Oggetti smarriti e altre apparizioni
 9788842090373

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Franco Arminio Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta

Beppe Sebaste

Oggetti smarriti e altre apparizioni

Editori Laterza

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009 L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9037-3

Indice

Oggetti smarriti

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Salvare in memoria

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Simple twist of fate (sognando dylan approssimativamente)

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Storia con fantasmi

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Big Sur

35

Autostrada

41

The golden age

43

Il cane morto

49

Zero killed

56

Fino all’ultimo respiro

58

La vita in pegno

61

Non ci piace scrivere sui muri

69

Strawberry fields

74

Stelle filanti

79

La fabbrica dei palloncini

82

Il cantiere della memoria

89 V

La vita nuda dei rom

96

Oltretorrente

103

Il pasto nudo

110

La polvere di Samarcanda

113

Danza nel mare

123

Uomini e topi

125

«Come se venissimo scacciati nei boschi»

128

Guidando verso Bologna sulla via di Damasco

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Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri del volo IH 870

139

Nota ai testi

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Oggetti smarriti e altre apparizioni

Da tempo volevo scrivere un libro che avesse come epigrafi due brevi dialoghi che contengono ogni perdersi e ogni ritrovarsi. Lo faccio qui. Il primo è del grande Samuel Beckett, quasi all’inizio del romanzo Murphy: «Murphy, la vita è solo figura e sfondo». «Nient’altro che uno smarrirsi sulla strada di casa – aveva replicato Murphy». Il secondo, quasi un’interlocuzione del primo, è la domanda che Totò pone al vigile urbano di Milano nel celebre film con Peppino De Filippo: «Per andare dove dobbiamo andare, da che parte dobbiamo andare?». Mi ha guidato nella scelta un’idea dei margini, forse anche un’idea del fantasma (su cui da anni sto scrivendo). I fantasmi sono dolorosi, i fantasmi sono necessari. I fantasmi sono quello che ci manca – e se la felicità è quello che ci manca, disse una volta Carmelo Bene, essa ci deve mancare. Oggetti smarriti sono le nostre cose, a volte le nostre case, cui basta un moto della terra o del cuore per sparire. O apparire. 3

Oggetti smarriti sono frasi, racconti, avventure, occasioni, protocolli di esperienza, alcuni recentissimi, altri remoti. Hanno in comune, oltre a una scrittura ibrida, tra il documentario e la finzione, il sentimento di essere perduti (Sartre: «solo i mascalzoni [o gli stronzi: salauds] non si sentono mai perduti»).

Oggetti smarriti

L’«ufficio oggetti rinvenuti» di Milano si trova in via Friuli, traversa di corso Lodi. È un quartiere residenziale piuttosto scialbo, anche se a pochi passi dall’ufficio comunale lo vivacizzano gli inconfondibili graffiti colorati sui muri da archeologia industriale di un centro sociale giovanile. Gli stanzoni che ospitano l’ufficio erano di una fabbrica di scarpe che il Comune acquisì negli anni Sessanta per farne la sede dell’economato, in coabitazione con l’ufficio vestiario dei vigili urbani e una tipografia. I soffitti sono molto alti, il pavimento è ricoperto da un linoleum rosso e gli ampi volumi sono intervallati da colonne, con lunghi tavoli disposti a L dal piano zincato. Completano l’arredamento alcuni ventilatori a stelo e vecchi armadi, su uno dei quali riconosco con un sorriso, sbiadita dal tempo, una stampa del Quarto stato di Pellizza da Volpedo. Ci sono due ingressi: quello per i cittadini che depositano un oggetto «trovato», con una specie di reception; e quello riservato ai cittadini convocati per ritirare l’oggetto «smarrito», ma anche all’entrata quotidiana dei professionisti del ritrovamento – addetti ai trasporti urbani, alla posta o ai grandi magazzini, e rappresentanti della polizia municipale, della polizia di Stato o dei carabinieri.

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In giro per le stanze, insieme al direttore mi accompagna Alberto, che lavora qui da vent’anni. Mi danno un po’ di cifre: in questo ufficio, che esclude i ritrovamenti ferroviari, vengono effettuati circa 1500 verbali di consegna al mese, ma l’ultimo anno ne risultano 22.000. Una cinquantina al giorno. Nel 2005 gli oggetti repertoriati furono 51.827, di cui quelli restituiti al proprietario e/o al rinvenitore (dopo dodici mesi di giacenza, secondo il codice civile chi li trova può reclamarne la proprietà) sono stati la metà, 25.410. I lotti di oggetti alienati tramite asta sono stati 762, con un ricavo di 18.656 euro. Impressionante la quantità di valuta rinvenuta: 29.485 euro, di cui restituiti 18.599. Assisto in presa diretta alla stesura di due verbali di consegna: uno è l’appuntamento pomeridiano di un funzionario della metropolitana, che svuota sul tavolo di zinco il contenuto di un sacco. Osservo la compilazione dei moduli di consegna e la presa in carico, con guanti d’ordinanza, di borse, telefoni, una quindicina di portafogli, uno dei quali gonfio di banconote. Tutto viene repertoriato e annotato, e dà l’occasione ad Alberto di sottolineare una virtù sottovalutata dei cittadini: il 5% dei portafogli consegnati hanno soldi in contanti, e non sono pochi – senza contare il paradosso di chi porta all’ufficio dei soldi trovati per terra, per i quali è impossibile risalire al proprietario. Ecco qualcosa, l’onestà anonima, di cui non si parla perché non fa notizia. L’altra consegna viene fatta da un tizio in giacca e cravatta che accede dall’ingresso per il pubblico: è un oggetto curioso, una carta Pcm da computer accompagnata da un verbale da lui già redatto. Alcune delle mie congetture fantastiche incontrano l’assenso teorico di uno degli addetti: sì, l’ufficio oggetti rinvenuti può essere una buona strategia per imboscare qualche oggetto per un certo tempo, e poi rien6

trarne in possesso. Insomma, il luogo non è male per un libro poliziesco. Prima di percorrere le stanze adibite a deposito, da un cassettino mi mostrano l’oggetto mascotte per eccellenza, in giacenza da anni e mai reclamato: un occhio di vetro che mi guarda dalla bambagia di un portagioielli. Non è l’unica protesi arrivata all’ufficio, e le dentiere non si contano. Alberto mi racconta l’episodio recente di un’anziana signora che cercava ansiosamente una borsa senza documenti in cui c’era di tutto, come il gonnellino di Eta Beta. Quando la signora la vide la baciò felice, trovò all’interno la sua dentiera e la mise subito in bocca. Inutile dire che il suo eloquio migliorò. Ho guardato quindi gli scaffali di ferro, alti fino al soffitto e stipati di borse e valigie di ogni tipo, ma anche di altri oggetti: una chitarra, delle luci di segnalazione per cantieri, un cambiamonete, un generatore, un apparecchio elettrico che potrebbe essere qualunque cosa, anche un depilatore. Tutti gli oggetti sono contrassegnati da un cartellino azzurro e sono disposti in ordine di data. Altri scaffali, non meno impressionanti per dimensioni, contengono i documenti, chiusi in buste bianche. Altre cassette contengono occhiali, da vista e da sole, e vari campionari di telefonini. C’è un vestiario che occuperebbe un negozio d’abbigliamento, una stanza di biciclette, e un’intera parete occupata da una rastrelliera a cui sono appesi mazzi di chiavi. Come nei sogni, penso, gli incubi di quando si teme di aver perso la carta d’identità, la chiave di casa, e chissà cosa vuol dire per l’analista. Nell’elenco degli oggetti rinvenuti nel 2005 dall’ufficio di Milano si va in ordine alfabetico, dalle agende alle valigie, passando per anelli, bastoni reggipersona (stampelle), calcolatrici, cappotti, computer, dischi, guanti, indumenti, libri, macchine fotografiche, ombrelli, orologi e gioielli di ogni tipo, quadri e 7

dipinti, pellicce, strumenti musicali, targhe e tessere varie. Perfino oggetti commestibili. Ma c’è anche una voce che dice: «oggetti diversi». Sono gli oggetti contenuti nelle borse smarrite, e per esaminarli ne scegliamo alcune recenti dal computer. Alberto porta le borse sul tavolo del direttore e le svuotiamo. È come comporre ritratti di persone anonime, e capisco che gli addetti all’ufficio abbiano ormai un notevole talento nell’elaborare i «profili» e le biografie degli sbadati. La prima è una borsa di pelle marrone, contiene carte di credito e tessere sanitarie, trucchi e rossetti costosi. La seconda è uno zainetto multicolore di bambino, con Dragon Ball stampato sopra, e dentro caramelle, una crema dermo-emolliente, un DVD e un Gameboy. La terza è una borsa di tela nera da donna tipo zainetto, con un pupazzetto appeso. Ci sono un passaporto intestato a una donna polacca, una spazzola per capelli, un’agendina, un deodorante, una trousse da toilette, un coltellino svizzero, un astuccio per occhiali da vista, un biglietto della metro con scritto dietro un numero di telefono, delle salviettine intime, un portacipria. La quarta è un sacchetto di plastica dell’Esselunga, pieno di giocattoli poveri. E davanti ai nostri occhi scorrono storie: quella di una borghese distratta, di un bambino come tanti, di una donna immigrata che cerca lavoro, del dono abbandonato da mani stanche, giocattoli di cui qualcun altro si è liberato la casa... Sono dunque così banali gli oggetti perduti, anche a Milano? Ma siamo sicuri che tutto questo sia banale? Al telefono, il gentile direttore generale dell’ufficio «servizi al cittadino» del Comune mi aveva confidato che dal suo osservatorio c’è materia per un discreto ritratto antropologico dei cittadini: lui assiste alla loro completa biografia, dalle nascite ai decessi, passando per traslochi, matrimoni e altre tappe certificate. L’idea è interessante, ma mi limito al catalogo delle ri8

mozioni, delle dimenticanze. Intanto mi accorgo che mi sono smarrito anch’io in questo racconto, soggetto e oggetto. Ho parlato di tutto questo, seduti al bar, con l’amico regista Giuseppe Bertolucci. Gli ho anche descritto lo storico e ormai secolare Bureau des objets trouvés a Parigi, al 36 di rue des Morillons, nel XV arrondissement, monumentale e pittoresco museo della sbadataggine. Alla fine degli anni Novanta, tra gli oggetti in giacenza c’erano un’urna funeraria con tanto di ceneri del defunto trovata nel metrò, un teschio umano, statue di Gesù, e perfino un serpente scappato da uno zoo. Ma furono gli oggetti più comuni che al museo andarono davvero, quando Christian Boltanski, artista affascinato dalle identità anonime, presentò al Musée d’Art Moderne di Parigi installazioni con le migliaia di giacche, cappotti, borse e occhiali non reclamati del Bureau di rue des Morillons. Parigi è una grande città cosmopolita, nei cui circuiti e pubblici trasporti si muovono quotidianamente milioni di persone che lasciano una scia inevitabile di oggetti a rappresentarli. E in Italia? Che cosa perdono gli italiani? E cosa significa smarrire un oggetto? Giuseppe Bertolucci girò nel 1979 un film che s’intitola proprio Oggetti smarriti, con Bruno Ganz e Mariangela Melato. C’era anche Laura Morante, per la prima volta sullo schermo, e la storia si svolgeva interamente alla Stazione Centrale di Milano. Lui è affascinato dalle stazioni, e il suo primissimo film, Andare e venire, era ambientato nella Stazione Trastevere a Roma, mentre nel 1980 un lungometraggio documentario dal titolo Panni sporchi descriveva gli emarginati della stazione di Milano evocati in Oggetti smarriti. «Nella sua monumentalità – mi dice – la Stazione Centrale mi sembrava una grande scenografia dell’Aida. I suoi traffici e passaggi la 9

rendono il luogo dell’impermanenza, dove gli unici stanziali sono gli emarginati». Ma il suo film, ispirato liberamente a un romanzo inglese di John Wain (Un cielo più piccolo) – storia di un paleografo che decide all’improvviso di non tornare più a casa e di stabilirsi alla stazione, tra albergo diurno e sale d’aspetto –, gioca con l’ambiguità del titolo. Gli oggetti smarriti sono anche i «soggetti», gli ego individuali che perdono e si perdono, ma anche i soggetti intesi come idee e storie. Nel film è Bruno Ganz, che incontra Mariangela Melato, donna in crisi che perde compulsivamente un treno dopo l’altro. Lei che rifiuta il concetto borghese di famiglia si troverà a ricomporre, con estranei della stazione, una nuova famiglia. A entrambi, Giuseppe Bertolucci e me, piace l’aggettivo «smarriti», il cui fascino letterario è irresistibile. A parte Dante, che non lo separa dalla speranza della salvezza («perduti» sono solo i dannati), ci evoca le folle di Baudelaire, la flânerie e il vagabondaggio urbano, ma anche la psicanalisi. Se l’inconscio è il luogo in cui si fabbrica la rimozione, l’oggetto smarrito è molto importante. Se si considera il numero impressionante di carte d’identità che vengono perdute e ritrovate, e giacciono nei depositi degli oggetti rinvenuti, nei lost & found italiani, ci si rende conto del desiderio di fuga, evasione o cambiamento della popolazione. Le stazioni nella mia indagine le ho però lasciate da parte, dico a Bertolucci, perché lì si depositano solo gli oggetti lasciati sui treni. Ho cercato a Milano – città della moda, dell’industria e del design – l’equivalente di rue des Morillons. Lì l’ufficio «oggetti smarriti» si chiama «degli oggetti rinvenuti», gli spiego, ma continuo a pensare che la formula più appropriata dovrebbe essere quella che in francese definisce il vecchio «fermoposta» – quel servizio, oggi in via di estinzione, che permette di ricevere lettere negli uffici postali di ogni 10

città: cioè poste en souffrance, posta che «soffre» la mancanza del proprio destinatario, lettere in giacenza, smarrite e inutili come personaggi in cerca d’autore su un pirandelliano, burocratico scaffale; e che forse, come in Kafka, sono lette e assimilate solo dai fantasmi. Ecco, le cose che ho visto, gli scaffali a parete ricolmi di borse, i vestiari, le centinaia di scatole piene di buste che contengono a loro volta documenti e portafogli perduti, sembrano essere lì «in sofferenza», e al tempo stesso specchio della disattenzione e dei costumi dei cittadini. Giuseppe Bertolucci, che oltre ad essere cineasta dirige una grande cineteca che restaura anche i film smarriti, e ha il talento dell’archivista che esplora i meandri di quell’inconscio di tutti che è il cinema, approfitta per darmi altri spunti. Condivide col fratello Bernardo una vera passione per la psicanalisi, ma anche per la poesia. In Res amissa, mi dice, poesia pubblicata postuma di Giorgio Caproni, il cui titolo dice le cose che si possono perdere (latino amittere) – e quindi inappropriabili, come la Grazia –, si parla di cose preziose custodite gelosamente, ma di cui si perde la memoria non solo del luogo in cui sono state collocate, ma perfino della loro stessa natura. Cose che ci siamo dimenticati di avere perduto, e che diventano res derelicta, come gli oggetti smarriti. Vorrei prendere degli appunti, ma mi accorgo turbato che ho perso la penna, e ho anche poca memoria. È dunque più tardi, a casa, che sfogliando l’edizione di Tutte le poesie di Giorgio Caproni (ri)trovo questi versi dal titolo L’ignaro, esattamente una pagina dopo Res amissa: «S’illuse, recuperato / l’oggetto accuratamente perso, / d’aver fatto un acquisto. / Fu gioia d’un momento. / E rimase / turbato. / Quasi / come chi si sia a un tratto visto / spogliato d’una rendita. / (Lui, / ignaro che ogni ritrovamento / – sempre – è una perdita.)». E, a questo punto, vorrei riscrivere questa storia. 11

Salvare in memoria

Avevo dimenticato il Teatro Politecnico, a Roma. Tanti anni fa ci andavo a prendere un’attrice, giovane quasi come me e già orfana di un mondo, l’avanguardia teatrale degli anni Settanta. Lei recitava ragazza al Beat 72, io volevo essere un poeta beat. Per un po’ giocammo all’ape e all’orchidea, e forse pensavo a lei quando più tardi scrissi questa frase: «sei come un prato di periferia che è sopravvissuto». Quando imparai che a brillare di più sono le stelle spente. Anche il Politecnico ha l’aria di uno spazio superstite, e dimenticare, oggi, si dice «salvare in memoria». Così il primo sabato di maggio, prima del buio della sala, ho guardato con la stessa vertigine gli alti palazzi che circondano il cortile. Come è di Samuel Beckett, lettura-spettacolo di Rossella Or, diceva la locandina col «paesaggio» bianco e nero di Roy Lichtenstein. Dentro, voce accartocciata nel buio, forse nel fango – «io cito com’era prima di Pim dopo Pim com’è tre parti lo dico come lo sento» (come Belacqua nel Purgatorio che si abbraccia le ginocchia a capo chino), «da ogni parte poi in me quando smette di ansimare raccontami ancora finisci di raccontarmi invocazione» (Pim, per chi lo ignora, è la guerra, forse la bomba atomica; tutte queste parole sono una protesta contro la guerra).

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Rossella è la giovane attrice che non ha mai cessato di essere giovane, dimenticata e salvata. Come è? Così brava da modulare l’atonia e dare voce al silenzio, senza rovesciarlo nel contrario; capace di dar luce alle tenebre senza negarle, dare carne e mito alle parole, quelle più concave, senza violare la solitudine del linguaggio; capace di dar senso e vita a preposizioni e pronomi senza cambiarne la natura. Sì, ma come è? Come per il monaco non esistono luoghi più santi di altri, così Rossella non ha mai distinto la scena dal resto, e anche quando chiedeva un pacchetto di Chesterfield alla cassa di un bar-tabacchi sembrava un primo piano di JeanLuc Godard. La prima volta (eravamo a Ostia Antica) mi affascinò semplicemente pronunciando il nome di una sua performance, Oh, senza punto esclamativo. Un ossimoro in atto, espirazione e inspirazione insieme, paradosso fatto nervi e respiro, e viceversa. Fuori luogo come la voce e il corpo (magrissimo) che le appartengono. Credo si possa chiamare questa poetica stoica, non solo perché è intensa, o perché è una retorica contro la retorica, apofatica e sradicata. Ma perché come la vita è ardua e si consuma. Perché consuma. La voce di Rossella ondeggia, srotola e scandisce parole che s’offrono (soffrono?) come volti, «quando smette di ansimare frammenti di una voce antica in me non la mia». Chi conosce Beckett sa la tensione verbale, sottrazione dopo sottrazione, di parole che risalgono se stesse fino al balbettìo e al deserto, fino al franare finale, fantasma di dialogo, domande, sì, risposte, forse – «che io comunque sì solo sì nel fango sì nel buio sì questo regge sì il fango e il buio reggono sì...», «mai sofferto nessuna risposta MAI SOFFERTO no mai abbandonato no mai stato abbandonato no allora è questa la vita qui nessuna risposta È QUESTA LA MIA VITA QUI urla beh». Dunque sabato di maggio, pomeridiana, epifanie al Teatro 13

Politecnico, finché dopo Pim ci ritroviamo nel cortile, c’è ancora un po’ di sole e i pochi spettatori se ne vanno, Rossella si bagna la testa e il volto, si riposa, non ci sono critici ad aspettarla, no, colleghi, nessuna risposta, tranne me sì solo una coppia di cubani e uno studente fuori sede con gli occhiali che abitano con lei in periferia, sì, i palazzi alti intorno, sì, andiamo sulla via Flaminia a cercare un posto, bere del vino bianco, sì, camminiamo sul viale, nessuna risposta, era la strada della prostituzione una volta, sorridendo, nessuna risposta, qui vicino c’è il palazzetto dello sport, sì, i trans, nessuna risposta, ci passa il trenino, sì, il tram numero 2. L’unico posto è un chiosco rumoroso e al neon di fianco al tram, porto franco di immigrati e rifugiati che fan festa sparpagliati intorno, quasi tutti centroamericani. Tra le ragazze mulatte e i loro uomini ci sediamo nel dopo-spettacolo in quest’oasi dalle sedie di plastica, c’è anche la musica, le ragazze ridono, prima di Pim e dopo Pim siamo tutti uguali sì, immigrati emarginati orfani sì, è la nostra libertà, nessuna risposta, di fantasmi sì è questa la vita beh... La poetica stoica (lo ricordava Gilles Deleuze) non ricerca un piacere ma un effetto, «uno straordinario indurimento del presente»: vivere in due tempi, il presente indurito che tiene a distanza la realtà, e un altro che ha la forma di un futuro anteriore, o di un passato prossimo – verbo «avere» al presente e participio al passato. È il modo dell’estraneità, della non-appartenenza, estasi e fuga – dall’identità. In quanto passato simultaneo al presente, «copulazione dei due momenti», il suo piacere sconfina nella dissolvenza, un generale has been, che è sempre una perdita... Lei, Rossella, è l’attrice che interpretava se stessa in un film presentato a Venezia, Estate romana di Matteo Garrone, dove in un agosto torrido approda spaurita in un appartamento a piazza Vittorio. Qualcuno la de14

scrisse «esile e indifesa, nevrotica e insieme di nobile compostezza». Il suo smarrimento nel film è il suo smarrimento nella vita, il suo girare a vuoto compone mille magici ghirigori. Ma si sa, il nostro mondo non consente facilmente alle donne quel vuoto e quell’ozio che è l’epica di tanti uomini, né tantomeno un’assenza di identità. La nostra civiltà che dà un nome a tutto, i ghirigori poetici li chiama emarginazione, ma anche per questo occorre un permesso di transito, o di soggiorno. Ho lasciato Rossella nella sua nobile, muta compostezza tra gli immigrati in festa, a bere vino bianco col gentile studente occhialuto. Sono salito sul tram numero 2 fino a piazzale Flamino, sui viali svuotati come canyon scorreva come carovana. Ero l’unico bianco, europeo. Provavo un’emozione e volevo darle forma: Rossella, che da anni non ha casa ma esercita ogni giorno il corpo e la voce; che ha lavorato con tanti registi e musicisti d’avanguardia. Una volta a casa ho cercato notizie su di lei nel miglior motore di ricerca, digitando il suo nome, «rossella or». Ciò che ho ottenuto è l’effetto di una finale dissolvenza, ultima rivelazione stoica dell’has been: la parola «or», informa Google, «è stata ignorata dalla ricerca». È insignificante e invisibile come la congiunzione «e», o «con», oppure: «come è». Una parola concava, un «operatore», un fantasma verbale. Oh. Il nome è il carattere, dicevano gli stoici, è il destino, non si scappa. Con quanta sapienza, penso, Rossella lo ha scelto per approdare a questo smarrimento, questa cancellazione, estasi; per sfidare ogni memoria e ogni salvezza.

Simple twist of fate (sognando dylan approssimativamente)

Che quando un mattino aprì gli occhi c’erano muri bianchi e porosi, odore di umidità e di legno. Che dalla finestra si sentiva un selciato di ghiaia come se vi camminassero dei piedi leggeri. E un mandorlo fiorito, e che perfino un gallo cantò, e disse tra sé: un miracolo fiorito. Che la donna distesa nuda al suo fianco inumidiva ancora di più la stanza con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa, dal gusto di caffè senza zucchero. Dal gusto, anche, della pelle e della sua lieve secrezione. Che quando parlava le si rompeva la voce e le parole uscivano a frammenti luccicanti. Che si stupiva lei stessa delle proprie parole. Labbra screpolate come i muri. Primavera e mandorlo, e api. Che, poiché a lui venivano sempre in testa delle idee, lei gli chiese una volta che cosa fosse un’idea... Alcuni giorni fa, camminando in un quartiere della periferia di Bruxelles – grandi muri ciechi di edifici diversi tra loro, affacciati su spazi vuoti, un cielo alto e mosso –, avevo nella testa un pensiero un po’ vago, o forse solo una sensibilità, che orientava l’idea che avevo da tempo di scrivere su Dylan. Il fatto che adesso non mi ricordi nulla, e tutto sfuma in una

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specie di visione, mi fa pensare che è comunque una bella forma quella che cancella i confini tra il tempo da abitare e il tempo da sognare, ed è questa forma a ricordarmi di nuovo Bob Dylan. Adesso mi vengono in mente i pullover troppo corti delle amiche di mia sorella più grande, chine sul tavolo a studiare. Avevo quasi nove anni nel 1968, perdevo i denti nella scodella del latte, e guardavo le loro schiene liceali nude e disinvolte. Al mattino, durante il caffelatte, sul giradischi a 45 giri girava Just like a woman; I want you era quella allegra sul retro. Di solito in questo ricordo è primavera, perché di pomeriggio viene su dalla finestra aperta la voce del megafono sull’automobile Fiat che invita allo sciopero generale. La voce non si vede ma dalla finestra guardavo in controluce i rami di un grande noce. Facevo la prima o la seconda elementare quando sui gradini della scuola un compagno col grembiule mi chiese chi fosse il mio cantante preferito. Se una decina d’anni dopo avrei camminato anch’io in controluce con una giacca di pelle marrone come Dylan, contemporaneamente imparavo a memoria le parole di I dreamed I saw saint augustine; il quale (sant’Agostino) scriveva a proposito della memoria che, quando si evoca il passato, non ci ricordiamo le immagini, ma le parole, che a loro volta ci suggeriscono le immagini. Ancora oggi, quando piove in estate, e alla fine della pioggia l’odore si sparge nella luce del giorno, provo un’emozione dolcissima e intensa a camminare sui viali di foglie con le scarpe più grosse, quelle di fuori stagione; discrepanza che diventa così sinestesia, figura retorica sentimentale, la percezione insieme di un tempo abitato e un altro sognato. Stasera, ad esempio, ha piovuto un po’, «nessuno sente nessun dolore / stasera». 17

Dove è scritto tempo, leggasi spazio, anzi: luogo. Credo che Dylan trasformi ogni cosa in paesaggio, anche un volto. Ma è per il fatto di rendere volti i paesaggi che non lo si può ascoltare con gli occhi chiusi. Non è facile dire il sognare a occhi aperti. Come cercare dei nomi per la grana della voce. Scabrosità sulla superficie liscia di un corpo, dei corpi. Se facessi un elenco partirei dal cielo. La velocità o la lentezza delle nuvole, i colori. Il vento sulla pianura, i campi di grano o di malto. I paesaggi senza le persone. Le persone brulicanti nelle città viste dall’alto. I primi piani delle persone davanti a una finestra, che guardano da qualche parte, o che non guardano da nessuna parte, oppure le finestre che guardano le persone che sono cadute giù dalla finestra, per diventare quello che credevano di guardare. Che stanno sedute in una stanza a pensare magari «oh, tutte queste strade non portano da nessuna parte», le persone che mancano, e continuano a parlare perché si accorgono di mancare. «Non pensarci più va tutto bene». «Io ti seguirò». Perché, nelle storie migliori, l’eroe appare piccolo, e lo riconosci appena, nel mondo là fuori che è la sua unica avventura. Un’amica mi ha raccontato che, quando ascoltava Dylan, stava sempre in una stanza a infilare le perline. [quello che sto ora pensando: è il proprio delle parole, il loro destino, non arrivare mai a segno, a destinazione, e giungere così come detriti, come immagini, come iscrizioni – quello che mi viene in mente – 15 maggio 1987, appunti dal diario, Musée de l’Elysée, fotografie di Mulas in America, cammino cauto sulla ghiaia sotto il sole con le scarpe nuove, canti variegati di uccelli nel giardino sul lago, raccolgo immagini per R. (o parole?), Edie Sedgwick distesa su un fianco, 18

piedi piccoli e gonfi nelle scarpe basse, volto ripiegato sulla spalla, sorriso – frammento di lettera, Or, oh, un gioco del destino, come nelle canzoni – perché posso pensarti meglio di notte, pensarti, e fare a meno se possibile delle parole, un punto finale dici, ma i punti finali sono le partenze più vere – questo denso e abitabile come una nuvola densa – e «dentro i musei l’infinito viene giudicato»] io, qui, adesso, guardo le navi dal vetro, senza sapere per chi sto scrivendo, le barche a vela sono rosse e bianche, il mare è azzurro e le case riflettono il cielo, sono venuto qui due volte per bere la birra, la cameriera mi ha riconosciuto, il mondo è un porto a colori, potrebbe diventare un’abitudine questa quindi la storia di un’abitudine, non c’è inizio né fine, qualcosa che si racconta a qualcuno, che non appartiene, cento abitudini fanno cento racconti, se non fosse che ogni storia prolunga se stessa di innumerevoli altri possibili episodi, come le linee tratteggiate che prolungano le figure, un’accidentalità limitata, o un algoritmo che ha per base una storia, una canzone, l’incontro con Valérie sul ferry-boat, la cartolina della pianura e la stazione di Yeovil Pen Mill, quella più antica di Casalmaggiore, tutte le cose da cui può nascere la bellezza, senza discernere l’eco dalla voce – sognando Dylan approssimativamente imparo che il punto di vista giusto è aderire, aderire mettiamo come aderiscono all’aria gabbiani qui nel porto di Falmouth, che a volte strillano, a volte giocano col vento, a volte planano con le zampette allineate alla coda, che hanno pesci da mangiare, tetti su cui appollaiarsi, correnti d’aria per lasciarsi andare e tempo e spazio da abitare e da sognare.

Storia con fantasmi

Vorrei cominciare con una poesia in forma di lettera, che scrissi all’amico Carlo Bordini alla fine degli anni Settanta: caro carlo ti scrivo la mia ultima scoperta ogni volta che mi lavo mi dissolvo un po’ di più mi sciolgo come la schiuma che mi frego tra le mani fino a diventare scaglia e scomparire. È per questo sai che non amo stare al sole la politica non c’entra sono fatto di neve avrei preferito dirtelo a voce ma quando suona il telefono tu ti metti paura cominci a strisciare su e giù per le pareti

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Poi vorrei mostrare un’immagine della fotografa americana Francesca Woodman dello stesso periodo:

Una decina d’anni fa, a Parigi, capitai quasi per caso all’inaugurazione di una mostra alla Fondation Cartier, e ne uscii emozionato e turbato. Ero andato lì per fare qualcosa di inessenziale, una non-esperienza, come ci induce a fare il rituale dei consumi culturali. Incontrai invece qualcosa che parlava implacabilmente a me e di me. Che mi parlava di quello che avevo voluto scrivere e testimoniare in un passato non lontano e che non cessa di tornare. Era una mostra retrospettiva di fotografie di Francesca Woodman, scattate negli anni Settanta. Soprattutto autoritratti, molti dei quali fatti a Roma, dove abitò tra il 1977 e il 1978. Provai un sentimento fortissimo di riconoscimento e di comunanza, di lei e della sua poetica. Fui anche sicuro di averla incontrata, conosciuta. Simultaneamente appresi che l’autrice era morta il 19 gennaio 1981, gettandosi dalla finestra. Aveva ventitré anni. Nata a Denver, Colorado, un anno prima di me, figlia di artisti, vissuta a Boulder (dove tra l’altro si trovava il Naropa 21

Institute di Allen Ginsberg & soci), poi studi alla Rhode Islands School of Design a Providence, poi un anno a Roma, scoperta (o riscoperta) del surrealismo (e del futurismo, e di altre avanguardie) in una libreria anch’essa «d’avanguardia» vicino a piazza Navona. Abitava – dalla primavera del 1977 all’estate del 1978 – a piazza San Salvatore in Lauro, vicino a via dei Coronari. In quella libreria, Maldoror, Francesca Woodman ha sotto gli occhi gli autori caldi del momento, quelli del pensiero della «trasgressione», da Lautréamont, appunto, ad Artaud e Bataille. È lì che avrebbe esposto le sue fotografie nel 1978: giorno previsto per l’inaugurazione il 20 marzo. Solo quattro giorni prima Aldo Moro venne rapito e la sua scorta massacrata. Ma Francesca Woodman, così pare, non venne toccata da questi eventi. Era completamente assorbita dalle proprie ossessioni estetiche, idee e programmi, di cui sono parte integrante i suoi diari. Un’idea per lei è come qualcosa «sul fuoco», di cui bisogna occuparsi, annota, «prima che faccia bruciare il fondo della pentola». In questa libreria, luogo di sperimentazioni estetiche e comunitarie gestita dagli amici Paolo Missigoi e Giuseppe Casetti, scopre, grazie al loro archivio di immagini preziose custodite in una valigetta, un curioso ritaglio della rivista «Sapere». Sono le fotografie di uno scienziato ungherese che si pretendeva inventore di una «macchina per scomparire»; le illustrazioni mostrano una donna seduta che sfuma poco alla volta nel corso delle immagini successive, prima di sparire definitivamente. È da qui che prende l’idea della sua rappresentazione fotografica della trasparenza e della sparizione, come nell’Angel Series? Non credo. Le sue foto degli anni precedenti, a Boulder, a Providence, mostrano già pienamente la sua estetica dello sfumato, dell’evanescenza, del dissolvere e dissolversi, dell’uscire di scena, del diventare altro, diventare 22

aria, tappezzeria, muri, carta da parati, carta e basta, diventare erba, sabbia, pavimento, lenzuolo, albero, «diventare ombra, riflesso, corrente d’aria» (Nicolas Bouvier), «divenire sempre, non diventare mai» (Gilles Deleuze), ecc. Però la coincidenza è bella, come una complicità: l’inventore ungherese della macchina per sparire. Che, per Francesca, altro non è che l’apparecchio fotografico. Come si chiamava quel bellissimo film in bianco e nero di Woody Allen, primi anni Novanta, che è insieme la storia dell’antisemitismo e del desiderio di evadere dalla realtà, dall’essere stesso? Ah sì, Ombre e nebbia, dove il goffo eroe, in fuga e perseguitato, a un certo punto sparisce con una macchina per sparire, complice un mago che assomiglia tanto, anche nei suoi procedimenti, ai vecchi fotografi col treppiede e il flash abbagliante. Uno schiocco di dita, e puff! Era questo che voleva, da sempre, anche prima di essere perseguitato. Ombre. Nebbia. Ed è ancora una volta lo sfumato, lo sfuocato, la tenuitas, l’ectoplasma, la parte più viva e insistente della storia dell’arte, la «vera icon», la Veronica, la Sìndone. L’assenza, le tracce che si lasciano quando si vogliono cancellare le proprie tracce. La Ninfa che si veste di ciò che la denuda. Un’estetica della sparizione. Ma anche un’estetica del volto, di ciò che si oppone al ritratto (che è sempre assoggettamento dell’altro, della sua presenza) grazie alla frontalità o al disfacimento (dis-facere) dei suoi tratti, a costo di una indistinzione, di un divenire fantasma. Ecco, tutto questo è per me la quintessenza degli anni Settanta, qualcosa che non è mai morto, solo (forse) scomparso, tornato cioè nel suo alveo originario, alla sua condizione naturale. Quella di fantasma. La foto posta a pagina seguente potrebbe essere sostituita da molte altre analoghe di Francesca Woodman. Quel giorno 23

a Parigi, e dopo, sfogliando i libri delle sue fotografie, rimasi soprattutto colpito dall’ultimo lavoro di Francesca, un libro d’artista dal titolo Some Disordered Interior Geometries, «Alcune disordinate geometrie interiori», realizzato su un quaderno a righe dei primi decenni del Novecento, «Esercizi graduati di geometria». Lo sfondo infantile e didattico dei quaderni, tra definizioni e poliedri, esalta la passione individuale della sua ricerca, quasi una spinoziana Etica more geometrico demonstrata, un’etica desiderante, trascendente e immanente insieme: immagini sovrapposte di pezzi del suo corpo, piedi, gambe, gesti, il volto e il sesso semicoperti dalle mani, mani che porgono un guanto, interni vuoti e spogli, muri, pavimenti, superfici bianche; una geometria interiore e disordinata, non euclidea, agli antipodi di quella militare «geometrica potenza», tutta esteriore, con cui si definì tronfiamente l’azione delle Brigate Rosse a via Fani. Ma io, che cosa facevo in quegli stessi anni, e perché sono così sicuro, fin dal turbamento e la commozione avuti a Parigi alla Fondation Cartier, di avere avuto a che fare con lei, al 24

punto che il suo volto sfuocato nelle sue fotografie, il suo corpo sfuocato (tutto il suo corpo è volto, e anche ogni oggetto delle sue fotografie è volto), mi guardasse, cioè mi riguardasse? Leggevo gli stessi autori, facevo le stesse esperienze, lavoravo, si fa per dire, per una rivista d’arte che parlava di trasgressione, di Bataille, di rivoluzione culturale, e per la quale feci la prima intervista italiana al sociologo Jean Baudrillard, che ci sembrava allora straordinariamente nei tempi, vero e fecondo, coi suoi concetti di iperreale e di simulacro. Andammo a Parigi, un amico e io, e il giorno prima dell’appuntamento, in una camera d’albergo di rue Dauphine, passammo un pomeriggio sui nostri rispettivi lettini registrando un dialogo – quasi uno psicodramma – inconcludente come le parole che si scambiano Vladimir ed Estragon in Aspettando Godot di Beckett (lo amavamo follemente); solo che nel nostro dialogo era lui, un invisibile e immaginario Godot, ad interromperci bussando sempre alla porta («Qualcuno bussa alla porta, sarà di nuovo Godot, ma cosa vuole da noi?»). È buffo: sabato 17 marzo 2007 la copertina di «Alias» («il manifesto») era fatta delle foto in primo piano di Baudrillard che mi parlava in quell’intervista del febbraio 1978, riprodotta all’interno. Accorgermene è stato un piccolo shock (nessuno mi aveva informato). All’epoca, al ritorno da quel viaggio, portai a scuola la giustificazione firmata (avevo 18 anni) della mia assenza: motivi di lavoro. Scrivevo già poesie e le avevo vendute ciclostilate per strada, e ai concerti di certi miei amici musicisti. Da tempo volevo scrivere, ma non sapevo né cosa né come, e fu la lettura di Allen Ginsberg a sbloccarmi: potevo parlare di qualsiasi cosa, tutto è «santo» e degno, il corpo soprattutto. Conobbi Carlo Bordini al festival di Parco Lambro del ’76, dove vendevo un librino di mie poesie seduto per terra, con una tovaglietta rubata al ta25

volino di un bar. Ero tranquillo e sballato. Tutt’intorno l’inferno, gli espropri al camion dei polli, la caccia ai tossici, le prime violenze dichiarate degli Autonomi, molti dei quali divennero a loro volta dei tossici. Io e Carlo che ci aggiravamo come un dante e un virgilio da fumetto in una divina commedia ubriaca, o meglio acida. Cominciai a venire a Roma quella stessa estate, conobbi il Beat 72 (e un vero poeta beat che dormiva sulla moquette: Adriano Dorato) e il cortile del Politecnico dove si riuniva un gruppo chiamato «poesia nel movimento». Conobbi molte ragazze. Ero esotico, e loro lo erano per me. Ero a Roma alla manifestazione del 12 marzo 1977, dove la mia parte del corteo fu attaccata prima ancora di partire, e in cui vissi l’incubo di una fuga randagia e convulsa in strade già buie con cabine e automobili in fiamme, e spari, poliziotti bardati come astronauti; dove assistetti impotente al fermo di amici mentre mi salvavo miracolosamente di vicolo in vicolo nella mansarda dell’amico poeta. Si mangiava con gli altri poeti in una trattoria a San Lorenzo, dove Francesca Woodman si trasferì spesso a lavorare dagli amici pittori dell’ex pastificio di via degli Ausoni (e dove a volte la trovavano nuda e tremante di freddo accanto a un muro scrostato, in assorta attesa della luce giusta per uno scatto). Potrei averla incontrata lì, in quel quartiere. Oppure a Campo de’ Fiori, a via della Pace, ovunque. Il ricordo di quegli anni, inutile dirlo, è una nebulosa. Ombre e nebbia. Ora, non c’è dubbio, Francesca Woodman è davvero fantasma anche per gli altri, anche per chi non lo sa, e lei ne ossessiona e feconda l’immaginazione, soprattutto dei più giovani, che non appena la scoprono la amano (e non solo chi si interessa di fotografia o di arte). Francesca è fantasma non 26

perché non ci sia più, è chiaro, anzi tutt’altro. Ma perché anche lei, come tutti coloro che hanno condiviso quell’esperienza estetica ed esistenziale – politica nel suo senso più ampio, mentale e corporale, cioè sociale –, anche lei e la sua opera, come è proprio del fantasma, tornano ripetutamente da un passato che non è mai stato presente. Gli anni Settanta. Mi rivolgo, per spiegarmi, alla lingua francese. Ci sono varie parole: phantasme, che usano gli psicanalisti per dire il desiderio che vira all’ossessione; phantôme, più vicina all’italiano ‘fantasma’. Ma soprattutto revenant, ciò che torna, revient, di continuo – e non solo perché è stato «rimosso». Torna, ma da dove? E cosa torna, nel fantasma? Non ha mai avuto appartenenza, per questo è fantasma. Non ha mai avuto presente, per quanto non anelasse che a questo. La definizione del fantasma è nella sua assenza di appartenenza, forse quindi nella sua assenza di definizione. Gli anni Settanta, per come io li ho visti e vissuti, per come li ho condivisi, per come li ho consumati e visti consumare, sono gli anni della più fulgida, della più collettiva e intensa e condivisa non appartenenza (che è già un bel paradosso). Sono gli anni in cui miracolosamente una società di fantasmi ha potuto avere luogo, il tempo di una meteora (anche se è durata anni, anche se durasse ancora, si tratta comunque di una coincidenza spazio-temporale fulminea). Adesso guardate l’immagine nella pagina seguente. Sembra il fuori-campo, se non un interno, di una fotografia di Francesca Woodman. È la foto di un covo delle Brigate Rosse. Il fatto è che anche i «terroristi», ne sono certo – almeno alcuni di essi –, diventarono quello che diventarono perché presi da un’altra idea del divenire che non «la lotta armata per il comunismo». Quella di sparire. Questo poten27

ziale estetico della clandestinità non viene cancellato neppure dalle rappresentazioni più banali, che siano giornalistiche o cinematografiche. Perfino nella loro idiozia politica e umana, quale traspare nel film di Marco Bellocchio, Buongiorno, notte, la pirandelliana condizione di scomparsi, di trasfigurati, di ontologicamente clandestini dei brigatisti emerge a dispetto di tutto come un gioco. Pur non essendo consapevoli del suo aspetto lirico e terribile, il fascino dello sparire insito nelle loro azioni rende misteriosamente ludico e teatrale anche l’appartamento più squallido, la vita più banale, la miseria del geometra o dell’ingegnere o del bancario Tal dei Tali, residente nella via Tal dei Tali, che rientra solo all’ora dei pasti, in un palazzone di banale periferia impiegatizia, qualcosa che non si potrebbe immaginare più anonimo (ma con dentro una stanza murata). Era anche questo il simulacro di cui parlava Baudrillard? Il fascino del falso, di una vita e un nome indossato come un abito, come Adriano Meis, fu 28

Mattia Pascal, svuota e rende iperreale quella normalità poco prima giudicata «fascista» e «razzista» dall’Orson Welles che interpretava il regista-genio in La ricotta di Pier Paolo Pasolini (film sequestrato e condannato negli anni Sessanta). Giocare ai normali era il paradosso della vita di un brigatista e, forse, la sua vera e intima ragione d’essere. Anche il piacere di «calarsi il passamontagna» sul volto di cui scrisse Toni Negri è della stessa natura, per quanto più idiota e infantile. E penso: se i brigatisti rossi avessero letto meno testi marxisti e più testi surrealisti o situazionisti, meno Toni Negri e più Guy Debord, la storia dei movimenti, in Italia, sarebbe andata in altro modo? È sotto questa luce che trovo bellissima l’idea di Bellocchio, nella sublime interpretazione di Roberto Herlitzka, dell’evasione tranquilla di Aldo Moro dalla sua prigione di normalità, che esce di casa un mattino presto e cammina per strada scoprendo con occhi da poeta il fascino aurorale della periferia, dell’archeologia industriale, il fascino rock (e punk) del valore dismesso (della dismissione), del non-lavoro, dei muri e dei palazzi sottratti tanto all’uso che allo scambio; e in questa luce d’alba con un lungo respiro si tira su il bavero del cappotto e continua a camminare, cammina e basta – è questa la libertà, e lui è libero finalmente e felice come il personaggio della Passeggiata improvvisa di Franz Kafka, che parte senza perché nel cuore della notte lasciando la casa alle spalle, sbatte l’uscio e si ritrova sulla strada «con le membra che rispondono, con particolare scioltezza, alla libertà inattesa loro accordata», «capace di qualsiasi decisione» – «mentre t’innalzi sino alla vera immagine di te stesso, una figura solida, dai contorni netti». Un senso di benessere unito a un’idea di orizzonte. Come il «desiderio di diventare un in29

diano», e cavalcare attaccati alla criniera senza sproni e senza sella, senza redini, senza neanche il cavallo. Aldo Moro come un personaggio di Franz Kafka trasportato negli anni Settanta, che diventa splendidamente un uomo invisibile. La sua evasione non come un’evasione dell’essere ma (insegnava il filosofo Emmanuel Lévinas) dall’essere. E infatti la vediamo, l’abbiamo vista, in un sogno, un sogno del cinema. [Qualche tempo dopo, a Parigi, andai alla presentazione di L’affaire Moro di Leonardo Sciascia, che ripercorre la vicenda della prigionia di Moro e delle sue famose lettere. È un libro molto bello, più bello perfino di La scomparsa di Majorana. Ci sono, in filigrana, tutti gli anni Settanta, il loro pathos più nascosto, il loro fantasma]. Ho scritto spesso degli anni Settanta sui giornali, ogni volta opponendomi con forza all’ostinato cliché che li vuole «anni di piombo». Al contrario, essi erano anni di carne – fosse anche carne di fantasma («il metodo – scriveva in una poesia Allen Ginsberg – dev’essere purissima carne»). C’erano allora cose più sentite della violenza delle Brigate Rosse, che pure fu, insieme all’eroina che invase deliberatamente il mercato facendo sparire le droghe leggere, la causa del suicidio di un movimento politico largo, variegato e diffuso. Ora, a distanza di anni, mi interessa soprattutto capire che cosa fu quel «consumarsi come meteore» che, recita l’I Ching, «è un male». La nostra disperata volontà di dissiparci, di diventare fantasmi, diventare sottili fino a scomparire. Qualcuno pensa davvero che non ci sia relazione tra il diventare fantasma mio, di Francesca Woodman, di tanti altri, e i simultanei apprendisti fantasmi che rapirono Aldo Moro e si diedero al teatro 30

dell’attacco «al cuore dello Stato»? Davvero si pensa che le motivazioni fossero soltanto «politiche», pur riconoscendo che le loro dichiarazioni erano già allora cretine? Il fatto è che, giudicate col metro dell’«autonomia della politica» (come loro stessi pretendevano), sfugge davvero l’essenziale, compresa la loro stupidità, compreso ciò che ancora fa dire, con altra stupidità, che gli anni Settanta sono stati «di piombo». [Il problema non è mai stato l’idea del comunismo, anzi. C’erano molte allucinazioni in quel periodo, allucinazioni desideranti; e anche questo, in fondo, era insito nel materialismo (comunista) nella sua formulazione più innovativa: «occorre attenersi ai fatti», scrisse il filosofo comunista Louis Althusser dal manicomio di Saint’Anne, ma «anche le allucinazioni sono fatti»]. I miei anni Settanta sono stati dunque come quella danza sublime e convulsa di certe foto sfuocate di Francesca Woodman, quando attraversa porte immaginarie, «porta senza porta», che lei stessa ha tracciato con un disegno sui propri autoritratti. Ricordo una notte, inverno 1979-80; credo che fossimo a Firenze, per chissà quale strampalato motivo, io e il mio splendido amico Giorgio Messori (lo conobbi un mattino d’inverno a Bologna, a lezione di Anceschi, dove Giorgio fece una relazione su Benjamin e Kafka), e facevamo come al solito il gioco dell’elenco. Questa volta parlavamo dei film che potevano unire gli anni Settanta ai nascenti anni Ottanta. Professione: reporter di Michelangelo Antonioni (del 1975) ci sembrava indubbiamente un film sugli anni Settanta. L’amico americano di Wim Wenders (del 1977) secondo noi inaugurava e profetizzava già gli anni Ottanta (lo vedemmo insieme 31

otto volte, per risentire la frase sul «blu che non è più quello di una volta», detto dal corniciaio al mercante, e dal mercante al falsario di se stesso, interpretato da Samuel Fuller: pittore fantasma, appunto). Ma va da sé che per noi gli anni Settanta proseguirono almeno fino al 1984. È in quel periodo che un’altra notte, a Ginevra, bevendo in un pub ci confessammo reciprocamente il nostro grottesco timore: qualcuno stava rubando il tempo per fare esperimenti con i sincrotroni (lì al Cern), e in effetti tutto passava un po’ troppo alla svelta ultimamente, di questo eravamo certi. Ecco, dovrei fare questo, un elenco, recuperare uno di quei tanti elenchi che componevamo all’epoca. E che a volte diventavano poesia, come quella lunga che leggemmo la notte del reading per l’inaugurazione della nostra casa editrice, Aelia Laelia, «tutto lo strano via», con le scarpe in mano... Dire, per esempio, la scoperta della poesia e dei poeti, l’idea che a uno stile potesse corrispondere uno stile di vita. Dire le poesie di Corrado Costa su L’uomo invisibile, che «non riusciamo mai a sapere se c’è», non si vede mai, neanche al cinema nei film dell’uomo invisibile, neanche dopo il film, all’uscita dal cinema. E la poesia sulle vocali, sempre di Corrado Costa, dedicata a Gianfranco Baruchello (e a Rimbaud) proprio nel 1977 («l’U di acqua è invisibile / anche A di invisibile è / invisibile...»). Dire Jean-Luc Godard e l’emozione che mi davano i suoi film, i suoi primi piani, le sue lezioni di politica e di antropologia, le sue meravigliose lezioni di dogmatismo e onesta intolleranza, forti come ha da essere la poesia – perché «cultura = regola, arte = eccezione, ed è proprio della regola volere eliminare l’eccezione» (Godard mi ricorda il Film Studio, e di recente lo stesso vecchio cineclub di via Orti D’Alibert ha fatto una rassegna di tutto Godard: chi c’è andato?). Dire, per restare a Roma, il cortile 32

del Politecnico e gli spettacoli di Rossella Or, precocemente orfana della comunità teatrale della cosiddetta avanguardia; il suo «Oh» senza punto esclamativo, un’emozione aspirata e invisibile come la U di invisibile; i suoi spettacoli all’Uccelliera di Villa Borghese dove andavo di notte a vedere le prove e poi uscire con lei (riuscivamo a mantenere ogni volta un’atmosfera di privata elettricità) – e ricordo soprattutto un hotel vicino a Villa Borghese che sembrava uscito da un altro tempo, un’altra dimensione, dove restammo a lungo come fantasmi a parlare (di) poesia, bere tè e alcool nella sala colazioni senza essere visti da nessuno; Rossella Or che, quando comprava le sigarette, chiedeva le Chesterfield (che non c’erano mai) per imitare l’isterica di un film di Godard. Dire il film infinito di Alberto Grifi, la sua Anna, vera Alice disambientata, visto in tanti posti disambientati percorsi da altre interminabili Anne del nostro mondo disambientato, che fossero femmine o maschi. Dire le impasse nella deriva, dire gli approdi, come quando il mattino andavo a dormire su un prato a Villa Torlonia e mi svegliavano i latrati dei cani nelle loro passeggiate borghesi, dire i prati che sopravvivevano tra i palazzoni nel divenire periferia della città; dire i volti, dire il disfacimento dei volti, dire, come vorrei che dicesse questa mia poesia, qualcosa nella scia di quel dissiparsi del volto che nell’arte da sempre si oppone al ritratto, quell’estetica del fantasma che, ne sono sicuro, è la condizione stessa dell’etica, quindi dell’estetica: «L’Europa cambia volto L’atomica francese proteggerà la Germania» e io da tempo non vedo mia sorella, che «Hai una faccia, dice, che se dovessi Giudicarti dalla faccia»

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Liza Minnelli, figlia d’arte, dà uno spettacolo a Milano «Mi hanno insegnato a Ridere, ha dichiarato, E a pretender tutto dalla vita» Dopo la pioggia c’era il vento e mi piaceva Come il mattino che pestavo le foglie Sui vialetti del Sant’Orsola a Bologna Il fegato era molto agitato e l’impermeabile bianco Aperto sul petto come gli infermieri I platani in lacrime Il ventidue ottobre millenovecentottantadue Ho scritto a Roma questa poesia aspettando l’autobus Quando è arrivato sono stato a guardarlo, senza salire Sul vetro si vedeva la mia faccia, che se dovessi Giudicarmi dalla faccia I gatti miagolavano Puccini

Ma è con un’altra poesia che vorrei concludere questi appunti dalle mie «disordinate geometrie interiori». Il titolo è Scrivere: Un raggio di sole sul cristallo liquido del computer imbroglia le parole manifesta le cose. Che cosa è importante? Variante haiku: Sole e computer parole cancellate – questo rimane

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Big Sur

a Gianni Celati

Giro la testa e vedo tre gattini, due neri e uno macchiato, che giocano sul tetto della capanna di fronte alla mia. Si inseguono e si montano addosso, festeggiando il sole che ha dissolto la nebbia e fa brillare i fiori e le foglie. Guardo i riflessi di luce sulla coperta chiara e il pulviscolo che brilla contro le finestre bianche. Mi sono svegliato nella capanna di legno di Grand’ Pa, con vecchie lampade e una stufa a legna, una pianola e un vecchio scrittoio coi cassetti. Nella biblioteca, zeppa di quaderni con dediche – testimonianze dei passati abitatori –, sono allineati un gran numero di dischi polverosi, musica classica soprattutto, ma anche Donovan, Beatles, Canned Heats. Sono le note zigzaganti di On the road again, piene di fruscii sul giradischi traballante, a farmi galleggiare la testa mentre mi alzo ad iniziare la giornata. Sentito ieri tre o quattro scosse di terremoto, nonostante dormiamo quasi per terra e in mezzo ai boschi. Non mi sono però alzato dal letto. Nel pomeriggio camminato a lungo. Attraversato la foresta fitta di querce ed eucalipti, che si apre alla fine del sentiero in collinette erbose e in una distesa ondulata di sabbia con alberi radi, poi si trasforma in una vera

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spiaggia primitiva, un po’ come quelle che si vedono nei film di fantascienza in technicolor, con grotte, dinosauri, macigni e magari frammenti arrugginiti di grattacieli. Sono rimasto nel vento a guardare le onde spumeggianti. Al ritorno dormito di nuovo nella capanna, col sole di fuori. Parlando con Jerry, hippy attempato che si occupa della Henri Miller Memorial Library, ex trafficante di marijuana, mi ha regalato il libro delle sue avventurose memorie trascorse tra gli States e il Messico, gli ho regalato in cambio la versione inglese di alcuni brani dell’Ultimo buco nell’acqua, quelli che gli fanno pensare a Jack Spicer. Jerry vive e lavora adesso nella ex casa di Emil White, circondata di alberi. Parla soprattutto del passato. Cammina ciondolando avanti e indietro, risponde al telefono, aggiunge pezzi di legno ancora nuovi ai pezzi di legno già bruciati, mi mostra quadri, fotografie e fotografie di quadri, accanto a lui un amico che annuisce di continuo sprigionando un alito di vino e di tè insieme, lo segue come un’ombra, camminando legnoso sul pavimento di legno della Memorial Library. Ecco, la memoria, è questa la parola chiave, qui: tutte le chiacchiere dei tizi che ho conosciuto a Big Sur hanno a che fare con la memoria. Non so bene perché, mi fanno venire in mente le balene. Da quando sono a Big Sur penso continuamente alle balene; del resto, sono passate nella baia solo pochi giorni fa, e bisognerà aspettare a lungo prima che ritornino. Parlato e mangiato la sera con John, dottore in legge, vissuto nel Colorado e in un mucchio di altri posti, di nuovo qui a Big Sur, barba bianca, fa qualsiasi lavoro per vivere, dice che Santa Fe è arida e piena zeppa di newyorchesi, ci ha fotografato Cathy ed io sulla terrazza del Nepentha sullo sfondo della baia in cui giocano foche e delfini, dove le balene, loro, sono passate muggendo: nella villa, ora ristorante, 36

che Orson Welles volle costruire per amore di Rita Hayworth, e che per disamore non ultimò. Dopo mangiato ci siamo seduti in cerchio a scaldarci intorno a un grande fuoco, e a poco a poco ci siamo trovati in compagnia di numerosi altri silenziosi vagabondi usciti dal freddo. John parlava con un tono di nostalgia, anche altri vicino a noi si sono messi a parlare e qualcuno ha detto così, che sentiva nostalgia, ma non sapeva bene di cosa. Altri giorni trascorsi a Big Sur, seduto al tavolo di legno della capanna di Grand’ Pa, tra la pianola e le foto ricordo, ad ascoltare vecchie canzoni nell’odore di legno bruciato e di quello non bruciato; e poi di nuovo al tavolo del NepenthaNo-sorrow, tra le querce della costa, Nepentha Oak Trees, tra i turisti che guardano le foche coi binocoli e aspettano seduti il prossimo passaggio delle balene; e tra le altre persone che guardano i turisti che guardano le foche, coi capelli raccolti in una coda di cavallo e le barbe bianche arruffate mentre parlano di ricordi attorno a un fuoco; giorni passati a Big Sur, dove ho pensato, nell’odore di legno dei boschi, nell’odore di boschi bruciati dentro la stufa a legna, che i ricordi sono grotteschi, che la memoria è grottesca, perché grottesco è accorgersi del passare del tempo. Come cercare di nuotare in un lago di marmellata. Non so se c’entra, ma continuano a venirmi in mente le balene. La notte che ho avvertito le scosse di terremoto ho fatto un sogno. Nel sogno m’incontro con G., e insieme cerchiamo di scrivere un racconto senza il tempo, che cioè faccia a meno di ogni riferimento alle epoche, al calendario dell’uomo. Una storia senza storia. È un lavoro molto duro che cerchiamo però di svolgere con entusiasmo. I verbi non si devono declinare, lasciamo soltanto il ritmo delle parole. Immagino: come piedi che camminano, come uccelli migratori, come i guizzi 37

dei pesci o come i sussulti del cuore, come gli aquiloni di carta che si agitano nel vento, come percussioni, come il tempo di una mano che sta battendo il tempo. Ma come facciamo a scrivere frasi senza tempo che non siano esse stesse delle stratificazioni di tempo, temporali? Coniamo frasi di prima delle frasi, di prima della storia; come gli uomini detti primitivi copiamo solo con gli occhi e le mani, parliamo solo del luogo. Questo, quello, laggiù, ho sentito dire. Ammucchiamo frasi e parole come zolle di terra, fili d’erba, legna secca, pietre, granelli di sabbia, gocce di pioggia, cerchi nell’acqua. Le ordiniamo poi in un percorso senza inizio, come seguire tracce senza tracce, attraverso foreste e deserti, villaggi e fortezze, corsi d’acqua e pianure, come un viaggio a piedi oltre le montagne. Diciamo gli animali e le piante, i fiori che si aprono e chiudono, le stelle che appaiono e scompaiono, l’erba che rimane erba in ogni stagione, l’odore dei corpi e il cielo, gli accenti e le nuvole, le voci delle persone, il desiderio di una casa e ancora il cammino. Piedi che camminano, uccelli migratori, mano che batte il tempo. Senza l’idea di misura, soltanto gli occhi e le mani. In sogno, leggendola ad alta voce, questa storia ci sembra da sempre già sentita. Ma come è possibile, da sempre? Azioni che non hanno un’idea del dopo, frasi che non finiscono perché non hanno ricordi, come la luce e l’ombra. Che non si possono spiegare né comprendere, soltanto conoscere. Che non avrebbero lasciato immaginare nulla, a parte questo. Il terremoto aveva cullato il mio sogno, poi mi sono svegliato e ho guardato il sole entrare nella capanna di Grand’ Pa. Oggi ho camminato da solo lungo il promontorio, a guardare il Pacifico e la natura che sembrava precipitare nell’oceano. Dall’altra parte i boschi. Sono ceppi di sequoia, quelli? Pensato vagamente a quanti prima di me hanno avuto 38

qui delle sensazioni, e a che cosa siano riusciti a fare di esse, o grazie ad esse. La cosiddetta buona vita: vivere all’unisono col tempo. Misurare i gesti, le emozioni. Essere i propri stessi gesti, essere il tempo. Il bricco del tè, la scopa, il canto della ghiandaia azzurra, mettere i pezzi di legno nella stufa, mettere i pezzi di formaggio nell’angolo del topolino. Crepuscolo. Tornato sui miei passi, come si dice. Le capanne ora hanno le luci accese, l’insegna del Big Sur Inn è illuminata. Si sente la nebbia, prima ancora di vederla. L’idea di consumare un pasto caldo, rallegrato dal vino della California del Nord. Non ho pensato alle balene, ma improvvisamente mi sono venute in mente le sbronze, proprio così, l’idea dell’ubriacarsi; ripensate una ad una le sbronze più grosse di cui ho fatto l’esperienza. Quelle in cui non sai dove ti svegli, quelle dove non ti svegli. La postura afflitta del dopo sbronza, quando tutta l’energia è chiamata a raccolta per sostenere la testa sul collo, e si guarda il mondo come se fosse un acquario. Provato la stessa sensazione alcuni giorni fa a San Francisco, aspettando un aereo. Non ero ubriaco, avevo però la postura di una statua di George Segal. Ero anche tutto in bianco, a parte la barba lunga. Dagli altoparlanti usciva il motivo irresistibile e frenetico di Twist & Shout, io immobile a guardare davanti, tranne il movimento ritmico al rallentatore della mano che mi portava la tazzina di caffè alle labbra. Le sbronze non sono mai una perdita di tempo, fanno perdere l’idea del tempo. Che diventa un presente duro e vivente, che non finisce. Che senso ha allora avere memoria delle sbronze. Una corrente nervosa che scorre sotto la pelle, come l’umidità che mi sta permeando le ossa. Mi ostino a rimanere lì nonostante il freddo, seduto a meditare sulle sbronze sopra il panchetto di legno, davanti alla cucina del motel, mentre scende la notte. Una notte canadese. 39

Non so se c’entra, ma qualche giorno prima di arrivare a Big Sur sono incorso in una piccola avventura. Ho voglia di riportarla. Dunque, ero già stato molto impressionato dalla Natura: dalle montagne che irradiano un senso di sacro che fa pensare agli indiani; dalla costa serpeggiante del Nord, disegnata da querce che sembrano disegni giapponesi su carta; dagli aranceti e le macchie di cactus del Sud, dalle colline come dinosauri addormentati, dal silenzio della Ojai Valley. Mentre guidavo in quella regione, ogni tanto scattavo delle foto alle praterie, alle montagne, alla strada, e nel far questo l’automobile a volte sbandava leggermente. Fu vicino a San Luis Obispo che vidi, nello specchietto retrovisore, la macchina nera della polizia californiana che mi seguiva, simile alle automobili giocattolo che si regalano incautamente ai bambini, la stessa dei telefilm americani. Poco dopo fece lampeggiare le luci e accese minacciosamente le sirene, mentre dallo specchio vidi che lo sceriffo mi faceva imperiosamente segno di accostare. Rimasi seduto. Lo vidi avanzare verso di me tenendo la mano destra addossata alla fondina. Disse gridando un mucchio di frasi che finivano tutte con «D’you understand!?». «No» risposi. «Sono italiano». Poi capii. Mi aveva fermato su segnalazione di qualcuno convinto che al volante della mia macchina ci fosse un ubriaco, visto che sbandava a destra e a sinistra. Spiegai che non ero ubriaco, che l’equivoco era dovuto al fatto che, guidando, avevo voluto fotografare le montagne. Quelle montagne che sembrano sacre, aggiunsi. «La prossima volta – lo sceriffo mi disse ora più lentamente e, mi sembrò, più gentilmente – accosti prima l’automobile, si fermi, poi faccia le fotografie. E dopo riparta».

Autostrada

Guidavo verso Bologna in una mattina di primavera, e sia io che la persona che mi stava seduta accanto restavamo in silenzio. Di fianco a noi scorreva il mondo. Scorreva la campagna, scorrevano prati, alberi, campi di grano. Coloniche dagli ampi loggiati attraversate da una parte e dall’altra dalla luce e dall’erba, fienili e fabbriche basse, chiese romaniche e gotiche, villette bianche sui cui balconi erano appoggiati dei vasi di fiori, trattori che aravano i campi, altre strade su cui si costeggiavano altre automobili e camion. Persone, attività, gesti, mattoni che si riscaldavano al sole, vegetazione che mormorava in silenzio, pezzi di storia testimoni del nostro passaggio. Guidavo leggero e assorto. Accanto a noi altre automobili procedevano in rispettosa prossimità, e anche sull’altra corsia, separata dalla nostra da un guard-rail, altre automobili e camion procedevano nel senso inverso a velocità variabile. Tutto questo flusso di mezzi di locomozione che procedevano senza sfiorarsi mi suscitò un’inaspettata commozione, un senso di totale armonia. Pensai ad un respiro che ci contenesse tutti, vidi nel nostro movimento un’umiltà che fino ad allora non avevo mai conosciuto, e mi sembrò che il mondo che scorreva al nostro fianco s’inchinasse al nostro

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passaggio, prati e chiese abbandonate, mura e pioppi, campi, boschi, fabbriche e case – perché anche il nostro cammino era in realtà una genuflessione – e che tutte le nostre automobili avanzassero secondo un’andatura spirituale e cosciente, una meditazione, un’energia in movimento da cui fosse escluso per sempre ogni pericolo, ogni presunzione e ogni paura; e che ogni movimento, ogni cosa e ogni essere, significasse solo questo, un profondo rispetto.

The golden age

In quel posto che un secolo fa era palude, poi luogo di transito e commercio del frutto della fatica dei cavatori di marmo, e dopo ancora luogo d’ozio dei ricchi, prima di trasformarsi anch’esso in una marina di massa, mi fermai una notte con la donna che sarebbe diventata mia moglie. Non c’era posto per dormire a Lerici – la mia terra d’infanzia –, dove avevamo cenato sotto il castello di San Terenzo. A differenza di quegli scogli famigliari, dei porticcioli con le barche e le case color pastello, ricordavo Forte dei Marmi come un lungomare di canniccio e spiagge grandi e idiote. Ma era ancora abbastanza fresco di privilegi, e il mio sguardo adulto si era teneramente corrotto. Eravamo fuori stagione. L’albergo risultò il più bello, lussuoso di spazio e di ombra dorata. Comprai occhiali da sole fuori stagione e passai le ore a guardare il mare fuori stagione, la spiaggia vuota come nelle vecchie cartoline o nelle pagine di Scott Fitzgerald a Nizza. L’odore dei pini marittimi e dell’umidità era buonissimo, i marciapiedi larghi, la gente tranquilla e le lingue tante – soprattutto ai tavolini del nostro caffè preferito a Pietrasanta, il «Café des ratés», come lo avremmo chiamato. I tramonti sul mare facevano sorridere di rosa le cime imbiancate di marmo

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delle Alpi alle nostre spalle, e di quelle sensazioni vissi di rendita tutto l’inverno. La primavera successiva ci tornammo. Quel luogo che avevo disprezzato per la sua staticità ci sembrò così meravigliosamente abitabile che cercammo per gioco una casa da abitare, e avemmo la ventura di trovarla subito. Diversi anni dopo, all’inviato di una televisione francese che mi intervista insieme ad altri amici seduti all’ora dell’aperitivo nella piazza, dico che il tratto che più amo dell’abitare qui è il sentimento di far parte di una comunità di «sradicati residenti». Sparpagliati in un’area che dal mare ai monti (dalla spiaggia alle colline di ulivi ai boschi di castagni, fino alle pendici delle Apuane) tocca vari comuni della Versilia, io e gli altri abitatori, nativi e non, di questa terra abbiamo in comune il gusto dell’essere-in-comune: in un luogo in cui trovarsi nella piazza a certe ore esprime ancora una socialità significativa e aggregante. Era così, a pensarci, nelle città italiane durante gli anni Settanta. Dunque eccomi lì sradicato e residente, dove la congiunzione e incarna il paradosso che ho sempre desiderato, essere e insieme non essere da qualche parte, essere straniero e dimorare, giustificare la mia instabilità e la mia perenne ricerca abitativa. Sentire la nostalgia anche a casa, sentirmi in viaggio senza lasciare Itaca. Se la casa è il luogo in cui si fa ritorno, qui condivido questa vita mobile con molti illustri amici, che si alternano magari tra qui e Tokyo, la Sicilia, New York, Parigi, Berlino, per non citare che alcuni degli amici scultori. Io stesso a Pietrasanta ho alternato per anni una vita parallela a Parigi, altrettanto arbitraria e infondata. Sono quindi principalmente gli scultori i miei amici sradicati-residenti. La loro integrazione con i nativi basata su un fare – la lavorazione del marmo e la fusione del bronzo – ha 44

creato una comunità che si estende dai cavatori agli anonimi maestri scalpellini, fino agli estimatori e ai collezionisti, e ruota intorno a una delle attività più complesse e sociali tra quelle che appartengono all’arte. Amo la scultura, quest’opera plastica che si può e si deve percorrere con le mani, e che ci pone domande sullo spazio; amo i miracolosi pezzi di mondo insieme naturali e artefatti, organici e inorganici, frutto di una molteplicità di gesti collettivi e anonimi, non privi di pericoli e sapienza millenaria, ma sempre meno immaginabili dalla gente comune. Non sono pochi quelli che credono che le sculture si comprino belle e fatte come i frigoriferi. Ma la fama di questo luogo si è sparsa troppo, e gli amministratori incautamente addirittura la codificano: «Pietrasanta città degli artisti». È l’unico modo per uccidere un luogo ancora ricco di vita, ma già corroso da equivoci che rivestono, non ultime, le forme di ingombranti Mercedes con le antenne telefoniche sul tetto, malamente parcheggiate dai turisti che dalle discoteche e i ristoranti estivi di Forte dei Marmi si spostano per visitare il paese degli «artisti». Da tempo non abito più a Pietrasanta, e tanto meno a Forte dei Marmi, ormai simili a un incrocio tra San Gimignano e Cortina. Nomi che alludono forse ad alcuni aspetti della vita che vi condussi in quegli anni. Lo spazio, l’umidità e il sole dorato sui pini marittimi, il mare vuoto, il bagnasciuga all’ora delle ombre che si allungano; e, dietro le spalle, le Alpi di marmo aguzzo e frastagliato, i pini dannunziani senza l’ombra di un vate, la facilità e la scioltezza, il gusto coloniale senza senso di colpa dei camerieri che portano in spiaggia caffè e sigarette, panieri di frutta, e la sera gli aperitivi con gli sballati più o meno come noi. Le ville nella pineta, i patii, gli americani in dieta con le cuoche private locali, grasse e perplesse, 45

le milanesi sole e i giardinieri abbronzati. I collezionisti degli artisti e gli artisti collezionati, gli agenti immobiliari che ti scarrozzano qui e là. Le colazioni in villa, i vassoi panciuti, i carrelli. L’ombra quando volevi l’ombra, il sole quando volevi il sole. Le focaccine care come branzini. I branzini. Il bagnino gentile e i teli rossi e azzurri della spiaggia, dove il lusso era lo spazio tra la gente e ti sentivi beatamente all’estero. Di giorno scrivevo, Cathy dipingeva. Una volta fece un quadro su carta dei nostri corpi seminudi, lasciando la trasparenza dorata del papier kraft. Si sentiva nel dipinto l’odore del mare sulla pelle, e lo chiamò così, The golden age. Il titolo era giusto, senza nostalgia. Era come un film. Ma è quando i film finiscono che ci si ritrova in strada, o sul marciapiedi. Me ne resi conto un giorno in bicicletta, quando non abitavo già più lì. Nella mia vita ho citato a lungo questa frase: «solo i fantasmi sono crudeli, con la realtà ci si può sempre arrangiare». Finché imparai che la realtà può essere il fantasma più crudele. Quel giorno in bicicletta avevo con me libri e quaderni, dovevo lavorare per vivere, e scelsi di farlo in un luogo familiare. Presi posto a uno dei tavoli lungo la piscina, i prati alle spalle, i pini e i rampicanti coi fiori rossi a campanula, il sole, il mare e le cicale. Alcune persone si fermavano a salutare Santo Versace, vestito in pelle nera e appollaiato su uno degli sgabelli del chiosco di canniccio. Alla mia destra salutai un’amica di Milano con cui avevo parlato per anni di poesia, di madri anziane e figli piccoli, prima di accorgermi che insieme al marito ospitavano al loro tavolo un’altra coppia, Marco Tronchetti Provera e la moglie Afef. Fu una decisione di un attimo. Ci sono finzioni in cui è meglio non credere, che non aiutano a vivere. Non era il mio posto, non lo era stato mai. Me ne andai di soppiatto e pedalai sotto il sole. 46

Solo molto più tardi, seduto sul marciapiede di una pizzeria al taglio, un’amica al telefono mi aiutò con dolcezza a capire cosa provassi. C’è un bar nella piazza di Pietrasanta, il «Café des ratés», frequentato soprattutto da persone che degli artisti hanno l’aspetto e il comportamento, ma che avevano soprattutto molto tempo libero. Essendo il mio mestiere uno di quelli che più manifestamente rivendicano la necessità di un lavoro invisibile, mi capitava sempre più spesso di condividere il loro bar e il loro tempo. Nei lunghi momenti di lavoro invisibile, di fronte alla montagna e alle vecchie mura, mi accorgevo che anche qui c’era sempre più gente che passava senza fermarsi, che aveva l’aria di dover andare da qualche parte e lo dava a vedere. A volte stavo in silenzio con l’amico Giovanni, che aveva l’aspetto di un vecchio hippy. D’inverno faceva il contadino, d’estate il bagnino. Anche lui, lo volesse o no, aveva molto tempo libero. Abitava in collina sopra il paese, in una casa rifatta da lui cui si accede camminando per un bosco di castagni. Una volta arrivati, dall’aia si gode la vista delle valli che arriva fino a Montemarcello e Portovenere. A me sembrava a volte di essere a Big Sur. Ho passato lì sere silenziose a godere il tramonto, fumare e bere vino rosso fatto in casa, cucinare qualcosa. Si sa che i luoghi non sono solo quello che vediamo e percepiamo con i sensi, ma anche quello che ci fanno immaginare, i vettori dei nostri sogni. Una sera, tra gli ultimi canti di uccelli, mentre la terra diventava scura, il cielo rosa e rosso e il mare giù in fondo pallido e incolore, circondato di gatti che mi gironzolavano ai piedi mentre Giovanni cucinava bistecche e sfornava il pane, con una coperta sulle spalle e un bicchiere di vino in mano io mi addormentai. E sognai la crea47

zione del mondo (anni dopo avrei inserito questo sogno in un romanzo). Quando Dio creò il Mondo lo divise in tre parti, impiegando tre giorni. Creò dapprima Tutte le cose che finiscono in polvere: i corpi, le cose, le erbe, i sassi, le case, e anche l’aria e i liquidi. E la bellezza, che finisce anch’essa in polvere. Poi creò Tutte le cose che luccicano: le stelle, le lucciole, i brillanti, i fuochi, le lampadine e i fanali. E le illusioni, i desideri, i miti, i valori e altre cose luccicanti. Creò infine Tutte le cose che trillano: i grilli, le cicale, i telefoni, i campanelli, gli uccellini, le idee e frasi magniloquenti, e i cosiddetti nobili sentimenti. Il mondo era fatto, ma Dio passò alcuni giorni a pensare senza pensare, nell’ampiezza senza confini della sua conoscenza, che Tutte le cose dei tre regni si mutano continuamente l’una nell’altra, e Tutte le cose che trillano e Tutte le cose che luccicano finiscono anch’esse in Polvere, ma ciononostante esse sempre si ricreano e continuano a Trillare e Luccicare. «Polvere di Stelle», pensò (con un sorriso) senza pensare. Il resto dei giorni, Dio si rese conto di avere creato l’Impermanenza. «Tutto si muta in Tutto, pensò Dio senza pensare. È questa la Vita, e si chiamerà così, la Vita Stessa, e infatti è...» Il mio sognò si interruppe qui, e mi svegliai con la sensazione che una verità fondamentale – una Polvere Trillante e Luccicante – si fosse volatilizzata in un invisibile, immemorabile Silenzio. Silenzio che è propriamente, se esiste, la Voce di Dio. Intanto le bistecche di Giovanni erano pronte e sfrigolanti, e anche il pane. E nella testa mi risuonava una canzone che non ricordavo di avere mai saputo: «Tutte le cose che cadono / tutte le cose che appaiono / tutte le cose che finiscono in mare / tutte le cose che si lasciano andare...». 48

Il cane morto

Due negli ultimi tempi sono state le suggestioni più forti che ho avuto sui temi del «luogo» e del «viaggio»: una rivedendo un vecchio film che pensavo non avesse più niente da rivelare; l’altra leggendo una biografia di Michel Foucault. In questa c’è un brano che racconta l’esperienza dell’acido lisergico che il già maturo filosofo fece con due giovani docenti californiani. Restò seduto immobile per ore davanti al deserto della Death Valley, a guardare la Terra e il firmamento, come Cézanne di fronte alla montagna Sainte Victoire. Quando venne buio aveva gli occhi umidi di pianto: «Sono felice», disse. Disse anche che, finalmente, aveva «capito». E poi, due volte: «Adesso posso ritornare a casa». Aggiunse qualcosa sul «rivedere sua sorella». L’altra scena, quella del film, ha forse anch’essa a che fare con l’Lsd. Ma è poco più di un fotogramma, e per non bruciarla, e anche perché se la dicessi adesso non saprei più come andare avanti, la scriverò solo alla fine. Mi viene in mente invece un racconto di Pier Vittorio Tondelli, se ricordo bene, in cui narra di un suo giro in macchina scandito da un orizzonte musicale, un vagabondaggio notturno sul filo delle onde radio locali. È un’idea narrativa

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molto bella, al panorama visivo se ne sovrappone un altro auditivo, ogni mutamento dello spazio si accompagna all’apertura di un paesaggio sonoro, ed è ormai un’esperienza che si può fare ovunque, viaggiare in automobile costeggiando le invisibili frontiere delle varie rock stations. Ma mi suggerisce anche un’altra idea: che non si dà più viaggio, o spostamento nello spazio, che non sia in qualche modo teleguidato; che non si dà più nemmeno una deriva senza un orientamento, e che anche il perdersi ha un suo proprio oriente, spesso rassicurante e frivolo come l’ingresso in un programma Windows, o come un log-in, simbolo dell’universo di esperienze sempre più virtuali con cui stiamo soppiantando, chissà poi perché, tutte le altre nostre esperienze, possibili proprio perché reali. Penso alla luna. E a quella fatidica notte del luglio 1969 spesso rievocata dai media, di cui, tra i ricordi miei e quelli di amici, ho messo su la scena seguente. Su un prato di luglio, in campagna, la famiglia si siede davanti a una delle prime televisioni portatili, quelle rivestite di plastica rossa o bianca, alimentata con dei cavi collegati a una batteria da camion. Guardano in diretta il reportage dell’allunaggio. È una notte di luna, naturalmente, e i bambini alternano lo sguardo dalla luna molle e informe sulla televisione in bianco e nero e con la voce off di Tito Stagno, a quella bianca e luminosa che si staglia sulle cime degli alberi nel cielo blu scuro. Passa un vecchio contadino, mettiamo che si chiami Alfio, è un amico di famiglia, si ferma e si rivolge così al padre dei bambini: «Mi meraviglio di lei, che è una persona così istruita e se ne sta lì a guardare quelle cose. Ma non crederà mica che ci siano andati davvero, sulla luna? È tutta una finzione che hanno inventato loro, quelli lì della televisione...». I bambini guardano la luna sopra le loro teste, il contadino in piedi, il 50

papà seduto per terra, i corpi degli astronauti che galleggiano dentro la televisione sulla luna grigiastra, la televisione rossa sul prato con dentro la Luna e la Terra (il Mondo) in bianco e nero, e poi ancora le stelle e il cielo, gli alberi, e trovano tutto questo molto strano (più strano dei carri armati nel Golan, più strano delle immagini di corpi ammazzati di vietcong), di una stranezza forse affascinante. Capiscono che sono di fronte a una strana storia, e forse quello che ricorderanno è proprio questa sensazione, che le storie sono strane, cioè sono vere ma in modo diverso, ti promettono una verità ma non sai bene quale sia, e non sei mai sicuro di quando arriva, né di riconoscerla, come nelle promesse. Luigi Ghirri, il grande fotografo, diceva questo a proposito della missione sulla luna del 1969: che venne fatta allora «la prima fotografia del Mondo». Diversi anni fa, all’epoca del pionieristico lavoro di descrizione-narrazione della via Emilia coordinato da Luigi Ghirri e Gianni Celati (Dal fiume al mare..., edito da Feltrinelli e ovviamente esaurito), nel testo che consegnai alla fine omisi una citazione cui tenevo molto. È una frase dell’antropologo Claude Lévi-Strauss singolarmente sentimentale per uno strutturalista, e in cui ritrovavo perfettamente la mia esperienza: «Fra qualche secolo, in questo stesso luogo, un altro esploratore, altrettanto disperato, piangerà la sparizione di ciò che avrei potuto vedere e mi è sfuggito. Vittima di una doppia incapacità, tutto ciò che vedo mi ferisce, e senza tregua mi rimprovero di non guardare abbastanza». Che il problema fosse in realtà una questione di sintassi, cioè di linguaggio – perché nel raccontare un luogo, anche nella lotta contro la cecità e l’assuefazione, il vero problema è sempre quello di raccontare una storia –, lo capii solo dopo. I fotografi 51

mi avevano insegnato comunque a lavorare sul campo, a lasciare lo scrittoio e a uscire fuori dallo studio («fuori dai nostri armadi», cantava Lou Reed). Sono andato in giro per anni a proiettare il mio desiderio di abitare, a fare prove generali di vita cercando di non disprezzarne nessuna – a provare storie come abiti, direbbe Max Frisch – e una volta restai perfino qualche giorno in quel mondo parallelo che è l’autostrada per vedere come si poteva viverci. Alla raccolta di racconti «di luoghi» che pubblicai in seguito, omisi stavolta una sorta di prefazione di cui ricordo solo questa frase: «In attesa di raccontare, di una casa, si dà qui la ricerca del raccontare, della casa. Café Suisse è il luogo, il libro, di quest’avventura». Il fatto è che mi sembra più avventuroso stare fermi che viaggiare. Abitare, che vuol dire sempre abitare da qualche parte, è in fondo un viaggio condensato e intensivo, e penso che abitare qui, in questo o quel luogo, esposti alla vertigine della domanda «Perché qui, e non invece in un altro posto?», sia l’avventura più intensa che ci possa capitare. Inoltre è sempre già un perdersi. Un po’ perché siamo già tutti perduti, cioè tutti, in qualche modo, dei rifugiati politici, degli stranieri; un po’ perché lo straniero, come spiegava Georg Simmel, non è colui che arriva oggi e parte domani, ma colui che arriva oggi e che domani non parte; che resta indefinitamente, e arricchisce con la sua specifica modalità di relazione il luogo e i suoi abitatori. Oggi quindi mi interessa soprattutto il restare fermo sul posto, fare l’esperienza del qui, del questo, dell’ora; del linguaggio capace di indicare, di dare del tu alle cose e ai luoghi – «il melo, il pero, il muro» (Pascoli), «quest’ermo colle», «questo mare» (Leopardi): e si noti che ho nominato due tra i nostri maggiori raccontatori del paesaggio. È un caso che tutti i testi sapienziali, terapeutici (ammesso che dei testi possano 52

essere sapienziali e terapeutici) abbiano un rapporto stretto con la consapevolezza del qui, del questo? «Conoscere se stessi, per dimenticare se stessi», recita una massima zen. Ma si potrebbe dire: conoscere a fondo il qui, poi dimenticarlo. Forse dovrei raccontare una di quelle passeggiate fatte con Luigi Ghirri a fotografare il mondo. Luigi Ghirri era colui che riusciva a guardare ogni cosa e luogo col punto di vista umile dell’abitatore, mentre io mi sentivo sempre un po’ viandante, anche a casa. Racconterei però non una delle passeggiate che abbiamo fatto davvero, ma una inventata, ispirata alle sue ultime foto da cieco sulla nebbia e il bianco. Una giornata con lui a fotografare il niente, la trasparenza, e naturalmente vicino a casa (le sue ultime foto incredibili e stranianti sono fatte a due passi da casa sua, vicino alla via Emilia). Forse il qui, il più vicino, il questo delle cose e dei luoghi, coincide con ciò che ci appare più distante e inaccessibile, addirittura con l’idea dell’infinito e del nulla. Così come Luigi fotografava non solo cose e luoghi ma la visibilità stessa – la visibilità pura che esiste anche là dove non c’è nulla da vedere, aspirando magari a non vedere più niente, o almeno niente di speciale – allo stesso modo avrei desiderato, col suo aiuto, avvicinarmi a dire quella «pura lingua», o pura prosa, trasparente a se stessa, che è oggi il mio vero pensiero: utopia del non avere beatamente (più) nulla da dire, o, come ha scritto un filosofo, dire e parlare una lingua che sia «come la lingua degli uccelli e dei nati di domenica». Anche senza avere bisogno, per esprimersi, di ricorrere a «gesti, salti, grida di meraviglia e d’orrore, latrati o chiurli d’animali», oppure ad oggetti estratti a caso dalla bisaccia, «piume di struzzo, cerbottane e quarzi» – come il Marco Polo delle Città invisibili – avrei però volentieri condiviso con Luigi quell’altro 53

brano di Calvino, quasi una fragile allegoria dell’umano bisogno di un narratore di luoghi: «Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri...». [Forse a quella pura lingua, o pura prosa, ci avviciniamo a volte nel silenzio: quando ci accorgiamo, nel piacere di stare semplicemente nel mondo, di uno stato di consapevolezza del mondo la cui descrizione sarebbe un puro elenco delle cose di cui siamo coscienti, ivi compreso il nostro corpo e il respiro, il dentro e il fuori, il visibile, l’udibile, il tattile, l’odorabile. Quando proviamo una di quelle peak experiences che solo impropriamente vengono dette trascendentali, perché in effetti in esse si sente, si sperimenta con esattezza, un perfetto e semplice coincidere di immanenza e trascendenza, anzi di imminenza e immanenza. «La nostalgia più profonda – ha scritto un altro filosofo, Lukács giovane, quando era ‘mistico’ e innamorato – non è altro che l’aspirazione che il mondo così com’è (o: ‘quale che sia’) sia Uno».] Scrivo queste ultime frasi sullo schermo luminoso del computer nella stanza buia, e dalla finestra aperta vedo la città notturna, il fascio di linee oblique delle case, le sponde del fiume, gli alberi (tigli) sul lungofiume, un lembo di strada, le luci dei lampioni, il riflesso della luce sull’acqua, la luminosità oscura della notte. Più lontano, dietro le chiazze buie dei tetti e delle case invisibili, vedo le strade invisibili e la periferia invisibile; e dietro il cielo notturno vedo i colori e i rumori invisibili del giorno. 54

C’era Easy Rider alla televisione, stasera (è questo il vecchio film di cui dicevo all’inizio), e ho rivisto le famose scene dell’Lsd preso al cimitero. Ma c’erano scene nuove subito prima (c’è sempre una scena nuova quando si rivede un film, o quando si legge un libro), di cui non mi ricordavo (anche ora non me le ricordo: penso solo al blues di Dylan prima della loro morte). Il carnevale, ecco, Hopper e Fonda, in una sosta del loro viaggio infinito, che vanno fuori dal bordello con le loro donne e camminano (le donne che escono dal bordello e camminano con i loro uomini), camminano e vanno per le strade e guardano il carnevale isterico nella città – ci sono tante cose da vedere – finché arrivano quasi all’uscita e si trovano ora in una periferia molto vasta, ci sono poche case, bianche e quadrate, sembrano molto abitabili, loro si fermano, restano chini a guardare, osservano un cane morto accostato al marciapiede – ecco, la scena è questa, questo indugio. Forse loro lo sanno perché stanno lì a guardarlo, il cane morto. Poi senza una parola proseguono, camminano fuori dalla città e arrivano al cimitero.

Zero killed

Ferragosto in città, ora di pranzo, è di una grazia onirica. Le case deserte sembrano tutte belle coi loro occhi chiusi, nelle strade silenziose si passa in bicicletta col rosso. Ma c’è qualcosa. Come nella canzone di Lou Reed che dà il titolo a queste parole: «Sunday morning / È solo un senso d’inquietudine che mi porto dietro / Attento ai mondi alle tue spalle / Ci sarà sempre qualcuno che ti chiamerà...». Come in un gigantesco, isterico complotto, gli umani, tranne qualche intoccabile (li chiamano extracomunitari), si sono tolti di mezzo intasando di sogni le strade delle vacanze. Spuntassero erbe selvagge tra gli antichi lastroni del centro, penserei a quel romanzo di Guido Morselli, Dissipatio H. G. (ovvero, il genere umano vacante per sempre, tutti spariti). Ma non c’è problema. È tutto ok. Le stelle che cadono non si sono viste, tranne le loro lacrime che hanno inondato il Mondo, la Terra che annega o sta bruciando. I governanti giocano a golf, o compongono canzoni napoletane. Va tutto bene (una guerra qui, un decreto legge là), per loro è tutto ok (a parte la sinistra, popolata di malefiche Cassandre). E io, in effetti, vorrei parlare di questo, delle due celebri lettere: ok.

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Qualcuno saprà che era la formula in uso nelle comunicazioni militari durante la seconda guerra mondiale. Ok: Zero killed. Nessun morto, quindi tutto bene. Tutto okay. Oggi queste lettere sono dette al telefono per tagliare corto, o con il chewing gum in bocca, nella banalità più sfacciata – il che realizza ancora più esattamente il significato perlocutorio della formula: non c’è problema. L’Europa è sott’acqua, altri continenti bruciano o soffocano, la Terra sarà priva di ossigeno, causa l’inquinamento, gli scarichi industriali, il disboscamento: non c’è problema. Il capitalismo sta implodendo, non solo la Borsa, serve uno sforzo comune (comune, sì, come nella parola comunismo, o come nella Ginestra di Leopardi), ma chi governa insegue obiettivi personali, angusti e ciechi come la propria vita: non c’è problema. È tutto ok. Nessun morto? Forse chi governa si crede immortale, e vede la morte come una sfiga che capita a chi non ci sta attento. «Sono sempre gli altri che muoiono», fece scrivere sulla propria tomba il geniale artista Marcel Duchamp. Eppure mai come oggi la precarietà della vita individuale si accompagna a quella della specie: la morte dell’uomo. Basta invertire le lettere: ko, tutti morti. Un alfabeto tira l’altro, e mi viene in mente quello di una lingua ormai sepolta, anzi inabissata, sostituita dall’elettronica e dai suoi mille congegni. Parlo del Morse, di cui mi commuove ricordare l’appello più celebre e perentorio, le ultime parole di tanti di noi, comuni mortali: SOS. Save Our Souls. Salvate le Nostre Anime.

Fino all’ultimo respiro

A un certo punto del film inglese Camera con vista, il padre confessa la sua grande debolezza: «Ho bisogno del mondo esterno». La condivido così tanto che la mia vita potrebbe dirsi così: «vista con camera», perché ciò che si vede fuori dalla finestra è per me più importante da abitare della stanza che si trova dentro. Rimpiango di non avere fotografato, raccogliendole in un album, tutte le finestre che ho abitato, da quella dell’infanzia col grande noce davanti (sradicato per far posto a un parcheggio di auto) a quella con la vasca da bagno che dà sui tetti di Parigi, la preferita di mio figlio. Quella sulle Alpi Apuane e i pini marittimi, quella su avenue de Champel a Ginevra, dove ho osservato il capitalismo come un film, vedendo scomparire una a una le vecchie bellissime case, sostituite da gru ed enormi palazzi. Quella sul mercato della Ghiaia di Parma, brulicante di merci, frutta, verdura, oggetti, corpi, di economia reale e di essere-in-comune. Tutte le finestre dell’amore, tra un lago o un mare e un letto bianco disfatto. Mentre scrivo guardo con gratitudine le foglie gialle degli ippocastani, e tra qualche giorno vedrò il mio riflesso sul vetro sullo sfondo del bianco cimitero di Montparnasse, e quello più metropolitano dei fari all’incrocio con boulevard Raspail.

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Ma le finestre sono oggetto di desiderio anche da fuori. Non ho mai cessato di commuovermi e sognare vite scorgendo dentro le case un lampadario appeso, un pezzo di credenza, una libreria colorata, i lampi azzurri di una televisione accesa. Provo fin da ragazzo un languore erotico a guardare gli interni degli edifici che si vedono dai vetri del treno prima di entrare nelle stazioni, o fermi ai semafori di periferia all’ingresso delle città, come un desiderio inconscio di clandestinità, un’agnizione al contrario. Le finestre raccontano storie di vita e forse di morte, matrimoni di sguardi. Stare alla finestra non vuol dire essere separati dal mondo. Il 17 maggio del 2003, in piazzale Baracca a Milano, due giovani fecero una rapina in un bar-tabacchi. Stavano uscendo coi mille euro rubati dalla cassa quando il tabaccaio prese la pistola che teneva nello sgabuzzino e sparò loro alla schiena, inseguendoli per strada. Un colpo uccise Alfredo Merlino, di vent’anni, un altro ferì il complice, oggi ventiquattrenne. In giugno dello stesso anno, di passaggio a Milano, incontrai dopo tanto tempo la mia amica Livia Chandra Candiani, poetessa (Bevendo il tè con i morti è il titolo del suo ultimo libro). Parlammo tra l’altro di finestre – di quello che si vede fuori, del mondo; di quelle viste da fuori, dal mondo – e fu così che mi raccontò un’esperienza che l’aveva molto turbata. Il 17 maggio, richiamata da urla o forse solo per istinto acuito dalla primavera, va ad affacciarsi alla finestra. Un uomo corre trafelato e ferito. Si guardano, entrambi trasaliscono. Lui gronda sangue e paura, lei gli dice fèrmati. Lui trova requie sotto la sua finestra e s’appoggia a un albero fiorito. Continuano a guardarsi. Lei gli offre aiuto, lui resta, e in quella calma, gli occhi incollati ai suoi, si lascia morire. Più tardi lei avrebbe saputo: vent’anni, tentata rapina. Le urla 59

erano degli inseguitori che venivano da piazzale Baracca. Omissioni di soccorso probabili, ma subì minacce nel quartiere soltanto a nominarle. Scrisse allora una poesia per metabolizzare l’esperienza. Testimoniare. Quella sera di giugno me ne fece dono: «Fidanzata con il respiro / scorro nelle strade, / la tua macchia di sangue / l’ha lavata la pioggia / i cani della mia rabbia / non avrebbero lasciato avvicinare / i lavatori di cattivi soggetti, / [...] Cosa accusa / il corpo che resta a terra, / della terra...». La notizia è che la Corte d’Assise ha condannato il tabaccaio per omicidio colposo: un anno e otto mesi. La poesia – un altro tipo di notizia che non si esaurisce una volta letta – parla di pietas, di una finestra e di un ultimo respiro, «senza trionfo nell’aria poliziesca, / sotto l’albero cui ti sei appoggiato / per un ultimo atto verticale».

La vita in pegno

Il Monte dei Pegni è la banca dei poveri. Inventato dai frati francescani (il primo al mondo fu istituito a Perugia da san Bernardino da Feltre), oggi si chiama «attività di credito su pegno», ed è approdato su Internet. Ma la sua crescita non è un bel segno. Il credito su pegno riguarda quei poveri così invisibili che non fanno notizia, perché si vergognano della loro povertà. Non quelli che vendono un rene, ma quelli che non lo vendono. Sono soprattutto al Nord, ma anche il Monte di Pietà a Napoli in via San Biagio dei Librai è affollato dalle prime ore del mattino, e le filiali del Monte dei Pegni del Banco di Sicilia vanno a gonfie vele. Il Monte dei Pegni è l’unico luogo dove si può ottenere denaro con una semplice carta d’identità. Non assomiglia più a quello dei romanzi o del cinema, dove si impegnava il corredo di nozze per acquistare una bicicletta (come nel celebre film di De Sica), dove il musicista jazz lasciava la sua tromba e il detective squattrinato la pistola. Al massimo, oltre all’oro e ai gioielli, oggi si possono impegnare pellicce. Sono andato alla storica sede del Monte dei Pegni di Roma, a pochi passi da Campo de’ Fiori, accompagnato da mio figlio tredicenne. La prima cosa che salta agli occhi è il

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numero di gioiellerie tutt’intorno che espongono il cartello «compro oro»: la prima volta ne abbiamo contate diciotto, comprese le vetrine con una nicchia illuminata e la statuina di padre Pio tra due vasi di fiori finti. La seconda cosa che si nota, davanti al portone della Banca di Roma in cui ha sede, nella piazzetta del Monte di Pietà, è il capannello informe di uomini che si muovono secondo un ordine che ci sfugge: entrano ed escono dal Monte dei Pegni, parlano mostrandosi a vicenda oggetti, sciolgono il gruppo e lo ricompongono un po’ più in là. L’ultima volta sono restato a guardarli più da vicino: voci che si sovrappongono decantando la propria merce, mani che estraggono dalle tasche anelli, preziosi, fasci di banconote da 100 e 500 euro. Uno di loro, il più animato, aveva un orecchino con brillante e pantaloni coi tasconi laterali pieni di orologi. Sono venditori in proprio, membri di un piccolo mercato indipendente abbarbicato al Monte di Pietà come cozze a uno scoglio. Comprano all’asta, rivendono separatamente i gioielli riuniti in piccoli lotti e corrispondenti ai pegni ormai perduti. Pare che non abbordino direttamente i disperati che portano oggetti in pegno. Aspettano. Sanno sempre cosa vale la pena comprare. Una volta entrati, dopo aver attraversato il cortile con la fontana, solo l’habitué sa di non trovarsi nella hall di una banca qualsiasi, malgrado gli uscieri e il decoro. In fondo alla hall c’è la sala esposizione dei preziosi, dove si possono lasciare offerte segrete d’acquisto. È dopo lo scalone che al primo piano si riconosce l’umanità discreta e dolente di chi si trova qui non con spirito commerciale, ma per operazioni assai diverse da quelle abituali delle banche. Siamo ora nel grande salone in cui, di fronte a una fila di sportelli, molte donne, in maggioranza anziane, aspettano pazienti sulle file di sedie che esca il loro numerino. Alcune sono giovani, c’è 62

anche qualche uomo di mezz’età, rare le coppie. Ciò che colpisce è l’odore. Non è quello di una qualsiasi sala d’attesa. Il sudore, si sa, varia l’odore secondo la causa che lo produce. Non trovo la parola giusta per dire la tonalità, silenziosa e grave, che ristagna nel salone dai soffitti alti. Un gentile funzionario mi spiega che l’utenza è in realtà variegata. C’è il commerciante che vuole disfarsi delle rimanenze di negozio per far fronte a una momentanea esigenza di liquidità, oppure per rifornirsi di merce per Natale. E c’è chi, molto semplicemente, vende la propria fede. È dura avvicinare con le parole chi stringe nella borsetta o in un sacco di plastica gli oggetti che mostrerà in piedi allo sportello, del tutto simile a quello di una banca salvo che dietro al vetro ci sono una bilancia, una lampada orientabile con una grossa lente d’ingrandimento, e altri strumenti per l’analisi di ori e preziosi. Gli stimatori di là dal vetro sono periti e gemmologi: sono responsabili della loro stima, in caso di errore ci rimettono del proprio. Funziona così: la stima conduce a una somma di denaro (circa l’80% della stima), proposta a chi dà in pegno il proprio tesoro. È la stessa cifra della base d’asta che si legge nel cartellino di ogni «lotto» nella sala esposizione, quando è messo in vendita. Perché questo avvenga devono trascorrere tre mesi senza rinnovo del prestito, oppure sei mesi più altri trenta giorni di sospensione, durante i quali il proprietario può ancora disimpegnare l’oggetto. Solo il 10% degli oggetti lasciati in pegno viene messo in vendita. Non è poco, se ogni giorno viene bandito e venduto un centinaio di «lotti». Un lotto corrisponde a uno o più oggetti riuniti in uno stesso pegno, come vedrò percorrendo la sala esposizione. Quanto alla sala dei disimpegni, che è anche quella dei rinnovi, sembra un deposito bagagli: un sistema di carrelli e carrucole porta al bancone l’oggetto dato in pegno. 63

Torniamo al vero e proprio banco dei pegni, la silenziosa sala delle stime dove si sentono i rumori dei tacchi e quelli dei respiri. Durante la prima visita ho preso nota di una signora facile alle lacrime, che nominò alcune disgrazie della figlia. Era per lei che si trovava lì. Ma era a me che non venivano parole per sapere e far parlare. Non mi era stato difficile invece notare qualche tossico. Quanto a mio figlio, il suo bottino di parole ammontava a due testimonianze: «Sono cose naturali della vita, inutile che ti ribelli», gli ha confidato una signora anziana. E un’altra: «Questo anello è un’agata autentica, è un regalo di nozze di quando mi sposai». L’ultima volta ho ritirato anch’io il numerino. Era un lunedì mattina, il giorno più intenso, che segue un fine settimana di decisioni sofferte. Chi viene a impegnare lo fa al mattino presto, in sordina, o prima di andare al lavoro. Apre alle 7.30, e alle 10 è già affollato di aspiranti compratori. La signora seduta vicino a me, sessant’anni circa, si è accorta del mio smarrimento e della mia goffaggine. Le ho detto che era la prima volta. Per lei no, ha replicato, eppure si sente sempre imbarazzata. Credo fosse per attenuare il mio disagio che si è messa a parlare di sé. Se ci si guarda intorno, mi ha detto, si vedono persone come noi, normalissime. A volte anche persone che sembrano ricche, vestite bene, donne coi gioielli addosso. Ma sono tutte persone normali, ripete. Coi tempi che corrono, aggiunge, è sempre più difficile arrivare alla fine del mese. La pensione non basta. Soprattutto quando devi affrontare delle spese mediche. È sola, mi dice, vive con la sorella malata di tumore e bisognosa di analisi periodiche che non possono aspettare i tempi delle Asl, e deve quindi farle privatamente. Il calendario delle analisi scandisce le sue visite al Monte dei Pegni, dove lascia quei pochi oggetti d’oro che possiede. Lo 64

usa come prestito, perché le banche, a una come lei, i prestiti non li fanno, e l’unico modo è venire qui. Cerca sempre di disimpegnare i suoi ori: finora ci sono riuscita, dice. D’altra parte, più che imbarazzata sono triste, aggiunge, perché queste sono le mie cose. Le «mie», le proprie cose: è l’irruzione della soggettività, della vita, in un luogo che, seguendo la naturale vocazione del mondo del valore, rimuove ogni accenno all’umano concreto, al proprio, alle persone. Il tentativo di occultare ogni traccia di vita vissuta, compresa la morte, cioè il trascorrere del tempo, cui concorre l’arredo spesso marmoreo delle banche, non riuscirà mai del tutto in un Monte dei Pegni. È questo che insegna la visita all’esposizione dei lotti di preziosi messi in vendita. I pegni perduti. Se la loro mostra dura tre giorni, anche con le continue sostituzioni l’effetto non cambia. C’è un senso di ripetizione estenuante, e per altri versi inebriante, nel susseguirsi di bacheche colme di ori, gioielli, argenteria, orologi, bracciali, fedi, ciondoli, fermacravatte, anelli, pendenti, spille, brillanti, coralli, pietre verdi, catene, collane e altri oggetti. Spesso una scritta avverte: «Difetti, ammaccature, scheggiature come trovasi». Di ogni lotto si dice il peso. Altri cartelli eruditi insegnano storia, colore e purezza di rubini, diamanti, zaffiri, smeraldi, con tocco di esotismo che conduce nel Magok (Birmania) o nel Kashmir. La dicitura dei cartellini segue regole identiche, e dopo qualche istante assume la forma di una litania, di uno strano mantra, complice l’assenza di punteggiatura: «2 orecchini oro perle di fiume piccoli rubini parti scheggiate come trovasi». «Collane 2 ciondoli oro come trovasi». «Collana ciondolo oro smalto parti scheggiate». «5 anelli 2 fedi 2 collane 2 ciondoli 2 pezzi oro brillante vetri pietre 2 pietre mancano parti cifrate come trovasi peso 60,50 base d’asta 320,00 de65

posito cauzionale 64,00». «Anello oro pietra parte ammaccata 3 catene 3 bracciali portadenari 2 anelli 2 ciondoli oro parte argento pietre vetri difetti come trovasi, peso 117,20, base d’asta 605,00, dep. cauz. 121,00». «4 anelli 4 orecchini 3 spille bracciale oro parte scompagnata vetri 2 mancanti smalti parte argento peso lordo difetti gr. 38,30 pezzo metallo gr. 0,60 peso 38,90 euro 179,00 dep. cauz. 34,00». Gli oggetti di maggiore valore, e forse bellezza, sono sui tavoli al centro della sala. Collane di perle e brillanti, orologi cartier (in minuscolo, sì) in oro e quarzo per un peso che varia dai sessanta ai cento grammi, lotti assai diversi da quelli, in un angolo in fondo, in cui ancora si scorge l’aura dei corpi, di mani e di braccia: «anello bracciale oro pietra parte ammaccata graffiata gr. 14,20», «orologio polso oro bulova datario quarzo parte rigata graffiata come trovasi gr. 30». Vedo un orologio con cinturino logoro color topo, attaccato da un filo di plastica a un braccialetto sottile e a un anellino con pietra. Di fianco, uniti da un altro laccio di plastica, «anello 3 fedi oro brillanti vetri difetti, gr. 21,50, deposito cauzionale euro 26». Sì, gli oggetti che colpiscono di più, quelli che emanano vero shining, non sono i più preziosi, ma quelli che fanno intravedere la storia invisibile delle persone che li possedevano e li usavano. I regali dati al battesimo o alla comunione dei bambini – braccialetti con le palline di corallo, medagliette, braccialetti a maglia piatta da ragazzo, il ciondolino con Calimero. Ho guardato coloro che percorrono la sala per prendere nota dei lotti da comprare. Anch’essi persone normali, coppie, ma anche qualche giovane vestito da fighetto con l’aria di farlo di mestiere. Compilano appositi moduli e vanno a consegnarli alla cassa. Nel giorno fissato, il banditore dell’a66

sta raccoglie le offerte orali dei presenti, da confrontare con le offerte scritte. Una volta recuperati credito e interessi, la banca corrisponderà al proprietario dell’oggetto dato in pegno il resto, se c’è, della vendita. Qualche giorno dopo il dottor Giuseppe Incarnato, dirigente dell’area crediti, mi accoglie con giovialità nel suo ufficio panoramico presso la sede della Banca di Roma all’Eur. Mi invita con calore a un’asta per vip che si tiene in un’altra sede storica della Banca di Roma, quella prestigiosa di via del Corso, dove si espongono preziosi di particolare valore. Mi spiega come il credito a pegno stia acquistando un ruolo quasi succedaneo, e meno oneroso, rispetto al prestito personale. Mi mostra documenti che illustrano il «trend crescente» del settore. Ha successo perché è discreto, dice, «non devi dare troppe spiegazioni», e dà la libertà di «lasciare un bene che non interessa più in cambio di liquidità». Cita giovani coppie già indebitate per l’onere di una casa, che portano in pegno «beni» ereditati ma privi di valore affettivo, oppure regali di nozze inutilizzati. Il fenomeno è indice addirittura di una trasmutazione del «valore». Secondo il dirigente della Banca di Roma il credito a pegno svolge infatti un’intermediazione finanziaria tra mondi che altrimenti non si incontrerebbero, tra una domanda e un’offerta. Delinea un’economia dello scambio che sembra l’epica dei mercanti del Trecento nell’era della globalizzazione. Motore di questo scambio sarebbe il passaggio delle consegne di una certa idea del lusso e dello status symbol: se il mondo occidentale tende a non valorizzare più i preziosi e gli ori, a favore del design, di certe forme estetiche degli oggetti, e soprattutto di certi marchi, altri nell’Est del mondo – russi e cinesi soprattutto – sono molto interessati ai preziosi. La transazione avviene in ultima analisi tra un mondo del valore perduto e un mondo 67

del valore nuovo, tra vecchia Europa e paesi emergenti. O, con altre parole, tra nuovi poveri e nuovi ricchi. Ma ci sono storie che il valore non contempla. Storie di pietà, per quanto istituzionalizzata, che sempre di più occorrerà raccontare, se non si vuole che restino fantasmi, anonimi e senza appartenenza come le impronte e gli oggetti che ancora una volta l’artista francese Christian Boltanski mostra da anni nelle sue perturbanti installazioni. Una delle sue ultime mostre si intitolava Monte di Pietà, e fu esposta nelle sale dell’ex Monte dei Pegni di Palermo.

Non ci piace scrivere sui muri

Per esprimere qualcosa di vero sul movimento del ’77, e non un vagheggiamento nostalgico, premetto che non fu l’inizio di qualcosa, ma la sua fine. Gli anni Settanta furono per molti versi splendidi e carichi di promesse: non tutte luminose, ma anche le ombre erano attraenti. Penso alla musica, alla creatività diffusa, alla consapevolezza politica che non si fermava davanti alle barriere di un ipocrita «privato». Penso alla generosità delle generazioni maggiori nel dialogare con le generazioni minori. Penso al movimento delle donne che ha educato, nella mia generazione, molti maschi, e alla benefica influenza che ha avuto, anche se in larga parte rimossa, sul linguaggio. Il ’77 e quello che è seguito ha lentamente ma inesorabilmente strozzato tutto questo proprio portandolo crudamente alla luce, come il collo di un imbuto troppo stretto che impedisce una corrente impetuosa. Se oggi è facile dire che la rivoluzione culturale cinese di Mao fu un genocidio culturale, nel ’77 in Italia si verificò, dei tanti fili multicolori di una controcultura dilagante e festosa, una sorta di suicidio. Coperte dal fragore delle sue manifestazioni più folkloriche, dagli indiani metropolitani alle P38, eroina e lotta armata – tenute insieme da una grande offensiva economica e culturale dei settori più

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spietati di quello che una volta si chiamava il Potere (da Andreotti a Craxi alle Tv di Berlusconi) – hanno spento i desideri politici di più di una generazione. Non è quindi che il ’77 sia stato un evento così memorabile, nonostante alcuni caratteri francamente eccezionali: carri armati a Bologna, assassinio (gli spararono alla schiena) di uno studente, in concomitanza con il corteo di marzo a Roma in cui vissi l’incubo di una fuga randagia e convulsa in strade già buie con cabine e automobili in fiamme, e spari, poliziotti bardati come astronauti; dove assistetti impotente al fermo di amici mentre mi salvavo miracolosamente di vicolo in vicolo nella mansarda di un amico poeta. Si capiva poco quello che accadeva, e l’euforia e l’indignazione si trasformavano in rabbia, incredulità e delirio («alzare il livello dello scontro», «attaccare per primi»), e accanto all’ironia e alla festa crescevano i lutti e le violenze. Ricordo il Festival del Proletariato Giovanile a Parco Lambro (nel ’76), dove diciassettenne vendevo librini di poesie su una tovaglietta per terra, e assistetti stralunato all’assalto («esproprio») del camion dei polli di un ambulante e all’inseguimento violento, da parte di quella che sarebbe stata l’Autonomia, di alcuni presunti tossicomani. Ma la tenda dell’amico poeta (Carlo Bordini), che conobbi lì a Parco Lambro, era sistematicamente a sua insaputa cosparsa di siringhe, e io e lui, più vecchio di me di molti anni ma coetaneo nella sensibilità, ci aggiravamo in quello che diventò presto un inferno come un dante e un virgilio da fumetto in una divina commedia ubriaca, o meglio acida. Ricordo le assemblee bolognesi all’università, l’aura di intelligenza marxista e punk («no future») che ammantava come uno spray le iniziative di un’area di inclassificabili. Ricordo Pino Angoscia che ti fermava per strada e tu volevi mangiare un panino o pensavi a una ragazza che ti piaceva e 70

magari stava piovendo ed eri scazzato, ma lui ti inchiodava e ti parlava monotono tutto di seguito – che quello che ci accadeva intorno, ti diceva, non era che la ristrutturazione globale in atto del capitalismo che determinava ogni meandro delle nostre vite e ogni singolo segmento della nostra infelicità e dei desideri insoddisfatti, compreso l’arresto del tale in flagranza di reato e così via senza una pausa. Già, il desiderio, le «macchine desideranti», il lessico di Guattari (più che di Deleuze), «come farsi un corpo senza organi», quell’impasto di filosofia antifilosofica, psicanalisi antipsicologica ed economia antieconomica, individualismo collettivo, vogliamo tutto e subito, il rifiuto del lavoro (ma il lavoro ci aveva già rifiutati), la rivendicazione del lusso, e sarà una risata anzi un risotto che vi seppellirà. Fu a Parma, non a Bologna, che fui denunciato e quasi arrestato per avere scritto sui muri di un cinema «Non vogliamo scrivere sui muri»; e dove riuscii, non so più con quale retorica shakespeariana non priva di comicità, di fronte a un folto capannello di studenti e compagni, a farmi rilasciare. Ormai lo sa anche chi non c’era: nel ’77 e negli anni successivi, accanto al tragico, proliferavano con innocente cinismo il comico e l’ironia, dai falsi del «Male» al TotoMoro Prigioniero (sulle stesse pagine) – per esempio «se Moro sia scappato in vespa con la bella bionda». Fu il vero anticipo di quella cultura detta postmoderna che mischiava sullo stesso nastro scorrevole (come alla catena di montaggio di una fabbrica), o come in una vetrina, le epoche e i luoghi, la geografia e la storia, le filosofie e le arti, in un misto da vetrina e da consumo. Il movimento del ’77 era un melting pot di idee e di pratiche («pratiche teoriche», althusserianamente) di opposizione. Opposizione a cosa? A qualsiasi idea istituzionale o dominante. Forse non fa piacere ricordare che quella cul71

tura di opposizione aveva soprattutto bisogno di un nemico, e se non c’era bisognava inventarlo. Se si riguardano i video del periodo non può non cogliersi infatti una fascinazione estetica per le divise e le uniformi del Potere: quelle dei nemici, nemici che conferiscono identità; ciò che trasformò quella rivolta, o almeno molti rivoli di essa, in una lotta fratricida. C’erano molte allucinazioni in quel periodo, allucinazioni desideranti; e anche questo, in fondo, era insito nel materialismo (comunista) nella sua formulazione più innovativa: «occorre attenersi ai fatti», ha scritto il filosofo comunista Louis Althusser dal manicomio di Saint’Anne, ma «anche le allucinazioni sono fatti». Il ’77, penso, era già allora nostalgia di qualcosa d’altro, della cultura beat schiacciata, in Europa e soprattutto in Italia, da un moralismo che imponeva vettori strettamente «politici» e di classe alla rivolta del ’68. C’erano la cultura delle droghe, che non si era espressa con sufficiente trasparenza, intelligenza e liricità; quella dei diritti civili, della qualità della vita, dei libri di Ronald Laing; quella della poesia, la bellezza diffusa come espressione e come arma, contro la tentazione dell’omicidio e del suicidio; la cultura di tutto ciò che non era, non è mai stato, e ancora forse non è, politicamente accettabile, rappresentabile, delegabile, degno di essere presente sui palchi delle manifestazioni di partito, e neppure nell’agenda di governi e amministrazioni di sinistra. Che cosa davvero ha spento tutto questo? La duplice, simmetrica violenza dell’ideologia e dell’entertainment, cioè della televisione. Oggi che si è imposto in Italia un regime di pubblicitari (ma da quanto tempo, in realtà?), è dovere di ogni altro linguaggio e cultura esserne diversi di natura, non solo di grado, e contrapporre all’efficacia di slogan mediatici un linguaggio intenso e sobrio, liberato. Ma ricordo che l’orrenda locuzione 72

«Azienda Italia» non la coniò Berlusconi, ma «la Repubblica» in anni craxiani. E che, con buona pace dei ministri di sinistra che scoprirono la lettura dei giornali in classe e aprirono la scuola alle aziende, leggere Dante (o John Donne) è la resistenza culturale più forte al berlusconismo nei suoi effetti più nefasti: la trasformazione della lingua in grido da stadio (Forza Italia) o in consiglio per gli acquisti (idem). La gente vota una destra estrema e volgare perché ha paura: non solo di una sinistra immaginaria, ma paura della noia, e paura della paura. La gente è infelice e incapace di star da sola in una stanza, diceva Pascal, e vuole vivere per interposta persona, come negli spot televisivi. E il ’77 ci ricorda che la gente, soprattutto i giovani, ha bisogno di sognare e vivere i propri sogni. Ecco una verità da cui trarre, invece che disprezzo, indicazioni di politiche concrete: sui modi e contenuti dell’educazione, dove è in gioco uno stile di vita prima di ogni scelta politica; sulla salute e felicità mentale dei cittadini (le tematiche psicosociali di Franco Basaglia, anche in ordine alla chiusura dei manicomi); sulla qualità dell’ambiente, non solo nei parchi naturali ma anche nei luoghi del lavoro e del cosiddetto «tempo libero» (libero di fare cosa?). Il ’77 introdusse forse per la prima volta l’idea di una «politica della bellezza» – intensa e afroditica, non statica e winckelmanniana – che non spenga tensioni e passioni, che non abbia paura dell’informe e non cerchi forzate armonie. Capace di rendere abitabili le nostre città e le nostre vite. Forse la migliore eredità del ’77 è nell’osare mischiare i linguaggi, il sacro e il profano, il serio e il ludico, la politica e la vita, il racconto e la riflessione, il linguaggio dei corpi e quello delle istituzioni. Da parte mia, continuo a meditare sull’invito rivoltomi da un maestro: «La vostra vita è troppo preziosa perché sia felice, perché sia spendibile facilmente». 73

Strawberry fields

John Lennon era un ragazzo grasso e strano. Vide morire sua madre investita da un’automobile. Molte delle canzoni di John Lennon sono dedicate all’infanzia, alla madre, poi alla donna. Rileggendole, trovo un’intensità e un’insistenza rara di questo tema, ma dovrei dire: di questa dedica. Nessuno, credo, può pensare a John Lennon come a un’entità isolata. Fuori dalla relazionalità già così fusionale con i Beatles, lo sappiamo in relazione con una donna, anzi «la donna» – Yoko Ono. Le canzoni d’amore a Yoko Ono sono spogliate dello stile retorico, del gergo immaginoso della cultura di quegli anni, di cui le altre canzoni di John Lennon ci appaiono oggi incrostate. Nude, mostrano una tenerezza e un abbandono all’amore che non arretrano neppure di fronte al rischio della dipendenza, la dipendenza relazionale e amorosa, sulla soglia di un annullamento (una «soluzione»?) di sé nell’altra. Si dice che il rapporto con Yoko Ono accelerò, se non addirittura provocò, lo scioglimento dei Beatles. Oggi sappiamo che fu lei ad iniziare lui all’eroina. Non fu un rapporto facile – troppo ricco, intenso, invasivo, totalizzante. Di certo, gli cambiò la vita, o fu «testimone» della trasformazione della

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sua vita (che è poi lo stesso). Un’immane esperienza poetica e psichica. Soprattutto: una dedica. Mi viene da pensare questo: John Lennon fu, tra l’altro, un poeta «cortese» che ebbe l’avventura di poter celebrare e invocare, secondo lo stile psicopoetico dei troubadours e degli stilnovisti, l’inaccessibilità della donna in una donna che gli era perfettamente accessibile, che fu perfino sua moglie. La donna che gli mancò non solo quando era assente, ma, con ogni evidenza, anche e soprattutto quando gli era presente. Una destinataria da sostituire al destino, o in cui riversarlo. Una coautrice di sé e della propria opera (ciò che ha numerosi esempi nella letteratura e nella filosofia: si vedano per esempio il bellissimo Zoo o lettere non d’amore, di Viktor Sˇklovskij, e il Diario 1910-1911 di György Lukács). Si tratta di una sollecitazione assolutamente magica, di cui, una volta sperimentata, è quasi impossibile fare a meno. Un gioco di risvegli e di illusioni che s’inanellano gli uni nelle altre, mantenendoci svegli e tesi. All’inizio, «niente è reale». «Nothing is real», «campi di fragole per sempre». Per questo segue l’invito: «Let me take you down, / ’Cos I’m going to / Strawberry Fields...» («Strawberry Fields» era il nome di un orfanotrofio: è anch’esso una dedica). Ma quell’invito da sempre riprende, nella mia testa (e forse anche in quella di Lennon), l’altro invito di colui che «ha mostrato il cammino» (come disse Lennon), cioè Bob Dylan, colui che con voce di «sabbia e colla» dolcemente canta o energicamente urla Baby let me follow you down... Poiché tutto può essere l’equivalente dell’amore, della dedica, o tutto può scaturire dall’energia che da esso e per esso s’irradia: la poesia, l’impegno politico, la compassione, ogni performance della vita e dell’arte, tutte le tonalità della mente e del cuore, che siano grida o sussurri. O quei campi di grano, non solo di fragole, che ondeggiano al vento, e le cime dei 75

pioppi, i rami delle querce, il profumo dell’acacia. A esserne capaci, questo mantiene la giusta tensione creativa che rende la vita del poeta inesauribile. La donna, che è il negro del mondo, è a ragione la causa del mondo, di tutto il mondo: causa per cui battersi e vivere. Ma si tratta pur sempre di una dipendenza: una dedica, una destinataria, al posto del destino. A un certo punto della sua vita John Lennon canta, stupendamente, Stand by me. «La dipendenza rende giovani», sintetizza una frase geniale attribuita a Franz Kafka. Che sia approdo oppure ostacolo, beatitudine o tormento, croce e/o delizia, come si può giudicare? C’è, si vive, si dà. Un equilibrio così difficile che è in realtà un equilibrismo, come l’acqua sopra il fuoco (direbbe l’I Ching), che rischia costantemente di debordare, di spegnere il fuoco, oppure di esaurirsi, evaporare. Si tratta allora di fare di questa dipendenza un esercizio costante di consapevolezza, consapevolezza dell’impermanenza dei nostri desideri, sofferenze, idee, fenomeni mentali, vita compresa. Sono i «campi di fragole», poiché «nothing is real, and nothing to get hung about». O con altre parole: non ci sono campi, e non ci sono fragole; non ci sono mai stati né fragole né campi; per questo possiamo dire: campi di fragole per sempre. Questo leggo e penso oggi, se mi chiedo quale sia l’aspetto dell’opera di John Lennon che mi colpisce di più. Riguardando l’unico libro che ho su e di John Lennon, mi accorgo che quello che più mi commuove sono i suoi disegni erotici, davvero belli. Nella canzone in cui Paul McCartney più esplicitamente e ironicamente imita Lennon, c’è forse il rovescio quotidiano della medaglia, un gran divertimento di tutti i pori della pelle e dell’anima: Why don’t we do it in the road?. Ma nell’esecuzione del canto tutto il ventaglio delle tonalità possibili viene dispiegato, e il divertimento e l’euforia gioiosa 76

sconfinano in uno spasmo di disperazione. Voglio scopare con te, qui, adesso, in strada... Mi piace ancora molto ascoltare John Lennon, e ascoltare i Beatles. Si tratta di canzoni, non di poesie, qualcosa di molto trascinante e che penetra in noi tanto più profondamente. Agli amici di Cadelbosco (RE) – dove non so se vi siano fragole, e quante, e quando –, che a John Lennon hanno intitolato una strada, per scusarmi della mia inconcludenza e manifestare la mia gratitudine vorrei offrire una poesia. È fatta di frasi che scrissi, in presa diretta, in calce ai bellissimi disegni che una giovane pittrice mi passava via via. Questo instant karma risale alla primavera del 1984, Ginevra, quartiere Champel. Niente è reale, e tutto ci è così insistentemente presente, come il nostro corpo... Disegni amati [Desseins a(n)imés] (a Juliana Reining) [lei ha preso le misure sulle sue spalle prima di farlo] [lei è nuda seduta sulla sedia e fuori il cielo è rosa] [la finestra nel disegno non si vede ma dalla finestra si vede la gru] [io sono dietro o di fianco disteso sul letto con la maglietta bianca] [tra lei e la gru c’è la finestra] [io vedo lei che disegna davanti al vetro] [lei mi vede dalla gru] [io sono il vetro, e scrivo le frasi] [lei è il vetro, non ha gli occhi e disegna] [ci sono gli alberi dentro la finestra] [lei è nuda davanti agli alberi sulla sedia] [io la guardo di là dagli alberi sul letto] [con la maglietta bianca]

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[io sono in basso a sinistra, nel disegno] [lei mi osserva dal vetro mentre si guarda] [io sono la finestra e non vedo] [io sono sul letto blu sempre più scuro mentre non mi guarda] [lei è nuda sulla sedia si guarda sul vetro nel prato] [la gru dispersa nel cielo rosa tra le striature azzurre] [senza parole lei disegna e io scrivo: «senza figure»] [le cose si rischiarano di sera il cielo rosa lei alla finestra] [io accendo la luce sul letto e l’immagine annerisce] [la sua bocca sulla gru] [lei mi guarda dal vetro] [la guardo nuda che disegna il vetro] [lei mi disegna sul vetro] [io guardo la gru di là dagli alberi] [io mi guardo e scrivo il suo disegno mentre mi guarda e divento nudo] [io sono nudo nel cielo rosa e lei mi guarda] [io sono al di qua della gru] [io mi guardo, e fumo] [dalla finestra lei non vede la mano] [lei mi vede tra il nero della luce e il suo braccio] [io scrivo la sua mano] [io non vedo] [lei è il vetro] [io sono nudo sul letto e lei sulla sedia] [io fumo e le guardo la schiena mentre lei mi guarda] [siamo (solo) nel vetro]

Stelle filanti

In agosto, tra la polvere di stelle di San Lorenzo e l’Ascensione, e oltre, si svolge per i monaci zen l’Ango d’estate, periodo di meditazione e di ritiro: zazen, ovvero «meditazione seduta» – postura del Risveglio, del Satori, di Buddha (sono tutti sinonimi). Ma è anche periodo di lavoro. Vita esemplare che nel suo svolgersi accoglie il mondo, come la postura delle mani insieme aperte e chiuse – come se avvolgessero l’ovale di un uovo: sigillo della compassione, esse tengono l’universo. «Quando guardiamo molto concretamente alla nostra vita – dice il maestro – non è facile capire cosa fare. Ci aspettiamo delle indicazioni, ma molto concretamente non ce ne sono. E se ci sono, sono incomprensibili. Bisogna fare i conti con questa incomprensibilità. Monaco è colui che inventa la propria vita. Inventare è rinvenire, ritrovare. La propria vita non ha sapore, colore, non ha niente. Anche le esortazioni più allusive a questa Vita sono molto incomprensibili. Cristo, Buddha sono allusioni a questa Vita. Sono allusioni alla nostra vita, questo è il guaio. Non a quella di qualcun altro. È molto difficile vedere o attuare una vera conversione. La vera conversione è inventare la propria vita. E in questo c’è comunanza,

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comunione. È molto importante. Non sto dando particolari indicazioni. Anche se in genere si pensa il contrario, le indicazioni più sono concrete più sono incomprensibili. Aiuto senza comunione non c’è; comunione senza invenzione non c’è. Noi stessi allora siamo un’indicazione. Noi, uno per uno, non in astratto. Se non siamo indicazione, non raccoglieremo mai indicazioni.» Sono seduto nel giardino di una casa di riposo con mia madre e altre anziane, sulle stesse colline del monastero zen. Non sono, quindi, all’Ango estivo. Ma ne sono proprio sicuro? Stiamo qui, seduti. Esposti e spogli. Silenzi, respiri. Parole poche, uguali come mantra. «C’è caldo». «C’è fresco». Parlano, queste ottantenni, delle loro mamme e papà. Inventano e reinventano la loro vita. Anche la mia vecchia insegnante del liceo, che ritrovo lì con esclamazione un po’ dantesca («anche lei qui...?»). «Metaforizzi sempre», dico scherzosamente a mia madre dopo una sua frase strampalata. «Ma c’è bisogno di metafore», interviene la mia anziana ex insegnante, in perenne attesa che arrivi suo padre. «Quando sedete in zazen, nessuno vi protegge le spalle – dice il maestro –. Se in questo momento arrivasse la morte a bussare a questa stanza, voi stupireste la morte. Non vi guardereste in giro per vedere se qualcuno passa per primo, passereste voi per primi. Stupireste la morte. Se capite che cosa vuol dire esporsi sedendo e che sedere è solo esporsi, allora capireste questa morte stupìta. Da qui nasce ciò che chiamiamo pratica, vita, novità, Buddha. Ma non lo capite se non siete capaci di abbandonare il vostro pensiero personale. 80

L’uso eccessivo della coscienza personale ci rende ancora più fragili, impauriti e angosciati». La brezza scompiglia i capelli bianchi degli anziani e delle anziane. Guardo i loro volti, così veri, la loro presenza così solida e i loro corpi così fragili. In queste notti, le stelle fileranno sulla linea dell’orizzonte, e ai nostri occhi esse sembreranno cadere. «Ricevere l’Ordinazione significa rimettere la propria volontà nelle mani e attraverso Buddha, che in quel momento è l’insegnante. Dopo quell’evento, io stesso mi trovai a operare incessantemente, anche là dove è molto difficile. Rimane molta strada da fare, e non ci sono scuse, bisogna percorrerla. Non è una strada che si può percorrere in una sola vita, forse richiederà centomila vite. Non sappiamo se ci sono centomila vite, ma si deve fare uno sforzo come se ci fossero centomila vite. Non nel senso di ‘fare poco in questa vita’, ma di far sì che questa vita continui per sempre, incessantemente». C’è freddo, c’è caldo. L’aria. Il volto di mia madre. Di tutte le madri. Le stelle più luminose, mi ricordo, sono le stelle spente.

La fabbrica dei palloncini

Pochi sanno che in Ciociaria, a Casalvieri, paese in provincia di Frosinone che ha dato i natali, tra gli altri, al comico francese Coluche, si producono milioni di palloncini colorati che vengono esportati in tutto il mondo. Ho un amico artista nativo del luogo che fa uso di palloncini in opere che ammiro. Si chiama Elmerindo Fiore detto Lindo, e non solo usa i palloni nelle sue installazioni e tableaux vivants, ma ne conosce intimamente la storia. Qualche anno fa ha promosso una Festa del Pallone, con esposizioni di arte d’aria e un concerto di strumenti a fiato. Ha organizzato lui la mia visita alle fabbriche leader mondiali di palloncini in questo paesino accovacciato sotto i monti. Mi ha detto: «Il pallone gonfiato è leggero come una nuvola, segue traiettorie lente, ha una sua imperturbabilità, è assente ma visibile, è un contenitore di fiato e non di vento, è l’otre di un Eolo addormentato». La sua definizione ricorda la prima apparsa in un vocabolario dove «palloncino» non designava più un lampadario di carta, ma un «giocattolo, costituito d’un globo di membrana elastica colorata, gonfiato con gas più leggero dell’aria e trattenuto dal salire per mezzo di un filo» (Cesare Pascarella, 1920).

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Non avevo mai pensato prima ai palloncini, almeno non consapevolmente. Ci ho giocato, ho fruito, come tutti, della loro colorata ed effimera esistenza con più o meno allegria, come del circo e dei clown. Accanto alla leggerezza, la leggiadria, la maneggevolezza (chi non si è sentito un campione di pallavolo facendo rimbalzare un palloncino?), ne ho declinato presto il pathos sottile: l’impermanenza, lo scoppio improvviso e sempre un po’ scioccante, o l’afflosciarsi lento e languido, l’avvizzimento malinconico, l’implosione. Li ho usati in addobbi di feste, e non solo per bambini. Ho vissuto, come tanti, quella «gnoseologia della perdita» di cui parla John Berryman nella poesia La palla (Canti onirici e altre poesie), dove descrive il dolore, il lutto del bambino che la perde («Non serve dire ‘Oh, ce ne sono altre’»). Non avevo mai pensato ai palloncini, eppure forse non ho mai mirato che a questo, scrivere sui palloncini. L’idea che la verità della scrittura risieda nella sua impermanenza; e che ogni scritto, anche il più monumentale, sia uno scritto «di circostanza». Parolepalloncini. Come la paziente arte orientale del mandala, che una volta ultimato viene soffiato via. E poi, un «giornale» dura forse più di un palloncino? Per questo non mi stupisce l’insistenza dei palloncini nell’arte contemporanea. A parte la celebre serie di Fiati d’artista di Piero Manzoni (palloncini gonfiati da lui stesso, o così si suppone), basta sfogliare un catalogo di arte odierna per trovare artisti di tutto il mondo che lavorano con palloncini – sculture, video o installazioni. Come se la mutevole impermanenza del palloncino s’incontrasse con quella dell’arte, in un reciproco processo di drammatizzazione e sdrammatizzazione. Un’arte d’aria per dirne l’insostenibile leggerezza, come nelle mostre di Martin Creed. O i paradossi di Jeff Koons: sculture di palloncini rosa o viola come quelli anno83

dati dai giocolieri agli angoli delle strade, a forma magari di cagnolino, però di metallo. I palloncini, o un loro metonimico equivalente, sono entrati subito nella storia dell’arte, poi nel cinema e nella letteratura. All’inizio ci sono i palloncini di Henri Rousseau detto il Doganiere, in un olio su tela del 1892 dedicato al ballo popolare nel centenario della Repubblica francese, poi le fotografie struggenti di Brassaï, le prime con palloncini trattenuti da un filo, e quelle di Nadar dell’«aerostato Nettuno a Montmartre». Dal dadaismo del film Entr’acte di René Clair – dove lo spirito rivoluzionario del «far saltare tutto per aria» si autoironizza nel volo di alcuni palloncini disegnati come volti (presto afflosciati), alternato dalla partita a scacchi di Marcel Duchamp e Man Ray – al Palloncino rosso del quadro di Paul Klee. Duchamp si mostrava spesso con i palloncini in mano, ma lo spirito delle avanguardie storiche è così omogeneo all’invenzione dei palloncini che, senza bisogno di parlarne, le opere dell’epoca se ne sentono complici, come lo scanzonato «saltimbanco dell’anima» di Aldo Palazzeschi è sinonimo di poeta. Ci voleva Stephen King, maestro dell’horror e paladino dell’infanzia (solo i bambini, nelle sue storie, vedono e sconfiggono il Male), per invertire la tendenza e raccontare, nel suo celebre It, un demone assassino e seduttore dall’aspetto di clown, che adesca i bimbi offrendo loro palloncini. Perfetto esempio di «perturbante» (Unheimlich): cosa c’è di più innocente e fragile di un palloncino? Eppure una delle scene più inquietanti del romanzo è il volo dei palloncini contro vento... Ma eccomi dunque a Casalvieri. La fabbrica più grande è la Gemar, ma ho preferito visitare la familiare Cattex, gestita dalla calorosa famiglia Catallo. La mia visita è avvenuta (non può essere un caso) nel periodo più pallonaro di tutti, quello 84

dell’ultima campagna elettorale. Sulle macchine che stampano le decorazioni dei palloncini vedevo imprimersi i loghi e gli slogan delle diverse forze politiche, parole come «Rutelli», «Veltroni», «Popolo della Libertà». Scherzi del destino: alcuni palloncini ancora da gonfiare li ho ancora, intatti; le parole e le funzioni che essi rappresentano e designano appaiono già vecchie e raggrinzite, se non scoppiate come bolle. Non fu d’altronde Ariosto che nell’Orlando furioso inventò i palloncini? Quando Astolfo va sulla Luna per recuperare il senno di Orlando, tra i «vani disegni» e i «vani desideri» dei mortali, gli capita di calpestare «un monte di tumide vesiche», vesciche gonfie d’aria che risuonano di fioche grida e tumulti, e altro non sono che ciò che resta delle «corone antiche», dei potenti regni del passato, «che già furo incliti, et or n’è quasi il nome oscuro». Affidare la propria fama a un palloncino non è già un folle sogno, e segno, dei politici, votati al mero presente? La fabbrica mi appare subito come un atelier di giochi per bambini, e i macchinari un’esposizione di sculture mobili tra Jean Tinguely e Alexander Calder. Marchingegni geniali per eseguire gesti semplici, come immergere stampi nel lattice del colore voluto, e asciugarli; altri che gonfiano i palloncini per sottoporli a una pressa che li decori, tra colori e sbuffi d’aria. Imparo che il lattice si importa dalla Malesia, che gli stampi sono in Pvc, materiale che resiste al calore. Prima vengono immersi nel nitrato di calcio puro, senz’altri elementi chimici, che serve da coagulante. Il tempo di immersione dello stampo nella vasca del lattice determina lo spessore del palloncino. Di nuovo un getto di acqua e carbonato di calcio per evitare che si incolli esternamente. Quando sono asciutti (un nastro scorrevole li fa passare per un forno a 7° per un quarto d’ora circa), un’altra macchina ne crea il bordo intorno all’a85

pertura. La catena di produzione fu inventata da un autodidatta con competenze da ingegnere, Gino Catallo, i cui studi raggiunsero la quinta elementare a Casalvieri. Se questa è la tecnica attuale, in passato, mi racconta Elmerindo Fiore, i palloncini venivano realizzati uno a uno con «para cruda», sottili fogli di gomma sagomati, vulcanizzati nel cloruro di zolfo e colorati nell’acqua bollente con colori in anilina altamente tossici. «Considera – mi ha detto – che si chiama ‘anilismo’ l’avvelenamento da anilina che nella forma acuta, dice la Treccani, ‘può arrivare a procurare il coma con esito letale’». La svolta avviene alla metà degli anni Cinquanta, quando quella tecnica fu progressivamente sostituita con la tecnica di immersione di forme nel lattice di gomma liquida – quella che ho potuto vedere nella fabbrica Cattex – e per un certo tempo la produzione fu mista. I palloni in lattice di gomma colorata venivano essiccati al sole o in forni rudimentali, immersi nel talco ed estratti dalle forme pronti per essere decorati. «Ancora insiste nella mia memoria olfattiva – racconta Lindo – un odore di benzolo e di ammoniaca, fortissimo, quasi allucinatorio. La mia fu una fanciullezza sulfurea e coloratissima. Ricordo filari di gialli, di rossi, di azzurri artificiali. Fu un’allucinazione respiratoria e visiva, con casse di talco che nel mio immaginario diventavano cipria, come la parola ‘anilina’ diventava ‘anima’ (che sul Melzi, il mio primo vocabolario, viene subito dopo). Scoprii leggendo Novalis che ‘di tutti i veleni l’anima è il più forte’. Mia madre faceva l’operaia nel laboratorio di Giuseppe Rocca, e io la raggiungevo dopo la scuola. Mio padre preparava i timbri per le decorazioni (immagini floreali, personaggi a fumetti, scritte pubblicitarie) per i produttori. I timbri – che qui chiamavano stampe – erano intagliati su legno di pero. Il pallone veniva gonfiato con uno strumento a mantice (soffietto) simile a 86

quello che gli alchimisti usavano per potenziare il fuoco del forno, e poi ‘stampati’. Finito e pronto per durare un niente, perché quest’oggetto bizzarro – che oggi è diventato importantissimo per l’economia del mio territorio – è in fondo destinato alla conservazione effimera del fiato, sia esso artificiale o d’artista». La gomma veniva comprata dalla Pirelli, in casse da tre rotoli. Ora siamo all’azienda Rocca Clemente (il nome di uno dei fondatori, ma anche dell’attuale titolare). Qui si producono palloni giganti, che servono per addobbi e per la pubblicità – come nelle campagne dell’Opel Agila, «mille pezzi blu», e di molti partiti politici (Berlusconi è un ottimo cliente). Palloni giganti furono sperimentati per la prima volta nella trasmissione televisiva Scommettiamo che...: numerose persone riuscirono a infilarsi, una per volta, all’interno di un gigantesco pallone in lattice vulcanizzato costruito qui. Sono utili anche per i sondaggi meteorologici, spediti in cielo. Apprendo con emozione che il grande mappamondo con cui gioca il Grande dittatore nell’omonimo film di Charlie Chaplin è stato realizzato con uno stampo appartenuto ai capostipiti di quest’azienda famigliare. Era uno stampo che si apriva ad arancia, secondo la vecchia tecnica. Fu creato a Lione dal padre di Clemente Rocca, Giuseppe, di professione fabbro artigiano. Un unico pezzo cavo in bronzo, apribile a spicchi, in cui si passava il colore e si inseriva il pallone gonfiato, e con cui fu impresso il disegno del mondo per il film di Chaplin. Vi sono emigranti da Casalvieri dappertutto in Italia e nel mondo. Alcuni andarono nella Francia meridionale, in particolare a Marsiglia. Fu lì, a Marsiglia, che alcuni amici e parenti (tutti sono imparentati a Casalvieri), e precisamente Angelo Rocca, Clemente Rocca e Felice Vennettilli, nei primi 87

anni del Novecento impararono la tecnica della fabbricazione dei palloncini, e quando tornarono la trasmisero ai compaesani. Tutto il paese si mise a fare palloncini. Gli ambulanti venivano a Casalvieri ad acquistare palloncini da rivendere – e molti lettori, presumo, avranno ricordo di questi ambulanti, più estinti dello zucchero filato. Se il boom dei palloncini venne negli anni Sessanta, le confezioni di massa, con relativa distribuzione, avvennero negli anni Settanta (il boom del petrolio è del 1972): buste di palloncini vendute nei supermercati, palloncini allegati come gadget ad altri prodotti, ecc. Renato Rascel cantava: «Dove andranno a finire i palloncini / quando sfuggono di mano ai bambini / dove andranno, dove andranno, / vanno a spasso per l’azzurrità...». Anche i palloncini raccontano una storia d’Italia (e del mondo). La loro lieve catastrofe («per fortuna che scoppiano», mi dice con allegra saggezza il signor Catallo senior) era tra le poche all’orizzonte, ignari che il benessere economico potesse a sua volta essere gonfiato, e generare bolle speculative che possono scoppiare. Un film di quegli anni svolge esattamente questo tema. È Break up di Marco Ferreri, del 1965 ma terminato alcuni anni dopo (rifacimento dell’episodio «L’uomo dei cinque palloni» in Oggi, domani e dopodomani). Storia del ricco e afasico proprietario di una fabbrica di cioccolato (Marcello Mastroianni), la cui piatta vita amorosa e professionale viene scossa e turbata dai palloncini gonfiabili usati come gadget pubblicitari dalla sua stessa ditta: fino a che punto, esattamente, può essere gonfiato un palloncino prima di scoppiare? È l’ossessivo dilemma «scientifico» che porterà l’industriale addirittura alla morte. La metafora è nuda e attuale. Non si parlava proprio in quegli anni, e a volte ancora oggi, di boom economico? 88

Il cantiere della memoria

Arrivo all’appuntamento nel quartiere Navile, via di Saliceto 1. C’è una palestra, c’è una mensa, c’è la sede del Quartiere. A fianco di quest’ultima entriamo, Daria Bonfietti e io, seguendo un’antica rotaia di tram rimasta sul selciato, nello spazio di quello che era una volta il deposito tranviario di Bologna. Sotto il sole di mezzogiorno, guidati dai rumori, ci avviciniamo al luogo deputato alla memoria della tragedia di Ustica. Un pezzo della carlinga dell’aereo DC9 dell’Itavia, inabissatosi il 27 giugno del 1980 in seguito a «un atto di guerra», è ora davanti ai miei occhi, su un camion a rimorchio: una struttura circolare sventrata, lembi di metallo pazientemente ricomposti e adagiati, come fiori rampicanti sulla rete circolare di un gazebo. Per quanto credessi di essere preparato, quello che vedo è bruscamente troppo forte. I vigili del fuoco lavorano alacremente nelle loro divise rosse. Oltre al camion, una gru, un caterpillar, rumori di motori. Saluto Andrea Benetti, il compagno di Daria, e ci aggiriamo insieme nella luce che stordisce. Guardiamo come bambini i pezzi di aereo della tragedia e i vigili del fuoco che li spostano con la gru, metalli contorti e sformati; anche questa nostra contraddizione «è un atto d’amore», dice Andrea

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notando il mio imbarazzo. Osservo la fiancata di una fusoliera, il rosso e il bianco dell’Itavia, e solo i buchi dove prima c’erano gli oblò suggeriscono la forma originaria, l’uso originario. Qual è «l’uso» di un relitto aereo, mi chiedo. Forse lo stesso di un corpo morto. E mi accorgo che nella loro concentrazione assorta i vigili del fuoco lavorano al più antico dei rituali della nostra era: la deposizione. Adagiare con cura pezzi dell’aereo di Ustica, amorevolmente ricomposti pezzo dopo pezzo come un collage, è pietà in atto. (E noi chi siamo? Testimoni, visitatori del cantiere della memoria). Il sole è cocente, e resto attonito a guardare nel fragore le vestigia dai colori sbiaditi, sotto un cielo così azzurro che ricorda lo sconcertante dialogo nel film Shoah di Lanzmann («C’era un cielo così azzurro anche nel ’43-’44, ad Auschwitz?» «Oh sì, anche più azzurro, signore»). Andrea e Daria mi raccontano la processione, il convoglio dei pezzi del relitto da Pratica di Mare a Bologna, fino al deposito dei vigili del fuoco a una dozzina di chilometri da qui. Lo hanno fatto viaggiare lungo l’autostrada secondo la logica della forma ricomposta, la «testa» davanti, la cabina di pilotaggio, poi i pezzi centrali e la coda. Hanno portato finora i pezzi più riconoscibili, in questa che sarà la sede del Museo per la memoria di Ustica, il deposito degli omnibus a cavallo, come ricordano le arcate della vecchia scuderia. Mancano parte del tetto e delle mura. Ci sediamo all’ombra, su un gradino. Daria Bonfietti è la fondatrice e l’anima dell’associazione dei familiari delle vittime di Ustica. Già senatrice della Repubblica, ha spinto con tenacia e pazienza la battaglia per la verità su questa strage denegata, fino alla (parziale) vittoria della sentenza del giudice Rosario Priore. Lungo il cammino ha raccolto solidarietà e sostegni importanti, e al comitato fondato nel 1990 aderi90

rono rappresentanti insigni della società civile e del mondo politico-istituzionale. Lei e Andrea Benetti parlano quasi all’unisono. «Abbiamo cominciato questa battaglia come cittadini qualunque, contro le omertà di generali e apparati militari che si trinceravano dietro una banalizzazione sistematica delle cose, che dicevano di non sapere chi fosse presente al lavoro, o che leggevano ‘Topolino’. Preferivano passare per idioti piuttosto che assumersi delle responsabilità. L’informazione, i giornali, ci hanno molto aiutato, tanti hanno capito e condiviso il bisogno di verità. Altri si sono inseriti nella vicenda solo per dire cose sensazionali, indipendentemente dalla verità. Oggi sentiamo il bisogno di raccontare piccole storie, cose che ‘non fanno notizia’ secondo la logica drogata dell’informazione, che implicano quindi un modo diverso di raccontare. Il Museo per la memoria nasce dal bisogno di riprendere l’intera vicenda e farne un insieme di tante cose normali, un luogo dove si incrociano le vite, brandelli di storie, allo stesso modo paziente in cui è stato ricostruito l’aereo ed è stata condotta l’inchiesta. Non ci siamo mai scagliati contro qualcuno, abbiamo capito che arrivare alla verità era un processo lungo e complesso, e solo mettendo insieme tassello dopo tassello, pezzettino dopo pezzettino di verità, si poteva ricostruire il puzzle, fino alla verità non scontata cui è pervenuto il giudice Priore: un giudice normale che si è comportato in modo normale, contro la totale non collaborazione dei vari ufficiali, avieri e addetti radar dell’aeronautica». Ora è la politica, continua Daria, che si deve attivare, come per il caso Calipari, e chiedere conto della verità anche agli altri paesi coinvolti – Francia, Inghilterra, America, forse Libia, i cui aerei erano presenti nei nostri cieli. Quello di Ustica non è un evento di cui non si sa cosa è successo. La sentenza-ordinanza consegnata nel settembre 1999 dal giu91

dice Priore (dopo 19 anni) così conclude: «L’incidente è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, azione di guerra di fatto e non dichiarata». Il Museo per la memoria di Ustica non è il simbolo di una pacificazione avvenuta, ma di una battaglia per raggiungere la verità, quella di un aereo civile caduto in tempo di pace. Non è più tempo dell’associazione dei parenti delle vittime, ma del paese, dei governi, di tutti gli italiani uniti nella volontà di sapere la verità su altri civili italiani morti senza un perché. Ci alziamo. Su dei cavalletti, appena riconoscibile, è appoggiata un’ala del DC9: una striscia di metallo grigia e liscia, appena ondulata, come il frammento delle spoglie di un enorme insetto morto e abbandonato. È il pezzo più intero. Per terra, a fianco, un altro pezzo d’ala su cui si leggono le lettere VIA, rosso su bianco, a ricordare il nome Itavia. Le ali sono salme. Su altri cavalletti sono appesi pezzi di ferro semiarrugginito, vagamente circolari: i due motori dell’aereo. Lo sforzo di riconoscere, di vedere. Senza essere un addetto ai lavori, in questo luogo della memoria in allestimento ci si sente indiscreti. Guardo l’altro pezzo di carlinga già provvisoriamente deposto, il rosso intorno ai buchi degli oblò, il bianco intorno. Lo sventramento, l’interno che deborda all’esterno, a mostrare il vuoto, l’assenza, il nulla. La fragilità di ciò che resta, di ciò che resiste, la nudità della struttura, come una devastazione cristallizzata. Pezzi di aereo come farfalle infilzate, la nudità esposta. Ecco, l’aereo acquista qui qualcosa di definitivamente umano: quelli che sto contemplando sono gli «amabili resti» di un corpo. Ossa, scheletri. Alcune pagine memorabili di Daniele Del Giudice su Ustica (nel suo libro del ’94, Staccando l’ombra da terra) elencavano i frammenti di metallo, la minuta tecnologia di un aeroplano incollato pezzo dopo pezzo sulla rete che dà la forma della fuso92

liera. Ogni pezzo, superato il primo impatto emotivo, il pugno al cuore, irradia una dignità immensa, uno shining fortissimo. All’ombra della tettoia, mentre i vigili del fuoco hanno spento i motori (è la pausa del pranzo), nella luce tersa dell’estate, nel silenzio rotto solo dalla monotonia delle cicale, mi aggiro e guardo, tra un fuori e un dentro senza soluzione di continuità, il museo della memoria a cielo aperto: non ancora salvato in memoria, non ancora quindi dimenticato, normalizzato, ma vivo e pulsante. Che la memoria, anche quella più dolorosa, possa essere esperienza estetica, contro l’anestesia che caratterizza gran parte della nostra vita in questi anni, è ciò che Christian Boltanski, grande artista della commemorazione, propone nelle sue esposizioni di volti ingranditi di morti, di oggetti, di abiti dismessi, che come fantasmi raccontano l’individualità negata e perduta. Non è un caso che con Daria Bonfietti e Andrea Benetti ci siamo incontrati la prima volta a una mostra di Boltanski in corso a Roma. Collaborerà poi al ricordo di Ustica. Quando Boltanski sentì queste parole – museo della memoria – si spaventò: lui non ama i musei. Ora si chiama così, ed è la metafora di tutta la vicenda: il relitto ripescato, la verità che riemerge, ciò che scompare e poi torna alla luce. «A noi – dice Daria – non è parso vero che un artista rappresentasse così la memoria. Dal punto di vista giudiziario quel relitto non parla, o non parla più. Ma adesso il relitto parla perché è carico di simboli e di storie, racconta la vita e la morte delle persone, una verità che va a fondo e riemerge, la fatica del ripescaggio, l’immane lavoro per rimetterlo insieme, quello altrettanto paziente dell’indagine e del processo. È un simbolo che moltiplica i suoi significati, e vorremmo che moltiplicasse le sensazioni nella gente. Quando è nata l’idea, col secondo ripescaggio del relitto, non potevamo pensare che 93

quei pezzi di aereo che hanno visto gli occhi dei nostri cari prima di morire sarebbero finiti in una discarica. Non potevamo che portarlo in un luogo costruito appositamente per mantenerlo. L’ultima domenica di giugno, a Bologna, molti cittadini lo aspettavano emozionati. È un simbolo che vale per molti, di un bisogno di memoria, di giustizia, di verità e trasparenza, e anche di un problema di democrazia: che i cittadini non siano considerati sudditi». Guardo da vicino i motori, le cinghie di trasmissione, le rotelle, gli ingranaggi, le ventole accostate l’una all’altra, come in una didascalia meccanica. Con l’emozione e il timore di chi si avvicina troppo a qualcosa che va preservato, da un’estremità aperta guardo un altro pezzo di aereo. In fondo si intravede la forma della toilette. Guardo l’interno deturpato, lo spazio vuoto che fu abitato dalla vita e dalla morte. Vuoto? C’è il vuoto, l’assenza, intorno a cui la struttura, fragile come nuvola, forma tenuta insieme dal desiderio ostinato di una forma, racchiude la preziosa pienezza di questo vuoto circolare. C’è qualcosa nella forma di una fusoliera che invita alla contemplazione. E poi ancora un altro pezzo di aereo deposto, nella parte più coperta dell’area: la punta arrotondata fa intuire la cabina di pilotaggio. Visto da fuori, questo pezzo più ancora degli altri sembra un collage fatto di tanti frammenti di carta strappata, rossa e bianca, come i quadri-collage di Mimmo Rotella. Là dentro, come negli altri pezzi di fusoliera, lo sguardo passa il relitto da parte a parte. Lo sguardo, come l’aria, percorre i resti e li trafigge. Le cicale insistono nel silenzio azzurro. Difficile è uscire fuori, trovarsi nelle strade del quartiere, un giorno d’estate a ora di pranzo. Do un ultimo sguardo al cantiere, ai camion rossi e alle gru. Il capannone manterrà la struttura originaria ottocentesca, con le vecchie porte e le ar94

cate. Ma come sembra effimero e polveroso il resto della città, come tutto appare fragile e provvisorio uscendo da quel cantiere, allontanandosi dall’aereo, dalla deposizione e ostensione di quel corpo, di quella pietà. Nel cortile esterno appoggio lo sguardo su due lapidi commemorative dei dipendenti dell’azienda di trasporti deceduti per cause belliche. Leggo i nomi dei tranvieri caduti nelle guerre del Novecento. I nomi, come i volti, danno il senso di una fratellanza universale, ordinaria. I volti e i nomi dei morti trovano requie se hanno una storia in cui credere, almeno per i vivi. I nomi e i volti dei caduti di Ustica, abbattuti da un missile in tempo di pace, sono in cerca dell’una e dell’altra.

La vita nuda dei rom

Dopo avere svoltato a destra dalla via Casilina, poco prima dell’incrocio con via Palmiro Togliatti, e dopo aver percorso il sentiero costeggiato da un lungo muro compatto di automobili pressate del contiguo sfasciacarrozze, la prima cosa che vedo è uno spiazzo bianco sterrato avvolto da una nuvola di suoni e canti gitani, diffusi da un impianto stereo a cielo aperto. Una signora col fazzoletto sulla testa arrostisce un maialino allo spiedo sospeso su una vasca da bagno bianca. Tutt’intorno detriti, polvere, rottami. Ma la visione è pop, un quadro che sembra tratto da un film di Kusturica dai colori sgargianti, più Arizona dream che non Underground. Mi trovo in quello che resta del più storico campo di rom della capitale, «Casilino 900» (ex Casilino 700), in compagnia di Francesco Careri e Lorenzo Romito, architetti e artisti del gruppo Stalker-Osservatorio Nomadi di Roma. Alcuni dei nomadi che vi risiedono (si noti l’ossimoro), senza residenza né permesso di soggiorno (i paradossi si sprecano), dimorano qui dal 1968. Quarant’anni senza essere riconosciuti, senza diritto di cittadinanza neppure per chi vi è nato e cresciuto. So che quello che vedo è così precario che mi viene in mente la frase di Cézanne, poi ripresa da

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Wenders: bisogna fare presto se vogliamo vedere qualcosa, tutto sta per scomparire. Il giorno della mia visita non erano ancora avvenuti gli incendi e gli assalti stile pogrom dei campi nomadi a Napoli. Né i sondaggi che attestano un’insofferenza sempre più irrazionale degli italiani per questo popolo, la cui diversità suscita solo desiderio di eliminazione, e non di conoscere la natura di questa differenza. Ma i rom erano ugualmente angosciati: temono i prossimi sgomberi forzati, e non pochi di essi, al nostro passaggio, donne e uomini anziani soprattutto, sono usciti dalle loro case-verande per chiedere notizie. Volti rugosi e occhi rassegnati, un fioco desiderio di sperare. Alcuni ci hanno scambiato per quelli che, tempo fa, «guidavano le ruspe» che hanno demolito decine di baracche per spianare la strada. «Motivi di sicurezza». Ora, dall’infanzia per me gli zingari erano i giostrai e quelli del circo. Erano italiani. I sinti. I nomadi che vivono qui da anni – quando c’erano anche immigrati del Sud che per sopravvivere vendevano aglio, e ora popolano i palazzoni popolari del quartiere – vengono dai paesi balcanici dilaniati dalle guerre. Anche tra loro, come imparerò, sono diversi: i bosniaci dai kosovari, dai serbi, dai montenegrini, e così via. Diversi negli abiti femminili, nell’abitare, nel posizionare il bagno dentro o fuori casa. Quelli che hanno i furgoni sono artigiani, ecc. Eccomi dunque qui a guardare, cercare di conoscere. Dietro la signora col fazzoletto, la vasca bianca e il maialino, il cui odore di carne bruciata si confonde come vapore con i canti ipnotici, osservo la baracca di legno celeste, col pergolato di vite a cui sono appesi vasi di fiori, veri e finti. La casetta di fianco ha un balcone di legno bianco con una ringhiera di assi oblique, secondo un disegno ornamentale 97

che ricorre in ogni veranda. Coperte e copriletti variopinti sono appesi a prendere aria, come una domenica mattina. Tra una casa e l’altra spiccano i gabinetti chimici azzurri, le cabine Sebach che si vedono nei cantieri edili per i bisogni degli operai. Qui, come in molti altri campi, non è mai stata disposta una rete idrica, né elettrica. Ma com’è che tutte queste baracche, povere e circondate di detriti, danno un’idea così forte di casa, di una vita che si stenta a riconoscere ma che ci ricorda l’idea confusa e intensa che se ne aveva nell’infanzia? È, credo, l’umanità, la vita che qui è così nuda. Una bambinetta bionda va su e giù sorridendo con la bicicletta tra pozzanghere, pneumatici, pezzi di ferro. È bella, è una delle figlie di Najo Adzovic, il rappresentante dei rom di cui siamo ospiti. Adesso le donne accendono il fuoco anche di fianco alla sua casa, e qui e là tra le baracche maiali e agnelli impalati arrostiscono inondando l’aria. Si prepara la festa di San Giorgio, importante quanto l’ultimo giorno dell’anno, se non di più: è la festa di mezz’estate, cioè di «mezza vita». Nella tradizione nomade è il giorno in cui ci si chiede: cosa abbiamo fatto finora della nostra vita? Si dice Upasomilai, e già in questa parola la lingua romanès rivela la sua ascendenza sanscrita. Stasera qui danzeranno a lungo. Nonostante San Giorgio, non tutti hanno voglia di festeggiare. Beviamo un caffè turco seduti nella veranda di Zarko, completo marrone e volto triste. Lui e sua moglie ci raccontano con dignità le loro disgrazie. Un figlio in prigione accusato di furto. La sparizione delle loro modeste mercanzie – stracci e borse in sacchetti di plastica – gettate come monnezza da chi ha fatto l’ultimo sgombero. Non avere più quella «monnezza» da vendere significa fame. Parlano soprattutto dei figli, di cui a un certo punto ci mostrano una cartelletta 98

con tutti i documenti tenuti in un ordine invidiabile. Sfoglio certificati ed estratti di atti di nascita, codici fiscali, pagelle scolastiche («Documenti di valutazione del Ministero della Pubblica Istruzione»), certificati dell’Opera Nomadi, libretti sanitari (Servizio Sanitario Nazionale, regione Lazio): tutto inutile ai fini della richiesta di una cittadinanza. Per chiedere il passaporto italiano dovrebbero esibire quello slavo. Ma né loro, né tantomeno i figli, hanno qualcosa del genere: che cosa è oggi «slavo»? Di fatto, si perpetuano generazioni di apolidi, di senza diritti, di ontologicamente precari e clandestini. Che subiscono ricatti e violenze. Non avendo diritti, sono alla mercé di ogni sopruso. Ma mi raccontano anche l’umanità e gentilezza di tanti altri poliziotti. Per i rom ogni «casa» vive il suo spirito nella veranda all’aperto. L’altra in cui ci sediamo a parlare, costruita da Najo, è una sorta di giardino d’inverno con rudimentali pareti mobili di legno e vetro. Il tetto poggia su assi disposte a raggiera, un buco al soffitto serve per la stufa, perché d’inverno qui si cucina. Najo è autore di un libro, Il popolo invisibile, che racconta la storia della sua infanzia nell’ex Jugoslavia, scolarizzato e integrato tra gagè (quelli come noi, gli stanziali), fino all’implosione di quel paese e alla sua fuga dalla guerra (bollato come «disertore e traditore»). Gli chiedo se i nomadi stiano ormai accettando di diventare stanziali. La risposta è sì, se glielo permettiamo, regolarizzandoli e dando loro diritti. Anche perché il loro nomadismo, il loro essere «stranieri», cioè uguali ma diversi (fu già così per gli ebrei, perseguitati fin dal Trecento), è qualcosa di interiore e culturale che si tramanda, come la lingua. Najo ha una passione che definirei politica, ma di una politica così vera ed evidente che ha ormai poche sponde nel mondo là fuori, oltre i muri di sfa99

sciacarrozze, insomma nella città di noi gagè. Tutti sembrano uniti dalla volontà di togliere l’ultimo barlume di visibilità a questo popolo già invisibile. Da tempo è in corso una guerra contro i poveri (non contro la povertà), e la politica difende ostinatamente uno stile di vita e di consumi che in nessun momento mette in discussione, nonostante l’incombere di catastrofi ecologiche. Ma anche l’intolleranza per la diversità è in aumento. Najo è animato da un progetto che sembra un’utopia, quella di un’area abitata dai rom, una «città nella città», con laboratori artigianali di lavoro del legno, del ferro, del rame, possibilità di fare i mercatini, educazione e scuole assicurate per i loro bambini. Loro stessi, ne è certo, dall’interno potrebbero efficacemente prevenire e reprimere la microcriminalità. Già adesso la scolarizzazione è del 95%, e cinquanta famiglie qui sopravvivono grazie all’artigianato e ai mercatini. «Se uno ha la casa – dice Najo –, se ha la dignità, il lavoro, dei diritti, non va a fare il delinquente». Mi parla della solidarietà che li lega. «Avete mai visto un rom anziano in una casa di riposo?» Lo so che molti degli zingari rubano, lo sa anche Najo. Hanno alcune pessime abitudini. Ho anch’io la mia bella dose di barriere culturali. Ho subito due furti odiosi nell’appartamento, computer compreso: lo stile è quello dei ragazzini zingari, hanno detto i poliziotti quando hanno saputo che erano state rubate anche le felpe del bambino. Ci sono campi che hanno come risorsa dominante il crimine. Ma se i colpevoli sono dei singoli, perché colpevolizzare un popolo, risvegliando o rinnovando lugubri odi razziali? «Il triangolo nero – Nessun popolo è illegale»: così titolava un appello proposto da un certo numero di scrittori italiani all’epoca della prima ondata emotiva e delle rappresaglie contro i rom, no100

vembre 2007. Raccolse migliaia di firme. Quando diciamo «nomadi» racchiudiamo in una parola un coacervo di etnie, un mondo di mondi. Oggi nel suo insieme il popolo dei rom, ovvero «uomini liberi», chiede agli stanziali, ai gagè, aiuto nel vivere dignitosamente, offrendo abilità e competenze. Chiedono un’integrazione che non sia eliminazione della loro differenza, ma la valorizzi. Chiedono di poter lavorare e di potersi muovere liberamente dopo il lavoro. Sono felici di poter testimoniare di se stessi e del loro popolo, come è accaduto quando, nel Giorno della Memoria, due anziani rom, un uomo e una donna, raccontarono la loro sopravvivenza nel campo di concentramento di Agnone ad una scolaresca romana. Cammino di nuovo per il campo calpestando macerie. Il degrado è evidente. So che ci sono persone che, senza essere rom, hanno scelto il nomadismo come soluzione abitativa più adatta alla loro indole. Il grande Ivan Illich scriveva che viviamo parcheggiati come automobili in garage, che l’attività umana dell’abitare si è ormai spenta nella nostra civiltà. Viviamo in un mondo prefabbricato, senza lasciare tracce. E anche i «commons», gli spazi di uso comune, sono in via di estinzione. È un paradosso che i nomadi siano gli unici portatori di un’arte di abitare? Studiando le loro tipologie abitative, la loro dimensione ecologica ed economica spesso geniale – le loro misere case sono più belle e costano meno dei containers forniti dai Comuni, oltre ad essere a bassissimo impatto ambientale –, i miei accompagnatori hanno cominciato a penetrare la loro cultura. Il gruppo Stalker ha studiato il nomadismo come categoria filosofica e pratica estetica. Alla Biennale di Venezia hanno portato un progetto, «Campus Rom», frutto di una collaborazione tra l’Università di Roma Tre e quella di Delft. Contiene precise proposte. La prima è 101

quella di un passaporto europeo transnazionale per i rom, per muoversi liberamente sul suolo europeo (ex Jugoslavia compresa): per sanare il debito nei loro confronti che data dalla Shoah, che come è noto riguardò anche i rom. Nella loro lingua, Olocausto si dice Samudaripen, «tutti i morti», ma nessun rom fu chiamato a testimoniare al processo di Norimberga. Va anche ricordato il loro pacifismo: il popolo rom non ha mai fatto una guerra in tutta la storia. Hanno esposto il prototipo di una casa rom realizzata a Casilino 900, e il video della sua costruzione, per imparare da loro ad abitare in modo ecologico, a partire dai consumi e dalla cultura del riciclaggio. Infine una proposta urbanistica e politica: chiudere tutti i campi e aprire delle microaree secondo l’habitat evolutivo, basato sull’espansione delle famiglie. Lasciare germogliare le case in autocostruzione, dando loro un pezzo di terra. Tanti italiani potrebbero avvantaggiarsi di questo modello abitativo, che non deve produrre ghetti ma innesti creativi metropolitani che possono corrispondere ai bisogni e agli stili di vita di artisti, di giovani, di tante persone. Ma la cosa più urgente – mi dice Francesco Careri – è cambiare l’immaginario collettivo sui rom. Tutti ne parlano, nessuno li conosce. Nei loro campi ci va solo la polizia, o le squadre di violenti. Eppure, il mondo sarebbe molto meno bello senza di loro.

Oltretorrente

C’era una volta la memoria, e gli anziani col cappello che si incontravano la domenica nelle piazze. C’erano una volta le città e le piazze, dove bambini si raccoglieva la memoria degli anziani, e i tappi delle bottiglie sotto i tavolini. Ho guardato un film documentario sulle «Barricate» di Parma del 1922, alternandolo a una passeggiata negli stessi luoghi – il quartiere detto Oltretorrente, la «Parma Vecchia». Nel film l’Oltretorrente si vede sia in bianco e nero, nelle immagini di quegli anni, sia a colori, mentre alcuni testimoni di allora rievocano i fatti di cinquant’anni prima. Ma anche il momento in cui parlano appartiene al passato, e a me spettatore il presente di quel film appariva già «antico», come le automobili che si vedono per strada. E anche l’aria, il cielo, la grana dei colori. L’effetto della rimemorazione è a scatole cinesi. Tocca l’infanzia di quegli anziani sopravvissuti che forse oggi non esistono più, il presente di quel duplice passato, il senso della storia che si stempera nel trascorrere del tempo. Poi tocca i miei ricordi, e la mia passeggiata in un inverno recente. «Testimonianza» vuol dire allora l’alterna irruenza della più potente illusione – il presente – che di continuo disperde ciò che è stato (il giornale di oggi che domani è solo carta).

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Il primo dei testimoni si chiama Orazio Bortesi. Parla dei fatti antecedenti alle Barricate, lo sciopero del 1908. Aveva sei anni, e i bambini dei poveri, dice, furono mandati via. Si ricorda la Cavalleria, e l’impressione che gli fece vedere dei cavalli senza i cavalieri sopra: disarcionati dai coppi che gli cadevano addosso dall’alto, gli spiegò suo padre. Otello Neva, che fu fatto portabandiera dal comandante Picelli, ricorda la formazione dei combattenti armati nei borghi dell’Oltretorrente, ma anche in Borgo del Naviglio. Furono lotte cruenti, le ricorda con la paura del suo sguardo di ragazzo. Già nel 1920-21, dice, ci furono alcune scaramucce tra fascisti e Arditi del Popolo: la gente andava a vedere i segni delle pallottole sui muri. Nell’agosto del 1922 Italo Balbo, che aveva racimolato fascisti dall’Emilia, dalla Lombardia e dalla Toscana, non riuscì a penetrare i borghi di Parma, perché l’entusiasmo avverso era dilagato nel popolo. Virginio Barbieri descrive le barricate fatte con carretti, birocci, lastre di pietra, banchi di scuola e di chiesa, cui parteciparono tutti, uomini, donne, ragazzi, anche i preti. Le armi erano poche e scarse, più che altro fucili da caccia, «altro che fucili Novantuno», ma i fascisti questo non lo sapevano. Attilio Pollastri parla dell’attesa estenuante: non venivano mai, i fascisti. Si erano concentrati in piazza Garibaldi, in via XX Settembre, in Borgo del Parmigianino, e noi cominciammo a fare le barricate, le trincee, dice. Era un giovane smanioso, fiero di essere comandato da Guido Picelli. Eravamo in trentacinque o quaranta, e i fascisti quasi ventimila. Il quarto giorno vi furono degli spari, ma ancora non venivano. Il quinto giorno suonarono le campane, e qualcuno gridò che i fascisti si erano ritirati. Guardo le immagini delle barricate nelle strade povere e dissestate, fatte con le lastre dei marciapiedi, quelle di Borgo 104

Cocconi, di Borgo Bernabei. Via Bixio, la strada più lunga parallela al torrente, di barricate ne aveva più di una, fatte di pietre e tavole. I corpi dei resistenti accovacciati nell’attesa. Altre barricate in via Imbriani, Borgo Tanzi. Sulla strada, lungo le case, bambini e donne che guardano. Si vedono le rotaie dei tram lungo via Bixio. Dante Gorreri ricorda che il Partito comunista non era d’accordo con gli Arditi del Popolo: erano una formazione autonoma e spontanea, fuori dal controllo. Lui aderì comunque, a nome dei giovani comunisti, e gli Arditi gli diedero un settore tra via D’Azeglio e via Imbriani. Aspettavano le decisioni, ma quando vide tutte le donne fuori e le luci accese capì che era iniziata la mobilitazione. Anche Arduino Giuberti ricorda l’ostilità del partito, che non partecipò ufficialmente a quelle cinque giornate di resistenza. Ma c’era tutto il popolo dei borghi. I bottegai davano da mangiare ai resistenti pane e carne. Si commuove nel dirlo. L’entusiasmo, la solidarietà di tutti, dice. E intanto guardo il bianco e nero delle facciate delle case, gli abitanti che controllano le loro barricate, uomini, donne, i bambini che giocano in strada nei momenti di calma (le vedette controllano dai tetti delle case). Ascolto le testimonianze di Giovanni Balestrieri e di Isidoro Zanichelli. Tutti ritenevano giusto difendersi da quella gente bestiale, dice Zanichelli, i fascisti. Con altri elettricisti, aveva preparato anche un filo elettrico contro di loro. Parla della morte di Corazza, consigliere del Partito popolare, cattolico, ucciso da un proiettile. Regolo Negri ne fu testimone, lo piange anche adesso il povero Corazza. I cecchini fascisti sparavano dall’argine della Parma (il torrente, qui, si dice al femminile). Anche Corazza aveva preso il moschetto, si espose, fu fulminato. Lo sgomento di vedere l’amico ucciso da degli italiani, dice. Poi ricorda la gioia dello scampato pericolo, la fine di tutto questo. L’allegria nonostante la fame. 105

In via d’Azeglio c’è una pizzeria al taglio. È un posto come tanti, privo di memoria, «pulito e illuminato bene». Una piccola stanza smaltata di verdazzurro, il banco con le pizze di fronte all’entrata, ai lati qualche sgabello e due ripiani con su i tovaglioli di carta e qualche avviso dal mondo: corsi di yoga, discoteche, feste in maschera, meditazione dolce, la «Gazzetta di Parma» sgualcita dall’uso. La signora dall’accento del Sud è gentile e corpulenta. La ragazza dagli occhi grandi è sicuramente sua figlia. Sono l’unico cliente, il lavoro è finito. Mi dice la madre alla cassa: faccia con comodo, aspetto l’ultimo autobus. Il forno è spento, e tuttavia intiepidisce la pizza. Di fronte al banco, appesa al soffitto, una Tv trasmette un film americano a colori. I miei occhi convergono nella traiettoria di quello delle donne, attratto anch’io dalle voci, dalla velocità sconclusionata delle scene nel silenzio tiepido di questa stanza; rapito e un po’ turbato dal contrasto del film con il basamento barocco della chiesa di fronte, lo stridio lieve degli autobus, e i passanti appena lì, oltre la soglia. È un film d’amore, di quelli che fanno sorridere e sognare. Gli attori sono famosi, però non li conosco. Le voci dei doppiatori invece sì, le riconosco. Nel film è estate, fuori dal vetro è inverno. In fondo a via d’Azeglio c’è Borgo Cocconi, dove è nato Guido Picelli, che fu deputato e fondò le Guardie Rosse, poi gli Arditi del Popolo. Morì in Spagna. In Borgo Cocconi abitava mia zia Ines, che mi offriva il chinato o il marsala in una piccola casa buia, mentre lo zio che aveva l’asma fumava di nascosto. Gli Arditi del Popolo non seguivano direttive di partito, il loro scopo non era fare la rivoluzione, ma conservare e difendere quella democrazia esistente. Picelli era coraggioso, dicono tutti, un vero comandante, un condottiero. Quando veniva circondato dalle squadre di fascisti (succedeva spesso), quando era oggetto di scherno e minacce, come 106

al Caffè Verdi, non perdeva la calma, tutt’al più si assicurava di avere la pistola nella giacca. Il Partito comunista lo ostacolò, i suoi Arditi non erano considerati puri, tanto meno affidabili e obbedienti. Alcuni, dice Regolo Negri, scrissero al segretario Bordiga per protestare. Cammino in un tardo pomeriggio tra i negozi accesi e le luci di Natale. La Parma Vecchia, si dice, anche se è più nuova dell’altra. La Parma popolare, antica come gli artigiani e le osterie dove si beveva il vino nelle tazze. Nel film qualcuno dice che molti modi di dire, qui, erano legati al melodramma, come quando all’osteria chiedevi con impazienza da bere: «Mi fai far la morte della Manon!» – e subito ti davano il vino. Il melodramma, dice, era il filo conduttore della città, anche per chi non aveva mai letto un libretto d’opera. Una donna parla della sua casa di allora, la cucina col camino era l’unica stanza riscaldata. Fuori c’era il pozzo, dove suo padre rinfrescava l’anguria in estate. Da via d’Azeglio – la via Emilia ovest – di fronte ai portici dell’Ospedale Vecchio che ospita ora l’Archivio di Stato (e dove nacque mio padre), supero piccoli bar e negozi e giro nello stretto imbuto che si allarga nella via Inzani. Sembra uno square parigino, circondato da case basse e irregolari, oggi tutte ben restaurate. Qui fu eretta una delle barricate, e adesso, sotto un paio di alberi, sulle panchine sostano gli immigrati, soprattutto donne: accenti rumeni, russi, slavi. Come quasi tutte le piazze dell’Oltretorrente è un porto franco di un nuovo proletariato fatto di badanti, operai, ambulanti. Le case sono belle da guardare, quando c’è la neve sono addirittura struggenti, tutte attaccate come in un presepe. Bellezza da «cartolina», verrebbe da dire. Cioè bello di quel bello addomesticato e troppo consapevole, come è destino dei vecchi quartieri. E se qualcosa di autentico ancora affiora da questi 107

luoghi, e ci parla al cuore, forse noi non ne capiamo più la lingua, che è del resto un balbettìo, così lo chiamiamo cartolina, oppure diciamo «sembra finto», come un presepe. Parole passepartout per dire un disagio, un’amnesia anestetica, come a Trastevere, come a Saint-Germain-des-Prés, come ovunque la memoria si sia omologata e venduta in serie negli espositori delle tabaccherie. È grazie agli immigrati e alle donne che qualche traccia rimane qui di selvatico e indomito che lo rende vivo. Cammino nei borghi a immaginare barricate per strada. Negozi e commerci sono mutati. C’erano molti calzolai, prima, falegnami. C’era quello che faceva le sedie, quello che cambiava i vetri alle finestre, quello che affilava i coltelli. Ora, nei cortili dove una volta pestavano l’uva con i piedi per fare il vino, si leggono targhe di palestre orientali, luoghi di salute e di bellezza, laboratori del superfluo, antiquari. In via Bixio c’è ancora qualche negozio con la stufa (però moderna), fruttivendoli, negozi più umili, di arredi da bagno, nulla di lussuoso, e da qualche anno una varietà di pizzaioli, friggitorie, negozi di kebab con solo il bancone, aperti fino a tardi. Finché anche qui mi sorprende la tripla vetrina con grande targa di un Capital Money qualsiasi, la finanza virtuale. In piazzale Rondani, che da via Bixio immette sul Lungoparma, su un altro piazzale erboso ornato di alberi, di fianco al liceo classico, da qualche anno c’è un monumento-memoriale alle Barricate: grandi lastre di pietra racchiuse in una cornice di legno spessa come tronchi. Tagliate in modo irregolare, mostrano già le tracce rugginose del tempo. In un italiano che sembra tradotto dal dialetto, si leggono i versi di Attilio Bertolucci incisi sulla pietra: «Si erano vestiti dalla festa / per una vittoria impossibile / nel corso fangoso della Storia. / Stavano di vedetta armati / con vecchi fucili novantuno / a 108

difesa della libertà conquistata / da loro per la piccola patria / tenendosi svegli nelle notti afose / dell’agosto con i cori / della nostra musica / con il vino fosco / della nostra terra. / Vincenti per qualche giorno / vincenti per tutta la vita». Si erano vestiti dalla festa... Dietro la lastra di pietra si ricorda che l’unica resistenza che Italo Balbo avesse incontrato nella sua marcia fu quella di Parma. E che, da quell’agosto del 1922, si trasmise da qui una «nuova memoria storica», che attraversò il fascismo e arrivò fino a noi. La celebre frase che apparve sui muri delle case che costeggiano il torrente, e che mio padre mi raccontò da bambino («Balbo, hai attraversato l’Atlantico, ma non hai passato la Parma!»), è tra i vettori epici di questa trasmissione. Per me era tutt’uno con la piazza Garibaldi, gremita di anziani al sabato e alla domenica mattina. Com’era festosa in estate, quando sotto i tavolini sgusciavo tra i piedi dei clienti a raccogliere i tappi rossi e bianchi dei Campari! C’era una volta la memoria. Ora i vecchi col cappello e il giornale sotto il braccio non ci sono più, sloggiati da tempo nelle periferie, sparsi in una miriade di solitudini. Sfrattati anche dai monumenti, i cui gradini preferiscono vasi di geranio o di petunie. La memoria, dalla grana viva delle voci, si è trasferita in quel quadrato bidimensionale appeso al soffitto della pizzeria al taglio, dove stiamo a guardarlo col naso all’in su, ascoltando le voci che sembrano doppiate anche quando non lo sono. Lo guardiamo perché è comunque un racconto – io, la signora grassa, sua figlia, e un immigrato nordafricano che entra ed esce. L’unico racconto che abbiamo e ci contiene. Lo guardiamo perché comunque c’è caldo, e ci piace ascoltare delle voci. Ci consola, aspettando che passi il tempo, che passi anche quell’ultimo autobus che ci porta via, via anche dall’Oltretorrente. 109

Il pasto nudo

Mi è venuta in mente la definizione di Pasto nudo, quello di William Burroughs, quell’attimo gelato di pausa del senso, quando la mano che tiene la forchetta, dice, resta sospesa a mezz’aria; quando senti anche il gemito del boccone infilzato, quando il tempo si ferma, ogni secondo, ogni respiro. Eravamo a tavola, il bambino si alzava per giocare coi suoi mostri di gomma, lei e io un ultimo sorso di vino, e pane di sesamo, e canzoni di David Bowie nel piccolo stereo in cucina. Ecco, questa tranquillità ordinaria, disarmata, lo scorrere del tempo e dei gesti, la casa, la musica, tutta questa vulnerabilità nella mia visione veniva infranta in un baleno. È il proprio della suspense richiamare le immagini della vita inerme (della vita «buona»), e per esempio Stephen King è maestro indiscusso di queste rappresentazioni dell’ovvio, quasi in tempo reale, che indugiano sulla vita quotidiana per farci meglio attendere, con spavento, l’insorgere del male. Ma l’orrore cui mi riferisco è un altro, e non ha niente di soprannaturale. «Ashes to ashes, funk to funky», cantava David Bowie, «cenere alla cenere, paura alla paura». Quello a cui pensavo io, e credo anche Bowie, è semplicemente la guerra.

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Alcuni anni fa, dalla finestra di un hotel, richiamato dal frastuono assordante, vidi nel cielo del Medio Oriente un volteggiare di aerei da guerra, triangoli neri e sottili, aggressivi e temibili già nella forma, pura potenza espressiva della grande tecnologia occidentale. Era un’esibizione «innocua», eppure non potei trattenermi dallo scoppiare a piangere, pensando a chi, oltre alle forme e al rumore, subisce gli effetti a cui quegli aerei sono finalizzati. Le bombe, gettate a velocità pazzesca. Si tratta solo di un ricordo, che non equivale ancora a una memoria. La memoria è quella delle nostre madri e dei nostri padri (o dei nostri nonni) che riferiscono di quel sibilo sottile che cinquant’anni fa anche sotto il nostro cielo preludeva allo scoppio e al rimbombo. Non sempre risuonava una sirena. Credo che la realtà sia cambiata, che non ci sia più quell’intervallo percettivo nelle moderne «armi di distruzione di massa». Che, grazie alla tecnologia del paese più potente del mondo, la sincronia sia ormai perfetta tra la paura, il rumore, la distruzione, l’estinzione di sé e degli altri. Che la realtà intera sia, per chi lo sa sentire, un «pasto nudo». «Ashes to ashes, funk to funky», «Sappiamo che il Maggiore Tom / è un tossico / confinato nell’alto dei cieli / raggiunge una depressione senza fine [...] Un lampo di luce / ma nessuna pistola fumante...». Le conversazioni hanno questo di rassicurante, che la loro catena di parole ricuce, come i racconti, le apparenze disperse, i pezzi di mente, le impressioni. Così, bevendo il caffè, ho parlato della mia visione (il bambino ora giocava al computer, imparava a scrivere, a lasciare tracce), ho ricordato quegli aerei di morte, e che le canzoni di Bowie hanno qualcosa di terribile e insieme consolante, come la sua musica in crescendo, che si apre e si espande. Poi io o lei abbiamo detto quella frase dei Velvet che ripeté Wim Wenders, «la mia 111

vita fu salvata dal rock’n’roll». Forse perché il rock è già così spezzato, e le sue parole nascono già rotte, e per questo vere; ma oggi mi è difficile pensare a frasi più lunghe, come un articolo o una riflessione. «Mia madre mi diceva / di portare a termine le cose. / Meglio che non perdi tempo / con il Maggiore Tom» (o il Generale Bush).

La polvere di Samarcanda

a Giorgio Messori

Bisognerebbe prima di tutto dire lo spazio. Uno spazio aperto e immenso, sfinito, che sotto il cielo dell’Asia si alterna a luoghi fitti e popolosi come i mercati delle spezie. Dove, dietro tele di juta che contengono polveri e semi dai colori sgargianti, e tra i banchi intorno, ci si confronta con la vivezza di occhi e volti uzbechi, tagichi, kirghisi, mongoli, coreani (deportati qui da Stalin), tartari, armeni, russi, e l’elenco potrebbe continuare. Spazi sfiniti di coltivazioni di cotone (eredità dei piani quinquennali sovietici) che tra un villaggio e l’altro brillano al sole, e altri più recenti di frumento e alberi da frutta, in prossimità delle steppe. Viali a sei corsie e piazze tutte uguali a Tashkent, la capitale, verde di alberi e parchi, dove i palazzoni arabescati e color pastello, tutti posteriori al terremoto del 1966, sembrano disposti dai gesti casuali di un bambino che gioca col Lego; e dove è possibile immaginare qualsiasi sviluppo urbanistico. Più ancora che nei villaggi e nei bazaar, è guardando i passanti e le automobili sullo sfondo urbano incompiuto di certi palazzi della capitale – al tramonto, nel

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vasto cielo d’oro e rosa sono addirittura struggenti – che viene in mente Pier Paolo Pasolini, e una certa Roma dolciastra e corrotta in cui fatiscenza e ricostruzione erano già mischiate, che per lui era già oggetto di rimpianto. Ma pensando alla vita delle mahalla, i quartieri senza tempo che sorgono dietro ogni palazzo – case basse e lunghe con giardini nascosti che albergano insieme capre e mucche in piena città –, si capisce che non è affatto perduta, sulla scala del mondo, quella vita preindustriale che Pasolini scelse di amare. Bisognerebbe poi dire la polvere, quella prodotta dal tempo e dal vento, ma anche dalle distruzioni efferate di orde di conquistatori misteriosi, che ha qui ricoperto civiltà antiche e maestose che furono (e sono) teatro di grandi religioni: Buddha, Zoroastro, culti preislamici presenti nella Sogdiana (come a Buchara lo splendido e sobrio mausoleo del IX secolo di Ismail Samani, fondatore della dinastia dei Samanidi). E il sufismo, l’antica mistica dell’Islam perseguitata dalla sua stessa religione, che nel santuario intorno al mausoleo di Bakhtaudin Naqsband (via di mezzo tra un san Francesco e un Gandhi islamico del Trecento) fu ed è tuttora sede dei Naqshabandi, santa confraternita sufi in cui il Kgb non riuscì mai a infiltrare una spia. Sono stato in Uzbekistan, ex Urss, ospite del mio amico Giorgio Messori. Aveva lasciato l’Europa e viveva lì da qualche anno a insegnare italiano. Insieme a me ospitava Daniele Benati, e dovevamo entrambi fare un seminario sulla cultura italiana del Novecento per i suoi studenti: lui sulla storia della canzone, io sul cinema e la letteratura. Alla fine del ciclo di lezioni ci mettemmo in viaggio tutti insieme, con un giovane autista russo e una Fiat 128. Non è facile da raccontare, e comincio da una parola: Samarcanda. 114

La cosa più stupefacente è che esiste davvero. Le parole, i nomi soprattutto, sono vettori dell’immaginario: l’emozione di vedere parole incarnarsi in luoghi – Buchara, Samarcanda, e tutto quel paese, parte dell’antico Turkestan, confinante con un ventaglio di altri paesi che finiscono tutti con stan. Forse l’apice dello straniamento fu partecipare all’inaugurazione di una mostra di fotografie di Luigi Ghirri in una chiesa russa sconsacrata, ora museo, e prendere parte al rito dei discorsi, con stacchi di violini e traduzione simultanea in russo. E immaginare la meraviglia di Ghirri di mostrare le sue immagini incantate dell’Italia proprio qui, a Samarcanda. Anche se Samarcanda è il nome e il simbolo di un unico brillante pulviscolo che cerco di evocare, è Buchara la città esteticamente più bella, dove accanto allo splendore dei lapislazzuli sfilano case incolori e povere come nidi di uccelli, di paglia e fango. L’alternarsi di spazio e polvere, compresa l’idea abbacinante dell’oasi, è nell’alternarsi dei deserti alle elaborate moschee e madrasse, piastrellate d’azzurro in un mondo ocra. A Buchara il viaggiatore ha l’impressione di trovarsi all’improvviso – soprattutto la notte, quando i banchi e le mercanzie dei commerci si dissolvono e tacciono – in una città cubista, o nel sogno di un architetto influenzato da De Chirico. La polvere e lo spazio hanno questo in comune, l’assenza di contorni. Penso alle icone dei morti nel cimitero di Samarcanda – quello ordinario, non quello monumentale. È posto su una collina coperta di prati e alberi bassi, e agli occhi del visitatore spiccano immagini che sembrano sìndoni che brillano al sole. Come foto sgranate, esse fanno vedere e non vedere allo stesso tempo, sottraggono e restituiscono insieme i defunti all’anonimato e all’oltremondo. Sono la vera definizione di 115

cosa sia un volto, agli antipodi delle pretese del ritratto: qualcosa di fantasmatico, ectoplasmico, imprendibile. Che ci riguarda. Quelle vaste sìndoni dunque che si scorgono da lontano inerpicandosi tra le tombe di quella islamica Spoon River, man mano che ci si avvicina sembrano e sono non delle foto, ma disegni in bianco e nero. Manca però una linea scura, il tratteggio di un contorno. E intanto pensi: è una pretesa dell’infanzia quella di circoscrivere le cose con un contorno? Qui siamo nel regno dello sfumato, e per parlarne occorre accettare che il proprio racconto sia privo di cornici. Durante quella passeggiata tra volti in bianco e nero ebbi la sensazione che spesso hanno i viaggiatori: illudersi della propria vita, e del presente. Proprio come scrivere. Ci accompagnava un rumore d’acqua zampillante quando ci sedemmo al riparo di un aiwan, capanna a forma di ottaedro con i sedili intorno, in mezzo al cimitero. L’ottaedro porta fortuna, disse uno di noi. E la parola fortuna ci fece tutti ridere. Fu nel tratto in auto da Samarcanda a Buchara che provai la sensazione più forte, una vertigine profonda e duratura. Un impasto, o sinestesia, tra il paesaggio asiatico e la nostra incongrua musica italiana. Daniele, che aveva portato in macchina tutte le cassette del suo seminario – da Carosone a Tenco, da Rino Gaetano a Guccini –, nella prima parte del viaggio era stato già abbastanza spaesante col suo canticchiare assurdo e ossessivo l’Avvelenata di Guccini, di fronte ai minareti e alle madrasse. Fu l’italica apoteosi al mangianastri del mix Pavarotti-Zucchero-Giuseppe Verdi a rendere definitivamente delirante la successione di campi di cotone e steppe sotto il cielo dell’Asia: Va’ pensiero come una grande giostra trascinante (quelle coi seggiolini appesi dette calcinculo) dal ritmo sempre più veloce, lo stomaco che galleggiava 116

in una musica da parata via via più enfatica e solenne, commovente come le bande delle processioni con i musicisti in divisa e berretto che passano al sole. Una giostra in cui ogni sequenza della memoria e dell’immaginazione se ne andava in pezzi sparpagliandosi da tutte le parti; e dove cercare di ricomporre un ordine era altrettanto nauseante e impossibile che cercare di risolvere un problema di geometria in un incubo da febbre. Chi ero io e dov’ero, per esempio; e magari perché. Cullata dal mal d’auto pomeridiano, risultava inspiegabile anche la questione più futile di cosa c’entrassero Zucchero, Pavarotti e Verdi con l’antica Via della Seta e le pianure dell’Asia centrale. Del mondo esterno ricordo i bambini, nugoli di bambini colorati, costantemente desiderosi di mettersi in posa per una foto. Ricordo la minuscola sinagoga di Buchara, cui mi accompagnarono alcuni di quei bambini fieri di mostrarmela, perché era antica e rara come una ciotola di terracotta in un museo di pietre preziose. Ricordo lo zoologo col cappellino a visiera di un’università del Texas, specializzato in «topi del deserto»: nel pubblicizzato zoo-safari a cielo aperto nel deserto vicino a Samarcanda, era l’unico animale rimasto, di cui lo studioso ci spiegò con entusiasmo vita e abitudini domestiche, indicando buchi e gibbosità del suolo. I topi del deserto abitano come gli umani, disse, e forse meglio: ogni buco è una stanza con una funzione diversa. Quanto alle altre specie che avevano popolato quel luogo, purtroppo erano tutti morti, disse laconicamente la guida. Infine dell’Uzbekistan mi ricordo i vecchi. C’erano, appartati dalla folla a Samarcanda il giorno della visita del presidente iraniano Khatami, quattro vecchi che bevevano il tè seduti su uno di quei tavoli sopraelevati col tap117

peto. Si chiamano khantakhtà («letto del khan»), e ci si sta a chiacchierare e, appunto, a sorseggiare tè a gambe incrociate, dopo aver lasciato a terra le scarpe. Ci siamo uniti a loro, e qualcuno di noi non so perché chiese loro se bevessero la vodka (la presenza della vodka su ogni desco era immancabile, e anche nell’aria, poiché non c’è luogo in cui una fabbrica di vodka non lavori a pieno ritmo). Ora che ci penso, la sera prima avevamo preso una bella sbronza, alcuni più di altri, e la si doveva ancora smaltire. Dissero che sì, certo, bevevano la vodka, non adesso ma in generale. Però non avevano mai fumato, dissero guardando le nostre sigarette. Parlavano tagiko. Ognuno di loro portava al petto medaglie guadagnate in guerra contro i tedeschi, e stemmi con la falce e martello sui risvolti delle giacche. Anche mio padre, dissi, ha combattuto contro i nazifascisti in Italia. Uno di loro aveva insegnato letteratura. Gli altri due erano autisti. Quello che insegnava letteratura vide il Reichstag in fiamme durante l’occupazione di Berlino. Alla domanda se pregassero (non ricordo chi di noi l’avesse posta) tutti annuirono calorosamente. La passeggiata al cimitero di Samarcanda, che segnava il punto mediano del nostro viaggio, cominciò in una giornata speciale. Quel giorno sarebbe passato il presidente uzbeko Karimov col suo omologo iraniano Khatami in visita alle illustri tombe. Sotto un cielo da cartolina technicolor – le strade sgombrate e pulite, solo poliziotti in divisa verde o grigia sparsi qua e là – aspettammo il corteo presidenziale che sfilò con veloci Mercedes nere. Ci voleva una specie di coprifuoco, e quindi lo svuotamento delle strade e una pedonalizzazione forzata (ma vi erano strade proibite anche ai pedoni), perché potessi finalmente perdermi nonostante la facilità del cammino, o perlomeno sentirmi abbastanza perduto da scrivere 118

sul taccuino: «Dicono che anche il tempo qui lo facciano artificiale: oggi che arriva Karimov c’è il sole, dopo giorni di acquazzoni. Sparano alle nuvole con gli aerei affinché il cielo diventi sereno. Sotto le poche nuvole superstiti e impassibili, la situazione è da sagra paesana o da corsa ciclistica. In tutti i casi, che passi o non passi il dittatore, è come se oggi fossero davvero riusciti ad arrestare il tempo. Una giornata da tempo fermo. Anche il cielo sembra di vederlo per la prima volta. La luce ha il nitore della primavera che segue la pioggia, azzurro come i mosaici del Registan che brillano rivaleggiando con gli abiti della gente, e con una corriera dai colori della Coca Cola che parcheggia smarrita lungo questa passeggiata da festa. Niente mercati, solo gesti e passi gratuiti, nell’odore finalmente spento della fabbrica di vodka. Guardo le cupole azzurre delle madrasse, le colonne e le pareti arabescate del palazzo, nel via vai dei volti che mi sfilano intorno, tra i rami dei salici e dei castagni. Ci sono molti vecchi, con piccole barbe e copricapi, lunghi chapan grigio-azzurri nonostante il sole del mattino. La beatitudine è tale che, quando mi siedo a guardare l’aria e i colori, ho perso anche gli amici con cui stavo camminando...». Dopo alcune settimane in Uzbekistan non potei dire di saperne molto di più di quando ero arrivato. La conoscenza di quel paese in transizione si sgretola costantemente nella mente del viaggiatore occidentale, che si aggrappa ai reperti del passato, a quello che il paese non è più o che non è ancora. Se dappertutto le statue di Lenin e Marx sono state sostituite da quelle di Tamerlano (che figura anche sui pacchetti di sigarette), gli uomini al potere sono gli stessi che la governavano in epoca sovietica, senza che le loro attitudini né l’economia del paese siano mutate. Gli insegnanti di Storia, 119

come già un tempo, si sono riciclati in apologeti dell’identità nazionale di un paese che esiste solo sulla carta, e il loro disinvolto revisionismo cozza con una disseminazione delle etnie e delle razze che non ha storicamente confini né paletti, riconoscendosi in una vasta popolazione turca e/o mongola divisa in khanati, e che in Amir Timur (il feroce Tamerlano, l’erede di Gengis Khan) ha trovato la propria icona postuma. Si potevano forse scegliere eroi meno aggressivi, che nella storia del Turkestan asiatico non mancano: ibn Sina (Avicenna), filosofo e medico; Ulugbek, astronomo nipote di Tamerlano, protettore delle arti; i poeti Navoi, o Firdausi e Rudaki, che corrispondono grosso modo ai nostri Dante e Shakespeare. Ovunque, oltre a Timur, domina il faccione sorridente del presidente (ex segretario «locale» del Pcus) troneggiante agli incroci delle strade. E che, in quell’epoca di campagna elettorale permanente dell’Italia, era per noi un déjà vu che ci faceva sentire inquietantemente a casa. Nel ciclo di lezioni sull’Italia contemporanea qualcosa aveva fatto capolino: ma è difficile parlare di crisi della democrazia a studenti che non sanno cosa sia. Meglio lasciare da parte la politica, che qui non porta attualmente da nessuna parte, e in me alimenta confusione. Politica è polvere senza contorni, forse addirittura senza carne. Anche la Storia è polvere. Cosa resta? Resta la sensazione che la visione sovietica del mondo sia ancora ampiamente da esplorare. Tanti qui rimpiangono il comunismo, anche per il suo modo di sciogliere e diluire identità e appartenenze. E resta, ancora una volta, l’esperienza dello spazio. Se l’Est, attraverso la valle di Fergana, diventa gradualmente Cina, cioè Xinjiang, l’Ovest, dopo il Korezem (Corasmia), attraverso i deserti Kyzylkum (sabbie rosse) e Karakum (sabbie nere), che introducono alla 120

regione del Karakalpakistan, mostra la desertificazione del lago d’Aral, una delle più tremende catastrofi ecologiche, voluta dai sovietici per imporre le coltivazioni di cotone. Tra navi che galleggiano nella sabbia, in un territorio infestato dalle sostanze tossiche del vecchio centro di ricerche per la guerra batteriologica al centro del lago, si arriva alla città di Nukus, sede di un museo che raccoglie la più importante collezione di arte contemporanea sovietica a partire dalle avanguardie degli anni Venti. Simbolica cattedrale nel deserto, questa collezione, messa insieme dal pittore Igor Savitsky, è simbolo di una sopravvivenza, testimonianza della solitudine e di una resistenza culturale in quella metamorfosi che dagli anni Sessanta, col piano di Chrusˇcˇëv per le «terre vergini», ha irrimediabilmente devastato il paesaggio deviandone i fiumi. Nei giorni trascorsi nella capitale a insegnare ai giovani e meno giovani studenti, il momento culminante fu guardare il film Il Sorpasso di Dino Risi, e scoprire in quella tragedia al rallentatore, quasi spensierata, non solo il passato di un presente, ma un possibile futuro. Scoprire che il «sorpasso» – che ha così poca enfasi nelle strade dissestate dell’Uzbekistan, tranne quando l’irrespirabile tubo di scappamento di un vecchio camion a nafta lo rende necessario – è la svolta imminente, il mondo possibile per quegli occhi che brillavano d’attenzione nella piccola aula dell’«Università delle Lingue e della Diplomazia». Ma come dire loro che dopo il sorpasso (che è sempre, in fondo, quello di se stessi) c’è il precipizio o la deriva? Solo Giorgio Messori, per anni osservatore umile sotto la luna dell’Asia centrale, ha detto qualcosa di sensato su questo paese. Autore di un libro intitolato Nella città del pane e dei postini – un’Eneide senza rifondazione né gloria, anche se 121

non è chiaro se le macerie lasciate alle spalle siano quelle dell’Europa, dell’Asia o di entrambe –, Giorgio avrebbe risposto di sicuro anche a questa domanda: perché quando descriviamo un luogo, e specialmente quelli a noi più distanti, parliamo sempre di noi stessi? Oggi, da un altro deserto all’altra parte del globo, lo sconfinato pulviscolo del Texas, riverberano fino a me che sto scrivendo in questo momento le parole di un altro scrittore che amo, Joe Lansdale: «carne e polvere finiscono per rivelarsi la stessa cosa».

Danza nel mare

Non avevamo nessuna lingua in comune. Lei stava da sola dietro una porta sulla strada, due stanze in penombra. Guardavamo la televisione sul divano, indifferenti entrambi all’orologio. Era pomeriggio, sentì che ero triste e volle darmi piacere. Mi prese nella bocca dolcemente, come qualcuno che regala un sorriso. Più tardi, sul letto, mi addormentai dentro di lei arreso e svuotato, contenuto, contento. Era bellissima. Non usciva mai. La sua vita era imprigionata in quelle stanze. Non aveva nessun documento di identità. La sorvegliavano. Era senza nulla, senza tempo. Pensai di regalarle il mare. Era già questo un’avventura e una sfida. Mi aspettò con l’asciugamano piegato nella borsetta. Una volta in spiaggia, tra la gente, davanti al mare mosso che abbagliava, la sua felicità fu così vera e intensa da farmi star male. Mi supplicò di entrare nell’acqua con lei. Mi tirò, mi spinse, mi piantò un’unghia nel dorso della mano, ferendomi senza volere. Almeno non scappai. Restai vestito a guardarla. Si spogliò. Indossava un costume tutto sbagliato sul corpo perfetto, lo slip verde e il reggipetto rosa. Saltellò timidamente sulle prime onde della riva prima di entrare. Poi fece la ruota nell’acqua.

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Nel mare diventò pezzo di natura, al di là della bellezza. La sua gioia così vera era tutt’uno con la sua, la nostra, disperazione. Nuotava per me, si buttava nelle onde come i bambini che vogliono essere guardati e amati dagli adulti. Rivedo dopo anni la danza nel mare della giovane puttana russa, quell’estate a V.: che cade e si rialza tra le onde e gli spruzzi, ride girando vorticosamente su se stessa. Tristezza e felicità fuse insieme, come un sorriso quando si piange. Uscì dall’acqua tremando, l’aiutai ad asciugarsi, la riportai a casa. Lungo la strada non smise di stringermi e ringraziarmi. Aveva paura che qualcuno la cercasse, o che ci vedesse fuori, insieme. La salutai davanti alla sua porta con un bacio. L’odore del mare. Non la vidi più. Non ho mai capito se sia possibile salvare gli altri. Ho pensato spesso che avrei dovuto aiutarla, provarci almeno, correre dei rischi. Più tardi ho pensato che avrei dovuto scrivere di lei. Non l’ho mai fatto.

Uomini e topi

Calpesto terra scura e umida e nere braci. I miei occhi toccano stoffe, utensili, pentole con dentro resti di cibo, pezzi di legno e di ferro non identificabili, e il vuoto carbonizzato dove prima c’era una baracca di legno, plastica, cartone. Vi abitavano una madre e il suo bambino di tre anni, Dorina e Kristinel, bruciati vivi mentre cercavano di scaldarsi accendendo il fuoco in un recipiente di metallo, come fanno tutti. I poveri sono pericolosi, sì, ma solo a se stessi. Nel labirinto di sentieri del sottobosco mi hanno guidato qui tre gentili carabinieri. Solo pochi chilometri di questo stesso intrico di pini e lecci ci separa dalla tenuta del presidente della Repubblica. Ho il permesso di varcare il nastro che delimita la tragedia. Guardo, in un luogo dove si dovrebbe ormai solo pregare, le baracche attigue superstiti. Un luogo che non è in un altro mondo, ma negli interstizi del nostro. Arrivati alla rotonda di Ostia, di fronte al mare e alla luce, si gira a sinistra sulla litoranea che porta alle spiagge tra le dune, costeggiando a sinistra la pineta di Castelfusano. Dopo appena un chilometro, di fronte allo stabilimento Mariposa, con parcheggio e campo da tennis che arriva alla strada, un buco nella rete che cinge la pineta segnala il pas-

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saggio che conduce a uno degli insediamenti nascosti dei più poveri tra i poveri. «Extracomunitari»: la formula è giusta se non si riferisce a coordinate geografiche, ma economiche ed esistenziali: la comunità è dei ricchi, i consumatori; gli «extra», gli esclusi, sono i poveri, rom o rumeni che siano. C’è freddo nel bosco, alle due del pomeriggio. Il sentiero scosceso si ferma in un anfratto piatto protetto dagli alberi, perennemente in ombra. Una batteria Bosch, un pentolino senza manici, alcuni piatti di plastica sparsi, vasetti di fiori rovesciati, uno specchio semicoperto di terra, tappetini di auto. Man mano che mi avvicino ai resti carbonizzati: una padella con rimasugli di cibo color zucca, un tavolino e una sedia di plastica bianchi, pezzi di motore di scooter. Tra i resti freddi del fuoco, neri e grigi, l’incongrua nota di colore di un lembo dell’inconfondibile tela verdazzurra per trasportare i morti, impigliato a un rovo. Ho i piedi gelati, è naturale volersi scaldare, qui. Ma sono gelato dentro. Cammino tra vetri rotti, carcasse di ferro, sedie di vimini rovesciate sugli aghi di pino. A pochi metri la «casa» della vicina, Veronica, 35 anni, che aveva cercato di soccorrere Dorina. Mi affaccio: un materasso annerito, coperte, poco spazio per altro. Altro che consiste in un mobiletto bianco con su una pentola ancora piena di carne e sugo rappreso, un tavolinetto basso con sopra un tubetto di crema Nivea, un pacchetto di tè, fazzolettini di carta. Per terra una bottiglia d’aranciata e un bicchiere di plastica. Percorro il sentiero verso l’alto, una a una scorgo altre baracche, come quella di Lorenzo. Di fianco all’entrata, una stanza da bagno all’aperto, a suo modo molto ordinata: uno specchio tondo appeso a un ramo, un altro rettangolare incollato alla fragile parete, un pettine. Per terra, scarpe allineate e una collezione di saponi. In ogni baracca c’è una bat126

teria da automobile per alimentare corrente. Salgo ancora, tra i pini una baracca che prima non vedevo. Anche qui lo spazio è occupato dal materasso, un tavolino di plastica è la cucina, accanto alla pentola un vecchio minuscolo televisore. All’ingresso un calendario cinese 2007 con disegni di animali, tappeti scoloriti. Nella rudimentale veranda, pattumiere di plastica e una scatola da scarpe che contiene bucce di patate, su un ripiano mezzo peperone e gambi di sedano in una vaschetta. Una bicicletta appoggiata a un albero, protetta da un telo verde. Sulle pareti esterne, rivestite di cartone da trasloco ancora con lo scotch, un foglio con un elenco di otto nomi, Tabel Benzina, un minicensimento interno. Torno indietro, riconosco lo scheletro di una baracca in costruzione. L’appuntato Muzi mi riaccompagna. Emergo dal bosco e respiro guardando il cielo albicocca sul mare. Ci sono tanti insediamenti di baracche come queste nella pineta. A uno di essi si arriva dall’ingresso della riserva naturale sulla Colombo, di fronte alla via della Villa di Plinio. Dall’elicottero si vedono bene, nell’intrico di alberi è quasi impossibile. Ma non chiamateli baraccopoli, tanto meno favelas: quelle sono luoghi con una dignità alla luce del sole, qui sono nascoste. Tra la litoranea e gli stabilimenti faccio una nuova scoperta, una sorta di luogo d’appoggio logistico degli invisibili: oggetti, materassi, nascosti dalla macchia e dai pini. Senza vederle, dai fruscii tra i rami ci si accorge di presenze, come se invece che uomini si trattasse di topi. Vivono tra gli interstizi delle nostre case, dei nostri luoghi di svago. Come forse in nessun altro luogo in Europa, qui ci sono uomini che vivono come topi. Poveri. Cioè extracomunitari.

«Come se venissimo scacciati nei boschi»

Vorrei cominciare da una passeggiata. Domenica 15 giugno 1986 sono uscito di casa dopo mezzogiorno. L’idea era di sedermi a leggere da qualche parte, e magari mangiare qualcosa. Sulla strada ho comprato il «Corriere della Sera», avevo con me un quaderno e il libro di appunti di Walter Benjamin su Parigi. Devo fare in questi giorni un programma di ricerca per sollecitare un nuovo credito in forma di borsa di studio, consacrato come quello precedente alla letteratura intima ed epistolare, in particolare di alcuni autori romantici. Ho pensato che leggere gli appunti di Benjamin sulla flânerie mi avrebbe dato delle idee: anche la lettera è un vagabondaggio. Ho scartato l’Île Rousseau, dove ho spesso studiato, perché il bar è troppo caro e di domenica troppo affollato. Ho pensato alla vieille ville, col sole e gli alberi. Del Café Papon, nella terrazza che si affaccia sul parco dell’università, ho il ricordo di un buon posto dove leggere il giornale. Ma hanno cambiato l’arredo, e quando arrivo trovo dei tavoli grandi e inospitali, buoni per mangiare la pizza in comitiva (l’accento dominante tra i clienti è americano). Giro intorno al bar indeciso, quando accanto a un albero scorgo un piccione morto, forse decapitato, con del sangue raggrumato

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intorno. Mi esce una breve esclamazione di disgusto, più che altro rivolta all’inconsapevole indifferenza dei clienti sudati che mangiano lì vicino, e del personale di servizio. Alla fine scelgo di sedermi a un tavolo vicino all’entrata del ristorante, all’ombra e lontano dal piccione. Appena mi siedo faccio uno starnuto, mi guardo intorno per ordinare qualcosa e sul muro di fianco, a un palmo dalla mia testa, vedo un buco tra i mattoni nel quale galleggiano su delle ragnatele, in un disordine amorfo, vari detriti, tra cui un chewing gum masticato. Questa visione mi fa più schifo della precedente, perché non è possibile alcuna redenzione, e brontolando mi alzo seguito dallo sguardo di una coppia. Inizio così una peregrinazione sotto il sole, il libro voluminoso di Benjamin in mano, da un bistrot all’altro, ogni volta respinto da una minaccia diversa. L’ultimo posto puzzava di fonduta al formaggio. Eppure, penso, l’aria è bella e pulita, il cielo è azzurro e bianco, c’è il sole e ho voglia di sedermi a leggere. Mi fermo sulla Terrazza Agrippa d’Aubigné, dopo aver percorso la rue Calvin e costeggiato la cattedrale. Da una fenditura tra gli edifici guardo il lago, il getto d’acqua bianca e spumeggiante che spunta sopra i tetti, le onde e le barche a vela. Le case intorno sono sobrie e color crema, dalle finestre intravvedo qualche interno e mi viene voglia di trovarmi a Parigi, così, per vedere delle case. Del lago, in fondo, non mi importa più di tanto. Così mi accorgo, accendendomi una sigaretta, di non avere nessuna premura, e appoggiandomi al muretto decido di sfogliare il mio giornale. È morto Borges. Allora vado a pagina tre, che è tutta consacrata a questo evento. Il primo articolo che appare è di Claudio Magris, La letteratura non salva la vita. Spesso mi sono riferito a dei libri. Le letture fanno parte della mia sfera di esperienza a pari titolo (forse addirittura a 129

maggior titolo, mi rimproverava un’amica) di altri miei atti o stati del mondo. Non solo le letture: voglio dire i libri, anche quelli non letti. Di conseguenza anche i loro autori. Sono sempre stato piuttosto sicuro nel riferire frasi tratte da libri, enunciazioni che potessero sostenere le mie idee (dunque mi capitava di avere delle idee da sostenere). Ad esempio citavo Gilles Deleuze, più spesso senza nominarlo: letteratura minore, letteratura di idee, movimenti, macchine astratte, esilio, stare sempre nel mezzo come l’erba, visagéité (voltità), muro bianco e buchi neri, l’ape e l’orchidea, essere stranieri nella propria lingua (cercare di esserlo), linee di fuga, concatenamenti, divenire sempre, non diventare mai, metamorfosi vs metafora, ecc. Naturalmente altri concetti e parole chiave si sono aggiunti alla lista: opacità (contro la trasparenza), racconto breve, soggettività, narrare vs romanzo, diluendosi in un territorio così vasto che la libertà mi è sembrata alla fine totale, e ogni morale provvisoria, un po’ come quella frase di Giorgio Manganelli che un mio amico ama citare, «le vie della salvezza letteraria sono infinite»; e che mi potrebbe anche far comodo, se non fosse che, della salvezza letteraria, non mi importa assolutamente nulla. La provvisorietà della morale letteraria (che non comporta la rinuncia a un’etica) ha preso per me questa forma, di volere situare quello che scrivo in un luogo o in direzione di un luogo. Non mi interessano soltanto le coordinate, per così dire, geopoetiche di quello che scrivo o che leggo, ma vorrei riportare nella scrittura l’effettualità e la coscienza aurorale che si trovano nell’esperienza quotidiana e nell’esperienza dello spazio. Per questo forse faccio fatica, oggi, a dire la mia sul narrare, o sul racconto, come se fosse possibile enunciare qualcosa che non sia in sé narrazione, come se si potesse dare una riflessione che già non si racconti, e viceversa. 130

In questo mio desiderio di reportage (si tratta in fondo di questo) c’è un tema che mi sta particolarmente a cuore. Parlo dell’abitare. Sono stupito dell’abitabilità. Più ancora del mistero della luce, il fatto di abitare da qualche parte, che la gente abiti qui o là e che spesso affronti il problema della casa con quieta sicumera, mi turba e mi affascina: che si tratti degli invisibili abitatori di quelle ville allineate sul lago, tra Ginevra e Losanna, immersi nella nebbia sei mesi all’anno, o dei pescatori di tonno dell’isola di Lampedusa. Forse perché mi sembra questa la finzione più grande, la più misteriosa – abitare una casa, un luogo, un genere, una forma, avere delle abitudini, di fronte a cui le mie reazioni sono mutevoli e contraddittorie: nostalgia, identificazione, desiderio di essere come gli altri; oppure repulsione, scetticismo, cercare una via d’uscita o di fuga. Alla ricerca di un gesto, di una consuetudine, ho appreso nel cuore della città vecchia di Ginevra della morte dello scrittore Jorge Luis Borges. «Devono essere tutti fioriti gli alberi del cortile del Liceo Calvino, a Ginevra, adesso che Borges è morto, a due passi dalla scuola dove andò da ragazzo», intonava un corsivo del «Corriere». Allora mi volto, è vero, sono tutti fioriti da un pezzo. Dopo mi sono sentito più calmo. Ho letto sulla flânerie in un baretto qualsiasi, poi ho annotato sul quaderno una traccia di questo mio scritto a partire da quella «coincidenza»: scrivere sui luoghi (la scrittura deve dare delle forme per vedere il mondo; uno di quelli che oggi mi piacciono di più è James Ballard); passeggiata nella vieille ville (incidenti, piccione morto, odore di fonduta e morte di Borges – uno scrittore che ho amato – proprio nei luoghi in cui mi trovo in questo momento); questo apologo non ha una morale, e forse non è una storia, difficile è estrapolarne i nessi, ma non è la mia preoccupazione; infine, che 131

di Borges mi piace soprattutto il gusto per gli avvenimenti semplici, effettuali, eventuali, e insieme il fatto che la sua opera non è che una serie di frammenti, di testi molto brevi e sparsi, come ha detto lui stesso. Borges ha soprattutto insegnato che non c’è differenza tra pensare e raccontare, e ha introdotto una possibilità nuova, anche se evidente: fare il riassunto di una narrazione più lunga, di quel romanzo che si è troppo stanchi, o pigri, o scettici, per scriverlo e abitarlo. Esiste una bellissima storia, raccontata dai chassidìm, che mi viene ora in mente, e che mi sembra molto adatta a rilanciare un’idea etica del raccontare, oltre che a chiudere questo testo. La cito a memoria come l’ho letta tempo fa in un libro sulla mistica ebraica. C’era una volta una generazione di chassidìm che, quando dovevano assolvere un compito difficile, o prendere una decisione importante, andavano in un luogo nei boschi, accendevano il fuoco e dicevano delle preghiere, assorti nella meditazione. Un chassidìm della generazione successiva, di fronte alle stesse incombenze, andava nello stesso posto nel bosco e diceva: «Non possiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere», e questo era sufficiente. Ancora una generazione dopo, un altro chassidìm che doveva assolvere lo stesso compito, andava nel posto e diceva: «Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete preghiere, ma conosciamo il luogo dove tutto questo accadeva», e infatti bastava. Finché, in un’altra successiva generazione, dovendo affrontare lo stesso compito, il chassidìm restava seduto nel proprio castello, e diceva: «Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo 132

raccontare la storia». E infatti bastò, il suo racconto ebbe la stessa efficacia delle altre azioni. Per concludere devo aggiungere una telefonata. La sera di domenica 15 giugno mi ha telefonato un amico da Parma. È un bravo poeta, in questo periodo non compra i giornali, sta molto in casa e sta ultimando una raccolta di poesie. Mi ha letto qualche suo verso, poi mi ha annunciato che, di lì a poco, gli avrebbero tagliato il telefono. Poteva quindi indugiare più a lungo del solito. Nel corso della conversazione mi ha letto una frase di Kafka tratta da una sua lettera, non so quanto nota. Non so neanche se essa faccia parte delle coincidenze, o anche solo della storia, né se sia possibile situarla in un tempo. Ho però trovato importante trascriverla. Eccola: «Noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci colpisce duramente, come la morte di qualcuno che amavamo più di noi stessi, come se venissimo scacciati nei boschi, via da tutti gli uomini. Come la notizia di un suicidio, un libro deve essere l’ascia per il mare di ghiaccio dentro di noi».

Guidando verso Bologna sulla via di Damasco

Tutte queste parole mi sono venute in mente guardando le nuvole, e ho cominciato a scriverle bevendo la birra, per mandar giù le polpette di pollo (che poi non è che le puoi chiamare così, «polpette di pollo», alla cassa devi dire «McNuggets», e ti senti sempre un po’ stupido). Col vassoio davanti e le patatine sparpagliate ho guardato i profili delle colline dalla parte della luce morente, e le macchine che passavano intromettendosi tra me e le colline. La stessa strada in cui, l’altra mattina, abbiamo parlato del sogno. «Ho fatto un sogno stanotte.» Mio figlio, seduto dietro, si era addormentato. «Me lo racconti?» «Ero in una grande sala, come se fosse un corso di aggiornamento. C’era un professore basso e pelato, parlava in modo monotono, ha detto che avrebbe fatto vedere delle diapositive. In quel momento si è fatto buio, io avevo sonno, non avevo voglia di ascoltare e neanche di guardare, e così mi sono addormentata.» «Che bel sogno», faccio ridendo mentre metto la freccia per sorpassare, «è finito?».

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«No, scemo», ride anche lei, «al risveglio nel sogno mi accorgevo di sapere per filo e per segno tutto quello che il tizio pelato aveva detto nella conferenza: la ‘Teoria della Deriva’, si chiamava. Subito dopo ero sul letto insieme a te e ti raccontavo quella teoria...». Penso rapidamente alla notte prima, con un po’ di apprensione. Era andata bene. Dopo essere venuti insieme avevo fatto finta di dormire, continuando però a sognare e lasciando le gambe tra le sue. Avevo sentito che mi baciava il collo e le guance, poi mi ero addormentato davvero. «Dice la Teoria che il destino di ognuno è solo una deriva, come se fossimo tutti trascinati in una corrente senza senso e senza scopo che ci porta. Ci porta via. Come una deriva, appunto...» «Via da che cosa?» Mentre guido la guardo di sottecchi per un attimo. Lei mi ignora, continua a parlare. «Ero emozionata nel dirtelo, perché nel sogno (e forse nella vita) sentivo che tu potevi capire. La Teoria spiegata nel sogno diceva che, per contrastare la corrente che ci spinge alla deriva, assumiamo tutti degli atteggiamenti diversi, dei comportamenti diversi, però si tratta sempre dello stesso sforzo, quello di dirigere da qualche parte la propria esistenza. Che in fondo per tutti è la stessa cosa. C’è chi si aggrappa a una persona, chi a un’idea, o a un ideale, e quelli che sentono meno la deriva sono quelli che si ancorano saldamente alla religione...» «Mmm, e tu cosa pensi che faresti? A cosa ti aggrapperesti?» «Nella deriva?» «Sì. Però non pensarci, dimmi la prima cosa che ti viene in mente.» 135

[...] «Se devo dirti la prima cosa che mi viene in mente...» «Sì.» «Ti direi l’amore.» «Perfetto. E così siamo arrivati a san Paolo...» «Di già? Pensavo stessimo andando a Bologna...» Abbiamo riso tutt’e due. Dunque c’era – nel sogno – una conferenza, e il conferenziere spiegava come si fa ad attenuare, visto che non si può evitare, la deriva: chi si attacca a questo, chi a quello, chi a un tronco d’albero, chi a un cespuglio di more, chi a Dio e chi al McRoyal de Luxe – che è un hamburger che ho imparato dopo quello di pollo (me l’ha insegnato lei), e adesso lo chiedo ogni tanto, con aria esperta. Così, mentre ascoltavo e guidavo (mio figlio dormiva lì dietro) ho pensato: dunque siamo tutti, ma proprio tutti, nella deriva? E allora, che cos’è la deriva? I vetri si erano sbrinati, la temperatura segnava tre gradi, il che non impedisce il rischio del ghiaccio. Sorpassavo i camion con prudenza. La campagna era ancora abbagliante di neve indurita. La stagione è cambiata nel giro di due o tre giorni. E adesso, mentre scrivo ai tavolini di legno del McDonald’s, su quella stessa strada il cielo si è aperto in tanti laghi dorati, costeggiati di nuvole viola che fanno da sponde. Le montagne in fondo, i contorni sbiaditi. Quando scrivo, mi interrompo spesso per guardare il cielo. «E tu, le avevo chiesto, a cosa ti attaccheresti nella deriva?» 136

«All’amore.» «Giusto. Il che ci riporta a san Paolo.» «Dove?» [...] Cara, rivedo di domenica mattina la sequenza dell’alzarsi presto, un caffè al volo e la valigetta di mio figlio, c’è tutto?, noi che togliamo la neve dai vetri della macchina, le mani congelate, le nuvolette che escono dalla bocca. Poi partiamo. Mio figlio, lo sai, ha sempre il vomito quando deve andarsene, mal di pancia. Pensa all’aereo, alla vita che lascia, alla vita che trova, che non si incollano bene tra loro, e si vede sempre la giuntura. E poiché il Mondo è rotondo, confonde l’andata col ritorno (sembra una filastrocca). Ma la giuntura è lui stesso, la sua pancia. Così, dopo i baci, dopo che la hostess lo porta con sé e si gira per farmi un ultimo saluto con la mano, dopo che lo vedo scomparire nel corridoio a gomito che porta all’aereo, dopo che esco dalla hall vociante e lustra di luce artificiale, la luce stessa del sole mi sembra sempre un po’ polverosa. Quando mi ritrovo solo in macchina sono improvvisamente sfinito, e guido verso casa attraverso un mondo di polvere. Entro, ci sono i suoi giochi da rimettere a posto, il letto disfatto, i suoi disegni sparsi qui e là. Il suo mal di pancia è ora nella mia. Così nel primo pomeriggio vado al McDonald’s e penso a lui, mangio polpettine di pollo e patatine, e mi viene in mente san Paolo. C’è un bel sole tiepido, e il cielo è azzurro. Le montagne. Sulla tovaglia ho scritto queste parole: quelle che tu stai ora leggendo. Più tardi vado al cinema, in una multisala che hanno aperto qui vicino, sulla provinciale. Sembra l’incrocio tra un 137

aeroporto e un supermercato, e forse è un po’ tutti e due. Molta gente si aggrappa proprio a questo, nella deriva. Appena entrati si sente l’odore caldo dei popcorn. Ci si dà un po’ di arie, mentre disincantati facciamo la fila alla cassa, come se non ci importasse. Poi tutti scivoliamo nella sala, il cuore gonfio di speranze. Senza parole. Nella grande sala si fa buio e silenzio. Di fronte agli occhi di ognuno si stagliano immagini a colori. Il loro suono è forte, stereofonico. C’è un tizio, mi sembra che fosse pelato, che fa una conferenza, e nel film chi lo ascolta si addormenta. In sogno si sveglia e racconta tutto quanto agli altri personaggi, che dopo si incantano a guardare il cielo che si muove, e le colline, le montagne là in fondo, e anche la campagna e la strada scorrono sotto le nuvole come sacchetti di cellophane. Quando si sveglia davvero, il personaggio principale del film si licenzia dal lavoro e da tutto, e quando riappare (è buffo) serve le patatine in un McDonald’s. Anche questa sceneggiatura l’avevi già sognata tu? Dunque, andavamo verso Bologna, è mattino presto, e forse la strada è ancora ghiacciata. È facile scivolare, bisogna stare molto attenti. In macchina c’è caldo. Mio figlio dorme sui sedili dietro, e a un certo punto dici, toccandomi il ginocchio come una carezza: «Ho fatto un sogno, stanotte. Le vie della salvezza sono infinite».

Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri del volo IH 870

LISTA Enumerazione, elenco, inventario, catalogo, registro, ecc. (anche et caetera presuppone una lista). Lista: «foglio di carta in cui si elencano cose di materiale solido» (1327, Cecco d’Ascoli). ‘Lista civile’, ‘lista di proscrizione’, ‘lista elettorale’, ‘lista dei passeggeri’. ‘Listare a lutto’. Elenco: «lista compilata con opportuno ordine», dal greco élenchos ‘riprovazione’, ‘dimostrazione’, ‘prova confutante’, da elénchein ‘convincere d’un errore, confutare’ («lista di prove di confutazione»). Ma anche biasimare, scoprire, convincere di un torto, provare, indagare, dimostrare, sporgere accusa (Eschilo, Sofocle). Catalogo: «elenco ordinato di nomi od oggetti» (1292, B. Giamboni), dal greco katàlogos ‘enumerazione, lista’, da katalégein ‘scegliere’. Poesia ‘catalogica’ (Omero, Esiodo). Inventario, dall’antico italiano invento ‘trovato’ (1306, Iacopone), ma già presente nel tardo latino inventarium col senso di ‘lista, elenco’, per ‘trovare’ quello che c’è nel luogo, dove è stato redatto. Anche il rosario è un elenco – lista, enumerazione, catalogo e poesia, traccia e preghiera di noi parlanti e mortali. Storia di parole e di cose, parole come cose. Prove, testi-

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monianze. Trovate, enumerate, registrate. Sommerse e salvate, archiviate. Archiviare: scegliere, interpretare, conservare delle tracce – che altrimenti si cancellano. Dove comincia un archivio, dove finisce? «L’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire» (Jacques Derrida).

OGGETTI Le cose, testimonianze della vita delle persone. Gli oggetti sono tracce. Segni di una presenza. Impronte. Gli utensili, il valore d’uso delle cose. Il valore dismesso, la dismissione. Oggetti ordinari, infraordinari, quotidiani. Necessari, superflui. «Il partito preso delle cose» (F. Ponge). Più si guarda un oggetto da vicino, tanto più esso ci guarda da lontano. Le cose sono umili. La memoria degli oggetti. Quella degli abiti, che raccontano la storia – la forma – dei corpi. La sopravvivenza delle cose. La spettralità delle cose. Oggetti a volte segreti, cioè separati (secernere, separare). Sacri (sacrare, separare), che si mettono in una cripta, sottratti all’uso e allo sguardo. Le cose, gli oggetti, sono volti. Gli oggetti ci guardano come volti, perché ci riguardano.

PERSONALI Agende, agenda Snam del 1980, lettere, fogli, libretto di assegni, portafogli, materiali Snam Progetti, schedine totocalcio, astucci di pennarelli, penne, riviste, dizionario ingleseitaliano, romanzi (di Cassola, di Bevilacqua), biografia di Enzo Ferrari di Enzo Biagi, manuale di saldatura, arnesi di lavoro, cavo elettrico con spina, guanti, chiavi, cinture, occhiali, portaocchiali, ombrello pieghevole, macchine fotografi140

che, rullini, radiolina, sveglia da viaggio, tabacco per sigarette, borsellini, tazza, bicchieri, posate da viaggio, trousse da toilette di stoffa, beauty-case di plastica, pettini, spazzole, forbicine, spazzolini da denti, dentifrici, spazzolino per le unghie, shampoo, lacca per capelli, tappi per le orecchie, crema solare, deodoranti, cotton fioc, crema da barba Palmolive, rasoi, collirio, portacipria, bigodini, spray per l’alito, spray nasale, pillole, spugne, specchietti, phon, profilattici, vasetto Primizia con biancheria intima, maschere da sub, boccagli, pinne, coltellini, coltelli da sub, mute da sub, stuoie per la spiaggia, racchetta da tennis, fionda in cuoio, bambola. Gli oggetti personali sommersi, salvati, sopravvissuti, archiviati, appartenuti ai passeggeri del volo IH 870, comprendono inoltre abiti femminili e maschili (gonne, sottovesti, camicie, pantaloni, bermuda, jeans, calzini, mutande, reggiseni, canottiere, t-shirt, golf, kway, costumi da bagno), scarpe, ciabatte, sandali da uomo e da donna, borse da viaggio, valigie, borsette – di pelle, di stoffa, di plastica, di paglia. Cose personali: impronte, vita nuda. Come lavarsi, pettinarsi, vestirsi, mangiare, bere, leggere, lavorare, giocare, viaggiare. «La vita ordinaria richiede più coraggio di quella di un samurai» (Emmanuel Lévinas).

APPARTENUTI «Bagaglio» – nel glossario della Convenzione per l’unificazione di regole relative al trasporto aereo internazionale – definisce «gli oggetti personali che il passeggero porta con sé in relazione al suo viaggio. Salvo diversa specificazione, la definizione di ‘bagaglio’ comprende sia il bagaglio registrato sia quello non registrato». Gli oggetti che ci appartengono, a chi appartengono? Ap141

partenuti: segni di un’assenza. Che non servono a niente. Quello che resta. Sacri: sottratti all’uso comune. Profani: restituiti alla condizione umana. Non più uso, non più comune. Oppure: ancora più comuni. La non appartenenza rende le cose universali. Come l’anonimato dei volti, che li rende ancora più prossimi, essi – gli oggetti senza appartenenza – ci sono ancora più vicini. Il loro appello muto. La qualità elegiaca dei volti, delle cose «appartenute». Che cosa è ‘nostro’, che cosa è ‘appartenere’?

PASSEGGERI «Passeggero si riferisce a tutte le persone, ad eccezione dell’equipaggio, che vengono o possono essere trasportate in un aeromobile in virtù del biglietto aereo» (a differenza della convenzione relativa al trasporto per mare di passeggeri e dei loro bagagli, che definisce «passeggero» «qualsiasi persona trasportata su di una nave»). «‘Passenger Name Record (PNR)’ comprende tutte le informazioni sul viaggio di un passeggero, memorizzate al momento della prenotazione e della registrazione in banche dati e nel sistema di prenotazione computerizzato». I passeggeri dell’aereo Itavia, volo IH 870 da Bologna a Palermo delle ore 18 del 27 giugno 1980, orario previsto di arrivo ore 19.30 – orario effettivo di partenza ore 20.10. I passeggeri del volo Itavia Bologna-Palermo delle ore 18 del giorno prima. I passeggeri dello stesso volo Itavia BolognaPalermo delle ore 18 di due, di tre, di quattro giorni prima. I passeggeri del volo Itavia del giorno dopo, ecc. Viaggiatori. Gente che passa. Di passaggio. Siamo tutti passeggeri. Essere viventi: essere di passaggio. «Essere eterni: avere vissuto» (Max Frisch). 142

VOLO IH 870 Il folle volo (Dante, Inferno, XXVI, 125), l’alto volo (Dante, Paradiso, XV, 54 e XXV, 50). «Signore e signori, buona sera. Brevi comunicazioni sul volo dalla cabina di pilotaggio. Stiamo procedendo a una quota di 7500 metri e circa due minuti fa abbiamo lasciato l’isola di Ponza per volare in linea retta su Palermo, dove stimiamo di atterrare fra circa mezz’ora. Il tempo procedendo verso sud è in miglioramento, per cui a Palermo è previsto tempo buono. Visibilità ottima, temperatura 22 gradi. La nostra rotta: da Bologna via Firenze, Bolsena, abbiamo lasciato Roma sulla nostra destra, poi Ponza, come vedete. La nostra velocità rispetto al suolo è di circa 17mila nodi. Grazie. Ladies and gentlemen...» (registrazione della voce del pilota del volo Itavia IH 870, partito da Bologna per Palermo il 27 giugno 1980 alle ore 20.10).

Nota ai testi

Benché rielaborati, molti di questi testi hanno una storia e una data. I più remoti: «Come se venissimo scacciati nei boschi» l’ho scritto su invito della rivista «Marka» nel 1986; Simple twist of fate, scritto nel 1987, è apparso col titolo sognando dylan approssimativamente in Café Suisse e altri luoghi di sosta (Feltrinelli 1992, da anni esaurito). Anche Big Sur e Autostrada erano in Café Suisse. Il cane morto riprende un testo uscito sull’«Unità» (1995), poi sulla rivista «Transpadana» (1997). Strawberry fields (1996), scritto per il libro di foto John Lennon and Yoko Ono. Peace bed-in (Diabasis), era dedicato al «Lennon Day» di Cadelbosco (RE). Guidando verso Bologna sulla via di Damasco (2000), inedito su carta, è apparso on line sulla rivista «Zibaldoni» e nella raccolta Randagi a cura di Assunta Altieri. Una prima versione di Oltretorrente è uscita sull’«Unità» (2001, poi 2008); Zero killed e Il pasto nudo uscirono nella rubrica Sunday morning («l’Unità» 2002/03); La polvere di Samarcanda è inedito, ma riprende frammenti di viaggio pubblicati sull’«Unità» e sul «Venerdì» (2002 e 2003). Sono usciti in versione ridotta sull’«Unità» anche Non ci piace scrivere sui muri (2002), Stelle filanti (2003), Fino all’ultimo respiro (2009), mentre versioni ridotte di La vita in pegno, Il cantiere della memoria, Oggetti smarriti, La vita nuda dei rom, La fabbrica dei palloncini sono uscite sul Domenicale di «Repubblica»

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tra il 2006 e il 2008, Uomini e topi (2008) sulle pagine di Roma di «Repubblica». Salvare in memoria (2003) è uscito sulla rivista «Accattone», Storia con fantasmi (2007) su «Nuovi Argomenti». Danza nel mare e The golden age sono inediti. Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri del volo IH 870 (2007) è stato scritto per il libro, a cura di Christian Boltanski, offerto al visitatore del Museo per la memoria di Ustica, di Bologna. Ringrazio Betty e George Woodman per aver gentilmente concesso la pubblicazione delle foto delle pp. 21 e 24.