Cardini, Alberti o della nascita dell’umorismo moderno. 3 L’anniversario albertiano è stato occasione per mostre di straor-

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Alberti è infatti il grande rifondatore, su base umanistica, della lingua volgare, avendo operato sotto diverse spoglie: quella del promotore culturale (è ben noto l’impegno da lui profuso nell’organizzazione del Certamen coronario del 1441), del teorico della lingua (è lì a testimoniarlo la grammatichetta vaticana, che si conserva nel codice Vat. Reg. Lat. 1370) e dello scrittore che si cimenta direttamente nella stesura del primo grande trattato in lingua volgare (i libri De familia), oltre che in componimenti erotici dove fonde il modello espressionistico dantesco con quello elegiaco latino, in particolare di Properzio. In questa linea solare e costruttiva che piaceva a Burckhardt, lettore attento dell’Autobiografia albertiana, si collocano le espressioni dell’homo faber, dell’architetto, del teorico dell’architettura (nel De re aedificatoria), della pittura e della scultura (De pictura e De statua). Ma ogni luce ha la propria ombra, come dice Alberti stesso sul finale del II libro del suo De pictura,4 e su questa linea umbratile e chiaroscurale, straordinariamente vicina alla nostra sensibilità di moderni, si colloca la voce albertiana di umorista graffiante e irriverente, impietoso osservatore delle miserie umane (in particolare nei capolavori latini costituiti dalle Intercenales, dagli Apologi centum e dal romanzo satirico Momus), che anticipa quel corrosivo gusto lucianeo5 che arriverà fino al Leopardi delle Operette morali, insaporito dai sales dei comici e dei satirici e dal riso filosofico e beffardo di Democrito, da preferire al pianto di Eraclito. dinaria rilevanza, convegni internazionali (e relativi atti pubblicati) e soprattutto prestigiose edizioni critiche dei testi, nate sotto l’egida del Centro di studi sul classicismo di Prato e per la cura puntuale e infaticabile di Roberto Cardini, presidente dell’Edizione nazionale delle opere di Leon Battista Alberti. 4 Cfr. Alberti, De pictura, p. 82 «E notino che sempre contro al lume dall’altra parte corrisponda l’ombra, tale che in corpo niuno sarà parte alcuna luminata, a cui non sia altra parte diversa oscura». 5 Cfr. Acocella, La presenza di Luciano nelle Intercenali.

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Ampio e variegato per cronologia e generi è lo scenario della tradizione letteraria e delle discipline da cui Alberti trae le «tessere» per creare sempre nuovi «mosaici», inediti disegni, tanto nei testi letterari quanto in quelli architettonici: si tratta di un metodo compositivo che egli stesso programmaticamente rivela nel proemio al III dei Profugiorum ab erumna libri.6 In ogni testo albertiano, in ogni campo di applicazione della creatività dell’umanista, si può cogliere il gioco di lettura e riscrittura, di smontaggio e originale rimontaggio degli auctores, sempre all’insegna dell’inscindibilità fra teoria e prassi, fra mani e cervello. Dal ritratto ideale di sé fornito nell’Autobiografia emerge non a caso un intellettuale dall’inesausta curiosità verso tutti i mestieri umani, come se per lui l’intelligenza non avesse confini di applicazione (§ 29: «Tentava di carpire a fabbri, architetti, costruttori di navi, persino a calzolai e sarti se mai custodissero qualcosa di raro e di recondito, come di peculiare, nella loro arte»); e il suo rigore di ingegnere e geometra non è mai disgiunto da una creazione della fantasia, come quando la forma delle navi romane sommerse, recuperate al suo cospetto dal fondo del lago di Nemi, richiama analogicamente ai suoi occhi la struttura anatomica dei pesci.7 D’altra parte, nello studiolo dell’Alberti i libri hanno pari dignità degli strumenti di misurazione matematica, i verba debbono sempre calarsi nell’azione, farsi res, come si evince da un passo del De re aedificatoria:8 6

Cardini, Il «nemico» dell’Alberti. Cfr. De re aedificatoria, V 12, p. 388-89. 8 De re aedificatoria, V 18, p. 437 «Hoc non praetermittam. Bibliothecis ornamento in primis erunt libri et plurimi et rarissimi, praesertim ex docta illa vetustate collecti. Ornamento etiam erunt mathematica instrumenta cum caetera tum similia, quae fecisse Possidonium ferunt, in quibus septem planetae propriis motibus movebantur; quale etiam illud Aristarchi, qui in tabula ferrea orbis descriptionem et provincias habuisse praedicant artificio eleganti. Et Tyberius quidem recte imagines veterum poetarum bibliothecis dicavit». 7

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Un punto da non sottacersi è che il principale ornamento delle biblioteche è costituito dai libri, che devon essere in gran numero, assai rari, e scelti dando preferenza ai più famosi dotti dell’antichità. Del pari saranno di ornamento strumenti matematici; ad esempio simili a quello che – secondo la tradizione – fu costruito da Posidonio: in cui i sette pianeti percorrevano le loro orbite; o simili a quello di Aristarco, del quale si narra che sopra una tavola di ferro avrebbe tracciato un disegno del mondo diviso in province, opera ingegnosa e squisita. E ben a ragione Tiberio provvide le biblioteche dei ritratti degli antichi poeti.

Date queste premesse, non stupisce che la mente enciclopedica e versatile dell’Alberti assuma talvolta atteggiamenti irriverenti e dissacratori – anche in obbedienza a un lusus letterario altre volte capovolto – verso il mito della «religione delle lettere». Non sfugga, per esempio, l’ironia ben percepibile già in certi passaggi del giovanile De commodis litterarum atque incommodis, in cui il letterato è descritto a consumare il fiore della gioventù tra le carte e le «pecore morte» che sono i libri.9 Fa riflettere, d’altra parte, che solo cinque volumi si siano salvati della «biblioteca materiale» di Alberti (la definizione è di Roberto Cardini) di una tanto più numerosa «biblioteca reale» che possiamo desumere dalle citazioni o allusioni agli autori presenti nella sua produzione,10 e nemmeno che sui codici rimasti le poche annotazioni autografe non siano di carattere filologico o erudito, ma rivelino piuttosto altri interessi, come quello per l’astrologia, per la geometria o per la propria privata esperienza. Alberti è un 9 Cfr. De commodis III 29, p. 28 «inter chartas et mortuas pecudes (ut sic libros noncupem)». 10 Si tratta di tre codici ciceroniani, un manoscritto degli Elementi di Euclide, e un codice che contiene l’opera sulla quadratura del cerchio di Raimondo Lullo, cfr. Leon Battista Alberti. La biblioteca di un umanista, pp. 389-510.

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umanista e lettore non bibliofilo, non bibliomane, e sceglie di proiettare questo volto pragmatico e incline alla facezia e all’arguzia dei sales nei tratti di un suo personaggio, Lepidus, che nell’intercenale Somnium dialoga col prototipo caricaturale dell’umanista smanioso collezionista di libri che non legge, Libripeta. E, d’altra parte, con quest’ansia di far agire i propri testi nella realtà con immediatezza si giustifica la peculiare fisionomia redazionale di alcune opere albertiane che circolano non riviste e non limate, quasi scappate dalle mani dell’autore.11 Nell’estetica albertiana, nella sua riflessione così attenta alle luci e alle ombre che si avvicendano sul palcoscenico della vita, la maschera comica nasconde sguardi assorti sui giochi di simulazione e dissimulazione, sulla varietas delle indoli e delle vicende umane, che avvicinano molto l’esperienza dell’Alberti a quella di Machiavelli. Non a caso nel Momus (che per sottotitolo esplicativo reca De principe) si fa strada proprio un lessico tecnico teatrale, come rivelano le formule «sumpta persona», «desumpta persona»,12 per cui a giusta ragione si è visto nell’Alberti il fondatore di quel pensiero umoristico moderno che passando per Leopardi arriva a Pirandello. 11 Come bene hanno illustrato Roberto Cardini e Lucia Bertolini; cfr. Bertolini, Come «pubblicava» l’Alberti. 12 Cfr. Proemium § 9, p. 1042 e Liber I § 35, p. 1050. Non stupisce affatto, dunque, che uno scrittore molto sensibile alle dinamiche del potere e ai vertiginosi giochi di finzioni che esso porta sempre con sé, vale a dire Paolo Volponi, sia stato folgorato dalla lettura di un simile romanzo «Ho trovato un capolavoro che mi pare fondamentale per tutta la nostra storia e proprio per la novità della nostra cultura e ricerca, tanto carico e dilagante da suscitare per contrasto proprio quella dimenticanza o rimozione che l’istruzione codificata e continuativa, soprattutto dei poteri, ha dovuto necessariamente farne», cfr. Zinato, Tra industria e Rinascimento, pp. 213-14. Volponi preparò nel 1984 una introduzione al Momus per la collana Testi della cultura italiana della casa editrice genovese Costa & Nolan, che però non vide la luce l’edizione uscì infatti nel 1986 con una prefazione di Nanni Balestrini.

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Pirandello, ch’io sappia, non conosceva il romanzo albertiano; né dell’Alberti parlò mai. Eppure colpisce il titolo complessivo della sua opera teatrale, Maschere nude; colpisce che Pirandello, esattamente come l’Alberti, abbia posto le «maschere» al centro della sua riflessione e della sua arte; colpisce che fra comicità e smascheramenti abbia visto, come Alberti, un nesso strettissimo; colpisce che anche lui, come l’Alberti, si sia considerato uno scrittore-filosofo; e finalmente colpisce che, proprio come l’Alberti (dalla Philodoxeos fabula alle Intercenales al Momus, dal perduto Passer al Canis agli Apologi e alla Musca), abbia considerato l’intera sua ricerca, di narratore e di drammaturgo, come una ricerca comica.13

E non di meno nella scrittura delle Intercenales la narrazione di gusto lucianeo (di un Luciano molto probabilmente non letto nell’originale greco, ma mediato dalle pressoché coeve traduzioni latine di Guarino, Aurispa, Lapo da Castiglionchio e Bracciolini) tende a trasformare la parola in gesto teatrale, supportata dalla lettura dei comici latini collocati proprio in cima al canone della biblioteca albertiana nel I libro del Theogenius:14 Sempre meco stanno uomini periti, eloquentissimi, apresso di quali io posso tradurmi a sera e occuparmi a molta notte ragionando; ché se forse mi dilettano e’ iocosi e festivi, tutti e’ comici, Plauto, Terrenzio, e gli altri ridicoli, Apulegio, Luciano, Marziale e simili facetissimi eccitano in me quanto io voglio riso. Se a me piace intendere cose utilissime a satisfare alle domestiche necessità, a servarsi sanza molestia, molti dotti, quanto io gli richieggio, mi raccontano della agricoltura, e della educazione de’ figliuoli, e del costumare e reggere la 13 14

R. Cardini, Alberti o della nascita dell’umorismo, p. 59. Alberti, Theogenius, p. 74.

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famiglia, e della ragion delle amicizie, e della amministrazione della republica, cose ottime e approvatissime.

Le commedie di Plauto e Terenzio offrono ad Alberti lingua e stile, ma anche spunti narrativi, nomi e caratterizzazioni di personaggi, soluzioni sceniche tanto nel genere specifico della commedia (Philodoxeos fabula) quanto nelle altre forme dell’opera albertiana, comunque fortemente improntate alla teatralità dialogica.15 Anzi, se si indaga nel cantiere magmatico delle Intercenales, di cui Roberto Cardini ha mostrato la complessità della tradizione e la composita stratigrafia delle fasi redazionali con un archetipo in continua evoluzione, un dato che si evince è la predilezione, nel movimento correttorio, per le soluzioni formali e stilistiche improntate allo stile comico e più precisamente plautino. Nelle Intercenales, infatti, i comici latini fanno frequenti irruzioni, suggerendo singoli tasselli nomenclatori, proverbi e sentenze, tipi umani o clausole fulminanti. Si prenda una delle più teatrali e lucianee delle intercenali, Defunctus, in cui le paure dell’avaro Neofrono, che, preoccupato per la perdita dei beni da lasciare ai propri figli, teme anche le lucertole, ricalcano quelle dell’Euclione dell’Aulularia plautina (vv. 624-27), spaventato persino dal gracchiare di un corvo.16 E si ricordi che Defunctus si chiude proprio con una battuta del linguaggio scenico presa dall’Andria (v. 171) di Terenzio: «I prae. Sequar». Molti gli spunti e i motivi dei comici latini (per non parlare delle riprese lessicali e delle soluzioni formali) che si possono reperire nelle Intercenali; si considerino soltanto due esempi, che appaiono di particolare effetto proprio per lo scarto che si crea con il modello nel nuovo mosaico albertiano: il naufrago, che nell’incipit dell’omonima intercenale afferma che non intende più affidare le proprie sorti alle perfidie di Nettu15 16

Chines, Plauto e Terenzio. Cfr. Defunctus § 317-18.

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no, ricalca le parole della Mostellaria plautina (vv. 431-37), ma con una nuova vertigine di senso di chi si sente in balia della forza incessante e ineludibile del fluxus esistenziale; e, nell’intercenale Somnium, la battuta di Libripeta, che nella straordinaria invenzione narrativa del paese dei sogni (con dietro il modello del Menippo lucianeo) ritrova una parte del suo cervello (§ 23: «mi sono imbattuto in una parte non piccola del mio cervello», e aggiunge: «quella che mi aveva spillato una vecchia che ho amato»)17 riverbera con eco divertita il Plauto della Mostellaria (v. 1110), nel passo in cui il vecchio Teopropide, gabbato e depredato dei suoi beni, dice: «mi hai risucchiato tutta la materia grigia».18 L’invenzione albertiana che affascinerà, com’è noto, l’Ariosto dell’episodio di Astolfo sulla luna porta dunque la risonanza lontana di una battuta plautina. La lingua e lo stile proteiforme dei comici, di Plauto soprattutto, diventano tuttavia in Alberti un paradigma ermeneutico profondo della dialogicità umanistica, strumento di riflessione sui mutevoli giochi combinatori che regolano tanto l’universo linguistico quanto la realtà terrena, di continuo sottoposta al fluxus. Se lasciamo parlare l’Alberti nell’intercenale Erumna §129, Philoponius (forse uno dei tanti «doppi» dell’autore) dice al suo anonimo interlocutore: «Tu, uomo di garbo e spirito, hai piegato il mio animo dall’iracondia alla serenità e hai girato i miei pensieri a riflettere su di me».19 I sales invitano dunque al modus, alla misura, all’equilibrio interiore dell’uomo, proprio come la comitas, la festivitas, l’essere lepidus e suavis, tutti termini che tornano costantemente nell’opera albertiana come espressione di una compostezza

17 «partem non minimam mei cerebri offendi [...] eam quidem quam vetula quedam a me amata emunxerat». 18 «etiam cerebrum quoque omne e capite emunxti meo». 19 «Tu homo salis, suavitatis leporisque refertissimus, ita ab iracundia ad equanimitatis modum deflexisti animum meum».

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morale ed etica, di una necessaria equidistanza dagli eccessi di gusto preariostesco. L’intercenale Somnium, benché forse la più suggestiva, non è d’altra parte la sola delle Intercenales riprese da Ariosto.20 Si pensi anche a Discordia, che probabilmente influisce, nel XIV canto del Furioso (vv. 76-86), sulla rappresentazione che Ariosto fa della discordia che imperversa nel campo di Agramante; e non minore, sempre in ambiente estense, è la fortuna iconografica di Virtus, circolante in forma volgarizzata e più volte ripresa nella pittura cinquecentesca di Dosso Dossi. Alcune intercenali hanno poi il fascino dello sguardo straniato, che osserva da un orizzonte altro, sia esso il mondo dei sogni (Somnium e Fatum et Fortuna), o l’elemento instabile e fortunoso dell’acqua (Naufragus), o un aldilà (Defunctus) in cui gli scenari infernali di sapore dantesco si collocano davanti agli spettatori su un palco di commedia, con un realismo visionario che appartiene solo a certe invenzioni del teatro moderno (si pensi a Questi fantasmi di Eduardo). Quello che di Alberti continua ad affascinare il lettore moderno è proprio la presenza di un continuo movimento a onde tra luci e ombre, canto e controcanto, consapevolezza del limite e anelito all’azione. Si legga questo passo del Theogenius sul volto arcigno della natura matrigna, che ha un sapore lucreziano e, ancora una volta, «preleopardiano»: Nacque l’uomo fra tanto numero d’animanti, quanto vediamo, solo per effundere lacrime, poiché subito uscito in vita a nulla prima se adatta che a piangere, sì come che instrutto dalla natura presentisca le miserie a quali venne in vita, o 20 Cfr. Segre, Nel mondo della luna; Segre, Leon Battista Alberti e Ludovico Ariosto; Pampaloni, Le «Intercenali» e il «Furioso»; Tocchini, Ancora sull’Ariosto e l’Alberti.

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come gli dolga vedere che agli altri tutti animali sia dato dalla natura vario e utile vestire, lana, setole, spine, piuma, penne, squame, cuorio e lapidoso scorzo, e persino agli albori stieno sue veste duplicate l’una sopra all’altra contro el freddo e non disutile a diffendersi dal caldo, l’uomo solo stia languido giacendo nudo e in cosa niuna non disutile e grave a sé stessi. Agiugni che dal primo dì vedesi collegato in fascie e dedicato a perpetua servitù, in quale poi el cresce e vive. Non adunque iniuria, subito che nasce, piange la sua infelicità, né stracco di dolersi prima prende refrigerio a’ suoi mali, né prima ride se non quando se stessi contenne in tristezza interi almeno quaranta dì. Di poi cresce in più ferma età quasi continuo concertando contra alla debolezza, sempre in qual vuoi cosa desiderando e aspettando l’aito d’altrui. Nulla può senza precettore, senza disciplina, o al tutto sanza grandissima fatica, in quale se stessi per tutta la sua età esserciti. In puerizia vive mesto sotto el pedagogo; e seguenli suoi giorni in gioventù solliciti e pieni di cure ad imparare leggi e instituiti della patria sua; e poi sotto la censura del vulgo in più età ferma posto soffre infiniti dispiaceri. E quando el ben sia compiuto e offirmato in sue forza e membra, e ornato d’ogni virtù e dottrina, non però ardisce non temere ogni minima bestiuola, e nato per imperare a tutti gli animanti conosce quasi a tutti gl’animali sua vita e salute essere sottoposta. Un verminuccio el molesta; ogni minima puntura l’uccide essere mortifera. 21

Quello di Alberti è dunque il volto di un classico che ha i tratti perennemente moderni dell’inquietudine, come ha ben rilevato Massimo Cacciari: «Il “classico” è chiamato ad ordinare il linguaggio, ad evitarne la dissipazione, non a bloccarne l’inquietudine, non ad immobilizzarlo in formule e canoni. Ordini senza Legge, quelli di Leon Battista. Se inquieto è il 21

Alberti, Theogenius, pp. 89-90.

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cuore dell’uomo, illusorio, vanamente consolatorio pensare che esso non sia anche perturbatore».22 Alla vertigine inquieta che nasce dal senso dell’umana precarietà Alberti reagisce con le creazioni dell’ingegno, col fare e rifare del pensiero e delle mani, come racconta in questo splendido passo del III libro dei Profugiorum ab erumna:23 Cosa niuna tanto mi disdice da mia vessazione d’animo, né tanto mi contiene in quiete e tranquillità di mente, quanto occupare e’ miei pensieri in qualche degna faccenda e adoperarmi in qualche ardua e rara pervestigazione. Soglio darmi a imparare a mente qualche poema o qualche ottima prosa; soglio darmi a commentare qualche essornazione, ad amplificare qualche argumentazione; e soglio, massime la notte, quando e’ miei stimoli d’animo mi tengono sollecito e desto, per distormi da mie acerbe cure e triste sollicitudini, soglio fra me investigare e construere in mente qualche inaudita macchina da muovere e portare, da fermare e statuire cose grandissime e inestimabili. E qualche volta m’avvenne che non solo me acquetai in mie agitazioni d’animo, ma e ancora giunsi cose rare e degnissime di memoria. E talora, mancandomi simili investigazioni, composi a mente e coedificai qualche compositissimo edificio, e disposivi più ordini e numeri di colonne con vari capitelli e base inusitate, e collega’vi conveniente e nuova grazia di cornici e tavolati. E con simili conscrizioni occupai me stessi sino che ’l sonno occupò me. E quando pur mi sentissi non atto con questi rimedi a rassettarmi, io piglio qualche ragione in conoscere e discutere cagioni ed essere di cose da natura riposte e ascose. E sopratutto quanto io provai, nulla più in questo mi 22 M. Cacciari, Il simbolo albertiano, postfazione a A.G. Cassani, La fatica del costruire (vd. MONOGRAFIE), p. 157. 23 Alberti, Profugiorum ab erumna, pp. 181-82.

satisfa, nulla tutto tanto mi compreende e adopera, quanto le investigazioni e dimostrazioni matematice, massime quando io studi ridurle a qualche utile pratica in vita.

Questa è l’immagine, d’altra parte, che l’Alberti consegna di sé in vari luoghi dell’Autobiografia con cui si apre la presente antologia che racchiude, con volontà di opposizione speculare, una scelta mirata di Intercenales integralmente proposte, fra il ritratto letterario della vita e quello documentario del testamento, ugualmente pervasi, con forme, linguaggi e finalità differenti, da quell’ansia di legittimazione e di riconoscimento del proprio ruolo di intellettuale e di uomo.

LOREDANA CHINES

Un ringraziamento particolare va a Roberto Cardini, amico e maestro, che con la sua lezione critica e filologica ha contribuito a illuminare le prospettive di ricerca a cui questo volume si ispira.

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE*24

1404 Nasce a Genova, il 18 febbraio, sotto il segno dei gemelli. È il figlio illegittimo (concepito cioè al di fuori del matrimonio) della nobildonna genovese Bianca Fieschi e di Lorenzo di Benedetto Alberti, membro di una famiglia di banchieri arricchitasi nella seconda metà del Trecento, ma in declino dopo l’esilio da Firenze subìto nel 1401. 1406 Bianca Fieschi muore di peste. Lorenzo si trasferisce coi figli Battista e Carlo a Venezia, dove rimarrà per circa dieci anni. 1415-1420 Il giovane Battista è allievo a Padova del convitto di Gasparino Barzizza, dove impara il latino, leggendo soprattutto Cicerone, e fa amicizia con Francesco Barbaro e Antonio Beccadelli, detto il Panormita. * La cronologia della vita e delle opere di Leon Battista Alberti è ancora a tutt’oggi alquanto lacunosa e fondata su congetture non sempre condivise. Per la cronologia adottata in questo volume seguiamo Bertolini, Leon Battista Alberti, tranne in singoli casi sempre opportunamente segnalati. Bertolini basa la propria ricostruzione, oltre che su dati acquisiti dalle proprie ricerche, su Mancini, Vita di Leon Battista Alberti e Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze. Sussiste una certa indeterminatezza sulla datazione della composizione delle Intercenales (occorre tenere aperto un ampio arco cronologico per la loro stesura 1428-43); tuttavia, per le Intercenales presenti in questo volume, si è segnalata, qualora esista, l’ipotesi di datazione nel cappello introduttivo al testo.

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1421 Muore a Padova il padre Lorenzo, lasciando i figli Battista e Carlo in balìa dell’avidità e del disinteresse dei parenti. Attorno al capezzale di Lorenzo, poco più di dieci anni dopo, A. ambienterà i dialoghi dei suoi libri De familia. 1424-1428 È studente di giurisprudenza a Bologna. Compone – stando all’Autobiografia – la sua prima operetta, la commedia allegorica Philodoxeos fabula, che mette in circolazione sotto lo pseudonimo classicizzante di Lepido: vi si tratta di come Philodoxos («l’amante della gloria») cerchi di ottenere la mano di una giovane donna, Doxia («gloria»), contro le mire di Fortunius («fortuna»). È forse a Bologna, dove Francesco Filelfo insegna tra il 1426 e il 1428, che apprende alcuni rudimento di greco (lingua che comunque non padroneggerà mai). A questo periodo universitario va probabilmente fatta risalire la composizione degli Elementi di pittura in volgare, breve testo di carattere tecnico scritto da «chi forse per sé non sa disegnare» ma può essere utile a chi vuol diventare «perfetto designatore». 1428 Si laurea a Bologna in utroque iure (in diritto civile e canonico), come era prassi del tempo per chi studiava giurisprudenza. Il 22 novembre, per intercessione di papa Martino V, viene tolto il bando da Firenze alla famiglia Alberti. 1428-1432 In questo torno d’anni prende gli ordini minori e diviene segretario di Biagio Molin, patriarca di Grado e reggente della Cancelleria Pontificia, che lo fa nominare abbreviatore apostolico nella curia di Eugenio IV, incarico che poi diventerà di «redattore». Nel 1431 è attestata la sua prima presenza a Firenze, in relazione al beneficio ricevuto della parrocchia di San Martino a Gangalardi,

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presso Lastra a Signa. Il nuovo pontefice Eugenio IV (1431-47), inoltre, lo assolve dal difetto della illegittimità («super defectu natalium quem pateris de soluto genitus et soluta»). A dopo il 1 gennaio 1432 (ma per alcuni a qualche anno prima) è da far risalire il De commodis litterarum atque incommodis, un trattatello sulle privazioni che deve patire chi voglia dedicare la propria vita agli studi letterari. Intorno a quest’anno l’A. compone operette sui mali d’amore quali la Deifira (ma per Marcelli, Due note, già nel 1428) e l’Ecatonfilea (per altri databile invece ad alcuni anni dopo), in dialogo col fratello Carlo, che scrive, sul medesimo tema, le Efebie. 1433 Tra il 1 ottobre di quest’anno e il 19 marzo dell’anno successivo compone la Vita S. Potiti per il suo protettore Biagio Molin, proponendosi in questo modo come futuro agiografo. Ma questa rimarrà la prima e l’ultima opera di questo genere di A. 1433-1434 Compone a Roma in novanta giorni (secondo la testimonianza dell’Autobiografia) i primi tre dei libri De familia. I libri sono accolti con indifferenza dalla famiglia di A., il destinatario ideale dell’opera. Il quarto libro verrà scritto solo tre anni più tardi. Dopo la sollevazione popolare contro il pontefice del 23 giugno 1434, A. segue la curia che si rifugia a Firenze. Eugenio IV starà circa otto anni lontano da Roma, spostandosi con la sua curia tra Bologna, Ferrara e Firenze. 1435 Probabilmente solo dopo il 7 maggio compone il proemio al terzo dei libri De familia. In «stretta consequenzialità logica e letterale» (Bertolini) con le idee linguistiche qui espresse si pone la stesura da parte dell’A. della prima grammatica del volgare (la cosiddetta Grammatichetta vaticana, perché si legge in un codice conser-

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vato oggi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana), per la quale alcuni studiosi propongono però una datazione più bassa. Il 26 agosto, di venerdì, completa a Firenze la prima stesura del De pictura: lo apprendiamo dall’A. stesso, che lo lascia scritto in una nota apposta sul suo codice del Brutus ciceroniano, l’attuale Marciano latino XI 67 (3859). Nel trattato si legge una prima teorizzazione della prospettiva (che A. chiama però «intersegazione»), generalmente attribuita a Brunelleschi. Difficile datare la redazione latina del trattato: sicuramente prima del 1444, anno di morte del dedicatario, Giovan Francesco Gonzaga. Probabilmente del 1435 è anche la celebre placchetta in bronzo con l’autoritratto e l’emblema dell’occhio alato con la scritta «Quid tum?» (oggi conservata presso la Samuel H. Kress Collection di Washington). 1436 Dedica la versione in volgare del De pictura all’«amico» Filippo Brunelleschi. 1437 È un anno di grande produttività letteraria per A.: il 10 gennaio spedisce a Paolo Codagnello l’epistola volgare nota col titolo De amore. Il 30 settembre a Bologna, dove trascorre alcuni mesi, compone «in venti ore» (stando alla sottoscrizione del codice Ambrosiano I 193 inf.) il De iure, una «serie di organiche considerazioni filosofiche applicabili al diritto» (M. Banchi) indirizzato a Francesco Coppini, Ufficiale di Giustizia Criminale nella città felsinea; il 12 ottobre – fideiussore Poggio Bracciolini – regala al futuro signore di Ferrara, Leonello d’Este, una redazione rivista e ripulita della sua giovanile commedia Philodoxeos fabula; a metà ottobre, in cinque giorni, compone, sempre a Bologna, un dialogo sui doveri del vescovo, il Pontifex; nella penultima settimana dell’anno scrive invece gli Apologi centum, che dedica a Francesco Marescalchi.

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1438 A quest’anno probabilmente va ascritta la Sofrona, operetta misogina che ben si collegherebbe con la redazione volgare dell’altrettanto misogina intercenale Uxoria (che dal codice II.IV.38 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze apprendiamo essere stata terminata il 2 dicembre 1438). 1440 Si stabilisce a Firenze, dove vive pressoché continuativamente per due anni. Forse è durante quest’anno, ma comunque prima del 1441, e probabilmente a Ferrara (qui anche per Regoliosi, ma già nel 1438), che compone l’elogio paradossale del suo cane (Canis). Intorno a quest’anno compone anche il Theogenius, dialogo in cui utilizza il volgare per il genere classico della consolatoria. 1441 Organizza a Firenze, con la collaborazione di Piero de’ Medici, un «Certame coronario» in lingua volgare, sul tema dell’amicizia. È un avvenimento di portata epocale nella storia della lingua italiana. Il «Certame» si svolge il 21 ottobre e vede una straordinaria partecipazione di pubblico, che accorre in Santa Maria del Fiore per ascoltare le prove dei rimatori. Il «Certame» risulta però fallimentare per A., dal momento che i giudici umanisti dichiarano deserto il concorso, non ritenendo nessuno dei concorrenti degno dell’incoronazione poetica. Per Alberti, che risponderà con una Protesta fatta circolare in forma anonima, è uno scacco tremendo che avrà forti ripercussioni sulla sua produzione in volgare, la quale andrà rarefacendosi. È probabilmente quest’anno (ma per altri genericamente dopo il 1438) che compone l’Autobiografia, che servirà da base per numerosi studi di età moderna sulla nascita della «individualità» nel Rinascimento. Dopo il 26 dicembre invia con dedica una copia del suo Theogenius a Leonello d’Este.

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1442-1443 Compone, in volgare, i Profugiorum ab erumna libri, manuale di saggezza stoica contro le sventure. È probabilmente nel 1443 (ma forse anche prima) che dedica a Cristoforo Landino la Musca, un elogio paradossale scritto alla maniera di quello di Luciano, che Guarino Veronese aveva tradotto in latino e dedicato proprio ad A. Tra la fine del 1443 e l’inizio dell’anno successivo è da collocare anche il De equo animante, trattato di ippiatria, in cui A. sintetizza fonti greche, latine, arabe e italiane, dedicato a Leonello d’Este. 1445 Prima di quest’anno compone la Cena familiaris (vi si accenna ad Alberto Alberti, che morì in quell’anno, come ancora vivente), un dialogo sulle virtù che hanno reso grande la famiglia Alberti, e che si chiude con una pesante condanna del gioco d’azzardo. 1447 Su suggerimento di Flavio Biondo, il cardinale Prospero Colonna affida ad A. il difficile tentativo di recupero delle navi romane che dai tempi di Traiano giacevano sul fondo del lago di Nemi. L’ingegnoso sistema delle botti flottanti escogitato da A. serve tuttavia solo a far emergere la prua di una nave. Il Nostro (lo apprendiamo dal De re aedificatoria, V 12) scrive su quest’esperienza un’opera dal titolo Navis, che leggerà Leonardo, ma che a noi non è pervenuta. Diventa canonico di Santa Maria del Fiore a Firenze. 1449 Il 7 dicembre Niccolò V concede ad A. un nuovo beneficio: la pieve di Borgo San Lorenzo. 1450 In quest’anno probabilmente (ma con sicurezza entro il gennaio 1452, in cui morì il dedicatario) compone gli Ex ludis rerum mathematicarum per Meliaduse d’Este.

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1451 Nel corso dell’anno A. è impegnato, tra le altre cose, nella stesura del Momus seu de principe, allucinante romanzetto satirico sulle dinamiche del potere, controcanto alla Roma «triumphans» di Niccolò V, a proposito del quale Francesco Filelfo invia «preoccupate richieste d’informazione» (Bertolini) all’autore. 1452 Presenta («ostendit», dice l’umanista Matteo Palmieri) a papa Niccolò V il suo capolavoro, il De re aedificatoria, trattato in 10 libri che aveva cominciato a comporre, sembra, sin dal 1444: è il primo trattato moderno di architettura. Forse nello stesso anno (ma per alcuni storici dell’architettura solo nel 1458) inizia a Firenze il rivestimento marmoreo di Palazzo Rucellai. 1453 Compone il De porcaria coniuratione, breve cronaca del fallito colpo di stato tentato a Roma da Stefano Porcari. 1454 In una famosa lettera a Matteo de’ Pasti (18 novembre), che si occupa del cantiere della chiesa di San Francesco a Rimini, raccomanda che vengano seguite scrupolosamente le sue indicazioni sul restauro e la ristrutturazione della facciata della chiesa. Non si hanno testimonianze di una sua partecipazione diretta ai lavori del cantiere. L’edificio diventerà il cosiddetto «Tempio Malatestiano», dal nome del committente, Sigismondo Malatesta. Per quasi unanime consenso degli studiosi, quest’opera – esaltata dal poeta Basinio Basini nella chiusa dell’Hesperis, poema celebrativo delle imprese di Sigismondo Malatesta – è il primo intervento albertiano di ars aedificatoria. 1457 Alla fine di quest’anno o all’anno successivo dovrebbero risalire le Epistole septem Epimenidis Diogeni inscripte,

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posteriori alla traduzione che durante quest’anno Francesco Griffolini fece delle epistole di Diogene a Falaride. 1459 Partecipa alla Dieta di Mantova (27 maggio 1459-19 gennaio 1460) al seguito di papa Pio II. 1460 Inizia i lavori della facciata di Santa Maria Novella. Sembra che all’incirca a quest’altezza abbia composto i Trivia senatoria, un manuale di topica dedicato a Lorenzo il Magnifico. Entro quest’anno (ma il periodo supposto dagli studiosi è molto largo: 1450-60) A., dando prova delle sue capacità ingegneristiche, dovette comporre una mappa di rilevamento topografico della città di Roma, la Descriptio Urbis Romae. 1461 Inizia i lavori di costruzione del tempietto, ad imitazione del Santo Sepolcro, nella cappella fiorentina di San Pancrazio, che andranno avanti sino al 1467. 1462 Dedica le Sentenze pitagorighe ai suoi nipoti, come dono di Natale. «La vicinanza agli enunciati moraleggianti» delle Sentenze ha suggerito a Paoli (Leon Battista Alberti, pp. 85-86) una analoga datazione (almeno «tra il 1460 e il 1470») anche per la Villa – la cui datazione rimane tuttavia ancora molto incerta –, riflessione sociopolitica, fondamentalmente conservatrice, sul rapporto con la terra come fonte di verità e di saggezza. 1463 Fra l’agosto e il settembre è a Mantova, dove dirige i lavori del cantiere di San Sebastiano. Il Vasari gli attribuisce anche i lavori della loggia Rucellai, che si conclusero nel 1466. 1464 All’inizio dell’estate è a Roma, gravemente ammalato. Ma, una volta ripresosi, è probabile che abbia fatto visita a Federico da Montefeltro nella sua città di Urbino.

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1465 Viaggia l’Italia da sud a nord. In primavera è a Napoli, dove forse ha parte attiva nella modifica dell’Arco di Trionfo e nella costruzione del palazzo di Diomede Carafa; poi, passando per Roma, arriva a Firenze, dove si ferma per tutta l’estate. Nella posizione di autorità morale riconosciutagli ormai anche in patria, A. compone qui in volgare il De iciarchia, dove comunica ai nipoti quello che gli antichi e la vita gli hanno insegnato sui compiti e le responsabilità del capofamiglia (l’«iciarca», appunto). Il 23 settembre è sicuramente a Mantova. 1466 «Non troppo distante da quest’anno» (Bertolini) A. invia all’amico Giovanni Andrea Bussi il Breve compendium de componenda statua, sull’utilizzo di alcuni strumenti per la realizzazione delle statue. 1467 Entro il 17 agosto A. termina il suo libello De componendis cyfris, dove spiega la sua invenzione di un meccanismo crittografico, e saluta la prima stampa di Subiaco, esaltando l’invenzione tedesca dei caratteri mobili. 1468 Nell’ottobre è a Firenze, per accettare la nomina a rettore dell’oratorio di san Zanobi al Pian di Ripoli al Paradiso (12 ottobre) conferitagli da Francesco d’Altobianco Alberti. Pochi giorni dopo, il 31 ottobre, ponendo fine ad una annosa questione, Marco Parenti gli intesta la metà del palazzo fatto costruire il secolo addietro dal nonno Benedetto (l’altra metà va al nipote di Battista, Bernardo di Antonio di Ricciardo). 1470 Una lettera scritta da Mantova al duca Ludovico Gonzaga (anche se non datata) fa presumere che A. inizi a quest’altezza il progetto del Sant’Andrea. Il direttore dei lavori è Luca Fancelli. A Firenze, finanziati dai Gonzaga, cominciano i lavori della tribuna della SS. Annunziata.

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1471 Nell’autunno A. fa fare una passeggiata archeologica per la città di Roma ad una delegazione fiorentina di tutto rispetto, venuta a Roma per congratularsi col nuovo papa Sisto IV. La delegazione comprende Lorenzo de’ Medici, Donato Acciaiuoli e Bernardo Rucellai, il quale ci narra di questo «tour antiquario» nel suo De urbe Roma (1496 ca.). 1472 A. muore a Roma il 20 aprile, il giorno dopo aver dettato il proprio testamento. Nonostante le sue volontà, che avrebbero imposto di seppellirlo a Padova, nella chiesa di Sant’Antonio, accanto al padre, è sepolto nella chiesa romana di Sant’Agostino. Il 12 giugno a Mantova viene posta la prima pietra del Sant’Andrea.

BIBLIOGRAFIA

EDIZIONI DI OPERE DI LEON BATTISTA ALBERTI

Le tre principali raccolte moderne delle opere letterarie di Leon Battista Alberti sono, in ordine cronologico: Leon Battista Alberti, Opera inedita et pauca separatim impressa, H. Mancini curante, Florentiae, Sansoni, 1890 ( = Opera inedita) Leon Battista Alberti, Opere volgari, I-III, a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, 1960-73 (= Opere volgari) Leon Battista Alberti, Opere latine, a cura di R. Cardini, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2010 ( = Opere latine) Di seguito si elencano le edizioni di riferimento negli studi di tutte le opere di Leon Battista Alberti, dando, per gli scritti che qui più interessano, anche l’indicazione delle precedenti edizioni: Amator, in Opere latine, pp. 91-121; Amator, in Opera inedita, pp. 1-18 Apologi centum, in Opere latine, pp. 925-60; Apologhi, a cura di M. Ciccuto, Torino, Aragno, 2003; Apologhi, introduzione, traduzione e note di M. Ciccuto, Milano, Bur, 1989¹; Apologhi ed elogi, a cura di R. Contarino, presentazione di L. Malerba, Genova, Costa & Nolan, 1984, pp. 44-77; P.

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Whitfield J.H., Alberti in the «Intercenali». 1. «Defunctus», «Italian Studies», 46 (1991), pp. 58-68 Whitfield J.H., Leon Battista Alberti, Ariosto and Dosso Dossi, «Italian Studies», 21 (1966), pp. 16-30 Zinato E., Tra industria e Rinascimento: Volponi attualizza Alberti, «L’Ellisse», 1 (2006), pp. 209-22

RASSEGNE BIBLIOGRAFICHE E RIVISTE MONOGRAFICHE

Tra le diverse rassegne bibliografiche albertiane uscite nell’ultimo decennio si segnalano: Pozzi M., Rassegna albertiana, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 180 (2003), pp. 266-74 Addis A., Rassegna bibliografia albertiana 2003-2008, «Società Italiana di Storia della Filosofia», 1 (2009) disponibile ondine al sito www.storicifilosofia.it Per la bibliografia completa su Leon Battista Alberti posteriore al 1995 si può fare riferimento al sito allestito da Michel Paoli: http://ourworld.compuserve.com/homepage/mpaoli Si segnala infine lo storico numero di «Rinascimento», 12 (1972), che, in occasione del quinto centenario della morte, fu interamente dedicato all’Alberti (con particolare attenzione all’Alberti latino: alcuni contributi sono stati già segnalati nelle sezioni EDIZIONI o CONTRIBUTI IN RIVISTE E VOLUMI). Dal 1997 esce annualmente la rivista «Albertiana», edita dalla Société Internationale Leon Battista Alberti, con il patrocinio dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, e diretta da Francesco Furlan. L’Edizione Nazionale delle Opere di Leon Battista Alberti, presieduta da Roberto Cardini, fa capo al Centro di Studi sul

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BIBLIOGRAFIA

Classicismo con sede a Prato: per le opere già edite e quelle in programmazione si veda dunque il sito del Centro (www. centrostudiclassicismo.it) e della casa editrice Polistampa a cui è affidata la stampa dei volumi (www.polistampa.com).

EDIZIONI DI CLASSICI LATINI E GRECI UTILIZZATE

Apuleio, Metamorfosi (L’asino d’oro), a cura di M. Cavalli, Milano, Mondadori, 1988¹ Boezio Severino, La consolazione della filosofia, introduzione di Ch. Mohrmann, traduzione e note di O. Dallera, Milano, Bur, 2001 Cesare, Opere, a cura di R. Ciaffi e L. Griffa, Torino, Utet, 1973 Cicerone, Della divinazione, introduzione, traduzione e note di S. Timpanaro, Milano, Garzanti, 1998 Cicerone, Dell’oratore, con un saggio di E. Narducci, Milano, Bur, 2006 Cicerone, Opere politiche e filosofiche, I, Lo Stato, Le leggi, I doveri, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, Utet, 1974 Cicerone, Opere politiche e filosofiche, III, De natura deorum, De senectute, De amicitia, a cura di D. Lassandro e G. Micunco, Torino, Utet, 2007 Cicerone, Tusculanae disputationes, in Id., Opere morali, a cura di A. di Virginio e G. Pacitti, Milano, Mondadori, 2007 Esopo, Favole, introduzione di G. Manganelli, traduzione di E. Ceva Valla, Milano, Bur, 1993 Giovenale, Satire, introduzione di L. Canali, traduzione e note di E. Barelli, Milano, Bur, 1998 Ippocrate (pseudo), Sul riso e la follia, a cura di Y. Hersant, tr. di A. Zanetello, Palermo, Sellerio, 1991 Orazio, Tutte le opere, a cura di L. Paolicchi, introduzione di P. Fedeli, Roma, Salerno, 1993 Luciano, Dialoghi, a cura di V. Longo, I-III, Torino, Utet, 1976-1993

BIBLIOGRAFIA

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Orapollo, I geroglifici, introduzione, traduzione e note di M.A. Rigoni e E. Zanco, Milano, Bur, 1996 Ovidio, Metamorfosi, introduzione e traduzione di M. Ramous, note di L. Biondetti e M. Ramous, Milano, Garzanti, 1995 Ovidio, Tristia, Ex Ponto, in Id., Dalla poesia dell’amore alla poesia dell’esilio, a cura di P. Fedeli, traduzioni di G. Leto e N. Gardini, Milano, Mondadori, 2007 Plauto, La casa del fantasma [Mostellaria], introduzione di C. Questa, traduzione di M. Scàndola, Milano, Bur, 2001 Plauto, La pentola del tesoro [Aulularia], introduzione di C. Questa, traduzione di M. Scàndola, Milano, Bur, 2000 Plauto, Miles gloriosus, in Id., Tutte le commedie, a cura di E. Paratore, III, Roma, Newton Compton, 1976 Plutarco, Consolazione alla moglie, introduzione, testo critico, traduzione e commento a cura di P. Impara e M. Manfredini, Napoli, D’Auria, 1991 Plutarco, Vite, I-VI, Torino, Utet, 1992-1998 Seneca, L’ira, introduzione, traduzione e note di C. Ricci, Milano, Bur, 1998 Terenzio, Commedie, a cura di L. Piazzi e L. Pepe, Milano, Mondadori, 2007 Virgilio, Eneide, a cura di E. Paratore, traduzione di L. Canali, Milano, Mondadori, 2007 Vitruvio, De architectura, a cura di P. Gros, traduzione e commento di A. Corso e E. Romano, I-II, Torino, Einaudi, 1997

EDIZIONI DI AUTORI UMANISTICI UTILIZZATE

Ariosto L., Orlando furioso, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 2006 Ariosto L., I cinque canti, a cura di L. Caretti, Torino, Einaudi, 1977

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BIBLIOGRAFIA

Bracciolini P., De infelicitate principum, a cura di D. Canfora, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998 Bruni L., Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, pp. 44-99 Erasmo da Rotterdam, Opus epistolarum [...] denuo recognitum et auctum per P.S. Allen et H.M. Allen, Oxonii, in typographaeo Clarendoniano, I-XII, 1906-47¹ (1992²) Lapo da Castiglionchio, De curiae commodis, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, pp. 170-211 Petrarca F., Canzoniere, Trionfi, Familiarum rerum libri, Firenze, Sansoni, 1975 (traduzione delle lettere Familiares a cura di E. Bianchi) Valla L., De vero bono, critical edition by M. de Panizza Lorch, Bari, Adriatica, 1970

NOTA AL TESTO

Si pubblicano qui l’Autobiografia e alcune delle Intercenales secondo l’edizione fornita da Roberto Cardini in Leon Battista Alberti, Opere latine, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2010, con la sola correzione del seguente refuso: p. 550 (ed. Cardini), Defunctus § 83: «nos secus atque» corretto in «non secus atque» Dell’edizione Cardini si conserva anche la paragrafatura. Il testamento è tratto invece dal Corpus epistolare e documentario di Leon Battista Alberti, a cura di P. Benigni, R. Cardini e M. Regoliosi, con la collaborazione di E. Arfanotti, Firenze, Polistampa, 2007, pp. 360-69 Le traduzioni di tutti i testi sono dei curatori del presente volume. Per quanto riguarda le abbreviazioni utilizzate nelle introduzioni o nelle note ai testi: Cardini = Leon Battista Alberti, Opere latine, a cura di R. Cardini, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2010 Bacchelli-D’Ascia = Leon Battista Alberti, Intercenales, a cura di F. Bacchelli e L. D’Ascia, premessa di A. Tenenti, Bologna, Pendragon, 2003.

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NOTA AL TESTO

Laddove non altrimenti indicato fra parentesi, invece, le altre abbreviazioni si possono sempre sciogliere consultando la sezione bibliografica CONTRIBUTI IN RIVISTE E VOLUMI. All’edizione di Cardini si fa riferimento anche per tutte le altre opere latine albertiane ivi incluse: De commodis litterarum atque incommodis, Amator, Vita Sancti Potiti, De iure, Pontifex, Apologi centum, Canis, Musca, Momus, Porcaria coniuratio, Trivia senatoria, Psalmi precationum; per il De re aedificatoria si fa riferimento a De re aedificatoria / L’architettura, testo latino e traduzione a cura di G. Orlandi, introduzione e note di P. Portoghesi, Milano, Il Polifilo, 1966; per la Philodoxeos fabula all’edizione critica a cura di L. Cesarini Martinelli, «Rinascimento», n.s., 17 (1977), pp. 111-234; per il Theogenius, i Profugiorum ab erumna libri e il De pictura si fa riferimento a Opere volgari, rispettivamente, II, pp. 55-104, II, pp. 107-83 e III, pp. 7-107; per i libri De familia, invece, all’edizione a cura di R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1972². Per quanto riguarda le sigle dei codici citati: O = Oxford, Bodleian Library, Canon. Misc. 172. Si tratta di un codice cartaceo datato al 1487, già noto al Mancini, contenente molte opere dell’Alberti: Canis, Apologi centum, Musca, De equo animante, Amator, De iure, Trivia senatoria, Epistolae septem Epimenidis nomine Diogeni inscriptae, Intercenales (Libro I: Scriptor, Pupillus, Religio, Virtus, Fatum et Fortuna, Paciencia, Felicitas; Libro II: Oraculum; Parsimonia, Gallus, Vaticinium; Paupertas, Nummus, Pluto, Diviciae; Libro IV: Defunctus); Pontifex; Psalmi precacionum; Momus; Anuli ex Intercenalibus; Ad Cratem philosophum; Elementa picture; De componenda statua; Descriptio urbis Rome.

NOTA AL TESTO

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P = Pistoia, Biblioteca dei Domenicani, Inc. F. 19. Si tratta di un volume composito costituito da un incunabolo del De civitate Dei di Agostino (Venezia, 1475; IGI 971) cucito insieme ad un manoscritto di 30 cc. della seconda metà del XV secolo che tramanda la più ampia raccolta a tutt’oggi nota delle Intercenales, scoperta da Eugenio Garin una cinquantina di anni fa e da Roberto Cardini considerata lo stadio finale dell’iter variantistico della raccolta. Il codice tramanda il libro I ([Proemio a Paolo dal Pozzo Toscanelli]; Scriptor, Pupillus, Religio, Virtus, Fatum et Fortuna, Patientia, Felicitas), il libro II (Prohemium ad Leonardum Arretinum, Oraculum, Parsimonia, Gallus, Vaticinium, Paupertas, Nummus, Pluto, Divitie), il libro III (Picture, Flores, Discordia, Hostis, Lapides, Hedera, Suspitio), il libro IV (Prohemium ad Poggium, Somnium, Corolle, Cynicus, Fama, Erumna, Servus) il libro VII (Prohemium, Maritus, Uxoria), il libro VIII (Prohemium, Fatum et pater infelix, Convelata), libro IX (Naufragus), libro X (Prohemium, Bubo, Pertinacia, Nebule, Templum, Lacus, Lupus, Aranea), libro XI (Vidua, Amores). W = Wien, Österreichische Nationalbibliothek, Pal. lat. 3420. Si tratta di un codice composito del XV secolo che tramanda, tra gli altri, i seguenti testi di Leon Battista Alberti: Canis, Defunctus, e una lettera dell’Alberti stesso a Bartolomeo dal Pozzo (di quest’ultima è testimone unico). Una mano diversa da quella del copista, siglata dunque W¹, annota varianti d’autore, aggiunte e correzioni nelle interlinee e nei margini di Canis e Defunctus. Per gli altri codici che costituiscono la tradizione indipendente delle intercenali Anuli, Uxoria e Convelata, qui non antologizzate, si rimanda a Leon Battista Alberti. La biblioteca di un umanista (vd. ATTI DI CONVEGNI E CATALOGHI DI MOSTRE), sezione «II. Il laboratorio della scrittura», pp. 277-385.

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NOTA AL TESTO

Gli autori greci e le loro opere sono citati in italiano e per esteso, onde evitare fraintendimenti. Gli autori latini, invece, si citano secondo le seguenti abbreviazioni: Apul. Apol. = Apuleio, Apologia Apul. Met. = Apuleio, Metamorfosi o l’asino d’oro Aus. Epig. = Ausonio, Epigrammi Boet. De cons. phil. = Boezio, La consolazione della filosofia Caes. Bell. Civ. = Cesare, La guerra civile Caes. Bell. Gall. = Cesare, La guerra gallica Calp. Sic. Ecl. = Calpurnio Siculo, Ecloghe Cic. Brut. = Cicerone, Bruto Cic. Catil. = Cicerone, Catilinarie Cic. De am. = Cicerone, L’amicizia Cic. De div. = Cicerone, La divinazione Cic. De fin. = Cicerone, Del sommo bene e del sommo male Cic. Deiot. = Cicerone, In difesa del re Deiotaro Cic. De leg. = Cicerone, Le leggi Cic. De nat. deor. = Cicerone, La natura degli dei Cic. De off. = Cicerone, I doveri Cic. De or. = Cicerone, Dell’oratore Cic. Dom. = Cicerone, La casa Cic. Mil. = Cicerone, In difesa di Milone Cic. Or. = Cicerone, L’oratore Cic. Phil. = Cicerone, Filippiche Cic. Pro Arch. = Cicerone, In difesa di Archia Cic. Rosc. Com. = Cicerone, In difesa dell’attore Roscio Cic. Somn. = Cicerone, Il sogno di Scipione Cic. Tusc. = Cicerone, Le Tusculane Cic. Verr. = Cicerone, Verrine Corn. Nep. Hannibal = Cornelio Nepote, Vita di Annibale Gell. = Aulo Gellio, Le notti Attiche Hor. Ars = Orazio, Arte poetica Hor. Carm. = Orazio, Odi

NOTA AL TESTO

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Hor. Epist. = Orazio, Epistole Hor. Serm. = Orazio, Satire Iuv. = Giovenale, Satire Liv. = Livio, Storia di Roma Lucr. = Lucrezio, La natura delle cose Macr. Satur. = Macrobio, I Saturnali Mart. = Marziale, Epigrammi Nemes. Ecl. = Nemesiano, Ecloghe Ov. Ex Pont. = Ovidio, Lettere dal Ponto Ov. Met. = Ovidio, Le metamorfosi Ov. Trist. = Ovidio, Tristezze Pers. = Persio, Satire Pers. Choliam. = Persio, Coliambi Plaut. Amph. = Plauto, Anfitrione Plaut. As. = Plauto, Asinaria (La commedia dell’asino) Plaut. Aulul. = Plauto, Aulularia (La commedia della pentola) Plaut. Bacch. = Plauto, Le Bacchidi Plaut. Mil. Glor. = Plauto, Il soldato fanfarone Plaut. Most. = Plauto, Mostellaria (La commedia del fantasma) Plaut. Pers. = Plauto, Il persiano Plaut. Poen. = Plauto, Poenulus (Il cartaginesino) Plaut. Trin. = Plauto, Le tre monete Prop. = Properzio, Elegie Pub. Sir. = Publilio Siro, Sentenze Sall. Cat. = Sallustio, La congiura di Catilina Sall. Hist. = Sallustio, Storie Sen. De ben. = Seneca, I benefici Sen. De ira = Seneca, L’ira Sen. De ot. = Seneca, L’ozio Sen. Ep. = Seneca, Lettere a Lucilio Sen. Rh. Contr. = Seneca il Retore, Controversie Sil. It. Pun. = Silio Italico, Le guerre puniche Ter. Andr. = Terenzio, Andria

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NOTA AL TESTO

Ter. Heaut. = Terenzio, Il punitore di se stesso Verg. Aen. = Virgilio, Eneide Verg. Buc. = Virgilio, Bucoliche (Ecloghe)

Abbreviazioni di opere di Dante e Petrarca Inf. = Dante, Inferno Fam. = Petrarca, Lettere familiari Rer. mem. = Petrarca, I libri delle cose memorabili Rvf = Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta (Canzoniere) Sen. = Petrarca, Lettere senili

Abbreviazioni bibliche Dan. = Daniele Deuter. = Deuteronomio

AUTOBIOGRAFIA E ALTRE OPERE LATINE

AUTOBIOGRAFIA

LEONIS BAPTISTAE DE ALBERTIS VITA (AUTOBIOGRAFIA)

Il testo, di ampia fortuna grazie anche all’uso che ne fece Burckhardt ne La civiltà del Rinascimento in Italia come espressione dell’individualità esemplare ed enciclopedica del genio umanistico, rivela una complessa tessitura di tessere e di fonti, oltre a caratteristiche peculiari della scrittura albertiana. Il ritratto ideale di sé, lo stesso che, in altre forme, aveva tracciato il Petrarca della Posteritati, rientra in una precisa tradizione elogiativa ed autoelogiativa greco-romana: da Isocrate, ricordato come scrittore di panegirici nel Theogenius (Opere volgari II, p. 91), alle laudes del Brutus ciceroniano che Alberti leggeva nel codice da lui posseduto, oggi Marciano Lat. XI 47 (3859). L’uso della narrazione autobiografica in terza persona nasconde l’anelito retorico all’imparzialità oggettiva dello sguardo su se stessi, ma anche l’obbedienza a quel principio della Retorica aristotelica (Rhet. XVII 17, 1418b) per cui parlare di se stessi per bocca di altri aiuta ad evitare l’invidia, la prolissità o le contraddizioni. I temi ci riconducono a molte altre opere albertiane in latino e in volgare: dall’amore precoce e a tratti nevrotico per le lettere all’estenuante fatica mnemonica degli studi di diritto che mettono a repentaglio la sua salute; dall’orgoglio dell’eloquenza del suo volgare esercitato nei De familia, fino a costituire un modello di pubblica eleganza cittadina, all’insensibilità dolorosa dei parenti o all’invidia malevola dei detrattori. Composta con molta probabilità tra il 1438 e il 1441, l’opera presenta un carattere frammentario, quasi di incompiuto, aprendosi di continuo a nuove digressioni, con alcuni movimenti oscillatori, e a tratti ripetitivi, che nel finale si frantumano in quelle schegge sentenziose ed enigmatiche che conferiscono all’Alberti il volto del sapiente antico, sul modello di Pitagora, custode di quella saggezza antica, profonda e immutabile (che sapeva carpire da ogni forma d’arte e di sapere) altre volte condensata nelle gemme fulminanti della sua scrittura «breve».

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Nota al testo Dopo alcune iniziali esitazioni dei critici, l’Autobiografia, attribuita definitivamente alla mano dell’Alberti sulla base di convincenti riscontri stilistici e tematici, è tramandata da tre manoscritti: due manoscritti della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (II. IV. 48 dei secc. XVI-XVII e il Magl. VIII 1490 dei secc. XVI-XVII) e un codice della Biblioteca Universitaria di Genova (G IV 29 del XV-XVI sec.) di provenienza fiorentina. Vicina al testo tramandato dal codice genovese ma forse riconducibile a un esemplare perduto, è l’editio princeps approntata da Lorenzo Mehus nel 1751 per i Rerum Italicarum Scriptores. L’edizione critica moderna curata da Riccardo Fubini e Anna Menci Gallorini (1972), a cui si deve anche la definitiva attribuzione, è fondata sostanzialmente sul codice di Genova con alcune correzioni e congetture. L’edizione di Roberto Cardini (2010) tiene come base il testo del 1972, ma con revisioni radicali – in preparazione della nuova edizione critica – di cui abbiamo tenuto conto. Per il rapporto tra biografia e autobiografia si veda anche Boschetto, Tra biografia e autobiografia.

(1) Omnibus in rebus quae ingenuum et libere educatum deceant ita fuit a pueritia instructus, ut inter primarios aetatis suae adolescentes minime ultimus haberetur. Nam cum arma et equos et musica instrumenta arte et modo tractare, tum litteris et bonarum artium studiis rarissimarumque et difficillimarum rerum cognitioni fuit deditissimus; denique omnia quae ad laudem pertinerent studio et meditatione amplexus est; ut reliqua obmittam, fingendo atque pingendo nomen quoque adipisci elaboravit; adeo nihil a se fore praetermissum voluit, quo fieret a bonis approbaretur. Ingenio fuit versatili, quoad nullam ferme censeas artium bonarum fuisse non suam. Hinc neque otio aut ignavia tenebatur, neque in agendis rebus satietate usquam afficiebatur. (2) Solitus fuerat dicere sese in litteris quoque illud animadvertisse quod aiunt: rerum esse omnium satietatem apud mortales. Sibi enim litteras, quibus tantopere delectaretur, interdum gemmas floridas atque odoratissimas videri, adeo ut a libris vix posset fame aut somno distrahi; interdum autem litteras ipsas suis sub oculis inglomerari persimiles scorpionibus, ut nihil posset rerum omnium minus quam libros intueri. (3) A litteris idcirco, si quando sibi esse illepide occepissent, ad musicam et picturam aut ad membrorum exercitationem

(1) Fu, fin dalla prima fanciullezza, istruito in tutte le discipline che si convengono a un uomo libero e liberamente educato, in modo da non essere ritenuto certo l’ultimo fra i primi della sua età. Si diede, infatti, anima e corpo sia a dominare con abilità tecnica le armi, i cavalli e gli strumenti musicali, sia alle lettere, allo studio delle arti liberali e alla conoscenza dei saperi più rari e difficili; in una parola abbracciò con passione e capacità riflessiva tutte le discipline che contemplano la lode; per tralasciare il resto, ebbe modo di acquisire una certa fama anche nell’arte della scultura e della pittura; e si preoccupò di non trascurare nulla per cui potesse essere apprezzato dagli uomini probi. Fu di ingegno a tal punto versatile che non gli avresti detto estranea nessuna delle arti liberali. Per tali ragioni non era mai preso dall’ozio o dall’ignavia, e non era mai sazio di fare. (2) Era solito affermare di aver esperito anche nelle lettere quello che normalmente si dice: ossia che gli uomini si stancano di tutto. Infatti, quelle lettere, di cui tanto si dilettava, sembravano talvolta gemme superbe profumatissime, a tal punto che riusciva a fatica a farsi distogliere dai libri per la fame o il sonno; ebbene quelle medesime lettere, talvolta, si attorcigliavano sotto i suoi occhi come scorpioni, al punto che nulla gli sembrava insostenibile alla vista quanto i libri. (3) Se qualche volta, dunque, le lettere cominciavano a essere per lui fonte di noia, si dedicava alla musica e alla

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sese traducebat. Utebatur pila, iaculo amentato, cursu saltuque luctaque, atque imprimis arduo ascensu in montes delectabatur, quas res omnes valitudini potius quam ludo aut voluptati conferebat. (4) Armorum praeludiis adolescens claruit. Pedibus iunctis stantium humeros hominum saltu supra transilibat; cum hasta parem habuit saltantium ferme neminem; sagitta manu contorta thoracis firmissimum ferreum pectus transverberabat. Pede sinistro ab pavimento ad maximi templi parietem adacto, sursum in ethera pomum dirigebat manu, ut fastigia longe supervaderet sublimium tectorum; nummulum argenteum manu tanta vi emittebat, ut qui una secum afforent in templo sonitum celsa convexa tectorum templi ferientis nummi clare exaudirent. Equo insidens, virgula oblonga, altero capite in pedis dorsum constituto et manu ad alterum virge caput adhibita, in omnem partem quadrupedem agitabat, virga ipsa integras, ut volebat, horas immota nusquam: mirum atque rarum in eo, quod ferociores equi et sessorum impatientissimi, cum primum conscendisset, sub eo vehementer contremiscebant atque veluti horrentes subtrepidabant. (5) Musicam nullis praeceptoribus tenuit et fuere ipsius opera a doctis musicis approbata; cantu per omnem etatem usus est, sed eo quidem intra privatos parietes aut solus, et praesertim rure cum fratre propinquisve tantum. Organis delectabatur et inter primarios musicos in ea re peritus habebatur. Musicos effecit nonnullos eruditiores suis monitis. (6) Cum per etatem coepisset maturescere, ceteris omnibus rebus posthabitis, sese totum dedicavit studiis litterarum. Dedit enim operam iuri pontificio iurique civili annos aliquot, idque tantis vigiliis tantaque assiduitate, ut ex labore studii in gravem corporis valitudinem incideret. In ea qui-

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pittura o alle discipline fisiche. Praticava il gioco della palla, il lancio del giavellotto, la corsa, il salto, la lotta, ma soprattutto si dilettava di ardue arrampicate in montagna, tutte attività che esercitava più per ragioni di salute che per sollazzo o divertimento. (4) Da giovane si distinse nell’addestramento militare. Era in grado di saltare a piedi uniti oltre le spalle di persone in piedi; non ebbe, si può dire, uguali nel salto con l’asta; con una freccia lanciata dalla mano riusciva a trafiggere il cuore di ferro durissimo di una corazza. Sorreggendosi con il piede sinistro dal pavimento sopra la parete di un tempio di grandi dimensioni, scagliava in alto un pomo con la mano per superare di gran lunga la cima dell’altissimo tetto. Riusciva a lanciare una monetina d’argento con tanto vigore che chi si trovava in sua compagnia nel tempio distingueva chiaramente il suono della moneta che raggiungeva l’elevata cupola del tetto del tempio. Seduto a cavallo, con una lunga asta, tenendone un capo saldo sul dorso del piede e l’altro con la mano, conduceva il quadrupede in ogni dove, mantenendo immobile l’asta per intere ore, se lo desiderava. E cosa strana e insolita era anche il fatto che, anche i cavalli più indomiti e intolleranti della monta, non appena egli vi saliva sopra cominciavano vigorosamente a tremare sotto il suo peso e si agitavano come impauriti. (5) Apprese la musica senza alcun precettore e le sue prove incontrarono il favore di esperti musicisti. Praticò il canto per tutta la vita, ma in dimensione privata o in solitudine, soprattutto durante i soggiorni in campagna e solo in presenza del fratello Carlo o dei parenti. Si dilettava a suonare l’organo e in tale attività era stimato esperto fra musici eccellenti. Anzi rese alcuni musici più sapienti con i suoi consigli. (6) Quando l’età fu matura, messe da parte tutte le altre discipline, si diede completamente allo studio delle lettere. Si dedicò infatti per alcuni anni allo studio del diritto canonico e civile, e a tale attività si consacrò con tanta perdita di sonno e tanta applicazione che per la fatica dello studio si ammalò gra-

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dem egritudine suos perpessus est affines non pios neque humanos. Idcirco consolandi sui gratia, intermissis iurium studiis, inter curandum et convalescendum scripsit Philodoxeos fabulam, annos natus non plus viginti. (7) Ac, dum per valitudinem primum licuit, ad coepta deinceps studia et leges perdiscendas sese restituit; in quibus cum vitam per maximos labores summamque egestatem traheret, iterato gravissima egritudine obrutus est. (8) Artus enim debilitatus macritudineque absumpte vires ac prope totius corporis vigor roburque infractum atque exhaustum, eo deventum est gravissima valitudine, ut lectitanti sibi oculorum illico acies, obortis vertiginibus torminibusque, defecisse videretur, fragoresque et longa sibila ad inter aures multo resonarent. Has res phisici evenire fessitudine nature statuebant; ea de re admonebant iterum atque iterum ne in his suis laboriosissimis iurium studiis perseveraret. (9) Non paruit, sed cupiditate ediscendi sese lucubrationibus macerans, cum ex stomaco laborare occepit, tum et in morbum incidit dignum memoratu. Nomina enim interdum familiarissimorum, cum ex usu id foret futurum, non occurrebant (rerum autem quae vidisset, quam mirifice fuit tenax). Tandem ex medicorum iussu studia hec, quibus memoria plurimum fatigaretur, prope efflorescens intermisit. (10) Verum, quod sine litteris esse non posset, annos natus quatuor et viginti ad philosophiam se atque mathematicas artes contulit: eas enim satis se posse colere non diffidebat, siquidem in his ingenium magis quam memoriam exercendam intelligeret.

1 Come dice lo stesso Alberti, interrotti momentaneamente gli studi di diritto troppo faticosi per la sua struttura fisica, si dedicò, durante la convalescenza, alla stesura della commedia Philodoxeos fabula (cioè la commedia dell’Amante della gloria), il primo cimento letterario, compiuto a non più di vent’anni

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vemente. E fu proprio in quello stato di malattia che ebbe modo di verificare l’empietà e l’insensibilità dei suoi parenti. Così, per consolarsi, interrotti gli studi giuridici, tra le cure e la convalescenza scrisse la Philodoxeos fabula,1 appena ventenne. (7) Poi, appena lo stato di salute glielo permise, si diede nuovamente agli studi precedentemente intrapresi e ad apprendere le leggi; ma poiché, nel frattempo, conduceva una vita fra grandissimi stenti e in somma povertà, si ammalò molto gravemente una seconda volta. (8) Indebolito nel corpo e con le forze consunte dall’eccessiva magrezza e con un vigore fisico quasi completamente infiacchito e svanito, giunse a un tale stato di prostrazione fisica, che mentre leggeva gli sembrava venisse meno la forza degli occhi, in preda alle vertigini e alle coliche, e gli rimbombavano forte nelle orecchie rumori e lunghi sibili. I medici dicevano che tali sintomi erano dovuti alla debolezza della complessione fisica; e per tali ragioni si raccomandavano di continuo che non perseverasse in quei suoi faticosissimi studi giuridici. (9) Ma egli non voleva sentirne, e macerandosi in lunghe veglie per il desiderio di apprendere, sia cominciò a soffrire di stomaco, sia cadde in una malattia degna di essere ricordata. Non gli venivano in mente, infatti, i nomi delle persone più care, quando ciò era naturale che avvenisse per la continua frequentazione (mentre aveva memoria straordinariamente tenace delle cose che aveva visto). Infine, quando ormai era sul punto di andarsene, per ordine dei medici interruppe quegli studi che affaticavano tantissimo la sua memoria. (10) Tuttavia, poiché non poteva vivere senza lo studio, a ventiquattro anni si dedicò alla filosofia e alle arti matematiche: sperava infatti di potervisi applicare senza troppo danno, dal momento che capiva che in queste bisognava esercitare più l’ingegno della memoria. (quindi verso il 1424) e firmato con lo pseudonimo di Lepidus. La questione relativa alla complessa vicenda delle due redazioni della commedia (la seconda è firmata dall’autore e posteriore di una decina di anni) si affronta in L.B. Alberti, Philodoxeos fabula, pp. 111-234: 111-16.

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(11) Eo tempore scripsit ad fratrem De commodis litterarum atque incommodis, quo in libello ex re ipsa perdoctus quidnam de litteris foret sentiendum disseruit. (12) Scripsitque per ea tempora, animi gratia, complurima opuscula: Ephebiam, De religione, Deiphiram et pleraque huiusmodi soluta oratione; tum et versu elegias eglogasque atque cantiones et eiuscemodi amatoria, quibus plane studiosis ad bonos mores inbuendos et ad quietem animi prodesset. (13) Scripsit praeterea, et affinium suorum gratia, ut lingue latine ignaris prodesset, patrio sermone annum ante trigesimum etatis sue etruscos libros primum, secundum ac tertium De familia, quos Rome die nonagesimo quam inchoarat absolvit, sed inelimatos et asperos, neque usquequaque etruscos. Patriam enim linguam, apud exteras nationes per diutinum familie Albertorum exilium educatus, non tenebat, et durum erat hac in lingua scribere eleganter atque nitide, in qua tum primum scribere assuesceret. Sed brevi tempore, multo suo studio, multa industria, id assecutus extitit, ut sui cives, qui in senatu se dici eloquentes cuperent, non paucissima ex illius scriptis ad exornandam orationem suam ornamenta in dies suscepisse faterentur. (14) Scripsit et preter hos annum ante trigesimum plerasque Intercenales, illas presertim iocosas Viduam, Defunctum et istis simillimas, ex quibus, quod non sibi satis mature edite viderentur, tametsi festivissime forent

2 Scritto dopo il 1428, di seguito al soggiorno bolognese, l’opera è dedicata al fratello Carlo. 3 Probabilmente si allude all’operetta albertiana in latino Amator, scritta in dialogo con l’opera di argomento affine, l’Ephebia, appunto, di mano del fratello Carlo, a cui l’opera è attribuita dall’Alberti stesso nel De commodis litterarum atque incommodis I 7 «Tu vero (ut tuo in Ephebis utar dicto)» («Tu poi, – per citare un modo di dire da te usato nelle Efebie»). 4 Si allude probabilmente all’intercenale Religio. 5 Operetta elegiaca in volgare sui mali d’amore scritta dopo il 1 gennaio del 1432.

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(11) A quel tempo scrisse per il fratello il De commodis litterarum atque incommodis,2 operetta in cui disquisiva sulla sua concezione delle lettere, argomento su cui era ferratissimo. (12) A quei tempi scrisse anche, per rinfrancarsi, vari opuscoli come l’Ephebia,3 il De religione,4 la Deiphira5 e parecchie altre opere di tal genere in prosa; ma compose anche, in versi, elegie, egloghe, ballate e operette di argomento amoroso di tal fatta, con cui giovare, per chi solo lo volesse, all’acquisizione dei buoni costumi e alla quiete dell’animo. (13) A ventinove anni, inoltre, per tributare onore ai suoi parenti e per recare beneficio a chi non conosceva il latino, scrisse nella lingua patria il primo, il secondo e il terzo libro De familia6 in toscano, che compose a Roma in novanta giorni, lasciando tuttavia tali libri non rifiniti e grezzi, non perfettamente uniformati alla patina della lingua toscana. Infatti, cresciuto fra genti straniere per il lungo esilio della famiglia Alberti, non dominava completamente la lingua madre, ed era dunque difficile scrivere in modo elegante e nitido in una lingua con cui cominciava solo allora a prendere confidenza. Ma essendoci riuscito col molto studio e con la grande applicazione, accadde che i suoi concittadini che desideravano essere definiti eloquenti in senato, ammettessero di avere tratto nel tempo dai suoi scritti non pochi espedienti stilistici per ornare i loro discorsi. (14) Scrisse, oltre a questi libri, sempre prima dei trent’anni, la maggior parte delle Intercenales, soprattutto quelle di argomento giocoso, come Vidua,7 Defunctus e altre molto simili a queste, parecchie delle quali gettò nel fuoco, poiché non gli sembravano 6 Proprio su questo passaggio dell’Autobiografia albertiana ci si è fondati per collocare la stesura dei primi tre libri De familia tra il 1432 e il 1434. 7 Intercenale del libro XI; sospesa tra il genere della novella e quello della commedia, questa intercenale contiene molte tessere tratte dal Properzio e dalle opere amatorie ovidiane (Cardini, p. 513).

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et multos risus excitarent, plures mandavit igni, ne obtrectatoribus suis relinqueret unde se levitatis forte subarguerent. (15) Vituperatoribus rerum quas conscriberet, modo coram sententiam suam depromerent, gratias agebat, in eamque id partem accipiebat, ut se fieri elimatiorem emendatorum admonitu vehementer congratularetur. De re tamen ita sentiebat, omnibus facile persuasum iri posse ut sua plurimum scriptio approbaretur; que, si forte minus quam cuperet delectet, non tamen se inculpandum esse, quandoquidem sibi, secus quam ceteris auctoribus non licuerit. (16) Cuique enim aiebat ab ipsa natura vetitum esse meliora facere sua quam possit facere: demum sat esse putandum si quid pro viribus et ingenio muneri satisfecerit. (17) Mores autem suos iterum atque iterum perquam diligentissime cavebat ne a quoquam possent ulla ex parte ne suspitione quidem vituperari, et calumniatores pessimum in vita hominum malum versari aiebat; illos enim didicisse per iocum et voluptatem non minus quam per indignationem et iracundiam famam bonorum sauciare, et posse nullis remediis cicatricem illati eorum perfidia ulceris aboleri. (18) Itaque voluit omni in vita, omni gestu, omni sermone et esse et videri dignus bonorum benivolentia, et cum ceteris in rebus, tum maxime tribus omnem dicebat artem consumendam (sed arti addendam artem, ne quid illic factum arte videatur), dum per urbem obambularis, dum equo veheris, dum loqueris: in his enim omni ex parte circumspiciendum ut nullis non vehementer placeas. (19) Multorum tamen, etsi

8 Sul modo di lavorare di Alberti, che porta con sé il frequente fenomeno dell’archetipo «in movimento», si vedano i numerosi

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pronte per la pubblicazione,8 sebbene fossero piacevolissime e suscitassero molto riso, per non lasciare ai suoi detrattori possibili appigli per accusarlo di superficialità. (15) Era grato a chi criticava le sue opere, a patto che esprimesse le proprie opinioni in sua presenza e anzi ne traeva occasione di viva gratitudine per il giovamento tratto nello stile dalla correzione degli errori. Riguardo a questo, tuttavia, capiva di poter facilmente persuadere tutti a dare somma approvazione al suo modo di scrivere; e se questo, per caso, piaceva meno di quanto egli desiderasse, non doveva tuttavia farsene una colpa, dal momento che a lui era consentita una licenza non diversa da quella degli altri autori. (16) Diceva infatti che a ciascuno era impedito dalla stessa natura di superare le proprie possibilità e che dunque si doveva ritenere sufficiente compiere il proprio dovere in proporzione alle forze del proprio intelletto. (17) Prestava poi di continuo la massima attenzione a che i suoi costumi non potessero da nessuno e sotto nessun profilo essere ripresi anche solo per un’ombra di sospetto e diceva che i calunniatori erano il male peggiore che potesse capitare a un uomo nella vita; quelli infatti per puro piacere non meno che per una rabbia sdegnosa riescono a ledere la fama dei probi e la cicatrice della ferita arrecata dalla loro perfidia non può essere sanata da nessun rimedio. (18) Per tale ragione in ogni aspetto della sua vita, in ogni gesto, in ogni parola volle sia essere sia sembrare degno della benevolenza dei probi e diceva che si doveva adoperare ogni arte (e anzi aggiungere arte ad arte perché non trapelasse l’artificio) in tutte le altre cose, ma soprattutto in queste tre, nel camminare per la città, nell’andare a cavallo, nel parlare: in queste tre attività, infatti, bisogna volgere lo sguardo intorno da ogni parte in modo da piacere a tutti. (19) Tuttavia, per quanto fosse affabile, mite e saggi di Cardini in Moderni e antichi I, II-III: vd. qui in CONTRIBUTI IN RIVISTE E VOLUMI.

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esset facilis, mitis ac nulli nocuus, sensit iniquissimorum odia occultasque inimicitias sibi incomodas atque nimium graves; ac presertim a suis affinibus acerbissimas iniurias intollerabilesque contumelias pertulit animo constanti. (20) Vixit cum invidis et malivolentissimis tanta modestia et equanimitate, ut obtrectatorum emulorumque nemo, tametsi erga se iratior, apud bonos et graves de se quidpiam nisi plenum laudis et admirationis auderet proloqui; coram, etiam ab ipsis invidis honorifice accipiebatur; ubi vero aures alicuius levissimi ac sui simillimi paterent, hi maxime, qui pre ceteris diligere simulassent, omnibus calumniis absentem lacerabant: tam egre ferebant virtute et laudibus ab eo superari, quem fortuna sibi longe esse inferiorem ipsi omni studio et industria laborassent. (21) Quin et fuere ex necessariis, ut cetera obmittam, qui illius humanitatem, beneficentiam liberalitatemque experti, intestinum et nefarium in scelus ingratissimi et crudelissimi coniurarint, servorum audacia in eum excitata, ut vim ferro barbari immeritissimo inferrent. (22) Iniurias istiusmodi ab suis illatas ferebat equo animo per taciturnitatem, magis quam aut indignatione ad vindictam penderet, aut suorum dedecus et ignominiam iri promulgatum sineret. Suorum enim laudi et nomini plus satis indulgebat, et quem semel dilexerat, nullis poterat iniuriis vinci ut odisse inciperet. (23) Sed improbos aiebat maleficiis in bonos inferendis facile superiores futuros (nam satius quidem apud bonos putari sentiebat iniuriam perpeti quam facere): idcirco nolentibus

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Nelle intercenali Erumna e Pupillus il personaggio autobio-

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tranquillo con tutti, subì gli odi e le inimicizie occulte per lui dolorose e troppo gravose di uomini malvagi; e soprattutto dai suoi parenti dovette sopportare con animo saldo offese penosissime e insopportabili oltraggi.9 (20) Tuttavia con gli invidiosi e i malevoli si comportò con tanta misura e tolleranza che nessuno dei detrattori e degli antagonisti, per quanto astioso verso di lui, osò dire nulla se non di lodevole e ammirevole al suo riguardo di fronte a uomini ragguardevoli e onesti; pubblicamente, era accolto con onore anche dagli stessi invidiosi; ma se solo si prestavano all’ascolto le orecchie di qualche stupido o di qualcuno molto simile a loro, allora soprattutto quelli che avevano finto di apprezzarlo davanti agli altri lo facevano a pezzi a furia di calunnie in sua assenza; a tal punto mal tolleravano di essere superati in virtù e lode da colui che con ogni mezzo ed espediente avevano tentato di rendere di condizione di gran lunga inferiore alla loro. (21) Anzi vi furono anche, tra i parenti, per tralasciare altre cose, alcuni che, pur avendo conosciuto la sua umanità, benevolenza e generosità, ponendosi oltre ogni limite di ingratitudine e crudeltà, congiurarono un miserabile delitto fra le mura domestiche aizzandogli contro la sfrontatezza dei servi perché infierissero barbaramente con la spada su un innocente. (22) Egli tollerò in silenzio con pazienza oltraggi di tal genere perpetratigli dai suoi, piuttosto che cedere alla vendetta per l’indignazione o permettere che venissero risapute la vergogna e l’ignominia dei parenti. Infatti era fin troppo attento al buon nome della famiglia, e, una volta che si era affettivamente legato a qualcuno, nessuna ingiuria poteva spingerlo ad odiarlo. (23) Ma diceva che i malvagi sarebbero risultati facilmente vincenti nel recare danni agli onesti (infatti è ben noto come i buoni preferiscano subire piuttosto che arrecare offesa): e grafico Philoponius ricorda in modo analogo i numerosi oltraggi subìti dai parenti.

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ledere contra eos, qui lacessire parati sint, contentionem esse non equam. Itaque protervorum impetum patientia frangebat, et se ab calamitate, quoad posset, solo virtutis cultu vendicabat. (24) Bonis et studiosis viris fuit commendatus principibusque non paucis acceptissimus; sed quod omne ambitionis assentationisque genus detestaretur, minus multis placuit quam placuisset, si pluribus sese familiarem fecisset. Inter principes tamen italos interque reges exteros non defuere uni atque item alteri testes et precones virtutis sue, quorum tamen gratia ad nullius vindictas, cum novis in dies iniuriis irritaretur et plane ulcisci posset, abusus est. (25) Preterea cum tempora incidissent ut his, a quibus graviter esset lesus, privata sua fortuna valeret pulchre pro meritis referre, beneficio et omni humanitate maluit quam vindicta efficere, ut scelestos poeniteret talem a se virum fuisse lesum. (26) Cum libros De familia primum, secundum atque tertium suis legendos tradidisset, egre tulit eos inter omnes Albertos, alioquin ociosissimos, vix unum repertum fore, qui titulos librorum perlegere dignatus sit, cum libri ipsi ab exteris etiam nationibus peterentur; neque potuit non stomachari cum ex suis aliquos intueretur, qui totum illud opus palam et una auctoris ineptissimum institutum irriderent. (27) Eam ob contumeliam decreverat, ni principes aliqui interpellassent, tris eos, quos absolverat, libros igni perdere; vicit tamen indignationem officio, et post annos tris quam primos ediderat quartum librum ingratis protulit, «Hinc si probi estis – inquiens – me amabitis; sin tandem improbi, vestra vobis improbitas erit odio». (28) Illis libris illecti, plerique rudes concives studiosissimi litterarum effecti

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per questa ragione è vana la lotta fra coloro che non vogliono mai nuocere e quelli che sono sempre pronti a farlo. Perciò, finché poté, sopportò con pazienza gli assalti degli arroganti e si difese dalle disgrazie col solo esercizio della virtù. (24) Ma fu molto apprezzato dagli uomini onesti e colti e molto bene accetto da non pochi principi; ma poiché detestava ogni genere di ambizione e di adulazione piacque a molti meno di quanto sarebbe piaciuto se solo avesse dato confidenza a più persone. Tuttavia fra i principi italiani e i re stranieri non mancarono, fra gli uni e gli altri, testimoni e sostenitori del suo valore, del cui appoggio tuttavia non si avvalse per alcuna vendetta, pur essendo tormentato da sempre nuove ingiurie e pur potendo facilmente rivalersi su di loro. (25) Inoltre, giunto il momento in cui la sua fortuna personale avrebbe potuto consentirgli di prendersi una bella rivincita su coloro dai quali era stato gravemente offeso, preferì che i malfattori si pentissero di aver leso un siffatto uomo, più con la sua benevolenza e umanità che con la vendetta. (26) Avendo poi dato da leggere ai suoi i primi tre libri De familia, non fu certo contento che fra tutti gli Alberti, tra l’altro con molto tempo libero disponibile, se ne trovasse a stento uno che si degnasse di leggere fino in fondo anche solo i titoli dei libri, quando quegli stessi libri erano richiesti persino da genti forestiere; e non poté non indignarsi quando si accorse che alcuni dei suoi apertamente denigravano come risibilissima tutta quell’opera e insieme l’erudizione dell’autore. (27) Per quell’offesa aveva deciso di gettare nel fuoco i tre libri già composti, se non lo avessero distolto alcuni principi; tuttavia il senso del dovere ebbe la meglio sull’indignazione, e a tre anni dalla pubblicazione dei primi tre, offrì a quegli ingrati un quarto libro dicendo: «In virtù di questo mi amerete; se invece vorrete essere malvagi fino in fondo, la vostra malvagità sarà per voi fonte di odio». (28) Grazie a quei libri, gli illetterati e la maggioranza degli incolti fra i suoi concittadini divennero appassionati cultori delle lettere. Quelli e tutti

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sunt. Eos ceterosque omnes cupidos litterarum fratrum loco deputabat; illis queque haberet, queque nosset, queque posset ultro communicavit; suas inventiones dignas et grandes excercentibus condonavit. (29) Cum appulisse doctum quemvis audisset, illico sese in illius familiaritatem insinuabat, et a quocumque queque ignorasset ediscebat. A fabris, ab architectis, a naviculariis, ab ipsis sutoribus et sartoribus sciscitabatur, si quidnam forte rarum sua in arte et reconditum quasi peculiare servarent; eadem illico suis civibus volentibus communicabat. Ignarum se multis in rebus simulabat, quo alterius ingenium, mores peritiamque scrutaretur. (30) Itaque rerum, que ad ingenium artesque pertinerent, scrutator fuit assiduus; pecuniarum et questus idem fuit omnino spretor. Pecunias bonaque sua amicis custodienda et usu fruenda dabat; tum apud hos, a quibus se diligi coniectaret, fuit cum rerum suarum atque institutorum, tum et secretorum prope futilis. (31) Aliena secreta nusquam prodidit, sed eternum obmutuit. Litteras perfidi cuiusdam, quibus impurissimum ipsum inimicum pessime posset afficere, noluit prodere; sed interea, dum se nequissimus ille convitiator litterarum auctor mordere non desineret, nihilo plus commotus est, quam ut subridens diceret: «Enimvero, an tu, homo bone, num et scribere litteras meministi?». (32) Ad molestissimum quemdam calumniatorem conversus, arridens: «Facile» inquit «patiar te quoad voles mentiendo ostendere qualis quisque nostrum sit: tu istiusmodi predicando efficis, ut te isti parum esse modestum sentiant, magis quam me tua istac presenti ignominia vituperes; ego tuas istas ineptias ridendo efficio, ut mecum plus nihil assequaris quam ut, cum frustratus a me discesseris, tum te tui pigeat». (33) Ac fuerat quidem natura ad iracundiam facili et

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gli altri amanti delle lettere egli considerava come fratelli; e con loro spontaneamente condivideva tutto ciò che aveva, sapeva e poteva; e li mise a parte, perché se ne giovassero, delle sue scoperte degne e importanti. (29) Quando sentiva che c’era nelle vicinanze qualche uomo dotto, subito cercava di conoscerlo, e voleva apprendere da chiunque tutto ciò che ancora ignorava. Tentava di carpire a fabbri, architetti, costruttori di navi, persino a calzolai e sarti se mai custodissero qualcosa di raro e di recondito, come di peculiare, nella loro arte; e di quegli stessi segreti, poi, metteva a parte i suoi concittadini che lo desideravano. In molte circostanze si fingeva ignorante per indagare l’ingegno, i costumi e le capacità di un altro. (30) Fu, insomma, un instancabile indagatore di tutto ciò che pertiene all’ingegno e alle arti; come fu, al pari, spregiatore ostinato del denaro e del guadagno. Il denaro e i suoi beni dava ai suoi amici da custodire e in usufrutto. Fu elargitore quasi folle sia dei propri beni e progetti, sia dei propri segreti verso coloro da cui pensava di essere amato. (31) Non rivelò mai i segreti altrui, ma mantenne sempre il silenzio. Non volle mai rendere nota una lettera di un uomo perfido, con cui avrebbe potuto mandare in rovina un suo perniciosissimo nemico; ma frattanto, mentre quel nefandissimo calunniatore, autore della lettera, non smetteva di infastidire, non si scompose minimamente, ma si limitò a dirgli sorridendo con malizia: «Ehi tu, buon uomo, ti ricordi anche di scrivere una lettera?». (32) E rivoltosi sorridendo a un fastidiosissimo calunniatore disse: «Senza problemi ti lascerò mostrare finché vorrai, con le tue bugie, la qualità umana di ciascuno di noi due: tu, dicendo in giro cose di tal genere, più che infangare me con queste tue vergognose calunnie, fai in modo che costoro pensino che sei poco misurato; io, ridendo di queste tue scempiaggini, faccio in modo che tu non ottenga da me niente di più che andartene scornato e rincresciuto». (33) Sarebbe stato, tuttavia, per natura, incline all’ira e di

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animo acri, sed illico surgentem indignationem reprimebat consilio, atque ex industria verbosos et pervicaces interdum fugiebat, quod non posset apud eos ad iram non subcalescere, interdum ultro se protervis, quo patientie assuesceret, efferebat. (34) Familiares arcessebat, quibuscum de litteris et doctrina suos habebat perpetuos sermones, illisque excribentibus dictabat opuscula, et una eorum effigies pingebat aut fingebat cera. Apud Venetias vultus amicorum, qui Florentie adessent, expressit annum mensesque integros postquam eos viderat. Solitus erat rogare puerulos eamne imaginem quam pingeret nossent, et negabat ex arte pictum dici quod non illico a pueris usque nosceretur; suos vultus propriumque simulacrum emulatus, ut ex picta fictaque effigie ignotis ad se appellentibus fieret notior. (35) Scripsit libellos De pictura; tum et opera ex ipsa arte pingendi effecit inaudita et spectatoribus incredibilia, que quidem parva in capsa conclusa pusillum per foramen ostenderet: vidisses illic montes maximos vastasque provincias sinum immane maris ambientes, tum e conspectu longe sepositas regiones, usque adeo remotissimas, ut visenti acies deficeret. Has res «demonstrationes» appellabat, et erant eiusmodi, ut periti imperitique non pictas, sed veras ipsas res nature intueri decertarent. (36) Demonstrationum erant duo genera, unum quod diurnum, alterum quod nocturnum

10 Il riferimento agli ospuscula (operette) fa pensare a opere brevi, prevalentemente alle Intercenales. Da qui il carattere particolare della trasmissione di molte opere albertiane che hanno, come si è detto, questo carattere di oralità e una dimensione filologica peculiare, quella dell’«archetipo in movimento». 11 L’Alberti soggiornò a Venezia tra il 1415 e il 1418. Per il rapporto fra l’umanista e la città lagunare, importante per il De re aedificatoria cfr. S. Borsi, Leon Battista Alberti tra Venezia e Ferrara, Melfi, Libria, 2011. 12 Il trattato, dedicato a Filippo Brunelleschi, fu probabilmente

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animo astioso, ma cercava di reprimere con la ponderazione lo sdegno che affiorava, e talvolta fuggiva di proposito le persone ciarliere e ostinate, perché con loro non riusciva a non abbandonarsi all’ira, talvolta invece si offriva di propria volontà agli arroganti per abituarsi alla tolleranza. (34) Invitava gli amici, con cui di continuo discuteva di letteratura e di scienza, e ad essi dettava, perché la trascrivessero, qualche operetta,10 e insieme ne dipingeva il ritratto o ne plasmava l’immagine con la cera. A Venezia11 dipinse i volti degli amici che stavano a Firenze dopo un anno e diversi mesi che li aveva visti. Era solito chiedere ai fanciulli se riconoscessero l’immagine che stava dipingendo, e diceva che non era dipinto ad arte ciò che non fosse riconoscibile perfino dai bambini; cercava di riprodurre i tratti del proprio volto e della propria immagine, per divenire più noto agli sconosciuti che gli si avvicinavano grazie all’immagine dipinta o modellata. (35) Scrisse un’operetta De pictura;12 inoltre, grazie ai suggerimenti della stessa arte pittorica, realizzò opere straordinarie e incredibili alla vista, che mostrava attraverso un foro, chiuse in una piccola scatola;13 lì si potevano scorgere monti smisurati e sconfinate terre che abbracciavano un immenso golfo marino, poi, in prospettiva, sul fondo, regioni remote, talmente lontane da sottrarsi allo sguardo. Queste egli chiamava «dimostrazioni», ed erano di tal genere che tanto gli esperti quanto gli inesperti pensavano di osservare non pitture ma reali elementi della natura. (36) Le dimostrazioni erano di due generi, una che definiva diurna, l’altra che defiredatto prima in volgare (1435) e poi in latino (1436). La data di ultimazione della redazione volgare (26 agosto 1435) è rivelata anche da una nota autografa dell’Alberti redatta su uno dei pochi volumi superstiti della sua biblioteca, il Brutus di Cicerone, l’attuale manoscritto Lat. XI, 67 (3859) della Biblioteca Nazionale Marciana: cfr. Leon Battista Alberti. La Biblioteca di un umanista (vd. ATTI DI CONVEGNI E CATALOGHI DI MOSTRE), p. 404. 13 Si tratta, ovviamente, dell’invenzione della camera ottica.

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nuncuparet. Nocturnis demonstrationibus vides Arturum, Pleiades, Oriona et istiusmodi signa micantia, illucescitque excelso a rupium et verrucarum vertice surgens luna ardentque antelucana sidera. (37) Diurnis in demonstrationibus splendor passim lateque irradiat immensum terrarum orbem is, qui post irigeniam, uti ait Homerus, Auroram fulget. (38) Quosdam Grecorum proceres, quibus mare foret percognitum, in sui admirationem pellexit. Nam cum illis mundi hanc fictam molem per pusillum, ut dixi, foramen ostenderet ac rogaret et quidnam vidissent, «Eia!» inquiunt illi «classem navium in mediis undis intuemur; eam ante meridiem apud nos habebimus, ni istic, qui ad orientem solem nimbus atque atrox tempestas properat, offenderit: tum et mare inhorruisse intuemur periculique signa sunt, quod a sole nimium acres mare advorsum iactat radios». (39) Huiusmodi rebus investigandis opere plus adhibuit quam promulgandis; nam plus ingenio quam glorie inserviebat. Numquam vacabat animo a meditatione et commentatione; raro se domi ex publico recipiebat non aliquid commentatus, tum et inter coenas commentando. Hinc fiebat ut esset admodum taciturnus et solitarius aspectuque subtristis, sed moribus minime difficilis, quin inter familiares, etiam cum de rebus seriis disputaret, semper sese exibebat iocundum et, servata dignitate, festivum. (40) Fuerunt qui eius dicta et seria et ridicula complurima colligerent, que quidem ille ex tempore atque e vestigio

14 L’Aurora omerica (Eos) aveva l’epiteto topico dell’erigeneia, cfr. Omero Odissea XIII 94. 15 L’espressione è utilizzata anche da Cicerone nel De divinatione I 24, che riprende Pacuvio: «Interea prope iam occidente sole inhorrescit mare, tenebrae conduplicantur noctisque et nimbum occaecat nigror» («frattanto, quando il sole già sta per calare, il mare comincia ad agitarsi, il buio si raddoppia, il nero della notte e quello dei nembi accecano lo sguardo»).

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niva notturna. Nelle dimostrazioni notturne si vedono Arturo, le Pleiadi, Orione e altri simili astri lucenti, la luna risplende sorgendo dalla sommità delle rupi e dalla cima delle alture e brillano le stelle mattutine. (37) Nelle dimostrazioni diurne una luce diffusa ovunque irradia l’immenso globo terrestre, quella che, come dice Omero,14 rifulge dopo l’Aurora che accende i colori dell’iride. (38) Suscitò grande ammirazione in certi illustri greci che del mare avevano non poca esperienza. Quando mostrò loro questa enorme quantità virtuale di acqua attraverso un piccolo foro e chiese cosa mai vedessero, «Oh!,» dissero quelli «vediamo una flotta di navi fra le onde; sarà qui prima di mezzogiorno, a meno che non glielo impediscano le nuvole e una terribile tempesta che si stanno avvicinando a oriente; vediamo che il mare si è agitato15 e ci sono segnali di pericolo, perché il mare riflette raggi troppo accecanti». (39) Si diede più a investigare che a divulgare esperienze di tal genere; infatti era più attratto dalle lusinghe dell’ingegno che da quelle della gloria. Mai il suo animo si asteneva dalla riflessione e dalla meditazione; raramente faceva ritorno a casa, dopo essere stato fra altre persone, senza qualcosa su cui meditare, anzi meditava anche durante le cene.16 Accadeva allora che diventasse molto taciturno e solitario e cupo in volto17 ma mai scontroso nei modi, anzi, fra gli amici, anche quando discuteva di argomenti seri, si mostrava sempre allegro e, senza perdere il senso del decoro, scherzoso. (40) Vi fu chi raccolse molti suoi detti seri e faceti, che gli venivano fuori al momento e all’impronta senza averli 16 È questo, del resto, il senso del titolo scelto per le proprie Intercenales, neoformazione albertiana che vale «inter cenas et pocula». 17 Questo ritratto di Alberti sembra ricalcare quello dell’inquieto Bellerofonte omerico nei cui tratti già si riconosceva il Petrarca leggendoli in Cic. Tusc. III 63: cfr. Rvf 35 «Solo et pensoso i più deserti campi», il III libro del Secretum e anche in altri luoghi del Petrarca latino.

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celerius ediderit ferme quam premeditarit. Ex multis pauca exempli gratia referemus. (41) De quodam, qui diutius inter disserendum ostentande memorie gratia nimium multa nullo cum ordine esset prolocutus, cum rogaretur qualis sibi disputator esset visus, respondit eam sibi peram libris laceris et disvolutis refertam videri. (42) Domum vetustam, obscuram et male edificatam, in qua divertisset, tritavam atque idcirco nobilissimam edium appellabat, siquidem ceca et incurva esset. (43) Peregrino roganti quanam foret via eundum sibi eo versus, ubi ius redderetur: «Non equidem, mi hospes» inquit «novi»; tum concives qui aderant: «Ne vero non id novisti» inquiunt «pretorium?» «Non equidem» inquit «ius ipsum istic habitasse, o cives, memineram». (44) Roganti ambitioso purpurane decenter uteretur «Pulchre» inquit «ea, modo pectus tegat». (45) Otiosum quendam garrulum scurram increpans: «Eia» inquit «ut apte carioso in trunco evigilans considet rana!». (46) Cum familiarem admoneret ut a maledici consuetudine sese abdicaret, «Crabrones» dicebat «non recipiendos sinu». Cumque sibi contra a mathematico improperaretur quod bilinguem et versipellem hospitem detinuisset: «Num tu» inquit «nosti nisi in puncto equam superficiem attingat globum?». (47) Levitatem et inconstantiam a natura esse datam mulieribus dicebat, in remedium earum perfidie et nequitie; quod, si perseveraret mulier suis incoeptis, fore ut omnes bonas hominum res suis flagitiis funditus perderet.

18 Da questo momento il testo dell’Autobiografia assume un tono di brevità apodittica e sentenziosa vicino a quella brevità enigmatica e apoftegmatica che percorre gli Apologi centum o le Sentenze pitagoriche. 19 «Versipellis» dal testo latino è termine adoperato da Apul. Met. II 22 a proposito della capacità metamorfica delle streghe, abili

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premeditati. Fra i molti ne riporteremo alcuni a titolo di esempio:18 (41) Di un tale che nella discussione la teneva troppo lunga senza alcun ordine nel discorso per far sfoggio di erudizione, essendogli chiesto cosa gliene sembrasse dell’oratore, rispose che gli sembrava una bisaccia piena di libri laceri e disordinati. (42) Una casa antica, buia e fatiscente, in cui si era recato, definiva la trisavola delle case e perciò della massima nobiltà, per quanto oscura e malferma. (43) Rivoltosi a un forestiero che gli chiedeva per quale strada si dovesse andare al luogo in cui si amministrava la giustizia rispose: «Per la verità non lo so, mio straniero»; allora i concittadini presenti ribatterono: «Come non conosci il tribunale?» e lui, di contro: «In vero non ricordavo, cittadini, che la giustizia abitasse propriamente lì». (44) A un ambizioso che gli domandava se la porpora gli stesse bene, ripose: «Bene, purché nasconda il cuore». (45) Redarguendo un garrulo buffone nullafacente disse: «Quanto opportunamente una rana siede di guardia su un tronco divorato dai tarli». (46) Consigliando a un amico di guardarsi dal frequentare un maldicente diceva: «Non bisogna accogliere in seno i calabroni». E quando, di contro, a lui venne rimproverato da un matematico di aver avuto come ospite un uomo dalla lingua biforcuta e voltagabbana,19 disse: « Forse tu non sai che la sfera tocca la superficie piana solo in un punto?». (47) Era solito dire che alle donne erano state concesse dalla natura superficialità e incostanza come rimedio alla loro perfidia e malvagità; che se una donna perseverasse nelle sue intraprese manderebbe completamente in rovina con le sue azioni dannose tutti i beni degli uomini. nell’assumere qualunque forma. In Petronio (62, 13) e in Plinio il Vecchio (VIII 80) il termine è riferito al licantropo. La variante vorsipellis è in Plaut. Amph. 123.

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(48) Amicum paulo celeriorem et concitatiorem animis quam optasset offendens, «Heus tu,» inquit «cave ne ad currendum currendo ruas!». (49) Dicebat invidiam caecam esse pestem et omnium insidiosissimam: eam enim per aures, per oculos, per nares, per os denique, ipsas etiam per unguiculas ad animum ingredi et cecis flammis inurere, ut etiam qui se sanos putent isthac ipsa peste contabescant. (50) Aurum dicebat laboris dominum, laborem ipsum voluptatis servum esse. (51) Ceteris in rebus mediocritatem approbabat; unam excipiebat patientiam, quam aut nimis servandam, aut nihil suscipiendam statuebat, aiebatque persepius graviora ob patientiam tollerari quam ob vehementem acrimoniam tulissemus. (52) Ut morbos, sic et protervorum audaciam, aiebat interdum non aliter quam periculosis curandi rationibus posse tolli. Sat eum dicebat hominem sapere, qui saperet que saperet, satisque posse, qui posset , satisque habere ipsum hunc, qui quae haberet eadem haberet. (53) In iurisconsultum perfidum, qui altero humero depresso, altero sublato deformis incederet, «Equa» inquit «istic nimirum iniqua sunt, ubi lances in libra non eque pendeant». (54) Dicebat omnem splendorem vim habere igneam: non idcirco mirandum, si nimium splendidi cives de se in animis hominum invidiam succenderent. (55) Tuta ab hostium iniuriis civitate, cum facinorosorum

20 Il latino «mediocritas» è il termine di connotazione aristotelicooraziana che costituirà l’ideale etico, estetico e filosofico del più

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(48) Redarguendo un amico un po’ troppo impetuoso e agitato nell’animo più del necessario, disse: «Ehi tu! Stai attento a non precipitare lanciandoti nella corsa». (49) Diceva che l’invidia è una peste cieca e la più insidiosa fra tutte: quella, infatti, attraverso le orecchie, gli occhi, le narici, la bocca e perfino attraverso le unghie, si insinua nell’animo e lo incendia con fiamme cieche, al punto che anche coloro che si ritengono sani possono soccombere a questa malattia. (50) Diceva che l’oro è padrone del lavoro, mentre il lavoro, da parte sua, è schiavo del piacere. (51) In ogni cosa approvava il principio del giusto mezzo20 tranne che nella pazienza, a proposito della quale sosteneva che o bisognava averne in eccesso o non averne affatto, e sosteneva che molto spesso si subiscono noie più grandi a causa della pazienza che per la violenta acrimonia. (52) Diceva che come le malattie, così anche la sfrontatezza dei protervi talvolta si può eliminare non in altro modo che con metodi terapeutici rischiosi. Diceva che sa a sufficienza colui che sa ciò che sa, che può abbastanza chi può ciò che può, che ha abbastanza colui che ha ciò che ha. (53) Ad un giudice perfido che incedeva, deforme, con una spalla bassa e l’altra alta disse: «Non c’è da stupirsi che le cose eque non siano eque lì dove i piatti della bilancia non pendono equamente». (54) Diceva che ogni splendore ha la forza del fuoco: perciò nessuna meraviglia se i cittadini troppo fulgidi accendono l’invidia di sé negli animi degli uomini. (55) Quando la città si trovava al sicuro dalle offese nemi-

maturo umanesimo, come rivela ad esempio il continuo ricorrere del termine nei Sermones di Antonio Urceo Codro, celebre professore nello Studio felsineo nel secondo Quattrocento, secondo un ideale di ironica e pacata distanza dagli eccessi che anticipa certe istanze ariostesche.

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concivium cepta esset ratio, «Nonne» inquit «istuc fit percomode, ut imbre sedato tecta resarciantur?». (56) Rogatus quinam essent hominum pessimi, respondit: «Qui se optimos videri velint, cum mali sint». Iterum rogatus quisnam esset civium optimus, respondit: «Qui nulla in re mentiri instituerit». (57) Aiebat nihil esse tam proprium insitumve atque innatum mulieribus, quam ut eas rerum omnium que egerint dixerintve illico poeniteat. (58) Latum anulum affluenti fortune simillimum sibi videri predicabat, qui quidem, ni alligata stuppa arctior reddatur, perfacile e digito decidat. (59) Rogatus quid esset maximum rerum omnium apud mortales, respondit: «Spes»; quid minimum, inquit: «Quod inter hominem est atque cadaver»; rerum omnium suavissimum? «Amari»; liberale? «Tempus.» (60) Paupertatem in vita hominum aiebat eiusmodi esse ac si via sallebrosa nudis tibi sit pedibus eundum: nam usu callus superinducitur, eo quod fit ut minus in dies tibi reddatur aspera. (61) De cive insolentissimo et omnium importuno, cum audisset missum in exilium: «Numquid non predixeram» inquit «homini huic, qui quidem, sublato mento, assiduo nebularum olfatu delectabatur, cavendum ne quid offenderet, quo sibi illiso pede esset ruendum?». (62) Fortunatos assimilabat his qui sitienti in flumine navigarent; namque, ni levigato navigio contis laborent, hereant. (63) In concivem quendam maleficum, cum ad magistra-

21 Si ricordi quanto Alberti fa dire a Giannozzo nel III dei libri De familia (p. 217): «E abbiate a mente, figliuoli miei, che di cosa

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che, cominciando a farsi sentire le ragioni dei cittadini facinorosi, disse: «Forse che non accade molto opportunamente che si aggiusti il tetto quando la pioggia è cessata?». (56) Essendogli stato chiesto chi fossero per lui i peggiori fra gli uomini rispose: «Quelli che vogliono sembrare integerrimi, quando sono malvagi». E alla domanda, poi, su chi fosse per lui il migliore fra i cittadini, rispose: «Colui che ha deciso di non mentire su nulla». (57) Diceva che niente è tanto proprio, insito e innato nelle donne quanto il pentirsi all’istante di tutte le cose che hanno fatto e detto. (58) Sosteneva che gli sembrava molto simile al fluire della fortuna un anello troppo largo, che di certo, se non viene reso più stretto con della stoppa legata intorno, molto facilmente scivola dal dito. (59) Essendogli stato chiesto quale fosse la più grande fra tutte le cose presso i mortali, rispose «la Speranza»; e quale la più piccola? «La differenza tra un uomo e un cadavere»; e la più dolce? «Essere amati»; e copiosa? «Il tempo».21 (60) Diceva che la povertà, nella vita degli uomini, era come dover camminare a piedi nudi per una strada petrosa: con l’abitudine si forma il callo, e perciò accade che quella diventi ogni giorno meno dura. (61) Avendo sentito di un cittadino sommamente insolente e fastidioso che era stato mandato in esilio, disse: «Forse che non avevo detto a quest’uomo che di continuo, col naso all’aria, si divertiva ad annusare le nuvole, di stare attento a non inciampare in qualcosa che lo facesse cadere malamente?». (62) Equiparava i fortunati a uomini che navigano in un fiume in secca. Se, infatti, una volta alleggerita la barca, non si danno da fare con il mezzo marinaio, si impantanano. (63) A un malvagio concittadino che si gloriava di essealcuna mai sarà tanta copia, né tanta abilità ad averla che a noi non sia difficilissimo quella medesima fuori stagione trovarla».

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tum se vocatum congratularetur, «Memento» inquit «olim te iterum futurum privatum, aut in magistratu emoriturum». (64) Petierat a quodam, qui sese in republica administranda principem gloriaretur, pluresne essent ii qui scalas edium publicarum conscenderent, quam qui descenderent; cumque ille respondisset parem ferme utrimque sibi videri numerum, iterato quesivit pluresne essent qui per fenestras ingrederentur, quam qui egrederentur. (65) rebus puerilibus et levissimis plurimam operam perdentem, dixit: «Hunc annos Nestoris multo superaturum»; rogatus quid ita, «Quoniam» inquit «quadragenarium puerum intueor». (66) Presentibus utendum ut presentibus; (67) doctas amicorum aures scriptorum limam dictitabat; (68) obtrectatores, fallaces, ambiguos et omnes denique mendaces ut sacrilegos et capitales fures aiebat esse plectendos, quod veritatem iuditiumque, religiosissimas ac multo rarissimas res, e medio involent. (69) Cum iniquos affines multis beneficiis et omni officio sepius sibi reconciliasset, solitus erat dicere meminisse quidem se fenum putridum nodo non teneri. (70) Ditissimi et fortunatissimi cuiusdam edes procul fugiendas admonebat; nam solere quidem aiebat, ubi nimium oppleta sint vasa, omnia effundere. (71) Cum intueretur levissimos et ambitiosos aliquos, qui

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Nestore, re di Pilo, partecipò insieme al figlio Antiloco alla guerra di Troia quando era già molto avanti negli anni. Tornato in patria, aiutò Telemaco nella ricerca di Ulisse. Per tali ragioni il ritratto che Omero ci consegna nel III libro dell’Odissea è quello dell’uomo saggio e valoroso, alludendo a un’età avanzatissima, divenuta per questo proverbiale.

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re stato insignito di un’alta carica, «Ricordati» disse «che un giorno o sarai di nuovo un privato cittadino o morirai magistrato». (64) Aveva chiesto a un tale, che si vantava di sovrintendere alla pubblica amministrazione, se fossero di più quelli che salivano le scale dei palazzi pubblici di quelli che scendevano, e avendo quello risposto che il numero gli sembrava quasi uguale in entrambi i sensi, allora, di rimando, chiese se fossero più quelli che entravano dalle finestre di quelli che ne uscivano. (65) che si disperdeva molto in cose puerili e futili disse: «Questi supererà di molto gli anni di Nestore»;22 interrogato sul senso di tale affermazione rispose: «Perché ho davanti un bambino di quarant’anni». (66) Bisogna usare le cose presenti come cose che ci sono al momento;23 (67) diceva spesso che la lima degli scrittori sono le dotte orecchie degli amici;24 (68) i detrattori, gli ingannatori, gli ipocriti, e in una sola parola tutti i bugiardi sosteneva si dovessero punire come sacrileghi e ladri della peggiore specie, perché sottraggono la verità e il giudizio, i due beni di gran lunga più sacri e più rari. (69) Avendo troppo spesso tentato di riconciliarsi con i suoi iniqui parenti con molte elargizioni e con ogni tipo di operato, era solito dire di sapere bene che il fieno marcio non si può legare. (70) Consigliava di tenersi alla larga dalla casa di un uomo troppo ricco e troppo baciato dalla fortuna, diceva infatti che quando i vasi sono troppo pieni di solito debordano da ogni parte. (71) Vedendo alcuni uomini molto sciocchi e ambiziosi che 23

Ovvero consapevoli della loro precarietà. È nota la consuetudine di Alberti di dettare le proprie opere agli amici (da cui deriva, per certi versi, una particolare fisionomia della tradizione manoscritta albertiana). 24

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se philosophari profiterentur, per urbem vagari et se oculis multitudinis ostentare, «Eccum nostros caprificos» aiebat «qui quidem infructuosissimam et superbam istanc solitudinem adamarint, que publica sit». (72) Petitus arbiter ad dirimendam litem nonnullos inter pervicaces et importunos, munus id suscipere recusavit, atque amicis rogantibus quid ita preter officium et pristinam suam facilitatem ageret, «Lyram» inquit «fractam et penitus discordem ad pueros fore atque ad stultos reiciendam». (73) De cive rus, facile mortales reddi locupletes aiebat, si ea que paupertas cogat sponte exequantur; atque profligari quidem paupertatem cedendo. (74) Ambitiosi domum spectans, «Turgida» inquit «domus hec propediem efflabit erum»; ut evenit quidem: nam ob alienum es ipsarum edium fortunatissimus dominus in exilium secessit. (75) Cuidam prodigo et insolenti, qui se dictis morderet, cum satis obticuisset, «Non tecum,» inquit «o beate, contendam, quem respublica suo sit hospitio acceptura». Horum verborum mordax ille, cum carceribus detentus diem obiret, meminit. (76) Ferrariensibus, ante edem qua per Nicolai Estensis tyranni tempora maxima iuventutis pars eius urbis deleta est, «O amici,» inquit «quam lubrica erunt proximam per aestatem pavimenta hec, quando sub his tectis multe impluent gutte!». (77) Etenim predicendis rebus futuris prudentiam doctrine et ingenium artibus divinationum coniungebat. Extant eius 25 Alla lettera «capri ficus» indica il fico buono solo per il pasto delle capre e dunque selvatico, sterile. Di tale specie vegetale parla Plinio il Vecchio XV 21. 26 Qui l’Alberti sembra riferirsi al cruento episodio avvenuto nel 1425, quando furono giustiziati per adulterio Parisina, giovane moglie di Niccolò III e il fratello maggiore di Leonello, Ugo Aldrobandino, figlio illegittimo di Niccolò, già destinato dal padre alla successione. 27 Le conoscenze astrologiche dell’Alberti sono testimoniate in modo a un tempo suggestivo e inequivocabile dagli oroscopi, fra cui

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si dichiaravano filosofi aggirarsi per la città e far mostra di sé agli occhi della folla, disse: «Ecco i nostri fichi selvatici,25 che amano quella solitudine sterile e superba che è quella in mezzo al volgo». (72) Chiamato come arbitro per dirimere una lite tra alcuni uomini ostinati e molesti, rifiutò di assumersi tale incombenza, e agli amici che gli chiedevano perché così si comportasse contravvenendo al suo senso del dovere e alla sua consueta disponibilità, rispose: «Una lira rotta e del tutto scordata si dovrà gettare ai fanciulli o agli stolti». (73) A proposito di un cittadino che aveva scelto di recarsi in campagna, disse che facilmente gli uomini diventano ricchi se accettano di buon grado le restrizioni della povertà; e che quest’ultima si sconfigge assecondandola. (74) Osservando la casa di un uomo ambizioso affermò: «Questa casa turgida d’opulenza presto soffierà via il proprio signore»; come in effetti accadde: infatti il fortunatissimo padrone fu mandato in esilio per debiti. (75) A uno scialacquatore e sfrontato che lo tormentava con sue affermazioni, dopo aver taciuto abbastanza disse: «Non mi metterò a discutere con te, fortunato, che lo stato ben presto accoglierà nelle sue dimore». Quell’insolente si ricordò di queste parole il giorno in cui, detenuto in carcere, morì. (76) Ai Ferraresi, davanti al palazzo in cui, ai tempi della tirannide di Niccolò d’Este, fu ucciso il fior fiore dei giovani di quella città, disse: «Amici, come saranno scivolosi questi pavimenti durante la prossima estate, quando da questi tetti cominceranno a stillare in quantità gocce di sangue».26 (77) Infatti, nel predire il futuro, coniugava la saggezza con la dottrina e l’ingegno con le arti divinatorie.27 Restano di lui il proprio, redatti di suo pugno sulla c. 1r del codice appartenuto al nostro del De legibus di Cicerone, oggi Conventi Soppressi I 9 3 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, per cui cfr. Leon Battista Alberti. La Biblioteca di un umanista (vd. ATTI DI CONVEGNI E CATALOGHI DI MOSTRE), pp. 396-402. Sulla figura dell’Alberti astrologo, si veda inoltre Cardini, Biografia, pp. 131-55.

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epistole ad Paulum phisicum, in quibus futuros casus patrie annos integros ante praescripserat; tum et pontificum fortunas, que ad annum usque duodecimum essent affuturae predixerat, multarumque reliquarum urbium et principum motus ab illo fuisse enunciatos amici et familiares sui memorie prodiderunt. (78) Habebat pectore radium, quo benivolentias et odia hominum erga se presentisceret; ex solo intuitu plurima cuiusque presentis vitia ediscebat. Omnibus argumentis maximoque opere, sed frustra, elaboravit aliquos erga se mansuetiores reddere, quos futuros infensos ex ipso aspectu sensisset. Eorum tamen inimicitias quasi fatalem quandam necessitatem mediocriter ferebat, in omnique contentione moderatius sibi fore contendendum indicebat, quam fortassis licuisset, preterquam in reddenda mutui beneficii gratia. (79) Vix poterat perpeti pre se quemquam superiorem videri benivolentia, seclusa ambitione, a qua tam longe abfuit, ut etiam quas ipse gesserit res dignas memoratu, suis eas maioribus in libris De familia adscripserit. Tum suis in opusculis aliorum titulos apposuit, et integra opera amicorum famae elargitus extitit. (80) Doloris etiam et frigoris et estus fuit patiens. Cum accepisset grave in pedem vulnus, annos natus non integros quindecim, et a medico disducte pedis partes pro more et arte consuerentur, ducta per cutem acu, adnodarentur, emisit gemitum penitus nullum; propriis etiam in tanto dolore manibus curanti medico subministravit vulnusque ipsum tractavit. (81) Febribus flagrans et ob laterum dolores frigidas totis temporibus undas desudans, accitis musicis horas ferme duas 28 Si tratta di Paolo dal Pozzo Toscanelli, medico e matematico fiorentino, a cui si devono, tra le altre cose, le prime osservazioni sulle comete e importanti carte geografiche tracciate sulla scorta della Geografia tolemaica allora da poco riscoperta e tradotta. L’Alberti gli dedicò il primo libro delle Intercenali, ma non ci sono giunte le lettere a cui qui si allude.

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lettere al medico Paolo,28 in cui aveva previsto con anni di anticipo le future sorti della patria; aveva inoltre predetto le vicende dei pontefici per i futuri dodici anni e amici e parenti hanno lasciato memoria dei rivolgimenti di molte città e reggenze da lui preannunciati. (78) Aveva nel cuore un raggio luminoso grazie al quale riusciva a presentire la benevolenza e l’odio degli uomini verso di lui; con una sola occhiata era in grado di cogliere moltissimi difetti di ogni persona fosse al suo cospetto. In tutti i modi e con ogni mezzo, ma invano, cercò di rendere più benevoli nei suoi confronti coloro che aveva avvertito ostili alla sola vista. Sopportava, tuttavia, pazientemente la loro inimicizia come una fatale necessità e affermava che in ogni contesa dovesse disputare in modo più misurato di quanto forse sarebbe stato lecito, tranne che nel ringraziare per un beneficio ricambiato. (79) Tollerava a fatica che qualcuno sembrasse superarlo in benevolenza, sebbene tenesse ben lontana da sé l’ambizione, a cui fu talmente alieno da attribuire ai suoi antenati, nei libri De familia, anche quelle azioni memorabili in realtà compiute da lui. Inoltre firmò certe sue operette con il nome di altri, e regalò intere opere alla fama degli amici.29 (80) Era parimenti tollerante del dolore, del freddo e del caldo.30 Essendosi ferito gravemente a un piede, a quindici anni non ancora compiuti, quando il medico, secondo l’abitudine del mestiere, riunì le parti disgiunte del piede e, introdotto l’ago nella pelle, le ricucì, non emise neppure un lamento; anzi, pur in così grande sofferenza, aiutò con le sue mani il medico che lo curava e gli tenne stretta la ferita. (81) Con la febbre alta e le tempie inondate di sudore per il dolore al fianco, fatti chiamare dei musici, per quasi due 29 A proposito della pubblicazione sotto pseudonimo, si veda la n.1. 30 Si noti come tali caratteristiche siano desunte da ritratti di famosi viri, come l’Annibale di Livio (XXI 4) e il Catilina di Sallustio (Cat. V 1, 8).

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vim mali et doloris molestiam canendo superare innitebatur. (82) Caput habebat a natura frigoris aureque penitus impatientissimum; id effecit ferendo et sensim per estatem perducta consuetudine, ut bruma et quovis perflante vento nullis capite vestibus operto obequitaret. (83) Allia atque imprimis mel, nature quodam vitio, fastidibat, adeo ut solo intuitu, si quando casu ea sibi fuissent oblata, bilis a stomaco sibi excitaretur; vicit sese ipsum usu spectandi tractandique ingrata, quoad eo pervenit, ut minus offenderent, et exemplum prebuit posse homines de se omnia, ut velint. (84) Animi gratia e domo in publicum exiens, cum artifices omnes assiduos in tabernis versari ad opus intueretur, quasi gravissimo aliquo abs censore commonefactus, sepe domum repetebat, «Et nos quoque pro suscepto officio» inquiens «exercebimur». (85) Vere novo cum rura et colles efflorescentes intueretur, arbustaque et plantas omnes maximam pre se fructuum spem ferre animadverteret, vehementer tristis animus reddebatur hisque sese castigabat dictis: «Nunc te quoque, o Baptista, tuis de studiis quidpiam fructuum generi hominum polliceri oportet!». (86) Cum autem agros messibus graves et in arboribus vim pomorum per autunnum pendere conspicaretur, ita afficiebatur moerore, ut sint qui illum viderint pre animi dolore interdum collacrimasse, eiusque immurmurantis verba exaudierint: «En Leo, ut undique testes atque accusatores nostre inertie circumstant! Et quidnam usquam est, quod integro in anno multam de se mortalibus utilitatem non attulerit? At tu et quidnam habes, quod in medium tuo pro officio abs te perfectum efferas?».

31 «Bruma» del testo latino è tessera particolarmente interessante, estrapolata dal De architectura di Vitruvio, dove, parlando del solstizio d’inverno e del percorso più breve del sole nel cielo,

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ore cercò di vincere cantando il male violento e il fastidioso dolore. (82) La sua testa, per natura, era profondamente intollerante del freddo e dell’aria; ma con la capacità di sopportazione e con una graduale abitudine esercitata durante l’estate, divenne capace di cavalcare senza nulla sul capo in pieno gelo31 e con qualsiasi vento tirasse. (83) Lo infastidivano l’aglio e soprattutto il miele per una certa intolleranza naturale, al punto che, alla sola vista, se per caso gli venivano offerti, gli insorgevano conati di vomito; a furia di guardare e trattare quegli alimenti sgraditi vinse se stesso, finché giunse al punto da renderli innocui e mostrò un esempio di come gli uomini possano tutto su se stessi, a patto che lo vogliano. (84) Uscendo fuori di casa per rinfrancarsi, quando vedeva gli artigiani intenti al lavoro nelle loro botteghe, spesso faceva ritorno a casa come ammonito da un qualche rigidissimo censore, dicendo: «Anche io dovrò prodigarmi per l’incarico intrapreso». (85) Quando, in primavera, vedeva i campi e i colli in fiore, e si accorgeva che gli arbusti e le piante offrivano tutti la massima speranza di trarre da loro frutti, l’animo si rattristava fortemente e si rimproverava con queste parole: «Ora occorre che anche tu, Battista, prometta al genere umano un qualche frutto dei tuoi studi». (86) Quando poi vedeva i campi carichi di messi e gli alberi in autunno piegarsi sotto il peso dei frutti, a tal punto veniva afflitto dalla tristezza che vi sono alcuni che lo videro talvolta piangere per il dolore dell’animo e l’udirono mormorare queste parole: «Ecco Leone, come da ogni parte ci circondano testimoni e accusatori della nostra inerzia. E che cosa mai c’è in qualunque posto che, in un intero anno, non abbia prodotto molta utilità di sé agli uomini? Ma tu cosa hai mai da poter offrire di compiuto da te rispetto al tuo compito?». si aggiunge (IX 3, 3): «Ex eo a brevitate diurna bruma ac dies brumales appellantur» («Da ciò, dalla brevità del giorno prendono il loro nome il solstizio d’inverno e i giorni invernali»).

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(87) Precipuam et singularem voluptatem capiebat spectandis rebus, in quibus aliquod esset specimen forme ac decus. Senes preditos dignitate aspectu et integros atque valentes iterum atque iterum demirabatur, delitiasque nature sese venerari predicabat. Quadrupedes, aves ceterasque animantes forma prestantes dicebat dignas benivolentia, quod egregia essent ab ipsa natura dignitate gratia. Lepidissimo cani suo defuncto funebrem scripsit orationem. (88) Quicquid ingenio esset hominum cum quadam effectum elegantia, id prope divinum ducebat, et in quavis re expositam industriam faciebat, ut etiam malos scriptores dignos laude asseveraret. Gemmis, floribus ac locis presertim amenis visendis nonnumquam ab aegritudine in bonam valitudinem rediit. (89) Ore porrecto et subafflicto quidam incedebat: «Huic» inquit «sua olet barba». (90) In insolentem et irridentem, «Heus tu» inquit «ut solent quidem apte flere, qui rideant inepte!». (91) In eum qui sua prolixa gloriaretur barba, «Sordes» inquit «pectoris perquam belle subintegit». (92) Ex verbosi ore teter flatus in eius os effundebatur; ille se finxit casu starnutaturum atque: «Et quidnam cause est» inquit «quod solem starnutabundi aspicimus?». Risere amici, et disputatione hac iocosa verbosi historiam interrupere. (93) Roganti levissimo cuidam quid ita simulacrum finxisset ore aperto: «Ut cantet» inquit «ubi ipse saltaveris». (94) Cum laudaretur quidam, quod diligens animadversor esset et scriptorum errores perquam severe colligeret: «Nunc» inquit «hunc video, unde sit erroribus refertissimus».

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(87) Provava uno straordinario e particolare piacere nel contemplare cose in cui ci fosse un’esemplare eccellenza di bellezza e decoro. Continuava a rimirare senza stancarsi i vecchi dotati di un aspetto dignitoso, sani e vigorosi e diceva di venerarli come preziosi doni della natura. Quadrupedi, uccelli, e altri animali che si distinguevano per bellezza diceva degni di benevolenza, perché erano resi egregi da una grazia particolare voluta dalla stessa natura. Compose un’orazione funebre per il suo delizioso cane defunto. (88) Riteneva quasi divina qualunque cosa fosse stata prodotta dall’ingegno umano con una certa genialità, e l’impegno riversato in qualsiasi impresa stimava a tal punto da ritenere degni di lode anche i cattivi scrittori. Talvolta da uno stato di infermità riacquistò la buona salute alla vista di gemme, fiori e luoghi particolarmente ameni. (89) Un tale avanzava con la faccia lunga e afflitta e lui, rivolgendoglisi: «A costui puzza la barba». (90) A un tale che derideva con insolenza: «Ehi tu, come si addice bene il pianto a chi ride scioccamente». (91) A uno che si vantava della sua lunga barba: «Nasconde proprio bene la sordidezza del cuore». (92) L’alito maleodorante che usciva dalla bocca di un chiacchierone gli arrivava in faccia; allora quello finse di essere preso da un improvviso starnuto e disse: «Qual è mai il motivo per cui se dobbiamo starnutire guardiamo il sole?». Gli amici risero e grazie a questa frase scherzosa posero fine alla storia di quell’uomo ciarliero. (93) A uno molto sciocco che gli chiedeva perché avesse raffigurato una statua così, con la bocca aperta, rispose: «Perché possa cantare quando ti metterai a ballare». (94) Essendo un tizio celebrato con lode perché era un attento detrattore e un severo rilevatore degli errori degli scrittori, disse: «Ora capisco perché costui sia così pieno di errori».

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(95) Helluonem conspicatus, qui quidem esset ad egestatem redactus, «Non» inquit «hoc phisici novere, homines ex crapula famescere». (96) Tumidum quendam et plane morosum despectans, dixit: «Bonum hunc sibi videri musicum, qui quidem ex vestigii compressione excitatam armoniam parvis auribus gradiendo capesceret». (97) Cuidam procaciori cui esset pollicitus nummos, cum aureos rogaret, undecim connumeratis nummis, «Alium» inquit «si addidero, solidum dedero, qui nummos promisi». (98) In quendam pinguem, qui esset multo ere alieno astrictus, «Sic» inquit «et saccus quidem isthoc pacto fieret turgidus, multa capiens et nihil reddens». (99) In invidum et maledicum, «At enim» inquit «horrendum canit noctua». (100) Cuidam qui sue superbiam uxoris detestaretur, «Neque irasci» inquit «nosti, neque irridere». (101) In familiarem inertem et somniculosum rogantem quid ita esset, quod suis in edibus hirundines non nidificarent, «Minime» inquit «mirum; nam istic algent homines». (102) Ex gibbosi cuiusdam delatoris dorso ab se proficiscentis talpam iam tum surgentem affuturam dixit. (103) Quosdam ex magistratibus improbos a porta propere exeuntes conspicatus, «Bene» inquit «sese res habet, quandoquidem isti effugiant!». (104) Macie confectum hominem quendam salutans: «Salve» inquit «Salus!».

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Il termine «helluo», già in Ter. Heaut. 1022, compare anche in Cic. Phil. II 65 e XIII 11 e in Apul. Apol. 57. 33 L’immagine è ripresa e spiegata in un luogo dell’intercenale Convelata § 74, p. 435: «Noctivolam avem in tecto exululasse omen malum» («un uccello notturno che ulula sul tetto è un cattivo presagio»).

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(95) Avendo visto un dissipatore32 ridotto in povertà, disse: «I medici non sanno questo, che gli uomini dopo avere gozzovigliato sono affamati». (96) Guardando con disprezzo un tale vanaglorioso e davvero insopportabile, disse: «Costui crede di essere un buon musicista perché mentre cammina cerca di cogliere col suo povero udito il suono provocato dalla pressione dei suoi piedi». (97) A un tizio troppo sfrontato a cui aveva promesso un po’ di denaro, dal momento che gli chiedeva monete d’oro, contati undici soldi, rispose: «Se ne aggiungerò un altro, ti darò una moneta d’oro intera invece degli spiccioli che avevo promesso». (98) A un tale grasso di corporatura, che era gravato da molti debiti, disse: «Anche un sacco diventerebbe gonfio in questo modo, prendendo molto e non restituendo niente!». (99) Rivolgendosi a un uomo malevolo e maldicente: «Ma certo la civetta canta in modo orribile».33 (100) A uno che malediceva la superbia della moglie34 disse:«Tu non sai né adirarti né riderci sopra». (101) A un parente indolente e sonnacchioso che domandava il motivo per cui le rondini non nidificassero nella sua casa, rispose: «Non c’è affatto da stupirsi, in quel luogo gli uomini sono di ghiaccio». (102) Affermò che una talpa sarebbe sgattaiolata fuori dal dorso di un delatore gobbo che si recava da lui. (103) Avendo visto alcuni magistrati disonesti che si affrettavano a uscire dalla porta disse: «Vanno proprio bene le cose, visto che costoro se la danno a gambe!». (104) Salutando un tizio dall’aspetto particolarmente emaciato disse: «Salve, e Salute!». 34 Si ricordi come l’intercenale Uxoria sviluppi in chiave negativa il tema diatribico del matrimonio, declinato invece positivamente nell’immagine della moglie «massaia» nel II libro De familia.

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(105) Importuno et plurima petenti, «O» inquit «mi homo, quantam attulisti negandi facultatem!» (106) Patere aiebat Bononie vicos, quod esset illa quidem pinguis civitas, sed insulsa. (107) In eum qui esset claudus, «Poplitem is» inquit «perquam belle scalpit».

35 La fama della pinguis Bononia era già consolidata dal Duecento: la città viene definita craisse nel Roman du Comte de Poitier, e con tali caratteristiche la ricorda nella Senile X 2 anche il Petrarca, che, come Alberti, era stato studente di diritto a Bologna. Per le notizie relative al soggiorno bolognese fornite dallo stesso umanista nelle sue opere si veda Mancini, Vita, pp. 47-64. Della vita nell’Alma Mater

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(105) A un rompiscatole che avanzava troppe richieste disse: «O mio caro, quanti motivi mi hai dato per dirti di no!». (106) Diceva che le vie di Bologna35 sono ampie, perché quella è certo una città pingue, ma priva di sale. (107) A un tale che era zoppo, disse: «Quello si gratta il ginocchio con molta eleganza».

Studiorum e delle folli spese per le feste di laurea Alberti parla anche nel De commodis IV §§ 8-11, pp. 61-62. Di recente nuovi e inediti elementi documentari sul soggiorno bolognese dell’Alberti sono emersi dal contributo di Guerra, Alberti a Bologna; per i rapporti tra l’Alberti e il centro universitario felsineo si veda invece Lines, Leon Battista Alberti.

INTERCENALI

SCRIPTOR (LO SCRITTORE)

«Secondo paratesto» del primo libro, a completamento della dedica a Paolo dal Pozzo Toscanelli – e non prima intercenale del I libro come spesso a torto ritenuto (Cardini) – Scriptor è un semplice «sketch» che, pur nella sua brevità, serve ad alzare il sipario sul cosmo delle Intercenali. Gli interlocutori hanno nomi parlanti (Libripeta è il «bibliomane», colui che ammassa i libri ma non li legge, come nella peggior tradizione pedante dell’umanesimo; Lepido invece è il «faceto», lo «spiritoso», alter ego dell’autore) che ritroveremo in Somnium e Fama. Lepido è intento a procurarsi la gloria attraverso le lettere, ambizione che l’Alberti aveva già manifestato, pur con toni differenti, nelle operette giovanili del periodo bolognese, vale a dire la Philodoxeos fabula (la commedia dell’amante della Gloria) e il De commodis litterarum atque incommodis, trattatello sui vantaggi, ma soprattutto gli svantaggi, della vita piena di sacrifici di chi si dedica alla letteratura. Di questa seconda operetta viene ripresa qui anche l’acre polemica contro l’amata-odiata Toscana, terra di grezzi mercanti poco sensibili alla cultura. Ultimo, ma veramente decisivo nel pensiero chiaroscurale dell’Alberti, il tema dell’ambitio e dell’invidia che nutrono l’ampia schiera di denigratori, detrattori, calunniatori e maldicenti, numerosi e odiosi nel popolo, certo, ma molto di più tra quella «repubblica delle lettere» i cui componenti dovrebbero essere umani e solidali fra di loro. Come segnalato sia da Cardini che da Marsh, la fonte di questo breve scambio di battute è probabilmente fornito all’Alberti dalla satira oraziana II 1, in cui il giurista Trebazio suggerisce all’amico di smettere di scrivere versi satirici onde evitare guai. Nota al testo L’intercenale è tràdita dai codici O e P. È la lezione di quest’ultimo ad essere da Cardini privilegiata in quanto ultima volontà (attestata) dell’autore.

(1) LIBRIPETA. Eodum, Lepide, ecquid tibi per hosce dies fuit negotii? Mensis admodum est quo apud nos in lucem nunquam prodisti? (2) LEPIDUS. O litteratorum alumne, salve. Ego quidem apud meos libellos occupatus enitebar aliquam de me famam proseminare litteris. (3) LIBRIPETA. Ha ha he! ridiculum hominem! Isthocne tu in agro Etrusco id tentas, qui quidem tam undique opertus est caligine omnis ignorantie, cuius et omnis humor est penitus absumptus estu ambitionum et cupiditatum quemve qui colunt multo in dies impetu invidie perturbantur, in quo denique multa pestifera obtrectatorum semina vigent? (4) Officiperdi, dormiendum tibi potius quam eo pacto vigilias 1 Come Cardini notava già in Mosaici (pp. 74-75), «Eodum» è la grafia normalmente adottata dall’Alberti per «ehodum», interiezione tipica del linguaggio della commedia, cfr. Plaut. Persa 610. 2 Nel latino medievale, come nota Cardini (p. 225) alumnus era termine anfibologico che poteva significare sia «colui che nutre» sia «colui che è nutrito», dunque sia «allievo, alunno» che «maestro, docente». Sarà Lorenzo Valla, a metà del XV sec., a ripristinare nelle sue Elegantie latine lingue (VI 1) il significato classico del termine, quello che ancora oggi si utilizza. 3 Bacchelli-D’Ascia (p. 9) istituiscono un calzante parallelo con un brano dell’operetta giovanile dell’Alberti, De commodis litterarum atque incommodis V 20, p. 44: «Proxime, de reliqua plebe erga studiosos, quid est quod referam? Nam est ea quidem sors hominum, cum ceteris in civitatibus loquax et maledica, tum maxime in nostris

(1) LIBRIPETA. Ehilà,1 Lepido, che diavolo hai fatto in tutti questi giorni? È quasi un mese che non ti fai vedere. (2) LEPIDO. Salve, maestro2 dei letterati. Ero occupato a cercar di procurarmi un po’ di fama coi miei libretti. (3) LIBRIPETA. Ha ha he! Che uomo ridicolo! E tenti di fare ciò in Toscana, che è dappertutto ricoperta dalla caligine dell’ignoranza, in cui ogni linfa vitale è assorbita dall’ardore dell’ambizione e della cupidigia e dove chi ci abita è turbato sempre più dall’impeto dell’invidia, una terra, per concludere, dove crescono rigogliosi i semi pestiferi dei detrattori?3 (4) Perditempo,4 credo che faresti meglio Hetruriae urbibus multum insolens ac maledicentissima: omnes irridere, nemini deferre, temere proloqui, ac multa per insolentiam agere assueta [...] Hetruscis enim civibus ob antiquissimam libertatem multa cum dicere, tum etiam facere licet que, apud tirannos educatis, nimis solute fortassis et intemperanter facta viderentur» («Che cosa potrei dire ancora dell’atteggiamento del volgo nei confronti degli studiosi? Se infatti in tutte le altre città la gente ama chiacchierare e malignare, nelle nostre città toscane essa è ancora più arrogante e pettegola: si fa beffe di tutti, non porta rispetto a nessuno, sproloquia senza riflettere, e agisce spesso con insolenza. [...] Ai cittadini toscani, infatti, in base a un antichissimo privilegio è concesso dire e fare molte cose che a coloro che sono cresciuti sotto la tirannia sembrerebbero forse troppo libere e sfrenate»). 4 Le forme attestate dalla tradizione («officiperdus» dal Th.l.L.; «officiperda» dai Disticha Catonis 4, 43) non prevederebbero un vocativo «officiperdi»; tuttavia, Cardini (p. 226) ha preferito non

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perdendas censeo, aut omnino irritos istos et futiles labores tuos fugiendos; tum etiam atque etiam admoneo, nequid lucubrationum tuarum temere in vulgus depromas, nam est quidem ad vituperandum pervigil et admodum severus censor vulgus. (5) In primisque metue ipsum me ad quem plus accessit auctoritatis, quod palam omnibus detraxerim, quam si perquam multos collaudassem.

intervenire in quanto questa è «l’unica occorrenza del vocabolo negli scritti dell’Alberti». 5 Cfr. Plaut. Poen. 332 «et oleum et operam perdidi» («ho sprecato olio e fatica», ma l’Augello traduce «il ranno e il sapone»), ma cfr. anche,

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a dormire piuttosto che a perdere in quel modo le notti,5 o meglio ancora a lasciar stare del tutto questi tuoi lavori inutili e vani; ma ti metto in guardia soprattutto dal divulgare senza troppo pensarci le tue elucubrazioni, infatti il volgo è un giudice oltremodo severo e prontissimo a stroncare. (5) Ma soprattutto stai in guardia da me, che ho acquistato molta più autorità criticando apertamente tutti quanti che se avessi ricoperto molti di elogi.

come suggerisce Cardini (p. 226), Aus. Epig. 35, 7-8 «Utilius dormire fuit quam perdere somnum / atque oleum» («sarebbe stato più utile dormire che perdere sonno e olio»). L’olio, che serviva per tenere accese le candele, nell’antichità era ovviamente un bene prezioso.

RELIGIO (LA RELIGIONE)

Sebbene Religio – già tradotta da Garin nel 1952 – sia una delle intercenali più note e utilizzate da chi ha voluto calcare la mano sulla irreligiosità, o laicità, degli umanisti, è onestamente difficile dire, anche data la sua struttura dialettica, in quale personaggio si identifichi l’autore e dunque quale ne sia la posizione. Alla tentazione di attribuire all’interlocutore principale, Libripeta, il ruolo di portavoce dell’autore, osta la constatazione che l’eteronimo sotto il quale l’Alberti generalmente si nasconde è invece quello di Lepido. Vero è che se altrove Libripeta fa magre figure, dipinto come sterile accumulatore di libri né digeriti né letti, non c’è dubbio che qui appaia come l’interlocutore più dotato di argomenti, oltre che più saggio e provvisto di quella sapientia stoica di cui Alberti fa mostra in tante altre sue opere. Anche se Cardini ha ripetutamente messo in guardia dall’identificare Libripeta con Niccolò Niccoli, la tentazione di tale sovrapposizione in questo caso è davvero forte qualora, come fanno Bacchelli-D’Ascia, si accosti a questa intercenale la satira con cui il Filelfo andava deridendo in quegli anni la cinica irreligiosità dell’erudito fiorentino (cfr. S.U. Baldassarri, Niccolò Niccoli nella satira di Filelfo: la tipizzazione di una maschera, «Interpres», 15 [1995-96], pp. 7-36). A ben vedere, tuttavia, ci si accorge che, come emerge già dal titolo del contributo di Baldassarri, il bersaglio è un tipo, più che un essere in carne ed ossa, che è quanto Cardini va ripetendo da tempo a proposito di Libripeta; e inoltre che tale identificazione porterebbe fuori strada nella lettura del dialogo albertiano, giacché in Religio Libripeta non si fa profanatore della religione, o peggio, campione di un improbabile e anacronistico ateismo, come circa quarant’anni più tardi Poliziano eternerà in un caustico epigramma Domizio Calderini, il «maturo» e irreligioso fiorentino del Rinascimento che Bausi ha scorto nel XIV capitolo del Doktor Faust (cfr. «Domizio Calderini nel Doktor Faust?, «Interpres», 22 [2003], pp. 295-97). Libripeta tenta bensì di liberare l’amico, e con lui il genere umano, dalle insensatezze della

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superstitio, dalla stultitia degli uomini i quali, come se fossero al centro del creato, reclamano una costante assistenza da parte degli dei, anche e soprattutto per riparare a sciagure che loro stessi si sono procurati. In campo quindi non sembrano scontrarsi religiosità e irreligiosità, bensì due concezioni diverse di religio: quella utilitaristica, basata su un culto esteriore e manifesto qui difesa da Lepido, contro quella più intima e profonda di Libripeta, ben consapevole che le vicende umane sono inserite nel generale e molto più vasto corso dell’universo, retto da una Provvidenza (o Fato) immodificabile, tale da rendere risibili le preghiere umane. Si avverte in sottotraccia, anche se in Religio non c’è il problema delle ricadute politiche della devozione, la presenza del ciceroniano De natura deorum, senza che Libripeta(-Alberti?) sposi a pieno nessuna delle tesi lì proposte: né la tesi epicurea di Velleio (I libro), né quella stoica di Balbo che vede l’uomo in una posizione predominante nel creato data dagli dei (II libro), né quella razionalista di Cotta (III libro). Ma oltre al De natura deorum, e al De legibus (quest’ultimo quasi onnipresente nella produzione albertiana), costituiscono probabili fonti del dialogo almeno un brano della Vita di Antonio di Plutarco (letta dal nostro probabilmente nella traduzione latina che ne aveva da poco fatto Leonardo Bruni), diversi dialoghi lucianei (Icaromenippo, Sui sacrifici, il Giove confutato nella traduzione di Poggio Bracciolini) e due versi gnomici coi quali Giovenale ribalta la gerarchia uomo-fortuna («Sii saggio: nessun potere avrà più il cielo su te. Siamo noi, o Fortuna, che ti facciamo dea», cfr. X 365-66, poi anche XIV 315-16). Senza contare che il tema della religio e della superstizione che attanagliano la vita dell’uomo e ne producono continue passioni e timori costituisce il motivo ricorrente del lucreziano De rerum natura, all’epoca già circolante in ambiente fiorentino grazie alla sua riscoperta da parte di Poggio Bracciolini.

Nota al testo L’intercenale è tramandata dai codici O e P. Sul testo di P è intervenuto con una importante congettura Luigi Trenti (§ 1: «Timonis» al posto di «Cimonis» comune ad entrambi i testimoni), e poi Cardini con alcune emendazioni (2010).

(1) LIBRIPETA. Hec mihi ficus religiosa profecto et piissima videtur, quod in hac, veluti in illa celebri ac notissima Timonis ficu, complures homines erumnas vite suspendio posuere. Sed eccum Lepidum, quem dudum expectavi. (2) LEPIDUS. Salve, Libripeta! Mene fortassis sacrificium diutius in templo detinuit quam voluisses? (3) LIBRIPETA. Sane diutius. Verum tu quidem quid habuisti commercii cum diis, ut isthic sermones tam longos ageres? (4) LEPIDUS. Num dedecet deos pie colere atque precari, ut votis nostris faveant? (5) LIBRIPETA. Scilicet isthic sub tectis, ubi vulgus ille sacerdotum latrat, belle te superi audiunt! (6) LEPIDUS. An tu ignoras omnia plena esse deorum? (7) LIBRIPETA. Ergo et hic sub hac ficu apte id ipsum

1 Il riferimento, che per primo ha individuato Luigi Trenti (Libripeta misantropo) sanando l’errore Cimonis dei testimoni (lezione ancora accettata da Garin nei suoi Prosatori latini del Quattrocento), è ad un passo della Vita di Antonio di Plutarco, che l’Alberti utilizza anche altrove nelle sue opere (cfr. Cardini, p. 231). In Vita di Antonio 70, 4-5, infatti, si legge: «Si narra che, una volta che gli Ateniesi erano riuniti in assemblea, egli [Timone] salì alla tribuna; la stranezza della cosa provocò un profondo silenzio e una grande aspettativa.

(1) LIBRIPETA. Questo fico mi sembra certamente sacro e devoto, dal momento che appiccandosi ad esso, come a quel noto e celeberrimo fico di Timone,1 molti uomini hanno posto fine alle loro sofferenze. Ma ecco Lepido, che aspettavo da tempo. (2) LEPIDO. Buongiorno, Libripeta! Il rito mi ha forse trattenuto nel tempio un di più di quanto tu ti aspettassi? (3) LIBRIPETA. Già. Ma tu che questioni tanto importanti avevi in ballo con gli dei da parlare così a lungo con loro? (4) LEPIDO. Non è forse vero che è bene pregare e onorare devotamente gli dei, affinché assecondino i nostri desideri? (5) LIBRIPETA. Certamente qui, sotto il tetto dove latra il popolo dei sacerdoti, gli dei ti sentono benissimo! (6) LEPIDO. Ma non sai che gli dei sono dappertutto?2 (7) LIBRIPETA. Dunque potevi fare benissimo anche Allora Timone disse: “Ateniesi, ho una piccola area edificabile, dov’è cresciuto un fico al quale molti cittadini si sono già impiccati; dal momento che sto per costruire una casa in quel luogo, ho voluto preavvertirvi pubblicamente, affinché, se qualcuno di voi volesse impiccarsi, lo faccia prima che il fico venga tagliato”». 2 È la celebre teoria di Talete, il primo dei filosofi, ricordata sia da Platone (Leges 899b) che da Aristotele (Anima 411a 7-8), e riportata anche da Diogene Laerzio nella Vita di Talete, all’interno delle Vite

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poteras, quod in templo superstitiosa quadam imperitorum consuetudine effecisti. (8) Verum tu dic, queso: tuamne pictos apud deos orabas causam, an interpres aliorum exstitisti? (9) LEPIDUS. Quid ita rogas? LIBRIPETA. Namque arrogantie ascriberem, ubi te ita superis gratum pre aliis putares, ut magis quam eorum, qui ope indigeant, verbis moverentur tuis. (10) Ceterum sic censeo: qui ad deos exorandos adeunt, omnes id in primis rogare, ut presentia futurave bona dedant serventque, mala vero tollant atque propulsent. Tu adeo quid hic ais? LEPIDUS. Isthec eadem mihi sententia est. (11) LIBRIPETA. O igitur ineptissimi! Deos eo pacto vultis satellites atque predones vestros esse, siquidem nulla queant vobis bona accedere que non tum aliis possidentibus erepta sint. (12) Quem mihi dabis vilissimum servum cui, ut istiusmodi scelus agat, honeste imperes? Quis usque adeo insolens suis perditis sicariis iubeat ut aliorum preda se locupletem reddant? (13) LEPIDUS. Scio quid hic dixeris. Non predones quidem, verum, ut operarii essent, rogavi. Nam petii darent operam ut mihi in hortulo caules excrescerent aurei. dei filosofi (I 1, 27) da poco volte in latino (1433) da Ambrogio Traversari (cfr. Cardini, p. 231). È probabile, tuttavia, che l’ipotesto sia ancora una volta, e più semplicemente, un paragrafo del ciceroniano De leg. II 26 (da Alberti tenuto presente anche subito dopo, vd. n. 3): «quod Thales, qui sapientissimus in septem fuit, homines existimare oportere omnia, cernerent, deorum esse plena» («il detto di Talete, uno dei sette sapienti, che gli uomini ritengono che tutto vedono debba essere pieno di dei»). 3 Per il contrasto tra la tesi spiritualistica e universalistica della religione, qui difesa da Libripeta, contro quella del culto esterno e visibile sostenuta da Lepido, Bacchelli-D’Ascia (pp. 23-25) rinviano ancora giustamente a Cic. De leg. II 26: «Delubra esse in urbibus censeo nec sequor magos Persarum, quibus auctoribus Xerses inflammasse templa Graeciae dicitur, quod parietibus includerent deos, quibus omnia esse deberent patentia ac libera, quorumque hic mundus omnis templum esset et domus. Melius Graii atque nostri qui,

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qui sotto questo fico quello che, seguendo la consuetudine superstiziosa degli ignoranti, hai fatto nel tempio.3 (8) Ma dimmi, per favore: davanti a quelle immagini degli dei pregavi per te, o ti sei fatto interprete di altri? (9) LEPIDO. Perché mi chiedi questo? LIBRIPETA. Ti accuserei di arroganza se tu pensassi di essere tanto più gradito agli dei da riuscire a smuoverli più facilmente con le tue parole che con quelle di coloro che hanno bisogno. (10) Del resto io la penso così: tutti coloro che vanno a pregare gli dei, lo fanno soprattutto per chiedere di dare loro beni per il presente e conservarli per il futuro, e di levare e tener lontani i guai. Tu che ne pensi? LEPIDO. La penso anch’io così. (11) LIBRIPETA. Che stupidi che siete! In questo modo voi volete che gli dei siano i vostri predoni e servitori, visto che non vi possono arrecare alcun bene che non abbiano sottratto ad altri proprietari. (12) A quale servo, benché umile, ordinerai in buona coscienza di commettere un tale delitto? Chi sarebbe così insolente da ordinare ai propri sciagurati sicari di renderlo ricco con le ricchezze rubate ad altri? (13) LEPIDO. Capisco quello che dici. Però io non ho chiesto agli dei di fare i predoni, bensì gli operai. Infatti ho chiesto loro di darsi da fare perché nell’orto mi crescessero dei cavoli d’oro.4 ut augerent pietatem in deos, easdem illos urbes quas nos incolere voluerunt» («Son poi d’avviso che nelle città vi debbano essere dei templi, e non concordo con i maghi persiani, per consiglio dei quali si dice che Serse bruciò i templi di Grecia, perché rinchiudevano entro pareti quegli dei ai quali tutto dovrebbe essere aperto e libero, e dei quali quest’universo tutto è tempio e sede. Meglio si comportarono invece gli Elleni ed i nostri padri, che vollero che essi abitassero le medesime città nostre, onde aumentare la pietà verso gli dei»). Per i numerosi riusi albertiani di questo passo ciceroniano cfr. Cardini, Biografia, pp. 36-37. 4 Cfr. Luciano Icaromenippo o l’uomo sopra le nubi 25: «Mi ero curvato, infatti, anch’io con lui e insieme ascoltavamo le preghiere, che erano suppergiù le seguenti: “O Zeus, mi accada in sorte di

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(14) LIBRIPETA. Quod si sapiunt, dii odere hanc vestram procacitatem LEPIDUS. An tu, Libripeta, negabis deorum ope genus humanum in rebus adversis plurimum iuvari? (15) LIBRIPETA. An tu negabis, Lepide, homines ipsos causam esse omnium malorum quibus vexentur? Conscende modo hanc ficum et te huic ramo suspende; dehinc deos ipsos ora ut auxilium prestent! Tu ni te ipsum multis vigiliis lectitans conficeres, Lepide, haud palleres minimeque esses crudus. (16) Mala que ferunt homines, eadem ipsi sponte subiere. Nullos, mihi crede, ad tempestatem levandum naute, nisi mari et fluctibus confiderent, uspiam deos poscerent. (17) Sed ita consuevere: postquam sua ineptia et stultitia evenit ut gravissimis malis premantur, illico ad deos tendunt ; qua quidem in re, dum velint deos prohibere que ipsi occeperint, mihi tum non rogare, sed certamen atque contentionem inire videntur. (18) Atque si tu causas malorum fugies, nunquam ullos ad malum abs te auferendum deos desiderabis; vel si homines hominibus nocuos esse censeas, non deos defensores orare, sed vel magis homines ipsos placare opus est. (19) Quod si tandem ipsi dii causa malorum sunt, eos velim scias a sua vetere consuetudine tuis precibus minime degenerare. Vetustum quidem est homines malis obrui. (20) At vero aut fatum

diventare re!”; “O Zeus, attecchiscano le mie piante di cipolla e di aglio!”; “O dei, che mio padre muoia presto!”» (Bacchelli-D’Ascia, p. 27). Ma, al di là della «divertita variatio» lucianea (Cardini, p. 231), ad ipotesto «teorico» pare promovibile qui, ancora una volta, un paragrafo di Cicerone, cfr. De nat. deor. II 167: «Nec vero ita refellendum est ut, si segetibus aut vinetis cuiuspiam tempestas nocuerit, aut si quid e vitae commodis casus abstulerit, eum cui quid horum acciderit aut invisum deo aut neglectum a deo iudicemus. Magna di curant, parva neglegunt» («D’altra parte non bisogna ribattere in modo da giudicare che, se il cattivo tempo ha danneggiato le messi

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(14) LIBRIPETA. Se sono saggi, gli dei odiano questa tua sfrontatezza. LEPIDO. Ma tu, Libripeta, neghi forse che nelle situazioni avverse gli uomini ricorrano spesso al soccorso degli dei? (15) LIBRIPETA. E tu, Lepido, neghi forse che gli uomini stessi sono la causa di tutti i guai che li opprimono?5 Sali ora sopra questo fico e impiccati al ramo; poi prega pure gli dei perché ti aiutino! Se tu non sfinissi te stesso passando molte notti a leggere, Lepido, ora non saresti pallido e consunto. (16) Gli uomini si sottopongono spontaneamente ai mali che sopportano. Se i marinai non si affidassero al mare e alle sue onde, credimi, non pregherebbero mai alcun dio di levar la tempesta. (17) Ma son soliti far così: dopo che la loro follia e dabbenaggine li ha messi in gravissime difficoltà, tutto d’un tratto si rivolgono agli dei; il volere che gli dei fermino un processo che essi stessi hanno messo in atto, non mi sembra significhi pregare, ma entrare in una battaglia e in una contesa. (18) E se tu fuggirai le cause delle sventure, non chiederai mai agli dei di allontanarne una da te; e se credi che gli uomini si arrechino danno a vicenda, è necessario non invocare gli dei quali nostri difensori, ma piuttosto placare gli uomini. (19) Se invece sono proprio gli dei la causa delle sventure, voglio che tu sappia che le tue preghiere non possono smuoverli per niente dalle loro invalse abitudini. Da sempre gli uomini sono sommersi di sventure. (20) Ma o il fato o la sorte o il tempo o i vigneti di qualcuno oppure la sorte gli ha tolto qualcuno degli agi della vita, quel tale a cui è capitato qualcosa di simile sia odioso a dio o trascurato da dio: gli dei si curano delle cose importanti, trascurano le piccole»). 5 Come rileva Cardini (p. 231), si avverte qui la possibile eco di Iuv. XIV 315-16: «Nullum numen habes, si sit prudentia; nos te / nos facimus, Fortuna, deam» («Sii saggio: nessun potere avrà più il cielo su te. Siamo noi, o Fortuna, che ti facciamo dea»), insegnamento con cui Giovenale chiude, praticamente con le stesse identiche parole, la satira X 365-66: «Nullum numen habes, si sit prudentia; nos te / nos facimus, Fortuna, deam caeloque locamus».

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aut fors aut tempus efficit ut malis angamur, procul dubio non invitis diis eadem suo libere utentur officio vestrasque, o religiosi, ieiunas precationes aspernabuntur. (21) Preterea an tu deos nobis homunculis persimiles arbitraris, ut veluti imprudentes atque incauti homines ex tempore consilium captent atque item extemplo pristina consilia mutent ? Profecto in tanta rerum administratione nihil esset diis laboriosius. (22) Audio ab his qui litteras profitentur, deos ordine pene eterno orbem agere. Que quidem res dum ita sit, insani vos quidem longe deliratis, si existimatis deos ab incepto et pristino cursu rerum vestris verbis aut persuasionibus ad novas alias res agendas animum aut operam divertere. (23) Adde quod esset genus quoddam servitutis abiectissimum, si dii ipsi pro vestra expectatione atque voluntate sua instituta desererent. (24) Demum et meminisse oportet diis sat esse operis sole lunaque ac deinde ceteris omnibus stellis per magnum ethera agendis. (25) Tum et mari montes aquarum a diis volvi, ventos et fulgura demitti infinitaque eiusmodi terribilia curari a diis vestri religiosi palam affirmant, ut sane rebus tantis occupati dii ad infinita inaniaque ac penitus inepta hominum vota auscultanda minime vacent. (26) Quod si minimis quoque rebus intenti sunt, habent illi quidem cicadas et grillos quorum purissimas voces audiant libentius quam hominum impurissimorum expostulationes atque ineptias. (27) Tum sic habeto, deos non aliis quam improborum precibus obtundi. Nam bonis quidem que habent probi plane 6 Risuona, come notano Bacchelli-D’Ascia (p. 29), un brano del Giove confutato (§ 19; II, p. 745) di Luciano, nella traduzione che ne aveva fatto Poggio Bracciolini (cfr. Marsh, Poggio and Alberti) e che Alberti riutilizza probabilmente anche altrove: «Avevo bisogno di chiederti ancora dove vivono le Parche e come arrivano, pur occupandosi di tante cose, ai fatti più minuti, benché siano solo in tre. Mi sembra infatti che avendo tante brighe vivano una vita faticosa e tutt’altro che felice, e, a quanto pare, non nacquero neanche loro con un Fato troppo benigno».

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fanno in modo che noi siamo stretti dai mali, senza dubbio compieranno il proprio dovere senza impedimenti e col favore degli dei e respingeranno, o religiosi, le vostre insignificanti preghiere. (21) Inoltre ritieni che gli dei siano simili a noi omuncoli, che come gli uomini incauti e sconsiderati prendano una decisione all’istante e improvvisamente cambino le decisioni originarie? Senz’altro, dovendo star dietro a tante cose, non ci sarebbe nulla di più faticoso per loro. (22) Sento dire dagli uomini di lettere che gli dei reggono il mondo secondo un ordine eterno. Se le cose stanno così, voi siete certo completamente impazziti a credere che gli dei, grazie alle vostre persuasive parole, distolgano la loro attenzione dalle cose già da tempo avviate per farne delle nuove. (23) Aggiungi che sarebbe un tipo di schiavitù davvero abietto se gli dei stessi abbandonassero i loro propositi per assecondare le vostre aspettative e volontà. (24) Bisogna poi ricordare che gli dei hanno già abbastanza da fare nel condurre per il cielo sconfinato il sole, la luna e ogni altro tipo di stelle. (25) Se gli dei, come affermano apertamente gli stessi religiosi, sono occupati a rivolgere caterve d’acqua nel mare, a scagliar saette e liberare venti e infinite altre cose terribili di questo genere, non avranno il minimo tempo, presi da occupazioni così impegnative, per stare ad ascoltare le infinite, inutili e assolutamente sciocche richieste degli uomini.6 (26) Che se anche prestassero attenzione alle minime cose, ascolteranno molto più volentieri le voci soavissime dei grilli e delle cicale che le sgradevoli suppliche e piccinerie degli umani.7 (27) Allora tieni presente che gli dei sono vessati soprattutto dalle preghiere dei malvagi. Infatti i buoni si accontentano del

7 Che gli dei preferiscano gli animali alla petulanza degli umani (con quali conseguenze nefaste verso ogni mito antropocentrico è facile desumere) lo dimostra anche il Giove dell’intercenale Virtus, che, intento com’è a dipingere ali alle farfalle, non trova il tempo di prestare ascolto alla dea Virtù oltraggiata da Fortuna.

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contenti sunt malisque succumbunt nunquam, improbis vero neque bonis exposcendis neque malis ferendis ulla ratio aut modus inest. (28) LEPIDUS. Que abs te dicta sunt, Libripeta, in disputationis locum ita accipio, ut apud me tamen semper hec mens et opinio sit de diis, ut censeam preces bonorum et vota superis esse non ingrata. (29) Tum ita semper apud me erit persuasum pleraque emerita mala pietate deorum vitari eosque ipsos deos in bene merentes esse quam beneficos. Vale.

8 Ancora un richiamo piuttosto evidente (cfr. n. 4) a Cic. De nat. deor. II 167: «Magnis autem viris prosperae semper omnes res, si quidem satis a nostris et a principe philosophiae Socrate dictum est de ubertatis

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bene che hanno8 e non soccombono mai al male, i malvagi invece non hanno limite né misura nel chiedere il bene e nell’arrecare il male. (28) LEPIDO. Prendo quello che hai detto, Libripeta, come opportunità di discussione, in quanto io ho sempre avuto un’idea e un’opinione degli dei tale per cui ritengo che le preghiere e i voti dei buoni non siano loro sgraditi. (29) Per cui resterò sempre convinto che il culto degli dei possa far evitare molti guai, anche meritati, e che gli dei stessi siano assai magnanimi coi benemeriti. Addio.

virtutis et copiis» («Però agli uomini grandi tutto va sempre bene, se i nostri e Socrate, il principe dei filosofi, hanno parlato abbastanza della ricchezza e dell’abbondanza arrecate dalla virtù»).

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Breve ma fondamentale nel percorso che si snoda all’interno della raccolta – «una delle più caratteristiche Intercenali albertiane» (Garin) – Virtus è il pezzo umoristico dell’Alberti che ha goduto fin da subito di maggior fortuna: questo lo si deve soprattutto ad un escamotage molto probabilmente risalente all’autore stesso, che – assolutamente aduso a scherzi di questo tipo – attribuì il dialogo a Luciano di Samosata, il grande capostipite del genere filosofico dall’Alberti praticato. La dea Virtù, oltraggiata da Fortuna e malmenata dai suoi sgherri, aspetta invano fuori dall’uscio di Giove per far valere le sue ragioni di fronte a quello che dovrebbe essere il signore delle vicende umane e terrene; tuttavia, le molte divinità che vede entrare ed uscire dalle “stanze del potere” riferiscono che Giove e le altre divinità sono sempre indaffaratissimi in attività quali il controllo del ciclo biologico della zucca e la pittura di magnifiche ali di farfalle: cose che, agli occhi di Virtù, offesa ed umiliata, non appaiono certo di primaria importanza per le sorti del mondo. Mercurio, con cui Virtù dialoga e si sfoga, invocandone l’intercessione presso Giove, rivela quanto la realtà abbia tinte ancora più fosche di quanto non appaia: Giove non riceve Virtù non per leggerezza o trascuratezza, bensì perché dovrebbe ammettere la sua impotenza di fronte alla dea Fortuna alla quale lui stesso deve la sua posizione. Fortuna, dunque, in spregio ad ogni ottimistico principio umanistico della primazia di virtù su fortuna, governa del tutto arbitrariamente tanto sugli uomini quanto sugli dei. È piuttosto evidente la contraddizione con quanto Alberti stesso aveva scritto nel Prologo ai libri De familia, dove la virtù era «sufficiente a conscendere e occupare ogni sublime ed eccelsa cosa, amplissimi principati, suprema laude, eterna fama e immortal gloria» (p. 10), e contro cui nulla poteva la fortuna. Quanto distante appaia la virtù del cittadino modello incoraggiata e posta da Leonardo Bruni a fondamento del consorzio repubblicano fiorentino, è superfluo sottolineare. Virtus non

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solo nega la provvidenza di Giove, ma non garantisce neppure quello che altre intercenali (si vedano, ad esempio, Erumna e Defunctus) propongono dopo aver fatto piazza pulita di sogni di gloria e illusioni di felicità: «una solenne consolatio etica all’ingiustizia della Fortuna» (Bacchelli-D’Ascia). Ma c’è di più: quello affrontato in Virtus, oltre ad essere un tema morale, è leggibile anche come un tema teologico: focalizzando l’attenzione sulla mancata udienza di Giove (la Divinità), Cardini ha scritto infatti: «Tra Divinità e Virtù, nonché accordo, c’è conflitto. Peggio, disinteresse. Incollata alla porta di Giove, Virtus resti pure ad aspettare in eterno, oppure vada a nascondersi. Il padre degli dei e degli uomini ha ben altro da fare». A seguire alla lettera il consiglio di Mercurio sarà la dea Giustizia: in un’intercenale molto vicina a Virtus quale Discordia, ella risulta essersi nascosta talmente bene da non essere rintracciabile neanche da Argo, il più occhiuto dei ricercatori. Data la larga diffusione garantita a Virtus dal nome di Luciano, non sorprende vedere come essa abbia influenzato anche l’arte figurativa: la versione volgare redatta da Niccolò Leoniceno o da Matteo Maria Boiardo, infatti, pare abbia fornito un valido supporto alla fantasia del pittore ferrarese Dosso Dossi (ca. 1486-1542), in ben due occasioni, vale a dire nella camera del Camin nero nel Castello del Buoncosiglio di Trento e, soprattutto, nella tavola rappresentante Giove, Mercurio e la Virtù (1523-24), già al Kunsthistorisches Museum di Vienna e oggi conservata al Castello Reale del Wawel di Cracovia. Alcuni critici hanno addirittura interpretato quest’ultimo quadro (dove i tentativi da parte di Virtù di attirar l’attenzione di Giove, intento a dipingere farfalle su una tavolozza, sono frustrati da Mercurio, che intima alla dea di fare silenzio) come la rivendicazione dei diritti della fantasia al di sopra di tutto. Il che, se è sicuramente molto lontano dai significati originari cui pensava l’Alberti, e da noi oggi presumibili, la dice lunga sulle vicende imprevedibili che la ricezione di un testo suggestivo, plurisenso e polisemico come Virtus porta con sé. Per la storia e la fortuna iconografica di questa intercenale si veda oggi V. Farinella, Dipingere farfalle. Giove, Mercurio e la Virtù di Dosso Dossi: un elogio dell’otium e della pittura per Alfonso I d’Este, Firenze, Polistampa, 2007.

Nota al testo Il testo è tramandato da 28 manoscritti e da 12 stampe. La maggior parte di questi testimoni ci informano di una prima diffusione del dialogo avvenuta «alla spicciolata» e in cui esso era attribuito all’autore greco Luciano di Samosata. Il testo passa per ben quattro fasi redazionali,

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come ha concluso Cardini, che individua nel codice pistoiese P l’approdo finale dell’iter variantistico (di carattere comunque esclusivamente formale) imposto dall’autore al proprio testo. Per un approfondimento cfr. Cardini, Preliminari, pp. 103-12.

(1) MERCURIUS. Virtus dea per epistolas oravit modo ad se huc ut exirem. Accedo ut percuncter quidnam me velit. Illico ad Iovem redibo. (2) VIRTUS. Salve, Mercuri. Ago tibi gratias, quandoquidem tua pietas in me atque benignitas efficit ut non penitus despecta ab omni cetu deorum sim. (3) MERCURIUS. Expecto quid narres. Tu modo perbreves narrationes facito: nam edixit ut confestim ad se redirem Iuppiter. (4) VIRTUS. Etiamne tecum nobis non licebit nostras erumnas exponere? Quos igitur ultores in me iniuriarum habebo si non modo apud ipsum maximum Iovem verum et apud te, quem semper in fratris amantissimi locum habui, condolendi facultas negatur? (5) O me idcirco miseram! ad quos confugiam? unde auxilium petam? Me quidem, dum ita despiciar, malo truncum esse aliquod quam deam. MERCURIUS. Tandem recita, dum prebeo operam. (6) VIRTUS. Recito. Viden quam sim nuda et feda? Hoc ita ut sim, effecit Fortune dee impietas atque iniuria. (7) Aderam sane ornata apud Elisios campos inter veteres meos

1 Bacchelli-D’Ascia (p. 35) notano per questa battuta una evidente ripresa della risposta di Mercurio a Caronte che lo prega di accompagnarlo sulla terra in Luciano Caronte o gli osservatori 1 (I,

(1) MERCURIO. La dea Virtù mi ha pregato per lettera di venire qui ora da lei. Vado a vedere cosa mai vuole da me. Tornerò subito da Giove. (2) VIRTÙ. Ciao, Mercurio. Ti ringrazio: la tua disponibilità e bontà nei miei confronti fanno sì che io non sia proprio del tutto disprezzata dalla famiglia degli dei. (3) MERCURIO. Sto aspettando che tu parli. Ma sii breve: Giove mi ha detto di tornare rapidamente.1 (4) VIRTÙ. Neanche a te posso spiegare le mie disgrazie? Su chi potrò contare per vendicare i torti che subisco se mi viene negata la possibilità di lamentarmi non solo presso il sommo Giove, ma persino con te, che hai sempre ricoperto il ruolo di un fratello carissimo?2 (5) O come sono disgraziata! Da chi mi rifugerò? A chi chiederò aiuto? Se devo essere così disprezzata, preferisco essere un tronco di legno piuttosto che una dea. MERCURIO. Dai, dimmi, ora che ti presto ascolto. (6) VIRTÙ. D’accordo. Lo vedi come sono nuda e sporca? Se sono così è colpa della dea Fortuna, empia ed ingiusta. (7) Me ne andavo tutta bella agghindata presso i campi Elisi p. 453): «Non ho tempo, nocchiero: vado a fare allo Zeus di lassù un servigio che riguarda gli uomini». 2 Cardini (p. 234) rileva il calzante parallelo con Ter. Andr. 922 «si te in germani fratris dilexi loco» («se è vero che ti ho amato come un fratello»).

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amicos media Platonem, Socratem, Demosthenem, Ciceronem, Archimedem, Policlitem, Praxitelem et huiusmodi doctos, qui me, dum vitam agebant, piissime atque religiosissime coluere. (8) Interea loci, dum iam non pauci ad nos salutatum advolassent, e vestigio Fortuna dea insolens, audax, temulenta, procax, maxima armatorum turba consepta atque stipata, properans ad nos iactabunda: «En» inquit «plebea, tune maioribus diis adventantibus non ultro cedis?». (9) Doluit iniuriam nobis immeritis eo pacto fieri, ac nonnihil ira concita inquam: «Neque tu, maxima dea, his verbis me plebeam efficies, neque, si maioribus cedendum est, tibi turpiter cedendum censeo». (10) llla vero illico in convitium sese effert advorsum. Pretereo hic quas contumelias in me primum, dum hec inter nos geruntur, effuderit. (11) Idcirco Plato philosophus contra nonnulla de deorum officio cepit disputare. At illa excandescens: «Apage te hinc, verbose, inquit, non enim decet hic servos deorum causam suscipere». (12) Ceperat et Cicero orator plura velle suadere. At ex turba armatorum erupit Marcus Antonius prepotens, latera illa sua digladiatoria ostentans, gravissimumque pugnum in os Ciceronis infregit. (13) Hinc ceteri amici mei perculsi metu, fuga sibi propere consuluere. Neque enim Polycletus peniculo, aut Phidias scalpro, aut Archimedes horoscopo, aut reliqui inermes adversus audacissimos armatos, eosdemque predis atque homicidiis suetos, belle ad sese tuendos valebant. (14) Ergo me infelicissimam, ab ipsis diis omnibus qui aderant atque ab hominibus desertam, pugnis et calcibus totam

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Si tratta ovviamente del celebre generale e uomo politico romano (83-30 a.C.). In quel prepotens rimane probabilmente memoria delle sue feroci proscrizioni seguite alla sconfitta da lui subìta nella battaglia di Modena (43 a.C.) e alla costituzione del primo triumvirato, per cui cadde vittima anche Cicerone, che aveva rivolto contro Antonio le sue Filippiche. La fonte più autorevole è

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in mezzo ai miei vecchi amici, Platone, Socrate, Demostene, Cicerone, Archimede, Policlite, Prassitele e altri saggi come questi, che in vita mi veneravano in modo santo e devoto. (8) Nel frattempo, mentre molti accorrevano a salutarmi, la dea Fortuna, insolente, audace, ebbra, sfrontata e circondata da una gran turba di uomini in armi, avvicinandosi a me all’improvviso mi fa con boria: «Ehi tu, plebea, non ti fai da parte quando passano divinità più titolate?». (9) Ferita per aver ricevuto un’offesa in quel modo, senza motivo, ribatto mossa da una gran rabbia: «Tu, cara la mia dea titolatissima, non mi farai diventare plebea con le tue parole; né del resto, se bisogna far strada ai più titolati, credo che dovrei far strada a te senza vergognarmi». (10) Quella allora mi urla contro. Tralascio qui la sequela di insulti che mi vomitò addosso sulle prime. (11) Allora il filosofo Platone cominciò, di contro, a discutere di alcuni dei doveri degli dei. Ma quella va in escandescenze: «Vattene via di qui» disse «logorroico, ai servi non si addice difendere la causa degli dei». (12) Aveva cominciato a parlare anche l’oratore Cicerone, desideroso di convincere coi suoi molti argomenti. Ma dalla turba di armati se ne uscì l’arrogante Marco Antonio,3 sfoggiando i suoi fianchi da gladiatore, e tirò un pugno violentissimo sulla bocca di Cicerone. (13) A questo punto gli altri miei amici, per il timore di prenderle, si diedero rapidamente alla fuga. Del resto né Policleto col suo pennello, né Fidia con lo scalpello, né Archimede col suo oroscopo4 né tutti gli altri inermi potevano difendersi contro uomini armati prepotenti e abituati a depredare e uccidere. (14) Me misera, abbandonata da tutti gli dei presenti e dagli uomini, tartassarono senza pietà con la Vita di Marco Antonio di Plutarco, che Alberti poteva conoscere nella traduzione latina di Leonardo Bruni. 4 Pur mettendo a testo il termine «horoscopo», Cardini (p. 235) segnala che potrebbe trattarsi di un errore per horoscopio, in quanto esso (ovvero l’astrolabio) serve a studiare il cielo e starebbe dunque benissimo nelle mani di Archimede.

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contrivere vestesque meas diripuere, in lutum prostratam reliquere; demum abiere ovantes. (15) Ego vero ita confecta, cum primum licuit, conscendi huc ut Iovem optimum maximum his de rebus facerem certiorem. (16) Iam quidem mihi, ut intromittar, expectanti mensis elapsus est; dumque, ut id ipsum impetrem, omnes deos exeuntes ac redeuntes precor, novas tamen semper aliquas excusationes audio: aut enim deos aiunt vacare ut in tempore cucurbite florescant, aut curare ut papilionibus ale perpulchre picte adsint. (l7) Quid igitur? Ne vero aliud sempiterne habebunt negotii, quo nos exclusas teneant ac flocci pendant? Cucurbite admodo floruere, papiliones lautissimi pervolant, tum et villicus dudum suscepit curam ne cucurbite siti pereant: nos tamen neque diis neque hominibus commendate aut cordi sumus. (18) Has ob res te iterum atque iterum precor obtestorque, Mercuri, quo semper apud deos ipsos interpres omnium exstitisti, eo et causam hanc meam iustissimam atque piissimam suscipias. (19) Ad te confugio, te supplex oro, in te omnis mea sita est spes atque expectatio. Da, queso, operam ne, dum a vobis excludor, ipsis quoque mortalibus sim ludibrio: non erit quidem decus deorum ordini, ubi homunculi me tametsi infimam dearum fortassis flocci pendant. (20) MERCURIUS. Audivi, dolet. Verum pro vetere nostra amicitia unum admoneo: duram nimis atque difficilem causam te adversus Fortunam suscepisse. (21) Nam et Iuppiter ipse, ut ceteros deos omittam, cum se ob accepta beneficia

5 Un accenno ironico alle zucche era già nella giovanile commedia Philodoxeos fabula (pp. 186-87): «fabulas et muliebria [...] pro cucurbitis semen exquire». 6 È ipotesi perlomeno suggestiva che sia stato proprio quel «picte» – presente sin dalla prima redazione del dialogo – a suggerire a Dosso Dossi, probabilmente per il tramite di un umanista della corte estense, di ritrarre Giove nell’atto di dipingere farfalle

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calci e pugni, mi lacerarono le vesti e mi lasciarono giacere nel fango; alla fine si allontanarono esultanti. (15) Conciata così, appena fui in grado salii quassù per informare Giove Ottimo Massimo di quello che era successo. (16) Ma è già un mese che aspetto di essere ricevuta; e mentre io, per ottenere sempre la stessa cosa, prego tutti gli dei che vanno e che vengono, sento sempre scuse nuove e diverse: ora dicono che gli dei sono occupati a far crescere in tempo le zucche,5 ora che son presi a dipingere ali bellissime alle farfalle.6 (17) E allora? Avranno sempre qualcosa da fare per tenermi fuori e non ascoltarmi? Le zucche sono ormai fiorite, volano bellissime le farfalle e il contadino bada a che le zucche non muoiano di sete: io però non sto a cuore e non sono raccomandata né dagli dei né dagli uomini. (18) Per questo motivo ti prego e ti riprego sempre di più, Mercurio, tu che ti sei sempre fatto interprete di tutti presso gli dei, di sollevare questa mia causa giusta e sacrosanta. (19) Mi rivolgo a te, te prego e supplico, in te ho riposto ogni speranza. Fai in modo, ti prego, se da voi sono rifiutata, che io non sia sbeffeggiata anche dai mortali: non sarà certamente onorevole per la famiglia degli dei se gli omuncoli, anche se io sono l’ultima delle dee, non mi considereranno un fico secco. (20) MERCURIO. Capisco, e mi dispiace. Ma in nome della nostra amicizia, ti avviso solo di questo: hai intrapreso una causa troppo dura e difficile contro la Fortuna.7 (21) Giove stesso, per non dire delle altre divinità, da un lato sa nella sua celebre tavola già a Vienna e oggi a Cracovia raffigurante Giove, Mercurio e la Virtù, per cui vd. l’introduzione a questa intercenale. Se così è, la traduzione deve ben rendere questa particolare e originalissima azione di Giove. Per la diffusione in area ferrarese delle intercenali si veda anche Bacchelli-D’Ascia, pp. LXXXVI-XCIX. 7 A questo proposito si veda quello che scrive Cardini, Biografia, p. 97: «Se il De iure [vd. Cronologia, per l’anno 1437] verte sul giusto processo, Virtus è in primo luogo un processo mancato, un caso clamoroso di ingiustizia».

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nimium debere Fortune censeat, tum eius illius vires atque potentiam mirum in modum veretur. Fortuna enim ad celos diis ascensum prestitit atque, ubi velit, valens sua armatorum manu eosdem ipsos deos eiiciet. (22) Qua de re, si sapis, inter deos plebeos ignota, quoad Fortune in te odium extinctum sit, latitabis. VIRTUS. Eternum latitandum est. Ego et nuda et despecta excludor.

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di dovere molto alla Fortuna in termini di benefici ricevuti, dall’altra teme terribilmente le sue forze e la sua potenza. È la Fortuna, infatti, che ha aperto agli dei la strada del cielo e, se vuole, è in grado di cacciarli giù col suo esercito di armati. (22) Per questo, se sei saggia, te ne starai nascosta tra gli dei plebei fino a quando alla Fortuna non sarà passata la rabbia nei tuoi confronti. VIRTÙ. Dovrò star nascosta per sempre. Sono nuda, disprezzata ed esclusa.8

8 Cfr. Petrarca Rvf VII 10-11 «Povera et nuda vai philosophia / dice la turba al vil guadagno intesa».

FATUM ET FORTUNA (IL FATO E LA FORTUNA)

Intercenale sospesa tra sogno e visione, che si nutre di illustri precedenti (tra cui il mito di Er della Repubblica platonica, il Somnium Scipionis di Cicerone, e ancora una volta suggestioni dal Caronte e dal Sogno lucianei), Fatum et fortuna, priva di quei sales da commedia con cui sono insaporite molte sue sorelle, è stata a buon diritto definita «il testo più solenne del libro I» (Bacchelli-D’Ascia, p. 41), ma si potrebbe dire tranquillamente dell’intera raccolta. Si tratta di un monologo che si svolge sotto le finte spoglie di un dialogo – sia perché ad aprire il testo, in medias res, è una voce anonima, sia perché il principale interlocutore drammatizza il colloquio avuto in sogno con le umbre – in cui il protagonista è un philosophus, che è stato riconosciuto come una «parziale proiezione autobiografica» (Cardini, p. 241) grazie a una autocitazione che l’Alberti stesso fa di questa intercenale in un passo del suo tardo De iciarchia. Benché, nella maestosa allegoria del fiume della vita e nella descrizione del suo periglioso attraversamento, la simpatia dell’Alberti vada verso gli inventori e i cultori delle arti e dei mestieri, anche la navigazione collettiva sulle navicelle, vale a dire la vita attiva al servizio dello stato sembra addirsi agli spiriti magni: «Tutti gli spiriti magni preferiranno una nave anche molto piccola a una tavola privata». Si badi, tuttavia, che queste minores naviculae (§ 34) che con più agilità riescono ad evitare gli scogli aguzzi di cui l’esistenza è costellata, rappresentano il nucleo familiare piuttosto che le compagini statuali, queste ultime ingombre di uomini dissennati che non sembrano dar scampo ai loro mediocri timonieri. Del resto, il modo in cui attraversare il fiume della Vita non è affatto oggetto di una libera scelta da parte degli individui: come ha notato Cardini, e come emerge manifestamente nella chiusa dell’intercenale, Alberti desume dal De divinatione ciceroniano un fatalismo stoico – cui in realtà l’Arpinate non aveva mai aderito (Cardini, p. 240) – che si estrinseca in un ferreo determinismo e nella fede nell’astrologia. Saggezza e operosità valgono sì, ma per affrontare con

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la maggior dignità possibile la situazione che la Fortuna ci ha riservato; esse costituiscono quei beni interni cui affidarsi nella navigazione, da contrapporre a quei beni esterni (i fragili otri gonfi di vento) che sono instabili come la sostanza che li riempie. Da notare, come ha sottolineato Rinaldi («Tabula» o «navicula»?, pp. 66-67), che contro coloro che, come il Petrarca del De vita solitaria, avevano, con concezione ancora medievale, condannato le artes mondane per celebrare la vita contemplativa, qui Alberti esalta a tal punto gli antichi «inventores artium» da rappresentarli alla stregua di figure angeliche, con tanto di ali e calzari alati, classici attributi di Mercurio; e subito dopo di loro, semidei quasi loro pari, stanno, non del tutto emergenti dalle acque, coloro, vale a dire i moderni, che raccolgono i cocci delle arti antiche e tentano, con abilità musiva, di costruire nuove arti del tutto simili a quelle degli antichi. Insomma, anche in questa pur amara raffigurazione dell’esistenza, certo non conforme alla stilizzazione antropocentrica del Rinascimento, c’è spazio comunque per affermare orgogliosamente, tra le righe (prima che nel sontuoso proemio al De pictura), il ruolo non subalterno dei moderni nei confronti degli antichi.

Nota al testo Il testo di Fatum et fortuna è tramandato dai codici O e P. L’edizione di Cardini predilige come sempre il codice P in quanto lo considera latore di una seconda redazione.

(1) ***. Isthanc sententiam tuam approbo, philosophe: mentes hominum plerumque inter dormiendum plane esse solutas atque liberas. Sed in primis abs te vehementer cupio illud de fato et fortuna pulcherrimum audire, quod te in somniis aiebas didicisse. (2) Age, queso, dum ambo sumus otiosi, recita, ut congratuler tibi quod, tam amplissima in re, plura dormiens quam nos alii vigilantes perspexeris. (3) PHILOSOPHUS. Itane cupis, amicissime? Gero tibi morem. Audies quidem rem dignam memoratu. Narro. (4) Advigilaram in multam noctem lectitans de fato quidquid esset a maioribus traditum litteris, ac mihi quidem cum multa apud eos auctores placerent dicta, perpauca tamen non admodum nobis satis facere videbantur; ita nescio quid ipse mecum in ea re plus satis appetebam. (5) Somnus interim defessum me vigilia vehementius occupat, ut nonnihil obdormiscere occeperim. Itaque sic inter dormiendum ipse 1 Per le varie e articolate teorie sul sogno nel medioevo cfr. Steven E. Kruger, Il sogno nel Medioevo, Milano, Vita e Pensiero, 1996. 2 È uno stilema classico della poesia bucolica, che di solito dà l’avvio ai canti dei pastori. Si ricordi che uno dei tanti esperimenti di «rifondazione su basi umanistiche» (Cardini) della letteratura italiana l’Alberti lo compie proprio scrivendo forse le prime ecloghe in volgare, Tirsi e Corimbus. 3 Sul valore conoscitivo dell’esperienza onirica, e la parallela critica dei filosofi (per cui si conosce solo ragionando da svegli), cfr. Somnium, §§ 48-49.

(1) ***. Approvo questa tua convinzione, filosofo: le menti degli uomini, per lo più, durante il sonno sono del tutto svincolate e libere dal corpo.1 Ma desidero ardentemente sopra ogni altra cosa sentire da te quel racconto bellissimo sul fato e la fortuna che hai detto aver appreso in sonno. (2) Avanti, ti prego, ora che entrambi abbiamo tempo,2 racconta, così che mi possa congratulare con te, dal momento che, su un tema vastissimo, hai visto di più tu dormendo che noi altri stando svegli.3 (3) FILOSOFO. Questo desideri, amico mio? Ti accontento. Ascolterai qualcosa davvero degna di ricordo. Comincio. (4) Avevo passato gran parte della notte sveglio, leggendo ciò che gli antichi avevano lasciato scritto a proposito del fato e, per quanto molte delle loro tesi mi piacessero, pochissime mi sembravano del tutto soddisfacenti; così su questo argomento cercavo fra me e me un non so che di più soddisfacente.4 (5) In quel mentre, giacché ero stremato dalla veglia, il sonno mi prese profondamente e cominciai ad assopirmi.5 Così, nel sonno, mi parve di stare sulla cima di 4 Gli antichi non hanno infatti esaurito di esplorare lo scibile umano, come Alberti afferma, ad esempio, nel celebre proemio del De pictura. 5 Ricorrente il motivo della profusione delle energie intellettuali nelle veglie notturne (elucubrationes) fino al prevalere del sonno; si veda quanto dice Agnolo Pandolfini nei Profugiorum ab erumna

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mihi videbar supra cacumen excelsi cuiusdam montis inter innumerabiles veluti hominum umbras esse constitutus, quo ex loco omnis ea provincia bellissime poterat spectari: mons vero ipse omni ex parte ruinis, precipitiis atque abruptis ripis penitus inaccessibilis, uno tantum sed angusto calle erat pervius. (6) Hunc montem circum in se ipsum rediens ambibat fluvius omnium rapidissimus atque turbulentissimus inque fluvium innumere eiusmodi umbrarum legiones per angustum ipsum callem descendere minime desinebant. (7) Itaque et loca et infinitam multitudinem umbrarum demirans stupui, ac fui quidem usque adeo detentus admiratione, ut quid circa fluvium esset terrarum aut rerum neglexerim scrutari; quin et ille umbrarum copie unde in arduum montem manarent non studui perpendere. (8) Unica mihi tantum in primis aderat cura, ut que in fluvio miracula apparerent, ea quam diligentissime conspicarer; et erant quidem dignissima admiratione. (9) Nam ut primum in fluvium umbrarum queque descendisset, ita illico infantum membra et ora induisse videbatur. Ac deinceps, quo longius fluvio raperentur, eo illis quidem etatis et membrorum personam adcrevisse mihi apparebat. (10) Cepi idcirco rogare: «Ecquid», inquam «o umbre, siquid nostis humanitatis aut siquid uspiam estis ad humanitatem propense, quando humanitatis est homines rerum instructiores reddere, dicite, queso, quale sit huic fluvio nomen». (11) Tum umbre in hunc modum referunt: «Erras, homo, si quales tibi per oculos corporis videmur nos umbras putas. Sumus enim celestes, ut et ipse tu quidem es, igniculi qui humanitati debemur». (12) Tum ipse: «O me

libri (p. 182): «E talora mancandomi simili investigazioni, composi a mente e coedificai qualche compositissimo edificio, e disposivi più ordini e numeri di colonne con vari capitelli e base inusitate, e collega’vi conveniente e nuova grazia di cornici e tavolati. E con simili conscrizioni occupai me stessi sino che ’l sonno occupò me» .

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una montagna altissima, come tra innumerevoli ombre di uomini, luogo dal quale si poteva vedere benissimo tutta la regione circostante: ma il monte era assolutamente inaccessibile da ogni parte a causa di dirupi, crepacci o strapiombi, e ci si poteva arrivare per un solo sentiero, per quanto stretto. (6) Attorno a questa montagna, scorreva, tornando su se stesso, il fiume più rapido e vorticoso di tutti, e a questo fiume scendevano in continuazione innumerevoli schiere di quelle ombre, attraverso quello stretto sentiero. (7) Perciò rimasi meravigliato nel vedere quei luoghi e quell’infinita moltitudine di ombre, e fui a tal punto sbigottito che dimenticai di indagare quali terre o cose ci fossero attorno al fiume; non mi curai nemmeno di sapere da dove venissero quelle schiere di ombre che stavano sul monte scosceso. (8) L’unica mia preoccupazione era di osservare il più attentamente possibile quei prodigi che avvenivano dentro al fìume; ed erano infatti davvero degni di ammirazione. (9) Infatti ciascuna delle ombre, non appena si immergeva nella corrente, sembrava immediatamente assumere volti e membra infantili. Poi, a mano a mano che il fiume la trasportava innanzi, mi sembrava che crescesse di età e corporatura. (10) Cominciai dunque a domandare: «Se sapete, ombre, cos’è l’humanitas6 e in qualche modo le siete propense – dal momento che è un atto di humanitas rendere gli uomini più edotti – ditemi, vi prego, qual è il nome di questo fiume». (11) Allora le ombre risposero così: «Sbagli, o uomo, a crederci ombre, quali sembriamo ai tuoi occhi mortali. Siamo infatti, proprio come te, scintille di fuoco celeste, destinate a diventare uomini».7 (12) Allora io: «Che bello sarebbe se gli dei, per 6 Conserviamo il termine latino perché il nostro equivalente, «umanità», è troppo cristianamente connotato, e semanticamente ristretto, per comprendere l’ampiezza del termine latino, in cui vengono inclusi in modo onnicomprensivo i sensi di generosità intellettuale e propensione pedagogica. 7 Alle fonti proposte da Bacchelli-D’Ascia (Cic. Somn. 15; Verg.

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felicem, siquid unquam a superis meruero, ut vos apertius possim novisse! Nam intelligere quibus orte parentibus quove sitis loco sate ac procreate divinum quoddam esse munus deputem». (13) Tum umbre: «Desine», inquiunt, «desine, homo, istiusmodi dei deorum occulta investigare longius quam mortalibus liceat. (14) Tibi enim ceterisque corpore occlusis animis non plus a superis velim esse concessum scias, quam ea tantum non penitus ignorare que vos oculis intueamini. (15) At fluvio quidem huic, ut expectationi tue, aliqua seu potius qua possum, omni ex parte satis faciam, Vios nomen est». His ego dictis commotus vehementius obstupui. (16) Tum me ipsum exinde colligens, inquam: «Vos, o celestes dii, oro, hec nomina, quo apertius intelligam, dicite Latina. (17) Nam, etsi Grecis omnia que ad laudem spectant, quantum velint, facile tribuam, nostra tamen lingua delectari me in primis non turpe duco». (18) Tum umbre inquiunt: «Is fluvius Latine Vita Etasque mortalium dicitur; eius ripa Mors, cui quidem, ut vides, ripe quisquis inheserit, illico iterum in umbram evanescit». (19) «O rem admirandam!», inquam. «Vel quid illos intueor nescio quos fronte tam elata utribus ab aquis superadstare, illos vero ex diverso alios tam egre per omnem fluvium rapi undis et contundi saxis, ut vix queant ore ipso emergere? Tanta, superi boni, unde disparitas est?». (20) Tum umbre «Sunt illi quidem», inquiunt, «quos tu utribus fortassis tutiores esse arbitraris, maximo in periAen. VI 730-35; Sen. De ot. 5), Cardini (Biografia, pp. 85-86) ne ha aggiunte altre esclusivamente ciceroniane (De fin. V 18; Tusc. III 2; De leg. I 33). 8 Cfr. Disticha Catonis II 2: «Mitte arcana dei coelumque inquirere quid sit, / cum sis mortalis, quae sunt mortalia cura» («cessa di indagare i divini misteri e la natura del cielo: / poiché sei uomo, occupati di cose umane»). Su questa fonte pagana segnalata da Bacchelli-D’Ascia (p. 47) si innesta, come rileva Cardini (p. 241), il sintagma biblico dei deorum (Deuter. 10, 17; Dan. 2, 47), che l’Alberti utilizza anche nel Pontifex, p. 848 e nella Vita Sancti Potiti, p. 129 (con la variatio «Regum Rex»).

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qualche mio merito, mi concedessero di potervi conoscere meglio! Infatti mi parrebbe un dono divino sapere da quali genitori siete nate e dove vi abbiano generate». (13) Allora le ombre esclamarono: «Smetti, uomo, smetti di voler indagare questi misteri del Dio degli dei,8 che vanno al di là di quanto sia lecito sapere ad un mortale. (14) Vorremmo che sapessi che a te e alle altre anime chiuse nel corpo gli dei hanno concesso soltanto di non ignorare del tutto quello che vedete con gli occhi.9 (15) Questo fiume, per soddisfare comunque più che possiamo la tua curiosità, ha nome Vios».10 Profondamente colpito da quelle parole, rimasi stupefatto. (16) Ma, subito ripresomi, replicai: «O voi divinità celesti, vi prego, ditemi questi nomi in latino, perché capisca meglio. (17) Benché infatti io non faccia fatica a tributare ai Greci tutti gli onori che vogliono, non reputo vergognoso amare prima di tutto la nostra lingua». (18) Allora le ombre dissero: «In latino questo fiume è chiamato Vita e Tempo dei mortali. La sua riva è la Morte: come vedi, tutti quelli che toccano la riva subito tornano a dissolversi in ombra». (19) «Che cosa incredibile!» esclamai. «Ma perché vedo certuni che stanno sopra otri11 con la fronte levata alta sull’acqua, mentre altri sono sballottati qua e là per tutto il fiume, travolti dai flutti e urtati dagli scogli, tanto che a malapena riescono a far emergere la bocca? Perché, o dei misericordiosi, tanta disparità?». (20) Allora le ombre risposero: «Quelli che tu, vedendoli sugli otri, reputi più sicuri, corrono sen9 Si veda quanto l’Alberti stesso scriverà nel Theogenius (p. 93): «Che stoltizia de’ mortali, che vogliamo sapere e quando e come e per qual consiglio e a che fine sia ogni istituto e opera di Dio, e vogliamo sapere che materia, che figura, che natura, che forza sia quella del cielo, de’ pianeti, delle intelligenze, e mille secreti vogliamo essere noti a noi più che alla natura». 10 Ossia, pronunciato alla bizantina, Bíos (= vita, in greco). 11 L’uter, ricorda Cardini (p. 241), era un recipiente di cuoio che, gonfiato, veniva usato come salvagente in acqua, cfr. Caes. Bell. Civ. I 48, 7; Sall. Hist. III 37.

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culo constituti: nam is fluvius totus sub undis preacutissimis confertissimisque scopulis refertissimus est. (21) En utres illos fastu et pompa tumidos! Ne tu perspicis ut ictibus undarum ad scopulos illisi perscindantur atque deficiant? Idcirco infelices qui utribus confidebant. (22) Viden ut passim medio in cursu omni presidio destituti trudantur ad scopulos? Miserandi, quam durissimum cursum agunt! Quod si utres laceros retinuerint, sibi ipsis impedimento sunt; si reliquerint, ita rapiuntur undis ut ferme toto fluvio nusquam appareant. (23) Meliori idcirco in sorte sunt hi, qui ab ipsis primordiis fisi propriis viribus nando hunc ipsum vite cursum peragunt; (24) namque cum illis preclare quidem agitur, qui natandi peritia freti atque adiuti, modo otiosi parumper commorari poneque sequentem naviculam aut tabulas fluvio devectas prestolari, modo item maximis viribus, ut scopulos evitent, contendere atque ad litus usque pro laude advolare didicere. (25) Atque ut rem teneas, sumus quidem nos, natura imperante, in hos ipsos istiusmodi nimirum omnes affecti eorumque saluti et glorie, quoad in nos sit, plurimum deservire cupidi. (26) Vos quidem mortales eosdem ipsos honoris gratia industrios, gnavos, studiosos, providos, agentes ac frugi consuevistis appellare. (27) Qui autem utribus delectantur, illi quidem apud nos non eiusmodi sunt, ut eorum divitiis et amplitudini faveri oportere arbitremur; sed longe perfidiam, rapinas, impietatem improbitatemque atque eiusmodi flagitia, ex quibus ipsi utres contexti sunt, odiis dignissima putamus». (28) Tum ipse inquam: «Idcirco ex industriis nonnullos ad naviculas inherere, nonnullos insidere ad

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za dubbio il pericolo maggiore: infatti questo fiume, sotto le onde, è pienissimo di scogli appuntitissimi,12 uno di seguito all’altro. (21) Guarda come quegli otri sono gonfi di fasto e di pompa! Non vedi come si squarciano contro gli scogli e van giù, sbattuti dalle onde? Sono perciò sventurati coloro che han fatto affidamento sugli otri. (22) Non vedi come, qua e là in mezzo alla traversata, privati di ogni protezione, sono trascinati contro gli scogli? Disgraziati, che percorso durissimo fanno! Se si tengono aggrappati agli otri frantumati, sono di impedimento a se stessi; se invece li lasciano andare, vengono rapiti con tale violenza dalle onde che, sicuro, non li si vede più per tutto il corso del fiume. (23) Hanno perciò sorte migliore coloro che, confidando fin da principio solo nelle proprie forze, attraversano a nuoto il corso della vita; (24) e infatti le cose vanno benissimo a coloro che si appoggiano e fanno affidamento solo sulla loro capacità di nuotare, e che hanno imparato ora a riposarsi un momento e aspettare l’arrivo di una nave dietro cui attaccarsi oppure di tavole trascinate dal fiume, ora a cercare di evitare con tutte le forze gli scogli e affrettarsi verso la riva con grande plauso. (25) E perché tu comprenda bene, noi siamo tutti naturalmente ben disposti verso costoro e, per quanto sta in noi, desideriamo metterci al loro servizio affinché raggiungano salvezza e gloria. (26) Voi mortali, per onorarli, siete soliti chiamarli industriosi, operosi, zelanti, accorti, attivi, frugali. (27) Di quelli che, invece, si godono gli otri, non abbiamo una stima tale da ritenere necessario favorirli nelle loro ricchezze e nelle loro sostanze; anzi consideriamo degni di disprezzo la perfidia, gli inganni, l’empietà, la cattiveria e gli altri crimini simili di cui quegli otri sono ripieni». (28) Allora io risposi: «Mi fa davvero piacere vedere che tra gli uomini industriosi alcuni si tengono aggrap12 L’immagine degli scogli che provocano il naufragio è di derivazione platonica, cfr. De repub. 553ab (Bacchelli-D’Ascia, p. 47).

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puppim, nonnullos naviculas ipsas restaurare vehementer gaudeo: namque qui multis prosint, qui manum laborantibus porrigunt, qui bonos recipiunt, sunt illi quidem cum laude et gratia hominum, tum etiam pietate deorum dignissimi». (29) Tum umbre inquiunt: «Recte, homo, sentis atque hoc te ignorare nolumus: eos omnes qui naviculis vehuntur quamdiu modesta velle, iusta exhibere, recta sapere, honesta agere, magnifica excogitare non desinent, tamdiu omnes illis superos propitios fore. (30) Nulli enim hominum qui toto fluvio aguntur, quam iidem ipsi qui intra naviculas fidem, simplicitatem atque virtutem spectant, apud superos immortales uspiam sunt gratiores. (31) Hec unica in primis deorum cura est: principibus navicularum bene moribus et virtute merentibus obsecundare; id quidem cum ceteras multas ob res, tum quod quietem multorum et otium tueantur. (32) Nam quas vides naviculas, apud mortales imperia nuncupantur; que quidem tametsi ad fluminis cursum preclare peragendum vehementer iuvent, in illis tamen presidii firmi et constantis ad asperrimos fluminis scopulos evitandos nihil comperies. (33) Nam cum aque pernicissimo cursu proruant, tum fit ut navicule quo maiores sint, eo maiori in periculo versentur interque scopulos impetu undarum illidantur; tum et plerumque ita subvertantur, ut etiam periti atque experti minime inter fragmenta et globum periclitantium valeant nare. (34) Minores vero navicule ab his, qui eas consectantur, facile deprehense submerguntur; sed eo fortassis prestant, quod sunt ad medium inter utrumque scopulum iter tenendum, longe quam ample ille naves, accommodatiores. (35) Verum maxima omnibus navigiis ad evitandum naufragium

13 Si tratta molto probabilmente delle famiglie. Ha scritto A. Grafton, L.B. Alberti, p. 211: «Come l’universo di Leibniz, questo mondo [il mondo borghese fiorentino del Quattrocento] era diviso

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pati alle navicelle, alcuni stanno seduti a poppa, altri ancora riparano le navicelle: infatti chi giova a molti, chi dà una mano alle persone in difficoltà, chi accoglie i buoni merita sicuramente la lode e la gratitudine degli uomini, come anche il rispetto degli dei». (29) Allora le ombre dissero: «Uomo, dici bene e non vogliamo che ignori ciò: tutti coloro che viaggiano sulle navicelle, fino a quando continueranno ad avere modeste aspettative, a mostrarsi giusti, a pensare saggiamente, ad agire onestamente, a fare grandi progetti, fino a quel momento gli dei continueranno ad essere loro propizi. (30) Agli dei immortali infatti nessuno fra gli uomini trasportati dal fiume è più gradito di coloro che dentro le navicelle rispettano la fede, la semplicità e la virtù. (31) Questa è l’unica, la principale preoccupazione degli dei: assecondare i capitani delle navi che siano meritevoli per comportamento e virtù; questo, tra le molte altre ragioni, perché sono loro che badano alla pace e alla tranquillità dei più. (32) Le navicelle che vedi, infatti, i mortali le chiamano imperi; anche se queste sono molto utili per percorrere onorevolmente il corso del fiume, in esse non troverai nulla di stabile e saldo per evitare i taglientissimi scogli del fiume. (33) Infatti, siccome la corrente scorre vorticosamente, accade che le navicelle, quanto più sono grandi, tanto è maggiore per loro il rischio di essere sbattute contro gli scogli dalla forza delle onde; il più delle volte si rovesciano, cosicché anche coloro che sono esperti e capaci non riescono a nuotare tra i rottami e la massa di quelli che provano a salvarsi. (34) Le navicelle più piccole, invece, raggiunte facilmente da coloro che le inseguono, vengono sommerse; tuttavia, forse, risultano migliori per questo, perché sono molto più adatte di quelle grandi a tenere la rotta tra uno scoglio e l’altro.13 (35) In ogni tipo di nave, comunque, la maggior in monadi: le unità familiari, nella cui prosperità la società trovava il suo fondamento».

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facultas in his aderit, qui per navim suis locis dispositi accinctique ita sunt, ut vigilantia, fide, diligentia omnique officio casibus providere ac sese pro communi salute laboribus et periculis sponte subicere non recusant. (36) Cave tamen in omni genere mortalium esse ullos inter undas tutiores arbitreris, quam eos quos admodum paucissimos toto pectore inherere tabulis fluvioque huc atque illuc libere spectando tutissimos captare fluctus vides. Tabule quidem ille apud mortales bone dicuntur artes». Hec umbre. (37) Tum ego: «Quid ita? Non prestat virtute comite navigiis recte assidere omniaque pericula subire, quam huius vite cursum unica asserula conficere?». (38) Tum umbre inquiunt: «Maximus quisque animus vel minimam naviculam potius quam privatam tabulam affectabit, sed pacatum ac liberum ingenium non iniuria eos ingentes labores eaque assidua et maxima navicularum pericula longe fugiet. (39) Adde quod his, qui sua domestica re contenti sunt, ineptia multitudinis et publici huiusmodi tumultus gravissimi sunt; tum etiam inter ignavam plebem equum ordinem, decus quietemque ac dulce otium servare durum sane ac difficile est. (40) Que quidem omnes res si ulla ex parte cessent, non facile dici potest quam illico et reges et naute, denique et omne navigium periturum sit. (41) Quam ob rem ab his qui ad clavum sedent hec in primis cura desideratur ut provideant, ne suam suorumve per ignaviam aut luxum temere in scopulos aut in litus irruant, neve navis ipsa inutili aliquo pondere supprimatur; eiusque

14 Qui «petto» è anche metonimia di cuore, dunque vale «generosità». 15 Come rilevano Bacchelli-D’Ascia (p. 51), dietro questo discorso metaforico c’è, molto probabilmente, il brano del De off. I 71, dove Cicerone, dopo aver spiegato che la vita più utile alla comunità – e anche quella più adatta a conferire splendore e grandezza – è quella di chi si consacra al governo dello Stato, esime gli ingegni

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probabilità di evitare il naufragio ce l’avranno coloro che sulla nave staranno pronti e preparati al loro posto per provvedere a ogni evenienza con attenzione, affidabilità, disciplina e senso del dovere, e che non si rifiuteranno di sobbarcarsi spontaneamente fatiche e pericoli per il bene comune. (36) Bada, però, che non devi considerare nessun tipo di uomo più sicuro, fra le onde, di quei pochissimi che vedi percorrere il fiume poggiando tutto il petto14 su assi di legno, guardando di qua e di là nel fiume, con assoluta libertà, per vedere in che modo affrontare i flutti in modo più sicuro. Quelle tavole gli uomini le chiamano arti». Questo dissero le ombre. (37) Allora chiesi: «Ma come? Non è meglio starsene seduti sulle navi in compagnia della Virtù e affrontare ogni genere di pericoli, piuttosto che compiere il corso di questa vita su un’unica assicella?». (38) Le ombre risposero: «Tutti gli spiriti magni preferiranno una nave anche molto piccola a una tavola privata; gli ingegni amanti della pace e liberi, tuttavia, eviteranno anche solo da lontano, senza infamia, le grandi fatiche e i ripetuti e serissimi pericoli delle navi.15 (39) Aggiungi che a chi si accontenta delle proprie cose risultano insopportabili le stupidaggini del volgo e le sedizioni pubbliche di tal tipo. È davvero difficilissimo, vivendo tra la plebe ignava, conservare la rispettabilità, l’onore, la serenità e il dolce ozio. (40) Se tutte queste cose venissero meno, non è facile dire quanto rapidamente re e marinai, e altrettanto presto tutta quanta la nave, andrebbero in rovina. (41) Per questo motivo a chi siede al timone si richiede soprattutto di evitare che la nave, per gli eccessi o la noncuranza sua o dell’equipaggio, vada a sbattere contro gli scogli o sulla riva, o che essa stessa affondi a causa di particolarmente dotati dall’occuparsi di questo compito gravoso: «Quapropter et iis forsitan concedendum sit rem publicam non capessentibus, qui excellenti ingenio doctrinae sese dediderunt» («Perciò si può forse concedere di non occuparsi dello Stato a quelli che, dotati di singolare ingegno, si dedicano agli studi»).

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levande gratia non modo suos verum et se ipsum, dum ita deceat pro necessitate, in litus usque eiicere bene constituti principis officium est. (42) Hec dura quidem a plerisque putantur, quove minime ad tutam et otiosam vitam apta, eo a modestis atque simplicibus animis longe aspernantur. (43) His accedit quod multo demum precavendum est, ne maximus ille qui ad puppim subsequitur numerus navim aut impellat in periculum aut pervertat. Et afferunt illi quidem protervi non minus quam duri scopuli solicitudinem nautis: nam clavum insolentes carpunt, transtra apprehendunt, ordines remorum perturbant. (44) Neque eos procaces atque audaces, nisi vi, abegeris, quos eosdem non mediocri cum iactura et damno in navim receptos teneas: nam illic inepti, inutiles, contumaces nullam in periculis porrigunt manum, in otio supini, in agendis rebus graves et morosi, ut facile que eos receperit navicula iniquo hoc pondere pereat». (45) Hec cum dixissent umbre, tunc ego mihi tacitus videbar mecum non minus que audissem quam que oculis coram intuebar admirari. (46) Dehinc ad fluvium ipsum oculos intendens, «En!», inquam, «o dii, quosnam video in undis laborare inter paleas, ut vix totis capitibus emergant? Facite, queso, me omnium istarum quas video rerum certiorem». (47) Tum umbre inquiunt: «Id quidem genus mortalium pessimum est: etenim suspitiosi, callidi invidique apud vos dicuntur. (48) Nam perversa natura et depravatis moribus prediti, cum nolint nare, cum suis paleis gaudent nantibus esse impedimento. (49) Suntque his persimiles alii, quos vides, ut altera manu utrem interdum aut tabulam ab aliis per vim et iniuriam

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un carico inutile; per alleggerirla, anzi, il compito di un principe saggio16 è quello non solo di gettar sulla riva i suoi, ma anche se stesso, se la situazione lo rende necessario. (42) Queste cose dai più sono ritenute difficili, e dal momento che non sono adatte a una vita sicura e tranquilla, sono molto disprezzate dagli animi semplici e modesti. (43) Oltre a ciò bisogna stare molto attenti a che la gran folla di persone che sta a poppa non crei pericolo o addirittura rovesci la nave. Questi sfrontati procurano ai naviganti tribolazioni pari a quelle date dai duri scogli: quegli insolenti prendono infatti il timone, afferrano i banchi, confondono l’ordine dei remi. (44) Inoltre solo con la forza potrai cacciare dai posti di comando i prepotenti e gli insolenti, che tieni sulla nave non senza grave rischio e pericolo: infatti quei passeggeri sono inetti, inutili, sfaticati, nelle difficoltà non danno nessun aiuto, buoni solo ad oziare, lenti e ritardatari nel fare le cose, al punto che la nave che li accoglie facilmente rovina per il loro inutile peso». (45) Dopo che le ombre parlarono così, io me ne stetti in silenzio parendo meravigliato non meno da quello che avevo sentito che da quanto vedevo con i miei occhi davanti a me. (46) Poi, girando lo sguardo verso il fiume, chiesi: «O dei, chi mai sono quelli che vedo affannarsi nelle onde in mezzo alla paglia, che a malapena tiran fuori la testa dall’acqua? Fatemi capire, vi prego, che senso ha tutto quello che vedo». (47) Allora le ombre dissero: «È senza dubbio il peggior genere fra i mortali: voi li chiamate sospettosi, astuti, invidiosi. (48) Siccome sono dotati di una natura perversa e di depravati costumi, non vogliono nuotare, ma si divertono, con la loro paglia, ad infastidire gli altri che nuotano. (49) Sono molto simili a questi altri che vedi con una mano strappare agli altri con la forza o con la frode ora un otre ora una tavola, mentre l’altra mano l’hanno 16 Qui Alberti fa parlare le ombe fuori dalla perdurante metafora nautica, rendendo esplicito il significato politico del discorso allegorico.

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rapiant, alteram enim manum musco et limo (qua quidem re inveniri in fluvio molestius nihil potest) implicitam atque occupatam sub undis habent; ac est quidem genus id impedimenti eiusmodi, ut manibus semel inglutinatis perpetuo inhereat. (50) Vos vero illos ipsos estis avaros cupidosque nuncupare soliti. Tum deinceps proximi, quos cernis super vitreas vesicas incumbere, assentatores improbi atque audaces nominantur. (51) Postremi vero, quorum vix ultimi pedes intuentur ac veluti inutile aliquod truncum huc illucve undis propelluntur, nostin qui sint? (52) Sunt hi quidem quos philosophi verbis disputationibusque potius quam moribus et vita ab se alienos esse predicant: sunt enim libidinosi, edaces, submersi voluptatibus, perditi otio et luxu. (53) Sed iam, heus, exhibe summos honores illis quos ab omni turba segregatos illuc vides». Tum ipse omnes in partes respectans, «En», inquam, «at nullos pene a multitudine dissidere intueor!». (54) «Ne vero», inquiunt umbre, «an non perspicis illos alatos cum talaribus usque adeo agiles et aptos undis superlabier?». «Mihi sane vel unum», inquam, «videre videor. Verum quid ego illis deferam honoris? Quid meruere?». (55) Tum umbre: «An parum meruisse videntur hi, qui simplices et omni ex parte incorrupti a genere hominum dii habiti sunt? Ale quas gestant veritas et simplicitas; talaria vero caducarum rerum despicientiam interpretantur. (56) Merito igitur vel has ob res divinas divi habentur, vel quod primi quas per fluvium cernis tabulas, maximum nantibus adiumentum, construxere titulosque bonarum artium singulis tabulis conscripsere. (57) Reliqui autem his diis persimiles, 17 Come si evince anche dal Pontifex e dal proemio del Momus, gli adulatori erano una categoria umana che l’Alberti «cordialmente detestava» (Cardini, p. 241). 18 Per le anime alate Cardini (p. 242) suggerisce il parallelo con Platone Fedro 246c. «Superlabier» nel testo latino è forma arcaica dell’infinito superlabi, congettura di Cardini a partire dalla lezione superlabere di entrambi i codici O e P e resa necessaria in quanto la forma attiva del verbo non è attestata in Alberti.

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bloccata sott’acqua dalle alghe e dal fango (la cosa più molesta che in un fiume possa trovarsi); questo genere di impedimento è tale che, una volta invischiate, le mani lo rimangano per sempre. (50) Voi siete soliti chiamare costoro avari e cupidi. Quelli che, subito dopo, vedi stare sopra sottili vesciche sono chiamati adulatori indegni e sfacciati.17 (51) E sai chi sono gli ultimi, di cui a malapena si vedono le estremità dei piedi e che vengono sbattuti qua e là dalla corrente come un inutile tronco? (52) Sono quelli che i filosofi – più a parole che nello stile di vita – dicono essere diversi da loro: sono i lussuriosi, i golosi, quelli che sguazzano nei piaceri, persi nell’ozio e nel lusso. (53) Ma ora, coraggio, provvedi a rendere i migliori onori a quelli che vedi laggiù, lontani da ogni assembramento». Allora io, guardando da tutte le parti, dissi: «Ma io non vedo nessuno staccato dalla moltitudine». (54) «Davvero non vedi» dissero loro «quelli che sorvolano così agili e rapidi le onde con ali e talari?».18 E io: «Mi sembra di vederne uno. Ma perché dovrei render loro onore? Che meriti hanno?». (55) Allora le ombre: «E ti sembrano scarsi i meriti di coloro che, assolutamente sinceri e incorrotti, sono tenuti dalla stirpe degli uomini in conto di divinità? Le ali che portano rappresentano la verità e la semplicità; i calzari alati significano disprezzo delle cose caduche. (56) A buon diritto dunque sono considerati dei, sia per questi attributi divini, sia perché sono loro ad aver costruito per primi le tavole che vedi sparse per il fiume, il miglior aiuto per i nuotatori, e ad assegnare a ciascuna il nome di un’arte.19 (57) Questi altri invece, assai simili a

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Non si tratta delle arti liberali, ma di tutte quelle arti e mestieri che arrecano guadagno, cfr. Caes. Bell. Gall. VI 17, 1 «Mercurium [...] hunc omnium inventorem artium ferunt [...] hunc ad quaestus pucuniae mercaturasque habere vim maximam arbitrantur» («Ritengono Mercurio [...] l’inventore di tutte le arti [...] e credono ch’egli abbia grandissima influenza nel guadagno del denaro e dei

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sed ex aquis tamen non membris totis preminentes alasque et talaria non omnino integras gestantes, semidei sunt et proxime ad deos honore et veneratione dignissimi. (58) Id quidem ita eorum merito fit, tum quod tabulas additamentis fragmentorum effecere ampliores, tum etiam quod ex mediis scopulis atque ex ultima ripa pulcherrimum ducunt tabulas ipsas colligere novasque simili quadam ratione ac modo struere suasque has omnes operas in medium ceteris nantibus exhibere. (59) Tribue idcirco illis honores, homo, illisque meritas habeto gratias, quod ad tam laboriosum cursum vite peragendum optimum hisce tabulis presidium prestitere». (60) Itaque sic inter dormiendum videbar que dixi et cernere et audire mirumque in modum affectare, ut quoquo pacto inter eos alatos divos adnumerarer. (61) Sed repente visus sum preceps ruere in fluvium, quando neque tabule neque utres neque adminiculi quidpiam ad natandum suppeditabant. (62) E vestigio expergiscor, ac mecum ipse hanc visam in somniis fabulam repetens gratias habui somno, quod eius beneficio fatum atque fortunam tam belle pictam viderim: (63) siquidem, modo rem bene interpreter, fatum didici esse aliud nihil quam cursum rerum in vita hominum,

commerci»); ma si veda anche l’Alberti stesso nel secondo dei libri De familia, pp. 175-76: «E’ guadagni vengono parte da noi, parte dalle cose fuor di noi. In noi sono atte a guadagnare l’industrie, lo ’ngegno e simili virtù riposte negli animi nostri come son queste: essere, chiamiàllo per nomi suoi, argonauta, architetto, medico e simili, da’ quali in prima si richiede giudicio e opera d’animo. Sonci ancora a guadagnare atte le operazioni del corpo, come di tutte l’opere fabrili e meccaniche e mercenari, andare, lavorare colle braccia, e simili essercizii, ne’ quali e’ primi premi si rendono alla fatica e sudore dell’artefice. E sono ancora in noi accomodati a guadagnare quegli essercizii ne’ quali l’animo e le membra insieme concorrono all’opera e lavoro, nel quale numero sono e’ pittori, scultori, e citaristi, e altri simili. Tutti questi modi del guadagnare, e’ quali sono in noi si chiamano arti, e sono quelle le quali sempre

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quegli dei, ma che tuttavia non emergono completamente dalle acque e non hanno integri le ali e gli alati calzari, sono semidei, degnissimi di onore e di venerazione quasi come gli dei. (58) Il loro merito è sia di ampliare le tavole con l’aggiunta di rottami, sia di considerare bellissimo raccogliere le tavole dagli scogli e dall’estremità della riva, costruirne di nuove del tutto simili20 e offrire tutti questi loro lavori agli altri che nuotano in mezzo al fiume. (59) Dunque rendi onore a costoro, uomo, rendi le debite grazie a coloro che con queste tavole hanno offerto un ottimo sussidio per attraversare il duro corso della vita». (60) Così nel sonno mi sembrava di vedere e udire tutto quello che ho detto e desideravo incredibilmente essere annoverato in qualunque modo tra quegli dei alati. (61) Ma d’improvviso mi sembrò di precipitare nel fiume, e né tavole, né otri, né altri strumenti di qualsiasi genere mi aiutavano a nuotare. (62) Mi svegliai di colpo, e ripensando fra me e me alla visione avuta in sogno, ringraziai il sonno per avermi dato l’opportunità di vedere rappresentati così chiaramente il fato e la fortuna: (63) difatti, se ho ben capito, ora so che il Fato non è altro che il corso delle cose nella vita umana, che

con noi dimorano, le quali col naufragio non periscono, anzi insieme co’ nudi nuotano, e al continuo seguono compagne della vita nostra, nutrice e custode delle lode e fama nostra». 20 Queste righe paiono alludere alla tecnica musiva propria della poetica albertiana, così come viene esplicitata nel proemio al III libro dei Profugiorum, su cui Cardini ha fondato, più di venti anni or sono, la sua teoria esegetica dello «smontaggio», cfr. Mosaici (vd. MONOGRAFIE). 21 Come suggerisce Cardini (p. 240), cfr. Cic. De div. I 125 «Fatum autem id appello, quod Graeci heimarméne¯n, id est ordinem seriemque causarum, cum causae causa nexa rem ex se gignat» («Chiamo Fato quello che i greci chiamano heimarméne¯, cioè l’ordine e la serie delle cause, tale che ogni causa concatenata con un’altra precedente produca a sua volta un effetto»). Questa teoria stoica è citata da

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qui quidem ordine suo et lapsu rapitur; fortunam vero illis esse faciliorem animadverti, qui tum in fluvium cecidere, cum iuxta aut integre asserule aut navicula fortassis aliqua aderat. (64) Contra vero fortunam esse duram sensi nobis, qui eo tempore in fluvium corruissemus, quo perpetuo innixu undas nando superare opus sit. Plurimum tamen in rebus humanis prudentiam et industriam valere non ignorabimus.

Alberti anche sul finale del libro II dei Profugiorum ab erumna libri (p. 155): «così e noi, in nostre perturbazioni e mala fermezza d’animo, non senza qualche utilità ascolteremo chi forse disse che ciò che ora è, mai potrà non essere stato, e ciò che avvenne, qualche himarmones [sic] e fatal condizione e cagione fu, onde e’ non potea non avvenire». 22 L’immagine della fortuna come fiume, che poi Machiavelli renderà celebre nel suo Principe, viene ripresa da Alberti anche nel II dei libri De familia, p. 165: «Se ’l fiume e onda de’ tempi, se l’impeto e diluvio della fortuna c’interrompe la via, se la ruina delle

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trascorre secondo un ordine proprio;21 e ho capito, invece, che la Fortuna è più benigna con coloro che, quando cadono nel fiume, si ritrovano vicino intere assi o forse una barca. (64) Al contrario, ho capito che la Fortuna è dura con noi che siamo caduti nella corrente quando bisognava superare l’impeto dell’onda nuotando con uno sforzo continuo.22 Non ignoreremo, tuttavia, che nelle umane vicende valgono tantissimo la saggezza e l’operosità.23

cose la impaccia e guastala, vuolsi allora pigliare altro essercizio a tradurci quanto meglio a noi sia possibile verso la desiderata felicità». 23 Bertolini (L.B. Alberti, p. 269) vede in questi ultimi quattro paragrafi dell’intercenale una «vertiginosa discesa dissolvente» seguita da una «volontaristica risalita con effetto lenitivo», che sarebbe esemplare di come le due funzioni della letteratura, quella pacificante e «benedicente» le cose opposta a quella esecrante, sconvolgente, distruttiva possano convivere non solo in uno stesso autore, ma in una stessa pagina.

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Che Alberti, come molti suoi contemporanei, credesse nelle possibilità di intravedere il futuro attraverso lo studio degli astri, è fatto assodato, oltre che segno dei suoi tempi e della cultura rinascimentale. Lui stesso, infatti, come ben si è potuto dimostrare recentemente sulla base di un codice appartenutogli, si faceva l’oroscopo. Ma il suo concetto di astrologia era molto più ampio del nostro: in esso rientrava anche la fisiognomica, come si legge in un brano dei libri De familia (I, p. 52), senza contare che alcuni «colleghi» di Alberti divineranno anche dalle linee della mano, praticando l’arte chiromantica: è il caso del celebre Bartolomeo Coclite, cui si rivolgeranno molti potenti signori per conoscere il loro destino e quello delle loro città. In Vaticinium un astrologo cieco vaticina sulla base della descrizione dell’aspetto fisico dei richiedenti (ma sarebbe meglio dire «clienti») fornitagli dall’assistente Serse. Alberti offre brevi saggi di ritrattistica – sulla scorta della Physiognomia dello Pseudo Aristotele e del De physiognomia dello Pseudo Apuleio – di cui darà prove ancora più mature nel Momus, con effetti persino caricaturali. L’astrologia era, durante il Rinascimento, espressione della dignità umana, dal momento che si riteneva che la vita del singolo (microcosmo) fosse in armonia con l’ordine universale (macrocosmo). In quanto tale, questa «scienza» andava affrontata con maturità e prudentia stoica. Vaticinium schernisce, al contrario, la «fanciullaggine» dominante negli individui comuni che si accalcano, spingono, si sbracciano e sono pronti a sborsar quattrini – tra di loro anche la persona più avara – per sapere dall’astrologo se avranno un radioso futuro, se diventeranno famosi, se conteranno qualcosa nella vita, o se, viceversa, rimarranno nell’ombra; e in quest’ultimo caso sono pronti ad insultare l’astrologo: destino e reazione in cui si rispecchia inesorabilmente la loro miseria. Esilarante scena di commedia, giocata tutta sui sales e i tempi drammatici che Alberti ricavava dagli amati comici latini (qui in particolare da

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Plauto), Vaticinium è inserita come quarta nel libro II delle Intercenali, libro dedicato all’amico Leonardo Bruni e teso a dimostrare «quanto siano profondamente diversi tra loro i desideri e le passioni dell’animo umano e quanto sia assurdo chiedere agli dei ciò che in realtà è nelle nostre mani» (dal Proemio al II libro). Sulla interpretatio nominis degli interlocutori – fondamentale ai fini ermeneutici – ha dato il suo contributo decisivo Cardini (p. 272): Philargirius sta per l’«amante del denaro», dunque l’avaro, un «tipo» che si incontra anche nell’intercenale Oraculum (II 1); Assotus è il dissoluto, lo scialacquatore; Factiopora, invece, è il «portatore di faziosità», dunque il «Fazioso», il «Sedizioso». Impossibile, data la mancanza di dati interni, avanzare un’ipotesi per una datazione precisa del testo.

Nota al testo L’intercenale è tramandata dai codici O e P, quest’ultimo latore della seconda e ultima volontà dall’autore; la lezione di P è stata emendata in alcuni punti prima da Mancini (1890) e poi da Cardini (2010).

(1) XERXES. O mores, o civitatem honestam et modestissimam! Itane, importuni, ita per impudentiam didicistis cuncta exposcere? Iterum precor, sinite vel modicam isthic aream esse ante hostium. (2) Tu vero, decrepite astrologe, ne te vulgus opprimat, sedeto intus isthic. Ego vero in limine adero et quas tu ob oculorum vitium et cecitatem parum discerneres signa et notas hominum referam. (3) ASTROLOGUS. Dixti pulchre. Consideo. Sed ea lege consultores admitte, ut boni malive quidquid predixero, non ex me id sed ab astris deputent. (4) XERSES. Bene est. Clamo. Io cives! Sua qui concupiscit fata discere huc accedat. Non enim divinum hunc nostrum astrologum pigebit consuluisse. (5) PHILARGIRIUS. Adsum. FACTIOPORA. Adsum et ego. (6) XERXES. Veniat post unum alter, post illum alius: nam eo pacto sine tumultu et turbatione satis fiet omnibus. Audite iterum, cives! namque hoc ex memoria exciderat. (7) Clamo. Io, cives! nummum aureum dato quisquis volet sortes explicari suas. – At quo abis tu qui tam festinus et properans ad nos ante omnes accursitaras?

(1) SERSE. Che costumi, che città onesta e misurata!1 E così, rompiscatole, avete imparato a richiedere ogni cosa vi detti la vostra impudenza? Ve lo chiedo di nuovo, lasciate almeno un piccolo spazio libero davanti alla porta. (2) Tu però, astrologo decrepito, siediti lì dentro per non farti schiacciare dalla folla. Io starò qui sulla soglia e ti riferirò i tratti distintivi delle persone che tu, a causa della tua quasi cecità, distingueresti male. (3) ASTROLOGO. Hai detto bene. Mi siedo. Tu fai entrare coloro che mi vogliono consultare, a patto che sappiano che, sia che io preveda qualcosa di buono che di cattivo, ciò non dipende da me ma dalle stelle. (4) SERSE. Va bene. Chiamo. Ehi, cittadini! Chi desidera conoscere il suo destino venga qua. Non vi pentirete di aver consultato il nostro divino astrologo. (5) FILARGIRIO. Sono qua. FACTIOPORA. Sono qua anch’io. (6) SERSE. Venite uno alla volta: in questo modo faremo tutti contenti senza troppa confusione. Ascoltate di nuovo, cittadini! Mi era passata di mente una cosa. (7) Ora grido. Ehi, cittadini! Chiunque voglia sapere il suo destino deve dare una moneta d’oro – E tu che ti eri tanto affrettato per correre davanti a tutti, ora dove te ne vai? 1 Celeberrima esclamazione ciceroniana, come rileva Cardini (p. 272), cfr. Catil. I 2, Dom. 137, Verr. II 4, 56, Deiot. 31.

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(8) PHILARGIRIUS. Haud quidem longius abero. FACTIOPORA. Sine isthunc miserum, tene me, cape aurum. XERXES. Adhibe animum, astrologe. (9) Sunt homini huic, qui aurum prebuit, oculi milvini, capreum guttur, simus nasus, frons rugosa, cervix languida, angustum pectus, spatula hec sublata versus occiput, altera deorsum in pectus delapsa atque depressa, color cinereus. Tenesne qualem descripsi hominem? (10) ASTROLOGUS. Est quidem is nimis admodum callidus qui usque aliorum mentes teneat, nimium profecto astutus idem qui verbo aut vestigio unico tam illico voluntates hominum interpretetur! (11) FACTIOPORA. At enim res sic se habet: homo nemo isthoc Philargirio miserior est. ASTROLOGUS. Preterea eris pertinax. FACTIOPORA. Mene delitias facitis? Irridetis? (12) ASTROLOGUS. Nimis te item suspitiosum exhibes. FACTIOPORA. Ergo restitue. Sat pronosticatum est. Satiastis! (13) ASTROLOGUS. Hunc nimis quoque fastidiosum esse oportet, quem tam subita satietas ceperit! Tu, homo, si potis es ipsum te continere, sedeto isthic; vicibus et ordine res ipsa agatur opus est. Cum locus aderit, fata omnia tibi decantabo tua, ut nihil desit. (14) FACTIOPORA. Credin me in ludum incidisse? At sedeo. Sic enim convenit illis obtemperes a quibus quippiam cupias. XERXES. Cives, si libet, aperite huic advenienti callem quoad huc appulerit. – Officium nunc vestrum laudo. 2 Cfr. Apul. Met. VI 27 «nec tamen astutulae anus milvinos oculos effugere potui» («ma non sfuggii agli occhi rapaci della vecchia furbacchiona»). 3 Cfr. Alberti De pictura II 41: «Est quidem maerentibus pressa frons, cervix languida, denique omnia veluti defessa et neglecta

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(8) FILARGIRIO. Non andrò troppo lontano. FACTIOPORA. Lascia andare questo disgraziato, prendi me, ecco la moneta. SERSE. Attento adesso, astrologo. (9) L’uomo che mi ha dato la moneta ha occhi rapaci,2 gozzo caprino, naso camuso, fronte rugosa, testa languida,3 petto stretto, una spalla in su verso l’occipite e l’altra in giù che cade sul petto, colorito cinereo. Hai capito dalle mie parole il tipo d’uomo? (10) ASTROLOGO. È di sicuro una persona tanto furba da arrivare a capire le intenzioni degli altri, così astuto che gli basta un gesto o una parola per carpire le loro intenzioni! (11) FACTIOPORA. È proprio così: non c’è nessuno più disgraziato di Filargirio.4 ASTROLOGO. Inoltre sei testardo. FACTIOPORA. Volete far ridere? Mi prendete in giro? (12) ASTROLOGO. Dimostri anche di essere troppo sospettoso. FACTIOPORA. Ridammi la moneta. Hai pronosticato a sufficienza. Ne ho abbastanza! (13) ASTROLOGO. Costui dev’essere anche permaloso, se si stufa tanto presto! Suvvia, se sei in grado di contenerti, siediti qua. È necessario che la cosa venga fatta a modo, rispettando i ruoli. Quando verrà il momento, ti rivelerò tutto il tuo destino, senza tralasciare nulla. (14) FACTIOPORA. Credi che io sia venuto qua per giocare? Va bene, mi siedo. Bisogna assecondare coloro dai quali ci si aspetta qualcosa. SERSE. Cittadini, per piacere, fate largo a quest’uomo in modo che possa arrivare da noi. – Vi ringrazio. procidunt» («Vedrai a chi sia malinconico il fronte premuto, la cervice languida, al tutto ogni suo membro quasi stracco e negletto cade» trad. Alberti). 4 Factiopora cerca di sviare su Filargirio il giudizio emesso, invece, sulla sua persona, dimostrando in questo modo la sua «coda di paglia».

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(15) ASSOTUS. Cape. Dicito. XERXES. O factum liberalissime! Astrologe, is qui nunc primum applicuit aureos mihi in gremium duos adiecit ex ipsa officina! ASSOTUS. Enimvero ex isthac liberalitate etiam a duris atque invidis hominibus novi exorare obsequia. (16) Tu demum, si rem malam vis effugere, omnia de me ad unguem vaticineris opus est. XERXES. Ha ha he, lepidissime! ASTROLOGUS. Et quis est hic insolens usque adeo imperiosus? Describito effigiem istius ipsius. (17) XERXES. Huic quidem collum breve est humerique reiecti, frons turgida, gene fucose, porrectus venter. ASTROLOGUS. At color? XERSES. Sufflanti in focum persimilis. (18) ASTROLOGUS. Prebe huc istius manum. XERXES. Eccam. ASTROLOGUS. Hen, quid hoc rei est? XERXES. Tali, tessere, tabelle. ASTROLOGUS. Lege istas ipsas tabellas. (19) XERXES. Lego. ASTROLOGUS. At clara voce, ut audiam. ASSOTUS. Nempe ut et audiant omnes: meos enim amores studui nunquam esse occultos. XERXES. Gero tibi morem, astrologe. Vos vero, cives, prebete operam auscultando, dum has tabellas lego. (20) «Assotus Bacchidi s.p.d. – Tametsi tua erga me impietas efficit, ut me ceteris amatoribus tuis postponi intelligam et doleam, non eam ob rem tamen, meum mel, alieno in te animo, meum suavium, esse unquam potero. Nam cum menti ludos nostros, mea festivitas, repeto, mea spes, discrucior». (21) ASTROLOGUS. Sat est. Hic igitur vacuus morbis 5 Sottointeso «nummum» (la moneta). È il linguaggio della rappresentazione scenica della commedia.

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(15) ASSOTO. Prendi.5 Dimmi. SERSE. O che atto gentile! Astrologo, colui che è arrivato ora mi ha messo in grembo altre due monete dello stesso conio! ASSOTO. Con questa generosità ho saputo ottenere favori anche dagli uomini più invidiosi e scorbutici. (16) Tu però, se vuoi evitare il peggio, bisogna che mi pronostichi subito tutto nei dettagli. SERSE. Ah, ah, ah! Davvero divertente! ASTROLOGO. Chi è questo insolente, che dà ordini in questo modo? Descrivimi il suo aspetto. (17) SERSE. Questo ha il collo corto, spalle indietro, fronte turgida, guance truccate, pancia prominente. ASTROLOGO. E la carnagione? SERSE. Molto simile a uno che soffia sul fuoco. (18) ASTROLOGO. Dammi la sua mano. SERSE. Eccola qua. ASTROLOGO. Ehi, cos’è questa roba? SERSE. Astragali, dadi, biglietti. ASTROLOGO. Leggimi i biglietti. (19) SERSE. Certo. ASTROLOGO. Ma ad alta voce, ché devo sentire. ASSOTO. Anzi, ché devono sentire tutti. Non mi sono mai preoccupato di tener nascosti i miei intrallazzi amorosi. SERSE. Faccio come vuoi, astrologo. Ma voi, cittadini, prestatemi ascolto mentre leggo questi biglietti. (20) «Assoto saluta Bacchide – Anche se la tua crudeltà nei miei confronti mi fa capire che tu mi posponi agli altri amanti, e ne soffro, mio miele, non per questo potrò mai essere arrabbiato con te, mia dolcezza. Quando infatti ripenso ai nostri giochi, mi affliggo, o mia gioia, mia speranza».6 (21) ASTROLOGO. Basta così. Costui dunque non starà 6 Sono vezzeggiativi tipici del lessico erotico della commedia latina, cfr. Plaut. Bacch. 13, Poen. 364, 392.

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erit nunquam: gutta, emicranea, cruditate atque huiusmodi doloribus et morbis sempiterne laborabit. (22) ASSOTUS. Missa hec facito, astrologe: si egroti erimus, conducentur medici. Heus! dicito de imperiis deque prestantissimis rebus mecum futurum quid sit! (23) ASTROLOGUS. O ineptissime! tu ergo spectas imperia qui vina et popinas oles? Mendicabis! ASSOTUS. Superi te perdant! Mallem id aurum apud Bacchidem epotasse meam, quam igitur revisam. Abeo. XERXES. Accedat alter. (24) PHILARGIRIUS. Dudum affui. Cape aurum. FACTIOPORA. Tentabo rursus. – Duos iterum aureos adicio: tu modo ne is mihi preferatur facito. Accipito. Sic institui perdere, ne se hic nobis anteferri glorietur. (25) XERXES. Enim, astrologe, aureos denuo duos porrexit idem ille quem commorari iusseras cuiusve tibi primum effigiem descripseram. ASTROLOGUS. An est quisquam isthoc invidentior? Verum tu quidem tenesne aurum? (26) XERXES. Teneo. ASTROLOGUS. Serva. FACTIOPORA. Insiste. XERXES. Abigenda hec nobis hinc molestia est. (27) ASTROLOGUS. Iam id faxo. – Tibi, inquam, improbe, hoc predico: semper acerbissimis curis excruciabere, nullos habebis fidos amicos, omnibus eris odio. Intellextin? Adde his quod tua isthec improbitas atque, ut rectius loquar, furia et rabies animi te conficiet atque perdet. (28) FACTIOPORA. Hen, audacissimum ganeonem! Atque, furciferi, publice sic adeo furtum facitis? Redde tu mihi quos extorsisti aureos!

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mai bene: soffrirà sempre di gotta, emicrania, cattiva digestione e altri malanni di questo tipo. (22) ASSOTO. Lascia perdere queste cose, astrologo: se staremo male, chiameremo un medico. Avanti, dimmi quale sarà il mio futuro riguardo le cariche e altre cose di prestigio! (23) ASTROLOGO. Che stupido che sei! Tu che puzzi di vino e di bettola ambisci alle cariche di prestigio? Sarai un mendicante! ASSOTO. Che gli dei ti mandino in rovina! Questa moneta d’oro avrei preferito bermela con la mia Bacchide, dalla quale dunque torno. Addio. SERSE. Avanti il prossimo. (24) FILARGIRIO. Ero qua da prima. Tieni la moneta. FACTIOPORA. Proverò di nuovo. – Aggiungo altre due monete d’oro: tu però ora fai sì che non mi passi davanti. Prendile. Ho deciso di rovinarmi, perché non si vanti di essere stato a me preferito. (25) SERSE. Astrologo, mi ha dato due monete d’oro quello stesso di prima cui avevi detto di aspettare, e di cui ti avevo già descritto l’aspetto. ASTROLOGO. C’è qualcuno forse più invidioso di costui? Hai il denaro in mano? (26) SERSE. Ce l’ho. ASTROLOGO. Tientelo. FACTIOPORA. Suvvia. SERSE. Dobbiamo allontanare da qui questo scocciatore. (27) ASTROLOGO. Ci penso io. – Dico a te, briccone, ecco per te la previsione: sarai sempre tormentato da problemi gravissimi, non avrai nessun amico fidato, sarai odiato da tutti. Hai capito? A questo aggiungi che la tua malvagità o, per meglio dire, il tuo animo collerico finirà per rovinarti. (28) FACTIOPORA. Sfrontatissimo crapulone! Delinquenti, rubate così sotto gli occhi di tutti? Tu, ridammi l’oro che mi hai estorto!

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XERXES. Egone invitus restituam quod ex compacto ac volens dedisti? Minime gentium. FACTIOPORA. Ad iudicium vocabere! (29) ASTROLOGUS. Tu quidem prepotens, quo cives prepotentes iudiciis vexare ac iudicia omnia pervertere corrumpereque didicisti, eo nobis impotentibus et plane humilibus comminaris? Non succedet, audax, tuum isthoc inceptum. (30) FACTIOPORA. Tamen conveniam iudices. Illic senties tibi rem esse cum homine gravi et frugi, non repetundarum tantum sed furti atque iniuriarum. XERXES. Abiit iratus. (31) ASTROLOGUS. In eiusmodi hominibus apud fortes viros nihil minus metuendum est quam quod propalam minitantur. Qui enim levi indignationis favilla ad iracundie flammas incenduntur, iidem levi ratione extinguntur. (32) XERXES. Adeat igitur alter. – Verum, astrologe mi, quidnam hoc rei est? Corona hec nostra consultantium rarescit, nullus admodum sese offert. Homo ille contentionibus atque convitiis rem turbavit nostram. (33) PHILARGIRIUS. Quin adsum, inquam, et prebeo aurum. XERXES. Tris ceteri, tu unum atque eundem adulterinum offers? PHILARGIRIUS. Per ego sanctissima et religiosissima numina que vos ad hec vestra mirifica vaticinia denuntianda colitis perque omnes superos et inferos deos oro obtestorque, mi prudentissime, mi sapientissime astrologe, ut quecumque sentias de me, audacter proferas. (34) Non sit tibi hoc tempore mecum ad nummum animus, namque alibi fecero ut intelligas me et memorem esse et plane liberalem. XERXES. Aurum prebeat, non verba quisquis divini istius hominis operam concupiscit. (35) ASTROLOGUS. Ceterum et longe difficile atque arduum, tum etiam nonnhil periculosum est ea que noris

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SERSE. Dovrei restituire controvoglia ciò che tu mi hai dato spontaneamente e sulla base di un accordo? Neanche per sogno. FACTIOPORA. Ti farò causa! (29) ASTROLOGO. Tu che sei uomo di potere, come hai imparato a tormentare i potenti come te e a rigirare a tuo favore ogni giudizio, allo stesso modo minacci noi umili e deboli? Sfrontato, questo tuo progetto non si realizzerà. (30) FACTIOPORA. Andrò lo stesso dai giudici. E lì da loro capirai che non si tratta per te solo di concussione, ma anche di furto e ingiurie ai danni di un uomo serio e onesto. SERSE. Se ne è andato adirato. (31) ASTROLOGO. Da persone di tal fatta gli uomini forti non hanno da temere nulla di più che qualche minaccia in pubblico. Chi infatti si accende d’ira per una scintilla d’indignazione, lo stesso si placa con poco. (32) SERSE. Avanti il prossimo. – Astrologo mio, ma che succede? Il cerchio dei nostri postulanti si restringe, non si presenta più nessuno. Quell’uomo con le sue grida e i suoi insulti ha rovinato tutto. (33) FILARGIRIO. Eccomi qua, invece, ed ecco la moneta. SERSE. Gli altri ne hanno offerte tre, tu una sola e per giunta anche falsa? FILARGIRIO. In nome delle divinità sante e venerande che voi adorate per pronunciare questi vostri magnifici vaticini e in nome degli dei superi ed inferi, ti prego, ti supplico, astrologo mio sapientissimo e saggissimo, dimmi, coraggio, cosa pensi di me. (34) Adesso non badare al denaro, infatti in un altro momento farò in modo che tu comprenda quanto io sia una persona riconoscente e molto generosa. SERSE. Chiunque desidera ricevere un consulto da questo uomo divino, deve offrire soldi, non parole. (35) ASTROLOGO. È senza dubbio molto difficile, per non dire pericoloso, dire tutte le cose che si sanno; se non

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omnia explicare; quod nisi imperium pollicearis, execrabere. Libere que sentias dixeris? Ad iniuriam accipitur. Denique cum debentur munera, tunc maxime contenditur precibus; ubi gratiam expectes, invidia et odium rependitur. (36) PHILARGIRIUS. Per eam quam in te habeo fidem atque integram spem, mi homo, obsecro nihil istiusmodi in me vereare. Mihi enim mos, victus et omnis vita mea pacata, innocens atque penitus modestissima semper fuit; eapropter nihil posse inter nos incidere putato quod vel succensendi quidem minimum locum prestet. (37) XERXES Quid tum astrologe? Utrumne ex hoc loco, siquidem hic nisi verba dantur, discedimus? PHILARGIRIUS. Do tamen aurum uti edixeras. (38) Ne vero in verbis fidem et constantiam esse oportet? Num constitutam legem dedecet ipso ex temporis momento immutarier? Sin lex indicta est, «aurum dato», quid tum? aurumne afferens aspernabitur? Itaque tu, heus!, aurum sumito. (39) XERXES. Minime. PHILARGIRIUS. Non te laudo, si isthunc animum geris ut aurum flocci pendas: quam rem forte solent qui non satis didicere quantis laboribus es paretur. Questum qui negligit, meo iudicio, in omni re negligens et supinus est. (40) XERXES. Gratis apud nos philosophabere. Ac scin quid efficias his verbis? PHILARGIRIUS. Scio plane vos esse viros omnium prestantissimos. XERXES. Prorsus ut inquis. Tamen nosti verbis apud nos quid assequare tuis? (41) PHILARGIRIUS. At quidnam?

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prometti cariche importanti, ti maledicono. Se dici liberamente ciò che pensi, lo sentono come un’offesa. Infine, quando dovresti ricevere qualche regalo, allora si slanciano in preghiere; quando ti aspetteresti gratitudine, ricevi in cambio invidia e odio. (36) FILARGIRIO. Ti prego, in nome di quella fiducia, di quella speranza inalterata che ho in te, mio caro, non temere nulla di simile da parte mia. Ho sempre avuto delle abitudini di vita semplici, tranquille, davvero molto moderate; perciò fidati che tra di noi non può accadere nulla che offra il minimo motivo di attrito. (37) SERSE. Dunque, astrologo? Ce ne andiamo da questo posto, visto che qui vengon fuori solo parole? FILARGIRIO. Va bene, ti do quello che mi hai chiesto. (38) Non bisogna forse tener fede alla parola data? Non è indecoroso mutare in un attimo le regole in tavola? Se la regola era «dai una moneta d’oro», qual è il problema? Chi porta la moneta sarà respinto? Perciò, su, prendi la moneta. (39) SERSE. Assolutamente no. FILARGIRIO. Non posso certo approvarti, se ti comporti così da disprezzare la moneta d’oro: sono soliti comportarsi così coloro che non hanno ben imparato con quanta fatica il denaro7 si guadagni. Chi è indifferente al guadagno, a mio parere, è indifferente e apatico in ogni circostanza. (40) SERSE. Qui da noi farai filosofia gratis. Ma sai cosa ottieni con queste parole? FILARGIRIO. So per certo che voi siete i migliori di tutti. SERSE. È proprio così. Però sai che effetto ottieni presso di noi con le tue parole? (41) FILARGIRIO. Quale? 7 Nel testo latino, la forma monottongata «es» di «aes» non tragga in inganno (può confondersi con la seconda persona singolare del verbo essere).

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XERXES. Obtundis. PHILARGIRIUS. Utere potius humanitate et facilitate qua omnino profecto preditus videris. (42) XERXES. Enecas. PHILARGIRIUS. Non impetro quod si nosses qui sim?... XERXES. Astrologe, surge. Ingrediar, dum aliud consilii captemus. Nam hic homo obruit me. (43) PHILARGIRIUS. Mane, heus, inquam, mane! XERXES. Extrahe, distrude ex isthac tua peruncta et putrida crumena, emunge, exprime puros et legitimos aureos. PHILARGIRIUS. Ha ha he! Sic iubes, lepidissime? Ac pareo. Eccum denique ceterum. Mihi oculum eruito, si preter duos istos apud me inveneris nummos. (44) XERXES. Iuraris? PHILARGIRIUS. Iuro sane. XERXES. Au, periure! Atque isthic a latere in crumena quid turget? (45) PHILARGIRIUS. Ha ha he, facetissime! Adesne? Quid tandem existimas? Namque hodie longe es quam velim fortunatus. Omnia enim evertens, nescio quo pacto alium quoque Philippeum nummum aureum, preter spem, en fulgentissimum!, tandem comperi. Tu porro perquirito: nummorum quicquid reliqui est, peregrinum atque inutile quidem est. (46) XERXES. Dixti prorsus ut res est: siquidem omne quod apud istiusmodi et tibi similes astrictos et tenacissimos homines aurum est, inutile et incommodum est. (47) PHILARGIRIUS. An tu quidem parum id ad virtutem conferre deputas, parumve illum prudentem statues qui in degenda vita rationem impensarum habuerit parsimoniamque servarit? 8

Queste due battute sono da Bacchelli e D’Ascia (p. 127) intese come rivolte da Filargirio alla moneta ritrovata. Cardini, invece,

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SERSE. Ci scocci. FILARGIRIO. Sii più umano e gentile, qualità di cui sembri essere ben dotato. (42) SERSE. Tu ci ammazzi. FILARGIRIO. Non ottengo ciò che otterrei se tu sapessi chi sono... SERSE. Astrologo, alzati. Vengo dentro, fino a che non troviamo un’altra soluzione. Quest’uomo mi sfinisce. (43) FILARGIRIO. Ti prego, resta, resta! SERSE. Sborsa, tira fuori da questo tuo borsello unto e bisunto delle monete d’oro zecchino, su, mungile, spremile. FILARGIRIO. Ah, ah, ah! Questo vuoi? Davvero simpatico. Obbedisco. Ecco il resto. Cavami un occhio se mi trovi addosso altre due di queste monete. (44) SERSE. Giuri? FILARGIRIO. Certo che giuro. SERSE. Ah, spergiuro! E cos’è questo rigonfiamento, qui sul lato del borsello? (45) FILARGIRIO. Ah, ah, ah! Davvero simpatico. Ti avvicini? Ma cosa credi?!8 Oggi sei molto più fortunato di quanto non vorrei. Girando e rigirando, non so come ho trovato alla fine un altro filippo d’oro,9 di là da ogni speranza... e guarda come brilla! Ma cerca pure: le altre monete che ci sono, sono senz’altro straniere e dunque inutili. (46) SERSE. Hai detto proprio le cose come stanno: se l’oro ce l’hanno persone grette e avare come te, è inutile e dannoso. (47) FILARGIRIO. Ritieni che non sia virtuoso, che non sia saggio chi vive usando parsimonia, tenendo il conto delle spese? forse più giustamente, torna a intenderle, sulla scorta del Mancini, come rivolte a Serse. 9 Si tratta di monete in uso al tempo di Filippo II di Macedonia (359-336 a.C.), ricordate anche da Plauto As. 153 e Trin. 152.

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(48) XERXES. Non est disputandi locus; neque si disputes, concedam ut avaritiam parsimoniam nuncupes. (49) PHILARGIRIUS. Etenim quid hoc mali putas, cum animus cupiditate quadam et desiderio pendet tum iuvat ultro effundere, cumve quid institui tum preceps mihi ipse ut satisfaciam corruo? Tres perinde aureos habeto. Do lubens, do volens. Itaque dicito quid sentias. (50) XERXES. Dudum te spectans repeto memorie, nequedum comperio quemquam quem pre te insaniorem viderim unquam. PHILARGIRIUS. Siccine delectat pro iure amicitie mecum iocari? Ergo te mihi amicum prebe. Do quidem aureos tris. XERXES. Minime. (51) PHILARGIRIUS. Itane plures quam edixeras, pluresve quam ceteri afferens, aspernatur atque eiicitur? XERXES. Sic decet, quod nimium tenax atque pre ceteris periurus extitisti. (52) PHILARGIRIUS. Licetne tandem hanc a vobis exorare gratiam ut beneficium? Alium quoque ex mediis ossibus meis nummum effodio. O me miserum! hoc mihi auri pondus semestrem victum prebuisset! Denique liceat, obsecro. (53) ASTROLOGUS. Liceat sane, ubi his nummis quadruplum adieceris. XERXES. Denique, astrologe, non recusemus, fruamur nostris moribus nostraque liberalitate. Mites nos quidem esse oportet in hunc qui oculum libentius quam nummum eroget. Tu si hunc aspexeris mussantem, pallentem, titubantem dum nummos enumerat, condolueris. (54) PHILARGIRIUS. Enimvero... ASTROLOGUS. Sileto, nam quidvis malo quam verba.

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(48) SERSE. Non è il momento di discutere; ma, se vuoi farlo, non ti lascerò chiamare l’avarizia col nome di «parsimonia». (49) FILARGIRIO. Che c’è di male se, quando il mio animo è preso da un desiderio, mi piace sperperare liberamente, o, se ho in mente una cosa, mi butto a capofitto per togliermi la voglia? Prendi perciò queste tre monete. Te le do spontaneamente, te le do volentieri. Ma dimmi cosa pensi. (50) SERSE. Da un pezzo guardandoti frugo nella memoria, ma non mi pare di aver mai visto nessuno più pazzo di te. FILARGIRIO. Così ti diverti a prendermi in giro, come può fare un amico? Diventa dunque mio amico. Ti do le tre monete. SERSE. Ho detto di no. (51) FILARGIRIO. Mi disprezzi e mi cacci via, io che offro più di quello che hai chiesto, più di quello che hanno dato gli altri? SERSE. È giusto così, dal momento che ti sei rivelato troppo insistente e più bugiardo degli altri. (52) FILARGIRIO. Ma insomma, posso pregarvi per ottenere la grazie di un favore? Tiro fuori dalle midolla del mio corpo ancora una moneta. O povero me! Una moneta d’oro di questo peso mi avrebbe dato da mangiare per sei mesi! Suvvia, vi supplico. (53) ASTROLOGO. Andrà bene, se a questa somma aggiungerai il quadruplo. SERSE. Dai, astrologo, assecondiamolo, siamo gentili e generosi. Dobbiamo essere accondiscendenti con chi darebbe più volentieri un occhio che una moneta. Se tu vedessi come esita, impallidisce, trema mentre conta i soldi, ne avresti compassione. (54) FILARGIRIO. Già... ASTROLOGO. Silenzio, tutto piuttosto che le chiacchiere.

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XERXES. Nempe aureos quatuor prebet, quos centies milies vigeties octies quater perfricavit manibus. (55) ASTROLOGUS. Quanta est hec summa? PHILARGIRIUS. At precor, quando aurum tenetis, ne diutius supersedeatis: amici me apud pretorem expectant. ASTROLOGUS. Nequeo tantum numerum quadrare, quamquam non longe absum ab ipsis radicibus cubi. Prius tamen de diametro nonnulla discutienda sunt. (56) PHILARGIRIUS. O me infelicem, quatuor extorsere a me aureos, nunc ludos faciunt! XERXES. Ergo potes ad amicos proficisci interim, ne tuam operam desiderent. Cum autem redieris, astrologum mente ad rem tuam expeditiorem habebis. (57) Nam hominem vides ut iam ad calculum pendeat; ac solet ille quidem vehementius irasci, si quando ab huiusmodi investigationibus interpelletur. Consulo quidem amice, nam hoc ipse mea in re facerem: abirem. ASTROLOGUS. Abiitne? (58) XERXES. Minime abiit: verum stat labiis pendulis, oculis reconditis, aspectu in ipsos istos nummos defixo, fronte tristi, superciliis porrectis, barba setosa, pectore incurvo. Iudica, queso, astrologe, ut iam turbam hanc missam faciamus. (59) ASTROLOGUS. Peribit fame. XERXES. Mallem siti. – Vos valete et hos mores irridete.

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SERSE. Dunque ci dà quattro monete d’oro, che ha strofinato con le sue mani centoventottomila moltiplicato per quattro volte. (55) ASTROLOGO. Quanto fa? FILARGIRIO. Vi prego, dal momento che avete il denaro, non tergiversate ancora: gli amici mi aspettano dal pretore. ASTROLOGO. Non riesco a fare il quadrato di un numero così grande, sebbene non sia lontano dall’ottenere la radice del cubo. Prima però devo fare alcune considerazioni sul diametro. (56) FILARGIRIO. O povero me, mi hanno estorto quattro monete, e ora si prendono gioco di me! SERSE. Intanto puoi andare dai tuoi amici, che non sentano la tua mancanza. Quando tornerai, troverai l’astrologo con la mente più predisposta ad esaminare la tua situazione. (57) Ora vedi quanto sia preso dai calcoli; e di solito si arrabbia tantissimo quando lo si interpella distraendolo da simili elucubrazioni. Ti suggerisco dunque, da amico, di fare quello che io stesso farei al tuo posto: me ne andrei. ASTROLOGO. Se ne è andato? (58) SERSE. Nient’affatto: se ne sta a labbra pendule, con gli occhi infossati, lo sguardo fisso su queste monete, il viso triste, le sopracciglia aggrottate, la barba ispida, il petto ricurvo. Pronunciati, ti prego, astrologo, così che mandiamo via tutta questa gente. (59) ASTROLOGO. Morirà di fame. SERSE. Avrei preferito di sete. – Voi state bene e irridete atteggiamenti come questi.

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Titolo ironico e di secondo grado, quello dell’intercenale Discordia: in cielo è infatti scoppiata una discordia tra gli dei su chi siano i genitori di Discordia, dea che, come dimostra peraltro la stessa discussione, esercita ormai uno strapotere tanto in cielo quanto in terra. Nessuno si tira indietro: persino Priapo avanza pretese di paternità sulla dea, che giura di aver generato assieme a Voluttà. Tra i sedicenti padri di Discordia, pronti a presentare schiere di testimoni pur di godere dei benefici derivanti da una figlia che tutto può, quello più credibile alla fine risulta il dio Onore, che sostiene di aver generato Discordia dalla dea Giustizia. Giove, tramite il suo messaggero Mercurio, ordina dunque ad Argo, il più occhiuto degli investigatori, di scovare Giustizia, affinché ella possa confermare la versione di Onore. E proprio su Argo in dialogo con Mercurio, con efficace prolessi, si apre l’intercenale: dopo aver cercato dappertutto e interrogato tutti i popoli, il mitico guardiano di Io dai cento occhi giace spossato sulle colline fiesolane, da dove ha una panoramica completa sull’ultimo possibile nascondiglio di Giustizia, vale a dire la città di Firenze. Lo sguardo di Argo si sovrappone a quello di tantissimi viaggiatori coevi, e sembra assecondare gli inviti dei segretari fiorentini, prima di Coluccio Salutati (nel De seculo et religione) e poi di Leonardo Bruni (nella Laudatio florentinae urbis), che avevano orgogliosamente esortato ad apprezzare dall’alto la magnificenza della loro città. Di quella magnificenza rimane però ora solo l’involucro esterno («pulcherrimam urbem»), perché anche lì, come altrove, della dea Giustizia non c’è traccia: ella sembra aver seguito alla lettera il consiglio che nell’intercenale Virtus Mercurio ha dato alla dea omonima umiliata da Fortuna, quello di andarsi a nascondere. E lo ha fatto (o lo hanno fatto) così bene, che di lei (o di loro) non c’è traccia né in terra, né in cielo, e forse neanche negli inferi, dove Mercurio promette di andare a verificare. O, forse, come suggerisce Cardini, Giustizia non si trova perché il suo posto è un «non-luogo»,

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vale a dire, fuor di metafora, essa è un’utopia. Anche quando, nel III libro del Momus, Giove manderà sulla terra Mercurio perché vada tra i filosofi a cercare Virtù, questi se ne dovrà tornare sull’Olimpo a mani vuote. Ma il succo del pessimismo albertiano, a ben vedere, viene dal dubbio insinuato che Discordia, lungi dall’essere generata da vizi, sia frutto dell’unione tra Onore e Giustizia, idea che scardina «uno dei capisaldi dell’etica aristotelica» (Bacchelli-D’Ascia). Se nel primo libro del Momus si assiste alla nascita della mostruosa Fama, subito dopo lo stupro di Momo (dio del biasimo e della maldicenza) ai danni di Lode, in questo caso il senso di angoscia non viene lenito dall’alibi dell’elemento negativo (Momo), essendo entrambi i genitori di Discordia valori positivi. Non è improbabile, come è stato ipotizzato da Pampaloni (Le «Intercenali» e il «Furioso»), che Ariosto si sia rifatto a questa intercenale per la rappresentazione della Discordia che compare nel campo di Agramante nell’Orlando Furioso XIV 76-86.

Nota al testo Il testo è tramandato dal solo codice P, emendato da Cardini in due punti (Terminus al posto di Termen, § 16; quo al posto di qua, §19).

(1) ARGOS. Adesne, Mercuri? MERCURIUS. Adsum. Salvus sis, mi Argos. Te ego ex summo Olympo in hoc supremo apud Fesulas monte considentem ut vidi, confestim huc advolavi. Quid tum igitur? deamne, quam Iovis verbis edixi ut compertam dares, Iustitiam adinvenisti? (2) ARGOS. Nulla a me uspiam gens, dum deam ipsam perquiro, indagando, pervestigando, sciscitando percunctandoque, pretermissa est. Postremo hanc sub his montibus quam vides pulcherrimam urbem adivi, quod eam arbitrabar lautissimis et ornatissimis sedibus delectari. (3) At deam nusquam minus. Quin vero ne mortalium quidem homo uspiam est, qui se illam vidisse audeat affirmare; preterquam quod, apud Evandri sedes, pauci admodum deliri senes ab

1 Si tratta di Argo «Panoptes» («che tutto vede»), il mitico guardiano dai cento occhi che venne da Giunone posto a guardia di Io, l’amante del marito da lui stesso trasformata in giovenca (cfr. Ov. Met. I 624 ssg.). Come nota Cardini (p. 314), Argo aveva già fatto la sua comparsa, a più riprese, nella giovanile commedia Philodoxeos fabula (pp. 145, 161, 171) a simboleggiare la «providentia», e compare pure, come qui nelle vesti di guardiano, nell’intercenale Vidua. 2 Come rilevano Bacchelli-D’Ascia (p. 187), l’immagine di Argo che osserva dall’alto di un monte è presa molto probabilmente da Ov. Met. I 666-67: «... ipse procul montis sublime cacumen / occupat,

(1) ARGO. Sei qui, Mercurio? MERCURIO. Son qui. Buongiorno, caro Argo.1 Non appena dall’alto dell’Olimpo ti ho visto che te ne stavi qui a sedere sulla cima di una collina vicino a Fiesole,2 son corso qua. Che succede, dunque? Hai trovato la dea Giustizia, che su ordine di Giove ti avevo chiesto di cercare? (2) ARGO. Nel cercarla – ho indagato, rintracciato, investigato, interrogato – non ho tralasciato alcun popolo. Alla fine sono giunto in questa bellissima città3 che vedi, alle pendici di queste colline, perché pensavo che alla dea piacesse stare in posti ricchi e lussuosi. (3) Ma della dea non c’è traccia. A dirla tutta, non c’è neanche nessuno che osi affermare di averla vista; eccezion fatta per qualche vecchio completamente rincretinito, che vive nei luoghi che furono di Evandro,4 e che ciancia di aver sentito dai nonni quello che

unde sedens partes speculatur in omnes» («... poi, salito in vetta a un monte che domina lontano, / di lassù scruta seduto in ogni luogo possibile»). Ma quel Fesulas serve a caratterizzare geograficamente la scenografia del dialogo e, come si vedrà, è strettamente funzionale a una aspra critica nei confronti dei fiorentini, non certo irrelata all’interno delle Intercenales. 3 Si tratta ovviamente di Firenze. 4 Cfr. Verg. Aen. VIII 96-100. Evandro governava su Pallante, sul Palatino, all’arrivo nel Lazio di Enea, del quale diverrà alleato contro Turno.

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avis suis dudum quantum a proavis audisse fabulabantur: (4) sua quadam sane ampla et pervetusta, sed admodum diruta atque deserta in urbe, Iustitiam ipsam diversari solitam comminiscuntur. (5) MERCURIUS. Quid igitur? an non ea apud inferos abdita est, siquidem neque apud mortales neque apud superos latitat? Mihi iccirco apud Stigias umbras demigrandum est. Nam deam ipsam summopere, ceteris omissis rebus, disquiri edixit Iuppiter. At tu? (6) ARGOS. Ego vero, toto terrarum orbe peragrato, cum hic paulum fessus consedissem, equum isthunc Pegaseum, unde tuo iussu sumptus erat, ad fontem Eliconam reddere institueram. (7) MERCURIUS. Laudo. Iamque bene vale; ipse quidem ad inferos deam accitum proficiscar. ARGOS. Quin prius oro, Mercuri, quenam superis tanta dee conveniende adsit cura dicito. (8) MERCURIUS. Enimvero ipsam rem succincte audies. Acerrima inter deos incidit disputatio, quemnam Discordie dee patrem deputent. (9) Nam deorum nullus est qui non se vehementer studeat illi esse in locum patris dee prepotenti, que quidem humana divinaque iura omnia pro arbitrio queat pervertere queve sanguinis, affinitatis, cognationis amicitiarumque vincula omnia, etiam diis invitis, valeat dirimere. (10) Ea namque pietatem caritatemque illam sanctissimam atque religiosissimam que inter parentes ac natos extat, divellit e medio atque abiicit. Eaque benivolentiam que inter fratres

5 Stessa catena di voci e testimonianze in Cic. De am. 88, cui Alberti aggiunge qui una «connotazione comica» (Bacchelli-D’Ascia, p. 189). 6 Si tratta ovviamente di Roma. Sull’importanza di questo sarcastico accenno hanno insistito tanto Cardini (già in Mosaici, pp. 36-37) quanto Bacchelli-D’Ascia (p. 189). 7 Bacchelli-D’Ascia (p. 191) hanno letto un significato allegorico in

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questi avevano sentito dai bisnonni,5 (4) che cioè Giustizia era solita aggirarsi per quella magnifica e antichissima città,6 ora completamente diroccata e abbandonata. (5) MERCURIO. Dunque, se non si nasconde né presso i mortali né presso gli dei superi, non si sarà mica nascosta negli Inferi? Dovrò andare dalle ombre dello Stige. Giove mi ha infatti ordinato di lasciar perdere tutto il resto e di cercare prima di tutto quella dea. Ma tu che fai? (6) ARGO. Dopo aver girato tutta la terra, ed essermi fermato qui un po’ stanco, avevo deciso di riportare il cavallo Pegaso là dove l’avevo preso su tuo ordine, alla fonte Elicona.7 (7) MERCURIO. Bravo. Addio, io andrò negli inferi a chiamare la dea. ARGO. Ma prima dimmi, ti prego, Mercurio, perché gli dei hanno tanta premura di incontrare la dea. (8) MERCURIO. Te lo dirò brevemente. Tra gli dei si è accesa una lite furente su chi è da considerarsi il padre della dea Discordia. (9) Infatti non c’è dio che non desideri tantissimo fare da padre a una dea potentissima come lei, che può sovvertire a suo arbitrio tutte le leggi umane e divine e che può rompere, anche contro il volere degli dei, vincoli di sangue, di matrimonio, di parentela e di amicizia. (10) Ella infatti sradica e getta via quell’affetto e quel bene sacro e preziosissimo che lega i genitori ai figli. Ella volge in odio e questa battuta di Argo: siccome la gloria poetica che dà immortalità all’uomo non è più agognata da nessuno in terra, tanto vale riportare Pegaso (che di quell’immortalità è il simbolo) nelle sue terre d’origine, vale a dire l’Elicona, fonte delle Muse; cfr. Pers. Choliambi 1-2, 12-14 «Nec fonte labra prolui caballino / nec in bicipiti somniasse Parnaso [...] quod si dolosi spes refulserit nummi, / corvos poetas et poetridas picas / cantare credas Pegaseium nectar» («Non ho mai bagnato le mie labbra alla fonte del cavallo, / né mi ricordo di aver mai sognato sul Parnaso dalle due cime [...] ma se balenerà la speranza del fallace denaro, potrai credere che i corvi poeti e le gazze poetesse cantino un canto dolce quanto il nettare di Pegaso»).

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iocundissima atque iustissima est, in odium atque acerbitatem convertit. (11) Ea coniunctionem atque convictum qui inter familiares, domesticos, affines atque propinquos et amicos laudatur, discidiis atque simultatibus rumpit et profligat. (12) Summas eadem res publicas evertit, imperia in servitutem subigit. Ipsos quoque supremos deos infimis atque humillimis esse mortalibus demissiores, modo velit, efficere Discordia potest. (13) Has ob res quisque deorum pro virili sese eius ipsius, que penitus cuncta possit, dee patrem haberi student, idque ipsum ceteris persuadere omni arte et ingenio elaborant. (14) Imprimisque clamitant nonnulli Plutonis hanc esse filiam multamque feneratorum catervam in testimonium adducunt. (15) Adstat et Bacchus deus magna voce deierans alium preter se nullum Discordie dee parentem adiudicandum esse, neque sibi ad rem docendam testes et graves et bonos defuturos pollicetur. (16) Tum et Terminus deus, sese dee progenitorem asserens, omnes legiones militum omnesque iurisconsultorum scolas ad testimonium admitti postulat. (17) Neque preterea Priapus, ridiculus deus, a disserenda causa eiicitur atque aspernatur, quod dicat omnes mortales palam profiteri Discordiam a se atque a Voluptate exortam. (18) Sed unus tantum ceteros omnes auctoritate et dignitate deus Honos exsuperat, reges principesque omnes ac ipsos denique superos testes compellans edocensque tum loca tum tempora, quibus hanc ipsam ex Iustitia dea susceperit. (19) Is unus pre ceteris oratione maxime rem persuasit. Iccirco edixit Iuppiter Iustitiam acciri quo, re cognita, omnis controversia distrahatur. Itaque tu iam rem tenes.

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rancore l’amore gioioso e giusto tra fratelli. (11) Rompe e distrugge con rivalità e contese quell’unione e intesa lodevole tra familiari, domestici, parenti, vicini e amici. (12) Fa collassare gli stati più potenti, costringe gli imperi in servitù. Sol che lo voglia, la Discordia può fare in modo che gli dei supremi siano soggetti agli infimi e umilissimi mortali. (13) Per questo motivo ciascuno degli dei fa tutto quello che può per essere ritenuto il padre di una dea che ha tutto questo potere e prova in ogni modo a convincere gli altri di ciò. (14) Alcuni sostengono che ella è figlia di Plutone e portano come testimoni una caterva di usurai.8 (15) Poi c’è il dio Bacco che giura a gran voce che nessun altro al di fuori di lui può ritenersi il padre di Discordia, e promette che non mancheranno seri ed autorevoli testimoni a comprovarlo. (16) Poi ecco il dio Termine a sostenere che è lui il padre della dea, e chiede che siano ammesse a testimoniare tutte le legioni dei militari e tutte le scuole dei giuristi. (17) Dalla contesa non è escluso nemmeno il ridicolo dio Priapo, che va sostenendo che i mortali ammettono pubblicamente che Discordia è nata da lui e da Voluttà. (18) Ma uno solo supera tutti gli altri per autorità e prestigio, il dio Onore, che, raccogliendo come testimoni tutti i re, i principi e persino gli dei, indica tempi e luoghi in cui egli l’avrebbe generata dalla dea Giustizia. (19) Quest’ultimo col suo discorso ha convinto più degli altri. Perciò Giove mi ha ordinato di andare a chiamare Giustizia e, appresa la verità, risolvere la contesa. Così ora sei al corrente della storia.

8 Marsh (Poggio and Alberti, pp. 208-209) suggerisce come possibile fonte la favola 130 di Esopo («Eracle e Pluto»), dove Eracle, ammesso nel novero degli dei e dunque alla mensa di Giove, si rifiuta di salutare il dio Pluto perché ricorda di averlo visto in terra «sempre in compagnia di gente malvagia».

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ARGOS. Plane quidem. (20) MERCURIUS. Adibo ergo inferos, ut institui. Tu vale. Sed muto sententiam. Prius quidem renuntiandum censeo superis hic inter mortales, apud quos putabant, minime adesse Iustitiam deam. Ea dehinc que dixerit Iuppiter pro re exequar. Vale. (21) ARGOS. Iustitiam nusquam esse dicito, Mercuri; nosque abeamus.

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ARGO. Ho capito tutto. (20) MERCURIO. Vado dunque agli inferi, come stabilito.9 Stai bene. Anzi, ho cambiato idea. Prima credo bisognerebbe avvisare gli dei che qui presso gli uomini, dove pensavano di trovarla, non c’è traccia di Giustizia. Poi farò quello che Giove mi ha ordinato. Addio. (21) ARGO. Digli, Mercurio, che Giustizia non è da nessuna parte; e andiamocene.

9 La tesi secondo cui Giustizia sarebbe solo nel mondo dei morti «connette Discordia a Defunctus, dove questa tesi è centrale» (Cardini, Mosaici, p. 37).

HOSTIS (IL NEMICO)

Di questa breve ma fondamentale intercenale Roberto Cardini ha dato un’interpretazione a tutt’oggi insuperata applicando quel metodo dello smontaggio dei testi albertiani che proprio in questo cimento ha trovato la sua piena formulazione teorica. In Mosaici. Il «nemico» dell’Alberti (Roma, Bulzoni, 1990) egli ha infatti rilevato come Hostis costituisca la «dilatazione» o «espansione» retorica di una cronaca medievale della celebre battaglia della Meloria (1284), in cui si fronteggiarono le due massime repubbliche marinare del tempo, Pisa e Genova: gli «enunciati» o «pareri» pronunciati pubblicamente nel Senato genovese per decidere della sorte dei prigionieri pisani diventano così eleganti suasoriae in cui già si riconosce il maestro di retorica che molti anni più tardi istruirà il giovane Lorenzo de’ Medici con il manualetto di retorica Trivia senatoria. Sul tronco centrale di un resoconto disadorno – ma di cui non siamo a conoscenza, potendo noi oggi leggere solo la di molto successiva (1513-50) Cronica historiale di frate Lorenzo Taiuoli che da esso dipende – Alberti innesta, riutilizzandole ai propri fini, fonti classiche quali Livio (IX, 3-4: la deliberazione di Erennio Ponzio alle Forche Caudine), Cicerone (la magnanimità di Pirro verso il nemico ricordata nei versi di Ennio in De off. I 38) e Plutarco (con la fulminante sententia di Teodoto ai danni di Pompeo: «uomo morto non morde», cfr. Vita Pompei 77, 4). Quel che ne esce, lungi dall’essere un grezzo centone, è un mosaico dal disegno originale e inquietante, complice soprattutto la presenza del pisano esiliato e desideroso di vendetta, il vero nemico della sua patria (un «anti-Farinata» lo definisce Cardini), il cui suggerimento rappresenta la sintesi e il superamento, in una terribile dialettica ante litteram, delle due deliberazioni precedenti dei crudeliores e degli humaniores: la soluzione finale (è proprio il caso di dirlo) del pisano ha un aspetto umano ma è in realtà molto più atroce di quella prospettata dal partito dei crudeliores, in quanto attua lo sterminio, con l’aiuto del diritto, non di una schiera di prigionieri,

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ma dell’intera loro città. Alberti, che, forse contemporaneamente ad Hostis, si proponeva col IV libro della Famiglia e con la promozione del Certame Coronario come il teorico dell’amicitia, cerca di mostrare le potenziali conseguenze dell’inimicizia, condensate nell’epimithion finale (la massima morale con cui si concludono gli apologhi). Ma, più ancora che dall’insegnamento finale, che giustifica l’inserimento di Hostis dentro il III libro delle Intercenales, la sensibilità di noi moderni – con lo sguardo già a Machiavelli – viene colpita piuttosto da un altro aspetto: con la sua lezione di politica «effettuale» (Bacchelli-D’Ascia) il pisano sbaraglia il dualismo etico in campo, sovrapponendo odio e pietà e creando un mostro sconcertante: come il marito esemplare dell’intercenale omonima (Maritus), che punisce il tradimento della moglie inducendola con freddo raziocinio a farsi consumare dal senso di colpa fino a morirne, anche questo pisano «dal fascino bieco e inquietante» riesce a tenere insieme il massimo di (apparente) umanità col massimo di (effettiva) crudeltà. Le loro atroci vendette fanno tornare alla mente Invidia (madre di una infausta progenie: Calunnia, Indignazione, Inimicizia – per l’appunto – e Sventura), che nell’intercenale Picture Alberti raffigura come una donna che «con una mano mostra dei fiori e con l’altra sparge rami spinosi».

Nota al testo Hostis è tràdita dal codice P, sul quale sono intervenuti con alcune emendazioni prima Garin (1964) e poi Cardini (1978 e 2010).

(1) Apud maiores nostros memoria proditum est bello quodam maritimo complures fuisse captos nobiles Pisanos a Genuensibus et, parta victoria, ad senatum Genuensium relatum fuisse, quidnam patres de ea captivorum multitudine fieri oportere censerent. (2) Inter patres fuere qui statuerent hostes captivos ad unum esse usque necandos, illud Theodecti, quo Pompeium occidi persuasit, referentes: «hominem mortuum non mordere». (3) Decere quidem id iure belli, ut crudelissimum hostem gravi quadam vindicta prosequerentur, quo ab iniuria et immanitate posthac ceteri absterrerentur; (4) satisque ac super putandum, si eum semel quicum vita et sanguine decertaris manu armisque viceris, ni id quoque committas ut, post victoriam tantis laboribus ac periculis partam, tibi sit denuo dimicandum; (5) neque reclusos hostes, viros bellicosissimos et ferocissimos, tempori occasionique servandos esse, quo duces inimicis et ministros Fortune ad calamitatem inferendam ab te uspiam fuisse servatos peniteat; (6) neque

1 Si tratta della celebre battaglia della Meloria, combattuta nell’agosto del 1284 al largo delle coste di Livorno. La vittoria dei genovesi sui pisani diede avvio al lento declino di Pisa come potenza marinara. 2 Cfr. le tre proposte di Erennio Ponzio dopo la vittoria dei Sanniti sui Romani alle Forche Caudine secondo la narrazione di Liv. IX 3-4, cfr. Cardini, Mosaici, pp. 16-20.

(1) Si narra che al tempo dei nostri antenati molti nobili pisani, in seguito ad una battaglia navale,1 furono fatti prigionieri dai genovesi e che, dopo la vittoria, ci si rivolse al Senato dei Genovesi per sapere cosa i senatori pensassero bisognasse fare di quella moltitudine di prigionieri.2 (2) Tra i senatori c’era chi pensava che i prigionieri andassero uccisi tutti l’uno dopo l’altro, e ricordavano quel celebre detto con cui Teodoto convinse ad uccidere Pompeo: «Uomo morto non morde».3 (3) Sostenevano che il diritto di guerra consentisse senz’altro di attuare una vendetta esemplare nei confronti di un feroce nemico, per dissuadere gli altri da ingiurie e crimini simili; (4) era più che sufficiente aver vinto una volta un nemico con cui si era combattuto all’ultimo sangue con le armi e a mano nuda per rischiare, dopo una vittoria ottenuta con tanta fatica e pericoli, di dover tornare di nuovo a combattere; (5) i nemici, uomini bellicosissimi e spietati, non dovevano essere mantenuti in vita perché poteva venire il momento in cui ci si sarebbe pentiti di aver lasciato ai nemici i loro comandanti e alla fortuna lo strumento per nuocere; (6) non 3 Cfr. Plutarco Vita di Pompeo 77, 7 (che Alberti leggeva molto probabilmente nella traduzione latina di Iacopo Angeli da Scarperia, fatta nei primi anni del secolo). «È il motto con cui Teodoto di Chio, maestro di retorica di Tolomeo XIV, lo consiglia, per ingraziarsi Cesare e non temere Pompeo, di uccidere lo stesso Pompeo Magno, che si era posto sotto la sua protezione», cfr. R. Tosi, Dizionario di sentenze latine e greche, Milano, Rizzoli, 1991¹, n° 1169.

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expedire quidem, tanti periculi evitandi causa, eam velle gravem insuper observandis inimicis intra urbem et omnium difficilem curam perferre, quam quidem possis hora unica percommode atque non iuste deposuisse. (7) Alii captivos omnes incolumes ac liberos dimittendos suadebant. Seviendum quidem fore in eos qui armis odiisque sese infensos prebeant, quoad infestos et lacessentes viceris; subditos autem habendos, ut imperes, non ut miseros perdas; (8) neque decere quidem eos, quibus aut fortuna aut victoria ipsa armatis et bellantibus pepercerit, fractos, inermes atque reclusos tanti facere, ut eorum metu ipse crudelitatis ignominiam subeas, a qua quidem fortissimi viri semper abhorruere; (9) nec victoriam quidem tantum, sed pacem potius eam fore appetendam que bellis sit finem impositura; pacem autem tum iustam et utilem et perennem futuram, cum non metu sed benivolentia contineatur; (10) eamque victoriam longe omnium censendam nobilissimam que inimicitiam, quam que inimicum deleat; decereque viros fortes superato hoste id cavere, ne ipsi iracundie aut furori succubuisse videantur; (11) atque enitendum quidem ut, quos armis viceris, eos officio quoque et pietate devincias: officii quidem esse ut, quos furor belli et irritatus miles non absumpserit, iustus et dignus imperio civis non perdat. (12) Aliorum longe diversa erat sententia, quam quidem ferunt Pisanum quemdam, imbecillum quidem hominem et 4 Cfr. il discorso finale di Anchise in Verg. Aen. VI 851-53 «tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos» («tu ricorda, o romano, di dominare le genti; / queste saranno le tue arti, stabilire norme alla pace, / risparmiare i sottomessi e debellare i superbi»); ma anche Cic. De off. I 38: «Pyrrhi quidem de captivis reddendis illa praeclara: “Nec mihi aurum posco nec mi pretium dederitis, / nec cauponantes bellum, sed belligerantes, / ferro, non auro vitam cernamus utrique [...] et hoc simul accipe dictum: / quorum virtuti belli Fortuna pepercerit, / eorundem libertati me parcere certum est. / Dono ducite doque volentibus cum magnis dis”» («splendida fu davvero la risposta che Pirro diede ai nostri legati sul riscatto dei prigionieri: “Io non chiedo oro per me, e voi a

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conveniva neanche, per evitare quel grande pericolo, sobbarcarsi il peso gravoso e difficile di custodire i nemici all’interno della città, dato che in un’ora sola, senza violare il diritto, si poteva comodamente risolvere la questione. (7) Altri senatori cercavano di convincere invece a rimettere in libertà, incolumi, tutti i prigionieri. Bisognava insistere contro il nemico in armi, mentre si mostrava pericoloso, fino a che non lo si era vinto e reso innocuo; ma, una volta sottomesso, bisognava ridurlo all’obbedienza, non annientarlo; (8) né era decoroso che quelli che o la fortuna o la vittoria stessa hanno risparmiato mentre combattevano in armi, una volta sconfitti e resi inermi e prigionieri, subiscano, per paura, l’ignominia della crudeltà del vincitore, dalla quale in verità sempre gli uomini più valorosi si sono astenuti;4 (9) non bisognava aspirare soltanto alla vittoria, ma piuttosto ad una pace che ponesse fine alle guerre; la pace sarebbe stata giusta, utile e duratura se si fosse mantenuta sulla benevolenza reciproca invece che sul timore; (10) la vittoria di gran lunga più nobile di tutte era quella che distruggeva l’inimicizia, non il nemico; e gli uomini valorosi, una volta superato il nemico, dovevano guardarsi dall’apparire in balìa dell’ira e del furore; (11) si deve cercare di legare a sé con i benefici e la clemenza coloro che sono stati vinti con le armi: è dunque doveroso che un cittadino giusto e degno del comando non uccida coloro che sono stati risparmiati dal furore della guerra e la ferocia del soldato. (12) Molto diverso da quello degli altri dicono5 sia stato il parere di un pisano, dato per vendetta (era stato esiliato dalla me non offrirete riscatto. Noi non facciamo la guerra da mercanti, ma da soldati: non con l’oro, ma col ferro decidiamo della nostra vita e della nostra sorte [...] E ascolta anche queste altre parole: è mio fermo proposito lasciar la libertà a tutti quelli, al cui valore la fortuna dell’armi lasciò la vita. Ecco, riprendeteli con voi: io ve li do in dono col favor del cielo”»). Cfr. Cardini, Mosaici, pp. 21-22, 27-28. 5 Il latino «ferunt» vale: si dice, si narra che; «in nulla si differenzia dal significato che possiede negli apologhi veri e propri», cfr. Cardini, Mosaici, p. 42.

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admodum pauperem, sed quantum videre licet, ingenio non hebeti preditum, sua proscriptum a patria vindicte gratia suasisse. (13) Ea fuit huiusmodi: neque occidendos captivos, neque esse incolumes dimittendos, sed carcere asservandos. (14) Meminisse quidem aiebat oportere Pisanos pervetusto et incredibili quodam erga Genuenses esse affectos odio, neque tantarum cladium memoriam facile unico posse beneficio obliterari, quin immanes et irritati animi ad vindictam quam ad beneficii gratiam sint propensiores. (15) «Quamdiu enim», inquit, «inter eos ulla elucebit spes vindicandi, nunquam arma et contentiones quieturas certo scio. Novi enim meorum animos et ingenium. Non tamen, si necentur, id e re publica arbitrandum est. (16) Sed expedire quidem arbitror primo eos apud vos quasi obsides habeatis pacis, si pacem querendam uspiam statuetis; sin bellum impendat, hos eque ad omnem bellorum eventum expectatote usui futuros. (17) Hac denique sententia et crudelem hostem severissime puniri et pietatis rationem haberi: nam cum omnis civitatum amplitudo et robur in copia opum maxime atque in civium multitudine consistat, fore hoc pacto ut opes civium Pisanorum alendis captivis exhauriantur, et nova futura soboles, matronis captivorum non nubentibus neque parturientibus, interpelletur. (18) Itaque pietatis illud fore, cum vitam beneficio tuo is habeat, qui ferro tuam et vitam et sanguinem petiverit, et contra severitatis illud, quod adversarium infestissimum, quacunque possis ratione, imbecilliorem reddas». (19) Placuit istius sententia, qua effectum est ut Pise prope delerentur. Ut iam non obscurum sit, unicum et eum quidem abiectum hominem posse in tempore universe rei publice pestem calamitatemque afferre. 6 Come ricorda Cardini (Biografia, p. 98), nel suo De iure (§ 20, p. 826) Alberti registra la seguente legge matrimoniale ispirata direttamente al Vangelo di Matteo (19, 6): «Hinc est quod [...] uxori, superstite viro, non alii nubere, quia viri est et viri uxorum sunt, et que in celis iuncta sunt, in terris nequeunt dirimi» («Da ciò deriva che [...] una donna, se ha il marito vivo, non può

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sua patria), un tipo povero e senza mezzi, ma a quanto sembrava, nient’affatto stupido. (13) Il suo consiglio era questo: i prigionieri non dovevano essere né uccisi né rilasciati incolumi, ma incarcerati. (14) Diceva che bisognava ricordarsi che i pisani nutrivano un odio atavico e bestiale verso i genovesi e che una sola azione generosa non poteva cancellare il ricordo di tante stragi, e che anzi gli animi feroci e arrabbiati sono più inclini a vendicarsi che a ringraziare per il favore ricevuto. (15) «Fintantoché» disse «tra di loro ci sarà un barlume di speranza di vendetta, so per certo che guerre e contese non cesseranno mai. Conosco gli animi e le teste dei miei concittadini. Tuttavia, non credo che ammazzarli sarebbe nell’interesse della repubblica. (16) Credo che vi convenga per prima cosa trattenerli qui come pegno di pace, se pace deciderete mai di cercare; se invece incomberà la guerra, sappiate che vi torneranno utili in ogni circostanza. (17) Con questa risoluzione, insomma, potete al contempo punire molto duramente un nemico crudele e avere un atteggiamento di magnanimità: infatti, se è vero che la ricchezza e la forza delle città consiste nell’abbondanza di sostanze e nella moltitudine dei cittadini, e la stirpe sarà interrotta, giacché alle mogli dei prigionieri non sarà consentito risposarsi e partorire.6 Così sarà un atto di pietà graziare chi ha attentato alla vostra vita, e, di contro, sarà segno di inflessibilità indebolire con ogni mezzo possibile un avversario pericolosissimo.» (19) Piacque il consiglio di costui, e l’effetto fu che Pisa ne uscì praticamente annientata. Quello che deve essere chiaro è che, a tempo debito, un solo uomo, e per giunta abietto, può portare rovina e calamità7 ad un intero stato. sposarsi con un altro, poiché è del marito, e i mariti sono delle mogli, e ciò che è stato legato in cielo non può essere sciolto in terra»). 7 Come ha notato Cardini (Mosaici, p. 33), il termine «calamitas» non è casuale, ma riprende l’allegoria della Calamitas, figlia di Ambitio, che risulta centrale nell’interpretazione di Picture – il pezzo che apre il III libro delle Intercenales, in cui Hostis si colloca al quarto posto – e dunque dell’intero libro. Si è ritenuto dunque importante conservarlo nella traduzione.

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Spietato, dissacrante, divertente e al contempo angosciante «controcanto» (Cardini) degli ideali umanistici di rinnovamento dell’antico nel loro periodo di massimo fulgore, Somnium è probabilmente il capolavoro dell’Alberti umorista. Contemporaneamente a Lorenzo Valla, infatti, che stava provando a ripristinare l’antica lingua di Roma col poderoso progetto delle Elegantie latine lingue, e a Leonardo Bruni che, allievo di Coluccio Salutati, fondava a Firenze il mito dell’umanesimo civile, mentre molti umanisti alla Niccolò Niccoli vivevano esclusivamente di lettere, disprezzando la vita dei moderni e imprecando di essere nati con molti secoli di ritardo rispetto agli amati autori classici, Alberti, voce isolata e fuori da tutti i cori, componeva questo dialogo in cui relegava le antiche litterae, auctoritates e imperia nel paese dei sogni, come cose perdute per sempre. Straordinaria parodia al contempo della letteratura onirica e della poesia epica, il dialogo tra Lepido – il noto eteronimo dell’autore, qui perfetta «spalla» ironica – e Libripeta – che rappresenta il tipo del pedante «cercatore di libri» meglio ancora che identificarsi col coevo campione di essi, Niccolò Niccoli (1365-1437), all’epoca forse già morto – è drammaticamente perfetto e i tanti spunti desunti dai dialoghi lucianei sono ricollocati in un mosaico davvero brillante e originale: l’incipit riprende infatti, molto probabilmente, l’attacco del Menippo; così come del Menippo (4-6) è l’idea del mago-santone che insegna l’arte di arrivare nell’Ade, che qui è invece mondo dei sogni, a sua volta ripreso dall’«Isola dei sogni» della Storia vera (II 34). Dalla più celebre delle opere lucianee Alberti desume anche il motivo degli «umani-naviganti», anche se nell’ipotesto (II 45) si tratta di uomini che usano il pene come albero a cui legare le vele, qui invece di vecchiette che in vita furono ritrose ad amare. A proposito di quest’ultimo motivo, inquieta la figura della «vetula quedam a me amata» che prima, in vita, risucchia una parte del cervello di Libripeta, e poi, quasi come risarcimento, nel mondo dei sogni si offre al «viaggiatore» per passare

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il fiume impetuoso. I critici non hanno finora chiarito di chi si tratti o che cosa rappresenti: del resto anche il Momus (che qui pare opportuno richiamare per il tema scatologico della fogna, oltre che per gli aspetti sordidi del potere) è ricco di queste figure ambigue e irrelate, ovvero che i richiami intratestuali ad altre opere albertiane non aiutano a decifrare. Sono presenze oniriche che sfuggono volutamente ad ogni tentativo di analisi interpretativa. Il sogno in Alberti, tuttavia, qui come altrove (si veda, ad esempio, l’incipit dell’intercenale Fatum et Fortuna) è tutt’altro che evasione dalla realtà: è, insieme al riso, una delle maggiori opportunità di conoscenza, dunque esperienza filosofica. Quantunque le verità che Libripeta apprende non siano invitanti né «socialmente spendibili», come suggerisce il fetore che da lui emana, secondo Lepido l’amico ha appreso di più da questo viaggio che da tutta una vita da (sedicente) lettore. Tra particolari orrorifici e gotici propri di un Antirinascimento che ben si attaglierebbero alla fantasia di un Bosch (le teste morsicanti che nuotano nel primo fiume, gli imperi-vesciche, la montagna che erutta senza alcuna ratio le cose desiderate dagli umani, le vecchiette-trasportatrici natanti), nel paese dei Sogni l’unica grande assente è la follia, che l’uomo conserva gelosamente sulla terra. Sembrano quasi i presupposti per l’Elogio della follia, che Erasmo scriverà settant’anni più tardi, forse non a caso al ritorno dall’Italia. L’intercenale, come tutte le altre, ebbe pochissima fortuna, ma dovette circolare in ambiente estense se Ariosto la riutilizzò per scrivere il celebre episodio di Astolfo sulla luna (Orlando Furioso XXXIV 72-82). La maturità «sostanziale e formale» del dialogo ha suggerito a Cardini una datazione tarda tra i pezzi raccolti nelle Intercenales (1442-1443).

Nota al testo Il testo dell’intercenale ci è trasmesso dal solo codice P, sul quale hanno fatto alcune emendazioni prima Garin (1964) e poi Cardini (2010).

(1) LEPIDUS. Superi boni, ne vero tu es noster Libripeta? Quidnam hoc rei est? Quid ita fedum atque luto delibutum te intueor? Unde prodis? Quo pergis? (2) LIBRIPETA. Egone? Isthinc exeo. LEPIDUS. Obsecro, ex hacne fetenti cloaca, mi homo? LIBRIPETA. Ha ha he! (3) LEPIDUS. Insanis? LIBRIPETA. Minime. Quin – velim scias – me isthuc summa impluit prudentia. (4) LEPIDUS. Rem teneo. Aliquos vetustissimos libros in cloaca esse audieras fortassis: idcirco tu, conducendis libris deditus, illuc te precipitaras. (5) LIBRIPETA. Tua isthec lepiditas, Lepide, semper habuit minimum salis. (6) LEPIDUS. Nobis quidem ineruditis, quos tu in triviis appellas dementes atque insipidos, huiusmodi non insulsa placent. Tu tamen, age, recita tuam isthanc cloacariam prudentiam. (7) LIBRIPETA. Cupis? LEPIDUS. Cupio.

1 Con questa interpretatio di Libripeta (Cardini), che deriva molto probabilmente dal Contro un ignorante che compra molti libri di Luciano o da Gellio (XVIII 5, 11), già chiara sin dall’inizio è la satira contro gli umanisti bibliomani e semplici collezionisti di codici che poi non leggono: sul finale dell’intercenale si scopre infatti che la

(1) LEPIDO. Santi numi, ma sei proprio il nostro Libripeta? Ma che ti succede? Perché ti vedo così sporco, pieno di fango? Da dove vieni? Dove vai? (2) LIBRIPETA. Io? Esco da qui. LEPIDO. Caspita, caro mio, da questa fogna puzzolente? LIBRIPETA. Ah, ah, ah! (3) LEPIDO. Ma sei matto? LIBRIPETA. Per nulla. Mi ha spinto lì – voglio che tu lo sappia – la mia grande saggezza. (4) LEPIDO. Capisco. Avevi forse sentito che nella fogna c’erano dei libri antichissimi, e così tu, da collezionista di libri quale sei,1 ti ci sei precipitato. (5) LIBRIPETA. La tua lepidezza,2 Lepido, è sempre stata sciatta. (6) LEPIDO. A noi ignoranti che tu chiami in pubblico stupidi e folli, cose non insulse come queste piacciono. Ma tu, dai, racconta la tua saggezza «fognaria». (7) LIBRIPETA. Lo desideri? LEPIDO. Lo desidero. biblioteca di Libripeta rimane quasi sempre chiusa («bibliotheca, quam occlusam detines»). 2 Traduciamo col desueto termine «lepidezza» (anche se «umorismo» sarebbe più adatto), sulla scorta di M. Letizia Bracciali Magnini (Alberti, Opere latine), per mantenere il ricercato poliptoto «lepiditas, Lepide».

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(8) LIBRIPETA. Narro. Mihi quidem intuenti hoc diluvium stultorum hominum, quo hec etas exuberat, admodum stomachato incidit in mentem moribus meis ad vitam degendam eum esse aptissimum locum, ubi sese qui somniant recipiunt. Nam illic tuto, ut inter somniandum vides, licet pro arbitrio delirare. (9) Eam ob rem conveni sacerdotem quemdam magicis artibus plane eruditum, a quo summis precibus tandem brevissimum illud iter didici ad eas ipsas provincias proficiscendi, ad quas pervolant somniantes. Illico me illuc properans contuli. (10) LEPIDUS. Ergo tu vigilans te inter somniantes habuisti? Miras profecto res narras! LIBRIPETA. Miran tibi hec videntur? LEPIDUS. Ut nihil eque. (11) LIBRIPETA. Multo magis miranda ea sunt que in illis provinciis conspexi: flumina, montes, prata, campos, monstra aspectu stupenda, dictuque ac memoratu incredibilia, sed que tantum ad philosophantium litteras perpulchre spectent. (12) LEPIDUS. Ergo tu, qui te philosophum haberi optas, posteaquam mutam huc usque omnem etatem duxisti tuam, hanc laudis occasionem non deseres. Primum hoc quidem philosophandi munus recensendo somnio suscipies. (13) LIBRIPETA. Utinam nostrum ad hanc rem exequendam satis valeret ingenium! nam esset voluptati describere tum cetera, tum eum maxime fluvium qui in ipso provincie ingressu est, rerum omnium que dici aut excogitari possunt longe admiratione dignissimum.

3 Come rilevato da Bacchelli-D’Ascia (p. 231), l’idea di questa che sembra una mirabile invenzione albertiana potrebbe derivare da Luciano Storia vera II 32: «Poco dopo a breve distanza compariva l’isola dei Sogni, sfumata e indistinta allo sguardo; aveva anch’essa un che di simile ai sogni: si ritirava, infatti, mentre noi ci accostavamo e ci sfuggiva retrocedendo sempre di più». 4 Cfr. Luciano Menippo o la necromanzia 4, 6: «E poiché non

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(8) LIBRIPETA. Te lo racconto. Vista la folla di stupidi di cui questa età abbonda, ed essendone nauseato, mi venne in mente che un luogo adattissimo ai miei costumi per condurre la vita fosse quello dove si recano gli uomini in sogno.3 Infatti lì, come puoi vedere mentre sogni, è possibile delirare quanto si vuole e in tutta sicurezza. (9) Per questo motivo sono andato da un sacerdote espertissimo di magia, da cui, a forza di preghiere, ho imparato la via più breve per giungere in quelle regioni raggiunte in volo dai sognatori.4 E mi ci sono recato in tutta fretta. (10) LEPIDO. Dunque tu da sveglio sei stato tra coloro che sognano? Che cose eccezionali racconti! LIBRIPETA. Ti sembrano cose eccezionali? LEPIDO. In maniera impareggiabile. (11) LIBRIPETA. Sono molto più stupefacenti le cose che ho visto in quelle regioni: fiumi, monti, prati, campi, prodigi mirabili a vedersi, cose incredibili a dirsi e a ricordarsi, ma che si addicono propriamente solo ai libri dei filosofi. (12) LEPIDO. Dunque tu, che ora desideri essere chiamato filosofo dopo che fino ad oggi hai passato la tua vita in silenzio, non ti lascerai sfuggire questa occasione di gloria. Il tuo primo impegno da filosofo lo assolverai raccontando un sogno. (13) LIBRIPETA. Magari il mio ingegno bastasse per narrarlo per bene! Tra le altre cose mi piacerebbe molto descrivere il fiume che sta all’ingresso di quel paese, in assoluto la più straordinaria delle cose che si possano immaginare e raccontare. sapevo come uscirne, decisi di andare da questi che si dicono filosofi e di mettermi nelle loro mani pregandoli di fare di me quello che volessero e indicarmi una via semplice e sicura da percorrere nella vita [...] pregandolo e scongiurandolo [il mago caldeo Mitrobarzane] ottenni da lui con grande fatica che mi facesse da guida, al prezzo che volesse, nella discesa [nell’Ade]» (Bacchelli-D’Ascia, p. 233).

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(14) LEPIDUS. Tetros fortassis, veluti Lethea flumina, liquores aut Stigiamne aquam fluit? (15) LIBRIPETA. Minime. Verum – o rem incredibilem! – pro undis infiniti hominum vultus volvuntur; (16) at ex his videres alios vultus pallentes tristes valitudinarios, alios hilares venustos rubentes, alios oblongos macilentos rugosos, alios pingues tumidos turgidos, alios fronte aut oculis aut naso aut ore aut dentibus aut barba capillo aut mento prolixo prominenti ac deformi: horror, stupor, monstra! (17) At huius ipsius fluvii traiciiendi, scin que mira sit ratio et modus? Te ipsum in orbem coactum pervolutes oportet, non secus atque ipsa faciunt saxa que per proclive corruunt. LEPIDUS. Ridiculum. (18) LIBRIPETA. Ne dixeris ridiculum. Est enim id profecto periculosum: nam sunt illi quidem vultus admodum mordaces, quod ni ipse, dudum meis dentibus lacessendo homines provocare et certare suetus, cutem multis acceptis morsibus callosam haberem, totum me lacerum videres. (19) Sed ago superis gratias, postquam integro naso traieci fluvium. (20) LEPIDUS. Perdurissima tibi sit cutis oportet, quam nulli dentes ledant. Verum et quid tum, traiecto fluvio? (21) LIBRIPETA. Res longe litteris dignissimas! Adsunt namque illic convalles montium, ubi res amisse servantur. (22) LEPIDUS. Utrumne et perditi hominum dies eo ipso in loco servantur? Vah! quantos tuos annos recognovisti? Quid ais? (23) LIBRIPETA. Omnes. Sed quod mirere, primum illic partem non minimam mei cerebri offendi: eam quidem quam vetula quedam a me amata emunxerat. (24) Quod si licuis5 Dalla risposta di Libripeta si capisce che il paese dei sogni in cui il lettore si sta addentrando è molto diverso dall’aldilà virgiliano e dantesco (Cardini, p. 331). 6 Come sottolineano Bacchelli-D’Ascia (p. 235), si tratta di un’espressione plautina, cfr. Most. 1110: «Immo etiam cerebrum

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(14) LEPIDO. Scorre un’acqua torbida, come quella del Lete o dello Stige? (15) LIBRIPETA. Assolutamente no.5 Tra le acque invece – è davvero incredibile! – scorrono infiniti volti umani; (16) e tra questi puoi vederne alcuni pallidi, tristi, malati, altri contenti, belli, rubicondi, altri allungati, macilenti, rugosi, altri grassi, gonfi, turgidi, altri con la fronte o gli occhi o il naso o la bocca o i denti o la barba, i capelli o il mento lunghi, prominenti, deformi: che orrore, che paura, che mostri! (17) Ma sai in che modo impensabile si attraversa questo fiume? Bisogna che uno si raggomitoli come una palla, proprio come i sassi che precipitano da un pendio. LEPIDO. Buffo. (18) LIBRIPETA. Non dire buffo. È infatti una cosa molto pericolosa: quei volti mordono parecchio, e se io non fossi stato abituato, combattendo cogli uomini, a tirar fuori i denti, e non avessi avuto dunque la pelle callosa per i morsi ricevuti, ora mi vedresti a brandelli. (19) Ma ringrazio gli dei, dato che ho passato il fiume col naso intero. (20) LEPIDO. Devi aver la pelle davvero dura visto che nessun dente l’ha potuta scalfire. Ma poi che è successo, passato il fiume? (21) LIBRIPETA. Cose davvero degne di entrare in letteratura! Lì, fra le montagne, ci sono delle valli dove si conservano le cose smarrite. (22) LEPIDO. Forse che in quel luogo si conservano anche i giorni persi dagli uomini? Perbacco! Quanti dei tuoi anni hai ritrovato? Eh?! (23) LIBRIPETA. Tutti quanti. Ma la cosa davvero incredibile è che lì come prima cosa mi sono imbattutto in una parte non piccola del mio cervello, quella che mi aveva spillato6 una vecchia che ho amato. (24) Che se avessi potuto – ma quoque omne e capite emunxti meo» («anzi mi hai risucchiato tutta la materia grigia»).

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set – non enim fas est illinc aliquid auferre –, hanc dextram capitis partem vacuam modo atque inanem replessem. (25) LEPIDUS. Cave existimes vacuum esse id quod repletum sit insania. Quid tum? Utrum et bone artes et prisce Latine littere illic amisse iacent? (26) LIBRIPETA. Isthic, inquam, prorsus que amiseris omnia reperies. Adsunt quidem in mediis campis antiqua illa que leguntur imperia gentium, auctoritates, beneficia, amores, divitie et eiusmodi omnia, que posteaquam amissa sunt, nunquam in hanc lucem redeunt. (27) LEPIDUS. Tu vero quonam pacto a ceteris rebus beneficia novisti, qui ne minimum quidem tua omni in vita beneficium in quempiam contulisti quive nihil unquam a quovis liberalissimo tibi deditum in beneficii locum putasti? (28) LIBRIPETA. Ne novissem quidem quippiam, ita pleraque omnia illic alia erant quam putassem, ni custodes qui aderant omnium fecissent me rerum certiorem. (29) LEPlDUS. Quid ita? LIBRIPETA. Sunt namque in mediis campis imperia in unam congeriem accumulata, que tu si videris, despexeris. LEPIDUS. Ain vero? (30) LIBRIPETA. Nam sunt ea quidem pregrandes vesice, plene licentia, mendaciis atque sonitu tibiarum et tubarum. (31) Proxime stant beneficia, atque ea quidem sunt hami argentei aureique; deinceps adsunt plumbee quedam ale, quas dicunt esse auctoritates hominum; (32) tum prope adsunt manice atque compedes ignite, quas dicunt esse amores; demum in ipsis pulveribus extant infinita civium nomina insculpta stilo, ea dicunt esse divitias. (33) Denique, ne sim prolixior, isthic quevis omnia preter stultitiam reperies.

7 Cfr. forse Sen. De ben. IV 20, 3: «Faciat licet omnia, quae facere bonus amicus et memor officii debet: si animo eius obversatur spes lucri, captator est et hamum iacit» («Può compiere alla perfezione

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è proibito portar via di lì alcunché – avrei riempito la parte destra del mio capo, ora del tutto vuota e inutile. (25) LEPIDO. Attento a non credere vuoto ciò che è pieno di follia. Ma che, si trovano forse lì anche le belle arti e l’antica cultura latina che sono andate perdute? (26) LIBRIPETA. Lì, ti dico, ritroverai assolutamente tutto quello che hai perso. In mezzo ai campi ci sono gli antichi imperi di cui abbiamo letto, le cariche, i benefici, gli amori, le ricchezze e tutte le altre cose come queste che, una volta perdute, non tornano mai in luce. (27) LEPIDO. Ma come hai fatto a distinguere i benefici dal resto, tu che in vita tua neppure uno minimo ne hai fatto a nessuno, e che mai hai tenuto in alcun conto un beneficio ricevuto da qualsiasi persona sommamente generosa? (28) LIBRIPETA. Se i guardiani che c’erano lì non mi avessero informato di tutto, non mi sarei nemmeno reso conto di quello che vedevo, tanto lì era tutto diverso da come pensavo. (29) LEPIDO. In che senso? LIBRIPETA. Gli imperi sono ammassati in mucchio in mezzo ai campi, cosa che se li vedessi, li disprezzeresti. LEPIDO. Dici davvero? (30) LIBRIPETA. Sono vesciche grandissime, piene di dissolutezza, menzogne, dove risuonano flauti e trombe. (31) Lì vicino stanno i benefici, che sono ami d’oro e d’argento;7 poi ci sono delle ali di piombo, che si dice siano le cariche pubbliche; (32) vicino ci sono manette e ceppi di fuoco, che si dice siano gli amori; infine nella polvere ci stanno infiniti nomi di cittadini scritti con lo stiletto, che dicono essere le ricchezze. (33) Insomma, per non essere prolisso, lì troverai di tutto, a parte la follia. il dovere di un amico sincero e di una persona riconoscente, ma, se lo fa per guadagnare, è un personaggio insidioso, che getta l’amo»).

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(34) LEPIDUS. Sane, mi homo, iam nunc fateor hanc tuam peregrinationem esse non indignam litteris philosophantium. (35) LIBRIPETA. Quid, si cetera audias? LEPIDUS. Recita, queso. Nam etsi totus fetes, non invitus tamen te audio. Sequere, narra. (36) LIBRIPETA. Narro. Illic iuxta eminet mons altissimus, in quo, ut ferunt, veluti in lebete aliquo res omnes desiderate atque expectate ebulliunt: hunc circa montem consident vota et preces hominum diis exposita. (37) Mons vero ipse summo ex cacumine modo has modo alias res evomit: ea casu partim hinc partim illinc a monte corruunt. Sed his rebus visendis minime oblectabar. (38) Multa quidem huiusmodi seu negligentia seu satietate et fastidio tantarum rerum, que hinc atque hinc sub oculis apparebant, pretermisi. (39) Tandem eo perveni, non longe ab his locis, ubi rapidissimus amnis percurrit, quem aiunt excrevisse lachrimis lugentium atque calamitosorum hominum. Hunc ego quanto cachinno fluvium tranarim, non facile dici potest. (40) Namque adsunt ad transportandos homines damnate quedam vetule, que dum vitam agebant, iuvencule, superbe ac dure, vetule, superstitiose atque malefice fuere. Ridebis, si tranandi modum dixero. (41) LEPIDUS. Porro et ridere et nihil abs te, quod ad peregrinationem hanc pertineat, reticeri opto. (42) LIBRIPETA. Gero tibi morem. Stant quidem illic ad litus vetule ille resupine, nude. (43) Tu genua in ipsis convallibus hilium infigis, manibus vero earum aures adprehendis, atque quo velis traiicere substrate vetule caput pro clavo dirigis. Illa calcibus et palmis resupina remigat.

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(34) LEPIDO. A questo punto, caro mio, devo proprio dire che questo tuo viaggio merita di entrare nei libri dei filosofi. (35) LIBRIPETA. E che dirai, se ascolterai il resto? LEPIDO. Dimmi, ti prego. Anche se puzzi, infatti, ti ascolto volentieri. Orsù, racconta. (36) LIBRIPETA. Racconto. Lì vicino ci sta una monte altissimo, dove, a quanto dicono, ribollono come in una pentola tutte le cose desiderate e ambite: intorno a questo monte stanno i voti e le preghiere che gli uomini rivolgono agli dei. (37) Quel monte erutta dalla sua vetta ora certe cose, ora certe altre: del tutto casualmente esse precipitano ora da una parte, ora dall’altra del monte. Ma a guardare quelle cose non mi divertivo affatto.8 (38) Mi è sfuggito molto di ciò che mi appariva sotto gli occhi, vuoi per negligenza, vuoi per sazietà o fastidio di tante cose simili. (39) Infine, a non troppa distanza da lì, giunsi dove scorre rapidissimo un fiume, che, dicono, cresce con le lacrime degli uomini afflitti e disgraziati. Non è facile dirti in che modo divertente io l’abbia attraversato. (40) Ci sono infatti alcune vecchiette condannate a trasportare gli uomini, che in vita furono, da giovani, superbe e dure, mentre da vecchie superstiziose e maligne. Riderai quando ti dirò il modo in cui passai il fiume. (41) LEPIDO. Allora voglio proprio che tu mi faccia ridere e non taccia nulla di quello che riguarda questo tuo viaggio. (42) LIBRIPETA.Ti accontento. Quelle vecchie stanno lì sulla riva, nude e supine. (43) Tu pianti le ginocchia negli avvallamenti degli inguini, con le mani prendi le loro orecchie e usi la testa della vecchia, che è sotto di te, alla stregua di un timone, per andare dove vuoi. Lei, supina, rema con le mani e coi piedi. 8 «Mentre in Luciano [nell’Icaromenippo] c’è una compiaciuta ed intellettualistica ironia nei confronti della stupidità umana, in Alberti c’è piuttosto una accorata meditazione sulla condizione umana», cfr. Mattioli, Luciano e l’umanesimo (vd. MONOGRAFIE), p. 87.

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(44) LEPIDUS. O te dignum tali naufragio! Verum an non persepius uterque summergitur? (45) LIBRIPETA. Minime vero. Nam, ut rem teneas, audies rem dignissimam quam ex media philosophia illic didici. Pulmo quidem intestinus efficit ut natantes superextent aquis. (46) Struma vero mulier duos habet pulmones, unum in renibus, alium quem in spatulis gerat. (47) Tum accedit quod feminarum capita penitus vacua optimum ad tranandum fluvium presidium prestant. – Quid spectas? (48) LEPIDUS. Te, qui, si sapis, te in hanc iterum cloacam precipitabis. (49) Nam tu quidem plus hinc philosophie una isthac peregrinatione quam omni tua pristina etate tua omni ex maxima bibliotheca, quam occlusam detines, adeptus es. (50) Verum quid hic ais? Putastine tutum mulieris constantie et fidei te ita ridicule commendare? (51) LIBRIPETA. Mihi quidem navigatio commoda et tutissima fuit. Nam mea a me amata vetula confestim sese mihi obtulit, ore illo suo dentibus vacuo ridens. Laudasses diligentiam eius, ita me fide optima vectavit. (52) Egi gratias atque ut primum in adversa ripa constiti, intueor prata quedam amplissima, ubi pro cespite atque foliis herbarum surgebant come barbeque hominum capillique mulierum atque crines iumentorum nec non et iube leonum, ut eiusmodi pilis nihil posset in prato non opertum conspici. (53) Enimvero, superi

9 Cfr. Cic. Or. 11 «ingressionem [...] e media philosophia repetitam» («entrare [...] nel vivo della filosofia»). 10 In latino «struma»: la congettura di Cardini permette di cogliere la ricchezza lessicale senza limiti temporali dell’Alberti, che qui utilizza un termine già in uso nel latino classico («strumosus», «scrofoloso») ma nell’accezione medievale di «gibboso». 11 Cfr. il precedente «vetula quedam a me amata» («una vecchia che ho amato»). La misteriosa vecchietta che sulla terra aveva soffiato a Libripeta, evidentemente ammalato d’amore, parte del

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(44) LEPIDO. Tu sei proprio degno di un tale naufragio! Ma non capita spesso che vadano a fondo entrambi? (45) LIBRIPETA. Per niente. Per farti capire bene ti spiegherò una cosa particolarissima di carattere filosofico,9 che ho appreso lì. Il polmone che abbiamo dentro fa in modo che chi nuota stia a galla. (46) Ma la donna gibbosa10 ha due polmoni, uno nelle reni, e l’altro lo porta nelle spalle. (47) Allora succede che le teste delle donne, del tutto vuote, risultano la cosa migliore per passare il fiume. – Ma cosa guardi? (48) LEPIDO. Guardo te che, se sei saggio, ti ributterai in questa fogna. (49) Difatti hai conseguito più conoscenze filosofiche da questo tuo viaggio che in tutta la tua precedente vita da quell’immensa biblioteca che tieni sempre chiusa. (50) Ma dimmi un po’, ti è sembrata una cosa sicura affidarti in quella maniera ridicola alla lealtà e fermezza di una donna? (51) LIBRIPETA. La mia navigazione è stata molto comoda e sicurissima. Infatti la mia amata vecchietta11 mi si è offerta subito spontaneamente, ridendo con la sua bocca sdentata. Avresti lodato la sua diligenza per l’impeccabile onestà con cui mi ha trasportato. (52) La ringraziai e, non appena messo piede sull’altra riva, vedo dei prati smisurati, dove al posto dei cespugli e delle foglie degli alberi sorgevano chiome e barbe di uomini, capelli di donne, crini di giumento, e financo criniere di leone, tanto che non si sarebbe potuto trovare neanche un piccolo spazio privo di peli.12 (53) Santi numi, quanti sognatori suo cervello, qui subisce una sorta di contrappasso: lei che allora fu dura e scontrosa, ora si offre «col sorriso» (seppur sdentato) di servire l’amante. 12 «Lo spunto può derivare dalla Vera historia lucianea, nella cui isola dei sogni sono foreste di papaveri e mandragore, e il profeta Antifonte presiede all’oracolo; ma converrà ricordare che le barbe dottorali furono oggetto di altre satire in quel tempo: “barba pediculata” sarà dipinto il Filelfo dal Bracciolini», cfr. Ponte, Lepidus e Libripeta, p. 243.

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boni, quantum illic numerum somniantium perspexi nescio quas radiculas effodientes, quas qui edunt et vafri et docti, cum minime sint, videntur! Multam illic consumpsi operam. (54) Sed me ingens copia pediculorum, que ex prato convolabat, pene exedit, ut sola fuga salus mihi foret petenda. (55) Idcirco conieci me in pedes, atque unde sese mihi exitus obtulit, inde me vesanum tanta ex peste eripuerim. Fata hanc nobis cloacam prebuere. (56) LEPIDUS. I ergo iam nunc atque te lotum redde. Ego ad meos, quos tu dictitas insanos et indoctos, redibo.

13 Si noti la sottile ironia: anche Libripeta, che non è intelligente (nel senso albertiano del termine), vuole cercare di sembrarlo, e come gli altri «stupidi» mangia radici. 14 Per la tradizione onirocritica i pidocchi e le pulci, qualora si presentino in gran numero, sono predizione di sventura (BacchelliD’Ascia, p. 239).

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ho visto lì che scavavano non so quali radicette che fanno sembrare dotti e intelligenti coloro che le mangiano, anche se non lo sono per nulla! Anche io mi ci son messo d’impegno.13 (54) Ma a un certo punto una torma di pidocchi, che salivano in volo dal prato,14 mi stava per divorare, tanto che per salvarmi ho dovuto darmi alla fuga.15 (55) Perciò me la sono data a gambe levate e dove mi si è presentata una via d’uscita da lì sono fuggito, ormai fuori di me, da tanto supplizio. Il fato mi ha offerto questa fogna. (56) LEPIDO. Vai ora e ripulisciti. Io tornerò dai miei amici, che tu chiami folli e ignoranti.

15 Come nel resto dell’intercenale, anche nel finale è presente la parodia dell’epica (Cardini, p. 332): qui la fuga di Libripeta sembra il fine controcanto del celebre verso virgiliano di Aen. II 354 «ulla salus victis, nullam sperare salutem» («l’unica salvezza per i vinti è non sperare nessuna salvezza»).

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«Tutto il mondo classico, dagli affreschi minoici ai banchetti romani, è cosparso di corone» (Calasso). Forse proprio per prendere le distanze da questo simbolo pagano, il cristiano per Tertulliano (Liber de corona) non ambisce a corone fatte di fiori, simbolo di frivolezza, ornandosi semmai di fiori naturali (Rinaldi). Il rituale di incoronare i poeti era stato ripreso, già nella prima metà del Trecento, da cultori del mondo antico come Albertino Mussato e Francesco Petrarca, insigniti di questo classico riconoscimento rispettivamente nel 1315 e nel 1341. Di tale consuetudine l’Alberti in questa intercenale fa letteralmente strame. Nel suo mondo, popolato da incompetenti invidiosi, da arrivisti scriteriati, da detrattori calunniosi, chi è disinteressato amante degli studi e cultore della virtù, ben lungi dall’essere portato in trionfo, «di necessità conviene che ruini», per dirla con Machiavelli. Se poi alle umane dinamiche di forza si aggiunge anche la malasorte, i risultati non possono che disattendere ogni speranza del giovane Lepido (consueta controfigura dell’autore): è una giaculatoria che costituisce uno dei ricorrenti refrain dell’Alberti. In questa «commedia allegorica in un atto» (Cardini), un poeta e un retore si contendono l’ambita corona, ma appena aprono bocca, messi alla prova da Invidia (sorella di Lode, che sempre l’accompagna), dimostrano la loro imbarazzante pocaggine, commettendo ridicoli strafalcioni. Retorica e poesia erano le nuove discipline su cui il movimento umanistico puntava dai tempi dei protoumanisti per sovvertire le gerarchie del sapere medievale; presto, tuttavia, oltre a contendersi il primato fra di loro (soprattutto nella seconda metà del Quattrocento, a causa dell’influsso neoplatonico che privilegiava la poesia), una buona parte dei retori e dei poeti era degenerata in una setta pedantesca e troppo schiacciata sui modelli classici e questo aveva finito col compromettere il sogno dell’umanesimo di rifondare la civiltà degli antichi. È proprio quest’esito estremo e «scimmiesco», ma non infrequente nel Quattrocento, che qui l’Alberti parodizza di gusto. Ma è

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un riso che volge presto in un pianto. Anzi, è un riso che ha già dentro di sé il seme del pianto, come il riso tragico dell’umorismo (Cardini). E la cosa straordinaria è che, dopo essersi autocommiserato sotto le spoglie di Lepido, pavido ambizioso che alla fine riceve una corona da Lode per mera commiserazione, Lepido-Alberti trova ancora il coraggio e la forza di voltar tutto in commedia, con una battuta delle sue (la corona che ha appena vinto sarà buona, una volta secca, per lavare i piatti), e sarà proprio questa forza titanica di ridere delle proprie sventure a mandare in bestia Invidia, superata da Lepido sul terreno del caustico cinismo. Di questa intercenale, non a caso inserita nel libro IV dedicato a Poggio Bracciolini, si servirà l’ormai anziano collega nella cancelleria curiale nella sua Oratio IV contro Lorenzo Valla: qui, l’umanista delle Elegantie, giunto nei Campi Elisi per ottenere la laurea poetica, sarà beffardamente incoronato con gli intestini di una pecora (Rinaldi, “Larvatus prodeo”, pp. 122-23).

Nota al testo L’intercenale è tràdita dal solo P, il cui testo è stato sanato con alcune congetture prima da Eugenio Garin (1964) e poi da Roberto Cardini (2010).

(1) RHETOR. Contendi huc ut virginem hanc viderem, quam omnes esse formosissimam ferunt. POETA. Adesne, o rhetor? (2) RHETOR. O salve, poeta. Et (me superi!) forma est et indole virgo hec, quantum video, egregia et eleganti. (3) POETA. Mirum ni hec sit ex ipso dearum genere. Tanta enim dignitas tantumque specimen a diis extet opus est. (4) RHETOR. Prorsus id quidem ut ais: huiusmodi enim venustas et decus oris oculorumque divinum quippiam et rarissimum sapiunt. Sed eccum divitem. – Tu quoque, o dives, virginem spectatum accessisti? (5) DIVES. Nempe isthuc. Sed quasnam habet ea corollas in gremium? Eodum, propius! ut percontemur. – Tu, virgo, hasne huc in forum corollas detulisti ut venundares? (6) LAUS. Minime. RHETOR. Quid igitur his tibi corollis queris, virgo? (7) INVIDIA. Ecquid tu cum hisce loqueris? Iamne te quidem fugit, o Laus, quod mater tua Virtus, cum e domo

1 In Apuleio e nel Seneca tragico il termine latino «specimen» può significare «splendore».

(1) RETORE. Sono corso qua per vedere questa fanciulla, che tutti dicono sia bellissima. POETA. Sei tu, o retore? (2) RETORE. Salve, poeta. Santi numi! Questa fanciulla, da quanto posso vedere, è eminente per la sua bellezza e raffinata nei modi. (3) POETA. È davvero straordinario che non appartenga alla stirpe stessa delle dee. Tanta dignità e tanto splendore1 non possono che discendere dagli dei. (4) RETORE. Certo, è come dici tu: una tal bellezza, la grazia della bocca e degli occhi, è rarissima e ha qualcosa di divino. Ma ecco il ricco. – Anche tu, o ricco, sei venuto a vedere la fanciulla? (5) RICCO. Esatto. Ma cosa sono quelle ghirlande che ha in grembo? Su,2 avviciniamoci, così potremo chiederglielo. – Ehi, fanciulla, hai portato qua in piazza queste ghirlande per venderle? (6) LODE. Assolutamente no. RETORE. E allora, fanciulla, cosa cerchi qui con queste ghirlande? (7) INVIDIA. Perché parli con questi qui? Ti sei già dimenticata, o Lode, che tua madre, la Virtù, quando siamo 2 Si noti la grafia «Eodum», usuale in Alberti per l’interiezione «ehodum»; cfr. Plaut. Pers. 610.

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progrederemur, edixit tibi caveres ne quempiam aspiceres procum, me inconsulta? (8) Amatores nobis, non sollicitatores, inveniendi sunt; et istos quidem temerarios atque immodestos procaces irridere ludus est omnium pulcherrimus, quos tu me sinito more meo tractem. – Heus tu! Homo, quid tibi vis? (9) DIVES. (Proh, o superi, quales oculos truces et nimium turbulentos vetula hec in me volvit!) (10) INVIDIA. Quid tute tecum loqueris? Quid demum mussas? DIVES. Corollam quidem empturus. (11) INVIDIA. Tuas alibi divitias ostentato, fortunate. Nam est apud nos venale nihil. (12) DIVES. Dono dabis igitur. INVIDIA. Non tibi quidem, sed promerentibus et dignissimis. (13) POETA. Nobis idcirco dabis. INVIDIA. Tibin? At quasnam tu artes non ignoras? POETA. Men rogas? Num tu poetas nosse omnia audisti? (14) INVIDIA. Tu poeta? POETA. Atque haud vulgaris. (15) LAUS. Dignus eris corona. Sed disticum edito. Nam nos quidem maxime delectat versus. (16) POETA. Isthuc quidem erit perfacile. Nam quicquid studeo dicere, versus est. (17) INVIDIA. Denique tu quidem id, quicquid est, quod dudum protracto supercilio et protenso ore irruminas, expuito. (18) POETA. O carmen luculuntum atque acclive! «arma virum galeeque, sed non moriemur inulte.» Quid? Hoc ne vero Maronem ipsum nihil sapit? 3 In Seneca il Retore (Contr. II 7, 4-5) il termine «sollicitatores» ha il valore di «corruttori». 4 Evidente allusione, come suggeriscono Bacchelli-D’Ascia (p. 247), ad un distico ovidiano, cfr. Tristia IV 10, 25-26: «Sponte sua carmen numeros veniebat ad aptos, / et quod temptabam scribere

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uscite di casa, ti ha detto di non guardare alcun pretendente senza prima consultarmi? (8) Dobbiamo cercare amanti, non seduttori;3 è la cosa più divertente in assoluto prendersi gioco di questi sfrontati e presuntuosi insolenti; lascia che li tratti da par mio. – Ehi tu! Cosa cerchi? (9) RICCO. (O superi, che occhi truci e incattiviti questa vecchia mi pianta addosso!) (10) INVIDIA. Perché parli da solo? Cosa borbotti? RICCO. Vorrei comprare una ghirlanda. (11) INVIDIA. Vai altrove a far mostra dei tuoi soldi, o uomo fortunato! Noi non vendiamo nulla. (12) RICCO. Dunque le regali. INVIDIA. Non certo a te, ma a chi se le merita, a coloro veramente degni. (13) POETA. Dunque la darai a me. INVIDIA. A te? E quali particolari capacità hai? POETA. E me lo chiedi? Non sai forse che i poeti sanno tutto? (14) INVIDIA. E tu saresti un poeta? POETA. E non dei più comuni. (15) LODE. Ti meriterai una corona. Ma tira fuori un distico. La poesia ci diletta sopra ogni cosa. (16) POETA. Sarà facilissimo. Infatti qualsiasi cosa io voglia esprimere, mi vien fuori in versi.4 (17) INVIDIA. Sputa dunque ciò che da un po’ rimugini sporgendo le labbra e inarcando le sopracciglia. (18) POETA. O che verso5 illustre e sublime! «O armi dei soldati, o elmi, ma non morremo invendicati.»6 Che ne pensi? Non è un verso davvero virgiliano? versus erat» («ma la poesia veniva spontaneamente nei suoi giusti ritmi e diventava verso quanto provavo a dire»). 5 Nel latino umanistico «carmen» può indicare, oltre che «poesia, componimento», anche il singolo verso. 6 Si tratta di una giustapposizione «centonaria» di due versi virgiliani, cfr. Aen. I 1 e Aen. IV 559. In più, come ha notato Cardini (p.

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(19) LAUS. Ut nihil magis! POETA. Coronam ergo promeritus. (20) INVIDIA. Alterum huic si adegeris, coronabere. (21) POETA. Ergo abeo hinc ad bibliothecam, ex qua versiculos plus centum una lucubratione depromam. (22) INVIDIA. Isthuc tibi esse censeo faciendum, ut eo pacto in litterarum cultu et opere te exerceas quoad fervescat animus, qui ad dicendum sit futurus paratior et promptior. (23) Nam desidia quidem ac lectitandi scriptitandique intervallis obtorpere ingenium et omnino cessator fieri consuevit. (24) Neque a vobis poetis quippiam est, nisi omni ex parte absolutum et perpolitum, quod probari nobis possit. Sed poeta abiit. – Tuque, pallidule, an non cum illo incompto et impexo quicum adveneras abvolas? (25) RHETOR. Non esse meum reor huc accessisse ut spretus abeam, neque videbor munera isthec vestra, etsi maxima atque amplissima, demeruisse, siquid satis me fortasse noritis. (26) Sum enim et virtute aliquantisper ornatus et doctrina excultus, ut me ingenuum et libere educatum audeam dicere. (27) INVIDIA. Quid igitur? Qua demum fretus industria apud nos, petulce, instas? (28) RHETOR. Vestra fisus humanitate, o formosissime, magis quam industria mea. Omnium me fere unum profiteri audeo qui ab ipsa ineunte etate, a teneris, uti aiunt, unguicolis, omnem operam, diligentiam, assiduitatem, solertiam,

337), il verso è anche metricamente scorretto, in quanto il s¯ed rende zoppo il terzo piede. Come nota Marsh (Poggio and Alberti, p. 200), il secondo emistichio era già stato ripreso in funzione parodica da Orazio (Serm. II 8, 34 «nos nisi damnose bibimus, moriemur inulti», «Se non si beve da mandarlo in rovina, moriremo invendicati»), che aveva dunque già attuato un processo di abbassamento e sconsacrazione della funzione epica della letteratura. 7 La forma «adegeris» al posto di «adieceris» è una forma riscontrabile anche nel Momus (Cardini, p. 337).

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(19) LODE. Eccome! POETA. Dunque ho meritato la corona. (20) INVIDIA. Sarai coronato, se a questo aggiungerai7 un altro verso. (21) POETA. Allora corro in biblioteca, dalla quale in una sola notte caverò fuori più di cento versetti. (22) INVIDIA. Credo proprio che tu debba fare in modo di esercitarti nello studio e nella produzione letteraria, fino a quando il tuo afflato poetico non diventi maturo, e a quel punto sarà più pronto e preparato nel declamare. (23) Infatti a causa della pigrizia e dei lunghi intervalli senza leggere e scrivere l’ingegno di solito intorpidisce e diventa inerte. (24) Né noi possiamo accettare qualcosa da parte di voi poeti che non sia magnifico e perfetto.8 Il poeta se n’è andato. – E tu, o palliduccio, non te ne voli via con quel compagno trasandato e scarmigliato con cui sei venuto? (25) RETORE. Non credo mi spetti essere venuto fino qua per andarmene via umiliato, né mi pare di demeritare questi vostri doni, benché molto prestigiosi, sol che abbiate di me sufficiente conoscenza. (26) Sono infatti da tempo provvisto di virtù ed erudito al punto che oserei definirmi nobile e liberalmente educato. (27) INVIDIA. E allora? Confidando su quali capacità insisti con noi, o sfrontato? (28) RETORE. Più che sulle mie capacità, bellissime, conto sulla vostra gentilezza. Oserei dire che sono l’unico che sin dalla più tenera età, come si dice, dalle fasce, ho speso ogni mia fatica, passione, zelo e solerzia negli studi liberali

8 Che ai poeti, contrariamente agli altri uomini nelle loro diverse professioni, non fosse concesso di essere mediocri, lo aveva insegnato, come ricordano Bacchelli-D’Ascia (p. 249), Orazio nella sua Ars poetica 372-73: «mediocribus esse poetis / non homines, non di, non concessere columnae» («ai poeti non hanno mai concesso d’essere mediocri né gli uomini, né gli dei, né i librai»).

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in studii humanitatis, in cognitione litterarum, in peritia bonarum artium, in ratione et modo bene beateque degende vite, ac postremo in dicendi gloria consumpserim. (29) INVIDIA. Hui, lingulacem! Verum si te exhibueris quem fronte isto confidenti predicas, corona ornatus decedes. (30) Et hoc velim non ignores: nostris donis utimur nunquam temere. Quare, ea in re quam nosse te profiteare, fieri a te periculum expectamus. (31) RHETOR. Geram tibi morem ut voles. De nostris mihi maximis et prestantissimis laudibus disserendum est: quo in munere obeundo res a me miras et inauditas audietis. (32) Grande quoddam amplumque atque canorum orationis genus afferam; sed ero pro rei magnitudine dicendo brevis, et quod potero, succinctus. Vos prebete operam auscultando. (33) LAUS. Aurem prebemus. INVIDIA. Isthuc potissimum exposcimus teque orantem grate ac perbenigne audiemus. (34) RHETOR. Quamquam mihi omnes insigni prestantique ingenio prediti, qui quidem priscos gravissimos et sanctissimos viros pro ingenii viribus imitati, in ea sibi presertim re ex qua precipuam et mirificam bonorum gratiam divine cuidam laudi complicitam et connexam assequerentur, (35) a diis immortalibus porrectam et propositam sibi spem posteritatis atque immortalitatis, non morum quidem et doctrine tantum, sed vel in primis egregia elegantique virtutis et fortitudinis opera; (36) famam et nominis claritatem summis lucubrationibus optime de re publica bonisque civibus merendo summa diligentia, vigilantia et assiduitate; (37) auctoritatem cum dignitate et recta ac provisa quadam cum officii ratione et

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per apprendere le lettere, imparare le buone arti, il modo e la misura per vivere bene e felicemente e infine alla ricerca della gloria nell’eloquenza. (29) INVIDIA. Caspita, che linguacciuto! Ma se ti mostrerei davvero quale dici con sfrontatezza di essere, te ne andrai con la corona in testa. (30) Ma vorrei che lo sapessi: non diamo mai i nostri doni senza criterio. Perciò ci aspettiamo da te una prova in ciò che tu dici di conoscere. (31) RETORE. Faccio come vuoi. Bisogna che parli dei miei magnifici e grandissimi meriti: nell’espletare questo compito sentirete da me cose incredibili e mai sentite. (32) Utilizzerò un tipo di discorso grande, ampio e sonoro; ma nel dire sarò breve rispetto alla grandezza dell’argomento e, per quanto potrò, succinto. Voi datemi ascolto. (33) LODE. Ti prestiamo ascolto. INVIDIA. Ti chiediamo proprio questo e ti ascoltiamo declamare davvero volentieri e ben disposte. (34) RETORE. Anche se8 a me sembra che tutti gli uomini dotati di un ingegno eccellente ed insigne, i quali, imitando per quanto sta nelle loro forze gli antichi austerissimi e saggissimi, soprattutto in ciò per cui otteniamo un particolare e magnifico favore presso i buoni, collegato e connesso ad una lode divina, (35) abbiano ottenuto dagli dei immortali la speranza della posterità e dell’immortalità, non solo per l’egregio e raffinato esercizio della loro cultura e della loro dottrina, ma anche e soprattutto per quello della loro virtù e del loro coraggio; (36) si sono guadagnati fama e celebrità per i grandi meriti ottenuti con sommo zelo, con assiduità, con veglie notturne presso i buoni cittadini in virtù delle somme speculazioni sulla migliore forma di governo;9 (37) l’autorevolezza insieme al prestigio e a una corretta e previdente strada 9

Il discorso del retore è volutamente articolato in modo ampolloso e artificioso, al limite del caricaturale, complicandosi di continue subordinate e inarcature che rendono pressoché illeggibile il testo.

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via, ope suffragioque superum piissimorum, non abiecta et posthabita veteris discipline norma; (38) necessitudines et coniunctiones beneficiorum cumulis mutuoque officio nacti sunt: (39) tum ad maximorum facinorum gloriam plerumque omnes celeberrimi viri ita animo et cogitatione pendere interdum mihi videri solent, ita in ea re fructuum acervos expectare, (40) ut, cum unanimes et concordes natura quasi duce id concupiscant quod fragiles caduceque hominum spes, inanes futilesque expectationes ieiunaque ac levia consilia depromunt – (41) tamen a depravata corruptaque imperitorum ratione indecora et improbatissima ea ratio emanat, ut ea vis mentis, quam apud Grecos Stoici philosophi “proneam” vocant, virtute haudquaquam previa et ductrice negligatur, (42) qua in celum nobis aditus patefacimus et ad cetum deorum viam expeditissimam commodissimamque communimus, non artibus ocii et desidie, sed perseverantia, integritate, dictorum factorumque constantia et firmitudine: (43) hec igitur cum ita sint, hi profecto qui non penitus soluta et libere fluenti constrepentique, sed numeris quibusdam adstricta huiusmodi et composita dicendi arte exculti sunt, hasce profecto coronas apud bonos et graves demeruissse minime videbuntur. (44) Itaque, ut brevibus, quod institui, rem totam diffiniam – nam, ut vidisti, nulla exornatione, nulla commoratione, nulla amplificatione dicendo usus sum –, peto a vobis mihi promerenti coronam dedatis.

10 Si avverte, en passant, una frecciata contro l’umanesimo civile, l’ideologia dei cancellieri-umanisti della Repubblica fiorentina Coluccio Salutati e Leonardo Bruni. «È un’illusione ancora credere che con complessive formule e definizioni [...] si possa acchiappare al laccio un fenomeno [l’umanesimo] che, da luogo a luogo e di quinquennio in quinquennio, mutò di continuo, e che addirittura nel fondo fu perlomeno doppio», cfr. Cardini, Alberti e la nascita dell’umorismo, p. 46. 11 Anche qui si è preservato nella traduzione lo strafalcione del

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del dovere, con l’aiuto e il suffragio degli dei santissimi, non disprezzando e posponendo le regole dell’antica disciplina; (38) hanno incontrato il favore di amici e parenti, grazie al cumulo dei benefici e ad un mutuo sostegno: (39) allora molti celeberrimi uomini mi paiono talvolta dipendere anima e corpo dalla gloria delle più grandi imprese, a tal punto attendersi caterve di risultati (40) che, unanimi e concordi, quasi seguendo l’impulso naturale, bramano ciò che le esili e caduche speranze degli uomini, le inani e futili aspettative, la fame e le idee volubili fanno emergere – (41) tuttavia dal depravato e corrotto comportamento degli ignoranti discende quel comportamento sbagliato e ignominioso di trascurare quella facoltà dell’animo che tra i Greci gli Stoici chiamano «pronea»,11 senza che la virtù vada innanzi e guidi, (42) grazie a cui noi ci apriamo un pertugio in cielo e fortifichiamo la strada più breve e comoda verso l’assemblea degli dei, non con le arti dell’ozio e dell’inerzia, ma con la perseveranza, la rettitudine, con la costanza e la fermezza dei detti e dei fatti: (43) così stando le cose, coloro che hanno appreso un’arte oratoria non completamente svincolata e liberamente fluente e ridondante, ma costretta e vincolata da regole di questo tipo, sembreranno davvero meritare queste corone agli occhi dei buoni e dei saggi. (44) Pertanto, per concludere in breve, come mi ero ripromesso, tutta la questione – infatti, come avete visto, non ho usato nel declamare alcun ornamento, alcun indugio, alcuna amplificazione12 –, vi chiedo, visto che la merito, di darmi la corona. sedicente retore (in latino «proneam»): infatti la parola corretta in greco è []ÈYZTL, come ricordano Bacchelli-D’Ascia (p. 253) richiamando il possibile ipotesto albertiano, Cic. De nat. deor. I 8, 18: «Audite non futiles commenticiasque sententias [...] nec anum fatidicam Stoicorum []ÈYZTLY». 12 Si noti l’ironia che scaturisce dalla ripetizione dell’aggettivo indefinito negativo, a formare un tricolon, proprio mentre il retore dichiara di non aver fatto uso di strumenti retorici.

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(45) LAUS. O mi homo, traderem quidem volens ac lubens, sed non corolle nostre tuum hoc pregrande et tumidum caput belle incingerent!... (46) RHETOR. Mihi idcirco coronas pulcherrimis meo ingenio conquisitis et selectis floribus contexam. (47) OBTRECTATOR. Superi boni, quot modis homines delirant! Is rhetor, homo insulsissimus, quod putas, an didicit aliud preterquam audere proloqui? (48) Quam sua multa verborum copia rem nullam dicere gloriatur! Quod si sapis, virgo, has mihi omnes coronas dabis. (49) LAUS. Hui petulcum hominem hunc, o Invidia, et impudentem! quin et manum protervus intulit ut raperet! Nostin hunc, Invidia, qui sit? (50) INVIDIA. Ain vero? Mihin isthunc parum cognitum reris, qui quidem ex me genitus sit et apud me educatus, ut omnes quas ipsa novi artes egregie didicerit atque ad unguem teneat: (51) detrahere omnibus, facta dictaque improbare omnium inque triviis bonis atque pravis, doctis atque indoctis succensere, vera falsaque promiscue ad ignominiam decantare? (52) Hec enim omnia egregie et perquam belle novit, me magistra et instructrice. Verum, agesis, Obtrectator, nate mi, hac una corona, quod tuo belle officio utaris, contentus abi. (53) OBTRECTATOR. Ex urticane et vepribus? grata tamen est, cum ob meriti signum, tum ob id quod me primum omnium donastis. Itaque capiti eam incingo meo. Ei mihi, ut affigit stimulos! (54) Neque tamen deponam, quo spectatores istos invidia afficiam. – O heus vos, pulcherrimum insigne! (55) LAUS. Appage te hinc cum isthac insolentia! tuam quidem dicacitatem veremur.

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(45) LODE. Mio caro, te le darei davvero volentieri con piacere e di buon grado, ma le nostre coroncine non starebbero per niente bene su questo tuo tronfio testone!... (46) RETORE. Allora mi farò io delle corone di fiori bellissimi, raccogliendoli e selezionandoli come pare a me. (47) DETRATTORE. Santi numi, quante sono le forme di pazzia degli uomini! Che pensi, che questo retore, uomo di rara stupidità, sappia far qualcosa oltre a sproloquiare? (48) Quanto si vanta di non dire nulla con un sacco di parole! Se sei saggia, fanciulla, le darai a me tutte le corone. (49) LODE. O che uomo sfrontato questo, Invidia, e che sfacciato! Protervo, ha addirittura allungato la mano per portarmi via!13 Tu sai chi sia, Invidia? (50) INVIDIA. Parli sul serio? Pensi che non conosca costui che io ho generato ed educato in modo che imparasse tutti i trucchi che sapevo e li imparasse a memoria: (51) biasimare tutti, criticare i detti e i fatti di tutti e adirarsi pubblicamente coi buoni e i cattivi, coi saggi e gli ignoranti, spargere il vero e il falso mischiandoli per calunniare? (52) Essendo stata io la sua maestra ed istitutrice, egli sa infatti a meraviglia tutte queste cose. Ma suvvia, Detrattore, figlio mio, vattene accontentandoti di questa sola corona, visto che hai fatto bene il tuo dovere. (53) DETRATTORE. Questa fatta di ortiche e spine? Mi è comunque gradita, sia perché è un riconoscimento del merito, sia perché sono stato il primo a riceverla da te. E così me la metto sul capo. Caspita, come punge! (54) Però non me la toglierò, perché questi qui attorno crepino di invidia. Ehi voi, guardate che splendida insegna! (55) LODE. Levati da qui con la tua insolenza! Temiamo la tua mordacità. 13 Nel Momus (II, §§ 90-110, pp. 1078-80), l’eponimo protagonista, re dei detrattori e dei maldicenti, non solo allunga le mani su Lode, ma persino la violenta, mettendola incinta di un terribile mostro: Fama.

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(56) INVIDIA. Aufugit. Nunc igitur, virgo, cum iam nulli amatores adsunt, hinc abimus. LAUS. Ut lubet. INVIDIA. Quid igitur cessas? (57) LAUS. Adolescentem isthunc, qui dudum tacitus in os respectat, intuebar. Ac mihi quidem fortassis non indignus videbatur, ut eius modestiam non aspernarer. (58) INVIDIA. Elingues ego odi; petat, qui dari sibi volet quippiam. – Tu ecquid spectas, adolescens? (59) LEPIDUS. Non sum quidem ut rhetor ille eloquens: idcirco tacitus vestras has pulcherrimas coronas demirabar, et qui possem a vobis unam impetrare ipse mecum excogitabam. (60) INVIDIA. Quid igitur erat in te vecordie et pusillitatis, ut ab ea que ut daret prodiit, non ultro posceres? (61) Audendum quidem est amantibus atque efflagitandum idque iterum atque iterum actitandum, quo et ipse ex animo velle videare, et que datura sit volentem se fore nactam non dubitet. (62) LEPIDUS. Ego te austeram ac nimis rigidam verebar, ne repudium contumacius dares. INVIDIA. Hen! (63) LAUS. Non recte de nobis sentis, adolescens, si eos qui sese non omnino imperitos neque immodestos afferant, parum esse apud nos acceptos arbitraris. (64) LEPIDUS. Ex his ego sum qui cum litteris delecter, tum semper studuerim, servata dignitate, ut esse ipse mecum et apud familiares meos festivitate et risu non vacuus. (65) INVIDIA. Ergo, id age, rideto! LEPIDUS. Hei mihi, hei! LAUS. Ecquid agis, adolescens, ploras? (66) LEPIDUS. Hen, quidnam hoc mali est? Sed leviter hoc mihi ferendum statuo, quoniam preter consuetudinem meam non excidit. Neque te, virgo, ulla rei huius admiratio velim capiat. (67) Nam ita fato quodam meo evenit, ut ex eo die quo in lucem veni, nulla ne minima quidem res mihi

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(56) INVIDIA. Se ne va via. Ora fanciulla, dato che non ci sono più innamorati, andiamocene da qui. LODE. Come vuoi. INVIDIA. Perché allora ti fermi? (57) LODE. Guardavo quel giovane, che da un po’, tutto silenzioso, mi fissa negli occhi. Mi sembrava degno di qualche riguardo, almeno per la sua modestia. (58) INVIDIA. Odio quelli che non parlano; chieda, se vuole ricevere qualcosa. – Cosa guardi, giovanotto? (59) LEPIDO. Non son certo eloquente come quel retore; perciò ammiravo in silenzio queste vostre bellissime corone, pensando tra me e me come poterne ottenere una da voi. (60) INVIDIA. Perché eri allora tanto timoroso e pusillanime da non chiederla spontaneamente a lei che è venuta qui apposta per darle? (61) Gli amanti debbono osare, richiedere insistentemente, farlo più e più volte, così che lui sembri volere dal profondo del cuore, e lei che si concederà non dubiti che si imbatterà in uno che la vuole davvero. (62) LEPIDO. Temevo che tu fossi austera e troppo rigida, e che mi opponessi un rifiuto in maniera troppo dura. INVIDIA. Cosa? (63) LODE. Pensi male di noi, giovanotto, se credi che stimiamo poco coloro che si presentano da noi competenti e modesti. (64) LEPIDO. Io faccio parte di coloro che si divertono con la letteratura e ho sempre cercato, fatta salva la dignità, di essere con me stesso e coi miei amici non privo di ilarità e risate. (65) INVIDIA. E allora, dai, ridi! LEPIDO. Ahi, ahi! LODE. Che succede, giovanotto? Piangi? (66) LEPIDO. E allora, che male c’è? Ma ho deciso che devo sopportare tutto con leggerezza, dal momento che questo non va al di là di ciò a cui sono abituato. Ma tu, fanciulla, non vorrei che ti stupissi di questa cosa. (67) Infatti, a causa di un certo destino, sin dal giorno in cui sono venuto al mondo accade che niente, nemmeno la più piccola cosa, è

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ex animi mei sententia successerit. (68) Mirum ut omnia preter spem nobis, atque contra quam instituerim, cadunt: (69) si amicos officiis et beneficiis paro, inimicos excipio; si studiis bonarum artium gratiam sector, invidia rependitur; si neminem ledendo rem meam pacate et modeste agere enitor, obtrectatores, delatores, occultos inimicos nequissimosque proditores offendo, qui instituta consiliaque mea omnia perturbent. (70) Denique quicquid aggredior, quicquid enitor, omne secus accidit quam studuerim. (71) LAUS. Nimirum tu ridiculus es! Tibi ergo hanc coronam desumito. (72) LEPIDUS. Habeo tibi gratias, virgo, quod me duplici dono affecisti. Nam et coronam dedisti, qua meum caput exorner, et ex herba coronam eiusmodi condonasti, ut et cum exaruerit, non mediocriter ad patinas tergendas valeat. (73) – Atat, et quid agis, vetula? Itane repente, itane coronam ipsam a me diripuisti, etiam usque irritata eam dilaceras dentibus, tum et pessundas? (74) INVIDIA. Quid tibi nominis? LEPIDUS. Mihin? Lepido. (75) INVIDIA. Tu Lepidus? Quin immo mordax et asper atque irrisor! Abeamus, virgo. Nam hoc toto in foro reperies neminem corona dignum. (76) LAUS. Eccum iurisconsultos et physicos et sacrarum litterarum studiosos. (77) INVIDIA. Nihil est quod illi minus quam tuas coronas pensitent. Aurum est, virgo, atque ambitio, quod appetant. LAUS. Tum astronomi et mathematici. (78) INVIDIA. Insomnia isthec. Abeamus. 14 Cfr. la battuta onomastica nel prologo della Philodoxeos fabula (p. 149): «No? Lepidus, ha, ha, hae. Et vos lepidi estis». 15 Se qui e in Cynicus §§ 75-76 Alberti si prende gioco delle credenze astrologiche, altrove, invece, come nel trattato latino maggiore, il De re aedificatoria (definito da Cardini «una vera miniera» per indagare l’astrologia in Alberti), sono diversi i passi (cfr. ad esempio

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andata come volevo io. (68) È incredibile come tutto mi vada all’opposto delle mie speranze e di ciò che ho stabilito: (69) se mi procuro amici con favori e regali, li scopro nemici; se cerco il favore con la cultura e le arti, mi si ripaga con l’invidia; se penso in santa pace ai fatti miei, non offendendo nessuno, mi imbatto in detrattori, delatori, segreti nemici e maledetti traditori, che sconvolgono tutti i miei piani e progetti. (70) Insomma, qualsiasi cosa cominci, qualsiasi cosa mi impegni a fare, vien fuori diversamente da come avevo pensato. (71) LODE. Sei troppo buffo! Tieni, prendi dunque questa corona. (72) LEPIDO. Ti ringrazio, fanciulla, perché mi hai fatto un doppio regalo. Mi hai dato infatti la corona, con cui posso ornarmi il capo, e in più me l’hai data fatta di un’erba tale che, anche quando si sarà seccata, sarà utilissima per pulire i piatti. (73) – Oh, e che fai vecchia? Così all’improvviso mi strappi la corona e ti adiri al punto da stracciarla coi denti, rovinandola completamente? (74) INVIDIA. Come ti chiami? LEPIDO. Io? Lepido. (75) INVIDIA. Tu Lepido? Piuttosto Mordace, Pungente o Derisore!14 Andiamocene, fanciulla. Tanto in tutta la piazza non troverai nessuno degno della corona. (76) LODE. Ecco i giuristi, i medici e i teologi. (77) INVIDIA. Le tue corone sono l’ultima cosa a cui pensano. Ricchezze e potere, fanciulla, sono ciò che cercano. LODE. Allora gli astronomi e i matematici. (78) INVIDIA. Puri vaneggiamenti.15 Andiamocene. I 13; VIII 8; IX 5) in cui l’autore esprime il suo apprezzamento verso questa disciplina al tempo molto diffusa e che peraltro rientrava tra le competenze del matematico. Su queste «oscillazioni», se non veri e propri «radicali capovolgimenti» (Cardini) riguardo un tema tanto pericoloso e in odore di eresia come il libero arbitrio e la necessità delle stelle, anche all’interno di uno stesso scritto (vd. Theogenius), cfr. Cardini, Biografia, pp. 131-55.

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Scritta presumibilmente nel 1442-43, Cynicus è tra i risultati più maturi di quell’impietoso esercizio di smascheramento delle finzioni umane che Alberti praticò nelle Intercenali. «Singolare Giudizio universale» (Cardini), ma anche parodia della metempsicosi pitagorica, il dialogo si dispiega con tutta la sua forza umoristica in un aldilà in cui Febo, assistito da Mercurio, ma soprattutto da un Cinico mordace che ben conosce i suoi pari, è chiamato a decidere in fretta della reincarnazione di schiere di umani che si vanno rapidamente e pericolosamente stipando. Si tratta di scegliere, per le varie categorie umane, quale animale renda giustizia della loro passata vita, secondo un contrappasso analogico. Ai vescovi, ai governanti, ai filosofi, agli scrittori, ai poeti, ai retori, agli astrologi, ai mercanti che provano gli uni dopo gli altri a nobilitare il loro operato terreno davanti alla commissione giudicatrice, il filosofo cinico, quasi controfigura dell’Alberti («parente stretto» del Lepido di Corolle, e di Momo, dio della maldicenza, cui Alberti intitolerà l’altro suo capolavoro di umorismo) svela ai «superiori», che gli danno pieno credito, la loro vera natura, guastata dai peggiori vizi: diventeranno così, per volere di Febo, rispettivamente asini, avvoltoi, lucciole, topi, farfalle, api, tartarughe, scarabei, e alla fine spetterà anche al critico mordace, il Cinico, trasformarsi in un moscone dorato. Scoperta appare l’imitazione di modelli lucianei come Il viaggio agli inferi o il tiranno e il Menippo o la negromanzia: in quest’ultimo dialogo, per esempio, viene stabilito per decreto che i ricchi tornino in terra con sembianze da asini. In Cynicus, però, l’idea viene rielaborata ed estesa, dando al simbolismo asinino un contributo che, per vie probabilmente solo «traverse», culminerà un secolo e mezzo più tardi nella celebre Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno (Bacchelli-D’Ascia). Sulla creazione di questo straordinario pezzo di «cinismo» ebbe la sua influenza probabilmente anche il Giove confutato dello stesso Luciano di Samosata, che, proprio col titolo di Cinicus, Poggio Bracciolini tradusse in un anno purtroppo

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indeterminabile tra il 1428 e il 1444; questo dialogo aveva proprio Cyniscus (il piccolo cinico) quale suo principale interlocutore. La versione latina di Poggio, il cui testo si legge oggi nel codice Vat. Lat. 3082 della Biblioteca Apostolica Vaticana, sembrerebbe essere la fonte anche per la critica all’utilitarismo del culto tradizionale dell’intercenale Religio e del rigoroso determinismo astrale di Fatum et pater infelix (Marsh). Ma il controcanto è qui, forse più che altrove, anche «intratestuale», tra passato e futuro della produzione albertiana: nella scena dei vescovi e dei reggitori di stato si attua infatti un ribaltamento, rispettivamente, dell’ideale figura del vescovo già delineata nel trattatello Pontifex e dell’«iciarca» modello, le cui caratteristiche di buono e retto reggitore familiare – sulla scorta del III libro del De legibus ciceroniano – saranno da Alberti descritte molti anni dopo nel tardo trattato in volgare De iciarchia (Cardini).

Nota al testo L’intercenale è tràdita dal solo codice P, dove occupa il terzo posto del IV libro. Sul testo del codice pistoiese sono intervenuti con circa dodici emendazioni prima Garin (1964) e poi Cardini (2010).

(1) . Omnes eos qui proximis diebus superioribus e vita decessere, o Phebe, huc ad te adduxi, ut iusseras. (2) Itaque vos, o anime, que quidem iterato novissimis susceptis corporibus in vitam estis mortalium rediture, considete isthic, ut queque Phebus imperarit confestim possitis nullo cum tumultu exequi. (3) Tu vero, Phebe, id si tibi ita videbitur, quam primum hos ipsos qui huc appulere transmittes ad mortales. (4) Nam confertissime in horam caterve convolant eorum qui e vita cecidere, ut iam infestus futurus tibi sit immanis animarum numerus. (5) PHEBUS. Id quidem ipsum uti admones, Mercuri, mihi esse faciendum censeo. Sed commodius rem ex instituto expediemus, si hanc que adest legionem defunctorum quasi in centurias et manipulos descripserimus, quo expeditius singulis, que facto esse opus arbitrabimur, edicamus. (6) Ea de re, o anime, pro studiis ac geste vite ratione gregatim congruite. Tu, Mercuri, id sedulo provideto, nequid isti, cum rogantur, mentiantur. (7) Namque ferunt etate hac didicisse mortales in omni re fingendo et fallendo videri velle astutiores.

1 La legione romana in età tardorepubblicana era composta da dieci coorti suddivise in sei manipoli, ognuno dei quali costituito da due centurie. 2 Probabile allusione a una favola di Esopo (n. 260, Il viandante

(1) . Ti ho portato qua, come mi hai richiesto, o Febo, tutti coloro che sono morti nei giorni scorsi. (2) Perciò voi, anime, che state per tornare in vita in spoglie totalmente rinnovate, sedetevi qui, affinché possiate eseguire rapidamente, senza alcun trambusto, ciò che vi ordinerà Febo. (3) E tu, Febo, se ti sembrerà opportuno, rimanda in vita quanto prima quelli che si stanno ammassando qui. (4) Infatti ora dopo ora giungono moltitudini smisurate di coloro che son morti e presto il numero enorme di queste anime ti darà noia. (5) FEBO. Credo proprio che dovrò fare come dici, Mercurio. Ma il disbrigo della faccenda sarà molto più agevole se divideremo quella che ora è una legione di defunti in centurie e manipoli,1 per dire più velocemente ai singoli quello che pensiamo sia necessario fare. (6) Perciò voi, anime, raggruppatevi secondo gli interessi e il tipo di vita che avete condotto. E tu, Mercurio, fai in modo, da bravo, che, quando sono interrogati, non mentano. (7) Dicono infatti che oggigiorno i mortali hanno imparato a volere sembrare più astuti in ogni cosa fingendo e ingannando.2 e la verità), autore «all’Alberti assai familiare» (cfr. Cardini, p. 345), dove la Verità dice: «nei tempi antichi la menzogna era di pochi; ma ora essa alberga presso tutti gli uomini, qualunque cosa si dica o si ascolti».

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(8) CYNICUS. Id ego curabo, o Phebe, qui et omnibus hisce notus et hosce ferme omnes ad unguem novi. Tum vos, o Mercuri, quoniam dii sitis, esse maledicos dedecet. (9) PHEBUS. Et quisnam hic est tam comiter arrogans? MERCURIUS. Non quidem novi. CYNICUS. Num me nosti, qui te deorum primarium semper colui? MERCURIUS. Et quis tu? (10) CYNICUS. Num tu Etruscum illum philosophum meministi, cuius opera iam deperdite littere reviviscunt? (11) PHEBUS. Quisquis sis, profecto non te exhibes infacetum, ut hanc non indecenter tibi delegem provinciam istorum vitam et mores recensendi. Sed iam anime ordinibus disposite consident; itaque huc propius accedamus. (12) CYNICUS. Ha ha he, o gentem ineptissimam et immodestissimam! Non possum facere quin rideam, o Phebe, morositatem et scenicos istorum gestus, qui tanta ambitione et fastu completi sunt, ut toto pectore atque ipsis etiam oculis tumeant. (13) En gentem superbam et arrogantem! etiamne inter defunctos sese primis locis assidendo collocarunt? (14) Ne vero, o inverecundi, diis appropinquantibus non assurgetis? (Tandem nutabundi assurrexere). (15) Huc vos! qui mitra gemmis onusta et ornamentis deorum redimiti extatis, dicite qualem degistis vitam, ut hinc ad mortalium cetus regredientes simillima vestris moribus corpora subeatis.

3 In tutta la produzione umoristica dell’Alberti, invece, gli dei sparlano e infamano tanto quanto (se non di più) degli uomini. 4 Alberti, nelle fattezze del Cinico, che per buona parte lo rappresenta, liquida con una battuta di spirito l’intima ambizione del movimento umanistico, quella di riportare in luce tutto il mondo antico. Come ha notato Cardini (p. 345), infatti, lungi dal doversi intendere seriamente (il che costringe ad identificare l’«Etruscum philosophum» con il Niccoli, come ha fatto Ponte, oppure con

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(8) CINICO. Me ne occuperò io, o Febo, che tutti questi qua mi conoscono bene e anche io conosco benissimo quasi tutti. E poi a voi, o Mercurio, giacché siete dei, non si addice l’essere maldicenti.3 (9) FEBO. E questo insolente così disponibile chi è? MERCURIO. Non lo conosco. CINICO. Davvero non mi conosci, dopo che ti ho sempre adorato come il più grande degli dei? MERCURIO. Ma chi sei? (10) CINICO. Davvero non ti ricordi di quel filosofo toscano grazie al cui lavoro son tornate a vivere le antiche opere letterarie perdute?4 (11) FEBO. Chiunque tu sia, di certo non sei antipatico, per cui non è male delegare a te la mansione di scrutinare le vite e i comportamenti di questa gente. Ecco che già le anime si sono sedute e disposte in ordine; avviciniamoci, dunque. (12) CINICO. Ah, ah, ah! Che razza di sciocchi e presuntuosi! Non posso fare a meno di ridere, o Febo, per l’altezzosità e le pose teatrali di questi qua, che sono talmente pieni di boria e ambizione che ne trasudano, oltre che dal petto, persino dagli occhi. (13) Che gente superba e arrogante! Perfino tra i morti, quando si è trattato di sedersi, si sono messi in prima fila? (14) Maleducati, ma non vi alzate in piedi neppure quando si avvicinano gli dei? (Alla fine si sono alzati, dopo averci pensato un bel po’).5 (15) Venite qua, voi che portate in capo una mitra piena di gemme e siete avvolti da paramenti liturgici, dite che vita avete condotto, affinché, tornando nella schiera dei mortali, possiate entrare in corpi che si adattino ai vostri costumi. Leonardo Bruni, come ha suggerito Marsh) questa battuta è una «spiritosa spacconata» che va inquadrata dentro l’architettura del libro IV delle Intercenales e accostata ad altre simili demolizioni del titanismo intellettuale, ad esempio, in Fama e Somnium. 5 È una di quella didascalie, tipiche della commedia, nelle quali l’attore di scena si rivolge al pubblico.

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(16) SACERDOTES. Fuimus interpretes deorum, curavimus rem sacram, coluimus pietatem, ut nos vulgus hominum merito patres et sanctissimos presides nuncuparint. (17) CYNICOS. Non committam ut susceptum officium deseruisse videar: decantabo vestram improbitatem, neque diis presentibus a vobis erit quod verear. (18) O Phebe, isti more quidem suo mentiuntur, docti omni vita id eniti, ut sibi ipsis multo dissimiles videantur. Nam improbi impientissimique cum sint et omni turpitudinis nota fedissimi, id simulando agunt, ut viri esse boni videantur. (19) Tantaque sunt impudentia, ut sese celitibus noctes integras loqui et maxima cum superis atque inferis diis habere commertia suadeant: qua fallacia modum invenere, ut ociosi et supini per inertiam ex alieno crapulentur. (20) Sacram rem quam sancte et pie fecerint, isthuc, dii, apud vos exploratum reor. Sed num subaudis, o Phebe, armorum strepitus et cadentium gemitus fragoremque ruentium tectorum et urbium, quo maria montesque reboant? (21) Id malum isti conscelerati conscivere suis fraudibus et perfidia, hos ad iniuriam inferendam, hos contra ad vindictam irritando. Gens pestifera! de quibus omnibus ut succincte proloquar. (22) Sunt quidem ignavi et desidiosi, luxu et somno perditi, gula immensa, lingua procacissima, fronte inverecundissima, cupiditate et avaritia inexplebili. (23) Et huiusmodi cum sint, alia ex parte iidem odiis inter se concertant, discordias inter pacatos conflant, bella et cedes concitant: scelerum denique flagitiorumque omnium insignes mirificique auctores et artifices sunt.

6 Il latino «sacerdotes» indica evidentemente dei vescovi, come giustamente arguisce Cardini (p. 345) dalla terminologia prima e dopo utilizzata (§14, mitra; § 50 pontificibus). La descrizione del Cinico si configura dunque come un «controcanto» del Pontifex, trattatello scritto nel 1437 in cui Alberti delineava l’ideale figura del

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(16) VESCOVI.6 Fummo interpreti degli dei, amministrammo i sacramenti, promovemmo il rispetto della religione, così ci siamo conquistati a buon diritto presso il popolo il nome di padri e sacri protettori. (17) CINICO. Farò in modo di non sembrare inadeguato al compito intrapreso: denuncerò la vostra malvagità e non avrò nulla da temere da voi perché sono qui presenti gli dei. (18) O Febo, questi, come al solito, mentono, dopo che nel corso della vita hanno imparato ad adoperarsi per apparire molto diversi da quello che sono. Infatti, pur essendo malvagi, sacrileghi e macchiati dalle impronte di ogni vizio, riescono, dissimulando, ad apparire uomini probi. (19) Sono così sfacciati da riuscire a convincere che passano notti intere a parlare e avere trattative fondamentali con gli dei superi ed inferi: con questo inganno hanno trovato di che vivere nella crapula, oziosi e senza far nulla, sulle spalle altrui. (20) Credo già sappiate, o dei, quanto santamente e devotamente sulla terra amministrano i sacramenti. Forse non senti,7 o Febo, lo strepito delle armi, le grida dei soldati abbattuti e il fragore delle case e delle città che crollano, per cui rimbombano mari e monti? (21) Codesti scellerati compirono volontariamente questo misfatto con frode e perfidia, spingendo gli uni a recare offesa e gli altri a vendicarsi a loro volta. Razza dannata! Per dire in breve di tutti loro: (22) sono pigri e oziosi, dediti al sonno e al lusso, con una gola smodata, una lingua biforcutissima, una faccia di bronzo, senza limiti nella cupidigia e nell’avidità. (23) D’altra parte, essendo fatti così, si dibattono tra loro stessi nell’odio, montano liti tra persone pacifiche, incoraggiano guerre e stragi: insomma, sono artefici mirabili e promotori straordinari di ogni sorta di crimine e delitto. vescovo, pur non risparmiando, dalla voce del parente Paolo Alberti, vescovo lui stesso, pesanti accuse ai vizi della «categoria». 7 Nell’uso albertiano la particella «num», contrariamente all’uso classico, può introdurre una interrogativa retorica anche di senso affermativo.

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(24) MERCURIUS. Religione isthec? Sed me reprimo: ab deorum enim pietate foret impietatis odio etiam adversus impios non esse piissimos. (25) Nam qui bonis bene fecerit merito id fecerit, siquidem merenti ni bona tribuerint dii, boni ipsi non sint. (26) Malis quoque hominibus queque condonarint superi, isthuc pertinet, ut pro his que sponte et ultro erogata sint maiorem in modum obligati, quoad in se sit, par esse a se meritis relatum cupiant. (27) CYNICUS. Equidem isthic, Mercuri, operam perdis. Optimas, sed non usquequaque intellectas eiusmodi sententias recensebis, his presertim apud quos sanctissime huiuscemodi admonitiones assiduo decantantur? (28) Atqui agunt id quidem, non quo sese dictis et exhortationibus ad virtutem excitent, sed ut multitudinem fallant verbis et vultu quoad de se opinionem bonam proseminent; nequissimique et omnium sordidissimi, aures adeo habent obtusas, ut cum de religione propalam declamitent, ipsos sese nequaquam audiant. (29) MERCURIUS. Enimvero, o Phebe. Et quidnam est quod tute tecum suspensus animo tacitusque despectas, ac si gentem hanc odisse videare? (30) PHEBUS. Equidem meditabar quenam huic generi forme animantium debeantur: namque quod voraces quidem fuerint, anseres, quod ocio et somno marcescere didicerint, tassos, quod sordidissimum vite genus delegerint, porcos fortassis condicere opinabar. (31) Verum quod tantas calamitates sua perfidia et impulsu mortalibus accumularint, pro eorum avaritia et scelerum feditate quodnam illis

8 Si noti il particolare poliptoto, che si è cercato di rendere anche nella traduzione. 9 È a metà tra un sillogismo e un sofistico gioco di parole (espresso

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(24) MERCURIO. E queste cose fanno con la scusa della religione? Ma mi trattengo: sarebbe infatti estraneo alla pietà degli dei non essere molto pii anche verso gli empi, seppur trascinati dall’odio per l’empietà.8 (25) Infatti colui che fa del bene ai buoni, lo fa a buon diritto, dal momento che se gli dei non attribuissero beni a chi se li merita, non sarebbero essi stessi buoni.9 (26) Ma che gli dei concedano qualcosa anche agli uomini malvagi mira a questo, a far sì che costoro, più in obbligo per quei doni che sono stati loro dati del tutto spontaneamente, per quanto sta in loro, desiderino che i loro meriti siano pari a ciò che hanno ricevuto. (27) CINICO. Con questi, Mercurio, perdi il tuo tempo. Vuoi passare in rassegna tutte le frasi bellissime ma mai comprese da costoro che più di tutti gli altri ripetono in continuazione santissime ammonizioni di questo tipo? (28) E lo fanno non certo per esortarsi vicendevolmente, con le loro parole ed incitazioni, a comportarsi bene, ma per ingannare il popolo con parole e gesti affinché diffonda una buona opinione di loro; sono i più ingiusti e i più squallidi di tutti, hanno le orecchie a tal punto serrate che quando predicano alla gente la loro religione non ascoltano per nulla loro stessi. (29) MERCURIO. Già, Febo. Ma perché te ne stai così assorto, e li disprezzi in silenzio, come se avessi in odio questa gente? (30) FEBO. Stavo pensando in che animali convenisse trasformare questa razza: in quanto voraci divoratori, avrei detto in oche; in quanto hanno imparato a poltrire nel sonno e nell’ozio, avrei detto in tassi; in quanto hanno scelto un sudicissimo stile di vita, avrei detto forse in maiali. (31) Ma, poiché con le loro perfide istigazioni hanno procurato moltissime disgrazie agli uomini, non mi veniva in mente un ancora con un poliptoto) che ben esprime il tentativo da parte di Mercurio di gettare fumo negli occhi dell’interlocutore, giustificando l’ingiustificabile, vale a dire l’elevata posizione sociale e i beni goduti dai vescovi.

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adiudicarem monstrum non suppeditabat, ni fortassis arpias decressem. (32) CYNICUS. Non id approbem, o Phebe, ni fortasse pestem hanc sacerdotum parum fuisse generi hominum gravem statuas. (33) Quod si, humano cum clausi fuerint corpore, inhumanissimi omnium atque immitissimi erant, quid censes futuros, ubi effigiem bellue teterrime nacti suis moribus sevisse et crassari efferatius licuerit? (34) Meum nimirum id commodius in hac re aderat consilium, ut eos in asinos reiiceres, quo imbelles ad nocendum assiduo et turpi labore atque tedio abiectissima in servitute vitam crebro sub fuste degant. (35) PHEBUS. Dixti pulchre. Vos este asini. MERCURIUS. O factum belle! At vos deinceps proximi adeste. (36) MAGISTRATUS. Adsumus. PHEBUS. Quale vobis fuit vite genus? (37) MAGISTRATUS. Urbes iustitia reximus, libertatem tutati sumus, imperium in populos consilio et diligentia gessimus, rem publicam ornatissimam victoriis et virtute reddidimus. (38) PHEBUS. Hec qui fecerint in deorum numerum recipiendi! MERCURIOS. Profecto ut inquis, Phebe. At tu, Cynice, quid hic ais? Itane obmutuisti? Quid hesitas? Accede huc propius. Dicito in aurem nobis libere queque de hisce noris. (39) CYNICUS. Gero vobis morem. At secedamus item paululum, non enim in istos armatos... MERCURIUS. Diisne presentibus est quod vereare?

10 Bacchelli-D’Ascia (p. 271) individuano un’allusione a Luciano Menippo o la negromanzia 20 (I, p. 447), dove l’assemblea generale

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mostro tale che potesse eguagliarli per avarizia e vergogna dei delitti, se non forse le arpie. (32) CINICO. Non sono d’accordo, o Febo; forse credi che questa peste sia stata di poco conto per il consorzio umano. (33) Se, mentre erano chiusi in un corpo umano, furono i più inumani e crudeli di tutti, cosa pensi che faranno quando, assunte le fattezze di mostri spaventosi, potranno incrudelire secondo i loro costumi e infierire in maniera ancora più efferata? (34) In questo caso io ho un’idea migliore: trasformiamoli in asini, così che, impossibilitati a nuocere, passino la vita a lavorare assiduamente e duramente, come servi abietti, a colpi di sferza. (35) FEBO. Hai detto bene. Siate asini.10 MERCURIO. O bella questa! Fatevi avanti, voi che seguite. (36) GOVERNANTI. Eccoci. FEBO. Che tipo di vita avete condotto? (37) GOVERNANTI. Abbiamo retto le città con giustizia, abbiamo difeso la libertà, abbiamo gestito il potere con saggezza e avvedutezza nei confronti dei popoli, abbiamo onorato lo stato con le nostre vittorie e la nostra virtù. (38) FEBO. Chi ha compiuto tutto ciò deve essere accolto nel novero degli dei! MERCURIO. È proprio come dici, o Febo. Ma tu, cinico, che ne pensi? Ti sei zittito? Perché esiti? Avvicinati. Dicci in un orecchio liberamente quel che sai di costoro. (39) CINICO. Faccio come volete. Ma appartiamoci un pochino, non vorrei che davanti a questi armati ... MERCURIO. Ma cos’hai da temere con gli dei qui accanto a te? dell’Ade delibera che i ricchi, che in vita hanno sfruttato i poveri, siano fatti rinascere asini e in tale condizione trascorrano «duecentocinquantamila anni nascendo asini da asini e portando pesi sotto il bastone dei poveri».

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(40) CYNICUS. Nempe, ac metuo quidem. Nam sunt isti contemptores deorum audacissimi, qui res sacras rumpere, templa incendere nullosque deos superos aut inferos vereri consueverint. (41) Et didicere in inferenda iniuria id agere, ut legibus ipsi tutissimi sint. Moribus et vita fuere huiusmodi: temulenti et contumaces, crudeles, inexorabiles. (42) Domestico in magistratu considendo dicendoque iure, pupillos, viduas imbecillioresque quosque cives expilarunt. (43) In offitio gerendo, non libertatem tutati, sed pro intoleranda libine omnia suo arbitrio gessere: cives cunctos, qui libertatis cupidi videbantur, odere; pueros impuberes virginesque ingenuas constuprarunt; (44) eos qui sese tantis sceleribus aut vetando aut oppugnando obiecerant, mulctaverunt, in exilium, in carcerem pepulerunt; contumeliis, cruciatu, tormentis, peccandi impunitate et licentia quos visum est affecerunt, necarunt. (45) In rebus agendis sola temeritate et contumacia usi sunt. Arma sepius in suos cives, adversus commoda et dignitatem publicam, quam contra hostes sumpsere. (46) Denique patriam colluvione scelestissimorum ex omni fece a suis urbibus eiectorum excepta, bonis et honestis civibus exterminatis, replevere: (47) qua manu teterrimorum et sordidissimorum, quibus ipsi omni laude virtutis erant inferiores, ad exequenda scelera uterentur, ad leges patrias evertendas, ad sacra et profana, publica et privata omnia pro libidine pervertenda, ad durissimas et criminosissimas insontibus et bene meritis civibus conditiones imponendas, nullo metu deorum, nulla verecundia, nulla fide, nulla in dictis aut factis constantia prediti. (48) Summam et quasi capita, o Phebe, flagitiorum, quibus anime istiusmodi consceleratissime referte sunt, exposui. 11 Per Marsh (Poggio and Alberti, p. 203) si tratta di una imitazione, anche se più elaborata, di Luciano Viaggio agli inferi o il tiranno 26 (I, p. 615), dove Cinisco fa a Radamento il profilo del tiranno Megapente: «Ma quando, accompagnatosi coi più facinorosi

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(40) CINICO. Appunto, temo a ragione. Infatti costoro sono insolenti spregiatori degli dei, che infrangono le cose sacre, incendiano i templi e di solito non temono né gli dei superi né quelli inferi. (41) E hanno imparato a recare offesa completamente protetti dalle leggi. Nei costumi e nella vita furono così: ebbri ed arroganti, crudeli, impietosi. (42) Sedendo nelle magistrature cittadine e amministrando la giustizia hanno depredato gli orfani, le vedove e tutti i cittadini più deboli. (43) Nell’esercizio delle loro funzioni non difesero la libertà, ma condussero ogni cosa a loro arbitrio secondo la libidine più sfrenata: odiarono tutti i cittadini che si mostravano amanti della libertà; stuprarono bambini imberbi e vergini di buona famiglia; (44) multarono, mandarono in esilio o in carcere quelli che si erano opposti a sì grandi misfatti col divieto o con la lotta; forti dell’impunità e della licenza di peccare, offesero fino alla morte, con gli oltraggi, le torture e i tormenti quelli che pareva loro. (45) Nelle loro azioni sono sempre stati temerari e arroganti. Presero le armi più spesso contro i loro concittadini, in spregio al bene comune e all’onore dello stato, che contro i nemici. (46) Infine, fatti fuori i cittadini buoni ed onesti, riempirono la loro patria di una masnada di criminali, la feccia espulsa dalle altre città: (47) usarono questo manipolo di gente ignobile e disgustosa – rispetto a cui essi erano comunque inferiori rispetto ad ogni virtù – per eseguire i loro delitti, stravolgere le patrie leggi, volgere a loro capriccio tutte le cose sacre e profane, pubbliche e private, imporre condizioni durissime e criminose a cittadini irreprensibili e benemeriti, senza aver paura degli dei, senza pudore, senza lealtà, senza alcuna coerenza tra ciò che dicevano e ciò che facevano. (48) Ti ho esposto per sommi capi, o Febo, le colpe di cui queste anime scelleratissime sono ricolme.11 e raccolta una guardia del corpo, insorse contro il potere legale e si fece tiranno, uccise più di diecimila persone senza giudizio, incamerò

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(49) PHEBUS. Huc igitur vos, o magistratus! este accipitres atque e vestigio e conspectu evolate. (50) MERCURIUS. Expectabam quidem parem his vitam atque superioribus pontificibus futuram, quod essent moribus non dissimiles, ut eque fuste et lassitudine penas luerent. (51) PHEBUS. Etsi satis penarum dedere, quandoquidem ad inferos ferme illorum descendit nemo sine obsceno gravique vulnere et cede, tamen rei huic a me percommode provisum est. (52) Nam cum vita fuerint rapaces, id illis vitium pro pena fore relictum statui, quo assidue excrucientur; quod autem libertatem odere aliorum, provisum a nobis est ut aut in servitute et compedibus marcescant, aut difficili in libertate sibi victum in horam non aliunde quam ex preda capiant. (53) Itaque ad reliquos istos expediendos pergamus. Verum et quenam hec succedit pallentium et abesorum turba, ut cum morbo et fame eternum luctasse videantur? Accedite huc vos! (54) PHILOSOPHI. Adsumus. MERCURIUS. Et quinam estis? (55) PHILOSOPHI. Vestre, o Mercuri, sumus delitie, tuque, Phebe, favete: nam celitum dignitatem et numen apud ignavos mortales omnibus nostris in litteris tutati sumus in omnique nostro instituto degende vite ab omni corpori et humanarum rerum commertio, supera et divina spectantes, alieni fuimus, ut vestre iam sint partes id providere, ne denuo ad ullam carnis molem nobis invisam retrudamur.

i beni di ciascuno e, giunto al colmo della ricchezza, non tralasciò nessuna forma di intemperanza. Usò ogni crudeltà ed ogni violenza a danno degli sciagurati cittadini, violentando fanciulle, oltraggiando giovinetti e maltrattando i sudditi in ogni modo. Della sua alterigia poi, della sua boria, della sua arroganza verso quanti si presentavano a lui tu non potresti infliggergli una pena che fosse adeguata […] Non solo, ma chi potrebbe descrivere in fatto di punizioni le trovate crudeli di un uomo che non risparmiò neppure i suoi più intimi?».

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(49) FEBO. Allora, o governanti, siate avvoltoi e volate via subito dalla mia vista! (50) MERCURIO. Mi aspettavo che questi fossero destinati ad una vita uguale a quella dei vescovi di prima, e come loro espiassero le loro colpe con fatiche e bastonate, dato che avevano abitudini simili. (51) FEBO. Anche se hanno già scontato abbastanza pene, dal momento che nessuno di loro è sceso agli inferi senza una ferita tremenda e oscena o una strage,12 tuttavia ho provveduto a ciò in una maniera assai opportuna. (52) Infatti, siccome in vita furono rapaci, ho stabilito che questo vizio resti loro come una pena che li affligga costantemente; siccome ebbero in odio l’altrui libertà, ho stabilito che o invecchino in ceppi e in schiavitù, oppure in una stentata libertà vadano procurandosi di che sopravvivere giorno per giorno, come da una rapina. (53) Ma passiamo ora a occuparci degli altri. Cos’è questo gruppo di gente pallida e macilenta, che sembra aver lottato tutta la vita con la fame e la malattia? Ehi, voi, venite avanti! (54) FILOSOFI. Eccoci qua. MERCURIO. Ma chi siete? (55) FILOSOFI. O Mercurio, o Febo, siamo i vostri prediletti, favoriteci: infatti in tutti i nostri scritti abbiamo difeso la dignità e il prestigio dei celesti presso gli uomini ignavi e in ogni decisione sulle scelte di vita abbiamo sprezzato ogni rapporto con la carne e le vicende umane, contemplando le cose celesti e divine, così ora voi dovete fare sì che noi non si torni di nuovo in un ammasso di carne a noi odioso.13 12 Come evidenziano Bacchelli-D’Ascia (p. 275), il richiamo è probabilmente a Iuv. X 112-113 «Ad generum Cereris sine caede ac vulnere pauci / descendunt reges et sicca morte tyranni» («pochi re scendono dal genero di Cerere senza una strage o una ferita, pochi tiranni hanno una morte non insanguinata»). 13 Tema platonico già ripreso da Alberti in Defunctus §§ 39498.

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(56) CYNICUS. O gentem petulcam, improbam, insolentem! Num dispudet etiam diis legem indicere? Idne ita vobis licere arbitramini, quod tanta fueritis tamque insigni imbuti arrogantia, dum vitam inter homines agebatis, ut non modo privatis civibus populisque regibusque, sed vel orbi terrarum et ipsis astris et universe nature legem sitis ausi inconsultissime inscribere? Unum admoneo, o Phebe, si hos auscultes sophistas, in eam procacitatem proruent ut coram non te esse deum contendant. (57) PHILOSOPHI. Tu quidem, o Cynice, more hoc agis tuo, qui obtrectando et maledicendo frustra philosophum te dici obliterasti. (58) CYNICUS. Quid putes hosce, o Phebe? De contemnenda gloria scriptitarunt, cum preter gloriam nihil in eo opere affectarint; paupertatem non esse malam affirmarunt, cum suas et studia ad questum nundinarias habuerint. (59) PHEBUS. Heus, Mercuri, ne convitiis tempus teramus! Evoca garrientes istos tibi (ut ostentarunt) familiares quibuscum statue quasnam sibi dari formas velint. (60) Vos Mercurium sequimini. Animis enim, ne in otio cessent, dari volo corpora quibus sempiterne in officio vigeant. At vos proximi, ne eos non consequimini? (61) SCRIPTORES. Non eadem nobis atque his fuit in studiis litterarum opera et cura. Vestra enim, o dii, gesta tradidimus litteris et temporum versiones et volubilitatem fortune descripsimus, ut qui nos legerint et doctiores et prudentiores fiant. (62) CYNICUS. Hi quidem omnium sunt qui pre se ferant, si eorum scripta perlegas, nihil scisse vacuum mendacio dicere. Finxere principes invictissimos, contiones habitas, superatos

14 Topico il motivo dell’ipocrisia dei filosofi, che si trova, come sottolineano Bacchelli-D’Ascia (p. 277), in Cic. Pro Arch. 26, brano

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(56) CINICO. Che razza di sfacciati, impertinenti, arroganti! Non vi vergognate a dettar legge anche agli dei? Pensate vi sia lecito fare anche qui ciò che, pieni di una incredibile arroganza, faceste mentre eravate in vita, al punto che osaste dettar legge non solo ai privati cittadini, ai popoli e ai re, ma, in maniera del tutto dissennata, al mondo stesso, alle stelle e a tutta la natura? Ti avviso, o Febo, che se ti metti ad ascoltare questi sofisti, daranno sfogo alla loro logorrea fino a dimostrare davanti a te che tu non sei un dio. (57) FILOSOFI. Tu, o cinico, fai come al solito: criticandoci e calunniandoci scordi, invano, che anche tu sei definito un filosofo. (58) CINICO. Cosa pensi di loro, o Febo? Hanno scritto sul bisogno di disprezzare la gloria, cercando con quest’opera nient’altro che la gloria;14 hanno sostenuto che la povertà non è un male, ma i loro scritti erano venali e i loro studi sempre volti al guadagno. (59) FEBO. Avanti, Mercurio, non perdiamo tempo in discussioni! Chiama a te questi chiacchieroni che sembrano conoscerti molto bene e decidi con loro quale forma vogliono avere. (60) Voi seguite Mercurio. Alle anime voglio infatti dare corpi che le tengano sempre occupate, perché non poltriscano nell’ozio. E voi, che siete loro vicini, non li seguite? (61) STORICI. Nell’attività letteraria noi e i filosofi abbiamo avuto interessi e scopi diversi: noi, infatti, abbiamo tramandato con le lettere le vostre imprese, o dei, e abbiamo descritto i rivolgimenti storici e la volubilità della fortuna, per rendere più dotti e più saggi coloro che ci leggeranno. (62) CINICO. Se leggi per intero le loro opere, questi sono fra tutti quelli che si vantano di non saper dire nulla privo di menzogna. Si sono inventati principi invincibili, orazioni citato anche da Lorenzo Valla nel suo De vero bono II XXVIII 17, p. 79, e Luciano Menippo o la negromanzia 5 (Bacchelli-D’Ascia, p. 277), ma anche in Cic. Tusc. I 34 (Cardini, p. 347).

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montes et maria, denique debellatas gentes que hostem nullum viderunt. (63) Alia ex parte reclusi bibliothecis, bene meritorum famam rodendo voluere putari vulgo litteratissimi, et tanta flagrant invidia, ut preter se alios litteratos haberi nullos cupiant. (64) Et in hac levitate gloriantur posteris immortalitatem sui nominis reliquisse! (65) PHEBUS. Hos ego, etsi leves fuerint, qui tamen id egere ut in vita fuisse videantur, laudandos censeo. Estote idcirco mures. Vos vero proximi? (66) POETE. Sumus poete. PHEBUS. Odi quidem vos, quod generi deorum tantas notas vestris fabulis inurere non sitis veriti; quod ni lyra et plectro delectassetis, persolveretis penas. (67) CYNICUS. Cave, Phebe, hos qui adsunt deputes tanto fuisse ingenio, ut veteres illos imitari potuerint qui de vobis diis ludicra finxere, sed a veteribus auctoribus versiculos unos itemque alteros deflorarint, quos tanto in honore haberi volunt ut Museum Orpheumque longe sibi postponendum asseverent. (68) PHEBUS. Estote papiliones. Num et vos una cum istis? (69) RHETORES. Tametsi, o deorum optime, pro tua iustitia et pietate... (70) CYNICUS. Quasnam verborum ambages inceptatis? Negabitisne eiusmodi ferme vobis atque illis fuisse artes? (71) tametsi ipsi nequiores estis, qui vestras primas laudes in eo posuistis, quod applaudendo et assentando gratiam

15 Questa critica degli storici «sottintende» per Cardini (Mosaici, p. 54, n. 4) la lettura del Come si deve scrivere la storia di Luciano, e di almeno due brani di Cicerone, De leg. I 4-5 e Brut. 62.

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pronunciate, mari e monti superati, popoli debellati che invece non hanno mai visto un nemico.15 (63) D’altra parte, standosene chiusi nelle loro biblioteche a spigolare un po’ di fama degli uomini benemeriti, vollero che il popolo li reputasse coltissimi, e l’invidia li rode a tal punto che desiderano essere considerati gli unici uomini di lettere. (64) E persi in questa stoltezza, si vantano di aver lasciato ai posteri il proprio nome immortale! (65) FEBO. Benché siano stati stolti, credo vadano lodati per aver tentato di lasciare qualche traccia del proprio passaggio sulla terra. Perciò siate topi. I prossimi! E voi chi siete? (66) POETI. Siamo poeti. FEBO. Vi detesto, perché non avete avuto timore di diffamare la famiglia degli dei con le vostre favole; se non fosse che con la vostra lira e col vostro plettro ci avete fatto divertire, ora ne paghereste il fio! (67) CINICO. Attento, Febo, a non sopravvalutare quelli che vedi qui, ritenendoli capaci di imitare gli antichi poeti che inventarono storie così divertenti su voi dei; questi hanno solo preso dagli autori antichi un versetto lì, un altro là16 e credono che i loro prodotti siano tanto stimati da anteporli a quelli di Museo e Orfeo.17 (68) FEBO. Siate farfalle. Anche voi fate parte dello stesso gruppo? (69) RETORI. Per quanto, ottimo degli dei, in ossequio alla tua giustizia e pietà... (70) CINICO. Perché attaccate con questi giri di parole? Negherete di avere abilità del tutto simili ai poeti? (71) Anche se valete ancora meno, perché avete riposto i vostri principali meriti nell’ottenere consenso tramite applausi e

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Cfr. Corolle § 21. Sono i «proto-poeti» per antonomasia.

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inire, obtrectando vero atque maledictis quemvis trahere in odium atque invidiam sitis docti? (72) PHEBUS. Sitis apes. CYNICUS. En, ut frontem obduxere! O factum probe! Nihil apud hos natura loquacissimos fuit hac in re molestius, quam exordiri et exquisite proloqui non licuerit. (73) RHETORES. Tantamne vim habere delatores putes, ut etiam optimos deos suis calumniis moveant? CYNICUS. Ha ha he! Garriendo evolant. (74) PHEBUS. At vos deinceps proximi adeste ocius. Et quid hesitatis? Hui! quid hoc mali est, quod tantis cicatricibus adeo inscripti estis? – Tu vero, Cynice, quid rides? (75) CYNICUS. Istos quidem qui sese montes, maria, terras, ethera ac denique orbem ipsum a centro ad supremum celum metiri, qui futurorum eventum, qui te, o Phebe, qui Martem, qui Iovem et reliquos celicolas qua lege dispatiari soliti sitis nosse affirmant, dum ita sunt ingenio hebeti, ut tractandis acutis illis quibus utuntur triangulis pene membratim se ipsos conciderint. (76) Sed ineptiarum suarum multa ex parte penam persolverunt. Nam siquid predicendo, sive artes aut error, fefellit, insani habiti sunt; siquid vero ex eorum dicto successit, non ipsi laudati, sed veluti a pueris et stultis casu id excidisse vaticinium interpretati sunt. Tu contra et quid rides, Phebe? (77) PHEBUS. Cum te in primis, qui ridiculus sis, tum et mortalium ineptias. Effecisti memoria ut repeterem atque irriderem qui non modo mathematicis, sed vel nostris quidem vatibus, cum quid monemus, fidem adhibent nullam, nisi cum

18 Per questo «spaccio» degli astrologi e delle loro assurde pretese cfr. Cic. De divin. I 36 e II 85-99 (Cardini, p. 347). Ma anche nel Momus (IV 61) Alberti contrappone la capacità conoscitiva dei pittori alle vane chiacchiere che i filosofi fanno sul cielo: «Is [pictor] quidem lineamentis contemplandis plus vidit solus quam

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cenni del capo, siete esperti nel gettare odio ed invidia su chiunque denigrandolo e sparlandone. (72) FEBO. Siate api. CINICO. Oh, come hanno corrugato la fronte! Hai fatto proprio bene! Condizione più tremenda non può darsi per questi linguacciuti per natura che trovarsi impossibilitati ad esordire e a sproloquiare. (73) RETORI. Pensi che i delatori abbiano tanto potere da turbare con le loro calunnie perfino gli dei ottimi? CINICO. Ah, ah, ah! Volano via ronzando! (74) FEBO. Avanti i prossimi, veloci. Perché esitate? Ahi, cosa vi è capitato di tanto grave che siete tutti sfregiati da cicatrici? E tu, cinico, cosa ridi? (75) CINICO. Rido di costoro che sostengono di saper misurare mari e monti, cielo e terra e l’universo tutto dal centro al più remoto dei cieli, di prevedere il futuro, di conoscere la legge secondo cui tu, Febo, Marte, Giove, e gli altri abitatori del cielo vi aggirate per i cieli; mentre sono così ottusi che, a forza di maneggiare quei triangoli acuti che adoperano nei loro calcoli, si sono praticamente fatti a pezzi da soli.18 (76) Del resto hanno già molto pagato per le loro stupidaggini. Infatti, se nel predire qualcosa la loro arte o un errore li fa sbagliare, vengono presi per matti; se invece accade loro di predire qualcosa che si realizza, non vengono lodati, ma, come si fa coi bambini e i mentecatti, si dice che ci hanno preso per caso. E ora perché ridi tu, Febo? (77) FEBO. Un po’ a causa tua, che sei ridicolo, un po’ per le sciocchezze dei mortali. Mi hai fatto ricordare, e ne rido, che costoro non prestano fede non solo agli astrologi, ma neppure ai nostri indovini, quando diamo qualche avvertimento, se vos omnes philosophi celo commensurando et disquirendo» («Ha capito più cose lui [il pittore] da solo, studiando i tratti del corpo, di quante ne abbiate capite tutti voi filosofi con le vostre misurazioni e disquisizioni sul cielo»).

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ad id ventum est, ut emendari vitarique calamitas nequeat: (78) quo demum in statu rerum perturbatissimarum constituti, cuiusvis vesani et stolidi meminerint dicta, eadem pro dei oraculo reputant. Sed quidnam istos esse statuimus? (79) CYNICUS. Testudines. PHEBUS. Este testudines. Sed eccum Mercurium et philosophos qui secesserant. Depactine estis quippiam? (80) MERCURIUS. O gentem insolentem et inter se discordem! (81) CYNICUS. Innatum id quidem illis et perdomesticum vitium est, Mercuri. Nulla unquam in sententia convenere, neque cum de bono et malo, neque cum de vero et falso, neque cum de causis et progressibus rerum loquerentur. (82) Semper enim inter eos fuere diverse et pugnantes opiniones. Et illud didicere, ut cum disceptando et argumentando quod instituerant satis nequeunt persuasisse, ad convitium et contumeliam decurrant. (83) PHEBUS. Et quidnam nunc, quid aiunt? (84) MERCURIUS. Insaniunt. Mereri enim se de diis grandia autumant: multum attulisse mortalibus luminis ad bene beateque vivendum, deos fecisse ut vereantur. (85) Quid multa? Alii leonem, alii elephantum, alii aquilam, alii cete et grandia nobiliaque huiusmodi suis animis condicere corpora protestantur. (86) CYNICUS. O arrogantissimi! 19 Topico il motivo della litigiosità dei filosofi e dell’impossibilità che essi addivengano a conclusioni comuni. Qui però, anche in considerazione del fatto che, nell’esemplare appartenuto all’Alberti, esso è «contrassegnato da fitti segni di richiamo» (Cardini, p. 347), sembrerebbe obbligato il riferimento a Cic. De leg. I 53: «Quia me Athenis audire ex Phaedro meo memini Gellium, familiarem tuum, quom pro console ex praetura in Graeciam venisset, Athenis philosophos, qui tum erant, in locum unum convocasse ipsisque magno opere auctorem fuisse, ut aliquando controversiarum aliquem facerent modum; quodsi essent eo animo, ut nollent aetatem in litibus conterere, posse rem convenire; et simul operam suam illis esse pollicitum, si posset inter

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non quando la sciagura è già arrivata e non può più essere evitata o attenuata: (78) quando poi si trovano in stato di emergenza, ricordandosi delle parole di un pazzo o di uno scemo qualsiasi, le scambiano per il pronunciamento di un oracolo divino. Ma cosa vogliamo farli diventare? (79) CINICO. Tartarughe. FEBO. Siate tartarughe. Ma ecco Mercurio e i filosofi che si erano appartati. Vi siete messi d’accordo? (80) MERCURIO. Che uomini insolenti e sempre in disaccordo fra loro! (81) CINICO. Questo è per loro in verità un vizio innato e molto usuale, Mercurio. Non sono mai d’accordo su nulla, sia che discutano del bene e del male, oppure del vero e del falso, che delle cause e degli effetti delle cose. (82) Hanno sempre opinioni diverse e contrastanti.19 E fanno così: quando non riescono a convincere delle loro conclusioni col dialogo e le argomentazioni, passano alle contumelie e agli insulti. (83) FEBO. E ora che c’è, cosa stanno discutendo? (84) MERCURIO. Sono pazzi. Sostengono infatti di avere grandi meriti nei confronti degli dei: di aver illuminato gli uomini su come vivere bene e felicemente, e di aver fatto sì che avessero timore degli dei.20 (85) Perché farla lunga? Reclamano per le loro anime corpi grandi e nobili, chi il leone, chi l’elefante, chi l’aquila, altri la balena. (86) CINICO. Che arroganti! eos aliquid convenire» («Mi ricordo d’aver sentito dire ad Atene dal mio Fedro che il tuo amico Gellio, quando venne in Grecia col grado di proconsole dopo la pretura, convocò tutti i filosofi, che si trovavano allora in Atene, in un sol luogo e che insistentemente propose loro di porre una buona volta un qualche limite alle loro polemiche; ché, se avevano intenzione di non passare tutta la loro vita in liti, potevano mettersi d’accordo; ed insieme promise il suo appoggio, se fosse possibile qualche accordo fra loro»). 20 È una gustosa parodia della filosofia epicurea, secondo cui, invece, gli dei non si curano delle faccende umane e dunque non sono da temere.

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(87) MERCURIUS. Sunt tamen inter eos nonnulli modestiores qui se cuniculos optent, quo visceribus terre perscrutandis et herbarum radicibus indagandis delectentur. (88) PHEBUS. Inveni quidem quo pacto eorum superbiam retundam. Adeste vos, sophiste! Minutissimum decerno corpus et in officio perseveretis iubeo: deferte lumina et este noctiluce. Demum nos, o Mercuri, ad Iovem redeamus. MERCURIUS. Ut lubet. (89) MERCATORES. At nos, o Mercuri, ne despectos deseres? (90) CYNICUS. Tu istos ad superos redire, si sapis, prohibebis, Phebe, qui quidem, ac si eternum essent victuri, in parandis opibus nunquam fuere satietate affecti. (91) MERCATORES. Nullosne cessabis lacessere, o mordax Cynice? Num te perspicis ut odio sis omnibus, calumniator? Inter mortales homo nemo diis dedit munera, nemo superis fecit vota quam nos maiora et frequentiora. (92) Tum et sepe rem publicam libertatemque civium et salutem ab impendentibus incommodis nostro ere et opibus tutati sumus. (93) CYNICUS. O perfidissimum genus! Vos quidem diis vota, non nego, mare periclitantes, inter latrones collapsi, fecistis; maxima vero ea, sedato periculo, exequi penitus neglexistis. (94) Siquid diis condonastis, pompe id, non religionis gratia condonastis. Postremo, cum satis et veste et argento et ostentatione divitiarum intumuistis, ere alieno onusti, fide obpignerata decoxistis. (95) PHEBUS. Erunt isti scataveones. Nos demum abeamus, o Mercuri. 21 «Scataveones» nel testo latino è neologismo di conio albertiano, che connota gli scarafaggi come «mangiatori di sterco» (sko¯r, skatós in greco è «sterco»). Perosa ha per primo sdoganato questo neologismo (Considerazioni, p. 57, n. 43), ma è stato Cardini a darne una esauriente spiegazione in termini di contrappasso: «avendo, in quanto mercanti, passato la vita ad accumulare denaro, e quindi

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(87) MERCURIO. Tra di loro però ve ne sono alcuni più modesti che vorrebbero essere conigli, così da divertirsi ad esplorare le viscere della terra e analizzare le radici delle piante. (88) FEBO. Ho trovato un modo sicuro di rintuzzare la loro superbia. Avvicinatevi, sofisti! Ho scelto per voi un corpo piccolissimo e vi ordino di fare sempre il vostro dovere: portate la luce e siate lucciole. O Mercurio, torniamo finalmente da Giove. MERCURIO. Come vuoi. (89) MERCANTI. E noi, Mercurio, non ci abbandonerai così negletti? (90) CINICO. Se sei saggio, o Febo, impedirai che tornino di sopra costoro che non si sono mai stancati di accumulare ricchezze, come se dovessero vivere in eterno. (91) MERCANTI. O mordace di un Cinico, quando la pianterai di offendere tutti quanti? Ti rendi conto che ti odiano tutti, calunniatore? Nessuno fra i mortali offrì doni più grandi agli dei o fece loro voti più frequenti di quanto non abbiamo fatto noi. (92) Inoltre abbiamo spesso difeso a nostre spese da sciagure imminenti lo stato e la libertà e la salvezza dei cittadini. (93) CINICO. Che razza di imbroglioni! Avete, certo, fatto voti agli dei, non lo nego, in mezzo al mare in tempesta, o caduti in mano ai briganti; ma i più seri di questi voti, scampato il pericolo, vi siete completamente dimenticati di adempierli. (94) Se donavate qualcosa agli dei, lo facevate per mostrare le vostre ricchezze, non per devozione. Poi, dopo esservi compiaciuti a sufficienza delle vostre vesti, del vostro denaro e dell’ostentazione del lusso, oberati di debiti, siete falliti. (95) FEBO. Questi saranno scarafaggi.21 Andiamocene una buona volta, Mercurio. essendosi sempre nutriti di “cacca del diavolo”, è assolutamente giusto che, da scarabei, continuino a nutrirsi (non più però in senso metaforico) allo stesso modo» (Cardini, p. 348).

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(96) MERCURIUS. I pre, sequor. Sed nostrum Cynicum? PHEBUS. Ohe! Tu musca eris auripellis.

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(96) MERCURIO. Va’ avanti, ti seguo. E il nostro Cinico? FEBO. Ohè! Tu sarai una mosca dalla pelle dorata.22

22 Ricordando che l’Alberti scrisse, sulla scorta di Luciano, un elogio paradossale della mosca, questa conversione finale potrebbe fornire una probabile conferma di quanto il personaggio del Cinico abbia tratti autobiografici. Anche nella Musca l’insetto lodato è descritto «aureo enim et discolori ere thoraca» (con «una corazza di bronzo dorato e variopinto»).

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Nel I libro del Momus, il romanzo satirico e lucianeo opera della piena maturità (1450 ca.), Alberti dà corpo ad una raffigurazione allegorica tra le più sorprendenti e inquietanti dell’intera sua produzione: il parto mostruoso di Lode che, violentata da Momo, mette quasi istantaneamente al mondo un mostro orrendo e raccapricciante di nome Fama, che tutti vorrebbero sopprimere subito. Ma non è possibile: ha infatti ereditato dai genitori, due membri dell’Olimpo, il dono dell’immortalità. Figlia del dio del Biasimo e della Maldicenza (Momo) e della dea Lode – che, come mostra bene l’intercenale Corolle, ha il potere di distribuire coroncine ambitissime da tutti gli uomini – Fama unisce in sé verità e menzogna, proprio, ha notato Rino Consolo, come la poesia (epica) nell’Ars poetica di Orazio (v. 151 «veris falsa remiscet», «mescola l’invenzione col vero»). Non è quindi un caso che questa intercenale, pur nella sua brevità, sia «da cima a fondo tramata» (Cardini) di prelievi dall’epica, soprattutto dall’Eneide, riutilizzati in chiave parodica: dalla promessa iniziale di Libripeta a Lepido di narrare il bellum combattuto fino alla fuga finale del narratore sotto un «diluvio» di colpi. Che con la fama Alberti avesse un conto aperto, i suoi studiosi lo sanno bene: sin dalla sua prima operetta, la commedia Philodoxeos fabula, alla fama, frutto di dicerie mondane e quindi già configurantesi come un disvalore, Alberti aveva contrapposto la Gloria. Ma in Fama, in «questa scena di commedia» che rappresenta, esplicitamente ricollegandosi a Somnium già nella prima battuta, il secondo atto del «ciclo di Libripeta» (Cardini), il riso dell’Alberti non infierisce tanto sulla Fama o sugli uomini che ambiscono a raggiungerla, come i mercanti a cui i guardiani Potenza e Ricchezza spalancano le porte del tempio: che la stoltezza esistesse (l’asino che essi conducono al sacrificio) e che fosse anzi potenziata dalla ricchezza era cosa ben assodata. Lo spaccio di Alberti si indirizza piuttosto verso coloro che vorrebbe poter considerare suoi colleghi, gli uomini di lettere (gli intellettuali, diremmo oggi) che provano in ogni

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modo a trasportare dentro al tempio un bue macilento, che evidentemente non hanno le sostanze per nutrire adeguatamente. L’animale non è certo scelto a caso, anche se non di univoca interpretazione: se Bacchelli e D’Ascia l’hanno ricollegato al «bue aggressivo e ribelle» che nella Vita sancti Potiti di Alberti (1432-34), sulla scorta della tradizione esegetica di Origene (Comm. in Ioh. X 24, 142) e Gerolamo (Tract. in Ps. CXLIII 14), «simboleggiava la vanità diabolica dei desideri umani», Cardini ha ricordato invece come «marmoreum bovem aut phreneticum» («bue candido o frenetico») fosse appellativo di scherno col quale in Toscana si prendeva in giro il letterato quando era troppo preso dalle sue meditazioni, immagine che già il nostro aveva utilizzato nel giovanile De commodis litterarum atque incommodis (V 18, p. 44). A questo proposito si deve ricordare che, proprio nel proemio al Bracciolini del IV libro delle Intercenales (dentro il quale, in quarta posizione, Fama si inserisce), l’Alberti si era ritratto come una capra che si nutre di erbe rare procacciate su inerpicati pendii, da contrapporre ad una mandria di bufale che si nutrono oziosamente su una spiaggia fangosa. Se, inoltre, altrove, come nella Vita S. Potiti, la plebs è descritta come volubile, istintuale e pronta a seguire la convenienza o a dar credito all’apparenza del momento, qui tanta maggior responsabilità è addossata a Libripeta: il «tipo» di letterato odiato da Alberti prima segue la processione in disparte e solo «per gioco» prende parte al truculento sacrificio del bue, per poi infine cambiare improvvisamente bandiera quando la situazione si mette male (ma non senza essere platealmente punito). Il simbolo di un cinico opportunismo che, purtroppo, è senza tempo. L’intercenale è stata congetturalmente datata da Cardini al 1442-43. Nota al testo Fama è tramandata dal solo codice P, su cui hanno operato alcune lievi congetture prima Garin (1964) e poi Cardini (2010).

(1) LEPIDUS. Quidnam hoc rei est, Libripeta, quod te semper fedum atque obscenum intueor? (2) LIBRIPETA. Ne vero et tu, Lepide, non affuisti dum bellum gessimus? (3) LEPIDUS. Si quidem procacitate et maledictis pugnandum fuit, te illic, puto, perstrenuum habuisti. (4) LIBRIPETA. Iam tandem, oro, desine mecum usque adeo esse mordax. (5) LEPIDUS. Iuvat his quas a te didici rebus ille apud te non ignarum videri. Verum desino. At enim quale gessistis bellum, queso? Armisne? (6) LIBRIPETA. Et, dii immortales, quam illis quidem inusitatis! Nunquam tali armorum genere pugnatum esse memorie proditum est. Sed quid agimus? Te ego aliud facturum, me vero tu hic frustra detines. Vale. (7) LEPIDUS. Heus, ne absis! Cupio quidem isthuc de bello abs te discere. LIBRIPETA. Ridebis. LEPIDUS. Tanto eris gratior. 1

Cfr. l’incipit di Somnium. Si tratta, condensata in una battuta, della poetica delle Intercenales e dell’umorismo albertiano, cfr. il Proemio dell’opera a Paolo dal Pozzo Toscanelli (p. 223): «Tu quidem, ut ceteri physici, Paule mi suavissime, amaras et que usque nauseam moveant egrotis corporibus medicinas exhibes; ego vero his meis scriptis genus levandi morbos 2

(1) LEPIDO. Ma perché mai, Libripeta, ti vedo sempre impresentabile e sporco?1 (2) LIBRIPETA. Ma non c’eri anche tu, Lepido, quando abbiamo fatto la guerra? (3) LEPIDO. Se c’è stato da combattere a suon di insulti e sfrontatezza, credo proprio che tu abbia dato il meglio di te. (4) LIBRIPETA. Ti prego, smettila una buona volta di rimbeccarmi. (5) LEPIDO. Mi piace farti vedere che ho ben appreso quello che mi hai insegnato. Ma la smetto. Ma che razza di guerra avete combattuto? Con le armi? (6) LIBRIPETA. E quanto inusuali, santi numi! Nessuno ricorda una battaglia combattuta con questo genere di armi. Ma che facciamo? Io trattengo te, che hai altro da fare, e tu trattieni me inutilmente. Ciao. (7) LEPIDO. Ehi, non te ne andare! Desidero sapere da te qualcosa su questa guerra. LIBRIPETA. Ti divertirai.2 LEPIDO. Sarai tanto più gradevole! animi affero, quod per risum atque hilaritatem suscipiatur» («Tu, certamente, mio dolcissimo Paolo, come tutti gli altri medici, somministri ai corpi ammalati delle medicine, amare fino a provocare la nausea; io invece con questi miei scritti offro un modo per alleviare le malattie dell’animo attraverso il riso e l’allegria»).

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(8) LIBRIPETA. Rem ergo enarrabo, ut potero, breviter. Apud forum, non longe a templo Fortune, perpaucis cognitum sacellum pervetustum ac religiosimum dee Fame dedicatum, quod quidem qui sint ingressi eternum vivent; idcirco a sacerdotibus, nequis temere ingrediatur, summa custodia observatur. (9) Cui muneri sacerdotes assidue quatuor, Divitie, Potentia, Facinus et Occasio, advigilant, mores et vitam adventantium perscrutantes. In valvis sacelli tituli huiusmodi inscripti sunt: ODI IGNAVOS. ANIMAM DEDITO. (10) Idcirco plerique studiosi litterarum, sane inepti atque inopes, eo bovem unum macie ac senecta ita extenuatum deferebant sacrificii gratia, ut eum ex his qui, igne cornibus ab Hannibale immisso, in hunc usque diem sylva aberrasse, putem. (11) Hos ego studiosos a longe segregatus, otiosus, ludi gratia consectabar. Ecce illico Occasio sacerdos, pro more nobis factus obviam, nostram et vitam et mores discit. (12) Potentia vero sacerdos et Divitie, qui tum nonnullis mercatoribus eo asinum ad sacrificium protrudentibus hinc atque hinc quam poterant apertas valvas tenuerant, nobis, cum eo appulimus – inique factum! - easdem illas quas mercatoribus aperuerant, nobis succludunt valvas atque in eum locum firmissimis vectibus ita confirmant, ut vix homo unus nudus sese, in latus quasi per rimam inserpens, in sacellum queat emergere. (13) Tum Occasio sacerdos, nobis ut paulo apertior ingressus prestaretur orantibus, inquit: «Siquidem isthuc agitis, agite pro viribus dum adsum. Nam, si abero, nullus vobis patebit aditus». Hisque dictis verbis in templum sese recipit. (14) Nos illico quisque accingi manumque adigere, ut

3 Cfr. Sil. It. Pun. VII 328-76, o anche Corn. Nep. Hannibal 5, 2, ove si narra di come Annibale, accerchiato in una foresta dai romani guidati da Quinto Fabio Massimo, riuscì ad uscirne utilizzando dei

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(8) LIBRIPETA. Ti racconterò questa storia il più brevemente possibile. Presso la piazza, non lontano dal tempio della Fortuna, pochissimi sanno che c’è un tempietto antichissimo e venerando, consacrato alla dea Fama, e chi ci entra vivrà in eterno. Perciò i sacerdoti prestano grandissima attenzione affinché uno non ci entri avventatamente. (9) Questo compito assolvono assiduamente quattro sacerdoti, Ricchezza e Potenza, Azione e Occasione, vagliando scrupolosamente la vita e i costumi degli avventori. Sulla porta del tempietto si legge questa iscrizione: ODIO GLI IGNAVI, DAI TUTTO TE STESSO. (10) Perciò moltissimi intellettuali, poveri e inetti, portavano in sacrificio un bue tanto macilento e stremato dalla vecchiaia, che pensai che fosse uno di quelli cui Annibale aveva legato una miccia sulle corna, e che da allora in poi fosse andato continuamente vagando per la foresta.3 (11) Io, in disparte e senza far nulla, guardavo quegli intellettuali tanto per divertirmi. Ecco che, come al solito, ci si fece incontro tutto d’un tratto il sacerdote Occasione e ci interrogò sulla nostra vita e i nostri costumi. (12) Intanto i sacerdoti Potenza e Ricchezza, che avevano tenuto le porte aperte come potevano da una parte e dall’altra ad alcuni mercanti che vi spingevano dentro un asino per sacrificarlo, a noi che in quel momento ci avvicinammo – che ingiustizia! – chiusero quelle stesse porte che avevano aperto ai mercanti e le sprangarono con sbarre solidissime in modo tale che una persona, anche nuda, avrebbe fatto fatica ad introdursi nel tempio strisciando di lato attraverso una fessura. (13) A noi che lo pregavamo di tenerci un po’ aperto l’ingresso, il sacerdote Occasione rispose: «Se cercate di entrare, fate quel che potete finché ci sono io; quando me ne sarò andato, non avrete più alcun accesso». Dopo aver detto ciò, rientrò nel tempio. (14) Noi allora ci mettemmo subito in azione buoi, cui aveva fatto legare sulla testa delle stoppie accese, al fine di generare scompiglio.

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cornipetam bovem et recalcitronem cauda, quantum queat, in sacellum viribus traheremus, annitebamur. (15) At dum huic ridiculo operi frustra insudaretur, bovi cauda evulsa est. Eam ob rem placuit bovem eo ipso in templi vestibulo mactare frustrisque percisum distribuere, ut singulas singuli partes in sacellum deportarent. (16) Pauci integrum aliquod membrum, quisque tamen honestam sibi partem sumpsit; ego ventrem, qui humi relictus esset, in gremium recipio. (17) LEPIDUS. Ha ha he! dignum te tali onere! LIBRIPETA. Pulchre. LEPIDUS. Sequere. (18) LIBRIPETA. At sacerdotes «indignum facinus! profanari templum» acclamarunt. Confestim plebs tumultuans undique in nos irrupit; ereptisque ab his qui conferebant cornibus, iisdem pro armis utuntur. (19) Ego, ut vi agi rem intellexi, illico, ventre deiecto, una cum plebe studiosos convicio prosequor. Quidni? hominis providi est in tempore sibi aliqua fraude consulere. (20) Sed quod aiunt sepius fraudem quam fidem eos in quibus vigeat decipere, nobis profecto res ipsa preter institutum successit. (21) Nam mihi quidem ore quam apertissimo vociferanti nescio quis ventrem in caput meum confregit.

4 La tecnica con cui i letterati provano a portare il bue dentro il tempio ricorda l’espediente con cui Caco rubò la mandria dalla grotta di Ercole: trascinò i buoi per la coda in modo tale che le orme guidassero Ercole nella direzione opposta, cfr. Prop. IV 9, 11-12; Verg. Aen. VIII 209-10 (Bacchelli-D’Ascia, p. 291), ma anche Liv. I 7, 5 (Cardini, p. 350). 5 Il nesso tra lo strappo della coda e la decisione di uccidere il bue si capisce solo, come puntualizzano Bacchelli-D’Ascia (p. 293), facendo riferimento alla legge mosaica (cfr. Levitico 22, 23), secondo la quale la coda strappata diminuisce il valore del sacrificio. 6 In queste corna utilizzate come «armi improprie» Bacchelli-

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per tentare di trascinare per la coda4 il bue nel tempietto, che dava cornate e recalcitrava più che poteva. (15) Mentre ci affaticavamo inutilmente in quell’operazione ridicola, la coda del bue si strappò. Per questo motivo5 ci sembrò giusto uccidere il bue nel vestibolo stesso del tempietto, e, fattolo a pezzi, distribuirceli, in modo tale che ognuno di noi ne portasse una parte nel tempietto. (16) Pochi ebbero un pezzo intero, ciascuno, però, accettò la sua buona parte; io raccolsi le viscere che erano rimaste per terra. (17) LEPIDO. Ah, ah, ah! Proprio la parte che ti si addice! LIBRIPETA. Proprio. LEPIDO. Continua. (18) LIBRIPETA. I sacerdoti gridarono: «Sacrilegio! Il tempio è profanato!». In un attimo la plebe fu su di noi; strappò le corna a chi le portava e le usò come armi.6 (19) Io, appena capii che si passava alle mani, gettai subito a terra le viscere e mi unii alla plebe nella lotta contro gli intellettuali. Che c’è? Un uomo avveduto sa sempre tirare fuori qualche trucchetto al momento giusto. (20) Ma poiché, come spesso si dice, la furbizia più dell’onestà cade vittima dei suoi stessi escamotage,7 a me la cosa andò ben diversamente dalle mie aspettative. (21) Infatti, mentre gridavo a perdifiato, non so chi mi rovesciò sulla testa le viscere del bue.

D’Ascia (p. 293) hanno visto un’allusione alla battaglia tra Centauri e Lapiti descritta da Ovidio in Met. XII 380-82: «qui tempora tecta gerebat / pelle lupi saevique vicem praestantia teli / cornua varia boum multo rubefacta cruore» («che proteggeva le tempie con una pelle di bue e teneva in mano variegate corna di bue, rosse di sangue copioso, che adoperava al posto delle armi feroci»). 7 Come notato da Cardini (p. 350), si tratta della rivisitazione di un proverbio medievale già assurto a topos nel mondo classico. Per il carattere controproducente della frode cfr. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano, Bur, 1991, nn. 265-76.

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(22) LEPIDUS. Ergo tu hoc pacto eternum vives, Libripeta. LIBRIPETA. Sane quidem eternum, ubi ex eo diluvio evasi. LEPIDUS. I te lotum. LIBRIPETA. Eo.

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(22) LEPIDO. Così vivrai in eterno, Libripeta. LIBRIPETA. Davvero in eterno, se sono scampato a quel diluvio!8 LEPIDO. Va’ a lavarti. LIBRIPETA. Vado.

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È bene rilevare, per ragioni non solo formali, ma ermeneuticamente fondanti (vd. introduzione a questa intercenale), che il sintagma «ex eo diluvio», come ha puntualizzato Cardini (pp. 350-51), costituisce una tessera prelevata di peso da Verg. Aen. VII 228.

ERUMNA (LA SVENTURA)

Ideale prosecuzione dell’intercenale Pupillus, anche l’autoconsolatoria Erumna (La sventura) ha per protagonista Philoponius («amico della sofferenza»), vittima delle sciagure familiari ed evidente controfigura dell’Alberti. Se lì però il racconto amarissimo di un giovane di talento maltrattato dai parenti e dalla sorte non lasciava spazio che ad una risentita denuncia della massima «La fortuna è nemica dei giusti», qui la struttura retorico-dialettica ed una interiorizzazione della lezione stoica collaborano a che il protagonista non risulti uno sconfitto: alla Fortuna che, per bocca dell’anonimo interlocutore, proporrà infine a Philoponius di cambiare la propria condizione con quella del ricchissimo Triscataro (o, addirittura, con quella di chiunque desideri), il protagonista rifiuterà dopo essersi reso conto che la vera felicità consiste nell’accettare serenamente la propria condizione. Ha notato a ragione Giovanni Ponte che Erumna «sta fra la rivendicazione polemica della dignità del “letterato” pur disprezzato e povero, espressa nel giovanile De commodis litterarum atque incommodis» (e, si potrebbe aggiungere, anche dell’infelice ambizioso della Philodoxeos fabula, o del più tardo Gelasto nel Momus) e «la diffidenza verso i potenti, laici ed ecclesiastici, che emerge nel libro IV della Famiglia», cui l’intercenale è molto probabilmente coeva. A questo proposito non si dimentichi che quando Alberti compone Erumna (per la datazione si veda sotto) è già sicuramente da diversi anni al servizio di Eugenio IV, ed è nota la fioritura in curia di una letteratura del disincanto e dello smascheramento del lato oscuro del potere – pur da ottiche diverse –, dal De infelicitate principum di Poggio Bracciolini al De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini. Ma coi libri della Famiglia, e in particolare col proemio al I libro, la prima parte di Erumna condivide anche l’analisi della decadenza delle famiglie, le quali di rado piombano nell’infelicità se non «per solo sua poca prudenza e diligenza» (Opere volgari I, p. 10).

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L’intercenale, intrisa di motivi senechiani, in particolare del De constantia sapientis, trae anche diverse suggestioni lucianee: il protagonista ricorda inizialmente il misantropo Timone (che dà il titolo a una omonima operetta); la sconvenienza per il filosofo di mettersi al servizio di un signore rimanda invece al dialogo Intorno ai dotti che convivono per mercede; mentre il ricco Triscataro sarebbe un’eco della definizione che nel Viaggio agli inferi o il tiranno Cinisco dà del tiranno Megapente, «tre volte maledetto» (Acocella). Va ricordato, inoltre, che il contrasto tra il povero ma ingegnoso e ambizioso e il ricco ma fortunato ricalca quello già presente nella giovanile Philodoxeos fabula dove Philodoxus si contrappone a Fortunius. Pur mettendo in guardia contro l’atteggiamento di una parte della critica che vuole sempre identificare con personaggi storici i protagonisti albertiani (spesso più debitori del passato letterario che della realtà presente), è suggestivo il parallelo istituito da Ponte fra il saggio anonimo interlocutore, definito «vecchio amico di famiglia caro come un padre», e l’austero cardinale Nicolò Albergati, che fu molto legato agli Alberti e in particolare al vescovo di Bologna, Alberto di Cipriano Alberti, quest’ultimo protettore dello stesso Battista. Difficile datare con precisione questa intercenale: si va da Ponte che la data al 1435-36 a Bacchelli-D’Ascia che propongono il 1440-1442, fino a Cardini che, sulla base di un passo del Pontifex (ottobre 1437) dove si lamenta la crisi della «compagnia di corte», avanza la data del trattato scritto a Bologna come «sicurissimo terminus ante quem».

Nota al testo L’intercenale Erumna è tramandata dal solo codice P, dove è collocata come quinto pezzo del libro IV. Il testo è stato emendato congetturalmente in alcuni luoghi prima dallo scopritore del manoscritto e primo editore, Eugenio Garin (1964), e poi, a più riprese, da Roberto Cardini (1978, 1993, 2010).

(1) ***. Salve, ac tibi dii quidem faciles ac propitii sint tuumque hoc quicquid est gaudii secundent, ut esse te animo isthoc alacri curisque vacuo letor. Et quidnam est, quod tute isthic solus rideas? (2) PHILOPONIUS. O me miserum! (3) ***. Tamne repente ad merorem, in quo te esse audieram, Philoponi, recidis? Etenim ea de re huc advolaram, ut amici officio uterer consolando, iuvando. (4) Nunc autem qui ut erumnam abs te levarem accesseram, si ab animi letitia te adventu meo in luctum revocari, doleo. (5) PHILOPONIUS. An est ut hominem mihi quempiam dari te iucundiorem aut gratiorem posse existimes? Neque tu mihi non vehementer acceptus, neque ad has conceptas miserias tolerandas eris non accomodatissimus. (6) Sed hac fortune plaga et durissimo tempestatis impetu perculsus et prostratus, cum te ceterosque nostre familie cupidissimos intueor commiseratione calamitatis nostre esse subtristes, nequeo non facere quin ipsum me quoque, in quem omnis hec quassate et funditus everse domus ruina concidit, ani-

1 Difficile dire se l’anonimato dell’interlocutore sia volontà ultima dell’autore oppure lacuna provvisoria che avrebbe dovuto essere colmata in una successiva e mai compiuta (o non pervenutaci) redazione. Certo è che anche nel II libro del Momus entra in scena un filosofo anonimo.

(1) ***.1 Salve. Che gli dei ti siano benigni e propizi e assecondino ogni tuo desiderio, sono proprio contento di vederti così allegro e sereno. Come mai sei qui a ridertela da solo? (2) FILOPONIO Ah, che disgraziato che sono! (3) *** Così all’improvviso ricadi nella depressione di cui mi avevano parlato, Filoponio?2 Proprio per questo mi ero precipitato qui: volevo, consolandoti e aiutandoti, comportarmi da amico. (4) Essendo venuto per alleviarti il peso delle disgrazie, mi rincresce davvero che ora il mio arrivo ti abbia fatto ripiombare dalla gioia al dolore. (5) FILOPONIO. Come puoi pensare che non ti consideri la presenza più cara e gradita? Non è vero che non mi sei graditissimo, né che non sei la persona più adatta ad aiutarmi a sopportare le mie pene. (6) Ma, prostrato dai colpi della fortuna e abbattuto dai tremendi rovesci di questa tempesta, quando vedo te e tutti gli altri ben disposti verso la nostra famiglia profondamente amareggiati perché provano compassione per la nostra sciagura, non posso evitare di pensare a me stesso, sul quale principalmente ha pesato il tracollo 2 L’improvviso sbalzo d’umore di Filoponio ha indotto Cardini (Umorismo, pp. 56-57; Onomastica, pp. 166-68) ad accostare questa maschera albertiana a quella certo più nota di Lepido, col quale ha in comune alcuni tratti.

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mo et cogitatione respectem: (7) quo fit ut tantis ac tam insperatis esse me obrutum malis vehementius indoleam. (8) Namque mihi quidem infelicissimo, in ultimas miserias costituto, relictum esse nihil intelligo, quo ulla vel minima expectatione melioris fortune coheream. (9) Et siqua fueram iocunda spe solitus perfrui, ea erepta atque abducta est. Et res quibus fidere licuit, omnes uno funesto ac penitus misero casu cecidere: fama, auctoritas dignitasque familie nostre, que mihi ornamento futura et sperabam et expectabam. (10) Nec, ne possum quidem hoc ferre animo equo: celebrem in hanc usque diem et claram familiam nostram privatis simultatibus, indignissimis discidiis immoderatisque contentionibus consanguineorum meorum, qui eam tueri et in dies honestiorem reddere debuissent, iam tum esse dehonestatam et perditam. (11) Quam nostram duram, acerbam sortem tu et amici, pro insigni humanitate vestra erga nos et misericordia, deploratis. (12) Et incommodorum nostrorum alienos a nostra familia maiorem animo suscepisse molestiam, quam hi quorum fidei splendor decusque familie esse cordi debuerat, demiror. (13) ***. Malo te animi tui gratia ad risum deducere, quam ista que commemoras acerba prosequi. Aliud enim erit tempus ista commemorandi. (14) Etenim, agedum, mitte ex animo istas tristes curas mihique hanc operam presta, qua fiet

3 Qui Alberti allude molto probabilmente, come fa notare Ponte (La crisi, pp. 166-67), ad un preciso fallimento imprenditoriale, avvenuto nel 1435-36, quello della «compagnia di corte», una compagnia commerciale fondata nel 1427 dai cugini e tutori di Battista e del fratello Carlo, vale a dire Benedetto di Bernardo e Antonio di Ricciardo, quest’ultimo al servizio della curia pontificia di papa Eugenio IV. 4 Nella seconda metà del XIV secolo gli Alberti avevano effettivamente raggiunto un enorme peso sociale ed economico per merito della loro potenza commerciale e bancaria e soprattutto per la loro posizione privilegiata nella finanza pontificia avignonese. Il

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della nostra casa: (7) così accade che mi dolga più amaramente delle terribili disgrazie, e così inattese, che mi hanno travolto.3 (8) Sventuratissimo, in una situazione di miseria estrema come sono, non mi è rimasto, a farmi tener duro, nemmeno un filo di speranza in un possibile miglioramento. (9) Se prima mi aggrappavo a qualche piacevole speranza, ora mi è stata strappata anche quella. Le cose su cui facevo affidamento le ho perse tutte con un unico funesto colpo della sorte: la fama, il prestigio, l’autorità della nostra famiglia, che mi aspettavo sarebbero stati il vanto della mia vita a venire. (10) Non posso nemmeno sopportare in maniera equanime tutto ciò: che una famiglia fino ad oggi illustre e prestigiosa4 sia oggi infangata e rovinata dalle liti private, dai vergognosi dissidi e dalle contese dei miei parenti, che invece avrebbero dovuto difenderla e aumentarne il prestigio giorno dopo giorno. (11) Tu ed altri amici, per la vostra grande sensibilità e umanità nei miei confronti, compiangete la mia dura e amara sorte. (12) Ma mi meraviglio che il dolore maggiore per le mie disgrazie sia sorto in coloro che della mia famiglia non fanno parte, piuttosto che in coloro che dovrebbero avere a cuore il buon nome della famiglia. (13) ***. Visto il tuo stato d’animo, preferisco farti ridere piuttosto che farti continuare nel ricordo di tutte queste amarezze.5 Avremo altre occasioni per parlarne. (14) Dai, metti da parte queste tristi preoccupazioni e pensa piuttosto a far

nonno di Leon Battista, Benedetto, sembra che pagasse da solo un trentaduesimo delle entrate tributarie dell’intera città di Firenze, che al tempo era una delle più ricche città dell’Occidente, cfr. Paoli, Alberti (vd. MONOGRAFIE), p. 17. 5 Il proposito qui espresso è perfettamente in linea con l’intento terapeutico dell’opera dichiarato dall’Alberti nel proemio al primo libro delle Intercenali, indirizzato a Paolo dal Pozzo Toscanelli (per cui vd. Fama, nota 2). Per la poetica filosofica del serio ludere si veda L. D’Ascia, Erasmo e l’Umanesimo romano, Firenze, Olschki, 1991, pp. 84-87.

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ut cum ipse quoque rideam, tum et tu interim molestia vaces. (15) Recita quid mente et cogitatione versabas, cum tacitus et perfamiliariter ipse modo pro meo more et consuetudine superveniens, te hic in bibliotheca ridentem repperi. (16) PHILOPONIUS. Equidem recte admones ac morem tibi geram. philosophum – hominem, ut nosti, sordidum et agrestem – suaque omnia disputandi prodigia et commenta, quibus tam audacter et impudenter abutitur, irridebam. (17) Nam is, ut nuper ad me consalutatum accessit, lacernam pertritam et putridam usu et vetustate, multa immurmurans multaque secum ipse garriens, solvit ex humeris. (18) Tandem, aliquo quasi ab insomnio excitatus, me spectans oculis turbulentis, «Et quid, o heus tu inepte!», grandi voce inclamitat, «Quidnam turpe non ducis, homini forti presertim atque litterato tibi simili, cadere in merorem et curis tristibus succumbere? (19) Ubi animus a te expectatus, fortis et contra omnes impetus fortune ratione et caducarum rerum despicientia armatus atque munitissimus? (20) Ecquid metuis paupertatem? Dives est, cui nihil deest. Quid optas amplitudinem? Cum illo agitur preclare, cui adimere possit fortuna nihil. (21) Quid est, quod indigne ferendum ducas? Illudne quod tui fortassis partam a maioribus tuis laudem et claritatem temere disperdant? (22) Ornatissimus omnium est is qui vitio et turpitudine vacat. Gaude idcirco, vir animi generosi, te virtute ac peritia bonarum artium esse neque inexpertum neque incultum». (23) At ipse, cum hominem omni facie corporis contemptum atque abiectum 6 Il riso albertiano non può che interporsi tra due stati di dolore, come, alcuni secoli dopo, il piacere leopardiano, che si configura come temporanea assenza di dolore. 7 Di particolare rilievo è l’ambientazione di questa intercenale, che, come il «sogno filosofico» di Fatum et fortuna e il finale del De iciarchia, si svolge tra gli scaffali di una biblioteca (cfr. Cardini, Alberti e i libri, p. 23). 8 Sul valore conoscitivo dei sogni Alberti insiste in più luoghi della

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ridere anche me, e a liberare per un po’6 te stesso dal dolore. (15) Dimmi cosa avevi per la testa quando, sopraggiungendo come mio solito senza preavviso, in maniera assai confidenziale, ti ho trovato qua in biblioteca7 che ridevi. (16) FILOPONIO. È senza dubbio un buon consiglio e ti assecondo. Ridevo del filosofo *** – un uomo, come sai, rozzo e ignorante – e delle sue mirabolanti tecniche di argomentazione su ogni tema che usa tanto sfacciatamente e senza vergogna. (17) Questi, quando poco fa è venuto a salutarmi, si è tolto dalle spalle il mantello liso dal tempo e lercio dall’uso, mormorando e farfugliando varie cose fra sé e sé. (18) Poi, come destatosi da un sogno,8 guardandomi con gli occhi spiritati, «Allora, sciocco che non sei altro!» grida a gran voce «non ti vergogni, a maggior ragione perché sei un uomo forte e colto, a cadere in depressione, in balìa dei tristi pensieri? (19) Dov’è il coraggio che ci si aspetta da te, che sei forte e attrezzatissimo, grazie alla ragione e al disprezzo delle cose caduche,9 contro gli attacchi della fortuna? (20) Perché temi la povertà? È ricco colui al quale non manca nulla. Perché desideri la ricchezza? Va magnificamente a colui al quale la fortuna non può portar via nulla. (21) Che cos’è per te insopportabile? Forse il fatto che i tuoi rovinino avventatamente la buona fama e il prestigio procurati dai tuoi antenati? (22) Chi è privo di vizi e turpitudini, quello è l’uomo eminente. Perciò rallegrati, animo nobile, di essere virtuoso e versato nelle arti liberali». (23) Ma io, a vederlo d’aspetto così misero e abietto,10 a stento trattenevo il

sua opera: anche il philosophus dell’intercenale Fatum et fortuna ha imparato di più durante lo stato di sonno che quello di veglia, così come il Libripeta dell’intercenale Somnium. 9 Cfr. Cic. De off. I 66 «rerum externarum despicientia» (Cardini, p. 360). 10 Topico il tema della bruttezza dell’uomo saggio, che, già presente nel celebre elogio di Socrate fatto da Alcibiade nel Simposio

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satis inspexissem, vix continui risum. Tum ille exhilaratus: «Et quidnam, proh superi, potest ratio?», inquit. (24) «Unico vel minimo disputationis congressu, duce ratione, animos errore et falsis opinionibus imbutos ad rectam et veram virtutem et sapientiam philosophi revocamus atque restituimus». Cum hec dixisset, lacerna correpta, abiit. (25) ***. Tu vero, etsi illius vitam atque mores agrestes et rudes non vehementer probabas – neque enim mihi illius hominis Cynica superstitio unquam probari potuit –, (26) sed rationi fortassis et suasionibus istiusmodi acquiescebas atque in eam sententiam, ni fallor, adducebaris ut existimares neque metuendum quod nullam te malis afficiendi vim haberet, neque maximopere optandum quod facile deperdi atque amitti posse arbitrere, neque non facili et equo animo ferendum quicquid vacuum turpitudine sit, (27) atque postremo propriis animi viribus in primis fidendum suisque, non admodum alienis, bonis letandum esse. (28) PHILOPONIUS. Mihi quidem ista que recitas haudquaquam levia possunt aut ieiuna videri, quandoquidem a gravissimis et doctissimis viris, uti tu es, coram disputantur. (29) Sed quo auctoritati vestre, que apud me semper valuit, tribuo plurimum, eo esse queque asseveretis non neganda censeo, magis quam ut isdem me ab egritudine et molestia levatum sentiam. (30) ***. Quid, si quispiam roget easne ipsas philosophorum sententias futiles penitus et leves esse existimes, an veras easdem potius et graves deputes? (31) PHILOPONIUS. Veras quidem. ***. Quid tum, si roget rursus ratio te ipsa et veritas an non moveat? platonico (215a-222b), troverà la sua «canonizzazione» umanistica nel celeberrimo adagio erasmiano Sileni Alcibiadis. 11 Si noti che dall’originale latino emerge più chiaramente una condanna di questa scuola filosofica, desunta probabilmente, come suggeriscono Bacchelli-D’Ascia (p. 303), da Cic. De off. I 41 e 148. Si veda quello che ha scritto Ponte, La crisi, p. 162: «Di essi [gli Stoici]

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riso. Allora quello, divertito: «Santi numi, cosa può fare la ragione!?» esclamò. (24) «Con una sola, anche brevissima, opportunità di dialogo, condotto dalla ragione, siamo in grado di ricondurre e riconsegnare alla verità e alla virtù gli animi imbevuti di errori e false opinioni.» Detto questo, ha afferrato il mantello e se n’è andato. (25) ***. Tu, anche se non ne sopportavi lo stile di vita e le abitudini rozze e selvatiche – anche io non ho mai sopportato l’ortodossia cinica11 di quell’uomo – (26) nel merito delle sue argomentazioni gli davi ragione e, se non erro, eri indotto a credere che non si deve temere ciò che non può danneggiare e neppure desiderare ciò che si crede di perdere facilmente, e che si può sopportare con animo sereno tutto ciò che è privo di turpitudine, (27) e, infine, che bisogna fare affidamento soprattutto sulle forze del proprio animo, e rallegrarsi di quei beni che dipendono da noi, non di quelli che dipendono da altri. (28) FILOPONIO. Senza dubbio quello che dici non può sembrare inconsistente o senza sostanza, dal momento che è sostenuto pubblicamente da uomini assai colti e autorevoli, come del resto sei tu. (29) Mi inchino davanti alla tua autorità, che ha sempre avuto grande valore su di me, al punto da approvare tutto quello che hai detto, ma non posso dire che le tue parole mi abbiano risollevato dalla tormentosa malinconia. (30) ***. E se qualcuno ti domandasse se giudichi futili e inconsistenti le sentenze dei filosofi, oppure, al contrario, vere e di grande peso, cosa risponderesti? (31) FILOPONIO. Che le considero vere. ***. E allora, se fossero la ragione e la verità stesse a chiedertelo, riuscirebbero a smuoverti? Alberti accetta solo i motivi in comune con lo Stoicismo moderato circa la superiorità del saggio, forte della sua virtù, sui beni caduchi della sorte, ma respinge l’esagerato rifiuto di ogni comodità della vita e l’eccentrica sfida alle consuetudini sociali».

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PHILOPONIUS. Dixero: me ipsa res et accepta calamitas arctius detinet quam ut vestra commoveant verba. (32) ***. An ea sunt fortassis in te illata incommoda maiora quam ut ab eo qui rationi pareat perferri possint? (33) PHILOPONIUS. Me quidem vis calamitatis et adversus impetus in eam egritudinem et animi imbecillitatem coniecit, ut lucem veritatis contui et gravissimam rationis vocem auribus sine molestia non possim capere. (34) ***. Et quid, si huius tue egritudinis quispiam abs te causam querat, partim disputandi gratia, quod libenter soles, partim ut cognitis atque perceptis morbi rationibus, quod fieri posse non diffido, ad ponendam erumnam et secludendam omnem molestiam opem auxiliumque afferat? (35) PHILOPONIUS. Hanc ego te auctore susceptam disputandi consuetudinem perlibenter sequar, qua ne ipse quidem diffido fore, tua iuncta prudentia et sapientia, ut animum collapsum et fractum excitem atque restituam. (36) Idque quo efficias commodius, tibi operam sine ulla contumacia prestabo causasque tristitie huius mee planius explicabo. (37) Nam sepe iam antea una tecum, vetere parentum nostrorum amico, quem ipse patris amantissimi loco habeo, de iniquitate meorum querebamur, (38) quod in eis tanta esset insolentia et temeritas ut, dum illorum quisque sese impudenter principem familie haberi ac dici vellet, non id virtute ac diligentia communique rei cura promereri elaborabant, sed per intolerabilem quandam animi elationem et fastidium insaniebant inque eos qui fortunis essent in familia inferiores, non patrium imperium sed tyrannorum pene dominium sibi arrogabant his legibus, quibus sibi erga 12 La finalità maieutica del dialogo è di chiara matrice socratica. Socrate è, del resto, assieme a Democrito, l’unico filosofo di cui Alberti non faccia lo «spaccio» nel Momus, opera in cui sono prese di mira le principali scuole filosofiche. 13 Per l’identificazione di questo personaggio cfr. l’introduzione all’intercenale.

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FILOPONIO. Direi che la mia situazione e la sciagura subìta mi trattengono con più forza di quella che hanno le vostre parole. (32) ***. I danni che hai subìto sono forse maggiori di quelli che può sopportare un uomo che ubbidisce alla ragione? (33) FILOPONIO. La forza e l’impeto della sventura mi hanno gettato in uno stato di inerzia e depressione tale che non posso più vedere la luce della verità né ascoltare senza fastidio la voce severa della ragione. (34) ***. E che diresti se qualcuno ti chiedesse i motivi della tua malattia, un po’ per il piacere della discussione, che tu condividi, un po’ per aiutarti a capire le radici del male e dunque a estirparlo, e por così fine alla sventura – cosa che non diffido possa succedere? (35) FILOPONIO. Se la conduci tu, riprenderò molto volentieri la vecchia abitudine della discussione,12 grazie a cui anch’io confido che, mettendo insieme la tua saggezza e la tua sapienza, saprai ridare vigore al mio animo abbattuto. (36) E per facilitarti il compito, ti aiuterò non opponendo alcuna resistenza e spiegandoti per bene le cause di questa mia tristezza. (37) In passato più di una volta mi sono lagnato con te, vecchio amico di famiglia, e a me caro come un padre,13 dell’ingiustizia dei miei parenti, (38) perché erano tanto arroganti e avventati che, mentre ciascuno di loro ambiva, sfacciatamente, a essere considerato il capo della famiglia, non si affaticava per nulla a meritarsi quel titolo gareggiando con gli altri in avvedutezza, scrupolo e attenzione verso il patrimonio comune,14 ma, tracotanti e sdegnosi com’erano, infierivano contro i più piccoli della famiglia, arrogando a sé non la patria potestà ma il dominio dei tiran14 Questo sarebbe compito dell’«iciarca» (neologismo di conio albertiano a indicare la persona che esercita l’autorità suprema nella famiglia, e la gestisce), quale il nostro delineerà molti anni dopo questa intercenale nel suo ultimo dialogo De iciarchia.

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minores iracundia et importunitate omnia licere arbitrarentur, (39) neque parem quidem sibi fore ulla in re quempiam sine indignatione et contumeliis paterentur, in omnique sua, quecumque illa esset dura et pervicax sententia aut opinio, ut persisterent, non rationibus illi quidem suadendi et ingenio, sed convitiis, iurgiis et altercationibus eniterentur. (40) Hinc fiebat, certandi studio vincendique cupiditate, ut suo etiam maximo cum discrimine quisque eorum ceteros omnes in calamitatem cadere elaboraret quo, exhaustis divitiis quibus elati ipsi et supra quam par esset confidentes efferrentur, nulli per egestatem sibi pares admodum essent futuri. (41) Qua ex re que acerbissime inter eos iniuriarum et vindicte contentiones, que gravissime discordie, que pernities et interitus facile subsecutus sit, non recenseo: res ante oculos versatur miseranda et collugenda. Sed omnis hec calamitas, me miserum!, in me penitus coheret. (42) Nam ipse qui modo, dum darem operam virtuti dumque litterarum et bonarum artium cognitione atque peritia me in dies ornatiorem et comptiorem facere studuissem, multa pollicebar in eaque eram spe optima constitutus, (43) ut non diffiderem me affinium meorum opera assecuturum aliquid earum rerum que fame, auctoritati dignitatique familie nostre deberentur queve non sine fraude quadam et iniustitia esse ab his, qui ea conferre possent, denegata omnes diiudicabant; (44) qui item, cum non pauci homines potentissimi adessent qui, celebritate et veteri beneficentia familie nostre commoti, sponte omnia pollicerentur, in eum me propediem locum venturum expectabam, ut illorum suffragiis et intercessione mihi gratiam multorum et benivolentiam possem obsequiis

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Cfr. § 6. Alberti sta qui ripercorrendo, attraverso la maschera di Filoponio, gli anni universitari bolognesi, spesi nello studio utriusque 16

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ni e tirando fuori leggi con le quali pensavano di poter esercitare ogni arbitrio e insolenza verso i minori, (39) e non tolleravano, senza arrabbiarsi e inveire, che qualcuno potesse avere prerogative pari alle loro in una certa situazione, difendevano sempre le loro posizioni, per quanto dure e ostinate, non con argomenti razionali e persuasivi, ma con le grida, gli insulti e le risse. (40) A causa di questa smania di gareggiare e brama di sopraffare l’altro accadeva che ciascuno, incurante persino dei gravi pericoli che poteva procurare a se stesso, cercava di rovinare gli altri, al punto che, consumate le ricchezze grazie alle quali si erano elevati più in alto di quanto potessero sperare, nessuno gli sarebbe stato pari per miseria. (41) Non sto a ricordare le ferocissime contese tra di loro, le offese, le promesse di vendetta, le pesantissime faide, coi danni e le sciagure che ne sono derivati: i fatti indegni e penosi sono sotto gli occhi di tutti. Ma il peggio di questa rovina, ahimè!, mi si è incollato addosso.15 (42) Infatti, mentre mi impegnavo a raggiungere la virtù e di giorno in giorno diventavo più colto e forbito attraverso lo studio delle lettere e delle arti liberali, in questo campo promettendo davvero bene, ero così speranzoso (43) da confidare che, con l’aiuto dei miei parenti, avrei ottenuto risultati che si addicevano al prestigio, alla fama e all’autorità della nostra famiglia16 e che, come pensavano tutti, non potevano essermi rifiutati senza un torto palese e una grave ingiustizia da parte di chi aveva il potere di conferirli; (44) siccome, inoltre, c’erano molti uomini assai potenti che non erano indifferenti alla nobiltà del nostro benemerito casato e che mi facevano spontaneamente molte promesse, mi aspettavo che presto sarebbe giunto quel momento in cui, grazie al loro favore e alla loro intercessione, mi sarei potuto procurare la stima e l’amicizia di molti, iuris (vale a dire di diritto canonico e civile), cfr. Autobiografia. Per Alberti e Bologna si veda Guerra, Alberti e Bologna.

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et omni officiorum genere accumulare; (45) ea tamen cum ita essent, in hanc calamitatem incidi, ut neque fortunis meis, neque affinium opera, neque pollicitatorum opibus habeam unde meis queam necessitatibus satis facere. (46) Nam et ipsi affines mei, accepto vulnere quod illorum propria temeritas concitavit, fortuna inflixit, ad sese ab ultima pernitie tuendos vix valent; (47) et ceteri quidem omnes qui iam nostras esse res perturbatas et perditas sensere, ne graves sibi nostris incommodis simus, refugere atque excludere consuescunt. (48) Ego autem, et a fortuna abiectus, et a meis despectus, et a ceteris desertus iaceo. (49) Quare, cum a tanta spe ceciderim, cum tantum infortunium et durissimam sortem subierim, quanto me idcirco in dolore animi versari censes, maxime dum id animo repeto, me prope a summa felicitate uno hoc tempestatis momento in infimam esse miseriam deiectum, a firmaque et grandi meliorum rerum expectatione in desperationem rerum omnium, a copia et frequentia eorum qui se amicos profitebantur in solitudine atque egestate relictum? (50) Et qui animo summam capere voluptatem consueverim, quod in familia copiam heredum et iuventutis speciem crescere atque florescere intuerer, nunc idem dolore permaximo afficior quod eos, non ad gloriam maiorum equandam, quam cura et diligentia eorum quibus familia commendata esset facile assequi potuissent, sed ad fortune ictus perferendos, ad incommoda perpetienda natos video; (51) qui preterea splendore veteris familie nostre et claritate gloriabar – quas res a maioribus nostris comparatas patres nostri in exilio per alienas provincias errantes pulchre servassent – idem, indignissima et detesta-

17 Cfr. Autobiografia § 6. Cfr. Ov. Trist. I 9, 5-6 «Donec eris sospes, multos numerabis amicos: / tempora si fuerit nubila, solus erit» («Finché sarai illeso, potrai contare numerosi amici / ma se il

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mostrandomi premuroso e servizievole; (45) così stavano le cose, ma da quando sono caduto in disgrazia non ho più potuto contare per soddisfare le mie necessità né sul mio patrimonio, né sull’aiuto dei parenti, né sulle sostanze di chi prometteva tanto. (46) Infatti, da una parte i miei parenti, dopo che la fortuna ha inferto loro quel colpo che si sono andati a cercare con la loro tracotanza, adesso riescono a stento a guardarsi dal tracollo definitivo; (47) dall’altra tutti gli altri, da quando hanno capito che il nostro patrimonio è stato sperperato e dissestato, per evitare che, con le nostre disgrazie, diventiamo per loro un peso, cominciano a fuggirci e ignorarci.17 (48) E io resto qui, respinto dalla fortuna, sprezzato dai miei e abbandonato dagli altri. (49) Perciò, dopo essere precipitato da aspettative tanto elevate, dopo aver subìto un rovescio di tal genere e un destino così amaro, quanto profondo credi che sia il mio dolore, tanto più se rifletto che in un istante sono piombato dal colmo della felicità all’infima miseria, dall’aspettativa solida e magnifica di un futuro radioso all’assenza totale di speranza e prospettive, dalla compagnia e la frequentazione di molti che mi si mostravano amici alla totale povertà e solitudine? (50) Io che di solito ero felice di veder crescere e fiorire la bella gioventù, i futuri eredi della famiglia, ora provo invece un grandissimo dolore vedendo che quei giovani non sono nati per eguagliare la gloria dei loro avi – cosa che avrebbero facilmente potuto conseguire con l’aiuto e l’assistenza di coloro che avevano la guida della famiglia! – ma per subire i colpi della fortuna e sopportarne i rovesci; (51) io che, ancora, ero fiero dello splendore e del prestigio della nostra antica famiglia – cose che, procurate dai nostri antenati, i nostri padri, in esilio per terre straniere, avevano saputo ben conservare – io stesso non posso ricordare senza piangere tempo si abbuia, allora sarai solo»). Ma, come sottolinea Cardini (p. 361), si tratta di un topos «diffusissimo».

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bili contentione eorum quibus in patriam restitutis regende tuendeque familie cura et officium commissum esset, omnem pristinam existimationem et amplitudinem domus nostre extinctam non sine lachrimis reminiscor; (52) denique et qui prius tibi atque ceteris amicis et bonis omnibus qui in meis affinibus caritatem et pietatem erga me desiderabant, illud esse ferendum egre assentiebar, quod eorum me nonnulli, quibus in hanc usque diem, parente meo mortuo, non secus atque genitoribus obtemperassem, preter pietatem ac preter quam quod homini virtuti dedito debebatur, parvi facerent, idem iam nunc doleo meos omnes ita esse affines a fortuna adductos ut, ne illis quidem volentibus, ullam in me pietatis aut officii satis accommodatam rationem experiri possint. (53) Et quod nunc a fortuna prohiberi doleo, id tum a fortunatis denegari minus quidem ferebam moleste. (54) Nam cum bona illorum fortuna letabar, tum fortassis aliquando fore futurum ipse mihi persuadebam ut, cum me illi ob probitatem diligerent, tum ob meam in eos observantiam ipsi commodis meis aliquando studerent. (55) At vide quam mecum pessime agatur! Qui enim ceptis studiis meis, dum per fortunam licuit, multam operam et assiduitatem animo liberiore impertiebar, nunc, tantis curis exagitato animo et necessitatibus undique urgentibus concussus, interpellor et distrahor, ut profecto esse miserum me nequeam non profiteri. (56) Neque non possum non facere, o Fortuna, quin te

18 Il bando d’esilio ai danni della famiglia Alberti, emesso nel 1401, era stato revocato ufficialmente dal comune fiorentino nell’ottobre del 1428. Nel 1434 Cosimo de’ Medici riammise ai pubblici uffici i membri della famiglia. Per le conseguenze del lungo esilio degli Alberti da Firenze cfr. Foster Baxendale, Exile in practice.

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l’antica grandezza e rinomanza della nostra casa, ora che è estinta a causa di un’indegna ed odiosa lite tra coloro ai quali, una volta rientrati in patria,18 era stata affidata la responsabilità di guidare e difendere la famiglia; (52) e infine io che prima davo ragione a te, agli amici e a tutti gli uomini probi che desideravano nei miei parenti affetto e generosità verso di me, convenendo che era duro sopportare che coloro ai quali io, dalla morte di mio padre fino a quel giorno, avevo ubbidito come a dei genitori, non mi tenessero in nessuna considerazione – contravvenendo al giusto sentimento d’affetto e al dovere verso un uomo dedito alla virtù – ora io stesso mi dolgo che tutti i miei parenti siano stati così messi alla prova dalla fortuna19 che, neppure se lo volessero, potrebbero trovare un modo adeguato per dimostrarmi il loro affetto e il loro senso di responsabilità. (53) Soffrivo meno allora che, mentre erano fortunati, essi rifiutavano di aiutarmi, di quanto non mi dispiaccia oggi che dalla fortuna sono impossibilitati a farlo. (54) Rallegrandomi allora per la loro buona sorte, mi convincevo forse che in futuro, quando mi avessero amato per la mia onestà, allora, in cambio della mia fedeltà nei loro confronti, avrebbero provveduto ai miei bisogni. (55) Ma guarda come sono ridotto! Se un tempo, quando la fortuna me lo permetteva e avevo l’animo sgombro da preoccupazioni, mettevo tutto me stesso negli studi intrapresi, ora sono costantemente distratto da mille pensieri, con l’animo agitato da tante preoccupazioni e assillato da necessità che incalzano da ogni parte, al punto che non posso certo non dirmi disgraziato. (56) E non posso fare a meno dall’accusare te, o Fortuna, 19 Dopo aver indicato nell’incapacità e nella corruzione dei suoi parenti la principale causa delle loro disgrazie, l’autore torna qui ad incolpare la fortuna. Sull’importante binomio virtù-fortuna in Alberti, fra gli altri, ha dedicato alcune pagine, non a caso, Gennaro Sasso (Qualche osservazione), grande studioso di Machiavelli, ove l’analisi del conflitto assumerà valenze politicamente decisive.

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accusem, que quidem impudentes, improbos ac flagitiosos plerosque omnes divitiis auges, gratiis confirmas, auctoritate exornas. (57) Quid tantis odiis bonos sectaris? Quid eorum commodis adversaris? Quid tantis iniuriis honesta queque eorum pervertis atque omnem degende vite rationem perturbas? (58) Tu efficis ut litterarum et laudatissimarum rerum cupidissimus per egestatem a cultu sapientie et a pervestigatione doctrine distrahatur; (59) tu imperitissimos et omnium bonarum artium et ingeniorum inimicissimos atque hostes ad summas opes et delitias evehis; (60) tu industrium, agentem, assiduum et optimis studiis deditum, in omni rerum inopia prostratum, iacentem, opprimis, suffragia et adminicula omnia opum et amicitiarum eripis; (61) tu inertibus, vecordibus, desidiosis, supinis, rerum affluentiam, clientelas, hospitia ac incredibilem etiam principum gratiam et benivolentiam subministras, quo ad luxum et omnem prodigalitatem atque libidinem intemperantissime abutatur; (62) tu eum qui non mediocri virtutum ornamento et admirandis rebus suo studio et ingenio inventis iam prope celeberrimus sit, qui fortuna optima ab omnibus dignus iudicetur, de honesto suorum statu, de iusta spe, de emerita expectatione deturbas atque ad miseriam propellis; (63) tu, Fortuna iniquissima, sordidos, impuros, immeritissimos, in amplissimam dignitatem protrahis, eorum spes stultas atque immanes longe maximis propositis expectationibus et fructibus vincis, eorum expectationes et libidines efferatas, detestabiles, copia et affluentia bonorum omnium exples. (64) Sed malo hec omnia preterire atque, si queam, oblivisci. (65) ***. Essent qui tua ista omnia prolixiori quam instituerim oratione ducerent confutanda et in hac causa, que multam ad dicendum copiam subministrat, omne suum inge-

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che riempi di ricchezze, favorisci e concedi potere a chi è disonesto, malvagio, delinquente. (57) Perché perseguiti gli onesti con tanto accanimento? Perché ti metti loro di traverso? Perché sovverti ingiustamente ogni loro buona azione e sconvolgi le loro abitudini di vita? (58) Tu fai in modo che chi ama le lettere e le cose insigni sia distolto a causa della povertà dal culto della saggezza e dalla ricerca del sapere; (59) tu innalzi ai massimi gradi della ricchezza e del piacere quelli contrari o perfino ostili20 alle arti liberali e all’intelligenza; (60) tu opprimi i volenterosi, gli zelanti e i determinati, li fai giacere prostrati dall’indigenza e strappi loro il sostegno degli amici e il supporto delle sostanze; (61) tu somministri ai pigri, agli sfaticati, agli oziosi, ai fannulloni ricchezze, clientele, un asilo e incredibilmente anche il favore e la benevolenza dei principi, di cui essi abusano dandosi al lusso, allo sperpero e ad ogni forma di bassa voglia; (62) tu cacci giù dall’alto stato sociale dei suoi, dalle legittime aspirazioni e ambizioni, e riduci in miseria chi è già diventato famoso per il suo corredo non comune di virtù e per le invenzioni mirabili del suo ingegno, per cui è stato da tutti giudicato degno di una legittima aspirazione; (63) tu, Fortuna ingiustissima, porti ai più alti onori personaggi squallidi, immorali e corrotti e vinci addirittura coi tuoi doni, di gran lunga superiori alle aspettative, le loro speranze già stolte e sproporzionate, e soddisfi con l’abbondanza di ogni tipo di bene le loro voglie detestabili e sfrenate. (64) Ma vorrei tralasciare tutto ciò e, se ce la faccio, dimenticare. (65) ***. A questo punto alcuni potrebbero ritenere opportuno confutare tutte le tue affermazioni con un discorso più lungo di quello che avevo cominciato io e profonderebbero tutte le loro capacità ed energie in un tema su cui ci sarebbe 20 I due termini non sono propriamente sinonimi: inimicus è, nel latino classico, il nemico privato, mentre hostis (che in origine indicava lo «straniero», cfr. Cic. De off. I 37) significa il nemico pubblico, il nemico di Roma.

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nium et eloquentiam consumerent. (66) Mihi autem brevi et concisa tecum esse argumentatione utendum statuo; atque id quidem, cum ceteras ob res, tum ut apertius intelligas non dicendi vi aut arte, sed simplici veritate confisum, me tibi utilem et amico condignam animi tui a morbo levandi curam suscepisse. (67) Ac fingo quidem me esse Fortunam, in quam tu tanta perorasti. «Te quidem, inquam, et prelongam expostulationem tuam audivi, quem, si per humanitatem tuam et eas litteras quas tenes liceret, esse cuperem in me non isthoc animo irritato et concito. (68) Decet enim litteratum et ingenue educatum in convitium, nisi cum res postulet, et id quidem perquam modice, irrumpere. (69) Etenim, mi , vide qualem me tibi prestem. Sino illud, pleraque abs te dici bona que bona esse possim negare, et incommoda que sapienti incommoda non sint. (70) Nam quod affinium tuorum casum condoleas, non id redarguo: pietati enim tue concedo ut, quos honestissimos et modestissimos cupias, eosdem locupletes atque amplissimos optes, tametsi permaximi interest ut hi, quos tu duros erga te et immites experiebare, ad statum hunc devenerint quo minus ob divitias insolescant. (71) Neque id abs te non honeste et sancte desiderari dico, ut tua in familia

21 Il verbo «fingo» è tipico della declamatio in utramque parte, un esercizio retorico fondato sulla dimostrazione alternativa di tesi contrapposte, proprio come in questo caso. Sulla scorta dei dialoghi ciceroniani, Alberti è del resto, come molti «colleghi» umanisti, dichiarato cultore di una retorica concepita a misura dialogica, propenso cioè ad apprezzare il confronto di tesi contrapposte, come si nota molto bene nei libri De familia; nei suoi Trivia senatoria (1462 ca.), una sorta di manualetto di retorica ad uso politico, ne teorizza persino l’uso. 22 Obbligato, per la prosopopea della Fortuna, il rimando ad un passo della Consolatio philosophiae (II 2, 1-3) di Boezio, come

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molto da dire. (66) Io credo invece che con te vada usato un ragionamento breve e conciso; e questo per vari motivi, ma soprattutto per farti meglio capire che mi sono assunto il compito utile e degno di un amico di risanare il tuo animo malato non facendo leva sull’arte della parola, ma confidando nella nuda verità. (67) Faccio finta21 di essere la Fortuna, contro la quale tu ti sei tanto scagliato. «Ho ascoltato, direi,22 te e la tua lunghissima lamentela e vorrei, se la tua cultura e le letture che hai fatto te lo permettono, che tu non avessi un atteggiamento così esacerbato nei miei confronti. (68) Non si addice infatti al letterato, all’uomo ben educato, prorompere in offese, a meno che la circostanza non lo imponga, al che lo fa nella maniera più composta possibile.23 (69) Infatti, caro Filoponio, guarda come io mi comporto nei tuoi confronti. Lascio perdere il fatto che tu chiami beni moltissime cose che potrei negare che lo siano e sventure ciò che per il saggio non dovrebbero essere tali. (70) Non ti riprendo perché tu soffri per la brutta fine dei tuoi parenti: concedo infatti alla tua pietas il volerli integerrimi e l’augurare loro grandi ricchezze, quantunque sia molto importante che coloro che sono stati così duri verso di te, e di cui hai sperimentato la crudeltà, siano ridotti a questo stato nel quale non possono più vantarsi delle loro ricchezze. (71) E riconosco che ciò che desideri è certo onesto e sacrosanto, cioè che nella tua famiglia i giovani crescano opportunamente segnalano Bacchelli-D’Ascia (p. 311). Se nel brano boeziano, però, l’autoapologia della Fortuna è tesa a dimostrare che il possesso delle ricchezze e delle cariche non appartiene ai mortali, qui la Fortuna pare invece più interessata a mettere in evidenza le contraddizioni di Filoponio, le cui lamentele diventano insensate se rapportate alla sua indole e alle sue scelte di vita. 23 Cfr. le reazioni di Giove e Pluto alle accuse di Timone in, rispettivamente, Luciano Timone o il misantropo 7 e 38 (I, pp. 145, 167-69), anche se «queste analogie rimangono piuttosto generiche e legate forse alle situazioni topiche dei dibattiti» (Acocella, La presenza di Luciano, p. 127).

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adolescentes cura maiorum probatissimi et ab omni vitiorum labe intacti et nullis sordibus contaminati excrescant; (72) tametsi ea te preditum fore prudentia arbitrabar, ut recte intelligeres quam hi qui ab aliis partum sibi decus et lumen servasse non didicerint, non per eos facile reliquam iuventutem ad glorie splendorem posse adduci. (73) Sed non te audiam, si hac tua in expostulatione aliorum incommoda congeris, ut miseriarum tuarum cumulum exaggeres. (74) An ego in mearum rerum possessione insanire et iactabundos vagari permittam eos qui suis uti bonis nesciant? An illi apud se firmum aliquid et diuturnum putent consistere, quod contentionibus susceptis atque discidiis, omni studio et opere moliri atque funditus evertere diu elaborarint? (75) Egone illi isthec servabo que is, cui ea servanda sint, perdere maximopere enitatur? Qua de re illos affines tuos missos faciamus a tuaque illos causa disiungamus. (76) Ceterum, tu demum, age, quid tibi vis? Omnia tibi que sine iniuria liceant, perlubens petenti dabo. Hanc tu conditionem, si nos querelis tuis moveri vis, non recuses oportet.» (77) (78) ***. «Utar tecum omni, ut voles, liberalitate, modo ea ab officio et iustitia seiuncta non sit. Namque id a me petere, ut tibi commodem quod cum aliorum iactura fiat, impudentis esse, et ea in te munificentia si utar qua immeritus quispiam ledatur, non me, uti arbitror, frugi et satis consultam deputes.» (79) . 24 Questo intento pedagogico trapela in fondo dai giovanili libri De familia (1433-37) fino al senile De iciarchia e alle Sentenze pitagoriche scritte per i nipoti. Per questo aspetto di Alberti cfr. Frauenfelder, Il pensiero pedagogico di L.B. Alberti (vd. MONOGRAFIE). 25 Il discorso che segue è tra virgolette perché, come nelle battute seguenti, l’anonimo filosofo continua a parlare sotto la persona della Fortuna. 26 Nel codice P c’è una lacuna, che Cardini ha ritenuto opportuno

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virtuosi sotto la cura dei più anziani e integri da ogni vizio, incontaminati da ogni peccato;24 (72) però ti ritenevo tanto accorto da capire che coloro che non si erano dimostrati in grado di conservare il prestigio della famiglia, frutto del lavoro di altri, non avrebbero potuto facilmente guidare altri giovani sulla via splendida della gloria. (73) Ma non ti ascolterò più se in questa tua denuncia continuerai ad aggiungere le sventure degli altri per far sembrare più grande il cumulo delle tue sciagure. (74) Dovrei forse permettere che coloro che non sanno amministrare i loro beni vadano in giro a far bagordi vantandosi di beni che appartengono a me? O forse quelli dovrebbero credere di avere ancora il terreno solido sotto i piedi, dopo che si sono impegnati al massimo, tra liti e contese, per distruggere tutto dalle fondamenta? (75) Dovrei conservare dei beni per uno che si sforza in ogni modo di perderli, quando dovrebbe esserne il primo difensore? Perciò mettiamo da parte i tuoi parenti, separiamo il loro caso dal tuo. (76) Su, dimmi una buona volta: che cosa desideri? Realizzerò volentieri ogni tua richiesta, sol che non presupponga una ingiustizia. Devi accettare questa condizione, se vuoi commuovermi coi tuoi lamenti.» (77) (78) ***.25 «Userò verso di te tutta la generosità che vuoi, ma non deve essere separata dalla giustizia. Sarebbe da sfacciato chiedermi qualcosa che realizzasse il tuo bene col danno di un altro. E se quella generosità che usassi nei tuoi confronti la adoperassi per colpire un innocente, non mi riterresti più, credo, giusta e assennata.» (79) .26 colmare in questo modo: «Aliorum divitias nec posco nec, si mihi commodes, volo. Peto ut mihi a cultu et studiis bonarum artium, quibus semper fui deditus, feliciora rependantur» («Non richiedo le ricchezze altrui, né, se tu me le concedessi, le vorrei. Chiedo la felicità in cambio del mio culto assiduo delle arti liberali, alle quali mi sono consacrato»).

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(80) ***. «Visne te divitem et locupletem reddam, dum ipse non questui faciendo, sed litteris ediscendis dies ac noctes assideas? dum tu omnem lucri faciendi rationem et occasionem longe spernas atque pre disciplina posthabeas? cum a re nulla tuus animus eque atque a questus cura atque opere abhorreat? (81) Heus tu! pecunias accumulare et accumulatas servare qui negligit, quod ipse facis, insanit, si se divitem eo pacto futurum expectat. (82) Vis te principum gratia et benivolentia communitum reddam, cum a re nulla animi tui generositas sit magis quam a servitute aliena, qua una re maxime principum animi, ut nos diligant, flectuntur? (83) Obsequii enim et beneficii voluptate et fructu principes, non officii specie moventur; et quam tu in principe gratiam et benivolentia appellas, ea meram servitutem sapit. (84) Nam eum animi motum in principe, quo in nos esse affectus videatur, percepti commodi ratio, non cogniti officii meritum efficit. (85) Tune idcirco is eris qui opere prestatione magis quam virtutibus placere expetis? (86) Non tu, litteris et doctrina excultus, vel speciem ipsam servitutis iudicio et omni sensu detestaturus es? (87) Te a dignitate et amplitudine in miseriam detruisse dicor. Quid ita? quod fortassis tuorum improbitatem excitavi ut, sua pervicacia amissis rebus, te de maxima et firmissima spe depellerent? (88) Cave posthac huiusmodi criminationibus utaris, adolescens minime male sed ignare.» (89) Quasi non illi ipsi infames et abiectissime pestes morum te freti, Fortuna, nos omnes sui

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(80) ***. «Vuoi che ti renda ricco e facoltoso mentre te ne stai lì seduto notte e giorno non a cercare il guadagno ma a leggere libri? mentre disprezzi e trascuri sistematicamente ogni occasione e opportunità di far soldi, perché il tuo carattere nulla aborre per natura quanto lo scrupolo per il denaro? (81) Accipicchia! Chi non sa accumulare denaro e tantomeno conservarlo – ed è il tuo caso – e si aspetta un domani di diventare ricco in qualche modo, impazzisce. (82) Vuoi che ti procuri la grazia e la benevolenza dei principi, quando poi la nobiltà del tuo animo a nulla è più insofferente che al servilismo, che è invece ciò che sopra ogni altra cosa predispone l’animo dei principi ad amarci? (83) I principi sono toccati dal piacere e dal vantaggio dell’adulazione e del beneficio, non dall’adempimento del dovere; e ciò che tu chiami nel principe grazia e benevolenza, è servitù bella e buona. (84) In un principe un moto di gentilezza, che a noi sembra manifestazione di affetto, deriva dall’acquisita consapevolezza che ha ricevuto un favore, non dal riconoscimento del nostro merito. (85) Tu dunque sarai uno di quelli che vogliono essere apprezzati per i servigi più che per le sue qualità? (86) In quanto uomo di cultura, non detesterai anima e corpo questa sorta di servitù?27 (87) Dici che, dalla ricchezza e dall’onore, ti ho fatto precipitare nella miseria. Perché? Forse perché ho stimolato la malvagità dei tuoi parenti al punto che, una volta perso tutto il patrimonio, la loro prepotenza ti ha privato delle tue grandi e fondatissime aspettative? (88) Guardati dall’imputare a me crimini di questo tipo, giovane per nulla cattivo ma male informato.» (89) Come se non fosse che confidando in te, o Fortuna, quegli infami e distruttori dei buoni

27 In queste domande retoriche della Fortuna Acocella (La presenza di Luciano, pp. 127-28) ha ravvisato la presenza di alcuni passi del lucianeo Intorno ai dotti che convivono per mercede.

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dissimiles omnibus quibus queant iniuriis prosequantur; (90) quasi non tuo exemplo ducti immanes, crudeles naturaque maleficos atque impiissimos et sibi paribus vitiis et flagitiis coinquinatissimos exquirant atque appetant quos, spretis bonis, ad dignitates atque amplitudinem convocent atque intrudant. (91) ***. «Maxima et dignissima dona igitur a me illis deferuntur, qui alios ex arbitrio magnos atque amplos reddunt.» (92) PHILOPONIUS. Profecto immensa, sed indignissima. ***. «Que tu fortassis appetas atque exposcas.» PHILOPONIUS. Ea si dentur, novi quo pacto pulchre teneantur. (93) ***. «Te quidem non mediocriter esse animo commotum video, sed quo dudum volebam, ut opinio mea fert, appulisti. (94) Qui quidem si, uti pollicitus es, hanc sine contumacia mihi operam huius morbi tui curandi prestas, profecto efficiam ut erumnam hanc ponas et omnem erga me conceptam acerbitatem mitiges. Huc, precor, animum adhibe! (95) Pridie apud me Triscatarus his verbis utebatur: “Fortuna, quid tibi vis? cur me in hanc inanem et futilem amplitudinem ac levem fastum substulisti, in quo me penitus miserum esse sentiam? (96) Mihi enim semper aliquis timor impendit, ut ne minimum quidem temporis momentum tum ad animi quietem ad ipsum me recipiendum detur. (97) Nam hinc varie, mul-

28 Questo passaggio mette in rilievo, dunque, che la «sventura» («erumna», appunto) che dà il titolo all’intercenale è solo superficialmente il fallimento della compagnia commerciale degli Alberti; in realtà questa è solo il pretesto per manifestare la vera sventura, vale a dire la condizione d’animo di Filoponio, che si ritiene il più sfortunato dei viventi, e che guarirà da questa vera e propria malattia attraverso «pillole» della dottrina stoica dell’heimarméne¯. 29 Controverso il significato da attribuire a questo «nome parlan-

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costumi perseguitano noi, che siamo tanto diversi da loro, con ogni tipo di umiliazione; (90) come se non fosse che seguendo il tuo esempio essi, escluse le persone per bene, cercano uomini crudeli, infidi per natura, sacrileghi e corrotti come loro nel vizio per affidare loro potere e posti di comando. (91) ***. «Faccio i doni più grandi e più belli a coloro che poi rendono altri, secondo il loro arbitrio, grandi e prestigiosi.» (92) FILOPONIO. Doni molto grandi, sì, ma davvero immeritati. ***. «Che tu forse però desideri e brami.» FILOPONIO. Se ne ricevessi, saprei come conservarli a dovere. (93) ***. «Ti vedo parecchio arrabbiato, ma sei giunto, mi pare, dove da un po’ volevo portarti. (94) Che se, come hai promesso, mi concedi la facoltà di guarire questa tua malattia, senza opporre resistenza, metterò certo fine a questa tua sventura28 e mitigherò il rancore che hai nutrito nei miei confronti. Ti prego, prestami attenzione. (95) Ieri con me Triscataro29 ha usato queste parole: “Fortuna, cosa cerchi? Perché mi hai innalzato a queste altezze futili ed inani, a questo frivolo fasto, dove mi sento infelicissimo? (96) Sempre, infatti, qualche timore mi agita, al punto che non ho mai un attimo per riavermi o rilassarmi. (97) Da una parte mi premono le moltissime e te». Per Marsh, che nella sua edizione opta per la grafia «Triscatharus», esso vale «thrice-cleansed», ovvero «tre volte puro»; per Ponte esso va invece interpretato «il tre volte ingenuo» (La crisi, p. 161); da preferirsi, comunque, pare l’interpretatio nominis data da Cardini, per cui esso deriverebbe da «trìs» e «catàra» (maledizione), dunque il tre volte maledetto, e da qui anche la grafia privilegiata nel testo critico, cfr. Cardini, Onomastica, pp. 149-51. Tale interpretazione troverebbe una conferma in un interessante accostamento al Viaggio agli inferi o il tiranno lucianeo proposto recentemente da Acocella (La presenza di Luciano, p. 129), dove Cinisco definisce il tiranno Megapente, appunto, «triscatàratos» («tre volte maledetto»).

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tiplices et gravissime rerum agendarum cure solicitant, hinc concursus imminentium periculorum et ipsi pene oculis previse tempestates, invidie odiique, iacture et incommodorum finitimorum suspitiones perterrefactum me agitare et iactare non desinunt. (98) Quid non me vitam placidam et tranquillam agere permittis, ut ingenuis quibus ille artibus dat operam, ut studiis bonarum rerum animo pacato et tranquillo, et ab his quibus premor vexationibus mente soluta et libera liceat insistere? (99) O me felicem, apud studiosos eiusmodi amicos iocunde festiveque versari liceat, apud quos ad pervestigandam rerum occultarum rationem et modum studii concitatione et solertia artibus delecter, quoad ingenii laudibus famam et celebritatem nancisci queam!” –. (100) Hec Triscatarus cum apud me prolixius et, quod homines dolore acti solent, immodica orationis copia disputasset seque omnino infelicissimum diceret, (101) que eram animi tui ignara et neminem a suo, in quo esse velit, statu dimovere instituissem, , eadem idcirco nunc, quod ex animi tui sententia fieri arbitror, tuas cum Triscataro fortunas permutes volo; eo pacto tuis atque illius desideriis et expectationibus percommode satis factum iri arbitror.» (102) PHILOPONIUS. Etenim quid est quod cum illo commutem? Namque non mihi quidem divitie, non opum affluentia, non clientele, non hospitia, non qui afferant dona, non qui sese ultro subigant, non qui summisse precentur suumque in gratificando studium consumant, adsunt; (103) nulla denique amplitudo apud me est. Quibus rebus omnibus ille maiorem in modum abundat. (104) ***. «Recte admones; atqui que apud te sint, pleraque optima atque in primis expetenda, succincte recensebimus. (105) 30 Come nota Cardini (p. 362), si tratta della ripresa e dell’applicazione della «situazione» immaginata da Orazio in Serm. I 1, 15-19: «Si quis deus “en ego” dicat: / “Iam faciam quod voltis: eris tu, qui modo miles, / Mercator; tu, consultus modo, rusticus: hinc vos, / Vos hinc mutatis discedite partibus. eia, / Quid statis?” nolint.

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gravi cose da fare, dall’altra non smettono mai di agitarmi e mi lasciano terrorizzato l’imminenza di una serie di pericoli e i rovesci che prevedo quasi coi miei stessi occhi, le invidie, gli odi, le perdite e il presagio delle prossime sventure. (98) Perché non mi lasci vivere una vita tranquilla e, come a colui che si dedica alle arti liberali, anche a me non dai l’opportunità di concentrarmi nei buoni studi, con l’animo sereno e la mente sgombra da quegli assilli che mi opprimono? (99) Come sarei felice se potessi frequentare degli studiosi, che fossero anche miei amici, coi quali divertirmi ad investigare con passione le ragioni delle cose sconosciute e i limiti della conoscenza, fino a conquistar gloria e celebrità grazie al mio ingegno!” – (100) Ecco le cose che mi disse Triscataro, anche se con me fu un po’ più prolisso e, come sono soliti fare gli uomini che soffrono, parlava con sovrabbondanza di parole e si riteneva il più infelice degli uomini; (101) allora io ero ignara del tuo stato d’animo e non credevo di dover spostare nessuno da una condizione in cui voleva stare; ora però, siccome credo che la cosa ti farà piacere, voglio che muti la tua sorte con quella di Triscataro.30 In questo modo penso troveranno ottima soddisfazione i tuoi e i suoi desideri.» (102) FILOPONIO. Ma cosa posso scambiare con lui? Non ho infatti ricchezze, non ho sostanze, né clientele, né protezioni, non ho chi mi porti doni, né chi mi si sottometta spontaneamente, né chi mi preghi dolcemente e spenda le sue energie nell’acquistare il mio favore; (103) mi manca infine ogni sorta di prestigio sociale. Tutte cose di cui egli abbonda grandemente. (104) ***. «Dici bene; passerò però brevemente in rassegna le tue molte e desiderabili qualità. (105) Se non mi sbaglio, Atqui licet esse beatis» («Se un dio dicesse: / “eccomi, disposto a fare quel che volete: / tu eri soldato, sarai mercante; / tu eri esperto di leggi, sarai contadino. / Scambiate le parti e separatevi: / voi di qua, voi di là. E allora, non vi muovete?”. / Rifiuterebbero. Eppure potrebbero essere felici»).

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Ac, ni fallor, apud te sunt littere studiaque optima, firmitas animi, turpitudinis verecundia, exercitationis consuetudo, industrie laus, modestie fructus, gravitas, fides, equitas, morum decus, officii ratio religioni et rerum optimarum cognitioni et inventorum glorie cum fama et claritate coniuncta. (106) Hec igitur et eiusmodi, quibus ab ineunte etate egregie fuisti deditus, qualiacumque apud te sint, cum illius bonis, me interprete, ut voles, commutabis. (107) Tibi ille divitiarum vim maximam, tu contra illi rerum rarissimarum cumulum; ille statum et dignitatem et principis gratiam, tu bonorum amicitias et splendidum nomen atque preclaram de te opinionem et iudicium expones in medium; denique tu bona et mala omnia illius, ille tua queque ad se recipiet. Hecque ut facias, iterum atque iterum suadeo.» (108) PHILOPONIUS. Tanti ego divitias faciam, ut illius monstri iniustitiam, socordiam, impudentiam, desidiam, ignaviam, temeritatem, levitatem, perfidiam, inconstantiam, turpitudinem impietatemque non oderim? (109) Ego sine doctrina, sine studio bonarum rerum, sine cultu virtutis, me esse in vita velim? Vel quid ego cum illo, elato omni levitate et consecutarum rerum stulta letitia exultante ac principis benivolentia temere gestiente, exitioso prodigio et peste iuventus commutem? (110) Dignusne est ullis in vita hominum bonis, qui quidem ob immanitatem, crudelitatem, ob stupra et veneficia sua superis atque inferis invisus est? qui ocio, langore desidiaque inter voluptates confectus ne hominum quidem aspectu aut luce dignus est? (111) Itane firma, fixa et omnino permanentia, que ipse meo studio, industria et labore, que meis lucubrationibus et maximis vigiliis adeptus sum bona, cum istis fragilibus, caducis et inconstantissimis bonis, que tu, Fortuna, illius ignavie et desidie condonasti, ut commutem suades? 31 Motivo piuttosto diffuso nella diatriba antica; La Penna (Il letterato, p. 574) ha suggerito, come probabile fonte, la Praefatio al VI libro del De architectura di Vitruvio, dove Aristippo contrap-

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sei una persona molto colta, solida di carattere, costumata, abituata a faticare, che loda il lavoro, modesta, seria, leale, equilibrata, educata, in cui il senso del dovere si unisce alla devozione, al possesso di ottime conoscenze e alla gloria e alla rinomanza per le tue invenzioni. (106) Queste e altre simili cose, alle quali sei dedito sin dalla più tenera età, tu, volendo, le potrai tutte scambiare, facendo io da mediatrice, coi beni di Triscataro. (107) Egli ti darà il potere enorme della ricchezza, tu, in cambio, gli darai un sacco di cose rarissime; egli ti darà una posizione sociale, il prestigio e la benevolenza del principe; tu offrirai in cambio le amicizie con galantuomini, una splendida fama e un’ottima opinione e stima di te; insomma, tu riceverai ogni suo bene e ogni suo male, e viceversa. Ti consiglio ancora una volta di accettare.» (108) FILOPONIO. Dovrei stimare tanto la ricchezza da non odiare l’ingiustizia di quel mostro, la sua stupidità, la sua sfacciataggine, la pigrizia, la temerarietà, la leggerezza, la perfidia, l’incostanza, la malvagità e l’empietà? (109) Potrei io voler vivere senza cultura, senza passione per le arti, senza l’amore per la virtù? Perché dovrei far cambio con quello, che insuperbisce per un nonnulla e gioisce di stolta letizia per le cose conseguite e brama ardentemente di ottenere la benevolenza del principe, con quello che è un mostro esiziale e corruttore della gioventù? (110) È forse degno di qualche bene in vita colui che per la sua brutalità e crudeltà, per i suoi soprusi e delitti è odiato dagli dei del cielo e della terra? Chi, consumato dai vizi, perso tra la pigrizia e l’inerzia non è degno della luce del giorno e nemmeno degli sguardi degli uomini? (111) Tu vuoi forse convincermi a cambiare quei beni stabili e perenni che ho conseguito con molte veglie ed un lavoro indefesso con questi altri fragili, caduchi e transeunti, che tu, o Fortuna, gli hai dato in premio per la sua pigrizia e indolenza?31 pone ai beni effimeri quelli stabili che non si perdono neppure in un naufragio, vale a dire le virtù dell’animo che ognuno porta dentro di sé.

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(112) ***. «Enimvero non tu iam illum esse iniquum, sed te quidem, qui iracundius in illum inveheris, subimportunum ostendis. Et quid inter vos intersit, queso, prospicito. (113) Te et frugi et gravem et plane bonum Triscatarus deputat. Non ingenium istud tuum acre et versatile, quo non minus quam labore et vigiliis plurima consecutus extitisti, tibi esse dicit a Fortuna indigne elargitum. (114) Non accusat sortem suam, quod indoctus et nullis ingenuis moribus a puero educatus excreverit, sed dicit preter modesti viri officium isthuc fieri abs te, dum hanc quam sua industria adeptus sit amplitudinem principi miris modis obsequendo, tu aliorum esse beneficio condonatam asseris. (115) Et in qua re ille maximos labores, multas viglias, omne tempus consumpserit suaque opera et industria effecerit , id tu ad eius ignaviam esse delatum predices. (116) Illud etiam addit: splendorem vite, lautitiem celebritatemque suam domesticam et omnem signati argenti et operum apparatum, pro quibus rebus habendis sudore et sanguine mortales elaborant, tuis ieiuniis et vacuis virtutis et probitatis titulis esse non multo postponenda; (117) seque facile in media lautitie in mediaque affluentia bonorum, ubi opus sit, modestum, parcum et continentem futurum fore, tibi autem, rerum notitia glorioso, non licere ex animi sententia et arbitrio splendide eleganterque convivere, ubi ea que opus

32 Contrariamente alla dottrina aristotelica, secondo la quale talvolta l’ira è lo sprone necessario alla virtù, il pensiero stoico la condanna sempre ed incondizionatamente. 33 Questa peculiarità Alberti se la auto-attribuisce pure nell’Autobiografia, § 1: «Ingenii fuit versatilis, quoad nullam fere censeas artium bonarum fuisse non suam» («fu di ingegno versatile, al punto che non riteneva a sé estranea quasi nessuna delle arti liberali»). Del resto tale versatilità gli veniva riconosciuta già dai suoi contemporanei, come Lapo da Castiglionchio che nel suo De curiae commodis (1438) scrive: «Est enim eiusmodi ut ad

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(112) ***. «Se inveisci con così tanta ira32 contro di lui, non dimostri che egli è malvagio, ma piuttosto che tu sei troppo severo. Guarda, per favore, cosa vi distingue. (113) Triscataro ti reputa saggio, serio, davvero un ottimo uomo. Non dice che ti è stato dato ingiustamente dalla Fortuna questo tuo ingegno sottile e versatile,33 grazie al quale – non meno che col tuo lavoro e le tue veglie – ti sei distinto conseguendo moltissimi successi. (114) Non accusa il tuo destino, perché egli è cresciuto senza cultura e buoni costumi, ma dice che non sei intellettualmente onesto quando sostieni che la ricchezza che egli ha conseguito col suo lavoro, riverendo il principe in mille modi, l’ha ricevuta per meriti altrui. (115) Mentre egli, per raggiungere quest’obiettivo, ha consumato tutto il suo tempo, molta fatica e molte notti e ha fatto di tutto perché le cose andassero secondo i suoi piani, tu sostieni che tutto ciò gli è piombato dall’alto come premio della sua pigrizia. (116) Aggiunge anche questo: che lo splendore e lo sfarzo della sua vita, la sua casa ben frequentata e tutto il corredo di fine argenteria e di servitù, per ottenere le cui cose gli uomini faticano fino a sputar sangue, non sono poi molto da posporre ai tuoi digiuni e alle vacue etichette di virtù e rettitudine; (117) e che egli, in mezzo a tanta ricchezza, quando ce ne fosse bisogno, sarebbe divenuto modesto, sobrio, moderato, tu invece, che ti glorii tanto della tua cultura, non potrai mai vivere in maniera sontuosa ed elegante come pur ti piacerebbe, dal momento che non hai i mezzi di cui ci sarebbe bisogno; quamcumque se animo conferat facultatem, in ea facile ac brevi ceteris antecellat» («Egli è infatti tale che a qualunque attività si volga subito e facilmente soverchia tutti gli altri»), cfr. Cardini, p. 363. Alberti poteva autorappresentarsi come «versatile» in accordo con la descrizione di Catone che si legge in Livio (XXXIX 40, 4), ma, forse più probabilmente, con la vita del filosofo Bione nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio (IV 47), opera che era stata da poco tradotta in latino da Ambrogio Traversari (1433) e che è molto presente nella produzione albertiana, cfr. Marsh, The self-expressed.

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ad eam rem sint non suppeditent; (118) et prestare quidem imperitum esse, dum te peritissimi observent atque vereantur, quam disertum, dum etiam ignavi et abiecti, quorum in numero eum esse asseveras, contemnant ac despiciant. (119) Quod si fortassis apud se cura rerum agendarum et periculorum moles aut metus ullus impendet, dignitas tamen, amplitudo, licentia ac rerum affluentia sibi non deest. (120) Tibi quidem voluptas omnis deest, necessitas et solicitudo inest, cura et tristitia perferende paupertatis non deest. (121) Ac plerumque fortasse tuum invidia irrepit in animum atque omnis tuas compositas et ad virtutis fructum directas rationes disturbat et pervertit. (122) Quis enim, ab omni sensu hominum alienus omnino non sit, uspiam reperietur, qui in miseria constitutus felicibus non invideat? (123) Est hominum hec mens, ut prospera et secunda in aliis animadvertamus diligentius cum ipsi adversis urgemur, et aliis passim res quibus careamus suppeditari indoleamus. (124) Itaque, spe optima et letis successibus confirmatus, Triscatarus non se superis, quantum res ipsa docet, invisum arbitratur, cui profluenter, prospere ac beate tante fortune opes omnisque copia desideratissimarum rerum ad quamvis magnificentiam et prodigalitatem subigantur; (125) iratos sibi quidem videri deos ait illis quos egestas urgeat, solicitudo conficiat, incommoda oppresserint. (126) Quod si forte dispudeat Triscatari locum et vite conditionem subire, fortassis ob eam quam de te opinionem suscepisti, do tibi hoc . (127) Concedo quidem ut quemvis hominum omnium seligas, cuius tu commoda et incommoda omnia malis tibi esse quam tua. Hunc aliquem ut primum compereris mihi renuntiato: faciam e vestigio ut eius statum assequare. Quid iam conticuisti tandem? An nondum quempiam comperisti?» (128) PHILOPONIUS. O mi suavissime, specimen humanitatis, quam apud me maximi momenti et ponderis tua hec fuere verba! (129) Tu homo salis, suavitatis leporisque

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(118) e che è sicuramente meglio essere un ignorante riverito e temuto dai dotti che un maestro della parola disprezzato anche dai più abietti, nel cui novero tu lo inserisci. (119) Che se forse nella sua vita predominano l’apprensione per le cose da fare, la mole dei pericoli o qualche timore, tuttavia non gli mancano il prestigio, il potere e la ricchezza. (120) A te certo manca ogni tipo di piacere, sei pieno di incombenze e preoccupazioni, né ti manca la tristezza di dover sopportare la povertà. (121) E forse talvolta l’invidia si insinua nel tuo animo e perverte tutte le tue buone intenzioni ordinate e dirette alla virtù. (122) Chi infatti, a meno che non sia del tutto estraneo al comune sentire, vive nella miseria e non invidia i ricchi? (123) È umano: prestiamo tanta più attenzione alla buona sorte degli altri quanto più la nostra è avversa e ci dispiace che gli altri abbiano in abbondanza ciò che a noi manca. (124) E così Triscataro, fiducioso, reso più sicuro dai propri successi, non crede di essere inviso agli dei – per quanto l’esperienza gli insegna – lui che può disporre a getto continuo, abbondantemente e felicemente di grandi ricchezze e di una tale quantità delle cose più desiderabili per qualunque atto di generosità e liberalità; (125) dice che gli dei gli sembrano adirati piuttosto contro quelli assillati dalla miseria, stretti dalle preoccupazioni, oppressi dalle sventure. (126) Ma se ti vergogni di prendere il posto e le condizioni di vita di Triscataro, forse a causa dell’opinione che hai cominciato ad avere di te stesso, lo capisco. . (127) Ti concedo dunque di scegliere un altro uomo, chiunque tu desideri, col quale scambiare reciprocamente tutti i beni e i mali delle vostre esistenze. Appena trovi questo “qualcuno”, avvertimi che ti farò immediatamente acquisire la sua condizione sociale così com’è. Perché ora ti sei zittito? Non hai ancora trovato nessuno?» (128) FILOPONIO. O carissimo, modello di umanità, quanto effetto su di me hanno avuto le tue parole gravi e importanti! (129) Tu, uomo di garbo e spirito, hai piegato

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refertissimus, ita ab iracundia ad equanimitatis modum deflexisti animum meum, ita meam omnem ad me totum considerandum cogitationem et mentem vertisti, ut quanto magis magisque cogito, tanto pervestiganti et cogitanti mihi homo sese nemo offert, quem cum diligentius pensitem pre me esse fortunatum dicam. (130) Nam si est in dignitate, in amplitudine constitutus, solicite et inquiete vivit; siquid eruditione prestat, sordidissimam et infamem vitam agit; alius, si probus et optimis rationibus constitutus est, sibi cum Fortuna sempiternum esse paratum duellum sciat; denique siquis deinceps est, qui in rerum copia studiis et doctrina delectetur, multis et animi et corporis vitiis excruciatur. (131) Itaque sic statuo prudentis esse, se velle eum esse qui sit. Quam ad sententiam, superi boni, quos et memoria et mente celeres et mirificos ipse mecum discursus nunc primum feci! (132) Longum esset enumerare omnes qui, dum male contenti vestigiis quibus domestica instituta eos constituissent, rerum novarum cupiditate periere. Sed aliud erit ea pulcherrima, que ingenio et mente perspicio, enumerandi tempus. (133) ***. Novi perspicaciam ingenii tui et acre studium, ut, cuivis rei intendas, facile assequaris. Ea de re, opinor, dignam aliquam et insignem ad scribendum materiam hinc eris nactus. (134) Sed interea, ut me omnino esse tecum facillimum intelligas, cedo sane triduum desumas ad consulendum, quo per templa, theatra et fora omnia commodius

34 Come sottolinea opportunamente Acocella (La presenza di Luciano, p. 106, n. 55), questa sembra una risposta indiretta all’oraziano «Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem / seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa / contentus vivat, laudet diversa sequentis?» («Com’è, Mecenate, che nessuno vive contento / della sorte che ha scelto o il caso gli ha dato, / e ognuno crede fortunato chi segue altre vie?»), che realizza anche il suo auspicio finale, «Inde fit ut raro, qui se vixisse beatum / dicat et exacto contentus tempore vita / cedat uti conviva satur, reperire queamus» («Succede così che raramente si

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il mio animo dall’iracondia alla serenità e hai girato i miei pensieri a riflettere su di me, così che ora quanto più rifletto, tanto meno mi si offre qualcuno, per quanto io rimugini, che sia più fortunato di me. (130) Infatti se è un uomo ricco e prestigioso, vive inquieto e pieno di ansie; se è un mostro di erudizione, conduce una vita squallida e infame; un altro, se è un uomo giusto e la cui vita si fonda su ottimi princìpi, è consapevole che gli si prepara un duello eterno con la Fortuna; infine, se qualcuno è sia l’uno che l’altro, cioè gode della ricchezza e anche della cultura, è colpito senz’altro da molti vizi dell’anima e del corpo. (131) E così reputo proprio del saggio voler essere ciò che è.34 A favore di questa massima, santi numi, quanti begli argomenti mi vengono ora rapidamente in mente. (132) Sarebbe lungo enumerare tutti i casi di coloro che, non contenti di seguire la strada tracciata dai padri, morirono desiderando una nuova condizione.35 Ma ci sarà un’altra occasione per enumerare alcuni esempi eclatanti che ho già in mente. (133) ***. Conosco la perspicacia del tuo ingegno e l’acre studio con cui ottieni facilmente ogni cosa che desideri. Su questo argomento credo proprio che troverai degna materia per scrivere. (134) Nel frattempo, per farti capire che sono del tutto a tua disposizione, ti do tre giorni di tempo per decidere, in modo tale che tu possa andare comodamente a riesce a trovare / chi dica d’essere vissuto felice / e, finito il tempo, / lasci la vita come un ospite sazio»), cfr. Serm. I 1, 1-3 e 117-19. 35 In questa frase ben si esprime quel conservatorismo albertiano di cui ha parlato, fra gli altri, Martelli, Motivi politici. Cardini (Biografia, p. 89) segnala come possibile fonte del passo Cic. De leg. II 23-24. Sul rifiuto delle res novae sono incentrate alcune intercenali come Lapides, Bubo, Templum, Lacus; si veda, ad esempio, il significativo argumentum di quest’ultima (Proemio a Interc. X, p. 470): «Idcirco ornandi sui gratia res novas in re publica non querendas, sed ferendas patrie priscas consuetudines, utcumque ille sint» («In uno Stato non dobbiamo andare in cerca di novità per il proprio tornaconto; dobbiamo invece rispettare le antiche tradizioni, qualunque esse siano»).

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possis disquirere et pervestigare. Nam fortassis quempiam offendes, quem esse te, quam qui sis, malis…! (135) PHILOPONIUS. Taceo admodum et maximam per te egritudinis levationem accepisse fateor, et congratulor et gaudeo.

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cercare per templi, teatri e piazze. Forse troverai qualcuno col quale preferisci far cambio di vita. (135) FILOPONIO. Taccio e confesso che hai portato un grandissimo sollievo alla mia malattia; sono contento e ti ringrazio.

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Per gli autori antichi il mare era immagine del massimo dei rischi e delle incertezze della vita umana (cfr. Hor. Carm. I 3; I 35; Epist. I 11, 8-10). Così, quando, ad esempio, Petrarca confessa di essere terrorizzato dai viaggi in mare, allude ad un tempo ad una paura reale e a un topos di lunga durata spesso utilizzato come immagine metaforica del tempestoso percorso dell’esistenza. Se folle è dunque chi si mette in mare, ancora più folle è chi, come i naviganti di questo racconto, lo affronta in autunno, stagione, assieme all’inverno, che presso gli antichi era generalmente interdetta ai viaggi e alle guerre. In altre parole: chi va a sfidare la Fortuna nella di lei casa, deve essere pronto a pagarne le conseguenze. Sospesa tra l’impeto di entusiasmo iniziale e l’esito liberatorio del lieto fine, il racconto è tutto un alternarsi di stati d’animo dei tre personaggi miracolosamente sopravvissuti a un disastroso naufragio su un angusto relitto della nave. Come nell’avventura dell’Ulisse dantesco, dunque, anche per questa molto numerosa «compagnia» il riso volge tosto in pianto, benché qui il processo non sia irreversibile e il pianto si muti in riso, con la frequenza scandita dal metronomo impazzito dell’anima. L’instabilità emotiva dei personaggi sembra un riflesso del movimento ondivago dell’alto mare aperto, il quale a sua volta offre una icastica rappresentazione della levitas dei protagonisti, che vivono tra continui sbalzi di eccitazione e depressione, riso e pianto, speranza e disperazione, fame e inappetenza, scatti d’ira e repentini atti di bontà, sempre lontani da quello stato di aequanimitas che è prerogativa del saggio. Di più: lontani da quella pazienza, figlia di «necessità», che è al tempo stesso la «massima virtù», l’apice dell’intemperanza sta senza dubbio nel tentativo cannibalico del barbaro Scita ai danni della fanciulla, che, letto assieme all’incipit dell’intercenale, suggerisce un accostamento certamente non illegittimo con l’episodio dantesco del conte Ugolino (Cardini). Siamo dunque di fronte ad un campione

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rappresentativo di una umanità ipersensibile ai fatti esterni e per questo in balìa di Fortuna (o del Fato). Significativo, da questo punto di vista, il finale della redazione volgare: «Indi imparai, amicissimi miei, a nulla mai disperarmi. Siate felici». La critica, nell’interpretare questa intercenale, si è divisa in due sostanziali schiere: chi l’ha letta in maniera allegorica e chi come aneddoto didascalico. Rinaldi, già una trentina d’anni fa, vi vide un viaggio dell’anima simile a quello descritto da Platone nel Fedone; Bacchelli e D’Ascia hanno insistito su questa strada, vedendo nel naufragio il bellum civile animae che scoppia tra la parte concupiscibile dell’anima (il barbaro), quella irascibile (l’io narrante) e quella razionale (la fanciulla), definendo inoltre Naufragus come un notevole «documento di platonismo letterario anteriore a Ficino»; anche Marsh, suggerendo un parallelo con la storia di Amore e Psiche dentro le Metamorfosi di Apuleio, si è schierato in favore dell’allegoria. Ponte prima, e Cardini poi, hanno invece riportato l’interpretazione in zone più laiche e consentanee, sembrerebbe, al pensiero agnostico e democriteo dell’Alberti, sottolineando, in particolare, come i comportamenti del barbaro Scita possano essere spiegati ricorrendo al filone storico-erudito della tradizione latina (in particolare ad Aulo Gellio). Lungi così dall’essere una psicomachia, Naufragus sarebbe un racconto didascalico, da intendersi a mo’ di exemplum, dove «il vero protagonista è l’io narrante che oppone alla regressione belluina del barbaro e alla disperazione della fanciulla la virile sopportazione legata alla fiducia e alla speranza» (Cardini). Naufragus occupa da sola il IX libro delle Intercenales nell’ordinamento testimoniato dal codice di Pistoia. La citazione del poeta Silio Italico (§ 53) ha indotto Cardini, sulla base della considerazione che il rapporto di Alberti coi Punica fu «intenso ma breve», come testimonierebbero le citazioni presenti solo in alcuni testi dei primi anni quaranta (Theogenius e Profugia), a datare questa intercenale tra il 1440 e il 1442. Naufragus è l’unico caso, assieme ad Uxoria, di intercenale che ha trovato doppia scrittura da parte dell’autore, che ne ha redatto una versione anche in volgare, proposta qui di seguito. Nota al testo Il testo è quello di P, latore di una seconda redazione rispetto a quella testimoniata indirettamente dalla redazione volgare che si legge nel codice Moreni 2 della Biblioteca Moreniana di Firenze. Sul testo di P è intervenuto con importanti congetture Cardini, anche avvalendosi di M in qualità di testimone indiretto.

(1) Etsi nequeam sine lachrimis et merore tam insignem inauditamque a fortuna perpessam iniuriam animo repetere, viri amicissimi, nequeo tamen non facere quin vobis, tantopere ut a me perpessum naufragium enarrem iubentibus, obtemperem; geram vobis morem. (2) At rem audietis ex me omnium memoria et admiratione dignissimam atque, ut intellexeritis, viri optimi, quam omni genere calamitatum hoc uno fuerim fortune impetu affectus, ni fallor, ceteris in locis, quibus fortuna suum gerat imperium, tum multo magis mari eius ipsius fortune invidiam et inconstantiam fugiendam ac longe esse pertimescendam iudicabitis. (3) Et cupio quidem id posse eloquentia ut rem ipsam, ut fuerit horrenda, intelligatis. Nam nos quidem, qui duram illam fortunam perpessi fuimus, quidvis rerum terribilium possumus aggredi quam rursus navigio et ventis confidere; non profecto nostram ullis premiis salutem Neptuni perfidie committemus. (4) Tantumque me habet navigationis odium, 1

L’attacco di questo racconto che si preannuncia di alta intensità emotiva per il narratore è l’ultimo anello di una «catena intertestuale» (Cardini, p. 462), che parte dall’attacco del naufrago Ulisse (Odissea IX 12-13), passa per l’Enea che comincia a raccontare le sue peripezie alla regina Didone (Aen. II 3-13), e arriva al celeberrimo episodio del conte Ugolino dantesco (Inf. XXXIII 4-9), che pare promovibile a ipotesto sotteso a questa intercenale anche per via del tema del cannibalismo. 2 Cfr. Plaut. Most. 431-37: «Habeo, Neptune, gratiam magnam tibi,

(1) Anche se non posso ricordare senza lacrime e dolore l’ingiuria tanto grave e inaudita subìta dalla fortuna, amici carissimi, non mi posso sottrarre tuttavia dal soddisfare la vostra richiesta di narrarvi il naufragio che ho subìto; vi asseconderò.1 (2) Ascolterete da me una cosa davvero degna di memoria e di ammirazione e, se non mi inganno, quando avrete compreso a che genere di calamità sono stato soggetto a causa di un solo impeto della fortuna, giudicherete che, se l’ostilità e la volubilità della fortuna sono da temere e rifuggire dovunque essa eserciti il suo potere, tanto di più questo discorso vale in mare. (3) E spero che la mia capacità di raccontare basti a farvi capire quanto quella situazione sia stata tremenda. Infatti noi, che abbiamo sopportato quella disgrazia, possiamo ora affrontare qualsiasi prova terribile, ma non confidare nuovamente nella navigazione e nel vento; senz’altro non affideremo più per nessun motivo la nostra vita alla perfidia di Nettuno.2 (4) Oggi nutro un tale odio / quom me amisisti a te vix vivom domum. / Verum si posthac me pedem latum modo / scies inposisse in undam, hau causast ilico / quod nunc voluisti facere quin facias mihi. Apage, apage te a me nunciam post hunc diem! / Quod crediturus tibi fui, omne credidi» («Ti ringrazio tanto, Nettuno, perché mi hai rimandato a casa, anche se mezzo morto. Ma se mai verrai a sapere che ho messo in acqua anche solo l’alluce, avrai tutte le ragioni per farmi in quattro e quattr’otto quello che volevi farmi adesso. Stammi lontano per sempre, d’ora in poi! Ciò che intendevo affidarti, già te l’ho affidato tutto!»).

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ut nedum mare, sed ne eos quidem qui ullis transfretationibus rem affectent, possim non vehementer, quasi vite salutisque sue inimicos, odisse. At enim posteaquam vos video maiorem in modum ad me audiendum paratos, rem quidem ipsam quam potero breviter enarrabo. (5) Navi valida et munitissima trecenti ferme homines percommode ac ludibundi plenis velis iam tum ex alto conspicuos procul a nobis visos portus petebant. (6) Nosque atque imprimis pulcherrima que una comes aderat puella, quam paratis nuptiis adolescens primarius proximo ad portum oppido prestolabatur, veste et huiusmodi rebus, ut fit, ad exitum ornabamus. (7) Erantque inter nos plerique qui amenissimo illo in portu cenas et festum diem, qui annuus per id tempus autumni celeberrimus habebatur, velle postridie, cum appulissemus, summa cum voluptate agere constituissent. (8) Denique omnis navis letitia et congratulationibus ardescebat. Interea – o fragilis hominum spes! – repente, quasi emissa celitus peste, procella oborta est tam atrox, ut vi austri et pondere velorum navis provoluta atque miserandum in modum obruta inter undas extiterit. (9) Quo factum quidem est ut omni illa ex multitudine qui navi aderant solus ego et barbarus quidam ex Scythia unicaque item nubilis puella illa delicatissima quam vir et parate nuptie expectabant, reliquis omnibus perditis, tanto e naufragio miro quodam et incredibili modo evaserimus. (10) Subversa enim navi, quo id factum sit

3 Per questa situazione narrativa Ponte (Il «Naufragus») ha proposto un accostamento alla novella boccacciana di Alatiel (Decameron II 7). Se le divergenze del racconto e i caratteri dei personaggi non consentono, come ha sottolineato Cardini (p. 463), di parlare di vera e propria «fonte», la segnalazione, anche solo come reminiscenza, non pare fuori luogo.

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per la navigazione che non solo mi ha preso una tremenda insofferenza per il mare, ma pure per coloro che conducono i loro affari attraversandolo, come fossero nemici della propria salute e vita. Ma dal momento che vi vedo pronti ad ascoltarmi nel migliore dei modi, vi racconterò la storia più rapidamente che potrò. (5) Su una nave solida ed equipaggiatissima quasi trecento uomini si dirigevano a vele spiegate, felici e senza alcun pensiero, al porto che seppur lontano da noi ormai si vedeva. (6) Noi, e soprattutto una bellissima fanciulla che era con noi e che un ragazzo, un buon partito, attendeva per convolare con lei a nozze in una città vicina al porto,3 ci facevamo belli per l’uscita, come avviene di solito, rassettandoci la veste e cose di questo tipo. (7) La maggior parte di noi aveva deciso che il giorno dopo allo sbarco in quel porto così ameno – proprio nel giorno di festa considerato più celebre di quella stagione, l’autunno – si sarebbe dato al cibo e alla pazza gioia. (8) Tutta la nave scoppiava di gioia e di congratulazioni reciproche. Ma all’improvviso – o fragile speranza dei mortali!4 – come una peste scagliata giù dal cielo, scoppiò una tempesta tanto violenta che sotto la forza dell’austro e per il peso delle vele la nave fu abbattuta e in breve si trovò miserevolmente a pezzi tra le onde. (9) Accadde perciò che di tutta quella moltitudine di persone che popolavano la nave solo io, un barbaro proveniente dalla Scizia5 e quell’unica fanciulla nubile e deliziosa che il fidanzato aspettava a riva per sposarla, scampammo incredibilmente e miracolosamente a tanto naufragio, mentre tutti gli altri furono perduti. (10) Infatti, rovesciata la nave – non so proprio se ciò accadde per 4 Cfr. Cic. De orat. III 7: «O fallacem hominum spem fragilemque fortunam» («Quanto è ingannevole la speranza degli uomini, e quanto insicura la loro sorte!»). 5 Più che la Repubblica (435e) platonica suggerita da BacchelliD’Ascia (p. 575), è probabile che lo stereotipo dello scita barbaro e cannibale derivi dal poligrafo Aulo Gellio IX 4.

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fato aut fortuna penitus nescio, sed fluctibus impellentibus sorte quadam nos in angustum ad puppim locum coniecti convenimus, qui quidem, cum ceteras ob res alioquin erat incommodus, tum etiam tam erat angustus, ut trium vix hominum satis esset capax. (11) Eumque ipsum locum multo angustiorem et asperrimum non modica peracuta illic extra ordinem sparsa et perseminata fabrorum ad navis usum coacta ferramenta reddebant, ut ne pedem quidem alterum absque accepto aliquo vulnere eo in loco firmare admodum nobis licuerit. (12) Adde quod extantes erectaque et sublata cervice ab ultimo vix liberi eramus vite periculo, siquidem ad humeros usque sepulti aquis affatim per scissas eversi et quassati navigii rimulas influentibus abluebamur. (13) Hisque difficultatibus illud item accedebat persepius ut, dum navis ipsa vehementius in horam irrumpentibus undis agitaretur, nos inter nos impetum facere alterque alterum indecenter collidere cogeremur. Itaque proluebamur, provolvebamur contundebamurque. (14) Tamen et madidis et fessis et sauciis locum ipsum presens necessitas gratissimum reddiderat satisque ac super admodum amplissimus videbatur nobis, tametsi non amplior erat quam ut animam ipsam trahere liceret. (15) Eam ob rem superos maximis votis precabamur, ut eo saltem loco nobis diutius salutem liceret sperare. Posthec hortari quisque alterum bonamque spem polliceri firmumque animum instituere pro virili non cessabamus. (16) De exitu tamen ex ea miseria per id temporis erat nihil quod aut consulendum aut pertentandum esse nobis arbitraremur. (17) Non enim quo essemus mari constituti per tenebras intelligebamus optimeque id nobiscum agi censebamus, quandoquidem vel os ipsum super salum nobis erat fas extollere.

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volere del Fato o della Fortuna –6 ci trovammo scagliati dai marosi in un angolino della poppa, che, tra le altre ragioni, era scomodo soprattutto perché era così stretto che a stento ci potevano stare tre uomini. (11) E rendevano quel luogo ancora più stretto e pericoloso degli attrezzi da lavoro, utilizzati dagli operai per il buon funzionamento della nave, che erano molto appuntiti e sparsi un po’ dovunque, così che non potevamo fare neanche un passo senza ricavarne una qualche ferita. (12) Inoltre riuscivamo a sopravvivere solo stando in piedi e tenendo in alto la testa, perché eravamo immersi nell’acqua fino alle spalle, acqua che entrava attraverso le fenditure della nave rovesciata e squassata. (13) A queste difficoltà si aggiungeva il fatto che molto spesso, quando la nave era scossa un po’ più violentemente dai marosi, ci spingevamo tra di noi urtandoci involontariamente. Così eravamo bagnati, sbattuti qua e là e contusi. (14) Tuttavia, benché fradici, stremati e feriti, la necessità ci rendeva quel luogo graditissimo e ce lo faceva sembrare sufficiente, anzi, grandissimo, anche se non era più grande di quel minimo indispensabile per respirare. (15) Per questo motivo pregavamo gli dei facendo grandi voti, affinché, in quel luogo dove eravamo, ci fosse concesso ancora di sperare nella salvezza. Poi non smettevamo, per quel che potevamo, di esortarci reciprocamente, di dirci che tutto sarebbe andato bene e di mantenere la calma. (16) Tuttavia in quel momento non ci veniva in mente nulla da suggerire e tantomeno da tentare per uscire da quella miserevole situazione. (17) Non capivamo infatti attraverso le tenebre dove fossimo e ci sembrava già una gran cosa riuscire a tenere la bocca al di sopra del livello dell’acqua. 6 Anche se i due concetti spesso tendono a confondersi, il Fato o Destino implica una necessità cui le stesse divinità devono sottostare, come si apprende dall’intercenale Virtus. Per una definizione d’autore dei due concetti si veda il finale di Fatum et Fortuna.

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(18) Quo quidem miserrimo statu quid putatis, viri optimi, pro vestra prudentia quam assiduas mortes hinc superarimus, hinc expectarimus? Omnis que paulo maior volvebatur unda nostram ad necem intumuisse arbitrabamur. (19) Mirum tamen ut in hoc tanto vite discrimine spes animum, animus vero ipse sese non deseruerit atque semper ea fortitudine fuerit, ut de salute nobis continuo quippiam bene polliceretur. (20) Ac sepius id ipsum mihi admiranti et vix fieri posse credenti ut solem lucemque hanc essem amplius revisurus, in mentem rediit quod , Spem unam esse in terris deam que miseris sit comes relicta. (21) Nam «hec dea, cum fugerent scelerata numina terras, ex diis invisa sola remansit humo… Hec facit ut, videat cum terras undique nullas, naufragus in mediis brachia raptet aquis... Carcere dicuntur clausi sperare salutem, atque aliquis pendens in cruce vota facit». (22) Nos igitur nimirum dea hec ipsa, que miseros et ceteris a diis desertos malisque oppressos numquam destituit, minime passa est tantis ingruentibus in nos malis animo succumbere. (23) Ea idcirco comite duratum a nobis est, quoad post multas horas mare ipsum cepit mitescere, et locus ipse quo reclusi eramus fluctibus parumper inundari desiit. Non tamen inde uspiam ut liceret progredi ullus a conceptis subversa navi aquis locus dabatur. (24) Ea de re primum nonnihil resipiscere occepimus locumque ipsum, omni ferramento magna ex parte eiecto, ut paulum considere liceret coaptavimus, perque rimulas unde tum antea fatiscere navis destiterat diligentius siquid se nobis terrarum e conspectu offerret spectabamus,

7 Bacchelli-D’Ascia (p. 577) chiamano in causa due versi ovidiani, Met. XI 537-38: «Deficit ars, animique cadunt, totidemque videntur, / quot veniant fluctus, ruere atque irrumpere mortes» («L’arte non

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(18) In quello stato disgraziato, uomini stimati, per la vostra saggezza comprendete che dopo aver scampato un’occasione di morte ne aspettavamo subito un’altra? Ogni onda che cresceva un po’ più alta delle altre credevamo si gonfiasse per ucciderci.7 (19) È incredibile tuttavia come, in una situazione così estrema, al limite tra vita e morte, la speranza non abbandonasse l’animo, e l’animo non abbandonasse se stesso e conservasse un coraggio tale da continuare a sperare nella nostra salvezza. (20) Mentre di ciò mi meravigliavo e a stento riuscivo a credere che avrei rivisto ancora la luce del sole, mi tornò in mente ciò che si dice, che la Speranza è l’unica dea rimasta in terra per far compagnia agli sventurati. (21) Infatti: «Questa sola dea è rimasta nel mondo malvagio / che gli altri dei per odio lasciavano... Questa fa sì che senza vedere terre intorno / il naufrago batta le braccia nel mezzo del mare ... Sperano nella salvezza, si dice, quelli in prigione / e pure appeso in croce qualcuno fa voti».8 (22) È stata senz’altro questa dea, che non ha mai abbandonato gli sventurati oppressi dalle disgrazie (come invece hanno fatto gli altri dei), a non lasciare che soccombessimo ai tanti mali che ci opprimevano. (23) Sopportammo a lungo in sua compagnia fino a che, dopo molte ore il mare prese a calmarsi e il posto dove eravamo rinchiusi cessò a poco a poco di essere inondato dai flutti. Tuttavia da lì non potevamo uscire in quanto la nave era stata rovesciata dalle acque. (24) Quindi ci tornò un po’ di senno in capo e, gettando via la maggior parte degli attrezzi di ferro, cercammo di fare in modo che in quel posto ci si riuscisse a sedere, anche se stretti, e attraverso le fenditure donde già da un po’ la nave aveva smesso di fare acqua scrutavamo attentamente se ci si offrisse la vista di qualche riva, e mentre guardavamo può più nulla, la forza d’animo viene meno / e ogni onda che si solleva sembra porti la morte»). 8 Cfr. Ov. Ex Pon. I 6, 29-36.

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interque conspiciendum adventantes undas, ne nos funditus obruerent momentis ipsis, expavecebamus. (25) Tandem cum e regione montes fortasse aliquos vidisse nos pronosticaremur, tantum in nos petende telluris desiderium exarsit, ut ceteras inter molestias id esset unum maxime quod nos non in postremis excruciaret. (26) Tandem paulum ut oportuit refrigerato desiderio nos, qui prius sepulti aquis nihil plusquam ut spirandi tantum integra esset nobis potestas exposcebamus, nunc ab ultimo illo vite diu perpesso periculo facti liberiores vestes pati madidas haud satis poteramus. (27) Magna idcirco ex parte nudi et, quantum nobis tum erat fatum, rebus omnibus amissis, hunc ipsum aliquem sedendi et quiescendi fore locum datum inter nos congratulandum ducebamus. (28) Longum esset referre varia illa que sic considerantibus nobis per id temporis nostros in animos atque sermones incesserint. Nam et dolor amissarum rerum et letitia iam sese ostentantis salutis et spes et metus futurorum nos dementes et ab omni pectoris verborumque constantia prope alienos habere occeperat. (29) Accedebat quod cum insomnes, ieiuni, frigentes languidique contabesceremus, tum et partim quisque suis malis partim communi inter nos mutuaque misericordia attriti confectique vix satis nostri compotes essemus. (30) Itaque integre biduum eo pacto pertulimus. Que omnia inter nostra mala durissima et crudelissima nullum erat quo vehementius urgeremur quam fames. Fame enim eo adducti fuimus, ut mortem obire quam illam ipsam diutius perpeti vitam commodius statueremus. (31) Et imprimis barbarus ille infortunii comes, quod et natura ferox et ingenio procaci audacissimoque esset, tantam in sevitiam exarsit, ut (rem incredibilem!) facinus inauditum et omnium memorabile exsequi aggressus sit. (32) «O male, uti aiunt, suada fames!»

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temevamo che le onde che venivano contro di noi ci sommergessero completamente. (25) Quando finalmente ci parve di intravedere all’orizzonte alcuni monti, ci prese un tale desiderio di raggiungere terra che, tra i vari problemi che avevamo, quest’ansia prese ad affliggerci più delle altre. (26) Placatosi poi un poco il desiderio, come era giusto, noi che prima, quando eravamo sommersi dalle acque, non chiedevamo nient’altro che di poter respirare, ora, liberati dallo scampato pericolo – un pericolo a lungo sopportato – non tolleravamo più le nostre vesti fradice. (27) Spogliatici perciò quasi integralmente e privati di tutto come il destino aveva stabilito per noi, ritenemmo di doverci rallegrare tra di noi in quanto ci era stato dato un luogo dove sederci e riposarci. (28) Sarebbe lungo riferire i vari pensieri che ci giravano per la testa e i discorsi che facevamo tra di noi. Infatti, sia il dolore delle cose perse che la gioia per la salvezza che ormai ci si mostrava, sia la speranza che il timore degli avvenimenti futuri, ci avevano resi pazzi e del tutto instabili nell’animo e nelle parole. (29) A questo si aggiunga che, sfinito dal sonno, dalla fame, dal freddo, dalla fatica, ciascuno di noi, vessato in parte dai suoi dolori, in parte da una mutua e reciproca misericordia, riusciva a stento ad essere padrone di sé. (30) Passammo così due giorni interi. Tra i mali che ci affliggevano il più duro e crudele era quello della fame. La fame ci fece arrivare al punto di preferire la morte alla sopportazione ulteriore di quella vita. (31) Quel barbaro compagno di sventura, poiché era feroce per natura e di carattere intemperante e sfrontato, concepì una tale crudeltà che (o cosa incredibile!) cominciò a realizzare un delitto inaudito e degno davvero di ricordo. (32) «O fame, come si dice, cattiva consigliera!».9 Il barbaro si avvicinò al

9 Cfr. Verg. Aen. VI 276. Come ricordano Bacchelli-D’Ascia (p. 581) il detto è riportato anche da Macr. Satur. V 14, 8.

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Ad aurem enim sese meam barbarus anhelans, pallens, spiritu intremitans et dentibus infrendens adegit precarique susurrando primum cepit, mox paulum sublata voce etiam convitio exposcendo instabat, uti puellam ipsam comitem interimeremus, qua depasceremur. (33) Puella, cum de capite agi subaudiret, non est referam quantos luctus innovaret. Mihi vero execrandi facinoris atrocitas et tenerrime pureque puelle misericordia et pro me ipso timor ab immanitate barbari animum in maiorem modum incussit. (34) Ergo mecum ipse plurima pensitare occepi. Atqui: «en» inquam «a tempestatis rabie servatine sumus ut barbaro cruentus cibus simus?», et collachrimavi. At barbarus, oculis iam tum flammas iactantibus, ut scelus perpetraremus propalam admodum clamitando efflagitabat. (35) Idcirco ipse, quod unum pro necessitate consilium occurrebat repente, nequid tetrum et truculentum illud monstrum temere fortassis auderet, diligentissime iterum atque iterum lustrato loco quicquid vel minutissimi ferri apud nos reliquum aderat eieci, ut felices tum nos pro rei opportunitate arbitrarer quod insano et furenti ferrum ad perpetrandum facinus deesset. (36) Sed quid hic referam puellam illam miserrimam, que quidem tremens, expavefacta, omnem opem ad suam salutem in lachrimis et precibus posuerat? O pietatem! eiusmodi edebat voces, eiusmodi preces, ut non modo mihi, quem natura mitissimum procreavit, sed vel barbaro interdum excuteret lachrimas. (37) Ego autem,

10 Il digrignare i denti, assieme allo sfolgorio degli occhi che tra poco si manifesterà (§ 34), erano attributi classici dell’iracondo, cfr. Sen. De ira I 1, 3-4: «Nam ut furentium certa indicia sunt audax et minax vultus, tristis frons, torva facies, citatus gradus, inquietae manus, color versus, crebra et vehementius acta suspiria, ita irascentium eadem signa sunt: flagrant ac micant oculi, multus ore toto rubor exaestuante ab imis praecordiis sanguine, labra quatiuntur, dentes comprimuntur, horrent ac surriguntur capilli, spiritus coactus ac

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mio orecchio, respirando affannosamente, pallido, tremante e digrignando i denti10 e prese dapprima a sussurrare, poi, alzando la voce, mi incalzò chiedendo con insistenza che uccidessimo la fanciulla nostra compagna per cibarcene. (33) La fanciulla, quando sentì che era in gioco la sua vita, non c’è bisogno che vi dica quante lacrime ricominciò a versare. Anch’io ero particolarmente scioccato dall’atrocità dell’orrendo proposito, dalla misericordia verso la tenera e pura fanciulla e dal timore per la mia stessa incolumità, data la disumanità del barbaro. (34) Dunque presi a pensare molte cose tra me e me. «Ecco» dicevo «siamo scampati al furore della tempesta per essere cibo cruento di un barbaro?», e mi misi a piangere. Ma il barbaro, con gli occhi che già gettavano fiamme, continuava ad insistere gridando perché compissimo quel delitto. (35) Allora io stesso, poiché occorreva prendere alla svelta una decisione affinché quello non osasse attuare il suo proposito orrendo e sanguinoso, feci una perlustrazione e gettai fuori meticolosamente, uno dopo l’altro, i pezzi di ferro, anche quelli piccolissimi, che erano rimasti presso di noi; grazie a questa deliberazione credevo potessimo dirci fortunati, mancando al pazzo il ferro per perpetrare il suo delitto. (36) Ma che dirò di quella povera fanciulla che, tremante, spaventatissima, aveva riposto tutte le speranze di salvezza nel pianto e nelle preghiere? Misera! Gemeva e pregava in una maniera tale da strappare le lacrime non solo a me, che per natura ero molto sensibile, ma talvolta persino al barbaro. (37) Io allora mi rivolsi a lei e la invitai a farsi stridens…» («Come infatti sono precisi sintomi di follia lo sguardo sfrontato e minaccioso, la fronte accigliata, il volto torvo, l’andatura concitata, le mani sempre in movimento, il colorito alterato, il respiro affannoso e profondo, tali sono i sintomi delle persone adirate: gli occhi sono ardenti e accesi, in tutto il volto si diffonde un intenso rossore, poiché il sangue ribolle dal profondo del cuore, le labbra tremano, i denti si serrano, i capelli si levano ritti sul capo, il respiro è faticoso e rumoroso…»).

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in puellam versus bonam spem bonumque ut susciperet animum iussi: non hic lachrimis, sed animi virtute opus esse; staretque edixi quo manum ad salutem tuendam, si opus sit, forti possit pectore afferre; ipsum enim me, superis iuvantibus, contra crudelitatem strenuissimum futurum bellatorem; superos enim sanctissimam piissimamque causam nostram non spreturos. (38) Postremo cum nos bellua immanis barbarus ille obtundere expostulando non desineret, iusta ira irritatus quod benignis eum dictis nequissem castigare, in huiusmodi convitium irrupi: «O scelestissime, tune tandem plorantem, deprecantem, miseramque hanc tam duri nostri infortunii consortem, tantis casibus afflictam, non desines perterrefacere? (39) Tu humanum corpus, homo, et viva membra tibi pastum appetes, nefandissime? Tene hominem esse non meministi? Et quam tu adeo efferatam tigrim dabis tibi similem? quod tam reperiri poterit animal vorax, quin cognatis, ut aiunt, maculis non parcat? (40) Tute tibi efficis hanc male ferendo famem acerbiorem, quam quidem si tibi temperes procul dubio commodius perferes et meliora sperasse iuvet. (41) Non profecto a tanta tempestate ad tantam crudelitatem servati sumus a diis, sed, quantum ex superum pietate interpretari licet, ad salutem et ad deorum beneficium testificandum servamur; alioquin antiquius fuerat nudio tertio cum reliquis naufragis mortem obivisse. (42) Neque diffido, si

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Si tratta, come puntualizza Cardini (p. 465), del rimaneggiamento di una sentenza di Pub. Sir. 58: «Necessitatem ferre, non flere addecet» («Bisogna affrontare il pericolo, non piangere»). 12 Contrariamente a quella deprecabile del barbaro, questa del protagonista è una giusta ira, che stimola la virtù. In tale contrasto si rispecchia quello tra la concezione stoico-epicurea dell’ira, secondo cui questo sentimento è sempre negativo e da condannare, e la posizione aristotelica (ma già platonica, cfr. De repub. 440ab) in cui l’ira può divenire in alcuni casi alleata della ragione.

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coraggio e ad essere fiduciosa: in quella situazione non c’era bisogno di lacrime ma di forza d’animo;11 le dissi di stare in piedi per potermi aiutare con risolutezza a salvarci la pelle, casomai ce ne fosse stato bisogno; io, con l’aiuto degli dei, avrei combattuto strenuamente contro quell’uomo crudele; gli dei non avrebbero voltato le spalle alla nostra santissima e giustissima causa. (38) Infine, dato che il barbaro, quella belva inumana, non la smetteva di rintronarmi con la sua richiesta, mosso da una giusta ira12 – poiché non avrei potuto riprenderlo con parole benevole – me ne uscii con questo rimbrotto: «O scellerato, la vuoi smettere di atterrire questa nostra infelice compagna di sventura che piange e prega, colpita da una tale disgrazia? (39) Tu, che sei uomo, vuoi mangiare un corpo umano, vuoi nutrirti di vive membra, malvagio? Ti scordi di essere tu stesso un uomo? C’è una tigre che è pari a te nella crudeltà? Dove si trova un animale tanto vorace che, come dicono, non risparmi i suoi simili?13 (40) Tu sei causa del tuo problema perché mal sopporti i morsi della fame: se riuscissi a moderarti senza dubbio la sopporteresti meglio e ciò aiuterebbe a sperare in meglio. (41) Di certo gli dei non ci hanno salvato da una tale tempesta perché poi commettessimo un’azione tanto crudele,14 ma, da quanto si può capire dalla pietà degli dei, l’hanno fatto perché, con la nostra salvezza, fossimo testimonianza del loro favore; altrimenti sarebbe stato meglio morire assieme agli altri naufraghi due giorni fa. (42) E non dispero che, se saremo

13 Si tratta, come notano Bacchelli-D’Ascia (p. 585), di una probabile ripresa di Iuv. XV 159-60: «parcit / cognatis maculis similis fera» («la belva rispetta le macchie della stessa specie»). Per Cardini (p. 465) la satira di Giovenale, nei vv. 169-71, «importa pure per il cannibalismo». 14 Vd. § 34. Come spesso capita nella trama retorica dell’Alberti, ritorna qui un concetto precedentemente espresso: in questo caso una stessa proposizione passa dal tono dubitativo del § 34 al tono assertivo-esortatorio.

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pii erimus, ostentata iam magna ex parte et porrecta pietate deorum misericordia nobis dabitur, ut quam primum ex his malis nos vindicatos congratulemur». (43) Itaque eiusmodi illum conabar dictis absterrere a scelere. Sed vos obtestor, o amici et viri optimi, quid mihi tum animi fuisse ea dicenti existimetis? quid me non tum maluisse quam non coram illam belluam truci aspectu hiantem, hirtis ad frontem crinibus, ad ultimam crudelitatem gestientem intueri? (44) Ferebam tamen me ipsum animo presenti et in omni adversus puellam officio detinebam. Sed illud me penitus acri officio oppresserat, quod barbarus ad immanitatem ultimam adiecit. (45) Magno enim emisso eiulatu, «Aut me – clamitans inquit –mactate, aut vestrum profecto alter cadat necesse est». Dehinc ira una et fame exasperatus ad id furoris devenit, ut tumultuosius in nos invehens maximis vocibus deos execrari inverecundissime auderet manumque propius intenderet. (46) O durissimum spectaculum! Hinc puella, quantum loci angustie patiebantur, formidolosissima nostros se ad pedes provolvebat sibique uti parceremus deprecabatur. Hinc barbarus ad facinus accinctus et pronus iam iam ad vim irrumpere constituerat. Ego medius hanc consolando, hunc absterrendo, dictis fatigabar. (47) At ille, quo accoratius dissuadendo contendebam, eo efferatius in rabiem excandescebat. Itaque puelle insonti lachrime et mihi pro immerita apud immitissimam belluam oranti preces deficiebant, cum demens et furiis debacchatus truculentissimus barbarus in

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fiduciosi negli dei e faremo grande mostra della nostra pietà, la loro misericordia farà sì che presto potremo rallegrarci per la liberazione da questi mali». (43) Con queste parole provavo a distoglierlo dal suo criminoso proposito. Ma chiedo a voi, cari amici e uomini insigni, quale pensate che fosse il mio stato d’animo mentre parlavo così? Cosa non avrei preferito fare piuttosto che affrontare vis a vis quella bestia dal truce aspetto con le fauci spalancate, coi capelli che ricadevano sulla fronte,15 pronta a compiere la più crudele delle sue azioni? (44) Cercavo tuttavia di non perdere il controllo su me stesso e di rimanere fedele al mio compito di salvaguardare la fanciulla. Ma, più che il compito che mi ero imposto, a gettarmi nel più profondo sgomento fu ciò che di ulteriormente brutale disse il barbaro. (45) Dopo aver cacciato un urlo tremendo, disse: «O mi ammazzate, o bisogna che uno di voi due muoia». Poi, esasperato insieme dall’ira e dalla fame, giunse ad un tale grado di follia che cominciò a maledire gli dei a gran voce, inveendo anche contro di noi e avvicinandosi per metterci le mani addosso. (46) Che spettacolo tremendo! Da una parte la fanciulla, per quanto lo consentisse l’angustia del luogo, si gettò spaventatissima ai miei piedi e pregava che la risparmiassimo. Dall’altra il barbaro si era deciso ormai per il delitto ed era pronto ad usare la violenza. Io, in mezzo, faticosamente cercavo di consolare lei, di allontanare lui. (47) Ma quest’ultimo, quanto più cercavo di dissuaderlo, tanto più impazziva di rabbia. E così all’innocente fanciulla mancavano ormai le lacrime e a me le preghiere per distogliere la bestia disumana da quella sventurata, quand’ecco che quel barbaro crudelissimo, folle e in preda alle furie passò ad attuare il 15 Questi particolari fisici non sono privi di significato: secondo una tradizione fisiognomica forse nota ad Alberti attraverso uno scritto attribuito ad Apuleio (il De physiognomia), infatti, i capelli sulla fronte indicano un uomo «animoso e mezzo selvaggio» (Bacchelli-D’Ascia, p. 585).

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teterrimum scelus irrupit. (48) Nam procumbentem nostros ad pedes precabundam puellam, totis viribus manibus ad eius illius guttur iniectis ut opprimeret, superincubuit. (49) Tum mihi languenti et ob perpessa incommoda penitus enervato indignitas immanissimi sceleris et puelle misericordia vires excitarunt, belluamque ipsam cum in puellam tum et in me frementem morsibusque crassantem multa vi desudans averti, eiusque furentis manu dextra meis ambabus manibus apprehensa, brachium ad tergum intorquens, ut pro dolore eiularit, detinui, quoad uti inter luctandum impedirem. (50) Nonnullos tamen in eo duello morsus atque in femore gravissimos plerosque pugnos excepi. Puella positis lachrimis virilem suscepit sua pro salute animum et ad debellandum atrocissimum hostem operam auxiliumque adhibuit. (51) Nam levam quidem manum, qua soluta quidem barbarus infestissimum sese nobis prebebat, corripuit et adtortam in tergum adduxit; mox ultimam linteolam, que exutis reliquis madentibus vestibus supererat, discidit in fascias ut illis ambas ferocissimi barbari manus penes terga revinxerimus: (52) qui quidem, tametsi erat constrictus, voce territando genibusque et calcibus et morsibus cum puellam tum et me lacessere nequicquam, ut poterat, intermittebat tabulataque ipsa navis dentibus demordebat, dislacerabat, mandebat. (53) Nimirum igitur, Silio poete ut assentiar, ipsa a nobis perpessa calamitas edocuit, qui etsi ultimi periculi metu parumper a fame sentienda alieni eramus, eam tamen esse durissimam et intolerabilem sentiebamus. (54) «Nihil enim temerare piget: rabidi ieiunia ventris / insolitis adigunt vesci». (55) Ut

16 Per la donna dal virile coraggio è opportuno, secondo Bacchelli-D’Ascia (p. 587), rifarsi ad Apul. Met. VI 27: «Quae [illa virgo captiva] vocis excitu procurrens videt hercules memorandi spectaculi scaenam, […] sumptaque constantia virili facinus audet pulcherrimum» («E corse proprio la fanciulla prigioniera, e vide

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suo odiosissimo delitto. (48) Si piegò sulla fanciulla che si era prostrata ai miei piedi per chiedere aiuto e con tutte le sue forze le gettò le mani al collo per strozzarla. (49) Quando ormai ero del tutto sfiduciato e privo di energie per gli sforzi affrontati, la disumanità dell’indegno delitto e la misericordia verso la fanciulla mi fecero tornare le forze; con tutte le mie energie e il mio sudore scacciai via quella bestia che insidiava e tempestava di morsi sia me che la fanciulla; con entrambe le mie mani riuscii a bloccare la destra di quel pazzo, a piegargliela dietro la schiena – tanto che per il dolore urlò – e lo tenni così fino a impedirgli di usarla nella lotta. (50) Nella colluttazione tuttavia avevo ricevuto alcuni morsi e ripetuti pesanti pugni sul femore. La fanciulla smise di piangere e, in vista della salvezza, assunse un coraggio da uomo,16 dando un importante contributo per sconfiggere lo spietato nemico. (51) Infatti, prese la mano sinistra del barbaro, che era ancora libera e che lui continuava a mostrarci minacciosamente, e gliela piegò dietro alla schiena; quindi strappò in strisce la veste di lino che le era rimasta dopo che ci eravamo tolti di dosso i vestiti fradici, in modo tale da poter legare entrambe le mani del ferocissimo barbaro dietro la schiena. (52) Questi, benché fosse legato, gettava urla di minaccia e cercava di colpire come poteva ora me ora la fanciulla con ginocchiate, calci o morsi, inutilmente, e mordeva, lacerava e mangiava persino la tavola della nave. (53) La sventura da noi patita mi ha portato a dar ragione al poeta Silio; noi che prima per il pericolo di morire non sentivamo gli stimoli della fame, ora li sentivamo eccome, pesantissimi e intollerabili. (54) «Si sopporta qualsiasi alimento: il digiuno del ventre rabbioso costringe a nutrirsi di cibi insoliti».17 (55) Mi è facile ora uno spettacolo memorando […] La fanciulla allora ebbe un’idea folgorante: con un coraggio da uomo le strappa di mano la corda, mi fa fermare con dolci paroline, poi mi salta in groppa e mi lancia al galoppo»). 17 Si tratta di versi del poeta Sil. It. Pun. II 472-73 (la lezione odierna è

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nunc quidem queque de Sagunto, queque de Hyerosolima, et queque de Cassilino oppido litteris tradita sunt, facile apud me fidem faciunt: fuisse qui rudentes, qui ligneos cortices, qui scutorum pelles, valvarum vectes pestiferasque herbas ac denique et qui filios fame tracti comederint; et fuisse quidem nonnullos qui pre fame in Tybrim aut e muris nudos inter hostium tela precipites sese dederint. (56) Itaque, o amici, queso, animis vestris mecum repetite que nostra tunc fuerit sors atque conditio, quanta de spe, quanta de expectatione in rerum omnium desperationem, quanto de gaudio insperatum in luctum ceciderimus. (57) Qui enim aura tam facili tamque accommodatis ventis paulo ante utebamur, quibus fortuna queque vellemus sponte polliceri videbatur, qui leti ex navigatione illa lucra quam maxima nobis despondebamus, qui postridie futurum expectabamus ut coniuges, parentes, liberos deosque penates amplexu detineremus, qui denique plus deesse nihil arbitrabamur quod navigantibus nobis optandum diiudicaremus: (58) hi repente bona diripi, socios perire, nos ipsos, quos et fortuna et periculum coniunxerat, inter nos infestissimos experti sumus, ut vix, non dico ferende calamitatis, sed ne lugende quidem potestatem nobis concessam intelligeremus. Sed hec missa faciamus. Non enim ad deplorandam calamitatem dies sufficeret. (59) Ad rem redeo. Itaque cum illum recinctum haberemus et rabidum expavescebamus, ne si fascias disrupisset iterato ad dimicandum revocaremur atque impelleremur, superum «tolerare» e non «temerare»), riguardanti l’assedio della città di Sagunto. Come noto, i Punica di Silio Italico erano stati ritrovati e rimessi in circolazione da Poggio Bracciolini nel 1417. Lo studio dell’intero corpus delle opere albertiane ha permesso a Roberto Cardini di datare la lettura di Silio Italico da parte di Alberti e il suo riutilizzo agli anni 1440-1442. L’intercenale è databile dunque verisimilmente a questo periodo. 18 I particolari degli assedi delle città di Sagunto, Gerusalemme e Casilino Alberti li poteva leggere, rispettivamente, nel succitato Silio

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prestar fede a ciò che si legge sulle città di Sagunto, Gerusalemme, Casilino: che alcuni, spinti dalla fame, mangiarono gomene, cortecce d’albero, la pelle degli scudi, porte, erbe velenose e addirittura i figli; che altri, sempre per la fame, si buttarono nel Tevere o a capofitto dalle mura, inermi, tra i dardi dei nemici.18 (56) Per questo, amici, vi prego di tornare con me alla nostra sorte e condizione di allora, di immaginarvi la caduta dalle originarie speranze alla più totale disperazione, dalla gioia alla tristezza imprevista. (57) Noi che poco prima approfittavamo di una brezza benigna e di venti favorevoli, per cui sembrava che la fortuna ci promettesse tutto quello che noi desideravamo, che, felici, ci aspettavamo grandissimi guadagni da quel viaggio, che pensavamo di abbracciare presto i consorti, i genitori, i figli e gli dei penati;19 noi, che credevamo di non aver più niente da desiderare come navigatori, (58) abbiamo sperimentato tutto d’un tratto la perdita dei beni, la morte dei compagni e l’odio reciproco tra noi stessi che sorte e pericolo avevano uniti; tanto che ci siamo resi conto che a malapena ci era concessa la facoltà non dico di sopportare, ma neppure di piangere la nostra disgrazia. Ma ora basta con questi discorsi, ché non basterebbe un giorno intero per compiangere la nostra sventura. (59) Torno al racconto. Pur avendo legato quell’essere rabbioso, continuavamo a temere che se si fosse sciolto dalle fasce saremmo stati costretti a tornare a lottare. Ma per grazia

Italico (II 472-73) e Livio (XXI 5-15), in Eusebio Storia ecclesiastica III 6 (cfr. PL XX coll. 223-234) e in Livio (XXIII 19, 13). L’assedio di Gerusalemme da parte dei romani viene ricordato anche nel pressoché coevo Theogenius (p. 72): «Scrive Iosofo ebreo istorico che molti giudei ierosolomite, assediati dallo essercito de’ Romani, fuggendo la fame e peste in quale inchiusi nella terra perìano, in sussidio al suo essilio ne portavano trangusate e inghiottite occulte alcune monete». 19 Sono gli dei protettori della famiglia.

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gratia et pietate nonnuli nos parva ex cimba piscatores longe a litore naufragii reliquias dinovere, ad nosque, qui veluti pro castris ad excubias hostem precavendum intenti eramus, advolavere; quorum voces cum exaudissemus, non facile dici potest quo subito gaudio affecti fuerimus. (60) Rem dicam fortassis raram, sed veram quidem: nobis pro letitia vox et pene omnis anima defecit, ut iam piscatores alia inter se agentes, cum illic subversa excussaque navi nihil lucri sibi affore animadverterent, de deserendo consulerent. Qua de re nos ipsos collegimus et maxima qua potuimus voce opem precati sumus. (61) Cum autem illi audissent, nihil fuit rerum omnium quod apprime exposceremus quam ut aliquid interea preberent quo famem quota ex parte sedaremus. (62) Vidisses mutuas illic lachrimas et singultus et dulce utrinque pietatis studium. Namque illi hortari, nos inter nos amplexari. Proh superi boni, quanta illico in nos et quam subita animorum immutatio invasit! (63) Quem enim sevissimum nobis inimicum, vite et sanguinis nostri avidissimum ipsa fames effecerat, nunc eundem perpesse miserie societas mirifice conciliatum reddidit; quem colligatum metueramus atque oderamus, eundem nunc a nobis resolutum multa cum caritate amplectebamur. (64) Quod si qui fortassis aiunt mala tempora malos consuesse excitare mores et beatum quemque facile futurum pium, non mentiatur. Sed rem ipsam prosequamur. (65) Posthec piscatores, quod panes apud se non haberent, binos singulis pisciculos per scissuras hiantis navis intrusos condonarunt. Meum quidem seu fatum seu flagitium accuso: crudum illico piscem exedi. Puella

20 Il pesce nella tradizione geroglifica, come ricordano BacchelliD’Ascia (p. 593), è simbolo di cosa immonda e ripugnante, cfr. Orapollo Hieroglyphica I 44, p. 133, «perché ritengono che cibarsi di pesce sia una cosa che provoca avversione e ne decretano l’impurità

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divina ecco che, mentre noi eravamo tutti intenti a guardare il nemico come sentinelle in un accampamento, alcuni pescatori, avendo visto da lontano, dalla loro piccola barca, i relitti del nostro naufragio, prontamente ci raggiunsero; non è facile esprimere la gioia che ci investì non appena sentimmo le loro voci. (60) Dirò una cosa strana ma certamente vera: per la gioia perdemmo la voce, e quasi persino i sensi, al punto che i pescatori, vedendo che da quella nave squassata e capovolta non ci avrebbero ricavato nulla, pensando ormai ad altro decisero di andarsene. Noi ce ne rendemmo conto e, raccolte le nostre forze, chiedemmo aiuto con tutta la voce che avevamo. (61) Una volta che costoro ci ebbero uditi, la primissima cosa che chiedemmo loro fu di darci qualcosa che potesse un po’ placare la nostra fame. (62) Avresti dovuto vedere in quella circostanza le lacrime reciproche, i singhiozzi, la benevola apprensione da una parte e dall’altra. Loro ci facevano coraggio, noi fra di noi ci abbracciavamo. Santi numi, quanto e quanto repentino mutamento di atteggiamento fra di noi! (63) Quello che prima la fame aveva reso disumano contro di noi, desideroso dei nostri corpi, ora era reso straordinariamente mansueto dalla comune condizione di infelicità patita; colui che avevamo temuto e odiato quando era legato, ora che lo avevamo sciolto lo abbracciavamo con grande trasporto. (64) E non sbagliano dunque coloro che sostengono che le disgrazie di solito fomentano i cattivi comportamenti, mentre per chi sta bene è facile essere buono. Ma andiamo avanti con la storia. (65) Al che i pescatori, poiché non avevano pane con sé, ci diedero due pesciolini a testa introducendoli per le fenditure della nave. Ammetto il mio crimine, sia che sia stato indotto dal fato o dalla mia infamia: divorai in un istante il pesce crudo.20 La fanciulla era svenuta durante i riti sacri. Ogni pesce è infatti divoratore dei propri simili e alimento lassativo»; per questo aspetto si veda anche Plutarco Iside e Osiride 7 e 22-33.

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quidem pre letitia penitus exanimata exciderat. (66) At barbarus – quanam id ratione evenerit physici ipsi viderint, qui huiusmodi rerum causas perscrutantur – mirum quidem ut is qui paulo antea posse hominem integrum vorare visus sit, idem ne ad pisciculum demordendum potis fuerit. (67) Cepere deinceps piscatores omni argumento incumbere, ut fenestram nobis, dilaceratis asseribus et ruptis corbibus navigii, aperirent ad exitum. (68) Quam rem, cum preter manus ac remos argumenta reliqua omnia ad id exequendum deessent, . Nos optimo isse animo atque valere, quoad pernicissime ad se cum serra ac bipenni revolarent. (69) Id nos etsi ultimum salutis nostre remedium esse intelligeremus, non tamen facile dixerim quantum in merorem ex ultima letitia illorum discessu reciderimus. (70) Periculi perpessi pre cupiditate exeundi immemores, dementiam nostram incusare cepimus, siquidem que suppeditassent ferramenta eiecerimus, que quidem nunc ad salutem accommodarentur. (71) Itaque nusquam a decedentibus piscatoribus oculos amovebamus eosque tam repente e conspectu nostro esse abituros partim beneficii memores dolebamus partim expectate salutis gratia letabamur, pluraque tum pacato mari pro illorum navigatione quam pridie pro nostra salute metuabamus et precabamur. (72) Qua de re infinitis illos votis abeuntes prosecuti sumus. Eos horas aliquas expectavimus, tantis suspitionibus agitatis animis ut hoc auderem affirmare: has nobis solas horas quam integrum elapsum nobis in tempestate triduum fuisse graviores. (73) Postremo cum diu expectati horam ante vesperum et crepusculum redissent, veluti qui triumphum

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Vd. il finale di Corolle. Il fenomeno è invece spiegato da Aulo Gellio (XVI 3, 7) attraverso le parole del medico greco Erisistrato: «Ecco le parole di Erasistrato sull’argomento: “Calcolavamo dunque che l’assolu22

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a causa della gioia. (66) Ma il barbaro – per quale motivo ciò avvenne lo spieghino i medici,21 che indagano le cause di siffatti fenomeni – è incredibile come, proprio lui che poco prima sembrava poter divorare un uomo intero, non fu capace neanche di dare un morso al pesciolino.22 (67) A quel punto i pescatori cominciarono a preoccuparsi di come rompere le assi e i fasciami della nave per aprire un pertugio e farci uscire. (68) Ma siccome mancavano gli utensili adatti e potevano contare solo sulle mani e sui remi, non riuscirono nel loro intento. Così ci esortarono a non abbatterci e a resistere, fino a che non fossero tornati il più rapidamente possibile con sega ed ascia per portarci via. (69) Anche se capivamo che questa era per noi l’ultima occasione di salvezza, è difficile dire dello stato di sconforto in cui ricademmo alla loro partenza dopo la gioia precedente. (70) Dimentichi del pericolo corso a causa della smania di uscire, cominciammo a incolpare la nostra follia: avevamo gettato via gli attrezzi di ferro che avevamo a disposizione, e che ora ci sarebbero tornati utili per procurarci la salvezza. (71) E così non riuscivamo a staccare gli occhi dai pescatori che si allontanavano e che presto sarebbero usciti dal nostro campo visivo e in parte, memori dei benefici, ne soffrivamo, in parte ci rallegravamo per la salvezza promessa; anche se il mare adesso era calmo, temevamo e pregavamo per la loro navigazione più di quanto il giorno prima non avevamo fatto per la nostra salvezza. (72) Perciò mentre si allontanavano li seguivamo con infinite preghiere. Li aspettammo per alcune ore con tanta ansia nel cuore che oserei affermare ciò: per noi furono più insopportabili quelle poche ore piuttosto che i precedenti tre giorni passati nella tempesta. (73) Finalmente, dopo essere stati a lungo attesi, tornarono al crepuscolo, l’ora to digiuno comporta la forte contrazione del ventre; e infatti chi spontaneamente s’impone un digiuno totale sente la fame nei primi tempi, poi non la sente più”». Cfr. Ponte, Naufragus, p. 117, n. 9, poi Cardini, p. 463.

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agunt, vociferantes, nos cum lachrimis pares referre voces, quod pro erumna exangues essemus, non valebamus. (74) Itaque denique, raptim effracto navis latere, in piscatoriam scafam recepti consedimus. Cumque inter navigandum paulum constitissemus, maioribus soluti curis despectare alter alterum. Superi boni, quales erant nobis vultus! (75) Stabant nares effete preacute labia flacca et vieta dependebant, oculi exhausti retrusi latebant, barba pedosa, setosa, squalida totaque denique corporis facies aderat obscena, ut ab his qui triduo mortui extiterint specie differre nos nihil affirmasses; tanta in nobis perpesse calamitatis inditia apparebant, quos piscatores cum intuerentur commoti pietate collachrimarint. (76) At nos inter nos pre letitia, uti arbitror, desipientes, alterutros visus irridere ac mute rogare cuinam esset facies ad sponsalitium decentior. (77) Dumque hec inter nos ageremus, scafa quedam altera, maximo et citatissimo remorum appulsu, ad nos convolitavit. In ea is qui sponsus esset futurus advehebatur properans, quod audisset naufragam esse navim repertam superstitemque puellam adesse. (78) Evenit forte ut sponsus ipse anulum gemma insignem, quem meus gestare amantissimus frater consueverat, digito deferret. Perierat eo ipso naufragio frater, ut ab his, qui eius cadaver in litore reperissent, gemma ad sponsum ipsum pervenisset. (79) Hunc igitur adolescentem puella ut primum suum fore sponsum intellexit, intra eius sinum recepta prope exanimata est collapsa. (80) Ego vero, ut anulum in digito sponsam amplectentis recognovi, pre fratris dulcissimi desiderio defeci, ut arbitrarer illic adstitisse omnem et remigum et civium qui advenerant turbam merore nescio magis et misericordia an gaudii potius atque letitie plenos.

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prima del tramonto, come chi festeggi un trionfo, e gridavano, ma noi, in preda alle lacrime, non riuscivamo a rispondere con uguali grida, perché eravamo sfiniti dalla sventura subìta. (74) Così alla fine, dopo aver rotto rapidamente il fianco della nave, ci ritrovammo a sedere nella nave dei pescatori. Dopo che navigando eravamo un po’ tornati in noi, venute meno le preoccupazioni pressanti, cominciammo a scrutarci a vicenda. Santi numi, che facce che avevamo! (75) Il naso era affilatissimo, le labbra flaccide e cascanti, gli occhi scavati e infossati, la barba sporca, ispida e incolta e in generale tutto il nostro aspetto era così squallido che non lo avresti distinto da quello di un cadavere di tre giorni; in noi erano talmente evidenti i segni della sventura patita che i pescatori, quando ci guardavano, piangevano dalla commozione. (76) Ma noi credo che fossimo inebriati di gioia e tra di noi ridevamo l’uno dell’aspetto dell’altro e ci chiedevamo chi avesse la faccia messa meglio per sposarsi. (77) E mentre così tra di noi scherzavamo, un’altra nave ci veniva incontro rapidamente spinta dal ritmo frenetico dei remi. Su di essa si avvicinava rapidamente colui che avrebbe dovuto sposarsi, poiché aveva sentito che la nave naufragata era stata ritrovata e che la fanciulla si era salvata. (78) Per caso lo sposo aveva al dito il bellissimo anello con una gemma che era solito portare il mio carissimo fratello. Mio fratello era morto nel naufragio e, attraverso coloro che avevano trovato il suo cadavere sulla rena, la gemma doveva essere giunta allo sposo. (79) Non appena la fanciulla capì che quel giovane era il suo promesso sposo, svenne tra le sue braccia. (80) Io, dopo aver riconosciuto l’anello nel dito di colui che abbracciava la sposa, mi sentii mancare per la nostalgia del mio carissimo fratello, così che non saprei dire se nella folla di rematori e cittadini che lì attorno si era radunata era più intenso il dolore e la misericordia o piuttosto la gioia e la felicità.

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La redazione volgare dell’intercenale è posteriore alla prima redazione latina. Essa è infatti tramandata dal codice Moreni 2 della Biblioteca Moreniana di Firenze (un trittico di scritti consolatori allestito nei primi mesi del 1442 dall’autore stesso e contenente correzioni di suo pugno, per cui cfr. Cardini, Ortografia, vd. MONOGRAFIE) dove si legge che il testo è «tracto dello XI libro Intercenalium» (c. 60r). L’intercenale dunque occupava a quell’altezza cronologica un posto diverso da quello definitivo (qual è testimiato dal codice P, dove si trova a costituire da sola il IX libro). Si noti inoltre che il titolo della versione volgare, Naufragio, contiene una leggera ma significativa variatio rispetto alla redazione latina Naufragus: sposta l’attenzione dal personaggio del narratore e dai suoi comportamenti all’incidente del naufragio e alle sue conseguenze sui tre naufraghi. L’edizione di riferimento da cui traiamo il testo è: L.B. Alberti, Opere volgari, a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, vol. II, 1966, pp. 347-65. Se Grayson affianca l’autotraduzione al testo latino di Naufragus, qui abbiamo preferito posporla (come già fecero Bacchelli-D’Ascia) in quanto essa è tratta da una prima redazione, non pervenutaci, del testo latino (Cardini, p. 459).

1. Bench’io non possa sanza lacrime e dolore ricordarmi della gravissima iniuria quale io ricevetti dalla fortuna, o amici miei, pur deliberai ubbidirvi.1 Racconterovvi el naufragio nostro, come mi dite ch’io faccia, e udirete da me cosa degna di memoria e molto maravigliosa. E quando arete inteso quanto io sia stato offeso dagl’impeti della avversa fortuna, o omini ottimi, credo iudicarete la fortuna esser come altrove così e molto in mare2 da temerla. Vorrei per eloquenza3 potere mostrarvi quanto fu el nostro naufragio da piangerlo, qual noi per prova lo sentimmo pessimo esser e troppo terribile, tale che non solo el mare ci è odioso, e simile e’ navigli4 ci sono a vederli molesti, ma e ancora el nome del navicare ne5 perturba, e tanto mi dispiace ogni cosa marittima che io non amo chi navica e iudicolo inimico di se stessi e di sua salute. Ma poich’io vi vedo molto apparecchiati a6 udirmi, narrarò la cosa quanto potrò breve. 2. Trecento omini eravamo in una nave ben fornita e salda. Navicavamo colle vele piene tutti iocosi7 verso el porto 1

Nonostante questo decisi di esaudire il vostro desiderio. Così anche in mare molto. 3 Con adeguata capacità narrativa. 4 Imbarcazioni. 5 Ci. 6 Predisposti, inclini, pronti. 7 Felici. 2

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quale già innanti ne appariva.8 Alcuni di noi, e in prima una fanciulla molto dilicata quale fra noi sposa andava alle nozze apparecchiateli dal suo marito, si vestiva e adornava con panni e gemme; e fra noi compagni erano chi constituiva9 la sera e l’altro dì avere in quel porto molto piacere in cene e in feste, e così tutta la nave brulicava di letizia in questi apparecchi.10 O fragile speranza de’ mortali!11 Per grave e atrocissima tempesta quale ruppe subito,12 mutati e’ venti, con troppa nostra miseria fu suvvertita la nave13 in modo che di tanta moltitudine solo omini tre rimaseno in vita, io, quella fanciulla sposa e un barbero14 servo. Cosa maravigliosa e incredibile! Qual fusse fato non so, ma suvversa la nave, noi tre ci trovammo reposti presso alla poppe della nave in luogo non bene atto a riceverene15 perché era picciolo e ancora16 perché era pieno di ferramenti lì riposti al bisogno della nave. Adonque ivi non potevamo bene stare senza ricevere qualche ferita da que’ ferri, e più eravamo summersi tutte le spalle in l’acqua quale conveniva pelle fessure17 della nave tutta dalla tempesta quassata e aperta. E a queste difficultà vi s’agiungeva che spesso per el comuoversi della nave picciata18 dall’onde l’uno di noi urteggiava l’altro. Adunque miseri noi, molli19 e premendo l’un l’altro e ricevendo or una or un’ 8

Davanti ci appariva. Credeva. 10 Preparativi. 11 Cfr. Cic. De or. III 7: «O fallacem hominum spem fragilemque fortunam». 12 A causa di una tempesta tremenda e terribile che si scatenò all’improvviso. 13 Si ribaltò. 14 «Si dovrebbe pensare ad uno schiavo orientale, russo o caucasico, turco o mongolo» (Ponte). 15 Riceverci, ospitarci. 16 Anche. 17 Entrava dalle fenditure. 18 Gli spostamenti della nave urtata. 19 Bagnati fradici. 9

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altra tagliatura e puntura da que’ ferri, sofferavàno20 tuttora presente la morte. Pur21 la necessità a noi facea parere questo così sinestro22 luogo grato e assai troppo grande. Per questo pregavamo Dio almeno ivi ne fusse23 licito sperare qualche salute, e fra noi confortavamo l’un l’altro promettendoci men rea fortuna, ma d’uscire di tanta molestia per allora non era che24 aspettare a noi né che consigliarci. Né intendevamo25 dove in tanto mare fossimo traportati, e questo ne parea26 ottimo per allora quanto potavamo sopra l’acqua con tutto el capo alitare.27 In quale nostro misero stato, oimè, e quante morte vedevamo noi! Ogni onda veniva con nostro eccidio. Pur mai, cosa maravigliosa, mai in tanti pericoli la speranza abandonò l’animo nostro, né mai l’animo mancò a se stessi. Sempre fummo in questa fortitudine28 che sempre ne promettavamo qualche bene. E a me, qual credea mai più potere rivedere questo sole e questa luce, tornava in mente quello che dicono e’ poeti che, quando gli altri dii salirono el cielo, solo la Speranza rimase a fare compagnia a’ mortali posti in miseria e oppressi dalle calamità. E così sola questa dea a noi infelicissimi era propizia, né ci lasciava soccombere a tanti mali. 3. Con lei durammo molte e molte ore per sino che29 ’l mare cominciò a meno esser aspero, onde questo luogo ove eramo inchiusi30 meno divenne acquoso. Non potavamo

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Pativamo. Eppure. 22 Sinistro. 23 Ci fosse. 24 Non potevamo far altro che. 25 Capivamo. 26 Ci parea. 27 Respirare. 28 Forza d’animo, coraggio. 29 Fino a che. 30 Eravamo costretti. 21

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però pigliar modo di torci indi altrove,31 però che la nave era suvversa e piena d’acqua. Pur cominciammo a riaverci un poco, e nettammo32 el luogo da tanti ferri e gittammoli in molta parte fuori. Poi intenti pelle fessure guardavamo se da parte alcuna ne si33 presentasse alcun lito, e in questo guardare ogni onda che verso noi venia c’impauriva a morte. Parseci vedere qualche monte a lungi;34 quinci in noi nacque tanto desiderio di condurci in terra che fra tante molestie questa fu la maggiore,35 e dove testé36 sommersi in acqua sino al mento non più credavamo che solo potere respirare, ora da quello ultimo pericolo liberi non potavamo patire37 le veste indosso molli. Nudammoci38 in molta parte, e in quella fortuna39 perduto ogni cosa lodavamo Idio che avamo da potere assederci benché maldestri. 40 Sarebbe istoria lunga raccontare quante varie memorie e ragionamenti nei nostri animi e fra noi in quello spazio soveniano. Eravi41 el dolore delle cose perdute, eravi la letizia della già presso veduta terra, eravi speranza insieme e paura d’ogni cosa futura, tale che quasi eravamo alieni e fuori d’ogni nostra mente.42 Conferivavi43 la lunga vigilia, el digiuno, el freddo, per quali eravamo si può dire spacciati, tale che ciascuno di noi e pe’ suoi mali e per la misericordia 31

Dirigerci altrove. Pulimmo. 33 Ci si. 34 Da lontano. 35 Come spiegherà poi mirabilmente Leopardi quattro secoli dopo, è il desiderio (peraltro inestirpabile dall’animo) la principale causa di dolore per l’uomo. 36 Poco prima. 37 Sopportare. 38 Ci spogliammo. 39 Circostanza. 40 Avevamo dove sederci, benché stessimo scomodi. 41 C’era. 42 Non più in possesso delle nostre facoltà mentali. 43 Contribuiva a questo stato confusionale. 32

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de’ compagni posti in simile calamità nulla quasi potavam di noi stessi.44 4. In questo modo stemmo due dì, fra quali mali solo uno era quello che noi atterrava,45 la fame. Pareaci meglio già prima essere periti che ora vivere in tanto desiderio di saziarsi. E in prima quel barbaro nostro compagno in tanti infortuni,46 di natura feroce e d’ingegno bestiale e audacissimo, arse in tanta sevizia che e’ tentò cosa inaudita, incredibile e degna di biastemarlo. Porsesi a me presso alla orecchia tutto interriato47 nel viso, coll’alito tremitoso,48 e denteggiando,49 e prima susurrando cominciò pregarmi e pregandomi alzò la voce persino a garirmi,50 dimandandomi ch’io lasciassi ucciderli quella infelicissima fanciulla compagna mia in questa acerbissima fortuna, per pascersi.51 La fanciulla che sentiva que’ ragionamenti,52 aimè, non posso dire quanti pianti fussero e’ suoi! E a me tanta atrocità di questo barbaro, e la misericordia di questa pura e tenera fanciulla, ah, e quanto mi perturbò!53 Temea per lei, temea e per me stessi, e cominciai a ripensare molte e molte cose, e dicea:54 siamo noi servati da tanta e sì rabbiosa tempesta per esser cibo a questo barbaro? Piansi. Pur con parole rattenea quel 44

Non eravamo più padroni di noi stessi. Atterriva. 46 Compagno di sventure. 47 Spaventato. 48 Con la voce tremante. 49 Battendo i denti. 50 Forma scempia per «garrirmi», ovvero «biasimarmi», «riprendermi». 51 Nutrirsi. Cfr. Aulo Gellio (IX 4, 6) riporta che gli sciti praticavano l’antropofagia; Plinio il Vecchio ricorda invece il loro costume di onorare i defunti cibandosi delle loro carni (VI 53; VII 9). Di questi brani Alberti si ricorderà anche nel suo trattato maggiore, De re edificatoria VIII 2, p. 673. 52 Discorsi. 53 Sconvolse. 54 E dicevo tra me. 45

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bestiale da tanta crudelità. Ma quel barbaro già già fiameggiava rabbia con gli occhi e gridava: «Occidianla».55 Io col tempo subito consigliato, gittai ogni resto di que’ ferramenti ch’ ivi restavano, acciò che quel mostro non potesse quanto e’ cercava.56 Eimè! E chi referirà te, o misera fanciulla, quale avevi ogni tua salute posta solo in lacrime e preghiere? O pietà, che non solo a me qual sono pietosissimo, ma e ancora a quel barbaro vidi movesti le lacrime! Io adunque, volto alla fanciulla, dissi pigliasse buono animo, non bisognar quivi57 lacrime ma virtù; adonque stesse meco in piè e non giacesse in quel dolore, che se bisogno accadesse, potessimo due con fermo petto ossisterli,58 che sarei59 col favore di Dio galiardo combattitore contro tanta immanità, e a Dio esser comendata60 la nostra piatà. 5. All’ultimo, ove quella bestia non restava,61 io irato: «O sceleratissimo,» dissi «non cesserai tu da tanta iniuria contro a questa misera fanciulletta, qual piange, prega, qual è stata e ora è con noi in tanta mala sorte doppo tanti casi?62 Tu omo, tu vorrai farti pasto un corpo umano, tu pascerti delle membre vive? Ramentiti tu esser o no omo? Qual tigre sarà mai simile a te? Qual animale affamato, voracissimo non perdona a simili a sé?63 Tu fai questa tua fame maggiore non ben sopportandola. Témperati,64 ché certo meglio la porterai,65 e gioveratti sperare meglio. Né per certo siamo dalli dii servati 55

Uccidiamola. Non potesse usare i relitti ferrosi della nave come arma per uccidere la fanciulla. 57 Non ci fosse bisogno qui. 58 Opporglisi. 59 Sarei stato. 60 Raccomandata. 61 Non desisteva dal suo proposito. 62 Dopo tante sventure. 63 Non risparmia la vita ai suoi simili. 64 Calmati. 65 Sopporterai. 56

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da tanti mali a questa crudelità, ma per loro pietà a salute siamo e a testificare la loro benignità servati;66 ché se così non fusse, terzo fa dì67 con gli altri saremmo periti. Ora se saremo piatosi,68 questa speranza quale li dii piatosi ci hanno mostra,69 sarà70 con grato ed espettato bene». E così adonque dava io opera71 di distorre quel barbaro da tanta immanità. Ma voi, o amici miei ottimi, che animo credete fusse el mio mentre ch’io dicea? Qual’erano cose ch’io meno volessi72 prima che vedermi innanzi quella belva con quel fronte aspero e apparecchiata d’ogni parte a crudelità?73 Ma sostenea me stessi con l’animo presente, e curava ogni salute74 di quella fanciulla. Questo ultimo troppo mi comosse quando con un grande urlo quel barbaro gridò: «Un di voi convien che75 muoia». Ed esasperato infuriò tanto che biastemò Iddio, e colle mani già me opprimea. O spettaculo durissimo! La fanciulla impaurita mi si getta a’ piedi, pregami. El barbaro già presto e arrabbiato cominciava essequire la crudelità. Io in mezzo consolava costei, sgridava quest’altro e me straccava.76 Quel pessimo barbaro, quanto io più li distoglieva ogni suo brutto incetto,77 allora più ardeva in rabbia. Oimè, alla fanciulla già erano mancate le lacrime, e a me apresso questa bestia non più erano preghiere. Questo furioso rompe e con tutte le forze si getta a questa misera fanciulla per strangolarla. Qui 66

Salvati per saggiare la loro bontà. Tre giorni fa. 68 Buoni. 69 Mostrata. 70 Arriverà. 71 Mi sforzavo. 72 Forma retorica per dire che l’ultima cosa che voleva era trovarsi di fronte un uomo bestiale di quel tipo. 73 Pronta a commettere ogni scelleratezza. 74 Mi preoccupavo della salvezza. 75 Bisogna che. 76 Mi stancavo. 77 Vanificavo ogni suo malvagio tentativo. 67

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benché stracco e languido pe’ sofferti sinistri, pur da tanta indignità78 mi nacquero forze, e presi questo arrabbiato quale ora verso la fanciulla ora verso di me con morsi, con pugni si inasperiva,79 sudai tanto ch’io glielo tolsi da dosso. Presi con tutte due le mani mie la sua destra mano e svolsigliela80 drieto alle spalle con tanto impeto che pel dolore egli urlò. Tennilo tanto che la fanciulla m’aitò e presegli l’altra mano e simile la svolse. Contenemmolo tanto che stracciata la camicia della fanciulla e fattone una e un’altra fascia legammo drieto le mani a questa bestia quale81 per sino alle tavole della nave co’ denti e con urti schiantava e fracassava. 6. Scrivono le storie di Sagonto, di Ierosolima, di Cassilino82 essere stato chi rose le funi, le scorze de’ legni, le pelle delli scuti, chi mangiò erbe pestifere e chi per fame mangiò e’ figliuoli, essere stato chi si gittò in fiume, chi si precipitò da’ muri per tedio della fame. Visto quello ch’io vidi, ogni cosa e più ne credo. E voi, amici miei, pregovi insieme con meco ripensiamo qual fusse allora la nostra sorte e condizione. Da quanta speranza, da quanta lieta espettazione in ultima desperazione cademmo noi! Da quanto gaudio in quanto pianto e miseria!83 Noi che con sì secondi84 venti poco innanzi venavamo85 a casa, a’ quali la fortuna promettea ogni bene, guadagno, festa, piaceri, quali speravamo abracciare e’ padri, la moglie, amate nostre e care anime, a’ quali non parea navigando più potere altra facilità dalla fortuna altrove domandare – noi subito vedemmo toltoci dinanzi e’ nostri benivolentissimi compagni e fedelissimi amici. Noi, quali la 78

Da tale ingiustizia. Incrudeliva. 80 Gliela girai. 81 La quale. 82 Di Sagunto, di Gerusalemme, di Casilino. 83 Cfr. Inf. XXVI 136 «Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto». 84 Favorevoli. 85 Venivamo. 79

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fortuna avea coniunti in pari caso, tra noi divenimmo capitali inimici, e tanta ne fu mala avversità che a pena ne fu licito piangere la nostra miseria. Ma lasciamo questi pianti che non ci basterebbe el dì. 7. Adonque era el barbaro legato come dissi; noi pur pieni stavamo di paura che se si sciogliesse di nuovo, non bisognasse cominciare nuova zuffa. In questo sopragiunsero alcuni pescatori da’ quali el tronco nostro della nave era stato da lungi veduto. Noi ch’eravamo intenti a guardarci dal nimico bestiale conchiuso con noi, udite le voci de’ pescatori, non posso dire quanta allegrezza ne impiette.86 Per letizia perdemmo la voce, stemmo muti tanto che que’ pescatori, non vedendo guadagno da quella squassata nave nostra, deliberavano partirsi. Ivi noi ne accogliemmo e quanto potemmo con gran voce pregammo aito. Accostoronsi a noi, a’ quali fu di tutte le cose nulla primo che domandargli che solo ne porgessero che mangiare.87 Aresti veduti que’ di fuori lacrimare, e que’ dentro siniozzando88 aresti udito con troppa umilità pregare. Dolce era all’uno e all’altro queste lacrime e questa pietà. Quelli ne confortavano, noi fra noi ne abbracciavamo pieni di tenerezza. O Iddio, quanta e quanto subita mutazion in noi d’ogni animo! Costui quale la fame avea fatto nostro atrocissimo inimico, quale appetiva nostro sangue e vita, questo barbaro quale con tanti sudori avamo colligato, quale tanto temavamo, odiavamo, costui ci fu subito conciliatissimo e in tanta sofferta con noi miseria agiuntissimo, costui ci fu ora slegato caro abbracciarlo. Che se forse sarà chi dica che mali tempi generano mali costumi, e facile essere a’ beati e ben fortunati usar pietà, forse non errarà. E’ pescatori non aveano ivi pane, ma per le fessure

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Ci riempì. Ci dessero da mangiare. 88 Singhiozzando. 87

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della nave pinsero89 alcuni pescetti. Accuso el mio, se così vi pare, mal costume. Subito mangiai quel90 crudo. La fanciulla per questa profertali salute quasi essanimata fuor di sé stava. Ma quel barbaro, – non so la cagione, sannola e’ fisici, – el quale poco inanzi parea potesse divorare uno uomo intero, testé né pur potea mordere un pescetto.91 8. Comincioron que’ pescatori in ogni modo a volerci aprire da uscirne. Non poterono, ché altro non avean che remi atti a rompere e’ tavolati. Adonque «Addio,» dissero «siate di buona voglia. Qui saremo subito con molti ferri, e con noi verrete». Noi, benché conoscessimo quella essere nostra salute, non è facile dire in quanto merore cademmo da molta letizia vedendoli partiti; e tanta ne tenea cupidità d’uscirne che dimenticammo ogni da noi sofferto pericolo accusandoci stolti che gittammo que’ ferri co’ quali testé apriremmo via a uscirne. Così non levavamo occhi da dosso a que’ pescatori quali per salvarci da noi si partiano. E parte ci dolea meno vedere chi ne92 salvava, e parte desideravamo ne fuggissero93 prestissimo per salvarci. Ed eravamo lieti insieme e mesti. E più preghiere allora al mare pacifico facemmo e più voti per la navigazion de’ pescatori che non avamo in la nostra tempesta fatte per noi. Aspettammogli parecchie ore agitati da tanti sospetti che io posso affermare che queste sole ore a noi furono più gravi che tutti e tre passati tempestosi dì. 9. Pur rivennero a noi e’ pescatori presso a sera con liete voci qual fanno chi torna trionfando a’ suoi cittadini. Noi non potavamo languidi e attriti referire loro pari letizia colle voci. Adonque in fretta rotto el lato della nave ne riceverono in 89

Spinsero. Quel pesce. 91 Cfr. il sonetto albertiano I’ vidi già seder nell’arme irato, e in particolare i versi finali: «Così tal forza in noi natura immise // a cui troppo voler mal corrisponde». 92 Ci. 93 Si allontanassero da noi. 90

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quella barca sua,94 ove doppo un poco soluti95 da maggior cure guardammo l’uno l’altro. O Dio, quali erano e’ nostri visi! El naso fatto acuto, le labbra flappe96 pendeano, gli occhi fuggiti ed evacuati,97 la barba setosa,98 le guance squalide, tutti osceni e simili o più sozzi in vista che que’ che già tre dì fussero stati morti.99 Tanto indizio in noi era della nostra sofferta calamità. Que’ pescatori, quando ne guatavano, per pietà lacrimavano. Noi fra noi, credo, pazzeggiavamo per letizia, beffavamo e’ nostri visi, e insieme domandavamo a cui fusse la faccia più atta a nozze. In questa ecco in una barchetta a remi velocissima el marito nuovo della nostra fanciulla, ch’avea udito della nave trovata entrovi chi e’ dubitava. Avea costui in dito l’anello, entrovi una gemma rara e conosciuta, quale solea portare el mio carissimo fratello perito in quel nostro naufragio: avealo questo sposo avuto da chi trovò el corpo esposto sul lito. Abbraccioronsi quelli sposi. La fanciulla ricevuta in seno del suo dolcissimo amatore tutta svenne in bràccioli.100 Io, che vidi in dito dello sposo l’anello del mio ottimo fratello, per desiderio ancora svenni. Credo che chi ci vide molto si comovesse non so se più a piangere e’ nostri mali e a misericordia e dolore, che a gaudio e letizia di tanta comutazion di nostra fortuna. Indi imparai, amicissimi miei, a nulla mai disperarmi. Siate felici.

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Loro. Liberati. 96 Flaccide, cascanti. 97 Fuori dalle orbite. 98 Ispida. 99 Di coloro che fossero morti già da tre giorni. 100 Svenne tra le sue braccia. 95

DEFUNCTUS (IL DEFUNTO)

Testo più lungo e articolato dell’intera raccolta, benché sia stato da Cardini collocato in appendice agli undici libri delle Intercenales perché non tramandato da P, Defunctus esprime al massimo grado l’umorismo albertiano, condensato del disvelamento del mondo come grottesco teatro, da cui scaturisce un riso assai amaro ma salutare. In un indeterminato aldilà, si incontrano due vecchi amici, che hanno – come quasi sempre in Alberti – nomi parlanti: quello appena arrivato, che brancola ancora nel buio, è Neofrono, vale a dire chi «saggio è diventato solo da poco»; quello che soccorre il neofita, forte della sua esperienza nel mondo dei defunti, si chiama Politropo, epiteto ulissiaco (Odissea I 1), proprio di chi è «esperto» in materia di morte. Se è vero che il «motore dello sviluppo dialogico» di tutte le intercenali è il dialogo tra un sapiens e uno stultus (Bacchelli-D’Ascia), qui il dialogo si svolge tra una saggezza più stagionata e una saggezza da poco raggiunta, e il fascino del dialogo proviene anche dalla non sovrapponibilità del pensiero dell’autore con le posizioni di uno solo degli interlocutori. Sfruttando le possibilità offerte da un’anima finalmente svincolata dal corpo, Neofrono decide di assistere al suo funerale da una posizione privilegiata, cioè dall’alto del tetto della casa di fronte alla sua, e questa esperienza gli fa aprire gli occhi sulla sordida realtà familiare che in vita non solo non era stato in grado di vedere, ma che aveva totalmente idealizzato: la moglie, lungi dall’essere quella donna perfetta e da lui venerata, è pronta a tradirlo subito col fattore, mentre in casa è ancora allestita la camera ardente del marito; i figli, e soprattutto quello prediletto su cui aveva riposto tutte le proprie speranze, festeggiano come matti la morte di un padre considerato autoritario e dispotico; i parenti, una volta venuti a conoscenza che nel testamento a loro nulla è stato riservato, si danno a far razzie nella ricca biblioteca messa insieme negli anni da Neofrono, spartendosi «equamente» codici, quadri: non tralasciano nemmeno un

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prezioso unguento egiziano, per trasportare il quale fanno a pezzi le pagine degli incompiuti commentari composti in tutta la sua vita da Neofrono, che sono dunque, come nel peggiore degli incubi per uno scrittore, degradati a cartocci. Tra un vecchio decrepito oltremodo delirante perché durante il rito funebre si dispera senza aver mai conosciuto Neofrono e un vescovo ciarlatano e logorroico che esalta il defunto in pompa magna senza però menzionare le sue effettive virtù, la vicenda di spettatore del mondo che ha appena lasciato si conclude per Neofrono, pur al termine di uno sterminio di illusioni, come peggio non si potrebbe: il denaro che aveva nascosto nei pressi di un acquedotto (da lui stesso fatto costruire) perché i suoi figli ne beneficiassero in caso di necessità, viene infatti ritrovato casualmente dal suo peggior nemico, che in quell’acquedotto si era recato con una picozza proprio per distruggerlo. Quest’ultimo episodio offre a Politropo l’opportunità di dimostrare al compagno quanta responsabilità abbia l’uomo nel dare alla fortuna le occasioni per colpirlo; del resto tutto il racconto di Neofrono dimostra una sua incoscienza assoluta, dunque una sostanziale «pazzia» (intesa nel senso stoico e oraziano, cfr. Serm. II 3), riguardo le maschere che gli uomini adottano in vita: Defunctus è tutta giocata, anche a livello lessicale e semantico, sul contrasto tra l’apparire («videri» e «arbitrari») e l’essere («esse»), la prima condizione essendo peculiare della vita, la seconda raggiungibile solo con la morte. Molte, come sempre, le tessere utilizzate dall’Alberti per il suo «mosaico»: la scena del funerale deriva probabilmente dal secondo libro delle Metamorfosi apuleiane; la presenza di Luciano si avverte con il riferimento al Gallo e al Viaggio agli inferi o il tiranno; ma soprattutto tutta l’ultima parte dell’intercenale è intessuta di echi o, più spesso, citazioni letterali dal De legibus, dal De natura deorum, dal De beneficiis ciceroniani, tanto da apparire come un manifesto controcanto delle virtù umane e di gloria terrena inseguite da quel modello di intellettuale su cui si basava l’ideologia dominante allora a Firenze (l’«umanesimo civile» di Leonardo Bruni), e che Alberti stesso aveva difeso, solo pochi anni prima – sebbene in una prospettiva non civile, ma di titanismo intellettuale – nel trattatello De commodis litterarum atque incommodis. A proposito di «contracanti», è bene notare come questi non siano liquidabili alla stregua di palinodie dovute al disinganno indotto dal tempo: Alberti compose infatti Defunctus, assieme all’intercenale Vidua, «entro i trent’anni» (dunque prima del febbraio 1434), come egli stesso ci avvisa nella sua Autobiografia, e dunque praticamente nello stesso periodo in cui, tra 1433 e 1434, «in soli novanta giorni», andava componendo

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i primi tre libri De familia. L’Alberti solare, ottimista e propositivo del trattato volgare e quello umbratile, malinconico e umorista del Defunctus sono dunque le due facce di una stessa medaglia. Nota al testo Il testo è tramandato dal codice viennese W (contenente anche correzioni e varianti d’autore riportate da una seconda mano gotica W¹) e dal codice oxoniense O, che Cardini ha individuato come l’ultima delle tre redazioni pervenuteci. Il testo di Defunctus non compare invece in P.

(1) POLYTROPUS. Num ego per has Herebi tenebras hunc satis discerno advenientem? An est hec imago Neophroni, cuius optimi viri animum in me affectissimum mutuamque benivolentiam summis officiis solitus sum excolere? (2) NEOPHRONUS. Quam sperassem hoc loco complures ante me defunctos comperire, qui quidem mecum dum erant in vita circum omnes applaudebant, deducebant in forum, consalutabant atque undique confluentes septum me stipatumque tenebant, ut vix unquam potuerim sine grandi amicorum caterva progredi! (3) Postea vero quam ex luce illa cecidi, nemo se mihi obviam neque notus neque ignotus offert. O rem idcirco duram! Ne itaque sic me undique desertum ac despectum intueor? Quin iam commodius erit in his tenebrarum vestibulis commorari quam temere longius proficisci. (4) POLYTROPUS. Homo lumini assuetus nimirum has inter umbras aberrat: non licet viam ad inferos ignorare atque 1 Divinità ancestrale, figlio di Caos e fratello della Notte, Erebo è la personificazione dell’oscurità, e col suo nome si potevano indicare gli Inferi. 2 Come sottolinea Cardini (p. 579), si avverte qui l’eco di Ov. Trist. I 9, 5-6: «Donec eris sospes, multos numerabis amicos: / tempora si fuerint nubila, solus eris» («Finché sarai illeso, potrai contare numerosi amici / ma se il tempo si abbuia, allora sarai solo»).

(1) POLITROPO. Vedo bene, attraverso le tenebre dell’Erebo,1 colui che mi viene incontro? L’aspetto non è quello dell’ottimo Neofrono, che mi voleva un gran bene e il cui affetto ho sempre ricambiato con grandi favori? (2) NEOFRONO. Quanto speravo di trovare quaggiù le tante persone morte prima di me, che mentre eravamo in vita mi stavano attorno e mi applaudivano, mi accompagnavano al foro, mi salutavano, confluendo da ogni dove mi tenevano sempre stretto e stipato, al punto che non riuscivo mai a camminare libero da una gran folla di amici! (3) Ma dopo che sono precipitato qui dal mondo dei vivi, nessuno, noto o sconosciuto, mi si fa incontro.2 Ah, com’è dura! Mi devo dunque considerare abbandonato e disprezzato da tutti? Forse è meglio starsene un po’ qua nell’anticamera delle tenebre piuttosto che avanzare alla cieca. (4) POLITROPO. È chiaro che l’uomo troppo abituato alla luce e ai colori si perde in mezzo a queste tenebre:3 non 3 Probabilmente ancora Ovidio, segnalato da Bacchelli-D’Ascia (p. 355), questa volta presente con l’eco della sua opera maggiore, Met. IV 436-38: «pallor hiemsque tenent late loca senta novique, / qua sit iter, manes, Stygiam qua ducat ad urbem, / ignorant, ubi sit nigri fera regia Ditis» («Pallore e gelo ristagnano ovunque in quei luoghi in abbandono e gli istinti arrivando ignorano la strada che conduce alla città infernale e dove sta l’orrenda reggia di Plutone»).

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officii est amicum se non recte agitantem dirigere. – Heus tu, qui inter hanc noctem familiares exquiris! (5) NEOPHRONUS. At enim hoc quid mali est, non modo familiares, verum etiam ex tam infinita olim salutantium multitudine offendere neminem, cuius opera tantis in erroribus adiuver? – Tu vero quisquis es, qui tam officiosum te prebes, obsecro, redde me certiorem quorsum tenendum iter est. (6) POLYTROPUS. Perge huc ad nos confidenter: omnes enim istic aditus tutissimi sunt. Quo te agis? Heus! NEOPHRONUS. Hem! (7) POLYTROPUS. Ne hesites: namque undique facilis ad inferos patet via, in qua nihil offendas quod retardet aut intercipiat. (8) NEOPHRONUS. Plane intelligo, sed repetebam memoria cuius isthec esset amici vox. POLYTROPUS. Tenesne qui fuerit Polytropus? (9) NEOPHRONUS. O! hominem optimum et mihi amicissimum memoras, cuius viri semper apud me valuit auctoritas atque ob eius fidem et benivolentiam in me nunquam mihi grata erga illum et fidelis memoria deerit. (10) Ah! virum bonum Polytropum, bonum amicum! quem colendum, quem semper unice amandum duxi. At vox tibi isthec ni adeo esset tum rauca tum exilis, ipsus esses Polytropus. (11) Tamen quisquis sis, peroptime de nobis meritus es, quandoquidem inter istos tenebrarum errores peregrinam et destitutam animam ad iter rectum traduxeris. (12) POLYTROPUS. Omnium apud inferos tenues huiusmodi voces atque obtuse sunt, mi Neophrone: sum equidem ipsus Polytropus. NEOPHRONUS. Tune es Polytropus? POLYTROPUS. Ipsus. 4 Sia Bacchelli-D’Ascia (p. 355) che Cardini (p. 579) rimandano a Cic. De off. I 51, ove si citano versi attribuiti ad Ennio, tratti da una tragedia non identificabile: «Homo qui erranti comiter monstrat viam, / quasi lumen de suo lumine accendat facit. / Nihilo minus ipsi luce[a]t, cum illi accenderit» («L’uomo che, a chi disvia,

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è lecito ignorare la via per l’inferno ed è un dovere guidare un amico che sta sbagliando strada.4 – Ehi tu, che cerchi un volto amico in questa notte fonda! (5) NEOFRONO. Che sfortuna non incontrare nessuno, non dico degli amici, ma neanche di quella torma infinita di «salutatori», che mi possa aiutare in un tale labirinto! – Tu, chiunque tu sia, che ti dimostri tanto disponibile, ti prego, fammi capire quale strada devo tenere. (6) POLITROPO. Avvicinati pure senza paura: qui tutte le strade sono sicurissime. Dove vai? Ehi! NEOFRONO. Ehi? (7) POLITROPO. Non esitare: la via per gli inferi è larga e diritta,5 e niente vi incontrerai che possa ritardarti o ferirti. (8) NEOFRONO. Ho capito, ma frugavo nella memoria per trovare a quale amico appartenesse questa voce. POLITROPO. Ti ricordi di Politropo? (9) NEOFRONO. Oh! Mi rammenti di un uomo eccellente e mio grande amico, il cui pensiero tenevo sempre in gran conto e la cui memoria conserverò sempre molto cara per la sua fiducia e affetto nei miei confronti. (10) Ah! Che uomo buono era Politropo, che buon amico! L’ho sempre considerato degno di una stima e di un affetto particolare. Se tu non avessi una voce così roca e flebile, direi che sei Politropo. (11) Comunque, chiunque tu sia, ti sono molto grato, dal momento che hai riportato sulla retta strada un’anima persa che vagava tra questo labirinto di tenebre. (12) POLITROPO. Tutti agli inferi hanno la voce così, sottile e fioca, caro Neofrono: sono proprio io, Politropo. NEOFRONO. Tu sei Politropo? POLITROPO. In persona. affabilmente mostra il cammino, / fa come se fiaccola alla propria accesa accendesse; / e questa ancor per lui risplende, pur avendola accesa anche a quello»). 5 Cfr. Verg. Aen. VI 126: «facilis descensus Averno» («è facile la discesa in Averno»).

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(13) NEOPHRONUS. Hac igitur de re mihi ipse gratulor, quod his etiam in umbris tantaque hac in sollicitudine liceat eius presentia frui, quem omni benivolentia perpetuo fuerim prosecutus. (14) POLYTROPUS. Ergo huc ad nos! NEOPHRONUS. Advolo. POLYTROPUS. Te quidem in tempore advenisse gaudeo. NEOPHRONUS. Ad teque ipse mature descendisse letor. (15) POLYTROPUS. Bene est. Et quid portas novi? Quid fit apud mortales? NEOPHRONUS. Hahahe! Deliratur. POLYTROPUS. Ne vero deliratur? At qui id? (16) NEOPHRONUS. Modis quidem infinitis: aut enim ardent amoribus aut flagrant odiis aut quadam insania per labores, per vulnera perque extrema omnia pericula ducuntur ad questum, ad amplitudinem capessendam, ad voluptates exequendas adque huiusmodi ineptias obeundas. (17) Neque facile dixerim quam precipites cupiditates quamve ingens curarum estus rapiant animos mortalium atque exurant. (18) Se quidem sic semper habet, qui inter mortales degit, ut speret aut metuat, audeat aut reformidet aut mereat aut exultet aut irascatur aut frigescat et langueat, rursus invideat aut contemnat aut oderit aut reliquis curis istiusmodi conficiatur: denique cum satis omnia pensitaris, intelliges a mortalibus ferme nihil fieri quod ipsum non frustra et inepte factum iudices. (19) POLYTROPUS. Nihil novi recitas. An tu ignorabas hominum vitam his ipsis animi motibus nunquam esse vacuam? NEOPHRONUS. Non adverteram.

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(13) NEOFRONO. Allora sono contento di poter beneficiare anche in queste tenebre, tra tanta solitudine, della presenza di una persona a cui ho sempre voluto un gran bene. (14) POLITROPO. Allora vieni qui! NEOFRONO. Volo. POLITROPO. Sono contento che tu sia venuto al momento giusto. NEOFRONO. E io sono contento di essere sceso qui da te al momento opportuno. (15) POLITROPO. Bene. Che novità porti? Cosa succede tra i mortali?6 NEOFRONO. Ah, ah, ah! Farneticano. POLITROPO. Davvero? Ma in che senso? (16) NEOFRONO. In svariati modi: ardono d’amore, bruciano d’odio, oppure, da pazzi, affrontano fatiche, ferite e tutti i pericoli più estremi per un po’ di denaro, per farsi un nome, per assecondare le loro voglie e ogni inezia di questo tipo. (17) Né riuscirei facilmente a dirti che improvvise bramosie e che ondate di premura rapiscano e consumino i loro animi. (18) Chi vive tra i mortali ha sempre qualcosa per cui sperare o temere, per cui osare o indietreggiare, per cui meritare, esultare, adirarsi, star fermi, inerti, poi di nuovo invidiare o disprezzare o odiare o farsi stremare da altre simili premure: in fondo, se ci pensi bene, capisci che quasi tutto quello per cui l’uomo briga è assolutamente inutile. (19) POLITROPO. Non dici niente di nuovo. E tu non lo sapevi che la vita dell’uomo non è mai libera da tali passioni dell’animo? NEOFRONO. Non me ne ero reso conto. 6 Si tratta, come esplicitano Bacchelli-D’Ascia (p. 357), di una palese ripresa di Luciano Menippeo o la negromanzia 2 (I, p. 429): «MENIPPO. Ma dimmi un po’: come vanno le cose sulla terra e che fanno i cittadini? FILONIDE. Niente di nuovo, ma rapinano, spergiurano, sono usurai e strozzini come prima».

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(20) POLYTROPUS. Quasi nunquam audiveris eorum rationes qui persuadeant eiusmodi omnia – amare, odisse, aspernari, cavere, admirari; letitia, voluptate, meroribus, libidinibus, cupiditate ac satietate affici – commodissime quidem hec ab ipsa natura et non sine aliqua in animis hominum necessitate fuisse insita, partim ut discant refugere nocua salubriaque appetere, partim ut adsint res quibuscum ratio visque animi certando possit magnifice promereri. (21) NEOPHRONUS. Scis quod aiunt: posteaquam peroratum est, qui subcubuit in sua causa patronus solet que ad rem pertinuissent accuratissime omnia recognoscere. (22) Sic mihi contigisse dicendum est: nunc enim defunctus primum conspexi cum ceteros tum etiam ipsum me summa semper in insania fuisse constitutum. (23) POLYTROPUS. Age modo, fortassis et ipse intelligam eo me non parvo in errore fuisse versatum, quo te, quem tu stultissimum fuisse asseveres, summe ego prudentie virum diiudicarim. Et narra, obsecro, satis risisti! (24) NEOPHRONUS. Sane quidem. At dicam. Nosti me, quam perdite uxorem amarim meam. POLYTROPUS. Communis tibi isthec multis cum maritis stultitia fuerat. (25) NEOPHRONUS. Quid, quod in ea re me non vituperandum arbitrabar, quin immo censebam ita fieri oportere, vel quia coniunx, vel quia formosa, vel quia mores pudicitiaque eius atque modestia amena, digna laude, digna benivolentia videbantur? (26) POLYTROPUS. Tibi ergo pulcritudo uxoris atque venustas hoc de te promereri videbatur, ut animi egritudine afficerere? (27) NEOPHRONUS. Sane me illa dementia ceperat non modo ut egritudinem animo ferrem, verum etiam ut durissimam servitutem non recusarim, atque eam quidem qua nulla possit servitus dici maior. (28) Nam eo iam, miser!, prolapsus eram ut quidquid uxor imperasset

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(20) POLITROPO. Come se tu non avessi mai sentito i discorsi di coloro che sono dell’opinione che tutti i sentimenti di tal tipo – amare, odiare, disprezzare, temere, ammirare; provare gioia, piacere, tristezza, bramosia, desiderio e sazietà – sono stati immessi negli animi umani dalla natura stessa molto opportunamente, sia perché imparino a fuggire dalle cose pericolose e a ricercare quelle salubri, sia perché vi siano istinti combattendo contro i quali la ragione e la forza d’animo possano acquistare grandissimi meriti. (21) NEOFRONO. Sai quel che si dice: terminata l’arringa, l’avvocato che ha perso la causa di solito passa in rassegna scrupolosamente tutti gli elementi che sarebbero stati pertinenti. (22) Devo ammettere che è proprio quello che è successo a me: ora infatti che sono morto mi accorgo per la prima volta che, come gli altri, anch’io ho sempre vissuto in maniera completamente folle. (23) POLITROPO. Dai, forse anch’io capirò di aver commesso un non piccolo errore a giudicarti un uomo di grande saggezza, dal momento che tu stesso dici di essere stato stoltissimo. Ma narra, ti prego, hai riso abbastanza! (24) NEOFRONO. D’accordo. Ti racconterò. Tu sai bene quanto perdutamente amassi mia moglie. POLITROPO. È una follia che accomuna molti mariti. (25) NEOFRONO. Che diresti se ti dicessi che così facendo non credevo di dover essere criticato, e che anzi così doveva essere perché era mia moglie, perché era bella, perché i suoi atteggiamenti pudichi e la sua modestia mi sembravano degni di stima e affetto? (26) POLITROPO. Ti sembrava dunque che la bellezza e l’avvenenza di tua moglie meritassero le tue sofferenze? (27) NEOFRONO. Si era impadronita di me una tal pazzia che non solo sopportavo le pene d’amore, ma non rifiutavo neppure di sottopormi ad una durissima schiavitù, la peggiore che si possa immaginare. (28) Ero arrivato al punto, o povero me!, che qualsiasi cosa mia moglie mi ordinasse io la facevo

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id sedulo exequerer; si quid vetuisset nihil ipse contra molirer; nihil inscia, nihil inconsulta uxore aggrederer; nihil preter mulieris voluntatem facerem. (29) Missa facio maiora, tamen, quo magis reliqua ita esse intelligas, vide qua in miseria fuerim constitutus. Nunquam, ni prius uxoris mee sententiam explorarim, apud amicos cenavi; at ubi tristiores vultus uxoris intuebar, confestim dictis lepidissimis atque iocis mulcere dominam studebam. (30) Atque id quidem, Polytrope mi, agebam pertimidiuscule, nam mirum in modum verebar ne mea sibi verba viderentur gravia. (31) Itaque, tacente coniuge, nefas ducebam tota in domo quicquam verborum proferri; denique, non garriente patrona, omnis domus obmutuerat. Hec me infelicitas habebat! Ita indulgere ac deservire uxori mee non esse turpissimum ducebam. (32) POLYTROPUS. Est prorsus isthuc miserrimum atque infelicissimum servitutis genus. NEOPHRONUS. Magis. Atqui audi preterea me qualem habuerim, nostras ineptias longe ut irrideas. (33) Incidi in ultimum hunc gravissimum morbum quo confectus cessi ex vita. Quis referat quo illa merore ob id esse percita videbatur? quis solicitudinem meique quam uxor habuit curam possit recensere? (34) Ista medicos, affines, servos, domesticos, vicinos notosque omnes mea causa fatigabat; illos ad se venire, illuc ire atque alios inde huc et hinc illuc remeare imperabat; hoc perfici, hic addi, inde adimi edicebat. Laudasses eximiam mulieris diligentiam atque solertiam. (35) POLYTROPUS. Falleris: nam feminam usque adeo imperiosam dignam odio putassem. (36) NEOPHRONUS. Mihi tamen ob valitudinem iacenti officium coniugis gratum poterat videri atque utile. (37) Tametsi illud non negarim, tum mihi mulierem plurimum fuisse gravem cum mihi e vita cedenti ea ad lectum inherens meum lamentis caput obtundebat: calamitosam, acerbam et

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scrupolosamente; se aveva vietato qualcosa non pensavo di oppormi; non incominciavo nulla prima di averla avvisata e di aver sentito il suo parere; non facevo nulla che andasse contro la sua volontà. (29) Tralascio altre cose più serie, ma, perché tu capisca meglio il resto, guarda in che stato miserevole arrivai a trovarmi. Non cenavo mai dagli amici, se prima non avevo chiesto il permesso a mia moglie; se vedevo che era un po’ scura in volto, mi ingegnavo subito per addolcirla con giochi e scherzi. (30) E anche questo, caro Politropo, lo facevo molto cautamente, perché temevo moltissimo che le mie parole le dessero fastidio. (31) Così, quando lei taceva, mi sembrava sacrilego che in casa si pronunciasse parola; se la padrona non parlava, dunque, tutta la casa ammutoliva. Ecco in che infelicità versavo! Non consideravo una cosa vergognosissima l’essere schiavo in questo modo di mia moglie. (32) POLITROPO. Questo è davvero il più misero e infelice tra i generi di schiavitù. NEOFRONO. C’è di peggio. Ascolta ancora il mio comportamento, per ridere di più della mia stupidità. (33) Incorsi in quella gravissima malattia che pose fine alla mia vita. Chi potrebbe descrivere il dolore che sembrava affliggerla? Chi potrebbe descrivere le attenzioni e la sollecitudine che ebbe verso di me? (34) Per me disturbava medici, parenti, servi, domestici, i vicini, insomma tutti quelli che conosceva; chiedeva ad alcuni di venire da lei, poi li mandava via e faceva spostare altri da qui a lì e poi da lì di nuovo qua; ordinava di fare quello, di aggiungere quest’altro, di togliere quell’altro. Avresti lodato la sua estrema solerzia e premura. (35) POLITROPO. Ti sbagli: avrei ritenuto odiosa una donna a tal punto autoritaria. (36) NEOFRONO. A me invece che ero a letto malato il darsi da fare di mia moglie piaceva e sembrava utile. (37) Tuttavia non posso negare che, nelle ultime ore di vita, quella donna che stava attaccata al mio capezzale e mi riempiva la testa di lamenti mi dava un fastidio terribile: malediceva

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execrandam hanc ipsam diem esse proclamabat, que suos amores, suas delicias, suas voluptates eximeret; mortem insuper invocabat; mecum interitum quam sine me vitam cariorem sibi futurum adiurabat. (38) Fluvii lacrimarum manabant ut quivis etsi durissimi animi vir tantis affectam doloribus uxorem vix ferre posset. (39) Fateor, istius me lacrime excruciabant, nimium quidem dolorem animo capiebam, dum mors, que sola id poterat, me a mea dulci et amata coniuge disiungeret. (40) Coegit ergo me uxor mea suo miserando eiulatu crudius in mortem erumpere quam fecissem. (41) POLYTROPUS. Inepteque. Nam in sene istius etatis immatura mors est? An potest ulla in etate mors dici non matura nisi cum preclarissimum aliquod inchoatum adolescentis opus interruperit? (42) NEOPHRONUS. Nulla profecto. Verum quo quid in morte boni esset ignorabam, eo magis apud uxorem et liberos vitam agere cupiebam. Sed non est ut de commodis que morte deferuntur disputem. Rem ipsam sequar. (43) Itaque, ut me relictis membris factum agilissimum sensi, ipsum meme totum contemplari atque exultare gaudio cepi. O me letum, posteaquam possum tam facile quo lubet applicare! (44) Ac quis dixerit ut maxima ipsum meme voluptate compleverim? Mi Polytrope, immenso quidem, infinito incredibilique quodam gaudio pene desipiens exultavi. (45) Io, letitiam! Dii boni, cum hanc tantam in libertatem devenerim, gratias vobis divino pro munere superis atque inferis diis ago. POLYTROPUS. Saltitabas? (46) NEOPHRONUS. Quid mirum? Atqui post hec admo-

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quel giorno funesto, doloroso ed esecrando che le portava via il suo amore, la sua gioia, il suo piacere; invocava per sé la morte; giurava di preferire morire con me piuttosto che continuare a vivere senza di me. (38) Spandeva fiumi di lacrime al punto che nessun marito, neanche il più austero, avrebbe potuto sopportare di vedere la moglie tanto addolorata. (39) Ammetto che le sue lacrime mi facevano star male, nell’animo nutrivo un dolore acutissimo mentre la morte, la sola che avrebbe potuto farlo, mi separava dalla mia dolce e amata consorte. (40) Così mia moglie, coi suoi terribili lamenti, mi indusse a maledire la morte con più cattiveria di quanto non avrei fatto. (41) POLITROPO. Che sciocchezza. È immatura la morte in un vecchio di questa età? Del resto può forse dirsi immatura la morte in qualsiasi età, a meno che non interrompa un bellissimo progetto di vita appena iniziato di un adolescente?7 (42) NEOFRONO. No di certo. Ma allora quanto più ignoravo ciò che di buono viene con la morte, tanto più desideravo continuare a vivere con mia moglie e i miei figli. Ma ora non c’è bisogno di parlare dei vantaggi che la morte porta con sé. Vado avanti col racconto. (43) Appena mi resi conto che, abbandonato il corpo, ero diventato agilissimo, presi a guardarmi tutto e provai una gran gioia. Fortunato me, che posso dirigermi tanto facilmente dove voglio! (44) Chi potrebbe esprimere a parole il piacere enorme che provai? Politropo mio, impazzivo di gioia, una gioia immensa, infinita, incredibile. Evviva, che letizia! Santi numi, vi ringrazio, voi dei del cielo e degli inferi, per avermi dato come dono divino una tale libertà. (45) POLITROPO. Saltavi di gioia? (46) NEOFRONO. E ti meravigli? Dopo essermi così 7 Questo motivo, notano Bacchelli-D’Ascia (p. 363), si ritrova anche in Plutarco Consolazione ad Apollonio 113f.

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dum exhilaratus plerasque, quas vivens vidisse optabam, orbis regiones pervagari instituo, sed prius volui revisere uxorem et liberos meos, quorum etiam mortuus afficiebar desiderio. (47) Idcirco in fastigium advolo proximarum edium, quo ex loco poterat omnis mea interior domus despici. (48) Me illic ergo constituo ac per fenestras spectans intueor meam bene moratam uxorem duos quos in digitis eram solitus gestare anulos sua in manu tenentem ac multis eosdem cum lacrimis exobsculantem ac inter lugendum magna voce dicentem: (49) «Caras gemmas! Castas reliquias nostri amoris! Sancta connubii monumenta!», ipsos istos esse anulos, quos apud se perpetuo servatura sit; olim viventi mihi nupsisse ut suas omnes voluptates, sua quevis desideria, suas spes cunctas in me semper, ut habuit, locatas haberet; (50) proinde novissime et defuncto castitatem perpetuam vovisse futurumque nunquam ut alium quam me possit amplius cupere; istos deinde ipsos indices pietatis ac testes continentie ante oculos eternum sibi anulos futuros. POLYTROPUS. Hui, sanctam mulierem! (51) NEOPHRONUS. Maxime! Ac proxime aderant reliqui omnes domestici ad meum cadaver lugentes, ut fit. «Et cur isti merore», inquam, «afficiuntur? Hincne dolorem animo excepere, quoniam infecto illo de cadavere sim absolutus, an egre id ferunt, me defuncto, se aliqua incommoda suscepturos? (52) Quis putarit in huiusmodi luctu esse aliqua officia pietatis? Quis hec non potius censeat invidie dementieque esse signa, cupere me in ea esse carne fetidissima aut suas velle molestias et calamitates levare fletu? (53) An isti insa-

8 Come ha notato Cardini (p. 580), questa prospettiva dall’alto dei tetti equivale allo «scoperchiamento dei tetti» auspicato da Democrito (cfr. Ippocrate, Sul riso e la follia, a cura di Y. Hersant, Palermo, Sellerio, 1991, pp. 72-74), il «philosophum celebrem» dell’incipit della Musca albertiana (cfr. Trenti, Una fonte) e «figura centrale – come l’ha definito Cacciari – nel paesaggio albertiano».

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rallegrato, decido di peregrinare per quelle tante regioni del mondo che in vita avrei voluto visitare, ma prima volevo rivedere mia moglie e i miei figli, di cui anche da morto sentivo la mancanza. (47) Perciò volo sul tetto della casa vicina, in una posizione da cui poter guardare dentro a tutta la mia casa.8 (48) Mi fisso lì e guardando attraverso le finestre vedo mia moglie, quella virtuosa, che tiene in mano i due anelli che di solito portavo alle dita e li baciava tra molte lacrime, nel pianto gridando a gran voce: (49) «Care pietre! Caste reliquie del nostro amore! Sante testimonianze del nostro matrimonio!», quegli anelli, diceva, li avrebbe conservati per sempre con sé; un tempo, sposandomi, aveva riposto in me finché fossi stato in vita, come di fatto avvenne, ogni suo piacere, ogni suo desiderio, ogni sua speranza; (50) per questo, pochissimo tempo prima aveva fatto voto di perpetua castità al marito defunto e giurato che non avrebbe mai più desiderato allo stesso modo nessun altro; gli anelli sarebbero stati in eterno la testimonianza visiva della sua devozione e della sua pudicizia. POLITROPO. Ah, che santa donna! (51) NEOFRONO. Proprio! E, come avviene di solito, attorno a lei c’erano tutti i domestici che piangevano sul mio cadavere. «Perché – mi domando – costoro sono afflitti dal dolore? Provano dolore perché ho abbandonato questo corpo infetto oppure temono di sopportare a fatica i danni cui andranno incontro dopo la mia morte? (52) Chi crederebbe che un lutto di questo tipo si debba a un sentimento di pietà?9 Chi non crederebbe piuttosto che sia un sintomo di follia o di invidia desiderare che io sia ancora in quella carne fetida oppure voler lenire col pianto i propri dolori e disgrazie? (53) Non sono forse costoro fuori di testa a 9 Cfr. Plutarco Consolazione ad Apollonio 111e: «E poi, chi si affligge per chi è morto prematuramente, lo fa a causa della scomparsa di colui per il quale si affligge o a causa di se stesso?».

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nissimi non sunt, qui me isthac in fece illigatum esse velint, quam pre fetore mox abiicient?». POLYTROPUS. Probe. (54) NEOPHRONUS. Succedunt interim amici, curant funus, adest villicus meus una… POLYTROPUS. Age modo: at quis villicus? (55) NEOPHRONUS. Meus ille suburbanus, hirsutus, loquax, ridiculus, meministin? Melibeus. (56) POLYTROPUS. Memini, namque ille mihi semper suspectus fuit, posteaquam animadverti uxorem tuam quam vehementer studuerit, ut is, relicto rure, in proximis hortis tuis diverteret. (57) NEOPHRONUS. Idcirco non illud iniuria fertur quod aiunt, plus aliena in re amicos sapere quam in sua. (58) Mihi uxoris tue vita et mores longe ante fuere cogniti, quasi a te perspiceremus, quocum illa diu assiduoque vixerat. (59) At contra tu adversus hunc eras, ut oportuit, suspitiosus, quem putabam ipse in me esse summa fide et simplicitate preditum; atqui patiebar assiduum esse hominem inter domesticas mulieres ac rebus familiaribus, quoad libebat, implicari, ad meam uxorem usque in triclinium accedere, una esse, multos sermones trahere illos permittebam. (60) Stolidus! Imprudens! Ita moratam modestamque mulierem, ita in me affectissimam coniugem arbitrabar, ut neque adolescentis familiaritas neque muliebris fides apud me digna suspitione viderentur. (61) POLYTROPUS. Haud intelligo quid Melibeus iste 10 Il nome Melibeo («Oh shades of Virgil!», cfr. Whitfield, Defunctus, p. 60) è tipico della tradizione bucolica classica (cfr. Verg. Buc. I; Calp. Sic. Ecl. IV; Nemes. Ecl. I) ma, portato da un rozzo villano quale si dimostrerà essere il fattore di Neofrono, è ovviamente ironico rispetto alla idilliaca realtà che evoca e la dice lunga su come la tradizione medievale, in particolare la satira del villano, avesse fortemente agito sullo stereotipo dell’abitante della campagna come

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desiderarmi ancora legato a quella feccia che presto per la puzza butteranno via? POLITROPO. Giusto. (54) NEOFRONO. Nel frattempo giungono gli amici, predispongono il rito funebre, con loro c’è anche il mio fattore… POLITROPO. Aspetta: ma di quale fattore parli? (55) NEOFRONO. Quel mio contadino irsuto, sboccato, ridicolo, ti ricordi? Melibeo.10 (56) POLITROPO. Certo, mi è sempre risultato sospetto, dopo aver compreso che tua moglie aveva fatto di tutto perché egli, lasciata la campagna, venisse ad abitare nei tuoi terreni più vicini. (57) NEOFRONO. È proprio vero allora quello che si dice, che si valuta la situazione dell’amico meglio della propria.11 (58) Conoscevo da tempo i costumi e lo stile di vita di tua moglie, come se li avessi saputi da te, con cui lei aveva a lungo vissuto insieme. (59) Ma tu eri giustamente sospettoso e avverso a questo individuo, che io invece reputavo dotato di onestà e massima fedeltà nei miei confronti; e tolleravo che quell’uomo stesse costantemente con le donne della casa, si impicciasse quanto volesse nelle cose di famiglia, frequentasse mia moglie fin dentro alla sala da pranzo e gli permettevo pure di stare a parlare con lei quanto desiderava. (60) Che stupido! Folle! Pensavo che mia moglie fosse così onesta ed accostumata, che mi volesse così bene, che non mi sembravano degni di sospetto né l’amicizia con quel giovane né la fedeltà verso di me. (61) POLITROPO. Non capisco che cosa lei ci trovasse persona onesta, buona e sincera, cfr. M. Feo, Dal pio agricola al villano empio e bestiale, «Maia», n.s., 20 (1968), pp. 89-136, 206-23. 11 Come suggerisce Cardini (p. 580), cfr. Ter. Heaut. 922-23: «Nonne id flagitiumst te aliis consilium dare, / foris sapere, tibi non posse te auxiliarier?» («Non ti vergogni? Dai consigli agli altri, fai il saggio fuori di casa, e poi non sei in grado di aiutare te stesso?»).

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melle conditum afferat. Illud sane pervetustum dictum, quod usque ab avo meo frequens in ore veterum fuisse audivi, verissimum atque probatissimum est. (62) NEOPHRONUS. At quid hoc? Profer. POLYTROPUS. Num et tu id ipsum a tuis senibus audivisti? NEOPHRONUS. At quid audierim? (63) POLYTROPUS. Mulieres, quo se negligenter observari viderint, suapte natura, nullis adminiculis, innata vi, ex ingenio solere esse lasciviores. Quid censes? (64) NEOPHRONUS. Ut contra qui censeat, nihil sentiat. Et plane huic sententie accomodatam rem quam iocosam atque ridiculam referam. Uxor mea ut villicum adesse aspexit, repente sese de turba eripit; homo in remotam aulam perdomestice et confidenter subsequitur. Ingressi ambo, obclaudit illa hostium. (65) Ea me illico suspitio perculsit: demiror uxorem ex isthac turba lugentium concessisse. Tum nequeo prospicere quid sibi ingressus Melibeus velit: pronus idcirco, mente et oculis pendens, quid inclusi agant diligenter observo. (66) POLYTROPUS. Digna profecto res, in quam mortuus animum intenderes, cum eandem vivus nunquam animadverteris! Enimvero quid illi, quid gerebant negotiorum? Rem fortassis aliquam pretiosam recludebant, ne in eo tumultu funeris subriperetur? (67) NEOPHRONUS. Ne tu, quam in egritudine mea fuisse curiosam dixi, hanc me defuncto solertissimam extitisse censes? Scin, Polytrope, quid agebant? Ne quid, ubi in hos sermones incidimus, subticeatur, suavi quidem ac dulcissime rei operam dabant! 12 Per questa scena «portante» del tradimento Alberti deve aver sicuramente tenuto presente Luciano Viaggio agli inferi o il tiranno 11 (I, p. 599), in cui il tiranno Megapente, giunto nell’Ade, viene a sapere che sua moglie si risposerà con lo schiavo affrancato Mida,

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di mieloso in questo Melibeo. È proprio vero e azzeccato quel vecchissimo detto che spesso, a partire da mio nonno, ho sentito sulla bocca degli anziani. (62) NEOFRONO. Quale? Dimmi. POLITROPO. Non l’hai sentito anche tu dai tuoi vecchi? NEOFRONO. Ma cosa avrei dovuto sentire? (63) POLITROPO. Che le donne, quando si sentono meno osservate, per loro natura, predisposizione e istinto innato, senza alcuno stimolo sono solite essere di indole più lasciva. Che ne pensi? (64) NEOFRONO. Chi non è d’accordo non capisce niente. E a questo proposito riporterò un fatto gustoso e divertente che si adatta molto bene. Mia moglie, appena vede arrivare il fattore, si allontana improvvisamente dagli altri; l’uomo la segue, in maniera del tutto naturale e senza timore, in una stanza appartata. Una volta che entrambi sono entrati, ella chiude la porta. (65) Tutto d’un tratto mi prende un sospetto: mi meraviglio che mia moglie abbia lasciato il gruppo delle persone in lutto. Non riesco a capire cosa Melibeo cerchi dentro quella stanza: mi sdraio e, fissati gli occhi e la mente, osservo con attenzione cosa fanno chiusi là dentro. (66) POLITROPO. Cosa davvero strana, che da morto prestassi attenzione a ciò di cui da vivo non ti eri mai accorto! Che genere di cose facevano? Mettevano forse al sicuro qualcosa di prezioso, perché nel trambusto del funerale non venisse rubato? (67) NEOFRONO. Pensi che quella che ho descritto come attentissima durante la mia malattia sia rimasta così solerte anche dopo che ero morto? Sai, Politropo, cosa facevano? Per non tacere nulla ormai che siamo in argomento: facevano la cosa dolce e piacevolissima!12 col quale lo tradiva già in vita, cfr. Marsh, Poggio and Alberti, p. 369, che commenta la risemantizzazione della «tessera»: «[Alberti] shifts its tone from vulgar rage to moralistic indignation».

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(68) POLYTROPUS. Hen! Inter funus, inter domesticum luctum, inter viri casum quid orbate coniugi videri aut potuit aut debuit non triste, non amarum? (69) NEOPHRONUS. Credidi nihil te non sapere. Amor, voluptas, festivitas, iocus, an tibi hec amara videntur aut tristia? (70) POLYTROPUS. Sane tristiora hec ipsa sunt quam putentur, nam multas ingerunt in animum miserias. Tamen cum luctu et funere non conveniunt: a nulla enim re magis abhorret amor quam a merore et squalore. Verum sequere. (71) NEOPHRONUS. Pretereo multa hic honestatis gratia potius quam doloris, nam hec apud me lascivia uxoris admodum ridicula est. Non refero quibus obscenis atque impurissimis inter se adversum me dictis multisque odiis ac vituperationibus refertissimis sermonibus uterentur. (72) Honestius matrone verbum fuit hoc: «Anime mi, congratulor tibi; mea spes, gaudeo, ubi hec nobis fortuna allata est, ut tecum esse una diutius liceat». (73) POLYTROPUS. Hem, mores mulieris et pudicitiam! NEOPHRONUS. Quid, an non? POLYTROPUS. Pulcherrime tu quidem ut in te illa fuerit animata didicisti. NEOPHRONUS. Pulchre. (74) POLYTROPUS. Et quam aperte quali sint predite ingenio mulieres didicisti! NEOPHRONUS. Prorsus ut nihil pulcrius. (75) POLYTROPUS. Itaque ne tu fuisti homo ignarus. Quis potuit maritus esse imperitior? Stolide, qui tuam pre ceteris pudicam esse uxorem existimasti! (76) NEOPHRONUS. Ita oportuit, siquidem hebes, obtusum crassumque ingenium, occecatos oculos, stolidam ignavissimamque amor mihi mentem reddiderat; siquidem etiam supinum, desidiosum, credulum, tardum, vecordem penitusque ineptum ipse me amor effecerat. (77) POLYTROPUS. Non igitur tecum agi rectius potuit

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(68) POLITROPO. Come?! In mezzo al funerale, nel lutto della casa, col marito appena morto, che cosa poteva o doveva non sembrare triste e amaro alla vedova? (69) NEOFRONO. Credevo che tu sapessi tutto. Amore, piacere, allegria, gioco, ti sembrano queste cose amare o tristi? (70) POLITROPO. Certo queste cose sono più tristi di quanto non si creda, infatti procurano molti dispiaceri. Ad ogni modo non si confanno al lutto e al funerale: da nulla amore rifugge di più che dalla tristezza e dal dolore. Ma prosegui. (71) NEOFRONO. Tralascio molti particolari per decenza, e non perché mi addolorino, dal momento che la lussuria di mia moglie mi fa piuttosto ridere. Soprassiedo anche alle parole sconce, oscene che si dicevano sul mio conto, discorsi pieni di odio e offese. (72) La cosa più decorosa che disse la signora fu: «Complimenti, anima mia; sono felice, tesoro, che ci sia toccato in sorte di poter stare insieme più a lungo». (73) POLITROPO. O che costumi quella donna, che pudicizia! NEOFRONO. Perché? Non credi? POLITROPO. Ora hai ben capito cosa provasse nei tuoi confronti. NEOFRONO. Sì, davvero bene. (74) POLITROPO. E quanto ti è chiaro quale sia la naturale predisposizione delle donne! NEOFRONO. Più chiaro non potrebbe essermi. (75) POLITROPO. E così sei stato davvero stupido. Può esistere marito più sprovveduto? Che sciocco sei stato, a credere tua moglie più casta delle altre. (76) NEOFRONO. Del resto era inevitabile, dal momento che amore mi aveva fatto cieco, ebete, ottuso e reso la mente dura e pigra; l’amore mi aveva fatto diventare inerte, svogliato, credulo, lento, dissennato e del tutto inetto. (77) POLITROPO. Non potevi comportarti meglio, diciamo,

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quam dum fieres certior suos in viros feminas neque fidem neque pietatem neque leges connubii neque religionem tori neque matrimonii sanctitatem ullam servare ac vereri, dumque dura et agresti servitute pressum te fuisse intelligeres. (78) NEOPHRONUS. Adde etiam his quod cum inde, ut inquis, tum plerisque aliunde ex rebus, tum maxime hinc muliebre apud me ingenium quam esset perditissimum patuit, quod ex mea uxore pene incredibile perspexi. (79) Nam iterum atque iterum amplexans villicum, dedit unum de meis illis ipsis anulis homini dono, quos mihi duos animam spiranti distraxerat. (80) «Mi», inquit, «anime, meus festus dies! Voluptatum nostrarum sponsor hic anulus sit. Tibi hunc trado, mihi alterum servo, ut qui unicis in digitis contineri, unas manus ornare consuevere, iidem nos uno in amore conservare, unam in voluptatem hortari discant». (81) POLYTROPUS. Itane ingenio perfido es, mulier? Itane fidifraga extitisti ut quem modo anulum ob religionis memoriam tanquam numen aliquod a coniuge decerpsisti, eum lascivie causa largiaris rustico? (82) Hunc tu anulum amoris turpissimi vinculum esse et sponsorem voluisti, quem eundem castitatis atque honestatis decus et ornamentum servare adiurasti? (83) NEOPHRONUS. At enim sic, ut vides, ridicule res uxoris acta est. Tandem egrediuntur ambo, non secus atque inter eos quippiam esset apprime necessarium constitutum. Dehinc ad conventum matronarum reducta mulier, hui! quos luctus innovat et quantam vim lacrimarum effundit! (84) Apud hanc, apud illam insistit, omnes ambit, omnes complet vocibus flebilibus; miseram se inquit, desertam, destitutam; suum ornamentum me, suas fortunas maximas, suum numen perdidisse refert. (85) Exclamat: «O miseriam! o calamitatem! o diem infaustum atque omnium acerbissimum!». Mox dilaniat vultum suum unguibus atque avellit

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fino a quando non venisti a conoscenza che le donne nei confronti dei loro mariti non rispettano né la fedeltà né la devozione e non temono le leggi matrimoniali, il sacro vincolo del letto coniugale; fino a quando non comprendesti di essere stato oppresso da una dura, brutale schiavitù. (78) NEOFRONO. Aggiungi che, oltre che da quello che hai detto, anche da moltissime altre cose mi è apparso quanto fosse guasta la natura femminile, ma soprattutto da quello che ho visto da mia moglie, che è davvero incredibile. (79) Infatti, stringendo a sé sempre di più il fattore, diede in dono a quell’uomo uno dei miei anelli che mi aveva sfilato dal dito mentre spiravo. (80) «Anima mia,» disse «questo è un giorno di festa! Questo anello sia pegno dei nostri piaceri. Ti dono questo anello, mi tengo l’altro, affinché questi che stavano nelle sole sue dita, ed ornavano le sole sue mani, ci inducano a mantenere un solo amore e ci esortino ad una sola passione.» (81) POLITROPO. A tal punto giunge la tua perfidia, donna? Sei stata così fedifraga da donare per lascivia a quel villano l’anello che avevi tolto al marito come nume tutelare a memoria del vostro sacro giuramento? (82) Hai voluto che quello stesso anello che avevi promesso di mantenere come degno ornamento della tua onorabilità diventasse il vincolo e il pegno di un amore sconcissimo? (83) NEOFRONO. Come vedi, la donna si è comportata proprio come in una commedia. Infine, entrambi escono come se avessero discusso tra loro di qualcosa di molto importante. Mia moglie torna nel gruppo delle matrone e, caspita! come torna a disperarsi e che torrente di lacrime spande! (84) Si ferma a parlare ora con questa ora con quella, le gira tutte e tutte le riempie di lamenti; si dice infelice, abbandonata, derelitta; dice di aver perso me che ero il suo ornamento, la sua massima gioia, il suo nume. (85) Grida: «O miseria! O sventura! O giorno nefasto e fra tutti il più doloroso!». Poi con le unghie si lacera il volto, si strappa i capelli e si batte

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capillos ac totam se pugnis contundit, meum sepe nomen inter singultus et plagas invocans. (86) POLYTROPUS. Tu vero supra fastigium? NEOPHRONUS. Ego quidem, etsi eram ob villicum nonnihil indignatus, nequivi tamen risum continere. (87) «Etenim», inquam, «o ingenium mulieris fallax, perfidum atque impurum! Quis unquam existimarit hanc, que modo cum villico Melibeo tam leta, tam iocunda tamque, ut erat, festiva, quis hanc ipsam fraudolentissimam feminam censeat has fictas posse lacrimas depromere aut hos tam simulatos dolores adeo verisimiles imitari? (88) Vah, stultitia et insania hominum qui mulierculas amant! Discite hinc, deliri amatores, discite quonam pacto vos femine diligant! An que optimos suos maritos fallere norint, alienos decipere verebuntur? (89) Nulla inveniri potest maior insania quam est eorum qui in muliebri sexu constantiam aut animi decus aut morum integritatem aliquam sibi esse persuaserint». POLYTROPUS. Eia, quam loqueris, ut res est, verissime! (90) NEOPHRONUS. Sic est. Ceterum irrisi cum maxime uxoris dolos tum proxime incusavi meam pristinam dementiam vituperandamque etiam eorum qui aderant insipiditatem iudicavi, a quibus mulier suis artificiosis et, ut aiunt, «versutiloquis malitiis» eliciebat lacrimas. (91) POLYTROPUS. Que ora, quos tu illic vultus videbas deformes? NEOPHRONUS. Ut nihil obscenius, vel etiam quidam decrepitus omnium iudicio poterat egregie videri ridiculus: (92) stabat ore hianti, patentibus faucibus, rarissimi apparebant dentes, oculi cum primum gemebant propter, quid 13 L’idea per questa scena del tradimento della moglie è quasi certamente venuta all’Alberti ripensando ancora a Luciano Viaggio agli inferi o il tiranno 12, dove il rapporto sessuale tra la concubina Glicerio e lo schiavo Cario si consuma in presenza del cadavere,

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tutto il corpo coi pugni, invocando spesso il mio nome tra le ferite e i singulti.13 (86) POLITROPO. E tu che stavi sopra il tetto? NEOFRONO. Io, sebbene fossi un po’ indignato per la storia del fattore, non riuscivo a trattenermi dalle risa. (87) «Quant’è malfida, ingannevole e disonesta la natura femminile!» mi dicevo «Chi mai avrebbe potuto pensare che questa donna che poco prima era tanto felice, lieta e gioiosa col fattore Melibeo, chi avrebbe mai immaginato che questa donna imbrogliona avrebbe finto di piangere e avrebbe simulato un dolore in maniera tanto verisimile? (88) Ah, stoltezza e follia degli uomini che amano le donnette! Imparate da qui, stupidi amanti, imparate in che modo le donne vi amano! Pensate forse che quelle che sanno come ingannare i loro bravi mariti, temano di truffare gli altri? (89) Non c’è demenza maggiore di quella di coloro che si convincono di poter trovare nella donna costanza, dignità e integrità di costumi.» POLITROPO. Ehi, dici proprio le cose come stanno, è verissimo! (90) NEOFRONO. Già. Io da un lato ridevo per gli inganni di mia moglie, dall’altro accusavo la mia precedente follia e condannavo anche la dabbenaggine dei presenti al funerale, dai quali mia moglie strappava lacrime coi suoi artifizi e, come si dice, con «astuta malizia».14 (91) POLITROPO. Che aspetto e che volto avevano quelli che hai visto lì, deformi? NEOFRONO. Una cosa ributtante, c’era anche un vecchio decrepito che a giudizio di tutti e a buon diritto poteva sembrare ridicolo: (92) stava in piedi, fermo, con la bocca aperta, così da far vedere i pochi denti che aveva e gli occhi gli lacrimavano, chi lo oltraggiato, del tiranno, cfr. Mattioli, Luciano e l’Umanesimo (vd. MONOGRAFIE), p. 83; Acocella, La presenza di Luciano, p. 131. 14 Si tratta di una locuzione di incerto autore citata da Cic. De or. III 154.

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dixerim, senectutem an merum? ac rubebant quidem, tum multo erant lugenti fediores. POLYTROPUS. Ha, ha! Atque tumidi? (93) NEOPHRONUS. Ut si illic affuisses, nescio utrum potius decrepitum hominem totum madidum lacrimis, procurvum vastissimasque infimo de pectore voces evomentem irridendum an odio habendum iudicasses. (94) Procul dubio illinc quam primum oculos avertisses ingratusque tibi et hic et ceteri omnes lugentes fuissent. (95) POLYTROPUS. Hunc mihi velim demonstrari decrepitum cum ad nos devenerit, ut hominem vesanum coram irrideamus. Nam sic existimo: in grandi etate qui se ineptum prebet, hunc dignum esse quem etiam apud inferos ridiculum habeamus. (96) Sed ipsum me corrigo, fortassis quidem homo pius acri et vehementi desiderio tui afficiebatur. (97) NEOPHRONUS. Cave isthuc existimes, Polytrope, quin immo cum aliqui hominem solari instituissent, propius accedentes rogarunt num mihi se quidem ille necessarium diceret; prudentis esse officium moderate hos casus ferre qui etiam invitis et repugnantibus nobis omnino ferendi sunt. (98) Tum homo: «neque ulla isthoc cum defuncto sum affinitate iunctus, neque ulla apud hunc valui unquam amicitia», inquit, «neque hominem, quantum memini, unquam viventem vidi; at sum ipse advena accessique huc ad concelebrandum funus accersitus. (99) Verum huiusmodi ab ineunte etate animi fui misericordis et usque adeo pii ut cuiusvis etiam inimicorum calamitatibus nimium doleat. Nunc vero inter lugentes constitutus quis lacrimas contineat?». POLYTROPUS. An tu? NEOPHRONUS. Ut res est. 15 Come notano Bacchelli-D’Ascia (p. 375), la satira dei rituali funebri, con la loro pompa e il loro sfarzo, costituisce un bersaglio costante della tradizione diatribica, per cui ad esempio cfr. Hor. Carm. II 20, 21-24: «Absint inani funere neniae / luctusque turpes et querimoniae; / compesce clamorem ac sepulcri / mitte supervacuos

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sa se per la vecchiaia o per il troppo vino bevuto; e diventavano tanto più rossi e brutti quanto più quello piangeva. POLITROPO. Ah, ah! E pure gonfi? (93) NEOFRONO. Se tu fossi stato lì non so se avresti giudicato quel vecchio decrepito tutto zuppo di lacrime, gobbo e che emetteva lamenti dal profondo del petto più meritevole di riso o di odio. (94) Di sicuro avresti distolto quanto prima lo sguardo e ti sarebbe sembrato sgradevole sia lui che tutti gli altri che piangevano. (95) POLITROPO. Vorrei proprio che mi fosse indicato, questo vecchio decrepito, quando scenderà quaggiù, in modo tale da poterlo deridere davanti a tutti come un pazzo. Infatti credo questo: chi si dimostra sciocco fino alla tarda età, merita di essere schernito sin dentro gli inferi. (96) Ma mi debbo correggere, forse quell’uomo ti era molto affezionato e si struggeva drammaticamente per la tua perdita. (97) NEOFRONO. Attento a non ingannarti, Politropo, che anzi quando alcuni ritennero di dover consolare quell’uomo, avvicinandosi gli domandarono se fosse un mio parente; è dovere dell’uomo saggio sopportare con moderazione queste disgrazie che, anche se non le vogliamo e le combattiamo, ci toccano ugualmente. (98) Quell’uomo rispose: «Non sono né un parente di questo defunto, né gli sono mai stato amico, né, per quanto mi ricordi, l’ho mai visto da vivo; sono anzi un forestiero e sotto richiesta sono entrato qua a partecipare al rito funebre. (99) Sin dalla nascita sono sempre stato d’animo tanto misericordioso e buono che mi vien da piangere per le disgrazie di chiunque, anche quelle del nemico. Ora poi, in mezzo a gente che piange, chi potrebbe trattenere le lacrime?». POLITROPO. Ma dai... NEOFRONO. È tutto vero.15 honores» («Manchino alle esequie senza bara / le nenie, i lamenti, il pianto che sfigura. / Frena tu il grido / e non curare gli onori del sepolcro, non necessari»).

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(100) POLYTROPUS. O senem gravem et maturum, qui, cum alios ineptos viderit, ipsus insanum se prebeat! In omni etate cum turpis levitas et error est tum et in grandeva etate vituperanda est. (101) NEOPHRONUS. Prorsus ut dicis: nam quorum corda re tam facili premuntur quosve tam levis dolor frangit, isti quidem non virili, non maturo et confirmato animo prediti sunt, sed mente quadam puerili ac molli languent. (102) POLYTROPUS. Recte sane. In viro gravi et maturo puerile ingenium muliebresque lacrime turpitudinem afferunt; itaque merito illos sic deplorantes irridebas. (103) NEOPHRONUS. Potius oderam. Idcirco inde averti oculos ac lustravi filios et reliquam familiam. POLYTROPUS. Nonne et filii cum lugentibus aderant? (104) NEOPHRONUS. Illi quidem ut lugubrem vestem sumerent secesserant, quo funesto cum habitu inter familiares considerent. POLYTROPUS. Et hoc ad insaniam spectat. (105) NEOPHRONUS. Quidni? scilicet atris quam candidis vestibus sunt nobis defunctis gratiores! (106) POLYTROPUS. At ego filios, si erumnas ferebant moleste, si nimio patris desiderio angebantur, non improbarim, nec tamen eos quidem, quod muliercularum more luctu dehonestarentur, omnino probandos duxero; is enim optimum negotiatorem perdidit qui patrem amisit. (107) NEOPHRONUS. Agedum, Polytrope, ut intelligas quam maxime patres a filiis desiderentur, cape ex meis natis coniecturam tu cui liberi nunquam affuere. (108) Filium meum maiusculum meministin qua preditum indole adolescentem,

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Ovviamente il tono è ironico. Bacchelli-D’Ascia (p. 379) suggeriscono il rimando a Cic. Tusc. II 55: «Sed hoc idem in dolore maxume est providendum, ne quid abiecte, ne quid timide, ne quid ignave, ne quid serviliter muliebriterve faciamus» («Nel dolore, comunque, bisogna stare attenti a 17

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(100) POLITROPO. Che vecchio serio e maturo: vedendo gli altri stupidi, si mostra pazzo anche lui! Se la stupidità e le sciocchezze sono deplorevoli ad ogni età, sono tanto più deprecabili nella vecchiaia. (101) NEOFRONO. Proprio così: coloro che hanno cuori sensibili a circostanze da nulla, che crollano al primo dolore, non sono dotati di un animo virile, saldo e maturo, ma languono a causa di un’indole fragile e puerile. (102) POLITROPO. Ben detto. In un uomo serio e di una certa età avere la testa da bambino e piangere come una donna sono cose che arrecano disonore; per questo a ragione prendevi in giro quelli che si disperavano. (103) NEOFRONO. Li odiavo, piuttosto. Da lì ho voltato lo sguardo ed ho osservato i miei figli e il resto della famiglia. POLITROPO. Anche i figli stavano lì con coloro che piangevano, vero? (104) NEOFRONO. Si erano un poco allontanati per vestirsi a lutto, in modo tale da potersi sedere con gli altri familiari con l’abito funebre. POLITROPO. Anche questa usanza rientra nella follia. (105) NEOFRONO. E perché? Ovviamente a noi morti piacciono di più gli abiti scuri che quelli chiari!16 (106) POLITROPO. Io comunque non avrei criticato i tuoi figli, se soffrivano per la disgrazia, se erano scioccati dalla perdita del padre, anche se non credo andrebbero apprezzati del tutto, poiché a causa del dolore perdevano il decoro come le donnette.17 Chi perde il padre, infatti, perde il sostegno migliore. (107) NEOFRONO. Dai, Politropo, tu che non hai mai avuto figli, prendi l’esempio dei miei per capire quanto essi vogliano bene ai padri. (108) Ti ricordi il mio figlio maggiore, quell’adolescente dotato di quel buon carattere, dal quale non compiere nessun atto che sappia di avvilimento, di pavidità, di codardia, nessun atto degno di uno schiavo o d’una donna»).

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quam ex eo spem capiebam, quam optimam expectationem de se proferebat, qualem denique nos illum civem futurum pronosticabamur? (109) POLYTROPUS. Equidem illum existimavi semper in te animo fore observantissimo atque obsequentissimo. NEOPHRONUS. Ergo eodem in errore versabamur. (110) POLYTROPUS. Quonam id pacto? Nam erat ille quidem modestus, verecundus et preter etatem gravis, ut in eo id vulgatum recte dici possit: «odi puerum precoqui sapientia». (111) NEOPHRONUS. Ergo et quam nos fuisse prudentes putabimus quos etiam pueri decipiebant? Et quam nos fuisse astutos existimabimus qui simulato que puer faceret ingenio non discernebamus? (112) Non enim ex animo ille sed ob metum erat, ut videbatur, obtemperans! Nam fuit ille quidem in me impius, Polytrope mi. Meus filius in me impius fuit! (113) POLYTROPUS. Hem! Qui isthuc? In senem fuitne in te, filius adolescens impius, in patrem? NEOPHRONUS. Absurdum tibi hoc videri scio. (114) POLYTROPUS. Prorsus absurdum, tuos in te natos esse non optime animatos, quos nemo dubitet tibi omni re fuisse cariores. NEOPHRONUS. Tamen impii fuere. (115) POLYTROPUS. Vide ne temere id credas, bene moratos adolescentes in te impios fuisse, quem ceteri, tum maxime filii ipsi facillimum et in omni re longe omnium piissimum patrem experti sunt. (116) NEOPHRONUS. At enim ipse coram vidi filium, inquam, meum maiusculum ob mortem meam letissimum.

18 È, come già segnalato da Marsh (Alberti and Apuleius, p. 408), un verso di poeta oggi a noi ignoto citato da Apul. Apol. 85: «Est ille poetae vorsus non ignotus: “Odi puerum praecoqui sapientia”» («È ben noto il verso di quel poeta: “Odio i fanciulli di sapienza

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traevo tante speranze, che faceva così bene sperare di sé e che noi prefiguravamo un futuro illustre cittadino? (109) POLITROPO. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che ti sarebbe sempre stato molto obbediente e rispettoso. NEOFRONO. Dunque eravamo entrambi in errore. (110) POLITROPO. Ma come? Era così modesto, pudico e maturo per la sua età, tanto che per lui si poteva ben usare quel proverbio: «Non mi piace un ragazzo troppo precoce».18 (111) NEOFRONO. Dunque, dopo aver capito di essere stato ingannato persino dai ragazzi, penserò ancora di essere stato saggio? Crederò ancora di essere stato astuto in vita, io che non comprendevo quanto il ragazzo, con animo dissimulato, andava macchinando? (112) Non mi obbediva per amore ma per paura! Infatti, Politropo mio, egli si è comportato da empio verso di me. Mio figlio si è comportato da empio verso di me! (113) POLITROPO. Cosa?! Che dici? Il tuo figlio adolescente è stato empio verso di te, il vecchio padre? NEOFRONO. Lo so che ti sembra assurdo. (114) POLITROPO. Davvero assurdo è il fatto che i tuoi figli, che nessuno dubiterebbe ti siano stati più cari di ogni cosa, non nutrano buoni sentimenti nei tuoi confronti. NEOFRONO. Eppure sono stati empi. (115) POLITROPO. Vedi di non credere così su due piedi che degli adolescenti così accostumati siano stati empi verso di te, te che tutti, e soprattutto loro, i tuoi figli, hanno conosciuto come un padre disponibilissimo e in ogni circostanza affettuosissimo quant’altri mai. (116) NEOFRONO. Ma io stesso, davanti a me, ti dico, ho visto il mio figlio maggiore contentissimo della mia morte. precoce”»). Si tratta del topos del senex puer, su cui cfr. E.R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 2002, pp. 115-18.

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POLYTROPUS. Ain vero letissimum? Num tui te filii non desiderabant, cuius casum omnes etiam extranei effusissimis cum lacrimis lugebant? (117) NEOPHRONUS. At ipsum vidi saltitantem, gestientem, manus ad celum tendentem, gratias superis agentem, filium, inquam, meum, quod e conspectu me ademissent. (118) Atqui ut apertius intelligas quam illi fuerim carus, referam tibi grandem atque immoderatam, quam secum ipse filius habuit, congratulationem. (119) «O superi optimi et maximi», inquit bonus adolescens, «quantas vobis debeo gratias, posteaquam durissimo illo ex patris imperio me eripuistis ac meam in hanc libertatem me constituistis! Quanta me voluptate complevistis, superi, et quam meis diuturnis desideriis satis fecistis! (120) Hunc enim patrem meum durissimum atque omnium acerbissimum e medio sustulistis. (121) Abiisti iam, neque amplius aderis, severe! Iam aberis, indignissime decrepite! Iam quidem meis voluptatibus non adversaberis, maligne, qui neque apud socios cenare, neque dormire apud amicos, neque amare aut potare, neque ullam pro mea libidine rem agere patiebaris! (122) Omnia tuis durissimis legibus prescripta mihi erant, omnia tuo imperio prefinita, nihil voluisti mihi esse non vetitum, nisi quod diu ac multis precibus exorassem. Tandem abiisti, barbate! (123) Iam tandem apud me omnium voluptatum erit arbitrium et modus, ac vivam profecto meo iure, non aliorum censura. Quid est amplius tuos illos vultus truces ac furibundos ut verear?». POLYTROPUS. Hui, qualem filium predicas! (124) NEOPHRONUS. Hei mihi! Cepi idcirco nonnihil collacrimare atque his verbis inquam: «Ha, fili infelix! Ah, insane adolescens! que tibi res gravis et acerbissima videri 19 Il latino «barbatus» può avere il doppio significato di «(sedicente) filosofo» e di «noioso, petulante». 20 Notano giustamente Bacchelli-D’Ascia (p. 381) che il figlio di Neofrono esprime sentimenti analoghi agli iuvenes plautini desiderosi che il padre muoia per poter lasciare l’eredità paterna

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POLITROPO. Hai detto proprio «contentissimo»? I tuoi figli non sentivano forse la tua mancanza, mentre tutti lì intorno, anche gli estranei, piangevano la tua morte con grande spargimento di lacrime? (117) NEOFRONO. L’ho visto, proprio lui, mio figlio, saltare, esultare, tendere le mani al cielo, ringraziare gli dei, mio figlio, dico, perché mi avevano tolto dai piedi. (118) E, per farti meglio capire quanto bene mi voleva, ti riporto in che maniera smodata si rallegrava con se stesso. (119) «O dei ottimi e sommi,» disse il bravo ragazzo «quanto vi devo ringraziare per il fatto di avermi liberato dal durissimo giogo paterno e di avermi reso libero! Che piacere mi avete fatto, santi numi, come avete soddisfatto questo desiderio che nutrivo da tempo! (120) Avete tolto di mezzo mio padre, l’uomo più severo e autoritario di tutti! (121) Finalmente te ne sei andato, e non tornerai più, malvagio! Finalmente non ci sei più, vecchiaccio maledetto! Finalmente non contrasterai più i miei desideri, perfido, che non mi facevi cenare in compagnia, né dormire con gli amici, né amare o bere, non mi permettevi di fare nulla di quello che mi piaceva! (122) Tutto mi era dettato dalle tue durissime leggi, tutto era predisposto dai tuoi ordini, volevi che mi fosse proibito tutto, a meno che io non ti supplicassi a lungo. Finalmente te ne sei andato, barba!19 (123) Finalmente sarò io a decidere quello che mi piace e vivrò come pare a me, non sotto la tutela altrui. Perché dovrei ancora temere le tue espressioni truci e furibonde?»20 POLITROPO. Caspita, che razza di figlio mi descrivi! (124) NEOFRONO. Ahimè! Attaccai a piangere. «Ah, figlio sventurato,» dicevo «giovane screanzato! Quella che all’amante, cfr. per esempio il Filolachete di Most. 233-34 «Utinam meus nunc mortuos pater ad me nuntietur, / ut ego exheredem meis me bonis faciam atque haec sit heres» («Mi portassero la notizia che mio padre è morto, rinuncerei a tutto per istituirla unica erede dei miei beni!»).

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debet, mea hec mors voluptatem prebet? (125) Tune patrem, a quo nimium diligebaris, odisti? Tune optasti mortem eius unius hominis, qui efficiebat ut vitam honestissimam duceres? (126) Mentem dii meliorem, adolescens, tibi dent, nam isthic multa insunt detestanda vitia: non levitas modo sed lascivia, neque lascivia solum sed impietas, neque etiam impietas tantum, sed longe illa deterrima omnium bonorum morum labes et pernicies: ingratitudo in te adversum patrem inest». (127) POLYTROPUS. Quam igitur nunc, mi Neophite, ita intelligo, apud mortales nihil esse insania vacuum, ut asserebas! (128) Qui enim merore affici debent, ii summo gaudio explentur; quibus res minime debuit esse cordi, ii lugent; qui te amare debuere, illi animo in te simulato ac doloso fuere; quos iudicavimus probos, ii erant pessimi; cuius mores esse pudicos arbitrabamur, illa omnium fuit impudicissima. (129) Hen, credite iam nunc fictis lacrimis mulierum, mortales! Adhibete fidem simulatis hominum verbis! Enimvero, cuius benivolentie confidetis, homines, si uxore, filiis inque omni familia tantam perfidiam adinveneritis? (130) An res, vita salusque patrisfamilias exteris quam domesticis, alienis quam uxori et liberis gratior erit aut optatior iudicanda? Tu te cum ab tuis egregie coli, observari amarique opinabare, tum maxime omnibus fuisti odio imprimisque gravis. (131) NEOPHRONUS. Quin etiam et despectus et neglectus, irrisus! Vel servi quidem ipsi mei, quos rebus domini affectissimos esse opinabar, suum in me alienum animum, quamquam ridiculi essent, ostenderunt.

21 Politropo scherza sul nome di Neofrono, che, in quanto morto da poco, è un neofita della saggezza. 22 Per il topos della follia padrona del mondo bisogna rimandare innanzitutto ad Hor. Serm. II 3, 32 e 39-40: «insanis et tu stultique prope omnes […] pudor – inquit – te malus angit, / insanos qui inter vereare insanus haberi» («anche tu sei pazzo e quasi tutti sono stolti

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doveva sembrarti una disgrazia, la mia morte, ti è apparsa una gioia? (125) Tu odi tuo padre, che ti amava tanto? Tu hai desiderato la morte di quell’unico uomo che faceva di tutto perché tu conducessi la vita più retta possibile? (126) Che gli dei ti diano una testa migliore, ragazzo, dal momento che in quella che hai adesso ci sono molti detestabili vizi: non solo la superficialità ma anche la lascivia, non solo la lussuria ma anche l’empietà, e nemmeno solo l’empietà, ma quella che è di gran lunga la peggior peste per i buoni costumi: l’ingratitudine verso tuo padre.» (127) POLITROPO. Come capisco bene ora, mio caro Neofita,21 quel che dicevi prima, che tra i mortali nulla è esente dalla follia!22 (128) Chi dovrebbe essere afflitto dal dolore, impazzisce di gioia; coloro ai quali non gliene dovrebbe importare nulla, piangono; coloro che avrebbero dovuto amarti, finsero e ti ingannarono per tutta la vita; coloro che giudicammo onesti, erano invece i peggiori; avevamo ritenuto pudichi i costumi di colei che fu la più impudica di tutte. (129) Accidenti, mortali, continuate pure a credere alle finte lacrime delle donne! Prestate fede alle false parole degli uomini! Del resto, uomini, su quale vincolo affettivo potete fare affidamento, se avete incontrato tanta perfidia nella moglie, nei figli, tra i familiari? (130) O forse bisognerà credere che la sorte, la vita e la salvezza del padre di famiglia siano gradite e desiderabili più agli sconosciuti che ai familiari, più agli estranei che alla moglie e ai figli? Tu, quanto più pensavi di essere riverito, rispettato e amato dai tuoi, tanto più fosti odiato e ritenuto insopportabile proprio da tutti loro. (131) NEOFRONO. Ero addirittura disprezzato, trascurato, irriso! Anche i miei servi, che credevo affezionatissimi al padrone, dimostrarono la loro antipatia nei miei confronti, benché in modo ridicolo. […] una falsa vergogna ti stringe, / perché temi d’essere preso per matto / in un mondo di matti»).

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(132) POLYTROPUS. Numquid ne aliquid insipide aut proterve inter lamentandum? (133) NEOPHRONUS. Infinita: distorquebant enim sua et ora et voces agrestes, reboabant omnes porticus, tota convicinia obsurdescebat. - Erat tamen mihi aliud in animo quod referrem. Ridebis. (134) POLYTROPUS. Dic, sodes. NEOPHRONUS. Tibine menti est quale in penu habuerim vinum Chium pervetustum? (135) POLYTROPUS. Illud annosum, vehemens, fumiferum, sanguificum, vivificum, a quo nonnunquam discedebamus, ha he!, ebrii? NEOPHRONUS. Enim meministi. (136) POLYTROPUS. Enim, quam quidem nos longos protrahere sermones, sepius pateram suave libantes vicissim degustare. Hui!, vinum bonum, quod quidem tu cum attavis tuis sepius locutum fuisse recitare non desinebas. Hui, vinum bonum, quod avitam, mellitam et maturam eloquentiam saperet! (137) NEOPHRONUS. Pulchre. Rem quidem ridiculam audies, sed vereor ne nimium verbosi simus. (138) POLYTROPUS. Orationem tuam malo esse latam et iocosam quam tristem et properantem; neque enim facile possumus breves esse et festivi. NEOPHRONUS. Recito igitur. POLYTROPUS. Ausculto. (139) NEOPHRONUS. Itaque isthic, quod superis placuit, cum reliqua servorum conventicula dispensator aderat tenens

23 Una ulteriore spia della presenza di Hor. Serm. I 10, 23-24: «At sermo lingua concinnus utraque / suavior, ut Chio nota si commixta Falernist» («ma il discorso combinato con le due lingue [greca e latina] / è più gradevole come un Falerno di marca mischiato con vino di Chio»). La tessera oraziana non è casuale: l’intervento di

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(132) POLITROPO. E come, forse dicendo qualcosa di stupido o sfacciato mentre piangevano? (133) NEOFRONO. Più che qualcosa, moltissime: distorcevano i loro visi e le loro voci da contadini, facevano rimbombare tutti i portici, assordavano tutto il vicinato. – Ma era altro quello di cui avrei voluto parlarti. Senti che ridere. (134) POLITROPO. Dai, racconta. NEOFRONO. Ti ricordi quel vino vecchissimo di Chio23 che tenevo in cantina? (135) POLITROPO. Dici quello d’annata, di carattere, che dava i fumi, faceva sangue, metteva energia, allontanandoci dal quale eravamo spesso – eh eh! – un po’ brilli? NEOFRONO. Bene, lo ricordi. (136) POLITROPO. Accidenti, quanto li tiravamo per le lunghe i nostri discorsi, ma più che parlare ci riempivamo a vicenda le coppe e brindavamo. Ah, che buon vino; tu non smettevi di dire che aveva parlato molto spesso coi tuoi lontani antenati. Ah, che buon vino; sapeva di eloquenza avita, dolce e matura! (137) NEOFRONO. Già. Sentirai una cosa ridicola, ma temo di essere prolisso. (138) POLITROPO. Vorrei che il tuo discorso fosse lungo ma divertente piuttosto che rapido ma triste; infatti non è facile essere concisi e spiritosi. NEOFRONO. Allora ti racconto. POLITROPO. Ti ascolto. (139) NEOFRONO. Piacque agli dei che lì, con quel che restava del gruppo dei servi, ci fosse il cantiniere, il quale Politropo richiama un tema caro al lirico latino, quello del vino come elemento centrale della convivialità e stimolatore di una parola eloquente, cfr. da ultimo R. Fabbri, Orazio e la moralità del bere, in Poesia latina, nuova e-filologia. Opportunità per l’editore e per l’interprete. Atti del Convegno internazionale. Perugia, 13-15 settembre 2007, a cura di L. Zurli e P. Mastandrea, Roma, Herder Editrice e Libreria, 2009, pp. 311-20.

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pateram ante os gravem ac vina omnia degustans: «Hoc» inquiens «vinum quidem etenim nimium vero decrepitum est; illud nempe acidum acetum; isthuc estivum magis videtur. (140) Adsis! heus tu! perterebrato hanc vegetem, aude viriliter mediumque in pectus perstrenue ferrum huic impingito! O stellam, he, hen! At mihi hec vina dentur dulcia, splendida, odorata: huiusmodi esse ambrosiam atque deorum nectar ferunt, atqui hec videlicet magis nature conferunt. (141) Io! o vos, bibite audacter, ponite verecundiam, abiicite tristitiam, repellite omnem animi metum! Memini herum iis verbis apud nos persepius philosophari. (142) Itaque adsit letitia, festivitas, voluptas, iocus! Bibito hoc, dulce hoc! At effunde illud austerum annosumque vinum! Nobis fuit semper omni loco gratior iuventus quam senectus. (143) Quid fit? Heus, bibite! Hec haud animadvertet herus, nequit enim que facimus perspicere. Obclusit oculos herus!». (144) POLYTROPUS. O perfide dispensator! Cum ad te ipse accedebam unicus fidissimus amicus ut potarem, quam poteras minimos cyathos, quam inveniebas minorem phialam apponebas. (145) Nonnunquam etiam perditam penu clavim aiebas usurparasque illud contorta cervice, contracta fronte dicere, nonnisi menstruis kalendis licere sacrum vinum attingere. (146) Itaque amicis negabas ut inter servos effunderes. Parcumne te dixerim qui rem helluonibus servaris? Sed actum de more est. (147) Habet quidem hunc exitum parsimonia, ut que diutius servantur, ea postremo sine gratia effundantur. Tum etiam sepe maior ex parsimoma perditio fit quam ex prodigalitate. 24 Per l’erede (in questo caso il cantiniere) che dissipa le bottiglie migliori, ancora Hor. Carm. II 14, 25-28 «Absumet heres Caecuba dignior / servata centum clavibus et mero / tinguet pavimentum superbo, / pontificum potiore cenis» («L’erede, più degno, consumerà tutto il Cecubo / conservato sotto cento chiavi, / e verserà sul pavimento il vino superbo, / migliore di quello delle cene dei Pontefici»). 25 La slealtà del cantiniere è motivo topico della Commedia nuova greca, ripreso, come ricordano Bacchelli-D’Ascia (p. 385), da

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teneva davanti alla bocca una pesante coppa assaggiando tutti i vini: «Questo vino» diceva «è davvero troppo vecchio, quest’altro è ormai rancido aceto, quello mi sembra più adatto all’estate. (140) Ehi tu, vieni qua! Buca questa botte, sii uomo e conficca con vigore la spada in mezzo al suo petto! O stella, ah, ah! Qui da me i vini dolci, magnifici, profumati: così, dicono, sono l’ambrosia e il nettare degli dei, ma questi vini si confanno di più alla nostra natura. (141) Ehi, voi, coraggio, bevete, deponete il pudore, allontanate la tristezza, via ogni pensiero dal cuore! (142) Ricordo che il nostro padrone spesso con noi filosofeggiava così. Dunque ben venga la gioia, l’allegria, il piacere e il divertimento! Bevi questo, senti che dolce! Butta via quel vino vecchio e d’annata! A noi, in ogni circostanza, fu sempre più gradita la giovinezza che la vecchiaia.24 (143) Che c’è? Su, bevete! Il padrone non lo vedrà, non può vedere quello che facciamo. Il padrone ha chiuso gli occhi!». (144) POLITROPO. Maledetto cantiniere!25 Quando venivo da te per bere, come un fidatissimo amico, mi servivi con i bicchieri i più piccoli possibile, con la coppa la più minuscola che trovavi. (145) A volte dicevi di aver perso la chiave della cantina e ti arrogavi il diritto di dirmi, a collo torto e la fronte aggrottata, che si poteva attingere al sacro vino solo il primo del mese. (146) E così dicevi di no agli amici per elargirlo a profusione ai servi. Avrei dovuto dirti un parsimonioso, tu che conservavi la roba per i dissipatori? Ma è andata come sempre. (147) La parsimonia ha del resto questo esito, che le cose che a lungo si sono conservate, alla fine sono sperperate senza ritegno. Per questo spesso la parsimonia è più dannosa della prodigalità. Plauto, di cui si veda ad esempio Mil. Glor. 836-37: «Alii ebrii sunt, alii poscam potitant. / Bono subpromo et promo cellam creditam!» («Gli uni s’ubriacano, mentre gli altri sono costretti a bere acqua e aceto. Povera cantina, affidata ad un cantiniere e ad un vice di questa fatta!»).

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(148) NEOPHRONUS. Atqui minima hec sunt; tametsi in his multa me habuerit insania, cum parum consulte rebar frugi me dispensatorem habere. (149) POLYTROPUS. Mihi ille nimium tibi esse cordi videbatur: nunquam desinebas eius decrepiti, strumosi, nequam hominis parsimoniam et officium laudare. (150) NEOPHRONUS. Credin me, qui maioribus in rebus fuerim stultissimus, in hac quoque non fuisse refertissimum dementia? Quis vero ignorarit servos omnes imperia non aliam ob causam pati nisi ut aliena ex industria et labore vitam prope inertem et otiosam ducant? (151) Verum hec minima sunt, ut dixi, atque ridicula; illud in se maxime insanie pondus habuit quod tam simplici animo de fide meorum affinium ac benivolentia mihi persuaseram. (152) POLYTROPUS. Enim, inquam, at quali eos in te animo esse coniectabaris? NEOPHRONUS. Plane optimo, affectissimo. POLYTROPUS. Id fortassis quod et ipsi lugebant? (153) NEOPHRONUS. Quin immo, quo sine lacrimis eos primum perstare intuebar, eo virilem ipsos animum gerere opinabar ac dignos laude putabam, quod meum vite cursum absolutum ferrent moderate: (154) nam id quidem officii erat gravitatem servare; diligentie, ad rem pervigiles et accuratos esse; prudentie, maturitatem preferre ac non dolere ubi turpitudo minime adsit. (155) Idcirco filiis meis quod talibus gravissimis essent commendati viris, optime consultum arbitrabar. POLYTROPUS. Bonam in partem id accipiebas. NEOPHRONUS. Recte sane. Verum isthuc quidem fuit non vacuum morbo. (156) POLYTROPUS. Itaque apud mortales ipsa etiam gravitas ac virtus aspersa insania est? 26 È il tema della follia universale caro all’Alberti, che ritroveremo nell’Elogio della follia di Erasmo e nel teatro di Shakespeare

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(148) NEOFRONO. Ma queste son cose di poco conto; piuttosto la vera follia che mi possedeva era credere, con poca avvedutezza, di avere un cantiniere onesto. (149) POLITROPO. Mi pareva che tu ce lo avessi troppo a cuore: non la smettevi mai di lodare la parsimonia e lo zelo di quel vecchio scrofoloso e lazzarone. (150) NEOFRONO. Credi forse che io che son stato così sciocco nella gestione delle cose importanti, non sia stato totalmente folle anche in questa circostanza? Chi ignora che tutti i servi obbediscono non per altro motivo che per condurre una vita del tutto inerte e oziosa sfruttando il lavoro altrui? (151) Ma queste, come ho detto, son cose di poco conto, e da ridere; la cosa più grave di questa assurda follia è che, ingenuamente, mi ero convinto della fedeltà e dell’affetto dei miei parenti. (152) POLITROPO. In effetti; cosa credevi che provassero per te? NEOFRONO. Un grande affetto. POLITROPO. Questo forse perché anche essi piangevano? (153) NEOFRONO. Anzi, proprio perché li vedevo stare in piedi senza lacrime, credevo avessero un animo coraggioso e fossero degni di lode, dal momento che sopportavano con moderazione la mia dipartita; (154) rientrava infatti fra i loro doveri conservare la dignità; fra le loro cure quella di essere padroni della situazione; la saggezza voleva che mostrassero maturità e non si dolessero dal momento che non c’era niente di vergognoso. (155) Perciò mi sembrava un’ottima cosa che i miei figli fossero affidati a uomini seri come quelli. POLITROPO. Insomma, vedevi il lato buono. NEOFRONO. Esatto. Ma anche stavolta c’era qualcosa di malsano. (156) POLITROPO. E così presso i mortali anche la dignità e la virtù sono intrise di follia?26 prima, di Pirandello poi, per cui si veda Cardini, Alberti o la nascita dell’umorismo, ma anche Scianatico, L’esperienza della follia.

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NEOPHRONUS. Ipse fui insanus, qui improbos probos putarim; at illi fuere flagitiosissimi ac scelestissimi. (157) POLYTROPUS. Ergo virtus apud mortales toga sceleris et flagitii velum est? Itane omnes perverse insaniunt? (158) NEOPHRONUS. Hoc tibi persuadeas velim, in animis atque mentibus hominum ita hanc labem manasse ita longe lateque diffusam esse ut nulla eorum meditatio, nulla percursio, nullum iudicium, nulla institutio, nulla opinio mortalium sit ab imperio stultitie libera. (159) POLYTROPUS. Iam tibi hoc quidem assentior, quod nemo prudens dubitat, omnes vitam agentes admodum esse indoctos et imprudentes. Sed illud expecto, quonam pacto cum gravitate fuerit tua stultitia una cum tuorum affinium scelere coniuncta? (160) NEOPHRONUS. Pulchre, recto. Nam confestim ut me obivisse diem intellexerunt, illi affines mei probi viri, omnes meam in domum anhelantes concursitarunt. (161) Recepti in domum gravem frontem, triste supercilium porrigunt, siccis, ut dixi, oculis, nulla lacrima, veluti qui ad curandam rem magis quam ad collugendum venissent. (162) Itaque sese ostentantes dabant operam ut curiosi rerum custodes ac solertes omnium observatores viderentur; proinde plurima percunctantur, multa nostros per domesticos familiares discunt; postremo quadam arte rogitant legata que sint, an quippiam cuipiam. (163) His inquiunt familiares earum rerum certi nihil habere preter quod ab obsignatoribus furtim audivissent, solos liberos institutos heredes esse, neque fundum neque predium aliquod urbanum cuipiam legatum esse. (164) Que cum affines audissent, magno impetu animi occepere execrari atque acerbissimas penas imprecari mihi; omnium avarissimum, omnium cupidissimum esse me ingratissimumque vociferant…

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NEOFRONO. Ero io ad essere pazzo, io che reputavo probi degli improbi; ma quelli erano disonestissimi e scelleratissimi. (157) POLITROPO. Dunque negli uomini la virtù è la toga della scelleratezza e il velo della disonestà? E tutti impazziscono in questo modo perverso? (158) NEOFRONO. Vorrei persuaderti di ciò, che questa infezione è talmente radicata e diffusa nella testa e nei cuori degli uomini che nessun pensiero, nessun ragionamento, nessun giudizio, nessuna deliberazione, nessuna opinione è immune dal potere della stupidità. (159) POLITROPO. Su questo sono completamente d’accordo con te, anche perché tutti i saggi sanno che i viventi sono privi di cultura e saggezza. Però mi chiedo questo, in che modo poté la tua stupidità andare insieme con la serietà e insieme con la scelleratezza dei tuoi parenti? (160) NEOFRONO. D’accordo, te lo dico. Non appena seppero della mia morte, i miei parenti, quegli uomini onesti, si precipitarono tutti ansiosi a casa mia. (161) Accolti in casa, mostrano la fronte corrucciata, il volto triste, ma gli occhi secchi, come ti ho detto, nessuna lacrima, come se venissero per sbrigare degli affari più che per far le condoglianze. (162) Comportandosi in questo modo cercavano di apparire come gli zelanti custodi dei miei beni e i solerti guardiani di tutti; perciò fanno mille domande e dai domestici apprendono molte informazioni; infine con abilità domandano quale siano le volontà testamentarie, se ci sia qualcosa per qualcuno di loro. (163) I domestici rispondono che non sanno nulla di certo, a parte quello che hanno sentito di soppiatto dagli esecutori, che cioè solo i figli sono stati designati eredi, e che a nessun altro spetta nulla, né un terreno agricolo né un lotto in città. (164) Appena sentono ciò, i miei parenti cominciano ad imprecare rabbiosamente e ad augurarmi castighi tremendi; urlano che sono il più avaro, il più avido, il più ingrato…

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(POLYTROPUS. Hen!). NEOPHRONUS. …quod affines moriens preterierim. (165) POLYTROPUS. An tu? NEOPHRONUS. Ut res est. POLYTROPUS. In te illos usque adeo fuisse ira et odiis commotos? NEOPHRONUS. Magis. (166) POLYTROPUS. Ita inimico, ita acerbo erga te tuos animo fuisse affines? Illine te dictis malis aut execrationibus prosequebantur defunctum, quem vivum colere atque observare soliti erant? (167) NEOPHRONUS. Tum utinam vivum neglexissent, modo in mortuum impii non fuissent, vel ne longius quidem adversus extinctum sua cum iniuria progressi essent! (168) POLYTROPUS. Numquidnam scelerati potuere maius quam sine causa civem benemeritum, affinem extinctum, hominem bonum, honestum execrari? (169) NEOPHRONUS. Longe quidem maiori scelere se contaminarunt. POLYTROPUS. Pompam fortassis turbare funeris aut tuas laudationes sustulere? (170) NEOPHRONUS. Haud quidem id mihi tam fuisset grave quam isthuc fuit quod fecere. Laudationibus enim carere non gravis, ut arbitror, iactura est nisi forte sumus voce preconis aut titulis aut oratione rethorum laudabiles, magis quam virtute ac rebus gestis. (171) Ceterum carere pompis funeralibus quare obsit, non intelligo; fortassis prodest ad parsimoniam. POLYTROPUS. Quid igitur illud est, quod in te amplius affines admiserint? (172) NEOPHRONUS. Rem malam, rem scelestam! Non enim verbis turpissimis ac mordacissimis sat fuit lacerare me, ni insuper longe impiissimi extitissent.

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(POLITROPO. Davvero?) NEOFRONO. ... Che morendo avrei trascurato i parenti. (165) POLITROPO. Dici sul serio? NEOFRONO. Proprio così. POLITROPO. A tal punto l’odio e l’ira li aizzavano contro di te? NEOFRONO. Di più. (166) POLITROPO. I tuoi parenti erano così ostili e risentiti nei tuoi confronti? Da vivo ti avevano sempre onorato e rispettato e ora che eri morto imprecavano contro di te a male parole? (167) NEOFRONO. Magari da vivo mi avessero trascurato, e non si fossero dimostrati empi verso un morto, o perlomeno non avessero continuato a lungo a insultare un defunto! (168) POLITROPO. Che cosa mai potevano fare di peggio quegli scellerati che offendere senza motivo un cittadino benemerito, un parente defunto, un uomo buono e onesto? (169) NEOFRONO. Si macchiarono di una colpa ben più grave. POLITROPO. Disturbarono forse il rito funebre oppure omisero l’elogio? (170) NEOFRONO. Di certo questo non sarebbe stato tanto grave quanto invece quello che fecero. Credo che non sia una gran disgrazia rimanere privi di elogi funebri, a meno che uno non sia lodevole più per la voce del banditore, le iscrizioni o i discorsi degli oratori che per la sua virtù e le azioni compiute. (171) Anche essere privi di un funerale in pompa magna, del resto, non capisco perché sia dannoso; magari si risparmia pure. POLITROPO. Qual è dunque questa ulteriore offesa che i parenti ti hanno recato? (172) NEOFRONO. Che nefandezza, che delitto! Non bastò loro offendermi con parole turpi e violente, si sarebbero dimostrati ancora molto più empi.

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POLYTROPUS. At perge, obsecro, quidnam egere? (173) NEOPHRONUS. At quid censes? nihil preter fortissimi ac strenui viri officium! Militari enim quadam disciplina disposuere aliquos qui aditus observent; (174) ipsi autem meam in bibliothecam irrumpunt atque illic pro virili dedunt sese non ad codices legendos, ut ipsi solebamus, sed ad predam seligendam atque ad omnes que inerant reconditas res eliciendas. POLYTROPUS. Hen! (175) NEOPHRONUS. Omnia provolvuntur, perturbantur, ciste omnes resolvuntur, nihil abditum, nihil occultum, nihil adeo absconditum et obstructum est quod ipsum studio furandi boni affines mei non attingant, evellant, eruant, atque in lucem producant. (176) Omnia prosternuntur. Mea mihi bibliotheca miserandam captorum castrorum speciem admodum prebebat; libri ipsi, olim tersi et compti, nunc provoluti et ab his latronibus agitati, suum casum lugere quodammodo videbantur. (177) «Hei mihi», tum inquam, «infelix cellula, que plenissima quietis et tranquillitatis per me semper fuisti, quas nunc perturbationes iniquissimas pateris! Ex qua ipse summam voluptatem solitus eram capere, quas nunc mihi maximas molestias prebes! (178) Vos vero, libri, qui olim inter manus litteratissimorum amicorum gaudebatis, que infelicitas, ut fedissimorum latronum preda essetis, in hec vos tempora isthic reservavit? (179) Vosque, o perditissimi homines, o scelestissimi affines, qualem iam de vestra in filios pietate mihi expectationem prebetis? Quales possum vos accomodatiori ad predam tempore futuros arbitrari, quos medio in hoc ipso multorum luctu et lacrimis adeo inverecunde predari intuear? (180) Egone vobis parvulos meos caros et commendatos fore censeam, quos omnibus bonis prius expoliastis quam tutelam adivistis? (181) Iam qui vestra ope et suffragio a ceterorum iniuria tuti esse debuere nati mei, iisdem vos ipsis iniurias tam atroces intulistis? (182) Quorum igitur fidem aut pietatem exposcent infortunati filii mei, si

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POLITROPO. Ma continua, ti prego, che cosa hanno fatto? (173) NEOFRONO. E cosa credi? Nient’altro che il loro dovere di uomini forti e coraggiosi! Come seguendo una strategia militare disposero alcuni a presidiare le entrate; (174) loro irrompono nella mia biblioteca e lì si danno, ognuno per quel che può, non a leggere i codici, come di solito facevo io, ma a saccheggiare, tirando fuori tutte le cose che lì erano state nascoste. POLITROPO. No! (175) NEOFRONO. Rovesciano tutto, tutto mettono a soqquadro, aprono tutte le casse; non c’è oggetto, per quanto ben nascosto, coperto, occultato, segregato che i miei bravi parenti, con la loro brama di rubare, non trovino, scovino, strappino e riportino alla luce. (176) Non risparmiarono nulla. La mia biblioteca mi sembrava un miserabile accampamento devastato; anche i libri, prima puliti e ordinati, ora rovesciati e scompigliati da quei furfanti, sembravano quasi piangere per la loro sventura. (177) «Ahimè,» dissi allora «povero studiolo, che grazie a me fosti sempre pieno di quiete e di tranquillità, quali ingiusti sconquassi devi ora sopportare! Studiolo che mi davi sempre tanta gioia, e che ora invece sei motivo di tanto dolore! (178) E voi, libri, che un tempo ve la passavate tra le mani di amici coltissimi, che disgrazia è stata essere conservati fino ad oggi, per cadere preda di indegni furfanti? (179) E voi, uomini sciagurati, parenti scellerati, che speranza mi date di prendervi cura dei miei figli? Cosa posso pensare che arriviate a razziare in futuro, in un momento più propizio, voi che ho visto razziare ignominiosamente tra il dolore e le lacrime di molti? (180) Dovrei credere che vi staranno a cuore i miei figli che vi ho raccomandato, e che voi avete depredato dei loro beni ancor prima di assumerne la tutela? (181) Voi arrecate atroci offese proprio a coloro, i miei figli, che grazie a voi avrebbero dovuto sentirsi protetti dalle offese altrui? (182) Di chi potranno fidarsi i miei sfortunati figli, se, quasi ancora in grembo al padre, non

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affinium perfidiam atque crudelitatem in ipso pene patris gremio effugere non licuerit? En, mores et disciplinas, quibus adolescentulos institui ac erudiri a vobis oporteat!». (183) POLYTROPUS. Quid tu? Id ita futurum an non existimabas? NEOPHRONUS. Ne id quidem ausus fuissem suspicari, ita me illi quidem in vita colebant atque observabant. (184) POLYTROPUS. Ergo id, ignave, non perpendebas, assentationibus illis aliud nihil agi tecum nisi ut ex te aliquid extorquerent? (185) NEOPHRONUS. Haud quidem ulla eius rei mihi poterat in mentem suspitio incidere: meis enim moribus aliena ingenia pensitabam. (186) Atqui modo neque hoc mihi tam fuit acerbum, quod viderim asportari codices adversarios ac libros omnes resque omnes domesticas rapi ac distrahi, quam fuit illud longe acerbissimum ob quod ita sum dolore affectus, mi Polytrope, ut vix possim eam rem sine lacrimis animo repetere. (187) O labores hominum inanes! O cure inutiles! O spes fallaces! O frustra suscepte vigilie! O studia et opera mortalium ieiuna, inania, imbecilla, futilia nullamque ad perpetuitatem apta, nunquam duratura! (188) POLYTROPUS. Dii boni, quanta me expectatione replesti! Quales narrabis affines ultimis barbaris immaniores, si aliquid habueris, quod execrationibus in mortuos, latrocinio in vivos existat peius? 27 In questa invettiva c’è quasi sicuramente un risvolto autobiografico: l’ossessione per la perfidia dei parenti che, dopo la morte del padre di Battista, avrebbero dovuto preservare il patrimonio familiare a favore dei figli, attanaglia l’Alberti, che ne fa una sorta di topos il quale attraversa gran parte della sua opera, come ad esempio Erumna. 28 Il latino «adversarios» vale «brogliaccio», «libro di appunti» nell’accezione utilizzata da Cic. Rosc. Com. 6. 29 Si tratta di un’eco del celebre incipit del racconto della distruzione di Troia fatto da Enea alla regina Didone in Aen. II 3-13 «Infandum, regina, iubes renovare dolorem […] Quis talia fando / Myrmidonum Dolopumve aut duri miles Ulixi / temperet a lacrimis?

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possono sfuggire alla crudeltà e alla perfidia dei parenti?27 Ahimè, ecco i costumi e gli insegnamenti che avreste dovuto impartire ai giovani!» (183) POLITROPO. E tu? Pensavi che sarebbe andata così o no? NEOFRONO. Non avrei osato neppure sospettarlo, tanto quelli in vita mi onoravano e mi rispettavano. (184) POLITROPO. Non ti veniva il dubbio, ingenuo, che quelle adulazioni mirassero ad altro che a spillarti qualcosa? (185) NEOFRONO. Non avrebbe mai potuto attraversarmi la mente alcun sospetto: prendevo infatti i miei costumi come metro di valutazione anche per quelli degli altri. (186) E il dolore più grande non fu tanto perché vedevo portare via i miei codici, gli appunti28 e tutti i volumi e vedevo razziare tutti gli altri oggetti domestici, quanto per un altro fatto dolorosissimo e per il quale sono talmente afflitto, Politropo mio, che a stento riesco a parlarne trattenendo le lacrime.29 (187) O fatiche inutili degli uomini! O preoccupazioni vane! O fallaci speranze! O notti passate invano a studiare! O studi e attività dei mortali, vani, inutili, inani, fragili, impotenti e periture!30 (188) POLITROPO. Santi numi, mi hai riempito di curiosità! Cosa mi racconterai ancora di questi parenti più disumani dei peggiori barbari, che sia peggio delle infamie contro i morti e della razzia a danno dei vivi? […] quamquam animus meminisse horret luctuque refugit, / incipiam» («Mi chiedi, o regina, di rinnovare un dolore indicibile […] Chi mai a raccontarli [quei fatti], mirmidone o dolope o soldato del duro Ulisse, frenerebbe le lagrime? […] sebbene l’animo inorridisca al ricordo e sempre si sia abbandonato al pianto, / comincerò»), riverberato pure da Dante nei celeberrimi episodi di Paolo e Francesca (Inf. V 124-26) e del conte Ugolino (Inf. XXXII 4-9). 30 Cfr. Cic. Mil. 94 («O frustra, inquit, mihi suscepti labores! O spes fallaces et cogitationes inanes meae!»); Cic. De or. III 7 («O fallacem hominum spem fragilemque fortunam et inanis nostras contentiones, quae medio in spatio saepe franguntur et corrunt aut

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(189) NEOPHRONUS. Hei mihi! POLYTROPUS. Hau! desine iam collacrimari. (190) NEOPHRONUS. Desino, posteaquam sic sorte quadam ab ipsis diis est hominibus datum ut que instituant mortales queve agant ea omnia sint vana, levia, caduca ac nullius penitus pretii putanda. (191) POLYTROPUS. Tune id censes? NEOPHRONUS. Profecto sic censeo: nam video que diuturna homines futura existimant, que eternitati commendasse credunt, ea omnia subito occidunt, repente deficiunt, e vestigio abolentur. (192) Rebus quidem humanis non fata modo ac fortuna obstat, verum et homines ipsi hominibus multo perniciosissimi sunt. (193) POLYTROPUS. Quamquam id ita mihi, quod ais, esse persuaderi possit, non tamen satis intelligo quo te his verbis conferas. (194) NEOPHRONUS. Exciditne tibi memoria qua ipse vigilantia, laboribus atque assiduitate me ad conscribendos annales dederim? (195) POLYTROPUS. Teneo id, teque laude ex ea re dignissimum puto, quem ad omnes memoria dignas res investigandas, colligendas ac perdiscendas nunquam vidi esse non solertissimum atque diligentissimum. (196) NEOPHRONUS. Me stultissimum potius, qui tanta opera, tanta cura tamque multa diligentia in ea re frustra etatem consumpserim meam. (197) POLYTROPUS. Frustrane id factum quod fecisti arbitrer, dicta preclara et facta egregia ita tradere litteris, ut cum tuis ornamentum ac nomen attuleris, tum relinqueres posteris quo tuis laboribus possent eruditiores honestioresque evadere? ante in ipso cursu obruuntur, quam portum conspicere potuerunt!»); Pers. I 1 («O curas hominum! O quantum est in rebus inane!»). È, come nota Cardini (p. 584) il ribaltamento del mito classicistico della sopravvivenza attraverso i libri, cui l’Alberti aveva dimostrato di

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(189) NEOFRONO. Povero me! POLITROPO. Dai, smetti di piangere. (190) NEOFRONO. Smetto, dato che dagli dei stessi è dato in sorte ai mortali che tutto ciò che essi progettano e realizzano è vano, futile, caduco e di nessun valore. (191) POLITROPO. La pensi così? NEOFRONO. Esattamente così: vedo infatti che tutte le cose che gli uomini credono che dureranno e affidano all’eternità, subito muoiono, improvvisamente vengono meno, in un attimo sono cancellate. (192) E non solo il caso e la fortuna intralciano le azioni umane, ma gli uomini stessi si fanno danni gli uni con gli altri. (193) POLITROPO. Anche se tu riuscissi a convincermi di quello che dici, non capisco dove tu voglia arrivare con questi discorsi. (194) NEOFRONO. Ti ricordi ancora con quanta determinazione, con quanti sacrifici e notti insonni mi diedi a scrivere degli annali? (195) POLITROPO. Lo ricordo, e perciò ti considero degno di grande stima, ché ti ho sempre visto solertissimo e diligentissimo nel trovare, raccogliere e mandare a memoria avvenimenti meritevoli di essere ricordati. (196) NEOFRONO. Sono stato sciocchissimo, piuttosto, a spendere la mia vita in quest’opera, profondendo tanta passione, attenzione e scrupolo, il tutto inutilmente. (197) POLITROPO. Inutilmente dovrei credere che tu hai fatto ciò che hai fatto, tramandare attraverso le lettere i detti famosi e le azioni egregie, così da guadagnare ai tuoi onore e prestigio e da lasciare ai posteri un’opportunità di diventare, grazie alle tue fatiche, più dotti e virtuosi? credere in una delle sue prime operette, il De commodis litterarum atque incommodis (1428 ca.). Del resto l’ideale di vita del fu Neofrono coincideva con quello del letterato pronto ad ogni sacrificio descritto proprio nel trattatello giovanile (Cardini).

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(198) NEOPHRONUS. Frustra, mi Polytrope, frustra omnia. POLYTROPUS. Ad qui id? (199) NEOPHRONUS. Quoniam existimaram meis vigiliis futurum ut amplissima premia redderentur, lucubrationes meas posteris non ingratas fore opinabar: quin (demens!) etiam coniectabar illis nostris commentariolis meum immortalitati nomen commendasse. (200) At quot annis eo meme laborioso confeci opere, quam vastas vigilias, quantas noctes insomnes pertuli, quotiens etiam necessitati mee bonas ademi cenas! (201) Me ideo ignavum qui animo induxeram officium viri esse famem, sitim, somnum, frigora caloresque despicere ac reliqua omnia dura perpeti, modo inter libros degerem totosque dies atque integras, eternas noctes litteris consumerem! (202) Quam idcirco nunc manifeste ut fuerim inconsultus intelligo, qui cum me ad scribendum aut legendum contuleram, non rei familiaris cura, non lucri occasio, non ratio negotiorum aut ulla vis poterat a lucerna et libris abstrahere! (203) Tanti in litteris versari existimabam ut fortunas meas omnes ac pubblica et domestica ea quevis negotia amicorumque sermones diesque festos voluptatesque omnes neglexerim. (204) POLYTROPUS. Profecto isthuc vereor ne, cum velis persuadere ita omnia fieri apud mortales frustra et per insaniam, tum te quidem apud nos hic longe insanissimum prebeas. (205) Egone mentis compotem diiudicem eum, qui dum rerum preclarissimarum commentariis edendis sese dederit, ad stultitiam id sibi ascribi velit, quod summe quidem prudentie officium a quovis hominum diiudicari oporteat? 31 Il tricolon anaforico ben esprime la parodia di quel titanismo intellettuale che Petrarca, sulla scorta del celeberrimo passo dell’Ulisse dantesco di Inf. XXVI 94-96 («né dolcezza di figlio, né la pièta / del vecchio padre, né ’l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta…»), aveva riconosciuto a Dante medesimo, cfr. Fam. XXI 15, 8: «In quo illum satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium

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(198) NEOFRONO. Inutile, Politropo caro, tutto inutile. POLITROPO. Ovvero? (199) NEOFRONO. Perché credevo che alle mie veglie il futuro avrebbe corrisposto grandissimi premi, che le mie notti di studio sarebbero risultate grate ai posteri: anche speravo (folle!) con quei commentari di affidare il mio nome all’immortalità. (200) Per quanti anni mi son fatto in quattro in questo lavoro faticoso, quante lunghe veglie, quante notti insonni ho affrontato, quante volte ho rinunciato a ottime cene per senso del dovere! (201) Che stupido a convincermi che fosse dovere dell’uomo sopportare la fame, la sete, il sonno, infischiarsene del freddo e del caldo e affrontare tutte le difficoltà, pur di trascorrere la vita tra i libri e spendere tutte le giornate, e notti intere e interminabili, nello studio. (202) Solo ora capisco chiaramente quanto sono stato stupido nel darmi totalmente a leggere e scrivere, quando né un impegno di famiglia, né un’occasione di guadagno, non il senso degli affari31 o altra forza poteva togliermi dalla lucerna e dai libri! (203) Consideravo di tale importanza gli studi da trascurare ogni impegno, pubblico o privato, ogni sorta di affare, le conversazioni con gli amici e tutte le feste e i piaceri. (204) POLITROPO. A questo punto temo che tu, volendo convincere che tutto tra gli uomini accade inutilmente e sotto il dominio della follia, ti mostri adesso qui con me il più folle di tutti. (205) Dovrei giudicare sano di mente colui che, nel mentre si prodiga per dare alla luce dei commentari di fatti eminenti – impresa che si giudicherebbe di grande saggezza da parte di chiunque – vuole ascrivere tale progetto alla follia? iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret» («E in questo non saprei abbastanza ammirarlo e lodarlo; poiché non l’ingiuria dei concittadini, non l’esilio, non la povertà, non gli attacchi degli avversari, non l’amore della moglie e dei figliuoli lo distrassero dal cammino intrapreso»).

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(206) NEOPHRONUS. Quin tu cave ne, cum existimes iudicia hominum esse non negligenda, tum hic longe te delirissimum prebeas. (207) Tune sapientem hunc putabis, qui acri assiduaque opera et flagranti studio et sempiterno labore et pertinaci contentione in ea re perstiterit, ex qua quidem neque fructus neque mercedem neque premia ulla excipiat? (208) Tune illum prudentem iudicabis, qui ea in re sese per omnem etatem conterat, in qua nihil preter anxietatem, curam, labores atque infinitam animi coagitationem comparet? (209) Hec mea iam sententia est et, ut arbitror, non inepta: quisquis utilissimas, iucundissimas atque commodissimas alias res pessundederit aut despexerit eo animo ut arduam, asperam, inutilem incommodamque provinciam gerat, is homo, tametsi ex sententia rem efficiat, insanus tamen non secus est ac si absque ulla utilitate aut laude velit extremam atque difficilem nimis fortitudinem experiri. (210) Sublato enim emolumento, quis prudens negotium aliquod uspiam suscipiet? Quod si emolumenti loco damnum ac dispendium redundet, quis id, stultus, non longe aufugerit? (211) POLYTROPUS. An vero studiosos litterarum huiusmodi esse censes? NEOPHRONUS. De reliquis, qui illecebris litterarum capti ac detenti sunt, nihil habeo quod referam. (212) Sint illi quidem prudentes, ut existimantur, et docti ut haberi volunt. De me autem sic possum ipse profiteri: quos ego dies dedi litteris, quas operas, quidquid meditationis in libros contribui, id plane postremo didici fuisse inutile omnino ac perditum. (213) POLYTROPUS. Rem incredibilem narras: nam id semper audivi, otiis litterarum nullum esse negotium anteponendum. Cum enim prosunt littere his qui inter eas versantur ad animi voluptatem, tum et posteros plurimum adiuvant ad

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(206) NEOFRONO. Stai attento a non mostrarti completamente pazzo mentre dai pieno credito ai giudizi umani. (207) Reputi saggio chi con assiduità, determinazione, tenacia, lavorando alacremente giorno e notte persegue un progetto dal quale non ricaverà né frutti né soldi né premi? (208) Ritieni avveduto chi spende tutta la propria vita a fare una cosa che gli darà solo ansia, apprensione, fatica e un continuo turbamento d’animo? (209) Io la penso così e, credo, a ragione: chiunque trascuri o disprezzi le cose utilissime, piacevolissime e gradevolissime per sobbarcarsi un compito arduo, difficile, inutile e scomodo, quest’uomo, anche se riesce nel suo intento, è pazzo, come chi, di là da ogni utilità o vantaggio, volesse saggiare con una prova estrema il proprio coraggio. (210) Se togli il premio, chi mai, dotato di senno, affronterà la fatica?32 Se invece del premio ne deriva danno e perdita, chi mai, se non il folle, non scapperà via? (211) POLITROPO. E tu credi che i letterati siano fatti così? NEOFRONO. Degli altri che son presi e ammaliati dal fascino delle lettere non so che dire. (212) Vada pure che siano saggi, come li si reputa, e colti, come vogliono essere considerati. Per quanto mi riguarda posso dire apertamente che ho capito essere stati completamente inutili e buttati via tutti quei giorni spesi negli studi, come lo sforzo intellettuale profuso nello scrivere libri. (213) POLITROPO. Dici una cosa incredibile: infatti ho sempre sentito dire che nessuna attività è da anteporre all’ozio letterario. Infatti, da una parte le lettere giovano a chi vi si dedica perché arrecano piacere, dall’altra giovano assai ai posteri perché incrementano conoscenza e sapere. 32 Come sottolinea Cardini (p. 584), il rimando più che probabile è a Iuv. X 141-42: «Quis enim virtutem amplectitur ipsam, / praemia si tollas?» («Chi abbraccia infatti la virtù per se stessa, se ad essa togli ogni prospettiva di guadagno?»).

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cognitionem et doctrinam. (214) Atqui veto hoc pacto te ad pristinas, quas recitas, insanias tuas redire. Itaque desine, ne lacrima, non ero tam pertinax tecum ut non assentiar te in vita fuisse dementissimum quem defunctum video iam delirissimum. Desine, inquam. (215) NEOPHRONUS. At enim desino: actum est. Abite hinc, tristes memorie! Dolet quidem maxima de spe decidisse, tamen non efficietis ut litteras et sapientiam amasse peniteat me. (216) POLYTROPUS. Nunc te laudo. Sed illud, queso, recita quonam pacto ea de spe excidisti. NEOPHRONUS. Satius est res tristes non refricare animo. (217) POLYTROPUS. Hoc abs te quero, Neophite: tuone aliquo insigni errore aut egregia negligentia te deceperit spes? NEOPHRONUS. Non te plane intelligo. (218)POLYTROPUS. Num res tuas supra vires affectaris, num desidia et inertia tua res ipse e manibus effugerint rogo. (219) NEOPHRONUS. Quoad in me fuit, nunquam ipse non laudata in primis optavi, semper affectavi honesta ac effeci semper ut neque spes neque expectatio mea ab officio viri aliena videri posset. (220) POLYTROPUS. Quid igitur est quod aliorum facinus hic apud inferos merorem iniecerit tibi? (221) NEOPHRONUS. Prorsus dixti preclare: sapis, Polytrope. Ipsam igitur rem exponam breviter. POLYTROPUS. Sequere. (222) NEOPHRONUS. Recitavi quo pacto affines mei, viri

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(214) Perciò non ti permetto di tornare a parlare di «follie» come facevi prima. Dunque smettila, e non piangere, non sarò tanto irremovibile da non concordare con te quando dici che in vita sei stato folle se vedo che da morto ancora deliri. Smettila, ti dico. (215) NEOFRONO. Infatti la smetto: ormai è finita. Andatevene, tristi ricordi! Che dolore quando si infrangono le grandi speranze, ma non riuscirete a farmi pentire di aver amato le lettere e la filosofia.33 (216) POLITROPO. Ora parli bene. Ma spiegami, ti prego, in che modo le tue speranze si sono infrante. NEOFRONO. È meglio non rinvangare i tristi ricordi.34 (217) POLITROPO. Ti chiedo questo, Neofita: la speranza l’hai perduta per un tuo grossolano errore o una evidente negligenza? NEOFRONO. Non ti capisco bene. (218) POLITROPO. Ti chiedo se hai affrontato un’impresa superiore alle tue forze, oppure se l’impresa ti è sfuggita di mano per tua trascuratezza o pigrizia. (219) NEOFRONO. Per quanto stava in me, ho sempre messo al primo posto le cose lodevoli, ho sempre ricercato le cose oneste e ho sempre fatto sì che i miei obiettivi e i miei desideri rispondessero al dovere di un uomo. (220) POLITROPO. Che c’è allora, quale delitto commesso da altri ti getta in un tale sconforto proprio qui negli inferi? (221) NEOFRONO. Hai detto proprio bene: sei saggio, Politropo. Ti racconterò brevemente. POLITROPO. Vai. (222) NEOFRONO. Ti ho detto in che modo i miei parenti, 33 Si veda l’effetto che ha sorbito la reprimenda di Politropo su Neofrono, che qui compie una palinodia (o ritrattazione) di quanto appena detto. 34 Cfr. n. 29.

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probatissimi, robusto animo ad predam rerum nostrarum, dispositis custodiis proruperint. (223) POLYTROPUS. Narrasti bibliothecam illos introisse, omnia perturbasse, asportasse codices. (224) NEOPHRONUS. Equidem isthuc ipsum effecere. Aderant enim illic et Greci et Latini complures ornati libri, argento splendidi, lautissimi, quos iidem ipsi affines cum in medium omnes posuissent, is qui etate grandior, auctoritate prestantior, sic orsus est loqui: (225) «Si quando apud vos iustitia equitasque valuit, socii, hoc tempore maxime vos, ut modestissimi sitis, exhortor: quam rem si estis facturi, ut debetis, sinite me hanc copiam librorum dividere, nam curabo ne cui plus quam alteri sorte obveniat». (226) Placuit sententia; idcirco pares librorum cumuli pro predonum numero constituuntur ac deinde, ut sors tribuit, suam quisque portionem sortitus est. (227) POLYTROPUS. Vidistin iustissimos affines, qui iustitie officiis utuntur cum predantur? (228) NEOPHRONUS. Quos igitur tu, dum predam agunt, iustitie obsequi videas, quanta eos pietate illic fore preditos existimas, ubi sedentes iurati causam iudicent? POLYTROPUS. Maxime! (229) NEOPHRONUS. Itaque, divisis codicibus, eadem

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Con un senso tutto ironico, ovviamente, oltre che amaro. Questa esortazione è, come hanno notato Bacchelli-D’Ascia (p. 401) e poi Cardini (p. 585), una parodia dell’elogio ciceroniano della giustizia contenuto in De off. II 40, dove si dice che il potere della giustizia è tale che persino i briganti non possono farne a meno: «Atque iis etiam, qui vendunt, emunt, conducunt, locant, contrahendisque negotiis implicantur, iustitia ad rem gerendam necessaria est, cuius tanta vis est, ut ne illi quidem, qui maleficio et scelere pascuntur, possint sine ulla particula iustitiae vivere. Nam qui eorum cuipiam, qui una latrocinantur, furatur aliquid aut eripit, is sibi ne in latrocinio quidem relinquit locum; ille autem, qui archipirata dicitur, nisi aequalibiliter praedam dispertiat, aut 36

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quegli uomini così onesti, predisposti dei guardiani, si gettarono con notevole coraggio35 a fare incetta delle nostre cose. (223) POLITROPO. Mi hai detto di come fossero entrati nella biblioteca, avessero messo tutto a soqquadro e portato via dei codici. (224) NEOFRONO. Fecero esattamente così. C’erano lì moltissimi libri greci e latini decorati, brillanti d’argento, assai preziosi, che i miei parenti posero tutti insieme in mezzo alla stanza; allora il più anziano, che aveva più autorità, così cominciò a parlare: (225) «Se vi stanno a cuore equità e giustizia, vi esorto, compagni, ad essere ora particolarmente prudenti: se lo sarete, come dovete, mi lascerete dividere questa gran quantità di libri, e io mi impegnerò affinché nessuno riceva una parte più grande di un altro».36 (226) La proposta piacque; perciò vengono fatte tante pile di libri uguali quanti sono i predoni e poi ciascuno prende secondo sorteggio la sua parte. (227) POLITROPO. Hai visto che i giustissimi parenti, mentre fanno razzie, rispettano gli obblighi della giustizia? (228) NEOFRONO. Se osservano così la giustizia mentre fanno razzie, di quanto rispetto per essa pensi che sarebbero dotati ove sedessero come giudici in una causa? POLITROPO. Moltissimo! (229) NEOFRONO. E così, una volta spartiti i codici, interficiatur a sociis aut relinquatur. Quin etiam leges latronum esse dicuntur, quibus pareant, quas observent» («Per chi vende e compera, affitta ed appalta, ed è occupato in affari, la giustizia è necessaria per sbrigare i suoi traffici, essendone tale l’efficacia, che nemmeno coloro, che si pascono di bricconate e di delitti, potrebbero vivere senza una qualche particella di giustizia. Chi infatti ruba o rapina qualcosa a qualcuno di coloro nella cui banda fa anch’egli il ladro, è estromesso dalla banda stessa; e colui che è detto il capo dei pirati, è o soppresso o abbandonato dai suoi compagni se non divide equamente la preda. Che anzi si dice che vi siano perfino delle leggi dei briganti, che essi obbediscono ed osservano»).

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hac illa lege signa, tabulas pictas ac huiusmodi reliquas, quibus oblectari solitus eram, res meas in medium congerunt atque partiuntur. (230) Aderant quoque illic libelli commentariorum meorum inchoati, impoliti atque idcirco a predonibus neglecti. Vide quid sors afferat. (231) Nam mihi quidem hac in re tametsi partim temporum nostrorum calamitas deploranda videretur, quod etate hac nostra tanta ad emendandum libellos esset eruditarum aurium penuria, partim mea mihi negligentia improbanda videbatur, quod libellos, quoad in me fuit, non diligentius emendatos reliquerim, satius tamen esse ducebam si id essem assecutus ut libelli ipsi domi apud filios meos, utcumque essent, remanerent. (232) Nam sic futurum opinabar, ut filii mei longe magis quam affines, et affines quam externi, aliquando opusculis nostris in lucem prodendis tanquam ab hereditaria patris laude delectarentur. (233) POLYTROPUS. Ita iudicari ac fieri oportuit: sibi enim ornamentum comparant qui patrum et maiorum suorum laudes colunt atque concelebrant. (234) NEOPHRONUS. Recte quidem. At forte fortuna illic etiam vasculum quoddam miri operis quam artificiosissime elaboratum aderat, quod ex Alexandria usque amicus meus Crantor plenum unguenti odoris suavissimi paucis ante diebus mihi dono deferri iusserat; quod quidem cum satis illi demirati essent, lege quoque dividundum unguentum pretulerunt. (235) POLYTROPUS. Laudandi, quod equitate minimis quoque in rebus delectarentur. NEOPHRONUS. Me idcirco miserum! At quonam pacto sine lacrimis tantam potero calamitatem recensere? 37 Si allude all’abitudine da parte degli umanisti di far circolare in una ristretta cerchia di amici le proprie opere prima di pubblicarle, al fine di ricevere giudizi, suggerimenti, consigli. Alcuni umanisti vincolavano addirittura la pubblicazione delle loro opere al placet di amici o colleghi che giudicavano particolarmente autorevoli. La deplorazione dello stato presente della letteratura, che Alberti

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misero in mezzo e si divisero, sulla base dello stesso principio, le statue, i quadri e altri manufatti di cui ero appassionato. (230) Lì c’erano anche i fascicoli iniziati dei miei commentari, ancora da rivedere e perciò di nessun interesse per i predoni. Senti cosa successe. (231) Infatti, a proposito di questa mia opera, sebbene in parte deplorassi le miserie dei nostri tempi – in cui c’è tanta penuria di orecchie esperte capaci di revisionare le prime redazioni37 – e in parte invece incolpassi la mia pigrizia – per non averli lasciati corretti, per quanto potevo, più diligentemente – tuttavia pensavo che mi sarebbe bastato che essi restassero a casa, anche così incompleti come erano, presso i miei figli. (232) Infatti mi immaginavo che un giorno i miei figli più probabilmente che i parenti, e i parenti più probabilmente che degli sconosciuti, si sarebbero compiaciuti nel pubblicare i miei libretti come lodevole eredità lasciata dal padre. (233) POLITROPO. Così bisognava pensare, così doveva avvenire: infatti acquista meriti per sé chi coltiva il culto dei padri e degli avi e ne celebra le lodi. (234) NEOFRONO. Giusto. Casualmente, lì c’era anche un vasetto di fattura mirabile, modellato con grande perizia, pieno di un unguento dall’odore dolcissimo, che il mio amico Crantore38 pochi giorni prima mi aveva spedito come regalo da Alessandria; dopo averlo un po’ esaminato, stabilirono di dividere anche quello col solito principio. (235) POLITROPO. Lodevoli, cercavano la giustizia anche nelle piccole cose. NEOFRONO. O povero me! Come potrò ripercorrere questa sventura senza piangere? riprende forse dai Dialogi ad Petrum Paulum Histrum di Leonardo Bruni (p. 58), verrà ribadita pochi anni dopo da Alberti stesso nel proemio, indirizzato a Filippo Brunelleschi, del De pictura. 38 Crantore (330-270 a.C.) è un celebre filosofo accademico, discepolo di Senocrate e maestro di Arcesilao, elogiato a più riprese, come ricorda Cardini (p. 585), nelle Tusculanae disputationes ciceroniane.

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(236) POLYTROPUS. Hem! iterum ad insaniam redis? NEOPHRONUS. O me infelicissimum! O perniciosissimum munus! O pestiferum unguentum! (237) POLYTROPUS. Quidnam hoc rei est? Num te sentis ipsum maximo morbo insanie exagitari? Quin perge potius rem ipsam dicere, si quid habes quod sis recitaturus. Tantine facis id unguentum? Optabas fortassis venire ad inferos bene unctus? (238) NEOPHRONUS. Hei mihi! ubi rem ipsam audieris, mi Polytrope, collacrimabis. (239) POLYTROPUS. Nequeo tuam hic satis demirari stultitiam, dum ita sit quod dixeris, te quidem maledicta illa in te execrationesque rapinasque illas librorum ac rerum tuarum minimi fecisse; nunc vero tanti Samium aut Alexandrinum vasculum unguenti facias, ac si id solum egre feras tibi esse ereptum. (240) NEOPHRONUS. O superi atque inferi omnes, tuque, mi Polytrope, indulge dolori meo! (241) POLYTROPUS. Ergo tibi indulgendum putabis cum ex industria delires? Non equidem indulgeo ni exuis istas ineptias. Quare iam desine, compesce istas tuas inanes lacrimas! (242) NEOPHRONUS. Gero tibi morem, tametsi meum excedant animum dolores iustissimi. (243) POLYTROPUS. Sapientibus nulla dolendi iusta ratio est. Qui enim litteris et doctrina rerum optimarum satis excultus est, quam animo egritudinem suscipiet? (244) Nonne consilio et ratione pollens rerumque usu et etate plenus ac maturus homo ab se omnes animi molestias abscindendas reiiciendasque putabit? (245) Sed esse hoc venenum malum oportuit, non unguentum, eoque magis nocuum quo tibi non corpus, sed mentem demum egrotam reddiderit.

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(236) POLITROPO. Dai! Torni a impazzire? NEOFRONO. O disgraziato me! O dono funesto! O unguento pestifero! (237) POLITROPO. Che succede? Non senti che sei preda del morbo gravissimo della follia? Piuttosto, se hai qualcosa da raccontare, coraggio, racconta. Davi tanta importanza a questo unguento? Volevi forse venire agli inferi bello unto? (238) NEOFRONO. Ahimè! Dopo che avrai ascoltato il racconto, caro Politropo, piangerai con me. (239) POLITROPO. Continuo a meravigliarmi della tua follia, se è vero quello che hai detto, che non hai dato il minimo peso alle ingiurie e agli insulti contro di te e alla razzia dei tuoi libri e delle tue cose, e ora ti preoccupi tanto di un vasetto d’unguento di Samo o di Alessandria, come se ti dispiacesse solo che ti abbiano rubato questo. (240) NEOFRONO. O dei tutti, inferi e superi, e tu, Politropo caro, abbi pietà del mio dolore! (241) POLITROPO. Dunque credi che dovrei avere pietà di te quando sembra che tu deliri apposta? Non ho alcuna pietà se tu non la smetti con queste inezie. Perciò basta, frena queste tue inutili lacrime! (242) NEOFRONO. Faccio come vuoi, anche se dolori più che legittimi sopraffanno il mio animo. (243) POLITROPO. Per il saggio non c’è motivo legittimo di dolore. Quale malattia può turbare l’animo di chi è sufficientemente erudito nelle lettere e nelle arti liberali? (244) L’uomo pieno di senno ed esperto per età ed esperienza delle cose della vita non penserà forse di doversi liberare da ogni motivo di preoccupazione?39 (245) Ma il tuo doveva essere non un unguento, ma un vero e proprio veleno, tanto più che ti ha fatto ammalare non il corpo ma la mente. 39 Sono motivi stoici di vasta attestazione in Cicerone, come segnala opportunamente Cardini (pp. 585-86); si veda ad esempio Tusc. III 14-15 e 66.

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(246) NEOPHRONUS. An potest ullum esse venenum penitus tam mortiferum aut execrandum, quod cum hoc unguento comparem? (247) Cum possint venena solum vivendi laborem eripere, hoc mihi unguentum ultimum exitium attulit, omnia mea gaudia sustulit, spem omnem meam rupit, confregit, tum laudem, nomen famamque nostram penitus delevit, funditus abolevit. (248) Non igitur mortem attulit que bene viventi nemini eiusmodi esse videri debet ut eam non prompto et volenti animo obpetat, sed omnes vivendi causas labefactavit, omnia vite ornamenta, omnia laborum premia cunctas meritorum meorum laudes eripuit. (249) POLYTROPUS. Dii boni, at qui id? NEOPHRONUS. Nam divisum in partes ut unguentum exciperent, meos commentariorum libellos – o facinus indignum! – dilacerarunt. POLYTROPUS. O rem malam! (250) NEOPHRONUS Dilacerarunt, mi Polytrope, libellos meos, mea manu conscriptos, tantis lucubrationibus evigilatos, magna ex parte excultos, meos libellos dilacerarunt ut unguentum exciperent! POLYTROPUS. O factum sceleste! (251) NEOPHRONUS. Ergo per omnem etatem elaboravi ut eruditissimos cucullos ederem: illic igitur mea studia omnia et vigilie et expectationes mee omnes conciderunt. (252) Pergite, litterati, date operam litteris acrem et, ut facitis, amplam atque assiduam! Conterite studiis vos, edite libros, agite isthac vestra multa et inquieta opera ut facitis, ne eleganter et accurate scripte ad unguentorum et pisciculorum tegmen desint tabernario atque unguentariis charte! 40 Per la gloria come fine della vita dell’uomo Bacchelli-D’Ascia (p. 405) rimandano alla ciceroniana Pro Archia 28, un testo che circolava già da un secolo quando l’Alberti scriveva, vale a dire da quando, nel 1333, Petrarca l’aveva ritrovata a Liegi. 41 È un topos già presente in Mart. III 2, 1-4, come sottolinea Cardini, Alberti e i libri, p. 31.

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(246) NEOFRONO. Ci può essere un veleno tanto mortifero ed esecrando che possa paragonare a questo unguento? (247) Infatti i veleni possono strappare solo la fatica di vivere, questo unguento mi ha portato alla morte estrema, mi ha tolto ogni gioia, mi ha derubato ogni speranza, ha distrutto, annientato, polverizzato il mio nome, la mia dignità, la mia reputazione. (248) Non mi ha portato dunque la morte, che a chiunque ha ben vissuto non apparirà affatto in modo tale da non accoglierla con animo lieto e preparato, ma mi ha tolto ogni motivo di vita, mi ha strappato tutti i lati belli della vita, tutti i riconoscimenti delle fatiche, tutte le lodi dei miei meriti.40 (249) POLITROPO. Santi numi, ma come? NEOFRONO. Una volta fatte le parti, per prendere l’unguento – o delitto orrendo! – strapparono i libretti dei miei commentari. POLITROPO. Che cosa orrenda! (250) NEOFRONO. Strapparono, Politropo caro, i miei libretti, trascritti di mio pugno, frutto di tante notti insonni, in gran parte già revisionati, strapparono i miei libretti per prendere l’unguento! POLITROPO. Che misfatto! (251) NEOFRONO. Dunque ho sgobbato tutta la vita per tirar fuori dei dottissimi cartocci:41 lì sono andati a finire tutti i miei studi, tutte le mie veglie e le mie speranze. (252) Avanti, letterati, date il meglio di voi stessi nelle lettere e, come siete soliti fare, studiate tanto e a lungo! Rovinatevi negli studi, componete42 libri, continuate in questa vostra opera poderosa e irrefrenabile, per fare in modo che ai bottegai e ai profumieri non manchino mai carte scritte in maniera elegante ed accurata per incartarci pesci ed unguenti! 42 Il verbo edere, in Alberti, come ha efficacemente dimostrato Cardini (p. 586), non significa «pubblicare» come nel latino classico, bensì «comporre». L’uso è attestato anche in altri umanisti, cfr. S. Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984, pp. 307, 321-22.

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(253) POLYTROPUS. Adsis, Neophite, adhibe huc animum. Ego etsi hoc perperam ab tuis affinibus factum esse non negem, non tamen est quin te ineptissime hic agere diiudicem ubi hoc loci non desinas animo isto esse meroribus et tristitia gravi; (254) liberas enim atque omni terrenorum pondere vacuas hic esse mentes oportet. (255) Exuenda igitur tibi hec humanorum casuum acerba recordatio est, eoque magis quod in pari causa permultos habeas optimos et probatissimos veteres auctores, quorum opera simili iniuria defecere. (256) Audisti quot apud Grecos quamque multa ac laudatissima librorum volumina in medium protulerint, quorum quidem omnium etate nostra vix nomina extant? (257) Adde his nostros omnes Latinos qui, prope infiniti, infinitos eosdemque optimos libros edidere. (258) Quot poete, comici, tragici, elegi, satiri, heroici: Varus, Ennius, Cecilius, Lucilius, Attilius, Trabeo, Licinius, Turpilius, Gallus, Nevius, Luscius! (259) Sed quid omnes aut poetas aut historicos aut oratores memorem, Accium, Nigidium, Cecilium, Cinnam, Cassium, Lucullum, Laberium, Afranium, Pacuvium, Sulpicium, Hortensium, Cottam, Fabium, Catonem, Pisonem, Fannium, Vennonium, Clodium, Celium, Acros? (260) Quid alios innumerabiles scriptores, quid rhetores apud Ciceronem 43 Cfr. Boet. De cons. phil. II 7, 13: «Sed quam multos clarissimos suis temporibus viros scriptorum inops delevit oblio. Quamquam quid ipsa scripta proficiant, quae cum suis auctoribus premit longior atque obscura vetustas?» («E poi, di quanti uomini celeberrimi ai loro tempi s’è persa la memoria, per mancanza di chi ne scrivesse. Peraltro, a che potrebbero servire gli scritti stessi, dal momento che anch’essi vengono annullati, insieme con i loro autori, dal passar del tempo che a lungo andare tutto travolge nella sua notte?»). Ma, come ricordano Bacchelli-D’Ascia (p. 407), il lamento della perdita dell’eredità classica Alberti poteva trovarlo anche in due autori moderni a lui ben noti: Francesco Petrarca (Rer. Mem. I 16, 5-7) e Leonardo Bruni, Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, p. 55. 44 La lezione Lucretius, che alcuni propongono per questo nome di difficile lettura, è insensata: impossibile infatti che nel 1434 Alberti non avesse ancora letto, o perlomeno avuto notizia, dell’avvenuta

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(253) POLITROPO. Dai, Neofita, ascoltami. Anche se io non nego che i tuoi parenti abbiano agito male, tuttavia credo che tu ti comporti da stupido se continui per questo ad affliggerti anche qui a causa dello sconforto e della tristezza; (254) qui bisogna che la mente sia libera e sgombra da ogni peso terreno. (255) Devi liberarti di ogni ricordo molesto delle vicende umane, tanto più perché in una situazione simile stanno tantissimi e stimatissimi ottimi autori, le cui opere subirono una simile ingiuria.43 (256) Hai sentito quanti autori e quante opere di autori greci furono un tempo stimate, di cui oggi sopravvivono a malapena i nomi? (257) A questi aggiungi tutti i nostri latini che furono quasi infiniti e pubblicarono infiniti ottimi libri. (258) Quanti poeti, comici, tragici, elegiaci, satirici, eroici: Varo, Ennio, Cecilio, Lucilio, Attilio, Trabeo, Licinio, Turpilio, Gallo, Nevio, Luscio!44 (259) Ma a che pro ricordare tutti i poeti, gli storici, gli oratori, Accio, Nigidio, Cecilio, Cinna, Cassio, Lucullo, Laberio, Afranio, Pacuvio, Sulpicio, Ortensio, Cotta,45 Fabio, Catone, Pisone, Fannio, Vennonio, Clodio, Celio, Acro?46 (260) A che pro citare gli altri innumerevoli scrittori, i retori raccolti da Cicerone?47 E scoperta da parte di Poggio Bracciolini (1417) dell’autore del De rerum natura, cfr. Canfora, Alberti e Lucrezio, pp. 269-86. All’inizio degli anni Quaranta, nel Theogenius (p. 101), Alberti citerà Lucrezio, «poeta vetustissimo», traducendo quattro versi dal suo De rerum natura (III 451-54). Questo primo elenco di scrittori di cui il tempo ha divorato le opere è tratto dal De poetis di Volcacio Sedigito che si legge in Aulo Gellio XV 24 (cfr. Farris, in Alberti, De commodisDefunctus, pp. 37-39), brano dove si lamenta l’enorme quantità di grandi scrittori del passato di cui si son perdute le opere. Si noti però che un analogo elenco compare anche in Petrarca Fam. XXIV 4, 12-13 (lettera a Cicerone). 45 Come rileva Cardini (p. 588), questa prima tranche di retori e poeti deriva, quasi completamente, dal X e XI libro dell’Institutio oratoria di Quintiliano. 46 Questa seconda tranche di storici deriva in blocco da Cic. De leg. I 6-7, cfr. Farris in Alberti, De commodis-Defunctus, p. 38. 47 In tutte le sue opere retoriche, vale a dire il Brutus, il De ora-

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collectos recitem, quid de Pomponio Attico deque Varrone illo qui de his rebus omnibus conscripsere que hominem scire aut investigare fas est? (261) Pretereo iurisconsultos, non recito illas, ut ita dicam, legiones litteratorum qui in omni genere doctrine copiosissima et preclara posteris precepta litteris reliquere. (262) Te vero, noster Cicero, etiam pretereo, cuius libri De gloria, De consolatione, De re publica deque ceteris philosophie laudibus tam ab omnibus desiderantur. (263) Tu deinde, mi Neophite, cum ita esse omnia cognoveris, hic tibi casus equo et pacato animo ferendus est; minimeque acerbe accipiendum est, si quid tibi, suo vetere more, vel fortuna vel hominum malitia et nequitia detraxit: non enim casu et iniuria aliorum sed turpitudine et culpa sua commoveri sapientis est. (264) NEOPRHRONUS. Prudenter tu quidem mones; atqui huius facile obliviscar calamitatis, ubi tua sententia, quam plurimi semper feci, hanc stultitiam meam cum illis prestantissimis et florentissimis scriptoribus compares. (265) POLYTROPUS. Mihi vero neque stultitie tribuendum videtur quod te ita in vita gesseris pro virili ut post mortem vixisse videare, neque tuum si priscis comparem aut ingenium, aut elegantiam doctrine, aut dicendi vim, cuiquam ausim te preponere. (266) Fuere namque illi veteres temporibus suis plane grati; nostra vero etate ob adeptam vetustate auctoritatem iidem longe gratissimi habentur. (267) Sed quod ipse in primis laude dignum statuo, industriam, assiduitatem, curam, vigilantiam diligentiamque tuam lectitandi, discendi conscribendique quam in vita acerrimam et irrequietam tore e l’Orator, che pochi anni addietro (1421) a Lodi erano state ritrovate complete dal vescovo Gerardo Landriani e subito inviate al più grande ciceroniano del tempo, quel Gasparino Barzizza che a Padova fu maestro dell’Alberti. 48 Sono le opere perdute di Cicerone che anche Petrarca ricorda proprio nella lettera a Cicerone indirizzata, Fam. XXIV 4, 13. Nella lettera Sen. XVI 1 Petrarca ricorda però di aver posseduto

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che dovrei dire di Pomponio Attico e di Varrone che scrissero di ogni ambito in cui all’uomo è lecito investigare e sapere? (261) Tralascio i giurisperiti e non elenco le legioni, per così dire, dei letterati che in ogni branca del sapere hanno lasciato per iscritto ai posteri abbondanti ed insigni insegnamenti. (262) Tralascio anche te, nostro Cicerone, i cui libri Sulla gloria, Sulla consolazione, Sulla repubblica e Sulle lodi della filosofia sono tanto ricercati da tutti.48 (263) Tu dunque, mio Neofita, sapendo che le cose stanno così, devi sopportare con animo pacato e tranquillo questa sventura; non devi affatto arrabbiarti, se la fortuna o la malvagità e l’ingiustizia degli uomini, al loro solito, ti hanno sottratto qualcosa: il saggio non si lascia turbare dalle sventure e dalle ingiustizie procurategli da altri, ma solo dai propri vizi e dalle proprie colpe. (264) NEOFRONO. Dici bene, certo; e dal momento che, a tuo parere – che ho sempre tenuto in grande considerazione – questa mia follia è paragonabile a quella di tanti bravissimi e valentissimi scrittori, dimenticherò in fretta questa sventura. (265) POLITROPO. A dire il vero a me non sembra follia il fatto che tu abbia voluto, per quanto potevi, vivere da uomo per dire, una volta morto, di aver vissuto, né, se mettessi a paragone il tuo ingegno, l’eleganza della tua dottrina e la tua capacità oratoria con quella degli antichi oserei anteporti ad alcuno di loro. (266) Infatti costoro, certamente già graditi ai loro tempi, oggi, per l’autorità assegnata loro dal tempo, risultano i più graditi in assoluto. (267) Ma poiché io reputo soprattutto degni di lode il tuo lavoro, la tua costanza, la tua solerzia, la tua attenzione e diligenza nel leggere, nell’apprendere, nello scrivere, che in vita hai perseguito con un esemplare del De gloria ciceroniano, poi perdutogli dal maestro Convenevole da Prato. Come noto, il De re publica del retore e filosofo latino sarà ritrovato solo ad inizio Ottocento da Angelo Mai, cui Leopardi indirizzerà per l’occasione una sua celebre canzone inclusa nei Canti (Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone «Della Repubblica»).

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habuisti, hanc ego nemini in comparando postponerem. (268) Qui enim aliorum ingenia laudat magis quam ingeniorum exercitationem et cultum quique que natura tribuit, quam que studiis et arte suscepta et elaborata sunt, magis admiranda censet, is non virtutem sed fortunam extollit hominis. (269) Neque enim laudibus in primis ornanda sunt ea que natura ipsa vel fortuna largita est, sed longe admiratione dignissima sunt que labor, sudor atque ars manusve hominum ad honestatem adiecit. (270) NEOPHRONUS. Eia tu, neque quidem solus, preclara de me isthac in sententia es! POLYTROPUS. Ne vero isthuc? (271) NEOPHRONUS. Enim, quia persimilem apud mortales palam prolatam nuper vocem audivi. POLYTROPUS. Non id quidem iniuria, nam omnium voce ob tuas egregias insanias unus non in postremis concelebrandus es. NEOPHRONUS. Quid censes? POLYTROPUS. Omnium principem! (272) NEOPHRONUS. Malo illas ipsas laudationes quam tuas esse verissimas; nam in omni genere virtutis facile optimis veteribus aut preponendum aut iure ascribendum atque inter prestantissimos adnumerandum me esse predicarunt. Et quid hoc? (273) POLYTROPUS. Preclara quidem ac suprema laudatio, modo a gravi ac laudato viro proficiscatur. (274) NEOPHRONUS. Quis gravior, quis sanctior pontifice Hermione habitus est? POLYTROPUS. Prorsus nemo. (275) NEOPHRONUS. Ille namque huiuscemodi in funebri oratione de me laudes decantavit. (276) POLYTROPUS. Demiror id hominem maturum

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irrequieto ardore, se dovessi fare un raffronto non ti porrei in ciò secondo a nessuno. (268) Chi infatti loda l’ingegno altrui più che l’esercizio e l’allenamento dell’ingegno e crede che vadano maggiormente apprezzate le qualità date dalla natura piuttosto che quelle sviluppate ed affinate con l’apprendimento e lo studio, costui non esalta la virtù dell’uomo ma la sua fortuna. (269) Non vanno dunque ricoperte di lodi le qualità elargite dalla natura o dalla fortuna, ma sono invece degnissime di ammirazione quelle che l’uomo si guadagna con la fatica, il sudore, la sua laboriosità e le sue mani. (270) NEOFRONO. Non sei certo il solo che ha una così grande considerazione di me! POLITROPO. Davvero? (271) NEOFRONO. Sì, proprio poco fa ho sentito tra i mortali riferire pubblicamente una cosa del tutto simile. POLITROPO. E a ragione, infatti per la tua straordinaria follia tutti son d’accordo che vai celebrato tra i primi. NEOFRONO. Tu che ne pensi? POLITROPO. Che sei il primo. (272) NEOFRONO. Preferisco che siano veri quegli elogi piuttosto che i tuoi; dicono infatti che per ogni tipo di virtù io vada anteposto o perlomeno ascritto di diritto alla schiera degli ottimi antichi, e che tra questi io sia da annoverare tra i migliori. E di questo che dici? (273) POLITROPO. Elogio eccelso, davvero supremo, sol che sia detto da uomo saggio e stimato. (274) NEOFRONO. Chi è stimato più saggio, chi più santo del vescovo49 Ermione? POLITROPO. Nessuno davvero. (275) NEOFRONO. Fu egli infatti a decantare le mie lodi in questo modo nell’orazione funebre. (276) POLITROPO. Mi meraviglio che un uomo equilibrato 49 «Pontifex» in Alberti, come si desume anche dall’omonimo suo dialogo, non significa «pontefice», bensì «vescovo».

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preter eius consuetudinem egisse: solet enim a populari conventu vulgique sensibus abhorrere. (277) NEOPHRONUS. An tu ignoras premii spes et largitiones quid etiam in sacerdotes atque philosophos valeant? Pollicita enim toga plenum spe hominem atque cupidum nimirum coegit insanire. (278) Dii boni, quanta levitas, quanta dicendi inscitia, que mendacia, que omnium rerum inconcinnitas! (279) Vires, formam, genus fortunamque ac levia huiusmodi multa oratione complexus est. De animi autem virtutibus, quas omnes mirificas in me esse velle se ostendere predixerat, nullam ferme laudem explicuit: (280) de litteris, de doctrina, de ingenio, de bonis artibus, de animi robore et constantia, de modestia, verecundia, pudicitia, de sapientia, de consilio, de memoria rerum vetustarum, de ratione atque prudentia, verbum nullum; omnes honestatis et decoris partes intactas preterivit. (281) POLYTROPUS. Itane rudis, insulsus et incomptus extitit ut omnes laudationes morum obticuerit? Itane imperitus ut humanitatem, facilitatem, gratiam, pietatem, beneficentiam, liberalitatem, urbanitatem et decus – insignia et prestantissima hec in laudanda vita exornandoque homine – penitus neglexerit? (282) NEOPHRONUS. Omnia obticuit preter id quod mea de iustitia stulte imperiteque ac minime vere dixit: (283) iustitiam meam non paucis afflictis publice fuisse utilissimam civibus atque perspectissimam, ex eaque presertim mihi multa cum laudum et amicitiarum, tum rerum et fortunarum, que posteris meis lautam et amplam hereditatem deferant, a me presidia et ornamenta conquisita compertaque fuisse, ut vel

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come lui abbia agito così, al di là delle sue abitudini: di solito infatti si tiene lontano dalla folla e dalle opinioni del volgo. (277) NEOFRONO. Forse non sai quanto potere abbiano presso filosofi e sacerdoti la speranza di premi ed elargizioni? La promessa di una carica porta un uomo speranzoso e avido a far follie. (278) Santi numi, quanta leggerezza, quanta stoltezza nel parlare, quante menzogne, quanta sciatteria! (279) Nell’orazione ha parlato del mio vigore fisico, della mia bellezza, della stirpe, della fortuna e di molte altre cose superficiali di questo tipo. Sulle virtù dell’animo, che all’inizio aveva definito magnifiche e che aveva preannunciato di voler esporre, non disse nulla: (280) non fece cenno alla mia cultura, alla mia intelligenza, al mio ingegno, alle arti liberali, alla forza e alla costanza d’animo, alla modestia, al senso del pudore, all’integrità, alla saggezza, all’avvedutezza, alla conoscenza del passato, alla ragionevolezza e al senno; tralasciò tutta la parte dell’onestà e del decoro. (281) POLITROPO. È stato così incompetente, inefficace e inopportuno da saltare l’elogio dei costumi? Così sprovvisto da tralasciare del tutto l’umanità, la gentilezza, la grazia, la devozione, la magnanimità, la liberalità, la piacevolezza e il decoro50 – le cose importanti e ragguardevoli che fanno lodevole una vita e stimato un uomo? (282) NEOFRONO. Tacque su tutto ciò, disse solo qualcosa sul mio concetto della giustizia, per di più in maniera goffa, stupida e del tutto errata: (283) che il mio senso della giustizia era stato assai utile pubblicamente e di grande giovamento per molti cittadini in difficoltà, e che io personalmente ne avevo ricavato molte protezioni e prestigio sociale, da una parte per le lodi e le amicizie influenti, dall’altro per il gran patrimonio accumulato, che ora diventava una lauta eredità per i miei eredi; e che se anche fosse stato per quella sola 50 Come nota Cardini (p. 589), sono tutte virtù che Battista si attribuisce nell’Autobiografia (§ 21) e, indirettamente (attribuendole cioè al suo cane), nel Canis.

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hac sola pietatis et equitatis virtute felicissimum extitisse me non negandum sit. (284) Sed hunc missum faciamus pontificem garrulum, loquacissimum, ineptissimum, indoctissimum, quamvis idem perridiculus fuerit cum ceteris in rebus, gestu, vultu, voce ac dicendi ieiunitate, tum in eo maxime quod mihi eam rem ad felicitatem ascripserit, que palam est quam nos multis ac maximis incommodis affecerit. (285) Ad affines itaque redeo meos, qui cum usque adeo maledictis, execrationibus, rapinis atque ultimis atrocissimisque iniuriis de me pessime meriti essent, quique cum eos iam preda defecisset, ceteros inter domesticos ad conlugendum compulere. (286) POLYTROPUS. Quin immo istos ipsos nefarios et scelestos homines, ne quid meroris nostros amplius in sermones inferant, omnino ex animo tuo dele. NEOPHRONUS. Deleo. (287) POLYTROPUS. At illud sequere, quonam pacto sis incommodis ob iustitiam affectus. Cupio id explicari abs te, nam quid virtus obsit nequeo discernere. (288) NEOPHRONUS. Si dixero virtutem homini probo calamitatem afferre, imperite id fortassis ac parum mature dixero; verum si isthuc assero, Hermionem ipsum illum pontificem et mendacissimum in laudatione mea ineptissimumque fuisse, rem ut res est dixero. (289) Nam cum privata mea opera plurimis profui, nemini nocui nisi lacessitus iniuria; (290) amicitiam, religionem pietatemque semper colui, inno-

51 Che il discorso del vescovo Ermione sia un vero e proprio sacrilegio lo si capisce, come ha puntualizzato Cardini (p. 589; ma già in Cardini, Biografia, pp. 91-92), reperendo la fonte di questo brano, tratta da un’opera all’Alberti particolarmente cara, il De legibus ciceroniano (II 63): «Sequebantur epulae, quas inibant propinqui coronati, apud quos de mortui laude quom si quid veri erat praedicatum, nam mentiri nefas habebantur, [et] iusta confecta erat» («Seguiva un banchetto, cui i parenti intervenivano col capo incoronato, e presso di essi si celebravano, se ve n’erano (poiché era ritenuto empio il mentire), i meriti del morto, [e] le cerimonie erano finite»).

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virtù di pietà ed equità non si poteva negare che ero stato fortunatissimo. (284) Ma basta con questo vescovo garrulo, logorroico, goffissimo, ignorantissimo, sebbene mi abbia fatto molto ridere, tra le altre cose, tanto per i suoi gesti, per le sue espressioni, per la sua parlata e per la povertà del linguaggio, quanto per il fatto di aver incluso tra le cose fortunate che mi erano capitate quella che, palesemente, mi aveva causato molti e grandissimi danni. (285) Torno ai miei parenti che, dopo avermi maledetto, svillaneggiato, rapinato ed offeso in una maniera così atroce, mancando ormai altro bottino, se ne tornano tra gli altri familiari a piangere. (286) POLITROPO. Dimentica del tutto questi uomini scellerati e delinquenti, perché non intristiscano ulteriormente i nostri discorsi. NEOFRONO. D’accordo. (287) POLITROPO. Piuttosto prosegui quello che stavi dicendo, cioè in che modo a causa del tuo senso della giustizia ti siano derivati dei danni. Voglio che tu mi spieghi, perché non riesco a capire come la virtù possa nuocere. (288) NEOFRONO. Se dirò che la virtù è causa di sventure per l’uomo onesto, dirò forse qualcosa in modo stolto e sconsiderato; ma se dirò che il vescovo Ermione fu goffissimo e bugiardissimo nell’elogio che mi fece, dirò le cose come stanno.51 (289) Infatti, io col mio operato ho giovato a molti, non ho mai danneggiato nessuno se non prima offeso;52 (290) ho sempre coltivato l’amicizia, la religione, la 52 Un altro prestito ciceroniano, questa volta «puntuale», come sottolinea Cardini (p. 589), dal De off. I 20: «iustitiae primum munus est, ut ne cui quis noceat, nisi lacessitus iniuria» («primo ufficio della giustizia è che nessuno rechi danno ad altri se non provocato da offesa»); ma anche De off. III 76: «At vero, si qui voluerit animi sui complicatam notionem evolvere, iam se ipse doceat eum virum bonum esse, qui prosit quibus possit, noceat nemini nisi lacessitus iniuria» («Ma chi vorrà svilupparne il concetto ancora involuto nel proprio animo, si convincerà che è uomo onesto colui che giova a chi può, nuoce a nessuno, se non provocato da un’offesa»).

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centiam, mansuetudinem atque concordiam summo semper studio et opere sum prosecutus. (291) Haud tamen preter quam semel iudicandi munus obivi ac preter unam (atque eam quidem privatus iudex) minime unquam sententiam dixi, cuius rei merito sepius penituit. (292) Nam ob recte integreque datum iudicium, non amicitie sed odia, non laus et gratia sed apud multos invidia ignominiaque subsecuta est, non denique ulla ex parte iustitia filiis meis hereditatem amplificavit, sed comminuit, ademit, ad egestatem redegit. (293) POLYTROPUS. Mirum id: nulla enim, ut aiunt, civibus gratior virtus, nulla ad benivolentiam, ad gratiam comparandam accomodatior inveniri iustitia potest. (294) NEOPHRONUS. Haud quidem inficior isthuc quod aiunt, pietatem, equitatem, bonitatem, humanitatem ad gratiam, ad amicitias valere. (295) Sed mihi tu esto testis. Meministi qua integritate, qua fide, qua simplicitate, quo animo recto equissimoque illam in vita unicam inter Caspium amicum nostrum et Tirsum argentarium protuli sententiam? (296) Non preces, non amicitie, non premia, non proposite inimicitie, non iniecti timores commovere unquam me potuerunt ut recusarim, tuo una et aliorum doctissimorum hominum consilio, rectum et incorruptum in iudicando munus meum exequi. (297) Quam ob rem non est ut tibi eius nihil ignoranti commemorem quali Tirsus animo posthac sua cum omni familia in nos fuerit semper infesto et nocendi avidissimo. (298) POLYTROPUS. Novi ut omni in re studuerint ut invidiam, ignominiam atque dedecus quoquo modo subires. Verum id laudi dandum non negabo, cum pro equitate ipsum

53 Come ha notato Cardini (Biografia, p. 98), queste tragiche conseguenze della rettitudine, nelle vesti di giudice, di Neofrono, rappresentano un controcanto dei princìpi del giusto processo e della deontologia del giudice, già espressi da Cic. De leg. III 2 e nel De off. II 65 e ripresi dall’Alberti stesso nel De iure (§ 2; p.

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pietà; ho sempre ricercato con tutte le mie forze l’onestà, la pacatezza e la pace. (291) Non ho fatto il giudice se non una volta (e per una causa privata) e ho emesso una sentenza di cui poi mi sono ripetutamente e giustamente pentito. (292) Infatti, da un giudizio emesso secondo integrità e giustizia mi derivarono non amicizie ma odii, non elogi e riconoscenza ma invidia e disonore agli occhi di molti, infine il mio senso della giustizia non ha assolutamente aumentato l’eredità lasciata ai miei figli, ma l’ha anzi diminuita, gliel’ha tolta, li ha ridotti in povertà.53 (293) POLITROPO. Che strano: infatti si sente dire che nessuna virtù è più cara ai cittadini della giustizia, che non c’è niente di più idoneo a procurarsi stima e benemerenze. (294) NEOFRONO. Non intendo smontare quello che dicono, che cioè la pietà, l’equità, la bontà, l’umanità valgono a procurarsi stima e amicizie. (295) Ma tu siimi testimone. Ricordi con quanta integrità, fede, correttezza, equilibrio e giustizia emisi quell’unica sentenza in vita mia, quella tra il nostro amico Caspio e il banchiere Tirso? (296) Né le preghiere, né le amicizie, né i premi, né le minacce poterono distogliermi – anche grazie al consiglio tuo e di altri uomini saggissimi – dal portare a termine in maniera retta e incorrotta il mio dovere di giudice. (297) Non c’è bisogno che ti rammenti, visto che conosci bene la storia, che spirito bilioso e desideroso di vendetta Tirso nutrì verso di me assieme a tutta la sua famiglia. (298) POLITROPO. So che per loro ogni circostanza era buona per farti subire invidia, disonore, infamia. Ma dirò che ciò andrà ascritto tra i tuoi meriti, di esserti sempre mostrato 821): «Iurisconsulti officium est integra fide et summa religione controversiam dirimere, cavereque ac prohibere ne quis dolus, ne quave fraus uspiam locum, quoad in se sit, habeat» («È compito del giureconsulto dirimere una controversia in perfetta fede e con profondo spirito religioso e controllare e impedire, per quanto sta in lui, che non si verifichino mai né inganni né frodi»).

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te exibueris animo prestanti et forti; (299) illud proxime vituperandum iudicabo si procacis, petulantis ac nequissimi hominis iniustam lacessendi et ledendi libidinem feceris tanti ut egre feras te pro officio fortem et virilem fuisse. (300) NEOPHRONUS. Cave ista ita existimes, siquidem eum me esse intelligis, qui extrema pericula omnia atque supplicia subire potius quam a laude discedere nusquam fuerim non paratissimus. POLYTROPUS. Cur igitur merito te iustitie penituisse inquiebas? (301) NEOPHRONUS. Possumne vel singula hec que tibi memorie insita sunt, obtrectationes, criminationes, malos rumores, turpes notas, quas nostram infamiam suis ardentissimis odiis flagrantique male nos afficiendi cupiditate inurebant; (302) possumne insidias, iniurias, vim inimicitiarum ad nostrum exitium atque interitum parata, impia, iniusta hec nobis ob iustitiam et pietatem retributa esse; possumne, inquam, tantis iniuriis acceptis ipse non dolere? (303) Vel illud quidem an non angit me, quod preter omnem meam opinionem accidit, quod nunquam futurum quispiam credidisset, indignum! mea summa bona ad illum pervenisse quem sua facinora et immnanitas longe a me alienum fecisset? (304) Incredibile absque ullo mecum commercio ditari fortunis meis hunc quem eadem mea equitas, simplicitas, fides atque integritas mihi inimicissimum reddidisset! (305) Postremo (miserabile hoc!) multa ratione rem, multo meo labore, industria sudoreque iuste partam ad nostros inimicissimos per eorum temeritatem devenire! POLYTROPUS. At qui isthuc? Nam profecto rem admirandam aggrederis.

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d’animo forte e indefesso in nome della giustizia; (299) e che invece saresti da rimproverare se ora l’ingiusta voglia di farti del male da parte di quell’uomo sfacciato, impertinente e malvagio agisse a tal punto su di te da farti rimpiangere di aver assolto in maniera coraggiosa al tuo dovere. (300) NEOFRONO. Non crederlo, sai infatti che io sono tra quelli sempre prontissimi a sopportare estremi pericoli e ogni tipo di dolore piuttosto che venir meno alla mia onorabilità. POLITROPO. Perché allora dicevi di avere buone ragioni per esserti pentito del tuo atto di giustizia? (301) NEOFRONO. Posso non rammaricarmi di tutte quelle cose che tu ben ricordi, delle ingiurie, delle infamie, delle voci malevole, delle turpi diffamazioni preparate54 sulla fiamma ardente dell’odio con la deliberata volontà di farmi del male e di infamarmi? (302) Posso non dolermi delle insidie, delle ingiurie, delle violente inimicizie apprestate dai nemici per mandarmi in rovina, ricompense empie ed ingiuste della mia pietà e giustizia; posso non dolermi, dico, delle così grandi offese che ho ricevuto? (303) E come potrebbe non angustiarmi ciò che è accaduto al di là di ogni mia aspettativa, al di là di ciò che chiunque avrebbe immaginato – o che cosa indegna! – che tutti i miei beni giungessero proprio a colui col quale, a causa dei suoi comportamenti scellerati e disumani, io non avevo avuto mai nulla da spartire? (304) È incredibile e per me inconcepibile che si sia arricchito con le mie fortune colui che il mio senso della giustizia, la mia sobrietà, la mia fede e integrità mi avevano reso odiosissimo! (305) In sintesi, la cosa miserevole è che il patrimonio accumulato da me rettamente con ingegno, fatica, lavoro e sudore sia giunto, grazie alla loro impudenza, ai nostri peggiori nemici. POLITROPO. Ma come è stato possibile? Stai per dirmi qualcosa di incredibile. 54 Il sintagma «turpes notas» deriva da Cic. De off. III 74 «o turpem notam temporum».

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(306) NEOPHRONUS. Rem ipsam enarro dignissimam litteris. Coedificaram aqueductum a proximis montibus, ut scis, meam usque in villam supremi illius argentei fontis aquam nitidissimam influentem. POLYTROPUS. Recordor. (307) NEOPHRONUS. Hunc aqueductum, eo quod esset omnibus vicinis meis accommodatissimus atque gratissimus, eternum futurum mihi ipse persuaseram. (308) POLYTROPUS. O ridicule! Tune credidisti macerias constructas manu fore perpetuo duraturas, qui preclarissima litterarum monumenta summo studio et arte perfecta, tamen ruinam et extremum exitium pati nequaquam ignorare debuisti? NEOPHRONUS. Recte sane. (309) POLYTROPUS. At quid tum postea? NEOPHRONUS. In hunc idcirco aqueductum coactam de stipendiis militaribus non modicam pecuniam, priusquam vita decederem, abdideram ut ea in omnem fortune eventum esset a tutorum et curatorum perfidia, ab iniuriis et rapinis tyrannorum filiis meis salva. (310) Itaque quoniam preter me nemo homo erat rei conscius, indicavi id filiis meis moriens ac iussi ne hasce pecunias inde amoverent, nisi posteaquam aliqua ultima necessitas urgeret. 55 Il sintagma «litterarum monumenta» richiama, anche per affinità di contesto, un passo della celebre lettera che Francesco Barbaro indirizzò il 6 luglio 1417 a Poggio Bracciolini, «lampadoforo» che portò la luce nelle buie carceri delle biblioteche conventuali transalpine dove erano reclusi molti classici da secoli dimenticati: «Tu Reipublicae causa quid facturus esses facile declarasti, cum te non vis hyemis, non nives, non longitudo itineris, non asperitas viarum, ut monumenta litterarum e tenebris in lucem erueres, retardavit» («Chiaramente dimostrasti che cosa avresti fatto per la Repubblica, dal momento che non la forza dell’inverno, non le nevi, non la lunghezza del viaggio, non l’asprezza delle strade ti impedirono di riportare dalle tenebre alla luce grandissime opere letterarie»). Il brano albertiano suona come una stridente «distopia» rispetto a quel luminoso orizzonte di riscoperta, gloria e progresso della conoscenza. Cardini (p. 590) vi ha visto un controcanto dell’idea portante

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(306) NEOFRONO. Ti racconto una cosa degnissima dei libri. Come sai, avevo costruito un acquedotto che portava dai monti alla mia villa l’acqua limpidissima della più elevata e trasparente delle sorgenti lì intorno. POLITROPO. Ricordo. (307) NEOFRONO. Mi ero convinto che questo acquedotto sarebbe durato in eterno, anche dal momento che era comodissimo e graditissimo a tutti i miei vicini. (308) POLITROPO. O che sciocco! Proprio tu che dovevi ben sapere quale fine rovinosa, che dimenticanza totale avevano subìto magnifici monumenti letterari composti55 con somma arte ed ingegno, eri convinto che dei sassi messi insieme con le mani sarebbero durati in eterno? NEOFRONO. Dici bene. (309) POLITROPO. Ma poi cosa è successo? NEOFRONO. Prima di morire avevo nascosto in questo acquedotto una notevole quantità di denaro56 guadagnata durante il servizio militare, affinché qualsiasi cosa accadesse essa fosse preservata per i miei figli contro la malafede dei tutori e dei curatori e contro le ingiurie e i soprusi dei tiranni. (310) E così, non essendo nessun altro oltre a me a conoscenza di questa cosa, sul letto di morte rivelai il segreto ai miei figli ma ordinai loro di non muovere da lì i soldi se non pressati da un’estrema necessità. della Pro Archia ciceroniana, vale a dire proprio la sopravvivenza garantita dalle opere letterarie. 56 Qui Neofrono assume le vesti di un novello Euclione, l’avaro dell’Aulularia plautina che ha trovato il denaro nascosto dall’avo e vuole che rimanga segreto a costo di mille apprensioni (topos ripreso poi da Molière nel suo Avaro). Non sfugga però che se l’Euclione plautino è un avaro, Neofrono si priva di una parte dei suoi risparmi guadagnati nelle spedizioni militari per il bene futuro dei figli (Acocella, La presenza di Luciano, p. 136). Bacchelli-D’Ascia (p. 419) indicano nel trattato De avaritia (ca. 1428) di Poggio Bracciolini – la cui influenza si fa sentire anche in altri brani di questa intercenale – un testo importante per la ricezione nel primo umanesimo della figura dell’avaro nella commedia plautina.

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(311) POLYTROPUS. Proh! quam callida isthec fuit cautio, superi boni, et quam digesta tuende pecunie ratio! (312) NEOPHRONUS. Fuit quidem non incommoda. Noveram enim quam non modo pecunie, que surripi ac multis casibus perdi solent, verum etiam stabilium rerum, agrorum ediumque conservatio sit pupillis difficillima. (313) POLYTROPUS. O commodum munus, quod antequam suscipias, ultima sit calamitas subeunda! Ergo filiis summam miseriam dimisisti, stulte, non divitias, siquidem ipsi maximum infortunium priusquam pecunias excepturi sunt. (314) Qui enim huiusmodi dona mihi conferant que nequeam nisi accepto damno capere, eos ego non gratia, sed odio prosequar. (315) NEOPHRONUS. Recte sentis. Insanivi ac mihi quidem consuetudo fuit in vita persepius pecuniarum locum repetere ac diligentissime circumspectare, tutane et salva res esset. (316) POLYTROPUS. Probe, prudenter! nam reclusum, abditum retrusumque aurum, ut arbitror, ne suapte natura et vetere more erumperet pertimescebas! NEOPHRONUS. Id ipsum prorsus, nec facile dici potest quante me suspitiones adorirentur. (317) Cupiebam quidem perdiligenter minutissimeque lustrare locum, oculis tamen intensius herere nequicquam audebam: nam eos qui aut me intuentem, aut locum ipsum spectassent, omnes illico extimescebam factosque loculi conscios esse suspicabar; ipsas denique lacertas verebar ne qua ex parte indicium aliquod afferrent. (318) Adde his quod herbe, si forte molliori cacumine dependebant, acres mihi stimulos suspitionum indidebant: eas enim vestigio alicuius percunctatoris esse pressas

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(311) POLITROPO. Oh che furbo escamotage è stato il tuo, santi numi, e che modo avveduto per conservare il tuo denaro! (312) NEOFRONO. In effetti era un buon modo. Sapevo infatti quanto fosse difficile per gli orfani conservare non solo i soldi, che di solito sono strappati o persi per motivi diversi, ma anche gli immobili, i campi e le case.57 (313) POLITROPO. Che bel regalo: prima di prenderlo, uno deve subire la peggiore delle sventure! Dunque ai figli hai lasciato la più grande sciagura, sciocco, mica ricchezze, dal momento che essi, prima della ricchezza, riceveranno una enorme disgrazia. (314) Se qualcuno mi regalasse un dono di questo tipo, che non potrei ricevere senza insieme averne un danno, non gli sarei riconoscente, ma lo odierei. (315) NEOFRONO. Dici bene. Mi comportai da pazzo; mentre ero in vita ebbi la consuetudine di recarmi molto spesso nel luogo dove avevo nascosto i soldi e, dopo essermi guardato bene intorno, verificare se il malloppo fosse sano e salvo. (316) POLITROPO. Bravo, davvero saggio! Temevi, come credo, che così nascosto, interrato e coperto, l’oro, per sua natura e antica tradizione, saltasse fuori! NEOFRONO. Esatto, e non posso dirti quanti sospetti mi nascevano. (317) Desideravo perlustrare il luogo con la massima diligenza e minuzia, ma non osavo tenervi sopra gli occhi troppo fissi: temevo infatti che qualcuno, guardandomi, oppure facendo una perlustrazione del luogo, potesse accorgersi della cassetta; temevo che persino le lucertole potessero fornire qualche indizio. (318) A questo aggiungi che anche l’erba, se per caso era un po’ più piegata del solito, mi induceva forti sospetti: credevo che essa fosse stata pestata dal piede di qualche curioso, e non ti dico quante 57 Si tratta quasi sicuramente di un altro riferimento autobiografico.

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opinabar, neque facile dixerim quibus ex locis pecunias fuisse surreptas ipse mihi fingerem coniectura. (319) POLYTROPUS. Stolidissime, cur ideo illas tam suspitioso ex loco non dimovebas? Nonne potius in eum usum nummo uti antiquius erat, in quem repertus esset? NEOPHRONUS. At in quem? (320) POLYTROPUS. Ut amicis, ut affinibus, ut notis, ut bene de te meritis prosit; cum supersit domi, ut edifices, ut te ornes atque urbem tuam, veste, argento splendidissimaque rerum supellectile et apparatu; (321) his omnibus ut abundes, ut utare ad magnificentiam, quando necessitati satis feceris: alioquin non video divitie quid prosint. (322) Que quidem, tametsi non idcirco essent ad istiusmodi utilitates ab ipsa natura concesse, nescio quid in comparandis rebus industria et labor hominum consequatur. (323) Quis pecuniam in bonis putabit, quam multo sudore accumulavit, dum eam ita inclusam et sepultam esse velit, ut cum rem plurimis ademerit, tum sibi utilitatem divitiarum et laudem interdicat? (324) NEOPHRONUS. At mihi ad res tantas exequendas fortune minime suppeditabant. POLYTROPUS. Quid igitur profuit, dum vel necessitati vel laudi tue potius obsequi oportuit? Quid iuvat tibi surripuisse ut servares aliis? (325) NEOPHRONUS. Meis enim filiis pecunias esse salvas volui ob idque servandum censui quod sine familie incommodo servari posse rebar. POLYTROPUS. Ha he!

58 Le paure di Neofrono, come è stato notato (Bacchelli-D’Ascia, p. 419; Acocella, La presenza di Luciano, p. 136; Cardini, p. 591), richiamano i comici sussulti dell’avaro Euclione plautino in Aulul. 624-27: «Non temere est quod corvos cantat mihi nunc ab laeva manu. / Semul redebat pedibus terram et voce croccibat sua. / Continuo meum cor coepit artem facere ludicram / Atque in pectus emicare. Sed ego cesso currere?» («Non a caso un corvo ha cantato

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congetture facevo sui luoghi da cui il denaro poteva essermi stato portato via.58 (319) POLITROPO. Che stupido, e perché allora non hai tolto il denaro da quel luogo così rischioso? Non si poteva, piuttosto, usare il denaro in quel modo antico per cui era stato inventato? NEOFRONO. E cioè? (320) POLITROPO. Per aiutare gli amici, i parenti, i conoscenti, che si erano comportati bene con te; e, se ne avanzava, per ornare te di vesti e gli edifici della tua città di oggetti d’argento e di splendide suppellettili; (321) una volta soddisfatti i bisogni primari, usarlo per fare lo splendido e il magnifico con tutti: diversamente non vedo a cosa serva la ricchezza. (322) Sebbene la natura non la conceda certo per piaceri di questo tipo, non capisco a cosa serva che l’industria e la fatica umane se la procurino. (323) Chi crederà positiva la ricchezza accumulata con molta fatica, se poi vuole che sia nascosta e sepolta sotto terra, tanto da toglierla a molti e privare se stesso della lode e del piacere della ricchezza?59 (324) NEOFRONO. Ma le mie fortune non mi consentivano certo di fare cose notevoli. POLITROPO. E in questo modo che ti hanno giovato, mentre avresti potuto assecondare i tuoi bisogni o il tuo prestigio? Che ti ha giovato essertene privato per lasciarlo ad altri? (325) NEOFRONO. Volevo che fossero conservate per i miei figli e perciò ho pensato di risparmiare quel denaro che poteva essere risparmiato, credevo, senza danno per la famiglia. POLITROPO. Ah, ah! alla mia sinistra. Esso raschiava la terra con le zampe e gracchiava a suo modo. Immediatamente il mio cuore ha cominciato a fare acrobazie; sembrava volesse balzarmi fuori dal petto. Ma cosa aspetto a correre là?»). 59 Bacchelli-D’Ascia (p. 419) richiamano a questo punto il discorso di Pluto (dio della Ricchezza) in Luciano Timone ovvero il misan-

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NEOPHRONUS. Quid irrides? (326) POLYTROPUS. Te, qui in agro publico, non septo, non clauso, non custodito omnibusque casibus et fortuitis rebus aperto ac patenti in loco depositum, quam apud amicum fore tutum et salvum magis existimaris. (327) Plusne in lateribus quam in amico homine, fidei, consilii, diligentie atque ad omnes casus propulsandos presidii et roboris paratum esse putabimus? (328) NEOPHRONUS. Prorsus tibi assentior, vel quis queat recensere quot modis in vita simus dementes, insani? Plus quidem fidei nobis in ipsa fortuna est quam in amicis, plus in lapide nobis quam in homine fiducie est. (329) POLYTROPUS. Itaque cum homines hominum causa procreati et producti sint, quis non intelliget humanitatis officium esse ita inter amicos civesque versari, ut ope et opera quam plurimis, quoad in te sit, prosis? (330) Quid enim quidem, qui avaritia aut alia quaque stultitia rem ad convictum hominum et societatem accommodatissimam ac maxime necessariam, pecuniam, de medio substulerit atque suppresserit, huncne hominem negabimus vehementer errare? an eundem hunc ipsum nullam insignem penam debere fatebimur? (331) Quid hoc preterea mali est, rerum humanarum omnium optimam, sanctissimam longeque expetendam, amicitiam, tam parvi facere ut plus macerie et parieti quam ipsi amico credas? NEOPHRONUS. Sane ex his sum qui non mediocriter mulctatus discessi. POLYTROPUS. O factum bene! At qui recita. (332) NEOPHRONUS. Audies. Satis iam atque satis ille suis ineptiis pontifex iustitiam laudans meam, ut dixi,

tropo 15: «Io giudicavo stolti e prepotenti coloro che mi tenevano nell’angolo più buio della casa, perché con questa cura diventassi per loro grosso, grasso e corpulento, e non mi toccavano né mi portavano alla luce, perché nessuno mi vedesse, e mi lasciavano inflaccidire sotto tanti ferri senza una colpa al mondo, non sapendo che poco

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NEOFRONO. Perché ridi? (326) POLITROPO. Rido di te, che pensavi che il denaro sarebbe stato più al sicuro in un terreno pubblico, non recintato, non chiuso né custodito, dove poteva succedere qualsiasi cosa e sotto gli occhi di tutti, piuttosto che presso un amico. (327) Dovremmo pensare che i mattoni siano più fedeli, saggi, diligenti, e costituiscano un presidio più sicuro contro i colpi della sorte, rispetto ad un amico in carne ed ossa? (328) NEOFRONO. Certo, sono d’accordo con te, ma chi sarebbe in grado di fare una rassegna completa dei tanti modi in cui durante la vita ci mostriamo stupidi, folli? Abbiamo più speranza nella fortuna che negli amici, più fiducia in un sasso che in un uomo. (329) POLITROPO. E così, essendo gli uomini procreati e prodotti per gli uomini, chi non capisce che dovere dell’uomo è stare tra gli amici e i cittadini, per giovare quanto più gli è possibile, con la sua opera, al maggior numero di persone?60 (330) Che dire infatti di uno che per avarizia o per altra forma di follia toglie di mezzo e fa sparire il denaro, cosa indispensabile e vantaggiosissima per la vita e la società umana? Non diremmo forse che quest’uomo sta gravemente sbagliando e che non c’è una pena adeguata per questa colpa? (331) Che malattia è poi questa, di considerare così poco l’amicizia – l’ottima, la più santa e più desiderabile fra tutti i beni umani – al punto da fare più affidamento sulle macerie e sui muri che su un amico? NEOFRONO. Certamente faccio parte di coloro che sono stati puniti non poco. POLITROPO. Giusto così! Ma racconta come. (332) NEOFRONO. Ascolta. Ormai da un pezzo quel vescovo con le sue fandonie straparlava lodando, come ho detto, il dopo se ne sarebbero andati lasciandomi a qualche altro fortunato». È, guardacaso, proprio quello che accade a Neofrono. 60 In questa sentenza dal sapore aristotelico sembra condensarsi tutto l’umanesimo civile, positivo, «mercantile» dei libri De familia, di cui questa intercenale, per molti aspetti, costituisce un controcanto.

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conclamitarat illucque tandem oratione pervenerat ut verbis huiuscemodi alioquin non ieiunis maxima, qua solent qui nocte vigilias vocitant, vocis contentione proclamaret. (333) Itaque brachium alterum et alterum iaculans: «O hominum», inquit, «prudentissime, o iustissime, o felicissime Neophrone, quanti te in vita fecisse decuit, cuius memoriam non paribus sed meritis laudibus concelebramus! (334) Quibus honoribus, qua gratia coram viventem amplecti oportuit, quem defunctum tantis desideriis prosequamur! (335) Quanti tuam facere memoriam convenit, cuius virtutes tantas fuisse nemo non intelligat, ut admirentur universi? Quis nunc te locus dignus pro his meritis tuis habet? Ipsi profecto Olympo ornamentum et decus attulisti. (336) O virtutem egregiam! O memoriam felicissimam! O cives desertos, cum te huic urbi natura eripuerit! O beatissimos, quibus te dei optimi pietas concivem ascripserit! O infelices, cum te ad supremam virtutem et gloriam imitandam hortatorem et magistrum amiserint; felices, si laudum et nominis tui florentissimam famam animis et memoria retinuerint!». (337) Hec pontifex. Tum ego mea demortua voce hac inquam: «O stulte, o inepte, o inculte, proterve, quis te dolor premit? Quis nunc te furor agitat? Quid exclamas? Quid tibi respondeam furenti? (338) Fugere hinc e conspectu fanatici, odisse stultorum intuitum liceat. Insanissimi, ignavi cives! quid huius temulenti blateronis confractam, strepentem confragosamque orationem tam attenti potestis audire? (339) An non sine 61 L’alternanza tra formule pagane e formule cristiane di invocazione («dei optimi pietas») è ampiamente attestata e non desta scandalo nella prima metà del Quattrocento. Ma sul finire del secolo a questo fatto apparentemente solo formale daranno invece importanza alcuni esponenti dell’umanesimo cristiano: Giovan Francesco Pico, ad esempio, si premurerà nel 1495-96 di emendare dalle formule paganeggianti gli scritti dello zio, il celebre Giovanni Pico della Mirandola, morto nel 1494, mentre alcuni decenni più tardi Erasmo auspicherà l’utilizzo di nomi di santi cristiani invece di divinità pagane, cfr. la lettera a Juan Maldonado del 30 marzo 1527, n. 1805). È abbastanza

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mio senso della giustizia e a un certo punto giunse a declamare parole ornate alzando al massimo la voce, come sogliono fare di notte le sentinelle al cambio della guardia. Gesticolando con un braccio e poi con l’altro: (333) «O Neofrono,» disse «il più saggio, il più giusto, il più fortunato degli uomini, di cui celebriamo oggi la memoria con lodi meritate ma non adeguate, quanto sarebbe stato meglio elogiarti in vita! (334) Con quali onori, con che affetto avremmo dovuto circondarti da vivo, te che da morto accompagniamo in corteo con tanta nostalgia. (335) Quanto dovremmo onorare la tua memoria, di te le cui virtù tutti sanno che sono state grandissime e universalmente stimate? In quale luogo di te degno ora ti trovi per i tuoi meriti? Senza dubbio sei a recar lustro e nobiltà all’Olimpo. (336) O virtù egregia! O memoria felicissima! O cittadini abbandonati da te, che la natura ha strappato dal mondo! O fortunatissimi coloro ai quali la pietà del buon dio61 ti ha ascritto come concittadino! O sfortunati coloro che ti persero come maestro e promotore della virtù suprema e della gloria; ma fortunati se hanno tenuto nell’animo e nella memoria il ricordo vivissimo del tuo nome e delle tue lodi!».62 (337) Così parlava il vescovo. Allora io, con la mia voce da morto, dico: «O sciocco, o stupido, o ignorante, sfrontato, per cosa mai soffri? Che furore ora ti agita? Cosa gridi? Ed io cosa dovrei rispondere a te che sei completamente pazzo? (338) Possa io fuggire via di qui, dalla vista di questo fanatico, e sdegnare lo sguardo degli stolti. Stupidi, scriteriati cittadini! come fate ad ascoltare con attenzione il discorso spezzettato, fragoroso e roboante di questo pallone gonfiato di parole?63 evidente, tuttavia, come l’uso dell’antica mitologia in Alberti (lo si vede bene nel Momus) non presupponga affatto un’adesione al culto pagano, ma si spieghi spesso con finalità di tipo satirico. 62 Questa maldestra e scalcinata orazione fa il paio, come mette in evidenza Cardini (p. 591), con quella del «rhetor» di Corolle (§§ 34-44), e insieme testimoniano della vocazione dissacrante dell’umorismo albertiano. 63 Sulla critica dei logorroici senza freni, in cui la parola divorzia dal pensiero, si veda, come suggerisce Cardini (p. 592), Aulo Gellio I 15.

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maxima indignatione hinc profugitis? Prorsus ego me hinc alio conferam». POLYTROPUS. Obtundebat? NEOPHRONUS. Nimis. (340) POLYTROPUS. Tu proin quid illi, ut ita dicam, rabule tam diutius aurem prebueras, cum nihil non elegans ac plane elimatissimum soleat tibi non esse fastidio? (341) NEOPHRONUS. Et quid censes? Quamquam inepta, vana indecensque illius esset oratio ac vultus, tamen (hoc fatear, necesse est) non sine aliqua voluptate detinebar: laudibus enim meis, etsi falsis, ornari, nescio quonam ipse pacto, gaudebam. (342) POLYTROPUS. Ergo absurdi quoque laudatores non aspernantur? NEOPHRONUS. Laudatores quis non perferat, latratorem qui sustineat? POLYTROPUS. Te itaque, dum laudare instituerat ille, ut nocturnum furem clamoribus fugavit! (343) NEOPHRONUS. Nempe profugavit. Idcirco pro vetere mea consuetudine aqueductum repeto. POLYTROPUS. Et quid isthic tibi fuerat negotii mortuo? Assem, existimo, ut sumeres, quem Charonti traderes. (344) NEOPHRONUS. Haud eram quidem tam insanus ut illud, quod de nummo aiunt, poetis crederem. Potius eo illuc animo delapsus eram ut mihi ipsi congratularer, quandoquidem ceteras res domesticas, libros et tabulas boni 64 Bacchelli-D’Ascia (p. 423) ipotizzano come ipotesto Hor. Ars 431-33: «Ut qui conducti plorant in funere dicunt / et faciunt prope plura dolentibus ex animo, sic / derisor vero plus laudatore movetur» («Come chi piange in un funerale perché lo si paga per farlo / mostra in apparenza maggior dolore di chi è afflitto davvero, / così chi loda per burla è più efficace di chi lo fa sinceramente»). 65 Cfr. Apul. Met. VI 18: «Ergo et inter mortuos avaritia vivit, nec Charon ille Ditis exactor tantus deus quicquam gratuito facit. Sed moriens pauper viaticum debet quaerere, et aes si forte prae manu

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(339) Non ve ne andate via da qui massimamente indignati? Io me ne vado subito altrove». POLITROPO. Ti assordava? NEOFRONO. Troppo. (340) POLITROPO. E perché allora avevi prestato orecchio tanto a lungo a quel cane rabbioso, chiamiamolo così, dal momento che di solito non sopporti di sentire qualcosa che non sia perfettamente elegante e limato? (341) NEOFRONO. Cosa credi? Per quanto il suo discorso e la sua mimica fossero del tutto inadeguati, oltre che brutti ed inefficaci, tuttavia (devo confessarlo) lo ascoltavo non senza un certo piacere: mi piaceva, non so come mai, essere esaltato dalle sue lodi, per quanto false.64 (342) POLITROPO. Dunque anche gli assurdi adulatori sono apprezzati? NEOFRONO. Chi, se riesce a reggere il detrattore, non riesce a sopportare l’adulatore? POLITROPO. E così, mentre quello aveva deciso di lodarti, con le sue urla ti ha messo in fuga come un ladro nella notte! (343) NEOFRONO. In effetti mi fece fuggire. Come ero solito fare, mi diressi verso l’acquedotto. POLITROPO. Cosa avevi da fare lì, ora che eri morto? Forse andavi a prendere la moneta da dare a Caronte.65 (344) NEOFRONO. Non ero certo pazzo al punto da credere alla storia della moneta che narrano i poeti. Piuttosto ero andato là con l’intenzione di congratularmi con me stesso, dal momento che tutto quello che avevo in casa, non fuerit, nemo eum exspirare patietur» («Sappi che l’avidità è viva anche in mezzo ai morti, e che nemmeno Caronte, l’esattore di Dite, che pure è un dio tanto grande, fa niente gratis: anche un povero, quando muore, deve trovare i soldi per il viaggio, e se per caso non li ha lì pronti non gli lasciano tirare l’ultimo respiro»). Per questo i romani, durante il rito funebre, erano soliti mettere una moneta sotto la lingua del defunto.

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affines nostri arripuissent, has tamen prudenti meo consilio in aqueductu reconditas pecunias intactas reperirem. (345) POLYTROPUS. Mallem in eam partem fidem poetis adhibens peccasses quam in hanc: primus enim stultitie gradus est suis maxime consiliis temere confidere. (346) NEOPHRONUS. Recte quidem; neque enim primum stultitia mea patefacta est quam est pena stultitie persoluta. Nam eodem ipso in loco, quo aurum inerat, offendi argentarium cum malleo aqueductum diruentem. (347) POLYTROPUS. Hem, quid ais? Huncne illum Tirsum qui ob rem illam abs te iudicatam acerbo illo in te animo erat affectus? (348) NEOPHRONUS. Hunc isthunc ipsum, in quem mea innocentia iniurias acerbissimas exsuscitavit. (349) POLYTROPUS. Belle igitur congratulari tibi ex instituto potuistis! At quonam pacto infossas illic esse pecunias rescierat? NEOPHRONUS. Haud quidem rescierat. POLYTROPUS. Quid ergo? (350) NEOPHRONUS. Cetera prorsus ignoro, nisi ut ipsum vidi argentarium ad aqueductum desudantem multaque vi cum malleo arcum demolientem atque his verbis inquientem: «Quid hoc fastidii est isthanc ob structuram aqueductus tam esse huius villam concelebratam? Quis hoc possit pati huic duro ac pertinaci homini tantam esse gratiam comparatam? Non quidem habebunt isti, non has habebunt delicias aquarum». (351) POLYTROPUS. Aquam igitur elaborabat eripere. NEOPHRONUS. Immo diripuit aurum. POLYTROPUS. At debuit liberis tuis restituisse, homo si fuit frugi. Numquidnam…?

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libri e quadri, era stato depredato dai miei buoni parenti, e lì nell’acquedotto avrei ritrovato tutto intero il gruzzolo di monete che avevo avuto la saggia idea di nascondere. (345) POLITROPO. Avrei preferito che tu sbagliassi in quel senso, prestando cioè fede ai poeti, piuttosto che in quest’altro: il primo grado della follia è confidare ciecamente nelle proprie idee. (346) NEOFRONO. Dici bene. La mia follia non fece in tempo a manifestarsi che ne avevo già pagato il fio. Infatti proprio nel luogo dove avevo nascosto l’oro trovai il banchiere intento a distruggere l’acquedotto con una mazza. (347) POLITROPO. Cosa? Dici quel Tirso che ce l’aveva con te per quella questione della sentenza che avevi emesso? (348) NEOFRONO. Proprio quello, nel quale la mia integrità aveva suscitato un acutissimo desiderio di rivalsa. (349) POLITROPO. Potevi, come al solito, ben congratularti con te stesso! Ma come aveva saputo che lì erano state sepolte le monete? NEOFRONO. Non lo sapeva affatto. POLITROPO. E allora? (350) NEOFRONO. Ignoro tutto il resto, so solo che ho visto il banchiere lì presso l’acquedotto che sudava per demolire l’arco, e ci dava dentro con la mazza, mentre così diceva: «Non è insopportabile che grazie all’erezione di questo acquedotto la villa di costui sia divenuta così famosa? Chi riuscirebbe a sopportare che abbia procurato tanto favore ad un uomo stupido ed ottuso? Ma non l’avranno, costoro non avranno quest’acqua deliziosa». (351) POLITROPO. Ce la metteva tutta per togliere loro l’acqua. NEOFRONO. Di più, sottrasse loro il malloppo. POLITROPO. Se era un uomo per bene, avrebbe dovuto restituirlo ai tuoi figli. Fece così…?

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(352) NEOPHRONUS. Nempe sustulit, nusquam constitit, abiit, undequaque circum respectans, letus, subridens, saltitans evolavit. POLYTROPUS. Ha he! o factum pulchre! (353) NEOPHRONUS. Est idcirco ut aiunt: fortuna malos diligit, odit probos, male merentibus bene facit, in eos vero qui aspirare ad decus et laudem nituntur, infesta est, favet nequissimis, obstat optimis. POLYTROPUS. Tune id censes? (354) NEOPHRONUS. Quidni? Equid inficier, quod res ipsa edocuit? Qui enim rem suo facinore plenam invidie, plenam sceleris ut exequeretur venerat, is meis ex laboribus opulentissimus et gaudii refertissimus discessit. Mihi contra: nam quod propria virtute congessi, aliorum flagitia exceperunt. (355) POLYTROPUS. Proinde igitur licet intelligere quam falsa eiusmodi sententia sit tua: ni aurum illic dementia iniecisset, quero cuius nequitia tui aliquid invenisset. NEOPHRONUIS. Recte sane. (356) POLYTROPUS. Tum idcirco quis putarit fortunam vi sua malos extollere, ubi palam est eos ferme omnes, qui vulgo fortunati dicuntur, hominum improbitate aut stultitia crevisse? (357) Tolle cupiditates, tolle ignaviam, sustuleris imperium, si quod illi attribuendum est, fregeris vim, neglexeris impetum furentis fortune. 66 «Inficier», nel testo latino, è una variante grafica di infitier (cong. pres. del verbo deponente infitior, -aris, -atus sum, -ari). 67 L’antico motivo consolatorio secondo il quale non è la malasorte la causa delle sventure del singolo, bensì la sua condotta, ritorna in molte Intercenales (cfr. Religio, Erumna). Cardini (p. 592) ha istituito un opportuno parallelo col pressoché coevo Prologo ai libri De familia: «Da molti veggo la fortuna più volte essere sanza vera cagione inculpata, e scorgo molti per loro stultizia scorsi ne’ casi sinistri, biasimarsi della fortuna e dolersi d’essere agitati da quelle fluttuosissime sue onde, nelle quali stolti se stessi precipitorono. E così molti inetti de’ suoi errati dicono altrui forza furne cagione».

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(352) NEOFRONO. Proprio… l’ha preso, non ha indugiato un secondo e se n’è andato, guardandosi intorno da tutte le parti, felice, sorridente, volò via saltellando. POLITROPO. Ah, ah! Che storia! (353) NEOFRONO. È proprio come dicono: la fortuna ama i cattivi, odia i buoni, procura del bene a chi non se lo merita, è nemica di coloro che si sforzano di raggiungere dignità ed onori, favorisce i più malvagi, ostacola i migliori. POLITROPO. La pensi così? (354) NEOFRONO. E perché non dovrei? Come potrei negare66 ciò che ella stessa mi ha insegnato? Chi infatti era venuto per compiere un’azione criminosa a causa dell’invidia, se n’è andato via felicissimo e reso ricco dai frutti delle mie fatiche. A me è accaduto il contrario: ciò che avevo raccolto con le mie doti, la slealtà altrui me l’ha portato via. (355) POLITROPO. Da quel che dici si può comprendere quanto sia falsa un’opinione di tal tipo: se la tua follia non ti avesse fatto deporre il denaro lì, mi chiedo come avrebbe fatto la malvagità altrui a trovare qualcosa di tuo.67 NEOFRONO. Dici bene. (356) POLITROPO. Allora chi può credere che sia la fortuna col suo potere ad innalzare i malvagi, quando è evidente che quasi tutti coloro che il volgo definisce fortunati si sono arricchiti grazie alla follia o agli errori degli altri? (357) Togli la cupidigia, togli l’inoperosità e avrai tolto il potere alla prepotente fortuna – ammesso che sia da attribuirle potere –, le avrai infranto le forze, smorzato l’impeto.68 Ma a questo proposito si può citare anche un brano dai Profugiorum ab erumna libri (p. 157), che proprio alla nostra intercenale fa probabilmente riferimento: «Ma se forse, come tu scrivi in una delle tue iocundissime intercenali, Battista, la fortuna di noi mortali non viene dal cielo ma nasce dalla stultizia degli uomini, ricevianle fatte come dagli uomini simili a te, proclivi e dediti a ogni passione d’animo e incostanza». 68 Cfr. Sen. Ep. 59, 18 «quod non dedit fortuna non eripit» («la fortuna non ci può strappare ciò che non ci ha dato»).

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(358) NEOPHRONUS. Est profecto ut dicis, atque ideo mortalium sorti vel potius ingeniis condolendum est, qui vel nesciant vel nequeant consilio, prudentia aut virtute integra perfrui. (359) Mens namque mortalium omnis et institutio est malis moribus, corruptis iudiciis, levissimis voluptatibus, stultissimis opinionibus imbuta, ut longe plures in orbe terrarum offendas insanos quam homines; (360) siquidem ex me capere exemplum liceat, quem omnes prudentissimum atque sapientissimum putavere, quid poterit ad meam dementiam addi? (361) Ut cetera omittam, ego dignissimam odio mulierem amavi; impudicam pudicissimam, infidam fidissimam iudicavi; turpissime ac omnium fedissime et spurcissime femine serviens paterfamilias obtemperavi; mee mortis cupidissimos educavi; (362) edaces, dissipatores, helluones qui erant, hos modestissimos, sobrios atque parcissimos putavi; fortunas meas et familiam latronibus commendavi; meo sudore et sanguine, multis militando periculis acquisitas divitias, ut inimicissimos ditarem, collocavi. (363) Cognosce idcirco qualem in ceteris me prebuerim rebus, cum in primariis istiusmodi pietatis et humanitatis officiis ita gesserim me, ut nihil non stulte, non inepte factitarim. (364) Quid est in mea omni etate quod me non frustra periclitatum esse iudicari oporteat? O idcirco mortalium ceca mens! O tardum ad prudentiam et virtutem ingenium, ad stultitiam, errorem, ambitionem levitatemque proclives animos! O ad turpitudinem, scelus, ad nefas, ad flagitium proruentes sensus! (365) Vosque, o cetus hominum, versutiis, calliditatibus, malitia, tergiversationibus, ambiguitatibus, deceptione, suspicionibus, libidinibus, fraude, fallaciis, dolis, cupiditatibus, meroribus, vanitate, mendaciis erroribusque atque omnibus miseriis refertissimi! (366) Quis cupiat isthic, si sapit, inter mortales apud quos non 69 Un’ulteriore allusione oraziana, come puntualizza Cardini (p. 592), cfr. Serm. II 3, in part. v. 32 «insanis et tu stultique prope omnes» («anche tu sei pazzo, e quasi tutti sono stolti»).

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(358) NEOFRONO. È proprio come dici, e bisogna senz’altro compiangere la sorte dei mortali, o piuttosto la loro inclinazione a non sapere o non riuscire a sfruttare a pieno la ragione, la saggezza e la virtù. (359) La loro testa, sin dalla prima formazione, è tanto ripiena di cattive abitudini, pensieri corrotti, piaceri volubili e credenze sciocchissime, che su tutta la terra tu trovi più folli che uomini;69 (360) per fare un esempio tratto dalla mia esperienza: io, che ero da tutti considerato saggissimo e dottissimo, potevo essere più folle di così? (361) Per lasciar perdere il resto, io ho amato una donna davvero meritevole d’odio; era impudica e la ritenni pudicissima, era infedele e la ritenni fedelissima; da capofamiglia ho accettato di servire la più turpe, indegna e schifosa delle donne; ho educato creature che desideravano tantissimo la mia morte; (362) erano ingordi, dissipatori, mani bucate e li ritenni moderati, sobri, risparmiatori; ho affidato a dei delinquenti la mia famiglia e le mie fortune; il patrimonio accumulato con tanta fatica, combattendo nell’esercito tra mille pericoli, le ho nascoste in un posto per arricchire i miei nemici giurati. (363) Immagina poi come io abbia affrontato le altre cose, se in queste riguardanti i vincoli di familiarità e affetto, io mi sono sempre comportato da sciocco e inetto. (364) C’è qualcosa in tutta la mia vita dove si possa dire che io non abbia fallito? O cieca mente degli uomini!70 O ingegno poco incline alla saggezza e alla virtù, animi votati alla stupidità, all’errore, all’ambizione e alla vacuità! O sensi che fan precipitare nella turpitudine, nei crimini, nei delitti, nell’empietà! (365) E voi, o ceto degli uomini, stracolmo di astuzie, furbizie, malizie, tergiversazioni, ambiguità, inganni, sospetti, lussurie, frodi, tranelli, imbrogli, desideri, dolori, vanità, menzogne, errori e ogni altro tipo di miserie! (366) Chi, se assennato, vorrebbe vivere tra gli uomini presso i quali 70 Cfr. Lucr. II 14 «O miseras hominum mentes, o pectora caeca!» («O misere menti degli uomini, o petti ciechi!»).

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verum, non simplex, non purum, non fidum, non pium, non permanens, non sincerum, non solidum, constans aut diutinum effici invenirive quicquam aut expectari potest; (367) quis, inquam, o homo infelix, quis est qui cupiat inter tantas perpetuas miserias, inter tam maximas vite atque assiduas calamitates diutius esse? (368) Taceo morbos et egritudines corporis, que infinite hominem conficiunt, ac minimi etiam facio reliqua huiusmodi, sitim, famem, somnum, fessitudinem, algores, estus, satietatem, que res omnes cum iteratis molestiis oppressa et obsessa membra teneant, tum mentes vehementer agitant, animos labefactant ipsamque rationem hominum atque mentem ita perturbant, ita prosternunt, ut nimis sepe humana ad virtutem et sapientiam suscepta studia cursumque interpellent atque dirumpant. (369) Iam vero eo quid laboriosius, quid magis sollicitum quam ipsa vivendi causa et cupiditas? quid magis anxium atque exercitum, quid omni periculorum, erumnarum dolorumque genere atque malis omnibus subactum, pressum confectumque magis quam vita ipsa mortalium dici aut fingi potest? (370) Rem quidem fugiendam, que tantum aure et solis amenitate ducta perpetuis atque iisdem gravissimis cruciatibus carere nullo pacto potest! (371) Quare illi quidem felicissimi sunt existimandi qui antequam tot vite malis premerentur, in ipsis vite vestibulis, in ipso lucis ingressu decesserunt. (372) Equidem in eum propitii fuistis, superi, cui vestra pietate concessum est ut diem ante obiret suum, quam omnes etatis

71 Fonte di questo passo, come notano Bacchelli-D’Ascia (p. 429), è probabilmente un brano platonico, il Fedone (66b-67b: «Infinite sono le inquietudini che il corpo ci procura per le necessità del nutrimento; e poi ci sono le malattie che, se ci capitano addosso, ci impediscono la ricerca della verità»), opera che Alberti poteva leggere nella recente traduzione di Leonardo Bruni. 72 Probabile riferimento autobiografico, cfr. Autobiografia §§ 8-9. 73 Cfr. Assioco 365a-366a. Si tratta di un dialogo pseudoplatonico che insegna a disprezzare la vita e a non avere paura della morte

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non è dato aspettarsi o trovare nulla di vero, di semplice, di puro, di fidato, di onesto, di buono, di duraturo, di sincero, di solido, di costante e stabile? (367) Chi, mi domando, o umanità infelice, chi desidererebbe stare a lungo tra miserie perenni tanto grandi, tra disgrazie tanto gravi e persistenti? (368) Tralascio le malattie e le infermità del corpo che in numero infinito consumano l’uomo,71 come tengo in minima considerazione gli altri inconvenienti di questo tipo, la sete, la fame, il sonno, la stanchezza, il freddo, il caldo, la sazietà, tutte cose che, qualora ripetute, da un lato gravano e opprimono il corpo, dall’altro si ripercuotono violentemente anche sulla mente, abbattono gli spiriti e sconvolgono in tal modo l’ordine della mente umana che interrompono il corso degli studi d’umanità intrapresi per raggiungere virtù e saggezza.72 (369) Che c’è infatti di più faticoso, e motivo di più apprensioni, che la stessa e profonda brama di vivere? Cosa si può immaginare o dire di più angosciante e sempre soggetto a prove, che cosa di così sottoposto, oppresso e schiacciato da ogni genere di pericoli, sventure e dolori, insomma da ogni male, quanto la vita stessa dell’uomo? (370) Una cosa assolutamente da fuggire, se, piacevole solo per l’aria e il sole, non può mancare in alcun modo di piaghe costanti e per giunta gravissime.73 (371) Perciò sono da considerare fortunatissimi coloro che abbandonano questa vita appena entrativi, nel vestibolo della vita, prima di essere vessati da tanti mali. (372) Certamente, o dei, foste propizi a coloro che, per pietà, decideste di far morire prima di conoscere tutte le e che ai tempi di Alberti era ritenuto autentico, cfr. Cardini, p. 593. Hanno scritto Bacchelli-D’Ascia (p. LXIX): «Il pessimismo dell’Assioco, di Plinio, dello Pseudo-Ippocrate, che sottolineava la debolezza naturale dell’uomo e lo spettacolo di assurda violenza offerto dalla vita politica, viene a corroborare in Defunctus la negazione satirica della provvidenza – quanto meno della provvidenza antropomorfa della religione popolare – già articolata in Religio, Virtus, Discordia».

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miserias norit. (373) Quis erit hoc beatior putandus homine, qui neque eos, quos nemo vir potest effugere, dolos muliebres subierit neque affinium iniquitates pertulerit neque in aculeos et morsus inimicitiarum neque in malorum hominum stimulos inque iniurias vivendo inciderit? (374) An is non erit fortunatissimus iudicandus qui nihil maximis curis et vigiliis laboriosissimum, nihil acerrimis studiis frustra conatus sit? (375) Cum eo certe preclare actum est, quem longior vite dies in temeritatem fortune, in temporum acerbitates atque procellas rerum minime traxerit. (376) Que quidem res omnes ita vite mortalium inherent, ita animis et rebus hominum implicite sunt, ut nisi mortis beneficio evitari nequeant. (377) Habeat igitur ille, habeat superis gratias qui ita vixerit ut modicis cum vite malis sibi certandum fuerit, ita occubuerit ut ad hec tam multa mortis, tam divina bona ad hanc tam mirificam libertatem, ad hanc scientie et veritatis tam claram, splendidam, explicitam apertissimamque cognitionem, in qua defuncti constituti sumus, morte citissima pervenire licuerit. (378) POLYTROPUS. Vide ne ille felicior ac beatior longe sit qui fortune temeritatem consilio et prudentia fregerit, qui acerbitatem tolerantia et patientia superarit quive sensus et appetituum stimulos ratione et ordine temperarit. (379) Mihi quidem, ubi superum beneficio liceat, nihil eque in primis dari opto, quam ut pristinum corpus reintegrem: (380) nam in ea preclarissima certandi materia, in illa ipsa pulcherrima et ornatissima compage membrorum iuvabit, 74 È il tema del «muore giovane chi è caro agli dei». Si tratta di un topos di larga attestazione nell’antichità, come dimostra F. Condello, Giovinezza, morte e contrappasso: per l’analisi di un topos greco, «Griseldaonline», 5 (nov. 2005 – ott. 2006), http:// www.griseldaonline.it/percorsi/5condello.htm. Bacchelli-D’Ascia (p. 431) suggeriscono tuttavia come ipotesti Cic. Tusc. I 114; Plutarco Consolazione ad Apollonio 115e, oltre ad un brano pressoché coevo di una Consolatio del Marsuppini. Cardini (p. 593) ricorda

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miserie della vita.74 (373) Chi dovrebbe essere considerato più beato di colui che vivendo non subisce gli inganni delle donne, che per l’uomo sono inevitabili, colui che non deve sopportare le ingiustizie dei parenti né gli aculei e i morsi delle inimicizie e a cui non capita di imbattersi nelle offese e nelle ingiurie di uomini malvagi? (374) Non dovremmo ritenere fortunatissimo costui, che non si è sforzato inutilmente giorno e notte, profondendo il massimo impegno, in studi che non servono a nulla? (375) Certamente è andata benissimo a colui al quale una vita più breve ha risparmiato i colpi della fortuna, le circostanze aspre e le tempeste dell’esistenza. (376) Tutte queste cose fanno tutt’uno con la vita dell’uomo, sono così connaturate al suo animo e alle sue vicende, che solo col beneficio della morte si possono evitare. (377) Renda allora grazie, renda grazie agli dei colui che ha vissuto così poco da affrontare solo mali esigui, e a cui una morte rapidissima ha concesso di accedere ai molti beni divini della morte, a questa tanto magnifica libertà, a questo sapere tanto luminoso, splendido, esplicito e chiarissimo di scienza e virtù nel quale noi defunti siamo calati. (378) POLITROPO. Considera se non sia di gran lunga più contento e beato colui che con intelligenza e saggezza ha fiaccato l’irruenza della fortuna, chi, con pazienza e tolleranza, ne ha vinto l’asprezza o chi, con ragionevolezza e calcolo, ha temperato i sensi e i pungoli dei desideri. (379) Io, se gli dei me lo potessero concedere, non desidererei altro che tornare nel mio vecchio corpo: (380) infatti in quell’insigne strumento da combattimento, in quel complesso bello e armonioso di la ripresa di questo tema anche nell’epilogo del Theogenius (pp. 103-104): «Adunque a chi esca di vita diletterà morire, se serà non imprudente, quanto conoscerà che per benefizio della morte, come dicea Eschillo, esso esca in libertà da mille contro e’ mortali infesti e apparecchiati mali […] Onde quello che dicea Plinio ne avviene che vediamo chiesta niuna quanto la morte essere dalli dii frequentata; quale uno dono si legge in premio di grandissimo merito a molti buoni gli dii accelerorono».

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multo quam antehac egerim, ardentius experiri quid egregie valeam ad ultimam gloriam et felicitatem pulcherrime comparandam. (381) Atque erit voluptati prope incredibili posse cum me ipso laudatissimo perfrui, tum ceterorum ineptias irridere. (382) NEOPHRONUS. Ab isthac sententia longe absum: non enim video vir bonus et pius ex miseriis, curis, sollicitudinibus, angoribus cruciatibusque hominum quam possit voluptatem capere. (383) An tu istiusmodi spectacula ridicula censes, que cuivis duro et agresti possunt misericordiam et merorem afferre? (384) Quis erit usque adeo immanis et efferatus, qui humani generis condicionem sibi ante oculos ponens, queat lacrimas continere? (385) Videbit enim quam multa misera et intolerabilia per omnium manus et mentes pervagentur, tum etiam perspiciet quanta asperrima et durissima mortalium animos circumsepserint. (386) Hinc furens atrociter fortuna urget, illinc motus rerum et eventus vehementer obstat; hinc altrices vitiorum et alumne voluptates insidiantur, illinc ratio depravatis moribus acta et nimio sensus impetu labefacta prosternitur ac iacet; (387) hinc denique ipsa natura, usus atque mos tum alimenta, tum ornamenta et delitias infinitas exposcit, illinc vero angustie temporum, magnitudo negotiorum, tarditas et inconstantia consiliorum, infirmitas et levitas iudiciorum retorquet. (388) Quibus omnibus rebus, mi Polytrope, nemo ferme, nisi a quodam munere et beneficio Dei summo et singulari sit adiutus, unquam erit aptus aut accommodatus; (389) nemo ad veri investigationem aut ad rectum et honestum actionum ordinem aut ad nature et

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membra saprei provare con molto più ardore di quanto non abbia fatto prima quanto sia bravo a procurarmi la massima gloria e felicità. (381) Per me sarà un piacere quasi incredibile potere da una parte godere dei miei meriti e dall’altra deridere le sciocchezze degli altri. (382) NEOFRONO. Non sono per niente d’accordo con te: non vedo infatti come possa l’uomo buono ed onesto prendere piacere dalle miserie, dagli affanni, dalle preoccupazioni, dalle angosce e dai dolori che spettano all’uomo. (383) Giudichi ridicoli spettacoli di questo tipo, che anche ad un uomo incolto ed insensibile procurerebbero pietà e dolore? (384) Chi sarà a tal punto disumano e crudele che, messagli davanti agli occhi la condizione del genere umano, saprà trattenere le lacrime? (385) Vedrà infatti la miriade di cose miserevoli e intollerabili che trapassano menti e corpi di tutti,75 così come vedrà quanti tormenti e fatiche assediano gli animi dei mortali. (386) Da una parte la furente fortuna incalza terribilmente, dall’altra si frappone con violenza al corso delle cose e degli eventi; da una parte ci insidiano i piaceri, che alimentano i vizi e poi da questi sono cresciuti, dall’altra giace prostrata la ragione, spinta dai costumi corrotti e indebolita dall’impeto eccessivo delle passioni; (387) da una parte, infine, la natura stessa, l’uso e la consuetudine chiedono cibo, ornamenti e piaceri infiniti, dall’altra però si ritorcono contro l’uomo le ristrettezze dei tempi, la vastità degli impegni, la lentezza e l’incostanza nelle deliberazioni, la debolezza e la volubilità dei giudizi. (388) Sicuramente nessuno sarà mai adatto o in grado di adattarsi a tutto ciò, caro Politropo, a meno che non sia sostenuto da un dono magnifico e singolare di Dio; (389) nessuno che non goda di 75 Cardini (p. 594) rimanda a Cic. De leg. I 32: «Molestiae laetitiae, cupiditates timores similiter omnium mentes pervagantur» («Le afflizioni e le gioie, le brame ed i timori analogamente si aggirano per gli animi di tutti»).

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rerum causam ac rationem adipiscendam erit, nisi faventibus superis, potens; , que recensui, rebus conferet. (390) Tantum idcirco abest ut, ipso me perfrui posse existimans cupiam de integro in corpus recludi, ut quidvis potius patiar quam in illam ipsam putridam et fetidam crassitudinem carnis, in ipsam sedem et domicilium laborum, in ipsam (ut ita loquar) colluviem et comitium turbulentissimarum omnium agitationum, in eam officinam curarum et molestiarum, in id receptaculum et hospitium dolorum, in eandem sentinam omnis generis turpitudinum et malorum, in eundem ipsum ingenii, mentis, rationis infestissimum detestandumque inimicum et hostem, ventrem – omnia, inquam, satius est perpeti quam corruptum illud in cadaver recidere. (391) Atque, ut apertius intelligas quid nobis sit hac in re animi, ego cum primum ex illo obscurissimo, tenebrosissimo atque valde horrendo carcere corporis prosilissem ac solutissimum expeditissimumque me iam esse animadvertissem, tunc institueram plerasque, quas vivens ob studiorum assiduitatem nequiveram videre, orbis regiones petere. (392) At vero, posteaquam unicus dies, unica domus, unicum funus infinitam hominum stultitiam mihi et nequitiam patefecerint, dii immortales, que me nausea et fastidium rerum humanarum cepit! (393) Etenim si afflicta in

76 Il corpo come carcere è una dottrina di chiara derivazione platonica (cfr. Fedone 66b), ripresa però anche da Cic. Somn. 14 «hi vivunt, qui e corporum vinclis tamquam e carcere evolaverunt, vestra vero, quae dicitur, vita mors est» («appunto questi vivono, i quali s’involarono dalle catene del corpo come da un carcere, mentre quella vostra, che è detta vita, è morte»). Di questa dottrina di ascendenza platonica risente anche, ad esempio, l’apologo 54 di Alberti: «Puer, quom radios solis amplexibus pretendere nequisset, obcludere inter volas manus eos elaborabat. Inquit umbra: “Desine inepte, nam res divine carcere mortali nusquam detinentur”» («Un ragazzo, non essendo riuscito a stringere tra le braccia i raggi del sole, tentava di racchiuderli nel palmo della mano. Gli disse l’ombra:

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un particolare favore degli dei sarà in grado di ricercare la verità, le norme di comportamento giuste ed oneste, il funzionamento della natura; delle cose che ho passato in rassegna. (390) Perciò tornare di nuovo nel mio corpo e poter godere di me stesso è l’ultima cosa che desidero, tanto che sarei pronto a sopportare qualsiasi altra cosa piuttosto che ricadere in quella putrida e fetida grassezza del corpo, in quella sede e domicilio delle fatiche, in quel – per così dire – consesso di tutte le peggiori agitazioni, in quel laboratorio di ansie e d’affanni, in quel ricettacolo e ospizio di dolori, in quella sentina di mali e turpitudini di ogni genere, in quello che è il peggiore e deplorevole nemico dell’ingegno, dello spirito e della ragione, il ventre; ogni cosa, insomma, è preferibile al ricadere in quel cadavere marcio. (391) E, perché tu capisca più chiaramente come io la pensi, ti dico che, non appena mi resi conto di essere sciolto e libero dall’oscurissimo, tenebrosissimo e davvero orrendo carcere del corpo,76 decisi di girare il mondo, per vedere tutte quelle terre che da vivo, per l’assiduità dello studio, non avevo potuto vedere.77 (392) Ma dal momento che furono sufficienti un unico giorno, un’unica casa e un unico funerale a mostrarmi l’infinita malvagità e la follia degli uomini, santi numi, che “Smettila, sciocco: le cose divine non possono essere rinchiuse in una gabbia mortale”»). 77 Se per lo stoicismo espresso da Seneca in alcune sue lettere a Lucilio l’ardore di viaggiare è sintomo dello stare nescire e dunque espressione di una stigmatizzabile inconstantia, nella Consolatio ad Helviam (6, 6) lo stesso Seneca riferisce, questa volta senza biasimo, la convinzione di coloro che reputano il piacere di viaggiare «una espressione della nobiltà e divinità d’animo» (Bacchelli-D’Ascia, p. 435). Il fatto poi che questa sentenza di Neofrono («institueram plerasque […] orbis regiones petere») sia, come rileva Cardini (pp. 594-95), una autocitazione dal De commodis litterarum atque incommodis, dimostra ancora una volta come Defunctus possa intendersi come un controcanto del trattatello giovanile.

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domo, lugubri in familia, funesta in die unica, tantas ineptias, perfidiam fraudemque omnis generis et etatis in hominibus comperi, si tum maxime cum omnis lascivia solet mortis exemplo et meditatione coerceri et vite brevitas ac imbecillitas recognita ad graviter et mature vivendum hortari, tam iniustos, tam nefarios tamque flagitiosos esse homines didici, quid me inventurum putassem, ubi dies festos, ebrios et solutos voluptate, ubi provincias, ubi gentes orbis lustrassem? (394) Idcirco ceteris quidem omissis rebus ac visendi cupiditate abiecta, huc ad vos inferos pernicissime contendendum putavi. (395) Cum itaque a vinclo et mole carnis vix tum primum discesseram, is fui qui ab insaniis et dementiis mortalium illico abhorrui. (396) An idem ero qui admodum solutus, liber et sapiens cupiam iterum illigari, iterum in servitutem redigi? Vel tune is eris qui stolidum et delirum in mortalium gregem iterum optes restitui? (397) Iam quidem nihil agendum ipse imprimis censui quam eo multo ex vociferantium tumultu, ex grandi et turbulentissimo illo conviciorum strepitu, ex vasto infinita expostulantium eiulatu exque terribili armorum et eversionum fragore atque ex execrabili scelerum, impietatum flagitiorumque fetore huc ad vos opportune profugere, cedere illis longe immanissimis furiarum spectaculis, huc me ad vos conferre, quo quidem in loco futurus sim animo, ut spero, vacuo ac nudo omni terrenorum macula et labe. (398) Quam ob rem vehementer ipse mihi congratulor: nam illic dimisi insaniam, tarditatem, hebetudinem, stoliditatem; hic autem rectam veramque prudentiam et sapientiam una et acrem mentis atque ingenii vim multa cum celeritate pervestigandi, discernendi dignoscendique suscepi. (399) Adde his quod, cum non pessime vixerim, facile omnium molestiarum, quas nemo in vita potest effugere, vacationem beneficio mortis

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nausea e che fastidio mi prese del genere umano! (393) Infatti se in una casa mesta, afflitta da un lutto, in un solo giorno, e per di più funesto, ho trovato negli uomini tante sciocchezze, malvagità e inganni di ogni tipo, sia nei giovani che negli anziani, e se ho imparato – proprio quando la dissolutezza di solito è trattenuta dal pensiero e dalla meditazione sulla morte e la consapevolezza della brevità e della fragilità della vita inducono a vivere con serietà e maturità – che gli uomini sono tanto ingiusti, cattivi e sciagurati, cosa mi sarei dovuto aspettare di trovare quando avessi visitato province e genti ebbre e disinibite dal piacere dei giorni di festa? (394) Perciò, passatami la voglia di vedere il mondo e lasciato perdere tutto, ho pensato di dover venire quanto prima quaggiù da voi agli inferi. (395) Non appena mi allontanai dal vincolo carnale del corpo, solo allora fui tale da disprezzare la demenza e la follia dei mortali. (396) E ora che sono completamente svincolato, libero e saggio, dovrei desiderare di tornare ad essere legato, di tornare a servire? O sarai tu a desiderare di tornare nel gregge stolido e delirante degli uomini? (397) Ormai ho deciso che non voglio fare altro che fuggire da questa ressa di persone schiamazzanti, da questo enorme e turbolentissimo strepito di insulti, dagli assordanti piagnistei di persone che chiedono all’infinito, dal terribile fragore delle armi e delle insurrezioni e dall’esecrabile fetore delle nefandezze, dei delitti, delle empietà; voglio andare via e rifugiarmi opportunamente presso di voi, allontanarmi da quegli spettacoli davvero osceni di violenza e recarmi qui presso di voi dove starò, spero, con l’animo libero e netto da ogni macchia e peccato terreno. (398) Per questo motivo mi congratulo assai con me stesso: difatti lì ho abbandonato la follia, la debolezza, l’ottusità, la stupidità; qui invece ho appreso la retta e vera saggezza e avvedutezza, insieme al discernimento e ad una acuta capacità di giudizio, con rapidità di ricerca, critica e distinzione tra le cose. (399) A questo aggiungi che, benché io non abbia vissuto malissimo, con la morte è cominciata

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inivi. (400) Quid igitur prestabilius morte, quid appetendum magis, quid eque omnibus optimis rebus longe anteponendum est? Quis unquam, ut par est, mortem hanc ipsam tantorum bonorum exhibitricem vel mediocriter laudarit? (401) Tum contra quid magis detestandum, fugiendum atque eque in ultimis malis locandum est quam illa anhelandi, desudandi esuriendique necessitas quam vitam dicunt? (402) Mihi quidem isthac mirifica et divina cum libertate apud inferos esse prestat quam apud superos illis cum erumnis et miseriis quibus mortales immersi sunt. (403) POLYTROPUS. Laudo iam nunc te atque in tuam sententiam facile deducor, sed sic rem totam moderandam esse existimo. (404) Qui in vita constituti sunt suas ingenii et animi vires intueantur secumque pensitent ac dinoscant quemadmodum a natura comparati ad adipiscendam obtinendamque virtutem et sapientiam in vitam venerint; (405) sui corporis et ingenii formam, decus atque vires animo advertant atque id a rerum omnium conditore Deo sibi esse largitum idcirco putent, ut de se quam optime mereantur: quo divino pro munere nunquam cessabunt dignos se ac benemerentes reddere. (406) Idcirco virtutem in primis Deo gratissimam et sapientiam summis studiis multoque opere prosequentur; a corporis obsequio indulgentiaque discedent; appetitum rationi subiicient; voluptatem et libidinem laudatissimis institutis honestissimisque studiis coercebunt; (407) morositatem et iracundiam virtuti inimicam omnino exterminabunt; mortis et doloris metum eiicient; mentem puritate et religione imbuent; fidem, equitatem, moderantiam, 78 Questi argomenti a favore della morte, nota Cardini (p. 595), verranno ripresi nel Theogenius (p. 82): «Così a me gli spessi in casa mia mortori essiccorono le vane lacrime e consumorono in me tutte le inezie feminili, con quali dolendoci del nostro male vogliamo parere piatosi di chi ben morendo ben sia uscito di tante molestie in quante e’ lasciò noi che restammo». 79 Alle sicure fonti ciceroniane già segnalate da Cardini per i §§

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per me la liberazione da tutti quei dolori che nessuno in vita può fuggire. (400) Cosa c’è allora di meglio che la morte, che cosa va desiderato di più, a quale ottimo bene non varrebbe la pena di anteporla? Chi mai loderebbe – se non proprio a dovere, almeno un poco – questa morte dispensatrice di beni così grandi? (401) E, al contrario, cosa c’è di più detestabile, da fuggire e da collocare tra i mali estremi che quel bisogno di desiderare, sudare e aver fame che si chiama vita? (402) Senza dubbio preferisco stare agli inferi con questa divina e magnifica libertà piuttosto che lassù tra quelle disgrazie e miserie in cui gli uomini sono immersi.78 (403) POLITROPO. Bravo, ora sono d’accordo con te, anche se credo che la questione vada così riequilibrata. (404) Coloro cui tocca di vivere analizzino bene le loro forze d’animo e di spirito e cerchino di comprendere come, venendo alla luce, siano stati dalla natura predisposti a conseguire virtù e conoscenza;79 (405) prendano coscienza della bellezza, della nobiltà e della forza del loro corpo e della loro mente e capiscano che tutto ciò è stato loro donato da Dio, creatore di tutte le cose, perché acquistino ai suoi occhi quanti più meriti possibili: non smetteranno mai di mostrarsi degni e meritevoli di questo dono divino. (406) In primis si impegnino moltissimo, tra studi ed opere, a conseguire la virtù, graditissima a Dio, e la sapienza; smetteranno di servire o di assecondare il corpo; sacrificheranno le passioni alla ragione; con occupazioni stimatissime e studi serissimi freneranno piaceri e voluttà; (407) elimineranno completamente la scontrosità e l’ira nemica della virtù; si sbarazzeranno della paura del dolore e della morte; 404-409 (cfr. De leg. I 58-60; De off. I 15-23; I 113-14; I 132; De fin. I 33), si può anche aggiungere, relativamente a questa sententia, il celeberrimo passo di Inf. XXVI 119-120 «fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza», che, nella lezione proposta ultimamente da Giorgio Inglese («…ma ’ perseguir virtute e canoscenza»), risulterebbe ancora più vicina sintatticamente al brano albertiano.

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pietatem beneficentiamque colent; aciem ingenii ad bona eligenda, contraria secludenda diligenter exacuent; (408) nulla officia deserent mollitia animi aut laborum et dolorum fuga; tum etiam quascumque erumnas et molestias pro laude et claritate firmissimis degende vite presidiis excepturi sint; diligentissime providebunt ut neque blanditiis voluptatum deliniti neque obcecati cupiditatibus indecorum quippiam aggrediantur; (409) solum demum animum eternum, incorruptibilem divinumque iudicabunt omnibusque nervis et viribus ad integram perfectamque felicitatem contendent; reliqua omnia ut caduca, mortalia ac fragilia aspernabuntur ac penitus despicient. (410) Talem ergo qui se inter mortales exhibuerit, sciat in omni etate nihil se unquam inventurum cur sibi molestam ac parum iucundam vitam ducat. (411) At vero caducis rebus implicitus, cupiditate, avaritia, libidinibus, fastu, timiditate, superstitionibus aut imbecillitate et metu atque turpitudine contaminatus et obrutus voluptatique et corpori suppeditans et obtemperans animus poterit nunquam esse non insanus et miser. Verum de tuis ineptiis satis locuti sumus. NEOPHRONUS. Vix intermedie. (412) POLYTROPUS. Enim dicito quid supremi illi principes agunt. NEOPHRONUS. Quid illorum de furore tibi referam? Quanto enim fortuna ceteris prestant tanto sunt omnibus immaniores, ut vel hac una causa vitam odisse oporteat, ne vitia scelestissima et nefanda principum facinora erumpere sentias, ne coram videas neve audias. (413) POLYTROPUS. Quid tum? Ne sunt ita immites ac truculenti? NEOPHRONUS. Ut nihil eque. Contendunt armis, certant

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riempiranno la mente di purezza e devozione; coltiveranno fedeltà, giustizia, moderazione, pietà e bontà; aguzzeranno l’ingegno per scegliere la bontà e scartare il male; (408) non verranno meno a nessun dovere per pigrizia o per fuggire fatiche e dolori; saranno pronti a sobbarcarsi qualunque caso disperato o dolore per conseguire lode e fama, saldi princìpi di vita; staranno attentissimi a non commettere qualcosa di indegno, attirati dalle voluttà o accecati dalle passioni; (409) giudicheranno eterno, incorruttibile e divino solo lo spirito e spenderanno tutte le loro forze ed energie per conseguire una piena e perfetta felicità; disprezzeranno profondamente e rigetteranno come caduche, mortali e fragili tutte le altre cose.80 (410) Chi condurrà una vita di questo tipo, sappia che non troverà mai niente per cui essa gli debba apparire infelice o anche solo poco piacevole. (411) Ma se sarà immerso nelle cose caduche, sopraffatto e contaminato dalla cupidigia, dall’avarizia, dai piaceri, dal lusso, dalle paure, dalle credenze, dalla debolezza, dalla paura e dalla turpitudine, sottomesso come schiavo ai desideri del corpo, sarà sempre folle e infelice. Ma ho parlato sin troppo dei tuoi vaniloqui. NEOFRONO. Siamo appena a metà. POLITROPO. Allora dimmi cosa fanno i principi che stanno sopra a tutti. NEOFRONO. Cosa ti dirò della loro crudeltà? Quanto più la fortuna li fa sopravanzare sugli altri, tanto più sono disumani, al punto che anche solo per questo bisognerebbe odiare la vita, per non vedere, non ascoltare più dei vizi riprovevoli e degli orrendi delitti dei principi. (413) POLITROPO. Davvero? Sono così malvagi e truculenti? 80

Tutto questo passo ha come quasi certo ipotesto una pagina ciceroniana (cfr. De leg. I 59-61), da cui Alberti preleva alcune frasi quasi di peso (Farris, in Alberti, De commodis-Defunctus, pp. 39 e 244-46).

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dolis, fraude ac perfidia delectantur in eorumque manibus semper aut deceptio aut periurium aut venenum versatur. (414) Non idcirco refero quid furiarum per eorum mentes et animos discursitet. Efferati, sevientes nunquam desinunt lacessere populos, omnium provinciarum fortunas exhauriunt, dissipant, disperdunt, orbem ipsum terrarum dilaniant, omnia vastant ut nescias plusne aurum aut sanguinem sitiant; nihil sanctum, nihil religiosum, nihil pium potest rapinas tyrannorum effugere. (415) Convellunt, diripiunt, abstrahunt undique ut sociis iniuriarum se et factiosis latronibus cariores prebeant. (416) Primum studium tyrannis est, non secus atque teterrime horrendeque bellue, omnia per vim, temeritatem atque immanitatem posse: prima sibi ducunt officia ferro, crudelitate, sanguine innocentium et sevitia sitim rabiemque imperandi suam extinguere. (417) Qui vero hec publico, inverecunde, aperta fronte, accincto ac concitato animo facit, quive armatis, renitentíbus ac repugnantibus populis, tam detestanda nefandaque conatur, quid hunc censes in privatos subiectosque cives suos efficere? (418) Non coniuges, non liberi, non ipsa cuiusvis pacati et probi viri vita ab imperium regentium immanitate tuta aut secura est. (419) POLYTROPUS. O inhumani, iniusti, impii, perniciosi, sacrilegi, nefarii dirique tyranni! An ignoratis quantas cum vivi ruinas tum mortui penas subituri sitis pro talibus flagitiis? (420) NEOPHRONUS. Credo equidem ingentes. 81

Cfr. Cic. Phil. V 20 «sanguinem sitiebat» (Cardini, p. 596). Cfr., anche se meno violenta, l’analoga presa di posizione contro i principi presenti nell’Autobiografia § 24, dove l’Alberti dichiara che avrebbe potuto essere più amato dai potenti solo che avesse avuto più propensione all’adulazione; ma si veda anche la tirata di Cinico contro i reggitori di stato (dipinti a tutti gli effetti come dei tiranni) in Cynicus §§ 40-48. 83 Per tutta questa tirata contro i tiranni si veda, come suggerisce Cardini (p. 596), Luciano Viaggio agli inferi o il tiranno 26 (I, p. 615), 82

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NEOFRONO. Come nessun altro. Combattono con le armi, fanno guerre con gli inganni, si divertono con la perfidia e la frode e si dedicano di continuo ad inganni, spergiuri e veleni. (414) Non ti dico dunque che violenze passano per la loro testa e i loro cuori. Crudeli, efferati, non la smettono mai di vessare i loro popoli, depredano le fortune di ogni loro provincia e poi le dissipano, le disperdono, sconquassano tutto il mondo terreno, devastano ogni cosa, al punto che non sai se sono più assetati di oro o di sangue;81 non c’è luogo santo, religioso o devozionale che possa sfuggire alle razzie dei tiranni. (415) Devastano, saccheggiano, portano via da ogni parte per guadagnare stima agli occhi dei compagni di rapina, i banditi della loro fazione. (416) Il primo pensiero di un tiranno è, come del resto quello della più orrenda e spaventosa delle bestie, poter fare ogni cosa con violenza e temeraria crudeltà: ritengono anzi che rientri tra i loro compiti principali placare la loro sete rabbiosa di potere col sangue di innocenti, il tutto con efferata crudeltà.82 (417) Chi fa tutto ciò pubblicamente, senza vergogna, a viso scoperto, con animo pronto e fervoroso, o chi fa cose deplorevoli e nefande anche contro un popolo in armi, pronto a combattere per opporglisi, cosa credi che sia capace di fare in privato con i suoi cittadini sottoposti? Niente per l’uomo onesto ed inerme può dirsi al sicuro dalla brutalità di chi detiene il potere, non la moglie, non i figli, e neppure la sua stessa vita.83 (419) POLITROPO. O disumani, ingiusti, empi, pericolosi, sacrileghi infami e crudeli tiranni! Ignorate che, una volta morti, subirete per i vostri flagelli la pena della sete,84 tanto più intensa quanti più disastri avrete commesso da vivi? che è fonte principale anche dell’omologo brano delle intercenali Cynicus e Fatum et pater infelix. Ma evidente è anche il richiamo alla tradizione antitirannica fiorentina che va da Boccaccio a Salutati (Bacchelli-D’Ascia, p. LXXX). 84 Nel Viaggio agli inferi o il tiranno di Luciano, come rileva Cardini (p. 596), il tiranno Megapente è condannato a non bere l’acqua del Lete e quindi a ricordare in eterno le malefatte commesse in vita.

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POLYTROPUS. Incredibiles, quas faxo ut videas. Sequere. NEOPHRONUS. I pre, sequar.

85 L’intercenale si conclude, come ha notato Canfora (Alberti modello, pp. 706-707), «lasciandoci solo immaginare – e desiderare – l’inferno dei potenti». Si tratterebbe di un accorgimento «quasi teatrale»: il sipario cala lasciando la rappresentazione in sospeso. A questo escamotage delle pene dei tiranni, cui solo si allude senza descriverle, fanno ricorso anche Poggio Bracciolini nel suo De infe-

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(420) NEOFRONO. Credo che la loro sete sarà molto intensa. POLITROPO. Addirittura incredibile, e farò in modo che tu la veda.85 Seguimi. NEOFRONO. Vai avanti, ti seguo.86

licitate principum (p. 61), il Machiavelli dei Discorsi (I 10), e forse anche l’Ariosto dei Cinque canti (II 4-17, pp. 59-64), in cui per il tiranno Dionigi il Vecchio non si trova tormento peggiore di quel Sospetto che lo aveva accompagnato in vita. 86 Espressione del linguaggio teatrale per cui cfr. Ter. Andr. 171 «I prae, sequar».

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Il legame tra l’umanista e la città di Bologna, che emerge chiaramente da alcuni luoghi dell’Autobiografia e da altre testimonianze dell’opera albertiana, trova nei protagonisti e nelle questioni che riguardano il testo non letterario ma documentario qui proposto un’ulteriore conferma. È noto come l’Alberti fosse approdato a Bologna non soltanto per la notorietà dell’Alma Mater, ma anche per la presenza, in città, di parenti che potessero essere di appoggio e riferimento per il giovane studente: Alberto Alberti, tesoriere pontificio di Martino V, ricordato nel Pontifex, Ricciardo Alberti, fratello del padre di Battista, Lorenzo, e Antonio, figlio di Ricciardo. Alla sua morte Lorenzo designa come erede ed esecutore testamentario il fratello Ricciardo, con l’impegno di devolvere ai figli naturali Carlo e Battista una somma adeguata al loro mantenimento anche agli studi, quattromila ducati d’oro ciascuno. Ma le liti intervenute tra i cugini Antonio di Ricciardo e Benedetto di Bernardo, che, dopo la morte di Ricciardo, si appropriano di gran parte dell’eredità di Lorenzo, lasciano Battista e il fratello privati di quanto spettava loro. Solo con una sentenza arbitrale del 1468 le proprietà bolognesi di Antonio passano dal figlio di quest’ultimo, Bernardo, a Battista. Si tratta dei beni menzionati in questo testamento redatto nel 1472: ossia una casa in via Galliera, affittata a filatoio, un podere detto «Orto degli Alberti», fuori porta S. Mamolo, un podere a Castel dei Britti, e altri beni mobili e immobili. Il testamento rivela nella realtà dei fatti quei tratti di generosità dell’umanista ricordati anche nell’Autobiografia: in questa prospettiva rientra infatti la volontà che sia istituito a Bologna un Collegio (il Collegio degli Alberti), che prevedeva due borse di studio per membri della famiglia Alberti, studenti nell’Ateneo bolognese, da destinare, in assenza di questi, a studenti indigenti. Tornano in mente, a questo proposito, certi passaggi dei Profugiorum ab erumna, p. 134: «Queste ricchezze e copia bisogna ausarsi a poco pregiarle, alienandole da noi con spen-

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derle in cose degne e lodate e in prima donandole e quasi deponendole presso de’ buoni e degli studiosi»; o certi luoghi delle Intercenales come Defunctus § 147 «[…] sepe maior ex parsimonia perditio fit quam ex prodigalitate» («spesso la parsimonia è più dannosa della prodigalità») o Divitie § 9: «ita et divitiarum non possessionem quidem, sed usum ad consequendam felicitatem conducere arbitror» («così, a proposito delle ricchezze, penso che per raggiungere la felicità serva, non possederle, ma usarle»). Ma quasi per beffa, un po’ come accade al protagonista di Defunctus, le volontà dell’Alberti furono disattese: uno dei tre esecutori testamentari, il bolognese Antonio Grassi, giureconsulto e arciprete della cattedrale di Bologna, una volta ricevuta la delega dagli altri due, ignora la volontà del testatario, e destina il denaro per il sostentamento degli studenti al mantenimento di chierichetti cantori, mutando senza pudore persino il nome dell’istituzione da Collegio degli Alberti in Collegio Grassi. E neppure fu rispettata quella volontà di riposare a Padova, accanto al padre, ultima testimonianza di quell’aspirazione inquieta di un figlio naturale in cerca di legittimazione che tante volte aleggia nell’opera e nella vita di Battista. Redatto nel linguaggio tecnico reiterativo e formulare dei notai, il testo fa tuttavia trasparire a tratti elementi tipicamente albertiani, come si coglie nella similitudine «homo sicut flos egreditur et conteritur ac fugit velud unbra», difficilmente riconducibile alla fantasia dell’estensore dell’atto, ma vicina piuttosto a quel lessico chiaroscurale della fragilità di tante pagine dell’Alberti latino.

Nota al testo Il testamento, che si conserva a Roma, Biblioteca del Senato, Statuti mss. 87, cc. 7r-8v, fu pubblicato la prima volta da Luigi Ferrari nel 1912, e due anni dopo da Mancini, Il testamento. Più di recente Benigni, sulla base dell’edizione approntata da Crevatin, Il testamento di Leon Battista Alberti, ha ripubblicato il testo nel Corpus epistolare e documentario, pp. 360-65, al quale ci siamo attenuti. La vicenda del testamento albertiano è stata ricostruita in maniera esemplare in Benigni, Tra due testamenti. Ringraziamo Bernardo Pieri per la consulenza prestata nella traduzione del linguaggio tecnico notarile.

In nomine domini. Amen. Cum vite sue terminum quisque prorsus ignorat, iuxta verbum veritatis in Evangelio dicentis «Vigilate, quia nescitis diem neque horam», sane mentis et salubris consilii est sua novissima memoria, qui scit, disponere bona sua, que dominus noster Iesus Christus dignatus est largiri in hoc seculo, ut ad salutem corporis et anime misericorditer sentiat in futurum. Quapropter in mei notarii publici et testium infrascriptorum ad hec vocatorum specialiter et rogatorum presentia personaliter constitutus venerabilis vir dominus Baptista condam Laurentii de Albertis de Florentia litterarum apostolicharum scriptor, volens saluti anime sue, ut quisque tenetur, providere, et recognoscens quod homo sicut flos egreditur et conteritur ac fugit velud unbra et nunquam in eodem statu permanet, sanus mente, sensu et intelectu, licet languens et infirmus corpore, per Dei gratiam, timens ne decederet ab intestato, sua novissima memoria suum ultimum testamentum seu ultimam voluntatem fecit, condidit et ordinavit in hunc qui sequitur modum. In primis comendavit et dedit animam suam Deo omnipotenti

In nome del Signore. Amen. Dal momento che tutti ignorano il termine della propria esistenza, secondo quel verbo di verità evangelica che dice «Vigilate, perché non conoscete né il giorno né l’ora» è di mente sana e di saggio consiglio colui che, per sua estrema disposizione, sa disporre di quei beni che nostro Signore Gesù Cristo si degnò di elargire in questa vita, affinché possa vivere in futuro in modo misericordioso per la salvezza del corpo e dell’anima. Per questo motivo, in presenza mia, pubblico notaio, e dei sotto menzionati testimoni, a questo fine appositamente convocati e rogati, l’illustre signore Battista del fu Lorenzo Alberti fiorentino, scrittore apostolico, personalmente convenuto, volendo provvedere alla salvezza della propria anima, come ciascuno deve, e riconoscendo che l’uomo come un fiore svanisce e si dissolve e fugge come un’ombra e mai resta nel medesimo stato, sano di mente, di sensi e di intelletto, sebbene debole e infermo nel fisico, per grazia di Dio, temendo di poter morire «ab intestato»1 senza aver lasciato disposizioni testamentarie, per sua estrema disposizione, ha rilasciato il suo ultimo testamento o ultime volontà, e ha disposto e ordinato nel modo che segue. In primo luogo ha raccomandato e affidato la propria anima a Dio onnipoten1 Espressione tecnica ancora comunemente usata nel lessico giuridico: «senza aver lasciato disposizione testamentarie».

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eiusque genitrici Marie virgini totique curie celesti atque beatis apostolis eius Petro et Paulo, orans eos ut intercedant ad Dominum pro eius anima ut eam in sinu suo colocare cum beatis dignetur, veniamque de omnibus peccatis suis postulavit. Item elegit et ordinavit idem testator habere sepulturam corpori suo, quando anima sua ab eo separabitur, Padue in sepulcro patris sui, ad quam civitatem Padue corpus et ossa deferri voluit expensis sue hereditatis. Medio autem tempore antequam defferrant voluit corpus suum sepeliri in monasterio Sancti Augustini de urbe, in cuius sepultura et circa eam exequias et alia neccessaria fieri voluit et mandavit prout commissariis suis infrascriptis videbitur. Item reliquit dictus testator pro male ablatis incertis ei, cui de iure debentur, decatos duo auri. Item reliquit iure legati voluitque et mandavit quod capella incepta et quasi perfecta in ecclesia Sancti Martini de Gangalandis diocesis florentine perficiatur et compleatur ex et de bonis ipsius testatoris et eius hereditatis. Item reliquit dictus testator iure legati et pro servitiis per eum in eius infirmitate receptis ab Aloisio filio Nicolai de Pasiis de Bononia eius affini ducatos quinquaginta auri. Item reliquit dictus testator et pro eius anima Claudio eius famulo unum mantellum de panno cuppo sive nigro unam cum ducatis decem auri de camera, et hoc si casu quo per ipsum testatorem eidem Claudio ante mortem ipsius testatoris et per ipsum testatorem aliter non provideretur. Item reliquit dictus testator omnibus infrascriptis et in pre-

2 È formula reiterativa, nei testamenti odierni si trova sostituita dalla numerazione dei punti o dalle lineette paragrafali. 3 È una formula consueta, di applicazione larga (quello della rinuncia a un credito era solo un caso, si poteva tranquillamente lega-

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te e alla sua genitrice Maria Vergine e a tutta la curia celeste e ai suoi beati apostoli Pietro e Paolo, pregandoli di intercedere presso il Signore per la sua anima, perché si degni di collocarla nel proprio grembo con i beati, e ha chiesto perdono per tutti i suoi peccati. Indi2 allo stesso modo ha scelto e ordinato, lo stesso testatore, di avere sepoltura per il proprio corpo, quando la sua anima si sarà separata da quello, nel sepolcro di suo padre, a Padova, città in cui ha voluto che il proprio corpo e le proprie ossa venissero traslate, a spese della sua eredità. Nel frattempo, prima di essere trasferito volle che il suo corpo fosse seppellito nel monastero romano di Sant’Agostino, per la cui sepoltura e intorno ad essa ha voluto e disposto che fossero fatte le esequie e le altre cose necessarie come apparirà ai suoi esecutori testamentari sotto menzionati. Indi il suddetto testatore ha lasciato pro male ablatis incertis3 due ducati d’oro a colui a cui si dovevano di diritto. Indi ha lasciato per legato e voluto e disposto che la cappella cominciata e quasi finita nella chiesa di San Martino della diocesi fiorentina di Gangalandi sia portata a termine e completata coi beni dello stesso testatore e della sua eredità. Indi il suddetto testatore ha lasciato per legato cinquanta ducati d’oro per i servigi (da lui) ricevuti durante la sua malattia da Aloisio figlio di Nicola Pasi di Bologna, suo parente. E sempre il suddetto testatore, anche per la sua anima, ha lasciato al suo servitore Claudio un mantello di panno scuro o nero, insieme a dieci ducati d’oro della Camera,4 e questo nel caso in cui non si provveda diversamente da parte del testatore nei confronti dello stesso Claudio prima della morte del testatore. E sempre il suddetto testatore ha lasciato a tutti quelli sottomenzionati re a questo scopo una bella fetta di beni). Era un modo semplice di fare un lascito pro anima intaccando relativamente il patrimonio. 4 Si tratta della Camera Apostolica, organo finanziario della santa sede, tesoreria e probabilmente zecca del Vaticano.

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senti testamento per ordinem immediate descriptis unum mantellum sive paleum de panno nigro, quem eisdem dari voluit et mandavit idem testator inmediate post ipsius mortem, videlicet: reverendo patri domino Antonio de Grassis utriusque iuris doctori archipresbiterio bononiensi ac sacri palatii apostolici causarum auditori, Ioahnni Francisci Altiblanci de Albertis de Florentia, Aloisio filio Nicolai de Pasiis de Bononia et Iohanni Baptiste de Grassis notario bononiensi. Item reliquit dictus testator pro eius anime salute omnibus infrascriptis testibus, et in presenti testamento seu ultima voluntate descriptis, carlenos duos pro eorum quolibet. Item reliquit dictus testator pro eius anime salute unum pileum ipsius testatoris Iohanni filio Francisci Altiblanci de Albertis supradicto. Item reliquit dictus testator iure legati Bernardo quondam Antonii Rizardi de Albertis de Florentia suisque filiis et heredibus descendentibus per lineam masculinam in perpetuum domum seu palatium positum Florentie im populo Sancti Iacobi inter foveas, in qua seu in quo ipse Bernardus ad presens habitat, et que pro parte locatur ad pensionem. Item domum et ortum ipsius testatoris positum Bononie, extra portam Sancti Mamme iuxta suos confines. Item domum ubi olim erat filataglium seu filatuglia positam in civitate Bononie in contrata vocata iuxta suos confines. Item domum et possessionem positam in comitatu Bononiensi in loco dicto Castello di Britti iuxta quoscunque suos confines, et omnia iura presentia et futura ad ipsum testatorem in omnibus domibus et possessionibus

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Identificato di recente in via De’ Benci 8, vedi P. Benigni, p.

368. 6 La porta, innalzata nel XII secolo, più volte restaurata e dotata nel 1334 di un ponte levatoio sul fossato esterno, non è oggi più visibile, in quanto fu abbattuta insieme alle mura nel 1903.

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e immediatamente descritti nell’ordine nel presente testamento: un mantello o pallio di panno nero, che lo stesso testatore ha voluto e disposto fosse dato agli stessi immediatamente dopo la sua morte, ossia: al Reverendo padre Antonio Grassi, dottore in utroque iure, arciprete bolognese, auditore (nella Curia pontificia) per le cause del sacro palazzo apostolico, a Giovanni di Francesco d’Altobianco Alberti di Firenze, a Luigi figlio di Nicola Pasi di Bologna e a Giovanni Battista Grassi notaio bolognese. E sempre il suddetto testatore ha lasciato, per la salvezza della sua anima, a tutti gli esecutori testamentari sotto menzionati, e descritti nel presente testamento o sua ultima volontà, due carlini per ciascuno di loro. Allo stesso modo il detto testatore ha lasciato, per la salvezza della sua anima, un cappello di sua proprietà a Giovanni, figlio di Francesco d’Altobianco degli Alberti. E ancora il detto testatore ha lasciato per diritto di legato a Bernardo del fu Antonio di Ricciardo Alberti e ai suoi figli e discendenti eredi per linea maschile in perpetuo la dimora o palazzo dislocato a Firenze nel borgo di S. Jacopo5 tra i fossati, nella quale (dimora) o nel quale (palazzo) al presente abita lo stesso Bernardo, e che per una parte è locato a pensione. Allo stesso modo la dimora e l’orto dello stesso testatore siti in Bologna, fuori porta S. Mamolo6 secondo i suoi confini. Allo stesso modo la dimora dove un tempo era il filatoio posto nella città di Bologna in una contrada chiamata 7, secondo i suoi confini. Allo stesso modo, la dimora e il possedimento posti nel contado bolognese nel luogo detto Castel de’ Britti8 e tutto ciò che pertiene ai suoi confini, e tutti i diritti presenti e futuri spettanti e pertinenti allo stesso testatore su tutte le dimore e i possedimenti 7 Nel documento c’è uno spazio bianco corrispondente a circa 15 lettere. Si sa, tuttavia, che tra le proprietà bolognesi di Antonio di Ricciardo c’era una casa affittata a filatoio in via Galliera. 8 Vicino alla località bolognese di S. Lazzaro di Savena.

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suprascriptis spectantia et pertinentia. Linea autem suprascriptorum finita, voluit et reliquit idem testator bona predicta pervenire ad proximiores de dicta familia de Albertis seu proximioribus de eadem familia. Casu vero quo nulli extarent de dicta familia, ac ipsis omnibus deffitientibus, voluit, iussit, mandavit ac reliquit bona predicta im presenti legato descripta pervenire ad hospitale Sancte Marie Nove de Florentia, cum hac conditione, pacto seu lege quod dictus Bernardus de Albertis suique filii ac heredes, nec non et sui descendentes per lineam masculinam ut supra, ac hospitale seu offitiales hospitalis predicti Sancte Marie Nove de Florentia, ullo unquam tempore bona predicta vendere seu modo aliquo alienare non possint seu valeant, sed ad plus ea locare possint ad tempus et terminum trium annorum pro qualibet locatione fatienda. Item reliquit iure legati et pro eius anima, ac voluit, iussit et mandavit idem testator quod de bonis suis mobilibus et immobilibus ematur Bononie una domus ad usum studii seu collegii, in loco et contrata quo seu qua vel quibus reverendissimo in Christo patri et domino domino Nicolao tituli sancte Cecilie presbitero sancte Romane ecclesie cardinali Tianensi vulgariter nuncupato, et reverendo patri domino Antonio de Grassis archipresbitero et canonicho Bononiensi ac sacri palatii apostolici auditori presentialiter in curia Romana ressidenti videbitur et placuerit, et in qua domo seu collegio duo ad minus studentes commode stare, studere et abitare possint; et insuper una seu plures possessiones aut alia bona inmobilia, ex quibus annuatim percipiantur certi annui fructus, redditus aut proventus; in quibus domo, possessionibus et bonis inmobilibus

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soprascritti. Una volta poi esaurita la linea dei suddetti (eredi), lo stesso testatore volle e dispose che i suddetti beni andassero ai parenti più prossimi discendenti dalla stessa famiglia Alberti o ai più prossimi della stessa famiglia. Ma nel caso in cui non vi fosse più alcun discendente della stessa famiglia, e venuti meno tutti gli esponenti della stessa, volle, ordinò, diede disposizione e lasciò che tutti i beni suddetti descritti nel presente legato andassero all’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze, con questa condizione o patto o vincolo, che il detto Bernardo Alberti e i suoi figli ed eredi, e anche i suoi discendenti per linea maschile, come sopra, e l’ospedale o gli ufficiali del suddetto ospedale di Santa Maria Nuova in Firenze, mai in nessuna circostanza e in nessun modo i suddetti beni possano o debbano vendere o alienare, ma al massimo possano affittarli per un periodo e termine di tre anni per qualsiasi locazione si debba fare. Allo stesso modo a titolo di legato e per la sua anima, lasciò, ordinò e dispose lo stesso testatore che con le sostanze dei suoi beni mobili e immobili sia acquistata a Bologna una casa a uso di studio o collegio in un luogo o in una contrada che sembreranno idonei o piaceranno al reverendissimo in Cristo Padre e signore don Niccolò,9 presbitero del Titolo di Santa Cecilia, cardinale di santa Romana chiesa, volgarmente detto di Teano, e al reverendo padre don Antonio Grassi archipresbitero e canonico bolognese e uditore apostolico del Sacro Palazzo e al presente residente nella curia romana, e nella quale dimora o collegio possano comodamente stare, studiare e abitare almeno due studenti; e inoltre uno o più possedimenti o altri beni immobili, dai quali annualmente siano presi frutti, redditi o proventi certi nell’anno. Tra questi, per la casa 9 Niccolò Forteguerri (Pistoia 1419-Viterbo 1473), fu eletto nel 1458 da Pio II Piccolomini vescovo di Teano. Ordinato cardinale del titolo di Santa Cecilia in Trastevere (dove fu sepolto) dallo stesso pontefice nel 1460, fu fondatore della celebre e ricca biblioteca di Pistoia da lui detta «Forteguerriana».

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exponatur tantum quantum eisdem reverendissimo domino cardinali et domino Antonio prefatis videbitur et placuerit, usque ad quantitatem ducatorum mille auri de camera. Que domus et bona sic empta sinti [ sic: sint ] et perpetuo intelligantur deputata pro habitatione, victu et alimentis unius aut duorum de domo de Albertis, tam per lineam masculinam quam etiam femininam descendentium, volentium Bononie studere in iure civili vel canonicho aut in alia quavis facultate secundum ordinationem fiendam per prefatos reverendissimum dominum cardinalem et Antonium auditorem; ita tamen quod semper descendentes per lineam masculinam volentes studere ceteris prefarrantur. Casu autem quo non extarent aliqui de domo de Albertis, ut prefertur, volentes studere, tunc et eo casu fructus, redditus et proventus provenientes ex dictis domo, possessionibus et bonis distribuantur et distribui debeant per dictos reverendissimum dominum cardinalem et dominum Antonium auditorem, donec vixerint, in duos aut plures studentes pauperes studentes Bononie, per ipsos elligendos et post eorum mortem per eos quos ipsi reverendissmus pater dominus cardinalis et dominus Antonius ordinaverint. Volens tamen et mandans dictus testator, quod domus et bona prefata ad dictum usum deputata ullo unquam tempore vendi, distrahi alienari aut pignorari non possint, sed perpetuis temporibus deputata permaneant ad usum prefatum. Dans et concedens dictus testator plenam liberam potestatem et omnimodam facultatem dictis reverendissimo domino cardinali et domino Antonio im premissis et circa premissa libere ordinandi, statuendi et disponendi prout eis videbitur et placuerit. In omnibus autem aliis suis bonis mobilibus et inmobilibus, iuribus et actionibus tam presentibus quam futuris eidem quomodolibet et qualiter-

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si prenda dalle proprietà e dai beni immobili tanto quanto sembrerà opportuno e piacerà agli stessi suddetti cardinale e Antonio, fino alla quantità di duemila ducati d’oro della camera. Questa dimora e questi beni siano in tal modo acquistati e si intendano in perpetuo destinati all’abitazione, vitto e mantenimento di uno o due membri di casa Alberti,10 discendenti tanto da linea maschile quanto da quella femminile, che vogliano studiare a Bologna diritto civile o canonico o qualsiasi altra facoltà, secondo un ordine che dovrà essere stabilito dai suddetti reverendissimo signor cardinale e Antonio uditore. Tuttavia, saranno sempre da anteporre agli altri i discendenti per linea maschile che vogliano studiare. Nel caso in cui, poi, non rimanesse alcun membro della famiglia Alberti, come si è detto prima, che voglia studiare, allora in quel caso i frutti, i redditi e i proventi provenienti da tali dimora, possedimenti e beni siano distribuiti e devono essere distribuiti dai suddetti reverendissimo signor cardinale e don Antonio uditore, finché vivranno, fra due o più scolari poveri che studino a Bologna, che dovranno essere scelti da loro stessi, e, dopo la loro morte, da quelli che sempre il reverendissimo padre signor cardinale e don Antonio designeranno. Volendo tuttavia e disponendo il detto testatore che la dimora e i suddetti beni destinati a tale uso mai, in nessuna circostanza possano essere venduti, lottizzati, alienati o ipotecati, ma per sempre rimangano deputati al suddetto uso. Dando e concedendo il detto testatore piena e libera potestà e assoluta facoltà ai detti reverendissimo signor cardinale e don Antonio, nelle cose premesse e circa le cose premesse, di ordinare, decidere e disporre liberamente, come sembrerà loro opportuno e piacerà. In tutti gli altri suoi beni, poi, mobili e immobili, diritti e azioni tanto presenti quanto futuri, che in 10 In realtà la provvisione della Repubblica fiorentina del 19 dicembre 1472, che vietava ai cittadini della città di frequentare atenei diversi da quello pisano, dovette costringere molti esponenti degli Alberti a rinunciare ai privilegi stabiliti da Leon Battista.

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cunque pertinentibus et expectantibus et ubicunque ac penes quouscunque existentibus debitis et debendis, quovis modo ubicunque et in quibuscunque rebus existans, instituit et ore proprio nominavit et esse voluit heredem suum universalem honorabilem et spectabilem virum Bernardum Antonii Rizardi de Albertis de Florentia supradictum. Ac executores et comissarios suos voluit et nominavit dictos reverendissimum dominum cardinalem dominum Antonium de Grassis auditorem predictum, nec non venerabilem virum dominum Matheum Palmerii de Pisijs secretarium apostolichum absentes tamquam presentes. Quibus dedit et concessit plenam et liberam potestatem petendi, exigendi et recuperandi iura, res et credita ipsius testatoris, et de ipsis recipiendi, vendendi, distrahendi et alienandi persolvendique legata supradicta, et propter ea agendi, deffendendi, procurandi et procuratores constituendi et revocandi, si et quando ac totiens quotiens eisdem dominis commissariis et exequtoribus placuerit et videbitur expedire, et cetera que necessaria fuerint seu etiam opportuna. Et hoc suum voluit et asseruit ipse testator esse ultimum testamentum, quod valere voluit iure testamenti et iure codicillorum aut iure donationis causa mortis et iure cuius-libet alterius ultime voluntatis et omni meliori modo iure et forma, quibus melius, tutius et efficatius valere et tenere potest et poterit. Cassavitque, irritavit et annullavit idem testator omnia et singula testamenta seu ultimas voluntates per eum usque in presentem diem facta seu factas. Rogavit et requisivit testes circunstantes inferius nominatos ut de premissis omnibus et singulis perhibeant testimonium veritatis loco et tempore opportunis. Nec non me notarium infrascriptum ut super hoc conficerem et fac-

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qualsivoglia modo e in qualunque forma pertengano e spettino allo stesso (testatore) e nei debiti e ciò ch’è da darsi, ovunque e presso chiunque esistano, e in qualunque cosa vi sia in qualsiasi modo e in ogni dove, istituì e di propria voce nominò e volle che fosse suo erede universale l’illustre e spettabile Bernardo di Antonio di Ricciardo Alberti11 sopra nominato. E come suoi esecutori e commissarii volle e nominò i ricordati reverendissimo signor cardinale Antonio uditore prima menzionato e il riverito signor Mattia Palmieri da Pisa12 segretario apostolico in assenza come in presenza. A questi diede e concesse piena e libera potestà di chiedere, esigere e recuperare13 diritti, cose e crediti dello stesso testatore e, riguardo agli stessi, di riscuotere, vendere, dividere e alienare, pagare i suddetti legati, e, per quelli, di agire, difendere, procurare e nominare e revocare i procuratori se, e quando e tutte le volte che agli stessi signori commissari ed esecutori testamentari piacerà e sembrerà opportuno fare, e le altre cose che saranno necessarie o anche opportune. E questo volle e asserì lo stesso testatore che fosse il suo ultimo testamento, che volle valesse per diritto di testamento e per diritto di codicilli o per diritto di donazione a causa di morte e per diritto di qualsiasi altra ultima volontà, e con ogni modo migliore per diritto e forma con cui meglio, più sicuramente e più efficacemente può e potrà valere e avere vigore. Lo stesso testatore cassò, invalidò e annullò anche tutti i singoli testamenti o le ultime volontà da lui fatti o espressi fino a oggi. Rogò e richiese come testimoni circostanti quelli sotto nominati perché a tempo e luogo opportuni offrano testimonianza di verità sulle premesse tutte e singolarmente.

11

Figlio minore del cugino Antonio di Ricciardo Alberti. Mattia Palmieri, nato a Pisa nel 1423, raffinato conoscitore di lettere greche e latino e continuatore della Cronaca di Matteo Palmieri, fu segretario e abbreviatore apostolico. Morì nel 1483. 13 È quasi una dizione formulare. 12

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erem unum vel plura publicum seu publicha instrumentum et instrumenta. Acta fuerunt hec Rome in regione pontis, et im parochia Sancti Celsi ac in domo habitationis et residentie ipsius testatoris sub anno a nativitate domini nostri Iesu Christi millesimo quadrigentesimo septuagesimo secundo indictione quinta, die vero decima nona mensis aprelis, pontificatus sanctissimi in Christo patris et domini domini Sixti divina providentia pape quarti anno primo. Presentibus Micaele Petri Puceri de Florentia, Georgio Mathei de Resalittis de Florentia, Antonio Benedicti de Palatio de Florentia, ser Saverio quondam Francisci de Dugliolo cive et notario bononiensi, Ieronimo quondam magistri Facini a Navi cive bononiensi, Antonio Pauli de Bononia, Bernardo Vulderici clericho pataviensi, omnibus presentialiter habitantibus in curia Romana ressidentibus, testibus omnibus ad predicta omnia ore proprio dicti testatoris vocatis et rogatis. Ego Iohannes Baptista condam Ser Iacobi de Grassis civis Bononie publicus apostolicha, imperiali et comunis Bononie ac curie episcopalis Bononie auctoritatibus notarius, predictis omnibus et singulis dum sic ut premittitur fierent et agerentur interfui, eaque rogatus hic ideo me subscripsi, signum nomenque meum apposui consuetum in fidem et testimonium omnium premissorum.

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E (rogò e richiese) me sottoscritto notaio, affinché confezionassi e facessi uno o più pubblici istrumenti.14 Questi atti furono rogati a Roma nel rione del Ponte, nella parrocchia di San Celso e nella dimora e residenza dello stesso testatore, nell’anno 1475 dalla nascita di Nostro Signore, indizione quinta, il giorno 19 aprile, per divina provvidenza nel primo anno del pontificato del santissimo padre in Cristo Sisto quarto. Presenti Michele di Pietro Puceri di Firenze, Giorgio di Matteo de Resalitti di Firenze, Antonio di Benedetto Palazzi di Firenze, ser15 Saverio del fu Francesco Duglioli cittadino e notaio bolognese, Geronimo del fu maestro Facino Nave (o della Nave) cittadino bolognese, Antonio di Paolo da Bologna, Bernardo Vulderici chierico padovano, tutti, al momento abitanti e residenti nella curia romana, testimoni tutti convocati e rogati dalla voce propria del detto testatore per tutte le cose prima dette. Io Giovan Battista del fu Ser Iacopo Grassi cittadino bolognese, pubblico notaio per autorità apostolica, imperiale e del comune di Bologna e della curia episcopale di Bologna, intervenni acché le cose predette, tutte e singolarmente fossero fatte e si svolgessero così come premesso, e qui per questa ragione rogato mi sottoscrissi, e apposi il mio sigillo consueto e il mio nome in fede e testimonianza di tutte le cose premesse.

14 «Pubblico istrumento» è la normale definizione del documento notarile, in quanto fa – allora come oggi – fede di atto pubblico. 15 Il titolo, com’è noto, contrassegna un notaio.

SOMMARIO

Introduzione di Loredana Chines Cronologia della vita e delle opere Bibliografia Nota al testo

5 17 27 53

AUTOBIOGRAFIA E ALTRE OPERE LATINE

Leonis Baptistae De Albertis Vita (Autobiografia)

61

Dalle Intercenali Scriptor (Lo Scrittore) Religio (La religione) Virtus (Virtù) Fatum et fortuna (Il fato e la fortuna) Vaticinium (Il vaticinio) Discordia (Discordia) Hostis (Il nemico) Somnium (Il sogno) Corolle (Le ghirlande) Cynicus (Il cinico) Fama (Fama)

107 112 125 136 158 178 188 196 212 230 258

Erumna (La sventura) Naufragus (Il naufrago) Naufragio Defunctus (Il defunto)

268 308 337 351

Testamentum (Il testamento)

469