Associazionismo ed emigrazione. Storia delle colonie libere e degli italiani in Svizzera 9788858106280

Le miniere di carbone in Belgio, le industrie in Germania, gli ultimi viaggi transoceanici nell'America Latina o ve

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Italian Pages 306 [320] Year 2013

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Associazionismo ed emigrazione. Storia delle colonie libere e degli italiani in Svizzera
 9788858106280

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Toni Ricciardi

Associazionismo ed emigrazione Storia delle Colonie Libere e degli Italiani in Svizzera

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione marzo 2013 Quest’opera è frutto di una ricerca realizzata nell’ambito della «Forschung Ellen Rifkin Hill - Schweizerisches Sozialarchiv» ed è stata realizzata con il contributo della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera 1

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0628-0

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

Le miniere di carbone in Belgio, le industrie in Germania, gli ultimi viaggi transoceanici nell’America Latina o verso l’Australia: sono queste le immagini che vengono subito in mente pensando agli italiani all’estero. Al contrario, la Svizzera – che dal secondo dopoguerra e fino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso ha accolto da sola quasi il 50% del flusso migratorio italiano – per lungo tempo è stato uno scenario sottovalutato e quasi dimenticato dalla storiografia nazionale, nonostante abbia attirato milioni di italiani, prevalentemente del Nord-Nordest e, poi, a partire dagli anni Sessanta, del Sud. L’importanza di questa direttrice migratoria ci viene intanto confermata dai numeri. Dal 1861 al 1985, in poco più di un secolo, quasi 5 milioni di italiani si sono diretti verso la Confederazione elvetica, 2,6 milioni a partire dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni Ottanta, tanto che oggi l’oltre mezzo milione di presenze fa dei nostri connazionali in Svizzera la terza comunità italiana nel mondo. Nel frattempo, di questi, oltre 200.000 hanno acquisito la doppia cittadinanza. In più, nel 2009, nella hit-parade dei nomi dei bambini nati in Svizzera (indagine che periodicamente svolge l’Ufficio federale di statistica) ritroviamo al primo posto, nelle regioni di lingua tedesca e francese, nomi italiani: Lara, Laura, Mia e Luca per la Svizzera tedesca; Emma e Lara in quella francese. Una caratteristica dell’emigrazione italiana, parzialmente affrontata dalla storiografia, è l’articolazione delle sue strutture associative nel mondo. Quasi un quarto di esse, 1.500 circa, è presente in Svizzera, dove già a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, e soprattutto a partire dagli anni Venti del Novecento, sorsero diverse organizzazioni a carattere religioso, politico e sociale. Questa forma di associazionismo trova la sua massima articolazione proprio nel territorio della Confederazione, dove, già nel 1834, Mazzini fondò ­­­­­VII

la «Giovine Europa», a fine secolo sorsero le Missioni cattoliche italiane, ed i socialisti diedero vita all’«Avvenire dei Lavoratori» e al ristorante Cooperativo a Zurigo. Non esiste Paese europeo che, come la Svizzera, abbia visto una diffusione capillare dell’associazionismo in emigrazione. E qui, dove si è vissuto il più poderoso sviluppo economico dell’immediato secondo dopoguerra, nel 1943 venne fondata la Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS), un’eccezione senza precedenti nella storia dell’associazionismo italiano in emigrazione, nata dall’esigenza di assicurare una rappresentanza unitaria di tutti gli italiani e degli esuli del fascismo. Mentre l’Italia era alle prese con la sua «liberazione», le Colonie Libere rappresentarono il primo modello laico di supporto ed assistenza agli emigrati. Nelle pagine che seguiranno, attraverso la storia delle Colonie Libere, in un fluire di vicende che a volte si intersecano e a volte seguono linee parallele, si è tentato di raccontare la presenza italiana in Svizzera a partire dal secondo dopoguerra e durante tutta la fase della guerra fredda. Una presenza che è caratterizzata dalla stagionalità e precarietà, oltre che da un alto tasso di clandestinità, con protagonisti anche migliaia di bambini. Presenza che progressivamente si meridionalizza, che mette a confronto, a partire dagli anni Sessanta, vecchia e nuova emigrazione, e che vive, nell’agosto del 1965, la tragedia di Mattmark, la sua Marcinelle dimenticata. Il contesto è il mondo diviso in blocchi contrapposti, nel quale la non politicizzazione degli immigrati rappresenta una peculiarità delle politiche migratorie della Svizzera, che adotta due pesi e due misure, tra l’allontanamento dei fascisti e le espulsioni per «attività comunista» e/o sindacale e dove la minaccia della cosiddetta Überfremdung – concetto che sarà tradotto nelle leggi con il termine di inforestieramento – influisce sulle scelte di gestione dell’enorme massa di migranti per tutto il periodo, sino ben oltre la fine degli anni Ottanta. La contrapposizione della guerra fredda fa sentire i suoi effetti anche sui rapporti tra le stesse associazioni italiane che si confrontano in Svizzera e ripropongono le divisioni presenti nella politica italiana di allora. Come a simboleggiare lo scontro tra due culture e modelli di vita opposti, ma che alla fine dei conti, grazie alla collaborazione tra le parti in favore degli emigrati, si riducono a quanto mirabilmente descritto nei romanzi di Guareschi: «In fondo, Don Camillo e Peppone sono due lati della ­­­­­VIII

stessa medaglia: due italiani dal cuore d’oro che dietro l’apparente ostilità non possono fare a meno l’uno dell’altro». Si tratta di conterranei, in questo caso connazionali, che si capiscono e si stimano: così, spesso divisi sulle faccende interne dell’Italia, si ritrovano poi uniti, soprattutto a partire dagli anni Settanta, contro le avversità esterne, nello specifico i movimenti xenofobi e le politiche migratorie elvetiche. Nello stesso periodo, a causa della crisi petrolifera, la manodopera italiana, che qualche decennio prima funge da valvola di sfogo per l’Italia, diviene una valvola di sicurezza per il sistema economico elvetico. La storia si ripete: l’Italia nel secondo dopoguerra esporta la sua disoccupazione in mezzo mondo, soprattutto in Europa e quindi in Svizzera e quest’ultima, nella fase congiunturale della metà degli anni Settanta, manda indietro la stessa disoccupazione. Non è un caso che questi anni abbiano rappresentato lo spartiacque per l’associazionismo in emigrazione, sia perché rafforzano i rapporti «interni» sia perché si costruiscono forme di collaborazione sempre più intense e stabili, con sindacati, partiti e movimenti svizzeri. Sviluppatasi quasi parallelamente alla stagione dei referendum xenofobi, questa fase porta alla prima iniziativa pro-stranieri, Mitenand. Nel frattempo l’emigrazione italiana, da stagionale e precaria, si trasforma progressivamente in stanziale. I progetti migratori temporanei diventano, quasi inconsciamente, traiettorie di vita definitive. Durante la ricerca si è fatto ricorso a diverse fonti italiane e soprattutto svizzere: lettere, circolari, materiale di propaganda, quotidiani e riviste dell’epoca, inchieste, atti congressuali e di convegni, documenti diplomatici e della polizia degli stranieri, atti parlamentari. Determinanti sono stati i fondi presenti presso lo Schweizerisches Sozialarchiv di Zurigo, utilizzati come fonte primaria. Gli anni chiave di questa storia sono il 1948, anno in cui la Svizzera sigla con l’Italia il suo primo accordo di reclutamento della manodopera straniera; il 1964 e il rinnovo dell’accordo; il 1969 e l’iniziativa referendaria Schwarzenbach (la più famosa delle iniziative xenofobe); la crisi petrolifera del 1973 e le conseguenze che essa generò; il 1977, anno di presentazione di Mitenand, la prima iniziativa referendaria pro-stranieri; il 1981, durante il quale la stessa iniziativa viene votata e respinta massicciamente. Al susseguirsi cronologico di questo racconto, fa da collante la storia della FCLIS. È stata, quindi, adottata una sorta di doppia periodizzazione in contemporanea: l’asse principale è determinato ­­­­­IX

dalla cronologia degli eventi generali e dall’evoluzione delle politiche migratorie, mentre le singole fasi, gli anni chiave, gli episodi determinanti o i momenti di cesura sono stati letti ed interpretati attraverso le Colonie Libere. novembre 2012

T.R.

Elenco delle abbreviazioni

Acli ACS AFS Alei Anfe Arli Asm ASN Atees AVS CASS Cgil CLI CNI

Associazioni cristiane lavoratori internazionali Archivio Centrale dello Stato Archivio federale svizzero Associazione lavoratori emigrati italiani Associazione nazionale famiglie emigrati Associazione ricreativa emigrati italiani Associazione padronale svizzera dell’industria metalmeccanica Archivio di Stato di Napoli Associación de trabajadores emigrantes españoles en Suiza Assicurazione vecchiaia e superstiti Comitato per l’abolizione dello statuto degli stagionali Confederazione generale italiana del lavoro Colonie Libere Italiane Comitato nazionale d’intesa (Associazioni degli emigrati italiani in Svizzera) Cser Centro studi emigrazione Roma Dc Democrazia cristiana Dcf Decreto consiglio federale Dds Documenti diplomatici svizzeri Dfae Dipartimento federale agli affari esteri DoDis Banca dati documenti diplomatici svizzeri EKA ­­Commissione federale consultiva per il problema degli s­ tranieri FCLIS Federazione Colonie Libere Italiane in Svizzera Flel Federazione svizzera degli edili e del legno FF Feuille Fédérale Fmsie Federazione mondiale della stampa italiana all’estero Fseie Federazione della stampa per gli emigrati italiani in Europa GU Gazzetta Ufficiale Inca Istituto nazionale confederale di assistenza KAB Katholische Arbeiterbewegung LDDS Legge federale sulla dimora e il domicilio degli stranieri MAE Ministero degli Affari esteri ­­­­­XI

Mci Mec Oece Pci PCM Pop Psi RSI RU SSZ TSI Udi Ufiaml Ufs Uss ZK

Missioni cattoliche italiane Mercato comune europeo Organizzazione europea per la cooperazione economica Partito comunista italiano Presidenza del Consiglio dei ministri Partito operaio popolare svizzero Partito socialista italiano Radio Svizzera italiana Raccolta ufficiale leggi svizzere Schweizerisches Sozialarchiv Zürich Televisione Svizzera italiana Unione donne italiane Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro Ufficio federale di statistica Unione sindacale svizzera Züricher Kontaktstelle

Associazionismo ed emigrazione

Capitolo I

Alle origini della nascita delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (1927-1944)

1. La genesi Il 1943, anno nel quale le prime Colonie Libere dettero vita alla loro Federazione, fu uno dei più terribili della storia dell’Europa del Novecento. Soprattutto l’Italia e gli italiani in pochi mesi si trovarono ad affrontare uno dei bienni più drammatici e controversi della loro storia. Il 1943, probabilmente più del 1945, rappresentò l’anno chiave per interpretare i mutamenti che avrebbero riguardato il futuro geopolitico, economico e sociale dell’Italia all’interno dello scenario internazionale. Se la guerra si fosse conclusa nel settembre 1943 con la capitolazione senza condizioni, oggi il nostro Paese non discuterebbe, in una relativa condizione di libertà, se ratificare o non ratificare il trattato di pace, ma sarebbe diviso, come la Germania, in quattro zone di occupazione, con gli angloamericani che occuperebbero le isole e la penisola fino alla Valle Padana, i sovietici sul Tagliamento, la Francia in Liguria e in Piemonte1.

Questo passo, tratto dal discorso di Pietro Nenni tenuto durante la Costituente, il 30 luglio 1947, da un lato lascia intendere il ruolo svolto dall’antifascismo e dal movimento di liberazione, dall’altro sottende una questione molto più profonda, ovvero quale politica estera sia stata scelta dall’Italia nell’ultimo anno e mezzo di conflitto. Pur tuttavia, vinta, occupata, divisa, l’Italia nel biennio 1943-45 1   Cfr. G. Negri, La sistemazione postbellica e il trattato di pace, in «La politica estera italiana nel secondo dopoguerra», Terzo programma, n. 3, 1971, p. 171, e B. Vigezzi, Politica estera e opinione pubblica in Italia dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Orientamenti degli studi e prospettive della ricerca, in Opinion publique et politique extérieure en Europe. III. 1940-1981. Actes du colloque de Rome (17-20 février 1982), École Française de Rome, 1985, pp. 93-94.

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ha avuto una politica estera? È la domanda cui tenta di rispondere Brunello Vigezzi, che con un’attenta analisi degli scritti degli esuli, degli antifascisti e della futura classe dirigente repubblicana, arriva a questa conclusione: La politica estera dell’Italia, in senso proprio, nel 1943 o nel 1945, dunque, c’è non c’è; e lo si avverte ancor meglio a ricordare, sia pure per un istante, il 1870, il 1919, il fascismo o l’antifascismo: quando l’Italia, in modi diversissimi, aveva pur sempre un’iniziativa relativamente autonoma nella vita internazionale. La situazione nel ’43, nel ’45 è troppo cambiata; e se gli uomini del tempo, per orientarsi, a volte si rifanno al primo dopoguerra, a Versailles, alle crisi del biennio rosso, sono subito tratti a calcare le differenze. Nel ’43, nel ’45, in effetti, la prospettiva è chiaramente divenuta una prospettiva mondiale; e in quest’ambito, così fluido e vasto, è in gioco l’esistenza stessa del paese!2

Che fosse in gioco l’esistenza stessa del Paese era chiaro a tutti, protagonisti e autori vecchi e nuovi: da Salvemini a Sturzo, da Croce a Chabod o Toscano, fino allo stesso Nenni, a Parri e De Gasperi. Come fu chiaro subito a Schiavetti, Reale, Einaudi e tanti altri che diedero vita alla Federazione delle Colonie Libere. In sostanza, come già altre volte e probabilmente più di altre volte, l’Italia si trovò al centro di dispute e gare d’influenze fra le potenze che si apprestavano a vincere la seconda guerra mondiale, tanto da fare immaginare che «la soluzione del problema italiano sarà uno degli elementi cruciali e più decisivi dell’intero piano di riorganizzazione del mondo»3. Lo fu già in passato, ma questa volta – nonostante l’Italia facesse già parte delle potenze mondiali e nonostante improvvisamente fosse stata rivalutata la sua «straordinaria posizione geografica»4, che sarà rimarcata maggiormente nella fase successiva del mondo diviso per blocchi – era forte la sensazione che discutere, pensare e riorganizzare gli assetti e gli equilibri interni fosse divenuta una partita che si giocava altrove, nello scacchiere della politica internazionale. Era a questo livello che si discuteva sui rapporti tra fascismo e democrazie, sui problemi coloniali legati al futuro assetto delle politiche   B. Vigezzi, op. cit., p. 94.   G. Salvemini, G. La Piana, La sorte dell’Italia, Edizioni U, Roma-FirenzeMilano, 1945, p. 11. 4  E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 7-30. 2 3

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del Mediterraneo, così come sugli assetti istituzionali, fino a riprendere argomenti al centro del dibattito già ad inizio del Novecento: problemi relativi alle frontiere, alla sovrappopolazione e quindi, di rimando, problemi relativi all’emigrazione. A questi occorre aggiungerne un altro: il conto da saldare con il fascismo e con ciò che esso rappresentò per un ventennio. Si pagherà attraverso le epurazioni, sia in Italia che all’estero, e con un alto tributo di sangue che nessuno nel 1943 osò solo immaginare5. Anche la Confederazione, nello stesso periodo, si troverà dinanzi a condizioni sistemiche del tutto inedite. La minaccia latente della sua occupazione aveva fatto accelerare i preparativi militari per la difesa e la resistenza con il ritiro, se necessario, delle truppe sull’estrema linea del «ridotto nazionale alpino», costituito dai fortilizi imprendibili delle alte montagne. Il morale, l’unità interna, l’organizzazione politica e militare, lo spirito di solidarietà nazionale, erano, rispetto all’Italia, ben saldi. Per tutto il corso della guerra furono banditi i conflitti sociali, così come furono messe da parte tutte le questioni che avrebbero potuto inasprire i conflitti religiosi, linguistici e politici. L’economia di guerra azionò una serie di provvedimenti atti a resistere anche ad un prolungato isolamento totale della Confederazione, anche se la condizione di autarchia economica gettò la Svizzera in una condizione di scarso soddisfacimento alimentare. Di fatto, la Confederazione riuscì in questa fase a supplire al solo 46% del fabbisogno calorico della propria popolazione6, mostrando appieno la sua interdipendenza dalle importazioni e dalle interconnessioni tra gli alleati e i Paesi dell’Asse, in particolar modo la Germania. Tuttavia fu più difficile, rispetto al primo conflitto mondiale, far rispettare la neutralità di fronte al potente vicino germanico che esigeva diritti di transito e sempre più elevati crediti in cambio di forniture di ferro e carbone, mentre gli Alleati minacciavano il blocco delle forniture ad un Paese che ritenevano non solo «infeudato» ma anche funzionale ai progetti espansionistici del Reich tedesco. I rapporti commerciali con l’Italia furono messi in grossa difficoltà dal blocco e dal controllo dello stretto di Gibilterra e dell’intera area del Mediterraneo da 5   H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1945-1948, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 8 (ed. or., Die Abrechnung mit dem Fascismus in Italien, 1943 bis 1948, Oldenbourg, München, 1996). 6  M. Kuder, Italia e Svizzera nella seconda guerra mondiale. Rapporti economici e antecedenti storici, Carocci, Roma, 2002, p. 106.

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parte della Gran Bretagna, che difatti impedì l’utilizzo degli scali di Genova e Trieste7 da parte delle autorità elvetiche, autorizzate, in ultima istanza, a servirsi di vettori che battessero bandiera elvetica, limitando totalmente l’uso di navi da carico battenti bandiera italiana. In questa fase la Confederazione fu impegnata nella più delicata azione diplomatica della sua storia. La pressione economica era molto dura, soprattutto da parte della Germania e della Gran Bretagna che imposero alle autorità elvetiche l’obbligo di conciliare gli accordi commerciali conclusi con Londra con quelli sottoscritti con Berlino e Roma, dei cui governi, continuò a rappresentare, per quasi l’80%8, la sede di riserva finanziaria ed in parte, anche se marginalmente, aurea. Ma più di una volta la Svizzera non riuscì a combinare la pressione tedesca con l’intransigenza britannica9. Per ben tre volte e per diversi mesi, durante la guerra, le importazioni di grano vennero interrotte. Il rigoroso razionamento dei viveri, l’incremento della produzione agricola, la creazione di una piccola ma efficiente flotta d’alto mare – come appena accennato in precedenza – riuscirono a rifornire del minimo indispensabile la popolazione. La situazione della neutrale Svizzera non era dunque quella che per secoli, se si esclude il periodo delle imprese napoleoniche, si mostrava alla fine di ogni catastrofe bellica e che Foscolo ebbe a definire «sacro unico asilo delle virtù e della pacifica libertà»10. Nel 1942 la Svizzera viveva in uno stato di autarchia totale, con gli uomini ai confini e sulle montagne, mentre le donne lavoravano nei campi e nelle industrie belliche. Il 1942 fu anche l’anno nel quale la Svizzera, per la prima volta nella sua storia – e tante altre ne seguiranno negli anni a venire – decretò la chiusura delle proprie frontiere per i profughi. Infatti, il 13 agosto, mentre in tutta l’Europa imperversava la persecuzione nazista soprattutto nei confronti degli ebrei, la Svizzera stabilì, appunto, la chiusura delle frontiere, anche se le violente critiche che si   Ivi, pp. 124-127.   Ivi, p. 121. 9   W. Martin, Storia della Svizzera, Casagrande, Bellinzona, 1980, p. 289. 10   «Frattanto continuerò a viaggiare per la Svizzera e a sentirmi uomo in mezzo a uomini veri: voglia il cielo che la corruzione europea, gli intrighi ministeriali, le discordie intestine, e la troppa forza delle potenze guerreggianti non riescano a distruggere questo sacro unico asilo delle virtù e della pacifica libertà», in F. Soldini, (a cura di), Negli Svizzeri: immagini della Svizzera e degli svizzeri nella letteratura italiana dell’Ottocento e Novecento, Marsilio, Venezia, 1991. 7 8

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scatenarono nell’opinione pubblica costrinsero le autorità di Berna ad ammorbidire la linea e a consentire l’apertura di qualche spiraglio per i casi più pietosi. A fronte di centinaia di migliaia di deportati, a tutto luglio 1942 avevano trovato asilo in Svizzera solo 8.300 perseguitati11. Agli inizi del 1943, la minaccia di un’eventuale invasione tedesca nella Confederazione si andò facendo sempre più incombente. Tanto che, dal 18 al 27 marzo, si visse in stato di massima allerta. Il cosiddetto Märzalarm12 cessò solo dopo che la Germania confermò le sue garanzie di rispetto della neutralità, non senza prima imporre un nuovo accordo commerciale, firmato il 1° aprile dello stesso anno13. Contestualmente all’occupazione dell’Italia settentrionale da parte dei tedeschi, la Svizzera, per la seconda volta dopo il periodo napoleonico, venne a trovarsi circondata da ogni lato da una sola forza egemonica. Finché la politica dell’Italia settentrionale dipendeva dagli italiani, la Confederazione poteva essere sicura che dal confine sud non ci sarebbe stato alcun pericolo, in quanto lo stesso governo italiano, nel giugno del 193914, si era fatto carico, su pressione di quello elvetico, di garantire «l’incondizionato mantenimento della neutralità integrale e perpetua della Svizzera»15. L’Italia mantenne fede alle garanzie offerte al governo elvetico, sia per le ovvie ragioni economico-strategiche, sia perché erano ormai lontani i tempi dell’irredentismo e delle rivendicazioni territoriali che avevano caratterizzato la prima fase del fascismo e che si erano radicate presso alcuni gruppi filofascisti del Canton Ticino16. Insomma, una volta tanto, la diffusa pratica dell’acquiescenza e dell’asservimento della politica italiana a quella del Reich venne meno.   SSZ, f. FCLIS, b. Ambasciata e consolati - Ar 40.20.5.   W. Martin, op. cit., p. 291. 13   M. Meier, Schweizerische Aussenwirtschaftspolitik 1930-1948: StrukturenVerhandlungen-Funktionen, Vol. 10, Veröffentlichungen der Unabhängigen Expertenkommission Schweiz-Zweiter Weltkrieg, Chronos, Zürich, 2002, p. 234. 14   Il 21 giugno 1939, a tre mesi dall’annessione dell’Austria alla Germania e ad un mese esatto dalla firma del Patto d’Acciaio italo-tedesco. 15   W. Martin, op. cit., p. 293. 16   Alla fine degli anni Venti e fino alla metà degli anni Trenta, nel Ticinese si era creato un movimento marcatamente fascista ed irredentista. La capillarità dell’organizzazione porterà all’istituzione di oltre 24 sedi del fascio nel 1925. Cfr. E. Franzina, M. Sanfilippo (a cura di), Il fascismo e gli emigrati, Laterza, RomaBari, 2003, p. 7. Per maggiori approfondimenti si rimanda alle annotazioni ed ai verbali dell’assemblea di Claude Cantini, componente della CLI di Losanna. SSZ, f. FCLIS, b. Svizzera Francese - Ar 40.10.15. 11 12

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L’importanza strategica di preservare la neutralità della Svizzera da parte del governo italiano, in una fase così delicata, apparve chiara dalle posizioni dell’ambasciatore Amedeo Giannini17, presidente del Comitato misto italo-germanico, il quale sottolineò ripetutamente le sollecitazioni tedesche fatte all’Italia al fine di «soffocare» la Confederazione in vista di un’eventuale annessione. Dalla corrispondenza di Giannini emerge, immediatamente, la personale esasperazione di Hitler nei confronti dell’attività antinazista della stampa elvetica. Di fatto, «il dittatore non concepiva che i popoli di razza germanica fossero sordi al suo richiamo in nome della razza [...] e li giudicava pertanto designati alla vendetta implacabile»18. A più riprese il punto di vista dell’Italia di fronte e contro l’alleato tedesco fu quello di considerare necessaria l’esistenza della Svizzera quale paese neutrale, tanto da far divenire tale posizione uno dei capisaldi della propria politica diplomatica in Europa. La ragione appare chiara, in quanto, «se per disgrazia la Svizzera fosse stata smembrata, l’Italia a quel punto non avrebbe certamente potuto disinteressarsi della sorte degli svizzeri-italiani»19 (ticinesi, n.d.r.). Da questi resoconti si comprende la preoccupazione elvetica degli ultimi mesi del 1943, quando l’esercito tedesco si trovò a circondare da ogni lato la stessa Confederazione. In una condizione del genere sarebbe bastato un incidente qualsiasi per vedere infranta l’integrità delle sue frontiere: si era venuta a creare la sindrome dell’accerchiamento, dell’isolamento totale. Gli ultimi mesi del 1943 furono per la Svizzera il periodo più complesso, difficile e rischioso di tutto il conflitto20. Insomma, come agli inizi del XIX secolo, quando si trovò circondata da Napoleone, anche negli ultimi mesi di guerra la Confederazione viveva una condizione per cui la sua libertà era messa a serio rischio dall’assedio nazista. Per la Svizzera non vi può essere libertà quando una egemonia grava sull’Europa. L’indipendenza e la neutralità della Svizzera sono i risultati dell’equilibrio europeo. Quando questo è compromesso o distrutto, la Svizzera cessa di essere libera [...] se la Svizzera non ha che un solo vicino, l’indipendenza, come la neutralità, è nei suoi confronti, una parola priva di senso21.

  Annotazioni (s.d.). SSZ, f. FCLIS, b. Ambasciata e consolati - Ar 40.20.5.   Ibid. 19   Ibid. 20  M. Kuder, op. cit, p. 133. 21  W. Martin, op. cit., p. 45. 17 18

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Negli stessi mesi si aprì all’interno della Confederazione una discussione accesa sulla questione dei profughi che riuscivano a raggiungere le frontiere svizzere. Abbiamo accennato alla decisione del 1942 relativa alla chiusura delle frontiere: da una parte, c’era chi sosteneva la tesi della «barca piena» e chi invece, rifacendosi alla garanzia del diritto d’asilo, si batteva per l’accoglimento provvisorio dei perseguitati. Dopo l’8 settembre i profughi cominciarono a presentarsi numerosi anche lungo tutta la linea di frontiera italiana, ed allora i rigorosi provvedimenti di respingimento nei confronti dei richiedenti asilo non furono più applicati. Infatti, una vera e propria fiumana di italiani – circa 45.00022, tra i quali più di 3.800 ebrei italiani23 – invase il Canton Ticino e gli altri cantoni limitrofi. Ciò fu reso possibile dal fatto che la Svizzera, adottando una straordinaria flessibilità d’azione dinanzi all’emergenza che si presentava, istituì la figura del «rifugiato militare»24. Inoltre, con uno sforzo alquanto creativo, creò i «campi universitari»: l’intenzione era quella di riallacciare e consolidare le relazioni amicali e di autentica collaborazione che il regime di Mussolini aveva progressivamente peggiorato. Anche se marginalmente, e per meri interessi di natura economico-finanziaria, la Confederazione mantenne rapporti de facto con la neonata RSI, garantendo la presenza di un suo «addetto commerciale» presente nella delegazione di Zurigo25. Per quanto concerne, invece, gli assetti interni, nello stesso anno la Svizzera visse la svolta decisiva dal punto di vista degli equilibri   R. Broggini, Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera 1943–1945, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 19. 23  P. Audenino, M. Tirabassi, Migrazioni italiane. Storia e storie dall’Ancien régime a oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2008, p. 119. 24   R. Broggini, op. cit., p. 21. 25   Visti gli interessi di natura economico-finanziaria che gli svizzeri avevano nel Nord Italia e, in particolar modo, dopo la «socializzazione delle imprese» voluta da Mussolini, la Confederazione avvertì la necessità di tutelare gli interessi delle proprie imprese. Infatti, già dalla fine del 1943, si avviarono trattative per l’invio in Svizzera di un delegato diplomatico, in questo caso mascherato da «addetto commerciale», al fine di garantire la rappresentanza politica della neonata RSI. La scelta della sede di Zurigo fu motivata dall’esclusività delle mansioni che il delegato doveva svolgere, essendo quest’ultima la città di riferimento per gli scambi economici e soprattutto finanziari, mentre Berna, la capitale, avrebbe rappresentato un riconoscimento formale della RSI, che di fatto non si manifestò. Per maggiori approfondimenti si rimanda a M. Viganò, Il Ministero degli Affari Esteri e le relazioni internazionali della Repubblica Sociale Italiana. 1943-1945, Ed. Universitarie Jaca, Milano, 1991, pp. 390-410. 22

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politici, con la vittoria nelle consultazioni federali del 31 ottobre dei socialdemocratici, che divennero la formazione di maggioranza in seno al Consiglio nazionale. E fu così che il già sindaco della città di Zurigo, Ernst Nobs, divenne il primo socialista ad entrare a far parte del Consiglio federale26. D’altro canto, quanto stava avvenendo in Italia con la caduta del regime non poteva non avere ripercussioni anche sulla comunità italiana emigrata in Svizzera. In un rapporto del Consiglio federale27 si legge che in certe località, l’atto ufficiale di scioglimento delle associazioni fasciste fu steso subito dopo il colpo di stato in Italia. Altrove, le associazioni cessarono semplicemente la loro attività senza altre formalità. La liquidazione vera e propria si fece in seguito, con l’aiuto dei consolati, secondo istruzioni ricevute dal governo Badoglio. Salvo qualche eccezione non si registrarono incidenti. La colonia italiana in Svizzera è stata certamente sorpresa dagli avvenimenti del luglio 1943 in Italia. Essa conosceva più o meno la situazione militare sfavorevole del suo paese, ma per la maggioranza degli immigrati italiani, che fino all’ultima ora erano stati l’oggetto della propaganda fascista, la brusca caduta del regime fu una cosa inattesa. Non tardarono però a tirare le conseguenze del nuovo orientamento politico dell’Italia e dettero in generale agli osservatori esterni l’impressione di farlo senza grande ripugnanza. I distintivi del partito scomparirono e non si vide più il saluto fascista. La maggioranza degli italiani in seguito ebbe una attitudine passiva, in attesa di vedere cosa sarebbe accaduto in Italia28.

Chi invece aveva una visione più chiara erano le forze antifasciste, di cui facevano parte molti profughi politici che non avevano 26   Gianfranco Bresadola, dattiloscritto (s.d.). SSZ, f. FCLIS, b. Letteratura - Ar 40.20.19. 27   SSZ, f. FCLIS, b. Ambasciata e consolati - Ar 40.20.5. 28   Per un quadro maggiormente esaustivo sugli aspetti e le vicende politiche del periodo si rimanda al valido lavoro di E. Signori, La Svizzera e i fuoriusciti italiani. Aspetti e problemi dell’emigrazione politica 1943-1945, Angeli, Milano, 1983. Signori ha ricostruito questi elementi approfondendo gli scritti di C. Cantini, Per una storia del fascismo italiano a Losanna, in «Italia contemporanea. Rassegna dell’Istituto di storia per il movimento di liberazione in Italia», aprile-giugno 1975, n. 19, pp. 51-77, ma soprattutto attraverso il Rapport du Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale concernant l’activité antidémocratique exercée par des Suisses et des étrangers en relation avec la période de guerre de 1939 à 1943 (motion Börlin), seconda parte, in FF, n. 11, Berna, 23 maggio 1946.

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mai cessato di mantenere dei contatti con gli oppositori del regime rimasti in patria. Furono infatti gli antifascisti a prendere subito l’iniziativa di fondare una Federazione che riunisse tutte le associazioni degli emigranti, sia essi lavoratori che profughi politici, con lo scopo di appoggiare la resistenza al nazifascismo ed assistere i lavoratori e i rifugiati italiani in Svizzera, ma anche con il fermo convincimento di partecipare alla costruzione della nuova Italia che emergeva dopo venti anni di dittatura. La fondazione di semplici Colonie non avrebbe costituito una novità, né sarebbe stata tale la fondazione di Società di Mutuo Soccorso per i rifugiati. Numerose associazioni, come detto, erano già fiorite in Svizzera anche a cavallo tra i due secoli (la «Giovane Europa», costituita nel 1834 dall’esule Mazzini, la rete delle Missioni cattoliche italiane, fondate agli inizi del XX secolo, numerosi organi di stampa anarchica o socialista e il Ristorante Cooperativo rappresentano solo alcuni esempi); in questa fase, però, bisognava ripristinare la normalità dopo che le leggi mussoliniane sull’emigrazione avevano fascistizzato29 ogni organizzazione all’estero, connotando politicamente anche quelle a carattere assistenziale, ricreativo o religioso. I primi decenni dell’associazionismo italiano postbellico in Svizzera, grosso modo fino alla metà degli anni Settanta, si contraddistinguono per la spiccata propensione all’assistenza, tutela e salvaguardia, nonché per la rivendicazione dei diritti degli emigranti. Infine, per avere un quadro esaustivo del fenomeno associativo in Svizzera e, soprattutto, per ricostruire in forma organica la nascita delle Colonie Libere Italiane, occorre ripercorrere le tappe di avvicinamento e di strutturazione che hanno visto il formarsi della rete associativa più importante in Svizzera dall’immediato dopoguerra ad oggi.

29   Innumerevoli, di vario genere e relativi ai diversi Paesi di insediamento, sono i lavori che hanno trattato l’argomento, alcuni tra i più significativi: A. Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, Bari, 1953; A. Varsori, Gli Alleati e l’emigrazione democratica antifascista (1940-1943), Sansoni, Firenze, 1982; A. Trento, L’antifascismo italiano in Brasile, in «Latinoamerica», 30-31 (1988), pp. 87-88; A. Trento, Le associazioni italiane a Sao Paulo (1878-1960), in F. Devoto, E.J. Mìnguez (a cura di), Asociacionismo trabajo e identica etnica, Cemla-Cser-Iehs, Buenos Aires, 1992; L. Rapone, Emigrazione italiana e antifascismo in esilio, in «Archivio storico dell’emigrazione italiana», VI, 1 (2008), pp. 53-67; R. Fibbi, Les associations italiennes en Suisse en phase de transition, in «Revue européenne des migrations internationales», vol. I/I, 1985; G. Salvemini, Memorie di un fuoriuscito, Feltrinelli, Milano, 1960; E. Franzina, M. Sanfilippo (a cura di), Il fascismo e gli emigrati, cit.

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2. Dalla Società Mansarda alla costituzione della CLI di Zurigo Per poter ricostruire i processi che portarono alla fondazione della Colonia Libera di Zurigo, è necessario approfondire la presenza del movimento anarchico e dei socialisti. Questi ultimi forse più dei primi si sono strutturati, materialmente, avvalendosi di un loro organo di stampa, «L’Avvenire dei Lavoratori», primo periodico di informazione e propaganda in lingua italiana, e qualche anno dopo con la fondazione del Ristorante Cooperativo, punto di ritrovo per repubblicani, anarchici e socialisti, e poi per esuli e antifascisti. Il «Coopi» fu fondato nel 1906 da lavoratori italiani emigrati a Zurigo. Erano, appunto, repubblicani, anarchici e socialisti scappati alle leggi reazionarie e alla repressione del generale Bava Beccaris30. Agli inizi del XX secolo, la Svizzera era terra d’asilo e gli italiani che vi si recavano non lo facevano soltanto per guadagnare un pugno di franchi, bensì per emanciparsi – come si diceva allora – e soprattutto per preparare la rivoluzione. Non è un caso che i socialisti avessero questi comandamenti stampati sulla tessera del partito: Iscriversi al sindacato e al partito socialista svizzero; Conoscere a memoria le leggi sul lavoro; Non compiere fuori-orari o lavoro nero il sabato e la domenica; Non accettare d’essere pagati sotto tariffa; Mangiare, vestire e alloggiare il meglio possibile; Non lavorare per il padrone più del necessario; Non fare il crumiro ed essere solidale coi compagni di lavoro31.

Contestualmente al movimento socialista ed anarchico, di notevole importanza, nella ricostruzione dei prodromi delle Colonie Libere Italiane in Svizzera, è la rete degli esuli del fascismo che si stabilirono in Svizzera dopo il 1926. Tra i tanti ritroviamo Ingasci, De Donno, Schiavetti, Pacciardi, Zanetti e, ancora, Ignazio Silone, che sarà anche direttore dell’«Avvenire dei Lavoratori» ed Egidio Reale, il quale, oltre alla sua attività di intellettuale e storico, fornirà un valido supporto alla rete degli antifascisti in Europa. Quest’ultimo – ricoprendo dall’autunno del 1947 la carica di ministro plenipotenziario in Svizzera e 30   D. Robbiani, Cìnkali, pubblicazione speciale per i cent’anni della fondazione della Società Cooperativa italiana di Zurigo, quaderni trimestrali, in «L’Avvenire dei Lavoratori», anno CVII, n. 3-4, Zurigo, 2005, p. 90. 31  Tessera del Psi. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11.

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dal 1953 al 1955 quella di primo ambasciatore d’Italia a Berna – con la sua attività incise, notevolmente, sia sul primo trattato di reclutamento di manodopera straniera, che la Confederazione elvetica firmò nel 194832 con un Paese estero, l’Italia in questo caso, sia soprattutto con la predisposizione delle basi per l’afflusso dei tanti meridionali. Costoro caratterizzeranno l’emigrazione italiana in Svizzera a partire dalla fine degli anni Cinquanta, benché le autorità e gli imprenditori elvetici continuassero a prediligere – per vicinanza o per pregiudizio – la manodopera lombarda e veneta33. La particolare attenzione verso i meridionali nasceva dal fatto che Reale faceva parte di questa maggioranza: originario della provincia di Lecce, nei primi anni del Novecento si trasferì a Roma, dove si laureò nel 1910 in Giurisprudenza34. Il notevole apporto delle attività di Egidio Reale è testimoniato nelle memorie di Antonio Dazzi35, suo stretto collaboratore, e nella fitta corrispondenza che Reale stesso ebbe con Giovanni Medri36, cofondatore della FCLIS (Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera). La FCLIS venne formalmente fondata nel 1943 a Zurigo da Fernando Schiavetti, ma uno dei primi nuclei dal quale usciranno uomini i cui nomi saranno per sempre legati alla FCLIS si costituisce già nel 1927 e, già a partire dal 1925, saranno attivi a Ginevra Giuseppe Chiostergi ed Egidio Reale. Il movimento di Ginevra rappresenta, accanto a quello di Zurigo, la punta emergente e trainante dell’azione antifascista italiana in Svizzera, Paese in cui, dopo la Francia, era confluito il maggior numero di fuoriusciti37. Qui più che altrove la lotta era intesa in funzione della Colonia Italiana, considerata non solo come una semplice associazione, ma come l’insieme di tutti i membri della collettività che rifiutavano i condizionamenti imposti dal regime. 32   RU 1948.790 - Accordo firmato il 22 giugno 1948 tra Svizzera e Italia. Entrato in vigore in Italia tramite il decreto del presidente della Repubblica n. 1659, del 10 dicembre 1948. 33   F. Antinori, Al servizio della Repubblica, in AA.VV., Egidio Reale e il suo tempo, La Nuova Italia, Firenze, 1961, p. 187. 34   Per maggiori approfondimenti si rimanda a S. Castro, Egidio Reale tra Italia Svizzera ed Europa, Franco Angeli, Milano, 2011. 35   Memorie di Antonio Dazzi. SSZ, f. FCLIS, b. Ambasciata e consolati - Ar 40.20.5. Per ulteriori approfondimenti cfr. F. Antinori, op. cit. 36   Lettere e annotazioni. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 37  M.C. Rainer, Una presenza rinnovata attraverso i secoli. Storia degli italiani a Ginevra, Cser, Roma, 1997, p. 106.

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Per comprendere appieno i legami, le motivazioni, il modo in cui le attività degli esuli antifascisti si intrecciano con quelle connesse all’assistenza agli emigrati, occorre fare un passo indietro e analizzare la portata del flusso migratorio tra le due guerre. Questo si era ridotto, in media annuale, alle 11.000 unità durante il ventennio 1919-1938. E proprio durante questi anni in Svizzera il fenomeno associazionistico italiano assunse maggiore consistenza. I motivi possono essere riassunti, sostanzialmente, nella disparità di trattamento rispetto ai lavoratori elvetici che spingeva – e, come avremo modo di vedere nei prossimi capitoli, spingerà – gli emigranti a ricercare un sostegno, anche a mero titolo morale, in forme di mutuo soccorso, ma soprattutto associative. L’obiettivo sarà quello di arginare l’azione che il fascismo si era riproposta, cioè quella di conquistare gli emigranti alla causa del regime per farne una forza ausiliaria di appoggio alla sua politica estera38. In questi anni, molti esuli e antifascisti, una volta giunti in Svizzera, si organizzano in associazioni più o meno clandestine. E sono proprio questi ultimi, socialisti, repubblicani storici, comunisti, anarchici, cui si uniscono popolari e liberali e anche dei senza partito, ma tutti antifascisti, che il 22 febbraio 1927 fondano a Zurigo la Società Mansarda. Questo nome – come ha dichiarato Giovanni Medri, che della Mansarda fu uno dei fondatori insieme a Giovanni Ravaioli e Mario Casadei39 e che della FCLIS diverrà presidente nazionale – fu scelto a caso in sostituzione di «Società antifascista», titolo ritenuto, dati i tempi, troppo pericoloso e inaccettabile per le autorità elvetiche. In quanto antifascisti, era «sconveniente» frequentare ristoranti italiani, in quel periodo controllati dai fascisti. Così si pensò di aprire un circolo e di darci uno statuto. Volevamo organizzare feste di beneficenza per poter aiutare i fuoriusciti e i connazionali perseguitati dal fascismo. Sottoponemmo alla polizia lo statuto col nome «Società antifascista», ma non ne accettò il nome, perché era politico. Quindi, scegliere per scegliere, ci siamo chiamati «Società Mansarda». Ma sul distintivo abbiamo messo il sole rosso, simbolo del sole dell’avvenire. Ovviamente noi fondatori e soci della «Mansarda» non avevamo sempre la vita facile. Per esempio, il segretario della Camera di Commercio, responsabile anche del fascio di

  A. Fontani, Gli emigranti, Editori Riuniti, Roma, 1962.   E. Signori, op. cit., p. 222.

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Zurigo, mi fece togliere il passaporto per ben tre anni, dicendo che nella mia bottega da sarto si complottava40.

Infatti, nell’art. 1 dello statuto si legge: «la società è stata costituita per puro scopo di divertimento e che è escluso ogni scopo di carattere politico»41. Gli articoli seguenti, però, si dimostrano talmente meticolosi e rigorosi al punto che difficilmente né le autorità elvetiche né tantomeno i consoli fascisti avrebbero potuto credere che l’unico scopo della società e dei propri associati fosse quello di «organizzare delle feste annualmente». Il socio avrebbe dovuto mettersi a disposizione «ogni qualvolta la Società organizzerà delle feste», doveva pagare una «tassa per l’entrata nella società di 3 Fr. [...] e la quota mensile di Fr. 2», la presenza alle riunioni era obbligatoria e ogni assenza ingiustificata era multata con «1 Fr.». Inoltre, l’iscritto doveva comportarsi in pubblico con «decoro per non dare motivo a critiche dannose per la società». Infine, il socio sarebbe stato «espulso dopo il terzo ammonimento». Se dal punto di vista formale possiamo affermare che uno degli scopi della Società era anche quello di organizzare feste o incontri periodici, la matrice di associazione antifascista emerge chiaramente dalla corrispondenza che lo stesso Medri intratteneva con l’Italia. Ad esempio, con la vedova Capovin, alla quale i fascisti assassinarono il marito, che gli scrive: Ricevuto il giorno 3 febbraio L.100, non so in che modo ricompensarlo del suo buon cuore, tanto lei come gli altri della società benché non li conosco, a tutti gli auguro salute lavoro, e mai succeda simili disgrazie, come è toccata a me. Sono rimasta con tre teneri figli nella più squallida miseria. Con stima la riverisco. Alessandri Bianca vedova Capovin. Tante grazie42.

Era questo il modus operandi della Società Mansarda, che agiva evitando il più possibile le attenzioni dei consoli fascisti e della polizia elvetica. L’impostazione apartitica ed antifascista verrà sempre man40   Testimonianza resa da Giovanni Medri in una intervista in «Emigrazione italiana», 1977. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 41   Statuto Mansarda. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11. 42  Lettera di Bianca Alessandri indirizzata a Medri, Cesena 6 febbraio 1928. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18.

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tenuta come principio guida, anche durante e dopo la fondazione, nel 1943, della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera. La Società Mansarda, con le dovute peripezie e cautele, qualche anno dopo la sua fondazione, in collaborazione con la Cooperativa socialista e altri gruppi antifascisti, riuscì a dar vita alla Scuola Libera Italiana43, nata con lo scopo di contrapporsi alle scuole di italiano dei fasci all’estero. Ad insegnarvi giunse da Parigi, via Marsiglia, il professor Ferdinando Schiavetti44, fuoriuscito di fede repubblicana che più di un decennio dopo diverrà senatore della Repubblica nelle fila del Partito Socialista di Unità Proletaria. Con l’arrivo di Schiavetti a Zurigo si formarono intorno alla Società Mansarda e alla Scuola Libera interessi nuovi e di più vasta portata. Numerosi saranno in seguito gli uomini dalle indubbie capacità e dalle varie appartenenze politiche che vi presero parte: oltre ai già citati Ingasci, De Donno, Pacciardi, Zanetti, Silone e Reale, si trova testimonianza anche della presenza di Nenni, dei fratelli Rosselli, di Saragat, di Modigliani e di Farevelli45; mentre, stranamente, non si trovano collegamenti e legami con la presenza e le attività di Nitti46. Ponendosi a disposizione della Società, costoro ben presto determineranno un salto di qualità nell’azione di costruzione di una rete associativa di esuli e di antifascisti. Le attività della Mansarda non si limiteranno più al solo aiuto materiale e morale 43  «Emigrazione Italiana», Zurigo, 29 ottobre 1968. SSZ, f. FCLIS, b. Emigrazione italiana - Ar 40.60.4. 44  Schiavetti, prima di fuggire in Francia, era stato direttore de «La Voce Repubblicana» e segretario del Partito repubblicano italiano. Scappò con la famiglia attraverso l’Austria e la Svizzera verso la Francia. Era diretto a Parigi, dove non ebbe fortuna. Successivamente riuscì a trovare un posto come camionista a Marsiglia. Giungerà in Svizzera nel 1930 e nel 1931 inizierà la sua attività di direttore presso la Scuola Libera di Zurigo. Per maggiori approfondimenti, si rimanda all’intervista autobiografica della figlia Annarella, moglie di Rotter, «dottore degli emigranti», contenuta in M.M. Frigerio, S. Merhar, Und es kamen Menschen. Die Schweiz der Italiener, Rotpunktverlag, Zürich, 2004, pp. 91-107. 45   G. Meyer Sabino, In Svizzera, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell‘emigrazione italiana, vol. II, Arrivi, Donzelli, Roma, 2002, p. 114. 46   Nitti soggiornerà a Zurigo nel biennio 1924-1925 per poi trasferirsi a Parigi, dove riprenderà la sua attività di oppositore al regime, dopo una prima parentesi di «astensionismo». Godrà, parzialmente, anche dei finanziamenti provenienti dalla rete antifascista zurighese, senza però che si riesca, al momento, a trovare alcun legame con quest’ultima e con gli animatori della Società Mansarda. Per maggiori approfondimenti si rimanda alle pagine specifiche all’interno della biografia dello statista lucano in F. Barbagallo, Francesco S. Nitti, Utet, Torino, 1984, pp. 459-524.

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agli antifascisti rifugiati in Svizzera o al sostegno finanziario alle loro famiglie rimaste in Italia, bensì gli obiettivi diverranno del tutto nuovi e molto più ambiziosi. Una volta ridefinita la struttura e l’organizzazione, in seguito anche all’arrivo di Schiavetti, la finalità sarà quella di «contribuire al più palese distacco della massa emigrata dal nostro paese dalle pastoie della politica demagogica fascista»47 e dei timori che essa incute. Ciò considerato anche l’atteggiamento prudente, verso l’Italia mussoliniana, da parte delle autorità elvetiche, che, come già visto, sarà una costante nel periodo tra le due guerre e soprattutto durante la fase finale del secondo conflitto mondiale. Nel frattempo, nel 1930 a Zurigo si era costituita la Colonia Libera Italiana (CLI), il nucleo fondante dal quale, nel 1943, nascerà la Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera. Già dai primi articoli dello statuto possiamo cogliere appieno motivazioni e aspetti strategici del nucleo di Zurigo, tenendo sempre presente che, in questo periodo, il livello d’attenzione nei confronti dei fuoriusciti è molto alto, sia da parte delle autorità italiane che di quelle elvetiche. Art. 1 – La Colonia Libera Italiana di Zurigo, riunisce le persone che, al di sopra di ogni concezione particolare di partito, accettano come direttiva gli ideali di indipendenza, di giustizia e di pace che hanno animato il Risorgimento nazionale. [...] Art. 3 – [...] il consiglio direttivo è incaricato di coordinare tutte le attività possibili e utili ai soci e delle associazioni aderenti, e di difendere gli interessi degli italiani a Zurigo48.

Il programma e i principi cardine della Colonia sono stati stabiliti. Essa si ripropone «lo sviluppo di tutte le attività possibili utili ai soci» e la supervisione alle attività di coordinamento di tutte le «associazioni aderenti». Dal punto di vista terminologico, la scelta di denominare l’associazione Colonia Libera Italiana è dovuta principalmente al fatto che il termine «Colonia» è inteso come collettività, che l’associazione mira a raggruppare intorno a sé tutti gli italiani che vivono e lavorano nella città di Zurigo, comprese le loro espressioni organizzative, le quali, aderendo alla CLI, non necessariamente devono mutare il loro nome originario.

47   «Emigrazione Italiana», Zurigo, 29 ottobre 1968. SSZ, f. FCLIS, b. Emigrazione italiana - Ar 40.60.4. 48  Statuto CLI Zurigo. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11.

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Ma perché utilizzare proprio il termine Colonia? Presumibilmente fu scelto – sottolineando l’ispirazione ai valori del Risorgimento, con l’obiettivo di porre i consoli fascisti nella condizione di non potersi opporre apertamente alle attività della Colonia, in quanto sarebbe stato disdicevole per il fascismo attaccare, apertamente, il Risorgimento – perché il termine era ormai affermato, sia nel linguaggio comune che in quello ufficiale, per indicare una nostra collettività emigrata in un determinato Paese. Era una scelta d’ordine politico, in uso da decenni da parte della classe dirigente italiana, che cercò di dare al fenomeno l’antico significato di insediamento permanente49. L’utilizzo del termine si ritrova già nel titolo della I Conferenza nazionale di Napoli del 1885, indicata appunto come «Conferenza Coloniale»50. La caratteristica di intendere con il sostantivo Colonia la collettività nella CLI rimarrà intatta fino alla formazione della Federazione, alla quale ancora oggi, come negli anni precedenti, aderiscono, ad esempio, il Circolo Italiano di Olten, l’Associazione Ricreativa Lavoratori Italiani di Schlieren, l’Associazione Lavoratori Emigrati Italiani di Oerlikon51. Per quanto concerne, invece, l’aggettivo «libera», esso fu difeso a spada tratta da ogni attacco e sopravvisse a riconferma perpetua di una scelta ideale e politica che si era fatta già all’atto della costituzione del primo nucleo dal quale nascevano, appunto nel 1930, le CLI. L’aggettivo merita comunque alcuni approfondimenti. Già durante l’edizione del primo bollettino per i soci della FCLIS (dicembre 1947-gennaio 1948), fu sollevata un’obiezione riguardo l’uso di tale termine: Una delle ragioni che si oppongono ad una collaborazione di tutti gli italiani in organizzazioni centrali comuni è l’aggettivo «libera» [...] perché «libera» doveva essere una colonia italiana che si trovava in opposizione con una parte dalla collettività ancora «schiava» [siccome] «libera era attributo di una organizzazione di battaglia» [o dato che ora che] le 49   P. Cinanni, Emigrazione e unità operaia. Un problema rivoluzionario, Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 9-21. 50   Ivi, p. 20. Inoltre, lo stesso termine «Colonia» verrà utilizzato nella relazione presentata dal dott. Gennaro Grieco, durante il II Convegno Nazionale delle Camere di Commercio Industria ed Agricoltura per l’Emigrazione, svoltosi a Napoli nel luglio del 1950. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 789, f. 001. 51  Verbali d’adesione. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11.

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collettività italiane riconoscono la loro patria nella democratica Repubblica, ora che la battaglia è finita con la vittoria, non ci deve più essere distinzione fra italiana ed italiani, non più discriminazioni di sorta52.

La risposta delle Colonie fu inequivocabile: «Libera» significa [...] una presa di posizione morale. [Insistiamo] nel «libera» perché libera significa bene supremo è la libertà, la dignità, la responsabilità individuale, perché un gregge di pecore non può essere libero. [Insistiamo] dunque nel «libera» perché intendiamo la libertà non solo come diritto passivo, ma come un attivo dovere di educazione. Né vogliamo tacere un altro motivo, e questo sentimentale, se si vuole: sotto questa bandiera si accomunano i compagni di coloro che affermano in momenti in cui era pericoloso affermarlo, che non tutti gli italiani soggiacquero al fascismo [...] e furono i compagni di lotta di Matteotti, Amendola, Gobetti, Don Minzoni, Gramsci, dei Rosselli. Furono i compagni, che nel loro segno crearono le Colonie Libere53.

Passando all’analisi degli influssi e delle azioni condotte da parte della CLI di Zurigo, questa, ben presto, varcherà i confini della città e dell’omonimo cantone, costruendo contatti e legami con gli antifascisti italiani che si trovavano in altri territori della Confederazione e con gli oppositori elvetici al regime fascista. Le sue attività sono, prevalentemente, riconducibili alla Scuola Libera di Zurigo, alla raccolta fondi per le attività dell’antifascismo operante in Italia e all’estero, all’organizzazione dei passaggi sul suolo svizzero degli esponenti di questo o quel partito antifascista, alla promozione continua di conferenze informative e dibattiti indirizzati alla sensibilizzazione e alla tutela dell’emigrazione italiana presente nella Confederazione. Inoltre, ciò che maggiormente inciderà nella futura nascita della Federazione sarà la capacità di costruzione e diffusione della rete antifascista di sostegno all’emigrazione italiana in Svizzera. Nell’arco degli anni Trenta sorgeranno, sparse in tutto il territorio elvetico – anche se in prevalenza nella Svizzera tedesca – altre Colonie Libere come quella di Sciaffusa (basso zurighese), Kreuzlingen, San Gallo, Arbon, Kradolf (Svizzera orientale), Baden, Basilea e 52   «Bollettino per i soci», nr. 12 del 1947. SSZ, f. FCLIS, b. Convegni, riunioni - Ar 40.50.4. 53  «Bollettino per i soci», nr. 1 del 1948. SSZ, f. FCLIS, b. Convegni, riunioni - Ar 40.50.4.

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Grenchen54. Sul versante francofono, saranno già attive nel biennio 1925-27 associazioni che diverranno tali a Ginevra – in assoluto la prima Colonia ad essere fondata in Svizzera – e Losanna55. Particolare e significativa, per quanto concerne il Ticino, sarà l’adesione della Colonia Proletaria Italiana con sezioni a Lugano, Bellinzona, Locarno e Mendrisio e che in seguito ne costituirà altre a Chiasso, Giornico, Lavergo e Osogna56. 3. 21 novembre 1943, nasce la Federazione delle Colonie A cavallo tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, le associazioni e le Colonie andavano diffondendosi notevolmente, in quanto a molti degli esuli e antifascisti in Svizzera era chiaro che il regime si stava sgretolando. L’art. 1 dello Statuto della Colonia di Zurigo annunciava in un certo qual modo ciò che di lì a qualche anno sarebbe accaduto in termini organizzativi e funzionali alla rete degli antifascisti in Svizzera. Di fatto, dopo l’8 settembre del 1943, nel vuoto lasciato dalle organizzazioni fasciste di fronte all’ambiguità degli ambienti diplomatici, le minoranze attive e politicizzate dell’antifascismo decisero di prendere l’iniziativa per coinvolgere le masse dell’emigrazione, politicamente incerte e disorientate, in una risolutiva scelta di campo e impedire che la crisi che travagliava il paese, presupposto della futura rinascita democratica, fosse gestita in Svizzera in modo burocratico e verticistico57.

L’idea della creazione della Colonia si affermò nel nucleo di Zurigo e il promotore fu proprio Schiavetti, il quale, stando a stretto e continuo contatto con Reale e Chiostergi che operavano su Ginevra, organizzò – insieme soprattutto a Reale – le modalità di ideazione e realizzazione del progetto stesso. Per comprendere appieno il livello di collaborazione tra i due punti di riferimento dell’antifascismo in Svizzera e per avere un quadro esaustivo delle posizioni e, anche, dei contrasti presenti all’interno dell’organizza54   Elenco. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11. Gli Statuti. SSZ, f. FCLIS, bb.: Basso Zurighese - Ar 40.10.21; Svizzera Orientale - Ar 40.10.13; Argovia - Ar 40.10.2; Basilea - Ar 40.10.6; Soletta - Ar 40.10.10. 55   Statuto. SSZ, f. FCLIS, b. Svizzera Francese - Ar 40.10.14. 56  Statuto. SSZ, f. FCLIS, b. Ticino - Ar 40.10.17. 57  E. Signori, op. cit., p. 225.

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zione, risulta significativa la testimonianza, di qualche anno dopo, dello stesso Schiavetti: Uno dei periodi di attività dell’emigrazione italiana in Svizzera in cui si fece particolarmente sentire il valore della collaborazione e dell’influenza di Egidio Reale fu quello della costituzione e della contrastata affermazione delle Colonie Libere Italiane. Quando nel luglio 1943 avvenne, con il licenziamento e l’arresto di Mussolini, il primo crollo della dittatura e si determinò un conflitto fra il fascismo e gli organi ufficiali dello stato monarchico, il problema che si pose agli antifascisti italiani in Svizzera fu quello di sapersi inserire immediatamente in questo dissidio con il triplice scopo di entrare a contatto con le masse emigrate, influenzate fino a quel momento dall’attivissima propaganda fascista e clericale, di sottrarle alla politica ambigua delle nostre rappresentanze consolari e di orientarle verso generici ideali di democrazia e libertà. Questo nostro atteggiamento, sulla cui opportunità erano fondamentalmente d’accordo le personalità più rappresentative dell’emigrazione antifascista appartenenti al partito repubblicano, socialista, comunista e d’azione, [...] Chiostergi, De Logu, Reale, Sancisi, Gorni, Silone, ed altri [...] trovò una forte opposizione fra alcuni elementi della vecchia emigrazione che godevano, per il loro passato e per la loro fedeltà agli ideali della democrazia, di un vivo e meritato prestigio fra gli italiani. Essi non potevano ammettere che si avviassero relazioni di nessun genere con le autorità consolari – [...] le quali si erano rese effettivamente odiose, salvo poche e degne eccezioni, per lo zelo provocatorio e poliziesco con il quale avevano servito il regime [...] – e che si entrasse comunque a contatto, sia pure per disperderli e neutralizzarne l’opera, per noi, fu un dissidio estremamente doloroso. A Zurigo l’iniziativa di organizzare alla «Casa degli Italiani», sino ad allora fascista, un incontro pubblico ed ufficiale con il console generale [...] nel corso del quale lo obbligammo ad ascoltare una nostra severa dichiarazione sulla responsabilità del regime e delle sue rappresentanze all’estero [...], e la contemporanea fondazione, su mia proposta, delle «Colonie Libere Italiane», tendenti ad attirare intorno alla Resistenza ed all’antifascismo il numero più vasto possibile di italiani, ci costarono la rottura, per fortuna passeggera, di vecchie e care amicizie che erano state il conforto ed il nostro orgoglio nei pesanti e dolorosi anni d’esilio58.

Non si trattò solo di piccoli contrasti o di una semplice rottura. Tra gli antifascisti di Zurigo ci fu, in quello scorcio del 1943, uno   Testimonianza riportata in «Quaderni di Agorà», marzo 1994. SSZ, f. FCLIS, b. Letteratura - Ar 40.20.19. 58

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scontro duro sui metodi e sui modi da mettere in atto nei riguardi di quanti avevano collaborato con il fascismo, uno scontro che influenzerà ogni atto della vita associativa della nostra emigrazione. Da una parte c’erano gli intransigenti, gelosi della loro purezza politica, e dall’altra i fautori di un atteggiamento più duttile, favorevoli all’apertura della Colonia a tutti i non fascisti59. È una spaccatura che si salderà gradualmente e la concezione esclusiva e orgogliosamente elitaria dei vecchi antifascisti cederà il passo alla necessità di creare un polo di aggregazione democratica in seno all’emigrazione italiana. Secondo Schiavetti, le Colonie Libere dovevano essere un’esperienza formativa, di educazione alla libertà e alla democrazia e avere una fisionomia spiccatamente popolare e un carattere dichiaratamente di massa. Inoltre, dovevano essere improntate ad un’attitudine severamente censoria e selettiva, attraverso la quale si sarebbe ottenuto l’effetto di scoraggiare o allontanare quanti erano stati fascisti per necessità o per conformismo e, soprattutto, la maggioranza degli afascisti, che avevano passivamente subito la propaganda del regime senza consentire né dissentire. Seguendo l’esempio di Zurigo, tutte le Colonie allacciarono rapporti con i locali consolati, impegnandosi a criticarli, ma anche a collaborare e a vincolarli all’osservanza di un nuovo stile democratico. Tuttavia la Colonia di Zurigo, pur rappresentando il nucleo portante della futura Federazione, tardò a mettersi in moto, di qualche mese, a causa dei contrasti interni. Fu infatti la sede di Ginevra, nell’agosto del 1943, a gettare le basi per un primo nucleo fondatore del movimento della Federazione, grazie all’opera di Egidio Reale. La notizia fu riportata così, il 17 agosto del 1943, dalle colonne di «Libera Stampa», organo del Partito socialista ticinese: La Colonia italiana libera di Ginevra [...] ha una sola speranza ed una sola ambizione: che un giorno non lontano essa possa divenire puramente e semplicemente la Colonia Italiana di Ginevra, perché, pur mantenendo ciascuno le proprie opinioni e conservando la propria fede, non vi siano più tra gli italiani di Ginevra né uomini che non si sentano liberi, che non amino la libertà, né uomini che abbiamo bisogno di dichiararsi liberi, per contrapporsi ai servitori ad agli ammiratori della servitù60.

  E. Signori, op. cit., pp. 228-229.   «Libera Stampa», 17 agosto 1943. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1.

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Anche a Zurigo le incrinature più vistose in seno al movimento furono comunque ben presto ricucite. A testimoniare questa condizione provvederà, ancora una volta, la «Libera Stampa» del 27 novembre dello stesso anno: Il 21 novembre scorso si è costituita, con sede a Zurigo, una Federazione delle Colonie Libere italiane della Svizzera. Il suo scopo è quello di difendere gli interessi dell’emigrazione italiana in Svizzera e di coordinare, ogni volta che sia utile e necessario, l’attività e gli atteggiamenti delle Colonie federate. [...] Negli ambienti dell’emigrazione italiana libera si sentiva da molto tempo la necessità di un organismo che costituisse la rappresentanza unitaria di tutti gli italiani dimoranti in Svizzera e rimasti fedeli alle grandi tradizioni di libertà e di umanità che percorrono, dai comuni medievali alla epopea garibaldina, tutta la storia d’Italia. La nuova Federazione tiene a mantenersi assolutamente estranea alla influenza di qualsiasi partito, ma non può e non vuole essere insensibile alle esigenze ideali che si sono affermate irresistibilmente nei recenti avvenimenti italiani. [...] Essa tende perciò a riunire tutte le associazioni italiane che riconoscono, al di fuori e al di sopra dei loro fini particolari, il valore normativo degli ideali di libertà, di giustizia e di pace che hanno animato il Risorgimento nazionale. Le circostanze attuali contribuiscono naturalmente ad accrescere il significato ed il valore di questa organizzazione. In un periodo in cui le autorità ufficiali appaiono come dubitose e paralizzate, la libera iniziativa di cittadini attivi e coraggiosi può rivelarsi preziosa e di inestimabile utilità. [...] Tutte le personalità più conosciute delle colonie Libere di Zurigo, di Ginevra, di Basilea, di Losanna, del Ticino ecc. hanno partecipato, insieme a numerosi aderenti, alla costituzione della Federazione. Notevole l’adesione di scuole, società ricreative, mutue, cooperative, gruppi sindacali ecc. Tutti gli accordi sono stati presi e i mezzi assicurati per lo svolgimento di proficuo lavoro. [...] Nella riunione costitutiva è stato votato, tra l’altro, un ordine del giorno in cui si deplorano le manovre e l’accaparramento tendenzioso di influenze tendenti a creare, qui in Svizzera, un ambiente favorevole a una soluzione in senso monarchico della crisi costituzionale italiana: crisi che al popolo italiano spetterà, nel momento opportuno, di affrontare e decidere nella pienezza della sua sovranità61.

L’atto formale della costituzione della Federazione delle Colonie – ovvero, delle collettività – Libere Italiane in Svizzera era dunque

  «Libera Stampa», 27 novembre 1943. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1.

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compiuto. Le motivazioni per le quali si era definito questo passaggio erano legate all’esigenza di rappresentanza unitaria di tutti gli italiani e alla necessità di coordinamento del lavoro da svolgere intorno al fattore che, dall’avvento del fascismo in Italia, più aveva motivato e giustificato il sorgere di associazioni libere prettamente italiane nella Confederazione: era dovere di ogni connazionale libero contribuire a salvare il Paese battendosi per il ripristino della democrazia al suo interno. Le ultime righe della nota apparsa sulla «Libera Stampa» appena riportate – testo anonimo, ma probabilmente scritto di pugno da uno dei dirigenti della FCLIS, considerando la linea politica che enuncia a proposito della questione istituzionale – stanno tra l’altro a dimostrare come le CLI fossero state sempre in stretto collegamento con lo schieramento antifascista ufficiale italiano e come continuassero ad esserlo. In definitiva, non si trattò di un’operazione strumentale e meramente organizzativa, bensì dell’impresa di innovare strumentalmente l’antifascismo italiano, trasformando le «cittadelle élitarie»62 del ventennio, strenuamente difese da una pattuglia di fedelissimi, in organizzazioni popolari di massa, capaci, in quel momento di crisi e di disorientamento, di funzionare come polo di aggregazione per tutti gli italiani della cosiddetta emigrazione permanente. A tutto questo bisogna aggiungere un ulteriore dettaglio, ovvero il fatto che nella nota apparsa il 27 novembre del 1943, probabilmente per questioni di prudenza, viene omesso il luogo dell’incontro, che non è Zurigo, bensì Olten63 – cittadina a più di 60 km da Zurigo – dove nella sala del Glockenhof si riunirono i rappresentanti delle prime dieci Colonie costituite in Svizzera: Ginevra, Baden, Zurigo, Lugano, Losanna, Sciaffusa, San Gallo, Kreuzlingen, Arbon e Grenchen. La FCLIS si presentava dunque come la futura organizzazione di massa di tutta l’emigrazione italiana in Svizzera, sicuramente antifascista, ma con l’obiettivo di attirare i lavoratori emigrati, anche quelli che per un motivo o per l’altro non si erano mai esposti apertamente contro il fascismo. In ogni caso, si voleva mantenere sempre ben saldo il principio antipartitico. Infatti, rileggendo le circolari e   E. Signori, op. cit., p. 229.   A tal proposito si ritrovano stralci del verbale di costituzione e relativo elenco di partecipanti. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2 e b. Letteratura - Ar 40.20.19. 62 63

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le lettere di trasmissione tra i vari esponenti, emerge chiaramente un dato: nelle circolari riservate alla giunta, le lettere aprono tutte con il saluto «cari compagni»64, mentre nei documenti di maggior diffusione, quelli indirizzati a tutta la Federazione, si utilizza sempre il termine «cari amici»65. Inoltre, come già accennato precedentemente, i contrasti tra i due fronti contrapposti, i moderati e gli intransigenti, continueranno per qualche tempo non solo all’interno delle Colonie, ma anche su «La Pagina dell’emigrazione italiana», messa settimanalmente a disposizione della FCLIS dal giornale dei socialisti ticinesi «Libera Stampa». Lo scontro maggiore riguardava l’atteggiamento da mantenere verso i funzionari e gli impiegati dello Stato italiano in Svizzera. Gli intransigenti avrebbero voluto l’epurazione radicale di tutti, indistintamente, dello stesso Schiavetti e con lui di quasi tutti i dirigenti delle Colonie. Le posizioni degli intransigenti saranno, nella primavera del 1944, causa di dissapori tra la FCLIS e il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia. I rappresentanti delle Colonie Libere Italiane della Svizzera, riuniti a convegno a Zurigo il 12 marzo 1944, salutano l’azione eroica del popolo italiano nella zona invasa dal tedesco e la virile manifestazione del sentimento politico popolare dell’Italia meridionale. Constatato che le magistrature italiane in Svizzera, cui non sarebbe stato concesso nella tragica ora del paese di essere mediocri, sono state assolutamente insufficienti al loro compito, ne separano le responsabilità e ne deplorano la colposa inattività [...] fanno appello a tutti gli italiani di buona volontà e di provata fede democratica affinché il privilegio di essersi trovati in Svizzera si risolva nel dovere di prendere un’iniziativa che si sostituisca all’incomprensione delle rappresentanze diplomatiche e consolari e collabori a preparare in libera terra la vita dell’Italia di domani; auspicano infine all’unione spirituale di tutti gli italiani su le linee della classica tradizione storica del risorgimento e alla feconda collaborazione di quanti, col rispetto al contenuto ideologico dei singoli partiti, unanimi concordano nei principi morali di libertà, giustizia, repubblica sociale66.

  Corrispondenza. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati all’interno - Ar 40.20.1.   Corrispondenza. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2. 66  Odg approvato durante il primo convegno federale, Zurigo, 12 marzo 1944. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 64 65

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Gli esponenti della corrente liberale e di quella cattolico-popolare mostravano la loro preoccupazione per l’orientamento a sinistra di alcune Colonie, sicché apparivano inevitabili interventi molto critici. Le Colonie Libere avevano attirato l’attenzione di osservatori italiani a tal punto da generare un nutrito numero di articoli sulla stampa nazionale67, nei quali si mettevano in luce le perplessità legate agli assetti e agli orientamenti politici dell’organizzazione e si forniva una rappresentazione abbastanza chiara dei dissidi interni. Durante il ventennio i liberali e i democratico-cristiani non erano stati presenti nel mondo dell’emigrazione antifascista in Svizzera ed era abbastanza inevitabile che il loro peso politico all’interno delle Colonie fosse minore: c’era, insomma, una ragione storica effettiva, più che un’esplicita volontà di sopraffazione68. In tempi successivi, i giornali ticinesi avrebbero pubblicato appositi interventi di esponenti delle Colonie che ne sottolineavano proprio il carattere pluralistico e democratico, invitando i connazionali a intensificare la partecipazione, lontano da pregiudizi di parte. Anche se, l’anno dopo, durante il congresso di Lugano dell’ottobre 1945, l’ala massimalista della Federazione ritornò con maggiore forza sulla questione, nel tentativo di chiarirne i concetti «informatori». Necessità di chiarire i concetti informatori. Epurazione dal punto di vista delle collettività italiane. Epurazione dal punto di vista delle autorità svizzere. Necessità di non confondere le due cose che hanno mire differenti e per le quali valgono misure diverse. Legalità delle misure da prendersi. Interdipendenza dei problemi dell’epurazione e della unità delle collettività italiane69.

Questa posizione, in sostanza, mirava, da un lato, a un’attenuazione del rigore selettivo in merito alle ammissioni all’interno delle Colonie e, dall’altro, a una totale integrazione di queste nell’ambito degli organismi dipendenti dal CLN. La proposta non ebbe seguito, poiché tendeva ad assimilare sic et simpliciter realtà profondamente 67   Il clima delle Colonie Libere, firmato da «un vecchio liberale», in «L’Italia e il secondo Risorgimento», a. I, n. 35, 23 dicembre 1944. Gli italiani in Svizzera. Il problema della Colonie Libere, in «Libertà!», 22 febbraio 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1. 68   E. Signori, op. cit., p. 230. 69  Questione epurazioni. Relazione al congresso federale di Lugano, 14 ottobre 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1.

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differenti: gli organismi dipendenti dal CLN, nati per esclusivo impegno di diversi referenti rifugiati in Svizzera70 dopo l’8 settembre e legati strettamente alle vicende resistenziali, e le Colonie, sorte nell’ambiente del fuoriuscitismo antifascista di più antica data e ormai radicate nella situazione locale dell’emigrazione permanente. Così, dopo la liberazione, i primi, esaurita la loro funzione e rientrati in Italia i profughi, scomparvero naturalmente, mentre la Federazione delle Colonie restò in vita, indirizzando sempre più le proprie attività in ambito cooperativistico, sindacale, assistenziale e culturale. 4. La FCLIS supporto per i profughi e i rifugiati All’indomani dell’8 settembre del 1943, i compiti che attenderanno le Colonie Libere diventeranno gravosi sia per l’atteggiamento che in quegli anni mantenevano le autorità elvetiche che per il gran numero di italiani che giungevano in Svizzera. Durante la guerra il governo elvetico mantenne un atteggiamento neutrale, cosicché ai nuovi arrivati non fu possibile svolgere «attività politica pubblica». I circa 20.000 italiani71 che trovarono asilo nella vicina Confederazione vennero infatti dislocati nella quasi totalità in appositi campi, ad eccezione di quanti avevano nel Paese famiglie disposte ad ospitarli. Per gli italiani nei campi si tenevano riunioni che andavano sotto il nome di educazione civica, a cura di un gruppo di personaggi di cui facevano parte, tra gli altri, Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi72. Queste iniziative dimostrano solo parzialmente i compiti ai quali la FCLIS si dedicò in quegli anni, ma non sono del tutto chiarificatrici a proposito dell’attività politica pubblica dei nuovi arrivati o degli antifascisti che giunsero in Svizzera nei tempi immediatamente seguenti. Infatti, nonostante l’atteggiamento del governo elvetico, anche i fuoriusciti impegnati politicamente, come i comunisti Concetto Marchesi e Umberto Terracini, il democristiano Edoardo Clerici, il socialista Fernando Santi e altri, parteciparono in vari modi alla vita della FCLIS73. Nello specifico, si tenevano conferenze, si presenziava a convegni e congressi, si scriveva. La difficoltà di attribuire la paternità di questi   E. Signori, op. cit., p. 230.   V. Briani, Il lavoro italiano in Europa. Ieri e oggi, MAE, Roma, 1972, p. 97. 72  Ibid. 73  Note nominative. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1. 70 71

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documenti all’uno o all’altro sta nel fatto che quanto veniva pubblicato sulla «Pagina dell’emigrazione italiana» era sempre anonimo74. Attraverso un’indagine approfondita della «Pagina» di quegli anni si riesce a comprendere quale sia stata l’azione posta in atto, da parte della FCLIS, durante la fase conclusiva del conflitto. Infatti «Libera Stampa» presenterà «La Pagina» dell’8 gennaio del 1944, come segue: Sino al 25 luglio dell’anno scorso il problema dei nostri rapporti col popolo italiano era dominato dall’ombra densa e per molti aspetti impenetrabile del fascismo. Noi ci trovammo dinanzi a un popolo sequestrato e tenuto lontano da qualsiasi forma di effettiva fraternità internazionale: un popolo la cui rappresentanza all’estero era monopolizzata, su tutti i terreni, da un regime totalitario. Quasi tutti i rapporti politici e culturali con l’Italia si urtavano nel monopolio ufficiale cui erano sottoposte tutte le attività nazionali e suscitavano di per sé stessi delle interferenze di carattere, per dir così, diplomatico. Non era dato per di più di conoscere, in una situazione di quel genere, quali sarebbero state le reazioni definitive del popolo italiano nel confronto di altri popoli. [...] Gli avvenimenti di alcuni mesi fa hanno confermato, con i loro sviluppi ulteriori, le nostre speranze [...] esiste cioè fra il popolo svizzero da una parte e l’italiano dall’altra una comunità ampia e allo stesso tempo precisa di interessi ideali e politici. Questa comunità si chiama libertà, democrazia, socialismo75.

Queste parole danno il senso di come una forza democratica straniera considerasse il popolo italiano ed illustrano implicitamente le difficoltà che gli antifascisti italiani e le Colonie Libere avevano trovato nel momento in cui agivano nella speranza di contribuire alla formazione di un assetto politico-istituzionale di stampo socialista in Italia. Una simile impostazione, che non è ritracciabile nelle edizioni successive della «Pagina», vista l’assenza di precisazioni al riguardo da parte della FCLIS, lascia intendere che in quel periodo fosse lecito esprimersi in un modo simile. Tali dovevano essere gli orientamenti unitari dell’associazione, pur se per la stessa questione istituzionale tutto era rimandato alla decisione sovrana del popolo italiano. La conferma di quest’interpretazione degli indirizzi della FCLIS ci viene data, ad esempio, dall’edizione della «Pagina» del 7 aprile 1945. Nell’articolo di fondo si rileva la necessità di contrastare, con tutti i 74   «La Pagina dell’emigrazione», in «Libera Stampa», anni 1944/45. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1. 75  Ivi, 8 gennaio 1944. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1.

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mezzi, il lavoro sotterraneo da parte dei neofascisti e dei nazisti che tendono alla rivincita e alla difesa delle loro posizioni personali e si afferma: «Si profila così un immediato avvenire di lotta, il cui esito sarà estremamente interessante per l’avvenire dell’Italia e, in genere, per la riorganizzazione democratica e socialista dell’Europa»76. Come già accennato in precedenza, non sono rare le occasioni di polemica proprio con «L’Avvenire dei Lavoratori»77, il che sottolinea l’indipendenza reale della FCLIS e indica abbastanza chiaramente la pluralità di forze che concorrono a determinare la sua originale linea unitaria. Scorrendo le edizioni della «Pagina» – dal suo primo numero fino alla Liberazione e oltre – si può del resto avere l’esatta misura del contributo dato dalla FCLIS alla lotta per la definitiva sconfitta del fascismo, riscontrabile nell’orientamento delle masse emigrate, nella denuncia e nella punizione di tutti quei fascisti che, facendo capo alle rappresentanze diplomatiche e alle Camere di Commercio, per anni avevano spaventato larghi strati della collettività girando con la «cimice all’occhiello»78 e comparendo di soppiatto nei luoghi ritenuti più sicuri. A tal proposito, e per approfondire i contrasti tra la posizione dei moderati e degli intransigenti, esemplari risultano gli interventi della FCLIS in favore di un’epurazione che non significasse cieca vendetta. Si riportano, di seguito, alcuni esempi. Nel primo stralcio, con toni forti, si afferma che «resta confermato che la burocrazia del vecchio regime costituisce uno degli ostacoli più subdoli e tenaci al rinnovamento del Paese»79. Nel secondo, dal tono leggermente più moderato, si sostiene: «Abbiamo già avuto occasione di notare che l’unico modo di evitare le cieche esplosioni di furore popolare, tipo linciaggio Carrotta, è quello di procedere con la massima rapidità e severità con tutti gli elementi responsabili e rappresentativi del regime fascista»80. Questo passaggio ci testimonia come i dirigenti delle Colonie fossero a conoscenza del clima di quegli anni in Italia. Non a caso si   Ivi, 7 aprile 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1.   Cfr. ad es. «La Pagina dell’emigrazione», in «Libera Stampa», 2 settembre 1944. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1. 78   Ivi, 7 aprile 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1. 79  Ivi, 27 gennaio 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1. 80  Ivi, 31 marzo 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1. 76 77

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fa esplicito riferimento alla vicenda di Donato Carrotta, direttore del carcere Regina Cœli durante l’occupazione tedesca di Roma, il quale fu ucciso nel settembre del 1944 da una folla inferocita, mentre stava per deporre al processo contro il questore Caruso81. In sostanza, all’interno delle Colonie, c’era chi era convinto che occorresse procedere senza fraintendimenti a delle epurazioni mirate, dure ed inequivocabili, e chi invece era fortemente preoccupato per l’immagine complessiva dell’organizzazione stessa. Disammorbare. È tempo però che a questa parola se ne aggiunga un’altra, che se non serve ad integrarla, rende inutile la prima: epurazione senza espiazione vuol dire ben poco. [...] Giustizia è in marcia, nonostante tutto. A Zurigo, si parla dei 27 primi nomi di italiani da espellere. Non sono più i tempi in cui i consoli toglievano i certificati di cittadinanza ai migliori cittadini. L’Enit si è chiuso, senza onore per il «covo» e senza gloria per le autorità italiane82. Sulla questione dell’epurazione [...] il nostro procedere deve essere serio, e misurato. Non deve assolutamente mai nascondersi dietro l’anonimo, come ora accade a Zurigo, dove un gruppo di amici con i volantini firmati «Stella Rossa» ci ha fatto più danno che altro83.

Dal punto di vista, invece, delle iniziative a favore dell’emigrazione, le sedi delle Colonie divennero ben presto centri di incontri, di dibatti, di attività culturali, politiche ed assistenziali, in cui gli emigrati italiani in Svizzera ebbero la possibilità di discutere dei problemi in quel particolare momento della storia dell’emigrazione italiana. Le CLI furono il primo laboratorio veramente democratico nel mondo dell’emigrazione italiana, che guardava con speranza alla 81   Caruso, che infierì per mesi sugli antifascisti catturati dalla polizia, compilò con Buffarini Guidi la lista dei cinquanta nomi richiesti da Kappler per completare il numero degli italiani da massacrare alle Fosse Ardeatine. Il processo fu seguito da una grande folla, che si scagliò contro Carretta, nonostante quest’ultimo, durante l’occupazione, avesse aiutato la Resistenza e avesse favorito l’evasione di Pertini e di Saragat dal carcere di Regina Cœli. Per maggiori approfondimenti sulla vicenda Carretta, cfr. G. Ranzato, Il linciaggio di Carretta. Roma 1944: violenza politica e ordinaria violenza, Il Saggiatore, Milano, 1997. 82   «La Pagina dell’emigrazione», in «Libera Stampa», 16 giugno 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1. 83   12 ottobre 1945, lettera del segretario della Colonia di Zurigo Volli indirizzata al prof. Chiosteri, segretario nazionale della Federazione. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18.

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nuova Italia che stava venendo fuori dalla resistenza al fascismo. Per questo, in seno alle Colonie non ci si limitava alle conferenze e alle discussioni, ma si lavorava soprattutto su progetti concreti. Innanzitutto bisognava rafforzare la Federazione, c’erano da fondare nuove colonie, occorreva riorganizzare l’appoggio alla Resistenza, anche attraverso l’aiuto ai profughi. Sorsero così in seno alle Colonie i vari «Comitati di soccorso ai rifugiati civili e militari»84, che svolsero tra il 1943 ed il 1945 una proficua opera di assistenza in favore delle migliaia di italiani dimoranti in Svizzera. Come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza, non meno importante fu l’attività di informazione e collegamento che le Colonie tennero con il CNL Alta Italia. Sul finire del 1944 il movimento della FCLIS farà registrare una rapida espansione: le Colonie federate saranno quasi venti85 – alle quali si aggiungerà anche l’Unione Donne Italiane di Zurigo86 – ed ognuna di esse avrà un proprio statuto. Tra i principi statutari recepiti nell’ordinamento della Federazione87 stessa – approvato il 28 maggio 1944 dal Convegno federale di Zurigo88 – erano annoverati i seguenti articoli: Art. 1 – Le Colonie Libere esistenti nelle varie località della Svizzera e che riconoscono, al di fuori e al di sopra dei loro fini particolari, il valore normativo generale degli ideali di libertà, di giustizia e di pace che hanno animato il Risorgimento nazionale, costituiscono una «Federazione delle Colonie Italiane Libere in Svizzera». Art. 2 – Lo scopo della FCLIS è quello di difendere gli interessi dell’emigrazione italiana e di coordinare, in tutte le questioni in cui sia possibile e utile, l’attività e gli atteggiamenti delle colonie federate.   Atti fondativi. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.2.   Elenco delle colonie federate (al dicembre 1944): Zürich, Baden, Schaffhausen, St. Gallen, Rorschach, Kreuzlingen, Arbon, Burglen, Basel, Grenchen, Biel, Luzern, Genève, Lausanne, Bellinzona, Lugano, Mendrisio. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 86   L’associazione è stata costituita il 20 giugno 1945 a Zurigo con l’intento di fondare una rete associativa delle donne italiane in Svizzera. Dopo Zurigo, un’altra sede sarà quella di Basilea, come si evince dalla lettera di richiesta indirizzata nel luglio del 1945 alla Federazione delle Colonie. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 87   Statuto FCLIS. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11. 88  Delibera di approvazione. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 84 85

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Art. 3 – La Colonia Libera Italiana è amministrata in ogni località da un consiglio costituito dai rappresentanti delle singole colonie. Ogni colonia ha diritto a 1 voto ogni 20 adesioni individuali o frazione superiore a 10. Se alla Colonia aderiscono anche delle associazioni, la colonia stessa ha ancora diritto a 1 voto per ogni 5 associazioni aderenti. [...] Art. 5 – Un convegno della Federazione nomina una Giunta Federale composta di sette membri, quattro dei quali devono risiedere nella medesima località. Art. 6 – I fondi necessari all’opera di collegamento e all’attività della Federazione sono costituiti dalle quote annuali versate dalle diverse colonie e da eventuali oblazioni volontarie. La quota annuale minima per ogni colonia è di 100 franchi o di una somma corrispondente a 20 franchi per ogni voto al convegno.

Questi documenti sono la testimonianza più lampante che la FCLIS si attivò per un’opera di conciliazione tra gli italiani emigrati, accomunando sotto la stessa organizzazione i vari gruppi di antifascisti italiani formatisi nella Zurigo di quegli anni, come nel caso della Lega della Libertà di Zurigo. In nome di un gruppo di antifascisti italiani di Zurigo, che avevano assunto un atteggiamento critico nei rispetti della Colonia Libera, Le comunico il seguente ordine del giorno, da essi recentemente approvato: Gli antifascisti italiani di Zurigo già aderenti alla Lega della Libertà, riuniti in assemblea l’8 agosto 1945, esaminata la situazione, persuasi che la loro opposizione alla Colonia libera era pienamente giustificata, considerando però che le forze della reazione si stanno riorganizzando, per poterle meglio combattere, decidono all’unanimità di aderire alla Colonia libera89.

La risposta da parte della Colonia non tarderà e, nella stessa, ritroviamo tutto lo spirito riconciliante di quel periodo: Carissimo Valär, ringraziamo della tua lettera del 13 Agosto, e siamo ben lieti della deliberazione che avete preso di aderire alla Colonia Libera. Non entriamo nella polemica della poca opportunità nel passato, e della opportunità odierna di venire con noi. Siamo troppo lieti di vedere dei vecchi amici tornare con noi per la buona battaglia.

  Lettera della Lega della Libertà di Zurigo indirizzata alla CLI di Zurigo, Zurigo 13 agosto 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 89

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Il nostro statuto (che alleghiamo in copia) consente sia l’entrata dei singoli, che delle Associazioni, ed attendiamo di ottenere da te i nomi delle Associazioni e dei singoli, che accetteremo fra di noi da vecchi compagni. Ci sono, costituite in maggioranza, fra i tuoi amici, delle a noi ben note Associazioni che potranno aderire, e saranno ben accolte, in attesa che l’Assemblea dei singoli soci possa nominare nel Consiglio qualcuno dei nuovi soci che con te entreranno nella Colonia Libera, ci piacerà salutare nel Consiglio i Rappresentanti di queste Associazioni90.

Oltre la riconciliazione e l’unione di tutti i gruppi e le associazioni nate in emigrazione, con il chiaro intento di contrapporsi al fascismo, la FCLIS rilancia immediatamente una sua azione rivendicativa a favore degli emigranti rivolta ai futuri governi italiani. La proposta della Colonia di Ginevra, durante il congresso federale di Lugano del 1945, ne è una chiara testimonianza: [La Colonia di Ginevra] propone: Che vengano ammessi a far parte della CONSULTA NAZIONALE anche i rappresentanti delle più numerose collettività italiane all’estero, tra cui quelle della Svizzera, su designazione della Federazione delle Colonie Libere e dei CLN; Che i cittadini italiani residenti all’estero aventi, per legge, i requisiti necessari per l’esercizio del diritto elettorale, vengano al più presto iscritti nelle liste elettorali dei comuni di origine e che siano ammessi a votare presso il Consolato del luogo ove sono residenti o, quanto meno, ove ciò sia possibile, siano ammessi a votare in località italiane limitrofe allo stato estero di loro residenza (o, per la Svizzera, anche a Campione d’Intelci [diverrà d’Italia]), oppure per corrispondenza. Pertanto dovranno essere concesse ai cittadini all’estero che intendono esercitare il loro diritto elettorale tutte le facilitazioni di viaggio, di passaporti, di entrata e di uscita dall’Italia, che rendano tale esercizio più agevole e meno dispendioso possibile91.

La questione della rappresentanza degli italiani all’estero si tradurrà poi in due appositi interventi presentati da Fernando Schiavetti all’Assemblea Costituente, nelle sedute del 20 e 23 maggio 194792. 90   Lettera di risposta del 16 agosto 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 91   Congresso federale di Lugano, 14 ottobre 1945. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 92  F. Schiavetti, Per la rappresentanza degli italiani all’estero, discorsi pronunciati all’assemblea costituente nelle sedute del 20 e 23 maggio 1947, Roma. Cfr. E. Signori,

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Schiavetti sottolineava a più riprese come non fosse «sufficiente la semplice rassicurazione di un generico diritto al voto», che pure si voleva estendere agli italiani all’estero93. La sua proposta consisteva, invece, nel potenziamento di tutti gli esperimenti di autogoverno spontaneamente sorti in seno alle comunità italiane all’estero dopo il crollo del fascismo e nel promuovere, su quella base, una struttura rappresentativa ed elettiva. Quando molte comunità si sono trovate in lotta contro i consoli, che rappresentavano un regime decaduto, si sono date un ordinamento autonomo; per meglio dire non sono state comunità intere, ma sono state le minoranze attive e politicamente più intelligenti e progressiste di queste comunità che si sono date un ordinamento autonomo, accogliendo nel loro seno tutti gli italiani, esclusi i fascisti militanti, a qualunque partito essi appartenessero. Bisognerebbe lavorare nel solco di questa naturale reazione al dominio fascista e alla organizzazione fascista della comunità all’estero. Bisogna avere una grande fiducia in tutto quello che è spontaneo, che non risponde a un concetto astratto e teorico, ma che non fa altro che potenziare dei fenomeni che si sono già sviluppati naturalmente nel suolo della nostra vita collettiva94.

L’obiettivo era creare un Consiglio degli emigrati che, democraticamente eletto, potesse rappresentare le comunità italiane all’estero sostenendone gli interessi e le aspirazioni. A questa rappresentanza noi potremmo dare dei poteri di carattere consultivo, ma di grande valore. Sarebbe la voce di tutti i nostri connazionali, i nostri concittadini all’estero, concittadini che finalmente si sarebbero liberati dalla caporalistica pressione fascista e dalla autorità consolare come era esercitata durante il fascismo, autorità che rispondeva molto a quella di un commissario prefettizio o di un commissario regio in un comune. Queste nostre comunità all’estero sono in coscienza come dei comuni che non hanno libere rappresentanze né amministratori eletti dalla massa degli emigranti95. op. cit., p. 231. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a E. Signori, Il verde e il rosso. Fernando Schiavetti e gli antifascisti nell’esilio fra repubblicanesimo e socialismo, Le Monnier, Firenze, 1987. 93   Ibid. 94   F. Schiavetti, Passaporti prego! Ricordi e testimonianze di emigranti italiani, CLI, Zurigo, 1985, p. 15. 95  Ibid.

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In definitiva, per comprendere e ricostruire organicamente le fasi che portarono alla fondazione della FCLIS, la figura di Schiavetti non poteva non essere posta al centro di queste riflessioni. Comunque, è bene sottolineare come egli stesso fu aiutato nell’impresa da centinaia e centinaia di lavoratori emigrati, di rifugiati italiani, sia civili che militari, che arricchirono il patrimonio culturale delle Colonie stesse. All’interno di queste si instaurò un significativo confronto tra generazioni diverse e tra esperienze politiche profondamente dissimili. In un periodo in cui il nostro Paese sembrava andare alla deriva e l’autorità ed il prestigio delle sue rappresentanze ufficiali in Svizzera erano quasi ridotti a zero, le Colonie Libere Italiane, spontaneamente sorte per iniziativa popolare e antifascista in seno all’emigrazione, seppero degnamente rappresentare l’Italia e costruire un centro di rinnovamento e di speranza per le masse incerte e smarrite dei lavoratori italiani emigrati e dei rifugiati di recentissima provenienza96.

96   Testimonianza riportata in «Quaderni di Agorà», marzo 1994. SSZ, f. FCLIS, b. Letteratura - Ar 40.20.19.

Capitolo II

All’indomani del secondo conflitto mondiale (1945-1955)

1. Riorganizzazione delle Colonie e ripresa dei flussi migratori Sul finire della guerra, ormai la FCLIS si era formata e la sua configurazione iniziava a prendere corpo in maniera strutturata. Terminato il conflitto, i quadri più qualificati e, più in generale, i fuoriusciti, gli esuli e coloro che avevano sulle spalle mesi e anni di esilio e di lotta contro il regime rientrarono in Italia. Nel 1945 l’Italia non era uno dei Paesi più poveri al mondo1. Il Prodotto nazionale lordo pro capite era dieci volte superiore a quello dell’Argentina, anche se era meno di un terzo di quello degli Stati Uniti o della Svizzera2. La povertà, però, era relativa: oltre il 90% degli italiani era privo, in casa, di almeno una delle moderne comodità (l’elettricità, l’acqua potabile, i servizi igienici). Negli anni immediatamente successivi alla guerra, sul territorio italiano una parte significativa della popolazione non possedeva una casa3 e gli elevati tassi di disoccupazione e di mortalità infantile erano duri promemoria delle incessanti difficoltà economiche di un Paese in cui oltre il 40% della popolazione attiva (il 56% al Sud) si guadagnava ancora da vivere stentatamente in agricoltura. L’apparato industriale negli anni del regime era cresciuto e si era modernizzato, ma in misura del tutto modesta e spiccatamente solo nel Nord del Paese4, attraverso manovre speculative e politiche

1   D.R. Gabbaccia, Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi, Einaudi, Torino, 2003, p. 229. 2   P. Sydney, L’economia internazionale dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1999, tav. I.I. 3   D.R. Gabbaccia, op. cit., p. 229. 4  P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica, 19431988, Einaudi, Torino, 1989, pp. 283-286.

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bancarie adottate dal fascismo a sostegno di ciò che De Rosa ha definito il Nord progredito5. La Svizzera, dal canto suo, dopo la seconda guerra mondiale visse il più poderoso miracolo economico della sua storia, che durò quasi trent’anni e, oltre all’aumento rilevante dell’occupazione e la presenza di stranieri6, vide raddoppiarsi il suo Prodotto interno lordo7. Inoltre, mentre gli impianti produttivi industriali dei Paesi belligeranti – in particolar modo Francia, Germania, Austria ed Italia – erano distrutti, l’apparato produttivo elvetico, risparmiato dalla guerra, restò pressoché intatto, rendendosi così immediatamente funzionale alle ricostruzioni degli altri Paesi8. La produzione elvetica è confortata da una forte domanda, tanto nazionale quanto internazionale, derivata, appunto, dalla ricostruzione europea e, in seguito e dopo una breve flessione, dalla crescita economica degli anni Cinquanta9. In un primo tempo, i datori di lavoro svizzeri pensarono di rivolgersi alle limitrofe regioni della Germania e dell’Austria che tradizionalmente avevano fornito loro manodopera nel recente passato. Tuttavia, il governo, infastidito dal rifiuto delle autorità d’occupazione francesi che consideravano l’emigrazione dannosa per la ricostruzione di queste regioni provate dalla guerra, decise di rivolgersi altrove. Va sottolineato che anche la Francia soffriva dal 1945 di una considerevole mancanza di manodopera e, di conseguenza, si manifestò una concorrenza nascosta tra i due Paesi riguardo al reperimento di forza lavoro straniera10. In simili condizioni e con un’offerta che non riusciva ad essere soddisfatta dalla domanda interna e da quella tradizionalmente utilizzata, la Confederazione si trovò costretta, per la prima volta nella

5   L. De Rosa, La provincia subordinata. Saggio sulla questione meridionale, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 67-72. 6   K.J. Bade, L’Europa in movimento. Le migrazioni dal Settecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 388. 7   R. Ratti, Leggere la Svizzera. Saggio politico-economico sulle origini e sul divenire del modello elvetico, Casagrande, Bellinzona, 1995, p. 57. 8   Dokumentation zur Fremdarbeiter-Frage, SP-Information, n. 33/1974. SSZ, f. FCLIS, b. Letteratura - Ar 40.20.19. 9   E. Piguet, L’immigrazione in Svizzera. Sessant’anni con la porta semiaperta, Casagrande, Bellinzona, 2009, pp. 13-14 (ed. or., L’immigration en Suisse. Cinquante ans d’entrouverture, Presses Polytechniques et universitaires romandes, Lausanne, 2004). 10  Ibid.

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sua storia, a rivolgere la propria attenzione – in maniera organica11 – ad uno Stato straniero, in questo caso, all’Italia. In definitiva, se da un lato c’erano Paesi con un sistema produttivo distrutto o quasi, dall’altro la Svizzera si mostrava subito pronta ad assorbire un alto numero di manodopera12. Tra questi Paesi, soltanto l’Italia conobbe l’emigrazione di massa, risposta immediata al crescente esubero di forza lavoro, del quale lo stesso De Gasperi era conscio. Noi abbiamo esuberanza non solo di forze manovali, ma anche tecniche o professionali. Noi abbiamo bisogno di questa espansione [...] adattare a questa emigrazione le nostre scuole, i nostri corsi di perfezionamento. [...] Il problema del lavoro è un problema molteplice che ci assilla e che trova difficilmente una soluzione rapida e totale. Sono arrivato a dire ai rappresentanti dell’America che avremmo rinunciato al Piano Marshall purché ci dessero modo di finanziare una parte almeno della nostra emigrazione, perché il Piano Marshall è lento e non arriva che dopo molto tempo ad assorbire manodopera13.

Dal punto di vista politico, gli anni dell’immediato dopoguerra costituiscono per l’Italia un periodo di transizione dal regime fascista alla costruzione di un regime democratico e pluripartitico. Sono gli anni in cui si decide la forma istituzionale, si consolidano i partiti, si approva la nuova Costituzione repubblicana. Allo stesso tempo, non c’è dubbio che in nessun altro periodo della storia italiana la situazione internazionale, con la costruzione dei due blocchi, abbia influito in modo così determinante nella politica non soltanto estera, ma anche interna14. Sul versante, invece, della politica economica del governo 11   Fino all’avvio delle trattative dell’accordo di reclutamento con l’Italia, entrato in vigore nel 1948, la Svizzera non aveva mai sottoscritto, come Stato capofila, accordi di reclutamento specifici con Paesi fornitori di manodopera. 12   K.B. Mayer, The impact of postwar immigration on the demographic and social structure of Switzerland, in «Demography: a publication of the Population Association of America», Population Association of America, Washington, 1966, 3, 1, pp. 68-69. 13   A. De Gasperi, Scritti e discorsi di politica internazionale, Cinque Lune, Roma, 1990, p. 393. Cfr. anche Adstans (pseudonimo di Paolo Canali), Alcide De Gasperi nella politica estera italiana (1944-1953), Mondadori, Milano, 1953, p. 129; M.R. De Gasperi, De Gasperi. Ritratto di uno statista, La Repubblica, Roma, 2005, pp. 219247; F. Romero, L’emigrazione operaia in Europa (1948-1973), in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Partenze, Donzelli, Roma, 2001, pp. 402-404. 14  E.A. Rossi, L’Italia nel contesto internazionale (1945-1948), in G. Monina (a

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italiano, del quale De Gasperi fu massima espressione, la scelta di organizzare e gestire l’emigrazione quale elemento di politica economica si rivelerà come una strategia di portata pluridecennale. Gli espatri verso la Svizzera assumeranno, inevitabilmente, un ritmo e un volume mai conosciuti prima, tanto da superare complessivamente, nel ventennio 1946-1976, i due milioni di unità con cifre superiori alle 200.000 negli anni 1947-48 e nel periodo 1960-66, con punte di 142 e 143.000 rispettivamente nel 1961 e nel 196215. Con questi arrivi, la Svizzera si confermerà di gran lunga la prima meta dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra, assorbendo da sola il 31% del totale degli espatri del periodo, rispetto al complessivo 36% dei restanti Paesi europei16, e arrivando quindi ad accogliere, da sola, quasi il 50% delle partenze verso l’Europa. Le Colonie Libere, ben consapevoli della situazione e senza attendere le dichiarazioni di De Gasperi – nonostante le difficoltà di natura economica ed il rimpatrio dei suoi quadri più rappresentativi, tra i quali Schiavetti17 – non rallentarono la loro azione, anzi la intensificarono per venire incontro ai bisogni della nuova emigrazione, in parte di natura diversa ma non inferiori per importanza a quelli degli emigranti precedenti. Per quanto attiene al numero, gli italiani continuavano a moltiplicarsi esponenzialmente e la loro condizione, che di fatto era già mutata durante gli anni Trenta, si sarebbe formalizzata con l’accordo del 1948. La Svizzera aveva cambiato prospettiva e lo spirito con il quale si apprestava a disciplinare i nuovi ingressi della manodopera italiana sarà ben lontano da quello, chiaramente liberale, del 1868, che sosteneva: Tra la Confederazione Svizzera e il Regno d’Italia vi sarà amicizia perpetua e libertà reciproca di domicilio e commercio. Gli italiani saranno in ogni Cantone della Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo

cura di), 1945-1946. Le origini della repubblica, vol. I, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, p. 31. 15   V. Briani, op. cit., p. 98. Cfr. anche G. Rosoli (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana. 1876-1976, Cser, Roma, 1978, p. 441. 16   S. Rinauro, Il cammino della speranza. L’emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra, Einaudi, Torino, 2009, p. 129. 17   «Con la partenza di Schiavetti, le sezioni si sono trovate senza quell’anima direttrice e vivacchiano dove ci sono elementi locali che le mantengono in piedi alla meno peggio». Congresso federale, Zurigo, 26 ottobre 1947. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1.

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alle persone e proprietà loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come lo sono o potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni. E reciprocamente gli svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i nazionali. Di conseguenza, i cittadini di ciascuno dei due Stati, non meno che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del Paese, potranno liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte del territorio18.

Alle Colonie, soprattutto ai due nuclei più importanti, questo cambio di prospettiva fu ben chiaro e tempestivamente presero posizione. Il Consiglio della Colonia Libera italiana di Zurigo [...] dopo avere attentamente esaminato la situazione attuale delle collettività italiane in Svizzera, con particolare riferimento ai lavoratori emigrati [...] CONSIDERATO che la protezione dei loro interessi e la salvaguardia dei loro diritti di fronte all’imprenditore straniero ed alle autorità locali non sono sufficientemente assicurati dalle nostre rappresentanze diplomatiche e consolari [...] RIAFFERMA la sua adesione alla proposta formulata a suo tempo dalla Colonia Libera Italiana di Ginevra ed espressa con il voto emanato dal «Convegno delle CLI della Svizzera» il 21.10.1945, e pertanto invita le suddette rappresentanze diplomatiche e consolari a accogliere tale voto, realizzando, in sede adatta, in ogni località dove risiede un consolato [...] un SERVIZIO SPECIALE da affidare a persone competenti in materia di legislazione del lavoro e di assoluta fiducia dei lavoratori emigrati. Tale servizio sociale veglierà sul rispetto dei trattati e convenzioni internazionali sull’impiego della manodopera straniera e in collaborazione delle organizzazioni sindacali svizzere eserciterà la necessaria azione per tutelare i diritti generali del lavoro e quelli in particolare di categoria19.

A partire dagli ultimi mesi del 1945, si intensificherà la contrapposizione frontale tra le Colonie, le corporazioni padronali elvetiche e l’apparato politico-diplomatico italiano, che rispondeva direttamente alle indicazioni che pervenivano da Roma. Ritroviamo la sintesi di questa impostazione nelle linee guida del partito di

  Art. 1 della Convenzione, 22 luglio 1868. Cfr. E. Piguet, op. cit., p. 12.   Verbale di consiglio della Colonia di Zurigo, 9 ottobre 1946. SSZ, f. FCLIS, b. Zurigo - Ar 40.20.20. 18 19

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maggioranza relativa e perno del neonato impianto istituzionale, la Democrazia cristiana. L’intento era, sostanzialmente, quello di resistere alle pressioni esterne che provenivano dal mondo dell’emigrazione strutturata e di ottenere un duplice risultato interno. Da un lato, alleggerire la pressione dei milioni di disoccupati: «[l’emigrazione era necessaria per scaricare] la compressione interna [che minacciava] di compromettere l’equilibrio politico dato [...] equilibrio italiano che condiziona lo stesso equilibrio dei popoli europei, che ha nel 18 aprile la sua pietra angolare»20. Dall’altro, appianare la bilancia dei pagamenti con le rimesse degli stessi emigranti. Tali rimesse nel solo 1945 ammonteranno a 57 milioni di dollari e complessivamente, nel periodo 1945-1960, assommeranno a quasi un miliardo e 300.000 dollari21. Per quanto riguarda quelle provenienti dalla sola Svizzera, esse furono stimate in 6 milioni di dollari nel 1946, 150 nel 1959, 288 nel 1960 e tra i 250-300 nel 196622. Queste sono cifre da ritenersi, con ogni probabilità, sottostimate di oltre un 20%23. Sul versante elvetico, le corporazioni padronali ebbero come obiettivo primario quello di trarre i massimi vantaggi da una manodopera crescente, che si caratterizzerà sempre più per essere dequalificata professionalmente, impreparata culturalmente e la cui formazione è pressoché inutile, nonché pericolosa, per l’accordo di pace del lavoro. Questo segnò, inequivocabilmente, tutta la storia del sindacalismo in Svizzera. L’accordo, firmato nel 1937 dai sindacati e dalla potentissima Associazione padronale svizzera (Asm), riconosceva il sindacato quale interlocutore privilegiato e obbligava quest’ultimo al mantenimento della Pace Sociale. In altre parole, lo sciopero non era garantito, ma solo parzialmente e discrezionalmente riconosciuto a livello costituzionale.

20   M. Rumor, Necessità vitali del lavoro italiano. Relazione al III Congresso nazionale D.C., in Democrazia cristiana, I Congressi Nazionali della Democrazia Cristiana, Roma, 1959, p. 252. 21   I picchi maggiori si avranno nel 1957 e nel 1960, rispettivamente 187 e 288 milioni di dollari. Fseie-Fmsie, Documenti sulle attività e i problemi dei lavoratori italiani immigrati in Svizzera, in FCLIS (a cura di), «Quaderni Emigrazione», n. 4, 1970. SSZ, f. KZ, b. Rechtsfragen - Ar 48.60.5. 22   K.B. Mayer, The Impact, cit., p. 12. 23   M. Kuder, Emigrazione ed economia: flussi di uomini e rimesse tra Italia e Svizzera dal 1945 al 1970, in «Studi Emigrazione/Migration Studies», a. XLVII, n. 180, 2010, p. 805.

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[1°] I lavoratori e i datori di lavoro nonché le loro organizzazioni hanno il diritto di unirsi e di costituire associazioni a tutela dei loro interessi, nonché il diritto di aderirvi o no. [2°] I conflitti vanno per quanto possibile composti in via negoziale o conciliativa. [3°] Lo sciopero e la serrata sono leciti soltanto se si riferiscono ai rapporti di lavoro e non contrastano con impegni di preservare la pace del lavoro o di condurre trattative di conciliazione. [4°] La legge può vietare lo sciopero a determinate categorie di persone24.

Per quanto riguarda i rapporti tra la FCLIS e la diplomazia italiana in Svizzera, i risultati e l’azione della Federazione possono essere giudicati nel solco della mediazione. Se da un lato si instaura un minimo di collaborazione con la «nuova» rete consolare, dall’altro, continuano a persistere forti diffidenze reciproche, dovute sostanzialmente alla visione sulle forme della rappresentanza da garantire alla crescente massa di lavoratori che si dirigono verso la Svizzera. Prima di affermare il problema della ricostruzione democratica di tali collettività – problema che a noi sembra costituire la condizione alla risoluzione di ogni altro – il dr. Berio ha sollevato quello dei loro rapporti colle autorità consolari e della loro rappresentanza organica. Ed a proposito dei primi, dopo avere invitato gli italiani a stringersi fiduciosi intorno ai consoli, egli si è dichiarato, in linea di principio, sfavorevole alle Consulte Consolari, in quanto il Console quale organo del governo non potrebbe evidentemente essere assoggettato ad alcuna forma di controllo, anche indiretta, che non sia quella derivante dagli organi governativi centrali, di fronte ai quali egli è direttamente responsabile. [...] Premesso che per noi la ricostruzione democratica delle collettività significa la loro capacità all’autogoverno, all’esercizio effettivo della libertà e della democrazia, in assoluta indipendenza economica e politica, non comprendiamo come mai il dr. Berio attribuisce alla Consulta una funzione di controllo, quando essa è invece – e per eccellenza – un organo consultivo. Su questo equivoco egli giustifica la sua opinione sfavorevole. [...] Noi crediamo, viceversa, che le consulte siano necessarie, quando le autorità consolari intendono efficacemente contribuire alla difesa degli interessi dell’emigrazione, alla risoluzione dei loro specifici problemi di vita coloniale, allo sviluppo delle loro molteplici attività. Come può il Console esercitare queste azioni verso le istituzioni che – creazione vivente dell’emigrazione

  Art. 28 – Costituzione della Confederazione Elvetica che riporta i 4 commi dell’accordo di pace del lavoro siglato nel 1937. 24

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– amministrano e curano interessi italiani e collettivi, se egli non ne conosce praticamente i problemi da risolvere ed i bisogni da soddisfare? E come può egli conoscerli se non si «consulta» con coloro che le istituzioni stesse dirigono? [...] Il dr. Berio fa poi una grande confusione fra Consulta e Consiglio della Colonia, nel ritenere che le funzioni della prima possano essere devolute al secondo. Invece la Consulta ed il consiglio sono due organismi diversi: il primo è un organo di collegamento fra il console e la collettività organizzata, il secondo è l’espressione democratica della volontà della collettività stessa. Nell’atto in cui il Consiglio della Colonia agisce in veste di Consulta, manca l’organo che traduce in atto la volontà della collettività. Più ancora di una interferenza di poteri si tratterebbe di sostituire al potere legislativo ed esecutivo una consulenza tecnica. [...] Non solo, ma il dr. Berio ignora che le Colonie e i loro consigli esistono da tre anni. Si può, anzi, dire che esistono da vent’anni, da quando, cioè, il fascismo tentò di asservirsi l’immigrazione ed una parte, non certo la maggioranza, seppe resistere e mantenere libere le proprie istituzioni. Non vediamo, quindi, quale utile suggerimento possa darci il dr. Berio. Forse quando richiama gli italiani al dovere spontaneo di raggrupparli in determinati enti, per quanto possibile apolitici? Noi abbiamo già conosciuto i famosi «circoli apolitici italiani», sorti da quei fascisti desiderosi di cambiare l’etichetta rimanendo tali. Questi circoli apolitici ci ricordano strettamente i tempi del fascismo quando in Italia si leggeva nei locali pubblici: «qui non si fa politica». La politica è la scienza del governo della cosa pubblica. Quando il lavoratore non fa politica vuol dire che non si interessa alla cosa pubblica, di cui egli è il co-proprietario ed alla cui prosperità è il primo contribuente25.

In questo contesto, nell’immediato dopoguerra, le Colonie si troveranno a giocare una partita complessa su più fronti. Sul versante svizzero, con le autorità elvetiche, che già ai tempi della Società Mansarda, non vedevano di buon occhio le forme associative di tutela e salvaguardia della manodopera in generale, figurarsi di quella straniera; mentre sulla sponda italiana, bisognava far fronte alle crescenti spinte ed alla crescita esponenziale dell’emigrazione, senza che questa venisse tutelata in alcun modo da parte dell’Italia. Per quanto riguarda le cifre, stando alla sola emigrazione italiana regolare26, prima della sigla dell’accordo di reclutamento del 1948 25  Presa di posizione della Federazione rispetto al discorso del console Berio, in «La Pagina dell’emigrazione», in «Libera Stampa», 19 ottobre 1946. SSZ, f. FCLIS, b. Rifugiati - Ar 40.30.1. 26  Molti saranno gli ingressi clandestini, soprattutto dopo l’8 settembre 1943,

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Tab. 1. Espatri verso Paesi europei (1946-1948) Inghilterra

Benelux1

Germania

Francia

Svizzera

Altri

1946



24.653



28.135

48.808

1.481

1947

365

29.881



53.245

105.112

3.623

1948

2.679

47.023



40.231

102.241

1.129

Totali

3.044

101.557



121.611

256.161

6.233

Comprende Belgio, Lussemburgo e Olanda. Fonte: A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, Gangemi, Roma, 2009, p. 68. 1

immigrarono in Svizzera, nel triennio 1946-1948, quasi 260.000 italiani, ovvero, oltre il 50% del totale degli espatri verso i Paesi europei (tab. 1). Nonostante questo grande afflusso di manodopera, nel medesimo periodo i rimpatri dalla Svizzera supereranno le 100.000 unità (tab. 2), a dimostrazione che il principio di rotazione della manodopera sarà una delle peculiarità del flusso verso la Confederazione, almeno fino alla fine degli anni Settanta. Infatti, già nel 1924, nel messaggio di avvio dei lavori per la definizione della prima Legge federale sulla dimora e il domicilio degli stranieri (LDDS), il cambio di prospettiva elvetica era chiaro «siamo consapevoli della necessità di mano d’opera straniera [...] ad una sola condizione, non devono essere soggetti che si vogliono stabilire in modo definitivo»27. Di fatto, fino al 1960 la non-immigration immigration Country28 aveva reclutato braccia principalmente da quattro Paesi: anzitutto e dureranno incessantemente fino a tutto il 1947 compreso. In buona parte essi interesseranno grossi industriali del Nord Italia, gerarchi fascisti e collaborazionisti del regime. Anche se non è possibile azzardare una stima esatta, si rimanda alle pagine di uno dei pochi lavori esaustivi sull’argomento, S. Rinauro, op. cit., pp. 124-138. Per quanto riguarda, invece, la clandestinità della manodopera italiana, essa si attesta in media intorno alle 10.000 unità l’anno, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta. 27  Tratto dal messaggio del 1924 presentato in Parlamento dal Consiglio federale, per l’apertura dei lavori che porteranno all’approvazione il 26 marzo 1931 della prima legge organica in materia. La nuova LDDS entrerà in vigore il 1° gennaio 1934. RU 142.20. 28  K.J. Bade, op. cit., p. 388.

­­­­­45

Tab. 2. Rimpatri per Paesi di provenienza (1946-1948) Inghilterra

Benelux1

1946



3.329

1947

112

6.134

1948 Totali

Germania

Francia

Svizzera

Altri



137



492



12.190

35.216

1.768

2

16.067



3.096

81.672

854

114

25.530



15.423

116.888

3.114

Comprende Belgio, Lussemburgo e Olanda. Fonte: A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit., p. 68. 1

Tab. 3. Visti censiti dalla polizia degli stranieri per tipologia e nazionalità (1° gennaio-30 giugno 1946) Tip.Visto

Totale

Germania

Francia

Italia

Austria

Altri

semplice

62.997

9.469

9.238

21.276

6.106

16.908

transito

1.474

38

170

404

210

652

permanente

4.175

44

3.119

378

85

549

eccezionale

3.813

361

657

588

355

1.852

245

12

29

163

16

25

altro

Fonte: elaborazione su dati Bundesamt für Industrie, Gewerbe und Arbeit, Betrieb Einreise ausländischer Arbeitskräfte, 21 August 1946, all. 2. Dds, DoDis, d. nr. 2188.

dall’Italia, e poi, in misura inferiore, dalla Germania, dall’Austria e dalla Francia. Anche se, già durante il primo semestre del 1946, la presenza di manodopera italiana sarà nettamente prevalente (tab. 3). I comparti nei quali troveranno lavoro gli stranieri resteranno sostanzialmente, tranne qualche variazione a favore dell’industria e a discapito del comparto agricolo, gli stessi almeno fino alla metà degli anni Sessanta. Questo varrà soprattutto per i lavoratori italiani (tab. 4). Dal 1° gennaio al 31 luglio 1946, in tutto, sono stati rilasciati dalla Svizzera 35.000 permessi di lavoro [grosso modo] così ripartiti: agricoltura (8.663), edilizia (5.111), ristorazione (5.390), domestici (4.527). Inoltre, boschivi (3.259) e industria tessile (1.189). Naturalmente, nei comparti dell’agricoltura, boschivi, edilizia e ristorazione, si tratta perlopiù ­­­­­46

Tab. 4. Ingressi italiani per comparto d’impiego e liste di chiamata (1° gennaio-18 agosto 1946) Comparto

Uff. Lavoro Italiani1

Chiamate nominative2

Situazione al 15.08.463

Rimpatri al 18.08.464

Ristorazione

2.900

3.600

2.4686

1.696

Agricoltura

2.500

2.6285

1.5097

606

Tessile

500

390

195

79

Domestico

200

246

120

22

sanitario/assist.

60

131

63

39

ind. Conserve

200









156

122

80

6.360

7.151

4.477

2.522

Diversi Totali

1 Manodopera richiesta mediante Uffici del lavoro in Italia.  2 Chiamate nominative presso gli Uffici di categoria svizzeri fino al 31/05/46.  3 Manodopera impiegata al 15/08/46.  4 Rimpatri al 18/08/46.  5 Quanitativo che non tiene conto delle chiamate attraverso la Coop. Migros (1.500 unità).  6 Non rientrano circa 110 unità prive di regolare autorizzazione.  7 Non rientrano circa 380 unità prive di regolare autorizzazione. Fonte: elaborazione da Bundesamt für Industrie, Gewerbe und Arbeit, Betrieb Einreise Ausländer Arbeitskräfte, 21 August 1946, all. 3. Dds, DoDis, d. nr. 2188.

di permessi stagionali [...] stando ai rapporti della Polizia degli stranieri dal 1° gennaio al 30 giugno 1946, le nazionalità sono così composte: italiani, 12.108 visti e 9399 visti cantonali; francesi, 1.501 visti e 1.068 visti cantonali; tedeschi, 701 visti e 1.017 visti cantonali; austriaci, 743 visti e 766 visti cantonali29.

Questi dati, per stessa ammissione della Fremdenpolizei (polizia degli stranieri), sono presunti, perché «quanti occupati siano realmente entrati, non è possibile stabilirlo»30. L’esplicita dichiarazione di impotenza nel controllo reale dei flussi di manodopera, cosa rara e che difficilmente si ripeterà negli anni a seguire, fa emergere quelle che – nonostante i progressivi irrigidimenti legislativi, procedurali e politici – sono e saranno le vere difficoltà con le quali le autorità elvetiche dovranno confrontarsi nei decenni a seguire: gli ingressi irregolari e le chiamate parallele. 29   Bundesamt für Industrie, Gewerbe und Arbeit, Betrieb Einreise ausländischer Arbeitskräfte, 21 August 1946, all. 2. Dds, DoDis, d. nr. 2188, p. 1. 30  Ibid.

­­­­­47

[Rimpatri forza lavoro italiana] ad oggi, ne sono stati rimpatriati 6.360 [...] anche se la Polizia degli stranieri, in alcune località, ha notato l’aumento in pochi giorni, del 30-40% della forza lavoro [...] anche se complessivamente ad oggi (20 agosto 1946) dei 7.150 lavoratori italiani censiti, circa 4.480 sono risultati regolari, mentre i restanti 2.520 sono stati rimpatriati. [...] Il motivo è dovuto al fatto che il comparto agricolo poco interessa agli italiani [...] Parallelamente al reclutamento svolto attraverso gli uffici di collocamento italiani e dalla Cooperativa Migros, la quale ha ingaggiato qualche migliaia di agricoltori e domestici, notevole è la forza lavoro ingaggiata, direttamente, dalle aziende svizzere, in particolar modo nei comparti dell’edilizia, dell’industria tessile e delle conserve, ma anche nei comparti agricolo e domestico. Le autorità consolari italiane, in questo caso, hanno a partire dal 1° febbraio 1946 ad oggi, concesso 31.800 visti mediante chiamata diretta31.

Se i permessi/visti a chiamata diretta – e quindi individuali – eludono sia i sistemi dei controlli in ingresso sia il tentativo da parte dell’Italia di controllare ed indirizzare i flussi in uscita, allo stesso modo incrementano il sistema delle «catene di richiamo». Questo rappresenta un elemento classico e storico dell’emigrazione italiana, che nel caso della Svizzera, dopo l’accordo del 1948, diverrà l’unica soluzione per rendere l’emigrazione «proletaria»32. Gli ingressi irregolari e/o clandestini saranno una delle contraddizioni delle politiche elvetiche di ammissione: l’irregolarità è, infatti, dovuta all’irrigidimento legislativo ed esclusivamente legata alle congiunture economiche e alla salvaguardia di determinati comparti occupazionali, come nel caso dell’agricoltura o dell’edilizia. 2. 1948, Italia e Svizzera si accordano sul reclutamento Come abbiamo visto, la Svizzera già alla metà degli anni Venti era consapevole di dovere ricorrere in maniera massiccia ed organizzata

  Ivi, pp. 2-3.   Fortunata Piselli sottolinea come si possa parlare di emigrazione proletaria, definendo «alla portata di tutti» solo quella a partire dagli anni Cinquanta: «L’emigrazione è ormai diretta prevalentemente verso i centri industriali del Nord Italia e dell’Europa centro-occidentale (Germania e Svizzera in particolare) [essa] comporta rischi e costi molto minori [...] è insomma alla portata di tutti quegli strati minori». Cfr. F. Piselli, Il network sociale nell’analisi dei movimenti migratori, in «Studi Emigrazione/Migration Studies», a. XXXIV, n. 125, 1997, pp. 5-7. 31 32

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alla manodopera straniera. La crisi degli anni Trenta e la guerra non fecero altro che posticipare quanto accadrà a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta. La crescita incontrollata degli arrivi dall’Italia – dovuti alla ormai consolidata tradizione migratoria, alla stessa vicinanza tra i due Paesi, al peso della tradizione frontaliera e stagionale, alla tendenza a chiudere un occhio rispetto alle procedure meno ortodosse di reclutamento ed infine all’esigenza politica di controllare e gestire in maniera diretta ed assistita i flussi in uscita e in ingresso – rese indispensabile un accordo di reclutamento della manodopera tra i due Paesi. Quali fossero la situazione e, soprattutto, l’esigenza di gestire e controllare l’enorme afflusso sono ben chiarite da un Rapporto che lo stesso Reale invierà all’allora ministro del Lavoro, Fanfani, nel novembre del 1947: I datori di lavoro svizzero si rivolgono in Italia ed anche qui, a tutti, per avere liste e nomi di nostri lavoratori da impiegare: agli uffici italiani del lavoro, alle Acli, all’Udi, alle camere di lavoro, ad agenzie di collocamento di ogni specie, a missioni cattoliche, a parenti, a conoscenti, a privati ed operai che già sono ai loro servizi e che designano a loro volta propri congiunti e amici33.

In sostanza, Reale sottolineava l’esigenza di mantenere una certa elasticità e di adeguarsi in maniera propositiva alle richieste delle autorità d’Oltralpe34. Con questo spirito, il 22 giugno 1948, l’Italia arrivò a sottoscrivere l’accordo con la Confederazione elvetica. Dal punto di vista formale, per la prima volta nella sua storia, la Svizzera aveva firmato un accordo relativo all’immigrazione con un altro Paese, coinvolgendo in prima persona il proprio apparato statale35. L’approccio con il quale la Svizzera affrontò la stesura dei propri programmi migratori, in particolar modo nel 1948, ma anche successivamente nel 1964 e nel 1970, la mise nelle condizioni di anticipare in modo considerevole la gran parte degli altri Paesi europei destinatari in quegli anni e successivamente di manodopera

  Lettera di Reale a Fanfani, 28 novembre 1947, in M. Colucci, op. cit., p. 173.   Ibid. 35  M. Cerutti, Un secolo di emigrazione italiana in Svizzera (1870-1970). Attraverso le fonti dell’Archivio federale, in «Studien und Quellen», n. 20, 1994, p. 27. 33 34

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straniera36. Con l’accordo sul reclutamento stipulato con l’Italia, si era cominciato ad applicare il modello svizzero di rotazione, che prevedeva contratti di lavoro a termine, ma rinnovabili per i lavoratori «stagionali» e «annuali». Esso comprendeva anche – nell’interesse della manodopera nazionale – uguali condizioni salariali e lavorative, ma non contemplava alcuna componente di garanzia sociale come l’assicurazione contro la disoccupazione, per la vecchiaia e a favore dei superstiti e tanto meno il diritto di cambiare lavoro o del ricongiungimento familiare. Sul versante interno della politica italiana, l’accordo consentirà alla Democrazia cristiana di incassare un doppio risultato: calmierare le crescenti tensioni sociali attraverso l’alleggerimento della disoccupazione e arginare la crescita del Partito comunista. Nel quadro internazionale, la Svizzera era ben lieta di aiutare il governo democristiano, tanto che Alfred Zehnder, stretto collaboratore di Max Petitpierre – capo del Dipartimento politico – sottolineava la necessità di aiutare in tutti i modi il governo italiano «per non correre il rischio che il comunismo prenda piede sulla nostra lunga frontiera meridionale»37. Ovviamente questa posizione non era solo figlia di una strategia internazionale, bensì affondava le sue radici nella convinzione che un simile atteggiamento potesse avere effetti positivi sull’opinione degli stessi lavoratori italiani in Svizzera. Il pensiero di Petitpierre al proposito era chiaro: «Gli operari italiani all’estero che guadagnano più dei lavoratori rimasti in Italia costituiscono un elemento di stabilità politica. Si prevede che, il Governo italiano conta su questo aspetto, gli operari italiani che vivono in Svizzera votino per i partiti dell’ordine e della stabilità»38. Se la strategia era evidente, occorreva dunque passare dall’ipotesi ai fatti, facilitando ai lavoratori italiani l’esercizio dei propri diritti politici in patria. Materialmente, si faciliterà, in accordo con l’Italia, la predisposizione dei famosi «treni speciali», che consentiranno ai lavoratori italiani di recarsi gratuitamente in Italia in occasione degli appuntamenti elettorali. Ad esempio, per le elezioni del 7 e 8 giugno del 1953, i convogli saranno ben 31. L’efficienza della macchina organizzativa è anche testimoniata dal numero di coloro che si reche  K. Bade, op. cit., p. 389.   M. Cerutti, op. cit., p. 96. 38  Lettera di Petitpierre al consigliere federale Rubattel. Ivi, p. 69. 36 37

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ranno alle urne: 90.000 nel 1958 e 180.000 nel 1963; rispettivamente il 35 ed il 40% degli aventi diritti al voto39. Ritornando al reclutamento, ufficialmente – abbiamo visto come spesso non sarà così – i datori di lavoro svizzeri dovettero passare attraverso la rete consolare per reperire la manodopera, permettendo in tal modo un controllo effettivo sugli ingressi alle delegazioni italiane. Dal canto loro, le autorità elvetiche si adopereranno per evitare un’eccessiva politicizzazione dei lavoratori italiani. Per quanto attiene ai permessi di lavoro, questi corrisposero grosso modo a tre tipologie: il permesso stagionale (tipo A), che concede il diritto di permanenza per 9 mesi, il permesso annuale (tipo B), rinnovabile e il permesso di dimora (tipo C), concesso dopo aver maturato i requisiti40. Questo nuovo modello che, dal 1948 in poi, disciplinerà le tipologie d’ingresso, sarà da subito oggetto di forti critiche da parte delle Colonie Libere. I punti di contrasto saranno sostanzialmente dovuti ai tempi per il rilascio dei permessi di dimora e, soprattutto, allo statuto degli stagionali. Va detto che quest’ultimo punto sarà al centro dell’azione e delle battaglie della FCLIS per oltre mezzo secolo, ma non produrrà gli effetti sperati. A testimoniare l’insormontabile difficoltà, basti dire che lo status di lavoratore stagionale sarà abolito per volontà dell’Unione europea, solo nel 200241. Per la FCLIS l’imputato divenne il governo italiano e, quindi, la politica della Dc, per aver sottoscritto un accordo che peggiorava lo status giuridico degli italiani in Svizzera. L’intesa intergovernativa era peggiorativa sia rispetto ai dettati della LDDS che rispetto a quanto era riuscito ad ottenere lo stesso Mussolini. Ad esempio, per ciò che riguarda il permesso di domicilio, nel 1934 esso maturava dopo cinque anni ininterrotti, mentre con l’accordo del 1948 ce ne vorranno dieci. I lavoratori italiani, che risiedono in Svizzera in modo regolare e ininterrotto per almeno cinque anni, beneficeranno dei vantaggi seguenti: otterranno il rinnovo del permesso di dimora per il posto di lavoro che già

  E. Piguet, op. cit., p. 14.   Ivi, p. 15. 41   Dfae, Cittadini e cittadine dell’UE. Cosa cambia con l’accordo bilaterale sulla libera circolazione delle persone?, Ufficio federale degli stranieri, Berna, gennaio 2002. 39 40

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occupano; il permesso sarà rinnovato successivamente per due periodi di due anni ciascuno e, poi, una terza volta, fino al rilascio del permesso di domicilio sempre che la validità del loro passaporto lo consenta [...] restano salve le disposizioni svizzere che limitano l’impiego della mano d’opera straniera per inderogabili ragioni di interesse nazionale42.

Inoltre, «in modo regolare per almeno cinque anni», significa che sarebbero occorsi 45 mesi43 ininterrotti (5 anni da stagionale, 9 mesi all’anno) per l’ottenimento del permesso annuale (B), durante i quali è vietato cambiare datore di lavoro e cantone di domicilio. Successivamente, il permesso B doveva essere rinnovato per altre tre volte e solo dopo 10 anni si otteneva il permesso di dimora (C). Questo ovviamente è ciò che sarebbe accaduto in teoria e se durante l’arco di tutto il decennio dell’attività, questa fosse proceduta senza intoppi dal punto di vista individuale e delle condizioni economiche e sociali. La complessità e la rigidità di tale sistema di concessione rendono difficile, nell’immediato, un netto miglioramento delle condizioni della manodopera italiana, costringendo quest’ultima ad una perenne situazione di stagionalità che priva molti lavoratori, almeno per i primi anni dell’accordo, delle garanzie minime in termini assicurativi e previdenziali. La presa di posizione netta da parte della FCLIS non si fece attendere, tanto che già nel luglio del 1948, tramite il «Bollettino per i soci» – organo di stampa mensile della Federazione – vennero sottolineate tutte le perplessità su un accordo che avrebbe peggiorato la condizione dei lavoratori italiani in Svizzera. Gli emigrati italiani sono costretti fino ad oggi al pagamento del 2% per l’Assicurazione vecchiaia e superstiti senza il godimento dei diritti corrispondenti [...] la legge svizzera sulle assicurazioni obbliga anche gli stranieri al pagamento delle quote assicurative nella stessa misura dei cittadini svizzeri, ma mentre questi ultimi hanno il diritto ad una delle

42   Art. 11, Accordo di reclutamento Italia-Svizzera del 1948. Accordo firmato il 22 giugno 1948 ed entrato in vigore in Italia con decreto del presidente della Repubblica del 10 dicembre 1948, n. 1659. RU 1948.790. Dello stesso avviso sarà, a distanza di trent’anni, anche un’inchiesta federale in materia di immigrazione. Documentation zur Fremdarbeiter-Frage, SP-Information, n. 33/1974. SSZ, f. FCLIS, b. Letteratura - Ar 40.20.19. 43  Cfr. art. 12 dell’Accordo.

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rendite ordinarie DOPO UN ANNO di pagamento di contributi, gli stranieri hanno diritto alla rendita DOPO DIECI ANNI. Inoltre le rendite ordinarie spettanti agli stranieri, i cui Paesi d’origine non riservano agli svizzeri il beneficio di una assicurazione pari a quella introdotta in Svizzera, sono ridotte ai due terzi della somma legalmente prevista. I lavoratori italiani stabiliti riceveranno quindi solo i due terzi della rendita ordinaria. Inoltre, gli stranieri di età avanzata sono esclusi dalle rendite transitorie previste per gli svizzeri. Altra condizione posta è che gli stranieri hanno diritto alla rendita solo se mantengono il loro domicilio in Svizzera. Se gli italiani stabili [...] sono in una situazione di netta inferiorità di fronte ai cittadini svizzeri, ancora peggiore è la sorte degli stagionali [si parla ufficialmente per la prima volta di loro]. Lo stesso rapporto del Consiglio Federale sulla nuova assicurazione del 24 giugno 1946 dice che per effetto della condizione contributiva di dieci anni interi posta agli stranieri questi non acquisteranno che raramente il diritto di rendita. È dunque questa la sorte degli operai stagionali?44

La critica maggiore, però, è di ordine procedurale. Le Colonie Libere accusano i governi dei due Paesi di mancata concertazione, come si direbbe oggi, soprattutto per non aver consultato né i sindacati – svizzeri ed italiani – né le associazioni dell’emigrazione. Le autorità responsabili che sanno come noi l’insostenibilità della situazione hanno iniziato le trattative [...], ma presentano la grave lacuna di svolgersi senza il consiglio dei rappresentanti dei sindacati operai. La soluzione di un problema che riguarda solo i lavoratori è esclusivamente affidata ai tecnici della diplomazia. Noi neghiamo ch’essi possano sentire i problemi operai, difendere gli interessi delle classi lavoratrici come gli operai stessi potrebbero farlo attraverso i loro organi, sorti dal cuore della loro classe ad esprimere le esigenze economiche ed ideali45.

In definitiva, la questione rappresentanza, o meglio, le forme di tutela e di ampliamento della stessa, resteranno un punto fermo dell’azione della FCLIS per almeno il primo ventennio del secondo dopoguerra. Alle conquiste e ai risultati positivi si alterneranno cocenti delusioni ed amare sconfitte programmatiche. Nel frattempo, vista la crescita in termini quantitativi della presenza italiana in Sviz44   «Bollettino per i soci», nr. 7 del 1948. SSZ, f. FCLIS, b. Convegni, riunioni - Ar 40.50.4. 45  «Bollettino per i soci», nr. 10 del 1948. SSZ, f. FCLIS, b. Convegni, riunioni - Ar 40.50.4.

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zera e l’accentuarsi delle difficoltà e della durezza delle condizioni nelle quali si trovarono migliaia di lavoratori, le Colonie intensificheranno la propria azione. Ciò sarà reso possibile grazie alla costante espansione delle sedi, che si moltiplicarono ininterrottamente fino alla fine degli anni Sessanta, in particolare nelle città e nei centri che vedevano l’afflusso massiccio di emigranti dall’Italia. L’espansione capillare fu dovuta, almeno in questa fase, al fatto che le Colonie Libere compresero da subito che la crescente massa degli stagionali andava avvicinata, accolta e tutelata. Ai Comitati delle Colonie Libere Italiane. [...] In seguito alla riunione della Giunta Federale tenuta a Zurigo l’11 marzo, dopo aver discusso i problemi vitali che attualmente interessano l’emigrazione italiana e di cui troverete notizia nel Bollettino, si è anche deciso di esplicare una speciale attività in occasione del prossimo arrivo degli operai stagionali. Essi devono essere avvicinati dalle Colonie Libere e devono conoscere la lotta che esse hanno con successo condotto per il bene degli operai emigranti. A questo scopo è necessario in ogni località distribuire dei manifestini e nello stesso tempo organizzare una riunione in cui vengano spiegate le finalità e le attività delle nostre colonie46.

Alla circolare troviamo allegata la comunicazione da distribuire ai nuovi arrivati: OPERAI ITALIANI. Le Colonie Libere non sono un partito politico ma una associazione di italiani che credono nella libertà, che vogliono difendere gli interessi economici dei lavoratori italiani all’estero. Le Colonie Libere hanno da anni lottato per migliorare le vostre condizioni nel campo assicurativo, per ridurre il costo del vostro passaporto, per istituire scuole e biblioteche per lavoratori, per impedire ingiustizie e sfruttamento a carico di operai indifesi. Per queste ragioni le Colonie Libere meritano tutta la vostra simpatia e tutta la vostra entusiastica collaborazione47.

Insomma, negli anni in cui la presenza della manodopera italiana si moltiplicava, la struttura organizzativa della FCLIS era in piena fase di ristrutturazione. Come già accennato, i quadri più rappre-

46   Circolare della Giunta federale indirizzata ai comitati territoriali, Zurigo, 13 marzo 1951. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2. 47  Ibid.

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sentativi erano rimpatriati, ma nel frattempo si moltiplicavano gli attivisti ed i nuovi volontari. D’altronde, la FCLIS intervenne costantemente in favore di tutti gli emigranti, anche su piani diversi, quali la formazione professionale, culturale e ricreativa. Furono promosse manifestazioni culturali, pianificati corsi professionali e di alfabetizzazione, sodalizi sportivi e iniziative corrispondenti: un insieme di azioni poste in essere per organizzare al meglio e proficuamente il tempo libero dell’emigrante stesso. Tutto questo fu pensato conservando, caparbiamente, un filo rosso con la storia e, attraverso un legame costante con i principi e le personalità che faticosamente avevano portato alla Repubblica, senza dimenticare la nuova identità che l’Italia si stava dando. Fra i componenti le Colonie Libere Italiane e amici simpatizzanti, per raccogliere i fondi finanziari allo scopo di ricordare con lapide muraria, il grande Apostolo della Repubblica Italiana, GIUSEPPE MAZZINI. Lapide che verrà messa sulla facciata della casa ove il Mazzini visse in esilio nel 1835 a Grenchen. [...] Saranno invitate tutte le Colonie Libere e la manifestazione avrà luogo verso i primi di ottobre 195248.

Fu proprio grazie a queste attività e ai primi successi conseguiti sul piano rivendicativo che il prestigio della FCLIS crebbe esponenzialmente. La crescita andava di pari passo con la ripresa dell’emigrazione di massa verso la Svizzera, tanto da posizionare le Colonie Libere tra le associazioni di riferimento per i nuovi arrivati. Le attività delle Colonie non si limitarono solo al perimetro elvetico. Una finestra su ciò che accadeva in Italia era sempre aperta, tanto che la Federazione organizzerà numerose catene di solidarietà per le varie sciagure. Sarà così, ad esempio, in occasione delle inondazioni del Polesine: Sappiamo che in tutte le Colonie si è iniziata una spontanea attività di raccolta dei fondi e vogliamo in proposito ricordarvi che questi fondi si possono consegnare al Consolato locale in nome delle Colonie Libere. Le Colonie che si trovano lontane della sedi consolari o che desiderassero particolarmente farlo, possono inviare i fondi alla Legazione di Berna in

  Circolare della Giunta federale indirizzata alle Colonie territoriali, Zurigo, luglio 1952. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2. 48

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nome delle Colonie Libere. Questo è il consiglio che la Federazione CLI, può darvi: ma dato che le Colonie sono autonome, possono mandare il denaro e indumenti, dove meglio credano. Vi saremo grati, cari amici, se vorrete comunicarci qual è stata la somma da voi raccolta, affinché noi possiamo avere, anche per la stampa, il quadro complessivo e generale di quanto avranno fatto le Colonie Libere della Svizzera in occasione della sventura che ha colpito il nostro Paese49.

Ma la solidarietà non mancherà nemmeno successivamente, nei casi dell’alluvione nel Salernitano50 o dei tanti terremoti, partendo da Belice, Friuli, Irpinia, per arrivare fino ai giorni nostri, con quelli più recenti dell’Aquila e dell’Emilia. 3. Le attività di accoglienza e di tutela dell’emigrazione di massa. Il ruolo dell’Assistenza italiana di Zurigo Un’attività che più di altre caratterizzò l’azione e l’organizzazione delle CLI, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, fu sicuramente l’assistenza ai più deboli. Alla base vi è il lodevole tentativo, a volte riuscito a volte meno, di supplire alle mancate tutele in termini di assistenza sociale e di assistenza al lavoro. Infatti, non è un caso se, a partire dalla metà degli anni Sessanta, quando saranno istituiti anche in Svizzera i Patronati di emanazione sindacale italiana, la FCLIS collaborerà subito e intensamente con essi e, in particolar modo, con l’Inca-Cgil51. Nei primi anni di attività, le azioni di maggior rilievo della FCLIS – oltre alle innumerevoli denunce dei casi più clamorosi di sfruttamento sul mercato degli alloggi – saranno quelle concernenti la gratuità del passaporto e le relative misure in merito ai diritti sociali e previdenziali. Per quanto riguarda la questione passaporti, con lo slogan «All’emigrazione più povera d’Europa è imposto il passaporto più caro d’Europa», nel 1950 la FCLIS lanciò una petizione affinché 49   Circolare della Giunta federale indirizzata alle Colonie territoriali, Zurigo, 29 novembre 1951. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2. 50   Ricavato delle sottoscrizioni a favore degli alluvionati del Salernitano (52.000 Fr. e 13.000 L.). Zurigo, 11 gennaio 1955. SSZ f. FCLIS, b. Corrispondenza Consolati - Ar 40.20.5. 51   Nel 1968 iniziò presso le 90 Colonie l’attività di consulenza, assistenza e tutela in collaborazione con il patronato Inca-Cgil. Cfr. M.C. Rainer, op. cit., p. 146; cfr. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazioni affini Italiane - Ar 40.20.15.

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il documento fosse messo a disposizione gratuitamente. Fu firmata da 19.000 lavoratori italiani52 e approvata in Senato, su proposta del Consiglio dei ministri, il 27 marzo del 1952. Il passaporto è valido in linea generale, per cinque anni; per chi non ha obblighi di leva, la sua validità non va oltre un anno. Sono esenti dalla tassa gli indigenti; coloro che si recano all’estero per lavoro [...] i famigliari e i dipendenti di chi ha diritto all’esenzione.[...] Le proteste delle Colonie Libere Italiane per l’elevato costo del passaporto hanno avuto i primi desiderati effetti, occorre continuare la nostra protesta affinché la Camera dei Deputati approvi il progetto di legge sul passaporto e le nuove disposizioni entrino in vigore.[...] Lavoratori!... unitevi alle Colonie Libere Italiane per difendere quelle libertà conquistate con tanti sacrifici e per migliorare la Vostra situazione economica e spirituale!53

L’anno precedente, invece, si era finalmente sbloccata la situazione a proposito delle assicurazioni sociali. A Roma venne sottoscritta la relativa convenzione italo-svizzera e varie richieste della FCLIS furono accolte: gli emigrati acquisirono il diritto alle prestazioni di vecchiaia e quelle destinate ai superstiti oltre, dietro richiesta, al trasferimento alla previdenza sociale italiana dei relativi contributi. La convenzione verrà ratificata il 6 marzo del 195054. Per quanto concerne le quote del 2% versate dai datori di lavoro in conto salario differito, si stabilì che avessero effetto retroattivo a partire dal 1° gennaio 1948. Ancora, le rendite non sarebbero state più ridotte di un terzo e gli assicurati avrebbero avuto diritto agli arretrati a partire dal 1° gennaio 195155. Sempre nel 1954, la FCLIS intervenne

  Petizione passaporto, 1950. SSZ, f. FCLIS, b. Problemi Italiani - Ar 40.70.15. Comunicazione apparsa sul «Foglio d’informazione per l’emigrante italiano», supplemento del «Bollettino delle Colonie Libere Italiane» (s.d., ma del 1952). SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 54   Convenzione italo-svizzera in materia di assicurazioni sociali del 9 aprile 1949, ratificata dal governo italiano il 6 marzo 1950. La convenzione coordina le legislazioni pensionistiche dei due Paesi secondo i seguenti principi: libero trasferimento delle prestazioni nei due Stati contraenti, possibilità di trasferire i contributi svizzeri all’INPS ed eventuale restituzione dei contributi italiani ai cittadini svizzeri. GU del 28 marzo 1950, n. 73. 55   Convenzione sulle assicurazioni sociali sostitutiva dell’accordo del 1949. La legge del 30 luglio 1952 ratificò e dette esecuzione alla convenzione. Bisogna sottolineare come non sia stata ancora inclusa la copertura per l’invalidità. GU del 26 agosto 1952, n. 197. 52 53

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energicamente presso il governo italiano, in merito all’assicurazione sanitaria e per gli infortuni. Non sempre le casse malattie pagano le quote intere richieste dai sanatori e quei nostri connazionali colpiti dalla tubercolosi e privi di mezzi per pagare la differenza richiesta sono costretti a rivolgersi alla carità privata o a ritornare in Italia in condizioni penosissime. Non meno drammatici sono i casi dei convalescenti che dopo un infortunio non possono ancora lavorare e che non percepiscono più i sussidi delle Assicurazioni. [...] Innumerevoli sono inoltre i casi di ingiustizie subite per la mancanza di una opportuna assistenza legale. Non abbiamo mezzi, rispondono i consolati, i comitati locali di assistenza devono limitarsi a modesti aiuti per gli emigranti stabili e praticamente escludere la grande massa degli stagionali. Per la stessa mancanza di mezzi poche e insufficienti sono le istituzioni culturali. Pensiamo che sarebbe possibile sanare la situazione, non versando all’erario i 10 franchi che ogni datore di lavoro stipulato nell’assumere l’operaio italiano, bensì destinando queste quote alla Assistenza della nostra emigrazione56.

Questi passaggi, tratti da una nota di protesta, testimoniano l’attivismo della FCLIS e allo stesso tempo non sottacciono i complicati rapporti con il governo italiano. Abbiamo già accennato alle difficoltà nelle quali la FCLIS si trovò nei confronti dell’apparato consolare, principalmente per la scarsa considerazione che quest’ultimo riservava alle rivendicazioni non istituzionalizzate. Allo stesso tempo, però, occorre ammettere che, se ci fu un legame di collaborazione, straordinario per entità e testimonianze, e figlio delle pazienti e faticose attività poste in essere da Reale, questo si ebbe con l’attività dell’Assistenza italiana di Zurigo. Essa fu costituita qualche anno prima, nel 1944, con lo scopo «di soccorrere i cittadini italiani indigenti o colpiti da sventura, che hanno stabile dimora in Zurigo o vi sono di passaggio. L’azione sociale si svolge indipendentemente da qualsiasi considerazione politica o confessionale. La Società Assistenza Italiana si ricollega idealmente al Comitato di Beneficenza centrale con sede al Consolato Generale d’Italia»57. 56   Copia della nota di protesta inviata al governo italiano, anno 1954. SSZ, f. FCLIS, b. Governo e parlamento italiano - Ar 40.20.6. 57  Art. 1 dello statuto dell’«Assistenza italiana» di Zurigo. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11.

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«L’Assistenza» rappresenterà l’attività che vedrà maggiormente impegnato lo stesso Medri, almeno fino al 1975. Essa, pur essendo formalmente una costola del consolato generale d’Italia di Zurigo, divenne, a partire dal 1949, l’estensione più diretta e riconducibile alla FCLIS ed in particolare alla Colonia Libera di Zurigo. Quanto sia stata organica alla CLI zurighese è testimoniato da una reprimenda del medesimo Medri, in occasione della visita in città dell’on. Stronchi nel 1945. In merito alle accuse di assenteismo delle autorità italiane [...] devo dichiarare che [....] la nostra società di Assistenza riceve da lungo tempo, regolarmente, una notevole sovvenzione dal Comitato di Beneficenza della Colonia Libera Italiana di Zurigo, di cui il Console Generale è presidente onorario. È doveroso notare che pure i corsi di disegno, di matematica e di cultura per i nostri connazionali emigrati, il doposcuola per i bambini, i corsi di cucito per le donne, sono sovvenzionati dalle Autorità italiane58.

Le parole di Medri ci confermano un altro aspetto, che verrà negli anni attenuato, ma che non scomparirà mai del tutto e al quale abbiamo già accennato: i conflitti tra l’ala moderata e quella massimalista nell’interno delle Colonie Libere. Per questa situazione di contrasto, le stesse autorità diplomatiche non mancheranno mai di sottolineare la necessità di un’azione che potremmo definire apolitica. Questo R. Ufficio conviene, infine, che il dovere della assistenza dovrebbe essere più e meglio sentito. A tale scopo, anche per evitare troppo facili critiche e pretesti a sottrarsi a questo dovere inderogabile, questo R. Ufficio raccomanda da una parte che «l’Assistenza» allarghi la sua composizione in modo da comprendere nell’associazione quanti più connazionali è possibile, senza diversità di ceti o di opinioni59.

L’organicità dell’«Assistenza» alla CLI non mancherà di creare, almeno fino al 1949, più di qualche divergenza tra l’ala massimalista e la rappresentanza consolare di Zurigo.

58   Visita a Zurigo dell’on. Stronchi (s.d., ma 1945). SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza Consolati - Ar 40.20.5. 59  Lettera del real console di Zurigo, Lanzetta, Zurigo, 14 gennaio 1946. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza Consolati - Ar 40.20.5.

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Siamo a conoscenza che ella ha riservato domenica 16 novembre la sala del teatro della casa d’Italia per una rappresentazione della Missione Cattolica Italiana e siamo ben lieti che persone e organizzazioni che fino ad oggi si sono tenute lontano dalla Erismannstrasse, 6 abbiano modo di sperimentare che la casa d’Italia è aperta a tutti. Ci permettiamo però di fare presente che da quando Lei è stato assunto al Consolato Generale d’Italia a Zurigo, è ciò oltre due anni, La avevamo pregata invano di riunire gli appartenenti di tutte le tendenze politiche e confessionali della Colonia Italiana di Zurigo. Poiché ciò non era riuscito, una delle nostre associazioni, l’Assistenza, aveva indetto per il 7 dicembre 1947 una festa comune al Kongresshaus sotto l’insegna del 4 novembre e che questa festa è stata dovuta rimandare perché malgrado le sue promesse reiterate Ella non ha avuto il tempo60.

Simili contrasti, oltre a far sentire penalizzata «l’Assistenza» rispetto ad altre associazioni, soprattutto quelle di matrice cattolica, rappresenteranno alcune costanti che si manifesteranno in misura maggiore nei decenni della guerra fredda. Tralasciando i dissidi e le difficoltà, «l’Assistenza» va analizzata per la sua reale azione. E per comprenderne l’importanza e l’incisività occorre ricostruire la portata economica del suo intervento, attraverso gli elenchi di richiesta e le fitte corrispondenze, istituzionali e soprattutto private. Stando al primo riepilogo delle sottoscrizioni raccolte per il «Fondo di assistenza invernale» a favore di disoccupati italiani dell’8 marzo 1949, la somma accumulata, attraverso contributi sia in Svizzera che in Italia, ammontava a 13.021,70 franchi svizzeri ai quali vanno aggiunte 13.892 lire italiane61. Per definirne il valore, si tenga conto che, agli inizi di luglio del 1943, la valuta italiana era scambiata sul mercato nero di Como a 27 lire per un franco svizzero. Dopo l’invasione alleata in Sicilia del 10 luglio era già svalutata a 50 lire per un franco, per precipitare poi in una spirale inflativa attestandosi sulle 240 lire. Bisognerà attendere la manovra Einaudi per ottenere una stabilizzazione della lira a quota 125 per franco e la fine dell’epoca del riso62. 60   Lettera del comitato esecutivo della CLI Zurigo al console generale, Zurigo, 6 novembre 1947. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza Consolati - Ar 40.20.5. 61   SSZ, f. FCLIS, b. Richieste sussidi - Ar 40.30.4. 62   La cosiddetta «epoca del riso» riguarda il periodo di maggior contrabbando delle derrate alimentari tra Italia e Svizzera: il valore della lira veniva calcolato prendendo come riferimento il prezzo del riso, prodotto che rappresentava dal luglio

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Definita la portata economica, l’intervento dell’«Assistenza», si concentrava sostanzialmente a favore dei casi segnalati dal consolato generale di Zurigo o dalle autorità elvetiche e delle richieste provenienti dall’Italia. Queste ultime venivano avanzate in linea generale da emigranti rimpatriati, il più delle volte combattenti antifascisti, nonché da chi si apprestava ad emigrare. L’assistenza in Svizzera generalmente era rivolta alla prima generazione di italiani, presenti già da prima della guerra, anche se non mancavano casi in cui la disoccupazione colpiva i nuovi arrivati. Risiede a Zurigo, Schrennengasse 5, la famiglia Bianchera, composta dal connazionale Bianchera Bruno e moglie e da quattro bambini da uno a sei anni che, a quanto risulta a questo Consolato Generale, si trova nella più squallida miseria. L’appartamento sembra si trovi in uno stato di completo abbandono, sporco e mancante degli oggetti più indispensabili; così, ad esempio, i bambini dormirebbero su materassi senza lenzuola. Questo Consolato Generale, per evitare lo sfratto della famiglia, ha provveduto al pagamento del fitto dell’appartamento fino al 30 giugno p.v. ed a richiamare severamente il Bianchera ai suoi doveri di padre. Questi ha promesso di cercarsi una nuova occupazione che gli dia la possibilità di un più adeguato guadagno. Nel frattempo però si presenta urgente la necessità di venire in aiuto in qualche modo alla famiglia, soprattutto in considerazione dei bambini ed è perciò che segnalo il caso a codesta Associazione per quell’assistenza che sarà possibile accordare alla famiglia Bianchera63.

L’aspetto che maggiormente vedrà impegnata «l’Assistenza» sarà, però, il supporto economico a favore degli emigranti tutti, della del 1943 all’autunno del 1947 l’80-90% degli scambi di merci di contrabbando. Inoltre, il deprezzamento della lira spinse una moltitudine di italiani dei villaggi delle regioni di confine a trasportare in Svizzera qualsiasi bene smerciabile per ottenere in cambio i preziosi franchi svizzeri che, una volta importati in Italia, venivano venduti sul mercato nero ottenendo importi elevatissimi di lire inflazionate. I traffici illeciti verso la Svizzera diminuirono drasticamente nell’autunno 1947 a causa della manovra economica Einaudi che, attraverso misure di restrizione creditizia e di riduzione della liquidità bancaria, aveva permesso il raffreddamento dell’inflazione erodendo i margini di guadagno dei contrabbandieri. Cfr. A. Bazzocco, L’epoca del riso. Contrabbando alla frontiera italo-elvetica (1943-1945), intervento tenuto durante il III convegno «Phil. Alp - Die Alpen aus der Sicht junger Forschender», l’11 e 12 marzo 2004 a Sion; e M. Kuder, op. cit., pp. 106-116. 63  Lettera del console generale di Zurigo, Coppin, del 14 settembre 1949. SSZ, f. FCLIS, b. Richiesta Sussidi - Ar 40.30.4.

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prima e della seconda ondata, che necessitavano di tutela socio-sanitaria. È stato segnalato a questo Consolato Generale il caso della connazionale Cortesi Corinna nata il 6 dicembre 1884, residente a Kriens, Kosthausstrasse. La medesima, che finora si è guadagnata i mezzi di sostentamento facendo la lavandaia, soffre ora di artrite alle mani per cui non può più lavorare in pieno. Essa non ha figli e vive sola, per cui è necessario provvedere [a ché] le pervengano dei mezzi di sussistenza. Questo Consolato Generale ha provveduto ad inviarle un sussidio di Fr. 25 ed ha scritto alle Autorità del posto perché – ove possibile – si possa ottenere qualche aiuto da parte delle Autorità assistenziali del luogo. Comunico quanto sopra a codesta spett. Unione perché voglia benevolmente esaminare il caso e far pervenire alla Signora Cortesi quell’aiuto che riterrà opportuno64.

Alla questione degli anziani saranno dedicate le maggiori risorse. I coniugi Sinoni, che hanno in corso una domanda di pensione di guerra per la perdita dell’unico figlio, vivono a carico della figlia, vedova, che con il suo lavoro, oltre a mantenere se stessa, deve sostenere i genitori65. Il connazionale in oggetto [...] dell’età di 75 anni è inabile al lavoro [...] mi pregio far presente che il suddetto ha perso l’unico figlio in guerra66. Nell’ospizio di Emmen dove dimora [...] il cittadino italiano Giovanni Roda di conseguenza non più abile al lavoro, è stato sottoposto alla nostra tutela. [...] Attualmente risiede in una struttura del nostro cantone, dove i costi per le cure ammontano quotidianamente a Fr. 3. A tal proposito ci troviamo costretti a dover far richiamo alle vostre responsabilità, altrimenti saremo costretti a dover rimpatriare l’uomo in Italia67.

Ovviamente, non mancano i casi di respingimento delle domande pervenute, come quello di Vittorio Gibelli, del quale, secondo   Lettera del console generale di Zurigo, Coppin, del 1° giugno 1949. In questo caso la lettera è stata indirizzata all’Udi che a sua volta l’ha girata all’«Assistenza». Rilevante è il legame della rete di assistenza delle associazioni presenti in Svizzera che ha dato vita alla FCLIS. SSZ, f. FCLIS, b. Richiesta Sussidi - Ar 40.30.4. 65   Lettera del console generale di Zurigo, Coppin, del 6 agosto 1949. SSZ, f. FCLIS, b. Richiesta Sussidi - Ar 40.30.4. 66   Lettera del console generale di Zurigo, Coppin, del 6 agosto 1949. SSZ, f. FCLIS, b. Richiesta Sussidi - Ar 40.30.4. 67  Lettera dal Cantone di Lucerna al console generale Coppin, del 3 dicembre 1949. SSZ, f. FCLIS, b. Richiesta Sussidi - Ar 40.30.4. 64

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le informazioni raccolte dal consolato d’Italia con sede a Losanna, sappiamo che sul di lui conto è risultato che egli è tuttora in possesso di alcune migliaia di franchi depositate presso una banca locale, che rappresentano i risparmi da lui effettuati durante il periodo in cui esercitava la professione di musicista. Dato quanto precede, questo Ufficio non è stato in grado di fornire al Gibelli alcun aiuto finanziario, visto che i modesti fondi qui a disposizione possono essere devoluti unicamente in favore di connazionali [che si trovano] in condizioni di assoluta indigenza68.

Vi erano anche casi di natura totalmente diversa – che richiamano alla mente le avventure tragicomiche di Nino Manfredi nel film Pane e cioccolata69 – come quello del povero Attilio Nava, derubato ed imbrogliato da un suo connazionale. Il connazionale in oggetto, occupato presso il ristorante «Chässtube», Löwenstrasse 66, Zurigo, incontrava nell’aprile 1950 certo Sussone Silvio, di passaggio in questa città. Impietosito dal caso di quest’ultimo, che si trovava senza denaro ed era stato ricoverato all’ospedale alcuni giorni per uno svenimento dovuto a postumi di trauma, il Nava lo ospitava nella propria camera e, dietro promessa di pronta restituzione, gli dava in prestito Fr. 35, che si faceva a sua volta prestare dalla Signora Meyer, proprietaria della stanza che egli ha in affitto. Dopo la partenza del Sussone per l’Italia, partenza avvenuta durante l’assenza del Nava che prestava in quelle ore servizio al ristorante, venne subito constatata da questi la sparizione di un orologio da tasca con catena in metallo placcato in oro, che egli aveva lasciato in un cassetto, nella propria camera. Non avendo più avuto alcun segno di vita dal Sussone, il Nava si presentava qualche tempo dopo a questo Consolato Generale esponendo il caso e chiedendo di essere aiutato a recuperare denaro ed orologio. Questo Consolato non ha mancato di interessare le competenti Autorità onde rintracciare il Sussone che però è rimasto irreperibile. Dato il che il Nava si è nuovamente presentato a questo Ufficio rinnovando la sua richiesta, e in considerazione delle sue modestissime condizioni finanziarie [...]70. 68   Lettera di ritorno relativa alle informazioni richieste da parte dell’«Assistenza» al consolato generale di Zurigo, del 22 novembre 1949. SSZ, f. FCLIS, b. Richiesta Sussidi - Ar 40.30.4. 69   Pane e cioccolata, pellicola del 1974 del regista Franco Brusati, con protagonista Nino Manfredi, è il film emblema dell’emigrazione in Svizzera. 70  Lettera del console generale di Zurigo, Coppin, del 19 marzo 1951. SSZ, f. FCLIS, b. Richiesta Sussidi - Ar 40.30.4.

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Queste lettere, riferite al solo triennio 1949-51, ci forniscono elementi utili per comprendere a quali difficoltà «l’Assistenza» dovesse  fare fronte e quante risorse venissero destinate alla tutela sociosanitaria71. Per quanto riguarda gli aiuti verso l’Italia, generalmente erano diretti verso vecchi quadri sia delle CLI che della Società Mansarda. Ecco cosa scrive l’ex combattente Stringari a Medri nel 1950: Carissimo Medri, il 22 corrente, tornando dai funerali di mia moglie, spentasi in un incidente di gas, che per poco non trasse pure me alla tomba, trovai il vostro vaglia internazionale, giuntomi in un momento sommamente prezioso di tristezza spirituale, non tanto per il valore materiale pur non spregevole, quanto perché in quel momento più che mai il mio spirito affranto sentiva il bisogno ed il beneficio di sentirsi accanto, in fraterna solidarietà, lo spirito di tutti gli amici cari, fra i quali figurano in primissima linea coloro con i quali condivisi le ansie del tormentato esilio, le lotte, le speranze, al servizio di una comune idea. Ti prego, carissimo Medri, di renderti interprete di questi miei sentimenti presso tutti gli amici delle Colonie Libere Italiane in Isvizzera (incominciando dal carissimo Foglia) ed esprimere loro i sensi della mia commozione per il loro buon ricordo e della mia profonda e non meno commossa gratitudine per l’omaggio materiale col quale vollero valorizzare la buona memoria per tutto quello che più con la fede ed il cuore che col pensiero consacrai alle comuni aspirazioni negli indimenticabili anni che trascorsi nella Federazione, così mirabile esempio al mondo civile pur sempre sulla via di una sistemazione politica e sociale sempre più consona alle evoluzioni ed esigenze dei tempi. Io trascino ora qui una vita alquanto tapina, poiché l’unico mio cespite mensile sicuro è rappresentato dalle 20.000 lire di pensione giornalistica, ma pure qui, come sempre in terra d’esilio, mi sorreggono le intime grandi soddisfazioni morali, che mi procurano le buone azioni che cerco di compiere al servizio altrui e specialmente della idealità che servo da oltre mezzo secolo e che costituiscono il mio maggiore orgoglio. Vogliatemi sempre tanto bene quanto io ne voglio a [voi]. Serbate gradito il ricordo di questo vecchio combattente da quasi sessant’anni sulla breccia e che nonostante i suoi oltre settantacinque anni di età dà 71   Al 1° maggio del 1950, il solo consolato di Zurigo aveva trasferito in seno all’«Assistenza» ben 2.500 Fr. per far fronte alle centinaia di richieste di sussidio. Cfr. la relazione del consolato generale di Zurigo del 1° maggio 1950. SSZ, f. FCLIS, b. Richiesta Sussidi - Ar 40.30.4.

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saggio ai giovani del come non vi siano limiti di tempo e diritti a [rioso] nella dedizione ad un ideale, Vi abbraccio tutti con tanto affetto, nel comune augurio che la Repubblica Italiana possa diventare [quale] noi la sognammo e la vogliamo. E sia a tutti voi prospero il 1951, che si inizia invece per me sotto tanto tristi auspici72.

In questa lettera di un ex-combattente, alias S. Marco 924, possiamo trovare molti spunti di riflessione. Oltre ai ricordi dell’esilio, non mancano accenni agli aspetti politico-istituzionali in Italia. Inoltre è interessante notare come, quando le richieste provengono dall’Italia, scompare la distinzione tra «l’Assistenza» e la FCLIS. Ciò è dovuto sostanzialmente al fatto che la figura di Medri sarà in grado di rappresentare appieno entrambe le organizzazioni, assolvendo alla funzione di collocatore e collante con gli amici oltreconfine. Infatti in questi anni arriveranno a Medri molte richieste, sia per trovare una nuova occupazione in Svizzera sia con l’obiettivo di migliorare le proprie condizioni. Vuole lei farmi [un] favore? Grazie se me lo concede. Si metta subito in comunicazione con Bruno Bisaglia (quel mio concittadino-amico che ha organizzato la Colonia a Wetzikon) e insieme a lui concordi per un posto in fonderia per me. So che ci sono posti vacanti dove lavora il mio amico, che credo si trovi a Rüti. Dunque: e telefonicamente e a mezzo posta si metta in contatto con Bruno Bisaglia, del quale lei Sig. Medri ne ha l’indirizzo. Insieme salterà fuori subito un posto in fonderia, per me73. Posso ancora scrivere per il bollettino? Poiché, pur essendo in regola coi permessi, inizio il lavoro lunedì 15 marzo. Nell’attesa potrei contare su qualche comitato di beneficenza per aiuto finanziario? Esiste a Zurigo un privato che avesse tanta fiducia da prestarmi 100-150 franchi? Qual è il nome di questo brav’uomo? Lei sig. Medri può intercedere all’uopo? Conosce qualcuno che ha bisogno di 2 uomini per lavori vari fino al 15 marzo anche per il solo vitto?74

72   Lettera di Stringari a Medri, del 31 dicembre 1950. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 73   Lettera di Filippo Galetti a Medri, Villabartolomea (Verona) 30 dicembre 1953. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 74  Lettera di Filippo Galetti a Medri, Zurigo, 1° marzo 1954. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18.

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La FCLIS e «l’Assistenza» non si occuperanno solo dei settentrionali, in prevalenza emiliani, veneto-friulani e lombardi, che prevarranno numericamente fino alla fine degli anni Cinquanta. L’attenzione sarà rivolta anche e sempre più anche verso i meridionali, che di lì a poco sostituiranno numericamente la vecchia emigrazione. Carissimo compagno, vi invio la presente per darvi le mie notizie, io sto’ bene e così spero di voi e di tutta la vostra famiglia, ma una sola cosa mi preoccupa che qui non si trova lavoro e sono disoccupato, e quindi mi rivolgo a voi per trovarmi un posto, che per mezzo dei nostri compagni o del nostro nipote di farmi pervenire un contratto di lavoro qualsiasi categoria ad eccezione nell’agricoltura, perché già sapete le mie condizioni fisiche non mi permettono di lavorare da contadino, se non è possibile occuparmi come manovale, domandate a vostro nipote (il meccanico motorista) se è facile trovare qualche posto come tornitore o saldatore elettrico o qualcosa del genere, perché qui ad Avellino c’è una scuola meccanica dove io in breve tempo potrei imparare un mestiere, sempre però che mi indicherete voi in quale mestiere è più facile occuparmi in una officina meccanica, spero che mi avete capito e vi prego molto cortesemente di fare qualcosa per me [...] [Vi mando pure i saluti da parte dei compagni del gruppo anarchico di Montella (Alba dei Liberi)]75.

Questa lettera fornisce alcune indicazioni interessanti sull’impegno da parte dell’Italia nell’organizzazione di corsi di formazione professionale per l’avviamento all’emigrazione, oltre che per quanto riguarda la connotazione delle relazioni transnazionali con la rete degli anarchici e, più in generale, con tutto il mondo delle organizzazioni figlie della resistenza e della lotta al nazifascismo. Ancora, la lettera mette in luce le condizioni degli emigranti occupati in agricoltura, argomento che verrà affrontato al termine di questo capitolo. Sul versante formazione, nell’arco degli anni Cinquanta e anche ben oltre, in Italia ed in particolar modo nel Mezzogiorno, verranno organizzati corsi di avviamento all’emigrazione – in linea con l’auspicio lanciato da De Gasperi76 – con il coinvolgimento sia delle

75   Lettera di Eugenio Di Benedetto a Medri, Montella (Avellino) 9 gennaio 1951. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 76   Con un accento drammatico, il presidente del Consiglio si trovò a dover pubblicamente consigliare agli italiani di imparare le lingue per poter emigrare. De Gasperi aveva una formazione tridentina e ignorava che ai tempi delle grandi emi-

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Camere di Commercio, sia, come nel caso di Napoli, degli Istituti Universitari e di formazione media superiore. Infatti, a partire dal biennio 1951-1952, si avvieranno nella città di Napoli, e non solo, innumerevoli corsi di ogni ordine e grado, rivolti agli emigranti specializzati, agli stessi docenti e alle masse popolari. Presso l’Istituto Universitario Orientale, secondo piano, nell’aula delle scienze coloniali, con la lezione del Direttore dei Corsi, il Prof. Giuseppe De Luigi, avrà inizio il Corso semestrale per l’emigrazione (dicembre 1951-maggio 1952)77. Domani presso la nostra Università (ingresso Corso Umberto I) avrà luogo l’apertura del III Corso Superiore di Specializzazione Didattica per l’Emigrazione, indetto dall’Istituto Italiano per l’Africa con la collaborazione del Provveditorato agli Studi78. Per iniziativa del Consorzio Nazionale Emigrazione e Lavoro e del Centro Provinciale dell’Artigianato, il Provveditorato agli studi di Napoli ha concesso due corsi popolari che si sono inaugurati presso l’Istituto d’Arte. Detti corsi riguardano la preparazione delle Artigiane e la preparazione linguistica per gli emigranti79.

Continuando l’analisi sulla fitta corrispondenza tra la FCLIS e la rete transnazionale, figlia della resistenza e della lotta al regime, grazioni milioni e milioni erano andati oltre le Alpi e oltre il mare parlando solo il loro dialetto. Cfr. V. Foa, Questo Novecento. Un secolo di passione civile. La politica come responsabilità, Einaudi, Torino, 1996, p. 233. Per quanto riguarda l’aspetto relativo all’uso del dialetto, soprattutto nel periodo della «grande emigrazione», si rimanda alla prima e più significativa raccolta pubblicata nel nostro Paese, cfr. E. Franzina, Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America latina (1876-1902), Feltrinelli, Milano, 1979. Per un’analisi storiografica sul concetto di transnazionalismo e l’uso dialettale da parte delle classi subalterne si vedano, sempre dello stesso autore, Varcare i confini: viaggi e passaggi degli emigranti. Il caso italiano e le teorie transnazionali, in S. Salvatici (a cura di), Confini. Costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Rubbettino-Sissco, Soveria Mannelli, 2005, pp. 115-152; e Diaspore e colonie tra immaginazione e realtà: il caso italo-brasiliano, in M. Tirabassi (a cura di), Itinera. Paradigmi delle migrazioni italiane, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2005, pp. 101-137. 77   «Il Quotidiano», 5 dicembre 1951. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 790, f. 001. 78   «Il Giornale d’Italia», 13 gennaio 1952. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 790, f. 001. 79  «Il Popolo», 25 gennaio 1952. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 790, f. 001.

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notiamo come la Federazione e i suoi dirigenti vengano continuamente contattati e coinvolti nella rete delle relazioni internazionali marcatamente anarchiche e spiccatamente di sinistra, soprattutto dai tanti quadri che con la fine della guerra, appunto, rientrarono in Italia. Questo è il caso, ad esempio, del Movimento paneuropeo per l’unità dell’Europa: Devo darle una notizia; lei sa bene che io non mi interessavo troppo di politica nel tempo in cui ero a Baden; ora invece, con alcuni amici, sto fondando un Movimento paneuropeo che ha il preciso programma di accelerare al di là di tutti i tentativi politici e gli uomini nella politica, l’unità dell’Europa rivolgendosi alle moltitudini. Non so ancora quale successo avremo; so solo che ci metteremo tutta l’anima e che per la nostra causa ci batteremo fino in fondo. [...] Appena avrò qualcosa di propaganda gliela manderò perché lei si renda conto delle finalità del nostro Movimento80.

Sul versante interno, quello del mascherato attivismo politico in Svizzera, sia la FCLIS che «l’Assistenza» cercheranno di assumere una posizione neutra, o meglio, non politicizzata e non partecipativa, e soprattutto estranea, nel limite del possibile, alle iniziative di carattere politico-sindacale. Questo per evitare di esacerbare i rapporti con le autorità elvetiche che, come già sottolineato, non tolleravano affatto la politicizzazione dell’emigrazione. Un chiaro esempio di questa posizione e della differente impostazione comportamentale tra la FCLIS e «l’Assistenza» è la non sottoscrizione, da parte di quest’ultima, della petizione a favore del movimento dei «Partigiani della Pace». Si sta sviluppando nel mondo intero un formidabile movimento detto dei «Partigiani della Pace», il quale si prefigge di raggruppare attorno a sé il maggior numero possibile di cittadini onde evitare all’umanità una nuova guerra mondiale. Anche in Svizzera questo movimento si è costituito e presentemente si va sviluppando in modo considerevole. [...] a esso hanno aderito note personalità del mondo politico e culturale: Ivanoe Bonomi, pres. del Senato, Giuseppe Gronchi, pres. della Camera, l’ex ministro degli esteri Pietro Nenni, i senatori F.S. Nitti, Umberto Terracini e numerosissimi altri. In Francia il comitato retto da Frédéric Joliot  Lettera (firma indecifrabile) a Medri, Milano, 31 gennaio 1951. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 80

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Curie comprende personalità del mondo culturale, politico e religioso quali l’abate Boulier, insegnante all’istituto cattolico di Parigi, gli scrittori Paul Eluard, Henri Matisse, Aragon, artisti quali Maurice Chevalier, Jean Wiener ecc. ecc. Come è noto anche l’Episcopato Cattolico Francese ha preso posizione in favore dei partigiani della pace. [...] Nel Ticino venne pure recentemente costituito un comitato locale che si prefigge di sviluppare una buona azione in quel cantone. [...] A Zurigo, su iniziativa di diverse organizzazioni di lingua italiana si è pure formato un comitato provvisorio. Allo scopo di allargare la nostra attività abbiamo deciso di invitare ad aderire al movimento ed a designare un loro rappresentante per il comitato, tutte le associazioni di lingua italiana di Zurigo. Il lavoro principale, immediato, che questo comitato è tenuto a svolgere è quello di raccogliere le firme per la petizione che chiede l’assoluto divieto dell’uso dell’arma atomica, petizione che ha già raccolto in tutto il mondo oltre 250 milioni di firme81.

Fra la associazioni che aderiranno troviamo le CLI, l’Associazione lavoratori emigrati italiani (Alei), l’Associazione ricreativa emigrati italiani (Arli), la Società Mansarda, l’Unione donne italiane (Udi), l’associazione sportiva «Audace» ed altre ancora. Interessante è rilevare che a piè di pagina, scritto a penna, viene sottolineato che «all’unanimità viene deciso che l’Assistenza Italiana Zurigo come Associazione non fa parte [di] questo Comitato»82. Probabilmente la diversa posizione assunta dalle due entità era figlia della diversa logica operativa che le stesse adottarono in questi anni. Mentre la FCLIS era marcatamente più intollerante rispetto alle indicazioni di non politicizzazione, «l’Assistenza», di emanazione consolare e nella sua funzione di assolvere direttamente alla cura degli indigenti e dei tanti che si trovavano in difficoltà, riteneva opportuno assumere un comportamento più vigile nei confronti delle autorità elvetiche e delle politiche di espulsione da queste perpetrate. Le espulsioni difatti aumenteranno dalla seconda metà degli anni Cinquanta e si protrarranno fino agli anni Settanta.

81   Lettera d’invito dei «Partigiani della Pace» indirizzata all’«Assistenza Italiana», Zurigo, 15 luglio 1950. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 82  Ibid.

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4. La non politicizzazione dell’immigrazione Tra le varie difficoltà con le quali, nel primo decennio del secondo dopoguerra, dovrà confrontarsi la FCLIS, ce ne sarà una determinante, sia dal punto di vista operativo che strettamente politico: si tratta della non politicizzazione dell’immigrazione, che nella sostanza vietava la libertà di espressione e di associazione politica e che fu decretata il 24 febbraio 194883. Infatti, qualche mese prima della firma dell’accordo di reclutamento con l’Italia, il Consiglio federale introdusse strumenti volti a prevenire un eventuale sovvertimento politico. Paradossalmente la Svizzera, anche in questo caso prima e più di altri Paesi europei, comprese in anticipo quanto stava per accadere. Il progressivo consolidamento del mondo diviso in due blocchi contrapposti e l’affermarsi del Partito comunista in parte dell’Europa centrale e soprattutto in quella orientale indussero le autorità elvetiche a porre barriere di tutela della sicurezza interna nei confronti delle ingenti masse di immigrati, tra i quali molti, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, erano fortemente politicizzati. Il decreto concernente i discorsi politici stabiliva che venisse richiesta un’autorizzazione prima di qualsiasi intervento di uno straniero che fosse in Svizzera senza permesso di domicilio. Tale autorizzazione andava negata «se vi [fosse stato] da temere che [venisse] posta in pericolo la sicurezza interna o esterna del Paese o che [fosse] turbato l’ordine pubblico»84. In sostanza, il decreto privava i non domiciliati, quindi gli stranieri – soprattutto italiani, visto il periodo – dei più elementari diritti d’espressione85. Inoltre, nell’immediato dopoguerra si instaura una serrata competizione con le Missioni cattoliche italiane, con l’obiettivo di attirare a sé il grosso dell’emigrazione italiana. Come nota Gildo Baggio86, questa rivalità rispecchiava la divisione creatasi in Italia tra la Dc e la sinistra dominata dal Pci: «dove la nuova emigrazione è importan  Dcf concernente i discorsi politici di stranieri, 24 febbraio 1948. RU 1948.115.   Ibid. 85   Il decreto verrà abrogato solo nel 1998. Dcf, 9 marzo 1998. RU 1998.1174. Per ulteriori approfondimenti sull’applicazione del decreto del 1948, si rimanda a D. Castelnuovo Frigessi, Elvezia, il tuo governo. Operai italiani emigrati in Svizzera, Einaudi, Torino, 1977, p. xxi. 86  G. Baggio, La comunità italiana in Svizzera, in «Dossier Europa Emigrazione», n. 9, Cser, Roma, 1993, p. 14. 83 84

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te (centri industriali) si riesce a raggruppare i nuovi lavoratori, ma a stento, poiché ovunque l’influenza delle [Colonie] è combattuta dalle missioni cattoliche»87. Come già accennato, la guerra fredda faceva sentire i suoi effetti anche tra gli emigrati italiani in Svizzera: la logica delle espulsioni per attività comunista fu prassi adottata per anni dal governo di Berna. Oltre che colpire decine di militanti delle CLI, le espulsioni funsero da deterrente per quanti avevano intenzione di impegnarsi politicamente, ma che non avevano alcuna voglia di rischiare il permesso e il posto di lavoro. Il periodo di espulsioni per attività comunista inizierà alla fine degli anni Quaranta e durerà, tra maggiore e minore incidenza, fino alla fine degli anni Settanta88. Nei paragrafi che seguiranno, si mostrerà che, mentre le Colonie Libere ed Egidio Reale spingevano per l’epurazione e l’allontanamento di chi aveva collaborato a vario titolo con il fascismo, le autorità elvetiche invece mettevano in atto una rigida politica di allontanamento delle frange politicizzate dell’emigrazione. 5. Epurazione e allontanamento dei fascisti Le autorità elvetiche definirono, in una circolare interna del Dipartimento politico datata 24 giugno 1950, immotivata impazienza89 le pressioni esercitate da Reale. L’impazienza del ministro Reale non è fondata. Le autorità federali hanno prestato costante e scrupolosa attenzione alle rivendicazioni della Legazione d’Italia. Quest’ultima è sempre stata in stretto contatto o con il Dipartimento politico o direttamente con la Divisione di Polizia. Reale sostiene, in modo inesatto, di non aver ricevuto una nostra risposta. Nel caso sia stata differita, è perché il Dipartimento politico ha preferito riunire tutte le risposte cantonali prima di sottometterle alla Legazione. In effetti, solo una risposta di carattere generale può mettere in evidenza le concessioni fatte all’Italia. Queste sono numerose; non

87   Relazioni delle singole Colonie. Congresso federale di Zurigo, 26 ottobre 1947. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 88   SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18; b. Letteratura - Ar 40.20.19; b. Politica della FCLIS - Ar 40.70.4. 89  Notice pour le Chef du Département. Expulsion, pour activité fasciste, d’Italiens résidant en Suisse, 24 juin 1950, p. 1. Dds, DoDis, d. nr. 7775.

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si potrebbe affermare che le pratiche italiane non abbiano ottenuto dei risultati90.

La gestione delle espulsioni e degli allontanamenti dei fascisti dal territorio elvetico potrebbe essere analizzato come case study dell’arte diplomatica delle autorità di Berna che dovevano fare fronte, contemporaneamente, alle pressioni della Legazione e dell’opinione pubblica in casa e adeguarsi agli umori dei governi e dei partiti italiani. Le prime misure di espulsione per «attività fascista» furono prese già nel 1945. Sia le autorità consolari che gli ambienti della destra italiana criticarono aspramente le autorità elvetiche, mentre la stampa di sinistra, compresi i giornali ispirati dal conte Sforza, concordavano con tali decisioni91. Anche se già qualche mese dopo l’atteggiamento della Svizzera mutò, e non sarà l’ultima volta: «La Svizzera, contrariamente a quanto sostenuto dagli ambienti italiani, si è dimostrata meno severa riguardo ai fascisti che riguardo ai nazisti. L’epurazione si è estesa a 271 casi, comprendenti 587 persone»92. La Confederazione concesse molte più attenuanti ai fascisti rispetto ai nazisti. Su un totale di 587 individui, 168 furono autorizzati a restare in Svizzera mediante istanze di ricorso. Il totale delle persone costrette a partire si ridusse a meno del 4% degli italiani residenti nel 1946. Successivamente, dei 109 casi sottoposti alle autorità elvetiche, tra il 1945-46, 37 espulsioni e 33 procedimenti nei confronti di mogli e figli dei fascisti furono revocati o sospesi93. Per quanto riguarda gli altri casi pendenti, sempre il Dipartimento politico, in una circolare interna del 22 agosto 1946, lasciava intravedere un’ulteriore possibilità di sanarli94. L’orientamento, a tratti eccessivamente «elastico» nei confronti dei fascisti, rimase tale almeno fino alla metà del 1947. La spiegazione è rintracciabile in una lettera accorata che il ministro dei Trasporti del primo governo De Gasperi, Riccardo Lombardi95, indirizza al leader democristiano.   Ivi, p. 1.   Ibid. 92   Circolare del Dipartimento politico, 15 febbraio 1946. Dds, DoDis, d. nr. 7775. 93   Ibid. 94   Circolare del Dipartimento politico, 22 agosto 1946. Dds, DoDis, d. nr. 7775. 95  Riccardo Lombardi, tra i fondatori del Partito d’Azione, fu prefetto di Milano al momento della Liberazione e ministro dei Trasporti nel primo governo 90 91

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Nella seduta del 25 gennaio del Consiglio dei ministri, richiesi a te pre­ cisazioni e chiarimenti circa il carattere dei passi che, secondo alcuni giornali, la Legazione italiana di Berna avrebbe compiuto presso il governo federale allo scopo di appoggiare elementi italiani fascisti minacciati o colpiti da provvedimenti di legge. Che queste notizie, se corrispondenti a verità, debbano preoccupare legittimamente la pubblica opinione, è più che chiaro; ma preoccupano in modo particolare la Colonia italiana in Svizzera, Colonia la quale è estremamente sensibile nei riguardi all’atteggiamento della nostra rappresentanza diplomatica in materia di sanzioni contro i fascisti96.

Lombardi, partecipando al congresso delle CLI, tenutosi nell’ottobre del 194597, era venuto a conoscenza di fatti assai gravi, la cui attendibilità era stata verificata dallo stesso ministro presso il Dipartimento politico svizzero. Il 26 luglio 1945 l’incaricato di Affari BERIO ha avanzato una protesta presso il Consiglio federale domandando che nell’esame delle posizioni dei fascisti, contro i quali il Governo federale avrebbe preso provvedimenti, fosse fatta una precisa differenza fra iscritti al P.N.F. ed iscritti al P.R.F., esonerando i primi da qualunque provvedimento. Il 12 agosto l’incaricato di Affari ha domandato, mediante nota verbale, informazioni su quattro dipendenti del Consolato Italiano di Zurigo espulsi; espulsione che venne deplorata. Il 12 settembre altra nota verbale analoga su altri italiani espulsi. Il 14 settembre altra nota scritta; il 18 settembre nuova nota verbale; il 22 settembre altri passi verbali. Essendo stato osservato che questi passi potevano essere d’iniziativa dell’incaricato di Affari e che non fossero conosciuti dal Governo ItaDe Gasperi (la sua unica esperienza governativa). Allo scioglimento del Partito d’Azione, Lombardi confluirà nel Psi. Per maggiori approfondimenti sulla figura di Lombardi, cfr. M. Mafai, Lombardi, Feltrinelli, Milano, 1976 e E. Tortoreto, La politica di Riccardo Lombardi dal 1944 al 1949, Ed. Movimento operaio e socialista, Genova, 1972. 96   Lettera di Lombardi a De Gasperi. Roma, 2 febbraio 1946, p. 1. ACS, PCM, 48-50, b.15/2, n. 14622. 97   «Mi permetto di ricordarti che nell’ottobre scorso partecipai, su invito dei nostri connazionali, al Congresso delle Colonie Libere Italiane, che ebbe luogo a Lugano sotto la presidenza del Prof. Chiostergi. Tu sai che cosa sono le Colonie Libere Italiane in Svizzera: esse sono costituite da quei nuclei di italiani che durante il ventennio si rifiutarono costantemente di aderire al fascismo, affrontando le conseguenze gravi di questa loro intransigenza, e rinunziando a tutti i vantaggi che l’organizzazione fascista all’estero garantiva, anche attraverso le rappresentanze diplomatiche e consolari. L’opinione perciò delle Colonie Libere Italiane deve avere un gran peso». Cfr. ivi, p. 2.

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liano, il Consigliere federale Petitpierre ha escluso trattarsi di iniziative personali98.

Ecco spiegato l’atteggiamento possibilista delle autorità elvetiche. Insomma, mentre le CLI spingevano affinché si procedesse alle espulsioni, i diplomatici italiani spingevano in direzione opposta, all’oscuro del governo di Roma. La condizione di questi fatti suscitò al Congresso la reazione che era lecito prevedere, tanto più che un deputato ticinese presentò protesta per l’aiuto non sempre prestato agli antifascisti italiani ed espose la meraviglia delle autorità svizzere circa il contegno del Governo Italiano che fino ad allora non aveva mai richiesto al Governo federale alcun provvedimento contro quei cittadini italiani che notoriamente avevano svolto attività faziose e spionistiche per conto del governo fascista. Dei risultati del Congresso di Lugano informai allora il Presidente Parri, e mi risulta che a sua volta, come ovvio, venne informato il ministro degli Esteri99.

Ministro degli Esteri di allora era lo stesso De Gasperi, il quale qualche mese dopo, nel dicembre del 1945, formò il suo primo governo insieme a Pci, Psiup, Pli, Pd’A e Pdl100. Ora lo stupore e, probabilmente, qualche preoccupazione trovavano spazio nei pensieri di Lombardi. Tu comprenderai perciò il mio stupore nell’apprendere che a distanza di tre mesi, la Legazione Italiana a Berna si sarebbe riavviata bellamente sulla stessa via che aveva già suscitato così sgradevolmente impressione e così severo giudizio presso i nostri connazionali in Svizzera. Non puoi d’altra parte ignorare che di questi fatti torna ad occuparsi la stampa elvetica di lingua italiana: ma quello che mi preoccupa e deve preoccupare tutto il Governo è che un atteggiamento come quello attribuito al nostro incaricato di Berna, se vero e confermato, involge una responsabilità politica che non può essere lasciata al solo Ministero degli Esteri. Ecco la ragione per la quale mi sono rivolto al Presidente del Consiglio e non già al ministro degli Esteri101.   Ibid.   Ivi, p. 3. 100   Primo governo De Gasperi (10.12.1945-01.07.1946), succeduto al governo Parri (21.06.1945-10.12.1945). 101  Lettera di Lombardi, cit., p. 4. 98 99

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Le preoccupazioni di Lombardi furono accolte qualche mese dopo, durante il secondo governo De Gasperi. Probabilmente non ci fu l’equazione causa-effetto, però la scelta di chi doveva sostituire Berio era in qualche modo già scritta e al vaglio da alcuni mesi102. La scelta del governo italiano cadde su un antifascista e un profondo conoscitore della Svizzera, nonché tra i fondatori delle CLI: Egidio Reale. Reale inaugurò la sua missione diplomatica il 7 gennaio del 1947103 e da allora l’atteggiamento della Legazione cambiò radicalmente. Nel frattempo, però, la situazione sembrava stagnante. Con l’arrivo di Reale, la Legazione d’Italia tornò a pressare il Dipartimento politico svizzero. Il 10 giugno del 1949, la Legazione rimetteva al Dipartimento politico la lista di una quarantina di italiani residenti all’estero già segnalati alla Divisione di polizia nell’ottobre dell’anno precedente. In seguito alle nuove pressioni da parte italiana, è interessante notare il comportamento intrapreso dal Dipartimento politico, che, in una lettera del 30 maggio 1949, manifestava al Dipartimento federale di giustizia e polizia il suo rammarico nel constatare che alcun progresso era stato fatto, nonostante nel marzo 1948 si fosse deciso, per semplificare la procedura, che la Legazione d’Italia avrebbe trattato direttamente il caso con la Divisione di polizia. La risposta da parte del Dipartimento federale di giustizia e polizia non tardò. Tra il 1947 e il 1948 le richieste riportavano misure di espulsione, da parte italiana, sempre più pressanti. Questo fatto aveva spinto il Dipartimento di polizia a dare ai cantoni la potestà decisionale sui singoli casi, senza alcuna istruzione e con l’obiettivo di insabbiare la questione. Di poter rinunciare oggi a dare istruzioni di questo genere riguardo le numerose espulsioni di nazionalsocialisti tedeschi e fascisti italiani pronunciata dopo la guerra durante la campagna di epurazione. Non c’è da dubitare che le autorità cantonali siano d’accordo con noi sul fatto che non si possano rivalutare tutte queste espulsioni o alcune categorie al riguardo. Vista l’estrema diversità dei casi, non è possibile stabilire delle regole strette e schematiche sul trattamento delle domande miranti ad apportare modifiche o a mitigare in modo temporaneo o durevole nei confronti degli arrestati per espulsione. Le autorità cantonali che si sono fatte carico degli arrestati per salvaguardare l’ordine e la tranquillità pubblica, così come la sicurezza del Paese, conoscevano esattamente le condizioni locali e le par-

102 103

  S. Castro, op. cit., pp. 265-274.   Ivi, p. 275.

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Tab. 5. Decisioni cantonali e federali. Espulsioni richieste dalla Legazione italiana in Svizzera, 1948 Cantone

Casi

Decisione

Basilea Città

4

Le decisioni di espulsioni sono state revocate, gli interessati hanno ricevuto un permesso di stabilirsi. Questa decisione è stata comunicata già l’8 aprile 1949 alla Legazione dalla Divisione di polizia.

Zurigo

8

4 decisioni di espulsione sono state revocate e permessi di stabilimento sono stati accordati agli interessati.

Ticino

13

La risposta del governo ticinese è negativa e motivata. Un caso è ancora oggetto di corrispondenza riguardo un residente italiano espulso, ma la cui espulsione non ha mai avuto effettivamente luogo. È possibile che questo caso sia risolto nel senso cui la Legazione d’Italia aspira.

Grigioni

2

Risposta negativa.

Ginevra

1

Risposta negativa motivata.

Vaud

1

Mantenimento provvisorio dell’espulsione.

Berna

3

Nessuna risposta.

Neuchâtel

7

Nessuna risposta.

Federali

3

Solo per un caso la misura di espulsione è stata revocata; negli altri due, il mantenimento della misura di espulsione si giustifica.

Fonte: elaborazione da Notice pour la Chef du Département. Expulsion, pour activité fasciste, d’Italiens résidant en Suisse, 24 juin 1950, p. 3. Dds, DoDis, d. nr. 7775.

ticolarità di ogni caso; sono dunque in una posizione migliore della nostra per giudicare con cognizione di causa se si giustifica eccezionalmente, in un dato caso, la modifica o il fatto che temporaneamente o per un periodo più lungo si mitighi una decisione di espulsione di questo genere104.

Nel frattempo il Dipartimento federale di giustizia e polizia sottometteva ai cantoni le liste rinviate dalla Legazione, in cui venivano richieste complessivamente 42 espulsioni: 39 erano a carico delle autorità cantonali, 3 a cura delle autorità federali. È interessante notare come la stragrande maggioranza delle richieste di espulsione non sia stata accolta, né in ambito cantonale né per quanto concerne i casi a giurisdizione federale (tab. 5). 104

7775.

  Circolare del Dipartimento di polizia, 11 maggio 1949. Dds, DoDis, d. nr.

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L’attribuzione di responsabilità reciproche, competenze e funzioni tra i vari dipartimenti federali e le autorità cantonali, portò la Legazione d’Italia ad avanzare formale dissenso nella nota del 16 giugno 1950105. In definitiva, volendo riassumere le varie posizioni, nel 1950 (a distanza di quasi cinque anni dall’avvio delle pratiche di espulsione) il Dipartimento federale di giustizia e polizia ritenne che le misure prese nell’interesse della sicurezza pubblica non sarebbero state rimesse in discussione nel quinquennio successivo106. Il Dipartimento politico, invece, dichiarò di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per tenere in considerazione le indicazioni della Legazione italiana, ponendosi come avvocato presso il dipartimento di giustizia e polizia; e inoltre «di poter constatare che alcuni Cantoni sarebbero disposti a modificare le loro decisioni su istruzioni federali»107. In altre parole, sia il Dipartimento di giustizia e polizia che quello politico, ritennero più utile, almeno in questa fase, mantenere delle relazioni di buon vicinato con il governo italiano, a discapito della Legazione di stanza a Berna. La dimostrazione di un simile atteggiamento da parte elvetica è rintracciabile qualche mese dopo, il 22 novembre 1950, nella «riservata» della Legazione svizzera in Italia indirizzata al capo del Dipartimento politico federale Max Petitpierre, nella quale si sottolinea come i giornali svizzeri hanno diffuso la notizia che il ministro degli Affari Esteri, il conte Sforza, è stato interpellato dalla Camera per sapere se e con quale prospettiva di successo il governo italiano fosse intervenuto presso il Consiglio federale al fine di ottenere l’abrogazione delle misure di espulsione prese in Svizzera, dopo la fine della guerra, riguardo gli italiani fascisti. Il conte Sforza ha risposto che il governo italiano aveva effettivamente intrapreso delle pratiche con Berna, che un certo numero di misure erano state prese e che a Roma il problema era seguito da vicino108.

Inoltre, nella nota confidenziale emerge come la campagna di stampa in atto in Svizzera fosse costantemente monitorata dal go  Nota Legazione d’Italia, 16 giugno 1950, p. 3. Dds, DoDis, d. nr. 7775.   Notice pour la Chef du Département. Expulsion, pour activité fasciste, d’Italiens résidant en Suisse, 24 juin 1950, p. 3. Dds, DoDis, d. nr. 7775. 107   Ivi, p. 4. 108  Légation de Suisse en Italie. R.P. no 42. «Confidentiel», Rome, 22 novembre 1950. Dds, DoDis, d. nr. 7776. 105 106

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verno italiano e soprattutto dalla neo-costituita «Associazione per la tutela degli interessi morali e materiali degli italiani dalle misure di espulsione in Svizzera»109. Ho ricevuto un lungo rapporto dell’Associazione che si è costituita in Italia per la tutela degli interessi morali e materiali degli italiani colpiti dalle misure di espulsione in Svizzera [...] perché contemporaneamente il «Corriere del Ticino» ha pubblicato un articolo su questa questione. L’attitudine del giornale è stata considerata molto «italofila»110.

Il rapporto dell’Associazione per la tutela degli espulsi veniva considerato, da parte del capo Legazione elvetico, più un pamphlet che una memoria. Si sottolineava anche la volontà di non voler intervenire al riguardo, in particolare sull’articolo apparso sul «Corriere del Ticino». Si può ritenere che alcuni espulsi possano tornare in Svizzera dopo un’assenza di cinque anni; ma noi, Svizzeri, chiediamo che il governo federale e i governi cantonali esaminino a fondo la situazione di ogni espulso che sollecita l’autorizzazione di tornare in Svizzera ed eliminino coloro i quali, nel Ticino, abbiano collaborato in modo scandaloso con il fascismo e coloro che, ancora, sono tra i ranghi del neo-fascismo. Sappiamo che, in una località non lontana dal cantone (probabilmente Como), elementi fascisti che furono tra i più attivi in Ticino, espulsi a causa della loro condotta, si riuniscono in un albergo i cui proprietari sono fascisti. Chiediamo che questi fascisti di ieri e di oggi non siano riammessi in Svizzera111.

Il capo delegazione continuava nel suo resoconto, riportando anche un incontro tenutosi nel frattempo con lo stesso Reale, che si trovava di passaggio a Roma, e sottolineando come quest’ultimo fosse della stessa opinione del giornale ticinese: «[Reale ritiene] di non dover adottare una misura generale di clemenza, ma ciascun caso va affrontato specificamente»112. Il medesimo capo Legazione rimarcava, però, come l’opposizione a un eventuale riesame delle pratiche provenisse essenzialmente dal Cantone Ticino:   Ivi, p. 2.   Ibid. 111  «Corriere del Ticino», 8 novembre 1950. 112  Légation de Suisse en Italie. R.P. no 42, cit., p.3. 109 110

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Esistono casi degni di interesse, soprattutto nel caso in cui la moglie dell’espulso, di origine svizzera, sia rimasta sola in Svizzera. In Italia, i fascisti residenti in Svizzera sono stati puniti meno severamente che da noi. Non è strano trovarne alcuni che vivono e lavorano tranquillamente qui. Credo che la Svizzera non debba prendere alla lettera le rivendicazioni degli espulsi fascisti, ad eccezione del caso in cui le misure prese dai Cantoni siano state eccessive. Ritengo che la Svizzera non dovrebbe praticare una politica di «porte troppo aperte», visto che il governo italiano sta prendendo delle misure gravi ed importanti che tendono a limitare la rinascita del fascismo in Italia, nascosto dietro il nome di MSI (Movimento sociale italiano)113.

Quest’ultimo passaggio dimostra come la posizione della Svizzera si andava modificando non per una sua impostazione, ma perché si riteneva utile comportarsi in maniera cordiale, per non dire speculare, rispetto al cambiamento degli assetti politico-ideologici in Italia114. Lo testimoniano anche le conclusioni della stessa «riservata»: Non vi è alcun dubbio dei legami di questo partito o movimento. Qualche giorno fa ho assistito ad una sua manifestazione, che aveva le stesse caratteristiche delle manifestazioni del passato regime. Sono i giovani che manifestano nelle piazze, ma sono incitati da vecchi fascisti. Paradossalmente, gli elementi di estrema destra e di estrema sinistra (comunisti) si uniscono per opporsi alle misure che il governo sta per prendere contro il neo-fascismo. Si tratta, ancora una volta, della lotta per la democrazia o per l’anti-democrazia115.

Un cambio radicale di atteggiamento da parte della Svizzera, ma soprattutto l’avversione verso gli estremismi, sia di destra che di sinistra, venivano definitivamente sanciti mediante la risposta e le indicazioni che le stesse autorità di Berna, il 4 dicembre 1950, inviavano alla Legazione svizzera di stanza in Italia. Si conferma l’avvenuta ricezione della lettera del 22 novembre, riguardante la risposta data dal conte Sforza alla richiesta, presso la Came  Ivi, pp. 3-4.   Per un approfondimento sui rapporti tra gli antifascisti e la Svizzera, si veda M. Cerruti, La Suisse et les réfugiés antifascistes italiens, in L’émigration politique en Europe aux XIXe et XXe siècles, Actes du colloque organisé par l’École française de Rome, 1991, pp. 305-326. 115  «Corriere del Ticino», 8 novembre 1950. 113 114

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ra, delle misure prese da parte del governo italiano in vista di abrogare i decreti di espulsione con cui la Svizzera aveva colpito diversi italiani fascisti nel 1945 e nel 1946. Si è a conoscenza della lettera dell’Associazione inviata il 30 ottobre e dei commenti relativi, oltre che dell’attitudine del «Corriere del Ticino». Queste informazioni e ciò che dite riguardo al colloquio con il ministro Reale mi portano a concludere che l’interpellanza di cui parlate non sembrerebbe servire da pretesto agli italiani per tornare alla carica116.

Infine, è interessante verificare quale sia il giudizio sull’operato e le strategie adottate da Reale dopo cinque estenuanti anni di trattative. La tattica di Reale è consistita nel riuscire ad ottenere il più possibile da questa concessione. Avremmo potuto mantenere alla lettera i nostri impegni e, solo dopo un lasso di tempo ragionevole, 4 o 5 anni, non rivalutare che qualche caso degno di attenzione. Nel giugno 1949, solo dopo tre anni, il Dipartimento federale di Giustizia e Polizia ha concesso grazie alla nostra insistenza di ricevere una lista dalla Legazione d’Italia in cui raccomandava l’esame di 43 casi di espulsione. La Legazione non ha giudicato utile indicare per quali ragioni proponeva una misura di clemenza in favore delle persone nella lista. [...] Dall’esame, è apparso che 10 casi meritassero di essere respinti immediatamente, mentre 10 si sono rivelati abbastanza sospetti agli occhi delle autorità cantonali. [...] Bisogna considerare anche che 3.000 tedeschi, invitati a lasciare il nostro territorio dopo la guerra, a loro turno hanno formulato lo stesso genere di rivendicazioni, nel caso in cui accordassimo agli italiani più di quanto promesso. Da considerare che i nazisti espulsi dalla Svizzera sono sette volte più numerosi dei fascisti. [...] Essi, come osservato alla fine della vostra lettera, non dovrebbero comunque poter contare sull’appoggio del loro governo dal momento che esso prende le misure per contenere la rinascita del fascismo in Italia117.

E tuttavia, concludendo, se gli ambienti di destra, le associazioni in difesa dei fascisti, nonché lo stesso MSI, non godono più della tutela e dell’appoggio del governo italiano, lo stesso vale, e addirittura in maniera ancora più marcata, per gli esponenti di sinistra. Nello specifico, le attenzioni delle autorità elvetiche, le modalità e le mi116

7770.

117

  P.A. 21.31.Rome, P.A.44.30.1. Berna, 4 dicembre 1950. Dds, DoDis, d. nr.

  Ivi, p. 2.

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sure che verranno intraprese nei confronti di questi ultimi, saranno certamente meno permissive e meno diplomaticamente tutelate. 6. Espulsioni per «attività comunista» Abbiamo già visto come la Svizzera, già nel 1948, aveva fatto sua la non politicizzazione degli immigrati. Se questo principio fu applicato in maniera fortemente attenuata nei confronti dei fascisti, di ben altro rigore fu l’applicazione sulla sponda avversa. Il clima era cambiato. Come rilevava Frank Roberts in una comunicazione dell’ambasciata britannica a Mosca: Benché l’Unione Sovietica intenda allargare la propria sfera di influenza con ogni mezzo possibile, la rivoluzione mondiale non fa più parte del suo programma [...]. Ogni paragone con la minaccia tedesca prima della guerra e l’odierno pericolo sovietico deve tener conto di [...] fondamentali differenze [...]. Pertanto il pericolo di una catastrofe improvvisa è infinitamente minore con i russi che con i tedeschi118.

Agli inizi degli anni Cinquanta il mondo, e soprattutto l’Europa, progressivamente, si divideva in due blocchi contrapposti: era la guerra fredda, che non mancò di esercitare i suoi effetti persino sui lavoratori italiani in Svizzera. Tra i primi ad essere espulsi per «attività comunista» molti erano quadri, iscritti o semplici simpatizzanti della FCLIS: «Vi comunichiamo che la revoca del divieto assoluto d’entrata emanato [...] nei Vostri confronti, non entra attualmente in considerazione. Il provvedimento in parola è stato appunto preso a causa dell’attività politica da Voi svolta in Svizzera»119. In linea di massima queste erano le parole indirizzate dalle autorità federali e/o cantonali agli espulsi per «attività comunista». Quantificarne il numero è impresa alquanto complessa. Volendo azzardare un calcolo e facendo qualche debita proporzione, nell’arco del trentennio dal 1949 al 1979, si dovrebbe parlare di più di qualche migliaia.

118   Frank Roberts, Comunicazione dell’ambasciata britannica di Mosca al Foreign Office, Londra, 1946. Ripresa da E.J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, Rizzoli, Milano, 2004, p. 267. 119  Lettera del Ministero pubblico della Confederazione a Giovanni Vatteroni, Berna, 3 agosto 1966. SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.40.4.

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Due sono gli elementi che determineranno questi provvedimenti, e generalmente, saranno consequenziali e collegati. Il primo riguarda la base normativa e si rifà al già citato decreto di non politicizzazione del 1948; mentre il secondo, nella quasi totalità dei casi è legato all’attivismo di sinistra e/o sindacale. Ovviamente, a essere messo sotto controllo e colpito sarà solo quello di sinistra. Tra i provvedimenti di espulsione per attività politica c’è quello indirizzato, nel 1950, a Pasquale Caspani, operaio italiano nato e cresciuto in Svizzera, antifascista e tra i fondatori delle CLI120. Nel 1952 viene decretata l’espulsione dell’operaio Vittorio Profugo e della sua famiglia, ritenuto colpevole di attività sovversiva per aver dato un modesto obolo di 3 Fr. di sottoscrizione al «Lavoratore», organo di stampa in lingua italiana del Partito del Lavoro svizzero121. Nello stesso anno, sei lavoratori italiani occupati presso la Brown-Boveri di Baden, sospettati di attività comunista, vengono colpiti dalla medesima ingiunzione122. Nell’ottobre del 1956, ad un anno esatto dall’espulsione di Valerio Puccianti, il Dipartimento federale di giustizia e polizia respinge il ricorso dell’attivista italiano. Nel presente ricorso, il Puccianti fa presente [...] che l’appartenenza al Partito comunista italiano, organizzazione politica legalizzata, non è vietata nella propria patria [...] e di essersi recato al congresso del Partito del Lavoro svizzero solo come spettatore simpatizzante. [...] La partecipazione all’attività politica fa parte delle regole del gioco democratico, tuttavia [...] non sono affari che interessano gli stranieri [...] soprattutto quando si tratta di organizzazioni di estrema sinistra che perseguono gli ideali internazionali del comunismo123.

E poi ancora, nel novembre del 1956 quattro operai, quadri delle CLI, vengono espulsi dal Cantone di Berna, vittime – stando alle dichiarazioni della polizia cantonale – della situazione internazionale. Così ricostruisce la dinamica dell’espulsione uno dei quattro operai:

120   «Il Lavoratore», 7 settembre 1974. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazioni affini Svizzere - Ar 40.20.16. 121   Ibid. 122   Ibid. 123  Sentenza ricorso Puccianti. Dipartimento federale di giustizia e polizia, Berna, 15 ottobre 1956, n. 102508. SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.40.4.

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Come già sarà a conoscenza è stato emanato un decreto di espulsione da tutto il territorio elvetico, a mio carico e di altri tre, fra i quali Melloni. I sindacati e l’Ambasciata si stanno adoperando per far ritirare questo ingiusto provvedimento, sottolineo ingiusto perché non mi hanno detto il motivo pur confermandomi che quanto è apparso sui giornali riguardo una lite che noi avremmo fatto, pure a loro risulta falso. Queste affermazioni infatti sono state fatte dal direttore della fabbrica al segretario del sindacato ed al sig. Mordesini della Polizia cantonale di Berna, a [me] personalmente in più ha aggiunto: sappiamo di non avere gli elementi per prendere questo provvedimento, ma la situazione internazionale ci suggerisce di agire in questo modo, perciò ora voi rientrate in Italia, poi fate ricorso e vedrete che non è escluso che il provvedimento venga riesaminato e ritirato. Come vede, siamo vittime della situazione internazionale e non di fatti a noi rimproverabili. Dirò inoltre che sabato 10 novembre dovevamo fare la nostra festa, avevamo già fatto la propaganda, già ottenuti i permessi quando, all’ultimo momento, ce li hanno ritirati per cui il giornale locale «Le Democrate» si è permesso di pubblicare che il motivo è perché la nostra associazione è (comunistizzante). Abbiamo interessato l’Ambasciata e all’occasione ci hanno chiesto se per caso il 4 novembre qualcuno di noi non è stato a Zurigo per una riunione, al che ho risposto io che era stato per le CLI. Io penso perciò che qualcuno interessato ha cercato di travisare l’attività di Colonia con quella di Partito e qui non ci è difficile individuarlo. Dal canto mio posso assicurare che non solo il g. 4 ma né prima né dopo, né io né altri ci siamo recati a tali riunioni124.

Le espulsioni continueranno, incessantemente, almeno fino alla fine degli anni Settanta. Purtroppo non riguarderanno solo coloro che svolgevano attività politica, in maniera palese, presunta o nascosta. Avremo modo di approfondire una pagina impietosa dell’emigrazione italiana in Svizzera, in cui questi metodi furono adottati anche nei confronti delle fasce più deboli, i bambini. Volendo enucleare i fatti salienti relativi alle vicende legate alle espulsioni, ci si accorge che esse occuparono diversi periodi e fasi della storia della FCLIS. Uno degli anni cruciali sarà il 1955, durante il quale, tra giugno e dicembre, saranno espulsi per «attività comunista» oltre 80 lavoratori italiani125. E ancora, nel 1963, «Il Lavoratore» annunciava: 124   Lettera di Roberto Corellli a Medri, Reggio Emilia, 20 novembre 1956. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 125  «Il Lavoratore», 4 settembre 1974. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazioni affini Svizzere - Ar 40.20.16.

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«Vi saranno ancora espulsioni a Berna e Basilea e la polizia passerà anche alle vie di fatto»126. L’aggravarsi della situazione interesserà sempre più direttamente le CLI. Il comitato esecutivo nazionale ed i responsabili dei Comitati regionali, riuniti in seduta congiunta constatano: 1) l’espulsione dal territorio svizzero del sig. R. Bonalumi, membro della Giunta federale e Presidente del comitato regionale della Svizzera romanda; 2) il maltrattamento subito dal sig. F. Pesce, Presidente del Comitato regionale del Canton Berna, da parte della polizia svizzera; 3) l’inizio di una campagna denigratoria contro le CLI da parte di alcuni organi di stampa svizzeri e italiani; 4) il tentativo di dar vita ad un movimento politico provocatorio di tendenza anti-italiana; 5) l’attacco di alcuni ambienti economici svizzeri, contrari alla ratifica della Convenzione italo-elvetica127.

Si decide di protestare formalmente e di respingere pubblicamente ogni accusa. La risposta delle CLI, dato il momento politico, è l’organizzazione per il 13 ottobre dello stesso anno a Zurigo, di una manifestazione pubblica sul tema «I diritti democratici dei lavoratori emigrati»128. Sarà un successo. Sul Limmat giungono oltre cento delegati da tutta la Svizzera, i quali con «ponderazione, ma fermamente, ribadiscono la loro volontà di essere considerati uomini a tutti gli effetti, esseri pensanti, e non solo rotelline intercambiabili di un meccanismo di produzione»129. Nel frattempo, in quelle stesse settimane cresce l’allarme da parte delle autorità elvetiche, soprattutto in merito alla posizione assunta dalla stampa italiana rispetto alle misure di espulsione adottate. Riguardo alle misure adottate [...] nei confronti dei capi comunisti italiani [...] ogni giorno vengono pubblicati articoli al riguardo, che appoggiano o meno il comunismo, a seconda della linea seguita dai quotidiani. Gli articoli de «l’Unità» si distinguono per la loro virulenza; sono in genere pubblicati in prima pagina e occupano più colonne. Anche l’«Avanti!», quotidiano socialista, consacra regolarmente degli articoli a questo argo-

  Ibid.   Verbale riunione dell’esecutivo nazionale, 7 settembre 1963. SSZ, f. FCLIS, b. Organi direttivi - Ar 40.20.12. 128   Ibid. 129  Convegno 25 anni delle CLI in Svizzera, Zurigo 1968. SSZ, f. FCLIS, b. Convegni anniversari FCLIS - Ar 40.40.7. 126 127

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mento e la sua opinione non differisce da quella dei comunisti. Si ritrova in questo settore, come in molti altri, la prova della collusione ben nota tra il partito comunista e il partito socialista italiano130.

Contemporaneamente, l’ambasciata elvetica in Italia annotava con preoccupazione l’incrementarsi degli attacchi al governo italiano da parte della stampa di sinistra, che addebitava a Palazzo Chigi le persecuzioni dei comunisti italiani in Svizzera131. Secondo l’ambasciatore svizzero, le reazioni erano dovute al fatto che la stampa era venuta a conoscenza di una lettera che l’ambasciatore Baldoni aveva inviato, prima delle elezioni del mese di aprile, a tutti i consolati d’Italia in Svizzera per avere informazioni sulle attività dei comunisti italiani. La prova dell’ingerenza italiana fu fornita dalle confidenze di Amstein, capo della polizia federale, ad un avvocato svizzero che cercava informazioni su un’inchiesta contro un lavoratore italiano. Le prove d’accusa erano state fornite direttamente dalla polizia italiana. a partire da questo momento, i socialisti e comunisti italiani si scagliarono non solo verso di noi, ma direttamente contro il governo italiano. Da parte sua, il Ministero degli esteri rispondeva [...] che l’informazione riguardo al clima politico regnante tra gli italiani all’estero restava tra i compiti del servizio diplomatico e che il fatto di essere stati informati aveva permesso all’Ambasciata d’Italia a Berna di intervenire con successo nel caso in cui gli emigrati italiani fossero stati maltrattati132.

La situazione precipitò all’indomani del divieto d’ingresso emesso nei confronti dei parlamentari Pellegrino e Calasso133. Il provvedimento scatenò un’ulteriore ondata di recriminazioni: la stampa di sinistra lo ritenne un attentato al prestigio del Parlamento italiano e i deputati comunisti si rivolsero al presidente del Consiglio Leone, affinché intervenisse con forza presso il governo elvetico. Dal canto suo, il governo italiano si limiterà a rispondere, sottolineando «l’opportunità di essere informato dai suoi servizi diplomatici e consolari 130   Lettre politique. Réaction de la presse italienne aux mesures adoptées par les autorités suisses contre des meneurs communistes italiens, Rome, 29 août 1963. Dds, DoDis, d. nr. 18755. 131   Ibid. 132  Ivi, p. 3. 133  Ibid.

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sul comportamento degli italiani che risiedono all’estero»134. Nelle pagine finali della lunga nota riservata, l’ambasciatore di stanza a Roma sottolineava come gli articoli apparsi sull’«Unità» avessero scatenato un ampio dibattito nell’opinione pubblica italiana, nella quale si riscontravano posizioni marcatamente distinte, in base all’orientamento politico dei quotidiani. l’articolo più recente de «l’Unità» riporta una lettera di Franco Pesce, uno degli italiani che sarebbe stato maltrattato dalla Polizia federale. Questo articolo attacca la Polizia, designata come «politica» e ritenuta uno degli strumenti in mano ai banchieri svizzeri delusi dal nazionalismo delle imprese elettriche italiane. La campagna condotta ogni giorno dai socio-comunisti sia contro la Svizzera che contro il governo italiano provoca conseguenze anche sugli altri quotidiani135.

Molti saranno i giornali che riporteranno e riprenderanno i temi e le questioni emerse sulle colonne de «l’Unità», ma differenziandosi sia nella cronaca che nell’analisi politica. Un elemento che sembrò accomunare una grossa fetta della stampa italiana fu quello di deplorare, in maniera generale, il deterioramento dei rapporti tra Italia e Svizzera in diversi ambiti, tra i quali destavano una certa preoccupazione le vicende relative alla nazionalizzazione delle imprese elettriche, l’affaire Stocker136 ed il traffico ferroviario alla frontiera tra i due Paesi. Contestualmente, però, sia «Il Messaggero» che «La Stampa» adottarono una linea di netto rifiuto delle argomentazioni comuniste137, giustificando la politica delle autorità elvetiche come misure adottate contro la propaganda comunista in Svizzera. Quest’ultima è indicata come la vera colpevole nell’erodere la tranquillità delle Colonie italiane138.

  Ibid.   Ivi, p. 4. 136   Albert Stocker, profumiere zurighese che, nel 1963, fondò il «Movimento indipendente svizzero per il rafforzamento dei diritti del popolo e della democrazia diretta», meglio conosciuto come «Partito anti-italiani». Stocker sarà il precursore dei movimenti xenofobi che esploderanno verso la fine degli anni Sessanta. Il movimento si caratterizzerà soprattutto per la sua avversione verso i meridionali. 137   «Il Messaggero» venne accusato dall’«Unità» di essere al soldo del capitalismo elvetico. Cfr. ivi, pp. 4-5. 138   «La Stampa» di Torino, in un servizio su Berna del 27 agosto 1963, riprese gli argomenti de «Il Messaggero» e criticò il lavoro di erosione che i comunisti effettuavano all’interno delle Colonie italiane in Svizzera, sconvolgendo la tranquillità del Paese. Cfr, ivi, pp. 5-6. 134 135

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Contro «l’Unità» non mancò di schierarsi anche «Il Borghese», settimanale neofascista. aveva affermato in un numero di due settimane fa di essere a conoscenza delle azioni comuniste in Svizzera già da due anni e di averlo reso noto all’epoca [...], mette in rilievo l’importanza e il carattere pericoloso dell’attività comunista tra gli emigrati italiani. Cita a questo proposito l’organizzazione dei comunisti italiani in Francia. Ciò giustifica, da parte del «Borghese», la diffidenza che da qualche tempo l’opinione pubblica di alcuni Paesi nutre nei confronti dei lavoratori italiani139.

La diffidenza, appunto. A leggere le dichiarazioni del «Borghese» emerge il sospetto che il settimanale fosse già a conoscenza nel 1963 di quanto emergerà quasi trent’anni dopo, attraverso quello che sarà definito lo scandalo delle schedature. Di certo, invece, il governo italiano era a conoscenza del modus operandi degli elvetici, tanto che l’applicazione delle leggi (come abbiamo già visto) e le modalità operative venivano prese come esempio durante le discussioni del Consiglio dei ministri presieduto dall’allora capo del governo Scelba: «bisogna adottare le leggi contro i nemici dello Stato che vengono prese negli Stati Uniti o nella vicina Svizzera, ove la polizia controlla tutti i telefoni dei comunisti, per il solo fatto di essere comunisti, senza autorizzazione della Magistratura»140. 7. Spiati e schedati Nel 1989 una commissione parlamentare d’inchiesta scoprì presso il ministero pubblico della Confederazione cospicui schedari e fondi documentari. In sostanza, negli anni della guerra fredda, la polizia federale aveva sorvegliato e registrato in appositi dossier oltre 800.000 persone e organizzazioni, anche se, ancora oggi, non si ha precisa nozione della cifra complessiva141. Questa vicenda fece scop  Ivi, p. 5.   Stralcio di verbale della seduta del Consiglio dei ministri italiano, 4 dicembre 1954, in G. Crainz, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma, 2005, p. 6. 141   Al riguardo sono tre le posizioni che confliggono. Da un lato il primo Rapporto, redatto dallo storico Georg Kreis, pubblicato nel 1993, parla di circa 900.000 schedature. Mentre tre anni dopo, per René Bacher (incaricato dal governo federale di approfondire la questione delle schedature, indagine che costò al governo elvetico 34 milioni di franchi) le schede sono 820.000 e i fascicoli 15.750: allineati 139 140

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piare uno scandalo che ha occupato l’opinione pubblica elvetica per buona parte degli anni Novanta142. Ci si serviva di questi documenti – in particolar modo per quanto riguarda gli italiani – non solo in via funzionale alle espulsioni per attività comunista, bensì come deterrente nei confronti dei datori di lavori, come ci testimoniano le parole di uno degli schedati, Leonardo Zanier, dirigente della FCLIS, di cui divenne anche presidente. Si sapeva che la polizia degli stranieri teneva sott’occhio l’attività delle organizzazioni straniere in Svizzera, quelle di sinistra in particolare, e che c’era anche un elenco di indesiderati funzionari sindacali e politici italiani che talvolta, quando venivano a trovarci, se ne dimenticavano o pensavano che i tempi fossero cambiati o magari per aiutare a cambiarli, andavano in albergo e, individuati, potevano anche essere riaccompagnati alla frontiera143.

Secondo Zanier, però, il problema restava l’approssimazione nei procedimenti e la totale non conoscenza dell’«altro», delle rispettive istituzioni ed organizzazioni, dei linguaggi, che si potrebbero semplificare con questi esempi: «Egregio Signor Cantone», scritto da un immigrato; «cerchiamo il Signor Antonio Gramsci!», pronunciato da un poliziotto a Bülach, dove effettivamente c’era una sezione clandestina del Pci, che gli iscritti avevano intitolato al leader comunista144. In conclusione, la mappa 1:1 – come la definisce Zanier145 – è servita, insieme alle epurazioni e alle facili espulsioni, sostanzialmente

coprivano la ragguardevole distanza di 1,3 chilometri. Al contrario, i comitati dei cittadini schedati e le associazioni parlano invece di oltre 900.000 schede. 142   Nel 1990 a Berna viene organizzata una manifestazione di protesta contro lo Stato ficcanaso che vedrà la partecipazione di 35.000 cittadini. 143   L. Zanier, Fiches, in E. Halter (a cura di), Gli italiani in Svizzera, cit., pp. 131-134. 144   Ibid. 145   «A cosa serve una mappa in scala 1:1? Come dire: 1 metro di territorio ridotto a 1 metro di rappresentazione? A poco o niente. È difficile da trasportare. La si potrebbe, al massimo, stendere sul terreno a coprire città e montagne, nascondendole, e camminarci sopra. Quindi la domanda diventa: come mai e a chi può venire in mente l’idea di fare una mappa 1:1? Chiaramente a nessuno. Se succede non può che trattarsi di un effetto indesiderato. Una sorta di moltiplicatore che s’insinua subdolo in un progetto che certamente si voleva: patriottico, discreto, anzi nascosto, razionale, utile, pratico e di pronto ed empirico uso», in L. Zanier, op. cit., p. 131.

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a mantenere fede ad uno dei principi e dei presupposti cardine del controllo sociale e politico dell’ordinamento elvetico, il mantenimento della pace sociale. La differenza, nel caso in questione, è che non c’erano più due contraenti, come nel 1937 quando fu siglato l’accordo tra il patronato ed il sindacato: questa volta la pace, anche se di facciata, è stata imposta di nascosto. 8. La FCLIS e la questione agricoltura Nell’arco del primo decennio di vita, dal 1945 al 1955, la FCLIS sarà impegnata anche dal punto organizzativo nell’ampliamento della rete delle associazioni aderenti. Parlando con gli amici di Winterthur, mi dissero che qui a Uster vi sono molti italiani, e questi si trovano isolati, senza nessuna direzione, senza un contatto diretto con altri connazionali in Svizzera, e senza sapere dove rivolgersi perché sia[no] difes[i] i vostri interessi: e nello stesso tempo siete all’oscuro che qui in Svizzera esistono le Colonie Libere Italiane, create per difendere i vostri interessi economici e sociali. [...] Se voi qui a Uster credete di costituire, nel vostro interesse, una Colonia fra italiani, dovete formare un primo nucleo di attivisti che senta la necessità di questa formazione [...]. Se credete a questa riunione potremo far partecipare qualcuno del nostro Esecutivo, per spiegare l’attività svolta dalle Colonie Libere146.

Oltre gli aspetti organizzativi e politici, le CLI si dovettero confrontare con la vertenza agricoltura. Gli italiani impiegati nel settore erano stati pressoché ignorati dall’accordo del 1948. Si trattava di braccianti, per i quali non esisteva un contratto collettivo, accomunati, per questo motivo, ai comparti dell’assistenza domestica e della ristorazione. Vogliamo con la presente farvi rilevare in maniera speciale la penosa situazione di quegli emigranti che lavorano nelle campagne e nelle cucine. Vi preghiamo quindi di promuovere delle riunioni speciali di operai agricoli ed alberghieri in cui potrete raccogliere tutte le informazioni sulle condizioni di lavoro a cui essi sono soggetti: informazioni che potrete

  Lettera d’invito a costituire una CLI a Uster inviata da Medri. Zurigo, 13 gennaio 1951. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 146

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comunicare alla Federazione per una campagna di protesta da farsi nella stampa e presso le autorità147.

Fino alla metà degli anni Cinquanta, il settore assorbì quasi il 30% della manodopera italiana emigrata in Svizzera148. Naturalmente, in questo comparto, come in quello boschivo, dell’edilizia e della ristorazione, vennero impiegati perlopiù lavoratori stagionali. Lavorare in agricoltura significava sottostare ad orari massacranti, corrispondenti almeno a 12-14 ore al giorno, e percepire un salario infimo. Mi rivolgo a voi per far sì che mi troviate un’occupazione per me, non perché non abbia un posto di lavoro, [ce l’ho] il posto, ma io non ci stò più per la misera paga che percepisco, si tratta di 150 franchi al mese, è una paga irrisoria in proporzione al lavoro che facciamo noi contadini. E per questo voglio trovare un’altra occupazione con una paga non così irrisoria. E per questo prego di trovarmi u ­ n’occupazione, o in fabbrica o dietro alle ferrovie, giardiniere, in un magazzino, insomma un posto che non sia più di contadino perché il contadino in Svizzera lavora come un negro e prende una paga di molto inferiore perfino delle donne. A casa non voglio andare, perché mi toccherebbe fare ancora il disoccupato149.

I salari, in media, non superavano i 120/130 Fr. mensili. Per rendere l’idea, nello stesso periodo un occupato nell’edilizia, guadagnava circa 2 Fr. l’ora. Calcolando 10 ore al giorno, per 6 giorni lavorati, un muratore arrivava a guadagnare quasi il quadruplo. Mentre chi era impiegato nel settore agricolo, nei periodi estivi, arrivava anche alle 16-17 ore al giorno. Probabilmente non era un caso se, dopo la prima stagione, molti, in barba alla legge, cercavano di spostarsi in altri settori, come quello edile e poi industriale: «qualsiasi categoria ad eccezione nell’agricoltura»150.

147   Circolare della Giunta federale indirizzata alle colonie territoriali, Zurigo, 25 giugno 1951. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni. - Ar 40.20.2. 148   Quasi il 50% era clandestino. Cfr. Betrieb Einreise Ausländer Arbeitskräfte, cit., p. 1. 149   Lettera di Angelo Alghisi a Medri, Gibswil, 24 settembre 1952. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 150  Cfr. Lettera di Eugenio Di Benedetto, cit.

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A voler tentare di descrivere le condizioni dei tanti italiani che nei primi anni lavoravano in agricoltura, non si riuscirebbe a fare di meglio di quanto scritto nel diario di Liliana Fuggi151, segretaria all’Ufficio Emigrazione presso l’ambasciata italiana di Berna nel 1956. All’Ufficio si rivolgevano i lavoratori italiani emigrati in Svizzera, fiduciosi di ricevere comprensione e aiuto dai loro connazionali. In realtà la burocrazia diplomatica italiana sembrava preoccuparsi soprattutto di mantenere i buoni rapporti con le autorità elvetiche; mentre i poveri richiedenti venivano abitualmente posti sotto processo, ingiustamente, per giustificare la condotta dei loro datori di lavoro152. L’ufficio, sito in Elfenstrasse 14, si trasformava così in una sorta di teatrino, simile alla «Napoli milionaria» di Eduardo, in cui il lavoratore italiano aveva sempre la peggio. Questo è il caso, ad esempio, di un certo Paganò, che trascorrerà più di qualche ora nella sede dell’ambasciata italiana di Berna prima di riuscire a confessare di essere stato maltrattato dal proprio padrone. «Qui c’è scritto che eri mezzo asfissiato quando sei arrivato all’ospedale! E mi vieni a parlare di mangiare e di lavoro! Questo dovevi dirmi per prima cosa». «Io sono alfabeta!». «Tu non sei alfabeta, sei un somaro! Ma la lingua non la tenete per raccontare i fatti! Bene, adesso ti facciamo una bella lettera di scuse per il padrone spiegando la tua situazione, così te ne torni a lavorare in pace». «Io voglio andare a casa mia a morire di fame!». «Ma bravo! E la famiglia? I bambini? Anche loro morire di fame?». Paganò abbassa la testa con uno strano singulto gutturale che sembra uscirgli dal ventre. Forse anche il collega ne ha risentito un brivido di ansia? «Senti Paganò, io sono dietro questo tavolo perché ho studiato e sono più intelligente di te.». «Signorsì!». «Qui non si può cambiare padrone quando c’è tanto di contratto, però date le tue condizioni, voglio fare un’eccezione per te.». E solleva il telefono: «Cher monsieur Jost, cette fois-ci il s’agit d’un cas vraiment pénible.», e mentre parla fa cenno a Paganò di andare ad aspettare in anticamera. [...] Dopo un po’ entra l’usciere Secchia, che a quanto pare se la cava meglio del collega per far parlare questi poveri diavoli. «Dottore! Questo qua c’ha certe ferite sulla gamba! Con la forca l’ha picchiato quel porco!» Il collega fuori di sé urla: «Paganò! torna qui a farci vedere queste ferite!».

151

9-53.

152

  L. Fuggi, Elfenstrasse 14. Sportello emigrazione, Giunti, Firenze, 1991, pp.   Ivi, p. 9.

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Mentre entra, Secchia gli batte sulla spalla: «Su, su, fatti corazzio ragasso!». Paganò solleva il pantalone e appaiono lunghe strisce appena cicatrizzate sulla gamba. Eh già, per parlare dell’asfissia non ha neanche ricordato le ferite153.

In questo «melodramma» emerge la reticenza da parte degli emigranti, in particolar modo quando sono semianalfabeti, ed affiorano tutti i tratti dello sfruttamento padronale, nonché di un certo lassismo, definito approccio liberale da parte delle autorità elvetiche. Si tratta di una vicenda che affronteremo a breve, dopo un ulteriore approfondimento sull’Ufficio Emigrazione di Berna. In Elfenstrasse 14, tra i tanti che si presentavano alla ricerca di un aiuto e di comprensione, c’erano anche casi come quelli dei due emigranti Torniciaro e Calabrese che ci fanno rivivere, nuovamente, le vicissitudini di Nino Manfredi, alias Garofoli Giovanni, lavoratore stagionale nel già menzionato Pane e cioccolata. «Il padrone dice che siete lenti e fumate, quando sapete che è vietato fumare nei campi.» Torniciaro: «Mi sveglio di notte e penso al contadino che sta già a mungere.» «Mi fa alzare alle 4, mi fa mungere otto vacche e dopo viene la figlia.» «Pure la figlia?» «Sì, insomma la figlia mi viene a dire: Ehilà! Fai presto che adesso c’è da fare il fieno!» [...] «Dice il padrone che ti alzi tardi! Cosa pensi di stare in villeggiatura? Lo sai che padroni meno buoni del tuo per questo ti prenderebbero con la forca?» «Fino alle tre, le quattro del mattino, la donna non mi lascia tranquillo.» «Che donna?» «La figlia del padrone.» «E tu, cacciala via, o dillo al padrone!» «Se la caccio via mi ha già detto che dice a suo padre che sono io che gli faccio le violenze e se lo dico al padrone, mi caccia via lui.» «E tu... insomma... abbrevia i tempi!» «Vai, vai che mi hai capito benissimo!»154.

Le storie di Paganò e Torniciaro sono una buona sintesi di quello che accade in quegli anni presso le istituzioni diplomatiche, come l’ambasciata di Berna, e descrivono l’insieme delle contraddizioni,

  Ivi, pp. 13-14.   Resoconto Calabrese e Torniciaro, 12 luglio 1956, in L. Fuggi, op. cit., pp. 44-45. 153 154

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delle difficoltà, dei maltrattamenti e delle procedure non sempre ortodosse che venivano adottate per risolvere i problemi degli immigrati italiani. Inoltre, se nelle pagine precedenti abbiamo visto quanto sia stato importante e quali siano state le difficoltà, per la cui risoluzione venivano sollecitate le strutture della FCLIS, in questi casi riemerge l’elemento politico della strategia dell’equilibrio e della salvaguardia dei rapporti diplomatici e, in particolare, economici, tra l’Italia e la Confederazione. In conclusione, la segretaria Fuggi non si limita solo a trascrivere ciò che accade agli emigranti nelle stanze dell’Ufficio Emigrazione di Berna. Infatti, nelle pagine conclusive del suo diario, riaffiorano le difficoltà e le condizioni nelle quali arrivano, lavorano e vivono in questi anni gli italiani in Svizzera. Ed è così che nel suo penultimo resoconto, quello del 30 luglio 1956, Fuggi descrive quanto accaduto proprio durante quel mese di luglio, durante il quale sono morti dieci italiani sul lavoro. Italiani che meno di qualche mese prima erano stati dichiarati abili dall’Ufficio d’Igiene, ma che secondo i contadini elvetici non lo sono: «arrivano qui come sacchi di stracci affamati!»155. Noi paghiamo per avere braccia valide e diamo anche da mangiare a sufficienza, il nostro vitto certo! La domenica lasciamo anche che si facciano la loro pasta, ma in settimana gli orari non lo permettono; qui ci si alza alle sei, anche alle cinque o alle quattro, secondo la stagione e si lavora fino a sera156.

L’ufficio d’Igiene si trovava alla frontiera (sia a Briga che a Chiasso157) e, almeno fino al 1976, gli immigrati si sottoponevano a visita medica e a disinfestazione, standosene come «un gregge paziente in attesa di essere ricevuti, nudi col passaporto in mano, da chi aveva

  Resoconto, 30 luglio 1956, in L. Fuggi, op. cit., pp. 47-50.   Ivi, p. 47. 157   Per quanto attiene i valichi di frontiera: «Gli italiani diretti in Svizzera – ove nel contratto di lavoro non risulti, a cura della Polizia svizzera, alcuna specifica indicazione del valico che debbono attraversare – sono tenuti a transitare: 1) per Domodossola e Briga, nel caso siano diretti nei Cantoni di Ginevra, di Losanna, di Berna, di Friburgo e di Neuchâtel; 2) per Chiasso nel caso siano diretti nei Cantoni Ticino, di San Gallo, dei Grigioni e in tutti gli altri». Cfr. Notizie da tutto il Mondo. Europa. Svizzera, in «Bollettino della Giunta cattolica per l’emigrazione», nn. 5-6, maggio-giugno 1954, p. 80. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 1425, f. 001. 155 156

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ancora bisogno di merce umana»158. Insomma, un po’ quello che accadeva già da un secolo prima, nel 1892, a Ellis Island. Ritornando ad Elfenstrasse 14, proprio qui emergono il lassismo e a volte l’improvvisazione, se non l’impotenza, della diplomazia italiana nell’affrontare le questioni. Tra i protagonisti dell’episodio illustrato di seguito, ne notiamo tre in particolare, due dei quali – un collega di lavoro della Fuggi, F., e tale signor R. – sono indicati con l’iniziale del nome per mantenere l’anonimato; il terzo è il signor Jost, caratteristica figura che svolge la funzione di intermediario tra la polizia e il datore di lavoro. Chi è incaricato di aprire un’inchiesta dopo il decesso? Il collega F., il quale si lamenta di rimetterci pure di tasca sua. «Il Ministero mi deve ancora pagare sei sopralluoghi, se fosse per loro». [...] eh quelli muoiono perché erano già malati prima di arrivare al posto di lavoro. Nei sopralluoghi abbiamo trovato fattorie a posto [...] e padroni cordiali. Mentre quelli che vengono qui a lamentarsi dei maltrattamenti e del vitto sono spesso dei lavativi che non hanno voglia di lavorare!159

La verità, di fatto, è un’altra: Caro R., il tuo ragionamento fa acqua da tutte le parti. I maltrattamenti esistono, eccome! Paganò, per parlare della sua asfissia si era pure dimenticato di essere stato ferito a colpi di forca! E poi, voi, signori ispettori di fortuna, che arrivate nelle linde fattorie, cordialmente ricevuti con un buon bicchiere di vino, mettete, mi pare, ben superficialmente la mano sul fuoco giurando che i rosei e pasciuti agricoltori non siano stati in qualche modo responsabili della morte del lavoratore. Intanto, se il povero diavolo era malato perché non averlo dichiarato subito, visto che loro si possono permettere di risolvere il contratto, se la merce ricevuta è di scarto?! Possono fare tutto quello che vogliono, insomma, questi padroni svizzeri? Morto l’uno, avanti l’altro che il sig. Jost non tarderà ad arrivare al suo posto160.

Il sig. Jost è un illegale piccolo padreterno che, con la complicità della polizia («per fortuna», dice R.), chiude un occhio. Senza di lui che cosa si farebbe, si chiedono disperati gli impiegati e i funzionari

158   F. Venturini, Nudi col passaporto. La verità sull’emigrazione italiana in Svizzera, PAN, Milano 1969, p. 178. 159  L. Fuggi, op. cit., p. 47. 160  Ivi, pp. 47-48.

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dell’Ufficio Emigrazione. È lui che avvia i clandestini, che procura, in caso di contestazione, un nuovo posto di lavoro, che interviene presso il datore per aggiustare una controversia e fa altri piccoli servizi, tutti clandestini. Jost riceve 20 franchi da parte del contadino per avere in dono il lavoratore. Con quel cinismo fatto di logica insegnato dalla vita burocratica, il collega della Fuggi, R., dice: Lui ci guadagna e più ne manda di lavoratori, più si riempie le tasche, anzi se uno se ne va per maltrattamento lo avvia ad un nuovo posto di lavoro, assicurando poi un nuovo lavoratore al contadino rimasto senza, in questo modo ci guadagna doppiamente! Senza nemmeno aver ammonito il contadino? Sì, quello lo fa! Lo minaccia di non mandargliene altri, me sa com’è, ormai quello se ne è andato e avanti un altro!161

Le modalità attuate dal sig. Jost sono per quegli anni una consuetudine e, soprattutto, suggeriscono che l’elemento della clandestinità fosse di per sé accettato se non condiviso addirittura dalle autorità e più in generale dal sistema produttivo elvetico. Il problema, però, secondo Fuggi è ascrivibile al permissivismo e agli scarsi risultati ottenuti da Reale nella fase preparatoria che poi portarono all’entrata in vigore del primo accordo sul reclutamento tra Italia e Svizzera: Nel 1946 il ministro Reale, all’epoca ambasciatore, stabilì un contratto di lavoro che allora poteva reggersi, tenuto conto che eravamo appena usciti fuori da una crisi profonda e che la fame attanagliava l’Italia meridionale, soprattutto. Questo contratto era una presa in giro per gli interessi dei nostri connazionali e voleva soltanto essere gradito ed accettabile dalle autorità svizzere, che si sentivano il coltello dalla parte del manico. D’altronde ci teneva Reale a sventolare i suoi meriti per aver ottenuto per primo questo accordo. I termini di questo contratto sono addirittura ridicoli, inverosimili dieci anni dopo162.

Fuggi aggiunge al proposito: Basti dire che da allora sono riusciti a far aumentare le paghe soltanto di 10 franchi; quindi un lavoratore guadagna da 130 a 150 franchi al mese [la diaria del ministro Reale per un giorno di permanenza a Strasburgo,

161 162

  Ivi, p. 48.   Ibid.

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due anni fa!], alzandosi alle 4 ed andando a letto alle 10, e anche a mezzanotte in agosto. Questo lauto stipendio non viene neanche loro rimesso per intero. Il padrone si trattiene imposte e assicurazioni e dà loro la metà per garantirsi [infatti molti scappano dopo una settimana]. Ci vorrà quindi un periodo di sei mesi, a volte più, prima che possano percepire questa misera paga per intero. Quelli che vengono trattati normalmente sono pochi; il contadino svizzero sa che non ha nulla da perdere e, in caso di rottura del contratto del lavoratore, tutto da guadagnarci; quindi viene incoraggiato su questa strada. A volte capita quel tipo di persona che ha una moralità sociale e si sorprende di questo stato di cose. Una volta uno di loro ha detto: Ma le vostre autorità non fanno niente per aiutare e proteggere i vostri connazionali? Noi siamo, insomma come un teatrino di cartapesta e qui troviamo sole belle o brutte parole come in un confessionale. Insomma, tipo «fai il bravo e torna a lavorare?». Esatto! Purtroppo nella loro infelice situazione hanno bisogno di credere nelle loro autorità, di ricevere il loro supremo parere, arrivando così fino ad autoaccusarsi talvolta. Sono stanchi, depressi, spesso analfabeti e quando vengono a piangere in questo ufficio lo fanno come uno che si sente tornato a casa sua a confidarsi con qualcuno che parla la sua lingua163.

Secondo Fuggi, queste cose sono accadute ed accadevano perché nessuno ha voluto urtare la suscettibilità del ministro Reale e correre il rischio di provocare il suo risentimento. Perché Reale è considerato in Isvizzera «il padre dell’emigrazione italiana», quindi le cose proseguono così, facendo gli interessi degli svizzeri e tappando la bocca del lavoratore. Ci sono poi dei veli che non si posso sollevare. Personaggi importanti, coinvolti nell’affare «negrieri» dell’emigrazione clandestina, che fu anche portato sullo schermo l’anno scorso. Passato un po’ di tempo però, tutto è ripreso come prima, peggio di prima, con una organizzazione più rigida e più sicura. Quando si denuncia non ci si dovrebbe fermare soltanto lì. È un’arma a doppio taglio che fornisce elementi di difesa all’accusato. Il contratto diventa quindi un pretesto per aggravare la condizione dei nostri connazionali, poiché è praticamente unilaterale164.

In definitiva, molti sono gli elementi che emergono dalla rilettura delle memorie della segretaria in stanza presso l’Ufficio Emigrazio163 164

  Ivi, p. 49.   Ivi, p. 50.

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ne, già accennati in precedenza: maltrattamento, sfruttamento, reticenza, ma soprattutto lassismo e debolezza strutturale delle autorità italiane. Sul giudizio espresso su Reale, però, riteniamo che vada avanzata una certa riserva: ricordiamo che Reale è stato, insieme a Schiavetti, il fondatore delle prime CLI in Svizzera, nonché uno storico militante antifascista e meridionalista convinto. Inoltre, se le condizioni del Paese all’indomani della guerra erano catastrofiche, tanto da determinare una chiara debolezza dell’Italia durante la stagione degli accordi bilaterali165 – significativo è il caso dell’accordo di deportazione con il Belgio166 – d’altro canto è innegabile l’impegno di Reale nel cercare di migliorare le condizioni dei lavoratori italiani in Svizzera ed in particolare modo la condizione dei tanti addetti in agricoltura, lavoratori stagionali. 9. Atto finale. Egidio Reale e la rinegoziazione impossibile A testimonianza dell’impegno di Reale, conseguente alla spinta e alle pressioni poste in essere dalla FCLIS, sull’onda di alcune denunce di abusi dei datori di lavoro svizzeri ai danni dei braccianti italiani, è utile rileggere i verbali delle sedute della Commissione consultiva mista italo-svizzera, figlia anch’essa – insieme ad una serie di misure volte a rafforzare l’intervento dello Stato, e, nella fattispecie, nella gestione e nel controllo del flusso migratorio da 165  La stagione d’oro degli accordi bilaterali fu quella tra il 1946 e il 1948, quando l’Italia firmò intese con Francia, Belgio, Gran Bretagna, Svizzera, Olanda, Lussemburgo, Svezia, Cecoslovacchia e Argentina. Questi accordi furono poi progressivamente modificati e aggiornati. La stagione degli accordi post-bellici si chiuse nel 1955, con la firma tra Italia e Germania Federale. I rapporti bilaterali furono uno degli strumenti più utilizzati per promuovere la ripresa dell’emigrazione italiana. Cfr. M. Colucci, Lavoro in movimento, cit., p. 136. 166   L’Accordo di «deportazione», così definito da Anne Morelli, firmato nel giugno del 1946, prevedeva l’invio di 2.000 giovani dall’Italia a settimana da destinare al lavoro in miniera. In cambio il Belgio si impegnava a fornire 200 kg di carbone a minatore all’Italia, la quale doveva far fronte al proprio fabbisogno energetico. Come sappiamo, il tutto culminò con la «tragedia di Marcinelle» del 1956, nella quale persero la vita 262 minatori di cui 136 italiani. Marcinelle passò alla storia per l’impatto emotivo che ebbero le immagini, trasmesse in diretta dalla televisione, sull’opinione pubblica italiana. Per maggiori approfondimenti riguardo l’accordo si rimanda a A. Morelli, In Belgio, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. II, Arrivi, cit., p. 165; M. Colucci, Lavoro in movimento, cit., pp. 136-152; A. Forti, Da Roma a Marcinelle, Labor, Marcinelle, 2004.

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parte della Legazione d’Italia a Berna – dei modesti risultati ottenuti dall’Italia durante la fase della negoziazione del trattato del 1948. La Commissione, incaricata di sorvegliare sull’applicazione dell’accordo, fu convocata soltanto nel giugno del 1954 su richiesta delle autorità italiane. La partecipazione del ministro può essere considerata una delle più importanti della sua carriera. Le riunioni si svolsero dal 28 giugno al 1° luglio del 1954 a Berna167, per volontà della delegazione italiana, con a capo, appunto, Reale, e si discussero i seguenti punti all’ordine del giorno: 1. Misure e prescrizioni che permetterebbero ai lavoratori stagionali italiani di ottenere un contratto di lavoro regolare per l’intera durata del loro soggiorno in Svizzera, conformemente agli art. 9 e segg., dell’accordo del 22 giugno 1948 tra Svizzera e Italia relativo all’immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera, oltre che alle istruzioni stabilite a questo riguardo dall’Ufficio federale dell’industria, delle arti e dei mestieri e del lavoro nelle sue circolari n. E 46 dell’11 marzo e n. E 84 del 14 novembre 1951. 2. Reclutamento della manodopera italiana per la Svizzera e regime ivi applicato conformemente all’accordo citato sopra. 3. Condizioni di lavoro della manodopera occupata nell’agricoltura, nello specifico relative alla durata del lavoro, i congedi e le vacanze. 4. Reclami e inchieste relative all’applicazione dell’accordo (art. 21 dell’accordo del 22 giugno 1948). 5. Regime fiscale della manodopera stagionale italiana ammessa in Svizzera, tenuto conto del carattere temporaneo del soggiorno (atto finale annesso all’accordo del 22 giugno 1948, art. 17).

La Legazione italiana avviò quella che potremmo definire una rinegoziazione impossibile. Se volessimo trarre delle conclusioni, analizzando il botta e risposta tra i protagonisti della Commissione mista, probabilmente riusciremmo a tracciare una sintesi riguardo le prassi, le regole, l’applicazione formale e materiale dell’accordo di reclutamento del 1948. Innanzitutto, uno degli elementi maggiormente ricorrenti è il ricorso alla deterrenza applicato dalla delega-

167   Compte rendu des séances de la Commission consultative mixte prévue pour l’arrangement entre la Suisse et l’Italie du 22 juin 1948, relatif à l’immigration de travailleurs italiens en Suisse. Session du 28 juin au ler juillet 1954 à Berne, Berne, 7 juillet 1954. Dds, DoDis, d. nr. 8944.

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zione elvetica, con la reiterata minaccia di attingere alla manodopera tedesca ed austriaca, soprattutto quando le pretese da parte italiana diventavano incalzanti. Il secondo aspetto che emerge, in forma molto chiara, è l’eccesso di lassismo e un uso abituale del fattore clandestinità, funzionali in questa fase alle ingenti richieste di manodopera a basso costo, la quale subisce la totale assenza di tutela sociale e salariale. Il terzo elemento che affiora è la dichiarata volontà di non voler modificare gli assetti economici precostituiti, in particolare modo quando si tocca la questione agricoltura: in effetti, una qualsivoglia «industrializzazione» del settore risulterebbe controproducente per gli elvetici, sia per i tempi e, soprattutto, per gli eventuali diritti da concedere a favore degli addetti. Un altro fattore importante risulta essere la modalità di reclutamento della manodopera in Italia. Se dal versante italiano si spinge per il suo contingentamento, la Svizzera predilige ancora la chiamata nominativa, in quanto è più comoda, meno costosa e non necessita di numerose tutele. Infine, è costante il tentativo, soprattutto da parte di Reale, di dirigere il contingente di chiamata verso le zone che maggiormente soffrono la congiuntura economica: il Meridione d’Italia che di lì a poco avvierà il suo esodo biblico168. Volendo tracciare un bilancio del primo decennio di attività della FCLIS, bisogna constatare che essa è stata impegnata su diversi fronti: la ripresa dei flussi migratori e la sua riorganizzazione, il primo accordo di reclutamento del 1948, le attività di accoglienza e di tutela dell’emigrazione, la non politicizzazione e le espulsioni, la tutela del lavoro in agricoltura. E non ultimo, il suo ruolo di stimolo costante per le autorità diplomatiche. Probabilmente, è più opportuno che a farne un bilancio esaustivo sia l’allora presidente Medri. Chi scrive, come ben comprenderà, non è un intellettuale, ma bensì un modestissimo artigiano da molti anni residente in Svizzera. Ciò che mi ha spinto darLe questo disturbo, è stato a leggere il suo giornale (Scintilla) ove ho letto che un suo collaboratore è fratello di un mio caro amico [...] Cesare Sacerdote dimorante a Ginevra (Svizzera).

168   M. Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana., II ed., Sette Città, Viterbo, 2005, p. 15. Cfr. anche F. Romero, L’emigrazione operaia in Europa (1948-1973), in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Partenze, cit., pp. 397-414.

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Per me è stato una vera sorpresa, e mi ha fatto veramente piacere, tanto più, Cesare Sacerdote è un nostro collaboratore del Bollettino delle Colonie Libere Italiane in Svizzera. Benché il nostro misero Bollettino non possa fare una politica di parte, dato la costituzione delle nostre Colonie Libere, e in più non verrebbe permesso dalle autorità svizzere, pericolo d’essere mandati al nostro paese [...] ma trovo che vi sono sentimenti di parentela [...] con la Sua Scintilla [...] e il nostro Bollettino, che credo Lei lo abbia già letto, avendoglielo già mandato. Ciò che ci è permesso fare al nostro Bollettino è lotta antifascista e lotta sindacale a favore della nostra emigrazione, che si troverebbe abbandonata a se stessa, se non fosse per la nostra quotidiana, e disinteressata opera, cercando con ogni mezzo a nostra disposizione [...] lottare per quelle giuste rivendicazioni veramente umane a loro favore. Chi ha preso a cuore questa nostra lotta [...] è il Bollettino della Umanitaria di Milano, come pure qualche puntata il Libertario, pure di Milano, ma altra stampa di sinistra [in] Italia, non hanno sentito questa necessità di intervenire a favore di questa massa di emigrati. Quando si pensa che abbiamo i lavoratori alberghieri e contadini due categorie di mestiere, che debbono fare da 17-18 ore al giorno di lavoro, con la paga di Fr. 150 mensili, dedotti tutte le tasse, ben poco ci rimane. Contadini che vengono per sino bastonati, e non ha giovato l’intervento dell’Ambasciatore a Berna Egidio Reale, perché il governo italiano fa orecchie da mercante [...]. Il governo italiano si contenta che questa massa di affamati lasciano l’Italia, e per il resto pensa [s’arrangeranno], tanto è carne da macello [...]. Il nostro Bollettino fa quello che può fare [...] ma la voce della noce nel sacco [...] se non ci viene incontro, in nostro aiuto, la stampa di sinistra in Italia. Continuerà a spedire il nostro Bollettino, e così avrà una idea più chiara di quanto io ho potuto esporre in questa mia169.

169   Lettera di Medri a Roberto Marvasi, direttore della «Scintilla» di Napoli, Zurigo, 19 aprile 1954. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18.

Capitolo III

Gente del Sud (1956-1964)

1. Evoluzione e crescita dei flussi all’inizio del miracolo economico Nel capitolo precedente, abbiamo già accennato a come, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, soprattutto nel biennio 1946-47, l’incidenza dell’emigrazione italiana verso l’Europa – in particolar modo verso Svizzera e Francia – abbia raggiunto quasi l’80% sul totale degli espatri. Nel contempo, fino alla metà degli anni Cinquanta, gli italiani continuarono ad emigrare verso le mete transoceaniche170, come dimostrano i dati del decennio 1946-55, eguagliando quasi il flusso verso l’Europa, per poi ridursi drasticamente a meno del 30% nel decennio successivo (tab. 6). Inoltre, in questo primo decennio, escluso il triennio 1948-50 che vide la prevalenza di espatri soprattutto verso l’Argentina, il Venezuela, l’Australia171, gli Stati Uniti172 ed il Canada, a partire dal 1951 170  Il contingente che espatriò in questi anni verso le mete transoceaniche partì sostanzialmente dal porto di Napoli e, in parte, da quello di Genova. Da quest’ultimo le navi continuarono a salpare almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, in quanto la delegazione argentina era di stanza nel porto ligure. Per quanto attiene, invece, alle cifre dello scalo marittimo partenopeo, fra il 1951 ed il 1957 partirono oltre 800.000 unità. Dallo stesso scalo, dal 1876 al 1929, erano emigrati oltre 4 milioni di italiani. Cfr. «Il Tempo» del 20 ottobre 1957, «L’emigrazione transoceanica da Napoli in rapporto alla depressione dello scalo». ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 2127, f. 001. Per maggiori approfondimenti sulle partenze dal porto di Napoli, si veda G. Moricola (a cura di), Il viaggio degli emigranti in America Latina tra Ottocento e Novecento. Gli aspetti economici, sociali, culturali, Guida, Napoli, 2009. 171   In questi anni saranno redatte, come durante quasi tutte le fasi dell’emigrazione italiana, una serie di guide per l’emigrante per rispettivo Paese di emigrazione. Per l’Australia, si veda Guida per chi emigra in Australia, Roma, s.d. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 1425, f. 001. 172  L’ultimo consistente afflusso verso gli Stati Uniti negli anni Cinquanta

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Tab. 6. Espatri tra Europa e altri Paesi. Percentuale espatri verso l’Europa (1946-55/1956-64) Europa

Altri Paesi

Totale

% Esp. Europa su tot.

1946-55 1956-64

1.301.448 2.201.184

1.169.286    682.035

2.470.734 2.883.219

53% 76%

Totali

3.502.632

1.851.321

5.353.953

Fonte: elaborazione da A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit.

– tranne qualche picco legato soprattutto agli accordi sottoscritti nel 1953 dal CIME1 – l’emigrazione si diresse in maniera cospicua e costante verso il continente europeo2. Almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, gli espatri continentali erano prevalentemente diretti verso Francia, Svizzera e Belgio. Nel caso del Belgio la punta massima venne raggiunta nel 1948 (1954-56) fu reso possibile nell’ambito del «Refugee Relief Programme», che autorizzava un contingente di emigrazione straordinaria di 60.000 italiani. Cfr. Chi può emigrare negli Stati Uniti d’America. Le norme della legge Mc Carran-Walter, Roma, 1953. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 1425, f. 001; Norme per l’ammissione negli Stati Uniti di 60.000 italiani, Roma, 1954. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 1425, f. 001. 1  Nel 1953 venne stipulato tra le autorità governative argentine e il CIME (Comitato italiano intergovernativo per le migrazioni estere) un accordo in base al quale, in deroga alle misure restrittive adottate dal governo argentino, veniva concesso agli italiani di richiamare familiari e congiunti. Nell’arco dello stesso anno pervennero oltre 20.000 richieste di richiamo. Le procedure degli accordi ed il programma del CIME erano rivolti soprattutto ai Paesi dell’America Latina: Argentina, Brasile, Cile, Uruguay e Venezuela. Cfr. CIME, Informazioni sulla procedura da seguire dei Programmi in atto delle riunioni di familiari, 1954. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 1425, f. 001. Inoltre, si diede corso, all’interno delle procedure del CIME, ai programma EFI, rivolti ad Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costarica, Paraguay, Uruguay e Venezuela. Cfr. CIME, Informazioni sulla procedura da seguire per beneficiare del Programma E.F.I, 1954. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 1425, f. 001. Per maggiori approfondimenti sui flussi transoceanici si rimanda a A. Martinelli, L’emigrazione transoceanica fra gli anni Quaranta e Sessanta, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Partenze, cit., pp. 369-384. 2   T. Ricciardi, F. Narducci, La Conferenza mondiale dei Giovani tra aspettative e valutazioni, in Fondazione Migrantes (a cura di), Rapporto italiani nel mondo 2009, Idios, Roma, 2009, p. 308.

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Tab. 7. Espatri verso Paesi europei (1946-1964) Inghilterra

Benelux1

Germania

Francia

Svizzera

Altri



24.653



28.135

48.808

1.481

1947

365

29.881



53.245

105.112

3.623

1948

2.679

47.023



40.231

102.241

1.129

1949

6.592

5.931



52.345

29.726

365

1950

3.451

4.445

74

18.083

27.144

1.730

1951

9.967

34.765

431

35.099

66.040

2.904

1952

3.522

22.899

270

53.810

61.593

2.004

1953

5.502

10.081

242

36.687

57.236

2.321

1954

7.787

4.324

361

28.305

65.671

2.109

1955

10.400

23.013

1.200

40.713

71.735

1.965

1956

11.520

18.905

10.907

87.552

75.632

3.115

1957

10.595

21.846

7.653

114.974

78.882

2.060

1958

6.464

10.445

10.511

72.469

57.453

458 560

1946

1959

7.360

9.738

28.394

64.259

82.532

1960

10.118

11.412

100.544

58.624

128.257

921

1961

11.003

12.066

114.012

49.188

142.114

1.214

1962

8.907

10.083

117.427

34.911

143.054

1.413

1963

4.681

6.053

81.261

20.264

122.018

857

1964

4.979

7.115

75.210

15.782

111.863

1.549

125.892

314.678

548.497

904.676

1.577.111

31.778

Totali

Comprende Belgio, Lussemburgo e Olanda. Fonte: A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit., p. 68.

1

(47.023 espatri), a due anni di distanza dall’accordo di reclutamento sottoscritto con l’Italia, mentre Francia e Svizzera, alternandosi, si contenderanno il primato dei flussi sino al 1958 (tab. 7). In Svizzera, dopo il picco massimo raggiunto nel biennio 194748, i flussi subirono una drastica diminuzione nel biennio 1949-50, attestandosi a valori al di sotto delle 30.000 unità annue, conseguentemente all’accordo del 1948, che, come già visto, offriva strumenti di garanzia e tutela maggiori ed induceva gli imprenditori svizzeri a ricorrere in maniera meno indiscriminata alla manodopera italiana. In questo primo decennio, l’Italia non sarà il solo fornitore di manodopera: se da una parte gli stagionali erano quasi tutti italiani ­­­­­103

e di sesso maschile, dall’altra, fin dal 1949, si fece considerevole la presenza femminile, prevalentemente tedesca ed austriaca. L’immigrazione non stagionale femminile, fino al 1959, raggiunse quota 450.000 ingressi, superando di 60.000 unità quella degli uomini3. L’immigrazione italiana, dunque, resterà nettamente maschile per l’arco di tutto questo decennio e ancora di più in quello successivo: nell’agosto del 1955, il rapporto si assesterà sul dato di 100 donne su 208 uomini; un decennio dopo la forbice passerà a 100 su 2734. A partire dal 1951 e fino alla metà degli anni Sessanta, l’emigrazione italiana verso la Svizzera aumenterà nuovamente, le cifre più alte – ben maggiori dei picchi del biennio 1947-48 – verranno raggiunte nel quinquennio 1960-64. L’apice storico si registrerà nel 1962, con 143.054 espatri e oltre 454.000 presenze. La fase di espansione durò ininterrottamente fino al 1966: successivamente, i flussi andarono riducendosi fino al 1976, anno del «sorpasso» da parte della Germania5. Analizzando i flussi, risalta immediatamente l’altissimo numero di rimpatri, che dimostra chiaramente come il fenomeno, in questi anni, fosse legato alla stagionalità e alla rotazione della manodopera ospite (tab. 8). I Gastarbeiter o Sojourner rappresentano il perno centrale delle politiche di ammissione nell’Europa continentale6.

3  Le forze d’occupazione francesi, in Germania ed Austria, furono meno rigide con le partenze femminili, rispetto a quelle degli uomini (370.000). Il ricorso alla manodopera femminile, generalmente molto giovane e nubile, è spiegato dalle cospicue necessità nei settori domestici (impiegate a domicilio, custodia di bambini), nel settore tessile e nell’industria alimentare, a quel tempo in pieno sviluppo. Cfr. E. Piguet, op. cit., p. 16. 4   K.B. Mayer, Postwar Migration from Italy to Switzerland, in «International Migration Digest», vol. 2, n. 1 (Spring, 1965), p. 11. 5   T. Ricciardi, La Svizzera voleva braccia ma arrivarono uomini, in Fondazione Migrantes (a cura di), Rapporto italiani nel mondo 2011, Idios, Roma, 2011, p. 296. 6   Gastarbeiter, cioè «lavoratori ospiti» era il termine – che sottolineava la temporaneità della permanenza – usato per indicare i lavoratori italiani, sia in Germania che nella Svizzera tedesca. Per quanto attiene ai lavoratori in Germania, alle loro condizioni di vita e alle relative problematiche, si vedano le lettere dei Gastarbeiter inviate durante gli anni Sessanta a Radio Colonia, in R. Sala, Radio Colonia. Emigranti italiani in Germania scrivono alla radio, Utet, Torino, 2008. Per la Svizzera, i lavoratori ospiti possono essere declinati in tre tipologie: stagionali, annuali e frontalieri. Cfr. R. Del Fabbro, Wanderarbeiter oder Einwanderer? Die italienische Arbeitsmigranten in der wilhelmischen Gesellschaft, in «Archiv für Sozialgeschichte», n. 32, 1992, p. 207. Uno dei saggi che per primo ha affrontato la questione della «temporaneità» degli emigrati è quello di G. Blumer, L’emigrazione italiana in Europa, Feltrinelli, Milano, 1974.

­­­­­104

Tab. 8. Rimpatri da Paesi europei (1946-1964) Inghilterra

Benelux1

Germania

Francia

Svizzera

Altri

1946



3.329



137



492

1947

112

6.134



12.190

35.216

1.768

1948

2

16.067



3.096

81.672

854

1949

10

10.502



5.700

80.830

638

1950

51

4.042



6.460

26.942

882

1951

75

9.441



16.647

26.141

1.137

1952

641

3.297

121

22.533

45.212

347

1953

272

593

8

23.841

45.500

1.249

1954

1.039

96



19.863

54.041

1.144

1955

519

6.904

1

23.712

54.778

430

1956

1.150

7.820

8.850

32.675

67.625

2.030

1957

1.060

9.665

4.653

41.637

69.382

1.580

1958

838

5.881

6.145

42.821

41.974

347

1959

1.288

5.892

15.295

48.822

60.621

357

1960

1.576

5.751

34.088

34.388

90.207

404

1961

1.868

6.344

48.016

28.884

96.700

684

1962

2.504

6.815

69.600

24.632

106.022

1.200

1963

2.476

5.463

73.266

18.382

106.317

781

1964

2.308

4.971

58.899

13.086

93.945

1.001

Totali

17.789

119.007

318.813

419.506

1.183.125

17.325

Comprende Belgio, Lussemburgo e Olanda. Fonte: A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit., p. 69. 1

Alle cifre ufficiali si dovrebbe aggiungere un numero cospicuo di italiani che, in questi anni e sino a ridosso degli anni Sessanta, entrò clandestinamente in Francia e in Svizzera7. Per quanto riguarda la Svizzera, solo nel primo semestre del 1954 gli ingressi clande7   Sandro Rinauro stima che almeno fino alla metà degli anni Cinquanta emigrarono clandestinamente, in media, 10.000 persone l’anno. Cfr. S. Rinauro, op. cit., pp. 124-138. Inoltre, sull’emigrazione clandestina in Francia si veda A. De Clementi, Fenomenologia del viaggio, in A. Arru, D.L. Caglioti, F. Ramella (a cura di), Donne e uomini migranti. Storie e geografie tra breve e lunga distanza, Donzelli, Roma, 2008, pp. 164-177.

­­­­­105

Tab. 9. Rapporto espatri/stagionali in Svizzera (1960-1964) Espatri

Stagionali

Rapporto differenziale Quota italiana stagionali1

Diff. quota risp. espatri

1960

128.257

139.000

125.100

3.157

1961

142.114

173.000

155.700

–13.586

1962

143.054

194.000

174.600

–31.546

1963

122.018

201.000

180.900

–58.882

1964

111.863

206.000

185.400

–73.537

Totali

647.306

913.000

821.700

1

La quota italiana è commisurata al 90% complessivo del contingente stagionale.

Fonte: elaborazione da A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit., p. 69, per i dati sugli espatri; Fseie e Fmsie, in SSZ, f. FCLIS, b. FEDEREUROPA/Fmsie - Ar 40.60.7, per i dati stagionali.

stini superarono le 12.000 unità8, confermando la media annua del triennio 1949-519. Inoltre, le stime annuali subiscono un elemento di approssimazione a causa degli arrivi con passaporto turistico, i quali, ovviamente, non rientravano nelle rilevazioni ufficiali10. Così come non vi rientravano gli stagionali. Infatti, incrociando i dati, nel quinquennio 1960-64 si passa da 140.000 stagionali nel 1960 a quasi 210.000 nel solo 1964. Si tenga presente che questo contingente è rappresentato per il 90% da immigrati italiani e per quasi il 10% da spagnoli (tab. 9)11. Da un’analisi dei dati emerge che, rispetto alle cifre ufficiali degli espatri, ci sia di anno in anno un differenziale in crescendo: mancano all’appello decine di migliaia di lavoratori stagionali. Significativi sono i dati a partire dal 1961, anno nel quale non risultano nelle statistiche ufficiali ben 13.586 stagionali italiani, fino ad arrivare ai quasi 60.000 nel 1963 ed agli oltre 70.000 un anno dopo. L’assenza   Compte rendu des séances de la Commission consultative mixte, cit., p. 3.   Notice pour Monsieur le Conseiller fédéral de Steiger, Berne, 11 mars 1949. Dds, DoDis, d. nr. 5440. 10  «Compte rendu des séances de la Commission consultative mixte», cit. 11  Dati elaborati nell’inchiesta della Fseie e Fmsie e curati dalla FCLIS; in Fseie-Fmsie, Documenti sulle attività e i problemi dei lavoratori italiani immigrati in Svizzera, cit. SSZ, f. KZ, b. Rechtsfragen - Ar 48.60.5. 8 9

­­­­­106

Tab. 10. Espatri e rimpatri - Svizzera (1955-1964). Valori assoluti e % di rimpatri su espatri Espatri

1955

71.735

Rimpatri

54.778

Rapporto differenziale Valori assoluti

% rimpatri su espatri

16.957

76%

1956

75.632

67.625

8.007

89%

1957

78.882

69.382

9.500

88%

1958

57.453

41.974

15.479

73%

1959

82.532

60.621

21.911

73%

1960

128.257

90.207

38.050

70%

1961

142.114

96.700

45.414

68%

1962

143.054

106.022

37.032

74%

1963

122.018

106.317

15.701

87%

1964

111.863

93.945

17.918

84%

1.013.540

787.571

225.969

Totali

Fonte: elaborazione da A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit.

è parzialmente spiegata dal fatto che le rilevazioni tenevano conto – almeno fino alla metà degli anni Sessanta – solo degli stranieri in possesso di permesso annuale. Inoltre, le rilevazioni venivano svolte il 31 dicembre, quando gli stagionali non erano più presenti. Quanti siano stati annualmente tra marzo e novembre, visto che il permesso durava 9 mesi, possiamo solo ipotizzarlo incrociando fonti di varia natura: relazioni delle Commissioni miste, inchieste svolte dalla FCLIS e dalle associazioni degli stranieri, inchieste sindacali e della carta stampata. Il quadro è completato da un ulteriore elemento, di tipo qualitativo e comparativo: in questa fase, il 40% della manodopera italiana qualificata emigrava in Francia, mentre in Svizzera si riversava, perlopiù, manodopera a bassa specializzazione12. Il flusso migratorio italiano in questo primo ventennio (194655/1956-64) si contraddistingue per due aspetti: l’alta incidenza dei rimpatri dalla Svizzera, rispetto alle stesse partenze (tab. 10) e la progressiva preminenza della direttrice elvetica.   D.R. Gabaccia, op. cit., 2000, p. 247.

12

­­­­­107

Tab. 11. Percentuale espatri verso la Svizzera rispetto a totale Europa e totale espatri (1946-1955/1956-1964) Svizzera

Totale Europa

Totale Espatri

% su tot. espatri1

% su tot. Europa

1946-55

   635.306

1.301.448

2.470.734

26%

49%

1956-64

   941.805

2.201.184

2.883.219

33%

43%

Totali

1.577.111

3.502.632

5.353.953

29,5%

46%

Fonte: elaborazione da A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit.

Per quanto attiene l’alta incidenza dei rimpatri, soprattutto nel decennio 1955-64, non si scenderà mai al di sotto del 68% (1961), sfiorando quasi il 90% nel 1956, a dimostrazione della rigidità del modello elvetico di gestione e rotazione della manodopera straniera. Anche se spesso, una volta scaduto il permesso di soggiorno si continuava a restare, clandestinamente, sul territorio elvetico, alimentando l’ingente – ma difficilmente quantificabile – piaga del lavoro nero. Per quanto attiene, invece, alla preminenza quale meta principale, almeno fino al 197613, la Svizzera assorbì da sola, nel decennio 1946-55, il 26% del totale dell’emigrazione italiana e quasi il 50% dell’intero flusso diretto verso l’Europa. La sua percentuale sul totale degli espatri crebbe fino al 33% nel decennio successivo e la sua capacità di attrazione sulla quota totale degli espatri continentali si ridusse di qualche punto, passando dal 49 al 43%. Complessivamente, nel primo ventennio del secondo dopoguerra, la Svizzera assorbirà quasi il 30% del contingente totale degli espatri dall’Italia ed il 46% sul totale di quelli rivolti verso il Continente europeo (tab. 11). A questo punto è utile approfondire i comparti produttivi nei quali era impiegata la manodopera italiana e le rispettive evoluzioni. Stando alle rilevazioni dell’Ufiaml (Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro), le percentuali variano tra il mese di febbraio (durante il quale generalmente non sono presenti gli stagionali) e di agosto (periodo di massima occupazione); e negli anni (1951, 1955 e 1964), mutano i settori nei quali trovano lavoro gli italiani (tab. 12). 13   Nel 1976 la Svizzera – con i suoi 28.799 ingressi italiani – si vedrà superata per la prima volta, anche se di poco (30.260 unità) ma in maniera definitiva, dalla Germania.

­­­­­108

Tab. 12. Occupati italiani con regolare permesso per comparto produttivo Comparto

Minerario Agricoltura Forestazione

feb.1951

feb. 1964

ago. 1955

ago. 1964

unità

unità

%

unità

780

0,5

1

0,2

26.512 16,3

9.217

1,9

unità

%

%

80

0,1

704

0,2

7.860 14,7

5.511

1,6

%

70

0,1

382

0,1

2.014

1,2

1.427

0,3

771

1,4

14.981

4,5

3.056

1,9

17.140

3,6

Abbigliamento

2.888

5,4

32.948

9,8

5.478

3,4

35.869

7,6

Tessile

5.563 10,4

26.803

8,0

8.893

5,5

28.922

6,1

Alimentari e tabacchi

Conciario

647

1,2

3.369

1,0

1.518

0,9

3.639

0,8

Cartiere

130

0,2

6.175

1,8

420

0,3

6.657

1,4

Tipografie

150

0,3

2.700

0,8

267

0,2

3.199

0,7

81

0,2

5.875

1,7

205

0,1

6.525

1,4

85.888 25,6

14.737

9,1

262

0,2

Chimico Metalmeccanico

4.381

8,2

255

0,5

1.310

2,5

64.030 19,1

487

0,9

15.856

4,7

2.101

1,3

18.293

3,9

49

0,1

2.648

0,8

207

0,1

3.391

0,7

Alberghi e ristorazione

11.662 21,8

30.854

9,2

26.672 16,4

36.012

7,6

Lavori domestici

15.083 28,2

8.406

2,5

14.014

8,6

8.553

1,8

3.090

0,9

605

0,4

3.504

0,7

Orologerie e preziosi Edilizia Legno e falegnamerie Trasporti

Commercio

481

0,9

7.766

2,3

51.992 31,0

91.968 19,4 8.280

1,7

171.898 36,2

Liberi professionisti

968

1,8

4.625

1,4

1.160

0,7

4.773

1,0

Altro

576

1,1

13.079

3,9

1.450

0,9

14.012

3,0

53.492

100

335.690

100

162.343

100

473.280

100

Totale

Fonte: elaborazione da K.B. Mayer, Postwar Migration from Italy to Switzerland, cit., p. 11.

Stando a questi dati, i comparti nei quali gli italiani trovavano occupazione erano prevalentemente cinque: tessile, lavori domestici, edilizia, metalmeccanico ed agricoltura. Nel settore tessile, se nel febbraio del 1951 erano oltre 5.000 gli italiani impiegati (10,4% sul totale), più di un decennio dopo la cifra complessiva quasi si quintuplicò e si superarono le 26.000 unità, pari all’8% degli addetti. Nei lavori domestici, settore nel quale nei primi anni Cinquanta si registrò una forte presenza italiana, si passò dal 15% di occupati nel febbraio del 1951 a meno del 2% nell’agosto del 1964. Nonostante ciò, visto l’aumento esponenziale ­­­­­109

degli addetti, il comparto registrò solo un dimezzamento della forza lavoro italiana che passò dagli oltre 15.000 del 1951 a poco più di 8.000 nel 1964. I settori, invece, in espansione, trainanti per l’economia elvetica, saranno il metalmeccanico e soprattutto l’edilizia. Nel caso dell’industria metalmeccanica, in un solo decennio (1955-64) il numero degli italiani raddoppierà in termini percentuali e si moltiplicherà sette volte in termini assoluti. Mentre, nel settore edile, nell’agosto del 1955 gli italiani rappresentarono il 31% della forza lavoro e dieci anni dopo erano oltre 170.000, ossia poco meno del 40% sul totale degli addetti. Nello stesso periodo si registrò un progressivo calo degli occupati in agricoltura: abbiamo già accennato in precedenza a come, soprattutto dopo la metà degli anni Cinquanta, gli italiani cercavano di fuggire da uno dei lavori più duri e di quanto i dati non tenevano conto del sommerso. Concludendo, gli italiani, ma più in generale gli stranieri, erano poco presenti nell’industria chimica e scarsamente impiegati in altri comparti, oggi definiti terziario in senso lato. 2. Aspetti macroeconomici Ragionando sugli aspetti macroeconomici, è stato già rimarcato come l’apparato produttivo elvetico superò indenne il secondo conflitto mondiale, rendendosi così immediatamente funzionale alle ricostruzioni degli altri Paesi14. Questo presupposto pose la Svizzera nella condizione di riuscire ad attirare la manodopera straniera immediatamente e ininterrottamente fino alla fine degli anni Sessanta, sfiorando nei primi anni Settanta il milione di presenze15.

  Dokumentation zur Fremdarbeiter-Frage, cit.   Alla fine del 1969 gli stranieri presenti in Svizzera erano 971.795, di cui 602.703 esercitavano attività lucrative. 437.115 erano in possesso del permesso B, 158.298 del permesso C, 7.290 erano profughi cecoslovacchi. Per quanto concerne le cifre riguardanti i frontalieri e gli stagionali, i primi risultano essere 65.705 contro i 15.955 aventi permesso A. Il contingente straniero (971.795) era così suddiviso per nazionalità: 531.501 italiani, 115.606 tedeschi, 97.862 spagnoli, 49.538 francesi, 43.052 austriaci, 20.809 jugoslavi, il resto era composto da diverse nazionalità con forte prevalenza di turchi e portoghesi. Cfr. «Rapporto Polizia degli Stranieri», 1971. Nell’aprile del 1970, il totale della manodopera straniera passa a 796.700: 14,5% di stagionali (permesso A) e 55% di annuali (permesso B). Il restante 30%, a sua volta, era composto dal 20,8% degli aventi diritto al permesso di dimora per14 15

­­­­­110

In questa fase l’assetto economico-produttivo risulta essere uno degli elementi determinanti di attrazione. Al fine di comprenderne meglio l’essenza, è utile riprendere alcune considerazioni proprio sul suo ruolo nel contesto economico internazionale. Da sempre, le caratteristiche economiche della piccola Nazione si lasciano leggere nell’intensità degli scambi esterni di beni e servizi, nella concentrazione della produzione in alcuni settori e in alcuni rami di specializzazione ad alto valore aggiunto e soprattutto nell’interdipendenza commerciale con l’estero e nell’internazionalizzazione della propria economia16. La Confederazione è sempre stata troppo «piccola» per gestire l’impatto di un’economia internazionale, pur possedendo un’enorme forza destabilizzante17, come «un nano che gioca l’amena commedia della neutralità, ma che economicamente è un vorace gigante»18. Questa è, riassunta per sommi capi ed in forma estremamente sintetica e non esaustiva, la percezione delle caratteristiche e del ruolo che la Svizzera giocò nel contesto internazionale. Un parametro economico offre la possibilità di riallacciare il discorso economico con lo sviluppo dell’emigrazione italiana: ed è l’evoluzione del reddito pro capite in Italia dal 1945 al 1975, comparato alla Svizzera e alle principali economie dell’epoca (tab. 13). Confrontando il reddito pro capite italiano con quello dei maggiori Paesi europei – Austria, Belgio, Francia, Germania, Inghilterra e Svizzera – e con quello degli Stati Uniti, è possibile avviare il ragionamento sulle condizioni economiche in cui versava l’Italia e, soprattutto, è possibile delinearne l’evoluzione durante la fase del miracolo economico, che corrispose alla progressiva meridionalizzazione dei flussi migratori. Stando ai dati elaborati da Maddison19 – i quali non tengono conto né degli squilibri annuali dovuti all’inflazione né delle speremanente (permesso C) e dal 9% di frontalieri. Dati Ufs, in V. Mioli, Made in Italy. Il mercato svizzero del lavoro italiano, Alfani Editore, Roma, 1976, p. 125. 16   R. Ratti, op. cit., p. 57. 17   P. Bairoch, Economia e storia mondiale. I miti e i paradossi delle leggi dell’economia in un saggio polemico e provocatorio, Garzanti, Milano, 1998. 18   V. Mioli, op. cit., p. 91. 19   A. Maddison, Monitoring the World Economy 1820-1992, OECD, Paris, 1995; The World Economy: A Millennial Perspective, OECD Development Centre, Paris, 2001; The World Economy: Historical Statistics, OECD Development Centre, Paris, 2003.

­­­­­111

Tab. 13. Reddito pro capite dei principali Paesi europei e degli Stati Uniti (1945-1975). Valori dollaro USA1 Austria

Belgio

Francia

Germania

Inghilterra

USA

Svizzera

Italia

1945

1.725

4.333

2.573

4.514

7.056

1946

1.956

4.574

3.855

2.217

6.745

11.709

7.752

1.922

9.197

8.181

1947

2.166

4.800

4.138

2.436

2.502

6.604

8.886

9.050

1948

2.764

5.024

4.393

2.920

2.834

6.746

9.065

9.116

1949

3.293

5.193

3.063

4.946

3.282

6.956

8.944

8.757

1950

3.706

3.265

5.462

5.186

3.881

6.939

9.561

9.064

3.502

1951 1952

3.959

5.747

5.461

4.206

7.123

10.116

9.684

3.738

3.967

5.668

5.564

4.553

7.091

10.316

9.630

3.997

1953

4.137

5.818

5.684

4.905

7.346

10.613

9.840

4.260

1954

4.555

6.029

5.915

5.247

7.619

10.359

10.287

4.449

1955

5.053

6.280

6.199

5.797

7.868

10.897

10.867

4.676

1956

5.397

6.422

6.448

6.177

7.929

10.914

11.439

4.859

1957

5.716

6.495

6.762

6.492

8.017

10.920

11.705

5.118

1958

5.907

6.442

6.855

6.737

7.966

10.631

11.297

5.360

1959

6.051

6.608

6.979

7.177

8.240

11.230

11.870

5.653

1960

6.519

6.952

7.398

7.705

8.645

11.328

12.457

5.916

1961

6.827

7.253

7.718

7.952

8.857

11.402

13.099

6.373

1962

6.950

7.583

8.067

8.222

8.865

11.905

13.354

6.827

1963

7.186

7.862

8.363

8.386

9.149

12.242

13.710

7.262

1964

7.567

8.341

8.819

8.822

9.568

12.773

14.191

7.487

1965

7.734

8.559

9.165

9.186

9.752

13.419

14.504

7.598

1966

8.112

8.776

9.544

9.388

9.885

14.134

14.727

7.942

1967

8.297

9.072

9.907

9.397

10.049

14.330

15.010

8.454

1968

8.621

9.416

10.267

9.864

10.410

14.863

15.374

9.105

1969

9.131

10.018

10.886

10.440

10.552

15.179

16.031

9.566

1970

9.747

10.611

11.410

10.839

10.767

15.030

16.904

9.719

1971

10.200

10.970

11.845

11.077

10.941

15.304

17.381

9.839

1972

10.771

11.503

12.264

11.481

11.294

15.944

17.774

10.060

1973

11.235

12.170

12.824

11.966

12.025

16.689

18.204

10.634

1974

11.658

12.643

13.113

12.063

11.859

16.491

18.414

11.046

1975

11.646

12.441

12.957

12.041

11.847

16.284

17.224

10.742

Per uniformare i valori Maddison è stata utilizzata la quotazione internazionale del dollaro americano nel 1990. Fonte: A. Maddison, World Population. GDP and Per Capita GDP, 1-2003 AD, in Monitoring the World Economy 1820-1992, OECD, Paris, 1995. 1

­­­­­112

Tab. 14. Reddito pro capite Italia e Svizzera (1946-1955/1956-1964). Rapporti differenziali Italia

1946-55 1956-64

3.637 6.095

Svizzera

  9.448 12.569

Rapporto differenziale media Valori assoluti

% su reddito pro capite elvetico

–5.810 –6.474

38% 48%

Fonte: elaborazione da A. Maddison, World Population. GDP and Per Capita GDP, 1-2003 AD, cit.

quazioni territoriali, come nel caso del Mezzogiorno – l’Italia mantiene un certo equilibrio rispetto al reddito pro capite dell’Austria e, fino al 1950, della Germania, attestandosi sotto i 2.000 dollari annui nel 1945, per passare progressivamente ai 3.500 del 1950. Inoltre, a partire dal 1953, lo squilibrio italiano, rispetto agli altri Paesi, si riduce progressivamente. Se nel 1946, il reddito pro capite era pari al 43% ed al 44% dei tedeschi e dei belgi, al 75% dei francesi, al 27% degli inglesi, al 16% degli americani e al 25% degli svizzeri, un decennio dopo gli squilibri vengono parzialmente colmati. Nel 1955 esso diventa il 74% e 75% di Belgio e Francia, l’81% della Germania, il 59% dell’Inghilterra e il 43% degli Stati Uniti e della Svizzera. Alla fine di questo ventennio, nel 1964, il reddito pro capite italiano è pari all’80-90% del reddito di belgi, francesi, tedeschi ed inglesi, passa al 59% rispetto a quello americano, ma resta invariato rispetto allo svizzero (53%). Il rapporto tra reddito pro capite tra Italia e Svizzera, ricalcolato, in media, in base alla periodizzazione adottata (1946-55/1956-64), cresce di dieci punti, passando dal 38% nel primo decennio a quasi il 50% nel decennio successivo (tab. 14). Questi dati forniscono, in termini meramente quantitativi e con tutti i limiti già sottolineati, un elemento di massima: le condizioni degli italiani in questa fase. Il dato del reddito pro capite è significativo nella misura in cui viene comparato a quello dei Paesi verso cui l’Italia repubblicana indirizzò, principalmente, il suo contingente migratorio. Ciò avveniva mentre, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, iniziava il miracolo economico, con diverse velocità e peculiarità territoriali. Stando ai dati dell’Istat, per il periodo 1954-63, il reddito nazionale netto, calcolato a prezzi costanti del 1963, passò dai 17.000 ­­­­­113

miliardi del 1954 ai 30.000 miliardi di lire del 1964: in un decennio quasi raddoppiò. Nello stesso periodo il reddito pro capite passò da 350.000 a 571.000 lire. Gli occupati in agricoltura furono più di 8 milioni ancora nel 1954, meno di 5 milioni dieci anni dopo; scesero dal 40% al 25% del totale degli attivi, mentre nell’industria passarono dal 32% al 40% e nei servizi dal 28% al 35%20. Inoltre, la produzione italiana – inserendosi nel trend internazionale di crescita del periodo – rappresentava il 9% di quella europea nel 1955 e ben oltre il 12% nel 196221. Utilizzando le parole di Vittorio Foa, l’Italia stava cambiando. Più del disegno di nuove gerarchie produttive, del passaggio dall’agricoltura all’industria e ai servizi, più della produzione di massa coi suoi effetti veramente sconvolgenti sulla vita quotidiana, voglio ricordare la portata decisiva delle migrazioni [...] Cambiò il sud emigrante e cambiò il nord immigrante e nel nord del Paese prese il volo il nord-ovest, il triangolo dominante in quegli anni, Piemonte, Liguria, Lombardia. I numeri, milioni e milioni, ci dicono un pezzo di verità22.

Un pezzo di verità che può essere letto come un inedito sviluppo materiale e un’inedita unificazione di culture23. Queste ultime erano caratterizzate dall’estrema diversità di condizioni e di percorsi, dall’intreccio sofferente tra passato e presente, dalla tradizione come memoria di usanze e di sentimenti e da nuove necessità. In sostanza, al centro di tutto si trova il rapporto fra continuità e cambiamento negli uomini e nelle donne, nelle diverse età, nelle diverse origini, nella diversa fatica e nelle diverse attese24. Ricordando questa trasformazione, ancora con le parole di Foa,

  Istat, Sommario di statistiche storiche 1926-1985, Roma, 1986, p. 153.   G. Crainz, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma, 2005, p. 87. 22   V. Foa, Questo Novecento. Un secolo di passione civile. La politica come responsabilità, Einaudi, Torino, 1996, p. 261. 23   A. Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in F. Barbagallo (a cura di), La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, Einaudi, Torino, 1995. Signorelli si rifà alle analisi di Ginsborg e Lanaro, cfr. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino, 1989, pp. 307-309; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ’90, Marsilio, Venezia, 1992, pp. 243-269. 24  V. Foa, op. cit., p. 261. 20 21

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ci vengono in mente l’esplosione del mercato dell’auto e di quello degli elettrodomestici, i presagi della televisione, la produzione concentrata e il lavoro diviso, l’avvento di nuove capacità (e di nuove coscienze) nel lavoro salariato, la ripresa del sindacato alla ricerca della sua unità e poi il ruolo propulsivo dell’industria di stato e della spesa pubblica e quindi, naturalmente, la politica, quella in senso stretto di governo e di opposizione. Ma i protagonisti restano sempre loro, con la loro speranza e con la loro fatica25.

Il miracolo italiano fu cosa reale. Lo si è misurato con le nozioni economiche della produttività e dell’occupazione, ma lo si può leggere anche diversamente. Lo si può fare attraverso le interpretazioni sull’incremento dell’esodo emigratorio: «Le strade costruite dalla Cassa per il Mezzogiorno servono ormai agli abitanti per andarsene per sempre dai loro paesi»26; oppure, lo si può fare attraverso una presa d’atto. L’emigrazione è stata sollecitata, e non solo subita passivamente, dalle classi dirigenti nazionali. Quest’ultime, inoltre, erano responsabili di aver felicemente subordinato i flussi alle esigenze di un certo sviluppo economico che, puntualmente, non avrebbe saputo risolvere uno dei problemi di base delle regioni italiane da cui l’emigrazione, verso l’Europa stavolta, si originava27.

In definitiva, occorre rimarcare l’indissolubilità del nesso che collega l’emigrazione, non già con la mera insufficienza delle risorse ri-

  Ivi, p. 262.   L’economista inglese Vera Lutz tentò di portare in auge la tesi «dell’incremento dell’esodo emigratorio» come mezzo di risoluzione dello sviluppo economico meridionale. L’accresciuto ritmo dell’emigrazione meridionale verso le regioni settentrionali italiane avrebbe conseguito il doppio effetto di alimentare, da una parte, l’espansione delle industrie settentrionali e di accorciare, dall’altra, le distanze che dividevano il reddito pro capite del Mezzogiorno da quello medio nazionale. In tal modo l’emigrazione, oltre che come valvola di sicurezza contro le agitazioni sociali, si configurò come strumento di politica economica di tipo neocapitalistico. Cfr. V. Lutz, Una revisione critica della dinamica di sviluppo del Mezzogiorno, in «Mondo economico», n. 44, ottobre 1960. Sulla analisi di Lutz si veda anche P. Saraceno, Il meridionalismo dopo la ricostruzione, Giuffrè, Milano, 1974, pp. 205-214; L. Bussotti, Studi sul Mezzogiorno repubblicano. Storia politica ed analisi sociologica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, pp. 146-149. 27   Emilio Franzina ripropone un modello speculare rispetto a Lutz, sottolineandone tutte le contraddizioni e riprendendo – nel cap. L’emigrazione nella storia d’Italia – i lavori di G. Sobbrio, Emigrazione e possibilità di sviluppo delle regioni meridionali, in «Affari sociali internazionali», 1973, n. 1, pp. 22-24; cfr. G. Blumer, op. cit. 25 26

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spetto allo sviluppo demografico, bensì con le strutture della società italiana e con le scelte di chi non si limitò a interpretarla, ma anche la volle e la attivò come valvola di sfogo, capace fra l’altro di arrestare o di ritardare, se ben controllata, il processo di sindacalizzazione e di maturazione politica delle «masse» operaie e contadine28. Dello stesso avviso sono alcuni storici meridionalisti, quando analizzano aspetti, contraddizioni e linee di continuità alla base della nuova prospettiva di industrializzazione del Paese. In realtà, nell’Italia degli anni Cinquanta [riemergono] i caratteri disordinati e spontanei della dinamica migratoria, che agli inizi del secolo, avevano drammaticamente accompagnato lo spopolamento delle campagne meridionali, [con il rischio] che nell’animo dei governanti si radicasse la persuasione che in fondo l’emigrazione rappresentasse l’unica possibile, naturale e sufficiente soluzione del problema meridionale29.

Pur riconoscendo gli effetti positivi derivanti da una migliorata pressione demografica sulle campagne del Sud, l’origine del problema rimaneva la mancanza di una moderna civiltà industriale nel Meridione30. La percezione dell’inevitabilità del ricorso all’emigrazione, quale strumento di politica economica nel secondo dopoguerra, era già chiara anche al padre del sindacalismo italiano, Giuseppe Di Vittorio, che, però, auspicava che il ricorso all’emigrazione fosse limitato al minimo indispensabile31. In definitiva, dopo la parentesi della seconda guerra mondiale – tenendo in considerazione le teorie di Manlio Rossi-Doria32 – i   Ibid.   Le analisi di Luigi Mascilli Migliorini prendono spunto dalla rilettura delle riflessioni della fine degli anni Cinquanta svolte da Giuseppe Galasso nella rivista di dibattito meridionalista «Nord e Sud», in cui lo stesso Galasso «pur riconoscendo i positivi rilievi della polemica antiemigratoria, coglieva un rischio ben presente anche all’orizzonte a lui contemporaneo». Cfr. G. Galasso, La popolazione meridionale dal 1981 al 1951, in «Nord e Sud», V, 1958, 48, pp. 92-95; L. Mascilli Migliorini, Il Mezzogiorno contemporaneo, 1945-1990, in G. Galasso, R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. XIII, Edizioni del Sole, Napoli, 1990, p. 77. 30   Ibid. 31   Per un’attenta analisi sulle posizioni del politico sindacalista, si rimanda all’eccellente lavoro curato da Michele Colucci, cfr. G. Di Vittorio, Le strade del Lavoro. Scritti sulle migrazioni, in M. Colucci (a cura di), Donzelli, Roma, 2012, p. 81. 32  Rossi-Doria individua i fattori e le cause del massiccio fenomeno migratorio dalle campagne del Mezzogiorno attraverso una classica analisi di push and pull, 28 29

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flussi emigratori meridionali ripresero sensibilmente vigore. I motivi erano rintracciabili nel contemporaneo rafforzamento dell’effetto di «richiamo», indotto, in alcuni Paesi europei, dalla domanda di manodopera non qualificata da impiegare nell’industria manifatturiera e nella persistenza di un effetto «spinta», rappresentato dal sottosviluppo del Mezzogiorno33. Nonostante questa visione sottovaluti eccessivamente la dimensione individuale34 della scelta migratoria, non si può non concordare che:

individuandone una duplice radice. Da un lato, esso è generato dalla spinta alla domanda di lavoro, cioè dalla pressione delle masse contadine indotte all’esodo dallo squilibrio tra popolazione e risorse; dall’altro, deriva dalla crescente attrazione esercitata dall’offerta di lavoro espressa in quegli anni dall’industria settentrionale ed estera: «Con l’imponente sviluppo del Nord d’Italia e d’Europa dopo il 1951 – a differenza di quanto era avvenuto nel periodo tra le due guerre – le porte dell’emigrazione si sono non aperte ma spalancate e – per la coincidenza della domanda di mano d’opera nei paesi a sviluppo rapido e della propensione ad emigrare nelle aree agricole particolarmente povere – il torrente emigratorio ha rapidamente assunto livelli di piena»: in M. Rossi-Doria, Scritti sul Mezzogiorno, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003, p. 188 (ed. or., Einaudi, Torino, 1982). 33  E. Pugliese, D. Sabatino, Emigrazione immigrazione, Guida, Napoli, 2006, p. 34. Per una descrizione generale degli eventi che hanno fatto da sfondo alla ripresa delle migrazioni italiane nel secondo dopoguerra, D.R. Gabbaccia, Emigranti, cit., p. 229. Sull’esodo dalle campagne si veda G. Mottura, E. Pugliese, Agricoltura, Mezzogiorno e mercato del lavoro, Il Mulino, Bologna 1975. Sull’azione dei governi centristi nel promuovere l’emigrazione meridionale, U. Ascoli, Movimenti migratori in Italia, Il Mulino, Bologna, 1979. 34  L’approccio delle scelte individuali generalmente è stato immaginato come mero corollario alla teoria del push and pull (effetto richiamo/spinta), anche se non mancano lavori importanti e significativi che ribaltano questa posizione. Per approfondimenti sulle diverse posizioni si veda: G. Levi, Un problema di scala, in AA.VV., Dieci interventi sulla storia sociale, Rosenberg & Sellier, Torino; E.J. Hobsbawm, Dalla storia sociale alla storia delle società, in «Quaderni Storici», n. 22, 1973, pp. 49-86; G. Pecchinenda (a cura di), Memorie migranti, Ipermedium, Napoli-Los Angeles, 1997; A. Cavicchia, G. Pecchinenda, La memoria consumata, Ipermedium, Napoli-Los Angeles, 1996; J. Vansina, La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, Armando, Roma, 1976; T.I. Williams, F. Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America, 2 voll., Comunità, Milano, 1968; L. Baldassar, ItaloAustralian Youth in Perth. Space speaks and Clothes communicate, in War, Internment and Mass Migration. The Italo-Australian Experience 1940-1990, GEI, Roma, 1992, pp. 207-224; V. Game, A. Metcalf, Passionate Sociology, Sage, London, 1996; W. Condor, Beyond Reason: The nature of the ethnonational bond, in «Ethnic and racial studies», 16, 1993, pp. 373-389; J. Revel, Microanalisi e costruzione del sociale, in «Quaderni storici», n. 22, 1994, p. 566; C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino, 1999.

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Molti dei tempi e problemi che avevano caratterizzato i due precedenti cicli emigratori si ripropongono dopo la fine della seconda guerra mondiale, con alcune accentuazioni o varianti. Costante è la pressione dei governi centristi per far riprendere il meccanismo di sviluppo economico associato all’emigrazione, mentre rapida e definitiva risulta, negli anni Cinquanta la destrutturazione del mondo agricolo-contadino, entro i cui confini il fascismo era stanzialmente riuscito a contenere le forze di lavoro rurali. Riemerge con drammaticità e urgenza la questione meridionale, nella quale si concentravano insofferenze secolari, aspirazioni emigratorie penalizzate nel periodo tra le due guerre, gli insuccessi delle lotte contadine e la contraddittorietà degli esperimenti di riforma agraria35.

3. La grande ondata meridionale. Il dibattito Nel 1950 nel Mezzogiorno, mentre si chiudeva l’epoca segnata dal dominio dei proprietari terrieri, si apriva a livello economico, sociale e politico una nuova fase storica: essa vedrà definirsi equilibri sociali e politici diversi che non avranno più al centro la terra, le campagne, i contadini, bensì la voglia di formare una diffusa proprietà coltivatrice36. I limiti di questa nuova concezione riaffioreranno qualche anno dopo, nel 1957, quando l’avvio del Mercato comune europeo (Mec) provocherà un esodo di enormi proporzioni dalle campagne del Sud. Le condizioni economiche e sociali nel Mezzogiorno erano disastrose, simili a quelle della fase anteguerra. Il Pil per abitante, principale indicatore economico, offre un’immagine della persistenza e dell’immutabilità del sottosviluppo meridionale e sottolinea il divario tra lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno e quello del CentroNord: difatti nel 1951 il Prodotto interno lordo al Sud corrispondeva al 54% di quello del Centro-Nord37. Per quanto il decennio si fosse aperto nel segno dell’intervento straordinario da parte dello Stato, con la Cassa per il Mezzogiorno, con l’istituzione dell’Ente di riforma agraria e con la legge sulle aree industriali (1957)38 – con

35   E. Sori, Movimenti migratori. Il caso italiano, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, vol. V, 1996, p. 672. 36   F. Barbagallo, Il Sud, Editori Riuniti, Roma, 2001, p. 21. 37   L. Bianchi, G. Provenzano, Ma il cielo è sempre più su? L’emigrazione meridionale ai tempi di Termini Imerese. Proposte di riscatto per una generazione sotto sequestro, Castelvecchi, Roma, 2010, p. 65. 38  Nel 1957 si apriva la seconda fase dell’intervento straordinario con la legge sulle aree industriali, che prevedeva l’obbligo per le imprese a partecipazione sta-

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Tab. 15. Divario Nord/Sud agli inizi degli anni Cinquanta. Dati anno 1952

Eccedenza dei nati sui morti nei comuni con oltre 100.00 abitanti Reddito per abitante (Italia=100) Consumo di energia elettrica per abitante in KWH (Italia=483,4) Consumo di carne per abitante in Kg (Italia=13,4) Numero di famiglie in condizioni di povertà (in migliaia)1 Persone per vano di abitazione (Italia=1,39) Reddito medio per ettaro in migliaia di lire (Italia=265) Lavoratori addetti all’industria Capitale nominale della SpA industriali in milioni di lire Disoccupati iscritti negli uffici di collocamento Analfabeti, per 100 abitanti, di 6 anni e più2 Numero apparecchi radio Sottoccupazione in agricoltura per migliaia di giornate

Mezzogiorno

Centro-nord

40.585 58,2 2.679 7,6 1.160 1,86 230 709.788 242,2 820.456 24,3 906.515 359.944,9

20.429 126,1 47.023 17,1 197 1,21 290 3.456.466 30.456,6 1.252.953 5,7 3.321.094 351.961,5

Dati da «Inchiesta parlamentare sulla miseria (1952-53)».  2 Dati di riferimento anno 1948. Fonte: L. Mascilli Migliorini, Il Mezzogiorno contemporaneo, 1945-1990, in G. Galasso, R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, cit., p. 67. 1

quest’ultima si puntava nella prima fase alla realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche e nella seconda all’industrializzazione del Meridione – il divario Nord-Sud restava fortemente consistente. Ciò emerge anche dall’analisi di alcuni indicatori, quali, ad esempio, il consumo di carne, di energia elettrica, il possesso di apparecchiature radiofoniche, le generali condizioni di povertà (tab. 15). Inoltre, al Sud era notevolmente marcato l’analfabetismo, pari a cinque volte la percentuale del Centro-Nord. Tuttavia il problema scolastico affliggeva tutto il Paese: basti pensare che, un decennio dopo, nel 1961, soltanto il 18% della popolazione parlava abitualmente l’italiano. Il sistema scolastico restava fortemente esclusivo e classista, programmato ad arte per scoraggiare i figli delle famiglie povere, benché il numero degli studenti continuasse ad aumentare39. tale (Iri ed Eni) di collocare al Sud il 60% dei nuovi impianti. Dopo alcuni anni questi incentivi furono estesi alla grande industria, privata e pubblica. 39   La crescita fu, almeno fino alla metà degli anni Sessanta, abbastanza contenuta, nonostante nel decennio 1947-57 il numero degli studenti fosse quasi raddoppiato, passando da 508.000 a 929.000 nelle scuole di avviamento. Cfr. A. Rampini,

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In una simile cornice, si intuisce come tanti giovani finissero per scoprire presto il mondo del lavoro: erano ragazzi che provenivano dalle campagne e destinati a tornarci dopo aver frequentato qualche anno di scuola, malgrado la nuova Costituzione repubblicana prevedesse l’istruzione obbligatoria sino a quattordici anni40. Il problema dell’agricoltura del Mezzogiorno, ed in modo particolare nelle terre dell’osso, potrebbe essere individuato nella sua sovraoccupazione. Il termine non fa riferimento tanto al peso percentuale degli addetti in agricoltura sul totale degli occupati, sebbene questo dato faccia certamente parte del quadro, bensì ad un eccesso di occupazione tecnicamente necessaria al comparto stesso che genera, insieme alla politica dei «coltivatori diretti», una produzione tecnicamente inefficiente. È questa l’analisi di Rossi-Doria41, che ritornò spesso sulla questione, attribuendo lo squilibrio di fondo tra popolazione e risorse proprie dell’economia meridionale alla contrapposizione tra le terre della polpa e quelle dell’osso. Il rimedio a questa sperequazione, consisteva in una duplice manovra, che Rossi-Doria stesso contribuì a definire e a mettere in atto42. Da un lato, la manovra promuoveva il frazionamento del latifondo e la creazione di una piccola e media azienda contadina assistita nella fase del decollo dal punto di vista tecnologico e messa in grado di funzionare efficientemente; e, dall’altro, contemplava l’emigrazione soprattutto dalla zona dell’osso, considerata come un’inevitabile necessità per conseguire lo sfollamento delle campagne. E quindi l’emigrazione era funzionale all’alleggerimento del settore agricolo dal peso dell’eccessivo numero di braccia e avrebbe portato al conseguente aumento di produttività43. Nel fare un bilancio del fenomeno migratorio a metà degli anni Sessanta, Rossi-Doria definì l’esodo rurale apertosi nel

Denaro e lavoro, in P. Sorcinelli, A. Varni (a cura di), Il secolo dei giovani. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, Donzelli, Roma, 2004, pp. 100-101. 40   Ibid. 41   M. Rossi-Doria, Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004 (ed. or., Laterza, Bari, 1958). 42   Rossi-Doria ebbe un ruolo da protagonista nella formulazione delle linee della Riforma agraria, che non gli impedì di mostrare forti perplessità rispetto a come fu attuata. Per approfondimenti si rimanda a L. Costabile, Manlio Rossi-Doria e il ruolo del Mezzogiorno nell’economia italiana, in G. Minichiello, C. Gily (a cura di), Il pensiero politico meridionale, Centro Guido Dorso, Avellino, 2008, pp. 37-38. 43  M. Rossi-Doria, Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, cit., p. 37.

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periodo 1950-55 come un «processo irreversibile e sostanzialmente liberatore»44. Il giudizio, sostanzialmente e parzialmente positivo, non fu mai smentito, neppure quando a metà degli anni Settanta il movimento migratorio toccò quota 5 milioni. Nonostante questo, però, RossiDoria non si stancò mai di denunciare la condizione «vergognosa» in cui avveniva l’esodo degli emigranti, abbandonati a loro stessi e privi del minimo sostegno nei luoghi di origine e in quelli di arrivo. Per quanto riguarda la politica del lavoro, su di un solo argomento desidero richiamare l’attenzione ed è la vergogna che ha caratterizzato l’azione dei passati governi, negli anni in cui molti milioni di contadini lasciavano le campagne e si trasferivano all’estero o nelle città. Un governo democratico non può in questo settore permettere che le cose continuino ad andare come sono andate e deve avviare una seria e moderna politica di assistenza agli emigranti, secondo le linee specifiche, della formazione professionale, salvaguardia e utilizzazione del risparmio degli emigranti, politica degli alloggi, etc. Una politica di questo genere – che purtroppo va fatta con pochi soldi e con brava gente, senza ricadere ancora una volta nelle finte azioni di pseudoassistenza sociale – dovrebbe caratterizzare in modo significativo l’azione del nuovo governo democratico45.

In definitiva, se durante gli anni del boom economico l’Italia cambiò allineandosi lentamente agli altri Paesi europei, ciò avvenne anche nel Mezzogiorno – anche se a velocità totalmente diverse. Infatti, nelle terre dell’osso, ovvero nelle zone di montagna e di collina, come quelle ad esempio dell’entroterra campano, calabrese, lucano e molisano, la riforma agraria stentò, e probabilmente non riuscì mai, a modificare la caratteristica strutturale: la miseria46. Miseria che venne

44   Relazione tenuta da Rossi-Doria durante il convegno organizzato dal Psi a Napoli nel giugno 1965 sul tema «Programmazione e Mezzogiorno», in M. RossiDoria, Scritti sul Mezzogiorno, cit., p. 29. 45   Manoscritto di Rossi-Doria allegato alla relazione «Considerazioni su di un programma di politica agraria», documento maturato nell’ambito della partecipazione ai lavori della Commissione per la Programmazione Economica Nazionale del 1962. Per maggiori approfondimenti, cfr. L. Costabile, Manlio Rossi-Doria e il ruolo del Mezzogiorno nell’economia italiana, cit.; L. Costabile, M. De Benedictis, Manlio Rossi-Doria, le scienze sociali, l’economia italiana: risultati di un primo scavo dell’archivio, in «Rivista Italiana degli Economisti», IX, n. 2, 2004, pp. 303-325. 46  Per quanto attiene alle caratteristiche storiche, socio-economiche ed antropologiche presenti nelle realtà appenniniche, si prendano a modello Douglass e

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così descritta, in un’inchiesta del 1959: «l’acqua scarseggia: non solo quella potabile, che viene distribuita una volta al giorno, sia d’estate sia d’inverno, con un’autobotte [...] ma anche quella per gli altri usi domestici [...]. Inutile dire che nelle case non c’è corrente elettrica e l’illuminazione è generalmente ad acetilene o ad olio»47. Se le caratteristiche e le peculiarità delle zone interne del Meridione furono solo parzialmente scalfite dalla riforma agraria, l’emigrazione, invece, ne decretò il lento e progressivo declino, tanto da farle rientrare oggi, a distanza di un cinquantennio, ancora in cima alle classifiche delle zone ad alto disagio insediativo48. Si tratta di una condizione di difficoltà, per la quale, già nel 1956, si riteneva di non poter fare niente: Diciamo subito che non si può fare niente, perché il tessuto sociale di Manopello, il connettivo che tiene insieme 200 case del paese intorno alla parrocchia – qui, come in migliaia di altri comuni dell’Abruzzo, della Basilicata, della Sicilia. È proprio la miseria. La miseria a Manopello è quello che è a Ivrea l’Olivetti, la Fiat a Torino, il porto a Genova, i commerci e l’industria a Milano, la burocrazia a Roma49.

le sue analisi su Agnone (alto Molise), paese che «sembra possa ospitare 20.000 persone, invece sono solo 4.000 gli abitanti»; cfr. W.A. Douglass, L’emigrazione in un paese dell’Italia meridionale. Agnone: tra storia e antropologia, Giardini, Pisa, 1990 (ed. italiana di Emigration in a south Italian town: an anthropological history, Rutger University Press, New Brunswick, 1984). Studi specifici sulla relazione tra emigrazione e comunità appenninica molisana: G. Bagnoli, Vinchiaturo. Una comunità allargata, Cosmo Iannone, Isernia, 2002; F. Carchedi, Un anno di lavoro lungo nove mesi. L’emigrazione da Valva a Rosdov, in F. Crachedi, E. Pugliese (a cura di), Andare, restare, tornare. Cinquant’anni di emigrazione italiana in Germania, Cosmo Iannone, Isernia, 2006, pp. 129-151. Per l’entroterra campano: R. Guidi, R. Scartezzini, A.M. Zaccaria, Tra due mondi. L’avventura americana tra i migranti italiani di fine secolo. Un approccio analitico, Franco Angeli, Milano, 1994. Per un’analisi comparativa tra il movimento migratorio appenninico e quello alpino, P. Corti, D. Albera, La montagna mediterranea: una fabbrica di uomini? Mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata (secoli XV-XX), Cavallermaggiore, Gribaudo, 2000. 47   L’inchiesta di Lidia De Rita a Manopello è riproposta da Guido Crainz nella sua Storia del miracolo italiano, cit., pp. 105-106.; cfr. L. De Rita, I contadini e la televisione, Il Mulino, Bologna, 1964, p. 7. 48   Rapporto di Confcommercio e Legambiente sull’Italia del disagio insediativo (1996-2016). Eccellenze e ghost town nell’Italia dei piccoli comuni, a cura di Serico, Gruppo CRESME, 2008. 49  A. Zappulli, A Manopello nessuna ragazza accetta di sposare un contadino, «Il Giorno», 12 agosto 1956, in G. Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p. 106.

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In questo lasso di tempo, per il Sud non ci fu solo l’emigrazione all’estero: gli spostamenti interni (1955-70) tra zone di campagna e città e tra Sud e Nord del Paese interessarono ben 25 milioni d’italiani. Di questi, oltre 10 milioni cambiarono regione di residenza. Inoltre, fra il 1958 e il 1963 i meridionali che si trasferirono al CentroNord furono poco meno di un milione. A svuotarsi, in primo luogo, furono le aree di montagna e di collina, le case isolate, le frazioni e i nuclei abitativi sparsi (vi viveva un italiano su quattro nel 1951, meno di uno su cinque nel 1961, uno su otto nel 1971). Mentre, nel decennio 1951-1961, il 70% dei comuni italiani perdeva i suoi abitanti ed il grosso degli aumenti di popolazione si registrava nelle città del triangolo industriale e nella capitale50. Nel Meridione, in questi anni ressero, solo parzialmente, Napoli e alcune zone della Puglia: poiché l’industria è concentrata a Napoli e dintorni ed in una parte della Puglia, mentre nel resto del Meridione è praticata esclusivamente l’agricoltura, non rimane aperta alcuna via d’uscita. [...] Molti contadini trovano lavoro solo da 100 a 150 giorni all’anno, in alcune zone ancora di meno. [...] Dall’unione del Nord e Sud d’Italia nell’anno 1861 sono stati intrapresi una serie di tentativi per creare migliori condizioni di vita. Fino ad oggi non si è giunti ad un soddisfacente risultato51.

In conclusione, nonostante l’intervento straordinario dello Stato – attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, la riforma agraria, i progetti e le leggi per l’industria nel Sud e in «montagna» – la questione meridionale non fu mai risolta, e ancor di più si acuì il divario tra Nord e Sud del Paese52.

50   Per questa sintesi di dati sulla mobilità, cfr. U. Ascoli, Movimenti migratori in Italia, cit., pp. 109-143; P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., pp. 283-286; G. Croncioni, Il rapporto città-campagna nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 77; e la sintesi che degli stessi dati fa G. Crainz, op. cit., p 108. 51   D. Dolci, Banditi a Partinico, Laterza, Bari, 1955; Inchiesta a Palermo, Einaudi, Torino, 1957. 52   Il dibattito sulla questione meridionale conta una molteplicità di interventi e di analisi. Per una panoramica sulla questione dell’intervento straordinario si veda, ad es., S. Cafiero, Storia dell’Intervento Straordinario nel Mezzogiorno (19501993), Lacaita, Manduria, 2000; M. Rossi-Doria, Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, cit.; P. Saraceno, Il meridionalismo dopo la ricostruzione (1948-1957), cit.; P. Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1943 al 1955, Il Mulino, Bologna 1978; A. Parisi, G. Zappa (a cura di), Mezzogiorno e politica di piano, Laterza, Bari, 1964. Per uno sguardo panoramico

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4. La grande ondata meridionale. Le cifre Analizzando i flussi, dopo un’analisi molto sintetica e parziale del dibattito, emerge che nel ventennio 1946-55/1956-64 l’emigrazione italiana si è rivolta, soprattutto nel secondo decennio, verso i Paesi europei (tab. 6), e che la Svizzera è stata la meta più attrattiva dell’intero esodo emigratorio, capace di attirare nel ventennio quasi il 30% del contingente italiano nella sua totalità ed oltre il 45% dell’intero flusso diretto verso l’Europa (tab. 11). In questa fase l’emigrazione va progressivamente meridionalizzandosi. Nel primo decennio (1946-55) – accorpando il numero degli espatri di tutte le regioni meridionali, isole comprese – il flusso è pari al 45% sul totale degli espatri: supera abbondantemente il milione e quasi raddoppia nel decennio successivo (1956-64), rappresentando complessivamente circa il 70% dell’intero blocco italiano in partenza verso l’estero (tab. 16). Dall’analisi nel dettaglio dei flussi per regione di partenza, si constata che, nel primo decennio, il maggior contingente è fornito da Sicilia, Calabria e Campania; mentre, nel periodo 1956-64, è la Puglia a triplicare abbondantemente i propri espatri, attestandosi al primo posto tra le regioni nel secondo decennio, seguita da Campania e Sicilia (tab. 17). Chiaramente, l’analisi fa riferimento a rilevazioni in termini assoluti e non al tasso d’incidenza. La quantità del flusso è dunque valutata in rapporto al totale complessivo e non in base al numero di popolazione residente, nel dato periodo e nel dato territorio, nonché al saldo tra nati e morti. Ritornando all’analisi numerica, esaminando le cifre complessive per lo stesso periodo e riportando solo le regioni settentrionali per le sul Sud d’Italia, V. Castronovo, Da contadini a operai, in Storia d’Italia. Dall’Unità a oggi, vol. VII, Einaudi, Torino, 1975; G. Galasso, R. Romeo, Storia del Mezzogiorno, cit.; P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Donzelli, Roma, 1993; G. Barone, Stato e Mezzogiorno (1943-1960), in Storia dell’Italia repubblicana, cit. E per quanto attiene le differenti letture della questione meridionale: F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari-Roma, 1996; F.S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, III, a cura di M. Rossi-Doria, Laterza, Roma-Bari, 1978; P. Villari, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociali in Italia, Guida, Napoli, 1979; L. De Rosa, La provincia subordinata. Saggio sulla questione meridionale, Laterza, Roma-Bari, 2004; G. Galasso, Il Mezzogiorno da «questione» a «problema aperto», Lacaita, Manduria, 2005; P. Saraceno, Studi sulla questione meridionale. 1965-1975, Il Mulino, Bologna, 1992.

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Tab. 16. Percentuale espatri da regioni meridionali e isole su totale (1946-1955/1956-1964) Tot. Espatri

Espatri Sud/Isole

% Esp. Sud su tot.

1946-55

2.470.734

1.123.416

45%

1956-64

2.883.219

1.930.503

67%

Totali

5.353.953

3.053.919

Fonte: elaborazione da A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit.

Tab. 17. Espatri per regioni meridionali e isole (1946-1955/1956-1964) Abruzzo

Molise

Campania

Puglia

Basilicata Calabria

Sicilia

Sardegna

1946-55

159.891

 78.281

224.860

125.119

 43.728

230.839

235.753

24.945

1956-64

202.330

105.075

424.824

428.016

110.016

284.058

320.039

56.145

Totali

362.221

183.356

649.684

553.135

153.744

514.897

555.792

81.090

Fonte: elaborazione da A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit.

Tab. 18. Espatri in alcune regioni settentrionali (1946-1955/1956-1964)1 Lombardia

Veneto

Friuli Venezia Emilia Giulia Romagna

Totali

Totale Espatri

% Esp. Nord su tot.

1946-55

191.924

407.237

178.729

153.824

  931.714 2.470.734

38%

1956-64

139.744

265.027

129.597

 85.553

   619.921 2.883.219

22%

Totali

331.668

672.264

308.326

239.377

1.312.258 3.502.632

Nel computo rientrano solo Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna. Fonte: elaborazione da A. Nicosia, L. Prencipe (a cura di), Museo nazionale Emigrazione Italiana, cit. 1

quali si registra un numero significativo di espatri, si nota come, nel computo complessivo (1946-64), il Veneto rimanga la prima regione per numero di espatri, con quasi 700.000 partenze (tab. 18). Riepilogando ed osservando nel dettaglio i flussi relativi ai due decenni, nel primo (1946-55), il Veneto, con gli oltre 400.000 espatri, si conferma la prima regione migratoria dell’intero contingente italiano, seguita da Sicilia, Calabria e Campania. Sempre in questo periodo, Lombardia ed Emilia Romagna, zone molto più ricche del ­­­­­125

Paese rispetto al Mezzogiorno d’Italia ed allo stesso Veneto, mantengono un flusso migratorio abbondantemente superiore alle 150.000 unità. Nel secondo decennio (1955-64), invece, emerge chiaramente la meridionalizzazione del flusso migratorio: la prima regione è la Puglia (428.016), seguita da Campania, Sicilia e Calabria, con il Veneto che comunque continua ad avere una forte propensione alla migrazione, con oltre 265.000 espatri. Infine, dalle cifre complessive nell’arco dell’intero ventennio (1946-64), il Veneto si conferma ancora, anche se di poco, la prima regione fornitrice di manodopera all’estero, superando lievemente la Campania (meno di 30.000 unità), a sua volta seguita da Sicilia e Puglia. Inoltre, le «due piccole» Abruzzo e Friuli Venezia Giulia forniscono comunque oltre 300.000 unità a testa al contingente migratorio complessivo. Come detto, è necessario che i calcoli vengano rivisti in termini di incidenza territoriale, rispetto alla popolazione residente, ed in particolar modo rispetto alle province stesse, all’interno del contesto regionale. Tuttavia, stando ai meri dati dei censimenti Istat e raffrontando quello del 1951 a quello del 1961, è possibile rilevare ulteriori peculiarità del fenomeno53. Ad esempio, emerge che il Veneto, nell’arco di un decennio, perde al netto quasi il 2% di popolazione, passando dagli oltre 3.918.000 ai 3.847.000 del censimento successivo. La stessa percentuale, per la precisione 1,8%, viene a mancare al Friuli Venezia Giulia, mentre l’Abruzzo e il Molise perdono rispettivamente, nello stesso periodo, il 5,7%54 e quasi il 13%55. Inoltre, significativo è il dato relativo alle regioni meridionali che negli stessi anni registrano un tasso di fertilità assai maggiore rispetto alle regioni centro-settentrionali. Stando alle mere rilevazioni dell’Istat, la Puglia vede aumentare la propria popolazione del 6%, passando dai 3.200.000 ai quasi 3 milioni e mezzo nel decennio successivo. Stessa sorte per la Campania, che vede crescere la sua popolazione di quasi 10 punti percentuali, sfiorando i quasi 4.800.000 di residenti nel 1961. È necessario soffermarsi sul caso della Campania, per entrare meglio nello specifico e valutare le distorsioni territoriali, difficil-

  Dati censimento Istat, anni 1951, 1961.   L’Abruzzo passa da una popolazione di 1.277.000 nel 1951, a 1.206.000 nel 1961. Dati censimento Istat, anni 1951, 1961. 55  Il Molise passa da 407.000 residenti nel 1951, a 358.000 nel 1961. Dati censimento Istat, anni 1951, 1961. 53 54

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mente rilevabili nel computo complessivo dei dati. Analizzando i dati non per territorio regionale, ma per suddivisione provinciale, si riscontrano enormi differenze. Le aree della Campania che vanno spopolandosi sono le province interne e, nel caso specifico, Avellino con un -8% e Benevento -8,5%, mentre crescono del 4,4% Caserta, del 4,8% Salerno e ben dell’11,9% Napoli. Inoltre, se la Campania registra quasi 4 milioni e 800.000 residenti, le province di Avellino (430.000) e Benevento (280.000), rappresentano, rispettivamente, meno del 10% e del 6% dell’intera popolazione regionale56. Dunque, in questi casi, le partenze risultano essere marcatamente più incisive. Inoltre, entrando nel dettaglio dell’analisi e studiando la situazione comune per comune, aggregando il dato per ambiti territoriali uniformi, si nota che l’entroterra delle province di Salerno e di Caserta va gradatamente spopolandosi, pur restando il saldo complessivo ancora in attivo. L’esempio della Campania può essere preso quale modello interpretativo del fenomeno emigratorio, a dimostrazione di quanto le cosiddette terre dell’osso abbiano contribuito nel dopoguerra all’emigrazione italiana. Inoltre, bisogna ricordare quanto già affermato sulle difficoltà nell’analisi quantitativa del fenomeno: è necessario considerare l’alto tasso di rimpatri in questo periodo e sommare ad esso l’elevato numero di espatri clandestini, oltre a constatare la difficile uniformità dei dati e delle rilevazioni sulle quali si vuole esplicare una ricerca quantitativa57. Nonostante le difficoltà insite nelle rilevazioni legate all’emigrazione, in generale restano ancora di notevole spessore le analisi di Rosoli58, il quale – pur utilizzando, parzialmente, una periodizzazione diversa rispetto a quella qui usata – rileva come, tra il 1947 e il 1956, nel Nord, solo il Veneto registri tassi migratori superiori al 10%, mentre per il

56   Per approfondimenti sull’analisi dal caso Campania, con riferimento alle province interne, si veda: T. Ricciardi, A trent’anni dal terremoto. Un bilancio migratorio, in Fondazione Migrantes (a cura di), Rapporto italiani nel mondo 2010, Idios, Roma, 2010, pp. 62-76. 57   Sulla questione relativa alle analisi statistiche dei flussi dell’emigrazione italiana, ma più in generale sul dibattito scientifico al riguardo, cfr. M.R. Ostuni, G. Rosoli, Saggio di bibliografia statistica dell’emigrazione italiana, in G. Rosoli (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana, Cser, Roma, 1978, pp. 273-341; D. Marucco, Le statistiche dell’emigrazione italiana, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Partenze, cit., pp. 61-76. 58  G. Rosoli (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana, cit.

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Friuli lo stesso avviene dal 1947 al 1962. Inoltre, i tassi più elevati si trovano al Sud: Abruzzo e Molise (dove il tasso migratorio dal 1951 al 1971 supera il 15% e arriva al 25-27% negli anni 1956-1961), Basilicata (tassi superiori all’11% dal 1951 e del 28% nel 1961-1962), Puglia (20% dal 1960 al 1962, superiori al 10% dal 1959 al 1966), Calabria (dal 1948 al 1970 i tassi sono sempre sopra il 10%) e Campania, che tra il 1960 e il 1963 ha tassi migratori superiori al 10%. Comunque la si guardi e la si analizzi, questa fase storica, in particolar modo per il Mezzogiorno, può senz’altro essere definita come uno dei momenti massimi dello sfollamento dalle campagne59. È impresa ancora più ardua voler definire le destinazioni rispetto alle regioni italiane di partenza, soprattutto riguardo ai Paesi europei. In questi il grosso dell’emigrazione non è stata né contingentata né rilevata in partenza come avveniva per le mete transoceaniche, anche se, negli ultimi anni, va crescendo l’interesse per lo studio ed il reperimento degli archivi dei Centri di Emigrazione, non sempre tuttavia utilizzabili o facilmente identificabili. Solo come elemento di testimonianza, si ripropongono alcune cifre, elaborate sommando le annotazioni, non sempre leggibili, che venivano effettuate dal distaccamento del Centro Emigrazione di Napoli, presso la stazione centrale. Tale ufficio, aveva compiti «di raccolta degli emigranti in arrivo con i vari treni dalle Province di rispettiva provenienza [al fine di provvedere] al loro avviamento a mezzo pullman, presso la sede di Raccolta del Centro»60. Le annotazioni generalmente riportavano mere informazioni di servizio, del tipo: «col treno accelerato delle ore 23.18 di ieri, sono giunti questo scalo di Napoli centrale, provenienti da Potenza, circa 140 lavoratori emigranti [...]. Medesimi sono ripartiti col treno diretto alle ore 3 per espatrio Svizzera [...] fatta segnalazione telefonica ufficio sicurezza ferroviaria Roma Termini»61. Questo era il tragitto seguito nel caso fossero solo in transito per la stazione, altrimenti, se erano diretti verso il Centro di raccolta, le annotazioni erano del tipo: «con vari treni della notte fino alle ore

  M. Rossi-Doria, Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, cit., p. 37.   Centro Emigrazione di Napoli, Relazione all’onorevole Ministero del lavoro e della Previdenza sociale, sul funzionamento dell’ufficio, Napoli, 1952, p. 8. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 789, f. 001. 61  Emigrazione di transito, 1958, Annotazione del 18 febbraio 1958. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 2127, f. 001. 59 60

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6.30 di stamane, sono giunti questo scalo Napoli centrale, provenienti Puglie e Calabria, circa 400 emigranti che si sono diretti al centro di raccolta alcuni per visita medica»62. Catalogando le annotazioni reperibili, complessivamente 377 – esistenti, o quanto meno, quelle che sono state conservate – relative agli anni 1956, 1957 e 195863, riusciamo a ricostruire che nel triennio gli emigranti transitati dalla stazione centrale di Napoli sono stati 18.154 nel 1956, 15.656 nel 1957 e solo 4.449 nel 1958. Inoltre, valutando attentamente le annotazioni e prendendo in considerazione solo le recanti indicazioni di destinazione, quali Milano, Milano per espatrio, Verona64 e quelle che riportavano direttamente i Paesi d’espatrio (Svizzera, Belgio, Germania e Francia), riusciamo a collocare solo 2.796 partenze nel 1956 e 637 nel 1957 dirette, indubbiamente, verso l’Europa. Naturalmente, tenendo presente che in quegli anni la stazione di Napoli era tappa obbligata per raggiungere il Nord e l’estero e analizzando le sole cifre dell’emigrazione meridionale in questo lasso di tempo, si deduce come l’organizzazione messa in campo dall’Italia65, con l’obiettivo di gestire e controllare il flusso in uscita, non sia stata in grado di assolvere ai compiti che si era data, nonostante le ingenti somme investite66. 5. Vecchia e nuova emigrazione. Similitudini e differenze Il miracolo economico italiano, come abbiamo visto, fu cosa reale. Inoltre, esso fu misurato applicando le nozioni economiche della 62   Emigrazione di transito, 1957, Annotazione del 13 dicembre 1957. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 2127, f. 001. 63   In tutto sono consultabili 202 annotazioni relative al 1956, 135 al 1957 e 36 al 1958. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 2127, f. 001. 64   Milano e Verona rappresentavano i centri di raccolta per l’emigrazione, rispettivamente verso la Svizzera e la Germania, sommandosi a quelli di Napoli, Messina e Genova. Per maggiori approfondimenti sul ruolo e le attività svolte dal Centro di Emigrazione di Verona, si rimanda a E. Morandi, Governare l’emigrazione. Lavoratori italiani verso la Germania federale, Rosenberg & Sellier, Torino, 2011. 65   Per comprendere la portata della macchina organizzativa posta in essere dall’Italia, a partire dal 1946, si veda M. Colucci, Lavoro in movimento, cit. 66   Nel 1955, anno dell’inaugurazione del Centro di Emigrazione di Napoli, il ministero del Lavoro, presieduto da Fanfani, spese, per la sola sede di Napoli, la cifra di oltre 1 miliardo di lire dell’epoca: «Giornale d’Italia», 23 febbraio 1955. ASN, f. Prefettura di Napoli - Gabinetto - III ver., f. 2127, f. 001.

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produttività e dell’occupazione, nonché le interpretazioni di carattere sociale e politico. Le diverse velocità, le diverse strutture socioeconomiche presenti negli anni Cinquanta in alcune aree del Paese, lasciano emergere in tutta la loro durezza la perdurante distanza tra un pezzo dell’Italia che riprende, a pieno ritmo, una crescita economica senza precedenti, e l’altra parte, il Sud, e in particolar modo le terre dell’osso, che sono ancora afflitte dalla precarietà e da una riforma agraria che non darà i frutti sperati. Un Mezzogiorno in cui – riprendendo il pensiero di Ernesto De Martino – l’uomo difficilmente riesce a sopravvivere se non disponendo di tutte quelle forme protettive che sono insite nell’ideologia e nella pratica della magia. Se ci chiediamo quali sono le ragioni che fanno ancora sopravvivere una ideologia così arcaica nella Lucania di oggi, la risposta più immediata è che tuttora in Lucania un regime arcaico di esistenza impegna ancora larghi strati sociali, malgrado la civiltà moderna. E certamente la precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza delle prospettive concernenti il futuro, la pressione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllabili, la carenza di forme di assistenza sociale, l’asprezza della fatica nel quadro di una economia agricola arretrata, l’angusta memoria di comportamenti razionali efficaci non cui fronteggiare realisticamente i momenti critici dell’esistenza costituiscono altrettante condizioni che favoriscono il mantenersi delle pratiche magiche67.

Le analisi etnografiche di De Martino ci introducono in maniera chiara e diretta nella Svizzera degli anni Cinquanta e Sessanta. È questo il periodo, come ci hanno dimostrato le cifre, di maggior meridionalizzazione del flusso diretto verso la Confederazione. Si tratta di una fase della storia dell’emigrazione meridionale in Svizzera – probabilmente il vero inizio68 – che oltre le cifre ed i contesti politici nei quali si inserisce questa dinamica, ci ridà un quadro per niente

67   E. De Martino, Sud e magia, con intr. di U. Galimberti, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 89 (edizione or., 1959). 68   La presenza di meridionali fu incentivata verso la fine del XIX sec. in occasione del traforo del Sempione (1898). Per questa grande opera vennero reclutati prevalentemente siciliani e calabresi, in quanto si riteneva che fossero più inclini a sopportare il calore che, durante i lavori del tunnel, poteva superare i 50 gradi. Cfr. A. Knoepli, Da apprendista manovale a imprenditore edile, in E. Halter (a cura di), Gli italiani in Svizzera, cit., p. 41.

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omogeneo; ciò che emerge chiaramente è la dicotomia tra prima e seconda ondata emigratoria, ovvero, tra la presenza spiccatamente settentrionale, prima, e marcatamente meridionale, poi, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Infatti, solo nel 1960, con il 46,5%, la componente meridionale, supererà di qualche punto percentuale quella settentrionale, e solo l’anno successivo, rappresenterà da sola oltre il 50% del contingente italiano in Svizzera69. Ormai erano lontani, quasi dimenticati, gli anni dell’Italienerkrawall 70. In questo periodo a Berna come a Zurigo ed in tante altre piccole e medie città elvetiche, arrivavano in massa i meridionali, tanto da solleticare l’ingegno del già citato Albert Stocker: «fin quando c’erano solo i settentrionali, tutto filava a gonfie vele»71. Senza dubbio in questo contesto le condizioni d’inserimento dei meridionali, in particolare nei cantoni di lingua tedesca, si presentarono nettamente sfavorevoli ed evidenti furono le manifestazioni di disagio nell’adattarsi al nuovo modo di vivere, così diametralmente opposto a quello di partenza. Inoltre, si riscontra una pur comprensibile «non volontà» nel riconoscere e nell’indagare gli aspetti socioculturali e i contesti comunitari dai quali provengono questi nuovi immigrati. A volte il disagio degli emigrati sfociava in deviate manifestazioni psichiche, o ritenute tali. Essere psicanalista o psichiatra nella Berna a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta significava anche 69  Dal 1947 al 1961 la provenienza territoriale, in percentuale e in ordine NordCentro-Sud: 1947: 96,3-3,0-0,7; 1950: 95,9-2,4-1,7; 1955: 69,5-10,6-19,6; 1956: 63,9-9,8-26,3; 1957: 55,8-10,5-33,7; 1958: 48,3-12,7-39,0; 1959: 47,8-12,8-39,4; 1960: 38,7-14,8-46,5; 1961: 30,4-14,7-54,9. Dati rielaborati da K.B. Mayer, Postwar Migration from Italy to Switzerland, cit., p. 12. 70   Nel 1896 l’Aussersihl – quartiere di Zurigo a forte presenza di immigrati italiani – divenne per tre giorni il focolaio di una vera e propria «caccia all’italiano» (Italienerkrawall), in seguito alla morte di un operaio alsaziano durante una rissa nella notte tra il 25 e il 26 luglio. In quei giorni, tutto ciò che nel quartiere era italiano fu letteralmente distrutto, tanto che per fermare la rappresaglia e riportare l’ordine fu necessario l’intervento dell’esercito. Per approfondimenti: T. Gatani, L’Italienerkrawall di Zurigo, in E. Halter (a cura di), Gli italiani in Svizzera, cit., pp. 35-36; H. Looser, Zwischen «Tschinggenhass» und Rebellion: der Italienerkrawall von 1896, in Geschichtsladen Zürich (a cura di), Lücken im Panorama: Einblicke in den Nachlass Zürichs, Zürich, 1986, pp. 85-107; R. Schläpfer, Die Ausländerfrage in der Schweiz vor dem ersten Weltkrieg, Juris-Verlag, Zürich, 1969, pp. 138-143; T. Ricciardi, Gli italiani a Zurigo. Una presenza significativa, in Fondazione Migrantes (a cura di), Rapporto italiani nel mondo 2012, Idios, Roma, 2012, pp. 358-366. 71  F. Venturini, Stagionali e rami secchi, Pan Editrice, Milano, 1976, p. 8.

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avere a che fare con i tanti italiani, soprattutto meridionali, alla ricerca di un difficile adattamento al nuovo contesto di vita. Fu questo il compito di Michele Risso, psichiatra e psicanalista, il quale nel biennio 1960-61, studiò i casi di ben 709 pazienti italiani in 16 cliniche psichiatriche, manicomi e case di cura della Svizzera tedesca72, cercando di comprendere i problemi degli emigrati, soprattutto meridionali, che un qualsiasi psichiatra tedescofono o francofono avrebbe difficilmente capito e facilmente, troppo facilmente, interpretato come una grave malattia mentale quale poteva essere la schizofrenia73. In questi anni di lavoro e ricerca sul campo, Risso fu colpito, in particolare, dai comportamenti dei pazienti provenienti dal Meridione d’Italia, i quali si lamentavano in modo insistente di gravi sensazioni legate al cambiamento corporeo e, più in generale, a manifestazioni di sintomi che i pazienti stessi riconducevano ad influssi magici. In altre parole, al «malocchio» e alle cosiddette «fatture». Una paziente 26enne della provincia di Salerno così descrisse al dottore i rimedi che venivano utilizzati al suo paese per curare le crisi di nervi del fratello: Suo fratello aveva sofferto, come lei, di una «crisi di nervi». Una volta girava a piedi nudi in camicia da notte per il paese, la gente lo prese e lo gettò più volte nell’acqua fredda, come là si usa fare, con successo, nei casi di «esaurimento nervoso», dopodiché il malato sarebbe subito guarito. Durante un’altra crisi i parenti del malato hanno consultato un mago, questi avrebbe detto che il giovane era malato perché non poteva più secernere sudore e avrebbe prescritto di infilarlo in un forno. Il padre ha messo il figlio malato su una barella, lo ha legato e spinto in un forno 72   La ricerca si basava soprattutto su osservazioni personali e, in parte, sullo studio di cartelle cliniche. Venivano presi in considerazione numerosi fattori, quali: provenienza, ereditarietà, personalità premorbosa, tipo di malattia psichica, etc. Per quanto attiene al numero dei casi studiati, si veda l’introduzione dell’edizione tedesca, in W. Böcker, M. Risso, Verhexungswahn, Krager, Basel, 1964. SSZ, f. FCLIS, b. Letteratura - Ar 40.20.19. 73   Le sintesi delle analisi di Risso sono state pubblicate, insieme a Delia Frigessi Castelnuovo (anche lei impegnata con gli immigrati italiani in Svizzera), per la prima volta in Italia a quasi vent’anni di distanza. Si tratta di un lavoro che svela, rifacendosi proprio alla fenomenologia, alla psicanalisi, alla sociologia ed alle problematiche storico-politiche, i meccanismi di reificazione scientifici con i quali tutto si trasforma in malattia e non si evidenzia più la condizione storica, e dunque vera, del paziente: un essere umano che interagisce con le politiche del momento e le subisce. Si veda D. Frigessi Castelnuovo, M. Risso, A mezza parete. Emigrazione, nostalgia, malattia mentale, Einaudi, Torino, 1982.

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tiepido. Dopo qualche minuto il malato ha cominciato a sudare intensamente, è stato tirato fuori e dopo sarebbe di nuovo «guarito»74.

Accanto ai rimedi «artigianali», frutto del retaggio magico-simbolico, non potevano mancare, ovviamente, i casi nei quali si denunciavano i timori per una possibile «fattura d’amore». Carissima nipote, [...] sopporta con pazienza tutte le tue pene e vogliamo sperare che si raggiunga il nostro scopo. Con questo scritto ti mando di nuovo quella «cosa», con cui procederai nello stesso modo dell’ultima volta. Prima dell’uso con l’indice della mano sinistra facci sopra tre volte la croce, dicendo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, pungiti il dito, e fai scorrere cinque gocce di sangue, lasciale cadere su un pezzetto di zucchero e dici le seguenti parole: Come il mio sangue dal mio cuore non si deve separare, così Andrea da me non si deve separare. Poi prendi lo zucchero, mescolalo con la polvere, ma prima devi scioglierlo nel caffè o nel latte freddo e poi aggiungi il resto. Poi ti prego di mandarmi un calzino sporco di tuo marito, se vuoi puoi anche mandarmelo per posta, io faccio qui quanto più posso nella speranza che tutto andrà bene. Ti prego, riguardo alla lettera sii prudente, non lasciarla in giro e bruciala subito. Poi ti comunico ancora che ho ricevuto il danaro e lo ho già consumato per te75.

Questa lettera fu portata da un meridionale in stato di agitazione al consolato di Zurigo. L’uomo raccontò che sua moglie voleva avvelenarlo perché credeva che le fosse stato infedele76. Simili testimonianze77 ci danno un quadro delle condizioni, degli stati d’animo, ma soprattutto delle percezioni che questi individui avevano del proprio «essere psicologico», non tanto legato alle forme della malattia mentale, bensì riferito, da un lato, a quel sentimento che anche gli svizzeri avevano già vissuto secoli prima,

  M. Risso, W. Böcker, Sortilegio e delirio, Liguori, Napoli, 1992, p. 72 (si tratta della prima traduzione in italiano del già citato Verhexungswahn). 75   Ivi, p. 81. 76   Di fatto, l’uomo ammise davanti ai funzionari del consolato di aver avuto relazioni extraconiugali. La lettera in questione era stata scritta da una zia della moglie, non recava né la data né il luogo di provenienza, ma all’interno conteneva un sacchetto con della polvere. 77   Per quanto attiene alla lettera, si ritiene trascritta con relative correzioni grammaticali, in quanto, stando alle lettere fin qui pubblicate, il grado di conoscenza linguistica non appare affatto lo stesso. 74

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l’Heimweh78, e, dall’altro, all’alto tasso d’ignoranza e analfabetismo, che ancora negli anni Sessanta acuiva il divario tra il Nord ed il Sud dell’Italia. Su questo aspetto, abbiamo già visto come, nel 1961, soltanto il 18% della popolazione parlava abitualmente l’italiano79. Osservando, invece, i dati relativi all’analfabetismo – rilevazioni 1951 e 1962 – notiamo come esso fosse presente, nell’area del triangolo industriale italiano, rispettivamente per il 4,5% in Liguria ed il 2,5% in Piemonte e Lombardia. Il Sud, invece, presentava ancora tassi altissimi, che andavano dal 19% dell’Abruzzo, al 23,2% della Campania, fino a superare il 30% in Calabria, con la Sardegna, la Sicilia e la Puglia che oscillavano fra il 23 e il 24%80. Questa differenza di alfabetizzazione iniziò a manifestarsi anche all’interno della comunità italiana presente in Svizzera. In altre parole, si produsse una forte disparità tra vecchi e nuovi emigranti, come ci testimonia una lettera indirizzata a Medri, nel 1958: Ho il piacere di ricevere ogni mese, il Vostro «Bollettino per i Soci» perché da circa 3 anni ne faccio parte. Come di consuetudine, oggi l’ho ricevuto e così di sfuggita l’ho voluto leggere quell’articolo intitolato «Per una vita migliore». In quello che è scritto a riguardo della Svizzera, non ne voglio discutere, anzi per mio conto ringrazio il soldo svizzero, che fin’ora mi ha dato largo benessere a me ed alla mia famiglia. Quello che non mi

78  Tradotto letteralmente «mal di casa», indicato come sintomo appartenente ai mercenari svizzeri, tra il XVII e XVIII secolo, i quali, sradicati dalle proprie comunità, si ammalavano gravemente fino a morirne. I medici del tempo, come J. Hofer (1688) e in seguito Pellegrini e Schkëchzer, cercavano la spiegazione nel gioco degli umori che intossicavano con i vapori i nervi e nelle malformazioni che si verificavano nei polmoni. L’analisi, però, partiva da un’osservazione precisa: la lontananza forzata da casa. In un primo tempo, si pensò che questa malattia, l’Heimweh, appartenesse esclusivamente alla «razza» degli svizzeri: tale era la diagnosi dei medici del tempo, i quali ritenevano che fosse una cosa connaturata agli abitanti di quelle terre. La cura era semplice: per aiutarli a soffrire meno quando stavano male, i loro comandanti, li facevano salire su una torre, per stare più in alto; così poteva sembrare loro di essere sulle vette alpine della Svizzera. Proibivano certe canzoni che troppo ricordavano, specie nelle cantilene, la madre terra. In ultimo, li rispedivano a casa, dove guarivano repentinamente. Si veda D. Frigessi Castelnuovo, M. Risso, A mezza parete, cit., pp. 29-30; oppure, sul concetto di Heimat/Patria, quello che scrisse Franca Magnani Schiavetti, figlia di Fernando Schiavetti, in F. Magnani, Heimat, in «I quaderni speciali di Limes», anno 3, n. 3, pp. 201-203. 79   A. Rampini, Denaro e lavoro, in Il secolo dei giovani, cit., p. 100. 80   Istat, Compendio statistico italiano, anni 1951, 1961.

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garba, per ciò che è stato scritto a riguardo degli italiani. Questi signori che hanno scritto questi articoli non si sono domandati, se per negligenza loro gli italiani sono così ignoranti, [o] per colpa di quelli che ci hanno governato e che ci governano? Forse ai tempi che fu, c’era di bisogno di andare a civilizzare l’Etiopia, di costruire scuole nell’Italia del Sud, ove tutt’oggi abbiamo un bel primato, quello dell’analfabetismo! Non è vero? Questa è colpa nostra?81

Siffatti passaggi inducono a sottolineare due aspetti significativi, con i quali, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, la FCLIS si trovò a dover fare i conti, da un lato, appunto, con il perdurante analfabetismo meridionale – più che mai figlio di un apparato sociocomunitario parzialmente diverso rispetto a quello settentrionale – e, dall’altro, con un livello di politicizzazione delle masse meridionali dissimile da quello degli emigranti provenienti dal Nord Italia. Su questo aspetto, possiamo anche aggiungere che probabilmente uno dei presupposti sui quali vennero fondate e nacquero le Colonie Libere, ovvero l’antifascismo spiccatamente di sinistra, si stava progressivamente declinando in maniera diversa. Non a caso, comparando storicamente il comportamento elettorale, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, tra il Nord e il Sud Italia, notiamo come in quest’ultimo siano presenti tutte le caratteristiche clientelari e gattopardiane del voto. Non è un caso che la Dc, in quegli anni, conquistasse oltre il 40% dei propri consensi nelle regioni meridionali ed in particolar modo nelle terre dell’osso, zone dell’entroterra dell’Appennino meridionale82. Inoltre, comparando i comportamenti socio-culturali dei vecchi e nuovi emigranti in Svizzera, affiora un ulteriore elemento di diversità: la scarsa specializzazione professionale di questa nuova ondata.

81   Lettera di Sergio Lobba indirizzata a Medri, Zurigo 8 settembre 1958. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 82   Per l’analisi e l’incrocio dei comportamenti elettorali rispetto alle condizioni socioculturali in quegli anni nel Mezzogiorno, si veda L. Mascilli Migliorini, Il Mezzogiorno contemporaneo, cit., pp. 80-88. Per quanto attiene alla scomposizione regionale dei dati elettorali, cfr. G. Ghini, Il voto degli italiani 1946-1974, Editori Riuniti, Roma, 1975; F. Compagna, V. De Caprariis, Studi di geografia elettorale (1946-1958), Centro Studi «Nord e Sud», Napoli, 1959, pp. 49-79. Inoltre, per una comparazione di lungo periodo del comportamento elettorale nell’entroterra meridionale, si veda G. Acocella, L. Mascilli Migliorini, C. Franco, A. Aurigemma, De Sanctis e l’Irpinia, Di Mauro, Cava dei Tirreni, 1983.

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La manodopera italiana è tutta di manovalanza, e ci sono anche degli operai qualificati! I nostri «complessi industriali» tra i migliori d’Europa, dove sono andati a finire? Per logica che la gioventù di oggi non può imparare un mestiere, se non quello del manovale. Soltanto che di manodopera di una certa età abbiamo ancora di quella qualificata, finita questa dove si va?83

In maniera sintetica, abbiamo accennato ad alcune caratteristiche di questi nuovi emigranti. Abbiamo visto i loro veri o presunti disagi «psicologici», le loro differenti connotazioni socioculturali, la loro diversa specializzazione professionale. Ma chi erano, in realtà, questi nuovi protagonisti, questi uomini, queste donne, le cui vicende vengono narrate nella prima parte del celeberrimo Nudi col passaporto di Venturini? Sappiamo che erano meridionali, che sedevano, in media, più di dodici ore nei tanti scompartimenti dei treni che li portavano dritti alla frontiera di Chiasso o, attraverso i 17 chilometri del tunnel del San Gottardo, dritti dritti a Zurigo. Ognuno di questi nuovi protagonisti aveva la propria storia, il proprio passato e le proprie aspirazioni per il futuro, in altre parole, ognuno era protagonista assoluto della propria vicenda, anche quando alla frontiera, aspettando il controllo, la visita medica, la disinfestazione tutti «se ne stavano come un gregge paziente in attesa di essere ricevuti, nudi col passaporto in mano, da chi aveva ancora bisogno di merce umana»84. Questo avveniva nel momento in cui, da un lato, andava esaurendosi lentamente il lungo ciclo dell’emigrazione settentrionale e, dall’altro, crescevano a ritmi sostenuti gli arrivi meridionali. Inoltre, sappiamo che in questa fase riemersero tutte le problematicità che avevano già caratterizzato la vecchia emigrazione: vi erano difficoltà, ad esempio, nel riuscire a trovare casa, in quanto gli svizzeri non volevano affittare a chi era abituato «a vivere tra porci e galline», ma, più in generale, difficoltà dovute alle incomprensioni e alla diffidenza, che si dimostravano essere diretta conseguenza «dell’ignoranza da parte dei nostri lavoratori, delle condizioni di vita svizzere e, altrettanta ignoranza, da parte degli elvetici, delle condizioni di vita degli italiani»85.   Lettera di Sergio Lobba, cit.   F. Venturini, Nudi col passaporto, cit., p. 178. Questo passaggio, che ritroviamo alla fine della prima parte di Nudi col passaporto, nelle parole di una emigrante, Lidia, sono ispirate alla famosa e più volte citata frase di Max Frisch: «Volevamo braccia, sono arrivati uomini». 85  Ivi, p. 217. 83 84

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Per avere un quadro complessivo delle diversità e delle similitudini tra vecchia e nuova emigrazione, tra emigrazione settentrionale e meridionale e di come, progressivamente, si modifichino le caratteristiche – tra il 1955 e il 1964 – dell’emigrazione italiana in Svizzera, ritorna utile ricorrere a qualche dato quantitativo e qualitativo. In una ricerca, di carattere sociologico, svolta alla metà degli anni Settanta dal Cser sull’emarginazione dei lavoratori italiani in Svizzera e Germania, emergono alcune caratteristiche che confermano l’analisi dei fattori e dei dati fin qui proposta86. Innanzitutto, dall’analisi della composizione della collettività presente in Svizzera emergono due dati significativi: primo, la Svizzera, rispetto alla Germania, si contraddistingue nettamente per una marcata anzianità migratoria, che conferma l’ormai secolare emigrazione italiana verso i territori elvetici; secondo, si conferma come gli espatri provengano per i 2/3 dalle regioni settentrionali fino alla metà degli anni Cinquanta, periodo a partire dal quale, progressivamente, diventano sempre più meridionali, registrando l’apice nel quinquennio 1960-64 con oltre il 75% sull’intero contingente87. Inoltre, per quanto attiene alle peculiarità che contraddistinguono la presenza della manodopera italiana in Svizzera, in questo lasso di tempo notiamo come essa sia prevalentemente giovane, maschile e marcatamente stagionale88. Riguardo al livello d’istruzione, vengono confermate le differenze sostanziali tra le diverse aree di provenienza (tab. 19). Analizzando i dati, notiamo come l’alfabetismo fosse soprattutto presente tra coloro che provenivano dal Centro e dal Sud Italia, anche se è da riscontare un quasi 9%, in media, tra quelli che provenivano dalle regioni del Nordest. Per di più, man mano che il livello di istruzione e di formazione cresceva, aumentava in maniera inversa86   La ricerca è stata condotta analizzando le risposte di un campione di 3.000 intervistati, pari circa all’1% della popolazione italiana presente, nel 1972, in sei aree individuate in base alla consistenza della manodopera italiana, ai fattori discriminatori di tipo linguistico e al livello di industrializzazione. L’inchiesta rappresenta la terza parte di una serie realizzata dal Cser, in collaborazione con il CNR, sulla crisi del sistema politico-amministrativo ed assistenziale nel campo dell’emigrazione, in rapporto alla personalità socioculturale dell’emigrato. Per i risultati dell’inchiesta sulla emarginazione emigratoria, si veda L. Favero, G. Rosoli, I lavoratori emarginati, in «Studi Emigrazione», a. XII, nn. 38-39, giu.-sett. 1975, pp. 155-305. 87   Ivi, p. 178. 88   La media degli intervistati varia tra una maggiore anzianità in Svizzera francese (38,5 anni), rispetto a quella tedesca (34,5 anni), e per il 79% è composta da maschi soli, rispetto al 21% di donne. Cfr. ivi, pp. 172-173.

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Tab. 19. Livello d’istruzione e formazione per aree di provenienza (1955-1964) analfabeta alfabeta elementari

Nordovest Nordest Centro Sud Isole Media

1,16 1,78 – 3,87 3,03 2,46

  6,98   8,88

11,54 15,21 20,45 12,61

32,56 50,30 52,56 51,80 46,21 46,68

freq. medie1

Licenza media

freq. sup.1

diploma

laurea

4,65 10,08   7,69   7,99 10,61   8,20

40,70 19,53 14,10 15,72 12,88 20,58

3,49 5,33 5,13 4,12 5,30 4,67

10,47   4,14   6,41   0,77   1,52   4,66

– – 2,56 0,52 – 1,54

Frequentato qualche anno senza aver conseguito il titolo. Fonte: elaborazione da L. Favero, G. Rosoli, I lavoratori emarginati, in «Studi Emigrazione», a. XII, nn. 38-39, giu.-sett. 1975, pp. 184-191. 1

mente proporzionale la distanza tra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Infine, un elemento molto interessante che si evince dall’analisi è il background rurale. In sostanza, si nota come fosse marcata la provenienza da aree prettamente agricole, in particolar modo per i meridionali, i quali intravedevano minori opportunità di mobilità sociale, essendo queste, sostanzialmente, condizionate dalla situazione di partenza89. I risultati di questa indagine ci danno una rappresentazione dell’emarginazione migratoria, in base al contesto di arrivo e di partenza, che va ben oltre la semplice rappresentazione di marginalità datane da Ferrarotti90. Secondo l’indagine, questa marginalità si constata attraverso diverse forme di alienazione: – culturale, dovuta ad un’inadeguata preparazione di base, la quale costringe a lavori dequalificanti che, non dando alcuna possibi89   Una simile situazione di partenza (background culturale) condizionava in maniera determinante sia la percezione soggettiva delle opportunità sia la possibilità di accedervi di fatto. Dunque, l’emigrato generico con una precaria formazione di base rimaneva incapace di inserirsi tanto nei corsi di formazione che nella scala professionale. Cfr. ivi, p. 208. 90   Per Favero e Rosoli, Ferrarotti risente delle cadenze del marginal man della sociologia americana. Infatti, gli autori ritengono che l’emarginazione dei lavoratori emigranti non sia esclusivamente dovuta alle difficoltà di integrazione culturale, ma che essa si manifesti sostanzialmente su più piani distinti. Per una sintesi sulla teoria della marginalità, secondo Ferrarotti, si veda, F. Ferrarotti, Note sull’emigrante come uomo marginale, in «Affari Sociali Internazionali», II, n. 4, dicembre 1974, pp. 31-40.

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lità di migliorare la propria condizione occupazionale, conducono, contemporaneamente, anche ad un’alienazione di tipo linguistico91; – economica, dovuta all’alta propensione al risparmio, al suo uso antieconomico e alla scarsa attitudine all’investimento92; – alloggiativa, che si manifesta attraverso l’assegnazione di case scadenti o di baracche, il più delle volte dislocate in periferia, per le quali si paga un prezzo troppo alto93; – familiare, che dipende dalla forzata separazione del nucleo familiare. Infatti, i coniugati, tra gli emigrati in Svizzera tedesca, sono pari al 71,9%, di cui un terzo vive separato dalle mogli. Inoltre, il 44% dei genitori con figli in età scolare lascia questi ultimi in Italia94; –  politico-sindacale, dovuta all’esclusione dall’esercizio di voto, alla ridottissima partecipazione alla vita amministrativa locale e al quasi inesistente attivismo sindacale. Per quanto riguarda gli ultimi due punti appena considerati, ovvero quello dell’alienazione familiare e politico-sindacale, occorre sottolineare come questi fossero, in questa fase e non solo – insieme alla necessità di rinegoziare l’accordo di reclutamento del 1948 – al centro delle attività poste in essere dalla FCLIS.

91  Questa si manifesta nelle difficoltà di comunicazione al di fuori del proprio gruppo linguistico di appartenenza. Nella Svizzera tedesca il numero di coloro che affermavano di non conoscere affatto la lingua tedesca (quasi 20%) risultava il doppio rispetto alla Germania (9,5%). Infatti, dall’indagine si evince che il 56,5% degli intervistati nella Svizzera tedesca riusciva ad intrattenere solo rapporti elementari con il Paese ospitante. Ivi, pp. 255-264. 92   Favero e Rosoli, riprendendo a loro volta W.R. Bönhing, parlano di uso anarchico dei risparmi: ivi, p. 160. Per quanto riguarda la teoria dell’uso anarchico dei risparmi, si veda W.R. Bönhing, Quelques réflexions sur l’émigration des travailleurs du bassin méditerranéen, in «Revue Internationale du Travail», III, n. 3, marzo 1975, pp. 269-300. 93   L. Favero, G. Rosoli, I lavoratori emarginati, in «Studi Emigrazione», a. XII, nn. 38-39, giu.-sett. 1975, pp. 226-242. 94   È facile immaginare quanto questa separazione potesse nuocere alla personalità dei figli e anche a quella dei genitori, per via della disaffezione o difficoltà a comunicare tra di loro. Risulta interessante notare come la percentuale di coloro che lasciavano i figli in Italia aumentasse in proporzione alla crescita d’età di questi ultimi. Infatti, mentre in tenera età solo un quarto dei figli veniva lasciato alle cure dei nonni, la percentuale si triplicava per la scuola elementare (44%) e aumentava nettamente per quella media (57%); ivi, p. 202.

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6. La FCLIS negli anni del boom migratorio Nel suo secondo decennio di attività, l’impegno della FCLIS continuò ad essere caratterizzato, da un lato, dal tentativo di accrescere la propria influenza nel mondo dei lavoratori italiani, con l’intento di sindacalizzarne l’azione; dall’altro, dal compito di riorganizzarsi in base alle nuove esigenze di un’emigrazione, che ormai, si andava sempre più meridionalizzando. Questa fase rappresenterà per la Federazione il momento di crescita massima della propria ramificazione ed estensione sull’intero territorio elvetico: si passerà nell’arco di meno di un ventennio dalle 20 Colonie nel 1944 alle 76 nel 196395, fino a toccare quota 90 l’anno successivo96. Nello stesso periodo (1962), la struttura della FCLIS si articolerà su più livelli e verranno istituiti i primi 9 comitati regionali97. Il 1964 sarà l’anno di svolta, come si vedrà, per l’emigrazione italiana in Svizzera. La sintesi di cosa sia divenuta la struttura della Federazione – a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta – e le motivazioni che avrebbero dovuto indurre i lavoratori emigrati ad aderire alle CLI sono contenute in un opuscoletto di propaganda che la Federazione dà alle stampe nel 1964, con il titolo, appunto, Perché i lavoratori emigrati aderiscono alle Colonie Libere Italiane. Quando, alle durezze della condizione di lavoratore all’estero, s’aggiunse la bufera della dittatura e più tardi della guerra, gli italiani che qui erano e quelli che vi giunsero poi, come uscendo da un naufragio, si ritrovarono uomini bisognosi tutti di solidarietà e di aiuto, si riconobbero fratelli e convennero in tante piccole comunità di lavoratori. Quanto cammino allora! Quante volte un’opera di solidarietà è stata realizzata! Quanti lavoratori vi-

95   XX Congresso federale, Zurigo, 23-24 marzo 1963. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 96   A tutte queste vanno aggiunte le varie sedi presenti in Svizzera dell’Alei, dell’Arli, dell’Udi, oltre a tutte le varie associazioni sportive italiane che nasceranno a partire dalla metà degli anni Cinquanta. 97   «Il 3 luglio 1962 si riuniva la Commissione di Organizzazione [...]. La commissione concordava su un giudizio positivo del lavoro realizzato che si concordava nella costituzione o riconoscimento di 9 Regionali su 12 indicati dal precedente piano, mentre per gli altri sono già stati presi accordi per realizzarli quanto prima»: Relazione della Commissione di Organizzazione, 3 luglio 1962. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11.

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sitati negli ospedali! Quante occupazioni, alloggi trovati, problemi di vario genere affrontati, quante cose, tutte superiori alle nostre forze, sicuramente ai nostri mezzi, affrontate coraggiosamente, e quante di esse felicemente realizzate! [...] Il conto non l’abbiamo tenuto in tanti!

Il conto l’hanno tenuto e lo tengono i lavoratori italiani che hanno circondato con affetto le COLONIE LIBERE ITALIANE. Il conto lo tengono i lavoratori emigrati di ogni parte d’Italia i quali, superando l’individualità, versano la loro fiducia a sostegno e ulteriore sviluppo dell’unione nazionale delle CLI e cioè della FEDERAZIONE DELLE COLONIE LIBERE ITALIANE98.

Nella premessa riscontriamo due elementi significativi. Per la prima volta viene espresso un richiamo alla provenienza degli emigranti italiani (in tutto il materiale propagandistico dei primi decenni di attività, l’emigrazione viene sempre descritta in maniera generica); e, ancora, a distanza di oltre un ventennio ritroviamo il presupposto ideologico, l’antifascismo, dal quale nacquero le prime CLI e poi successivamente la Federazione. È interessante inoltre notare come l’impostazione comunicativa si fondi su quattro domande, nelle cui risposte la Federazione effettua una sintesi per punti delle attività poste in essere a tutela dell’emigrazione italiana in Svizzera e dei mezzi attraverso i quali intende raggiungere i propri scopi. Cosa è la Colonia Libera Italiana? È un’associazione democratica e indipendente. LIBERA, nel senso più assoluto della parola. Il suo programma di attività è presentato, discusso, approvato e realizzato dai lavoratori emigrati italiani, attraverso i suoi consessi democratici, senza alcun intervento o pressione dall’esterno99.

Nella descrizione di cosa sia una CLI notiamo immediatamente il richiamo alla parola «libera», del cui significato abbiamo già ampiamente discusso, ma soprattutto se ne sottolinea la totale autonomia ed indipendenza come a voler rimarcare il fatto che si tratti di un’associazione apolitica ed apartitica. Questa vicenda costituisce una costante per tutta la storia delle CLI: a più riprese, e più volte, la dirigenza della Federazione avverte l’esigenza di dover rimarcare la propria estraneità ai partiti della sinistra italiana. 98   FCLIS, Perché i lavoratori emigrati aderiscono alle Colonie Libere Italiane, 1964. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 99   Ivi, p. 2.

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Nostro scopo fondamentale è la difesa degli interessi della emigrazione italiana. Tale difesa può essere efficace solo se si verificano due condizioni: 1) buoni rapporti col Paese che ci ospita e dove dobbiamo esplicare la nostra azione; 2) completa indipendenza dai partiti politici. Dato che in questi ultimi tempi, come abbiamo già rilevato dal rapporto della segreteria, si moltiplicano le voci sulla dipendenza dai partiti politici delle Colonie Libere Italiane; dato che molti soci chiedono delle garanzie sulla indipendenza della nostra organizzazione; dato che l’indipendenza è necessaria per esercitare l’isolamento delle CLI e per difendere più efficacemente l’emigrato italiano. Riteniamo necessario che il congresso prenda delle misure e delle iniziative per garantire davanti a tutti quelli che dubitano dell’apartiticità delle CLI o della sua indipendenza100.

Ricordiamo che le espulsioni per «attività comunista» sono molto ricorrenti in questi anni. Come ricorrenti saranno, almeno durante tutti i congressi degli anni Cinquanta, le prese di posizione pubbliche, volte a rimarcare l’indipendenza dell’organizzazione. Da lungo tempo è in corso una campagna diffamatoria nei confronti delle CLI. Si è diffusa la voce che le CLI non sono più libere, ma dirette da un partito politico. Le Colonie sono state messe in una luce cattiva rendendo sempre più difficile l’accostamento dei nostri connazionali, diminuendo il prestigio della nostra organizzazione sia di fronte alle autorità svizzere sia di fronte a quelle italiane ed infine rendendo più difficile la nostra lotta per le rivendicazioni a tutto danno per l’emigrato italiano. [...] Dobbiamo dimostrare la nostra autonomia ed indipendenza101.

È utile soffermarci sulle quattro domande dell’opuscolo. La risposta alla seconda, «cosa vuole la Colonia Libera Italiana?», sottolinea l’aspirazione di fondo dell’azione dell’associazione stessa: «Il suo programma permanente è la tutela degli interesse generali dell’emigrazione italiana e l’appoggio alle sue aspirazioni»102. 100   Mozione per l’apartiticità delle CLI, votata all’unanimità durante il XII Congresso federale, San Gallo, 30 gennaio 1955. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 101   Relazione di Medri, XIII Congresso federale, Grenchen, 29 gennaio 1956. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. Rileggendo le posizioni e le dichiarazioni durante il congresso, si nota come siano fortemente presenti le contrapposizioni tra l’ala oltranzista e quella marcatamente più liberal-socialista. 102  FCLIS, Perché i lavoratori emigrati aderiscono alle Colonie Libere Italiane, cit., p. 1.

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E cosa ha realizzato la Colonia Libera Italiana? 1° Parità di diritti con i cittadini svizzeri nel campo delle Assicurazioni sociali. È stata la Colonia Libera Italiana che per prima ha puntato il dito su una grave ingiustizia cui era soggetta la nostra emigrazione. Il lavoratore emigrato italiano pagava il 2% per l’Assicurazione Vecchiaia e Superstiti, e ne era completamente escluso dai benefici. L’azione costante della Federazione delle CLI ha costretto chi di dovere a rivedere questa situazione. Oggi gli operai emigrati italiani sono ammessi ai benefici dell’AVS a pari diritti con i cittadini svizzeri. [...] 2° Campagna per il passaporto gratuito. È stata la Colonia Libera Italiana che ha denunciato per prima l’ingiustizia della tassa governativa sul passaporto, lanciando il famoso slogan: «L’emigrazione più povera paga il passaporto più caro d’Europa!». Fu attraverso una lotta senza tregua, con interventi in tutti i settori della vita politica italiana, che la Federazione delle CLI ha costretto parlamento e governo italiano a rivedere anche questa situazione. Oggi gli operai emigrati italiani, hanno passaporto gratuito, valevole 3 anni! [...] 3° Viaggi a riduzione. È stata la Colonia Libera Italiana che ha avanzato per prima questa rivendicazione, attraverso la petizione lanciata dalla Federazione delle CLI nel 1961, nella quale si chiedeva anche la parificazione dei diritti dei lavoratori italiani in Patria. Oggi gli operai emigrati italiani usufruiscono di un viaggio annuale con riduzione del 50% sul territorio nazionale. [...] 4° Revisione della Convenzione italo-svizzera. È stata la Colonia Libera Italiana che ha condotto una intensa lotta, affinché i diritti conquistati dai lavoratori italiani in Patria siano estesi anche ai lavoratori emigrati. Oggi gli operai emigrati italiani usufruiscono, fra l’altro, degli assegni famigliari in quasi tutti i cantoni della Confederazione103.

Questi sono, in sintesi, i frutti ottenuti dall’attività di rivendicazione e tutela dell’emigrazione, nel lasso di tempo in esame. Come abbiamo già visto, molti di questi risultati sono stati oggetto della lunga fase di rinegoziazione dell’accordo del 1948, che sancirà l’entrata in vigore, nel 1965, del nuovo trattato firmato tra Italia e Svizzera l’anno precedente. Se è vero che queste sono le principali conquiste ottenute dalla manodopera italiana in Svizzera, grazie all’intervento e alle pressioni esercitati dalla FCLIS, è anche vero che, contestualmente, con l’entrata in vigore del nuovo accordo e con la sempre crescente presenza 103

  Ivi, pp. 2-3.

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italiana in Svizzera, gli obiettivi che la Federazione si prefiggerà aumenteranno e saranno anche più ambiziosi. Cosa rimane ancora da realizzare per la nostra emigrazione? 1° L’immediata entrata in vigore della nuova Convenzione italo-svizzera. Sebbene già approvata dai due parlamenti, la nuova Convenzione non è ancora divenuta di pratica attuazione. La Colonia Libera Italiana insiste presso le nostre Autorità, affinché non venga perso altro tempo, e i nostri connazionali emigrati possano finalmente godere di quei vantaggi che la nuova Convenzione prevede. [...] 2° Il ricongiungimento del nucleo famigliare. È ingiusto, e inumano, che l’emigrante sia costretto a vivere separato dai suoi cari. Assistiamo quotidianamente all’allontanamento perfino di bambini ancora in tenera età, i cui genitori lavorano in Svizzera. La Colonia Libera Italiana chiede che il limite di 3 anni di permanenza in Svizzera per aver diritto al ricongiungimento della moglie, o del marito, o dei figli, venga soppresso. [...] 3° L’assistenza medico-farmaceutico-ospedaliera ai famigliari rimasti in Patria. Anche gli operai italiani hanno diritto che i loro famigliari in Italia siano assistiti nella misura come i famigliari dei lavoratori in Patria. La Colonia Libera Italiana continua a sostenere questa rivendicazione finché non sarà realizzata. [...] 4° Trasporto delle salme dei nostri connazionali in Italia. Sempre si deve ricorrere a sottoscrizioni e collette per permettere il trasporto di nostri connazionali periti in terra svizzera. Lo Stato italiano si rende garante dei capitali delle ditte esportatrici italiane. Ma anche il lavoratore italiano ha diritto a queste garanzie. La Colonia Libera Italiana chiede che il trasporto delle salme dei nostri connazionali sia a carico dello Stato italiano. [...] 5° I diritti democratici dei lavoratori emigrati italiani. Anche all’operaio emigrato deve essere riconosciuta la libertà di pensiero, di parola, di riunione. La Colonia Libera Italiana ha sempre svolto, con alto senso di responsabilità, un’azione chiarificatrice, dignitosa, oggettiva e leale, sui doveri e sui diritti dei nostri emigrati. Chiede però anche che ai nostri connazionali venga riconosciuto il diritto di interessarsi e partecipare attivamente alla vita politica-economica-sociale italiana, nel massimo rispetto delle leggi del Paese ospitante, ma senza parzialità e discriminazione di sorta. [...] 6° Nuova regolamentazione dello «stagionale». Questa categoria lavora praticamente tutto l’anno. Non usufruisce però delle stesse condizioni favorevoli degli altri emigrati annuali. La Colonia Libera Italiana chiede che anche la categoria degli stagionali sia considerata alla stessa stregua degli emigrati annuali. [...] 7° La visita medica di confine. Il lavoratore emigrato è soggetto alla visita medica obbligatoria alla sua entrata in Svizzera. Al suo ritorno in ­­­­­144

Italia, più nessuno si preoccupa delle sue condizioni di salute. La Colonia Libera Italiana chiede che al suo rimpatrio l’emigrante possa sincerarsi del suo stato di salute e assistito in caso di contrazione di malattia in territorio svizzero. [...] 8° Maggiore assistenza all’emigrante rimpatriato. L’emigrante che rimpatria, viene spesso considerato un privilegiato che ha migliorato le sue condizioni economiche e quindi escluso da alcuni benefici che la legislazione italiana accorda ai lavoratori in Patria. La Colonia Libera Italiana chiede che all’atto del suo rientro, l’emigrante sia considerato alla pari con gli altri lavoratori e gli venga concesso, fra l’altro, il sussidio in caso di disoccupazione104.

Si ritiene che, al di là di ogni possibile sintesi, questo sia il modo più chiaro ed immediato per rilevare, da un lato, le difficoltà che incontravano ed incontreranno gli emigranti italiani in Svizzera – grosso modo fino alla fine degli anni Settanta – e dall’altro, specularmente, le battaglie che porterà avanti la Federazione. Inoltre è interessante sottolineare come le questioni e le rivendicazioni siano bidirezionali: di fatto l’organizzazione delle CLI si trova, e si ritroverà sempre, a dover mediare e rivendicare i diritti della manodopera italiana in Svizzera, sia nei confronti della Confederazione che dell’Italia. Infine, le CLI avanzano altre richieste di carattere pratico-organizzativo, che le vedranno soprattutto impegnate, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, ad assicurare: Due viaggi annuali, completamente gratuiti, sul percorso nazionale, a tutti gli emigrati italiani [...]; alloggi decenti, a prezzi sopportabili per i nostri operai [...]; maggiore assistenza ai bisognosi, ai vecchi, agli ammalati da parte delle nostre autorità [...]; per i bambini degli emigranti: asili e nidi d’infanzia, scuole italiane, colonie marine e montane, [...] stanziamento di fondi in favore del perfezionamento professionale, dell’insegnamento delle lingue e delle manifestazioni culturali in favore dell’emigrazione italiana105.

In conclusione, la Federazione non si limita solo ad avanzare richieste, ma indica, in maniera provocatoria e diretta, i mezzi con i quali realizzare un simile programma di attività.

104   FCLIS, Perché i lavoratori emigrati aderiscono alle Colonie Libere Italiane, cit., pp. 4-5. 105  Ivi, p. 6.

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Certuni amano presentarci come demagoghi, con programmi utopistici. Rispondiamo che i fondi per la realizzazione del programma delle CLI esistono, e sono costituiti dagli utili provenienti dalle rimesse dei lavoratori emigrati italiani che rappresentano una componente fondamentale dell’economia italiana [...]. Per soddisfare le aspirazioni dei lavoratori emigrati italiani, è necessaria una nuova politica delle rimesse. Chiediamo che una parte di questi utili venga messa a disposizione dell’emigrazione106.

Abbiamo già accennato all’enorme peso e alla consistenza delle rimesse, ora vediamo nel dettaglio la loro quantificazione, tra il 1945 e il 1960 (tab. 20). Dall’analisi delle ingenti quantità di rimesse107 – maturate in un contesto migratorio, quello dell’Europa del secondo dopoguerra, che si caratterizzò per l’alto tasso di «stagionalità» e «rotazione» della manodopera italiana108 – possiamo ricavarne alcune ricadute – di tipo macro e microeconomico – sull’intero sistema economico italiano. La prima consiste nell’ingente quantità di capitali, che agirono quale elemento esterno della ripresa economica interna, insieme ad altri interventi, ed alimentarono in questo modo un processo di ammodernamento economico, condizionato però sia da un tasso di disoccupazione molto alto che da basi salariali esigue109. La seconda conseguenza, come abbiamo già visto, basandosi su un uso anarchico del risparmio110, determinava la mancata democrazia rurale111 nelle aree di provenienza degli emigrati, specie nel Meridione. Gli italiani

  Ivi, p. 7.   Questo è il flusso delle rimesse transitato attraverso i canali ufficiali (Ufficio italiano dei cambi). Riteniamo che l’ammontare complessivo delle rimesse, nello stesso arco di tempo, possa essere molto più consistente, tenuto conto che molti di questi capitali transitavano «illegalmente». Essi venivano, soprattutto per quanto attiene all’emigrazione italiana in Svizzera, ma più in generale in Europa, introdotti in Italia dagli stessi emigrati. 108   Cfr. tabb. 7-8. 109   Per quanto attiene agli altri interventi di natura esterna, il più significativo risulta essere il Piano Marshall. Per un ulteriore approfondimento sulle ricadute del sistema delle rimesse e degli interventi esterni, si veda F. De Felice, L’Italia repubblicana. Nazione e sviluppo. Nazione e crisi, Einaudi, Torino, 2003, pp. 49-69; C. Pinto, Il riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speranze, realtà (1945-1964), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 65-77. 110   Per quanto riguarda la teoria dell’uso anarchico del risparmio, si veda W.R. Bönhing, op. cit., pp. 269-300; teoria ripresa da L. Favero, G. Rosoli, I lavoratori emarginati, cit., p. 160. 111  Per l’impatto degli investimenti delle rimesse nelle aree di provenienza, si ve106 107

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Tab. 20. Ammontare delle rimesse (1945-1960)1 1945

57.327.130

1953

118.842.000

1946

45.309.620

1954

114.073.000

1947

32.247.476

1955

124.692.000

1948

70.395.465

1956

154.498.000

1949

90.779.072

1957

187.312.000

1950

72.227.675

1958

267.631.000

1951

69.524.235

1959

246.414.000

1952

102.019.000

1960

539.829.673

288.482.000 1.501.944.000

Tot. 2.041.773.6732

1 Corrispettivo in milioni di dollari americani.  2 Totale, nei canali controllati, lire italiane 1.276 miliardi. Fonte: dati Ufficio italiano dei cambi, in FCLIS, Perché i lavoratori emigrati aderiscono alle Colonie Libere Italiane, cit., p. 7. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18.

all’estero tendevano ad avere uno stile di vita estremamente parsimonioso, volto alla possibilità di acquistare un terreno edificabile, costruirsi una casa e più in generale comperare terreni da coltivare112. Riepilogando, a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e per tutti gli anni Sessanta, il massiccio afflusso di emigranti meridionali in Svizzera – generalmente con bassa formazione sia scolastica che professionale – indirizzò la FCLIS verso la predisposizione di un ampio programma di istruzione e formazione professionale, con l’intento di migliorare le condizioni lavorative dei nuovi arrivati. Cari connazionali, già da diversi anni abbiamo istituito dei corsi di qualificazione professionali di lingua francese, tedesca e italiana per i nostri connazionali emigrati nella Confederazione Svizzera. Desideriamo ora allargare questa nostra attività e al fine di completare da G. Massullo, Economia delle rimesse, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Partenze, cit., pp. 179-183. 112   Sull’uso dei risparmi, si veda U. Apitzch, Esperienze e differenze sociali in tre generazioni di migranti italiani: conseguenza della creazione di uno spazio transnazionale tra l’Italia e la Germania, in F. Crachedi, E. Pugliese (a cura di), Andare, restare, tornare, cit., p. 100; G. Frijio, I primi veri cittadini europei. Un calabrese emigrato in Germania tra speranze e delusioni, lavoro e politica, Laruffa, Reggio Calabria, 2008, pp. 140-142.

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i quadri insegnanti ci rivolgiamo a quelli tra voi che disposti a sacrificare una o due sere per settimana intendono dare lezioni nelle nostre scuole serali già esistenti o in corso di attuazione. I corsi inizieranno ai primi di ottobre, avranno la durata di sei mesi, saranno retribuiti. Coloro che intendono collaborare con noi per aumentare il livello culturale e professionale dei nostri connazionali si indirizzino a [...]. Per voi una serata o due sottratte al vostro tempo libero possono essere molto, ma oltre a fare una esperienza forse fondamentale, come può essere l’insegnante a uomini della vostra età che l’organizzazione sociale ha meno favorito, porterete un contributo insostituibile al miglioramento qualitativo della nostra comunità. Noi non ci proponiamo limiti al nostro programma né poniamo ipoteche politiche. Saranno le vostre adesioni a permetterci di allargare i limiti attuali del nostro programma culturale, a permetterci di lavorare assieme a noi in modo più razionale e di avere un rendimento proporzionato alle esigenze sempre crescenti dell’emigrazione113.

Negli anni Sessanta, negli ambienti della Federazione e nella comunità italiana in Svizzera, le distanze e le diverse velocità del Paese si accorciano. In questa fase si riducono le differenze economiche, culturali e, soprattutto, si attenua la quasi totale assenza di formazione professionale da parte degli emigrati meridionali. L’unità italiana, sia culturale che sociale, trova un momento di concretezza negli atti di solidarietà nazionale che si manifestano in terra elvetica. Così Leonardo Zanier ricorda le differenze – nel primo ventennio del secondo dopoguerra – tra vecchia e nuova emigrazione: Si trattava essenzialmente di operai qualificati, spesso anche connotati politicamente: molti di essi, per esempio, avevano occupato le Reggiane per la riconversione dal militare al civile. Lo stesso vale per l’Ansaldo e per alcuni cantieri della Marina Militare. Va sottolineato che era un progetto a breve: sia per gli italiani, che pensavano di fare un po’ di soldi e poi tornare; sia per gli svizzeri, che puntavano a realizzare le grandi infrastrutture del paese e poi a rimandare indietro la manodopera. [...] Lombardi, veneti, emiliani, friulani rientrarono in massa in Italia: per la Svizzera fu una grande perdita, anche umana114. 113   Lettera della Commissione culturale delle FCLIS «Ai tecnici, agli insegnanti e agli studenti italiani in Svizzera», Zurigo, giugno 1963. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11. 114  Intervista a L. Zanier in Inca-Cgil, 50 anni vero il futuro, in «Rassegna Sindacale», n. 31, 2007, p. 4.

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Con l’arrivo massiccio dei meridionali la situazione cambia profondamente, perché non si tratta più di operai qualificati, ma di contadini con bassissima scolarizzazione. A questo punto successe una cosa importantissima: furono gli operai del Nord rimasti in Svizzera a costruire momenti di formazione per queste persone. Io stesso cominciai a lavorare in questo senso nel ’64, diventando responsabile culturale della Federazione delle Colonie Libere. Nacquero così i primi rapporti con la Cgil e con l’Inca. [Le battaglie più importanti furono] sicuramente lo sforzo per l’alfabetizzazione di centinaia di migliaia di persone e anche il grande lavoro sulla scuola: molti emigrati volevano scuole italiane, e la grande battaglia fu quella di lavorare per l’integrazione dei figli nelle scuole svizzere. Poi c’è il capitolo della formazione professionale: conoscere i mestieri, certo, ma anche capire il mondo nuovo in cui si lavora e imparare a stare dentro processi produttivi assai evoluti rispetto a quelli che, dalla terra d’origine, si portavano nella propria memoria115.

Infine, abbiamo già accennato a come, nel periodo dell’immediato dopoguerra, sia stata viva la competizione tra gli apparati assistenziali ecclesiastici (Mci) e la Federazione delle Colonie Libere, mossi dall’intento di avvicinare a sé il maggior numero di emigrati italiani. Don Giacomo M., missionario presso la Chiesa cattolica di Winterthur, ha iniziato da parecchio tempo una campagna denigratoria verso la nostra organizzazione. Questo signore ha affermato a dei dirigenti della Colonia di Glattfelden che la Federazione [...] devolve somme di denaro ad un partito di estrema sinistra in Italia, e altre calunnie di questo genere. [...] Teniamo a precisare per l’ennesima volta che la nostra Federazione e le CLI sono assolutamente indipendenti dai partiti politici116.

Tale competizione continua, incessantemente, soprattutto in questa nuova fase di rinascita della sindacalizzazione, che vede, da un lato, il protagonismo delle Acli, le quali in collaborazione con le Mci – facilitate dall’accordo siglato nel 1961 tra le autorità, l’U-

  Ibid.   Lettera a firma di Broggi e Medri, rispettivamente segretario e presidente della FCLIS, indirizzata all’ambasciata d’Italia a Berna, Zurigo, 1° novembre 1960. SZZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza con Ambasciata - Ar 40.20.5. 115 116

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fiaml e il KAB117 – creano il Goi118; e, dall’altro, quello della FCLIS, in strettissima collaborazione con l’Inca-Cgil con la quale nel 1959 viene siglato il primo accordo di collaborazione119. Quest’ultima intesa, specie in questa fase, contribuisce ad accrescere le distanze e i dissidi tra la FCLIS e l’Unione sindacale svizzera (Uss). 7. La lenta e difficile sindacalizzazione «Le Colonie Libere esercitano sulla formazione dell’opinione degli emigranti un’influenza che non va sottovalutata»120: questa era la percezione di parte della stampa elvetica all’indomani del XXI Congresso federale delle CLI, tenutosi a Losanna nel marzo del 1965. Sono passati appena pochi giorni dall’entrata in vigore del nuovo accordo di reclutamento sottoscritto da Italia e Svizzera e l’attenzione verso l’organizzazione, ormai giunta al suo secondo decennio di vita, si fa sempre più stringente. In questa fase, la FCLIS metterà in atto, dopo aver già sperimentato e affinato i propri rapporti di collaborazione con la Cgil, la sua strategia di sindacalizzazione dei lavoratori italiani in Svizzera. Stiamo pubblicando una guida pratica ad uso dei lavoratori italiani emigrati in Svizzera [...]. Vorremmo poter informare i nostri emigranti dei loro diritti in maniera la più dettagliata possibile. [...] Gli accordi di emigrazione e quelli di assicurazione sociale hanno il difetto, a nostro avviso, di essere troppo generici per il singolo lavoratore. [...] Noi troviamo   Katholische Arbeiterbewegung (Movimento cattolico svizzero dei lavoratori).   Nel 1959 nasce il Goi (Gruppo operai italiani) che adotta lo statuto delle Acli con modifiche minime, pur salvaguardandone la sostanza, per renderlo accettabile alle autorità elvetiche. Il successo associativo è tale da contare subito 800 soci. Inoltre, a partire dal febbraio 1960, diviene operante a Winterthur il primo ufficio di patronato Acli in Svizzera. Un anno dopo, nel 1961, nascono ufficialmente le Acli svizzere e si aprono i primi circoli; nel 1962 si costituisce il primo segretariato organizzativo delle Acli nella Confederazione; nel 1963 inizia ad operare l’Enaip (Ente di formazione professionale), mentre il patronato, con la collaborazione di enti e istituzioni locali, apre i suoi uffici in tutta la Svizzera (Aarau, Basilea, Berna, Bodio, Ginevra e Lugano). Si veda Acli svizzere, Le Acli nella Confederazione Elvetica, in «Il dialogo», a. XX, n. 2, aprile 2008, p. 10. 119   Il primo accordo, quello del 1959, viene siglato tra la Colonia di Zurigo e l’Inca: accordo Inca-CLI Zurigo. SSZ, f. FCLIS, bb. Organizzazioni affini italiane - Ar 40.20.15; Zurigo - Ar 40.10.20. 120  «Neue Züricher Zeitung», 23 marzo 1965. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 117

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infatti che il lavoratore non può essere sufficientemente soddisfatto dal sapere che è protetto da una legislazione sociale alla pari dei lavoratori svizzeri, ma chiede anche di conoscere i particolari del suo diritto. [...] Chi stipula gli accordi di emigrazione non si preoccupa di diffondere fra gli interessati le notizie di dettaglio sui loro diritti, ma si limita a fissare i principi dei diritti stessi, spettando agli enti di assistenza sociale e di patronato in genere la popolarizzazione capillare di essi. [...] Ora, come dicevamo, nessuno si preoccupa dell’aspetto «pratico» del problema e, d’altra parte, non per nulla esistono gli Enti o le associazioni come le nostre per adempiere a questo compito. [...] Vi chiediamo di inviarci qualche manuale in italiano o in francese121.

La collaborazione tra le due organizzazioni è già intensa agli inizi degli anni Cinquanta, e progressivamente andrà saldandosi sempre più, tanto da fare divenire la Cgil l’interlocutrice privilegiata della FCLIS122. Quest’ultima, si servirà del peso del primo sindacato italiano per farne strumento di mediazione ed interlocuzione, diretta ed indiretta, con le forze politiche d’opposizione parlamentare in Italia. La giunta federale delle Colonie Libere Italiane in Svizzera [...] mi ha incaricato di far presente e sottolineare, quanto sia stata apprezzata dalla nostra Organizzazione e dall’Emigrazione Italiana, l’iniziativa presa dalla Cgil di presentare un disegno di Legge che contempla ed integra le più impellenti rivendicazioni dell’Emigrazione nel campo Sociale e Previdenziale. Inoltre ho l’incarico di far presente che in occasione della venuta a Roma della nostra delegazione, in un incontro avuto cogli on.li Novella e Foa, fu assicurato che la su detta Legge proposta sarebbe stata posta in discussione in Parlamento al più presto. [...] Siamo coscienti degli avvenimenti succedutisi da allora in campo nazionale e internazionale [...] però l’emigrazione italiana attende con trepidazione la soluzione di quei problemi da noi esposti a Roma e integrati nel Vostro progetto di legge123.

121   Lettera del Servizio assistenza lavoratori italiani all’estero della Cgil indirizzata alla FCLIS, Roma, 30 giugno 1953. SSZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7. 122   Già durante il XV Congresso federale delle CLI verrà avanzata la proposta di costituire un «Sindacato dei lavoratori italiani all’estero», Neuchâtel, 9 marzo 1958. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 123  Lettera FCLIS (Medri) a Cgil, Zurigo, 9 giugno 1960. SSZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7.

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Specularmente, la Cgil si servirà delle pressioni delle CLI – e quindi dell’associazionismo in emigrazione – per sensibilizzare ed influenzare il Parlamento italiano sui provvedimenti in materia di tutela del lavoro degli emigrati. Effettivamente in occasione della venuta a Roma della delegazione della FCLIS gli on.li Novella e Foa presero l’impegno di sollecitare l’attribuzione della proposta di legge alla Commissione Lavoro della Camera dei deputati. [...] Ma, a quanto ci risulta, la Commissione Lavoro, benché sollecitata, non ha ancora preso in esame la proposta di legge 1813. Ora, secondo il nostro punto di vista, il problema di far camminare la proposta di legge va visto in relazione alla pressione che la nostra organizzazione in Svizzera saprà esercitare sul Parlamento italiano. La FCLIS ha avuto il grande merito di puntualizzare le rivendicazioni e di farle conoscere alla nostra emigrazione e alle organizzazioni italiane. A nostro parere si impone ora da parte della FCLIS una iniziativa che convogli le aspirazioni dell’emigrazione e le faccia conoscere, in modo organizzato, al Parlamento italiano. [...] Esperienze fatte in altri campi ci dimostrano che una petizione capace di raccogliere migliaia e migliaia di firme fra i nostri emigrati potrebbe dimostrarsi un mezzo idoneo allo scopo124.

Il tema in questione è la riproposizione da parte dei parlamentari Novella, Foa, Santi ed altri, nel 1959125, della proposta di legge n. 1393 del 1954 a firma Di Vittorio in merito all’«integrazione delle varie forme di previdenza sociale per i lavoratori emigrati all’estero e per le loro famiglie»126. In altri termini, l’iniziativa riguarda le pensioni d’invalidità, di anzianità e tutte quelle misure di tutela in caso di malattia, sia per i lavoratori all’estero che per i loro familiari rimasti in Italia. Nonostante l’iter parlamentare sarà lungo e farraginoso – per questioni di equilibri politici interni e perché arriva in Parlamento contestualmente alle fase di rinegoziazione dell’accordo del 1948 tra Italia e Svizzera – la FCLIS mobilita al massimo la propria struttura organizzativa. Sollecitata, come abbiamo visto, dalla Cgil, la Federazione riesce a dare prova della sua capacità di penetrazione tra i lavoratori italiani presenti in Svizzera. 124   Lettera Cgil in risposta alla precedente, Roma, 26 luglio 1960. SSZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7. 125   Proposta di legge n. 1813 dell’11 dicembre 1959, in Camera dei Deputati, Atti parlamentari. III legislatura – documenti – disegni di legge e relazioni. 126  Per il discorso di annuncio alla Camera di Giuseppe Di Vittorio, si veda G. Di Vittorio, Le strade del Lavoro. Scritti sulle migrazioni, cit., p. 179.

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Il ritardo con cui rispondiamo alla vostra ultima è dovuto, come voi comprenderete, alle vicende determinate dalle vacanze del Parlamento per le feste di fine d’anno, per il Congresso della Democrazia cristiana e della eventuale crisi di Governo. Circa il vostro quesito contenuto nella sopracitata, la nostra organizzazione è dell’opinione che la petizione da voi promossa, e che tanto successo ha ottenuto fra i lavoratori italiani emigrati in Svizzera, debba essere consegnata al Parlamento da una vostra delegazione. Ciò, oltre a rendere più impegnativo l’atto, vi permetterebbe di avere fruttiferi colloqui con varie personalità politiche127.

Nonostante gli sforzi prodotti, però, la questione, per le cause cui abbiamo accennato, subì un rallentamento. Parte delle richieste furono riproposte e trattate dai due governi in fase di rinegoziazione, mentre il quesito relativo all’assistenza sanitaria dei familiari rimasti in Italia fu ripresentato con forza nel 1966, sempre attraverso una petizione che in poche settimane raccolse 71.000 firme e che portò ad una nuova proposta di legge, la n. 510 dell’11 ottobre 1968128. Ragioni e motivi della nostra petizione. [...] I lavoratori italiani emigrati in Svizzera, attraverso le Colonie Libere, sono costretti a fare questa nuova azione verso il Governo italiano per riproporre con la forza dovuta l’esigenza, sentita come improrogabile, di dare una rapida soluzione all’annoso problema della assistenza sanitaria ai familiari rimasti in Patria. [...] Il problema si trascina ormai da anni. Sono passati oltre sei anni dalla prima azione svolta dall’emigrazione con la raccolta di 56.000 firme in calce ad una petizione129.

127   Lettera Cgil a FCLIS, Roma, 29 gennaio 1962. SSZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7. 128   Proposta di legge «Norme per l’assistenza sanitaria ai familiari residenti in Italia degli emigrati italiani in Svizzera e ai lavoratori frontalieri» a firma dei deputati Lizzero, Pigni, Pezzione, Alini, Corighi, Minasi, Bortot, Mazzola, Maschiella. La proposta fu ampiamente discussa nelle CLI: «vi inviamo copia del testo della proposta di legge [...] è importante che nell’ambito delle vostre assemblee la questione venga discussa ampiamente e che risoluzioni ed ordini del giorno vengano indirizzati al Sottosegretario all’emigrazione on. Pertini, ai Presidenti della Commissione Lavoro dei due rami del Parlamento, alle Centrali sindacali, alle segreterie dei Partiti», Circolare alle sezioni, Zurigo, 18 gennaio 1969. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2. 129  Petizione sull’assistenza sociale e sanitaria (s.d., ma 1968). SSZ, f. FCLIS, b. Governo e parlamento italiano - Ar 40.20.6.

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L’intensa e contigua attività di collaborazione, tra la FCLIS e la Cgil si fondava, sostanzialmente, su una strategia univoca: sono convinto che questo successo ha rafforzato e rafforzerà sempre di più l’influenza e il prestigio delle Federazioni delle CLI e dei suoi dirigenti, tra i lavoratori italiani emigrati, verso le autorità italiane e svizzere e soprattutto verso le organizzazioni sindacali dei due paesi. [...] Soprattutto, penso rafforzerà i legami e la collaborazione fra le nostre due organizzazioni, le Federazioni delle CLI e la Cgil130.

Se sul versante della politica italiana, la collaborazione fu già molto assidua agli inizi del anni Cinquanta, in Svizzera, con non poche difficoltà, il rapporto si strutturò ufficialmente, nel 1959, attraverso l’Inca. L’Istituto nazionale confederale di assistenza (che ha quale scopo quello di fornire gratuitamente a tutti gli emigranti e ai loro familiari in Italia, iscritti o non iscritti ai sindacati, una valida assistenza tecnica e medico-legale per il conseguimento delle prestazioni previdenziali) diviene, di fatto, la struttura patronale delle CLI in Svizzera. Il legame con l’Inca, e quindi con la Cgil, provoca tuttavia più di qualche difficoltà alla FCLIS e il percorso di strutturazione delle attività incontra una serie di ostacoli. Il sodalizio tra le due organizzazioni si salda in piena guerra fredda e, come vedremo, questo provoca non poche attenzioni da parte delle autorità federali. Quanto fosse teso il clima, e quale sia stato il modus operandi della polizia politica elvetica, abbiamo avuto modo di riscontrarlo già attraverso le espulsioni per «attività comunista». In questi anni gli attivisti, gli operatori, le sedi e gli uffici delle organizzazioni dell’emigrazione italiana sono tenuti costantemente sotto controllo da parte della polizia federale e di quella politica. La stessa sorte toccherà al patronato della Cgil. La prima sede ad essere fondata fu quella di Bellinzona, nel 1957, nella quale operava un solo addetto, Ruggero Pirovano131. Nonostante le difficoltà legate alla volontà di non politicizzazione e sindacalizzazione da parte delle autorità elvetiche, l’Inca riesce ad espandere la propria rete. Nel 1959 viene aperta la sede di Zurigo e successivamente, nel 1962,

130   Lettera di congratulazioni all’indomani della partecipazione della Cgil (on. Luigi Grassi) al XX Congresso federale delle CLI, tenutosi a Zurigo il 23-24 marzo 1963, da Roma, 8 aprile 1963. SSZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7. 131  Inca-Cgil, 50 anni verso il futuro, cit., p. 4.

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quella di Basilea. Se volessimo continuare nella ricerca delle sedi del patronato, noteremmo come la successiva verrà inaugurata solo dopo oltre dieci anni, a Losanna, nel 1975132. Cosa accadde dunque tra il 1962 e il 1975? Perché dovettero trascorrere tanti anni per l’apertura di una nuova sede? Eppure, in questo periodo, gli italiani che si rivolgono al patronato – per via diretta o indiretta, utilizzando come tramite le varie CLI sparse sul territorio elvetico – sono tanti. Come dimostra un’inchiesta giornalistica del 1969: OGNI QUATTRO GIORNI IN SVIZZERA MUORE UN ITALIANO! L’altro anno i lavoratori italiani vittime di gravi infortuni sul lavoro sono stati 1.329, i morti 94. Gli infortuni gravi registrati dal 1960 al 1969 salgono così a 12.686, mentre i morti a 1.112. [...] In media muore in Svizzere un italiano ogni 4 giorni, mentre quattro al giorno rimangono feriti gravemente. La maggior parte degli infortuni è dovuta alla non stretta osservanza delle norme di sicurezza da parte delle imprese133.

La domanda di assistenza patronale era dunque altissima, l’offerta invece veniva volutamente tenuta bassa o, meglio, «diversamente indirizzata». Ricordiamo l’apertura della Goi, ma soprattutto l’accordo siglato, nel 1961, tra l’Ufiaml e il KAB e la conseguente diffusione della rete delle Acli. Nonostante questo, l’Inca incontrava serissimi ostacoli per la sua azione in territorio elvetico nell’ambito dell’assistenza all’emigrazione. Le ragioni di simili difficoltà – come sempre, come già visto altre volte, durante l’arco della storia migratoria italiana in Svizzera – sono ascrivibili alla cosiddetta politica dei due forni, adottata dalle autorità elvetiche. Cioè, se da un lato si facilitava l’azione del patronato d’ispirazione cristiana, dall’altro si impediva la ramificazione di quello di sinistra. Nel dicembre del 1962, il ministero pubblico inviò un rapporto dettagliato sulle attività dell’Inca (redatto dalla polizia cantonale di Zurigo e dall’Ufiaml) al dipartimento federale Affari politici, invitando quest’ultimo a convocare d’urgenza una riunione riservata. L’8 gennaio dell’anno seguente, la riunione fu convocata con all’ordine del giorno il tema «Attività di sindacati italiani in Svizzera».

132   A seguire, nel 1986 la sede di Berna e nel 1990 quelle di Ginevra e Neuchâtel. Cfr. ibid. 133   «Settimanale Tempo» (s.d., ma dicembre 1969). SSZ, f. KZ, b. Rechtsfragen - Ar 48.60.5.

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All’incontro presero parte: il capo della polizia federale, Amstein; Pauli e Parzani, ispettori della polizia federale; Pedotti e Vieli per l’Ufiaml; Solari in rappresentanza della polizia federale degli stranieri; Wolf dell’Ufficio assicurazioni statali e Pierre Cuénoud del Dipartimento federale affari politici, il quale redigerà il verbale della seduta. Ad Amstein, che presiedeva la riunione, toccò il compito di inquadrare la questione: L’Inca è un’organizzazione di aiuto, di consiglio agli italiani del­ l’importantissimo sindacato italiano comunista e nennista Cgil. L’Inca ha aperto un ufficio a Zurigo diretto da un residente svizzero, Bernhard Weck, avvocato. Egli è retribuito con 2.000 franchi al mese dal sindacato italiano in questione per il lavoro di assistenza e di aiuto agli operai italiani in Svizzera. Weck è assistito da Golta, proveniente dal Ticino. [...] L’Inca ha intenzione di estendere la sua attività e di aprire altri uffici in Svizzera. Weck è conosciuto per le sue opinioni di estrema sinistra: è membro del Partito socialista e del Pop. L’inchiesta della Polizia di Zurigo ha dimostrato che fino ad ora Weck e Golta non tentano di influenzare politicamente i lavoratori italiani, occupandosi con correttezza della difesa dei loro interessi; non si può dunque accusarli. [...] Tuttavia non è auspicabile l’attività in Svizzera di un sindacato italiano134.

Inoltre, il capo della polizia federale precisava che anche altri due sindacati italiani (social-democratico e socialista) avevano uffici d’assistenza in Svizzera, e che la legge non consentiva di vietarne l’apertura. Come abbia fatto l’Inca ad aggirare i dinieghi e gli ostacoli politici, lo spiegava durante la riunione Solari della polizia degli stranieri: «Due volte, l’Inca ha chiesto un’autorizzazione perché uno dei suoi funzionari potesse stabilirsi in Svizzera, le domande sono state sempre rifiutate. L’Inca ha quindi trovato il modo di aggirare l’ostacolo affidando il suo ufficio a un residente svizzero»135. Comunque tutti i partecipanti alla discussione – così si legge nel verbale – evidenziarono l’inopportunità di avere un sindacato italiano in Svizzera. Anche se su questo punto Amstein ammetteva che, 134   Notice sur l’activité des syndicats italiens en Suisse, Berne, 11 janvier 1963, pp. 2-3. Dds, DoDis, d. nr. 18578. 135  Ivi, p. 2.

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sia «sul piano federale che cantonale, non si ha nessun modo legale per impedire ad un residente svizzero o italiano, con il permesso di soggiorno, di rappresentare in Svizzera gli interessi dell’Inca»136. La faccenda diventava interessante. Nonostante i rappresentanti della polizia federale dichiarassero che «al momento, non ci sono agitazioni di tipo comunista tra i lavoratori italiani»137, i convenuti decisero: 1) di ritenere non auspicabile l’attività dell’Inca in Svizzera, né tantomeno quella degli altri sindacati; 2) che sul piano legale, risultava difficile intraprendere un’azione contro l’organizzazione; 3) che nessuna tra le amministrazioni rappresentate in questa riunione dovesse rispondere alle domande dei sindacati italiani con sede in Svizzera (Inca, Inas e Acli); 4) che l’Ufiaml dovesse prendere contatti con l’Uss, la quale, non vedendo di buon occhio l’attività dei sindacati italiani, sarebbe stata invitata a farsi carico attivamente dei lavoratori italiani (nonostante su questo punto ci fosse più di una perplessità); 5) che sempre l’Ufiaml, dovesse invitare con discrezione le associazioni sindacali e patronali dall’astenersi da ogni contatto con i sindacati italiani in Svizzera e dall’informare solo oralmente i loro membri; 6) visto che l’art. 17 del progetto di accordo relativo all’emigrazione con l’Italia faceva esplicito riferimento al sostegno da dare ai lavoratori italiani in Svizzera, ci si riservava di concordare una strategia comune con il governo italiano in fase di negoziazione; 7) che era opportuno informare il Consiglio federale sulla questione e che nel frattempo la polizia federale dovesse continuare con la sorveglianza dei sindacati italiani138. La sintesi di queste decisioni, se da un lato fa chiarezza sugli impedimenti e gli ostacoli ai quali dovette fare fronte l’Inca, dall’altro, lascia intendere una certa difficoltà di rapporti tra i sindacati dei due Paesi e la stessa FCLIS. In realtà l’Inca aggirò l’ostacolo siglando un «accordo di massima» con le CLI. Accordo che, in linea con quanto già sperimentato nel 1959 a Zurigo e nel 1962 a Basilea, determinò l’allocazione in pianta stabile di un proprio sportello presso le sedi territoriali delle Colonie. La strategia funzionò, tanto che nel 1978, in occasione del XX anniversario dell’Inca-Cgil in Svizzera, il patronato contava 4 uffici regionali (Zurigo, Basilea, Losanna e Bellinzona) con sedi pro  Ibid.   Ibid. 138  Ivi, pp. 2-3. 136 137

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prie e 61 sportelli d’assistenza (10 sedi proprie; 2 presso il Sindacato edili e legno; 1 presso l’Anfe; 48 presso le CLI)139. Per quanto attiene, invece, ai rapporti tra l’Inca-Cgil ed il sindacato elvetico, si assiste a una sostanziale reciproca diffidenza tra le due organizzazioni, anche se, e probabilmente perché consci della situazione, non mancano appelli da parte del sindacato italiano al suo corrispettivo svizzero. Questi si fanno pressanti, soprattutto in occasione delle ripetute espulsioni di emigrati per attività sindacale. In una missiva della Cgil all’Uss si afferma: A quanto sino ad ora risulta, la maggioranza dei lavoratori colpiti da provvedimenti di espulsione ricopriva incarichi di responsabilità sindacale nelle aziende ed era comunque attiva nei sindacati [questo] non può non avvalorare l’ipotesi che l’offensiva poliziesca in atto sia mossa da ragioni che vanno al di là di quelle ufficialmente dichiarate. Il fatto che si tratti di provvedimenti amministrativi, non avallati da alcuna decisione della magistratura assunta in contraddittorio, può forse essere un elemento di convalida di tali ipotesi. La Cgil ritiene quindi suo dovere rivolgersi a voi, in quanto l’organizzazione che tutela gli interessi di tutti i lavoratori presenti in Svizzera, ed alla quale danno la loro effettiva adesione decine di migliaia di lavoratori italiani di tutte le professioni, perché vengano intrapresi tutti i passi necessari affinché sia garantita a tutti indistintamente i lavoratori italiani in Svizzera la sicurezza del lavoro e la piena libertà di azione per la difesa dei loro interessi di lavoratori140.

Istradata dall’Ufiaml, come abbiamo visto, l’Uss mantiene un rapporto improntato a un certo distacco nei confronti della Cgil 139   Le dieci sedi proprie erano: Arbon, Wettingen, Wetzikon, Winterthur, Lucerna, Coira, Delémont, Solothurn, Balsthal e Neuchâtel. Quelle di San Gallo e Locarno erano ubicate presso il Sindacato edili e legno, mentre a Morges era presso lo sportello dell’Anfe. Le restanti 48 venivano ospitate presso le sedi territoriali delle CLI: Aarau, Affoltern, Brüttisellen, Buchs, Dielsdorf, Dietikon, Dübendorf, Effretikon, Embrach, Flawil, Glattfelden, Horgen, Horw, Langenthal, Pfäffikon, Rafz, Rorschach, Schlieren, Sciaffusa, Spreitenbach, Uzwil, Wädenswil, Winterthur, Zurigo, Gerlafingen, Grenchen, Derendingen, Mölin, Olten, Pratteln, La Chaux-de-Fonds, Aigle, Bex, Bienne, Fribourg, Ginevra, La-Locle, Martigny, Morges, Monthey, Yverdon, Renens, Vevey, Villeneuve, Biasca, Biasca e Valli, Lugano. Invito al XX anniversario del patronato Inca-Cgil in Svizzera, Zurigo, 15 settembre 1978. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazioni affini italiane - Ar 40.20.15. 140  Lettera Cgil all’Uss, Roma, 12 agosto 1963. SZZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7.

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e in generale nei confronti dei sindacati italiani, almeno fino alla metà degli anni Settanta. Sul versante organizzativo, l’Inca deve attendere che migliorino lentamente i rapporti con le istituzioni locali per poter raggiungere la propria autonomia ed indipendenza in Svizzera. Infatti riesce a darsi una vera e propria struttura associativa solo nel 1984, con la presidenza di Gianfranco Bresadola141. Probabilmente questo incarico non viene affidato a caso, in quanto Bresadola è stato quadro e successivamente presidente della stessa FCLIS negli anni Settanta: a testimonianza del forte legame tra le due organizzazioni, saldatosi durante i decenni di difficoltà incontrate. Per quanto attiene, invece, ai problemi intercorsi tra i dirigenti dell’Unione sindacale svizzera e la FCLIS, difficile è riepilogarne brevemente cause e contenuti, anche se, sostanzialmente, il tutto può essere sintetizzato nella diversa visione della sindacalizzazione. Dal versante elvetico, le contestazioni dell’Uss facevano riferimento soprattutto alla non legittimità degli interventi della FCLIS nel campo delle rivendicazioni sociali, le quali, come abbiamo a­ ppena visto, erano dovute, da un lato, alle indicazioni delle autorità federali e, dall’altro, comunque risentivano del clima generale che era venuto a determinarsi in Svizzera all’indirizzo dei lavoratori emigrati, specie all’indomani della crescente immigrazione meridionale. Per contro la FCLIS, nel desiderio di vedere rapidamente modificato lo status dell’emigrato italiano in Svizzera, cercava faticosamente la ricomposizione dell’unità del movimento operaio. Ricomposizione che, di conseguenza, appariva l’unica via percorribile per riuscire ad aumentare la propria forza complessiva di contrattazione. In questo caso, probabilmente, la FCLIS non teneva abbastanza in considerazione le peculiarità storiche del movimento sindacale elvetico, né il fatto che determinate sue «lentezze» fossero diretta conseguenza dell’accordo relativo alla pace sociale142. Nonostante tutto, anche se la polemica raggiunse toni veramente aspri, il confronto infine non fu controproducente. Di fatto la FCLIS non smise mai di attivarsi per un’opera di sindacalizzazione tra gli emigrati e se negli anni, soprattutto Settanta, si svilupparono collaborazioni   Cfr. Inca-Cgil, 50 anni verso il futuro, cit., p. 4.   Accordo firmato nel 1937 tra l’Asm ed il movimento operaio elvetico e straniero. Cfr. cap. precedente. 141 142

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tra le Colonie e le federazioni di categoria aderenti all’Uss143 e poi, successivamente, anche «leggere» forme di collaborazione con gli altri sindacati confederali italiani (Cisl e Uil)144, questo fu dovuto all’impostazione unitaria che, da sempre, è stato principio ispirante di tutte le sue attività. Inoltre, se l’unità è stata e resterà elemento cardine, nonché principio fondante al quale tutte le azioni della FCLIS si sono ispirate, l’attivismo ne rappresenta sicuramente l’applicazione reale, come ci ricorda Fernando Santi145, reduce dal XIX Congresso della FCLIS, tenutosi a Lucerna nel marzo 1962146, in un articolo apparso sul «Lavoro»147 qualche giorno dopo: Le Colonie sono libere associazioni di emigrati italiani ad orientamento democratico [...] e costituiscono un elemento di unione della nuova generazione operaria che vede in esse uno strumento per la tutela dei propri interessi generali. Non sono quindi un sindacato e tanto meno pretendono di sostituirsi ai sindacati. A questo proposito, nel mio intervento al congresso, sono stato molto esplicito. Ho precisato infatti che la tutela dei lavoratori   Ad esempio, nel 1973, verrà firmato un documento unitario per il miglioramento delle condizioni occupazionali nel settore edile, tra la FCLIS e la Fsel (Federazione svizzera degli edili e del legno); «Emigrazione Italiana», 18 aprile 1973. SSZ, f. FCLIS, b. Emigrazione italiana - Ar 40.60.4. 144  L’espressione «leggere» è utilizzata a riprova della priorità e preferenza accordata alla Cgil. Difatti, la corrispondenza e i documenti che attestano il rapporto tra la FCLIS, la Cisl e la Uil, sono molto esigui. Cfr. cart. 3-Cisl, corrispondenza e relazioni; cart. 4-Uil, corrispondenza e relazioni. SZZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7. 145  Fernando Santi, socialista fin da giovane, partecipò nel 1922 alle giornate di Parma, contro le spedizioni squadriste di Balbo. Rivestì varie cariche nazionali nel partito e nel sindacato. Nel 1944 riparò per breve tempo in Svizzera insieme ad altri socialisti e partecipò alla resistenza. Il 25 aprile era a Milano. Nel 1947 diventò, con Giulio Pastore e Giuseppe Di Vittorio, uno dei segretari generali della Cgil. Il 18 aprile 1948 verrà eletto deputato, carica nella quale si confermerà fino al 1968, quando, candidato al Senato, non fu eletto. Per la presenza di Santi in Svizzera, si veda E. Signori, La Svizzera e i fuoriusciti italiani, cit., pp. 166-169; per quanto attiene alle storia politica, si veda E. Macaluso, 50 anni nel Pci, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; C. Pinto, Il riformismo possibile, cit. 146   XIX Congresso Lucerna, 24-25 marzo 1962. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 147   «Il Lavoro», quotidiano genovese fondato nel 1903, è stato organo della federazione socialista ligure e ha avuto come direttore, tra gli altri, Sandro Pertini. Dopo alterne fortune è stato incorporato, il 22 settembre 1987, dal quotidiano nazionale «la Repubblica», cessando così di essere una testata autonoma e diventando il suo supplemento locale. 143

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emigrati si svolge su un triplice piano: quello delle autorità diplomatiche e consolari italiane secondo gli accordi, le convenzioni e le norme del diritto internazionale; quello delle Colonie Libere che svolgono una attività assistenziale generica, culturale, ricreativa [...] e tendono a mantenere unite le comunità italiane in Svizzera; infine, quello specifico sindacale che è compito dei Sindacati svizzeri. Non vi è quindi nulla di male che le Colonie Libere si rendano comunque interpreti delle esigenze dei lavoratori emigrati e intervengano perché siano considerate ed accolte da chi di dovere, e in modo particolare dal governo italiano per quanto lo concerne148.

Naturalmente non mancarono, come già visto, le pressioni, gli ostacoli, i boicottaggi posti in essere dalle autorità elvetiche, a volte con l’aiuto dell’Uss e spesso con la complicità diretta ed indiretta delle autorità italiane. In un discorso del 1965 il senatore Pasquale Valsecchi affermava: In realtà l’indifferenza e l’ostilità dei sindacati svizzeri della Unione sindacale, hanno alla base le accuse che ho già ricordato: scarso entusiasmo degli italiani a iscriversi ai sindacati; tendenza dei lavoratori italiani a sfuggire al pagamento delle quote sindacali; remissività e talvolta omertà di fronte a un lavoro offerto a condizioni inferiori alla norma, accettazione di lavoro straordinario. [...] Se gli italiani, a torto o ragione sono convinti che i sindacati non li difendono e ne contrastano la presenza, come si può pretendere che vi aderiscano e ne accettino le direttive? L’impegno sindacale non può restringersi in così stretti confini e in visuali così grette. [...] È inutile declamare a ogni piè sospinto lo slogan «lavoratori di tutto il mondo unitevi» quando si prende posizione contro i lavoratori e si chiede di togliere loro il lavoro e il pane149.

Sul versante italiano, invece, la difficoltà vera, di cui non si ha ancora piena consapevolezza, è stata il varo della nuova politica associazionistica150. In conclusione, non possiamo trarre un bilancio complessivo del

148   «Il Lavoro», 28 marzo 1962. SSZ, f. FCLIS, b. Congressi fino XXI/1965 - Ar 40.40.1. 149   L’Accordo italo-svizzero per l’emigrazione. Discorso del sen. Pasquale Valsecchi, 10 febbraio 1965. SSZ, f. FCLIS, b. Politica degli Stranieri in Svizzera. Trattative italo-svizzere - Ar 40.70.1 150   Per un’analisi dei cambiamenti all’interno dell’associazionismo svizzero nel suo complesso, si veda R. Fibbi, Les associations italiennes en Suisse en phase de transition, cit., pp. 37-47.

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periodo senza affrontare il capitolo della lunga ed estenuate trattativa che ha portato alla firma del secondo accordo d’emigrazione fra la Svizzera e l’Italia151. 8. La lunga rinegoziazione. 1964: si chiude l’epoca delle porte aperte Il 22 aprile 1965152, dopo quasi un decennio di rinegoziazioni ufficiali e parallele e non pochi momenti di alta tensione tra le rappresentanze dei due governi, entra in vigore il secondo accordo di reclutamento della manodopera tra Svizzera e Italia. In precedenza sono stati accennati i diversi momenti di questa lunga ed estenuante trattativa e quanto la FCLIS si sia mobilitata ed abbia attivato la sua rete organizzativa e di relazioni. In questa fase, che arriva a ridosso dei primi anni Sessanta, le politiche elvetiche di reclutamento della manodopera straniera si basavano, sostanzialmente, sull’applicazione del principio liberista del laissez faire, con le dovute correzioni. Ossia, si facilitavano quantitativamente gli ingressi ma, parallelamente, si applicava una regolamentazione restrittiva alla mobilità occupazionale. Questa era volta a tutelare e salvaguardare i settori maggiormente esposti ad eventuali congiunture economiche153. Il tutto fu reso possibile grazie all’adozione del modello di rotazione della manodopera straniera – vero pilastro strategico del mercato del lavoro elvetico, che si rifaceva alla cosiddetta teoria del cuscinetto154 – che permise alla Svizzera di variare la forza lavoro in

151   Accordo fra la Svizzera e l’Italia relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera, n. 0.142.114.548, del 10 agosto 1964, entrato in vigore il 22 aprile 1965. RU 1965.400, in FF, 1964, II 2149. 152   Firmato a Roma il 10 agosto 1964 e approvato dall’Assemblea federale il 17 marzo 1965. 153   J.M. Niderberger, La politica di integrazione della Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale, in E. Halter (a cura di), Gli italiani in Svizzera, cit., p. 93. 154   Teoria che consisteva nel gestire gli stranieri come cuscinetto, al fine di attutire, attraverso la loro riduzione quantitativa, le possibili conseguenze derivanti dalle instabilità economiche nei periodi di crisi. Si veda L. Trincia, Cento anni di emigrazione italiana in Svizzera, in AA.VV., Sulle sponde del Reno, Mci, Basilea, 2003, p. 49; M. Vuilleumier, Immigrati e profughi in Svizzera. Profilo storico, Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura, Zurigo, 1990, p. 91.

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misura delle esigenze del momento, dando vita, successivamente, ad un effetto di trial and error155. Ma già verso la fine degli anni Cinquanta cominciarono a moltiplicarsi i segnali dell’impossibilità di ricorrere in futuro al modello di rotazione, in quanto gli stranieri (solo gli italiani nel 1960 saranno oltre 400.000156) tendevano sempre più a stabilizzarsi157. In qualche modo, il periodo potrebbe essere suddiviso a sua volta in due momenti: il primo va dal 1946 al 1958, l’altro interesserà tutti gli anni Sessanta. Nella prima fase la Svizzera poté avvalersi sostanzialmente di quattro vantaggi: I lavoratori esteri, presenti in gran parte senza famiglia, all’incirca mezzo milione di unità, permettevano di colmare la lacuna demografica elvetica; producevano molto di più di quanto non consumassero; contribuivano al gigantesco incremento delle esportazioni, le quali stimolarono in modo impressionante i nuovi investimenti per far fronte alla crescente domanda; praticamente non esigevano veri e propri investimenti né per formazione professionale, né per infrastrutture, quali scuole, ospedali, chiese e servizi vari158.

Nella seconda fase, invece, andranno delineandosi gli svantaggi che fondamentalmente si manifesteranno attraverso un crescente costo economico e sociale. Sul versante economico, in seguito al boom degli anni Sessanta, la Confederazione vide aumentare enormemente l’afflusso di manodopera straniera che, a partire dalla seconda metà del decennio, sarà sempre più presente, in seguito alle facilitazioni ottenute in materia di ricongiungimento familiare nel 1960. Furono dunque necessari ingenti investimenti volti, soprattutto, alla creazione di ulteriori posti di lavoro: nel quinquennio 1959-1963 furono investiti oltre venti milioni di franchi svizzeri159. 155   La necessità di dover limitare l’immigrazione, malgrado una forte domanda dell’economia, porterà la Confederazione a un processo di trial and error. Si veda J.M. Niederberger, Die politische-administrative Regelung von Einwanderung und Aufenthalt von Ausländern in der Schweiz. Strukturen, Prozesse, Wirkungen, in J.H. Hoffmann-Nowotny, O.K. Hondrich, Ausländer in der Bundesrepublik Deutschland und in der Schweiz, Campus, Frankfurt am Main, 1982, p. 60. 156   Cfr. E. Piguet, op. cit., p. 21. 157   M. Cerutti, op. cit., p. 63. 158   F. Biffi, All’insegna del realismo, in F. Biffi, L. Bocciarelli, L. De Polis, G.B. Sacchetti (a cura di), La Svizzera dopo Schwarzenbach, Cser, Roma, 1970, p. 16. 159  L’equivalente di tremila miliardi di lire dell’epoca. Cfr. Ibid.

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Nel frattempo, però, si registrava un calo della produttività dovuto alla crescente rotazione di manodopera, che, composta prevalentemente da meridionali con scarsa preparazione professionale, incise in modo determinante sulle finanze elvetiche. Infatti, la facilità con la quale la Svizzera attingeva alla manodopera straniera ritardava le necessarie modifiche strutturali degli impianti produttivi. Tutto ciò avveniva mentre si accentuava il fenomeno dell’urbanizzazione, con gli altissimi costi ad essa legati, generando un eccessivo surriscaldamento del sistema economico160. Inoltre, tra il 1946 e il 1964, oltre un milione e mezzo di italiani si dirigerà verso la Svizzera161, passando dal 49% di presenze sul totale degli stranieri nel 1950 al 59% nel 1960162. Essi rappresentavano, rispettivamente, il 5,8% sul totale della popolazione nel 1950 e quasi il 10% dieci anni dopo163. Volendo sintetizzare, i fattori che hanno spinto la Svizzera progressivamente a cambiare impostazione in materia di ammissione possono essere individuati nel surriscaldamento dell’economia, nelle crescenti pressioni esercitate dal governo italiano per rinegoziare le condizioni del 1948 e nella progressiva accentuazione dei fenomeni xenofobi in seno all’opinione pubblica elvetica. Se in origine le performance economiche e le questioni sociali impegneranno maggiormente le autorità di Berna, a partire dalla metà degli anni Sessanta l’agenda politica sarà occupata nel cercare di limitare e gestire le crescenti ondate xenofobe. L’Italia, attraverso la sua Legazione, già nel 1954, durante i lavori della Commissione mista, aveva posto la questione dei ricongiungimenti familiari. Richiamandosi alle indicazioni dell’Oece164, Reale aveva più volte richiesto che i tempi per la concessione del permesso di residenza venissero dimezzati a cinque anni. Nonostante il netto 160   «Il surriscaldamento dell’economia indica, nel vocabolario di quell’epoca, l’eccesso di domanda di beni e servizi che caratterizza la Svizzera: i registri delle ordinazioni sono pieni, aumenta la penuria degli alloggi ed i prezzi salgono»; cfr. E. Piguet, op. cit., p. 21. 161   Si veda, tab. 7. 162   E. Piguet, L’immigration en Suisse depuis 1948, in H. Mahnig (ed.), Histoire de la politique de migration, d’asile et d’intégration en Suisse depuis 1948, Seismo, Zürich, 2005, p. 51. 163   «La population étrangère en Suisse», Ufs, Neuchâtel, 1961. 164   L’Organizzazione europea per la cooperazione economica nel 1953 aveva raccomandato ai Paesi importatori di manodopera di fissare il termine a cinque anni. Cfr. J.M. Niderberger, La politica di integrazione della Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale, in E. Halter (a cura di), Gli italiani in Svizzera, cit., p. 95.

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rifiuto da parte elvetica, dovuto sostanzialmente alle contrarietà dei cantoni industriali, due anni dopo le pressioni da parte italiana riprendono. Nel corso della conferenza del 4 luglio che ha riunito [...] i rappresentanti del Dipartimento Politico, della Polizia federale degli stranieri e dell’Ufiaml, si è riconosciuta la necessità di rendere più liberale l’attuale pratica conciliando, da una parte, le considerazioni umane e, dall’altra, i diversi inconvenienti (esistenza di una decisione precedente riguardante gli italiani, abitazioni, istruzione scolastica, difficoltà in caso di disoccupazione e altre causate dalle norme stabilite dell’Oece) che complicano il problema165.

Sulla base di un documento redatto dai servizi del Dipartimento politico d’intesa con quelli del Dipartimento di giustizia e polizia e dell’economia pubblica, nell’ottobre dell’anno precedente si era tenuta una conferenza dei direttori cantonali della polizia, nel corso della quale era stata esposta loro la situazione e la strada da imboccare. Si tratterà in particolare di provocare uno choc psicologico destinato a scuotere la rigida attitudine osservata in questi ambiti principalmente dai Cantoni industriali, soprattutto Zurigo. E diversi Cantoni della Svizzera orientale. Questi rifiutano di autorizzare il trasferimento delle famiglie prima che l’interessato abbia accumulato dieci anni di soggiorno. Piuttosto che prevedere una riduzione generale della scadenza dei dieci anni, alla conferenza prevista si esaminerà la possibilità di ammorbidire la regola166.

Una simile possibilità, legata quindi all’ammorbidimento della regola, sarebbe stata applicabile nei casi in cui il soggiorno dei lavoratori interessati assume un carattere duraturo; [e nel caso in cui] considerazioni particolari di ordine umano e sociale giustificano un esame attento e benevolo dell’ammissione della famiglia di un lavoratore straniero, indipendentemente dalla durata del suo soggiorno. Questa soluzione avrà il vantaggio di determinare i criteri che dovranno servire come linea di condotta per i Cantoni, lasciando loro una certa libertà di

165   Note à l’intention du Chef du Département, Berne 10 septembre 1956, p.1. Dds, DoDis, d. nr. 11581. 166  Ibid.

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valutazione. Permetterà anche di evitare che sia messa in causa la questione della conformità della nostra pratica con i principi stabiliti dall’Oece167.

La preoccupazione elvetica per le pressioni poste in atto dall’Oece e per le relative ripercussioni appare notevole. In effetti, l’Oece si occupa dello statuto dei lavoratori stranieri nei Paesi membri. [...] Ciò che qui ci interessa sono le ripercussioni possibili sulla questione delle famiglie dei lavoratori italiani in Svizzera.[...] Nel 1953, il Consiglio dell’Oece aveva preso una decisione relativa allo statuto dei lavoratori stranieri nei Paesi membri, secondo la quale questi hanno, dopo cinque anni di soggiorno, diritto al rinnovo del loro permesso di lavoro per la stessa professione o, in caso di disoccupazione, in un’altra, a meno che non lo impediscano importanti ragioni di interesse nazionale168.

Infatti, nel 1955, le autorità elvetiche avevano proposto un emendamento al riguardo. Si prevedeva l’abolizione delle restrizioni all’impiego solo dopo cinque anni di soggiorno, superando la clausola di salvaguardia decisa nel 1953. L’unico elemento che nell’emendamento veniva mantenuto era la possibilità di limitare il cambio di comparto d’impiego, nel caso in cui sussistessero importanti ragioni d’interesse nazionale. Insomma, gli organismi internazionali spingevano Berna verso un alleggerimento delle restrizioni in materia di manodopera straniera169. Le autorità elvetiche si ritenevano vittime della propria legislazione, a loro avviso molto tollerante e, contemporaneamente, non avevano alcuna intenzione di ridurre a cinque anni la durata per l’ottenimento del permesso di dimora a favore degli italiani. La Svizzera è in qualche modo vittima della sua legislazione estremamente liberale che, attraverso la nozione di diritto di stabilimento, assimila praticamente gli stranieri che ne beneficiano agli svizzeri stessi. La legge federale del 26.3.31 non precisa la durata della residenza necessaria per ottenere il permesso di stabilirsi. Questa durata è, ricordiamolo, fissata convenzionalmente a dieci anni per quanto riguarda gli italiani170.

  Ivi¸ p. 2.   Ibid. 169  Ivi, p. 3. 170  Ibid. 167 168

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Come già accaduto, quando le autorità svizzere si trovarono a dover fare i conti con le richieste italiane e, nel contempo, con le rivendicazioni di autonomia avanzate dai cantoni, preferirono adottare la possibilità di ammorbidire la regola. Quanto questa regola fosse stata resa in un certo qual modo più mite si percepisce nella lettera che Zerbibi, attivista della CLI di Berna, invia a Medri nel marzo dell’anno successivo: Quando che in dicembre stesso incontrai Mariotti in Winterthur e seppi da lui stesso quali benefici abbiamo potuto usufruire, benefici o agevolazioni come si vuol dire. Anche questo consiste nel poter tenere qui i propri figli e frequentare le sue medesime scuole. Questo quando Mariotti me lo disse, diversi suoi colleghi erano di già soddisfatti del passo fatto. Questo [conclusosi] come mi disse il suddetto dopo una lunga e paziente attesa e l’ultima spinta ci acconsentì questa soddisfazione, sempre ben accetta dalle Autorità svizzere. Tra parentesi anche qui a Berna che ne so io erano (due) che l’anno scorso si dibatterono in lungo ed in largo per tenerli qui questi suoi figli tra questi ne sono contenti. (Il perché?!) Voi fautori di questa benevola e lodevole iniziativa accordatasi nell’ultima assemblea annuale in Zurigo e riportata poi dopo qualche settimana a Berna a conoscenza della massima Autorità Italiana, onorevole Del Bò171.

Nel 1960, dopo contrattazioni e pressioni, il tempo per il ricongiungimento familiare fu ridotto a tre anni. Fu una prima conquista che segnò il progressivo cambio di direzione da parte della Svizzera nei confronti della manodopera italiana. Le ripercussioni demografiche di questo provvedimento, preso nell’interesse dell’economia per ricevere e continuare ad avere lavoratori capaci, provvedimento impostosi però anche per ragioni sociali e umanitarie, sono difficilmente valutabili; tuttavia esse sono indubbiamente di ampia portata172.

In realtà, il provvedimento, più che di carattere «umanitario», fu spiccatamente di natura economica. Infatti, per una larga fetta 171   Lettera di L. Zerbini a Medri, Berna, 3 marzo 1957. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 172   Queste le conclusioni che trarrà, nel 1964, la Commissione di studio per i problemi della manodopera straniera. Cfr. Das Problem der ausländischen Arbeitskräfte, Bundesamt für Industrie, Gewerbe und Arbeit, Berna, 1964, p. 80 (trad. ripresa in J.M. Niderberger, op. cit., p. 95).

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dell’imprenditoria elvetica il modello di rotazione iniziava ad incidere come costo: risultava antieconomico sostituire la manodopera straniera, una volta addestrata, con un nuovo contingente. Naturalmente il discorso non contemplava le tante famiglie degli stagionali. Il diritto alla famiglia e alla convivenza familiare è un diritto primario dell’uomo, è un diritto non negabile e non rinunciabile. [...] È un diritto assoluto. [...] Perciò nessuno, né persona né gruppo né Stato può in via morale costringere i figli lontani dal padre, la moglie lontana dal marito, la madre lontana dal marito o dai figli. [...] Come possiamo insistere a esecrare e condannare il regime di Pankow che non l’odioso muro di Berlino tiene divise le famiglie se ai confini della nostra patria si erge pure una barriera fatta di interessi nazionali, di opposizione all’altrui bisogno e di antistoriche preoccupazioni di possibile alterazione o di perdita del carattere nazionale svizzero?173

Inoltre, già nel 1956, fu affrontata anche la questione delle rendite transitorie dell’AVS (Assicurazione vecchiaia e superstiti). In questo caso, le richieste italiane potevano essere soddisfatte mediante una semplice modifica dei diritti degli stranieri in merito alle rendite transitorie o tramite un accordo italo-svizzero, simile a quello che Berna aveva già sottoscritto con Francia, Belgio e Danimarca. Sulla vicenda intervenne direttamente anche l’allora ministro del Lavoro, Fiorentino Sullo, durante un viaggio ufficiale in Svizzera nell’autunno del 1961: «Con fare ‘democristiano’ e con un eccesso di temperamento meridionale, l’on. Sullo insisteva affinché i diritti dei lavoratori italiani, in materia di assistenza e previdenza sociale, venissero equiparati a quelli che riconosce a lavoratori italiani la Francia e la Repubblica federale tedesca»174. A nulla valsero le pressioni da parte italiana. Con il nuovo accordo del 1964, si ebbero solo leggeri miglioramenti. La parificazione della manodopera italiana, come di quella francese, belga e danese, verrà realizzata solo nel 1977175. 173   L’Accordo italo-svizzero per l’emigrazione. Discorso del sen. Pasquale Valsecchi, del 10 febbraio 1965, cit. 174   Aktennotiz, Bern, 8 November 1961. Dds, DoDis, d. nr. 18751. Sulla visita di Sullo si veda anche: «Le dichiarazioni del Ministro Sullo e l’opinione degli Emigranti» (s.d.). SSZ, f. FCLIS, b. Governo e parlamento italiano - Ar 40.20.6. 175   Questa norma verrà inserita nella più ampia normativa sulle disoccupazione come intesa di carattere generale; cfr. MAE, Aspetti e problemi dell’emigrazione italiana all’estero nel 1977, Roma, 1978, p. 29 (cit. ripresa da C. Buccianti, op. cit., p. 390).

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L’iter che faticosamente portò alla rinegoziazione complessiva dell’accordo del 1948 riguardò anche le condizioni abitative. Il problema della manodopera degli alloggi nella zona di Winterthur presenta difficoltà non solo per la manodopera edile, ma anche per la manovalanza generica impiegata in alcuni grandi complessi industriali, di provenienza meridionale, i quali emigrano con vari membri della famiglia; quest’ultima circostanza rende difficile trovare disponibilità di locali176.

Più volte, soprattutto durante gli anni Cinquanta, la stessa FCLIS si era spesa affinché tali condizioni venissero migliorate. Ma la questione fu affrontata nello specifico solo a partire dagli anni Sessanta, nel momento in cui anche l’opinione pubblica iniziò a percepire il disagio. Nel 1962, in seguito ad un’inchiesta svoltasi nei cantoni, grazie alla quale furono scoperti parecchi abusi, il Dipartimento federale di giustizia e polizia impose agli uffici del lavoro di subordinare la concessione del permesso di dimora alla dimostrazione di disporre di un alloggio decente. Il controllo venne così demandato agli stessi datori di lavoro. Un’idea dell’ordine di grandezza del fabbisogno di alloggi indotto dall’immigrazione e al tempo stesso un esempio di forse tardiva ma radicale soluzione alle misere condizioni degli alloggi è costituito dal grattacielo di venti piani costruito a Baden nel 1967 dall’industria meccanica Brown, Boveri&Co. per la sistemazione di 7-800 operai senza famiglia. La struttura avrebbe affiancato due edifici di nove piani già costruiti, in grado di ospitare 450 persone. Il progetto sostituì un villaggio di baracche costituito nel corso degli anni, che già nel 1953 aveva ospitato 1.000 persone e nel frattempo aveva raggiunto la soglia massima di 1.900 abitanti177.

Ovviamente, lo stesso discorso non varrà per gli stagionali che continueranno a vivere nelle baracche178. Riepilogando, si è visto come, agli inizi degli anni Sessanta, la politica di ammissione liberista in termini quantitativi, fondata 176   Verbale della seduta del 27 febbraio 1961, riunione tra il console generale di Zurigo ed i rappresentanti delle associazioni in Svizzera tedesca. SSZ, f. FCLIS, b. Ambasciata e consolati - Ar 40.20.5. 177   «All’epoca l’azienda contava 15.000 dipendenti, di cui ben 6.000 stranieri. Più della metà erano italiani»; cfr. J.M. Niderberger, op. cit., p. 105. 178   Il dibattito sugli stagionali si farà ancora più vivace nel decennio seguente. A tal proposito si veda C. Calvaruso, Sottoproletariato in Svizzera, 152.000 lavoratori stagionali, perché?, Coines, Roma, 1971.

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sull’idea della rotazione e sull’ipotesi che, dopo aver guadagnato abbastanza denaro l’immigrato sarebbe ritornato nel proprio Paese d’origine, cominciò a scricchiolare. I fattori che imposero alle autorità elvetiche l’adozione di misure restrittive in materia d’ingresso furono tre: il bisogno di riforme strutturali in campo economico, la pressione da parte dell’Italia, che riuscì a migliorare, anche se marginalmente, lo status del proprio emigrato e il frequente emergere di correnti xenofobe all’interno dell’opinione pubblica locale. Tuttavia, il vero assillo che tormentava il governo svizzero restava legato all’economia. Già dalla fine degli anni Cinquanta, la preoccupazione della tenuta del sistema economico era avvertita in modo serio dall’opinione pubblica. Una ricerca, condotta sulle politiche immigratorie qualche anno dopo, rileverà le preoccupazioni che affliggevano gran parte degli svizzeri: «lo Stato non interviene, in questo Paese dove il liberismo è sovrano, tutte le soluzioni non dirigiste devono essere esplorate!»179. A questo punto l’unica soluzione percorribile era da ricercare nell’autoregolamentazione del mercato180. A nulla servì l’appello lanciato dalla potente associazione del padronato, che auspicava una stabilizzazione dei prezzi. L’immigrazione non cessò e i prezzi non si attestarono. Il governo elvetico non utilizzò la manodopera straniera per calmierare i salari, al contrario agì direttamente alla fonte, tagliando l’offerta181. Le autorità intervennero emanando un decreto federale nel marzo del 1963, il quale, rifacendosi all’art. 16 della LDDS del 1931, indicò che, per le autorizzazioni, le autorità dovevano tener conto degli interessi morali ed economici del Paese, così come del grado di sovrappopolazione straniera182. Per tutto il 1963 le autorità autorizzeranno il soggiorno dei lavoratori stranieri nelle sole imprese il cui effettivo numero totale di impiegati (svizzeri e stranieri) non superasse per più del 2% il contingente effettivo del dicembre 1962. 179   H.M. Hagmann, Les travailleurs étrangers, chance et tourment de la Suisse: problème économique, social, politique, phénomène sociologique, Payot, Lausanne, 1966, p. 98. 180   Si veda il terzo comma dell’art. 11 dell’Accordo di reclutamento ItaliaSvizzera del 1948, cit. 181   A. Rossi, T. Leighton, Inflation in the post-war Swiss economy. An econometric study of the interaction between immigration and the labour market, in «Revue Suisse d’économie politique et de statistique», a. 107, n. 4, 1971, pp. 761-790. 182  H.M. Hagmann, op.cit., p. 98.

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Si trattò, dunque, di un primo tentativo di stabilizzare il numero degli stranieri, limitandone sul piano aziendale la crescita183. I risultati della misura disattesero tuttavia le aspettative: dopo solo cinque mesi, si registreranno 50.000 lavoratori stranieri in più (+7%); un aumento che costringerà il governo elvetico ad adottare il decreto del 21 febbraio 1964, con il quale, questa volta, si provvide a stabilire una riduzione del 3% dell’effettivo totale degli occupati184. Simili misure non sortirono comunque l’effetto sperato. Il numero di stranieri crebbe di 30.000 unità fino all’agosto del 1964185. L’inefficacia dei provvedimenti che dovevano determinare il massimale si spiega con l’ingente numero di lavoratori svizzeri, i quali cambiando occupazione nel corso di questo periodo – passando cioè dal settore secondario al terziario – vennero rimpiazzati dagli stranieri e furono soggetti a controlli flessibili, in quanto le autorità cantonali potevano concedere agevolazioni in materia d’impiego. Il clima politico dunque mutò, questa volta sotto l’impulso di un fattore esterno. Dietro richiesta del Governo italiano, sono state aperte delle trattative tra la Svizzera e l’Italia, nella primavera del 1961, in vista della revisione della convenzione del 17 ottobre 1951, relativa alle assicurazioni sociali, e dell’accordo del 22 giugno 1948, relativo all’immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera186.

Le negoziazioni, cominciate nella primavera del 1961, dureranno per più di tre anni, soprattutto perché vennero interrotte, a più riprese, a causa delle divergenze fra le due delegazioni. La riunione a Roma nel giugno 1961 è incentrata sull’immigrazione. Alcune tra le rivendicazioni italiane, particolarmente delicate, hanno sollevato problemi alle autorità svizzere, che si sono viste costrette a interrompere le trattative nell’attesa di un nuovo esame. Le discussioni per entrambe le questioni, assicurazioni sociali e immigrazione, sono state riprese a Berna il 23 novembre. Gli accordi non sono

  Ibid.   L. Da Ros, Un trentennio di emigrazione italiana in Svizzera, 1945/1975. Indagine storico-sociologica, Acli Argovia, Aarau, 1975, p. 15. 185   Ufs, Bullettin d’information statistique, in FF, 1965, vol. I, pp. 339-343. 186  «Les pourparlers italo-suisses sur les assurances sociales et l’immigration», Berna 11 dicembre 1961, p. 1. Dds, DoDis, d. nr. 18751. 183 184

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stati possibili e, su iniziativa italiana, le trattative sono state sospese il 28 novembre, a causa delle pretese italiane riguardanti gli assegni famigliari e le assicurazioni per malattia, che la Svizzera non è in grado di soddisfare, considerato il regime in vigore187.

Su questo aspetto, mentre la Svizzera ritiene che «gli assegni familiari nel settore agricolo, secondo la regola generale, sono versati ai lavoratori, svizzeri e stranieri, le cui famiglie risiedono in Svizzera: si escludono quindi i nuclei famigliari residenti all’estero. Le autorità italiane sottolineano quanto ciò sia ingiusto, considerato anche il fatto che le famiglie possono ricongiungersi in Svizzera solo dopo un lungo periodo»188. L’Italia premeva affinché il termine richiesto per la concessione dell’autorizzazione per il periodo di soggiorno fosse abbassato da 10 a 5 anni, che il ricongiungimento familiare fosse possibile immediatamente e che i termini per l’assicurazione di disoccupazione e di malattia a favore dei connazionali venissero migliorati189. Le distanze maggiori fra le due delegazioni si registravano, soprattutto, in materia di politiche sociali e del lavoro: In Italia, il salario, generalmente basso, è completato da prestazioni sociali relativamente elevate, che pesano sui datori di lavoro. In Svizzera, le retribuzioni sono proporzionalmente più elevate, fatto che permette ai lavoratori di contribuire personalmente ai premi dell’assicurazione per malattia e di partecipare a istituzioni di previdenza complementare (per esempio casse di pensioni d’impresa e assicurazioni di gruppo). I nostri lavoratori preferiscono le convenzioni collettive di lavoro: il risultato è che, in Svizzera, uno degli strumenti base del progresso sociale è l’accordo tra le organizzazioni dei lavoratori e dei loro datori stessi [...]. Se si vuole fare una comparazione tra la situazione sociale svizzera e quella degli altri Paesi, è dunque necessario tenere conto del diritto convenzionale, molto sviluppato190.

Da parte elvetica si rimarcava come l’insieme dei vantaggi materiali ottenuti dai lavoratori italiani in Svizzera non fosse inferiore a quanto   Ivi, p. 2   Ivi, p. 3. 189   E. Piguet, H. Mahnig, Quotas d’immigration: l’expérience Suisse. Forum suisse pour l’étude des migrations, in «Cahiers des Migrations internationales», n. 37, Service des migrations internationales, Bureau international du travail, Genève, 2000, p. 5. 190  «Les pourparlers italo-suisses», cit., Berna, 11 dicembre 1961, pp. 5-6. 187 188

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avrebbero potuto pretendere in Italia. Ciò era dimostrato dal fatto che, anche se la Svizzera non forniva le prestazioni sociali richieste dall’Italia, la somma dei salari annuali corrispondeva a una cifra tra i 500 e i 600 milioni di franchi svizzeri. Nell’insieme, il regime sociale della Svizzera reggeva il confronto con quello della maggior parte degli altri Paesi, anche i più avanzati. Gli svizzeri sottolineavano quanto già stabilito dall’accordo del 1948, grazie al quale i lavoratori italiani beneficiavano dell’uguaglianza di trattamento rispetto ai cittadini elvetici, riguardo le condizioni di lavoro in generale, salari compresi. Prima di accordare il permesso di soggiorno, le autorità controllano che il posto di lavoro e le condizioni siano conformi alle norme in vigore, con particolari controlli e in modo da proteggere il lavoratore straniero contro gli abusi. Il trattato del 1948 prevede anche il diritto di intervento dell’Ambasciata d’Italia a Berna, che può richiedere che venga aperta un’inchiesta nel caso sospetti vi siano abusi191.

In altre parole, le autorità elvetiche ritenevano che salvo eccezioni, [i lavoratori italiani] non sono scontenti della loro sorte, perché la nostra economia può accoglierne ogni anno un numero maggiore e, quest’anno in particolare, il loro numero ha raggiunto una soglia che si prospettava difficile da superare. Nell’agosto scorso, sotto il controllo della polizia degli stranieri, si contavano circa 500.000 lavoratori, di cui circa 400.000 italiani, [...] che emigrano spontaneamente, senza l’intervento dei poteri pubblici. Il fatto che si rechino nel nostro Paese dimostra che apprezzano le condizioni di lavoro e di vita. [...] Se la legislazione svizzera presenta delle lacune, si è pronti a colmarle soprattutto se esse toccano i lavoratori stranieri. Ne è dimostrazione il fatto che si stia procedendo a negoziazioni italo-svizzere192.

Queste ultime negoziazioni vennero interrotte, nuovamente, dalla Svizzera, cui risultava impossibile accettare l’aggiunta, al sistema dei salari e delle assicurazioni, di prestazioni supplementari come quelle previste dal regime italiano di sicurezza sociale, che avrebbero sancito l’ineguaglianza tra svizzeri e stranieri. Vista tale discrepanza, i dibattiti concernenti i contratti di lavoro, l’assicurazione in caso di disoccupazione, il ricongiungimento familiare e lo status degli sta191 192

  Ivi, p. 6.   Ivi, p. 7.

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gionali, vennero al momento accantonati, adducendo come motivazione che, considerata la situazione particolare del nostro Paese [che] deve far fronte a difficoltà considerevoli vista la presenza nel suo territorio di un tasso elevato di stranieri, il cui numero eccede le sue possibilità di assorbimento e di assimilazione, nell’esame della questione straniera, le autorità svizzere devono dunque tener particolarmente conto delle conseguenze dell’immigrazione straniera dal punto di vista demografico, politico e sociale193.

Al contrario, per l’Italia restava ancora impellente il problema della sicurezza del lavoro e della garanzia di difesa e di miglioramento delle condizioni per tutti i lavoratori italiani in Svizzera: «Sono, questi, diritti irrinunciabili degli emigrati italiani, in qualunque paese essi si trovino, che non possono essere pretestuosamente messi in questione»194. A causa dell’impasse nelle trattative e della mutata condizione internazionale, l’Italia minacciava di revocare l’accordo del 1948. Dal canto suo, la Svizzera, intimorita dalle direttrici d’espatrio della manodopera italiana, soprattutto verso il mercato tedesco – l’Italia aveva sottoscritto, nel 1955, un accordo di reclutamento con la Germania195 – si vide costretta a fare alcune concessioni. Preoccupante era l’idea di perdere il privilegio sulla manodopera italiana e di doversi rivolgere a Paesi quali la Grecia, la Turchia, la Jugoslavia o il Portogallo, ritenuti inadatti, in quanto, abituati a condizioni politiche, sociali, culturali e anche religiose sostanzialmente diverse, questi lavoratori [provenienti da regioni lontane, ove vigono altre consuetudini e tradizioni] faticano ad adattarsi ai nostri modi di vita e di lavoro e possono più facilmente entrare in conflitto con la popolazione locale196.

Le concessioni fatte, però, non soddisfacevano completamente il governo italiano. In un intervento alla Camera, Fernando Santi sottolineava:   Ivi, pp. 7-8.   Lettera Cgil all’on. Umberto Delle Fave, Ministero del Lavoro, Roma, 12 agosto 1963. SZZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7. 195   Per quanto riguarda l’accordo tra Italia e Germania, si vedano M. Colucci, Lavoro in movimento, cit., pp. 207-223; e R. Sala, Radio Colonia, cit., pp. 221-228. 196  Cfr. M. Cerutti, op. cit., p. 120. 193 194

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Il voto di approvazione non ci esime dal dover rilevare, in una sintesi estremamente breve, il permanere di alcuni problemi ancora insoluti, nonostante che noi riconosciamo che la convenzione rappresenti indubbiamente un passo in avanti nei confronti di quella precedente. [...] I lavoratori italiani che prestano la loro attività in Svizzera non sono tutelati per quanto riguarda i loro familiari rimasti in Italia contro l’evento della malattia, a differenza dei lavoratori italiani che svolgono la loro attività in Patria. È indubbio che il problema, proprio per il fatto che la Svizzera per quanto riguarda la legislazione sociale non è certamente più avanti del nostro paese, presenta delle difficoltà, ma il governo italiano mi pare abbia il dovere di fare ogni sforzo per superarle197.

La Svizzera, come già fatto altre volte, sarà indotta ad ammorbidire le regole. Ma a un compromesso si giungerà solo agli inizi del 1964. Il ritardo dell’entrata in vigore della Convenzione non mancherà di suscitare il malcontento e l’incredulità delle parti sociali in Italia; anche a causa della indecente agitazione di tipo razzista, scatenata a freddo verso centinaia di migliaia di lavoratori italiani emigrati, [...] gli assurdi provvedimenti di repressione e di discriminazione della polizia svizzera verso alcune decine di lavoratori italiani, e la vergognosa campagna della stampa e della televisione che li ha sostenuti. [...] Si ha la impressione, di trovarsi di fronte ad un piano preordinato per impedire l’approvazione della Convenzione, scavare il solco tra lavoratori italiani e lavoratori svizzeri [...]. Non può non sorprendere a questo punto la cautela del governo italiano su di una questione che investe gli interessi e le condizioni di oltre mezzo milione di nostri connazionali198.

Dello stesso avviso si mostreranno le CLI, a pochi mesi dalla firma. La lentezza con la quale procedono le trattative [...] ha creato tra le masse emigrate serio malcontento che viene espresso nelle decine di assemblee di emigrati che hanno avuto luogo in questi giorni. La situazione è aggravata dal fatto che al rinnovo dell’accordo di emigrazione è legata

197   Intervento dell’on. Fernando Santi alla Camera dei deputati, del 24 ottobre 1963. SZZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7. 198  Comunicato stampa Cgil, Roma, 21 agosto 1963. SZZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7.

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l’entrata in vigore della nuova Convenzione sulle assicurazioni sociali che sancisce la parità di diritti tra lavoratori emigrati italiani e lavoratori svizzeri. L’entrata in vigore della Convenzione è di capitale importanza per un certo numero di nostri connazionali, soprattutto per coloro che sono nati prima del 1° luglio 1883 e per le donne rimaste vedove e figli orfani prima del 1° dicembre 1948, per i quali è prevista la corresponsione delle rendite straordinarie concesse secondo la vigente legislazione svizzera in materia. Per questi nostri vecchi connazionali, è superfluo sottolinearlo, l’immediata entrata in vigore della nuova Convenzione riveste un carattere di estrema urgenza199.

L’accordo fra la Svizzera e l’Italia relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani, firmato il 10 agosto a Roma, costrinse il governo elvetico a rivedere la propria politica di ingresso, particolarmente in tre settori specifici: permessi di soggiorno, stagionali e ricongiungimento familiare. Per quanto attiene ai permessi di soggiorno, i lavoratori residenti in Svizzera da almeno cinque anni, anche se non ottenevano il permesso di domicilio richiesto dai negoziatori italiani, acquistavano il diritto di cambiare impiego e una certa garanzia di dimora. Invece, i lavoratori stagionali, che avevano lavorato in Svizzera per almeno 45 mesi ininterrotti (5 anni, 9 mesi ad anno), conquistavano il diritto a un permesso di dimora annuale. Infine, per quanto riguarda il ricongiungimento familiare, esso veniva ridotto da 36 a 18 mesi per i titolari di un permesso di dimora200. In conclusione, nonostante le conquiste da parte dell’Italia non fossero del tutto soddisfacenti (restava aperta, per esempio, la questione degli stagionali) e non modificassero sensibilmente il contingente della manodopera italiana presente in Svizzera, queste novità non tardarono a provocare una viva emozione e a dare inizio ad una vera e propria battaglia mediatica nell’opinione pubblica elvetica: «Il Consiglio federale, agli occhi di buona parte dell’opinione pubblica, gioca il ruolo di una marionetta che dipende dalla volontà del governo italiano e l’accordo concluso viene percepito come una decisione che aumenta la minaccia della Überfremdung»201. 199   Lettera della FCLIS al sottosegretario all’emigrazione Storchi, Zurigo (s.d., ma inizi 1964). SZZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7. 200   Message du Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale concernant l’approbation de l’accord entre la Suisse et l’Italie relatif à l’émigration des travailleurs italiens en Suisse du 4 novembre 1964. FF, 1965, vol. II, p. 1037. 201  R. Misteli, A. Gisler, Überfremdung – Karriere und Diffusion eines fremden-

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Viva emozione che si spiegava con l’ormai crescente movimento xenofobo che premeva per un’immediata riduzione del contingente straniero202. La Cgil lanciò il grido d’allarme e richiamò subito l’attenzione della Farnesina «sullo stato di disagio e di grande malcontento che si è determinato tra i lavoratori italiani emigrati nella Confederazione Elvetica a causa dell’atteggiamento di certa stampa e di certi ambienti politici sindacali e padronali ostili alla entrata in vigore dell’accordo generale»203. Il Consiglio federale legittimava l’accordo con l’Italia, sottolineando che «visto il carattere duraturo dell’espansione economica [...] la presenza degli stranieri in Svizzera [...] da quel momento era indispensabile rivedere lo status giuridico e sociale di quei lavoratori, il cui soggiorno in Svizzera si prolungava, e di adattarlo ai bisogni attuali»204. È su queste nuove basi che la Svizzera si avvierà progressivamente a modificare la propria politica d’ammissione205. Nel frattempo, il 17 marzo 1965, l’Assemblea federale approvava l’accordo fra la Svizzera e l’Italia. feindlichen Deutungsmusters von 1960–1970, in K. Imhof et al., Vom Kalten Krieg zur Kulturrevolution, Zürich, Seismo Verlag, p. 95. 202   I problemi di integrazione, da sempre esistiti, vennero resi più gravi in seguito alla comparsa del movimento xenofobo, tema che verrà approfondito nel capitolo seguente. A tal proposito, si veda anche L. Favero, G. Rosoli, I lavoratori emarginati. Ricerca tra gli emigrati italiani in Svizzera e Germania, in «Studi emigrazione», a. XII, nn. 38-39, giu.-sett. 1975, pp. 155-329. 203   Lettera Cgil al ministro degli Esteri, on. Giuseppe Saragat, Roma, 6 novembre 1964. SZZ, f. FCLIS, b. Sindacati italiani - Ar 40.20.7. 204   «Message du Conseil fédéral à l’Assemblée fédéral concernent l’approbation de l’accord entre la Suisse et l’Italie relatif à l’émigration de travailleurs italiens en Suisse du 4 novembre 1964», cit., p. 1038. 205   Una simile politica, seguita negli anni da altre e differenti manovre, porterà a sconvolgimenti nella società elvetica a lungo impostata alla chiusura più totale. I cambiamenti si riscontreranno a vari livelli: economico, politico, sociale, culturale. Cfr. J.M. Niederberger, Le développement d’une politique d’intégration suisse, in H. Mahnig (ed.), Histoire de la politique de migration, cit., pp. 272-278.

Capitolo IV

La FCLIS tra crisi economica, integrazione e xenofobia (1965-1975)

1. Presupposti e primi tentativi di arginare la «Überfremdung» All’indomani della sigla dell’accordo del 1964 con l’Italia – per la prima volta nella lunga tradizione di Paese importatore di manodopera – la Svizzera inizia a prendere le distanze dall’idea che l’immigrazione sia, esclusivamente, di natura temporanea. Per anni abbiamo considerato solo il punto di vista economico. È il momento di accordare maggiore attenzione all’aspetto umano. [...] Dobbiamo renderci finalmente conto che i lavoratori stranieri non sono venuti in Svizzera unicamente a causa di una tensione congiunturale momentanea, ma che sono ormai diventati un fattore indispensabile della nostra vita economica. La nostra futura politica d’ammissione non potrà limitarsi a frenare l’entrata di nuovi lavoratori [...] dovrà tendere piuttosto a mantenere e ad assimilare la manodopera che si è affermata. La norma derivata dai negoziati con l’Italia si muove in questo senso1.

Questa nuova impostazione nella politica di accoglienza sollecitò forti pressioni e avversioni interne, sia da parte dell’Uss che delle categorie padronali. Per gli imprenditori elvetici, «le attenzioni» sul piano «sociale» avrebbero favorito gli italiani; si chiedeva, dunque, che fosse data la possibilità di reperire manodopera a basso costo da Paesi in via di sviluppo. Il sindacato, invece, qualche mese prima della firma del nuovo accordo, chiese che fosse fissato un tetto massimo alla manodopera straniera (500.000 ingressi annuali)2. 1   Message du Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale concernant l’approbation de l’accord entre la Suisse et l’Italie relatif à l’émigration des travailleurs italiens en Suisse du 4 novembre 1964, cit. FF, 1964, vol. II, p. 1038. 2  E. Piguet, L’immigrazione in Svizzera, cit., p. 22.

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Era il momento in cui si riaffacciava prepotentemente alla ribalta la paura dell’infiltrazione straniera. L’Überfremdung era già presente, quale concetto, agli inizi del XX secolo, ma sarà a partire dalla metà degli anni Sessanta e, per tutto il decennio successivo, che il panico per l’invasione, l’inforestierimento, si porrà al centro del dibattito politico ed intellettuale della Svizzera. Max Frisch, uno degli scrittori elvetici più famosi, nel 1966 chiariva in maniera inequivocabile il significato della parola Überfremdung. Che significa infiltrazione straniera? Il giovanotto che nell’albergo prende il mio bagaglio, la cameriera ai piani, il barista, più tardi il portiere di notte, l’altro cameriere che serve la prima colazione, tutte queste persone che rendono piacevole il mio soggiorno in patria sono rispettivamente: uno spagnolo, una jugoslava, un italiano, ancora un italiano, un terzo italiano, un renano. Ignoro chi fa i piatti e chi lava le camicie. L’unico che parli dialetto svizzero è il proprietario. Come si può non definire questo stato di cose Überfremdung, infiltrazione straniera?3

Il termine ebbe origine all’indomani del primo conflitto mondiale e semanticamente era la sintesi di un insieme di interferenze linguistiche: Überschwemung (alluvione), Überrumpelung (raggiramento), Übermacht (strapotenza), Überfall (aggressione)4. Questa definizione, secondo Frisch, denotava e racchiudeva in sé preoccupazione, paura, diffidenza: si fiuta un pericolo per la nazione e poiché tale pericolo non viene interpretato quale conseguenza dei propri errori ma come una minaccia proveniente dall’esterno, ecco che la parola assume qualcosa di patriottico. Da una parte tutto ciò che è sano, sacrosantamente giusto, nostrano e valido, in breve: svizzero. Dall’altra eserciti di estranei che piombano sul nostro benessere, sempre più piccoli e sempre più neri, calabresi, greci, turchi. [...] se si ascolta il parere dell’uomo della strada, gli svizzeri si considerano ingiustamente colpiti [...] di cosa hanno paura in realtà? Di perdere il proprio carattere nazionale [...] alcuni si preoccupano per il fatto che

3   Tratto dal discorso introduttivo pronunciato dallo scrittore svizzero in occasione della conferenza annuale dell’Unione cantonale dei capi della polizia degli stranieri, tenutasi a Lucerna il 1° settembre 1966. Il discorso è stato poi pubblicato dallo stesso autore, vedi F. Venturini, Nudi col passaporto, cit., p. 7. 4  Ibid.

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gli italiani, del cui aiuto abbiamo bisogno, sono cattolici. Altri temono che i lavoratori italiani possano essere comunisti5.

Il differente credo religioso e l’anticomunismo, secondo lo scrittore svizzero – che intratterrà stretti contatti con la rete dell’emigrazione italiana in Svizzera, soprattutto con le CLI – non sarebbero sufficienti a spiegare l’odio nei confronti degli italiani. Esso nascerebbe dalla paura che possano essere più bravi e più abili: «in ogni modo il loro ingegno è diverso, diverso per esempio nell’assaporare la vita nell’essere felici»6. Tale percezione, nonostante gli svizzeri vivessero una condizione sociale privilegiata rispetto agli immigrati, sfociava in atti di disprezzo, generando facili stereotipi, soprattutto nei confronti dei meridionali. Che i meridionali siano sporchi è, da parte nostra, una speranza: perché allora possiamo vantarci, se non sappiamo cantare, di essere almeno puliti. Ma nemmeno questa speranza trova sempre conferma: un medico condotto mi ha assicurato che gli italiani, al contrario dei pazienti locali, si presentano con i piedi lavati. Non direi che si tratta di odio di razza, come è stato scritto nei giornali italiani. Odio verso lo straniero [...]; ciò non è un’ideologia, ma un riflesso. Lo straniero [...] induce all’autocritica. [...] Si ha un bel definirli manodopera straniera: sono creature umane. Gli diamo baracche e, appena possibile, anche appartamenti: un’inserzione apparsa in un quotidiano svizzero, per mezzo della quale si offriva un

  E continua: «Ecco come li definisce la circonlocuzione liberale: coloro che appartengono agli strati sociali meno abbienti, con istruzione insufficiente, si trovano ad essere per tradizione più o meno nemici della potenza dello Stato, o vogliono avere a che fare il minimo possibile con lo Stato medesimo, che per essi significa pressappoco amministrazione dotata di pieni poteri Quest’atteggiamento li rende più vulnerabili di fronte agli slogan politici ed alla propaganda estremista. E il contagio per la popolazione svizzera non deve essere sottovalutato! Se ho ben capito, non si esclude che certi lavoratori italiani, i quali desiderano una riforma fondiaria in Calabria, in modo da non essere più costretti ad espatriare, possano con i loro discorsi diffondere fra la popolazione elvetica idee che la nostra stampa non rende palesi. Certo nessuno teme che la Svizzera, dove esiste un sufficiente livello d’istruzione, possa diventare comunista. Evidentemente ci preoccupa già il fatto che l’anticomunismo – il credo della Svizzera odierna – forse non è considerato come un credo bastante appunto da parte degli strati sociali meno abbienti, della cui manodopera abbiamo bisogno. O si pensa che l’anticomunismo sia un credo sufficiente? [...] L’anticomunismo non è ancora una forza, non è neppure una caratteristica e non è quindi sufficiente», ivi, pp. 8-9. 6  Ivi, p. 9. 5

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pollaio come alloggio per gli italiani, dev’essere considerata un’infelice eccezione7.

L’autocritica, il confronto con l’altro, tanto diverso ma strutturalmente funzionale ai dettami economici, induce a dover ripensare anche alla storia della Svizzera, alla reputazione che il Paese si è fatto e alla propria immagine internazionale. Che la Svizzera goda di un’altissima reputazione all’estero [...] questo lo apprendiamo dai nostri stessi giornali. [...] La nostra esperienza personale ci insegna che chi, oggi, si presenta al mondo come svizzero non gode di alcuna particolare reputazione. Al contrario deve mettersi in concorrenza con altri. [...] La politica conservatrice, la reazione dominante contro l’inforestieramento, è il mezzo più sicuro per fare sì che il non-svizzero, anche se raggiunge la cittadinanza, non possa assimilarsi: ciò che veramente facilita l’assimilazione non è l’appello ai tempi passati, ma la realtà attuale vissuta assieme. Per quanto concerne gli italiani: il risentimento, di cui sono spesso fatto oggetto, è naturale, perché figli di una grande cultura, meno abbienti e meno istruiti di noi, ci fanno sentire la loro possibile superiorità nell’arte del vivere8.

Max Frisch, in maniera provocatoria ma certamente puntale, traccia lo stato delle cose all’indomani dell’accordo fra Svizzera e Italia, descrivendo, già nel 1966, la paura crescente dell’inforestieramento che si manifesterà, in maniera più dura e violenta, durante l’arco del decennio 1965-1975. Probabilmente, forzando i termini generali, lo scrittore anticipa, anche se non l’avrebbe condivisa, la tesi di Samuel Huntington sullo scontro delle civiltà9.   Ivi, pp. 10-11.   Ivi, p. 12. Per quanto riguarda l’italicità nel sapersi distinguere all’estero (anche in Svizzera), per la grande creatività nei campi del design, della moda, della musica e del teatro, si veda la relazione di Sergej Roić, presentata in occasione della XV Convention Mondiale delle Camere di Commercio italiane all’Estero, sul tema «Innovare per competere: il Made in Italy tra Reti, Ricerca e Risorse umane», tenutasi a Lecco dal 21 al 27 ottobre 2006: «Gli italofoni che da più generazioni vivono oltre le Alpi in territorio elvetico sono un esempio o un interessante nucleo di italici nel mondo». Cfr. S. Roić (a cura di), Il percorso dell’italicità, in «Globus et Locus», Lugano-Milano, ottobre 2006, pp. 7-18. 9  «La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divi7 8

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Negli stessi anni, Peter Bichsel, lo scrittore elvetico più noto dopo Frisch e Dürrenmatt, nella sua La Svizzera dello svizzero, racconta in maniera chiara come i suoi connazionali vedessero ed interpretassero loro stessi e quali fossero gli elementi antropologici del loro essere svizzeri. Durante il mio periodo trascorso a Berlino, mi è capitato spesso di attraversare la frontiera tra Berlino ovest e Berlino est. [...] In questo punto di transito ho sempre notato molti svizzeri [...]; dapprima non mi spiegavo per quale dettaglio ero riuscito a riconoscerli. In seguito feci attenzione. [...] Le persone di altre nazionalità estraggono il passaporto dalla borsa solo quando sono davanti al poliziotto oppure lo tengono in mano in modo indifferente, disinvolto; gli svizzeri invece tengono il passaporto bene in vista, il loro passaporto rosso con la croce bianca. Li dovrà difendere, e il fatto che siano svizzeri dovrà allontanare da loro ogni pericolo, dovrà garantir loro dei vantaggi10.

Per Bichsel, gli svizzeri coltivavano la convinzione che l’immagine della propria nazione fosse frutto della loro capacità di fare comprendere «linguisticamente» cosa fosse la Svizzera. L’immagine che della Svizzera si aveva nel mondo e, soprattutto, l’immagine che gli svizzeri avevano del loro Paese sono state costruite durante il periodo della seconda guerra mondiale. Secondo lo scrittore, l’essere stati risparmiati dal conflitto ha contribuito a rafforzare l’autostima degli elvetici e un anticomunismo convinto. Noi svizzeri siamo anticomunisti. Pertanto l’esperienza della guerra ci ha rinsaldati nel nostro anticomunismo. Il fatto che la guerra sia stata combattuta contro i fascisti è diventato ininfluente11.

sioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro»: S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000 (ed. or., The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon&Schuster, New York, 1996). 10   Tratto da La Svizzera dello svizzero, prima edizione: agosto 1967, raccolto in P. Bichsel, La Svizzera. Il virus della ricchezza, Casagrande, Bellinzona, 1990, p. 32. 11  Ivi, p. 35.

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Quanto gli svizzeri fossero stati convinti nel loro anticomunismo, abbiamo avuto modo di riscontrarlo precedentemente. L’elemento centrale di questa analisi è, però, il concetto di unità/unicità. Poiché l’unità Svizzera bella-Svizzera buona-Svizzera progreditaSvizzera umana è ovvia, noi consideriamo ogni critica rivolta a una singola parte come una critica rivolta al tutto. Pertanto da noi qualsiasi critica comincia con un circostanziato riconoscimento del tutto12.

Se queste erano le convinzioni dell’opinione pubblica, a­ llorché lo straniero si trovò irrimediabilmente al centro del dibattito pubblico e politico, individuare un modo efficace per ridurne la presenza – sia sotto l’aspetto numerico che percettivo – divenne il primo punto all’ordine del giorno nell’agenda delle autorità elvetiche. Infatti, il Consiglio federale emanò nel 9 febbraio 1965 il decreto con cui si adottava una doppia limitazione13. Lo scopo era riportare i lavoratori stranieri per ogni impresa al 95% dell’effettivo numero dal 1° marzo 1965 e vietare l’incremento del totale effettivo, con un conseguente funzionamento più restrittivo delle eccezioni. Questo provvedimento era stato preceduto da un altro, il 9 gennaio 1965, il quale rendeva obbligatorio il permesso di soggiorno, senza cui i lavoratori stranieri non potevano entrare in Svizzera14. Non sarebbe stato quindi più sufficiente vantare una semplice promessa di assunzione o un contratto di lavoro. E, inoltre, i permessi di soggiorno non sarebbero stati più rilasciati ai lavoratori stranieri entrati illegalmente. Il tentativo di limitare gli ingressi – volto a calmierare la crescente paura dell’Überfremdung – produsse tuttavia effetti alquanto alterati: limitò il numero dei salariati, frenò lo sviluppo delle imprese in espansione e difese le aziende meno competitive. Conseguentemente, la mobilità della manodopera venne limitata, con l’obiettivo di impedirne il licenziamento da parte delle imprese più concorrenziali. Ne risultò, dunque, una sorta di protezionismo verso i settori più deboli dell’economia. Le autorità si mostrarono ben coscienti di questo inconveniente, ma per il momento non disponevano di altre

  Ivi, p. 36.   Per il double plafonnement si veda E. Piguet, H. Mahnig, Quotas d’immigration, cit., p. 8. 14  C. Buccianti, op. cit., p. 390. 12 13

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soluzioni. La necessità di dover limitare l’immigrazione, malgrado una forte domanda dell’economia, condurrà la Confederazione verso un processo di trial and error15. Nell’ottobre dello stesso anno, una commissione di esperti creata dal Consiglio federale propose di introdurre, dopo una fase di adattamento, una limitazione del contingente globale per gli stranieri a partire dal 1968, vale a dire una sola determinazione di massimale per tutto il Paese, contemporaneamente a una liberalizzazione della mobilità16. Le proposte venivano condivise dall’Ufiaml scatenando, nell’immediato, una dura presa di posizione da parte dei cantoni economicamente più deboli, che avvertivano il rischio di essere marginalizzati. Sull’altro fronte, le organizzazioni padronali, approfittando del protezionismo generato dalla limitazione globale, minacciavano il declino di interi settori economici. Solo i sindacati, da lungo tempo già sostenitori di una determinazione dei massimali globali, appoggiavano l’iniziativa17. Visto il clima venutosi a creare, il Consiglio federale cercò di attutire le tensioni varando i decreti del marzo 1966 e del febbraio 1967. Gli interventi, pur avendo lo scopo di continuare ad imporre riduzioni all’effettivo numero della manodopera straniera, incidevano marginalmente sul contingente globale18. Sebbene fin dal 1964 si osservasse una diminuzione con una successiva stabilizzazione degli ingressi, la proporzione della popolazione straniera rispetto a quella svizzera continuava a crescere, passando dal quasi 15% del 1967 al 18% del 196819. Gli italiani con regolare permesso di residenza, ovvero annuali e domiciliati, crescevano ininterrottamente sino al 1969, toccando quota 531.501 presenze e raggiungendo l’apice nel 1974 con oltre 550.000 unità. Il contingente totale era prevalentemente formato da residenti annuali, che passavano, progressivamente, dal 79,8% del 1964 al 45% del 1972. Il 1972 sarà l’anno in cui per la prima volta il contingente

15   J.M. Niederberger, Die politische-administrative Regelung von Einwanderung und Aufenthalt von Ausländern in der Schweiz. Strukturen, Prozesse, Wirkungen, in J.H. Hoffmann-Nowotny, O.K. Hondrich, op. cit., p. 60. 16   Globalplafonnierung. Cfr. E. Piguet, H. Mahnig, Quotas d’immigration, cit., p. 10. 17   J.M. Niederberger, op. cit., pp. 73-74. 18   I decreti sancirono la riduzione, in rapporto all’anno precedente, del 3% nel 1966 e del 2% 1967, cfr. Ibid. 19  «La population étrangère en Suisse», Ufs, Neuchâtel, 1969.

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Tab. 21. Statistica degli italiani presenti in Svizzera (1964-75) Italiani residenti regolari in Svizzera Residenti annuali

1964 1965 1966 1967 1968 19692 1970 1971 1972 1973 1974 1975

Totale in v.a.

in %

437.212 454.657 483.653 509.930 522.638 531.501 526.579 530.477 544.903 551.768 554.925 520.657

79,8 78,7 76,4 73,4 70,9 68,9 61,7 53,0 45,0 38,9 32,7 27,4

Domiciliati in %

20,2 21,3 23,6 26,6 29,1 31,4 38,3 47,0 55,0 61,1 67,3 72,6

Stagionali1 Totale in v.a.

– – – – – – – – – 6.062 4.259 1.983

Prima del 1973 gli stagionali non venivano separati. Sino al 1973 i conteggi si basavano sulle rilevazioni al 31 dicembre di ogni anno, periodo in cui gli stagionali diminuivano sensibilmente. 2 Iniziativa Schwarzenbach. Fonte: Ufficio federale degli stranieri, 2002, sulla base di J.M. Niederberger, La politica di integrazione della Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale, in E. Halter (a cura di), Gli italiani in Svizzera, cit., p. 107. 1

italiano dei residenti regolari sarà ad appannaggio dei domiciliati, con il 55% sul totale (tab. 21). Inoltre, gli stagionali venivano conteggiati separatamente solo a partire dal 1973. Prima rientravano «virtualmente» nel computo globale degli italiani, anche l’Ufficio federale degli stranieri lo effettuava il 31 dicembre, quando generalmente questo tipo di manodopera non era presente. La situazione si complicò con l’avvio della fase referendaria contro l’inforestieramento, preceduta da due eventi significativi della storia dell’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra: la trasmissione «Un’ora per voi» e la tragedia di Mattmark. Questi due momenti, probabilmente, hanno avviato il cambiamento nella percezione svizzera dei lavoratori italiani. ­­­­­186

2. «Un’ora per voi», una sfida chiamata integrazione Signore e signori, buonasera. Voglio fare conoscenza? Sono Corrado, e sono qui per presentarvi questo programma. I nostri incontri settimanali dureranno per parecchio tempo. Quindi cerchiamo subito di diventare buoni amici. Se siete disposti a considerarmi uno dei vostri, ne sarò veramente lieto20.

Iniziò così, in un sabato di fine maggio del 1964, uno degli esperimenti più significativi ed importanti verso la progressiva integrazione degli italiani in Svizzera. «Un’ora per voi» fu la prima coproduzione fra due enti televisivi europei e diverrà, sino al 1989, un appuntamento abituale nei palinsesti della Televisione Svizzera italiana (TSI), stabilendo il primato di longevità per una trasmissione televisiva. Era la prima volta che una rubrica in lingua italiana veniva trasmessa sull’intero circuito nazionale svizzero, «divenendo l’unica occasione regolare di consumo televisivo comune della Confederazione multilingue»21. La rubrica fu ben presto un punto di riferimento per gli immigrati, tanto che migliaia saranno le lettere inviate alla redazione del programma. Un decennio dopo, anche oltreconfine, si utilizzava la televisione come strumento per unire le diversità. L’intento fu, in qualche misura, ribaltare la pessima immagine che l’opinione pubblica svizzera aveva degli italiani, dando risalto alle eccellenze artistiche del Belpaese. Lo spazio televisivo fu da subito considerato anche punto di incontro tra svizzeri e italiani. La rubrica risentì di una congiuntura culturale favorevole, nella quale la collaborazione con la RAI fu determinante, sia dal punto di vista tecnologico che contenutistico. Inoltre, si riteneva che la Tv avesse anche il ruolo di facilitare l’integrazione della comunità immigrata22. D’altronde, il nuovo accordo di emigrazione 20   Per l’occasione, Corrado – noto volto della Radiotelevisione italiana – si fece accompagnare da due vallette, si rivolse in emissione comune nazionale ai telespettatori della televisione della Svizzera italiana, Svizzera francese e Svizzera tedesca per presentare la nuova rubrica settimanale per i lavoratori italiani nella Confederazione. Il copione era firmato da Paolini e Silvestri, nomi noti della RAI: cfr. M. Gaggini Fontana, Un’ora per voi. Storia di una Tv senza frontiere (19641989), Casagrande, Bellinzona, 2009, p. 81. 21   Ivi, p. 11. 22   Negli statuti aziendali, infatti, fra le missioni proprie del servizio pubblico radiotelevisivo si citava esplicitamente la considerazione per gli stranieri che vivono in Svizzera: cfr. ivi, p. 12.

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del 1964 impegnava esplicitamente le autorità elvetiche a favorire l’adattamento dei lavoratori italiani alle condizioni di vita in Svizzera. Così anche il Rapporto della Commissione federale, incaricata dello studio del problema dei lavoratori stranieri, raccomandava «l’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa quali strumenti utili a favorire la comprensione degli autoctoni verso gli stranieri; a facilitare l’adattamento degli immigrati e a favorire in ultima analisi l’assimilazione fino alla naturalizzazione»23. A sua volta un Seminario organizzato dall’UNESCO sui «Problemi della manodopera straniera in Svizzera» aveva individuato nel giovane mezzo televisivo lo strumento ideale per l’educazione dei lavoratori immigrati. Le raccomandazioni del Seminario mettevano in guardia i produttori dei programmi dal realizzare un’emissione ghettizzante, privilegiando invece un’offerta capace di coinvolgere anche la popolazione svizzera, in modo da sensibilizzarla sui problemi dei lavoratori stranieri. Se da un lato «Un’ora per voi» aveva offerto tutte le caratteristiche capaci di favorire il potenziale integrativo della televisione, dall’altro la rubrica si era proposta fin dal suo esordio di mantenere il legame dell’emigrato con la sua patria d’origine. Una funzione che la coproduzione italo-svizzera ha garantito fino alla ricezione diretta dei programmi della RAI grazie allo sviluppo della tecnologia satellitare, che ha avviato una vera e propria rivoluzione nel consumo mediale, soprattutto degli emigrati24.

Il programma favorì, all’interno della comunità italiana, la nascita del processo di formazione di nuove identità transnazionali, anticipatrici di una coscienza collettiva comunitaria. Si trattava di una formula transfrontaliera o bi-nazionale che ha accompagnato, e almeno in minima parte incoraggiato, la costituzione di un’identità collettiva «sospesa» tra assimilazione e biculturalismo della comunità nata dal flusso migratorio dei lavoratori italiani, sviluppatasi di generazione in generazione in Svizzera. Un’identità collettiva capace di esprimere il comune denominatore di vari livelli e varie forme di integrazione individuale, che spaziavano tra l’estremo della naturalizzazione e del ritorno definitivo al paese d’origine, fino alla condizione innovativa della riconosciuta doppia nazionalità.

23   Studienkommission, Das Problem der ausländischen Arbeitskräfte, Berna, Bundesamt für Industrie, Gewerbe und Arbeit, 1964, p. 82. 24  M. Gaggini Fontana, op. cit., p. 17.

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L’attenzione all’«italianità» era comunque già riscontrabile anni prima nelle trasmissioni di Radio Monte Ceneri e l’idea di un programma specifico per i lavoratori italiani in Svizzera si era già fatta strada nel luglio 1961, ma il progetto non aveva visto la luce: «Uno spazio televisivo dedicato ai lavoratori stranieri avrebbe contribuito a correggere quell’immagine di paese xenofobo che la Svizzera andava guadagnandosi in quegli anni»25. Si trattava, pertanto, di un’operazione culturale ma anche politica. La rubrica televisiva non si limitò a segnalare le vicende liete dell’emigrazione italiana, ma seguì anche le tristi, come la tragedia di Mattmark: «con il suo programma settimanale contribuiva a costruire un clima di reciproca comprensione tra i lavoratori stranieri e la popolazione svizzera»26. All’inizio degli anni Sessanta, la redazione del Telegiornale svizzero era a Zurigo. «Per andare a leggere le notizie dovevamo scendere in strada, evitare tram, passare accanto alle lucciole della Duourstrasse, correndo»27: sono queste le parole con cui il ticinese Dario Robbiani, storica figura per l’emigrazione italiana, ricorda i primi anni nella città. La sua attività di giornalista iniziò sulle colonne di «Libera Stampa». Trasferitosi alla fine degli anni Cinquanta a Zurigo, diresse «L’Avvenire dei Lavoratori» prima di entrare nella redazione in lingua italiana del telegiornale svizzero, di cui successivamente diverrà responsabile. Fra il 1969 e il 1979, assunse la carica di direttore del telegiornale centralizzato. Il ruolo rivestito e il percorso professionale di Dario Robbiani sulla carta stampata sono legati alle sedi della stampa socialista ed allo strettissimo contatto con la FCLIS. Secondo Robbiani, il successo di «Un’ora per voi» si deve a vari fattori: – alla professionalità e alla simpatia dei presentatori, Corrado e Mascia. Lui si mette sovente nei panni dell’emigrato, biascica il francese e il tedesco, cerca di ambientarsi, nonostante sia afflitto dal mal di paese. Mascia, invece, è composta, precisa, metodica, come una vera svizzerotta. Nelle baracche degli emigranti ha occupato il posto di Gina Lollobrigida e Sophia Loren. Appuntata alla parete della mensa c’è la sua fotografia; – all’utilizzo dell’italiano, mentre abitualmente le notizie in Tv erano in tedesco o in francese, pertanto capite a metà;   Ivi, p. 61.   Parole del consigliere federale Wahlen, dopo la tragedia di Mattmark, ibid. 27  D. Robbiani, Cìnkali, cit., p. 21. 25 26

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– alla cronaca della vita associativa. Associazioni, club, sezioni di partito, sindacati, missioni cattoliche, CLI, circoli ricreativi, gruppi regionali (siciliani, sardi, lucani, veneti, calabresi, napoletani, valtellinesi) e club calcistici (i tifosi della Juve, dell’Inter e del Milan) creavano notizie e commenti, alimentando il circolo informativo; – ai saluti da casa. Gli emigrati e i parenti rimasti in Italia dialogavano grazie alla televisione. Non esisteva la diretta, i messaggi erano sequenze filmate, come indimenticabile, ad esempio, un «saluto dalla Calabria». La moglie, il figlio e la madre fanno «ciao-ciao Giuseppe» (emigrato in Svizzera) dicendogli di non preoccuparsi, che al nonno non fanno mancare nulla. Il filmato riprendeva un momento funebre con la foto della buonanima. E la voce fuori campo insisteva: «Vedi non gli facciamo mancare niente, neppure i fiori»; – al mix tra informazione, nostalgia, consolazione, aria di casa e spettacolo. Gli emigranti soffrivano d’ulcera e di depressione. Ingoiavano solitudine e incomprensioni. Anche qualche cattiveria. Taluni erano affetti da quella che gli psicologi chiamavano ipocondria cronica. Le canzonette e le scenette comiche del programma televisivo aiutavano a rendere meno forestiera la Svizzera e più vicina l’Italia28. In Cìnkali, racconto autobiografico in cui Robbiani ripercorre gli anni Sessanta e Settanta della propria attività di giornalista, si ritrova la microstoria di tante piccole vicende dell’emigrazione quotidiana. È per queste ragioni che, negli anni Settanta, «Un’ora per voi» aveva conquistato uno spazio vitale nella comunità italiana ed era divenuto un abituale punto di riferimento informativo. Inoltre, verso la fine degli anni Sessanta, gli atteggiamenti stavano mutando: gli ascoltatori non erano più attirati esclusivamente da varietà e canzonette, ma sentivano il bisogno di un contatto vero con la società che li accoglieva. Stando ai calcoli dei responsabili delle emissioni, in media ogni anno arrivavano dalle 3.000 alle 4.000 lettere (tab. 22). Questi dati sono reperibili in una lunga ed articolata nota inviata alla FCLIS, nella quale si chiede di intervenire nei confronti della RTS, per evitare che l’orario della messa in onda cambi, passando dalle 19.00 alle 06.0029.

  Ivi, pp. 29-30.   Nel 1976 la RTS propose, adducendo questioni legate ai palinsesti, di cambiare l’orario di «Un’ora per voi» dalle abituali 19.00 alle 06.00. La verità era che si voleva oscurare il successo ottenuto dalla trasmissione. Lettera «Osservazioni sulla proposta di cambiamento dell’orario di diffusione della trasmissione per i lavorato28 29

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Tab. 22. Lettere inviate a «Un’ora per voi» per aree di residenza degli italiani in Svizzera (1970-1975)

1970 1971 1972 1973 1974 1975

Svizz. tedesca

Svizz. francese

Svizz. italiana

Totale

2.291 2.389 2.531 2.804 3.196 3.778

583 682 701 627 691 754

160 143 161 164 148 193

3.034 3.214 3.393 3.595 4.035 4.725

Fonte: elaborazione dalla lettera inviata da Guido Zenari alla FCLIS, 16 dicembre 1976. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18.

Considerata l’opportunità di avere a disposizione un canale di amplissima diffusione, la Federazione delle Colonie instaurò rapporti di collaborazione per la promozione e la sensibilizzazione verso le sue iniziative e, in contemporanea, utilizzò la trasmissione per promuovere la propria attività di formazione degli emigrati. CORSI PROFESSIONALI PER EDILI 1968/69 [...] Onde rendere noto al maggior numero possibile di connazionali l’apertura dei nostri corsi professionali, come da acclusa nota, Vi saremmo grati se provvedeste a dare comunicazione nel corso della Vostra popolare trasmissione. Qualora lo riteniate opportuno, l’annuncio potrà essere ripetuto più volte30.

Con la scusa della sensibilizzazione, la FCLIS spingeva affinché la televisione formasse le coscienze dell’enorme massa di manodopera italiana, che progressivamente si stanziava in Svizzera. Non sempre, però, le richieste venivano esaudite. Da parte della Tv svizzera, la maggiore preoccupazione era non correre il rischio di essere accusata di velata politicizzazione della trasmissione, o peggio di promuovere temi in netto contrasto con le scelte delle stesse autorità federali. ri italiani» inviata alla FCLIS, 18 dicembre 1976. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 30   Lettera della FCLIS alla TSI (Televisione Svizzera italiana) e alla RSI (Radio Svizzera italiana), Zurigo, 28 agosto 1968. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18.

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abbiamo ricevuto la sua lettera del 2 corrente a nome del Comitato Direttivo del Centro di Contatto per italiani e svizzeri, e la ringraziamo. Per quanto concerne le sue critiche, che apprezziamo in modo particolare specialmente perché pacate e costruttive, dobbiamo precisare che la trasmissione «Un’ora per voi» ha deliberatamente e decisamente un carattere ricreativo, e ciò in base a precisi accordi tra la TV svizzera e la RAI-Radiotelevisione italiana, conformi ai limiti imposti dalla concessione di cui gode la SSR. Che sia giunto il momento di mutare totalmente la trasmissione è appunto l’argomento di base delle prossime discussioni tra gli Enti televisivi interessati. Circa il particolare dell’intervista con minutaggio preciso, è ovvio fosse una intervista da mettere in un brevissimo inserto del telegiornale. Sappiamo anche noi che il problema dei figli dei lavoratori italiani non può essere liquidato in quel modo, ma ripetiamo, si trattava di dare una notizia e non di avviare una tavola rotonda sull’argomento. [...] Siamo d’accordo con le conclusioni da voi formulate, tuttavia non vorremmo fossero troppo lontane dalla realtà concreta31.

In questo specifico caso, più che politicizzare, l’intento della trasmissione era alzare il livello d’attenzione sulla questione dei figli degli stagionali. La lettera appena citata era indirizzata al «Centro di contatto per gli italiani e svizzeri», di cui faceva parte anche la FCLIS. Il Centro era uno degli strumenti che la Confederazione si diede all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo accordo con l’Italia, per facilitare l’integrazione nella società ospitante. Eloquente è il nome, «per italiani e svizzeri». Le Kontaktstellen für Ausländer und Schweizer (denominazione che acquisirà solo a partire dal 1974) furono istituite nel 1967 in tutte le principali città elvetiche. Una delle sedi più attive ed importanti fu Zurigo32. In definitiva, «Un’ora per voi» senza dubbio riuscì a formare la coscienza di una collettività, quella degli emigrati, ma soprattutto fu lo strumento attraverso il quale, lentamente, la percezione che gli svizzeri avevano dei lavoratori ospiti mutò. Lo strumento d’in31   Lettera della TSI al Centro di contatto per gli italiani e svizzeri, Lugano, 7 gennaio 1971. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 32   Le Kontakstellen erano enti territoriali di emanazione cantonale, laici e apolitici, con lo scopo di facilitare il processo d’integrazione tra svizzeri e italiani. Miravano alla sensibilizzazione dei primi, soprattutto riguardo alle condizioni nelle quali versavano i tanti stagionali in Svizzera e, soprattutto, concentravano le attività nell’integrazione scolastica. Cfr., Protokoll der Gründungsversammlung vom 11.11.1967. SSZ, f. ZK, b. Mitgliederversammlungen - Ar 48.10.1.

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formazione di massa ebbe un ruolo determinante nel sottoporre al grande pubblico un momento decisivo della storia della presenza italiana in Svizzera, l’incidente di Mattmark. Come spesso accade, sono principalmente gli avvenimenti tragici a rappresentare lo spartiacque percettivo, indentitario e sociale per l’opinione pubblica di un Paese o di un dato territorio. 3. Mattmark: la Marcinelle dimenticata L’Elektrowatt, società appaltatrice del cantiere per la costruzione della diga di Mattmark, iniziò la progettazione nel 1954. Se per la sicurezza dell’opera furono effettuati innumerevoli sondaggi geologici, calcoli geofisici, trivellazioni e perizie glaciologiche, per contro non fu adottata alcuna misura di prevenzione sul luogo in cui costruire le baracche in cui avrebbero vissuto gli operai e per le eventuali vie di fuga in caso di slavina33. Infatti le baracche furono piazzate «ad occhio»34 sotto la lingua del ghiacciaio, nonostante, appena cinque anni prima, nel 1949, a soli 100 metri dal punto esatto dove avverrà il tragico evento dell’agosto del 1965, fosse già avvenuta una catastrofe simile che era costata la vita a 10 persone, e nonostante che si fosse già a conoscenza delle precarie condizioni del ghiacciaio stesso, che già tra il XVII e il XX secolo era stato teatro di numerosi incidenti35. Fu così che, alle 17.15 del 30 agosto 1965, una massa di due milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti si staccò dal ghiacciaio Allalin, seppellendo sotto 50 metri 88 lavoratori degli oltre 600, tra tecnici ed operai, impegnati nella costruzione della diga di Mattmark. Pochi istanti prima che la lingua di ghiaccio si staccasse, le persone che perderanno la vita, istintivamente, si erano spostate verso le baracche in cerca di rifugio, inconsapevoli che la massa enorme si sarebbe diretta   M.R. Vivian, La catastrophe du Glacier Allalin, in «Revue de géographie alpine», tome 54, n. 1, 1966, pp. 98-101. 34   D. Robbiani, Cìnkali, cit., p. 111. 35   Per una prima analisi di carattere tecnico-ingegneristico sul comportamento del ghiacciaio Allalin prima del 1965, si veda F.A. Forel, Les variations périodiques des glaciers, Genève: Commission internationale des glaciers, 1895; O. Lütschg, Über Niederschlag und Abfluß im Hochgebirge, Sonderdarstellung des Mattmarkgebietes, Zentralanstalt, Veröffentlichung der Hydrologischen Abteilung der Schweizerischen Meteorologischen. Zürich: Schweizerischer Wasserwirtschaftsverband, XIV, 1926. 33

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verso quel punto. La quantità di ghiaccio e detriti che si riverserà sul cantiere renderà i soccorsi e soprattutto il recupero delle salme estremamente difficili: ci vorranno più di 15 giorni. Delle 88 vittime, 56 erano italiani (di cui 17 provenienti dalla provincia di Belluno, 7 da S. Giovanni in Fiore, Cosenza ), 24 svizzeri, 3 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide36. Di questi, 37 erano celibi e 51 sposati; gli orfani saranno 79 e le vedove in stato di 36  Appare doveroso riproporre l’elenco delle vittime italiane per regione di appartenenza. Abruzzo e Molise: NASUTI Camillo, 22 anni, Lanciano (Chieti); PETROCELLI Reginaldo, 30 anni, Acquaviva di Isernia (Campobasso); INNAURATO Raffaele, Gessopalena (Chieti); BOZZA Ginetta, Gessopalena (Chieti); PAPA Giovanni, 41 anni, Pagnoni Campoli (Teramo). Calabria: AUDIA Giuseppe, 36 anni, San Giovanni in Fiore (Cosenza); COSENTINO Gaetano, San Giovanni in Fiore (Cosenza); LA RATTA Fedele, 48 anni, San Giovanni in Fiore (Cosenza); LA RATTA Francesco, 20 anni, figlio di Fedele; LORIA Bernardo, 39 anni, San Giovanni in Fiore (Cosenza); TALERICO Antonio, 31 anni, San Giovanni in Fiore (Cosenza); VELTRI Salvatore, 20 anni, San Giovanni in Fiore (Cosenza). Campania: ARMINIO Donato, 20 anni, Bisaccia (Avellino); CESARANO Antonio, 40 anni, Pompei (Napoli); DI NENNA Umberto, Montella (Avellino). Emilia Romagna: MINOTTI Primo, 60 anni, S. Carlo di Cesena (Forlì); MINOTTI Tonino, 22 anni, figlio di Primo; CORBELLINI Sergio, Piacenza. Piemonte: CANDUSSO Mario, 36 anni, Domodossola (Novara); ZAVATTIERI Angelo, Domodossola (Novara). Puglia: GRECO Giuseppe, 33 anni, Gagliano del Capo (Lecce); SIMONE Antonio, 40 anni, Tiggiano (Lecce); CORSANO Pio, Ugento (Lecce). Sardegna: ACHENZA Francesco, 38 anni, Uri (Sassari); DESSÌ Olivio, 35 anni, Senorbì (Sardegna); FLORIS Antonio, Orgosolo (Nuoro). Sicilia: GUICCIARDO Giuseppe, 33 anni, Castelvetrano (Trapani); LO GIUDICE Salvatore, Giardini (Messina); MARCIANTE Vincenzo, Partanna (Trapani). Toscana: FIGLIE Paolo, Carrara. Veneto: ACQUIS Giancarlo, 22 anni, Belluno; CASAL Aldo, 19 anni, Sospirolo (Belluno); DE RECH Celestino, 39 anni, Sedico (Belluno); DAL BORGO Virginio, 43 anni, Pieve d’Alpago (Belluno); DE MICHIEL Arrigo, Lorenzago (Belluno); FABBIANE Mario, 40 anni, Sedico (Belluno); PESACANE Luigi, 36 anni, San Giovanni Lupatoto (Verona); ZAZIO Giovanni, 27 anni, Sedico (Belluno); COFEN Leo, Valleselle di Cadore (Belluno); BARACCO Giovanni, Domegge di Cadore (Belluno); CIOTTI Fiorenzo, Sotto Castello di Cadore (Belluno); DA RIN Silvio, Pelos di Cadore (Belluno); DAMBROS Lino, Seren del Grappa (Belluno); FEDON Iginio, Valleselle di Cadore (Belluno); PINAZZA Ilio, Domegge di Cadore (Belluno); PINAZZA Rubelio, Domegge di Cadore (Belluno); TABACCHI Enzo, Sotto Castello di Cadore (Belluno). Trentino: DAL DON Ottorino, 20 anni, Sagron Mis (Trento); DEGARA Ferdinando, 29 anni, Tirano di Sotto (Trento); RENON Costante, 21 anni, Sagron Mis (Trento); APOLLONI Primo, Pieve di Bona (Trento) ); FURLETTI Gino, 39 anni, della provincia di Trento. Friuli Venezia Giulia: DE CILIA Mario, 37 anni, Cormons (Gorizia); CECCON Alessio, Torreano di Cividale (Udine); SPECOGNA Luciano, Torreano (Udine). Del cinquantaseiesimo italiano non si conoscono le generalità. Cfr. «Corriere di Napoli», 2 settembre 1965, p. 1.

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gravidanza 537. Se la sciagura fosse accaduta prima, avrebbe assunto dimensioni abnormi, come testimoniarono le parole di Mario Rapassi, sopravvissuto per miracolo: «se fosse accaduto verso le 13.00, i morti sarebbero stati 600!»38. La tragedia fu molto seguita dai media, un po’ come accadde, dieci anni prima, per quella di Marcinelle39. Furono oltre duecento i giornalisti, svizzeri e corrispondenti esteri, che raccontarono al mondo con ampi servizi sulla stampa e soprattutto in televisione, quanto accaduto e in che modo operassero i soccorsi. Le immagini sconvolgenti della valanga che aveva stroncato la vita di 88 lavoratori furono viste da milioni di persone. Per la Svizzera fu «un vero e proprio shock»40. La sciagura di Mattmark suscitò scalpore in tutta Europa e rappresenta, ancora oggi, la più grave catastrofe della storia svizzera dell’edilizia41. Memorabili saranno gli articoli e i resoconti di Dino Buzzati sul «Corriere della Sera», in particolar modo l’amara favola (1° settembre 1965). La valle del Saas è conosciuta in Italia dai fortunati che vanno in Svizzera a sciare, da quelli che vanno in Svizzera a giocare a golf che d’estate viaggiano all’estero con la loro automobile, frequentano i grandi alberghi o posseggono ville tra gli abeti. Ma a Cosenza, Avellino, Forlì, Belluno, i nomi di Saas, Allalinhorn, Saas Fee, Saas Almagell sono parole senza senso. [...] L’emigrazione è una favola che divora ma che può portare molto lontano e in alto. Una stagione? Un anno? Cinque anni? La vita? Anche il più povero e umile manovale che non ha finito neppure le elementari, mentre sale sul treno o sulla corriera, pensa a coloro che tornarono ricchi, che conquistarono le Americhe, che diventarono potenti e famosi. [...] Che importa se ai piedi di tante conquiste si stendono a perdita d’occhio 37   Questo dato risulterà importante successivamente, quando bisognerà stabilire l’entità e le modalità di risarcimento per i familiari delle vittime. Cfr. «Aktiv», 19 ottobre 1977. SSZ, f. GBI (Gewerkschaft Bau und Industrie), b. Dossier Mattmark - GBI 04A-0074, nr. 3. 38   D. Robbiani, op. cit., p. 113. 39   L’8 agosto del 1956, in Belgio a Marcinelle, nel distretto minerario di Charleroi, avviene la prima grande tragedia dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra, nella quale persero la vita 262 minatori, di cui 136 italiani. Cfr. A. Morelli, In Belgio, cit.; M. Colucci, Lavoro in movimento, cit.; A. Forti, Da Roma a Marcinelle, Labor, Marcinelle, 2004; P. Di Stefano, La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956, Sellerio, Palermo, 2011. 40   M. Gaggini Fontana, op. cit., p. 18. 41  Unia, Non dimentichiamo Mattmark. Mattmark nie vergessen. Ne jamais oublier Mattmark, Bern, 2005, p. 16.

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i cimiteri? La ricchezza, la gloria, la grande occasione aspettano di là dei confini. Eccola, ahimè, la gloria, poveri ragazzi. Le prime pagine dei giornali sono per voi, a voi dedicate le trasmissioni radio e TV. I titoli che vi riguardano sono più grossi che per Sofia Loren e gli astronauti. I vostri nomi stampati a tutte lettere, telegrammi di capi di Stato, preghiere di vescovi, di cardinali e del papa, reggimenti mobilitati, aerei ed elicotteri che vanno e vengono42.

Nell’immediato giunsero dichiarazioni di cordoglio da tutto il mondo e si attivò subito una catena di solidarietà e di soccorso che porterà ad un’ingente raccolta di fondi per i parenti delle vittime e alla costituzione di una «Fondazione Mattmark», della quale faranno parte Cantone Vallese, Croce Rossa Svizzera, Società Svizzera di Radiodiffusione e televisione, Unione Sindacale Svizzera, Confederazione Sindacati Cristiani Svizzeri, Mattmark SA, Consiglio degli Ingegneri Elektrowatt SA, ambasciata italiana43. Inoltre, sul versante elvetico, in questa fase saranno molto attivi, tra l’altro, l’allora Flel (Federazione svizzera dei lavoratori edili e del legno) e il SOS (Soccorso operaio svizzero), i quali si coordineranno e collaboreranno spesso con i sindacati confederali italiani. Anche il mondo dell’associazionismo in emigrazione presente in Svizzera avrà un ruolo di primo piano nelle fasi più acute dell’emergenza umanitaria. Tra tutti, il contribuito maggiore verrà fornito dalle Mci e dalle CLI. Quali furono le prime reazioni all’indomani della tragedia? Inizialmente i giornali sia svizzeri che italiani parlarono di «catastrofe naturale»44 e di «destino, morte e distruzione»45. Poco dopo iniziarono a farsi strada le prime riflessioni sull’efficacia delle misure di sicurezza adottate. Nel documento «Vittime del lavoro» l’Uss scriveva: «Dovremmo pur chiederci se sono state adottate tutte le

  «Corriere della Sera», 1° settembre 1965.   Statut de la Fondation Suisse de Mattmark, 29 octobre 1965. SSZ, f. SAH (Schweizerisches Arbeiterhilfswerk), b. Dossier Mattmark - Ar 20.920.7. I fondi raccolti in favore dei familiari delle vittime di Mattmark, per quanto riguarda la Svizzera, al 31 dicembre 1976, ammonteranno a quasi 4 milioni di franchi (donazioni 2.250.701; Croce Rossa 397.333; Canton Vallese 100.000; Delegazione italiana di Berna 93.563; Kraftwern Mattmark AG 40.000; Elektrowatt AG 14.650; Sindacati 55.000; Dipartimento finanze Canton Vallese 307.266). Cfr. «Aktiv», 19 ottobre 1977. SSZ, f. GBI (Gewerkschaft Bau und Industrie), b. Dossier Mattmark - GBI 04A-0074, nr. 3. 44  «Neue Zürcher Zeitung», 1 September 1965. 45  «Corriere delle Sera», cit. 42 43

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misure necessarie»46. Il ghiacciaio di Allalin, infatti, era noto per la sua instabilità. Il 17 settembre 1965 partì l’inchiesta ufficiale e il 22 settembre le prime perizie furono affidate a una Commissione internazionale di esperti47. L’Elektrowatt AG, capofila del consorzio incaricato della costruzione della diga (di cui facevano parte 51 delle 88 vittime) insieme alla Swissboring AG, impresa addetta ai lavori di sondaggio (32 vittime), finirono sotto accusa48. L’ombra della responsabilità gravava però anche sulla SUVA e sulle autorità vallesi competenti per il rilascio delle autorizzazioni. Per la prima volta nella storia elvetica, un sindacato (Flel) sollevò domande critiche, pur al tempo stesso non formulando accuse precipitose contro l’azienda committente. Poco dopo la tragedia la direzione dei lavori decise la continuazione della costruzione della diga anche nella zona a rischio e, sebbene la Flel nutrisse riserve in proposito, si astenne da un’aperta opposizione. Le voci di critica si moltiplicheranno, invece, sulla stampa elvetica e soprattutto all’estero, in Italia. Se il «Corriere della Sera» pubblicherà una serie di articoli sulla tragedia e il doloroso problema dell’emigrazione, i principali quotidiani vicini ai partiti di sinistra («Avanti!» e «l’Unità»)49, saranno molto più incalzanti nell’indagare le cause della tragedia, identificando lacune nelle misure di sicurezza   Unia, op. cit., p. 16.   I tre esperti incaricati, Brockamp (Università di Münster), Liboutry (Università di Grenoble) e Müller (Centro di ricerca di Karlsruhe), consegneranno la relazione nell’estate del 1967, ma i lavori della Commissione d’inchiesta si concluderanno solo il 13 gennaio del 1970. Per quanto attiene la relazione tecnica, si veda SSZ, f. GBI (Gewerkschaft Bau und Industrie), b. Dossier Mattmark - GBI 04A-0074, nr. 2; per il cronoprogramma dei lavori della Commissione, si veda Karl Aeschbach, Bericht zur Mattmark Katastrophe, August 1972, p. 35. SSZ, f. GBI, b. Dossier Mattmark - GBI 04A-0074, nr. 3. 48   Le restanti 5 vittime lavoravano per conto di ditte diverse: Schmalz&Co AG di Berna, Kummler&Matter di Zurigo, Baumann Autotrasporti di Sass-Grund e Neumatic di Zurigo. Si veda il resoconto sul sopralluogo effettuato da Ezio Canonica sul sito della tragedia dal 1° al 4 settembre 1965, A proposito di Mattmark. La macabra speculazione continua (s.d.). SSZ, f. GBI (Gewerkschaft Bau und Industrie), b. Dossier Mattmark - GBI 04A-0074, nr. 1. 49   Se l’«Avanti!» manterrà una posizione accusatoria nei confronti delle imprese e delle autorità elvetiche, dovuta sostanzialmente al fatto che il Psi l’anno prima era entrato a far parte del primo governo di centrosinistra italiano insieme alla Dc, «l’Unità», organo di stampa ufficiale del Pci, si scagliò come opposizione parlamentare contro le mancate misure di salvaguarda adottate dal governo italiano. 46 47

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sul cantiere. Per la prima volta, il governo italiano (probabilmente memore della tragedia di Marcinelle e di quella del Vajont50) intervenne con celerità fattiva. La questione fu portata alla Camera da un gruppo di parlamentari (Busetto, Ingrao, Miceli, Laconi, Pajetta, Macaluso, Maulini, Corghi, Lizzero, Poeri e Giorgi) nella seduta del 27 settembre 1965, mediante interrogazione al governo volta a sapere quali misure immediate siano state adottate per assicurare tutta l’assistenza necessaria alle famiglie dei connazionali periti nella sciagura; [...] quali passi siano stati compiuti presso il governo elvetico, al fine di ottenere la promozione di una severa inchiesta che accerti le cause e le responsabilità civili e penali della sciagura rivendicando la partecipazione a tale inchiesta di geologi e glaciologi italiani; [...] e ciò per il fatto che dalle prime notizie risulta, in effetti, che il ghiacciaio Allalin, sovrastante il villaggio-cantiere di Mattmark, aveva dato segno, negli ultimi anni, di pericolosi movimenti e frane e che, specialmente nei giorni precedenti la sciagura, tali movimenti si erano così paurosamente accentuati al punto da provocare, nel corso della giornata di sabato 29 agosto, la rottura delle tubazioni dell’acqua che alimentavano il cantiere51.

50  La tragedia del Vajont ebbe luogo il 9 ottobre del 1963: alle 22.39 circa, 270 m3 di roccia si staccarono dal versante settentrionale del monte Toc, al confine tra le province di Belluno e Udine, provocando la distruzione di diversi comuni situati nelle valli del Piave e lungo il lago del Vajont. Le vittime saranno 1.910. La tragedia fu dovuta alle precarie condizioni climatiche e alle negligenze nella gestione dei possibili pericoli dovuti al particolare assetto idrogeologico sul versante del monte Toc. Le forti reazioni dell’opinione pubblica italiana ed europea fecero ripensare all’utilità delle grandi infrastrutture energetiche in Italia. Inoltre, nel 2008 durante l’International Year of Planet Earth dell’ONU, il disastro del Vajont fu citato – assieme ad altri quattro – come un caso esemplare di «disastro evitabile», causato dalla scarsa comprensione delle scienze della terra e, nel caso specifico, dal «fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che stavano cercando di affrontare». Il caso Vajont ha prodotto negli anni un’ampia bibliografia, tra i lavori più significativi: M. Paolini, G. Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti, Milano, 1997; M. Corona, Vajont: quelli del dopo, Mondadori, Milano, 2006; M. Passi, Vajont senza fine, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2003; M. Roubault, Le catastrofi naturali sono prevedibili, Einaudi, Torino, 1970; C. Datei, Vajont, la storia idraulica, Cortina, Milano, 2002; P. Corrias, Sotto la diga del Vajont, che un giorno spense tutte le luci del Miracolo, in Luoghi comuni. Dal Vajont a Arcore, la geografia che ha cambiato l’Italia, Rizzoli, Milano, 2006; G. Casagrande, Il mondo che scomparve in una notte, IF Press, Morolo, 2008. 51  Camera dei deputati - IV legislatura, Atti parlamentari anno 1965, discussioni del 27 settembre, Tipografia della Camera dei deputati, Roma, pp. 17307-17328.

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I parlamentari chiedevano inoltre al presidente del Consiglio e al ministro degli Affari esteri se ritengano doveroso impartire le necessarie disposizioni affinché tutte le spese per il trasporto, per la tumulazione e le onoranze civili ai caduti del lavoro siano sostenute dallo Stato; [...] se ritengano necessario disporre che da parte dello Stato si intervenga perché le famiglie dei caduti siano prontamente ed adeguatamente risarcite; [...] se credano sia giunto finalmente il momento per la promozione di una inchiesta sulle condizioni di vita e di lavoro degli emigrati italiani all’estero52.

L’interpellanza, lo scalpore che la tragedia aveva suscitato e le pressioni che nel frattempo giunsero da parte della comunità degli italiani residenti in Svizzera, fecero sì che venisse promulgata una legge speciale, la n. 1231 del 29 ottobre 1965, per riconoscere un assegno alle famiglie dei lavoratori italiani periti nella sciagura53. Sul versante elvetico, invece, numerose saranno le iniziative per raccogliere donazioni; si temeva, infatti, che le famiglie delle vittime fossero lasciate nella miseria più totale. I sindacati, in particolar modo Flel e Uss, assumeranno, attraverso i propri organi di stampa, posizioni pubbliche molto forti in materia di diritti assicurativi e pensionistici a favore della manodopera migrante, avviando anche un grande dibattito sui rischi di infortunio e malattia legati al mondo del lavoro. Tuttavia, nonostante i risultati della Commissione internazionale di esperti fossero già noti nell’estate del 1967, i tempi dell’inchiesta penale furono lunghissimi: dopo quattro anni il processo penale ancora non era iniziato, sicché la stampa elvetica accuserà le autorità vallesi di non essere all’altezza di un caso così complesso. Di fatto, solo il 22 febbraio 1972, a sei anni e mezzo dalla tragedia, si terrà la prima udienza di fronte al Tribunale distrettuale di Visp. Diciassette erano gli imputati chiamati a rispondere del reato di omicidio colposo, tra i quali direttori, ingegneri e due funzionari della SUVA (principale società assicurativa). Come avvenne nei giorni immediatamente successivi alla tragedia, gli occhi della stampa mondiale furono subito puntati sul processo. E benché le perizie tecniche riscontrassero una serie di inadempienze nel sistema di sicurezza e di   Ibid.   Cfr. GU del 15 novembre 1965, n. 285.

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errori di calcolo progettuali, la pena inflitta dalla pubblica accusa sarà il pagamento di multe che andranno dai 1.000 ai 2.000 franchi, assolvendo tutti gli imputati dall’accusa di omicidio colposo in quanto la catastrofe non era prevedibile. Il 2 marzo 1972, nella motivazione della sentenza di primo grado, il tribunale spiegava che «una valanga di ghiaccio rappresenta una possibilità troppo remota per essere presa ragionevolmente in considerazione»54. L’opinione pubblica, incredula, accolse la notizia con severe critiche sia in Svizzera che in Italia. Nella stampa italiana, l’indignazione per la sentenza sarà unanimemente espressa – questi alcuni titoli dei giornali: «Mattmark: nessuno pagherà per la morte degli 88 operai»55; «Indignazione per l’ignobile sentenza su Mattmark»56; «Mattmark: tutti assolti»57 – e scatenerà un fitto dibattito parlamentare. Sul versante elvetico, la posizione più dura sarà assunta dal presidente della Flel, Ezio Canonica, che nei giorni successivi in un’interpellanza presentata al Consiglio federale commentava la sentenza ritenendo che «troppo spesso i cosiddetti lavoratori ‘di seconda classe’ vengono duramente colpiti da infortuni sul posto di lavoro. [...] Non possiamo che reagire con una severa protesta»58. Inoltre, Canonica si scagliava contro la SUVA, che pur di tenere bassi i premi, preferì scarsi controlli, a discapito della salvaguardia della vita dei lavoratori stessi. La risposta del Consiglio federale sarà in linea con la sentenza espressa dal tribunale del vallese. L’indignazione nei giorni successivi crebbe a tal punto che, il 18 marzo del 1972, gran parte degli intellettuali e dei sindacati si unirono a migliaia di lavoratori immigrati nelle strade di Ginevra, per rivendicare giustizia per le vittime di Mattmark e chiedere maggiore sicurezza sul lavoro. Qualche mese dopo, nell’agosto dello stesso anno, il segretario della Flel Karl Aeschbach pubblicherà un rapporto dettagliato sulle cause della catastrofe, individuandone la principale nella «fatale fi54   Sentenza di primo grado del 2 marzo 1972. SSZ, f. GBI, b. Dossier Mattmark - GBI 04A-0074, nr. 2. 55   «Il Mattino», 3 marzo 1972. 56   «l’Unità», 4 marzo 1972. 57   «Corriere della Sera», 3 marzo 1972. 58   Interpellation Canonica. Procès de Mattmark du 8 mars 1972, Bulletin officiel de l’Assemblée fédérale, année 1973, vol. I, séance 11, n. d’ob. 11227, pp. 366-370.

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ducia nella scienza»59. Aeschbach giungeva alla conclusione che gli ingegneri, data la specializzazione unilaterale, non possedevano le conoscenze necessarie per individuare i veri pericoli. Inoltre, erano stati ignorati i timori espressi dai lavoratori. La tragedia, infine, era stata causata da una serie di omissioni, come ad esempio, la mancata sorveglianza fotogrammetrica del ghiacciaio: «la catastrofe di Mattmark è stata una vera e propria catastrofe naturale; [...] il numero delle vittime non sarebbe però stato così alto se non fossero intervenuti anche una serie di fattori umani»60. Il segretario della Flel, però, andava ben oltre e accusava, in particolar modo, la strategia di profitto dei costruttori, intenzionati a terminare la diga prima dell’arrivo dell’inverno. A giudizio non finì solo l’Elektrowatt, ma anche l’avidità di profitto, la fiducia nella scienza e il delirio d’onnipotenza di un’intera epoca. Nel frattempo, i legali dei familiari delle vittime impugnarono la sentenza di primo grado dinanzi al tribunale cantonale di Sion. Dopo solo tre giorni di processo, il tribunale cantonale confermò la tesi dell’imprevedibilità della catastrofe con l’aggravante di imputare il 50% delle spese processuali ai familiari delle vittime. Come prevedibile, anche una siffatta sentenza d’appello generò l’indignazione italiana, mentre questa volta la stampa elvetica sembrò meno attenta all’evento: «I giornali elvetici hanno dedicato solo poche righe alla sentenza e non in prima pagina. Alcuni quotidiani l’hanno addirittura ignorata. La conclusione del processo di appello ha suscitato un senso di sgomento nella comunità italiana e di viva sorpresa negli ambienti diplomatici di Berna»61. La sentenza d’appello aprì, inoltre, una serie di riflessioni ed accuse anche in ambito delle Comunità Europea, come testimoniano le parole del vicepresidente della Commissione europea, Lionello Levi Sandri: È estremamente difficile esprimere un giudizio su una sentenza della quale si conosce il solo dispositivo e si ignora la motivazione. Ma di fronte una pronunzia come quella del tribunale cantonale di Sion non si può non restare profondamente perplessi e turbati. Questo tribunale infatti è pervenuto a una assoluzione completa degli imputati malgrado numero-

  Karl Aeschbach, Bericht zur Mattmark Katastrophe, cit.   Ibid. 61  «Corriere della Sera», 7 ottobre 1972. 59 60

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se deposizioni avessero attestato che, nei giorni precedenti la catastrofe, svariati e non equivoci segni premonitori (caduta massi, di blocchi di ghiaccio, persino una piccola valanga) avrebbero dovuto aprire gli occhi dei dirigenti e dei responsabili dei lavori sul pericolo grave che incombeva sul cantiere. Se l’inerzia di fronte a simili avvertimenti non costituisce negligenza, non so davvero dove sia dato riscontrare la negligenza. Ma ciò che lascia non dico perplessi ma sgomenti è l’aver voluto calcare la mano sino al punto di condannare gli eredi delle vittime al pagamento di una parte delle spese processuali. È vero che è regola generale anche in diritto processuale, che chi perde paga. E le parti civili, grazie a questa strana sentenza hanno perso l’appello. Mi sembra però impossibile che il diritto svizzero non attribuisca al giudice un potere di apprezzamento discrezionale per compensare le spese quando ricorrono giuste ragioni o particolari motivi di equità. La condanna alle spese in questo caso suona come punizione per aver voluto insistere nella pretesa di ottenere giustizia contro i troppi potenti imprenditori. Non credo che in un paese dell’Europa dei sei, o domani dei nove, una sentenza simile sarebbe pronunziata. Indubbiamente la Svizzera, se un giorno vorrà entrare a far parte della Comunità europea, dovrà modificare profondamente la propria legislazione anche in materia di prevenzione degli infortuni e di responsabilità relative. E dovrà cercare di modificare l’animus con il quale ritiene di amministrare giustizia quando sono parti in causa dei lavoratori, in particolare dei lavoratori non svizzeri, o i loro superstiti62.

L’effetto simbolico fu devastante: la Svizzera entrava così nell’immaginario collettivo come un Paese arrogante e crudele63. Nel Parlamento italiano le voci critiche lessero la sentenza come una dimostrazione dei pregiudizi elvetici nei confronti della manodopera italiana, che contava più di mille morti nei cantieri elvetici negli anni Sessanta. A conferma dell’inadeguatezza delle misure di sicurezza sul lavoro, l’OIL (Ufficio internazionale del Lavoro) dimostrerà come i livelli di sicurezza, durante tutto il decennio 1960, saranno i più bassi dell’intera area OCSE. Infatti, gli incidenti mortali nel settore edile ed industriale vedranno la Svizzera con il coefficiente (per ogni 1.000 lavoratori) più alto: 0,84 (1965) e 0,72 (1969) nell’edilizia e 0,18 dell’industria nel 1969 (tab. 23).

  Intervista a Lionello Levi Sandri, «Corriere della Sera», 7 ottobre 1972.   Unia, op. cit., p. 25.

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Tab. 23. Coefficiente incidenti mortali - edilizia e industria. Anni 1965, 19691 Edilizia

Svizzera Italia Rft Norvegia Spagna Finlandia Olanda Ungheria

1965

1969

0,84 0,82 0,51 0,44 0,36 0,33 0,33 0,27

0,72 0,72 0,40 0,23 ------0,33

Industria 1969

0,18 0,10 0,17 0,09 0,10 0,13 0,19 0,10

Ogni 1.000 lavoratori l’anno (300 gg. lavorativi). Fonte: Yearbook of Labor Statistics, 1971. 1

Infine, nonostante il governo italiano si dichiarasse pronto a farsi carico delle spese processuali tramite il fondo del consolato per la tutela giuridica, costituito presso l’ambasciata italiana a Berna, la giustizia vallese non prese in considerazione una remissione delle spese a favore delle famiglie delle vittime. Nel frattempo, su pressione dei sindacati italiani, la Flel continuò ad incalzare la SUVA invitandola ad ampliare sia le misure di sicurezza, da prevedere già nella fase progettuale, e sia il proprio servizio d’ispezione e controllo. Sulla vicenda, a difesa della SUVA, nel marzo 1973 intervenne nuovamente il Consiglio federale, confermando come non fosse necessario adottare nuove norme di sicurezza e, tuttavia, promettendo una maggiore attenzione in futuro. Come per il Belgio dopo la sciagura di Marcinelle, le pressioni internazionali produrranno effetti anche in Svizzera, dove verrà fondata una Commissione italo-svizzera per la prevenzione degli infortuni nell’edilizia. Inoltre, per la prima volta, le autorità elvetiche si ripromisero di interloquire direttamente con i sindacati italiani ed il mondo associativo in emigrazione sui temi della sicurezza sul lavoro e delle assicurazioni sociali. In definitiva, politici, economisti, intellettuali e gente comune trovarono nella tragedia di Mattmark un ulteriore stimolo per approfondire il dibattito, già in corso da alcuni anni, sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato che richiedeva sempre più manodopera estera, soprattutto per le grandi opere infrastrut­­­­­203

turali (di per sé molto rischiose) e per le attività a bassa intensità di qualifica abbandonate dagli svizzeri. Anche per la collettività italiana in Svizzera la sciagura rappresentò un’occasione per interrogarsi sul senso della propria presenza, in un Paese in cui, benché parte attiva e persino determinante del benessere, non si sentiva accettata e corresponsabile, anzi oggetto di discriminazione e ostilità. Questi saranno gli anni della svolta e del cambio di prospettiva. Quanto abbia inciso Mattmark nel rifiuto delle campagne referendarie del 1965, del 1970 e del 1974, non ci è dato sapere. Certamente, però, questa catastrofe segnò un momento di cesura nell’arco della lunga storia della presenza italiana in Svizzera. 4. I referendum xenofobi e un accordo che non soddisfa Il 30 giugno 1965 alla Cancelleria federale venne presentata la prima iniziativa popolare contro l’infiltrazione straniera, sottoscritta da 60.000 firme e avente per promotore il Partito democratico zurighese. Si chiedeva la modifica della Costituzione con l’adozione dell’art. 69quater, che aveva lo scopo di ridurre al 10% della popolazione residente il numero degli stranieri, fossero essi fissi o in possesso di un semplice permesso di soggiorno64. Una simile petizione era il segno di quanto la paura dell’inforestieramento fosse ormai diffusa nell’opinione pubblica elvetica. L’intento era di opporsi all’accordo sottoscritto nel 1964 tra Svizzera e Italia: «Il numero degli stranieri che vi soggiornano deve, dall’entrata in vigore della presente disposizione, essere abbassata almeno del 5% ogni anno, fino a che sia raggiunto il massimo autorizzato, e anche tenendo conto delle esigenze umanitarie!»65. Il Consiglio federale da un lato mostrava di concordare con i presupposti referendari: «Il forte aumento del numero effettivo di stranieri nel corso di questi ultimi anni [...] costituisce [...] un grave pericolo di invasione da parte degli stranieri»66. Dall’altro, però, riteneva le richieste dell’iniziativa lesive degli interessi dell’economia nazionale, in quanto avrebbero finito per ridurre di circa 260.000 unità il numero 64   L. Bocciarelli, L. De Polis, La Svizzera degli anni ’60 e gli stranieri, in La Svizzera dopo Schwarzenbach, cit., p. 21. 65   Rapport du CF Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale relatif à l’initiative contre la surpopulation étrangère, in FF, 1967, vol. II, p. 69. 66  Ibid.

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effettivo degli stranieri, di cui 200.000 esercitanti attività lucrativa. È per questo che, nel complesso, considerava l’iniziativa eccessiva e invitava gli elettori a rifiutarla, garantendo che si sarebbero presi provvedimenti necessari per ridurre la cifra degli stranieri. Cosciente che a causa dei ricongiungimenti familiari e dell’aumento delle nascite la percentuale di stranieri sarebbe cresciuta ulteriormente e ispirandosi nuovamente alla politica dell’ammorbidimento delle regole, il Consiglio federale proponeva dunque di facilitare le naturalizzazioni per i ragazzi, figli degli stranieri cresciuti in Svizzera, ed emanava il decreto federale del 28 febbraio 1968, il quale stabiliva che il contingente per impresa per gli stranieri fosse calcolato senza tenere conto di quanti risiedevano in Svizzera da almeno 7 anni67. Gli stagionali, inoltre, venivano contingentati per anno di attività e non più per impresa. Il decreto, ispirandosi ai precedenti e seguendone la linea, annunciava una riduzione del 3% per la fine del 1968 e prevedeva una riduzione del 2% fino alla fine del 196968. Tuttavia, faceva concessioni ai cantoni sulla regolamentazione delle eccezioni. Nel marzo 1968, l’iniziativa popolare veniva ritirata: apparentemente il Consiglio federale aveva riguadagnato la fiducia di parte dell’opinione pubblica. Il decreto però si rivelerà un fallimento: dalla fine del 1967 alla fine del 1968, il numero di stranieri che possedevano un permesso B o C crebbe da 891.000 a 933.000, con un aumento del 4,8%. Nell’insieme, la proporzione di popolazione straniera aumentò del 16%69. Naturalmente il nuovo incremento venne percepito dall’opinione pubblica come diretta responsabilità del governo elvetico: ne seguì una crisi di fiducia nei confronti delle autorità. Dal canto suo la FCLIS, in risposta al primo quesito referendario e, soprattutto, vista l’insoddisfazione per l’applicazione dei risultati raggiunti dall’accordo italo-svizzero, nel 1965 lanciava una petizione che in pochissimo tempo raccoglieva 71.000 firme. Conseguentemente, nel 1966 fu redatta la «Carta rivendicativa dei lavoratori emigrati in Svizzera»70. Che l’attività rivendicativa fosse una costante dell’azione della FCLIS, è stato rilevato più volte nell’arco della sua

  C. Buccianti, op. cit., p. 390.   E. Piguet, H. Mahnig, Quotas d’immigration, cit., p. 10. 69   Ibid. 70  Carta rivendicativa dei lavoratori emigrati in Svizzera (s.d., ma 1966). SSZ, f. FCLIS, b. Altri problemi in Svizzera - Ar 40.70.14. 67 68

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lunga storia, ma in questo caso non potevano non emergere altri fattori che ne testimoniavano l’evoluzione politica. Il primo elemento era indubbiamente legato al principio dell’unitarietà delle associazioni e degli enti che operavano a favore dell’emigrazione italiana, fatto più volte citato, che caratterizzerà la FCLIS già dagli anni della sua fondazione. Il secondo era la sindacalizzazione, azione che si avviò sostanzialmente nel 1959, e che rappresentava forse l’elemento cardine della rivendicazione a favore degli emigrati in Svizzera. Il terzo punto, il più innovativo in questa fase, riguardava la pubblicizzazione della petizione. Se in passato il ruolo pubblico della FCLIS era sempre emerso attraverso interventi mediati, come dimostrano quelli numerosi sul «Bollettino per soci» (dal 1960 «Emigrazione italiana») e più in generale sulla stampa, ora, per la prima volta, la Federazione optò per una forma di comunicazione diretta, indicendo una conferenza stampa, il 4 novembre 1966. La Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera ha indetto questa conferenza stampa per fornire a voi le informazioni necessarie relative ad un grande avvenimento che avrà luogo nei prossimi giorni. Questo grande avvenimento interessa la gran parte dei lavoratori italiani in Svizzera, ma certamente interessa anche voi, e con voi tutta la società svizzera, perché i problemi dei lavoratori italiani che lavorano nella Confederazione non possono non avere un legame diretto con i problemi che la loro presenza nel Vostro paese solleva alla vostra società, a noi tutti. L’avvenimento che avrà luogo nei prossimi giorni e del quale intendiamo informare, tramite vostro, l’opinione pubblica svizzera, è il viaggio che una delegazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera compirà nei prossimi giorni recandosi a Roma, presso i Ministeri degli Esteri e del Lavoro, i gruppi parlamentari della Camera e del Senato, le centrali sindacali. Alle autorità massime della Repubblica Italiana la delegazione, guidata dal Presidente della Federazione Colonie Libere signor Giovanni Medri, consegnerà il testo di una petizione firmata da 71.000 lavoratori italiani in Svizzera71.

Nel testo della petizione si chiedeva alle autorità italiane che fossero presi i provvedimenti necessari, in sede governativa, per risolvere al più presto un problema vitale per l’emigrazione italiana in   Testo della conferenza stampa, Zurigo, 4 novembre 1966. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 71

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Svizzera, che ormai si trascinava da decine di anni: l’assistenza dei familiari malati e rimasti in patria dei lavoratori. Si chiedeva anche che i rappresentanti dei lavoratori italiani emigrati fossero ammessi alle trattative in occasione di rinnovi, stipulazione di nuovi accordi e convenzioni internazionali che li riguardavano direttamente. In Svizzera lavorano oltre mezzo milione di lavoratori italiani. Di questi, almeno 200.000 hanno la loro famiglia in Italia, che non possono, o non intendono, trasferire in Svizzera. Una parte di questi lavoratori, che si trovano in Svizzera da un po’ di tempo, vorrebbero portare qui la loro famiglia perché evidentemente hanno trovato in questo Paese buone condizioni di vita e di lavoro. Ma, come ben sapete, per realizzare questo desiderio non basta loro il diritto acquisito in base all’accordo di emigrazione italo-svizzero secondo il quale la riunione della famiglia è prevista dopo un periodo massimo di 18 mesi. Occorre che egli disponga di un alloggio adeguato, senza il quale le autorità competenti non concedono il permesso per fare venire la famiglia in Svizzera. La situazione, nel vostro Paese, del mercato degli alloggi è ben conosciuta e la cronica penuria di cui soffre, impedisce di fatto a molti lavoratori il raggiungimento di un obiettivo certamente legittimo. Per cui la loro famiglia è costretta a rimanere in Patria ed a vivere con le rimesse effettuate dal capofamiglia emigrato qui. [...] Altri lavoratori invece ritengono provvisoria la loro permanenza in Svizzera, e questi sono certamente molti. Per cui preferiscono lasciare in Italia la famiglia in attesa di poter trovare in un prossimo futuro una occupazione soddisfacente nel Paese di origine72.

In entrambi i casi, la situazione restava però la stessa. Infatti, al momento dell’espatrio, i lavoratori italiani perdevano automaticamente il diritto ad usufruire delle prestazioni sociali che, invece, erano garantite a tutti in Italia, con l’estensione dei diritti all’assistenza all’intera famiglia. Ovvero, mentre il sistema mutualistico italiano era di carattere nazionale e pubblico, in Svizzera l’assicurazione era obbligatoria ma restava a totale carico del lavoratore che, se straniero, pur volendo, non aveva la facoltà di estendere tali diritti ai familiari rimasti in Italia. Questa situazione si trascina da sempre. I connazionali in Svizzera sono gli unici lavoratori italiani che non hanno la copertura assicurativa contro le malattie per i loro familiari rimasti in Patria. Infatti, non solo

  Ibid.

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quelli occupati in Italia, ma anche quelli emigrati nei Paesi del Mec godono di questa assistenza. Questa palese ingiustizia non può più essere tollerata. Noi lavoratori occupati in Svizzera mandiamo in Italia ogni anno circa 400 miliardi in rimesse. Queste ultime consentono allo Stato Italiano, grazie all’introito di questa valuta pregiata, di pareggiare la «bilancia dei pagamenti». Inoltre noi siamo tassati sul reddito guadagnato con l’imposizione fiscale diretta, sistema prevalente in Svizzera. [...] In Italia invece il sistema di tassazione è basato sulle imposte indirette, soprattutto al consumo, per cui, le rimesse dei nostri lavoratori, effettuate per dar da vivere alle loro famiglie rimaste in Italia, vengono ad essere tassate nuovamente. Questa è nuovamente un’ingiustizia!73

Secondo la FCLIS, la difficoltà maggiore era legata alle differenti impostazioni legislative in materia di diritti all’assistenza sociale e sanitaria. Riguardo all’ambito organizzativo della petizione, la raccolta delle firme si tenne nelle principali città e luoghi della presenza italiana in Svizzera, grazie soprattutto alla ramificazione della rete delle CLI sparse sul territorio: «Circa il 90% dei connazionali avvicinati ha sottoscritto, con piena convinzione e senza titubanza, la petizione. Quasi dappertutto si sono fatte delle assemblee generali e molti ordini del giorno sono stati votati ed indirizzati alle autorità italiane»74. Un ultimo aspetto della petizione riguardava l’eterna ricerca di unità tra le forze che rappresentavano e svolgevano azioni quotidiane di sostegno agli italiani in Svizzera. Scorrendo l’elenco delle adesioni, si ritrovano varie associazioni, sindacati e partiti, parlamentari italiani e parte della stampa. Hanno collaborato alla raccolta firme: 108 CLI, circoli ed associazioni aderenti alla nostra Federazione; la Federazione Socialista Italiana in Svizzera; i gruppi italiani della Fomo e della Flel; il sindacato cristianosociale degli operai metallurgici della Svizzera tedesca; 36 circoli ed associazioni italiane autonomi. [Inoltre] si sono fatti portavoce delle nostre aspirazioni, sulla base delle nostre posizioni: l’Anfe; «Il Corriere degli Italiani», organo ufficioso ispirato dalla Direzione delle Mci in Svizzera, il quale ha definito l’azione «altamente sociale e umanitaria!»; numerosi quotidiani e settimanali italiani e svizzeri; il patronato assistenziale Inca con una interrogazione

  Ibid.   Ibid.

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presentata al Parlamento italiano dal sen. Renato Bitossi; il sen. Pasquale Valsecchi con una interrogazione presentata al Senato della Repubblica; numerosi Comuni italiani particolarmente interessati al problema dell’emigrazione; molte associazioni italiane e svizzere di varie ispirazioni75.

In sintesi, la FCLIS chiede alle autorità italiane l’equiparazione dei lavoratori in Svizzera con gli altri connazionali occupati nei Paesi del Mec76. La petizione portò successivamente alla redazione della «Carta rivendicativa dei lavoratori emigrati in Svizzera», al cui interno si trovava la sintesi delle rivendicazioni e delle battaglie che la Federazione avrebbe messo in campo nell’arco del decennio 1965-75, con l’obiettivo di sollecitare il governo italiano all’azione. «CARTA RIVENDICATIVA DEI LAVORATORI EMIGRATI IN SVIZZERA» 1) Assistenza sanitaria ai familiari rimasti in Italia; 2) Diritti democratici dei lavoratori emigrati, [...] si ribadisce la validità dei documenti già presentati in passato dalla FCLIS alle Autorità italiane [...] a codificare nei trattati bilaterali con la Svizzera le garanzie necessarie per il mantenimento della dimora e ad intervenire attivamente nei casi, che eventualmente potrebbero presentarsi, di espulsioni o non rinnovo di permessi di dimora, garantendo ai nostri lavoratori piena assistenza legale gratuita; 3) Imposizione fiscale [...] ai nostri lavoratori deve essere riveduta ai sensi delle «Dichiarazioni comuni» contenute nell’«Accordo di Emigrazione» al punto 4. In particolare dovrà esser tenuto conto: a) che i lavoratori spesso non usufruiscono dei servizi sociali, pur pagando le tasse; [...] limiti relativi al ricongiungimento familiare; b) rispettando l’«accordo di emigrazione», il quale stabilisce per i lavoratori stagionali un tasso di imposizione fiscale basato sul reddito di lavoro conseguito durante il periodo che viene preso come base per l’imposizione [...] durata 11 mesi all’anno o 2.300 ore al massimo. [...] Nella determinazione delle percen-

  Ibid.   Questo aspetto non fu secondario, soprattutto in una simile fase storica. Come visto, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, la Confederazione inizierà progressivamente a perdere terreno rispetto ad altri Paesi attrattori della manodopera italiana in Europa. Probabilmente l’evoluzione del Mec rappresenterà una discriminante sempre maggiore nei confronti della Svizzera, la quale, come per tanti altri campi, soffrì volontariamente e involontariamente del mancato adeguamento delle proprie basi legislative ai Paesi che successivamente approderanno alla CEE (si veda cap. II). 75 76

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tuali d’imposta applicabile dovrà esser chiesta la partecipazione di esperti del Governo Italiano quali consulenti77.

L’elenco continuava con la richiesta del trasporto in Italia delle salme degli italiani deceduti in Svizzera (punto 4), l’incremento dell’istruzione scolastica per i figli degli italiani e una crescita professionale per i lavoratori (punti 5 e 6), il trasferimento dei contributi AVS (punto 8), una nuova politica delle rimesse (punto 9). Insieme a queste rivendicazioni, rappresentavano una novità assoluta, almeno per la FCLIS, le richieste avanzate sul: 10) Diritto di partecipazione degli emigrati all’assegnazione di alloggi della GESCAL, gli emigrati devono poter partecipare di diritto ai bandi concorso per l’assegnazione degli alloggi della GESCAL, a pari condizioni con i lavoratori occupati in Italia. Pertanto, si domanda una modifica della legge istitutiva della GESCAL e dei regolamenti inerenti, onde riparare a questa grave ingiustizia. 11) Diritto al voto in Italia, gli emigrati chiedono che sia reso effettivo il diritto al voto. Con questo si intende che: a) le Autorità italiane, sul posto di emigrazione, dovranno garantire che i lavoratori possano usufruire dei permessi necessari per potersi recare in Italia a votare; b) gli emigrati in Svizzera possano e debbano rimanere iscritti nelle liste elettorali del Comune di residenza in Italia a tempo illimitato; c) il viaggio sia gratuito fino al luogo di esercizio del voto. 12) Consiglio nazionale degli italiani all’estero, questo nuovo organismo potrà essere veramente utile [...] se saranno presenti le organizzazioni degli emigrati in rapporto alla loro forza, alla loro rappresentatività e al lavoro svolto a favore degli emigrati nei differenti Paesi di emigrazione. La Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera deve essere ammessa a far parte di questa istituzione78.

Emergeva dunque la volontà della Federazione di farsi promotrice dei diritti non solo sociali, ma anche politici degli emigrati e del riconoscimento del giusto peso dato all’associazione stessa. Proprio in questi anni si svilupperà una crescente concorrenza della rete associativa di stampo cattolico, come le Acli, mentre in passato si era assistito a una sorta di antagonismo in particolare con le Mci. Se da

77   Carta rivendicativa dei lavoratori emigrati in Svizzera, cit. SSZ, f. FCLIS, b. Altri problemi in Svizzera - Ar 40.70.14. 78  Ibid.

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una parte, però, le Acli vantavano un carattere internazionale perché si erano insediate in più Paesi, europei e non, la Federazione delle Colonie Libere era presente solo in Svizzera. In conclusione, dopo una lunga, lenta ed estenuante trattativa la FCLIS riuscì a vivere tutte le fasi della rinegoziazione che portarono sia ad un nuovo accordo di reclutamento che ad un rinnovo della convenzione sulle assicurazioni sociali. Nel 1968, la fase che sfociò nella determinazione di questi accordi venne ricordata con favore sulle colonne dell’«Emigrazione italiana», anche se si rilevò – a soli tre anni di distanza – l’inadeguatezza delle limitazioni adottate dal governo svizzero, che riducevano il contingente degli stagionali del 5%. Inoltre, la Federazione propose la ricostituzione del Commissariato Generale dell’Emigrazione. Si riuniscono a Berna i presidenti delle CLI e la Giunta federale (il massimo organismo dirigente dell’associazionismo tra un congresso e l’altro). Un pensiero è dominante: che la società italiana prenda finalmente coscienza del problema dell’emigrazione. [...] La FCLIS rivendica una commissione parlamentare d’inchiesta sugli emigrati, senza rinunciare all’antica richiesta del ripristino di quell’organismo, distrutto dal fascismo, che è il Commissariato Generale dell’Emigrazione79.

Ma non ci sarà il tempo di affrontare simili questioni: l’anno successivo verrà avanzata la seconda proposta referendaria anti-stranieri. 5. La FCLIS sulla linea della resistenza alla xenofobia Il 20 maggio 1969 venne depositata, corredata da 70.000 firme, una seconda iniziativa popolare contro l’orda straniera, da parte di un comitato composto da membri del partito Azione Nazionale. Chiamata iniziativa Schwarzenbach80, dal nome del suo fomentatore, la petizione appariva ancora più restrittiva della precedente. Si chiedeva una limitazione della percentuale straniera: in ogni cantone non poteva

79   «Emigrazione Italiana», Zurigo, 29 ottobre 1968. SSZ, f. FCLIS, b. Emigrazione italiana - Ar 40.60.4. 80   Per approfondire le motivazioni che hanno spinto il leader della destra elvetica, James Schwarzenbach, a farsi fautore della famosa iniziativa contro l’inforestieramento si rimanda all’intervista fattagli da Venturini nel suo Nudi col passaporto, cit., pp. 181-206.

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superare il 10%81. Il comitato promotore rinunciava espressamente alla possibilità di ritirare la richiesta prima del voto, in modo che venisse presa in considerazione82. Il Consiglio federale, in risposta, riteneva che le cause dell’aumento della popolazione straniera, nei due anni precedenti, fossero soprattutto rintracciabili nelle maggiori nascite e nella crescita del numero dei residenti83. L’effettivo numero degli stranieri che non disponevano di un permesso di soggiorno si era, in compenso, stabilizzato. Secondo le autorità elvetiche, i provvedimenti richiesti da Schwarzenbach, come già successo per l’iniziativa precedente, erano volti ad una riduzione di circa 200.000 lavoratori provvisti di permesso di soggiorno. Ma così facendo, si rischiava di violare gli accordi bilaterali sull’impresa e di opporsi ai principi della Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo sul ricongiungimento familiare. Una modifica così chiaramente eccessiva della situazione attuale non è tollerabile, poiché provocherebbe perturbazioni economiche gravi e causerebbe in particolare la chiusura di numerose fabbriche, e danneggerebbe gli interessi della manodopera svizzera. L’iniziativa contro l’impresa straniera, i cui effetti andrebbero ben al di là di quelli della prima iniziativa, deve dunque essere respinta!84

Per lottare contro l’eccesso di inforestieramento, le autorità consigliavano una politica che impedisse l’aumento del numero effettivo degli stranieri ed equiparasse agli elvetici chi già viveva nel loro Paese. Il clima generale, rispetto alla prima proposta referendaria, era però mutato: ora una larga parte dell’opinione pubblica si mostrava disposta a sostenere l’iniziativa, che aveva grosse possibilità di essere promossa dal voto popolare. Vista la situazione, il governo elvetico decise di intervenire sollecitamente attraverso l’Ufiaml, proponendo ai cantoni, alle organizzazioni patronali e ai sindacati provvedimenti nella direzione di una limitazione globale del contingente degli stra-

  Con l’eccezione del Cantone Ginevra, dove il limite è del 25%.   Rapport du CF Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale relatif à la deuxième initiative contre la surpopulation étrangère, in FF, 1969, vol. II, pp. 1054-1055. 83   Nel censimento dell’anno successivo (1970) si rileva una vera «emergenza seconda generazione». I dati confermano come nascano molti più bambini stranieri che svizzeri: cfr. Ufs, 1970. 84  Rapport du CF Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale relatif à la deuxième initiative contre la surpopulation étrangère, cit., p. 1065. 81 82

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nieri85. Malgrado le critiche violente ricevute dalle parti sociali, l’Ufiaml presentò il suo progetto: sulla base di una stima del numero di partenza, venne stabilita ogni anno una quota di nuovi lavoratori. Inoltre, per il buon funzionamento del meccanismo, si sarebbe creato un registro centrale degli stranieri sotto il controllo della polizia federale degli stranieri. L’Ufiaml era cosciente del fatto che il problema più delicato stava nella ripartizione delle quote, essendo l’economia elvetica incentrata sul liberismo spinto, sarebbe stato necessario che dopo un anno il lavoratore straniero disponesse della libera mobilità. Tuttavia, la distribuzione per il primo anno doveva essere negoziata fra i cantoni; un’imposizione dalla Confederazione sarebbe stato un danno al federalismo. Nel febbraio 1970, il Consiglio federale cercò in una conferenza stampa di suscitare in ultima istanza un accordo fra le parti, ma, essendo gli interessi troppo divergenti, il tentativo fallì. E fu così che il 16 marzo 1970 (3 mesi prima del voto sull’iniziativa popolare) il governo cercò di imporre con decreto le proprie direttive, concedendo a cantoni e datori di lavoro di limitare la mobilità dei lavoratori durante i primi 3 anni, garantendo a questi ultimi il perseguimento di una Stabilisierungspolitik, anche nel caso in cui l’iniziativa fosse fallita86. Tale provvedimento rappresenterà un tentativo di eccezionale portata nel contesto politico elvetico dell’epoca87. Nel frattempo, cosa mai accaduta prima, si mobilitava una gran parte del mondo sociale svizzero e con esso la Chiesa e, come ovvio, anche le Mci e la «Hermandad obrera de acciòn catòlica», che esortavano gli elvetici a bocciare l’iniziativa xenofoba88. La FCLIS si preoccupava contemporaneamente di sensibilizzare sia i singoli 85   Globalplafonnierung: cfr. E. Piguet, H. Mahnig, Quotas d’immigration cit., p. 10. 86   «Decreto del Consiglio Federale che limita l’effettivo numero degli stranieri esercitanti un’attività lucrativa», 16 marzo 1970, pubblicato e tradotto in italiano in Parte seconda: documentazione, in F. Biffi, L. Bocciarelli, L. De Polis, G.B. Sacchetti (a cura di), op. cit., pp. 149-158. 87   J.M. Niederberger, Die politische-administrative Regelung, cit., p. 86. 88   Si vedano, rispettivamente, «Dichiarazione comune del Consiglio della Federazione delle Chiese evangeliche della Svizzera, della Conferenza dei Vescovi cattolici romani della Svizzera e del Vescovo cristiano cattolico della Svizzera, sul problema dei lavoratori stranieri, ottobre 1969»; «Le chiese e l’iniziativa Schwarzenbach, maggio 1970»; «Appello Missionari Italiani alle comunità cristiane in Svizzera, aprile 1970»; «Dichiarazione ‘Hermandad obrera de acción católica’, maggio 1970»: dichiarazioni pubblicate e tradotte in italiano, in Parte seconda: documentazione, in F. Biffi, L. Bocciarelli, L. De Polis, G.B. Sacchetti, op. cit., pp. 163-175.

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emigrati che il resto delle organizzazioni (non solo italiane)89 che, attraverso gli anni, erano divenute rappresentative di un numero consistente di emigrati90. Nella fase di intervallo tra la presentazione della proposta referendaria e il voto, la FCLIS si impegnò a neutralizzare la forza di attrazione che le proposte xenofobe avevano sulla classe lavoratrice autoctona, puntando, particolarmente dal 1969 in poi, non tanto su spiegazioni di carattere sociale o antropologico, quanto su argomentazioni che, senza metafore, facevano riferimento agli obiettivi economico-politici di chi deteneva il vero potere a livello europeo. Cercava di parlare alla classe operaia tutta, sottolineando come nei Paesi d’immigrazione, qual era appunto la Svizzera, il nemico non fosse il bracciante italiano, greco o turco. Oggi in Europa sta circolando una particolare massa di persone che si calcola sui 6-7 milioni: un popolo intero! Sono lavoratrici, sono lavoratori, sono i familiari, espulsi dai processi produttivi dei paesi di origine e irreggimentati nelle industrie concentrate in determinati paesi, addirittura in loro zone, del capitalismo monopolistico internazionale. A questa massa cosa si chiede in sostanza? Di lavorare, di produrre e di non pensare dal punto di vista della determinazione politica. [...] Quella degli operai stranieri e dei loro familiari è dunque una massa di persone che nei paesi di provenienza e in quelli di ricezione crea un pauroso vuoto politico che mantiene latenti e può agevolare certe nefaste involuzioni. Da qui allora la necessità di collegarci con le forze progressiste dei vari paesi per quanto possa costare, di stimolarle a battersi per aiutarci nella conquista dei diritti democratici, di provocare il contatto continuo con le organizzazioni di emigrati qui e là al fine di abbozzare un disegno comune che possa difenderci indipendentemente dalla lingua che si parla91.

Sulla questione fu altrettanto, se non ancor più chiaro, Leonardo Zanier. Nell’aprile 1970 scrisse per la rivista svizzera «Reformatio»

  Come, ad esempio, con l’Atees (Associaciòn de Trabajadores Emigrantes Españoles en Suiza) con la quale avvierà un’intensa attività di collaborazione a partire dal 1971. Per quanto attiene alla mobilitazione in vista del voto referendario, si veda «Bozza di programma di azione in comune», 1971, Circolari e documenti. SSZ, f. FCLIS, b. Atees - Ar 40.20.14. 90   Circolari e documenti con Acli. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazioni affini Italiane - Ar 40.20.15. 91   Relazione generale di Gianfranco Bresadola al XXIII Congresso, Olten, 2223 marzo 1969, pp. 18-19. SSZ., f. FCLIS, b. Congressi XXII-XXIV, 1967-71 - Ar 40.40.2. 89

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un lungo articolo (in parte poi tradotto e pubblicato nell’edizione del 25 maggio 1970 di «Emigrazione Italiana»). Lo scandalo non è l’emigrazione in sé, è il vuoto politico in cui è costretta, è la doppia alienazione in cui deve vivere: nella produzione e nella società che crea per finire l’alienazione della società di immigrazione dove la strumentalizzazione e l’emigrazione degli emigrati vengono predicati, giustificati e confusi in nome e all’insegna dell’interesse nazionale. [...] Lo scandalo per gli emigrati non è Schwarzenbach, è lo statuto di operaio stagionale, è in generale la condizione che ci è riservata, in Svizzera come in Francia, a stagionali e non. La tranquillità con cui ci fanno venire e la tranquillità con cui ci possono rimandare al nostro paese. Le possibilità di organizzare una economia con noi e una vita civile senza di noi. Gli sforzi che si fanno per tenerci al margine della vita politica e sindacale. [...] In sostanza, è giusto, lavoratore svizzero, che tu manifesti il tuo malumore verso uno sviluppo delle cose nazionali che non riesci né a controllare né a spiegarti, che tu reclami per la carenza di case, ospedali e scuole, per il rincaro e l’inflazione che falcidia il potere d’acquisto del tuo salario; sappi però che io, emigrato, sono come te e più di te vittima delle contraddizioni del sistema e quindi, tenuto conto, altresì, che per la Svizzera la presenza dei lavoratori stranieri è diventata una necessità strutturale e non più un fenomeno marginale come si credeva, o si fingeva di credere, fino a pochi anni fa, lottiamo assieme!92

Se la FCLIS ora si pronuncia senza mezzi termini sulle cause europee che provocano e mantengono l’emigrazione, non evita nemmeno di analizzare la situazione che viene a determinarsi in Italia e di indicarla a tutta l’emigrazione, chiedendone una mobilitazione per contribuire a modificarla. L’aumento della produttività non si traduce in nuovi investimenti per la creazione di un numero maggiore di posti di lavoro, l’emigrazione continua ad essere la valvola di sfogo sul fronte del mercato della manodopera, le rimesse in valuta pregiata che inviamo in patria seguitano ad essere impiegate per il potenziamento della industria monopolistica. A ulteriore testimonianza della tendenza: per un verso vi è il continuo spopolamento delle Regioni tradizionalmente depresse; per altro verso assistiamo al discorso programmatico dell’attuale presidente del Consiglio dei ministri

  «Emigrazione Italiana», Zurigo, 25 maggio 1970. SSZ, f. FCLIS, b. Emigrazione italiana - Ar 40.60.4. 92

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il quale, quasi a voler nascondere la sua realtà, nel corso della lettura di quelle 80 cartelle, nomina l’emigrazione una sola volta93.

Nel voto espresso dai cittadini elvetici in occasione della iniziativa Schwarzenbach si nota quanto abbiano inciso le pressioni da parte del governo, della società civile, del mondo delle associazioni, della Chiesa e, per ultima, della stessa Federazione delle CLI. Il voto del 7 giugno 1970 è uno tra i più importanti nella storia recente della Svizzera. Alla consultazione partecipò il 74% degli elettori, record storico per una campagna referendaria in Svizzera. L’iniziativa venne bocciata con 654.844 voti contrari (54%), rispetto ai 557.517 favorevoli (46%). Analizzando il risultato delle urne sulla base di come si espressero i cantoni (Friburgo, Soletta, Berna, Lucerna, Uri, Svitto, Sopraselva e Sottoselva espressero un voto positivo), l’iniziativa venne accettata da quelli con la minor presenza di stranieri e con le performance economiche meno brillanti94. Non ci si deve nascondere che la Svizzera, in definitiva, sfiorò una crisi politica dalle conseguenze catastrofiche. La questione degli stranieri aveva dimostrato i limiti del sistema di accordo all’interno del federalismo elvetico95. Malgrado il suo fallimento, l’iniziativa Schwarzenbach era comunque riuscita nel suo intento nella misura in cui aveva spinto il governo ad adottare una politica di stabilizzazione, che poteva essere analizzata come un compromesso fra gli interessi dell’ambito economico e gli obiettivi dei movimenti xenofobi. Senza voler negare che il governo svizzero disponesse di una certa autonomia nel prendere le decisioni, la politica di stabilizzazione – che limita l’immigrazione, ma rifiuta ugualmente la domanda di ridurre il numero degli immigrati – è scelta tipica di una democrazia di accordo96. Il già citato decreto del 16 marzo 1970 ha generato un nuovo meccanismo di gestione dell’emigrazione che si manterrà grosso mo-

  Relazione generale di Gianfranco Bresadola al XXIII Congresso, cit., pp. 2-3.   Cfr. L. Bocciarelli, L. De Polis, La Svizzera degli anni ’60 e gli stranieri, cit., pp. 24-25. 95   W. Linder, Politische Entscheidung und Gesetzesvollzug in der Schweiz, Verlag Paul Haupt, Bern, 1987, p. 18. 96   Il termine è stato proposto da Lijphart, il quale definisce, appunto, la politica della Confederazione elvetica come il risultato di un compromesso, figlio della rappresentanza proporzionale delle diverse forze politiche, delle associazioni, delle istituzioni e di tutti gli attori facenti parte della società: A. Lijphart, Question’s in Switzerland, in «European Journal of Political Research», n. 16, 1988, pp. 683-700. 93 94

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do fino ai giorni nostri: la cosiddetta politica delle quote. Inoltre, con questo decreto, la politica del laissez faire, che aveva dominato gli anni Cinquanta e Sessanta, venne abbandonata a vantaggio di una che mirava ad assicurare un rapporto equilibrato fra l’effettivo numero di svizzeri e di stranieri residenti. Per placare l’ostilità dei rappresentanti dei settori economici meno competitivi, che temevano di perdere la manodopera, assorbita da settori più dinamici, il Consiglio federale continuò nel 1970 a limitare i diritti degli immigrati. Avrebbero potuto cambiare lavoro solo dopo un anno e non avrebbero avuto il diritto di lavorare in un cantone differente o di esercitare un’altra professione, se non al decorrere del terzo anno di permanenza continuata97. D’altronde, alcuni settori, come sanità pubblica, istruzione e agricoltura, sfuggiranno al controllo sino al 1974. La nuova impostazione necessitava di uno strumento in grado di misurare la diminuzione del numero effettivo degli stranieri nell’anno precedente. È per questa ragione che, alla fine del 1973, l’Ufficio federale degli stranieri istituirà un registro centrale informatizzato con la lista di quanti beneficiavano di un’autorizzazione di soggiorno, sia essa stagionale, annuale o di dimora. Questa politica di stabilizzazione portava, dunque, alla creazione di uno strumento di controllo degli stranieri, con cui lo Stato riusciva contemporaneamente a gestire e controllare gli afflussi di manodopera e a tutelare i propri cittadini98. In seguito all’intervento delle autorità nel processo di integrazione, la richiesta di manodopera straniera iniziava progressivamente a superare l’offerta, in quanto la domanda non veniva più regolata dai principi del libero mercato, bensì grazie ad un processo di negoziazione – con gli amministratori cantonali, con le imprese e i sindacati – attraverso il quale l’amministrazione federale stabiliva le quote annuali99. Questo processo di articolazione degli interessi legati all’immigrazione, definito da Sandro Cattacin neocorporativista100, Tesi parzialmente ripresa in A. Lijphart, Le Democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna, 1988. 97   J.M. Niederberger, Die politische-administrative, cit., pp. 87-88. 98   All’epoca era lo strumento statistico più costoso di cui disponeva la Confederazione: cfr. W. Haug, Ausländerpolitik und Fremdarbeit in der Schweiz 1914 bis 1980, Z-Verlag, Basel, 1980, pp. 127-128. 99   J.M. Niederberger, op. cit., pp. 89-90. 100   S. Cattacin, Neokorporatismus in der Schweiz. Die Fremdarbeiterpolitik, in «Studien zur politischen Wissenschaft der Universität Zürich», n. 243/244, Zürich, 1987, pp. 59-64.

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si articolava su tre livelli101: prima di tutto era l’Ufiaml a concedere direttamente autorizzazioni ad alcune imprese e cantoni che si trovavano in una situazione di scarsità e che avevano fatto domanda alla Confederazione. Un secondo contingente veniva concesso ai cantoni, che a loro volta lo distribuivano alle imprese. Spesso i cantoni trasmettevano tale competenza ai Comuni, per esempio quando si trattava di grandi città all’interno del cantone stesso102. In definitiva, la nuova politica di stabilizzazione si fondava su un sistema che distribuiva un piccolo numero di lavoratori servendosi di un apparato amministrativo abbastanza complesso: nei periodi 197071 e 1971-72 vennero distribuiti circa 20.000 nuovi permessi annuali. Cifre molto meno consistenti rispetto al decennio precedente103. 6. Il dopo Schwarzenbach. Un bilancio di 25 anni La politica di contingentamento che seguì alla campagna xenofoba promossa da Schwarzenbach provocò gli effetti desiderati: la manodopera annuale passò da 70.000 a poco più di 50.000 unità fra il 1970 e il 1971104. Ma, sempre all’inizio degli anni Settanta, erano mutati i problemi che si presentavano riguardo all’obiettivo principale di stabilizzare la popolazione straniera. Il numero degli stagionali era aumentato nel corso del biennio 1972-73, sebbene all’inizio fosse sottoposto ad un limite per settori d’impiego. L’immigrazione effettiva rimaneva largamente superiore alle quote previste e questo principalmente a causa dei ricongiungimenti familiari, non sottoposti a contingentamento, delle trasformazioni delle autorizzazioni stagionali in autorizzazioni non-stagionali e soprattutto perché alcuni settori economici rimanevano fuori dalla manovra. Per le stesse ragioni, ma anche a causa dell’accrescimento delle nascite, gli stranieri che vivevano in Svizzera continuavano ad aumentare, passando dal 17% della popolazione residente media nel 1970 a più del 18% nel 1973105.

101   U. Baumgartner, P.M. Gutzwiller, Schweizerisches Ausländerrecht, Helbing & Lichtenhan, Basel, 1997, pp. 14-26. 102   Un caso su tutti è quello della città di Zurigo. Per approfondire gli altri casi, si veda J.M. Niederberger, op. cit., pp. 91-92. 103   S. Cattacin, op. cit., pp. 65-66. 104  Ivi, p. 67. 105  «La population étrangère en Suisse», Ufs, Neuchâtel, 1974.

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I primi conflitti sorsero sullo statuto degli stagionali. Gli stagionali erano certamente presi in considerazione dall’Ordinanza del 1970 che prevedeva un plafond106 di 152.000 unità; ma non sembrava che un reale controllo venisse effettuato su scala cantonale, tanto che il numero degli ingressi annuali rimaneva superiore ai 200.000107. Gli stagionali italiani, che rappresentavano il 90% del totale, in base all’accordo del 1964 avevano diritto, dopo aver lavorato per 5 anni consecutivi, a un permesso di soggiorno annuale. L’incremento dell’uso degli stagionali minacciava, dunque, di compromettere l’obiettivo di stabilizzazione del Consiglio federale, che tentava di aggiornare la trasformazione dello statuto, dietro pressione di un’Italia decisa nel rimettere in causa l’accordo di libero scambio economico fra la Svizzera e la CEE. Nel giugno 1972, la Svizzera cedette: confermava il principio di trasformazione e abbassava la durata minima richiesta a 36 mesi, anche se, a partire dall’anno seguente, sottometteva gli stagionali al contingentamento secondo il modello dei permessi annuali. La decisione provocò la reazione immediata della FCLIS. Il dipartimento di polizia, Ufficio Stranieri, del Cantone Ticino, ha emanato gravi disposizioni nei confronti degli stagionali. Le misure, entrate in vigore in applicazione al decreto del 9/8/72 del Consiglio di Stato, limitano la concessione di permessi annuali per il 1972 soltanto per i lavoratori stagionali che abbiano soggiornato in Svizzera almeno per sette anni consecutivi, a scopo di lavoro, con mansioni di «preminente importanza» e le cui mogli siano in possesso di un permesso di domicilio o di dimora valido per 12 mesi. Questi provvedimenti non tengono in alcuna considerazione gli impegni presi recentemente dal Consiglio federale. [...] Le decisioni del Governo svizzero che solo in parte soddisfano le esigenze di principio e i bisogni umani e sociali di migliaia di lavoratori, sono interpretate dalle autorità ticinesi in termini restrittivi e tali da aggravare e rendere insostenibile, anziché risolvere, una condizione già pesantemente discriminatoria. La Federazione delle Colonie Libere Italiane è propriamente intervenuta presso le autorità competenti per un chiarimento della questione e ha invitato le organizzazioni operaie e le associazioni a sviluppare tutte le necessarie forme di protesta e pressione per arrivare ad una soluzione del problema degli

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  E. Piguet, H. Mahnig, Quotas d’immigration, cit., p. 17.   Ibid.

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stagionali che tenga finalmente conto delle richieste e delle rivendicazioni avanzate dall’emigrazione organizzata108.

La diminuzione del numero di persone che aveva accesso in Svizzera per motivi di lavoro ebbe conseguenze immediate. La situazione mostrava la difficoltà di mettere in piedi una politica rigorosa di contingentamento capace di sfuggire agli obblighi delle relazioni internazionali. L’accordo con l’Italia aprì una breccia nella determinazione di un contingente massimale del permesso B (annuale) con la concessione automatica del permesso dopo quattro anni109. Dal punto di vista della politica interna e del rapporto con l’opinione pubblica, già prima del raggiungimento di questo nuovo compromesso, nel novembre 1972 venne presentata, dall’Action Nationale, la terza iniziativa contro l’inforestieramento e la sovrappopolazione della Svizzera110. Si prevedeva di ridurre il numero di stranieri residenti in Svizzera a 500.000 prima della fine del 1977. A partire dal 1973 fu dunque di nuovo la questione della Überfremdung a dominare l’agenda governativa, costringendo tutte le forze politiche a prendere posizione111. Di fronte all’iniziativa popolare dell’Action Nationale, il governo seguì la strategia precedente: cercò di convincere la popolazione che la politica di stabilizzazione sul numero degli stranieri fosse la sola opzione possibile e che l’adozione dell’iniziativa avrebbe avuto effetti catastrofici sul piano economico e diplomatico. Il 20 ottobre 1974, con una partecipazione pari al 70% degli aventi diritto al voto, la Svizzera dimostrò ancora una volta come non potesse fare a meno delle braccia straniere: l’iniziativa venne rifiutata dai due terzi dei votanti e dall’insieme dei cantoni. Le pressioni da parte dell’Italia riaprirono la questione della ridefinizione del quadro normativo generale e le autorità elvetiche dovettero confrontarsi con una triplice difficoltà: innanzitutto vi erano i movimenti xenofobi, che alimentavano nell’opinione pubblica le paure dell’inforestieramento; sull’altro versante, si accese uno scon-

108   Comunicato stampa del 25 agosto 1972. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 109   Ivi, pp. 18-20. 110   Rapport du CF Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale relatif à la troisième initiative contre la surpopulation étrangère, in FF, 1972, vol. III, p. 886. 111  R. Misteli, A. Gisler, Überfremdung, cit., p. 110.

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tro tra i cantoni economicamente più deboli e quelli con i risultati produttivi migliori. Mentre i primi chiedevano una riduzione del contingente straniero, gli altri soffrivano per i blocchi posti in essere che ne limitavano, di riflesso, le performance di crescita. In ultimo, dalla loro parte si schierava la potente associazione padronale, che doveva tutelare il mondo imprenditoriale, calmierando i salari grazie all’utilizzo della manodopera stagionale. La fase dei referendum xenofobi, che visse il suo apice senza mai spegnersi del tutto durante il decennio 1965-75, determinò da un lato, come abbiamo visto, cambiamenti profondi nella definizione delle politiche d’ammissione da parte della Svizzera; dall’altro, coincise con il massimo livello di strutturazione della macchina organizzativa della FCLIS. Per le CLI questo momento rappresenterà il raggiungimento temporaneo dell’obiettivo dal quale non discostò mai la sua azione: veder concretizzarsi la strenua volontà di unire tutte le forme di rappresentanza dell’associazionismo in emigrazione e, proprio a cavallo tra il 1968 e il 1973, l’azione unitaria delle rappresentanze in emigrazione. L’intendimento comune a tutte le associazioni di vario tipo ed orientamento fu conquistare la parità di trattamento rispetto al lavoratore elvetico: insomma un ritorno alle origini e a quell’art. 1 della Convenzione tra la Svizzera e l’allora Regno d’Italia112. Inizierà la lenta trasformazione della strategia operativa della FCLIS. Il cambiamento sarà innescato da vari fattori. Sul versante elvetico, i movimenti xenofobi – in questa fase sinonimo di movimenti anti-italiani – servirono da collante per le associazioni italiane, che misero da parte le contrapposizioni in favore della costituzione di un fronte unito contro le discriminazioni. Sul versante italiano, invece, l’approccio nei confronti dell’associazionismo all’estero venne modificato conseguentemente all’istituzione delle Regioni, con il tentativo velato di depoliticizzare l’associazionismo in emigrazione,   «Tra la Confederazione Svizzera e il Regno d’Italia vi sarà amicizia perpetua e libertà reciproca di domicilio e commercio. Gli italiani saranno in ogni Cantone della Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo alle persone e proprietà loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come lo sono o potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri cantoni. E reciprocamente gli svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i nazionali. Di conseguenza, i cittadini di ciascuno dei due Stati, non meno che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del Paese, potranno liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte del territorio», si rimanda al cap. II. 112

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sostituendo il collante ideologico con quello identitario-territoriale. E, come terzo elemento, la nuova emigrazione, progressivamente del tutto meridionalizzata, andò differenziandosi, come abbiamo visto, dalla vecchia, per condizione e per approccio: in altre parole, se i settentrionali erano maggiormente propensi ad un approccio progressista – in senso lato e onnicomprensivo – ed erano professionalmente più qualificati, la nuova emigrazione era marcatamente più conservatrice dal punto di vista politico (in senso lato, ovviamente) e dequalificata dal punto di vista professionale. Vediamo allora, in sintesi, cosa erano divenute in quegli anni le CLI. Nel 1968, a venticinque anni dalla loro fondazione, toccarono il massimo storico in termini organizzativi e di diffusione capillare sul territorio elvetico, con 117 sedi e quasi 19.000 iscritti. In questi anni la FCLIS istituì decine di corsi di formazione professionale, buona parte sovvenzionati dai consolati italiani. E ancora, nel biennio 196768, vennero devoluti in assistenza oltre 150.000 franchi; organizzate 105 feste per bambini e 250 feste ricreative e distribuiti oltre 3.500 pacchi-dono per un valore di 25.000 franchi. Le biblioteche erano 63 e per l’ottava volta fu organizzata la «Coppa Italia» che vide la partecipazione di ben 30 squadre di calcio. Inoltre, «Emigrazione Italiana», organo di stampa della FCLIS, subì la trasformazione da mensile in quindicinale e registrò un aumento costante delle tirature (nel gennaio 1968 raggiunse le 15.000 copie). Per quanto concerne le attività prettamente culturali, 14 saranno i cine-club, 3 le mostre d’esposizione nazionale di pittura e scultura dell’emigrato, mentre a Grenchen, sempre nel 1968, si tenne il II Festival d’arte drammatica dell’emigrato113. Se le cifre testimoniano gli enormi passi in avanti fatti come struttura organizzata e danno il senso dell’intensità delle iniziative poste in essere dalle CLI, rileggere tra le sfumature le impressioni che questa «Italia non ufficiale» seppe trasmettere agli osservatori dell’epoca, probabilmente consente di completare l’istantanea di quegli anni. Erano sette o otto, in quelle due stanze al quarto piano del 109 della Militärstrasse, nella Little Italy di Zurigo. Tutti indaffarati a spennellare 113   Cifre tratte dalla «relazione storica» tenutasi durante il Convegno 25 anni delle CLI in Svizzera, Zurigo, novembre 1968. SSZ, f. FCLIS, b. Convegni anniversari FCLIS - Ar 40.40.7.

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di rosso due enormi cartelloni, a batter a macchina le ultime indicazioni, a provar discorsi smussando gli angoli polemici e sottolineando le vittorie avute in venticinque anni di continua, indefessa lotta in ogni settore. Vecchi e giovanissimi, col toscano o la gauloise blu, in doppiopetto lisci e jeans di velluto, a coste fini, cravatta o maglione. La vigilia della grande giornata, del venticinquennale di fondazione della Federazione delle Colonie Libere italiane della Svizzera. [...] Nacquero in pieno fascismo, a Zurigo. Nel ’27, un gruppetto di esuli antifascisti formarono la Mansarda (perché tutti, allora, stavano di casa negli abbaini, come ora nelle baracche). [...] Gente che non ha mai cambiato una virgola al suo parere, guardati storto dalla polizia allora come oggi – perché a palazzo, a Berna, v’è ancora oggi chi appaia l’antifascismo al comunismo. Con grande pazienza e mille precauzioni – perché la nostra polizia, allora, chiudeva un occhio quando i fascisti del consolato avanzavano solidi argomenti, fra il lusco e il brusco – fondarono poi la «Scuola libera italiana», contrapponendola a quella dei «Fasci italiani all’estero». [...] C’erano tutti. Gli uomini della Mansarda, i compagni della Cooperativa socialista (che con la sua attuale federazione è di fatto la più antica associazione d’italiani in Svizzera, una settantina d’anni e più) qualche altro antifascista solitario. Libera fu una bandiera, più che un aggettivo, ed attorno a quella bandiera si strinsero gli antifascisti che contendevano ai funzionari del regime il monopolio dell’italianità. [...] La follia nazifascista passa, la guerra è finita, tutti a casa. Tutti no, perché molti della Svizzera avevano apprezzato il lato buono, e son rimasti, tant’è che nel ’47, al quinto congresso della FCLI, decidono di continuare perché con la pace ritorna la tradizionale emigrazione degli italiani verso il nord, il nostro Paese specialmente. L’Italia ha manodopera, la Svizzera industrie: l’affare è fatto – e continua tuttora114.

Questo è il ritratto che ne fece Pierluigi G. Paloschi sulle pagine di «Cooperazione»115 nel novembre del 1968. L’osservatore però non si limitò solo a descrivere quei momenti, bensì, affrontò, tra le tante, una questione che forse più delle altre fu di difficile soluzione (e forse non ci riusciranno/proveranno mai quelli delle Colonie), ovvero, di-

114   L’Italia non ufficiale di Pierluigi G. Paloschi, in «Cooperazione», n. 47, del 23 novembre 1968. SSZ, f. FCLIS, b. Convegni anniversari FCLIS - Ar 40.40.7. 115   «La Cooperazione. Giornale popolare svizzero», fondato nel 1906, è l’edizione italiana dell’omonimo quotidiano in lingua tedesca «Genossenschaftliches Volksblatt», fondato nel 1902 dalla Schweizerische Konsumvereine (Unioni svizzere di consumo-Coop Svizzera). Per maggiori approfondimenti, si veda O. Martinetti, Novant’anni di stampa cooperativa, Edizioni stampa Coop, giugno 1992.

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mostrare la loro totale indipendenza dai partiti della sinistra italiana. In altre parole, «quelli delle Colonie Libere sono comunisti o no?». A Roma sono sbigottiti: milioni fin che ne volete, ma fondate più associazioni che potete, dobbiamo sbarrare il passo alle CLI, assolutamente. Così accanto alle CLI ed alle poche altre associazioni spontaneamente sorte, nascono come funghi centinaia d’associazioni e funzionari. Sorge il mito del paravento del Pci. Comunisti quelli della federazione e delle CLI? Nella patria del libero pensiero, che in fatto d’anticomunismo viscerale non è seconda nemmeno a Mc Carthy, buonanima, non v’è il peggio che farsi appioppare del comunista, e del presunto tale, per vedersi controllati posta e telefono, pedinati anche al gabinetto, perquisiti, interrogati e magari espulsi, con tanto di cellulare e passaporto segnato. [...] Comunisti sì o comunisti no, quelli della FCLI? Comunisti sì e comunisti no. Comunisti sì perché nella federazione e nelle singole CLI operano «compagni» con tanto di tessera del Pci – ma allora sono comuniste pure tutta una miriade di associazioni sportive, regionalistiche, particolarmente, allora sono comunisti pure i sindacati, pure le mense popolari delle Missioni cattoliche italiane perché dove c’è da mangiar bene spendendo poco anche i comunisti non sono dammeno. Comunisti all’italiana, che leggono «l’Unità» ma pigliano anche il «Corriere della Sera», o «Il Giorno», che si sposano in chiesa e i figli li mandano alla scuola del prete, alla Missione. Che se ci lasciano la pellaccia li mettono via col De profundis, l’acqua santa e il foulard rosso al collo. Comunisti no, perché nella federazione e nelle singole CLI militano lavoratori d’ogni idea: socialisti, cattolici, repubblicani persino liberali e monarchici, in Svizzera non se ne trovano. I missini non li vogliono: antifascisti allora, antifascisti oggi116.

Le osservazioni di Paloschi non si limitano solo alle questioni di fondo, con la sua penna descrive con passione e coinvolgimento quanto egli stesso ha verificato, in particolar modo nella capitale della Confederazione. [Melodramma a Berna.] Di CLI ne conosciamo una: quella di Berna. Nel ’60 la Casa d’Italia dove aveva sede – ex Casa del Fascio – li sbatté fuori. La CLI da sola faceva il triplo di quanto facevano la dozzina d’altre associazioni che alla Casa d’Italia albergavano. Senza un buco dove riunirsi, senza un soldo in cassa, misero in piedi quattro feste all’anno, addirittura una decina di corsi di perfezionamento professionale – roba

116

  L’Italia non ufficiale, cit.

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mai vista a Berna –, un’assistenza sociale capillare, persino una compagnia teatrale, piccolina ma attivissima. Il primo tre atti fu un melodramma che strappò lacrime anche alle cameriere tedesche dello Sternen di Bümpliz: nove fra attrici ed attori, una decina i tecnici, un successone. Tutto sommato, costumi e trucco compresi, gli costò 35 franchi, e avanzò abbastanza per una bicchierata. Tanto per dire. (Ma per averli, quei 35 franchi, il regista dovette discutere un’ora buona col comitato della CLI – se dietro davvero c’era il Pci, altro che 35 gliene avrebbero dati.) Ma torniamo alla FCLI, fenomeno unico nella storia dell’emigrazione italiana non soltanto in Svizzera, ma nel mondo117.

Di seguito, probabilmente la sintesi migliore, rispetto a tutte le analisi che si possono fare, della descrizione di che cosa concretamente si occupò la FCLIS. Oltre all’amministrazione normale, la FCLI dirige le associazioni federate (e sono 117, non dimentichiamocene), ma soprattutto tutela i diritti democratici degli emigrati. Di tutti ben s’intende, anche di quelli per i quali CLI e anticristo è la stessa cosa. [...] Non assistenza intesa nel pacchettino con le arance, i biscotti e i santini. Le CLI hanno capovolto il concetto di assistenza: non più assistenza generica, che può essere confusa con la tradizionale beneficenza (che pure viene effettuata), ma un concetto di assistenza che è completamente nuovo, e che ha il suo cardine d’azione nel riuscire a far sì che le leggi che vengono fatte [...] e che entrano nella prassi grazie alla stipulazione o al rinnovo di accordi bilaterali in materia di emigrazione tra Svizzera ed Italia, vengono ad essere conosciute dall’emigrazione [...]. Questo sul piano federale o, meglio, nazionale. Su quello locale, tale assistenza viene effettuata dalle singole CLI o circoli federati mediante uno strumento di cui dispongono: il o i responsabili dell’assistenza sociale che esistono nel maggior numero di CLI. La funzione di questi assistenti sociali (che poi lo fanno accanto al lavoro, non stipendiati, la sera o la domenica) non è quella di risolvere personalmente le magagne dei connazionali, ma di registrare tali richieste, elaborandole nella dovuta forma [...] agli organismi competenti, in modo particolare i patronati dei sindacati italiani (che in Svizzera sono quattro: l’Inca, l’Ital, le Acli e l’Inastis)118.

Questa azione, come sottolineato più volte, è rivolta verso due direzioni. 117 118

  Ibid.   Ibid.

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Per la questione, assai più ampia, della tutela dei diritti degli emigrati, la FCLI opera in due direzioni. Nei confronti dell’Italia sensibilizzando il governo, i gruppi parlamentari (non i partiti!), i sindacati, gli enti umanitari, la stampa, e, per quanto riguarda la globalità dei problemi che sono posti verso la società svizzera, o dalla Svizzera posti agli italiani immigrati, operando verso i sindacati elvetici che si sono assunti – o dovrebbero essersi assunti – il compito della tutela dei lavoratori, quindi pure degli italiani, che in Svizzera mica ci stanno per diporto119.

Alla fine però, nell’ultima griglia, tra le righe si legge un duplice aspetto, sarcastico ed amaro allo stesso tempo. [Neanche un telegramma.] Ecco: questa è la Federazione delle Colonie libere italiane, grosso modo s’intende. L’intervista è finita. L’indomani, nell’immensa sala della Limmathaus, una manifestazione plebiscitaria. Hanno parlato molti, il vecchissimo presidente ultimo reduce della Mansarda, che ha il terrore delle onorificenze (ma lo scorso anno gli diedero la commenda). Ha parlato, veemente, il presidente aggiunto facendo l’istoriato della FCLI. Hanno parlato due giovani del «governo» della maggiore associazione italiana della Svizzera, prospettando i nuovi problemi della nuova emigrazione, quella attuale, e quelli della generazione futura. [...] Inno di Mameli e Bella Ciao, garofani rossi ed abbracci, applausi e strette di mano. Ha parlato, con un filo di voce che non bastavano gli amplificatori, un vecchio militante, 56 anni sulla breccia. Avesse parlato Saragat, non l’avrebbero accolto così. Poi il rinfresco: un semplice bicchiere di bianco secco, del Vallese. E basta. E per poter offrire il bianco, che in preventivo non figurava, han discusso mezza giornata. E dal Pci manco un telegramma d’auguri!120

7. 1969: Olten e la nuova svolta Sembrò quasi un segno del destino, con ogni probabilità la scelta fu compiuta in maniera inconsapevole, ma nella stessa città che vide la nascita della Federazione, Olten, si tenne il XXIII Congresso federale, che in un certo qual modo rappresentò una svolta nelle strategie della FCLIS. Sarà stato il contesto storico in cui avvenne (si diffondevano i sussulti del ’68; nel giugno dello stesso anno veniva assassinato Bob Kennedy; nel luglio del ’69 l’uomo sbarcò per la

119 120

  Ibid.   Ibid.

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prima volta sulla Luna; e poi ancora Woodstock; e la forte contestazione nei confronti della guerra in Vietnam), ma il 1969 rappresentò un anno di cambiamenti anche per le CLI. Abbiamo già visto come il clima nei confronti degli stranieri, e in special modo degli italiani, fosse particolarmente ostile e come il governo italiano cercasse di depoliticizzare, attraverso la regionalizzazione del mondo associativo, tutte quelle rappresentanze all’estero che, direttamente o indirettamente, svolgevano attività di sensibilizzazione degli emigrati. Nel marzo del 1969 ad Olten la FCLIS adottò una nuova strategia operativa, costruita negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del nuovo accordo tra la Svizzera e l’Italia, che si basava sull’incessante richiesta che venisse data applicazione ai miglioramenti che pure l’accordo stesso prevedeva. Attraverso questa azione, le CLI riuscirono a convincere larga parte dell’emigrazione, dell’opinione pubblica e, più in generale, del mondo sindacale e del lavoro elvetico, su due questioni fondamentali. La prima riguardava il fatto che la suddivisione del mercato del lavoro elvetico, legalizzato dall’accordo (nella fattispecie, lavoratori svizzeri, emigrati con il permesso di domicilio, annuali, stagionali, frontalieri), oltre che codificare discriminazioni vergognose, finisse per indebolire gravemente il potere contrattuale di tutto il movimento operario presente in Svizzera; la seconda questione concerneva l’idea che il lavoro stagionale non avesse più ragione di esistere, pertanto lo statuto veniva considerato un intollerabile abuso. Ormai, lo sviluppo tecnologico dei mezzi di produzione e una diversa organizzazione del lavoro permettevano un’attività costante lungo tutto l’arco dell’anno, salvo eccezioni marginali. La prova risiedeva nel fatto che gli stagionali lavorassero in Svizzera anche per 11 mesi e 20 giorni l’anno. Queste erano, sul versante svizzero, le problematiche legate alle condizioni della manodopera straniera, che videro una risposta concreta nella creazione di un fronte comune tra le principali associazioni in emigrazione e nella necessità di risolvere urgentemente la vicenda degli stagionali. Sul versante italiano, invece, l’istituzione delle Regioni e la conseguente nascita di una miriade di associazioni a carattere regionalistico, fu l’elemento che più di tutti, alla lunga, ebbe un peso rilevante sulla capacità stessa della FCLIS di incidere sulla comunità emigrata. Difatti il diffondersi di nuove forme associative, che puntavano a sostituire il legame ideologico con quello identitario e/o territoriale, generò negli anni a venire diverse nuove contrapposizioni. Questa situazione trovò facile motivo di profitto, ­­­­­227

probabilmente, nell’impreparazione e nel diverso milieu culturale di molta parte della nuova immigrazione. Mentre, sui i primi due punti, unitarietà e stagionali, l’azione della Federazione delle Colonie fu tempestiva e riuscì a portare anche risultati discreti in termini di credibilità, sdoganando definitivamente l’organizzazione; sul versante della regionalizzazione – probabilmente fidandosi troppo delle proprie possibilità organizzative per la diffusione della politica unitaria e sottovalutando i mezzi e le forze a disposizione di chi aveva iniziato a muoversi nel senso indicato – il suo atteggiamento risultò, giudicato con il senno di poi, eccessivamente ignaro di quanto stava accadendo. D’altronde, anche ad Olten, la questione non fu trascurata. In giro si è detto, e anche noi l’abbiamo temuto, che la proliferazione di questo associazionismo era determinata da puri scopi strumentali, che era attuato guardando all’istituzione delle Regioni in regime autonomo. E a comprovare il supposto intendimento veniva additata l’attività delle associazioni regionali sul luogo di emigrazione. Certo questo pericolo esiste sempre. D’altro canto però alcune di queste associazioni, in Italia, hanno assunto la paternità di iniziative che non possono non riscuotere la nostra approvazione. Occorre allora non chiudersi rigidamente nella proverbiale «torre d’avorio», ma essere aperti, vagliare caso per caso e quindi dare o negare il nostro appoggio. In ogni caso la nascita o il potenziamento di tali organismi sta a significare che l’emigrazione comincia a contare di più, e questo è fatto positivo. Ora bisogna solo evitare che l’interesse nei nostri confronti sia solo transitorio o che assuma toni demagogici di parte. [...] Sul problema noi abbiamo già preso posizione: abbiamo detto che non siamo contrari a qualsiasi tipo di associazionismo e che quando il lavoratore decide di organizzarsi significa che acquista una coscienza sociale. Creare però le più diverse associazioni e poi mantenerle staccate le une dalle altre, vuol dire andare contro gli interessi degli emigrati121.

Carattere distintivo, come sempre, restava la necessità di voler costruire un fronte unitario di rivendicazione, soprattutto nei confronti del governo italiano. L’operazione, in parte, si concretizzerà proprio in questi anni, grazie anche all’apporto inconsapevole della xenofobia, che riuscì ad unire il mondo dell’associazionismo italiano. Furono proprio le posizioni assunte dalle CLI sull’evoluzione del mondo del lavoro e sulla xenofobia a fare superare anche le difficoltà 121

7-8.

  Relazione generale di Gianfranco Bresadola al XXIII Congresso, cit., pp.

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createsi, in particolare con le Acli. Nel 1970, queste ultime congiuntamente alla FCLIS si rivolgeranno costantemente alla Commissione mista italo-svizzera per sottoporre una «Valutazione di richieste, proposte e suggerimenti», con cui tuttavia si otterranno solo parziali miglioramenti delle condizioni degli stagionali. La Commissione baserà le proprie richieste al governo svizzero sulle indicazioni delle due associazioni. Se nel 1964 la delegazione svizzera aveva riconosciuto che «in taluni settori, il carattere stagionale dell’impiego si è modificato», ad esempio «per l’industria dei laterizi e così pure per le fabbriche del cemento», e ciò nonostante viene mantenuta la condizione stagionale anche per queste categorie professionali, è anche doveroso riconoscere che tale carattere si è modificato per tutta l’edilizia e per l’industria alberghiera. Conseguentemente bisogna procedere all’eliminazione dello statuto dello stagionale. [...] Dal 1964 non è accaduto nulla: da qui una ulteriore dimostrazione della necessità di giungere alla soluzione prospettata alle Associazioni firmatarie di questo documento. [...] Il governo italiano pretende che non venga imposto nessun periodo di attesa per il ricongiungimento delle famiglie. Si fa notare la forte contraddizione presente nel primo paragrafo delle Dichiarazioni in cui è richiesta, ai fini del ricongiungimento familiare, una condotta esemplare sul piano lavorativo e personale del lavoratore, che non dovrà dar luogo a nessuna lagnanza da parte delle autorità. Ci si chiede perché siano richiesti tali requisiti per il ricongiungimento. Il dubbio che si creino forti discriminazioni sorge dall’incertezza di chi debba giudicare questi requisiti discriminatori se le autorità svizzere sole, o in collaborazione di quelle italiane; per via di tale ambiguità si chiede la rimozione di tale articolo122.

Inoltre, nel documento congiunto si sottolinea come siano state affrontate, risolte o migliorate alcune condizioni alla base del nuovo accordo. Una forte discriminazione è anche prevista per quel che concerne i requisiti in merito alla qualifica professionale che determina i tempi di attesa 122   Sintesi del documento «Valutazioni di richieste, proposte e suggerimenti» (Berna, 17 marzo 1970) da parte della FCLIS e delle Acli, nel quadro dell’incontro della Commissione mista italo-svizzera per la revisione delle norme in vigore tra i due Paesi sull’ingresso e il soggiorno della manodopera italiana in Svizzera; documento pubblicato in Parte seconda: documentazione, in F. Biffi, L. Bocciarelli, L. De Polis, G.B. Sacchetti (a cura di), op. cit., pp. 190-202.

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per il ricongiungimento familiare; dai 6 ai 18 mesi. Si rende noto inoltre che, la carenza di infrastrutture, come gli asili, fa crescere di molto il numero di bambini italiani impossibilitati a frequentare gli asili e ad accentuare le tensioni fra le due comunità. [...] Altre forti discriminazioni permangono per quel che concerne i parametri di assegnazioni di alloggi nei cantoni come quello di Berna e di Zurigo; in cui i lavoratori stranieri sono esclusi dal diritto di ottenere un alloggio, ciò nonostante il livello contributivo è pari a quello dei cittadini svizzeri che usufruiscono a pieno titolo di questo diritto. [...] Ci sono forti discriminazioni per il diritto allo studio dei figli dei lavoratori italiani a cui è di difficile accesso l’istruzione ma non solo, il diritto a preservare la propria identità culturale deve far sì che i corsi di lingua italiana vengano intensificati e resi maggiormente accessibili; a discapito della vigente norma che permette solo ai figli dei connazionali che sono in Svizzera da meno di 10 anni di frequentare tali corsi. [...] La mancanza di fondi va a discapito dell’integrazione dei bambini che devono frequentare un nuovo corso di studi interrotto in Italia e anche all’integrazione dei genitori nel tessuto sociale che non possono partecipare ai consigli e alle riunioni scolastiche. [...] Si chiede con urgenza anche il potenziamento di «doposcuola» e di asili nido; per via delle esigenze da parte delle lavoratrici; consentendo un adeguato sviluppo psicologico ai bambini e un proficuo profitto scolastico. [...] In più la forte discriminazione nei confronti dei figli dei lavoratori italiani ai quali è quasi del tutto precluso il diritto agli studi superiori; questa discriminazione è inaccettabile per via anche di un’emigrazione che dura da un decennio e che vede i lavoratori sul territorio svizzero in pianta stabile; delegando agli italiani il solo ruolo di forza lavoro. È quindi necessario che all’interno dell’Accordo di Emigrazione sia esplicitamente previsto il diritto per i figli dei lavoratori italiani a frequentare qualsiasi grado dell’ordinamento scolastico123.

La sintesi di questo documento ripropone alcune questioni che accompagneranno l’attività della FCLIS, rappresentando l’inizio del lungo percorso unitario dell’associazionismo italiano in Svizzera. Il maggior risultato verrà conseguito dal «Primo convegno nazionale delle associazioni degli emigrati italiani in Svizzera» che si tenne a Lucerna il 25 e 26 aprile 1970, promosso da un comitato di cui facevano parte, assieme alla FCLIS e le Acli, il Gruppo italiano del Sindacato svizzero dei metallurgici Fomo di Zurigo, il Comitato nazionale italiano della Confederazione svizzera dei sindacati cristiani, i patronati di assistenza di emanazione sindacale italiana, il sindacato

123

  Ibid.

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degli impiegati a contratto del ministero degli Affari esteri124. Se è vero che buona parte del merito della riuscita positiva del convegno è da ascrivere alla potenza del messaggio unitario proveniente dall’Italia, conseguente agli esempi del movimento sindacale specialmente durante «l’autunno caldo», sarebbe sbagliato sottovalutare l’azione svolta per decenni, in quella direzione, proprio da associazioni quali la FCLIS. Dal convegno nacque il «Comitato nazionale d’intesa fra le associazioni ed organizzazioni degli emigrati Italiani in Svizzera» che comprendeva la FCLIS e le Mci, il Pci e l’Unaie, la Federazione socialista italiana in Svizzera e la Lega Sarda, le Acli e l’Associazione lavoratori emigrati e famiglie dal Friuli Venezia Giulia, i Gruppi italiani dei Sindacati svizzeri e l’Associazione degli emigrati dalla Slavia friulana, il Sindacato dei dipendenti delle rappresentanze diplomatiche italiane in Svizzera, l’unione nazionale frontalieri, i sindacati degli insegnanti. Insomma: tutta l’emigrazione organizzata125. Inoltre, la FCLIS, dopo aver avviato i rapporti nell’ambito della rete dell’emigrazione italiana, non trascurò di instaurare collaborazioni con le organizzazioni degli emigrati in Svizzera da altri Paesi europei, come nel caso dell’Atess, e di intensificarle con le grandi associazioni che in Italia si dedicano ai problemi dei migranti, in particolar modo con la Federazione italiana lavoratori emigrati e loro famiglie (Filef)126 e, per quanto concerne la formazione dei lavoratori, con la Società Umanitaria di Milano127, che mise ripetutamente a disposizione le proprie strutture e il personale. Le tracce della prima collaborazione con l’Atees risalivano al 1972, anno in cui in Svizzera era in corso una annosa disputa per la riforma del sistema pensionistico: sul tappeto vi erano varie proposte, quella del Partito svizzero del Lavoro, quella dell’Unione sindacale ed una padronale. Il Consiglio federale, dal canto suo, presentò un 124   Documento programmatico. Primo convegno delle associazioni degli emigrati italiani in Svizzera, Lucerna, 25 e 26 aprile 1970. SSZ, f. FCLIS, b. Convegni Svizzeri 1959-1976 - Ar 40.40.8. 125   Origine e scopo del CNI. SSZ, f. FCLIS, b. Comitato nazionale d’intesa 1959-1976 - Ar 40.70.9. 126   Corrispondenza e relazioni 1967-71;1972-74. SSZ, f. FCLIS, b. FILEF - Ar 40.20.8. 127  Corrispondenza con la Società Umanitaria di Milano. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18.

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controprogetto che prevedeva un sistema basato sull’AVS, le casse aziendali di pensione e il risparmio individuale. Indipendentemente dal sistema adottato, anche il lavoratore emigrato sarebbe stato assoggettato al progetto, il che significava il pagamento delle quote nella stessa misura del cittadino elvetico. All’emigrato non fu però data alcuna possibilità di pronunciarsi in merito, nemmeno a titolo consultivo. FCLIS e Atees decisero allora di lanciare una petizione nazionale con la quale si chiedeva: 1) un sistema previdenziale pubblico, generale, unificato, costituito dal potenziamento e dall’estensione dell’AVS-AI; 2) l’allargamento agli immigrati del diritto di decisione sui contenuti della riforma del regime pensionistico e su ogni altra questione che li riguardasse direttamente; 3) la salvaguardia degli interessi specifici dei lavoratori esteri in fase di applicazione dell’articolo costituzionale relativo al funzionamento del sistema previdenziale128. A disposizione c’erano meno di due mesi di tempo, ma la mobilitazione fu subito estesa: decine e decine furono le assemblee, i dibattiti e le conferenze, rilevante fu la sensibilizzazione tramite la stampa. Risultato: ben 76.000 emigrati sottoscrissero la petizione, il che servì ulteriormente a sottolineare la loro volontà di partecipazione. Sulla questione, il 7 febbraio 1973, «Emigrazione Italiana» (che dal 1972 usciva in edizione settimanale) aprì la prima pagina con il titolo: «Con un meschino trucco vanificati i già pochi diritti dei nuovi stagionali»129. Nonostante le disposizioni dell’Accordo italo-svizzero del 1964 e gli impegni del giugno 1972, furono emanate misure attraverso cui si impedì l’entrata nel Paese prima del 1° aprile agli stagionali dell’edilizia arrivati nella Confederazione per la prima volta nel 1973, negli anni seguenti o tornati dopo un’interruzione dell’attività nel 1972. In pratica i lavoratori soggetti alle nuove misure, dovendo soggiornare in Svizzera 8 mesi e tre settimane, non possono maturare le condizioni dell’art. 12 del citato accordo di emigrazione per avere la possibilità di ottenere un permesso annuale [...]. Né usufruiscono dei miglioramenti che il governo elvetico ha dichiarato a giugno di voler applicare a partire

128   Petizione per una pensione popolare 1972. SSZ, f. FCLIS, b. ATEES - Ar 40.20.14. 129  «Emigrazione Italiana», Zurigo, 7 febbraio 1973. SSZ. f. FCLIS, b. Politica degli stranieri in Svizzera - Ar 40.70.12.

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al massimo dal 31 dicembre 1975. [...] Ma le nuove misure emanate dalle autorità elvetiche sono tanto più gravi in quanto tendono a considerare VERI STAGIONALI tutti quei lavoratori cui sarebbe permesso di lavorare qui una sola settimana meno dei cosiddetti nove mesi regolamentari130.

In sostanza, nonostante gli impegni internazionali, le autorità elvetiche avevano rispolverato un sistema di regolamentazione e restrizione del flusso migratorio usabile e regolabile a seconda del variare delle circostanze e delle esigenze interne. La FCLIS, il Comitato nazionale d’Intesa e l’Atees protestarono energicamente, ma l’Italia accettò praticamente il fatto compiuto, mostrando una debolezza che forse si giustificava nel 1948, ma che a distanza di trent’anni diventava incomprensibile agli occhi delle CLI. Non cesseranno le iniziative e le azioni rivendicative a favore della manodopera italiana, soprattutto riguardo al caso specifico degli stagionali. In definitiva, tra le varie questioni sollevate dalla FCLIS e più in generale dall’associazionismo italiano, prima in forma autonoma e a partire dagli anni Settanta in maniera unitaria, ne restò una irrisolta, anche dopo l’accordo del 1964. Se si ottenne la riduzione del periodo di tempo necessario per entrare nella categoria degli annuali, che passò da 10 a 5 anni, non si riuscì, però, ad eliminare il terzo comma dell’art. 11, già presente nell’accordo del 1948: «Restano salve le disposizioni svizzere che limitano l’impiego della manodopera straniera per inderogabili ragioni di interesse nazionale»131. Quanto incise il mantenimento di questo comma, lo si vedrà a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. In questa fase, per un lavoratore stagionale ottenere il permesso di lavoro annuale significava poter finalmente vivere nella Confederazione con la propria famiglia. La questione degli stagionali sarà il banco di prova di tutta l’azione dell’associazionismo in emigrazione, non solo delle CLI.

  Ibid.   Art. 11 dell’«Accordo di reclutamento Italia-Svizzera» del 1948. L’accordo è stato firmato il 22 giugno 1948 tra Svizzera e Italia ed è entrato in vigore in Italia con decreto del presidente della Repubblica del 10 dicembre 1948 n. 1659. RU 1948.790. Si rimanda al cap. II. 130 131

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8. Trent’anni all’insegna degli stagionali Gli anni Settanta vedranno un’intensa attività della FCLIS. Dopo il congresso del 1969, nel quale verranno programmate una serie di iniziative, il decennio sarà caratterizzato dal progressivo cambio di strategia. Nella prima metà del decennio si assisterà a due momenti di massimo impegno, oltre a quelli già summenzionati: il 31 marzo 1971 si celebrerà a Zurigo il XXIV Congresso federale e due anni dopo il trentesimo anniversario della fondazione. Dall’analisi, in estrema sintesi, dei contenuti e dei temi affrontati emergono le questioni, o meglio la questione, al centro dell’azione dell’organizzazione, almeno fino agli inizi degli anni Ottanta. Gli argomenti affrontati durante il XXIV Congresso confermano le complessità cui dovrà fare fronte non solo la FCLIS, ma più in generale la manodopera italiana in Svizzera, i nodi irrisolti e le tattiche adottate nei confronti dei governi italiano e svizzero. L’accordo di emigrazione conteneva, infatti, norme restrittive, aggravate dai decreti unilaterali del marzo del 1970 e dell’aprile 1971 che, a loro volta, avevano conferito ampi poteri e discrezionalità alla polizia degli stranieri nel regolare le condizioni di vita e di lavoro degli emigranti. Inoltre, dopo il fallimento delle trattative della Commissione mista per la revisione dell’accordo (a Roma nel settembre 1970 e a Berna nel dicembre 1970), le CLI ritennero urgente muoversi in due direzioni: da un lato, premere affinché il governo italiano non solo ribadisse le richieste di parità di trattamento e di abolizione dello statuto degli stagionali, ma esprimesse la volontà politica di promuovere ogni azione necessaria all’accoglimento di tale rivendicazione; dall’altro, in direzione della Svizzera (sindacati, partiti, associazioni, opinione pubblica) affinché la politica di stabilizzazione che intendeva portare avanti il Consiglio federale non significasse accogliere il principio della non discriminazione e comunque rinviare a tempi lunghi la soluzione dei problemi più importanti (libera circolazione, parità, scuola, formazione professionale, abrogazione dello statuto degli stagionali, alloggi), con il pretesto della problematicità della situazione interna. «Non dobbiamo essere spettatori passivi della prossima campagna elettorale dove la destra cercherà di fomentare la paura verso lo straniero»132.   Traccia per le assemblee delle CLI dopo il XXIV Congresso. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alla sezioni - Ar 40.20.2. 132

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Durante il congresso di Zurigo, particolare attenzione verrà rivolta all’implementazione dei Comitati di democrazia sindacale, con l’intento di migliorare le condizioni di lavoro e di spingere all’ammodernamento del sistema produttivo, sofferente a causa delle congiunture internazionali. Inoltre, per quanto atteneva alla manodopera, la FCLIS insisterà affinché le Casse pensioni aziendali diventino obbligatorie, sia per scongiurare la perdita del sussidio in caso di disoccupazione sia per offrire a chi rientrava in Italia l’opportunità di usufruire della reversibilità dei contribuiti versati. In sostanza, la misura intende raggiungere la parità di trattamento tra lavoratori svizzeri ed italiani. Gli ultimi due temi affrontati saranno l’istruzione e la formazione professionale. Nel primo caso, si chiedeva la non discriminazione ed il progressivo inserimento dei bambini italiani nei processi formativi della scuola dell’obbligo, stigmatizzando le classi ghetto per soli immigrati. Sul versante della formazione, la FCLIS conveniva sulla necessità di moltiplicare gli sforzi, in collaborazione con tutti gli istituti di formazione dell’associazionismo italiano presente in Svizzera, al fine di migliorare il livello di specializzazione della manodopera italiana. L’ultima mozione approvata sarà relativa all’organizzazione stessa e si inviteranno tutte le CLI sparse sul territorio al coinvolgimento massimo di nuove leve all’interno dell’associazione. Nell’ottobre-novembre 1973 si tennero, invece, le celebrazioni del trentennale della Federazione; vennero organizzati, nell’arco di un mese, quattro appuntamenti nazionali. A Bienne nell’ottobre del 1973 si svolse l’incontro di apertura incentrato sul tema «Lo statuto dei lavoratori stagionali e il mercato del lavoro svizzero», trait d’union di tutte le iniziative; alla manifestazione presero parte le rappresentanze del sindacato dei due Paesi, i partiti politici italiani e svizzeri e le delegazioni dell’associazionismo italiano in Svizzera133. Seguì quindi l’incontro di Zurigo dell’11 novembre su «L’emigrazione e le regioni italiane», nel quale furono discusse le evoluzioni del sistema istituzionale in Italia134; una settimana dopo, le CLI saranno impegnate su «L’emigrazione e la difesa sindacale», a Ginevra135. Le celebrazioni si chiusero, sempre e ancora una volta ad Olten, con

133   Convegno nazionale sui problemi dei lavoratori stagionali, Bienne, 28 ottobre 1973. Trentennale 1943-1973. SSZ, f. FCLIS, b. Convegni e anniversari - Ar 40.40.7. 134  Zurigo, 11 novembre 1973. In Trentennale, cit. 135  Ginevra, 18 novembre 1973. In Trentennale, cit.

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il confronto su «Emigrazione e realtà sociale, economica, politica svizzera», svoltosi il 25 novembre del 1973136. Durante gli incontri furono tracciate le linee guida e la strategia operativa delle azioni future della FCLIS. Di fatto, però, gli stagionali resteranno la sfida centrale e più importante del decennio successivo. Probabilmente la stagione referendaria aveva sensibilizzato l’opinione pubblica elvetica, al tal punto, che sulla stampa nazionale emergevano le prime posizioni a favore degli italiani. Su «La Suisse» si affermava: La vera soluzione sarebbe stata la soppressione dello «status» di lavoratore stagionale, ma la qualifica «stagionale» fa comodo a molti. Rimane sempre l’inammissibile conseguenza limitata al permesso stagionale che consiste nel divieto di formare una famiglia in Svizzera o di farsi seguire dai parenti. [...] Sia pianificata progressivamente l’immigrazione delle famiglie137.

«Ipnotizzati», così definì gli svizzeri la «National Zeitung» rispetto alla questione. In questa lotta sulle cifre nella quale si battono le associazioni padronali, i governi cantonali per ottenere più lavoratori e la destra politica e la sinistra sindacale si battono contro un aumento dell’inforestieramento, gli stranieri per forza ci rimettono. E per i lavoratori stagionali, che finora avevano diritto al permesso annuale dopo 36 mesi nell’arco di 4 anni, con successivo ricongiungimento familiare, si ha cura di far vanificare questo diritto. È tempo ormai che ci innalziamo un po’ ancora al di là dei nostri confini e guardare al problema in un’ottica europea e che noi ci interessiamo più dei problemi umani che non delle quantità statistiche. Le cifre non ci devono più ipnotizzare138.

Ovviamente, non mancarono gli interventi a favore della politica di stabilizzazione praticata dal governo di Berna, i quali sottolineavano come avesse tenuto testa alle rivendicazioni dell’Italia. [Il governo ha tenuto duro.] Sarà sempre necessario parlare in maniera assolutamente chiara con il vicino meridionale, che potrebbe ancora

  Olten, 25 novembre 1973. In Trentennale, cit.   «La Suisse», 1° giugno 1973. 138  «National Zeitung», 10 luglio 1973. 136 137

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riversarci un forte contingente di lavoratori. Non si può da un lato riconoscere la nostra autonomia e cioè la nostra politica di stabilizzazione e d’altro lato, cercare di annullarla con la richiesta di massicce autorizzazioni. In realtà anche l’Italia dovrebbe essere interessata a mantenere una Svizzera economicamente e perciò anche politicamente stabile139.

Sulla stessa linea, anche se con analisi diversa, definendo la strategia «non perfetta», il «Tages Anzeiger», che non mancava di stigmatizzare le inefficienze del governo italiano. Quando il governo federale vuole impedire che esistano in futuro falsi stagionali – stagionali che lavorano in Svizzera più di nove mesi – ciò è da salutare con favore. Per quanto vi sia da dubitare circa il modo prescelto, il divieto di ingresso per gli stagionali dell’edilizia sino al primo aprile di ogni anno, metodo che tuttavia in sé e per sé è perfetto. [...] Le autorità svizzere si appellano alla contraddizione che esisterebbe nella posizione italiana: in un primo momento l’Italia ha criticato lo statuto dello stagionale e oggi, dato che presto non dovrebbero ormai più entrare in Svizzera nuovi annuali, pretende di prolungare, possibilmente, la durata dei permessi stagionali. La contraddizione esiste e oltre a ciò il governo italiano non ha fatto nulla per creare nuovi posti di lavoro nelle zone di tradizionale emigrazione, per quanto da anni avrebbe promesso che voleva agire allo scopo di evitare l’emigrazione140.

Su posizioni diametralmente diverse, come prevedibile, la stampa italiana in Svizzera. «Il Corriere degli Italiani», organo delle Mci, parlò del «sapore della beffa», definendo l’azione di Berna: «drammatica per l’emigrazione italiana in Svizzera, prende perfino il sapore della beffa tanto è ampio il dislivello tra il significato reale del nuovo regolamento e la coscienza, e quindi responsabilità che ne assume il popolo svizzero.[...] E gli accordi con l’Italia? Ed i diritti dell’uomo che la Svizzera si appresta a firmare?»141. In linea con l’organo di stampa cattolico, era anche «Emigrazione Italiana», ovviamente con toni «radicalmente» diversi. [Berna continua a battere la vecchia strada.] Meschino trucco il progetto di decreto che cerca di mantenere la redditizia (per i capitali-

  «Der Bund», 10 luglio 1973.   «Tages Anzeiger», 16 luglio 1973. 141  «Il Corriere degli Italiani», 10 giugno 1973. 139 140

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sti) ed artificiosa categoria degli stagionali. Una ennesima volta dunque si giuoca sulle cifre, non tenendo conto che dietro le cifre ci sono gli uomini142. [Una vergogna!] In materia di manodopera estera, per il Governo elvetico conta più Schwarzenbach che qualsiasi diritto umano e patto internazionale. [...] Questa presa di posizione è semplicemente vergognosa, non fosse che per il fatto che nega a centinaia di migliaia di esseri umani un diritto universalmente riconosciuto: quello di vivere con la propria famiglia143.

Unanime invece il giudizio dei giornali italiani che parlarono di «Grave decisione della Svizzera contro i lavoratori stranieri» («Avanti!»)144, «Rigurgito della destra nazionalista» («Corriere della Sera»)145, «Berna chiede all’Italia più braccia, meno diritti» («Avvenire»)146, «Gravi misure del governo svizzero sull’emigrazione» («l’Unità»)147. Il problema aveva finalmente coinvolto, trasversalmente, tutti e non mancarono giudizi negativi sulla stessa stampa svizzera. Prima di analizzare le evoluzioni normative, le cifre ed il contesto storico all’interno del quale verrà affrontata la questione è opportuno capire, attingendo ai loro stessi racconti, chi erano gli stagionali. Merce, come provocatoriamente li definisce Frisch, numeri per la statistica elvetica, ammesso che li conteggi, cosa che fece solo a partire dal 1973148. Nel 1970, in un numero speciale di «Emigrazio­ne Italiana/Quaderni Emigrazione», la FCLIS pubblicò un’inchiesta che ne delineava le caratteristiche principali149. Gli stagionali in quegli anni erano in prevalenza italiani (90%) e per la restante parte spagnoli (9,6%), cui andava aggiunto lo 0,4% di diverse altre nazionalità. Il 64% aveva un’età compresa tra i 18 e i 35 anni e la provenienza provinciale era così suddivisa: Como, Lecco, Varese, Sondrio, Novara, Brescia, Bari, Lecce, Avellino, Sa-

  «Emigrazione Italiana», 6 giugno 1973.   Ivi, 11 luglio 1973. 144   «Avanti!», 16 giugno 1973. 145   «Corriere della Sera», 11 luglio 1973. 146   «Avvenire», 20 giugno 1973. 147   «l’Unità», 30 giugno 1973. 148   J.M. Niederberger, La politica di integrazione della Svizzera, cit., p. 107. 149   Fseie-Fmsie, Documenti sulle attività e i problemi dei lavoratori italiani immigrati in Svizzera, «Quaderni Emigrazione» (a cura della FCLIS), 4, 1970. SSZ, f. KZ, b. Rechtsfragen - Ar 48.60.5. 142 143

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lerno e la Sicilia150. Dall’inchiesta emergevano i problemi fin qui trattati: abitativo, relazionale, dell’uso improprio dei risparmi, ma soprattutto la clandestinità dei «bambini». Sono di Avellino provincia. Sono qua da stagionale e la mia vita è uno schifo, in questa baracca viviamo in 12 per 75 franchi a testa. E qui mangiamo. Ma non abbiamo altra scelta. Abbiamo cercato insieme agli amici di affittare un appartamento, ma non ce lo hanno dato, da stagionali non possiamo affittare! Che ne sarà di noi? Il Governo Italiano non sa neanche che esistiamo. Eppure siamo tanti e facciamo i lavori più duri. A volte mi viene una rabbia che spaccherei tutto, ma resto calmo, penso alla famiglia e mi viene la rassegnazione. La domenica è il giorno più brutto, senza fare niente. Qualche amico va al cinema, ma io non voglio tanto so che devo risparmiare per non far questa vita sempre151.

Gli elementi che maggiormente emergono da questa intervista sono il problema abitativo, la necessità spasmodica di volere risparmiare e l’alienazione sociale. Di contro, c’è chi vive in maniera diversa questa nuova forma di schiavitù. Io sono tre anni che lavoro come stagionale, vivo in baracca, e non ho messo da parte niente. Qui guadagno bene all’ora, ma hai anche molte spese. Io per esempio guadagno 1.100 franchi al mese; 85 se ne vanno per l’affitto del letto nella baracca. Con me ce ne stanno altri tre e così il padrone incassa 340 franchi ed abitiamo in una stanza 4 metri per 4. Io dico che non è giusto. [...] Noi stagionali siamo come schiavi: ci danno un posto dove dormire perché la fatica dobbiamo eliminarla, niente altro se non il lavoro. Niente famiglia, niente moglie, niente scuole: il lavoro rende liberi! Ma il lavoro di noi stagionali qui in Svizzera ci rende schiavi. Infatti come gli schiavi non possiamo cambiare padrone se non quando è finito il contratto. Capita che molti pur di trovare un contratto accettano qualsiasi cosa. Con me lavora uno che ha il diploma da elettrotecnico. Quando è arrivato ha pensato che poteva fare il pittore per un po’ di tempo aspettando di trovare un posto per il suo mestiere. Poi il posto lo ha trovato. Ma non può cambiare, gli hanno detto che deve tornare in Italia e aspettare tre mesi: ma il padrone il posto lo ha subito non fra tre mesi152.   «Tempi Nuovi», 24 gennaio 1971. SSZ, f. KZ, b. Rechtsfragen - Ar 48.60.5.   Intervista al «caso 3» (s.n., s.d.), in Fseie-Fmsie, Documenti sulle attività e i problemi dei lavoratori italiani immigrati in Svizzera, cit., p. 2. 152  Intervista al «caso 4» (s.n., s.d.), ivi, p. 4. 150 151

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Poi ecco il vero problema, quello degli affetti, delle relazioni umane, delle esigenze quotidiane. Sei schiavo perché non puoi avere la moglie. Io dico che non è normale che per avere un rapporto sessuale devi andare in rue de Berne! Ma è la legge che ti obbliga. Così molti il venerdì sera pagano spendendo 40 o 50 franchi! Sei schiavo perché ogni volta che vieni devi fare la visita, per vedere se sei sano. E se hai qualche malattia, ti scartano, ti rimandano a casa. Non importa se l’hai presa stando in Svizzera. Molti stanno nelle baracche, si ammalano i polmoni e poi alla visita quando deve rientrare non viene più accettato. Io dico che il governo italiano deve fare una visita quando si esce per controllare le malattie che abbiamo preso. Non è giusto che siano le tasse del popolo italiano a pagare una malattia che si è presa quando si lavorava all’estero. Dicevo prima che non riesco a metter da parte niente. Infatti spendo 85 franchi per l’affitto, 25 per la pulizia dei vestiti ecc., 350 per mangiare, 50 per sigarette e cinema una volta a settimana (è l’unico divertimento che mi permetto). Gli altri 470-490 li mando a casa: devono servire per mangiare a tre persone (mia moglie e due figli) e per pagare gli studi al più grande che è in collegio a Taranto dove studia da perito. In più si deve risparmiare qualche cosa per il periodo in cui sono «obbligato» a non lavorare. Si tratta di un mese al minimo in cui devo andare in Italia: lo stagionale è obbligato a interrompere il soggiorno. E in Italia non pagano nemmeno la disoccupazione perché non hai versato le marchette. E gli svizzeri se ne fregano, ma tu devi mangiare153.

Questo racconto-confessione, paradossalmente, coincide con quanto qualche anno prima sosteneva, in luoghi ed ambiti completamente diversi, il sen. Bolla durante la discussione nel Consiglio degli Stati (equivalente del Senato italiano), in merito alla ratifica del nuovo accordo d’immigrazione. Per certi nostri critici vi è un ideale nella soluzione del problema dei lavoratori italiani ed è che questi dovrebbero lavorare con la precisione e l’infaticabilità di una macchina (svizzera), dovrebbero spendere tutto il loro guadagno da noi o depositarlo nelle nostre banche e dovrebbero, nonostante siano costretti a lasciare in Italia le loro mogli, non importunare le giovani autoctone. È un ideale che esigerebbe virtù di santo o le condizioni di un eunuco154.

153 154

  Ibid.   Discorso ripreso dal sen. Pasquale Valsecchi, 10 febbraio 1965, cit., p. 7.

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Le condizioni abitative che gli emigranti dovevano affrontare erano ben raccontate in uno straordinario resoconto dal titolo A Carouge 2520 fr. per un baracca. È triste, ma dobbiamo ancora denunciare che a pochi passi da Ginevra – città notoriamente sede di tante istituzioni umanitarie internazionali – a pochi passi da questa città, a Carouge, dove vivono circa 4.000 italiani, gli operai sono sfruttati sia di giorno che di notte. Di giorno sui cantieri, di notte perché dormono nelle baracche del «padrone». [...] La baracca è divisa in sei camere ed in ognuna vi dormono sei persone: 36 persone, dunque, costrette a vivere in condizioni, che pur sforzandoci, non riusciamo a definire. [...] Ogni lavoratore paga per questa «reggia» Fr. 70 al mese, e il «povero padrone» ogni mese incassa qualcosa come 2500 franchi. Le condizioni della baracca sono indecenti: un solo gabinetto per tutti. Di inverno il padrone mette a disposizione il riscaldamento a gas, con tutti i rischi che tale impiego comporta. Questa baracca noi della Colonia Libera Italiana di Carouge, l’abbiamo vista e ci siamo resi conto di quanto grave sia la situazione. La cucina è di 16 metri quadrati, e lì ognuno si prepara il cibo. 36 persone sono molte, e per questa ragione i fornelli solitamente restano accesi fino alle 21. I primi ovviamente sono i più fortunati. Da notare che poi i fornelli sono stati acquistati dai lavoratori medesimi. Per quanto riguarda il mobilio il datore di lavoro non ha fatto nessuno sforzo: tavoli e sedie se li sono costruiti gli operai stessi sul cantiere. Il signor Belloni non manca però di farsi pagare anche il gas che i nostri connazionali consumano per cucinare, anzi per non correre rischi, il costo del gas lo detrae direttamente dalla busta paga. È incredibile vedere oggi, anno 1970, alla periferia di Ginevra, uomini e lavoratori trattati similmente155.

Se le baracche sono «la casa comune» degli stagionali, il distacco dalla famiglia, come facilmente immaginabile, è il filo che lega le storie individuali. Probabilmente sarà stato un caso, ma le testimonianze raccolte sono tutte della nuova emigrazione, quella meridionale. Sono della provincia di Lecce. Sono otto anni che vengo in Svizzera come stagionale. Ho tentato tante volte negli anni passati di passare annuale, ma non ci sono mai riuscito. C’è una legge che lo permette, ma è solo per i ruffiani ed è impossibile farla attuare. Ci preferiscono stagio-

  «Emigrazione Italiana», 15 febbraio 1970. SSZ, f. FCLIS, b. Emigrazione Italiana - Ar 40.60.4. 155

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nali. Ora non mi interessa neanche più perché ho finito la casa al paese e questo spero sia l’ultimo anno in Svizzera. Sono stati otto anni molto duri, senza alcuna soddisfazione: solo dormire e lavorare. La Svizzera la conosco dal finestrino del treno che mi conduceva da Chiasso a qui. Quello che è più duro è il distacco dalla famiglia. Si sente molto il distacco dalla moglie. Non ho visto nascere nessuno dei miei figli156.

Abbiamo appena accennato alla consistente presenza dell’immigrazione femminile, soprattutto quella proveniente da altri Paesi europei, anche se un notevole aumento di quella italiana si vide soprattutto verso la fine degli anni Sessanta. Se i problemi generali erano grosso modo gli stessi per tutti, invece per le emigrate la maternità e la voglia di avere un figlio costituivano causa di molte ansie e paure. Sono la moglie di uno stagionale. Io ho il contratto annuale. Mio marito vive in una baracca dell’impresa. Mentre io divido una camera con tre ragazze. È quasi impossibile vederci soli, e fare l’amore. E poi c’è la paura che venga un figlio: in questi casi la polizia ce lo manda fuori dalla Svizzera, perché gli stagionali, si dice, non possono avere figli. Quando mio marito finisce il contratto torna a casa per un mese, mentre io resto qui. Abbiamo due bambini al paese, una di sei anni e un’altra di quattro. Stanno con la nonna e io sento molto il distacco con le figlie che vorrei educare personalmente. Ma è impossibile formarsi una famiglia qui perché mio marito è stagionale. Ha tentato tante volte di passare annuale, ma inutilmente157.

Il riepilogo di tutte queste storie, che per la stragrande maggioranza parlano di lavoratori nell’edilizia e di manovali, lo affidiamo alle parole dell’«emigrato» Zanier. Vengo da un paese di montagna della Carnia che confina con la Carinzia austriaca e Carniola jugoslava. Pochi sanno in Svizzera dov’è la Carnia jugoslava (non è Riccione o Milano Marittima), eppure dalla Carnia vengono qui, da più di tre generazioni migliaia e migliaia di muratori. [...] In Svizzera i muratori sono praticamente tutti per legge STAGIONALI. [...] La condizione di stagionale è al limite dell’umano, non sempre avvertita coscientemente, ma che l’emigrato paga duramente

156   Intervista al «caso 1» (s.n., s.d.), in Fseie-Fmsie, Documenti sulle attività e i problemi dei lavoratori italiani immigrati in Svizzera, cit., p. 2. 157  Intervista al «caso 2» (s.n., s.d.), ibid.

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in incidenti sul lavoro, in ulcere gastriche, all’alcolismo, rifugiandosi in un individualismo forsennato. Nelle baracche ognuno si fa da mangiare da solo; in accettazione passiva; in risparmi feroci, sul mangiare, su tutto, per far studiare i figli: che almeno loro non debbano fare questa vita. Nessuno, naturalmente, si occupa di lui appunto perché non è «agente di inforestieramento»: non accresce la domanda di asili e di scuole, non ha bisogno di cliniche ostetriche: la moglie partorirà da sola al paese, lui il figlio lo vedrà a dicembre; non si organizza, non protesta; non incide, non si rivolta se lo fa basta non rinnovargli il permesso di lavoro. La polizia degli stranieri è lì per questo. È assieme al frontaliero l’emigrato ideale! Ma stagionale vuol dire anche conseguenze paurose per la comunità di partenza dove restano le donne e i bambini, i vecchi e gli emigrati già distrutti: che hanno la schiena rotta o la scoliosi, che alla visita a Chiasso sono stati rifiutati158.

9. Bambini clandestini Che clandestini lo fossero e lo siano stati i loro padri e le loro madri, era cosa che le autorità elvetiche già sapevano bene nel 1946; che l’ingresso della manodopera straniera fosse ordinato e gestito funzionalmente ai dettati economici – in linea di massima – poteva essere non compreso, ma in fondo accettato; ma che a queste regole venissero sottoposti coloro che, universalmente, erano tutelati dal diritto internazionale, fu cosa che pochi sapevano, o meglio, che molti ritennero utile ignorare. Lo scandalo esplose e divenne cosa nota ai più soltanto alla metà degli anni Ottanta, anche se, come abbiamo appena visto, i diretti interessati e, quindi, le stesse autorità elvetiche, sapevano. Nonostante questo, già agli inizi degli anni Settanta parte della stampa elvetica diffuse l’incredibile notizia. Nel 1971, la «Tribune de Lausanne» aprì un’inchiesta dedicata ai «bambini dell’ombra»159 e, nel 1972, il «St. Galler Tageblatt» titolava l’edizione dell’8 gennaio: «Diecimila bambini clandestini in Svizzera?»160. Il punto interrogativo stava a dimostrare tutta l’incredulità161. Infatti, il quotidiano riteneva che si trattasse di un’esagerazione e che la   «Emigrazione Italiana», 25 maggio 1970, cit.   «Tribune de Lausanne», 11 novembre 1971. 160   «St. Galler Tageblatt», 8 gennaio 1972. 161   T. Ricciardi, I figli degli stagionali: bambini clandestini, in S. Castro, M. Colucci (a cura di), L’immigrazione italiana in Svizzera dopo la seconda guerra mondiale, «Studi Emigrazione/Migration Studies», a. XLVII, n. 180, 2010, p. 879. 158 159

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questione fosse legata alla superficialità e all’ignoranza degli italiani, in particolar modo di quelli meridionali. Quanti siano stati in realtà i bambini clandestini non è dato sapere con certezza. Le cifre sono state modificate negli anni, anche se probabilmente nessuno è mai riuscito a definirne realmente l’entità. C’è chi ha parlato addirittura di trentamila162, ma di fatto, stando alle analisi dei giornali, alle inchieste163, ai film documentari, come Lo stagionale164, essi oscillarono, nel solo decennio 1970, tra 10.000 e 15.000. Chi erano e cosa subirono questi bambini? È alquanto arduo trovare le parole giuste per raccontarlo165. Partiamo da una frase: «Stai buono e in silenzio, altrimenti arriva la polizia e ti spedisce da solo in Italia»166. Cosa significava una simile minaccia da parte dei genitori per Maria, una bambina di soli sette anni? Essa poteva essere dura e terribile come la paura di perdere mamma e papà a causa della morte. Per i bambini non è determinante la realtà oggettiva, bensì il modo in cui la comprendono: si possono osservare in molti bambini nascosti sintomi di persecuzione come nei perseguitati con forza. L’oppressione a cui questi bambini e i loro genitori erano condannati, il timore di essere scoperti, la paura della separazione e dell’espulsione pesavano come una spada di Damocle segnando per sempre la loro vita, quotidiana e futura: «I bambini nascosti non possono giocare, non possono cantare, non possono piangere. Sono costretti ad essere persone silenziose e discrete che non devono esistere»167. Questo è il caso di Paolo Vitellaro, di soli 9 mesi. La famiglia Vitellaro viveva a Worb, Cantone di Berna, dal 1967. Il signor Vitellaro era occupato in qualità di stagionale presso la ditta Christian Zaugg di Bollingen, la moglie, invece, lavorava al ristorante Sternen. Avevano un figlio di quattro anni e mezzo che viveva a Campofranco,

162   G.A. Stella, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, Milano, 2002, pp. 225-235. 163   M. Frigerio Martina, S. Burgherr, Versteckte Kinder. Zwischen Illegalität und Trennung, Rex, Luzern-Stuttgard, 1992. 164   Film del 1971 di Alvaro Bizzarri che affronta la questione delle espulsioni dei figli degli stagionali. Cfr. M. La Barba, A. Mayenfisch, Accolti a braccia chiuse. Lavoratori immigrati in Svizzera negli anni 70. Lo sguardo di Alvaro Bizzari, Les Amis d’Alvaro Bizzarri, TSR, AB, 2009 (opuscolo di presentazione DVD). 165   Probabilmente ci è riuscito solo Mario Perrotta in La Turnàta - parte seconda, spettacolo teatrale scritto insieme a Nicola Bonazzi nel 2005. 166  M. Frigerio Martina, S. Burgherr, Versteckte Kinder, cit., p. 7. 167  Ibid.

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in provincia di Caltanisetta, affidato alle cure della nonna. Nel 1968 la signora Vitellaro era in attesa di un secondo figlio. Per la donna furono mesi tristi. Nell’incertezza, nel timore di dover lasciare il marito o di vedersi costretta di separarsi anche dal bimbo che deve nascere. Paolo vede la luce a Worb il 30 giugno 1969, ma sulla gioia che porta permane l’ombra della Polizia degli stranieri. Che farà? I coniugi Vitellaro continuano a lavorare; la Polizia non si fa vedere; a dicembre, alla scadenza del loro permesso di soggiorno di stagionali, rimpatriano. Tornano a febbraio e portano con sé il piccolo Paolo perché, data l’età, è bisognoso di cure; perché la nonna non può assolutamente tenerlo; perché nessuno ha detto loro che in Svizzera per Paolo non c’è posto168.

Al ritorno, la polizia degli stranieri, il 20 febbraio, inoltra all’amministrazione comunale di Worb una lettera, in cui si intima alla madre di riportare il bimbo in Italia. Poiché né il padre né la madre possono far valere un diritto in ordine al rilascio di un permesso per il soggiorno del bambino in Svizzera, comunicate alla signora Vitellaro che, al più tardi alla scadenza del soggiorno esente da permessi di tre mesi, cioè entro il 27 aprile 1970, deve riportare il bambino in Italia. Se la signora Vitellaro non dovesse dar seguito a questa ingiunzione, dovremmo rifiutare anche il suo ulteriore soggiorno e indurla a ritornare in Italia169.

Il Comune di Worb mandò ai Vitellaro una fotocopia di questa lettera il 23 marzo 1970, vale a dire con un mese di ritardo rispetto alla data della disposizione della polizia cantonale. I genitori di Paolo, considerata la perentorietà dell’ingiunzione, intimoriti affidarono il figlioletto ad una parente che tornava a Campofranco, dopo essere stata in Svizzera in viaggio di nozze. Il caso del piccolo Paolo non fu isolato e i bambini clandestini rappresentarono una delle vicende più buie, tristi e disumane della lunga storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. La già citata «Tribune de Lausanne», definì la situazione «scandalosa» in un Paese che si presentava come «la culla delle associazioni umanitarie e della 168   «Tempi Nuovi», 24 gennaio 1971. SSZ., f. KZ, b. Verschiedenes 1967-1984 - Ar 48.20.1. 169  Ibid.

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Croce Rossa» e che, contemporaneamente, costringeva migliaia di persone ad una «clandestinità inumana e indegna»170. Il dramma nel dramma fu che questi bambini non furono scolarizzati né in Svizzera né in Italia: «appartengono ad una comunità mobile, privata delle sue radici»171. Un altro esempio, simile a quello di Paolo, fu il caso di Roberto172. Il padre, Arnaldo Follador, arrivò in Svizzera una prima volta nel 1959 e rimpatriò nel 1962 per assolvere a obblighi di leva, tornò in Svizzera nel 1967 e da allora lavorò come muratore stagionale presso la ditta Neuwelier di Kreuzlingen. La moglie, Pasqualina, era impiegata presso una ditta tessile. Il 3 novembre 1969 il matrimonio fu allietato dalla nascita del primo figlio: Roberto. Considerato che era inverno e che il bambino era appena nato, Arnaldo Follador chiese alla polizia degli stranieri che gli fosse risparmiato di raggiungere Belluno per l’interruzione «regolamentare» del soggiorno. In via eccezionale il permesso fu concesso e la famiglia rimase a Kreuzlingen. Ben presto, però, la polizia si fece sentire, ma questa volta in maniera più decisa: «niente lettera, niente lunghi discorsi, niente minaccia di indurre la signora a ritornare in Italia: questa volta la signora DEVE PARTIRE CON IL BAMBINO!»173. Infatti, quando si trattò di rinnovarle il permesso di dimora, 12 gennaio 1970, previo pagamento di 30,50 Fr., le si scrisse nel libretto per stranieri che il permesso era «Gültig bis 31 Juli 1970 Frist zur Ausreise mit Kind!»174: questa è la testuale trascrizione della dicitura, punto esclamativo compreso. Non importava se la signora era in Svizzera dal 1967, se la ditta Müller e Renner AG continuava ad impiegarla, se Roberto, come Paolo, era nato nella Confederazione: era figlio di lavoratori stagionali e pertanto la legge parlava chiaro. Dal canto suo il padre, Arnaldo, si dette da fare e trovò una soluzione. Bussa a questo e quell’ufficio, dice che al 31 luglio Roberto avrà solo 8 mesi: niente da fare. Quello che ottiene è solo un consiglio, ufficiale e chiaro: perché non porta il bambino al di là del lago, a Costanza (cioè   «Tribune de Lausanne», 11 novembre 1971.   Ibid. 172   Lettera della FCLIS all’ambasciata italiana di Berna e al Sottosegretario di Stato all’Emigrazione, 22 aprile 1970. SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.70.4. 173  «Emigrazione Italiana», 15 febbraio 1970. 174  «Valido fino al 31 luglio, termine dell’espatrio con il bambino!», ibid. 170 171

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in Germania)? Così facendo, e pagando una cassa malattia in Svizzera, potrebbe portarselo a casa dal sabato alla domenica; vale a dire almeno 48 ore la settimana175.

Ancora, come Paolo e Roberto, anche Sergio era un bambino, o meglio un neonato di soli due mesi e mezzo, e per giunta clandestino. Il suo caso fu denunciato dal settimanale «Il Tempo», con l’articolo dal titolo I figli dei clandestini. «Invece di far tanti ricorsi perché suo figlio abbia il diritto di rimanere qua in Svizzera lo tenga clandestino come tanti altri»176: era questo il consiglio dato da un’assistente sociale alla madre di Sergio. Dal racconto della sua storia, emerse che ogni anno molti bambini, o perché gli alloggi erano molto piccoli o perché i genitori erano lavoratori stagionali e non avevano il diritto di vivere con i loro figli, erano rispediti in Italia o affidati ad istituti in Francia. La storia di Sergio ebbe molto risalto sulla stampa177, tanto che si attivò una catena di solidarietà e la decisione di espulsione fu annullata. Si trattava di una vicenda particolare anche perché raccontava le difficoltà delle coppie italiane di quel periodo. I genitori, infatti, stavano assieme già da alcuni anni ma non erano sposati. La loro situazione coniugale non poteva essere «regolarizzata», in quanto il signor Chiovini, padre naturale di Sergio, era già sposato in Italia e la legge sul divorzio verrà approvata solo nel 1974. L’inchiesta sul neonato indusse il capo del Dipartimento della polizia e giustizia ad ammettere che, solo a Ginevra, i «bambini nascosti» erano centinaia. Siamo andati in alcune baracche vicino alla ferrovia. Era un giorno di sole e sul retro delle baracche, nascosto dalla strada era appeso il bucato. È stato proprio il bucato a rilevarci la presenza di un bambino. Antonietta, una bambina di 6 anni, ci accompagnò in casa. Si tratta di quelle baracche destinate alle coppie: 120 Fr. di affitto 30 per luce e gas in 10 metri quadri, un letto, un tavolo, quattro sedie e tanti bambini178.

  Ibid.   L’articolo è ripubblicato, senza indicazioni di data, in Fseie-Fmsie, Documenti sulle attività e i problemi dei lavoratori italiani immigrati in Svizzera, cit., p. 10. 177   «Voix Ouvrière», 26, 29 et 30 juillet et 1 août 1969; «La Suisse», 30 juillet 1969; «La Tribune de Genève», 30 et 31 juillet 1969; «Journal de Genève», 1 août 1969; «Le Monde», 2 août 1969. 178  Fseie-Fmsie, Documenti sulle attività e i problemi dei lavoratori italiani immigrati in Svizzera, cit., p. 10 175 176

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Nelle stesse baracche c’era anche Consuelo, una donna spagnola che cercava faticosamente di far addormentare il proprio bambino, cullandolo in mezzo a tanti altri. Solo il più piccolo è mio figlio. Sono venuta dalla Spagna durante le vacanze dell’anno scorso per stare un po’ vicino a mio marito e fargli conoscere il nostro bambino che non aveva ancora visto. Poi sono rimasta qui e mi hanno detto che non avevo il diritto di lavorare. In questa baracca, le altre donne, sono quasi tutte italiane, eravamo venute con i permessi di lavoro ma con i figli senza permesso. Così ci siamo messe d’accordo io rimango a casa di nascosto con i bambini. Do loro da mangiare e le mamme mi pagano 150 Fr. al mese per ogni bambino179.

Solo in questo quartiere alla periferia di Ginevra, tra i bambini che custodiva lei e quelli delle baracche accanto, vivevano in queste condizioni circa una cinquantina di bambini clandestini in età scolare. Maria e Anna, due sorelline di 9 e 11 anni, dopo la malattia e il conseguente ricovero della nonna, si erano trasferite in Svizzera da Lecce. Così per loro era finito il tempo della scuola. Nella baracca rimanevano sole dalla mattina alla sera, si alzavano quando i genitori andavano a lavorare e si occupavano delle faccende domestiche. Nel pomeriggio, andavano da Consuelo per aiutarla a tenere i bambini più piccoli. I vicini, quelli che abitano nelle case di cemento sono al corrente di questa situazione, così come le autorità ginevrine. Le autorità ginevrine sanno che molti lavoratori sono stagionali da più di 5 anni e che quindi hanno il diritto di ottener il permesso annuale. Ma ogni tanto le domande per diventare annuale sono bocciate. Una bocciatura che corrisponde a un anno di scuola che legalmente si toglie a centinai di bambini che da «clandestini» passeranno senza transizione nella categoria di «analfabeti»180.

Tra le tante storie, c’è anche quella di Eleonora Candela. I genitori, Vincenzo ed Elisa, entrati per la prima volta in Svizzera rispettivamente nel 1966 e nel 1967 con un permesso annuale e negli anni seguenti con un permesso stagionale, si erano sposati nel 1969. La bambina nacque nel 1971 in territorio elvetico e, un giorno qualunque dell’anno seguente, la madre, su un foglio di carta qualsiasi 179 180

  Ibid.   Ibid.

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dentro la busta paga della ditta per la quale lavorava, trovò la notifica di espulsione. «La Polizia Cantonale degli stranieri di Aarau ci comunica che la bambina Eleonora può restare in Svizzera solo 3 mesi; dopodiché deve rientrare in Italia»181. E ancora, Maria Lucia Natoli, non rimpatriata entro il limite fissato dalla polizia degli stranieri e nascosta dai genitori che, chiedendo aiuto alla FCLIS, pregavano di «non fare pubblicità al caso in quanto in questa maniera le Autorità, che credono la moglie e la bambina in Italia, ne verrebbero subito a sapere e accadrebbe l’inutile separazione familiare»182. La FCLIS, ovviamente, si adoperò per aiutare le famiglie e sostenere la loro causa rivolgendosi alle varie ambasciate e consolati competenti. Si moltiplicano i casi di bambini italiani espulsi, minacciati di espulsione o costretti a rientrare in Italia, colpevoli unicamente di essere figli di lavoratori cosiddetti «stagionali». È una situazione grave [...] che rende non solo necessaria una rapida ripresa delle trattative italo-svizzere per il rinnovo dell’Accordo di emigrazione, ma si pone, anche, con urgenza e tempestività, l’esigenza di fermi e vigorosi interventi da parte di codesta Ambasciata verso le autorità di polizia svizzere e il governo di questo Paese183.

Nella medesima lettera venivano segnalati due casi: Imperiale e Aluia. Calogero Imperiale lavorava in Svizzera già dal 1965; inizialmente era riuscito ad ottenere un permesso annuale che successivamente gli fu convertito in stagionale. Rosa Barbieri, già in possesso del permesso B, all’atto di divenire sua moglie, perse i diritti di dimora acquisiti ed il suo permesso venne tramutato in stagionale, come quello del marito. A questo punto nacque Provvidenza, la loro prima figlia. Nonostante il ben augurante nome di battesimo, arrivò immediata la lettera della polizia cantonale, che invitava i due coniugi a portare la neonata in Italia, altrimenti ci sarebbe stata la revoca del permesso di soggiorno anche per i genitori.

181   Lettera dell’11 aprile 1972 alla FCLIS. SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.70.4. 182   Lettera del 6 giugno 1972 alla FCLIS. SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.70.4. 183  Lettera della FCLIS all’ambasciata di Berna e al consolato di Zurigo e Baden, 24 marzo 1972. SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.70.4.

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Il caso di Filippo Aluia è simile a quello dei coniugi Imperiale. I «non diritti» del marito vennero trasferiti alla moglie. Filippo Aluia dal 1963 lavora in una fonderia a Berna con un permesso B. Anche sua moglie dispone di un permesso annuale. Poi lui si busca una malattia polmonare e si accorge di averla addosso in Italia nel 1967. Ritorna in Svizzera [...] e viene assunto in un’impresa edile come stagionale. Sul permesso annuale della moglie viene stampigliata la scritta «Frist zur Ausreise». Il che vuol dire che quando al marito scade il permesso se ne deve tornare in Italia pure lei. Inoltre non può più tenere con sé i figli Vito, Rosa, Laura e Enzo. Così Enzo e Vito vengono mandati in collegio a Palermo (80.000 lire di retta al mese). Rimane il problema di Rosa e Laura. Non è possibile spendere altrettanto per loro e in Italia non ci sono parenti che le possano ospitare. Il meccanismo repressivo e burocratico della Polizia degli Stranieri non s’inceppa per motivi d’umanità: arriva puntuale, quindi, la lettera di avviso anche per le piccole Rosa e Laura: dovranno lasciare la Svizzera184.

Abbiamo riproposto solo alcuni casi, sebbene le storie da raccontare siano infinite, con l’obiettivo di illustrare le condizioni in cui vivevano i figli degli stagionali. Le vite di questi bambini erano accomunate dal fatto di trovarsi in un Paese in cui per loro non c’era posto, in cui erano costretti a una «non esistenza», a una «non infanzia». Non potevano uscire di casa, frequentare le scuole, le uniche persone con cui avevano un contatto, oltre ai genitori, erano le stesse che abitavano nelle baracche destinate agli italiani. Si trattava di un sacrificio per tutti i componenti familiari, di cui si era comunque coscienti fin dall’inizio, da quando si viveva negli «alloggi segreti»185. A questo punto, ci sarebbe da porre una domanda: nonostante sapessero a cosa andavano incontro, perché gli stagionali si facevano raggiungere illegalmente dalla propria famiglia? Ritroviamo alcune delle risposte più significative nell’inchiesta Versteckte Kinder, pubblicata nel 1992186. Era impensabile credere che una coppia e i loro figli potessero stare a lungo separati, si trattava di situazioni che avevano ripercussioni dirette sulla

184   Lettera della FCLIS all’ambasciata di Berna e al consolato di Zurigo e Baden, 24 marzo 1972. SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.70.4. 185   A tratti sembra di rivivere i racconti del diario di Anna Frank. Cfr. F. Sessi, Il mio nome è Anna Frank, Einaudi, Torino, 2010, pp. 49-62. 186  M. Frigerio Martina, S. Burgherr, Versteckte Kinder, cit.

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salute, fisica e mentale. Questo è il caso, ad esempio, di Sandro De Maria (32 anni), sposato, due bambini. Quando ho sposato Elvira, ero già uno stagionale. Giuseppe è nato a Maggio. Ero qua ad Olten e l’ho visto solo a Dicembre, quando aveva già sette mesi. La stessa cosa è successa con la nascita di mia figlia. Per otto anni ho sopportato la separazione dalla mia famiglia. Quando dovevo andare in Puglia d’inverno, mia moglie stava ogni volta sempre peggio. Alla fine la consulente famigliare del paese ci consigliò di non separarci. Elvira non ce la faceva più psicologicamente a sopportare questa situazione. Se continua così, bisognerà ricoverarla in una clinica psichiatrica. All’inizio ho provato a cercare lavoro in Puglia. Impossibile. Per questo ho semplicemente portato con me Elvira e i miei figli. Sì, lo sapevo che era vietato. Ma cos’altro potevo fare? Ora siamo qui. Eppure stiamo tutti male. Giuseppe ha dovuto interrompere la seconda elementare. Qui resta tutto il giorno a casa. Gli mancano la scuola e i suoi amici. Elvira si aggrappa a sua madre. In poco tempo è completamente cambiata. Era una ragazza così allegra. Ora è diventata ansiosa. Non è affatto una bella vita. Ma almeno siamo insieme187.

Ancora, riportiamo la vicenda di Attilio Giovanelli (38 anni), sposato con quattro figli. Dopo aver lavorato 15 anni in Svizzera, sono ritornato in Italia. Volevamo restare per sempre. Ma non ho avuto fortuna; due anni dopo ero senza lavoro. Mi sono sforzato di trovare un nuovo posto di lavoro. Alla fine sono ritornato a Niederglatt come stagionale. Ma la polizia non mi ha più voluto rilasciare la concessione del domicilio poiché sono stato fuori dalla Svizzera per più dei due anni concessi. Mi sono dovuto separare dalla mia famiglia. Un anno dopo mia moglie era incinta per la terza volta. Non riusciva a sopportare il pensiero di portare alla luce questo bambino da sola. Così l’ho portata da me e da allora viviamo qui illegalmente. È spaventoso. Abbiamo perso tutti i nostri diritti e a questo non eravamo preparati. Con il mio stipendio non ce la facevo a pagare due appartamenti. E allo stesso tempo non siamo ancora pronti a vivere separati188.

Le ripercussioni di questa triste, buia ed incivile pagina dell’emigrazione italiana – nonostante che negli anni si stesse verificando una pro-

187 188

  Ivi, p. 9.   T. Ricciardi, I figli degli stagionali, cit., p. 884.

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gressiva attenuazione dei limiti rigorosi al ricongiungimento familiare – restarono e restano per sempre addosso a tante migliaia di italiani. La vicenda dei bambini clandestini rappresenta uno dei momenti più scuri e meno approfonditi dell’emigrazione e va intesa come conseguenza/effetto delle condizioni precarie in cui erano costretti a vivere gli italiani, perlopiù stagionali, fino alla metà degli anni Settanta1. Le storie degli stagionali e dei loro figli scossero molto la coscienza di parte dell’opinione pubblica svizzera. Nel febbraio del 1974 venne lanciata la prima piattaforma politica del «Comitato per l’abolizione dello statuto dello stagionale» (CASS), di cui fece parte, già durante la sua costituzione, la FCLIS. Il CASS fu lo strumento di coordinamento, d’informazione e di pressione sui poteri politici e economici; fu istituito e sostenuto dalle organizzazioni politiche, sindacali, sociali ed educative svizzere, dalle associazioni degli emigrati, come pure dai lavoratori dei due Paesi. L’obiettivo, d’altronde già esplicitato nello stesso acronimo, era quello di «lottare, con tutti i mezzi legittimi, per l’abolizione nel più breve tempo possibile dello statuto degli stagionali»2. Il CASS segnerà l’inizio delle fase che, qualche anno dopo, porterà alla prima iniziativa referendaria prostranieri, «Mitenand». D’altronde il fallimento della terza iniziativa contro la sovrappopolazione straniera aveva segnato, da un lato, l’indebolimento dei movimenti xenofobi che avevano contraddistinto il decennio; ma, dall’altro, influì su una loro progressiva istituzionalizzazione. Il risultato referendario poteva essere interpretato come un segno di apprezzamento per la nuova politica delle quote inaugurata dal Consiglio federale all’inizio degli anni Settanta: infatti, dal 1973 si assisté ad un’inversione di tendenza e l’obiettivo di stabilizzazione della popolazione straniera sembrò essere raggiunto. A partire dal 1975, il numero assoluto degli stranieri diminuì per la prima volta dopo il secondo dopoguerra. Tuttavia, più che nella politica, la ragione della decrescita della popolazione straniera è da individuare nella crisi economica internazionale. Il primo choc petrolifero colpì la Svizzera con un certo ritardo, rispetto ad altri Paesi europei, ma le conseguenze furono notevoli.

1   Nel 1972, per la prima volta, il primato nel contingente italiano dei residenti regolari fu appannaggio dei domiciliati, con il 55% sul totale. Cfr. J.M. Niederberger, La politica di integrazione della Svizzera, cit., p. 107. 2  Piattaforma politica del CASS svizzero, 1° febbraio 1974. SSZ, f. FCLIS, b. Stagionali e frontalieri - Ar 40.70.12.

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Capitolo V

Crisi del fordismo: cambio di prospettive e trasformazioni socio-demografiche (1976-1989)

1. Da «valvola di sfogo» a «valvola di sicurezza» La Svizzera, che per tanto tempo si è vista costretta a subire la carenza di manodopera e il ricorso a lavoratori esteri, si trova oggi in una posizione di favore proprio in questo particolare settore. La presenza di molti stagionali, i cui contratti sono in scadenza [...] costituiscono in questo momento una valvola di sicurezza che consente di limitare agli effetti statistici l’ammontare della disoccupazione e di rimandare ad un periodo di maggiore sicurezza l’adozione di misure frenanti3.

Questa dichiarazione può sembrare un paradosso, ma non lo è. Gli stessi che per decenni erano stati identificati come valvola di sfogo, improvvisamente, si trasformarono in valvola di sicurezza, per un Paese che prima li aveva importati come disoccupati e che adesso li esportava ancora come tali. La crisi petrolifera, che fu crisi industriale (nella misura in cui iniziava ad essere messo in discussione il fordismo), colpì la Svizzera con un certo ritardo, ma le conseguenze furono notevoli. Tra il 1974 e il 1977, il 15,8% dei posti di lavoro nell’industria – l’equivalente del 10% del sistema economico – fu soppresso. All’interno dello spazio economico europeo, la Svizzera fu, in proporzione, la nazione che perse più posti di lavoro4, e il suo PNL (Prodotto nazionale lordo) registrò un –8% nel biennio 197419765. Secondo le statistiche dell’Ufiaml, la caduta totale di 340.000

3   Circolare FCLIS a tutte le associazioni e ai responsabili dei comitati regionali, Zurigo, 20 dicembre 1974. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2. 4   A. Venturini, Le migrazioni e i Paesi sud-europei. Un’analisi economica, Utet, Torino, 2001, pp. 73-79. 5  Circolare interna alle CLI, Losanna, 6 ottobre 1977, p. 1. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2.

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posti di lavoro riguardò soprattutto gli stranieri, che furono 228.000, pari al 67% dei lavoratori licenziati6. Il comparto più colpito fu quello edile, in cui si registrò una perdita pari al 30% rispetto agli occupati nel 1973 e nel quale erano impiegati perlopiù lavoratori stagionali. L’industria, invece, registrò perdite differenziate per settore: –15% il tessile; –16% il meccanico; –30% l’orologeria e +0,4 il chimico. Inoltre, nel settore alberghiero diminuì del 4% la manodopera, mentre, nello stesso periodo, il settore bancario andò in controtendenza con quasi +4%7. All’interno di questo devastante quadro economico, è interessante notare l’involuzione che subì l’immigrazione in Svizzera. Nel biennio 1974-1976, i frontalieri diminuirono del 23% passando da poco più di 110.000 a 85.184; gli stagionali da 151.962 scesero a poco più di 60.000 unità (–60%); gli annuali scivolarono da 426.505 a 303.986 (–29%); mentre solo i domiciliati fecero registrare un lieve aumento, passando da 638.021 a 654.603 (+2,6%). Complessivamente, alla fine del 1976, gli stranieri in Svizzera erano 959.000, di cui il 54% italiani (520.657)8. In questa fase la presenza italiana andò stabilizzandosi. Di fatto, sono oltre 370.000 i domiciliati (permesso C), corrispondente al 70% sul totale, a dimostrazione che nell’ultimo decennio la presenza si era trasformata da ospite in stabile9. Inoltre, dalle statistiche emergeva un elemento del tutto inedito, che inciderà notevolmente sulle future politiche migratorie della Svizzera e, soprattutto, porrà il mondo dell’associazionismo in emigrazione dinanzi a nuove sfide: tra i domiciliati, le seconde generazioni corrispondevano a 286.941 persone, pari al 30%10. La politica migratoria svizzera continuava ad inseguire l’obiettivo della stabilizzazione, attraverso cui era riuscita a disinnescare parzialmente le spinte xenofobe. Tuttavia, già nel novembre del 1974, la polizia federale degli stranieri con una circolare consigliava ai cantoni di controllare che i primi ad essere licenziati fossero gli immigrati e, soprattutto, che si evitasse di concedere nuovi permessi per l’anno successivo agli stagionali11. A ciò si aggiunse un ulteriore

  Ufficio federale degli stranieri, Registro generale, anni 1974, 1975, 1976.   Circolare interna alle CLI, cit., p. 2. 8   Ivi, pp. 4-5. 9   Si rimanda al cap. IV, tab. 21. 10  Circolare interna alle CLI, cit., p. 6. 11  C. Buccianti, op. cit., p. 389. 6 7

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fattore, che influì sulla scelta di molti stranieri di rimpatriare: la non obbligatorietà dell’assicurazione di disoccupazione per gli annuali e il fatto che non fosse prevista per gli stagionali12. Il mix tra la crisi economica e la politica di stabilizzazione porterà, per la prima volta dal secondo dopoguerra, a una riduzione della presenza straniera in Svizzera, che passò dal 18% del 1975 al 16% del 1979. Una simile involuzione non si registrò in altri Paesi europei, nei quali la presenza straniera aumenterà in conseguenza alla chiusura delle frontiere13. In definitiva, l’orientamento restrittivo delle sue politiche migratorie, consentirà alla Svizzera di utilizzare gli stranieri come ammortizzatori congiunturali. Verso la metà degli anni Settanta, grossa parte degli stranieri in realtà disponeva soltanto di un permesso di lavoro annuale e il mancato rinnovo dello stesso consentiva al governo di Berna, da un lato, di tutelare i settori più colpiti dalla crisi facilitando l’espulsione della manodopera in eccesso; dall’altro, di non fare crescere il tasso di disoccupazione. Non è un caso che, nello stesso quinquennio, questo aumenti solo in misura marginale, passando dallo 0 al 0,7%14. In sostanza, la crisi economica sarà il migliore alleato del governo elvetico, consentendogli di esportare la propria disoccupazione15. La crisi del fordismo permetterà alla Svizzera di rimodulare il sistema economico, con costi nettamente inferiori rispetto agli altri Paesi europei, e di mantenere stabile il numero di presenze straniere fino ai primi anni Ottanta. 2. FCLIS, nasce una nuova consapevolezza Il contesto è mutato. La congiuntura economica e le politiche restrittive del governo di Berna obbligano la FCLIS ad assumere una nuova linea operativa, una nuova consapevolezza. Dopo la svolta

12   M. Schmidt, Der Schweizerische Weg zur Vollbeschäftigung, Campus-Verlag, Frankfurt am Main/New York, 1985, p. 22. 13   Un esempio su tutti è la Germania, in cui in questi anni aumentano i ricongiungimenti familiari. Cfr. E. Pugliese, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 15-36; M. Monferrini, L’emigrazione italiana in Svizzera e Germania nel 1960-1975. La posizione dei Partiti politici, Bonacci, Roma, 1987, pp. 115-131. 14  E. Piguet, L’immigrazione in Svizzera, cit., p. 35. 15  M. Schmidt, op. cit., p. 20.

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del 196916, già durante il XXVII Congresso federale, tenutosi nel 1977, l’organizzazione avverte la necessità di modificare la propria strategia. Il nostro ultimo congresso nazionale di Winterthur ha chiaramente messo in luce il bisogno di un urgente bilancio della nostra organizzazione. È inutile nascondersi che la grave crisi che attanaglia l’Europa ha visto, come prima vittima delle misure di ristrutturazione, l’emigrazione. Sono milioni gli emigrati che hanno dovuto ricominciare altrove la loro vita per la perdita del posto di lavoro17.

L’analisi della situazione pone la FCLIS dinanzi a due scenari diversi, ma allo stesso tempo correlati. In Svizzera si assiste alla progressiva stabilizzazione della presenza italiana (oltre il 70%) e al sensibile aumento della seconda generazione; mentre la questione ancora aperta, di vecchia memoria, è quella degli stagionali. D’altra parte, la situazione italiana continua a costituire elemento di preoccupazione. L’occupazione è ancora in diminuzione, e nelle regioni meridionali (dalle quali proviene la maggior parte degli emigrati) si assiste ad un peggioramento generale! L’emigrazione, come tutto il movimento europeo dei lavoratori, è quindi confrontata ad un periodo di dure lotte per la difesa dei propri interessi. [...] Le Colonie Libere devono fare ogni sforzo per assumersela, partendo dalla riaggregazione dell’emigrazione intorno ad alcune battaglie-chiave18.

Le CLI erano ben consapevoli di come, all’interno del mondo dell’emigrazione italiana, si fosse determinata una modifica strutturale dell’associazionismo. La Federazione si rendeva conto di non essere più l’unica «organizzazione democratica» ad espletare, come aveva fatto da sola fino a qualche anno prima, a una miriade di compiti, dal ricreativo all’assistenziale, dal politico al culturale, dal formativo all’educativo. Oggi sono sorte o si sono strutturate tutta una serie di organizzazioni che assolvono ruoli precisi: i partiti politici italiani o le associazioni re-

  Cfr. cap. IV.   Resoconto del XXVII congresso di Winterthur in Circolare interna alle CLI, cit., p. 1. 18  Ivi, p. 7. 16 17

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gionali, verso l’Italia, nel mentre che i patronati assolvono funzioni assistenziali e formative fra l’emigrazione in luogo19.

D’altra parte, le forti divisioni in seno all’emigrazione sono state progressivamente attenuate con la nascita di una serie di strutture unitarie, come i comitati-genitori, i centri di contatto fra svizzeri e stranieri, i comitati cittadini, il CNI, i comitati consolari di coordinamento. In questo quadro, le Colonie Libere rischiavano di vedersi progressivamente svuotate di contenuti e la loro azione era esposta a una graduale perdita di centralità. Il moltiplicarsi di nuovi soggetti e di altre modalità aggregative spingeva inevitabilmente la FCLIS a ripiegare verso una posizione più marcatamente politica. Esiste [...] uno spazio per completare ed integrare il lavoro degli altri, che è eminentemente settoriale. La proposta è di considerare le Colonie Libere come l’organizzazione di massa che difende gli interessi degli emigrati sul terreno stesso dell’emigrazione, in quanto componente fondamentale del movimento operaio e popolare in Svizzera. Si tratta cioè di venire incontro e rispondere ai bisogni di migliaia di nostri connazionali impegnati sui luoghi di lavoro, sui problemi degli alloggi e dei diritti democratici. Le Colonie Libere dovrebbero lavorare su tali temi, diventando uno strumento di riflessione, formazione ed iniziativa20.

In sostanza non si trattava di entrare in concorrenza con le nuove strutture – i tempi e la stessa presenza italiana era mutata e continuava a mutare –, bensì di rappresentare lo strumento di mediazione tra «la grande massa» degli emigrati e queste organizzazioni. Inoltre, iniziavano a farsi strada le Colonie Libere sorte nella Svizzera francese: storicamente, all’interno dell’organizzazione, era sempre stato preponderante il peso della struttura della Svizzera tedesca, con in testa Zurigo e la rete del proprio agglomerato in senso ampio, ed è in questa parte della Confederazione che si registrò la perdita maggiore di quadri e militanti. Lo scenario cambiò, ed insieme ad esso cambiò la stessa FCLIS: alla metà degli anni Settanta per l’intero associazionismo presente in Svizzera si verificò il momento della svolta. Tuttavia, in questa fase di progressiva unità raggiunta tra le varie

  Ibid.   Ivi, p. 8.

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associazioni – erano quelli gli anni in cui si rafforzò il rapporto tra le CLI e le Acli21 – gran parte delle rivendicazioni saranno ancora una volta rivolte verso l’Italia, anche se, di lì a poco, l’interlocutore cambierà. Il 7 luglio 1975, dopo quattro giorni estenuanti di trattative, la Commissione mista – istituita con l’accordo del 1964 per analizzare l’evoluzione delle misure stabilite con la nuova convenzione – si concludeva con un nulla di fatto, deludendo le speranze degli emigrati italiani. Il giudizio della stampa fu pressoché unanime, anche solo a fermarsi ai titoli dei resoconti: «Colloqui sull’emigrazione a Berna: nessuna concessione della Svizzera»22; «Lavoratori immigrati di fronte alla recessione: principi svizzeri, comprensione italiana»23; «Nessuna concessione all’Italia. Dura ma corretta discussione»24; «180.000 posti di lavoro in meno»25. Le delegazioni si erano incontrate in piena crisi economica, con due punti di vista differenti, ma allo stesso tempo convergenti. L’Italia puntava a limitare le espulsioni nel settore edilizio, in modo particolare dei frontalieri e degli stagionali, mentre la delegazione svizzera, su mandato del Consiglio federale, perseguiva strenuamente l’imperativo della stabilizzazione e della progressiva riduzione della manodopera straniera. La trattativa fu condizionata, nella sostanza, dalle difficoltà di ordine economico che attraversavano entrambi i Paesi. Nonostante ciò, per addivenire ad un’intesa, la Svizzera si mostrò disponibile nel fornire tutti i dati relativi al mercato del lavoro interno e a promuovere una nuova legge migratoria, mentre l’Italia s’impegnava a studiare un programma di investimenti, basato sui dati forniti e destinato ad occupare quanti erano stati espulsi dall’edilizia. Il governo italiano aveva già approvato in Senato un progetto di legge destinato ad indennizzare gli stagionali licenziati. La FCLIS denunciava:

21   I forti legami tra le due associazioni, instauratisi a partire dagli anni delle ondate xenofobe, sono testimoniati dalle relazioni tenute durante i primi congressi territoriali delle Acli: il primo congresso Acli delle zone di Zurigo e Lucerna (Mettmenstetten, 27 ottobre 1975) ed il primo congresso delle Acli Ticino (Lugano, 12 ottobre 1975). SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazioni affini italiane - Ar 40.20.15. 22   «Corriere del Ticino», 8 luglio 1975. 23   «La Liberté», 8 luglio 1975. 24  «NZZ», 8 luglio 1975. 25  «Der Bund», 8 luglio 1975.

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Nonostante gli impegni assunti in sede di Conferenza nazionale dell’emigrazione, le promesse fatte in periodo elettorale e le migliaia di licenziamenti e di rimpatri, l’emigrato e la sua famiglia che rientrano in Italia vengono veramente a trovarsi in situazioni di bisogno. [...] Il Piano d’emergenza del Governo Italiano in favore degli emigrati colpiti dalla congiuntura si è esaurito con una legge che fornisce misere 800 lire di disoccupazione al giorno26.

Ancora una volta, l’azione delle autorità italiane aveva deluso le aspettative della FCLIS e di tutto il mondo dell’associazionismo in emigrazione. In quest’ultima fase, di prevalente e classica attenzione verso le vicende italiane, gli elementi che spesso ricorrono nelle prese di posizione della FCLIS, e più in generale delle organizzazioni italiane in Svizzera, facevano riferimento alla costante instabilità politica e alla questione meridionale. La FCLIS esprime la più viva preoccupazione dei lavoratori emigrati per la crisi di governo in Italia che aggrava la situazione economica, politica e sociale del Paese.[...] L’urgenza dell’attuazione di provvedimenti per la riconversione industriale e il Mezzogiorno, che garantiscano la ripresa della produzione, la difesa dei livelli occupazionali e l’avvio di un nuovo sviluppo economico indirizzato all’espansione dei consumi sociali e dei servizi collettivi, secondo le esigenze delle masse lavoratrici, impone una rapida soluzione della crisi e la formazione di un governo di ampia rappresentanza popolare, capace, per la sua composizione e per il suo programma, di tener conto dei risultati del voto del 15 giugno e delle indicazioni del movimento sindacale e delle forze democratiche. La segreteria della FCLIS ritiene la costituzione di un nuovo Esecutivo nei termini sopra indicati tanto più urgente per i lavoratori emigrati in quanto essi, più di ogni altra categoria, sono esposti ai pesanti effetti della recessione e i meno protetti nei loro interessi e nel diritto al lavoro. In particolare è indispensabile avere al più presto un interlocutore valido che esprima la volontà politica di attuare il piano di emergenza sollecitato il 17 settembre dal Comitato nazionale d’intesa; di assolvere gli impegni assunti dal governo alla Conferenza nazionale dell’emigrazione; di garantire la riforma dei Comitati consolari e degli altri organismi di partecipazione democratica degli emigrati, nel rispetto delle aspirazioni e delle richieste

  Circolare FCLIS, Zurigo, 29 settembre 1975. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2. 26

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da essi sostenute ripetutamente, nella più ampia unità e con un elevato livello di responsabilità e di maturità politica e sociale27.

«Avere un interlocutore valido» che sappia realmente e tempestivamente farsi carico degli squilibri nel Meridione, che abbia a cuore la sorte dei tanti stagionali, che in questi anni fungono da ammortizzatori umani agli squilibri economici prodotti dalla crisi del fordismo: questa era la necessità. È interessante constatare come le prese di posizione e lo stesso linguaggio utilizzato pubblicamente e nei documenti ufficiali della FCLIS siano sempre più vicini alle posizioni del Partito comunista. È indubbio [...] che la stessa questione meridionale si configuri oggi in modo assai diverso dal passato. Nonostante le battaglie che si sono sviluppate negli ultimi anni nel Mezzogiorno, l’avanzata di una coscienza democratica e antifascista anche in questa parte del paese, il peso complessivo del Mezzogiorno nella vita politica nazionale è andato diminuendo rispetto a quello che esso esercitò con le grandi lotte contadine. [...] La causa [...] è evidente: lo spopolamento delle campagne e l’emigrazione hanno ridotto il peso numerico e sociale delle masse contadine, dalle quali era venuta una potente spinta rinnovatrice e rivoluzionaria. [...] Bisogna però tenere conto non solo delle trasformazioni avvenute in questi decenni nell’agricoltura meridionale, ma anche di quelle che si sono verificate in tutta la società meridionale, come la formazione in alcuni centri di una nuova classe operaia da un lato e, dall’altro lato, lo sviluppo abnorme del settore terziario e il gonfiamento delle pubbliche amministrazioni, mentre si sono mantenute, e per certi aspetti crescono, la miseria e la povertà di grandi masse [...] e la crescente incapacità ad assicurare un lavoro stabile a centinaia di migliaia di giovani che escono dalle scuole e dalle università. La «grande disgregazione» di cui parlò Gramsci non è venuta meno, ma si configura e si manifesta in modi assai diversi dal passato28.

Abbiamo visto a più riprese come le CLI abbiano cercato di smarcarsi ufficialmente e pubblicamente da ogni influenza politica, anche se, nella fitta corrispondenza, a partire dai primi anni Settanta, 27   Comunicato stampa della segreteria nazionale delle CLI, Zurigo, 12 gennaio 1976. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11. 28   E. Berlinguer, La proposta comunista. Relazione al Comitato centrale e alla Commissione centrale di controllo del Partito comunista italiano in preparazione del XIV Congresso, Einaudi, Torino, 1975, p. 113.

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la mole di relazioni ed interconnessioni con il Pci e, in modo minore con il Psi, aumenti notevolmente. Probabilmente, lo stretto legame con la Cgil, tramite l’Inca, e la crescente collaborazione con i partiti della sinistra elvetica furono determinanti in questo processo. In questa fase, però, si manifestano ancora prese di posizione «classiche» che rimarcano, ove ce ne fosse bisogno, la matrice antifascista delle Colonie Libere. [Lavoratori, vigiliamo contro la penetrazione fascista!] Da anni il gruppo neofascista MSI-Destra nazionale tenta di dividere, in vari Paesi europei, la nostra emigrazione tramite i cosiddetti «comitati tricolori per gli italiani nel mondo». In Svizzera, nonostante i reiterati tentativi, questa deleteria azione non ha mai avuto successo: la collettività italiana ha sempre risposto in modo democratico e quindi antifascista al subdolo attivismo dei menzionati «comitati». Da qualche tempo a questa parte però il Comitato nazionale d’intesa (CNI) tra le associazioni e organizzazioni degli emigrati italiani in Svizzera ha rilevato che i neofascisti stanno ritentando di carpire la buona fede di emigrati che vivono e lavorano in questa o quella località elvetica e della cosa ha dettagliatamente informato tutte le maggiori organizzazioni democratiche svizzere (partiti e sindacati). Il CNI ha fatto notare alle organizzazioni democratiche svizzere che l’azione in questione è aumentata di intensità in coincidenza con il passaggio attraverso il Paese e il soggiorno nella Confederazione di neofascisti ricercati dalla giustizia italiana per reati commessi contro le istituzioni della nostra Repubblica ed ha chiesto alle stesse di operare gli opportuni passi al fine di riuscire a stroncare definitivamente ogni trama di questi personaggi e dei cosiddetti «comitati tricolori». Il CNI, anche se l’attivismo dei «comitati» in questione appare di ampiezza e penetrazione circoscritta, raccomanda a tutti i lavoratori la più rigorosa vigilanza ed invita a spiegare a chi in buona fede può aver dato la propria adesione la vera natura di quei raggruppamenti, quindi a raccogliere ed inviargli qualsiasi tipo di informazioni sull’attivismo neofascista nella Confederazione. Ciò per dargli modo di poter reagire come l’importanza del problema pretende29.

Tre sono gli elementi da sottolineare in questo volantino: la FCLIS tendeva a non rivolgersi più, o meglio da sola, ai lavoratori italiani in Svizzera, ma lo faceva promuovendo le posizioni del CNI;

29   Volantino (all. 2) in lettera relativa all’istituzione dei «Comitati tricolori per gli italiani nel mondo» inviata a tutti i membri della Segreteria del CNI, Zurigo, 30 ottobre 1974. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazione - Ar 40.20.11.

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l’interlocuzione, anche pubblica, iniziava ad essere sempre più diretta nei confronti di partiti e sindacati elvetici (partiti democratici svizzeri, Uss, Federazione dei sindacati cristiano-sociali)30. L’ultimo elemento riguardava proprio l’attività dei comitati istituiti da Mirko Tremaglia, i quali, trent’anni dopo, si vedranno riconosciuti il ruolo di promotori e fautori del voto degli italiani all’estero, nonostante già Schiavetti avesse avanzato tale iniziativa in seno alla Costituente31. In definitiva, è questa l’impostazione ideologica, sempre più marcatamente radicale, con cui la FCLIS affronta la sfida che rappresenterà lo spartiacque della sua storia: la battaglia per l’abolizione dello statuto degli stagionali. In altre parole (volendo semplificare e forzare i termini), gli anni Settanta videro prevalere, per la prima volta nella sua storia, l’ala oltranzista o meglio radicale (se si preferisce). 3. L’inizio di una nuova stagione «solidale» I problemi che interessano la nostra emigrazione in Svizzera è necessario affrontarli in modo nuovo. [...] I problemi sono tali che non possono essere ridotti a questioni di interpretazione e di puntualizzazione nell’ambito dell’accordo italo-svizzero del 1964. [...] Quali sono i problemi più urgenti: [...] prima di tutto la situazione degli «stagionali», che non possono andare avanti così. [...] Credo che sia la categoria più maltrattata di emigranti tra quelli esistenti in Europa. [...] Essi vivono in baracche, alloggi comuni, Lager che vengono tenuti accuratamente nascosti in località periferiche in quanto costituiscono una vera e propria vergogna. [...] Un’altra questione importante che riguarda i nostri emigrati in Svizzera è quella della scuola. [...] Le bocciature di questi ragazzi arrivano a raggiungere il 20-30-40 per cento del totale di coloro che frequentano le scuole locali32.

L’intervento dell’on. Crochi, durante i lavori sull’«Indagine conoscitiva sui problemi dell’emigrazione», può rappresentare l’inizio per individuare una spiegazione del perché, a un certo punto, cambiò l’atteggiamento nei confronti dell’Italia. L’intervento era del 1970: nonostante diversi incontri della Commissione mista, la   All. 1, lettera ai partiti, sindacati e movimenti politici svizzeri, ibid.   Cfr. cap. I. 32   Indagine conoscitiva sui problemi dell’emigrazione (n. 13), in Atti parlamentari, V legislatura, III Commissione (Affari esteri-emigrazione), Camera dei deputati, 23 ottobre 1970, pp. 5-8. 30 31

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questione della manodopera italiana stentava, da un lato, a trovare soluzioni, specie nel caso degli stagionali; dall’altro, apriva un nuovo fronte d’intervento sulle seconde generazioni. Lei ha sicuramente appreso, attraverso la stampa sia dell’emigrazione che svizzera, ma anche tramite il Consolato d’Italia a San Gallo, della decisione della Autorità sangallesi di istituire, a partire dalla prossima primavera, delle classi speciali per soli figli di emigrati – i figli di quegli emigrati dovrebbero frequentare fino alla terza classe elementare compresa33.

Sui problemi della scuola e dell’integrazione delle seconde generazioni nei processi formativi si concentrano parte degli sforzi delle Colonie Libere e dell’associazionismo in emigrazione, già dagli inizi degli anni Settanta e per tutto il decennio successivo. Ciò nonostante il punto dolente, dalla metà degli anni Settanta fino ai primi anni Ottanta, è quello relativo agli stagionali. E in tal senso in Svizzera inizia a muoversi qualcosa. La cosiddetta politica delle quote (stabilizzazione) è messa in discussione da un evento storico per la Confederazione: nel 1977 viene presentata la prima iniziativa pro-stranieri, che prendeva il nome dal comitato promotore: «Essere solidali in favore di una nuova politica verso gli stranieri»34. L’iniziativa, conosciuta come Mitenand (termine svizzero-tedesco che tradotto alla lettera significa insieme, in italiano e francese assume la definizione di «Essere solidali/Etre solidaires»), ha lo scopo di stimolare nell’opinione pubblica la consapevolezza degli interessi comuni tra svizzeri ed immigrati. In sostanza l’obiettivo è: «combattere gli stereotipi esistenti e promuovere a livello federale, cantonale e comunale una legislazione fondata sui diritti dell’uomo, sulla giustizia sociale e sulla parità di trattamento. Persegue in tal modo il fine dell’integrazione reciproca fra svizzeri e stranieri, nel rispetto delle caratteristiche specifiche di ognuno. La comunità di lavoro stimola il dibattito su questi problemi e la conseguente necessaria collaborazione fra le organizzazioni di immigrati e di svizzeri»35. In sintesi, l’iniziativa è volta a riformare l’art. 69ter della Costituzione federale e soprattutto ad abolire lo 33   Lettera FCLIS all’ambasciatore d’Italia a Berna, Zurigo, 5 marzo 1974. SSZ, f. FCLIS, b. Ambasciata e consolati - Ar 40.20.5. 34   A. Negrini, La manodopera straniera, funzionale come mai ai dettati economici, in «Dossier Europa Emigrazione», n. 3/4, marzo-aprile, Cserpe, Basilea, 1979, p. 43. 35  Art. 2 - Statuto comunità di lavoro «Essere solidali». SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11.

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statuto degli stagionali. I promotori dell’iniziativa – partiti politici, eccezion fatta per l’estrema destra e sinistra, i sindacati svizzeri, le chiese evangeliche, protestanti e cattoliche, la Caritas, i Centri di Contatto svizzeri-italiani, i movimenti e le associazioni per l’integrazione degli stranieri e le associazioni degli immigrati36 – mirano a perseguire: 1. la volontà di stabilizzazione; perché con l’immigrazione massiccia del dopoguerra sono nate tensioni sociali. È indispensabile, quindi, una limitazione delle entrate (numero massimo uguale a quello delle partenze) per evitare che le tensioni si aggravino. D’altra parte, però, le misure di stabilizzazione non devono ignorare i diritti fondamentali dell’uomo; 2. il diritto alla libertà personale ed al rispetto dell’uomo, che necessita: della libertà di espressione (il libero scambio di opinioni, nei limiti dell’ordine legale, è indispensabile per una viva comunità democratica e per un vero dialogo comune) e della libera scelta del lavoro per assicurare a tutti i lavoratori un’equa posizione nella vita economica; 3. il diritto alla parità, poiché finora sono stati chiamati i lavoratori senza che si sia rispettato sufficientemente l’uomo, e quindi: no all’operazione forzata della divisione delle famiglie; abolizione dell’inumano statuto dello stagionale; parità di diritti, eccetto il diritto di voto e di eleggibilità; 4. il diritto alla solidarietà, perché una società non può essere formata senza la solidarietà ed il rispetto reciproco, e quindi: parità nella sicurezza sociale ed integrazione e diritto di consultazione degli stranieri volto ad evitare l’isolamento di gruppi ed individui37. L’iniziativa, avendo alla base la richiesta di estendere diritti agli stranieri, eccetto quello politico, riusciva a coinvolgere un numero rilevante di attori sociali. L’elemento che susciterà tuttavia il conflitto, soprattutto con le associazioni padronali e le autorità federali, sarà quello relativo agli stagionali. Infatti, non a caso, i settori economici la cui attività si poggiava su questa categoria di lavoratori – 36   Saranno ben 67 i «membri collettivi», al 15 settembre 1980, che faranno parte del movimento referendario. Cfr. «Arbeitsgemeinschaft ‘Mitenand’ für eine neue Ausländerpolitik». SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 37  Volantino «Mitenand» (s.d.). SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11.

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soprattutto edilizia e agricoltura – vi intravidero una grave minaccia e vi si opposero38. Il governo elvetico difendeva la loro posizione, schierandosi contro l’iniziativa, accusata di minare le basi dell’intera politica di stabilizzazione. Inoltre la richiesta di diritto di rinnovo del permesso di soggiorno rischiava di compromettere, secondo il governo stesso, la tutela della manodopera autoctona. Se è vero che la stagione dei referendum xenofobi aveva finito per incidere notevolmente sul progressivo cambio di percezione da parte dell’opinione pubblica elvetica (e ciò era stato sottolineato dalle bocciature ai quesiti referendari), è anche vero, di contro, che tale scelta era frutto di mere ragioni economiche. Furono sostanzialmente due le circostanze che portarono all’istituzione del comitato referendario pro-stranieri e che rappresentarono gli elementi centrali della stessa proposta: l’abolizione dello statuto dello stagionale e l’umanizzazione della politica immigratoria. Nel febbraio del 1974 venne dunque lanciata la prima piattaforma politica del «Comitato per l’abolizione dello statuto dello stagionale» (CASS), istituito e sostenuto dalle organizzazioni politiche, sindacali, sociali ed educative svizzere, dalle associazioni degli emigrati, oltre che dai lavoratori dei due Paesi39. Il CASS però, sarà anche conseguenza di un’iniziativa in favore di «una politica umana dell’immigrazione», proposta nel novembre dell’anno precedente dal Movimento cattolico svizzero dei lavoratori (KAB). Infatti, nei mesi di marzo ed aprile del 1973, le assemblee dei delegati KAB diedero mandato ai loro comitati centrali di elaborare un testo per un’azione popolare che desse un contributo alla politica dell’immigrazione. L’intento era spingere le autorità federali ad una regolamentazione generale dell’immigrazione che tenesse conto, contemporaneamente, delle esigenze politiche, economiche, demografiche, sociali e umane. I comitati centrali invitavano tutte le istituzioni – chiese, partiti, sindacati, associazioni economiche e altri gruppi – a cooperare per raggiungere gli obiettivi fissati e, nell’autunno 1973, avrebbero proposto i risultati alle assemblee generali del KAB, che si sarebbero pronunciate in modo definitivo. «Eccesso di popolazione straniera» è uno slogan ricorrente, che dà 38   AA.VV., Stagionale è bello, in «Dossier Europa Emigrazione», n. 2/3, febbraio-marzo, Cserpe, Basilea, 1981, pp. 22-25. 39  Si veda l’ultimo paragrafo del cap. IV.

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adito a varie interpretazioni. La «sovrappopolazione straniera» è difficile da misurare, così come è difficile stabilire a partire da quale cifra la presenza straniera diventa «eccessiva» o «insopportabile». Allo stesso tempo, è facile citare casi particolari di eccesso di penetrazione straniera – ma che non autorizzano comunque conclusioni generali. Forse si potrebbe dire che vi è «eccesso di penetrazione straniera» ogni volta che uno svizzero prova legittimamente il sentimento che la presenza straniera pregiudica il suo modo di vita o l’esercizio dei suoi diritti. [...] Ma, più il soggiorno di uno straniero è corto e più egli si sente «altro» e «diverso». Più è lungo, più si adatta ai nostri modi di vita e, nella maggior parte dei casi, questi hanno un’influenza determinante. [...] Gli stranieri che vivono soli e in località isolate, hanno pochi contatti con gli svizzeri e poche possibilità di integrarsi. Si sentono sradicati, inadatti, esclusi; possono soffrire di psicosi, essere aggressivi, darsi alla criminalità. Gli stranieri che vivono con la famiglia si adattano invece più rapidamente e meglio. [...] Il sentimento di sradicamento o d’inadeguatezza viene superato rapidamente non appena le capacità linguistiche aumentano e può essere stabilita una vera comunicazione: è il caso dei bambini che crescono in Svizzera e degli adulti che vivono da lungo tempo da noi. Quindi, il sentimento di «eccesso di penetrazione straniera» diminuisce proporzionalmente all’aumento della durata del soggiorno e delle possibilità di sviluppo concesse agli immigrati. [...] Invece, la creazione di due nuovi partiti che hanno come scopo principale la lotta contro l’aumento degli stranieri e il conseguente appoggio ricevuto, dimostrano che gli stranieri e la loro crescita siano un «pericolo nazionale»40.

Secondo il KAB, il Consiglio federale aveva agito in ritardo, limitandosi a fondare la sua politica su due principi, che pesavano anche sulla soluzione umana del problema. Innanzitutto, l’eccesso di stranieri sarebbe stata una questione di cifre, risolvibile riducendo il numero degli assunti effettivi. Inoltre, se la causa principale dell’eccesso di stranieri era dovuta alle loro famiglie, si dovevano allora comprendere nel computo anche le famiglie dei lavoratori stabili e annuali, che si portavano dietro le mogli e i bambini: situazione che certo non atteneva agli stagionali e ai frontalieri. Sulla questione lo stesso Consiglio federale, già nella primavera del 1970, aveva promesso di concedere progressivamente maggiori diritti – sociali e umani – agli stranieri, in particolare rendendo meno dure

  Pour une politique humaine de l’immigration. Institut social KAB, Zurigo, 16 novembre 1973. SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 40

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le disposizioni sul ricongiungimento familiare. Le soluzioni proposte da chi si schierava apertamente contro gli stranieri furono l’Action Nationale, che aveva per obiettivo portare il numero degli stranieri a quota 500.000 al 1° gennaio 1978, e quella dei repubblicani di Schwarzenbach, che volevano limitare il contingente complessivo del 12,5%, riducendolo a 564.000 unità. Se l’Azione Nazionale limita a 150.000 il numero degli stagionali e a 70.000 quello dei frontalieri, Schwarzenbach, invece, non indica limiti per queste due categorie. Se venisse accettata la prima iniziativa, ci sarebbero conseguenze a dir poco fatali dal punto di vista umano, sociale ed economico. Implicherebbe, infatti, la proscrizione di più di 500.000 persone (sarebbero tollerate solo 650.000 «braccia»). Dal punto di vista politico, l’iniziativa Schwarzenbach è ancora più pericolosa, in quanto esige la proscrizione di persone che vivono da lungo tempo in Svizzera e che sono già assimilate. L’emorragia di manodopera che ne risulterebbe sarebbe compensata da un reclutamento massiccio di stagionali senza diritto. Nessuna delle due iniziative è dunque accettabile41.

Le iniziative furono respinte nel 1974, ma i principi dell’umanizzazione della politica degli stranieri, proposti dal KAB, si tramutarono nella base programmatica dell’azione Mitenand. a) La Confederazione è tenuta ad attuare una politica di stabilizzazione per impedire ogni futuro aumento del numero degli stranieri e per ridurlo progressivamente. Questa politica deve escludere qualsiasi misura contro gli stranieri già presenti. In particolare, le espulsioni aventi come fine la stabilizzazione sono rigorosamente proibite, ma i divieti di immigrazione possono essere emessi secondo necessità; b) Ogni straniero che vive in Svizzera dovrà beneficiare degli stessi diritti, umani e sociali, degli svizzeri, in particolare del diritto di fondare una famiglia e di vivere con questa, del diritto di procreare, diritto di scegliere liberamente la propria professione, il luogo di lavoro e la residenza, il diritto ad un’abitazione decente; c) Gli stranieri che manifestano l’intenzione di restare in Svizzera devono poter beneficiare delle misure necessarie per facilitare l’integrazione più rapidamente possibile. Questa integrazione deve dare a loro e a noi l’impressione che non siano corpi estranei; d) Gli impiegati devono partecipare, con un contributo speciale,

  Ibid.

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alla copertura delle spese pubbliche provocate dai lavoratori stranieri (reclutati dalle nostre imprese). I partiti, i sindacati e le organizzazioni interessati ad esaminare e valutare l’iniziativa sono invitati a mettersi in contatto con il KAB42.

La FCLIS aveva già aderito nel 1974 al CASS, dandosi un programma d’azione comune con la Flel e le Federazioni italiane dell’edilizia (Fillea, Filca e Feneal)43 e nel 1975 – dopo aver espresso critiche alla proposta del KAB44 – aderì ufficialmente all’iniziativa Mitenand. La Conferenza ha deciso di appoggiare con tutti gli sforzi possibili l’iniziativa svizzera «INSIEME» (Mitenand); [...] perché la proposta possa essere messa in votazione popolare occorre raccogliere 50.000 firme di cittadini svizzeri, regolarmente riconosciute dalle autorità. Attualmente hanno sottoscritto l’iniziativa 33.000 persone. Grazie alla spinta della FCLI, il CNI si è impegnato a contribuire, attraverso le proprie associazioni, alla raccolta delle firme tra la cittadinanza svizzera. In questa azione, le CLI devono essere in prima fila. Alcune di esse sono già in possesso dei relativi formulari. Un certo numero di queste schede saranno inviate a tutte le associazioni federate45.

Nonostante i promotori dell’iniziativa fossero consci del clima instauratosi con la stagione xenofoba e della congiuntura economica, tanto da incrociare la volontà politica di Berna di proseguire sulla linea della stabilizzazione, le autorità federali raccomandarono a più riprese di ritirare il quesito referendario. Nel 1976, l’anno prima della presentazione di «Essere solidali», l’EKA (Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri) si era messa

  Ibid.   Programma d’azione comune concernente i lavoratori stagionali e frontalieri italiani, Roma-Zurigo (s.d.). SSZ, f. FCLIS, b. Stagionali e frontalieri - Ar 40.70.12. 44   «Il testo dell’iniziativa del KAB, che pure contiene qualche miglioramento rispetto alla prima stesura, grazie anche al contributo critico dato dalle associazioni degli emigrati, in primo luogo la FCLIS, formula sì in linea di massima il principio della parità fra svizzeri e immigrati, ma contiene elementi tutt’ora inaccettabili», cfr. Comunicato stampa Atees-FCLIS sull’iniziativa KAB, Zurigo, 27 novembre 1973. SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 45   Decisioni, proposte, impegni usciti dalla Conferenza dei presidenti e dei membri della giunta federale delle CLI, Olten, 18 ottobre 1975. SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 42 43

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a lavorare su una nuova legge sugli stranieri, l’ANAG46, mentre le autorità federali avevano emanato una serie di dispositivi che interessavano la manodopera straniera47. Già durante l’iter dei lavori dell’EKA, la FCLIS giudicò negativamente la nuova bozza di legge, tanto da definirla «un progetto che propone la provvisorietà permanente dell’emigrato»48. L’opposizione delle CLI era determinata dal fatto che la nuova proposta di legge veniva meno agli accordi sanciti durante i lavori della Commissione mista italo-svizzera del 1972: «La Svizzera assicura la messa in atto di una politica che mira a ridurre progressivamente le differenze di trattamento esistenti ancora tra lavoratori indigeni e stranieri»49. E, soprattutto, il progetto di legge continuava a ledere i diritti democratici della libertà di opinione e di espressione: contravvenendo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo ratificata nel dicembre del 1972, la Svizzera proseguiva nell’applicare il divieto di politicizzazione degli stranieri (artt. 61-62 dell’ANAG). Nel giugno del 1978 (benché il 20 ottobre dell’anno precedente fosse stata depositata l’iniziativa Mitenand) il governo federale presentava il nuovo progetto di legge. A dire del consigliere federale Kurt Furgler, che ne era l’estensore, l’ANAG conteneva i fondamenti giuridici per l’instaurazione di un rapporto equilibrato tra l’effettivo della popolazione svizzera e quello della popolazione straniera; esso integrava le 11 ordinanze governative emesse dal 1931 e le direttive dell’Ufiaml del dicembre del 1974; soddisfaceva tutta una serie di criteri politici, economici, demografici, sociali ed umani, per cui era così possibile risolvere positivamente il problema sia nella quantità, attraverso il controllo e la stabilizzazione dei contingenti, che nella qualità, riguardo alle esigenze della Convenzione dei diritti dell’uomo

46   Acronimo della frase tedesca che, tradotta, significa «Nuova normativa in materia di soggiorno e domicilio». 47   Il 13 giugno dello stesso anno, con voto popolare, fu resa obbligatoria l’assicurazione contro la disoccupazione, anche se l’iter si concluderà di fatto solo nel 1984. Nel 1977 venne emanata una nuova disposizione che assoggettava i frontalieri italiani al pagamento dei contributi per la disoccupazione, dei quali però i lavoratori non potranno fruire in Italia; tale disposizione fu corretta nel dicembre dell’anno successivo, ma entrerà in vigore solo nel 1980. Cfr. C. Buccianti, op. cit., pp. 389-390. 48   «Emigrazione Italiana», 27 ottobre 1976. SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.70.3. 49  Ibid.

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e della Carta sociale europea50. Ma, nonostante le convinzioni di Furgler e nonostante già in fase di elaborazione fossero state sottolineate diverse incongruità, le speranze dei promotori dell’azione Mitenand e quelle del mondo dell’emigrazione apparvero disattese.Tranne qualche piccolo progresso – riguardante la mobilità professionale, la protezione giuridica e la parità di genere – le questioni di lavoratori annuali e stagionali non ottennero effettivi miglioramenti. La sorte dei primi restava strettamente legata alla congiuntura economica, tanto che l’attesa per il permesso di dimora poteva durare anche dieci anni; mentre la situazione degli stagionali peggiorò. Difatti la novità vera e principale consistette nell’istituzionalizzazione definitiva della figura stessa dello stagionale: «Il permesso stagionale è accordato per la durata della stagione; esso è concesso per un periodo non superiore ai nove mesi, decorsi i quali, non può essere prolungato al di là di questo termine. Il lavoratore stagionale deve soggiornare almeno tre mesi all’estero nello spazio di dodici mesi»51. Lo stesso art. 17 dell’ANAG stabiliva anche quali comparti produttivi avessero il diritto di usufruire degli stagionali, assegnando al Dipartimento federale dell’economia questa facoltà discrezionale. Ai cantoni fu demandata la scelta, in conformità alle istruzioni del Dipartimento federale dell’economia, tra la lista delle imprese territoriali a carattere stagionale. Infine, l’Ufficio federale degli stranieri poté, d’intesa con l’Ufiaml, determinare in ogni momento se un’impresa avesse o meno carattere stagionale. Tradotto: la polizia degli stranieri ottenne pieni poteri nella regolamentazione del mercato del lavoro stagionale e sia gli annuali che gli stagionali non avrebbero potuto, senza autorizzazione della stessa, cambiare né impresa né settore produttivo. Critiche al nuovo progetto di legge – oltre a quelle prevedibili del mondo associativo in emigrazione – verranno soprattutto dalle organizzazioni sociali e da gran parte della stampa elvetica. Ecco alcuni titoli: «Rimane il sapore lasciato dagli xenofobi»52; «Una legge dettata dall’egoismo nazionale»53; «Abbiamo dato torto a

  A. Negrini, op. cit., p. 42.   Ivi, p. 43. 52   «Tribune de Lausanne» (s.d., ma giugno 1978). SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 53  «Tages Anzeiger» (s.d., ma giugno 1978). SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 50 51

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Schwarzenbach esportando la disoccupazione»54. La FCLIS, dal canto suo, definì «largamente deludente il progetto federale di legge sugli stranieri». Il progetto di legge presentato, con lo scandaloso statuto imposto ai lavoratori stagionali, lascia [...] permanere la divisione degli emigrati in tutta la tradizionale sequela di categorie e resta altresì la volontà di impiegare ancora, all’occorrenza, l’emigrazione quale massa di manovra sul fronte delle contraddizioni dell’economia. Stanti in tal modo le cose e qualora il Parlamento non dovesse apportare ulteriori e sostanziali modifiche al progetto, largamente pregiudicato risulterebbe anche l’obiettivo dell’integrazione delle collettività emigrate, tenuto conto che non si fa sicuramente integrazione costringendo l’emigrato a vivere, per anni e anni, in costante stato di provvisorietà55.

Nei giorni che immediatamente seguirono la presentazione del nuovo progetto di legge, si fece insistente la voce che i promotori della Mitenand fossero disponibili a ritirare l’iniziativa, in quanto le autorità federali avevano dato parziale risposta alle richieste degli interpellanti. La smentita non si fece attendere. Il ritiro dell’iniziativa «Essere solidali» non è nemmeno in discussione! [...] Nella riunione del 26 agosto 1978 a Berna il direttivo della comunità di lavoro «Essere solidali» ha preso conoscenza con stupore delle notizie diffuse da un’agenzia di stampa, riguardanti l’eventuale ritiro dell’iniziativa. [...] La notizia ha fatto riferimento ad un colloquio tra il consigliere federale Kurt Furgler e una delegazione della comunità medesima [...] avuto luogo lo scorso 21 agosto; [...] essa ha voluto, principalmente, motivare più a fondo la sua severa reazione alla nuova legge sugli stranieri. Anche se ammette [...] alcuni piccoli miglioramenti, la comunità afferma che la legge in quanto tale deve essere decisamente rifiutata56.

Per confermare il «non ritiro», la comunità organizzò una grande manifestazione pubblica il 28 ottobre dello stesso anno nella capitale

  «Il Dovere» (s.d., ma giugno 1978). SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11.   Comunicato stampa FCLIS su ANAG, Zurigo, 19 agosto 1978. SSZ, f. FCLIS, b. Comunicati alle sezioni - Ar 40.20.2. 56  Comunicato stampa Comunità di lavoro «Essere solidali», Berna, 26 agosto 1978. SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 54 55

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elvetica, con lo slogan: «È giunto il momento per una nuova umana politica degli stranieri!»57. Nel frattempo non mancheranno altre prese di posizione contrarie all’ANAG, come quella del deputato Marie-Louise Jost. [«Essere solidali»... mai così necessario!] Tra qualche settimana, una data, un doppio anniversario. 20 ottobre 1974: rifiuto massiccio da parte del popolo svizzero dell’iniziativa xenofoba dell’Azione Nazionale. 20 ottobre 1977: depositata, alla Cancelleria federale, l’iniziativa «Essere solidali» per una politica più giusta e più umana dell’immigrazione. Da allora, l’attesa della pubblicazione di un nuovo progetto di legge sul soggiorno e la residenza degli stranieri nel nostro Paese. Una speranza dunque, che migliori la situazione di migliaia di lavoratori immigrati che contribuiscono in gran parte alla prosperità nazionale. Ebbene, no! In effetti, nonostante: l’interesse popolare in abitudine così indifferente, ma che le ripetute iniziative xenofobe avevano finito per disturbare [...] la partenza massiccia più o meno «volontaria» dai 200.000 ai 300.000 stranieri, rimandi alla crisi e alle costrizioni economiche [...] le pressioni di numerosi gruppi di lavoro in seno alle Chiese e ad associazioni diverse, e nonostante diverse petizioni da parte delle organizzazioni straniere residenti nel nostro Paese [...] nonostante l’iniziativa «Essere solidali», la nuova legge sugli stranieri – il cui progetto è appena stato pubblicato insieme al classico messaggio del Consiglio federale – questa nuova legge non apporta alcun cambiamento evidente alla situazione attuale. [...] È ancora troppo poco. Restano le «categorie», come se gli uomini potessero essere catalogati: permesso A, permesso B, permesso C e questo statuto di stagionali, che va contro ai diritti elementari dell’uomo. Restano: l’insicurezza permanente del rinnovo del permesso di soggiorno – garantito dopo cinque anni? Sì, ma dipende dalla situazione del mercato del lavoro, [...] l’integrazione aleatoria senza l’assicurazione di un rinnovo dello stesso permesso di soggiorno, [...] questo immutabile statuto del lavoratore straniero considerato come valvola di sicurezza nei dati dell’economia, [...] tutte queste nozioni quantitative che sono considerate prima dei fattori umani. Dato che si tratta di persone (uomini, donne, bambini), è assurdo. [...] Il nostro lavoro è quindi sempre più necessario: «Essere solidali» è, sul piano costituzionale, la sola alternativa a questo progetto di legge deludente58.

57   L’iniziativa si tenne nella Bundesplatz di Berna, sabato 28 ottobre 1978. Cfr. «Rundbrief», n. 9, September 1978. SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 58  Ivi, pp. 1-3.

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Dello stesso avviso era una delle grandi firme del giornalismo dell’epoca, Roger de Diesbach, che definì la situazione degli immigrati un «sistema da cambiare». La sorte dei lavoratori stranieri in Svizzera non è stata ancora decisa. Essenzialmente, la nuova legge raggruppa in un solo pacchetto una moltitudine di ordinanze e di pratiche. Non si è riuscito ad eliminare il retrogusto lasciato dalle iniziative xenofobe. [...] Il «paradiso» è concesso a chi ha lavorato dieci anni nel Paese. Il loro statuto è eccellente. [...] lo stagionale, sempre lì. Dovrà lavorare in Svizzera 35 mesi e quattro anni per guadagnare il suo «purgatorio». Trovandosi tra due fuochi, quello di coloro che chiedono il suo mantenimento in virtù della realtà economica del Paese e coloro che lottano per l’abolizione di questa «sottoclasse di lavoratori», Kurt Furgler si è espresso in favore dello statuto degli stagionali: «La sua soppressione scatenerebbe una crescita del numero degli stranieri, che la Svizzera non desidera». Mantenendo lo stagionale, la legge assicura al nostro Paese di avere manodopera straniera in modo non difficile e a buon mercato, disoccupazione esportabile. E se la sua sorte si è addolcita (non ha ancora il diritto di far venire la famiglia), il suo statuto scritto sulla carta non prova che la pratica si modificherà59.

Tra la fine del 1978 e per tutto il 1979 il clima politico si fece incandescente. Si susseguirono una serie di incontri, tra settori delle autorità federali, partiti politici e delegazioni dell’iniziativa pro-stranieri con l’intento di addivenire ad un compromesso e di fare ritirare la proposta referendaria. 4. «Mitenand» vs ANAG: compromesso mancato La questione ormai non era più una semplice disputa relativa al miglioramento delle condizioni degli stranieri, dei loro diritti e delle regole che ne dovevano disciplinare le diverse tipologie di dimora. La questione ormai era politica. Se in passato, per controbilanciare le proposte xenofobe, le autorità si erano adoperate nell’emanare dispositivi, circolari e leggi che andassero incontro ai proponenti, questa volta la partita si giocava su un piano diverso, quello dei diritti umani. Qualche anno prima, nel 1972, la Svizzera aveva ratificato la Carta europea dei diritti dell’uomo, che l’obbligava ad   «Tribune de Lausanne» (s.d., ma agosto 1978). Ivi, p. 7.

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attenersi a una linea di condotta più permissiva. Poi, la crisi economica fece il resto. E quindi, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi Ottanta, si fronteggiavano da un lato la Mitenand, che si accingeva ad essere sottoposta al voto popolare nei primi mesi del 1981, dall’altro, la nuova legge sugli stranieri che, passato il varo parlamentare, necessitava anch’essa del giudizio popolare. Intanto, andava sviluppandosi l’intensa attività di contatti e colloqui, più o meno riservati, con personalità politiche, organizzazioni e partiti, che il comitato Mitenand aveva programmato, al fine di ottenere il più largo consenso possibile su due questioni: l’abolizione dello statuto dello stagionale (da sostenere in sede di discussione dell’ANAG) e un certo grado di convergenza sulle motivazioni umanitarie e politiche alla base dei postulati stessi dell’iniziativa. Il 7 aprile del 1979, Paul Pfister, presidente del comitato, informò la comunità sul tentativo di mediazione avanzato, in forma abbastanza riservata, dal CVP (Partito democristiano svizzero). Il partito di Furgler proponeva un’abolizione graduale dello statuto dello stagionale, cominciando con la concessione agli stagionali del permesso annuale dopo dodici mesi. Il parere, quasi unanime, dei componenti della Mitenand fu di rifiutare la proposta, perché in aperto contrasto con una delle richieste fondamentali dell’iniziativa stessa. Anche la FCLIS si oppose60. Nei mesi precedenti, nel marzo e nel febbraio dello stesso anno, si erano avvicendate due fasi. Il 24 febbraio, il comitato direttivo «Essere solidali» aveva accettato nuove adesioni, tra le quali: la Chiesa cattolica di Ginevra, il Centro culturale di Bellinzona, la sezione di Berna del Partito socialdemocratico svizzero, il consiglio federale dei Comitati di contatto svizzeri-italiani, il gruppo dei socialisti di Berna e Zurigo, il Partito socialista ticinese e la Caritas di Vaud. L’accettazione del POCH Svizzera (movimento progressista) e del Partito socialista ticinese creò spaccature all’interno del comitato promotore. Rudolf Wyder e Jean Delarue fanno presente che la Europa-Union ed il Landesring si vedranno probabilmente costretti a ritirarsi in seguito all’ac-

60   Le fasi delle trattative sono ricostruibili grazie ai verbali di De Pietro, dirigente delle FCLIS, che era membro del direttivo di Mitenand. Cfr. «Comunicazione riservata interna alla giunta federale delle CLI», Zurigo, 7 settembre 1979. SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11.

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cettazione del POCH e del PSA. [...] Peter Gessler fa infine presente che la comunità di lavoro Mitenand, solidarizzando con gli stranieri marginalizzati, si auto-marginalizza. Per questo motivo diventerà difficile per le singole organizzazioni collaborare con noi. Per le votazioni sull’iniziativa Mitenand dovrà quindi eventualmente essere formata una nuova organizzazione61.

Anche in questo caso, le componenti progressiste e di sinistra non vennero accettate di buon occhio all’interno delle vicende politiche. Si temette, infatti, una politicizzazione eccessiva dell’iniziativa. Il 13 marzo, una delegazione della Mitenand incontrò un gruppo di consiglieri nazionali, con lo scopo «non di riunire tutti i parlamentari sostenitori di una nuova politica verso gli stranieri, ma solamente alcuni di essi che possano servire da intermediari nella fase del dibattito parlamentare»62. Dall’incontro emerse che in Parlamento si sarebbe formata una maggioranza, anche se lieve, disposta ad approvare l’iniziativa. Il 20 aprile, dopo settimane d’attesa, finalmente una delegazione del comitato incontrò la delegazione dell’EKA. Gli argomenti all’ordine del giorno erano: 1) proposte dell’EKA sulla nuova legge sugli stranieri; 2) posizione della stessa nei confronti di Mitenand; 3) eventuale disponibilità a collaborare in difesa dei principi umani dell’iniziativa. Sul primo punto, l’EKA confermava le posizioni già espresse durante l’iter di consultazione sull’ANAG, ribadendo che la sua consulenza non si estendeva alle Camere federali, ma era diretta esclusivamente al Consiglio federale. Per questa ragione non si ravvisava il motivo per cui dovesse esprimere nuovamente un parere. Pfister, capodelegazione della Mitenand, facendo osservare come l’EKA si fosse pronunciata a favore della parità di trattamento sul mercato del lavoro, si chiedeva come fosse possibile conciliare quanto previsto nell’ANAG con le posizioni precedentemente espresse in fase di stesura della legge stessa. Clivaz, invece, sosteneva che fosse controproducente prendere posizione, in quanto ciò sarebbe stato interpretato come una pressione indebita nei confronti dei parlamentari: «Come membro dell’Uss sono disposto a criticare l’ANAG, ma come membro dell’EKA non posso pronunciarmi e sono tenuto a difendere il parere dell’EKA»63.   Ivi, p. 2.   Ibid. 63  Ivi, p. 3. 61 62

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A questo punto, Gleiser proponeva che l’EKA non prendesse una posizione pubblica e che fosse disponibile a formare un gruppo di lavoro misto per discutere il progetto punto per punto. Inoltre, il componente della Mitenand chiedeva quali azioni avrebbe potuto intraprendere l’EKA allorché fosse entrata in vigore l’ANAG: «Le linee direttive del BIGA erano giustificate dalla situazione contingente e vedo difficile poter conciliare le vostre esigenze con quelle del mercato. [...] Grossi interessi politici ruotano intorno all’ANAG. [...] L’EKA non prende posizione perché non ha interessi, non è un ‘gremium’ politico»64. Heizmann e Clivaz a loro volta ribaltavano la domanda, sottolineando la loro preoccupazione rispetto alla posizione del comitato Mitenand nell’eventuale momento di approvazione in Parlamento della nuova legge: «Dobbiamo raffreddare tutta la faccenda. Io non voglio darvi un consiglio, ma dobbiamo essere prudenti». Il clima si surriscaldava e i rappresentanti del comitato ribattevano: «Non siamo venuti qui a farci dire da voi cosa dobbiamo fare; [...] questo discorso di tappare la bocca agli stranieri è inammissibile!»65. A nome degli imprenditori intervenne Schwarb che, dopo un articolato discorso comparativo su quanto accadeva in altri Paesi europei, sentenziò: «Non si devono illudere gli stranieri con la Mitenand [...]. Propongo una politica di compromesso [...] altrimenti l’iniziativa subirà una débâcle»66. Infine, i rappresentanti dell’EKA sottolineavano come il pericolo maggiore per la questione provenisse dalle ali estreme, destra e sinistra, d’accordo nel contrastare la nuova legge sugli stranieri. Sul secondo punto all’ordine del giorno, la discussione fu pressoché nulla. [EKA:] non siamo né un partito né un gruppo d’interesse [...] perciò non ci pronunciamo sulla Mitenand. Il Consiglio federale pronuncerà un messaggio sulla vostra iniziativa. [Mitenand:] noi procediamo ugualmente [...] voi non dovete darci per morti! È scandaloso che l’EKA prenda posizione sull’ANAG e non dica nulla sulla nostra iniziativa67.

  Ibid.   Ivi, p. 4. 66  Ibid. 67  Ibid. 64 65

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Sulla collaborazione riguardo ai diritti umani, i rappresentanti dell’EKA dichiaravano di non poter decidere, adducendo la scusa del numero legale dei componenti. I promotori della Mitenand ribattevano: «Noi non siamo solo un comitato per appoggiare un’iniziativa, ma una comunità di lavoro per gli stranieri ed in favore dei diritti umani». A questo punto, per chiudere la discussione, intervenne con tono e maniere «concilianti» Schwarb, delegato degli imprenditori: «L’EKA ha un indirizzo ed una cassetta per le lettere [...] non avete che da imbucare i Vostri inviti. [...] A che serve pianificare incontri a due in plenaria? La collaborazione può avvenire anche per posta, visto che le PTT funzionano bene»68. L’incontro si chiuse con un nulla di fatto, o meglio, con un muro contro muro. E tuttavia riunioni e incontri si fecero serrati, dato che di lì a poco si sarebbe dovuto pronunciare il Consiglio federale. Il suo giudizio era fondamentale: già in precedenza, in occasione dei quesiti xenofobi, si era espresso negativamente e tutti i quesiti erano stati respinti. Il 9 giugno trapelò la notizia che il giudizio del Consiglio era imminente, ma né l’EKA né il comitato promotore saranno ascoltati. L’esclusione dell’EKA preoccupava, in quanto così il giudizio veniva praticamente affidato alla sola polizia degli stranieri. Le autorità federali, in realtà, volevano evitare che l’EKA potesse esprimere pareri negativi su Mitenand e che si ponesse in contraddizione con alcune sue posizioni precedenti di apertura nei confronti dell’iniziativa stessa. Vista la situazione, i promotori decisero di presentare un’istanza diretta a Furgler e si mise a punto un programma d’azione mirato, con una proficua campagna di comunicazione. Nel frattempo, l’11 agosto, grazie alla mediazione di alcuni parlamentari che appoggiavano l’iniziativa, i promotori riuscivano ad avere un colloquio con i dirigenti della polizia degli stranieri. Dopo cinque ore interrotte di trattative, i risultati saranno alquanto deludenti. La Polizia degli stranieri sembra disposta a riconoscere i nostri buoni propositi. [...] Si pone contro la nostra iniziativa non con argomentazioni tecnico-giuridiche, ma unicamente con motivazioni politiche (messa in pericolo dell’obiettivo della stabilizzazione, allontanamento dal principio della priorità di manodopera indigena). In questo colloquio non siamo   Ivi, p. 5.

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stati in grado di dimostrare la nostra convinzione che l’iniziativa Mitenand non mette in pericolo la stabilizzazione69.

Finalmente, il 27 agosto, si svolse l’incontro con il consigliere federale Furgler, estensore dell’ANAG. Nella fase preparatoria alla riunione, il direttivo della Mitenand decise di impostare la discussione su una domanda di fondo: con quali argomentazioni il Consiglio federale intendeva proporre il rigetto dell’iniziativa Mitenand? La sintesi delle ragioni addotte dal parlamentare elvetico ruotava tutta attorno alla questione degli stagionali. Se un italiano non vuole vivere stabilmente da noi, arriva allora il tempo di scadenza del contratto ed è ben felice di andarsene. [...] Credo che non si possa eliminare lo statuto dello stagionale. Si può ridurre il termine di 9 mesi e tentare di risolvere il problema dei falsi stagionali. [...] Dobbiamo creare condizioni per dare più sicurezza agli stranieri [...] dobbiamo fare una sintesi tra le esigenze dell’economia e del mercato del lavoro. [...] Il Consiglio federale vuole dare una soluzione profondamente umana al problema70.

Dall’incontro con Furgler traspariva una certa volontà conciliatoria e, soprattutto, la tendenza a rassicurare i promotori sul fatto che, nel messaggio del Consiglio, i principi di fondo non sarebbero stati contraddetti. L’interesse era, ovviamente, reciproco. Ma solo in parte Furgler rispetterà gli impegni presi. Il 5 ottobre del 1979, il Consiglio federale promulgò il suo giudizio rispetto all’iniziativa. Come nelle previsioni, l’esito fu negativo. «Ci proponiamo, con il presente messaggio, di sottoporre al popolo e ai Cantoni, senza controprogetto e con la raccomandazione di respingerla, l’iniziativa popolare ‘Essere solidali’, per una nuova politica degli stranieri»71. Nell’analisi dettagliata ed articolata delle questioni emergeva con forza la volontà di tutelare gli aspetti economici, anche se, su alcuni punti, le spiegazioni lasciavano abbastanza interdetti. Per quanto concerne i diritti dell’uomo, il Consiglio riconosce l’esigenza posta dall’iniziativa, ossia che la legislazione sugli stranieri ga  Ivi, p. 6.   Ivi, p. 7. 71  Messaggio sull’iniziativa «Essere solidali, per una nuova politica degli stranieri», 5 ottobre 1979, in FF, 1979, vol. III. 69 70

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rantisca il rispetto dei diritti dell’uomo, ma sottolinea come questa sia già attuata dal vigente diritto svizzero. La legislazione è tenuta a porre dei limiti all’esercizio dei diritti fondamentali in modo che questi non ledano la sfera giuridica dell’individuo o della collettività. Per esempio, è possibile che l’esercizio dei diritti fondamentali degli stranieri venga limitato – senza che vi sia discriminazione – quando la sicurezza interna od esterna della Svizzera può essere compromessa dall’espressione di opinioni politiche. Per quanto riguarda la libertà di domicilio, la Svizzera non ha ratificato il Protocollo della Convenzione dei diritti dell’uomo che la prevede e, per quanto riguarda la libera scelta del posto di lavoro, la legislazione sugli stranieri non la concede a coloro che non hanno ancora dimora durevole nel Paese72.

Le motivazioni di diniego per facilitare il ricongiungimento familiare, invece, apparivano molto discutibili. Il termine d’attesa per il ricongiungimento con la famiglia per lo straniero dimorante, stabilito successivamente ai dodici mesi dall’arrivo, è stato anche fissato nell’interesse dello straniero stesso. In effetti, l’esperienza mostra che i lavoratori tornano spesso nel corso del primo anno al loro Paese di origine. Se il ricongiungimento fosse accordato subito, i figli, appena abituati ad un nuovo ambiente, dovrebbero ripartire subito. In ogni caso, il rigore del termine d’attesa è mitigato dalla possibilità di rendere visita con soggiorni non legati a richiesta di permesso73.

Sul diritto al rinnovo del permesso di soggiorno, secondo quanto richiesto dall’iniziativa Mitenand, gli stranieri avrebbero ottenuto, praticamente a partire dal primo giorno della dimora in Svizzera, diritto di presenza illimitato, anche in periodi di crisi economica. Ma prima di consentire anche solo l’ammissione di nuovi lavoratori stranieri, il servizio pubblico dell’impiego aveva l’obbligo di esaurire l’offerta di manodopera indigena. Dal primo al quinto anno di dimora, il rinnovo del permesso sarebbe dipeso dalle esigenze dell’economia e del mercato del lavoro. Il messaggio a sostegno di un disegno di legge sugli stranieri metteva in rilievo che l’ordinanza di esecuzione avrebbe prescritto che il permesso di dimora, rilasciato allo straniero esercitante un’attività lucrativa e residente in Svizzera da meno di cinque anni, sarebbe stato rinnovato soltanto se nessun   Ivi, p. 585.   Ivi, p. 588.

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cittadino svizzero, nessuno straniero domiciliato o nessuno straniero dimorante da cinque o più anni fosse disposto ed adatto a occupare il posto di lavoro offerto74. Interessante, invece, appariva la concezione svizzera dell’integrazione sociale: In considerazione della struttura federalistica della Svizzera, l’accento principale deve essere posto sull’integrazione sociale degli stranieri. Il fatto di regolamentare lo statuto personale, familiare e professionale dello straniero in conformità della sua presenza in Svizzera, costituisce il mezzo più efficace per facilitare la sua integrazione sociale75.

In altre parole, l’integrazione è fatta bene nella misura in cui viene regolato al millimetro lo status del migrante, della sua famiglia e di tutto ciò che lo riguarda. Sulla limitazione del numero degli stranieri e la soppressione dello statuto dello stagionale, contrariamente a quanto fatto durante le diverse iniziative sull’inforestieramento, il Consiglio federale riteneva di aver difeso l’idea che la politica nei confronti degli stranieri dovesse raggiungere il proprio obiettivo quantitativo non con misure di riduzione, ma soltanto con misure limitative del numero delle entrate. Di conseguenza, se lo statuto fosse stato abolito, a serio rischio sarebbe stata messa la politica di stabilizzazione. I motivi che giustificavano il mantenimento dello statuto erano connessi alla paura che, in certi settori economici, tra cui l’agricoltura, l’edilizia e l’alberghiero, l’attività avrebbe continuato, come nel passato, a dipendere dal ritmo delle stagioni. Pertanto, con l’abolizione dello statuto dello stagionale si sarebbe dovuto accordare d’ufficio a tutti gli stagionali un permesso di dimora entro il termine di cinque anni. E rilasciare un permesso di dimora ai lavoratori e alle decine di migliaia di famiglie non avrebbe comportato un semplice riporto di ordine statistico, ma l’arrivo in Svizzera di un elevato numero di nuovi stranieri. Allora, durante un periodo transitorio di cinque anni, si prevedeva un aumento degli stranieri residenti dalle circa 120.000 alle 140.000 persone, vale a dire di circa 26.000 annualmente, dei quali 13.000 esercitanti un’attività lucrativa76. In sostanza, la popo-

  Ivi, pp. 589-590.   Ivi, p. 592. 76  Ivi, pp. 595-597. 74 75

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lazione straniera residente avrebbe oltrepassato di nuovo il milione di persone, fatto che corrispondeva alla rinuncia ad una politica di stabilizzazione perseguita da anni. Le ragioni contro l’abolizione dello statuto dello stagionale non erano soltanto politiche, ma anche di natura economica: molti emigranti avrebbero abbandonato le attività stagionali, in virtù della mobilità professionale acquisita, per passare, soprattutto, dai settori della costruzione e alberghiero a quello dell’industria. Vi erano, infine, le valutazioni generali dell’iniziativa e le eventuali conseguenze finanziarie. L’iniziativa così come proposta impedisce che si continui la politica di stabilizzazione sinora seguita e mette in pericolo l’esistenza di un grande numero di aziende dei rami economici stagionali. Se gli stranieri avessero facoltà di ricorrere a un tribunale per ogni questione di diritto, la protezione giuridica di cui godrebbero sarebbe più importante di quella che compete ai cittadini svizzeri. [...] In caso di disoccupazione, gli stagionali hanno diritto alle indennità dell’assicurazione contro la disoccupazione, secondo il diritto attuale, solo per il periodo di validità del loro permesso. L’abolizione dello statuto dello stagionale avrebbe come conseguenza che tutti gli stranieri occupati sinora come stagionali avrebbero diritto alle indennità di disoccupazione per il periodo infrastagionale, vale a dire per il periodo di tempo nel quale sono inattivi. Una misura del genere causerebbe all’assicurazione contro la disoccupazione spese supplementari rilevanti77.

Il giudizio complessivo restava devastante. Se più volte veniva ricordato il proposito dell’iniziativa di volere umanizzare la politica migratoria, gli argomenti e le motivazioni di natura economica finivano per essere nettamente preponderanti. In questo scenario, a pochi mesi dal voto referendario, furono i sindacati a non darsi per vinti, tanto che quello degli edili organizzerà un’imponente manifestazione di solidarietà nei confronti dei lavoratori stagionali. [Solidarietà e giustizia ai lavoratori stagionali.] «Internationale Solidarität»: questo lo slogan più scandito sabato scorso sulla Bundesplatz di Berna. Alla grande manifestazione la solidarietà internazionale [...] era vivamente avvertita e dimostrata da oltre diecimila persone di almeno sei o sette nazionalità diverse. Mai tanta gente e mai tante nazionalità   Ivi, pp. 599-600.

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diverse si erano viste davanti al Bundeshaus, il palazzo del Parlamento e del Governo svizzeri78.

Cinque mesi dopo la manifestazione di Berna, il 5 aprile del 1981, arrivava il responso delle urne. L’iniziativa venne inequivocabilmente respinta da tutti i cantoni della Confederazione, con l’84% di voti contrari, ma la partecipazione alle urne non arrivò al 40%79. Forte fu la delusione dei promotori, anche se non si dettero per vinti: restava ancora il voto sull’ANAG che, visto l’esito, avrebbe potuto accogliere alcune posizioni della Mitenand. Ecco il primo commento ufficiale della comunità di lavoro: Delusione ma non rassegnazione. [...] Gli elettori hanno detto NO nella stragrande maggioranza all’iniziativa «Essere solidali». Come possiamo interpretare una tale risposta che per noi è deludente e quasi umiliante? È il responso dettato da posizioni xenofobe? Corrisponde semplicemente alla mentalità degli svizzeri? Certamente non ci si può esprimere in modo così poco differenziato. Probabilmente gli svizzeri non sono né peggiori né più xenofobi di quanto non lo siano altre popolazioni. Ciò che deve essere condannato in questo paese non è [...] il popolo, bensì molto di più i rapporti del potere politico. Il dominio degli interessi economici in quasi tutte le sfere sociali è allarmante. E sono i rappresentanti di questi interessi economici che esercitano il potere politico in Svizzera, e non gli elettori80.

Per i promotori della Mitenand gli artefici dell’insuccesso erano, dunque, gli stessi che avevano determinato in passato l’esito negativo delle iniziative xenofobe. Gli ambienti economici erano contro l’iniziativa «Essere solidali» [...] per loro non è stato difficile conquistare alla propria causa gli elettori con l’intimidazione, bugie e appelli demagogici e xenofobi al sentimento nazionalista. Al loro servizio (perlomeno nella Svizzera tedesca) stava anche gran parte della stampa, la quale ha spesso informato sulle rivendicazioni della «Essere solidali» in modo del tutto distorto. [...] Possiamo affer78   «L’Eco» (s.d., ma novembre 1980). SSZ, f. FCLIS, b. Stagionali e frontalieri - Ar 40.70.12. 79   Risultati del voto referendario «Essere solidali», Berna, 5 aprile 1981. SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 80  Primo commento della Comunità di lavoro «Essere solidali» sulla votazione del 4 e 5 aprile 1981, Berna, 6 aprile 1981. SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11.

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mare con certezza, che il NO di molti elettori non era rivolto a quella «Essere solidali» che noi abbiamo sottoposto a votazione, bensì ad una sua caricatura disegnata su tutti i muri a colori allarmanti dagli oppositori dell’iniziativa81.

Nonostante la scottante sconfitta, il comitato quindi continuerà nella sua azione, spingendo affinché passi almeno l’ANAG. L’anno successivo, il 6 giugno del 1982, quella che per il Consiglio federale rappresentava l’alternativa all’iniziativa Mitenand venne rifiutata dal 50,4% dei votanti, mostrando che ciò che per i promotori solidali rappresentava una soluzione fin troppo restrittiva nei confronti degli stranieri, veniva comunque reputata estremamente lassista da parte del popolo elvetico. La Svizzera mormorò: non passa lo straniero! Era il 6 giugno 1982, quando una discreta maggioranza si espresse contro [...] su invito del partito anti-stranieri denominato Azione Nazionale. [...] Così verrà ricordata dai posteri (chi con rammarico chi con soddisfazione) la votazione popolare. [...] Comunque, come lavoratori emigrati in un Paese di tanti cattivi, tantini buoni e tantoni né buoni né cattivi (quelli che sono restati a casa), possiamo vantarci almeno di un fatto quantomeno straordinario: è la prima volta dal dopoguerra ad oggi che il Consiglio federale vede bocciarsi una sua proposta82.

Magra consolazione quella della FCLIS. Il risultato, probabilmente, rappresentava il momento di non ritorno, lo spartiacque dei movimenti xenofobi in Svizzera, tanto che l’Action Nationale immediatamente ne approfittò per appropriarsi della vittoria. Il rifiuto dell’ANAG rappresentava «il triste coronamento di ben sei pronunciamenti del popolo svizzero in materia di politica migratoria nel breve spazio di 12 anni (1970, 1974, 1977 due volte, 1981, 1982)»83. Le prime quattro consultazioni, lanciate dagli xenofobi, erano state sempre respinte dal popolo svizzero. Con le votazioni del 1977 si registrò per la prima volta una partecipazione al di sotto del 50% degli aventi diritto al voto, ma in compenso il divario tra i Sì e i No crebbe notevolmente. Nonostante che la «nuova legge» sugli stra  Ibid.   «Emigrazione Italiana», 9 giugno 1982. 83  T. Pozzi, Svizzera: il referendum del 6.6.82 contro la nuova legge sugli stranieri, in «Dossier Europa Emigrazione», n. 6, giugno, Cserpe, Basilea, 1982, p. 13. 81 82

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nieri rappresentasse un compromesso, tipicamente elvetico84, volto ad esacerbare gli animi e ad acuire le paure degli svizzeri, il popolo dimostrò una propria disaffezione rispetto a questi temi: il fatto che si fossero recati alle urne poco più del 34% degli aventi diritto, uno dei minimi storici, confermava in pieno questa sensazione. La questione, però, restava aperta. Come mai, nonostante si fosse addivenuti ad un progressivo compromesso – tra l’estensione di nuovi diritti e la strenua difesa della strategia della stabilizzazione – erano prevalsi i timori ed i pregiudizi? E ancora, come mai metà del popolo svizzero non si trovò d’accordo con il parere quasi unanime dei partiti, del governo, delle organizzazioni padronali e sindacali, delle chiese, dei movimenti di opinione, dei mezzi di comunicazione sociale?85 Con ogni probabilità, i sostenitori dell’ANAG – tra i quali vi erano anche quanti l’anno prima avevano speso notevoli risorse per finanziare la campagna di propaganda contro l’iniziativa Mitenand (imprenditori e partiti di centro) – sottovalutarono il malessere che cresceva nell’opinione pubblica elvetica. D’altronde, dopo i ripetuti fallimenti dei quesiti xenofobi, si ritenne che questi movimenti non fossero più in grado di fare presa sul popolo e che l’iniziativa «Essere solidali» fosse stata respinta per motivi di ordine meramente economico. Ovvero, si pensò, erroneamente, che la latente paura dell’inforestieramento ed il conseguente bisogno di difesa fossero percezioni superate dalla gran parte degli svizzeri86. Non a caso, l’Action Nationale, impostando

84  L. Caracciolo, Il metodo svizzero per contare di più, in «I quaderni speciali di Limes», cit., pp. 9-19. 85   T. Pozzi, op. cit., p. 13. 86   Con accenti e modalità diverse, probabilmente questo non avverrà mai. Per un’analisi dettagliata sulla persistenza della xenofobia in Svizzera si rimanda a diversi lavori di Sandro Cattacin: Migration, Religion, Pluralismus, in «Migratio», 2003/3; Migration und Religion (a cura di, con M. Baumann), Migration, Luzern, 2003, pp. 20-28; Vereine und Vereinigungen in einer pluralisierten Gesellschaft. Überlegungen zum Verhältnis zwischen Vereinen und Vereinigungen sowie dem Staat und dem Markt im Umfeld mikro- und makrostrukturellen Wandels, in P. Farago, H. Ammann (a cura di), Monetarisierung der Freiwilligkeit, Seismo, Zürich, 2006, pp. 221-231; Migrationspolitik im Pluralen Europa. Differenzierte Citizenship, Prekarisierung und soziale Rechte, in C. Burton-Jeangros, C. Maeder (a cura di), Identität und Wandel der Lebensformen, Seismo, Zürich, 2011; B. Gerber, M. Sardi, R. Wegener, Monitoring rightwing extremist attitudes, xenophobia and misanthropy in Switzerland. An explorative study, in «Sociograph - Sociological Research, Study», n. 1, Department of Sociology of the University of Geneva, 2006.

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la sua propaganda che faceva leva su questi due elementi, dimostrò che era vero il contrario. La campagna comunicativa del movimento xenofobo era incentrata sull’equazione: più stranieri uguale più inquinamento, più criminalità. Più uomini, più stranieri nella nostra piccola Svizzera significano più auto, più strade, sempre più energia, corrente elettrica. [...] Anche la centrale atomica di Kaiseraugust non si potrà più evitare se ci saranno più stranieri. [...] La Svizzera va alla deriva, non c’è più nulla da fare [...] le donne sono violentate dai meridionali, le carceri sono affollate di stranieri fino all’85%, per lo più meridionali: una mostruosa criminalità87.

Il commento della stampa alla bocciatura può essere sintetizzato nella frase: «L’alleanza impura ha vinto»88. Probabilmente sul rifiuto dell’ANAG incise quanto accadde un anno prima con la Mitenand. D’altronde, anche nei giudizi espressi sui promotori di «Essere solidali», emerse a più riprese la convinzione che avessero «tirato troppo la corda», facendo in definitiva il gioco dei movimenti xenofobi. Ascoltate xenofili esigenti. Ecco di che cosa saranno privati i nostri amici stranieri. I lavoratori annuali non potranno né ricongiungersi con le loro famiglie entro sei mesi (invece di 15), né ottenere il rinnovo automatico del permesso di soggiorno, [né] l’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna. [...] Gli stranieri nati e cresciuti in Svizzera non saranno protetti contro l’espulsioni amministrative89.

D’ora in poi, con tutti gli accorgimenti del caso, possiamo parlare di progressiva istituzionalizzazione della xenofobia. L’anno successivo gli svizzeri, rifiutando un progetto del Consiglio federale volto a facilitare le naturalizzazioni dei giovani stranieri nati in Svizzera, confermeranno ancora una volta la loro diffidenza verso gli stranieri. In definitiva, quello che voleva essere uno scontro di vedute e posizioni tra le autorità federali ed i promotori di una politica solidale per gli stranieri, calcisticamente finì 0 a 0, o meglio, –1 per entrambi. Dal punto di vista generale, mentre si discuteva e ci si contrapponeva sul come immaginare una nuova convivenza e una nuova presenza degli stranieri, il sistema economico elvetico si riassettava.   «Basler Zeitung», 29 maggio 1982.   «La Suisse», 7 giugno 1982. 89  Ibid. 87 88

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Dopo il rallentamento congiunturale del 1983-84, la Svizzera riaprirà nuovamente le porte all’immigrazione poco qualificata, flessibile e precaria90. Di contro, per l’emigrazione italiana, che oramai si era prevalentemente stabilizzata, la nuova frontiera sarà rappresentata dalla richiesta di nuovi diritti di cittadinanza. 5. Questioni irrisolte e nuove sfide La progressiva sedentarizzazione della popolazione straniera, la differenziazione dei motivi d’immigrazione e la trasformazione del contesto politico sono gli elementi che obbligheranno la Svizzera a nuove sfide in materia di politica migratoria. La politica delle quote, che solo apparentemente garantiva una risposta più efficace agli andamenti della congiuntura economica, non sarà in grado di evitare che la presenza straniera riprenda a crescere. La progressiva stabilizzazione era favorita dalla trasformazione automatica dei permessi annuali in permessi di permanenza che, oltre ad essere garantita all’Italia, veniva lentamente estesa ad altri Paesi, quali Spagna e Portogallo91. Il risultato fu la progressiva diminuzione dei permessi annuali, che passeranno dal 70% del 1970 a meno del 25% negli anni Ottanta. Anche le motivazioni per cui si continuava ad immigrare in Svizzera erano mutate. Se il numero degli stagionali calava progressivamente, in virtù di una politica estera volta a riavvicinare la Confederazione alle politiche dell’Unione Europea, cresceva il numero dei richiedenti asilo. Da qualche migliaia l’anno, all’inizio del decennio Ottanta, il numero di richieste d’asilo passò a più di 35.000 nel 1990, fino a toccare la soglia delle 41.000 nel 199192. La crescita consistente di quanti rientravano in questa tipologia, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, modificò sensibilmente l’assetto sul quale ormai si era stabilizzata la politica governativa in materia. Le difficoltà incontrate dalle autorità elvetiche nel formulare risposte tempestive e coerenti porteranno ad un’inevitabile perdita di consensi. Malgrado lo sforzo profuso nell’adottare una serie di riforme restrittive, la questione dell’accoglienza ai rifugiati progressivamente si andò politicizzando   E. Piguet, op. cit., p. 37.   Il 31 ottobre 1989 la Svizzera rinnovò l’accordo con la Spagna e il 12 aprile del 1990 con il Portogallo. RU, accordi: nr. 0.142.113.328.1; nr. 0.142.116.546. 92  E. Piguet., H. Mahnig, Quotas d’immigration, cit., p. 26. 90 91

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e diventò, verso la fine del decennio, la posta fondamentale delle politiche di accoglienza. Anche l’ambiente politico subì un cambio radicale93. L’isolamento della Svizzera all’interno del processo d’integrazione europea cominciò ad essere percepito da una parte dell’élite politica nazionale come una questione di primaria importanza. Per questo motivo i rapporti con l’UE e le politiche in ambito migratorio diventarono uno dei temi più dibattuti. Già nel 1989, l’Ufiaml constatava che l’inevitabile avvicinamento della Svizzera all’UE rendeva impossibile la conservazione del regolamento degli stagionali; ciò nonostante, come già detto, questo verrà abolito solo nel 2002. In definitiva, la situazione muta progressivamente sul piano economico, politico, sociale e demografico. Gli attori economici sono divisi riguardo alla gestione dei flussi economici (il principale motivo è la divisione tra le associazioni di imprenditori tra un orientamento interno e uno esterno, legato all’accresciuta concorrenza internazionale); i sindacati promuovono una prospettiva di integrazione degli stranieri; il movimento xenofobo sposta la sua attenzione verso il tema dei rifugiati e dell’integrazione degli stranieri94. I motivi del cambiamento risiedono nella differente congiuntura politica e sociale: oltre alla tendenza alla sedentarizzazione, nella composizione dei migranti presenti in Svizzera è da rimarcare l’aumento della diversità nazionale, linguistica e religiosa. A ciò si unisce la loro nuova importanza demografica. Ma, oltre ai fattori interni, il peso più rilevante va attribuito a cause esterne, che spingono la Svizzera a prendere importanti decisioni di politica migratoria. Il flusso si è internazionalizzato, fatto che obbliga le autorità a elaborare un nuovo compromesso tra l’imperativo economico e la paura dell’«impresa straniera». I fattori endogeni e le influenze esterne portano al passaggio verso una internazionalizzazione delle questioni migratorie, anche in Svizzera95.

93   H. Mahnig, Konturen eines Kompromisses? Die migrationspolitischen Positionen schweizerischer Parteien und Verbände im Wandel, SFM, Neuchâtel, 1996, pp. 3-4. 94   S. Cattacin, R. Fibbi, H. Mahnig, Bilan de la politique migratoire suisse et perspectives pour l’avenir, in H. Mahnig (ed.), Histoire de la politique de migration, cit., pp. 445-446. 95  Ibid.

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6. Cambia l’associazionismo in emigrazione Gli anni Ottanta non saranno contraddistinti solo dal progressivo cambio di passo in politica migratoria, dal riassetto economico o dalle nuove linee da adottare per fare fronte ai nuovi migranti. Saranno, e non poteva che essere così, anche gli anni di profondo mutamento delle strategie dell’associazionismo in emigrazione. Il momento di cesura può essere ritrovato in quanto era accaduto a cavallo tra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta. Mitenand ed ANAG sono le chiavi di lettura per comprendere appieno l’evoluzione di questo processo di cambiamento. In altre parole, la politica di rivendicazione è soggetta ad una trasformazione: non è più solo rivolta verso il Paese d’origine, ma progressivamente l’interlocutore principale diviene il Paese ospitante, in questo caso la Svizzera96. Fino agli anni Sessanta, la strategia politica degli immigrati era incentrata sul Paese di origine. Questa impostazione, di per sé restrittiva, indirizzava le élite di immigrati verso un’organizzazione della propria azione politica di gruppo, basata sulla struttura politica del Paese natio. Gli immigrati italiani in Svizzera formarono comitati di pressione, che in seguito si attivarono in Italia con l’ausilio dei partiti e dei sindacati. In un secondo tempo, il dibattito pubblico in Italia passò dal livello nazionale alla scena internazionale, trasformandosi in un dibattito italo-svizzero sui diritti degli immigrati. Il rinnovo dell’accordo bilaterale nel 1964 marcò una svolta, in quanto – lentamente, a volte fin troppo – si iniziavano a garantire maggiori diritti civili e sociali agli immigrati italiani in Svizzera. La Confederazione ebbe modo, attraverso la manodopera italiana, di sperimentare ed anticipare molte delle sue politiche migratorie. Ovvero, quanto inizialmente concesso con maggiore ritrosia agli italiani, facilitò l’acquisizione di nuovi diritti ai cittadini di altre nazionalità. Questa evoluzione riattivò la paura dell’inforestieramento – maturata già all’indomani del primo conflitto mondiale – e si concretizzò materialmente attraverso i movimenti e le azioni xeno-

96   H. Kriesi, New social movements in Western Europe a comparative analysis, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1995. A tal proposito si veda anche G. D’Amato, Gli immigrati del dopoguerra e la nascita della cittadinanza transnazionale, in T. Ricciardi (a cura di), Memorie di un esodo. L’emigrazione nell’Italia repubblicana, Centro di ricerca Guido Dorso, Avellino (in corso di stampa), p. 93.

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fobe. A differenza dei primi gruppi di mobilitazione italiana in Svizzera, che facevano riferimento alla struttura politica italiana, questa seconda ondata di mobilitazione si rivolgeva in maniera sempre più incalzante verso le autorità e le istituzioni elvetiche. Gli immigrati italiani unirono intenzionalmente le proprie organizzazioni, grazie ad alleanze con le organizzazioni di solidarietà, per influenzare la politica svizzera. Inoltre, l’opposizione delle associazioni imprenditoriali e sindacali svizzere ai referendum nazionalisti influì sulla decisione delle élite di immigrati di incentrare le loro iniziative di gruppo sulla realtà politica. Nel corso degli anni Ottanta, tali dirigenti delle associazioni cominciarono a poter contare sul crescente appoggio di gruppi di interesse riconosciuti all’interno della stessa società civile svizzera, contribuendo a un’inversione di rotta e passando da una politica di rivendicazione italiana ad una elvetica97. In linea generale, l’associazionismo in emigrazione può essere suddiviso in due fasi: dall’immediato secondo dopoguerra alla fine degli anni Settanta prevale una sorta di strategia dell’autoesclusione, nel senso che le attività vengono organizzate nella, e in funzione della, comunità migrante d’appartenenza, sia essa a carattere generale o di provenienza territoriale (comunale e, dopo il 1970, regionale) e in cui gli strumenti e le modalità attuative sono prevalentemente la rivendicazione di condizioni e diritti in materia occupazionale. A partire dagli anni Ottanta, invece, quando ci si mobilita contro le discriminazioni, il razzismo e per il riconoscimento dei diritti sociali e civili, la comunità di riferimento diventa transnazionale e si costruiscono momenti e iniziative di collaborazione con i movimenti, le strutture e le istituzioni territoriali, perseguendo progetti d’inclusione ed integrazione degli stranieri98. A partire dalla metà degli anni Ottanta, gli italiani in Svizzera intervennero come attori politici, diretti ed indiretti, su questioni quali il diritto al voto locale, il mantenimento della doppia cittadinanza e l’accesso facilitato alla

97   M. Cerutti, Un secolo di emigrazione italiana in Svizzera, cit., pp. 11-141; M. Cerutti, L’immigration italienne en Suisse dans le contexte de la Guerre froide, in J. Batou, M. Cerutti, C. Heimberg (ed.), Pour une histoire des gens sans histoire: ouvriers, exclues et rebelles en Suisse: 19e-20e siècles, Ed. d’en Bas, Lausanne, 1995, pp. 213-231. 98   S. Cattacin, D. Domenig, Inseln transnationaler Mobilität. Freiwilliges Engagement in Vereinen mobiler Menschen in der Schweiz, Seismo, Zürich, 2012, pp. 30-31.

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naturalizzazione. L’obiettivo finale di queste rivendicazioni era l’uguaglianza politica degli immigrati99. 7. FCLIS fra transnazionalismo e sfide nuove Nei paragrafi precedenti si è tracciata sinteticamente l’evoluzione delle politiche migratorie messe in atto dalla Svizzera sino alla fine degli anni Ottanta e, allo stesso tempo, tenendo presente il racconto di quattro decenni di storia dell’emigrazione italiana in Svizzera, sono state individuate, attraverso le Colonie Libere, le fasi e le evoluzioni dell’associazionismo in emigrazione. Nelle pagine che seguono ritroveremo, invece, in sintesi le questioni irrisolte, le sfide che la FCLIS dovrà affrontare nel decennio che porterà nel 1989 «la fine del Novecento»100. Intanto, simbolicamente, e probabilmente più che simbolicamente, il decennio degli anni Settanta per le Colonie Libere terminò nell’aprile del 1978. È mancato un uomo che vivrà a lungo in noi. Giovanni Medri, con l’esempio di tutta una vita dedicata all’attività sociale, al prossimo, alla elevazione della nostra comunità, al progresso sociale, alla lotta contro l’ingiustizia, costituisce un esempio illustre per chiunque si sia assunto una responsabilità di assolvere con coerenza un compito sociale101.

Con la scomparsa di Medri per l’organizzazione delle Colonie Libere si chiuse un’epoca. Gli anni Ottanta rappresentarono uno degli ultimi cambi generazionali all’interno delle strutture di vertice dell’associazione. La prima metà del decennio fu ancora caratterizzata dalla questione Mitenand, o meglio, le attività del coordinamento proseguirono ancora per qualche anno, anche se, dopo la cocente delusione del voto dell’aprile 1981, si aprì «una fase di riflessione»102. In seno alla comunità di lavoro lo smarrimento crebbe e apparve ne99   G. D’Amato, Vom Ausländer zum Bürger: derStreit um die politische Integration von Einwanderern in Deutschland, Frankreich und der Schweiz, Lit Verlag, Münster, 2001, p. 236. 100   E. Bettiza, 1989. La fine del Novecento, Mondadori, Milano, 2009. 101   Comunicazione FCLIS, Zurigo, 24 aprile 1978. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 102  Lettera d’invito per programmare un intervento comune al Consiglio federale (s.d., ma gennaio 1983). SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11.

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cessario «uno sforzo per arrivare a una presa di posizione da parte di tutti quelli che vogliono un cambiamento»103. Il comitato «Essere solidali» continuò a riunirsi e le sue parole chiave, oltre che gli obiettivi, restavano sempre le stesse: integrazione, ricongiungimenti familiari, stabilizzazione della manodopera straniera, anche se «la politica ufficiale è ben lontana dal perseguire obiettivi di stabilizzazione degli stranieri e di salvaguardia dei diritti della persona»104. Se per il coordinamento «Esseri solidali» gli scopi restavano gli stessi, tali restavano anche i problemi di parte dei lavoratori stranieri presenti in Svizzera: «Clandestini non sono tali per la Polizia che li scheda, li conosce, ma che interviene soltanto quando vi sono problemi con i padroni»105. Li abbiamo incrociati più volte – erano esuli, ex fascisti, profughi, lavoratori in vari luoghi e di diverse nazionalità, molti erano bambini – sempre clandestini, anche se adesso sono «diversi». Vivono nell’ombra della società del benessere, non hanno diritti e protezione sociale, vendono spesso sottoprezzo la loro forza lavorativa: sono i «clandestini» della produzione, provengono in massima parte dalle nazioni del bacino mediterraneo (Turchia inclusa), adesso qua e là compaiono anche gli africani106.

Il perché il fenomeno continuasse a persistere negli anni Ottanta è spiegato dal fatto che, rispetto ad altri Paesi europei, come Germania e Francia, in Svizzera la sanzione per il datore di lavoro che occupava clandestini era pressoché inconsistente. Questa scabrosa vicenda è dimostrata anche dal fatto che le attenzioni delle CLI vanno transnazionalizzandosi. Sempre sulla questione lavoro la FCLIS, insieme all’Atees, partecipò alla petizione promossa dall’Uss sulle 40 ore lavorative. L’adesione delle due associazioni testimoniava la chiara volontà di partecipazione degli emigrati alle scelte che riguardavano la società   Ibid.   Note del Coordinamento CLI sulla riunione di «Essere solidali» tenutasi a Berna il 9 aprile 1983, Losanna, 13 aprile 1983. SSZ, f. FCLIS, b. Mitenand - Ar 40.70.11. 105   Ibid. 106  AA.VV., Lavoro nero in Svizzera, in «Dossier Europa Emigrazione», n. 2, febbraio, Cserpe, Basilea, 1982, p. 6. 103 104

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svizzera. La riduzione dell’orario di lavoro non poteva non interessare la FCLIS, che aveva sempre individuato nel sindacato e nella sindacalizzazione l’unica forma di tutela e di difesa dei diritti dei lavoratori. Tra l’altro, il sindacato era l’unica organizzazione che, statutariamente, riconosceva pieni diritti di partecipazione agli stranieri. Senza dubbio, i tempi erano cambiati. Quelli che una volta erano i contrasti tra la CLI e l’Uss, progressivamente – e probabilmente anche grazie una percezione diversa nei confronti degli italiani, visti oramai come una presenza tradizionale – erano divenuti elementi di collaborazione. La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro risponde a tre fondamentali esigenze: ridurre la disoccupazione, favorendo in particolare i giovani e le donne che ne sono più colpiti; migliorare la qualità della vita fruendo di più tempo libero; combattere le ingiustizie che si verificano tramite la diversificazione della durata dell’orario di lavoro. [...] Sono esigenze la cui mancata soddisfazione contribuisce alle paure dei lavoratori svizzeri in relazione al posto di lavoro. Questi disagi sono stati utilizzati intensamente in modo strumentale – esasperandone gli aspetti concorrenziali, fomentando le divisioni tra lavoratori – come temi centrali delle campagne antistranieri degli anni ’70. [...] Inoltre questi sono stati i temi centrali anche nella campagna contro l’iniziativa popolare «Essere solidali» (bocciata nel 1981) e contro la proposta di una nuova legge sugli stranieri (bocciata nel 1982). Perciò l’iniziativa dell’Uss per le 40 ore rappresenta una risposta concreta nell’interesse di tutti i lavoratori, per ridurre gli effetti negativi della crisi economica e delle nuove tecnologie sui livelli occupazionali107.

Allo stesso tempo, però, continuavano le «classiche» attività della FCLIS, soprattutto per quanto riguarda la solidarietà alle popolazioni colpite da sciagure naturali in Italia. La Vostra CLI all’indomani del tragico terremoto del 23 novembre 1980, che colpì due Regioni tra le più disagiate del Mezzogiorno d’Italia (Campania e Basilicata), tenendo fede ai principi di solidarietà che sono alla base delle CLI, si fece promotrice di una raccolta di mezzi, anche di denaro. Detta somma, raccogliendo l’invito della Federazione, per fina-

107   Conferenza stampa della FCLIS e dell’Atees, «Petizione degli emigrati a sostegno dell’iniziativa dell’Unione Sindacale Svizzera per le 40 ore», Berna, 19 gennaio 1984. SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.70.3.

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lizzarla ad investimenti produttivi affinché creassero condizioni e nuovi posti di lavoro in quelle zone già duramente colpite108.

La solidarietà verso l’Italia e verso i territori in maggiori difficoltà resterà una costante della FCLIS. La vicenda del terremoto dell’Irpinia è oltretutto ancor più interessante perché, come già avvenuto qualche anno prima con quello del Friuli, le autorità di Berna concessero di derogare allo statuto degli stagionali. E ciò costituì una rarità. Il Dipartimento Federale di Giustizia e Polizia nella seduta di mercoledì ha deciso di concedere un permesso speciale ai lavoratori italiani provenienti dalla zona del terremoto [...] così molti di loro si potranno fare raggiungere dalle famiglie [...] trascorrendo l’inverno, per questioni umanitarie, in Svizzera109.

Il legame con l’Italia si terrà costante, come era giusto che fosse e, dalla metà degli anni Settanta in poi, si intensificheranno i rapporti diretti con le Regioni. Questo è il caso, ad esempio, dei contatti delle CLI con l’allora assessore ai Servizi sociali dell’Emilia Romagna. Caro compagno Bersani, mi riferisco ai colloqui intercorsi lo scorso maggio presso la Regione e in luglio a Rimini, in occasione del convegno sull’emigrazione, circa l’esame delle possibilità di organizzare a Zurigo un ciclo di incontri e/o seminari sul tema dell’inserimento sociale dei ragazzi handicappati. [...] Circa un mese fa abbiamo avuto una risposta negativa, verbale e non motivata. Da compagni socialisti svizzeri [...] abbiamo poi saputo che il «blocco» è venuto da parte delle forze moderate (maggioritarie) proprio per evitare di confrontarsi con le esperienze avanzate dell’Emilia Romagna in questo campo e con il timore di vedere poi messo in discussione il modello locale di «recupero» degli handicappati che, come sai, è basato su investimenti e tecniche eccezionali ma lascia se non addirittura favorisce lo stato di emarginazione110.

Il rapporto con la nuova struttura regionalizzata era stato il tema al centro del XXIII Congresso federale (1969). Allora si ritenne di 108   Lettera Federazione alle CLI, Zurigo, 11 maggio 1982. SSZ, f. FCLIS, b. Corrispondenza e propaganda - Ar 40.20.18. 109   «Tages Anzeiger», 27 novembre 1980. 110  Lettera della FCLIS a Pierluigi Bersani, Zurigo, 25 ottobre 1982. SSZ, f. FCLIS, b. Organizzazioni affini italiane - Ar 40.20.15.

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poter fare fronte al cambiamento che di lì a poco si sarebbe manifestato nel mondo dell’associazionismo italiano in Svizzera. Tuttavia le cose sono andate diversamente: le Colonie Libere hanno provato, a più riprese, ad inglobare o quanto meno ad indirizzare le decine e decine di associazioni a carattere territoriale, ma non sempre sono riuscite nell’intento. Un’ulteriore questione ancora aperta, quella della partecipazione elettorale anche degli emigrati, fu affrontata da un altro congresso importante, tenutosi a Winterthur nel 1977. I delegati del Centro di Contatto Svizzera-Immigrati hanno presentato una petizione (P 452) per il diritto di voto comunale e cantonale, corredata da 12.800 firme, di cui il 60% di svizzeri, ed indirizzata al Consiglio di Stato e alla Commissione delle petizioni del Gran Consiglio. Si chiede «una legislazione che riconosca il diritto di voto comunale e cantonale a tutti gli stranieri residenti da almeno cinque anni nella Confederazione e da almeno un anno nel cantone e l’istituzionalizzazione di forme di partecipazione [...] in tutte le strutture che trattino problemi riguardanti la collettività immigrata, oltre a misure che favoriscano la sua integrazione professionale, sociale e culturale». L’urgenza della misura è ancor più necessaria vista la presentazione del nuovo progetto di legge sugli stranieri. [...] Il 25 novembre, la Commissione ha deciso, con 7 voti contro 5, di depositare la petizione 452 presso l’Ufficio del Grande Consiglio, a titolo informativo111.

La faccenda rimarrà irrisolta. Sia durante gli anni Ottanta che nei decenni successivi, reiterate furono le richieste in tal senso rivolte ai singoli cantoni o comuni, nei confronti delle quali il più delle volte prevalse, come sempre, la paura dell’inforestieramento. Nonostante non siano mancati casi come quelli dei Cantoni dello Giura e di Neuchâtel che consentirono la partecipazione degli stranieri residenti alla vita politica alla pari dei cittadini svizzeri, l’unico tentativo riuscito per incrementare i diritti politici degli immigrati negli ultimi venti anni fu l’approvazione da parte del Parlamento svizzero della doppia cittadinanza nel 1990112.

111   «Rapport de la commission chargée d’examiner la pétition pour le droit de vote communal et cantonal à tous les étrangers. Genève, 18 décembre 1980». SSZ, f. FCLIS, b. Politica della FCLIS - Ar 40.70.3. 112  G. D’Amato, Gli immigrati del dopoguerra, in T. Ricciardi (a cura di), Memorie di un esodo, cit., p. 97.

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L’ultimo elemento – forse il più ostico, che meriterebbe un lavoro interamente dedicatogli – è l’integrazione scolastica e professionale delle seconde generazioni. Conseguenza diretta della sedentarizzazione, esso sarà motivo di interesse per la FCLIS, come per tutto il mondo dell’associazionismo in emigrazione, soprattutto quello di matrice cattolica, in particolare a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e fino almeno alla fine degli anni Novanta. In questo ambito è interessante segnalare le attività del «Centro informazioni scolastiche CLI» di Zurigo, chiaro esempio di collaborazione tra la FCLIS e il mondo imprenditoriale elvetico. Infatti, parte dei finanziamenti per l’aiuto alla scolarizzazione degli stranieri proveniva proprio dalle aziende svizzere e solo in parte dal ministero degli Esteri italiano. Il Centro si occupava di fornire un supporto diretto ed immediato alle famiglie, seguendo, per tutta la fase della loro crescita, bambini con difficoltà d’inserimento scolastico. Le attività principali furono l’assistenza psicologica, l’assistenza prolungata, il classico doposcuola, ma soprattutto la sensibilizzazione dei tanti italiani con figli piccoli che, ancora negli anni Ottanta, avevano grande timore di prendere contatto con le autorità113. Anche in questo caso i tempi erano cambiati, e con essi pure le CLI. La FCLIS ha sempre assicurato un supporto di natura politica, umana e sociale, economica. L’esempio del Centro dimostra come anche le strutture di questa associazione di «lavoratori» seppero darsi gli strumenti di sostegno più innovativi per l’epoca, ossia un supporto psicologico assistenziale ai piccoli ed ai loro genitori. 8. Riflessioni finali Alla fine di un lavoro di ricostruzione storica si traccia, di solito, un bilancio di ciò che si è detto e affrontato. Si cerca di dimostrare quanto il punto di partenza e la traiettoria di analisi prescelta siano stati in grado, attraverso l’utilizzo «attento ed intelligente» delle fonti, di dare rappresentazione di ciò che dovesse essere la storia delineata: in questo caso, quella delle Colonie Libere e degli Italiani in Svizzera. La ricerca è appunto partita da simili presupposti e, al di là di ogni limite interpretativo, quantitativo e qualitativo, è stata scelta la

  Centro Informazioni Scolastiche CLI. Jahersbericht 1982. Zurigo, febbraio 1983. SSZ, f. FCLIS, b. Federazione e scuola: Canton Zurigo - Ar 40.50.2. 113

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linea guida della narrazione di una storia, o meglio, dell’insieme di tante piccole e singole vicende, che hanno composto il ricco mosaico dell’emigrazione italiana. Affermare che l’emigrazione si sia diretta ovunque, potrebbe sembrare un luogo comune, ma è la realtà. Non c’è pezzo di mondo in cui non sia possibile trovare almeno un italiano, sia esso friulano, veneto o che faccia parte della tanta gente del Sud. Così è stato nelle Americhe, così in Francia, Belgio e Germania, così è stato nel caso della Svizzera. Non resterebbe adesso che tracciare un bilancio di quasi mezzo secolo di storia, fatto di azioni e strategie, di successi ed insuccessi, di quella che ha rappresentato un unicum all’interno della galassia dell’associazionismo nel mondo. Di questo pezzo di storia dell’emigrazione italiana in Svizzera, tante cose potevano essere esplicitate ed argomentate in forma e maniera diversa. Molte delle questioni avrebbero meritato più attenzione e maggiore profondità nell’analisi, e forse anche conclusioni diverse. Appunto, conclusioni. Come si possono tracciare le conclusioni di una storia ancora in corso? Perché tale è la vicenda della FCLIS, che tra mille difficoltà e con il peso e la straordinaria ricchezza della sua storia, si appresta a celebrare il suo 70° anniversario dalla fondazione. In e con questo lavoro si è cercato semplicemente di ripercorrere il racconto di mezzo secolo di emigrazione, anzi di associazionismo ed emigrazione. Storia, certamente unica, ma non tanto dissimile da tante altre. Particolare, ma non più delle altre. Sensazionale, forse sì, perché sensazionale e ricca è stata l’emigrazione italiana. Ricca, come per la FCLIS, di tante e diverse umanità che la fecero nascere, crescere e che l’hanno portata fino ai giorni nostri. Ed è proprio a costoro, i protagonisti di ieri e di oggi di un lungo cammino, che affidiamo le riflessioni finali, con lo scopo di tracciare un filo conduttore che ha caratterizzato e caratterizza la ragione per la quale un’associazione come le Colonie Libere Italiane esiste e ha senso di esistere, ancora. Ai protagonisti le conclusioni: Sono venuto in Svizzera il primo marzo 1913 [...] mi sono subito adoperato per aiuti assistenziali a favore dei nostri connazionali, organizzando feste a scopo benefico. [...] Il febbraio 1927, ho fondato la Società antifascista denominata (Società Mansarda) gli fu dato questo nomignolo, causa i tempi che correvano anche in Svizzera che, non era permesso costituire società antifasciste. Lo scopo di questa Società, era di fare propaganda antifascista e di organizzare feste, e tutto il ricavato è sempre andato a beneficio di enti assistenziali e a giornali antifascisti. ­­­­­296

Nel 1930, partecipai all’organizzazione della Scuola Libera Italiana, in contrapposizione alla scuola fascista di Zurigo. Ho fatto parte nel 1943, alla fondazione della Federazione Colonia Libere Italiane in Svizzera, e ho sempre dato la mia attività a questa istituzione come segretario e vice presidente della Colonia Libera di Zurigo, e come segretario della Federazione delle C.L.I. [...] Questo modestissimo lavoro che mi è stato affidato da dieci anni, lo continuo a fare, dato che lo scopo del nostro Statuto Federale è difendere gli interessi degli italiani in Svizzera. Giovanni Medri (1954) Le Colonie Libere Italiane che formano la FCLIS sono 114 e sono sparse in tutta la Svizzera. Organizzano circa 11.000 connazionali e di conseguenza formano la più grossa Associazione di emigranti italiani nel mondo. Hanno inoltre una caratteristica che nessun’altra associazione può vantare: sono sorte per Volontà di emigrati e non hanno nessun legame organizzativo con le Organizzazione residenti in Italia: appunto sono libere. [...] Nel dopoguerra, modificata la caratteristica dell’emigrazione, le Colonie Libere hanno posto l’accento della loro attività, sugli aspetti sociali dell’emigrazione.[...] Nessuna altra organizzazione di emigrati in Svizzera può vantare una varietà di legami e di collaborazione con i Sindacati di questo Paese e della considerazione che gode (anche se le posizioni diametralmente opposte) presso le autorità politiche e sociali svizzere. Dato il carattere della nostra Organizzazione (le Colonie non bisogna mai dimenticarlo sono associazioni e non Partiti), una delle attività privilegiate riguarda la gestione del tempo libero. [...] Mi accorgo di essere troppo lungo, ma oltre 50 anni di attività non si possono sintetizzare ulteriormente; è evidente che le cose che ti ho esposto non ne sono che una parte, ma mi auguro che possano essere servite a darti un quadro più preciso di cosa sono le Colonie Libere Italiane. Mi auguro inoltre che altre associazioni possano un giorno fare lo stesso. Eugenio Luppi (1983) Il costante flusso migratorio di uomini e donne è un fenomeno che ha sempre segnato la storia dell’umanità e che continuerà a segnarla profondamente, anche negli anni a venire. [...] La sfida non sta nel cercare di fermare le migrazioni, bensì nell’attuare politiche di aiuto allo sviluppo e d’integrazione efficaci che coinvolgano i diversi settori della società, siano essi politici, economici, sociali. Solo una politica d’integrazione basata ­­­­­297

sul rispetto reciproco e sulla partecipazione democratica sarà in grado di costruire una società migliore. Dalla nostra storia e dai nostri valori scaturisce l’esigenza di esprimerci, di agire contro tutte le politiche migratorie discriminanti. Con uno sguardo al passato e analizzando il presente la FCLIS, oggi come ieri, trasmette ad una più ampia platea il suo grande bagaglio storico, il suo immenso capitale di esperienze maturate negli anni difficili della grande emigrazione e nella fase successiva. A tal fine sostiene politiche d’integrazione innovative anche oltre i confini nazionali e si impegna perché vengano messe in atto. La FCLIS, un’associazione in costante movimento, da sempre ha formato e sensibilizzato le diverse generazioni a un più alto senso civico. Ieri come oggi, presente attivamente nella vita pubblica, rinnova il suo impegno per una maggiore attenzione della società verso le comunità più deboli. Claudio Micheloni (2010)

Ringraziamenti

Questo lavoro è frutto di molti anni di ricerca, durante i quali sono riuscito faticosamente a rileggere ed interpretare una questione che ha segnato indelebilmente la mia esistenza. Il primo grazie va a tutte le persone che, con la loro ricchezza di esperienze umane e di vita privata, hanno facilitato questo mio percorso. Ad Angelo Trento e Giuseppe Moricola per gli utili consigli e ad Emilio Franzina per l’attenzione datami. Ad Anita Ulrich, per avermi reso estremamente agevole la ricerca presso lo Schweizerisches Sozialarchiv di Zurigo. Un ringraziamento particolare va alla FCLIS: a Claudio Micheloni, per aver sposato da subito l’iniziativa, a Mauro Bistolfi e Giangi Cretti per gli utili consigli e ad Anna-Maria Cimini per la preziosa collaborazione. Infine, un grazie va alle persone che hanno reso possibile questa ricerca. Sandro Cattacin, nel quale ho avuto la fortuna di trovare un instancabile riferimento professionale, umano ed amicale e che mi ha aperto non solo le porte dell’Università di Ginevra, e Luigi Mascilli Migliorini, che in tutti questi anni ha cercato di trasmettermi il senso ed il valore della ricerca storica e senza il quale, con ogni probabilità, non avrei mai intrapreso questo cammino. Dedico questo libro ai sacrifici di Rosina e Salvatore.

Indici

Indice delle tabelle

Tab. 1 Espatri verso Paesi europei (1946-1948), p. 45 Tab. 2 Rimpatri per Paesi di provenienza (1946-1948), p. 46 Tab. 3 Visti censiti dalla polizia degli stranieri per tipologia e nazionalità (1° gennaio-30 giugno 1946), p. 46 Tab. 4 Ingressi italiani per comparto d’impiego e liste di chiamata (1° gennaio-18 agosto 1946), p. 47 Tab. 5 Decisioni cantonali e federali. Espulsioni richieste dalla Legazione italiana in Svizzera 1948, p. 76 Tab. 6 Espatri tra Europa e altri Paesi. Percentuale espatri verso l’Europa (1946-55/1956-64), p. 102 Tab. 7 Espatri verso Paesi europei (1946-1964), p. 103 Tab. 8 Rimpatri da Paesi europei (1946-1964), p. 105 Tab. 9 Rapporto espatri/stagionali in Svizzera (1960-1964), p. 106 Tab. 10 Espatri e rimpatri - Svizzera (1955-1964). Valori assoluti e % di rimpatri su espatri, p. 107 Tab. 11 Percentuale espatri verso la Svizzera rispetto a totale Europa e totale espatri (1946-1955/1956-1964), p. 108 Tab. 12 Occupati italiani con regolare permesso per comparto produttivo, p. 109 Tab. 13 Reddito pro capite dei principali Paesi europei e degli Stati Uniti (1945-1975). Valori dollaro USA, p. 112 Tab. 14 Reddito pro capite Italia e Svizzera (1946-1955/1956-1964). Rapporti differenziali, p. 113 Tab. 15 Divario Nord/Sud agli inizi degli anni Cinquanta. Dati anno 1952, p. 119 Tab. 16 Percentuale espatri da regioni meridionali e isole su totale (1946-1955/1956-1964), p. 125 Tab. 17 Espatri per regioni meridionali e isole (1946-1955/1956-1964), p. 125 Tab. 18 Espatri in alcune regioni settentrionali (1946-1955/1956-1964), p. 125 ­­­­­303

Tab. 19 Livello d’istruzione e formazione per aree di provenienza (19551964), p. 138 Tab. 20 Ammontare rimesse (1945-1960), p. 147 Tab. 21 Statistica degli italiani presenti in Svizzera (1964-1975), p. 186 Tab. 22 Lettere inviate a «Un’ora per voi» per aree di residenza degli italiani in Svizzera (1970-1975), p. 191 Tab. 23 Coefficiente incidenti mortali - edilizia e industria. Anni 1965, 1969, p. 203

Indice del volume

Premessa

vii

Elenco delle abbreviazioni

I. Alle origini della nascita delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (1927-1944)

xi

3

1. La genesi, p. 3 - 2. Dalla Società Mansarda alla costituzione della CLI di Zurigo, p. 12 - 3. 21 novembre 1943, nasce la Federazione delle Colonie, p. 20 - 4. La FCLIS supporto per i profughi e i rifugiati, p. 27

II. All’indomani del secondo conflitto mondiale (1945-1955) 37 1. Riorganizzazione delle Colonie e ripresa dei flussi migratori, p. 37 - 2. 1948, Italia e Svizzera si accordano sul reclutamento, p. 48 - 3. Le attività di accoglienza e di tutela dell’emigrazione di massa. Il ruolo dell’Assistenza italiana di Zurigo, p. 56 - 4. La non politicizzazione dell’immigrazione, p. 70 - 5. Epurazione e allontanamento dei fascisti, p. 71 - 6. Espulsioni per «attività comunista», p. 81 - 7. Spiati e schedati, p. 87 - 8. La FCLIS e la questione agricoltura, p. 89 - 9. Atto finale. Egidio Reale e la rinegoziazione impossibile, p. 97

III. Gente del Sud (1956-1964) 1. Evoluzione e crescita dei flussi all’inizio del miracolo economico, p. 101 - 2. Aspetti macroeconomici, p. 110 - 3. La grande ondata meridionale. Il dibattito, p. 118 - 4. La grande ondata meridionale. Le cifre, p. 124 - 5. Vecchia e nuova emigrazione. Similitudini e differenze, p. 129 - 6. La FCLIS negli anni del boom migratorio, p. 140 - 7. La lenta e difficile sindacalizzazione, p. 150 - 8. La lunga rinegoziazione. 1964: si chiude l’epoca delle porte aperte, p. 162

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101

IV. La FCLIS tra crisi economica, integrazione e xenofobia (1965-1975)

179

1. Presupposti e primi tentativi di arginare la «Überfremdung», p. 179 - 2. «Un’ora per voi», una sfida chiamata integrazione, p. 187 - 3. Mattmark: la Marcinelle dimenticata, p. 193 - 4. I referendum xenofobi e un accordo che non soddisfa, p. 204 5. La FCLIS sulla linea della resistenza alla xenofobia, p. 211 - 6. Il dopo Schwarzenbach. Un bilancio di 25 anni, p. 218 - 7. 1969: Olten e la nuova svolta, p. 226 - 8. Trent’anni all’insegna degli stagionali, p. 234 - 9. Bambini clandestini, p. 243

V. Crisi del fordismo: cambio di prospettive e trasformazioni socio-demografiche (1976-1989) 253 1. Da «valvola di sfogo» a «valvola di sicurezza», p. 253 - 2. FCLIS, nasce una nuova consapevolezza, p. 255 - 3. L’inizio di una nuova stagione «solidale», p. 262 - 4. «Mitenand» vs ANAG: compromesso mancato, p. 273 - 5. Questioni irrisolte e nuove sfide, p. 286 - 6. Cambia l’associazionismo in emigrazione, p. 288 - 7. FCLIS fra transnazionalismo e sfide nuove, p. 290 - 8. Riflessioni finali, p. 295

Ringraziamenti

299



303

Indice delle tabelle