Arrivano gli alleati! Amori e violenze nell’Italia liberata 9788842096054

1 ottobre 1943, l'esercito anglo-americano entra a Napoli. La popolazione civile, reduce dalla rivolta popolare che

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Arrivano gli alleati! Amori e violenze nell’Italia liberata
 9788842096054

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Quadrante Laterza 167

Maria Porzio

Arrivano gli Alleati! Amori e violenze nell’Italia liberata

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9605-4

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Gaetano, a Rosa

Ringraziamenti Il mio primo riconoscimento va alla professoressa Gabriella Gribaudi che da anni è per me un essenziale punto di riferimento. Ha sempre sostenuto il mio lavoro con preziosi spunti di riflessione e scrupolose letture delle diverse stesure del testo. Le sono grata per avermi costantemente incoraggiata. Ringrazio anche la professoressa Andreina De Clementi per avermi accuratamente seguita nel corso del dottorato di ricerca in Storia delle donne e dell’identità di genere dell’Università degli studi di Napoli l’Orientale, nell’ambito del quale è nata la prima versione di questo lavoro. Esprimo, inoltre, la mia gratitudine a Fabrice Virgili per il confronto scientifico e gli utili suggerimenti che mi ha offerto nel periodo del mio soggiorno di studio a Parigi. Ringrazio ancora la professoressa Raya Cohen per l’attenzione ed il costante sostegno. Il professore Manlio Calegari, Brigida Ruffo, infermiera volontaria della Croce Rossa di Napoli, e Wylie K. Miller, presidente dell’Us Military Retiree Association of Southern Italy, si sono rivelati mediatori indispensabili nell’individuazione dei testimoni. Ringrazio tutti i bibliotecari e gli archivisti che con la loro sollecitudine hanno facilitato il lavoro di ricerca. Vorrei ringraziare poi Antonella Porzio per le pazienti letture di molte parti del manoscritto e Loredana Cesarino per avermi scrupolosamente aiutata nelle traduzioni della documentazione in lingua inglese. Sono grata a Ciro Cioffi per la disponibilità e l’infinita pazienza mostrata in questi anni. Un ringraziamento particolare va, infine, a quanti si sono lasciati intervistare, soprattutto alle spose di guerra che con cortesia e fiducia mi hanno raccontato le loro storie.

Arrivano gli Alleati! Amori e violenze nell’Italia liberata

Abbreviazioni e sigle Acc Acs Adn Aicsr Amso Asil Asn Asr b. Bean Dgps f. Gab. Mgg Mi Pcm Pref. Quest. Vers. Vol.

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Capitolo I

La vendetta di una donna

Una donna ha ucciso1 «I danni della seduzione. Una giovane di Torre Annunziata uccide a colpi di pistola un ufficiale inglese»2. Questa è la notizia che comparve su buona parte della stampa l’11 ottobre del 1945. La donna a cui si fa riferimento è Lydia Cirillo che, da lì a poco, diventerà un’«indispensabile» eroina. Le cronache di quel giorno non si limitarono alla descrizione dei fatti, ma cominciarono a fornirne un’interpretazione, lasciando così trapelare la posizione che uno dei più influenti mezzi d’informazione mantenne, per diversi anni, nei confronti dell’accaduto. Sin dal principio si utilizzarono, infatti, termini forti e coinvolgenti come «seduzione», «abbandono», «onore», che rappresenteranno anche i punti di forza su cui punterà la difesa dell’inconsueto iter giudiziario a carico della donna. Ma chi era Lydia Cirillo? La donna era nata il 25 novembre del 1912 a Torre Annunziata, dove aveva sempre vissuto insieme agli anziani genitori, Rosa e Federico, proprietario di uno dei più noti pastifici della città e dal ’44 dipendente presso un deposito amministrato dagli Alleati. Dagli articoli e dalla documentazione del pro1   È il titolo del film che ricostruisce la storia di Lydia Cirillo, realizzato nel 1952 da Vittorio Cottafavi. 2   «L’Azione», 11 ottobre 1945.

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cesso non emergono altri elementi sul periodo di vita precedente l’ottobre 1943, quando anche nella provincia napoletana arrivarono i «liberatori». Seguiamo l’evolversi della vicenda a partire dalle dichiarazioni che Lydia Cirillo rilasciò «a freddo» alla questura di Roma lo stesso giorno del delitto. Nell’ottobre 1943 conobbi in Torre Annunziata il capitano inglese, allora tenente Lush Sidney, che mi corteggiò presentandosi ai miei genitori e fidanzandosi con me (...). Poiché il Lush, che asseriva sempre di essere in attesa dei documenti da Londra per sposare, mi fece presente dopo qualche mese di fidanzamento che il Comando Alleato non ci avrebbe dato il consenso se non lo avessimo messo davanti al fatto compiuto ed alla paura di uno scandalo, acconsentii ad avere con lui rapporti intimi al fine di rimanere incinta e di ottenere così il consenso al matrimonio. Nel novembre del 1944 il Lush fu trasferito a Nola, dove io mi recavo saltuariamente; dopo un mese fu trasferito a Foggia, dove lo andai a trovare per una settimana, alloggiando insieme di nascosto nella stanza del Comando Alleato cui era alloggiato e dove dormiva. Verso la fine di dicembre del 1944 il Lush fu trasferito a Taranto dove rimase sino a febbraio del 1945 e dove andai a trovarlo una settimana. Nel febbraio del corrente anno il Lush fu trasferito a Roma dove lo seguii3.

Lydia Cirillo, dopo varie sistemazioni nella Capitale, aveva convissuto per un mese con Sidney Lush in via Collina e aveva trovato, grazie alla sua intercessione, un impiego come ispettrice presso la Naafi4 di via XX settembre. Ma dalla fine del mese di agosto il capitano apparve cambiato, stanco, e confessò freddamente l’intenzione di voler porre fine alla loro relazione. L’ufficiale lasciò, dunque, l’appartamento e non si rese quasi mai disponibile ai continui tentativi di chiarimento della donna presso l’ufficio di viale Africa. Proprio in una di queste occasioni, nei primi giorni di ottobre, Lydia Cirillo scoprì non solo che il capitano aveva preferito a lei un’altra donna, ma addirittura che aveva moglie e figli ad Alessandria d’Egitto. Le 3   Asr, processo Cirillo, Corte d’Appello di Roma, ff. della Corte d’Assise ordinaria n. 1349. 4   La Naafi (Navy, Army and Air Force Institutes) è un’organizzazione creata dal governo britannico nel 1921 per gestire gli stabilimenti ricreativi e per vendere merci alle forze armate britanniche.

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ammissioni di Sidney Lush tramutarono i suoi sospetti in amare certezze, unite alla richiesta dell’uomo di «essere lasciato in pace»5. A questo punto il capitano divenne un’ossessione. Continuava a telefonargli, a seguirlo, dichiarandogli il suo amore e, poiché il giorno successivo Sidney Lush avrebbe lasciato l’Italia, la mattina del 10 ottobre avrebbe rappresentato l’ultima occasione utile per riportarlo a sé; come ella stessa dichiarò: «volevo convincerlo del mio affetto, sperando che egli mi dicesse di volermi tuttora bene e che sarebbe ritornato dopo aver divorziato dalla moglie»6. Lydia Cirillo si recò, perciò, presso gli alloggi militari, dove notò un particolare che la sconvolse: «vidi sul comodino nel portaritratti ove prima era la mia fotografia, quella di un’altra donna e cercai di prenderla, ma il Lush me la levò bruscamente di mano. Mi fece accomodare nel corridoio fuori della camera e mi trattò male dicendomi che me ne andassi perché non voleva sapere più nulla di me (...), che voleva bene a Marisa e mi minacciò di denunciarmi alla polizia»7. Subito dopo Lydia Cirillo ritornò in via Collina per prendere la pistola che lo stesso Sidney Lush le aveva donato, si recò nuovamente al suo ufficio e dopo aver sparato diversi colpi alla spalla dell’uomo puntò l’arma, ormai scarica, contro di sé. Ella dichiarò ancora di aver meditato vendetta da circa un mese, da quando cioè il militare le aveva manifestato l’intenzione di abbandonarla. Dopo la confessione Lydia Cirillo fu rinchiusa nel carcere romano femminile delle Mantellate. Una questione importante da risolvere era rappresentata dalla decisione di assegnare il compito di giudicare la donna alla giustizia alleata oppure a quella italiana8. Si decise per la II sezione della Corte d’Assise di Roma. L’istruttoria fu affidata al giudice Di Fiore e la difesa ad Eugenio De Simone, giovane e carismatico avvocato di Torre Annunziata, che esercitava la sua professione proprio nella Capitale. Le prime dichiarazioni di Lydia Cirillo – precedentemente riportate – appaiono lucide, fredde, serrate. Seppur dall’evoluzione dei fatti descritti s’intuisce che la donna sia stata protagonista di un classico dramma passionale e che abbia agito perché incapace di accettare   Asr, processo Cirillo cit.   Ibid. 7   Ibid. 8   «L’Azione», Lydia Cirillo sapeva..., 16 ottobre 1945. 5 6

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l’idea di essere stata abbandonata, dal verbale dell’interrogatorio non trapelano spiegazioni e la Cirillo non accennò affatto all’onore. Eppure – come si è detto – gli articoli pubblicati dai quotidiani il giorno successivo alla stessa deposizione ne fecero il punto cardine, così come accadrà nei mesi seguenti, quando la vicenda continuerà a riempire gli spazi dedicati alla cronaca. Ben presto, però, le ammissioni della donna cominciarono ad assumere una nuova foggia, ai fatti già enunciati se ne aggiunsero altri e il tutto fu presentato in una chiave decisamente suggestiva e romanzata, proprio come i quotidiani avevano cominciato a fare. Dall’analisi del verbale di un nuovo interrogatorio, datato 21 ottobre 1945, basato sulla deposizione sopra citata, affiora, infatti, un quadro molto più articolato. I fatti narrati si arricchirono di una solida impalcatura, che non avrebbe potuto non far schierare ancor di più l’opinione pubblica dalla parte della povera donna sedotta e abbandonata. Lydia Cirillo esordì dicendo: «confermo integralmente la dichiarazione resa alla P.S. della quale la S.V. mi ha dato lettura. Non ho nulla da aggiungere, tranne che ripetere che ho ucciso il Capitano Lush per difendere il mio onore»9. In realtà, rispetto alla precedente versione, Lydia Cirillo aggiunse inediti e rilevanti particolari. Soprattutto si soffermò sull’insensibilità dell’uomo, sull’assoluto disprezzo, non soltanto per la sua dignità e per il suo onore, definitivamente schernito quella mattina del 10 ottobre, ma per quello di tutte le donne italiane. Dichiarò, infatti: io gli chiesi il motivo del suo allontanamento da me ed egli mi rispose che si era stancato. Mi confermò che si era innamorato di un’altra donna, alla quale sarebbe tornato rientrando dall’Egitto. Io cercai di fargli comprendere il male che mi aveva fatto, ma ne ebbi in risposta parole offensive che se avessi avuto con me la rivoltella lo avrei ucciso all’istante. Egli mi disse che era pentito di aver perduto due anni con me, giacché avrebbe potuto trascorrere tale periodo di tempo divertendosi con altre ragazze. Avendomi egli chiesto che cosa pretendevo da lui, io gli risposi che mi aveva tolto l’onore e che doveva pagarmelo. Egli rispose che le donne italiane non avevano diritto a pretendere che fosse loro pagato l’onore, giacché esse erano tutte sgualdrine e gli uomini tutti farabutti e ladri. Non potendo resistere oltre a quelle offese che mi venivano rivolte con cinismo ributtante dall’uomo che tanto avevo amato ed al quale avevo sacrificato   Asr, processo Cirillo cit.

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per amore l’onore mio e della mia famiglia mi allontanai senza rivolgere alcuna parola. Decisi di ucciderlo10.

Definitivamente, Lydia Cirillo divenne l’emblema della rivincita delle donne italiane sullo straniero usurpatore e millantatore. «Onore» fu ancora il termine che accomunò i numerosi articoli pubblicati in quei giorni: È iniziata regolare l’istruttoria a carico di Lydia Cirillo, la giovane di Torre Annunziata che per vendicare il proprio onore uccise giorni or sono il capitano inglese Sidney Lush11. La bellezza del Golfo ha ucciso per vendicare la sua colpa e riscattare le offese alle donne del popolo12.

Altro aspetto su cui si puntò fu il contrasto tra l’ingenuità di una donna di provincia e la perfidia del militare britannico13. I quotidiani ripresero a parlare del fatto nell’aprile del ’46, quando ebbe inizio il processo. In questa fase si acuirono le accuse nei confronti degli Alleati e ci si servì di particolari emersi da una confessione che Lydia Cirillo avrebbe fatto ad una sua compagna di cella. Così fece, ad esempio, «Il Tempo», che ripropose la penosa storia dell’inesperta e semplice donna di provincia che aveva resistito alle dure sofferenze della guerra e che, sfinita, era crollata tra le braccia del cinico capitano inglese14. La storia valorizzava, inoltre, un elemento prezioso, quello sacro. Non solo la devozione della donna aveva spinto l’insensibile capitano a recitare tutte le sere il rosario, ma il giuramento «d’amore» fatto dall’uomo non sarebbe avvenuto in un’anonima chiesetta di Torre Annunziata – come si leggeva nei primi articoli – bensì nell’atmosfera mistica e surreale del santuario di   Ibid.   «Risorgimento», L’uccisione del capitano inglese. L’istruttoria a carico di Lydia Cirillo. La giovane napoletana che uccise per gelosia il capitano inglese, 26 ottobre 1945. 12   «Il Pubblico», 18 ottobre 1945. 13   «L’Azione», Se fosse vivo lo ucciderei ancora. Lydia Cirillo racconta..., 14 ottobre 1945. 14   «Il Tempo», Giovedì ha inizio il processo per l’uccisione del capitano Lush. Confidenze di Lydia Cirillo ad una compagna di carcere, 2 aprile 1946. 10 11

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Pompei, «ai piedi della Vergine incoronata del santo rosario», uno dei più alti riferimenti per i fedeli dell’Italia meridionale. E sarebbe stato lì che il capitano britannico avrebbe giurato di restare sempre accanto alla donna e, donandole l’arma del delitto, si sarebbe fatto promettere di ucciderlo in caso di un suo ripensamento. L’enfasi su questo aspetto concesse una preziosa attenuante all’assassina, quasi come se Lydia Cirillo non avesse fatto altro che tener fede alla parola data. Ma soprattutto le cronache di quei primi giorni di aprile sottolinearono le parole di scherno sulle donne italiane: La sera del 10 ottobre egli disse quella frase che mi colpì come una frustata: «le donne italiane non si sposano, si pagano!». Che schianto! Immediata fu in me la decisione di uccidere...15. L’onore e il sentimento delle nostre donne difesi dalla Cirillo e dalla sentenza dei giudici del popolo16. Le donne italiane son tutte sgualdrine e gli uomini son tutti farabutti e ladri... Forse in quel momento Lydia ebbe il primo pensiero di uccidere17. «Volevo agire per difendere col mio l’onore italiano». Queste le dichiarazioni della Cirillo che colta dallo smarrimento uccise l’uomo da cui era stata ingannata e che domani comparirà alle Assise per sottoporsi al giudizio degli uomini18. Ecco una donna italiana che riscatta, col suo onore, quello di tante altre infelici, illuse e deluse: che lo riscatta fra tanta corruzione e tanto dilagare di immoralità19. «Dovevo vendicare il mio onore». Questo disse Lydia Cirillo. Nell’ottobre del ’43 conobbe quell’uomo. Le apparve come un liberatore. Si sen  Ibid.   «Cronaca di Roma», 3 aprile 1946. 17   «Cronaca nera», Una piccola donna innamorata. Il processo di Lydia Cirillo, 6 aprile 1946. 18   «Il Domani d’Italia», Perché ho ucciso! Confidenze di Lydia Cirillo alla vigilia del processo, 2 aprile 1946. 19   «Giornale della sera», Stamane: Lydia Cirillo alle Assise. Il delitto dell’amore e dell’onore di una illusa fanciulla italiana, 5 aprile 1946. 15 16

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tì affascinata dal volto, dall’uniforme e dalla voce, che, pur con accento esotico, sapeva parlarle al cuore. Ma la «bellezza del golfo», la donna che col sangue del suo seduttore si terse la fronte, non espierà le colpe di colui per aver riscattato la propria. Essa, redimendo il suo onore, lavò le offese fatte sul nostro suolo alle donne del popolo20. Nel giudizio sul gesto della Cirillo giudici popolari e magistrati si trovano dinanzi alle norme della legge, la quale non considera i «motivi morali» o «l’azione sotto l’impeto di una emozione» come una discriminante assoluta: sebbene come una attenuazione della pena soltanto. Se si può escludere nel quadro delle previsioni l’assoluzione non è dubbio che quella frase «le donne italiane si pagano» peserà nel bilancio finale della causa come un’attenuante, una provocazione, a tutto vantaggio dell’imputata21.

«L’Edizione di Cronaca», un «foglio» stampato a Napoli composto di sole due pagine, era interamente dedicato alla vicenda. Il titolo, a caratteri cubitali, enunciava: «per vendicare il suo onore una signorina napoletana uccide un capitano straniero»22. Questo è l’aspetto su cui le cronache maggiormente puntarono i riflettori in quei giorni, certi del suo travolgente effetto. Centrale fu anche la notizia che l’avvocato De Simone sarebbe stato affiancato da «un principe del foro napoletano»23, l’onorevole Giovanni Porzio. Ciò contribuì a rendere la vicenda ancora più degna d’attenzione. Il processo Giunse così il giorno del processo. Dinanzi alla II sezione della Corte d’Assise di Roma Lydia Cirillo avrebbe dovuto rispondere di omicidio premeditato, di procurato aborto24 e di porto abusivo di arma da fuoco.   «Il Pubblico», 4 aprile 1946.   «Risorgimento», Il processo a carico di Lydia Cirillo, 4 aprile 1946. 22   «Edizione di Cronaca», senza data. Il foglio è incluso nell’incartamento relativo alla concessione della grazia alla Cirillo presso l’Acs, Mgg, Ufficio Grazie, b. 13. 23   «Risorgimento», Il processo di Lydia Cirillo, 3 aprile 1946. 24   Nel primo interrogatorio Lydia Cirillo dichiarò di aver abortito sotto pres20 21

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L’incartamento relativo al procedimento penale appare scarno, i fatti scontati e ripetitivi; non ci sono colpi di scena, tutto ripercorre quanto era già stato enunciato prima. Il processo fu scandito da due sole udienze: nella prima si diede la parola alla Cirillo e ai testimoni, nella seconda ai difensori e alla pubblica accusa (cfr. tavv. 1-2). Le diverse dichiarazioni di Lydia Cirillo seguirono per molti aspetti il canovaccio precedentemente delineato. Ella si soffermò ancora sulle false promesse del capitano, sulla conquistata fiducia della sua onesta famiglia, sul giuramento strappato nel santuario di Pompei. Ammise di aver raggiunto Sidney Lush in diverse città prima di trasferirsi a Roma e all’annotazione del presidente relativa al fatto che «dopotutto non era una bambina e che avendo ormai 35 anni avrebbe potuto prevedere l’inganno», la donna rispose: «non ero una bambina, ma neppure una donna molto esperta della vita!». Parlò delle sofferenze patite, che si ampliarono il giorno stesso dell’omicidio, quando si recò all’alloggio di Sidney Lush non con l’intenzione di uccidere, ma perché sperava che si mostrasse pentito. Poi aggiunse: «nei miei interrogatori ho detto molte cose inesatte perché non volevo dire a nessuno il vero movente del delitto. Mi vergognai e mi vergogno tuttora di aver detto di aver sparato per paura, mentre volevo soltanto difendere l’onore mio e di tutte le donne italiane». A suo favore testimoniarono conoscenti e parenti che garantirono la veridicità degli accadimenti più rilevanti. Prestarono giuramento l’affittacamere di via Collina, la moglie di un cugino dell’imputata che abitava a Roma e la fidanzata di un ufficiale britannico, che assicurarono la sua onestà e si soffermarono sullo stato di sconforto in cui era caduta nel periodo precedente il delitto. Il cuoco della mensa degli ufficiali inglesi accennò alle relazioni del capitano Lush con altre donne. Essenziali furono le dichiarazioni dell’avvocato Pelagio Rossi di Torre Annunziata, secondo il quale l’anno precedente, su richiesta del padre della Cirillo, aveva chiesto ad un ufficiale superiore dell’esercito inglese, suo amico, informazioni sul capitano Lush. Queste «furono più che lusinghiere e precisamente in quell’occasione fu riferito che il capitano era scapolo»25. sione del capitano Sidney Lush, ma negli interrogatori successivi ritrattò la confessione. 25   Asr, processo Cirillo cit.

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Elena Maffei, vicina di Lydia Cirillo, dichiarò di aver assistito al giuramento fatto dal capitano nella basilica di Pompei26 e la sorella sostenne di essere stata presente quando Sidney Lush regalò alla donna una trousse dicendole che era un dono di una delle sue sorelle. Aggiunse poi di aver assistito alla lettura che il capitano stesso aveva fatto di una lettera che sua sorella le avrebbe inviato. Di essa ricordava le seguenti parole: «sono contenta che Sidney sposi te. Egli mi ha scritto che è felice e che ti ama tanto perché tu sei buona ed affettuosa. Ti attendo perché tu porterai qui tra tanta nebbia il sorriso del sole del tuo paese»27. Uno dei personaggi più attesi di questo processo era indubbiamente l’onorevole Porzio, che aprì la seconda udienza del processo Cirillo. Tra i principali obiettivi della difesa, quello di smentire l’accusa di premeditazione, ammessa dalla stessa Cirillo nei primi interrogatori. Si puntò sul fatto che tale intenzione «aveva subito continui mutamenti, giacché innamorata di lui e compromessa sperava sempre in una sua resipiscenza, illudendosi che ritornasse al suo amore, per quanto non fosse cosa facile raggiungere l’ideale del promesso matrimonio dato lo stato civile del Lush». A dimostrazione di ciò si rese noto il contenuto di due lettere scritte la notte del 21 settembre, diciannove giorni prima del delitto, rinvenute al momento dell’arresto nella borsetta della Cirillo28. Al Pubblico Ministero che si era appellato all’articolo 90 del codice penale italiano – secondo il quale gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità – l’onorevole Porzio oppose l’eccezionalità dei casi di particolare indole morale e sociale della passione e bollò la suddetta norma come il prodotto di un’assurda ed antiquata demagogia giuridica. Il difensore definì la Cirillo «una di quelle creature meridionali nelle quali il sentimento prevale, la cui misera vita ebbe come un raggio allorché un ufficiale inglese, nientemeno, le offrì di sposarla! La circuì in tutti i modi, l’assediò con astute menzogne, con sacrilega perfidia fino a trascinarsi con lei al santuario di Pompei e comunicarsi e promettersi, con giuramento solenne, di passare a nozze»29.   Ibid.   Ibid. 28   Ibid. 29   Ibid. 26 27

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La difesa invocò l’assoluzione dell’imputata per incapacità d’intendere e di volere conseguente alla totale infermità di mente. Cercò di dimostrare l’«ereditarietà morbosa» delle facoltà mentali di Lydia Cirillo appellandosi a diversi precedenti nella sua famiglia. L’infermità della donna avrebbe, dunque, dovuto spiegare «quel quasi automatismo che la condusse all’estremo atto di violenza attraverso un proprio contrasto di sentimenti, tra la disperazione e la speranza, tra l’odio e l’amore, tra la gelosia e lo stimolo alla vendetta, tra la salvaguardia del proprio onore e la vergogna, tra l’idea del suicidio ed il pensiero di genitori delusi e angosciati, tra le umiliazioni e l’orgoglio di donna atrocemente offesa»30. Si trattò di una difesa ben costruita, a cui fece da contrappunto un’accusa debole, quasi inesistente. Gli unici testimoni di cui questa si avvalse furono il maggiore Clarck ed il sergente Muligan, che misero in dubbio il tentativo della donna di uccidersi dopo aver sparato alla vittima. Ma la perizia balistica diede ragione all’imputata. A parte questo, non si ricorse all’ausilio di altri testi. La stessa moglie del capitano Lush, come anticipato, non si costituì parte civile. Renato Canzanella, allora giovane avvocato, nonché amico di Eugenio De Simone, ricorda chiaramente il clamore suscitato dal processo Cirillo: «io da Castellammare andavo a Torre Annunziata, frequentavo il circolo Oplonti e lì ci fu un comitato di persone che stavano dalla parte della Cirillo, ebbe un grande sostegno. Il governo inglese non solo non volle difendere il capitano, ma non volle nemmeno giudicarla, lasciò campo libero al governo italiano. Non voleva fare tanto rumore, si sapeva che molti soldati approfittavano delle donne e allora non voleva alzare un polverone, fu una scelta premeditata. Non gli conveniva, dicette: ‘Veritavelle vuie!’»31. Prima di dichiarare l’esito della sentenza, è opportuno dare uno sguardo a come i mezzi di informazione presentarono, parallelamente al suo svolgimento, il processo Cirillo. La descrizione fu singolare e sempre più palesemente si dichiarò il sostegno alla donna. Gli elementi più rappresentativi sono concentrati nelle prime battute di un articolo apparso su «Reportage»: «l’atmosfera era tutta favorevole alla donna che si è sacrificata per la difesa della fierezza femminile   Ibid.   Testimonianza di Renato Canzanella, Castellammare di Stabia 1917.

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(...). L’aula di udienza era gremitissima e tra la folla prevalevano elementi femminili. Quando la Cirillo entrava nell’aula essa appariva emozionantissima ed un tremito convulso le muoveva le labbra. Indossava un vestito marrone con una pelliccia dello stesso colore»32. Oltre a sottolineare la massiccia partecipazione del pubblico, il precedente brano sembra descrivere l’ingresso in scena di una famosa diva piuttosto che quello di una donna accusata di omicidio in un’aula di tribunale. Si scrisse della sua commozione, del suo volto celato tra le «palme delle mani» mentre ascoltava la requisitoria, del suo incontenibile pianto quando narrò «l’infamante accusa» fatta dal capitano inglese contro gli italiani, della sua esclamazione «ve lo impongo!» quando l’avvocato De Simone anticipò che non avrebbe usato parole amare contro Sidney Lush. Si riportarono, infine, le parole conclusive della sua deposizione, quando con la testa accasciata urlò: «basta, non ne posso più!»33. Dello stesso tipo, ma ancora più estrema, fu la descrizione del processo proposta da un articolo del «Risorgimento», in cui lo stesso giornalista registrò un inconsueto clima da «studio cinematografico». Egli scrisse: un pubblico foltissimo e impaziente sostava di fronte all’aula della II sezione della Corte di Assise. Quando l’aula aprirà i battenti, soltanto una minima parte di esso potrà accedervi. Più tardi la Celere dovrà provvedere a sgombrare la massa inquieta rimasta fuori dalla porta a protestare. L’aula all’interno sembrava più uno studio cinematografico che il luogo austero dove uomini severi sogliono giudicare le azioni dei propri simili caduti nella colpa. Tutto intorno dall’alto della balconata gli operai addetti alla delicata manovra dei riflettori dirigevano le luci obbedienti agli ordini dei fotografi e degli operatori che puntavano nervosamente su quel punto o su quella persona. Tutto questo apparato non sembra adeguato per raccogliere l’intensissima tragedia della donna tradita, la quale per vendicare il suo onore, spietatamente offeso, colpì a morte il capitano inglese Lush. (...). Gli operatori dell’I.N.C.O.M. sono venuti a frugare con le loro pettegole macchine da presa tra i seggi austeri della Corte, il tavolo dell’accusa e il banco dell’imputata (...). Quando la Corte fa il suo ingresso tutti i riflettori la puntano e quando sulla porticina laterale appare Lydia Cirillo, la loro luce si fa più viva e la segue quasi braccandola   «Reportage», Una condanna che significa assoluzione, 8 aprile 1946.   Ibid.

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nel breve tratto per raggiungere il banco dei colpevoli. Si attendeva che l’udienza venisse aperta così: silenzio signori, si gira! Lydia Cirillo, tipo classico di bruna napoletana dallo sguardo potentissimo, ha i muscoli del volto tirati nell’orgoglio di non apparire in lacrime. Ed infatti ella ingoia ad una ad una le lacrime che scintillano sulle ciglia. Lydia Cirillo, imputata di omicidio porta con sé un soffio di profonda umanità. È forse questa la prima volta nello squarcio orrendo del dopoguerra che appare in giudizio un essere umano assolutamente privo di cinismo e di bieca bestialità. (...). All’invito del Presidente Lydia si morde nervosamente il labbro e, alzandosi di scatto, fieramente raggiunge la pedana. Racconta concitatamente come restò impigliata nell’abile rete tesale dal seduttore Lush che ha sconvolta la sua vita e che l’ha condotta alla esasperazione del delitto34.

Anche in questo racconto il collegamento tra l’offesa fatta alle donne italiane e la decisione di uccidere è stretto. Il giorno successivo il quotidiano non mutò i termini35. «La Settimana Incom» commentò in questo modo le immagini del processo: «vestita di nero, precocemente invecchiata, Lydia Cirillo attende l’inizio della requisitoria (...). Il pubblico la saluta commosso, vede nella protagonista della tragica avventura la vindice di tante sciagurate ingannate dagli amori di guerra»36. La condanna fu mite. Nel verdetto finale la corte escluse l’aggravante della premeditazione e sposò la tesi della ragazza «dai sani tradizionali valori morali maleficamente irretita dal militare inglese». Ecco i punti più rilevanti: non occorre indugiare sulla causale del delitto. La Cirillo, non più giovanissima, appartenente ad un’ottima famiglia, vissuta in un piccolo centro di Provincia, costantemente nell’orbita della famiglia stessa, s’imbatté fatalmente in un ufficiale inglese che con arte malefica la circuisce, fingendo un amore profondo e sincero, la richiese formalmente ai genitori, che assunte nei limiti possibili, le informazioni l’accettano, sicuri di andare incontro alla felicità della figlia che sanno innamoratissima dell’in34   «Risorgimento», Il delitto dell’amante tradita. Il drammatico racconto di Lydia Cirillo, 5 aprile 1946. 35   Ivi, Il delitto dell’amante tradita. La Cirillo condannata a quattro anni, 6 aprile 1946. 36   Asil, dal sito Internet www.archivioluce.com; Corte d’Assise, il processo Cirillo, «La Settimana Incom», 9, 10 aprile 1946.

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traprendente ufficiale e cade nella rete tesale, dopo che costui giura di sposarla, prestando con lei nel santuario di valle di Pompei, avanti alla venerata Vergine, sfruttando il profondo sentimento religioso delle genti meridionali. Conquistata così l’anima della donna, oltre che il cuore, ne fa facile trastullo dei propri sensi dandole ad intendere che il modo sicuro per avere il consenso dei superiori indispensabile per le nozze è quello di farla trovare di fronte al fatto compiuto con una gravidanza, riuscendo in tal modo ad avvicinare a sé per due anni la malcapitata. È facile comprendere, in un giudizio umano, quale reazione e quale turbinio spirituale si è dovuto verificare quando l’uomo getta la maschera e rivela il suo vero animo e quando la giovane sedotta apprende di essere stata atrocemente ingannata e di non essere cosa facile la realizzazione del proprio ideale, stante l’impedimento dello stato civile del seduttore ammogliato. (...). La violenta ed improvvisa reazione della Cirillo, adunque, è umanamente comprensibile se non pienamente giustificabile di fronte alla legge umana e divina. (...). Essendo questi i precisi elementi della causale del delitto è evidentemente conforme a giustizia che debbano competere a favore della Cirillo attenuanti specifiche di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale e di aver agito in stato d’ira determinato dal comportamento ingiusto altrui, a norma del n°1 e 2 dell’art. 62 C.P.37.

Si riconobbe «lo sconvolgimento psichico, che esce dai limiti del semplice stato emotivo, complice di un vero e profondo stato morboso, tale da ridurre gradualmente, senza escluderla, la capacità d’intendere e di volere»38. Lydia Cirillo fu dichiarata colpevole di «omicidio volontario senza premeditazione, con attenuanti generiche e specifiche per aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale e della provocazione e con la diminuente della semi-infermità mentale». La pena di ventuno anni di reclusione prevista per il relativo crimine fu ridotta a quattro anni, un mese e ventitré giorni per l’attenuante delle provocazioni, per quella dei motivi di particolare valore morale e sociale e per la semi-infermità mentale. La sentenza impose, inoltre, il ricovero in una casa di cura e custodia per un tempo non inferiore ai tre anni39. La stampa apprezzò la condanna:   Asr, processo Cirillo cit.   Ibid. 39   Ibid. 37 38

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Una condanna che significa assoluzione. Lydia Cirillo che uccise per onore il Capitano Lush condannata dalle Assise di Roma a 4 anni di reclusione40. Il pubblico non è rimasto deluso nell’ascoltare la sentenza con la quale Lydia Cirillo veniva condannata, ha applaudito e nel suo applauso ha voluto esser vicino al dramma di Lydia Cirillo, la più pura delle passionali41.

Un caloroso sostegno Anche dopo il giudizio della corte Lydia Cirillo non scomparve dalla scena pubblica e di lei si parlò ancora per anni. La prima notizia riguardò il suo trasferimento a fine maggio 1946 nel carcere giudiziario femminile di Napoli, grazie al suo «esemplare comportamento», per ragioni di salute, ma soprattutto per consentire alla sua «vecchia mamma di visitare di tanto in tanto la sua disgraziata figliuola»42. Puntuali i quotidiani riportarono il primo emozionante ricongiungimento43. Si accennò poi all’opposizione di Lydia Cirillo alla sentenza pronunciata dall’Assise e all’avanzamento del ricorso in Corte di Cassazione44. Ma dopo aver scontato la metà della pena Lydia Cirillo rinunciò all’appello alla giurisdizione superiore, che avrebbe potuto soltanto ridurre la pena ma non annullarla, cosa che, invece, sarebbe stata possibile con la concessione della grazia del capo dello Stato45. Proprio su questa i suoi autorevoli avvocati puntarono. Già da qualche giorno dopo la fine del processo le cronache riportarono la notizia di un possibile condono. L’articolo dal titolo Si può ancora difendere una donna italiana? pubblicato su «Italia sera» propose di utilizzare le pagine del giornale per la realizzazione di un «referendum» al fine di raccoglie-

  «Reportage», Una condanna che significa assoluzione, 6 aprile 1946.   «Il Tempo», Il processo per l’uccisione del capitano Lush. Lydia Cirillo condannata a 4 anni, 6 aprile 1946. 42   Ibid. 43   «Reportage», Lydia Cirillo trasferita alle carceri di Napoli. Da martedì L. Cirillo è nel carcere femminile di Napoli, 27 maggio 1946. 44   «Risorgimento», La Cirillo ricorre alla Cassazione, 9 aprile 1946. 45   Ivi, Lydia Cirillo prossima ad essere liberata, 14 febbraio 1947. 40 41

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re le opinioni sull’eventuale concessione della grazia alla Cirillo46. I numeri successivi del quotidiano mostrarono molte entusiastiche lettere di adesione firmate da professionisti, operai, studenti, madri di famiglia. Soprattutto a Roma, ma anche a Napoli e a Foggia, molti, uomini e donne, sentirono il bisogno di sottoscrivere l’appello, ponendo l’accento soprattutto sul fatto che la concessione della grazia avrebbe potuto riscattare l’«onore offeso». Proprio in questa chiave la stampa intese proporre la possibile concessione della grazia che avrebbe avuto uno specifico significato. Quotidiani e settimanali continuarono a sottolineare i concetti di onore e di purezza d’animo della condannata. Si susseguirono commenti di questo tipo: «gran parte delle donne italiane vedono in lei l’incarnazione di una dignità nazionale e una vendicatrice del loro onore. Chiunque – è stato detto – avrebbe ucciso al suo posto, a meno che non fosse stata una prostituta. Il suo gesto impulsivo e inesorabile non fa che confermare la purezza del suo animo»47. Una reale difficoltà alla concessione era, però, rappresentata dal veto imposto ad una eventuale clemenza dalla vedova di Sidney Lush48. La donna aveva inviato una dichiarazione al presidente della Corte d’Assise di Roma e al capo dello Stato, in cui sosteneva di non aver concesso il perdono a Lydia Cirillo e di non essersi costituita parte civile per problemi logistici49. Ma questa era stata preceduta da una lettera, estremamente dura, indirizzata a Lydia Cirillo il 16 novembre 1946: io sono la moglie del defunto Sidney, dell’uomo che voi diceste di avere amato ed in seguito d’averlo ucciso, col dire che vendicavate il vostro onore. Forse voi eravate una ragazza inconscia dei vostri atti, forse voi 46   «Italia sera», Lydia Cirillo deve essere graziata!, 9 aprile 1946. L’articolo esordiva in questo modo: «ci rivolgiamo ai nostri lettori perché ci inviino la loro adesione con una semplice frase firmata con nome, cognome e indirizzo, e ci impegneremo di pubblicare giornalmente gli elenchi di questo plebiscito, che non vuol essere tanto espressione di pietà collettiva, quanto affermazione di un’esigenza popolare di giustizia!». 47   «Italia sera», Ringrazia i giudici che la condannarono Lydia Cirillo, 11 aprile 1947. 48   «Corriere di Napoli», La grazia alla Cirillo, 15 giugno 1948; «Risorgimento», Sarà graziata Lydia Cirillo?, 22 luglio 1947. 49   Acs, Mgg, Ufficio Grazie, Serie pratiche di grazie relative a condanne di Corte d’Assise, 1948, b. 13, Lydia Cirillo, 25 aprile 1947.

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eravate minorenne, forse il povero defunto vi sedusse con la forza? No, eravate conscia di tutto ciò che facevate, eravate perfettamente padrona e libera dei vostri atti, eravate maggiorenne e seduceste con le vostre perfide armi. Tutto ciò che avete fatto l’avete ponderato. Dunque il vostro vile atto di uccidere e l’orlarvi le mani di sangue non è stato altro che una perfidia e non una riparazione al vostro sedicente onore di donna ingannata. Non sono quei sentimenti puri e nobili che vi recarono a lui, quel bene che voi pretendevate di sentire non era dedicato a lui, ma bensì ai suoi soldi che vi permettevano di soddisfare i vostri capricci, facendovi intravedere una vita di lussuria e di mantenuta. Dunque lasciate alle oneste vendicare il loro onore. (...). E mentre noi raccolti innanzi alla madonnina preghiamo per il suo riposo, voi immonda creatura ci distogliete da questo sacro silenzio, divertendovi a fare del vostro delitto un appassionato dramma, continuando a fare inserire nei giornali il nome del povero defunto, calugnandolo e vilippendolo, volendo voi passare da «eroina» per guadagnare il rispetto del vostro onore. A parte lo spirito malvagio che predomina nel vostro cuore, quello della spudoratezza è più grande ancora, perché continuate a fare pubblicare il nome del defunto senza nessun rispetto semplicemente per dare al pubblico, amatore di avventure e drammi passionali, articoli a sensazione con l’intento evidente di farvi aprire le porte della compassione per attenuare la vostra pena. «Uccisi per amore» furono le vostre prime parole, ed ecco che ora non avete più ucciso per amore, ma per vendicare «l’onore delle italiane». Sappiate che le ragazze italiane di buona famiglia ridono di ciò, non avendo bisogno della vostra difesa, perché il loro onore se l’hanno saputo custodire gelosamente, facendo unioni matrimoniali secondo le leggi dettate dalla Santa Chiesa e prescritte dal Signore e non vendendosi il corpo per mettere la gente dinnanzi il fatto compiuto come l’avete fatto voi. (...). La mia maledizione, come pure quella dei miei bambini, vi inseguirà, vivrete dannata e tormentata50.

Lydia Cirillo invocò più volte il perdono alla famiglia Lush, dichiarandolo anche in sede processuale. I giornali continuavano a proporre nuovi elementi. «Reportage» pubblicò il contenuto della domanda di grazia scritta da Rosa Iapicca, la madre della Cirillo51. Su «Oggi» e su «Italia sera» si fece riferimento ad una circostanza davvero singolare: una lettera firma  Asr, processo Cirillo cit.   «Reportage», Lydia Cirillo graziata?, 18 giugno 1946. La dichiarazione è custodita nell’incartamento relativo alla grazia. 50 51

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ta da tutti i giudici popolari che, dopo aver condannato la donna, sentirono il bisogno di dichiarare al capo dello Stato: «noi abbiamo applicato la legge nei riguardi di Lydia Cirillo perché nessuno deve sfuggire alla legge; ma ora, come uomini, invochiamo clemenza per una creatura che ha amato e che è stata schernita e umiliata»52. Un aspetto su cui si puntò molto in questa fase fu la devozione religiosa della donna e l’impeccabile comportamento che essa tenne in carcere53. La stampa fu molto ottimista sulla probabile concessione della grazia. Fece, ad esempio, riferimento al fatto che Enrico De Nicola, presidente della neonata Repubblica italiana, originario di un paese vicino a quello della Cirillo, Torre del Greco, si trovava proprio a Torre Annunziata quando fu pronunciata la condanna. Il presidente, secondo le cronache, avrebbe «scosso la testa, disapprovando qualcosa o qualcuno, la disperazione della guerra o l’infedeltà del capitano Lush e [avrebbe] detto, tenero e paterno: ‘povera figliola’»54. Il 20 maggio 1947 la questura di Roma riferì alla Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma che il questore di Napoli riteneva che «la concessione di una eventuale grazia alla Cirillo [avrebbe fatto] una buona impressione in pubblico»55.

52   «Oggi», Un lavoro per Lydia Cirillo dopo tre anni di disoccupazione, 22 maggio 1951. La petizione firmata dai giudici l’11 marzo 1947 è nell’incartamento relativo alla grazia. Il testo originale è diverso da quello pubblicato dai giornali: «investiti dalla suprema funzione di giudici, consacrammo nella nostra sentenza il rispetto della legge. Oggi, spinti da un impulso di umanità e di pietà, auspichiamo dal Suo animo generoso un atto di sovrana clemenza che valga a restituire Lydia Cirillo ai vecchi e desolati genitori ai quali un morbo ribelle ed inguaribile contende l’affetto dell’altra figliuola». 53   Un esempio: «la sua condotta è stata sempre encomiabile e le suore preposte alla sorveglianza delle detenute dicono di volerle un gran bene. Lydia ogni giorno era solita trattenersi nella chiesetta della prigione per varie ore: pregava sempre, inginocchiata dinanzi all’altare maggiore della Cappella e spesso le suore dovevano usarle dolce violenza per convincerla a non stancarsi eccessivamente. A Poggioreale è stata addetta agli uffici amministrativi e varie volte ha ricevuto elogi per il suo attaccamento al lavoro. Nelle ore in cui avrebbe potuto riposarsi preferiva dedicarsi ai lavori di cucito e non è un mistero che molte detenute bisognose sono state da lei aiutate. In uno degli ultimi colloqui avuti con la sorella Anna ha affermato che appena uscita da Poggioreale, prima di tornare a casa, si recherà a piedi al santuario di Pompei», «Corriere di Napoli», Visita a casa Cirillo a Torre Annunziata, 16 giugno 1948. 54   Ivi, Lydia invoca amore sulle immagini della Madonna, 27 giugno 1948. 55   Acs, Mgg, Ufficio Grazie, b. 13.

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Ma a concedere la grazia a Lydia Cirillo non fu De Nicola, bensì il nuovo capo dello Stato Luigi Einaudi, che il 21 giugno 1948 cancellò la restante pena restrittiva della libertà56. Tutte le fasi, che andavano dal condono fino alla definitiva scarcerazione, furono descritte minuziosamente, conferendo ancora una volta un accento particolare alla spiccata religiosità della donna. La grazia, però, non rendeva definitivamente libera Lydia Cirillo. Ella, infatti, avrebbe dovuto scontare la seconda parte della sentenza che prevedeva l’internamento per almeno tre anni in una casa di cura. Fu quindi trasferita, nel luglio del 1948, al Manicomio Giudiziario di Aversa57. Ma dopo essere stata internata per due brevi periodi, per un totale di 45 giorni, fu dimessa in attesa dell’esito dell’istanza presentata dai suoi difensori al ministro della Giustizia, relativa all’applicazione di un articolo del codice di procedura penale secondo il quale «l’estinzione della pena opera come causa impeditiva sull’applicazione della misura di sicurezza»58. L’approvazione di tale richiesta nel maggio 1949 rese la Cirillo definitivamente libera. Anche sul suo ritorno a Torre Annunziata la stampa si soffermò copiosamente, corredando gli articoli con lunghe interviste alla donna59. «Offerte di matrimonio a Lydia Cirillo»60 Al netto sostegno della stampa si aggiunsero, fin dal principio, manifestazioni di conforto, di comprensione e persino offerte matrimoniali. I giornali fecero riferimento alle numerosissime lettere che provenivano da molte città italiane in segno di solidarietà alla donna61,   Ibid.   «Corriere di Napoli», Dopo la grazia. Lydia Cirillo ad Aversa nella giornata di domani o mercoledì, 28 giugno 1948. 58   Acs, Mgg, Ufficio Grazie, b. 13. 59   Tra gli altri articoli: «Corriere di Napoli», Lydia Cirillo è a casa. È andata anche a Pompei in questi giorni per chiedere un’altra grazia: dimenticare i brutti tempi vissuti, 12 luglio 1948. 60   È il titolo di un articolo del «Risorgimento» datato 24 settembre 1946. 61   «Risorgimento», Il processo di Lydia Cirillo, 3 aprile 1946; «L’Europeo», Forse non uccise per paura, 21 aprile 1946; «Il Tempo», Lydia Cirillo trasferita a Napoli, 22 maggio 1946; «La Capitale», Le concederanno la grazia. Si parla di Lydia Cirillo e delle sue lettere vistate, 4 novembre 1946. 56 57

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alla costituzione di comitati femminili in suo onore e ad interessanti proposte d’impiego62. Alle lettere inviate direttamente a Lydia Cirillo si aggiunsero quelle indirizzate al presidente della Corte d’Assise romana in occasione del processo e le petizioni dirette al capo dello Stato e al Ministero della Giustizia63 affinché intercedessero rispettivamente per l’assoluzione in primo grado e per la concessione della grazia. È datata 26 marzo 1946, ad esempio, una lettera sottoscritta da dodici donne di Torre Annunziata che rivolsero al presidente e ai giudici della Corte d’Assise il seguente appello: «a nome delle donne di Napoli. Vi esprimiamo l’ansia per la vostra sentenza affinché ancora una volta sia affermato che l’onore di tutte le donne italiane non fu mai calpestato e mai si calpesterà. La vostra Giustizia è nei voti di tutti e specialmente nei cuori dei meridionali per i quali il culto dell’onore è sacro»64. «La cittadinanza di Torre Annunziata» scrisse: Eccellenza, interpreti dell’unanime sentimento di solidarietà che unisce tutti i cittadini di Torre Annunziata e li rende commossi alla sorte di Lydia Cirillo che già da oltre un anno nelle carceri di Poggioreale langue espiando la pena per un atto inconsulto cui fu spinta, tuttavia, dal suo onore offeso e tradito di italiana e di donna. (...). Fiduciosi nel benevolo accoglimento della nostra istanza, e grati per l’atto di clemenza che servirà a ridare, in questa nostra Patria già tanto martoriata nel cuore dei suoi figli, la pace ad una sventurata figliuola, con i sensi della nostra più alta stima e del più commosso ringraziamento65.

Il parroco della chiesa dello Spirito Santo di Torre Annunziata sottoscrisse: «la supplico con tutto il cuore di accogliere la petizione del padre, ridonando la libertà ad una giovane che, in un eccesso di follia, e non per innata crudeltà, ha creduto di difendere, col delitto, il proprio onore»66.   «Corriere di Napoli», Visita a casa Cirillo a Torre Annunziata cit.   «Risorgimento», Sarà graziata Lydia Cirillo?, 22 luglio 1947. 64   Asr, documento allegato al processo Cirillo, cit. 65   Acs, Mgg, Ufficio Grazie, b. 13. Al Capo dello Stato e al Ministro di Grazia e Giustizia, 28 giugno 1947. 66   Ibid. 62 63

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La stampa parlò anche di domande di matrimonio da parte di sconosciuti che si professavano suoi ammiratori. In particolare, il «Corriere di Napoli» riferì di una proposta accordata dal ministro che avrebbe potuto consentirle di sposarsi per procura nel periodo in cui era ristretta nel carcere di Poggioreale67. Il «Risorgimento» accennò a tre «spasimanti» che attendevano la concessione della libertà per condurla all’altare, un ufficiale di Bologna, un certo Renato Lontagni e un detenuto politico68. Il «Roma» riferì delle numerose lettere e poesie che quotidianamente Lydia Cirillo riceveva in carcere «da ogni parte d’Italia ed in specie dal Mezzogiorno, da giovani che compiangono la sorte della ragazza, offrendole una felicità non lontana»69. «L’Europeo» narrò di un giovane avvocato che in occasione del processo s’innamorò di lei e che si disse pronto a sposarla nella cappella del penitenziario70. Pubblicò, inoltre, lo stralcio di una delle «migliaia di lettere» inviate alla donna «persino dall’America o dall’Inghilterra» per esprimere la «simpatia» o l’«entusiasmo» per il suo gesto. Il firmatario, «fedelissimo», scrisse: «mentre gli ammiragli e i generali tradivano, voi sola avete mostrato agli invasori che vi è ancora fierezza nel carattere degli italiani. Un giorno le generazioni ricorderanno»71. Come Lydia Cirillo... La fama della Cirillo continuò anche dopo la grazia. I giornali cominciarono a riferire della pubblicazione di un lungo diario che la donna avrebbe scritto in carcere intitolato Il mio segreto e per il quale un editore romano avrebbe offerto una «somma di sette cifre»72. Allo stesso modo informarono del fatto che, su consiglio dell’avvo  «Corriere di Napoli», La grazia alla Cirillo, 15 giugno 1948.   «Risorgimento», Offerte di matrimonio a Lydia Cirillo cit. 69   «Roma», Dopo una tragedia un detenuto politico avrebbe chiesto la mano di Lydia Cirillo, 23 ottobre 1946. 70   «L’Europeo», Lydia Cirillo spera in De Nicola. Un avvocato la chiese in moglie; se la cassazione respingerà il ricorso, i napoletani sperano nella grazia di De Nicola, 29 settembre 1946. 71   Ibid. 72   «Corriere di Napoli», Anche Lydia Cirillo ha scritto un diario. Ella tra breve sposerà Giuseppe Verdi, 23 luglio 1948. 67 68

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cato De Simone, Lydia Cirillo avrebbe ceduto una serie di fotografie ad alcuni settimanali illustrati della Capitale73. Le cronache seguivano i suoi spostamenti. Parlarono della breve permanenza a Roma, del ritorno a Torre Annunziata e della vacanza a Frascati, dove una ricca signora le avrebbe offerto ospitalità. Si continuò a parlare di diversi fidanzamenti e di imminenti matrimoni. Si susseguirono interviste. Ma alle domande dei giornalisti relative alle innumerevoli proposte matrimoniali pervenutele, Lydia Cirillo diede risposte di questo tipo: «i tempi sono cambiati e l’amore non è più quell’ideale che per il passato accarezzavo. La capanna e il cuore è per me una favola. Conosco purtroppo amaramente quello che significhi credere ad un uomo. (...). Desidero soltanto vivere tranquilla e il più lontano possibile da fotografi e giornalisti»74. Ma a questo proposito Lydia Cirillo non tenne fede. Già dal 1948 si fece riferimento ad un suo possibile ingresso «nel mondo del cinema»75. Il suo dramma fu effettivamente sceneggiato nel 1952 da Vittorio Cottafavi76 col titolo Una donna ha ucciso, nel quale la stessa Cirillo, anche se non nelle vesti del suo personaggio, figurò nel prologo e nell’epilogo. L’intera storia era basata sul pentimento e sull’inutilità della vendetta77. Lydia Cirillo divenne, inoltre, un riferimento obbligato per tutti gli altri casi di abbandono e di tragedie riguardanti «coppie di guerra». «È stata vendicata Lydia Cirillo» si pensò quando un ufficiale si suicidò dopo essere stato lasciato dalla fidanzata italiana che aveva scoperto che aveva moglie in Inghilterra78. «La tragedia di Lydia Cirillo si è riprodotta in Francia» scrisse «Reportage», riferendosi ad un caso molto simile a quello della donna di Torre An73   Ivi, Lydia Cirillo andrebbe al manicomio. Frattanto ella ha lasciato Torre e si è trasferita a Frascati, 3 agosto 1948. 74   Ivi, Lydia Cirillo è a casa. È andata anche a Pompei in questi giorni per chiedere un’altra grazia: dimenticare i brutti tempi vissuti cit. 75   Ibid. 76   Il film apre una serie di produzioni del regista sulla condizione femminile nell’Italia degli anni ’50. 77   Nel numero di «Oggi» del 12 aprile del 1950 compare una fotografia della Cirillo che legge il copione del film insieme a Lianella Carrel, che interpreta il suo personaggio. 78   «L’Europeo», Forse non uccise per paura cit.

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nunziata79. E ancora: «Un’altra ragazza ingannata come la Cirillo. Una giovane si uccide sapendo ammogliato l’ufficiale americano che amava»80. «Come Lydia Cirillo spara contro il fidanzato perché sedotta e abbandonata»81. «Dopo Lydia Cirillo un altro amore di guerra infelice»82. Le ultime notizie che la stampa riportò della donna sono quelle relative alla sua esperienza cinematografica nei primi anni ’50, ma in quell’occasione i toni erano completamente differenti da quelli degli anni precedenti. «Nello studio cinematografico è apparsa taciturna, estranea a sé e agli altri, fredda. Lievemente ingrassata, portava sempre il cappotto e i guanti; e quando si levava i guanti, le sue mani apparivano stranamente bianche, con la vernice rossa delle unghie scrostata. Parla pochissimo; solo talvolta sospira: ‘Come si soffre quando si sbaglia’»83. Lydia Cirillo aveva riempito le pagine dei giornali, in lei molti avevano creduto, alla sua storia tanti si erano aggrappati. Ma i tempi tristi ed umilianti dell’immediato dopoguerra erano ormai passati, quelli erano gli anni della ricostruzione, dello sviluppo economico, degli aiuti americani, e per uno strano meccanismo di rimozione dell’occupazione alleata si cominciarono a ricordare soltanto gli aspetti positivi. Al di là delle vicende umane e giudiziarie e della veridicità dei fatti, è importante riflettere su ciò che la donna rappresentò in quel periodo e come il caso Cirillo fu «utilizzato» dall’opinione pubblica. Questo s’inserì in un meccanismo che la coinvolse e dal quale trasse vantaggio, ma che aveva una vita e logiche completamente indipendenti. Interessante è l’«uso» che della storia si fece, giacché in quel particolare contesto di miseria e di umiliazione Lydia Cirillo era indispensabile, necessaria. La storia della donna che aveva «vendicato l’onore delle donne 79   «Reportage», La tragedia di Lydia Cirillo si è riprodotta in Francia. Come il colonnello Lush anche il colonnello Ducan aveva fatto credere alla avvenente Maria di volerla sposare, invece era coniugato con prole, 4 settembre 1947. 80   Ibid. 81   Ivi, 24 aprile 1947. 82   «Risorgimento», 16 ottobre 1947. 83   «Oggi», Un lavoro per Lydia Cirillo dopo tre anni di disoccupazione cit.

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italiane» e delle reazioni che essa scatenò possono essere comprese soltanto tenendo conto di ciò che accadde in quella parte del Paese «liberata prima della liberazione»84 dall’esercito anglo-americano sul finire dell’estate 1943.   G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Donzelli, Roma, 2007, p. 21.

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Capitolo II

Arrivano gli Alleati!

La fine di un incubo I napoletani attendevano il loro arrivo fin dal 9 settembre, dalla notizia dello sbarco a Salerno. Erano ormai esasperati dalla fame e dalla distruzione che la guerra «totale»1 portava con sé: i bombardamenti alleati, sempre più intensi, avevano distrutto le loro strade, le loro case ed ucciso migliaia di persone; gli scontri coi tedeschi, ormai in ritirata verso il nord, le devastazioni e le massicce razzie di uomini avevano contribuito a diffondere morte e terrore. Ma presto tutto si sarebbe risolto, presto sarebbero arrivati gli «americani», i «liberatori» e avrebbero finalmente posto fine a tutte le atrocità. I «nuovi alleati», tuttavia, impiegarono ben tre settimane per raggiungere Napoli, arrivando soltanto il primo ottobre in una città ormai sgombera dai tedeschi, sconfitti dalla rivolta popolare, pronta a lasciarsi alle spalle l’orrore e a festeggiare i tanto attesi Gi’s2. Il primo ottobre «alle 7.35, proveniente da Portici, una unità di ricognizione britannica faceva ingresso nella città di Napoli»3.   G. Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-1944, Bollati Boringhieri, Torino, 2005; C. Pavone, La seconda guerra mondiale: una guerra civile europea?, in G. Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino, 1994. 2   Il termine Gi’s indica i soldati americani e corrisponde alle parole Govern­ ment Issue, impresse sulle divise e sugli equipaggiamenti. 3   «Risorgimento», L’ingresso degli Alleati a Napoli, 4 ottobre 1943. Da questa data in poi il «Risorgimento» fu l’unica testata ad essere autorizzata dagli Alleati. 1

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Numerose sono le fonti che testimoniano la lunga ed impaziente attesa della popolazione e che descrivono in maniera unanime manifestazioni di gioia, di entusiasmo e di ammirazione nei confronti dei «liberatori». Ecco alcuni significativi esempi: Nell’animo dei napoletani si avvertiva che la grande ora era ormai scoccata: da ogni finestra affacciata nel porto, da ogni terrazza, da ogni belvedere, uomini e donne, nascondendo il loro gesto, puntavano binocoli e cannocchiali nell’azzurrissima distesa marina: «vedete niente?» era la domanda che si rivolgevano scambievolmente quelli acquattati sui tetti. Ma la risposta era negativa, ciò malgrado le esplorazioni lungo la linea del mare continuavano affannosamente, intensamente. Qualche ragazzo nell’ansia della ricerca annunziava gioiosamente d’aver contato due, tre, quattro navi. Ma non era che immaginazione e fantasia che in quei casi sgorgava dai cuori fiduciosi (...). Avvenne così che la notte dal trenta al primo pochi furono quelli che riuscirono a chiudere occhio: ormai i passi delle truppe degli eserciti alleati erano già negli orecchi di tutti e quel presentimento popolare doveva essere confermato il giorno successivo, quando in ogni via di Napoli sbarcò l’entusiasmo più lieto e nella storica piazza Plebiscito la folla acclamò il comandante delle truppe alleate come il condottiero delle forze liberatrici dall’odiosa schiavitù del fascismo e del nazismo4. Le avanguardie anglo-americane sono entrate a Napoli su carri armati coperti da fiori. Alle undici di stamani, mentre i cannoni tedeschi tuonavano ancora sulla città, già liberata dall’eroismo del suo popolo, i primi carri americani, sboccando in piazza Municipio, letteralmente coperti di foglie e di fiori, sono entrati nella città, portando la fine del lungo martirio e l’inizio della redenzione. In nome della stampa e della cittadinanza delirante di entusiasmo, Emilio Scaglione5 salito su un carro armato ha abbracciato e baciato i primi carri liberatori. Mentre andiamo in macchina la città improvvisa grandiose dimostrazioni di giubilo.w. le nazioni unite! w. le armate vittoriose! w. l’italia! w. napoli!6. Essa accorpava i tre principali quotidiani napoletani: il «Corriere di Napoli», il «Mattino» e il «Roma». Per una storia dettagliata del quotidiano si veda P. Salvetti, Il Risorgimento di Napoli, in N. Gallerano (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il sud 1943-1945, Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 493-505. 4   «Risorgimento», Alla vigilia dell’arrivo delle truppe alleate migliaia di binocoli puntati sul porto, 6 ottobre 1943. 5   Direttore del «Roma» e dal 4 ottobre del «Risorgimento» insieme a Paolo Scarfoglio. 6   «Roma», quotidiano del pomeriggio, 2 ottobre 1943.

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L’euforica accoglienza che la popolazione riservò ai liberatori è documentata non soltanto dalle fonti locali, ma anche da quelle al­ leate. Ciò emerge chiaramente nel rapporto di Edgar Erskine Hume, capo del Governo Alleato in Campania, il quale, insieme ad altri ufficiali per gli affari civili, fu tra i primi ad attraversare la città: La popolazione di Napoli è stata entusiasta nell’accogliere gli ufficiali del Governo Militare Alleato. Non appena si seppe che erano arrivati la più selvaggia eccitazione si è diffusa nelle strade. Ovunque la gente rideva, piangeva, acclamava, pregava, mostrando in tutti i modi la gioia e la sua riconoscenza per la liberazione dai tedeschi. I nostri soldati sono stati chiamati «salvatori», «liberatori» e le loro macchine potevano a stento passare attraverso le strade a causa dell’isteria della folla. Erano raggiunti da fiori e si cercava di toccarli, di baciargli le mani come per ricevere le loro benedizioni7.

Le interviste fatte a chi ha vissuto in prima persona quegli avvenimenti costituiscono un’ulteriore fonte per analizzare l’impatto dell’ingresso alleato sulla popolazione civile. Esso rappresenta un momento di cesura che non è sfuggito alla memoria popolare, costituendo un passaggio obbligato nel racconto di vita di tutti i testimoni, che utilizzano una memoria comune, fatta di immagini nitide, forti, ma pressoché sovrapponibili, quasi identiche nei contenuti e spesso anche nella forma. Si ha ogni volta la sensazione di riascoltare la medesima storia, in cui vengono utilizzate le stesse rappresentazioni, rivissute le stesse emozioni. La chiarezza delle espressioni e la ripetitività delle immagini fa sì che anche chi non abbia assistito a quel «mitico incontro» possa averne un’immagine univoca e solida. Tale meccanismo è corroborato dalle innumerevoli rappresentazioni fotografiche, letterarie, teatrali e filmiche che attraverso gli anni hanno riproposto le medesime scene, le medesime sensazioni e che hanno probabilmente ravvivato anche la memoria dei testimoni. Il ricordo dell’arrivo degli Alleati conserva sempre una connotazione positiva. Quell’evento ha assunto un notevole valore simbolico: in quei giorni si concretizzò la convinzione che la guerra, con la sua scia di fame e devastazioni, fosse finita; dopotutto i tedeschi avevano abbandonato sconfitti la città e le atrocità da essi commesse dopo   Rapporto di E.E. Hume, 9 settembre-15 dicembre 1943, p. 7, presso l’Aicsr.

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l’armistizio avevano ridimensionato la paura dei bombardamenti e alimentato la festosa accoglienza che la popolazione riservò ai soldati stranieri. Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’antico nemico, che aveva seminato morte dal cielo fin dai primi anni di guerra, mostrandosi nella sua indiscussa forza, era ormai un «potente» alleato. Proprio questo aspetto ebbe un grosso effetto rassicurante sulla popolazione, in quanto gli americani – con i quali la popolazione civile identificava l’intera spedizione alleata – con una devastante «guerra aerea terroristica» avevano dimostrato una inequivocabile grandezza8. A rassicurare la popolazione contribuì la stampa che circolava in quei giorni. Gli articoli, oltre a ripudiare «l’antico» alleato tedesco e a rinnegare il recente passato fascista dell’Italia, sottolineavano il quasi «divino» compito che avrebbero svolto gli Alleati, avvalendosi del suggestivo supporto di termini incisivi come «scacciare», «distruggere», «liberare», spesso pronunciati da autorevoli e consolidate personalità locali: il «Giornale di Napoli», attraverso la pubblicazione del primo Proclama emanato dalle forze alleate in Italia, destinato al «popolo di Napoli» annunciò che l’armata delle Nazioni Unite avrebbe «distrutto il potere nazista e liberato il suolo italiano dal dominio tedesco»9. Il primo ottobre il ministro Leopoldo Piccardi invitò i napoletani ad «accogliere le forze liberatrici delle Nazioni Unite con una dignitosa e fiera dimostrazione di entusiasmo e di simpatia»10. Lo stesso giorno, Emilio Scaglione – direttore del «Roma», nonché membro del Partito d’Azione – nel suo discorso inneggiante al «coraggio» e all’«istintivo spirito di organizzazione liberale» di chi aveva salvato la propria città dalle orde tedesche, concluse: «dopo il nefando servaggio a fianco dei tedeschi, comincia la vera era di redenzione nazionale a fianco delle potenze unite, alle quali vanno tutti i palpiti e tutte le speranze dei napoletani, i quali non hanno mai sentito l’assurda politica della politica filo-nazista e non si sono mai estraniate dalle nazioni con cui avevano combattuto la guerra del ’15-’18. Evviva l’Inghilterra, evviva l’America»11.   G. Gribaudi, Guerra totale cit., p. 93.   «Giornale di Napoli», Proclama n° 1, 4 ottobre 1943. 10   «Roma», Il proclama di S. E. il ministro Piccardi, 1° ottobre 1943. 11   «Roma», quotidiano del pomeriggio, Le manifestazioni di giubilo. Il discorso di Emilio Scaglione, 2 ottobre 1943. 8 9

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Anche i partiti antifascisti, costituitisi in Comitato di Liberazione Nazionale12, con la sottoscrizione di un lungo manifesto, dichiararono il sostegno e la cooperazione che intendevano offrire alle rappresentanze delle Nazioni Unite: Il popolo napoletano porge agli Eserciti delle Nazioni Unite difensori della libertà un saluto cordiale. Le truppe alleate ritrovano qui la vecchia amicizia tradizionale, non scalfita dall’assurda guerra, moralmente ingiustificabile, voluta soltanto dalla megalomania del dittatore folle e da una oligarchia predace e ritrovano l’animo immutato che ci unì nel periodo 1915-1918. Nel nome di Napoli, il Comitato di Liberazione offre ai Comandi degli Eserciti Nazioni Unite ed al Governo (...) la necessaria collaborazione amministrativa intesa ad assolvere e facilitare il compito a cui da questo momento ciascuno deve accingere con fede, con tenacia, con disinteresse: la ricostruzione, che ha un duplice volto: il sorgere della materia, ma, sopra ogni cosa, la rinascita dello spirito della grande sacra luce della libertà13.

Malgrado il persistente stato di guerra e la precedente propaganda fascista ad essi ostile, l’ingresso degli anglo-americani sprigionò, dunque, nella città una sensazione di protezione e di tranquillità, scaturita da un comprensibile bisogno di ritorno alla normalità e dalla indiscussa convinzione di essere dalla parte del più forte. Dopotutto difficilmente si poteva credere il contrario. Napoli fu la prima grande città europea ad essere attraversata da «una torrenziale colata d’America»14 posta alla portata di tutti. Sotto gli sguardi increduli della popolazione passò un fiume che trascinava uomini esotici e 12   Negli ultimi giorni del settembre 1943 il Fronte Nazionale di Liberazione (nato nell’agosto dello stesso anno) si trasformò in Comitato di Liberazione Nazionale, composto da sei partiti antifascisti: il Partito Liberale, il Partito d’Azione, il Partito della Democrazia Cristiana, il Partito della Democrazia del Lavoro, il Partito Socialista ed il Partito Comunista. Si vedano a tal proposito M. Palermo, Memorie di un comunista napoletano, Guanda, Parma, 1975; B. Croce, Quando l’Italia era tagliata in due, Laterza, Bari, 1948; B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), Laterza, Roma-Bari, 1973; A. Lepre, La svolta di Salerno, Editori Riu­ niti, Roma, 1966; N. Gallerano, La lotta politica nell’Italia del Sud dall’Armistizio al Congresso di Bari, «Rivista del socialismo», maggio-agosto 1966. 13   «Roma», quotidiano del pomeriggio, Il manifesto dei partiti antifascisti, 2 ottobre 1943. 14   A. Kaspi, La liberation de la France. Juin 1944-janvier 1946, Perrin, Paris, 1995, p. 495.

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mezzi giganteschi, frutto di una civilizzazione tecnica ed opulenta che solo gli emigranti e un numero ridotto di viaggiatori avevano conosciuto prima della guerra e le cui narrazioni avevano contribuito alla costruzione di uno straordinario mito. Adesso il mito si concretizzava, il Nuovo Mondo era sbarcato a Napoli e la città fece il suo ingresso «nell’americanosfera»15. «Fu così che nel 1943 i più scoprirono l’America»16. Finalmente tutti potevano ammirare tanta ricchezza, tanta straordinaria abbondanza, tutti potevano osservare quella immensa colonna di mastodontici carri occupati da avvenenti soldati d’oltremare che dispensavano beni di cui si era dimenticato il sapore o di cui il sapore non si conosceva affatto17. Tutti rimasero sorpresi dalla modernità dei loro equipaggiamenti, dagli svariati colori delle loro divise, dalla potenza delle loro armi e delle loro jeep, dai loro sorrisi, elementi questi che stridevano col desolante squallore del paesaggio urbano. Prese corpo, così, la «psicologia dell’impatto» tra il consumismo di guerra dei vincitori e l’economia di sopravvivenza dei napoletani18. L’inevitabile raffronto, poi, tra la grandezza dell’esercito alleato con l’inefficienza dell’ormai dissolto esercito italiano19 contribuì a rafforzare l’immagine rassicurante dei liberatori. I napoletani furono le prime vittime di quello che è stato propriamente definito «miraggio americano»20. A tal proposito Miriam Mafai scrive: Gli uomini erano sotto le armi. Le città furono per anni piene di donne, di vecchi, di bambini, di adolescenti. Poi arrivarono gli americani. L’esercito alleato era il più ricco del mondo, tutti i soldati (salvo i negri) sembravano ufficiali e tutti gli ufficiali erano alti, puliti, allegri. Risalivano la penisola, dalla Sicilia verso Napoli, Anzio, Roma e poi Firenze, Bolo  Ivi, p. 496.   P. Del Bosco, La forza delle cose: un’acculturazione tangibile, masticabile, orecchiabile, in A. Placanica (a cura di), 1944 Salerno capitale. Istituzioni e società, Esi, Napoli, 1986, pp. 509-518. 17   A tal proposito si veda A. Papa, Napoli: il trauma della liberazione, in A. Placanica (a cura di), 1944 Salerno capitale cit., e P. Cavallo, America e americani. Il mito e l’immagine nel confronto quotidiano, in ivi. 18   L. Mercuri, Guerra psicologica. La propaganda anglo-americana in Italia, 1942-1946, Archivio trimestrale, Roma, 1983, pp. 184-185. 19   A tal proposito si veda D. Degli Espinosa, Il Regno del Sud. 8 settembre 19434 giugno 1944, Migliaresi, Roma, 1946. 20   D. Veillon, Vivre et survivre en France 1939-1947, Payot, Paris, 1995, p. 305. 15 16

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gna, Milano, portando pane bianco, carne in scatola, farina di piselli, le Camel, il boogie-woogie, suscitando una indefinibile e trepida voglia di vivere, dopo anni di miseria e di paura21.

Man mano che la Campagna d’Italia continuava a nord di Napoli le «armate liberatrici» attraversavano città e paesi suscitando reazioni più o meno simili a quelle precedentemente descritte22, offrendo, così, una seppur breve sospensione alla drammatica ed ambigua continuità che univa guerra e dopoguerra. Ma se diffusissime e radicate sono tuttora le rappresentazioni relative al passaggio dei «liberatori» più rare sono quelle che riguardano la loro convivenza con la popolazione civile. Da questo punto di vista, dato il lungo periodo di stazionamento e il numero considerevole di soldati stranieri lì di stanza, Napoli e le altre città del Centro-sud rappresentano un osservatorio privilegiato che consente di andare al di là delle reciproche e precostituite immagini e di analizzare comportamenti, interazioni, rapporti conflittuali e non tra popolazione e militari alleati. Tali condizioni consentono, inoltre, di capire se i mutui preconcetti – che saranno più avanti analizzati – abbiano in qualche modo influenzato le relazioni successive. Rovine di guerra Disastroso era lo scenario che si presentò ai «liberatori» in quei desolanti giorni autunnali. Anche in questo caso le testimonianze sono scrupolose. Nel rapporto di Hume si legge: al tempo del nostro arrivo la città era in oscuramento. Non vi era corrente elettrica, gas, fognature, mezzi per raccogliere rifiuti, la possibilità di seppellire i morti, segnalazioni antiaeree, telefoni, servizi di ambulanze, servizi antincendio, telegrafo, servizio postale, vetture tranviarie, pullman, taxi, funicolari, ferrovie e regolare rifornimento d’acqua. L’acqua era scarsa a tal punto che la popolazione non ne aveva più di 21   M. Mafai, L’apprendistato della politica, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 14. Si vedano anche E. Canino, Clotilde tra le due guerre, Longanesi, Milano, 1956, p. 589; F. Caracciolo, Diario di Napoli 1943-1944, Passigli, Firenze, 1992, pp. 69-70. 22   A proposito dell’ingresso degli Alleati a Roma si veda F. Fiorentino, La Roma di Charles Poletti (giugno 1944-aprile 1945), Bonacci Editore, Roma, 1986.

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un quarto a persona. Gli ospedali erano stati spogliati delle loro attrezzature e rifornimenti. La biblioteca e le altre parti dell’antica università erano fumanti rovine. Nessuna scuola era aperta. I tribunali non erano in funzione. Il grande porto, secondo in Italia, era quasi interamente distrutto. Tutte le banche erano chiuse e il sistema finanziario della città completamente bloccato. Vi era immondizia nelle strade e tutti i negozi erano chiusi23.

Napoli suscitò orrore e sgomento negli occupanti. Essa era un cumulo di macerie, buia24, sporca, pericolosa, maleodorante, abitata da decine di migliaia di disperati che vagavano per le strade in cerca di un ricovero o di qualcosa da mangiare. La città «aveva bisogno di tutto»25. Insieme al capoluogo campano un gran numero di città e paesi vicini furono distrutti. I segni dei bombardamenti aerei e navali erano vivi e laceranti in ogni angolo del territorio. Alle zone strategiche di Napoli prese di mira dal primo anno di guerra – in particolare quella del porto, ridotto ormai ad un «lugubre cimitero di navi»26, le linee ferroviarie, gli impianti industriali napoletani e quelli di altre province come Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Pomigliano d’Arco, Bagnoli e Pozzuoli – si aggiunsero nel corso del conflitto i centri cittadini, colpiti in maniera indiscriminata. Dopo l’8 settembre la situazione peggiorò ed il territorio campano fu sotto assedio, bersaglio dichiarato dell’esercito alleato e di quello nazista. I bombardieri alleati spianarono la strada alle proprie armate che avanzavano verso nord, con la conseguente distruzione di interi paesi e città, e sventrarono le infrastrutture indispensabili per la ritirata dei tedeschi: ponti, ferrovie e strade furono rase al suolo. Furono completamente distrutti i centri storici di Salerno, 23   Rapporto Hume cit. Descrizioni dettagliate della situazione disastrosa delle città campane all’arrivo delle armate alleate si trovano in: J.H. Burns, La galleria. Un americano a Napoli, Baldini & Castoldi, Milano, 1992, p. 83; J. Huston, Cinque mogli e sessanta film, Editori Riuniti, Roma, 1982, p. 135; N. Lewis, Napoli ’44, Adelphi, Milano, 1998, p. 30. 24   I tedeschi prima di andar via fecero saltare le centrali dell’erogazione dell’energia elettrica, mentre gli Alleati al loro arrivo imposero l’oscuramento dalle 19 alle 5.30 del mattino. 25   A. De Jaco, Le quattro giornate di Napoli, Editori Riuniti, Roma, 1975, p. 36. 26   A. Ghirelli, Napoli italiana, Einaudi, Torino, 1977, p. 268.

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Capua, Benevento, Avellino e i piccoli paesi che occupavano una posizione strategica. A ciò si aggiunse la violenza delle truppe tedesche in ritirata, sotto forma di saccheggi, massacri, distruzioni e razzie di uomini, nonché le incursioni aeree della Luftwaffe, già a partire dal 21 ottobre 1943, e le esplosioni delle mine preparate dai guastatori tedeschi prima di lasciare la città27. L’armistizio, insomma, non aveva attenuato la dimensione di «guerra totale» propria del secondo conflitto mondiale e la speranza che con l’arrivo dei «liberatori», come per magia, tutto sarebbe ritornato alla normalità fu presto delusa. Ancora una volta, dunque, le illusioni della popolazione dovettero scontrarsi con l’efferata realtà del conflitto ancora in atto. Le innumerevoli distruzioni resero difficile la sopravvivenza quotidiana. Disastrose erano la situazione alimentare, igienico-sanitaria ed abitativa. C’era un’assoluta mancanza di cibo, sia per l’impossibilità di importare derrate dalle zone agricole, a causa del blocco dei trasporti e delle distruzioni, sia per il recente divieto di pesca imposto dalle autorità alleate che privava la città di una delle sue principali fonti di approvvigionamento. La situazione igienica era pietosa, le macerie e i cadaveri ingombravano le strade; altrettanto grave era quella relativa alla mancanza di alloggi. A causa dei bombardamenti 12-20.000 persone si annidavano ancora negli insicuri ed opprimenti ricoveri antiaerei, nelle stazioni della metropolitana o della funicolare28; gli ospedali ancora in piedi non avevano i farmaci; i negozi erano chiusi a causa della mancanza di prodotti, compresi quelli alimentari; frequenti erano le forme di illegalità diffusa come i saccheggi; altissimo era il tasso di disoccupazione29.

27   Per una dettagliata analisi di ciò che accadde in Campania tra l’inizio della guerra e lo sfondamento della linea Gustav si vedano G. Gribaudi (a cura di), Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003; G. Gribaudi, Guerra totale cit. 28  P. De Marco, Polvere di piselli. La vita quotidiana a Napoli durante l’occupazione alleata: 1943-1944, Liguori, Napoli, 1996, p. 30. 29   Nel maggio del 1943 nella città di Napoli i disoccupati erano 20.837, alla fine di agosto erano divenuti 60.000 nel solo settore industriale, mentre nell’ottobre se ne contavano circa 100.000, in «Annuario di Statistica del Comune di Napoli», 1945, p. 3; E. Aga Rossi, Il rapporto Stevenson. Documenti sull’economia italiana e sulle direttive della politica americana in Italia nel 1943-1944, Carecas, Roma, 1979, p. 62.

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A ciò si affiancò un totale senso di abbandono, determinato dall’assenza di autorità di riferimento, conseguente alla polverizzazione dell’apparato istituzionale ed alla dissoluzione di organismi di alto valore simbolico come l’esercito. Velio Spano, uno dei massimi dirigenti del Pci, in una lettera indirizzata a Palmiro Togliatti sul finire dell’ottobre 1943 lamentò lo stato di sbandamento della popolazione napoletana, disorientata da una condizione disastrosa, addirittura aggravata dalla presenza degli Alleati: Una situazione critica, senza governo, senza amministrazione, senza esercito, trasporti, comunicazioni, approvvigionamenti. Da due settimane non mangio pane. Un operaio guadagna da 24 a 50,60 lire al giorno. Una miseria nera. E con ciò la presenza delle truppe di occupazione ha fatto salire il costo della vita a prezzi inverosimili. Per un impiegato che guadagna 1.600 lire al mese la vita è impossibile. Qui la popolazione si è coraggiosamente battuta per quattro giorni contro i tedeschi che hanno effettivamente abbandonato la città sotto la spinta popolare sovente guidata dai nostri compagni. Però ora la gente è passiva. I nostri compagni hanno fame, tanta più fame ché il lavoro di partito nega loro la possibilità di quei piccoli espedienti che danno agli altri la possibilità di vivere30.

Mentre poco più a nord la guerra continuava, «laggiù» ogni cosa appariva provvisoria e incerta. In questa atmosfera di miseria sconsolata si ripose la speranza di un ritorno alla normalità nei ricchi e potenti «liberatori», gli unici capaci di cancellare i terribili segni della barbarie degli eserciti belligeranti e di ripristinare la normalità stravolta dalla guerra. A tal proposito, non lasciava dubbi il rassicurante messaggio del generale Mark W. Clark, comandante della V Armata, al popolo di Napoli poco dopo il suo ingresso in città: «il nemico tedesco è stato scacciato da Napoli. La città è ora occupata da un’armata delle Nazioni Unite che ancora combatte per distruggere il potere nazista e per liberare il suolo italiano dal dominio tedesco. (...). Lo studiato vandalismo dei tedeschi ha distrutto larghe zone del porto ed ha molto ridotto le capacità di sbarco di uomini e rifornimenti. Ciò nonostante una nuova carica di viveri e medicinali è già nel golfo di   P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Einaudi, Torino, 1975, p. 139.

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Salerno ed io ho ordinato che non appena lo permetteranno le condizioni questo carico venga portato a terra per alleviare le sofferenze di Napoli»31. L’amministrazione alleata Dopo il successo della Campagna di Sicilia e parallelamente alla pianificazione delle operazioni militari relative all’occupazione del resto dell’Italia meridionale, sorse il problema del tipo di organizzazione che avrebbe dovuto assumere il Governo Militare Alleato nel Sud Italia. Immediatamente in Sicilia nacque l’Amgot (Allied Military Government of Occupied Territory), presieduto dal generale inglese Harold Rupert Alexander, comandante delle forze di occupazione in Italia32. L’Amgot si articolava in sei divisioni – Legal, Finance, Civilian Supply, Public Health, Public Safety, Enemy Property – ciascuna delle quali era diretta da ufficiali alleati. L’insufficienza delle vie di comunicazione e dei mezzi di trasporto fecero accantonare agli Alleati l’idea di usare la provincia come unità amministrativa, così come era stabilito dalle leggi italiane33. Si decise, quindi, di raggruppare le province e di creare unità centrali attraverso la costituzione di Regions, il cui numero sarebbe corrisposto alla progressiva avanzata dell’esercito delle Nazioni Unite. Dopo la Region I, che comprendeva la Sicilia, nacquero altre tre Regions: la Region II, costituita dalla Calabria, dalla Lucania e dalla Puglia, la Region III, nella quale confluiva la Campania, e la Region IV, che corrispondeva alla Sardegna. La forma di occupazione attuata dagli Alleati nel Regno del Sud fu di tipo indiretto, modalità che da una parte favoriva la rinascita del debole Stato italiano e dall’altra consentiva di esercitare sullo stesso un saldo controllo attraverso l’istituzione, nel novembre ’43, dell’Acc (Allied Control Commission), prevista dall’art. 37 dell’Ar  «Risorgimento», 5 ottobre 1943.   R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-1950), in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia, a cura di M. Aymard, G. Giarrizzo, Einaudi, Torino, 1987, pp. 485-600. 33   L. Mercuri, 1943-1945. Gli Alleati e l’Italia, Esi, Napoli, 1975, p. 113. 31 32

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mistizio lungo34. L’Acc, che si avvaleva dell’azione di commissari regionali (regional commissioners), responsabili delle macroregioni, si articolava in quattro sezioni – Military, Political, Economic-Administrative, Communications – da cui dipendevano le Commissions e Sub-commissions, che avevano il compito di «controllare» l’operato dei ripristinati organismi istituzionali italiani. Nel gennaio 1944 l’Acc si fuse con l’Amgot, determinando la formazione di due diversi apparati, quello settoriale e quello territoriale. Nel primo rientrava la complessa articolazione in Sections, Commissions e Sub-commissions; il secondo, invece, era basato sulla rete dei responsabili per Affari civili che agivano a livello locale (Cao, Civil Affaire Officer) e provinciale (Scao, Senior Civil Affaire Officer) e che venivano coordinati dal governatore regionale (Rcao, Regional Civil Affaire Officer), il quale dirigeva le attività del Governo Alleato in ogni Regions. Nel 1945, con lo scioglimento delle Regions, l’Acc iniziò a ridimensionarsi e fu soppressa definitivamente nei primi mesi del gennaio 194735. La Region III controllava le province di Napoli, Avellino, Benevento e Caserta; quella di Salerno, invece, appartenne fino al febbraio 1944 alla Region II. Napoli è stata una delle città più a lungo sottoposte all’influenza dell’Allied Military Government (Amg). L’amministrazione alleata della Regione campana si caratterizzava per una notevole prevalenza della componente americana rispetto a quella inglese. Vi erano, infatti, centosei ufficiali americani degli Affari civili che ricoprivano gli incarichi più importanti, mentre gli inglesi erano soltanto quarantanove36. Il primo governatore della Region III fu il colonnello americano Edgar Erskine Hume (ottobre 1943-febbraio 1944), medico di professione, già in Italia nel 1917 e nel 1918 in occasione del primo conflitto mondiale, esperienza che gli aveva fatto acquisire «una pro34   «Risorgimento», Nascita della Commissione Alleata di Controllo, 11 novembre 1943. 35   G. Chianese, «Quando uscimmo dai rifugi». Il Mezzogiorno tra guerra e dopoguerra (1943-1946), Carocci, Roma, 2004, p. 92. 36   P. De Marco, Le politiche alleate in Italia. Il caso della Region 3. L’occupazione alleata a Napoli e in Campania, in AA.VV., Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla Repubblica (1943-1946), Guida, Napoli, 1986, p. 240.

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nuncia americana-meridionale che dava musicalità al suo italiano»37. Ricoprì la carica di Scao provinciale il tenente colonnello James L. Kincaid, mentre il responsabile degli Affari civili cittadini (Cao) fu il tenente colonnello Karl Kraege. Gli Alleati preferirono avviare una transizione post-fascista non traumatica attraverso il ricorso ai tradizionali gruppi dirigenti locali: alti funzionari badogliani, esponenti del mondo ecclesiastico, accademico e delle professioni. Si rilegittimarono figure consolidate della tradizionale politica italiana come quella del prefetto, che operava in sinergia con le autorità ecclesiastiche e con le forze dell’ordine. Riferimenti importanti furono, dunque, il cardinale Alessio Ascalesi, il commissario prefettizio provinciale, Enrico Cavalieri – già prefetto di Bari e di Palermo –, il vice prefetto, Nicola Spirito, il commissario prefettizio del Comune di Napoli, Giuseppe Solimena – già insediato il 6 agosto dal governo Badoglio –, a cui si affiancò, con funzioni consultive, una delegazione del Cln napoletano38. Il governatore Hume fu sostituito nei primi mesi del ’44 da Charles Poletti39, che rimase in carica fino alla liberazione di Roma, quando si trasferì nella Capitale ed il colonnello John W. Chapman prese il suo posto. Lo storico Paolo De Marco individua quattro fasi che contraddistinsero l’occupazione alleata a Napoli40: la prima, che arriva fino all’inizio del 1944, rispondeva alla logica militare di garantire legge   M.A. Musmanno, La guerra non l’ho voluta io, Vallecchi, Firenze, 1947, p. 47.   Per un’analisi sull’amministrazione della città nel periodo dell’occupazione alleata si vedano: G. Chianese, «Quando uscimmo dai rifugi» cit.; P. De Marco, Le politiche alleate in Italia cit.; G. D’Agostino, Napoli: governo e amministrazione della città dalla caduta del fascismo all’avvento della Repubblica (1943-1946), in N. Gallerano (a cura di), L’altro dopoguerra cit., pp. 407-422; A. Scirocco, Napoli 19431953, in «Nord e Sud», n. 146, febbraio 1972, pp. 91-110; F. Isabella, Napoli dall’8 settembre ad Achille Lauro, Guida, Napoli, 1980, pp. 108-112. 39   Charles Poletti, figlio di un operaio torinese emigrato in America, era vissuto e aveva studiato in Italia. Era stato vicegovernatore dello stato di New York tra il 1939 e il 1942 e già capo degli Affari civili della VII Armata britannica in Sicilia. Da molti è stato accusato di aver sostenuto i malavitosi di origine italiana rientrati in Italia con lo sbarco anglo-americano del luglio ’43. A tal proposito si veda S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America. Storia di un intreccio intercontinentale, 1888-2008, Einaudi, Torino, 2008. 40   P. De Marco, Le politiche alleate in Italia cit., p. 242. 37

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e ordine nelle retrovie col minor dispendio possibile di forze, dando priorità assoluta alle scelte militari rispetto a quelle politiche. La seconda fase, che si può far corrispondere al governatorato di Charles Poletti (febbraio-giugno 1944), risulta, invece, caratterizzata da una maggior attenzione verso gli obiettivi politici di più lunga scadenza rispetto a quelli militari e dall’attuazione di un progetto di stabilizzazione democratica e di modernizzazione, finalizzato a neutralizzare la crescente influenza del Partito Comunista attraverso un confronto con le forze dell’antifascismo, ponendo al centro dell’azione politica il problema del consenso. Nella terza fase si cercò con maggiore impegno di attuare un progetto riformista del governo militare che puntava a una stabilizzazione della società locale attraverso un’azione di rinnovamento delle istituzioni e delle classi dirigenti. L’ultima fase, infine, coincise col ridimensionamento dei compiti dell’Amg, scaturito dalla maggiore autonomia acquisita dalle forze politiche locali. I napoletani non soffriranno la fame!41 Con queste confortanti parole il colonnello Edgar Erskine Hume diede il titolo ad un lungo elenco di priorità che il Governo Militare Alleato si sarebbe posto per avviare la «rinascita» della città, pubblicato sul «Risorgimento»42. Le priorità enunciate consistevano nella risoluzione di problemi vitali, legati alla sopravvivenza di una popolazione che stava letteralmente morendo di fame, di sete e che era costantemente esposta al pericolo delle epidemie. Problemi, questi, che la generosità e la preparazione tecnica e scientifica delle maestrie d’oltreoceano avrebbero risolto con disinvoltura. Il colonnello Hume annunciò che nel porto di Napoli sarebbe presto sbarcato «un enorme vapore carico di grano». Anticipava, poi, l’arrivo di altri piroscafi «con ingenti quantitativi di latte con  «Risorgimento», 6 ottobre 1943.   Come già accennato, il «Risorgimento» fu l’unica testata autorizzata dal Governo Alleato e i contenuti venivano rigorosamente controllati dal Pwb (Psychological Warfare Branch). È chiaro, dunque, che divenne uno strumento d’informazione indispensabile per la diffusione di un’immagine ottimistica della politica alleata e per la mistificazione dei problemi della città. 41 42

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densato, pasta, minestre alimentari e medicinali». Si preoccupò, inoltre, di informare la popolazione delle varie attività intraprese ai fini della ricostruzione: «ingegneri e tecnici», preannunciò, «lavorano alacremente per la riattivazione dell’acquedotto e per la sistemazione delle fognature. Sono allo studio anche i problemi della corrente elettrica, del gas e della rete telefonica». Nei primi giorni dell’occupazione si provvide a risolvere, in primo luogo, i problemi più urgenti, come la sepoltura dei cadaveri, lo sgombero delle macerie dalle strade e la distribuzione di acqua attraverso l’installazione di motori a scoppio collegati a pozzi ancora accessibili in cinque punti della città, come quello in via Porta di Massa, ai cui rubinetti affluivano numerosi cittadini43. Ma poiché quest’ultima soluzione non fu sufficiente a soddisfare la notevole portata dell’approvvigionamento, a metà ottobre si ripristinò l’impianto idrico. Il 4 ottobre, nel primo numero del «Risorgimento», le rassicurazioni dei liberatori riguardarono anche il porto di Napoli44. Attraverso la rimozione dei più ingombranti relitti di navi che ne impedivano la piena funzionalità e l’estrapolazione delle mine inesplose, i tecnici alleati consentirono il parziale utilizzo del porto già a partire dal 13 ottobre45. Ma se è vero che i napoletani avevano bisogno dell’aiuto degli Alleati è anche vero il contrario: i nuovi venuti, infatti, necessitavano del sostegno e della collaborazione della popolazione. I primi ad essere richiesti furono gli interpreti: a partire dal 7 ottobre gli uffici alleati cercarono urgentemente la collaborazione di persone che sapessero parlare correttamente inglese per mantenere le relazioni col territorio46. Dal 17 ottobre, invece, furono invitati a presentarsi agli uffici alleati di collocamento sorveglianti, capisquadra, meccanici d’officina, dattilografi, contabili, impiegati d’ufficio e ingegneri; per le ultime quattro categorie era richiesta la conoscenza della lingua inglese47. Circa 20.000 manovali furono utilizzati soprattutto come

43   «Risorgimento», Il Comando Alleato per la distribuzione dell’acqua, 4 ottobre 1943. 44   Ibid. 45   Ibid. 46   Ivi, 7 ottobre 1943. 47   Ivi, 17 ottobre 1943.

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scaricatori di porto, camerieri, autisti, facchini e quasi 60.000 furono le persone legalmente coinvolte nei servizi alleati48. Per facilitare le relazioni con un’utenza quanto più ampia possibile, dal 24 ottobre si cominciarono a pubblicizzare sul «Risorgimento» corsi di lingua inglese, ben presto prezioso ed invidiato patrimonio. La presenza di un esercito di dimensioni pari a circa un ottavo della popolazione napoletana49, innescò dinamiche e strategie completamente nuove, plasmando e stravolgendo modelli e stili di vita consolidati. La consultazione del «Risorgimento» nel periodo che va dal 4 ottobre al 31 dicembre ha consentito di cogliere diverse iniziative tese al ripristino della normalità: il giorno 4 ottobre si preannunciò l’imminente apertura di negozi e ristoranti, nonostante la mancanza di merci e di cibo; il 12 dello stesso mese si comunicò l’imminente proiezione di film americani; il 15 l’attività penale per la discussione dei processi a carico di cittadini italiani riprese il suo corso attraverso l’azione della Giustizia Militare Alleata presso la sede del tribunale napoletano di Castel Capuano; il 20 tornò in attività il semidistrutto ospedale Pellegrini; il 22 venne riattivata la linea della Cumana fino a Pozzuoli; il 25 si preannunciò la ripresa dei matrimoni, il 30 la riapertura delle banche e degli istituti finanziari. Ancora, il 6 novembre venne ripristinato il servizio postale per la corrispondenza con i prigionieri di guerra, e il 15 dicembre quello cittadino; il 13 novembre il quotidiano annunciò il ritorno della corrente elettrica in buona parte della città, il 17 la riapertura delle tre funicolari e di alcune linee della ferrovia Circumvesuviana, il 9 dicembre il ripristino parziale del gas, il 15 l’attivazione della linea ferroviaria Napoli-Bari. Nel dicembre ’43 il governatore Hume scrisse: La Napoli del 15 dicembre non è quella del primo ottobre. Dopo due mesi e mezzo si è verificato un totale cambiamento. L’elettricità è tornata. C’è acqua in abbondanza. Le strade sono pulite. Le fognature funzionano di nuovo e bene. I rifiuti vengono regolarmente raccolti. I morti vengono seppelliti. Le segnalazioni antiaeree sono di nuovo in funzione ed i rifugi antiaerei, un tempo indicibilmente sporchi, sono puliti. Gli ospedali sono stati riforniti e forniti del necessario servizio di ambulanza. Un numero   A. Papa, Napoli: il trauma della liberazione cit., p. 425.   Ivi, p. 446.

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ridotto di taxi è di nuovo per le strade e il servizio di trasporto pubblico è stato rimesso in funzione. È in atto un efficiente sistema di sicurezza, impiegando tutte e tre le forze di polizia italiane. L’attrezzatura contro gli incendi è disponibile, seppur in modo limitato. Le banche sono aperte di nuovo e senza restrizioni. Stiamo fornendo cibo alla popolazione quotidianamente. I negozi sono aperti. I tribunali funzionano. Gli edifici danneggiati dai bombardamenti sono stati in molti casi restaurati. E Napoli è sulla strada per riconquistare la sua tradizionale aria di gaiezza. Tutto ciò è avvenuto mentre un grande esercito alleato era impegnato in una campagna di guerra a poche miglia di distanza da Napoli e le sue truppe passavano continuamente attraverso la città e molte vi erano acquartierate. Il grande porto di Napoli è ancora una volta in attività sotto il controllo militare50.

La precedente descrizione dà l’idea di una città miracolosamente e quasi completamente risorta. L’analisi di alcune testimonianze, tuttavia, contraddice alcuni punti dell’epilogo del rapporto del commissario regionale, rivelandone una natura eccessivamente ottimistica, oltre che propagandistica. D.W. Ellwood riporta nell’Alleato nemico alcune testimonianze di componenti dell’entourage alleata dopo il dicembre 1943: «la fame dominava tutto; di fatti stavamo assistendo al crollo morale di un popolo. Non avevano più nessun orgoglio né dignità, la lotta bestiale per la sopravvivenza dominava tutto. Il cibo era l’unica cosa che importava (...). E dopo il cibo un po’ di caldo e un riparo». «Mentre l’avanzata militare si impantanava tra Napoli e Roma, anche l’organizzazione alleata per controllare e approvvigionare la popolazione che si trovava dietro le linee mostrò evidenti segni di crisi. Durante l’inverno 1943-44 Napoli offre l’immagine peggiore del governo militare. In quel periodo Napoli era la città peggio governata del mondo occidentale e un anno dopo la situazione non era migliorata di molto». «Le condizioni dell’Italia meridionale e della Sicilia sono tali che se non si forniscono immediatamente quantità sufficienti di viveri assisteremo a saccheggi, a sommosse e alla completa cessazione di quelle attività che sono indispensabili alla nostra avanzata»51.   Rapporto Hume cit.   D.W. Ellwood, L’Alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana

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Tra le altre testimonianze figura quella di Amedeo Maiuri che, ancora il 14 gennaio, nel suo Taccuino napoletano ricordava: «Napoli si è mutata in una fiera di paese: bancarelle e mercato ovunque, sui marciapiedi, sotto i portici della Galleria Principe di Napoli, lungo via Foria, tra le rovine e le macerie delle case»52. Il 13 febbraio 1944 dalle indagini della questura di Napoli – in risposta alle pressioni della Commissione Alleata di Pubblica Sicurezza finalizzate alla verifica della situazione di quell’ampia parte di popolazione che viveva nei rifugi antiaerei e quindi più esposta al contagio del tifo – emergeva che ben 11.930 persone vivevano ancora nei ricoveri, concentrati soprattutto nella parte antica della città53. Gli obiettivi effettivamente realizzati dagli Alleati ed il modo con cui essi furono perseguiti la dicono lunga sul tipo di politica che intendevano, non solo nella fase iniziale della loro occupazione, effettuare. La priorità assoluta dell’Amg nella Region III consisteva nell’esigenza di sostenere lo sforzo bellico, cercando, allo stesso tempo, di mantenere l’ordine pubblico, garantendo alla popolazione i servizi essenziali per evitare il collasso attraverso ribellioni ed epidemie, secondo la formula riots and diseases54. Gli Alleati affrontarono, infatti, la situazione disperata trovata a Napoli e negli altri principali centri urbani con politiche d’emergenza a favore della popolazione nella misura in cui queste fossero compatibili con le proprie finalità militari. Secondo questa logica era, dunque, sufficiente garantire alla popolazione civile l’indispensabile che consentisse la sopravvivenza ed il mantenimento della sicurezza pubblica piuttosto che l’avvio di una tanto sperata «altruistica ricostruzione». I prioritari obiettivi degli Alleati – il ripristino del porto, dell’impianto idrico, elettrico e della rete ferroviaria – rappresentavano elementi indispensabili soprattutto per le operazioni militari che stavano sostenendo. Anche il restauro dell’impianto produttivo rientrava in questa logica. Le disastrose condizioni delle industrie cittadine e provinciali, prima bombardate dagli Alleati e poi sabotate dai guastatori in Italia 1943-1946, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 64. Gli stralci sono rispettivamente di A. Moorehead, T. Fisher e C. Harris. 52   A. Maiuri, Taccuino napoletano, Vajro, Napoli, 1956, p. 147. 53   G. Gribaudi, Guerra totale cit., p. 172. 54   P. De Marco, Le politiche alleate in Italia cit., p. 242.

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tedeschi55, non migliorarono di certo dopo le numerose requisizioni operate dagli occupanti. L’amministrazione alleata si preoccupò di riattivare la produzione di quelle aziende che potevano avallare lo sforzo militare, in particolare quelle del settore metalmeccanico come la Bacini & Scali, l’Omf, l’Avis, i Cantieri Metallurgici Italiani di Castellammare di Stabia, l’Ilva di Torre Annunziata, la Breda, l’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco e la Eternit56. D’altronde anche le politiche d’intervento nei confronti di gravi emergenze, come le epidemie e le malattie veneree, possono essere interpretate attraverso questa chiave di lettura. A causa delle disastrose condizioni igieniche in cui la popolazione versava, nel periodo compreso tra gli ultimi mesi del ’43 e i primi del ’44, s’intensificò un fenomeno le cui avvisaglie si erano già fatte sentire nel corso del ’4357: quello delle epidemie. Fu affrontata così quella che è comunemente definita «seconda battaglia di Napoli»58, contro cui le autorità alleate intervennero energicamente, attraverso il coinvolgimento di organizzazioni come la Rockefeller Foundation59 e con la sperimentazione su vasta scala della famosa polvere di Ddt, grazie alla quale fu possibile debellare il diffusissimo tifo esantematico che soltanto nel primo quadrimestre del 1944 consentì di curare tre milioni di persone60. Ma le autorità alleate cercarono soprattutto di ridurre i rischi di contagio per i militari, ai quali fin dal principio del ’44 fu impedito l’accesso ai locali e ai mezzi pubblici, così come si cercò di salvaguardarli requisendo numerosi ospedali per malattie infettive 55   Il patrimonio industriale napoletano secondo Paolo De Marco subì danni per il 66,9% del suo valore. P. De Marco, L’industria napoletana dal fascismo alla ricostruzione, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», Terza serie, vol. 13, 1974. 56   G. Chianese, «Quando uscimmo dai rifugi» cit., p. 174. 57   S. Lambiase, G.B. Nazzaro, L’odore della guerra. Napoli 1940-1945, Avagliano, Napoli, 1978, p. 119. 58   Ivi, p. 118. 59   «Risorgimento», 31 dicembre 1943. 60   C. Harris, Allied Military Administration of Italy cit., p. 421; Rapporto Hume cit. Il «Risorgimento» del 5 marzo 1944 fa riferimento ad una media di 1400-1800 casi mensili di persone infette. Sulla diffusione dell’epidemia di tifo nei ricoveri dall’ottobre 1943 e sulle modalità d’intervento delle autorità alleate si veda G. Gribaudi, Guerra totale cit., pp. 170-173.

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e sottoponendo a misure preventive principalmente quei civili che erano alle loro dipendenze61. Gli scopi militari, dunque, dovevano essere perseguiti in un clima di normalizzazione della vita quotidiana, che potesse accontentare la popolazione e, contemporaneamente, soddisfare le esigenze degli stessi soldati alleati al fine di rendere la loro permanenza in città quanto più agevole e sicura possibile. Rimasero comunque irrisolti i gravi problemi di approvvigionamento, mentre si aggravarono quelli relativi alla penuria di alloggi, alla crescente inflazione, al sempre più florido mercato nero. Decisamente deludenti furono le promesse del governatore Hume relative al soddisfacimento delle esigenze alimentari: la tanto attesa «arca di Noè moderna»62 sbarcò a Napoli soltanto l’8 dicembre e la ridotta distribuzione di pane – appena cento grammi a persona – si ebbe il giorno 11, «ma dopo tre o quattro giorni ne sospesero la distribuzione affermando che le scorte erano finite»63 ed il primo consistente rifornimento, proveniente dagli stock ammassati in Africa, giunse in città soltanto il 2 novembre. L’ottimistico proposito di distribuire oltre 1000 calorie giornaliere si ridimensionò drasticamente, tanto che nel dicembre ’43 furono assicurate appena 478 calorie, che salirono a 620 nel marzo del 1944, rispetto alle 850 della media europea64. Il mercato nero, di conseguenza, occupò una posizione centrale nella dimensione economica cittadina, fornendo già nel dicembre 1943 il 55,83% delle calorie e nel marzo 1944 il 62,72%65. Esso era presente nel Napoletano sin dall’inizio della guerra e rappresentò uno dei canali di distribuzione delle derrate alimentari tesi ad integrare il limitato razionamento. Ma con lo sfascio istituzionale dell’8 settembre e col conseguente venir meno del sistema di distribuzione di beni essenziali e di qualsiasi sistema di controllo, il mercato nero riprese vigore. Con l’arrivo degli Alleati esso cambiò totalmente volto, divenendo un solido e ramificato mercato parallelo, una grande impresa dal carattere monopolistico, con i suoi variegati e costosi   P. De Marco, L’occupazione alleata a Napoli cit., p. 262.   «Risorgimento», L’arca di Noè moderna (nave alleata piena di rifornimenti), 9 dicembre 1943. 63   M. Palermo, Memorie di un comunista napoletano cit., p. 188. 64   P. De Marco, Le politiche alleate in Italia cit., p. 244. 65   Ivi, p. 245. 61 62

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prodotti, le sue strutture, le sue regole e i suoi nuovi protagonisti66. Sulle ampie proporzioni dei canali clandestini influirono condizioni strettamente dipendenti dalla politica degli Alleati: le ridotte proporzioni del razionamento da essi garantito, l’isolamento della città dai centri di produzione agraria – non solo per il blocco dei trasporti, ma anche per il divieto di allontanarsi dalle mura cittadine per una distanza maggiore di 10 chilometri –, nonché la presenza di numerosissimi militari. Questi ultimi fornirono le più svariate merci in cambio di servigi vari, quando non furono direttamente coinvolti nella fitta rete organizzativa. «Si sopravvisse così» – scrive Antonio Ghirelli – «grazie alla borsa nera, ben presto organizzata in grande stile con la cooperazione determinante dei militari alleati, non solo per quanto riguarda i generi alimentari ma anche per le sigarette ed ogni altro articolo commerciale, non esclusi i carri armati, le navi liberty e le bombe a mano»67. Ma il complesso network che sottese il sistema del contrabbando obbliga a riconoscere le reali implicazioni: se da una parte è vero che esso fu alimentato dai militari alleati per fini lucrativi, dall’altra va riconosciuto che i rapidi ed elevati profitti che esso garantiva innescarono un sistematico sfruttamento della stessa presenza alleata, soprattutto da parte dei gruppi sociali meno abbienti. Rientrano in questo tipo di logica diversi fenomeni che si collocano al di là della legalità, primo fra tutti quello diffusissimo della prostituzione. Nei confronti della prostituzione legale e clandestina – alimentata dal complesso rapporto tra disperazione e abbondanza – le autorità alleate intervennero unicamente per fronteggiare l’allarmante pericolo delle malattie veneree, sempre più diffuse tra i militari stranieri68. Insieme al contrabbando, quella della prostituzione rappresenta l’immagine più frequente nella produzione letteraria, teatrale,   A tal proposito si veda P. De Marco, Polvere di piselli cit.; G. Gribaudi, Napoli 1943-45. La costruzione di un’epopea, in Italy and America 1943-44: Italian, American and Italian-American. Experiences of Liberation of the Mezzogiorno, Atti del convegno tenutosi presso l’Università del Connecticut, Hartford, 21-23 aprile 1995, Città del Sole, Napoli, 1997, pp. 297-329; A. Papa, Napoli americana, in «Belfagor», n. 3, 1982, pp. 249-264. 67   A. Ghirelli, Napoli italiana cit., p. 269. 68   P. De Marco, Polvere di piselli cit., pp. 40-41. 66

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filmica e musicale della Napoli occupata dagli Alleati. Tale immagine è particolarmente viva e ricorrente nelle narrazioni degli stessi soldati, non soltanto in quelle dell’italiano Curzio Malaparte69, ma anche in quelle degli stranieri. Marc Hillel, in particolare, in Vie et mœurs des G.I.’s en Europe70, ripercorre le campagne militari dei Gi’s nei diversi paesi europei – dallo sbarco in Inghilterra all’occupazione di Berlino – ed intitola La peste il capitolo dedicato all’Italia, una peste morale, che dilagava – secondo l’autore – soprattutto a Napoli, città in cui la disperazione aveva neutralizzato ogni antico punto di riferimento, ogni valore e in cui la mercificazione del corpo e la perdita della dignità umana irrompevano nella vita quotidiana, conducendo ad un abisso di degrado e di umiliazione. Altissimi furono, inoltre, nel dopoguerra napoletano, i tassi d’inflazione: rispetto al settembre 1943 il costo della vita nel dicembre aumentò del 46,7%, nel marzo 1944 del 133,4% e nel maggio dello stesso anno del 174,1%. Conseguenza questa di diversi fenomeni, non ultimi l’elevato potere d’acquisto dei militari stranieri che immisero in città quantità elevate di am-lire – moneta imposta con l’occupazione71 –, il blocco dei prezzi – inferiori ai costi di produzione – e degli stipendi72. Di fronte alla «inappropriata» politica amministrativa, Mario Palermo – allora sub-commissario del Comune di Napoli per l’Annona ed il Corso pubblico e stretto collaboratore degli Alleati – scrive: «la città mancava di tutto e ciò, specie nei primi tempi, per colpa degli Alleati che ci imposero, per evitare l’inflazione, come essi affermavano, di conservare gli stessi prezzi dell’epoca fascista, prezzi che nella maggior parte dei casi erano insostenibili perché inferiori a quelli di produzione; da qui il fiorente mercato nero. (...). Gli Alleati erano impreparati e testardi e da qui discussioni che non finivano mai. Io non desistevo dalle mie impostazioni ed essi dalle loro»73.   C. Malaparte, La pelle, Vallecchi, Firenze, 1959.   M. Hillel, Vie et mœurs des G.I.’s en Europe 1942-1947, Balland, Paris, 1981. 71   E. Aga Rossi, Il rapporto Stevenson cit., pp. 13, 153. 72   D.W. Ellwood, L’Alleato nemico cit., p. 387. Particolarmente colpiti furono i ceti medi a retribuzione fissa. A tal proposito si veda A.M. Imbriani, Vento del Sud. Moderati, reazionari, qualunquisti (1943-1948), il Mulino, Bologna, 1996. 73   M. Palermo, Memorie di un comunista napoletano cit., p. 189. 69 70

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Altrettanto grave fu la situazione relativa alla penuria di alloggi. Ai circa 100.000 appartamenti smembrati da bombe o da mine si aggiunsero i quasi 15.000 vani requisiti in città dalle autorità alleate74. Oltre ai più eleganti e confortevoli appartamenti privati furono requisiti terreni, locali pubblici, aziende, ospedali, alberghi, teatri, musei, scuole, caserme, non solo per scopi logistici, legati alla necessità di governare la città, ma anche per garantire essenziali momenti di svago ai soldati. Per questi diversi fini servirono il teatro S. Carlo, l’orto botanico, parte del Museo nazionale, la reggia di Capodimonte, il Palazzo reale, la sede del Banco di Napoli di via Roma, il grande palazzo delle Assicurazioni di piazza Carità, gli uffici della Galleria Umberto I, l’hotel Terminus, l’hotel Cavour, la parte ancora utilizzabile del palazzo della Posta centrale, sabotato dalle mine tedesche il 7 ottobre. Il caso delle requisizioni è emblematico del fatto che l’esigenza di garantire ai soldati di stanza o di passaggio in città il miglior livello di vita – sempre più spesso a scapito dei civili – fu tutt’altro che marginale. Ben presto i napoletani cominciarono a prender coscienza del fatto che «gli Alleati non [erano] i vendicatori delle favole per bambini, gli apportatori di giustizia e di abbondanza che avevano sognato i contadini per i quali l’America era stata per generazioni la terra promessa, o che avevano immaginato coloro che avevano ascoltato in segreto Radio Londra. Gli Alleati, inglesi o americani, erano un esercito occupante, con sue regole, preoccupazioni, sospetti, prevenzioni e progetti politici, posto di fronte alla necessità di riorganizzare la vita civile di una regione profondamente dissestata»75. Tale consapevolezza trasformò i «liberatori» in «occupanti», palesemente insensibili alla disperazione della popolazione civile. Così sul quotidiano romano «Il Tempo» nel gennaio 1946, in riferimento alla situazione napoletana, si poteva leggere: non si riesce a comprendere la ragione per la quale Napoli debba essere stata, ed essere tuttora, considerata come una polveriera degli eserciti in lotta! Polveriera la consideravano i tedeschi (...) polveriera la consideravano, e la considerano tuttora, gli Alleati (...). Né si arriva a comprendere   A. Papa, Napoli: il trauma della liberazione cit., p. 411.   M. Mafai, L’apprendistato della politica cit., p. 23.

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le ragioni per le quali, dal giorno in cui Napoli è passata all’amministrazione del governo italiano, le nuove forze di polizia alleata vadano imprimendo una più severa disciplina di guerra. A centinaia le pattuglie, in casco bianco e rosso, pattugliano la città di giorno, di sera, di notte, fermano i cittadini, li perquisiscono fin nelle più recondite pieghe dei loro indumenti, alla ricerca di qualche sigaretta, di qualche tavoletta di cioccolata, di qualche penna stilografica! (...). Il peso della disciplina di guerra si fa sentire ancora in un altro settore della vita cittadina, e cioè, quello delle abitazioni private, le quali sono ancora tenute sotto il vincolo di una ormai ingiustificata requisizione e della minaccia di nuovi vincoli militari come se la guerra fosse ancora in atto. La situazione del patrimonio edilizio è addirittura drammatica. Duecentomila sono stati i vani di abitazioni distrutti dai bombardamenti e le case rimaste immuni dalle distruzioni furono, nell’ottobre 1943, requisite dagli Alleati per alloggiamenti, uffici, clubs ed emporii per le truppe di occupazione. La cittadinanza che si rese conto delle necessità belliche non osò neppure formulare il suo intimo disappunto. Si dice poi che gli uffici alleati di Bari si trasferiranno a Napoli e si sa che base della flotta americana sarà Napoli. «Che sarà delle nostre case?», si domandano i napoletani senza tetto e senza masserizie76.   «Il Tempo», Napoli polveriera di tutti gli eserciti, 1° febbraio 1946.

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Capitolo III

L’alleato nemico*

Prevenzioni e risentimenti Erano in partenza per Algeri tutti gli ufficiali italiani prigionieri che, avendo deciso di abbandonare il fascismo, avevano espresso il desiderio di collaborare con gli Alleati. Scendemmo dai vagoni per sgranchire le gambe e fummo avvertiti dall’ufficiale di guardia che era proibito fraternizzare coi P/W1. «Fraternizzare un corno!» disse il sergente furiere dopo che l’ufficiale si fu allontanato. «Chi ha voglia di fraternizzare con gli italiani? Non hanno sparato sui nostri in Africa? E ora continuano in Italia (...). Per conto mio metterei quei bastardi al muro». «Dimentichi la convenzione di Ginevra», rispose con calma il caporale. «Davvero! Trattiamoli coi guanti gialli!» disse il sergente furiere «così fra vent’anni ci dichiareranno guerra di nuovo. Che hanno da perdere? Saranno sempre trattati meglio che nell’esercito italiano... fottuti dagos»2.

È in occasione del racconto del trasferimento delle armate alleate da Casablanca ad Algeri che, servendosi del dialogo tra un furiere ed un caporale, John Horne Burns parla per la prima volta degli italiani e dei risentimenti che essi suscitavano negli Alleati ancor prima di sbarcare nella penisola. Questa è la linea che caratterizzerà, fino * È il titolo di un lavoro di D.W. Ellwood sulla politica dell’occupazione angloamericana in Italia tra il 1943 e il 1946. L’opera è stata in precedenza citata. 1   Prisoners of War. 2   J.H. Burns, La galleria cit., p. 115. Il termine dagos, secondo l’accezione proposta da Burns, corrisponde a lavoratore non specializzato di origine italiana, spagnola o greca.

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all’epilogo, non soltanto il romanzo La galleria, ma anche tutti gli altri scritti dei militari alleati in Italia. Burns, riferendosi al comportamento tenuto dai Gi’s, scrisse ancora: Molti di noi eravamo abbastanza onesti in patria; ma quando si venne oltremare non si riuscì a resistere alla tentazione di guadagnare qualche dollaro a danno di popoli che erano già a terra. Posso parlare soltanto dell’Italia, perché non ho visto né la Francia né la Germania. Ma con la nostra etica di Hollywood e la nostra logica da rete radiofonica non ci si dava neanche la pena di meditare sul fatto che la guerra era contro il fascismo, non contro un uomo, donna o bambino d’Italia. (...). Non so perché ma molti americani nutrivano un odio profondo verso tutti gli italiani. La mettevano così: questi ginsos3 ci hanno fatto la guerra e noi possiamo fare a loro qualsiasi cosa: far salire i prezzi, rovinare la loro economia e prenderci le loro donne4.

Il soldato-scrittore intese, così, descrivere lo spirito che connotava buona parte dei componenti della compagine alleata, in particolare di quelli che occupavano gli alti ranghi, suggestionati dalle scelte politiche e militari dell’ormai disfatto regime fascista. Dopotutto non solo gli italiani erano stati loro avversari, ma con la «bravata» della guerra parallela in Africa e in Grecia fin dal 1940 avevano più volte combattuto contro i mezzi corazzati britannici e, due anni dopo, anche contro quelli americani. Nonostante le vittorie conseguite non fu facile dimenticare, soprattutto per gli inglesi, gli scontri che li avevano visti gli uni contro gli altri, nonché le numerose vittime. Questo aspetto affiora chiaramente nei dialoghi tra civili italiani e soldati alleati del romanzo La ragazza della Via Flaminia di Alfred Hayes, anch’egli militare alleato in Italia. In uno di questi, ad esempio, il sergente inglese, nel rispondere alle continue provocazioni di Antonio, che aveva combattuto come ufficiale italiano in Libia, sosteneva: «‘Senti, un bel po’ di nostri ragazzi se ne stanno stesi morti ad El Alamein a Tripoli. E non hanno pallottole tedesche in corpo’. ‘No’, – disse Antonio – ‘hanno le nostre’. ‘Proprio le vostre dannate pallottole’, disse l’inglese»5.   Col termine ginso, J.H. Burns intende oriundo italiano.   J.H. Burns, La galleria cit., pp. 282-283. 5   A. Hayes, La ragazza della Via Flaminia, Einaudi, Torino, 1994, p. 94. 3 4

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Per questi motivi, l’entusiastica reazione all’armistizio del settembre ’43 mostrata dalla popolazione civile destò stupore in un giornalista del «Times». Egli notò che gli italiani sembravano «non considerarlo come la resa ai conquistatori, ma come la ratifica formale ad un’alleanza naturale». «Molti di essi», continua il cronista, «non hanno la minima consapevolezza del fatto che noi possiamo avere per loro sentimenti privi di amicizia. Essi non ostentano la più debole manifestazione di una qualsiasi responsabilità al mondo, per il tradimento della Francia o la tragedia della Grecia o anche per il fatto che i soldati inglesi, ora in Italia, possano avere avuto fratelli o amici uccisi da proiettili italiani in Africa»6. Inconciliabile con la salda coscienza nazionale inglese era anche la ritrosia al combattimento mostrata da alcuni reparti dell’esercito italiano ed il tentativo di militari e civili di sottrarsi alla responsabilità della sconfitta, negando ogni legame col regime7. Ciò ingenerò nel corrispondente del «Times» in Sicilia il dubbio che «o Mussolini era nell’isola l’uomo più impopolare, oppure i siciliani [erano] un popolo molto volubile»8. Oltre alla mutevolezza, gli italiani erano accusati di essere «cinici», «servili», «gregari»9 e «corrotti»10. Un membro della Commissione Alleata di Controllo, in una intervista al «New York Times», preferì definire gli italiani «ladri» e «assassini», ostili agli Alleati e desiderosi di «acclamare nuovamente Mussolini». Aggiunse, inoltre, che i soldati americani avrebbero auspicato uno «smembramento dell’Italia» ed un trattamento degno del «più vile dei paesi conquistati»11. La decisione di voltare la faccia ai tedeschi e di sottoscrivere l’armistizio, seppur ovviamente apprezzata dagli Alleati, fu allo stesso tempo da essi considerata un’azione tutt’altro che nobile. Lo stesso Eisenho  «The Times», 13 settembre 1943.   A. Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 46-47. 8   «The Times», 3 settembre 1943. 9   Ivi, 20 settembre 1943. Nell’esplicitare l’opera di organizzazione dell’Amgot in Sicilia, sul «The Times» apparvero più volte lamentele sulla mancata cooperazione mostrata dal popolo italiano. 10   Ivi, 21 settembre 1943. Nell’articolo vengono criticate non le organizzazioni economiche e sociali del fascismo, ma la gestione mafiosa delle stesse, sopravvissuta al crollo del regime in tutta l’Italia a sud di Napoli. Si fa anche riferimento al ruolo che gli emigrati siciliani svolsero nella nascita del gangsterismo negli Stati Uniti. 11   G. Alliegro, Don Chisciotte a Napoli, Arturo Berisio, Napoli, 1978, p. 217. 6 7

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wer sostenne che «il governo italiano decise di capitolare non perché si vide incapace di offrire ulteriore resistenza ma perché era venuto, come in passato, il momento di saltare dalla parte del vincitore»12. La diffidenza nei confronti della popolazione italiana trova piena conferma anche nelle interviste fatte ad alcuni membri dell’esercito americano trasferitisi a Napoli dopo aver contratto matrimonio con donne napoletane. Il capitano americano Richard rammenta la difficoltà da parte dei comandi direttivi di far conciliare il sostegno che gli italiani avevano assicurato al regime e quello che ora offrivano agli alleati anglo-americani. Egli dice: «i comandanti ci dicevano [che] non [ci] dovevamo fidare degli italiani, perché in Italia c’era Mussolini e Mussolini era ancora alleato con Hitler. Ma era vero perché Mussolini non era uno che era odiato dalla gente, che si è trovato a Roma senza un sostegno, la gente lo voleva e allora se aveva scelto a lui certo non poteva apprezzare a noi (...). E poi pure se aveva scelto l’alleanza con noi era perché ormai si sapeva che non si aveva speranze, era costretta»13. Il capitano insiste sui rapporti della popolazione col fascismo ed il suo racconto ci riporta all’ingresso delle truppe in Italia. Abbiamo accennato al caloroso benvenuto riservato dalla popolazione civile ai «liberatori», ma questo fu per molti di essi tutt’altro che scontato. Egli, infatti, confida: «Quando noi siamo venuti in Italia dovevamo cacciare i tedeschi, ma non eravamo alleati, non c’era stato ancora l’armistizio tra noi e l’Italia e i comandanti dissero di stare attenti ai fascisti (...) ma non solo... ai... militanti, ma anche alla gente normale, non militari, a quella gente che avevano voluto a Mussolini. (...). Però anche dopo l’armistizio ci aspettavamo qualcosa, stavamo attenti»14. Anche alcuni stralci di lettere censurate15 ai soldati stranieri in

  D.D. Eisenhower, Diario di guerra, Baldini & Castoldi, Milano, 1947.   Testimonianza di Richard (nome fittizio), Chicago 1916, capitano della V Armata in Italia. 14   Ibid. 15   L’Archivio Centrale dello Stato conserva le lettere censurate a partire dal giugno 1944 dai ricostituiti Uffici Militari Censura di guerra, sottoposte anche al vaglio dei comandi alleati, in due fondi differenti: Pcm, 1944-47, b. 1.2.2., f. 14884 e Mi, Gab., 1944-46, b. 15, f. 1119. Si tratta di materiale estremamente interessante che consente di venire a conoscenza di cosa stava a cuore agli scriventi, non soltanto di lamentele, giacché l’obiettivo del censore era quello di registrare lo stato d’animo dei civili e dei militari, anche in relazione agli Alleati. Una parte delle relazioni, infatti, era proprio dedicata alle «opinioni sugli Alleati». 12 13

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Italia documentano tale atteggiamento. Un soldato alleato di stanza a Genova scrisse, probabilmente ad una sua concittadina: Suppongo che sia nostra buona politica nutrire queste popolazioni, ma mi sembra che siamo un po’ troppo indulgenti. Già si comincia a mormorare che non mandiamo abbastanza. Puoi immaginare una cosa simile? Stiamo anche fornendo loro benzina in quantità limitata. Ne risulta che un gran numero di persone ricche ottengono permessi di circolazione per le proprie macchine ed integrano la piccola razione con la benzina acquistata sul mercato nero. Generalmente quest’ultima è stata rubata alle forze armate. Mi è stato detto che era un vero scandalo. Lo scorso mese, Portofino rigurgitava di ricchi commercianti milanesi – profittatori di guerra che hanno ammassato recentemente delle fortune – con magnifiche macchine, e che spendevano denaro a destra e manca per vivere allegramente. Le macchine si vedevano ovunque e canotti automobili (quelli veloci e rumorosi che odiavamo tanto) si sentivano anche nei pressi di Paraggi. A sentire e vedere queste cose, potresti a malapena immaginare che hanno proprio ora perduto una guerra. Difatti cominciano a pensare che non ne erano, in alcun modo, responsabili. Ne attribuiscono la colpa a pochi fascisti, ora morti. Deve essere utilissimo avere una simile memoria...16.

Nonostante tali diffidenze, gli Alleati non imposero in Italia alcun formale divieto di socializzazione, come accadrà in seguito in Germania e in Giappone, dove la «fraternizzazione» tra soldati americani e popolazione civile sarà costantemente osteggiata. Le condizioni dei due paesi differivano da quelle relative all’Italia poiché – a differenza di quest’ultima – gli ostili rapporti con gli Alleati non erano stati regolati da alcun trattato di pace. Subito dopo l’occupazione di Berlino, in particolare, la parola d’ordine che regolò le relazioni con la popolazione tedesca fu «non fraternizzazione» che impose ai soldati l’obbligo di non socializzare con i civili ed in particolare con le donne tedesche, considerate le maggiori sostenitrici del regime nazista. Si intese, in tal senso, punire i tedeschi-traditori e cercare di mantenere la loro condizione di «nemici pericolosi», dai quali i Gi’s dai cuori teneri avrebbero dovuto guardarsi17. Le donne tede-

16   Acs, Pcm, 1944-47, b. 1.2.2., f. 14884, lettera scritta da H. Moss da Genova a J.A. Naim, Inghilterra, 10 settembre 1945. 17   J. Verlag, It Started with a Kiss. German-allied Relation after 1945, publication of the Allied Museum, Berlin, 2005.

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sche furono considerate spregiudicatamente infedeli, sessualmente pericolose, principali messaggere dell’insidiosa propaganda nazista e per questo di grande intralcio alla realizzazione del processo di rieducazione, denazistificazione e democratizzazione. Si temeva che esse potessero consentire il ripristino del vecchio ordine non solo in Germania ma persino negli Stati Uniti, nelle vesti di mogli degli ingenui soldati americani18. Marc Hillel fa riferimento all’ambiguità che connotava l’Italia agli occhi degli Alleati. Essa, in effetti, non era né un nemico né un alleato ma piuttosto un «sorcio che aveva ruggito con i leoni ai tempi, ormai passati, del loro splendore»19. Inoltre – continua Hillel –, se da una parte il Paese era ormai «marchiato» da un passato politico discutibile, dall’altra poteva contare su un elemento vantaggioso che gli consentiva un «migliore trattamento» rispetto alla Germania o al Giappone: l’esistenza di una folta comunità italo-americana oltreoceano, di cui una cospicua parte ingrossava le fila delle armate che occuparono a poco a poco la penisola20. Malgrado la socializzazione non fosse espressamente vietata, in Italia non mancarono chiari tentativi tesi a dissuaderla. Burns ricorda che il primo problema che si presentò ai militari di stanza a Napoli era la difficoltà di vivere in una città in cui forte era la sensazione dell’esistenza di una «muraglia» tra essi e la popolazione civile, alla cui cementazione contribuì l’«inondazione» di «film americani e di Coca-Cola»21 intrapresa dai comandi alleati. Alcune iniziative furono finalizzate a salvaguardare la stessa incolumità dei soldati. Rientravano in questa logica, tra l’altro, l’imposizione del divieto da parte dei civili di alloggiare i militari e l’interdizione di alcune aree cittadine – le cosiddette zone off limits – saldamente recintate per impedire l’accesso in quei quartieri 18   J. Miller, Dangerous Women and Naughty Girls: Fraternization and Postwar Germany, 1945-1947, Atti del convegno Women and Conflict: Historical Perspectives, tenuto dal 10 al 12 ottobre 2003 presso l’Università della California, pubblicati sul sito Internet www.ihc.ucsb.edu/conflict/schedule.html; A.P. Biddiscombe, Dangerous Liaisons: The Anti-Fraternization Movement in the U.S. Occupation Zones of Germany and Austria, 1945-1948, in «Journal of Social History», n. 3, 2001, pp. 611-647. 19   M. Hillel, Vie et mœurs des G.I.’s en Europe 1942-1947 cit., p. 120. 20   Ibid. 21   J.H. Burns, La galleria cit., p. 286.

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considerati ad alto rischio sia di rapine che di contagio di malattie veneree. Per evitare che i militari stranieri potessero allontanarsi indebitamente dai comandi, su richiesta delle autorità alleate, fu emanata nei primi giorni del novembre 1944 l’ordinanza prefettizia che stabiliva il divieto da parte dei civili – affittacamere, gestori di locande e famiglie private – di ospitare i militari alleati in locali e case, con o senza pagamento. Sull’efficacia di questa soluzione nutriva seri dubbi il questore di Napoli Broccoli, secondo il quale il lucro e i notevoli vantaggi derivanti non avrebbero dissuaso i napoletani dal perpetuare l’ospitalità22. L’ordinanza, inoltre, determinò il disappunto degli ufficiali e dei militari alleati, che protestarono presso la questura principalmente per l’impossibilità di recarsi in visita presso le famiglie italiane23, ma soprattutto dei civili che nei loro numerosi reclami sottolinearono l’onestà che sottendeva le loro intenzioni. Tra gli altri, c’era il caso di un uomo che chiese al prefetto di poter continuare ad ospitare un caporale scozzese, prossimo sposo della cognata, nelle sole ore diurne e quando non era accompagnato dai commilitoni. Egli faceva notare che, rifiutando l’ospitalità al militare, avrebbe dovuto consentire alla donna, sulla quale esercitava la patria potestà, di «frequentarlo nella pubblica via», comportamento contrario ai «canoni di moralità per una famiglia piccola, modesta, ma onorata»24. Fin dall’ottobre 1943 un nuovo elemento cominciò ad assillare le autorità alleate: quello delle malattie veneree. Il sostanziale aumento della prostituzione e del tasso d’infezione tra i soldati stranieri, secondo Norman Lewis, rappresentava un’occasione per dimostrare che in fondo gli Alleati, ancora dopo qualche mese di coabitazione con gli italiani, continuavano a nutrire dubbi circa la loro lealtà. Il 3 marzo 1944 l’ufficiale inglese scriveva: «Dai rapporti pervenutici risulta che in territorio liberato, e in particolare a Napoli, la prostituzione abbia toccato punte mai registrate prima d’ora in Italia. La situazione è tale da far ritenere che il favoreggiamento della prostituzione faccia parte di un piano preordinato ordito da elementi sim22   Asn, Pref., Gab., II vers., b. 1279, f. 9, Disciplina di guerra. Divieto per i civili di alloggiare militari alleati, 22 novembre 1944. 23   Ibid. 24   Ivi, 10 novembre 1944.

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patizzanti per l’Asse con l’intento principale di diffondere le malattie veneree fra militari alleati»25. Quello delle malattie veneree, tuttavia, non rappresentò per le autorità alleate un semplice pretesto da strumentalizzare, ma un problema concreto ed inquietante per l’impressionante diffusione tra i soldati alleati. I tassi d’infezione relativi al mese di dicembre 1943, infatti, rivelarono un aumento considerevole tra i soldati stanziati nei centri cittadini rispetto a quelli insediati al fronte, percentuale particolarmente alta tra i soldati di stanza a Napoli, in cui furono individuati 500 dei 760 casi gravi presi in esame26. Sulle notevoli proporzioni assunte dalla prostituzione, soprattutto clandestina, incise il particolare contesto della guerra. Napoli divenne il palcoscenico di uno spettacolo di «perdizione», che in forme più o meno simili si era manifestato nei mesi precedenti nelle città italiane più a sud e nel Nord Africa – da cui le truppe alleate provenivano –, alimentato da schiere di donne che seguivano i militari nei loro movimenti strategici. Il comando alleato segnalò più volte al questore napoletano una forte preoccupazione di contagio tra le truppe stanziate a Napoli, a Caserta e a Santa Maria Capua Vetere, dovuta alla presenza di numerose prostitute al loro seguito27. Fin dal loro arrivo in città, oltre al divieto di accedere ai quartieri in cui la prostituzione clandestina era più diffusa, i comandi alleati proibirono ai soldati l’accesso alle case di tolleranza autorizzate. Tali misure furono attuate immediatamente per i soldati inglesi e dal gennaio 1944 per quelli americani28. Per tenere sotto controllo il contegno dei soldati furono, inoltre, organizzate attività di intrattenimento presso bar e club, con la collaborazione dell’American Red Cross, e istituite in diversi angoli della città stazioni profilattiche. Ma l’inefficienza di tali disposizioni ed il conseguente aumento delle infezioni ai danni dei militari spinse le autorità alleate a puntare sulla collaborazione con quelle italiane addette al servizio di pubblica sicurezza. Lo rivelano le insistenti pressioni della Public Health   N. Lewis, Napoli ’44 cit., p. 113.   Dal messaggio del generale M. Clark alle truppe il 28 dicembre 1943, in P. De Marco, Polvere di piselli cit., p. 40. 27   Acs, Pref., Gab., 1944, II vers., b. 1034, f. 11, Malattie veneree. 28   Ibid. 25 26

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Division alla prefettura e alla questura di Napoli finalizzate ad intensificare la lotta alla prostituzione vagante e, allo stesso tempo, a rendere più scrupolose le ispezioni presso le case di tolleranza29. Le diverse disposizioni che i comandi inviavano ai soldati insistevano sul dovere militare che tutti quelli che si sentivano «costretti a usare di donna mercenaria» avevano nel preferire quelle dei postriboli e diffidare delle «veneri vaganti», da ritenere «sempre infette e quindi pericolosissime»30. Si puntò, così, su un sistema di controlli e verifiche inizialmente gestito dalle autorità italiane e monitorato tenacemente da quelle alleate. Ad ogni casa di meretricio veniva assegnato un «medico visitatore», del quale il commissario di pubblica sicurezza avrebbe dovuto periodicamente verificarne «diligenza, moralità, scrupolosità» e vigilare sulla veridicità delle diagnosi compiute dallo stesso31. Proprio l’onestà dei medici preposti a visitare quotidianamente le donne e in caso di contagio disporne il ricovero in ospedale fu più volte messa in dubbio dalle autorità alleate. Uno «speciale» controllo medico disposto nel giugno 1945, che rivelò che il 49% delle prostitute dichiarate sane dai medici visitatori era affetto da infezioni celtiche32, indusse gli Alleati a scavalcare le autorità italiane, verificando mensilmente la profilassi e disponendo il ricovero delle donne, che sarebbero state sottoposte alle cure di un medico alleato. A scatenare tali ispezioni aveva probabilmente contribuito l’arresto del direttore dell’ospedale della Pace Arturo De Amicis e dei suoi collaboratori, accusati dal Field Security inglese di aver rilasciato, dietro compenso, certificati di guarigione a donne affette da malattie veneree33. La stampa alleata cominciò ad essere utilizzata come strumento per trasmettere alle truppe messaggi tesi a metterle in guardia dal pericolo di infezioni.   Ibid.   Asn, Pref., Gab., II. vers., b. 71, f. 1521, Prostituzione. 31   Ibid. 32   Asn, Quest., Disposizioni di massima, b. 67, f. 1469. 33   Acs, Mi, Gab., b. 89, f. 7489. Il professor Arturo De Amicis e altri due sanitari dell’ospedale, arrestati il 13 gennaio 1945 e deferiti alla Corte Alleata, furono assolti il 25 aprile dello stesso anno per insufficienza di prove. 29 30

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«Union Jack», il quotidiano per le truppe britanniche in Italia, pubblicò nel novembre 1943, in italiano e in inglese, un volantino che i soldati avrebbero dovuto portare sempre con sé al fine di allontanare chi dello sfruttamento della prostituzione aveva fatto la propria fonte di guadagno. Esso recitava: «Non m’importa della vostra amica sifilide, né di vostra sorella. Le truppe alleate non si trovano in Italia per ammirare il Vesuvio e contrarre malattie. Noi siamo qui per vincere la guerra e rendere nuovamente libera e dignitosa l’Italia. Perché non ci aiutate?»34. Stessa finalità fu affidata ad un manifesto fatto affiggere dalle autorità alleate sui muri delle maggiori strade di Portici nel gennaio 1945. Il testo, preceduto da un teschio umano, diceva a caratteri cubitali: «Ricordo di Portici; regalo da portare a casa; pericolo venereo, ne vale la pena? siete stato avvisato»35. Il telegrafico ma incisivo messaggio suscitò il risentimento e l’immediata reazione da parte del Nucleo Vesuviano Medici Chirurghi che, riunitosi in assemblea, inviò una lettera di protesta alle autorità locali. In questa si difese la maggioranza della popolazione porticese dominata da «indiscussi sentimenti di onestà e di rettitudine» e si incriminò il «comportamento corrotto ed anomalo di una sparuta opportunistica minoranza di famiglie [lì] trasferite dalle esigenze belliche»36. Si accusarono, inoltre, le autorità competenti di complicità, in quanto se da una parte lamentavano le infezioni celtiche, dall’altra non attuavano necessari mezzi repressivi, come il pattugliamento delle zone malfamate, le contravvenzioni ed il controllo di quei luoghi destinati al divertimento dei «liberatori»37. Altra preoccupazione del comando alleato fu quella di ostacolare le relazioni «serie», prime fra tutte quelle sentimentali. Si cercò, infatti, di dissuadere i militari che, sin dai primi mesi dell’occupazione, manifestarono l’intenzione di stringere vincoli matrimoniali con le donne italiane, le quali non meritavano – si riteneva – piena fiducia. In tal caso si puntò sui contenuti della stampa militare, sulla distribuzione di documenti ai soldati e sull’inasprimento della burocrazia legata alle procedure relative alle autorizzazioni delle unioni.   «Union Jack», 18 novembre 1943.   Asn, Pref., Gab., II vers., b. 1034, f. 11, Malattie veneree. 36   Ibid. 37   Ibid. 34 35

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Il capitano americano Richard giustifica tali restrizioni e ricorda che i superiori gli dicevano: «come ti puoi fidare di una che ha detto viva il duce?»38. Allo stesso modo, il marinaio Bob L. ricorda che, come altri militari, considerava le donne italiane «non proprio collaborazioniste ma quasi quasi così. Pensavamo che erano facili e allora come te le potevi portare a casa? Come potevi presentare alla famiglia? No! Te le portavi a ballare, a divertirsi, ma non a sposarle. Poi abbiamo capito che non erano tutte così, c’erano anche quelle serie, come mia moglie»39. Il modo in cui spesso le donne italiane venivano considerate dalle autorità alleate non differiva affatto da quello che riguardava gli uomini, come confermano le descrizioni dei soldati alleati. «Gli uomini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disposto a fare assolutamente tutto per sopravvivere», annotò John Huston40. Marc Hillel scrisse che «l’Italia aveva il vantaggio di avere le più carine, le più attraenti donne che era mai capitato ad un Gi d’incontrare. E queste donne, per loro sfortuna, furono per troppo tempo private di tutto. Il regno del Let’s go, Baby non poteva trovare circostanze più propizie»41. Ritornando ancora al dialogo tra i due militari alleati sulla tratta Casablanca-Algeri, narrato da Burns, il furiere confidò al caporale di voler conservare la sua «razione C» fino al suo arrivo in Italia, giacché, assicurò, «pur di mangiare, le ragazze gingo fanno qualsiasi cosa»42. Ancora più inequivocabile è lo scambio di battute tra i cappellani militari Bascom e Donovan stimolato dagli atteggiamenti di audaci «signorine» che passeggiavano nella Galleria Umberto I: «Le donne battono il marciapiede perché sono semplicemente delle poco di buono e non vogliono seguire la retta via... e le donne italiane sono molto più innamorate delle nostre, vanno a farsi il segno della croce in chiesa e un minuto dopo eccole in via Roma! (...). Qui a Napoli nessuno si cura di ciò che fanno quelle donne perché tutti gli italiani sono come loro»43.   Richard, testimonianza cit.   Testimonianza di Bob L., 1920, marinaio della V Armata a Napoli. 40   J. Huston, Cinque mogli e sessanta film cit., p. 135. 41   M. Hillel, Vie et mœurs des G.I.’s en Europe 1942-1947 cit., p. 123. 42   J.H. Burns, La galleria cit., p. 116. 43   Ivi, p. 128. 38 39

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L’immagine di una donna pronta a «vendersi» o ad essere «venduta» è indubbiamente quella che maggiormente accomuna questi scrittori. Essa emerge ancora in Napoli ’44. Il 4 ottobre, giorno del suo arrivo a Napoli, Lewis, insieme ad altri soldati, si fermò in un edificio pubblico semiabbandonato appena fuori città dove si distribuivano approvvigionamenti dell’esercito americano ai civili affamati. L’ufficiale descrisse in tal modo l’episodio: «Le signore sedevano in fila, a intervalli di circa un metro l’una dall’altra, con la schiena appoggiata al muro. Vestite con abiti di tutti i giorni, queste donne avevano facce comuni, pulite e perbene di massaie, di popolane che vedi in giro a spettegolare o fare la spesa. Di fianco a ognuna era appoggiata una pila di scatolette, ed era evidente subito che aggiungendone un’altra si poteva far l’amore con qualsiasi di loro, lì, davanti a tutti»44. Un ruolo tutt’altro che secondario, teso a dipingere un certo prototipo di donna italiana, fu svolto dalle riviste destinate ai militari stranieri, di cui le più importanti furono la già citata inglese «Union Jack» e la statunitense «Stars and Stripes», la cui european edition, stampata a Napoli, era distribuita gratuitamente ai soldati. «Stars and Stripes», che poté contare su un’amplissima diffusione, comprendeva articoli di carattere strategico-militare, notizie su ciò che accadeva in Italia – a Napoli in particolar modo – e negli Stati Uniti. Tra gli altri temi primeggiava quello della famiglia lasciata in patria; frequenti erano, infatti, le lettere e le fotografie delle mamme, ma soprattutto quelle delle mogli e dei bambini, che spesso indossavano minuscole divise militari americane. Talvolta si potevano ammirare immagini che avevano per oggetto i matrimoni tra militari ritornati in patria o quelli tra membri dell’esercito. Altro argomento frequente nelle riviste militari era quello della solitudine delle giovani donne rimaste in patria che attendevano speranzose il ritorno dei propri soldati45. Di frequente apparivano fotografie di pin-up e di incantevoli e seducenti attrici e ballerine hollywoodiane, di cui le didascalie mettevano in evidenza la grazia e l’eleganza, considerate corredo inestimabile delle donne americane. Si insisteva, inoltre, sulla lo  N. Lewis, Napoli ’44 cit., p. 31.   «Stars and Stripes», 23 marzo 1944. Secondo l’articolo, un censimento negli Stati Uniti aveva registrato 6.000 donne in più rispetto agli uomini, mentre nel 1940 questi ultimi superavano di 700.000 unità le donne. 44 45

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ro emancipazione in diversi ambiti. Delle italiane, invece, si sottolineava spesso la frivolezza46, rappresentata anche da vignette che riproducevano donne dedite al contrabbando o alla prostituzione nell’emblematica via Roma. All’immagine di una donna «disponibile» si affiancò quella che ne sottolineava l’arretratezza culturale. Anna Garofalo, giornalista romana a cui fu affidato dagli americani nel settembre 1944 il compito di condurre una trasmissione radiofonica dedicata alle donne su Radio Roma dal titolo Parole di donna, nel ricordare l’esperienza, scrisse: ho parlato con Edoardo Anton, dirige l’ufficio conversazioni della radio controllata dal PWB. Mi ha spiegato quello che si vorrebbe da me. Una trasmissione di quindici minuti, tre volte alla settimana, in ore di grande ascolto (...). Gli americani – dice Anton – danno grande importanza alle trasmissioni per le donne. Pensano che alle italiane, soprattutto, si debba parlare in un certo modo, perché escono da un secolo di non considerazione, di vero e proprio servaggio. E per di più, hanno dovuto sopportare una guerra non voluta, balorda e disgraziata. Risalendo dal Sud verso Roma, le truppe alleate hanno visto la donna italiana considerata alla stregua delle bestie da soma, delle coniglie. Fatica e maternità e nessun riconoscimento. Certi visi intravisti nel vano delle finestre, sulla soglia delle case, non riescono a dimenticarli. Vogliono che si parli a queste donne, che gli si spieghino molte cose, perché sappiano che, da questo momento, si terrà conto anche di loro47.

Legami di «sangue» Il sorriso era ieri per le strade di Napoli: un sorriso illuminato dal tiepido sole di ottobre e dalla fiducia dei cuori che si leggeva sui volti delle donne, dei vecchi, degli uomini. In via Roma, in via Caracciolo, per le strade del Vomero brulicava la caratteristica folla domenicale e le mamme spingevano di nuovo le carrozzine dei loro bimbi scampati al terrorismo   Lo dimostrano, ad esempio, le didascalie accompagnate alle foto di ragazze napoletane nell’inchiesta dal titolo Vi piacciono i soldati americani?. Alla domanda alcune risposero: «Alcuni sono troppo giovani, altri non sono così male. A me piacciono tutti! Che fai stasera?»; «Sono i ragazzi più meravigliosi che abbia mai visto e li amo tutti!»; «Gli americani sono ok in tutti i sensi e talvolta sono dei perfetti gentiluomini. Il mio fidanzato preferito mi ha promesso una jeep dopo la guerra», «Stars and Stripes», How do you like american soldiers?, 27 novembre 1943. 47   A. Garofalo, L’italiana in Italia, Laterza, Bari, 1956, pp. 1-2. 46

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teutonico. In mezzo al popolo (...) erano i baldi soldati delle truppe alleate. Quante strette di mano, quanti scambi di cordialità e di simpatia! L’autentica fraternità della nostra gente con quella d’Inghilterra e d’America affiora ogni giorno attraverso una serie di luminosi e significativi episodi. Nei quartieri popolari, ove com’è noto esistono numerose famiglie che hanno i loro cari impiantati negli Stati Uniti, l’incontro con qualche congiunto appartenente al corpo Alleato era accompagnato da schiette manifestazioni di entusiasmo48.

Il precedente articolo, oltre a descrivere la ritrovata serenità dei primi giorni dell’ottobre 1943 e ad insistere sulla buona accoglienza riservata ai militari stranieri, lascia emergere un altro aspetto: i rapporti di parentela che di sovente legavano i napoletani agli uomini in divisa. Non pochi erano i soldati di origine italiana nei primi reparti statunitensi. Tale scelta, probabilmente, rispondeva alla necessità di facilitare le essenziali relazioni che l’occupazione avrebbe richiesto, «sfruttando» soprattutto la condivisione della lingua49. Si trattava perlopiù dei figli dell’emigrazione transoceanica a cavallo tra la fine dell’800 e i primi decenni del ’900. Molti di essi furono inviati nelle stesse città da cui provenivano i «pionieri del grande esodo» ed in cui ancora risiedevano i loro parenti più prossimi. Ciò innescò un meccanismo di scambi che consentì ad entrambe le parti – ai soldati ed ai loro parenti – una serie di indiscussi vantaggi: in cambio di beni essenziali il soldato poteva contare su una calorosa accoglienza che gli assicurava di recuperare un po’ di «calore domestico». Rappresentativo di quanto appena detto è il «ricongiungimento» nel difficile «dopoguerra napoletano» tra il soldato americano Antonio D. e gli zii materni. Prima di analizzare le dinamiche di tale relazione, per maggiore chiarezza, occorre fare un passo indietro nella storia della famiglia del militare. Raffaele, nato nel 1889, ormai ventenne, non avendo intenzione di continuare a lavorare nella falegnameria di famiglia, decise di raggiungere un lontano parente in America, a Boston. Lì fece fortuna e dopo qualche anno di lavoro come cameriere riuscì ad aprire un locale di sua proprietà. Date le favorevoli condizioni,   «Risorgimento», Il popolo fraternizza con le truppe Alleate, 4 ottobre 1943.   Tale aspetto viene sottolineato da M. Hillel, Vie et mœurs des G.I.’s en Europe 1942-1947 cit., p. 120 e da N. Lewis, Napoli ’44 cit., p. 164. 48 49

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nel 1921, richiamò il suo unico fratello, Vincenzo, seguito dopo due anni dalla moglie e dai due figli, Rita, di tre anni, e Antonio, di due. Anche Vincenzo s’impiegò nel campo della ristorazione e, insieme al fratello, riuscì ad aprire un altro ristorante, avvalendosi dell’aiuto del figlio Antonio, almeno fino all’aprile 1943, quando quest’ultimo fu richiamato dall’esercito degli Stati Uniti per partecipare alla Campagna d’Italia. Il giovane, dopo essere sbarcato col suo contingente a Salerno, stazionò a Napoli fino al 1946. Appena giunto in una città in cui non riconobbe le piacevoli immagini che avevano arricchito i suoi racconti d’infanzia, cercò la sorella di sua madre, Maria, che viveva col marito Lucio, impiegato, e i suoi tre figli nel quartiere S. Lorenzo. La famiglia di Maria, come tante altre, stentava a sopravvivere in una città gravemente stravolta dalla guerra e beneficiò dei provvidenziali «doni» che Antonio, quasi quotidianamente, assicurava loro. Antonio rappresenta un personaggio importante per il presente lavoro, anche perché sposerà nel 1946 Annamaria S., dirimpettaia degli zii. Questo aspetto sarà ripreso più avanti. Ora quello che c’interessa sono le continue frequentazioni con gli zii materni, testimoniate da diverse lettere che Anna, la madre di Antonio, scrisse a sua sorella Maria, come quella datata 16 giugno 1944: cara sorella, che afflizione che teniamo a pensare come state ancora combinati a Napoli, ci dispiace a pensarlo che non ci riesce più di dormire bene di quello che state passando. (...). Antonio ha detto che dietro il palazzo sta tutto scarrubbato e non ci stanno più le piante nel ciardino (...). Ringraziamo il Signore che il palazzo nostro non e stato buttato a terra co tutti i sacrifici di papà e di zio Natale che ci stanno dentro. Ci fa piacere che state bene e che pure Caterina si sta riprendendo colla salute. Antonio ha detto che vi sta facendo tutto il possibile per farvi stare bene e noi stiamo tranquilli a pensare che sta a casa vostra e no colla gente forestiera50.

Alcuni intervistati rivelano di aver tratto giovamento dalla presenza dei loro parenti più o meno prossimi nella V Armata. Tali legami, infatti, rappresentavano una via privilegiata per l’attuazione di quella che è stata definita «industria della convivialità»51, una   Lettera custodita dalla figlia di Maria R., datata giugno 1944.   A. Papa, Napoli: il trauma della liberazione cit., p. 410.

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vera e propria economia dei quartieri più popolari52, che si allargò anche a soggetti non legati da alcun vincolo di sangue. Nei primi mesi dell’occupazione svolsero un ruolo centrale le donne, le quali scambiavano servizi di lavanderia con cibo e sigarette. Sul finire del ’43, poi, un numero considerevole di «bassi» dei quartieri storici della città si trasformavano in trattorie familiari, in cui si commerciava soprattutto «il desiderio dei vincitori di sentirsi di casa da qualche parte»53. Prima del ’43 gli italiani avevano dell’America un’idea, una rappresentazione, i cui «potenti» contenuti avevano resistito agli insistenti tentativi di rimodellarne la natura. Tra la fine degli anni ’20 e per tutti gli anni ’3054, in Italia, come in altri paesi europei, si era timidamente affacciata la società dei consumi e i primi mass media avevano cominciato a fabbricare fantastici sogni collettivi, bruscamente ridimensionati dall’antiamericanismo politico-ideologico proprio del regime fascista, che paradossalmente ne aveva utilizzato i mezzi per creare consenso55. Alla stragrande maggioranza della popolazione, tuttavia, il mito d’oltreoceano giunse soprattutto grazie alle memorie di chi negli Stati Uniti era stato, intravedendo una possibilità di riscatto per sé e per i propri cari. A prevalere, pertanto, fu «l’immagine dell’America come Eldorado, come ricchezza probabile, come felicità a portata di mano, come riscatto possibile proprio degli strati inferiori della società»56. L’immagine reale degli Alleati Fin dal principio la presenza alleata fu rassicurante ed ambigua al tempo stesso per diversi aspetti. Lo stereotipo del soldato alleato dif52   A. Lepre, Per una storia della sensibilità a Napoli durante la seconda guerra mondiale, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Campania, a cura di P. Macry, P. Villani, Einaudi, Torino, 1990, p. 79. 53   A. Papa, Napoli: il trauma della liberazione cit., pp. 419-420. Papa ipotizza che alla fine del 1943 questi improvvisati punti di ristoro fossero circa 1000. 54   M. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, Bollati Boringhieri, Torino, 1989. 55   A tal proposito si veda V. De Grazia, S. Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, Einaudi, Torino, 2003. 56   P. Cavallo, Italiani in guerra. Sentimenti ed immagini dal 1940 al 1943, il Mulino, Bologna, 1997, p. 197.

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fuso tra la popolazione, già prima dello sbarco in Sicilia, era quello dell’americano «bianco», magari di origine italiana. Gli italo-americani non delusero le aspettative dei civili, ma insieme ad essi eserciti e gruppi etnici differenti popolarono le strade delle città, creando difficoltà a far corrispondere all’immagine attesa quella effettiva. Gli americani, coi quali ancora oggi si usa definire la poliedrica V Armata, erano in realtà americani, inglesi, francesi, scozzesi, canadesi, neozelandesi, australiani, brasiliani, filippini, indiani, marocchini, algerini, jugoslavi, greci, russi, polacchi, ecc. Esemplare, in tal senso, è il successivo stralcio tratto dalle memorie di una donna di Salerno: «quando cominciarono i bombardamenti nella città di Napoli nel 1942 spesso vedevamo passare gli aerei americani e dicevamo: ‘è Ciccillo, il figlio del ferroviere napoletano!’ Ma alcune ragazze poi un giorno erano in una vallata a prendere l’acqua e in lontananza videro due negri che erano stati sganciati da un paracadute. Lascio immaginare lo spavento! Di corsa tornarono a casa, avvisarono i parenti e più tardi furono trovati solo i paracaduti, dei negri per fortuna più nessuna traccia»57. Un primo elemento a cui far cenno, in riferimento all’essenza del ricordo della «coabitazione», è di tipo terminologico. Quando si parla degli Alleati l’immediata reazione di tutti i testimoni è quella di sostituire il termine «Alleati» con «americani», le altre nazionalità vengono cancellate, letteralmente scompaiono. Essi, inoltre, si soffermano su un altro particolare che probabilmente li colpì più di tutti: la presenza dei soldati «di colore» nell’esercito alleato. Per quanto concerne il primo aspetto, le fonti rivelano un rapporto privilegiato che i napoletani stabilirono con i soldati americani attraverso ampie forme di collaborazione, da quelle positive – frequentazioni, fidanzamenti, matrimoni – a quelle illecite, come il diffusissimo commercio clandestino di merci alleate. Diverse spiegazioni possono essere avanzate in tal senso. Innanzitutto esisteva un elemento numerico: gli statunitensi – «bianchi» e «neri» – erano i soldati più numerosi in città, seguiti dagli inglesi, dai francesi e da quelli di altre nazionalità. Non va sottovalutato, ancora, l’elemento culturale. Abbiamo già fatto cenno all’origine italiana di molti soldati americani e al  Aicsr, fondo La mia guerra, memorie di Immacolata Truono, Salerno.

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la conseguente condivisione linguistica, spesso rappresentata dal dialetto napoletano, che consentiva una sufficiente, seppur spesso rudimentale, comunicazione. «Americani e napoletani erano diventati cittadini della stessa nazione», secondo Domenico Rea, «quelli tentavano di parlare il dialetto e i nostri l’inglese. E nacque una terza lingua»58. Per spiegare la vicinanza tra i napoletani e gli statunitensi Nicola Gallerano fa riferimento all’attrazione che esercitò il mito dell’opulenza americana trapelata dai racconti dei parenti emigrati dal Meridione d’Italia59, mentre Antonio Papa chiama in causa la teatralità di questi ultimi, «la loro maggiore disponibilità al contatto linguistico, gestuale»60. «Gli americani» – scrive Elena Canino – «sono più cordiali degl’inglesi, mentre parlamentavano per le requisizioni, si cavavano da ogni tasca cioccolata, caramelle, sigarette. Amichevoli manate sulle spalle e risate»61. Gabriella Gribaudi sostiene che «le due culture, quella napoletana e quella americana, mostrano un’altissima adattabilità reciproca, trovano immediatamente un linguaggio comune. Avviene un vero e proprio incontro culturale e commerciale. Non era avvenuto lo stesso con i tedeschi. I consumi vi giocano un ruolo cruciale, i consumi e la loro efficacia simbolica»62. Per quanto riguarda il secondo elemento – e cioè la presenza dei soldati «di colore» nell’esercito alleato –, per qualcuno non fu facile accettare il fatto che buona parte dei famosi e tanto attesi liberatori fossero in realtà soldati «negri» – come spesso venivano definiti nei rapporti delle forze dell’ordine italiane –, che la recente dittatura fascista aveva continuato a denigrare, definendoli «esseri inferiori», «da colonizzare». A tal proposito, i testimoni sottolineano la propria indignazione: «Ce stevene tutte e razze, tutte e colore i l’arcobaleno: ianche, nire, russe, gialle, po’ ce stevene e nire americane e i nire africane, chisticcà erene e peggie (...). Ma ie nun me puteve fa capace, po’ essere maie che chistu zulù m’è venute a liberà a me?   D. Rea, Gesù fate luce, Mondadori, Milano, 1956, p. 80.   N. Gallerano, È arrivata l’America? Gli italiani e l’occupazione alleata nel Mezzogiorno (1943-1945), in A. Placanica (a cura di), 1944 Salerno capitale cit., pp. 491-508. 60   A. Papa, Napoli: il trauma della liberazione cit., p. 413. 61   E. Canino, Clotilde tra le due guerre cit., p. 609. 62   G. Gribaudi, Guerra totale cit., p. 322. 58 59

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Nueie l’amma sempe commannate, l’amme sempe schiavizzate e mò venene cà a fa e padrone a casa noste?»63. «Noi non lo sapevamo, fu una sorpresa vedere tanti neri e per molti fu difficile prendere ordini da loro»64. «Siamo molto sorpresi di vedere tra di noi tante razze diverse. Ci sono tanti negri, inglesi, americani. Sembra che a loro piaccia molto il nostro vino. Alcuni uccidono i civili»65. Anche un padovano evidenziò in una lettera selezionata dalla censura civile tale impressione: «è un avvilimento vedere girare per le nostre strade e ora da padroni tanta gente di diverso colore e sentimenti, è una umiliazione che non la sente chi non ha dignità e fierezza, comprendere come dagli stranieri e nordici e orientali e dei tropici noi siamo considerati»66. «Stevene ianche e nire, i ianche erene brave, e nire erene fetiente, stevene sempe mbriache, s’appiccicavene sempe. E vulevene sempe e signorine, ‘signorine, signorine’, sule a chelle pensavene!»67. Questo elemento compare in molte testimonianze: nella maggior parte dei casi il bene s’identifica con i soldati bianchi, solitamente con gli americani, che nei racconti divengono i protagonisti degli avvenimenti più positivi dell’occupazione, il male, invece, corrisponde chiaramente ai soldati «di colore», ricordati come gli artefici della maggior parte delle rapine, delle risse e delle aggressioni. I primi segni di una «ambigua occupazione» Maddalena aveva vent’anni quando insieme alla sua famiglia per sfuggire ai bombardamenti lasciò Torre del Greco per trasferirsi in un luogo considerato più sicuro, Solofra, dove attese, a partire dall’8

63   Testimonianza di Salvatore R., Napoli 1913, venditore ambulante. «C’erano tutte le razze, tutti i colori dell’arcobaleno: bianchi, neri, rossi, gialli; poi c’erano i neri americani e i neri africani, questi erano i peggiori. Ma io non potevo capacitarmi, può mai essere che questo zulù è venuto a liberarmi? Li abbiamo sempre comandati, sempre schiavizzati e ora vengono qui a fare i padroni in casa nostra?». 64   Testimonianza di Mario T., Napoli 1915, impiegato. 65   Acc, 149/619D/38. 66   Acs, Mi, Gab., 1944-46, b. 15, f. 1119, Censura postale, lettera da Padova, settembre 1945. 67   Testimonianza di Franco R., Napoli 1916, operaio. «C’erano bianchi e neri, i bianchi erano buoni, i neri erano fetenti, erano sempre ubriachi, litigavano sempre. Volevano sempre le signorine ‘signorine, signorine’, solo a quello pensavano».

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settembre ’43, gli Alleati. Ma la liberazione le si presentò con un volto inatteso. Nel ricordare quei giorni la donna scrisse: le giornate trascorsero tranquillamente fino all’8 settembre, giorno dell’armistizio e dello sbarco a Salerno. Tutti felici si pensava che ormai la guerra fosse finita. Mio padre ci diceva che gli Inglesi e gli Americani sarebbero entrati da amici e non da nemici (...). Questi liberatori68, che dovevano arrivare da un momento all’altro, in realtà non si vedevano. (...). Il 21, martedì, alle ore 13, avevamo appena finito di mangiare quando sentimmo avvicinarsi gli aerei a bassa quota e quasi contemporaneamente cominciò un intensissimo bombardamento. Come nei giorni precedenti andammo al convento che al seguito del lancio delle bombe cominciò a distruggersi e a crollarci addosso. Vetri, intonaci, assi, erano tutt’uno con la nostra disperazione. Non c’era via di scampo. Seguirono scene strazianti di gente che cercava i propri familiari. Ci fu una seconda ondata di bombardamenti e tutti riuniti ci buttammo per terra. (...). Tutti i miei familiari, otto persone, erano morti sotto un terribile bombardamento. La tanto sperata liberazione avvenne il 29 settembre, giorno di S. Michele, patrono del paese. Inutile aggiungere che per me il giorno della liberazione non fu un giorno di festa. Tutti uscirono dai propri nascondigli, festeggiando l’avvenuta liberazione, ringraziando il santo protettore. Molti correvano in chiesa per sciogliere i loro voti. Io e mia sorella invece avevamo otto morti da seppellire e un dolore incommensurabile e indelebile, con il quale vivere69.

I raid alleati uccisero, quindi, otto persone della famiglia della donna, per la quale, comprensibilmente, gli Alleati furono tutt’altro che «liberatori»; ella stessa li definisce «nemici». Quella dei bombardamenti che disseminarono morte rappresenta una delle immagini più salde e dolorose dei racconti della seconda guerra mondiale. A parte rare eccezioni – come quella appena citata –, tuttavia, nella maggior parte delle storie di vita tali immagini rimangono isolate, quasi sempre scollegate da qualsiasi meccanismo di spiegazione logica e di attribuzione di colpe70.   Corsivo nostro.   Aicsr, fondo La mia guerra, memoria di Maddalena Destro, 1923. 70   La bomba che cade dal cielo è separata dal gesto che l’ha sganciata. Il bombardamento viene percepito come una catastrofe, un terremoto, qualcosa di attribuibile alla natura ingovernabile. Poiché il colpevole non si vede, il risentimento 68 69

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Dall’ottobre 1943 le truppe anglo-americane stabilitesi nelle città sottoposero la popolazione a forme di violenza per così dire «dirette», differenti da quelle «invisibili» di cui si erano resi protagonisti negli anni addietro. Le sofferenze della signora Maddalena, ad esempio, continuarono quando, ritornata finalmente nel suo paese, trovò il suo appartamento requisito. Quello dell’occupazione degli appartamenti rappresenta uno dei primi segni dell’occupazione alleata con cui la popolazione civile dovette scontrarsi e, al contempo, uno dei maggiori motivi di risentimento. Numerosi, infatti, furono i casi di persone alle quali fu impedito, dopo lutti e sofferenze, di far ritorno alle proprie case. Il professor Marino R. fu uno di questi. Il 30 ottobre 1945 scrisse al prefetto di Napoli supplicandolo di favorire la derequisizione della sua casa in Torre del Greco. In quell’occasione egli concluse: «faccio presente che, sfollato dal primo luglio 1943 e dopo dieci mesi di vita di macchia sulla linea Cassino-Formia, tornato nel maggio a Torre del Greco, non solo ho trovato l’appartamento requisito, ma già in precedenza completamente danneggiato per opera di ignoti di ogni cosa, e che ho sofferto altri saccheggi al mio comune di origine, Lenola, per opera dei tedeschi e di truppe di colore71, quindi avrei un certo diritto, dopo tanti anni di sofferenze a recuperare finalmente, sebbene spoglia di tutto, la mia casa»72. Era semplicissimo occupare un appartamento vuoto e le procedure non si complicavano affatto nel caso in cui questo era abitato. Bastava, talvolta, un semplice permesso del comando alleato, al quale non interessava se e dove avrebbero trovato sistemazione i legittimi occupanti. Lo spiega bene Elena Canino che il 3 ottobre ’43 partì da Sorrento con suo marito, a piedi, per controllare lo stato della sua abitazione in corso Vittorio Emanuele a Napoli. Nel lungo tragitto la donna constatò un accampamento alleato ad ogni slargo e la requisizione di tutte le ville scampate ai bombardamenti. Il silenzio che notò giungendo nel suo quartiere fu presto rotto dal rombo di motociclette, seguite da una fila di mezzi militari, dai quali, man verso gli americani per la morte dei propri cari è molto raro. Per un approfondimento su questo aspetto si veda G. Gribaudi, Guerra totale cit., pp. 604-608. 71   Lenola fu uno dei paesi più colpiti dagli stupri dei soldati coloniali del corpo di spedizione francese. 72   Asn, Pref., Gab., 1943-46, II vers., b. 1256, f. 1, Requisizioni e derequisizioni alleate.

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mano, scendevano uomini carichi di bagagli. L’effettiva occupazione degli appartamenti viene dalla donna simbolicamente paragonata a «quando si leva il sipario su un palcoscenico», con l’apertura di tutte le finestre, dalle quali si srotolavano rapidamente coperte color cachi. Anche il suo appartamento era stato occupato dagli inglesi ed il capitano, che non era in possesso di alcun ordine di sequestro, affermò: «andati via noi arriveranno altri, a Napoli non rimarrà casa vuota, proprietà rispettata. È la guerra. Che non abbia carta di requisizione non vuol dir niente»73. Interi edifici furono requisiti e numerose famiglie messe letteralmente per strada. Il 12 dicembre 1943 il Comando Alleato trasmise ai carabinieri l’ordine di far sgombrare 69 nuclei familiari, per un totale di 240 persone, dalle case popolari di Castellammare di Stabia per far posto ai militari della Raf, nonostante quelle «famiglie, quasi tutte indigenti, non [avessero] possibilità di trovare alloggio altrove»74. Il 12 luglio 1944 i carabinieri informarono la prefettura di Napoli che 400 soldati dell’aviazione americana avevano ordinato a 50 famiglie coloniche di sgombrare entro tre giorni; cinque giorni di preavviso, invece, furono dati a chi viveva nei cinquanta «quartini» di Portici nel giugno ’44. Quasi tutte le ville vesuviane di Torre del Greco, Ercolano, Portici e S. Giorgio a Cremano furono requisite dal comando inglese. Il 3 dicembre 1944 a Barra le autorità alleate requisirono sette ville in cui abitavano 22 famiglie, con 130 componenti, per consentire il riposo di consistenti reparti reduci dal fronte. Il 19 novembre dello stesso anno, sempre a Barra, per albergare militari polacchi, furono espropriati 200 moggi di terreno con tre casamenti che ospitavano 39 famiglie, «costrette a vivere in condizioni precarie e presso amici o parenti, mentre le loro abitazioni [erano] detenute da pochi militari polacchi con pochi uffici»75. Le difficoltà delle suddette famiglie non dovettero impietosire le autorità visto che ancora nell’aprile del 1946 la derequisizione non aveva avuto luogo. L’elenco delle requisizioni, non solo di appartamenti, è lunghissimo. Il problema veniva denunciato anche dalle autorità. Nella relazione prefettizia del 31 luglio 1944 si legge:   E. Canino, Clotilde tra le due guerre cit., pp. 595-596.   Asn, Pref., Gab., 1943-48, II vers., b. 54, f. 1, Relazioni, rapporto del sindaco di Castellammare al prefetto. 75   Ivi, Rapporto del questore al prefetto. 73 74

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le condizioni dello spirito pubblico in questa provincia si vanno gradualmente riprendendo col collasso conseguito al periodo di oppressione tedesca. Non che il passaggio al nuovo stato di cose sia avvenuto senza inconvenienti. Massimo fra tutti quello degli alloggi, fra il forte numero di abitazioni distrutte dai bombardamenti e l’occupazione di molti, moltissimi edifici pubblici e privati, con poco o niente rispetto delle masserizie e dei mobili da parte delle truppe alleate, quello degli alloggi è oggi qui un problema preoccupante. Ed esso crea nella popolazione della città ed in qualche centro minore come Caserta, Aversa, un certo stato di risentimento contro gli occupanti76.

Quello delle requisizioni e della conseguente impossibilità di trovare casa per gli eccessivi costi è anche uno dei temi più frequenti delle lettere censurate77. «L’Azione» del 2 settembre 1945 riportò l’assurdo caso di un ufficiale in pensione che nel marzo del 1943 si era allontanato da Napoli per accompagnare la moglie inferma in una clinica. Al suo ritorno venne a conoscenza del fatto che la sua casa a Napoli, in via Stanzione, era stata occupata da un ufficiale della marina americana. Quando andò a verificarne la requisizione non trovò l’ufficiale, ma la sua cameriera, alla quale l’uomo aveva chiesto di «vigilare» sull’appartamento in attesa del suo ritorno dalla Cina78. «La Voce Repubblicana» alla fine del 1945 mise in evidenza l’in-

  Ibid.   Tra i numerosi stralci: «per ora, per mancanza di alloggi ci tocca ad arrangiarsi in casa di zio Umberto. Se sapessi quello che si sta passando: mamma non lo credeva della crisi e miseria che esiste a Napoli. Io dormo ancora in casa di Berletta, Vincenzino non può dormire da zio Umberto, in quel bugigattolo, sembra un sotterraneo, senz’aria, senza gabinetto, umido, sempre con la luce accesa perché non vi passa uno spiraglio di luce. Mamma e Maria sono costrette ad abitarci, perché non si trova nulla. Vincenzino dorme con una coperta allo scoperto sulla terrazza dell’abitato...» (lettera da Napoli a New York, 28 luglio 1945); «per una camera mobiliata vogliono lire 4000 al mese. È pazzesco...» (lettera da Napoli, giugno 1945); «siamo preoccupati per le case che non si trovano. Dovremo andar via di qua, se qualche appartamento si trova chiedono come cedimento (buona uscita) cifre qualche volta esorbitanti: 100/150.000 lire; cosa da non credere» (lettera da Napoli, aprile 1945); «a Torre Annunziata per due stanze e un corridoio, senza acqua né cucina, né gabinetto perché è stato danneggiato dalle bombe, sai che pigione? Più di lire 1000 mensili» (lettera da Torre Annunziata, giugno 1945). Acs, Mi, Gab., 1944-46, b. 15, f. 1119. 78   «L’Azione», Il dramma di un ufficiale pensionato, 2 settembre 1945. 76 77

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giustificata politica delle requisizioni degli Alleati che sarebbe stata dettata, più che dalle esigenze militari, dall’intenzione di trovare spazi utili per il divertimento dei soldati: Non esistono case intatte a Napoli, eccetto il Vomero. Quelle poche che sono abitabili sono state requisite. Tremila appartamenti. Se un palazzo a Chiaia è intatto vi si impianta un «club» per indiani, negri, neozelandesi, americani, inglesi, francesi, polacchi. Sembra impossibile quanti «clubs» debba offrire l’Italia a chi nei loro paesi non ne ha nessuno. E i locali sono deserti, naturalmente. Qualche grammofono canta, al piantone addormentato, la canzone rauca «afrocubana», sincopata e artificiale, come la vita notturna di Times Square. Tutto ciò che è intatto è requisito, così, per requisire, per mostrare che i resti di Napoli sono resti occupati. E un milione di abitanti si arrangi come può79.

Ma questo rappresentava uno degli scotti da pagare per la liberazione, come ben comprese, a sue spese, una donna abruzzese: in questi giorni ho avuto un gran dispiacere, mi han tolto la radio... un colonnello americano il quale oltre all’alloggio al Grande Albergo ha preso un appartamento in città, per sopperire alla mancanza di compagnia ha pensato bene di prendere la mia radio... mi son diretta in prefettura a richiamare l’apparecchio... ho detto al signor colonnello che loro in maniera più elegante, con la zampa vellutata, fanno le stesse cose dei tedeschi e che loro, i liberatori, potrebbero pure comprarselo... ho chiesto se c’era un regolamento che permetteva di far ciò, al che mi ha risposto che abbiamo voluto essere liberati ed era giusto che pagassimo!80.

Attenzione ai «liberatori»! Già a partire dalla metà del mese di ottobre 1943 molte furono le segnalazioni di rapine, furti, investimenti automobilistici e violenze carnali consumate o tentate da parte di militari di diversa nazionalità a Napoli e nelle sue province.

79   «La Voce Repubblicana», Le case dei napoletani e gli Alleati, 16 dicembre 1945. 80   Acs, Mi, Gab., 1944-46, b. 15, f. 1119, Censura postale, lettera da L’Aquila, gennaio 1945.

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Dal gennaio 1944, la Direzione Centrale della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno segnalò ripetutamente alla Commissione Alleata di Controllo i soprusi dei soldati alleati nei confronti della popolazione civile e dei militari italiani: viene segnalato a questo Ministero la frequenza di reati, specie di rapina e di violenze carnali, da parte di militari delle truppe alleate. Tali fatti incresciosi creano indubbiamente, tra i danneggiati, un vivo malcontento che potrebbe avere qualche ripercussione nei rapporti di cordialità esistenti tra gli Alleati ed il popolo italiano. Poiché è desiderio di questo Ministero che i rapporti di cordialità tra la popolazione e le truppe alleate vengano mantenuti, si rivolge viva preghiera a codesta commissione perché voglia trovar modo a che i lamentati reati, se non possono essere eliminati nella loro totalità, vengano almeno sensibilmente diminuiti81.

L’appello fu ripetuto, quasi nell’identica forma, nel mese successivo. Il numero di denunce e le modalità con cui le violenze venivano compiute è davvero impressionante. I contenuti degli aridi rapporti dei carabinieri sembrano seguire il medesimo copione. In essi, infatti, ricorrono gli stessi termini, le medesime circostanze, mentre cambia il nome delle città e dei paesi in cui questi si verificarono. Tutti parlano di un clima pericoloso che pervadeva le città, in balia dei soldati alleati che sempre «avvinazzati» e in qualsiasi ora rapinavano cittadini inermi, aggredivano per futili motivi, guidavano in maniera sprezzante investendo numerosissimi civili, sfondavano le porte delle abitazioni per portar via denaro, vino, oggetti vari o compiere violenze carnali. L’atmosfera era, insomma, inquietante. In una statistica del Ministero dell’Interno sulle «vittime della strada» Napoli appare la città con il maggior numero di morti e feriti in seguito ad incidenti ad opera di autisti ubriachi82.

  Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 172, Incidenti tra militari alleati e italiani.   Ibid. Il documento è datato 21 febbraio 1947 e consente di individuare il numero degli incidenti stradali provocati dagli automezzi alleati dalla data della liberazione fino al 30 novembre 1946 in tutte le città italiane e la nazionalità degli autisti. I dati relativi alla città di Napoli risultano aggiornati all’agosto 1946. Dal prospetto si evince che su un totale nazionale di 20.192 feriti per investimento Napoli ne contava 7091, mentre su 3583 morti complessivi 767 erano di Napoli. Tra i responsabili primeggiavano gli americani, seguiti dagli inglesi e da soldati di cui non si riuscì a stabilire la nazionalità. 81 82

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Proprio il tema degli investimenti rappresentò per la stampa un argomento per denunciare in modo chiaro l’atteggiamento irrispettoso degli occupanti. Interessante è da questo punto di vista quanto apparve su l’«Avanti!» ancora nell’ottobre ’46: Non possiamo, non dobbiamo più tacere il nostro sdegno. Perché questi investimenti non possono esser considerati alla stregua di... «semplici incidenti stradali». Il modo come essi si verificano sta a dimostrare nei responsabili o una suprema incoscienza o un profondo disprezzo per la vita nostra. Pare che questi militari stranieri esaltati dalla loro qualità di «occupanti» siano portati a considerare «zero» la vita di noi italiani, come zero considerano nel loro paese la vita dei negri. Ed allora noi diciamo: basta! Basta, in nome di quel sacro rispetto che si deve alla vita di ogni uomo, chiunque esso sia. Basta, in nome del popolo italiano, che non può e non deve sopportare questi oltraggi alla sua dignità. E i Comandi, da cui dipendono i militari colpevoli di questi gravi investimenti, hanno il dovere d’intervenire, rendendo di pubblica ragione le misure prese contro i responsabili. Questo devono fare, se hanno a cuore l’onore della loro divisa e della loro Nazione83.

L’indignazione espressa dal giovane Sandro Pertini nell’articolo citato può essere perfettamente compresa se si ha modo di analizzare i contenuti delle denunce per investimento, che effettivamente rivelano una disarmante superficialità. La maggior parte degli incidenti avvenivano di giorno e a danno di persone alla guida di carretti o biciclette o di pedoni quasi sempre ai margini delle strade, sui marciapiedi, fuori dagli usci di casa o di qualche bettola. Il 10 novembre 1944, ad esempio, nel quartiere Secondigliano, due militari «americani di colore», alla guida di un autocarro, nell’imboccare «a grande velocità» il corso Umberto I cozzarono, «per errata manovra», contro un edificio, uccidendo un uomo e ferendone un altro. I due militari rischiarono il linciaggio da parte di «alcune centinaia di persone», radunatesi sul luogo dell’incidente84. Il 14 agosto 1945 il ministro della Guerra evidenziò una mancanza assoluta di rispetto delle norme di disciplina stradale da parte 83   «Avanti!», La Jeep della morte. Rispettate la nostra vita. Gli investimenti spesso mortali da automezzi guidati da militari stranieri continuano, 1° ottobre 1946. 84   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 203, Napoli, Truppe alleate. Il capo della polizia alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, 26 novembre 1944.

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degli autisti-investitori che, nella maggior parte dei casi, «continuavano per la propria strada senza portare alcun aiuto agli investiti che, talvolta, se soccorsi in tempo, specie quando gli incidenti avvenivano in aperta campagna, potevano essere salvati da più grave sciagura, se non addirittura dalla morte»85. Le proteste dei parenti delle vittime insistevano soprattutto sull’indulgenza delle autorità italiane e sull’assenza di pene nei confronti dei responsabili. Commovente e dura al tempo stesso è la lettera scritta da un impiegato del Banco di Roma al prefetto in seguito alla morte del figlio di 16 anni, investito da un soldato indiano ubriaco a Portici. Dopo aver raccontato le dinamiche dell’incidente, l’uomo concluse: «a tanto orrore non si eleva una parola di protesta dalle autorità governative italiane contro coloro che impunemente commettono quotidianamente simili assassini! Non voglio credere, eccellenza, che anche voi la pensate così, se così fosse la maledizione di tanti poveri innocenti che giornalmente periscono e per i quali assassini mai una voce si leva a protestare a prefetto e al capo del Governo cadrebbe non solo su coloro che un giorno furono salutati come nostri liberatori, ma anche su coloro che in questi momenti dirigono le cose in Italia»86. Ma la situazione restò tale per tutto il periodo dell’occupazione nonostante i frequenti appelli delle autorità italiane a quelle alleate. Il 9 maggio 1944 il Ministero dell’Interno scrisse alla Commissione Alleata di Controllo e unì agli elenchi riguardanti i delitti commessi da militari alleati durante il mese precedente il seguente commento: «i dati che si forniscono segnano una recrudescenza veramente notevole nei delitti contro le persone e la proprietà. Ciò, senza dubbio, incide molto sullo spirito pubblico, oggi assai depresso, delle popolazioni ed in particolare di quelle dei piccoli comuni, che, dopo aver atteso con tanta ansia l’arrivo delle truppe alleate liberatrici, accogliendole con tanta simpatia ed entusiasmo, si trovano ora costrette per il comportamento di alcuni a vivere in uno stato penoso di allarme, di apprensione e di timore per la sorte delle persone e dei loro beni in continuo pericolo»87. Ancora lo stesso Ministero il mese seguente: «questo ministero Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 172, Incidenti tra militari alleati e italiani.   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Compor­ tamento delle truppe anglo-americane, 31 maggio 1945. 87   Acs, Pcm, 1948-50, b. 19.10, f. 12775, Comportamento truppe alleate in Italia. 85 86

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è costretto a far rilevare ancora una volta che le popolazioni delle varie province sottoposte alla giurisdizione del Governo italiano sono seriamente allarmate per i frequenti casi di violenze alle persone ed alle proprietà, perpetrate da elementi appartenenti alle truppe alleate e vivono in stato di continuo timore che impedisce il ritorno alla vita normale, tanto necessaria per risollevare materialmente e moralmente lo sventurato Paese»88. La tendenza dei crimini contro i civili raggiunse vette massime tra la fine del ’44 e tutto il ’45. Nella relazione prefettizia del 5 giugno 1945 si legge: «la popolazione si mantiene sempre scettica verso tutti i partiti e ciò favorisce il propagarsi di un senso di sfiducia per il nuovo indirizzo politico sempre più favorito dalla situazione caotica che permane in ogni campo sociale e dal malumore verso gli Alleati che attesi ed acclamati come liberatori sono ora giudicati sotto tutt’altro aspetto»89. Il rapporto del 25 agosto 1945 faceva cenno sia ai risentimenti di natura politica scaturiti dalla diffusione di notizie circa la gravità e la durezza delle condizioni imposte all’Italia dall’armistizio sia a quelli relativi alla difficile convivenza con i militari stranieri: «c’è una scarsa fiducia nelle masse per il fatto che non sono state operanti le promesse fatte dagli Alleati nel periodo che precedette il loro arrivo sul suolo italiano atteso e salutato dalla popolazione di questo paese con senso di lealismo ed entusiasmo (...). Le condizioni dello spirito pubblico nei confronti delle truppe alleate qui di stanza sono alquanto migliorate, ma gli incidenti tra civili italiani e militari alleati continuano: attualmente, superato il primo breve periodo di entusiasmo collettivo, il favore pubblico nei confronti delle truppe alleate è cauto e riservato»90. Naturalmente Napoli non rappresentò un caso isolato e l’occupazione alleata fu critica per molte regioni italiane, come documenta il Ministero della Difesa alla fine del 194791. I dati – sottorappresentati se confrontati con i dettagliati ed inquietanti rapporti mensili – testimoniano che nel periodo compreso tra l’8 settembre 1943 e il 30 giugno 1947 i reati commessi dalle truppe alleate su tutto il territorio nazionale furono 23.265. Essi risultavano così ripartiti:   Ivi, 16 giugno 1944.   Asn, Pref., Gab., 1943-48, II vers., b. 54, f. 1, Relazioni. 90   Ibid. 91   Acs, Pcm, 1948-50, b. 19.10, f. 12775, Comportamento truppe alleate in Italia, 18 ottobre 1947. 88 89

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Omicidi

589

Ferimenti Aggressioni, risse, violenze Furti e rapine Incidenti automobilistici, morti feriti

1956 2390 7699 1159 6138

Violenze carnali consumate tentate

1159 291

Vennero anche indicate le regioni più colpite per tipo di crimine e la nazionalità dei maggiori responsabili: Omicidi

Campania (171 casi su 589 = 29,03%)

Ferimenti

Campania (574 casi su 1956 = 29,34%)

Aggressioni, risse, violenze

Campania (818 casi su 2390 = 34,22%)

Furti e rapine

Toscana (3443 casi su 7699 = 44,72%)

Incidenti automobilistici, morti feriti

Campania (644 casi su 3043 = 21,16%) Toscana (1231 casi su 6138 = 20,05%)

Violenze carnali consumate tentate

Lazio (818 casi su 1159 = 70,70%) Toscana (100 casi su 291 = 34,48%)

Omicidi

francesi di colore (125 casi su 589 = 21,22%)

Ferimenti Aggressioni, risse, violenze Furti e rapine Incidenti automobilistici, morti feriti

non identificati (477 casi su 1956 = 24,38%) americani (513 casi su 2390 = 21,46%) francesi di colore (3932 casi su 7699 = 51,07%) non identificati (1198 casi su 3043 = 39,36%) non identificati (2366 casi su 6138 = 38,54%)

Violenze carnali consumate tentate

francesi di colore (1035 casi su 1159 = 89,45%) francesi di colore (82 casi su 291 = 28,28%)

È evidente che la Campania fu una delle regioni che più soffrì l’occupazione alleata. In riferimento alla città di Napoli, sebbene le segnalazioni provenissero da tutti i quartieri, è possibile individuare zone particolarmente «a rischio», per la presenza di accampamenti o caserme. ­78

Allarmante era la situazione a Secondigliano, dove il questore segnalò ripetutamente una serie di rapine, furti in appartamenti e percosse che, «oltre a scuotere il morale della popolazione, [comportavano] continui sfavorevoli commenti per le truppe alleate». Egli fece più volte richiesta di un presidio di polizia nella zona, specialmente nelle ore serali, quando i militari canadesi pretendevano «insistentemente delle donne»92. Altrettanto pericoloso era il quartiere Fuorigrotta, dove campeggiavano reparti alleati. Sul finire del ’44 e la prima parte del ’45, la questura segnalò che da tempo nelle ore notturne, in particolare nelle stazioni ferroviarie della Cumana, militari stranieri commettevano rapine e aggressioni a danno soprattutto di operai che rincasavano dopo il lavoro93. Per lo stesso motivo si richiesero rinforzi il 7 novembre 1944 in via Giacinto Gigante e a partire dal marzo dello stesso anno nella zona di piazza Garibaldi e in quella del porto, dove i militari «di colore» furono accusati di alimentare la prostituzione clandestina e di terrorizzare gli abitanti del quartiere con risse e rapine, perché costantemente ubriachi. Maggiore pattugliamento fu richiesto il 25 febbraio 1945 dal questore anche a Ponticelli, dove l’arrivo delle truppe alleate nell’accampamento adiacente alla ferrovia Circumvesuviana aveva determinato numerosi reclami in quanto, specie all’imbrunire, i militari «si [presentavano] in case di onesti cittadini in cerca di prostitute»94. Il 23 marzo 1946 il capo della polizia richiese al Ministero dell’Interno un’assidua sorveglianza anche nel quartiere Poggioreale95. A Pozzuoli vennero più volte denunciate le rapine, i furti e i tentativi di violenze carnali, soprattutto da parte di soldati marocchini lì stanziati. Nel quartiere Montecalvario c’era, invece, una spiccata concentrazione della prostituzione clandestina e del mercato nero, diffusissimo anche a Forcella. Ma i reclami provennero anche dalla provincia di Napoli e dal resto della Region III. Il 16 e il 27 novembre 1943 i carabinieri segnala92   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 93   Ivi, 4 ottobre 1944. 94   Ibid. 95   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 203, Napoli, Truppe alleate.

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rono alla prefettura che a Giugliano e a Melito i soldati infastidivano le donne del posto, «di cui andavano accanitamente in cerca oltre che di notte, quando erano ubriachi, anche nelle ore pomeridiane»96. Nel gennaio 1944 ad Avellino si segnalò la cattiva condotta dei militari, soprattutto degli afro-americani e dei canadesi, che sempre ubriachi attuavano violenze sui civili e sugli stessi carabinieri97. Allarmante era anche la situazione a Benevento, dove il governatore provinciale alleato denunciò un clima di assoluta emergenza per gli assalti ai cascinali e suggerì al comando alleato la restituzione dei fucili sequestrati ai contadini affinché potessero difendersi dai «criminali»98. Il 18 marzo 1944 il questore di Nola richiese il sostegno di una pattuglia della polizia alleata per far fronte alle prepotenze dei militari canadesi ubriachi che, specie nelle ore serali, entravano con forza nelle abitazioni in cerca di donne99. Il 30 aprile 1944 il Ministero dell’Interno segnalò al quartier generale della Commissione Alleata di Controllo una situazione inquietante ad Oliveto Citra, in provincia di Salerno, per il comportamento di militari algerini lì distaccati, accusati di continui furti, violenze carnali tentate e consumate anche su minori e aggressioni che avevano allarmato anche gli abitanti dei comuni confinanti, dei quali non si escludevano reazioni100. Il 2 maggio 1944 la prefettura di Salerno trasmise al Ministero dell’Interno la segnalazione della compagnia dei carabinieri di Eboli che denunciava la condotta dei militari canadesi che, costantemente ubriachi, diffondevano panico nella popolazione, irrompendo nelle loro case per scopi «perversi»101. Il 3 maggio 1944 il sindaco di Villa Literno, nel denunciare la morte di un militare nord-africano dell’Armata francese cagionata da un civile che aveva cercato di impedire che l’uomo rapisse la figlia, lamentò le continue risse, le rapine e la continua ricerca di vino   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 97   Ibid. 98   Acc, 202/96F/37. 99   Acs, Pref., Gab., 1944-45, b. 19.10, f. 12775, Comportamento truppe alleate in Italia. 100   Ibid. 101   Ibid. 96

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e di signorine che spingeva in paese i soldati francesi accampati in un comune vicino102. Il 9 maggio 1944 il sindaco di Maddaloni richiese l’intervento della polizia per fronteggiare il comportamento dei militari delle truppe alleate accampate nel territorio che, quotidianamente, specie nelle ore pomeridiane e a seguito di abbondanti sbornie, molestavano inermi cittadini, spesso percuotendoli e intromettendosi a viva forza nelle loro abitazioni di cui venivano forzate le porte per cercare donne, alcolici o soldi103. Il 16 maggio 1944 il Ministero dell’Interno sottopose alla Commissione Alleata di Controllo le continue e violente aggressioni – sotto forma di percosse, rapine e minacce – a Salerno a danno di funzionari e di ministri dello Stato, oltre che di «privati e pacifici cittadini». Si sollecitarono, così, nuovamente interventi tesi a porre un freno al dilagare di tali incidenti che costituivano «serio motivo di preoccupazione per la popolazione civile e per le autorità italiane»104. Il comando dei carabinieri di Sparanise il 26 settembre 1944 accusò i soldati francesi accampati presso Agro di Pignataro Maggiore che, specie nelle ore pomeridiane, si recavano in paese in cerca di bevande alcoliche e di prostitute, disturbando così la popolazione105. Nella quasi totalità delle denunce analizzate si faceva riferimento allo stato di ebbrezza, come se in esso si volesse individuare la principale causa del loro comportamento. Proprio per fronteggiare questo pericolo il 16 ottobre 1943 era stata emessa un’ordinanza tesa a limitare l’orario per l’accesso ai militari negli esercizi pubblici autorizzati alla vendita degli alcolici. L’ordinanza, com’è evidente, non fu in grado di risolvere il problema, sia perché non veniva rispettata dai proprietari dei locali attratti dagli elevati guadagni, sia perché, nonostante le continue vigilanze dei carabinieri e della Militar Police, s’intensificarono le vendite clandestine del vino e di altre bevande alcoliche presso le famiglie private106. Data l’elevata percentuale di crimini commessi e la sproporzione tra la spietatezza dei soldati e la debolezza dei civili, il Ministero   Ibid.   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 172, Incidenti tra militari alleati e italiani. 104   Ibid. 105   Ibid. 106   Ibid. 102 103

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dell’Interno, in una circolare inviata al Comando dell’Arma dei Carabinieri dell’Italia Liberata, il primo maggio 1944, si schierava in difesa di quei civili a carico dei quali si erano avviati procedimenti penali per essersi legittimamente difesi dalle aggressioni dei militari stranieri. Per avvalorare quanto scritto ci si servì di casi emblematici. Uno di questi si riferiva ad un contadino di S. Andrea di Conza, in provincia di Avellino, che da lì a poco avrebbe dovuto subire il giudizio del Tribunale alleato per aver ferito con delle forbici un militare francese che, entrato nel suo podere, aveva tentato di violentare la moglie107. Le violenze sessuali Il 6 dicembre 1943 ad Afragola tre soldati canadesi ubriachi forzarono l’abitazione della nubile Maria Z. di 76 anni e «mentre due di essi tenevasi poco lontano, il terzo conduceva la donna nell’atrio e previa violenza la deflorava, obbligandola poscia a prendere pene in bocca. A reazione malcapitata il militare la colpiva a pugni sul viso»108. Questa descrizione così cruda e particolareggiata rappresenta la prima di una lunga serie di denunce per violenza carnale contro i soldati dell’esercito alleato. Gli stupri attuati nell’ultimo squarcio del ’43 si concentrarono nelle zone dell’entroterra napoletano e nella provincia di Caserta. L’11 dicembre a Calvi, intorno alle 11 del mattino, un soldato «negro americano» assalì e con violenza si congiunse carnalmente alla contadina Rosaria Z. di 57 anni109; il giorno successivo ad Atella di Napoli Speranza L., di 19 anni, mentre stava lavorando in campagna «veniva con violenza deflorata e posseduta per circa un’ora con scopo di libidine da tre militari arabi dell’esercito francese e lasciata abbandonata per terra»110; il 25 dicembre ’43 a Maddaloni tre militari francesi assalirono una minorenne che trascinarono con violenza 107   Acs, Pref., Gab., 1944-45, b. 19.10, f. 12775, Comportamento truppe alleate in Italia. 108   Asn, Pref., Gab., 1940-46, II vers., b. 1247, f. 1, Disciplina di guerra. Ordine pubblico: attività criminosa durante la guerra. 109   Acs, Mi, Dgps, Governo del Sud, 1944-46, b. 1, f. 2. 110   Ibid.

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in un prato «possedendola»111; il 30 dello stesso mese ad Aversa tre militari arabi e un francese assalirono un ragazzo di 19 anni al quale si congiunsero carnalmente «con violenza»112. In merito alle violenze sessuali i rapporti delle autorità italiane ci consentono di operare una distinzione tra le città o i paesi a sud e quelli a nord di Napoli e, quindi, tra zone di «estrema» retrovia e quelle lungo la via del fronte. Nel primo caso, a Napoli, ad esempio, e nelle province più vicine a Salerno, città ormai lontane dai combattimenti, il numero di stupri fu più contenuto e le aggressioni meno spietate. Le proporzioni aumentarono nei piccoli paesi a ridosso degli accampamenti delle truppe che progressivamente avanzavano verso Cassino. Un’ulteriore differenza tra i centri urbani e quelli rurali riguarda le modalità della violenza: nei primi la maggior parte degli stupri avvenne negli appartamenti privati, soprattutto all’imbrunire, quando i soldati ubriachi «abbattevano»113 gli usci e si avventavano sulle vittime, e solo qualche volta per strada; nelle località più piccole, oltre agli ingressi violenti nelle masserie, i casi più frequenti furono quelli che si verificarono di giorno nei campi in cui le vittime si apprestavano a lavorare. Lo stralcio di una lettera scritta il 21 agosto 1945 da un contadino barese documenta un’allarmante situazione anche nelle campagne nei pressi di Bari. L’uomo scrisse: «affaccendato per raccogliere le mandorle che addirvi la verità non possiamo portare le donne in campagna perché tutta la munizione che stava in Italia la stanno mettendo per tutta la provincia di Bari e per guardarla anno messo i soldati indiani e questi indiani per sfizziarsi quando vedono le donne sul traino, ci prendono annoi maschi e ci legano alle piante e si divertono con le donne e noi per evitare tutte le occasioni facciamo a meno di portare le donne in campagna per raccogliere le mandorle come tu sai ecco come si è ridotta l’Italia»114. Rispetto alla nazionalità degli accusati, anche se dalle segnalazioni risulta che in Campania gli stupri furono compiuti da soldati di diverse provenienza, dal punto di vista quantitativo emergono   Ibid.   Ibid. 113   Termine ricorrentissimo nelle denunce delle autorità locali. 114   Acs, Pcm, b. 1.2.2., f. 11244, Censura postale, Lettera dalla provincia di Bari a New York, 21 agosto 1945. 111 112

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sostanziali differenze. La maggior parte degli stupratori si annoverarono tra le truppe coloniali appartenenti al Corpo di spedizione francese, seguivano gli afro-americani, gli americani, i canadesi, gli indiani e gli inglesi. In molti casi risulta difficile stabilirne la nazionalità giacché la generica definizione «truppe di colore» o «soldati di colore» dei rapporti potrebbe riferirsi sia ai militari nord-africani che a quelli statunitensi. I soldati coloniali erano quelli che generavano maggiori paure nella popolazione civile e in particolar modo nelle donne. Il 19 marzo 1944 i carabinieri comunicarono alla prefettura e alla questura di Napoli che nel pomeriggio a Teano circa 200 persone, con prevalenza di «donne del popolo», avevano protestato davanti al comando alleato per l’annuncio dell’arrivo nella località di truppe marocchine «precedute da fama non buona per rapporti verso la popolazione»115. A Teano – che per la sua posizione strategica fu a lungo in piena zona di combattimento – in realtà, i soldati marocchini accampati nei paesi limitrofi si erano già resi responsabili di violenze carnali tentate o consumate. Il 30 novembre 1943 c’era stato un tentativo di stupro nei confronti di una ragazza di 22 anni ed il 14 marzo uno consumato ai danni di un ragazzo di 18116. Qualche giorno dopo la protesta – il 23 e il 24 –, sempre a Teano, si verificarono due stupri, il primo nei confronti di una ragazza di 14 anni, Pasqualina Z. – che nel rincasare nella sua abitazione fu colpita alle spalle da un soldato marocchino, che la spinse all’interno del portone possedendola e colpendola a pugni sul viso –, e il secondo ai danni di Antonietta P., di 38 anni, che fu stuprata e colpita in tre parti del corpo con un’arma da taglio alla presenza della figlia di 12 anni117. Non è da escludere che in città fosse giunta notizia delle violenze sessuali che i soldati coloniali avevano compiuto nei comuni limitrofi, Calvi, Carinola, Sessa Aurunca, Maddaloni118. La diffusa paura del Corpo di spedizione francese, inoltre, potrebbe aver risentito della scia dei contenuti marcatamente razzisti della recente propa-

115   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 116   Ibid. 117   Ibid. 118   Ibid.

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ganda fascista, efficacemente mutuati da quella repubblichina, che ne sottolineava la brutale libidine119. La mole di stupri commessi dai soldati coloniali d’altronde è, com’è noto, elevatissima. Nell’estate 1944 essi si resero protagonisti di numerose violenze carnali, saccheggi ed omicidi nella provincia di Avellino. Inquietante era il clima che i carabinieri registrarono nei piccoli comuni di Montemarano, Gesualdo, Montefalcione, Nusco, Salza Irpina, Fontanarosa120. Dai crudi contenuti delle denunce è possibile individuare tratti che si manifesteranno in proporzioni notevoli con lo sfondamento della linea Gustav121. In esse emerge un’eccessiva violenza e la frequente dimensione collettiva dello stupro. Diverse, infatti, furono le aggressioni che coinvolsero più soldati. Una di queste ebbe luogo il 19 marzo 1944 a Vairano Patenora, in provincia di Caserta. Quel giorno, mentre Antonia T., di 25 anni, si trovava nella località campestre Pozzillo per custodire il gregge «venti militari francesi (bianchi e di colore) la derubarono di un anello d’oro del valore di lire 3000 lire e, dopo averla trasportata in una località nascosta, la costrinsero a congiungersi carnalmente. I contadini che lavoravano nelle campagne vicine, richiamati dalle urla della donna, accorsero al luogo della violenza ma furono minacciati e costretti ad allontanarsi»122. Il coinvolgimento di più aggressori, secondo lo studioso statunitense R. Lilly, trasforma lo stupro in un «avvenimento di carattere sociale»123 che per i soldati coloniali potrebbe aver rappresentato un’occasione di rivincita contro i colonizzatori bianchi, una possibilità di invertire finalmente i ruoli. «Nei paesi coloniali, infatti, mentre era possibile per gli uomini bianchi avere donne indigene più o meno colorate, l’interdizione dei rapporti sessuali fra donne bianche e uomini neri era assoluta e totale»124. 119   Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologna, 1994, pp. 202-203. 120   Acs, Mi, Gab., 1944-46, b. 26, f. 1374, Napoli, violenze marocchini. 121   G. Gribaudi, Guerra totale cit.; D. Frezza, Cassino 1943-1944. La memoria, in «Passato e presente», n. 61, 2004, pp. 115-140; T. Baris, Tra due fuochi. Esperienza e memoria della guerra lungo la linea Gustav, Laterza, Roma-Bari, 2003; V. Chiurlotto, Donne come noi. Marocchinate 1944 – Bosniache 1993, in «Dwf», 1993, pp. 42-67. 122   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 123   J.R. Lilly, Stupri di guerra. Le violenze commesse dai soldati americani in Gran Bretagna, Francia e Germania, 1942-1945, Mursia, Milano, 2003, p. 132. 124   G. Gribaudi, Guerra totale cit., p. 564.

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Ma gli stupri collettivi furono compiuti anche da soldati di altre nazionalità. A Capri il 5 marzo 1944 la polizia americana stroncò il tentativo di tre militari inglesi di violentare Giuseppina F. di 19 anni125; a Giugliano il 5 maggio del ’44 dieci militari americani, accampati nella contrada Varcaturo, tentarono di violentare Esterina M., ventenne, e Santa C., cinquantenne126; a Torre del Greco il 6 luglio 1944 cinque militari, di cui due americani, due indiani e uno di colore penetrarono con violenza nell’abitazione di Filomena T. e, minacciandola con una pistola, si congiungevano a lei carnalmente127; il 21 settembre 1944 a Piscinola cinque militari americani rapirono e violentarono una diciassettenne128. Riguardo l’età e il sesso delle vittime degli stupri, nei casi individuati la maggior parte di esse aveva un’età compresa tra i 14 e i 30 anni, ma spessissimo furono oggetto di violenza anche bambini, ragazzi ed anziani. Ad Albanova129, ad esempio, il 4 marzo del 1944 nel fondo L’Acquario fu violentata dalle truppe francesi Raffaela R. di 4 anni. Il 27 maggio la madre della bimba scrisse al comando alleato per chiedere un indennizzo: La sera del decorso 4 marzo due o tre soldati marocchini di stanza ad Albanova e non potuti identificare per l’oscurità, le sottrassero dalla propria abitazione la sua bambina deflorandola e poscia abbandonandola in un campo nei pressi della locale stazione ferroviaria. La minore, al mattino successivo, visitata dal medico condotto fu dichiarata deflorata con ferita lacero a tutta la regione perineale e fu fatta ricoverare all’Ospedale Pellegrini di Napoli (...) fu sottoposta ad atto operatorio per ferita lacero nella regione vulvo-vagino-perineo-sessuale e dimessa il 27 detto. La malcapitata però dovrà subire il secondo ricovero e conseguentemente, l’esponente dovrà affrontare le nuove, non indifferenti spese, senza tacere che deve provvedere al necessario sostentamento di

125   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 126   Ibid. 127   Ibid. 128   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 172, Incidenti tra militari alleati e italiani. 129   Ibid. Nel periodo fascista il comune di Albanova comprendeva i comuni di Casal di Principe e S. Cipriano d’Aversa.

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altri due piccoli e che suo marito soldato tuttora in servizio militare non dà notizie dall’agosto 1943130.

A Cardito il 2 maggio 1944 «in aperta campagna un soldato marocchino, dopo averlo stordito con due pugni alla testa, buttò per terra Antonio M. di anni 63, congiungendosi con esso carnalmente due volte»131. A Frignano Maggiore il 17 luglio 1944 quattro soldati marocchini stuprarono violentemente il giovane Giovanni P. di anni 18, contadino del luogo. A Nusco il 30 luglio 1944 un soldato marocchino violentò un bambino di 8 anni132. A S. Giuliano Teano il 14 marzo 1944 un militare marocchino si avventò alle spalle di Pasquale L. di 19 anni e dopo averlo colpito alla testa si congiunse a lui carnalmente133. Nel luglio 1944 a Castellammare di Stabia Francesco A. di 14 anni fu violentato nella pubblica via da un marinaio americano ubriaco134. La documentazione relativa alle violenze avvenute nel Cassinate nel maggio 1944 ad opera del Corpo di spedizione francese è colma di episodi di questo tipo. Non mancarono, inoltre, i casi di violenze consumate o tentate dinanzi ai parenti delle vittime resi inermi o puniti per aver tentato di difendere le proprie donne. A Vairano Patenora nel luglio 1944 tre soldati americani penetrarono nell’abitazione di Mario M. e, dopo averlo rapinato e legato, insieme ad altri due uomini, salivano al piano superiore e violentavano la giovane moglie che dormiva col bambino nella sua camera135. A Teano il 3 marzo 1944 allo scopo di soccorrere la figlia di 39 anni che colluttava con militari francesi che tentavano di violentarla Giuseppe Z., di 67 anni, fu ucciso con un corpo contundente136. In alcuni casi gli uomini italiani riuscirono ad evitare che la violenza carnale avesse luogo. L’8 febbraio 1944 a Pianura «un gruppo di militari di colore s’in  Acc, 202/96F/37.   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 132   Ibid. 133   Ibid. 134   Ibid. 135   Ibid. 136   Ibid. 130 131

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troducevano nella fattoria del signor Francesco G. in cerca di vino e tentarono di violentare le sue due figlie, ma alle grida di queste ultime accorsero al piano superiore il padre e i due fratelli che uccisero uno dei militari mentre gli altri si diedero alla fuga»137. A S. Leucio il 13 febbraio 1944 nove soldati inglesi forzarono l’abitazione di Teresa F., mentre altri rimasero di guardia, allo scopo di possedere la figlia di 13 anni. Le grida della donna richiamarono il cognato che fu ucciso con un colpo di pistola e il marito, che uccise con una scure due soldati mentre gli altri fuggivano138. Alcuni di quelli che ebbero il coraggio di denunciare le violenze carnali fecero richiesta di indennizzo al Comando Militare Alleato e alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. È quanto fece il colono Salvatore D., uno degli abitanti di Atella di Napoli, per i quali il 4 agosto 1944 la convivenza con le truppe alleate si rivelò particolarmente difficile. Secondo quanto certificato dai carabinieri di Aversa: «Nel pomeriggio un ufficiale americano e tre militari marocchini operavano perquisizioni domiciliari ai coloni italiani (...). Alle ore 20 dello stesso giorno i tre suddetti militari armati imposero l’inabilità al colono Salvatore D. mentre a turno violentavano la moglie di anni 30. Durante la notte seguente il gruppo di militari ritornava al domicilio dell’uomo allo scopo di ripossedere la moglie e costringevano i congiunti ad allontanarsi da casa»139. La documentazione non è provvista di alcuna informazione utile ad attestare l’effettiva concessione del risarcimento all’uomo. Un sussidio di 2500 lire fu accordato, invece, nel febbraio ’45 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri a Pasquale V. di Sessa Aurunca, incapace di sostenere le spese necessarie per pagare le cure mediche necessarie a suo figlio Giuseppe per le violenze subite il 14 agosto dell’anno precedente. Quel giorno il ragazzo fu avvicinato da due soldati marocchini dell’armata francese che lo condussero in una grotta dove, dopo averlo percosso, lo «violentarono contro natura»140. Un «indennizzo continuativo» fu concesso dall’Eca (Ente Comunale Assistenza di Napoli) a Luisa C., a favore della quale inter-

  Ibid.   Ibid. 139   Acs, Pcm, b. 19.10, f. 12775, Comportamento truppe alleate in Italia. 140   Asn, Pref., Gab., 1940-45, II vers., b. 1247, f. 11, Disciplina di guerra. Ordine pubblico: attività criminose durante la guerra. 137 138

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cesse anche il prefetto di Napoli141. Le insistenti lettere al Comando Alleato e alla prefettura di Napoli della madre ci consentono di apprendere quanto accadde alla giovane. In una di queste, datata 20 febbraio 1945, la donna scrisse: «nel settembre scorso mia figlia fu rapita142 da negri e trasportata a mezzo auto in una località in provincia di Napoli imprecisata e poi sedotta. La supplicante madre di figli che oggi trovandosi con una figliola in istato interessante è priva di mezzi e di un cencio per coprire il neonato»143. Comprendere le proporzioni reali degli stupri avvenuti è improbabile, essendo esso uno dei crimini meno denunciati, dietro cui si celano la sofferenza delle vittime, l’incapacità di raccontare per non far riaffiorare un dolore indicibile, il timore di meccanismi di esclusione dalle comunità. Anche le diffuse violenze sessuali diedero prova di quanto i soldati stranieri non fossero soltanto liberatori, ma conquistatori pronti a profanare il corpo delle donne italiane, un modo come gli altri per mostrare l’impotenza virile dei loro uomini, deboli, inermi, incapaci di proteggerle144. Altre forme di violenza Vi furono, poi, altri episodi tesi a colpire in maniera più «diretta» la dignità degli uomini italiani, sottoposti a vessazioni fisiche e verbali, spesso dinanzi alle proprie donne. Ecco alcuni esempi. Il 2 gennaio 1944 a Torre del Greco «tre militari russi, ubriachi, fermavano un gruppo di cinque signorine accompagnate da due giovani e pretendevano che gli uomini si allontanassero e le donne restassero con loro. Seguiva una violenta colluttazione»145.   Ibid.   Ibid. Diversi furono anche i tentativi di rapimento riusciti o non e spesso con tragiche conseguenze, come quelle che si verificarono a Piscinola il 18 maggio 1944, quando un militare francese uccise Giuseppina B. di 17 anni che aveva reagito animosamente al suo tentativo di essere rapita. Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 143   Asn, Pref., Gab., 1940-45, II vers., b. 1247, f. 11, Disciplina di guerra. Ordine pubblico: attività criminose durante la guerra. 144   S. Brownmiller, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenze sessuali, Bompiani, Milano, 1976, p. 24. 145   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 141 142

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Il 23 luglio 1944 verso le 20,45 a Napoli, in via S. Lucia, «alcuni militari delle truppe alleate, in stato di ubriachezza, si diedero a molestare i passanti, specie quelli che accompagnavano donne. Poiché al risentimento opposto da costoro i militari risposero con pugni, intervennero alcuni militari italiani e successivamente la Militar Police per ripristinare l’ordine»146. Lo stesso giorno a Bacoli «militari alleati aggredivano due giovani che erano in compagnia di alcune signorine»147. Il 24 novembre 1946 alle ore 19 a Napoli, «nella Galleria Umberto I alcuni marinai americani, in evidente stato di ubriachezza, molestavano con spintoni una signorina che si accompagnava a tale Gaetano S. ed alle rimostranze di questi lo ferivano con arma bianca»148. Di fronte all’impossibilità di avere libero accesso alle donne locali, talvolta i soldati aggredivano anche i rappresentanti delle residuali istituzioni di riferimento, come i sacerdoti, o ricorrevano a ricatti volti a mettere in gioco la stessa sopravvivenza delle comunità. Ciò fu evidente nei casi dei «trattenimenti danzanti». La sera del 27 giugno 1944, «per il mancato intervento di signore e signorine ad un ballo offerto da un reparto della Divisione Inglese ‘3 Fiori’, un capitano alleato recatosi, con la truppa, nella canonica del luogo, obbligò il parroco a lasciare il letto e a scendere in piazza, dove, dopo averlo insultato, lo costrinse a rivolgere alla popolazione l’invito di intervenire alla festa danzante indetta pel giorno dopo»149. Il 18 giugno dalle ore 20 alle ore 24 ufficiali inglesi organizzarono un trattenimento danzante presso un salone del Comune di Sparanise, al quale invitarono giovani donne «di ogni ceto e moralità», non escluse quelle appartenenti a famiglie di ex fascisti e quelle di facili costumi. I comunisti locali, specie quelli impiegati presso il comune, non accettarono l’invito «per non associare le proprie donne a note prostitute e perché mal tolleravano che elementi noti col loro passato fascista fossero ammessi a divertirsi nei locali del municipio». L’intervento alla festa di poche donne «di bassa condizione sociale e   Ibid.   Ibid. 148   Acs, Pcm, b. 19.10, f. 12775, Comportamento truppe alleate in Italia. 149   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 172, Incidenti tra militari alleati e italiani. 146 147

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qualche immorale» irritò gli ufficiali che, per ritorsione, minacciarono di licenziare i 50 operai civili che lavoravano alle loro dipendenze e di requisire il campo sportivo150. A questi episodi se ne affiancarono altri non meno significativi in quanto finalizzati a calpestare valori e miti ben radicati nella cultura locale. Tra essi i simboli religiosi e quelli patriottici. Il 30 luglio 1944 a S. Maria a Vico «un soldato francese ubriaco, armato di pistola, invitava Migliacci R. a seguirlo fino all’accampamento sostenendo genericamente che gli italiani erano poco di buono. Il Migliacci aderiva all’invito ma, percorsi un centinaio di metri, veniva ferito lievemente al viso da colpi di pistola sparatigli contro dal francese»151. Il 5 agosto 1944 a Napoli in via Teatro Nuovo un soldato francese pronunziò frasi offensive all’indirizzo del popolo italiano e sfidò i presenti a contraddirlo. Reagì un giovane ventenne, non ancora identificato, il quale, nella lotta che ne seguì col francese ebbe la peggio. Si accese quindi una rissa, essendo intervenuti in difesa del giovane alcuni cittadini e una quindicina di marinai italiani. Rimasero ferite varie persone. Accorse la polizia americana, ma, visto di che cosa si trattava si dichiarò incompetente a procedere; giunse poco dopo la polizia francese che bloccò la strada per rintracciare il giovane italiano che aveva reagito col francese e che intanto aveva potuto dileguarsi. L’ordine fu ristabilito con l’ausilio della pubblica sicurezza italiana sopraggiunta152.

Il 2 ottobre 1944, verso le 20, nel teatro S. Lucia alla fine dello spettacolo il comico Totò fece suonare all’orchestra l’inno La Marmora. Al termine due militari inglesi invitarono l’orchestra a suonare l’inno nazionale inglese che fu accolto in silenzio dagli spettatori e da un fischio lanciato da una persona che non si poté identificare. Successivamente, mentre l’orchestra eseguiva l’inno del Piave, uno dei due militari inglesi, voltando le spalle al palcoscenico, puntava la pistola verso gli spettatori generando panico e 150   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 151   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 172, Incidenti tra militari alleati e italiani. 152   Ibid.

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spiacevoli commenti tanto che i due militari alleati ritennero subito dopo di volersi allontanare153.

Nella notte del 3 marzo 1946 «due militari britannici, in località Quadrivio di Poggioreale dopo aver esploso alcuni colpi d’arma da fuoco contro un crocifisso esposto alla pubblica venerazione si appropriavano del denaro contenuto nella cassetta delle elemosine»154. Come misero in evidenza i rapporti delle forze dell’ordine, questi avvenimenti, aggiunti a quelli in precedenza accennati, diffusero un sentimento di sconforto tra la popolazione civile, costretta bruscamente ed inaspettatamente a prendere atto del tipo di occupazione a cui era sottoposta. Il 16 dicembre 1944 la questura chiese ai carabinieri e al prefetto di disporre, dalle prime ore del giorno successivo, rinforzi a piazza Garibaldi, dove – «secondo fonti sicure» – avrebbe avuto luogo una manifestazione «ostile agli Alleati» e lungo la strada che conduceva a Nola, dove avrebbero potuto verificarsi «azioni di molestia nei confronti di militari alleati»155. Tra l’altro, a rivelare l’ostilità nei confronti degli occupanti è buona parte della corrispondenza censurata, dalla quale emergono anche chiare «nostalgie» fasciste: Più nere sorti non potevano abbattersi sulla mia Patria, essa è stata ed è calpestata da tutti i popoli del mondo perché vinta, ma tutto finisce, finirà il pericolo obbrobrioso per la nostra Italia, finirà la potenza dei cosiddetti tre grandi, verrà la volta dei figli di Roma, di quella Roma che sempre ha saputo vendicare i suoi caduti. Noi giovani ricorderemo che la nostra Patria fu invasa da eserciti «liberatori» che abusarono della miseria nostra per disonorare le nostre donne, per sfruttare gli operai Italiani, per impedire il lavoro alle poche industrie rimaste. Un antico detto ci consiglia di far buon viso e cattivo gioco156. 153   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 154   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 203, Napoli, Truppe alleate. 155   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 156   Acs, Pcm, 1944-47, b. 1.2.2., f. 14884, Censura postale, lettera da Nocera Inferiore a New York, 19 luglio 1945.

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Gli Alleati prima di venire in Italia ci avevano promesso un mondo di roba, ma non hanno mantenuto nessuna delle loro promesse. Noi mangiamo soltanto dal ricavato delle nostre terre. Ci vogliono sfamare con la polvere di piselli che noi detestiamo e della carne con legumi che anche i loro soldati hanno preso a schifare, loro non ci danno niente quindi è logico che quando i nostri possono lo rubano. Se potessi ti direi tante porcherie. Il popolo italiano è deluso e sfiduciato. In un primo momento ci saremmo fatti fare a pezzi, ma ora tutti hanno cambiato idea...157.

«Ho la convinzione che ci vogliano castigare peggio dei tedeschi. Perché abbandonarci in questa baraonda significa: fottetevi, arrangiatevi, ammazzatevi, crepate... oggi è meglio essere tedesco che italiano. Almeno ai tedeschi imporranno di lavorare ed assicureranno quel poco che basta per vivere»158. «Ti assicuro che in Italia siamo molto scoraggiati e demoralizzati perché mentre sembra che gli Alleati vorrebbero aiutarci, al contrario quasi tutti cercano di farci ancora del male. (...). Purtroppo siamo con le mani legate in mano a loro e non ci resta che subire (...). Il nostro popolo senza aiuti e senza organizzazione fu il primo a scacciare definitivamente i tedeschi e all’arrivo dei liberatori fu trovata svuotata dai nazisti»159. «Alle sofferenze materiali si aggiungono le sofferenze morali. Si era tanto predicato di una pace con giustizia, si era tanto detto che con la fine della guerra tutti i popoli avrebbero vissuto una vita abbastanza prospera ed invece tutte le speranze crollano (...). Noi siamo un popolo vinto perciò nulla abbiamo da pretendere, ma è anche ingiusto incrudelire su chi è ormai vinto e prostrato a terra!»160. «Questa cara e divina terra è diventata uno straccio e stracci tutti noi. Siamo, tutti gli italiani, diventati impotenti, indecisi, incapaci perfino di pensare. Inebetiti dall’immane sventura non riusciamo a renderci conto della reale tragica situazione o meglio chiudiamo gli occhi per non vedere l’abisso in cui siamo precipitati. La libertà stessa, per quanto limitata e sorvegliata dagli Alleati, ci fa paura. (...)   Ivi, lettera da Portici a New York, 18 agosto 1945.   Ivi, lettera da Pompei a Boston, 25 luglio 1945. 159   Ivi, lettera da Napoli a New York, 20 settembre 1945. 160   Ivi, lettera da Napoli, novembre 1945. 157 158

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Le lotte che non degenerano in guerra civile per la presenza degli Alleati ritardano se non impediscono la ripresa...»161. Rivalità tra militari Fin dai primi mesi dell’occupazione numerosissimi furono gli scontri tra i militari italiani e quelli alleati originati da motivazioni diverse. Col passare del tempo, poi, vennero a crearsi tra essi risentimenti talmente profondi che dalla lettura delle denunce e dei commenti della questura o dei carabinieri la causa reale sfugge o si nasconde dietro motivi apparentemente banali. I primi conflitti si registrarono già nel novembre 1943. Le cause furono diverse e compresero violenze gratuite, rapine, ritorsioni degli stranieri per l’arresto di prostitute o civili italiani implicati nel commercio illegale di materiale alleato, fino a reazioni violente di fronte al rifiuto degli italiani di procurare alcool o «segnorine disponibili». In particolare, quest’ultimo caso si verificò presso le sedi dei comandi delle forze dell’ordine italiane e soprattutto presso quelle della Marina Militare Italiana. Alle risposte negative dei militari italiani seguivano regolarmente reazioni, con risse che s’ingigantivano col sopraggiungere di rinforzi da ambo le parti. Altro motivo di scontro fu il fermo effettuato dagli agenti di pubblica sicurezza di donne in compagnia dei militari alleati, sospettate di esercitare la prostituzione clandestina. Così, per ovviare a ciò, le questure disposero che tali controlli fossero effettuati soltanto da squadre speciali miste composte da membri della Militar Police e della polizia civile italiana162. Oltre a questi, la documentazione fornisce casi estremamente interessanti, che chiamano in gioco elementi delicati come l’onore dei militari italiani vilipeso dagli Alleati attraverso diverse forme di mortificazione. Gli esempi sono molti. Il 20 gennaio del 1944 a Torre Annunziata alle ore 23,30 «il sergente maggiore Vincitore C., appartenente alla Real Aeronautica, in licenza di convalescenza di 90 giorni, transitato nella piazza E.   Ivi, lettera da Napoli a New York, 9 luglio 1945.   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 172, Incidenti tra militari alleati e italiani, 16 maggio 1946. 161 162

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Cesaro incontrava tre persone in abiti civili di nazionalità alleate, palesemente ubriache, che lo fermarono e con la scusa di accendere una sigaretta cercarono di tirargli le stellette ed il distintivo grado. Il maggiore riuscendo a scappare si recava verso la locale caserma dell’arma seguito dai tre militari alleati che entravano in colluttazione con gli altri militari italiani accorsi in aiuto del sergente italiano»163. Il 3 febbraio 1944 a Napoli, in via Iolanda Margherita, «soldati americani toglievano con violenza la stola al maresciallo Giovanni R. appartenente alla terza compagnia allievi carabinieri di Andria e qui di passaggio»164. Il 19 febbraio 1944 nel cinema Margherita due soldati americani intenti a calpestare la bandiera italiana provocavano l’intervento del sottotenente di fanteria Carlo L., il quale veniva sottoposto a violenti spintoni da parte di uno dei soldati americani. Il sopraggiungere di un carabiniere determinò la fuga dei militari stranieri e il recupero della bandiera165. Il 16 maggio 1944 in Grumo Nevano «un gruppo di soldati americani incontratisi con soldati italiani li faceva segno e atti offensivi (corna). Tale gesto offese i soldati italiani che reagivano. Ne sorse un alterco che degenerò in vie di fatto»166. Il 24 maggio 1944 in via Scarlatti «un soldato delle forze americane rimasto sconosciuto tentava di sottrarre una donna che si accompagnava ad un soldato paracadutista italiano rimasto pure sconosciuto. Costui risentitosi reagiva e veniva colpito con pugni. Intervenivano altri soldati delle forze alleate e altri soldati italiani di transito e si originava furiosa zuffa sedata in seguito all’intervento della polizia americana che fermava e accompagnava alla propria caserma tre militari italiani»167. Il 10 settembre 1944 a Napoli, «verso le 18.30 l’agente della Pubblica Sicurezza Mario C., mentre transitava in piazza Trieste e Trento fu aggredito da alcuni soldati francesi che percotendolo con pugni e calci lo insultarono dicendo: ‘voi italiani siete tutti cornuti’. Agli   Ibid.   Ibid. 165   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 166   Ibid. 167   Ibid. 163 164

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stessi militari si unirono altri e l’agente Cardano fu anche disarmato della pistola beretta, riportando contusioni alla coscia sinistra»168. Il 25 giugno 1945 a Bagnoli «un marinaio italiano ed un soldato algerino che si contendevano i favori di una giovane donna venivano a lite fra loro e poiché a favore dell’uno e dell’altro si schieravano militari italiani e francesi, si accendeva una vera e propria rissa con la partecipazione di numerosi monelli che prendevano a sassate il militare di colore costringendolo a riparare nella caserma vicina. Poco dopo da detto stabile uscivano soldati francesi di colore che giunti in via Campi Flegrei cominciarono a sparare all’impazzata»169. Il primo luglio 1945 «un soldato di colore allo scopo di ottenere i favori di Anna P. di 23 anni che passeggiava in compagnia di un soldato italiano, appartenente alla decima compagnia battaglione portuale, vibrava un colpo di bastone alla testa del militare»170. Il 29 luglio 1945 a Napoli, in via Alessandro Poerio verso le 23,30 «una prostituta in compagnia di un militare brasiliano incrociando un soldato italiano abbandonava lo straniero per affiancare il militare italiano. Il brasiliano accoltellava l’italiano e seguiva un conflitto a fuoco tra militari italiani e brasiliani»171. Il 4 luglio 1944 alle ore 21 un soldato italiano della 515^ compagnia di stanza a Baia, nei pressi di Nisida, faceva fuoco su un gruppo di marinai americani sconosciuti, uccidendone uno e ferendone un altro. La polizia americana di Agnano-Bagnoli, prontamente informata, procedeva al fermo del soldato italiano, il quale faceva presente che il caporal maggiore Moroso – medesimo reparto – (...) mentre trascorreva con una signorina veniva avvicinato da circa otto marinai americani i quali, senza alcun motivo, lo aggredivano violentemente colpendolo con pugni. Il soldato visto il suo superiore aggredito caricava il moschetto e sparava due colpi in direzione dei militari alleati172.

La censura postale ci consente di avere a disposizione altri esempi e di conoscere il malcontento dei militari italiani.   Ibid.   Ibid. 170   Ibid. 171   Ibid. 172   Ibid. 168 169

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Il 24 settembre 1944 Alfinito G., marinaio di stanza a Salerno, scrisse: «l’altra sera in via Mercanti un canadese pretendeva di essere accompagnato a donne da un carabiniere: irritato per il rifiuto opposto da questi, prima gli ha tirato dei colpi di rivoltella e poi l’ha finito con una rasoiata alla gola. Ieri hanno ammazzato un barbiere ed ora la popolazione è costernata e presa dal panico, soprattutto perché constata la indifferenza dei Comandi Alleati di fronte a tale stato di cose. Per la strada tutti si domandano: come faremo a liberarci dei... liberatori?»173. «Se vedessi quante cose ingiuste si vedono, per esempio ieri è tornato a bordo un bravo fuochista con un occhio rotto da pugni ed in più non ha più occhiali, è costretto ora a tenersi rinchiuso, perché? Questo per vili alcolizzati e stranieri nella nostra terra, si divertono a rovinare i poveri ragazzi che camminano fuori per i propri fatti; in uno di questi casi c’ero anch’io l’altra sera e se non parlavo francese riabbassandomi poi ad offrirci da fumare, mi prendevo tante legnate che non voglio nemmeno immaginarlo»174. «I soldati Alleati hanno preso il posto dell’aristocrazia prima della guerra. C’è ovunque guerra di divertimento, teatri, cinematografi, balli...»175. «Sono purtroppo gli Alleati che comandano e noi subiamo le loro imposizioni e nulla più. È triste molto essere vinti...»176. Mi è stato dato il compito di sorvegliare gli automezzi militari in alcune zone della Piazzaforte ed in ultimo mi hanno inviato a sorvegliare lo scarico del materiale alleato fatto dai nostri marinai. Quest’ultima attività che mi vede tuttora impegnato non mi va per niente. Che i nostri marinai facciano gli scaricatori di merce altrui portando le stellette, che li si obblighi a pulire dove altri hanno sporcato per lunghe navigazioni, che li si impieghi per gettar rifiuti di gente negra, mentre sotto quelle stellette esistono uomini che hanno combattuto con spirito di sacrificio ben noto anche ai più profani in materia di militarismo, questo non riesco a sopportarlo. Mi sono dato da fare per accelerare il mio imbarco onde non continuare ad assistere a questa penosa e vergognosa attività dei nostri marinai...177   Acs, Mi, Gab., 1944-46, b. 15, f. 1119, Censura postale.   Ivi, lettera di un soldato di grado imprecisato, gennaio 1945. 175   Ivi, lettera di un soldato di grado imprecisato, aprile 1945. 176   Ivi, lettera di un ufficiale, aprile 1945. 177   Ivi, lettera di un soldato di grado imprecisato, giugno 1945. 173 174

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«E ora andrò a lavorare solo in un ufficio italiano perché sono terribilmente stanco in questa tirannia inglese. Essi credono di avere a che fare con qualche stupido negro e di poterci trattare male»178. «(…) qui si vive una vita... di umiliazioni, perché non è piacevole essere sottoposti al controllo degli Alleati e principalmente a quello burbanzoso inglese, che ci considerano come indigeni ed in forma sempre più umiliante»179. «Il nostro avvenire mi sembra sempre più incerto vivendo in mezzo agli Alleati, specie gli Inglesi, trovo che sono sempre corretti, ma sotto questa correttezza quanto disprezzo...»180. L’indignazione è evidente. Tali conflittuali rapporti risentono dell’«ombra della guerra»181, della persistenza di risentimenti reciproci che affondavano le loro radici nei primi anni del conflitto. Particolarmente difficili si rivelarono i rapporti con i soldati britannici e con quelli francesi, coloniali e non. Oltre al già accennato «fronte parallelo», che aveva visto gli italiani combattere soprattutto contro gli inglesi, occorre tener presente l’umiliante sconfitta subita dalla Francia nel giugno 1940 di cui l’Italia aveva approfittato. La possibilità di indossare le vesti di «vincitori» sul territorio italiano rappresentava per i francesi un’importante possibilità di rivalsa182. Dall’altra parte gli italiani tentavano di difendere l’onore militare ferito dalle umilianti sconfitte e dalla presenza sul proprio territorio di un poliedrico e potente esercito. Sconfortante era la condizione dei soldati italiani. Molti erano stati imprigionati, oltre che dai tedeschi anche dagli stessi Alleati che li trattennero fino ad oltre la fine   Ivi, lettera di un soldato di grado imprecisato, luglio 1945.   Ivi, lettera di un soldato di grado imprecisato, agosto 1945. 180   Ivi, lettera di un soldato di grado imprecisato, gennaio 1945. 181   G. Crainz, L’ombra della guerra cit. 182   G. Gribaudi, Guerra totale cit., p. 554. Frequenti erano le risse tra i militari francesi e quelli italiani. Ancora nel febbraio 1946 le autorità italiane scrivevano: «alle ore 22, presso piazza Trieste e Trento, alcuni militari francesi per cause non potute ancora accertare malmenavano un ragazzo storpio suscitando sdegno tra i marinai e i civili che reagivano contro di essi. Ne seguiva un conflitto a fuoco iniziato dai francesi con l’ausilio di altri compagni accorsi che riparavano poi nella sede della loro mensa sita nella stessa via. Dai balconi partivano colpi d’arma da fuoco. Nel frattempo marinai e civili irrompevano nei locali della stessa mensa producendo numerosi danni e ammainavano la bandiera francese esposta al balcone buttandola in strada. Interveniva la polizia alleata e quella italiana che riuscivano a ristabilire l’ordine entro le 23.30», Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 203, Napoli, Truppe alleate. 178 179

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della guerra183. Quelli che erano sfuggiti alla prigionia più che essere reclutati dai cobelligeranti per offrire una collaborazione tattica e militare, finalizzata a combattere l’ormai comune avversario tedesco, venivano utilizzati perlopiù per l’esecuzione dei lavori più umili184. Molti ex combattenti divennero trasportatori, scaricatori, manovali, facchini, disprezzati dai committenti, specialmente dagli inglesi. Spesso erano alle dipendenze dei soldati africani coi quali frequenti erano gli scontri, alimentati da discriminazioni razziali da una parte e dal desiderio di rivincita dall’altra. Forti prevenzioni influenzarono anche la condotta dei militari jugoslavi e polacchi – che il ministro della Guerra incluse tra i maggiori responsabili dei crimini185 – particolarmente ostili verso il risorto comunismo italiano. Diverse risse, infatti, furono scatenate dalle accuse che facevano agli italiani di essere comunisti; più volte danneggiarono le nascenti sedi di partito, attaccarono chi affiggeva manifesti di propaganda, chi cantava «inni alla rivoluzione» o chi ostentava inequivocabili simboli politici come «distintivi» e «fazzoletti rossi»186. 183   Su questo tema si vedano F.G. Conti, I prigionieri di guerra italiani (19401945), il Mulino, Bologna, 1986; A. Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra,  Bollati Boringhieri, Torino, 2007. Interessanti riflessioni sulla crisi dell’identità che riguardò gli uomini francesi dopo la disfatta militare sono state sviluppate da L. Capdevila, Identités masculines et féminines pendant la guerre, in E. Morin-Rotureau (a cura di), 1939-1945: combats de femmes. Françaises et Allemandes, les oubliées de la guerre, «Autrement», n. 74, 2001 e da F. Virgili, La France «virile». Des femmes tondues à la libération, Payot, Paris, 2000. 184   A tal proposito si veda A. Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 79, 230. 185   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 172, Incidenti tra militari alleati e italiani, 18 ottobre 1946. 186   Ibid.

Capitolo IV

Una «fraternizzazione» complessa

Le donne Calogero B., impiegato alla dogana di Catanzaro Marina, nei primi mesi del 1944 chiese a suo cugino Salvatore, Alto Commissario per la Sicilia, d’intercedere per lui presso il suo amico Selvaggi, prefetto di Napoli, per la risoluzione di una questione che gli stava molto a cuore. Evidentemente Salvatore non riuscì a far molto per lui, tanto che Calogero il 22 agosto 1944 si recò di persona in città. Per sua sventura quel giorno il prefetto era assente e dovette accontentarsi di colloquiare col suo segretario particolare che, tutto sommato, lo soddisfece, avendo per lui parole di «immenso sollievo e di speranza»1. Ma a quanto pare neanche il segretario particolare fu in grado di dargli pace e nel novembre dello stesso anno e poi nell’aprile di quello successivo decise di scrivere al prefetto esponendogli il suo penoso problema: «per ragioni di moralità espongo quanto segue: nel vico dei Corrieri a S. Brigida 34 a Napoli esiste una casa equivoca tenuta da una certa Giovanna I. La casa è completamente camuffata dall’onestà del fratello che vi abita con la moglie e quattro figli. Nella stessa casa vi sono tre ragazze a disposizione». Ma cosa c’entrava Calogero con Giovanna I. e con suo fratello? 1   L’intero incartamento relativo al caso è custodito presso l’Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane.

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Perché tanta insistenza? Le cose si fanno più nitide in una lettera successiva, sempre indirizzata al prefetto: «Eccellenza, sono affranto perché la nominata Lucia I., dopo quindici anni di vita assieme e con un figlio, senza motivo, mi ha abbandonato, lusingata da parenti incoscienti, per vivere nella casa equivoca della sorella nel vico dei Corrieri a S. Brigida 34 a Napoli. (...). È per questo che mi rivolgo al vostro umile cuore, per ottenere la buona vostra parola verso il questore. (...). Sono convinto che la donna con la chiusura della casa della sorella, che è vero equivoca, rientrando presso i genitori nel bisogno e nella onestà si ricorderà non dico di me ma almeno del figlio. (...). Solo così salverò mio figlio e la madre». La donna di cui parla il denunciante è Lucia I., originaria di Ischia, che nel 1928 si era trasferita a Catanzaro per divenire la domestica di Calogero e che – secondo il rapporto della questura – ne divenne l’amante. I due ebbero un figlio che l’uomo non legittimò. Rimasero insieme fino ai primi mesi del ’44, quando Lucia si trasferì a Napoli, in casa del fratello – impiegato presso le forze alleate – che viveva con la moglie, quattro figli, l’altra sorella, infermiera privata, e altre donne che la stessa questura definì «di dubbia moralità». Da questo momento in poi l’uomo fece diversi tentativi per convincere la donna a ritornare a casa, servendosi anche di intermediari. Ma proprio questi lo convinsero che in quella casa vi fosse un postribolo. Tra essi una vicina, alla quale Lucia avrebbe rivelato di guadagnare tanto, ed un conoscente, nonché impiegato presso la dogana di Napoli, al quale la donna avrebbe confidato di non essere intenzionata a ritornare a Catanzaro. In particolare, l’uomo scrisse a Calogero: «io giudico la casa di Lucia un luogo immorale ove hanno ospitalità un gran numero di americani. Deduco questo perché, per tutta la durata delle mie lunghe e svariate attese, ho visto un continuo andirivieni di americani. Resta a te decidere». A parte le generiche verifiche della questura, la documentazione non consente di andare oltre e di avere, dunque, notizie certe sulla veridicità delle accuse di Calogero e sull’epilogo della sua relazione con Lucia. Ma, se queste fossero state fondate, quello descritto non rappresenterebbe che uno dei numerosissimi casi di donne che da diverse zone della penisola seguivano le truppe alleate che avanzavano verso il nord del Paese, alimentando il fiorente mercato della prostituzione clandestina, principale veicolo di malattie veneree. Il questore di Napoli accennò a questo fenomeno nella relazione da inviare al prefetto il 26 ottobre del ’44, quando annotò che ad ­101

alimentare la prostituzione vagante e clandestina, «moralmente deplorevole, perniciosa per i suoi effetti deleteri sull’igiene e la sanità pubblica e fonte d’infezione in danno dei militari stranieri», erano le «molte donne» che «spinte dal miraggio di cospicui guadagni [afferivano] nei centri ove più numerose [erano] le Truppe Alleate, sottraendosi con ogni mezzo agli accertamenti sanitari»2. Proprio per questo motivo, si cercò di rendere più rigorose le misure di legge istituite contro la prostituzione clandestina, intensificando i controlli nei confronti delle meretrici vaganti che, se non native di Napoli, iscritte nei relativi registri di popolazione o profughe, dovevano essere avviate con foglio di via obbligatorio ai luoghi di origine, residenza o domicilio con diffida di rientro3. L’afflusso di prostitute al seguito delle truppe alleate aveva già avuto come scenario altre città: Bari, Foggia, Salerno e dopo Napoli interessò Roma, Livorno, Pisa e così via. La stampa, già dall’autunno ’43, rappresentava uno strumento prezioso per genitori e parenti per denunciare la scomparsa di donne, più o meno giovani, partite al seguito dei militari stranieri. Dopo diversi appelli, attraverso i quali una coppia di Lecce denunciò su «Reportage» la scomparsa delle loro quattro figlie, il 26 giugno sul quotidiano apparve la foto di una di esse con la seguente didascalia: «ecco Concettina C., la ragazza che dalla nativa Lecce se n’era venuta a Napoli con le quattro sorelle ‘signorine’ come lei: si credeva rapita ed è invece stata trovata a passeggiare fra Tombolo, Livorno e Pisa»4. Il «commercio umano» che aveva già preoccupato le autorità alleate cominciò ad allarmare anche quelle italiane. Il prefetto della Capitale nell’agosto 1945 lamentò il «comportamento stomachevole delle donne di ogni classe sociale con gli Alleati» e rilevò quanto fosse doloroso constatare alla periferia della città, lungo le grandi strade, «il passaggio di jeep su jeep con a bordo tre o quattro militari alleati o di colore e, di massima, con una sola giovanetta e poi il ritorno, dopo un’ora o due, delle stesse jeeps con a bordo gli stessi militari e la stessa donna, discinta e disfatta»5.   Asn, Pref., Gab., 1944-45, II vers., b. 1034, f. 11, Malattie veneree.   Ibid. 4   «Reportage», Concettina Conte ritrovata a Livorno, 26 giugno 1946. 5   Acs, Mi, Gab., 1944-46, b. 31, Prefettura di Roma, relazione del mese di agosto 1945. 2 3

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Le autorità locali denunciavano costantemente le notevoli proporzioni della prostituzione, insistendo sui facili guadagni assicurati dalla presenza delle truppe alleate. Il prefetto di Napoli nel luglio 1944 notava come ad un sollevamento del «morale» della cittadinanza, dovuto al «diminuito pericolo della minaccia aerea», aveva fatto seguito un peggioramento della «morale», riconducibile agli elevati tassi della prostituzione che aveva «inquinato migliaia di ragazze e di ragazzi che nel lenocinio [trovavano] troppo facile via di lucro». «Secondo informazioni», scriveva ancora il prefetto, «ben 4.000 donne in quest’ultimo periodo, prevalentemente tra i 10 e i 20 anni, sono passate per l’osservazione ospedaliera. E le altre?»6. Il prefetto, riferendo che l’elevato numero di minorenni che si erano sottoposte agli accertamenti sanitari rappresentava soltanto una parte delle donne che esercitavano la prostituzione, fornisce un’indicazione importante per tentare di chiarire le proporzioni del fenomeno, di difficile determinazione per la parzialità delle fonti. Secondo Lewis nell’aprile 1944 il servizio di polizia segreta inglese individuò a Napoli la presenza di ben 42.000 prostitute su una popolazione femminile nubile che si aggirava intorno a 150.0007. Roberto Ciuni, giornalista, in uno studio sugli americani a Capri tra il 1943 e il 1945, fa riferimento ad un documento della questura, custodito al National Archives of Washington, in cui il questore Lauricella avrebbe stimato un numero di prostitute compreso tra le 15.000 e le 40.000, dilettanti e regolarmente schedate8. Le statistiche mensili stilate dalla polizia, discontinue per quanto riguarda il 1944 e più puntuali dal marzo 1945 al giugno dell’anno successivo, consentono di individuare importanti aspetti9. Le case di tolleranza autorizzate nel periodo considerato oscillavano tra le 37 e le 38. Il numero di prostitute regolarmente autorizzate si mantenne più o meno costante nel periodo considerato e comprese una 6   Asn, Pref., Gab., 1943-48, II vers., b. 54, f. 1, Relazioni. Lo stesso dato apparve in un articolo de «Il Popolo», del 26 agosto 1944, che recitava: «ieri abbiamo appreso che all’ospedale della Pace in quindici giorni sono state visitate 4000 malate (e si può intuire quali malate) per metà all’incirca minorenni! E che uguali proporzioni si riscontrano negli altri centri della provincia e della regione». 7   N. Lewis, Napoli ’44 cit., pp. 136-137. 8   R. Ciuni, Stelle e strisce sui faraglioni. Gli americani a Capri (1943-1945), Edizioni La Conchiglia, Capri, 2001, p. 127. 9   Acc, 442/401D/107.

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media di 183 donne. Il fatto che nello stesso lasso di tempo ben 12.949 donne furono trovate infette, e di queste 11.268 ricoverate all’ospedale della Pace, lascia intendere le altissime proporzioni della prostituzione vagante. La questura certifica che le dimensioni del meretricio clandestino erano già elevate nei primi mesi dell’occupazione. Nella sola città di Napoli, infatti, nel periodo compreso tra il primo ottobre 1943 e la fine del marzo 1944 si procedette al fermo di 4454 prostitute10 che divennero 14.000 fino al dicembre dello stesso anno11. Ancora nel gennaio 1946 le donne ammalate e ricoverate in ospedale furono 1511 e 1375 nel giugno dello stesso anno, ultimo mese analizzato12. Nelle diverse relazioni della questura di Napoli – sempre intrise di allarmismo – si fa più volte riferimento al ruolo centrale svolto dai ceti popolari, in fondo quasi giustificato dalle difficoltà di trovare in quel particolare contesto alternative possibili13. «È preoccupante il fenomeno della prostituzione, che ha assunto proporzioni forse mai raggiunte, cui segue il dilagare di malattie veneree specie tra donne minorenni. La impossibilità di procurarsi un onesto lavoro, tale da garantire almeno il soddisfacimento dei più elementari bisogni, spinge sempre più gli appartenenti al ceto popolare sulla via della disonestà, della corruzione e dei facili lucri, incrementando la triste categoria dei lenoni, degli sfruttatori e dei contrabbandieri»14. A Napoli, il luogo simbolo della prostituzione era via Roma, dove le meretrici adescavano i soldati per poi condurli nei quartieri adiacenti. Il fenomeno era vistoso, tanto che anche il «Risorgimento», che preferì non affrontare quasi mai questo tema – come del resto fece il resto della stampa locale – scrisse: «ogni giorno, quasi ad ogni passo, sul tribolato cammino delle nostre consuete occupazioni, e 10   Asn, Pref., Gab., II vers., b. 67, f. 1469, Malattie veneree. Su 4454 prostitute 1611 furono inviate all’ospedale della Pace. 11   Acc, 1046/686D/158, gennaio 1944. P. De Marco scrive che nel gennaio e nel febbraio 1944 furono arrestate rispettivamente 1184 e 1413 prostitute, in P. De Marco, Polvere di piselli cit., p. 43. 12   Acc, 442/401D/107. 13   L’immagine di una città in cui i traffici illeciti erano gestiti dai ceti popolari è molto diffusa nella tradizione letteraria e filmica napoletana. Si pensi, ad esempio, a Napoli Milionaria di Eduardo De Filippo. 14   Asn, Pref., Gab., II vers., b. 1034, f. 11, Malattie veneree, 1° settembre 1944.

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specie fra il tramonto e il coprifuoco, ci imbattiamo nelle... vedette dei marciapiedi, addossate ai muri o ferme ai cantoni. Sono madri che vendono le figliuole, con pubblica, clamorosa offerta; ragazzetti che puntualmente invitano il passante, di cui è nota la prodigalità, e quasi s’aggrappano ai suoi panni per condurlo, anzi trascinarlo verso il basso domestico, trasformato in lupanare»15. Lo sfruttamento delle giovani da parte dei familiari emerge anche da una relazione di una delle più operose associazioni filantropiche decise a «porre un freno» alla dilagante prostituzione minorile. L’Opera di Redenzione femminile di S. Maria della Mercede, sorta per volere di un gruppo di privati cittadini l’8 gennaio 1945, presieduta dal gran priore dell’Ordine di Malta ed apprezzata anche dalle autorità alleate16, si pose l’obiettivo di garantire un sostegno morale e materiale alle minori, per le quali, grazie alle pressioni dell’associazione, fu istituito un reparto celtico presso l’ospedale Morvillo di Napoli. Le attività di cui l’Opera si avvaleva erano varie: celebrazione quotidiana del rosario e settimanale della messa, catechismo, lavori di taglio e cucito, corsi di lettura e scrittura. Si puntò sulla massima occupazione del tempo giacché «tenerle in ozio si affermano nel vizio e nei discorsi illeciti»17. Le 175 assistite nel periodo compreso tra l’8 gennaio e il 31 agosto 1945 avevano un’età compresa tra i 5 e i 18 anni e molte erano approdate alla prostituzione perché spinte dai genitori o dai fratelli18. Le minori furono restituite alle famiglie d’origine, rimpatriate nel comune di nascita, affidate ad altri istituti ed ospedali, avviate al lavoro o deferite al procuratore del Regno; una di esse contrasse matrimonio presso l’Opera19. L’Opera di Redenzione femminile di S. Maria della Mercede agiva in sinergia con le forze dell’ordine, alle quali chiedeva informazioni sulle assistite, al fine di scegliere le destinazioni a loro più congeniali, e sull’integrità delle loro famiglie, requisito essenziale per il ricongiungimento. In seguito al congresso tenuto a Napoli il 29 e il 30 giugno 1945, l’Unione Donne Napoletane inviò al Consiglio dei Ministri una   «Risorgimento», 16 aprile 1944.   Asn, Pref., Gab., II vers., b. 1034, f. 11, Malattie veneree. 17   Ibid. 18   Ibid. 19   Asn, Pref., Gab., b. 502, f. 193, Assistenza. 15 16

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mozione in cui si protestava contro la legalizzazione delle case di tolleranza, simbolo dell’«umiliante sfruttamento delle donne», e si proponeva la costituzione di cooperative di lavoro atte a «riassorbire nella vita collettiva le donne vittime della prostituzione»20. La richiesta non ebbe alcun seguito. Il meretricio clandestino allarmò numerosi cittadini, chiaramente sconvolti dalle sue proporzioni e dalle modalità con cui si realizzava. Numerose furono le denunce anonime. Queste si concentrarono soprattutto nel quartiere Montecalvario, dove i locali dediti all’esercizio clandestino del meretricio erano numerosissimi: soltanto nel luglio 1944 le squadre del buon costume ne individuarono 307 ed arrestarono 500 prostitute21. Si accusarono i «favoreggiatori» della prostituzione clandestina, gestita generalmente da donne che predisponevano vere e proprie organizzazioni, in cui venivano assoldate prostitute molto giovani, quando non si concedevano esse stesse. Il 14 novembre 1944, ad esempio, giunse al prefetto la seguente segnalazione: In via S. Teresella agli Spagnoli n. 56, al 5° piano esiste una certa signora T. che ha da tempo impiantato un vero e proprio postribolo con alcune ragazze che presenta come sue parenti. Esse ricevono giorno e notte, specialmente di notte, sia civili che militari delle forze armate alleate. (...). Nella strada esistono altri postriboli clandestini e precisamente ai n. 6, 10, 47, 58. È possibile che le autorità non possano intervenire con la necessaria energia e porre fine ad uno sconcio tanto grave per la morale e tanto nocivo al Comando Alleato? Si attendono adeguati, rapidi, decisivi provvedimenti a favore dei cittadini del rione, già riunitisi due volte in assemblea22.

Come in quello precedente, nella quasi totalità dei casi le delazioni erano il frutto di coalizioni tra gli abitanti dei quartieri che ospitavano bordelli clandestini, esasperati dagli «sconci» a cui ripetuta  Acs, Pcm, 1944-47, b. 115575, f. 3.2.9, Napoli, Centro attività femminile, Richieste varie. 21   Asn, Pref., Gab., 1940-46, II vers., b. 1247, f. 11, Ordine pubblico: attività criminosa durante la guerra. Nel maggio dello stesso anno erano state scoperte 135 case di tolleranza clandestine. 22   Ibid. In seguito alla suddetta lettera la signora T., che fu identificata per una prostituta di 40 anni già nota alle forze dell’ordine, fu arrestata in quanto sorpresa a favorire la prostituzione di due donne con militari stranieri. 20

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mente erano costretti ad assistere. Ciò che colpisce nelle denunce è la dovizia di particolari e la ricorrente insistenza degli informatori sull’immoralità dei denunciati, contrapposta alla propria – altrettanto dichiarata – onestà, per la quale si definivano «onesti padri di famiglia», «un gruppo di famiglie oneste», «un gruppo di famiglie onorate», «onesti lavoratori». Un sistema ben organizzato s’intravede ancora una volta nella denuncia di alcuni abitanti della sezione Montecalvario. «Tutti gli onesti abitanti di via S. Maria Ognibene, Vico e Vicoletti Politi, via F. Ghirardi» scrissero più volte al prefetto di Napoli affinché impartisse apposite disposizioni perché il losco commercio, fatto in pubblica via, abbia a cessare e tanti disoccupati che vivono col disonesto lavoro delle donne siano inviati ad onesto lavoro. Nelle suddette vie quasi tutti i terranei ed i primi piani, che prima erano abitati da persone oneste, sono stati adibiti a case di tolleranza e perché i terranei non hanno sufficiente spazio, la pubblica via è adibita a sala di aspetto di molteplici clienti che affluiscono in massa ed il loro turno viene regolato e mantenuto dai loschi figuri o da megere, tutta gente, come si è detto, di male affare che traggono i loro guadagni dal disonesto commercio delle loro donne. Per ottenere un risultato tangibile e benefico occorrerebbe che l’E.V. desse disposizioni a squadre in borghese, ciò va detto non per dar consigli ma per non essere segnalato dai portinai che ne renderebbero infruttuosa la speranza. Si aggiunge ancora che alcuni bassi, se chiusi all’esterno, internamente si lavora, presso altri si nota un gruppetto di uomini o ragazzi o qualche donna seduta, ciò è allo scopo di mascherare ciò che si fa all’interno. (...). È uno sconcio che va assumendo proporzioni sempre più vaste e che va energicamente represso nell’interesse della moralità, dell’igiene, della salute (le donne non vengono controllate da visita medica) e del decoro23.

Alcune lettere forniscono, involontariamente, informazioni sulla ramificata organizzazione che sosteneva la prostituzione clandestina. In un caso venivano segnalate due donne che abitavano nei terranei di via Filippo Rega, accusate di «svolgere ininterrottamente, giorno e notte e davanti ai loro figli, di sei e quattro anni, costretti a fare da spettatori a sì turpe avventure, lavoro di prostituzione con   Ivi, 24 luglio 1944.

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soldati stranieri che, com’è notissimo, vengono ricercati per le vie della città da ragazzi d’ambo i sessi»24. In altre, si riferisce il coinvolgimento di appartenenti alle autorità locali che, in cambio di alimenti e denaro, preannunciavano le imminenti ispezioni. Tra le altre una denuncia che accusava tre persone che abitavano in uno stabile nei pressi di piazza Dante e, in modo particolare, un certo signor Giovanni T. Nella lettera dattiloscritta si legge: Il palazzo di Vicoletto 1 Avvocata P. Dante nº 14, piano secondo, a destra è abitato da Giovanni T., il quale ha fatto nella sua abitazione un casino pubblico, tenendo decimo e dodicesimo piano ragazze di facili costumi dai 15 anni in poi e dalle 17 fino alle 24 vi è un continuo via vai di tutti i militari Alleati. Dalle 11,30 alle 20 è un orario in cui c’è tanta confusione di militari Alleati, i quali s’ubriacano e poi vanno molestando tutte le persone e le case del vicinato. Il T. non fa altro di sfruttare i soldati anzidetti, dandogli da mangiare, da bere vino ecc. e facendoli andare che non capiscono più niente. Nello stesso palazzo al terzo piano sulla terrazza abitata da Vincenzo D. tiene sopraffittato la sua casa a delle prostitute e lui percepisce la percentuale dandogli ai militari alleati mangiare e bere ecc facendo lo stesso casino del T. Il pianterreno è abitato da una certa E., la quale la mattina fa la spazzina e la sera fa il commercio con le donnine nella sua casa, andandole a chiamare nel momento che vengono i militari alleati. (...). Facciamo notare a V. E. di prendere provvedimento dalla Real Prefettura senza comunicare nulla alla sezione Avvocata, perché tutti stanno d’accordo col T. perché ci mangiano e anche alla questura centrale perché c’è una persona che ha un litro di olio al giorno e parecchie monete e quindi subito viene avvisato il T. e fa scappare tutti al piano superiore25.

Nella fitta organizzazione, oltre ad impiegati delle autorità locali e a ragazzini, figuravano anche i portinai e i camerieri dei ristoranti26. In un altro caso la denuncia è firmata da due donne e quattro uo  Ivi, maggio 1945.   Ibid. 26   Ibid. Questa volta la notificazione proveniva dagli stessi inquilini di uno stabile di via Carlo Cesare al n. 53, secondo i quali al terzo e al quarto piano due donne di 48 e 55 anni, «sia di giorno che di notte, per qualche ora o per l’intera nottata», si concedevano a civili, militari italiani e alleati o procuravano loro «donnine occasionali». Il servizio – secondo i denuncianti – sarebbe stato abilmente svolto con l’appoggio del portiere e la clientela veniva indirizzata in dette case da mediatori e da camerieri dei diversi ristoranti dislocati nella stessa via. 24 25

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mini che nella loro missiva descrivevano il comportamento di donne che si concedevano al meretricio clandestino al primo e al terzo piano di via Vecchia Poggioreale, nelle abitazioni di proprietà di alcune famiglie imparentate tra loro. Essi scrissero: lo fanno nella maniera più vergognosa che si possa immaginare e specialmente con soldati alleati e in particolare con i militari di truppe di colore (...). Esercitano il loro mestiere con porte, finestre e balconi spalancati, in modo che gli estranei, dal di fuori, possano – loro malgrado – assistere agli innumerevoli spettacoli. (...). Non è difficile rinvenire nel cortile preservativi già usati e qualche volta ancora pieni di liquido spermatico e che raccolti dai ragazzi vengono usati come palloncini. Fra le donne non sono nemmeno rare le liti e ciò che può allora uscire dalle loro bocche è facilmente prevedibile, tanto che poi non disdegnano molte volte di raccontare e commentare ad alta voce il numero di clienti ricevuti e quello che con essi hanno compiuto. E guai a rimproverarle perché allora sui malcapitati inquilini cade tutta una colluvie di male parole con linguaggio e gesti altrettanto espansivi. Si aggiunge che tutte quelle prostitute sono affette da gravi malattie veneree, come viene da loro stesse riconosciuto nei discorsi che tengono pubblicamente, quando per maggiormente adescare i militari alleati, nelle pose più sconce e quasi nude si seggono fuori dal palazzo. Una di esse, diversi giorni fa, venne anche presa a schiaffi in mezzo alle scale da un soldato negro, che l’accusava d’averlo gravemente danneggiato27.

In via Salvator Rosa la Conferenza di S. Vincenzo denunciò più volte un postribolo che si compiaceva del favore delle truppe straniere che, in qualsiasi ora del giorno, se ne stavano persino a «guardia all’ingresso»28. La connivenza dei militari alleati è un aspetto comune a molte denunce. Gli abitanti del vicolo S. Petrillo accusarono la polizia americana di ridurre al minimo il tempo di detenzione di lenoni e prostitute e di concordare con loro preventivamente segnali di avvertimento per consentire loro di scampare agli arresti. Essi notarono che nel corso delle ispezioni i militari alleati ripetevano a gran voce «e legna, e legna», facendo sì che tutto «svanisse d’incanto», senza che si potesse trovare «il corpo del reato»29.   Ivi, 31 maggio 1945.   Ibid. 29   Asn, Pref., Gab., 1940-46, b. 1247, f. 9, Ordine pubblico: attività criminosa durante la guerra, 26 luglio 1944. 27 28

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Gli abitanti del vicolo S. Petrillo evidenziarono anche altre dinamiche che non di rado connotarono il meretricio clandestino napoletano e che riguardavano lo sconcerto di chi, di ritorno dallo sfollamento in altre città, ritrovò nel proprio appartamento un funzionante postribolo. Ciò è quanto accadde nell’aprile del ’44 agli abitanti dei pochi palazzi scampati ad un’incursione tedesca del 15 marzo che aveva distrutto la maggior parte degli edifici del vicolo. Quando le loro abitazioni furono dichiarate agibili, i legittimi proprietari rinvennero «gentaglia che esercitava illecito mestiere pubblicamente e scandalosamente». Anche in questo caso si segnalava nel vicolo un andirivieni di «ragazzi», «donnacce», militari americani ed inglesi, ma soprattutto di «negri», costantemente ubriachi30. Le tavv. 4-5 ritraggono militari alleati con prostitute a Napoli. Gli uomini Toni di allarme e di delusione, in riferimento alla diffusa prostituzione, emergono dai brani delle lettere intercettate nel periodo 1944-45 dal servizio Censura postale. Alcune di queste provenivano dalla Campania: «Sono assai disgustato dalla corruzione dei costumi che si constata vivendo in questa città... mercato nero e prostituzione hanno assunto delle proporzioni stomachevoli inquinando ogni strato sociale»31. «A Napoli, fra il mercato nero e il commercio di ogni genere, specie di carne femminile, la situazione morale e spirituale è terribile, come vedi, non avremo da ricostruire solo case e fabbricati, ma cosa più difficile, dovremo ricostruire gli spiriti»32. «Per il momento però la situazione è molto confusa. Siamo, almeno a Napoli, tornati indietro di parecchi secoli, credo che all’epoca di Masaniello le cose dovevano andare molto meglio. La nostra città è un cumulo di macerie materiali e morali delle quali voi da lontano non potete riuscire a farvene una idea»33. «Altre notizie? Gli Alleati ci hanno portato la felicità del cacchio.   Ibid.   Acs, Pcm, 1944-47, b. 1.2.2., f. 14884, Censura postale, lettera da Napoli, aprile 1945. 32   Ivi, lettera da Napoli a Bari, 11 settembre 1944. 33   Ivi, lettera da Napoli a Mogadiscio, 28 agosto 1945. 30 31

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Vi sono più cose ‘out limits’ che cose libere. Ci hanno portato la corruzione e la prostituzione. L’ospedale della Pace qui conta, solo quell’ospedale beninteso, 5000 ricoverate con malattie veneree, signorine fra i 18 e i 20 anni»34. «Dopo aver rovinato l’Italia tutto, completamente tutto, non solo case, strade, ferrovie, ponti, acquedotti, ma anche il buon costume e la morale...»35. «Stai attento che a Napoli si sono presentati 4000 ragazzi e ragazze all’Ospedale, tutti malati di malattie veneree, cagionate da questi maledetti negri»36. Gli scriventi – che appartenevano prevalentemente ai ceti medi, che più degli altri patirono gli effetti negativi dell’occupazione alleata37 – sovente lamentavano l’abbandono dei più puri e dignitosi valori tipici del passato, a loro avviso rimpiazzati da quelli della spregiudicatezza e della volgarità. Tra gli altri, un siciliano in una lettera indirizzata a New York confidava: nelle famiglie è subentrata la corruzione. La Sicilia, che vantava delle nobili famiglie, delle nobili tradizioni, la Sicilia, che è espressione tipica dell’onore, della dignità eccetera, non ha oggi delle oneste, pure, sincere ragazze. Tutto è crollato. I valori morali sono stati banditi, sacrificati, annullati! Ecco le conseguenze immediate della guerra!... È un dilagare di prostituzione, di tradimento alla fede coniugale, è un attentato continuo alla serietà, dignità (...). Molte sono le giovani, le giovanissime! È veramente uno scandalo. In Sicilia i costumi sono mutati, i principi basilari di educazione sana sono sovvertiti. Non mi dilungo. Mi sembra di avervi in poche battute fatto un quadro completo della vita siciliana. Sono pochissime le famiglie che splendono di luce propria (...). Non è oggi più da dire alle donne «attente, mie ragazze!...» Ma i termini si sono invertiti e bisogna dire ai giovani: Attenti, miei ragazzi!... Questa è la realtà38.   Ivi, lettera da Napoli a Philadelphia, 22 gennaio 1945.   Ivi, lettera da Caserta, dicembre 1945. 36   Ivi, lettera da Campobasso ad un soldato a Taranto. 37   Il diffuso malcontento dei ceti medi è ben analizzato da A.M. Imbriani, Vento del Sud cit. 38   Acs, Pcm, 1944-47, b. 1.2.2., f. 14884, Censura postale, lettera da Enna a New York, 8 ottobre 1945. 34 35

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Lo sdegno per la diffusa prostituzione traspare anche dalla corrispondenza proveniente dalle altre città italiane. «Qui mia Gianna tutte le signorine sono tutte con gli americani, e nessuno sono sposate, sono nati tanti bambini neri ma però questi bambini l’ammazzano per non fare la razza... sono tutti con gli americani anche le donne sposate»39. «È stata una rovina la venuta degli Americani che han comprato quel che c’era facendo salire i prezzi alle stelle. Ora in Sardegna non ci sono più, hanno lasciato sole e sconsolate le ‘Okei’... ce ne sono un’infinità... quante ragazze si son perdute...»40. «E questo è niente ma se ti dicessi quello che avviene della popolazione, c’è da impazzire. Ad esempio le mamme romane erano gelosissime delle loro figlie, ebbene ora sono loro stesse che la sera accompagnano le figlie al Colosseo, ove c’è una specie di fiera a chi le paga di più e ci sono africani dell’Esercito Americano che le pagano fino a L. 1000 all’ora...»41. «Le donne stano offrendo il più indecoroso degli spettacoli... si stanno prostituendo con gli Alleati... pensa che ne ho visto alcun persino con i neri... quale abiezione e che miseria morale e materiale...»42. «Le donne del meridione hanno dato uno spettacolo depolorevolissimo. Napoli sembra Sciangai e i vostri e i nostri neri hanno fatto i ‘porci’ con le ragazze bianche»43. Nel maggio 1944 Giuseppe Alliegro, direttore del periodico «Don Chisciotte», prendendo spunto dalla cronaca della morte della dottoressa Limata, espresse il suo sdegno nei confronti delle «donne d’Italia»: In quel tempo un triste episodio commosse l’opinione pubblica delle avvilite popolazioni meridionali. La dottoressa Lina Limata, per raggiungere i suoi genitori, fu costretta, come spesso avveniva in quel tempo di comunicazioni scarse e precarie, a chiedere un passaggio ad un autocarro americano che portava approvvigionamenti alle truppe residenti nella città partenopea. Il conducente neozelandese ed il compagno di scorta, caporale dei Marines, dopo che la suddetta fu salita, nei pressi di Nocera 39   Acs, Mi, Gab., 1944-46, b. 15, f. 1119, lettera da Cortoghiana Villaggio a Melfi, 11 ottobre 1944. 40   Ivi, lettera da Cagliari, relazione mensile, gennaio 1945. 41   Ivi, lettera da Roma a Putignano, 14 agosto 1944. 42   Ivi, lettera da Firenze, aprile 1945. 43   Ivi, lettera da Palermo a Brooklyn, 4 luglio 1945.

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Inferiore, fermato il mezzo, brutalmente le si avventavano addosso con l’intenzione di violentarla. La giovane, facendo inauditi sforzi per liberarsi dalle strette bestiali dei bruti, riuscì a saltare dalla cabina, sperando di fuggire, ma la morte istantanea la ghermì appena il capo andò a sbattere contro le pietre del selciato. I due non si curarono di raccoglierla e, nella tarda serata, fu scoperta dai contadini del luogo. Aveva ventitré anni. Dopo la pubblicazione dell’articolo, che gli studenti napoletani, addolorati per la condotta immorale di molte nostre conterranee, avevano provveduto ad affiggere nei corridoi dell’università, la sorte della casta donzella fu, anche se dolorosa e raccapricciante, suscitatrice di nobili sentimenti di riscossa dal disonore e dalla prostituzione dilaganti. Il padre della giovane venne piangendo in redazione a pregarmi di pubblicare la fotografia. La pubblicai col seguente commento: «Alle impudiche figlie della vergogna la soave immagine della dottoressa Limata insegni a vivere una vita intemerata e casta. La sua sorte non sia solo un episodio doloroso, ma un soave monito per tutte le capricciose figlie del peccato, che, con il loro comportamento, inducono gli stranieri occupanti a ritenere perdute anche le donne oneste»44.

È interessante notare che più che sulla violenza dei soldati l’articolo si soffermò sui facili costumi di buona parte dell’universo femminile, quella che vide negli Alleati un miraggio in uno scenario di crisi, ancora molto lontano dalla necessaria ricostruzione. Il giornale mantenne tale posizione fino al 1946, servendosi di articoli, trafiletti, vignette (cfr. tavv. 6-8). Proprio per queste scelte – distanti dalla maggior parte delle altre testate napoletane, in tal senso più indulgenti – «Don Chisciotte» divenne, fin dal suo esordio, il punto di riferimento per chi intendeva denunciare la propria indignazione nei confronti delle donne che frequentavano i soldati alleati attraverso lettere, poesie, riflessioni. Gli esempi sono diversi: «Quale preferisci la bionda, la bruna o la castana? Questo è il quesito che, giorni fa, un mio amico m’ha chiesto. Nessuna delle tre – gli ho risposto – preferisco quella americana. Tu che ne pensi, caro Sancio? Sarebbe bello, no? spassarsela con la cara ‘Alleata’ ad onta del caro ‘Alleato’. È quello che mi riprometto anch’io a guerra   G. Alliegro, Don Chisciotte a Napoli cit., p. 43.

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finita. Non per sessualità, mi creda, ma per, come dire? Lavare l’onta delle nostre donnine ‘infrancesate’»45. Ci sono ancora degli uomini tanto stupidi che credono nella sincerità o nella fedeltà della donna. Ma costoro o sono pazzi o non vedono. Non vedono, perché se vedessero come molti altri, avrebbero capito che la donna di questi tempi non è altro che l’infedeltà in persona ed in diversi casi come la carne in vendita. Il prezzo non è poi tanto caro. Qualche cioccolata per la mamma, sigari per il babbo e corneed beef per il resto della famiglia. Ma noi uomini ce ne freghiamo di tutto ciò e ci diciamo: finirà anche per loro ed allora verrà il bello per noi! Ma che bello aspettiamo quando una donna ha perduto serietà e purezza? Però la mia più grande soddisfazione sarebbe nel tirare il collo a questi genitori che vendono le figlie per il sigaro e la cioccolata. Pensate per un momento, o genitori snaturati, ai rimproveri che facevate alle vostre figlie allorché le sorprendevate in nostra compagnia: e, se qualche fesseria era stata fatta o si stava facendo, il vostro onore, la vostra serietà, la vostra dignità imponevano il matrimonio, unica soluzione per lavare l’offesa fatta ai vostri onorabili sentimenti. Ora non ci tenete, è roba questa di poca importanza, sono il sigaro e la cioccolata che contano46.

Sotto accusa erano le donne che frequentavano gli Alleati nelle svariate modalità, non soltanto le prostitute, ma anche quelle che improntavano relazioni che potremmo definire «serie», come i fidanzamenti e i matrimoni. Ciò che infastidiva era l’eccessiva apertura e disponibilità che le donne concedevano ai militari stranieri. Anche il settimanale cattolico «La Croce» assunse toni esplicitamente polemici. In occasione della canonizzazione di Francesca Saverio Cabrini, la santa degli emigranti, scrisse: «soltanto nella Cabrini il ruolo di rappresentante dell’anima femminile italiana e non a quelle sciagurate che conobbero l’alito e il rutto degli invasori ubriachi. Mentre il soldato americano torna in patria (...) le sue nauseabonde avventure con quelle poche foglie appassite che, cadendo dal millenario tronco italico, gli sono piovute tra i piedi, mentre questo soldato americano non sa di non aver conosciuto in Italia che le sole donne e non la donna che tappata in casa lan  «Don Chisciotte», 15 ottobre 1944, lettera di Amleto da Benevento.   Ivi, 28 febbraio 1945, lettera di Mario G. da Bari.

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guiva di fame e di orrore per le uniformi dei kaky e le scatolette di conserva»47. Inequivocabile la posizione della Chiesa di Napoli, rappresentata dal cardinale Alessio Ascalesi. Al valore e al sacrificio degli uomini, costantemente richiamato nei bollettini ecclesiastici, si contrapponeva l’immoralità delle donne. Il cardinale incriminò più volte la moda femminile, ritenuta non consona alla severità che il momento richiedeva. L’impossibilità di trovare stoffe in quel particolare momento era da lui considerata una giustificazione poco valida giacché, scriveva Ascalesi, «il lusso nel vestire e la possibilità di mutare più abiti in tempi di rigida economia provava che la stoffa si è trovata, bisogna soltanto trovarne pochi centimetri in più»48. Allo stesso modo, l’arcivescovo denunciò il «sensualismo più sfrenato» che spingeva le donne ad esporre il «carname» su spiagge costeggiate da un mare «sacro», testimone di gesta «eroiche»49. L’accusa alle donne arrivò al punto di ritenerle responsabili nel maggio 1944 della mancata liquefazione del sangue di S. Gennaro, chiaro segno di un «castigo» divino50. Il 2 luglio 1944, in occasione della festa della Madonna delle grazie, si avviò la settimana per la moralità, il cui inizio fu sancito da una solenne «manifestazione femminile di riparazione contro gli scandali dati da molte donne in questo periodo che dimenticati i loro doveri di madri, spose, fan­ciul­ le oneste, hanno calpestato ogni sentimento d’onore»51. La frivolezza delle donne nel periodo che seguì l’arrivo degli Alleati rappresentò anche uno degli argomenti su cui puntarono i reduci di ritorno dalla prigionia per sostenere il loro diritto di ritornare al lavoro e riprendere quei posti che per le condizioni eccezionali della guerra furono affidati alle donne. Ai riferimenti generici che emergono dalle numerose lettere di protesta che le associazioni di combattenti e reduci delle diverse città inviarono alla Presidenza del Consiglio dei Ministri si affiancano quelli più espliciti: «Vorrei dirle tante cose, ma   «La Croce», Canti fra le sbarre. Un trapianto italo-americano, 28 luglio 1946.   Bean, giugno 1943, lettera pastorale, pp. 82-83. 49   Ibid. 50   Ivi, maggio 1944, Perché non si è sciolto il sangue di S. Gennaro?, p. 36. La cerimonia finalizzata allo scioglimento del sangue di S. Gennaro avviene, oltre che il 19 settembre, anche il sabato precedente la prima domenica di maggio. La liquefazione è ritenuta segno di buoni auspici per la città, in caso contrario presagio di eventi drammatici. 51   Ivi, giugno 1944, p. 77. 47 48

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sarebbe troppo lungo nel modo in cui le donne moderne come si comportano in tutti gli uffici vedo con i miei poveri occhi cose da stupire. Come sa tutta causa di questa maledetta guerra; ci mancavano anche gli americani per corrompere peggio le donne di oggi»52. Un attacco esplicito provenne dalla sezione di Arezzo: C’è qualche cialtranella d’impiegata che dice di aver fatto anch’essa la guerra. (...) C’è sacrificio e sacrificio, mettiamoli a confronto (...): mentre noi eravamo in marcia sotto la pioggia e sotto il sole con lo zaino e il fucile in spalla, esse stavano sedute davanti alla scrivania a fare occhietto al direttore ed al riformato; mentre noi dovevamo costruire un alloggio erigendo tende nel fango o nella neve, esse si coricavano nei loro letti con tanto di rete, materasso, lenzuoli; mentre noi contrastavamo con gli avversari sotto un uragano di proiettili, esse protestavano contro la legge che proibiva il ballo; mentre noi languivamo nei campi di concentramento, esse, nella parte d’Italia già liberata, ballavano il boogi-woogi con gli anglosassoni e relativi mercenari53.

Non pochi furono i reduci che dopo anni di assenza scoprirono l’infedeltà delle proprie spose. Molti degli ex prigionieri di guerra sottoscrissero appelli alla Presidenza del Consiglio dei Ministri affinché si tenesse conto del loro dramma e si consentisse loro il legittimo scioglimento del vincolo matrimoniale, non ancora previsto dalla legge italiana. Tra gli altri, un reduce dalla provincia di Avellino: Il reduce della prigionia di Michele D., tornato a casa in questi giorni ha constatato che la propria moglie (...) di anni 35, pur godendosi il soccorso giornaliero, concesso alle famiglie dei richiamati alle armi, godendosi altresì i prodotti agricoli ricavati da alcuni piccoli appezzamenti di terreno (...) si dava alla prostituzione – all’adulterio, procreando anche un figlio, ed ha svaligiato anche la casa di mobilio, biancheria, masserizie, stoviglie, attrezzi di lavoro, vestiario ed un po d’oro acquistato dall’esponente in occasione del matrimonio (...). Lo scrivente era ignaro di tutto perché l’adultera durante tutta la mia forzata, aspra e dura prigionia non mancava di farmi giungere buone notizie – quanto inganno?54.   Acs, Pcm, 1948-50, b. 3.1.1., Conferma in servizio di impiegate, 21 agosto 1946.   Ivi, lettera da Arezzo, 9 ottobre 1948. 54   Acs, Pcm, 1944-47, b. 37846, f. 3.2.2, Richieste per la concessione legge per divorzio, gennaio 1947. 52

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Il comitato provinciale reduci della prigionia di Bari nel marzo 1946, dichiarando di rappresentare «molte centinaia di reduci», scrisse: dopo aver servito per diversi anni la Patria, dopo i disagi dei pericoli della trincea, dopo il tormentoso calvario della prigionia, peggiore della galera, nel momento in cui al termine della triste odissea si metteva finalmente piede sul suolo patrio, i segni di immani devastazioni e miserie lasciate dalla guerra si sono rivelati ad ogn’uno di noi nel momento in cui varcava la soglia della propria casa, i segni non meno tristi della profanazione del santuario domestico, dello sfacelo morale della propria famiglia ad opera delle nostre donne irresponsabili, le quali nella nostra lunga assenza hanno tenuto una condotta tutt’altro che conforme ad oneste spose e madri, allacciando relazioni adulterine con militari alleati, non esclusi quelli di razza negra e con civili italiani, partorendo di conseguenza, nei molti casi, figli adulterini che sono come l’infame marchio della vergogna e del disonore. Pertanto la legislazione italiana per siffatte situazioni riconoscendo che è umanamente impossibile la convivenza con chi ha distrutto alle basi il sacro edificio della famiglia non offre che il solo rimedio della separazione legale. (...). Per noi reduci che siamo venuti a trovarci nella situazione sopraesposta non basta la separazione legale, ma si rende assolutamente necessario lo scioglimento del matrimonio e tutti gli effetti civili e religiosi55.

Le precedenti storie ci esortano a considerare un’altra difficile conseguenza dell’occupazione: l’elevato numero di bambini illegittimi che nacquero dalle relazioni con i soldati alleati, i cosiddetti «figli della guerra», molti dei quali a Napoli furono abbandonati al brefotrofio dell’Annunziata, soprattutto quelli che il settimanale «La Croce» definì «bambini di cioccolata»56. L’indisponibilità della documentazione relativa a tale fenomeno, tutelata dalle norme sulla riservatezza, non ha consentito di approfondire una problematica complessa e di notevole interesse.

  Ibid.   «La Croce», Bambini di cioccolata, 17 novembre 1946. A tal proposito si veda N. Moe, Naples ’44 Tammurriata nera/ladri di biciclette, in Italy and America 1943-1944 cit., pp. 433-477. 55 56

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Capitolo V

Le «traditrici» della Patria

Le reazioni La conflittualità tra uomini italiani e soldati alleati assunse varie forme. Diverse furono le vendette operate dai civili e dai militari italiani che potremmo definire «tradizionali», consistenti in aggressioni fisiche agli stranieri che erano in compagnia di donne locali1. Ma la maggior parte delle rivalse per rivalità passionali colpirono le donne che ai militari si accompagnavano. In molti casi queste azioni degenerarono poi in scontri. Gli esempi sono vari. Il 14 aprile 1944, ad esempio, a Salerno verso le 19,30, nei pressi della sede del Governo, un fante italiano rivolgeva «parole di rimprovero» ad una ragazza che si accompagnava con un militare alleato, il quale «risentitosi» richiese l’intervento di marinai addetti alla polizia sussidiaria alleata che consegnarono il soldato italiano al comando2. Altrettanto significativo ciò che accadde a Napoli il 31 marzo 1945 verso le 18, quando in via Speranzella un marinaio italiano, in compagnia di altri suoi compagni,

1   Un esempio: il 22 luglio 1944 a Napoli «nel vico Luongo S. Giovanni un militare alleato rimaneva gravemente ferito con coltello ad opera di Torino F., di anni 20, per motivi di gelosia». Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 2   Acs, Mi, Dgps, b. 177, f. 442.

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proferiva all’indirizzo di una certa Maria S., di 24 anni, che trovatasi su una camionetta alleata guidata dal militare alleato Franch Muligan, la seguente frase: «che puttana!» Il militare alleato fermata la camionetta reagì al marinaio dicendo che la donna era la sua fidanzata e non una prostituta, dopodiché entrò con la sua fidanzata nell’abitazione di via S. Pantaleone. Alle ore 18,30 lo stesso militare alleato, uscendo dal predetto stabile, si avvicinò a due marinai italiani di passaggio e ritenendo fossero gli stessi li apostrofò ripetendo che la fidanzata non era una «puttana». Al ché i marinai reagirono proferendo parole offensive contro il militare americano che, coadiuvato da un altro militare alleato, suo compagno, colpì con pugni i marinai, che subito reagirono determinando così la colluttazione. L’americano Muligan, vedendo accostare altri marinai, estratta la pistola in segno di minaccia, si allontanava con la camionetta. I marinai poi si portarono nell’abitazione di Maria S. inveendo contro suo zio, perché era intervenuto nella rissa a favore dell’americano3.

A Napoli il 28 settembre 1946, intorno alle 21,30 «Silvana B., derisa da alcuni passanti perché notata a baciarsi con un militare inglese, venne a vie di fatto con una persona rimasta sconosciuta e successivamente colpì con uno schiaffo un carabiniere, che era intervenuto per sedare l’alterco»4. Un testimone, allora marinaio a Napoli, racconta di aver assistito alla reazione di protesta di un gruppo di donne popolari di fronte ad una «coppia di guerra». L’uomo ricorda che «un sacco di donne di S. Lucia chiamarono prostituta a una donna che stava con un soldato americano, ma ci fu proprio un assalto, però a parole, senza fatti, tanto che sia lei che il soldato dovettero scappare per la confusione che ci fu. Erano donne diciamo non altolocate, donne del popolo»5. Un rapporto della questura di Napoli documenta l’esistenza di veri e propri gruppi organizzati – costituiti pressoché da giovani – che rappresentavano una concreta minaccia per le donne che si accompagnavano ai militari alleati. La relazione riferisce che «la sera del 20 novembre 1945 un soldato inglese, credendosi molestato da 3   Asn, Pref., Gab., 1943-45, II vers., b. 1255, f. 1, Disciplina di guerra. Comportamento delle truppe anglo-americane. 4   Acs, Pcm, 1944-47, b. 19.10, f. 12775, Comportamento truppe alleate in Italia. 5   Testimonianza di Antonio B., Napoli 1925, marinaio a Viareggio prima dell’8 settembre.

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alcuni ragazzi perché in compagnia di due donne, ne colpì uno con un coltello, ferendolo non gravemente»6. La genericità del precedente rapporto, tuttavia, non consente di chiarire che forma avrebbero potuto assumere le eventuali molestie tanto temute dal soldato inglese. Queste, in effetti, avrebbero potuto concretizzarsi in quel «rito simbolico» a cui il questore di Napoli fece riferimento per la prima volta nel luglio 1944: le tonsure. Proprio in questa pratica civili e marinai italiani individuarono un’appagante forma di vendetta. La citata relazione della questura annotò che il 15 luglio 1944 a Napoli alcuni militari americani avevano aggredito il capitano paracadutista Vincenzo M., il quale il giorno precedente, insieme ad alcuni commilitoni, aveva manifestato il proposito di tagliare i capelli ad una giovane donna che era in compagnia di un soldato alleato7. Nell’ottobre 1944 il Ministero della Guerra riferiva di sempre più diffusi casi di tonsura compiuti dai militari ai danni di quelle donne che si accompagnavano, in quella parte del Paese che era già stata liberata, con soldati dell’esercito alleato8. Tentativi, riusciti e non, di rapare le donne che socializzavano con i soldati stranieri si erano verificati a Taranto9 ed ebbero luogo a Napoli e a Roma poco dopo la liberazione delle città. Il capo della polizia di Napoli il 7 aprile 1945 in un documento inviato al Ministero dell’Interno scrisse: «i militari della marina italiana persistono nell’arrecare disturbo ai militari alleati che si accompagnano con donne italiane nei cui confronti essi si abbandonano a deprecabili atti tra cui quello di tagliare la capigliatura delle donne. Anche nel pomeriggio di oggi in via Roma hanno ripetuto tali gesti per cui la polizia alleata li ha affrontati procedendo al fermo di due di essi»10. In un rapporto del 27 aprile 1945, il questore napoletano annotò ancora: «da qualche tempo vengono nuovamente deplorati incresciosi incidenti provocati dal fatto che militari o marinai italiani   Acs, Mi, 1944-46, b. 172, Incidenti tra militari alleati e italiani.   Ibid. 8   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 169, f. 13163, il ministro Alessandro Casati del primo governo Bonomi, 9 ottobre 1944. 9   Acc, 206/694A/536. 10   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 169, f. 13163, Incidenti commessi ai danni di donne che si accompagnano con militari alleati, 7 aprile 1945. 6

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prendono a gabbo i militari Alleati che si accompagnano a donne italiane, tentando o di separare la coppia o di arrecare violenza alle donne col tagliar loro ciocche di capelli»11. Dai precedenti documenti trapelano informazioni circa i responsabili, i tempi e i luoghi considerati più a rischio. L’espressione «da qualche tempo vengono nuovamente deplorati incresciosi incidenti» lascia chiaramente intuire che il fenomeno in questione, verificatosi in un periodo precedente, sia stato seguito da una fase di stasi, probabilmente rappresentata dagli ultimi mesi del ’44 ed i primi del ’45. I maggiori responsabili delle tonsure venivano identificati nei militari e nei marinai italiani, accusati di godere di un’eccessiva tolleranza da parte dei loro superiori, «negligenti» ed «assenteisti». Una relazione dell’Arma dei Carabinieri documenta la complicità dei civili napoletani in un’azione avvenuta il 5 luglio 1945 alle 22 in via Costantinopoli, nei pressi dell’ospedale militare Belle arti, quando un gruppo di uomini tagliò i capelli ad una donna che, insieme ad altre, si accompagnava ad alcuni soldati americani. Tale aggressione innescò uno scenario rappresentativo dell’accesa conflittualità che connotava le due parti. Alle colluttazioni tra i civili e gli stranieri seguì uno scambio di colpi di arma da fuoco tra la polizia alleata, successivamente intervenuta, e i militari presenti nell’ospedale. I sopraggiunti carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza furono percossi e disarmati dai poliziotti americani che riuscirono ad entrare nell’ospedale, sequestrando fucili e pistole e procedendo al fermo di 7 militari italiani. Un agente di pubblica sicurezza fu ferito mortalmente12. Nel capoluogo campano le aggressioni avvenivano più frequentemente tra le 19 e le 23 e si concentravano nei quartieri del centro storico – Chiaia, S. Ferdinando, Montecalvario, S. Giuseppe, Avvocata, Porto e Mercato –, in cui era più facile incontrare «coppie di guerra», e nella villa comunale, dove avevano sede un parco di divertimenti ed un club dei militari inglesi. Il 26 aprile 1945 proprio nella villa comunale sette donne furono aggredite da un gruppo di marinai13.   Ibid.   Acc, 46/168C/881. Dalle indagini della questura pare che la donna fu identificata in una prostituta. 13   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 169, f. 13163, Incidenti commessi ai danni di donne che si accompagnano con militari alleati. 11 12

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A queste violenze e alla partecipazione dei civili ad una singolare forma di punizione fece riferimento Norman Lewis l’8 ottobre del 1944, quando annotò: «oggi si è verificato un episodio molto imbarazzante. Bande di ragazzi si erano radunate nei giardini di Villa Comunale, su cui si affacciano le finestre del nostro palazzo, e avevano cominciato ad aggredire le ragazze trovate in compagnia di militari alleati. Le inseguivano per i giardini, e quando riuscivano a prenderne una le strappavano le mutandine. I soldati che intervenivano per difendere le loro ragazze venivano prontamente malmenati»14. Anche nella Capitale fin dal principio dell’estate 1944 si verificarono numerosi casi di tonsura. Il 29 luglio di quell’anno un’azione punitiva fu scatenata da un invito alle donne romane che il reggimento inglese fece pubblicare sul quotidiano «Cronache di Roma». Il testo recitava: Thè danzante. Oggi alle ore 18 alla Sala Pichetti, via Velletri 19, avrà luogo un Tè danzante con rinfresco offerto da un reggimento inglese. Signore e signorine possono partecipare ritirando il biglietto d’invito presso la direzione della sala Pichetti15.

Come avevano previsto le autorità locali, il ballo ebbe un particolare svolgimento. Il consistente servizio di vigilanza e di osservazione, disposto dal commissario di pubblica sicurezza, non dissuase alcuni gruppi di «giovani italiani» a radunarsi nelle adiacenze della festa verso le 19,30 e ad aggredire due donne uscite dalla sala. Poco dopo i militari alleati riuscirono a «disperdere violentemente» una «folla considerevolissima», decisa ad «impossessarsi delle altre partecipanti al ballo»16. Il primo agosto 1944 il responsabile del quartier generale del Governo Militare Alleato della Region IV diede direttive al questore per intensificare i controlli nei posti più a rischio di aggressione e il coprifuoco17. Molte altre furono le azioni punitive in occasione dei trattenimenti danzanti organizzati dai militari alleati nelle tradizionali sale   N. Lewis, Napoli ’44 cit., p. 227.   Acc, 206/694A/536. 16   Ibid. 17   Ibid. 14 15

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da ballo cittadine, tanto che il commissario di pubblica sicurezza confidò al capo della polizia di ritenere che il loro eventuale ripetersi avrebbe «gravemente turbato l’ordine pubblico»18. Dai rapporti del questore romano emerge l’elevatissimo numero di persone pronte a «recidere le chiome» delle donne che frequentavano gli Alleati ed il diffuso sostegno della cittadinanza. Il 5 settembre 1945, ad esempio, intorno alle 21,30, «circa 200 giovinastri» cercavano di scendere sulla pista La Medusa a Valle di Ponte Margherita per tagliare i capelli alle donne che si trovavano in compagnia di soldati stranieri. Dopo qualche ora un altro gruppo aggrediva e denudava una donna accompagnata da un militare alleato nei pressi di ponte Vittorio. Mentre la sopraggiunta polizia alleata era accolta con urla e fischi dalla «folla di aggressori» che cresceva velocemente, un’altra donna veniva denudata e derubata di orologio e portamonete. Verso le 23,10 gli agenti dell’ufficio di pubblica sicurezza riuscivano a vanificare le medesime intenzioni di un altro gruppo di «giovinastri e marinai»19. Qualche mese prima, in piazza Vittorio Emanuele un tenente dell’esercito britannico era riuscito a sventare l’aggressione alla sua fidanzata da parte di «sessanta o settanta individui armati di mazze e bastoni» soltanto dopo aver mostrato loro i documenti che testimoniavano la cittadinanza americana della donna20. Proprio piazza Vittorio Emanuele fu considerata dalle autorità alleate il «luogo di convegno particolarmente prescelto per l’esecuzione di taglio di capelli»21. Il 6 febbraio 1945 una relazione della questura di Roma documentò l’arresto da parte della polizia alleata di un gruppo di giovani che il 19 gennaio in via Lucrezio Caro aveva inseguito e tagliato i capelli a due giovani donne che passeggiavano con soldati alleati, pensando di dare loro «una lezione morale». Il documento rappresenta un primo tentativo di definire un identikit dei «tosatori di donne». Gli arrestati furono otto, tra essi un solo militare. Vivevano tutti a Roma, ma soltanto due di essi erano nati nella Capitale, gli altri pro  Ibid.   Ibid. 20   Acc, 204/1114B/635. 21   Ibid. 18 19

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venivano da città diverse: Gallipoli, Brindisi, Catanzaro, Santa Maria Capua Vetere e Napoli; avevano un’età compresa tra i 16 e i 29 anni e svolgevano impieghi diversi: due venditori ambulanti, due impiegati, uno studente, un pilota, in un caso la professione non è specificata. Tra gli otto soltanto Giuseppe B. – venditore ambulante di Gallipoli, soprannominato «Baffone» per via di un folto paio di baffi – fu trattenuto, in quanto identificato come l’organizzatore delle aggressioni e perché era già stato in precedenza arrestato per lo stesso crimine. Il rapporto della polizia concludeva in questo modo la narrazione del fatto: «tutti gli imputati si dichiarano non colpevoli ma nella tasca di uno di loro è stato trovato un paio di forbici che nel caso in questione è stato considerato un ‘attrezzo del mestiere’»22. Un altro arresto fu effettuato dalla polizia italiana il 18 settembre 1945. Anche questo documento è significativo perché consente di conoscere una forma di «strumentalizzazione» della tonsura, dietro la quale si celavano tentativi di rapina. Il commissario di pubblica sicurezza espresse notevole preoccupazione per il fenomeno, sempre più frequente ed organizzato, che rischiava di allarmare la popolazione e di incrinare i rapporti con le truppe alleate. Dal 7 al 9 settembre di quell’anno ben sei donne accompagnate da militari stranieri furono private del denaro e di altri oggetti di valore23. Il concentrarsi di queste aggressioni in via XX settembre, di fronte ad un edificio requisito dagli Alleati, consentì alla polizia di arrestare tre persone. Fu possibile così scoprire che i responsabili erano una dozzina di «giovinastri», dall’età compresa tra i 15 e i 20 anni, ai quali talvolta si univano militari italiani, capeggiati da un certo Ciamarra B., riconosciuto nel «famigerato Nerone». Le ragioni di «carattere esclusivamente morale», che a detta del Ciamarra lo avrebbero spinto ad aggredire le donne, risultarono palesemente incompatibili con le attività illecite che da tempo l’uomo svolgeva e di cui la stessa polizia era al corrente. Il fatto che egli procurasse abitualmente camere ai soldati alleati in compagnia di prostitute e che talvolta cedesse a tal fine la sua stessa abitazione, ove abitava con sua madre, non lasciò   Acc, 206/694A/536.   Le aggressioni avvenivano all’imbrunire. Il fatto che fossero colpite soprattutto donne originarie di altre città e che queste fossero private di somme cospicue (dalle 3000 alle 15.000 lire) fa sospettare che si trattasse prevalentemente di prostitute giunte nella Capitale perché attratte dalla presenza alleata. 22 23

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dubbi sul fatto che l’unico movente delle aggressioni fosse da ricercarsi «nell’intendimento di appropriarsi della borsetta e degli oggetti di valore di proprietà delle fanciulle». Il Ciamarra, inoltre, vantava a suo carico una «decina» di denunce per gioco d’azzardo. Ma egli non era l’unico del gruppo ad avere precedenti penali; due risultarono pregiudicati per furto, mentre gli altri, noti alla polizia come «oziosi» e «vagabondi», dall’epoca dell’arrivo delle truppe alleate avevano esercitato il contrabbando di generi di provenienza alleata, «specialmente di sigarette e lenocinio»24. Ben presto anche nella Capitale, insieme ai civili, i militari si resero protagonisti delle azioni punitive, come svela un documento datato 4 maggio 1945 che fa riferimento ad un’aggressione avvenuta il 28 aprile dello stesso anno. In quell’occasione furono arrestati due soldati del Battaglione S. Marco, rei di aver tagliato i capelli ad una ragazza che era in compagnia di militari americani con la complicità di un terzo che distanziava la folla con una bomba a mano. L’incidente si concluse con il ferimento di quattro persone25. Il 31 maggio 1945, intorno alle 20, furono arrestati tre marinai e un civile che avevano cercato di tagliare con un coltello i capelli ad una ragazza italiana accompagnata da un militare britannico nei pressi della stazione ferroviaria26. Oltre alla documentazione delle autorità italiane e alleate, anche la stampa testimonia il dilagare di offensive degli «scippatori con le forbici». In particolare, nel gennaio 1945, dopo aver riportato la cronaca di un tentativo di tonsura di gruppo in via Cola di Rienzo, «Il Tempo» svelò che uno dei «giovinastri che si erano maggiormente distinti nel tentativo di restaurare la dignità e il decoro, affrontava poco dopo un militare alleato isolato, lo invitava in una delle traverse e dopo un breve parlottare si faceva cedere per 100 lire un pacchetto di sigarette che poi rivendeva a un italiano a 140»27.   Acc, 204/114B/635.   Acc, 46/168C/881. 26   Acc, 204/114B/685. 27   «Il Tempo», I tosatori all’opera, 14 gennaio 1945. Il quotidiano riportò un altro episodio il 31 marzo 1945, col titolo Come una segnorina ha salvato la chioma e la borsetta. 24 25

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L’«Avanti!» nel settembre ’45 scrisse: «Largo Tassoni è divenuto ancora l’altro ieri sera il centro strategico dei ‘moralizzatori’. Giovinastri e ragazzi, smesse le forbici della ‘tonsura’, sono passati all’offensiva contro le ‘signorine’. Una offensiva ‘denudativa’ che nasconde sotto il pretesto apparente della difesa della morale, lo scopo ben più preciso della rapina»28. Il precedente articolo accenna ad un’ulteriore forma di umiliazione, che ben presto si volle affiancare o sostituire alla tonsura, di chi si «azzardava» a passeggiare con lo straniero: la svestizione delle vittime. Il «Roma» del 6 settembre 1945 scrisse: Ieri sera a Roma dei giovani animosi presi da improvvisa quanto tardiva intransigenza puritana, si sono impossessati di due ragazze colpevoli di essere accompagnate da soldati alleati, le hanno denudate e le hanno fatte camminare lungo le vie illuminate del centro, esposte ai lazzi e agli urli di una folla sempre crescente di curiosi incivili che sembravano divertirsi assai all’ignobile spettacolo. Nessuno ebbe il coraggio di intervenire, né del resto sarebbe stato possibile di fronte al numero di costoro; intervenne poi la polizia alleata che come usa per disperdere la ciurmaglia sulle colate dei porti di Aden o di Bombay, lanciò i cani poliziotti e a suon di nerbate, fece cessare lo sconcio e permise che le due disgraziate potessero mettersi in salvo29.

Dallo spoglio della documentazione si evince che il primo caso del genere si verificò il 25 gennaio 1945, quando tra le 22,30 e le 23 due ragazze – una americana e l’altra italiana, entrambe impiegate al quartier generale della commissione alleata – in compagnia di militari americani, mentre lasciavano il Teatro Brancaccio, furono attaccate da circa 30 uomini che tentarono di tagliare loro i capelli. Grazie ad altri soldati l’attacco fu sventato ma alle ragazze furono strappati i pantaloni. Altri due incidenti simili ebbero luogo la notte successiva e poi il 12 giugno ’45, quando intorno alle 20,30 in piazza Vittorio Emanuele due donne accompagnate da due marinai alleati furono sottoposte al taglio dei capelli e denudate da «numerosi giovinastri». Un altro caso si verificò il 18 ottobre 1945, quando alcuni 28   «Avanti!», Rapinatori non moralisti. Ultima scena dei denudatori. La polizia arresterà e denuncerà gli ossessionati del nudo, 7 settembre 1945. 29   «Roma», Barbarie, 6 settembre 1945.

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giovani, verso le ore 19,30, vedendo uscire dal Caffè Berardi, nella Galleria Colonna, due donne «in pantaloni, in compagnia di militari alleati, inscenarono una gazzarra tentando di svestirle»30. Talvolta la svestizione si accompagnava alla rapina. Il 30 maggio 1945 un gruppo di «giovinastri» privò degli abiti e degli oggetti di valore una trentunenne che attraversava il corso Vittorio Emanuele31. Non poche furono a Roma le aggressioni a danno delle donne appartenenti all’esercito alleato. Una di quelle che fece più scalpore ebbe luogo nella notte del 25 aprile 1945, tra le 22 e le 22,30, quando miss Mildred Avallone, una «suddita» americana impiegata presso la commissione alleata in qualità di segretaria, fu attaccata da un consistente gruppo di civili italiani, «tra le 20 e le 40 persone», mentre si trovava in compagnia di un soldato americano, a poca distanza dall’albergo presso cui alloggiava. Mentre il soldato americano fu immobilizzato e schiaffeggiato, gli aggressori si apprestarono a molestare la ragazza che riuscì a farli desistere convincendoli della sua nazionalità32. Il soldato americano che accompagnava l’aggredita, nella sua dichiarazione accennava ad un altro assalto quasi contemporaneo. Egli dichiarò: «nello stesso tempo in cui avveniva quanto sopra, un altro gruppo di italiani tagliava i capelli di un’altra ragazza a circa venti metri da noi. La ragazza si dimenava e gridava a squarciagola. Vi erano due o più carabinieri fra la folla, i quali, peraltro, non fecero nulla per ristabilire l’ordine ed intervenire fra quella folla. Dopo accompagnata a casa miss Avallone ritornai sul luogo dell’attacco e trovai la folla dispersa, ma la ragazza assalita si trovava ancora colà, ed i capelli, che le erano stati tagliati erano sparsi intorno a lei»33. «I tosatori all’opera»34 Dalla documentazione analizzata non è chiaro se nelle due città prese in considerazione i militari alleati abbiano attuato ritorsioni tese a 30   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 169, f. 13163, Incidenti commessi ai danni di donne che si accompagnano con militari alleati. 31   Acc, 204/114B/685. 32   Ivi, 1° maggio 1945. 33   Ibid. Dichiarazione rilasciata il 4 maggio 1945 al comando del 2675° reggimento della commissione alleata. 34   È il titolo di un articolo pubblicato su «Il Tempo» il 14 gennaio 1945.

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punire le azioni delle bande di «tosatori». Soltanto a Roma è emerso un caso interessante che per le sue singolari dinamiche potrebbe avere delle attinenze. Il 13 febbraio del 1945 la questura di Roma annotò che «verso le ore 23,10 del 26 gennaio una decina di militari appartenenti alla Militar Police Inglese, dopo aver fermato e trattenuto per circa due ore presso la caserma di via S. Stefano del Cacco due giovani, li hanno condotti nei pressi della scuola di Cavalleria di Tor di Quinto, li hanno prima malmenati con calci e pugni e minacciati di morte con le armi in pugno e poscia sono stati tagliati capelli e le sopracciglia con le forbici»35. A parte questo insolito episodio, è legittimo pensare che le tonsure abbiano inciso sui conflitti tra soldati alleati e italiani, contribuendo così alla nascita di un circolo vizioso fatto di attacchi e vendette reciproche talmente sedimentate da rendere impossibile la definizione di una scansione cronologica. La comparazione tra le due città consente di comprendere più a fondo importanti aspetti del rituale. In particolare, emerge che i responsabili delle tonsure erano uomini e giovani e che le aggressioni avvenivano sempre in gruppo, di sera ed in luoghi più frequentati: lungo le strade principali, nei pressi di parchi di divertimenti, in occasione di trattenimenti danzanti, all’ingresso dei cinema, dei teatri o di caserme di soldati italiani. Il 31 luglio 1944, in occasione dell’arresto avvenuto il giorno precedente a Roma di un marinaio appartenente al distaccamento di piazza Mazzini, il capo gabinetto della Marina evidenziò in un lungo rapporto al referente di pubblica sicurezza alleato analogie con i casi di tonsura che si erano verificati a Taranto nei mesi precedenti. Egli si disse convinto che il taglio dei capelli fosse «una specialità della Marina» e che soltanto una forte azione disciplinare sarebbe stata capace di debellare il fenomeno36. In quell’occasione il capo gabinetto propose l’istituzione di pattuglie speciali, come era già avvenuto nella città pugliese, e che il marinaio arrestato non fosse giudicato dalle autorità alleate, ma da quelle italiane, le cui pene sarebbero state – a suo avviso – certe e più severe.   Acc, 206/694A/536.   Ibid.

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Anche il questore di Napoli aveva individuato nei marinai italiani i principali responsabili delle tonsure e sollecitato una dilagante e costante opera di persuasione da parte dei comandi dei reparti affinché esigessero la massima disciplina durante le ore di uscita37. Nella Capitale col procedere dell’occupazione, si intensificarono le aggressioni dei militari del Battaglione S. Marco che indussero la Commissione Alleata di Pubblica Sicurezza a richiedere alla questura di Roma una più energica azione repressiva38. Forse perché più accuratamente documentato, il fenomeno sembrò essersi manifestato con maggiore intensità a Roma, dove le bande erano solidamente organizzate. Ne è esplicita prova il contenuto di manifestini apparsi sui muri della città il 29 luglio 1944 – a poco più di un mese dall’arrivo degli Alleati in città –, giorno in cui il reggimento inglese aveva invitato «signore e signorine» romane al «thè danzante» nella sala Pichetti. Il testo, corredato da termini di chiara derivazione fascista, è il seguente: U.T.R. Che cosa è l’U.T.R.? Molti di voi penseranno ad un nuovo partito, non aspiriamo a tanto, siamo semplicemente l’UNIONE TOSATORI ROMANI! Che vorranno? Vi direte. Abbiamo un programma unico: desideriamo con tutte le nostre forze tosare. Chi?... Non bianche pecorelle, ma le numerosissime gagafelle39 di nostra e vostra conoscenza, che gettano il discredito sulle donne italiane. Non siamo mossi da benché minima ostilità verso gli Alleati; il mal costume è di quelle venerelle idolatre solo di cioccolato e di sigarette esotiche. Uomini appoggiateci! Ieri alcuni nostri cartelli sono stati strappati. Chi fa ciò non può essere altro che favoreggiatore di quelle damigelle40. 37   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 169, f. 13163, Incidenti commessi ai danni di donne che si accompagnano con militari alleati. 38   Acc, 46/168C/881. Il documento è datato 4 maggio 1945. 39   Termine molto usato dalla propaganda fascista durante la guerra, col quale si designavano quelle ragazze frivole e leggere che si occupavano di moda, cosmesi, futilità; si veda D. Gagliani, Il fascismo italiano e la femminilizzazione del mito dell’esperienza della guerra, in R. Ago (a cura di), Il sacrificio, quaderno n. 4 del Dottorato di ricerca in Storia delle donne e dell’identità di genere, Biblink, Roma, 2004, p. 122. 40   Acc, 206/694A/536. La sottolineatura è nel testo originale.

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A Napoli nella quasi totalità delle denunce compaiono i marinai italiani. A parte il caso accennato da Lewis, inoltre, nel capoluogo campano non risultano altri casi di svestizioni, diffusi invece nella Capitale, né casi di uomini che utilizzavano la pratica della tonsura per celare rapine. Sembrerebbe che nelle due città il timore delle donne di essere «punite» fosse ben radicato; lo svelano due episodi. Il primo ebbe luogo a Roma ed è documentato da «Il Tempo»: Una «segnorina» ieri, verso le 17, scesa da una jeep alleata faceva il suo ingresso nel negozio di parrucchiere in via Calvani, deve evidentemente aver corso molte volte il rischio di essere tosata. Dopo aver atteso il suo turno, la strana «segnorina» si sedeva nella comoda poltrona del parrucchiere, ordinando al lavorante un «servizio» di messa in piega e il taglio dei capelli. Il lavorante dopo averla pettinata, le prendeva le chiome con la mano sinistra, accingendosi con la detersa, munita di forbici ad eseguire il suo lavoro. Non l’avesse mai fatto! La «segnorina» balzava in piedi come una furia, trattenendo le mani al parrucchiere e scongiurandolo di non «tosare le chiome» (...) Si riaccomodò. Quando il lavorante fece di nuovo l’atto di accorciarle i capelli, la «segnorina», vedendolo nello specchio con le forbici in mano, si allontanava dal locale coprendo di rimproveri il povero parrucchiere41.

Il secondo caso si riferisce a Napoli ed è raccontato da un testimone, allora marinaio italiano: «ma le donne avevano paura, una volta conobbi sul tram un gruppo di donne napoletane, sole, con bei capelli biondi, lunghi e io per scherzare dissi: ‘quasi quasi prendo una ciocca dei vostri capelli, mi serve un pennello da barba’ e loro ‘no, no, vi prego!’ Impaurite, quasi in lacrime. Il giorno dopo due di queste ragazze vennero in caserma e mi portarono un pennello da barba, si era sparsa la voce, avevano paura...»42. Le aggressioni verificatesi a Roma e a Napoli furono seguite con attenzione e tenute sotto controllo dal Comando Militare Alleato. Quest’ultimo si limitò a segnalare i casi alle autorità italiane, mostrando, in tal modo, di non voler intervenire contro le bande di tosatori. L’atteggiamento, tuttavia, mutò quando le spedizioni pu  «Il Tempo», Si ribella al parrucchiere per il timore di essere tosata, 9 giugno 1945.   Antonio B., testimonianza cit.

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nitive coinvolsero donne straniere. In occasione dell’aggressione a miss Mildred Avallone il primo maggio 1945 a Roma, ad esempio, il colonnello J.W. Chapman, capo della Sottocommissione Alleata di Pubblica Sicurezza, scrisse al Ministero dell’Interno con tono palesemente minaccioso: «vi sono impiegate di questa Commissione le quali alloggiano all’albergo Esperia a cui si è cercato di tagliare i capelli. Si richiede che si adottino misure speciali allo scopo di porre fine a questa forma di crimine, poiché diversamente vi sarà possibilità di serie ripercussioni»43. Sollecitazioni di questo tipo erano già state fatte quando ad una ragazza americana furono strappati i pantaloni e si tentò di tagliarle i capelli. Dopo qualche giorno dall’accaduto, il 29 gennaio 1945, A. Rodriguez, ufficiale alleato di pubblica sicurezza, scrisse al maggiore Cocker: «ho visto il questore e gli ho fatto presente, come su istruzioni, l’attenzione delle forze armate alleate alla diffusione dell’attività delle cosiddette bande di tagliatori di capelli. Il questore mi ha assicurato che darà a questa faccenda la massima attenzione»44. Ma, a parte questi casi, che casualmente coinvolsero donne dell’entourage alleato, l’atteggiamento che il comando alleato decise di mantenere nei confronti del fenomeno emerge chiaramente dalla relazione che il primo agosto 1944 il capo della Sottocommissione Alleata di Pubblica Sicurezza della Region IV inviò al governatore Charles Poletti in riferimento alle aggressioni nei confronti di una donna romana avvenute il giorno precedente. Egli scrisse: «i giovani coinvolti non hanno diretto la propria attenzione contro i soldati alleati, ma piuttosto contro le ragazze italiane, cosicché l’alterco è in realtà tra italiani ed è pertanto suggerito che venga lasciato nelle mani della polizia italiana»45. 43   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 169, f. 13163, Incidenti commessi ai danni di donne che si accompagnano con militari alleati. 44   Acc, 206/694A/536. 45   Ibid. Nel suo rapporto a Charles Poletti il capo della Sottocommissione di Pubblica Sicurezza fornì informazioni utili a comprendere come il codice penale italiano interpretava il reato delle tonsure. Tali informazioni, riferite dal questore di Roma e a lui trasmesse da un noto avvocato, sottolineavano la difficoltà nel perseguire questo tipo di offese che in base al codice penale italiano rientravano nella categoria delle violenze informali, ossia di reati non perseguibili a querela di parte. Tuttavia, secondo l’avvocato, la giustizia italiana avrebbe potuto puntare sull’elevato numero di giovani presenti in tutti i casi, dimostrando, così, «l’associa-

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Le autorità alleate compresero perfettamente che il reale bersaglio di queste aggressioni era rappresentato dalle donne italiane e non dalle donne o dai soldati stranieri ed anche quando questi ultimi furono immobilizzati o schiaffeggiati si continuò a mantenere una politica di «non intervento». La documentazione riferisce di specifici episodi di tonsura a Napoli e a Roma ed accenna a quelli accaduti a Taranto. Analoghe azioni punitive si verificarono in Toscana. Il 24 giugno 1946 la prefettura di Firenze comunicò al Ministero dell’Interno che nel pomeriggio del 15 giugno 1946, mentre circa 200 donne italiane in piazza della Stazione si apprestavano a partire a bordo di cinque camion alleati per Livorno per partecipare a trattenimenti danzanti, un centinaio di cittadini inscenarono una manifestazione ad esse ostile46. Nell’agosto del 1947 a Livorno una ventina di giovani furono processati per aver maltrattato ventinove donne con l’intento di punirle per aver avuto rapporti con i soldati alleati47. Sempre in Toscana gli agenti di polizia per umiliare le prostitute che rastrellavano nella pineta del Tombolo – covo di soldati disertori e di meretrici – le accompagnavano a casa in jeep, nude, «anche se si trattava di fare un viaggio di mille miglia»48. Una questione d’onore Quella delle tonsure rappresenta una delle nuove forme di violenza che hanno contribuito alla costruzione della dimensione «totale» del secondo conflitto mondiale. La sua peculiarità consiste in un doppio coinvolgimento della popolazione civile, che diviene allo stesso tempo vittima e carnefice. I due ruoli, tradizionalmente distinti, si avvicinano, quasi si confondono. Il concetto di nemico si estende, si amplia e, oltre ai militari, comprende i civili, gli uomini zione premeditata con l’intento di perpetuare tale violenza». I responsabili, in tal modo, sarebbero stati deferiti al tribunale con l’accusa di associazione a delinquere (associazione di tre o più persone con l’intento di commettere un crimine), violenza punibile dal codice penale italiano con la reclusione da uno a cinque anni. 46   Acs, Mi, Dgps, 1944-46, b. 169, f. 13163, Incidenti commessi ai danni di donne che si accompagnano con militari alleati, 24 giugno 1946. 47   «La Cronaca», Queste segnorine si dichiarano offese, 5 febbraio 1949. 48   «L’Europeo», Vissero nude al Tombolo, 8 settembre 1946.

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e le donne, le proprie donne. Si tratta di una violenza contro se stessi49. La tonsura rappresenta la volontà della popolazione di partecipare al castigo dei traditori, un’azione mortificante, un tentativo di passare dalla violenza subita dall’occupazione a quella agita. Essa è una punizione, un’aggressione fisica e simbolica, uno squallido carnevale50, uno scherno collettivo che attraverso un marchio visibile profana l’intimità del corpo51. Proprio la visibilità ricopre un ruolo centrale in questo particolare rito che punta a mettere in mostra la colpa attraverso il taglio dei capelli. La tonsura fu utilizzata in contesti storici anche ideologicamente opposti, dai nazionalisti nella guerra civile spagnola ai resistenti nella Francia liberata dall’oppressione tedesca52. Proprio per il suo significato, il taglio di capelli rappresenta uno strumento fondamentale per indagare sui rapporti tra occupanti e occupati e su quelli tra donne e uomini: donne e soldati stranieri, donne e connazionali maschi. Nel contesto del secondo conflitto mondiale, la tonsura fu applicata in gran parte dell’Europa occupata e le azioni non furono mai improvvisate, ma sempre preventivamente concertate. In una lettera del primo agosto 1944 il sottosegretario della Commissione della Region IV avanzava l’ipotesi che le bande di tosatori romani avessero cercato di emulare le gesta dei partigiani francesi apparse su alcuni giornali italiani53. In Francia la pratica della tonsura, comparsa già sul finire del ’43, fu massicciamente praticata durante e dopo il periodo della Liberazione nei confronti delle donne accusate di aver attuato diverse forme di collaborazione col nemico, non soltanto quelle di tipo «orizzontale», che indicano relazioni amorose o sessuali, ma 49   F. Virgili, La violence, réponse à la violence: les tondes de la Libération, in AA.VV., La Violence de guerre, 1914-1945. Approches comparées des deux conflits mondiaux, Éditions Complexe, Paris, 2002, p. 276. 50   A. Brossat, Les tondues. Un carnaval moche, Levallois-Perret, Manya, Paris, 1992. 51   F. Virgili, La France «virile» cit. 52   Y. Ripa, A’ propos des tondues durant la guerre civile espagnole, in «Clio», n. 1, 1995. 53   Acc, 206/694A/536.

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anche quelle relative al semplice fatto di aver lavorato per lui54. In tale contesto essa è stata considerata come una sorta di «catarsi»55 strettamente legata al processo di epurazione messo a punto dalle organizzazioni resistenziali, un atto fondatore di nuovi tempi, il cui rituale pubblico – che sempre caratterizzava le aggressioni – s’inseriva in una ricostruzione sessuata della comunità nazionale dopo anni di privazioni e sconfitte. Rasare la testa delle donne accusate di collaborazione con il nemico significò, dunque, privarle simbolicamente della loro femminilità, oltre alla condanna che le attendeva quando si riuscì a provare l’esistenza di un reato punito dalla legge56. Si trattò di un meccanismo di transfert dal nemico alle donne, che portò a concentrare la violenza sull’oggetto femminile quando questo non era ormai più disponibile57. In Italia forme simili di tonsura – finora mai oggetto di studio approfondito58 – coincisero con la liberazione del Paese e si concentrarono nelle città del Centro-nord. Questa era la pena che veniva inflitta alle donne che avevano amoreggiato con i fascisti o con i tedeschi, che si erano rese responsabili di delazioni, che appartenevano alla Repubblica Sociale Italiana (Rsi) o che avevano parenti o fidanzati fascisti59. Rispetto a questi ultimi casi, in quelli centro-meridionali il contesto in cui le aggressioni si verificarono è decisamente più ambiguo. Mentre i resistenti italiani e francesi del periodo del dopo Liberazione, infatti, castigarono le donne che avevano frequentato i «nemici» tedeschi, nel Centro-sud furono punite quelle che fraternizzavano con gli ormai «amici» anglo-americani.   A. Kaspi, La liberation de la France cit., p. 199.   H. Rousso, L’epuration en France, une histoire inachevée, in «Vingtième siècle», janvier-mars 1992, n. 33, p. 84. 56   A. Brossat, Les tondues cit. 57   F. Virgili, La France «virile» cit. 58   L’argomento è brevemente, ma ben affrontato da Mirco Dondi in La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma, 1999, pp. 125-130. Accenni alle tonsure appaiono anche nei volumi di Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile, Sperling & Kupfer, Milano, 2009 e Ma l’amore no, Sperling & Kupfer, Milano, 1994. Un breve riferimento al fenomeno compare in D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne guerra e politica, Clueb, Bologna, 2000, pp. 36-37. 59   M. Dondi, La lunga liberazione cit., p. 126. 54 55

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Anche gli uomini danesi60 e quelli tedeschi rapavano le donne che si concedevano ai soldati anglo-americani, ma in quel caso si trattava di contesti differenti che sottendevano conflitti e prevenzioni più estreme. All’esplicita politica di «non fraternizzazione» alleata corrispose una ferrea ostilità da parte dei tedeschi che, per punire le donne che frequentavano i Gi’s, ricorsero al taglio dei capelli. Anche in Germania non si castigavano soltanto quelle che avevano rapporti sessuali col personale dell’esercito degli Stati Uniti: l’appellativo Ami-whore (prostituta degli americani) fu applicato indiscriminatamente a prostitute e a donne che soltanto lavorarono per i soldati alleati. Si erano costituiti veri e propri gruppi organizzati di «tonsori» che s’incontravano periodicamente, inviavano lettere minacciose alle ragazze incriminate e portavano sempre con sé elenchi delle loro vittime61. I rapporti delle autorità locali e nazionali, le dichiarazioni, le interviste, concordano nell’individuare nel senso di subordinazione e di frustrazione contro i militari stranieri la causa fondante delle tonsure. Quella alleata fu indubbiamente un’occupazione difficile. La soffocante presenza dei soldati stranieri privò civili e militari italiani della possibilità di recuperare la dignità che anni di guerra e di sconfitte avevano calpestato. L’incapacità di difendere la nazione, la resa, la fuga, la perdurante prigionia, il ritorno di reduci traumatizzati avevano determinato una brusca crisi della mascolinità in uomini forgiati da un’educazione essenzialmente militarista62. La miseria, la disoccupazione, i resti di uno smembrato esercito stridevano con la modernità e la potenza degli equipaggiamenti dell’esercito alleato, con gli svariati colori delle divise dei suoi soldati, con il loro rassicurante aspetto. L’Unione Tosatori Romani aveva chiaramente dichiarato che il loro obiettivo non erano gli Alleati, ma le donne, che meritavano di essere punite per aver spezzato il legame dell’appartenenza comunitaria, sottraendosi con la loro «vergognosa» attrazione per i 60   A. Warring, Aimer l’ennemi au Danemark, in F. Rouquet, F. Virgili, D. Voldman (a cura di), Amours, guerres et sexualité. 1914-1945, Gallimard, Paris, 2007, pp. 132-133; A. Warring, Identità nazionale, genere e sessualità, in «Storia e problemi contemporanei», n. 24, 1999. 61   J. Miller, Dangerous Women and Naughty Girls cit., p. 12. 62   G. Gribaudi, Guerra totale cit., p. 23.

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ricchi e generosi stranieri al destino comune. I «moralizzatori» mal digerirono che le proprie donne avessero aperto loro degli spazi che sarebbero dovuti rimanere integri, profanando – a loro avviso – la nazione, di cui simboleggiavano l’onore. Un conto era assistere impotenti all’occupazione delle loro case, dei loro palazzi, dei musei, delle loro caserme, vedere i soldati fare da padroni nelle loro strade, vedersi spogliare dei propri averi e persino usare violenza sulle proprie riluttanti donne. Ben altra cosa era prendere atto della disponibilità di queste ultime nei loro confronti. Ne rappresentavano prova lampante i numerosi amori di guerra e la diffusissima prostituzione, che ebbero un ruolo decisivo nella rottura dell’antico confine tra pubblico e privato, tradizione e trasgressione. Ciò entrò in collisione con un ideale di donna particolarmente radicato nella cultura del tempo, fortemente influenzato dal discorso costruito intorno all’idea di nazione63 e supportato dalle leggi dello Stato e dai precetti della Chiesa, espressione di un’immagine femminile quasi divina, degna, pura, garante della coesione comunitaria, rispettosa dei valori domestici e pronta ad affrontare qualsiasi sacrificio pur di rassicurare l’universo maschile da cui doveva essere costantemente protetta. In tali contesti, in cui il potere degli uomini si misurava soprattutto attraverso la possibilità di esercitare un controllo sociale sulle proprie donne rispetto ad altri uomini64, il fatto che esse si mostrassero autonome e attratte dall’«invasore» determinò lo sgretolamento degli ultimi residui di un patrimonio importantissimo: l’onore. «È nelle donne che si salva la patria» scriveva il «Don Chisciotte». Ma il fatto che alcune di esse, piuttosto che preservare l’agonizzante nazione, la stessero oltraggiando vanificava la possibilità dei maschi italiani di riscattarne l’onore e di rivendicare, di rimando, la propria discussa virilità. Lo stesso ministro della Guerra giustificò il simbolico taglio di capelli, considerandolo «retaggio della mentalità fascista», ma anche espressione della «sensibilità del popolo meridionale» e della «di  A.M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuale e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino, 2005, p. 350. 64   G. Gribaudi, I. Fazio, Onore e storia nelle società mediterranee, in «Quaderni storici», n. 73, 1990, p. 281. Si vedano anche R. Ago, La costruzione dell’identità maschile: una competizione tra uomini, in A. Arru (a cura di), La costruzione dell’identità maschile nell’età moderna e contemporanea, Biblink, Roma, 2001; O. Casarino, Onore femminile e socialità popolare a Napoli a fine ’800. Primi risultati di una ricerca sulle fonti giudiziarie, in «Quaderni di Studi Storici», 1985. 63

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gnità nazionale» dinanzi allo «spettacolo poco edificante offerto da molte donne, il cui contegno in pubblico, nei rapporti con militari alleati» dava una «sfavorevole impressione sulla sanità morale del popolo», non essendo «improntato a quella austerità [necessaria] al momento che il Paese [stava attraversando]»65. Allo stesso modo, il questore di Roma, in occasione delle aggressioni avvenute nella sala Pichetti, definì l’azione dei «moralizzatori» romani una manifestazione del «risentimento generale delle persone per bene» al «seguirsi di danze», che «finiscono per diventare occasione di corruzione e di libertinaggio» per «la licenziosità troppo spesso caratteristica delle truppe combattenti», di cui lamentava «l’incomprensione dei costumi della città, avuto anche riguardo alla Santa Sede, la cui presenza richiederebbe altro contegno e maggiore ritegno»66. Il monito Alle donne d’Italia pubblicato sul «Don Chisciotte» nel maggio 1944 sembra perfettamente in linea con queste posizioni. Il testo recita: basta! Non vi rendete conto che l’Italia è diventata un postribolo? Non pensate alle tristi pecche che hanno minacciato e minacciano il nome della Patria oggi più che mai prostrata e vilipesa anche in ciò che di più sacro era ancora in lei: l’onore? Lo spettacolo che date non è degno della terra che vi riceve. (...). Quale bestemmia pesa sulle vostre spalle? Quali allettamenti bugiardi fanno di tante case semidistrutte i ricettacoli della vergogna? In quest’ora così aspra, così dolorosa per i cuori dei buoni, l’infedeltà che vi distingue rende noi, già votati al dolore per anni, più soli e sfiduciati oltre la morte, mentre ansiosi vorremo immergerci nel lavacro della rinascita, resi forti dagli affetti, che solo il sorriso di una donna può rendere sublimi. (...). Non sono questi tempi di svenevolezze, ciance, abbandoni, ma di ripresa dolorosa. (...). Gli uomini, nei quali è visibile un solo segno, quello del dolore, siano essi padri, fratelli, sposi o figli, hanno il diritto di chiedervi ogni sacrificio e voi avete un solo dovere da compiere: essere donne oneste. Non oltraggiate le memorie di quelli che vi lasciarono spose, promesse, sorelle; di quelli che torneranno ansiosi di trovare nei vostri occhi il luminoso splendore della fedeltà. (...). Nelle donne si salva la patria (...). Donne d’Italia, vi richiamo all’onore67. 65   Acs, Mi, Dgps, b. 169, f. 13163, il ministro Alessandro Casati del primo governo Bonomi, 9 ottobre 1944. 66   Acc, 206/694A/536. Il capo della polizia E. Morazzini, 30 luglio 1944. 67   «Don Chisciotte», Alle donne d’Italia, 15 maggio 1944.

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I militari italiani palesarono diffusamente tale disagio. Di seguito lo sfogo di uno di loro: sono un marinaio che Vi scrive, un marinaio in licenza, licenza che avrei rifiutata se sapevo che mi sarei così disgustato nel vedere tutte le porcherie che si fanno in Italia. Già ero giù di morale per tutte le cose successe e che succederanno: ma quello che più mi ha fatto male è stato il constatare che hanno contribuito a tale rovina le donne italiane, che, diciamo così, si vendono per un pezzo di cioccolata o per una sigaretta. Io sono pienamente convinto che le nostre connazionali hanno infangato il nostro bel giardino con la vergogna e il disonore. Quando gli Alleati non ci saranno più vedrete che addirittura non conoscono chi sono gli Alleati. Diventeranno di nuovo tutte santarelline e nessuno ha succhiato la caramella. Sapete cosa mi è successo al rientro da una missione che mi ha tenuto fuori dall’Italia per circa tre mesi? Mi avvicino a una ragazza e le dico: «Signorina permet...», non mi ha fatto finire neanche la frase che mi ha risposto «Andate via, il vostro posto è in fondo al mare». Che colpo sentirmi dire così da una donna italiana! Terribile solo a pensarci. Da educato, mi sono limitato a dire di ringraziare Iddio che era una donna (...). Ma non è ancora finito: la stessa ragazza l’ho vista due giorni dopo in dolci colloqui insieme a tre canadesi, roba da far venire la pelle d’oca. Non voglio dilungarmi, perché se continuo aumentano le maledizioni e gli acciacchi che mi possono mandare le nostre acre donnine (...), ma penso con dolore a quei poveri diavoli che mentre fanno la guerra non sanno che per devozione sono stati iscritti alla Congreca di S. Martino68.

Nella relazione del gennaio 1945 il censore militare scorgeva nella corrispondenza analizzata un malessere diffuso. Egli scrisse: «Si continuano a rilevare lagnanze di osservazioni poco lusinghiere sulla moralità delle popolazioni delle grandi città e si nota in particolare preoccupazione vivissima sull’immoralità delle donne, espressa in quasi tutte le lettere alle famiglie ed alle fidanzate. Qualche militare si limita a fare amare constatazioni generiche sulla bassa moralità, sulla razione, sul contrabbando e sugli accaparramenti». Al commento seguivano stralci di lettere di questo tipo: «Ora le donne italiane hanno dato al mondo intero la più laida delle delusioni. Si sono buttate come pazze anima e corpo, più col corpo in   Ivi, Un marinaio ci scrive, 1° gennaio 1944.

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verità, in braccio ai nostri ‘liberatori’. La nostra gioventù (che una volta si chiamava del Littorio) lustra loro le scarpe, le nostre donne si fanno perdonare da loro che non sia stata distrutta anche Roma. Che schifo... che schifo...»69. Nella relazione successiva l’annotazione del censore «qualcuno dà la colpa agli Alleati se le ragazze non lo considerano» era corredata dai brani più significativi: qui da noi c’è uno schifo per le donne che per le sterline si fanno comprare facilmente. Però non è solo qui, ma dove passa lo zampino degli Alleati c’è questa miseria. Quanto schifo che lasciano non puoi credere. Quante ragazze si stanno sposando con gli americani. Sono tutte donne illuse di andare in America non appena finisce la guerra, ma non pensano che verranno lasciate in abbandono. E poi cosa faranno? Ormai non c’è più la donna italiana ma bensì la madama o la Miss. Credimi tutti sono illusi di questa gente e le chiamano persone per bene; ormai siamo noi i mascalzoni, i delinquenti, etc. a dire che non pensano che fra non molto tutti questi castelli crolleranno e poi che ci sarà un brutto risveglio. Oh! Come sarà bello allora trovarci a tu per tu con tutta questa distinta gente che ora ha vergogna di guardarti, o di parlare con te in italiano, ma bensì vogliono tutti parlare americano; eppure se vivrò voglio vedere come andrà a finire con questa brava gente.

«Sul giornale era uscito un articolo in cui si diceva che le famiglie avrebbero dovuto invitare i militari... in ogni casa è stato invitato un militare però era di tutte le razze meno che italiano. Tu non puoi immaginare quanto soffra nel vedere queste cose, ma questa gente dovrà rendersi conto quando questi se ne saranno andati...»70. Due testimoni napoletani confermano, accusando, rispettivamente, i marinai e i bersaglieri italiani: «Ci stavano delle bande di marinai che tagliavano i capelli alle donne che frequentavano gli americani proprio con le forbici, perché non era facile da accettare che queste donne preferivano loro (...) perché erano più ricchi di noi, con tante cose da regalare a disposizione e le donne si facevano incantare»71.   Acs, Mi, Gab., b. 15, f. 1119, Relazione mensile, gennaio 1945.   Ivi, lettera di un artigliere. 71   Antonio B., testimonianza cit. 69 70

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So’ state umiliate le donne napoletane che cunuscevene l’americane, che passavene a sigaretta, a ciucculate e o pane ianche. I bersaglieri crearono un presupposto perché questa cosa si venisse a sapè, perché loro avevano collaborato pè caccià lo straniero e non potevene accettà che mò e femmene ievene cu l’ati straniere. I bersaglieri hanno cominciato una specie di epurazione di tutte le donne che s’incontravano a braccetto con gli americani, le tagliavano i capelli a zero, tant’è vero che uscì la moda de capille a tifo (...). Allora se diceve che i femmene erene pigliate o tife, pecchè le facevene o caruse. Allora per esempio ce steve na coppie cu l’americane, subentavene i bersaglieri italiani, acchiappavene a chille, nu facevene movere – chille nun ere capace manche i se movere – pigliavene a femmene e le tagliavene c’a macchinette i capille a zere. Fatto più uno più uno diventò una moda e si diceve che e femmene erene pigliate o tife, invece c’era quel marchio che e femmene napoletane anne...72.

Norman Lewis in riferimento alle aggressioni che si verificarono nella villa comunale di Napoli scrisse: L’incidente ha messo in luce come l’intrusione della presenza alleata nella vita sentimentale e amorosa della città stia provocando una situazione spiacevole, e destinata a deteriorarsi. Napoli, il più grande paese del mondo, è divisa in molti paesi più piccoli, i rioni, che sono, in realtà, altrettante enormi famiglie. In ciascuno, ogni ambiente conosce letteralmente tutti gli altri; le condizioni economiche e la storia di ciascuna famiglia sono di dominio pubblico. I matrimoni, in linea di massima, si celebrano all’interno del rione, e in alcuni casi – per esempio il quartiere dei pescatori, – il Pallonetta di Santa Lucia – i giovani di entrambi i sessi non sposano praticamente mai uno di fuori. Ogni rione ha la sua rete di 72  Amso, Antonio C., Cancello Arnone, 1916: «Sono state umiliate le donne napoletane che conoscevano gli americani, che passavano la sigaretta, la cioccolata, il pane bianco. I bersaglieri crearono un presupposto perché questa cosa si venisse a sapere, perché loro avevano collaborato per cacciare lo straniero e non potevano accettare che ora le donne andavano con altri stranieri. I bersaglieri hanno cominciato una specie di epurazione di tutte le donne che s’incontravano a braccetto con gli americani, le tagliavano i capelli a zero, tant’è che uscì la moda dei capelli a tifo. (...). Allora si diceva che le donne avevano preso il tifo, perché le rapavano. Allora, per esempio, ci stava una coppia con un americano, subentravano i bersaglieri italiani, acchiappavano l’americano, non lo facevano muovere – non era capace di muoversi – prendevano la donna e le tagliavano con la macchinetta i capelli a zero. Man mano diventò una moda e si diceva che le donne avevano preso il tifo, invece c’era quel marchio che le donne napoletane hanno».

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rapporti, le sue tradizioni, la sua struttura sociale e fidanzamenti e matrimoni sono questioni che coinvolgono la collettività. Poi sono entrati in scena i soldati stranieri, fin dai primi momenti in collisione con i ragazzi del posto, che non hanno né lavoro, né prestigio, né soldi, assolutamente nulla da offrire alle ragazze. Un soldato britannico, per quanto misera sia la sua paga, guadagna più di un caporeparto della Navale Meccanica, mentre le entrate di un militare americano – che può spargere intorno a sé una pioggia di sigarette, caramelle, e persino calze di seta – sono superiori a quelle di qualsiasi impiegato italiano di Napoli. La tentazione è molto forte, e poche paiono capaci di resistere. Così il lungo, delicato, elaborato corteggiamento napoletano – complesso quanto il rituale amoroso di un uccello scortico – è stato rimpiazzato da un approccio brutale e muto, e da un puro e semplice atto di compravendita. C’è da chiedersi quanto tempo impiegano i giovani di Napoli, dopo che ce ne saremo andati, per riprendersi da questa amara esperienza73.   N. Lewis, Napoli ’44 cit., p. 229.

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Capitolo VI

L’altra faccia dell’occupazione: i matrimoni di guerra

Io t’ho incontrata a Napoli1 «Io tenevo diciassette anni quando ho conosciuto mio marito. L’ho conosciuto a una festa. Appena l’ho visto mi sono innamorata. Era bellissimo, non avevo mai visto un ragazzo più bello, biondo, con gli occhi celesti. Subito ho capito che anche io gli piacevo, sai... quelle occhiate, quegli sguardi... uno lo capisce! Ci guardavamo sempre, tu te ne accorgi... (...). Poi ci siamo conosciuti e ci siamo fidanzati. Dopo un po’ di tempo ci siamo sposati»2. In questo modo Giovanna G. comincia a parlare della sua storia d’amore. Essa somiglia a quella di tante altre giovani donne che in qualsiasi momento storico e in qualunque luogo incontrano un uomo e se ne innamorano. L’attrazione, gli sguardi, la conoscenza, il fidanzamento, il matrimonio, la vita comune. Si tratta di dinamiche consuete, quasi obbligate. In tempi ordinari, tuttavia, Giovanna difficilmente avrebbe incontrato John P. A rendere possibile tale incontro fu il particolare contesto di guerra. È lei stessa a riconoscerlo: «La guerra è stata un disastro, ma anche dopo, anche quando se ne 1   È il titolo di una canzone composta nel 1945 da C. Deani, J. Forte, M. Rivi e H. Carmichael, quest’ultimo compositore, cantante e attore statunitense al seguito della V Armata a Napoli col compito di organizzare spettacoli per i militari stranieri di stanza in città. 2   Testimonianza di Giovanna, Napoli 1922, sposa di guerra.

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andarono i tedeschi Napoli era rovinata, non si poteva vivere, c’era la fame... (...). Però se ci penso... è strano, non lo so spiegare, ma se qualcuno mi domanda: ‘vuoi cancellare la guerra?’ io non direi sì. A me la guerra ha portato anche il bene, se non scoppiava la guerra non sarebbero venuti gli americani e non avrei conosciuto John»3. La convivenza tra popolazione civile ed esercito alleato, dunque, non è stata soltanto connotata da violenza, prostituzione, mercato nero, ma ha assunto anche un volto diverso, più roseo, che ha riguardato i fidanzamenti e i matrimoni. Il particolare contesto di occupazione offrì la possibilità di fare incontri nuovi, inattesi4. La lunga convivenza con lo straniero, con il «diverso», creò un clima particolarmente favorevole alla «promiscuità», all’innamoramento che coinvolse le donne di tutti gli strati sociali5. Mentre molti uomini erano stati catapultati dalla guerra oltre i confini delle proprie città, dei propri Paesi, sperimentando abitudini, costumi, fisionomie differenti, la diversità s’impose alle donne nelle proprie case, nei contesti di sempre, seppur profondamente stravolti dalla guerra. L’analisi di questo fenomeno consente di delineare un quadro più completo dei rapporti di genere che si intrecciarono nel periodo dell’occupazione alleata lungo un continuum che parte dalle diverse forme di violenza, attraversa la prostituzione ed approda alle unioni sentimentali. Il termine «spose di guerra» in questo contesto si riferisce a quelle donne che nel corso del secondo conflitto mondiale, e negli anni immediatamente successivi, sposarono soldati alleati collocati nel teatro di operazioni belliche. Un primo aspetto da considerare è quello quantitativo. I matrimoni di guerra hanno interessato più di cinquanta Paesi. I primi eb  Ibid.   Per un’interessante analisi delle dinamiche relative all’amore e alla sessualità nei diversi Paesi nei due conflitti mondiali si veda F. Rouquet, F. Virgili, D. Voldman (a cura di), Amours, guerres et sexualité cit. 5   E. Galli della Loggia, Una guerra «femminile»? Ipotesi sul mutamento dell’ideo­ logia e dell’immaginario occidentali tra il 1939 e il 1945, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 15. Situazione analoga si creò in tutti gli altri Paesi sottoposti all’occupazione degli eserciti. Per la Francia si veda F. Virgili, Naître ennemi. Les enfants de couple franco-allemands nés pendant la Seconde Guerre mondiale, Payot, Paris, 2009. 3 4

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bero luogo nel 1942 in Gran Bretagna e gli ultimi nel 1952 in Giappone. Stabilirne il numero è impossibile, anche a causa della varietà dei mezzi utilizzati per il trasporto6: navi, treni, aerei. I riferimenti non mancano, ma essi non risultano supportati da fonti attendibili. Nel documentario The school for wives. The war brides American dream si fa riferimento ad «un milione di spose di guerra europee entrate negli Stati Uniti»7. Di un milione di war brides del vecchio continente parlano anche Barbara S. Scibetta e Elfreda B. Shukter8, utilizzando genericamente tavole d’immigrazione, riviste, liste di trasporto e statistiche locali. Di queste, circa 70.000 spose sarebbero partite dalla Gran Bretagna. Nel Pacifico 16.000 uomini del servizio americano avrebbero sposato donne australiane e neozelandesi, mentre in Estremo Oriente ci sarebbero stati tra i 50.000 e i 100.000 matrimoni9. Il fatto che il 75% delle unioni abbia interessato soldati statunitensi e che le mogli li abbiano seguiti nel loro Paese, ha reso quello delle spose di guerra la più grande ondata immigratoria dal 192010. Jenel Virden, utilizzando i rapporti del 1950 della commissione giudiziaria competente in materia d’immigrazione e di naturalizzazione, sostiene che il numero totale di donne e bambini entrati negli Stati Uniti usufruendo della War Brides Act è di circa 115.00011. In Francia ci sarebbero state 6.000 épouses de guerre12. Un riferimento certificato riguarda, invece, il numero di donne trasferitesi al seguito dei loro mariti in Canada. Si tratterebbe di 47.783 donne, di cui 44.886 inglesi, 1.886 olandesi, 649 belghe, 100 francesi, 26 italiane, 7 tedesche e così via13. Anche per quanto riguarda l’Italia risulta difficile fissare le pro6   J. Virden, Good by Piccadilly: British War Brides in America, University of Illinois Press, Urbana (Ill.), 1996, p. 2. 7   D. Tommaso, The school for wives. The war brides American dream, Videocast, Firenze, 1994. Le vicende relative alle spose sono narrate da un ex colonnello dell’esercito alleato a cui era affidato il compito di gestire gli affari civili. 8   B.S. Scibetta, E.B. Shukter, War Brides of World War II, Presidio, Novato, 1988, pp. 1-2. 9   Ibid. 10   Ibid. 11   J. Virden, Good by Piccadilly cit., p. 2. 12   H. Kaiser, Des Amours de Gi’s. Les petites fiancées du Débarquement, Tallandier, Paris, 2004, p. 9. 13   J. Hibbert, The war brides, PMA Books, Toronto, 1978.

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porzioni del fenomeno14. La stampa propone dati aleatori e controversi. In un articolo pubblicato su «Oggi» si fa riferimento a 93.000 «mogli di guerra» europee sbarcate negli Stati Uniti tra il 1945 e il 1947, di cui il 15% risulterebbe costituito da italiane e francesi15. Il «Risorgimento» nel settembre 1945 presentò dati statistici elaborati dalle autorità militari americane, secondo i quali fino al primo luglio 1945 oltre 1500 militari americani avrebbero sposato donne del vecchio continente. Di queste il 90% sarebbe stato costituito da italiane16. L’anno seguente, lo stesso quotidiano accennò a tre o quattromila «fanciulle» che in tutta Italia fino all’agosto 1946 avrebbero sposato membri delle forze armate degli Stati Uniti17. «L’Azione» nel luglio 1945 parlò di 224 matrimoni tra donne napoletane e militari alleati, di cui la maggior parte americani, 11 di origine italiana; 17 inglesi e 2 scozzesi18. Una valida modalità di reperimento dei suddetti dati è sembrata quella della consultazione dei registri matrimoniali custoditi presso gli archivi dello stato civile. Sono stati, pertanto, analizzati gli atti dei matrimoni celebrati a Napoli negli anni 1944-4719. Dallo spoglio è risultato che nel periodo considerato a Napoli – escludendo i quartieri periferici e l’estesa provincia, dove numerosi 14   Uno dei modi per rinvenire dati attendibili sarebbe stato quello di recuperare le liste di immigrazione presso i consolati o le ambasciate, ma l’indisponibilità di questi ultimi ha reso tale operazione irrealizzabile. 15   «Oggi», Le spose di guerra italiane sono deluse dall’America, 16 settembre 1950. 16   «Risorgimento», I matrimoni «misti» italo-americani, 7 settembre 1945. 17   Ivi, In partenza per l’America. Consigli alle fanciulle che si recano a sposare, 15 agosto 1946. 18   «L’Azione», Quante fanciulle napoletane hanno sposato militari alleati? Il tipo preferito, l’età delle spose ed il mestiere del marito. Casalinghe, studentesse ed impiegate in gara nell’intrecciar legami d’amore, 21 luglio 1945. 19   Ciascun documento è provvisto delle seguenti informazioni: il nome degli sposi, la loro età, la relativa nazionalità, la città di provenienza, il quartiere di residenza, l’indirizzo, lo stato civile, il nome dei genitori, la professione. I registri di matrimonio relativi agli anni 1944-47 sono suddivisi in tre parti. Quelli centrali, che comprendono la maggior parte dei quartieri: Avvocata, Chiaia, Mercato, Montecalvario, Pendino, Pontecorvo, Porto, S. Carlo, Secondigliano, S. Ferdinando, S. Giuseppe, S. Lorenzo, Stella, Vicaria. Registri a parte, invece, contengono le sezioni di Bagnoli, Fuorigrotta, Miano, Piscinola, Poggioreale, Posillipo e Vomero. In sedi distaccate, quelle dei rispettivi comuni, infine, sono conservati i registri delle sezioni di Barra, Pianura e S. Giovanni, gli unici esclusi dallo spoglio.

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erano gli accampamenti e dunque le possibilità di incontro – su un totale di 26.501 matrimoni registrati 2062 unirono donne napoletane con militari alleati. Di questi, 1446 con militari americani, 780 dei quali di origine italiana. Seguivano gli inglesi, i canadesi, i francesi, i brasiliani, gli scozzesi, i polacchi, qualche sudafricano. Dall’analisi degli atti risulta che quasi tutti gli sposi erano celibi. Solo una piccola percentuale era costituita da vedovi o da divorziati. Per quanto riguarda le professioni, gli uomini spesso si qualificavano come «militare dell’esercito» o «soldato»; altre volte preferivano indicare la categoria militare d’appartenenza – marinaio, aviere – o il grado militare – sergente, capitano, ufficiale –. Quando, invece, le qualificazioni non riguardavano l’ambito militare, le tipologie erano svariate. La professione più diffusa era quella di impiegato, seguita da quelle di commerciante, meccanico, autista, ingegnere, industriale, costruttore edile, agricoltore, studente. Comparivano più di rado quelle di marittimo, musicista, direttore d’orchestra, possidente, insegnante, cuoco, dattilografo, commediografo, chimico, architetto, avvocato. In riferimento alle donne, invece, dagli atti risulta che quasi tutte dichiararono di essere «casalinghe» e solo una piccola parte di svolgere un lavoro impiegatizio o di studiare. Poche erano le insegnanti e ancor meno quelle che si qualificarono come badanti. L’analisi dei rapporti prodotti dalle autorità italiane sulle donne che intendevano contrarre matrimonio con militari alleati rivela un quadro diverso20. Su un campione di 130 relazioni consultate, infatti, 80 erano le donne che al momento delle indagini avevano un lavoro. In 30 casi la professione non compare; 20 erano, invece, le casalinghe, 13 le operaie, 12 le insegnanti, 3 le contadine, 8 le sartericamatrici, 8 le badanti, 36 le impiegate, di cui 28 presso i comandi alleati, con funzioni diverse. L’incarico più diffuso era quello di dattilografa, seguito da quello di interprete. Erano 45 le donne dotate di una cultura «media»; giungendo alla scuola media superiore, la maggior parte frequentava o aveva completato l’istituto magistrale. In 16 avevano intrapreso gli studi universitari o avevano già conseguito la laurea, in Lettere e in Lingue, qualcuna in Chimica e Farmacia o 20   Come si vedrà in seguito, le autorità italiane – polizia e carabinieri – raccoglievano dettagliate informazioni sulle «aspiranti spose» su richiesta di quelle alleate, essenziali per decidere se concedere il nulla osta al matrimonio.

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Medicina e Chirurgia. Delle rimanenti non tutte avevano completato il ciclo delle scuole elementari. Nella quasi totalità di questi atti le autorità facevano riferimento alle disagiate condizioni economiche delle donne, che appartenevano ai ceti popolari e alla media borghesia. Le riflessioni che seguono, oltre a continuare ad utilizzare la documentazione d’archivio e la stampa coeva, si basano sui contenuti di diari, lettere e storie di vita di nove spose, sette napoletane, una romana ed una avellinese. Si tratta di donne rientrate definitivamente in Italia, da sole o insieme ai mariti, o ritornate per un breve periodo di vacanza presso la famiglia d’origine. Difficoltà istituzionali Fin dai primi mesi dell’occupazione, quando cominciarono a pervenire ai comandi alleati le prime richieste di autorizzazione alle unioni di guerra, si costituirono servizi appositi, a cui fu affidato il compito di seguire le pratiche matrimoniali e di decidere se consentirle o meno. La concessione dell’autorizzazione era subordinata alla risoluzione di svariate questioni che accompagnavano un complesso iter burocratico. L’atto che avviava il tortuoso processo riguardante i matrimoni di guerra era la presentazione della domanda da parte del soldato al rispettivo comandante di compagnia il quale, a sua volta, la trasmetteva al Theater Commander. La richiesta, nota come form A, doveva essere prodotta almeno 90 giorni prima dell’inizio di qualsiasi pratica matrimoniale. Oltre alla matricola e al grado militare, il richiedente avrebbe dovuto indicare i dati anagrafici, lo stato civile, la residenza, la confessione religiosa professata e la nazionalità di sé e dell’«altra parte». In quest’occasione avrebbe dovuto anche optare per una delle due forme di matrimonio ammesse per i «matrimoni misti». La prima, definita «matrimonio nelle linee» – che si appellava alla sezione 22 del regolamento «matrimonio con stranieri» del 1892 –, delegava la celebrazione ad un cappellano militare o ad un ufficiale scelto; la seconda, invece, si atteneva alle leggi italiane sul matrimonio che veniva celebrato dalle autorità italiane competenti. Il militare avrebbe anche dovuto specificare quanto tempo prima ­147

aveva conosciuto la donna, se da allora c’erano stati periodi in cui si era separato da lei e la data approssimativa in cui aveva intenzione di contrarre il matrimonio. A ciò si aggiungeva man mano il resto della documentazione, consistente in: form C, un modulo sul quale la ragazza dichiarava l’intenzione di sposare il militare in questione, specificando, insieme ai suoi dati anagrafici e professionali, quelli dei genitori e di due testimoni che avrebbero potuto garantire per lei; autorizzazione dei genitori per chi non aveva ancora compiuto i ventuno anni; certificato di analisi del sangue che doveva attestare il buono stato di salute eseguito da un ufficiale medico21. Tale processo, che potremmo definire «informativo», si combinava con uno più «operativo», che aveva inizio quando il comandante di compagnia sottoponeva la pratica all’Headquarters, che a sua volta la inoltrava alla sottocommissione deputata ad avviare le indagini sulla «promessa sposa», al fine di verificare che fosse un soggetto «sicuro» e «desiderabile». Era questa sezione che decideva se concedere l’autorizzazione e che trasmetteva il giudizio definitivo al comando generale. In caso positivo il responso veniva indicato sul form B, consegnato dal comandante al militare e poi da questo alle autorità italiane competenti22. Solo a questo punto il processo poteva ritenersi concluso. Al compimento delle suddette procedure a Napoli partecipò, per conto del comando inglese, Norman Lewis, che il 26 marzo 1944 appuntava: «adesso ci annunciano che dovremo indagare su ogni richiesta di matrimonio con militari britannici avanzata dalle italiane della zona di Napoli e preparare un rapporto. Questo comporterà assumere informazioni dalla polizia e dai carabinieri, reciprocamente ostili e in competizione, interrogare l’interessata e accertarsi delle sue condizioni materiali e dell’ambiente in cui vive. Un lavoro ingrato, che nessun altro membro della Sezione sembra ansioso di accollarsi e che quindi è stato affidato a me»23. L’ufficiale inglese anticipava lo stabilirsi di una essenziale sinergia tra le autorità alleate e quelle italiane. A queste ultime veniva inviata una richiesta di questo tipo: «si richiedono dettagliate informazioni 21   Asn, Pref., Gab., 1944-45, II vers., b. 1279, f. 5, Regolamento sul matrimonio in Italia di sudditi inglesi. 22   Acc, 8/14E/477. 23   N. Lewis, Napoli ’44 cit., p. 131.

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sulla condotta ed attività della signorina in oggetto, con particolare riferimento alla condotta morale, politica e alle condizioni economiche così come per la di lei famiglia e l’ambiente in cui si associano i membri della famiglia stessa. Pregasi, inoltre, curare che la sunnominata venga visitata da un medico militare e civile, inviando un regolare certificato a questo comando»24. Carabinieri e questura erano, dunque, chiamati a fornire dettagliate informazioni delle aspiranti spose e delle loro famiglie, con particolare riferimento ai requisiti morali, politici ed economici. A ciò seguivano colloqui, interpellanze ai vicini e ai conoscenti, e spesso «appostamenti», tesi ad appurare la moralità della donna. Concluse le suddette procedure, si sarebbe dovuto decidere se concedere o meno il nulla osta necessario alla celebrazione del matrimonio25. Vi erano dei fondamentali criteri che guidavano le indagini. Le domande venivano respinte se la donna aveva avuto simpatie fasciste o naziste; se aveva mostrato «disaffezione» alla causa degli Alleati; se era stata implicata in attività sovversive oppure se era scappata da territori nemici nei 12 mesi precedenti alla domanda. Bisognava, inoltre, assicurarsi del fatto che le sue abitudini e i tratti del carattere non avrebbero rischiato di portare discredito al servizio militare26. Utile si è rivelata l’analisi di 130 relazioni relative a donne campane e di 60 di altre regioni italiane commissionate alle autorità italiane da quelle alleate. Esse appaiono molto particolareggiate. Rappresentavano brevi, ma ricchi dossier personali e familiari. Oltre ai dati anagrafici delle ragazze, essi contengono informazioni circa il titolo di studio, la professione, eventuali spostamenti in altre città, la situazione abitativa, i rapporti col fascismo, eventuali carichi penali, la condizione economica, il grado di conoscenza della lingua inglese, talvolta la descrizione fisica. Ampio spazio veniva concesso alla reputazione morale di cui queste godevano in pubblico e non di rado erano forniti dettagli su precedenti esperienze sentimentali. Talvolta le stesse informazioni riguardavano gli altri membri della famiglia. Le relazioni si chiudevano sempre con una valutazione sulle frequentazioni familiari, sugli eventuali rapporti con «ambienti contrari alla moralità».   Acc, 8/14E/477.   Acs, MI, Gab., b. 81, f. 6923; Acc, 222/776A/26. 26   Acc, 206/694A/536. 24 25

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La suddetta fonte, in molti casi, è priva di quell’austerità che di solito contraddistingue questo tipo di documentazione, consentendo di venire a conoscenza di aneddoti difficilmente reperibili in altro modo. Un esempio è il rapporto relativo a Maria C. La donna era nata nel 1927 ad Ascoli Piceno, dove aveva vissuto con la famiglia fino al luglio 1945, quando seguì a Resina un ex prigioniero inglese, col quale si era fidanzata circa otto mesi prima. Secondo quanto riferito dalla questura ascolana all’ufficio di pubblica sicurezza napoletano, il militare era stato ospitato dalla famiglia della giovane nel periodo successivo all’armistizio per preservarlo dalle razzie tedesche. In seguito alla Liberazione di Ascoli, l’ex prigioniero si era ricongiunto alla compagine alleata che lo inviò a Resina, in provincia di Napoli. Immediatamente egli chiese il permesso di sposare Maria. Il rapporto della pubblica sicurezza terminava in questo modo: «Maria C. a casa sua coadiuvava il padre nei lavori agricoli, ed in atto vive a carico del fidanzato che provvede al suo mantenimento. Essa è di carattere serio, conduce una vita ritirata, non si associa in ambienti contrari alla moralità familiare, vivendo solo per l’affetto che serba verso l’uomo al quale si è appassionatamente affezionata e durante il periodo in cui si è allontanata dalla sua famiglia non ha dato luogo a rilievi con la sua condotta in genere»27. Per quanto riguarda i requisiti «morali» delle donne, nel caso di rapporti positivi l’impostazione era simile a quella che compare nel documento relativo a Maria E., diciassettenne, studentessa presso la scuola tecnica commerciale. In questo si legge: «ella è stimata in pubblico per la semplicità dei costumi, per nulla amante del balletto e priva di amiche, vuolsi che non sia stata mai fidanzata»28. Spesso il militare alleato incappava in prostitute ufficialmente schedate. È questo il caso di Concettina V., di 24 anni, nata a Catanzaro e abitante in via Maddalena a Napoli. Il rapporto recita: Concettina è donna di cattiva moralità, dedita alla prostituzione clandestina, più volte fermata da questo ufficio e ricoverata coattivamente nell’ospedale civile, siccome riconosciuta affetta da affezione venerea. È nubile e per diversi anni fu l’amante di tal Falbo da Nicastro col quale procreò quattro figli. Anche la di lei sorella Giuseppina di anni 34, nubi  Ibid.   Acc, 159/831B/1765.

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le, qui residente, risulta di cattiva moralità, vissute entrambe in ambiente familiare corrotto, in quanto, la stessa madre, ha sempre favorito la prostituzione delle proprie figlie. Il padre, dedito alle bevande alcoliche, esercita di mestiere lo stagnino e tutti versano in disagiate condizioni economiche29.

I giudizi negativi non riguardavano soltanto le meretrici registrate, ma anche quelle donne che per diverse vicende – fidanzamenti precedenti, trasferimenti immotivati, rapporti «paralleli» – erano mal considerate dal vicinato, il cui parere aveva un peso considerevole sulla qualità della relazione. Gli esempi sono molti. Nella relazione di Vincenza E., diciottenne di Torre del Greco, figlia di un incisore di coralli e cammei, si legge: «non gode nel pubblico buona reputazione, essendo considerata di carattere leggero e molto frivola. Risulta che da circa un anno è fidanzata con un soldato inglese, in atto residente a Crotone, e da questi, dicesi, che sia stata sedotta, mentre viene affermato che sia stata invece sedotta da altro»30. Maria Michela S., nata nel 1911 a Bari, si era trasferita nel 1939 con una sorella minore a Napoli, in via Pigna, dove esercitava il mestiere di sarta. La sua relazione informava che «in pubblico non gode di buona stima per l’esagerato uso dei balletti, per la troppa spigliatezza nel vestire ed infine perché vive sola con un’altra sorella nubile»31. Renata A., di 22 anni, domiciliata in via Tasso a Napoli, studentessa universitaria e figlia di un funzionario della Ferrovia dello Stato veniva giudicata di carattere civettuolo, che ha dato luogo a sfavorevoli commenti sulla sua condotta morale. Ella infatti fu fidanzata ufficiale con lo studente Nando M., figlio di un negoziante di tessuti, fidanzamento che fu in seguito annullato perché il giovane sorprese la fidanzata in compagnia di un altro uomo, ed alle sue rimostranze la Renata A. non seppe dare alcuna giustificazione. Amante della vita gaia, poco casalinga è stata notata con Ufficiali Alleati, in compagnia dei quali ha soggiornato a Capri, trattenendosi ivi per svariati giorni, senza la compagnia di altri familiari32.   Ivi, 30 marzo 1945.   Ivi, 24 marzo 1945. 31   Ivi, 10 ottobre 1944. 32   Ivi, 1° agosto 1944. Altri casi: Dora B., di 24 anni, abitante in via Foria, orfana e impiegata presso il Comando Alleato «risulta fidanzata da circa un anno e mezzo con un soldato dell’Esercito Alleato (pare scozzese) conosciuto al comune di Roc29 30

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Una certa Annunziata F. si rese protagonista di un caso interessante e tutt’altro che insolito. Come lei, infatti, diverse donne cercavano di sviare le indagini che avrebbero rivelato situazioni pregiudizievoli. La donna, figlia di un impiegato dell’istituto sieroterapico di Napoli, aveva 24 anni e viveva alla Cappella dei Cangiani. Aveva lasciato il mestiere di domestica per aiutare la madre a «lavare i panni ai privati». Le indagini, come negli altri casi, erano partite da una richiesta di informazioni sulla donna in oggetto dell’ufficio di Public Safety alla pubblica sicurezza di Napoli. Il rapporto di quest’ultima, datato 14 marzo 1945, cominciava con delle correzioni ai dati anagrafici indicati dalla commissione alleata. Si forniva, così, la giusta trascrizione del nome e del cognome, correggendo l’ultima sillaba del cognome e precisando che il nome era Annunziata e non Anna Nunzia. Le presenti revisioni potrebbero far pensare ad ordinari sbagli di trascrizione, magari dovuti a difficoltà linguistiche, ma il tenente di pubblica sicurezza giungerà ad una conclusione diversa. Per ora limitiamoci a riportare parte della relazione riguardante la donna: «parecchio tempo orsono, si fidanzò con un giovane dal quale venne sedotta ed abbandonata. Da qualche anno si è fidanzata con un militare inglese, ed in seguito al trasferimento di costui in altra località, da circa due mesi, lo ha seguito allontanandosi dalla sua famiglia. Il 29 novembre del 1940 venne denunziata in istato di reato dalla R. Prefettura di Napoli, quale responsabile di furto aggravato di L. 200 ed oggetti di biancheria»33. La commissione alleata qualche giorno dopo inviò una breve nota all’ufficio di polizia in cui avanzava l’ipotesi che la persona di cui si erano fornite le generalità fosse un’altra. Insieme al nome e al cognome anche l’anno di nascita non camonfina dove era sfollata assieme alla famiglia e da dove è rientrata, sempre con la famiglia, nel dicembre 1943. (...). È stata fidanzata per circa 7 anni con un giovane studente di Napoli col quale ufficialmente si è lasciata da diversi mesi. Ma pare che costui, perché innamorato, non abbia alcuna intenzione di rinunziare all’amore della B., la quale, data la sua giovane età, e perché di tipo allegro e socievole, dà l’impressione di essere leggera e frivola». Maria Carmela S., ventenne, abitava alla Cappella dei Cangiani ed era operaia stiratrice. Nel suo rapporto si legge: «Da diversi mesi si è fidanzata con un militare inglese, il quale era accampato nelle adiacenze della sua abitazione ed in seguito al trasferimento di costui a Bari, lo ha seguito allontanandosi dalla sua famiglia, circa tre mesi orsono: tale allontanamento viene commentato sfavorevolmente da parte degli abitanti di quella località rurale». 33   Ibid.

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coincideva. Lo testimoniava il numero della carta d’identità dalla donna sottoscritto. Ma il tenente di polizia era certo delle sue verifiche e, per rimuovere ogni dubbio, decise di allegare il certificato di nascita della donna al seguente commento: «non è possibile vi sia confusione (...). È parere dello scrivente che la donna, di moralità non buona ma molto furba, abbia cercato di cavillare sulle generalità credendo di fuorviare in tal modo le indagini»34. Ciò che è evidente nei rapporti è la spiccata tendenza delle autorità italiane a ridimensionare gli aspetti di ordine politico. L’eventuale passata vicinanza al fascismo veniva sempre corredata da attenuanti. L’iscrizione alla Gil o al Pnf delle donne o dei parenti, infatti, veniva presentata come un obbligo finalizzato al conseguimento di diritti civili, quali l’accesso alla scuola o all’università o l’assunzione professionale. Rosa A., ad esempio, diciottenne napoletana, si era iscritta alla Gil «per conseguire gli studi elementari». Il padre, impiegato presso la Società Acquedotti del Serino, era descritto come «un funzionario serio, onesto, amante della famiglia e del lavoro», iscritto al soppresso partito fascista «esclusivamente per ragioni d’impiego»35. Allo stesso modo, il padre di Clara B., diciottenne di Scafati, «vecchio fascista, ex squadrista, marcia su Roma ed ex componente del direttorio del locale fascio», aveva «bene accolto la venuta degli Alleati ed il fidanzamento della figlia Clara con un militare inglese»36. Le citate relazioni hanno un’impostazione decisamente positiva. L’atteggiamento, dunque, era tendenzialmente indulgente e giustificava persino comportamenti facilmente «incriminabili», come ad esempio il collaborazionismo37. 34   Ivi, 23 giugno 1945. Altrettanto ambiguo risulta il rapporto riguardante Anna L. di Avella. La commissione alleata richiese al comando dei carabinieri informazioni sulla donna, fornendo i rispettivi dati anagrafici. I carabinieri nel cercare di soddisfare le precedenti richieste scoprirono che la donna era sposata con due figli. 35   Ivi, 12 luglio 1944. Altro esempio è quello di Rachele D., nata a Frattamaggiore nel 1915. «Già diplomata per l’insegnamento elementare, dava lezioni private presso il proprio domicilio. Attualmente è impiegata all’Istituto di Previdenza Sociale in piazza S. Domenico Maggiore. Era iscritta al soppresso partito fascista dal 1939 al 1940, iscrizione indispensabile per partecipare agli esami, onde ottenere il succitato diploma». 36   Ivi, 3 marzo 1945. 37   Nel caso seguente l’ufficiale di pubblica sicurezza avrebbe potuto riportare in maniera obiettiva un avvenimento che aveva caratterizzato la storia di vita di Maria Giovanna D. Egli, invece, la giustificò. La donna, nata ad Alessandria nel

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Una volta ricevuti i rapporti delle autorità italiane, la sub-commissione decideva se procedere o meno nelle indagini. Nel caso di comprovate informazioni negative la pratica veniva accantonata e il permesso respinto. Se, invece, persistevano dubbi o i contenuti delle relazioni erano ritenuti insufficienti, si decideva di avanzare nelle procedure e di passare, così, alla fase successiva. A questo punto entravano direttamente in scena i servizi alleati, attraverso accertamenti ed interrogatori propri. Talvolta la commissione alleata cercava riscontri alle valutazioni delle autorità italiane interpellando persone autorevoli che avrebbero potuto esprimere un giudizio sull’affidabilità delle donne38, altre 1917, si era trasferita con la famiglia a Castellammare di Stabia, poiché il padre in quella città avrebbe dovuto ricoprire la carica di segretario comunale. Frequentava il terzo anno della facoltà di Chimica e Farmacia. L’ufficiale di pubblica sicurezza scriveva sul suo conto: «è una giovane evoluta, intelligente, svelta e al quanto vivace, tanto da provocare qualche commento poco favorevole nei suoi riguardi da parte di qualcuno, ma in effetti non ha dato luogo a rilievi da compromettere la sua moralità. Dopo l’armistizio, si verificò un inconveniente che diede luogo a dei sospetti perché, conoscendo la lingua tedesca, veniva chiamata spesso dall’ufficiale germanico del luogo per fare da interprete. Intanto, per questa circostanza, pochi giorni prima dell’arrivo degli Alleati, i tedeschi, dopo aver accertato presso i competenti uffici tutti i possessori di automobili, eseguirono le requisizioni con violenza delle dette auto, tra cui due appartenenti al dr. Emilio I., il quale il primo ottobre e il 2 dicembre 1943, sporse denunzia. In conseguenza la D. venne denunziata all’Autorità Giudiziaria per correità in furto aggravato e saccheggio. Da confidenze ricevute si è venuto a conoscenza che ella non avrebbe prestata una vera e propria collaborazione ai tedeschi, ma si sarebbe trattato soltanto di aver prestata la sua opera per la conoscenza della lingua tedesca, non essendosi potuta esimere per timore di eventuali rappresaglie. Dopo la venuta degli Alleati a Castellammare di Stabia la D. li ha guardati con tanta simpatia che si è fidanzata ufficialmente con un militare inglese» (Acc, 210/618D/21). 38   La commissione alleata cercò un riscontro alla relazione sfavorevole che la questura di Bari aveva fatto il 5 agosto 1944 di Gemma S. Il rapporto recitava: «di carattere frivolo ha avuto diversi fidanzati e l’ultimo dei quali vuole sia stato un certo Mauro, impiegato dell’EIAR, col quale ha amoreggiato per 10 mesi. Pare che la giovane sia occupata presso le Autorità alleate ma non costa ella sia solita accompagnarsi a militari dell’Esercito Alleato». Cinque giorni dopo i servizi alleati interpellarono l’avvocato Angelo P., che il 14 agosto scriveva: «conosco bene la signora Gemma S. Il padre era un funzionario delle R.R. Poste e Telegrafi di condotta illibata e la madre è insegnante di Stenografia nelle R. Scuole Medie inferiori; di morale anche incensurabile. Perciò la figliuola è di ottimi costumi morali. Il suo temperamento è laborioso tanto vero che vive con la mamma sua e concorre al benessere della casa col frutto del suo onesto lavoro. Il giovane che la sposa può ritenersi felice perché trova una degna compagna» (Acc, 210/618D/21).

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volte erano queste ultime che, per avere maggiori credenziali, indicavano chi potesse garantire circa la propria serietà. È ciò che accadde nel novembre 1944, quando la commissione competente relativa alla Sicilia Orientale, su indicazione della signorina Lucia S., di Siracusa, scrisse ad uno stimato avvocato per avere informazioni sul suo conto, con particolare riferimento alla posizione sociale e alla condotta morale e politica39. Qualche volta le referenze venivano prodotte spontaneamente da associazioni o istituzioni40. Il 5 aprile 1944 Lewis scrisse di aver analizzato fino a quella data circa 60 inchieste matrimoniali, 28 delle quali andate a buon fine. Ventidue delle altre potenziali spose si erano rivelate prostitute, tra esse sette schedate dalle forze dell’ordine italiane e le altre «bocciate» dai servizi alleati41. Delle 130 relazioni analizzate, 40 facevano riferimento a storie «compromettenti». Insieme a queste, purtroppo, nell’archivio della Commissione Alleata di Controllo non sono state rinvenute quelle corrispondenti alle verifiche alleate, cosa che avrebbe consentito di comprendere meglio i meccanismi di selezione. Ma il controllo incrociato con gli atti di matrimonio dell’archivio di stato civile del Comune di Napoli ha rivelato che sulle 130 donne solo 58 riuscirono a contrarre matrimonio, tra queste sei di quelle mal giudicate dalle autorità italiane. Le nozze, naturalmente, potrebbero essere sfumate per qualsiasi ragione e non necessariamente per un «rigetto» delle autorità alleate. I reali motivi, pertanto, non possono essere verificati. È stato possibile, invece, individuare le relazioni dei servizi alleati relativi alle indagini fatte su donne di altre regioni. In molti casi queste avevano un esito negativo. Nel dossier dei servizi alleati su Giuseppina V., ventiduenne di Bergamo, si legge: «la sua moralità desta seri dubbi. Essendo una ragazza davvero bella ha avuto ed ha molti corteggiatori. In passato è stata vista in compagnia di soldati tedeschi e repubblichini e tutti sono riusciti a compiacerla. (...). Un   Acc, 138/663C/153.   Ibid. Era questa l’intenzione del Comitato di Liberazione Regionale di Bergamo, che scrisse al comando giudicante: «questo C.L.N. dichiara che le signorine P. Pina e R. Giulia si sono rese benemerite alla causa della libertà prestando la loro opera nella raccolta di indumenti, viveri e denaro per i Volontari della Libertà. Le segnaliamo affinché la loro posizione sia ben chiarita nei confronti di coloro che dovessero sollevare dubbi o fare insinuazioni». 41   N. Lewis, Napoli ’44 cit., p. 237. 39 40

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anno fa è riuscita ad aprire un negozio di parrucchiera in questa città. La pubblica opinione sostiene che i soldi necessari siano pervenuti dai rapporti con i soldati tedeschi. A causa della sua moralità, come risulta evidente, si ritiene che il permesso per il matrimonio non possa essere concesso»42. Talvolta gli accertamenti alleati contraddicevano quelli effettuati dalle autorità italiane. Un esempio è quello di Rita S., di Lanciano. Il maresciallo dei carabinieri e la polizia fornirono alla commissione alleata rapporti positivi, definendola una ragazza di buona moralità. Gli emissari alleati si recarono a Lanciano, confermarono alcuni dati anagrafici e familiari e poi scrissero: i genitori della ragazza sono figli illegittimi, il padre è prigioniero inglese in Africa e suo fratello in India. (...). Dopo aver raccolto le diverse informazioni ho intervistato il pastore del paese che si è mostrato reticente a dare un’opinione sulla morale della ragazza e alla fine ha detto che «aveva molti amici maschi». La ragazza vive con la sua famiglia in una fattoria alla periferia di Lanciano che appare in pessime condizioni igieniche. Ha conosciuto il militare Daniels il 10 febbraio 1944, quando lui bussò alla porta di casa sua per avere del pane. (...). Dalle indagini emerge che questa ragazza non è adatta a diventare un soggetto britannico. Rimando indietro il Form C43.

Come nel precedente caso, molto spesso i servizi inglesi, nel respingere le richieste matrimoniali, definivano l’aspirante sposa «indegna di diventare cittadina inglese». Ecco alcuni esempi. Ho intervistato la signorina C. stamattina. Ha 17 anni e mezzo. In origine era a Trieste, ma con la famiglia si è trasferita a Perugia. Dichiara che il padre è stato inviato in Germania e pensa che la madre sia di nuovo a Trieste. Con l’arrivo dell’armata alleata a Perugia dichiara che i tedeschi dissero di evacuare la città. Si trasferì a Firenze e arrivò lì con le forze alleate. Incontrato il generale Daebooll quasi per caso due mesi fa in casa 42   Acc, 210/618D/21. Il giudizio relativo a Vera T., di Perugia, era il seguente: «non ci sono ostacoli dal punto di vista della sicurezza. Il suo carattere morale è tuttavia aperto a seri dubbi. Sia lei che la madre sono note per aver trattenuto uomini di dubbia fama e soldati; sebbene non sono classificate come prostitute entrambe sono definite ‘un buon passatempo per una notte’» (ibid., 13 marzo 1945). 43   Acc, 8/14E/477.

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della signora Aiala B. piazza Donatello 7. Il Daebooll veniva nel giardino della casa con altri soldati. La ragazza è disoccupata e a seguito dell’investigazione delle FSO appare di dubbia moralità e resta fuori casa fino a tarda notte. Non c’è niente contro di lei dal punto di vista della sicurezza, ma dal punto di vista morale e sociale credo che questo matrimonio non si debba effettuare, in quanto la ragazza è indegna di diventare cittadina inglese44.

Nel caso di Anna R., di Firenze, si legge: ho intervistato questa mattina la ragazza, ha 19 anni, è cattolica, vive in un ambiente sporco, di media intelligenza e sembra essere in salute. È ansiosa di sposare il colonnello Smith. Lo conosce approssimativamente da due mesi. I genitori appaiono favorevoli a tale unione. Un motivo, tuttavia, del perché questa ragazza desidera sposarsi apparentemente sembra quello di voler lasciare l’Italia dopo la guerra. Non c’è nessuna obiezione al matrimonio dal punto di vista morale o di sicurezza, ma oltre alla generale indesiderabilità degli inglesi per i matrimoni con italiane, credo che la ragazza non sarebbe un grosso acquisto come soggetto britannico45.

Come già accennato, tutte queste indagini richiedevano tempi lunghi, superando sempre i tre mesi previsti dalla normativa. Ne è testimonianza la dichiarazione di un capitano statunitense indirizzata al quartier generale dell’Acc della Region III che, per motivi non documentati, tardava a concedere il permesso necessario ad unirsi ad una donna napoletana. Egli scrisse: a chi può interessare: Io, Ned A. Holsten, Capitano nel Corpo di Commissione militare dell’Arma degli Stati Uniti dichiaro quanto segue: desidero sposare Anna B. ma non mi trovo nelle condizioni di unirmi subito in matrimonio, essendoci, presentemente, delle restrizioni a riguardo imposte dalle autorità militari. Riconosco di essere il padre della creatura che dovrà nascere dalla detta Anna B. verso il mese di novembre 1944. Desidero che alla creatura che nascerà sia dato il mio cognome. Dichiaro ancora che è mia intenzione di sposare la detta Anna B. al più presto possibile, quando le circostanze lo consentiranno46.   Ibid.   Acc, 240/173E/238. 46   Acc, 170/902B/2542. 44 45

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Talvolta anche i militari ricorrevano a mediazioni per tentare di velocizzare i tempi. Adolph Baron attendeva da oltre sei mesi il permesso dall’Headquarters delle forze americane di Bari e per questo chiese l’intercessione del commissario giudiziario della Camera del Lavoro provinciale di Taranto47. Una volta che il militare era riuscito ad avere il permesso lo consegnava alle autorità civili italiane, le quali disponevano le pubblicazioni matrimoniali presso la residenza della sposa48. Il Ministero di Grazia e Giustizia italiano si mostrò disposto a riconoscere nei comandanti delle Forze Armate degli Stati Uniti o in quelli britannici le autorità garanti, ma a patto che essi non si limitassero ad attestare una mera «opinione», «la quale nel significato comune rappresenta una semplice convinzione soggettiva, che sia piuttosto il risultato di indagini compiute, da cui risulti possedere il richiedente i requisiti ecc.»49. Ma non sempre i militari attendevano la concessione del nulla osta prima di contrarre il matrimonio, approfittando, così, della disinformazione in proposito delle competenti autorità civili e religiose italiane. Tra l’altro, lo rivela la corrispondenza. Il 3 marzo 1944 Charles Poletti ricordò tale esigenza a monsignor Aurelio Marena, segretario dell’Arcivescovo di Napoli Alessio Ascalesi, chiedendogli di informare della questione il cardinale, le sedi vescovili e parrocchiali campane. La stessa raccomandazione sarà, poi, inviata ai commissari provinciali della regione50. La questione si riaccese tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45. L’8 dicembre il colonnello Cripps, capo della sezione Affari civili, sollecitò il comando centrale a ribadire alle autorità italiane la necessità delle pubblicazioni, giacché in molti casi i matrimoni erano avvenuti senza l’assenso delle autorità alleate51. Il 21 dicembre 1944 la commissione alleata segnalò al Ministero dell’Interno casi di matrimoni cele  Ibid.   Acc, 48/141C/723. Le pubblicazioni furono stabilite dall’art. 3 del decreto legislativo luogotenenziale concernente «il matrimonio in territorio italiano degli appartenenti alle Forze Americane» del 28 dicembre 1944. 49   Ibid. Il Ministero di Grazia e Giustizia alla Commissione Alleata di Controllo, 8 maggio 1944. 50   Asn, Pref., Gab., 1944-45, II vers., b. 1279, f. 5, Regolamento sul matrimonio in Italia di sudditi inglesi, 6 aprile 1944. 51   Acc, 227/1175C/178. 47 48

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brati senza «preventivo assentimento» formale e in quest’occasione se ne sottolineava la gravità, non solo «per le misure disciplinari a carico dei militari interessati ma, soprattutto, a tutela delle donne, onde evitare matrimoni affrettati senza la garanzia della mancanza di impedimenti»52. Si insisteva sulla necessità di richiamare l’attenzione delle autorità competenti, «diffidando i nubenti sulla responsabilità ed i rischi cui incorrono non ottemperando alle formalità prescritte, tanto più che in caso di matrimoni non autorizzati est escluso ogni diritto at aiuti finanziari da parte delle autorità militari alleate»53. Il ministro dell’Interno trasmise la richiesta alla prefettura di Napoli, che a sua volta la inoltrò ai sindaci e ai commissari prefettizi dei comuni campani e alla Curia di Napoli54. Il 26 gennaio 1945 la Curia arcivescovile di Napoli rassicurava il prefetto Selvaggi sul fatto che la stessa aveva deciso di non concedere il decreto matrimoniale tra militari anglo-americani e donne italiane se nel processetto matrimoniale non fosse accluso il regolare permesso militare vidimato dal cappellano capo55. Allo stesso modo il 10 marzo il direttore dei servizi anagrafici del Comune di Napoli rassicurò l’ufficio alleato di pubblica sicurezza sul fatto che già da tempo considerava validi soltanto quei matrimoni supportati dalle attestazioni dei comandi contenenti le notizie relative allo stato di nascita e lo stato civile dei soldati56. Le preoccupazioni del comando alleato erano dovute al verificarsi di casi di donne che avevano sposato militari privi di autorizzazione e dei quali non avevano più notizie. Perciò, esse rivolgevano al suddetto comando lagnanze e richieste di sostegno economico. Un motivo che poteva spingere i soldati a non richiedere l’autorizzazione era la consapevolezza dell’impossibilità di ottenerla a causa di un precedente vincolo matrimoniale. Non pochi erano quelli che contraevano in Italia un secondo rito nuziale, essendo già sposati nel loro Paese. Oltre ai diversi casi citati dalla stampa italiana, da più parti emergono conferme.   Acc, 8/14E/477.   Asn, Pref., Gab., 1944-45, II vers., b. 1279, f. 5, Regolamento sul matrimonio in Italia di sudditi inglesi, 6 aprile 1944. 54   Ibid. 55   Ibid. La Curia inviò la comunicazione a tutti i parroci della diocesi attraverso il Bollettino ecclesiastico del 2 febbraio 1945, p. 8. 56   Acc, 227/1175C/178. 52 53

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L’8 dicembre 1944 il colonnello Cripps inviò alla commissione centrale la seguente raccomandazione: «vi sono dei soldati alleati che non fanno richiesta di autorizzazione al matrimonio perché già coniugati. Si sono recentemente verificati casi di soldati che hanno sposato civili italiane senza la necessaria autorizzazione. Vi prego di chiedere al Governo italiano di informare gli ufficiali di stato civile che l’autorizzazione dei comandi militari è obbligatoria»57. Diverse sentenze espresse dalla Corte d’Appello di Napoli convalidavano l’avvenuto annullamento del matrimonio per «precedente vincolo matrimoniale dell’uomo» pronunciato dal Tribunale ecclesiastico58. Situazione analoga fu quella di Pierina U., della provincia di Padova, che il 9 settembre 1945 aveva sposato il militare Amos H. Dopo qualche mese, non avendo avuto più notizie di lui, aveva deciso di scrivere al comando alleato. Il 13 giugno 1946 quest’ultimo comunicò al sindaco del paese la nullità del suddetto matrimonio, giacché il militare non avendo prodotto certificato di stato libero era riuscito a nascondere di essersi già sposato nel dicembre del 193459. I casi di donne che si rivolgevano al comando alleato per avere notizie dei propri sposi o promessi tali sono diversi. Qualche volta alle richieste di aiuto economico si affiancavano quelle relative al permesso di emigrare. Ne sono un esempio i ripetuti appelli della signora Maria I., ventiseienne di Lentini, alla Commissione di Controllo di Palermo. In una   Ibid.   Asn, Corte d’Appello di Napoli, parte civile, straordinaria giurisdizione 1951-1952. La prassi prevedeva che il matrimonio venisse annullato dal Tribunale ecclesiastico, la cui sentenza veniva resa esecutiva da quello civile. A questo punto l’annullamento veniva indicato sui registri di stato civile. 59   Acc, 206/694A/536, 13 giugno 1946. Potrebbe anche essere questo il caso di Genoveffa C., che aveva sposato il 4 settembre 1944 in provincia di Ascoli Piceno il militare inglese Francesco F. In seguito al matrimonio la donna aveva seguito a Napoli il marito che, ricevuto l’ordine di rimpatrio, non aveva più dato notizie di sé. Genoveffa si era, perciò, rivolta al sindaco che scrisse al comando alleato: «la donna trovasi in istato di gravidanza; non ha beni di fortuna, vive a carico della famiglia composta dalla madre e numerosi figli che hanno per unica risorsa il soccorso militare essendo il padre prigioniero di guerra in India. La sottoscritta nelle condizioni attuali non può lavorare e non sa come fare per tirare avanti. Chiede la sottoscritta che venga disposto che il predetto militare, del quale ha piena fiducia, venga restituito alla sottoscritta e che per il periodo di tempo in cui presterà servizio militare venga sussidiata adeguatamente, essendo povera». 57 58

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prima lettera la donna raccontò di essersi innamorata e di essere stata sedotta da un militare alleato residente a Chicago, col quale aveva convissuto dall’agosto del 1943 fino al settembre dello stesso anno, quando, su ordine del comando, si era allontanato per destinazione ignota. Prima di partire, il militare aveva assicurato la donna, che aspettava un bambino, di darle presto sue notizie in merito al trasferimento. Dopo 15 giorni dalla sua partenza Maria si rivolse all’Amgot di Lentini, che richiese la foto e le generalità del militare, e ai comandi provinciali di Siracusa e Catania. I tentativi furono vani. Nel maggio 1944 nacque una bambina. Al racconto dei precedenti fatti, Maria aggiunse: On.le Commissione Controllo Alleata, dato che sono rimasta in un angolo di casa e con una bambina nelle braccia, senza alcun conforto, né viveri alcuni, La prego rispondermi alle seguenti domande: Sapendo che i genitori del militare in parola risiedono in Chicago (U.S.A.); tenendo pure presente che nella suddetta Chicago vi abita mio zio Franco C.; in ottemperanza alle recenti disposizioni che riguardano il problema dell’Emigrazione negli U.S.A., chiedo che mi fosse acconsentito di emigrare colà, onde, con l’aiuto del suddetto zio Franco, posso finalmente trovare i genitori del militare e sperare, anche a fine guerra, la totale sistemazione. Qualora che mi sarà permesso di emigrare faccio presente che desidero essere accompagnata dal mio fratello maggiore, Alfio, della classe 1915, il quale è disposto a lavorare per conto delle industrie Belliche Alleate. Nel caso che non potrò emigrare, per disposizione di guerra, la prego vivamente d’interessarsi presso i Comandi di Polizia Alleata, dislocata in Europa, se il giovane in argomento esiste o meno; se si possono avere sue notizie; se infine posso sperare di essere sposata con tutti i riguardi. Attendo, non più di un mese dalla data della presente, una risposta; trascorso tale termine mi permetterò venire personalmente costà pregando con maggiore forza e fede codesta Commissione. Qualora che codesta Commissione non potrà accontentarmi in nessun modo, la prego di voler inoltrare analoga domanda al Presidente degli S.U.A., in attesa di qualche benevolo provvedimento60.

L’Acc di Palermo sottopose la questione all’Amg di Catania, che a sua volta la inviò ai carabinieri di Lentini, al fine di verificare le dichiarazioni della donna.   Ivi, 9 ottobre 1944.

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La signora Maria si recò presso la caserma e fu interrogata, ma del militare americano non ebbe alcuna notizia, tanto che il 2 dicembre 1944 riscrisse all’Acc di Palermo affinché potesse tener presente l’avversa sorte di una povera fanciulla, la quale brama di onorarsi di fronte alla società umana; di farla sposare; di colmarla di gioia dopo che versa infinite lagrime dal giorno che fu sedotta; tener presente che culla una bambina di mesi sette circa e che le sofferenze sono infinite per l’allattamento di essa, poiché non è nutrita del latte materno per mancanza della produzione di latte, per le pene, i dolori, i soffrimenti. Avevo ed ho ancora fede che il militare in argomento non si dimenticava di me, perché mi amava e voleva farmi sua sposa con tutti gli onori, onde rendermi felice. Intanto non so cosa attribuire il suo silenzio: debbo pensare che egli sia morto? Che egli sia in punti che non potrà scrivermi? O qualcosa altra? (...). Insisto per l’emigrazione negli U.S.A.61.

La documentazione alleata non consente di seguire le evoluzioni della vicenda. Ulteriori complicazioni Anche dopo la concessione dell’autorizzazione la coppia poteva incontrare ulteriori ostacoli, soprattutto se apparteneva a religioni differenti. Molti erano i soldati protestanti, anglicani ed ebrei. Il decreto legislativo luogotenenziale concernente «il matrimonio in territorio italiano degli appartenenti alle Forze Americane» n. 4007, del 28 dicembre del 1944, all’art. 1, sanciva che per la celebrazione in territorio italiano del matrimonio fra stranieri e cittadini italiani i cappellani cattolici presso le forze armate statunitensi e britanniche dovevano essere considerati ministri del culto cattolico ai sensi della legge del 27 maggio 1929. Lo stesso articolo stabiliva, inoltre, che i cappellani non cattolici potevano celebrare i suddetti matrimoni solo se rappresentanti dei culti ammessi nello Stato italiano, senza bisogno di alcuna autorizzazione da parte delle autorità italiane, come sancito dall’art. 3 della legge 24 giugno del 192962.   Ivi, 2 dicembre 1944.   Acc, 48/141C/723. I culti riconosciuti dallo Stato italiano erano il giudaesimo, le Chiese cristiane evangeliche, che comprendevano quasi tutte le Chiese protestanti, le Chiese cristiane ortodosse. 61 62

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Nella fase inquisitoria, l’aspirante sposa doveva rilasciare una dichiarazione riguardante il credo professato. Nel caso in cui questo differiva da quello del fidanzato, la donna doveva specificare l’intenzione o meno di convertirsi63. A tal proposito, «L’Azione» nel 1945 scrisse che su 224 fidanzati di guerra solo 11 erano risultati essere di religione cattolica, gli altri evangelici, metodisti, wesleyani, episcopati, presbiteriani, battisti. Specificò, inoltre, che il rito prescelto dalle coppie era stato quasi sempre quello cattolico e che solo 30 spose avevano scelto di celebrarlo nel tempio metodista di Sant’Anna al Palazzo64. Le differenze di culto tra gli sposi suscitarono preoccupazioni nei comandi alleati – come vedremo in seguito – e rappresentarono – allo stesso tempo – un problema per le autorità religiose italiane, nonché per i parenti delle spose. Non appena Maria Bottiglieri informò la famiglia della sua intenzione di sposare un militare americano, sua nonna esclamò: «ma di che religione è? Gli americani, in genere, non sono cattolici!». Ciò spinse Maria in uno stato di angoscia, come scrive nel suo diario: «per me fu una doccia fredda. Cosa avrei fatto se non fossi stato cattolico? Io ero cresciuta in una famiglia religiosa. Avevo perfino una sorella suora. Cercavo disperatamente un particolare che mi dicesse di che religione eri, ma niente! L’indomani mattina mi alzai presto e ti telefonai in albergo. La mia telefonata ti sorprese. Non lo avevo mai fatto. Ma ancora di più ti sorprese la mia domanda. John, di che religione sei? Cattolica cara, perché? Sono felice John, sono felice!»65. Gli sposi che professavano religioni differenti e che decidevano di unirsi in matrimonio con rito cattolico necessitavano del nulla osta della Curia arcivescovile, la cui concessione era subordinata alla promessa della coppia di impegnarsi ad educare cristianamente i figli che dal matrimonio sarebbero nati e a quella della moglie di cercare di convertire al cattolicesimo il soldato di credo diverso.   Alcuni esempi: Ida T. l’8 luglio 1945 dinanzi al tenente di pubblica sicurezza sottoscriveva: «dichiaro di professare la stessa religione Cattolico Romana del mio promesso sposo»; Anna D. dichiarò il 21 giugno 1945: «non sono disposta a rinnegare la confessione cattolica romana in favore di quella anglicana del mio fidanzato» (ibid.). 64   «L’Azione», Quante fanciulle napoletane hanno sposato militari alleati?, 21 luglio 1945. 65   Adn, rif. MP/87, memoria di Maria Bottiglieri, sposa di guerra. 63

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Oltre a quella religiosa, altre problematiche dovevano essere risolte. L’11 dicembre 1945 l’ufficiale di stato civile del Comune di Striano scrisse alla prefettura di Napoli per avere delucidazioni circa la risoluzione di una questione burocratica sconosciuta prima di allora a quell’ufficio66. Egli chiedeva se le pubblicazioni matrimoniali richieste da un sergente inglese e da una donna di quel comune dovevano essere precedute dagli accertamenti stabiliti dal R.d.l. recante «Provvedimenti per la difesa della razza italiana» n. 1728 del 17 novembre 1938. L’impiegato comunale non fu l’unico a sottoporre tale questione, giacché il secondo articolo del citato decreto stabiliva l’obbligo del preventivo consenso del Ministero dell’Interno per i matrimoni tra cittadini italiani e stranieri. Le leggi razziali ponevano anche un altro spinoso problema che, nel dicembre del 1944, il comando alleato sottopose allo studio legale Vassalli di Roma, riferimento costante per lo stesso per chiarimenti relativi alla legislazione italiana67. La questione riguardava l’esistenza o meno di impedimenti al matrimonio tra donne italiane e cittadini americani di «razza negra». La materia sembrò controversa agli stessi legali interpellati per via della precedente normativa in proposito68. Dopo una disamina della stessa, essi conclusero che in virtù 66   Asn, Pref., Gab., II vers., b. 962, f. 6, Matrimoni misti e matrimoni con stranieri. 67   Acc, 206/694A/536. 68   Premesso l’art. 2 della convenzione dell’Aja del 12 giugno 1902 in materia di matrimonio (resa esecutiva in Italia con la legge n. 523 del 7 settembre 1905), secondo il quale «il diritto di contrarre matrimonio è regolato dalla legge nazionale di ciascuno dei futuri coniugi», i legali individuarono un primo preciso divieto nella legge del 29 giugno 1939 n. 1004, inteso a rafforzare il c.d. «prestigio di razza» nei confronti delle popolazioni dell’Etiopia e delle «razze affini». L’art. 2 di tale legge, infatti, assimilava ai nativi dell’ex Africa Orientale Italiana gli stranieri «appartenenti a popolazioni che abbiano tradizioni, costumi e concetti religiosi, giuridici e sociali simili a quelli dei nativi dell’Africa italiana». Fra i delitti punibili a norma di detta legge vi era quello previsto dall’art. 10, secondo cui «il cittadino che tenga relazioni di indole coniugale con un nativo dell’Africa italiana (o con appartenente a popolazioni affini) è punito con la reclusione da 1 a 5 anni». Il suddetto provvedimento legislativo non era stato espressamente abrogato – sostenevano gli avvocati  –, ma poiché l’Etiopia non era più sotto il controllo italiano e poiché tutta la legislazione razziale del regime fascista era stata sottoposta a revisione, i presupposti della legge erano venuti a mancare e con essi anche quelli relativi alle

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del R.d.l. del 20 gennaio 1944, n. 25 – che aveva dichiarato decadute tutte le disposizioni emanate dal regime fascista per la «difesa della razza»69 – per la legislazione italiana i matrimoni «misti» non incontravano alcun ostacolo e potevano, pertanto, essere celebrati70. Alle stesse conclusioni era giunto il prefetto di Napoli, il quale inviò, non soltanto al Comune di Striano, ma anche a tutti quelli della provincia, il testo della legge71. Al di là degli aspetti legislativi rimanevano quelli «morali». Tali unioni, infatti, erano mal viste dalla popolazione e destavano preoccupazioni nelle autorità italiane. Tra le diverse testimonianze, quella di Maria N., una ragazza di Bari, che nel 1953 raccontò sul settimanale «Oggi» la contrarietà della famiglia al suo fidanzamento col sergente americano Lynn, originario del Kentucky, nonché gli «insulti lanciati a mezza voce» ai quali furono sottoposti quando uscirono per strada per la prima volta, che li spinsero a non presentarsi più in pubblico72. Nel luglio del 1944 il Ministero dell’Interno chiese formalmente al comando alleato di complicare le procedure relative ai matrimoni con militari «di colore», per evitare che le spose italiane po-

popolazioni assimilate a quelle etiopiche. Altro impedimento era stato disposto proprio dalla legge n. 1728, a cui accennava l’impiegato del Comune di Striano. All’art. 1 essa recitava: «il matrimonio di un cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in violazione di tale divieto è nullo». Tale disposizione, però, era stata espressamente abrogata, con l’intera legge che la conteneva, dal R.d.l. del 20 gennaio 1944, n. 25 (art. 1), «Disposizioni per la reintegrazione dei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica» che dichiarava decadute tutte le disposizioni emanate dal regime fascista per la «difesa della razza». 69   Asn, Pref., Gab., II vers., b. 962, f. 6, Matrimoni misti e matrimoni con stranieri. Con questa legge non si dava più corso alle richieste di accertamenti razziali, si stabiliva che fosse cancellata dal registro di popolazione ogni annotazione di appartenenza o discriminazione razziale dei cittadini, e che in occasione della richiesta di pubblicazioni matrimoniali, della celebrazione e della trascrizione dei matrimoni, non si tenesse conto del divieto sancito per la differenza di nazionalità o di razza, tranne nei casi nei quali si trattasse di farne applicazione ai cittadini di nazionalità tedesca ed appartenenti agli Stati alleati della Germania. 70   Acc, 206/694A/536, 6 dicembre 1944. 71   Asn, Pref., Gab., II vers., b. 962, f. 6, Matrimoni misti e matrimoni con stranieri. 72   «Oggi», Il piccolo Giuseppe abbraccerà il papà negro, 28 maggio 1953.

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tessero essere sottoposte per riflesso «ad un’umiliante esclusione razziale»73. Le autorità alleate ricevettero diversi appelli per accelerare le procedure matrimoniali che riguardavano donne intenzionate a sposare soldati «di colore». Teresa C., della provincia di Taranto, scrisse al comandante in capo delle forze alleate: «signore, io chiedo a voi per gentil favore il permesso di concessione a matrimonio con Sandar Muhammai, ora in servizio nell’Ufficio Postale da Campo (...). Io non ho conosciuto mai persona alcuna, ed amo solamente Sandar Muhammai, come cosa più cara nella mia vita. Pertanto assumo ogni piena responsabilità per qualunque cosa possa accadermi dopo il matrimonio. Egli sposerà me in pieno rigore con le leggi Italiane. Egli mi ha promesso ancora di rimanere in Italia dopo la guerra. Gradirò fortemente il vostro consenso, che sono certa vorrete concedermi. Accludo alla presente regolare lettera di consenso di mio padre»74. Una volta concluse tutte le procedure e superate le difficoltà, finalmente i fidanzati potevano contrarre il matrimonio.   Acc, 206/694A/536.   Acc, 159/831B/1769, 13 settembre 1944.

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Capitolo VII

Reazioni e partenze

«But love the girl!»1 Come si è visto, l’autorizzazione al matrimonio era l’ultimo atto di un processo complesso che celava problematiche diverse e rilevanti. Uno dei militari responsabili del disbrigo delle pratiche relative ai matrimoni di guerra nel filmato che ricostruisce la storia delle spose di guerra europee sostiene: «fummo sommersi dalle domande di matrimonio, alle nostre ambasciate si presentò un numero incredibile di coppie a cui opponemmo un muro di cavilli burocratici, pensavamo che il tempo e le difficoltà avrebbero scoraggiato la maggior parte dei promessi sposi, ma più li ostacolavamo più si ostinavano»2. Dalla documentazione alleata risulta che in principio il comando inglese aveva categoricamente vietato i matrimoni tra il proprio personale ed i civili italiani. Tale decisione fu comunicata alle autorità ecclesiastiche italiane. A Napoli di ciò fu informato monsignor Aurelio Marena3. Ma in Italia quello campano non era il primo contesto che faceva da scenario agli incontri tra soldati e popolazione civile. Gli Alleati 1   È il titolo di un documento distribuito dalle autorità alleate ai propri soldati. Acs, Mi, Gab., b. 81, f. 6923. 2   D. Tommaso, The school for wives cit. 3   Asn, Pref., Gab., 1944-45, II vers., b. 1279, f. 5, Regolamento sul matrimonio in Italia di sudditi inglesi.

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erano sbarcati più a sud già dal luglio ’43 e anche lì, come accadrà negli altri posti in cui progressivamente giungeranno, si erano intrecciati rapporti sentimentali sfociati in matrimoni. Ciò, per varie ragioni, aveva colto sorpresi ed impreparati i comandi militari, tanto da spingere quello inglese a proibirli. Lo testimonia una lettera esaminata dalla censura alleata. Questa, scritta da una donna di Gioia del Colle, in provincia di Bari, recita: «i primi ad entrare a Gioia furono gli inglesi, che cominciarono ad innamorarsi delle giovani ragazze, soprattutto quei tanti che parlavano italiano. Alcuni di essi si spinsero oltre e chiesero loro di sposarli, ma quando andarono in chiesa per regolarizzare i documenti gli fu impedito di continuare perché un ordine generale dell’autorità inglese vietava alla chiesa di celebrare matrimoni militari fino alla fine della guerra. Potevano sposarsi solo i civili. Questo generò un grande stupore in tutti»4. Ma il divieto non risolveva certo la situazione. Nonostante ciò, infatti, i matrimoni di guerra venivano ugualmente celebrati e registrati dalle autorità italiane. Il 20 gennaio 1944 la Curia arcivescovile di Napoli, infatti, comunicava al comando alleato che le disposizioni relative alla proibizione dei matrimoni non venivano rispettate dalla sezione Matrimoni del municipio, che procedeva regolarmente nella loro trascrizione5. Ciò, unito al massiccio numero di richieste matrimoniali, presumibilmente, indusse i comandi inglesi a rivedere l’atteggiamento assunto. Abbandonata, perciò, l’idea di impedirne la celebrazione si puntò su una regolamentazione estremamente rigida, al fine di scoraggiare il più possibile le «coppie miste». Il 5 aprile 1944 Lewis riferiva il rigetto di molte domande di matrimonio da parte della commissione alleata che aveva constatato la cattiva moralità delle donne su cui si era indagato. «La domanda è sempre la stessa», scriveva il militare, «‘da dove vengono i soldi?’. E la risposta non cambia mai: ‘mi manda qualcosa mio zio’. Chiedo l’indirizzo dello zio, spiegando che sono tenuto a controllare e ne ottengo un sorriso triste e un’alzata di spalle. Il gioco è finito. Non esiste nessuno zio. ‘Puoi fare qualcosa per me?’ chiede in genere la ragazza. ‘Non ho scelto io di vivere così. Dammi la possibilità di andarmene da qui e sarò una buona moglie come qualsiasi altra’»6.   Acc, 149/619D/38.   Acc, 170/902B/2542. 6   N. Lewis, Napoli ’44 cit., pp. 136-137. 4 5

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Dopo aver citato le cifre esorbitanti relative al tasso di prostituzione a Napoli, Lewis continuava: pare incredibile. Tra le ragazze che ho interrogato, tre su quattro probabilmente smetteranno di prostituirsi non appena avranno la prospettiva di guadagnarsi da vivere con altri mezzi. Si vorrebbe poter fare qualcosa per queste donne che chiedono di sposare i nostri soldati. Quasi tutte le ventidue ragazze respinte sembravano gentili, affettuose, bravissime nelle faccende domestiche, ed erano anche molto belle. Nove ragazze italiane su dieci hanno perduto i loro uomini, scomparsi in battaglia, nei campi di prigionia, o rimasti tagliati fuori nel nord occupato. L’intera popolazione è senza lavoro. (...) come devono fare per vivere?7.

In riferimento ai matrimoni di guerra riemerge quell’idea che i «liberatori» avevano della popolazione italiana – a cui si è già fatto riferimento –, vista come sottomessa e inaffidabile. Pur comprendendo quel senso di «abbandono» che connotava queste donne «belle, gentili, affettuose e ben capaci di governare la casa», Lewis non pensò minimamente che, nonostante tutto, esse potessero essere davvero innamorate dei militari che intendevano sposare. La sua convinzione era che volessero «approfittare» del matrimonio per sfuggire ad una realtà di miseria e degrado. Il 20 ottobre 1944 l’ufficiale annotava ancora: mi preoccupa il numero crescente di richieste di matrimonio con donne italiane avanzate da ufficiali o da subalterni. Gli ufficiali devono sapere che sarà fatto tutto il possibile per scoraggiare unioni di questo genere, poche delle quali si risolvono felicemente, o addirittura sopravvivono per più di un breve periodo. Le statistiche dell’ultima guerra in fatto di matrimoni con stranieri dimostrano che solo il 15% di essi è riuscito. Non c’è ragione di sperare che stavolta i matrimoni internazionali si riveleranno più soddisfacenti. Visti i sentimenti ancora più amari che questa guerra ha suscitato, è più probabile il contrario. Dopo l’ultima guerra ci sono stati molti casi di uomini che, non potendo più sopportare l’infelicità di mogli e figli, sono andati a vivere nel paese d’origine delle donne che avevano sposato, in genere pentendosene per il resto dei loro giorni. In tutti questi casi erano state le mogli a costringerli a farlo. È dovere di ogni ufficiale proteggere le nostre truppe dai naufragi matrimoniali. Bisogna far presente ai nostri ufficiali che   Ibid.

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essi non hanno una sicurezza da offrire alle loro mogli. In questo momento sono funzionari del governo e il loro futuro dipende dal fatto di riuscire a trovare o meno un lavoro fisso e decoroso nella vita civile8.

Un testo molto simile al precedente è stato rinvenuto nella documentazione alleata. Questo, datato 31 maggio 1944, si rivolgeva a tutti gli ufficiali inglesi e, rispetto a quello riportato da Lewis, insisteva sul fatto che le unità che ricevevano le domande matrimoniali avrebbero dovuto incontrare i richiedenti e allertarli circa i «pericoli» che comportava un matrimonio misto. Il documento si soffermava sulla necessità di informarli di una credenza diffusa in Italia, secondo la quale i soldati inglesi siano ricchi. Di conseguenza molte madri italiane fanno il possibile per assicurarsi quella che considerano un’unione vantaggiosa per le proprie figlie. Le truppe che visitano le case italiane occasionalmente potrebbero trovarsi quasi senza rendersene conto così profondamente impegnate senza poter più liberarsi: ci sono stati casi di questo tipo. Inoltre, alle stesse ragazze è stata inculcata questa idea dalle proprie mamme in maniera così profonda che loro stesse confondono un’infatuazione passeggera con un’unione matrimoniale9.

Il documento continua elencando i principali motivi che avrebbero dovuto scoraggiare i matrimoni italo-britannici e che sarebbero dovuti essere costantemente sottoposti all’attenzione di tutte le truppe. In particolare, si sottolineava che: La conoscenza di necessità è superficiale e di breve durata; La disparità di nazionalità, di lingua, gusto e modo di vivere. È molto difficile mantenere una vita coniugale lunga e felice su basi così diverse; C’è nel 90% dei casi una diversità di religione visto che gli italiani sono praticamente al 100% romani cattolici, mentre solo il 10% delle truppe sono romano cattoliche; Gli italiani sono stati recenti e amari nemici e in molti casi hanno perpetuato delle atrocità sui marinai e soldati inglesi. Pochi dei parenti e degli amici dei soldati a casa accetterebbero una moglie italiana come persona gradita alla famiglia, che è destinata ad un’esistenza miserabile e solitaria;   Ivi, pp. 237-238.   Acc, 170/902B/2542.

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In Italia non esiste il divorzio, se il soldato in seguito trova che queste disparità siano troppo pesanti e desidera di rendersi libero non lo può fare in Italia. Dall’altro lato se ottiene il divorzio in Inghilterra egli è libero, ma la sua partner per la sua religione e le leggi del suo Stato non lo è; Se ci sono dei figli quasi sicuramente saranno resi ridicoli dagli scherzi dei bambini locali nel vicinato che, come è avvenuto già in passato, porterebbe ad una grande infelicità e ad un eventuale isolamento del bambino. (...); Ci sono molte altre differenze le quali, sebbene sembrino piccole, come ad esempio diversi gusti in cucina, messe insieme militano fortemente contro la felicità10.

Analoghe avvertenze furono riproposte agli ufficiali inglesi il 28 ottobre 1944. In tale occasione, dopo aver ribadito la necessità di scoraggiare i militari britannici dal contrarre matrimonio con le donne italiane ed aver riferito l’irrisoria percentuale di matrimoni riusciti nell’ultima guerra, si insisteva sulle difficoltà che le spose italiane avrebbero incontrato nel Regno Unito, in particolare quelle relative al clima, alla cucina, ai costumi e alla religione. Il rapporto continuava: «per più di tre anni gli italiani sono stati dichiarati nemici del nostro Paese, rivelandosi amari e spietati e sebbene sarebbe sbagliato tenere aperte vecchie ferite, moltissime famiglie inglesi hanno perso mariti, padri, figli e fratelli che lottavano contro l’Italia. Quindi loro non sarebbero ben disposte ad accogliere nel vicinato una moglie italiana»11. Il cappellano capo dell’esercito britannico chiese nell’ottobre 1946 ai parroci della diocesi di Napoli di sottoporre alle coppie intenzionate a contrarre matrimonio misto una serie di avvertenze, che furono pubblicate sul Bollettino ecclesiastico di quel mese. Il testo invogliava i sacerdoti ad insistere sulle differenze di nazionalità, lingua, abitudini sociali, ma soprattutto su quelle religiose. Rispetto a queste ultime fu pubblicato un lungo elenco di condizioni a cui il soldato straniero sarebbe andato incontro sposando una donna cattolica, tra cui l’indissolubilità del matrimonio, l’inalienabilità dei diritti coniugali, l’obbligo di educare i figli secondo i canoni della Chiesa cattolica. Anche in questo caso si insisteva sul fatto che le   Ibid.   Acc, 8/14E/477.

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condizioni di «depressione» dell’Italia in quel particolare momento rendevano il matrimonio con membri delle forze militari «il più desiderabile» e che «l’interessata italiana» una volta trasferitasi in territorio britannico sarebbe potuta «rimanere amaramente delusa circa le condizioni economiche del marito»12. Anche le autorità americane dissuasero i propri militari dallo sposare donne italiane. Tra gli altri, con un documento che il 4 luglio 1944 il quartier generale alleato inviò ai diversi distretti: «le domande per i matrimoni presentate dal personale militare dovranno in genere essere scoraggiate a meno che non siano accompagnate da una prova di lungo fidanzamento ufficiale o corteggiamento, che attesti che il matrimonio non sia affrettato. Una considerazione speciale sarà data ai casi di donne incinte da parte di membri delle forze armate alleate e nei casi in cui ci siano circostanze che giustificano eccezioni a questa regola generale». Ci si preoccupò, inoltre, che il militare consegnasse una dichiarazione nella quale dovevano comparire, oltre al grado militare ed al livello d’istruzione, l’occupazione ed il reddito che aveva prima dell’ingresso nelle forze militari. Ciò era necessario per capire se fosse stato in grado di mantenere la nuova famiglia dopo la guerra13. Le autorità americane intenzionate a scoraggiare i matrimoni si servirono anche di un lungo testo destinato a tutti i militari, il cui titolo era But love the girl!, che analizzava, molto ironicamente, le difficoltà di natura burocratica e le differenze di cittadinanza, di cultura, di lingua e di religione tra i soldati americani e le donne italiane14. «La scuola delle mogli» Nonostante i tentativi di dissuasione, i matrimoni continuavano ad essere celebrati e, anzi, aumentavano progressivamente. A questo punto ai comandi non restava che limitare i danni. Una delle maggiori preoccupazioni fu, infatti, quella di cercare di ridimensionare le differenze linguistiche e culturali dei coniugi, con le quali presto le spose si sarebbero scontrate.   Bean, ottobre 1946, pp. 154-159.   Acc, 159/831B/1765-1769. 14   Acs, Mi, Gab., b. 81, f. 6923. Il testo è privo di un riferimento temporale. 12 13

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A tal fine, con la collaborazione dell’American Red Cross, furono istituite scuole speciali di «americanizzazione»15. Le materie affrontate erano disparate. Con il supporto di un interprete, si garantivano corsi di lingua inglese, della storia degli Stati Uniti, della sua geografia, delle tradizioni, dei principi costituzionali e della politica del Paese. Allo stesso modo venivano trasmesse nozioni circa i diritti e i doveri dei cittadini, notizie sulle conquiste femminili e i servizi pubblici. Si mostrava, ancora, come si governava la casa con l’ausilio dell’energia elettrica, del gas, del riscaldamento e degli elettrodomestici. Venivano trasmesse informazioni relative alle abitudini culinarie e a quelle estetiche, su come fare acquisti o spostarsi per le città e su come allevare i figli secondo i principi più moderni. Venivano proiettati film e documentari e distribuiti opuscoli informativi. Le diverse materie venivano illustrate dalle crocerossine, dagli ufficiali e dai cappellani militari16 (cfr. tav. 9). Le scuole furono istituite in diverse città, tra cui Roma e Viareggio. A Napoli le lezioni si svolgevano in una grande sala dell’hotel Continental, sede di uno dei club americani. Il corso, che s’inseriva nell’intervallo tra la celebrazione del matrimonio e l’attesa per l’imbarco, aveva in genere una durata di 40 giorni e non era obbligatorio. Tra le spose che lo seguirono c’era Edea M., una donna di Tivoli che il 26 ottobre 1945 aveva sposato Albert Materazzi, ufficiale alleato di origine toscana. Mentre suo marito fece ritorno a Washington due mesi dopo il matrimonio, ad Edea la Croce Rossa romana comunicò che la sua nave sarebbe salpata da Napoli il 19 aprile 1946 e che prima, nella stessa città, avrebbe dovuto seguire un corso di «preparazione all’America». In particolare, la donna ricorda che le crocerossine si occupavano del disbrigo delle pratiche burocratiche e i soldati dell’orientamento. Di quest’ultimo rammenta il rilievo dato all’emancipazione delle donne americane, per testimoniare la quale ci si servì della proiezione di un filmato dal titolo L’arma segreta, che insisteva su quanto il lavoro delle donne avesse contribuito alla vittoria americana sulla minaccia nazista, e della distribuzione di una brochure dal titolo Gli americani non sono angeli, finalizzata a demolire l’immagine stereotipata dell’America come paese della «cuccagna» e di quella degli statunitensi come «Rockefeller».   «Il Tempo», La scuola delle mogli, 7 ottobre 1945.   «Nuovo Mondo», Le spose italiane dei soldati americani si preparano a nuova vita, 15 ottobre 1945. 15 16

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Anche nel filmato dedicato al «sogno americano» delle spose di guerra europee si dice che uno dei principali obiettivi della scuola per mogli era quello di liberarle dai falsi miti diffusi anche attraverso il cinema: «si voleva che le donne capissero che gli Stati Uniti non fossero più un paese selvaggio e romantico, ma una società evoluta, dove ciascuno è giudicato per i suoi meriti e non per le sue origini»17. Un cronista de «Il Tempo», che assistette ad una delle lezioni, raccontò di alcune raccomandazioni che vennero fatte nell’ottobre del ’45 ad alcune «mogli-scolare»: «il generale americano diceva sorridendo cordialmente: ‘Attenzione a traversare le strade in America’; lo diceva in inglese, le mogli-scolare lo guardavano serie, non comprendevano; l’interprete traduceva, le mogli-scolare ridevano. (...) Diceva il sacerdote cattolico: ‘andrete in paesi dove la chiesa cattolica sarà lontana dalle vostre case; fate sacrifici, camminate, raggiungete quella chiesa. Apprendete la lingua inglese per confessarvi in inglese... portate con voi la vostra educazione cattolica, quel paese vi giudicherà’»18. Alle mogli di guerra, ormai divenute cittadine americane, in attesa degli imbarchi per le nuove patrie, furono, inoltre, garantite piccole razioni alimentari, comprendenti, tra l’altro, carne in scatola, cioccolata, chewing-gum. Per le spose napoletane la distribuzione avveniva all’hotel Cavour in piazza Garibaldi. «La portaerei innamorata»19 L’art. 10 della legge del 13 giugno 1912 n. 555 «sulla cittadinanza italiana» stabiliva che la donna che contraeva matrimonio con uno straniero perdeva «la sua cittadinanza per acquisire quella del marito»20. Questa disposizione doveva fare i conti con le legislazioni in materia di cittadinanza vigenti nei Paesi da cui gli uomini provenivano. Acquisivano automaticamente la nuova cittadinanza, ad esempio, quelle donne che sposavano soldati polacchi o inglesi. Per   D. Tommaso, The school for wives cit.   Ibid. 19   È il titolo di un articolo de «Il Tempo», 22 gennaio 1946. 20   Acs, Pcm, 1948-50, b. 3.1.3, Conferma in servizio di impiegate che in seguito a matrimonio hanno assunto cittadinanza straniera. Lo stesso principio era stabilito dall’art. 14 del codice civile italiano. 17 18

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le spose dei Gi’s, invece, la cittadinanza era subordinata alla residenza effettiva negli Stati Uniti21. Il Paese era rimasto fedele alla politica immigratoria restrittiva formalizzata nei primi anni ’20 con l’approvazione da parte del Congresso del Quota Act22 che aveva drasticamente ridotto il numero degli immigrati. Il punto 5 delle General Provisions del Marriage of Military Personnel del 4 gennaio 1944, rifacendosi alle disposizioni dell’Headquarters, precisava che «ogni persona a cui viene accordato il permesso di sposarsi deve comprendere che: la moglie e il marito di un membro delle forze armate alleate non diventeranno cittadini degli Stati Uniti per virtù del matrimonio, ma potranno essere esenti dalle quote di immigrazione in modo da ottenere una naturalizzazione più veloce»23. Il 12 dicembre 1944 il Dipartimento di Stato americano annunciò le quattro categorie di cittadini italiani e francesi che avrebbero potuto ottenere il visto consolare per recarsi negli Stati Uniti. Insieme ai diplomatici, ai funzionari e a quei cittadini che intendevano promuovere attività intese a rendere più efficace lo sforzo bellico o a favorire le future relazioni commerciali, vi erano «le mogli o i mariti di cittadini americani che avevano il diritto ad entrare in America e la cui domanda era stata accolta»24. Il 28 dicembre 1945 il Congresso americano approvò la legge 271 War Brides Act che formalizzava l’autorizzazione alle mogli straniere dei cittadini americani che «avevano servito onorevolmente le Forze armate statunitensi durante la Seconda Guerra Mondiale» ed ai loro figli ad entrare negli Stati Uniti con un visto d’immigrati fuori quota. Tale legge perse la sua efficacia il 27 dicembre del 1948. Il 29 giugno del 1946 veniva, ancora, approvata la legge 471 The   Acs, Mi, b. 81, f. 6923, Matrimoni tra militari americani con cittadine italiane.   A. De Clementi, La grande emigrazione: dalle origini alla chiusura degli sbocchi americani, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’Emigrazione italiana. Partenze, Donzelli, Roma, 2001, p. 208. Il Quota Act, approvato dal Congresso nel 1921 e nel 1924, limitava l’arrivo dei nuovi emigranti ad un piccolo contingente annuo, proporzionale alla consistenza di ogni etnia sul suolo americano, desunta prima dal censimento del 1910 e poi da quello del 1890. 23   Acc, 206/694A/536. 24   Acs, Mi, Gab., b. 81, f. 6923. Fu stabilito che i visti non sarebbero stati concessi finché i richiedenti non avessero ricevuto il passaporto e il permesso d’uscita dal Paese a cui appartenevano. Ai coniugi dei cittadini americani questi sarebbero stati concessi dai consolati americani di Napoli e di Palermo. 21 22

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Fiancées Act, che stabiliva che le fidanzate straniere dei membri delle forze armate, se capaci di documentare l’intenzione di sposarsi, potevano essere ammesse negli Stati Uniti come visitatori temporanei25 per un periodo di tre mesi, allo scopo di contrarre matrimonio. La documentazione, che doveva essere presentata dalle «fidanzate di guerra» alle autorità consolari di Napoli, Genova e Palermo, oltre ai documenti anagrafici doveva comprendere la corrispondenza personale ricevuta dal fidanzato residente negli Stati Uniti e un Affidavit firmato dal fidanzato davanti ad un notaio, nel quale egli avrebbe dovuto specificare l’intenzione di sposarsi subito dopo l’arrivo della ragazza, di essere capace di provvedere al suo mantenimento e di proteggerla in modo da non dipendere dalla carità pubblica durante la sua permanenza26. Se il matrimonio non aveva luogo entro il periodo prestabilito le fidanzate di guerra avrebbero dovuto rientrare nel loro Paese. Questa legge ebbe validità fino al primo luglio del 1947. Una volta che i matrimoni erano stati celebrati e che era stata definita la questione relativa all’ingresso nei Paesi d’acquisizione, bisognava risolvere il problema del trasferimento delle mogli di guerra. Gli imbarchi non potevano avvenire senza l’autorizzazione del Theater Commander27 che, considerato il limitato numero di navi disponibili, decise di dare la priorità alle operazioni militari e al rimpatrio dei soldati. Nel gennaio 1946 il ministro della Guerra annunciò che dei bastimenti dell’US Navy sarebbero stati messi a disposizione per il trasporto delle spose, per il quale furono utilizzate anche alcune navi italiane, come la Vulcania e la Saturnia. La maggior parte delle mogli degli statunitensi attraversò l’Atlantico tra il febbraio e il dicembre 1946. Tutto ciò avvenne con la collaborazione delle autorità competenti in materia d’immigrazione, l’American Red Cross e il Dipartimento di guerra. 25   «Risorgimento», In partenza per l’America. Consigli alle fanciulle che si recano a sposare, 15 agosto 1946. Se le ragazze risiedevano in Toscana, in Emilia o nelle altre regioni del Nord i visti venivano rilasciati dal consolato americano di Genova; per quelle che, invece, risiedevano a Reggio Calabria o in Sicilia erano rilasciati dal consolato di Palermo; da quello di Napoli, invece, per le fidanzate residenti nel resto della penisola. 26   Ibid. 27   Acs, Mi, Gab., b. 81, f. 6923, Matrimoni tra militari americani con cittadine italiane.

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Le autorità militari demandarono alla Croce Rossa americana le pratiche relative al viaggio, che comprendevano l’accoglienza delle spose nei «centri di raccolta», l’assistenza durante le traversate e il trasferimento, una volta sbarcate, da New York alle diverse destinazioni con treni speciali. La maggior parte delle navi partì da Napoli, dove le spose venivano ospitate qualche giorno prima in alberghi cittadini come il Cavour, il Terminus, il Continental per le operazioni preliminari. Le cronache dei quotidiani fecero riferimento ai viaggi già dal settembre del 1945. Su «Risorgimento», venne data la notizia della partenza della motonave Gripsholm, di nazionalità svizzera e al servizio degli Alleati, la quale trasportava, insieme a contingenti di truppa e a civili americani rimasti bloccati in Italia per via del conflitto, le spose di guerra28. La prima grande traversata avvenne venerdì 8 febbraio 1946 alle ore 16, quando la portaerei americana Algonquin, salpando dal molo Beverello di Napoli, attraversò l’Atlantico per trasportare le prime 412 spose di guerra italiane e 72 bambini a New York29. Le passeggere provenienti dalle altre città erano giunte a Napoli intorno al 20 gennaio coi treni della Red Cross, 87 erano romane30 (cfr. tav. 11). Il «Risorgimento» descrisse la partenza della nave: «sui ponti di passeggiata della nave lo sciame di giovani spose sventola i fazzoletti e saluta malinconicamente la terra natia che a poco a poco si annebbierà alla loro vista. Qualche lacrima spunta nei loro occhi e le più, anche per vincere la commozione del momento, gridano più volte: Viva l’Italia!»31. Tra quelle spose c’era anche Laura, la quale ricorda chiaramente le cattive condizioni meteorologiche che la costrinsero a rimanere nella sua cabina sofferente per tutta la durata del viaggio. La traversata durò 14 giorni: alle 7 del mattino del 22 febbraio l’Algonquin entrò nel porto di New York, dove «i mariti passeggiavano nervosamente sui moli con fiori e regali»32. L’Algonquin, dopo essere 28   «Risorgimento», Tornano in America soldati e crocerossine. Le partenze delle italiane divenute mogli di soldati degli S.U., 26 settembre 1945. 29   Ivi, È partita la nave delle spose, 9 febbraio 1946. 30   «Il Tempo», Mogli in viaggio. La portaerei innamorata, 22 gennaio 1946. 31   Ibid. 32   «Risorgimento», La nave delle spose è giunta a New York, 23 febbraio 1946. Il quotidiano riprese la notizia da un articolo della stampa statunitense.

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sbarcata a New York, ritornò a Napoli, riportando in patria circa 40 prigionieri italiani ammalati, per poi ripartire il 21 marzo 1946 con altre 212 spose italiane. Le traversate avevano una cadenza più o meno mensile. Così altre navi salparono il 19 aprile, il 17 maggio, il 9 giugno e così via. Su quest’ultima, la Thomas H. Barry, c’era Virginia H., che ricorda di essere partita da Napoli insieme ad altre 400 mogli di guerra. Nella maggior parte dei casi le donne partivano dopo i soldati, anche se qualche volta gli obblighi militari trattennero di più i mariti in Italia. Molte spose viaggiavano accompagnate dai figli nati dai matrimoni di guerra. Molte traversate furono contrassegnate da violente tempeste. È ciò che accadde al transatlantico Marine Shark, con a bordo 927 passeggeri italiani, tra cui 80 spose di guerra, che trascorsero «quasi tutti i 14 giorni in preghiera, assistiti da due sacerdoti e da una monaca»33. «La Domenica del Corriere» rappresentò la scena (cfr. tav. 13). Le rotte delle navi che trasportavano spose italiane erano diverse. Il 2 novembre 1945, ad esempio, sbarcarono a Rio de Janeiro dal vapore Don Pedro Secundo34. Per quelle donne che avevano sposato i soldati canadesi l’itinerario per raggiungere i mariti era diverso. Anna P., ad esempio, col treno attraversò l’Italia, giunse in Svizzera, a Londra e poi a South­ ampton; da lì s’imbarcò sulla nave Lady Rodney che, dopo otto giorni, la condusse a Halifax, in Canada. I tempi per l’imbarco erano generalmente lunghi. Oltre all’accennata priorità che si preferì dare ai soldati feriti, agli ex prigionieri di guerra e ai combattenti, bisognava organizzare il trasporto delle spose provenienti da diversi Paesi. Perciò il comando statunitense, presso il quale molte spose protestarono per velocizzare i tempi d’imbarco, pensò di dare la priorità a quelle che avevano esigenze più impellenti35. La protesta assunse toni molto accesi in Gran Bretagna, dove migliaia di donne che attendevano da diversi anni di raggiungere i loro mariti inscenarono, a partire dall’ottobre 1945, manifestazioni di piazza e proteste presso gli uffici competenti.   «Risorgimento», Drammatica traversata dell’Atlantico, 22 febbraio 1947.   «Risorgimento», Spose italiane sono giunte in Brasile, 2 novembre 1945. 35   Acc, 206/694A/536. 33 34

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«La Domenica del Corriere» propose rappresentazioni di escamotage per ovviare al problema dei lunghi tempi necessari per il trasporto ufficiale. Tra le altre, quella di una sposa che si nascose in una cassa per raggiungere il marito (cfr. tav. 14). La priorità data al trasporto delle spose italiane alimentò ulteriormente il malcontento di quelle inglesi che si erano unite in matrimonio con soldati australiani, tanto che nell’aprile del ’46 nelle strade londinesi si leggevano cartelli con scritte del tipo: «Give Australian Wives priority over italian!»36. Finalmente, il 26 febbraio 1946 il primo gruppo di donne britanniche lasciò Southampton sulla SS. Argentina37. Per accelerare i tempi dell’imbarco qualche volta i fidanzati di guerra ricorrevano ai matrimoni telefonici. È la soluzione a cui pensò una ventiduenne milanese che in pochi minuti, con l’autorità di un pastore protestante, si unì in matrimonio ad un sergente americano38. «Le donne europee sono pericolose!»39 Centinaia di migliaia di ragazze americane che hanno superato l’età del matrimonio considerano con terrore il pericolo di rimanere tutta la vita zitelle. (...). Circa quattro milioni di ragazze fra i 20 e i 35 anni resteranno senza marito e formeranno, dal punto di vista matrimoniale, una specie di «generazione perduta». (...). Tra le cause, il fatto che decine di migliaia di Gi’s, ammaliati dal fascino esotico, hanno sposato ragazze d’altri Paesi. Perciò le ragazze americane nutrono un sordo rancore per le ragazze straniere che i Gi’s si portano in America dopo aver combattuto40.

Le conclusioni a cui era giunto, nell’ottobre 1946, il sociologo americano Clifford R. Adams, esperto matrimoniale presso il Collegio di Stato della Pennsylvania, evidenziavano un profondo risenti  «Risorgimento», 20 aprile 1946.   J. Virden, Good by Piccadilly cit., p. 12. 38   «Corriere di Napoli», Sposati per telefono un americano e una milanese, 30 marzo 1947. 39   «La Domenica del Corriere», Le donne europee sono pericolose, 28 novembre 1948. 40   «Risorgimento», Quattro milioni di zitelle, 8 settembre 1946. La notizia era stata mutuata dall’«Associated Press», agenzia di stampa internazionale con sede negli Stati Uniti. 36 37

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mento dall’altra parte dell’Oceano nei confronti delle donne europee, incolpate di «furto di mariti»41. Da troppo tempo gli uomini americani erano lontani dalle loro case, il vecchio continente li albergava dal lontano 1942. Troppe donne li attendevano. In un articolo apparso su «Oggi», che aveva per oggetto la moralità delle donne americane, si legge: i primi dubbi sulla superiorità di carattere, d’intelligenza e di senso morale delle consorelle europee e di tutto il resto del mondo cominciarono a gettarla i soldati reduci delle terre d’oltremare, specialmente quelli che avevano sposato donne straniere. Presero a parlare senza reticenze e a far conoscere ciò che avevano appreso dal contatto con la femminilità non americana. In confronto delle ragazze europee quelle indigene vennero definite frivole, prive di profondi sentimenti affettivi, mancanti di un’appena mediocre cultura e soprattutto egoiste. Le polemiche si accesero furiose, ma le accuse non furono demolite42.

«La Domenica del Corriere» parlò, a tal proposito, di vero e proprio «panico» diffuso tra le donne americane e approfondì la questione descrivendo le strategie a cui queste sarebbero ricorse per tentare di arrestare il preoccupante fenomeno dei matrimoni di guerra in Europa43. Secondo quanto riferito, quando il numero di sposalizi superò i 100.000 le associazioni femminili si sarebbero appellate ai comandi militari, agli stati maggiori, alle sezioni del Ministero della Guerra, a deputati e a senatori. Non riuscendo ad ottenere i risultati sperati, avrebbero addirittura interpellato il servizio segreto e istituito una «sezione per lo spionaggio amoroso» per scoprire i «segreti» delle europee. Attraverso inchieste sottoposte ai militari provenienti dal teatro bellico europeo, le donne americane avrebbero scoperto che i Gi’s preferivano quelle del vecchio continente perché erano «più abili nelle faccende domestiche, più affezionate, meno spendaccione, più femminili, semplici, seducenti; si vestono con più eleganza e buon gu41   «Il Tempo», Quattro milioni di americane non troveranno marito, 7 ottobre 1946. 42   «Oggi», Le ragazze americane scivolano sempre di più. Negli Stati Uniti solo trentadue donne su cento non «scivolano» prima del matrimonio, 23 maggio 1948. 43   «La Domenica del Corriere», Le donne europee sono pericolose cit.

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sto pur spendendo meno denaro; riconoscono l’autorità dell’uomo, cosa rara nelle testarde e superbe donne d’America»44. Munite delle informazioni necessarie, le associazioni femminili avrebbero, infine, intrapreso una campagna propagandistica per indurre i loro soldati a «preferire i prodotti nazionali»45. Nel documentario dedicato alle mogli di guerra si accenna al fatto che l’opinione pubblica statunitense era contraria ai matrimoni di guerra anche perché temeva che potessero essere considerati dalle straniere come una via privilegiata per entrare negli Stati Uniti, secondo il motto: «acchiappa un Gi’s e vai in America gratis»46. Diverse storie apparse sulla stampa di quegli anni testimoniano la prevenzione nei confronti delle mogli europee. Su «Oggi» Graziella Leopardi, una giovane donna di La Spezia, raccontò le vicissitudini della sua storia d’amore con il macchinista navale Buster M. McCormik di Dayton, nello Stato del Texas, conosciuto nel 1947 in una trattoria presso cui lavorava. Dopo il matrimonio, avvenuto nel luglio del ’48, il marinaio ripartì e Graziella, diventata nel frattempo mamma, non ebbe di lui più notizie. La donna dovette rassegnarsi alla solitudine e alle maldicenze dei concittadini. Dopo ben due anni, però, Graziella ricevette una lettera «con francobolli rossi e verdi e con la targhetta azzurra della posta aerea» di Buster che preannunciava il suo arrivo. Egli ritornò in Italia nel luglio del 1950 raccontando di essere stato vittima di un inganno ordito dalla madre la quale non aveva mai approvato il matrimonio del figlio con un’italiana47. Luisa I., una sposa napoletana, parla di un atteggiamento d’invidia nei confronti delle italiane da parte delle crocerossine americane che prestavano servizio a Napoli: «mi ricordo che le miss della Red Cross americana non ci potevano pensare perché molte di loro erano venute in Italia, s’erano arruolate perché volevano trovare marito tra i militari americani e invece a loro piacevamo noi italiane... c’era una di loro che mi faceva morire, ci piangeva, era del Colorado, perché diceva ‘non è possibile! Tutte le italiane si prendono gli americani e io no!’»48.

  Ibid.   Ibid. 46   D. Tommaso, The school for wives cit. 47   «Oggi», Vincendo l’odio della suocera riconquista il marito americano la piccola sposa di guerra, 29 marzo 1951. 48   Memoria di Luisa, Napoli 1921, sposa di guerra. 44 45

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Bob L., un soldato americano che ha sposato una donna napoletana, ricorda: «si poteva capire che loro erano gelose... Mia mamma quando ha visto Elena era contenta, Elena è piaciuta a lei quando l’ha conosciuta, ma quando scriveva le lettere che io stavo a Napoli scriveva sempre: ‘stai attento a non farti rubare!’ Perché la gente in America pensava che le ragazze di Napoli volevano prendersi i soldati americani, volevano approfittare»49. Alcune spose intervistate raccontano del rapporto conflittuale che stabilirono con le donne d’oltreoceano quando si ricongiunsero ai loro mariti. Elena L., che raggiunse il suo sposo in Virginia, ricorda le parole discriminatorie di un’anziana donna che, quando si accorse che aveva poca dimestichezza con la lingua inglese, le disse: «tu almeno sei bianca e non hai gli occhi così» (allungò con le dita i suoi occhi per imitare un viso orientale), «mio figlio me l’ha portata con gli occhi a mandorla»50. Qualcuna percepì anche una tendenza a considerare le mogli italiane incolte ed arretrate. Luisa, nel raccontare questo aspetto, scrive nella sua memoria: «pochi giorni dopo il mio arrivo, una zia di Len chiese sottovoce, ma non tanto che io non sentissi, se avevo visto la radio e che avevo detto. Cacciai un urlo: avete mai sentito parlare di Marconi?»51. «Matrimoni... d’azzardo»52 Da quando cominciarono a celebrarsi i primi matrimoni di guerra immagini, notizie e commenti comparvero su quotidiani e settimanali. Non rare erano le cronache fiabesche supportate da sognanti fotografie che ritraevano baci o scene di matrimoni e didascalie del tipo: «cinque secoli dopo Colombo le donne italiane hanno scoperto l’America. Ma anche gli americani hanno scoperto le nostre donne e se le portano via. Partono treni, bastimenti carichi di sposine che vanno alla ricerca della felicità. Addii cinguettanti alla stazione tra le partenti felici e le amiche che nascondono un po’ d’invidia»53.   Bob L., testimonianza cit.   Testimonianza di Elena, Napoli 1930, sposa di guerra. 51   Luisa, memoria cit. 52   È il titolo di un articolo pubblicato su «La Croce», settimanale religioso, sociale, letterario il 3 novembre 1946. 53   «La Domenica del Corriere», Le nostre esportazioni: sposine, 17 marzo 1946. 49 50

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Ma la posizione della stampa non fu sempre così entusiastica. Spesso, infatti, essa assunse nei confronti dei matrimoni di guerra un atteggiamento ambivalente. Tale ambivalenza era meno spiccata, ad esempio, nel «Risorgimento», che nei primi anni si mostrò chiaramente favorevole a tali unioni. In seguito, poi, ad articoli appassionati e a trafiletti con annunci di fidanzamenti o di nozze affiancò sparuti riferimenti a matrimoni naufragati. Fu il «Risorgimento» a dare notizia del primo divorzio tra una sposa di guerra napoletana e un ufficiale americano di Los Angeles per «incompatibilità di carattere»54. «L’Azione» rimpiazzò i primi articoli dai toni ottimisti con quelli dagli accenti sempre più critici. Diverse volte, ad esempio, il quotidiano riferì di uno studio condotto da un certo dottor Kenneth A. Apple, professore di Psichiatria dell’Università di Pennsylvania, secondo il quale nel 1950 su tre matrimoni celebrati durante la guerra due si sarebbero sciolti col divorzio55. Molto spesso la stampa rivelò chiaramente la sua perplessità circa tali unioni, sottolineando le insormontabili differenze che talvolta conducevano a divorzi, abbandoni o addirittura a tragedie56. Tra le vicende più discusse quella di Maria Fusco, definita «la Butterfly di Briano», più volte paragonata a Lydia Cirillo. La donna, a Briano, in provincia di Caserta, il 7 settembre 1946 aveva sposato il capitano inglese Victor Ring, conosciuto nella mensa ufficiali della Reggia di Caserta presso cui lavorava. Dopo un breve periodo di luna di miele a Venezia, dove il capitano inglese era stato trasferito, dell’uomo si persero le tracce. A Maria fu prima detto che era stato assassinato, poi che era stato trasferito d’urgenza in un ospedale londinese e, infine, che aveva raggiunto in patria la moglie, essendo già sposato da 25 anni. Oltre alle suddette vicende, i giornali si soffermarono sulla 54   «Risorgimento», Le mogli di guerra. Il primo divorzio tra un’italiana e un americano, 7 dicembre 1946. 55   «L’Azione», I matrimoni di guerra non dureranno, 9 giugno 1946. 56   Alcuni esempi: «La Tribuna Illustrata», Altro divorzio di sposa di guerra. Brigida Wates, inglese, che aveva sposato e seguito un militare americano a Las Vegas divorzia dal marito per gravi dissensi, 6 ottobre 1946; «Illustrazione italiana», Helen Hagda Ehreburg, una ragazza di Sumatra di 26 anni ha detto ad un processo di aver amato il giovane inglese e di essere stata abbandonata dopo aver avuto da lui una bambina, 20 gennaio 1947; «Risorgimento», Innamorato di una bella manicure un ufficiale inglese si spara alla tempia perché lei ha scoperto che è sposato in patria, 3 febbraio 1947.

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falsa documentazione presentata dal capitano alle autorità italiane facendosi passare per vedovo, sulle gravi condizioni economiche e di salute della donna, nonché sui tentativi dei suoi avvocati di intraprendere una battaglia legale contro di lui57. «Il Popolo di Milano» nel 1946 pubblicò l’esito di un’inchiesta iniziata in Europa e terminata a New York: «quello che molti moralisti temevano si avvera, purtroppo. Naturalmente non tutti, ma molti di questi matrimoni, frutto di decisioni precipitate, possono dirsi non riusciti»58. «La Croce», settimanale religioso, rifacendosi alla suddetta indagine, scrisse: già in Italia, man mano che procedeva l’avanzata alleata, molti soldati che avevano sposato donne italiane non si curavano più di loro, altri le abbandonavano per nuove avventure. Molte di queste che hanno raggiunto i mariti sono disorientate e tristi, perdute in un mondo nuovo, non hanno da orientarsi e si stringono ai mariti, mentre questi ben presto si sentono imbarazzati dalle mogliettine straniere che non sanno cucinare il pudding, non bevono wisky, si spaventano del movimento di New York e non capiscono perché si debba consumare tanti viveri in scatola ed andare alle partite, invece di godersi la propria casa. Ci sono poi sorprese come le amiche del marito, dopo pochi giorni il divorzio, il quale sembra venire concesso con estrema facilità. Ci sono donne sposate ad inglesi infelici per la freddezza dei mariti, a polacchi, preoccupate per le sbornie che questi prendono e per i loro propositi rivoluzionari. I brasiliani sono donchisciotteschi, sposano e scompaiono. E la sorte delle donne sposate agli australiani? Neozelandesi, sudafricani? Si tratta di uomini di altri mondi. Ci sono anche matrimoni con negri. Concludendo, la maggior parte delle spose italiane che hanno raggiunto i loro mariti non sono felici; molte hanno avuto l’amara sorpresa di trovare il loro uomo sposato con prole, altre non lo hanno trovato affatto allo sbarco...59. 57   Tra gli altri: «Risorgimento», Il rocambolesco romanzo del capitano Ring. A 41 anni a Caserta conobbe Maria Fusco, una piccola cameriera, dimenticando che in Inghilterra aveva un’altra moglie, 1° ottobre 1947; «Reportage», La piccola butterfly di Briano. Il capitano Ring è scappato dopo aver sposato Maria Fusco oppure è morto? Se così fosse la donna ha diritto a parte dei suoi averi in quanto moglie legittima. In caso di processo a difenderla sarà l’avvocato Eugenio De Simone, lo stesso che ha difeso Lydia Cirillo, 20 luglio 1947. 58   «Il Popolo di Milano», Qual è la sorte delle donne italiane sposate a soldati alleati?, ottobre 1946. 59   «La Croce», Matrimoni... d’azzardo, 3 novembre 1946.

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Prevedibile la posizione del «Don Chisciotte»: molte donne europee, trasferitesi negli Stati Uniti in seguito al matrimonio con soldati yankee non hanno potuto adattarsi alla vita americana e ritornano nei loro paesi, dove i mariti hanno promesso di raggiungerle. Gran paese l’America; un paese dove si trova tutto a profusione (...). Oh paese di sogno e di cuccagna mentre qui noi, ridotti al lumicino, abbiamo razionato il pane, il vino, la luce, il gas e in preda alla micragna, al tedio, ai nervi, ai raffreddori cronici, seguiamo il passo, stanchi e malinconici. Facile cosa, in base a queste idee, immaginare il lirico fervore e le speranze che nutriva il cuore di tante belle e giovani europee, coi loro eroi recatesi oltre Atlantico in un sogno dolcissimo e romantico. Eppur quelle brave figliole, ad una ad una stan tornando in patria... addio fortuna!60

Nei primi mesi del ’48, in prossimità delle elezioni politiche in Italia, molte testate accentuarono gli aspetti positivi dei matrimoni «misti». Contro la minaccia del pericolo comunista si cercò di promuovere degli Stati Uniti l’immagine di patria di democrazia, uguaglianza e libertà. In questo scenario su buona parte della stampa si avvicendavano le storie di spose di guerra felicemente realizzate, a cui facevano da contrappunto quelle relative a divorzi e ritorni in patria delle testate più protese a sinistra. Il processo di «strumentalizzazione» ai fini della propaganda elettorale delle mogli di guerra italiane puntò anche sull’immediatezza dei cinegiornali. Nel documentario sulle spose di guerra europee compaiono stralci di interviste ad un gruppo di spose italiane destinate al pubblico italiano. Queste, su evidente suggerimento del giornalista, a turno, sorridenti e ben vestite, dichiararono: «sono qui solo da un anno. Amo la democrazia e la libertà! Non vorrei mai che l’Italia diventasse comunista. Viva l’America!». «Tanto lavoro femminile è fatto da macchine meravigliose, aspirapolvere, lavatrici. Nessuno qui vuole essere comunista e spero che nessuno vorrà essere comunista in Italia». «Non avrei mai pensato che l’America fosse così bella. Tutti qui possono essere felici. L’America ci vuole aiutare, evviva l’America!». «Amo l’America perché qui è una terra democratica, tutti possono esser liberi e fare quello che vogliono loro. Speriamo che l’Italia resti sempre libera e non diventi mai comunista».   «Don Chisciotte», Donne che tornano, 8 dicembre 1946.

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«È una gioia sapere che l’America vuole aiutare il mio paese e tutto il mondo»61. Interessante è la posizione assunta dal settimanale «Oggi». Negli anni della «battaglia per la moralità»62 – promossa dalla Chiesa a difesa dei valori familiari rispetto ai mali della secolarizzazione – il settimanale inserì le spose di guerra in un atteggiamento di critica della società americana, logorata dal divorzio, dall’emancipazione femminile, dalla mancanza di un ordine gerarchico e dal materialismo. In questa chiave le «disadattate» spose di guerra divennero uno degli strumenti per dimostrare la superiorità del modello familiare italiano. Il primo marzo del 1950 il giornalista Gino Gullace, col supporto di interviste ad un gruppo di spose di guerra italiane che vivevano a Rochester, presentò un servizio con una dettagliata descrizione delle loro case, delle loro attività quotidiane e delle persone che frequentavano. Accennò alle problematiche con le quali erano costrette a convivere, prima fra tutte la difficoltà di integrazione con la comunità statunitense, la costante nostalgia della famiglia, della propria terra e il desiderio di farvi ritorno. Tutte le donne intervistate, pur mostrandosi concordi nell’affermare di avere condizioni di vita migliori rispetto a quelle lasciate in patria, confidarono di essere costrette alla solitudine e di poter contare unicamente sulla compagnia dei figli e delle altre donne che condividevano la loro stessa sorte. Una donna romana, ad esempio, confidò: «dal punto di vista materiale non posso lagnarmi, ma si può vivere solo con la radio, i mobili lucidi e l’aspirapolvere? Quando mio marito non è in casa ho la compagnia della mia bambina e di qualche libro italiano. La vita sociale d’America è molto diversa da quella nella quale io sono nata e cresciuta: inserirsi, fondersi in essa è una cosa impossibile». Dello stesso avviso era una donna di S. Maria a Vico: «le mie condizioni in Italia non mi avrebbero mai permesso di vivere come vivo qui. Sam lavora e guadagna discretamente. Abbiamo l’automobile e una casa nostra. Ho due figli, sento quasi tutti i giorni le altre italiane, le uniche con le quali posso parlare. Noi vogliamo vivere e la società che ci sta attorno vuole solo guadagnare. Automobile,   D. Tommaso, The school for wives cit.   M. Barbanti, La battaglia per la moralità tra oriente, occidente e italocentrismo, 1948-1960, in P.P. D’Attore (a cura di), Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Franco Angeli, Milano, 1991, pp. 161-198. 61 62

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aspirapolvere, lavapiatti automatica: ecco l’America. L’America mi ha deluso un po’»63. Un successivo articolo rivelava che, nonostante le difficoltà, scaturite soprattutto da divergenze culturali e religiose, soltanto il 5% dei matrimoni con spose «importate» dall’Italia si erano risolti con un divorzio. Si puntava l’accento su un più saldo e sano sistema di valori che contraddistingueva queste donne rispetto a quelle americane, meno docili e pazienti64. In quei primi anni ’50 si cominciò a discutere anche di una problematica che interessò quelle spose di guerra italiane che avevano avuto un’esperienza matrimoniale fallimentare. Il riferimento ad un fatto di cronaca apparso proprio su «Oggi» è molto rappresentativo. Poco dopo la fine della guerra, un soldato polacco che aveva combattuto in Italia sposò una padovana. La donna divenne, così, automaticamente polacca, assumendo, come stabilito dalla legge, la cittadinanza del marito. L’unione risultò presto infelice e l’ex soldato lasciò l’Italia e si trasferì in Inghilterra. Poco dopo inoltrò domanda di divorzio, che gli fu accordato. La moglie, rimasta a Padova, chiese che questo divorzio fosse riconosciuto anche dai tribunali italiani, ma la richiesta, avanzata alla fine del 1950, venne respinta. Si creò, così, una situazione singolare: l’uomo, in Inghilterra, passò ad altre nozze, mentre la donna, in Italia, ormai cittadina polacca, dovette continuare a considerarsi sposata ad un uomo che aveva legalmente un’altra moglie. Il settimanale commentava in questo modo la vicenda: «questa donna, ora, non può più risposarsi (perché è già sposata), non può più riprendere la cittadinanza italiana (perché è sempre polacca) e difficilmente può trovare un lavoro (perché è una straniera). Ella ha dunque una sola possibilità: fuggire dall’Italia, andare all’estero e sposarsi là. Ma posto che tornasse un giorno in Italia con il nuovo marito, non dovrebbe meravigliarsi se qualcuno pensasse di condannarla per bigamia»65. Dal paradossale racconto della donna di Padova il settimanale «Oggi» prese spunto per affrontare la polemica sul divorzio che   «Oggi», Le spose di guerra italiane sono deluse dell’America, 1° marzo 1950.   Ivi, Le mogli importate dall’Europa sono quelle che sino ad ora hanno meno frequentemente divorziato, 17 marzo 1949. 65   Ivi, La donna, il matrimonio e l’amore in Italia. La polemica sul divorzio in Italia appassiona, 12 dicembre 1954. 63 64

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imperversava in quegli anni. «Situazioni come queste» – scriveva – «sono abbastanza numerose. Molti sono infatti i matrimoni delle nostre ragazze con sudditi stranieri, soldati e no; e in buona parte, purtroppo, questi matrimoni sono falliti, permettendo così al marito di divorziare e creando di conseguenza la curiosa condizione di un vincolo che continua a restare valido per uno solo dei coniugi»66. A casi simili a quello della donna padovana la stampa accennò spesso. Il 26 ottobre 1954 il deputato socialista Luigi Renato Sansone presentò alla Camera dei Deputati una proposta di legge dal titolo «Casi di scioglimento del matrimonio»67. L’appropriata definizione usata da «L’Europeo», «Piccolo divorzio»68, connotò questa proposta di legge per anni nel linguaggio comune. Essa intendeva regolarizzare la posizione di quegli italiani che avevano alle spalle matrimoni naufragati e che erano impossibilitati a vivere ulteriori esperienze di coppia senza essere tacciati di adulterio e senza che i figli venissero definiti illegittimi. Proponeva, perciò, di ampliare la disposizione dell’art. 149 del codice civile italiano, secondo il quale il matrimonio si poteva sciogliere esclusivamente con la morte di uno dei coniugi. La proposta intendeva affiancare a questo altri cinque «tassativi» casi69. Di essi, l’ultimo dei cinque si riferiva a quelle persone che avevano sposato cittadini stranieri che avevano conseguito all’estero lo scioglimento del matrimonio contratto in Italia. Nel testo della proposta si legge: la esperienza che ricaviamo anche dall’ultimo tragico conflitto ci impone di considerare con particolare attenzione il caso di tante nostre concittadine che sposate in Italia a militari tedeschi o alleati sono state abban  Ibid.   Proposta di legge n. 1189 «Casi di scioglimento del matrimonio», 26 ottobre 1954. Camera dei Deputati, II Legislatura, Documenti. 68   «L’Europeo», Il divorzio limitato o «piccolo divorzio», 18 luglio 1954. 69   Si riteneva necessario riconoscere il diritto di avanzare richiesta di scioglimento di matrimonio ai congiunti di chi: era stato condannato con sentenza definitiva a 15 anni e più di reclusione; aveva tentato l’uxoricidio; aveva abbandonato il tetto coniugale per un periodo ininterrotto non inferiore ai 15 anni o se vi fosse stata fra i coniugi separazione di fatto, consensuale o di diritto, durata per non meno di 15 anni; era affetto da malattia mentale riconosciuta inguaribile e se era degente in ospedale psichiatrico o in luogo di cura da non meno di 5 anni. Questi erano i primi quattro casi. 66 67

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donate dai propri mariti. Costoro, tornati nelle loro patrie di origine, hanno colà sciolto il matrimonio contratto in Italia e si sono formati una nuova famiglia. Abbiamo così nostri concittadini che sono uniti in un matrimonio indissolubile, che un coniuge per effetto della propria cittadinanza ha potuto spezzare. Lo squilibrio giuridico è così evidente per cui pensiamo essere assurdo mantenere un vincolo che è legalmente ed umanamente spezzato per sempre per effetto della disparità delle disposizioni in materia matrimoniale fra i vari Stati del mondo. Ridare a questi cittadini italiani la possibilità di formarsi una legale famiglia dopo essere stati disprezzati, ingannati e talvolta beffati ci sembra che sia un dovere dello Stato proprio per raggiungere quella certa moralizzazione che ci proponiamo realizzare con la presente proposta di legge.

Il deputato socialista aveva inteso farsi interprete di situazioni difficili e molto diffuse in quel periodo; quattro milioni di persone, specificava, erano costrette a vivere, loro malgrado, «fuori legge». Il fatto che tra esse fossero incluse anche le spose di guerra rivela il gran numero di donne che avevano avuto esperienze matrimoniali fallimentari. Tra le lettere di gratitudine e sostegno, l’onorevole Sansone ricevette anche quelle di spose «deluse»70. Luisa, una testimone che aveva seguito a Milwaukee il suo sposo e che era ritornata da sola in Italia, nel gennaio del 1955 scrisse: Onorevole, sono una sposa di guerra rientrata ormai dagli Stati Uniti da ben sei anni. Attualmente mio marito ha ottenuto il divorzio negli Stati Uniti ed è probabilmente in procinto di risposare e di farsi una famiglia e una vita nuova. Io sono qui in Italia con un figlio di 8 anni, che fortunatamente per me mio marito non ha reclamato. Condannato dal tribunale italiano al quale mi sono rivolta per ottenere la separazione legale al mantenimento, non ha mai inviato un soldo né un saluto né al figlio né a me. Onorevole, io ho solo 34 anni e lei certo non ignora quali siano i problemi di una donna sola con un figlio piccolo ed alla quale si è negato qualsiasi speranza per un futuro, anche se si è incontrato una persona che non chiede di meglio che dividere con lei il resto della vita ed assumersi la responsabilità di una creatura non sua. Il nostro governo 70   Diverse lettere di spose di guerra deluse sono incluse in una pubblicazione curata dallo stesso L.R. Sansone, dal titolo I fuorilegge del matrimonio. Testimonianze, Edizioni Avanti, Milano-Roma, 1956.

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continua ancora oggi a proteggere e a venire incontro alle necessità dei sinistrati di guerra. Ebbene, onorevole, io ritengo che in fondo anche noi altre spose di guerra potremmo essere considerate un poco sinistrate di guerra. (...). Io mi permetto di fare appello a lei, onorevole, perché tutti sembrano sordi all’appello disperato che da tanti anni tante di noi volgono invano ai magistrati, deputati e senatori. Alcuni mesi or sono i quotidiani riferirono un’interpellanza fatta alla camera per ottenere un piccolo divorzio nel quale il nostro caso era l’ultimo previsto tra quelli proposti. Tale notizia ha portato un barlume di speranza in molti cuori, ma ora tutto è ritornato silenzio e buio e non se ne parla più. Forse non si tiene presente che nel nostro caso il fattore tempo è di capitale importanza; siamo tutte donne tra i 25 e i 35 anni onorevole e se una decisione si deve prendere tra una decina d’anni il quinto caso previsto troverà ancora pochi elementi amari e ormai non più in condizione di usufruire di tale particolare concessione. Poiché mentre ci saranno sempre purtroppo mogli o mariti di dementi, carcerati eccetera non ci saranno più spose di guerra, ma solo donne ultra mature che non avranno più interesse alla cosa. (...). Perché ricostruire le case per coloro che le hanno perdute in guerra e non aiutare noi che abbiamo perduto non solo la casa ma anche il diritto di averla?71.

La proposta di legge di Luigi Renato Sansone non arrivò mai in sede di discussione e, dunque, quelle donne che avevano visto sfumare il loro «amore di guerra» continuarono ad essere ancora per molti anni «fuorilegge del matrimonio»72.   Lettera custodita da Luisa.   I fuorilegge del matrimonio è il titolo di un film di Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini, che ha tra i protagonisti Ugo Tognazzi. È suddiviso in cinque capitoli, ognuno dei quali intende rappresentare i cinque casi delineati dalla proposta di legge. La protagonista del quinto caso è Caterina Rinaldi che vive una situazione surreale: deve essere sottoposta al giudizio di un tribunale ecclesiastico a cui si era rivolta per ottenere l’annullamento del matrimonio con un militare inglese già sposato in patria. Il responso del tribunale sarà negativo. 71 72

Capitolo VIII

Le spose

Come Loretta Young I percorsi di vita delle donne di cui si è raccolta la storia sono molto diversi tra loro. Differenti sono le vicende relative agli incontri e i loro destini; differenti anche le motivazioni che le spinsero ad unirsi ai soldati alleati. Per qualcuna tale unione rappresentò la possibilità di «sfuggire» a situazioni di miseria o di solitudine, attratte dal miraggio di una vita migliore o diversa, mentre per qualche altra tale occasione significò semplicemente coronare un romantico «sogno d’amore». Anche le famiglie delle spose ebbero reazioni diverse. Da alcune di esse i soldati furono ben accolti. Altre si opposero ai matrimoni perché ostili ad accettare la lontananza delle figlie, perché misero in dubbio la serietà delle intenzioni dei militari o perché nostalgiche del regime ed avverse agli Alleati. Le differenze, tuttavia, sembrano quasi annullarsi quando si affronta una questione centrale in questi rapporti: i motivi che influirono sulla scelta di sposare un militare alleato. Quasi tutte le donne di cui si sono analizzate le storie si sono mostrate concordi nel ricondurli ad un elemento fondamentale: la diversità. I soldati alleati attraevano proprio perché erano diversi, soprattutto in quel particolare momento, dagli uomini italiani, molti dei quali erano reduci, chiaramente provati, delusi, poveri, poco propensi al corteggiamento. L’immagine positiva che trasmettevano i romantici soldati alleati ­191

era avulsa da ciò che essi erano nella vita reale. L’uniforme indossata, infatti, aveva il «potere» di non lasciar trapelare la loro effettiva estrazione sociale ed era, perciò, capace di trasformare anche semplici operai, contadini o disoccupati in «fasulli principi azzurri». Tutti emanavano un fascino incondizionato. Domenico Rea, che definì quelli della Napoli americana «anni diventati materia di sogno» – in cui «chi aveva la casa rotta l’accomodava. Chi l’aveva sporca l’imbiancava. Chi aveva figlie cercava di sposarle. Chi non si poteva sposare si sposò»1 –, scrisse: «le nostre signore non sposarono e non sposeranno mai un operaio italiano. Ne avrebbero sposato volentieri uno, o anche due, americani, in vista dell’America di Hollywood e perché, non parlando il dialetto, l’americano non sa di zotico (...). Decine di stridette si ricordano rumorose di code di barattoli attaccate alle automobili nuziali. Voi, beate fanciulle, che riuscite ad emigrare col ‘capitano del legno nevoirchese’»2. Una sposa intervistata nel documentario sulle spose di guerra europee sostiene: «molti dei nostri uomini erano caduti in guerra, molti altri dispersi, ora c’erano questi americani belli, allegri, generosi, come si poteva resistere? Qualcuno ci chiedeva l’indirizzo, qualche altro voleva portarci via, tutti ci davano qualcosa»3. «Mi pareva di stare in un film» – confida un’altra – «quei ragazzi somigliavano a quegli attori americani che avevo visto tante volte, erano così affascinanti con le loro belle uniformi e con quel profumo di dopobarba»4. La lacerazione dell’antica e consolidata separazione sessuale e la perdita del controllo maschile sulle donne locali conseguente agli stravolgimenti repentini causati dalla guerra coincideva con l’arrivo di un folto esercito di uomini evidentemente «diversi». Non è difficile intuire quali furono gli effetti di questa nuova autonomia. Al principio di questo lavoro si è accennato a quanto fosse ancora forte e positivo il ricordo dell’arrivo delle prime armate alleate nelle città sul finire del ’43. Si è parlato dell’impressione suscitata dai sorrisi di uomini esotici che con potenti equipaggiamenti riempivano le strade distribuendo viveri di antica memoria e di quanto il contesto del   D. Rea, Gesù fate luce cit., p. 80.   Ivi, p. 81. 3   D. Tommaso, The school for wives cit. 4   Ibid. 1 2

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dopoguerra fosse particolarmente propizio a favorire tali rappresentazioni. Dopo anni di rinunce e privazioni fu inevitabile il diffondersi di una straordinaria voglia di vivere e di dimenticare, simboleggiata da avvenenti soldati che riecheggiavano mitici attori hollywoodiani che emanavano piacevoli fragranze, capaci di coprire il pesante tanfo della guerra. Queste sensazioni s’impossessarono di molte war brides. Lo dice bene Laura che, nel flusso del racconto della sua storia di vita e senza alcuna sollecitazione in proposito, riferendosi al suo sposo straniero, confida: «a me piaceva molto, perché era... non perché è bello, perché è brutto mio marito, ma perché era diverso: quella divisa, quella... che ti posso dire? Quella lingua diversa, la diversità, il profumo... (...). Anche i miei fratelli che non volevano che io me ne andassi in America subivano il fascino di quest’uomo distinto, gli volevano un bene straordinario a questa persona distinta, co’ sta bella divisa. (...). Quando Richard veniva tutti i vicini, i portieri, lo guardavano, lo ammiravano e, secondo me, c’era un po’ d’invidia; questo ufficiale americano pulito, diverso, con questa jeep...»5. Non dissimili sono le sensazioni che s’impadronirono delle altre spose. «Non ti posso dire che cosa mi colpì. Non era un uomo come gli altri, come quelli che avevo sempre visto a Napoli, era diverso: era gentile, era pulito, odorava, con le divise sempre pulite e profumate, con un portamento... poi era bello, biondo, sembrava un attore americano. E poi era generoso, appena poteva portava cose che gli altri si sognavano»6. «Mio marito era bello. Erano ragazzi, giovani, mio marito mi piaceva, non lo so, aveva un altro modo di fare, non lo so com’erano, trattavano con più galanteria forse... con più garbo, erano diversi dagli italiani che erano più grezzi»7. «Era un bell’uomo, un uomo con un fascino insolito, poco comune»8. «Devo dire la verità... tu conosci l’attore Gregory Peck? (...). Gli rassomiglia, è un bell’uomo, un bel ragazzo, io uno così non l’avevo mai visto»9.   Testimonianza di Laura (nome fittizio), Siracusa 1922, sposa di guerra.   Giovanna, testimonianza cit. 7   Testimonianza di Virginia, Napoli 1918, sposa di guerra. 8   Testimonianza di Sara (nome fittizio), Roma 1917, sposa di guerra. 9   Testimonianza di Anna, Avellino 1923, sposa di guerra. 5 6

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Dello stesso avviso le protagoniste del romanzo Sposare lo straniero di Luciana Peverelli. Quando Andreina conobbe il militare inglese che successivamente sposò, notò in lui una certa somiglianza con l’attore Laurence Olivier10. Per la sua più cara amica Gesi, Jackie Larson, l’ufficiale statunitense che frequentava, rappresentava l’eroe dei film americani, il giovane biondo eroe delle praterie del Far West, il personaggio irraggiungibile eppure tanto noto, che esisteva pure in qualche parte del mondo, anche se era una parte tanto lontana: e lei lo aveva saputo quando nel buio del cinematografo aveva veduto giovani come Jackie Larson balzare a cavallo, o abbattere con un pugno gli avversari. Lo sapeva e lo sognava anche allora. E non si accontentava quindi della corte che i garzoni parrucchieri o i commessi di negozio (gli unici adatti alla sua condizione sociale) le facevano quando ritornava dalle Cascine. Non poteva perché sotto il guanciale aveva le fotografie di Clark Gable e di Errol Flynn, e quelli, soltanto quelli erano i tipi d’uomini che le potevano piacere. E l’ideale, il giovane uomo biondo e tanto sognato era venuto fino a lei, era sceso dallo schermo per lei, aveva traversato l’oceano per lei. Era lì e le sorrideva: e lei non era più Beatrice, ma Loretta Young o Joan Parker11.

Per due spose intervistate all’elemento della «diversità» si affiancava quello dell’attrazione suscitata dal Nuovo Mondo e dalla possibilità di lasciare l’Italia. Sara pensò che Fred, oltre ad essere un uomo affascinante, rappresentava «una buona occasione per cambiare aria e lasciarsi tutto alle spalle: la guerra e il mio ex fidanzato»12. Luisa nel tentare di dare una spiegazione alla decisione di sposare Len scrive nella sua memoria: «era un bel ragazzone, biondo, dolce e sorridente (...). Piano piano cominciai ad accettare l’idea. Prima ogni volta che mi pareva di poter prendere in considerazione un mio pretendente improvvisamente vedevo la mia vita chiusa in un cerchio e... fuggivo. Questa volta invece dietro a Len si apriva l’America!»13. Ma le sensazioni, almeno in un primo momento, non erano sempre così positive. Per qualcuna, in questa prima fase, l’attrazione do  L. Peverelli, Sposare lo straniero, Garzanti, Milano, 1977, p. 102.   Ivi, pp. 192-193. 12   Sara, testimonianza cit. 13   Luisa, memoria cit. 10 11

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vette convivere coi risentimenti. Il fascino dello «straniero», infatti, in qualche caso mal si conciliava con la consapevolezza che questo facesse parte di un esercito responsabile di molte sofferenze legate al conflitto, prime fra tutte quelle dei bombardamenti. Il tentativo di dominare questo conflitto emerge in Maria Bottiglieri. La donna aveva 17 anni quando conobbe un tenente americano. Aveva occasione d’incontrarlo ogni giorno fuori il Park’s Hotel, requisito dagli Alleati, a pochi passi dalla sua scuola. A tal proposito scrive nella sua memoria: la guerra a Napoli era finita da poco e noi ne avevamo passate tante. I liberatori, come li definivano in tanti, non godevano certo delle mie simpatie (...). Confesso che tutte le mattine avevo sperato d’incontrarti e ciò in un certo senso mi rendeva furiosa con me stessa. Come poteva interessarmi un americano? Odiavo troppo i vincitori, a Napoli ne avevamo passate tante. No, non era facile dimenticare le notti passate nei ricoveri e sotto il tunnel per i continui bombardamenti. Ricordavo ancora con terrore quel terribile 5 agosto. Tutta la giornata la città era stata bombardata. Vi aveva perduto la vita anche una mia amica (...). E poi quando non era la sirena a tenerci svegli era la fame. Quanta sofferenza! (...). E la casa che perdemmo? Eravamo scappati sotto un tunnel e al ritorno quando cessò l’allarme la trovammo rasa al suolo e dovemmo andare ad abitare con la nonna. La sera tutto ciò mi ritornò alla mente mentre cercavo invano di addormentarmi. Il tuo viso si sovrapponeva ai miei pensieri come una pellicola di un film sullo schermo. Oh Dio come potevo dimenticare i chilometri che avevo dovuto fare a piedi con le scarpe rotte tutti i giorni per andare a scuola, finché restò aperta, e al ritorno a casa trovare per pranzo un po’ di farina di castagna? Come potevo non pensare che lo sviluppo mi aveva trovata denutrita e anemica? E la rabbia che mi aveva assalito quando avevo visto buttare dai camion degli Alleati cioccolata e caramelle ai poveri bambini affamati?14.

Ma Maria riuscì a superare le sue perplessità quando, negli ultimi giorni del dicembre ’43, John le confidò: «ma cosa crede signorina, che a me la guerra piace? Ha pensato per un attimo che in questi giorni io preferirei stare in America con la mia famiglia invece di stare qui? E come me tanti soldati. Anche noi odiamo la guerra»15.   Adn, Maria Bottiglieri, memoria cit.   Ibid.

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Questo elemento contraddistingue anche la storia di vita di Lia M. che, ancora a distanza di tanti anni, non è riuscita a cancellare il terrore dei bombardamenti che resero palpitante «l’idea della morte». È proprio quest’assillante rappresentazione che influenzerà il 7 novembre 1944 le prime impressioni su un ufficiale americano, commilitone del fidanzato di un’amica che sposerà l’anno successivo. Alla domanda posta dal militare, in occasione del loro primo incontro, «sposeresti un americano?», Lia rispose: «no, mai!» ed aggiunse: «ho fatto troppe nottate per i bombardamenti che hanno fatto, troppe persone sono morte, troppe case hanno distrutto, Napoli ha sofferto troppo! Avrei sempre quello nella mia mente!»16. Laura Penultima di quattro figli, Laura nacque nel 1922 a Siracusa. Nel 1938 suo padre, geometra, decise di trasferirsi a Napoli per assecondare la volontà del primogenito di iscriversi alla facoltà di Medicina. Si sistemarono in via Cirillo, nel centro storico della città. Qui Laura, terminato il liceo, s’iscrisse al corso di laurea in Lettere. A metà del 1942, per via dei continui bombardamenti, si rifugiò con la sua famiglia ad Agerola, sui monti Lattari. Anche lì si attendevano gli Alleati. Uno dei primi a raggiungere il paese fu il capitano Richard, di stanza col suo reggimento a Paestum. Il militare si fermò con la sua jeep nella piazza principale e agli agerolesi, che lo circondavano incuriositi, chiese dove avrebbe potuto trovare del tomato. Tra essi c’era il fratello maggiore di Laura, che, riuscendo a far conciliare il dialetto yiddish di Richard con le sue reminiscenze tedesche, comprese la richiesta del militare, lo invitò in trattoria e poi a casa sua. In quest’occasione il capitano incontrò per la prima volta Laura, che tentò d’imbastire un maccheronico dialogo appellandosi alle elementari nozioni di conversazione inglese apprese al liceo. Laura stessa racconta: «Richard ad Agerola mi vede; lui vede me, io vedo lui, qualche parola d’inglese c’era stata e quindi non c’era più scampo! Richard dopo un’ora parte,

  Amso, Lia M., Napoli 1912, sposa di guerra.

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prende la jeep e torna a Napoli, però prima di partire dice: ‘address!’, indirizzo»17. Le visite di Richard, sempre più frequenti e in occasione delle quali il capitano portava in dono «ogni ben di Dio»18, insospettirono la madre di Laura, che gli chiese apertamente: «‘Richard, io non capisco l’inglese, ma tu che vuoi qua?’ Allora c’era una fotografia e c’ero io, lui disse: ‘voglio questa!’ Figurati mia madre! Rimase di ghiaccio! E cominciarono le tragedie greche!»19. La famiglia di Laura – come lei stessa anticipa – pur stimando Richard, che in America era un affermato ingegnere, si mostrò subito contraria all’idea di una possibile unione tra i due, al punto che il fratello che lo aveva conosciuto affermò: «mi avrebbero dovuto sparare piuttosto!»20. I motivi di contrarietà alla relazione riguardavano gli otto anni che separavano Richard e Laura e soprattutto l’inevitabile trasferimento della giovane negli Stati Uniti. «Laura», ripetevano insistentemente i familiari, «tu sei una bambina, nata e cresciuta in Sicilia, che fai? Te ne vai in America? Che vuoi fare l’emigrante?»21. Tali motivazioni non scoraggiarono Laura e, superate le prime perplessità circa la possibilità che potesse vivere felicemente oltreoceano, la famiglia della donna accettò che il capitano frequentasse ufficialmente la propria casa. Tutto procedette regolarmente fino a quando una scoperta fatta da uno dei fratelli della donna mise seriamente in discussione la possibilità che il matrimonio potesse essere celebrato. Laura racconta: «una sera Richard si ferma a dormire nella camera con uno dei miei fratelli e lascia... gli americani portavano la targhetta che identificava chi erano, l’aveva messa sul comodino; su questa targhetta c’era la lettera H. E allora un giorno mio fratello incontra per strada in via Cirillo un bel giovane americano che era di Siracusa, era cresciuto con lui in Siracusa, ma poi si era trasferito in America ed era diventato soldato americano. Allora mio fratello dice: ‘guarda, abbiamo un guaio di notte, abbiamo questo capitano...’ dice: ‘e chi è?’ Di  Laura, testimonianza cit.   Ibid. 19   Ibid. 20   Ibid. 21   Ibid. 17 18

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ce: ‘guarda, queste sono le sue iniziali e poi c’è la lettera H’; dice: ‘sai che significa la lettera H? Che è ebreo!’ Se l’avessero potuto ammazzare!»22. La famiglia di Laura, saputo ciò, pensò di risolvere la situazione con una soluzione estrema. La donna continua: quando lui viene quella sera io esco sulle scale e gli dico: «Richard, tu sei ebreo!» Lui morto! Non si è scoraggiato però! Si è seduto, ricordo, con le mani in tasca, ha detto: «sì, non ho detto niente perché so che non ti avrei mai avuta». I miei due fratelli dissero: «Richard, guarda, già la cosa è difficile, questa ragazzina tu te la vuoi portare in America, lei non sa niente della vita, ti piace molto e disgraziatamente lei si è innamorata di te, noi ti rispettiamo però, guarda, una cosa sola c’è da fare: tu ti devi convertire! Devi andare dai gesuiti e diventare cristiano». Figurati Richard! Dice: «e come faccio qua? Convertirsi...»23.

Richard, a malincuore, accettò le condizioni impostegli, come ricorda Laura: se avessi ammazzato un ebreo avresti fatto meglio, guarda qual era l’amore di Richard per me; allora Richard acconsentì, forse chiedendo perdono a Dio; io non capivo che cosa significava per un ebreo fare una cosa del genere. Non solo si doveva sposare convertendosi, ma promettendo che i figli fossero cattolici. (...). Forse questo è stato il motivo per cui non abbiamo avuto figli, io ne ho persi quattro, ma non me ne sono venuti, perché i figli dovevano essere cattolici e Dio non me ne ha dati! (...). Alla chiesa del Gesù, dove lui si era convertito, dai gesuiti, era inginocchiato, Dio mi deve perdonare e deve perdonare i miei fratelli, perché lo abbiamo condannato24.

Dopo le nozze celebrate nella chiesa del Gesù Nuovo, la coppia di guerra trascorse sei giorni all’hotel Quisisana di Capri, come facevano molti ufficiali che contraevano matrimonio a Napoli; in quell’occasione Laura indossava un abito e una borsetta inviatale dalla madre di Richard, con la quale aveva subito avviato una fitta e calorosa corrispondenza. Ibid. Ibid. 24 Ibid. 22 23

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Richard partì per Chicago nel dicembre del ’45 e Laura lo raggiunse l’8 febbraio 1946 con la prima nave che trasportò spose di guerra italiane, l’Algonquin. Dopo 14 giorni, con il rimorso di aver lasciato i suoi congiunti in lacrime ed il presentimento che non si sarebbe mai adattata al Nuovo Mondo, Laura giunse a New York, dove l’attendeva Richard ancora in tenuta militare. Rimasero in albergo per due giorni e poi partirono per Chicago, dove li aspettava con ansia la famiglia di Richard. I rapporti tra Laura e quest’ultima furono sempre molto cordiali e in particolare con la madre del militare, che a suo dire, «non avrebbe potuto fare di più, mi adorava»25. Poco dopo i coniugi andarono a vivere per conto loro in un piccolo appartamento e cominciarono a frequentare anche altre coppie di guerra italo-americane. Nonostante ciò Laura non si adattò alle rigide temperature di Chicago e fu contenta quando, dopo circa dieci anni, Richard per motivi professionali fu trasferito in California. Qui Laura, che a Napoli aveva conseguito la laurea in Lettere, insegnò latino in una scuola privata gestita dalle suore del Sacro Cuore. La donna non dimenticò la promessa che aveva fatto al padre di ritornare ogni anno in Italia, il più delle volte da sola, qualche volta accompagnata da Richard. Allo stesso modo, i fratelli attraversarono più volte l’Oceano. Ma i periodici ricongiungimenti non bastarono a Laura la quale non si adattò mai al Nuovo Mondo e nel 1974, dopo ventotto anni, ritornò definitivamente a Napoli portando con sé il suo Gi. La donna, commossa, confida: una vita difficile, non l’augurerei a nessuno; dici: ma perché? Richard è una persona perbene, sì, ma è uno straniero (...) lo stesso sono io per Richard! Non c’era bisogno che glielo dicessi, se ne accorgeva, lui ci rimaneva male, lui aveva capito tutto, lui sapeva tutto, dice: «si è avverato quello che diceva la famiglia di Laura; Laura qua non ci vuole stare, qua è infelice». Io non mi sono mai abituata, mi sono sempre condannata, io ho pianto, io scrivevo lettere a mia sorella, un epistolario di tragedie. Forse perché so’ siciliana, perché non ho avuto figli, le altre spose sono felici, sono miliardarie. È stato da morire quell’anno! La mattina mi diceva: 25

Ibid.

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«sì, vengo!» E poi la sera cambiava idea. Io per un anno ho trattato, poi dico: «Richard, so’ passati ventotto anni, questa volta me ne vado, basta!» Perché facevo avanti e indietro, avanti indietro, non ne potevo più di stare lì! Io ai miliardi non ci ho creduto, né all’automobile, la casa che ho lasciato era una casa da miliardi, però ho detto: «Richard, me ne vado, se mi segui vieni, altrimenti ti lascio dopo ventotto anni, piangendo nel cuore». È salito sull’aereo, una gamba sull’aereo e l’altra gamba a Chicago e così sempre è rimasto26.

Richard decise, dunque, di seguire la sua sposa, vendette la grande casa in California e lasciò il prestigioso lavoro di ingegnere. I due si trasferirono da Clara, la sorella di Laura che viveva da sola a Napoli, in via Crispi. Ma la convivenza si rivelò disastrosa, Richard e Clara erano troppo diversi e si scontravano continuamente. A Napoli, Richard trovò lavori saltuari e soltanto dopo dieci anni gli fu assegnata la cattedra di Fisica alla Nato di Bagnoli, dove la coppia andò a vivere. Ma neanche Richard riuscì ad adattarsi alla vita italiana e tuttora prova lo stesso «spaesamento» di cui la moglie aveva sofferto negli Stati Uniti. Nonostante sia ormai pensionato, trascorre intere giornate alla Nato, frequentando esclusivamente americani, perché gli italiani, a suo dire, «sono troppo superficiali, badano troppo all’immagine e poco all’essenza»27. Laura confida di sentirsi sola anche a Bagnoli, dove vive in un edificio interamente abitato da militari americani, con i quali non ha socializzato. Vede di rado anche Clara, l’unica sorella rimasta in vita. La donna conclude così la sua storia di vita: «Richard – povero figlio – è ancora qua, quel contrasto che ho avuto io là ce l’ha lui qua, lui non si è mai abituato. Vedi, io e Richard siamo uguali: io la mia Italia, Richard la sua America, è pieno di dolore, non vorrebbe stare qua e io non so ancora se rimarrà qua o se ne scapperà da un momento all’altro»28.

Ibid. Ibid. 28 Ibid. 26 27

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Annamaria S. Annamaria era la terza di cinque figli, uno dei quali era partito per chissà quale fronte e nell’estate del ’44 non aveva ancora dato notizie di sé. Il padre, mastro muratore, aveva perso il lavoro nel ’40 ed era riuscito a trovare impiego presso un campo alleato alla fine del ’43. Gli piacevano gli Alleati, gli americani in particolare, che spesso gli regalavano qualche «scatoletta» da portare alla sua famiglia. Aveva piena consapevolezza di come molti di essi si ponevano nei confronti delle donne italiane, il campo era un via vai di prostitute e di «fidanzatine» speranzose che i militari non prendevano sul serio. Ma a lui ciò non infastidiva, con lui si erano sempre mostrati generosi. Annamaria allora aveva 17 anni e fu proprio in quel periodo che conobbe Antonio D., la cui storia familiare è già stata delineata nel terzo capitolo. Antonio era figlio di napoletani emigrati negli Stati Uniti e fu inviato a Napoli in occasione della Campagna d’Italia. Qui frequentò Maria, la sorella della madre, dalla quale si recava quasi ogni sera provvisto di polvere di piselli e cioccolata, e per la quale, dunque, Antonio rappresentava un prezioso benefattore. Quest’aspetto non passò inosservato ai condomini dell’antica palazzina del quartiere S. Lorenzo, per i quali il giovane soldato incarnava un «giovane zio d’America», l’«eroe» che tutti avrebbero voluto ospitare in casa propria, ancor di più in quel momento di miseria. I genitori di Annamaria erano tra questi. Annamaria e Antonio si erano più volte incrociati nell’androne del palazzo, dove la ragazza trascorreva interi pomeriggi a chiacchierare con la cugina di Antonio, e si erano evidentemente piaciuti, tanto che il giovane aveva chiesto alla zia materna di organizzare una festa in occasione del suo compleanno e di invitarla. Da quel momento in poi s’incontrarono sempre più frequentemente e dopo un mese circa si fidanzarono. Inaspettatamente il padre di Annamaria si oppose all’unione, convinto delle intenzioni poco serie del militare e il tentativo di Antonio di conquistarlo, servendosi dei doni che prima destinava agli zii, servì soltanto a creare astio tra le due famiglie, i cui rapporti erano da sempre stati rispettosi e cordiali. La situazione si aggravò quando arrivarono notizie circa la prigionia negli Stati Uniti di Giuseppe, il fratello maggiore di Annamaria. «Mio fratello più grande, che non ci aveva fatto sapere più niente, ci fece arrivare una lettera dopo tanto tempo, noi non sapevamo ­201

dove stava, pensavamo che era morto. Poi venne questa lettera sua che mandava dall’America che diceva che lui stava prigioniero in America... Non ti dico mio padre! Non lo poteva vedere ancora di più! Diceva: ‘Ma come? Quello sta prigioniero là che chissà come lo trattene e io me tenghe a chiste dinte a casa?’ E non ti dico!»29. Soltanto dopo diversi mesi Antonio riuscì a convincere il padre di Annamaria della sincerità dei suoi sentimenti ed il matrimonio fu celebrato nel gennaio del 1946. Antonio fu rimpatriato quell’anno e dopo qualche mese la sua sposa lo raggiunse. Annamaria trovò a Boston condizioni estremamente favorevoli, inserendosi perfettamente in una compatta comunità di emigranti italiani che viveva a North End. Si adattò al Nuovo Mondo fin dal primo momento, tanto da confidare di non aver mai sentito nostalgia di ciò che aveva lasciato in Italia. La sua nuova famiglia aveva fatto fortuna nel campo della ristorazione, attività alla quale lei stessa si dedicò con entusiasmo. Gli sposi si stabilirono dalla madre di Antonio, rimasta sola dopo la morte del marito e la convivenza non fu connotata da dissapori di alcun genere. Annamaria rivela di essere ancora grata a quella donna «semplice a generosa», che fin dal principio apprezzò l’unione del figlio con una donna napoletana, della quale aveva avuto la fortuna di «prendere informazioni» dalla sorella che la conosceva sin da bambina. Aveva sempre temuto che Antonio potesse unirsi in matrimonio con una statunitense, che sarebbe stata «troppo diversa da loro». Dall’unione di Antonio e Annamaria nacquero tre figli, che tuttora continuano l’attività avviata dagli «intraprendenti» avi di Antonio. La donna ampliò le catene migratorie avviate al principio del ’900 dalla famiglia del marito. Dopo qualche anno dal suo arrivo, infatti, fu raggiunta dal fratello minore, che, a sua volta, divenne punto di richiamo per due fratelli della moglie. Annamaria è ritornata in Italia nel 1963 in occasione della morte della madre. Da allora continua a venire con cadenza decennale, da sola, poiché Antonio è deceduto nel 1989.

  Testimonianza di Annamaria, Napoli 1926, sposa di guerra.

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Virginia H. Virginia, nata nel 1918, dopo aver conseguito il diploma di ragionie­ ra s’impiegò alla Set30. Decise poi di iscriversi alla facoltà di Lingue dell’università Orientale di Napoli per perfezionare la conoscenza della lingua inglese e studiare il tedesco. Dovette, però, interrompere gli studi a causa della guerra e nel ’42, per via degli insistenti bombardamenti su Napoli, abbandonò la casa in via Depretis e si trasferì con la famiglia a Bagnoli, in un appartamento di loro proprietà. I fratelli maggiori erano prigionieri, il primo era stato catturato dagli americani in Africa e l’altro dai tedeschi in Grecia. Anche quando la città fu liberata dalla presenza tedesca la famiglia di Virginia rimase a Bagnoli, dove ripristinò uno stabilimento balneare che nell’estate del 1944 divenne uno dei principali punti di ritrovo per i soldati alleati accampati nella vicina Ilva. Per essi il lido rappresentava un posto in cui avrebbero potuto ascoltare musica, incontrare donne, chiacchierare, danzare. Virginia, che aiutava suo padre nella gestione dell’attività, possedeva un fondamentale valore aggiunto rispetto alle altre ragazze che frequentavano lo stabilimento: conosceva la lingua inglese. Ciò le assicurò costanti corteggiamenti. Tra i tanti pretendenti rimase affascinata da Robert, un ufficiale dell’aviazione di Baltimora. Sin dal principio non ebbe dubbi sull’intenzione di stabilire una relazione seria, come lei stessa racconta: «lui veniva, mi vedeva, parlavamo, poi lui voleva andare a fare il bagno assieme ma allora io dissi: ‘senti, qua non si usa così, se tu vuoi che io... se io ti piaccio o qualche cosa devi parlare con mio padre!’ (...) Lo portai da mio padre e mio padre disse: ‘se tu vuoi sposare mia figlia sei il benvenuto, sennò non è proprio il caso’. Lui disse di sì»31. Alle rassicurazioni fornite direttamente da Robert se ne aggiunse­ ro altre davvero insolite e inaspettate, quelle del fratello di ­Virginia, prigioniero negli Stati Uniti e precisamente a Baltimora, nella stessa città da cui il militare proveniva. Quest’ultimo, che visse una prigionia più «confortevole» rispetto a quella dell’altro fratello in Germa30   Società Esercizi Telefonici S.p.A. Fondata nel 1924 con sede a Roma, nel 1927 si trasferì a Napoli. Gestiva la rete telefonica di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e delle province di Frosinone e Latina. 31   Virginia, testimonianza cit.

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nia, approfittò della rete di conoscenze che era riuscito a costruirsi e «prese informazioni» sulla famiglia dell’ufficiale. La positività delle stesse contribuì alla celebrazione delle nozze. Il 2 marzo 1946 Virginia e Robert si sposarono nella casa della donna. Si recarono in viaggio di nozze a Milano e poi a Verona, dalla sorella di Virginia che aveva sposato un militare italiano a cui la sua famiglia aveva offerto ospitalità in seguito allo sbandamento dell’esercito nel settembre 1943. Qualche giorno prima di partire per l’America Virginia, insieme alle altre spose, fu invitata ad alloggiare in un albergo in viale Augusto requisito dagli Alleati, dove furono fornite loro informazioni sulla nuova patria e basilari nozioni della lingua inglese. Il 9 giugno 1946 a bordo della Thomas H. Barry Virginia lasciò Napoli. Arrivate a New York le spose rimasero quattro giorni sulla nave, in attesa di essere smistate nei rispettivi Stati di destinazione. In questo breve periodo furono accompagnate nei luoghi più rappresentativi della città: chiese, musei, monumenti, cinema, parchi. Quando giunse il suo turno, un’automobile l’accompagnò alla stazione ferroviaria e viaggiando in prima classe giunse a Baltimora, dove l’attendevano numerosi parenti di Robert, tutti curiosi di «vedere questa ragazza che veniva dall’Italia»32. Nonostante una cordiale corrispondenza avesse legato Virginia alla madre di Robert quando era a Napoli, in un primo momento la donna percepì una forte prevenzione nei suoi confronti, come lei stessa racconta: «loro pensavano che gli italiani erano guappi, avevano dei pregiudizi. Io invece arrivai lì tutta elegante, con una giacca che avevo comprato a Milano in viaggio di nozze... poi parlavo inglese, gli dissi gli studi che avevo fatto e allora rimasero ancora più meravigliati. Poi mi feci rispettare, dicendo che ero italiana e che ero come loro, uguale a loro, anzi semmai meglio di loro perché noi avevamo una storia alle spalle»33. Poiché Robert era ancora in Italia, Virginia visse per un breve periodo con i suoi parenti, dei quali conquistò presto la fiducia. Con l’arrivo del suo Gi, che era militare di carriera a Washington, i due andarono a vivere per conto loro.   Ibid.   Ibid.

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A Baltimora Virginia lavorò per circa due anni in una fabbrica di proprietà di una famiglia italo-americana fino alla nascita del primo figlio. In quel periodo frequentò molti italiani ed il fratello che – terminata la prigionia – aveva sposato una donna di Chicago e lavorava come caporeparto in una fabbrica. Nel settembre del ’51 Robert fu trasferito in Germania, a Monaco, dove dopo qualche mese Virginia lo raggiunse. Nel ’55 si spostarono in Florida, a Panama City, e lì Virginia frequentò un circolo di mogli straniere di cittadini americani: una volta a settimana le spose ospitavano a turno nei loro salotti le altre, discorrendo di cucina, di abbigliamento, di viaggi e delle tradizioni dei paesi di provenienza. Quando Robert andò in pensione la coppia decise di tornare in Italia, a Bagnoli. Lì Robert s’impiegò alla Nato e frequentò prevalentemente americani, non perfezionando mai la conoscenza della lingua italiana, perché, come specifica Virginia, «per parlare una lingua bisogna essere predisposti ad apprenderla e lui non lo era»34. Elena L. Nel 1947 Elena aveva 17 anni ed abitava a Cappella Vecchia, nei pressi di piazza dei Martiri. Il padre era morto nel primo anno di guerra e viveva insieme alla sorella e alla madre che, dopo la scomparsa del marito, si era improvvisata sarta. Lei lavorava come manicurista presso un parrucchiere di via Calabritto, poco distante dalla sua casa. In quel periodo la città si avviava verso la ricostruzione e insieme alle sue amiche più care Elena amava passeggiare nella villa comunale, fermandosi spesso nei pressi del circolo La casina dei fiori, da cui provenivano allegre melodie suonate dalla piccola orchestra che allietava i momenti di svago dei militari alleati rimasti a Napoli. In uno di quei caldi pomeriggi di agosto al reticolato che proteggeva il circolo si avvicinò Bob, marinaio di carriera originario del North Carolina, che propose ad Elena di entrare. Quest’ultima, rassicuratasi sulla possibilità di essere accompagnata dalle sue amiche, accettò l’invito, che le consentiva finalmente di scoprire cosa ci fosse   Ibid.

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al di là della recinzione. Notò lunghi tavoli con sandwich, tramezzini, contorni, dolci, coca cola e altre bevande alcoliche e non; allegri militari danzavano con giovani donne sulle note della musica che proveniva dal piccolo palco decorato con smerli che riproducevano i colori della bandiera americana. Bob invitò nuovamente le ragazze per il giorno dopo e così fece anche le sere successive. Elena e Bob comunicavano unicamente con i gesti, giacché ciascuno non conosceva la lingua dell’altro e frequenti erano gli equivoci. A tal proposito, Elena ricorda: «ci siamo visti per otto sere sempre lì, ogni sera c’era una festa, poi un giorno facciamo una passeggiata fuori e ci siamo seduti sul lungomare; allora lui mi voleva baciare e ce rette nu pacchere [e io gli diedi un ceffone, N.d.A.], sai perché? In inglese la faccia si dice face e allora lui disse ‘bella fessa’, io non capii subito e ce rette nu pacchere e allora lui ci rimase male»35. Dopo poco Bob ripartì, portando con sé una foto di Elena, e per ben due anni non diede più notizie di sé. L’arrivo di una lettera che preannunciava il suo arrivo, precedette di poco il ritorno del Gi, che appena giunto a Napoli si recò a casa della donna con un amico italo-americano. Ad accoglierlo trovò la madre di Elena, che fu molto sorpresa da quella visita perché la figlia non le aveva mai parlato del marinaio. Di quell’incontro Elena ricorda con simpatia il buffo discorso pronunciato dall’accompagnatore di Bob: «lui è venute, isse vò sapè si tu spusate si si spusate isse se ne va, si nun spusate isse rimane [lui è venuto, vuole sapere se sei sposata, se sei sposata lui se ne va, se non sei sposata rimane, N.d.A.]»36. Bob, la cui nave era impegnata in operazioni nel porto di Napoli, conquistò immediatamente i congiunti di Elena, dai quali si recava quotidianamente. Essi apprezzarono il suo carattere allegro, la sua generosità e l’interesse che mostrava anche per le più piccole problematiche familiari. Allo stesso modo, il marinaio era molto amato dalle persone che vivevano nel quartiere, soprattutto dai bambini, ai quali offriva spesso piccoli doni. In quel periodo Elena era a conoscenza della diffusa prevenzione nei confronti delle donne che frequentavano i soldati stranieri,   Elena, testimonianza cit.   Ibid.

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spesso considerate di facili costumi. Proprio per evitare di divenire vittima di quei pregiudizi ricorse ad un escamotage: «io a mio marito non l’ho mai fatto camminare con la divisa, perché datosi che ci stava questo boom di queste ragazze facili allora eravamo puntate, quindi per non essere giudicata come una di quelle quando mio marito scendeva dalla nave veniva a casa e ci facevo mettere il vestito civile italiano»37. Elena e Bob si sposarono nel 1950 nella chiesa di S. Orsola a via Chiaia, dopo la concessione della dispensa, necessaria perché lui era protestante. Bob rimase in Italia per un altro anno e la sua sposa lo raggiunse poco dopo, insieme al loro bambino, con una nave che prima di giungere a New York si fermò nei diversi porti per imbarcare altre spose. Il viaggio durò 23 giorni. L’impatto col Nuovo Mondo fu doloroso, come Elena racconta: «la giornata era triste, faceva freddo, abbiamo visto questa nebbia, questo freddo, questi grattacieli immensi e abbiamo avuto una tristezza addosso e ci siamo guardate tutte quante e abbiamo detto: ‘addò stamme? Dove siamo andate a finire?’»38. Al molo Elena trovò la sorella di Bob, dalla quale fu ospitata, insieme al suo bambino, per qualche giorno a New York, dove viveva. Da lì proseguì in treno per la Virginia, dove l’attendeva Bob, che aveva preso in fitto un piccolo appartamento. In Virginia, Elena, che conosceva poco l’inglese, non riuscì ad integrarsi, riteneva che la gente fosse «scostante, fredda, se tu parlavi loro non ti aiutavano a farti capire, non mi piacque, nun me piaceve o mangià, nun me piacevene a gente, nun me piaceve niente, non me la sentivo di stare, avevo nostalgia di mia mamma e così io cominciai a dire a mio marito io qua non me la sento di stare»39. Cominciò così un intenso andirivieni tra l’Italia e gli Stati Uniti. Nove mesi dopo Bob riuscì ad accontentare Elena imbarcandosi su una nave destinata a sostare a Napoli, dove vissero per tre anni. Nel ’54 dovettero rientrare in Virginia, dove la donna rimase a malincuore per altri tre anni. Nel ’58 ritornarono a Napoli e ancora nel ’60 attraversarono l’Oceano nell’altra direzione. Quando nel 1961 Bob fu congedato e decise di dedicarsi al com  Ibid.   Ibid. 39   Ibid. 37 38

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mercio dei mobili, Elena preferì andare a vivere in uno Stato del nord. Si trasferirono, così, nel New Jersey, dove la donna verificò una maggiore apertura nei suoi confronti, trovava quelle persone «diverse», con «un’altra cultura», «molto più europee», «meno razziste». Ma anche lì Elena, che aveva ormai tre figli, aveva imparato l’inglese e trovato un impiego come manicurista, continuava a sentire nostalgia dell’Italia. Così nel 1970 ritornarono definitivamente in Italia, prima a Firenze – dove c’era la succursale della società presso cui lavorava Bob – e poi a Napoli, dove andarono a vivere. Ma neanche Bob riuscì ad adattarsi completamente all’Italia. Anche lui, pur continuando a mostrarsi come una persona estremamente allegra e disponibile, trascorreva intere giornate, oltre che con la moglie, con gli americani alla Nato, dove s’impiegò. Inoltre, la sua conoscenza dell’italiano restò superficiale. Elena ricorda che fin dal principio «era irrequieto, da un momento all’altro faceve a valigia e se ne ieve e io rummaneve comme na scema»40. Quando qualche anno fa Bob ha avuto seri problemi di salute ha preferito andare a curarsi negli Stati Uniti e lì è stato seppellito dopo la sua morte, come aveva sempre desiderato, in un piccolo cimitero militare. Luisa I. Luisa viveva al corso Vittorio Emanuele ed apparteneva ad una ricca famiglia di professionisti napoletani. Il padre era ingegnere e proprietario di un prestigioso negozio di arredamento ed antiquariato in via Dei Mille. Si era iscritta alla facoltà di Lingue, Letteratura e Istituzioni straniere, con specializzazione in tedesco. Sin dal primo anno di guerra era entrata in Croce Rossa come volontaria, poiché voleva seguire le orme di una zia paterna morta con la spagnola durante la Grande Guerra. Fece richiesta di andare sui treni in Russia o sulle navi ospedale, ma per la sua giovane età e per l’inesperienza fu destinata prima all’ospedale 23 marzo41 a Napoli e poi a Pozzuoli. Lavorò   Ibid.   L’antico nome dell’ospedale Cardarelli.

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intensamente fino all’ottobre 1943, quando fu congedata perché gli Alleati avevano requisito la maggior parte degli ospedali. La donna descrive i napoletani della «Napoli americana»42 come «formiche che uscivano dalle loro tane attratte dall’abbondanza»43. Anche lei cercò di trarre vantaggio dalla presenza alleata per trovare lavoro. Sfruttando la conoscenza della lingua inglese, infatti, riuscì a trovare un impiego all’Information Desk dell’American Red Cross Club in piazza Carità a Napoli. Si trattava di un circolo per ufficiali che venivano dal fronte, provvisto di bar, sale da gioco, piste da ballo, sale cinematografiche. Fu in questo contesto che Luisa conobbe Len, capitano americano di origine polacca proveniente dal fronte di Cassino, «un bel ragazzone biondo, dolce e sorridente»44. Il capitano da quel momento cominciò a frequentare regolarmente il circolo di piazza Carità e, come racconta Luisa, «partì subito in quarta. Un giorno mi comunicò che ci saremmo sposati! Accolsi la proposta con una gran risata, ma lui faceva sul serio»45. Len non si lasciò scoraggiare dal rifiuto dell’autorizzazione al matrimonio da parte del comando militare – che gli imponeva di attendere la fine del conflitto –; si congedò, infatti, dall’esercito ed entrò a far parte dell’Unrra (United Nation Relief and Rehabilitation Administration). Luisa ebbe poche occasioni per incontrare Len, impegnato al fronte e, come altre spose, fu inizialmente scoraggiata dai familiari, in particolare dalla madre, preoccupata per il trasferimento negli Stati Uniti. Ma a spingere Luisa ad accettare la proposta del militare fu l’ostinazione e lo spirito di contraddizione che la caratterizzava, come lei stessa riconosce, a distanza di anni: «me ne accorgo solo oggi che feci un atto di superbia e di orgoglio. (...). Loro erano contrari, poi videro che ero decisa e l’accettarono»46. Il matrimonio fu celebrato dal sacerdote della chiesetta del Redentore l’8 dicembre del ’45 nella sua casa al parco Grifeo, dove si svolsero anche gli opulenti festeggiamenti organizzati dal direttore   La definizione è di Antonio Papa.   Luisa, memoria cit. 44   Luisa, intervista cit. 45   Luisa, memoria cit. 46   Ibid. 42 43

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dello Snack Bar dell’American Red Cross Club. Luisa poté indossare un abito nuziale inviatole dalla madre di Len e sfoggiare un insolito corredo costituito da sacchetti di zucchero americano, seta di paracadute, brandelli di divise e coperte militari. La coppia per la luna di miele si recò in Toscana e, attraversando molte zone in cui Len aveva combattuto, si fermò a Cortina d’Ampezzo. Si trasferì, poi, per brevi periodi a Livorno e a Marina di Pisa, dove Len fu chiamato a svolgere incarichi per l’Unrra. Tornati a Napoli, nell’ottobre ’46 nacque Mike. Insieme partirono per l’America nel settembre ’47 con la Marine Links, una piccola nave che salpò da Napoli. Ancora vivo è in Luisa il dolore che provò quando all’imbrunire vide allontanarsi le luci che disegnavano i contorni di Mergellina, Posillipo, del Maschio Angioino. Ma, allo stesso modo, ricorda l’entusiasmo provato nel vedere i grattacieli, le sopraelevate e soprattutto le immense reclames di New York. In particolare, rimase affascinata da quella delle sigarette Philip Morris, che raffigurava «un faccione beato a bocca aperta dalla quale uscivano immensi anelli di fumo bianco»47. Prima di raggiungere Milwaukee, nello Stato del Wisconsin, si fermarono nel New Jersey, ospiti di un ex tenente del battaglione di Len che aveva sposato una ragazza fiorentina. Luisa rimase colpita dal lusso che connotava quella grande villa in cui i coniugi di guerra abitavano. Non ha dimenticato il grande parco che la circondava, il campo da tennis, le sontuose tende, i variopinti tappeti e «la bella grassa Mammy negra con tanto di crestina bianca»48. Rimase, inoltre, affascinata dall’eleganza dei suoceri della sua conterranea e dal raffinato collarino di velluto che avvolgeva il suo collo. Fu contenta quando Len la rassicurò, come Luisa stessa racconta: «Len, commosso, mi domandava se tutto mi piaceva e aggiungeva ‘vedrai, vedrai da noi! Ti piacerà tantissimo’»49. Arrivarono a Milwaukee la mattina successiva e, accolti alla stazione dalla madre di Len e dai fratelli di quest’ultima, si recarono nella loro nuova casa.   Ibid.   Ibid. 49   Ibid. 47 48

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Al di là delle aspettative create da Len, l’impatto con la nuova realtà fu scioccante, come Luisa stessa narra: «la casa che mi accolse era talmente diversa da quella della coppia di New Jersey che mi procurò un notevole shock»50. La donna, pur riconoscendo che i suoi parenti americani fossero «persone degnissime e piene di pensieri per lei»51, si è più volte soffermata sulla difficoltà di vivere in una modestissima casa in assoluta mancanza di intimità. Con la nuova famiglia, infatti, condividevano gli angusti spazi la madre di Len, due fratelli e due zii materni. «La nostra camera da letto e quella dei miei cognati erano divise solo da un arco, i rapporti coniugali non esistevano, era una cosa un po’ diversa dal matrimonio»52. Len non poteva garantirle un’abitazione tutta per loro poiché doveva ancora completare gli studi. Dopo circa un mese, Luisa decise di cercarsi un impiego. Si recò, pertanto, all’Employment Bureau, compilò una application con i suoi dati e le sue esperienze professionali, non dimenticando di menzionare il diploma d’infermiera della Cri (Croce Rossa Italiana). Tale annotazione le assicurò al momento un impiego in una clinica privata. Ma la differenza con quelle persone così semplici, con abitudini completamente diverse dalle sue, col passare del tempo si acuiva sempre di più. Tra le altre cose, Luisa ricorda che quando la madre di Len, con «somma indignazione», scoprì che ignorava che per l’intera comunità ci fosse una rigida scansione delle attività domestiche – secondo la quale il lunedì si faceva il bucato, il martedì lo stiro, il sabato lo shopping – pensò con nostalgia «ai panni stesi che quotidianamente attraversavano i vicoli di Napoli...»53. Luisa, a distanza di anni, commenta: ti trovi sbattuta in un altro mondo, con persone con le quali non hai niente in comune. Io mi sentivo terribilmente sola. La famiglia era molto modesta, io venivo da una famiglia di un livello intellettuale molto elevato, eravamo tutti laureati. Sono caduta in un ambiente che non era il mio, per giunta in un contesto completamente diverso. Gli americani erano

  Ibid.   Ibid. 52   Ibid. 53   Ibid. 50 51

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tutti uguali, il professionista, il postino, il grande professore, il macellaio erano tutti uguali, io non riuscivo a trovare niente di interessante nelle persone. Uguali, anche nel vestire, era tutto standardizzato... L’America mi pareva una grande città in continuo allarme incendi, dove tutti correvano, pugni al petto, perfino davanti alle vetrine: le superavano veloci, poi facevano un passo indietro, guardavano e via di nuovo velocissimi. Lui non mi aveva detto cosa avrei trovato lì54.

Dopo un anno e mezzo Luisa decise di trascorrere l’estate a Napoli insieme al piccolo Mike e di ritornare da Len in autunno. Ma ai suoi propositi la donna non tenne fede e non fece più ritorno dal suo Gi. A tal proposito scrive nella sua memoria: «dopo pochi giorni dal mio ritorno a Napoli, una sera, seduta a terra abbracciata alle gambe del mio papà, scoppiai in lagrime e raccontai. Raccontai tante cose, tante tristezze cui non avevo mai accennato nelle mie lettere. Mio padre mi abbracciò forte e mi disse che non era indispensabile che io tornassi laggiù e che per me e il mio bambino quella era la nostra casa»55. Luisa rimase sorda ai continui appelli del marito, che a metà degli anni ’50 ottenne il divorzio. «Con Len sono cominciati scambi continui di lettere, non ti dico! Lui l’ha presa molto male, vengo io, no, vieni tu, poi alla fine è andata così»56. La donna sostiene di essere stata vittima di un vero e proprio shock culturale, per esprimere il quale, tra l’altro, scrive: «la nostalgia è una sensazione indescrivibile e feroce e, data la differenza dell’emisfero, non riuscivo neanche ad immaginare che cosa stessero facendo i miei in quel dato momento. Eppoi il mare, il mare immenso che mi teneva lontana da loro...»57. Luisa, ritornata a Napoli, mostrò una spiccata intraprendenza svolgendo svariati impieghi: assistente alla Mobil Oil, promotrice e responsabile di una ramificata ditta di pulizie, che ottenne appalti prestigiosi, insegnante d’inglese al liceo. Fu, inoltre, una delle maggiori sostenitrici della proposta di legge nota come «Piccolo divorzio» dell’onorevole Sansone, essendosi innamorata di un collega

  Ibid.   Ibid. 56   Ibid. 57   Ibid. 54 55

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della raffineria che poté sposare soltanto alla fine degli anni ’50 in Messico. Giovanna G. Giovanna aveva ventidue anni quando arrivarono gli Alleati. In quel periodo, seppure a rilento, la vita si normalizzò, il padre riprese il suo lavoro al Banco di Napoli, la sorella continuò a seguire i corsi all’università e lei ritornò nella fabbrica di guanti presso cui lavorava da anni. Tra le sue compagne i soldati alleati avevano molto successo perché «erano belli e si divertivano sempre»58. In uno dei trattenimenti danzanti organizzato dal comando alleato a cui la ragazza fu invitata, conobbe John, dal quale fu subito attratta. I due si frequentarono per diverse settimane, fino a quando il padre di Giovanna li incontrò casualmente in via Caracciolo, sul lungomare. L’uomo mostrò immediatamente la sua contrarietà: «quando ci ha visto stavamo abbracciati e allora mi ha dato uno schiaffone e mi ha portato a casa e a lui gli ha detto ‘non ti fare vedere più, sennò ti ammazzo!’»59. Giovanna non fu affatto sorpresa della reazione del padre, convinto sostenitore del regime e ostile agli Alleati. «Mio padre era un fascista, ma un fascista che ci credeva veramente; poverino, era una brava persona, ci credeva veramente, ma non era cattivo. (...). Quando si cominciava a parlare che stavano venendo gli americani, che stavano arrivando a Napoli lui ci stava male, sperava sempre che Mussolini ritornava a comandare di nuovo. (...). Gli americani li odiava proprio, diceva che ci dovevamo chiudere a casa a me a mia sorella perché violentavano le donne, così si diceva»60. Giovanna, però, non aveva intenzione di rinunciare a John che sposò nel dicembre 1945, nonostante l’immutata contrarietà del padre. S’imbarcò il 9 giugno dell’anno successivo su un transatlantico per gli Stati Uniti e soffrì molto per l’assenza al molo Beverello del genitore, che attese fino all’ultimo istante. Arrivata a New York Giovanna trovò ad attenderla John, insieme ad un altro Gi che aveva sposato una donna barese. Da lì si recarono   Giovanna, testimonianza cit.   Ibid. 60   Ibid. 58 59

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ad Atlanta, in Georgia, una città che sentì subito estranea, sensazione che provò anche quando conobbe la famiglia di John, con la quale fu costretta a convivere per ben due anni. La madre e le due sorelle del marito – come aveva fatto in Italia suo padre – non vedevano di buon occhio le spose di guerra italiane, credevano che queste donne, «povere e spregiudicate», avessero utilizzato i Gi’s come un canale privilegiato per migliorare le proprie condizioni di vita. La donna rammenta ancora le interminabili giornate trascorse tra le tristi pareti della sua piccola stanza, costretta a subire l’indifferenza della sua «nuova famiglia». Giovanna racconta: «fu difficile, veramente difficile, mi ignoravano completamente, anche se vivevamo nella stessa casa, non parlavamo, anche perché non ci capivamo, non mangiavamo insieme e non ci guardavamo nemmeno... e poi i dispetti che mi facevano! Quando nacque mio figlio poi le cose peggiorarono perché loro pretendevano di educarlo a modo loro, come un americano, non volevano nemmeno che gli imparassi l’italiano... una tragedia!»61. Ma i due sposi non avevano alternative: quando John partì per la Campagna d’Italia non aveva ancora terminato gli studi alla facoltà di Legge ed il desiderio di Giovanna di trovare un lavoro cozzava col limite insormontabile della non conoscenza della lingua inglese. Quando però John si laureò fu subito impiegato in un ufficio legale e con il raggiungimento dell’autonomia economica i due, insieme al loro bambino, si trasferirono in un altro appartamento, continuando a mantenere distaccati rapporti con la madre di John che non perdonò mai al figlio di aver sposato un’italiana. Giovanna, d’altronde, non intrecciò mai significative relazioni con altri statunitensi, dai quali confida di aver sempre percepito diffidenza e distacco, ma poté, invece, contare sul sostegno e la collaborazione di altri emigranti italiani, tra cui due spose di guerra. Dal matrimonio nacquero altri due figli e, mentre John si affermava sempre di più nella professione forense, Giovanna continuava a dedicarsi ad essi e alla gestione della casa. La donna, ormai anziana e ammalata, ritorna di rado in Italia accompagnata dai suoi figli, affermati avvocati statunitensi.

  Ibid.

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Anna P. Anna era nata nel 1923 ad Avellino, dove abitava. Aveva appena cominciato a studiare Lingue all’università di Napoli quando dovette interrompere gli studi a causa della guerra. Suo padre, noto medico, era morto nel ’40 e con l’intensificarsi dei bombardamenti su Avellino, si era trasferita, insieme alla madre, colpita da un esaurimento nervoso, e cinque dei sei fratelli, nelle terre che possedevano a Mercogliano. Con l’arrivo degli americani e poi dei canadesi, che fecero di Avellino la sede del loro comando in Italia, la famiglia di Anna ritornò in città e avviò la ricostruzione della grande casa, per buona parte distrutta dai raid alleati. Immediatamente, la sorella Teresa, insegnante d’inglese, fu contattata dal sergente Artur Kross che, dopo vari tentativi, riuscì a convincerla a fare da traduttrice per il comando. L’assenso della donna avviò un via vai di militari canadesi. Un giorno il sergente chiese a Teresa il permesso di condurre con sé Aurele, un «bravo giovane» che soffriva di solitudine, «non beveva», «non fumava», non amava frequentare i club, detestava l’aria di frivolezza che si respirava in quei luoghi. Anna rimase attratta dalla serietà di Aurele che cominciò a far visita quotidianamente alla sua famiglia e del quale s’innamorò. Nel 1945 il primo corpo canadese, di cui Aurele faceva parte, fu  spostato nel Nord Europa ed Anna decise di impiegare il suo tempo per imparare la lingua inglese, approfittando della disponibilità del cappellano militare, padre Herbert Ghel, e di quella della sorella. Aurele, dopo essere stato in Belgio, Olanda e Germania, nel giugno del 1946 tornò ad Avellino per sposare Anna. Il matrimonio fu celebrato da un cappellano inglese in una piccola chiesa di Napoli il 16 giugno 1946; gli sposi si recarono in luna di miele a Procida. Dopo qualche mese Aurele fu rimpatriato ed Anna, che scoprì di aspettare un bambino, lo raggiunse poco dopo. Viaggiò in treno attraversando la Svizzera e la Francia ed arrivò a Londra, dove trascorse cinque giorni in un ostello per spose di guerra. Da Londra andò a Southampton, dove si imbarcò sulla nave Lady Rodney diretta ad Halifax. Sul transatlantico, poiché era una delle poche a conoscere la lingua inglese, fu utilizzata dall’American Red Cross come intermediaria con le altre spose. Fu in quell’occasione che Anna percepì ­215

chiaramente un evidente scontro tra culture troppo diverse tra loro. Rimase colpita dall’assoluta mancanza di riservatezza che connotava l’approccio ad alcuni gesti che in Italia erano discreti, privati, rispettosi, come quello di una donna che allatta il proprio bambino. Riteneva, infatti, che le infermiere della nave nel dare disposizioni in tal senso si mostrassero indelicate e superficiali, pretendendo che le puerpere alimentassero i neonati pubblicamente. Il 12 novembre 1946 Anna arrivò a Halifax, dove l’attendeva Aurele. La donna fu ben accolta dai congiunti del marito, soprattutto dalla sorella Jeannette, con la quale aveva intrattenuto calorosi rapporti epistolari quando era ancora in Italia. Ma se poté contare su un solido sostegno affettivo, capì immediatamente che sarebbe stato difficile adattarsi alle differenze culturali e paesaggistiche, come a quelle climatiche e culinarie della sua nuova città. Rimase sorpresa dal riserbo di quelle persone gentili, dalla quiete propria di quel luogo, con paesaggi desolati e malinconici, non come quelli avellinesi, costantemente affollati da volti familiari, con strade antiche e popolate e chiese capaci di riecheggiare suggestivi tempi lontani. Le mancavano la cultura italiana, il teatro, i musei, l’arte. Allo stesso modo, rimase colpita dalla diversità dei sapori della cucina locale. A distanza di anni, ancora non ha scordato quella strana zuppa di pesce impreziosita da «patate galleggianti» preparata appositamente per lei il giorno del suo arrivo. Non era abituata ai nuovi gusti della melassa, dei fagioli in scatola, dell’aragosta, dell’astice. Ma la diversità non scoraggiò Anna la quale superò con grande coraggio le difficoltà di adattamento alle rigide temperature, alla difformità dei costumi e delle abitudini. Per i primi otto anni Anna e Aurele vissero nella piccola comunità di pescatori di Shippegan, dove Aurele e suo fratello gestivano un negozio di alimentari. Lì Anna strinse significative relazioni, tanto che una sera del 1950, alla vigilia del suo primo viaggio in Italia, la moglie del medico della comunità organizzò una festa di saluto con fregi, bandiere e costumi italiani. Tornati dal viaggio in Italia, Anna e Aurele si trasferirono a Bathurst, dove Aurele prima avviò un’attività commerciale e poi s’inserì nel settore assicurativo. Anche a Bathurst Anna si amalgamò completamente con la comunità indigena. Pur dedicandosi prevalentemente alla gestione della casa, ad Aurele e ai suoi sei figli, collaborò attivamente con associazioni di volontariato cattolico come ­216

i Cavalieri di Colombo62 e s’iscrisse al Canadian War Brides, l’associazione delle spose di guerra europee trasferitesi in Canada, nata negli anni ’70. Anna ritorna annualmente ad Avellino, talvolta da sola, talvolta con Aurele. Pur amando l’Italia e la sorella Teresa, confida la scarsa tolleranza alla convulsa vita italiana, essendosi pienamente adattata a quella stessa quiete che anni addietro l’aveva sconfortata. Sara Sara, figlia di un impiegato di banca, viveva a Roma e, terminati gli studi magistrali, aprì un negozio di vestiti e cappelli in via Nazionale. Come tanti altri soldati alleati, anche Fred si fermò nella sua bottega per corteggiarla e, al fine di conoscerla più approfonditamente, il giorno successivo si presentò accompagnato da un altro militare americano che parlava l’italiano. Fred, ebreo di origine tedesca, era di stanza a Capodimonte a Napoli ed era impiegato nel servizio segreto dell’esercito statunitense. Prima di ripartire per il capoluogo campano dichiarò a Sara l’intenzione di sposarla. Poiché le frequentazioni si erano limitate a poche e brevi visite ed il militare non conosceva la sua famiglia, la proposta di matrimonio colse Sara impreparata. Nonostante ciò la donna accettò. Per lei non si trattò di amore, quello «straniero» rappresentava semplicemente «una buona occasione», come lei stessa racconta: «io quasi non lo conoscevo, non è che ero innamorata, lui non stava a Roma, ci vedevamo poco, veniva al negozio, ma non uscivamo mai, non veniva a casa mia, non ci capivamo nemmeno... insomma era un fidanzamento ridicolo. Poi, quando mi fece la proposta pensai che era una buona occasione! Però non è che gli volevo un grande bene (...) era un bell’uomo, intelligente, istruito e anche se non ero innamorata capii che poteva andare»63. A condizionare la decisione di Sara di sposare Fred contribuì anche il rancore che la donna provava per un uomo napoletano, col 62   Si tratta di un’associazione cattolica statunitense fondata nel 1882 a New Haven, nel Connecticut, dal sacerdote di origine irlandese Michael J. McGivney. L’associazione, che si ispira a principi di carità, unità e fratellanza, è prevalentemente diffusa negli Stati Uniti, nel Canada, nel Messico, a Cuba, nelle Filippine ed in Polonia. 63   Sara, testimonianza cit.

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quale aveva da qualche anno una relazione conflittuale: «io mi so’ sposata quasi per una ripicca, perché ero fidanzata con un altro, lui era poco serio, lo presi e lo piantai»64. La coppia di guerra si unì in matrimonio nel settembre 1945 a Roma, con il pieno consenso della famiglia di Sara, e si recò in luna di miele al lago di Bracciano. Fred fu prima inviato come interprete al processo di Norimberga e poi rimpatriato. A Roma, Sara seguì intensive lezioni di lingua inglese e, in quanto moglie di un cittadino americano, frequentò un club per spose di guerra al corso Umberto, dove poteva acquistare prodotti americani a costi estremamente vantaggiosi. La Croce Rossa romana le comunicò che sarebbe dovuta partire da Napoli il 19 aprile 1946 insieme ad altre quattrocento spose. Dopo un viaggio disagevole, per via delle difficili condizioni meteorologiche, Sara raggiunse il suo sposo in un bell’appartamentino al centro di New York. Fred non aveva altri parenti in vita ad eccezione di un fratello che viveva in Australia, tutti gli altri erano stati sterminati nei campi di concentramento nazisti, mentre di una sorella non aveva più notizie. Il giorno successivo al suo arrivo, Sara – senza comunicarlo a Fred – andò in cerca di lavoro. Comprò dei giornali e tra le inserzioni rimase colpita da una pubblicata da una certa madame Paoline, che cercava personale per la sua sartoria. Si presentò il giorno stesso e fu immediatamente assunta, data la sua esperienza nel campo sartoriale che le consentì di guadagnare ben 40 dollari a settimana. La notizia suscitò indignazione in Fred il quale non aveva ancora un impiego e usufruiva soltanto di un piccolo sussidio che l’esercito americano inviava ai veterani della guerra. Nonostante la contrarietà del marito, Sara continuò a lavorare con madame Paoline – nel cui laboratorio operavano altre sarte di origine italiana – per circa otto mesi, poi decise di aprire un atelier di cappelli per conto suo nella Fifth Avenue. Strinse in quel periodo significative relazioni con statunitensi ed altri immigrati dall’Europa, ma quasi mai con italiani, tranne che con una sposa di guerra romana che viveva a Washington che aveva conosciuto sul transatlantico Vulcania.   Ibid.

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Fred, invece, dopo qualche tempo, insieme ad altri amici, avviò uno studio fotografico che si occupava prevalentemente di moda. Nonostante ciò la convivenza, soprattutto nei primi anni, fu tutt’altro che serena, in quanto risentì del forte stato depressivo di Fred, conseguente alle brutture della guerra e ai numerosi lutti che l’avevano colpito. Dopo vent’anni Sara decise di fare ritorno in Italia e di separarsi da Fred che, amareggiato, si impegnò ad aspettarla per tre anni in caso di ripensamenti. Ma la donna non ritornò più a New York e si ricongiunse con l’uomo napoletano che anni prima l’aveva fatta penare e che aveva avuto un ruolo così determinante sulla sua scelta di sposare un Gi. Dopo qualche anno i due si unirono in matrimonio ed andarono a vivere sulla collina di Posillipo, amministrando insieme un’attività di import-export. Nonostante il suo matrimonio di guerra non sia andato a buon fine, Sara sostiene che se non avesse deciso di ritornare in Italia per amore, anche senza Fred, sarebbe rimasta volentieri in America, «dove tutto procede velocemente e dove non esiste alcun limite per chi ha grandi idee e voglia di fare»65. Lia M. Lia, dopo essere stata in collegio fino a diciotto anni, andò a vivere con la madre, insegnante di musica, separata dal marito. Fino a prima della guerra trovò un impiego nelle federazioni fasciste e frequentò salotti e teatri, ritrovi della «Napoli bene». Con l’arrivo degli Alleati, poi, riuscì ad impiegarsi presso l’istituto bancario American Express. Nel racconto della sua storia di vita Lia si sofferma sui momenti tragici della guerra: la perdita del lavoro della madre, le lunghe file per il tesseramento dei viveri, la morte del fratello al fronte, la fame, i bombardamenti. Il 7 novembre 1944 all’uscita dalla chiesa, in compagnia di una cara amica e del suo fidanzato straniero, conobbe un ufficiale medico americano. L’uomo cominciò a corteggiarla, ma dovette scontrarsi con le prevenzioni che Lia aveva nei confronti degli Alleati, ai quali non riusciva a perdonare i devastanti bombardamenti che   Ibid.

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l’avevano tanto terrorizzata. Dopo vari incontri, però, cominciò a fidarsi dell’ufficiale che, in più occasioni, manifestò l’intenzione di sposarla. Superate le ritrosie personali, tuttavia, la donna dovette affrontare quelle della madre che, amareggiata, ripeteva: «ho perduto due figli con questa guerra: uno se l’è preso il Padreterno e l’altro uno straniero»66. Lia, pur accettando la proposta di matrimonio dell’ufficiale, continuò ad essere dubbiosa fino al 31 dicembre, quando si lasciò sedurre dall’atmosfera principesca di un ballo organizzato dagli americani al Palazzo Reale di Caserta: figurati che c’erano le americane impiegate con un vassoio grande pieno di orchidee con lo spillo e appuntavano lo spillo alle dame che salivano, sia americane, sia mogli italiane. Un salone quello di Caserta che era veramente fantastico: tutto illuminato, oro e argento che tappezzavano un buffet lungo, figurati che c’erano delle zuppiere grandi così di spumante con il mestolo che chi voleva metteva nel bicchiere. Fiabesco. Senti, tutta la nottata si ballò (...) però io quando salii lo scalone della regia fu tanto di buon augurio che dico: «no, no, non lo lascio, il matrimonio lo faccio»67.

I due si unirono in matrimonio civile, giacché Dick era protestante, il 31 marzo del 1945 nella Repubblica di San Marino, dove lui era di stanza. Qualche giorno dopo Lia ritornò a Napoli e fu raggiunta dal marito il 13 giugno, quando, insieme, si trasferirono in una pensione in via Caracciolo. Poco dopo aver scoperto lo stato di gravidanza della donna arrivò l’ordine d’imbarco su una nave ospedale per l’ufficiale medico. Per Lia fu «un grande dolore, perché in cuor mio sentivo che non l’avrei mai raggiunto perché io pensavo sempre questo: ‘ma io dovrò affrontare non l’America, ma un ambiente americano: se esco i giornali non li posso leggere, se vedo la televisione non la posso capire e così via’. Allora io dicevo a lui: ‘ma perché non chiedi un trasferimento? Non a Napoli, ma in Europa, dove a me mi può essere più facile raggiungere mia madre’»68. Ma nemmeno Dick intendeva lasciare l’America e ripetutamente   Amso, Lia M. cit.   Ibid. 68   Ibid. 66 67

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cercò di persuadere la moglie a raggiungerlo. Per circa due anni i due si scambiarono inviti reciproci, fino a quando l’uomo non scrisse più, pur continuando ad inviare per oltre vent’anni un cospicuo assegno alla sua famiglia italiana. Soldati senza uniforme Appena sono arrivata a New York... ero ancora sulla nave, mi sono vista là, quest’America grande, ricca, enorme, ho detto «Laura ti sei distrutta!» Ho avuto la visione! Ma perché Laura nel cuore aveva quello che abbiamo noi italiani, mi dicevo: «dove sei? Ma chi sei? Hai lasciato la famiglia». Pur avendo Richard davanti era finito tutto l’amore, tutto! Una tragedia greca! Si è verificato esattamente quello che dicevano i miei fratelli, (...) perché ero straniera, io siciliana, legatissima alla mia famiglia, mi vedevo tra tutta questa gente diversa, bella, bellissima, ricca, ricchissima, Chicago era bella, ma dicevo: «ma dove sei Laura, ma che hai fatto? Ti sei condannata!»69.

Queste le parole che Laura utilizza per descrivere la sensazione da cui fu pervasa quando l’Algonquin approdò a New York. La consapevolezza di aver commesso un irreversibile sbaglio caratterizzò – come abbiamo visto – sino alla fine la sua esperienza americana. Laura chiude con queste parole la sua intervista: «quando è morta mia madre sono riuscita a vederla, mi trovavo qui, ero venuta perché stava male; però quando mio padre non stava bene e io stavo tornando a Napoli, è arrivato mio fratello a Roma tutto vestito di nero: ‘Laura, papà è morto’. Quindi mia mamma l’ho vista, mio padre pure, ma morto. E questo rimorso io non l’ho mai superato, quello di aver perso la possibilità di vivere con i miei cari per un sogno d’amore...»70. Tra le donne intervistate Laura non fu l’unica ad aver sofferto per la sua scelta. Come Richard, anche i mariti di Elena e Virginia seguirono le proprie spose in Italia, rimanendo più o meno estranei ai contesti di approdo. Le esperienze nelle «nuove patrie» furono – come si è visto –   Laura, testimonianza cit.   Ibid.

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differenti. Diverse furono le destinazioni: New York, Boston, Milwaukee, Baltimora, Chicago, Atlanta, Virginia, Halifax. Diverse le modalità d’integrazione e le valutazioni che oggi le donne intervistate fanno delle loro storie. Qualche volta i matrimoni furono felici; altre volte l’eccessiva nostalgia di casa o le discordanze con le nuove realtà, spesso acuite dall’ostilità delle famiglie dei mariti, impedirono loro un facile adattamento. In qualche caso le spose non raggiunsero mai i loro coniugi, in altri fuggirono via senza dare spiegazioni. La convivenza con le famiglie dei mariti nei primi anni di matrimonio accomunò alcune spose intervistate. Questa rappresentò una scelta quasi obbligata, in quanto i giovani mariti appena ritornati dall’Europa vivevano del misero indennizzo che l’esercito garantiva loro. Qualcuno doveva ancora completare gli studi. Decisamente privilegiata fu la condizione di chi sposò italoamericani, potendo contare sulla condivisione della lingua, di usi e costumi. Al di là delle differenze, il sogno di tutte queste donne ben presto si scontrò con la realtà. L’incanto delle uniformi svanì e le spose di guerra si accorsero che avevano sposato non solo soldati alleati, ma soprattutto uomini, spesso troppo diversi da loro. Quando Anna sbarcò ad Halifax il 13 novembre del ’46 e riconobbe Aurele che l’attendeva al molo ebbe una strana impressione, l’uomo che aveva sposato in Italia era diverso, non era così «piccolo», «sottile», «semplice», «normale», gli mancava qualcosa. Solo in seguito la donna si rese conto che era la prima volta che lo vedeva in borghese, senza l’uniforme dell’esercito canadese71.

  Anna, testimonianza cit.

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Nota dell’Autrice

«Quando si scende dal treno a piazza Garibaldi, la prima impressione è: ma questa non è la Napoli che io e migliaia di americani abbiamo conosciuto. È più pulita, le strade sembrano più larghe. E infatti lo sono. Per il semplice motivo di una sottrazione: quando l’armata partì rimase poca gente a Napoli. Oggi si può anche camminare sui marciapiedi»1. Così J.H. Burns comincia a raccontare su «Il Mondo» nel giugno del 1949 le impressioni avute rivedendo la città nella quale aveva vissuto cinque anni prima. Le differenze da lui individuate riguardavano soprattutto il paesaggio: le strade svuotate dai soldati alleati e ripulite dalle macerie, il perfetto funzionamento del porto, la ricostruzione di molti edifici, dei grandi alberghi, il ripristino dell’attività degli istituti bancari. Persino la Galleria Umberto I egli notò cambiata. In quello che lui considerava il simbolo della «Napoli americana» erano stati riaperti i cinema, i negozi di antichità e i bar che, oltre ad aver perso quell’aria equivoca di un tempo, disponevano di liquori delle migliori qualità e di «autentico» caffè espresso. Il soldato americano, tuttavia, non riscontrò alcun cambiamento nel comportamento dei napoletani, molti dei quali, come nel ’44, continuavano ad ispirare «pietà» e «compassione» ed altri ad essere «impostori e mezzani», «odiosi accattoni», «nostalgici del regime». 1   «Il Mondo», Un americano ritorna, 25 giugno 1949. L’articolo è successivo alla prima pubblicazione del romanzo La galleria, edito nel 1947.

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L’esistenza di pregiudizi e di risentimenti da parte degli Alleati nei confronti della popolazione italiana emerge non soltanto dai racconti dei «soldati-scrittori» come Burns, ma – come abbiamo visto – anche dalle politiche propagandistiche e legislative attuate dal Governo Militare Alleato nel corso dell’occupazione. Sul fronte italiano corrisposero atteggiamenti di delusione e ostilità, alimentati, rispettivamente, dalle inaspettate violenze attuate dagli occupanti – al di là delle più entusiastiche aspettative collegate alla liberazione – e dall’impossibilità di recuperare una dignità che anni di sconfitte e di privazioni avevano intaccato. I frequenti riferimenti dei militari e dei civili italiani ai concetti di «onore tradito», «patria», «nazione», «sacrificio» testimoniano la forza della residuale impalcatura ideologica del disfatto regime. Un documento archiviato dalla prefettura di Napoli rappresenta un’interessante prova dell’esistenza di gruppi di chiara derivazione fascista ostili a coloro che fraternizzavano con gli Alleati. La Banda Battaglioni «M», nell’ottobre 1944, siglava il seguente testo: «Italiani!!! Siete una massa di cornuti e peritanti. Vi siete messi al servizio del nemico, che vi calpesta come vermi, che rompe le fiche alle vostre mogli, alle vostre sorelle, alle vostre madri, e voi restate lì inermi. Ah! Vigliacchi!!!!! Fate schifo! Ribellatevi a questo lurido mostro angloamericano, fategli sentire il peso delle vostre randellate, cacciatelo dal vostro suolo. Il Duce ritornerà. W il Duce. Heil Hitler. Morte ai traditori Bonomi-Sforza-Croce»2. La propaganda repubblichina, d’altronde, continuava dal Centro-nord a chiedere agli italiani di avere fiducia nei destini della nazione e di riscattare l’onore della patria, per la quale era necessario compiere qualsiasi sacrificio3. Si puntava ancora sui contenuti del razzismo coloniale e si estremizzavano proprio gli aspetti più oscuri dell’occupazione alleata nell’Italia «liberata», primo fra gli altri le violenze sessuali compiute dai soldati «di colore»4.   Asn, Pref., Gab., 1940-46, II vers., b. 1247, f. 81, Ordine pubblico: attività criminosa durante la guerra. 3   D. Gagliani, Il fascismo italiano e la femminilizzazione del mito dell’esperienza della guerra cit., p. 118. Sull’immagine degli anglo-americani durante la guerra si veda P. Cavallo, Italiani in guerra. Sentimenti ed immagini dal 1940 al 1943, il Mulino, Bologna, 1997. 4   Tra gli strumenti utilizzati a tal fine primeggiavano i manifesti murali e i volantini (cfr. tavv. 17-19). 2

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L’amarezza relativa alla regressione da nazione imperialista a nazione occupata alimentò nel Centro-sud gli scontri con gli angloamericani, dipinti dal nazionalismo di inizio secolo e dal fascismo come rappresentanti di una civiltà basata sull’egoismo e sul materialismo, contrapposta a quella faticosamente costruita nel Ventennio, improntata al sacrificio e al dovere5. Si riteneva che gli «occupanti», ormai sbarcati in Italia, rappresentassero una concreta minaccia soprattutto per le donne locali che, piuttosto che continuare ad onorare la nazione e a tutelare la sacralità familiare, si mostravano indegnamente attratte dai nuovi «invasori». La difficoltà ad accettare tale «infedeltà» assunse varie forme. Oltre ai numerosi casi di denuncia contro le meretrici vaganti, quello più estremo fu il taglio dei capelli a cui molte donne furono sottoposte. Sulla stessa linea si pone l’appoggio incondizionato che gli uomini italiani garantirono a Lydia Cirillo, la donna che offrì una valida opportunità per dare sfogo ad un’ondata di «patriottismo» represso dall’«invadente» presenza di un esercito che aveva approfittato della sua posizione di occupante per «circuire la ragazza italiana, indifesa perché coinvolta nella disfatta del suo paese»6. La difesa dell’onore attraversa e unisce tutte queste vicende. In tale contesto, le donne si sono rivelate un prisma attraverso il quale sono stati analizzati i rapporti tra occupanti ed occupati e a partire da esse è stata riletta l’occupazione alleata nelle città centro-meridionali. È proprio osservando le donne – considerate di volta in volta traditrici o eroine, meritevoli di violenze o degne di sostegno – che si è giunti ad una conoscenza più approfondita degli uomini. Esse hanno consentito di comprendere quanto quella parte del Paese abbia sofferto l’occupazione alleata, un’occupazione estremamente complessa e ambivalente, completamente diversa da quella tedesca che l’aveva preceduta. Durante quest’ultima le interazioni con la popolazione civile erano state minime, i rapporti distaccati. Le violenze dell’esercito nazista, inoltre, seppur numerose e di notevole crudeltà, si erano concentrate soprattutto nel periodo compreso tra l’8 settembre 1943 e l’abbandono definitivo del territorio da parte 5   D. Gagliani, Il fascismo italiano e la femminilizzazione del mito dell’esperienza della guerra cit., p. 118. 6   A. Garofalo, L’italiana in Italia cit., pp. 20-21.

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delle truppe. I soldati anglo-americani, invece, alternarono a pacifici scambi e ad amichevoli frequentazioni numerosi episodi di violenza non appena si stabilirono nelle città, al punto che gran parte della popolazione civile ebbe difficoltà a riconoscere in essi degli alleati. Tale consapevolezza finì per confondere i confini tra i concetti di «amico» e «nemico» e rendere controversa la Liberazione. Queste dinamiche sono state a lungo descritte con linguaggi diversi da quelli della storia7. Ricca è stata la produzione letteraria, filmica e teatrale che ha dipinto città stravolte dalla guerra, gravemente segnate dalla miseria e dalla disperazione. Oltre alle rappresentazioni letterarie, teatrali e cinematografiche, di cui Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, Paisà di Roberto Rossellini e La Ciociara di Alberto Moravia – sceneggiato da Vittorio De Sica – sono gli esempi più significativi8, interessanti scenari emergono nei romanzi dei militari alleati. In Napoli ’44 di Norman Lewis, La galleria di J.H. Burns, Vie et mœurs des G.I.’s en Europe di Marc Hillel, La ragazza di Via Flaminia di Alfred Hayes e in La pelle dell’italiano Curzio Malaparte affiora chiaramente l’atteggiamento di conquista dei militari alleati nei confronti della popolazione italiana. I primi lavori storici sull’argomento hanno scelto di analizzare le vicende più strettamente politiche e militari, rispecchiando l’impostazione che la disciplina ha assunto nei confronti dei temi legati ai conflitti9. Eccezioni a questa impostazione si sono verificate a partire dagli anni ’80, con studi più attenti alla dimensione quotidiana10. Le analisi più recenti, attraverso un costante incrocio tra le fonti archivistiche e quelle orali, si sono, in particolare, soffermate sulle violenze   A. Lepre, presentazione a P. De Marco, Polvere di piselli cit.   Per un approfondimento sul tema si veda V. Caprara, Napoli, gli Alleati e il cinema, in Italy and America 1943-44 cit., pp. 503-524. 9   A. Scirocco, Napoli 1943-1953 cit., pp. 91-110; L. Mercuri, 1943-45. Gli Alleati e l’Italia cit.; L. Mercuri, L’Italia del Re, in «La voce della Campania», n. 18, novembre 1975; W.D. Ellwood, L’Alleato nemico cit. 10   Tra i più rappresentativi: P. De Marco, Polvere di piselli cit.; A. Papa, Napoli americana cit.; N. Gallerano (a cura di), L’altro dopoguerra cit.; P. De Marco, Le politiche alleate in Italia cit.; G. Chianese, L’esperienza della guerra a Napoli: storia del conflitto, storia della città, in «Quale Storia», n. 1, 1990, pp. 29-54; G. Chianese, Napoli nella Seconda guerra mondiale, in «Italia Contemporanea», n. 195, giugno 1994, pp. 343-362; G. Chianese, Rappresaglie naziste, saccheggi e violenze Alleate nel Sud, in «Italia Contemporanea», n. 202, 1996, pp. 77-84; A. Placanica (a cura di), 1944 Salerno capitale cit.; G. Chianese, «Quando uscimmo dai rifugi» cit. 7 8

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attuate dagli eserciti sulla popolazione civile, facendo emergere le interessanti contraddizioni dell’occupazione e le dissonanze tra le memorie ad essa connesse11. Completamente ignorate sono state, invece, nel territorio preso in esame, le dinamiche di genere che connotarono la convivenza tra le due parti. Tentare di colmare questo vuoto storiografico è stata l’ambizione di questo lavoro che ha intrecciato tra loro i documenti d’archivio, i diari, la memorialistica, la stampa coeva, le fonti orali e si è confrontato con un filone di studi internazionale particolarmente innovativo, attento ai conflitti di genere che attraversano la guerra e dividono comunità e nazioni12. Fin dal principio, lo stupore scaturito dalla ricchezza della documentazione riguardante i controversi rapporti tra donne e uomini è stato affiancato da quello relativo all’assenza di tali ricordi, oltre che nella memoria pubblica, anche in quelle private. L’oblio ha oscurato gli aspetti più problematici dell’occupazione, cancellandone la sconcertante conflittualità di cui la popolazione era stata, se non protagonista, almeno testimone. Qualche militare ricorda di aver assistito al simbolico taglio di capelli, ma si tratta di immagini isolate, la memoria pubblica non ne conserva alcuna traccia. Allo stesso modo, anche a Torre Annunziata, nessuno rammenta più la donna che «aveva vendicato l’onore degli italiani». Tali ricordi si sono rivelati più deboli rispetto a quelli maggiormente rispondenti alle ottimistiche rappresentazioni dei «liberatori» che avevano preceduto l’effettiva occupazione del territorio, primo tra gli altri quello relativo al trionfante ingresso delle armate alleate nelle città. La memoria di questo particolare avvenimento è carica di significati e sembra tuttora riverberare le emozioni, i sentimenti, le speranze di quei momenti

  T. Baris, Tra due fuochi cit.; G. Gribaudi, Guerra totale cit.   In particolare, A. Warring, Identità nazionale, genere e sessualità cit.; F. Virgili, La France «virile» cit.; A.P. Biddiscombe, Dangerous Liaisons cit.; J.R. Lilly, Stupri di guerra cit.; J. Miller, Dangerous women and Naughty Girls cit.; J. Verlag, It Started with a kiss cit.; F. Rouquet, F. Virgili, D. Voldman (a cura di), Amours, guerres et sexualité cit.; F. Virgili, Naître ennemi cit.; L. Capdevila, L’identité masculine et les fatigues de la guerre (1914-1945), in «Vingtième siècle», n. 75, juillet-septembre 2002; Id., La «collaboration sentimentale»: antipatriotisme ou sexualité hors-normes? (Lorient, mai 1945), in «Le cahiers de l’IHTP», n. 31, 1995; E. Morin-Rotureau (a cura di), 1939-1945: combats de femmes cit.; A. Warring, Tyskerpiger: under besættelse og retsopgør, Gyldendal, København, 1994. 11 12

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che designarono la fine di un lungo incubo. Il resto è stato rimosso, assecondando le interpretazioni che la successiva retorica repubblicana ci ha consegnato, miranti a diffondere prevalentemente l’immagine degli amici-Alleati, negando ogni forma di contraddizione13. Il processo di rimozione che ha riguardato gli aspetti più oscuri dell’occupazione potrebbe aver risentito dell’incapacità delle comunità rinate dalle ceneri del conflitto di convivere con memorie talmente penose da compromettere lo stesso vivere collettivo14. La conflittualità che ancora a fine guerra connotava i rapporti di genere potrebbe aver offuscato il ricordo degli intensi conflitti sessuali. Ciò rappresenterebbe un ulteriore tentativo da parte delle comunità di ricomporre i resti di una mascolinità in crisi, obliando ogni traccia di emancipazione femminile a cui la guerra e l’umiliante «altro dopoguerra»15 avevano condotto. È proprio nella fine dell’occupazione alleata, d’altronde, che molti, militari e civili, avevano individuato il momento del riscatto. Nel gennaio 1945, ad esempio, ad un salernitano che chiedeva un parere sul fatto che una «signorina che conosceva per seria» aveva detto di preferire «sposare mille volte uno spazzino americano, anziché un avvocato italiano» il redattore di «Don Chisciotte» rispose: «sono né più né meno che luride cagne. Ma, Dio volendo, potremo dare molte lezioni, a guerra finita, a queste figlie del disonore»16. 13   D. Gagliani, La guerra come perdita e sofferenza, in «Parolechiave», nn. 2021, 1999. 14   G. Crainz, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, in «Meridiana», n. 22-23, 1995, pp. 249-273. 15   E. Forcella, Un altro dopoguerra, in M. Occhipinti, Una donna di Ragusa, Feltrinelli, Milano, 1976. 16   «Don Chisciotte», 15 gennaio 1945, lettera di Mario B. da Salerno.

Indice dei nomi

Adams, Clifford R., 179. Aga Rossi, Elena, 34n, 47n. Ago, Renata, 129n, 136n. Alexander, Harold Rupert, 36. Alfinito G., 97. Alliegro, Giuseppe, 52n, 112, 113n. Amleto, 114n. Anna P., 96, 178, 193n, 215-217, 222 e n. Annamaria S., 64, 201, 202 e n. Antonio B., 119n, 130n, 139n. Antonio C., 140n. Antonio D., 63, 201-202. Apple, Kenneth A., 183. Arru, Angiolina, 136n. Ascalesi, Alessio, 38, 115, 158. Aurele, 215-217, 222. Aymard, Maurice, 36n. Badoglio, Pietro, 38. Banti, Alberto Maria, 136n. Barbanti, Marco, 186n. Baris, Tommaso, 85n, 227n. Bevilacqua, Piero, 175n. Biddiscombe, Alexander Perry, 55n, 227n. Bistarelli, Agostino, 99n. Bob L., 60 e n, 182 e n, 205-208. Bonomi, Ivanoe, 120n, 137n, 224.

Bottiglieri, Maria, 163 e n, 195 e n. Bravo, Anna, 143n. Broccoli, M., 56. Brossat, Alain, 133n, 134n. Brownmiller, Susan, 89n. Burns, John Horne, 33n, 50 e n, 51 e n, 55 e n, 60 e n, 223-224, 226. Calogero B., 100-101. Canino, Elena, 32n, 67 e n, 70, 71n. Canzanella, Renato, 12 e n. Capdevila, Luc, 99n, 227n. Caprara, Valerio, 226n. Caracciolo, Filippo, 32n. Carmichael, Hoagy, 142n. Carrel, Lianella, 23n. Casarino, Olimpia, 136n. Casati, Alessandro, 120n, 137n. Cavalieri, Enrico, 38. Cavallo, Pietro, 31n, 65n, 224n. Chapman, John W., 38, 131. Chianese, Gloria, 37n, 38n, 44n, 226n. Chiurlotto, Vania, 85n. Cirillo, Lydia, 3 e n, 4 e n, 5 e n, 6 e n, 7 e n, 8 e n, 9 e n, 10 e n, 11-13, 14 e n, 15 e n, 16 e n, 17 e n, 18 e n, 19 e n, 20 e n, 21 e n, 22 e n, 23 e n, 24 e n, 183, 184n, 225. Ciuni, Roberto, 103 e n.

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Clark, Mark Wayne, 35, 57n. Conti, Flavio Giovanni, 99n. Cottafavi, Vittorio, 3n, 23. Crainz, Guido, 25n, 98n, 228n. Cripps, R.R., 158, 160. Croce, Benedetto, 30n, 224. D’Agostino, Guido, 38n. D’Attore, Pier Paolo, 186n. De Amicis, Arturo, 58 e n. Deani, C., 142n. De Clementi, Andreina, 175n. De Filippo, Eduardo, 104n, 226. Degli Espinosa, Agostino, 31n, 52n, 99n. De Grazia, Vittoria, 65n. De Jaco, Aldo, 33n. Del Bosco, Paquito, 31n. De Marco, Paolo, 34n, 37n, 38 e n, 43n, 44n, 45n, 46n, 57n, 104n, 226n. De Nicola, Enrico, 19-20, 22n. De Sica, Vittorio, 226. De Simone, Eugenio, 5, 9, 12-13, 23, 184n. Destro, Maddalena, 68, 69n, 70. Di Fiore, Massimo, 5. Dondi, Mirco, 134n. Edea M., 173. Einaudi, Luigi, 20. Eisenhower, Dwight David, 52, 53 e n. Elena L., 182 e n, 205, 206 e n, 207208. Ellwood, David William, 42 e n, 47n, 50n, 226n. Fazio, Ida, 136n. Fiorentino, Fiorenza, 32n. Fisher, Thomas, 43n. Flynn, Errol, 194. Forcella, Enzo, 228n. Forte, John, 142n. Franco R., 68n. Franzina, Emilio, 175n. Fred, 194, 217-219. Frezza, Daria, 85n. Fusco, Maria, 183, 184n.

Gable, Clark, 194. Gagliani, Dianella, 129n, 134n, 224n, 225n, 228n. Gallerano, Nicola, 27n, 30n, 38n, 67 e n, 226n. Galli della Loggia, Ernesto, 143n. Garofalo, Anna, 62 e n, 225n. Ghirelli, Antonio, 33n, 46 e n. Giarrizzo, Giuseppe, 36n. Giovanna G., 142 e n, 193n, 213 e n, 214. Gribaudi, Gabriella, 26n, 29n, 34n, 43n, 44n, 46n, 67 e n, 70n, 85n, 98n, 135n, 136n, 227n. Guerra, Elda, 134n. Gullace, Gino, 186. Harris, Charles, 43n, 44n. Hayes, Alfred, 51 e n, 226. Hibbert, Joyce, 144n. Hillel, Marc, 47 e n, 55 e n, 60 e n, 63n, 226. Hitler, Adolf, 53, 224. Holsten, Ned A., 157. Hume, Edgard Erskine, 28 e n, 32, 33n, 37-39, 41, 42n, 44n, 45. Huston, John, 33n, 60 e n. Imbriani, Angelo Michele, 47n, 111n. Isabella, Ferdinando, 38n. John, 142-143, 163, 213-214. Kaiser, Hilary, 144n. Kaspi, André, 30n, 134n. Kincaid, James L., 38. Kraege, Karl, 38. Lambiase, Sergio, 44n. Larson, Jackie, 194. Laura (nome fittizio), 177, 193 e n, 196, 197 e n, 198-200, 221 e n. Laurence, Olivier, 194. Lauricella, Giovanni, 103. Lauro, Achille, 38n. Len, 182, 194, 209-212. Leopardi, Graziella, 181.

­­­­­230

Lepre, Aurelio, 30n, 65n, 226n. Lewis, Norman, 33n, 56, 57n, 61 e n, 63n, 103n, 122 e n, 130, 140, 141n, 158 e n, 155 e n, 168 e n, 169-170. Lia M., 196 e n, 219, 220 e n. Lilly, Robert, 85 e n, 227n. Limata, Lina, 112-113. Luisa I., 181 e n, 182 e n, 189, 190n, 194 e n, 208, 209 e n, 210-212. Lupo, Salvatore, 38n. Lush, Sidney, 4-6, 7 e n, 10 e n, 11-14, 16 e n, 17-19, 24n. Luzzatto, Sergio, 65n. Macry, Paolo, 65n. Mafai, Miriam, 31, 32n, 48n. Maiuri, Amedeo, 43 e n. Malaparte, Curzio, 47 e n, 226. Mangiameli, Rosario, 36n. Marena, Aurelio, 158, 167. Maria I., 160, 162. Maria R., 64 e n. Mariani, Laura, 134n. Marino R., 70. Mario B., 228n. Mario G., 114n. Mario T., 68n. Materazzi, Albert, 173. Mercuri, Lamberto, 31n, 36n, 226n. Michele D., 116. Miller, Jennifer, 55n, 135n, 227n. Moe, Nelson, 117n. Moorehead, Alan, 43n. Moravia, Alberto, 226. Morazzini, Enrico, 137n. Morin-Rotureau, Evelyne, 99n, 227n. Musmanno, Michael Angelo, 38n. Mussolini, Benito, 52-53, 213. Nacci, Michela, 65n. Nazzaro, G. Battista, 44n. Occhipinti, Maria, 228n. Orsini, Valentino, 190n. Palermo, Mario, 30n, 45n, 47 e n. Pansa, Giampaolo, 134n.

Papa, Antonio, 31n, 41n, 46n, 48n, 64n, 65n, 67 e n, 209n, 226n. Parker, Joan, 194. Pavone, Claudio, 26n. Peck, Gregory, 193. Pertini, Sandro, 75. Peverelli, Luciana, 194 e n. Piccardi, Leopoldo, 29 e n. Placanica, Augusto, 31n, 67n, 226n. Poletti, Charles, 32n, 38 e n, 39, 131 e n, 158. Porzio, Giovanni, 9, 11. Ranzato, Gabriele, 26n. Rea, Domenico, 67 e n, 192 e n. Richard (nome fittizio), 53 e n, 60 e n, 193, 196-200, 221. Ring, Victor, 183, 184n. Ripa, Yannick, 133n. Rivi, Marcella, 142n. Robert, 203-205. Rossellini, Roberto, 226. Rossi, Pelagio, 10. Rouquet, François, 135n, 143n, 227n. Rousso, Henry, 134n. Salvatore R., 68n. Salvetti, Patrizia, 27n. Sansone, Luigi Renato, 188, 189 e n, 190, 212. Sara (nome fittizio), 193n, 194 e n, 217 e n, 218-219. Saverio Cabrini, Francesca, 114. Scaglione, Emilio, 27, 29 e n. Scarfoglio, Paolo, 27n. Scibetta, Barbara S., 144 e n. Scirocco, Alfonso, 38n, 226n. Selvaggi, Francesco, 100, 159. Sforza, Carlo, 224. Shukter, Elfreda B., 144 e n. Solimena, Giuseppe, 38. Spano, Velio, 35. Spirito, Nicola, 38. Spriano, Paolo, 35n. Tarozzi, Fiorenza, 134n. Taviani, Paolo, 190n. Taviani, Vittorio, 190n.

­­­­­231

Teresa C., 168. Togliatti, Palmiro, 35. Tognazzi, Ugo, 190n. Tommaso, Daniele, 144n, 167n, 174n, 181n, 186n, 192n. Totò, 91n.

Virden, Jenel, 144 e n, 179n. Virgili, Fabrice, 99n, 133n, 134n, 135n, 143n, 227n. Virginia H., 178, 195n, 203 e n, 204205, 221. Voldman, Danièle, 135n, 143n, 227n.

Veillon, Dominique, 31n. Verlag, Jaron, 54n, 227n. Villani, Pasquale, 65n.

Warring, Anette, 135n, 227n. Young, Loretta, 194.

Indice del volume

I.

La vendetta di una donna

3

Una donna ha ucciso, p. 3 - Il processo, p. 9 - Un caloroso sostegno, p. 16 - «Offerte di matrimonio a Lydia Cirillo», p. 20 - Come Lydia Cirillo..., p. 22

II.

Arrivano gli Alleati!

26

La fine di un incubo, p. 26 - Rovine di guerra, p. 32 - L’amministrazione alleata, p. 36 - I napoletani non soffriranno la fame!, p. 39

III. L’alleato nemico

50

Prevenzioni e risentimenti, p. 50 - Legami di «sangue», p. 62 - L’immagine reale degli Alleati, p. 65 - I primi segni di una «ambigua occupazione», p. 68 - Attenzione ai «liberatori»!, p. 73 - Le violenze sessuali, p. 82 - Altre forme di violenza, p. 89 - Rivalità tra militari, p. 94

IV. Una «fraternizzazione» complessa

100

Le donne, p. 100 - Gli uomini, p. 110

V.

Le «traditrici» della Patria

118

Le reazioni, p. 118 - «I tosatori all’opera», p. 127 - Una questione d’onore, p. 132

VI. L’altra faccia dell’occupazione: i matrimoni di guerra 142 Io t’ho incontrata a Napoli, p. 142 - Difficoltà istituzionali, p. 147 - Ulteriori complicazioni, p. 162

­233

VII. Reazioni e partenze

167

«But love the girl!», p. 167 - «La scuola delle mogli», p. 172 - «La portaerei innamorata», p. 174 - «Le donne europee sono pericolose!», p. 179 - «Matrimoni... d’azzardo», p. 182

VIII. Le spose

191

Come Loretta Young, p. 191 - Laura, p. 196 - Annamaria S., p. 201 - Virginia H., p. 203 - Elena L., p. 205 - Luisa I., p. 208 - Giovanna G., p. 213 - Anna P., p. 215 - Sara, p. 217 - Lia M., p. 219 - Soldati senza uniforme, p. 221



Nota dell’Autrice

223



Indice dei nomi

229