Omero mediatico: aspetti della ricezione omerica nella civiltà contemporanea: atti delle giornate di studio, Ravenna, 18-19 gennaio 2006 9788886909053

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Omero mediatico: aspetti della ricezione omerica nella civiltà contemporanea: atti delle giornate di studio, Ravenna, 18-19 gennaio 2006
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Confrontarsi con l'antico

Collanadirettada Eleonora Cavalllnl Comitatodi redazione

AlessandroBozzato, Alessandrolannucd, EllsabettaZonl

Pubblicatacon Il patrociniodel

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·Dipartimmtodi Storiee Mmdi per bl Consm1aionedn Bmi Culturali- Ilavmna

OMERO MEDIATICO ASPETTI DELIA RICEZIONE OMERICA NELI.A CIVILTA CONTEMPORANEA Atti delle Giornate di Studio, Ravenna, 18-19 gennaio 2006 a cura di Eleonora Cavallini

~d.u.press·

NEMO • Confrontarsi con l'antico• N. 7

Antonio Aloni, Claudia Boni, Alessandro Bozzato, Carlo Brillante, Eleonora Cavallini,Giovanni Cerri, Alessandro Iannucci, Giorgio Ieranò, Francesco Lucrezi,Massimo Manca, Martin M. Winklcr, ElisabettaZoni

Omero mediatico

Aspettidellaricezwneomericanellacività contemportinea

Q 2007 d.u.prcss, Bologna

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distribuzione Nautilus srl via de' Castagnoli 12/a 40126 Bologna tel. 051 222649, fàx051 221050 [email protected] www.librerianautilus.com

ISBN 978-88-86909-05-3

INTRODUZIONE

In un affresco parietale del mégarondi Pilo (ascrivibile al Tardo Elladico IIIB), un uomo seduto in atteggiamento composto e vestito di una lunga veste bianca ed ocra suona la lira, rivolgendo lo sguardo verso un uccello in volo, accanto a due coppie di personaggi intenti al simposio. Evidente la sacralità del contesto aedica di cui ci sia giunta testimonianza. in cui si svolge la più antica performance Il cantore è 'divino', in quanto depositario di un'arte che gli deriva dai numi, come confermeranno secoli più tardi i versi dell'Odissea (8, 44 s.). L'esistenza di una poesia epica molto più antica rispetto all'età di 'Omero' è provata non solo dalle testimonianze iconografiche, ma anche da numerosi indizi presenti all'interno degli stessi poemi omerici. Nel nono libro dell'fliadt(186-191) un esecutore d'eccezione, Achille, «canta glorie di eroi>, di fronte allo sguardo attento di Patroclo. Musica e canto fanno da sempre parte dell'educazione degli aristoi,e il versatile Pelide (guerriero imbattibile, ma anche ospite garbato, medico sapiente, nonché abile organizzatore di gare atletiche) non si sottrae al ruolo di intrattenitore, naturalmente in un ambito rigorosamente privato. Nell'Odissea gli aedi diverranno professionisti, come Demodoco e Pernio, avvezzi a guadagnarsi di che vivere cantando gesta eroiche (ma anche soggetti più frivoli, come gli amori di Arese Afrodite) alle corti di Scheria e di Itaca. È nelle cosiddette DarleAgts, ali'ombra di edifici certo non imponenti come i palazzi micenei, ma comunque sedi di un'aristocrazia pragmatica e ambiziosa, che la poesia epica raccoglie l'eredità degli antichi aedi, sviluppando forme e struttura del canto, sia dal punto di vista linguistico che da quello metrico. Un plurisecolare processo evolutivo, costantemente affidato alla comunicazione orale, da cui fra l'altro deriva la tendenza del racconto mitico a frammentarsi in numerose varianti, di volta in volta legate alle tradizioni locali e ali'orizzonte di attese dcli' audience. I poemi omerici rappresentano la fàse culminante di questo lungo lavorio. È probabile che le prime aggregazioni di canti intorno ai due nuclei tematici dell"ira di Achille' e del 'ritorno di Od.isseo' risalgano ad età molto antica, ma la formulazione piùevoluta dell'fliadt-, come poema unitario dalla struttura organica e coerente 1 e dal solido impianto narratologico, è ascrivibile alla seconda Molto si ~ discusso(soprattutto da parte della aitica analitica) sullapresenza,nei poemi omerià, di incongruenze nonc:M di parti non funzionali o comunque non strettamente necessarie. Le incoerenze, tuttavia, sono piuttosto sporadiche e comunque non cosi appariscenti da compromettere la continuità e la connessione del racconto. Quanto alle sezioni non strettamente funzionali alla narrazione, ~ possibileche esse siano state mantenute in quanto testimonianze di un 1

Introduzione

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metà dell'ottavo secolo a.C.; di alcuni decenni posteriore la composizione dell'Odissea. La lunga stagione dell'epica greca volge ormai al termine: mentre la lirica celebrativa arcaica escogita modalità di narrazione sempre più agili e sintetiche (si pensi all'Encomioa Policratedi lbico), i poeti del cosiddetto Ciclo epico si limitano a •completare' opera di Omero attraverso farraginose e prolisse registrazioni degli eventi mitici non raccontati nell'Iliade e nell'Odissea. Senonché, abile strategia narrativa che aveva caratterizzato i due poemi, suscitando l'entusiasmo di Aristotele (Poetica 1451a 22, 14.5'9a37), cede il posto, nel Ciclo, ad una piatta enumerazione di fatti in successione cronologica, denunciando l'ormai inarrestabile tramonto del genere epico 2• Omero, dunque, come 'punto d'arrivo•, piuttosto che come punto di partenza, dell'epica ellenica. Che Omero fosse !"iniziatore• (protosheuretés)dell'arte poetica, era tutt'altro che scontato già per gli stessi Greci, i quali collocavano prima di lui Orfeo, Museo e perfino Esiodo (tesi sostenuta in particolare dallo storico Eforo, originario di Cuma e dunque incline a parteggiare per la maggiore antichità del conterraneo Esiodo )3.Erodoto considera Esiodo e Omero pressoché contemporanei, in quanto vissuti «quattrocento anni e non di più» prima di lui, ma nomina comunque per primo Esiodo (2, .5'3,2-3).Ancor oggi parte della critica propende per una maggiore arcaicità di Esiodo rispetto ad Omero, o quanto meno rispetto alla stesura conclusiva dei due poemi: si è osservato, in particolare, che mentre le battaglie omeriche presuppongono la conoscenza della falange oplitica (es. lliade 13, 12.5'ss., 16, 212 ss.), al contrario la guerra lelanzia - nel cui contesto si iscrive un momento fondamentale della carriera poetica di Esiodo 4- venne sicuramente combattuta con la cavalleria, arma aristocratica di uso piùantico, come già osservava Aristotele (Politica 1297b, .5'-28)e come confermano i reperti archeologici.

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antico patrimonio di miti e tradizioni che si intendeva salvaguardare o comunque sottrarre all'oblio (dr. G. Cerri, IntnNluzio,u a A. Ercolani, Omero. IntnNluzioneallo studio ddl'qriaa grmi arcaica,Roma 2006, 23 ss.). z O severo giudizio degli antichi, in particolare di Callimaco (.Epigr.28 Pi), sui poemi ciclici contnbul probabilmente a determinarne la perdita (ne resta solo un centinaio di versi, oltre ai riassunti di Proclo ). J Fr. 101Jacoby. Si veda inoltre Gcllio, Notti Attiche 3,11,5, ove al poeta latino Aedo è attribuita questa considerazione: cA1principio dell'lliade ... Omero chiama Achille figlio di Pclco, ma non dice chi fosse Pclco; lo avrebbe certo detto se non lo avesse trovato già chiarito in Esiodo•. 4 Cfr. Opere650 ss., in cui Esiodo afferma di essersi recato per mare a Calcidc per prendere parte alle gare funebri in onore di Anfidamantc, caduto nella guerra lclanzia (dr. anche Plutarco, Comlltfflto ad Esiodo,fr. 26 Dilbncr). Secondo il West (Hcsiod, Theogony,cd. M. L. W., Oxford 1986, 44 ss.), che sostiene la priorità di Esiodo rispetto ad Omero, proprio in quell'occasione il cantore di Ascra avrebbe recitato la Teogonia.Sulla cronologia della guerra lclanzia, collocabile approssimativamente nella seconda metà dell'ottavo secolo a.e., dr. D. Musti, Storiagrmi. Roma-Bari 1 1990 , 179 s. e n. ◄6, che rinvia a B. d'Agostino, cDialoghi di Archeologia» 1, 1967, 20 ss.

Omero mediatico

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Le diatribe sulla successione cronologica dei poeti greci non hanno comun-

que grande rilevanza in questa sede. Anche ammesso che Iliade e Odisseanon siano stati i più antichi componimenti poetici del mondo ellenico, rimane il ratto che l'epica omerica, nel sentire comune, è percepita come archetipo della cultura occidentale. Fin dall'antichità, Omero è stato oggetto di innumerevoli imitazioni da parte di poeti e letterati, nonché di trasposizioni visuali ad opera di artisti figurativi (si pensi alla pittura vascolare attica ed apula, o a quella pompeiana): ma- è il caso di sottolinearlo- è stato piùvolte anche sottoposto ad aspre censure (Eraclito lo definiva «astrologo» e lo giudicava «degno di essere espulso dagli agoni a frustate»i, ovvero smentito e contraddetto (Dione di Prosa, nel DiscorsoTroiano,negava addirittura la caduta di Troiat, mentre la materia dei suoi poemi è stata piùvolte sottoposta a riscritture, manipolazioni e alterazioni non di rado spregiudicate (un caso-limite doveva essere, in età ellenistico-romana, l'Antiomerodi Tolemeo Chenno) 7• D'altra parte, Omero stesso non si era ratto scrupolo di ·correggere' la tradizione mitica preesistente, o quanto meno di accoglierne le versioni più con&-

'Frr. 84 e 85 Diano= 42 e 105 DK. Fonte del fr. 85 è lo scolio a llilule18,251 (ove si dice che Bttore e Polidamante erano nati la medesima notte•; ma, come precisa il verso successivo, 4Cl'uno eccelleva con le parole, l'altro con l'asta»): il commentatore si chiede come mai i due amici, sebbene nati nella medesima notte, siano tanto diversi, e pertanto ipotizza la credenza, da parte di Omero, nell'importanza astrologica dell'ora. oltre che del giorno, di nascita. Pcnnane difficile comprendere che cosa intendesse effettivamente dire Braclito: cfr. in proposito il commento di G. Serra in Braclito, I.frammentie le tutifflDltianu, a cura di C. Diano e G. S., Milano 198f, 173 s. Sul fr. 84, in cui Omero condivide con Archiloco l'aspro giudizio di Braclito, si veda B. Degani, Notesullafomau&di Ardlilocoe lppo,t4ttein epoai ellenistica,cQUCC• 16, 1973, 79 ss. ' Peraltro con qualche possibilità di cogliere nel segno: gli scavi archeologici di Troia non hanno infatti evidenziato alcuna prova sicura della presenza di insediamenti achei nella città (sui risultati delle ricerche archeologiche nel sito di Troia si vedano gli «StudiaTroica-. in pubblicazione dal 1991). D racconto tradizionale della fine di Troia, con la nota vicenda del cavallo di legno, è, in effetti, talmente debole da far sospettare che la celebre spedizione non fosse stata. in realtà, pienamente coronata da successo. Interessante l'ipotesi, già avanzata da F. Schachenncyr (Posddon, 8cm 1950, 194), e recentemente riproposta da B. Cline (Posddon'sHorsu: Platt T«tonics and F.arStonns in tht die Late Bnmu Agt Atgtan and Eastmt Mtditerranean[with A. Nur], cjoumal of Archaeological Sàcncc• 27, 2002, 43-63, nonch~. con specifico riferimento a Troia, Tn,y as a 'Contated Pmpltny': A~ Ptrsp«tiYa on Cro.u-Odttaaland Cross-Disdplinarylnteraaions Conmning Bronu Agt AJl4f0lia,in «Hittitcs, Grecks and Thcir Ncighbors in Anàent Anatolia: An lntcmational Confcrence on Cross-Cultura} Interaction», Atlanta, 17-19 Scptcmbcr, Oxford 2007), secondo cui il cavallo di Troia sarebbe da considerarsi come metafora di un terremoto, essendo il cavallo animale sacro a Poseidone 1cuotitore della terra•(Bnosiduhon). 7 La disinvoltura con cui alcuni scrittori di età romana riplasmano la tradizione mitica si deve probabilmente, oltre che al gusto del tempo per il bizzarro, anche alla presenza, nella cultura ellenistica. di un diffuso scetticismo nei confronti del mito antico. Particolarmente spiccata la tendenza a 'secolarizzare' il mito, con eliminazione (o quanto meno riduzione a fonna razionale) degli eventi soprannaturali (cfr. in proposito P. Veyne, I Grm liannocroluto ai loromitif, trad. it., Bologna 2005, 131 ss.).

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centi alle proprie esigenze narrative. Nell'Iliade, il sacrificio di Ifigenia è ignorato o addirittura negato (cfr. 9, 145 e 287, dove Ifianassa è una delle tre figlie, tuttora vive e vegete, di Agamennone)': l'episodio, che evidentemente risale ad uno stadio molto antico del mito, in quanto riflette rituali barbari e sanguinari poi abbandonati dai Greci9, doveva apparire ad Omero troppo crudele e tale da gettare una luce sinistra sui condottieri della spedizione che costituiva oggetto del canto. È vero che nel poema sussiste il sacrificio dei dodici prigionieri troiani sulla pira di Patroclo (23, 175 ss.): ma in questo caso la ferocia del gesto è in parte motivata dal dolore cieco e incontenibile di Achille, cui tuttavia il poeta dè phresimédeto riserva un sia pur breve cenno di disapprovazione (23, 76 Jea1tà erga,«cose atroci aveva in animo•). Altrove, del resto, è proprio il Pelide, protagonista del poema, a trarre vantaggio da alcuni abili accorgimenti di Omero: ad esempio, episodio della permanenza di Achille a Sciro tra le figlie di Licomede, 10 persa l'originaria implicazione iniziatica , avrebbe rischiato di far &.reall'eroe la figura del disertore imboscato. Diversamente, in Omero Achille e Patroclo accettano spontaneamente l'invito di Odisseo e Nestore a partecipare alla guer11 ra (9, 782), e Sciro viene conquistata da Achille con le armi (9, 668) • Altre variazioni rispetto alla wlgata riguardano gli eroi delle generazioni precedenti: in Iliade 6, 200 ss. Bellerofonte non viene disarcionato da Pegaso durante il suo folle volo verso l'Olimpo, ma cade in una sorta di depressione 12; infine, Edipo figura caduto in guerra (23,679 dtdovpotosOidipodao)13•

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O tentativo, prospettato nel poema ciclico le Ciprie (dr. schol. Soph. EL 157 = Ciprie fr. 24 Bernabé), di risolvere la questione ipotizzando l'esistenza di quattro figlie di Agamennone, di cui due denominate rispettivamente Ifigenia e Ifianassa, evidentemente non regge (nonostante lo stesso Sofocle, Elmra 157). Più credibilmente, lo scolio a Diade 9, 145 afferma che «Laodice è una delle tre figlie di Agamennone, quella che i tragici chiamano Blettra, cosi come lfìanassa è chiamata Ifigenia da Euripide•. L'identità Ifianassa/lfìgcnia è confermata da Lucrezio, Dem,cm 114tU· ra l, 72 ss. Aididt quopaaoTriviai virginisarami Ipldan4SS4itrapantnt sanpint foedtI dvaoru Danaumdtl«ti, primavirorum. 'All'epoca di Omero il sacrificio umano era da tempo caduto in desuetudine: anche se non molto praticato in Ionia ancora nel VI secolo dissimile da esso è il raccapricciante rituale del phannaJro.1, a.e., come attestano i carmi di Ipponatte (frr. 26-30, nonché 95,4 e 107,49 Degani). Sulla storia e il significato del pliarmalro.rcome equivalente greco del ·caproespiatorio', si veda W. Burkert, Mito t rihUlltin Gm:ia. Stnatura t .rtoria. trad. it., Roma-Bari 1991, l 02 ss. 1 Cfr. P. Scarpi in Apollodoro, Miti grtd, a cura di P.S., traduzione di M.G. Ciani, Milano 1996, 595. 11 La scelta di Omero è approvata da Pausania, l, 22,6: cMi sembra che Omero abbia fatto bene a raccontare che Sciro fu espugnata da Achille, narrando la storia in modo molto diverso da quelli che dicono che Achille visse a Sciro insieme con le fanciulle-. u Di cui, non a caso, si interesserà Cesare Pavese nei Dialoghicon Ltuco (si veda il mio intervento in questo volume, pp. 157-182). 13 In Omero, il verbo douptindesigna il suono sordo di un cadavere che cade: cfr. Iliadt 4, S04; 13, 426, etc.

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Omero mediatico

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L•idca che l'antichità ci trasmette dcll•cpica omerica è dunque quella di un ..opcra aperta•, continuamente suscettibile di riletture, reinterpretazioni, tradestinato a perpetuarsi nei secoli fino sformazioni: una sorta di worlein progress, ad avvalersi dei nuovi, sofisticati media messi a disposizione dalla moderna civiltà tcmologica. Èappunto su questo 'Omero recentimmo·, sun·credità della tradizione omerica nei moderni media e nella società contemporanea, che si è incentrato il convegno Omeromediatico.Asptttt della nazione omerica nella civiltà contemporanea,tenutosi presso il Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali dell'Università di Bologna (sede di Ravenna), nei giorni 18 e 19 gennaio 2006. Un seminario destinato a proseguire l'esperimento già tentato con l'incontro I Grecial cinema, Dal peplum cl'autore•alla grafica computerizzata (Ravenna, 29-30 novembre 2004)14, ma con l'attenzione rivolta ad un più ampio raggio di indagine (letteratura contemporanea, arti visive, musica sperimentale, televisione, fumetti), rispetto a quella che comunque risulta essere, tra le varie forme di espressione artistica contemporanea, la piùaccattivante e multiforme, vale a dire il cinema. Studiosi di varia estrazione, con competenze diverse, si sono soffermati sulla ricezione letteraria, figurativa, cinematografica e musicale dell•epica omerica. Alla letteratura contemporanea, in particolare, sono dedicati ll canto di Ulisse: Omero,Dante, Primo Levi (F. Lucrezi); Omeroe Pascoli(G. Cerri); Cesare Pavesee la rlarca di Omeroperduto (B. Cavallini), L'Elena Egizia di Ho.Jfm4nsdtal: una rilmura del mito greco (C. Brillante) nonché Achille nella terra di mezzo:da Tolleim a Omero(A. lannucci, che in realtà fa ampio riferimento anche alla trilogia cinematografica di P. Jackson). Esplicitamente riferiti al cinema, o a film per la televisione, sono i contributi di M. M. Winkler (dedicato a Troy di W. Petersen e all'Odisseadi F. Rossi), G. leranò (sull ..epopea tragica• di S. Kubrick), nonché A. Aloni (sulla presenza di temi odissiaci in NJtOYO cinemaParadisodi G. Tornatorc). Escursioni nella musica lirica contemporanea e nella musicologia sono state proposte da A. Bozzato (sulle Odysseus•Women di Louis Andriesscn) e da E. Zoni (su Alfred 06blin), mentre sun·ane figurativa verte l'intervento di C. Boni (Figure.femminiliomericheneU•artecontemporanea).Né si è voluto escludere un tema 'fiivolo• ma intrigante come Omeroa fammi, su cui si è imperniata la relazione conclusiva di M. Manca. In aggiunta, abbiamo incluso nel seminario la 'prima• di uno spettacolo teatrale multimediale tratto dai DialoghiconLewcò di Cesare Pavese (regia di A. Bozzato su mio adattamento), che è già statoriproposto in numerose sedi in tutta Italia (Ferrara, Venezia, Mestre, Salò). La realizzazione del convegno è stata resa possibile grazie al sostegno e al patrocinio di numerosi Enti e Istituzioni. Primi fra tutti, il Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali (di cui ringrazio in modo 14

Gli Ani del Convegno sono stati pubblicatiper i tipi di d.u.prcss (Bologna2005).

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Introduzione

particolare il Direttore, Antonio Carile, per il suo determinante contributo alla concretizz.azione del progetto) nonché la Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell'Università di Bologna (sede di Ravenna), il cui Preside, Antonio Panaino, ha ancora una volta confermato la sua fiducia nelle iniziative del nostro gruppo di ricerca. Un apporto importante si deve altresi alla Fondazione Flaminia, alla Fondazione RavennAntica nonché all'Assessorato alla Cultura del Comune di Ravenna. In &se di preparazione del convegno ho potuto come sempre contare sulle eccellenti qualità organizzative di Alessandro lannucci, che ha anche curato la revisione e l'impaginazione dei presenti Atti. Nel corso delle giornate di studio, è stata preziosa la collaborazione, oltre che dello stesso lannucci, di Claudia Boni nonché della più giovane grecista della sede ravennate, Paola Bonetti. Un ringraziamento particolare va infine al gruppo «Krisis• di Venezia, che, sotto la direzione di Alessandro Bozzato, ha realizzato un allestimento scenico dei Dialoghicon Leucòsuperiore ad ogni aspettativa.

E.C.

IL CANTO DI ULISSE:OMBRO, DANTE, PRIMO LEVI* di FrancescoLucrczi

di prigionia, Primo Levi insiste nel mettere al primo posto - avanti alle stesse sevizie fisiche, alla fame, alla morte dilagante-, nella nera scala delle sofferenze patite, quella del disumanamento, dell'esperienza annichilente del sistematico smantellamento di ogni frammento di umanità. Gli 'Untermenschen' venivano fatti morire - cosa certo non nuova nella lunga storia delle umane sopraftàzioni -, ma non morivano, appunto, come uomini, ma come ombre, come larve informi, alle quali la morte non avrebbe levato più nulla, senza portare né un sollievo né un'ultima afflizione. Uno dei primi aspetti dell'imbestiamento prodotto dal campo di concentramento, descritto in Se questoè vn vomo, fu proprio la privazione della parola, della poSS1bilitàdi comunicare, di comprendersi. La parola, la forza della parola, infatti, fu sempre la principale arma di Primo Levi, la stella polare che segnò tutta la sua esistenza, tanto durante la prigionia quanto dopo. Una parola creata, voluta espressamente per onorare il dovere della testimonianza, se è vero, come confèssò lo stesso Levi, che, se non avesse vissuto l'esperienza di Auschwitz, non avrebbe mai scritto nulla 1• Questa facoltà, che è la funzione che, piùdi tutte le altre, distingue gli uomini dalle bestie, era negata ad Auschwitz, oscura Babele2 di mille indecifrabili idiomi, dove i detenuti parlavano lingue diverse e gli aguzzini urlavano i loro ordini in lingue mai prima udite, senza minimamente proccuparsi di renderli intellegibili, ma pretendendo tuttavia che incontrassero immediata obbcdienza 3, come fa un padrone crudele con un a1. In tutte le sue memorie

* O presente testo riproduce, ampliato e modificato, l'intervento da mc pronunciato in occasione del Convegno su Omtro mediatico.Alcune considerazioni sulla lettura del "'canto di Ulisse#in Se questoè tm 1IOfflO di Primo Levi, contenute in questo saggio, riprendono delle osservazioni formulate nel mio libretto L4 parol4 di Hurflinde. Moru di Primo Levi, Firenze 2005. Una riproduzione sinottica del XXVI Canto della Divina Commedia e dcll'XI capitolo del libro di Levi è stata da mc pubblicata, col corredo di quattro tavole (fra cui le due qui riprodotte), ispirate a tale vicenda, nel quaderno n Cantodi Uli.s.st, edizioni Poièin, Napoli, 199S. Ringrazio l'amica ProfessoressaBlconora Cavallini per avermi invitato non solo a dare un contnbuto di pensiero sul tema. ma anche a presentare il mio piccolo commento artistico, coniugando cosi due linguaggi che uso tenere, gcncralmcntc, separati. 1 Appmdice a Se questoè un llOfflO, Torino 1976, 246. Cfr. V.B. Giuntclla, Prutntazione di V. Dc Luca, Tra Giobbee i buchineri. Le radiciebraidttdtU'operadi PrimoLevi, Napoli 1991, XII. 2 Cfr. L. Antinucd, Shodh.Misteroddl'IIOfflOmisterodi Dio. Alcunetestimonianze,Napoli 2003, 81. 1 Se questoè un 1IOfflO dt. 4" s.; Autoritrattodi PrimoLevi (intervista di F. Camon), Nord-Bst2, Padova 1987, 30 s.

PrancescoLucrczi

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nirnale, al quale il comando va fatto capire con la paura indotta dal tono aggressivo della voce, dalla faccia feroce. «Hier ist kein warurm, «qui non c•è perché», si senti rispondere Levi, appena introdotto nel Lager, a una richiesta di chiarimento 4. A questa scomparsa del senso, a questo precipizio in un universo «in-intellegibile» e «in-scnsato.S, a questa «morte del logos ad Auschwitz» 6, Levi cercò di resistere, opponendo la perdurante fede nella parola, unica àncora per la naufragante umanità: «per me allora fu un'esperienza spaventosa. C'è chi non ha bisogno forse di comunicare, chi è capace di sopportare la solitudine e di cavarsela ugualmente. Io invece avevo bisogno di parlare, di trovare risposte che mi confermassero che non ero un oggetto»'. 2. Dopo la prigionia, Levi vide nella scrittura-testimonianza una «via di salvazionc»8, e imperniò tutta la sua vita su questa fiducia nella parola, nel logos. Se «il 'pianeta Shoah' aveva messo in crisi l'uomo in quanto aristotelico zoon logon echon,ovvero 'creatura della parola'/, «Levi non si arrese mai»10, arrivando addirittura, in un «rispetto religioso nei confronti del logos»11, a formulare un proprio personale •decalogo· di scrittore, fondato sui principi della chiarezza, della semplicità espositiva, della trasparenza del significato: «Tu scriverai conciso, chiaro, composto; eviterai le volute e le sovrastrutture; saprai dire di ogni tua parola perché hai usato quella e non un'altra; amerai ed imiterai quelli che se12 guono queste vie» • La limpidezza del verbo, la luminosità della comunicazione stava all'insensatezza, alla nera Babele dei campi come il giorno alla notte, per questo Levi la amò e la difese sempre, strenuamente, criticando ogni scrittura oscura, involuta, enigmatica. «La natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all'intelligenza»13,e anche l'esperienza estrema del Lager chiede di essere anaHzzata e interpretata: «Ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria. A que4

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Se qwsto è "" (àt. a n. 1) 30. Cfr. V. B. Giuntella, nnazismoe i L4ger,Roma 1979, 19S. ' P. Marche, P. Levi, Se qwsto è "" Vemone dram1114tial di PieralbertoMardie e Primo Levi, Torino 1966. Cfr. S. Nezri-Dufour, Primo Levi: 11namemoriaebraic4del N'1Vtffltto, Firenze 2002, 206. ' Nezri-Dufour àt. a n. S 7 Intervista di G. Boursier, in cl.a Gazzetta del Popolo• 17/11/1966.

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De Luca (àt. a n. 1) 80. ' L. De Angelis,Se qwsto t .scrivm, in A. Neigcr (cur.), Primo Levi:il mestieredi raccontArr,il dowre di riconlarr,Pesaro 1998, 88s. Cfr. Nezri-Dufour (àt. a n. S) 208. 10 Nezri-Dufour (àt. a n. S) 208. 11 Nczri-Dufour (àt. a n. S) 208. 11 Levi, DellD.scrivm OSCMro, in L'altrui mestiere, Torino 198S, 187. Cfr. Nezri-Dufour (cit. a n. 5) 208. u Levi, ll sistfflt4 pmodico, Torino 1994.

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sta domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da 14 questo particolare mondo di cui naniamo• • Il bisogno di capire, come è stato notato, animava Levi nella sua veste di scrittore allo stesso modo che nel suo mestiere di chimico.,: «ravvisareo creare una simmetria, - ebbe a dire - 'mettere qualcosa al posto giusto', è un• avventura mentale comune al poeta e allo sdenziato.1 6• La parola può sempre rendere un senso, ofliirc una spiegazione, la letteratura non deve esprimere «urli», «rantoli di moribondo• di fronte all'assurdità del mondo e alla disperazione dell'uomo 17• Alla crudeltà che «lascia muti» 18, Levi oppose la fiaccola della testimonianza, che, però, fu percepita «come un dovere, e insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati» 19• E fu certamente pericoloso, per Levi, affidare la propria anima al fragile filo della ricerca di senso, dell'interpretazione dell'inintelligibile, cercando di curare il ricordo di Auschwitz con il racconto di Auschwitz. Se «il silenzio prevale-, non trova scampo dal naufragio chi ha legato la propria vita alla navicella della parola. E, come scrisse Cesare Pavese, subito prima di togliersi la vita, nell'ultima riga del suo diario, il cadere della parola lascia soli dinanzi all'ultimo gesto: «Non parole. Un 20 gesto. Non scriverò più» • 3. Un capitolo di Se qusto è vn uomo, intitolato n canto di Ulisse2, esprime con dirompente forza espressiva il dramma della parola negata, e, insieme, il disperato eroismo dell'uomo che a tale negazione non si piega, ma cerca, nonostante tutto, di resistere. Levi racconta di quando gli viene concessa la fortunata opportunità di svolgere una mansione diversa, andando a raccogliere il rancio, a un chilometro di distanza: «era un lavoro abbastanza faticoso, però comportava una gradevole marcia di andata senza carico, e occasione sempre desiderabile di avvicinarsi alle cucine». Lo avrebbe accompagnato uno studente alsaziano, Jean, a cui era stata assegnata - come prigioniero più giovane della baracca - la carica di Piko1

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Se qwsroi un 1'0fflO (dt. a n. 1) 109. Cfr. I. Kajon, Auschwitz cometspmfflfflto cnu:iale.n 'un.so solfermtedi Dio"(Isaia49-J7) ntll'in~ di Andn! Nther td EmmanwlLmn4S, in B. Baccarini, L. Thorson, Il benet il maledopoAv.sdtwiiz. lmplicaziollitrico-~ perl'oggi,Atti del Simposio Internazionaledi Roma, 22-2S/9/1997, Milano 1998, 27S. "C. Cascs, introdMZione a P.Lcvi, Opcr4omnia, Torino 1987, voi. I, XX. Cfr. Dc Luca (dt. a n. 1) 8. 16 In B. Fcrrcro (cur.), PrimoLm t TullioRegge.DWogo,Torino 1987, 9 s. 17 Dello.rerivtrr OSCIITO(dt. a n. 12). 14

11

La rimr4 ddh radici, Torino 1981. Cfr. Dc Luca, (dt. a n. 1) 82. " Giuntclla, Prtstntaiont (dt. a n. l) XV. 20 Pavese,Il matim di VMrt, cd. Torino 196S, 378 (18 agosto 19S0). Sulla rilevanza di Omero nel ~rso letterario pavcsiano, si veda l'intervento di B. Cavallini in questo volume (pp. 1S7-182). 1

Si veda l'cd. dt. a n. 1, 138 a.

Francesco Lucrczi

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lo, vale a dire fattorino-scritturale, addetto alle pulizie, alle consegne degli attrezzi, alla lavatura delle gamelle, alla contabilità delle ore di lavoro del Kommando. Levi, nell'insperata 'ora d'aria', avverte dentro di sé l'irresistibile impulso di sfruttare questa possibilità per recuperare qualche sprazzo della perduta umanità, provando ancora a considerare se stesso, e il suo compagno, degli uomini. Ed eccolo, apparentemente senza alcun motivo razionale, ma in realtà in ubbidienza a un inderogabile impulso morale, sforzarsi di ricordare i versi del dantesco Canto di Ulisse22, e di tradurli in francese per Pikolo, cercando di renderne il senso oscuro e potente: ... D canto di Ulisse.Chissà come e perchémi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere,qucst' ora già non è più un'ora. Se Jcan è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto . . . . Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l'Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilo è la Ragione, Beatrice è la teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:

Lo maggior corno della fiamma antica Cominciò a crollarsi mormorando ... 4. Levi si sforza di recitare e di tradurre, ma non lo aiuta la sua modesta cono-

scenza del francese, né la memoria sbiadita: «povero Dante e povero francese!•. Eppure, proprio lo sforzo - eroico ed inutile - di recuperare, dalle profondità della memoria, i versi danteschi, e di renderne il senso complesso in una lingua scarsamente conosciuta, apre a Primo Levi dei sorprendenti, inediti orizzonti di senso. E la tragedia di Ulisse,rivissuta all'interno di quella di Auschwitz, si colora di nuovi, tenebrosi significati. «Ma misi me per l'alto mare aperto .. »: «'misi me' non è 'je me mis' - spiega Levi-, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare sé stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene que. ulso •23 . sto unp «Quale impulso? - si chiede Massimo Giuliani 24 - Quello di guardare dentro l'abisso del male che l'uomo fa all'uomo? ... 0 quello di fuggire questo sguardo, di fuggire la stessa occasione, gettandosi magari sul filo elettrificato, per trovarvi una morte istantanea e liberatrice?•. Nessuno può dare una risposta a tale u Infmw 26, 8S ss. u Sequestoè lffl 1"'fflD (cit. a n. l) 1'43. 24 M. Giuliani, AKSChwitznel pensieroebraico.Frammentidalle "teologiedell'Olocausto~Brescia 1998, 19'4.

Omero mediatico

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domanda. «Ci vollero anni - scrive lo psicanalista Bruno Bettelheim, sopravvissuto a Dachau, - perché mi sentissi di affrontare il penoso interrogativo se in qualche modo e in qualche pur minima misura le vittime del Reich, oltre ad essere costrette da circostanze al di fuori del loro controllo a subire gli eventi, non avessero anche permesso a parte di essi di accadere, per motivi molto probabilmente inconsci. Se la riposta è si, se qualcosa dentro di loro contribui a che le vittime trascurassero di proteggersi più efficacemente contro la loro stessa distruzione, allora anche questo va capito. Non perché questo possa chiarire ... l'accaduto, ma perché può aiutarci a essere meglio preparati, in futuro, a di25 fenderci da una possibile distruzione» • Anche Bettelheim, come Levi, alla fine, ha «alzato la mano contro di sé•• si è tolto la vita. Entrambi, avevano dedicato l'esistenza all'impossibile compito di interpretare, capire Auschwitz. Entrambi hanno ceduto, non hanno saputo difendersi da una nuova distruzione: o dalla vecchia, solo temporaneamente scansata.

5. Bcco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtu.te e conoscenza. Come se anch'io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dovesonoN. "Pikolo mi pregadi ripetere. Come ~ buono Pikolo, si ~ accorto che mi sta facendo del bene. O forse ~ qualcosa di più forse, nonostante la tradu7.ione scialba e il commento pedestree frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in spede; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle': ... Quando mi apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto che mai veduta non ne avevo alcuna.

zs Da Giuliani (dt. a n. 24) 194 s.

Francesco Lucrczi

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Ma dalla montagna del Purgatorio si alza, contro la barca di Ulisse,l'onda distruttrice:

Tre volte il~ girar con tutte l'acque, a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in gil\ com'altrui piacque ...

Levi racconta di avere avvertito dentro di sé l'imperativo, cassolutamente necessario e urgentei-'5, di capire e fare capire cosa significhi questo «come altrui piacque»: «prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai ph\ devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del cosi umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigante· sco che io stesso ho visto ora soltanto, nell'intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui ... •. 6. L'Ulisse di Omero è l'eroe coraggioso, che vede premiata la sua fede col ri-

torno a Itaca, a sé stesso e alle proprie radici. Una pienezza di senso, il possibile felice compimento dell'umano destino pervade la parabola omerica. In Dante, Ulisse diventa l'alter ego del poeta: come lui, proteso «al di là•, verso «virtute e conoscenzv. Ma in Dante, Ulisse si perde perché viaggia in orizzontale, chiuso nei confini terrestri. Dante è il nuovo Ulisse, che ha capito dov'è l'unica salvezza. Eppure, tutte e tre queste figure sono accomunate dalla scelta eroica del viaggio periglioso, della traversata catartica e rivelatrice. Partire per ritornare, partire per naufragare, partire per redimersi: in ogni caso, l'uomo è un navigante, un argonauta. La vita non ha senso se non si sciolgono le vele, se non si accetta la sfida che l"àl di là" pone. Solo il viaggio può svelare un orizzonte di senso nascosto. E solo la parola - quella di Omero come quella di Dante - può dare testimonianza dell'esperienza vissuta, rendendola esempio fecondo per i futuri navigatori. In Levi non c'è alcun eroismo, alcuna scelta virtuosa. Il viaggio, nei vagoni piombati, non è deciso dal viaggiatore, ma da una forza cieca, esterna a lui. E non conduce verso alcun 'al di là': non svela alcun senso. L'uomo non è una freccia scagliata verso il cielo, ma una creatura annichilita, umiliata, bandita dal mondo dei viventi. E la parola è destinata a restare negata, inascoltata, muta. Non a caso, l'ultimo gesto di Levi, l'll aprile 1987, è una resa al silenzio, alla non-parola. Primo Levi è l'ultimo Ulisse, l'anti-Ulisse risucchiato in un viaggio senza senso, nel nulla, verso il nulla.

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St questoè un uomo(cit. a n. l) 145.

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E la sua disperata ricerca di una spiegazione, nei versi della Commedia, resterà vana. Nessun collegamento, nessun dialogo è possibile tra il mondo della parola significante e quello dell"bniverso in-intellegibile e in-sensato·: della

inorte del logos': Levi chiude il suo capitolo con lo stesso verso con cui Dante chiude il suo canto. Ma la sua, è una chiusura definitiva: Infin che il mar fu sopra noi richiuso.

Prana.scoLucrai Universitàdi Salmto

Francesco Lucrczi

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Tavola 1 - Francesco Lucrczi La navt di Odisseo

Tavola 2, Francesco Lucrezi La navt di Oduseo 2

PASCOLIB L'ULTIMO VIAGGIODI ULISSE di Giovanni Cerri

lo non so esempio di cosa più moderna di questa poesia

RenatoSerra,1904

Il poemetto L'Kltimoviaggiousci in prima edizione con la prima edizione dei Poemi conviviali nel 1904. È.stato considerato troppo spesso un puro e semplice gioco letterario di tipo 'alessandrino': nel quale l'autore abbia voluto dimostrare ancora una volta la sua maestria nel riusare e incollare fra loro pezzi di poe· sia omerica e di altra poesia greca arcaica, inserendovi, secondo la sua maniera caratteristica, spunti e risoname della sua poesia più personale. Di conseguenza, è stato studiato molto a livello di individuazione delle fonti, anche verso per 1 verso , poco a livello di interpretazione, sia letterale sia letteraria. Sono invece convinto che, concepito all'inizio del Novecento, anticipi e contenga in nua importanti nuclei tematici di quella che era destinata ad essere la cultura del nuovo secolo; in particolare, che oflra un'immagine di Ulissead un tempo cosi unitaria e prismatica, da poter essere considerata in qualche modo l'archetipo 2 dell'uomo contemporaneo in quanto personaggio poetico e letterario • Nella presente comunicazione intendo perciò svolgere una lettura cursoria, che persegua i seguenti obiettivi: 1) chiarire la trama, cioè la concatenazione esatta dei fatti narrati, che può sfuggire a prima lettura, e spesso è sfuggita o è stata trascurata dalla critica; 2) focalizzare il senso poetico dei singoli episodi e del loro 1

Vedi ad es.: Bmil Zilliacus [H. Zielinski], GiovanniPascolia l'antiquitl. Btude de littaaturc com~e, HeJsingfors1909= Pascolit l'ttfttico,Studio di letteratura comparata, con aggiunte dei Prof. L. Vischi e A Gandiglio, Pratola Peligna 1912; G.P., Pobna Mnliviau, ttaduits et annotés par A Valentin, Paris 1925; L. Pietrobono, '.[.'ultimo viaggio• nei Poemi amviviali di Giovanni Pascoli', in AA. VV., Itali4 t Grtda. S4ggisu lt due civiltà t i loro Tapponiaura~o i secoli, Prefazione di B. Giuliano, Firenze 1939, pp. 367-394; B. Piras-Rilcg.G. Pascoli,L'ultimo viaggio,Introduzione, testo e commento, Gen~ve 1974; G.P., Potmi conviviali,a cura di G. Leonelli, Milano 1980; 1996; G.P., Opm, a cura di M. Peiugi. I, Milano-Napoli 1980; A Sole, 'D momento pascoliano dell'.odissca», La ,nmifOTa infinita, Atti del Convegno internazionale Palermo, 12· IS in AA. VV., Ulisstntl u:mpo. ottobre 2000, a cura di S. Nicosia, Venezia 2003, Sl7-S43. 2 G. Leonelli (cit. a n. 1) 12S, dice sinteticamente: c8popea moderna, che apparenta il nostro poeta, da precursore, ai grandi scrittori del Novecento europeo•.

Giovanni Cerri

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insieme; 3) toccare il problema delle fonti solo dove sia intimamente connesso con uno dei due problemi or ora enunciati, tralasciando quell' ana1isi minuta che già è stata fatta da altri e che, come è ovvio, potrebbe essere ulteriormente approfondita. Ma non si può fare a meno di iniziare il discorso proprio dall'individuazione di quei riferimenti intertestuali di base, che costituiscono il motore stesso dell'invtntio. Pascoli stesso non mancava di elencarli nella nota finale apposta ai Poemiconviviali: Mi sono ingegnato di metter d'accordo l'Od. XI 121-137 [dove Tiresia dice ad

Ulisseche, tornato finalmente ad Itaca, dovrà ripartirne temporaneamente per sacrificare a Posidone all'interno del continente] col mito narrato da Dante e dal Tcnnyson [nell'Ulysses, 1842]. Odissco sarebbe, secondo la mia finzione, partito per l'ultimo viaggio dopo che s'era adempito, salvo che per l'ultimo punto [àoè la morte che verrà "dalmare'], l'oracolo di Tircsia3.

L'elenco, per quanto autorevole, anzi autoriale, esige tuttavia di essere integrato con qualcosa che Pascoli ha tralasciato come ovvia e qualche altra cosa che, sfuggita alla sua riflessione cosciente, sembra con certezza averlo comunque influenzato. Cominciamo con la cosa piùovvia, l'Odissea,che non è per lui solo la fonte dei singoli mitemi trattati, ma soprattutto la fonte primaria di ispirazione del protagonista come carattere umano. Non è del tutto inutile notare che nel poema omerico la figura di Ulisse è ben lontana dall'esaurirsi nel tipo generico dell'eroe astuto e ingannatore, quale sembra suggerito dai ripetuti accenni alla sua abilità nel tessere 66Àot e dagli epiteti fissi 1r0Àvµl)TLS,1T0Àvµfixavos, ecc. Per lo più la poesia e la letteratura antica dei tempi successivi 1T0Àin-po1ros, proprio così lo hanno percepito. Ma la complessità della sua vicenda, nonché la trama dei suoi comportamenti e delle sue riflessioni, ci restituiscono un personaggio molto complesso, scavato, il cui baricentro è nell'attitudine conoscitiva, in direzione sia del mondo esterno, umano e naturale, sia del suo stesso io, che matura nel tempo, è cosciente della sua maturazione, esprime tale coscienza nel racconto autobiografico". L'attitudine conoscitiva dell'Ulisse omerico è rilevata da Cicerone, De.fin. 5, 18,49, il quale nota acutamente come la promessa sirenica di trasmettere un sapere totale è in realtà un artificio poetico per connotare la personalità del protagonista, che da quella promessa è attratto così irresistibilmente. La pagina

1 4

Le spiegazioni in parentesi quadra sono mie.

G. Cerri, Odissto,l'erot che n.arrast stesso,~ON• (filo!), 25, 2003, 9-28 = AA.W., Ulisstnel tnnpo.lA metafurainfinita, Atti dc1 Convegno internazionale Palermo, 12-15 ottobre 2000, a cura di S. Nicosia, Venezia 2003, 31-55.

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ciceroniana. a mio avviso una delle piùgcniali che la critica letteraria antica ci abbia lasciato, influi certamente su Dante 5, ma non poté non influire piùo meno coscientemente anche su Pascoli (come, prima di lui, su Tennyson}'. Sia Tennyson sia Pascoli, in sede autocritica. dettero molta importanza, come precedente dellaloro finzione, alla prof.èzia di Tiresia nella Nèbia. Certo in essa si parla di un ulteriore viaggio di Ulisse dopo il ritorno da Troia ad Itaca. Ma episodio è strutturalmente diverso. È una fatica penosa e umile: chilometri e chilometri a piedi, con il remo in spalla. per trovare una comunità di contadini che non hanno nozione del mare; è sgradita ad Ulisse, che deve compierla per placare l'ira vendicativa di Posidone con uno strano rito, istitutivo di un culto; soprattutto, è seguita dal ritorno definitivo ad Itaca (e da un sospiro di sollievo), non si configura in nessun modo come spedizione ardimentosa verso l'ignoto. È stato di recente supposto con acume che l'idea dell'ultimo viaggio, intrapreso da un Ulisse insofferente della r01'tinestanziale e casalinga, sia venuta invece a Tennyson e Pascoli da un altro passo dell'Odissea(14, 243-286). È uno dei famosi racconti falsidi Ulisse, che narra ad Eumeo di essere un cretese, il quale, tornato in patria dalla Guerra di Troia, vi era restato solo un mese a godersi i figli. la moglie e gli averi, ma aveva poi preferito riprendere il mare per recarsi nel lontano Egitto. Il passo, proprio perché contenuto in un racconto falso e privo di seguito nel poema. sfugge facilmente dalla memoria del lettore; che però , inconsciamente, è portato ad associare una volta per tutte alla figura dell'eroe questo tratto di insoddisfazione irrequieta nei confronti della vita normale, allietata dai soli affetti familiari 7• Il "folle volo" dell'Ulisse dantesco è senza dubbio presente ed efficacissimo sia in Tennyson sia in Pascoli, che correttamente dunque lo denunciarono entrambi come propria fonte. Si deve tuttavia rilevare che, a parte le differenze di Stimmvn.gfra i tre personaggi poetici, tale volo è spiccato dall'Ulisse di Dante non da Itaca, dopo il ritorno, ma dall'isola di Circe, prima e a preferenza del ritorno in patria. Pascoli amò talmente l'Ulysse.sdi Tennyson da tradurlo in esametri italiani di straordinario fascino. Ma non bisogna mai dimenticare che la sua forza motrice è il desiderio di avventura, una sorta di vitalismo irrefrenabile, più che non

r

' G. Cerri, Dcuuee Ulisse:un'uegai medioewJle delle rutimonianu allddie, in AA VV., L'antico e la suae!Tdità,Atti del Colloquio internazionale di studi in onore di Antonio Garzya. Napoli, 20-21 settembre 2002, a cura di U. Criscuolo, Napoli 2004, 87-134, soprattutto 105-107; 115 s. ' Il passo ciceroniano, con la traduzione latina ivi contenuta dei versi omerici sul canto delle Sirene, era stato a suo tempo inserito da Pascoli nella sua antologia intitolata Epos,Livorno 1897 (p. 71), sulla quale avrò occasione di tornare piùoltrc. L'influenza concreta di Cicerone su Pascoli risulta evidente soprattutto nella focaJiZ'Zazione del canto delle Sirene come canto di verità co-

smica. 7

S. Dentice di Accadia, n "nostosrinnqato'! unafonte inconscia.Osserwuionisu Odi.ssuXIV 243-286, .AION»(filoJ) 26, 2004, 9-21.

GiovanniCeni

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l'ansia conoscitiva, pur presente e operante nel poema. Basti l'incipit nella versione pascoliana: Re neghittoso alla vampa del mio focolare tranquillo star, con antica consorte, tra sterili rocce, non giova ...

Fatte queste premesse, passiamo alla lettura diretta del poemetto in endecasillabi sciolti', suddiviso in ventiquattro episodi o canti.

Ulisse è tornato finalmente ad Itaca, e ha appeso il timone della nave sopra il caminetto della sua casa, perché non vuole, o crede di non volere piùriprendere il mare. Ma questo ritorno non è il primo, non è quello dal lungo peregrinare dopo la presa di Troia, quello conclusosi con il riaccompagno da parte dei Feaci e con la strage dei Pretendenti. Bensi il secondo, quello dal viaggio a lui profetizzato, anzi ingiunto da Tiresia, durante l'evocazione dei morti, narrata nel libro undicesimo dell'Odissea.Ha raggiunto, con una marcia estenuante, il luogo fatidico dove gli uomini non conoscono il mare, ha dedicato il remo a Posidone, per placarne una volta per tutte l'ira, è rivenuto alla costa del continente, si è reimbarcato per la sua isola, l'ha raggiunta senza problemi, qui intende invecchiare e morire (Canti 1-11,'La pala' e 'L'ala'). Nel ricordarsi dell'episodio di Tiresia, Pascoli mostra che, da una parte, il suo racconto è in qualche modo ad esso collegato e da esso ispirato, ma che, d'altra parte, se ne distingue nettamente, in quanto viaggio successivo, da lui stesso inventato, secondo un'intenzione e una logica diversa. Il canto delle gru migratrici annuncia l'inverno. Per questo è vissuto da Ulisse come insidioso: sembra quasi ricondurre il suo atto di appendere il timone al focolare nell'alveo stagionale e periodico. Sembra dire: 'è naturale che ora tu faccia cosi, perché è ora di lasciare stare la navigazione e di pensare all'aratura; ma a primavera .. :. Quasi gli reinsinua nell'animo l'ansia del mare (Canto III, 'Le gru nocchiere', vv. 27-29; Canto IV, 'Le gru guerriere', vv. 18-25):

1

Questo era canto che rodeva il cuore del timoniere, che volgea la bami verso un approdo, e tedio avea dell'acqua ...

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Sessanta giorni dopo volto il sole, quando ritorni il condunor del Carro,

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Solo occasionalmente si incontrano coppie di versi a rima baciata, per lo più terminanti proprio con la stessa parola.

Omero mediatico allor dolce è la brezza.il mare è calmo; brilla Boote a sera, e sul mattino tornata già, la rondine cinguetta che il mare è calmo e che dolce è la brezza. La brezza chiama a sé la vela, il mare chiama ~ sé il remo ...

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È un canto di Sirene che ammaliano irresistibili, sia quello delle gru adesso, sia quello delle rondini tra poco, quando certamente tornerà il bel tempo. Ma Ulissegli resiste per ben nove anni interi (Canto V, ·nremo confitto', v. 5 s.):

Si la vccch.iaiagli ammolliale membra a poco a poco ... Dentro, si strugge, e rimpiange invano il loto, il fiore della dimenticanza, con cui si era iniziato il suo antico viaggio nell'ignoto, e che allora, ancora pieno di energie e di futuro, aveva rifiutato di assaggiare. Siede davanti al focolare accanto alla vecchia moglie; mentre lei lavora col fuso, lui guarda la fiamma; il gioco delle faville risucchiate nel camino si trasforma ai suoi occhi in immagini di cielo, di stelle e di mare; come in un flash bacie,si rivede al comando della nave (Canto VI, ·nfuso al fuoco'). Cosi per nove lunghi anni inoperosi; un'alba di primavera del decimo anno, il grido delle rondini lo sveglia e lo ispira; la nostalgia ha il sopravvento: s'alza dal letto di nascosto alla moglie che dorme profondamente, stacca il timone appeso al caminetto, scende alla marina (Canto VIII, 'Le rondini'). Pin qui sembrerebbe che Pascoli abbia seguito le orme di Tennyson: il tran tran della vita quotidiana, nonostante la sua età avanzata, non può bastare al grande Ulisse; in lui non può non riemergere l'eroe dell'avventura sul mare e dell'esplorazione; di qui, l'ultimo viaggio. Cosi continua a sembrare ancora nell'episodio dell'incontro con Pernio sulla spiaggia; ma è proprio il dialogo fra i due che prepara sapientemente, senza che il lettore se ne avveda a prima lettura, un quadro psicologico ben diverso. Pernio per molti anni aveva cantato ad Ulisse le avventure del suo ritorno, trasformando in epos i racconti di lui. Secondo Omero, Od. 22, 344-353, glie lo aveva promesso il giorno stesso dello sterminio dei Pretendenti, per aver salva la vita, nonostante fosse stato il loro aedo di corte. Alludendovi discretamente, Pascoli offre qui in realtà un'interpretazione penetrante del passo omerico, il cui significato esatto è invece continuato a sfuggire ai commentatori, fin quando non l'ha chiarito, con tutta la documentazione filologica necessaria, M. Pizzocaro alla fine del XX secolo 9• Ulisse in un primo tempo aveva gradito i canti

'n cantoffllOW

di Fendo.Leoriginidell'eposstorico,«Quaderni Urbinati» 90, 1999, 7-33.

Giovanni Cerri

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di Fcmio, poi, ad un certo punto, si era stancato di quella consuetudine e vi aveva posto termine. Dice Fcmio (Canto X, 'La conchiglia', vv. 17-19): A te cantavo, e tu bevendo il vino cheto ascoltavi. B poi t'incrcbbe il detto minor del fatto ...

Femio aveva avuto dunque l'impressione che Ulissesi fosse stancato delle sue recite in quanto le avesse trovate fiacche rispetto alla vivezza dei propri ricordi. Di conseguenza, sentendosi frustrato sul piano professionale, aveva gettato alle ortiche la cetra, che era stata raccolta da un misterioso marinaio, cun vecchio dagli occhi rossi». Nei commentari da mc consultati, non ho trovato spiegazione plausibile di questo spunto narrativo: si tratta forse di Omero, che ha gli occhi rossi perché sta per diventare cieco e per trasformarsi dunque da marinaio in aedo? Potrebbe cssere 10• Comunque Fcmio, per parte sua, cerca ormai di sopperire alla mancanza del proprio canto di avventure navali, ascoltando lo strepito del mare nel cavo di una conchiglia accostata all'orecchio. Ma Ulissegli risponde (Canto X, 'La conchiglia', vv. 25-30): Tcrpiadc Pernio, e mc vecchiezza offese e te: ché tolse ad ambedue piacere àò che già piacque. Ma non mai che nuova non mi paresse la canzon più nuova di Fcmio, o Fcmio; più nuova e più bella: m'erano vecchie d'Odissco le gesta.

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Non è vero che Ulissetrovasse sfocata rispetto al ricordo la poesia di Fcmio, che anzi gli appariva sempre "nuova': cioè sorprendente e stupefacente; la verità è che il suo stesso ricordo era ormai "vecchio': Nel senso che ormai la storia,

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Al Canto XI, però, tutti i marinai di Ulisse hanno egli occhi rossi.., evidentemente initati dall'esposizione prolungata alla salsedine: la fantasia poetica potrebbe essere che uno di loro, il futuro Omero, ne abbia avuto la vista compromessa in maniera irreparabile. Per il cvecchio dagli occhi rossi• che raccolse la cetra gettata via da Fcmio, vedi anche Canto Xlii. Tale immaginazione forse deriva da una serie di spunti còlti nella Vira di Omno pscudo-erodotca: Omero, non ancora cieco, impara l'arte poetica da Pernio a Smirne; soggiornando ad Itaca, già malato agli occhi, apprende dalla bocca della gente comune le storie di Ulisse; divenuto cieco, a Cuma fu soprannominato .Omero•, che nclla parlata locale significava appunto 'cieco" (il suo vero nome era stato fino allora Melesigene). Mi rendo conto che è solo un'ipotesi, ma mi sembra non indegna di essere presa in considerazione. Per parte sua, M. Perugi (cit. a n. l) sostiene che il cvecchio dagli occhi rossi» sia Caronte (?!). Ciò nell'ambito di un'interpretazione allegorica, dottissima e intelligentissima, ben più macchinosa però di quella che fu applicata a Dante da Pascoli stesso, il quale cosi viene a subire una pena del "contrapasso"in qualche modo meritata.

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pensatae ripensata, ascoltata e riascoltata, gli era venuta a sazietà? Non è cosi (Canto X, 'La conchiglia', vv. 31-39): Sonno ~ la vita quando~ già vissuta: sonno; eh~ dò che non ~ tutto ~ nulla. Io, desto alfine nella patria terra, ero com'uomo che nella novella alba sognò, né sa qual sogno, e pensa che molto ~ dolce a ripensar qual era. Or io mi voglio rituffar nel sonno, s'io trovi in fondo dell'oblio quel sogno. Tu verrai meco ...

3S

ll dettato non è di immediata comprensione, ma, a rileggerlo attentamente, si capisce bene. ll ricordo del proprio passato, che è il nostro io più vero, è fatalmente fioco rispetto alla vivezza dell'esperienza attuale, e si sbiadisce sempre più col tempo, diviene a poco a poco evanescente come un sogno. Dunque, la vita già vismta è un sonno, Ulissevuole risvegliarsi. Allo scopo, non basta certo il canto dell'aedo; c'è una sola via possibile, riviverla. Per questo si vuole rimettere in mare. Non si tratta di ansia del nuovo, di tornare ali' avventura e alla scoperta, come in Dante e Tennyson. Si tratta invece di rivisitare i luoghi già 11 visti, di rivivere il già vismto, per recuperare se stcssi • ll seguito del poemetto conferma questa chiave di lettura, perché Ulissein effetti si limiterà a ripercorrere le tappe del suo vecchio viaggio, per riprovare le stesse sensazioni di allora. Gli riuscirà? Questo lo vedremo. Intanto notiamo che abbiamo a che fare con una Recherchedv temps pmlv. Ma diversamente che in Proust, la via della letteratura (dell'epos, in termini arcaici) è rifiutata come inefficace; resta solo la strada improbabile di rifare il già fatto, per riprovarne le stesse emozioni. Non slancio euristico, ma ripiegamento autoreferenziale. Volo anche questo "folle", ma da uomo del Novecento. Thomas Mann, in Tonio Kroger,impose una scelta di vita: vivere o scrivere la vita; l'Ulissedi Pascoli addita una terza via: né vivere né scrivere ovvero cantare, ma tentare di rivivere. Una speranzaoltre ogni speranza.

11

La spccifiàtà cli questa angolazione è stata ben puntualizzata da V. Citti, Odweo, rnmifora dell'Brm,p4,«Logo• 3, 4, 2003, 33-S0, 42 s.: «Alviaggio avventuroso nell'ignoto, in cui Ulisse e i suoi compagni rischiano se stessi per andare incontro a nuove esperienze, si sostituisce un viaggio che ripercorre il noto: l'eroe è ripreso dalla nostalgia del mare e delle sue avventure giovanili, e riprende il mare con i suoi compagni cliun tempo per rivisitare i luoghi della loro odissea-. Cti-. anche C. Chiummo, 'D silenzio delle Sirene', in AA.VV., I poemiMMViali di GiowinniPascoli,Atti del Convegno cli studi cliSan Mauro Pascoli e Barga, 26-29 settembre 1996, a cura cli M. Pazza. glia, Firenze 1997,pp. 71-83.

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Quando giunge alla nave, si accorge che la stessa speranza è condivisa da tutti i suoi uomini: i compagni delle vecchie avventure stanno li ad aspettarlo, pronti a partire, come avevano fatto sempre per dieci anni, ogni mattina di primavera; non hanno mai dubitato che, prima o poi, lui si decidesse ad uscire dal letargo (Canto XI, 'La nave in secco'). Sotto la suggestione di Dante, Pascoli ripete la deviazione dalla trama omerica già operata da Tennyson: risuscita la nave e i compagni, che erano invece stati inghiottiti dal mare, al largo dell'Isola del Sole, molto prima del ritorno ad Itaca 12 • Finalmente la nave approda all'isola di Circe. Seguendo la linea di canto svolta sin qui, dovremmo aspettarci che Ulisseritrovi tutto com'era, ma che magari lo trovi deludente, banale, privo del fascino cui era associato nella memoria dei tempi giovanili. Pascoli ci riserva invece una sorpresa; una sorpresa che sposta di molto il fuoco della sua invenzione, e dà un brivido nella schiena a chi legge. L'isola è di certo quella; l'eroe riconosce bene piùdi un particolare topografico: il posto in cui aveva abbattuto il cervo, il posto in cui aveva incontrato Hermes. Ma la casa di Circe è sparita, come è sparita Circe, come sono spariti i leoni domestici nei quali aveva trasformato i visitatori precedenti. Non c'è più nulla di quanto Ulissericordava (Canti XV-XVII,'La procella'; 'L'isola Eea'; 'L'amore'). La verità non è piùdunque che il suo ricordo era sbiadito rispetto all'attualità dell'esperienza vissuta; bensi che il ricordo non corrisponde alla realtà. Si era inventato tutto? Aveva mentito spudoratamente a se stesso, prima che ad Alcinoo, alla moglie e a Femio? Femio aveva trasformato in epos millanterie senza fondamento? Sembra proprio cosi. Ma che senso ha tutto questo? La nostra mente di lettori vacilla. La chiave della fantasmagoria si trova nelle parole con le quali Pascoli aveva aperto nel 1897 l'introduzione alla sua splendida antologia scolastica dell'epica latina 13: L'Epos è la poesia degli anni 'migliori' (Aen. VI 649: Magnanimi heroes, nati melioribwannis). E quali questi anni? Gli anni passati e lontani. Noi diamo al tempo biasimo e mala voce, perché scolora la virtù umana, per usare le parole di Servio (Serv. al verso di sopra: plerumque enim hominum vimu decolorat1trtemporisinfelicitate):a tono; poiché esso invece colora ogni cosa d'una patina inimitabile che rende tutto bello, venerabile, augusto. Non le cose presenti scolora, ma colora le passate, si che quelle al paragone di queste paiono pallide e smorte. Nel brevissimo giro della nostra vita, ognun di noi ha il suo epos,e volentieri dice, o direbbe, quando la dea che dà il bene e il male gli fosse presente:

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Pascoli sa bene di deviare: al Canto XVII, rievocherà disinvoltamente la maledizione di Polifemo. 13 Epos,Livorno 1897, XV. Gli accapo sono miei.

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'L'uomo narrami, Musa': l'uomo che fu e non è in noi; l'uomo che molto errò, che molto 10ffersc&v KaTà 8uµ.6v, che era bello, grandeforte, destro, simile a un dio. Bra veramente? a noi pare che fosse, e per la poesia basta. B quando C()minda a parere? dopo quali traversie e disinganni? Ma lasciamo l'uomo per gli uomini. lo credo che tutti i popoli in tutti i tempi trovino nel passato della loro storia dò che a mano a mano le singole persone nel passato della loro vita: qualche cosa di bello, o di meglio, che allora però non appariva quello che ora. Come i popoli si costituiscono un passato leggendario, ingigantito eroicamente, sul quale fondano la propria identità presente, cosi gli individui singoli reinventano la propria giovinezza, costruendosi un passato che in realtà, cosi come lo ricordano, non è mai esistito. Ballora evidente che l'Ulisse di Pascoli incarna ed esprime appunto questa vicenda, che nel suo caso assomma insieme entrambe le dimensioni, sia quella collettiva sia quella personale, in quanto il passato di Ulissealtro non è che il suo mito panellenico. Non è perciò meraviglia che già alla prima tappa, all'isola di Circe, Femio trovi una morte improvvisa nel sonno, perché l'epos non può che morire, se messo di fronte brutalmente all'aridità dei fatti. Ulissene trova il cadavere tra le foglie che gli avevano fatto da giaciglio; la sua cetra è appesa ad un ramo della quercia sovrastante (Canto XVII, 'L'amore', vv. 43-52}: Ma era in alto, a un ramo della quercia, la cetra arguta,ove l'avca sospesa Pemio, morendo, a che l'Eroe chiamasse

brillando al sole o tintinnando al vento: al vento che scotca gli alberi, al vento che portava il singulto ermo del mare. B l'Eroe pianse, e s'avviò notturno alla sua nave, abbandonando mono il dolce Aedo, sopra cui moveva le foglie secche e l'aurea cetra il vento.

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so

Se ne ricorderà Quasimodo, quando dirà che gli orrori della seconda guerra mondiale avevano fatto tacere la poesia: Alle fronde dei salici,per voto, Anche le nostre cetre erano appese, oscillavanolievi al triste vento.

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Ma, per questa via, la figura di Ulissetende a divenire quella dell'uomo qualunque, con le sue pene, le sue povere illusioni, le frustrazioni umilianti. Scorgiamo in nua quella rtduaio ad minim1tmquotidian1tmche sarà sviluppata compiutamente da Joyce nel suo Ulysses. Quanto avvenuto all'isola di Circe si ripete identico nella tappa successiva, alla terra dei Ciclopi: i luoghi sono proprio quelli del ricordo, la natura è per filo e per segno come gli è rimasta impressa nella memoria, ma non ci sono più, anzi non ci sono mai stati, gli abitatori mostruosi con i quali credeva di aver avuto a che fare, coprendosi di gloria. La riflessione di Ulisse è sconsolata, ma, nello stesso tempo, sibillina (Canto XXI, 'Le Sirene', v. 1.5sg.): D mio sogno non era altro che sogno; e vento e fumo. Ma sol buono ~ il vero.

A che cosa allude l'ultimo emistichio? Che vuole dire: «Ma sol buono è il vero»? Che è meglio ammettere l'errore, anche se tardi? Il prosieguo della lettura mostra che cosi non è. Il primo verso e mezzo farebbe pensare che Ulisse abbia finalmente capito di essere stato vittima di un grande abbaglio che investe tutto il suo passato, tutti i suoi ricordi. Invece, il significato della frase è molto più limitato. L'eroe ammette di essersi ingannato solo sui Ciclopi, perché l'autopsia gli ha appena dimostrato la loro inesistenza. Ma il resto deve essere stato reale. E, di tutto il resto, ormai gli interessa rivivere direttamente solo un'avventura: quella delle Sirene. E riviverla diversamente da come l'ha vissuta la prima volta; non passare in fretta con la nave, ascoltando solo poche battute, ma fermarsi, anche a costo di morire, per sentire fino in fondo ciò che quelle gli avevano promesso nell'allocuzione proemiale: la rivelazione della verità totale sul mondo. Dunque, «sol buono è il vero• significa: 'l'unica cosa che conta ormai per me è ascoltare la verità delle Sirene'. La frase si spiega con ciò che segue immediatamente. Nella verità delle Sirene non può non essere contenuta anche la spiegazione della misteriosa amnesia anamnestica di Ulisse. Epperò Ulisse, mentre crede di scegliere per un motivo razionale, sceglie in realtà per evitarsi altre disillusioni: non approdando negli altri lidi da lui toccati a suo tempo, potrà continuare a sognarli in pace cosi come li ha sognati finora. Anzi, si spinge fino a ridare credito, nel proprio immaginario, anche alla figura di Circe, il cui palazzo pure non era riuscito a ritrovare nell'isola Bea: il trucco della cera nelle orecchie dei compagni e del suo incatenamento all'albero della nave era stato suggerito da lei per invidia, perché l'amante che l'abbandonava non potesse sapere quanto sapeva lei, la maga. E qui, puntuale, il discorso programmatico ai vecchi compagni, sulle orme di Dante e Tennyson (Canto XXI, 'Le Sirene', vv. 39-48):

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Omero mediatico B ai vcccbi curvi il vcccbio Eroe parlò: Uomini, andiamo a ciò che solo è bene: a udire il canto delle due Sirene. lo voglio udirlo, cretto sulla nave, ~ già legato con le funi ignave: libero! Alzandosulla ciurma anela la testa bianca come bianca vela; e tutto quanto nella terra avviene saper dal labbro delle due Sirene. Disse, e ne punseai remiganti il cuore ...

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L'ipotesto dantesco è per cosi dire 'lienunciato" da una precisa spia metrica: nel lungo contesto in endecasi]labi sciolti, solo gli otto versi dell'allocuzione di Ulisseai compagni sono rimati (quattro coppie consecutive a rima baciata}14• ll verso conclusivo, che segue l'ultimo del discono diretto, riprende e riassume Dante, Inf. 26, 121-123 («Li miei compagni fec'io si aguti/con questa orazion picciola, al cammino, / che a pena poscia li avrei ritenuti»), anche se a questo punto Pascoli inserisce un elemento per cosi dire "comico", a mio avviso alquanto stonato: i compagni. nella loro semplicità d'animo, fraintendono le parole del capo, credono si tratti di sapere tutto su quanto sta avvenendo ad Itaca dei loro piccoli affariagricoli e pastorali. Se l't0razion picciola» dell'Ulisse di Dante assurge al rango di ipotesto dichiarato, si deve però tenere conto anche di un'altra fonte, che ha influito in maniera determinante sulle immagini e sul dettato, in particolare dei vv. 42-4S. Si tratta del Nigrino di Luciano, laddove (par. 19) i vizi e gli allettamenti della città di Roma vengono contrapposti alla sobrietà dell'Atene contemporanea e paragonati al canto ammaliatore delle Sirene omeriche. Poaono costituire una buona palestra morale per il saggio, che deve imparare a contemplarli dall'esterno e a resistervi, con la sola forza della sua ragione e della sua volontà, senza ricorrere alla scorciatoia umiliante cui era ricorso Ulisse quando, per sfuggireall'incantesimo, si era fatto legare dai compagni all'albero della naveu: Non è cosa da poco resistere a tanti desideri, a tanti spettacoli e musiche che da ogni parte attraggono cd afferrano, ma bisogna proprio, imitando Odissea, passare oltte, non pere) con le manilcpte (µ'I) &&µ.ivov TCÌ>XfLf)E)- cht t cosa vile (6EL~v yàp) - n~ con la cera nelle orecchie,

14

e&. G. Leonelli (dt. a n. 1), 1zs.

" D confronto mi fu suggerito, al termine della relazione da me tenuta al convegno, da Luigi Spi• na, il quale lo aveva già prospettato in un suo recente lavoro, allora in corso di stampa: M. Benini - L. Spina, n mito dd1eSirme, Torino 2007, p. 1.51con n. 69. Qui di seguito adotto la traduzione di

V. Longo, contenuta nell'edizione UTBT di Luciano (1976).

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ma udendo(àlcoooVTa), 1mm(AE).vµlvov) e ei,µstamentc altero(àÀ~ ùrripii4,avov).

Le espressioni pascoliane riprendono puntualmente, ad una ad una, quelle lucianee: «io voglio udirlo» (v. 42) = d.KouoVTa;né già legato con le funi ignaXELpE"+ &LM>V yàp; 1ibcro!" (v. 44) = ve" (v. 43) = µT) &&µlvov Tw ÀEXuµlvov;'eretto sulla nave" (v. 42) + 'alzando sulla ciurma anela la testa bianca come bianca vela" (v. 44 sg.) = d.X,i8wc; U'Tl'E"Pflctxxvov, dove dell'aggettivo greco è còlta ed evidenziata, al di là del senso morale, l'allusione icastica ad un· ergersi al di sopra' (WE'p- + -ctxxv-).Nel contempo, non si può fare a meno di notare che le espressioni di Luciano subiscono una radicale inversione di senso nella rielaborazione operata da Pascoli: il canto delle Sirene non è più allettamento da fuggire, ma verità assoluta da perseguire; l'assenza di legami è in entrambi i contesti simbolo di una libertà del volere, che però in Luciano porta all'astinenza mentre in Pascoli all'adesione entusiastica. Nel Canto XXII ('In cammino') si realizza l'autoinganno che Ulisse ha progettato: si ripercorrono tutte le altre tappe del viaggio, senza però mai approdare; cosi dalla nave, cioè da lontano, si 'vede", vale a dire si è liberi di immaginare, tutto ciò che si ricorda di aver visto allora. E cosi scorrono gli uni dopo gli altri, come in una sequenza di Fellini 16, i Lotofagi che oflrono il loto, i Lestrigoni giganteschi, la piana dell'Ade pullulante di anime morte, la mandria del Sole, l'isola di Eolo, re dei venti, le Pianete, Scilla e Cariddi, gli stretti invalicabili e mortali, attraverso cui la nave tuttavia, sospinta dal vento favorevole dell'immaginazione, passa indenne e veloce. Anche l'isola delle Sirene si profila cosi come era: prato fiorito, mucchi di ossa umane, le due Sirene. Ma queste non cantano, continuano a guardare la nave e Ulisse con gli occhi sbarrati, sono mute, sembrano niente altro che due scogli. Nel dettaglio si avverte un'interferenza di archeologia del mito, quale aveva fatto già capolino nell'episodio dei Ciclopi. Comunque nulla della rivelazione cosmologica promessa allora. Ulisse prende a interrogarle lui stesso, instantemente. Ma c'è poco tempo: la nave va, l'isola presto scomparirà all'orizzonte. Deve ormai contentarsi del meno: se non il tutto, vorrebbe almeno conoscere quella particella del tutto che è lui stesso, perché ormai non sa più nemmeno chi è. L'ombra di Nessuno ritorna ... (Canto XXIII, vero', vv. 46-

·o

48):

16

Avevo già scritto da un pezzo questa frase, e restavo tuttavia incerto sull'accostamento forse un po' troppo ardimentoso, quando ho trovato in G. Leonclli (cit. a n. l), una notazione analoga sullo stesso luogo del poema: •· .. in questo scorrere quasi cinematografico di luoghi già veduti, di vita vissuta, ttasparcntc metafora del Viaggio, dclla morte».

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... Ma, voi due, parlate! Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto, prima ch'io muoia, a àò ch'io sia vissuto!

E ancora (v. 53 sg.): Solo mi resta un attimo. Vi prego! Ditemi almeno chi son io! Chi eroi

In questo restringimento dell'ambizione conoscitiva di Ulisse, che rinuncia al tutto, per concentrarsi sul suo io empirico, idcntitario, esistenziale, Pascoli emblematizza profeticamente il rovello del nuovo secolo, che è all'inizio e che egli vivrà solo per il breve arco di dodici anni. Sulla domanda accorata, che è poi l'enigma insolubile per eccellenza, la nave si fracassa contro quei due scogli che le Sirene sono effettivamente e banalmente17. E Ulissemuore. Morto lui, dovrebbe essere morto anche il mondo fatato che era stato parto della sua fantasia, della sua memoria creativa. E dovrebbe essere finito il poemetto che rielabora l'antico in funzione del moderno. Invece, un altro episodio si aggiunge alla serie, il Canto XXIV, 'Calypso'. Come per incanto, il mondo fatato di Ulisse riacquista consistenza reale e sopravvive a lui. La macchina da presa del poeta si sposta sull'isola meravigliosa di Calipso, sulla cui riva la corrente marina ha sospinto il cadavere di colui che avrebbe voluto sapere, almeno in punto di morte, chi era stato, per poter dire almeno di essere vissuto. Rifiorisce la descrizione omerica del V libro dell'Odissea: in mezzo al bosco popolato di alberi e uccelli, Calipso tesse e canta, come aveva fatto sempre, come l'aveva trovata allora l'Ulisse naufrago. Ode lo schiamazzo delle cornacchie, sorprese dall'approdo del cadavere. Va a vedere di che si tratta. Lo trova (Canto XXIV, 'Calypso', vv. 45-53): Nudo tornava chi rigò di pianto le vesti eterne che la dea gli dava; bianco e tremante nella morte ancora, chi l'immonale gioventù non volle. Ed ella avvolse l'uomo nella nube dei suoi capelli; ed ululò sul flutto sterile, dove non l'udia nessuno: - Non eaer mail non esser mail più nulla, ma meno morte, che non esser più! 17

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Che le Sirme non fossero in realtà altro che scogli, Pascoli trovava suggerito già in Verg. Am.

s, 864-866. Anche questo confronto i stato richiamato alla mia memoria da L Spina del quale cfr. ora op.cit. (vedi sopra. n. lS), p. 120 sg. Pascoli aveva certo ben presente il passo virgiliano, che a suo tempo aveva inserito e commentato nell'antologia Epos(dt. sopra, n. 6), p. 218.

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L'antico e sapientissimo detto silenico, oppommamente rielaborato e caricato di connotazioni nuove, chiude il canto. Ma, alla fine, un estremo dubbio reinteipretativo assale il lettore, posto di fronte al continuo oscillare e slittare di una trama che ha davvero qualcosa della coerente incoerenza dei materiali onirici: non potrebbe darsi che l'ultimo viaggio sia stato solo un sogno di Ulisse vecchio, addormentato accanto alla moglie nell'antico letto coniugale? che Ulisse abbia cominciato a sognare con lo stridio delle rondini che lo svegliavano e lo invitavano all'azione? e che egli, all'urlo di Calipso, si sia risvegliato alla sua vecchiaia toipida, e ormai inutile? Soltanto otto mesi dopo aver formulato l'ipotesi e averla esposta al convegno ravennate, mi sono reso conto che Pascoli stesso ha 'licpositato" e 'bascosto" questa seconda chiave di lettura in un altro canne, n ritorno, compreso in Odi e Inni, raccolta pubblicata nel 1906. I Feaci hanno adagiato Ulisse addormentato sulla spiaggia di Itaca e sono ripartiti. L'eroe si sveglia, si guarda intorno, non riconosce il luogo, dove pure aveva trascorso tutta la fanciullezza e l'adolescenza. Pensa che i Feaci lo abbiano tradito, abbandonandolo su una terra ignota, invece di riportarlo in patria, come avevano promesso. Incontra una ragazza del posto, che sta andando alla fonte per lavare i panni. Da lei apprende di trovarsi effettivamente ad Itaca. Ma anche dopo il 'riconoscimento': per così dire eterodiretto, tutto gli sembra diverso ed estraneo rispetto a quanto ricordava: «E i peri e i meli gli fiorian diverso/da quel che, assenti, nella sua memoria, / gli avean per dieci e dieci anni fiorito/perennemente» (vv. 86-89). Dopo un lungo dialogo drammatico tra lui e la ragazza, il canne si chiude con il canto di un "Coro .., costituito probabilmente dagli anziani itacesi. Lo invitano a trascorrere serenamente nell'isola il resto della sua vita, a sognare e risognare durante i suoi sonni le splendide avventure passate, fino alla morte, dopo la quale lo seppelliranno nella sua terra, ponendo ad insegna della tomba un remo, proprio come Ulisse aveva fatto con Elpenore; ma un remo spezzato, a significare il continuo infrangersi dei sogni, avuti nei sonni, contro la dura realtà dei risvegli (vv. 27.3-288): Coi vecchi nostri canti che sai, voci di cose piccole e care, t' addonnircmo, vecchio; e potrai ricominciare. E quando il mare, nella tua sera, mesto nell'ombra manda il suo grido, sciogliere ancora potrai la nera nave dal lido. Vedrai le terre de' tuoi ricordi, del tuo patire dolce e remoto; là resta, e il molto dolce là mordi

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Omero mediatico &ore del loto. Sarai qui presso. Rotto il tuo remo sopra il tuo capo stanco sarà. Sul tuo scpolao noi canteremo la tua lontana felicità.

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Ogni volta che si sarà addormentato, Ulissepotrà rivedere in sogno i luoghi e i personaggi delle interminabili peripezie affrontate sulla via del ritorno. Potrà reimmergervisi completamente e felicemente, senza essere nemmeno piùattanagliato dalla nostalgia della patria, nella quale onnai si trova e donne placido. In sogno, perciò, potrà persino permettersi di gustare quel fiore del loto che invece, nella vita reale, aveva dovuto rifiutare saggiamente, per non compromettere la prospettiva del ritorno. Nessuna paura: mentre la sua mente sognante si abbandonerà senza remore all'insidia dei Lotofagi, il suo corpo dormiente 'sarà qui presso" (v. 285), al sicuro, ad Itaca. Si potrebbero allora intendere in un senso alquanto diverso, da quello cui ci siamo attenuti sopra, le parole enigmatiche rivolte da Ulissea Pernio nel Canto X, 'La conchiglia' (vv. 31-39). Rileggiamole: Sonno è la vita quando è già vissuta: sonno; eh~ ciò che non è tutto è nulla. Io, desto al6ne nella patria terra, ero com'uomo che nella novella alba sognò, M sa qual sogno, e pensa che molto è dolce a ripensar qual era. Or io mi voglio rituffarnel sonno, s'io trovi in fondo dell'oblio quel sogno. Tu verrai meco ...

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I ricordi della giovinezza, che ossessionavano la sua vecchiaia dal giorno del ritorno ad Itaca, erano un sonno, perché onnai la vera vita era stata già vissuta nel passato e la memoria presente non era piùvera vita (v. 31 sg.). Seguendo la metafora, svegliarsi da quel sonno non può significare altro che addormentarsi ancora piùprofondamente, per attingere il livello del sogno, della memoria onirica, nella quale le immagini del passato si stagliano di nuovo alla mente (o almeno sembrano stagliarsi) con lo stesso nitore di allora. Quella mattina di primavera aveva sentito in sogno le rondini che lo svegliavano (ma in sogno), iniziando cosi il sogno dell'ultimo viaggio (v. 33-36). Tuttavia egli non sa ancora di qual sogno si tratti, perché il sogno è appena agli inizi, e potrà riservare sorprese, gradevoli o sgradevoli (v. 35). Ma ne vale la pena: Ulisseperciò è ben deciso a continuare il suo sonno non metaforico ed il sogno che lo sta animan-

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do. Assumono cosi finalmente un significato del tutto preciso i vv. 37-38: «Or io mi voglio rituffar nel sonno,/s'io trovi in fondo dell'oblio quel sogno». In altri termini, questo gruppo di versi ha un primo significato all'inizio della lettura, un secondo significato quando li si riconsidera dopo aver letto fino alla fine l'intero poemetto. A prima lettura, esprimono la volontà di rimettersi in mare per rivisitare i luoghi della memoria; a lettura ultimata, esprimono invece il desiderio di cadere in un sonno tanto profondo, che quei luoghi riappaiano da sé insogno. In una simile prospettiva, certo non sostitutiva di quella fin qui perseguita, ma casomai aggiuntiva, gli ultimi due versi del carme, la battuta finale di Calipso, sarebbe stata si di Calipso, nel sogno, ma al di là del sogno, sarebbe stata del dormiente-sognante che, nelle lunghe, interminabili veglie della sua odiosa vecchiaia, aveva ossessivamente vagheggiato un'impresa impossibile: rivivere nuovamente, davvero, il proprio passato, mettendosi in traccia dei luoghi allora visitati, per accertarsi che tutto si fosse svolto cosi come lo ricordava, per accertarsi cioè della propria identità, e poter dire almeno in punto di morte di essere vissuto davvero. Durante il sogno aveva compreso a poco a poco che il miraggio era illusorio: di qui la conclusione che meglio sarebbe stato non essere mai nato. Ma non era stato Omero a poetare che Ulisse aveva dato a se stesso lo pseudonimo di Nessuno? E la Calypso di Pascoli non aveva ululato quelle parole 'kul flutto/sterile, dove non l'udia nessuno"? "Nessuno" certo non l'aveva potuta udire, perché era morto. Ma il Nessuno sognante era stato proprio lui a porsi il quesito e ad essersi dato quella risposta ultimativa. L'Odisseain effetti è già essa stessa il poema del Ritorno, ovvero della R.echercht.Ancora una volta, per vie impensabili e impensate, Pascoli si conferma interprete-poeta e, simultaneamente, poeta-interprete. In questo veramente 'alessandrino": ma nel senso più grande e piùvero del termine. Perché gli alessandrini non furono 'alessandrini', nel senso in cui intesero e intendono gli idealisti, nonché i loro succubi, anche se anti-idealisti, dall'Ottocento a tutt'oggi: furono per l'appunto interpreti-poeti e, simultaneamente, poeti-interpreti. Qual è il senso finale della fantasmagoria? È un senso che potremmo definire "pre-pirandelliano". La nostra individualità, la nostra persona, per la quale ci sentiamo noi stessi, diversi da ogni altro individuo, è in realtà una nostra autocostruzione artificiale, una maschera che andiamo plasmando nel tempo, per coprire il nostro volto. La sua materia prima sono i ricordi: costituendo il nostro passato, la nostra "storia': istituiscono il nostro io inconfondibile. Ma appunto i ricordi sono lo strUmento sottile della falsificazione, in quanto vengono da noi manipolati allo scopo, inconsciamente, eppure sapientemente. Come scoprire il nostro io verace, al di là dell'io costruito? Come verificare la congruenza o l'incongruenza della maschera rispetto al volto da lei celato? Questo è '1'ultimo viaggio': spericolato fino all'autodistruzione! Perché al suo

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termine si scopre che il vero io, non solo è un noumeno inconoscibile senza mediazione di falsificazioni, ma in ultima analisi non esiste proprio: dietro la maschera, c'è il vuoto, c'è il nulla. Ognuno di noi è Nessuno, come Ulisse.Qui Pascoli si fi:rma, e la tonalità, la struttura del suo discorso è perciò epicotragica. Pirandello va oltre. Non senza tormento, ma con animo ardimentoso di sopportazione, accetta la regola del gioco, rispetta il verdetto della Moira: ebbene si, siamo maschere, niente altro che maschere; forza, però ! cerchiamo allora di continuare a recitare bene la parte che ognuno di noi si è assegnato, anche dopo avere scoperto l'inganno, inganno che comunque, in quanto uomini pensanti, abbiamo il dovere di scoprire e denunciare (''uno, nessuno e centomila'). Di qui la tonalità e la struttura del suo discorso, che è drammatica, perennemente oscillante fra tragico e comico. P.S. - La stessa intuizione poetica, nell'Ultimo viaggiocelata sotto il velame della narrazione mitica, si trova allo stato puro cd espressa in forma diretta in una delle Myricae, in Cavallino,dove Ulisse è Pascoli, insieme autore e persona loqven.s, mentre il viaggio nel passato, fuor d'ogni metafora o allegoria, è niente altro che lo sforw vano di far rivivere compiutamente nella memoria immagini e momenti della propria adolescenza. Cavallino,che poi è il nome di un colle nelle vicinanze di Urbino, dove Pascoli era stato collegiale e scolaretto, mi sembra il commento piùeflìcace al canne conviviale su cui mi sono intrattenuto. Mi piace perciò chiudere il mio discorso riportandolo per esteso: O bel clivo fìorito Cavallino ch'io varcai co' leggiadri eguali a schiera al mio bel tempo: chi sa dir se l'era d'olmo la tua parlante ombra o di pino? Bra busso ricciuto o biancospino, da cui dorata trasparia la sera? C'~ un campanile tra una selva nera, che canta, bianco, l'inno mattutino? Non so: ché quando a te s'appressa il vano desio, per entro il ciclo fuggitivo te vedo incerta vision fluire. So eh'or sembri il paese allor lontano

lontano, che dal tuo fìorito clivo io rimirai nel limpido avvenire.

GiovanniCmi UniversitàdegliStudi di Napoli "L'Orientale"

IL RITORNO DI TORNATORE

di Antonio Aloni

Un nome un destino: forse Tornatore non lo sa ma il suo nome ha a che fare con quello di un personaggio famoso. Nestore si rifà alla radice da cui si forma il verbo neomai,da cui deriva anche il sostantivo nostos,il "ritorno': Che Nuovo CinemaParadisosia un nostos,un ritorno fisico e spirituale, a ritrovare la propria terra e le proprie radici, in definitiva l'identità, non è in discussione1. Che abbia a che fare con l'Odwu, come il nome omerico del suo autore fa sospettare, sarà l'ipotesi da dimostrare. È stato detto che l'Odisseaè una grandiosa riflessione sulla poesia, sul potere del raccontare e sul suo fascino 2• Della poesia e del raccontare è stata in questi anni studiata una metafora ricorrente: la tessitura, come qualcosa che produce un testo 3• È ovvio che NuovoCinemaParadisoriflette un sistema e una fase culturale del tutto diversa da quella di Omero. Tuttavia la tessitura viene ricordata, con una bella inquadratura di un arcolaio:

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Su ciò sono d'accordo quasi tutti le recensioni al film. In particolare si veda P. Rwnble, Tomatorr e l'Amtrica:il dnema dell'anamnesi,in Siciliae altrestom. ndnema di Giu.stpp( Tomaiorr,a cura di V. Caprara, Napoli 1996, 11-20. 1

Non voglio tediare nessuno, ma a questo punto sarebbe da leggere per intero il capitolo Pottry in dtt Odyueynel bel libro di W. G. Thalmann, ConmttionsofFcmnand 'Illouglttin Earfyblin riprende queste accezioni facendone una sintesi, anche perché entrambe si rivelano funzionali al suo discorso sulla parentela fra musica e linguaggio, idea intorno a cui ruotano tutti i suoi Dialoghi.Questo dimostra, una volta di più, che una traduzione 'creativa' di eccellente qualità, come quella di Voss, non necessariamente travisa il senso dell'originale, ma può addirittura, grazie alla sensibilità ermeneutica del traduttore, far emergere significati impliciti nell'originale, tanto che un autore come Dè>blinsceglie la figura di Calipso proprio perché è melodica (canta e suona il flauto}, oltre che retorica, eloquente. L'eloquenza di Calipso si evidenzia nell'abilità con cui sa sostenere, e persino condurre, una complessa dialettica filosofica con il Musicista sulla natura della musica e, di riflesso, sulla natura della comunicazione umana attraverso il linguaggio e le altre arti (danza e teatro in primo luogo). Calipso 'maestra di musica', dunque: ma, ciò che sorprende ancor più, è la stessa Calipso a chiamare maestro il Musicista, il quale fin dall'inizio è invitato, per non dire costretto, a dissertare sull'arte dei suoni; in realtà Calipso si rivela altrettanto competente in questa materia, e vera maestra nell'esporre con raffinata eloquenza le sue teorie filosofiche sulla natura della musica. Ma che cos'è la musica per i due interlocutori? Innanzitutto è la regina delle arti, inscindibilmente legata al linguaggio più che a ogni altra forma di espressione, e allo stesso tempo superiore a questo per precisione, rigore, profondità e intensità espressiva. Musica e linguaggio sono una cosa sola, ma c'è di più: essendo la musica superiore al linguaggio, quest'ultimo deve prenderla a modello. Calipso incarna l'unione di musica e linguaggio, in quanto possiede entrambe le prerogative, essendo eloquente e melodica insieme. Senza scendere in dettagli sulle teorie estetiche di Dè>blin, si può affermare in sintesi che tutta l'opera è pervasa dal concetto di musica come retorica, nel senso di comunicazione, persuasione e mozione degli affetti. Esempio emblematico è il riferimento al mito di Orfeo: Serve forse la musica orfica per spostare le colonne, per far chiudere i blocchi di pietra come portoni? Tutta la musica vuole invocare le colonne, solleva le pietre al suo ritmo, fa profumare i fiori e risplendere il sole".

E ancora al rapporto fra la voce, e quindi il canto, e gli affetti, i sentimenti: 14

Odi.ssta12, 449 &:tVl'i8eòç av61')&ooa. "«Wu braucht es orphische Musik, damit sich die Sllulen bewegcn [,] die Quadem sich zu Toren schlieOen?Jede Musik will die Sllulen anrufen, hebt die Steine in ihrem Takt, bringt Blumen zum Duften, die Sonne zum Leuchten». (DOblin 1989, S7)

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Molti moti dell'animo hanno un rapporto assai stretto con la voce, addiritrura noi arrossiamo, a volte non senza motivo, quando d sentiamo parlare,e io sono nel giusto quando penso al suono proprio di ogni materia, allorch~ le vod umane vibrano. Non ~ un caso che quel nervo, come mi disse un esperto, il nervo che regge e dirige cuore, polmoni e viscere, il nervo vago, è anche il nervo dellavoce: la voce partecipa della nostra intimità più recondita; e senza dubbio l'oipno dellavoce e l'oipno dell'umore sono accoppiati. Tuttavia questa voce non è alla radice delle parole, ma del loro suono, allo stesso modo in cui il singhiozzo, il giubilo, il gemito, pur pas.,ando senza parole, dietro le parole e inaggiungtbili alla parola, sono tuttavia profonda16 mente eloqucnti •

In questo brano si avvertono, fra raltro, echi del mito omerico delle sirene, che seducono con la sola voce, essendo prive di forma. A proposito della correlazione fra musica e linguaggio l'autore dei Dialoghi,per bocca del Musicista, afferma che la musica, in origine, fu modellata sull'intonazione del linguaggio umano 17• D6blin ci parla anche esplicitamente di 'musica retorica' come di uno dei possibili tipi di musica18• Calipso, dea musicale (e 'antenata di Santa Cecilia', p. 23) ci dice anche che la musica è il ponte verso la dimensione divina; ella af.. ferma infatti: «solonella musica lascio che gli esseri umani si avvicinino a me», e proprio per questo ha salvato la vita al musicista. In tal senso la musica è rivelata come linguaggio divino e quindi vera e propria 'retorica degli dei'. 1 '

«Viele Seelenbewegungen haben ja eine enge Beziehung zu der Stimme, ja, wir erroten bisweilen nicht ohne Grund, wenn wir uns sprechen hOren, und ich darfwohl and den Bigenton der Stoffe denken, wenn die Stimmen der Lcbendigen schwingen. Bs ist kein Zufall, wenn jener Nerv, wie mir ein Kundiger sagte, der Nerv, der dasHerz, die Lunge und Bingeweide lenkt und steuert, der Herumschweifer, auch Stimmnerv ist; eng nimmt die Stimme an unsenn lnnersten Teil; wohl sind die beiden aneinandergekoppelt: Stimmorgan und Stimmungsorgan. Doch nicht die Worte wurzeln in dieser Stimme, sondem ihr Ton, wie auch dasSchluchzen, Jubeln, StOhnen, daswortlos und hinter den Worten verlauft und [,] unerreichbar dem Worte [,] erstaunlich tiefredet>. (DOblin 1989, 70-71) 17 «Oie Musik wuchs in die Menschen hinein, sog da ihre Nahrung aus vielem, was ich Dir noch schildem werde. Ocr Tonfall der Sprache modelte an ihr, der Gleichnisse fanden sich unzlhligc, die sie fonnten, und so verbreitete und vertiefte sie sich, wurde lebendig mit dem Lcben, ja wucbs ilber dasLcben hinaus-. (DOblin 1989, 66; La musica crebbe dentro gli uomini, e da loro succhiava il suo nutrimento, fatto di mille cose che poi ti descriverò . L'intonazione del linguaggio la modellava, si rinvenivano innumerevoli similitudini che contnbuivano a formarla, e cosi essa si diffondeva e si approfondiva, prendeva vita insieme alla vita stessa, e addirittura crebbe oltre la vita). 11 «Diesem Musiker diktieren feine und eigenartige Bewegungserinnerungsbilder, stammend aus Arm, Bein, Rumpf, seine Rhythme, jener schreibt rhetorische Musib (DOblin 1989, 100-101);Un musicista si fa dettare i ritmi da memorizzazioni sottili e peculiari di movimenti delle braccia, delle gambe, del tronco, l'altro scrive musica retorica.

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7. Calipso

dett musiaile, marln4e nuulre

Nel sesto dialogo, dedicato al ritmo, Calipso placa l'angoscia del Musicista cullandolo e cantandogli una nenia monotona, mentre pronuncia queste parole: È la signora della regolarità, l'arte. È compagna della balia: canta e culla.[ ...] ulil quando cantt·" . T u dia· --drc"

Calipso, dea che canta e culla, a questo punto getta la maschera: è la dea della musica, è la musica stessa. La musica è definita da Calipso 'madre' e 'principio della creazione'. Il ritmo musicale è quindi fonte di vita, origine della vita e del mondo, armonia e struttura che sottende alla realtà. Nel terzo dialogo Calipso aveva detto, a proposito della creazione: Ora, àò che il vostro dio artefice pensavaalla deliziosa vigilia del primo giorno della creazione - l'oscuro piano della creazione - i pensieri che covava sull'uovo gigante: tutto questo aveva probabilmente a che fare con la •

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mUStca .

Ma c'è un altro elemento che viene considerato fonte della creazione: il mare. Non a caso Calipso è una dea marina, che si sente indissolubilmente legata al suo elemento. DOblin, quindi, non solo fa di Calipso la somma musa-dea della musica, ma la assimila anche, in ultima analisi, a Teti, antica dea-madre marina. Calipso, come Teti nell'Iliade, prega Zeus, e in DOblin la sua preghiera sulla tomba dell'Olimpico è addirittura quotidiana. È possibile che quest'enfasi sul primato della femminilità risenta ancora delle teorie storico-antropologiche del giurista e studioso delle religioni svizzerojohannjakob Bachofen (1815-1887), il cui Matriarcato (1861) racchiude la summa delle sue indagini sull'opposizione fra il principio maschile e quello femminile, retaggio delle antiche civiltà orientali raccolto dall'antichità greco-romana. Di tutte le divinità del pantheon greco, Calipso per Doblin è l'unica sopravvissuta all'avvento del nuovo Dio unico, come si ricordava sopra. Il monoteismo, per Doblin, procede mano nella mano con il culto ossessivo dell'io, dell'individualità portata all'esasperazione e dell'assimilazione dell'altro a sé. L'autore tedesco sostiene che la parabola ascendente dell'io ha raggiunto il suo punto culminante nel periodo romantico; successivamente l'io si è frantumato 1 '

.Sie ist die Herrin des GleichmaOes, die Kunst; sie ist von Ammenart, lullt ein. [ ... ] cMutter», sagst Du, wenn du singst». (l)Oblin 1989, 44) 20 «Nun, was sich euer Mcistergott am kOstlichen Vorabend des ersten SchOpfungttages dachte • der dunkle Pian der SchOpfung - das Brtiten ilbcr dem Riesenei - mag wohl von Art der Musik gewesen sein». (~blin 1989: 18)

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in mille pezzi. chiara allusione alla perdita d'identità e alla dissociazione dell'io che caratterizzano l'epoca contemporanea (ricordiamo ancora una volta che OOblin era psichiatra di professione). L'autore dei Dialoghidipinge l'io come un mostro che divora tutto ciò che incontra sul suo cammino e, mai sazio, si gonfia fino a esplodere. Qualcuno aprl la bocca, qualcuno, l'io; i filosofi lo saziarono sempre più; cosi l'io, a grandi boccate, aspirò il mondo intero, che presto lo riempi fino all'odo, cosicch~ l'io fini per diventare null'altro che una sottile pellicola intorno al proprio ventre; era talmente teso che scoppiò; il mondo fuoriusci di 21 nuovo, e leccò con la lingua i poveri resti dcll'io •

Qui il giovane Dio non rappresenta solo il Dio del monoteismo, ma anche l'io, idea che si ricollega palesemente alla visione fèuerbachiana dell'uomo che «crea Dio a sua immagine e somiglianza». Al termine dell'ultimo dialogo, Calipso risveglia Zeus, e questi sorge dalla tomba scatenando una tempesta universale; Calipso vede sprofondare l'isola di Ogigia insieme a tutti i suoi abitanti, compreso il Musicista, che morirà sfracellato contro uno scoglio. Zeus, ormai anziano, boccoli canuti e pelle rugosa, si scontra con il giovane Dio, biondo, alto e magro, mentre Calipso assiste sgomenta alla lotta. Nello scontro Zeus prevale sul giovane Dio, ma a causa dello sforzo estremo perisce insieme a lui, ed entrambi sprofondano negli abissi del mare. Il finale, i cui •effetti speciali' sono degni di un film hollywoodiano, è completamente inatteso, e vale la pena di essere letto integralmente: (Mareaperto;cido nero.L'isolaè stata spazzaui via.) L'OLIMPICO (Indossa1ut panneggiol,iancoche dallelarghespallespigolose S1tperfidtdel mare,con i captlU discendefino ai sandali;sfiorale nuvole,chinoSKUa sporchidi terra, lafronk sanguinanteche si terge di Jmiutnte,i boccoUl,ianchie grigi collosi,il respiroaffannoso;il viso d«rqnto incartapecorito, sfatto, lo sguardo spento).

CALIPSO (Ntlla S1t4 vate blu notte copertada un vdo l,iancotrasparmte,leva uno sguardoangosciatoffl"SO di bd, abbracciandogli i .fianchi.Digrignai denti aUa vista di un'ondachesfracellacontTouna roccia il cadaveredel m1'Sicista). IL GIOVANE DIO (Avanzaffl"SO di lei da lontano,enorme,magro,la bionda capigliaturadisfatta,con l'aria sicura e lo sguardopenetrante;un diademasfavillante nei captlU;il pesantemantelloa strascicopurpureoè tnUttnuto S1tlpetto da fmnagli d'oro). 11

d3s mad1te einer dasMaul auf, einer, daslch, sie sllttigten es, immer mehr; es schluckte mit tiefen Zilgen die ganze Welt ein; die flillte es bald bis auf die Haut aus, so dass dasIch nur noch eine dilnne Schale um ihren Magcn war; gcspannt platzte sie; die Welt sprang wieder heraus, leckte die armseligen Reste mit der Zun~ auf». (Dtiblin 1989, 27-28)

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L'OLIMPICO: Non è riuscito a uccidermi, solo a dimenticarmi. - Ah, tu, tu tigre, bandito sanguinario, - lacchè! Io - sono - qui, - sono ancora qui ... IL GIOVANE DIO (Arsodallacollerae dall'amarezza): lo odio chi mi odia. lo ammau.o chi vuole strangolarmi. (Sradica dalfondo àd maR una montagna famante e la scagliacontroil petto dell'Olimpico,che crollaqxasi sc1tulccfato, ma poi avanza barrollandocon un ruggito,strangolail giovanedio con la mano .sinistra, mentrecon la destragli spezzail collo;il gfowme dio gorgogliaancora.Sprofondanoentrambi,mentreil maR si alza rombando). CALIPSO (Che ha assistito impietritaalla scenacon le bracciaspalanalte.si rialza bnlscamentein mezzo a terribiliftsclti.e ondeenonnt. Urla comeunuragano qxandoi S1'oipiedi, immergendosi,toccanoi corpideglitld che.stannosprofondando. I tratti del S1'0 viso si scompongono.Mentre premeentraM le mani contro il

petto, inizia a crescma vi.stad'occhioin altezza Txtto il S1'0 corpoSIWIÙta e si contorre.Dallaboccale esceun oltolt,ltolt.Avanzacongridatonanti e risa fragorose ml maR agitato,dondolandoi .fianchi.; intona un cantolungoe profondobattendosi 21 lecosce) •

In questo apocalittico epilogo, Calipso indossa una veste blu, colore tipico della dea marina nonché del lutto, e analogo al peplo che copre Teti nell'Iliade (24, 93 s.), più precisamente nell'episodio in cui Priamo si reca nella tenda di Achille dopo la morte di Ettore. Un ulteriore segno di lutto è il gesto di battersi 21

«(Ojfmu Mter; schwann Himmtl. Die lnstl ist wtggeftgt.)

DBR OLYMPIBR (Eiflffl wriJm Faltntwurfvondenbmten «kigm Sclaultmtbis n denSandAlm, in dit WolU!t ragmd, auf dtm MtertSSpitgd,gtl1'lclct,Enh im Haar, bbaigt Stim, dit tr oft abwisdu. grall.Wtijt nsammtn.gtlcltbte Loc1ctn,schwtr letuc1tmd;tin pe,gammtenu, tin.gefallenaimùtu Guidal mit trloschfflfflBlicU!t.) Gtwandt mit wdjtm durchsichtigm Obtmang, .sitht angsdich n KALYPSO(in ihmn blaMSC1twa1%ffl ihm auf, umschlingt.stint Hiijiffl. Sit birscht dit Zithnt auftinandtr, als tint Wtlle denLddtnam da MllSilcman tintr vorragmdfflKlipptzmdtmtttert). DBRJUNGB GOIT: (lcommtvon wtitem auf sit zu, riaotgn,J, hagtr,nnq,pig blmul,sichtr, st«ltntde Bliclct;tin blitundtr Knmrtif im Haar;.stinschwmr, nac1udtlepptndtrManttl p!l'J'll1'10t, wm mit goldmm Halttspangm.) DBR OLYMPIBR: Br konntc mich nicht t6tcn, nur mich vcrgcsscn. - Ha, du, du Tigcr, du blutigcr Rllubcr, du - Knccht, ich - bin - da, - bin immcr da DBR JUNGB GOIT (HtiJ und bitter): lch basse, dic mich hasscn. lch mcuchlc, dic mich wtlrgcn wollcn. (Er scltlnulm tinm raudtmdm Bt1X,dm tr aw dtm Murt.Sbodtnawrtijt, gtgm dit Bnur da Ol)'fflpim. Da, fast urschmmtrt und sttl1%ffld,taumtlt mit GebriiUnach wm, nwiirxt mit dtr liftU!t Hand dm jungm Gott, w41trmddit R«1tu du.stn Kopfin dm NacU!tbridu; dtr jllngt Gon gu,gdt nodi. Btidt vasin1ctn,wahrmd dJuMttr tostnd aufsteigt.) KALYPSO (Die mit awgt.StTtelctenArmm starr dagtstandm 1tat,richttt sidt jllh in dtm ungthtllms wtijm Tobtn und Zisdttn auf. Sclartitwit tin Orlranauf, alsihrr taudtmdm Fijlt dit sinl:tndnt Gi1tterltibtr btriihmt. lhrr Ziigt murrm sich. Wahrmd sit btidt Hlfndt gtgm dit Bnut prejt, wadut sit zwtltntds "61ttrllnd "61ttrauf. 1hrganur Ltib Z11Clctund lcrampftsich. lhT Mllnd stojt 41U da Hoho, hoh. - Sit gtht mit drohnmdtm Geschrtiund Gel4chttriiberdJutaaztndt Mttr, wiegtsich mdenHijiffl. singt tiefund langgtzagm,schlilgtsich dit Sclamlctl).» (D6blin 1989, 111, 112)

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le cosce. Alla fine del racconto, quindi, Calipso-Musica non soccombe, come tutti gli abitanti dell'isola, lei compresa. prevedevano, ma sopravvive persino a Zeus e al Dio nuovo. Si compie cosi l'ultima fase della trasfigurazione di Calipso-Musica-Teti, che assurge a nuova divinità femminile creatrice, a nuova Dea Madre.DOblin lascia intendere che il mondo rinascerà dal mare e da CalipsoMusica. la quale ormai non è già più Calipso ma è eletta a prinàpio femminile fondatore dell'universo. I tre volti di Calipso, donna, musica e madre, sono ben riassunti dal dipinto del simbolista Ferdinand Khnoppf Orfeo(1913), di poco posteriore alla prima pubblicazione dei Di4log1ti.In quest'opera, il mitico cantore è rappresentato sotto forma di tre donne diverse: il primo Orfeo, una donna nuda che si regge il seno con le mani, rappresenta la donna nella sua fisiàtà, che in DOblin corrisponde a Calipso donna; il secondo Orfeo, una figura femminile con indosso un peplo, rappresentata nell'atto di suonare la lira, corrisponde a Calipso dea musicale; il terzo Orfeo, infine, ricalca una rappresentazione di Artemide vergine e madre, e corrisponde a Calipso dea madre e creatrice.

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Bibliografia Bachofen

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suoi

a-

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Tavola 1 - Arnold ~cklin. Odysstusund Kalypso(1883), Basilea,Kunstmuscum

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FIGURE PBMMINIU OMERICHE NBLL'ARTBCONTBMPORANBA di Claudia Boni

Protagonisti di questa relazione saranno alcuni personaggi femminili dei poemi omerici la cui fama è sopravvissuta nei secoli fino a divenire oggetto, in epoca contemporanea, di ulteriori interpretazioni e ripensamenti. Le opere e gli artisti presi qui in esame sono quelli a me sembrati più significativi. Atena, Andromaca, Calipso, Nausicaa, Circe, le Sirene, Penelope, Elena sono tutte figure mitiche che affondano le proprie radici in quello che Cari Gustav Jungdefiniva !'"inconscio collettivo•~ un inconscio di natura universale i cui contenuti (che sono gli stessi dappertutto e per tutti gli uomini) sono i cosiddetti "archetipi", mentre il mito non è altro che espressione di tali immagini archetipiche 1• La mitologia greco-latina, col suo repertorio di avventure straordinarie, di mostri immaginari. di dèi ed eroi, è sopravvissuta nel Medioevo grazie alle sue forti valenze simboliche che ne hanno fatto oggetto di studio da parte di scrittori e filosofi2, ed è poi ritornata, nei secoli successivi ad essere fonte di ispirazione per gli artisti dell'Europa occidentale. Pittura e scultura per eccellenza, ma anche arti applicate come la tapisserieillustrano i miti antichi. D'altra parte il repertorio mitologico con le sue numerose creature femminili e le innumerevoli avventure amorose permetteva l'espressione artistica di un erotismo che l'iconografia cristiana non offiiva e che la morale cristiana stessa condannava per principio. Sfruttato sin dal Rinascimento, il repertorio mitologico è sempre più un repertorio di simboli che, in epoca contemporanea 3, vengono assunti ad espressione dcli' essenza più profonda dell'essere.

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Per la concezione del mito come modalità di rappresentazione di 'immagini archetipiche', si veda soprattutto C.G. Jung, La psicologiaanaliticand suoi rapporticon l'artep«tial, in nprobltm.a ddl'incon.scio nellapsicologiamodtn14,trad. it., Torino 1971, la cui prima edizione italiana (1942) fu pubblicata nella collana einaudiana "Saggi': diretta da Cesare Pavese (dr. l'intervento di Eleonora Cavallini, in questo volume, pp. 157·182). 2 C&. J. Seznec, La soprawivmzadegli aJtticlridèi, trad. it., Torino 1990. La cultura medievale tendeva, naturalmente, ad evidenziare i risvolti più didascalici cd 'edificanti' della mitologia classica. J Sulla presenza del mito classico nell'arte contemporanea, rinvio ad AA. W., Visioni e Ardtaipi. n mito ndl'aru sptrimffltak e di awinguardiadelprimoNCMCento,a cura di F. Bartoli, R Dalmonte, C. Donati, Trento 1996.

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1. La deaAtena

Gwtav Klimt, Palladt Atnta (1898)

In Omero, lliade 2, 446 ss., gli Achei vengono radunati in fretta per la battaglia e con loro «la glaucopide Atena armata dell'egida preziosissima, imperitura ed immortale, le cui cento frange si muovono all'aria, tutte d'oro, tutte ben intrecciate, ciascuna del valore di cento buoi»; cfr. anche lliade 5, 733-747 «Atena intanto, figlia di Zeus egioco, fece cadere il molle peplo sulla soglia del padre, che lei stessa fece con le sue mani; e indossando la tunica di Zeus che raduna le nubi, si vestì di armi per la battaglia lacrimevole. Intorno alle spalle gettò l'egida frangiata, terribile a vedersi, cui tutt'intorno fanno corona il Terrore, la Lotta, la Violenza, l'Inseguimento spaventoso; in essa vi è la testa della Gorgone, orribile mostro, spaventoso e tremendo( ...). Sul capo pose l'elmo a quattro borchie e dal doppio cimiero d'oro( .. ~. E balzò sul carro e afferrò l'asta pesante, grossa, robusta con cui doma le schiere degli eroi, se con essi si adira, lei, la figlia del Padre possente». Atena è la divinità che nell'Iliade prende parte al

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combattimento al fianco degli Achei, mentre nell'Odisseaaiuta Ulisse a ritornare ad Itaca. L'Atena di Klimt è una figura dagli occhi lucenti che incutono timore (cfr. 1lituù 1,200 «tenibili le risplendevano gli occhi»), dal volto chiaro e capelli rossi (quasi un emblema dell"ariancsimo nordico')"; porta l'elmo, e indossa un'egida di squame di serpente con al centro la testa della Gorgone il cui sguardo, secondo la tradizione, pietrificava gli avversari. Non mancano i simboli della dea: civetta e Palladio. L'immagine paurosa della dea è di chiara ascendenza omerica. Il grande pittore austriaco {1862-1918) fa uso di colori smaltati e materiali preziosi assoòati, talora paradossalmente, ad un inquietante realismo espressivo delle figure. Nei suoi dipinti è ravvisabile una fitta rete di contenuti simbolici, come appunto si verifica nella rappresentazione di Atena.

2. Andromaca

Giorgio Dc Chirico, Ettoree Andromaca(1917)

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Sulla concezione, diffusa nella Germania nazista, di una presunta 'nordicità · del mondo classico, cd in particolare sull'ammirazione, da parte degli storiografi nazisti (Serve, Schachcnncyr) per i 'nordici' Macedoni, si veda L. Canfora, Cultllraclassicaa nazismo, in Ideologiedd classicismo,Torino 1980, 133 ss.

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Ettore è il più valoroso eroe troiano; Andromaca, sua moglie, è la donna dal terribile nome di Amazzone, è colei che nel dolore soffrirà come un guerriero che muore. Il momento di massimo lirismo in cui i due sposi si incontrano (1luule 6) per poi lasciarsi subito dopo in nome di una città da difendere, nonch~ dcll"onorc da preservare intatto, è ciò che ha colpito la memoria degli artisti. G. De Chirico trovò ispirazione in questo episodio omerico. L"autore, formatosi a contatto col mito e con la classicità greca, resterà sempre profondamente influenzato da queste tematiche. Le ispirazioni dal mondo greco e soprattutto da una mitologia dai tratti metafisici sono una presenza costante nella sua produzione artistica. Bgli in tal modo recupera uno degli elementi del suo passato: l"infànzia trascorsa in Grecia. Il mondo mitologico è una riserva inestinguibile di materia. Tuttavia l"assiduo contatto con le avanguardie francesi (in particolare col cubismo) contnbuirà a consolidare i tratti più originali e misteriosi della successiva pittura metafisica. I protagonisti omerici si trasformano in manichini stretti in un forte abbraccio presso le Porte Scee, l'ultimo abbraccio prima del duello con Achille per mano del quale Ettore morirà (anche se in realtà, in Omero, questo estremo abbraccio è molto anticipato rispetto all'effettiva uccisione di Ettore). Ettore e Andromaca rispecchiano la tragedia della partenza per la guerra: qui sono uniti da un'intesa immutabile, sono simbolo di un amore coniugale ideale, di un grande sentimento, sono senza volto come l'uomoautoma contemporaneo, sono pertanto modelli emblematici ed universali. I manichini senza volto sono motivo dominante anche in un altro celebre dipinto dello stesso autore, Le MK.Stinqitiet4nti (1918). Le Muse sono figure allegoriche del mito greco che artista rappresenta come statue il cui panneggio ricorda quello delle vesti delle koraiattiche del VI-V sec. Sono figure misteriose (una di spalle, un"altra reca al posto della testa un attaccapanni, mentre un'altra ha testa di manichino), tra oggetti geometrici e scatole colorate la cui compresenza in uno stesso contesto è apparentemente inspiegabile; sullo sfondo il castello di Ferrara, chiaro riferimento alla città quale centro di una lunga ed importante tradizione letteraria e pittorica; infine le ciminiere sullo sfondo sono un collegamento con la contemporaneità. Quindi mondo greco, rinascimentale e moderno sono mondi tra loro lontani ma che possono convivere attraverso un collegamento metafisico, ovvero tutto mentale. (1917), Stessa tematica anche nel dipinto di Carlo Carri La M1Uametajisica opera che si colloca all'interno del movimento futurista cui l'artista aderiscenel 1910. Sul tema dcll' addio di Ettore e Andromaca, De Chirico ritornerà molti anni più tardi (1975), tuttavia rinunciando alla spiazzante essenzialità del dipinto originale ed inserendo -non senza un certo sentimentalismo- la figura di una donna piangente (Andromaca) che tenta invano di trattenere lo sposo, un manichino questa volta provvisto di elmo.

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Gianni Bcrtini, Studio per Ettort t Andromaca{1955)

Gianni Bertini (Pisa 1922- attualmente vive e lavora a Milano). L'artista rappresenta un momento importante nella storia dell'arte contemporanea. Il percorso di questo pittore si sviluppa tra la MAC e la MECart. MAC ovvero il Movimento di Arte Concreta che attinge a forme e colori autonomamente elaborati dalla personale immaginazione dell'artista (B. abbraccia questa corrente nell'esperienza milanese nel 1948-49). MECart ovvero arte meccanica è il movimento artistico cui Bertini aderirà in seguito, nel 1965, insieme a Mimmo Rotella. In questo Studio Bertini passa attraverso il mito di Ettore e Andromaca per esprimere, antonomasticamente, «l'incontro».

Pierluigi Ferrati, Ettort t Andromaca{1994)

Claudia Boni

1.36

Pierluigi Ferrari, nato a Vicenza, vive a Milano. Qui una lancia, un abbraccio tra due figure di profilo e sullo sfondo un elmo: il saluto, il commiato e la partenza per la guerra in una visione simultanea.

Giorgio Groppi, Ettoret Andromaca(1996)

Scultore piacentino vivente, ampiamente riconosciuto dalla critica in ambito nazionale ed internazionale. Allievo di Marino Marini all'Accademia di Brera a Milano, nel 1968 un suo piccolo cavallo di bronzo è stato presentato dal poeta spagnolo Raphael Alberti. Ettoree Andromaca:bronzo, h. cm 20.

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Pier AlbertoFilippi, Ettoret Andronuica(200.S)

Nato a Monza nel 1944, Filippi si è avvicinato alla pittura verso la fine degli anni •60 frequentando il laboratorio d'arte dell'amico pittore Attilio Carpanelli, in quegli anni luogo d'incontro di numerosi artisti. L'importanza del volume nella pittura ha da qualche anno portato Filippi verso la scultura. Parole chiave della sua arte sono realismo e astrazione, forme plastiche semplici e sintetiche, forme tondeggianti che esprimono pienezza di volume. Qui solo due corpi, due metà di un intero, senza testa, sono espressione di un puro concetto (intesa, amore, legame indissolubile al di là degli eventi contingenti). Ettoree Andromaca:scultura in marmo di Carrara, h.110 cm.

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J. Le donne di Odisseo:Nau.sicaa,Calipso

Frcderick. Lcighton, Nau.sicaa(1878 ca.)

Lord F. Leighton (1830-1896), pittore vittoriano, acquisì in Italia e a Parigi una vasta cultura basata sul culto della classicità e del Rinascimento. Si dedicò soprattutto alla rappresentazione di temi mitologici. Questa immagine di Nausicaa (olio su tela 145x67) è di qualità pittorica notevole. La figlia di Alcinoo, re dei Feaci, è nelle vesti di una giovane lavandaia che, come racconta Omero nel sesto libro dell'Odissea, va a lavare i panni al fiume dove incontrerà Ulisse.

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Max Bcckmann(1884-19.S0), Oàyssmsund Calypso(1943)

Max Beckmann è una delle figure di maggiore spicco dell'arte tedesca della prima metà del '900 ed uno degli artisti tedeschi più presenti nei grandi musei internazionali d'arte moderna a cominciare da quelli americani. Beckmann è segnato dall'esperienza della guerra e del nazismo: la sua arte ve.nne bollata come "degenerata" (Entartae Kunst). Fra le sue opere ricorrono composizioni allegoriche che si rifanno alla mitologia. Calipso, accolto Ulisse naufrago, s'innamorò di lui, racconta Omero nel quinto libro dell'Odissea, e lo trattenne presso di sé per lungo tempo finché decise di lasciarlo partire: allora gli diede il materiale necessario per costruirsi l'imbarcazione, nonché consigli per una felice e sicura navigazione. Nel dipinto di Beckmann si assiste all'identificazione di Calipso con la potniathaon, "signora delle fiere" (serpenti, uccelli, leopardi), e quindi ipostasi della grande dea mediterranea, potentissima divinità. Una potniathaon, come vedremo, è anche Circe, che spesso, nella cultura del Novecento, tende ad essere associata/ confusa con Calipso5•

4. Circe,Sirene, Penelope

Circe è di volta in volta presentata come signora delle fiere, come intrattenitrice galante, come aggressivo e sfrenato sex-symbol.

s Cfr. g!.iinterventi di E. Cavallini cd E. Zoni in questo volume (pp. 157 ss. e 113 ss.)

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La pittura di fine '800 recupera temi mitologici e produce immagini convenzionali con attributi tradizionali. Nei dipinti di questo genere vi è una scrupolosa attenzione per l'aspetto narrativo omerico: in altri termini, l'intento è quello di visualizzare il racconto. Diversamente, nell'arte contemporanea, soprattutto in quella •d' avanguardia', non interessa più illustrare l'episodio omerico, ma piuttosto dare evidenza al personaggio con ciò che esso rappresenta in senso universale. Nel '900 il gusto per la narrazione cede il posto ali'esigenza di cogliere l'essenza più profonda della figura. Così l'immagine narrativa si dissolve per lasciare spazio alla forma pura di ciò che è, e che incarna il personaggio stesso. Del resto la ricerca di questo periodo tende a rintracciare e a portare alla luce le immagini archetipiche che esprimono contenuti profondi legati alla radice più intima delle cose. Gli artisti contemporanei manifestano questa continua tensione verso l'essere più recondito attraverso immagini che traducono intuizioni, sensazioni, sentimenti, lampi. Emblematica, per illustrare questo fondamentale passaggio, la diversità di rappresentazione di Circe e delle Sirene da un lato, e di Penelope dall'altro, dall'arte vittoriana alle avanguardie contemporanee.

Wright Barkcr (1863-1941), Circe(1890)

In questo dipinto Circe viene ancora una volta interpretata come potniatheron, che incede sicura su una pelle di tigre tra leoni, leonesse e lupi. Senonché la figura femminile, così ariosa, vestita con un abito impalpabile al centro della scena, in cima alla scalinata tra due grandi colonne, ai cui piedi giacciono fiori,

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assomiglia più a una moderna soubrettedel varietà (quasi una Wanda Osiris!) che non ad un· austera, compassata divinità del mondo classico.

John William Waterhouse, CirceOfftringtht Cup to lRyssts {1891)

Pittore inglese (1849-1917), autore (fra l'altro) di dipinti ispirati a alla storia antica o ad altri soggetti classici che possono trovare un parallelo nell'opera di Laurent Alma-Tadema. Rimase fedele alla sua ispirazione, sostanzialmente conservatrice, mentre numerosi artisti di quell'epoca iniziavano a rivolgersi all'impressionismo, al cubismo e all'astrazione. W. era particolarmente affascinato dai miti riguardanti maghe e incantatrici e trovò nella mitologia greca più di uno spunto: interpretò così queste figure femminili come femmes fatales. Fanmefatale per eccellenza è la maga Circe, qui rappresentata nel momento in cui offre ad Ulisse la coppa contenente un filtro magico, fatto da lei stessa, nel tentativo di sedurre reroe. Lo schienale del trono su cui siede Circe è in realtà

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uno specchio, nel quale possiamo vedere riflessa l'immagine di Odisseo: un interessante espediente pittorico con cui l'artista evita di mostrare l'eroe di spalle. Interessante notare che sullo stesso trono di Circe sono scolpite teste di animali feroci che, a bocca aperta, mostrano denti aguzzi, mentre ai suoi piedi giace un maiale. L'iconografia è, anche in questo caso, quella della potnia theron:Circe è ipostasi della Grande Dea mediterranea, potentissima divinità di ascendenza ancestrale. Nello stadio del mito cui si riferisce l'Odissea,questa antica potentissima dea viene declassata, diventando non più di una maga, tuttavia capace di trasformare gli uomini in animali e quindi ancora dotata di poteri soprannaturali. Ancora al personaggio di Circe si riferisce un altro dipinto di Waterhouse, Circeinvidiosa (1892), interessante per l'uso di un cromatismo livido, quasi infernale, che sembra suggerito più dal contemporaneo romanzo gotico che dalla tradizione classica.

Edgar Bertram Mack.cnnal (1863-1931), Circe(1894)

Bronzo di fine ottocento di grande finezza, che ricevette la menzione d'onore al Salone di Parigi nel 1893 e che procurò notevole fama allo scultore.

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Adolphc Gustavc Mossa, Circe(1904}

Mossa (1883-1971) dipinge opere che alludono alla natura perversa della donna nella sua dimensione più intima. Qui Circe è vestita come una cortigiana orientale con al collo due serpenti tra un fitto gruppo di porci; sul fondo la nave di Ulisse, anacronisticamente rappresentata come un galeone spagnolo.

J.W.Watcrhousc, Circe(The Sorctrt.SS) (1911}

Circe perde i connotati tipici del personaggio omerico per trasformarsi in una pensosa figura immersa nelle sue riflessioni, tra pozioni e un libro di magia. Non si dimentichi che al tempo di Waterhouse il pubblico inglese (e non solo) era particolarmente attratto da misteri, magia e sortilegi (si pensi a romanzi e racconti di O. Wilde, B. Stoker nonché R. L. Stevenson).

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Gorge Grosz (1893-1959), Circ~(1927)

Artista che vive in prima persona l'esperienza della I Guerra mondiale; nel 1918 aderisce al movimento dadaista (introdotto a Berlino da Zurigo) che proponeva la dissacrazione dei valori e un atteggiamento di opposizione al conformismo. Nel 1920 Grosz, insieme ad Hausmann, organizza a Berlino la prima mostra dada in cui figurano anche lavori di Marx Ernst e Otto Dix (opera in questo filone anche Max Beckmann). Circe simbolo del sesso, in compagnia di un cliente emblematicamente raffigurato con la testa di un maiale, a simboleggiare una borghesia grassa, lasciva e corrotta.

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Leo Belmontc, Circe{1941)

Di maggiore interesse rispetto alla rappresentazione di Cassandra, dello stesso autore. Anche questo è un arazzo. Eseguito da B. per la figlia Yvette, si rifa all'iconografia di Circe come potnia theron. Circe, accompagnata da due pantere nere, è ancora una volta ipostasi della potentissima Grande Dea mediterranea. È una figura molto elegante in abito finemente ricamato che lascia scoperto il petto (è seduttrice); tiene in mano un'ampollina (è maga).

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Salvator Dali, Circe(1969)

Una delle immagini più esplicite (ma anche tra le più fortemente ironiche) su questo aspetto della figura di Circe come simbolo sfrenato del sesso.

André Masson, Ulyssesat Ciret's {1972)

Pittore francese {1896-1978) che dopo un iniziale periodo cubista entrò a far parte del gruppo dei surrealisti dal quale si staccò nel 1929. Il suo intento pittorico fu quello di trascrivere in maniera immediata gli impulsi psichici, componente essenziale della pittura surrealista.

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Ancora una volta Circe è intepretata come sfrontato e provocante simbolo del sesso.

John William Watcrhowc, A Mmnaid (1900) e TheSiren (1900 ca)

Una pittura che raffigura la sirena come creatura dalle potenti arti seduttive, ma anche statica e composta. Il risvolto drammatico della vicenda omerica è più esplicito nel dipinto di un altro pittore vittoriano: H. J. Draper.

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Herbert James Draper, Ulyss~and Sirrns( 1909)

In questo dipinto è illustrato il noto episodio omerico in cui queste misteriose creature tentano di ammaliare Ulisse. La differenza fondamentale tra l'Odissea e le successive riprese di essa è che nel poema omerico le Sirene non sono visibili: per tale ragione, i pittori si sentivano liberi di rappresentarle come meglio credevano, a partire dalla pittura vascolare greca (che immagina le Sirene come mostri zoomorfi), fino al composto classicismo di Waterhouse e alla più audace e provocante interpretazione di H. J. Draper, in cui le Sirene sono donne bellissime e aggressive 6•

Come mi fa notare E. Cavallini, al dipinto di Draper allude inequivocabilmente la copertina dell'album dei Symphony-X Odyssty, ove la nave di Od.isseo è letteralmente aggredita da una sirena dalle ali di pipistrello, frutto di un estemporaneo sincretismo fra tradizione classica e horror.

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Alberto Savinio, Simtt ( 1929)

Molto diversa dalle precedenti è la rappresentazione che delle Sirene fa Savinio: qui la figura femminile risulta deformata, quasi a riprova della misoginia dell'autore. ravvisabile anche in altre opere.

René Magrinc,La Sirena morta (1935)

L'immaginario surrealista di Magritte esaspera la deformazione dell'archetipo iconografico della sirena e, pur mantenendo integra la forma, capovolge la

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struttura compositiva (corpo di donna e testa di pesce). L'effetto che ne risulta è quello di un marcato, per non dire spiazzante, straniamento.

Pablo Picasso, Ulysseet lessirenes( 194 7)

Una nave-pesce, una vela bianca, cielo e onde, al centro un volto umano tondo come la luna con occhi sgranati e bocca simile ad una fetta di limone, una creatura dalla testa d'uccello accanto all'orecchio sinistro del re di Itaca (come immagine di una percezione uditiva, di un elemento sonoro), la grande sirena blu dalla forma di pesce che passa sotto l'imbarcazione con tutta la sua potenza seduttrice. Essa si infila tra scafo e timone per far deviare la nave dalla sua traiettoria. Curve e controcurve creano il movimento dell'acqua. L'elemento marino è nella stessa tonalità di blu del cielo, il che fa pensare ad una continuità tra gli elementi. ll volto di Ulisse guida come una bussola la nave attraverso i pericoli. ll racconto omerico del marinaio che seppe resistere nelle avversità è rispettato qui da Picasso. Sia per i compagni dell'eroe, qui supposti, sia per chi osserva il quadro, l'impeccabile capitano costituisce il solo punto di riferimento. Come nell'episodio omerico, Ulisse deve mantenere la rotta qualsiasi cosa succeda. La barca-pesce è simile ad un occhio gigantesco la cui iride è costituita dal volto di Ulisse. È un accostamento di simboli che rimandano ad un significato più profondo.

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Mare

Chagall,ùs Syrmes d'Ulysses,1974-197S

Chagall recupera l'iconografia tradizionale delle Sirene alate, desunta dalla pittura vascolare greca e già utilizzata (fra gli altri) da Waterhouse. Il cromatismo livido e stridente restituisce appieno il senso di pericolo e insidia presente nell'episodio, permettendo di distinguere nettamente le Sirene odissiache dalle fiabesche, amabili figure femminili volanti tipiche dell'immaginario del pittore 7•

John Roddam Spencer Stanhope (1829-1908), PmLlopt (1849) 7

Di ben diverso tenore l'idillica Sirbtt au poèu (1967) dello stesso Chagall, che peraltro tratta ripetutamente il terna della Sirena, ma per lo più estrapolandolo dal contesto omerico e adeguandolo al proprio personalissimo linguaggio figurativo.

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Pittore proveniente dal mondo aristocratico, grande maestro del colore, seguace del preraffaelita Bume Jones, interessato a temi allegorici e mitici.

John William Waterhouse, PcmlopcandSuit.ors(1912)

Penelope, moglie di Ulisse, celebre per la fedeltà al marito, attende il ritorno del consorte senza cedere a nessun pretendente. Penelope è al telaio intenta a tessere una tela infinita tra le insistenti profferte dei pretendenti che cercano di sedurla con musica, fiori, gioielli. Alla base di questa rappresentazione vi sono la scrupolosa lettura del mito e l'intento di illustrare la narrazione omerica, secondo il gusto tipico della pittura di fine '800 (cfr. supra). Completamente diversa la raffigurazione di Penelope secondo Carrà, che rinuncia totalmente all'elemento narrativo per soffermarsi sulla solitudine stra• niante del personaggio.

Carlo Carrà, Penelope(1917)

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Nel •900 c·è una ricerca incessante ed una forte tensione verso la rappresentazione della pura essenza delle cose. La Penelope di Carrà è vista di profilo, priva di ornamenti (solo una fibbia sulla spalla ci dice che è una donna dell'antichità), con il volto tristemente composto all'interno di uno spazio privo di qualsiasi oggetto: tutto è vuoto intorno. È la solitudine. Del resto la pittura di quest'epoca è una speculazione sulla precarietà e sullo straniamento dell'essere.

Ernilc Antoinc Bourdcllc (1861-1929), Prnelopt{1907 / 1926)

Scultore francese la cui fama va al di là della Francia e dell'Europa. La sua produzione migliore si colloca nel primo decennio del '900: appartiene a questo periodo questa Penelope,di datazione incerta ma probabilmente di poco anteriore al dipinto di Carrà, testimonia come, ancora in pieno Novecento, parte della produzione artistica continui ad arroccarsi in un convenzionale figurativismo (anche se, come in questo caso, di qualità elevata), rifiutando gli arditi sperimentalismi delle avanguardie.

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Alberto Savinio, Pmdopt (1933) e (1940)

Particolare è l'immagine che di Penelope offre Savinio. La rappresentazione grottesca e fortemente ironica in questi due dipinti si ritiene essere collegata all'atteggiamento misogino dell'autore. Nel dramma di Savinio Capitan Ulisse (1925), oltre ad esserci una fusione tra le figure di Circe e Calipso, ci sono battute che rivelano un fondamentale misoginismo. Così troverebbe spiegazione

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l'iconografia della donna-struzzo e de.Ila donna-pellicano, motivi presenti nella produzione dei primi anni Trenta.

4. Elena

Penelope casta e virtuosa è, per tradizione, figura contrastante con un altro personaggio femminile dominante in entrambi i poemi omerici: Elena, la più bella tra le donne mortali. Concluderemo il presente intervento proprio con la figura di Elena in quanto oggetto di una singolare rivisitazione da parte di Marce! Duchamp.

Marccl Duchamp, BelleHalcine,F..au de Voilau (1921)

L'artista francese (1887-1968)8 è stato forse l'esponente più rappresentativo del movimento dada, colui che meglio ne ha espresso i motivi più profondi. Il suo nome ed il suo lavoro sono divenuti un simbolo del rovesciamento totale dell'arte operato da.Ileavanguardie più radicali del XX secolo. La sua opera è un amalgama di puri pensieri, una mistura che ricorda l'antica alchimia. D. propone ironicamente e polemicamente un' antiarte fatta di ready-mades= oggetti trovati, oggetti comuni che fuori dal loro contesto quotidiano diventano opere d'arte solo perché dichiarati tali daU'artista. Tra il 1915-1919 dà vita al dada americano insieme aU'amico artista Man Ray (è di Duchamp la famosa Gioconda con barba e baffi, del 1919).

Sulla vita e l'opera dell'artista, cfr. C. Tompkins, Duchamp:A Bwgraphy,1996; A. G. Marquis, MarcelDuchamp:T1teBachelorStrippedBare,Boston 2002. 8

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Negli anni •20 D. realizzò autoritratti fotografici in cui si esibiva in travestimenti femminili sotto lo pseudonimo di Rrose Sélavy, suo alteregofemminile. Nel 1921 nacque Belll Haleine, uno dei più noti ready-matla alterato dallo stesso Duchamp insieme a Man Ray. È una bottiglia di profumo, alta 1.5 cm ca., contenuta in una scatola di cart~ ne, viola a11•intemo.Il flacone, probabilmente disegnato da Lalique, conteneva un profumo di Rigaud. Duchamp, dopo averla svuotata, ne rimosse retichetta originale sostituendola con una personalizzata, creata appositamente da Man Ray, che raffigura lo stesso Duchamp in versione femminile (capelli folti e capello a tesa larga). È come se ora il ready-madecontenesse lo spirito, l'essenza dell·artista. È un•immagine doppia (maschio e femmina) in cui il nome Rrose Sélavy suona come eros,c'estla vie. Come Monna Lisa con barba e baffi è uomo e non donna, cosi RS è una donna e non Marcel. Le iniziali RS compaiono sull·etichetta ma R è girata come se riflessa in uno specchio. L.etichetta originale recava &11'de violette "Acqua di violetta .. che Duchamp mutò in &11'de voilette "Acqua di velo .. una combinazione tra il colore viola e l'idea di 'velare·. Belll Haleine "bel respiro ..è un gioco di parole su Belll Hélbae''bella Elena·: Quindi il respiro è anelito ad entrare come un iniziato in ciò che completa il proprio essere; il colore viola è il simbolo dell'androgino; il velo allude al fatto che la verità è nascosta e che viene compresa solo dagli adepti e non dai comuni mortali. Belll Haleine è un·cspcrienza artistica che svela una conoscenza profonda den•eros.La sensualità superficiale e solo apparentemente trasgressiva dei pittori vittoriani appare, ormai, definitivamente superata.

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Claw:liaBoni Universitàdi Bologna,Polodi Ra\Jfflna

CBSARBPAVESEE LA RICERCADI OMBRO PERDUTO (DAI DIALOGHICONLBUCÒALLATRADUZIONE DELL'IUADE)* di Blconora Cavallini

Nella Prefazione ai DialoghiconLeMcò, pubblicati nel 1947 da Einaudi, Cesare Pavese scrive: Quando ripetiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitici, esprimiamo in mezza riga, in pochesillabe,un fatto sintetico e comprensivo, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale. Se poi questo nome, questo gesto ci~ familiarefin dall'infanzia,dalla scuola - tanto meglio. L'inquietudine~ più vera e tagliente quando sommuove una materia consueta. Qui ci siamo accontentati di servirci di miti ellenici data la perdonabile voga popolare di questi miti, la loro immediata e tradizionale accettabilità.

Il mito greco, in quanto patrimonio comune fortemente radicato nell'immaginario collettivo, doveva apparire a Pavese - da tempo interessato allo stu· dio delle mitologie mediterranee 1 - come una sorta di canale privilegiato, attraverso cui esprimere e trasmettere le proprie riflessioni sull'angoscia esistenziale dell'uomo, sul mistero della vita, sull' «eterna problematicità delle cose-i. Sempre nella Prefazione, lo scrittore identificava nel mito «un linguaggio, un mezzo espressivo»: quello che oggi si definirebbe un medivm. Nel mito greco, in particolare, Pavese ravvisava un affidabile strumento comunicativo, un 'codice' che il pubblico avrebbe potuto agevolmente riconoscere e comprendere. Senonché, le aspettative dello scrittore furono ben presto frustrate dalla generale freddezza con cui vennero accolti i Dialoghicon Leucò.L'inquietante, visionaria rappresentazione pavesiana del mito aveva ben poco in comune con l'edulcorata, rassicurante immagine che dello stesso veniva proposta nella scuola; inoltre, in quegli anni l'interesse dell'ambiente letterario era prevalentemente rivolto verso la realtà storico-politica contemporanea, con particolare riferimento alla Resistenza e all'immediato dopoguerra, nonché ai vari aspetti della vita quotidiana propri di quello specifico contesto sociale (tematiche cui peral* Desidero esprimere il mio più vivo ringraziamento a Gabriella Untersteiner per avere cortesemente messo a mia disposizione importanti scritti appartenenti all'archivio del padre. 1 Pavese fra l'altro era, con Ernesto De Martino, responsabile della collana etnologica della Einaudi. nella quale diede spazio anche a studi sulle mitologie mediterranee. 1 Cosl M. Untemeiner in «L'educazione politica» 1,11-12, 19◄7, 344 (su cui ritorneremo).

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tro lo stesso Pavese si era dedicato, sempre verso la fine degli anni Quaranta, in opere come n compagno,La casain collina,La b,na e ifalò}3.Ma se ai circoli letterari del periodo l'attenzione dello scrittore per vicende, ambienti e personaggi tanto remoti nel tempo dovette apparire anacronistica se non eccentrica, il mondo accademico, dal canto suo, ignorò (o finse di ignorare) il libretto di Pavese, il quale, oltre a non essere un saggio specialistico, andava in direzione diametralmente opposta rispetto all'impostazione neo-umanistica predominante in Italia ancora nel dopoguerra, risentendo piuttosto l'influsso della corrente - allora minoritaria - di studi comparativistici •. Il 3 aprile 1947, in una lettera a Tullio e Cristina Pinelli'5, Pavese scriveva: [I DialoghiconLeucò]non piacàono a nessuno, tranne a un valente professore di greco e studioso delle religioni, che mi ha subito regalato un suo estratto, n concettodi &z(µw11in Omero,con questa dedica: "A Cesare Pavese l'artista intetprete della religione ellenica':

Il «valente professore» era Mario Untersteiner, allora preside del liceo "Berchet" di Milano. A lui è indirizzata un'altra lettera di Pavese, del 20 novembre 194'15: Caro Professore, la notizia che mi ha letto con simpatia e con gusto mi dà molta gioia. O mio libro è nato da un interesse per il problema del mito e delle cose etnologiche che m'ha indotto e mi induce a molte strane letture - ma poche mi hanno dato la soddis&zione e lo stimolo della sua Fisiologia.Pensi che le Sue pagine hanno anche avuto questo effetto, che ho ripreso grammatiche e dizionari J 4

La stesura dc La luna e i falò è di quel periodo, anche se la pubblicazione è del 1950.

Come è noto, gli studi comparativistià sul mito, introdotti in Italia da Raffaele Pcttazzoni (al cui volume Miti e leggendePavese dedicò una recensione a dir poco entusiastica su cL'Unità• di Torino, 12 settembre 1948), stentavano a trovare séguito nel clima neo-umanistico che per lungo tempo continuò a prevalere nel nostro Paese. In particolare, alcune affcnnazioni contenute nei Dùllogfai con Leucò(soprattutto nelle brevi introduzioni ai singoli dialoghi) dovevano apparire a molti inquietanti e provocatorie: cosi ad esempio tda Frigia e la Lidia furon sempre paesi di cui i Greà amarono raccontare atrocità. Beninteso, era tutto accaduto a casa loro, ma in tempi più antichi• (p. 114), ovvero «anche i Grcà praticarono sacrifià umani. Ogni àviltà contadina ha fatto questo. B tutte le àviltà sono state contadine• (p. 122). Sulle fonti dei Dùllogfai con Leucò,e sulla successiva collaborazione tra Pavese cd il massimo esponente della scuola comparativistica italiana, Angelo Brclich,vedere in.fra. 'In lettert 1926-1910, Torino (Einaudi) 1968, 566. 6 In letttTt (àt. a n. 5), 564. All'epoca, il drammaturgo torinese Tullio Pinclli, amico di Pavese fin dalla giovinezza, era già noto nell'ambiente del àncma per la sceneggiatura dc Le mismt del signor Trawt di Mario Soldati (1945). Successivamente avrebbe collaborato agli script dei più celebri film di P. Fellini, fra cui Lo sceiccobianco(1952), I vittlloni (1953), LII strad4 (1954), La dol« vita (1961), 8 e ½ (1963), Giulietta deglispiriti (1965).

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(dopo una giovinezza tutta impegnata in problemi di narrativa nordamericanae anglosassone)di molti anni &, quando posso, rosicchiandomi Omero, col solo rimpianto di non poter procedere scioltamente come vorrei'. È una lingua terribile - divina e terribile, come la terra secondo Bndimionc. Inutile dirLc che ogni Suo appunto e app~ento mi sarà carissimo. Anche se non stampato. Con cordiale amicizia Cesare Pavese

L'insigne studioso trentino, di cui Pavese (come si evince dalla lettera citata) aveva letto la Pisiologi4del mito (Milano 1946)1, era stato, a quanto pare, il primo ad interessarsi ai Dialoghicon Levcò,di cui, alla fine di quello stesso anno, pubblicò una recensione nettamente f.ivorevole ne L'educazionepolitica, I 11-12 (1947), 344-346. Un intervento breve ma penetrante, in cui Untcrsteiner (noto per la lucida indipendenza di giudizio )9esprime senza riserve il proprio apprezzamento per il libretto di Pavese, pur riconoscendo in esso un'opera 'scomoda', sia per l'approccio eterodosso (almeno per l'epoca) al mito greco, sia per il groviglio di angosciosi interrogativi che pervade il testo, sia ancora per la peculiare densità del linguaggi.o, più poetico che prosastico, che intensifica il messaggio e al tempo stesso lo oscura. Scrive Untersteincr: Che i DlaloglticonLeucòdi Cesare Pavese siano documento di una singolare comprensione dei grandi momenti, che costituiscono eterne fonti d'angoscia per gli uomini, che questi momenti siano modernamente rivissuti nella sostama dcll'espcricmc egee prccllcnichc cd elleniche; che infine l'onda drammatica della poesia li animi con un impeto di irruente persuasione, io non dùbito. Se avrò molti consenzienti non so, né mi preoccupo. Per mc il libro presenta un suo valore singolare (p. 344).

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Risale probabilmente a questo stesso periodo il tentativo cliPavese clitradurre la Teogoniacsiodca (vedere in.fra). 1 È probabile che la lettura del saggio cliUntcntciner abbia influenzato Pavese quanto meno nell' elaborazione degli ultimi dialoghi (1946-47) nonché nella disposizione finale del materiale, da cui acmbra trasparire l'intento cli proporre una sorta cli passaggin dal mito al logo.s,dal razionale all'irrazionale (cfr. L. Sccci. MitologiamtdittrraMI nti Dialoghi con Lcucò di Cuart Pavest, in Mydw. Script4in honomnMarii Untmtdner, Genova 1970, 241-256). 'Sulla figura cli Mario Untcnteincr, cfr. il profilo tracciato da A. M. Battegazzore in L'ttiaa della rapme.Ricordodi Mario Untmrdner, a cura cli A.M. Battegazzore e F. Dcdcva Caizzi, Milano 1989, 11-30, in cui l'allievo sottolinea fra l'altro come il Maestro avesse qapprcscntato, nel mondo accademico, attraverso gli avvenimenti più traumatici della storia nazionale del nostro secolo, la buona e onesta coscienza dell1talia progressista e demoaatica», non esitando a pagare «fino in fondo, e a caro prezzo, le conseguenze delle sue scelte» (p. 11).

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Più avanti, il recensore (con riferimento al dialogo intitolato L'11.Dfflo-lvpo) puntualizza come il termine 'poesia', da lui applicato allo scritto pavesiano, sia da intendersi non in senso generico bensi specificamente tecnico, in quanto Spesso, il tono poetico del dialogo si solleva a un ritmo poetico, che dà solennità a un pensiero formatosi sull'esperienza di un mito sommersa nell'orrore del nostro destino:

Gli dèi non ti aggiungono Né tolgono nulla. Solamente d'un tocco leggero T'inchiodano dove sci giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Le divisioni in versi dell'apparente prosa sono, qui come altrove, mie, marivelano, se non erro, quel brivido trasformatosi in limpido fluire lirico, che è drammatica imposizione dclla chiarezza di un'idea (p. 345).

L'intuizione di Untersteiner sarebbe stata ribadita, molti anni più tardi, da «per buona parte Gianfranco Contini, che avrebbe definito i Dialoghicon Lea&cò almeno poemetti in prosa di forte carica ritmica (da avvicinare piuttosto a Lavorare stanca)»10• Consapevole di trovarsi di fronte ad un'opera essenzialmente poetica, Untersteiner non si sofferma sull'attendibilità dei Dialoghicon Leucòdal punto di vista storico-antropologico, ovvero da quello della storia delle religioni; cosi come rinuncia a indagare le fonti utilizzate dallo scrittore non solo per ricreare gli scenari mitologici, ma anche e soprattutto per rintracciare, nelle strutture e nelle dinamiche del mito greco, gli strumenti comunicativi idonei a trasmettere le proprie personali riflessioni sul senso della vita, sul perenne riproporsi del ciclo nascita/morte/rinascita, sull'illusoria aspirazione dei mortali alla dimensione dell'eternità. È, piuttosto, la componente.filosoficadell'opera ad attirare l'attenzione dello studioso, cui ad esempio, non sfugge come, nella visione di Pavese, l'immortalità degli dèi sia ancora più tediosa e frustrante della fragile e limitata esistenza umana. Questo concetto, ribadito quasi ossessivamente nei Dialoghi,è puntualmente evidenziato da Untersteiner: Più lampeggiante è la definizione che di immortale dà Calipso: "Immortale è chi accetta l'istante. Chi non conosce più un domani ... chi non spera di vivere". Eppure l'uomo non rinuncia all'immortalità. Se quella degli dei è nega-

°Cfr. G. Contini, Presfflztftmminili nell'operadi Pavae, in «Otto/Novecento•

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1,1994, 199 ss.

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zione della vita, se è qualche cosa che ripugna alle sue categorie di uomo, dovrà cercarsene un'altra (p. 34S).

Nei mesi seguenti, il rapporto epistolare fra Pavese e Untersteiner andò intensificandosi, dando vita a un rapporto di reciproca stima ed amicizia che doveva condurre a risultati di eccezionale importanza per la cultura classica italiana. Fra le letture comuni allo scrittore e allo studioso 11, vi erano Thessalisc~ Mytltologiee Untem,dumgenuberden griecltiscltenMytltosdi Paula Philippson (entrambi pubblicati a Zurigo nel 1944) 12: per iniziativa di Untersteiner e Pavese, i due scritti vennero inseriti nella collana etnologica di Einaudi nel 1949, con il titolo Origini eforme del mito greco.La traduzione venne curata da Angelo Brelich. che l'anno precedente - sempre nella collana diretta da Pavese ed Ernesto de Martino - aveva dato alle stampe (con il titolo Prolegomeniallo snulio scientifico della mitologia) la versione italiana del saggio di Carl Gustav Jung e Karl Kerényi BinfiiltTKng in das WesenderMytltologie(Amsterdam-Leipzig 1941}. Ma l'interesse di Pavese per la cultura greca non si limitava alla storia del mito e della religione. Come poeta e scrittore, egli coltivava un progetto tanto ambizioso quanto innovativo, la cui l'f"aliu.wzionesarebbe stata resa possibile proprio dall'incontro con Untersteiner. Il 12 gennaio 1948 Pavese scrive: Caro Professore, ho la sua e il numero (l'ultimo, ohimè!) dell'F.d1CC41Zione Politica. Adesso una proposta. Da parte di Einaudi. È molto tempo cheio &ognodi ~ .stampatavna Vfflione q1UISi lmtrale, a venoa veno,andandoa capoquando il JeJUO t finito, dell'Iliadee ddl'Odi.s.sea[il corsivo è mio]. Come i drammi elisabettiani tradotti da Piccoli per Laterza. Come i versetti di SpoonRiverdi cui Le mando un saggio. Ho reso l'idea? Che ne direbbe di pensarci anche Lei, e magari impegnarsi per tàrcela. O consigliarci, se le Sue occupazioni non glielo consentono? Già l'&chilo mi pare sia andato accostandola a questo lavoro. Grazie ancora suo Pavese Aspetto Odissea XI

Come è noto, Untersteiner declinò personalmente l'invito, ma segnalò a Pavese una sua giovane allieva del Liceo Berchet di Milano, Rosa Calzecchi 11

Oltre alle opere citate di Rgllito, sono da ricordare quanto meno Paginedi religionemeditmanea (Milano 1942) di U. Pcstalozza, che era stato &a i maestri di Untcrstcincr, nonché Glidèi dellaGrecia di W. Otto (trad. it., Firenze 1944). 12 D secondo dei due studi costituisce, a sua volta, una riproposizione di Gtnealogitals mytisdie Form: Shlditn zr,r Theogoniedu Huiod (Oslo 1936), preceduta da un saggio sulla Ztit4rt (la 'qualità del tempo') nel mito.

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Onesti, che si mise all'opera sotto attenta e assidua supervisione dello stesso Pavese. Una lettera del 29 novembre 1949 a Emilio Cecchi mostra quanto lo scrittore tenesse a questo lavoro e con quanta cura (per non dire trepidazione) lo seguisse 13: Caro Cccchi, riceverà in questi giorni un mio nuovo libro, e sarò lieto se non le dispiacerà. Ma oggi le scrivo per ben altro, per Omero, nientemeno. 14 Muscctta le avrà già detto della cosa. Contavo di venirgliene a parlare io stesso, a Roma, ma non mi riesce. Sto finendo la revisione di una versione dell'Iliade fatta per noi da un'allieva di Untcrsteiner, certa Rosa Calucchi Onesti, ottima grecista, a mio parere, e che ha messo la sua grammatica a disposizione della nostra retorica editoriale, e ne è uscita questa versione di cui le mando, come saggio, la morte di Ettore. Lei vedrà dal tono qual è stato il criterio che ha guidato l'impresa. Evitare il neo-classico, montianoo pascoliano chefosse[il corsivo è mio], cd evitare la vile prosa. Abbiamo insomma applicato all'Iliade il criterio che tècc già buona prova - si parva- per il nostro Spoon River ...

u Significativa, inoltre, la lettera a Rosa Calzccchi Onesti del l ◄ giugno 19◄9: «Cara Signorina. ricevo tanto Omero che non so più dove metterlo. Ormai. avendo perso del tempo, ho quattro canti interi (Xl-XIV) da rivedere. Vede che esempi Le do, a Lei che non donne di notte per finire in tempo? Ma mi ci metterò subito. Ho intanto ricewto la sua lettera del 31 maggio, gentile e luminosa e penetrante come un mazzetto di fiori profumati. Per questo, in fondo, si saivono hbri; per aprire questo dialogo. La sua caratterizzazione, soprattutto paesistica, è molto giusta e tradisce un'identica dolce mania in Lei: l'illusione di penetrare la natura, di poter arrivare a sentirne la vita in modi quasi magici, certo simpatetià. Non sarebbe quella fine maneggiatrice di parole che è, se non sentisse cosi i fenomeni del mondo anche Lei. Quanto alla soluzione che mi augura di trovare, io credo che diffiàlmente andrò oltre il capitolo XIV del Gallo.Comunque, non si è sbagliata sentendo che qui è il punto infiammato, il locus di tutta la mia cosàcnza. La ringrazio con una gioia profonda e mi auguro che il Suo Omero trovi a suo tempo lettori tanto avveduti. Cordialità, suo Pavese». In una lettera successiva (12 gennaio 1950), Pavese appare talmente entusiasta dei risultati conseguiti da pensare ad una traduzione dell'Odissea: .CCOtile Signorina, mentre la ringrazio dei suoi auguri e contraccambio, sono a chiederle notizie dell'Omero ... lo comincio a scalpitare e a pensareall'Odissea. Che ne direbbe di un contratto analogo, a decorrere da questa estate imminente, come per l'llwlt? lo accetterei, e mi pmu,ro SfflZ' altropercolJJJborare comegiàfatto [il corsivo è mio]. Pensi, con l'esperienza acquisita, che perfezione di lavoro usàrcbbc. Cordialmente, suo Pavese». 14 Cfr. la lettera a Muscetta del 7 giugno 19◄8 (in Lmtn [cit. a n. 5), 599). Carlo Mwcetta (Avellino 1912-Aci Trezza 2004), docente di letteratura italiana nelle Università di Catania e Roma, dopo essere stato per qualche tempo vicino alle posizioni crociane, passò ad un orientamento critico di impostazione marxista. Con Manara Valgimigli, curò per i tipi di Ricciardi (Milano-Napoli 1953), le Optrt di V. Monti, fra cui la traduzione dell'lliadt (successivamente ripubblicata a parte negli Oscar Mondadori [1995D.

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A Pavese si deve la scelta di far corrispondere la suddivisione in righi della traduzione a quella in versi del testo greco (come del resto già suggerito nella citata lettera a Untersteiner, in cui Pavese parla di «traduzione quasi letterale, verso a verso»). Sono inoltre di impronta pavesiana la scelta del registro stilistico - in bilico fra la verticalità obbligante della lingua poetica e le ineludibili scorciatoie del linguaggio colloquiale" - nonché, verosimilmente, alcune peculiari soluzioni interpretative, che presuppongono approfondita riflessione sulle implicazioni semantiche del testo omerico.

Qualche esempio. In Iliade 1, 380 il formulare &à 61 ai yilvaTo µTITT\P è reso con cuna madre dea ti ha portato», che evidenzia la materiale coiporcità della gravidanza di Teti, antica dea-madre mediterranea (una nozione che non risulterebbe pcrccpt'bilcin traduzioni più convenzionalicome «ti ha generato una madre dea., o simili). In Iliade 4, 453, «l'acquarabbiosa» traduce ~Lµov r&,p, sottolineando la pcculiarc abu.siodell'aggettivo 16 ~LµOS' (generalmenteepiteto di dèi cd eroi) , cd accentuando cosi il parallelismo fra la violenza della natura (si tratta, nello specifico,dell'urto fra due torrenti montani) e la brutalità, distruttiva cd esaltante insicme17, della guerra. In 13, 72 egli dei si capiscono»rende il greco dp(.'}'V(l>TOL 61 8Eol nip, sottolineando come la 'riconoscibilità'degli dèi non sia meccanicamentelegata alla misura o alla forma delle loro impronte ('[XVT1), o a qualsiasialtro dato sensoriale, ma sia piuttosto frutto di un meccanismo cognitivo", di un'utttdzioneperaltro non a tutti concessa (gli dèi, quando vogliono, sanno anche rendersi imconosciln'li: emblematico il caso di Iliade 22, 297 ss.). Ancora: in Iliade 21, 605 ws-alil lXnOL TO ICLXT)O'f08cu noolv olaL è reso con «perchésempre sperasse d'arrivarlo correndo»,ove il pcculiarc impiego transitivo del verbo di moto (per cui cfr. la poesia Altri tempi: egliuccellipassavano a volo/ anche sopra le nubi, ma bti li arrivava/ come noci sull'albcro»)19

"Sulle caratteristiche della lingua di Pavese, cfr. in particolare G. L. Beccaria, n "wlgareillusm"di CesarePavese,in n mutlere di scriwrr. CesarePavesetmtt'anni dopo(Atti del Convegno), Santo Stefano Belbo 1982. 16 Cfr. lliadeS, MS (~LµOS' • APTlS'),8, 473 (~µOS' "EICTwp), etc. 17 Cfr. Ilidlk 4, 4SO lv8a 6' etµ olµc,ryfi TE Kal EÙXll>ÀTItrÉMV àv6pwv I ÒÀÀWTwvTE Kal ÒÀÀ'UµEll(a)V. 11

Cfr. la ttaduzione «e il pilota conoscendolo I subito ai suoi compagni gridò e parlò-, con cui Pavese (in A. Dughera, La Teogoniadi &wdo e m inni omerici nella ~ di CesarePavese,Torino 6€ VOT)Oas/ aÙTlKa ots hcipounv 1981, 89) rende i vv. lS-16 dell'Innoa Dioniso~pvfrnls' ÈKÉKMTOcflwvriatv TE (ove peraltro è solamenteil nocchiero a capire di trovarsi di fronte a un dio). "Da Auomo a "Lawrarestanca,.1931-1940, in C. Pavese, Le poesie.Lawrare stanca 1936-1943,Torino (Einaudi) 1998, 320.

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suggerisce lo slancio impaziente - e tuttavia vano.io- del piè-veloce Achille (per un analogo 'moto pctpetuo', tormentoso e frustrante, cfr. Dialog1ti con 1 Leu.cò, p. 19, ove Bcllerofonte cpasscggiabrutto e testardo le campagne»)1 •

La nuova versione dell'Iliade usci nel 1950, con una Prefazione dello stesso Pavese in cui sono esposti, in tono vivace e a tratti polemico, obiettivi e caratte-

ristiche dell'opera 22 • Egli scrive: Le poetiche versioni- anche le più recenti- in cui [Omero] viene presentato ai lettori ne tànno sostanzialmente un classico italiano minore, con tutte le limitazioni e spiacevolcu.c che questo fatto comporta. È una scoperta quasi banale, ma la tànno tutti coloro che preparano per un esame un canto dcll'lluule o dell'Odi.s.seasul testo greco: chi avm,~ dettocheOmeroi co.sìoggettivo, cosischietto,co.sìimmediatamente"parlato"e quasi somigli4più ai narratori neomilistiche non alle su.etrad1czionicormtti [il corsivo è mio f?Come e perché il gusto del lettore moderno, quando ricerca un autore di cui ignori la lingua, si compiaccia ormai sempre più della traduzione oggettiva, filologica - interlineare, se fosse possibile - non è qui il luogo di discutere. A noi gli svolazzi, gli adattamenti, i travestimenti in un determinato costume e linguaggio poetico, riescono oggi intollerabili.

Nella traduzione «oggettiva, filologica, interlineare»di testi poetici greci Pavese si era già cimentato per conto proprio, con le versioni della Teogoniadi Esiodo e di tre Inni Omerici (V e VI, ad Afrodite, e VII, a Dioniso), realizzate rispettivamente negli anni 1947-48 (dunque, nello stesso periodo della stesura dei Dialoghicon Leucònonché nei mesi immediatamente successivi) e nel 1949i4, e destinate a rimanere inedite fino al 1981H. Nel ribadire, con riferimento ad zoNel passo in questione, il Pelide è oggetto dell'inganno di Apollo, che, sotto le sembianze del mortale Agenore, precede l'eroe di un soffio, dandogli l'illusione di lasciarsi facilmente raggiungere. 21 Cfr. p. 33, ove lo stesso Bellerofonte «corre le campagne», naturalmente senza costrutto. Per un'ulteriore, emblematica alnuio del transitivo, cfr. Lavorarestanca: cbisognafermare una donna/ e parlarle e dtddma a vivere insieme» in Lepoesie(cit. a n. 19), ◄8. 22 Nelle edizioni più recenti, la prefazione di Pavese non figura, sostituita - come è noto - da un breve saggio di Fausto Codino. " Pavese, evidentemente, si riferisce ai caratteri stilistici del racconto omerico; non alla lingua omerica, artificiale K1outspradteche notoriamente non ha nulla a che fare con la lingua parlata. 24 Per la datazione dei due manoscritti, cfr. A Dughera, op.dt., (a n. 18), 9S s. Lo scrittore si era già esercitato nella traduzione di testi greci durante il confino a Brancaleone Calabro nel 1935: cfr. Dughera, Tra gli inediti di Pawse:le traduzionidri cùwi&igreci,«Studi piemontesi» 9, 1980, 3145. z, Cfr. n. 20. Si tratta di prove di traduzione rigorosamente letterale e interlineare, in cui il costrutto originale è mantenuto anche a costo di generare ambiguità, e le parole composte non sono sciolte ma rese con inediti composti italiani (es. carcargenteo» per àp-yvp6T~oç. ovvero 410C·

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Omero, la programmatica scelta di un dettato sciolto, scevro da orpelli e artifici, Pavese prende le distanze non solo dalle versioni 'neoclassiche' di Monti e Pindemonte, ma anche da quelle 'parnassiane• di Pascoli e Romagnoli (egli tuttavia salva il tentativo di Nicola Festa, pur mantenendo riserve sulla «scelta della prosa, che toglie al discorso omerico la sua essenzialissima cadenza e corposità di respiro»). Un'esplicita dichiarazione di preferenza per l'Iluule rispetto all'Odisseachiude il breve saggio introduttivo: E di Omero non a caso riprendiamo prima di tutto l'Iliade. Noi siamo convinti che certa predilezione per l'Odisseaè una scontata eredità pascolianocrcpuscolarc, e mentre non siamo secondi a nessuno nell'ammirazione per l'avventura dcll"eroc navigatore': vogliamo consapevolmente reinserirci nella tradizione millenaria che, accanto a un'Iliade fulgido sole meridiano, parla di un'Odissea, sole ancora "grandc"ma già sul punto di tuf&rsi nel ma26

re . 27

La traduzione dell'Iluule - assieme ad alcuni saggi, sempre del 19.50 - conclude un percorso che, iniziato intorno agli anni 1943-1944 con scritti come Del mito, dtl simboloe d'altro, Stato di grazia, L'adolescenz,l8.era giunto ad un punto di svolta cruciale con i Dialoghi con Leucò. Su questi ultimi, vorrei ora soffermarmi in modo più approfondito, in parte allo scopo di identificare le fonti utilizzate da Pavese nella composizione dell'opera, ma anche al fine di individuare eventuali contributi originali dello scrittore all'esegesi dei testi letterari greci nonché all'analisi storico-antropologica del mito classico. Considerando interesse costantemente dimostrato da Pavese per i poemi omerici (dr. in particolare la citata lettera a Untersteiner del 12 gennaio 1948), ci si aspetterebbe, nei

r

cbilucidi»per yAaV1Ciinn.ç: da notare, nel secondo caso, la precisione con cui il traduttore evidenzia la nozione di 1ucentczza', che~. in effetti, primaria rispetto a quella cromatica generalmente annessa all'epiteto di Atena). I due lavori si presentano in fonna provvisoria, non ancora pronta

per le stampe, come dimostrano le lacune (destinate ad essere risolte in un secondo momento), le varianti e le sottolineature di cui Pavese si serve per collegare un sostantivo e un epiteto che, essendo nella traduzione distanziati come nell'originale, rischiano di non essere più percepiti come collegati (cfr. ad es. Teogonia324 «tremendo soffiante di fuom forza ardcng,»). Lo sforzo di attenersi alla lettera del testo greco ~ perseguito con ogni mezzo, incluso l'impiego di vocaboli stranieri (ad esempio, ~Ta 11'aVTa~ reso con toujours).L'accuratezza con cui Pavese affronta l'indagine linguistica non lo esime tuttavia da sviste banali (ad es., al v. 11 dell'I1tno a Dumiso, l'impf. l