Ambrosiana, Hagiographica, Vaticana. Studi in onore di mons. Cesare Pasini in occasione del suo settantesimo compleanno 8821010333, 9788821010330

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Ambrosiana, Hagiographica, Vaticana. Studi in onore di mons. Cesare Pasini in occasione del suo settantesimo compleanno
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AMBROSIANA, HAGIOGRAPHICA, VATICANA

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STUDI E TESTI ———————————— 535 ————————————

AMBROSIANA, HAGIOGRAPHICA, VATICANA Studi in onore di Mons. Cesare Pasini in occasione del suo settantesimo compleanno a cura di

Ambrogio M. Piazzoni

C I T T À D E L VAT I C A N O B i b l i o t e c a A p o s t o l i c a V at i c a n a 2020

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La collana “Studi e testi” è curata dalla Commissione per l’editoria della Biblioteca Apostolica Vaticana: Marco Buonocore (Segretario) Eleonora Giampiccolo Timothy Janz Antonio Manfredi Claudia Montuschi Cesare Pasini Ambrogio M. Piazzoni (Presidente) Delio V. Proverbio

Descrizione bibliografica in www.vaticanlibrary.va   

  

—————— Proprietà letteraria riservata © Biblioteca Apostolica Vaticana, 2020 ISBN 978-88-210-1033-0 Edizione digitale: ISBN 978-88-210-1034-7

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SOMMARIO José Tolentino Card. de Mendonça, L’ultima luce a spegnersi e la prima che si accende nella Vaticana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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A. M. Piazzoni, Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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I. Aurora, Contributo alla storia delle comunità femminili legate ai Pre­ dicatori di Milano: un lascito testamentario del 1291 conservato nella Biblioteca Vaticana.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1 F. Braschi, Far rivivere Ambrogio di Milano: le omelie del cardinale Fe­de­ rico Borromeo (1564-1631) nella festa del suo santo predecessore . . . . 29 M. Buonocore, La Passio s. Pelini e Corfinium romana . . . . . . . . . . . . . . . 49 G. Cardinali, Per Ioannes Mauromates, caduto da cavallo . . . . . . . . . . . . . 59 M. G. Critelli, Ottaviano Ubaldini della Carda tra Milano e Urbino: note sulla sua “Bibbia” (Urb. lat. 548) e alcuni altri suoi codici . . . . . . . . . . 79 F. D’Aiuto, Un canone di Giuseppe l’Innografo per s. Alipio Stilita (Par. gr. 259 e Vat. gr. 2309) e il suo adattamento settecentesco in onore di s. Neofito il Recluso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 S. De Crescenzo, Il Buon Pastore di Sant’Ambrogio: meditazione per im­ magini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 M. Ferrari, Il poema genovese sulla presa di Almeria nel 1147 (Ambr. Trotti 330).. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215 F. Gallo, Primi appunti sui codici epigrafici di Francesco Ciceri . . . . . . . 235 E. Giampiccolo – G. Alteri, Il culto di sant’Ambrogio documentato dal­le monete della Zecca di Milano conservate nei Medaglieri Ambrosiano e Vaticano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 M. Gobbi, Pio XI e la fotografia. L’inedita vicenda del fotografo francese Henri Manuel e l’installazione del “belinografo” in Vaticano . . . . . . . . 281 S. Lucà, Vittorio Tarantino, maestro di lingua greca di Guglielmo Sirleto a Napoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 311 A. Manfredi, S. Ambrogio nella Vaticana di Niccolò V e il Vat. lat. 4223 .. 367 P. Manoni, Il workflow della digitalizzazione dei manoscritti della Bi­blio­ teca Apostolica Vaticana attraverso alcuni esempi di illustri testimoni ambrosiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 389 S. Martinelli Tempesta, Prime osservazioni sulle note a Isocrate autogra­ fe di Lazzaro Bonamico nel codice Ambr. O 122 sup. . . . . . . . . . . . . . . 409 C. M. Mazzucchi, La verità e Democrito nella Scuola d’Atene . . . . . . . . . . 429 C. Montuschi, Ambrogio di Milano nelle miniature di alcuni manoscritti della Biblioteca Vaticana.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 433

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sommario

M. Navoni, «Importantissima corrispondenza di un dotto ad un altro dottissimo». Le lettere di Giuseppe Cozza-Luzi ad Antonio Maria Ce­ riani conservate alla Biblioteca Ambrosiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 483 A. Németh, Reproducing the invisible: the early observation of palimp­ sests . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 511 L. Orlandi, Presenze femminili in Vaticana durante la prefettura di Achille Ratti (1914-1918).. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 533 S. Pagano, La soppressione dei Gesuati milanesi e la Biblioteca Am­bro­ siana (1669-1671) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 547 D. V. Proverbio, Batıdan Do≈uya Do≈ru Akan Mürekkep Nehri. A stream of ink flowing from West to East . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 557 A. Rigo, Gli estratti del Synodikon dell’Ortodossia del Vat. gr. 1700 (verso 1370) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 575 S. Serventi, Sull’Ambr. E 49-50 inf. (Gregorio di Nazianzo) . . . . . . . . . . . 581 P. Vian, Il commiato di Achille Ratti dalla Biblioteca Ambrosiana. Il di­­ scorso milanese sulla cultura nel concetto e nell’opera del card. Fe­de­ rico Borromeo (8 dicembre 1913) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 597 Indice dei manoscritti, degli stampati, degli oggetti d’arte e d’interesse sto­ rico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 631

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JOSÉ TOLENTINO CARD. DE MENDONÇA

L’ULTIMA LUCE A SPEGNERSI E LA PRIMA CHE SI ACCENDE NELLA VATICANA Uno dei primi trattati esclusivamente dedicati all’arte del ritratto fu scritto da un portoghese, Francisco de Holanda, che durante il suo soggiorno romano appartenne al circolo umanista di Vittoria Colonna e conobbe da vicino Michelangelo, a cui dedicò il libro Dialoghi romani. Al suo trattato sulla ritrattistica, un’opera del 1549, Francisco de Holanda diede questo nome curioso: Del ritrarre del naturale. Chiaramente, questo titolo ha una genealogia. Nel Rinascimento italiano, per esempio, il ritratto al naturale era diventato un’espressione corrente per indicare l’immagine che viene disegnata non a partire dall’immaginazione bensì dalla convivenza con la persona raffigurata. Ma non per questo il ritratto intendeva essere una mera copia. Un’usanza in vigore all’epoca era quella di servirsi, per i ritratti, non della luce del sole ma del lume di candela, poiché si credeva che questa offrisse una maggiore definizione ai tratti del volto e declinasse meglio la tonalità dei sentimenti. Così anche per Francisco de Holanda, il quale, pur affrontando nel dettaglio le tecniche per la restituzione fisiognomica, raccomandava altresì che il pittore non si limitasse alla descrizione di ciò che vedono «i suoi occhi visibili». Questa introduzione serve a ricordare quanto sia complessa l’arte del ritratto. Cosa che non deve sorprenderci, dato che un volto impone naturalmente a chi lo contempla un esercizio di umiltà. Più ancora: ci insegna che la convivenza e l’amicizia sono contesti privilegiati per cogliere quei tratti essenziali che ci portano alla comprensione gli uni degli altri. In questo volume di studi in omaggio a Mons. Cesare Pasini, ogni singolo testo può essere visto come un contributo al suo ritratto, dal momento che fare una mappatura delle sue geografie elettive nel campo della conoscenza, ricordare personaggi che egli stesso ha studiato, visitare i preziosi fondi bibliografici che la Chiesa gli ha dato in missione di conservare, sono, in fondo, significativi esercizi di avvicinamento al suo volto. Per questo, a nome della Biblioteca Apostolica Vaticana voglio riservare una parola di vivo ringraziamento al Prof. Ambrogio M. Piazzoni, curatore di questa opera, e a ogni autore che l’ha resa possibile. Come modesta partecipazione a questo ritratto al naturale di Mons. Pasini, sottolineo semplicemente due aspetti, che la convivenza e quel “lume

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S. EM. JOSÉ TOLENTINO CARD. DE MENDONÇA

di candela” che è l’amicizia mi hanno permesso di registrare. Il primo è il fatto che, dei 93 membri che costituiscono oggi la comunità di lavoro della Vaticana, solo uno — il Prefetto — vi abita letteralmente dentro (all’ultimo piano). Tutti noi possiamo dire che la Biblioteca è la nostra casa e fa parte della nostra famiglia. Ma nessuno di noi ha l’esperienza fisica che egli quotidianamente vive, prima che vengano aperte le porte e dopo essere state chiuse, sentendo il silenzio di questi grandiosi spazi, ascoltando come respira di notte questa misteriosa avventura umana che è incarnata da una biblioteca come la Vaticana, pensandola in un modo così aderente alla stessa pelle. Noi veniamo e poi usciamo. La sua è l’ultima luce a spegnersi e la prima che si accende. Questa è una realtà e una metafora, per ricordare il ruolo che Mons. Cesare Pasini ha in questa Istituzione, alla quale egli si dona giorno e notte in una maniera così generosa, così precisa ed esemplare, così competente e fedele. «Qual è dunque l’amministratore fedele e saggio, che il Signore porrà a capo della sua casa?» — chiede Gesù nel capitolo 12 del Vangelo di Luca. Ed Egli stesso risponde: «Quello che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro». Il secondo aspetto è la cura — o, per meglio dire, la centralità — che colui al quale oggi rendiamo omaggio presta alla sua vita sacerdotale, e che traspare dal contatto, più ordinario o più formale, che abbiamo con lui. Lo chiamiamo tutti “Don Cesare”, qui alla Biblioteca, ma anche nella parrocchia romana dove va ogni domenica, fin dall’inizio del suo servizio alla Santa Sede, a confessare e presiedere l’Eucaristia. E questa non è soltanto una parte privata della personalità dell’attuale Prefetto della Vaticana. In Mons. Pasini, la sua maniera di amministrare, di approfondire i suoi studi o di scrivere è davvero inseparabile dalla sua vocazione e missione. E questo è qualcosa di cui dobbiamo essergli grati, perché riconosciamo in questo modo che quando egli estrae per noi «cose nuove e cose antiche», le estrae «dal suo tesoro» (Mt 13,52).

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AMBROGIO M. PIAZZONI

PRESENTAZIONE Il desiderio di realizzare un volume di omaggio in occasione del 70° compleanno di Mons. Cesare Pasini, Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, ha preso forma solo al momento del 69° anniversario della sua nascita. Il tempo molto ridotto a disposizione per la realizzazione del progetto ha subito consigliato di definirlo con precisione in tempi e spazi realizzabili e dunque, purtroppo, stringenti: molti degli invitati a partecipare hanno per questo dovuto declinare l’invito. Ulteriore delimitazione si è deciso di porre anche ai temi da trattare, che si desideravano collegati in modo diretto con il lavoro di Mons. Pasini e con i suoi interessi. Si è arrivati così a richiedere contributi che riguardassero sant’Ambrogio, l’agiografia, la paleografia greca, Milano, la Biblioteca Ambrosiana, la Biblioteca Apostolica Vaticana, temi che hanno trovato una sintesi nel titolo Ambrosiana, Hagiographica, Vaticana. La definizione degli argomenti si è rivelata un’idea percorribile, ma non altrettanto sono poi riuscito a fare, come ingenuamente pensavo, nella strutturazione del volume secondo quelle tre parti. Troppi contributi coprono infatti aree diverse: in quale sezione, ad esempio, mettere un articolo che riguarda un testo agiografico che si trova in Vaticana o in Ambrosiana, o studi che si occupano di figure di entrambe le biblioteche, o di paleografia greca su materiali milanesi, o di sant’Ambrogio nella Vaticana? Alla fine, l’unica scelta che mi è parsa non troppo insensata è stata quella di porre secondo l’ordine alfabetico degli autori i venticinque contributi raccolti; dovendo ora presentarli al lettore, attività che appunto si addice in una “Presentazione” del curatore di un volume, seguirò il medesimo ordine, correndo l’evidente rischio di comporre un testo che potrà apparire disarticolato. 1. Il primo contributo di questa raccolta costituisce un ottimo esempio di come, esaminando un documento d’archivio, per altro corrotto e mancante in alcune parti, si possa ricostruire un contesto ambientale, fisico, sociale, culturale e spirituale di una città in un determinato momento storico. Il Contributo alla storia dei monasteri femminili legati ai Predicatori di Milano: un lascito testamentario del 1291 conservato nella Biblioteca Vaticana, di Isabella Aurora, presenta infatti un interessante testo, finora inedito, che non si distingue in modo particolare da tanti altri analoghi atti di ultima volontà, ma che è qui corredato da un attentissimo studio che non

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solo consente di recuperare informazioni preziose sugli attori del documento ma permette anche un approfondimento sulla realtà milanese della fine del Duecento. Dalle ipotesi sulle possibili ubicazioni della comunità religiosa femminile destinataria del lascito testamentario si giunge all’esame della rete di tali istituzioni esistente nel territorio milanese e dei legami con i frati domenicani e con i laici devoti fino a considerare il fermento spirituale e i cambiamenti della società urbana del periodo. 2. Francesco Braschi, nel suo accurato articolo Far rivivere Ambrogio di Milano: le omelie del Cardinale Federico Borromeo (1564-1631) nella festa del suo santo predecessore, attinge al corpus della predicazione del cardinal Federico (il quale aveva personalmente rivisto e preparato per la stampa molte sue omelie, che videro effettivamente la luce dopo la sua morte) per esaminarne una dozzina, dedicate esplicitamente alla figura di sant’Ambrogio. Dopo averne con acribia discussi l’ordine e la datazione, Braschi ne esamina alcuni temi, indicando come la sopravvivenza e la riproposizione di Ambrogio da parte di Federico Borromeo non sia stata una mera ripetizione di citazioni (che sono anzi piuttosto rarefatte in queste omelie dedicate al suo predecessore), ma una vissuta reinterpretazione e attualizzazione del modello di vescovo ambrosiano. 3. Marco Buonocore, La passio S. Pelini e Corfinium romana, si occupa di due testi agiografici presenti nel manoscritto Vat. lat. 1197, dell’XI secolo, riguardanti san Pelino, vescovo di Brindisi, presentato nel racconto come martirizzato nel IV secolo. Come spesso accade nei testi agiografici, anche quelli qui presentati possono suggerire aspetti storicamente attendibili accanto ad altri letterariamente e più o meno liberamente elaborati. Prendendo spunto dai riferimenti alla città di Corfinium, in Abruzzo, dove Pelino sarebbe stato ucciso, e tenendo conto delle ricorrenze di riferimenti onomastici, Buonocore presenta la documentazione epigrafica relativa alla città del IV secolo, così come riportata nei testi in questione, che invitano anche a rileggere criticamente la tradizione agiografica che pone la figura di Pelino probabilmente nel secolo VII. 4. Una inedita lettera, inviata da Giovanni Mauromates, copista greco di Corfù molto attivo in Italia (quasi duecento sono le copie a lui attribuite, molte delle quali conservate anche nella Biblioteca Vaticana) al teologo spagnolo Francisco Torres è pubblicata da Giacomo Cardinali, Per Ioannes Mauromates, caduto da cavallo. Nella lettera, lo scrivente informa il destinatario di non poterlo raggiungere a Roma essendo caduto da cavallo con serie conseguenze mentre era in viaggio e chiede denari che gli consentano di sopravvivere e poi di riprendere il cammino; sollecita inoltre Torres perché intervenga presso un altro personaggio, ripetutamente evocato, affinché possa aiutarlo. Le poche righe in lingua italiana del documento

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PRESENTAZIONE

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scritto a Firenze, oggi nel Vat. lat. 6416, sono lo spunto per indagare sull’attività di copista dell’autore ma soprattutto per allargare lo sguardo sulle condizioni del mercato librario greco nella seconda metà del Cinquecento in città come Roma, Firenze e Bologna. Il personaggio evocato è infatti Guglielmo Sirleto, già custode della Vaticana e futuro cardinale bibliotecario, che era stato diretto e apprezzato collaboratore di Marcello Cervini, e per entrambi Mauromates aveva lavorato. 5. Dopo aver ricostruito, facendo ricorso a numerose fonti, la figura di Ottaviano Ubaldini della Carda, considerato l’alter ego di Federico da Montefeltro per l’influenza politica e soprattutto culturale che egli ebbe alla corte urbinate, Maria Gabriella Critelli si occupa di alcuni codici da lui posseduti. Ottaviano, formatosi culturalmente a Milano alla corte di Filippo Maria Visconti, dal suo ritorno a Urbino rivestì un ruolo attivo nella formazione della biblioteca di Federico, di cui era coetaneo e che aveva frequentato nella fanciullezza. Ebbe tuttavia anche una raccolta personale, in parte dispersa e in parte entrata nel patrimonio della collezione urbinate, come dimostra la presenza di note di possesso e dello stemma di famiglia in alcuni codici. Critelli si sofferma in particolare sull’Urb. lat. 548, la cosiddetta Bibbia di Ubaldini, vergata da Matteo Contugi e miniata da un artista della bottega di Guglielmo Giraldi; viene messo in evidenza il sodalizio artistico tra il copista originario di Volterra e il maestro ferrarese che, iniziato per il Plauto realizzato per Ludovico Gonzaga, si rinnovò non solo in ornatissimi codici federiciani quali gli Urb. lat. 10 (un Evangeliario) e 365 (il Dante Urbinate), ma anche in almeno un codice della raccolta personale di Ottaviano, che sembra aver svolto un ruolo di intermediazione tra le due personalità. 6. Un corposo studio, che eccede significativamente i limiti che il curatore aveva indicato ma che, nel corso della realizzazione, ha dovuto necessariamente essere molto ampliato, è il lavoro condotto da Francesco D’Aiuto su Un canone di Giuseppe l’Innografo per s. Alipio Stilita (Par. gr. 259 e Vat. lat. 2309) e il suo adattamento settecentesco in onore di s. Neofito il Recluso. Da un’iniziale ricerca apparentemente circoscritta, infatti, l’indagine si è trasformata in un ampio, significativo e innovativo contributo su un inno in forma di canone composto nel secolo IX da Giuseppe l’Innografo, uno dei più celebrati poeti liturgici della Chiesa greca. Il testo fu riprodotto per la prima volta a stampa nel XVIII secolo a Venezia in forma modificata per essere adattato a un santo diverso da Alipio Stilita (che visse tra VI e VII secolo), e precisamente Neofito il Recluso, vissuto molto più tardi (nel secolo XII) ma che condivideva con il precedente alcune caratteristiche, come la rigorosissima ascesi di vita e la volontaria rigida separazione dal mondo. D’Aiuto esamina le varie edizioni a stampa, continuate con succes-

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sive modifiche fino al secolo XX, e offre qui l’edizione del testo originario, basata sui due manoscritti fin’ora noti che lo tramandano, con l’apparato delle varianti e una traduzione italiana. 7. La Meditazione per immagini proposta da Simona De Crescenzo è un modo appropriato per presentare il tema di Cristo Buon Pastore, caro a sant’Ambrogio che ne tratta ampiamente nel suo Commento al Salmo 118 e in parte nella Esposizione del Vangelo secondo Luca, nel trattato La fede e in alcuni altri scritti. De Crescenzo ripercorre questo soggetto, già trattato da altri sotto il profilo letterario dei testi ambrosiani, affiancandolo con l’esame delle diverse tipologie iconografiche di Cristo raffigurato come Buon Pastore presenti in incisioni realizzate dal XVI al XIX secolo e conservate nella Biblioteca Vaticana; richiama infatti attraverso le immagini, dove possibile, le parole di Ambrogio, in modo da offrire una sorta di meditazione figurata sui suoi scritti. Il contributo, largamente illustrato, consente di “vedere”, per così dire, come il vescovo di Milano abbia inteso il suo essere pastore, guida e insieme servo del gregge a lui affidato. 8. Mirella Ferrari prende in esame un codice del XII secolo conservato in Ambrosiana, slegato e frammentario, che contiene Il Poema genovese sulla presa di Almeria nel 1147 (Ambr. Trotti 330), un inedito componimento in esametri celebrativo dell’impresa genovese che portò alla presa della città di Almeria in Andalusia. Dell’opera, mutila, sopravvive un migliaio di versi e il nome del poeta genovese che la compose rimane sconosciuto. Di più si riesce a sapere dall’accurato esame codicologico e filologico condotto dall’autrice, la quale giunge a dimostrare che si tratta di un autografo con un testo gradatamente stratificatosi attraverso successive e ripetute correzioni, ricopiato infine dallo stesso autore e di nuovo con interventi e rimaneggiamenti. Lo stile, l’attenzione alla documentazione e alcuni argomenti e fatti riportati fanno pensare che l’autore fosse un laico, forse notaio di professione, che fu in qualche modo partecipe o testimone dell’impresa e che probabilmente intendeva, senza riuscirci invero, realizzare una celebrazione letteraria per Genova. 9. Un bell’intervento su un argomento inedito è quello proposto da Federico Gallo nei Primi appunti sui codici epigrafici di Francesco Ciceri. Lo studio riguarda l’autografo e le copie delle opere epigrafiche di Francesco Ciceri, umanista della seconda metà del Cinquecento, la cui cospicua collezione di manoscritti entrò in Ambrosiana già nel 1603, ancor prima dell’apertura ufficiale del 1609. Di lui, della sua attività di insegnante a Milano e del suo epistolario si sa, ma la sua produzione letteraria, solo in parte pubblicata, restava ancora poco indagata. In particolare, Gallo si occupa qui di due compilazioni epigrafiche. La prima, di cui esistono varie copie, tra cui una nel Vat. lat. 5236, venne realizzata per completare la raccolta

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PRESENTAZIONE

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epigrafica del materiale milanese pretermessa da Andrea Alciato; l’altra, conosciuta in un solo esemplare, si segnala soprattutto perché è una delle prime che nel Cinquecento abbia preso in considerazione anche materiale epigrafico di epoca medievale e moderna. L’accurata descrizione di dieci manoscritti arricchisce questo lavoro, che costituisce la premessa a successivi auspicabili studi. 10. Il contributo di Eleonora Giampiccolo e di Giancarlo Alteri presenta Il culto di Sant’Ambrogio documentato dalle monete di Milano conservate nei medaglieri ambrosiano e vaticano, e ben figura in questo volume occupandosi di tutti e tre gli argomenti del titolo. La breve introduzione è focalizzata sui santi patroni delle città, con un cenno alla vita del vescovo Ambrogio e al suo legame con Milano, consolidato al punto da rivestire una significativa importanza anche nell’ambito della monetazione, dove nel corso dei secoli l’immagine del santo è diventata uno dei temi più ricorrenti. A seguire, nel contributo di Giampiccolo e di Alteri vengono per la prima volta pubblicate e descritte monete relative a sant’Ambrogio conservate nei medaglieri delle due Biblioteche in cui mons. Pasini ha svolto e svolge la sua attività. L’esame degli aspetti iconografici, talvolta piegati strumentalmente al servizio della signoria milanese, è supportato agevolmente dagli esemplari presenti nei medaglieri dell’Ambrosiana e della Vaticana, catalogati e riprodotti. 11. Un episodio poco noto è l’argomento del contributo di Manuela Gobbi, L’inedita vicenda del fotografo francese Henri Manuel e l’installazione del “belinografo” in Vaticano. Il lavoro prende le mosse da un disegno, qui edito per la prima volta, raffigurante Pio XI in pose diverse conservato presso la Vaticana. È firmato da Henri Manuel (1874-1947), fotografo ufficiale del governo francese, il quale ottenne un permesso speciale dal pontefice nell’ottobre 1923 per ritrarlo, insieme ai suoi collaboratori, in alcuni luoghi vaticani. La vicenda è testimoniata dalle fotografie scattate in tale occasione, una copia delle quali è recentemente entrata a far parte della collezione fotografica della Vaticana. L’esame accurato del disegno mostra che l’autore usò come modelli le fotografie da lui stesso realizzate, ricomposte come in un collage, con diversi ritratti del papa. Lo studio di Gobbi traccia anche la storia della diffusione di quelle fotografie e ne presenta altre dello stesso autore presenti in Vaticana, soffermandosi infine sull’interesse dimostrato da Pio XI nei confronti delle nuove tecnologie del tempo; la fotografia, in particolare, era da lui considerata con molta attenzione come fonte di documentazione, ma, come per la radio, egli seppe anche svilupparne l’aspetto divulgativo in quanto mezzo di comunicazione adatto a sostenere il sentimento di vicinanza del papato al popolo di Dio nel mondo, che bene si affiancava alla sua grande attività nell’ambito missionario. In tale contesto si inserisce, nel 1930, anche l’introduzione in Vaticano del

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primo belinografo, uno strumento che consentiva di trasmettere a distanza le immagini: le due fotografie di quella occasione, una trasmessa e una ricevuta, sono conservate in Vaticana. 12. Un piccolo ma convincente tentativo di arricchire la conoscenza della formazione intellettuale di Guglielmo Sirleto e contribuire così almeno in parte a colmare qualche lacuna della sua biografia giovanile è quello realizzato da Santo Lucà con il lavoro dedicato a Vittorio Tarantino, maestro di lingua greca di Guglielmo Sirleto a Napoli. In questa città, all’epoca anche sede di una vivace comunità di profughi greci, si era infatti nel 1532 trasferito il diciottenne Sirleto per completare la propria formazione. Nella capitale vicereale rimase per circa sette anni, durante i quali ebbe modo di allacciare proficue relazioni intellettuali (tra le quali quella con Girolamo Seripando, che lo segnalò a Marcello Cervini, che a sua volta lo introdusse a Roma e alla Vaticana) e perfezionò la sua conoscenza della lingua greca anche con il maestro Vittorio Tarantino. Questo particolare è reso noto da due lettere, non datate, che Tarantino indirizzò anni più tardi a Sirleto, già cardinale, inviandogli tra l’altro una versione italiana in endecasillabi di tre brevi carmi di Gregorio di Nazianzo, e da un’altra lettera, di cui non si conosce l’autore, il quale si rivolge a Sirleto ricordando il defunto Vittorio Tarantino, maestro di entrambi a Napoli. La documentazione, conservata oggi in Vaticana, è da Lucà puntualmente edita. 13. Riprendendo e approfondendo un tema di cui si era occupato due decenni fa, Antonio Manfredi ricorda il decisivo ruolo di Tommaso Parentucelli, ancor prima di essere eletto papa Niccolò V, nel recupero e nello studio dei padri latini. Dopo aver presentato un quadro delle opere di S. Ambrogio nella Vaticana di Niccolò V (in manoscritti provenienti dalla sua collezione privata e da lui fatti allestire prima di essere eletto papa e in altri da lui successivamente recuperati e fatti arrivare alla Vaticana) si concentra sull’esame di un interessantissimo codice, il Vat. lat. 4223. Allestito tra XVI e XVII secolo, il volume riunisce opere di Agostino, di Juan de Torquemada e un’ottantina di fogli con commentari biblici di Ambrogio. Si tratta in effetti di una raccolta di cinque diversi libri iniziati ma non condotti a termine, e rimasti probabilmente a lungo in Biblioteca in uno stadio di provvisorietà. Manfredi ipotizza la realizzazione di quelle copie durante il periodo del pontificato di Niccolò V e per questa proposta di datazione fornisce convincenti argomentazioni non solo sulla base dell’analisi codicologica e paleografica, ma anche di un esame testuale che tiene conto delle affinità nella raccolta dei testi si inseriscono bene nel progetto della Biblioteca promosso da Niccolò V. 14. È attraverso alcuni esempi di illustri testimoni ambrosiani che Paola Manoni presenta Il workflow della digitalizzazione dei manoscritti della

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Biblioteca Apostolica Vaticana, cioè quell’insieme di procedure che riguardano il controllo dei processi lavorativi che conducono alla realizzazione di una delle maggiori imprese attualmente in corso in Vaticana. Si tratta del progetto di digitalizzazione dei manoscritti che ha lo scopo di contribuire alla conservazione del patrimonio librario, permettendo un ampio uso dei codici attraverso la consultazione online rendendo così meno necessario esaminare fisicamente gli esemplari, attività che, anche quando eseguita nel migliore dei modi, ha sempre la conseguenza di provocare il deterioramento che gli originali subiscono quando tolti dalle loro condizioni ambientali ottimali di luce, temperatura e umidità. I processi realizzati in Biblioteca consentono di raggiungere due risultati importanti: la conservazione a lungo termine delle copie digitalizzate e la loro messa a disposizione di chiunque sia interessato, gratuitamente e da ogni parte del mondo. Manoni illustra le varie fasi del processo, dai criteri di scelta del materiale da digitalizzare e dalla sua acquisizione fotografica fino al versamento dei file digitalizzati nell’archivio di conservazione a lungo termine (in un formato particolare, il FITS) e alla loro pubblicazione attraverso la piattaforma DVL (Digital Vatican Library) che consente anche un loro uso condiviso attraverso particolari tecnologie come il IIIF (International Image Interoperability Framework). 15. Nelle sue Prime osservazioni sulle Note a Isocrate autografe di Lazzaro Bonamico nel codice Ambr. O 122 sup., Stefano Martinelli Tempesta offre un utilissimo contributo alla ricostruzione del metodo filologico e interpretativo dell’erudito grecista di Bassano del Grappa a partire da uno di suoi commenti universitari tenuti a Padova, dove si era formato e dove insegnò negli ultimi decenni di vita. Il testo è conservato in un manoscritto composito, del quale viene tracciata la storia dall’origine all’arrivo nella Biblioteca Ambrosiana, ed è un commentario all’opera di Isocrate, autore molto significativo nel contesto dell’educazione universitaria cinquecentesca. Martinelli Tempesta offre uno specimen di edizione osservando come il commento di Lazzaro Bonamico appaia non solo di buon livello, ma anche originale e innovativo allo stato attuale delle ricerche; “prime osservazioni”, dunque, da perfezionare e approfondire con eventuali futuri ritrovamenti di altri analoghi commenti del periodo da individuare nell’ambito della storia della tradizione del testo di Isocrate. 16. Il breve intervento di Carlo Mazzucchi, La Verità e Democrito nella Scuola d’Atene, propone un collegamento molto interessante e innovativo tra l’affresco della Scuola d’Atene di Raffaello e un testo greco tradotto in latino mezzo secolo prima nell’ambito della corte papale. Si tratta di una sorta di novella epistolare, fondata su alcune lettere di Ippocrate riguardanti la follia del filosofo Democrito realizzate probabilmente tra il 40 e

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il 30 a.C., tradotta alla metà del Quattrocento da Rinuccio d’Arezzo che la dedicò a Niccolò V, il fondatore della Biblioteca Vaticana, e stampate a Firenze nel 1487. Sulla base di un sogno raccontato da Ippocrate in una sua lettera, Mazzucchi riconosce nelle figure del famoso affresco tutte le caratteristiche attribuite alla Verità e indica il filosofo Democrito nel personaggio coronato di fronde che si trova a destra della Verità e che, sorridendo, sta scrivendo appoggiato sul basamento di una colonna, per altro assente nel disegno preparatorio dell’affresco che ora si trova all’Ambrosiana, e Ippocrate nella figura dell’uomo che gli pone con gesto protettivo le mani sulle spalle. Si tratta di un originale collegamento che consente di definire quella figura (in passato identificata variamente come Epicuro o come la rappresentazione di un rito orfico) sulla base di una fonte letteraria che circolava nell’ambiente pontificio dell’epoca. 17. Lo studio di Claudia Montuschi, realizzato in occasione di una conferenza presso le Romite ambrosiane del Sacro Monte di Varese, presenta Ambrogio di Milano nelle miniature di alcuni manoscritti della Biblioteca Vaticana esaminando decine di codici, tra XII e XVI secolo, raggruppati secondo la tipologia delle immagini relative ad Ambrogio e presenti per lo più in ambito latino, ma non assenti da quello greco. Si possono così percorrere le numerose raffigurazioni di Ambrogio anzitutto come vescovo, con i comuni segni distintivi di mitra e pastorale ma spesso anche con il flagello, uno dei suoi attributi caratteristici, legato a un leggendario episodio di cacciata degli eretici ma che, richiamando l’immagine di Gesù che caccia i mercanti dal tempio, diventa simbolo della forza della parola di un vescovo che è anche capace di opporsi all’imperatore Teodosio nel noto episodio seguito alla strage di Tessalonica. Le raffigurazioni più antiche presentano Ambrogio come scriba, con libro e strumento scrittorio, autore delle proprie opere e, a partire dal Trecento, come Padre della Chiesa, insieme ad Agostino, Girolamo e Gregorio. Talvolta viene illustrato anche in scene relative alla sua biografia, come nell’episodio delle api quand’era neonato. Il quadro delineato da Montuschi, pur senza pretese di esaustività, offre indicazioni importanti e stimoli per future ricerche. 18. La “Importantissima corrispondenza di un dotto ad un altro dottissimo”. Le lettere di Giuseppe Cozza-Luzi ad Antonio Maria Ceriani conservate alla Biblioteca Ambrosiana è presentata da Marco Navoni con perizia e competenza. Si tratta di 140 lettere inedite (inventariate nella prima metà del Novecento) inviate in più di trentacinque anni, dal 1869 al 1904, da Giuseppe Cozza-Luzi, monaco basiliano alla Badia di Grottaferrata e poi (dal 1882 al 1898) Vice bibliotecario della Vaticana, al prefetto dell’Ambrosiana Antonio Maria Ceriani. Di ciascuna di esse viene presentato un breve sunto, e talvolta la trascrizione di parti significative. I temi trattati sono

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vari: gli studi condotti in Vaticana in rapporto con il movimento biblico di fine Ottocento; le nuove tecniche di fototipia applicate ai manoscritti e la cura di varie edizioni di manoscritti biblici; la situazione della Badia di Grottaferrata, divenuta possesso del Regio Demanio in seguito alle leggi eversive italiane del 1873, nell’anno successivo dichiarata monumento nazionale e di cui Cozza-Luzi fu abate per un triennio dal 1879; la lunga vicenda della riforma del Messale Ambrosiano, la cui revisione critica era stata affidata a Ceriani, nella quale ebbe un ruolo anche Cozza-Luzi nella sua funzione di liturgista consultore presso la Congregazione dei Riti. Le lettere testimoniano un rapporto di stima e di collaborazione e contengono diversi riferimenti al mondo degli studi del periodo. 19. Il significativo ruolo della Biblioteca Vaticana nello sviluppo della filologia e della fotografia in risposta alle sfide poste dai palinsesti agli studiosi è ben delineato nel lavoro di András Németh, Reproducing the invisible in the early observation of palimpsests, che fornisce una panoramica dello sviluppo delle pratiche scientifiche che hanno accompagnato il progresso degli studi sui codici riscritti. I testi palinsesti infatti, difficilmente leggibili perché cancellati per poter scrivere sugli stessi fogli altri testi, consentono letture multiple e spesso diversi paleografi leggono (o forse meglio interpretano) il medesimo dettaglio in modi diversi, e non riescono dunque sempre a fornire ai filologi criteri oggettivi di giudizio. Esaminando alcuni casi di studio su manoscritti vaticani, a partire dall’approccio dei cosiddetti filologi antiquari (che considerarono i primi codici palinsesti individuati dal XVI secolo come antichità danneggiate simili alle epigrafi o ai papiri, ma senza ritenere la scriptio inferior come degna di particolare attenzione), continuando con le edizioni di testi palinsesti di opere classiche nei secoli XVIII e XIX, fino alle riproduzioni di facsimili incisi o tipografici, Németh racconta i modi con cui gli studiosi hanno cercato di superare la mancanza di obiettività nella lettura e nella pubblicazione dei testi recuperati da palinsesti vaticani. L’avvento delle riproduzioni fotografiche offrì infine la possibilità di una visione obiettiva di un foglio palinsesto, con un approccio indipendente dalla mediazione soggettiva di un osservatore umano; si arrivò così nel 1906, con la stretta collaborazione tra fotografi e filologi, alla prima edizione di un intero codice palinsesto, il Vat. lat. 5750, che trovò posto nella collana Codices e Vaticanis selecti phototypice quam simillime expressi, che il prefetto della Vaticana Franz Ehrle aveva lanciato in occasione della conferenza di San Gallo del 1898 per la riproduzione di facsimili. 20. Dopo aver rilevato la sporadica frequentazione di donne nella Biblioteca durante la seconda metà dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, e solo pochissime per motivi di studio, Luigina Orlandi esamina

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con attenzione le Presenze femminili in Vaticana durante la prefettura di Achille Ratti (1914-1919). Fu infatti durante quel periodo che, in parte anche per la diminuzione delle presenze degli uomini, molti dei quali impediti dagli eventi legati alla prima guerra mondiale, ma soprattutto, come osserva Orlandi, per la sensibilità del prefetto Ratti, la presenza di donne dedite allo studio divenne significativa, non solo nel numero ma anche nella proporzione rispetto agli studiosi. Ammesse originariamente solo nella Sala di Consultazione, dal 1915 trovarono la loro collocazione anche nella Sala di Studio dei manoscritti, dove venne loro riservato un tavolo; vennero regolarmente registrate e il loro numero crebbe costantemente negli anni successivi, tanto che presto il tavolo non fu più sufficiente e le studiose cominciarono a scegliere la postazione che preferivano per studiare. Si tratta di un secolo fa e oggi, superfluo notarlo, la presenza di studiose in Vaticana è pari a quella degli studiosi. 21. Le ragioni della soppressione dell’ordine dei Gesuati, decretata da papa Clemente IX alla fine del 1668, tre secoli dopo la fondazione di quell’ordine laicale da parte del senese Giovanni Colombini, non sono state particolarmente indagate. Un faldone di documenti conservati nell’Archivio Apostolico Vaticano offre a Sergio Pagano la possibilità di investigare sulla soppressione dei Gesuati milanesi e la Biblioteca Ambrosiana (1669-1671), gettando una luce più accurata sulla vicenda. Tra i conventi soppressi era anche quello di S. Girolamo a Porta Vercellina in Milano, fondato alla metà del XV secolo e riccamente dotato di proprietà e di rendite. La documentazione presa in esame, frutto del lavoro di un’apposita commissione incaricata di gestire le non semplici operazioni legate alla soppressione, è interessante non solo per la storia milanese ma anche per una questione che riguarda l’Ambrosiana. Presso la sua Galleria vennero infatti inizialmente posti in deposito tre quadri appartenenti ai Gesuati, che pochi mesi più tardi furono richiesti in proprietà dal collegio dei Conservatori dell’Ambrosiana insieme ad alcuni libri della biblioteca del convento. Pagano segue con attenzione le tracce dei quadri: uno, individuato con certezza, arrivò nella Pinacoteca ma solo successivamente; di un secondo, pur individuato con buona dose di approssimazione tra le tele attualmente presenti in Ambrosiana, non si conosce la provenienza; del terzo si sono perse le tracce. Per quanto riguarda i libri della biblioteca dei Gesuati, in mancanza di ulteriore documentazione l’autore esprime dubbi che siano giunti in Ambrosiana. 22. I manoscritti, come si sa, necessitano di un materiale su cui scrivere con qualcosa che possa lasciare una traccia visibile. Per i codici di pergamena e di carta, determinante è l’uso dell’inchiostro, per la cui produzione alcuni copisti hanno sentito il bisogno di dare precise informazioni attra-

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verso le loro ricette, trascritte in parti non utilizzate di fogli dei manoscritti. Un certo numero di queste ricette sono presenti nei codici in siriaco, arabo e turco della Vaticana. Commentandole nel contributo Batıdan Do≈uya Do≈ru Akan Mürekkep Nehri (“A stream of ink flowing from West to East”), Delio V. Proverbio mostra come le ancestrali ricette per la fabbricazione dell’inchiostro nero, basate su quattro ingredienti fondamentali (nerofumo, gomma arabica, vetriolo e noce di galla) di attestazione vicino-orientale e mediterranea, propagandosi (o meglio, trovandosene attestazioni) lungo le vie della seta verso l’Asia centrale, si arricchiscano di elementi via via più esotici. Ricco l’elenco delle varianti individuate da Proverbio e attentamente catalogate. 23. La prima domenica di Quaresima dell’853 ebbe luogo a Bisanzio la restaurazione del culto delle immagini che pose fine al periodo dell’iconoclastia, iniziata più di un secolo prima con le disposizione di Leone III Isaurico. Da allora si cominciò a celebrare nella Chiesa bizantina la “festa dell’ortodossia” con la pubblica lettura del Synodicon, il documento redatto per l’occasione. Nei secoli successivi quel testo fu due volte integrato, la prima dopo le dispute teologiche nell’epoca dei Comneni e la condanna di Giovanni Italo alla fine del secolo XI, e la seconda in occasione del Concilio del 1351, a conclusione delle controversie teologiche legate al nome di Gregorio Palamas. A questo ultimo “strato” di quel documento, il Synodikon dell’Ortodossia p, è dedicato il lavoro di Antonio Rigo, che ricorda i vari esemplari conservati nella Biblioteca Vaticana. Uno di questi, presente nel Vat. gr. 1700, a differenza degli altri, non conserva il testo per intero, ma solo alcuni estratti. Rigo ne conduce un’attenta analisi codicologica e paleografica, precisandone la datazione al 1370, proponendone la localizzazione in un luogo vicino al Monte Athos e non a Costantinopoli, come da altri ritenuto, ed elencandone puntualmente gli estratti. 24. Il contributo di Stefano Serventi, Sull’Ambr. E 49-50 inf. (Gregorio di Nazianzo) riguarda un codice greco databile al IX secolo, fra i testimoni più antichi della collezione completa delle Omelie di Gregorio, e raccoglie alcuni risultati significativi di uno studio più ampio, che l’autore sta conducendo su tre manoscritti del medesimo periodo, molto noti e studiati: l’Ambr. E 49-50 inf. (Gregorii Nazianzeni Orationes), il Vat. gr. 749 (Iob cum catena) e il Par. gr. 923 (Sacra parallela). Indagando il manoscritto ambrosiano, Serventi osserva come, pur nell’abbondanza della bibliografia dedicata al manoscritto, sia fino a ora rimasta inosservata la presenza di un secondo copista, cui egli attribuisce la realizzazione di un intero foglio, oltre a un coinvolgimento nelle rubricature delle miniature. Di particolare importanza il fatto che la mano di questo copista si può individuare anche nei codici vaticano e parigino, fornendo un ulteriore indizio della genesi

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e della prima storia comune ai tre manoscritti. L’autore indica poi altri manoscritti in cui si può riconoscere la medesima mano e suggerisce l’ipotesi che le miniature dei codici parigino e ambrosiano abbiano un’origine studita. 25. Il discorso milanese sulla cultura nel concetto e nell’opera del card. Fe­derico Borromeo (8 dicembre 1913) tenuta dall’allora prefetto dell’Ambrosiana Achille Ratti era fin’ora noto solo attraverso due resoconti, uno, molto breve, pubblicato il giorno successivo sul Corriere della sera e un altro scritto da Giovanni Galbiati, che era presente, e pubblicato cinque lustri più tardi. Paolo Vian, Il commiato di Achille Ratti dalla Biblioteca Ambrosiana, è ora in grado di pubblicare l’edizione completa del testo del discorso come si legge nell’autografo di Ratti che, rimasto tra le sue carte, è venuto alla luce durante l’inventario del fondo Carte Pio XI dell’Archivio Apostolico Vaticano. Si tratta di un testo di una ventina di fogli con moltissimi interventi per correzioni, aggiunte, depennamenti che indicano una stesura molto complessa e realizzata in diversi momenti. Dopo aver presentato la figura del cardinale Federico Borromeo e il concetto di cultura come si desume dalle sue numerosissime opere, stampate e manoscritte, Ratti parla della Biblioteca Ambrosiana che di quell’idea di cultura costituisce la concreta realizzazione. Vian commenta il discorso, che è bello, organico e con numerose e argute riflessioni, osservando come Ratti sia riuscito a indicare concretamente la possibilità che una biblioteca specialistica, destinata per sua natura all’uso di pochi ed esperti frequentatori, riesca ad assolvere attraverso il lavoro e lo studio di questi anche a una funzione di irradiamento sociale trasformandosi in una fonte benefica per una platea molto più vasta, nell’idea che la biblioteca costituisca un presidio di libertà, un baluardo di conoscenza contro l’ignoranza, concetto perfettamente applicabile anche alla Biblioteca Vaticana di cui Ratti divenne prefetto nel 1914. I venticinque contributi che ho presentato fanno tutti riferimento ai tre temi del titolo scelto per questa raccolta di studi, ma nel contempo esprimono una grande varietà di interessi, che ben rappresentano quelli coltivati dal festeggiato. Avrebbero anche potuto essere più numerosi se, per i motivi già esposti, vari autori non avessero dovuto rinunciare ad associarsi a questa iniziativa. Ai lavori fin qui descritti si deve tuttavia aggiungere anche quello di Andreina Rita che, impossibilitata a partecipare, ha voluto essere in qualche modo presente e ha realizzato l’indice dei manoscritti, degli stampati, degli oggetti d’arte e d’interesse storico. A tutti un cordiale ringraziamento e il vicendevole augurio che questo volume venga considerato dal festeggiato Mons. Cesare Pasini per quello che è: un piccolo ma sentito e non formale gesto di amicizia.

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CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE COMUNITÀ FEMMINILI LEGATE AI PREDICATORI DI MILANO: UN LASCITO TESTAMENTARIO DEL 1291 CONSERVATO NELLA BIBLIOTECA VATICANA* «Sunt deinde in civitate sex monachorum cenobia; monacharum vero sunt octo. In comitatu vero, computatis omnibus utriusque sexus cenobiis, saltim quinquaginta quatuor esse noscuntur; quorum quidem pars magna tam personarum numero quam temporalium bonorum prosperitate satis feliciter prosperant». Bonvesin de la Riva nel 1288, nel comporre il De magnalibus urbis Mediolani, descriveva in tal modo i monasteri milanesi e continuava citando le numerose fondazioni mendicanti, il cui primo posto spettava ai Predicatori, seguite da altri ordini «quorum omnium pluralitas ultra quadrigentesimum numerum termino suo potitur, qui omnes elimosinis nutriuntur» e ancora le «religiosarum paupertatis domus», stimate più di settecento tra città e contado1. Al di là di un genere letterario che rientra nelle lodi della città, rivendicando il primato di Milano sulle città lombarde, egli era attento ai dati oggettivi che riportava con effettiva attendibilità, come gli studi di Daniela Romagnoli e i più recenti di Giuliana Albini e di Maria Ginatempo hanno mostrato2. * Desidero ringraziare Giancarlo Andenna, Sylvie Duval ed Elisabetta Filippini per avere contribuito con i loro consigli alla stesura di questo lavoro; Federico Gallo per avere selezionato le pergamene conservate nella Biblioteca Ambrosiana; Antonella Cesarini per avermi aiutata nelle ricerche presso l’Archivio di Stato di Milano. 1 La citazione del De magnalibus urbis Mediolani è desunta dall’edizione, con ricco apparato critico, curata da Francesco Novati, benché datata: Bonvicini de Rippa, De magnalibus urbis Mediolani, a cura di F. Novati, in Bullettino dell’Istituto storico italiano 20 (1898), pp. 7-188: 79, 82. Un’edizione più recente è Bonvesin da la Riva, Le meraviglie di Milano (De magnalibus Mediolani), a cura di P. Chiesa, Bologna 2009. Sulla personalità di Bonvesin rimando a G. Albini, Bonvesin de la Riva, un intellettuale laico alla ricerca di una dimensione religiosa nella Milano di fine Duecento, in Lombardia monastica e religiosa. Per Maria Bettelli, a cura di G. G. Merlo, Milano 2001, pp. 307-363; ora anche in ead., Carità e governo della povertà (secoli XII-XV), Milano 2002, pp. 19-53. 2 G. Albini, Evoluzione della popolazione e trends demografici dall’XI al XV secolo, in Milano antica e medievale, II, Milano 1992, pp. 381-400; M. Ginatempo – L. Sandri, L’Italia delle città. Il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento (secoli XIII-XVI), Firenze 1990, p. 74. Sulle laudes civitatum con riferimento all’opera di Bonvesin si veda: E. Occhipinti, Immagini di città. Le Laudes civitatum e la rappresentazione dei centri urbani nell’Italia setten-

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Bonvesin descriveva quindi nel 1288 un panorama costituito dal moltiplicarsi degli istituti religiosi nella città e il fermento che i Mendicanti avevano apportato nell’inserirsi con la loro opera a tutti i livelli della vita cittadina attraverso la predicazione, gli studi teologici e i ripetuti interventi, coadiuvati spesso da esponenti di altri ordini, atti a pacificare le diverse fazioni fino a essere chiamati direttamente a eleggere il podestà nel 12563; segnalava inoltre l’esistenza di un numero elevato di comunità femminili variamente organizzate. Nel novero di tali fondazioni è ora da inserire la domus destinataria di un legato nel 1291. Il lascito testamentario Nella domenica del 25 novembre 1291 Allegranza, vedova di Aicardo di Bellusco, cittadino milanese, stabilì, fatti salvi i precedenti testamenti, un legato in favore della domus dominarum que dicitur de Sancto Augustino consistente in quattro appezzamenti di terre di sua proprietà ubicati nel territorio di Nova Milanese4. L’atto notarile fu rogato nella chiesa del convento domenicano di S. Eustorgio, come accadeva spesso in casi analoghi per testamenti che destinavano cospicui lasciti in favore di istituzioni religiose e in modo particolare in favore dei Mendicanti. La centralità dell’atto di ultima volontà quale fonte per indagare gli orientamenti della vita religiosa è ormai evidente5; le scelte testamentarie, in questo caso femminili, dispiegano infatti un ventaglio di campi di indagine a partire da quelli offerti dalla straordinaria varietà dei legati pii, nonché dalla pratica testatrionale, in Società e storia 51 (1991), pp. 23-52; D. Romagnoli, La coscienza civica nella città comunale italiana: la testimonianza delle laudes civitatum e il caso di Milano, in El mercat. Un món de contactes i intercanvis. Reunió científica XVI Curs d’Estiu Comtat d’Urgell Celebrat a Balaguer els dies 6-8 de juliol de 2011, a cura di F. Sabaté, Lleida 2014, pp. 57-76. 3 In quell’anno il priore di S. Eustorgio, insieme al guardiano del convento dei Francescani, all’abate di Chiaravalle e al maestro generale degli Umiliati furono interpellati a riguardo in quanto non si riusciva a individuare un candidato accettato dalle parti. Si veda M. P. Alberzoni, Francescanesimo a Milano nel Duecento, Milano 1991, p. 39, nota 91. 4 Il documento è conservato nelle Pergamene Patetta della Biblioteca Apostolica Vaticana. Per esso si veda l’edizione in Appendice. Sulla raccolta pergamenacea allestita dallo storico del diritto Federico Patetta e donata alla Vaticana nel 1946 rimando a I. Aurora, Le pergamene del legato Patetta. Modalità di formazione della raccolta e prime indagini su consistenza e tipologia documentaria: alcuni esempi da Padova, Vercelli, Siena, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae XXIV, Città del Vaticano 2018 (Studi e testi, 529), pp. 19-45. 5 La bibliografia è copiosa, rimando solo ad A. Rigon, Orientamenti religiosi e pratica testamentaria a Padova nei secoli XII-XIV (prime ricerche), in «Nolens intestatus decedere». Il testamento come fonte della storia religiosa e sociale. Atti dell’incontro di studio, Perugia, 3 maggio 1983, Perugia 1985, pp. 41-63; E. Rava, «Volens in testamento vivere». Testamenti a Pisa, 1240-1320. Apparati a cura di A. Bartoli Langeli, Roma 2016 (Italia sacra. Nuova serie, 2), pp. 165-212.

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CONTRIBUTO ALLA STORIA DELLE COMUNITÀ FEMMINILI

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mentaria, dalle dinamiche patrimoniali, dalla predilezione per alcune istituzioni ecclesiastiche, religiose, assistenziali, dalle notizie sui personaggi destinatari dei lasciti o semplicemente coinvolti nell’atto, come testimoni e notai6. Il lascito pro anima di Allegranza si inserisce pienamente all’interno di questa casistica. Esso non fu l’unico atto testamentario stilato, in quanto dal dettato del documento si comprende che ella era già ricorsa alla pratica testamentaria: un’abitudine spiccatamente femminile quella di aggiornare di continuo le ultime volontà, modificandole a secondo della direzione che di volta in volta aveva preso la vita delle testatrici7. Poiché Allegranza era una vedova, come specificato nell’atto notarile, probabilmente il cambiamento di condizione era intervenuto a modificare i termini delle sue ultime volontà, oltre a offrirle una maggiore autonomia nelle scelte personali. Nessuna fonte, finora edita, permette di raccogliere ulteriori notizie su Allegranza, né sono state tramandate le sue disposizioni testamentarie che avrebbero forse permesso di identificare meglio la testatrice e di ricostrui­ re con maggiore dettaglio le relazioni con le case religiose, le istituzioni ecclesiastiche e caritative da lei eventualmente beneficate. Il marito, Aicardo de Beluscho, presenta una forma cognominale che identifica il suo luogo di origine — Bellusco una località a nord-est di Milano — e insieme ci informa di una sua immigrazione recente in città8, mentre ella era probabilmente originaria di Nova Milanese e apparteneva a un ceto sociale di buon livello, poiché possedeva terre nella località di provenienza, alla quale rimase legata9. È certo, oltre al suo stato vedovile, il legame con Enrico de Nova, frate 6 Si vedano le riflessioni intorno alle finalità religiose evidenti nei testamenti femminili in M. C. Rossi, Religiosità e scelte testamentarie femminili, in Vita religiosa al femminile (secoli XIII-XIV). XXVI Convegno internazionale di studi del Centro italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia, 19-21 maggio 2017, Roma 2019, pp. 257-277. 7 Sui testatori plurimi e sulle motivazioni sottese alla produzione di più testamenti o al perfezionamento di essi attraverso i codicilli si veda Rava, «Volens in testamento vivere» cit., pp. 318-324. 8 Milano conobbe nel corso del XII e XIII secolo un forte sviluppo demografico innescato dall’inurbamento di uomini provenienti dai centri del contado. Cfr. P. Grillo, Il richiamo della metropoli: immigrazione e crescita demografica a Milano nel XIII secolo, in Demografia e società nell’Italia medievale. Secoli IX-XIV, a cura di R. Comba – I. Naso, Cuneo 1994, pp. 441-454. Con un ampliamento della tematica in id., Milano in età comunale (1183-1276). Istituzioni, società, economia, Spoleto 2001, pp. 39-54. Si veda anche É. Hubert, Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza (XII-metà XIV secolo). Alcune considerazioni generali, in La costruzione della città comunale (secoli XII–inizio XIV), Pistoia, 11-14 maggio 2007. XXI Convegno internazionale di studi del Centro italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia 2009, pp. 131-145. 9 Per Milano, come per Firenze, le ricerche hanno dimostrato tra gli inurbati dal contado la presenza, accanto a una larga fascia costituita da uomini di limitate condizioni economiche, di un consistente numero di immigrati appartenenti all’aristocrazia rurale o comunque

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predicatore del convento di Milano. Con ogni probabilità, a seguito del suo recente trasferimento dal contado, la comunanza con frate Enrico aveva costituito per Allegranza un’occasione di integrazione nella realtà urbana. Sono molteplici infatti i casi in cui l’entrare a far parte di una fraternita a carattere religioso, in specie quelle legate alle religiones novae, costituiva il primo passo per inserirsi nella collettività cittadina per laici devoti provenienti dalla campagna10. In un contesto urbano caratterizzato dalla crescita demografica e dallo sviluppo economico, maturò l’urgenza di nuove forme di aggregazione e su tale necessità si inserì facilmente l’offerta degli ordini mendicanti. La presenza di frati nei testamenti accomuna molti atti di ultime volontà di donne, quasi a dimostrare la buona riuscita dell’impegno pastorale e omiletico dei Mendicanti nei confronti dell’universo femminile «che accoglieva e realizzava con entusiasmo il programma religioso dei frati indirizzato verso le ‘buone fedeli’»11. Enrico era originario di Nova Milanese e forse erano state proprio le comuni origini la causa se non del suo incontro con Allegranza, almeno della predilezione della donna verso di lui. Enrico era diventato per lei punto di riferimento, la seguiva nel suo cammino di fede in qualità di confessore, forse di guida spirituale12. Dal legato testamentario ben si comprende il vincolo instaurato con il frate: egli avrebbe dovuto provvedere a far pervenire le sette lire di terzoli annui destinati dalla testatrice ad alcune persone che, tuttavia, non sono citate nominalmente nel documento, come accade di consueto per quanto riguarda i lasciti individuali, poiché Allegranza aveva provveduto a indicare i loro nomi in secretum al frate13. I dati finora detentori nei territori di origine di considerevoli proprietà fondiarie. Si veda Grillo, Milano in età comunale cit., pp. 44-49. 10 Si vedano in proposito gli esempi commentati in Alberzoni, Francescanesimo a Milano cit., pp. 81-115. 11 Rossi, Religiosità e scelte testamentarie cit., pp. 266-267: la studiosa si sofferma su queste tematiche commendando esempi desunti dalle fonti documentarie. 12 Numerosi gli studi a riguardo; rimando ad A. Tilatti, La direzione spirituale. Un percorso di ricerca attraverso il secolo XIII nell’Ordine dei Predicatori, in Dalla penitenza all’ascolto delle confessioni: il ruolo dei frati mendicanti. Atti del XXIII Convegno internazionale della società internazionale di studi francescani, Assisi, 12-14 ottobre 1995, Spoleto 1996, pp. 125-173, ora anche in Storia della direzione spirituale, 2: L’età medievale, a cura di S. Boesch Gajano, Brescia 2010, pp. 337-372; A. Benvenuti Papi, Le religiosae mulieres tra cura animarum, cura monialium e direzione spirituale, ivi, pp. 373-386; da ultimo a G. Zarri, Uomini e donne nella direzione spirituale (secc. XII-XVI), Spoleto 2016. 13 Nel corso del Duecento furono proprio i nuovi ordini religiosi ad assumere il compito dell’ascolto delle confessioni e dell’amministrazione della penitenza, sostituendosi in parte al clero secolare, e a orientare in tal modo il sentimento religioso dei laici. Rimando, nella copiosa bibliografia, a R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, Milano 2002, pp. 105-160.

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a disposizione non permettono di stabilire se fosse stato Enrico ad aver messo in contatto la donna con la domus femminile gravitante intorno ai Domenicani, o se fosse accaduto il contrario. Di certo, ciò che appare da questo unico documento è un legame stabile e profondo, costruitosi con ogni probabilità nel corso di una duratura direzione spirituale, con Enrico ma anche con l’intero convento di S. Eustorgio, benché Allegranza tenne a specificare come sulla somma versata al frate perché fosse devoluta in opere caritative né il convento milanese, né l’ordine dei Predicatori avrebbero potuto in futuro avanzare qualsiasi diritto. Enrico da Nova: note su un frate di S. Eustorgio nella seconda metà del XIII secolo Nel «numerosus conventus Predicatorum», come scriveva Bonvensin de la Riva, considerando i Domenicani come i più eminenti tra gli ordini mendicanti insediatisi in città, accanto a personalità del calibro di Pietro da Verona14, Stefanardo da Vimercate, priore negli anni 1290-1292, lettore nella cattedra di teologia e diritto canonico, nonché scrittore di una storia di Milano intesa a celebrare Ottone Visconti15 e, sul finire del secolo, di Galvano Fiamma, autore di numerose cronache di Milano e dell’ordine dei Predicatori16, insieme ad altri frati che si erano formati nel vivace studium con sede a S. Eustorgio, dedicandosi poi all’insegnamento o alla predicazione17, vi era anche Enrico da Nova. Sono riuscita a reperire un’unica notizia su di lui legata, sia pure indirettamente, alla figura di Guglielma e quindi a una realtà religiosa multiforme di conversi e oblati che si muovevano tra i Cistercensi di Chiaravalle e la casa umiliata di Biassono. Nelle inchieste inquisitoriali, condotte da Guido de Coconato e Rainerio da Pirovano nella chiesa di S. Eustorgio, a carico di Guglielma, tacciata di eresia, e delle persone a lei devote, i cui atti processuali sono stati attentamente studiati ed editati da Marina 14 Su Pietro da Verona dopo il datato ma ancora valido punto di partenza offerto dallo studio di A. Dondaine, Saint Pierre Martyr. Études, in Archivum Fratrum Praedicatorum 23 (1953), pp. 66-162, molto altro è stato scritto; vorrei segnalare lo studio di Marco Rainini, con riferimenti all’ultima bibliografia: M. Rainini, «Plus quam vivus fecerim, mortuus faciam contra eos». Vita morte e culto di Pietro da Verona a Milano, in Rivista di storia della Chiesa in Italia 65 (2011), pp. 31-55. 15 T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, III, Roma 1980, pp. 350-352. 16 Ivi, II, Roma 1975, pp. 6-10. 17 Schede bibliografiche sugli studenti e docenti dello studium milanese, molti dei quali divennero priori o provinciali, si trovano in L. Airaghi, Studenti e professori di S. Eustorgio in Milano dalle origini del convento alla metà del XV secolo, in Archivum Fratrum Praedicatorum 54 (1984), pp. 354-380.

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Benedetti18, compare la testimonianza di Allegranza, moglie di Tommaso Perusio, ambedue legati alla santa di Chiaravalle. Durante l’interrogatorio ella riferì, tra altre notizie, che sedici anni prima, quindi nel 1284, insieme a Carabella Toscano19, aveva rivelato a domina Belfiore le affermazioni sostenute da alcuni devoti, i quali credevano essere Guglielma, da poco defunta, la personificazione dello Spirito Santo: una assimilazione oltraggiosa che avrebbe trasformato Guglielma in un’eretica20. Nella deposizione rilasciata davanti all’inquisitore, Belfiore è individuata come la madre di frate Enrico da Nova; essa, dopo aver ricevuto in confidenza tale notizia, si recò nella chiesa di S. Eustorgio per raccontare l’accaduto ai Predicatori, innescando così l’azione inquisitoriale di Manfredo da Dovera21. Gli anni tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo costituirono per i Predicatori a Milano un tempo proficuo di espansione e consolidamento nella vita sociale e religiosa cittadina. Essi furono sostenuti dal favore dell’arcivescovo Ottone Visconti e della sua famiglia22, la cui beneficienza contribuì alla costruzione del convento di S. Eustorgio23, centro nevralgico di riferimento per i frati e sede dell’officium fidei per la Lombardia24. Sono anche gli anni dell’uccisione di Pietro da Verona, nonché della sua canonizzazione25, del fervido impegno dei frati nell’attività inquisitoriale, come i processi contro i responsabili della morte dello stesso Pietro e le inchieste post mortem contro domina Guglielma e il culto a lei tributato. Negli anni Novanta del Duecento il convento milanese era composto da 18 M. Benedetti, Milano 1300. I processi inquisitoriali contro le devote e i devoti di santa Guglielma, Milano 1999 (Milano medievale, 2). 19 Carabella e il marito Amizone Toscano erano legati al monastero di Chiaravalle; essi insieme ad Allegranza e Giovanni Perusio trascorsero gli ultimi anni della loro vita in un edificio di proprietà di Chiaravalle dopo aver fatto dono di sé e dei propri beni al cenobio. Su di essi e sul loro impegno a favore delle sorores legate a Guglielma si veda M. Benedetti, Inquisitori lombardi del Duecento, Roma 2008 (Temi e testi, 66), pp. 237-240. 20 Ead., Guglielma di Milano, detta la Boema, in Dizionario Biografico degli Italiani, 60, Roma 2003, pp. 705-708. 21 Per l’interrogatorio di Allegranza Perusio si veda Benedetti, Milano 1300 cit., p. 226; ead., Inquisitori lombardi cit., pp. 241-242. 22 Per l’episcopato di Ottone Visconti si veda G. Soldi Rondinini, Chiesa milanese e signoria viscontea (1262-1402), in Diocesi di Milano, a cura di A. Caprioli – A. Rimoldi – L. Vaccaro, I, Brescia 1990, pp. 285-331; G. G. Merlo, Ottone Visconti arcivescovo (e ‘Signore’?) di Milano. Prime ricerche, in Vescovi medievali, a cura di G. G. Merlo, Milano 2003, pp. 25-71. 23 E. Cattaneo, Le vicende storiche, in La basilica di Sant’Eustorgio in Milano, a cura di G. A. Dell’Acqua, Milano 1984, pp. 17-43: 23-26, 32-34. 24 Benedetti, Inquisitori lombardi cit., p. 20. 25 Si veda supra nota 14; inoltre O. Krafft, Ein Brief des Mailänder Dominikanerpriors Lambert von S. Eustorgio zu Kanonisation, Elevation und Kultanfängen des Petrus Martyr (1253), in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 83 (2003), pp. 404-425.

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una fiorente e numerosa comunità di centoquaranta frati, considerata dal maestro generale Niccolò di Boccassio da Treviso, anch’egli cresciuto nello studium di S. Eustorgio26, come un esempio di disciplina, rigore e luogo di edificazione27. Tra i frati che lo popolavano vi era Enrico, consegnato alla memoria, per il momento, da queste due uniche attestazioni. Ipotesi sulla ubicazione della comunità femminile La caduta della pergamena subito dopo il nome del monastero destinatario del lascito di Allegranza non permette di individuarne con certezza l’ubicazione, ma lascia aperte due ipotesi, entrambi percorribili in quanto le fonti esaminate non consentono di giungere a conclusioni certe. È necessario formulare alcune osservazioni, nel tentativo di ricostruire, se non la lacuna, almeno la quantità di pergamena andata perduta. Esaminando con attenzione il lacerto di membrana in corrispondenza della fine del quarto rigo di scrittura che contiene la denominazione del monastero, si legge: «priora et conventus domus dominarum que dicitur de Sancto Aug[…]». Dopo le prime lettere del nome del santo, facilmente integrabile, la membrana manca, a eccezione di un piccolissimo frammento posto quasi a metà della lacuna. Inoltre, dopo lo spazio necessario per integrare «Aug[ustino]», si intravede un’asta discendente28 e a breve distanza, nel frammento, parte di una lettera finale di parola difficile da identificare. Si potrebbe forse pensare al termine: «site». La pergamena è mancante della parte destra in tutta la sua estensione, pertanto non si dispone di alcun rigo di scrittura nella sua interezza. Il rigo dodicesimo però si presenta come l’unico per cui è possibile ipotizzare una integrazione con una certa sicurezza, avvalorata cioè dalla consequenzialità sia sintattica, sia logica. Esso lascia supporre che la membrana mancante del testo fosse tale da avere una misura pari allo spazio di circa nove lettere, considerando anche la superficie, solitamente di entità costante, tra una parola e l’altra29. Quindi, tornando al rigo interessato, dopo il partici26 Airaghi,

Studenti e professori cit., p. 375, n. 67. Odetto, La Cronaca maggiore dell’ordine domenicano di Galvano Fiamma, in Archivum Fratrum Praedicatorum 10 (1940), pp. 297-373: 336, sub anno 1297. Niccolò, poi papa Benedetto XI, si fermò a S. Eustorgio nel 1297 e poi nuovamente, rivolgendo al convento parole di lode, durante il suo viaggio da Narbona alla curia romana nel 1299; cfr. ivi, pp. 362363. Su frate Niccolò da Treviso e sulle sue relazioni con la sede milanese dei Predicatori si veda: Benedetto XI frate predicatore e papa, a cura di M. Benedetti, Milano 2007. 28 Si intravede un segno da riferire a una lettera con asta discendente e quindi, considerata la minuscola notarile in cui è vergato il documento, a lettere quali: f, p, q, s. 29 Andrebbe così integrata la lacuna alla fine del dodicesimo rigo di scrittura: «hac conditione et modo et ut infradicta observentur per prioram et conventum dicte domus videlicet 27 G.

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pio «site» e il successivo spazio bianco, dovrebbe esserci ancora un campo scrittorio equivalente all’estensione di nove lettere. Sulla scorta di tali considerazioni, sarebbe possibile ipotizzare tale ricostruzione: «priora et conventus domus dominarum, que dicitur de Sancto Aug[ustino, site in porta] | Nova»30. L’alternativa all’integrazione potrebbe essere: «priora et conventus domus dominarum, que dicitur de Sancto Aug[ustino, site in loco de] | Nova», in questo caso comunque sarebbe necessario suppore uno spazio di poco maggiore. La frammentarietà ed esiguità delle fonti, nonché la lontananza cronologica delle testimonianze, finora raccolte, non ha permesso di disporre di elementi decisamente probanti per propendere in favore di una ipotesi a discapito dell’altra. Si è utilizzata la documentazione edita, pertanto ulteriori e approfonditi scandagli archivistici potrebbero far emergere altre e determinanti fonti manoscritte31. Di conseguenza esporrò i dati raccolti con l’auspicio che la ricerca possa essere in futuro approfondita, nell’eventualità del recupero di nuove testimonianze. Nel quartiere di Porta Nuova? Nell’elenco delle comunità femminili esistenti a Milano e legate in qualche modo ai Predicatori, stilato da Bernard Gui agli inizi del XIV secolo, è menzionato un monastero di S. Agostino. Gui cita nove comunità, tuttavia tiene a precisare come esse «non tamen sunt incorporatae ordini quoad obedientiam et regimen earumdem, quin immo Mediolanensi archiepiscopo subiectae sunt», nonostante «sub Augustini regula et constitutionibus sororum ordinis S. Dominici vivunt inclusae»32. Esse quindi erano soggette quod post meum decessum dent et solvant omni anno fratri A[nrico de] | Nova ordinis Predicatorum». 30 Si è pensato di integrare in tal modo sulla scorta della locuzione presente in un documento del 1442; cfr. Milano, Biblioteca Ambrosiana, Pergamene, n. 4314. 31 Sono state condotte ricerche preliminari e non esaustive nell’Archivio di Stato di Milano nei seguenti fondi: Pergamene per fondi (S. Maria di Aurona, S. Eustorgio), limitatamente al periodo fine XIII–inizio XIV secolo; Fondo di religione, per le cartelle relative a S. Agostino in Porta Nuova; Registri del fondo di religione, 44, voll. a-b; Culto parte antica, cartella 1821. Purtroppo la ricerca non ha prodotto al momento esiti positivi. 32 Il passo di Bernard Gui con la notizia relativa ai monasteri milanesi è in Bernardus Guidonis, Notitia altera status Ordinis, in J. Quétif – J. Échard, Scriptores ordinis Praedicatorum recensiti, notisque historicis et criticis illustrati, I, Lutetiae Parisiorum 1719, pp. IV-XV: XIV; anche in Dondaine, Saint Pierre Martyr. Études cit., pp. 66-162: 89, nota 72. I monasteri elencati sono: «monasterium de Vinea, prope fratrum, in honorem sancti Petri apostoli, monasterium de Veteribus, monasterium de Virginibus, monasterium de supra muro in honorem beate Marie, monasterium Sancti Dominici, monasterium Sancti Petri martiris, monasterium Sancti Agnetis, monasterium Sancte Marie Nove». Su questi monasteri si veda M. Pogliani, Contributo per una bibliografia delle fondazioni religiose di Milano, in Ricerche sto-

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all’ordinario locale, tuttavia, sempre secondo la testimonianza di Gui, modulavano e regolavano la propria vita comunitaria sotto consiglio dei frati predicatori i quali svolgevano presso di loro funzioni di cura d’anime con l’ascolto delle confessioni e la celebrazione della liturgia33. Esisteva dunque una domus femminile intitolata a S. Agostino nei primi anni del Trecento, quindi una fondazione nata in precedenza, tuttavia su di essa non ho trovato altre indicazioni; non risulta citata nella documentazione milanese di questo periodo finora edita e neppure in quella inedita riguardanti alcune altre istituzioni femminili, quali S. Maria della Vettabbia, delle Veteri e della Vittoria, per le quali è attestato un legame, sebbene in epoca più tarda e con modalità differenti, con i Domenicani di S. Eustorgio34. Ciò nonostante nell’ottobre 1303, su mandato arcivescovile, si procedette alla divisione della domus femminile milanese de Cambiago. La separazione fu voluta dalle stesse sorores, benché rimangano ignote le motivazioni, e originò due istituzioni distinte, una delle quali, a partire dalla metà del Trecento, è identificata nelle fonti come casa delle monache di S. Agostino dette di Cambiago e poi con il titolo di S. Agostino35. La nascita di questa nuova casa nel 1303, che probabilmente ufficializzava una situazione di fatto già avvenuta, e la circostanza che all’inizio essa sembra non avere una dedicazione precisa, ma fosse indicata solo con la regola seguita, da cui poi ne derivò l’intitolazione, potrebbero suggerire l’ipotesi che sia questo riche sulla Chiesa ambrosiana XIV, Milano 1985, pp. 157-281. Sul monastero di S. Agnese: R. Macchi, Il monastero di S. Agnese in Milano nel secolo XIII, ivi, III, Milano 1972, pp. 100-123; Alberzoni, Francescanesimo a Milano cit., pp. 132-142 che esamina le relazioni tra il monastero di S. Agnese e quello di S. Maria di Cantalupo. Per il monastero della Vittoria rimando da ultimo a C. Anfossi, Una tradizione di imprenditrici umiliate e domenicane a S. Maria della Vittoria (secoli XIII-XIX), in Archivio Storico Lombardo 121 (1995), pp. 103-155. Riguardo ai monasteri di S. Maria de Veteribus, S. Maria de Virginibus, S. Maria della Vittoria, S. Pietro de Vinea, S. Domenico e alle loro relazioni con i Domenicani di S. Eustorgio, nuovi studi, a partire da una accurata ricerca nelle fonti d’archivio, sono in corso da parte di Sylvie Duval. 33 Sull’assistenza svolta dai Predicatori milanesi alle fondazioni femminili si veda M. P. Alberzoni, Le origini dell’Ordine dei Predicatori a Milano, in L’origine dell’Ordine dei Predicatori e l’Università di Bologna, in Divus Thomas 44 (2006), pp. 194-229. 34 Ringrazio Sylvie Duval per aver controllato tra le fonti da lei studiate relative a questi tre monasteri. 35 N. Taglietti, “Dicte priora et sorores non sint moniales nec earum domus monasterium appellatur”. La domus milanese delle umiliate di Cambiago tra XII e XIV secolo, in Archivio Storico Lombardo, 124-125 (1998-1999), pp. 11-111: 19. L’intitolazione del nuovo monastero a S. Agostino non risalirebbe però alla metà del XV secolo, come afferma la studiosa, ma andrebbe anticipata almeno alla metà del Trecento. La Notitia Cleri Mediolanensis menziona infatti le «domus S. Marie de Cambiago, domus S. Augustini de Cambiago». Cfr. M. Magistretti, Notitia Cleri Mediolanensis de anno 1398 circa ipsius immunitatem, in Archivio Storico Lombardo 27 (1900), pp. 9-57, 257-304: 27.

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il monastero al quale fa riferimento Bernard Gui36, benché la prima testimonianza di una effettiva appartenenza ai Domenicani risalga alla metà del XV secolo37. Nel caso si prenda in considerazione questa eventualità, al contrario non sarebbe possibile identificare tale comunità con quella beneficata da Allegranza nel 1291, in quanto le due case di Cambiago erano ubicate nella zona di Porta Ticinese. Sempre a Milano è presente un altro monastero dedicato al santo di Ippona, tuttavia le notizie a riguardo sono tutte di epoca più tarda. Un monastero di S. Agostino in Porta Nuova è attestato a partire dalla metà del Quattrocento38 e nacque in seguito alla divisione delle monache del monastero di S. Maria de Vedano39, in quanto alcune di esse vollero sepa36 Taglietti, “Dicte priora et sorores” cit., pp. 27-28, argomenta a favore di tale ipotesi, basandosi sull’intitolazione della primitiva casa di Cambiago che, dopo la divisione, assunse nel tempo il titolo di S. Pietro martire, indice quindi di una possibile precoce aggregazione ai Domenicani, e sulle relazioni tra alcuni esponenti della famiglia de Cambiago, alla quale si deve la fondazione del monastero, e i frati di S. Eustorgio in fonti di poco successive alla testimonianza di Bernard Gui. 37 Ivi, p. 27. La studiosa evidenzia come in alcuni documenti successivi al 1256 la domus di Cambiago è definita umiliata, ma ciò non sembra determinante per ascrivere il monastero agli Umiliati; infatti in un testamento del 1464 le monache sono dette umiliate del monastero di S. Agostino dell’ordine domenicano (ivi, p. 27, nota 75). Su queste case religiose femminili, talvolta definite umiliate, seguite dai Predicatori, si veda Alberzoni, Francescanesimo a Milano cit., pp. 152-153. 38 Pogliani, Contributo per una bibliografia cit., p. 195, pone l’origine del monastero, che pur ritiene femminile, in un periodo precedente al 1253, facendo riferimento a un documento pubblicato dal van Luijk. L’atto del 10 luglio 1253 si riferisce però a una domus maschile intitolata a S. Agostino e ubicata a Milano. Cfr. B. van Luijk, Bullarium Ordinis Eremitarum S. Augustini. Periodus formationis 1187-1256, in Augustiniana 13 (1963), pp. 493-494, n. 107. Luigi Torelli scrive che si ha notizia del monastero di S. Agostino dal 1256: esso era maschile e apparteneva ai Poveri Cattolici; cfr. L. Torelli, Secoli agostiniani, VII, Bologna 1682, p. 9. Anche Giulini, secondo il quale però il monastero era ubicato nei pressi di Porta Orientale e non fornisce alcuna notizia del suo passaggio a un ordine femminile; cfr. G. Giulini, Memorie spettanti alla storia, al governo e alla descrizione della città e campagna di Milano ne’ secoli bassi, VIII, Milano 1760, pp. 134-136. Sul monastero si veda: S. Latuada, Descrizione di Milano, V, Milano 1738, p. 247; Il monastero delle agostiniane di Porta Nuova, oggi corso Vittoria in Milano, in Bollettino storico agostiniano 5 (1928), pp. 13-20, 79-83; E. Cattaneo, Istituzioni ecclesiastiche milanesi, in Storia di Milano, IX: L’epoca di Carlo V (1535-1559), Milano 1961, pp. 509-720: 633. 39 In Galvano Fiamma si legge sotto l’anno 1247 come il monastero de Vinea fu edificato sotto le direttive di Pietro da Verona, grazie alla cospicua donazione di Petra de Vedano, una ricca nobildonna milanese che, rimasta vedova, prese l’abito religioso insieme alle due figlie; una di esse poco dopo lasciò il monastero primitivo, insieme ad alcune compagne, per fondarne un altro a Vedano; cfr. Odetto, La Cronaca maggiore cit., pp. 297-373: 327-328, 356. La medesima notizia nella Chronica brevis di Ambrogio Taegio, cfr. Roma, Archivio Generale dell’Ordine dei Predicatori, XIV, 53, ff. 33r-v. Successivamente il monastero sorto a Vedano si era inurbato mantenendo il nome del luogo di origine, come accadeva per altri monasteri edificati in località del contado milanese, i quali una volta trasferiti in città conservarono la

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rarsi per seguire la regola delle Clarisse. Ciò avvenne con atto rogato il 29 luglio 1445; quel giorno gli edifici, i sedimina, gli orti e gli altri spazi furono divisi e la chiesa del monastero, intitolata a S. Agostino, fu assegnata alle monache che decisero di vivere sotto la regola omonima40. La scissione fu poi confermata da Niccolò V il 25 giugno 1454 con un atto indirizzato alla badessa e al convento «monasterii novi alias de Vedano Mediolanensis ordinis S. Clare»41. In alcuni documenti coevi si comprende come il nuovo monastero dedicato all’Assunzione, un tempo di S. Maria de Vedano, era ubicato «in Porta Nova Mediolani super Cantarana» e che i due cenobi erano contigui42. Lo stesso Giulini ricorda la presenza sul medesimo canale del monastero di S. Agostino in Porta Nuova, da altri denominato di S. Agostino alla Cantarana43. Al momento della scissione però le monache agostiniane erano già nell’alveo degli Eremitani e avevano aderito al movimento osservante44. Oppure a Nova Milanese? Riflettendo sull’estensione della lacuna e sulle possibilità di integrazione a fronte del dettato notarile e del testo presumibilmente mancante, è comunque da valutare anche l’opzione relativa all’ubicazione della comunità femminile a Nova Milanese, pertanto è opportuno avanzare alcune considerazione a partire dalle indicazioni fornite dal legato testamentario di Allegranza e da pochi altri elementi. denominazione del luogo di nascita. Sul monastero di Vedano fondato da una delle figlie di Petra si veda l’ipotesi formulata in Dondaine, Saint Pierre Martyr. Études cit., pp. 94-96. 40 Milano, Biblioteca Ambrosiana, Pergamene, nn. 3894-3894 bis, 3906. La prima pergamena reca inserto il breve di Eugenio IV «Cupientes quod antiqua» del 15 maggio 1445, il quale ratificava la divisione e assegnava la chiesa del monastero alle monache agostiniane. 41 La lettera «Digna reddimur attentione» è edita in L. Wadding, Annales minorum, XII, Quaracchi 1932, pp. 699-700, n. CXII. 42 Milano, Biblioteca Ambrosiana, Pergamene, n. 4314, atto del 22 febbraio 1442. I due monasteri erano contigui come si deduce da un testamento del 6 luglio 1470, in cui tra i legati compare un lascito alle monache del monastero di Clarisse ubicato «in Porta Nova super Cantaranam» e uno alle monache di quello di S. Agostino «prope dictum monasterium S. Clare»; cfr. M. L. Gatti Perer, Umanesimo a Milano. L’osservanza agostiniana all’Incoronata, in Arte Lombarda 53-54 (1980), pp. 163-166. 43 Giulini, Memorie spettanti alla storia cit., IV, p. 446. Il Latuada scrive di aver visto un documento del XIV secolo in cui il monastero è chiamato de la Rozza; cfr. Latuada, Descrizione di Milano cit., V, p. 248. 44 Il 31 luglio 1447 un atto di vendita in favore degli Eremitani dell’Incoronata è rogato «in domibus monasterii S. Augustini Mediolani siti in Porta Nova»; si veda Gatti Perer, Umanesimo a Milano cit., pp. 178-182. In un documento del 2 dicembre 1483 si legge: «priorissa seu mater et moniales monasterii S. Marie Ascensionis alias de Vedano novo nuncupati ordinis Heremitarum observantiae sancti Augustini supra Cantaranam Porte Nove Mediolani constructi»; si veda Milano, Biblioteca Ambrosiana, Pergamene, n. 4587.

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L’alto numero di borghi e di ville contraddistingue il contado milanese, come ricordava Bonvesin de la Riva sottolineando la loro complessa articolazione sociale e la vivacità economica, determinata dalla compresenza di contadini, artigiani e nobili in molti di tali agglomerati. Il cronista milanese cita genericamente una cinquantina di borghi, nominando espressamente solo alcuni, mentre in una fonte più tarda, di metà Trecento, la Compartizione delle fagie45, è elencata una serie di località definite borghi, tra cui Desio e non Nova. Nel Duecento Nova Milanese, posta a nord di Milano nella pianura verso la Brianza, rientrava nella pieve di Desio, la quale alla fine del medesimo secolo contava nel borgo e nel territorio pievano circa una quarantina di chiese da essa dipendenti46. Gli studi di Aldo A. Settia hanno dimostrato come alla fine del XIII secolo nella documentazione il termine borgo assuma un’accezione precisa, individuando un centro ben distinto dai semplici villaggi47, e Luisa Chiappa Mauri, nell’affrontare tale problematica per le aree lombarde, ha inoltre precisato come i borghi, comunque soggetti a Milano, si identificavano con gli insediamenti maggiori del contado con capacità contributiva e godevano, rispetto agli altri abitati, di una situazione di privilegio per gli sgravi fiscali48. Nova era invece designata nella documentazione notarile del XIII secolo come un locus49; 45 Si

tratta di un ruolo degli insediamenti nella campagna milanese redatto a fini fiscali nel 1345; cfr. La Compartizione de le strate et fagie edita in Statuti delle strade ed acque nel contado di Milano fatti nel 1346, a cura di G. Porro Lambertenghi, in Miscellanea di storia italiana 7 (1869), pp. 307-443: 311-373. 46 Così nel Liber composto nella seconda metà del XIII secolo e attribuito allo pseudo Goffredo da Bussero; si veda Goffredo da Bussero, Liber notitiae sanctorum Mediolani, a cura di M. Magistretti – U. Monneret de Villard, Milano 1917, col. 25 D. Cfr. anche G. ­Vigotti, La diocesi di Milano alla fine del secolo XIII. Chiese cittadine e pievi forensi nel “Liber sanctorum” di Goffredo da Bussero, Roma 1974, pp. 203-204. 47 A. A. Settia, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XIII secolo, Napoli 1984 (Nuovo Medioevo, 23), p. 316, 326. 48 L. Chiappa Mauri, Gerarchie insediative e distrettuazione rurale nella Lombardia del secolo XIV, in L’età dei Visconti. Il dominio di Milano fra XIII e XV secolo, a cura di L. Chiappa Mauri – L. De Angelis Cappabianca – P. Mainoni, Milano 1993, pp. 269-301, ha messo in evidenza come nella documentazione notarile milanese si assiste a una oscillazione nell’uso dei termini burgus locus e villa, e ha individuato inoltre i segni del valore giuridico che la qualifica di borgo andava assumendo nel corso dei secoli. Su questo argomento, dal saggio basilare di G. Chittolini, “Quasi città”. Borghi e terre in area lombarda nel tardo Medioevo, in Società e storia 47 (1990), pp. 3-26, molto altro è stato scritto. Si veda, intorno ai privilegi relativi a fiscalità e amministrazione della giustizia, M. Ginatempo, Vivere ‘a modo di città’. I centri minori italiani nel basso medioevo: autonomie, privilegio, fiscalità, in Città e campagne nel basso Medioevo. Studi sulla società italiana offerti dagli allievi a Giuliana Pinto, Firenze 2014 (Biblioteca dell’Archivio Storico Italiano, 37), pp. 1-30: 8. 49 Gli atti del comune di Milano nel XIII secolo, I, a cura di M. F. Baroni, Milano 1976, p. 527, n. 361 (1237 gennaio 27); II, Milano 1987, pp. 816-817, n. 705 (1275 maggio 15).

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era dunque un piccolo insediamento nel contado50, ciò nonostante la sua vicinanza a Milano, facilitata dalle vie di comunicazione, favorì i contatti con la città51. L’afflusso di capitali cittadini verso le aree rurali per il Duecento, ampiamente attestato52 nonostante i conflitti civili e le forme di dominio personale sul contado53, portò a un aumento della produttività nelle campagne54. Sebbene gli investimenti in operazioni fondiarie sembrano interessare in modo minore l’antica regione della Martesana, in cui rientrava Nova, le comunità della Brianza appaiono socialmente ed economicamente forti55. Il piccolo comune rurale di Nova disponeva di un organo di autogoverno56 e la sua vivacità si esprimeva, inoltre, come è documentato altrove nel contado milanese, attraverso la presenza di iniziative religiose 50 Per

l’età comunale quando si parla di contado «s’intende anche terre e comuni, centri di rigogliose contrade, attorniate a loro volta da ville, popolate di mercanti, artigiani, piccoli e medi proprietari»; si veda E. Fiumi, Sui rapporti economici fra città e contado nell’età comunale, in Archivio Storico Italiano 114 (1956), pp. 18-68: 23. 51 M. Banfi – A. Baldo, Storia di Nova, Nova Milanese 1994. 52 Si vedano i casi legati al monastero maggiore e le riflessioni sull’insediamento nel contado nel XIII secolo in E. Occhipinti, Il contado milanese nel secolo XIII. L’amministrazione della proprietà fondiaria del monastero maggiore, Bologna 1982 (Studi e testi di storia medioevale, 1), pp. 51-53. L’interesse da parte di notabili cittadini e mercanti a investire in terreni nel contado era stato analizzato per il secolo precedente da Cinzio Violante, il quale aveva messo in evidenza come il “ceto medio cittadino”, costituito da mercanti, artigiani, monetieri, giudici e notai cominciò ad acquisire le proprietà allodiali delle campagne e come al contempo si assisteva a un inurbamento di famiglie possidenti del contado, fattori che innescarono un processo economico evolutivo nelle campagne. Cfr. C. Violante, La società milanese nell’età precomunale, Bari 1974, pp. 89-113. 53 P. Grillo, Comuni urbani e poteri locali nel governo del territorio in Lombardia (XII-inizi XIV secolo), in Contado e città in dialogo. Comuni urbani e comunità rurali nella Lombardia medievale, a cura di L. Chiappa Mauri, Milano 2003, pp. 41-81: 71-81. 54 L. Chiappa Mauri, Terre e uomini nella Lombardia medievale, Roma-Bari 1997, pp. 27-41, la quale però valuta, nonostante l’impulso alla realizzazione di infrastrutture, di vaste opere di canalizzazione, alla diffusione di colture diversificate e all’assunzione di nuove tipologie contrattuali per la gestione delle terre, il peso avuto nelle campagne dalle devastazioni e razzie causate dai fuoriusciti soprattutto alla fine del Duecento. Si veda anche Grillo, Milano in età comunale cit., pp. 89-96. Una stagione migliore per gli investimenti nel contado si aprì invece agli inizi del Trecento; per questo periodo rimando a id., Milano Guelfa (13021310), Roma 2013, pp. 132-158, e alle riflessioni in L. Bertoni, Le campagne lombarde nel primo Trecento. Rilettura di un caso «eccezionale», in La congiuntura del primo Trecento in Lombardia (1290-1360), a cura di P. Grillo – F. Menant, Roma 2019 (Collection de l’École française de Rome, 555), pp. 209-237. 55 Nell’area settentrionale del contado milanese si registrarono meno investimenti, tuttavia essa presentava una rete insediativa strutturata e robusta, in cui le entità maggiori, definite borghi, assunsero un ruolo di organizzazione dei centri minori limitrofi, economicamente vivaci. Si veda Grillo, Milano in età comunale cit., pp. 129-142. 56 Del 28 marzo 1298 è l’attestazione di consoli di Nova agenti in rappresentanza degli abitanti. Cfr. Gli atti del comune di Milano cit., IV, a cura di M. F. Baroni, Alessandria 1997, p. 603, n. 700.

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promosse dai laici sulla scia dell’interesse suscitato da nuove forme di vita evangelica: si tratta spesso di case religiose definite umiliate, ma di frequente confuse o associate con esse57. Nel 1274 sono attestati, nelle coerenze di una terra posta a Dugnano di proprietà del monastero maggiore di Milano, i frati umiliati di Nova58, pertanto non è da escludere l’insorgere nella medesima località di una aggregazione religiosa femminile spontanea che, ai limiti o fuori da forme istituzionalizzate, aveva assunto la regola agostiniana ed era in connessione con i Predicatori. Sembra delinearsi un fermento religioso sull’onda delle nuove tendenze, il quale al di là di vere o presunte affiliazioni all’ordine umiliato, coinvolse gli abitanti di Nova. Vorrei ricordare che la «soror Iacoba filia Prandi de Bassanis», appartenente al monastero di Biassono59, coinvolta nel processo a santa Guglielma e giudicata eretica, era originaria di Nova60. Uomini della famiglia Bassani sono ampiamente attestati nelle carte del Duecento, sia quelli residenti a Nova, sia quelli inurbati e pertanto definiti nella documentazione cittadini milanesi61. Gli uni e gli altri inoltre avevano regolari contatti con diverse realtà monastiche milanesi, quali il monastero di S. Maria di Aurona e quello di S. Ambrogio, a fronte di varie situazioni: in quanto lavoravano terre di pertinenza di questi cenobi, o possedevano appezzamenti con esse confinanti e per tale motivo talvolta entrarono in conflitto con gli enti monastici62. I proprietari della maggior parte dei beni limitrofi alle terre donate da Allegranza alla comunità di S. Agostino por57 M. Motta Broggi, Il catalogo del 1298, in Sulle tracce degli Umiliati, a cura di M. P. Alberzoni – A. Ambrosioni – A. Lucioni, Milano 1997 (Bibliotheca erudita, 13), pp. 4-44. A fine Duecento, per esempio, sono attestate sei case a Mariano e nel secolo successivo sette a Lonate Pozzolo; cfr. Chiappa Mauri, Gerarchie insediative cit., p. 285. 58 Gli atti del comune di Milano cit., II, 2, a cura di M. F. Baroni – R. Perelli Cippo, Alessandria 1987, pp. 766-780, n. 631: 773. 59 Il monastero di S. Caterina di Biassono, cioè S. Caterina di Brera, fu una delle prime case umiliate femminili di Milano. Per esso si veda Latuada, Descrizione di Milano cit., V, pp. 253-256. 60 Benedetti, Milano 1300 cit., pp. 80, 114, 202. 61 Se si scorrono gli indici delle edizioni di pergamene milanesi del XIII secolo la maggior parte delle persone attestate come abitanti a Nova o originarie di quel luogo portano il cognome Bassani. Si veda, a solo titolo di esempio, il Ghubertus Baxiani de Nova abitante a Milano; cfr. Pergamene milanesi dei secoli XII-XIII nella Bibliothèque nationale de France di Parigi, a cura di L. Fois, Milano 2010 (Studi di storia del cristianesimo e delle chiese cristiane. Fonti e documenti, 3), pp. 46-47, n. 49. 62 Del 27 gennaio 1237 è un atto che ingiunge ad alcune persone di Nova di non intromettersi nelle questioni relative a un territorio, giacente nello stesso luogo, di pertinenza del monastero di S. Maria di Aurona. Cfr. Gli atti del comune di Milano cit., I, pp. 526-527, n. 361. Ma si veda anche ivi, II, 2, pp. 816-817, n. 705 (1275 maggio 15). Nella seconda metà del Duecento sono attestate tensioni tra il monastero maggiore e Antonio Bassano di Nova per

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tano quel cognome; tra essi anche un Pagano Bassani che qualche anno dopo, in qualità di console di Nova, insieme ad altri rappresentanti del luogo, dovrà difendere le proprie ragioni nei confronti di un messo del cenobio di Aurona63. La presenza di una comunità femminile a Nova è però confermata solo parecchi anni dopo da una fonte fiscale di fine Trecento in cui sono annoverate nella pieve di Desio le domine de Nova64 e da un censimento della chiesa milanese del 1466 che menziona le moniales de Nova65. Tra queste due ultime attestazioni si colloca una notizia riportata alla fine della cronaca di Giovanni da Brera e suffragata da un documento pontificio. Nella breve notizia relativa alle fondazioni umiliate aggiuntesi dopo il 1344 si legge: «domus sororum de Nova quae erat sub domino archiepis­ copo Mediolani est unita ex vici66 industria, deo dante, cum domo domnarum de Blasono Mediolani anno domini 1406 habebat sorores IV»67. In effetti il 22 ottobre 1406 Pietro Filargis, cardinale dei Dodici Apostoli e amministratore della chiesa milanese68, su incarico di Innocenzo VII, ratificò l’unione tra i due monasteri già di fatto avvenuta. Il mandato pontificio, inserto69, riassume le motivazioni che avevano portato il monastero milanese di S. Caterina di Biassono dell’ordine degli Umiliati a chiedere l’annessione di quello di S. Caterina di Nova dell’ordine di S. Agostino appartenente alla diocesi di Milano. Quest’ultimo infatti aveva perso i suoi beni mobili e i possedimenti, pertanto le sorores non avevano più modo di provvedere al loro sostentamento, inoltre gli stessi edifici del monastero si presentavano ormai diruti. Esse, pertanto, costrette dalle ristrettezze, si erano rifugiate nel monastero di Biassono, previo assenso ricevuto da

alcune terre poste a Dugnano che egli soleva tenere in conduzione per conto del cenobio; cfr. Occhipinti, Il contado milanese cit., p. 51, nota 50. 63 Cfr. supra nota 56. 64 Subito dopo la canonica di Desio sono elencati: il monasterium monialium de Lissono, le moniales de Blassono e poi quelle di Nova; cfr. Magistretti, Notitia Cleri Mediolanensis cit., p. 282. 65 Si tratta dello Status ecclesiae Mediolanensis anni 1466 edito in P. Mazzucchelli, ­Osservazioni intorno al saggio storico-critico sopra il rito ambrosiano, Milano 1828, pp. 367376: 375. 66 Così l’edizione. 67 La breve notizia delle fondazioni successive al 1344 occupa la parte finale della Cronaca di Giovanni da Brera. Si veda l’edizione in Motta Broggi, Il catalogo del 1298 cit., p. 18. 68 Su Pietro Filargis, poi papa Alessandro V, si veda A. Petrucci, Alessandro V, in I papi da Pietro a Francesco, Roma 2014, II, pp. 610-613. 69 Mandato «Circa cunctorum fidelium» del 12 luglio 1406.

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Andrea Visconti, maestro generale degli Umiliati70, e dal vicario della diocesi milanese71. Il monastero di Nova citato nel documento di Innocenzo VII era però dedicato a s. Caterina; ciò tuttavia non esclude l’eventualità che possa trattarsi della domus beneficata dalla testatrice, poiché non era inusuale il cambio di intitolazione, seppure di variazione si possa parlare, in quanto il lascito del 1291 non sembra fare riferimento a una dedicazione precisa della comunità, ma piuttosto alla regola da essa seguita. Le notizie, generiche, distanziate da un notevole lasso di tempo e non confortate, per ora, da altra documentazione, impediscono comunque di identificare con certezza queste monache con quelle del monastero duecentesco di S. Agostino destinatario del lascito di Allegranza, nondimeno non lo escludono. Se accettassimo tale ipotesi e supponessimo quindi che si tratti del medesimo monastero unito nel 1406 alla casa milanese di Biassono, la presenza di una comunità a Nova attestata ancora nel 1466 non deve sorprendere. Il documento di annessione dei due monasteri infatti comportava, nelle condizioni, il passaggio delle proprietà e dei possedimenti dalle monache di Nova a quelle milanesi a fronte di una rinnovata conduzione e del ripristino di quanto ricevuto, quindi delle terre e degli edifici. Probabilmente il monastero ubicato a Nova era divenuto, dopo l’unione, nel corso del tempo, una dipendenza nel contado appartenente a S. Caterina di Brera72. Le fonti, scarse e rapsodiche, sembrano delineare a Nova e, in modo più generale, in buona parte del territorio circostante, un fermento religioso che si dispiega e si concretizza nella nascita di una serie di fondazioni. Nel legato di Allegranza sono menzionati, nei confini delle terre donate dalla testatrice, i frati di Dugnano73; così come nel catalogo del 1298 relativo alle case ascrivibili agli Umiliati compaiono case a Desio74 — dove è presente

70 Su

di lui si veda G. Tiraboschi, Vetera Humiliatorum Monumenta, I, Mediolani 1766, pp. 129-131; M. Tagliabue, Gli Umiliati a Viboldone, in L’abbazia di Viboldone, Milano 1990, pp. 9-33. 71 Tiraboschi, Vetera Humiliatorum Monumenta, III, Mediolani 1768, pp. 44-50. 72 In documenti della prima metà del XIV secolo si ha notizia che la casa di Brera era proprietaria a Nova di circa quattrocento pertiche di terreno e di una casa di residenza; cfr. Banfi – Baldo, Storia di Nova cit., p. 44. 73 Purtroppo la citazione è troppo generica per identificarli. In un atto del 1274 sono attestati i frati umiliati di Dugnano; cfr. Gli atti del comune di Milano cit., II, 2, pp. 766-780, n. 631. Anche nel catalogo del 1298 delle case dell’ordine degli Umiliati compare una domus de Dugnano; cfr. Motta Broggi, Il catalogo del 1298 cit., p. 26. 74 Ivi, p. 25. La domus fratrum humiliatorum Dexii è attestata ancora un secolo dopo nel 1398; cfr. Magistretti, Notitia Cleri Mediolanensis cit., p. 283.

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anche un convento di Minori75 —, Vedano al Lambro, Biassono76, cinque comunità a Lissone, delle quali due di sorores77, e tre comunità femminili a Seregno78. Un secolo dopo, l’estimo del 1398 menziona ancora nella pieve di Desio alcune comunità femminili: una a Lissone, una a Biassono79 e due a Seregno80, oltre che a Nova. Si prospetterebbe in tal modo in quest’area del contado milanese una rete di comunità religiose femminili poste in località vicine, facenti parte, in origine, della medesima pieve e comunque del medesimo territorio. Il notaio e le sorores: una rete di comunità religiose femminili, laici devoti e frati domenicani La prossimità di Allegranza e della domus destinataria del lascito ai frati domenicani è evidente non solo dalle disposizioni della testatrice e dal luogo in cui fu rogato il documento, ma anche dalla scelta del notaio, non affatto casuale. La stipula dell’atto fu affidata a Gasparrus Sella. Il notaio Gaspare era figlio di Lanfranco Sella e abitava nel quartiere di Porta Ticinese, precisamente nella contrada di S. Vittore al Pozzo81 e, dalla documentazione duecentesca milanese edita, sembra attivo in modo particolare per istituzioni religiose e caritative. Roga documenti per il monastero di S. Maria della Vettabbia e talvolta, quando non svolge le funzioni di notaio, è comunque presente in qualità di testimone82. Il monastero, ubicato nelle vicinanze del convento dei Predicatori, non rientrava dal 75 Alberzoni,

Francescanesimo a Milano cit., p. 100. Broggi, Il catalogo del 1298 cit., pp. 24-25. 77 Ivi, pp. 24-26. Si tratta della domus sororum de foxato e della domus de Marliano. 78 Il catalogo cita le domos di frate Ferrando, di frate Martino e di frate Alberto; cfr. ivi, p. 26. Tali case sono attestate anche in un atto dell’8 giugno 1346 dal quale si comprende che si tratta di comunità femminili. La prima di esse divenne il monastero dell’Annunziata. Cfr. G. Picasso, Seregno, in Dizionario della Chiesa ambrosiana, V, Milano 1992, pp. 3331-3334: 3331. 79 Domine de Lissono, domine moniales S. Alexandri de Blassono; cfr. Magistretti, Notitia Cleri Mediolanensis cit., p. 282. 80 A Seregno sono ricordate le domine nove de Seregnio, mentre si specifica che la domus Sancti Martini era stata unita a S. Maria ad Circulum; cfr. ivi, p. 28, 282. La domus nova di Seregno era già citata, insieme ad un’altra comunità femminile, nel catalogo del 1344 contenuto nella Cronaca di Giovanni da Brera; cfr. Tiraboschi, Vetera Humiliatorum Monumenta, III, p. 277. 81 T. Martellini, Le pergamene delle abbazie e commende, dei conventi e dei monasteri di Milano conservate presso l’Archivio di Stato di Milano (Fondo di religione, parte antica), in Studi di storia medioevale e di diplomatica 11 (1990), pp. 7-77: p. 71, n. 237. 82 Ivi, pp. 60-61, n. 200, pp. 68-69, n. 228, p. 71, nn. 237, 239; Gli atti del comune di Milano cit., III, a cura di M. F. Baroni, Alessandria 1992, pp. 363-366, n. 363; IV, pp. 464471, nn. 528-529. Gaspare è rogatario anche di alcuni documenti per la domus dominarum 76 Motta

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punto di vista istituzionale nell’ordine domenicano, benché in esso i frati svolgessero funzione di cura d’anime83. Gaspare è inoltre, proprio in quegli anni di fine Duecento, attestato in qualità di soprastante e poi di sindaco dell’ufficio amministrativo del convento di S. Eustorgio84. La scelta quindi cadde su un notaio, su un uomo di legge, in grado di districarsi negli affari, nelle necessità, nelle urgenze, di un convento — in quel momento abitato da un numero elevato di frati, fulcro dei frequenti processi inquisitoriali e sede di uno studium —, ma di certo anche su un uomo conosciuto, fidato, se i frati decisero di affidargli l’amministrazione economica del convento. Egli agì anche per conto del comune di Milano85, come pure il fratello Crescius, anche lui notaio, che mise a profitto le sue capacità giuridiche per l’ufficio dei fuoriusciti, i malesardi86: una sezione sensibile per il grande numero di cause in cui il comune fu coinvolto a motivo di una sistematica persecuzione dei della Torre e dei loro fautori, in seguito all’affermarsi della signoria di Ottone Visconti87. albarum sita supra murum fossati Porte Ticinensis; cfr. ivi, III, pp. 516-517, n. 494; IV, pp. 461-463, n. 525. 83 Il monastero, di regola agostiniana, passò ufficialmente sotto la cura dei Domenicani solo alla fine del Trecento. Su di esso alcune notizie in Cattaneo, Istituzioni ecclesiastiche cit., p. 618; Alberzoni, Francescanesimo a Milano cit., p. 153. 84 Gaspare è, nelle fonti finora edite, attestato nel ruolo di economo del convento nel 1294; cfr. G. Biscaro, Note e documenti santambrosiani. Seconda serie, in Archivio Storico Lombardo 32 (1905), pp. 48-94: 49, nota 1. In qualità di sindaco della superstantia è menzionato nel 1304; cfr. P. Zanchi Pesenti, Regesto, in La basilica di Sant’Eustorgio cit., pp. 232-237: 233, n. 5. La superstantia era la sede dell’economo che amministrava i fondi necessari alla manutenzione della chiesa e del convento; l’ufficio è attestato anche per altre realtà come la chiesa di S. Ambrogio; cfr. A. Ambrosioni, Milano, papato e impero in età medievale. Raccolta di studi, a cura di A. Alberzoni – A. Lucioni, Milano 2003 (Bibliotheca erudita, 21), p. 94 e nota 22. 85 Il lavoro entro l’amministrazione comunale costituiva per i notai una fonte di guadagno; tale committenza, destinata a diventare nel corso del XIII secolo più importante, poteva svolgersi in contemporanea all’attività privata. Si veda a riguardo G. G. Fissore, Alle origini del documento comunale: i rapporti fra i notai e l’istituzione, in Le scritture del Comune. Amministrazione e memoria nelle città dei secoli XII e XIII, a cura di G. Albini, Torino 1998, pp. 39-60; P. Cammarosano, Attività pubblica e attività per committenza privata dei notai (secoli XIII e XIV), in Notariato e medievistica. Per i cento anni di studi e ricerche di diplomatica comunale di Pietro Torelli. Atti delle giornate di studi (Mantova, Accademia Nazionale Virgiliana, 2-3 dicembre 2011), a cura di G. Gardoni – I. Lazzarini, Roma 2013 (Nuovi studi storici, 93), pp. 185-194. 86 In un documento del 12 febbraio 1283 Gaspare e Crescius risultano fratelli; cfr. Gli atti del comune di Milano cit., III, pp. 256-257, n. 248. In un documento del 26 giugno 1283 rogato da Crescius, egli si definisce «notarius officio mallexardorum comunis Mediolani»; si veda ivi, pp. 291-293, n. 283. 87 P. Grillo, L’arcivescovo e il marchese. Un tentativo di signoria a guida aristocratica a

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I Sella appartenevano anche a quei gruppi di laici devoti, spesso facoltosi, dediti al sostegno e alla promozione di istituzioni religiose e assistenziali, per le quali prestavano il loro contributo e la loro opera in vari modi: donavano terreni, provvedevano all’acquisto di terre e immobili, amministravano lasciti e donazioni, favorivano il sorgere e il consolidarsi di nuove fondazioni88. Il loro padre Lanfranco è attestato quale frater nei documenti più antichi dell’ospedale nuovo di S. Maria a Porta Cumana89. Egli riceveva il 25 febbraio 1267 a nome dell’ente assistenziale la dedicazione di se stesse e la donazione dei beni di Madia e Allegranza, sorelle e figlie del defunto Pierino Boniperti di Porta Cumana, e l’11 febbraio 1268 la donazione da parte di Susanna, vedova di Giacomo da Cassino, di parte di un ospizio giuntole in eredità90. Ambedue gli atti furono rogati dal figlio Gaspare91. Crescius invece è legato agli Umiliati di Brera per i quali si presentò il 2 aprile 1280 in una contesa davanti al giudice dell’ufficio dei malesardi come «sindacus et procurator domus et capituli et conventus»92. I Sella quindi sembrano inseriti in quella parte della società milanese Milano (1277-1282), in Studi di Storia medioevale e di diplomatica, n. s., I (2017), pp. 89-109: 90-94. L’ufficio aveva a capo un giudice ed era composto da magistrati affiancati da alcuni notai. Su di esso si veda G. Biscaro, Gli estimi del Comune di Milano nel secolo XIII, in Archivio Storico Lombardo 55 (1928), pp. 343-495: 464-472; C. Santoro, Gli offici del comune di Milano e del dominio visconteo-sforzesco (1216-1515), Milano 1968, pp. 42-44. Sull’amministrazione della giustizia legata ai fuoriusciti si rimanda a Grillo, Milano in età comunale cit., pp. 549-556. 88 Intorno al movimento laico della penitenza molto è stato scritto negli ultimi quarant’anni a partire dai classici studi di G. G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, I, Roma 1977 (Italia sacra, 24), pp. 265-409. Rimando solo ad A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell’Italia medievale, Roma 1990 (Italia sacra, 45), pp. 17-49. Il sostegno di questi laici devoti nella fondazione di nuove comunità religiose è ben attestato per quanto riguarda il nascere e il consolidarsi del monastero delle Clarisse di Mantova. Si veda a riguardo I. Aurora, Documenti originali di Clemente IV per le Clarisse di Mantova, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae XX, Città del Vaticano 2014 (Studi e testi, 484), pp. 7-45. 89 Si tratta dell’Ospedale Nuovo, formato da una comunità ospitaliera di frati e suore che davano assistenza a poveri e malati; cfr. P. Pecchiai, L’Ospedale maggiore di Milano nella storia e nell’arte, Milano 1927, pp. 58-68; C. Toccano, Le origini dell’Ospedale Nuovo di Milano (XII secolo), in Studi di storia medioevale e di diplomatica, 15 (1995), pp. 25-42. 90 Gli atti del comune di Milano cit., II,2, pp. 526-527, n. 484; pp. 572-573, n. 514. Nel primo documento tra i testimoni vi è Mestius Sella anche lui notaio. Non abbiamo trovato notizie che lo legano a Gaspare e Crescius, ma riteniamo ciò probabile per l’identità del cognome e per la professione svolta. 91 Gaspare tuttavia rimase nel circuito dei laici che ruotavano intorno all’ente assistenziale anche dopo la morte del padre, poiché continuò a rogare atti in favore dell’Ospedale. Cfr. Pecchiai, L’Ospedale maggiore cit., p. 63. 92 Gli atti del comune di Milano cit., III, pp. 137-140, n. 126.

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di fine Duecento iscritta a fraternite laicali impegnate sul fronte sociale e religioso; certo Lanfranco viveva questa esperienza in maniera più radicale, essendo un professo nell’Ospedale Nuovo93, mentre i figli Gaspare e Crescius sembrano rimanere ai margini di questo esercizio della carità, preferendo da uomini di legge mettere a disposizione le loro competenze giuridiche, benché rivolgendosi spesso a ordini religiosi di nuova formazione quali i Predicatori e gli Umiliati94. Non sarebbe peregrina l’ipotesi di considerare la stessa Allegranza, prima o solo dopo il suo stato vedovile, vicina a tali ambienti. Nel legato testamentario è menzionato d’altronde l’ospedale del Brolo al quale, come sembra di capire nonostante la perdita di molta parte della membrana, nel caso di estinzione del monastero, passeranno per un tempo determinato alcune delle terre da lei donate alla comunità femminile. Emerge quindi dalle fonti una rete di relazioni tra il notaio Gaspare e il mondo di homines religiosi, i cui orientamenti devozionali si indirizzavano verso istituzioni assistenziali o si concretizzavano nella prossimità al dilagante movimento umiliato, ai Domenicani e ad alcune case femminili in qualche modo ruotanti intorno a S. Eustorgio. La domus dominarum que dicitur de Sancto Augustino e i Predicatori: osservazioni conclusive Se la identificazione del monastero con uno di quelli attestati dalle fonti appena analizzate appare incerta, come pure la sua esatta ubicazione, il documento del 1291 offre alcune informazioni utili per ricostruire a grandi linee le caratteristiche della casa religiosa sostenuta da Allegranza. Essa a fine Duecento sembra essere una comunità non ancora strutturata, come farebbe pensare la denominazione di domus solitamente utilizzata, indipendentemente dal tipo di organizzazione, per indicare aggregazioni di persone che fanno vita in comune ispirandosi a princìpi evangelici. L’intitolazione a S. Agostino non aiuta in tal senso, in quanto sul finire del XIII secolo molte comunità religiose femminili seguirono tale regola95 e, nella complessità del panorama religioso milanese di questo perio93 La definizione di frater per Lanfranco non allude qui, come talvolta accadeva nella documentazione notarile, allo stato di converso o di membro di una fraternita laicale, poiché egli è attestato in qualità di professo; cfr. Pecchiai, L’Ospedale maggiore cit., p. 61, nota 1. 94 Si veda Gli atti del comune di Milano cit., III, pp. 114-115, n. 104, pp. 137-140, n. 126, pp. 206-209, n. 190, pp. 589-590, n. 553, pp. 682-684, n. 644. 95 Molte comunità assunsero la regola di s. Agostino tra XII e XIII secolo per legittimare dal punto di vista normativo la loro esperienza religiosa, poiché, come ha evidenziato Guido Cariboni, «l’estrema adattabilità del preceptum agostiniano rese questo testo idoneo ad essere adottato o accordato nel corso del Duecento a un numero notevole di forme di vita religiosa

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do, risulta arduo ascrivere, con le ridotte informazioni a disposizione, la domus attestata nel 1291 a un ordine anziché a un altro96. La vita nella Milano di fine Duecento vede la crisi dell’istituzione comunale, l’ascesa di Ottone Visconti e i dissidi con gli esponenti della famiglia della Torre in un difficile gioco di eterogeni schieramenti97, e registra una situazione di conflitto nella chiesa ambrosiana98, ma è caratterizzata anche da un fermento dovuto all’attività dei nuovi ordini mendicanti, non solo in materia di predicazione e cura d’anime, poiché essi si inserirono agilmente nei meccanismi di governo della chiesa e nel tessuto politico della città; accanto a essi si annoverano le esperienze del terzo ordine, dei penitenti e, soprattutto, il movimento umiliato, un fenomeno quest’ultimo dilagante e caratterizzante l’orizzonte religioso lombardo99. Milano e la campagna circostante pullulano di case femminili definite nelle fonti umiliate, alcune di esse, anche dopo il consolidamento dell’ordine100, sono connotate nella femminile, spesso molto distanti tra loro per vocazione e identità». Cfr. G. Cariboni, Osservazioni sui percorsi normativi per le comunità religiose femminili nell’ambito dei Predicatori fino a Umberto di Romans, in Il velo, la penna e la parola. Le domenicane: storia, istituzioni e scritture, a cura di G. Zarri – G. Festa, Firenze 2009 (Biblioteca di Memorie Domenicane, 1), pp. 31-48: 37.  96 Si vedano le riflessioni di Maria Pia Alberzoni che, a partire dalle concezioni espresse da Giacomo da Vitry nella Historia Occidentalis, individua una definizione fluida del termine regola, per cui «Indicare la regola seguita non significava dichiarare la sequela in senso giuridico della stessa, ma semplicemente fornire un’indicazione circa la composizione e lo stile di vita della comunità interessata». Si veda M. P. Alberzoni, “Regulariter vivere”: le nuove forme duecentesche del monachesimo femminile, in Vita religiosa al femminile cit., pp. 13-30: 25.  97 Sulle problematiche connesse all’affermarsi di Ottone Visconti, arcivescovo di Milano, e al conflitto con i Torriani si veda Grillo, Milano in età comunale cit., pp. 667-674. Per un approfondimento sulle implicazioni simboliche nella legittimazione del potere visconteo si veda G. Cariboni, Il codice simbolico tra continuità formale e mutamento degli ideali a Milano presso i primi Visconti, in Images, cultes, liturgies. Les connotations politiques du message religieux. Actes du premier atelier international du projet Les vecteurs de l’idéel. Le pouvoir symbolique entre Moyen Âge et Renaissance (v. 1200-v. 1640), a cura di P. Ventrone – L. Gaffuri, Paris 2014 (Collection de l’École française de Rome, 485/5), pp. 93-110.  98 E. Cattaneo, Ottone Visconti arcivescovo di Milano, in La Chiesa di Ambrogio. Studi di storia e di liturgia, Milano 1984, pp. 77-116; Soldi Rondinini, Chiesa milanese e signoria viscontea cit., pp. 285-33.  99 Il fermento religioso a Milano è ben descritto da Bonvesin de la Riva che dopo aver citato i monasteri, i diversi ordini mendicanti, gli Umiliati, gli ospedali, conclude: «Quid dicam de reliquis in habitu religiosorum degentibus?»; descrivendo poi altre forme di vita come i conversi, i penitenti, gli eremiti, i reclusi e considerando il loro alto numero. Cfr. Bonvicini de Rippa, De magnalibus cit., p. 82. 100 Sulla strutturazione e il disciplinamento degli Umiliati in un ordine a partire da Innocenzo III a Gregorio IX e l’elaborazione di una regola propria e originale si veda D. Castagnetti, La regola del primo e secondo ordine dall’approvazione alla «Regula Benedicti», in Sulle tracce degli Umiliati cit., pp. 163-250; M. P. Alberzoni, Gli Umiliati. Regole e interventi papali fino alla metà del XIII secolo, in Regulae – Consuetudines – Statuta. Studi sulle fonti normative

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documentazione dall’adozione della regola di s. Agostino. Si tratta probabilmente, come aveva già osservato Luigi Zanoni101, di comunità autonome rispetto all’ordine, oppure facenti parte di un complesso di case e di ospedali ai quali, come ha sottolineato ripetutamente Maria Pia Alberzoni, veniva attribuito genericamente il nome di umiliati per indicare un genere di vita riformato a carattere pauperistico e penitenziale102. Importante ed evidente è comunque il legame tra alcune di queste comunità femminili e i Domenicani milanesi, poiché i Predicatori, come anche i Francescani, si inserirono quali confessori e procuratori in molte di esse, a partire dal monastero di S. Maria delle Vergini, ubicato nei pressi di S. Eustorgio, che sarà aggregato all’ordine domenicano a fine Trecento103. La domus destinataria del lascito di Allegranza non ritengo, infatti, sia da ascrivere agli Umiliati, almeno alla data del nostro documento. Essa non compare nei cataloghi delle case umiliate e nelle notizie a esse relative. Lo stesso Bonvesin de la Riva inoltre conteggia tra città e contado circa una sessantina di case maschili e femminili di regola agostiniana soggette direttamente all’arcivescovo di Milano104. degli ordini religiosi nei secoli centrali del Medioevo. Atti del I e II Seminario internazionale di studio del Centro italo-tedesco di storia comparata degli ordini religiosi (Bari – Noci – Lecce, 2627 ottobre 2002; Castiglione delle Stiviere 23-24 maggio 2003), a cura di C. Andenna – G. Melville, Münster 2005 (Vita regularis. Abhandlungen, 25), pp. 331-374. 101 Si veda quanto detto in L. Zanoni, Gli Umiliati nel loro rapporto con l’eresia l’industria della lana ed i comuni nei secoli XII e XIII, Milano 1911, pp. 62-63. Cfr. anche L. Sebastiani, Monasteri femminili milanesi tra medioevo e età moderna, in Florence and Milan: comparisons and relations. Acts of two Conferences at Villa I Tatti in 1982-1984, a cura di S. Bertelli – N. Rubinstein – C. H. Smyth, Firenze1989, II, pp. 3-15: 4. 102 Su queste considerazioni è tornata più volte Maria Pia Alberzoni sottolineando proprio come la definizione di umiliati non è restrittiva all’omonimo movimento religioso molto diffuso in Lombardia, ma comprensiva di numerose e non univoche esperienze religiose accomunate però da un medesimo principio di fondo. Si veda. Alberzoni, Francescanesimo a Milano cit., pp. 144-147; ead., «Religiose mulieres» e Mendicanti nella Lombardia bassomedievale, in Angeliche visioni. Veronica da Binasco nella Milano del Rinascimento, a cura di A. Bartolomei Romagnoli – E. Paoli – P. Piatti, Firenze 2016 (La mistica cristiana tra Oriente e Occidente, 26), pp. 45-70. 103 Con la lettera «Exigit honestas» del 27 maggio 1398 il pontefice confermava, secondo quanto aveva già stabilito Innocenzo IV, l’affidamento del monastero di S. Maria delle Vergini, o della Vettabbia, alla cura spirituale dei Predicatori milanesi (Bullarium Ordinis Praedicatorum, a cura di T. Ripoll, II, Roma 1720, pp. 374-375, n. 104). Nella stessa data fu inviata un’altra lettera al monastero di S Maria delle Veteri in cui si ufficializzava il loro legame spirituale con i medesimi Predicatori, i quali avrebbero dovuto celebrare i sacramenti per le sorores (ivi, p. 375, n. 105). Ringrazio Sylvie Duval per avermi segnalato i documenti. Analoga situazione si verificò per la domus di S. Maria di Cantalupo: essa di regola agostiniana fu seguita stabilmente dai Minori milanesi; cfr. Alberzoni, Francescanesimo a Milano cit., pp. 135-138. 104 «Sunt preterea utriusque sexus alie domus de beati Augustini ordine, archipontificis

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Tali circostanze suggeriscono l’ipotesi che le sorores di S. Agostino menzionate nell’atto notarile di fine XIII secolo costituissero una comunità a regola agostiniana sottoposta all’arcivescovo e affidata, per l’aspetto di cura d’anime, ai Predicatori105, senza per questo essere incorporata all’ordine106, così come aveva registrato Bernard Gui, all’inizio del XIV secolo, per i nove monasteri femminili milanesi. Nel paesaggio estremamente flui­ do e in rapida e continua mutazione delle scelte religiose femminili caratterizzanti il Duecento lombardo non è infatti possibile inserire la casa di S. Agostino entro ambiti istituzionali univoci e consolidati107, considerando inoltre come le relazioni intrattenute dalle singole comunità femminili con i Predicatori erano distintive, in quanto spesso interessavano, come ha tantum protectioni vel aliquorum de ipsius commissariorum licentia subdite, procul dubio sexaginta». Cfr. Bonvicini de Rippa, De magnalibus cit., p. 82. 105 Risale a Domenico e ai suoi compagni l’impegno nella cura monialium come attesta la storia delle due principali comunità femminili a questi legate, S. Maria di Prouille e S. Sisto a Roma, benché alla morte del fondatore il problema della cura spirituale delle comunità femminili e della loro integrazione fu molto dibattuto in seno all’ordine fino a non trovare consensi. Tra i numerosi studi riguardo le relazioni contrastate tra le sorores e l’ordine dei Predicatori rimando a G. Cariboni, Domenico e la vita religiosa femminile. Tra realtà e finzione istituzionale, in Domenico di Caleruega e la nascita dell’Ordine dei frati predicatori. Atti del XLI Convegno storico internazionale, Todi, 10-12 ottobre 2004, Spoleto 2005 (Atti dei convegni del Centro italiano di studi sul Basso Medioevo-Accademia Tudertina, 18), pp. 327-360. Su questo tema si veda di recente S. Duval, Les Dominicains et les femmes (fin du Moyen Âge-début de l’époque moderne), in Les Dominicains en France (XIIIe-XXe siècle). Actes du colloque international organisé par l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres et la Province dominicaine de France pour le VIIIe centenaire de la fondation de l’ordre des Prêcheurs par saint Dominique, a cura di N. Bériou – A. Vauchez – M. Zink, Paris 2017, pp. 21-38. 106 Un puntuale riesame delle difficili e complesse vicende che segnarono nel Medioevo il percorso per l’integrazione all’ordine domenicano delle comunità femminili e della valenza di una formula che identifica queste sorores come «moniales ordinis Sancti Augustini sub cura et secundum instituta fratrum Praedicatorum», accomunando quindi la regola di s. Agostino alla cura e instituta dei Predicatori si trova nello studio di S. Duval, «Comme des anges sur terre». Les moniales dominicaines et les débuts de la réforme observante, 1385-1461, Roma 2015 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 366), pp. 29-53. Si veda anche M. P. Alberzoni, L’Ordine dei Predicatori e la vita religiosa femminile fino al generalato di Giordano di Sassonia, in L’Ordine dei Predicatori. I Domencani: storia, figure e istituzioni (12162016), a cura di G. Festa – M. Rainini, Roma-Bari 2016, pp. 304-324. 107 Un esempio di tale situazione in divenire è offerto dalle vicende del monastero femminile di S. Agnese di Milano. Esso di regola agostiniana, definito talvolta nelle fonti umiliato, dopo aver intrattenuto stretti rapporti con i Minori, si pose poi all’inizio del XIV secolo nell’orbita dei Domenicani di S. Eustorgio. Su di esso si veda Alberzoni, Francescanesimo a Milano cit., pp. 146-148, 154. Per la condizione in continua trasformazione e difficilmente inquadrabile del movimento religioso femminile il riferimento è a H. Grundmann, Movimenti religiosi nel Medioevo. Ricerche sui nessi storici tra l’eresia, gli ordini mendicanti e il movimento religioso femminile nel XII e XIII secolo e sui presupposti storici della mistica tedesca, II ed., Bologna 1980, pp. 193-293.

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sostenuto Guido Cariboni, «non tanto la sfera delle strutture istituzionali, quanto piuttosto quella dei rapporti personali»108. Benché le fonti disponibili non permettano al momento di conoscere nel dettaglio le modalità in cui si dispiegarono i rapporti tra la comunità e i frati di S. Eustorgio, l’atto notarile del 1291 dimostra, senza ombra di dubbio, l’esistenza di una interrelazione tra Allegranza, le religiose della domus e i Domenicani milanesi, con una particolare preferenza per frate Enrico. Le condizioni imposte da Allegranza a fronte del lascito legavano per il futuro le sorores ai Predicatori, non solo in quanto la priora e il convento avrebbero dovuto versare annualmente a frate Enrico la somma destinata a uso di elemosina, ma principalmente perché esse erano tenute, per dichiarata volontà della testatrice, a dare ospitalità ai Predicatori di passaggio chiedenti ricovero e a provvedere alle loro necessità secondo le possibilità economiche della casa. La clausola fu inserita con molta probabilità sulla scorta di un’esperienza concreta e pregressa, per cui la comunità di S. Agostino si era trovata ad accogliere frati dediti alla predicazione. Questa indicazione, per così dire topografica, derivante dall’obbligo di ospitare i frati «transeuntes per illas partes» potrebbe far propendere per una ubicazione della domus a Nova Milanese ma, in assenza di altre attestazione a suffragio, l’ipotesi non può essere confermata, in quanto essa avrebbe potuto sorgere fuori Porta Nuova e quindi nell’immediato suburbio. Nell’eventualità poi dell’estinzione del conventus dominarum tutte le terre donate sarebbero pervenute ai Predicatori milanesi di S. Eustorgio, in modo da garantire benefici spirituali alla testatrice e ai suoi parenti. Alla fine del Duecento quindi la «domus que dicitur de Sancto Augustino» non aveva una definita appartenenza giuridica a un ordine religioso e si presentava agli occhi di Allegranza come una struttura poco solida e incerta, tanto da giustificare le sue preoccupazioni intorno alla destinazione finale delle terre donate109. Si delinea pertanto un gruppo di donne le quali, forse sulla scia della pastorale mendicante, avevano costituito, ispirandosi agli ideali innovativi della vita regolare, un conventus di difficile definizione istituzionale e per questo affidato alla giurisdizione vescovile. Esse vivevano la loro tensione alla perfezione spirituale disciplinate dalla ‘universalizzante’ regola agosti-

108 Cariboni,

Domenico e la vita religiosa cit., p. 348. costruzione di una identità presso le più antiche comunità religiose femminili gravitanti intorno ai Predicatori era strettamente connessa al difficoltoso processo di incorporazione all’ordine. Su questa tematica si veda il contributo di G. Cariboni, Problemi d’identità. Le prime comunità femminili legate ai Predicatori tra distinzione e appartenenza, in Revue Mabillon, n. s. 20 (2009), pp. 151-172. 109 La

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niana110, intesa più come principio caratterizzante uno stile di vita assunto, che come una norma111, e si erano trovate a gravitare alla fine del XIII secolo intorno ai frati predicatori. Se poi la comunità continuò a sussistere e se ci fu una sua successiva acquisizione nell’area istituzionale mendicante, ciò è consegnato, per ora, all’oblio. La domus di S. Agostino beneficata da Allegranza si inserisce quindi nelle numerose e diversificate comunità, sorte nelle città e nei borghi, in cui si declinavano le scelte religiose e penitenziali femminili, indicative di una realtà sociale permeabile ai principi pauperistici diffusi dai Mendicanti e capaci di tradurli in forme nuove di vita consacrata, in grado di rispondere al fermento spirituale e devozionale ma anche ai cambiamenti culturali ed economici della società urbana di XIII secolo.

110 L’aggettivo

è tratto da Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae» cit., p. 105. a G. Melville, Regeln – Consuetudines-Texte – Statuten. Positionen für eine Typologie des normativen Schrifttums religiöser Gemeinschaften im Mittelalter, in Regulae – Consuetudines – Statuta cit., pp. 5-38; inoltre ai contributi raccolti nel volume Regula Sancti Augustini. Normative Grundlage differenter Verbände im Mittelalter, a cura G. ­Melville – A. Müller, Paring 2002 (Publikationen der Akademie der Augustiner-Chorherren von Windesheim, 3). 111 Rimando

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APPENDICE Milano, chiesa di S. Eustorgio, 1291 novembre 25, domenica Allegranza, vedova di Aicardo di Bellusco cittadino di Milano, istituisce un legato testamentario in favore della priora e della comunità di S. Agostino lasciando loro, a fronte di alcune condizioni, quattro appezzamenti di terre, ubicati nel territorio di Nova Milanese e nominativamente elencati. Originale: Biblioteca Apostolica Vaticana, Pergamene Patetta, busta 2, n. 2 [A]. Sul verso in alto al centro di mano del XVIII secolo: «1291 25 novembre»; sotto di altra mano moderna: «VU». La pergamena misura mm 405 × 370 e si presenta in cattivo stato di conservazione: l’umidità ha determinato la caduta della parte destra della membrana con la conseguente perdita di grande parte dello scritto; sono evidenti tre fori dovuti a difetti di concia. È visibile, solo in corrispondenza delle prime sei righe di scrittura, la rigatura per le ventotto linee rettrici, separate da uno spazio interlineare (UR) di mm 12. Sono ancora parzialmente visibili nel margine sinistro e in quello superiore e inferiore le linee tracciate per squadrare, e successivamente rifilare, il foglio di pergamena; mentre non sono più visibili le linee di giustezza. Sul recto è incollato un talloncino di carta di colore arancio, che identifica la membrana come facente parte di una collezione privata: «Collezione autografi e manoscritti di proprietà del dottor Giovanni Larghi, Torino, n. 912».

(SN) In nomine Domini. Anno a nativitate eiusdem millesimo ducentesimo nonagesimo primo, die dominico vigesimo quinto mensis novem[bris … Ego in] | Dei nomine Alegrantia, relicta quondam Aycardi de Beluscho civitatis Mediolani, sana mente et corpore volens potius in sanitate quam in […] | et infradicta mea bona disponere, infradicta legata et iudicata facere procuravi, salvis et reservatis omnibus aliis testamentis et ordinamentis e[…] | factis. In primis statuo et ordino quod a presenti die et hora post meum decessum priora et conventus domus dominarum que dicitur de Sancto Aug[ustino …..] | Nova nomine ipsius domus seu ipsa domus habeant et habere debeant de meis bonis infrascriptas petias terre quas habeo in territorio loci de Nova, quarum [prima est] | campus iacens ubi dicitur ad puteum, cui est a mane strata de Mediolano, a meridie Anrici Bassani et fratrum, a sero Danixii Ferrarii, a monte Girardi de Fossato et in parte [……….] | Agathe1 et in parte Belloti ************ et est pertice tredecim. § Secunda petia est vinea iacens prope locum a capite inferioria, cui est a a

Così A.

1 Potrebbe trattarsi di terreni appartenenti alla chiesa di S. Agata di Desio, citata già nel Liber composto nella seconda metà del XIII secolo e attribuito allo pseudo Goffredo da Bussero; cfr. Goffredo da Bussero, Liber notitiae sanctorum Mediolani cit., col. 25 D. Cfr. anche Vigotti, La diocesi di Milano cit., p. 203.

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mane Girard[i …], | a meridie via, a sero et a monte dicte domine et est pertice quinque minus pedibus duobus vel id circa. § Tertia petia iacentb ubi dicitur ad spinum […], | a meridie similiter, a sero Valentis Liprandi, a monte consuevit esse Arderici Bassiani et modo est dicte domine et est pertice quinque et tabule sep[tem … § Quarta] | petia iacet ibidem, cui est a mane fratrum de Dugnano, a meridie Pagani de Bassianis et fratrum, a sero Valentis Liprandi2, a monte Filipi Liprandi et est per[tice …] | quatuordecim. Et ipsas terras ipsi domui lego et iudico pro remedio et mercede anime mee et animarum meorum ascendentium et descendentium et omnium meorum mort[uorum …] | hac conditione et modo et ut infradicta observentur per prioram et conventum dicte domus videlicet quod post meum decessum dent et solvant omni anno fratri A[nrico de] | Nova ordinis Predicatorum conventus Mediolani libras septem tertiollorum in festo Sancti Martini ut eas distribuat et dispensetc ille frater Anricus illis person[is …] | in secretum dixi; ita tamen quod per hoc nullum ius acquiratur ordini Predicatorum nec dicto conventui Predicatorum Mediolani. Item volo et ordino […] | dictarum dominarum dent et solvant omni anno in eodem termino Sancti Martini post meum decessum Casteline servienti mee quousque vixerit ipsa […] | anime mee libras quinque tertiollorum in denariis numeratis et starium unum pisti de millio et si dicta Castellina decederet ante ipsum fra[trem …] | quod ipsas libras v(idelicet) quinque t(ertiollorum) dent et solvant eidem fratri Anrico omni anno quousque vixerit in dicto termino ut eas libras quinque […] | septem tertiollorum dispenset et distribuat prout superius dictum est cum predictis libris septem tertiollorum. Item volo et ordino quod prio[ra et sorores et conventus dicte]d | domus recipiant in ipsa domo fratres Predicatores transeuntes per illas partes et quod eis subveniant secondume facultatem dicte do[mus … reme]|dio et mercede anime mee et quondam Belvixie sororis mee. Item volo et ordino quod si dicta priora et sorores et conventus dicte domus cessarent […] | quantitatum vel alicuius earum per mensem unum post dictum terminum aliqua vice quod eo iure et facto predicte terre perveniant in magistrum […] | hospitalis de Brolio ipsis solventibus predicta eo modo ut dictum est. Item volo et ordino quod si contingeret quod conventus dictarum dominarum a[… ]|teretur quod predicte omnes terre perveniant in conventum fratrum Predicatorum Mediolani. Et illo casu adveniente b Così A, con l’aggiunta di un segno abbr.  c –se- corretta su –da-  d Integrerei in tal modo, sulla base della locuzione utilizzata dal notaio al ventesimo rigo e su una stima approssimativa della percentuale di pergamena andata persa.  e Così A.

2 Valens Liprandi è attestato come proprietario di una cassina, cfr. Gli atti del comune di Milano cit., III, pp. 538-548, n. 523: 546.

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ISABELLA AURORA

ex nunc pro ex tunc ipsas omnes terras […] | ipsi conventui pro remedio et mercede anime mee et omnium meorum ascendentium et descendentium, quia sic decrevit ultima mea voluntas. Et pre[…] | valleref omni iure quo melliusg vallere possunt salvis et reservatis, ut superius dictum est, omnibus testamentis et ordinamentis et legatis […] | retro s(criptis) per me factis. Actum in ecclesia Sancti Eustorgii Mediolani. Interfuerunt ibi testes Guilelmus filius Amizonis Pavari3 et Ambroxius filius quondam […] | parochie Sancte Marie ad Circulum4 et Acursus filius quondam Iacobi Hombene5 parochie Sancti Duminii ad Maziam6 et Bassanus filius quondam Io[…] | et Martinus filius quondam Alberti de Zermagniaga ambo de parochia Sancti Laurentii Maioris7. (SN) Ego Gasparrus filius quondam Lafranci Selle c(ivitatis) M(ediolani) notarius tradidi et subscripsi8. (SN) Ego Cabrius filius quondam domini Filipi Boffe notarius civitatis Mediolani Porte Ticinensis iussu suprascripti notarii scripsi h 9.  

f

Così A, qui e subito dopo. 

g

Così A. 

h

 

-si in caratteri maiuscoli intrecciati tra loro.

3 Guilelmus

filius Amizonis Pavari era un notaio e abitava nel quartiere di Porta Ticinese. Egli sottoscrisse un atto di vendita al monastero di S. Maria della Vettabbia rogato dal notaio Gaspare Sella il 24 novembre 1291 (Martellini, Le pergamene delle abbazie cit., p. 71, n. 239) e fu presente in qualità di teste in un altro atto rogato da Gaspare consistente in una donazione al convento dei frati Minori milanesi (Gli atti del comune di Milano cit., III, pp. 682-684, n. 644). 4 La chiesa di S. Maria ad Circulum era così denominata in quanto era ubicata sull’antico circo romano; cfr. S. Latuada, Descrizione di Milano cit., IV, pp. 22-44, n. 129. 5 Acorsius Hombene è attestato in un atto del 4 agosto 1295; cfr. Gli atti del comune di Milano cit., III, p. 697, n. 659. 6 La chiesa di S. Donnino alla Mazza era ubicata presso Porta Nuova e fu soppressa nel 1787; cfr. C. Torre, Il ritratto di Milano diviso in tre libri, Milano 1674, p. 291; Latuada, Descrizione di Milano cit., V, pp. 382-384, n. 241; M. David, La «Cronica extravagans de antiquitatibus civitatis Mediolani» di Galvano Fiamma. Linee metodologiche per una nuova edizione critica, in Le cronache medievali di Milano, a cura di P. Chiesa, Milano 2001, pp. 89-100: 92. 7 Sulla basilica di S. Lorenzo Maggiore si veda “Non esiste in tutto il mondo una chiesa più bella”. Conoscere, valorizzare e divulgare il patrimonio di San Lorenzo Maggiore a Milano, a cura di S. Lusuardi Siena – E. Neri, Milano 2016. 8 Su Gasparrus Selle si veda supra pp. 17-20. 9 Il notaio Cabrius filius Filipi Boffe scrisse anche una donazione in favore del monastero di S. Maria della Vettabbia rogata da Gaspare Sella. Cfr. Gli atti del comune di Milano cit., IV, pp. 469-471, n. 529. Apparteneva a una famiglia notarile, come egli stesso attesta in un atto del 21 aprile 1290 con il quale è autorizzato a redigere in pubblica forma un’imbreviatura del nonno Rodolfo; cfr. ivi, p. 451, n. 512.

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FAR RIVIVERE AMBROGIO DI MILANO: LE OMELIE DEL CARDINALE FEDERICO BORROMEO (1564-1631) NELLA FESTA DEL SUO SANTO PREDECESSORE 1. Federico Borromeo e Sant’Ambrogio È ben stato messo in luce da Cesare Alzati, alcuni anni or sono1, come la chiesa di Milano almeno dal secolo IX si sia data la denominazione di Ambrosiana Ecclesia. Pur non essendo stato il primo annunciatore del vangelo a Milano, infatti, Ambrogio ha così profondamente configurata e caratterizzata la comunità cristiana locale — oltre a giocare un ruolo di primo piano nel contesto dei rapporti tra la chiesa e l’impero nel IV secolo —, da guadagnarsi il titolo di apostolus2 della chiesa di Milano, oltre a rivestire una posizione unica nella venerazione e nell’autocomprensione del clero e del popolo milanesi. Non è semplice descrivere il reale contenuto e significato di quel fenomeno storico che prende il nome di “Tradizione ambrosiana”. Certamente possiamo riconoscere in essa due aspetti: da un lato lo stesso Ambrogio, ovvero il suo carattere, le sue azioni e la sua personalità, che permangono anche grazie alla presenza a Milano della sua sepoltura, da sempre riconosciuta come prova della sua “presenza viva” tra i suoi fedeli; in secondo luogo, il corpus dei suoi testi e del suo magistero, in cui possiamo riconoscere quali tratti salienti la dottrina cristologica e trinitaria contro gli Ariani, l’etica personale e sociale contenuta nel De officiis ministrorum, i commentari biblici a carattere allegorico e morale, la teologia politica e l’eredità liturgica e poetica degl’Inni a lui ascritti. Nel percorso compiuto dall’Alzati3, volto a investigare il senso profondo 1 C.

Alzati, Il lezionario della Chiesa ambrosiana. La tradizione liturgica e il rinnovato “ordo lectionum”, Città del Vaticano-Milano 2009 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica, 50). Per questo aspetto cfr. pp. 5-6 e in particolare le ntt. 8-9. 2 Per questo appellativo cfr. ibid., p. 5 e nt. 6. 3 Oltre al titolo già indicato supra alla nt. 1, è doveroso menzionare almeno due altri volumi. In primo luogo una raccolta di studi: C. Alzati, Ambrosiana Ecclesia. Studi su la Chiesa milanese e l’ecumene cristiana fra tarda antichità e medioevo, Milano 1993 (Archivio Ambrosiano, 65); in questo volume si veda in particolare il saggio: id., Chiesa Ambrosiana e tradizione liturgica a Milano tra XI e XII secolo, pp. 255-80. Inoltre segnaliamo: id., Ambrosianum Mysterium. La Chiesa di Milano e la sua tradizione liturgica, Milano 2000 (Archivio

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della tradizione ambrosiana, emerge come tesi fondamentale quella per cui la Tradizione ambrosiana non coincide unicamente con le vicende di una Chiesa locale che si caratterizza per mezzo di un rito liturgico proprio, con tutte le sue ricche e variegate caratteristiche (santorale, ordo lectionum, eucologia, spiritualità), bensì consiste in un modello ecclesiologico e in un’autocoscienza della sollicitudo omnium ecclesiarum che ha tratti peculiari, e il cui valore per tutta la cristianità può essere riscoperto come un prezioso aiuto alla ricomprensione delle tradizioni orientale e occidentale4. Nonostante questi e simili approfondimenti, preziosi e fondamentali, la valutazione della tradizione ambrosiana è ancora ben lontana dall’essere esaustivamente compiuta: una simile operazione, infatti, richiederebbe l’esplorazione di tutte le epoche e di tutti i campi di interesse, al fine di riconoscere l’influsso della figura di Ambrogio in tutte le sue diverse sfumature. Il presente saggio si colloca come tessera di un mosaico in questa prospettiva più ampia, dal momento che si prefigge lo scopo di lumeggiare il ritratto di Ambrogio così come esso fu dipinto e pubblicamente presentato all’inizio del XVII secolo dal Cardinale Federico Borromeo. Membro di una delle più importanti casate nobiliari di Milano e cugino di Carlo Borromeo, Federico venne scelto come Arcivescovo di Milano da Papa Clemente VII nel 1595 e resse la diocesi fino alla morte, avvenuta nel 1631. Famoso umanista, creò e mantenne una rete europea di corrispondenti e amici tra i quali si annoveravano filosofi, teologi, letterati ed artisti. Nel 1609 aprì al pubblico la Biblioteca Ambrosiana, immediatamente riconosciuta tra le più importanti a livello europeo. Grazie all’ampia e profonda cultura di Federico Borromeo e al rifiorire di una vita artistica e culturale di livello internazionale a Milano che egli promosse all’inizio del XVII secolo, possiamo accostarci con fiducia alle testimonianze del suo magistero che hanno a tema Sant’Ambrogio. Effettivamente, Federico sembra aver impersonato in pienezza lo “spirito ambrosiano”, sia per quanto riguarda la vita ecclesiale, sia nella connessione con la società civile.

Ambrosiano, 81); di questa raccolta si vedano in particolare i capitoli I (Chiesa milanese e tradizione di Ambrogio); II (Liturgia – rito – mysterium); VI (Da Ambrosianum mysterium a ‘rito ambrosiano’). 4 Per questo aspetto cfr. l’ampio saggio: C. Alzati, La fondazione apostolica delle Chiese latine. La specificità milanese, in id. Ambrosiana Ecclesia cit., pp. 131-184. Di particolare importanza le pp. 146-153 e 173-184.

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2. Le omelie su S. Ambrogio: un corpus Federico Borromeo, seguendo l’esempio del cugino Carlo e l’indicazione che era stata autorevolmente proposta (senza tuttavia venire applicata ovunque in modo uniforme) dal Concilio di Trento5, era solito predicare sovente ai fedeli durante le celebrazioni eucaristiche. Negli ultimi anni della sua vita, pertanto, egli decise di rivedere e preparare in prima persona per la pubblicazione molte delle proprie omelie, come egli stesso dichiarò nel suo scritto Meditamenta litteraria6, nel quale, riprendendo e commentando la propria produzione letteraria, descriveva il proprio itinerario intellettuale e spirituale. I sermoni federiciani furono pubblicati per la prima volta a Milano in dieci libri apparsi dal 1632 (l’anno successivo alla morte del Borromeo) al 1646, quando il volume che contiene le omelie rilevanti per la nostra ricerca fu edito In Milano per Dionisio Gariboldi, come recita il frontespizio7. Questa ampia collezione, che vide la luce non prima di un lungo lavorio di rielaborazione e risistemazione8, copre l’arco temporale di tutto l’episcopato di Federico, e — come egli stesso afferma — in essa non sono 5 Cfr. Concilium Tridentinum Sessio V, Decretum secundum: super lectione et praedicatione, 9 [in: Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo – G. L. Dossetti – P.-P. Joannou – C. Leonardi – P. Prodi, Bologna, EDB 1991, p. 669]: «Quia vero christianae rei publicae non minus necessaria est praedicatio evangelii quam lectio, et hoc est praecipuum episcoporum munus: statuit et decrevit eadem sancta synodus, omnes episcopos, archiepiscopos, primates et omnes alios ecclesiarum praelatos teneri per se ipsos, si legitime impediti non fuerint, ad praedicandum sanctum Iesu Christi evangelium». Su questo tema si veda il volume, fondamentale per l’opera federiciana di cui ci stiamo occupando: M. Giuliani, Il vescovo filosofo. Federico Borromeo e I sacri ragionamenti, Firenze, Olschki, 2007. In particolare, per il background storico dell’omiletica di Federico Borromeo, cfr. pp. V-XIX. 6 Abbiamo due edizioni a stampa di quest’opera: Federici Cardinalis Borromaei Archie­ pisc[opi] Mediolani Meditamenta litteraria, Milano 1619, pp. IV+74, e: Federici Borromaei Cardinalis, et Archiepiscopi Mediolani Meditamenta Litteraria, s. l. 1633, pp. 160 + 22. Della raccolta delle sue orazioni il Borromeo parla nella prima edizione alle pp. 5-12 e nella seconda parimenti alle pp. 5-12. Il capitolo tuttavia muta il titolo e parte del testo: nel primo caso abbiamo Commentaria Concionum Volumina Quinque, mentre nel secondo troviamo Sacrarum Concionum Volumina Decem. 7 F. Borromeo, I sacri ragionamenti di Federico Borromeo cardinale, ed arcivescovo di Milano, Fatti nelle solennità del Signore, della Vergine, de’ Santi, e nel tempo della pestilenza; E variamente, secondo che nel titolo di ciascun Volume si vede, disposti. Volume Sesto, Settimo, Ottavo, Nono, e decimo, Milano, Dionisio Gariboldi, 1646. 8 Queste informazioni, oltre che dalle succitate edizioni a stampa dei Meditamenta Litteraria (soprattutto nella versione del 1633) nella loro redazione latina, si possono trarre dal primo volume delle omelie federiciane (F. Borromeo, I sacri ragionamenti sinodali di Federico Borromeo cardinale, ed arcivescovo di Milano. Volume Primo, Milano 1632), che nelle prime pagine (III-IX non numerate) riporta la versione italiana del capitolo corrispondente dei Meditamenta Litteraria nell’edizione 1633, con il titolo: Il consiglio ed il pensiero dell’Autore, tolto dal libro intitolato Meditamenta Litteraria (di seguito: Il consiglio). In esso si legge: «io…

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state pubblicate se non omelie effettivamente pronunciate, di cui successivamente si decise la pubblicazione9. Questa annotazione è preziosa, perché conferisce alla raccolta il valore quasi di una summa del pensiero federiciano destinato alla comunicazione pubblica di carattere pastorale; oltre a ciò, il valore di questi scritti viene indicato da Federico nel fatto che essi testimoniano fedelmente il suo pensiero e la sua onestà intellettuale10. Nelle sue omelie Federico menziona abbastanza sovente Sant’Ambrogio11; tuttavia, solo i sermoni predicati in occasione della festa del 7 dicembre saranno oggetto del nostro studio, poiché negli altri casi la menzione si limita per lo più alla sola citazione del nome. Abbiamo così, per la nostra ricerca, una base di dati consistente in dodici sermoni giunti fino a noi e aventi come soggetto la figura di Sant’Ambrogio, pubblicati nel quarto volume edito nel 1646, contenente i libri da 6 a 10, e precisamente: le prime dieci omelie nel libro 6, l’undicesima nel libro 7, la dodicesima nel libro 8. Eccone di seguito l’elenco e i titoli12:   1. Degli splendori delle sue ceneri, e della reverenza che a quelle portar dobbiamo [p. 55].   2. Delle grandezze e delle glorie di questo Pastore [p. 59].   3. Quali siano state le sue propie grandezze [p. 62]. non professava di scrivere perfette orationi, ma solamente di raccogliere le cose più principali da me insegnate al popolo per suo spirituale ammaestramento» (p. IV non numerata).   9 Cf. Il consiglio, p. III (non numerata): «Quando io diedi principio a metere in iscrittura quelle cose, che dette io hauea in pergamo…»; ibid., p. VIII (non numerata): «… proposi meco medesimo di ordinargli altramente [i sacri ragionamenti], e di disporgli a mano a mano secondo l’ordine de’ tempi, ne’ quali fatti da me furono, e recitati…». 10 Sempre nell’introduzione al volume del 1632 citato supra, nt. 8 (Il consiglio…) si legge (p. VIII non numerata): «Sarà perciò carico altrui l’esaminar diligentemente tutte le parti di essi componimenti, ed il vedere […] se oltr’a ciò quivi risplende la gratia e leggiadria, la piaceuolezza, la dolcezza, la chiarezza, e la nobiltà così delle cose, come delle parole; e se in somma vi apparisce vna certa verità dell’oratione, con la quale dimostri l’oratore di sentir veramente così appunto, come egli dice». Cfr. anche il c. II del già citato Giuliani, Il vescovo, pp. 31-52, nel quale si mostra l’intento pedagogico ed esemplare del Borromeo nel conservare e dare alle stampe le proprie omelie. 11 In Giuliani, Il vescovo, pp. 326-327 si trova l’elenco dei Padri citati da Federico, con l’indicazione del numero delle menzioni nell’edizione a stampa dei Sacri Ragionamenti. Compare al primo posto Giovanni Cristostomo (101 citazioni) seguito da Origene (72), Agostino (59), Clemente Alessandrino (58), Gregorio di Nazianzo (49), Basilio (36), Tertulliano (35), Giustino Martire (26), Cipriano (24), Gerolamo (24) e, finalmente, all’undicesimo posto, Ambrogio, con 21 ricorrenze. 12 I numeri di pagina tra parentesi quadra si riferiscono alla succitata (vedi supra, nt. 7) edizione del 1646 de I sacri ragionamenti. D’ora in poi le citazioni da queste omelie saranno connotate come SR (= Sacri Ragionamenti) seguiti dal numero progressivo qui indicato nell’elenco e dalla pagina del volume a stampa.

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  4. Che i Santi, e spetialmente Ambrosio, guerreggiando col Mondo, sempre lo vinsero [p. 65].   5. Dimostrasi la invitta costanza d’Ambrosio nel prohibire all’Imperadore l’entrata nel tempio [p. 69].   6. Dalla humile confessione, che al zelante Pastore fa l’Imperatore Teo­dosio, vinta rimane l’empia ragione di Stato, [p. 72].   7. Che egli fù grande in terra e grande in Cielo [p. 78].   8. Divina, e non humana, esser stata la elettione di Ambrosio alla Pastoral dignità, dimostrasi dalla pueril voce udita nel tempio [p. 84].   9. Studia di vincere il generale amore del popolo, che eletto l’havea per suo Pastore [p. 91]. 10. Tenta nuove arti per fuggire il Pastorale uficio [p. 98]. 11. Che nella vita di Ambrosio, si come anche in quella di tutte le persone giuste, accoppiate co’ divini favori si videro sempre le afflittioni: e che queste furono da lui con intrepido cuore sostenute [p. 232]. 12. Che le fiere battaglie date al santo pastore lo rendessero vie più glorioso; e ch’etiandio al presente non mancano a’ christiani le loro battaglie [p. 299]. Nessuno dei sermoni porta nel testo a stampa l’indicazione dell’anno in cui fu predicato, e solo nel caso delle due ultime omelie possiamo conoscerne la data (rispettivamente il 1619 e il 1621), grazie alla testimonianza dei relativi manoscritti13. Tuttavia, grazie ai frequenti riferimenti incrociati presenti all’interno dei testi e al fatto che lo stesso Federico segnala le connessioni tra i sermoni a partire dal loro contenuto tematico, possiamo stabilire con buone ragioni la loro cronologia assoluta e relativa. Ecco dunque gli indizi di tali relazioni. Innanzitutto notiamo come Federico inizi il settimo sermone della serie pubblicata con queste parole14: (SR 7, p. 78) Questa è la settima volta, che salito io sono in questo pergamo per parlarvi del glorioso nostro Ambrosio, o figliuoli; ed altrettante volte appunto hò sparsa con le mani della mia lingua la semente delle laudi di lui sopra i vostri cuori. Laonde sarebbe dovere, che io al presente fossi qua venuto, non per seminare, ma per raccogliere; e per vederne il campo ripieno, ed ondeggiante e maturo; e per mietere le spighe, e ragunare ed ammassare il grano; e per allegrarmi con esso voi, Sicut qui laetantur in messe (Is. 9,315). Ne 13 Cfr.

il manoscritto della Biblioteca Ambrosiana F 16 inf, rispettivamente ff. 98r-99r e 79r-80r. Vedi Giuliani, Il vescovo, pp. 384-385 e p. 371. 14 I corsivi sono nostri. 15 I testi biblici sono tutti citati dalla c.d. Vulgata Clementina: Biblia Sacra Vulgatae editio-

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di certo, havendo riguardo al mio debole ingegno, havrei che dirvi al presente, che prima sentito non haveste, se non fosse, che i Santi, quantunque sieno divini Cieli, hanno con tutto ciò gran simiglianza con la terra in quello, che hora sentirete. Ella quanto più è coltivata, tanto più divien feconda: ed i Santi parimente, quanto più le loro operazioni si considerano, e si vanno solcando co’ nostri pensieri, tanto più fecondi appariscono, e tanto più fruttuoso si dimostra quel campo.

Possiamo dunque a buon diritto ritenere che i primi sette sermoni siano stati predicati in anni consecutivi, mentre quelli dall’ottavo al decimo sono connessi tra di loro da riferimenti incrociati. Nella nona omelia troviamo, ad esempio, un riferimento al soggetto della precedente che la indica come successiva di un anno all’ottava della serie: (SR 9, p. 91) Molte cose, o Milano, io dissi l’altro anno in questo giorno, ed in quest’hora, di quella voce fanciullesca, che da Dio venne destinata per rivelare i segreti dell’eterno volere, e che prima cagione ed origine fù di questo nobile combattimento, del qual’hora, a fine di manifestarvi nel miglior modo, che per me sia possibile, come seguisse, io pur per tal modo prendo a ragionare.

E nel decimo sermone leggiamo: (SR 10, pp. 99-100) Molti di voi raccordar si potranno di quel sì strano avvenimento, del quale in questo luogo l’anno passato trattai, cioè di quel tribunale, che attorniato era di malfattori, ed altresì di quelle pene, e di que’ tormenti, co’ quali essi, havendosi riguardo all’apparenza, senza il debito ordine della giustitia venivano in veduta d’ognuno duramente puniti.

La connessione tra l’ottava omelia e le precedenti è assicurata dal fatto che in essa troviamo una menzione del tema relativo alla Ragione di Stato, che ricorda la presenza del medesimo tema nel sesto Ragionamento16. nis, Romae, Ex Typographia Apostolica Vaticana 1592. 16 Cfr. SR 8, p. 89: «Da questo miracoloso avvenimento, se sottilmente il tutto vorrassi riguardare, potrete voi di leggieri comprendere, quanto si compiaccia Iddio di biasimare con sì fatti successi le opere, le parole, ed i pensieri di coloro, i quali solamente con le false ragioni politiche da essi chiamate Ragioni di stato, se, e gli altri ammaestrano, e governano. E dove sono in questa improvvisa elettione di Ambrosio le arti humane, e gli astuti consigli per rendersi favorevole il popolo, e per addolcire gli animi inaspriti, e per antivedere, e tor via gl’ impedimenti che soprastar potevano? Chi di voi potrà quivi ritrovare le amicitie de’ grandi, ed il favore de’ ricchi, e le parentele, e le promesse, e le autorità, e la Gratia de’ Principi terreni?» e SR 6, p. 73: «Ma se parliamo di quella perversa ragione pur’allhora dal volgo ignorante contra ogni dovere chiamata Ragione di Stato, quando altri, da cieca passione guidato, così nel maneggio delle cose private, come delle pubbliche de’ grandi Signori, dal diritto sentiero delle sacre leggi travia, certa cosa è, che essa da niun confine vuol’esser circoscritta, ma ne’ fatti d’ognuno, e con diverse occasioni volentieri si và maliziosamente mescolando».

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Anche negli ultimi due sermoni — per i quali abbiamo precisi riferimenti cronologici — possiamo trovare delle annotazioni del Borromeo che li collegano alle omelie precedentemente predicate. Nell’undicesima, ad esempio, troviamo un riferimento al tema principale delle omelie seconda, terza e settima, ovvero l’elezione episcopale di Ambrogio e le circostanze di essa, e l’esplicita affermazione da parte di Federico di aver lungamente intrattenuto i suoi fedeli su questi aspetti: (SR 11, p. 234) I più felici servi dell’altissimo Iddio, tosto che furono sublimati a grandissimo stato, dalle Diaboliche mani, e dalla humana malitia in un pelago d’innumerabili molestie furono sospinti. E ciò assai aperto si scorge esser vero etiandio del nostro gran pastore Ambrosio: conciossiecosachè egli, come assai distesamente vi hò narrato, con somma gloria portato fù alla pastorale dignità; e da’ poveri, da’ ricchi, da’ nobili, dagl’ignobili, da’ Magistrati, e dalla temporale podestà, quanto mai alcun’altro ne’ passati tempi, veniva honorato, e riverito.

Anche nella dodicesima omelia troviamo un tema già ampiamente presente nelle precedenti (soprattutto la settima e la nona), ovvero la menzione dell’affetto provato da molti abitanti di Milano nei confronti di Ambrogio: (SR 12, p. 300) Soprammodo coraggiosi combattitori del vero erano l’amore, che a lui era universalmente portato, l’innocenza della sua vita, le sue fatiche, ed i suoi sudori, la lunga sua perseveranza, e la invincibile sua costanza: e se cercate, o ascoltanti, di veder’etiandio, altre schiere armate, io potrò mostrarvi un’esercito di povere, e mendiche persone; moltissime, e presso che innumerabili santissime matrone, e molte intatte vergini da lui del continuo sovvenute, ed ultimamente tutto il chiericato, il quale non già con le armi visibili, ma co’digiuni, e con le orationi, e con le calde lagrime, standosi raccolto insieme ne’ santi luoghi, e dinanzi agli altari, dava a questo suo maggior sacerdote soccorso.

In conclusione, possiamo riconoscere una esplicita connessione tra le prime undici omelie e una corrispondenza tematica con la dodicesima, così da poterle considerare come un corpus almeno per la coerenza interna relativamente ai contenuti, nonché per gli espiciti rimandi interni. Più specificamente, non abbiamo alcuna ragione per dubitare della loro consequenzialità dal punto di vista cronologico, così come lo stesso Federico afferma all’inizio del settimo sermone. Questo per quanto concerne la cronologia relativa dei testi di cui ci occupiamo. I dati certi dei manoscritti ci indicano per le ultime due omelie gli anni 1619 e 1621, e la logica mostra che anche relativamente all’edizione a stampa si è seguito normalmente un criterio cronologico oltre a quello tematico. Si tratta ora di capire se

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le prime dieci omelie presentano qualche altro indizio utile a stabilirne la cronologia assoluta. Come già ricordato, nell’edizione a stampa non troviamo l’indicazione dell’anno in cui ciascuna delle omelie fu pronunciata; tuttavia nel terzo discorso abbiamo un indizio assai importante ai fini della sua datazione. Parlando infatti della necessità di seguire la sapienza di Ambrogio, Federico afferma: (SR 3, pp. 64-65) Ma ecco, che io al presente antiveggo, che una più alta imitazione della sapienza di Ambrosio con nostra non piccola utilità seguir ne debba, o Milano. Giace quasi nel centro di questa città un tesoro infino ad hora nascosto, che forse nel seguente giorno discoprirassi, e che arricchir può quegl’ingegni, i quali amano d’imitare quegli studi, che ad Ambrosio furono già sì cari.

Queste parole sono senza alcun dubbio connesse con l’apertura della Biblioteca Ambrosiana, che ebbe luogo l’8 dicembre 1609 e dunque precisamente il giorno successivo alla festa di Sant’Ambrogio17. In questo modo possiamo datare — con ottime ragioni, come abbiamo mostrato più sopra verificando l’affermazione dello stesso Borromeo circa la loro consequenzialità — i primi dieci sermoni come appartenenti agli anni dal 1607 al 1616, rispettando così anche il terminus ante quem costituito dalla datazione dell’undicesimo al 1619. 3. I principali temi delle omelie ambrosiane Come mostrano i titoli18, ferma restando la funzione encomiastica connessa alla celebrazione santambrosiana del 7 dicembre, le omelie del Cardinal Federico affrontano la figura del Patrono milanese sottolineando di volta in volta tematiche differenti. Le omelie dalla prima alla terza trattano della figura di Ambrogio, descrivendone la grandezza e affermando la necessità di onorarne la memoria a partire dalla venerazione del suo sepolcro. Si soffermano poi sulle ragioni di tale grandezza, sottolineando principalmente il valore delle sue doti di ingegno, virtù e carattere dal punto di vista umano. A questo gruppo può essere ascritta anche la settima omelia, che ancora una volta riafferma

17 Per una cronaca della giornata si veda: Massimo Rodella, Fondazione e organizzazione della Biblioteca, in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento, Milano, Cariplo 1992, pp. 121-147, in particolare le pp. 126-129. Il saggio contiene anche ampia bibliografia e indicazione delle fonti. 18 Cfr. supra, par. 2.

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la coesistenza in Ambrogio di virtù tanto umane quanto religiose, in tale misura da renderlo ammirevole agli occhi degli uomini e lodato da Dio. Le omelie dalla quarta alla sesta sono consacrate all’analisi del rapporto tra Ambrogio e il potere politico: la quarta afferma in modo più generale che Ambrogio uscì vincitore dalla sua battaglia contro il mondo, mentre la quinta e la sesta omelia sono entrambe focalizzate sul rapporrto con Teodosio dopo il massacro di Tessalonica, oltre a trattare il tema della Ragione di Stato e del suo rigetto da parte di quanti sono seguaci di Ambrogio. Le omelie undicesima e dodicesima possono essere aggiunte a questo gruppo, dal momento che mettono a tema la connessione tra le passioni dell’animo umano e la perdita della ragione in quanti sono chiamati a governare le nazioni. Le omelie dall’ottava alla decima sono concentrate sul tempo intercorso tra l’elezione episcopale di Ambrogio e la sua accettazione dell’incarico, soffermandosi in particolare sui tentativi da lui fatti, in un primo momento, per ricusarlo. Notiamo qui come il fatto storico costituisca per Federico quasi un punto di partenza per ripetere la sua opposizione ad una concezione della Ragion di Stato incompatibile con la fede cattolica, rendendo questo uno dei temi principali del suo discorso19. Vogliamo ora scegliere alcuni passi che hanno lo scopo di mostrarci i temi salienti della figura di Ambrogio così come compaiono nella predicazione pubblica federiciana. 4. Alcuni passi delle omelie federiciane Iniziamo la nostra rassegna con un passo tratto dal primo ragionamento di Federico, datato al 1607. (SR 1 p. 57) Non è forse il venerabil corpo del nostro Ambrosio un vero tesoro nascosto in terra, che moltissime, e presso che infinite utilità in se racchiude? Vai tu cercando chi ti difenda contro a’ tuoi spirituali nimici? Qui sepolto si stà quegli, che potentissimo è a liberarti da qualunque molestia ed oppressione de’ tuoi più duri avversari; ed a cui per tuo scampo hai tu d’haver ricorso. Questi è quel carro di fuoco (4Reg 6,17), che difendeva l’Israelitico popolo contra il Re della Siria, benchè ciò da noi non si comprenda perché siamo ciechi, e ben aperti non habbiamo ancora gli occhi dell’intelletto. Questi è uno degli Angeli del Patriarca Jacob (Gen 32,2), de’ quali egli medesimo, sì 19 La concentrazione del tema della ragion di Stato nelle omelie sesta, ottava, nona e decima (pronunciate, secondo la proposta di sistemazione cronologica da noi indicata, negli anni 1612, 1614, 1615, 1616) corrisponde al periodo nel quale era ancora aperta la controversia giurisdizionale che vide Federico opposto ai rappresentanti della corona spagnola, che trovò soluzione solo nel 1618. Per questo aspetto (e per le indicazioni bibliografiche) cfr. Giuliani, Il vescovo, pp. 293-303.

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come colui, che provate havea le loro grandissime forze, già disse; Castra Dei sunt ista. Questi è quel palio d’Elia (4Reg 2,14), che può dividere le acque delle humane miserie, ed aprirci in mezzo di esse una felicissima strada. Questi è una di quelle miracolose vest[i], delle quali ne’ primi tempi (Act 19,12) sì bramosi erano i fedeli per riportarne la sanità primiera. Questi finalmente è di tanta virtù, e forza, che infino le oscure tenebre della sua tomba, e sepolcro, all’ombra di Pietro, che da tutti universalmente ricercata era e riverita (Act 5,15), molto si rassomigliano. Io amerei perciò, o Milano, di vederti sollecito in frequentar questa sì nobil chiesa, dove si stà nascosto un sì fatto tesoro. Ne solamente quando preso tu se’ da alcuna necessità, ciò far dovresti: ma vorrei etiandio che sovente il facessi per via di diporto, e per discacciar gli affanni della tua turbata mente.

Notiamo in primo luogo come l’insistenza di Federico sia tutta nel sottolineare la vitalità della presenza di Ambrogio, e la sua capacità di offrire nel presente protezione e aiuto pratico a favore dei suoi fedeli. Ma per corroborare questa affermazione, Federico presenta in successione alcuni exempla biblici nei quali si può leggere una duplice serie di annotazioni parenetiche: da un lato si afferma l’efficacia di alcuni oggetti — cui si paragona il sepolcro di Ambrogio — nel conservare e trasmettere la virtù salvifica di un uomo di Dio; dall’altra si mostra come tali prodigi non si verifichino se non si risveglia nei fedeli la capacità di guardare e di domandare, ovvero di rendersi conto della salvezza che sta loro accanto. Queste affermazioni poggiano su di una fitta trama di citazioni e allusioni bibliche, che l’edizione del 1646 indica così nelle note marginali: 4Reg 6,17, ovvero l’apparizione a Eliseo dell’esercito celeste che difende Israele dal re di Siria, e che viene reso cieco per la preghiera di Elia; Gen 32,2, ove si narra l’apparizione di angeli a Giacobbe mentre, al suo rientro nel territorio di Canaan dopo il soggiorno presso Labano, sta per incontrare il gemello Esau; 4Reg 2,14, in cui Eliseo, dopo l’ascesa al cielo di Elia, percuote con il di lui mantello le acque del Giordano, verificando la persistenza dei poteri soprannaturali che causano il prosciugamento del fiume e la possibilità di passare alla riva opposta; Act 19,12, dove si menziona il potere taumaturgico delle vesti e dei panni toccati da Paolo; Act 5,15, in cui leggiamo che anche solo l’essere sfiorati dall’ombra di Pietro aveva effetti di guarigione sui malati. Ora, è da notare non solo che questi exempla biblici sono utilizzati sovente da Ambrogio20, ma che abbiamo due suoi passi nei quali essi compaiono insieme, così come nell’omelia di Federico. Nel primo caso si tratta di 20 Per la verifica della frequenza delle citazioni/allusioni bibliche e per i riferimenti delle opere ambrosiane si veda: Centre d’Analyse et de Documentation Patristique, Biblia Patristica. Index des citations et allusions bibliques dans la littérature patristique. 6. Hilaire de Poitiers, Ambroise de Milan, Ambrosiaster, Paris 1995, ad loca.

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un brano dal De officiis nel quale è a tema la considerazione di come i santi profeti non siano mai stati così operosi come quando permettevano a Dio di operare attraverso di loro21, a cui seguono nell’ordine le menzioni di (o le allusioni a) Act 5,15, Act 19,12, 4Reg 6,17, 4Reg 2,1422. Manca in questo passo la menzione di Giacobbe (Gen 32), e il contesto di partenza risulta decisamente differente anche se non incompatibile con quello federiciano, tuttavia rimane il fatto oggettivo della coincidenza di quasi tutti i brani. Nel secondo caso, invece, abbiamo a che fare con un passo dell’Explanatio psalmi XXXVI23 nel quale ritroviamo tutte le citazioni veterotestamentarie, 21 Cfr. Ambrosius, De officiis, III, 1, 2 [Sant’Ambrogio, I doveri. Introduzione, traduzione

e note di Gabriele Banterle, Milano – Roma 1977 (Sancti Ambrosii Mediolanensis Opera – d’ora in poi: SAEMO –, 13), p. 275]: «Non ergo primus Scipio sciuit solus non esse cum solus esset nec minus otiosus, cum otiosus esset; sciuit ante ipsum Moyses qui, cum taceret, clamabat, cum otiosus staret, proeliabatur, nec solum proeliabatur, sed etiam de hostibus, quos non contigerat, triumphabat…» La menzione di Mosè manca nel testo federiciano, e qui del resto ha significato introduttivo, dal momento che successivamente, sulla scia di Mosè, vengono passati in rassegna gli altri personaggi biblici testé nominati. 22 Cfr. De officiis, III, 1, 3-6 (passim): «Transibant apostoli et umbra eorum curabat infirmos. Tangebantur uestimenta eorum et sanitas deferebatur. […] Et quoniam plerosque delectant bellica, quid est praestantius, exercitus magni lacertis an solis meritis confecisse proelium? Sedebat Eliseus in uno loco et rex Syriae magnam belli molem inferebat populo patrum diuersisque consiliorum aceruabat fraudibus et circumuenire insidiis moliebatur sed omnes eius apparatus propheta deprehendebat et uigore mentis per gratiam Dei ubique praesens cogitationes hostium suis adnuntiabat et monebat quibus cauerent locis. Quod ubi regi Syriae manifestatum est, misso exercitu clausit prophetam. Orauit Eliseus et omnes eos caecitate percuti fecit et captiuos intrare in Samariam qui uenerant obsidere eum. Conferimus hoc otium cum aliorum otio. Alii enim requiescendi causa abducere animum a negotiis solent et a conuentu coetuque hominum subtrahere sese et aut ruris petere secretum, captare agrorum solitudines aut intra urbem uacare animo, indulgere quieti et tranquillitati. Eliseus autem in solitudine Iordanem transitu suo diuidit ut pars defluat posterior, superior autem in fontem recurrat...». 23 Cfr. Ambrosius, Expl. Ps. XXXVI, 58 (passim) [Sant’Ambrogio, Commento a dodici Salmi. Introduzione, traduzione, note e indici di Luigi Franco Pizzolato, Milano – Roma 1980 (SAEMO, 7/1), pp. 219-221]: «ipsi quoque Iacob, Helias et Heliseus et Iohannes Baptista et ceteri, qui in caprinis pellibus circumeuntes errabant in solitudinibus et montibus et speluncis et foueis terrae, licet ludibria multa et acerba supplicia tolerasse uideantur, tamen non derelicti sunt. siquidem cum fratrem fugeret Iacob et per deserta incomitatus erraret, obdormiuit et surgens uidit ibi multitudinem caelestis militiae et ait: hic locus uocatur castra angelorum. non satis fuit castrum uocare, sed castra, quae tantae multitudini conuenirent. 5 uides ergo quia solum se putabat et castra eum caelestis exercitus sequebantur, sicut et patres nostros Moysi tempore, ne in deserto sitirent, petra, ut scriptum est, sequebatur. […] quid de Helia et Heliseo dicam, quibus per deserta gradientibus equi de caelo et igneus currus occurrit? quomodo derelictus Helias, qui est inuitatus a Christo? quomodo derelictus in terris, qui raptus ad caelum? quomodo egens et nudus et inanis, qui geminati spiritus hereditatem discipulo dereliquit, ut una melotide heres donatus fluuios sisteret, Iordanem reuocaret in fontem, regum exercitus pasceret in deserto et potum sitientibus ministraret? ad eius arbitrium de caelo profluebant pocula, in terris mortui resurgebant. quomodo derelictus est Heliseus, qui cum Syrorum uallatus esset exercitu, ut captiuus raperetur ad regem, dicente Giezi seruo: domine, quid faciemus? ait: noli

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ovvero nell’ordine: Gen 32,2, 4Reg 2,14, 4Reg 6,17. In questo caso sono i richiami al potere taumaturgico degli Apostoli a non essere ripetuti, ma è da notare che il testo ambrosiano qui si conclude con una menzione di Paolo apostolo, e che in un passo dell’Explanatio psalmi LX — appartenente cioè alla medesima opera di Ambrogio — troviamo la citazione di Act 5,1524. In questo caso il contesto di ambedue i passi delle Explanationes psalmorum tratta del fatto che Dio non abbandona i giusti: sicuramente un tema non alieno dall’omelia federiciana. Risulta così difficile non pensare che il Borromeo avesse presente questi passi ambrosiani — che pure non cita direttamente — quando componeva il suo sermone. Un secondo tema che vogliamo accostare attraverso due passi della terza omelia (SR 3) ci porta a considerare direttamente il giudizio di Federico sulla personalità di Ambrogio, colta nel suo complesso. (SR 3, p. 62) Se io al presente parlar dovessi del beatissimo Ambrosio, come se stato egli fosse, o cittadino, o principe, o filosofo, o forte, o magnanimo, gran cose certamente di lui io direi; ma non già tali, che, in rispetto delle sue vere laudi, grandi fossero: imperocchè queste bellezze solamente terrestri, come ognun vede, e non celesti deonsi estimare. Di quelle sole celestiali bellezze, che è a dire di quelle perfettioni, che in Ambrosio singolarmente si videro risplendere a maraviglia, come se proprie di lui fossero, e non ad esso comuni con gli altri Santi, intendo io hora di ragionare. Io scorgo, che in mezzo di questo bel Cielo della sua anima grandemente risplendeva la stella della soprannaturale, e naturale sapienza; poiché egli, e parlando, e scrivendo, e operando, in ogni tempo, ed in ogni suo atto diede al Mondo tutto a divedere, che questa più dell’altre in lui scintillasse. E questa sapienza allhora in lui spetialmente dimostrossi scintillante, quando cambiando stato, e la religiosa vita abbracciando, subitamente gran sacerdote, e vescovo divenne, essendo prima stato del popolo gran giudice, e duce e maestro.

Parlando delle «proprie grandezze»25 di Ambrogio, Federico si sofferma sulle particolarità che dice essere «proprie di lui… e non ad esso comuni con gli altri Santi». La prima di queste particolarità è la presenza risplendente in Ambrogio della «stella della soprannaturale, e naturale sapienza», timere, quoniam nobis cum plures sunt quam cum illis. et dixit: domine, aperi oculos eius ut uideat? et aperti sunt oculi illius et uidit montem et omnia in circuitu equis innumeris et caelestibus repleta legionibus. Paulus quoque, qui dixit periculis in mari, periculis in deserto se esse iactatum, tamen ipse testificatus est dicens: si deus pro nobis, quis contra nos?». 24 Cfr. Ambrosius, Expl. Ps. LX, 30 [Sant’Ambrogio, Commento a dodici Salmi. Introduzione, traduzione, note e indici di Luigi Franco Pizzolato, Milano – Roma 1980 (SAEMO, 7/2), p. 67]: «si apostolorum umbra sanabat, quanto magis caro Christi quos tangit a morte defendit!». 25 Cfr. il titolo di questo Sacro ragionamento: Quali siano state le sue propie grandezze.

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identificata nel fatto che in lui il passaggio dallo stato laicale a quello clericale non comportò uno iato nella capacità di fungere da guida per il popolo lui affidato, rimasto il medesimo, nonostante il significativo mutamento qualitativo dell’autorità esercitata. Se ci chiediamo quale sia l’eventuale ispirazione ambrosiana di questa visione della sapientia, troviamo da un lato che nelle opere santambrosiane non si incontra mai il nesso supernaturalis sapientia, né l’espressione super/supra naturam connessa con il termine sapientia; tuttavia, nel prologo dell’Expositio Evangelii secundum Lucam si trova un passo nel quale, dopo aver dichiarato la tripartizione della sapienza in «naturalis… aut moralis aut rationalis»26, Ambrogio afferma che la sapienza naturale comprende «ea quae supra naturam uel naturae sunt»27, e dunque offre una visione inclusiva dei contenuti della sapienza, tale da corrispondere a quanto espresso da Federico. Un altro passo di SR 3 ci permettere di accostare una seconda peculiarità di Ambrogio, che il Borromeo intende porre all’attenzione di tutti. (SR 3, p. 62) Parlando poi di ciò, che egli fece avantichè alla chiesa se medesimo donasse, niuna cosa di esso si legge se non grande; e la opinione, che tutti comunemente di lui havevano, era singolare; e la fama era incredibile anco nelle più rimote parti: il qual vanto non darei io sicuramente ad Agostino discepolo, e compagno, ed emulo delle grandi virtù di Ambrosio, o savi e discreti ascoltanti. Questi, come si racconta, venne per certi gradi crescendo nelle virtù, le quali in lui hor furono fanciulle ed acerbe, ed hor’adulte, e mature. Egli era hor filosofo, hor rettorico, ed hor’astrolago: hora nel foro, ed hora ne’ pubblici spettacoli si vedeva. Talhora mostrò di sentire co’ Manichei contra i cattolici: e talhora non fù ne Manicheo, ne cattolico. De’ suoi costumi poi ragionandosi, egli ama il celibato, e non l’ama: cade, e risurge; vinto ricade e finalmente vince: e per tal modo quella misera navicella del suo animo erra 26 Cfr. Ambrosius, Expos. ev. secundum Lucam, prologus, 2 (passim) [Sant’Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca. Introduzione, traduzione, note e indici di Giovanni Coppa, Milano – Roma 1978 (SAEMO, 9/1), pp. 79-81]: «nam licet scriptura diuina mundanae euacuet sapientiae disciplinam, quod maiore fucata uerborum ambitu quam rerum ratione subnixa sit, tamen si quis in scripturis diuinis etiam illa quae miranda illi putant quaerit, inueniet tria sunt enim quae philosophi mundi istius praecellentissima putauerunt, triplicem scilicet esse sapientiam, quod aut naturalis sit aut moralis aut rationalis. haec tria iam et in ueteri testamento potuimus aduertere. quid enim aliud significant tres illi putei, quorum unus est uisionis, alius abundantiae, tertius iuramenti, nisi triplicem istam in patriarchis fuisse uirtutem? rationalis puteus uisionis eo quod ratio uisum mentis acuat et animi purget optutum, ethicus puteus abundantiae eo quod cedentibus allophylis, quorum specie uitia corporis figurantur, uiuae Isaac liquorem mentis inuenit purum enim profluunt boni mores et bonitas ipsa popularis abundat aliis sibi restrictior tertius puteus iuramenti, hoc est sapientiae naturalis, quae ea quae supra naturam uel naturae sunt conprehendat; quod enim adfirmat et quasi deo teste iuratur etiam diuina conplectitur, cum dominus naturae fidei testis adhibetur». 27 Ibid.

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nelle onde; e quando da’ piaceri, e quando dalla ragione, in varie parti vien portata28. Ma di Ambrosio, che dir possiamo? Egli non fù mai non a se medesimo simigliante. Giusto, prudente, magnanimo, grave, e severo fù sempre ne’ civili magistrati; e le medesime virtù, quelle havendo poi rendute più perfette, nell’ecclesiastico stato trasportò; in tanto, che infin nelle prime hore giusto, e prudente, e magnanimo si dimostrò; e per recar’in una le parole tutte, egli fù sempre Ambrosio.

La seconda caratteristica tipica di Ambrogio viene descritta da Federico mediante un confronto serrato con la figura di Agostino di Ippona; di quest’ultimo mette in luce la mutevolezza, che si sostanzia in diversi aspetti: una progressiva crescita delle virtù; il passaggio per diverse discipline intellettuali; l’adesione a diverse forme di religiosità senza ricusare l’agnosticismo; la contraddittorietà degli atteggiamenti morali. Nulla di tutto ciò si può affermare di Ambrogio che, al contrario, «non fù mai non a se medesimo simigliante»: ecco dunque emergere la sua peculiarità distintiva, che viene precisata in tre direzioni: la costanza nel tempo nella pratica delle virtù; la perseveranza nel raggiungere sempre risultati eccellenti nelle attività da lui compiute; la continuità nella capacità di armonizzare le virtù umane con quelle cristiane, che da lui appaiono quasi possedute ante baptismum per averle poi «rendute più perfette» trasponendole nello stato clericale. L’eccellenza umana e cristiana nella pratica delle virtù convive in Ambrogio — così come ce lo presenta Federico — con una situazione di vita tutt’altro che semplice: il giudizio del Borromeo, tuttavia, è particolarmente interessante per la sua comprensività e profondità, come ci mostra questo passo. (SR 4, p. 67) In guerra adunque vissero gli huomini giusti; e la loro vita dal dì, che nacquero, altro non fù, che affanni; ed il migliore loro cibo furono le lagrime (Ps. 41,4). Ciò più di molti altri esperimentò il nostro magnanimo, e santissimo Ambrosio, la cui vita, mentre attentamente la considero, parmi che stata sia una continua guerra. Egli, o cari figliuoli, vinse la gloria del Mondo, rifiutando le dignità: vinse la potenza, facendo resistenza ai principi: vinse le lusinghe, imponendo a se stesso con l’imperio della sua volontà dure penitenze, ed una povera e faticosa vita: vinse finalmente la militia, e la somma perfidia, superando le continue insidie degli Ariani, dalle quali conveniagli sempre diligentemente guardarsi. Come giudice contrastò coi perversi costumi, e le malvage usanze venne a dissipare. Come vescovo, co’ magistrati, con gl’Imperadori, e con la nuova Iezabel, e con le false opinioni, e con la men regolata, e men perfetta disciplina de’ chierici prese continua, e pericolosa contesa. Egli nella vita privata con se 28 Per queste affermazioni, nell’edizione a stampa del 1646 vengono offerti nelle note marginali questi riferimenti: Augustinus, Conf. III,3-4; I,1-2; IV,3; V,3; VI,1 V,12-15.

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medesimo hebbe guerra, e se stesso vinse, digiunando, orando, lagrimando, ed humiliandosi: e nella pubblica poi armossi contro a tutti i vitij, e contro a tutti i peccatori.

La considerazione della vita come “guerra” è topos consueto nella letteratura spirituale, e trova la sua radice in primo luogo nel Nuovo Testamento29; in questo caso, poi, all’inizio dell’omelia Federico stesso offre i riferimenti scritturistici quando afferma: «Ma se si parla di quel supremo bene dell’eterna beatitudine, per godimento della quale creata fù l’humana natura, non possiamo già dire, che alcuna rational creatura senza guerra, e senza il merito delle vittorie possa dirsi beata. Qui vicerit, dabo ei sedere mecum in Throno meo, troviamo scritto nell’Apocalisse (Apoc 3,21): e l’Appostolo in confermatione di questo così disse; Qui certat in agone, non coronatur, nisi legitime certaverit (2Tim 2,5)». Ma in questo sviluppo affatto tradizionale, due sono i punti sui quali soffermare la nostra attenzione. Il primo consiste nel modo in cui il Borromeo descrive questa guerra: egli, infatti, riprende il tema della continuità della vita di Ambrogio (che si rivela così vieppiù importante quale paradigma interpretativo della figura del patrono milanese nella visione federiciana), affermando che la medesima guerra venne da lui condotta in sequenza «come giudice» e «come vescovo», e sottolineando inoltre come al ‘fronte esterno’ delle lotte per la giustizia e la disciplina (dentro e fuori la Chiesa) si aggiungesse il ‘fronte interno’ della guerra «con se medesimo». Il secondo punto riguarda, a proposito della lotta con il potere civile, la menzione della «nuova Iezabel», accanto ai magistrati e agli Imperatori. Dietro questo pseudonimo di ascendenza biblica30 troviamo un riferimento a Giustina imperatrice (+388), vedova di Valentiniano I, matrigna di Graziano e madre di Valentiniano II, dichiaratamente antinicena e filoariana, con la quale Ambrogio si scontrò più volte durante il suo episcopato31. L’identificazione di Giustina con Gezabele non risale direttamente ad Ambrogio, ma si evince da un passo della Vita Ambrosii di Paolino di Milano, certamente noto al Borromeo, che paragona il vescovo milanese ad Elia, esaltandone la capacità di parlare senza timore ai potenti32. 29 Cfr.

Eph 6,11-18. riferimento è alla nequissima moglie del re Acab, che perseguitò a lungo il profeta Elia, e le cui vicende sono narrate in 3Reg 16,28-22,39. 31 Cfr. M. G. Mara, voce Giustina, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità cristiane. Diretto da A. Di Berardino, vol. II, Genova-Milano 20072, col. 2338. 32 Cfr. Paulinus Mediolanensis, Vita Ambrosii, 47,3 (passim) [Paolino di Milano, Vita di Ambrogio, in: Le fonti latine su Sant’Ambrogio. A cura di G. Banterle, Milano – Roma 1991 (SAEMO, 24/2), p. 79]: «Qui descendens obtulit sanctum Domini corpus; quo adcepto ubi gluttivit, emisit spiritum, bonum viaticum secum ferens, ut in virtute escae anima refectior 30 Il

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Come abbiamo anticipato, un tema ricorrente nella narrazione federiciana a proposito di Ambrogio è quello della Ragione di Stato, cui già abbiamo fatto cenno. Riportiamo quattro passi dalle omelie 6 e 8, da cui ricaviamo il nesso tra questo argomento e la figura di Ambrogio. (SR 6, p. 73) Ma se parliamo di quella perversa ragione pur’allhora dal volgo ignorante contra ogni dovere chiamata Ragione di stato, quando altri, da cieca passione guidato, così nel maneggio delle cose private, come delle pubbliche de’ grandi Signori, dal diritto sentiero delle sacre leggi travia, certa cosa è, che essa da niun confine vuol’esser circoscritta, ma ne’ fatti d’ognuno, e con diverse occasioni volentieri si và maliziosamente mescolando. […] Hor questi Signori, ne’quali la voglia, e la ragione sommamente contrastano, sono da quella principalmente tiranneggiati; e bisogno havrebbono di sentir’ alcuna savia persona, che liberamente gli riprendesse. Ma che? Troppo più agevole si è il desiderare, che il trovar chi volentieri lo faccia; poiché quasi niuno hà pur’ ardimento di aprir la bocca, e di farsi incontro a’ grandi, quando dalle loro passioni trasportati sono a mal fare.

Il primo aspetto deleterio della Ragion di Stato sottolineato da Federico sta nel fatto che essa è una «perversa ragione», che vede la persona sottomessa a una volontà che è totalmente dominata da una «cieca passione». Questo tema riprende da vicino quanto si legge nella Storia della Chiesa di Teodoreto di Ciro, nella parte iniziale del racconto della vicenda connessa alla strage di Tessalonica e alla conseguente penitenza imposta da Ambrogio a Teodosio33. Ma quando si tratta di riproporre la narrazione della penitenza, Federico opera un significativo mutamento nell’utilizzo delle fonti. (SR 6, p. 76) Proprio, ed inseparabil vitio della perversa, ed indomita Ragione di stato si è, che mai non si rende in colpa, e confessa il suo peccato, dicendo Peccavi; ne mai chiede al Signore misericordia... Giustamente perciò affermar possiamo, o Milano, che in questo sì gran fatto di Teodosio, le leggi tutte, con le quali malignamente gli stati si governano, come abbominevoli sono state rifiutate e cacciate dal Mondo; e che memorabile ne’ futuri secoli sarà sempre la gloriosa ricordatione di questa magnanima impresa… […] Chiara era già la fama di questo gran Pastore per le grandissime cose, che egli operate havea: ma allora singolarmente s’acquistò gran nome, e si dimostrò di gran cuore, quando alla richiesta fattagli dall’Imperadore rispose tutto intrepido, quasi così dicendo. Ottimamente parli, o Teodosio, mentre tu, essendo peccatore, a David, che tale fù anch’egli, te medesimo assomigli: ma sì come angelorum nunc consortio, quorum vita vixit in terris, et Heliae societate laetetur; quia ut Helias numquam regibus vel ullis potestatibus, ita nec iste pro Dei timore loqui veritus est». 33 I passi corrispondenti di Teodoreto (presi dal V libro della sua Storia della Chiesa) si possono agevolmente reperire in: Le fonti greche su Sant’Ambrogio. A cura di C. Pasini, Milano – Roma 1990 (SAEMO, 24/1), pp. 186-193].

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nella colpa l’hai voluto seguire, impara hora a seguirlo ancor nella penitenza. Si sequutus es errantem (disse egli), sequere poenitentem. Al sentir delle quali parole fermossi incontanente l’Imperadore, e spogliatosi del proprio volere, al consiglio di lui s’attenne, e l’animo suo altiero alle preghiere, overo a’ comandamenti del zelante Vescovo piacquegli d’inchinare. Allhora i fiumi i loro consueti corsi non tennero, ed il gonfiato mare per comandamento celeste si racchetò; ed i venti alla voce di Dio si fermarono, e s’ammutolirono; e la terra, che scossa si era con horribile movimento, placidamente si riposò; poiché in vece d’accendersi per sì fatto parlare in grande ira, e sdegno, tutto humiliato, e contrito con molti sospiri, e con molte lagrime, come afferma Teodoreto, al Real palagio si ricondusse, tenendo del continuo impresso nella mente il suono delle già sentite parole; Si secutus es errantem, sequere poenitentem.

Oltre a proclamare che la penitenza di Teodosio costituisce la confutazione di tutte quelle leggi che costituiscono la perversa Ragione di Stato, affermazione centrale della sua omelia, notiamo come Federico, che pure dichiara di seguire la narrazione di Teodoreto di Ciro34, citi, senza indicarli, due passaggi che non si trovano nell’autore greco, bensì in testi latini relativi ad Ambrogio35, nei quali Teodosio è invitato a imitare il re Davide, riconoscendosi peccatore. 34 Cf. SR 6, p. 76: «in vece d’accendersi per sì fatto parlare in grande ira, e sdegno, tutto humiliato, e contrito con molti sospiri, e con molte lagrime, come afferma Teodoreto, al Real palagio si ricondusse, tenendo del continuo impresso nella mente il suono delle già sentite parole; Si secutus es errantem, sequere poenitentem». Il riferimento è a Teodoreto di Ciro, Storia della Chiesa V, 18, 5 [si trova in: Le fonti greche su Sant’Ambrogio. A cura di C. Pasini, Milano – Roma 1990 (SAEMO, 24/1), p. 189], e si riferisce al fatto che Teodosio tornò piangendo a palazzo: «Τούτοις εἴξας ὁ βασιλεὺς τοῖς λόγοις (τοῖς γὰρ θείοις λογίοις ἐντεθραμμένος

ᾔδει σαφῶς τίνα μὲν τῶν ἱερέων, τίνα δὲ τῶν βασιλέων ἴδια), στένων καὶ δακρύων ἐπανῆλθεν εἰς τὰ βασίλεια. χρόνου δὲ συχνοῦ διελθόντος ὀκτὼ γὰρ ἀναλώθησαν μῆνες), κατέλαβεν ἡ τοῦ σωτῆρος ἡμῶν γενέθλιος ἑορτή· ὁ δὲ βασιλεὺς ἐν τοῖς βασιλείοις ὀλοφυρόμενος καθῆστο, τὴν τῶν δακρύων ἀναλίσκων λιβάδα».

35 Ecco le citazioni, prese ambedue da SR 6, p. 76: «Proprio, ed inseparabil vitio della perversa, ed indomita Ragione di stato si è, che mai… confessa il suo peccato, dicendo Peccavi»; «Si sequutus es errantem [scil. David], sequere poenitentem». Nel primo caso il riferimento è all’orazione funebre di Ambrogio per Teodosio, nella quale il vescovo descrive la penitenza dell’imperatore mettendo sulle sue labbra le parole di Davide dopo il censimento degli Israeliti. Cf Ambrosius, De obitu Theodosii, 27 [Sant’Ambrogio, Le orazioni funebri. Introduzione, traduzione, note e indici di G. Banterle, Milano – Roma 1985 (SAEMO, 18), p. 231]: «Bona igitur humilitas, quae liberat periclitantes, iacentes erigit. Novit eam ille, qui dixit: Ecce sum ego; peccavi, et ego pastor male feci, et isti in hoc grege quid fecerunt? (4 Reg 24,17) Fiat manus tua in me. Bene hoc dicit, qui regnum suum deo subiecit et paenitentiam gessit et peccatum suum confessus veniam postulavit. Ipse per humilitatem pervenit ad salutem». Nel secondo caso, invece, il riferimento è alla drammatizzazione che Paolino fa del dialogo tra Ambrogio e Teodosio: cf. Paulinus Mediolanensis, Vita Ambrosii, 24,2-3 (passim) [Paolino di Milano, Vita di Ambrogio, in: Le fonti latine su Sant’Ambrogio. A cura di G. Banterle, Milano – Roma 1991 (SAEMO, 24/2), p. 55; si veda anche la n. 5]: «Quo facto ubi cognovit sacerdos, copiam imperatori ingrediendi ecclesiam denegavit, nec prius dignum iudicavit coetu

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L’ultimo passo che prendiamo in esame ci offre un giudizio di Federico circa l’elezione di Ambrogio. (SR 8, p. 89) Fedel popolo di Dio con giusta ragione io ti dissi, o Milano, (e ciò detto da me ti sia solo affinché di ben’in meglio sempremai tu proceda nelle buone opere, e nei christiani costumi) perché singolarmente mostrasti di haver gran zelo del pubblico bene, e quello che è più, dell’accrescimento dell’onore e della gloria di Dio, quando ad una voce, essendo in prima discordante, e colmo di tumultuanti strepiti, gridasti; Ambrosio è il Vescovo, Ambrosio è il Vescovo. Ma dove lascio al presente, o miei carissimi, tra tanta varietà d’ottimi ammaestramenti da noi infino ad hora quindi raccolti, quel singolarissimo, che più d’ogni altro, come maggiormente a voi profittevole, vorrei che negli animi vostri rimanesse altamente impresso? Da questo miracoloso avvenimento, se sottilmente il tutto vorrassi riguardare, potrete voi di leggieri comprendere, quanto si compiaccia Iddio di biasimare con sì fatti successi le opere, le parole, ed i pensieri di coloro, i quali solamente con le false ragioni politiche da essi chiamate Ragioni di stato, se, e gli altri ammaestrano, e governano. E dove sono in questa improvvisa elettione di Ambrosio le arti humane, e gli astuti consigli per rendersi favorevole il popolo, e per addolcire gli animi inaspriti, e per antivedere, e tor via gl’ impedimenti che soprastar potevano?

Anche in questo caso notiamo da un lato come Federico indichi fin nella modalità di elezione di Ambrogio la risposta più vera alle arti della Ragion di Stato, consistente nel riconoscimento della signoria di Dio sulla storia e nel fatto che Dio si prenda quasi gioco delle umane macchinazioni; segnaliamo inoltre che qui ancora Federico — pur non menzionandolo — dipende dalla narrazione della Vita Ambrosii di Paolino36. 5. Conclusioni I passi accostati — pur in modo limitato e frammentario — indicano l’esistenza di un legame profondo tra Federico e il suo augusto predecesecclesiae vel sacramentorum communione quam publicam ageret paenitentiam. Cui imperator contra adserebat David adulterium simul et homicidium perpetrasse. Sed responsum illico est: “Qui secutus es errantem, sequere corrigentem”. Quod ubi audivit clementissimus imperator, ita suscepit animo, ut publicam paenitentiam non abhorreret; cuius correctionis profectus secundam illi paravit victoriam». 36 L’acclamazione Ambrosium episcopum, infatti, è tramandata in questa forma solo dall’agiografo “ufficiale”: cf. Paulinus Mediolanensis, Vita Ambrosii, 6,1-2 (passim) [Paolino di Milano, Vita di Ambrogio, in: Le fonti latine su Sant’Ambrogio. A cura di G. Banterle, Milano – Roma 1991 (SAEMO, 24/2), p. 35]: Per idem tempus, mortuo Auxentio arrianae perfidiae episcopo… ne populus civitatis in periculum sui verteretur, perrexit ad ecclesiam; ibique cum adloqueretur plebem, subito vox fertur infantis in populo sonuisse: “Ambrosium episcopum!”. Ad cuius vocis sonum totius populi ora conversa sunt adclamantis: “Ambrosium episcopum!”.

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sore. Ciononostante, in tutte le sue omelie, il Borromeo non cita mai esplicitamente le opere di Ambrogio, mentre non di rado si trovano in esse citazioni e note marginali relative a passi di altri Padri della Chiesa. Un caso particolare — ma ne abbiamo indicati altri, e altri ancora ve ne sono nei volumi dei Sacri Ragionamenti — è la narrazione della penitenza di Teodosio37, ove Federico menziona espressamente Teodoreto di Ciro pur attingendo letteralmente ad Ambrogio e a Paolino di Milano. Questo fatto, se ci testimonia il valore e l’importanza per il Borromeo della persona di Ambrogio e la dimestichezza con le di lui opere, spinge a domandarsi il perché di tale mancata esplicitazione. La ragione di questo comportamento è forse da ricercare nel fatto che Federico continuamente si rifà a una presenza di Ambrogio che non appare puramente fittizia o consistente solo nella sua memoria, bensì si trova ad essere vissuta e descritta come una paternità reale, la cui origine sta nella scelta di lui quale vescovo, fatta da Dio e dal popolo milanese che ha confermato l’elezione divina, rendendola paradigmatica per tutta la chiesa e per tutti i tempi, come mostra l’ultimo passo or ora citato. La vita e le opere di Ambrogio, infatti, sono presentate come una continua opera della Grazia divina, che prolunga e attualizza nella Chiesa la storia della salvezza: prova di ciò sono i paragoni offerti che connettono Ambrogio con Elia, con il profeta Natan, con il re Davide, con Mosè, con Pietro e altri personaggi biblici38. Nel quadro di questa comprensione della contemporaneità di Ambrogio e della sua prossimità al popolo milanese, possiamo meglio cogliere le sottolineature operate da Federico. Il primo punto costantemente evidenziato è la mutua coesistenza in Ambrogio delle virtù e dei valori sia umani sia cristiani, che appaiono così strettamente uniti da far sì che la principale caratteristica virtuosa di Ambrogio stesso sia individuata nella perfetta continuità e coerenza di comportamento tanto come consularis quanto come episcopus. Questa decisa affermazione del valore delle virtù umane (e romane) per la formazione di un credente e di un vescovo cristiano è conseguentemente l’affermazione della signoria universale di Dio, senza lasciare spazio ad alcun dualismo, nella considerazione del reale, tra l’ordine della creazione e quello della redenzione. In tal modo, si attua il superamento di ogni divisione sia interna all’uomo che esterna nella società: questo è il ‘cammino delle virtù’ che Federico vede impersonato per tutto l’arco delle sua vita da parte di Ambrogio. 37 Cfr. 38 Si

supra, p. 44 e ntt. 34 e 35. veda in particolare il passo citato di SR 1, supra, p. 37 e relativa spiegazione.

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È su questa base che dobbiamo comprendere l’ostilità verso la “Ragion di Stato” che troviamo nelle omelie del Borromeo. Non si tratta solo di un tema rilevante per la vicenda personale di Federico; piuttosto, l’asserita — dai fautori della Ragion di Stato — superiorità della politica e del potere civile sull’etica individuale e religiosa viene colta da Federico come un preoccupante segnale del suo tempo, che egli vede tuttavia prefigurato nei rapporti di Ambrogio con il potere imperiale, dove pure un episodio come la penitenza di Teodosio permette di riaffermare il primato della fede. La comprensione ecclesiologica, che Federico trova nel pensiero di Ambrogio e fa sua, afferma il diritto della Chiesa ad essere considerata presente nella società civile, ma insieme richiama la necessità di una reale vigilanza, affinché una concezione mondana del potere non affligga soprattutto i chierici. Come conclusione temporanea e parziale, possiamo affermare che Federico delinea per i suoi ascoltatori e lettori un’immagine di Ambrogio che non appare affatto convenzionale o laudativa. Piuttosto, egli è in grado di cogliere e sviluppare dei punti-chiave del pensiero e dell’azione del predecessore, così da proporre e proporsi un modello di vescovo altamente sfidante e impegnativo. Concludiamo sottolineando un aspetto metodologico che la genesi di questo breve saggio ha favorito e reso necessario. Abbiamo riconosciuto come studiare la Wirkungsgeschichte di Ambrogio non significhi semplicemente cercare la ripetizione letterale di sue espressioni o passi, ma richieda necessariamente lo studio della sua permanenza nella comprensione, da parte dei suoi posteri, dell’immaginario ideale religioso, storico e culturale. È nostra opinione che non sia affatto casuale la circostanza per cui uno dei temi preferiti da Federico fosse la continuità tra le virtù umane e cristiane in Ambrogio: il Borromeo intendeva infatti le prime come prerequisito necessario e supporto per la sua fede e il suo ministero nella Chiesa e nella società, condividendo una visione profondamente unitaria dell’uomo e della sua esperienza storica. Una tale unità, all’epoca di Federico, si vedeva già minata nelle sue basi filosofiche e politiche, ma è sicuramente oggi da riproporre la domanda, se una siffatta giustapposizione dei piani della realtà costituisca un guadagno o, piuttosto, una grave perdita. A nostro avviso, la riproposizione di una considerazione unitaria dell’umana esperienza, in una visione in cui le virtù umane e la ragione sono necessarie alla fede e viceversa, può costituire una buona opzione per i tempi presenti e un valido insegnamento offerto anche a noi — oltre che a Federico Borromeo — da sant’Ambrogio.

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LA PASSIO S. PELINI E CORFINIUM ROMANA Il codice Vat. lat. 1197 (vergato assai probabilmente in Abruzzo sul finire dell’XI secolo) trasmette ai ff. 1v-9v la vita vel passio beati Pelini episcopi et martyris e ai ff. 9v-13r i suoi miracula1. La leggenda di s. Pelino riassume i tempora essenziali della sua vita. Nativo di Durazzo, a quattro anni viene affidato dal padre Arcadio al beato Basilio; a nove anni perde il padre e Pelino con Basilio ne eredita la metà dei beni; diviene levita, viene ordinato sacerdote e inizia la sua attività di educatore che lo porta anche a seguire Ciprio, il figlio di tre anni di Elladio, a cui si attribuisce la redazione della leggenda del santo. Siamo durante il regno di Giuliano, e Pelino, con i suoi fidati Gorgonio e Sebastio e lo stesso Ciprio decidono di recarsi a Roma per sfidare e vincere la Romanorum virulenta persecutio; approdano a Brindisi e s’incontrano con il vescovo Aprocolo, a cui Pelino così si rivolge: Grammaticam scimus et linguam scimus Haebraeam Chaldeam Siram Graecam vestramque Latinam et auri et argenti massam hac de omnibus aliis metallis praeclaro opere operamur. Structuram muri novimus aedificare. Gorgonio e Sebastio sono nominati bibliotecari della chiesa e Pelino diviene arcidiacono di Brindisi ed è eletto ex pari voto et communi consilio vescovo della città. Giungono a Roma per la consacrazione da parte di papa Liberio, poi si fermano ad Ardea dove muore Aprocolo e l’acqua, con cui era stato lavato il suo corpo 1 Sul codice vd. M. H. Laurent, Codices Vaticani Latini. Codices 1135-1266, Città del Vaticano, pp. 119-123 con bibliografia precedente e ora G. Morelli, L’Abruzzo nei manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana, L’Aquila 1999 (Documenti per la storia d’Abuzzo, 14), pp. 601-602 n. 2663. Sulla vita e i miracula, oltre a F. Ughelli, Italia sacra, Venetiis, apud Sebastianum Coleti, 1721, IX, coll. 11-29 n. VII e BHL, 6620-6621, vd. inter al. B. De Silvestri, Esame apologetico su la vita e passione di S. Pelino Martire Arcivescovo di Brindisi e protettore di Valva, Prato 1886 e principalmente G. Celidonio, La diocesi di Valva e Sulmona, I (Le origini cristiane), Casalbordino (CH) 1909, pp. 17-81. Vd. anche G. Papponetti, Il ‘Corfinium’ di Marc’Antonio Lucchitti, in Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, 79 (1989), p. 91; M. Buonocore, Novità e tradizione nella spiritualità abruzzese del tardo Impero, in Abruzzo 31 (1993) [Storia della spiritualità. Atti del XII Convegno nazionale della cultura abruzzese], pp. 65-78; G. Papponetti, La leggenda di San Pelino in area valvense tra agiografia e tradizione umanistica, in Rivista Abruzzese, 46 (1993), pp. 150-151; id., La vita Sancti Pelini, in id., Umanesimo di frontiera, L’Aquila 1997, pp. 185-197; id., Le leggende di San Pelino e di San Panfilo in area valvense, in L’Abruzzo nel Medioevo, a cura di U. Russo – E. Tiboni, Pescara 2003, pp. 737-742.

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prima della sepoltura, diventa miracolosa e guarisce numerosi infermi. Rientra a Brindisi, e Sempronio, “prefetto” della città, fa arrestare Pelino e dà disposizione per la tortura, ma ne esce indenne, anzi il “prefetto” stesso si converte, viene battezzato e con lui una gran quantità di persone. La notizia di questo clamoroso evento arriva a Roma e l’imperatore Giuliano invia Aureliano a Brindisi per catturare il “mago” Pelino e i suoi accoliti; ma anche in questo caso la fede ha il sopravvento: Aureliano, colpito dalla figura di Pelino e dalle sue parole, dopo aver esplicitamente dichiarato si paedor meus languidus per Dei tui virtutem curari valuerit, credam et ego, si converte e viene battezzato unitamente a 160 soldati dei 500 che lo avevano scortato. L’imperatore non si dà per vinto e istruisce un esercito di 1600 armati alla guida del tribuno Massimo per arrestare Pelino, Sempronio, Aureliano e i 160 soldati e condurli al supplizio. Ma Pelino anticipa i tempi: li affronta nel suburbio di Roma, in via Ardeatina, in loco qui Catacumba nuncupatur. Aureliano e Sempronio vengono arrestati, i loro corpi segati, le membra appese o gettate ai cani; i 160 soldati decapitati. Pelino, con Gorgonio, Sebastio e Ciprio sono condotti dinanzi a Giuliano che definisce Pelino homo insani capitis: ne nasce un serrato dialogo che si conclude con le parole di Pelino non prive di licenze poetiche (Tu miser insanus vivis sine dogmate vanus / Cum dimisisti dulcissima domate Christi / Et levitarum honorem dereliquisti / Ac ad imperialis fastigii culmen, fraude diabolica conscendisti). Era presente Corniculario “praeses” di Corfinio, il quale chiede all’imperatore di consegnargli Pelino e i suoi tre compagni per portarli nella città peligna, lì torturali e farli sbranare dai leoni. Condotti dinanzi al tempio di Marte, Pelino fa crollare l’edificio che provoca la morte del “praeses” e di 108 persone; allora i “pontefici” torturano con verghe Pelino e lo trapassano con 85 colpi gettando il cadavere nella via “umbriense”. Il giorno dopo fanno decapitare Sebastio e Gorgonio ma lasciano in vita Ciprio propter iuvenilem aetatem consentendogli di rientrare a Brindisi, dove l’8 giugno viene creato vescovo e in seguito fa erigere una basilica intitolata al santo. Nel 363 a Giuliano succede Flavio Claudio Giovano, già comandante dei protectores domestici dell’esercito di Giuliano, il quale abroga i decreti del suo predecessore contrari alla chiesa cristiana (era egli stesso un cristiano), mantenendo una politica di tolleranza verso tutte le religioni. In questo breve periodo del suo regno (muore il 17 febbraio 364, dopo soli otto mesi), vuole espugnare Corfinio ancora affetta dal paganesimo, città popolosa e grande ove sorgevano 320 templi pagani, ma la città resiste all’assedio del comandante Nicostrato inviato da Gioviano; a Nicostrato appare in sogno Pelino che gli promette la vittoria se avesse fatto scavare lungo la via della “Colonna Eversa” così da recuperare le sue ossa a cui avrebbe dato degna sepoltura e in seguito avrebbe dato disposizione per la

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costruzione di una chiesa a suo nome. E così fu. Il 14 luglio la città viene espugnata e si costruisce una sontuosa basilica. I corpi di Gorgonio e Sebasio sono anch’essi recuperati grazie alle cure di Ciprio, il quale li fa trasportare a Brindisi per la loro definitiva depositio nella chiesa di S. Pelino. Rileggendo questo testo, e valutando con obiettiva serenità di giudizio la pia tradizione si possono cogliere realtà storico-archeologiche di grande interesse e non del tutto inverosimili. Certo, si tratta di una elaborazione agiografica molto distante dai fatti avvenuti nel sec. IV, non come avviene, ad esempio, per la cronaca della Translatio corporis beatissimi Marci papae et confessoris trasmessa ai ff. 152r-156v del codice Vat. lat. 1196 (sec. XII)2. Per quanto riguarda la passio di s. Pelino, storicamente attendibile è il riferimento, sebbene dilatato per evidenti motivi propagandistici, all’attività anticristiana promossa dall’imperatore Giuliano (362-362)3, definitio ferus nonché cruentus, cuius iussione praeceptum fuerat, ut ubique idola exaltarentur, atque ea Christiani adorare compellerentur. Qui vero eis cervices plectere nollent, variis atque diversis suppliciis interirent. Già nella professione di fede dinanzi al praeses Sempronius, in Puglia, Pelino si rifiuta di sottostare ad alcune delle massime divinità del pantheon pagano divo Demone pleni, tra cui Giove Ottimo Massimo, Ercole, Minerva ed Esculapio, che molte volte sono registrate insieme su dediche sacre in tutto il periodo imperiale4. Dal punto di vista topografico la vita non omette particolari di un certo 2 La

Translatio informa nel dettaglio del rinvenimento del corpo di papa Marco, dell’acquisto della santa reliquia da parte di una nobilissima foemina, Theutonica genere, quae religionis intuitu nimio flagrabat desiderio ut sanctorum reliquias in terra sua posset habere, signora del castello di S. Silvestro nel Lazio meridionale, e delle turbolente vicende che lo videro protagonista in quella regione tra la seconda metà dell’XI e la metà del XII secolo quando nel 1145 le reliquie del santo furono ricondotte a Roma nella basilica romana successivamente integrata nel rinascimentale Palazzo di Venezia, dove tuttora sono custodite nell’arca di granito posta sotto l’altare maggiore: alla limitatezza delle informazioni biografiche fa riscontro dunque questo ampio dossier documentario relativo alle intricate vicende che, a diversi secoli dalla sua morte, coinvolsero il corpo di Marco, venerato come santo dalla chiesa di Roma, contemplando un insieme di informazioni di straordinario interesse per la ricostruzione delle vicende del suo culto e delle infinite peregrinazioni delle sue reliquie. Su tutta la vicenda vd. ora D. Palombi, Le peregrinazioni di papa Marco, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia 90 (2018) [ma 2019], pp. 55-81. 3 Per cui si può vedere M. Simonetti, Il Cristianesimo in Italia dalle origini a Gregorio Magno, in Roma e l’Italia, radices imperii, Milano 1990, p. 267. 4 Si confrontino ad esempio le dediche sacre poste nel II sec. d.C. dagli equites singulares (M. P. Speidel, Die Denkmäler der Kaiserreiter. Equites singulares Augusti, Köln 1994), oppure la dedica reatina CIL IX, 4674. Indicativa è anche la seguente iscrizione da Alba Iulia (CIL III, 1079 = ILS, 3850): [I(ovi)] O(ptimo) M(aximo) Iunoni Mi/nervae et Aescu/lapio Domino / Septim(ius) Ascl(epius) Her/mes libertus / Numinis Aes/culapi habens / ornamenta dec(urionalia) / col(oniae) Apul(ensis) et Aug(ustalis) / col(oniae) eiusdem / v(oto) p(osuit).

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interesse. Per Brindisi ad esempio: Illis denique navigantibus, pervenerunt ad portum Brundisii; at Pelinus, et eius sodales de navi descendentes ad urbem conciti properabant; civitas enim haec mirae fortitudinis esse dignoscebatur et magna frequentia civium incolebatur, divitiis plena, terrenis commodis feliciter rutilabat. Ma assai interessante è la situazione topografica di Corfinium, la sede del martirio nel 362 ad opera del praeses Cornicularius, provvista ancora in quel periodo di una cinta muraria come chiaramente certificano i passaggi ante portam civitatis e murorum ambitus5, anch’essa città popolosa e grande, ove sorgevano addirittura trecentoventi, tra templi, altari e altre strutture connesse con il culto pagano: Erat autem ut praediximus, Corfinia populosa et magna civitas, infra cuius murorum ambitum trecenta et viginti idolorum phana constructa erant. Naturalmente era il culto di Ercole quello maggiormente diffuso e concentrato (spesso oggetto di decima), come è attestato dal fanum di recente acquisizione in località S. Ippolito nelle immediate vicinanze della città, di cui si sono potuti evidenziare il sacello e una fonte alimentata da una sorgente d’acqua ferrosa, riconoscendovi fino ad ora varie fasi edilizie ascrivibili a un arco cronologico compreso fra il III se­c. a.C. e il I sec. d.C.; nell’area antistante al sacello, definita da un lungo muro in opera quadrata, sono stati rinvenuti (e intenzionalmente depositati) un centinaio di bronzetti di Ercole, cippi votivi iscritti6 che dovevano certamente affollare il limitato spazio disponibile, altari, frammenti di suppellettile sacra non­ché statue fittili; il sacello sembra essere stato abbandonato nella seconda metà del I sec. d.C. in sèguito all’interramento dell’a­rea, mentre il fons continuò a essere oggetto d’utenza dall’età medioevale fino ai nostri giorni, riconoscendosi nell’acqua stessa ancora un valore terapeutico7. Questo è in perfetta sintonia con quanto ci trasmette Diodoro di Alicarnasso, da cui si evince una presenza massiccia di luoghi dedicati al dio nonché altari sia nelle città sia lungo le direttri­ci viarie tanto da non esistere nessuna località dell’Italia in cui Ercole non venisse onorato: πολλαχῇ δὲ καὶ ἄλλῃ τῆς Ἰταλίας ἀνεῖται τεμένη 5 Vd.

A. M. Giuntella, Corfinio (AQ). Campagne di scavo 1988-1999, in Archeologia medievale 17 (1990), p. 484. 6 CIL IX, 7227–7234. 7 Sul fanum e i reperti vd. essenzialmente A. Campanelli – V. Orfanelli – P. Riccitelli, Il santuario di Ercole a Corfinio, in Acque, grotte e Dei. 3000 anni di culti preromani in Romagna, Marche e Abruzzo, a cura di M. Pacciarelli, Imola 1997, pp. 184-202; M. C. Biella La piccola plastica bronzea del santuario in località S. Ippolito a Corfinio, in Quad. Arch. Abruzzo 2 (2012) [Valerio Cianfarani e le culture medio-adriatiche. Atti del Convegno, Chieti-Teramo, 27-29 giugno 2008], pp. 283-290; ead., I bronzi votivi dal santuario di Corfinio. Località Fonte Sant’Ippolito, Roma 2015 (Biblioteca di “Studi Etruschi” 54); A. Dionisio, La valle del Sagittario e la conca peligna, Abruzzo, tra il IV e il I secolo a.C. Dinamiche e sviluppi della romanizzazione, Oxford 2015, pp. 78-83, 414-445 e passim.

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τῷ θεῷ, καὶ βωμοὶ κατὰ πόλεις τε ἵδρυνται καὶ παρ’ ὁδούς, καὶ σπανίως ἂν εὕροι τις Ἰταλίας χῶρον, ἔνθα μὴ τυγχάνει τιμώμενος ὁ θεός8. Ma le testimonianze epigrafiche di Corfinium ci consentono anche di confrontarci con dediche ad Attis con Bellona9, Ceres10, Fons11, Isis12, Liber13, Mater deum Magna14, Minerva15 e Venus16. A queste divinità si deve aggiungere Vetidina, unica nel pantheon romano. Ricorda questa singolare divinità una iscrizione di pieno II sec. d. C.17, illuminante per la storia res publica Corfiniensium che trasmette il nome di un membro dell’ordine equestre, Quintus Avelius Priscus Severius Severus Annavus Rufus il quale, oltre ad aver ricoperto le maggiori cariche locali, si rese promotore di numerose iniziative tese a migliorare lo status dell’intera città: aiutò l’annona frumentaria con 50.000 sesterzi, fece costruire con l’esborso di 30.000 sesterzi un luogo termale riservato alle donne che da lui prese il nome di balineum Avelianum, elargì distribuzioni di vario genere a tutta la popolazione, aiutò economicamente le finanze cittadine e organizzò spettacoli gladiatori, scenici e altri giochi, questi ultimi, appunto, in onore di Vetidina: Q(uinto) Avelio Q(uinti) f(ilio) Serg(ia) Prisco Severio Severo Annavo Rufo flamini divi Augusti patrono municipii primo omnium Corfiniensium quaestori rei publicae 5 IIIIvir(o) aedili IIIIvir(o) i(ure) d(icundo) IIIIvir(o) quinq(uennali) pontif(ici) Laurenti(um) Lavinati(um); hic ob honorem quinq(uennalitatis) munus gladiatorium edidit et ob   8 Ant.

Rom. 1.40.6. IX, 3146 (add. p. 1406) = ILS 4107 = CLE 1520. 10 CIL IX, 3166-3167 (add. p. 1412); CIL IX, 3170 (add. p. 1413); CIL IX, 7250. Si ricordi che in tutta la valle peligna, in età repubblicana e ancora nel primo impero assai diffuso era il sacerdozio femminile di Cerere, spesso unito a quello di Venere, collegato con il concetto della castitas, l’unico modo per entrare nello spazio esterno ‘poli­tico’ cittadino in città e nel pagus: vd. I. Chirassi Colombo, Funzioni poli­tiche ed implicazioni culturali nell’ideologia religiosa di Ceres nell’impero romano, in ANRW, II, 17, 1, Berlin – New York 1981, pp. 425-426. 11 CIL IX, 7226. 12 CIL IX, 3144 (add. pp. 1405-1406) = ILS 4358. 13 CIL IX, 3145 (add. p. 1406) = ILS 3359. 14 CIL IX, 3146 (add. p. 1406) = ILS 4107 = CLE 1520; CIL IX, 3147 (add. pp. 1406-1407). 15 CIL IX, 3148 (add. p. 1408). Vd. anche Vetter 203. Nella discussione non bisogna tuttavia tralasciare l’iscrizione CIL IX, 328* (add. p. 1405): Minervae | in viam sacram | publico aere considerata, forse a ragione, un falso. Tuttavia Frank Van Wonterghem (F. Van Wonterghem, Forma Italiae IV. 1. Superaequum – Corfinium – Sulmo, Firenze 1984, pp. 118, 162) non esclude la possibilità che il testo sia genuinus e che la via sacra ivi menzionata possa essere identificata con l’attuale Via di Pratola di Corfinio. 16 CIL IX, 3166 (add. pp. 679, 1412) = ILS 3187; CIL IX, 3167 (add. p. 1412); CIL IX, 7236. 17 CIL IX, 7242.   9 CIL

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MARCO BUONOCORE

honorem IIIIvir(atus) ludos scaenicos dedit et ob honor(em) aedilit(atis) ludos deae Vetidinae fecit et in subsidium annonae frument(um) HS L m(ilibus) n(ummum) rei p(ublicae) Corfiniens(ium) et balineum Avelianum muliebre cum HS XXX m(ilibus) n(ummum) donavit frequentesque epulationes et divisiones nummar(ias) 10 universis civibus ex suo distribuit et onera rei p(ublicae) gratuita pecunia saepius iuvit. Corfinienses publice ob insignem eius erga rem publicam adfectum; Avelius Priscus honore usus impens(am) remisit.

Sembra proprio una divinità del pantheon locale non sappiamo se di tradizione antica oppure di istituzione coeva al periodo in cui fu inciso il titulus; si ricordi che ancora di Corfinio è l’iscrizione18, sempre della stessa epoca dell’iscrizione appena registrata, che ricorda C. Lucceius, nobilis infans, defunto alla tenera età di cinque anni che ha come cognome quello di Vetedinus, che in qualche modo potrebbe essere collegato al nome della divinità19. Inoltre nella vicina Conca Subequana, è noto, solo però dalla tradizione, un documento epigrafico datato con certezza al 17 maggio 271 d.C., nel medesimo arco cronologico in cui Aureliano adversus nos (scil. Christianos) persecutionem movit20: vi viene menzionata una venatio ad deam Pelinam allestita per la prima volta da L. Vibius Severus per onorare l’assunzione dell’edilità di suo figlio L. Vibius Rutilus21. Anche in questo caso il culto per la dea Pelina, quasi una θεὰ ἑπιχώριος dell’ἕθνος peligno, deve considerarsi, al pari di quello della dea Vetidina, di nuova istituzione o meglio forse di reintegrazione di pieno II secolo, quando si volevano implementare culti locali probabilmente caduti in disuso. A proposito della dea Pelina non dovrà essere dimenticato un testo proveniente da Anxanum (siamo nel territorio dei Frentani, limitrofo a quello dei Peligni) che ricorderebbe l’assolvimento di un voto da parte di un certo M. Albius Niceratus alla dea, questa volta accompagnata dall’epiclesi benefica: ma probabilmente il documento costituisce una elaborazione moderna22. 18 CIL

IX, 6409a (add. p. 1440); CLE 508. se Vetedinus sembra piuttosto derivare dal gentilizio Vetedius: vd. H. Solin, Analecta epigraphica, in Arctos 45 (2011), p. 161; id., Nuove iscrizioni di Aquino, in Le epigrafi della Valle di Comino. Atti del Settimo Convegno Epigrafico Cominese. Atina, 5-6 giugno 2010, a cura di H. Solin, Cassino (FR) 2011, p. 139. 20 L. Homo, Essai sur le règne de l’Empereur Aurélien (270-272), Paris 1904, pp. 194-195, 375-377. 21 CIL IX, 3314 (add. pp. 1514-1515) = ILS 5056. 22 CIL IX, 292* (add. p. 1247). 19 Anche

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LA PASSIO S. PELINI E CORFINIUM ROMANA

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Come si sa, l’aristocrazia di rango senatorio durante il IV sec. d. C. era rimasta particolarmente forte e in maggioranza pagana a Roma e in Italia e criticava il sempre crescente e aperto favore che taluni imperatori manifestavano verso la parola di Cristo. La breve attività dell’imperatore Giuliano aveva acuito ancora di più nei pagani intransigenti la consapevolezza del pericolo dell’infiltrazione del Cristianesimo e aveva perciò favorito una rea­ zione che non si era limitata al recupero e alla valorizzazione delle antiche glorie letterarie della Roma pagana (si basti pensare all’attività svolta da Simmaco) ma si era estesa anche nel campo politico, come ben dimostra l’intervento del vescovo Ambrogio presso l’impertatore Valentiniano II per impedire il ricollocamento della stata della Victoria nella sede del Senato voluta da Simmaco23; fino a giungere alla vittoria di Teodosio al Frigido (394 d. C.) che sanzionò la fine del paganesimo come forza organizzata capace di ostacolare la marcia del Cristianesimo24. Nello specifico dunque, Corfinium (così come tutta la Valle Peligna) durante il IV secolo non rimaneva sordo a questa situazione, che già dalla fine del II secolo faceva sentire la sua pressante incombenza: la presenza nel pantheon di divinità ‘locali’ nonché la recrudescenza di spettacoli anfiteatrali istituiti da personaggi strettamente legati all’Urbe e al culto tradizionale ben s’inquadrano e si motivano in questo periodo d’intemperia religiosa, che non riusciva a mantenere più saldo l’ideale tradizionale pagano. Nella leggenda di s. Pelino questo è facilmente eruibile; ne è prova la coppia quasi dicotomica da una parte di Giuliano — praeses Cornicularius, dall’altra di Giovano — praeses Aurelianus. Poi l’incontro con i cittadini sacrificanti secondo il rito pagano (turba virorum ac mulierum sacrificantium) che porterà s. Pelino a essere o sacrificato sull’altare di Marte o condotto nell’arena per l’obiectio bestiis: Erat itaque ad hoc spectaculum praeses Cornicularius Corfiniae urbis, qui dixit ad Caesarem: ‘Imperator piissime, hunc scelestum mihi tradi iube, ut Corfiniam ducam, et aut Deo Marti sacrificabit, aut leonibus ad devorandum tradetur’; cui Caesar: ‘Quod petisti, gratanter concedo, tantum caveas, ne diffugium petat; quoniam si evaserit, commune detrimentum omnibus orietur’. Denique Cornicularius praeses B ­ eato una cum tribus discipulis catena ferreas in singulorum ponens, arcteque constringens trahebat dicens: ‘Trahamus indomitos ad loca domita’… Factum est autem, dum appropiarent Corfiniae praeses praemisit suos milites, qui secundum eorum ritus sacrificia praepararent, ut antequam civitatem ingrederentur Sancti sacrificare compellerentur. Ma dopo appena 23 Fondamentale rimane sempre S. Mazzarino, Tolleranza ed intolleranza: la polemica sul­l’ara della Vittoria, in id., Antico, tardoantico ed èra costantiniana, Città di Castello 1974, pp. 339-377. 24 Traggo spunto da Simonetti, Il Cristianesimo in Italia cit., p. 267.

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MARCO BUONOCORE

otto anni e mezzo dall’episodio, coloro che erano giunti a Corfinio per elevare una chiesa in onore del martire, non solo constatarono che era già stata edificata la basilica con 63 canonici ma persino invenerunt totam provinciam illam populo Christiano repletam. Quanto alla ‘storicità’ di un santo chiamato Pelino, non abbiamo ragioni per credere che non sia effettivamente esistito, e che sia stato venerato prima che si componesse la sua leggenda: il suo culto è infatti documentato attraverso testimonianze già anteriori al sec. XI e poi massicce per tutto il sec. XI, periodo in cui fu composta la leggenda25. Inoltre proprio in tutto il territorio d’Abruzzo a cui afferisce la Valle Peligna è ben attestato il cognome Paelinus su iscrizioni databili nei secoli I-II d.C., a fronte di una sua rarefazione nelle altre regioni dell’Impero26: Corfinium Q. Caecilius Q. f. Pal(atina) Paelinus27; [Q. Petru]culeius Q. f. Paelinus28; Paelina29; C. Lucceius Paelinus30; Paelinus31; Paelina32; Teate Marrucinorum L. Aebutius Paelinus33; Interpromium Statius Tattius Paelinus Stati fil.34.

Ma non è da escludere che, proprio questa particolarità onomastica tipicamente locale, abbia indirizzato a coniare simile cognome per un personaggio in altro modo chiamato realmente vissuto, che lo si voleva far identificare con l’etnonimico di appartenenza per una più evidente visibilità. È abbastanza certo che la cattedra valvense ebbe origini antichissime e la datazione nel IV secolo risulta abbastanza attendibile e possiamo pen25 Vedi

il raccolto documentario in Celidonio, La diocesi cit., pp. 69-81. 26 Non voglio passare sotto silenzio almeno la testimonianza di una Pelina da Brundisium (CIL IX, 136). 27 CIL IX, 3184 (add. pp. 1415-1416). 28 CIL IX, 3187 (add. p. 1416). 29 CIL IX, 3236 (add. pp. 1424-1425). 30 CIL IX, 7240. 31 CIL IX, 7315. 32 CIL IX, 7324. 33 CIL IX, 6999. 34 CIL IX, 3069 (add. p. 1311).

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LA PASSIO S. PELINI E CORFINIUM ROMANA

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sare che un personaggio “di nome Pelino” sia stato effettivamente il primo vescovo valvense35. Quanto alla sua suggestiva leggenda, certamente ci troviano dinanzi a un racconto ‘ispirato’ e fantastico, redatto nell’XI secolo, proprio all’epoca dei primi violenti dissensi sorti tra i capitoli di Corfinio e di Sulmona, protrattisi nei secoli, che cercavano di affermare il primato dell’uno sull’altro36. E anche se tutto il testo registra avvenimenti non certicati dalla storia e situazioni al limite della pura fantasia agiografica, tra le righe si possono enucleare, come ho cercato di dimostrare, Realien non del tutto trascurabili, che consentono a questa pia tradizione di far recuperare qualche segmento di attendibilità non tanto storica quanto soprattutto antiquaria e documentaria.

35 Così anche F. Lanzoni, Le origini delle diocesi antiche d’Italia, Roma 1923 (Studi e testi, 35), p. 240; id., Le origini delle diocesi antiche d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (a. 604), Faenza 1927 (Studi e testi, 35bis), p. 372. Contra vd. G. D. Gordini, Pelino, in Bibliotheca Sanctorum, X, Roma 1968, pp. 450-451, che ascrive il vescovo a Brindisi. 36 Sull’argomento rimando almeno ad E. Mattiocco, Vicende della cattedra valvense, in La cattedrale basilica di Valva [Per la riapertura dopo i restauri], L’Aquila 1971, pp. 65-77.

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GIACOMO CARDINALI

PER IOANNES MAUROMATES, CADUTO DA CAVALLO Per una Luigia Pallavicini che ha trovato chi trasfigurasse il suo incidente di amazzone incauta, apprestando i balsami beati della poesia1, quante, invece, lungo la millenaria storia umana le cadute da cavallo rimaste tali: improvvisi, prosaici e, soprattutto, dolorosi disarcionamenti? Quanti gli sbalzi a terra senza redenzione o — come borbotterebbe Carlo Emilio Gadda — senza nessuno pronto ad accreditarne una versione inverosimilmente gloriosa2? Tra coloro che — pur più greci dell’ineffabile Ugo Foscolo — rimasero col deretano a terra senza che nessun aedo si adoperasse a spargere fiori votivi, almeno due sono stati copisti, disarcionati nel pieno della loro attività, e con pesanti ricadute sul piano professionale. Per loro, pur su la petrosa riva strascinati mal vivi, la Musa tacque: partì assai più verosimilmente qualche sproposito, e si trattò piuttosto di gridare al soccorso e di affrontare lunghe dolorose convalescenze. Antonio Eparco, la cui origine corfiota avrebbe suggerito i più facili voli alla musa foscoliana — ma la cui caduta avrebbe fatto la felicità di Gadda —, finì al suolo sulla via di Trento, città del Concilio, dove stava salendo da Venezia insieme all’ambasciatore di Carlo V d’Asburgo, il focosissimo diplomatico e raffinato bibliofilo, il muy poderoso don Diego Hurtado de Mendoza; era la tarda primavera del 1546. Così ne riferiva Eparco stesso in una prosa impietosa: Havendo l’animo et tuti li spiriti inclinati a far qualche bon officio in agiuto di la republica christiana, ben che che le mie force siino molto picole da se, li giorni passati mi haveva messo caminar a la volta di Trento, in compagnia del Ill.mo S.or ambassadore di la Cesarea Maiestà, il don Diego. Il qual per sua humanità et gentilezza, mi havea provisto et di cavalli et di spesa per mi et per uno mio servitore, ingenuamente, da vero signore che è, et mi faceva maggior 1 Si può vedere Ugo Foscolo, Opere, I, a cura di G. Gavazzeni, Milano – Napoli 1974, segnatamente pp. 170-187. 2 C. E. Gadda, Conforti della poesia, in id., Il tempo e le opere. Saggi, note e divagazioni, a cura di D. Isella, Milano 1982, pp. 189-204, segnatamente p. 197: «Ufficio primo ed altissimo della poesia è accreditare nel nostro cuore gli enunciati dell’inverosimile: tutte quelle storie che a raccontarle in prosa ci lascerebbero increduli, ottengono invece, in un inno, in un’Iliade, il plauso concitato che si suol concedere alle rivendicate verità».

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giacomo cardinali

honor et carezze di quello che merito, tuto per sua humanità et gentilezza. Unde essendo arivati a presso il lago de Varda, volendo io dismontar dal cavallo, in quello che era per calarmi da la stafa in terra, vene un altro cavallo et urtò el mio et spaventolo, ita che saltò un salto grande, et io ditti in terra, et mi senestrai la man, et quel altro cavallo mi pestò el pe, in modo che mi bisogniò tornar in dredo, per farmi medicare, et cusì veni in Venetia, et mi vado medicando3.

Se non è dato ascoltare gli armoniosi accenti di Eparco scivolante (che pure immodestamente riteneva che «non si trova a tuto el mondo né greco né latino che habbi el stillo che ho io de scriver in greco et verso et prosa»4), dal suo labbro volavano richieste di comprensione e di aiuto economico, data la sua nuova improvvisa condizione sindacale di sinistrato. È pur vero — bisogna ammetterlo — che, mentre per una delle donnesacerdotesse di Foscolo la caduta da cavallo comportava una confortevole convalescenza, a un copista essa imponeva una pausa forzata dal lavoro, ossia dal principale, se non unico, sostentamento della vita, propria e di quella dei familiari a carico, che erano spesso numerosa famiglia ale spale; nel caso di Eparco: figlioli otto, la moglier et la socera et uno cusin, che semo 12 di sangue, et do fantesce et uno famiglio, che fanno quindese5. Di qui l’importanza di simili referti medici sia per l’interessato, che vi informava il datore di lavoro e ne sollecitava un soccorso economico, sia per la ricerca moderna, che vi intravvede eloquenti aperture sulle circostanze di vita e d’opera dei copisti greci nel XVI secolo. Ad uno schedario sanitario che, non senza notevole profitto, si potrebbe allestire per gli scribi attivi a Roma nel Cinquecento, oltre allo scivolone di Eparco e dopo la flemma del copista Giorgio «così pigro, et instabile, mi pareria che non ci dovessimo impacciar più con lui»6, l’indolenza, 3 Lettera di Antonio Eparco a Marcello Cervini del primo giugno 1546, edita da L. Dorez, Antoine Eparque. Recherches sur le commerce des manuscrits grecs en Italie au XVIe siècle, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 13 (1893), pp. 281-364, segnatamente p. 315; molto probabilmente Eparco fu sostituito con Giorgio Bembaines, che copiò per Hurtado lo Scor. T. II. 3 (per il quale si veda Catálogo des los Codices Griegos de la Biblioteca de El Escorial, por el p. A. Revilla, I, Madrid 1936, pp. 459-463), che reca nella sottoscrizione (f. 88v) la menzione della città di Trento: A. Cataldi Palau, Il copista Ioannes Mauromates, in I manoscritti greci tra riflessione e dibattito. Atti del V Colloquio Internazionale di Paleografia Greca (Cremona, 4-10 ottobre 1998), a cura di G. Prato, I, Firenze 2000, pp. 335-399, segnatamente p. 346 e nt. 45, che, tuttavia, non menziona il precedente, mancato, viaggio a Trento di Eparco insieme all’ambasciatore spagnolo. 4 Lettera a Cervini del 20 maggio 1548, in Dorez, Antoine Eparque cit., p. 321. 5 Ε. Γιωτοπουλου-Σισιλιανου, ᾿Αντώνιος ὁ Ἔπαρχος. ᾿Ενας Κερκυραίος ουμανιστής τοῦ ΙΣΤ´ αιώνα, Αθῆνα 1978, p. 281. Va detto, tuttavia, che Eparco affiancava all’attività di copista anche quella di docente di greco, di letterato e di mercante. 6 Lettera di Cervini a Guglielmo Sirleto del 6 febbraio 1548, in Vat. lat. 6178, f. 132r.

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PER IOANNES MAUROMATES, CADUTO DA CAVALLO

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forse dolosa, di Nikolaos Sophianos che non scriveva nulla «ne tan poco ne mostrava voluntà»7, e il «male in un dito destro»8 di Giovanni Onorio, si aggiunge qui l’autocertificazione prodotta da Zuani Mauromati grecho9, anche lui disarcionato da un inquieto alipede. Un piccolo foglietto che, per il fatto di trovarsi nel Vat. lat. 6416 (f. 148r), manoscritto miscellaneo databile al XVI secolo della collezione latina della Vaticana, è rimasto inedito. Lo si pubblica in appendice a queste pagine, nelle quali si proverà, invece, a trarre tutte le informazioni possibili da questo referto di (temporanea) invalidità: anche in questo caso né cadenze jeratiche10 né suoni del grand’arco del figlio di Latona11, ma non trascurabili elementi documentari circa la vita di Ioannes Mauromates, le sue condizioni di lavoro e la datazione di un paio di suoi manufatti, oltre che importanti aperture su traffici di manoscritti e copie di testi antichi, in stretta connessione con l’editoria cattolica della seconda metà del secolo. 1. La data La lettera è datata al 6 dicembre 1564: si stava entrando nel quinto (e ultimo) anno di regno di Pio IV Medici12, pontefice lombardo eletto il giorno di Natale del 1559 con l’esplicito mandato di spingere il papato fuori dalla cupa e tormentata stagione di Paolo IV Carafa, iniziata all’insegna del più radicale rigore e finita con la decapitazione della statua del pontefice sul Campidoglio. Il vecchio Giovanni Angelo Medici fu all’altezza del compito: il 29 novembre 1560 aveva riaperto il Concilio a Trento, il 4 dicembre 1563 era riuscito a chiuderlo, e tra il gennaio e il giugno 1564 ne aveva approvati e pubblicati i decreti. Il 24 marzo 1564 aveva riformulato un più mite Indice dei libri proibiti, mentre già quattro anni prima aveva riabilitato il cardinale Giovanni Morone: la trucida e cieca epoca carafiana era alle spalle da tempo e, anche esteticamente, il Vaticano tornava a vivere una stagione di grande raffinatezza sotto la guida del fantasmagorico Pirro Ligorio. Antico custode delle antichità del cardinale Ippolito d’Este e astro nascente della corte di Giulio III Ciocchi del Monte (l’ultimo pontefice gaudente prima dei rigori di Paolo IV), era stato significativamente   7 Lettera

di Cervini a Sirleto del 6 febbraio 1548, in Vat. lat. 6178, f. 132r. di Sirleto a Cervini del 29 febbraio 1548, in Vat. lat. 6177, ff. 127r-128r.   9 Resta fondamentale il ricchissimo studio di Cataldi Palau, Il copista Ioannes Mauromates cit. 10 Gadda, Conforti della poesia cit., p. 195. 11 Foscolo, Opere cit., p. 177. 12 L. von Pastor, Storia dei papi, VII: Storia dei papi nel periodo della riforma e restaurazione cattolica. Pio IV (1559-1565), tr. it., Roma 1923 e F. Rurale, Pio IV, papa, in Dizionario biografico degli Italiani, 83, Roma 2015, pp. 808-814.   8 Lettera

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confermato in servizio: stava allora portando a termine la celebre Casina nel mezzo dei Giardini Vaticani e aveva trasformato il Cortile del Belvedere in una galleria di antichità a cielo aperto13. Nel 1561, infine, Pio IV aveva chiamato a Roma Paolo Manuzio, il figlio del grande Aldo, per affidargli l’impresa di impiantare una stamperia, un progetto che non si sarebbe rivelato né interessante né redditizio per Manuzio, ma che era estremamente significativo da un punto di vista politico ed ecclesiale, visto che indicava la via di un ritorno a certe aperture del pontificato farnesiano e ai progetti culturali di Marcello Cervini14. 2. Il mittente La lettera qui in esame è firmata: Zuani Mauromati, denominazione abituale (anche amicale: così lo saluta Giovanni di Corinto15) di Giovanni Mauromates, copista greco nativo di Corfù (da cui viene la “calata veneta” della firma) e attivissimo in Italia, dagli anni Quaranta del secolo XVI al 1573, sua data di morte. Sulla base degli elementi paleografici e codicologici della notevolissima produzione — finora sono quasi duecento le copie riconosciutegli — la sua attività è stata scandita in quattro grandi fasi, collegate ognuna ad una o due città di riferimento: Venezia (1541-1547), Roma (1548-1553), Firenze e Bologna (1554-1555) e nuovamente Roma (1555-1573). In ognuna di queste tappe Mauromates visse, e si guadagnò da vivere, come copista di codici greci, o più raramente come calligrafo: Venezia rappresentava il naturale approdo per chiunque provenisse da Corfù (sotto il dominio della Serenissima sin dal 1386), ma anche da qualsiasi altro scampolo della languente grecità bizantina, ed era città dalla importante vocazione editoriale (così era stato per Eparco e per Andronico Nuccio, a solo titolo di esempio16); Roma il secondo più significativo centro di interesse per la cultura greca, sia classica sia bizantina, oltre che sede della Curia Romana e, dunque, teatro di possibili fortunate carriere, sia presso di essa sia in corte di qualche ecclesiastico. Firenze e Bologna, poste sulla linea che conduceva tra i due centri, ospitavano significative 13 H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, IV.1-2, tr. it., Brescia 1979 e 1981 e A. Prosperi, Dalla Peste Nera alla guerra dei Tren’anni, Torino 2000, pp. 237-267 e id., Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Torino 2001, pp. 70-113. 14 Si può utilmente partire dalla voce di T. Sterza, Manuzio, Paolo, in Dizionario biografico degli Italiani, 69, Roma 2007, pp. 250-254, per un approfondimento bibliografico. 15 Vat. gr. 2124, f. 139r, lettera datata 7 marzo 1570: «Recommandome a m. Zuan Mavromati et a m. Lazaro», sulla quale Cataldi Palau, Il copista Ioannes cit., pp. 355-356. 16 Una buona sintesi è offerta da B. Mondrain, Lettrés et copistes à Corfou au XVe et au e XVI siècle, in Puer Apuliae. Mélanges offerts à Jean-Marie Martin, édités par E. Cuozzo, V. Déroche, A. Peters-Custot et V. Prigent, 2, Paris 2008, pp. 463-476.

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raccolte librarie (a Firenze Hurtado de Mendoza inviava schiere di copisti per trascrivere codici antichi17) e, specie la prima, avevano visto un precoce interesse per l’insegnamento pubblico del greco, avviato addirittura con Manuele Crisolora e poi con Guarino Veronese, e che proseguiva fino a quei giorni grazie a Pier Vettori18. Evidentemente i quattro diversi soggiorni di Mauromates sulla Penisola non sono da ritenere così assoluti, se è esattamente a metà dell’ultimo periodo romano (1555-1573) che cade la lettera in esame, dalla quale emerge che dopo esser passato per Firenze, provenendo dall’Urbe in direzione di Bologna, e aver soggiornato per un certo tempo nella città felsinea, sulla via del ritorno verso Firenze anche a lui era capitato di cadere da cavallo. Non a’ nodi indocile la chioma al roseo braccio fu di gentile impaccio al copista, ma gli toccò ben più sonoro colpo e invalidante: «Ho cascato per la via vignendo da Bologna e o dato su li coste ananzi al peto». Quel che conta è che si trova qui attestata una duplice trasferta, felsinea e fiorentina, in pieno periodo romano, ad indicare come la vita di un copista, per quanto stanziale, fosse soggetta a numerosi trasferimenti, richiesti dai clienti ogni qual volta si avesse notizia di testi interessanti conservati in qualche particolare collezione, pubblica o privata. Mauromates aveva già risieduto sia a Firenze sia a Bologna (presso Francesco Bolognini, o Bolognetti, nella Strada Maggiore, vicino alla chiesa dei Servi)19, per cui disponeva delle conoscenze necessarie per orientarsi e mantenersi nelle due città, almeno per i mesi necessari a portare a termine i lavori commessigli. Se Hurtado de Mendoza era in grado di mobilitare piccole truppe di copisti, il viaggio in solitaria di Mauromates lascia supporre un committente meno facoltoso, ma ne postula uno che fosse comunque in grado di aver notizia dei tesori delle varie biblioteche italiane e di indicare precisamente collezioni, collocazioni, titoli: l’identità del destinatario della missiva, del resto, non lascia dubbi a questo proposito. 3. Il destinatario (ufficiale) La lettera è, infatti, indirizzata: «Al molto magn.co et reverendo Signor dotor Tores a santo Gerolimo al chabo fiori apreso al palazo de gardinale de santagelo. In Roma»20, che, tradotto secondo un indirizzario moderno, suona: «Al dottor Francisco Torres, che abita presso la chiesa di San Gi17 Cataldi Palau, Il copista Ioannes cit., pp. 345-346. 18 Si può vedere D. Baldi, Il greco a Firenze e Pier Vettori

(1499-1585), Alessandria 2014.

19 Cataldi

Palau, Il copista Ioannes cit., pp. 350-354. 20 Vat. lat. 6416, f. 148v.

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rolamo della Carità, nelle vicinanze della residenza di Ranuccio Farnese, cardinale del titolo di S. Angelo in foro piscium». Il monsignor dotor Francisco Torres21 era lo spagnuolo e theologo22 nato ad Herrera nel 1509, ma che dal 1540 risiedeva in Italia, in corte prima del cardinale Francisco de Mendoza y Bobadilla23 e, dal 1547, del cardinale Giovanni Salviati24; vent’anni dopo, il 6 gennaio 1567, avrebbe fatto il suo ingresso nella Compagnia di Gesù25. Non era, dunque, finora nota questa tappa intermedia presso la comunità che si riuniva presso la chiesa di «S. Girolamo appresso il Palazzo di Farnese. In questa chiesa ogni giorno vi è indulgentia plenaria, & remissione de’ peccati, & quivi si fanno molte elemosine a povere persone di Roma vergognose dalla Compagnia della Carità, che in detta chiesa si congregano, & la chiesa è la loro, & è offitiata da’ padri di s. Girolamo, i quali attendono alle confessioni, & altri offitii26». Risiedere nella chiesa presso il palazzo «delli signori Farnesi, fatto con architettura mirabile, & è pieno d’anticaglie bellissime»27 significava far parte dell’Arciconfraternita di San Girolamo della Carità, fondata dal cardinale Giulio de’ Medici (poi Clemente VII) nel 1518 e riconosciuta nel 1520 da Leone X de’ Medici con scopi caritativi, ma anche amministrativi che attiravano l’aristocrazia più colta e devota; ma nel 1564 significava soprattutto gravitare nell’orbita di Filippo Neri, che vi risiedeva dal 1551 e vi aveva avviato l’attività pastorale che avrebbe dato vita all’Oratorio (e agli Annales ecclesiastici di Cesare Baronio). Torres appare, dunque, pienamente inserito nel movimento di rinascita religiosa romana di metà Cinquecen21 Il contributo bio-bibliografico più recente è quello di S. Lucà, Traduzioni patristiche autografe dal greco in latino del gesuita Francisco Torres († Roma 1584), in Philologie, herméneutique et histoire des textes entre Orient et Occident. Mélanges en hommage à Sever J. Voicu, éd. F. P. Barone, C. Macé, P. A. Ubierna, Turnhout 2017, pp. 71-118, cui si rimanda per la bibliografia. 22 Così si firma nella ricevuta di prestito della Vaticana in data 4 giugno 1546, in I due primi registri di prestito della Biblioteca Apostolica Vaticana. Codici Vaticani latini 3964, 3966, pubblicati in fototipia e in trascrizione con note e indici a cura di M. Bertòla, Città del Vaticano 1942, pp. 104-105; nella ricevuta del 23 marzo 1545 si era qualificato come hispano (ibidem, p. 64). 23 Il prestito del 4 giugno 1546 è infatti a favore, o ottenuto sotto la protezione, del cardinal Coria (ibidem, pp. 104-105); altre evidenze in proposito porterò in un prossimo contributo dedicato all’attività editoriale di Marcello Cervini. 24 Così in quattro ricevute in Vaticana, tutte datate al 1547: I due primi registri cit., pp. 59 e 69; altri dettagli ho aggiunto in G. Cardinali, Il ‘figlio d’arte’ e il falso monaco. Piccolo contributo alla riflessione paleografica greca sull’età rinascimentale, Città del Vaticano 2020 e in id., La lente dissolution de la bibliothèque grecque du cardinal Salviati. Une affaire de soldats, gentilshommes, papes, bibliophiles et pirates, di prossima uscita in Journal des Savants. 25 Lucà, Traduzioni patristiche autografe cit., p. 73 con bibliografia. 26 Le cose meravigliose dell’alma città di Roma…, In Roma 1589, p. 22. 27 Ibidem, p. 54.

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to, che aveva due dei suoi centri più significativi nella Chiesa del Gesù e in quella di San Girolamo, ossia i quartieri generali dei gesuiti e dei (futuri) filippini, tra i cui rispettivi generali i rapporti erano stretti e improntati a mutua stima, ma anche a uno spiccato senso della propria autonomia28. Che il copista Mauromates da Firenze si rivolgesse a Torres non fa meraviglia, solo che si pensi alla sua duplice attività di cercatore infaticabile di codici greci e di studioso e traduttore di testi antichi: patristici, ma non solo. Nel 1564 il theologo hispano conosceva meglio di gran parte dei suoi colleghi e confratelli italiani le più importanti biblioteche della Penisola, specie quelle dalle collezioni greche più significative; il suo lasciapassare lo presentava come uno che «si deletta di cercar libri greci per quelle librarie, dove intende esserne»29: dalla Bessarionea a Venezia, visitata e censita nel 154330, fino al Patir di Calabria, di cui aveva almeno controllato un indice31, passando per Bologna, Firenze, Roma (dove era di casa in Vaticana e nelle principali residenze cardinalizie, oltre che nella raccolta del suo patrono Salviati) e Napoli. Di ognuna delle principali raccolte Torres era solito redigere una lista dei titoli a suo avviso più significativi: una mappatura tematica che avrebbe reso più facile individuare antigrafi antichi, da chiedere in prestito o, nel caso fosse impossibile, da far copiare presso atelier locali oppure inviando copisti di fiducia. Rientrato a Roma, il theologo condivideva le informazioni con amici, colleghi e patroni. Tra questi vi era anche Cervini, uomo politico tra i primissimi della Curia farnesiana, studioso e traduttore in proprio, ed editore di testi greci, latini e orientali, oltre che protettore della Biblioteca Apostolica Vaticana e, dal 1548/1550, Cardinale Bibliotecario di Santa Romana Chiesa. A lui, e al suo assistente e bibliotecario personale, Guglielmo Sirleto, Torres era solito inviare i suoi rapporti, come lui stesso riconosceva: «et a me ne ha fatti alle volte haver per questa Libraria Apostolica…»32 e come risulta dal suo carteggio con 28 H. Rahner, Ignazio di Loyola e Filippo Neri, in Quaderni dell’Oratorio 3 (1960), pp. 1-11. 29 Lettera — inedita — di Marcello Cervini a Ludovico Beccadelli del 9 aprile 1552, in Parma, Biblioteca Palatina, ms. 1021(1), f, 92r. 30 L’inventario si trova tra le carte di Jean Matal, edite da A. Hobson, The iter italicum of Jean Matal, in The Book Trade in honour of Graham Pollard, Oxford 1975, pp. 37-69, segnatamente p. 59: Cambridge, University Library, Add. 565, ff. 333r-334r: «Ex Marciana Veneta bibliotheca hos excerpsit Franc(iscus) Turrensis 1543». 31 G. Mercati, Per la storia dei manoscritti greci di Genova, di varie badie basiliane d’Italia e di Patmo, Città del Vaticano 1935, pp. 98, 102 e 112. 32 Si vedano, a preciso riscontro, due ricevute pagate «per conto della Libraria Apostolica», edite da L. Dorez, Le registre des dépenses de la Bibliothèque Vaticane de 1548 à 1555, in Fasciculus Ioanni Willis Clark dicatus, Cantabrigiae 1909, pp. 142-185: la prima (p. 179) di «scudi quindici d’oro per tanti ne ha fatti pagare in Venetia da suoi agenti a m. Franc.° Torres per fare scrivare libri greci» e la seconda (p. 180) per stanziare «a m. Franc.° Torres scudi

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Sirleto: «La lettera del Torres vi si rimanda inclusa in questa, per la quale m’è piaciuto veder ch’egli habbia trovati in Fiorenza tanti bei libri, et tra gli altri credo che sia un’opera da volere»33. Non c’era in tutto il Sacro Collegio persona più adatta di Cervini ad apprezzare quel metodo di lavoro e a conoscerne le potenzialità, giacché sin da giovane aveva preso l’abitudine, girando per l’Italia, di «fare gli indici» delle biblioteche in cui gli riusciva di entrare34. E proprio a seguito di una informazione di Torres Cervini rispondeva a Sirleto: «Et però saria bene che voi vi faceste avvisar dal Torres, s’egli potesse haver copia di questi almeno, et quando non tornasse commodo a lui il pigliarla, che scrivesse a noi dove son li libri et la via da tener in farli trascrivere. Perciò che ordinarerla a qualcuno, che lo facesse»35. In taluni casi (come si vedrà sotto) la visita aveva sortito anche una possibilità di prestito del manoscritto; in altri si procedette a una copia in loco, sorvegliata da Torres stesso e poi spedita a Roma a rifornimento di qualche collezione particolare o anche della Vaticana, come nella tarda primavera del 1552: «Per adviso di quel ch’è occorso da po la partita sua, da Venetia son comparsi quelli tre libri, quali il Torres ha indirizati per m. Thomase Gionta, quali son questi: il testamento di s.to Ephrem, Anastasio et Manuel Caleca in vero son tre belle opere. Il testamento di s.to Ephrem ha quel luogho chi scrisse il Torres et molti altri belli in comprobatione di gli officii et elemosine in giovamento de le anime di defunti et quel che importa assai, quando fa mentione di questi beni che se deveno fare per l’anima, sempre soggionge questa sententia, secondo il solito costume, in modo che havemo il testimonio d’un padre santo et tanto anticho, chel far bene per l’anime è usanza anticha et approbata de la Chiesa»36. Testi immediatamente risposti in Vaticana dai custodi: «Noi custodi della libraria havemo receputo dal Rmo Carle Sta + per mano di m. Antonio Manelli suo servitore li infra scritti libri, cioè Manuel Caleca. Et un altro detto Ὁδηγὸς et lo 3° è lo Testamento di Ephrem. Tutti tre greci et scritti a manu»37. dua et mezzo d’oro per il resto della scrittura d’Eusebio contra Marcello heretico et Origene contra Marcione scritti in Venetia, et più scudi sei et mezzo per la scrittura et rincontratura de l’Homelie di Basilio Seleucie, scritti in Firenze». 33 Lettera di Cervini a Sirleto del 19 ottobre 1551, in Vat. lat. 6178, f. 11r. 34 P. Piacentini Scarcia, La giovinezza di Marcello Cervini nella lettera al padre (15191524), in Filologia umanistica per Gianvito Resta, a cura di V. Fera e G. Ferraù, II, Padova 1997, pp. 1421-1461, segnatamente, p. 1425. 35 Lettera di Cervini a Sirleto del 19 ottobre 1551, in Vat. lat. 6178, f. 11r. 36 Lettera di Sirleto a Cervini del 18 giugno 1552, in Vat. lat. 6177, ff. 161r-162v. 37 Fausto Sabeo, insieme al collega Niccolò Majorano, accusò ricevuta dei volumi il primo luglio seguente (Arch. Bibl. 11, f. 47r); le copie, dunque, furono approntate a Venezia, sotto la sorveglianza di Torres, che le inviò a Roma per via di Tommaso Giunta, a Sirleto;

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Di suo, oltre che mobilissimo e portato nelle varie città italiane anche da esigenze editoriali («andando m. Francesco Torres a Firenze per stampare una sua opera…»38), Torres era apologeta, traduttore, editore e correttore di testi, soprattutto greci: messo a contratto da Cervini come revisore dell’edizione del Teofilatto di Bulgaria del 1542, venne ricompensato con 3 scudi mensili e un esemplare dell’opera39. Questi era, dunque, il destinatario della lettera vergata da Mauromates dal suo letto di convalescenza a Firenze, «malato e cenza chatrini». Non si dimentichi, infine, che da quel che risulta dalle copie vergate durante il primo soggiorno romano, Mauromates lavorava principalmente per clienti spagnoli o legati alla corona imperiale, di cui era l’escribiente griego40: don Diego Hurtado de Mendoza, suo cugino il cardinale Francisco de Mendoza y Bobadilla e il cardinale Antoine Perrenot de Granvelle41; e che Torres, al suo arrivo a Roma, era legato al cardinale spagnolo, facendo parte probabilmente del suo entourage: una “contiguità di corte” che avrà certamente avuto il suo peso. In ultimo, il contatto epistolare tra i due si spiega con le ragioni che emergono dal tenore della lettera e una volta dato un nome (o meglio, un cognome) alla misteriosa figura cui si fa cenno così spesso. 4. Il (vero) destinatario Per quanto, infatti, sia quello di Torres il nome che si legge sull’indirizzo della lettera, è un altro il vero destinatario della missiva di Mauromates; se non altro statisticamente: se all’hispano si allude soltanto nel vocativo iniziale (oltre che a tergo della lettera), ben sei volte è evocato un altro personaggio, cui Mauromates chiede a Torres di riferire informazioni, di domandare aiuto a suo nome e di raccomandarsi per lui, raccogliendone desiderata e richieste (evidentemente librari). Il misterioso dominus di tutta la lettera è un monsignore di Curia, fregiato del titolo di Protonotario (Apostolico) e di nome Guglielmo: non può che trattarsi di Guglielmo Sirleto da Stilo.

esse sono state identificate da Devreesse, Le fonds grec cit., p. 422 con i Vat. gr. 727 e 438, ff. 186r-201r. 38 Lettera di Sirleto a Cervini del 29 agosto 1551, in Vat. lat. 6177, ff. 201r-203v. 39 L. Dorez, Le cardinal Marcello Cervini et l’imprimerie à Rome, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 12 (1892), pp. 289-313, segnatamente pp. 304 e 310. 40 J. M. Fernández Pomar, Libros y manuscritos procedentes de Plasencia. Historia de una colección, in Hispania Sacra. Revista de Historia Ecclesiastica 18 (1965), pp. 33-102, segnatamente p. 40 nt. 28. 41 Cataldi Palau, Il copista Ioannes cit., pp. 348-350.

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Proveniente dalla Calabria, ancora grecofona in ampie zone42, e passando per Napoli, attorno al 1540 Sirleto era giunto a Roma, dove aveva preso a frequentare la Vaticana nelle ore libere dalla sua attività di insegnante di greco: lì era stato notato da Cervini e preso al suo servizio43. Gli fu bibliotecario e consulente letterario e teologico, a sostegno dell’attività sia conciliare sia bibliotecaria sia editoriale. Nello stesso 1548, in cui aveva assunto la guida della Vaticana, Cervini aveva subito fatto inserire messer Guglielmo nel personale della biblioteca, ma con cautela estrema: «Quanto a m. Guglielmo m’ero risoluto che non venisse a stare in Palazzo altrimenti per fuggire le contenzioni. È ben vero che sotto pretesto di fare un indice pieno della libraria per mano d’un notario di Camera, secondo che N. S. ha ordinato che si faccia, vi fo intervenire m. Guglielmo ogni giorno, perché possa rendere conto di tutto et si vada pian piano instruendo della libraria»44. Redatto l’inventario dei codici greci insieme a Niccolò Majorano45, il 3 gennaio 1554 Sirleto subentrò a quest’ultimo come custos della Vaticana, rimanendovi fino al 2 aprile 1557, quando venne nominato Protonotario Apostolico46: cardinale dal 12 marzo 1565, il 18 marzo 1572 sarebbe tornato in Vaticana come Bibliotecario dopo una breve esperienza pastorale in Calabria47. 42 Nei

pressi di Stilo sorgeva il monastero greco di San Giovanni Therista, sul quale si vedano P. P. Rodotà, Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, II, Roma 1760, p. 196 e S. G. Mercati, C. Giannelli, A. Guillou, Saint-Jean-Théristès (1054-1264), Città del Vaticano 1980, pp. 28-28, mentre per una notizia circa Vittorio da Taranto, maestro di greco di Sirleto a Napoli, si veda Codices Vaticani Graeci. Codices 1745-1962, recensuit P. Canart, II: Introductio, addenda, indices, In Bibliotheca Vaticana 1973, p. 172, s.v. Tarantenus (Tarantinus) Victor. 43 C. Marcora, Il cardinale Sirleto nei documenti della Biblioteca Ambrosiana, in Il Card. Guglielmo Sirleto (1514-1585). Atti del Convegno di Studio nel IV Centenario della morte, Guardavalle – S. Marco Argentano – Catanzaro – Squillace, 5-6-7 ottobre 1986, a cura di L. Calabretta e G. Sinatora, Catanzaro 1989, pp. 183-216, segnatamente pp. 199-200, ripreso e giustamente ridimensionato da P. Sachet, Guglielmo il greco: Sirleto e i progetti editoriali del cardinale Marcello Cervini, in Il «Sapientissimo calabro». Guglielmo Sirleto nel V centenario della nascita (1514-2014). Problemi, ricerche, prospettive. Atti del Convegno, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Corsini – Sala della Conciliazione, 13-15 gennaio 2015, a cura di B. Clausi – S. Lucà, Roma 2018, pp. 209-220. 44 Lettera di Bernardino Maffei a Cervini dell’8 aprile 1548, conservata a Firenze, Archivio di Stato, Carte Cervini 20, ff. 236r-237r. 45 L’inventario del fondo greco, conservato nel Vat. lat. 13236, ff. 25r-104v, è stato edito, in maniera parziale e incompleta, da R. Devreesse, Le fonds grec de la Bibliothèque Vaticane dès origines à Paul V, Città del Vaticano 1965, pp. 381-416. 46 Si rimanda a J. Bignami Odier, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections de manuscrits, avec la collaboration de J. Ruysschaert, Città del Vaticano 1973, p. 47 e ad indicem, e a Ch. M. Grafinger, Servizi al pubblico e personale, in La Biblioteca Vaticana tra Riforma cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio (15351590), a cura di M. Ceresa, Città del Vaticano 2012, pp. 217-236, segnatamente pp. 221-222. 47 Un panorama bio-bibliografico è offerto da S. Lucà, Guglielmo Sirleto e la Vaticana,

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Tra lui e Torres i rapporti datavano almeno al 1542, quando avevano lavorato, gomito a gomito, alla revisione del Teofilatto di Cervini: da quel momento la collaborazione si era fatta ampia, e Torres aveva, di volta in volta, prestato il suo contributo di esperto teologo, conoscitore del panorama bibliotecario italiano, frequentatore delle migliori collezioni librarie dell’Urbe, prolifico apologeta, procacciatore di testi a stampa e viaggiatore inesausto. Qualità indispensabili alla collaborazione con Sirleto, che era invece uomo decisamente e programmaticamente stanziale: «Io, il quale non son mai uscito da le porte di Roma»: stando ai familiari le sole uscite che si concedeva erano per sue devotioni nelle chiese48. In Torres il protonotario trovava il collaboratore ideale per le attività ereditate da Cervini sotto il duplice aspetto della cura e dell’accrescimento della collezione libraria personale e del piano di edizioni a stampa di testi antichi49: l’una e l’altra attività ereditò messer Guglielmo, ma — come è ovvio — conducendole a modo suo. La Bibliotheca cervina venne acquisita quasi interamente da Sirleto soltanto negli anni Settanta del secolo, facendola confluire nella propria e arricchendola ulteriormente, mentre del suo ruolo nell’attività editoriale romana ci resta una traccia eloquentissima in una nota conservata manoscritta, in cui «il Protonotario Sirletto» indica da quali autori «si debbia incominciare a tradur di greco» e di quali pubblicare i testi: un elenco in cui gli unici «dottori greci antiqui»50 sono alcuni Padri della Chiesa: «Teodoreto Sopra li salmi51; Una catena sopra li salmi, che parte è in Libraria, ma tutta in doi tomi, molto bella, nei libri di messer Antonio Giberti52; Il Concilio Efesino53; Una catena sopra in La Biblioteca Vaticana tra Riforma cit., pp. 145-188, oltre che dai contributi raccolti nel volume Il «Sapientissimo calabro» cit. 48 Marcora, Il cardinale Sirleto cit., p. 201. 49 Si veda, da ultimo, S. Lucà, Guglielmo Sirleto e Francisco Torres, in Il «Sapientissimo calabro» cit., pp. 533-602. 50 AAV, Misc. Arm. XI, 93, f. 63r; la nota non è datata, ma va considerata post 2 aprile 1557, quando Sirleto fu insignito del titolo di Protonotario Apostolico. 51 Nella biblioteca di Cervini era custodita una copia del commento ai Salmi di Teodoreto di Ciro (CPG 6202) — Ott. gr. 40 — vergato da Guglielmo Sirleto (ff. 2r-7v) e da Michele Rosaites (ff. 8r-357v), come riconosce anche RGK II 117=III 154 e II 391=III 467. Essa è dunque anteriore all’autunno 1544, data della morte del secondo copista (Dorez, Antoine Eparque cit., p. 308). 52 I «doi tomi» con la catena ai salmi in possesso di Antonio Giberti, nipote del vescovo di Verona Gian Matteo, ritengo siano da identificarsi nei Vat. gr. 1677-1678 a motivo dei segni di collazione ed emendazione lungo gran parte del testo e del fascicolo aggiunto in coda al Vat. gr. 1678 (ff. 753r-757r, olim 512r-516r) da una mano che richiama quella di Francisco Torres (se ne vedano gli specimina pubblicati da Lucà, Traduzioni patristiche autografe cit., pp. 110-118). 53 Sirleto ne aveva già caldeggiato la stampa nella lettera a Cervini del 3 luglio 1546 (Vat.

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l’Exodo54; Una catena sopra li Evangelii in doi tomi; Orationi et Homilie nelle feste de tutto l’anno, parte sono in Libraria, ma tutte ne i detti libri; Gennadio de intercessione sanctorum, de purgatorio et de primatu Petri». Nulla rimaneva degli Eustazio, Eschilo, Euripide, Eliano e Apollodoro, e tantomeno degli Archimede, Euclide, Oribasio e Tolomeo, editi dal cardinale tra 1539 e 1555, o direttamente o mediante sostegno economico, approvvigionamento di manoscritti o incentivo materiale e morale ai curatori55; anche Manuzio avrebbe patito la selezione in direzione liturgicopatristica, operata da Sirleto e dai suoi collaboratori. Legato papale al Concilio di Trento (1545-1547), responsabile della Vaticana ed editore poliglotta a Roma, in ognuna delle tre vesti Cervini aveva trovato in messer Guglielmo un collaboratore instancabile e competente, sebbene ansioso e non certo ottimista: disponibile a qualsiasi ricerca e infaticabile cacciatore di testi e autori minori e dimenticati, ma alla condizione che non gli si chiedesse di occuparsi di nuovo di classici o di «studiare un’altra volta Homero et Demosthene»56: « non vorrei ritornare tante volte ad legere Chrysalora o vero Luciano, havendo già incominciato a conversare con li autori divini. Credo certo che questa sia una tentatione, bisogna ricorrere al scudo de la fede, il quale spero che me libererà»57. A quest’uomo Mauromates, tramite Torres, si raccomandava come «minimo servitor vostro», ben sapendo come a Roma nel 1564 Sirleto fosse l’arbitro degli studi greci e dell’editoria cattolica, il referente più autorevole per i copisti greci sia per il ruolo curiale sia per le abitudini personali: uomo di «molte elemosine continue»58, era particolarmente generoso con copisti ed eruditi greci che «fo mangiare dove mangio io et le fo careze,

lat. 6177, ff. 239r-240v), mentre una copia moderna ne era stata eseguita da Provataris e Bembaines per il cardinale Cervini: Ott. gr. 23. 54 Si potrebbe supporre che in questo caso Sirleto alluda al Vat. gr. 2131, contenente una Catena aurea in Exodum, Leviticum et Numeros (f. IIr), appartenuto al vescovo di Verona, data la nota di possesso al f. IIIv; già riconosciuto come gibertino il Chig. gr. 45 (R. VIII. 54), per il quale si veda Codices graeci Chisiani et Borgiani, recensuit P. Franchi de’ Cavalieri, Romae 1927, pp. 91-93. 55 Mi vedo costretto a rinviare al mio studio sull’editoria promossa da Cervini, dal momento che la reale “paternità” di molte di queste edizioni non è stata ancora riconosciuta, nemmeno nei contributi più recenti, come quello di P. Sachet, La Chiesa davanti ai Padri: Erasmo, gli umanisti riformati e la patristica cattolica romana tra Rinascimento e Controriforma, in Rivista di storia e letteratura religiosa 52.2 (2018), pp. 389-419, segnatamente pp. 409-413. 56 Lettera a Cervini del 5 maggio 1546 (Vat. lat. 6177, ff. 90r-91r). 57 Lettera a Cervini del 17 ottobre 1545 (Vat. lat. 6177, ff. 185r-186r). 58 Marcora, Il cardinal Sirleto cit., pp. 200 e 202.

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considerando che po’ servire non solamente a scrivere, ma anche a riscontrare libri»59. 5. L’oggetto Tornando alla missiva di Mauromates, e scrematala dalle richieste di natura economica e dalle lamentationes di rito, essa verte sulla spedizione di due copie da lui eseguite durante la trasferta tra Bologna e Firenze, la seconda delle quali già recapitata a Roma (e della quale chiede ansioso il riscontro), mentre la prima si trova ancora in mano sua, ma pronta a prendere la via dell’Urbe: «io lo mandarò molto volintiera». Oggetto dell’invio promesso molto volintiera è un non meglio specificato «Ἐυσέβιο», che non può che essere identificato nell’Ott. gr. 4760: la mano è quella di Mauromates, il volume corrisponde perfettamente al Theol. 188 della biblioteca di Sirleto, che vi ha lasciato copiosissimi marginalia, segno di grande studio e di profondo interesse. Il codice contiene, infatti, una copia dei Commentarii in Psalmos (CPG 346761), che si arresta al salmo 112, descritto da Santamaura come «Βιβλίον βαμβάκινον, ἀντίγραμμα ἐν ᾧ

ἔνεστι τὰδε Ἐυσεβίου τοῦ Παμφίλου Ἐξήγησις εἰς τοὺς ψαλμοὺς, ἀτελὲς, ἄχρι τοῦ ῥίβ ψαλμοῦ»62. Esso non è, dunque, più da datare al periodo 1554-1555, ma dieci anni dopo. Delle due trascrizioni, tuttavia, è la seconda ad apparire più significativa e dirimente alla localizzazione del lavoro del copista: «Io ho mandato anchora Andriano in subito chome V. S. maveti scrito e resposta non ho butto pero e voleva sapere si mosignor lo a receputto, però prego V. S. degniatevi datemi resposta de chesto che io scrivo a V. S.». Mauromates non può che riferirsi a una trascrizione dell’Isagoge in Sacras Scripturas di Adriano esegeta (CPG 6527)63, che infatti è presente nella biblioteca personale di Sirleto, addirittura in duplice copia, entrambe di mano di Mauromates: una completa, ossia l’Ott. gr. 27064 corrispondente al manoscritto

59 Ibidem, che ho già edito e commentato in G. Cardinali, Il Barberinianus gr. 532, ovvero le edizioni mancate di Marcello Cervini, la filologia di Guglielmo Sirleto e il surmenage di Giovanni Onorio, in Byzantion 88 (2018), pp. 45-89, segnatamente p. 61. 60 Codices manuscripti graeci Ottoboniani Bibliothecae Vaticanae descripti, recensuerunt E. Feron et F. Battaglini, Romae 1893, p. 34, che data erroneamente la copia al XVII secolo. 61 L’edizione di riferimento è ancora quella della PG 23, coll. 65-1353. 62 Vat. lat. 6163, f. 102rv. 63 Adrian’s Introduction to the Divine Scriptures. An Antiochene Handbook for Scriptural Interpretation, edited with a Study, Translation, and Commentary on the Text by P. W. Martens, Oxford 2017. 64 Codices manuscripti graeci Ottoboniani cit., p. 152, che data erroneamente la copia al XVII secolo; Cataldi Palau, Il copista Ioannes Mauromates cit., p. 398 nr. 158.

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Theol. 18665 — e nella quale andrà riconosciuto l’esemplare di cui si parla nella lettera —, e una, incompleta, nell’Ott. gr. 379, ff. 51r-59v66, ossia nel Theol. 283 della biblioteca del protonotario67. La critica testuale ha già provveduto a riconoscere come ambedue gli esemplari sirletiani siano copia di un medesimo antigrafo: il codice pergamenaceo dell’XI secolo, all’epoca custodito a Firenze nella biblioteca del convento benedettino di Santa Maria, comunemente noto come Badia Fiorentina68, e che è oggi diviso tra la Biblioteca Nazionale Centrale, dove è segnato Conv. Soppr. 39, e la Staats- und Universitätsbibliothek di Amburgo (221 in Scrinio)69. Più precisamente è dal Conv. Soppr. 39, ff. 246r-254r che Mauromates ha trascritto l’Ott. gr. 270, verosimilmente nel corso degli ultimi mesi del 1564. Ne consegue che, durante il soggiorno fiorentino, di cui il copista greco parla nella lettera a Torres, una delle tappe fondamentali sia stata il monastero benedettino che dalla fine del X secolo sorgeva «sulle ditta mura vecchie» della città del Giglio, proclamato abbazia regalis vel imperialis libera e poi celebrato da Dante come emblema di una Fiorenza sobria e pudica (ma biasimato per la condotta morale dei suoi monaci). Ma a quel preciso volume Mauromates non poteva arrivare da solo, tanto più che — come si vedrà — l’inventario della collezione dei monaci non faceva alcuna menzione né di Adriano né della sua Isagoge, così come quello di Jean Matal70, altro inventariatore seriale e divulgatore di notizie bibliografiche, che aveva trovato la collezione non insuavis71; è necessario postulare qualcuno che lo abbia indirizzato. Sebbene al momento manchino inconfutabili riscontri documentari, una pista si apre, quasi necessariamente. 65 Vat.

lat. 6163, f. 102r. manuscripti graeci Ottoboniani cit., p. 193; Cataldi Palau, Il copista Ioannes Mauromates cit., p. 399 nr. 168. 67 Vat. lat. 6163, f. 165v. 68 Lo studio di riferimento, per la biblioteca, è ancora quello di R. Blum, La biblioteca della Badia Fiorentina e i codici di Antonio Corbinelli, Città del Vaticano 1951, cui si può aggiungere A. Rollo, Sulle tracce di Antonio Corbinelli, in Studi medievali e umanistici 2 (2004), pp. 25-95; quanto al monastero si veda La Badia Fiorentina, testi di E. Sestan, M. Adriani, A. Guidotti, Firenze 1982. 69 La vicenda del codice e della sua attuale conservazione tra Firenze ed Amburgo è ripercorsa in Adrian’s Introduction to the Divin cit., pp. 77-79. 70 Sebbene quello di Matal sia ancora da studiare, esso pare configurarsi come una rapida trascrizione dell’inventario dei monaci, edito da Blum, nel quale non c’è traccia né di Adriano né della sua opera. 71 Si veda Correspondence de Lelio Torelli avec Antonio Agustín et Jean Matal (1542-1553), texte édité et commenté par J.-L. Ferrary, Como 1992, p. 86; ma si vedano anche, sempre quanto all’ambito fiorentino, P. Petitmengin – L. Ciccolini, Jean Matal et la bibliothèque de Saint-Marc de Florence (1545), in Italia Medievale e Umanistica 46 (2005), pp. 207-374. 66 Codices

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È un fatto che Francisco Torres abbia più volte soggiornato a Firenze: una prima attestazione è databile ante 1548 e una seconda, «per stampare una sua opera», all’agosto 155172; e lì — conforme al suo naturale — non avrà mancato di perlustrare le principali collezioni cittadine. Ma non basta, il 5 novembre 1547 Sirleto informa Cervini del fatto che «messer Francesco Torres, servitore del R.mo Salviati, ha rimandato il Theodoreto a Fiorenza, da ove l’havea ad imprestito, siché lo riscontraremo con quel di Mon S.or Ponzetta et sarà forse meglio, perché in quello de Firenza non son notati li luoghi de più et correttioni di questo di Mon S.or, le quali, secondo intendo, son molte»73. Al «Teodoreto» avuto in prestito a Firenze Cervini aveva già accennato il 25 ottobre precedente, dando precise disposizioni operative per una rigorosa collatio codicum: «Intendo che quel spagnolo, quale sta col Rev.mo Cardinale Salviati, ha un Theodoreto greco sopra Psalmi antico. Quando lo poteste incontrare insieme co’l nostro Theodoreto74, et notare la diversità che trovaste dall’uno all’altro nella margine, etiam col pagare qualche cosa per la sua fatica al detto spagnolo, mi sarà gratissimo»75. Teodoreto di Ciro è stato — e non mi pare che questo elemento sia stato finora rilevato in maniera sufficiente — l’auteur fetiche di Marcello Cervini, e più in generale, dell’editoria romana e cattolica dagli anni Quaranta agli anni Ottanta del XVI secolo: la pubblicazione delle sue opere costituisce un filo rosso che dalla prima metà del secolo corre fino alle soglie del seguente. Nel 1545 ne erano state edite, nell’originale greco, le De providentia orationes X (CPG 6211) a cura di Majorano, che sarebbero poi state tradotte ed 72 Si veda la lettera di Sirleto a Cervini del 29 agosto 1551 (Vat. lat. 6177, ff. 201r-203v): «Andando m. Francesco Torres a Firenze per stampare una sua opera che ha composta de auctoritate pontificis supra Concilium et de residentia episcoporum, quod est de iure divino, per questa persona m’è parso scrivere a m. Pier Vittorio». Il volume cui allude qui Sirleto apparve effettivamente a Firenze presso L. Torrentino nel 1551, ma con una struttura assai più complessa, come rivela già il frontespizio: CNCE 48142. 73 Lettera di Sirleto a Cervini del 5 novembre 1547 (Vat. lat. 6177, ff. 360r-363r). 74 Cervini sta alludendo alla sua biblioteca personale e non alla Vaticana, dal momento che solo un anno dopo Sirleto, nell’ambito delle operazioni di riordino della collezione greca pontificia, rinverrà un testimone dell’opera di Teodoreto (si veda la lettera a Cervini del 9 maggio 1548). In nessuno degli inventari cerviniani è censita l’Interpretatio in Psalmos di Teodoreto, ma nella collezione sirletiana se ne trovano due esemplari (Vat. lat. 6163, ff. 42r e 104r), da identificarsi negli Ott. gr. 34 e 40. In particolare, l’Ott. gr. 40 è assai ricco di collationes marginali riconducibili perlopiù alla mano di Sirleto; inoltre, sul taglio di testa presenta tracce della numerazione cerviniana. Sirleto, oltre ad aver avviato la copia (sono suoi i ff. 2r-7v) ed averla emendata ope ingenii (ff. 10v, 279v, 294r o 300v), dovette «incontrarla» con due testimoni, uno appartenuto a Girolamo Seripando, indicato come «Sirip.» / «Siri.» / «Sir.» / «Si.», e uno fiorentino, siglato «Flor.» (si vedano, e. g., ff. 50r, 70r, 71v, 72v, 75rv). 75 Lettera di Cervini a Sirleto 25 ottobre 1547 (Vat. lat. 6178, f. 103r).

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edite in latino (1565) e in volgare italiano (1551), mentre nel 1547 apparve, sempre in greco, l’Eranistes insieme all’Haereticarum fabularum compendium (CPG 6217 e 6223), poi fatti tradurre in latino da Gentien Hervet ed editi nel 1548; nel 1552 fu la volta della versione latina dell’Interpretatio in xii epistulas S. Pauli (CPG 6209), mentre nel corso degli anni Sessanta lo sarebbe stata della Explanatio in Canticum Canticorum e della Interpretatio in Danielem (1562), dell’Interpretatio in Ezechielem (1563) e, nel 1564, della Interpretatio in psalmos (rispettivamente CPG 6203, 6207, 6206 e 6202). Ma lo conferma anche il fatto che questa serie di edizioni, aperta da quelle propiziate da Cervini, si chiude con quella che fu l’opera critica ed esegetica di Antonio Carafa, allievo e successore di Sirleto, sia alla guida della Vaticana sia del progetto dell’editoria curiale post-tridentina. La risposta romana alla Riforma protestante parla dunque greco, e il greco di Teodoreto di Ciro. E fu proprio un’opera di Teodoreto ad attirare l’attenzione di Torres, che vagava tra gli scaffali della Badia Fiorentina, e ad indurlo a chiedere il volume in prestito; proprio quell’opera che avrebbe portato a compimento l’edizione (quasi) completa degli scritti del vescovo greco: l’Interpretatio in psalmos, che era poi il primo testo della nota editoriale del «protonotario Sirletto». Solo una volta richiesto ai monaci, e scorso, il Conv. Soppr. 39, Torres dovette rendersi contro che questo conteneva assai più di quel che prometteva la stringata voce descrittiva: «Tractatus in psalmos in membranis volumine magno corio rubeo. [Theodoreti episcopi Chirensis]»76, che era poi anche l’unico testo che aveva registrato, in maniera ancora più imprecisa, Matal: «Tractatus in psalmos»77. Solo a quel punto, il dotor Torres si rese conto di quel che due secoli più tardi anche Montfaucon avrebbe notato, e che cioè il codice conteneva due opere: «Codex membr. optimae notae, Theodoreti in Psalmos scriptus a quodam Luca anno 6613, id est Christi 1105. Ibidem Hadriani introductio in sacras Scripturas»78. I monaci dovevano guardare con condiscendenza, se non con venerante stima, lo spagnolo venuto da Roma e non solo per la probabile commendatizia cerviniana, ma per l’ancor più probabile patrocinio diretto di due 76 Blum,

La biblioteca della Badia cit., p. 115 nr. 20. University Library, Add. 565, f. 185. 78 diarium / italicum. / sive / monumentorum veterum, / bibliothecarum, / musaeorum, &c. / Notitiae singulares in Itinerario Italico collectae. / Additis schematibus ac figuris. / a R. P. D. Bernardo de Montfaucon, Monacho / Benedictino, Congregationis Sancti Lauri. / […] / parisiis, / Apud Joannem Anisson Typographiae Regiae Praefectum. / m. dccii. / cum privilegio regis., p. 362: «Horis succesivis dum Florentiae agerem codicum Monasterii cum Graecorum tum Latinorum, qui magno ibi numero sunt, notitiam excepi sequente. Graeci praestantissimi magna parte sunt.», mentre la descrizione del codice si legge a p. 363. 77 Cambridge,

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persone, una interna e una esterna al monastero. A garantire adeguate entrature nelle biblioteche fiorentine agli uomini di Cervini provvedevano, infatti, e da molto tempo, Piero Vettori e Vincenzio Borghini, il grecista e il benedettino erudito; il primo in cambio di analoghe entrature per le biblioteche romane, il secondo interessato piuttosto alle notizie antiquarie che potevano venire dell’Urbe. Il primo era l’autorità dello Studio mediceo e godeva di amplissimo credito cittadino (e presso la classe dirigente in particolare), il secondo apparteneva alla comunità della Badia stessa, per cui agiva “da interno”. Entrambi erano stati corrispondenti di Cervini e avevano scambiato con lui notizie (erudite e personali), codici manoscritti, pareri filologici, editoriali e tipografici, fino al punto che messer Piero poté beneficiare dei caratteri per stampare il greco, fatti disegnare e fondere dal cardinale. È probabile che fu Vettori a presentare dom Vincenzio al cardinale e a intercedere per lui, se il prelato dichiarava di desiderare «di aiutarlo in ogni cosa che possa et per le virtù sue et per amor vostro»79. A tanta generosità il benedettino avrà risposto con altrettanto slancio, anche quando Cervini venne a mancare nel 1555, si trattò di aprire le porte della biblioteca della Badia a coloro che ne continuavano faticosamente sogni e progetti. Scoperta, dunque, l’Isagoge di Adriano nel 1547 e presane debita nota, Torres ne avrà parlato con Cervini e Sirleto, e quest’ultimo diciassette anni dopo ne avrà chiesto una copia, quando ormai l’attività editoriale romana si era rimessa in moto ed era di nuovo possibile mettere in cantiere edizioni di autori greci. Una notizia, questa che si trae dalla lettera di Mauromates, che è sì minuta e circoscritta, ma non irrilevante, dal momento che permette una serie non trascurabile di acquisizioni. Anzitutto essa importa, dal momento che amplia sensibilmente il raggio d’approvvigionamento dell’editoria romana: la biblioteca della Badia Fiorentina si inserisce così, infatti, nella lunga teoria delle raccolte visitate, esplorate e censite dagli uomini di Cervini, che ne riferirono a Roma. A partire da una simile mappa vennero poi diramate le richieste di prestito o di copia, per poter disporre di un apografo per la stampa; oltre a quelli della Biblioteca di San Marco e della Medicea privata, a Firenze sappiamo ora che si considerarono anche i volumi della Badia. Così come si fece a 79 Così nella lettera di Cervini, che Vettori trascrive a Borghini il 19 ottobre 1948, edita da L. Cesarini Martinelli, Contributo all’epistolario di Pier Vettori (Lettere a don Vincenzio Borghini, 1546-1565), in Rinascimento, II s., 19 (1979), pp. 189-227, segnatamente p. 203, ma anche passim. Si possono aggiungere le notizie presentate in Vincenzio Borghini. Filologia e invenzione nella Firenze di Cosimo I, ideazione e cura del catalogo G. Belloni e R. Drusi, mostra a cura di A. Calcagni Abrami – P. Scapecchi, Firenze 2002, pp. 15 e 22.

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Venezia per la Marciana, la raccolta Grimani a Sant’Antonio di Castello e quella di San Zanipolo; a Ferrara con quella di Santa Maria degli Angeli e con la Malatestiana a Cesena; a Bologna con quella dei «frati Schioppettini» ossia quelli dell Congregatio Rhenana Canonicorum Regularium SS. Salvatoris. Verso sud si poteva giungere fino a Napoli con la raccolta di San Giovanni a Carbonara, che aveva già stupito Antonio Agustin e al profondo Patir, della cui raccolta Torres aveva un indice80. In secondo luogo, essa importa, perché permette di provare che il codice del commento di Teodoreto sui salmi di cui si fece un gran parlare nell’autunno del 1547 proviene sì da Firenze, ma dalla Badia e non da una delle altre raccolte presenti in città. In ultimo, considerando lo stemma codicum dell’Isagoge si nota con ancor maggior nitidezza la preponderanza nell’intera tradizione manoscritta, almeno quella della recensione più rappresentata, della scoperta di Mauromates, che fu copista e divulgatore principale del testo: suoi sono quattro testimoni; mentre dalla diffusione a Roma che egli propiziò a partire dal 1564 derivarono i recentiores, opera, due di Manuele Provataris e due di Francesco Syropoulos, ossia i copisti ufficiali della Vaticana di quegli anni, che non fecero che moltiplicare le copie dell’esemplare la cui diffusione spetta a Mauromates e deriva dalla copia dovuta all’occhio patristico di Torrese e al favore di dom Vincenzio Borghini, che ne agevolò il primo prestito (1547). Un prestito che andò a buon fine, dal momento che il testo venne copiato e poi restituito all’ente possessore; non come quella volta in cui rimase nelle mani di Cervini un volume della raccolta custodita da domenicani di San Marco. Era grazie a messer Piero, infatti, che il cardinale aveva raggiunto la Medicea pubblica ed era riuscito ad avere in prestito uno splendido testimone membranaceo di Gregorio di Nazianzo, datato all’XI secolo81 e vergato, probabilmente nel monastero costantinopolitano di Stoudios82, in una va80 Di ognuna di queste raccolte e dei prelievi effettuati per conto delle edizioni cerviniane,

parlerò più diffusamente nel contributo dedicato all’editoria promossa dal cardinale. 81 Si veda Repertorium Nazianzenum. Orationes. Textus Graecus, 5: Codices Civitatis Vaticanae, recensuerunt I. Mossay et L. Hoffmann, Paderborn – München – Wien – Zurich 1996, pp. 156-157, più aggiornato rispetto al vecchio Codices manuscripti graeci Ottoboniani cit., pp. 7-8 82 Così S. Lucà, Scritture e libri della «scuola niliana», in Scritture, libri e testi nelle aree provinciali di Bisanzio. Atti del seminario di Erice (18-25 settembre 1988), a cura di G. Cavallo, G. De Gregorio e M. Maniaci, I, Spoleto 1991, pp. 319-387, segnatamente p. 328 nt. 37; si aggiunga M. L. Agati, La minuscola «bouletée», prefazione di P. Canart, Città del Vaticano 1992, pp. 151-152, che descrive il volume, ma senza dar conto della sua vicenda storica né dei possessori.

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riante sui generis della «minuscola bouletée», con 25 orationes83. Apparteneva al fondo lasciato in eredità da Niccolò Niccoli84 ed era stato riposto nel primo banco ex parte orientis85 (dove si trovava ancora nel 154586): una collocazione dal valore capitale, perché coincide perfettamente con le indicazioni date dal cardinale a Vettori il 21 maggio 1552: «Ho inteso che in S. Marco in Firenze sonno le Homelie scritte in greco di Gregorio Nanzanzeno sopra l’Evangelii, e che sono entrando nella libraria a man sinistra a pochi banchi. Però senza conferirne prima con alcuno di quelli fiati, vorria che voi vedeste s’egli è vero, e di quel che trovate mi deste avviso»87. Cervini accolse con favore la correzione che Vettori fece pervenire alla sua richiesta — «Vi ringratio della diligentia usata da Voi in cercar l’opere che io scrissi di Gregorio Nazanzeno, in le quali penso che chi me ne dà notitia equivocasse sicondo ho veduto per la lista mandatami da voi»88 —, ma confermò e ottenne il volume che chiedeva: il codice venne inviato da Firenze a Roma. Perché sia rimasto in mano al cardinale89, e poi ai suoi eredi, finendo come Ott. gr. 3 della Biblioteca Apostolica, resta un mistero. Storie di codici e di prestiti che si giovano non poco dello studio dei 83 Rispettivamente

CPG 3010. 2, 12, 10, 3, 9, 11, 19, 17, 16, 7, 8, 18, 6, 22, 23, 38, 39, 40, 1 e 45, 44, 41, 32, 33 e 27. 84 Basta a provarlo la nota sul margine inferiore del f. 1r: «De primo banco ex parte orientis. / In hoc volumine continentur Sermones Gregorj Nazanzenj. / Conventus S. Marci de Florentia ordinis Praedicatorum, de hereditate Nicolaj de Nicoli. / .9.»; Codices manuscripti graeci Ottoboniani cit., p. 8 e Repertorium Nazianenum cit., p. 156 ignorano questo elemento. 85 B. L. Ullman and Ph. A. Stadter, The Public Library of Renaissance Florence. Niccolò Niccoli, Cosimo de’ Medici and the Library of San Marco, Padova 1972, p. 249. 86 Petitmengin – Ciccolini, Jean Matal et la bibliothèque cit., p. 271; con la stessa collocazione (ordo I) il manoscritto compare anche nell’inventario dell’Ambros. G 66 inf. (ibidem, p. 315): «Nazianzenus cum scoliis» e in quello dell’Ambros. L 106 suss. (ibidem, p. 323): «Gregorii Nazanzeni sermones diversi». 87 Lettera di Cervini a Vettori del 21 maggio 1552 (London, British Library, Add. 10274, f. 35r); la richiesta venne reiterata una settimana esatta dopo, il 28 maggio (ibidem, f. 37r): «Per un’altra vi ho scritto come vorrei sapere se in la Libraria di San Marco sono le Homelie di Gregorio Nazanzeno sopra l’Evangelio. Quando potriate chiarirvene me ne farete piacere». 88 Lettera di Cervini a Vettori del 12 giugno 1552 (BL, Add. 10274, f. 39r). 89 Sebbene nessuno abbia riconosciuto l’Ott. gr. 3 come cerviniano, basta a provarlo l’esatta coincidenza tra il contenuto del codice e la descrizione di uno degli inventari superstiti della collezione: Vat. lat. 8185, ff. 268r-272v, segnatamente f. 271v; piana da tempo è, invece, la successiva appartenenza del codice alla raccolta sirletiana come Theol. 22: se ne veda la descrizione nel catalogo stilato da Giovanni Santamaura (Vat. lat. 6163, ff. 23v-24v): il numero d’ordine sirletiano «22» si legge nell’angolo sinistro del margine superiore del f. 1r, perfettamente corrispondente a quello posto dallo stesso Santamaura nel Vat. lat. 6163, f. 23v; la provenienza sirletiana, oltre a quella da S. Marco e dal Niccoli, è stata riconosciuta già da S. Lucà, La silloge manoscritta greca di Guglielmo Sirleto. Un primo saggio di ricostruzione, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 19 (2012), pp. 317-355, segnatamente p. 325 e id., Guglielmo Sirleto e la Vaticana cit., pp. 166 e 172.

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carteggi di umanisti e — come nel caso di Mauromates caduto da cavallo — dei bollettini medici dei copisti, e se la poesia recrimina contro chi osò primiero discortese commettere a infedele corsiero il malcapitato cavaliere, il paleografo, invece, ringrazia. APPENDICE Vat. lat. 6416, f. 148r Lettera di Ioannes Mauromates a Francisco Torres Firenze, 6 dicembre 1564 Vat. lat. 6416, f. 148v: «Al molto magn.co et reverendo / Signor dotor Tores a santo gero / limo al chabo fiori apreso al pa / lazo de gardinale de santagelo. / In Roma / Porto bagiochi 2».

Monsignor dotor io ho tornato in Fiorenza sono adeso cinche dì ma sto in pochu male, perché ho cascato per la via vignendo da Bologna e o dato su li coste ananzi al peto, però non a podutto vegnire in Roma, bene che Dio sa chomo me retrovo malato e cenza chatrini, però prego V. S. de adgiutarmi a cioè che poso vegnire in Roma. Si V. S. ve piase a dire a monsignor protonatario si vol che mando Ἐυσέβιο, io lo mandarò molto volintiera. Ho vero si Vostra Signoria lo volete, io ve lo mandarò a cioè che me mandate guache danari per vegnirme in Roma. Perché altra mente non so che fare. Io ho mandato anchora Andriano in subito chome V. S. maveti scrito e resposta non ho butto pero e voleva sapere si mosignor lo a receputto, però prego V. S. degniatevi datemi resposta de chesto che io scrivo a V. S. prego V. S. non mancate de adgiutarmi chon monsignor Gulielmo. E prego V. S. regumandatemi a monsignor e a V. S. molto me regumando. Non altro che sono sebre a chomando e a servicio de V. S. me podete chomandare chome el minimo servitor vostro. Altro tanto el monsignor Gulielmo. De qui in Fiorenza si poso servire V. S. per scrivere qualche cosa. Ho vero monsignor protonotario me farete gran piaceri per vadagniare gualche scudo per pasare chesti doi mesi. 1564 adì 6 de dicenbre Servitore de V. S. Zuani Mauromati grecho De Fiorenza

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OTTAVIANO UBALDINI DELLA CARDA TRA MILANO E URBINO: NOTE SULLA SUA “BIBBIA” (URB. LAT. 548) E ALCUNI ALTRI SUOI CODICI Ottaviano Ubaldini della Carda apparteneva al ramo dell’antica e nobile famiglia toscana ghibellina che, tra la fine del secolo XIII e l’inizio del XIV, si trasferì nella zona appenninica marchigiana alle pendici del monte Nerone; suo antenato era l’omonimo cardinale citato nell’Inferno dantesco da Farinata degli Uberti1. Nacque a Gubbio intorno al 1423 da Bernardino, capitano di ventura al servizio di Guidantonio da Montefeltro (1378-1443)2, e da Aura, figlia naturale legittimata dello stesso Guidantonio, che fu padre naturale anche di Federico da Montefeltro (1422-1482). A quest’ultimo dunque sarebbe stato unito da legami di parentela che, stando a una diversa versione, sarebbero 1 Cfr. L. Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini della Carda e una inedita testimonianza sulla battaglia di Varna (1444), in Mélanges Eugène Tisserant, VII: Bibliothèque Vaticane, Città del Vaticano 1964 (Studi e testi, 237), pp. 97-130; id., Federico di Montefeltro e Ottaviano Ubaldini della Carda, in Federico di Montefeltro. Lo Stato, le arti, la cultura, a cura di G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani, I, Roma 1986 («Europa delle Corti». Biblioteca del Cinquecento, 30), pp. 297-344; H. Hofmann, Literary Culture at the Court of Urbino during the Reign of Federico da Montefeltro, in Humanistica Lovaniensia 57 (2008), pp. 5-59, in particolare pp. 25-50; A. Bertuzzi, Ottaviano Ubaldini della Carda e l’allestimento della biblioteca di Federico da Montefelto, in Theory and Criticism of Litterature and Art 3 (2018), pp. 146-169; ead., Ottaviano Ubaldini della Carda nel Palazzo Ducale di Urbino, in Giovanni Santi [catalogo di mostra: Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale, 30 novembre 2018 – 17 marzo 2019], a cura di M. R. Valazzi, Cinisello Balsamo 2018, pp. 151-156. Il cardinale Ottaviano Ubaldini (c. 1213/1214-1273; creato card. nel 1244) è ricordato da Farinata degli Uberti fra gli eretici e gli epicurei del sesto cerchio, subito dopo Federico II di Svevia (If X 120; cfr. A. Vasina, Ubaldini, Ottaviano degli, in Enciclopedia dantesca, V, Roma 1976, p. 772). Su di lui si vedano: G. Levi, Il cardinale Ottaviano degli Ubaldini secondo il suo carteggio e altri documenti, in Archivio della Società romana di storia patria 14 (1891), pp. 231-303; A. Paravicini Bagliani, Cardinali di Curia e ‘familiae’ cardinalizie dal 1227 al 1254, I, Padova 1972 (Italia sacra, 18), pp. 279-299; S. Maddalo, I libri dei cardinali, in Il libro miniato a Roma nel Duecento. Riflessioni e proposte, a cura di S. Maddalo con la collaborazione di E. Ponzi, I, Roma 2016 (Nuovi Studi Storici, 100), pp. 503-519, in particolare pp. 513-517, e C. Paniccia, Libri miniati presso le corti cardinalizie: un caso significativo, ibidem, pp. 521-534, in particolare pp. 530-531. 2 Bernardino (m. 1437) è ritratto da Paolo Uccello nella celebre Battaglia di San Romano, oggi conservata alla Galleria degli Uffizi, alla guida delle truppe senesi contro i fiorentini.

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ancora più stretti, poiché secondo alcuni anche Federico era in realtà figlio di Bernardino della Carda3; tale versione è adombrata, tra gli altri, da Pierantonio Paltroni, segretario e biografo ufficiale di Federico, nei suoi Commentari della vita et gesti dell’illustrissimo Federico duca d’Urbino4. Certamente i due giovani, quasi coetanei, condivisero molto sin dalla loro prima fanciullezza, che trascorsero spesso insieme fino a quando nel 1432 Ottaviano fu inviato a Milano come pegno per la riconciliazione tra il padre e il duca Filippo Maria Visconti (1392-1447); nella città lombarda egli rimase fino alla morte di quest’ultimo. Culturalmente si formò dunque presso la corte milanese, dove conquistò una certa posizione stringendo contatti con gli importanti artisti e letterati che la frequentavano, come Pisanello, Francesco Filelfo, Pier Candido Decembrio — che nella biografia del duca lo ricorda come suo consigliere. Quando nel 1437 Bernardino della Carda morì, Ottaviano rinunciò al comando delle truppe della sua compagnia, lasciate in eredità in parti uguali a lui e a Federico, in favore di quest’ultimo, che ne prese il comando completo. I due furono dunque uniti da un rapporto di fiducia e intesa che, soprattutto nei successivi anni urbinati, li porterà a dividersi i compiti in modo complementare, destinando all’uno principalmente il ruolo dell’uomo d’armi e all’altro quello del cultore delle arti, come celebra un noto epigramma di Giovanni Antonio Campano indirizzato a Ottaviano5. La rappresentazione di quest’ultimo e di Federico nella lunetta in pietra scolpita 3 Cfr.

W. Tommasoli, La vita di Federico da Montefeltro (1422-1482), Urbino 1978, pp. 7-14; G. Benzoni, Federico da Montefeltro, duca di Urbino, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLV, Roma 1995, pp. 722-743; M. Bonvini Mazanti, Politica e cultura, in Ornatissimo codice. La biblioteca di Federico di Montefeltro [catalogo di mostra: Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, 15 marzo – 27 luglio 2008], a cura di M. Peruzzi, con la collaborazione di C. Caldari, L. Mochi Onori, Città del Vaticano – Milano 2008, pp. 13-19, in particolare p. 13; G. Scatena, Federico da Montefeltro duca di Urbino, I, Sant’Angelo in Vado 2004, pp. 27-28; M. Simonetta, Federico da Montefeltro: un illustre uomo d’armi fra gli illustri uomini di lettere, in Lo Studiolo del Duca. Il ritorno degli Uomini Illustri alla Corte di Urbino, a cura di A. Marchi, Milano 2015, pp. 37-44, in particolare pp. 37-38. 4 P. Paltroni, Commentari della vita et gesti dell’illustrissimo Federico duca d’Urbino, a cura di W. Tommasoli, Urbino 1966, p. 47: «Di sé [Guidantonio] lasciò un figliolo naturale chiamato conte Federigo el quale per multi si volse dire non esser suo figlio, ma nepote suo et figliolo de una sua figliola chiamata Aura, nobilissima et virtuosissima madonna, maritata al conte Berardino Ubaldini de la Carda el quale fu strenuissimo, grande et magnanimo capitano de gente d’arme […]. Quale fosse più vera opinione non è certo ma, come si sa, o figliolo del conte Guido o suo nepote ch’el fosse et figliolo de Berardino et de la casa de li Ubaldini, per omni modo è manifesta el decto conte Federico essere nato de carissima stirpe et generosissimo sangue». 5 Per l’epigramma, lato nell’Urb. lat. 338 al f. 229r, cfr. P. Cecchini, Per un’edizione critica dei carmina di Giannantonio Campano, in Res publica litterarum 5 (1982), pp. 53-76, in particolare p. 71; Hofmann, Literary Culture at the Court of Urbino cit., pp. 26-27.

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nel Palazzo ducale di Urbino, attribuita a Francesco di Giorgio Martini, sembra offrire un pendant iconografico a questi versi: i due protagonisti sono rappresentati contrapposti, di profilo, caratterizzati rispettivamente dai simboli dell’otium letterario e della pace, il libro e l’ulivo, e dell’attività militare, l’elmo e la corazza6. Nel 1447 Ottaviano si trasferì ad Urbino, dove Federico, che nel 1444 era succeduto ad Oddantonio, lo avrebbe voluto già da qualche tempo; nel 1451 sposò la nobile romana Angiola Orsini, conducendola nella città marchigiana. Qui lo stretto rapporto instauratosi tra i due fin dalla fanciullezza diventò piena collaborazione nel governo dello Stato, nell’organizzazione della corte e nella formazione della biblioteca — sinergia che durò ininterrottamente per trentacinque anni, fino alla morte del signore di Urbino: le scelte culturali e politiche fatte presso la corte urbinate furono certamente frutto della volontà di Federico, ma anche il risultato del sostegno di personalità eccezionali quali quelle dell’amata moglie Battista Sforza e di Ottaviano Ubaldini7. Questi diventò punto di riferimento per gli umanisti che giungevano a corte; diverse sono le testimonianze in tal senso, tra cui la nota corrispondenza scambiata tra Giorgio Merula e Piattino Piatti: il poeta milanese rassicura l’umanista sull’opportunità di dedicare a Federico il suo commento alle Satire di Giovenale, poiché gli è stata garantita da Ottaviano come cosa gradita al duca (Quod autem consulere maluerim Octavianum quam ipsum principem, non temere factum existimes; nam is gulam fratris habere mihi dictus est et mentem)8. Altre lettere, oltre ad attestare relazioni intessute da Ottaviano con diverse personalità, lo presentano coinvolto in attività connesse ai codici ricercati da Federico; ne è un esempio l’epistola che questi invia a Francesco Zambeccari in cui afferma: «Codices graecos quos etiam misisti accepi et omnia tua essent mihi semper gratissima. De his Octavianus meus ad te scribet latius»9. Certamente Ottaviano ebbe un ruolo nella formazione della biblioteca 6 Cfr. C. Caldari, Emblemi, imprese, onorificenze: Federico di Montefeltro letterato, condottiero e mecenate, in Ornatissimo codice cit., p. 110 nt. 4. 7 Cfr. M. Peruzzi, La Biblioteca di Federico di Montefeltro, in Principi e signori. Le biblioteche nella seconda metà del Quattrocento. Atti del Convegno di Urbino, 5-6 giugno 2008, a cura di G. Arbizzoni, C. Bianca, M. Peruzzi, Urbino 2010 (Collana di studi e testi, 25), pp. 265304, in particolare pp. 292-294 e 275-278. 8 Cfr. G. Franceschini, Figure del Rinascimento urbinate, Urbino 1959, p. 127; M. Peruzzi, Cultura potere immagine. La biblioteca di Federico di Montefeltro, Urbino 2004 (Collana di Studi e Testi, 20), pp. 29-30, 123-134; Hofmann, Literary Culture at the Court of Urbino cit., pp. 25-34, 40-49. 9 Federico da Montefeltro, Lettere di stato e d’arte (1470-1480). Edite per la prima volta da Paolo Alatri, Roma 1949 (Storia e letteratura, 21), p. 110.

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feltresca10; ai suoi interessi per la cultura ermetico-scientifica sembra sia da ricondurre la presenza di testi astrologici e filosofici11. Ma certamente egli ebbe anche una biblioteca personale, di manoscritti e stampati — distinta da quella di Federico —, che andò in parte dispersa: alcuni volumi, verosimilmente dopo la sua morte, entrarono a far parte della biblioteca urbinate, altri presero altre strade12. Alcuni di essi sono stati individuati tramite la presenza dello stemma di famiglia o di note di possesso, probabilmente autografe di Ottaviano, che evidentemente teneva dunque a renderne riconoscibile l’appartenenza. Negli attuali fondi Urbinati della Vaticana, che custodiscono la biblioteca dei duchi di Urbino13, sono stati finora riconosciuti come appartenuti ad Ottaviano i seguenti manoscritti: Urb. lat. 229, 548, 646, 885, 143014. 10 Per l’ampia bibliografia sulla biblioteca di Federico, ci si limita a citare Federico di Montefeltro. Lo Stato, le arti, la cultura, a cura di G. Cerboni Baiardi – G. Chittolini – P. Floriani, I-III, Roma 1986 («Europa delle Corti». Biblioteca del Cinquecento, 30); Federico da Montefeltro and His Library [Exhibition Catalogue: New York, The Morgan Library and Museum, June 8 – September 30, 2007], edited by M. Simonetta, preface by J. J. G. Alexander, Milano – Città del Vaticano 2007; Ornatissimo codice cit.; M. Peruzzi, «Lectissima politissimaque volumina»: i fondi urbinati, in Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, III: La Vaticana nel Seicento (1590-1700): una biblioteca di biblioteche, a cura di C. Montuschi, Città del Vaticano 2014, pp. 337-394. Si segnala inoltre il percorso tematico pubblicato on line La biblioteca di un ‘principe umanista’: Federico da Montefeltro e i suoi manoscritti / The Library of a ‘Humanist Prince’: Federico da Montefeltro and His Manuscripts, a cura di chi scrive, proposto dalla Biblioteca Vaticana in collaborazione con le Stanford University Libraries e sostenuto dalla Andrew W. Mellon Foundation, disponibile al sito https://spotlight.vatlib.it/it/ humanist-library, data di visita 17/12/2019 (le caratteristiche principali della collezione sono ripercorse anche tramite la digitalizzazione e la descrizione di una trentina di manoscritti rappresentativi, offerta con le immagini digitali annotate secondo lo standard IIIF – International Image Interoperability Framework); a questo progetto si farà riferimento con una serie di link segnalati all’interno di note successive. 11 Sui suoi interessi alchemici e astrologici, che caratterizzavano la corte viscontea, cfr. Michelini Tocci, Federico da Montefeltro cit., pp. 306-307, 315; Hofmann, Literary Culture at the Court of Urbino cit., pp. 42-46; A. Bertuzzi, Ottaviano Ubaldini della Carda e l’influenza dell’alchimia sugli artisti del suo tempo, in La fucina del vulcano. Studi sull’arte per Sergio Rossi, a cura di S. Valeri, Roma 2013, pp. 61-68. 12 Michelini Tocci ipotizza che parte della dispersione possa risalire anche ai saccheggi perpetrati dal Valentino all’inizio del sec. XV (cfr. Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., p. 113 nt. 64). 13 La biblioteca dei duchi di Urbino giunse in Biblioteca Vaticana nel 1657, quando la comunità di Urbino fu indotta a deliberare la cessione della biblioteca manoscritta a papa Alessandro VII (1655-1667); cfr. Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, a cura di F. D’Aiuto – P. Vian, I, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 466), pp. 538-553; Peruzzi, «Lectissima politissimaque volumina» cit., pp. 337-394. 14 L’identificazione si deve a Luigi Michelini Tocci: cfr. Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini della Carda cit., pp. 111-115; id., Federico da Montefeltro cit., p. 332 e nt. 105; si vedano anche Peruzzi, «Lectissima politissimaque volumina» cit., pp. 353, 389 nt. 96; Ber-

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Essi presentano tutti una nota di possesso o lo stemma Ubaldini (quelli più lussuosi) — o entrambi — e non sono registrati nel più antico inventario di Urbino, il cosiddetto Indice vecchio, compilato nella sua prima stesura, poco dopo la morte di Federico, intorno al 1487, da Agapito di Urbino, bibliotecario di Guidubaldo da Montefeltro (1472-1508), duca di Urbino dal 148215. I codici potrebbero essere entrati nella collezione urbinate sotto il governo di quest’ultimo, dopo la morte di Ottaviano (nel 1498), che ne era l’istitutore e svolse in sua vece funzione di reggente per circa un decennio, fino alla maggiore età del giovane16. Tre di essi contengono opere di umanisti. tuzzi, Ottaviano Ubaldini della Carda e l’allestimento della biblioteca di Federico da Montefeltro

cit., pp. 146-169. Per la descrizione dei manoscritti cfr. Codices Urbinates Latini, recensuit C. Stornajolo, I-III, Romae 1902-1921 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manuscripti recensiti), ad locum; le attuali legature sono tutte vaticane, tranne quella dell’Urb. lat. 885, la cui coperta originale, decorata con cornici concentriche alternatamente impresse a secco e in oro, formate da piccoli archi gotici e da bastoncini incrociati, è stata recuperata durante un restauro del sec. XX (cfr. T. De Marinis, La legatura artistica in Italia nei secoli XV e XVI. Notizie ed elenchi, I: Napoli-Roma-Urbino-Firenze, Firenze 1960, p. 85 nr. 951; si veda anche https://spotlight.vatlib.it/it/humanist-library/feature/le-legature). Gli Urb. lat. 229 e 885 recano — sul dorso e rispettivamente ai ff. 2r e 1r — anche le antiche segnature (1153 e 695) assegnate poco dopo l’arrivo della collezione urbinate in Vaticana da Stefano Gradi (Stjepan Gradiç, 1613-1683), secondo custode dal 1661 al 1682, che inventariò i codici numerandoli e riordinandoli per materia e autore, una prima volta verosimilmente negli anni 1661-1667 e una seconda volta entro il 1671. Il suo inventario è attualmente segnato Urb. lat. 1388 — si vedano in particolare i ff. 65r e 90r; cfr. S. Le Grelle, Introductio, in Codices Urbinates Latini, recensuit C. Stornajolo, III: Codices 1001-1779, Romae 1921 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manuscripti recensiti), pp. VII*-XXXIX*, con tavole di corrispondenza a pp. I-LXXI, in particolare pp. IV e XVI; si vedano inoltre Guida ai fondi cit., p. 541; Peruzzi, «Lectissima politissimaque volumina» cit., pp. 380-381, 383; La biblioteca di un ‘principe umanista cit., https://spotlight.vatlib.it/it/humanist-library/feature/inventario-di-stefano-gradi.  15 L’Indice vecchio è contenuto ai ff. 1r-126r dell’attuale Urb. lat. 1761; è edito in Codices Urbinates Graeci Bibliothecae Vaticanae, recensuit C. Stornajolo, Accedit Index vetus Bibliothecae Urbinatis nunc primum editus, Romae 1895 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manuscripti recensiti), pp. LIX-CLXXV (su di esso si veda L. Michelini Tocci, Agapito, bibliotecario «docto, acorto et diligente» della biblioteca urbinate alla fine del Quattrocento, in Collectanea Vaticana, II, pp. 245-280). L’inventario redatto tra il 1508 e il 1521 da Federico Veterani — che fu copista sotto Federico (cfr. infra nt. 22) — ricalca l’Indice vecchio e le sue correzioni, senza segnare un progresso rispetto a questo, registrando anzi 50 item in meno dovuti alle perdite subite (cfr. Peruzzi, «Lectissima politissimaque volumina» cit., p. 355); esso è conservato presso l’Archivio storico del Monastero di San Vincenzo di Prato, Manoscritti, n. 10, fasc. 50 (cfr. L. Bandini – R. Fantappiè, Inventario dell’archivio del Monastero di San Vincenzo di Prato, in Archivio storico pratese 91 (2015), p. 50), e pubblicato in C. Guasti, Inventario della Libreria Urbinate compilato nel secolo XV da Federigo Veterano, bibliotecario di Federigo da Montefeltro, duca di Urbino, in Giornale storico degli Archivi Toscani, VI, 1862, pp. 127-147; VII, 1863, pp. 46-55, 130-154. 16 Marcella Peruzzi propone l’individuazione dei volumi che probabilmente entrarono nella collezione all’epoca di Guidubaldo operando un confronto tra gli item descritti nell’In-

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L’Urb. lat. 885 è latore del De Europa di Enea Silvio Piccolomini; al suo termine (ff. 243v-246r) è stata aggiunta una lettera datata 1470 rivolta a Ubaldini e firmata dal patrizio genovese Battista Franco. Questi lo ringrazia di avergli inviato in lettura il codice, ma sostiene che vadano operate alcune correzioni riguardanti le accuse rivolte ai genovesi — ritenute calunniose — di aver tradito per lucro la cristianità durante la battaglia di Varna, portando aiuto ai turchi dietro compenso17. Al f. [II]v è presente la nota «Historia divi Pii Secu(n)di Pontificis Maximi de Rebus europeis quam Cardinalis co(n)didit. Codex Octaviani Vbaldini» (fig. 1), che Michelini Tocci ritiene «probabilmente autografa»18.

Fig. 1 – Urb. lat. 885, f. [II]v.

Una nota simile, della stessa mano, è vergata al f. [II]v dell’Urb. lat. 1430: «Tractatus co(n)tra peste(m) Magistri Lodovici d(e) Forosempronio.

dice vecchio e quelli registrati nell’inventario della collezione compilato subito dopo la morte di Francesco Maria II Della Rovere, l’ultimo duca di Urbino, includendo tra i 136 così individuati (107 latini) anche i 5 appartenuti a Ottaviano: cfr. Peruzzi, «Lectissima politissimaque volumina» cit., pp. 353, 389 nt. 96; vedi anche ead., Considerazioni sulla biblioteca di Urbino nell’età di Guidubaldo di Montefeltro, in Humanistica 3 (2008), fasc. 2, pp. 45-55, in particolare p. 55 e nt. 3. Per la data di morte di Ottaviano cfr. infra e nt. 54. 17 In particolare sul testo della lettera cfr. Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., pp. 97-130, dove si offre anche l’edizione dell’epistola. 18 Cfr. ibidem, p. 112 e tav. II. Il f. [II]v doveva in origine costituire la controguardia; fu probabilmente staccata dal piatto anteriore in occasione di un restauro in cui è stata recuperata gran parte della coperta originale.

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Codex Octaviani Vbaldini» (fig. 2)19; al f. 1r, al centro del margine inferiore, si trova lo stemma Ubaldini nella sua versione più semplice: d’azzurro al rincontro di cervo d’oro sormontato fra le due corna da una stella d’oro a otto punte (fig. 3).

Fig. 2 – Urb. lat. 1430, f. [II]v.

Fig. 3 – Urb. lat. 1430, f. 1r.

L’Urb. lat. 229 è latore dell’opera Della famiglia di Leon Battista Alberti20. L’appartenenza del codice a Ottaviano è suggerita da una nota vergata 19 Michelini Tocci rileva un errore di lettura nel catalogo di Stornajolo — che lesse Haspis invece che Gasperis (cfr. Codices Urbinates Latini cit., III, p. 326), trasmettendo l’errore a diversi studi successivi — e segnala l’identità dell’autore, Ludovicus Gasperis de Nesutiis, giovane medico di Fossombrone, che compose l’opera subito dopo aver conseguito il grado di dottore all’Università di Perugia nel 1457 (cfr. Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., p. 112 nt. 63; vedi anche Hofmann, Literary Culture at the Court of Urbino cit., p. 45). 20 Sui rapporti intercorsi con l’umanista, testimoniati da un carteggio conservato a Norimberga, in cui l’Alberti cita espressamente Ottaviano dimostrando di conoscerlo, cfr. Michelini Tocci, Federico di Montefeltro cit., pp. 321-324.

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su un tassello pergamenaceo incollato sul f. [II]r: «Leo(n)is Baptiste de Albe(r)tis de familia liber, olim d(omini) Octaviani Ubaldini recup(er)atus a fratrib(us) s. Ber(n)a(r)dini ex(tra) muros» (fig. 4). Il convento è da identificare con quello dei Frati Minori posto appena fuori la città di Urbino, intitolato dapprima a s. Donato e poi a s. Bernardino da Siena, dopo la sua canonizzazione nel 145021. La mano è quella di Federico Veterani, copista di Federico da Montefeltro, che dopo la morte del signore di Urbino, sotto Guidubaldo, diventò bibliotecario e riprese spesso in mano i codici da lui stesso vergati anni prima, annotandoli con memorie relative alla propria attività o al tempo felice in cui Federico governava; ugualmente, oltre a redigere un suo inventario, annotò in più punti l’Indice vecchio, registrando prestiti e perdite22. La nota di Veterani è l’unico elemento a 21 Accanto al convento, per volontà di Federico da Montefeltro, dopo la sua morte, fu costruita la chiesa di S. Bernardino degli Zoccolanti, un mausoleo di famiglia che custodisce i sepolcri marmorei di Federico e di suo figlio Guidubaldo e due epitaffi a loro dedicati; cfr. G. R. H. Moorman, Medieval Franciscan Houses, St. Bonaventure, N.Y. 1983, p. 109 e Annales Minorum seu trium Ordinum a S. Francisco institutorum, auctore a.r.p. Luca Waddingo hiberno, X, Ad Claras Aquas (Quaracchi) prope Florentiam 1932, p. 109. 22 Veterani fu, insieme a Matteo Contugi, uno dei copisti più noti e attivi alla corte di Federico da Montefeltro. In una nota all’Urb. lat. 351 afferma di aver vergato più di 60 manoscritti e che questo fu l’ultimo codice da lui esemplato, a causa della morte di Federico («et cu(m) circiter sexaginta volumina exaraverit ultimu(m) hoc fuit ob principis interitu(m) cuius eterne dolendu(m) est», f. CCCLXXXIIr). Dopo la morte del duca di Urbino, compose spesso versi in lode del tempo passato e del suo signore, che annotò su non pochi codici. Ricorda, ad esempio, la nascita di Guidubaldo, figlio di Federico, in una nota al f. 1r dell’Urb. lat. 1324, e verga postille o versi in cui loda e rimpiange il suo antico signore: si vedano, ad esempio, Urb. lat. 326, f. 219v; Urb. lat. 351, f. CCCLXXXIIr (edito da Guasti, Inventario della Libreria Urbinate cit., VI, p. 131); Urb. lat. 368, f. 188r (ibidem, pp. 131-132); Urb. lat. 419, f. 161r; Urb. lat. 420, f. 288v; Urb. lat. 1324, f. 1v; Urb. lat. 1193, f. 3r (edito per la prima volta da A. Cinquini, Spigolature da codici manoscritti del secolo XV. Il codice Vaticano-Urbinate latino 1193, in Classici e Neo-latini 1 (1903), p. 118). Morì sicuramente dopo il 1526 poiché nell’Urb. lat. 324, al f. 216v, ricorda la morte di Elisabetta Gonzaga, avvenuta quell’anno. Su di lui cfr. Codices Urbinates Graeci cit., pp. XXIV-XXVIII; Bènèdectins du Bouveret, Colophons de manuscrits occidentaux dès origines au XVIe siècle, II, Fribourg 1967 (Spicilegii Friburgensis Subsidia, 3), pp. 123-126, nrr. 4518-4544; C. H. Clough, Federigo Veterani, Polydore Vergil’s Anglica Historia and Baldassare Castiglione’s Epistola… ad Henricum Angliae regem, in The English Historical Review 82 (1967), pp. 772-783; A. Derolez, Codicologie des manuscrits en écriture humanistique sur parchemin, I, Turnhout 1984 (Bibliologia, 5), p. 136 nr. 119; A. C. de la Mare, New Research on Humanistic Scribes in Florence, in Miniatura fiorentina del Rinascimento 1440-1525: un primo censimento, a cura di A. Garzelli, Firenze 1985 (Inventari e cataloghi toscani, 18-19), pp. 393-600, in particolare p. 449 nt. 224; Peruzzi, Cultura, potere, immagine cit., pp. 74-76; ead., «Lectissima politissimaque volumina» cit., pp. 343, 345, 347, 348, 349, 350, 351, 355, 375, 386 ntt. 27 e 28, 387 nt. 49, 388 nt. 90, 390 nt. 107; in particolare sulla sua presunta attività di miniatore cfr. G. M. Fachechi, Veterani, Federico, in Dizionario biografico dei miniatori italiani. Secoli IX-XVI, a cura di M. Bollati, Milano 2004, p. 989; S. Fumian, Autografia, prassi di bottega o falsificazione? Alcune osservazioni per Federico Veterani miniatore, in Arte tra vero e falso. Atti delle giornate di studio (Padova, 7-8 giugno 2010), a cura

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ricondurre ad Ottaviano il codice, che non presenta altre note di possesso o insegne araldiche. Il piccolo tondo predisposto nella pagina di incipit a bas-de-page per accogliere lo stemma ne è rimasto privo, mentre al f. 1v, tra le decorazioni del clipeo laureato che costituisce l’antiporta, si trova lo stemma bandato feltresco, che caratterizza molti codici appartenenti alla collezione urbinate.

Fig. 4 – Urb. lat. 229, f. [II]r.

L’Urb. lat. 646, latore degli scholia pseudacronei alle Odi di Orazio e datato 145523, reca incollato sul margine inferiore di f. 1r, un tassello pergamenaceo con una nota simile, in cui è riconoscibile nuovamente la mano di Veterani: «Come(n)tum sup(er) op(er)a Horatii ex biblioteca D(omini) Oct(aviani) Vbaldini» (fig. 5). La nota si differenzia dalle altre in quanto fa esplicito riferimento all’esistenza di una biblioteca, ovvero di una collezione, e non solo ad un semplice codice.

Fig. 5 – Urb. lat. 646, f. 1r.

L’Urb. lat. 548 è certamente il più elegante tra i codici finora individuati come appartenuti ad Ubaldini. Al f. [III]v si trova la nota di possesso «Octaviani Vbaldini» (fig. 6), seguita dall’elenco dei libri biblici contenuti nel manoscritto. di C. Costa, V. Valente, M. Vinco, Padova 2014, pp. 55-66. Per il suo ruolo di bibliotecario di Federico e l’inventario da lui redatto cfr. nt. 15; sulle note da lui apposte all’Indice vecchio cfr. Michelini Tocci, Agapito cit., pp. 274-275. Si veda inoltre La biblioteca di un ‘principe umanista cit., https://spotlight.vatlib.it/it/humanist-library/feature/federico-veterani-copista e https://spotlight.vatlib.it/it/humanist-library/feature/veterani-dopo-federico. 23 Cfr. Codices Horatiani in Bibliotheca Apostolica Vaticana, recensuit Marcus Buonocore, Città del Vaticano 1992, pp. 176-177.

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Fig. 6 – Urb. lat. 548, f. [III]v.

Fig. 7 – Urb. lat. 548, f. 14v.

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Fig. 8 – Urb. lat. 548, f. 21r.

Un prodotto di lusso, dalla pergamena raffinata, introdotto da un’antiporta costituita da un’elegante edicola all’interno della quale, in capitale, è vergato il contenuto del codice: «Salomonis Proverbia, Ecclesiaste, Ca(n)tica canticorum, Sapientia, et Iesu Sirach Ecclesiasticus» (fig. 7). Sulla sommità vi sono due scudi, uno con le iniziali OC(tavianus) VB(aldinus) e l’altro con lo stemma della famiglia, presente anche nel margine inferiore della pagina di incipit (f. 21r; fig. 8).  

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Quest’ultima è riccamente ornata da motivi a candelabra e impreziosita da gemme e filigrane d’oro, nonché da angeli musicanti e animali araldici; nel margine inferiore due angeli sostengono lo stemma Ubaldini: inquartato, il I e il IV d’azzurro, al leone rampante d’argento, linguato e unghiato di rosso, il II e il III d’azzurro al rincontro di cervo d’argento sormontato fra le due corna da una stella d’oro a otto punte24. Nell’iniziale abitata (P) Salomone è rappresentato assiso su un seggio con un libro nella mano destra e la mano sinistra alzata nell’atto di interloquire con un giovane, verosimilmente il destinatario della parte iniziale del libro dei Proverbi. La miniatura è estremamente raffinata, attribuibile ad un artista della bottega di Guglielmo Giraldi25. La mano che verga il testo è quella elegante di Matteo Contugi che si sottoscrive al f. 329v: «Manu Matthèi de Contugiis de Vulterris»26; al suo nome sono legati alcuni tra i più famosi e raffinati codici appartenuti alla collezione di Federico da Montefeltro27. Contugi giunse ad Urbino all’apice della sua carriera, dopo aver lavorato presso le corti di Mantova per Ludovico Gonzaga (1414-1478) e di Ferrara per Ercole I Este (143124 Lo stemma Ubaldini, nella sua forma più semplice, si trova nell’Urb. lat. 1430 (fig. 3), dove è miniato da mano meno elegante. 25 Ringrazio Eva Ponzi per avermi confermato l’attribuzione alla bottega di Giraldi, della quale la studiosa si sta occupando; a riguardo rinvio al suo contributo Franco dei Russi o Anonimo giraldiano? Riflessioni su alcuni manoscritti della biblioteca di Federico da Montefeltro, in Studi Medievali e Moderni 23 (2019), fasc. 2, pp. 155-175, in particolare nt. 64. Gli aspetti storico-artistici relativi all’Urb. lat. 548 meritano certamente di essere approfonditi in uno studio specifico. Su Giraldi cfr. G. Mariani Canova, Guglielmo Giraldi miniatore estense, catalogo delle opere a cura di F. Toniolo, Modena 1995; F. Toniolo, Giraldi, Guglielmo, in Dizionario biografico dei miniatori italiani. Secoli IX-XVI, a cura di M. Bollati, Milano 2004, pp. 305-310. 26 Su Matteo Contugi cfr. M. G. Critelli, Per la carriera di Matteo Contugi, in Studi in onore del Cardinale Raffaele Farina, I, a cura di A. M. Piazzoni, Città del Vaticano 2013 (Studi e testi, 477), pp. 251-302; D. S. Chambers, Matteo Contugi of Volterra (d. 1493): Scribe and Secret Agent, in Palaeography, Manuscript Illumination and Humanisms in Renaissance Italy: Studies in Memory of A. C. de la Mare, a cura di R. Black, J. Kraye, L. Nuvoloni, London 2016 (The Warburg Institute Colloquia, 28), pp. 171-198; si vedano inoltre le pagine sul copista all’interno del percorso tematico La biblioteca del ‘principe umanista’ cit., https://spotlight. vatlib.it/it/humanist-library/feature/matteo-contugi, https://spotlight.vatlib.it/it/humanistlibrary/feature/contugi-prima-di-federico. 27 Per Federico da Montefeltro Contugi sottoscrisse gli Urb. lat. 10 (Evangeliario), 324 (G. A. Campano, Orationes), 336 (traduzioni di Francesco Zambeccari delle Epistole di Libanio), 365 (Dante, Divina Commedia), 392 (miscellanea di vari autori tra cui Isidoro di Siviglia e Giovanni d’Andrea), 427 (Curzio Rufo, De gestis Alexandri Magni). È stato a lui attribuito anche l’Urb. lat. 151, latore di opere di Sisto IV (cfr. M. Bonicatti,  Contributo al Giraldi, in Commentari 8 (1957), pp. 195-210, in particolare pp. 208-209; id., Nuovo contributo a Bar­ to­lomeo della Gatta ed a Guglielmo Giraldi, in Commentari 9 (1958), pp. 259-264, in particolare pp. 259-269; Derolez, Codicologie des manuscrits cit., p. 151 nr. 291; de la Mare, New research cit., p. 449-450 nt. 224). Per il signore di Urbino Contugi vergò anche il Petrarca (Canzoniere e Trionfi) oggi conservato a Madrid, Biblioteca Nacional, Vitr. 22-1.

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1505)28. Per il primo lavorò alla realizzazione del famoso Plauto in colla­bo­ ra­zione con Giraldi; a favore di questi tentò di intercedere nel 1468 presso lo stesso marchese di Mantova affinché l’artista venisse coinvolto anche nella decorazione del Plinio che il copista aveva già terminato29: il codice non presenta tracce della mano del maestro ferrarese, ma la notizia del­ l’“intermedizione” svolta da Contugi, pur non andata a buon fine, lascia ipotizzare un suo coinvolgimento nell’organizzazione della manifattura dei

28 Contugi ha anche vergato il Petrarca appartenuto al cardinale Francesco Gonzaga (London, British Library, Harley 3567), un Plauto (Madrid, Biblioteca Nacional, Vitr. 22-5) e un Plinio (Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, J.I. 22-23) realizzati per Ludovico Gonzaga. Per Ercole I d’Este trascrisse il volgarizzamento di Matteo Maria Boiardo della Ciropedia di Senofonte (Modena, Biblioteca Estense, α. G. 5.1 = It. 416), che presenta il se­ guente colophon: «Manu Matthaei de Contugiis de Vulterris: ad Clarissimam civitatem Fer­ rariae». È stato ipotizzato che il manoscritto sia da identificare con il «libro chiamato Ciro» per cui un documento datato 9 aprile 1472 attesta un pagamento ad Andrea dalle Vieze (o dalle Veze), noto copista, miniatore, legatore al servizio di Ercole I (a riguardo cfr. Critelli, Per la carriera di Matteo Contugi cit., pp. 256 e nt. 12 e 13, pp. 260-261 e nt. 24, con pre­ cedente bibliografia; si veda anche M. Venier, Dalle Veze, Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 111-113). A Ferrara fu probabilmente vergato anche il ms. 113 conservato presso il Christ Church College di Oxford — che insieme al ms. 114, ad esso omogeneo ma non sottoscritto, contiene il corpus virgiliano; ad oggi esso costituisce la più antica attestazione dell’attività di Contugi, secondo quanto testimoniato dal colophon al f. 156v: «Manu Mathei Domini Herchulani de Vulterris / Ad clarissimam civitatem F. et c(etera). MCCCCLVI» (cfr. https://digital.bodleian.ox.ac.uk/inquire/p/9717922a-dc68-444291b3-018a3ff6d0ab, data di visita 14/01/2020). Sulla base della decorazione delle iniziali, a bianchi girari con palmette e tralci fitomorfi, di tipo ferrarese con influssi cesenati, si è rite­ nuto che il codice sia stato scritto a Ferrara; non è chiaro chi sia stato il committente, poiché lo stemma nel margine inferiore del f. 2r non è stato finora identificato (cfr. Critelli, Per la carriera di Matteo Contugi cit., pp. 253-254 nt. 6). 29 In una lettera, datata Governolo, 2 ottobre 1468, Contugi, che funge da “intermediario” tra l’artista e il committente, afferma di aver ricevuto una lettera dal Giraldi in cui questi si offriva di miniare il Plinio: «io ho ricevuto una lettera da maestro Guglielmo del Magro da Ferara, miniatore notabile, el quale volendo la Vostra Signoria farla minare el Plinio, come lui ha inteso, se offera a Vostra Signoria in questo modo: prima voler servirla presto, bene et rimetere il pregio nela Vostra illustre Signoria che sì come lui atracterà la Vostra illustre Signoria, così quella atratti lui. Pregando la Vostra illustre Signoria che mi voglia far rispon­ dere, aciò possa rispondere a detto maestro Guglielmo, et ancora che io sappia quello ho a fare. El Plinio è qui, siché avisimi la Vostra Signoria quello ne ho a fare. Gubernoli, die 2 oc­ tubris mcccclxviii. Illustris dominationis vestre servitor fidelissimus Mattheus Vulterranus» (Mantova, Archivio di Stato, Archivio Gonzaga, b. 2409, f. 151r-v); la lettera è interamente edita in Andrea Mantegna e i Gonzaga. Rinascimento nel castello di San Giorgio, catalogo della mostra (Mantova, Castello di San Giorgio, 16 settembre 2006 – 14 gennaio 2007), a cura di F. Trevisani, Milano 2006, p. 184 (scheda ii.28). Sulle vicende del Plinio, vergato tra il 1463 e il 1468 e miniato successivamente da Pietro Guindaleri e da altri artisti, cfr. G. Mariani Canova, La natura dipinta: il Plinio Gonzaga e i suoi miniatori, in Rivista di storia della miniatura 12 (2008), pp. 34-44; S. Fumian, Considerazioni in margine al Plauto Gonzaga, in Rivista di storia della miniatura 13 (2009), pp. 120-128; Critelli, Per la carriera di Matteo Contugi cit., pp. 256-260.

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codici più ampio di quanto non preveda il lavoro di un copista — come avverrà più tardi presso la corte urbinate. Il rapporto di fiducia instauratosi tra Contugi e Giraldi potrebbe trovare testimonianza in una lettera inviata il 12 maggio 1469 dall’artista ferrarese a Barbara di Brandeburgo, moglie del marchese Ludovico Gonzaga: egli chiede che il pagamento per un offiziolo da lui miniato possa essere ritirato a Mantova dal nipote Alessandro Leoni — miniatore anch’egli, attivo in codici quali il Dante Urbinate (Urb. lat. 365) —, per il quale avrebbero potuto garantire Andrea Mantegna e «ser Matteo», che potrebbe essere da identificare con Contugi30. La collaborazione tra lo scriba e il miniatore era quindi già avviata quando entrambi iniziarono a lavorare per Federico da Montefeltro. Oltre che nell’Urb. lat. 548, tra i codici appartenuti al signore di Urbino, le mani di Contugi e Giraldi sono compresenti in due famosi e ornatissimi codici: il Dante Urbinate — dove furono coinvolti anche altri artisti, in momenti anche lontani tra loro31 — e l’Evangeliario di Federico (Urb. lat. 10)32. Nota è la lettera indirizzata da Contugi a Federico Gonzaga il 16 ottobre 1478 da Ferrara, dove dice di trovarsi per far completare la miniatura del Dante: «Lo Ill. Signor Octaviano me ha mandato qui a Ferrara per fare finire certe opere che sono qui al miniatore di mia mano, et maxime uno Dante, che monta la miniatura ducati trecentodieci, et certe altre opere […]. Io starò qui circa un mese et poi ritornerò ad Urbino […] Ferrariae die XVI octobris MCCCCLXXVIII. Servitor fidelissimus Mattheus de Vulterris»33. Il 16 ottobre 1478, dunque, il testo della Commedia era già ultimato e il codice si trovava da qualche tempo nella bottega ferrarese di Giraldi per essere completato, insieme ad altre opere di mano di Contugi, che evidentemente ebbe l’incarico di trattare direttamente con i miniatori per la de30 Archivio

di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga b. 1228, f. 752r-v; cfr. F. Toniolo, Scheda III.13, in Andrea Mantegna e i Gonzaga cit., p. 230. 31 Cfr. Il Dante Urbinate della Biblioteca Vaticana (Codice Urbinate latino 365), introduzione di L. Michelini Tocci, con una premessa di M. Salmi e una nota filologica di G. Petrocchi, I, [Città del Vaticano] 1965. Non conosciamo le cause, ma è noto che il Giraldi non portò mai a conclusione il lavoro del Dante, interrompendo la sua opera tra la fine dell’Inferno e l’inizio del Purgatorio, dove comincia il lavoro di un nuovo miniatore. 32 Sull’Urb. lat. 10 si vedano almeno S. Maddalo, Scheda nr. 50, in Liturgia in figura. Codici liturgici rinascimentali della Biblioteca Apostolica Vaticana. Catalogo della mostra (Biblioteca Apostolica Vaticana, Salone Sistino, 29 marzo – 10 novembre 1995), a cura di G. Morello, S. Maddalo, Roma 1995, pp. 222-225 e M. Torquati, Scheda nr. 105, in Vangeli dei Popoli. La Parola e l’immagine del Cristo nelle culture e nella storia. Catalogo della mostra (Città del Vaticano, Palazzo della Cancelleria, 21 giugno – 10 dicembre 2000), a cura di F. D’Aiuto, G. Morello, A. M. Piazzoni, Roma 2000, pp. 388-390. Per la descrizione e la digitalizzazione dell’Urb. lat. 10 cfr. https://spotlight.vatlib.it/humanist-library/catalog/Urb_lat_10. 33 Mantova, Archivio di Stato, Archivio Gonzaga, b. 1229, f. 55r.

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corazione dei manoscritti; il copista non spiega a che punto trovò il lavoro, ma certo doveva procedere con lentezza34. Quello che importa qui rilevare è il ruolo di Ottaviano in questa intermediazione, poiché Contugi afferma che fu lui ad inviarlo a Ferrara e non solo per far terminare il Dante, ma anche per far finire al Giraldi «certe opere», ovvero altri codici, alcuni di sua mano. Non è dato sapere se tra questi vi fosse l’Urb. lat. 548; al suo interno non vi sono elementi espliciti di datazione, ma è noto che la presenza di Contugi ad Urbino è attestata almeno dal 1477 (i codici da lui sottoscritti presentano tutti lo stemma ducale, titolo ottenuto nel 1474) e che l’attività di Giraldi e della scuola ferrarese per Federico è legata al suo tramite. La definizione «mio miniatore» utilizzata da Federico in riferimento all’artista nella lettera inviata ad Ercole d’Este il 6 dicembre 1480 lascia intendere un rapporto di collaborazione ormai consolidato35. Oltre che per il ferrarese Giraldi, un legame con Ferrara è attestato anche per Contugi e Ubaldini. La permanenza del copista in città e il suo rapporto con i miniatori ferraresi, che probabilmente venne sviluppandosi nel corso del tempo, è certo e a Ferrara egli verga uno o due codici (cfr. nt. 28). Anche per Ottaviano è attestata la presenza in città, già nel 1456, lo stesso anno in cui Contugi vergò, forse a Ferrara, i codici oggi conservati a Oxford: vi si reca al principio dell’estate di quell’anno per incontrare Battista Guarini, figlio di Guarino, e consegnargli un codice di Catullo, da far emendare sulla base di un manoscritto più autorevole. Il 26 luglio Battista gli risponde dicendo che è felice di averlo conosciuto e che sta lavorando alla revisione del codice, che rinvierà ad Urbino non appena completato36; la lettera testimonia altresì l’attenzione di Ottaviano per gli aspetti testuali dei codici da lui ricercati. Egli tornò a Ferrara anche l’anno successivo per accompagnare Federico in un viaggio politico37. Contugi fu attivo ad Urbino per diversi anni; dopo la morte di Federico, durante il periodo di reggenza di Ottaviano, certamente si trattenne ancora in città. Due note apposte nell’Indice vecchio in margine alle opere di Dio34 Una lettera spedita da Federico a Ercole d’Este, datata Urbino 6 dicembre 1480 (Modena, Archivio di Stato, Lettere di principi esteri, Urbino B.1), lascia intendere la presenza di Giraldi a Urbino in quella data: «[…] accadendomi mandare là [a Ferrara] messer Guglielmo servitore de Vostra Signoria et mio miniatore, gli ho dato commissione […] faccia scrivere lì [a Ferrara]» alcuni volumi: Michelini Tocci ipotizza che Contugi decise di far trasferire Giraldi a Urbino per poterlo meglio seguire nel lavoro per il Dante Urbinate (cfr. Il Dante Urbinate cit., pp. 55-56 e nt. 1, tav. X per la riproduzione della lettera). 35 Cfr. nt. 34. 36 Cfr. Epistolario di Guarino Veronese, raccolto, ordinato, illustrato, da Remigio Sabbadini, III, Venezia 1919, pp. 476-479; Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., pp. 103-104. 37 Epistolario di Guarino Veronese cit., III, p. 478.

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nigi Areopagita aiutano a ricostruire un incarico a lui affidato per completare un codice di quell’autore; per questo motivo il copista è autorizzato da Ottaviano al prestito di alcuni quinterni (uno da terminare e gli altri da vergare), che pare non furono restituiti38. Negli anni 1488-1491 Contugi scrisse alcune lettere da Ferrara, Agello (PG) e Perugia39; dopo il 1491 non si hanno più sue notizie. Il sodalizio artistico tra il copista originario di Volterra e l’artista ferrarese si ripete dunque non solo in codici federiciani — in cui Ottaviano certamente giocò un ruolo, sollecitando come si è detto i contatti tra i due —, ma anche in almeno un codice della sua raccolta personale. Con l’Evangeliario di Federico da Montefeltro, l’Urb. lat. 548 ha in comune l’essere latore di testi sacri: ma mentre nel primo caso il ponderoso manoscritto in folio contiene i quattro Vangeli, l’Urb. lat. 548, pur noto come Bibbia appartenuta ad Ubaldini40, accoglie i soli libri sapienziali (esclusi Giobbe e Salmi) — come esplicitato nella preziosa antiporta a f. 14v (fig. 7), oltre che nella nota aggiunta al f. [III]v (fig. 6) —, una selezione significativa nelle mani di Ottaviano, istitutore di Guidubaldo e reggente dello Stato urbinate; i libri vetero-testamentari sono preceduti ai ff. 1r-13v da detti sentenziosi tratti dai Proverbi, vergati in scrittura corsiva. È facile immaginare che Ottaviano possedesse anche altri volumi latori di testi biblici e che l’Urb. lat. 548 fosse solo uno di essi, ma allo stato attuale delle conoscenze sulla sua biblioteca non è possibile dire di più. È inoltre interessante notare come, rispetto agli altri codici vergati da Contugi, la scrittura dell’Urb. lat. 548 sia caratterizzata da un modulo molto grande — anche rispetto al formato non ampio del manoscritto (245 × 145 mm) —, che contribuisce a conferire solennità al volume, insieme ai larghi margini e alle iniziali elegantemente campite. Il modulo grande caratterizza anche l’Urb. lat. 10, ma nell’ambito di un formato in folio, esso risulta meno evidente41. 38 Cfr. Urb. lat. 1761: «H(ab)uit Matthaus Volaterranus de Mandato, nec restituit» (f. 20v) e «(D)ionysius de divinis no(min)ibus quint. 3.es era(n)t prius octo, quorum quattuo(r) era(n)t scripti et q(uattu)or no(n) scripti, sed quartus no(n) scriptus In totu(m), quem cu(m) reliquis q(uattu)or no(n) scriptis h(ab)uit de M(anda)tu Ill(ustrissimi) D(omi)ni Oct(avia)ni Matthaeus Volat(er)ranus ad scriben(dum). et no(n) restituit» (f. 117r, tra i «Libri non ligati In membrana»). Ai tempi della reggenza Ubaldini sono testimoniati diversi prestiti di codici, tra cui quelli a Lorenzo il Magnifico, come si evince da alcune annotazioni in margine all’Indice vecchio (cfr. Franceschini, Figure nel Rinascimento cit., pp. 145-146; Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., p. 108). 39 Il destinatario è Benedetto Dei (1418-1492): cfr. Vat. lat. 9063, ff. 131r-153v. 40 Cfr. W. Fitzgerald, Ocelli nominum. Names and Shelf Marks of Famous/Familiar Manuscripts (I), in Mediaeval Studies 45 (1983), pp. 214-297, in particolare p. 271. 41 Si noti che anche per il lussuoso e raffinatissimo Libro d’ore di Eleonora Gonzaga, duchessa d’Urbino, consorte di Francesco Maria I Della Rovere (conservato alla British Library  

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Altri volumi appartenuti ad Ottaviano Ubaldini sono stati individuati da Luigi Michelini Tocci in fondi vaticani diversi dagli Urbinati. Tre di essi tra i Vaticani latini, nella parte più antica del fondo42; è dunque plausibile che vi entrarono in epoca non lontana dalla dispersione subita dalla collezione di Ottaviano. Il Vat. lat. 1790, cartaceo, contiene la Consolatio ad  Iacobum Antonium  Marcellum de obitu Valerii filii di Francesco Filelfo, composta nel 1461 a Milano, preceduta da una lettera dell’autore a Ubaldini; il codice fu confezionato per Federico all’interno dello ‘scriptorium’ sorto attorno all’umanista presso la corte milanese43. Al f. [I]v è apposta la nota di possesso con la segnatura Yates Thompson 7), Contugi utilizzò un modulo grande (per la descrizione del manoscritto si vedano M. R. James, A Descriptive Catalogue of Fifty Manuscripts from the Collection of Henry Yates Thompson, Cambridge 1898, pp. 119-123 e http://www.bl.uk/catalogues/illuminatedmanuscripts/record.asp?MSID=8130&CollID=58&NStart=7, data di visita 11/11/2019, con bibliografia e parziale digitalizzazione). Un modulo più grande del consueto è utilizzato dal copista di Volterra anche nell’Urb. lat. 392, una miscellanea di vari autori tra cui Isidoro di Siviglia e Girolamo, ma anche Giovanni d’Andrea e Benvenuto da Imola: cfr. Codices Urbinates Latini, recensuit C. Stornajolo, I: Codices 1-500, Romae 1902 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manuscripti recensiti), pp. 371-373; per la digitalizzazione, https://digi.vatlib.it/view/MSS_Urb.lat.392. 42 I Vat. lat. 1-4888 comprendono il cosiddetto «fondo antico», ovvero quanto rimane delle collezioni originarie latine della Vaticana, e le prime acquisizioni di età moderna (secc. XV-XVI): cfr. A. Manfredi, Vaticani latini, in Guida ai fondi cit., pp. 623-640. 43 Cfr. Codices Vaticani Latini, recensuit B. Nogara, III: Codd. 1461-2059, Romae 1912 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manuscripti recensiti), p. 267; R. Fabbri, Le “Consolationes de obitu Valerii Marcelli” ed il Filelfo, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, III.1, Firenze 1983 (Biblioteca dell’“Archivum Romanicum”. Serie I, Storia, letteratura, paleografia, 180), pp. 227-250, in particolare pp. 231, 236-238, 241-245. Jeroen De Keyser ha identificato nella mano che verga la dedica di Filelfo a Ottaviano (ff. 1r-2r) la stessa presente in altri codici latori di opere dell’umanista (Urb. lat. 410, 701 e 1182; Milano, Biblioteca Trivulziana, mss. Triv. 797 e 800; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 53.10; Berlin, Staatsbibliothek, Lat. qu. 563; Milano, Biblioteca Ambrosiana, A 209 inf.): si tratterebbe di uno degli scribi che negli anni Sessanta del Quattrocento, nell’ambito della corte milanese, furono coinvolti nella produzione di codici idiografi per conto di Francesco Filelfo, di cui alcuni manoscritti recano note o testi autografi (tra cui il Vat. lat. 1790, rispettivamente ai ff. 3r-154v e 155r-158r, dove è vergata l’elegia greca diretta a Iacopo Antonio Marcello; cfr. J. De Keyser, I codici filelfiani della biblioteca trivulziana, in Libri & Documenti 39 (2013), pp. 91-109, in particolare pp. 103-105 e nt. 27, con bibliografia precedente). De Keyser propone l’identificazione del copista con Francesco da Tolentino, nipote dell’umanista originario della stessa città, sulla base di un ordine di pagamento del 22 luglio 1470, spedito da Federico da Montefeltro a Camillo de Barzi, suo ambasciatore a Milano, nel quale il conte di Urbino chiede di pagare Filelfo: «Et più volemo ancora donare a Francesco da Tolentino nepote del Philelfo che ce ha scripta quella pedia che ha facta el Philelfo et certi altri quinterni de una certa orazione, f[iorini] dodece d’oro» (edito in De Keyser, I codici filelfiani cit., p. 105; cfr. anche Francesco Filelfo. Traduzioni da Senofonte e Plutarco. Respublica Lacedaemoniorum, Agesilaus, Lycurgus, Numa, Cyri Paedia, a cura di J. De Keyser, Alessandria 2012, p. XXXV). Suggerirebbe questa identificazione anche la presenza del nome «Franciscus Tholentinas» in calce alla nota in cui nell’Urb. lat. 410 si ricorda la data di conclusione della traduzione

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«Co(n)solatio d(e) obitu Valerij Marcelli p(er) d(ominum) Fra(n)ciscu(m) Philelfum. Codex Octaviani Vbaldini» (fig. 9), vergata dalla stessa mano vista nei primi codici44.

Fig. 9 – Vat. lat. 1790, f. [I]v.

Anche il Vat. lat. 3563 reca al f. [IV]v la nota di possesso della medesima mano: «De miseriis curialium laureati poetè d(omi)ni Eneè Silvij Senensis: q(u)i postea Pius secu(n)dus po(n)tifex maximus fuit. Codex Octaviani Octaviani (sic) Vbaldini»45. L’opera era stata composta da Piccolomini nel 1444, mentre era in servizio presso la Cancelleria imperiale di Federico III

Fig. 10 – Vat. lat. 3563, f. [IV]v. della Ciropedia di Senofonte (f. 207r; cfr. https://spotlight.vatlib.it/it/humanist-library/catalog/ Urb_lat_410). 44 Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., pp. 113-114, nt. 66. Per la descrizione del codice cfr. Codices Vaticani Latini, III: Codices 1461-2059, recensuit B. Nogara, Romae 1912 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti), p. 267. 45 Cfr. Michelini Tocci, Federico da Montefeltro cit., p. 332 nt. 105.

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d’Asburgo, dove aveva sperimentato i disagi della condizione di cortigiano; vi è espressa l’insofferenza per gli obblighi della vita di corte, il disprezzo per gli intrighi politici, il desiderio dell’otium letterario. Il Vat. lat. 2863 contiene il primo libro delle Elegiae ad Sigismundus Malatestam del riminese Roberto Orsi (c. 1420 – m. dopo il 1486). A proposito della nota di possesso vergata al f. 1v, «Octaviani Vbal(dini)» (fig. 11), Michelini Tocci osserva «che è probabilmente quella di Ottaviano ma qui più incerta e tremula, come se fosse più tarda delle altre»; è da rilevare che la legatura ct ‘a ponte’ è realizzata in modo simile a quella vista nella nota dell’Urb. lat. 54846.

Fig. 11 – Vat. lat. 2863, f. 1v.

In un altro fondo vaticano è stato individuato un ulteriore codice riconducibile a Ottaviano: il Barb. lat. 26, del sec. XIII, latore di varie opere di Ovidio (Amores, De Philomena, Heroides, Ex Ponto, De pulice — quest’ultimo di mano posteriore — e gli ultimi due fascicoli aggiunti nel secolo XV con il De vetula)47. Al f. 172v il manoscritto presenta una nota di metà del sec. XVI: «hic codex fuit olim Octaviani Ubaldini, et deinde Antonij Montisferetranj filij Federici Urbini Ducis»; secondo la nota, il codice appartenne dunque prima a Ottaviano e successivamente ad Antonio da Montefeltro, figlio naturale di Federico, morto prematuramente. A Ubaldini è stato inoltre proposto di attribuire la proprietà di alcuni codici che, pur non presentando stemmi o note di possesso, contengono dedicatorie a lui rivolte48. Tra questi, particolarmente interessante risulta 46 Cfr.

Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., p. 114 nt. 67. 47 Cfr. ibidem, pp. 114-115 e nt. 68; sui fondi Barberiniani cfr. Guida ai fondi cit., pp. 336351. 48 Cfr.

Hofmann, Literary Culture at the Court of Urbino cit., pp. 45-50. Tra i codici che presentano la dedicatoria ad Ottaviano si segnala l’Urb. lat. 1200, che contiene le Iocundissimae Disputationes scritte da Martino Filetico tra il 1462 e il 1463: «Iocundissimae disputationes ill(ustrissimae) D(ominae) Baptistae Sfortiae cum Constantio fratre apud Martinum Philethicum habitae quas ipse Phileticus litteris mandavit et ad cl(arissimum) principem Octavianum Ubaldinum misit quem sic alloquitur hoc proemio». Il testo è scritto in forma di dialogo e illustra diversi metodi di insegnamento — un cammino verso la conoscenza

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essere il Chig. I.IV.146, codicetto di favole esopiche composte dal frate Cristoforo da Fano49; questi, ben inserito nel circolo degli umanisti lombardi, sembra essere stato precettore di Ottaviano presso la corte milanese50. Il manoscritto costituisce uno dei primi codici posseduti da Ottaviano «ed è certamente l’esemplare di dedica […] scritto certamente a Milano o almeno in Lombardia, dedicato ad Ottaviano adolescente, esso deve essere datato non oltre il 1437, anno della morte del padre, Bernardino, il quale nella dedicatoria sembra esser designato come ancora vivente»51; le iniziali sono in stile lombardo. L’autore delle favole è lo stesso frate Cristoforo da Fano che, quasi trentacinque anni più tardi, scriverà un’opera sull’impresa di Ri— tramite quattro interlocutori: il magister è Filetico, gli altri personaggi sono Antonio (figlio di Federico), Costanzo e Battista Sforza, che rappresentano vari livelli di conoscenza. Il significato della dedica a Ottaviano, che aveva scelto Filetico come magister di suo figlio Bernardino, è chiara. Intorno al 1454-1455 Filelfo si era recato a Urbino come insegnante di Buonconte, figlio primogenito naturale di Federico da Montefeltro, e appunto di Bernardino. Era stato lo stesso Guarino a suggerire il nome dell’umanista per tale compito, come testimonia lo scambio epistolare (non datato, ma databile al 1454-1455) tra questi e Ottaviano, in cui quest’ultimo si rallegra per l’invio a Urbino del suo discepolo (cfr. Epistolario di Guarino cit., II, pp. 616-618; III, pp. 473-476). Si ricorda qui anche l’Urb. lat. 702, che non è caratterizzato da segni di possesso, ma in cui Ottaviano è citato esplicitamente: il codice contiene il poema mitologico Martias di Gian Mario Filelfo, scritto nel 1464 e dedicato a Federico, che impersona un novello Eracle, mentre Ottaviano è rappresentato come suo gemello, vestendo i panni di Ificle, principe della pace e patrono delle arti (cfr. Bertuzzi, Ottaviano Ubaldini cit., pp. 161-163). Michelini Tocci segnala anche la dedicatoria ad Ottaviano presente nel piccolo Urb. lat. 884, latore della Narratio intentatae aggressionis contra nonnulla oppida di Girolamo Santucci (cfr. Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., p. 113 e nt. 65; Codices Urbinates Latini, recensuit C. Stornajolo, II: Codices 501-1000, Romae 1912 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manuscripti recensiti), p. 618). 49 Sul fondo Chigiano cfr. M. Buonocore, Chigiani, in Guida ai fondi cit., pp. 403-409. 50 Sul frate umiliato Cristoforo da Fano (1401-1477) cfr. A. Piacentini, Su una satyrula di Cristoforo da Fano al giureconsulto bresciano Giovanni da Sale, in Aevum 81 (2007), pp. 559-592, in particolare pp. 561 nt. 6 e 562 nt. 8; id., Cristoforo da Fano frate umiliato e poeta, in Profili di umanisti bresciani, a cura di C. M. Monti, Travagliato (Brescia) 2012 (Adunanza erudita, 3), pp. 1-76, in particolare pp. 16-17, 21-25, 49-50, 55, 59, 61, 64-66, 70, 71, 74. Piacentini segnala un altro testimone della silloge delle stesse favole esopiche, il ms. I IX 14 della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, e una diversa silloge ugualmente dedicata ad Ubaldini, che si trova nel ms. Parmense 706 della Biblioteca Palatina di Parma, ai ff. 52r82v: esso contiene versi dedicati a Ottaviano e un’epitome in distici elegiaci dei Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo, opera dedicata a Federico da Montefeltro, accompagnata da epigramma di dedica e sottoscrizione al f. 49v: «Hunc, Federice, tibi librum pro iure dicavi: / nam tuo solum nomine clarus erit»; ai ff. 49v-50r si trovano tre epitaffi che Cristoforo ha composto per la morte di Guidantonio da Montefeltro, Bernardino Ubaldini, e la moglie Aura da Montefeltro. Le opere contenute nel codice evidenziano dunque lo stretto legame che doveva intercorrere tra l’autore e il dedicatario. 51 Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., pp. 114-115 e nt. 69; è qui edita la nota di Alessandro VII, posta come in molti altri manoscritti chigiani al principio del codice, che ne precisa il contenuto.

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mini del 1469 e la raccomanderà con una lettera, datata Milano, 26 agosto 1470 (in cui l’autore dice di avere 69 anni), ad Ottaviano «pro mansuetudine tua», vergata all’inizio del manoscritto perché esso trovi accoglienza presso Federico52. Significativa è infine la presenza nella biblioteca Ubaldini di un incunabolo latore di un Missale Ambrosianum (fig. 12): si tratta di un esemplare dell’edizione stampata a Milano il primo agosto 1486 per i tipi di Leonhard Pachel e Ulrich Scinzenzeler (BAVIC VcBA11019071, Igi 6544, ISTCim00644300).

Fig. 12 – Inc. II. 140, f. 1r. 52 L’opera

è lata dall’Urb. lat. 1260 (cfr. Codice Urbinates Latini cit., III, pp. 238-239).

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MARIA GABRIELLA CRITELLI

Esso oggi appartiene alla Biblioteca Vaticana, segnato Inc. II.14053. La sua provenienza è attestata dalla nota di possesso «Octaviani VbaL(dini)» (fig. 13) — apposta sulla controguardia anteriore e caratterizzata dalla legatura ct ‘a ponte’ vista in alcuni dei manoscritti precedenti — e suggellata dalla preziosa legatura coeva, in assi lignee ricoperte di cuoio di colore marrone chiaro: al centro dei piatti, ornati da ricche decorazioni a secco, è impresso un grande riquadro all’interno del quale si trova lo stemma della famiglia Ubaldini nella sua forma più semplice (fig. 14), come quella presente nell’Urb. lat. 1430 (fig. 3).

Fig. 13 – Inc. II. 140, controguardia anteriore con nota di possesso.

Si tratta di un volume al quale evidentemente il proprietario teneva particolarmente: lo stampato testimonia come il legame con Milano e la Chiesa ambrosiana, consolidati durante la giovinezza di Ottaviano, fossero rimasti radicati nella sua mente anche molti anni dopo il trasferimento ad Urbino, così come i contatti iniziati e stabiliti a suo tempo alla corte viscontea furono duraturi e coltivati negli anni. Dopo il 1490 Ottaviano si ritirò progressivamente dalla vita politica, recandosi spesso nel suo feudo di Mercatello — la cui contea gli era stata assegnata da Federico dopo esser diventato duca —, o ancor più a Gubbio, sua città natale. Proprio durante un viaggio da Gubbio a Urbino lo colse la morte, a Cagli come testimonia una nota di Federico Veterani al f. [122]r dell’Urb. lat. 460: «1498. XXVII Julij. hora viiii obijt I(llustrissimus) D(omi)nus Octavianus Vbaldinus comes Mercatelli etc., princeps etate sua om­niu(m) iustissimus ac pie(n)tissimus, die XIIIIa post q(uam) egrotaverat Eugubij et inde eger rediens, cedens sive translatus, ut ad Vrbinum rediret, Callij migravit»54.  

 

53 Michelini Tocci, Federico di Montefeltro e Ottaviano Ubaldini della Carda cit., p. 332 nt. 105. Digitalizzazione e descrizione dell’incunabolo sono consultabili sul sito della Biblioteca Vaticana, https://digi.vatlib.it/inc/detail/11019071. 54 Cfr. Codices Urbinates Latini cit., I, pp. 467-468; Michelini Tocci, Ottaviano Ubaldini cit., pp. 110-111 nt. 58; id., Federico da Montefeltro cit., p. 343.

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OTTAVIANO UBALDINI DELLA CARDA TRA MILANO E URBINO

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Fig. 14 – Inc. II. 140, piatto anteriore con stemma della famiglia Ubaldini.

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FRANCESCO D’AIUTO

UN CANONE DI GIUSEPPE L’INNOGRAFO PER S. ALIPIO STILITA (PAR. GR. 259 E VAT. GR. 2309) E IL SUO ADATTAMENTO SETTECENTESCO IN ONORE DI S. NEOFITO IL RECLUSO Sommario: Abbreviazioni bibliografiche, p. 103. – Introduzione, p. 107. – 1. Le fonti agiografiche su s. Alipio e il loro riflesso nell’opera di Giuseppe, p. 109. – 2. La tradizione manoscritta del canone, p. 115. – 3. La curiosa fortuna a stampa dell’inno: il rimaneggiamento in onore di s. Neofito il Recluso, p. 119. – 4. Criteri di edizione. Ortografia, interpunzione, metrica, p. 136. – [Edizione critica e traduzione italiana dell’inno], p. 142. – Commento al testo del canone, p. 162.

Abbreviazioni bibliografiche Acol. = Ἀκολουθίαι τοῦ ὁσίου Πατρὸς ἡμῶν Νεοφύτου τοῦ Ἐγκλείστου, Ψαλλόμεναι κατὰ τὴν ΚΔ΄ Ἰανουαρίου καὶ ΚΗ΄ Σεπτεμβρίου (...), [Λάρνακα] 1912. Afentoulidou-Leitgeb = Ei. Afentoulidou-Leitgeb, Die Hymnen des Theoktistos Studites auf Athanasios I. von Konstantinopel, Wien 2008 (Wiener byzantinistische Studien, 27). Agathonos, Ὑμνογραφικό = P. Agathonos, Τὸ ὑμνογραφικὸ καὶ ὑμνολογικὸ ἐκδοτικὸ ἔργο τοῦ Ἀρχιμανδρίτη Κυπριανοῦ, in Κληρονομία 30 (1998) [1999], pp. 9-28 [rist. in Πρακτικὰ τοῦ Τρίτου Διεθνοῦς Κυπρολογικοῦ Συνεδρίου (Λευκωσία, 16-20 Ἀπριλίου 1996), III, ἐπιμ. I. Theocharides, Λευκωσία 2001, pp. 113-128]. AHG = Analecta Hymnica Graeca e codicibus eruta Italiae inferioris, I. Schirò consilio et ductu edita, I-XIII, Roma 1966-1983. ΑΝΕΣ = Ἁγίου Νεοφύτου τοῦ Κυπρίου τοῦ καὶ Ἐγκλείστου Σῳζόμενα ἔργα, συνοπτικὴ ἠλεκ­ τρονικὴ ἐπανέκδοση, ἐκδ. X. Th. Gianku – Th. E. Detorakes – A. Karpozelos [et al.], ἐπιμ. I. E. Stephanes, Θεσσαλονίκη 20182 [http://www.stneophytos.org. cy/index.php/ekdoseis, riedizione digitale di Ἁγίου Νεοφύτου τοῦ Ἐγκλείστου Συγγράμματα, I-VI, Πάφος 1996-2008]. Armati, Giuseppe = A. Armati, Giuseppe Innografo negli Analecta Hymnica Graeca, in Δίπτυχα 4 (1986-1987) [= Ὠιδή. Ἀφιέρωμα εἰς Giuseppe Schirò], pp. 141-148. BHG = F. Halkin, Bibliotheca Hagiographica Graeca, I-III, Bruxelles 19573 (Subsidia hagiographica, 8a), [necnon] id., Novum Auctarium Bibliothecae Hagiographicae Graecae, Bruxelles 1984 (Subsidia hagiographica, 65). Canart, Écritures livresques = P. Canart, Les écritures livresques chypriotes du XIe au XVIe siècle, in Κέντρον Ἐπιστημονικῶν Ἐρευνῶν. Ἐπετηρίς 17 (1987-1988) [=  Πρῶτο Διεθνὲς Συμπόσιο Μεσαιωνικῆς Κυπριακῆς Παλαιογραφίας / First International Symposium on Medieval Cypriot Palaeography, 3-5 September 1984], pp. 2753 [rist. in id., Études, II, pp. 853-879].

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FRANCESCO D’AIUTO

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219-229, 358-368; 48 (1949), pp. 60-75, 153-176, 256-272, 347-368; 49 (1950), pp. 34-55, 97-114, 204-224; 50 (1951), pp. 78-80, 149-176, 241-272, 313-356; 51 (1952), pp. 30-59. Federici – Houlis, Legature = C. Federici – K. Houlis, Legature bizantine vaticane, (...) Contributi di P. Canart [et al.], Roma 1988. Filimon, Pillar = F. Filimon, Pillar of the communities: the Lives of Alypius the Stylite, [MA thesis: Budapest, Central European University, 2015: www.etd.ceu. hu/2015/filimon_florin.pdf]. Follieri, Fantino «il vecchio» = E. Follieri, Un canone di Giuseppe Innografo per s. Fantino «il vecchio » di Tauriana, in Revue des études byzantines 19 (1961), pp. 130-151. Follieri, Initia = E. Follieri, Initia Hymnorum Ecclesiae Graecae, I-V/2, Città del Vaticano 1960-1966 (Studi e testi, 211-215bis). Follieri, Santi cretesi = E. Follieri, Santi cretesi nell’innografia, in Πεπραγμένα τοῦ Β΄ Διεθνοῦς Κρητολογικοῦ Συνεδρίου, III, Ἀθῆναι 1968, pp. 272-285. Follieri, Santi persiani = E. Follieri, Santi persiani nell’innografia bizantina, in Atti del Convegno sul tema: La Persia e il mondo greco-romano (Roma 11-14 aprile 1965), Roma 1966 (Problemi attuali di scienza e cultura. Quaderno 76), pp. 227-242. Galatariotou, Making = C. Galatariotou, The Making of a Saint: The Life, Times and Sanctification of Neophytos the Recluse, Cambridge [et alibi] 2002. Halkin, Inédits = F. Halkin, Inédits byzantins d’Ochrida, Candie et Moscou, Bruxelles 1963 (Subsidia hagiographica, 38). Hausherr, Penthos = I. Hausherr, Penthos. La doctrine de la componction dans l’Orient chrétien, Roma 1944 (Orientalia Christiana Analecta, 132). Kitromelides, Κυπριακὴ λογιοσύνη = P. M. Kitromelides, Κυπριακὴ λογιοσύνη, 15711878. Προσωπογραφικὴ θεώρηση, Λευκωσία 2002 (Κέντρο Ἐπιστημονικῶν Ἐρευνῶν. Πηγὲς καὶ μελέτες τῆς Κυπριακῆς ἱστορίας, 43). Kokkinophtas, Κύπριοι Λόγιοι = K. Kokkinophtas, Κύπριοι Λόγιοι καί ἐκδοτική δραστηριότητα (μέσα 18ου-ἀρχές 19ου αἰ.), in Ἑλληνικός καί Εὐρωπαϊκός Διαφωτισμός. Πρακτικά Δ΄ Συνεδρίου (24 Ὀκτωβρίου 2015), Ἀθήνα 2016, pp. 425-443. Kristensen, Using = T. M. Kristensen, Using and Abusing Images in Late Antiquity (and Beyond): Column Monuments as Topoi of Idolatry, in Using Images in Late Antiquity, ed. by S. Birk – T. M. Kristensen – B. Poulsen, Oxford – Philadelphia 2014, pp. 268-282. Kypr. = Ἀκολουθία τοῦ ὁσίου πατρὸς ἡμῶν Νεοφύτου τοῦ Ἐγκλείστου ψαλλομένη κατὰ τὴν ιβ΄. τοῦ Ἀπριλλίου μηνὸς, νῦν πρῶτον τύποις ἐκδοθεῖσα (...) τῇ ἐπιστασίᾳ δὲ καὶ διορθώσει τοῦ ταπεινοῦ ἐν ἱερομονάχοις Κυπριανου (...), Ἐνετίῃσιν, Παρὰ Νικολάῳ Γλυκεῖ τῷ ἐξ Ἰωαννίνων, 1778. Kyprianos, Ἱστορία = Ἱστορία χρονολογικὴ τῆς νήσου Κύπρου ἐρανισθεῖσα ἐκ διαφόρων ἱστορικῶν καὶ συντεθεῖσα ἁπλῇ φράσει (...) ὑπὸ τοῦ ἀρχιμανδρίτου Κυπριανου (...), Ἐνετίῃσιν, Παρὰ Νικολάῳ Γλυκεῖ τῷ ἐξ Ἰωαννίνων, 1788. Lambros, Catal. Athos = S. P. Lambros [Lampros] Catalogue of the Greek Manuscripts on Mount Athos, I-II, Cambridge 1895-1900. Lampe = A Patristic Greek Lexicon, ed. by G. W. H. Lampe (...), Oxford 1961.

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Introduzione

Νel grato ricordo della nostra comune maestra Enrica Follieri — che, fra i diversi campi degli studi bizantini da lei coltivati, fu insigne specialista in particolare di questo settore —, sono felice di poter offrire al condiscepolo e amico festeggiato un mio piccolo lavoro in un ambito, quello

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dell’innografia della Chiesa greca, al quale egli stesso si è dedicato a più riprese1, essendosi oltretutto occupato anche lui di una composizione di Giuseppe l’Innografo (sec. IX), autore dell’inno in forma di canone di cui fornirò qui l’edizione critica2. Fra i poeti liturgici della Chiesa greca, in effetti, Giuseppe fu non solo uno dei più amati3, ma anche uno dei più prolifici, e, sebbene centinaia di suoi inni siano già pubblicati — e risultino in buona parte inclusi negli attuali libri a stampa delle ufficiature liturgiche tuttora in uso —, molto numerosi sono ancora i suoi canoni che giacciono inediti nei manoscritti, o che, se mai stampati, lo furono non criticamente, tra Otto- e Novecento, spesso in effimere edizioni devozionali — fascicoletti di ufficiature per singole festività —, e talvolta in forma mutila, interpolata o persino intenzionalmente rimaneggiata per impiegarli nel culto di un santo differente da quello originario4. 1 Pasini, Testi innografici; id., Altre composizioni innografiche bizantine in onore di sant’Ambrogio di Milano, in Bollettino della Badia greca di Grottaferrata, n.s. 42 (1988), pp. 83‑92; Pasini, Fonti greche, pp. 291-431. Cf. anche id., Osservazioni sul dossier agiografico ed innografico di san Filippo di Agira, in Storia della Sicilia e tradizione agiografica nella tarda antichità. Atti del Convegno di Studi (Catania, 20‑22 maggio 1986), a cura di S. Pricoco, Soveria Mannelli 1988, pp. 173‑208; C. Pasini, La figura di Filippo d’Agira nella tradizione agiografica e innografica italogreca, in Cassiodorus 6-7 (2000-2001), pp. 37-53; id., Testi agiografici e innografici come fonti «storiche»? Sondaggi e criteri di valutazione nei testi bizantini per san Filippo d’Agira e sant’Ambrogio di Milano, in Analecta Bollandiana 122 (2004), pp. 69-82. 2 Mi riferisco al canone di Giuseppe per s. Ambrogio (acr. Τὸν παμμέγιστον Ἀμβρόσιον αἰνέσω· Ἰωσήφ, inc. Ὁ Λόγος ὁ τοῦ Θεοῦ σοφίας μοι..., censito in Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 131 nr. 118) edito in Pasini, Testi innografici [38 (1984)], pp. 76-103 [poi confluito in id., Fonti greche, pp. 312-314, 354-369]. 3 La prescrizione di preferire Giuseppe a ogni altro innografo nella scelta del canone da cantarsi per il santo del giorno (per la quale cf. ad es. Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 80-81) si legge nelle edizioni del testo a stampa del Typikòn di S. Saba sin dalla princeps del 1545: Τυπικὸν καὶ τὰ ἀπόρρητα, Ἀνδρέου Κουνάδου, [Ἐνετίῃσιν, ἐν οἰκίᾳ Ἰωάννου καὶ Πέτρου τῶν Σαβιέων καὶ αὐταδέλφων, ͵αφμε΄. Ἰαννουαρίῳ, α΄.], ff. bBiiv-bBiiir (κεφάλαιον ζ΄): «Ἰστέον δὲ καὶ τοῦτο, ὡς εἴπερ ἔχει τὸ μηναῖον ἐν μνήμῃ ἁγίου τινὸς κανόνας διαφόρων ποιητῶν, (...) οἱ τοῦ κῦρ Ἰω­ σὴφ τῶν λοιπῶν ἁπάντων [scil. Theophanis, Iohannis , Cosmae] προκρίνονται» (esemplare consultato: Roma, Biblioteca Casanatense, CC.A.III.28). La frase, però, manca nei non pochi manoscritti del Typikòn sabaita che mi è stato possibile consultare a campione in riproduzioni online (per lo più sinaitici e parigini, dei secc. XII-XVI). 4 All’interno della vasta letteratura su Giuseppe si veda almeno Tomadakes, Ἰωσήφ, con le precisazioni di D. Stiernon, La vie et l’œuvre de s. Joseph l’Hymnographe. À propos d’une publication récente, in Revue des études byzantines 31 (1973), pp. 243-266, le indicazioni ulteriori di Armati, Giuseppe (in relazione ai canoni editi nella collezione degli AHG), e le successive aggiunte di E. I. Kuskule, Προσθῆκαι εἰς τὸν κατάλογον τῶν ἔργων Ἰωσὴφ τοῦ Ὑμνογράφου, in Ἐπετηρὶς Ἑταιρείας Βυζαντινῶν Σπουδῶν 53 (2007-2009), pp. 281-302. Si vedano, inoltre, con l’ulteriore bibliografia ivi citata, alcune recentissime edizioni critiche di gruppi più o meno consistenti di suoi inni: Spanos, Leimonos 11, pp. 77-81 e passim [8 canoni]; D’Amelia, Nuovo Ottoeco [8 canoni]; Toma, Joseph [30 canoni]. Si segnala, infine, la pubblicazione postuma,

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1. Le fonti agiografiche su s. Alipio e il loro riflesso nell’opera di Giuseppe Proprio a quest’ultima categoria dei componimenti già stampati, ma in forma sfigurata, appartiene, come si vedrà, l’inno di cui in quest’occasione ho scelto di riportare alla luce il testo originario, ovvero un canone (del secondo modo autentico, inc. Ψυχοφθόρου λύπης με...) composto da Giuseppe in onore di s. Alipio detto lo Stilita, o più propriamente il Chionita (Κιονίτης): un santo appartenente, dunque, a quella speciale categoria di asceti orientali, gli stiliti, che fra Tarda Antichità e pieno Medioevo vissero la loro ricerca della via della perfezione insediandosi sulla cima di una colonna (στῦλος / κιών)5. Fra di essi, in particolare, Alipio6, vissuto fra VI e VII secolo, morì al tempo dell’imperatore Eraclio (610-641) dopo aver trascorso l’intera sua esistenza ad Adrianopoli di Paflagonia — fatti salvi brevi spostamenti, negli anni giovanili, nelle vicine località anatoliche di Eucàita e Calcedonia —, passando gran parte della vita, fino alla fine, in cima a una colonna posta nell’antico sepolcreto pagano fuori dell’abitato cittadino sulla quale un tempo si trovava eretta una statua di soggetto profano7, nel 2002, della dissertazione magistrale in teologia, del 1927, del protoierej Vladimir A. Rybakov (1869-1934), non aggiornata ma ricca di dati: Rybakov, Iosif. 5 Delehaye, Stylites. 6 Il dossier agiografico greco di s. Alipio è per la gran parte edito e magistralmente discusso in Delehaye, Stylites, pp. lxxvi-lxxxv, 148-194 (Vita prior BHG 65; Vita metaphras­ tica BHG 64; Laudatio auct. s. Neophyto Incluso BHG 66), cui si aggiunga Halkin, Inédits, pp. 166-210 (Laudatio auct. Antonio mon. et presb. BHG 66d). Per ulteriore bibliografia sul santo e sul suo dossier, oltre al recente studio complessivo di Filimon, Pillar, si vedano selettivamente Schiffer, Metaphrastic Lives, pp. 22-28, 36-39; G. A. Gilli, Arti del corpo. Sei casi di stilitismo, Cavallermaggiore 1999, p. 29 e passim; B. Lourié, S. Alypius Stylite, S. Marc de Tharmaqa et l’origine des malké’ éthiopiennes, in Scrinium 1 (2005) [= Varia Aethiopica. Pamjati Sevira Borisoviça Çernecova (1943-2005)], pp. 148-160: 149, 159; Th. Pratsch, Der hagiographische Topos, Berlin – New York 2005 (Millennium-Studien [...], 6), pp. 451, 469 [s.vv. indicum «Alypios Stylites», «Vita Alypii Stylitae (BHG 65)»]; L. Franco, Le Vite di Simeone Metafrasta. Osservazioni sulla tecnica compositiva, in Bisanzio nell’età dei Macedoni. Forme della produzione letteraria e artistica. VIII Giornata di Studi Bizantini (Milano, 15-16 marzo 2005), a cura di F. Conca e G. Fiaccadori, Milano 2007 (Quaderni di Acme, 87), pp. 85-117: 104-106, 116; Ph. Henne, Le vertige divin. La saga des stylites, Paris 2014, passim; Kristensen, Using, p. 272; R. Ousterhout, The life and afterlife of Constantine’s Column, in Journal of Roman Archaeology 27 (2014), pp. 304-326: 322-323; M. Ritter, The end of late antiquity in Paphlagonia: disurbanisation from a comparative perspective, in Landscape Dynamics and Settlement Patterns in Northern Anatolia during the Roman and Byzantine Period, Ed. by K. Winther-Jacobsen and L. Summerer, Stuttgart 2015 (Geographica Historica, 32), pp. 119-133: 121-122, 127; Ch. N. Kuper, Anonymous, Life of Alypios the Stylite (BHG 65), in The Cult of Saints. Cult of Saints in Late Antiquity (CSLA) Database, nr. E06497 [last modified 12.12.2018: http://csla.history.ox.ac.uk/record.php?recid=E06497]. 7 Secondo la Vita prior BHG 65 (§ 9: Delehaye, Stylites, p. 154 lin. 5), la statua rappresentava un ταυρολέων — hapax legomenon a quanto pare riscontrabile solo nei testi del dossier di s. Alipio —, nel quale, secondo Hippolyte Delehaye, andrebbe ravvisato un non altrimenti

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sostituita dal santo con una croce8. Intorno al κιών abitato per decenni dall’asceta — in perenne lotta contro le insidie e gli assalti dei demoni — vennero raccogliendosi pie donne, a partire dalla madre di Alipio, e col tempo furono fondati due monasteri, uno femminile e uno maschile9. attestato animale fantastico per metà toro e per metà leone (ibid., p. lxxxiii), sempre che non si debba piuttosto interpretare il vocabolo come riferibile a una raffigurazione zoomorfica in cui un leone artiglia un bovide, in accordo con la Laudatio BHG 66d opera di Antonio presbitero (§ 13, linn. 12-18, in Halkin, Inédits, pp. 189-190: τῷ δὲ κίονι λέων ἦν ἐφεστὼς τοῖς μὲν ὀπισθίοις μέρεσιν οὐρᾷ τε καὶ ποσὶν τῆς στήλης ἀφαπτόμενος, τοῖς ἔμπροσθεν δὲ βοῦν ὑποκειμένην δαμάζων καὶ μεταχειριζόμενος καὶ θοινώμενος...): il «lion attack» era, del resto, un soggetto statuario molto diffuso nell’antichità pre-classica e classica, e comune, oltretutto, proprio in ambito funerario, cf. ad es. G. E. Markoe, The «Lion Attack» in Archaic Greek Art: Heroic ­Triumph, in Classical Antiquity 8 (1989), nr. 1, pp. 86-115 (con xxvii tavv.): 109114; F. Hunter, Funerary Lions in Roman Provincial Art, in Romanisation und Resistenz in Plastik, Architektur und Inschriften der Provinzen des Imperium Romanum. Neue Funde und Forschungen. Akten des VII. internationalen Colloquiums über Probleme des provinzialrömischen Kunstschaffens, Köln 2. bis 6. Mai 2001, hrsg. von P. Noelke – F. Naumann-Steckner – B. Schneider, Mainz am Rhein 2003, pp. 59-65. Come gruppo statuario d’un leone che artiglia un toro, fra l’altro, il ταυρολέων del dossier agiografico di Alipio è interpretato da A. Xyngopulos, Ταυρολέων, in Δελτίον τῆς Χριστιανικῆς Ἀρχαιολογικῆς Ἑταιρείας, περ. IV, 5 (1966-1969), pp. 309-314, che peraltro, paradossalmente, non sembra conoscere l’encomio ad opera di Antonio; ma su tutto questo rinvio alla dettagliata discussione (e alle conclusioni cautamente dubitative) di Filimon, Pillar, pp. 94-100. 8 Il gesto della sostituzione della nuda croce all’immagine cultuale pagana — o all’icona cristiana, considerata, quest’ultima, idolatrica e demoniaca al pari di quella — è prodezza di solito ritenuta tipica dei santi iconoclasti (cf. ad es. S. Gero, Byzantine Iconoclasm during the Reign of Leo III [...], Louvain 1973 [Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, 346; Subsidia, 41], pp. 114-126, 210-212; A. Acconcia Longo, La Vita di s. Leone vescovo di Catania e gli incantesimi del mago Eliodoro, in Rivista di studi bizantini e neoellenici, n.s. 26 [1989], pp. 3-98: 46), sebbene di per sé l’abbattimento di un idolo pagano non sia gesto che non si addica a un ortodosso, sia prima che dopo l’età della controversia iconoclasta (come testimoniano, fra l’altro, le rappresentazioni figurative medio- e tardobizantine di santi nell’atto di rovesciare statue di divinità classiche, cf. ad es. Kristensen, Using, passim). La Vita prior BHG 65 di s. Alipio, che non menziona mai icone, anche solo per questo episodio poteva forse esser sospettata, da un lettore iconodulo, di essere di tendenza iconoclasta. Da ciò sarà probabilmente derivata l’aggiunta di marca «iconofila», in una parte deteriore della sua tradizione manoscritta (codici A e B: Par. gr. 1539, sec. X-XI, e Vat. gr. 807, sec. X), della ripetuta menzione di un’icona del Salvatore che Alipio avrebbe portato con sé sulla colonna insieme alla croce (§ 9: Delehaye, Stylites, p. 154 linn. 18 e 24: εἰκόνα δεσποτικὴν... καὶ τὸ τοῦ Κυρίου ὁμοίωμα): concordo, infatti, con tale ragionevole interpretazione del dato della tradizione manoscritta, che si deve a Florin Filimon (Filimon, Pillar, 13 n. 48, 23 e n. 105, e 53-56), contro quella fornita da Delehaye, che accolse come genuine nel suo testo critico della Vita prior le espressioni dei manoscritti A e B relative all’icona di Cristo, derubricando la mancanza di esse nel codice C (Vat. gr. 808, sec. XI) a «omissioni» proprie di questo testimone, da lui indebitamente ritenuto inferiore (cf. ibid., p. lxxvii). 9 Sui doppi monasteri maschili e femminili a Bisanzio, con riferimenti anche al caso della Vita Alypii, cf. D. F. Stramara Jr., Double Monasticism in the Greek East, Fourth through Eighth Centuries, in Journal of Early Christian Studies 6/2 (1998), pp. 269-312: 303, 310; id., Double Monasticism in the Greek East, Eighth through Fifteenth Centuries, in The Greek

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Dopo cinquantatré anni in cui praticò la στάσις restando sempre in piedi in orazione sulla colonna10, l’asceta, colpito da emiparesi all’età di ottantacinque anni, fu costretto a trascorrervene altri quattordici coricato su un fianco, fino alla morte in pace all’età di novantanove anni11. Volgendoci ora a considerare quanto della vicenda terrena di s. Alipio si rifletta nell’inno di Giuseppe di cui ci occupiamo (acrostico: Ψυχοφθόρου ῥῦσαι με, παμμάκαρ, λύπης· Ἰωσήφ, inc. Ψυχοφθόρου λύπης με...), dovremo ricordare innanzitutto che di norma nella poesia liturgica bizantina, e soprattutto nei componimenti in forma di canone, gli elementi genericamente eulogici, i topoi agiografici e le espressioni di supplica fanno comprensibilmente aggio sulla precisione e sull’abbondanza dei dettagli biografici tratti dalle Vitae dei santi12. È stato messo in evidenza da più parti, però, Orthodox Theological Review 43 (1998), pp. 185-202; E. Mitsiou, Das Doppelkloster des Patriarchen Athanasios I. in Konstantinopel: Historisch-prosopographische und wirtschaftliche Beobachtungen, in Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik 58 (2008), pp. 87-106: 100-101; ead., Frauen als Gründerinnen von Doppelklöstern im byzantinischen Reich, in Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte 60-61 (2011-2012) [2014] [= Female Founders in Byzantium and Beyond, Ed. by L. Theis – M. Mullett – M. Grünbart (et al.)], pp. 333-343. 10 Sulla pratica ascetica della στάσις, non esclusiva degli stiliti, cf. A.-J. Festugière, Antioche païenne et chrétienne. Libanius, Chrysostome et les moines de Syrie (...), Paris 1959 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 194), pp. 295-296, 299-307; van den Ven, La vie ancienne, pp. 131*, 147*. 11 Numero probabilmente simbolico, corrispondente a un «amen isopsefico» — ovvero alla somma dei valori numerici delle lettere che compongono la parola ἀμήν: α΄ (1) + μ΄ (40) + η΄ (50) + ν΄ (8) = ϟθ΄ (99) —, cf. ad es. A. Jacob, Un nouvel amen isopséphique en Terre d’Otrante (Nociglia, Chapelle de la Madonna dell’Itri), in Rivista di studi bizantini e neoellenici, n.s. 26 (1989), pp. 187-195; e si ricordi, inoltre, che già in età classica l’età del centenario, o quasi tale, era considerata in certo senso topica per la morte del sapiente pagano, cf. ad es. Lucian. Samos., Macrob. 18-21 (Lucien, Œuvres, II, texte établi [...] par J. Bompaire, Paris 1998, pp. 31-35). Del resto, l’intera «carriera» ascetica di s. Alipio mi sembra costruita, nella Vita prior BHG 65, su clichés numerici che si rispecchiano in modelli agiografici influenti quali la Vita s. Euthymii BHG 647-648 scritta da Cirillo di Scitopoli, seconda la quale (§ 40, ed. E. Schwartz, Kyrillos von Skythopolis, Leipzig 1939 [Texte und Untersuchungen (...), 49/2], p. 60 linn. 11-13) Eutimio il Grande visse 29 anni prima della monacazione (arrotondati a 30 nel caso di Alipio, che vi aggiunge poi 2 anni di volontaria reclusione in una stretta cella in preparazione all’ascesa sulla colonna), e 68 oppure, secondo una lezione deteriore di parte della tradizione manoscritta, 67 anni da monaco (corrispondenti alla permanenza di Alipio sulla colonna per 67 anni, cifra che si ottiene sommando i 53 anni passati in piedi e i 14 successivi trascorsi da coricato): topoi numerici dell’agiografia greca per i quali cf. La Vita di s. Fantino il Giovane, (...) a cura di E. Follieri, Bruxelles 1993 (Subsidia hagiographica, 77), pp. 109-111. E mi chiedo se sia casuale che anche gli anni complessivi di vita ascetica degli stiliti s. Simeone il Giovane († 592) e s. Lazzaro Galesiota († 1054) siano stati 68, cf. rispettivamente van den Ven, Vie ancienne, p. 127* e Delehaye, Stylites, p. cxv. 12 Cf. ad es. F. D’Aiuto, L’innografia, in Lo spazio letterario del Medioevo, III: Le culture circostanti, direttori: M. Capaldo – F. Cardini – G. Cavallo – B. Scarcia Amoretti, 1: La cultura bizantina, a cura di G. Cavallo, Roma 2004, pp. 257-300: 277-278.

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come a differenza di molti altri innografi Giuseppe si basi di norma per i suoi canoni su scritti agiografici letti di prima mano, i dettagli della cui trama, più che le espressioni ad verbum, si possono spesso individuare agevolmente nell’orditura poetica dei suoi inni13. Nel caso che ci interessa, in particolare, l’unico testo agiografico lungo — fra quelli, almeno, giunti sino a noi — che doveva essere disponibile nel IX secolo, epoca in cui visse Giuseppe, è la cosiddetta Vita s. Alypii prior BHG 65, composta forse verso la metà o nella seconda metà del VII secolo14. Essa trova eco, in effetti, in più passi del canone qui edito, laddove — omettendo di menzionare i punti di confronto più banali e classificabili come topoi — si riferisce del santo, ad esempio, che: lottando sulla colonna contro gli assalti del demonio (cola [8.-10.], [45.49.]), seppe respingere e sottomettere gli πνεύματα πονηρίας (cola [105.], [108.109.], [112.-113.], [157.-158.]) [cf. Vita prior, § 14, in Delehaye, Stylites, pp. 158 lin. 32-159 lin. 21];  stava, là in alto, sotto lo sguardo di tutti, allo scoperto ed esposto alle intemperie (αἴθριος: cola [45.-46.]) [cf. Vita prior, § 15, ibid., p. 159 lin. 25 αἴθριος...: Alipio, infatti, rimosse a un certo punto l’esigua copertura che gli offriva riparo in cima alla colonna, rimanendo all’addiaccio fino alla fine dei suoi giorni];  usava tenere levate le mani al cielo (colon [47.]: χειρῶν σου ἐπάρσεσιν), intento nella preghiera costante (colon [208.]: ἐπιμόνοις ἱκεσίαις σου) [cf. Vita prior, § 20, ibid., p. 163 lin. 29 εἰς ὕψος διατεταμένων αὐτοῦ τῶν χει­ ρῶν...; § 24, ibid., p. 167 linn. 4-7];  senza riparo, sopportava il calore estremo 13 Si vedano per questo, ad es., Follieri, Fantino «il vecchio», pp. 132-133, 135-137; ead., Santi cretesi, pp. 279-281, 282-283; ead., Saba Goto e Saba Stratelata, in Analecta Bollandiana 62 (1980), pp. 249-307: 269-271; ead., Santi persiani, pp. 236-238; Pasini, Testi innografici [38 (1984)], pp. 78-80; Pasini, Fonti greche, pp. 313-314; A. Luzzi, Un canone inedito di Giuseppe Innografo per un gruppo di martiri occidentali ed i suoi rapporti con il testo dei Sinassari, in Rivista di studi bizantini e neoellenici, n.s. 30 (1993), pp. 31-80: 38-39 [rist. in id., Studi, pp. 123-176: 130-131]. 14 Edita in Delehaye, Stylites, pp. 148-169. Per la cauta ipotesi di datazione al VII secolo si veda ibid., pp. lxxviii-lxxix, e più di recente la discussione di Filimon, Pillar, pp. 13-18, 74-76, che sulla base di vari argomenti evidenzia come il testo vada comunque datato entro la prima metà del secolo VIII al più tardi. Fra gli altri testi agiografici relativi a s. Alipio, se sicuramente più tardivi sono la Vita altera BHG 64, opera di Simeone Metafrasta (sec. X-XI), e la Laudatio BHG 66 scritta da Neofito il Recluso (1134-post 1214), incerta resta, a rigore, soltanto la data dell’encomio BHG 66d, opera di Antonio ieromonaco di Costantinopoli, che parrebbe però doversi ritenere precedente ma non troppo distante cronologicamente dalla rielaborazione metafrastica, cf. Halkin, Inédits, pp. 168-169 (che giudica l’encomio dipendente da un ipotetico testo abbreviato perduto del bios di s. Alipio, da cui deriverebbe anche la pressoché contemporanea Vita metafrastica) e Schiffer, Metaphrastic Lives, p. 28 (le cui caute argomentazioni «aperte», al contrario, permettono di ipotizzare che l’encomio di Antonio sia stato fonte secondaria del testo del Metafrasta insieme alla Vita prior, da lui usata come modello principale). In ogni caso, per quanto ci riguarda in questa sede, un esame dell’intero dossier agiografico condotto per questa occasione ha mostrato che il nostro canone mostra i migliori punti di contatto proprio con la Vita prior BHG 65.

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(­καύσων: colon [53.]) e i rigori del gelo (κρυμός: colon [129.]) [cf. Vita prior, §§ 13, 14, 15, ibid., pp. 158 linn. 7 e 23, 160 lin. 6];  sulla colonna praticò la στάσις perpetua in piedi (cola [108.], [132.]: ἱστάμενος; cola [202.-203.]: στάσιν ξένην ποιούμενος) [cf. Vita prior, § 13, ibid., p. 158 linn. 6-7 διὰ παντὸς ἑστηκὼς...];  resistette nella sua ascesi sulla colonna per 67 anni (cola [200.-201.]) [cf. Vita prior, § 25, ibid., p. 167 linn. 30 e 32-33, dove si riferisce che praticò la στάσις rimanendo in piedi per 53 anni, finché, colpito da emiparesi, fu costretto a continuare a dimorare sulla colonna per altri 14 anni disteso su un fianco].

Del resto, sempre alla medesima Vita prior BHG 65, e oltretutto con maggior dovizia di particolari, Giuseppe l’Innografo fa ricorso anche nell’altro e più fortunato canone, del modo primo plagale, da lui composto in onore di s. Alipio (acr. Χαίρων ἐπαινῶ τοὺς Ἀλυπίου πόνους· Ἰωσήϕ, inc. Χάριτος πεπλησμένος...)15: inno che, per esser stato incluso nel repertorio standard dei Menei gradualmente fissatosi in età tardobizantina, è entrato, a differenza del nostro canone, nelle edizioni a stampa del tomo di novembre di tale libro liturgico, e si canta ancor oggi il 26 del mese, giorno della commemorazione del santo. In tale altro canone — che indicheremo con la sigla can. i per distinguerlo dal can. ii qui edito — si ricorda di s. Alipio, sia pure in forma spesso più allusiva che narrativa, che: fu santificato sin dal grembo materno, come un novello Samuele (can. i, od. trop. 2; od. viii trop. 1; od. ix, trop. 1) [cf. Vita prior, § 3, in Delehaye, Stylites, p. 149 linn. 14-15];  alla sua nascita, la casa rifulse di luce prodigiosa (can. i, od. i trop. 3) [cf. Vita prior, § 2, ibid., p. 148 linn. 25-26);  praticò la στάσις in cima alla colonna (can. i, od. iii trop. 1; od. v trop. 1; od. vi trop. 1; od. ix trop. 3) [cf. Vita prior, § 13, ibid., p. 158 linn. 6-7], protraendola per l’arco di tempo di 53 anni (can. i, od. ix trop. 3) [cf. Vita prior, § 25, ibid., p. 167 lin. 30];  subì assalti (can. i, od. iv trop. 2; od. ix trop. 2) e lanci di pietre (can. i, od. vi trop. 1) da parte dei demoni [cf. Vita prior, § 14, ibid., pp. 158 lin. 34-159 lin. 1];  esposto senza riparo alle intemperie (αἴθριος / ὕπαιθρος: can. i, od. v trop. 1; od. vii trop. 3) [cf. Vita prior, § 15, ibid., p. 159 lin. 25], sopportò sia il gelo invernale che la calura estiva (κρυμός / καύσων: can. i, od. v trop. 1; od. vii trop. 1 e 3; od. ix, trop. 3) [cf. Vita prior, § 13, ibid., p. 158 linn. 6-7];  operò guarigioni di infermi (can. i, od. v trop. 2; od. ix trop. 2) [cf. Vita prior, § 22, ibid., p. 165 linn. 6-10];  sulla sommità della colonna ove dimorava, appariva spesso una i

15 Repertoriato in Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 129 nr. 109. Se ne legga il testo, ad es., in MR, II, pp. 288-295 (l’integrazione di un tropario ivi mancante è in Ch. Hannick, Studien zu den griechischen und slavischen liturgischen Handschriften der Österreichischen Nationalbibliothek, Wien 1972 [Byzantina Vindobonensia, 6], p. 36), e si veda inoltre la traduzione dell’inno nei Menei slavi, cf. ad es. Minija, [XI]: Mesjac Noemvrij, Kiev 1894, ff. cѯbv-cѯєv; e inoltre I. V. Jagiç, Sluàebnyja Minei za Sentjabr, Oktjabr i Nojabr v cerkovnoslavjanskom perevode po russkim rukopisiam 1095-1097 g., Sanktpeterburg 1886 (Pamjatniki drevnerusskago jazyka, 1), pp. 468-472.

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luce sovrannaturale (can. i, od. vi trop. 3; od. viii trop. 2) [cf. Vita prior, § 21, ibid., p. 164 linn. 5-26];  trascurò il suo corpo, lasciando che si piagasse (can. i, od. vii trop. 2) [cf. Vita prior, § 25, ibid., p. 168 linn. 2-4, ove si ricordano le piaghe da decubito prodottesi negli ultimi anni, dopo l’emiparesi, sul corpo di s. Alipio, costretto a stare sulla colonna non più in piedi ma steso su un fianco];  ebbe il dono della profezia (can. i, od. viii trop. 1) [cf. Vita prior, § 22, ibid., pp. 164 lin. 31-165 lin. 2).

La conoscenza della Vita prior di s. Alipio da parte di Giuseppe — che, più di altri innografi, potrebbe aver avuto agevole accesso a una varietà di fonti agiografiche nella sua qualità di skeuophylax della Grande Chiesa16 — sarà stata forse anche agevolata dal fatto che il culto del santo stilita paflagone trovò in apparenza precoce diffusione nella capitale bizantina, come dimostra un monastero intitolato a S. Alipio nei pressi dell’Ippodromo17 che, a mia conoscenza, è documentato già verso la metà del X secolo, dunque pochi decenni dopo la composizione dei canoni da parte dell’Innografo18.

16 N. Patterson Ševçenko, Canon and calendar: the role of a ninth-century hymnographer

in shaping the celebration of the saints, in Byzantium in the Ninth Century: Dead or Alive? Papers from the Thirtieth Spring Symposium of Byzantine Studies, Birmingham, March 1996, Ed. by L. Brubaker, Aldershot [et alibi] 1998 (Society for the Promotion of Byzantine Studies. Publications, 5), pp. 101-114: 113 [rist. anast. in ead., The Celebration of the Saints in Byzantine Art and Liturgy, Farnham 2013 (Variorum Collected Studies Series, 975), nr. i]. 17 Sul monastero di S. Alipio a Costantinopoli, noto soltanto da notizie sinassariali (cf. Synax. Eccl. CP, coll. 257 linn. 46-47, 746 linn. 19-21), si vedano R. Janin, La géographie ecclésiastique de l’Empire byzantin, I: Le siège de Constantinople et le Patriarcat Œcuménique, 3: Les églises et les monastères, Paris 19692 (Publications de l’Institut Français d’Études Byzantines), pp. 19, 384; A. Berger – J. Bardill, The Representations of Constantinople in Hartmann ­Schedel’s World Chronicle, and Related Pictures, in Byzantine and Modern Greek Studies 22 (1998), pp. 2-37: 18 e figg. 8-9; Filimon, Pillar, p. 102. 18 In effetti, al pochissimo che si è scritto finora circa il monastero di S. Alipio si può aggiungere che la sua attestazione va fatta risalire almeno alla metà del X secolo, giacché esso è menzionato nella redazione del Sinassario patrocinata da Costantino VII Porfirogenito (913-959), ovvero nella cosiddetta famiglia H* della tradizione manoscritta di tale libro agiografico-liturgico (cf. A. Luzzi, Note sulla recensione del Sinassario di Costantinopoli patrocinata da Costantino VII Porfirogenito, in Rivista di studi bizantini e neoellenici, n.s. 26 [1989], pp. 139-186 [rist. con il titolo Il semestre estivo della recensione H* del Sinassario di Costantinopoli, in id., Studi, pp. 5-90]): si veda, infatti, la notizia sinassariale di H* per la memoria di s. Onofrio l’Egiziano del 12 giugno, al termine della quale si prescrive che il santo sia commemorato nell’oratorio a lui dedicato ἐν τῇ μονῇ τοῦ ἁγίου Ἀλυπίου, come si legge al f. 164v del codice Hierosol. S. Crucis gr. 40 (sigla H: sec. X-XI, cf. J. Mateos, Le Typicon de la Grande Église. Ms. Sainte-Croix n° 40, Xe siècle, I, Roma 1962 [Orientalia Christiana Analecta, 165], p. 312 linn. 14-15) e inoltre al f. 231r del Sin. gr. 548 (sigla Hs: codice della fine del sec. X, sul quale cf. J. Noret, Un nouveau manuscrit important pour l’histoire du Synaxaire, in Analecta Bollandiana 87 [1969], p. 90).

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2. La tradizione manoscritta del canone L’inno di Giuseppe per s. Alipio qui pubblicato (can. ii) è tràdito, per quanto ne so, da due soli manoscritti, già segnalati nel repertorio di canoni inediti dei Menei approntato da Helene Papaeliopulu-Photopulu19, testimoni sui quali si fonderà dunque la presente edizione critica. Non si può certo escludere, però, che ulteriori codici siano sfuggiti alla recensio: come è noto, una grave lacuna nella catalografia dei manoscritti greci è rappresentata dalla diffusa consuetudine di descrivere in maniera insufficiente, sommaria e talora impropria i contenuti dei codici innografici, rendendo impossibile all’editore un’efficace euristica dei manoscritti basata sulle descrizioni a stampa. Per questo motivo, oltre a compiere il rituale — ma, come prevedibile, infruttuoso — spoglio dei cataloghi analitici a stampa, ho esaminato sotto la data del 26 numerosi manoscritti dei Menei di novembre a me accessibili nell’originale o in riproduzione, senza riuscire a reperire, tuttavia, ulteriori testimoni utili. Dei due soli codici sinora noti, dunque, il più antico è il Par. gr. 259 (= P), un Meneo di novembre che, attribuito in genere nella bibliografia al XII secolo, andrà invece a mio parere retrodatato all’inizio dell’XI, rappresentando oltretutto una preziosa raccolta di composizioni in buona parte ancora inedite e spesso rare, se non addirittura tramandate, per quanto se ne sa, da quest’unico testimone20. Membranaceo, il manoscritto consta di 305 fogli, e misura mm 266 × 220 (ma dopo probabile ampia rifilatura del margine inferiore), con specchio scrittorio di mm 198 × 126. La pergamena è di buona qualità, di spessore medio e di colore uniformemente chiaro, con rari difetti (un occhio vetroso entro lo specchio è, ad es., al f. 236). La legge di Gregory è rispettata, e i fascicoli, quaternioni, iniziano con il 19 Papaeliopulu-Photopulu, Ταμεῖον, p. 106 nr. 280. Precedentemente, il canone era segnalato in Eustratiades, Ταμεῖον [39 (1940)], p. 272, cui attinsero la notizia Follieri, Initia, V/1, p. 122 (s.vv. Ψυχοφθόρου λύπης [...], Ψυχοφθόρου ῥῦσαί με [...]), e Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 129 nr. 110. 20 Sul codice cf. H. Omont, Inventaire sommaire des manuscrits grecs de la Bibliothèque Nationale, I: Ancien fonds grec. Théologie, Paris 1886, p. 28. Sui testi in esso contenuti, inoltre, si vedano selettivamente Eustratiades, Ταμεῖον, [38 (1939)], pp. 97-108, 153-170, 305-322, 401-415; [39 (1940)], pp. 121-128, 132-149, 270-282 passim; Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 122-129 passim; AHG, III, p. vi e passim; XIII, p. 428, s.v. indicis; Papaeliopulu-Photopulu, Ταμεῖον, passim (cf. p. 327 s.v. indicis); Potenza, Basilio Pegane, pp. 40, 45 n. 116, 69; D. A. Kaklamanos, Ἡ Βυζαντινὴ ὑμνογραφικὴ παράδοση γιὰ τὸν ἅγιο Ἰωάννη τὸ Χρυσόστομο, in Κληρονομία 38 (2014-2015), pp. 111-154: 116, 135, 148, 152; e da ultimo J. H. Olkinuora, Byzantine Hymnography for the Feast of the Entrance of the Theotokos. An Intermedial Approach, Helsinki 2015 (Studia Patristica Fennica, 4), pp. 56-57, 60, 298, 332; id., The Spiritual and Material Temple. Byzantine Kanon Poetry for the Feast of the Entrance, in The Reception of the Virgin in Byzantium. Marian Narratives in Texts and Images, Ed. by Th. Arentzen – M. B. Cunningham, Cambridge 2019, pp. 192-213: 195 nn. 16-17.

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lato carne21. I fogli sono rigati a secco con il sistema V2 e il tipo PI2 34D1 secondo la codifica di Julien Leroy22. Il testo è vergato a colonna unica di 33 righe tracciate e scritte. La grafia, tondeggiante, latamente riconducibile alla «galassia Perlschrift» ma nel complesso piuttosto anodina, non fornisce elementi utili alla localizzazione, che non si può però escludere di dover forse ricercare in area siro-palestinese, come alcuni elementi del repertorio innografico paiono suggerire23. Testimone un po’ più recente, ma ugualmente prezioso, è il Meneo di novembre e dicembre Vat. gr. 2309 (= V), che, riferibile ai primi decenni del XIII secolo, è di provenienza diretta cipriota, appartenendo a un lotto di codici (Vat. gr. 2307-2321, 2337) acquistati sull’isola da Tankerville James Chamberlayne (1844-1909) e da lui donati fra il 1891 e il 1900 a papa Leone XIII24. Il manoscritto è con buona probabilità anche originario di Cipro stessa, recando note obituarie che sono state attribuite da Jean Darrouzès ad ambito cipriota, la prima delle quali, dell’anno 1238 (nel margine inferiore del f. 66r), fornisce pure un terminus ante quem per la sua realizzazione25. 21 Ho

potuto esaminare brevemente il codice sul posto il 6 giugno 2018. La collazione del testo qui edito è stata inoltre grandemente agevolata dalla riproduzione digitale integrale del manoscritto nel sito web Gallica della Bibliothèque nationale de France (https://gallica.bnf.fr/ ark:/12148/btv1b107240407.image). 22 Dati, questi ultimi, non rilevati autopticamente: così si legge in Répertoire de réglures dans les manuscrits grecs sur parchemin, Base de données établie par J.-H. Sautel, à l’aide du fichier Leroy, Turnhout 1995 (Bibliologia, 13), p. 316. 23 Sul codice e sul suo contenuto mi riprometto di tornare più diffusamente in altra sede. 24 P. Canart, in Federici – Houlis, Legature, p. 10, 114 nn. 11-12; C. N. Constantinides – R. Browning, Dated Greek Manuscripts from Cyprus to the Year 1570, Washington, D.C. – Nicosia 1995 (Dumbarton Oaks Studies, 30; Cyprus Research Centre. Texts and Studies of the History of Cyprus, 18), pp. 30, 327, 383; S. Lilla, I manoscritti Vaticani greci. Lineamenti di una storia del fondo, Città del Vaticano 2004, p. 107. Il tema è stato trattato di recente da Georgios Andreu («Η συλλογή χειρογράφων στην Κύπρο του Tankerville James Chamberlayne κατά τα τέλη 19ου με αρχές 20ου αιώνος») nella Second Annual Conference on Byzantine and Medieval Studies (Nicosia, 12-14 gennaio 2018), dei cui Atti si dovrà attendere la stampa. — Il cattolico Chamberlayne, nato a Dublino, maggiore dell’esercito britannico di stanza nell’ultimo decennio del XIX secolo a Cipro, dove fu fra l’altro governatore a Kyrenia per l’amministrazione inglese, aveva sposato nel 1890 Leopoldina Francesca Ruspoli, della nobile famiglia romana. È noto soprattutto per aver dedicato cure erudite all’epigrafia medievale cipriota: T. J. Chamberlayne, Lacrimae Nicossienses. Recueil d’inscriptions funéraires, la plupart françaises, existant encore dans l’île de Chypre (...), I, Paris 1894. 25 Indicazioni varie di natura paleografica e codicologica o circa la storia del codice si trovano in J. Darrouzès, Notes pour servir à l’histoire de Chypre [II], in Κυπριακαὶ Σπουδαί 20 (1956), pp. 31-63: 37, 55-56 [rist. in id., Littérature, nr. xv]; id., Autres manuscrits originaires de Chypre, in Revue des études byzantines 15 (1957), pp. 131-168: 158 [rist. in id., Littérature, nr. xii]; Euangelatu-Notara, Συλλογή, pp. 38 (nr. 124), 83 (nr. 274), 133 (nr. 442), 135 (nr. 450); Canart, Écritures livresques, pp. 28 n. 6, 40 e n. 49 [nella rist., pp. 854 n. 6, 866 e n. 49]; Federici – Houlis, Legature, pp. 64, 70, 71-82 passim (sub nr. 51), 84, 114 n. 11; P. Canart –

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Non descritto in un catalogo a stampa26, il codice è di carta orientale, consta di 144 fogli numerati (in realtà 142, essendo stati omessi da chi ha foliato il codice i numeri 48 e 55; alla fine del manoscritto, però, si vedono in aggiunta minimi resti, non numerati, di altri quattro fogli asportati), e misura mm 247 × 159 (f. 39), con specchio scrittorio di mm 198 × 119. La struttura fascicolare non è accertabile con sicurezza, perché ciascun fascicolo o gruppo eterogeneo di fogli — evidentemente a motivo dei numerosi bifogli non più solidali o indeboliti in piega — è stato ricucito fittamente a piccoli punti di sutura ravvicinati che passano esternamente a cavaliere della costola. La trascrizione, in varie grafie d’allure provinciale ma non specificamente caratterizzate in senso locale, sembra doversi a più mani coeve che collaborano fra loro27 (ma i ff. 23-27 sono un «restauro» di poco posteriore, forse del secolo XIII-XIV, d’altra mano più veloce; i ff. 132-135, di dimensioni minori [f. 133: mm 220 × 143], sono un binione cartaceo sciolto che pare un’aggiunta del XV secolo). Il testo è vergato in inchiostro bruno scuro-nerastro, mentre rosso vivo è usato a fini distintivi e per le modestissime inizialette calligrafiche. Sebbene cartaceo, il manoscritto D. Grosdidier de Matons – Ph. Hoffmann, L’analyse technique des reliures byzantines et la détermination de leur origine géographique (Constantinople, Crète, Chypre, Grèce), in Scritture, libri e testi nelle aree provinciali di Bisanzio. Atti del seminario di Erice (18-25 settembre 1988), II, a cura di G. Cavallo, G. De Gregorio e M. Maniaci, Spoleto 1991 (Biblioteca del «Centro per il collegamento degli studi medievali e umanistici nell’Università di Perugia», 5), pp. 751768 (con vii tavv. f.t.): 764 n. 36, 765 n. 39, 766 nn. 44 e 47 [rist. in Canart, Études, II, pp. 907-931: 920 n. 36, 921 n. 39, 922 nn. 44 e 47]. 26 Notizie su alcuni dei testi contenuti nel codice in Papaeliopulu-Photopulu, Ταμεῖον, passim (cf. ibid., p. 331 s.v. indicis). Cf. anche, selettivamente, E. Follieri, Santi occidentali nell’innografia bizantina, in Atti del Convegno internazionale sul tema: L’Oriente cristiano nella storia della civiltà (Roma 31 marzo – 3 aprile 1963; Firenze, 4 aprile 1963), Roma 1964 (Problemi attuali di scienza e cultura. Quaderno 62), pp. 251-271: 262 n. 84; Follieri, Santi persiani, p. 234 n. 47; ead., Santi cretesi, p. 275 n. 6; AHG, III, p. vii e passim; IV, p. xi e passim; XIII, p. 419, s.v. indicis; Pasini, Testi innografici, passim. 27 Tre, secondo Canart, Écritures livresques, p. 40 e n. 49 [nella rist., p. 866 e n. 49]: secondo lo studioso, la prima mano (che mi pare si debba riconoscere ai ff. 1r-22v, 27r-34v [lin. 8], 34v [lin. 19]-37v, 38r [lin. 15]-40v, 41r [lin. 25]-44v [lin. 9]), 45r-v [lin. 3], 45v [lin. 7-fine], 47r [lin. 12]-50v, 51v-53v [lin. 9], 54r-v [lin. 15], 56r [lin. 3]-58r e così via) si potrebbe latamente ricondurre nell’alveo della Perlschrift evoluta; la seconda (che rilevo ai ff. 34v [linn. 8-18], 38r [linn. 1-14], 41r [linn. 1-24], 44v [lin. 9-fine], 45v [linn. 4-6], 46r-47r [lin. 11], 51r, 53v [lin. 10-fine], 54v [lin. 15]-56r [lin. 2], e così via) andrebbe classificata come una grafia schiacciata affine ai «nuovi stili» del XII secolo; la terza (ff. 34v [linn. 8-18], 38r [linn. 1-14], 41r [linn. 1-24], 44v [lin. 9-fine], 45v [linn. 4-6], 46r-47r [lin.11], 51r, 53v [lin. 10-fine], 54v [lin. 15]-56r [lin. 2], e così via) esibirebbe invece una grafia di tipo piuttosto tradizionale. In realtà, l’effettivo numero dei copisti e i confini tra i loro interventi — sempre che non si tratti talora di varianti grafiche di una stessa mano — sono difficili da definire, come pure ardua ne è la classificazione paleografica: questioni che, anche per motivi di spazio, non mi è possibile affrontare in questa sede.

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presenta una rigatura a secco il cui sistema non è definibile con certezza, ma del tipo 20C1 seconda la codifica di Julien Leroy. L’impaginazione è a colonna unica di 31-32 righe tracciate e scritte. La legatura, di tecnica bizantina, è di manifattura molto modesta, in pelle bruno-nerastra su spesse assi lignee. Accanto a questi due codici, testimonianza indiretta di ulteriore fortuna manoscritta medievale è una notizia, riportata da Vladimir A. Rybakov, secondo la quale nel Sinassario con rubriche tipicali (e inoltre con tropari per le feste, e con indicazioni circa le pericopi scritturistiche da leggersi e i canoni innografici da cantarsi) Athous Panteleem. 769 (sec. XIII)28 si prescrive per il 26 novembre il canto di un canone di Giuseppe in onore di s. Alipio Stilita che, pur non trascritto (neppure limitatamente all’incipit) nel codice atonita, vi è però caratterizzato come del secondo modo autentico (ἦχος β΄) e come modellato dal punto di vista metrico e musicale, per quanto attiene alla prima ode, sull’irmo Ἐν βυθῷ κατέστρωσε...29. Sulla base di tali elementi Rybakov si chiedeva se il canone di Giuseppe per s. Alipio cui il codice atonita allude non fosse diverso da quello già ricordato dello stesso autore, ma del primo modo plagale (= can. i), che è ancor oggi in uso per la commemorazione del santo alla data del 26 novembre nei Menei a stampa (acr. Χαίρων ἐπαινῶ τοὺς Ἀλυπίου πόνους· Ἰωσήϕ, inc. Χάριτος πεπλησμένος...)30. In effetti, possiamo ora confermare che l’inno di Giuseppe cui il manoscritto della Μονὴ Παντελεήμονος rinvia va certamente riconosciuto nel canone inc. Ψυχοφθόρου λύπης με... qui edito (= can. ii), che è, per l’appunto, del secondo modo autentico e che nella prima ode impiega proprio l’irmo sopra citato. Se ne deduce che un codice in cui quest’ultimo canone era contenuto — manoscritto che tuttavia non ci è possibile identificare, se pure non è andato perduto — doveva essere nella disponibilità dell’anonimo compilatore del Sinassario atonita e, soprattutto, del monastero per cui esso fu trascritto31.

28 Il codice, a me inaccessibile, è sommariamente descritto in Lambros, Catal. Athos, II, pp. 429-430 nr. 6276. 29 Rybakov, Iosif, p. 200. Per l’irmo citato cf. EE, p. 34 nr. 46. 30 Per il quale cf. supra, p. 113 e n. 15. 31 Nel Sinassario della Μονὴ Παντελεήμονος sono presenti diverse note seriori d’altra mano che legano il codice a un monastero della Theotokos Akindyniotissa su un non meglio identificato monte τοῦ Μύρωνος, ivi incluse note obituarie e memorie (degli anni 1231, 1247 e 1262) relative a monaci della famiglia Πυληλῆς, tra i quali il fondatore stesso ed egumeno del monastero, Teognosto, cf. Lambros, Catal. Athos, II, pp. 429-430; Rybakov, Iosif, pp. 19-21; cf. anche Euangelatu-Notara, Συλλογή, pp. 30-31 (nr. 100), 47-48 (nr. 152), 75 (nr. 248); ead., Χορηγοί, κτήτορες, δωρητές σε σημειώματα κωδίκων. Παλαιολόγειοι χρόνοι, Αθήνα 2000 (Παρουσία, παράρτημα 49), pp. 50, 158, 171 (nr. 3).

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3. La curiosa fortuna a stampa dell’inno: il rimaneggiamento in onore di s. Neofito il Recluso Se, quindi, sono soltanto un paio i testimoni manoscritti del nostro canone per s. Alipio (can. ii) che è stato possibile rintracciare, e che si possono perciò mettere a frutto in questa sede per la costituzione del testo, si può però segnalare che un’utile base di confronto ulteriore ci è offerta da volumi a stampa. Come ho già anticipato, infatti, la presente edizione critica non rappresenta la prima pubblicazione in assoluto dell’inno in questione, che fu stampato infatti una prima volta a Venezia nel 1778, in forma tuttavia non certo critica e anzi testualmente rimaneggiata così da poterlo riutilizzare in onore di un altro santo32, ovvero il più tardo asceta cipriota Neofito il Recluso (1134-post 1214)33: il canone di Giuseppe per s. Alipio, in tale forma alterata, si trova così incluso all’interno di un fascicoletto34 che, oltre alla tradizionale «acolutia» (ovvero, l’ufficiatura 32 Sulla

pratica — antica e diffusa a Bisanzio, e persistente anche in età post-bizantina — del rimaneggiamento dei testi innografici per adattarli a occasioni liturgiche differenti, o per creare nuovi inni-centone, cf. E. Tomadakis, Un problema di innografia bizantina: il rimaneggiamento dei testi innografici, in Bollettino della Badia greca di Grottaferrata, n.s. 26 (1972), pp. 3-30; cf. anche id., Ἰωσήφ, pp. 235-239; Th. S. Kollyropulu, Περί του προβλήματος της Β΄ ωδής των κανόνων, Πάτρα 2012, pp. 338-341. 33 Sul santo cf. soprattutto Galatariotou, Making (con la precedente bibliografia), insieme all’edizione dei suoi scritti in ΑΝΕΣ. Si vedano anche, selettivamente, H. Delehaye, Saints de Chypre, in Analecta Bollandiana 26 (1907), pp. 161-301: 161-228, 274-297; ­Chatzeioannu, Ἱστορία; Mango – Hawkins, Hermitage; Tsiknopullos, Θαυμαστὴ προσωπικότης; id., Τὰ ἐλάσσονα τοῦ Νεοφύτου πρεσβυτέρου μοναχοῦ καὶ ἐγκλείστου, in Byzantion 39 (1969), pp. 318-419; E. M. ­Toniolo, Omelie e catechesi mariane inedite di Neofito il Recluso (1134-1220 c.), in Marianum 36 (1974), pp. 184-315; M.-H. Congourdeau, Le «Discours sur les saintes lumières» de Neophyte le Reclus, in Κέντρον Ἐπιστημονικῶν Ἐρευνῶν. Ἐπετηρίς 8 (1975-1977), pp. 113-185; Englezakes, Εἴκοσι μελέται, pp. 153-296; G. K. Christodoulou, Un canon inédit sur la Théosémie de Néophyte le Reclus composé par son frère, Jean le Chrysostomite, in Revue des études byzantines 55 (1997), pp. 247-259; Byzantine Monastic Foundation Documents. A Complete Translation of the Surviving Founders’ Typika and Testaments, IV, Ed. by J. Thomas and A. Constantinides Hero (...), Washington, D.C. 2000 (Dumbarton Oaks Studies, 35), pp. 13381373; S. K. Brezgunov, Svjatoj Neofit Zatvornik, in Mir Pravoslavija. Sbornik statej, VI, Volgograd 2006, pp. 110-131; A. B. Glaros, Ὁ ἅγιος Νεόφυτος ὁ Ἔγκλειστος καὶ ἡ Τυπικὴ Διαθήκη του, Ι, Ἀθήνα 2013; M. Mullett, In Search of the Monastic Author. Story-Telling, Anonymity and Innovation in the 12th Century, in The Author in Middle Byzantine Literature. Modes, Functions, and Identities, Ed. by A. Pizzone, Boston – Berlin 2014 (Byzantinisches Archiv, 28), pp. 171-198: 177-178, 187-194. 34 Ἀκολουθία τοῦ ὁσίου πατρὸς ἡμῶν Νεοφύτου τοῦ Ἐγκλείστου ψαλλομένη κατὰ τὴν ιβ΄. τοῦ Ἀπριλλίου μηνὸς, νῦν πρῶτον τύποις ἐκδοθεῖσα προτροπῇ μὲν τοῦ μακαριωτάτου καὶ σεβασμιω­

τάτου ἀρχιεπισκόπου τῆς Νέας Ἰουστινιανῆς καὶ πάσης Κύπρου κυρίου Χρυσάνθου διὰ δαπάνης τῶν ἐν τῇ αὐτοῦ μονῇ πατέρων, τῇ ἐπιστασίᾳ δὲ καὶ διορθώσει τοῦ ταπεινοῦ ἐν ἱερομονάχοις Κυπριανοῦ καὶ τοῦ αὐτοῦ θρόνου ἀρχιμανδρίτου τοῦ ἐκ Κοιλανίου πολιτείας, Ἐνετίῃσιν, Παρὰ Νικολάῳ Γλυκεῖ τῷ ἐξ Ἰωαννίνων, 1778 [= Kypr.], ove in particolare l’acolutia aggiuntiva del

28 settembre, in cui è inserito il nostro canone, si legge ibid., pp. 22-35 [sono molto grato a

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liturgica) per la festa principale di s. Neofito del 12 aprile35, ne conteneva anche una per la commemorazione, allora di recentissima introduzione nel calendario, dell’inventio delle reliquie del medesimo santo e della loro traslazione sotto la data del 28 settembre. Curatore della pubblicazione — nella quale per lo più si reimpiegano per l’acolutia settembrina, modificandoli, inni preesistenti — fu l’erudito cipriota Kyprianos Kuriokurites (Κυπριανὸς Κουριοκουρίτης, 1735/1745-1802/1805)36, archimandrita della Chiesa cipriota e, fra l’ottavo e il nono decennio del XVIII secolo, incaricato della stampa, a Venezia, di diversi volumi per conto sia dell’arcivescovo di Cipro (1767-1810) Chrysanthos37 sia del monastero cipriota di Kykkos38. Luigi D’Amelia per avermi procurato una riproduzione parziale di questa rara pubblicazione da uno dei due esemplari da lui rintracciati presso la Biblioteca Nazionale Marciana sotto le collocazioni attuali 4.D.49 (14), 4.D.50 (7), mentre nell’inventario del fondo antico stanno sotto il nr. 19219, t. II (14) e t. III (7)]. — Su questo opuscoletto a stampa, di sole 40 pagine, cf. Legrand, Bibl. Hell. XVIII s., II, p. 254 nr. 904; Petit, Bibliographie, pp. 204-205 (nr. 1); Tomadakes, Κυπριακὴ ἁγιολογία, pp. 228-229 nr. 9. 35 Il 12 aprile era, infatti, il dies natalis del santo, commemorazione che però aveva il difetto di cadere spesso nel periodo quaresimale, e alla quale per questo motivo a partire dal XIX secolo sembra esser stato preferito il 24 gennaio (Agathonos, Ὑμνογραφικό, p. 19 [nella rist., p. 121]; lo spostamento sarebbe avvenuto dopo il 1856 secondo Tsiknopullos, Θαυμαστὴ προσωπικότης, p. 331), ovvero la data liturgica in cui si ricordava la salvezza da un pericoloso incidente miracolosamente ottenuta da s. Neofito nel 1197, cf. infra, pp. 123-124. 36 Il personaggio è noto soprattutto come autore di una storia di Cipro pubblicata nel 1788 (Kyprianos, Ἱστορία), giudicata da Konstantinos Sathas come «l’unica monografia scientifica prodotta dalla filologia neoellenica» fra la caduta di Costantinopoli e gli anni del Risorgimento greco (cf. K. N. Sathas, Μεσαιωνικὴ Βιβλιοθήκη, II, ἐν Βενετίᾳ 1873, p. ρνη΄). Kyprianos, già archimandrita quando fu inviato a Venezia nel 1777, vi sovrintese alla stampa di opere filosofiche dell’ateniese Theophilos Korydalleus (1574-1646) [sul quale cf. C. ­Tsourkas, Les débuts de renseignement philosophique et de la libre pensée dans les Balkans. La vie et l’œuvre philosophique de Théodore Corydalée (1570-1646), Thessalonique 19672; per la stampa di sue opere da parte di Kyprianos cf. M. Pateniotes, Εκλεκτικές συγγένειες. Ευγένιος Βούλγαρης και Θεόφιλος Κορυδαλέας, in Δελτίο Αναγνωστικής Εταιρείας Κερκύρας 26 (2004), pp. 27-78: 41-58 passim]. Nella città lagunare, Kyprianos si occupò anche della pubblicazione di diversi volumi a carattere devozionale, lavorando inoltre come correttore nelle tipografie veneziane, e divenendo infine nel 1794 ἐφημέριος della chiesa dei Greci di Trieste intitolata a S. Nicolò [cf. O. Katsiarde-Hering, Ἡ Ἑλληνικὴ παροικία τῆς Τεργέστης (1751-1830), I, (diss.) Ἀθήνα 1984, p. 158; II, p. 469 n. 70: consultabile sul sito web dell’Εθνικό Αρχείο Διδακτορικών Διατριβών, http://hdl. handle.net/10442/hedi/9883; a me inaccessibile la monografia dello stesso titolo pubblicata nel 1986]. Sull’archimandrita Kyprianos rinvio soltanto al ritratto di Kokkinophtas, Κύπριοι Λόγιοι, pp. 429-434 (con la bibliografia precedente), e al sintetico profilo, con elenco delle edizioni curate dall’archimandrita e ulteriore bibliografia, di Kitromelides, Κ ­ υπριακὴ λογιοσύνη, pp. 174-177. 37 Sul quale da ultimo Th. Stavrides, Chrysanthos (1767-1810): Grappling with the Vicissitudes of Ottoman Power, in The Archbishops of Cyprus in the Modern Age: The Changing Role of the Archbishop-Ethnarch, Their Identities and Politics, Ed. by A. Varnava – M. N. Michael, Newcastle upon Tyne 2013, pp. 17-40 (con bibliografia). 38 S. Perdikis, Ἡ Μονή Κύκκου, ὁ ἀρχιμανδρίτης Κυπριανός καί ὁ τυπογράφος Μιχαήλ Γλυκύς, Λευκωσία 1989.

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All’impulso di Chrysanthos, cui Kyprianos indirizza la dedica iniziale in testa al fascicoletto di ufficiature per s. Neofito, si dové, in effetti, anche la stampa della nuova acolutia per la traslazione del santo asceta cipriota, la cui composizione veniva a fornire di un’ufficiatura la nuova memoria liturgica annuale del 28 settembre originata dalla recente riscoperta (an. 1750 o 1757)39, nel monastero stesso di S. Neofito il Recluso (una quindicina di km a ovest di Paphos), delle spoglie del santo — murate dietro una parete nel sepolcro che Neofito medesimo si era costruito nella sua primitiva cella monastica ipogea, la cosiddetta «prima Enkleistra» —, resti che furono allora traslati nel katholikon del medesimo complesso monastico40. Proprio all’interno dell’ufficiatura per questa seconda festività settembrina dell’εὕρεσις e ἀνακομιδή (inventio et translatio) del corpo santo del Recluso troviamo stampato, dunque, il nostro canone di Giuseppe l’Innografo, nei cui versi però le invocazioni rivolte a s. Alipio (Ἀλύπιε, al vocativo) sono costantemente mutate in apostrofi a s. Neofito (Νεόφυτε, nome metricamente ben sostituibile a quello dello stilita in quanto anch’esso quadrisillabo e proparossitono)41. Nelle strofi del canone, inoltre, numerosi dettagli sono modificati per poter meglio adattare alle vicende e alla personalità dell’asceta cipriota il testo che Giuseppe aveva scritto nove secoli prima per lo stilita42. È probabile, sebbene non ve ne sia la certezza, che l’archimandrita Kyprianos sia stato in prima persona l’«autore» di questa seconda acolutia-pastiche per il 28 settembre contenuta nel fascicoletto, e che abbia riadattato e alterato lui stesso, per inserirvelo, il testo del canone per s. Alipio43. 39 L’oscillazione

della data si deve a divergenti indicazioni cronologiche fornite da Kyprianos stesso nel fascicoletto delle acolutie di s. Neofito (Kypr., pp. 29-30: an. 1750) e nella storia di Cipro (Kyprianos, Ἱστορία, p. 350: an. 1757). Sulla questione cf. I. P. Tsiknopullos, Χρονολογήσεις τῆς εὑρέσεως καὶ μετακομιδῆς τοῦ ἱεροῦ λειψάνου τοῦ Ἐγκλείστου ἁγίου Νεοφύτου, in Κυπριακαὶ Σπουδαί 29 (1965), pp. 139-150; cf. anche K. Chatzepsaltes, Ποῖον τὸ ἀκριβὲς ἔτος τῆς ἀνευρέσεως καὶ τῆς ἀνακομιδῆς τῶν λειψάνων τοῦ ἁγίου Νεοφύτου τοῦ Ἐγκλείστου, in Κυπριακαὶ Σπουδαί 26 (1962), pp. 11-17 (che propendeva invece per l’anno 1756). 40 Sull’Enkleistra di S. Neofito e sugli spazi del monastero cf. almeno I. P. Tsiknopoullos, The Encleistra and Saint Neophytos (...), Nicosia 1965; Mango – Hawkins, Hermitage; A. Stylianou – J. A. Stylianou, The Painted Churches of Cyprus. Treasures of Byzantine Art, London 1985, pp. 351-381; M.-H. Congourdeau, L’Enkleistra dans les écrits de Néophytos le Reclus, in Saints et leur sanctuaire, pp. 137-149; Galatariotou, Making, passim. 41 Si veda l’apparato critico del testo pubblicato infra, pp. 142-156, ai cola [7.], [11.], [21.], [34.], [55.], [132.], [167.], [199.]. 42 Cf. infra, pp. 123-125. 43 Kyprianos fu, infatti, anche innografo e melodo, e certamente suoi devono essere alcuni componimenti d’innografia minore «idiomeli» (ovvero, su musica originale) stampati nel fascicolo delle due acolutie di s. Neofito, che sono da lui esplicitamente «firmati» Κυπριανοῦ nelle rubriche, come fa notare Paraskeuas Agathonos (Agathonos, Ὑμνογραφικό, pp. 15-16

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In assenza, tuttavia, di indicazioni in tale antica pubblicazione circa le fonti manoscritte impiegate, si può solo notare, sulla base della collazione, che — al di là di un certo numero di anortografie e refusi forse in parte dovuti al tipografo, e al netto delle non poche alterazioni intenzionali — tale testo a stampa rimaneggiato, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, si mostra di rado vicino per le sue lezioni al codice di provenienza cipriota Vat. gr. 2309, mentre alquanto più spesso si approssima al manoscritto forse siro-palestinese44 Par. gr. 259, ovviamente senza dipendere né dall’uno né dall’altro: l’edizione veneziana del 1778 curata dall’archimandrita Kyprianos, dunque, essendo fondata per il canone di Giuseppe su un perduto (o non ancora identificato) testimone manoscritto che è evidentemente diverso da quelli in nostro possesso, dovrà valere ai fini della costituzione del testo critico di can. ii quale terzo testimone — per quel che dalla sua fisionomia travisata si può ancora riconoscere del testo originale composto da Giuseppe — a fianco dei due manoscritti medievali. Per le vere e proprie varianti del can. ii di Giuseppe per s. Alipio che caratterizzano la tradizione testuale rappresentata dall’edizione a stampa del 1778 rispetto ai due manoscritti dell’inno, basti rinviare il lettore all’apparato critico dell’edizione offerta più avanti. Varrà la pena di spendere qualche parola, invece, sulle alterazioni intenzionali riscontrabili nel testo pubblicato da Kyprianos (= Kypr.) e tendenti ad adattare meglio il canone per s. Alipio (= can. ii) alla figura di s. Neofito il Recluso — modifiche tutte riportate, anche queste, più avanti nell’apparato dell’edizione critica —, così da commentarne la ratio e da mettere in luce le allusioni alla biografia e forse, in qualche caso, alla cospicua opera letteraria dell’asceta cipriota, entrambe certamente ben note nell’ambiente in cui il rimaneggiamento dell’inno ebbe luogo. Con riferimento alla numerazione dei cola del testo [nella rist., p. 118]). Non pare, tuttavia, che il contenuto delle due acolutie a stampa per s. Neofito sia stato raccolto, rielaborato o composto dal solo Kyprianos (cf. ibid., pp. 16-17 [nella rist., pp. 119-120]), giacché, almeno nel caso dell’acolutia del 28 settembre che qui ci interessa, alla creazione di componimenti di «innografia minore» partecipò certamente accanto a Kyprianos, come risulta ancora una volta dall’attribuzione rubricale (Kypr., p. 23: «Ποίημα Ἐφραίμ»), anche il suo maestro, l’ateniese Efrem (1713 ca.-1771, sul quale cf. almeno Kitromelides, Κυπριακὴ λογιοσύνη, pp. 135-139), poi patriarca di Gerusalemme (Efrem II, dal 1766). Efrem, del resto, nel 1756 o 1757, allora διδάσκαλος (1742-1760) dell’arcivescovado di Cipro, aveva preso parte anche lui alla menzionata traslazione delle spoglie di s. Neofito il Recluso, evento cui, d’altra parte, lo stesso Kyprianos aveva assistito, cf. Kyprianos, Ἱστορία, p. 350; Tsiknopullos, Θαυμαστὴ προσωπικότης, p. 333. 44 È certamente da respingere la proposta di localizzazione a Cipro del Par. gr. 259 che — sulla sola base dell’inchiostro scuro utilizzato nel codice, e di tratti linguistici troppo banali per essere significativi (ad es. la sovrabbondanza del ny efelcistico rispetto all’uso «scolastico» moderno) — è stata ventilata da Agathonos, Ὑμνογραφικό, pp. 16-17 [nella rist., pp. 118-119]. Cf. supra, p. 116.

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di can. ii pubblicato più avanti, si possono segnalare, ad esempio, i casi seguenti: [29.] πετρίνῳ στύλῳ can. ii: κρυμνῷ (sic pro κρημνῷ) ἀβάτῳ Kypr. [nel rimaneggiamento, il riferimento alla colonna dello stilita s. Alipio è sostituito con quello all’inaccessibile dirupo abitato da s. Neofito. Del resto, κρημνός è parola ricorrente negli scritti di s. Neofito il Recluso per indicare i luoghi in cui l’asceta visse, cf. ad es. la Τυπικὴ Διαθήκη, in ΑΝΕΣ, pp. 17 (§ 4.6 lin. 4), 18 (§ 5.5 linn. 2 e 5), 26 (§ 18 lin. 3), 27 (§ 20.1 lin. 6; § 20.3 lin. 6) e così via (= ed. a stampa, ΙΙ, pp. 32 lin. 22, 34 linn. 14 e 17, 48 lin. 11, 50 linn. 9 e 25). E varrà la pena di ricordare che la medesima Τυπικὴ Διαθήκη di Neofito testé ricordata sarebbe stata stampata a Venezia dall’archimandrita Kyprianos l’anno seguente rispetto alle due acolutie di s. Neofito, cf. Τυπικὴ σὺν Θεῷ Διάταξις, καὶ Λόγοι εἰς τὴν Ἑξαήμερον, τοῦ ὁσίου πατρὸς ἡμῶν Νεοφύτου τοῦ Ἐγκλείστου (...), Ἐπιμελείᾳ (...) καὶ διορθώσει τοῦ πανοσιωλογιωτάτου [sic] Κυπριανοῦ, ἀρχιμανδρίτου (...), Ἐνετίῃσι, Παρὰ Νικολάῳ Γλυκεῖ τῷ ἐξ Ἰωαννίνων, 1779 (= Typ. Diat. K.)]; [46.] ἐν κίονι αἴθριος can. ii: ἐν σπέῳ σαθρότατον Kypr. [anziché stare esposto alle intemperie in cima alla colonna come s. Alipio, nell’adattamento del testo s. Neofito dimora in una caverna, definizione che si addice tanto alla sua prima cella ipogea, o ἔγκλειστρα, quanto alla seconda e più elevata cavità da lui scavata nella roccia (la καινοτέρα ἔγκλειστρα, ovvero Νέα Σιών, cf. Neoph. Incl., Τυπικὴ Διαθήκη, § 20.3 lin. 10, in ΑΝΕΣ, p. 27 [= ed. a stampa, ΙΙ, p. 51 linn. 4-5]). Il concetto è espresso nel rimaneggiamento del canone con due termini, σπέος e σαθρός, che Neofito il Recluso impiega nei suoi scritti riferendosi ai luoghi che fanno da scenario alla sua ascesi, cf. ad es. per l’aggettivo σαθρός le numerose occorrenze in ΑΝΕΣ, pp. 40, 41, 42, 43 e così via (Θεοσημία, §§ 7 lin. 10; 9 lin. 14; 12 lin. 9; 14 lin. 7; e così via [= ed. a stampa, V, pp. 358 lin. 93, 359 linn. 125-126, 362 lin. 179, 362 lin. 202]), e per σπέος uno stichero idiomelo (inc. Τὴν παντουργὸν καὶ κυρίαν καὶ παναλκεστάτην...) edito in ΑΝΕΣ, p. 55 (§ 71 lin. 6 = ed. a stampa, V, p. 387 lin. 807). E vale la pena di segnalare che i testi di Neofito il Recluso qui citati a riscontro, facenti parte del dossier relativo al miracolo della θεοσημία (per il quale si veda l’annotazione seguente), erano certo ben noti all’archimandrita Kyprianos e sarebbero stati da lui pubblicati anch’essi nel citato volume veneziano del 1779, cf. Typ. Diat. K., pp. 36 linn. 8 e 35; 38 linn. 6 e 25; 53 lin. 20)]; [53.] αὐχμῶνος τὸν καύσωνα can. ii: τε λίθου τὸν ὄλεθρον Kypr. [al ricordo dell’arsura estiva impassibilmente sopportata da s. Alipio in cima alla colonna viene sostituito quello dell’incidente occorso il 24 gennaio 1197 a s. Neofito — che una frana nel corso di lavori intrapresi nei pressi della sua seconda cella, da poco scavata nella roccia, aveva lasciato pericolosamente sospeso sul baratro con la mano destra schiacciata da un masso (λίθος) —, pericolo dal quale il santo trovò miracolosamente la salvezza. A tale episodio della cosiddetta θεο­ σημία («segno/prodigio divino»), momento centrale nella sua biografia, Neofito il Recluso stesso dedicò un opera (la Θεοσημία, per l’appunto) che consta di un hypomnema con alcune preghiere, di un ἀντίγραμμα indirizzato al fratello

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Giovanni Crisostomita e addirittura di un’acolutia innografica, testi editi in ΑΝΕΣ, pp. 38-55 (= ed. a stampa, V, pp. 339-387; cf. anche Typ. Diat. K., pp. 3453). Sull’incidente cf. almeno Galatariotou, Making, pp. 18, 111-115, 127128; Mango – Hawkins, Hermitage, pp. 125-126, 128-129; cf. anche A. Lamesa, Processus technique et realia: une histoire du creusement proposée par Néophyte le Reclus, in Actes du 9e colloque étudiant du Département d’histoire de l’Université Laval, Sous la direction de J. Boivin (et al.), Laval 2009, pp. 149-161]; [108.] ἐν στύλῳ ἱστάμενος can. ii: ἱστάμενος ὅσιε Kypr. [l’allusione alla diuturna στάσις di s. Alipio in piedi in cima alla colonna è qui annacquata, e resa di fatto irriconoscibile]; [112.] Μυριάδας δαιμόνων ἐρράπισας can. ii: Κορυβάντων πληθὺν ἀπερράπισας Kypr. [gli scontri vittoriosi di s. Alipio con i demoni sono trasposti, nell’adattamento alla figura di s. Neofito, in una formula più classicheggiante con il ricordo dei Coribanti, o Κορύβαντες, per la cui equivalenza con δαίμονες, che echeggia ancora nella letteratura greca medievale, basti rinviare alle voci di lessici bizantini quali ad esempio l’Etymologicum Gudianum (Etymologicum Graecae linguae Gudianum [...], ed. F. G. Sturz [...], Lipsiae 1818, col. 338 lin. 20) o l’Etymologicum Magnum (rec. Th. Gaisford, Oxonii 1848, p. 531 lin. 5). Ci si può chiedere, peraltro, se la scelta di introdurre qui i Coribanti nel riferirsi a un santo cipriota, da parte di un redattore suo conterraneo, non possa essere un riflesso lontano, chissà per quali tramiti, di quella tradizione erudita minoritaria che legava queste figure mitologiche all’isola di Cipro (cf. Servius, ad Verg. Aen. III, 111: «Corybantes δαίμονες sunt (...). Alii Corybantes ab aere appellatos, quod apud Cyprum mons sit aeris ferax, quem † cypri coriam vocant», ed. G. Thilo – H. Hagen, I, Lipsiae 1881, p. 362 linn. 14. 18-20): una tradizione di cui, però, nulla trapela — se sulla base di un sommario esame non mi inganno — nella lunga e dotta storia di Cipro pubblicata dall’archimandrita Kyprianos, Ἱστορία. In alternativa, pensando al significato di «imperversare folleggiando» che il denominale κορυβαντιάω può assumere — con riferimento anche al fanatismo religioso, cf. ad es. G. D. Mpampiniotes, Λεξικό της Νέας Ελληνικής Γλώσσας (...), Αθήνα 20022, p. 935 s.v. —, ci si può domandare se nell’intenzione di chi operò il rimaneggiamento settecentesco del canone il riferimento ai Coribanti non potesse essere un’allusione al dominio sull’isola dei cattolici «franchi», che nel 1191, vivente s. Neofito il Recluso, assoggettarono Cipro, ove si instaurò il regno dei Lusignano (1192-1489), sciagura riferita e lamentata dal santo stesso, fra l’altro, in un breve scritto del 1196 ca. («Περὶ τῶν κατὰ χώραν Κύπρον σκαιῶν»), ed. in ΑΝΕΣ, pp. 4-7 (= ed. a stampa, V, pp. 405408); cf. B. Englezakes, Ὁ ὅσιος Νεόφυτος ὁ Ἔγκλειστος καὶ αἱ ἀρχαὶ τῆς ἐν Κύπρῳ Φραγκοκρατίας, in id., Εἴκοσι μελέται, pp. 229-296]; [114.-115.] χειρὶ Θεοῦ σκεπόμεθα τοῦ ἐν σοὶ κατοικήσαντος, ὅσιε can. ii: χειρὶ καὶ νῦν σκεπόμεθα τοῦ ἐν σοὶ κατοικήσαντος Πνεύματος Kypr. [insolito, nel rimaneggiamento, il nesso χειρὶ... Πνεύματος (anziché Θεοῦ). La menzione dello Spirito Santo (piuttosto che di Dio) che prende dimora in s. Alipio potrebbe essere stata qui introdotta non solo per desiderio di un più preciso adeguamento al dettato di I Cor. 3,16 (Οὐκ οἴδατε ὅτι ναὸς Θεοῦ ἐστὲ καὶ τὸ Πνεῦμα τοῦ

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Θεοῦ οἰκεῖ ἐν ὑμῖν;), ma anche per evitare, almeno in relazione a s. Neofito, di usare un’espressione come Θεοῦ... τοῦ ἐν σοὶ κατοικήσαντος, che nell’innografia è usata spesso soprattutto in relazione all’incarnazione di Cristo nel grembo della Vergine Maria]; [129.] Κρυμὸν can. ii: Κρημνῷ Kypr. [la menzione dei rigori del gelo sopportati da s. Alipio sulla colonna è trasformata in un ulteriore riferimento al dirupo abitato da s. Neofito, designato con il termine κρημνός, ricorrente, come già detto, nei suoi scritti]; [130.] ὕπερθεν στύλου can. ii: ἔνδοθεν ἄντρου Kypr. [l’ambientazione passa dalla colonna dello stilita all’antro abitato dall’asceta cipriota]; [132.] ἱστάμενος can. ii: εὐχόμενος Kypr. [è soppressa l’allusione alla στάσις perpetua di s. Alipio]; [167.] θεράπον Κυρίου Ἀλύπιε can. ii: θεράπων νῦν Νεόφυτε Kypr. [la sostituzione di Κυρίου con un’apparente zeppa (metricamente insufficiente) come νῦν sembrerebbe a prima vista fare il paio con quanto si è rilevato sopra in relazione al colon [114.] (dove Θεοῦ è mutato in καὶ νῦν). È questo un caso, tuttavia, in cui ci si può domandare in alternativa se, invece che a una modifica intenzionale di cui sfugge il senso, non siamo di fronte piuttosto a un guasto: una corruttela nella tradizione manoscritta del canone di Giuseppe; oppure un’alterazione verificatasi in fase di redazione dell’acolutia per s. Neofito; o infine una svista occorsa durante la composizione tipografica dell’ufficiatura]; [201.-203.] ἑπτά τε καὶ ἑξήκοντα ἐπὶ κίονος στάσιν ξένην ποιούμενος can. ii: ἐν ἄντρῳ διαιτώμενος ἔνθα πάθη καθεῖλες, σάρκα ἐνέκρωσας Kypr. [il ricordo dei 67 anni trascorsi da s. Alipio sulla colonna è sostituito con quello della volontaria reclusione di s. Neofito nella sua caverna e della mortificazione, da parte sua, delle passioni della carne]; [208.] ἐπιμόνοις ἱκεσίαις can. ii: ταῖς πρὸς Κύριον πρεσβείαις Kypr. [nel rimaneggiamento è soppressa l’allusione alla preghiera costante praticata da s. Alipio in cima alla colonna]; [217.] τὸν ... ὑμνολογοῦντα σε can. ii: τὸν ... σε λιτανεύοντα Kypr. [il riferimento a se stesso dell’Innografo Giuseppe è mutato in una formula più generica, che può meglio riferirsi a tutta l’assemblea dei fedeli].

Ci si può domandare, infine, per quale ragione nel compilare la nuova acolutia settembrina per s. Neofito l’archimandrita Kyprianos (o chi in vece sua eventualmente rimaneggiò il nostro inno) abbia deciso di reimpiegare proprio il canone di Giuseppe per s. Alipio qui edito (can. ii). Pur non potendo far altro che formulare ipotesi, noterei che l’assimilazione della figura di s. Neofito il Recluso a quella di s. Alipio Stilita poteva basarsi, in effetti, su diverse analogie e su effettivi punti di contatto che molto probabilmente non sfuggivano al compilatore dell’ufficiatura. Dediti entrambi a una forma estremamente rigorosa di ascesi e votati a un severo isolamento, entrambi i santi avevano frapposto fra sé e il mondo l’ostacolo dell’inaccessibilità, ritirandosi l’uno su una colonna, l’altro in una cavità sovrastante

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un impervio costone roccioso: non c’è da stupirsi, quindi, che s. Neofito sia stato talora considerato a posteriori anch’egli uno stilita, come si legge ad esempio nella cronaca del cipriota Leonzio Machairàs (sec. XIV-XV)45. Nei confronti di s. Alipio, inoltre, lo stesso s. Neofito il Recluso doveva nutrire speciale venerazione, come attesta l’encomio del santo stilita BHG 66 da lui composto per la festa del 26 novembre46: data liturgica che, fra l’altro, come l’autore stesso rivela alla fine del testo, era particolarmente cara alla sua memoria in quanto coincidente con il giorno della morte di sua madre Eudossia47. Si può infine ricordare che nel naos dell’Enkleistra, sul lato sud della parete d’ingresso, immediatamente a destra di quello che è ragionevolmente considerato il ritratto di s. Neofito — significativamente posizionato sùbito sotto la scena dell’Anastasis — si vedono i busti di due santi stiliti, uno dei quali è chiaramente identificato come Daniele Stilita dal titulus pictus, mentre nell’altro, la cui iscrizione è illeggibile, si suole riconoscere s. Simeone Stilita il Vecchio, ma in realtà nulla vieta che possa essere invece un altro santo, magari proprio s. Alipio48: questi affreschi devono datarsi negli ultimissimi anni del secolo XII (a quanto pare intorno al 1196/1197)49 e sono in ogni caso coevi agli ultimi decenni di vita di s. Neofito e da lui commissionati, e dunque la scelta, da parte sua, di far affiancare 45 Λεοντίου Μαχαιρᾶ Χρονικὸν Κύπρου / Chronique de Chypre, texte grec par E. Miller (...) et C. Sathas (...), Paris 1882, pp. 23-24: εἰς τὴν ἐγκλείστραν ὁ ἅγιος Νεόφυτος (...) ἐγίνην στυλίτης εἰς τὸ αυτὸν μοναστήριν, καὶ εἶναι ὁ τάφος του ἐκεῖ καὶ βρύει θαύματα. Cf. al riguardo Delehaye, Stylites, p. cxxxviii. — Del resto, Galatariotou, Making, pp. 104-105 ricorda come nella tradizione seriore agli stiliti fossero spesso assimilati santi asceti vissuti sopra pilastri rocciosi naturali o su dirupi inaccessibili. 46 Edito in Delehaye, Stylites, pp. 188-194 (cf. anche ibid., p. lxxxi) e in ΑΝΕΣ, pp. 593598 (Πανηγυρ. 24) [= ed. a stampa, III, pp. 428-436]; su di esso si veda anche l’analisi di Galatariotou, Making, pp. 26-28, 91-92. 47 Cf. Delehaye, Stylites, pp. 193-194 (§ 12); ΑΝΕΣ, p. 597 (§ 24) [= ed. a stampa, III, p. 436]. 48 Mango – Hawkins, Hermitage, pp. 159-160 e figg. 36, 48-49. — Sul significato delle scelte iconografiche spesso inusuali ravvisabili nel complesso dell’Enkleistra, che sembrano avere un intento auto-promozionale o addirittura «auto-agiografico» da parte del loro committente Neofito il Recluso, cf. C. Jolivet-Lévy, Le rôle des images dans la chrétienté orientale: l’exemple de l’ermitage de saint Néophyte près de Paphos, in Perspectives Médiévales 29 (2004), pp. 43-72; S. Tomekoviò, Ermitage de Paphos: décors peints pour Néophyte le Reclus, in Saints et leur sanctuaire, pp. 151-171: 158-159; A. A. Demosthenous, The «Wings» of the Saint: Neophytos the Recluse and Cypriot Society (12th-20th Century), in Erytheia 31 (2010), pp. 179-193: 180-183; A. Lamesa, Un monument rupestre à l’image de son fondateur: le monastère de la Sainte-Croix à Chypre, in Actes de la Journée d’étude de Paris I Panthéon-Sorbonne «La culture des commanditaires/II», organisée à l’INHA le 13 mai 2011, éd. par. Q. Cazes et Ch. Prigent, Paris 2012 (http://hicsa.univ-paris1.fr/page.php?r=133&id=500&lang=fr). 49 Mango – Hawkins, Hermitage, pp. 198-201. Cf. anche A. Wharton Epstein, Phases of Construction and Decoration in the Enkleistra of St. Neophytos near Paphos on Cyprus, in Byzantine Studies/Études byzantines 10 (1983), nr. 1, pp. 71-80: 75-76.

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alla propria figura ritratti di santi stiliti non pare casuale. Infine, Catia Galatariotou addita fra i modelli di santità ben presenti a Neofito il Recluso e da lui in certa misura imitati nel suo percorso di self-sanctification proprio s. Alipio Stilita, passaggi della cui vicenda biografica trovano rispondenze in analoghi episodi dell’esistenza del santo cipriota50. Delle due acolutie per le altrettante feste di s. Neofito51 pubblicate dall’archimandrita Kyprianos nel 1778, piuttosto numerose sono state le riedizioni fino al secolo XX, per lo più anch’esse sotto forma di ephemera devozionali a stampa che raramente, però, sono approdati alla conservazione nelle moderne biblioteche, e sono perciò in qualche caso introvabili. Una seconda edizione del 1893 — che, a giudicare dai dati del frontespizio, con buona probabilità dipende strettamente da quella settecentesca — è rimasta per me inaccessibile52. Ho potuto invece esaminare e collazionare un’ulteriore riedizione del 191253, che si è rivelata, però, inutile ai fini del 50 Galatariotou, Making, pp. 104-105 in particolare: «Neophytos is imitating St ­Alypios (...). It is quite possible that Neophytos saw himself as belonging to the tradition of that distinguished group of monks, the stylites. (...) it is true that his life was not very different from that of the stylites. Perhaps Neophytos’ special devotion to St Alypios was not motivated — as H. Delehaye seems to suggest — exclusively by Neophytos’ desire to commemorate his mother, who had died on the feast-day of St Alypios, but also by an admiration for the stylite’s life. (...) Indeed, Neophytos’ lifestyle strikingly resembles that of a stylite in its anchoritic solitude, in its immobility, in its complete dependence on external help for food. (...) It is, nevertheless, interesting to note that Neophytos did think of himself as a stylite, too: the similarities between his life and that of St Alypios are (...) striking»; cf. anche ibid., pp. 78, 103, 106 e passim. 51 Quella del 12 aprile — ma ormai fra Otto- e Novecento sostituita dalla festa del 24 gennaio (cf. supra, n. 35) — e quella della traslazione del 28 settembre, che qui ci interessa maggiormente. 52 Ἀκολουθίαι τοῦ ὁσίου Πατρὸς ἡμῶν Νεοφύτου τοῦ Ἐγκλείστου, ψαλλόμεναι κατὰ τὴν κδ΄. Ἰανουαρίου καὶ κη΄. Σεπτεμβρίου, Ἐκδοθεῖσαι τὸ πρῶτον κατὰ τὸ 1778 (...), Ἔκδοσις δευτέρα, ἐν Λευκωσίᾳ Κύπρου, Ἐκ τοῦ τυπογραφείου ὁ Εὐαγόρας, 1893; cf. Petit, Bibliographie, p. 205 nr. 2 (l’esemplare che ivi si segnala come conservato alla British Library [collocazione: D-3365.g.27] risulta andato distrutto al tempo della Seconda Guerra Mondiale); cf. anche Tomadakes, Κυπριακὴ ἁγιολογία, pp. 230-231 nr. 15. 53 Ἀκολουθίαι τοῦ ὁσίου Πατρὸς ἡμῶν Νεοφύτου του Ἐγκλείστου, Ψαλλόμεναι κατά την ΚΔ΄ Ἰανουαρίου καὶ ΚΗ΄ Σεπτεμβρίου, ἐξ ὧν ἡ μὲν πρώτη εἶναι ἡ τῆς μνήμης αὐτοῦ, ἡ δὲ δευτέρα ἡ τῆς ἀνακομιδῆς τῆς εὑρέσεως τοῦ λειψάνου του, Ἐκδίδονται δαπάνῃ τῆς αὐτοῦ Πανοσιολογιότητος τοῦ ἡγουμένου τῆς Μονῆς Ἁγίου Νεοφύτου κου Ἰακώβου, [Λάρνακα], Ἐκ τοῦ ἐν Λάρνακι Τυπογραφείου «Ἀθηνᾶς» Σάββα Χατζηαντωνίου, 1912 (il nostro canone, in particolare, è stampato all’interno dell’ufficiatura del 28 settembre ibid., pp. 19-25). Di tale rara pubblicazione si conserva un esemplare, proveniente dalla raccolta di mgr. Louis Petit, nella Biblioteca Vaticana sotto la collocazione R.G. Liturg. III.271 (int. 4). Un’ulteriore copia è ad Atene, Γεννάδειος Βιβλιοθήκη, fondo Doris Papastratu, nr. 526 (= DPA-0466): da essa è tratta una riproduzione digitale consultabile nel website dell’American School of Classical Studies at Athens (https://www.ascsa.edu.gr/datab/ digital/akolouthies/books/0526.pdf). — Su questa terza edizione del 1912 cf. Petit, Bibliographie, p. 205 nr. 3; Tomadakes, Κυπριακὴ ἁγιολογία, p. 231 nr. 18; Strategopulos, Ἔντυπες

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presente lavoro, ripetendo essa il testo del nostro canone nella stessa forma alterata e in qualche punto lacunosa e corrotta che si riscontra nell’edizione del 1778, dalla quale evidentemente deriva — non saprei dire se per tramite della seconda edizione del 1893 —, ma rispetto ad essa aggiungendo, per di più, qualche svista tipografica sua propria o mostrando qualche tentativo, non sempre felice, di migliorarne il testo. Con riferimento alla numerazione dei cola del testo critico pubblicato più avanti, si possono notare ad esempio i seguenti casi di scollamento dell’edizione del 1912 (= Acol.) da quella del 1778 (= Kypr.): [26.] ἀνομοίοις can. II: ἀνομίαις Kypr. ἀνομίας Acol. || [31.] πράξεων can. ii necnon Acol.: πράξεσιν Kypr. || [46.] ἐν κίονι αἴθριος can. ii: ἐν σπέῳ σαθρότατον Kypr. ἐν σπηλαίῳ σαθρότατον contra metrum Acol. || [107.] πλουτήσαντα can. ii necnon Kypr.: -τίσαντα perperam Acol. || [127.] ἐναγεστάτην can. ii: -στάτοις Kypr. -στάτης Acol. || [129.] ἐκαρτέρησας can. ii necnon Kypr.: ἐγκαρτέρησας sic Acol. || [138.] σαὶ can. ii necnon Kypr.: σὲ perperam Acol. || [147.] Ῥομφαίᾳ can. ii necnon Kypr.: -αία Acol. || [228.] κεκακωμένην can. ii necnon Kypr.: κεκαμω­ μένην Acol.

Una quarta edizione delle due acolutie in onore di s. Neofito fu poi stampata nel 1935 da Ioannes Chrysostomos Chatzeioannu (= Chatz.) in appendice al testo, da lui pubblicato, del commento ai Salmi composto da s. Neofito il Recluso54. Sulla base, però, della collazione da me eseguita con riguardo soltanto al nostro canone, posso dire che di null’altro si tratta che di una riproposizione del testo offerto nel 1912 dalla terza edizione delle acolutie (= Acol.), ivi compresi tutti i punti in cui essa diverge dal testo pubblicato nel 1778 da Kyprianos (= Kypr.)55. Le poche differenze sono da considerarsi sviste di Chatzeioannu o del suo tipografo56, né si notano taciti interventi congetturali che siano degni di nota57. Tale riedizione, Ἀκολουθίες, pp. 245-246 (con sommaria descrizione dei contenuti del fascicoletto a stampa, ripresa nel database online del fondo Papastratu, cf. http://www.akolouthies.gr/index.php). 54 Chatzeioannu, Ἱστορία, II, pp. 139-152; per il nostro canone, in particolare, cf. ibid., pp. 147-150. Ho consultato il rarissimo secondo volume del libro di Chatzeioannu ad Atene, nella nuova sede, a Kallithea, dell’Εθνική Βιβλιοθήκη της Ελλάδος (collocazione: θεολ-2741-η). 55 Cf. ad es. cola [11.] θεόφρον can ii necnon Kypr.: -φρων Acol. Chatz. || [26.] ἀνομοίοις can. ii: ἀνομίαις Kypr. ἀνομίας Acol. Chatz. || [31.] πράξεων can. ii necnon Acol. Chatz.: πράξεσιν Kypr. || [46.] ἐν κίονι αἴθριος can. ii: ἐν σπέῳ σαθρότατον Kypr. ἐν σπηλαίῳ σαθρότατον Acol. Chatz. || [138.] σαὶ can. ii necnon Kypr.: σὲ Acol. Chatz. || [147.] Ῥομφαίᾳ can. ii necnon Kypr.: -αία Acol. Chatz. || [228.] κεκακωμένην can. ii necnon Kypr.: κεκαμωμένην Acol. Chatz. 56 Cf. ad es. cola [41.] τοῖς om. Chatz. || [124.] καθαγίασον can. ii necnon Kypr. Acol.: καὶ ἁγίασον Chatz.|| [194.] καὶ οὖς can ii: οὖς τε Kypr. οὗς τε sic Acol. οὕς τε Chatz. 57 Tranne forse in un punto in cui Chatzeioannou ritrova ad sensum, contro gli errori di Kypr. e Acol., la buona lezione che è effettivamente attestata nei codici medievali, a lui ignoti,

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dunque, non è stata presa affatto in considerazione ai fini della presente edizione critica58. Ancora una volta, meno di vent’anni più tardi, le ufficiature in onore di s. Neofito furono ripubblicate in una quinta edizione «con correzioni» («δι­ ωρθωμένα») nel 1953 per le cure dell’erudito cipriota Ioannes Tsiknopullos († 1972), in un fascicoletto (= Ts.) del quale si è avuta in séguito anche una ulteriore edizione postuma, pressoché identica, nel 197659. Limitando le mie osservazioni all’edizione del 1953 — avendo potuto rilevare, del resto, che quella del 1976 non apporta nulla di nuovo —, posso dire che le «correzioni» annunciate dal frontespizio consistono per lo più in una revisione ortografica del testo stampato da Kyprianos nel 1778, con qualche semplice (e talora felice) congettura ope ingenii60 volta a sanarne le vistose anomalie metriche o morfo-sintattiche, forse in parte dovute — oltre che a probabili difetti del manoscritto del canone di s. Alipio usato come modello del rimaneggiamento — a errori tipografici dell’edizione settecentesca. Fra tali «correzioni», ad esempio, si vedano: cola [18.] ποίησον can. ii necnon Ts.: τε Kypr. || [26.] ἀνομοίοις can. II: ἀνομί­ αις Kypr. ἀνομίας Ts. cum Acol. || [31.] πράξεων can. ii necnon Ts. cum Acol.: πρά­ ξεσιν Kypr. || [77.] λύτρωσαι can. ii necnon Ts.: -σε Kypr. || [79.] ἐμβιβάζουσα can. ii necnon Ts.: -άζοντα Kypr. || [108.] Ἀκλονήτως can. ii necnon Ts.: Ἀκλόνητος Kypr. || [165.] κειμένοις can. ii necnon Ts.: -μένους Kypr. || [168.] τοῖς can. ii necnon Ts.: τῆς Kypr. || [169.] χεῖρας can. ii necnon Ts.: χεῖρα Kypr. || [195.] τούτῳ can. ii: τούτου Kypr. τούτων Ts. del canone per s. Alipio, cf. colon [127.] ἐναγεστάτην can. II necnon Chatz.: -στάτοις Kypr. -στάτης Acol. 58 Naturalmente, l’affinità del testo offerto da Chatzeioannou rispetto a quello della terza edizione del 1912 non implica automaticamente dipendenza diretta da quest’ultima: tali edizioni potrebbero infatti anche dipendere entrambe, ciascuna autonomamente, dalla seconda edizione del 1893, che non ho potuto verificare perché rimasta per me inaccessibile. Ai fini del nostro lavoro filologico, comunque, anche se così fosse, il risultato non cambierebbe. 59 I. P. Tsiknopullos, Βίος καὶ αἱ δύο ἀκολουθίαι τοῦ ἁγίου Νεοφύτου τῆς 24ης ἰανουαρίου καὶ τῆς 28ης σεπτεμβρίου [...] (αἱ δύο ἀκολουθίαι [...] ἀνετυπώθησαν διωρθωμένα ἐκ τῆς ἐκδόσεως τοῦ ἀρχιμανδρίτου Κυπριανοῦ τῆς γενομένης ἐν Ἐνετίᾳ τῷ 1778), ἐν Λάρνακι Κύπρου 1953 [per l’invio di una riproduzione parziale del volume sono grato a Joanna Eliades, della Κυπριακὴ Βιβλιο­θήκη di Nicosia]; id., Αἱ δύο ἀκολουθίαι τοῦ ἁγίου Νεοφύτου τῆς 24ης Ἰανουαρίου καὶ τῆς 28ης Σ­ επτεμβρίου [...], β΄ ἔκδοσις, ἐν Πάφῳ Κύπρου 1976 [una riproduzione parziale mi è stata fornita dalla ­biblioteca «Στέλιος Ιωάννου» dell’Università di Cipro, Nicosia]. Per queste pubblicazioni cf. Tomadakes, Κυπριακὴ ἁγιολογία, pp. 241 (nr. 66) e 248 (nr. 102). 60 Non una congettura, credo, ma una svista della riedizione di Tsiknopullos viene invece per mera casualità a coincidere con una banale corruttela prodottasi indipendentemente tanto nel Par. gr. 259 (= P) ante corr. quanto nella riedizione del 1912 dell’ufficiatura per s. Neofito (= Acol.): cf. colon [228.] κεκακωμένην can. ii necnon Kypr.: κεκαμωμένην Ts. cum cod. Pac necnon Acol.

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Nella riedizione di Tsiknopullos, però, si notano pure non pochi fantasiosi «miglioramenti» del testo che sembrano peraltro operati senza pretese filologiche, e tesi piuttosto a rendere l’acolutia meglio utilizzabile nel canto, riducendo anomalie ritmiche o sintattiche dovute in parte a corruttele, o appianando durezze di senso in passi che dovevano riuscire oscuri ai fedeli, ad esempio: cola [35.-36.] ζωῆς κοινωνὸν δυσωπῶ σε πάτερ ποίησον can. ii necnon Kypr.: με ζωῆς κοινωνὸν πάτερ ποίησον Ts. || [45.-46.] Ὁρώμενος ἐκαρτέρεις ἐν κίονι αἴθριος can. ii: Ὁρώμενος ἐκαρτέρεις ἐν σπέῳ σαθρότατον Kypr. Ἐν σπέῳ τῷ σα­ θροτάτῳ ἐκαρτέρεις ὁρώμενος Ts. || [47.-49.] ἐπάρσεσιν πάτερ ἐπάρσεις τοῦ ὄφεως τρέπων can. ii: ἐπάρσεις (-σεσι melius Ts.) τὰς ἐνέδρας τοῦ ὄφεως κατεβάλου Kypr. Ts. || [53.] αὐχμῶνος can. ii: τε λίθου Kypr. τοῦ λίθου Ts. || [58.] πάτερ δρόσισον can. ii: πάτερ ὅσιε Kypr. με λύτρωσον Ts. || [135.-136.] τῇ πρεσβείας σοῦ βοῶ can. ii: ταῖς πρεσβείαις σοῦ βολῶν Kypr. τῶν βολῶν σῶν πρεσβειῶν Ts. || [144.-145.] ἐναπομειώσασαι ἐχθρῶν can. ii necnon Kypr.: ἐναπομονώσασαι αὐτοὺς Ts. || [146.] πορείας can. ii necnon Kypr.: ὁδοῦ θείᾳ Ts. || [166.] βόθρῳ παντοίων κακῶν can. ii necnon Kypr.: κακῶν βόθρῳ παντοίων καὶ ἀπωλείας δεινῆς Ts. || [167.] Κυρίου can. ii: νῦν Kypr. ὅσιε Ts. || [180.] Υἱὸς γὰρ ἐστὶ can. ii: γ. Υἱ. ἐ. Kypr. ἐστι καὶ Υἱὸς Ts. || [206.-207.] πάθη ψυχῆς μου can. ii necnon Kypr.: ψυχῆς πάθη δεινά μου Ts. || [215.-216.] παμμάκαρ πλατύνων (πλάτυνον Kypr.) ἐν θλίψει με can. ii necnon Kypr.: καὶ ἐν θλίψει παμμάκαρ με πλάτυνον Ts.

Insomma, il testo del canone per la traslazione di s. Neofito come stampato da Tsiknopullos non è più quello pubblicato — e forse «composto» — dall’archimandrita Kyprianos, ma una sua rivisitazione che tende a levigarne le asperità, e che si deve intendere finalizzata al solo uso devozionale: scopo che giustifica la mancanza di un rigore filologico che esulava dagli obiettivi della pubblicazione. Caso analogo — ma in una certa misura più ambiguo, tanto da poter trarre facilmente in errore un lettore non avvertito — è quello di un’ulteriore riedizione della fine del XX secolo. L’acolutia per la traslazione di s. Neo­fito, infatti, ivi incluso il nostro canone (can. ii) nella forma rimaneggiata in onore di s. Neofito che ormai ben conosciamo, fu ristampata un’ultima volta, per quel che mi consta, un quarto di secolo fa nel primo volume, apparso nel 1994, dei «Menei di Cipro» (= MKypr.). Tale raccolta, in undici volumi, è il frutto di una lodevole iniziativa promossa dall’arcivescovado di Cipro per raccogliere e divulgare le ufficiature relative ai santi ciprioti o ai culti locali dell’isola che non sono incluse nella recensione standard dei Menei greci a stampa, e che — come il lettore avrà ormai chiaro da quel che si è detto fin qui — avevano tradizionalmente circolato fino ad allora, come d’uso in tutto il mondo greco ortodosso, solo nell’effimera forma di fascicoletti di poche pagine ad uso liturgico. Così, nel primo volume dei

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«Menei di Cipro», sotto la data del 28 settembre ritroviamo ancora una volta l’ufficiatura per la traslazione di s. Neofito il Recluso stampata dall’archimandrita Kyprianos nel 1778, ma questa volta in uno stato redazionale fortemente modificato rispetto all’edizione settecentesca61. In effetti, quest’ultima riedizione evidentemente non ha inteso affatto riprendere tel quel il testo dell’acolutia quale fu dato alle stampe da Kyprianos, ma correggerlo e «migliorarlo» ricorrendo persino, a ritroso, alla fonte letteraria da lui utilizzata. Al netto, infatti, di quelli che possono essere considerati meri interventi correttivi redazionali, specialmente a livello ortografico, vi si trovano numerose lezioni volutamente divergenti da Kypr., e inoltre notevoli interventi integrativi che palesemente coincidono, invece, con il dettato offerto da uno dei manoscritti del canone «originale» per s. Alipio di Giuseppe l’Innografo: il codice Par. gr. 259, che infatti è esplicitamente citato in una nota bibliografica conclusiva da Theochares E. Schizas e Andreas B. Barnabas, curatori del primo volume dei «Menei di Cipro», ed è stato da loro evidentemente impiegato per «correggere» il testo dell’adattamento settecentesco dell’inno62. Noteremo, in particolare, che le omissioni di alcune delle strofi originali dell’inno per s. Alipio che si rilevavano all’interno del testo rimaneggiato stampato nel 1778 dall’archimandrita Kyprianos vengono invece artificiosamente «sanate» e integrate nei «Menei di Cipro», che dunque, da questo punto di vista, offrono un testo in apparenza più completo: vi si ricompone, infatti, nella sua interezza l’acrostico che legava le iniziali dei tropari del canone originali per s. Alipio, che risultava invece lacunoso e deformato nell’edizione settecentesca del rimaneggiamento. Le omissioni di quei tropari, però, non erano certo casuali, e rappresentavano anzi una specifica caratteristica storica e letteraria dell’adattamento del canone nel suo reimpiego in onore di s. Neofito: il manoscritto del canone di Giuseppe per s. Alipio utilizzato come modello per il rimaneggiamento, del resto, sarà stato probabilmente un testimone in cui il testo si presentava già lacunoso, e mancante proprio di quegli stessi tropari. Simili omissioni di strofi, in effetti, sono piuttosto frequenti nei codici innografici soprattutto fra l’età medio- e tardobizantina. D’altra parte, arricchendosi col tempo le ufficiature, e complice pure l’evoluzione del canto liturgico verso forme sempre più melismatiche, l’allungarsi dei tempi di esecuzione delle acolutie finiva per imporre «tagli» miranti a contenere la liturgia delle ore entro limiti 61 MKypr, I, pp. 145-155: 149-154. — Ho potuto consultare queste pagine dei «Menei di Cipro» grazie al generoso aiuto di Agostino Soldati, che ringrazio vivamente. 62 Il codice parigino è infatti ricordato in MKypr., p. 156, evidentemente grazie alla segnalazione dell’incipit del canone per s. Alipio (can. ii) fatta da Eustratiades, Ταμεῖον [39 (1940)], p. 272, e ripresa da Follieri, Initia, V/1, p. 122 s.v. Ψυχοφθόρου λύπης (...).

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ragionevoli. Nei manoscritti seriori, di conseguenza, e sempre più spesso a partire dai secoli XIII e XIV, i canoni degli autori più antichi sono frequentemente ridotti, per ognuna delle otto odi di cui l’inno si compone, a soli tre/quattro tropari, numero in cui di solito è incluso anche il theotokion (ovvero, la strofe con intenzione mariana) che conclude ciascuna ode. Per ottenere questa riduzione, nel caso dei canoni di Giuseppe — che di norma constano di quattro/cinque tropari per ogni ode, ma sempre di cinque nell’ultima — i copisti dei manoscritti innografici tendevano a omettere in genere, in ognuna delle odi più «abbondanti», l’ultima oppure la penultima strofe prima del theotokion. È quello che si verifica, ad esempio, nel caso del nostro canone per s. Alipio (can. ii) già all’interno del codice Vat. gr. 2309 (inizio sec. XIII), dove sono omessi i tropari nr. 4 dell’ode iv (cola 6672), nr. 3 dell’ode vii (cola 138-146), nr. 4 dell’ode viii (cola 177-183), nr. 4 dell’ode ix (cola 218-226). Analogamente, ma con una scelta non del tutto coincidente delle strofi da omettere, il manoscritto preso a modello per il rimaneggiamento settecentesco del canone doveva mancare, credo, dei tropari nr. 4 dell’ode iv (cola 66-72), nr. 3 dell’ode viii (cola 170-176), nr. 4 dell’ode ix (cola 218226). Nella riedizione nei «Menei di Cipro» (= MKypr.) dell’adattamento dell’inno in onore di s. Neofito, invece, il testo di queste strofi, mancanti in Kypr., viene desunto dal codice Parigino del canone di s. Alipio (= P), ma è addirittura all’occorrenza ritoccato e alterato dagli editori moderni, rispetto a tale manoscritto, per adeguarlo alla figura del santo cipriota anziché all’antico stilita. Ad esempio, ai cola [66.-72.] e [218.-226.], assenti in Kypr., così si legge in MKypr. (che ricava il testo da P, ma lo modifica): Ὑμνήσωμεν τὸν ἀκλόνητον στῦλον Νεόφυτον καὶ τούτου τῇ λάρνακι ὡς κιβωτὸν ἁγιάσματος 70 πίστει προσπελάσωμεν ἀπαρυόμενοι χάριν τὴν σωτήριον.



(...)

Ἡ χείρ σου γενέσθω μοι χειραγωγία, ὅσιε, 220 ἐν νυκτὶ καὶ ἡμέρᾳ περιφρουροῦσα με πάσης ἐξ ἀδίκου παλάμης ὅπως ἐχθροῖς

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ἀχείρωτος μένων



μακαρίζω σε, Νεόφυτε.

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225 ὡς μέγαν προστάτην μου

[67.] Νεόφυτον MKypr.: Ἀλύπιον P || [69.] κιβωτὸν MKypr. cum P: κιβωτῷ coniciendum || [225.] μέγαν corr. MKypr.: μέγα perperam P || [226.] Νεόφυτε MKypr.: Ἀλύπιε P

Tralascio di dare puntualmente conto dei non pochi casi in cui MKypr. «aggiusta» qua e là, con interventi di entità minore, il testo del canone stampato da Kyprianos per farlo assomigliare maggiormente a quello del manoscritto parigino della sua fonte63, oppure modifica il dettato dell’inno, rispetto all’edizione settecentesca, per «abbellirlo» secondo il gusto dei curatori o forse per renderlo meglio fruibile per i devoti64. In ogni caso, il testo di MKypr. risulta pesantemente alterato, in forma non esplicitamente dichiarata, rispetto a Kypr.: esso, dunque, non rappresenta più la tradizione cipriota di canto per la festa della traslazione di s. Neofito il Recluso del 28 settembre come fu stabilita nel XVIII secolo, né tanto meno riproduce fedelmente il testo originale del canone di Giuseppe l’Innografo per s. Alipio cui le varie modifiche e integrazioni vogliono ispirarsi. È questo, dunque, un «nuovo» e ibrido stato redazionale all’interno della tormentata storia del nostro inno: un «rimaneggiamento di un rimaneggiamento», della fine del XX secolo, che non ha valenza filologica — a dispetto di un apparato bibliografico di corredo che potrebbe indurre un lettore non avvertito a credere il contrario65 —, e che in certa misura innova rispetto a un uso liturgico locale già plurisecolare. Fatto, però, comprensibile, se il fine era quello, legittimo, di offrire ai fedeli un testo più decoroso da cantarsi in occasione della festa. La liturgia, del resto, si evolve nella storia, e se è vero che ancor oggi l’arte della composizione innografica è felicemente praticata nel mondo greco ortodosso, si dovranno allora salutare tanto la compo63 Attingendo

esempi alla sola prima parte dell’inno, cf. cola [18.] ποίησον P MKypr.: τε Kypr. || [34.] σαῖς P MKypr.: ταῖς Kypr. || [41.] ἐπέφανεν P MKypr.: ἐπεφάνη Kypr. || [47.-49.] ἐπάρσεσιν πάτερ, ἐπάρσεις τοῦ ὄφεως τρέπων P MKypr.: ἐπάρσεις τὰς ἐνέδρας τοῦ ὄφεως κατε­ βάλου Kypr. || [58.] πάτερ δρόσισον P MKypr.: πάτερ ὅσιε Kypr. || [79.] ἐμβιβάζουσα P MKypr.: -άζοντα Kypr. || [89.] τήρησον P MKypr.: συντήρησον Kypr. 64 Per un solo esempio — ove si nota come l’erudito riferimento ai Coribanti del rimaneggiamento settecentesco (cf. supra, p. 124), ritenuto poco perspicuo per i fedeli, venga «depotenziato» e banalizzato in MKypr. —, cf. colon [112.] Μυριάδας δαιμόνων ἐρράπισας P: Κορυβάντων πληθὺν ἀπερράπισας Kypr. Μισοκάλων πληθὺν ἀπερράπισας MKypr. 65 MKypr., I, pp. 156-157. — Il metodo usato, del resto, almeno per quanti leggano e intendano una fuggevole riga della stringata introduzione generale del volume, è dichiarato ibid., p. 8: «Εἰς τὴν περίπτωσιν κατὰ τὴν ὁποίαν οἱ ὕμνοι ἦσαν διασκευαί, ἠ ἀποκατάστασις ἐγέ­ νετο βάσει τοῦ πρωτοτύπου κειμένου» (ovvero, «Nei casi in cui gli inni fossero adattamenti, la ricostituzione del testo è stata operata basandosi sul testo-modello»).

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sizione di nuovi canti66 quanto il rimaneggiamento di inni più antichi come segno di vitalità e giovinezza di una Chiesa viva e sempre in cammino. Da tutto quanto si è detto fin qui discende che, se per costituire il testo critico di can. ii si può utilmente impiegare, accanto ai due manoscritti medievali, anche la testimonianza offerta dal rimaneggiamento in onore di s. Neofito così come stampato a cura dall’archimandrita Kyprianos nel 1778 (= Kypr.), non si devono invece prendere in considerazione, se non per segnalarne occasionalmente rarissimi interventi di una qualche utilità, le successive riedizioni di tale adattamento — quelle, almeno, del 1912, del 1935, del 1953 e del 1994 che mi è stato possibile esaminare —, che non attingono a fonti manoscritte ulteriori e non sono state condotte secondo criteri filologici. Per amore di completezza, infine, varrà la pena di segnalare che anche dell’altro e più noto canone di Giuseppe l’Innografo in onore di s. Alipio (can. i) esiste un curioso rimaneggiamento d’età post-bizantina, non finalizzato in questo caso a modificarne la dedicazione per adattarlo a un’altra festa e a un altro santo, ma piuttosto a cambiarne le melodie mutandone il modo musicale dal primo plagale al più «popolare» quarto plagale. Il nuovo canone per s. Alipio che deriva da quest’operazione di riscrittura (privo di acrostico, inc. Χάριτος θείας πεπλησμένον πλήρω­ σον | χαρᾶς κἀμοῦ τὴν ψυχὴν...) è opera del presbitero, scrittore e pittore cretese, di stanza a Venezia, Emmanuel Tzanes Mpuniales (1610 ca.-1690)67, e consiste, in effetti, in una curiosa composizione che parafrasa il testo del canone di Giuseppe inc. Χάριτος πεπλησμένος | χαρᾶς μου πλήρωσον | τὴν ψυχὴν..., trasponendone le odi in nuovi schemi metrico-melurgici per adattarle a melodie evidentemente meglio note ai fedeli68. In questa nuova forma parafrastica — che si potrebbe definire una 66 Si pensi per questo, ad esempio, alla figura di un celebre innografo della Chiesa greca del XX secolo, il monaco atonita Gerasimos Mikragiannanites (al secolo Anastasios Graikas, 1905-1991), sul quale cf. almeno P. B. Paschos, «Ὑμνηπόλος ἐράσμιος». Ὁ ὑμνογράφος τῆς Μεγάλης τοῦ Χριστοῦ Ἐκκλησίας Γεράσιμος μοναχὸς Μικραγιαννανίτης, Ἅγιον Ὄρος 1992 [già in Θεολογία 60 (1989), pp. 336-385]. A lui si deve, fra l’altro, la composizione di nuove e copiose ufficiature originali per s. Neofito il Recluso, pubblicate postume (Gerasimos μοναχὸς Μικραγιαν­ νανίτης, Ἀκολουθίαι τοῦ ὁσίου καὶ θεοφόρου πατρὸς ἡμῶν Νεοφύτου τοῦ Ἐγκλείστου καὶ θαυματουργοῦ, Πάφος 1997; cf. al riguardo MKypr., I, p. 157). 67 Tomadakes, Ἐμμανουήλ (con la precedente bibliografia); M. Chatzedakes, Συμ­πλη­ ρωματικά στον Ἐμμανουήλ Τζάνε, in Κρητικὰ Χρονικά 2 (1948), pp. 469-475; N. B. Tomadakes, Εἰκόνες Ἐμ. Τζάνε ἐν Κερκύρᾳ, in Κρητικὰ Χρονικά 2 (1948), p. 476; Drandakes, Ἐμμανουὴλ Τζάνε; id., Συμπληρωματικά; Chatzedakes – Drakopulu, I, pp. 93-95, 115, 119, 125; II, pp. 408-423; N. G. Tselente-Papadopulu, Οι εικόνες της Ελληνικής Αδελφότητας της Βενετίας απο το 16ο έως το πρώτο μισό του 20ού αιώνα. Αρχειακή τεκμηρίωση, Αθήνα 2002, pp. 63, 64, 70, 73, 79-80, 84, 86, 92-94, 188-196, 210, 225, 273-274 e passim, tavv. 53-62. 68 Secondo le indicazioni, non sempre affidabili, offerte nella sua edizione dell’Irmologio da Sophronios Eustratiades — in questo caso, sostanzialmente coincidenti con quelle fornite dall’Irmologio manoscritto Athous Laur. B.32 (sec. X) —, le melodie scelte da Tzanes per la sua trasposizione proverrebbero da due diversi canoni anastasimi di Giovanni Monaco (per

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vera e propria «metafrasi» innografica, fenomeno di cui non conosco altri esempi —, il testo del canone fu stampato all’interno dell’acolutia di s. Alipio pubblicata da Tzanes a Venezia nel 167969. E si può infine aggiungere che un’ulteriore riproposizione di tale acolutia, e dunque anche del rifacimento del can. i di Giuseppe le odi i, iii, v-vi e ix, cf. EE, p. 219 nr. 314; per le odi iv e vii, cf. EE, p. 224 nr. 321) e da un canone di Germano I patriarca (per l’ode viii, cf. EE, p. 226 nr. 323). 69 Di questa rara pubblicazione si conserva un esemplare, proveniente dalla raccolta di mgr. Louis Petit, nella Biblioteca Vaticana (collocazione: R.G. Liturg. III.270 [int. 13]): Ἀκολουθία τοῦ ὁσίου πατρὸς ἡμῶν Ἀλυπίου τοῦ Κιωνίτου καὶ Θαυματουργοῦ, Συναχθεῖσα ἐκ τοῦ Μηναίου παρὰ τοῦ εὐλαβεστάτου Ἱερέως Ἐμμανουήλου Τζάνε τοῦ Εἰκονογράφου λεγομένου Μπουνιαλῆ, ὁ Κανόνας δὲ τῆς αὐτῆς ἀκολουθίας ἐπανακαμθὴς [sic] ὑπ’ αὐτοῦ, ἐκ τοῦ ὀργανικοῦ ἤχου τοῦ πλ. α΄ εἰς τὸ μελῳδοποιὸν ἦχον τοῦ πλ. δ΄ περιστρέφων τὰς τῶν συλλαβῶν μεθόδους ἑρμηνείας τῶν λόγων καὶ μελοδικὰ [sic] μέτρα ἀπὸ ἦχον εἰς ἦχον ἐπανερχόμενα, τυπωθεῖσα δὲ χάριν εὐλαβείας, Ἐνετίῃσιν, Παρὰ Νικολάῳ τῷ Γλυκεῖ, τῷ ἐξ Ἰωαννίνων, 1679 [riproduzione digitale online di un diverso esemplare (Rhethymno, Πανεπιστήμιο Κρήτης, collocazione: ΠΠΚ122333) nel sito Ανέμη. Ψηφιακή Βιβλιοθήκη Νεοελληνικών Σπουδών, https://anemi.lib.uoc.gr/metadata/d/7/d/metadata-165-0000002.tkl]. Su questa acolutia cf. Legrand, Bibl. Hell. XVII s., II, p. 352 nr. 543; Petit, Bibliographie, p. 6; Tomadakes, Ἐμμανουήλ, p. 145 (nr. 6); Strategopulos, Ἔντυπες Ἀκολουθίες, pp. 16-18. — L’interesse di Tzanes per la figura di s. Alipio, e la diffusione del suo culto nell’ambiente in cui visse, sono ulteriormente testimoniate dal fatto che si conoscono ben otto icone di sua mano raffiguranti lo stilita (Drandakes, Ἐμμανουὴλ Τζάνε, pp. 46-56 e tavv. 13-16; Chatzedakes – Drakopulu, II, pp. 414 [nrr. 4, 10 e 23], 415 [nrr. 37, 57 e 64], 416 [nr. 70], 417 [nr. 113], ove si segnala anche un’ulteriore icona firmata ma considerata falsa, cf. ibid., p. 417 [nr. 1]). Interessante è poi il fatto che, per quanto ne so, almeno nelle icone di s. Alipio dipinte da Tzanes che si conservano nella collezione Stampogles (datata al 1659, cf. Drandakes, Συμπληρωματικά, 57-60 [e tavv. 16-17]) e al Museo Cristiano e Bizantino di Atene (firmata da Tzanes nel 1661, inv. nr. ΒΧΜ 1565 [T. 384], cf. Chatzedakes – Drakopulu, II, p. 409 fig. 312) i due angeli in volo che fiancheggiano lo stilita recano rotoli contenenti rispettivamente il secondo tropario dell’ode i (inc. Ἄλλον ὡς Σαμουήλ σε Θεὸς ἡγίασε...) e il primo tropario dell’ode ix (inc. Ἱερὸς ὁ βίος σου ἐκ σπαργάνων...) del canone originale non rimaneggiato (= can. i) di Giuseppe l’Innografo per s. Alipio (MR, II, pp. 288 e 294; identificazione del testo in Drandakes, Συμπληρωματικά, p. 58; id., Ἐμμανουὴλ Τζάνε, p. 47). Nell’icona conservata, invece, nel Musée d’art et d’histoire de Genève (inv. 1984-0084, firmata da Tzanes nel 1664) è il testo del solo primo tropario dell’ode ix dello stesso canone a essere ripartito tra i due rotoli tenuti dagli angeli (cf. S. Frigerio-Zeniou – M. Lazoviò, Icônes de la collection du Musée d’art et d’histoire, Genève, Avec la collaboration de M. Martiniani-Reber, Genève 20062, pp. 51-52 nr. 13). Infine, in un’altra icona dello stesso soggetto, non di mano di Emmanuel Tzanes ma attribuita alla sua scuola (sec. XVII-XVIII), già appartenuta alla Biblioteca Vaticana e ora ai Musei Vaticani (inv. nr. 40093: descrizione di M. Berger, in Angels from the Vatican. The Invisible Made Visible, [catalogue of the exhibition, ed. by] A. Duston [...] and A. Nesselrath, Alexandria, VA 1998, pp. 210-211 nr. 61), al citato tropario inc. Ἄλλον ὡς Σαμουήλ... del canone originale di Giuseppe, scritto nel rotolo in mano all’angelo di sinistra, si accompagna, in quello tenuto dall’angelo a destra, la parte iniziale del testo della strofa nr. i di un antico contacio alfabetico inc. Ἀλυπίου τὸν βίον τὸν ἔνθεον καὶ ἰσάγγελον... (presente ad es. nel Patm. S. Io. Theol. gr. 212 [sec. XI], f. 77r, cf. M. N. Naumides, in N. B. Tomadakes, Ῥωμανοῦ τοῦ Μελῳδοῦ Ὕμνοι [...], II, Ἀθῆναι 1954, p. πβ΄): una strofa che fu pubblicata da Tzanes nel 1679, alle pp. 8-9 della sua acolutia contenente il canone «metafrastico» di s. Alipio citata all’inizio di questa nota (ma si veda anche la successiva edizione della medesima strofa di contacio in Ἀνθολόγιον [...], I, [curante Ph. Vitali, Romae 1738], p. σξη΄).

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da parte di Tzanes che in essa è contenuto, si ebbe un secolo più tardi all’interno di un volume devozionale karamanlidico70 che fu pubblicato nel 1783 a Venezia71 ad opera di Serapheim di Attaleia (1720 ca.-1790 ca.), già metropolita (1773-1779) di Ankyra (Ankara)72.

4. Criteri di edizione. Ortografia, interpunzione, metrica Nello stabilire il testo critico di can. ii, come anticipato, mi sono avvalso dei due testimoni manoscritti noti Par. gr. 259 (= P) e Vat. gr. 2309 (= V), e inoltre dell’edizione del 1778, curata dell’archimandrita Kyprianos, del testo rimaneggiato per adattarlo a celebrare la traslazione di s. Neofito il Recluso (= Kypr.). Di quest’ultima riporto in apparato non solo quelle che possono essere considerate vere e proprie varianti rispetto al testo originario di can. ii, ma anche le alterazioni intenzionali compiute nell’adattamento, documentando così le modalità di tale reimpiego. Non ho invece 70 Ovvero

eterografico con testo traslitterato in lettere greche ma in lingua turca (non tutto ma buona parte, nello specifico caso che ci interessa), stampato a vantaggio dei fedeli ortodossi d’Asia non più avvezzi alla lingua greca. Per una recente sintesi sul fenomeno dei karamanlidika, con bibliografia, cf. E. Balta, Translating Books from Greek into Turkish for the Karamanli Orthodox Christians of Anatolia (1718-1856), in International Journal of ­Turkish Studies 23 (2017), pp. 19-33. 71 Παχάρι χεγιὰτ. Γιάνια, ἀζὶζ σσεχὶτ ολὰν, μάρτυρος λαριν νακλιετή (...) [= Primavera di vita, ovvero storia dei santi martiri...], Βενετικτὲ, Ἀντώνιος πασματζὶ, Πόρτωλιτεν [= Venezia, Antonio Bortoli], [1783] (la riproduzione digitale di un esemplare di questa rarissima edizione, purtroppo mutila del frontespizio, è sul sito dell’Accademia di Atene: http://editions.academy­ ofathens.gr/epetirides/xmlui/handle/20.500.11855/688). L’acolutia per s. Alipio dello Tzanes vi è ristampata, fra diverse altre, in lingua greca e caratteri greci ibid., pp. 280-288 (il canone è alle pp. 283-287). Su questa edizione cf. Legrand, Bibl. Hell. XVIII s., II, p. 415 nr. 1118; Salaville – Dalleggio, Karamanlidika, I, pp. 76-81 nr. 19 e tav. xiii; Stathe, Τουρκογραικικά, p. 336 e n. 42. Una riedizione di tale volume karamanlidico apparve nel 1806, dopo la morte del curatore: Παχάρι χεγιὰτ. Γιάνια, ἀζὶζ σσεχὶτ ολὰν, μάρτυρος λαριν νακλιετὴ (...), Βενετικτὲ, [= Venezia], Παρὰ Νικολάῳ τῷ Γλυκεῖ, τῷ ἐξ Ἰωαννίνων, 1806 (riproduzione digitale online: http:// editions.academyofathens.gr/epetirides/xmlui/handle/20.500.11855/825); l’acolutia e il canone che ci interessano si leggono ibid., pp. 280-288 e 283-287 rispettivamente. Cf. Salaville – Dalleggio, Karamanlidika, I, pp. 139-140 nr. 40. 72 Su questo prelato e sulla sua attività di editore di testi karamanlidici cf. D. E. Danieloglu, Πρόδρομοι τῆς ἀναγεννήσεως τῶν γραμμάτων ἐν τῇ Ἀνατολῇ (κυρίως Μικρᾷ Ασίᾳ). Σεραφεὶμ μητροπολίτης Ἀγκύρας Ἀτταλεύς, ἐν Κωνσταντινουπόλει 1865 [opuscolo raro, che ho consultato ad Atene, Γεννάδειος Βιβλιοθήκη, collocazione: B/BG 407.33]; K. Mustakas, Σεραφείμ Β΄ Αγκύρας (Πισίδιος), in Εγκυκλοπαίδεια Μείζονος Ελληνισμού, Μικρά Ασία, 2002 (http://www.ehw.gr/l. aspx?id=6107); Stathe, Τουρκογραικικά; Kitromelides, Κυπριακὴ λογιοσύνη, pp. 246-250; Kokkinophtas, Κύπριοι Λόγιοι, pp. 426-427 (con ulteriore bibliografia). È una curiosa coincidenza, fra l’altro, che Serapheim, in qualità di monaco del monastero cipriota di Kykkos, prima del più volte menzionato archimandrita Kyprianos sia stato anch’egli incaricato da parte del medesimo monastero di curare a Venezia la stampa di volumi devozionali, cf. S. Herakleus [Irakleous], Μια απανταχούσα στα καραμανλίδικα και η σχέση του Σεραφείμ Ατταλειάτη με την Ιερά Μονή Κύκκου, in Επετηρίδα Κέντρου Μελετών Ιεράς Μονής Κύκκου 10 (2013), pp. 123-136: 131-132.

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utilizzato — e dunque non ne riporto in apparato le «lezioni» — le varie riedizioni successive del testo rimaneggiato, che, come credo di aver dimostrato, non hanno valore per la costituzione del testo. Delle edizioni del 1912 (= Acol.), del 1953 (= Ts.) e del 1994 (= MKypr.), tuttavia, si segnaleranno in qualche caso sporadico minimi ritocchi accolti nel testo (colon [225.]) o correzioni che, pur respinte, è parso utile se non altro riferire in apparato (cola [26.], [135.], [181.], [195.]). Per la stesura dell’apparato critico, di tipo positivo, mi sono attenuto alle norme prescritte per le edizioni di testi greci nella collana de Les Belles Lettres73, alle quali ho derogato, però, per quanto riguarda la posizione dell’apparato delle fonti scritturistiche, che per un migliore equilibrio nella composizione tipografica ho collocato in calce alla traduzione italiana invece che, a doppia fascia, al di sotto del testo greco74. Accanto alle vere e proprie varianti, nell’apparato critico sono riportate tutte le lezioni, pur da scartare, nelle quali le forme attestate paiano, almeno in astratto, spiegabili dal punto di vista grammaticale alla luce dell’evoluzione storica della lingua greca classica, medievale e moderna, e questo anche quando esse fossero sintatticamente o esegeticamente implausibili nel contesto specifico. Ho omesso invece di registrare le mere voces nihili. In generale, l’ortografia delle lezioni offerte nell’apparato è stata tacitamente rettificata rispetto ai testimoni in tutti i casi in cui la forma scorretta non potesse essere sospettata di celare una variante. La silente normalizzazione dell’ortografia ha interessato, anche in apparato, gli errori di omofonia — confusioni vocaliche dovute a itacismo, a omofonia tra vocali e dittonghi, o a scambio tra vocali dichrona —, e inoltre la registrazione di accenti, spiriti, iota muto, tranne che nei casi in cui l’errore producesse o potesse far sospettare una forma attestata o ammissibile in una qualche fase della storia della lingua greca, anche laddove inaccettabile nel contesto. Forme scorrette, inoltre, sono state sporadicamente riportate in apparato telles quelles quando utili a illuminare la genesi di varianti presenti in altri testimoni. In relazione, in particolare, all’accentazione — sulla cui resa nelle edizioni critiche di testi bizantini si registra negli ultimi decenni un ampio dibattito75–, segnalo 73 [J. Irigoin],

Règles et recommandations pour les éditions critiques (Série grecque), Paris 1972 (Les Belles Lettres). 74 Ai paralleli patristici — mai interpretabili come vere e proprie fonti — e innografici — attinti selettivamente, questi ultimi, soprattutto ad altri canoni di Giuseppe l’Innografo — faccio invece rinvio, anziché in un apparato di loci similes, nel commentario che segue l’edizione critica. In tale commento non sono ripetuti i rinvii alle fonti agiografiche già richiamati e discussi nell’analisi svolta all’interno dei §§ 1 e 3 dell’introduzione, cf. supra, pp. 109-114 (per s. Alipio) e 123-125 (per i tratti «agiografici» della biografia di s. Neofito il Recluso ravvisabili nel rimaneggiamento dell’inno pubblicato dall’archimandrita Kyprianos). 75 Cf. almeno C. M. Mazzucchi, Sul sistema di accentuazione dei testi greci in età romana e bizantina, in Aegyptus 59 (1979), pp. 145-167; J. Noret, Quand donc rendrons-nous à quantité d’indéfinis, prétendument enclitiques, l’accent qui leur revient?, in Byzantion 57 (1987),

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che, non potendosi ricostruire l’usus dell’autore, essa è stata tacitamente normalizzata secondo le regole consacrate al riguardo dalla moderna tradizione ecdotica dei testi greci classici. In relazione, tuttavia, all’accentazione delle enclitiche e delle parole accentate che le precedono, ho derogato a tali «regole» nel caso di parole properispomene che fossero seguite da enclitica monosillabica: nella pronuncia medievale, infatti, in casi del genere l’accento d’enclisi non si avvertiva, e dunque spesso non era neppure segnato nei manoscritti76; ho conseguentemente evitato di apporre, nel testo o nell’apparato, l’accento d’enclisi sulla parola properispomena, per evitare di sfigurare con un accento superfluo, da non pronunciarsi, la metrica accentativa dell’inno77. Analogamente, ulteriori deroghe occasionali alle norme «scolastiche» relative all’accentazione delle enclitiche sono state motivate dalla medesima necessità di rispettare — e non oscurare — lo schema metrico sillabicoaccentativo su cui la singola strofa è modellata78. Anche nel caso del ny efelcistico, non essendo certo possibile risalire alle consuetudini autoriali di Giuseppe, ho adeguato tacitamente il testo alla norma, tradizionale nell’ecdotica dei testi greci classici, che lo prescrive soltanto dinanzi a parola iniziante per vocale o a segno interpuntivo: le «violazioni» di tale regola riscontrabili nei vari testimoni non sono state segnalate, e anzi in apparato le loro lezioni, quando comportassero un ny mobile, vi sono state normalizzate. Nel testo, infine, ho integrato o normalizzato alla luce del senso, senza avvertire, i segni interpuntivi e diacritici, non potendosi del resto far conto per questo aspetto sulla testimonianza dei codici, a causa dell’ambivalenza che in particolare nei manoscritti innografici vengono ad avere punti e virgole, che valgono sia come segni di punteggiatura sia soprattutto come marcatori della suddivisione del testo in cola ritmici. Nel caso specifico dei testi innografici, in effetti, non ritengo che siano applicabili i frutti delle importanti riflessioni degli ultimi decenni sull’interpunzione medievale del greco come riflessa nei manoscritti, e sulla sua auspicabile resa nelle edizioni moderne79. pp. 191-195; id., Faut-il écrire οὔκ εἰσιν ou οὐκ εἰσίν?, in Byzantion 59 (1989), pp. 277-280; id., L’accentuation de τε en grec byzantin, in Byzantion 68 (1998), pp. 516-518; id., Καὶ τό τε (mieux que καὶ τότε) dans le sens de καὶ τοῦτο ou καὶ ταῦτα, in Byzantion 78 (2008), pp. 340-345; I. A. Liverani, L’accentuazione di τε in Eustazio di Tessalonica, in Rivista di studi bizantini e neoellenici, n.s. 36 (1999), pp. 117-120; K. Oikonomakos, Ἀγαθὸν τὸ διτονεῖν?, in Byzantion 75 (2005), pp. 295-309. Sulle caratteristiche dell’accentazione nei manoscritti bizantini si veda anche il classico lavoro di M. Reil, Zur Akzentuation griechischer Handschriften, in Byzantinische Zeitschrift 19 (1910), pp. 476-529. 76 Al riguardo cf. ad es. I calendari in metro innografico di Cristoforo Mitileneo, I, a cura di E. Follieri, Bruxelles 1980 (Subsidia hagiographica, 63), pp. 48-49. 77 Cf. nell’acrostico ῥῦσαι με, e ai cola [33.] ζῶσαν μου, [87.] ἐνεδρεῦσαι με, [101.] e [106.] ῥῦσαι με, [217.] ὑμνολογοῦντα σε, [221.] περιφρουροῦσα με, [234.] σῶσον με. Questo stesso tipo di accentazione è adottato anche per tutte le fonti innografiche bizantine citate a raffronto nel commento e nell’introduzione. 78 Cf. ad es. colon [180.] γὰρ ἐστὶ. 79 Cf. ad es. C. M. Mazzucchi, Per una punteggiatura non anacronistica, e più efficace, dei testi greci, in Bollettino della Badia greca di Grottaferrata, n.s. 51 (1997) [= Ὀπώρα. Studi in onore di mgr. Paul Canart per il LXX compleanno, I, a cura di S. Lucà – L. Perria], pp. 129-

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Quanto alla scansione metrica e alla colometria, in mancanza di una molto desiderata edizione critica dell’Irmologio — di quel libro, cioè, di musica liturgica bizantina che raccoglie gli «irmi» (εἱρμοί), ovvero i modelli metrico-musicali dei canoni —, ho preferito presentare il testo dell’inno andando a capo alla fine di ciascun colon, anziché cercare di evidenziare, con un’incerta ricostruzione del fraseggio musicale, il raggrupparsi di più cola in versi. Come termine di confronto per la suddivisione del testo poetico in cola ho guardato alla vecchia e purtroppo imperfetta edizione dell’Εἱρμολόγιον curata nel 1932 da Sophronios Eustratiades (= EE), ricollazionandone però il testo degli irmi, grazie alle riproduzioni online disponibili, sia sui due venerandi testimoni dell’Irmologio impiegati dallo studioso, ovvero l’Athous Laur. Β.32 (sec. X, seconda metà) e il Par. Coislin 220 (sec. XI-XII), sia sullo Hierosol. S. Sabae 83 (sec. XII)80. Utile è stata, inoltre, la comparazione metrica con ulteriori canoni editi altrove, soprattutto di Giuseppe, modellati sui medesimi irmi81. La nuova collazione dei testimoni dell’Irmologio e il confronto con altri inni hanno talora fatto emergere la necessità di articolazioni in cola, negli irmi, diverse da quelle, erronee, fornite dall’edizione di Eustratiades: a queste scansioni tacitamente emendate, dunque, mi sono ispirato nella ripartizione in cola delle strofi del nostro canone82. Stando alle indicazioni fornite nell’edizione di Eustratiades, gli irmi impiegati da Giuseppe nel nostro canone apparterrebbero per la maggior parte a due diverse sequenze irmiche di Giovanni Monaco83, tratte da altrettanti suoi canoni anastasi143; J. Noret, Notes de ponctuation et d’accentuation byzantines, in Byzantion 65 (1995), pp. 69-88; A. L. Gaffuri, La teoria grammaticale antica sull’interpunzione dei testi greci e la prassi di alcuni codici medievali, in Aevum 68 (1994), pp. 95-115; e i contributi raccolti in From Manuscripts to Books / Vom Codex zur Edition. Proceedings of the International Workshop on Textual Criticism and Editorial Practice for Byzantine Texts (Vienna, 10-11 December 2009) (...), ed. by A. Giannuli – E. Schiffer, Wien 2011 (Österreichische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse, Denkschriften, 431; Veröffentlichungen zur Byzanzforschung, 29). 80 Su questi testimoni dell’Irmologio rinvio a D. Bucca, Una nuova, e più precoce, testimonianza datata (an. 1021/1022) di notazione musicale paleobizantina nel Mosquens. Synod. gr. 438 (299 Vlad.), in Νέα Ῥώμη 13 (2016) [= Κῆπος ἀειθαλής. Studi in ricordo di Augusta Acconcia Longo, I, a cura di F. D’Aiuto – S. Lucà – A. Luzzi], pp. 79-132: 124, 127-128, 130-131 (con bibliografia). — Per le riproduzioni dei codici atonita e gerosolimitano si veda il sito della Library of Congress di Washington (https://www.loc.gov/collections/), per quella del parigino il sito Gallica della Bibliothèque nationale de France (https://gallica.bnf.fr). 81 Reperiti tramite l’incipitario di Follieri, Initia. 82 Facendo riferimento al solo primo tropario di ciascuna ode, le correzioni colometriche effettuate riguardano i cola [2.-3.] e [6.-7.] (od. i), [29.] (od. iii), [45.-46.] e [50.-51.] (od. iv), [120.-121.] e [126.-127.] (od. vii). 83 Sull’enigmatica figura di Giovanni Monaco, autore dei canoni anastasimi dell’Otto-

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mi (EE, pp. 34-35, nr. 46: odi i, iii-iv, vi-vii, ix, quest’ultima come irmo alternativo; EE, p. 35, nr. 47: ode viii), mentre per la sola ode V l’Innografo avrebbe attinto il suo modello musicale, nel nostro canone per s. Alipio, a una sequenza differente, che vi si dice ricavata da inni di Cosma 84 per il Lunedì- Santo (EE, p. 39, nr. 53). Tuttavia, la consultazione già soltanto di alcuni fra i più antichi codici dell’Irmologio mostra come le attribuzioni di paternità e le ripartizioni degli irmi fra le diverse sequenze irmiche così come riportate nell’edizione di Eustratiades siano da soppesare e verificare con attenzione, giacché non vagliate filologicamente in tale pubblicazione. Nel citato Athous Laur. B.32, ad esempio, alla sequenza irmica nr. 1 (= α΄) del secondo modo autentico (f. 34r-v), attribuita nel codice a Giovanni Monaco, risultano appartenere gli irmi utilizzati come modelli delle odi i, iii-vii, ix del nostro canone di Giuseppe, mentre quello su cui è esemplata l’ode viii (inc. Τὸν ἐν καμίνῳ τοῦ πυρὸς...) sarebbe secondo tale testimone (f. 35v) l’unico riferibile a un’altra sequenza irmica, la nr. 2 (= β΄) del modo secondo, che è riferita nel codice anch’essa, impropriamente, a Giovanni Monaco. A differenza dell’edizione di Eustratiades, quindi, in questo codice anche l’irmo impiegato come modello per l’ode v del nostro canone (inc. Μεσίτης Θεοῦ καὶ ἀνθρώπων...) è giustamente prescritto come parte della medesima sequenza di Giovanni Monaco (la nr. 1 del secondo modo) cui appartiene la maggioranza degli altri irmi di cui Giuseppe si è servito per la sua composizione85. D’altra parte, la sequenza irmica nr. 1 del secondo modo così come attestata nel manoscritto atonita, ivi incluso il citato irmo dell’ode v, trova perfetto e completo riscontro negli irmi del canone anastasimo di Giovanni Monaco inc. Ἐν βυθῷ κατέστρωσε... così come essi si presentano nelle edizioni standard a stampa della Paracletica (ad es. in PaR, pp. 107-114). In maniera apparentemente alterata, invece, nel Par. Coislin 220 (ff. 32r-33r) la sequenza irmica nr. 1 (= α΄) del modo secondo autentico, ivi adespota e definita anastasimos, è costituita dagli stessi irmi impiegati come modelli nel nostro canone per s. Alipio per quanto riguarda le odi i, iii-iv, vi-viii, ivi erroneamente incluso, quindi, l’irmo dell’ode viii (inc. Τὸν ἐν καμίνῳ τοῦ πυρὸς...) che vi è presentato per tale ode come alternativo rispetto a quello originario (inc. Κάμινος ποτὲ πυρὸς ἐν Βαβυλῶνι...). Inoltre, in tale sequenza irmica questo manoscritto sostituisce impropriamente l’irmo ad essa pertinente dell’ode ix inc. Ἀνάρχου Γεννήτορος... su cui è eco, la cui tradizionale identificazione con Giovanni Damasceno fa discutere, cf. almeno Eustathii Thessalonicensis Exegesis in canonem iambicum pentecostalem, rec. (...) P. Cesaretti – S. Ronchey, Berlin – München – Boston 2014 (Supplementa Byzantina, 10), pp. 57* e n. 311, 95* e n. 492 (con bibliografia). 84 Cf. Th. Detorakes, Κοσμᾶς ὁ Μελῳδός. Βίος καὶ ἔργο, Θεσσαλονίκη 1979 (Ἀνάλεκτα Βλα­ τάδων, 28). 85 Del resto, come è stato notato ibid., p. 175 (nr. 72) e n. 27, l’irmo inc. Μεσίτης Θεοῦ καὶ ἀνθρώπων... non compare nei due triodi per il Lunedì/Mercoledì e nel diodio per il Martedì Santo attribuiti a Cosma nelle edizioni standard del libro del Triodio, in nessuno dei quali è presente un’ode v: tre brevi inni idiomeli legati, oltretutto, da un acrostico complessivo (Τῇ δευτέρᾳ / τρίτῃ τε / τετράδι ψαλῶ) che, abbracciando anche gli irmi, ci rassicura su integrità e paternità di tali composizioni, cf. W. Christ – M. Paranikas, Anthologia Graeca carminum Christianorum, Lipsiae 1871, pp. 187-190; TR, pp. 620-622, 632-633, 641-643.

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modellata l’ode corrispondente del nostro canone — e che in tale codice è assente — con l’irmo di incerta paternità inc. Τὸν ἐκ Θεοῦ Θεὸν Λόγον..., che in altri Irmologi manoscritti è offerto come alternativa per l’ode ix in altre sequenze irmiche, talora composite, comprendenti irmi di varia provenienza e paternità (Athous Laur. B.32, f. 35v: sequenza nr. 2 del secondo modo, qui assegnata erroneamente a Giovanni Monaco; Hieros. S. Sab. 83, f. 38r: sequenza nr. 8 del secondo modo, ivi attribuita a Cosma, ma a lui solo parzialmente riferibile, ad es. per l’irmo dell’ode i). Infine, il Par. Coislin 220 (f. 40r) — seguìto in questo, purtroppo, dall’edizione di Eustratiades — attribuisce difettosamente a una sequenza irmica di Cosma per il Lunedì Santo l’irmo impiegato nel nostro canone come modello per l’ode v (inc. Μεσίτης Θεοῦ καὶ ἀνθρώπων...), che è invece, come si è detto, di Giovanni Monaco. A fronte di questo stato confuso della tradizione manoscritta, la presentazione proposta da Eustratiades nella sua edizione ha mescolato e giustapposto i dati discordanti circa la paternità degli irmi e circa la loro distribuzione originaria in sequenze irmiche così come offerti da tali due testimoni manoscritti — gli unici da lui impiegati —, senza sottoporli a un vaglio critico-filologico, e producendo quindi, nel testo stampato, set irmici ibridi in cui si trovano artificialmente riuniti irmi di diverso autore o originariamente pertinenti a canoni differenti. Più in generale, infatti, lo studioso sembra aver proceduto nella sua edizione a una tacita e arbitraria contaminazione fra rami diversi della tradizione manoscritta dell’Irmologio, e dunque non si può neppure dire che il modo in cui le varie sequenze irmiche ibride sono da lui presentate rispecchi almeno una determinata facies dell’evoluzione storica di questo libro innografico-musicale della Chiesa greca. In conclusione, tornando agli irmi che qui ci interessano, sebbene la mancanza di edizioni critiche, basate sui più antichi testimoni, tanto degli antichi canoni da cui le sequenze irmiche sono tratte, quanto del libro dell’Irmologio nel suo complesso, lasci pur sempre qualche margine di incertezza in relazione alla paternità degli irmi stessi e alla loro originaria distribuzione in sequenze, potremo però affermare provvisoriamente, ma con una certa confidenza, che gli irmi impiegati nel canone qui edito sono ricavati quasi tutti (sette su otto, a esclusione di quello dell’ode viii) dal canone anastasimo di Giovanni Monaco inc. Ἐν βυθῷ κατέστρωσε..., la cui originaria sequenza irmica è correttamente rispecchiata nell’Irmologio Athous Laur. B.32, f. 34r-v (nel codice, è la sequenza nr. 1 del modo secondo). La diversa tradizione di canto — in questo caso, alterata — che è attestata nel Par. Coislin 220 ci mostra, però, che fin da età piuttosto antica a tale sequenza veniva evidentemente associato, come modello melodico alternativo per l’ode viii, anche l’irmo inc. Τὸν ἐν καμίνῳ τοῦ πυρὸς..., che resta di incerta paternità, sulla cui melodia Giuseppe ha esemplato l’ode corrispondente del nostro canone per s. Alipio.

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Ἕτερος κανὼν εἰς τὸν ὅσιον πατέρα ἡμῶν Ἀλύπιον τὸν Στυλίτην, φέρων ἀκροστιχίδα τήνδε· Ψυχοφθόρου ῥῦσαι με, παμμάκαρ, λύπης· Ἰωσήφ. Ὠιδὴ α΄, ἦχος β΄· Ἐν βυθῷ κατέστρωσε... (EE, p. 34 nr. 46) 5

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Ψυχοφθόρου λύπης με ταῖς σαῖς ῥῦσαι παρακλήσεσιν, ἐκδυσωπῶν τὸν ἀγαθὸν Θεὸν ἡμῶν πένθος μοι χαρμόσυνον νῦν δωρήσασθαι καὶ τελείαν κατάνυξιν, ὅπως τὴν ἐκεῖθεν εὕροιμι παράκλησιν, Ἀλύπιε. Ὑψωθεὶς ταῖς θείαις ἀρεταῖς στῦλος ἐχρημάτισας ταῖς προσβολαῖς τοῦ δυσμενοῦς ἀκλόνητος, θεόφρον Ἀλύπιε· ἀλλὰ δέομαι, πειρασμοῖς με κυκλούμενον σοῦ ταῖς μεσιτείαις τήρησον, παμμάκαρ, ἀπερίτρεπτον. Χερσωθεῖσαν, πάτερ, τὴν ἐμὴν πάθεσι διάνοιαν ἀρδευτικαῖς εὐχῶν σου ἐπιδόσεσι καρποφόρον ποίησον καὶ μελλούσης με κοινωνὸν τρυφῆς, δέομαι, δεῖξον ἐντρυφῶντα πίστει τοῖς ἐπαίνοις σου, Ἀλύπιε.

Hymnum praebent codices manuscripti Par. gr. 259 ff. 266v-269r (= P) et Vat. gr. 2309 ff. 56r-57v (= V) necnon, ad s. Neophytum Inclusum celebrandum aptatum, opusculum Venetiis a.D. 1778 typis impressum (= Kypr.) pp. 26-33 (ex aliis editionibus post hanc principem praelo commissis, eae tantum, quae apud Acol. pp. 19-25, Ts. pp. 43-48 et MKypr. pp. 149-154 leguntur, obiter in apparatu critico citantur ob correctiones aliquas memoratu digniores). [inscr.] Ἕτερος – τήνδε P: ὁ κανών V ὁ κανὼν τοῦ ὁσίου οὗ ἀκροστιχίς Kypr. | acrostichidem Ψυχοφθόρου – λύπης om. V | Ἰωσήφ om. V Kypr. || odae i inscriptionem necnon hirmum om. Kypr. || [7.] Ἀλύπιε PV: Νεόφυτε Kypr. || [11.] Ἀλύπιε PV: Νεόφυτε Kypr. || [18.] ποίησον PV: τε Kypr. || [19.] μελλούσης P Kypr.: μελού- V || [21.] τοῖς ἐπαίνοις P Kypr.: τοὺς ἐπαίνους V | Ἀλύπιε PV: Νεόφυτε Kypr.

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Altro canone per il santo nostro padre Alipio lo Stilita, che reca quest’acrostico: Liberami, o beatissimo, dall’afflizione che danna l’anima: inno di Giuseppe. Ode i 5

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Dall’afflizione che danna l’anima liberami col conforto delle tue preghiere, implorando il Dio nostro benigno di concedermi ora in dono gioia di lacrime e perfetta compunzione, sì che di là io trovi consolazione, o Alipio. Innalzato dalle sante tue virtù ti sei fatto la fama di colonna incrollabile a fronte degli attacchi del Nemico, o mente santa di Alipio: perciò ti supplico, accerchiato qual sono dalle tentazioni, per le tue preghiere di intercessione preservami dalla caduta, o beatissimo. Lo spirito mio inaridito da ardore di passioni, padre santo, dell’acque copiose delle tue preghiere irriga, e rendilo fecondo: ch’io abbia parte — ti supplico! — del gaudio futuro, ché di cantar le tue lodi con fede, o Alipio, io godo.

[3.] cf. Mc. 10,18; Lc. 18,19

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Ὁ τὸ εἶναι πᾶσι παρασχὼν ἔσχεν ὡς αἰτίαν σε τῆς πρὸς ἡμᾶς, Παρθένε, ὁμοιώσεως· ὃν ἀπαύστως αἴτησαι ἀνομοίοις με περιπίπτοντα πάθεσι νῦν ἐξομοιῶσαι τοῖς μετανοοῦσιν ἀληθέστατα.

(θεοτ.)

Ὠιδὴ γ΄· Ἐξήνθησεν ἡ ἔρημος... (EE, p. 34 nr. 46) 30

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Φυτευθεὶς ὥσπερ δένδρον πετρίνῳ στύλῳ, ἤνεγκας καρποὺς ὡραίους, ὅσιε, ἐναρέτων καὶ θείων πράξεων εὐωδίαν θαυμάτων ἀποπέμποντας. Θανάτωσον τὴν ζῶσαν μου ἁμαρτίαν, δέομαι, σαῖς προσευχαῖς, Ἀλύπιε, ζωηφόροις καὶ τῆς μελλούσης ζωῆς κοινωνόν — δυσωπῶ σε, πάτερ — ποίησον.



Ὁ κόσμον ταῖς φαιδρότησι τῶν θαυμάτων, ὅσιε, κατακοσμήσας, κόσμῳ με ἐναρέτων κόσμησον πράξεων, ἐμπαθοῦς ἀκοσμίας ἐξαιρούμενος.



Ῥυόμενος ἐπέφανε τοῖς ἀνθρώποις, πάναγνε, ἐκ σοῦ Χριστὸς ὁ Κύριος· ὃν δυσώπει πάσης με ῥύσασθαι χαλεπῆς ἁμαρτίας καὶ κολάσεως.

40

(θεοτ.)

[22.] Ὁ P Kypr.: Ἡ propter rubricatoris lapsum V || [25.] αἴτησαι P Kypr.: -σε sic V || [26.] ἀνομοίοις (-μίοις sic V) PV: ἀνομίαις Kypr. ἀνομίας corr. Acol. || [29.] πετρίνῳ στύλῳ PV: κρημνῷ ἀβάτῳ Kypr. || [29.-30.] ἤνεγκας ... ὅσιε PV: ὅσιε ... ἤνεγκας Kypr. || [31.] πράξεων PV: πράξεσιν Kypr. || [32.] εὐωδίαν P Kypr.: εὐοδίαν V | ἀποπέμποντας PV: ἀναπέμ- Kypr. || [34.] σαῖς PV: ταῖς Kypr. | Ἀλύπιε PV: Νεόφυτε Kypr. || [35.] μελλούσης P Kypr.: μελού- V || [41.] Ῥυόμενος P Kypr.: -νον V | ἐπέφανε PV: ἐπεφάνη Kypr. || [43.] ῥύσασθαι Kypr.: -σθε PV

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Colui che ogni creatura chiamò all’essere in te trovò cagion d’essere fatto, o Vergine, a nostra somiglianza: tu senza posa supplicalo per me, prono alle più diverse forme di passioni, sì che or mi renda simile a quanti si convertono in pienezza di verità.

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(alla Vergine)

Ode iii 30

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Piantato come un albero sulla roccia d’una colonna, pur hai prodotto bei frutti, padre santo, d’azioni virtuose e sante, da cui grata fragranza si effonde di miracoli. Mortifica, ti supplico, la mia viva colpa in virtù delle tue vivificanti preghiere d’intercessione, o Alipio, e della vita eterna che sarà — ti supplico, padre! — fa’ ch’io abbia parte.

40

Tu che hai ornato il mondo, santo padre, del fulgore dei tuoi miracoli, adornami dell’ornamento d’azioni virtuose, strappandomi al disadorno squallore delle passioni.



Agli uomini apparve per redimerli, o purissima, da te nascendo il Cristo Signore: supplicalo per me, ch’io sia redento da ogni atroce peccato e castigo.

(alla Vergine)

[29.-30.] cf. Ps. 1,3 || [35.] cf. I Tim. 4,8 || [38.-39.] cf. Is. 61,10; cf. etiam Ier. 4,30; Ezech. 16,11 || [41.] cf. Ps. 117,27

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FRANCESCO D’AIUTO

Ὠιδὴ δ΄· Ἐλήλυθας ἐκ Παρθένου... (EE, p. 34 nr. 46) 45

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Ὁρώμενος ἐκαρτέρεις ἐν κίονι αἴθριος χειρῶν σου ἐπάρσεσιν, πάτερ, ἐπάρσεις τοῦ ὄφεως τρέπων κραταιότατα ἐν ταπεινώσει καρδίας, ἀξιάγαστε. Ὑπήνεγκας βαρυτάτου αὐχμῶνος τὸν καύσωνα· διό με καυσούμενον τῇ ἁμαρτίᾳ, Ἀλύπιε, θείαις ἐπομβρήσεσι τῶν εὐπροσδέκτων εὐχῶν σου, πάτερ, δρόσισον. Ῥαθύμως μου τὴν ζωὴν διανύοντα πρόθυμον εὐχαῖς σου ἀπέργασαι, πάτερ, ἀεὶ διεγείρων με πᾶσαν πρὸς ἐκπλήρωσιν τῶν θεϊκῶν προσταγμάτων· ἱκετεύω σε. Ὑμνήσωμεν τὸν ἀκλόνητον στῦλον Ἀλύπιον καὶ τούτου τῇ λάρνακι ὡς κιβωτῷ ἁγιάσματος πίστει προσπελάσωμεν ἀπαρυόμενοι χάριν τὴν σωτήριον.

[46.] ἐν κίονι αἴθριος PV: ἐν σπέῳ σαθρότατον Kypr. || [47.] σου om. V || [47.-49.] ἐπάρσεσιν – τρέπων PV: ἐπάρσεις τὰς ἐνέδρας τοῦ ὄφεως κατεβάλου Kypr. || [48.] ὄφεως P Kypr.: -εος V || [50.] καρδίας V Kypr.: κραδ- P || [53.] αὐχμῶνος τὸν καύσωνα PV: τε λίθου τὸν ὄλεθρον Kypr. || [55.] Ἀλύπιε PV: Νεόφυτε Kypr. || [58.] δρόσισον PV: ὅσιε Kypr. || [61.] σου V Kypr.: σοῦ P | ἀπέργασαι PV: -σον Kypr. || [66.-72.] Ὑμνήσωμεν – τὴν σωτήριον om. V Kypr. || [69.] κιβωτῷ ego: -τὸν P

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Ode iv 45

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Sotto gli occhi di tutti, allo scoperto, sulla colonna tu perseveravi nel levare le braccia al cielo, padre, e il Serpente levatosi a colpirti in fuga tu l’hai vòlto a viva forza con umiltà di cuore, o mirabile santo. Hai sopportato la vampa di terribile arsura: or a me che son arso dal peccato, Alipio, per le gran piogge sante delle preghiere tue gradite al cielo, concedi, o padre, il refrigerio! Nell’accidia trascorro la vita mia. Tu rendimi zelante, padre, in virtù delle tue preghiere, sempre in me risvegliando la volontà di adempier fino in fondo ai comandamenti divini: te ne supplico.



Cantiamo inni ad Alipio, colonna incrollabile, e alla sua urna come ad arca di santificazione 70 accostiamoci con fede attingendone la grazia salvifica.

[47.] cf. Ps. 140,2 || [69.] cf. Ps. 131,8

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FRANCESCO D’AIUTO

Συνώθησε πρὸς παντοίαν ἐχθρός με παράβασιν· βοήθει μοι, Δέσποινα, καὶ τῆς αὐτοῦ με κακώσεως λύτρωσαι, πρὸς τρίβους με δικαιοσύνης ἐνθέως ἐμβιβάζουσα.

(θεοτ.)

Ὠιδὴ ε΄· Μεσίτης Θεοῦ καὶ ἀνθρώπων... (EE, p. 39 nr. 53) 80

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Ἁγίου ναός, θεοφόρε, Πνεύματος γενόμενος, λῃστῶν χρηματίσαντα σπήλαιον δολίαις παραβάσεσι τῆς ἁγίας με οἶκον Τριάδος, πάτερ, ποίησον. Ἱστᾷ κατ’ ἐμοῦ ὁ ἐχθρὸς παγίδας ἐνεδρεῦσαι με δολίως βουλόμενος· τούτου με τῆς βλάβης σῶον τήρησον ἱκεσίαις σου, μάκαρ, ταῖς πρὸς τὸν κτίστην, ὅσιε. Μυρίζει τὰ σά, θεοφόρε, λείψανα· ὀσμὴ γὰρ ζωῆς πιστοῖς ἐχρημάτισας. Ὅθεν — δυσωπῶ σε — τῆς καρδίας μου τὰ δυσώδη τελείως, παμμάκαρ, πάθη μείωσον. Ἐν ὥρᾳ φρικτῇ ὁπηνίκα μέλλω φόβῳ κρίνεσθαι ὁ μόνος κατάκριτος,

(θεοτ.)

[77.] λύτρωσαι PV: -σε Kypr. || [79.] ἐμβιβάζουσα PV: -άζοντα Kypr. || [87.] ἐνεδρεῦσαι Kypr.: -εύσαι PV || [88.] δολίως V Kypr.: -λίоς sic P || [89.] τήρησον PV: συντήρησον Kypr. || [97.] μείω­ σον P Kypr.: κοίμη(σον) pro κοίμισον V || [99.] φόβῳ om. P

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UN CANONE DI GIUSEPPE L’INNOGRAFO PER S. ALIPIO STILITA

Mi ha traviato il Nemico, spingendomi a trasgressioni d’ogni genere: tu soccorrimi, Signora, e liberami dalla sua maligna oppressione, alla vòlta di sentieri di giustizia santamente guidando il mio cammino.

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(alla Vergine)

Ode v 80

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Dello Spirito Santo ti sei fatto tempio, o sant’uomo in cui dimora Dio. Me, invece, fallaci trasgressioni han mutato in un covo di briganti. Ma tu, padre, fa’ ch’io divenga dimora della Santa Trinità! Trappole contro di me nasconde il Nemico, ch’è bramoso di prendermi con l’inganno: ma al sicuro dalla sua minaccia, o beato, tu conservami per le preghiere che per me volgi al Creatore, padre santo. Soave fragranza spirano, uomo di Dio, le spoglie tue, ché tu sei detto e sei profumo di Vita per i fedeli. Per questo — ti supplico — guariscimi appieno dalle fetide affezioni che mi piagano il cuore, o beatissimo. Nell’ora terribile in cui m’appresterò tremebondo al giudizio io che quant’altri mai merito la condanna,

(alla Vergine)

[80.-81.] I Cor. 6,19 || [82.-83.] Mt. 21,13; Mc. 11,17; Lc. 19,46; cf. etiam Ier. 7,11 || [86.87.] cf. Sir. (Eccli.) 27,26; I Mach. 5,4 || [93.] II Cor. 2,16 || [98.-99.] cf. Apoc. 14,7; cf. etiam Act. 17,31

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FRANCESCO D’AIUTO

πρόστηθι καὶ ῥῦσαι με κολάσεως τὸν πολλά, Θεοτόκε, ἀφρόνως πλημμελήσαντα. Ὠιδὴ ϛ ΄· Ἐν ἀβύσσῳ πταισμάτων... (EE, p. 34 nr. 46)

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Παντουργοῦ σθένει Πνεύματος, ὅσιε, τὰ τῆς πονηρίας ὑπέταξας πνεύματα· ὧν τῆς κακίας ῥῦσαι με τὸν προστάτην σε μέγαν πλουτήσαντα.

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Ἀκλονήτως ἐν στύλῳ ἱστάμενος ἅπαν τῶν δαιμόνων τὸ στῖφος ἐκλόνησας· ὑφ’ ὧν με νῦν κλονούμενον ἀπερίτρεπτον, πάτερ, συντήρησον.

115

Μυριάδας δαιμόνων ἐρράπισας σοῦ τῇ δεξιᾷ, ἣν πιστῶς ἀσπαζόμενοι χειρὶ Θεοῦ σκεπόμεθα τοῦ ἐν σοὶ κατοικήσαντος, ὅσιε.



Μητρικῇ παρρησίᾳ σου, πάναγνε, πρέσβευε σωθῆναι με τὸν ἀπολλύμενον ταῖς ἀθεμίτοις πράξεσι καὶ ἀφρόνως Θεοῦ μακρυνόμενον.

(θεοτ.)

Ὠιδὴ ζ΄· Ἀντίθεον πρόσταγμα... (EE, p. 34 nr. 46) 120



Ἁγίως τὸν βίον σου διατελέσας

[103.] πλημμελήσαντα P Kypr.: -λήσαν sic (an pro -λῆσαν?) V || [106.] ῥῦσαι V Kypr.: ῥυσαί P || [107.] πλουτήσαντα V Kypr.: -τίσαντα P || [108.] Ἀκλονήτως PV: Ἀκλόνητος Kypr. | ἐν στύλῳ ἱστάμενος PV: ἱστάμενος ὅσιε Kypr. || [109.] τῶν P Kypr.: τὸ V | στῖφος scripsi: στίφος PV Kypr. || [111.] ἀπερίτρεπτον V Kypr.: -ίτρεπτων sic (an pro ἀπεριτρέπτων?) P | συντήρησον P Kypr.: ἀπέργασαι V || [112.] Μυριάδας δαιμόνων ἐρράπισας PV: Κορυβάντων πληθὺν ἀπερράπισας Kypr. || [113.] σοῦ om. Kypr. || [113.-114.] ἀσπαζόμενοι ... σκεπόμεθα P Kypr.: ἀσπαζόμεθα ... σκεπόμενοι V || [114.-115.] Θεοῦ ... ὅσιε PV: καὶ νῦν ... Πνεύματος Kypr. || [116.] σου P Kypr.: σοῦ V || [117.] ἀπολλύμενον PVpc Kypr.: ἀπολύ- sic Vac || [118.] ταῖς Kypr.: τοῖς PV

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UN CANONE DI GIUSEPPE L’INNOGRAFO PER S. ALIPIO STILITA





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allora tu difendimi, Madre di Dio, e liberami dal castigo dei molti peccati che da insensato ho commesso. Ode vi

105

110



Per la potenza dello Spirito che tutto opera, padre santo, hai sottomettesso gli spiriti maligni: dal loro malvagio potere liberami, ché in te mi glorio d’un forte patrono. Ritto sulla colonna, sei rimasto inconcusso e tutt’intera hai squassato la schiera dei dèmoni: or ch’essi scuotono e fan vacillare me, tu, padre, preservami saldo dal cadere.

115

A miriadi di dèmoni hai inflitto lo schiaffo della tua destra, e or stringendola devoti noi siamo protetti dalla mano di Dio che in te prese dimora, padre santo.



Con parole di Madre ascoltata, o purissima, intercedi per la mia salvezza: ché mi sono perduto per le mie azioni nefande, e da Dio insensatamente mi sono allontanato.

(alla Vergine)

Ode vii 120 Trascorsa la vita santamente,

[105.] cf. Lc. 10,20; Eph. 6,12 || [115.] cf. I Cor. 3,16-17

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FRANCESCO D’AIUTO

ἁγίων λαμπρότησιν, παμμάκαρ, κατεσκήνωσας· διὸ καθαγίασον τὴν ταπεινήν μου ψυχὴν πάθεσιν ὑπάρχουσαν πολλοῖς ἐναγεστάτην καὶ κινδυνεύουσαν.

Κρυμὸν ἐκαρτέρησας ὕπερθεν στύλου ἐν ἔτεσι πλείοσιν ἱστάμενος, Ἀλύπιε· διό «Με πηγνύμενον ταῖς παραβάσεσι 135 θέρμῃ τῇ πρεσβείας σου» βοῶ, «παμμάκαρ, θάλψον καὶ περιποίησον».

130

140 145

Αἱ σαὶ πρὸς τὸν Κύριον θεῖαι πορεῖαι ἐν Πνεύματι, ὅσιε, ἀεὶ κατευθυνόμεναι ὁδὸς ἐχρημάτισαν πρὸς σωτηρίαν πολλοῖς ἐναπομειώσασαι ἐχθρῶν τὰς ψυχοφθόρους πορείας χάριτι.

150

Ῥομφαίᾳ με, πάναγνε, τῆς ἁμαρτίας πληγέντα ἰάτρευσον τῇ λόγχῃ καὶ τῷ αἵματι Χριστοῦ τοῦ σκηνώσαντος

(θεοτ.)

[127.] ἐναγεστάτην PV: -στάτοις Kypr. || [129.] Κρυμὸν P: Δρυμὸν propter rubricatoris lapsum V Κρημνῷ Kypr. || [130.] ὕπερθεν στύλου P: ὕπερθεν στύλος sic V ἔνδοθεν ἄντρου Kypr. || [132.] ἱστάμενος Ἀλύπιε PV: εὐχόμενος Νεόφυτε Kypr. || [135.] θέρμῃ (-μη P) P Kypr.: θερμῇ V | τῇ πρεσβείας P: τῇ πρεσβείᾳ V ταῖς πρεσβείαις Kypr. τῆς πρεσβείας corr. MKypr. || [136.] βοῶ V: βοῶν P βολῶν Kypr. | θάλψον V Kypr.: -ψων P || [138.-146.] Αἱ σαὶ – χάριτι om. V || [145.] τὰς ψυχοφθόρους Ppc: τὰς ψυχοφθόρος sic Pac τῆς ψυχοφθόρου Kypr.

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125

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UN CANONE DI GIUSEPPE L’INNOGRAFO PER S. ALIPIO STILITA

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hai preso dimora, beatissimo, nelle fulgide sedi dei santi: santifica, dunque, la mia misera anima che, preda di tante passioni, è consacrata al vizio e si trova in pericolo. Hai sopportato il gelo in cima a una colonna per lunghi anni restando in piedi, Alipio: perciò «Me che son stretto nella morsa gelida delle mie trasgressioni con il fervore delle tue preghiere d’intercessione» a gran voce ti supplico «tu riscalda, beatissimo, e conforta!». Le sante tue vie sempre dirette al Signore in virtù dello Spirito, o padre santo, son state e sono un cammino di salvezza per molti, ché dei nemici immateriali sbarrano, per opera della grazia, le strade che a perdizione conducono l’anima. M’ha ferito, purissima Vergine, la spada del peccato: le mie piaghe tu cura con la lancia e col sangue di Cristo, che prese dimora

(alla Vergine)

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FRANCESCO D’AIUTO

ἐν ταῖς λαγόσι σου καὶ τὴν ἀπολύτρωσιν βροτῶν ἐργασαμένου δι’ ἀγαθότητα. Ὠιδὴ η΄· Τὸν ἐν καμίνῳ τοῦ πυρὸς... (EE, p. 35 nr. 47)

Λῦσον δεσμῶν με πονηρῶν, ὁ δεσμεύσας τὸν ἐχθρὸν δεσμοῖς ἀλύτοις τῶν μεγίστων σου πόνων καὶ βηματίζειν ὀρθῶς 160 ταῖς τρίβοις, πάτερ, κατευόδωσον τοῦ ἐπιφανέντος εἰς πάντων σωτηρίαν.

165

Ὕψωσόν σου τὴν δεξιὰν πρὸς Πατρὸς τὴν δεξιὰν καὶ δίδου χεῖρα βοηθείας κειμένοις βόθρῳ παντοίων κακῶν, θεράπον Κυρίου Ἀλύπιε, τοῖς πρὸς σὲ καρδίας ἐκτείνουσι καὶ χεῖρας.

170

Πόνους παντοίους ἐνεγκὼν πρὸς τὴν ἄπονον ζωὴν μετῆλθες χαίρων· ψυχικῶν οὖν με πόνων καὶ ὀδυνῶν τῆς σαρκὸς καὶ πάσης βλάβης ἀπολύτρωσαι, μέγιστε προστάτα τῶν καταπονουμένων.

175

[162.] εἰς πάντων σωτηρίαν P Kypr.: εἰς π(άν)τ( V || [164.] πρὸς Πατρὸς τὴν δεξιὰν om. Kypr. || [165.] κειμένοις P: -μένης V -μένους Kypr. || [167.] θεράπον P: -άπων V Kypr. | Κυρίου Ἀλύπιε PV: νῦν Νεόφυτε Kypr. || [168.] τοῖς PV: τῆς Kypr. | σὲ V Kypr.: σε P || [169.] χεῖρας PV: χεῖρα Kypr. || [170.-176.] Πόνους – καταπονουμένων om. Kypr. || [175.] μέγιστε V: -σται P | προστάτα PpcV: -στάται ut vid. Pac

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UN CANONE DI GIUSEPPE L’INNOGRAFO PER S. ALIPIO STILITA

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nei tuoi lombi e operò la redenzione dei mortali per la Sua bontà. Ode viii

160

165

170

175



Liberami dalle catene del Maligno, tu che hai avvinto il Nemico con le catene indissolubili degli agóni straordinari che hai durato, e ponimi sulla retta via, padre, sì ch’io retto proceda per le vie di Colui che si manifestò per la salvezza di tutti. Leva la destra tua a stringere la destra del Padre, e offri una mano soccorrevole a quanti son caduti in un pozzo di mali d’ogni genere, Alipio, servitore del Signore, ché a te levano i cuori e protendon le mani. Durato ogni genere di affanno, lieto sei giunto alla vita celeste senza affanni: da affanni dell’anima e dolori del corpo or dunque liberami, e da ogni sciagura, o grandissimo patrono di quanti sono affannati.

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FRANCESCO D’AIUTO

180

Ἡ ὑπερούσιος Μονὰς χαρακτῆρσιν ἐν τρισὶ διαιρουμένη ἀδιαίρετος μένει· Πατήρ, Υἱὸς γὰρ ἐστὶ καὶ Πνεῦμα ἅγιον τὸ σύνθρονον, μία βασιλεία καὶ φύσις καὶ οὐσία.

185 190

Σοῦ τὴν νηδὺν καθυποδὺς ὁ καθήμενος, ἁγνή, κόλποις πατρῴοις καὶ κρατῶν πᾶσαν κτίσιν χερσὶ κρατεῖται ταῖς σαῖς, ἐξαίρων χειρὸς τὸ ἀνθρώπινον τοῦ ἀνθρωποκτόνου καὶ πονηροῦ Βελίαρ.

(θεοτ.)

Ὠιδὴ θ΄· Ἀνάρχου Γεννήτορος... (EE, p. 35 nr. 46) 195

Ἰδεῖν κατηξίωσαι, ἀπολυθεὶς τοῦ σώματος, ὀφθαλμὸς ἃ οὐκ εἶδε καὶ οὖς οὐκ ἤκουσεν· τούτῳ γὰρ τῷ ἔρωτι, πάτερ, περισχεθεὶς χαίρων τοὺς μεγίστους πόνους ἐκαρτέρησας πλείστοις ἔτεσιν, Ἀλύπιε.

[177.-183.] Ἡ ὑπερούσιος – καὶ οὐσία om. V || [180.] Υἱὸς γὰρ ἐστὶ P: γὰρ Υἱὸς ἐστὶ Kypr. || [181.] ἅγιον τὸ P Kypr.: τὸ ἅγιον perperam corr. MKypr. || [184.] Σοῦ P Kypr.: Σὺ V || [187.] κρα­ τεῖται P Kypr.: -εῖτε V || [188.] ἀνθρώπινον V Kypr.: -ώπειον P || [192.] ἀπολυθεὶς P Kypr.: -θῆς (an pro -θῇς?) V || [193.] εἶδε V Kypr.: ἴδε P || [194.] καὶ οὖς V: καὶ οὗς sic Ppc καὶ οὓς Pac οὖς τε Kypr. || [195.] τούτῳ P: τούτο sic V τούτου Kypr. τούτων fortasse recte corr. Ts. | ἔρωτι P Kypr.: ἔρω V || [196.] περισχεθεὶς P Kypr.: -θῆς sic V || [199]. Ἀλύπιε PV: Νεόφυτε Kypr.

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UN CANONE DI GIUSEPPE L’INNOGRAFO PER S. ALIPIO STILITA



180

185

190

157

L’Uno che l’essenza trascende pur distinto in tre Persone indivisibile resta, ché è Padre e Figlio ed è Spirito Santo pari in gloria: un solo regno, una sola natura ed essenza. Nel tuo grembo, Vergine, prese ascosa dimora Colui che pur siede sempre in grembo al Padre, e che, stringendo in pugno tutto il creato, ora però si lascia stringere fra le tue braccia pur di strappare l’umanità alla stretta della mano dell’omicida e maligno Beliar.

(alla Vergine)

Ode ix 195



Sciolto dai vincoli del corpo, sei stato ammesso a contemplare quel che occhio non vide e orecchio non udì, ché da tal amore avvinto, padre, lieto durasti i più severi agóni per anni e anni, Alipio.

[189.] Io. 8,44 || [193.-194.] I Cor. 2,9

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200

205

FRANCESCO D’AIUTO

Ὡράθης ἐν ἔτεσιν ἑπτά τε καὶ ἑξήκοντα ἐπὶ κίονος στάσιν ξένην ποιούμενος· ὅθεν ἱκετεύω σε, πάτερ, τὰ πονηρὰ καὶ χρόνια πάθη ψυχῆς μου ἐξάλειψον ἐπιμόνοις ἱκεσίαις σου.

Στενὴν τεθλιμμένην τε ὁδεύσας τρίβον, ὅσιε, παραδείσου πρὸς πλάτος χαίρων κατήντησας· «Τῆς στενοχωρούσης με λύπης» ὅθεν βοῶ 215 «λύτρωσαι, παμμάκαρ, πλατύνων ἐν θλίψει με τὸν πιστῶς ὑμνολογοῦντα σε.

210

220 225

Ἡ χείρ σου γενέσθω μοι χειραγωγία, ὅσιε, ἐν νυκτὶ καὶ ἡμέρᾳ περιφρουροῦσα με πάσης ἐξ ἀδίκου παλάμης ὅπως ἐχθροῖς ἀχείρωτος μένων ὡς μέγαν προστάτην μου μακαρίζω σε, Ἀλύπιε.

[200.-208.] Ὡράθης – ἱκεσίαις σου post colon [217.] ὑμνολογοῦντα σε transp. V || [201.-203.] ἑπτά τε – ποιούμενος PV: ἐν ἄντρῳ διαιτώμενος ἔνθα πάθη καθεῖλες σάρκα ἐνέκρωσας Kypr. || [201.] ἑπτά τε V: ἑπτὰ τὲ P || [208.] ἐπιμόνοις ἱκεσίαις PV: ταῖς πρὸς Κύριον πρεσβείαις Kypr. || [213.] με om. V || [215.] λύτρωσαι PV: -σον Kypr. || [216.] πλατύνων P: -τύνον sic V πλάτυνον Kypr. || [217.] τὸν ... ὑμνολογοῦντα σε P: τῶν ... ὑμνολογούντων σε V τὸν ... σε λιτανεύοντα Kypr. || [218.-226.] Ἡ χείρ σου – Ἀλύπιε om. V Kypr. || [225.] μέγαν corr. MKypr.: μέγα P

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200 Sotto gli occhi di tutti per sessantasette anni sulla colonna sei rimasto in piedi prodigiosamente: perciò, padre, ti supplico, 205 purifica le triste affezioni ormai croniche dell’anima mia per le costanti preghiere tue d’intercessione.

210

215

220

225



Stretto e pieno d’affanno il cammino che hai percorso, padre santo, ma infine nella gioia ora sei giunto alla larga distesa del Paradiso: «Dal dolore che il petto mi stringe» grido perciò «liberami, beatissimo, e nei miei affanni allargami il cuore, ché con fede in tuo onore canto inni». La mano tua, padre santo, mi prenda per mano guidandomi notte e giorno, e mi protegga da ogni mano d’iniquo, ch’io non finisca per cadere in pugno ai nemici, e a te possa cantar lodi qual mio grande patrono, Alipio.

[209.-210.] Mt. 7,14 || [216.] cf. Ps. 4,2

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160

230 235

FRANCESCO D’AIUTO

Φιλάγαθε Δέσποινα, κεκακωμένην πάθεσι τὴν ἀθλίαν ψυχήν μου ὅλην ἀγάθυνον, ἡ τὸν ἀγαθὸν τετοκυῖα καὶ θελητὴν ὄντα τοῦ ἐλέους, καὶ σῶσον με, δέομαι, ἐκτενῶς σε μεγαλύνοντα.

(θεοτ.)

[228.] κεκακωμένην PpcV Kypr.: κεκαμωμένην Pac || [229.] ψυχήν μου P Kypr.: μου ψυχήν contra metrum V || [235.] σε P: σὲ V Kypr.

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UN CANONE DI GIUSEPPE L’INNOGRAFO PER S. ALIPIO STILITA



230

235

Benigna mia Signora, dal male delle passioni è straziata la sventurata anima mia: ricolmala tutta di bene, tu che hai generato il Dio buono che vuole la misericordia, e — ti supplico — salva me che senza posa ti magnifico.

161

(alla Vergine)

[232.-233.] Mich. 7,18

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FRANCESCO D’AIUTO

COMMENTO AL TESTO DEL CANONE* [1.-2.] Ψυχοφθόρου λύπης με... ῥύσαι: cf. Ioseph Hymn., can. ii in s. Thomam (acr. Δέχου δέησιν δευτέραν, Χριστοῦ φίλε· Ἰωσήφ, inc. Δόξης τε και χαρᾶς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 114 nr. 38), cola 117-122: Χαῖρε, (...) | κεχαριτωμένη θεόνυμφε, | τῇ ἐν σοὶ μεσιτείᾳ | ψυχοφθόρου λύπης | καὶ ἁμαρτιῶν ἡμᾶς λύτρωσαι (ed. Toma, Joseph, p. 18); id., can. vi in s. Io. Chrys. (acr. Ἕκτη δέησις τῷ Χρυσοστόμῳ πρέπει· Ἰωσήφ, inc. Ἐκ τῶν ἀναγκῶν με τοῦ βίου..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 126 nr. 94), cola 157-158: ...καὶ ψυχοφθόρου λύπης με | ἐλευθέρωσον... (AHG, V, p. 467). [1.-5.] λύπης... πένθος... κατάνυξιν: è solo un primo esempio del frequente ricorso, caro a Giuseppe, alla variatio mediante coppie o gruppi sinonimici entro uno stesso tropario, cf. ad es. cola [105.-106.], [113.-114.], [139.-146.] (con poliptoto), [163.-169.] (con poliptoto), [170.-174.] (con poliptoto), [184.-185.], [213./216.], [218.-222.]. In particolare, i tre sostantivi (quasi) sinonimi sono qui usati in contrapposizione, secondo accezioni che sono proprie del linguaggio ascetico e penitenziale già in età protobizantina: il primo indica l’umana dolorosa afflizione che conduce alla disperazione e alla condizione di «morte spirituale» dell’anima (cf. Lampe, s.v. λύπη, 1.a); il secondo rappresenta il benefico cordoglio che accompagna il pentimento ed è perciò fonte di gioia eterna (cf. Io. Clim., Scala Paradisi [CPG 7852], § 7 [«Περὶ τοῦ χαροποιοῦ πένθους»], in PG 88, coll. 801-817; Hausherr, Penthos; cf. anche J. Chryssavgis, Una spiritualità dell’imperfezione. La via delle lacrime in Giovanni Climaco, in Giovanni Climaco e il Sinai. Atti del IX Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, sezione bizantina, Bose, 16-18 settembre 2001, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi [...], Magnano 2002, pp. 171193: 186-189); il terzo vocabolo esprime infine la compunzione che è all’origine del pentimento e delle lacrime (cf. Lampe, s.v. κατάνυξις; Hausherr, Penthos, pp. 1417; J. Chrysavgis, Kατάνυξις: Compunction as the context for the theology of tears in St. John Climacus, in Κληρονομία 17 [1985], nr. 1, pp. 131-136; A. Giannouli, Catanyctic religious poetry: A survey, in Theologica minora. The Minor Genres of Byzantine Theological Literature, ed. by A. Rigo in collaboration with P. Ermilov & M. Trizio, Turnhout 2013 [Βυζάντιος. Studies in Byzantine History and Civilization, 8], pp. 86-109). Nel nostro canone, in particolare, il patrono celeste è richiesto di liberare l’innografo — e con lui ogni fedele — dalla mortifera λύπη, realizzando in ciò l’omen contenuto nell’idionimo Ἀλύπιος, con un gioco etimologico sul nome del santo che è tipico della letteratura sacra bizantina, cf. ad es. I calendari in metro innografico di Cristoforo Mitileneo, I, a cura di E. Follieri, Bruxelles 1980 (Subsidia hagiographica, 63), pp. 91-96; H. Hunger, Byzantinische Namensdeutungen in iambischen Synaxarversen, in Βυζαντινά 13/1 (1985), pp. 1-26. In particolare, fra le altre fonti su s. Alipio, insiste nel calembour sul nome del santo l’esordio della Laudatio BHG 66 dedicata allo stilita da Neofito il Recluso: Ἀλύπιον τὸν πάνυ, τὸν τῆς ἀλήκτου καὶ τῆς ἀλύπου ζωῆς ἀτεχνῶς κληρονόμον, τὸν φερώνυμον τῆς ἀλύπου ἀγωγῆς ἐραστὴν καὶ ἐργάτην, (...) τὸν ἐκ πρώτης βαλβίδος ἑλόμενον συλλέγειν ἀλύπου ζωῆς δράγματα ζωηφόρα, τὸν πᾶσαν λύπην, ὀδύνην καὶ στεναγμὸν βιωτικῶν μελημάτων * Per i contenuti e le finalità di questo commento, cf. supra, p. 137 n. 74.

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ἀποσεισάμενον καὶ τὴν κατὰ Θεὸν λύπην ἑλόμενον ἵνα δρέψηται τὴν ἄλυπον χώραν καὶ τῆς τρυφῆς τὸ χωρίον... (Delehaye, Stylites, p. 188 linn. 6-13 [§ 1]; cf. ΑΝΕΣ, p. 593 [§ 1, linn. 1-8 = ed. a stampa, III, p. 428]). [4.] πένθος... χαρμόσυνον: la richiesta, a Dio o al santo invocato, del dono del pentimento, fonte di gioia, è topica nel repertorio innografico, cf. ad es. anon., sticherum theotocium inc. Μεταβολήν μοι τοῦ βίου, Παρθένε, δώρησαι (...), πένθος χαρμόσυνον βρύειν μου τὴν ψυχὴv ἀεννάως μοι παρέχουσα (MR, I, pp. 404-405 e 569); Ioseph (utrum Hymn. an Stud.?), triod. in feriam iv hebd. iv Quadragesimae (inc. Ἁγιασμοῦ παρεκτικὴν χάριν δωρούμενος ἡμῖν...), od. ix theot., inc. Χαρὰν συλλαβοῦσα | τοῦ ἀρχαγγέλου τῇ φωνῇ, | τῆς ἐμῆς νῦν καρδίας | τὴν λύπην ἀφάνισον | τὴν ψυχοφθό­ ρον, καὶ δίδου, ἁγνή, | χαροποιὸν | πένθος, ὅπως εὕρω | ἐκεῖ τὴν θείαν παράκλησιν (TR, p. 400; per l’attribuzione a Giuseppe cf. ad es. Vat. gr. 771 (sec. XI), f. 95r, o Sin. gr. 736 (an. 1028), f. 137v [testimoni segnalatimi da Mariafrancesca Sgandurra]). [5.] δωρήσασθαι... τελείαν κατάνυξιν: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Marcum evang. (acr. Ὦ Μᾶρκε, τήνδε τὴν δέησίν μου δέχου· Ἰωσήφ, inc. Ὡς ἥλιος μέγας ἀνατολαῖς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 161 nr. 263), cola 143-144: ...μετάνοιάν μοι δίδου | κατανύξει τελείᾳ... (AHG, VIII, p. 309). [6.] ἐκεῖθεν: intraducibile la polisemia dell’avverbio, che vale qui al contempo «da ciò» (= «come conseguenza del pentimento») e «lassù» (= «in Paradiso», giacché nel greco post-classico ἐκεῖθεν può equivalere a ἐκεῖ con valore di stato in luogo), con una preziosa compresenza di significati: la consolazione (παράκλησις) che, nel cuore del fedele, nasce dal pentimento è il preludio della celeste παράκλησις che l’uomo, redento, troverà in cielo. [8.] Ὑψωθεὶς ταῖς θείαις ἀρεταῖς: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Cononem mart. Isaur. (acr. Ὑμνῶ Κόνωνα μάρτυρα στεφηφόρον· Ἰωσήφ, inc. Ὑμνολογίαις σε θείαις τὸν τοῦ Χριστοῦ..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 148 nr. 198), cola 134-136: ...ὤλε­ σας | τὰς ἐπάρσεις πάσας τοῦ ἐχθροῦ, | ὑψούμενος θείαις ἀρεταῖς... (AHG, VII, p. 76). [9.] στῦλος ἐχρημάτισας: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Ignatium archiep. Constantinop. (acr. Τὸν κλεινὸν Ἰγνάτιον ὑμνῶ προφρόνως· Ἰωσήφ, inc. Ταῖς ὑπερ­ κοσμίοις ἀστραπαῖς καταλαμφθείς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 119 nr. 60), cola 161162: Ὁλολαμπὴς | στῦλος ἐχρημάτισας... (AHG, II, p. 280). [10.] ταῖς προσβολαῖς τοῦ δυσμενοῦς ἀκλόνητος: si veda in primo luogo Ioseph Hymn., can. i in s. Alypium Stylitam (acr. Χαίρων ἐπαινῶ τοὺς Ἀλυπίου πόνους· Ἰωσήϕ, inc. Χάριτος πεπλησμένος..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 129 nr. 109), od. iv trop. 2: Ἱστάμενος ἐν στύλῳ ἀκλόνητος | ταῖς ἐναντίαις προσβολαῖς, | δαιμόνων στῖφος ἐκλόνησας, | καὶ κλονουμένοις ἐγένου, | παμμάκαρ, ἀδιάσειστον ἔρεισμα (MR, II, p. 290291); id., can. i in s. Stephanum (acr. Δέχου ὕμνον, παμμάκαρ Στέφανε, τοῦ Ἰωσήφ, inc. Δεσμεύσας τοῖς ἄθλοις σου τὸν ἐν κακίᾳ..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 136 nr. 140), cola 179-183: Ὑπῆρξας ἀκλόνητος | καιρῷ τῶν πειρασμῶν· | διό με κλονούμενον | ἐχθροῦ ταῖς προσβολαῖς | ἀκλόνητον δεῖξον... (Toma, Joseph, p. 193). [12.] πειρασμοῖς με κυκλούμενον: oltre all’ultimo passo richiamato nella nota precedente, cf. ad es. Ioseph Hymn., can. paracl. vii in s. Nicolaum (acr. Δέχου δέ­ ησιν ἑβδόμην, Νικόλαε· τοῦ Ἰωσήφ, inc. Δεδοξασμένην ἐπὶ γῆς μετελθὼν πολιτείαν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 197 nr. 439), od. i trop. 2: Ἐν τῷ πελάγει τοῦ φθαρτοῦ |

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διαπλέοντες βίου, | πειρασμῶν κύμασι, | παμμάκαρ, κυκλούμεθα· | ἐξ ὧν ἡμᾶς διάσωσον (PaR, p. 585). [14.] τήρησον... ἀπερίτρεπτον: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. paracl. i in s. Io. Bapt. (acr. Φωνῆς ἄκουσον τῶν βοώντων σοι, μάκαρ· Ἰωσήφ, inc. Φωνὴ ἐχρημάτισας τοῦ Λόγου, μάκαρ..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 187 nr. 388), od. v trop. 2: Ὡς στῦλος ἀπερίτρεπτος | (...) | (...), Πρόδρομε, | τὸν λογισμόν μου σαλευόμενον | ταῖς μηχαναῖς τοῦ πλάνου | ἀπερίτρεπτον δεῖξον (PaR, p. 42). [15.-18.] Χερσωθεῖσαν... τὴν ἐμὴν... διάνοιαν ἀρδευτικαῖς εὐχῶν σου ἐπιδόσεσι καρ­ ποφόρον ποίησον: cf. ad es. ps.-Rom. Melod., cant. 74 in ss. Acepsimam, Ioseph et Aeithalam (acr. Τοῦ τάλα Ῥωμανοῦ), str. 1 inc. Τὴν χερσωθεῖσαν καρδίαν μου | πολλοῖς πταίσμασιν, | Ἰησοῦ παντοδύναμε, | ὄμβροις τῆς σῆς ἀγαθότητος | καρποφόρον δεῖξον | ἀρεταῖς... (Sancti Romani Melodi Cantica, [II]: Cantica dubia, ed. by † P. Maas – C. A. Trypanis, Berlin 1970, p. 103); anon., can. in B. Mariam Virg. (acr. alfabetico inverso, inc. Ὡς ὡραίαν, ὡς περικαλλῆ, ὅλην ὡς ἀμώμητον...), od. i trop. 2: Χερσωθεῖσαν φύσιν τῶν βροτῶν | πᾶσιν ἀτοπήμασιν, | τὸν ὑετὸν | τεκοῦσα τὸν οὐράνιον | ὅλην ἀνεκαίνισας· | ἀλλὰ δέομαι, τῆς ψυχῆς μου τὴν αὔλακα | ἀποχερσωθεῖσαν | δεῖ­ ξον καρποφόρον, θεονύμφευτε (PaR, pp. 142-143; ETh, p. 200; cf. anche MR, I, p. 264; VI, p. 241); anon., can. in s. Lampadum, od. i trop. 1, inc. Ἀρδευτικαῖς | τῶν προσευχῶν ἐπιδόσεσι | τὴν ψυχικὴν λαμπάδα μου, | πάτερ, κατάρδευσον, | Λαμπαδὲ θεο­ φόρε... (MR, VI, p. 40); cf. anche Ioseph Hymn., can. ii in s. Philippum apost. (acr. Φίλιππον ὑμνῶ τὸν σοφὸν θεηγόρον· Ἰωσήφ, inc. Φίλιππε θεηγόρε, Χριστοῦ ἀπόστολε..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 127 nr. 97), cola 149-154: Ὄμβροις διδαχῶν | κεχερσωμένας φρένας | πλουσίως ἠρδεύσατε | καὶ καρποφόρους αὐτάς | (...) | εἰργάσασθε... (AHG, III, p. 414). [19.-21.] μελλούσης με κοινωνὸν τρυφῆς... δεῖξον ἐντρυφῶντα πίστει τοῖς ἐπαίνοις σου: al gioco etimologico tra ἐντρυφάω e τρυφή nel nostro canone fa da pendant quello fra il medesimo verbo e il nome di s. Trifena nel canone dedicato da Giuseppe a quest’ultima, cf. Ioseph Hymn., can. in s. Tryphaenam mart. Cyzic. (inc. Τῷ φωτισμῷ τῆς τρισηλίου θεότητος αὐγαζομένη..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 155-156 nr. 236), acr. Τοῖς σοῖς ἐπαίνοις, μάρτυς, ἐντρυφῶ πόθῳ· Ἰωσήφ, e cola 5-8: ...τοὺς τοῖς σοῖς ἐντρυφῶντας | ἐπαίνοις ταῖς εὐχαῖς σου, | Τρύφαινα, φώτισον (AHG, VIII, p. 146). [22.] Ὁ τὸ εἶναι πᾶσι παρασχὼν: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Clementem Rom. (acr. Θείας σε κλῆμα, μάρτυς, ἀμπέλου σέβω· Ἰωσήφ, inc. Θρόνῳ παριστάμενος τῆς τρισηλίου θεότητος..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 129 nr. 107), od. vii theot., inc. Ὁ τοῖς πᾶσι παρεχόμενος βουλήματι | τὸ εἶναι, πάναγνε, | ἐκ σοῦ ἀρχὴν χρονικὴν | λαμ­ βάνει καὶ τίκτεται... (MR, II, p. 268); id., can. in s. Astium ep. Dyrrach. (acr. Τοὺς ἀστίους σου, Ἄστιε, μέλπω πόνους· Ἰωσήφ, inc. Τὴν θείαν καὶ φωταυγῆ καὶ εὔσημον..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 174 nr. 326), cola 65-68: Ὁ τὸ εἶναι παρεχόμενος πᾶσι μόνος | ἐκ σοῦ γενέσθαι ἄνθρωπος | δι’ οἰκονομίαν | ἄφατον εὐδόκησεν... (AHG, XI, p. 112). Cf. anche D’Amelia, Nuovo Ottoeco, pp. 364-365 (comm. can. viii.d, cola 235-236). [23.] ἔσχεν ὡς αἰτίαν σε: cf. Ioseph Hymn., can. i in s. Philippum apost. (acr. Τὸ τοῦ Φιλίππου θεῖον αἰνέσω κλέος· Ἰωσήφ, inc. Ταῖς φανοτάταις ἀκτῖσι ταῖς τοῦ Χρι­ στοῦ..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 115-116 nr. 46), od. i theot., inc. Ὁ ἐκ μὴ ὄντων τὰ πάντα δημιουργῶν ὡς αἰτίαν ἔσχε σε τῆς σαρκώσεως αὐτοῦ, θεομῆτορ ἄχραντε... (MR, I, p. 385); cf. anche anon., can. in B. Mariam Virg. (acr. Φῶς ἡ τεκοῦσα, φώτισόν με,

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Παρθένε, inc. Φῶς τὸ κατασκηνῶσαν ἐν σοί, πανάχραντε...), od. vi trop. 1: Τοῦ παντὸς ὁ αἴτιος | καὶ τὸ εἶναι | πᾶσι παρασχὼν | ὡς αἰτίαν ἔσχηκε σαρκούμενος | τὸ καθ’ ἡμᾶς | σέ, θεομῆτορ πανάμωμε (PaR, p. 374; l’inno, ivi anonimo, è attribuito a «Giovanni Monaco» nel Theotocarion dell’XI secolo Mosqu. Synod. gr. 438 [299 Vlad.], f. 107r); Io. Maurop., can. vi in s. Nicolaum (acr. Ἕκτον μέλισμα πατρὶ τῷ μυροβλύτῃ· ἐκ μοναχοῦ Ἰωάννου, inc. Ἔμπνευσόν μοι λόγον, προάναρχε Λόγε...), cola 297-298: ...σὲ γὰρ αἰτίαν ἔσχηκε σαρκούμενος ἐκ σοῦ, | ἵνα σώσῃ τὸν ἄνθρωπον... (A. D. Panagiotu, Ὁ Ὑμνογράφος τοῦ Ἁγίου Νικολάου Ἰωάννης Μαυρόπους. Κριτικὴ ἔκδοσις, Ἀθήνα 2010 [Βυζαντινὴ Γραμματεία, 5], p. 113). [24.] τῆς πρὸς ἡμᾶς... ὁμοιώσεως: Ioseph Hymn., can. in s. Alexium (acr. Σὲ τὸν Θεοῦ ἄνθρωπον αἰνέσω, μάκαρ· Ἰωσήφ, inc. Στενωτάτην ὥδευσας ὁδόν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 150 nr. 209), od. i theot., inc. Ὁ Θεοῦ συνάναρχος Υἱὸς | ἔσχεν ὡς αἰτίαν σε | τῆς πρὸς ἡμᾶς, Παρθένε, ὁμοιώσεως... (MR, IV, p. 100). [26.] ἀνομοίοις... πάθεσι: la iunctura ἀνόμοιον πάθος è insolita nell’innografia, sebbene non sia priva di attestazioni in altro tipo di contesto, cf. Plut., De ­amicorum multitudine, 96E7 (Plutarchi Chaeronensis Moralia, I, recognovit G. N. B ­ ernardakis, ed. maiorem curaverunt P. D. Bernardakis – H. G. Ingenkamp, Athenis 2008, p. 234 lin. 12); Georg. Pachym., Comm. in Platonis Parmenidem, ad 148a6: πέπονθεν ἄρα ταῦτα ἀνόμοια πάθη καὶ πρὸς ἑαυτὰ καὶ πρὸς ἄλληλα... (Γεωργίου τοῦ Παχυμέρους Ὑπόμνημα εἰς τὸν Παρμενίδην Πλάτωνος [Ἀνωνύμου Συνέχεια τοῦ Ὑπομνήματος Πρόκλου] / George Pachymeres, Commentary on Plato’s Parmenides [­Anonymous Sequel to Proclus’ Commentary], Ed. and transl. by Th. A. G ­ adra (et al.), Ἀθῆναι 1989 [Corpus Philosophorum Medii Aevi. Βυζαντινοὶ φιλόσοφοι-Philosophi Byzantini, 4], p. 17 linn. 12-13]). Trova qui, però, la sua ragion d’essere nella figura etimologica che lega ἀνομοίοις (colon 26) a ὁμοιώσεως / ἐξομοιῶσαι (cola 24 e 27). L’accostamento, in uno stesso tropario, di più parole che condividono la medesima radice lessicale è, del resto, un espediente espressivo tipico dell’innografia e molto caro in special modo a Giuseppe (cf. ad es. Pasini, Testi innografici [38 (1984)], p. 80; D’Amelia, Nuovo Ottoeco, pp. 106-107): lo si riscontra, infatti, più volte anche nel nostro canone, cf. ad es. cola [19.-20.], [33.-35.], [37.-40.] (con poliptoto e antanaclasi di κόσμος), [54.-55.], [59.-60.], [99.-100.], [108.-110.], [120.-127.], [156.-157.] (con poliptoto), [170.-176.] (con poliptoto), [178.-179.], [188.-189.], [209./213.], [211./216.], [218.-224.], [227.-231.]. [29.] Φυτευθεὶς ὥσπερ δένδρον πετρίνῳ στύλῳ: l’immagine dell’albero che, pur piantato sulla roccia, dà frutto vuol essere paradossale, cf. ad es. Apocalypsis Henoch, 26.5 (CAVT 61; BHG 2122m): καὶ πᾶσαι φάραγγές εἰσιν βαθεῖαι ἐκ πέτρας στερεᾶς, καὶ δένδρον οὐκ ἐφυτεύετο ἐπ’ αὐτάς (Apocalypsis Henochi Graece, ed. M. Black [...], Leiden 1970 [Pseudepigrapha Veteris Testamenti Graece, 3], p. 35). — Per l’incipit del tropario cf. ad es. quello di un anonimo cathisma per il «dendrita» s. David di Tessalonica (Manaphes, Ἀνέκδοτος, p. 560): Φυτευθεὶς ὥσπερ ξύλον (var. lect. δέν­ δρον), | πάτερ μακάριε... (su questo santo, e sulla forma di ascesi che consisteva nell’abitare, anziché in cima a una colonna, sulla chioma di un albero, cf. Delehaye, Stylites, pp. clxxiv-clxxvi; C. P. Charalampidis, The Dendrites in Pre-Christian and Christian Historical-Literary Tradition and Iconography, Roma 1995 [Studia archaeologica, 73], pp. 73, 83-88 e tavv. 12, 13b, 14).

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[29.-31.] ἤνεγκας καρποὺς ὡραίους... ἐναρέτων καὶ θείων πράξεων: cf. ad es. IoHymn., can. in s. Gerasimum mon. Iordan. (acr. Γερασίμῳ τὸν αἶνον ὡς στέ­ φος πλέκω· Ἰωσήφ, inc. Γέρας ἀθανασίας καὶ τῆς ἀφθαρσίας…, cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 151 nr. 212), cola 109-110: ...ἐναρέτους | ἐκβλαστάνεις καρπούς… (AHG, VII, p. 225); anon., can. in s. Onuphrium anachor. Aegypt. (inc. Αἴγλῃ τῆς τριφεγγοῦς ἐλλαμπόμενος...), cola 37-42: Πεφυτευμένον ξύλον διεξόδοις | ὡράθης τῆς ἀσκήσεως | καὶ ἐν εὐθέτῳ, πάτερ, καιρῷ | εὐκαρπίαν ἐναρέτων | ὡς ἀληθῶς ἀπέδωκας, | Ὀνούφριε, πράξεων (AHG, X, p. 38). [32.] εὐωδίαν θαυμάτων ἀποπέμποντας: cf. ad es. Ioseph Hymn., canon in ss. Cosmam et Damianum (acr. Δυάς με σῴζοις τῶν σοφῶν ἀναργύρων. Ἰωσήφ, inc. Δυὰς φωτοειδὴς τῶν σοφῶν ἀναργύρων..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 122 nr. 75), od. viii trop. 4, inc. Ὡς κρίνα, ὡς ἄνθη νοητά, | ὡς ῥόδα Πνεύματι | ὡραϊζόμενοι | ἡμῖν ἐδείχθη­ τε, ἅγιοι, | εὐωδίαν ἀποπέμποντες, | καὶ τὸ δυσῶδες τῶν παθῶν | ἀποδιώκοντες... (MR, II, p. 12); cf. anche Georg., can. in ss. Nazarium, Gervasium, Protasium et Celsum (acr. Ἐχθροῦ καθεῖλε Ναζάριος τὴν πλάνην. Γεωργίου, inc. Ἐν τῇ φαιδρᾷ ἅπαντες μνήμῃ σαλπίσωμεν...), cola 140-141: ...τῆς τῶν θαυμάτων τὸν κόσμον | εὐωδίας ἐπλήρωσε... (AHG, II, p. 175). Il primo dei due loci similes citati, fra l’altro, corrobora la lezione ἀποπέμποντας di PV contro la variante deteriore ἀναπέμποντας di Kypr. [33.-35.] Θανάτωσον τὴν ζῶσαν μου ἁμαρτίαν... σαῖς προσευχαῖς... ζωηφόροις: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. i in s. Thomam (acr. Πρώτην δέησιν, Θωμᾶ, ταύτην σοι φέρω· Ἰωσήφ, inc. Πρώτου κατὰ μέθεξιν φωτὸς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 114 nr. 37), cola 77-82: Θανάτωσον ἐν ἡμῖν τὴν δεινῶς βασιλεύουσαν | ἁμαρτίαν | καὶ τυ­ χεῖν βασιλείας ἀξίωσον | οὐρανίου, ἔνδοξε, | τὸν βασιλέα τῶν ἁπάντων | καθικετεύων καὶ Κύριον (ed. Toma, Joseph, p. 5); id., can. in ss. Agapem, Irenem et Chioniam (acr. Χριστοῦ προσοίσω μάρτυσιν θεῖον μέλος· Ἰωσήφ, inc. Χάριν μοι οὐρανόθεν, μάρτυρες Κυρίου..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 157 nr. 242), od. vii theot., inc. Νέκρωσον, ἄχραν­ τε, τὴν ζῶσαν | καὶ νεκροῦσαν τὴν ψυχήν μου ἁμαρτίαν, | καὶ ζωῆς μετασχεῖν | ἀξίωσόν με θείας... (MR, IV, p. 322); cf. anche Theophan., canon in s. Hyacinthum (acr. Σὲ τὸν διαυγῆ, μάρτυς, αἰνέσω λίθον, inc. Σὲ τὸν διαυγείᾳ μαρτυρικῇ...), od. ix theot., inc. Νέκρωσόν μου, Δέσποινα, | τὴν ἔτι ζῶσαν ἁμαρτίαν, | ζώωσον ψυχῆς τὴν νέκρωσιν... (MR, VI, p. 27). [35.-36.] καὶ τῆς μελλούσης ζωῆς κοινωνόν... ποίησον: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. paracl. viii in B. Mariam Virg. (acr. Δέησίς ἐστιν ὀγδόη τῇ Παρθένῳ· Ἰωσήφ, cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 199 nr. 448), od. i trop. 1, inc. Δεδοξασμένα περὶ σοῦ λελά­ ληνται, | δεδοξασμένη ἁγνή, | ἡ τῶν πιστῶν δόξα | μόνη χρηματίσασα· | διὸ μελλούσης δόξης με | κοινωνὸν σαῖς πρεσβείαις | δοξάζοντά σε ἀνάδειξον... (PaR, p. 660); cf. anche anon., can. in ss. Michaëlem et Gabrielem archang. (acr. alfabetico, inc. Ἄρχων τῶν ἄνω ταγμάτων θεοειδὴς...), cola 43-46: Ζωῆς μελλούσης κοινωνοὺς | τοὺς πολλαῖς ἁμαρτίαις | τὰς ψυχὰς νεκρωθέντας | ἀνάδειξον... (AHG, III, p. 244). [37.-40.] κόσμον... κατακοσμήσας, κόσμῳ... κόσμησον... ἀκοσμίας: cf. ad es. Ioseph. Hymn., can. paracl. ii in s. Nicolaum (acr. Δέησιν οἰκτράν, Νικόλαε, προσδέχου· Ἰω­ σήφ, inc. Διηνεκῶς τῷ θείῳ θρόνῳ τῆς χάριτος..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 189 nr. 399), cola 53-58: Κοσμήσας ἀρεταῖς, Νικόλαε, | τὴν καρδίαν κόσμος ἐδείχθης | ἱεραρχῶν τίμιος· | τὴν ἀκοσμίαν τῆς ψυχῆς μου διὸ | ἱκετεύω σε διάλυσον | καὶ κοσμικῶν σκαν­ δάλων με διάσωσον (AHG, IV, p. 78); id., can. vi in s. Stephanum (acr. Ἕκτην δέη­ seph

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σιν μαρτύρων δέχου κλέος· Ἰωσήφ, inc. Ἐν ταῖς λαμπρότησιν, μάκαρ, τῶν ἐκλεκτῶν..., cf.  Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 137 nr. 145), cola 153-160: Κόσμος ὤφθης μαρτύρων, | Στέφανε ἔνδοξε, | κοσμηθεὶς τῷ στεφάνῳ | τοῦ παντοκράτορος· | ὅθεν δυσωπῶ· | τῆς δεινῆς ἀκοσμίας με | τῶν ἁμαρτημάτων | ἀπάλλαξον, τρισμάκαρ (Toma, Joseph, p. 243). [39.] ἐναρέτων... πράξεων: parole che si ripetono identiche, nella stessa sede metrica, a intervallo di distanza di due tropari (cf. colon [31.]), con eco interna evidentemente propiziata dall’insistere sulla medesima melodia. [40.] ἐμπαθοῦς ἀκοσμίας: cf. anon., can. in s. Antonium ab. (inc. Μοναστῶν ὑπέρλαμπρος φωστὴρ...), cola 250-253: ...ὅθεν δυσωπῶ τῆς ψυχῆς μου | τὴν ἐμπαθῆ, | πάτερ, ἀκοσμίαν | εὐχαῖς μεταποίησον... (AHG, V, pp. 290-291). [41.-43.] Ῥυόμενος... ῥύσασθαι: poliptoto, cf. D’Amelia, Nuovo Ottoeco, p. 109. Ulteriori casi nel nostro canone ai cola [2./7.], [37.-38.] (con antanaclasi), [47.-48.], [80./84.], [139./146.], [156.-157.], [163.-164.], [164./169.], [170./172.], [186.-187.]. [41.-42.] Ῥυόμενος ἐπέφανε τοῖς ἀνθρώποις, πάναγνε, ἐκ σοῦ Χριστὸς: fra i molti possibili loci similes, cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Christophorum (acr. Ὕμνοις φοροῦντα Χριστὸν μάρτυρα στέφω· Ἰωσήφ, inc. Ὕμνοις εὐφημῆσαι τὴν σεπτὴν..., cf. Papaeliopulu-Photopulu, Ταμεῖον, p. 91 nr. 224), cola 171-175: Ῥυόμενος ἡμᾶς | ἐκ σοῦ ἐπέφανεν | ἀρχαίας κατακρίσεως, | παναμώμητε, Χριστὸς ὁ λυτρωτής· | ὃν ὑπὲρ ἡμῶν ἀεὶ ἱκέτευε... (Toma, Joseph, p. 316); id., can. in ss. Terentium, Pompeium, Maximum, Macarium, Africanum et soc. (acr. Πληθύς με σῴζοις καλλινίκων μαρτύ­ ρων· ­Ἰωσήφ, inc. Πληθὺς ἀθλοφόρων πανευκλεῶν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 155 nr. 234), od. v theot.: Λυτρούμενος ἐπέφανεν, ἄχραντε, | τοὺς ἀνθρώπους | ἐκ σοῦ ὁ  ὑπέρθεος, | ἄνθρωπος, κόρη, γενόμενος (MR, IV, p. 286); id., Novi Oct. can. iii in ss. apostolos (acr. Τοὺς φωτοειδεῖς αἰνέσω Χριστοῦ φίλους· ὁ Ἰωσήφ, inc. Τὰς τοῦ Λόγου σάλπιγγας..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 191 nr. 408; D’Amelia, Nuovo Ottoeco, p. 368 can. iii.d), cola 198-200: Λυτρούμενος ἐκ φθορᾶς | τὸν κόσμον, ἐπέφανεν | ἐκ σοῦ, Παρθένε, ὁ πλαστουργὸς... (D’Amelia, Nuovo Ottoeco, p. 168; cf. anche ibid., p. 313 ad loc.). [43.-44.] ὃν δυσώπει πάσης με ῥύσασθαι... ἁμαρτίας: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in ss. Eutropium, Cleonicum et Basiliscum (acr. Τριῶν μεγίστων ἆθλα τιμῶ μαρτύρων· Ἰωσήφ, inc. Ταῖς ὑπερκοσμίοις ἀστραπαῖς τῆς τρισηλίου..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 147 nr. 193), cola 46-51: Γαστρὶ ὑποδέδεξαι Χριστόν | (...)· | αὐτὸν δυσώπει, θεοχαρίτωτε, | ἐκ δουλείας ῥύσασθαι | ἁμαρτίας ἅπαντας... (AHG, VII, p. 44). [44.] χαλεπῆς ἁμαρτίας καὶ κολάσεως: cf. Ioseph. Hymn., can. in s. Cornutum vel Coronatum ep. Icon. (acr. Στέφω σε πιστῶς ᾀσμάτων στέφει, μάκαρ. Ἰωσήφ, inc. ­ τέφει σε μαρτυρίου περιηνθισμένον..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 110 nr. 14), cola Σ 98-99: Συντήρησον ἀβλαβῆ με, Παρθένε, | τῶν βελῶν τῆς χαλεπῆς ἁμαρτίας... (AHG, I, p. 215). In ambito patristico, cf. Io. Chrys. de Lazaro hom. vi (CPG 4329; BHG 2103i), § 3: Οὐ γὰρ οὕτω χαλεπὸν κόλασις, ὡς χαλεπὸν ἡ ἁμαρτία· τῆς γὰρ κολάσεως ὑπόθεσις ἡ ἁμαρτία (PG 48, col. 1030 linn. 35-36). [46.] ἐν κίονι αἴθριος: cf. Ioseph Hymn., can. in s. Astium ep. Dyrrach. (cit. supra, comm. [22.]), cola 53-54: Σταυρωθεὶς ὡς ὁ Δεσπότης ἐπὶ τοῦ ξύλου, | αἴθριος ἐκαρτέρη­ σας... (AHG, XI, p. 111); id., can. I in s. Alypium (cit. supra, comm. [10.]), od. vii trop. 3, inc. Πᾶσαν ἡδυπάθειαν, | πάτερ, ἀρνησάμενος, | τῷ κρύει καὶ καύσωνι | παλαίων ἐνήθλησας | αἴθριος... (MR, II, p. 293).

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[47.-50.] χειρῶν σου ἐπάρσεσιν... ἐπάρσεις τοῦ ὄφεως τρέπων... ἐν ταπεινώσει καρ­ δίας: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. paracl. vi in s. Io. Bapt. (acr. alfabetico e, nelle odi viii-ix, Ἔπος Ἰωσήφ, inc. Ἄγγελος θεῖος τὴν σὴν γέννησιν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 195 nr. 429), od. viii theot., inc. Συντήρησόν μου τὴν διάνοιαν ἐν ταπεινώσει, κόρη θεοχαρίτωτε, ἡ τῷ τόκῳ σου συντρίψασα ἐπάρσεις τῶν δαιμόνων, καὶ ὕψωσόν με ἀπὸ τῆς κοπρίας τῶν παθῶν... (PaR, p. 487); cf. anche anon., can. in s. Caeciliam et soc. (inc. Χριστοῦ πανάγιον τέμενος, Χριστοῦ...), od. vi trop. 1, inc. Χεῖρας πρὸς Θεὸν | προθύμως ἐπάραντες, | (...) βυθῷ ἀπωλείας παρέπεμψαν | τῶν δαιμόνων τὰς ἐπάρσεις οἱ στερρότατοι... (MR, II, p. 244). Per altri loci similes cf. D’Amelia, Nuovo Ottoeco, p. 320 (comm. can. iv.d, cola 109-110). [52.-55.] Ὑπήνεγκας... τὸν καύσωνα· διό με καυσούμενον τῇ ἁμαρτίᾳ: lo stesso lessico si ritrova, più tardi, in Theoct. Stud., can. iv in s. Athanasium I patr. Constantinop. iambicus (inc. Θείῳ καλυφθεὶς Ἀθανάσιος γνόφῳ..., cf. A. Luzzi, Canoni ecclesiastici in dodecasillabi bizantini composti in età medievale, in Spolia 14, n.s. 4 [2018], pp. 139-170: 143 nr. CG27), vv. 149-150: ...λόγοις ἀναψύχουσι τοὺς καυσουμέ­ νους | δεινῷ καύσωνι τῆς δεινῆς ἁμαρτίας (Afentoulidou-Leitgeb, p. 190). [53.] βαρυτάτου αὐχμῶνος: cf. Greg., can. in s. Sabam mon. Palaest. (acr. Τῷ θεοφόρῳ Σάβᾳ Γρηγορίου ὕμνος, inc. mut. Ὡς ἐκ Θεοῦ ὁρισθεὶς τῆς ἐρήμου...), cola 9091: Βαρυτάτου αὐχμῶνος | ἀπειλῆς ἐκ θείας... (AHG, IV, p. 44). [56.-57.] θείαις ἐπομβρήσεσι τῶν εὐπροσδέκτων εὐχῶν σου: cf. Ioseph Hymn., can. in s Athenodorum mart. (acr. Ἀθηνοδώρου τοὺς καλοὺς πλέκω κρότους· Ἰωσήφ, inc. Ἄθλοις ὡραιοτάτοις καὶ στίγμασιν ἱεροῖς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 134 nr. 130), cola 12-16: ...θείαις ἐπομβρήσεσι | θαυμάτων ἑκάστοτε | παθημάτων | καύσωνα ἀποπαύ­ εις | τῶν πίστει προσιόντων σοι (AHG, IV, p. 448); cf. anche Theophan., can. in ss. Thyrsum, Leucium, Callinicum et soc. (inc. Μαρτυρικαῖς ἀγλαΐαις τῷ θεϊκῷ θρόνῳ...), od. vii trop. 1, inc. Ἐπομβρήσεσιν ἐνθέοις κατεσβέσατε | πολυθεΐας κάμινον... (MR, II, p. 493); anon., can. in s. Caeciliam et soc. (cit. supra, comm. [47.-50.]), od. viii trop. 1, inc. Θείαις ἐπομβρήσεσι τῶν σῶν θαυμάτων | τῶν παθῶν ἡμῶν ῥύπον ἐκπλύνεις, | τοὺς τακέντας καύσωνι | ἀλγηδόνων, | μάρτυς σεμνή, | ἀναψύχεις, Καικιλία παναοίδιμε... (MR, II, p. 246). [59.-61.] Ῥαθύμως μου τὴν ζωὴν διανύοντα πρόθυμον εὐχαῖς σου ἀπέργασαι: si veda l’analogo incipit di Ioseph Hymn., can. in s. Davidem Thessalon. (acr. Δαυὶδ γεραίρω τὸν βίον τὸν φωσφόρον· Ἰωσήφ, inc. Δυνάμει τοῦ Πνεύματος τὸ ἀσθενές..., cf.  Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 172 nr. 313), colon 167: Ῥαθύμως τὸν βίον διανύων... (ed. Manaphes, Ἀνέκδοτος, p. 568); cf. inoltre id., can. vi in s. Basilium (acr. Ἕκτον μέλισμα, Βασίλειε, προσδέχου· Ἰωσήφ, inc. Ἐν ταῖς λαμπρότησι πάντων περιχαρῶς..., cf. ­Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 138 nr. 151), cola 233-240: Ἡ νῦν κατέχουσα ῥαθυμία με | (...) | (...) τὴν ἐκεῖθεν μοι | προξενεῖ τιμωρίαν (...)· | ὅθεν ἀναβοῶ σοι· | «Πάτερ Βασίλειε, | πρόθυμον ἀπέργασαι ταῖς σαῖς | θείαις ἐντεύξεσιν» (AHG, V, p. 11); id., can. paracl. v in s. Nicolaum (acr. Πέμπτον προσάξω σοί, Νικόλαε, μέλος. Ἰωσήφ, inc. Πίστει καὶ πόθῳ, πάτερ, οἰκειωθεὶς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 194 nr 423), od. ix trop. 4, inc. Ἤγγικεν, ὡς γέγραπται, | ἡ ἡμέρα | ἡ περιφανὴς | τῆς παρουσίας Χριστοῦ· | ἄγονε ψυχή, | ἀπόθου τὸ ῥάθυμον, | καὶ προθύμως | βόησον Χριστῷ... (PaR, p. 423). [68.-70.] τούτου τῇ λάρνακι ὡς κιβωτῷ ἁγιάσματος πίστει προσπελάσωμεν: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Beniamin mart. Persam (acr. Τιμῶ σε, μάρτυς λευῖτα,

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μελῳδίαις. Ἰωσήφ, inc. Τὸν Χριστοῦ στρατιώτην, τῆς δυσσεβείας..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 153 nr. 223), cola 118-122: Αἵμασι καθαγιάσας τὴν γῆν | (...) | ἀναβλύζεις πάντοτε | ἁγιασμὸν τοῖς πίστει σου | προσπελάζουσι τῇ σορῷ... (AHG, VII, p. 334); id., can. in ss. Capitolinam et Eroteidam (acr. Σεμναῖς γυναιξὶν σεμνὸν ἐξᾴδω μέλος· Ἰωσήφ, inc. Συνεχόμενον ἁμαρτημάτων κλύδωνι..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 120121 nr. 69), cola 145-148: Νέμουσιν ἰάσεις πᾶσιν | τοῖς προσπελάζουσι πίστει | τῇ ἑαυτῶν τιμίᾳ σορῷ | αἱ ἅγιαι μάρτυρες... (AHG, II, p. 327). [71.-72.] ἀπαρυόμενοι χάριν τὴν σωτήριον: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Zosimam (acr. Τὴν σὴν ἐπαινῶ, παμμάκαρ, ζῶσαν χάριν· Ἰωσήφ, inc. Τὴν τοῦ Θεοῦ βασι­ λείαν παραλαβὼν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 162 nr. 267), cola 247-249: ...ἰαμάτων πηγὴ τοῖς προστρέχουσι | καὶ ἀπαρυομένοις | χάριν σωτήριον... (AHG, VIII, p. 338). [73.-74.] Συνώθησε πρὸς παντοίαν ἐχθρός με παράβασιν: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. iv in s. Panteleemonem (acr. Δέησιν οἰκτράν, Παντελεῆμον, δέχου· Ἰωσήφ, inc. ­Δεσμεύσας τοῦ ἐχθροῦ τὴν κακίαν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 181 nr. 356), cola 25-28: Συνώθησεν ἐχθρὸς | συμβουλίαις ἀτόποις | τὴν ἀθλίαν μου ψυχὴν | εἰς βάραθρα κακῶν... (Toma, Joseph Hymnographer, p. 323). [76.-77.] τῆς αὐτοῦ με κακώσεως λύτρωσαι: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Michaëlem archang. (acr. od. ix Ἰωσήφ, inc. Τῷ θρόνῳ τῷ φοβερῷ τῆς ἀστέκτου δόξης..., cf. Papaeliopulu-Photopulu, Ταμεῖον p. 87 nr. 207), cola 251-253: ...λυτροῦται [scil. ὁ πιστὸς] ἐκ πάσης κακώσεως | ἐχθρῶν τε ἀοράτων | καὶ ὁρατῶν τῇ πρεσβείᾳ σου (Toma, Joseph, p. 169); id., can. in s Athenodorum mart. (cit. supra, comm. [56.-57.]), cola 255-256: ...ὅπως κακώσεως | λυτρωθῶμεν τῶν ἐχθρῶν ἡμῶν (AHG, IV, p. 459); cf. anche Theophan., can. in indictionem, in s. Symeonem Stylitam et in ss. Callisten, Euodum, Hermogenem mart. (inc. Ὡς τῶν χρόνων ποιητὴς καὶ τῶν αἰώνων...), cola 58-59: ...καὶ κακώσεως | λυτρωθῆναι... (AHG, I, p. 43). [77.-79.] πρὸς τρίβους με δικαιοσύνης ἐνθέως ἐμβιβάζουσα: cf. Ioseph Hymn., can. in s. Basiliscum (acr. Τὸν παμμέγιστον Βασιλίσκον αἰνέσω· Ἰωσήφ, inc. Ταύτην τὴν φαιδράν σου ἑορτὴν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 165 nr. 281), od. iii theot.: Εὕροιμί σε, πάναγνε, | χειραγωγοῦσαν με πάντοτε | πρὸς ἀρετὰς | καὶ πρὸς μετανοίας | τὰς ὁδοὺς ἐμβιβάζουσαν (MR, V, p. 146). [80.-85.] Ἁγίου ναός... Πνεύματος... λῃστῶν... σπήλαιον... οἶκον Τριάδος: cf. Ioseph Hymn., can. in s. Gregorium Decapol. (acr. od. ix Ἰωσήφ, inc. Νενεκρωμένην ἡδοναῖς τοῦ σώματος..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 127 nr. 100), od. vi theot.: Μαρία τὸ καθαρὸν | τοῦ Βασιλέως παλάτιον, | γενόμενόν με λῃστῶν | ἀκάθαρτον σπήλαιον | εὐχαῖς σου καθάρασα, | τοῦ ἐκ σοῦ τεχθέντος | ναὸν ἅγιον ἀνάδειξον (MR, II, p. 208); id., can. vi catanyct. (acr. Τῶν ὀμμάτων μου, Χριστέ, τὸν κλαυθμὸν δέχου· Ἰωσήφ, inc. Τὸν ἐμπεσόντα, Χριστέ, λῃστῶν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 195 nr. 427), od. i trop. 2: Ὡς ἁμαρτήσας πολλὰ | σπήλαιον γέγονα λῃστῶν· | ὁ τεχθεὶς ἐν σπηλαίῳ, | δακρύων ὄμβρους δίδου μοι, | καὶ καθάρισον, ὅπως | τοῦ ἁγίου σου Πνεύματος | ναὸς γενήσωμαι (PaR, p. 471). [86.-87.] Ἱστᾷ κατ’ ἐμοῦ ὁ ἐχθρὸς παγίδας ἐνεδρεῦσαι με: cf. Ioseph Hymn., can. in ss. Alexandrum et Antoninam (acr. Ὕμνοις ἐπαινῶ τὴν καλὴν ξυνωρίδα· Ἰωσήφ, inc. Ὕμνοις ἐπαινέσαι τὴν ὑμῶν προθυμουμένῳ..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 168 nr. 297), od. iv trop. 2, inc. Ἵστησι | παγίδας κατὰ σοῦ ὁ παμπόνηρος... (MR, V, p. 259).

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Per l’espressione cf. ad es. Theod. Stud. Catech. Magn. 91 [96]: ...παγίδα ἱ­στῶντες, ἐνεδρεύοντες... (Τοῦ ὁσίου Θεοδώρου τοῦ Στουδίτου Μεγάλη κατήχησις, II, ἐκδ. [...] A. P ­ apadopulos-Kerameus, ἐν Πετρουπόλει 1904, p. 691 lin. 1; Novae Patrum Bibliothecae ab A. card. Maio collectae t. X[/1], ed. a I. Cozza-Luzi [...], Romae 1905, p. 62 linn. 7-8). [92.-93.] Μυρίζει τὰ σά, θεοφόρε, λείψανα: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. viii in s. Io. Chrys. (acr. Τὴν ὀγδόην δέησιν, ὦ μάκαρ, δέχου· τοῦ Ἰωσήφ, inc. Ταῖς καθαρωτάταις σου προσευχαῖς.., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 126 nr. 96), colon 84: Μυρίζει σου ἡ σορὸς τῶν λειψάνων... (Toma, Joseph, p. 283); cf. anche anon., can. in s. Alexandrum mart. Pydnae (acr. Πύδνης τὸν Ἀλέξανδρον ὑμνῶ προφρόνως, inc. Πόθῳ θείῳ θελχθεῖσα ἡ καθαρωτάτη...), cola 91-92: Μυρίζει σου ἡ σορὸς τῶν λειψάνων, | ἰαμάτων ἀναβρύουσα χάριν... (AHG, VII, p. 163). [93.-94.] ὀσμὴ γὰρ ζωῆς πιστοῖς ἐχρημάτισας: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Phantinum Taurian. (acr. Τὸν φωσφόρον σου, Φαντίνε, μέλπω βίον· Ἰωσήφ, inc. Ταῖς φωτοβόλοις αὐγαῖς πυρσευόμενος.., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 179 nr. 350), colon 319: Ἡ θήκη σου μυρίζει ὀσμὴν ζωῆς... (Follieri, Fantino «il vecchio», p. 150); cf. anche anon., sticherum in s. Lucam evang., inc. Χάρις | τοῖς χείλεσί σου, Λουκᾶ, | (...) | ἐξεχύθη (...), | (...) | καὶ ὀσμὴ ζωῆς | τοῖς ζωὴν ὄντως θέλουσιν | ὤφθης, ὡς Παῦλος ἔφησεν... (MR, I, p. 454); Clemens, can. in s. Codratum mart. et soc. (acr. Τριττὴ ξυνωρὶς ἐξυμνείσθω μαρτύρων e nei theot. Κλήμεντος, inc. Τῆς τῶν μαρτύρων ἑορτῆς τὰ αἴσια...), cola 224-227: ...ἐξέστησαν τὰ πλήθη | τῶν πιστῶν καὶ ἐπλούτησαν | ὀσμὴν ζωῆς πρόξενον | καὶ νόσων καθαρσίαν (AHG, VII, pp. 145-146). [95.-97.] τῆς καρδίας μου τὰ δυσώδη τελείως... πάθη μείωσον: cf. Ioseph Hymn., can. in ss. Photium et Anicetum (acr. Τερπνὴν ἐπαινῶ μαρτύρων ξυνωρίδα· Ἰωσήφ, inc. Τοῖς πόνοις τοῖς τῆς σαρκός, πανεύφημοι..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 183-184 nr. 370), od. ix trop. 4: Ἤνθησαν (...) | (...) καθάπερ ῥόδα | οἱ περικαλλεῖς ἀθλοφόροι, | καὶ τὰς καρδίας | εὐωδιάζουσι | τῶν εὐσεβῶν ἐν πνεύματι, | δυσώδη πλάνην ἐκμειώσαν­ τες (MR, VI, p. 393); id., Novi Oct. can. stauros. ii (acr. Πτῶσις πέφυκεν δαιμόνων σταυροῦ στάσις· Ἰωσήφ, inc. Παραβὰς τὴν πρώτην ἐντολὴν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 189 nr. 398; D’Amelia, Nuovo Ottoeco, p. 368 can. ii.c), od. iii trop. 3, inc. Ἐξήν­ θησαν οἱ μάρτυρες ὥσπερ ῥόδα | εὔοσμα | (...) | καὶ δυσώδη πλάνην ἐμείωσαν... (PaR, p. 143); id., Can. ii in s. Philippum apost. (cit. supra, comm. [15.-18.]), cola 35-38: ...καὶ εὐωδιάζει τῶν πιστῶς | τιμώντων σε καρδίας | καὶ τὸ δυσῶδες τῶν παθῶν ἡμῶν | πάν­τοτε διώκει... (AHG, III, p. 408); id., can. in s. Gregorium Acrit. (acr. Τοὺς σοὺς ἐπαινῶ, παμμάκαρ πάτερ, τρόπους· Ἰωσήφ, inc. Τῷ φωτισμῷ τῆς τρισηλίου θεότητος..., cf. ­Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 139 nr. 160), cola 209-211: ...θαυμάτων παραδόξων ταῖς ὀδμαῖς | καὶ παθῶν τὸ δυσῶδες | ἐμείωσας, μακάριε (AHG, V, p. 124). [98.-99.] Ἐν ὥρᾳ φρικτῇ ὁπηνίκα μέλλω φόβῳ κρίνεσθαι: cf. Ioseph Hymn., can. iii in s. Stephanum (acr. Τρίτην φέρω σοι, παμμάκαρ, μελῳδίαν· Ἰωσήφ, inc. Τὸν νοη­ τὸν λαμπτῆρα τὸν φωτίζοντα..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 136 nr. 142), cola 127-128: Ἐν ὥρᾳ ὅταν μέλλω | τῷ Κυρίῳ παρίστασθαι... (Toma, Joseph, p. 211); Ioseph Hymn., can. paracl. viii in B. Mariam Virg. (cit. supra, comm. [35.-36.]), od. ix trop. 4, inc. Φρίττω σου, μόνε Βασιλεῦ, | τὴν δευτέραν παρουσίαν καὶ δέδοικα, | ὅλος κατάκριτος... (PaR, p. 667). [101.] πρόστηθι καὶ ῥῦσαι με κολάσεως: cf. Ioseph Hymn., can. paracl. viii in

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s. Nicolaum (acr. Σοί, Νικόλαε, ὄγδοον πρέπει μέλος· Ἰωσήφ, inc. Σὺν ταῖς χορείαις τῶν ἄνω δυνάμεων..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 199 nr. 449), od. iv trop. 3: ...πάσης ῥῦσαι με κολάσεως | καὶ τῆς αἰωνίου κατακρίσεως (PaR, p. 674); cf. anche Symeon, can. in lxiii mart. Hierosol. (acr. Τοὺς τρεῖς πρὸς ἑξήκοντα μάρτυρας σέβω· Συμεῶνος, inc. Τῷ πηγάζοντι ῥεῖθρα σοφίας, Κύριε...), cola 111-112: ...ἡ τεκοῦσα κριτὴν μακρόθυμον, | πρόστηθί μοι τότε καὶ ῥῦσαι κολάσεως (AHG, II, p. 249). [103.] ἀφρόνως πλημμελήσαντα: cf. ad es. Vita s. Symeonis Stylitae iunioris (BHG 1689), § 223 linn. 36-38: ἐδυσώπει τὸν ἅγιον τὴν παρὰ τοῦ Θεοῦ συγχώρησιν ἐπὶ τοῖς παρ’ αὐτοῦ ἀφρόνως πλημμεληθεῖσιν ἐξαιτῆσαι αὐτῷ (ed. van den Ven, Vie ancienne, pp. 194). [105.] τὰ τῆς πονηρίας ὑπέταξας πνεύματα: per l’espressione in ambito innografico cf. ad es. anon., can. in s. Antonium ab. (cit. supra, comm. [40.]), cola 85-87: ...τῆς πονηρίας πνεύματα | ὑποτάξας θείαις δυνάμεσιν, | (...), πάτερ ὅσιε (AHG, V, p. 282). [107.] τὸν προστάτην σε μέγαν πλουτήσαντα: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. paracl. i in s. Nicolaum (acr. Σοί, Νικόλαε, πρῶτον εἰσφέρω μέλος· ἐγὼ Ἰωσήφ, inc. Στεφάνοις κοσμούμενος δικαιοσύνης..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 187-188 nr. 390), od. vi trop. 2: ...τούς σε προστάτην θεῖον πλουτήσαντας (PaR, p. 68); id., can. viii in s. Thomam (acr. Δέχοιο τήνδε τὴν παράκλησιν, μάκαρ· Ἰωσήφ, inc. Δεσμεῖν καὶ λύειν λαβὼν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 115 nr. 44), cola 177-178: ...τοὺς σέ, Θωμᾶ, προστάτην | πε­ πλουτηκότας μέγαν (Toma, Joseph, p. 88). [108.-111.] Ἀκλονήτως ἐν στύλῳ ἱστάμενος ἅπαν τῶν δαιμόνων τὸ στῖφος ἐκλόνη­ σας· ὑφ’ ὧν με νῦν κλονούμενον ἀπερίτρεπτον, πάτερ, συντήρησον: cf. Ioseph Hymn., can. i in s. Alypium (cit. supra, comm. [10.]), od. iv trop. 2: Ἱστάμενος ἐν στύλῳ ἀκλόνητος | ταῖς ἐναντίαις προσβολαῖς, | δαιμόνων στῖφος ἐκλόνησας | καὶ κλονου­ μένοις ἐγένου, | παμμάκαρ, ἀδιάσειστον ἔρεισμα (MR, II, pp. 290-291); cf. anche id., can. paracl. i in s. Io. Bapt. (cit. supra, comm. [14.]), od. v trop. 2, inc. Ὡς στῦλος ἀπερίτρεπτος | (...) | (...), Πρόδρομε, | τὸν λογισμόν μου σαλευόμενον | ταῖς μηχαναῖς τοῦ πλάνου | ἀπερίτρεπτον δεῖξον (PaR, p. 42); id., can. i in s. Stephanum (cit. supra, comm. [10.]), cola 8-14: Ἐν πέτρᾳ τῆς πίστεως | ἐρηρεισμένος | ἀκλόνητος ἔμεινας | προσβολαῖς, μακάριε, | κακῶν·| διὸ μὲ στήριξον πολλοῖς | κακοῖς κλονούμενον (Toma, Joseph, pp. 185-186). [109.] στῖφος: coerentemente con i principi d’edizione adottati, ho normalizzato la grafia στίφος presente in tutti i testimoni — pur segnalata come forse accettabile, accanto alla più consueta grafia con accento circonflesso, ad es. in Thesaurus Grae­ cae Linguae ab H. Stephano constructus, (...) ed. C. B. Hase (...), G. Dindorfius (...), L. Dindorfius (...), VII, Parisiis 1848-1854, coll. 776-777 —, non potendo appurare se tale forma con iota breve sia da considerarsi autoriale o meno, con riferimento anche agli altri non pochi inni di Giuseppe che presentano tale vocabolo. [112.] Μυριάδας δαιμόνων ἐρράπισας: immagine ed espressione già patristiche [cf. ad es. ps.-Bas. Caes., In Barlaam martyrem (CPG 2861; BHG 223): σὺ μόνος δεξιᾷ φλεγομένῃ τὰ τῶν δαιμόνων ἐρράπισας πρόσωπα... (PG 31, col. 488C12-13); Nilus Ancyr., Epist. (CPG 6043), II, 242: ...τῶν φιλορυπάρων δαιμόνων τὰς ὄψεις ῥαπίσομεν (PG 79, col. 325B6-7), che trovano diffusione anche nell’innografia, cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Gregorium Acrit. (cit. supra, comm. [95.-97.]), cola 104-107: Ῥαπισμῷ τῶν μεγίστων ἀγώνων σου, | πάτερ, ἀπερράπισας δαιμόνων

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πρόσωπα | τὸν ῥαπισθέντα Κύριον | διὰ σὲ θεραπεύων, Γρηγόριε (AHG, V, p. 119); id., can. in s. Iulianum mart. Anazarb. (acr. Ἰουλιανὸν ᾄσμασιν περιστέφω· ὁ Ἰωσήφ, inc. Ἱερὸν συνάθροισμα Χριστοῦ..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 170-171 nr. 308), cola 113116, inc. Ῥαπιζόμενος, μάρτυς, καὶ αἵματι | σοῦ περιρρεόμενος, δαιμόνων πρόσωπα | σαῖς καρτεραῖς ἐνστάσεσιν | ἀπερράπισας σθένει τοῦ Πνεύματος (AHG, X, p. 150); cf. anche Theophan., can. in s. Procopium mart. (inc. Πλουσίαις, μαρμαρυγαῖς τοῦ Πνεύματος...), od. viii trop. 2, inc. Τῇ σῇ δεξιᾷ τὰ ζοφερὰ | δαιμόνων πρόσωπα, | μάκαρ, ἐρράπισας... (MR, VI, p. 68). [113.-114.] σοῦ τῇ δεξιᾷ, ἣν πιστῶς ἀσπαζόμενοι χειρὶ Θεοῦ σκεπόμεθα: il verbo ἀσπάζομαι è, nel linguaggio dell’innografia, usatissimo per esprimere l’atto di abbracciare e stringere a sé con venerazione, da parte del fedele, la reliquia o l’icona del santo, cf. Lampe, s.v., 3. Non abbiamo però notizia di una reliquia del braccio di s. Alipio che si conservasse a Costantinopoli, come invece sappiamo di numerosi λείψανα consimili di altri santi (cf. ad es. I. Kalavrezou, Helping Hands for the Empire: Imperial Ceremonies and the cult of Relics at the Byzantine Court, in Byzantine Court Culture from 829 to 1204, ed. by H. Maguire, Washington, D.C. 1997, pp. 5379; F. D’Aiuto, Le ambiguità di un reliquiario. Il «braccio di s. Ermolao» nella pieve di Calci (Pisa), in Erga/Logoi 1 [2013], nr. 2, pp. 31-72). Meglio allora pensare a un contatto metaforico: aggrappandosi idealmente come supplice e stringendosi come devoto alla destra del santo, il fedele ottiene la protezione divina, in una catena di mani — del fedele, del santo, di Dio — che dalla terra giunge fino al cielo (per somiglianza di immagini, cf. anche supra, p. 154, cola [163.-169.]). [119.] ἀφρόνως Θεοῦ μακρυνόμενον: identica espressione ad es. in Ioseph Hymn., can. paracl. viii in B. Mariam Virg. (cit. supra, comm. [35.-36.]), od. iv trop. 1 (PaR, p. 662); id., can. in s. Theodorum Tironem (acr. nell’ode ix: Ἰωσήφ, inc. Ταῖς θεϊκαῖς περιφανῶς λαμπρότησι..., Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 144-145 nr. 183), colon 96: τὸν ἀφρόνως Θεοῦ μακρυνόμενον (AHG, VI, p. 260). [120.-127.] Ἁγίως... ἁγίων... καθαγίασον... ἐναγεστάτην: per analoghi giochi di parole fra la radice di ἅγιος e l’aggettivo ἐναγής cf. ad es. Ioseph Hymn., canon in s. Cononem mart. Isaur. (cit. supra, comm. [8.]), cola 42-48: Ὁ μόνος ἅγιος ἐκ σοῦ | τίκτεται, παναγία, | ὑπὲρ νοῦν τε καὶ λόγον | ἁγιάζων τοὺς βροτούς, | ταῖς ἐναγέσιν ἐχθροῦ | συμβουλίαις | πάθεσι δουλεύοντας (AHG, VII, p. 72); id., Novi Oct. can. iv in ss. apostolos (acr. Μαθητὰς ὑμνεῖν τοῦ Λόγου μέγα κλέος· Ἰωσήφ, inc. Μεθέξει φωτὸς ἀΰλου τὸν νοῦν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 193 nr. 416; D’Amelia, Nuovo Ottoeco, p. 368 can. iv.d), cola 149-154: Οἱ ἅγιοι, | ἐναγῶν θυσιῶν ἀποσχόμενοι, | καθαρά τε | καὶ ἁγία θυσία ἐγένοντο | τῷ τυθέντι Λόγῳ | καὶ ἡμᾶς τοὺς πιστοὺς ἁγιάζοντι (D’Amelia, Nuovo Ottoeco, p. 188). [120.-123.] Ἁγίως τὸν βίον σου διατελέσας ἁγίων λαμπρότησιν, παμμάκαρ, κατεσκή­ νωσας: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Davidem Thessalon. (cit. supra, comm. [59.-61.]), cola 124-127: Ἁγίως τὸν βίον σου | διατελέσας ἐσκήνωσας | νῦν ἐν ταῖς λαμ­ πρότησι | ταῖς τῶν ἁγίων... (ed. Manaphes, Ἀνέκδοτος, p. 566); e, con il dativo semplice come nel nostro caso, id., Novi Oct. canon staurosim. viii (acr. Τῷ προσπαγέντι τῷ ξύλῳ Θεῷ χάρις· Ἰωσήφ, inc. Τῇ ἐκ τοῦ ξύλου ἐνηδόνῳ βρώσει με..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 199 nr. 447; D’Amelia, Nuovo Ottoeco, p. 368 can. viii.c), od. vii trop. 4, inc. Ἁγίων λαμπρότησιν | ἁγιασθέντες | κατεσκηνώσατε... (PaR, p. 664); cf. anche id.,

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can. in s. Zachariam mon. (acr. Τὸν σὸν γεραίρω, παμμάκαρ πάτερ, βίον· Ἰωσήφ, inc. Ταῖς θείαις λαμπρότησι καταυγαζόμενος..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 151 nr. 216), cola 94-95: Ἁγίως τὸν βίον σου, | παμμάκαρ, διετέλεσας... (AHG, VII, p. 269). [129.-136.] Κρυμὸν ἐκαρτέρησας... διό «Με πηγνύμενον... θέρμῃ τῇ πρεσβείας σου» βοῶ, «παμμάκαρ, θάλψον...»: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in ss. Probum, Tarachum et Andronicum (acr. Μέλψοιμι τῶν σῶν μαρτύρων, Σῶτερ, κλέος· Ἰωσήφ, inc. Μαρτυρι­ καῖς ἠγλαϊσμένοι χάρισι..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 116 nr. 47), od. viii trop. 3, inc. Οἱ τῆς Τριάδος πρόμαχοι, | οἱ καλλίνικοι μάρτυρες, | οἱ τῆς ἀθεΐας | τὸν κρυμόν σκεδάσαν­ τες | τῇ θέρμῃ τῆς πίστεως... (MR, I, pp. 409-410); cf. anche, per lessico e immagini, id., can. in ss. Innam, Pinnam et Rhimmam (acr. Τοὺς σοὺς ἀνυμνῶ μάρτυρας, Θεοῦ Λόγε· Ἰωσήφ, inc. Τῷ θείῳ φωτὶ λαμπόμενοι..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 170 nr. 307), od. vi trop. 2: ...ποταμίοις ὑπεβλήθητε | ῥείθροις πηγνύμενοι | καὶ τῇ θείᾳ θέρμῃ | τὸν κρυμὸν τῆς κακίας ἐξαίροντες (Spanos, Leimonos 11, p. 291 linn. 88-90). [129.-132.] Κρυμὸν ἐκαρτέρησας ὕπερθεν στύλου ἐν ἔτεσι πλείοσιν ἱστάμενος: cf. ad es. anon., sticherum in s. Alypium Stylitam, inc. Στῦλος ἐχρημάτισας, | σοφέ, | μοναστῶν, Ἀλύπιε, | ὕπερθεν στύλου ἱστάμενος | καὶ πιεζόμενος | καύσωνι καὶ κρύει... (MR, II, p. 287). [135.] θέρμῃ τῇ πρεσβείας σου: cf. ad. es. anon., sticherum in s. Theoctistum (inc. Ὅτε κατετρώθης τὴν ψυχὴν ἔρωτι...), ...θέρμῃ πρεσβειῶν εὐπροσδέκτων... (MR, III, p. 59). [138.-146.] Αἱ σαὶ πρὸς τὸν Κύριον θεῖαι πορεῖαι... ἀεὶ κατευθυνόμεναι ὁδὸς ἐχρη­ μάτισαν πρὸς σωτηρίαν πολλοῖς... ἐναπομειώσασαι ἐχθρῶν τὰς ψυχοφθόρους πορείας: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Romanum mart. (acr. Θείαις ἐπαινῶ Ῥωμανὸν μελῳδίαις· ἐγὼ ὁ Ἰωσήφ, inc. Θεοφεγγής, ἀθλοφόρε, ἀναδειχθεὶς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 127 nr. 98), cola 178-184, inc. Αἱ πορεῖαι σου, σοφέ, | κατευθυνθεῖσαι τελείως | τῷ μαρτυρίῳ πρὸς τὸν φιλάνθρωπον, | τοῦ δυσμενοῦς πάσας τὰς πορείας | ἀπεστένωσαν σαφῶς | καὶ ὁδὸς πρὸς οὐρανὸν | ἀπάγουσα ὤφθησαν... (AHG, III, p. 461). [147.-151.] Ῥομφαίᾳ με, πάναγνε, τῆς ἁμαρτίας πληγέντα ἰάτρευσον τῇ λόγχῃ καὶ τῷ αἵματι Χριστοῦ: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Aemilianum mart. (acr. Aἰμιλιανοῦ μάρτυρος μέλπω κλέος· Ἰωσήφ, inc. Αἰνέσωμεν σήμερον τὸν ἐπὶ πάντων Θεὸν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 178 nr. 342), od. v theot.: Ῥομφαίᾳ τρωθέντα με | τῆς ἁμαρτίας ἴασαι | τῷ δραστικωτάτῳ σου φαρμάκῳ, | ἡ τὸν σωτῆρα Χριστὸν κυήσασα, | λόγχῃ τὸν τρωθέντα δι’ ἐμέ, | ἄχραντε, καὶ τρώσαντα | τὴν καρδίαν τοῦ ὄφεως (MR, VI, p. 156); anon., can. in B. Mariam Virg. (cit. supra, comm. [15.-18.]), od. iv trop. 2: Ῥομφαίᾳ με | ἡδονῆς τὸν πληγέντα καὶ κείμενον | τραυματίαν, ἄχραντε, | μὴ ὑπερίδῃς, ἀλλ’ ἴασαι | λόγχῃ καὶ τῷ αἵματι | τοῦ σταυρωθέντος Υἱοῦ σου | καὶ Θεοῦ ἡμῶν (PaR, p. 144; ETh, p. 201; cf. anche MR, I, p. 267; VI, p. 243); anon., can. in s. Stephanum (acr. Στέφος λόγων σοι, μαρτύρων, πλέκω, στέφος, inc. Στεφανῖτα μάρτυς τοῦ Χριστοῦ...), cola 97101: Ῥομφαίᾳ δεινῇ | ἁμαρτίας, Δέσποινα, πληγεῖσάν μου | τὴν καρδίαν ἴασαι, | φάρμα­ κον δραστήριον ἐμβάλλουσα | τοῦ Υἱοῦ σου τὸ αἷμα... (AHG, IV, p. 669). [156.-157.] Λῦσον δεσμῶν με πονηρῶν, ὁ δεσμεύσας τὸν ἐχθρὸν δεσμοῖς ἀλύτοις: cf. Ioseph Hymn., can. in s. Michaëlem archang. (acr. Ἀρχιστράτηγε, τὴν ἐμὴν εὐχὴν δέ­ χου· Ἰωσήφ, inc. Ἄρχοντα τῶν ἀγγέλων σὲ ὁ προάναρχος..., cf. Papaeliopulu-Photopulu, Ταμεῖον, p. 86 nr. 202), cola 145-147: Δεσμεύεις ἐχθροὺς πονηροὺς | καὶ ἀπολύεις | δεσμῶν ἀλύτων ἅπαντας... (Toma, Joseph, p. 141); id., can. paracl. vii in s. Nicolaum

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(cit. supra, comm. [12.]), od. v trop. 2, inc. Δεσμὰ τῶν κακῶν ἡμῶν διάρρηξον | ταῖς σαῖς προσευχαῖς, | ὁ δεσμεύσας κακίαν | τοῦ ψυχοφθόρου δράκοντος... (PaR, p. 587). [159.-160.] βηματίζειν ὀρθῶς ταῖς τρίβοις, πάτερ, κατευόδωσον: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. paracl. vii in s. Io. Bapt. (acr. Καὶ τήνδε, κλεινέ, τὴν μελῳδίαν δέχου· Ἰωσήφ, inc. Κόσμος τῆς ἐκκλησίας ὡραϊσμένος..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 197 nr. 437), od. ix trop. 3, inc. Σὺ τὰς ὁδοὺς τὰς φερούσας | πᾶσιν ὑπέδειξας | πρὸς σωτηρίους εἰσόδους, | ἅγιε Πρόδρομε· | αἷς βηματίζειν με | εὐόδωσον... (PaR, p. 570); cf. anche Andr. Cret., can. magn. (inc. Πόθεν ἄρξομαι θρηνεῖν  τὰς τοῦ ἀθλίου μου βίου πρά­ ξεις...), od. v trop. 19 (18), inc. ...πρόσπεσον | τοῖς ποσὶ τοῦ Ἰησοῦ, | ἵνα σε ἀνορθώσῃ, | καὶ βηματίσῃς ὀρθῶς | τὰς τρίβους τοῦ Κυρίου (TR, p. 477; cf. anche A. Giannouli, Die beiden byzantinischen Kommentare zum Großen Kanon des Andreas von Kreta. Eine quellenkritische und literarhistorische Studie, Wien 2007 [Wiener byzantinistische Studien, 26], p. 205 trop. ρμγ΄). [164.-166.] δίδου χεῖρα βοηθείας κειμένοις βόθρῳ παντοίων κακῶν: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Romanum mart. (cit. supra, comm. [138.-146.]), cola 162165, inc. Δίδου μοι | βοηθείας, ἁγνή, χεῖρα | κειμένῳ εἰς βάραθρα | ἀμέτρων πλημμελη­ μάτων... (AHG, III, p. 460). [170.-171.] Πόνους παντοίους ἐνεγκὼν πρὸς τὴν ἄπονον ζωὴν μετῆλθες χαίρων: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. v in s. Stephanum (acr. Δέχοιο πέμπτην, παμμάκαρ, μελῳ­ δίαν· Ἰωσήφ, inc. Δέησιν βραχυτάτην πρὸς σὲ ποιούμεθα..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 137 nr. 144), cola 84-90: Πόνους ἐκαρτέρησας | καὶ πρὸς τὴν ἄπονον | ζωὴν μετέβης· | διὸ τοὺς πόνους | πάντων ἐπικούφισον | ψυχῶν καὶ σωμάτων | τῶν πίστει δυσωπούντων σε (Toma, Joseph, p. 229); id., can. in s. Basilium Ancyranum (acr. Σοῦ τοὺς μεγί­ στους, μάρτυς, εὐφημῶ πόνους· Ἰωσήφ, inc. Σοῦ τὴν βασίλειον δόξαν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 151 nr. 214), od. viii trop. 1: Ὁλικῶς πρὸς τὸ θεῖον | ἀνατεινόμενος, | τοὺς τοῦ σώματος πόνους | ὄναρ λελόγισαι· | ὅθεν πρὸς ζωὴν | μακαρίαν καὶ ἄπονον, | μάρτυς ἀθλοφόρε, | γηθόμενος μετέβης (MR, IV, p. 133); id., Novi Oct. can. iii in ss. apostolos (cit. supra, comm. [41.-42.]), cola 78-83: Ἰδίοις πόνοις, μάρτυρες, | τὴν ἄπονον εἰλή­ φατε | ζωὴν καὶ δόξαν | καὶ ἀφθαρσίαν· | διὸ πόνων καὶ θλίψεων | καὶ κινδύνων ἡμᾶς ἀπαλλάξατε (D’Amelia, Nuovo Ottoeco, p. 162); cf. anche Theoct. Stud., can. xi in s. Athanasium patr. Constantinop., od. vii trop. 2: Πόνοις τὴν ἄπονον | κληρώσασθαι ζωὴν καλῶς ἐσπούδασας· | ὅθεν τοὺς ἡμῶν πόνους κουφίζεις... (ed. AfentoulidouLeitgeb, p. 227); anon., contacium in s. Theodosiam mart. Constantinop., prooem. inc. Τοῖς πόνοις ζωὴν | τὴν ἄπονον κεκλήρωσαι... (ed. S. Kotzabassi, Das hagiographische Dossier der heiligen Theodosia von Konstantinopel [...], Berlin – New York 2009 [Byzantinisches Archiv, 21], p. 162 linn. 315-316). [177.-181.] Ἡ ὑπερούσιος Μονὰς χαρακτῆρσιν ἐν τρισὶ διαιρουμένη... Πατήρ, Υἱὸς γὰρ ἐστὶ καὶ Πνεῦμα ἅγιον: cf. ad es. Io. Maurop., can. in s. Michaëlem archang. (acr. Ὑλικὸν ὕμνον ἀΰλῳ δῶρον φέρω | σοὶ τῷ Μιχαήλ· οἰκέτης Ἰωάννης, inc. Ὕμνον ὑλι­ κὸν καὶ χοϊκὸν...), cola 181-184: Ἰσοσθενὴς ἡ Τριὰς τοῖς προσώποις, | ἰσοκλεὴς ἡ μονὰς τῇ οὐσίᾳ· | Πατήρ, Υἱὸς γὰρ καὶ θεῖον Πνεῦμα, | εἷς τῇ φύσει Θεὸς ἐν χαρακτῆρσι τρισίν (M. S. Anagnostu, Ἰωάννου Μαυρόποδος ἀνέκδοτος παρακλητικὸς κανὼν εἰς τὸν ἀρχάγγελον Μιχαήλ, in Παρνασσός 52 [2010], pp. 173-190: 183). [184.-185.] Σοῦ τὴν νηδὺν καθυποδὺς ὁ καθήμενος, ἁγνή, κόλποις πατρῴοις: cf. ad es. Andr. Cret., Canon in B. Mariae Virg. Annuntiationem, cola 278-280: Τὸν ἐν

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κόλποις τοῦ Πατρὸς | καὶ ἐν νηδύϊ τῆς μητρὸς | συγκαταβάντα... [ed. E. Follieri, Un canone inedito di s. Andrea di Creta per l’Annunciazione (Vat. gr. 2008 e Crypt. Δ.α.VII), in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. card. Albareda a Bibliotheca Apostolica edita, I, Città del Vaticano 1962 (Studi e testi, 219), pp. 335-357: 355]; cf. anche Ioseph Hymn., can. in ss. Demen et Protionem (acr. Σεπτοὺς ἀνυμνῶ θαυματουργοὺς προφρόνως· Ἰωσήφ, inc. Σῶτερ, ἡ πηγὴ τῶν ἀγαθῶν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 156 nr. 238), cola 132-135: Γαστρὸς προεωσφόρου ἐξέλαμψας | τῆς πατρῴας, | ὁ μήτραν πανάμωμον | καθυποδὺς σωματούμενος (AHG, VIII, p. 162); id., can. vi in ss. xl mart. Sebast. (acr. Ἕκτην προσαυδῶ μάρτυσι μελῳδίαν· Ἰωσήφ, inc. Ἐν οὐρανίαις σκηναῖς ἀναπαυόμενοι..., cf. Papaeliopulu-Photopulu, Ταμεῖον, pp. 174-175 nr. 525), cola 44-46: Ὁ ἑαυτὸν κενώσας ἐκ πατρῴων | κόλπων, ἁγνή, καθέζεται ἐν κόλποις | τοῖς σοῖς βροτός, ἄχραντε... (Toma, Joseph, p. 299). [186.-187.] κρατῶν πᾶσαν κτίσιν χερσὶ κρατεῖται ταῖς σαῖς: Theophan., can. in s. Petrum metrop. Nicaen. (acr. Τὸν Πέτρον ὑμνῶ, τὸν σοφὸν θεηγόρον, inc. Τὴν πέτραν τὴν ἀρραγῆ τῆς πίστεως...), cola 148-152: Ὁ θείᾳ δυνάμει συγκρατῶν | τὴν κτίσιν ἅπασαν | καὶ διευθύνων σαφῶς, | χερσὶ κρατεῖταί σου, πάναγνε, | οἷα βρέφος... (AHG, I, p. 225). [188.-190.] ἐξαίρων χειρὸς τὸ ἀνθρώπινον τοῦ... Βελίαρ: a mio parere, si deve qui resistere alla tentazione di correggere ἐξαίρων (da ἐξαίρω: «sollevare») in ἐξαιρῶν (da ἐξαιρέω: «sottrarre», «liberare»). In effetti, nel quinto colon della strofa (colon [188.]: ἐξαίρων χειρὸς τὸ ἀνθρώπινον) è necessario un accento tonico, oltre che sulla terzultima sillaba, anche sulla seconda (- -́ - - - - - -́ - -), garantito quest’ultimo proprio dall’accentazione parossitona di ἐξαίρων. D’altra parte, almeno un altro inno di Giuseppe l’Innografo ci mostra un caso analogo — anch’esso protetto metricamente dalla rispondenza ritmica con le altre strofi della stessa ode — in cui, evidentemente per ragioni legate al ritmo sillabico-accentativo, ἐξαίρω viene ad assumere, come qui, il senso che è più proprio di ἐξαιρέω, cf. Ioseph Hymn., can. in ss. Iacobum et Azen (acr. Δυὰς κροτείσθω μαρτύρων στεφηφόρων· Ἰωσήφ, inc. Δόξης καὶ λαμπρότητος θεϊκῆς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 158 nr. 246), cola 210-216: Φάνηθι, μῆτερ τοῦ Θεοῦ, | (...) | (...) | καὶ δίδου χεῖρα | ἡμᾶς ἐξαίρουσαν | πειρατηρίων χαλεπῶν, | νόσων τε καὶ θλίψεων... (AHG, VIII, p. 218). [191.-193.] Ἰδεῖν κατηξίωσαι, ἀπολυθεὶς τοῦ σώματος, ὀφθαλμὸς ἃ οὐκ εἶδε: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Parthenium ep. Lampsac. (acr. Τῶν θαυμάτων σου τὴν χάριν μέλπω, μάκαρ· Ἰωσήφ, inc. Τῷ φωτὶ τῷ θείῳ συγκραθείς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 143 nr. 178), od. ix trop. 1, inc. Ἰδεῖν κατηξίωσαι, | ἀπολυθεὶς τοῦ σώματος, | τὰ ἀθέατα κάλλη... (MR, ΙΙΙ, p. 531); id., can. in s. Donatum ep. Euroeae (acr. Τῷ παμμεγίστῳ προσλαλήσω Δονάτῳ· Ἰωσήφ, inc. Ταῖς φωτοβόλοις ἀκτῖσι καταυγασθεὶς..., cf. Armati, Giuseppe, p. 148), cola 201-204: Ἰδεῖν τὴν δόξαν | Θεοῦ ἠξίωσαι, | ἀπο­ λυθείς, | Δονᾶτε, τοῦ γεώδους σου σώματος... (AHG, XII, p. 90); cf. anche id., can. in s. Ioseph sponsum Β. Mariae Virg. (acr. Χριστοῦ σε μέλπω δεξιὸν παραστάτην· Ἰωσήφ, inc. Χριστοῦ θεράπον μακάριε..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 136 nr. 139), od. i trop. 3, inc. Ἰδεῖν Xριστὸν κατηξίωσαι | μορφῇ τῇ καθ’ ἡμᾶς νηπιάσαντα... (MR, ΙΙ, p. 685). [193.] ὀφθαλμὸς ἃ: l’elegante anastrofe, che altera il dettato del testo scritturistico (I Cor. 2,9), si deve anche a ragioni metriche, necessitando il terzo colon della strofa un accento sulla terza sillaba. [200.-203.] ἐν ἔτεσιν ἑπτά τε καὶ ἑξήκοντα ἐπὶ κίονος στάσιν ξένην ποιούμενος: cf.

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FRANCESCO D’AIUTO

Ioseph Hymn., can. i in s. Alypium Stylitam (cit. supra, comm. [10.]), od. vi trop. 1, inc. Λίθοις σε τὰ πνεύματα | τῆς κακίας | βάλλοντα σαφῶς | ποιούμενον στάσιν ἐν τῷ κίονι..., e od. ix trop. 3, inc. Στάσιν ἐπὶ κίονος | ἐποιήσω | ἔτεσι, σοφέ, | πεντήκοντα πρὸς τρισίν... (MR, II, pp. 292 e 295). [205.-207.] τὰ πονηρὰ καὶ χρόνια πάθη ψυχῆς μου ἐξάλειψον: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. paracl. i in s. Io. Bapt. (cit. supra, comm. [14.]), od. i theot.: ...πάντα τὰ χρόνια | τῆς παναθλίας μου ψυχῆς | πάθη θεράπευσον (PaR, p. 39); id., can. iv in s. Stephanum (acr. Δέχου τέταρτον ὕμνον ἐξ ἡμῶν, μάκαρ· Ἰωσήφ, inc. Δεσμὰ τῶν ἁμαρ­ τιῶν μου, ἅγιε..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 136 nr. 143), cola 29-30: Τὰ χρόνια τῆς ἐμῆς | πάθη θεράπευσον ψυχῆς, ἅγιε... (Toma, Joseph, p. 217); id., can. in ss. Indem, Domnam et soc. (acr. Φάλαγγα τερπνὴν μαρτύρων ἐπαινέσω· Ἰωσήφ, inc. Φωτοειδεῖς τῇ μετοχῇ τῆς χάριτος..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 130 nr. 114), cola 140-141: Τῆς ψυχῆς μου τὰ πάθη, | ἄχραντε, τὰ χρόνια ἴασαι... (AHG, IV, p. 16). [208.] ἐπιμόνοις ἱκεσίαις σου: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Tychonem ep. Amathuntis (acr. Τῷ θαυματουργῷ προσλαλήσω ποιμένι· Ἰωσήφ, inc. Τῷ θρόνῳ τοῦ Θεοῦ παρεστὼς..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 169 nr. 303), od. i trop. 3: ...διὰ πόνων ἀσκήσεως | ἐπιμόνου τε, πάτερ, δεήσεως (MR, V, p. 301); cf. anche anon., cathisma in s. Phantinum Taurian., inc. Τῇ καθαρᾷ σου πρὸς Θεὸν παρρησίᾳ | καὶ ἐπιμόνῳ πρὸς αὐτὸν ἱκεσίᾳ... (AHG, XI, p. 428). [209.-210.] Στενὴν τεθλιμμένην τε ὁδεύσας τρίβον: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Iohannicium (acr. Τοῦ Προδρόμου σε τὸν μιμητὴν αἰνέσω· Ἰωσήφ, inc. Τῷ φέγγει τῆς χάριτος καταυγαζόμενος..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 123 nr. 79), od. v trop. 1, inc. Ἐβάδισας, ὅσιε, στενὴν καὶ τεθλιμμένην ὁδὸν... (MR, ΙΙ, p. 42); cf. anche Basilius (an Paguriotes?), can. in s. Nicolaum (acr. nei theot. Βασιλείου, inc. Τὸν ποιμένα Χριστοῦ τῶν θρεμμάτων καὶ ὁδηγὸν..., cf. Potenza, Basilio Pegane, pp. 32-37, 48, 68), cola 251-252: Τῆς ἐγκρατείας τὴν τρίβον | διοδεύσας στενήν τε καὶ τεθλιμμένην... (AHG, IV, p. 68); Theophan., can. in s. Mariam Aegypt. (inc. Τὸν ῥύπον τὸν τῶν πται­ σμάτων κάθαρον...), cola 119-120: Τὴν τεθλιμμένην | καὶ στενὴν καθοδεύσασα τρίβον... (AHG, VIII, p. 60). [211.-216.] παραδείσου πρὸς πλάτος χαίρων κατήντησας· «Τῆς στενοχωρούσης με λύπης» ὅθεν βοῶ «λύτρωσαι, παμμάκαρ, πλατύνων ἐν θλίψει με...»: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Arsenium iun. (acr. Τὸν ἡσυχαστὴν Ἀρσένιον θαυμάσω· Ἰωσήφ, inc. Τῆς θείας δόξης πληρούμενος..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 138 nr. 153), cola 4348: Χαίρων διοδεύσας | τὴν σεμνήν, πάτερ, τρίβον, Ἀρσένιε, | δι’ ἐπιπόνου ἀγωγῆς τε | καὶ τραχείας, εὐθέτως νυνὶ | πρὸς πλάτος κατήντησας | τῆς οὐρανῶν βασιλείας... (AHG, V, p. 14); id., can. in s. Alexium (acr. Σὲ τὸν Θεοῦ ἄνθρωπον αἰνέσω, μάκαρ· Ἰωσήφ, cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 150 nr. 209), od. i trop. 1: Στενωτάτην ὥδευσας ὁδόν, | ἄμεμπτον καὶ ὅσιον | βίον, σοφέ, μετελθὼν ἐκ νεότητος· | διό μου τὴν στένωσιν | κατα­ πλάτυνον τοῦ νοὸς εὐφημῆσαι σε | τὸν πρὸς παραδείσου | πλάτος αὐλιζόμενον, Ἀλέξιε (MR, IV, p. 100); cf. anche German., can. in s. Mariam Aegypt. (inc. Τῆς μετανοίας ὑπογραμμὸν τὴν ὁσίαν...), cola 125-128: Τὴν τεθλιμμένην τρίβον | βαδίσασα, θεόφρον, | τοῦ τῆς τρυφῆς παραδείσου | κατήντησας εἰς πλάτος (AHG, VIII, p. 32); Theophan., can. in s. Theoctistum mon. soc. s. Euthymii (acr. Τοὺς σοὺς ἀγῶνας, ὦ Θεόκτιστε, φράσω, inc. Τῆς ἀπαθείας τῷ πόθῳ νυττόμενος...), od. vii trop. 3: ...ἐκ στενῆς γὰρ ὁδοῦ | κατήντησας πρὸς πλάτος | τῆς βασιλείας... (MR, I, p. 43).

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[218.-224.] Ἡ χείρ... ἀχείρωτος: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Eliam proph. (Ὑμνεῖν σε Χριστὸς προσθέτω χάριν, μάκαρ· Ἰωσήφ, inc. Ὑμνολογεῖν σου τὸν βίον..., cf. Armati, Giuseppe, p. 148), cola 157-161: Χεὶρ Κυρίου μετὰ σοῦ ὑπῆρχε πάντοτε, | χειρὸς ἐξαιρουμένου σε | ἀδικωτάτης, | ἀλλὰ δέομαί σου, Ἠλιού, | ἀχείρωτον δεῖξόν με ἐχθροῖς... (AHG, XI, p. 374). [219.] χειραγωγία: cf. ad es. Ioseph Hymn., can. in s. Acacium ep. Meliten. (acr. Πηγήν σε πολλῶν θαυμάτων σέβω, μάκαρ· Ἰωσήφ, inc. Πᾶσαν κακίαν νικήσας..., cf. ­Tomadakes, Ἰωσήφ, pp. 157-158 nr. 245), cola 79-81: ...ἀπλανὴς ὁδὸς ὑπάρχουσα | καὶ χειραγωγία | πάντων, Δέσποινα (AHG, VIII, p. 203). [227.-231.] Φιλάγαθε Δέσποινα, κεκακωμένην πάθεσι τὴν ἀθλίαν ψυχήν μου ὅλην ἀγάθυνον, ἡ τὸν ἀγαθὸν τετοκυῖα: per esempi di loci similes d’intenzione mariana, cf. Ioseph Hymn., can. in s. Menignum mart. (acr. Ἄθλους Μενίγνου χριστοτερπῶς αἰνέσω· Ἰωσήφ, inc. Ἀθλητικῶς ἀριστεύσας καὶ τὸν ἐχθρόν..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 150 nr. 207), cola 269-274: Φιλάγαθε Παρθένε, | κακωθεῖσαν μου τὴν ψυχὴν | πολλαῖς ἐπιβουλαῖς τοῦ πονηροῦ | ἀγαθύνασα, τυχεῖν | τῶν αἰωνίων ἀγαθῶν | Χριστὸν ἱκέτευε (AHG, VII, p. 205); id., can. in s. Cornutum vel Coronatum ep. Icon. (cit. supra, comm. [44.]), cola 187-191: Φιλάγαθε Παρθένε, | τὴν κεκακωμένην | τῇ ἁμαρτίᾳ ψυ­ χήν μου ἀγάθυνον, | ἡ τὸν πανάγαθον Λόγον | ἀποκυήσασα (AHG, I, p. 218). Cf. anche Ioseph Hymn., can. in s. Agathonicum (acr. Ἀγαθονίκου τοὺς πόνους μέλπειν θέμις· Ἰωσήφ, cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 185 nr. 379), od. i trop 1, inc. Ἀγάθυνον, ἅγιε, | κεκακωμένην | ψυχήν μου τοῖς πάθεσιν, | ἀγαθὸς γενόμενος | τοῦ ἀγαθοῦ μιμητής... (MR, VI, p. 476). [232.-233.] θελητὴν... τοῦ ἐλέους: per la medesima espressione scritturistica (Mich. 7,18) cf. Ioseph Hymn., can. in s. Abercium (acr. Ἀβερκίου μέγιστον ἐξᾴ­ δω κλέος· Ἰωσήφ, inc. Αἴγλῃ φαιδρᾷ τῆς τρισηλίου..., cf. Tomadakes, Ἰωσήφ, p. 118 nr. 58), od. iv trop. 2, inc. Ἐλέους | θελητὴν τὸν Κύριον... (MR, I, p. 489). [235.] ἐκτενῶς σε μεγαλύνοντα: cf. ad es. Georg., can. in ss. Michaëlem et Gabrielem archang. (acr. Σὺν Γαβριήλ με, Μιχαήλ, φρουρῶν σκέπε· Γεωργίου, inc. Σαλπίσας ἐξάκουστον ὁ ἀρχιστράτηγος...), cola 269-270: ...ἡμῖν | τοῖς αὐτὸν ἐκτενῶς μεγαλύνου­ σιν (AHG, III, p. 219); anon., can. in dominicam ante Christi Nativitatem (inc. Τῷ ἀναστάντι ἐκ νεκρῶν καὶ Ἀδὰμ τὸν πεσόντα...), cola 283-285: ...ὡς Θεὸν ἡμῶν | ἐκτενῶς οἱ πιστοὶ | ὕμνοις μεγαλύνομεν (AHG, IV, p. 438; cf. anche ibid., p. 439 cola 309-310).

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SIMONA DE CRESCENZO

IL BUON PASTORE DI SANT’AMBROGIO: MEDITAZIONE PER IMMAGINI  Quello di Cristo Buon Pastore è un tema caro a sant’Ambrogio che ne tratta ampiamente nel Commento al Salmo 118, in parte nella Esposizione del Vangelo secondo Luca, in qualche lettera, nel trattato La fede e in alcune altre opere1. Aiutati dalle omelie tenute dal cardinale Dionigi Tettamanzi nel 20022 e nel 20093 in occasione della festa del patrono di Milano e da quella proposta dal cardinale Angelo Scola per la solennità dell’Immacolata Concezione nel 20124, si intende ripercorrere alcuni commenti del santo vescovo riguardanti la figura di Gesù come buon pastore, cercando di affiancare a questo cammino già tracciato un percorso iconografico costituito da una selezione di stampe di epoche diverse conservate prevalentemente nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Le parole evangeliche e altre citazioni bibliche riflesse nel pensiero di sant’Ambrogio saranno richiamate attraverso queste immagini per offrire una sorta di meditazione figurata dei suoi scritti. Scrive il santo nel Commento al Salmo 118: «Infine, se non vuoi prestar fede all’esperienza e al pensiero degli uomini, lasciati ammaestrare dal Signore Gesù in persona! E infatti nel suo Vangelo fu Lui ad affermare che il pastore ha abbandonato le novantanove pecore per andare alla ricerca 1 Mi auguro che questo contributo sia gradito a don Cesare che si è occupato di seguire negli anni passati la ricerca di David Vop—ada, sacerdote della diocesi di Hradec Králové nella Repubblica Ceca, insegnante nella Facoltà cattolica di teologia dell’università Carlo IV di Praga, autore del volume intitolato La mistagogia del Commento al Salmo 118 di sant’Ambrogio, frutto di una tesi di dottorato discussa all’Istitutum patristicum Augustinianum in Roma nel 2012, pubblicato nel 2016 come numero 146 della collana Studia ephemeridis “Augustinianum”. Ho conosciuto personalmente don David durante una visita al Sacro Monte di Varese prima della discussione della sua tesi, ho avuto modo di ascoltare una sua riflessione proposta in occasione della festività di sant’Ambrogio, che mi ha colpito profondamente; sono quindi particolarmente lieta di aver potuto realizzare questo studio. 2 https://www.chiesadimilano.it/wp-content/uploads/2017/03/20030102-Dioc-Vesc-Tettam-Testi Omelie20021207__1.2490.doc, ultima consultazione: 27 novembre 2019. 3 https://www.chiesadimilano.it/wp-content/uploads/2017/03/pontificale-ambrogio__1. 1778. doc, ultima consultazione: 27 novembre 2019. 4 https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/omeliascolasantambrogio, ultima consultazione: 27 novembre 2019.

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SIMONA DE CRESCENZO

Figg. 1a-b. Antonius II Wierix da Bernardino Passeri, Gesù narra le parabole del Buon Pastore, della pecora smarrita e della dramma perduta, incisioni a bulino in Gerónimo Nadal, Evangelicae historiae imagines. Ex ordine Evangeliorum, quae toto anno in Missae Sacrificio recitantur, In ordinem temporis vitae Christi digestae, Antuerpiae 1593. BAV, R.G. Liturg. II.187, tavv. 58 (num. 64) e 65 (num. 71).

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IL BUON PASTORE DI SANT’AMBROGIO: MEDITAZIONE PER IMMAGINI

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dell’una che andava errando. La pecora, che Egli chiama errante, è la centesima: la perfetta interezza di questo numero è di per se stessa istruttiva e significativa. E non senza ragione quella pecora viene preferita a tutte le altre, perché vale di più l’essersi sottratti al vizio che l’averne quasi ignorata

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SIMONA DE CRESCENZO

l’esistenza»5. E nel commento al Vangelo secondo Luca aggiunge: «Egli (Cristo) è dunque un pastore ben provvisto, perché tutti noi siamo la centesima parte della sua proprietà»6. È Gesù, raffigurato proprio nel momento in cui racconta ai discepoli e ai farisei la parabola del buon pastore, il protagonista di due incisioni realizzate da Antonius II Wierix su invenzione di Bernardino Passeri per il volumetto di Gerónimo Nadal, Evangelicae historiae imagines, pubblicato ad Anversa nel 15937. Nella tavola 58 (fig. 1a) Gesù tiene il suo discorso nei pressi di un edificio sul fronte del quale tre tondi ospitano scene della storia riportata nel Vangelo secondo Giovanni (Gv 10), contrassegnate dalle lettere C-E, che vengono descritte nel margine inferiore. Nella tavola 65 (fig. 1b) si fa invece riferimento ai Vangeli di Matteo (Mt 18,12-14) e di Luca (Lc 15,4-10) che trattano delle parabole della pecora smarrita e della dramma perduta, accostamento proposto anche da sant’Ambrogio nella preghiera indirizzata proprio al Buon Pastore, di cui si dirà più avanti. In questa immagine il Figlio di Dio è in primo piano nell’atto di narrare le parabole, sullo sfondo sono contrassegnati con la lettera E il recinto delle novantanove pecore, con la F il pastore alla ricerca della pecora perduta e con la G il pastore che riporta all’ovile la pecora ritrovata; le scene identificate con le lettere I-K sono invece relative all’altro racconto. Sant’Ambrogio identifica Cristo nel pastore che va alla ricerca della pecora smarrita e in lui vede attuarsi alcuni riferimenti dell’Antico Testamento, come la profezia di Ezechiele (34,23): «Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore». Questa visione profetica è interpretata dai fratelli Joseph Sebastian e Johann Baptist Klauber, quasi certamente da un disegno di Johann Adam Stockmann, nella tavola 66 (fig. 2) dell’opera Historiae Biblicae Veteris et Novi Testamentii, pubblicata ad Augusta intorno alla metà del Settecento8: 5 Ambrosius, Expositio Psalmi CXVIII, XXII, 3 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche VIII/II: Commento al Salmo CXVIII (Lettere XII-XXII), introduzione, traduzione, note e indici di L. F. Pizzolato, Milano – Roma 1987 (Tutte le opere di sant’Ambrogio, 10), p. 395]. 6 Ambrosius, Expositionis Evangelii secundum Lucam, II, 210 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/II: Esposizione del Vangelo secondo Luca, introduzione, traduzione, note e indici di G. Coppa, Milano – Roma 1978 (Tutte le opere di sant’Ambrogio, 12), p. 257]. 7 Un esemplare dell’opera è conservato in Biblioteca Vaticana con segnatura R.G. ­Liturg. II.187. Su questa cfr. Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 14501700, XLIV: Maarten de Vos. Text, compiled by C. Schuckman, edited by D. De Hoop Scheffer, Rotterdam 1996, p. 303 nrr. 1554-1562; The new Hollstein Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700. The Collaert dynasty. Part VII, compiled by A. Diels and M. Leesberg, edited by M. Leesberg and K. L. Bowen, Ouderkerk aan den IJssel 2006, pp. 26-30, nrr. 1713-1724. 8 Sull’opera, segnata in Vaticana Cicognara IV.2109obl., si veda M. Lanckoronska  – R. Oehler, Die Buchillustration des XVIII. Jahrhunderts in Deutschland, Osterreich und der Schweiz, Frankfurt am Main 1932, I, p. 92.

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Fig. 2. Joseph Sebastian e Johann Baptist Klauber da Johann Adam Stockmann (?), incisione a bulino in Historiae Biblicae veteris et novi Testamenti..., Augustae Vindelicorum [1750?]. BAV, Cicognara IV.2109obl., tav. 66.



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Fig. 3. Adriaen Collaert da Hans Bol, Il mese di luglio con Cristo Buon Pastore, 1585, incisione a bulino dalla serie Emblemata Evangelica ad XII signa coelestia. BAV, Stampe V.77, tav. 7

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SIMONA DE CRESCENZO

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il Buon Pastore compare nella parte inferiore dell’immagine, nel gruppo di sinistra identificato con il numero 34; nella legenda sono indicati anche il numero del versetto di riferimento e la frase «Suscitabo pastore – UNUM». Come le altre stampe del volume, anche questa presenta una cornice con profilo mistilineo di gusto rococò. Alle parole di Ezechiele e al Vangelo secondo Giovanni fa riferimento anche l’incisione di Adriaen Collaert da Hans Bol del 1585 (fig. 3)9 che mostra Cristo Buon Pastore in un paesaggio rurale estivo riconducibile al mese di luglio per la presenza del segno zodiacale del Leone in alto nel cielo. Il primo riferimento presente sulla stampa è a Ez 34 che veicola il rimprovero di Dio ai pastori di Israele, a cui sembrano connesse le immagini di sfondo; il secondo è a Gv 10, in particolare ai versetti 1-2, 7-9: «In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. [...] Io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo». Il nesso con la stampa è esplicitato dalla presenza dei ladri che cercano di rubare gli animali dalla finestra dell’ovile e dal tetto, mentre Cristo con la pecora sulle spalle, seguito dal suo gregge, si dirige verso la porta. Diversi passaggi dello stesso Vangelo secondo Giovanni sono richiamati contemporaneamente nell’incisione di Philips Galle da Pieter Bruegel il vecchio, del 1565, qui presentata in un esemplare del Rijksmuseum (fig. 4)10. Nella scena principale si vedono i ladri che entrano nell’ovile facendosi largo tra le aperture praticate nel tetto o nelle pareti laterali per rubare le pecore; all’ingresso principale c’è invece Cristo, che incarna la metafora «Io sono la porta». A differenza del pastore in alto a destra, che fugge dal suo gregge quando appare il lupo, quello a sinistra cerca di difenderlo dall’attacco delle bestie feroci. Si allude qui a   9 La stampa, segnata Stampe V.77, tav. 7 fa parte della serie Emblemata Evangelica ad XII signa coelestia, cfr. F. W. H. Hollstein, Dutch and Flemish etchings engravings and woodcuts 1450-1700, III, Amsterdam [1950], p. 51 nrr. 54-65; F. W. H. Hollstein, Dutch and Flemish etchings engravings and woodcuts 1450-1700, IV, Amsterdam [1951], p. 205 nrr. 511-522; The new Hollstein Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700. The Collaert dynasty. Part II, compiled by A. Diels and M. Leesberg, edited by M. Leesberg and A. Balis, Ouderkerk aan den IJssel 2005, p. 6 nr. 232. 10 Per l’incisione, identificata al Rijksmuseum con RP-P-OB-7382, si veda The new Hollstein Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700. Philips Galle. Part. II, compiled by M. Sellink – M. Leesberg, edited by M. Sellink, Rotterdam 2001, p. 19 nr. 146; The new Hollstein Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700. Pieter Bruegel the Elder, compiled by N. M. Orenstein, edited by M. Sellink, Ouderkerk aan den IJssel 2006, p. 11 nr. 3.

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Fig. 4. Philips Galle da Pieter Bruegel il vecchio, La parabola del buon pastore, II stato, 1565 e/o 1595–1633, incisione a bulino. Rijksmuseum, RP-P-OB-7382.

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Cristo-pastore che dà la sua vita per il gregge, nel Vangelo secondo Giovanni si legge infatti anche: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è un pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde» (Gv 10,11-12). Questi versetti trovano la propria traduzione grafica nell’incisione a bulino di Julius Goltzius d’après Maarten de Vos del Rijksmuseum (fig. 5)11. Riassume in un’unica immagine gli argomenti finora trattati la stampa di Camillo Cungi, che compare nel volume del padre Bartolomeo Ricci, Considerationi sopra tutta la vita di n.s. Giesu Christo, pubblicato a Roma da Bartolomeo Zanetti nel 1610 (fig. 6)12. Nel tomo, dedicato a monsignor Marcantonio Tani, Cameriere di Paolo V, la tavola si trova a fronte del capitolo LXXXVIII intitolato Il vero Pastore (p. 88); richiamando la parabola raccontata da Gesù, nel testo si fa esplicito riferimento alle diverse scene identificandole con le lettere dell’alfabeto A-F: «Et disse: chi non entra nella mandra delle pecore per la porta; ma altronde, A si dichiara per ladro: ma chi entra per la porta B è vero Pastore, et à questo il portinaro apre subito, anzi egli chiama le pecore per nome, et le mena in campagna andando loro C avanti, come se dicesse: tanto lontano sono io dall’essere seduttore, che per me come per la porta vera devono entrare, et ridursi nella vera Chiesa tutte le anime, che vogliono salvarsi: onde più tosto dovete havere per sospetti coloro, li quali non credendo in me tentano di entravi per altra via, che quelli, li quali havendo fede in me, entrano per la porta apertali dallo Spirito Santo. Vedi dunque tu, se vuoi essere vera pecorella di Dio, di entrare non solamente per la porta della fede; ma ancora dell’amore di Giesù, che così sicuramente sarai salvo. [...] soggiunse poi, ch’egli non solamente era la porta, per cui entrano le anime nella Chiesa; ma etiandio il Pastore. Et diede per segno della verità, che il vero Pastore espone la vita per le pecorelle (accennando in ciò la sua morte futura) essendo che il mercenario D qua[n]do vede avvicinarsi il lupo fugge, et lascia che il lupo rapisca, et sbrani E le pecorelle, perch’esse non sono le sue. Et attendi quanto è buono questo Pastore, già ch’egli non si cura della sua vita per salute tua. Però sta volentieri appresso di lui, guardando bene di non darti 11 Sulla stampa segnata al Rijksmuseum come RP-P-1982-306-450, cfr. Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700, XLIV: Maarten de Vos. Plates, Part I, compiled by C. Schuckman, edited by D. De Hoop Scheffer, Rotterdam 1995, p. 205, nr. 608/I; Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700, XLIV: Maarten de Vos. Text cit., p. 135, nr. 608. 12 Sull’opera di Cungi per il volume di Bartolomeo Ricci, cfr. Cungi, Camillo in Saur Allgemeines Künstlerlexikon. Die Bildenden Künstler aller Zeiten und Völker, XXIII, München – Leipzig 1999, p. 103. L’esemplare vaticano preso in considerazione è quello segnato Stampe I.214.

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Fig. 5. Julius Goltzius da Maarten de Vos, Cristo Buon Pastore difende le sue pecore dai lupi, II stato, c. 1560 – 1595 e/o 1646, incisione a bulino. Rijksmuseum, RP-P-1982-306-450.

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Fig. 6. Camillo Cungi, Il vero pastore, incisione a bulino in Bartolomeo Ricci, Considerationi sopra tutta la vita di n.s. Giesu Christo … Revista dall’Auttore e migliorata in molte cose, In Roma, presso Bartolomeo Zanetti, 1610. BAV, Stampe I.214, tav. 87 (num. 88).

da te stesso per mezo [sic] del peccato nelle mani del lupo infernale [...] disse per ultimo F a’ suoi ascoltanti ch’egli è il vero, et buon Pastore delle anime, perche le conosce tutte benissimo, et esse conoscono lui per mezo della fede». Il testo si conclude con un invito: «O quanto è vero ch’egli ti conosce non solamente con la sua scienza speculativa; ma etiandio con la pratica amandoti, tenendo il tuo nome scritto nelle sue mani, et facendoti continuamente beneficij! Sia dunque tu ancora diligente in conoscere lui, in amarlo, et in esporre volentieri quanto hai di bello, et di buono per lui». Le parole di padre Ricci approfondiscono ulteriormente il tema del sacrificio che il Buon Pastore compie per le sue pecore e bene introducono l’incisione di Joseph Sebastian e Johann Baptist Klauber da Gottfried

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Bernhard Goz, databile tra il 1737 e il 1741, rifilata e incollata sul foglio 81v del manoscritto conservato nella Biblioteca Vaticana con la segnatura Vat. arm. 15 (fig. 7)13. Molteplici i piani figurativi che si sviluppano sotto il segno zodiacale del cancro, sottintendendo una relazione delle scene con il mese di giugno e con la celebrazione del SS. Corpo e Sangue di Cristo. Il personaggio principale, con la pecora sulle spalle, è al centro della raffigurazione; attorno al suo capo è riportato il versetto di Gv 10,14 «Ego sum Pastor Bonus», anche se erroneamente seguito da «Io. 11.14», e più in alto un agnello immolato su un altare. Alla figura del pastore si affiancano immagini di crocifissione e martirio accompagnate dall’iscrizione «Quasi agnus», mentre sul gruppo di pecore in primo piano si legge «Coram tondente se: Is. 53». Le citazioni richiamano in particolare il versetto 7 del testo di Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca». Queste parole riportano alla memoria quelle di sant’Ambrogio in una delle sue lettere in cui scrive che Gesù è «il vero Davide, il vero umile, il vero mansueto, il vero forte di mano: il Figlio di Dio»14 e, riprendendo l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi, egli dice ancora: «svuotò Se stesso e — nato come uomo da un parto verginale — umiliò Se stesso fino alla morte»; aggiunge poi: «in tali pascoli — con una predicazione divina — pascolava le pecore del Padre suo, quando dava le prove della sua venuta basandosi sulle Scritture, e quando sfamava migliaia e migliaia di persone per cinque pani e due pesci»15. Il vescovo Ambrogio osserva dunque che il gregge portato a pascolo da Gesù appartiene al Padre. L’unione intima tra il Padre e il Figlio Buon 13 Il

manoscritto in questione ai ff. 76r-88r riporta un calendario per l’anno 1762-1763, cfr. Codices Armeni Bybliothecae Vaticanae Borgiani, Vaticani, Barberiniani, Chisiani, schedis F. C. Conybeare adhibitis recensuit E. Tisserant, Romae 1927 (Bybliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti), p. 259. Nello stesso manoscritto sono presenti altre stampe appartenenti alla medesima serie del foglio con il Buon pastore, composta da dodici soggetti ispirati ai mesi dell’anno: al f. 82v il Mese di luglio con sant’Anna e la Madonna in Paradiso attorniate da santi, in primo piano una scena di mietitura e la morte con la falce; al f. 85v il Mese di ottobre con san Francesco in cielo insieme ad altri santi e immagini di vendemmia e fabbricazione del vino; al f. 87v il Mese di dicembre con Maria e Giuseppe, raffigurati in viaggio sotto la neve, mentre cercano un alloggio dove far nascere il figlio Gesù. Sulla serie si veda https://www.abebooks.it/Serie-12-incisioni-1740-Bernhard-Goz/7903505720/bd e http:// ilcollezionismodeisantini.blogspot.com/2011/03/augusta-e-larte-dellincisione-su-rame.html, ultima consultazione: 2 dicembre 2019. 14 Ambrosius, Epistula XXXIX, 11 [Sant’Ambrogio, Discorsi e Lettere II/II: Lettere (36-69), introduzione, traduzione, note e indici di G. Banterle, Milano – Roma, 1988 (Tutte le opere di sant’Ambrogio, 20), p. 57]. 15 Ambrosius, Expositio Psalmi CXVIII, XIV, 4 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche VIII/II: Commento cit., p. 89].

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Fig. 7. Joseph Sebastian e Johann Baptist Klauber da Gottfried Bernhard Goz, Mese di giugno con il Buon Pastore, [1737-1741], incisione a bulino. BAV, Vat. arm. 15, f. 81v.

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Pastore e allo stesso tempo tra questi e le sue pecore, cioè noi, è ricordata in Gv 10,14-15: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore». Il termine “come” indica la profondità di un legame che porta Cristo al sacrificio di sé, nel modo in cui dice il santo: «il Figlio voleva mostrarci che il cibo del Padre è la nostra salvezza, e la gioia del Padre è il riscatto dei nostri peccati […] il Figlio è la vittima offerta per i peccati. Gioisce il Padre per il ritorno del peccatore; prima gioisce il Figlio per aver ritrovato la pecora, affinché tu sappia che uno solo è il gaudio del Padre e del Figlio, una sola l’operazione nel fondamento della Chiesa»16. Nel gesto di Cristo si riflette dunque l’opera di tutta la Trinità e, attraverso il ministero della penitenza, la Chiesa può esercitare il perdono paterno e l’accoglienza del Buon Pastore. «Agnus redemit ovem. Reconciliauit peccatorem», cioè «L’Agnello ha redento la pecora, ha riconciliato il peccatore», così recita l’iscrizione presente sulla stampa di Karel van Mallery da Adam van Noort e Adriaen Collaert appartenente all’opera del gesuita spagnolo Pedro de Bivero, Sacrum oratorium piarum imaginum immaculatae Mariae et animae creatae, ac baptismo, poenitentia, et eucharistia innovatae: ars nova bene vivendi et moriendi, pubblicata ad Anversa nel 1634, in cui la Trinità è raffigurata in maniera davvero singolare (fig. 8)17; lo stesso volto è delineato per le tre persone, che si distinguono solo per i simboli sul petto: un sole raggiante per il Padre, un agnello per il Figlio, ritratto come Buon Pastore, e la colomba per lo Spirito Santo. Sant’Ambrogio invita a gioire il peccatore perché, attraverso la croce, Cristo lo ha liberato e preso su di sé: «Rallegriamoci, dunque, perché quella pecora, che in Adamo era andata perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di Cristo sono le braccia della Croce». E con un accento fortemente personale prosegue: «Là ho deposto i miei peccati, sul capo di quel nobile patibolo ho trovato riposo»18 e aggiunge: «quella pecora, una volta trovata, viene issata sulle spalle del pastore. Tu puoi vedere qui in forma certa il misterioso modo con cui viene rianimata la pecorella stanca, dal momento che la condizione umana così stanca non può essere richiamata alla vita se 16 Ambrosius,

Expositionis Evangelii secundum Lucam, VII, 233 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/II: Esposizione cit., p. 273]; cfr. anche Ambrosius, De Paenitentia, I, 27 [Sant’Ambrogio, Opere dogmatiche III: Spiegazione del Credo, I sacramenti, I misteri, La penitenza, introduzione, traduzione, note e indici di G. Banterle, Milano – Roma 1982 (Tutte le opere di sant’Ambrogio, 17), pp. 189, 191]. 17 Sull’opera di Bivero si veda Antiquariaat FORUM & ASHER Rare Books, Catalogue 112, ’t Goy-Houten 2017, 112, p. 17 cat. nr. 18. La stampa con la Trinità si trova alla p. [459] del volume segnato Cicognara IV.1849bis. 18 Ambrosius, Expositionis Evangelii secundum Lucam, VII, 209 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/II: Esposizione cit., p. 255].

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Fig. 8. Karel van Mallery da Adam van Noort e Adriaen Collaert, Trinità con Cristo Buon Pastore, incisione a bulino, in Pedro de Bivero, Sacrum oratorium piarum imaginum immaculatae Mariae et animae creatae, ac baptismo, poenitentia, et eucharistia innovatae: ars nova bene vivendi et moriendi, Antverpiae, Ex Officina Plantiniana Balthasaris Moreti, 1634. BAV, Cicognara IV.1849bis, p. [459].

non grazie al sacro segno della Passione del Signore e del sangue di Gesù Cristo, di cui il principio sta sulle sue spalle»19. La piccola xilografia realizzata da Hans Sebald Beham per un libro di preghiere di Martin Lutero 19 Ambrosius, Expositio Psalmi CXVIII, XXII, 3 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche VIII/ II: Commento cit., p. 395].

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Fig. 9. Hans Sebald Beham, Il Buon Pastore, xilografia tratta da Martin Luther, Ein seer gut un[d] nützlichs Bettbüchlein..., Nuremberg, Hieronymus Andreae, 1527. BAV, Stampe V.84, tav. 102.

pubblicato a Norimberga da Hieronymus Andreae nel 1527 (fig. 9)20 offre un’immagine intima e allo stesso tempo suggestiva di Cristo che, coronato di spine, porta, come fosse un pesante carico, la pecora sulle spalle e si dirige verso la croce preparata per lui: è il peso dello smarrimento del peccatore quello che Egli ha preso su di sé. Il vescovo declina il tema di Gesù Buon Pastore legandolo spesso a quello della croce; Cristo, dice, «ha assunto il ruolo del pastore e ha esclamato: Il buon pastore mette in gioco la sua vita per le sue pecore. E per questo gregge provvisto di ragione Egli non ha rifiutato di sottoporre alla sofferenza il suo stesso corpo, proprio per ridare nuova vita alla pecorella affaticata, ponendola sulle braccia della sua croce, 20 L’incisione

è stata ritagliata, incollata nel volume Stampe V.84 e numerata come tav. 102, ma fa parte di una serie di dodici legni con illustrazioni bibliche realizzati per l’opera di M. Luther, Ein seer gut un[d] nützlichs Bettbüchlein..., Nuremberg, Hieronymus Andreae, 1527, cfr. F. W. H. Hollstein, German engravings etchings and woodcuts ca. 1400-1700, III: Hans Sebald Beham, Amsterdam [1954], p. 169.

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in esecuzione d’un misericordioso incarico»21 e continua: «Su quella croce infatti Egli ha sorretto le nostre debolezze, per cancellare lì i peccati di tutti. Con motivo gioiscono gli angeli, quando colui che errava ormai non erra più, ormai ha scordato il suo errore»22. Il primo a essere sollevato e a godere del ritrovato riposo dell’anima è il ladrone che Gesù trova accanto a sé sul Golgota; il santo richiama il momento della redenzione di questi per riferirsi, in realtà, ad Adamo: «[Cristo] è tornato indietro a cercarlo, per metterselo sulle spalle da buon pastore e portarselo in paradiso»23. Egli è venuto per realizzare la speranza dei giusti d’Israele, riflessa nelle parole del Salmo 118 al versetto 114: «Ho sperato nella tua parola»; questa frase viene letta da sant’Ambrogio come: «non ho sperato nei Profeti né nella Legge, ma nella tua Parola ho sperato, cioè nella tua venuta: che venissi ad accogliere in Te i peccatori, a rimettere le mancanze, a prenderti sulle spalle, da buon pastore, la pecorella stanca: nella croce»24. Il vescovo non esita ad associare la figura di Cristo-pastore con quella del buon Samaritano, definendoli entrambi “custodi”: come quest’ultimo pose sul proprio giumento il malcapitato, così «anche il pastore caricò su le proprie spalle la pecora sfinita»25. In questo gesto di carità è Dio stesso che accorre in aiuto degli uomini, curandone le ferite del peccato attraverso il proprio Figlio. Quello di Gesù è un amore misericordioso che anche noi siamo chiamati a vivere: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» e anche: «ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me» (Mt 25,40 e 45). Cristo Buon Pastore è ancora una volta il modello da seguire: emblematica in tal senso un’incisione di Peeter van der Borcht che lo raffigura circondato dalle sette opere di misericordia citate nel Vangelo secondo Matteo (fig. 10)26. 21 Ambrosius, Expositio Psalmi CXVIII, XX, 33 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche VIII/II: Commento cit., p. 349]. 22 Ambrosius, Expositio Psalmi CXVIII, XXII, 3 [ibid., p. 395]. 23 Ambrosius, Explanatio Psalmorum XII, XL, 29 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche VII/ II: Commento a dodici salmi, introduzione, traduzione, note e indici di L. F. Pizzolato, Milano – Roma 1980 (Tutte le opere di sant’Ambrogio, 8), p. 67]. 24 Ambrosius, Expositio Psalmi CXVIII, XV, 24 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche VIII/II: Commento cit., p. 157]. 25 Ambrosius, Expositionis Evangelii secundum Lucam, VII, 76 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/II: Esposizione cit., p. 149]; cfr. anche Ambrosius, De Paenitentia, I, 27 [Sant’Ambrogio, Opere dogmatiche III: La penitenza cit., pp. 189, 191]. 26 Sulla stampa si veda The new Hollstein Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700. Pieter van der Borcht, compiled by H. e U. Mielke, edited by G. Luijt ­ en, Rotterdam 2004, p. 115 nr. 124. L’incisione è pubblicata nel Missale romanum, ex decreto sacrosancti Concilii Tridentini restitutum, Pii V... iussu editum. Additis aliquot sanctorum officijs, Antverpiae, Ex Officina Christophori Plantini, 1590; l’esemplare vaticano preso in

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Fig. 10. Peeter van der Borcht, Cristo buon pastore e le sette opere di misericordia, incisione ad acquaforte e bulino in Missale romanum, ex decreto sacrosancti Concilii Tridentini restitutum, Pii V... iussu editum. Additis aliquot sanctorum officijs, Antverpiae, Ex Officina Christophori Plantini, 1590. BAV, R.G. Liturg. I.100, tra le pp. 74-75 (num. 79).

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La misericordia è strettamente legata alla virtù della Carità, protagonista della stampa realizzata da Hieronymus Wierix su disegno di Maarteen de Vos per la serie I quattro nemici della rettitudine (l’eresia, la morte, il diavolo e il mondo) e le Virtù teologali (fig. 11)27. La Carità, personificata da una donna circondata da bambini, mostra a un uomo la retta via da seguire indicando proprio Cristo Buon Pastore; sullo sfondo, a sinistra, la scena del Noli me tangere, a destra, il Figliuol prodigo penitente mentre bada ai maiali e il suo ritorno alla casa del padre. La gioia di colui che si ricongiunge al figlio che credeva ormai perduto è per sant’Ambrogio quella che Dio e il Figlio-pastore insieme provano nel ritrovare la pecora smarrita;

Fig. 11. Hieronymus Wierix da Maarten de Vos, La Carità, [1619-1640], incisione a bulino, IV stato?. BAV, Stampe V.106, tav. 185. considerazione è quello segnato R.G. Liturg. I.100, l’immagine si trova tra le pp. 74-75 ed è stata numerata 79. 27 Sull’incisione, segnata Stampe V.106, tav. 185, cfr. Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700. XLIV: Maarten de Vos. Text cit., p. 232, nrr. 11611164: p. 233 nr. 1164; The new Hollstein Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700. The Wierix family. Part VIII, compiled by Z. van Ruyven-Zeman in collaboration with M. Leeesberg, edited by J. van der Stock and M. Leesberg, Rotterdam 2004, p. 37 nr. 1703; The new Hollstein Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700. The Collaert dynasty. Part VIII cit., p. 73 nr. 2228.

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l’immagine è quindi particolarmente significativa poiché mette visivamente in relazione questi due concetti. In alto si scorge un’anima che arriva in Paradiso, una prefigurazione del premio che spetterà a chi percorrerà la strada indicata dalla Virtù. Ecco quindi indirettamente richiamate le parole di sant’Ambrogio: «Anche tu, allora, sii motivo di gaudio per gli Angeli, essi si allietino per il tuo ritorno»28. E proprio gli angeli sono tra i protagonisti di questo “ritorno” nelle raffigurazioni del giorno del Giudizio, come nell’incisione d’après Maarten de Vos attribuita a Adriaen Collaert, realizzata negli anni ’80 del XVI secolo (fig. 12)29, che li rappresenta nell’atto di eseguire la separazione citata in Mt 25,31-33: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra», di cui si parla anche in Ez 34,17-23: «A te, mio gregge, dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri». È questa la prima di otto tavole appartenenti alla serie Le sette opere di misericordia. La relazione tra il Giudizio finale e le opere di misericordia è sottolineato anche in una stampa di Philippe Thomassin del 1604, che reca nell’arco centrale della complessa struttura architettonica che ospita le scene e le citazioni bibliche, il titolo Giuditio universale secondo l‘opere della misericordia (fig. 13)30. Si tratta di una elaborata composizione, al centro della quale è raffigurato il Giudizio: anche qui in primo piano è posto un angelo che separa le anime dei giusti da quelle dei dannati servendosi per gli uni della palma e del ramo d’ulivo, per gli altri di una spada fiammeggiante. L’iscrizione in basso, apposta su un drappo, sintetizza il contenuto di Mt 25,31-46 che accenna al prezioso premio preparato nel giorno del giudizio per coloro che hanno agito con generosità e alla condanna eterna che riceverà invece chi non ha agito con misericordia verso il prossimo. Intorno alla scena centrale contrassegnata dalla lettera D, in alto a sinistra si vede il dettaglio con il pastore, indicato con la lettera A, che reca un’iscrizione relativa a Mt 28 Ambrosius, Expositionis Evangelii secundum Lucam, VII, 210 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/II: Esposizione cit., p. 257]. 29 Per l’incisione, segnata Stampe V.106, tav. 195, si veda Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700, XLIV: Maarten de Vos. Plates, Part I cit., p. 212 nr. 621/I; Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700, XLIV: Maarten de Vos. Text cit., p. 139 nr. 621; The new Hollstein Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700. The Collaert dynasty. Part II cit., p. 100 nr. 320. 30 L’incisione, con segnatura Stampe V.141, tav. 102, fa parte di una serie di otto soggetti relativi alle opere di misericordia dedicati dal Thomassin al cardinale Séraphin Olivier, cfr. E. Bruwaert, La vie et les oeuvres de Philippe Thomassin, graveur troyen, 1562-1622, Troyes & Paris 1915, p. 85, nrr. 259-266.

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Fig. 12. Adriaen Collaert (attr.) da Maarten de Vos, Il Giudizio finale: la separazione delle pecore dai capri, I stato, 1581-82, incisione a bulino dalla serie Le sette opere di misericordia. BAV, Stampe V.106, tav. 195.



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Fig. 13. Philippe Thomassin, Giuditio universale secondo l’opere della misericordia, 1604, incisione a bulino dalla serie Le opere di misericordia. BAV, Stampe V.141, tav. 102.

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25,32-33: «E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra». L’immagine di san Giovanni Evangelista, posta più in basso, è invece accompagnata da un’iscrizione (lettera B) che si riferisce alla predicazione di san Giovanni Battista (Mt 3 e Lc 3), così come quella indicata dalla lettera C con la relativa raffigurazione di un uomo che abbatte con la scure un albero che non porta più buoni frutti. La scena contrassegnata con la E è correlata alla parabola del ricco cattivo e del povero Lazzaro narrata in Lc 16, mentre l’effige dell’altro evangelista, probabilmente Luca, è affiancata da un’iscrizione (lettera F) che si riferisce a Lc 6,36: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» e alla Lettera di Giacomo 2,13: «il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio»; la G è associata all’immagine inerente alla parabola delle dieci vergini e l’iscrizione ne sintetizza il messaggio relativo alle cinque stolte che rimasero escluse dalle nozze (Lc 25,1-13). Particolarmente suggestiva è la visione della Gerusalemme celeste nel frontespizio inciso da Johann Ulrich Krauss per l’opera Historischer Bilder Bibel Fünffter Theil… des Neuen Testaments…, pubblicata ad Augusta nel 1705 (fig. 14)31: per accedere alla Città santa raffigurata sullo sfondo dell’arco trionfale è necessario attraversare la porta sulla quale si legge: «Ich bin die Tür zu den Schafe / Io. 10» cioè «Io sono la porta per le pecore», frase citata nel Vangelo secondo Giovanni. Ancora una volta viene ribadito, anche graficamente, che questa porta è Cristo che, risorto, mostra ancora su di sé i segni della Passione; alle sue spalle le pecore salvate, le uniche ad aver oltrepassato quella soglia, perché, come si legge nella iscrizione posta sulla trabeazione, esse hanno ascoltato la sua voce: «Meine Schaufe horen m[eine] Stim[me]». L’apertura è collocata all’interno di una complessa struttura tardo barocca che nella sfarzosità delle forme anticipa già il nascente rococò: ricche colonne festonate, erette su basamenti illuminati da candelabri a forma di angeli, sostengono guglie preziosamente adornate con le statue dei dodici apostoli; al di sotto della base sulla quale poggia il simulacro di Pietro, verticalmente collegata con la figura di Cristo, in una piccola edicola, l’immagine di san Giovanni Battista nel deserto. Decisamente più tradizionale è l’iconografia della Città celeste proposta nella stampa intitolata Et vitam aeternam Amen realizzata da Johannes I Sadeler su invenzione di Maarten de Vos per la serie Il Credo degli Apostoli 31 Per

l’opera si veda Hollstein’s German engravings, etchings and woodcuts, XIX, compiled by R. Zijlma, Amsterdam 1976, p. 147 nrr. 573-712. L’esemplare vaticano considerato è segnato Cicognara VII.2119a e la stampa in questione è identificata come tav. [112].

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Fig. 14. Johann Ulrich Krauss, Arco trionfale con Cristo e gli Apostoli, incisione a bulino in Historischer Bilder Bibel Fünffter Theil… des Neuen Testaments…, In Augspurg 1705. BAV, Cicognara VII.2119a, tav. [112].

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del 1578-1579 (fig. 15)32: in primo piano, l’evangelista Giovanni è intento a descrivere la nuova Gerusalemme che l’angelo gli mostra. Nelle iscrizioni si richiamano Ap 21,3: «… Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà “Dio-con-loro”», Is 60,20-21: «Il Signore sarà per te luce eterna; saranno finiti i giorni del tuo lutto. Il tuo popolo sarà tutto di giusti, per sempre avranno in possesso la terra» e 1Cor 2,9: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano».

Fig. 15. Johannes I Sadeler da Maarten de Vos, Et vitam aeternam Amen (la Gerusalemme Celeste), 1579, incisione a bulino dalle serie Il Credo degli Apostoli. BAV, Stampe V.106, tav. 187. 32 Sulla

stampa, segnata Stampe V.106, tav. 187, cfr. Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700, XLVI: Maarten de Vos. Plates, Part II, compiled by C. Schuckman, edited by D. De Hoop Scheffer, Rotterdam 1995, p. 47 nr. 882; Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700, XLIV: Maarten de Vos. Text cit., pp. 190-191 nr. 882.

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I temi della luce eterna di Dio e del “viaggio” che l’uomo compie per giungere a essa sono richiamati nella stampa di Pietro Santi Bartoli raffigurante una Lampada funeraria con il Buon Pastore, pubblicata nel 1691 nell’opera di Giovanni Pietro Bellori Le antiche lucerne sepolcrali figurate Raccolte dalle Cave sotterranee, e Grotte di Roma (fig. 16)33. Queste lampade venivano collocate nelle tombe del defunto per illuminare la strada verso l’aldilà ed è significativo che in questo caso sia stata scelta proprio la figura del Buon Pastore, riconosciuto guida sicura verso la meta celeste. La lucerna rappresenta una preghiera silenziosa, quella che i parenti del

Fig. 16. Pietro Santi Bartoli, Lampada funeraria con il Buon Pastore, incisione a bulino, in Giovanni Pietro Bellori, Le antiche lucerne sepolcrali figurate Raccolte dalle Cave sotterranee, e Grotte di Roma. Nelle quali si contengono molte erudite Memorie..., In Roma, Nella Stamparia di Gio. Francesco Buagni, 1691. BAV, Cicognara VI.3609, pt. II, tav. 29. 33 L’opera è citata in A. Petrucci, Bartoli, Pietro Santi, in Dizionario biografico degli italia-

ni, VI, Roma 1964, p. 587. L’esemplare vaticano preso in considerazione è segnato Cicognara VI.3609 e l’incisione menzionata è la tav. 29 della seconda parte.

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defunto rivolgono a Dio per lui; le parole di sant’Ambrogio nel commento a Luca certamente aiutano in questa supplica: «Noi siamo pecore, preghiamolo che si degni di condurci ad acque che ristorano; siamo pecore, ripeto, chiediamogli i pascoli; siamo dramme, teniamo alto il nostro valore; siamo figli, affrettiamo il passo verso il padre»34. Questa invocazione sembra trovare naturale prosecuzione nella Lettera 11 in cui si legge: «Questo ‘Bene’ che ‘Dio benevolo dà a quelli che glielo chiedono’, venga nella nostra anima, nell’intimo della nostra mente. Questi è il nostro tesoro, questi la nostra via, questi la nostra sapienza, la nostra giustizia, il nostro pastore e il pastore buono, questi è la nostra vita. Tu vedi quanti beni ci sono in un solo Bene»35; il perfezionamento del discorso è contenuto nel trattato La fede, in cui il vescovo Ambrogio asserisce che Gesù «non è soltanto buono, ma anche buon pastore, cioè buono non soltanto per sé, ma anche per le sue pecore. Ché il buon pastore dà la vita per le sue pecore. Certamente egli dette la vita per elevare la nostra»36. Per comprendere fino in fondo l’importanza che Cristo pastore ha rivestito nel magistero di sant’Ambrogio è indispensabile meditare un’intensa preghiera da lui scritta con il tono di una supplica, immaginando di parlare come la pecora perduta che si rivolge al suo pastore. Attraverso questa preghiera egli rilegge e attualizza la Sacra Scrittura. Traendo ispirazione dall’ultimo versetto dal Salmo 118 «Come pecora smarrita vado errando; cerca il tuo servo, perché non ho dimenticato i tuoi comandamenti» il vescovo ripercorre, fondendoli insieme, i Vangeli Mt 18, Lc 15 e Gv 10, per poi richiamare il dolore dell’uomo allontanato dal Paradiso a causa del peccato e infine implorare la liberazione per giungere alla gioia senza fine. Facendosi portavoce di tutto il popolo di Dio, chiede: «Vieni, dunque, Signore Gesù, cerca il tuo servo, cerca la tua pecora spossata. Vieni, pastore, cerca, come cercava, le pecore Giuseppe. È andata errando la tua pecora finché Tu indugiavi, finché Tu ti intrattenevi sui monti. Lascia stare le tue novantanove pecore e vieni a cercare quell’una che è andata errando. Vieni senza i cani, vieni senza i rudi salariati, vieni senza il mercenario che non sa passare attraverso la porta. Vieni senza aiutante, senza intermediari, ché già da tanto tempo sto aspettando la tua venuta [...]. Vieni, ma senza 34 Ambrosius,

Expositionis Evangelii secundum Lucam, VII, 211 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/II: Esposizione cit., p. 257]. 35 Ambrosius, Epistulae, XI, 6 [Sant’Ambrogio, Discorsi e Lettere II/I: Lettere (1-35), introduzione, traduzione, note e indici di G. Banterle, Milano – Roma, 1988 (Tutte le opere di sant’Ambrogio, 19), p. 119]. 36 Ambrosius, De Fide, II, 2, 25 [Sant’Ambrogio, Opere dogmatiche I: La fede, introduzione, traduzione, note e indici di C. Moreschini, Milano – Roma 1984 (Tutte le opere di sant’Ambrogio, 15), p. 141].

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bastone; con amore, invece, e con atteggiamento di clemenza [...]. Non esitare ad abbandonare sui monti le tue novantanove pecore, perché, fin che stanno sui monti, non subiscono gli attacchi dei lupi rapaci […]. Vieni piuttosto da me, che sono oppresso dall’attacco dei lupi feroci. Vieni da me che, cacciato dal paradiso, subisco da un pezzo i morsi del veleno nella piaga provocata dal serpente; da me che sono andato errando lontano da quel tuo gregge sui monti [...]. Cerca me, perché io ricerco Te. Cercami, trovami, sollevami, portami. Tu puoi trovare quello che ricerchi. Tu accetti di prendere su di Te quello che hai trovato; di porre sulle tue spalle quello che hai accolto. Non ti dà noia un peso d’amore, non ti è di peso un trasporto che sa di giustizia […]. Vieni, o Signore, perché Tu sei l’unico che possa far tornare indietro una pecora vagabonda, senza far rattristare quelli che hai lasciato. Perché anche loro si rallegreranno del ritorno del peccatore. Vieni ad operare la salvezza sulla terra, la gioia in Cielo [...]. Portami sulle spalle nella croce, che è salvezza degli erranti, nella quale sola trova riposo chi è stanco, nella quale sola trova vita l’uomo che muore»37. La richiesta di aiuto di chi si è smarrito e il dolore per essersi allontanato sono ben espressi nell’incisione di Karel van Mallery da Adam van Noort e Adriaen Collaert, pubblicata nella già citata opera di Pedro de Bivero del 163438. L’iscrizione nel margine superiore «EXEMPLAR CONTRITIONIS / Errans ouis de pastore ammisso dolens» richiama il capitolo 15 del Vangelo secondo Luca, mentre quella nel margine inferiore «DAVID ERRANS, ET DOLENS / Miserere mei Deus, secundùm magnam misericordiam tuam» è una invocazione accorata di perdono rivolta a Dio che è Misericordia (fig. 17). La serenità trasmessa dall’immagine delle pecore al pascolo riporta alla mente il Salmo 22(23): «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce». Al di là della semplicità della raffigurazione, alcuni elementi ne sottolineano il significato simbolico: il pastore, che va a liberare la pecora incastrata tra i rami di una pianta spinosa, indossa un cappello coperto di gigli e di rose: sono i fiori di cui san’Ambrogio, riferendosi ai «buoni pascoli», dice: «Là puoi cogliere il fiore novello che ha effuso il buon profumo della Risurrezione. Puoi cogliere il giglio, cioè lo splendore dell’eternità. Puoi cogliere la rosa, cioè il sangue del corpo del Signore»39; un altro elemento naturale che assume valore figurativo è il sole che torna a splendere 37 Ambrosius,

Expositio Psalmi CXVIII, XXII, 28-30 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche VIII/II: Commento cit., p. 417]. 38 Cfr. p. 192 di questo contributo. La stampa è alla p. [215] del volume nell’esemplare Cicognara IV.1849bis. 39 Ambrosius, Expositio Psalmi CXVIII, XIV, 2 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche VIII/II: Commento cit., p. 87].

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facendosi largo tra le nubi, per illuminare il gesto del liberatore che porta all’animale perduto la speranza della salvezza: è la luce di Dio che vince le tenebre del peccato.

Fig. 17. Karel van Mallery da Adam van Noort e Adriaen Collaert, Exemplar contritionis, incisione a bulino in Pedro de Bivero, Sacrum oratorium piarum imaginum immaculatae Mariae et animae creatae, ac baptismo, poenitentia, et eucharistia innovatae: ars nova bene vivendi et moriendi, Antuerpiae, Ex Officina Plantiniana Balthasaris Moreti, 1634. BAV, Cicognara IV.1849bis, p. [215].

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Fig. 18a. Louis-Pierre Lasnier su disegno di Eugène Laville, La Brebis Perdue, 1860-1869, litografia. BAV, Stampe III.57, tav. 11.

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Fig. 18b. Louis-Pierre Lasnier su disegno di Eugène Laville, La Brebis Sauvée, 1860-1869, litografia. BAV, Stampe III.57, tav. 12.

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Il grido del misero viene ascoltato da Cristo che si precipita dalla pecora imprigionata dai rovi del peccato anche nella splendida litografia di ­Louis-Pierre Lasnier su disegno di Eugène Laville intitolata La Brebis Perdue (fig. 18a)40 databile tra il 1860 e il 1869 in quanto pubblicata con l’indirizzo dell’editore Ch. Letaille, Editeur Pontifical, rue Garancière, 15, Paris. Il Buon Pastore, cita l’iscrizione, dimentica che la sua vigna si è trasformata in spine e il riferimento a Isaia ricorda che offre sé stesso per salvare la pecora smarrita: a differenza di quanto avviene nella stampa Exemplar contritionis di van Mallery, Egli porta impressi nel corpo i segni di quel sacrificio, sul suo cappello non ci sono fiori, ma la corona di spine, e le sue mani, già ferite dai chiodi della croce, riprendono a sanguinare per allontanare quei rami che costringono l’animale. Gesù non è solo in questa opera di salvezza, accanto a Lui è sua madre, Maria, la divina pastora, che cura le ferite delle pecore che Egli ha affrancato e le accudisce con amore. Così Ella è raffigurata in un’altra litografia di Lasnier che fa da pendant a quella precedente ed è intitolata La Brebis Sauvée (fig. 18b)41. La citazione riportata sulla stampa questa volta si riferisce implicitamente alla Lettera di san Paolo ai Romani 5,20: «Laddove il male — quindi il peccato — abbonda, la grazia sovrabbonda»; l’iscrizione continua sottolineando che «le ferite del peccato sono affidate alle cure di una madre, perché un padre perdona, ma una madre dimentica! Ecco perché Dio si cela in Maria ed è per questo che si dice che Lei è il sorriso più bello della Sua misericordia». Sant’Ambrogio manifesta nei suoi scritti una profonda venerazione per la Madre di Gesù riconoscendone il ruolo fondamentale nel mistero della Redenzione; è Lei il modello da imitare, per tutti, e ce lo dice anche con queste parole: «Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio»42. Tornando alla preghiera del santo vescovo, il concetto dell’anima che trova riposo in Cristo Buon Pastore è richiamato nel frontespizio inciso da Jan Sadeler I su invenzione di Maarten de Vos per l’opera Oraculum anachoreticum pubblicata a Venezia nel 1600 con la dedica a Clemente VIII (1592-1605) (fig. 19)43. Al centro del monumento, elemento principale della 40 L’opera

è identificata dalla segnatura Stampe III.57, tav. 11. litografia è segnata Stampe III.57, tav. 12. 42 Ambrosius, Expositionis Evangelii secundum Lucam, II, 26 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/I: Esposizione del Vangelo secondo Luca, introduzione, traduzione, note e indici di G. Coppa, Milano – Roma 1978 (Tutte le opere di sant’Ambrogio, 11), p. 169]. 43 L’esemplare dell’opera preso in considerazione è quello segnato Cicognara IV.2073 (int. 1). Per la stampa cfr. Hollstein’s Dutch and Flemish etchings, engravings and woodcuts ca. 1450-1700, XXI, edited by K. G. Boon, Amsterdam 1949, p. 153 nr. 437; Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700, XLVI: Maarten de Vos. Plates, Part. II, compiled by C. Schuckman, edited by D. De Hoop Scheffer, Rotterdam 1995, p. 83 nr. 1050; 41 La

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Fig. 19. Jan Sadeler I da Maarten de Vos, Frontespizio di Oraculum anachoreticum, [Venezia, l’Autore], 1600, incisione a bulino. BAV, Cicognara IV.2073 (int.1), front. (num. 1).



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composizione, si vede proprio una statua del Figlio di Dio con la pecora sulle spalle e il gregge intorno a lui; essa poggia su un basamento sul quale si legge «REQVIE ANIMAE». Sugli stipiti laterali è raffigurato come esempio di «OBEDIENTIA» Abramo, fermato dall’angelo nell’atto di sacrificare il figlio Isacco, mentre l’«HVMILITAS» è rappresentata da Davide vincitore sul gigante Golia; in primo piano, ai lati della costruzione, le figure sedute della Pace e del Silenzio. Il senso della complessa iconografia è ben sintetizzato nell’iscrizione nel margine superiore: «Templa vetusta vides ? sunt hic oracula Patrum, quos bonus huc egit Pastor, et alma quies. Hic tibi Pax, linguaeq[ue] tenens moderamina virtus, quaeq[ue] libens paret, quaeq[ue] subesse facit». Un significativo esempio di umiltà e di obbedienza è quello descritto nell’ultimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni (21,15-17) in cui per ben tre volte Gesù chiede a Pietro se lo ama e per altrettante volte egli risponde: «Signore, tu lo sai che ti voglio bene»; il Maestro, Buon Pastore, allora lo invita: «Pasci le mie pecorelle» e lui accetta, prendendo simbolicamente con sé le chiavi della Chiesa che il Signore gli pone dinanzi. L’episodio è abilmente riproposto nell’incisione di Pietro Santi Bartoli su disegno di Charles Erard (fig. 20)44 in cui l’apostolo è inginocchiato al cospetto di Gesù nell’atto di ammansire un leone, che non è più una minaccia per le pecore a lui affidate. Sul capo di Pietro gli angeli, uno dei quali in sella all’aquila simbolo dell’evangelista Giovanni, stanno per porre la tiara papale, a conferma del suo “sì”. La missione affidata a Pietro e poi agli altri papi, ai vescovi, ai sacerdoti e a tutti i consacrati e il dialogo che intercorre tra Cristo e l’apostolo diventano per sant’Ambrogio un prezioso oggetto di riflessione; egli ci aiuta a comprendere come questo ministero di guida, cura e difesa del gregge, cioè del popolo di Dio, sia affidato da Cristo stesso ad altri pastori riportandoci alla mente l’episodio della nascita di Gesù: «Guardate i primordi della Chiesa che sorge: Cristo nasce, e i pastori cominciano a vegliare per radunare nell’atrio della casa del Signore le greggi dei Gentili, che vivevano come tante pecore, affinché non subissero le irruzioni delle bestie spirituali, favorite dalle tenebre incombenti della notte. E bene si dice che i pastori vegliano, perché lo stesso buon Pastore è il loro modello di vita. Pertanto il gregge è il popolo, la notte il mondo, e i pastori sono i vescovi. Oppure pastore è anche colui al quale si dice: Sii vigilante e rafforza, perché il Signore ha incaricato della cura del gregge non soltanto Hollstein’s Dutch & Flemish etchings, engravings and woodcuts 1450-1700, XLIV: Maarten de Vos. Text cit., p. 212 nr. 1050. 44 L’incisione è segnata Stampe V.144, tav. 74.

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Fig. 20. Pietro Santi Bartoli su disegno di Charles Erard, Cristo affida a Pietro la guida della Chiesa, [1650-1700], incisione a bulino. BAV, Stampe V.144, tav. 74.



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i vescovi, ma vi ha destinato anche gli angeli»45. A proposito delle bestie spirituali aggiunge: «Non sono forse da paragonare a codesti lupi gli eretici, i quali stanno in agguato presso gli ovili di Cristo, e fremono attorno ai recinti più di notte che di giorno? È sempre notte per gli increduli, i quali, per quanto è loro possibile, si dànno da fare per offuscare e oscurare la luce di Cristo con le nebbie di interpretazioni sinistre […]. Stanno a spiare quando il pastore è assente, e per questo fanno di tutto sia per uccidere sia per esiliare i pastori delle Chiese, perché se i pastori sono presenti, non possono assalire le pecore di Cristo»46. Dalle sue parole è evidente come il vescovo Ambrogio abbia sentito fortemente la responsabilità di questo compito, che anche a lui era stato affidato; durante la sua vita egli si è sforzato di metterle in pratica portando la luce di Cristo ai non credenti, seguendo con fede il modello del Buon Pastore47.

45 Ambrosius,

Expositionis Evangelii secundum Lucam, II, 50 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/I: Esposizione cit., p. 193]. 46 Ambrosius, Expositionis Evangelii secundum Lucam, VII, 49-50 [Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/II: Esposizione cit., p. 129]. 47 E sulle sue tracce si muove don Cesare: ecco il vero motivo della dedica a lui di questo testo! Egli sa prendersi cura non solo delle anime, ma delle persone in tutta la loro complessità, accogliendole, cercandole nei momenti in cui il dolore o il disagio le porta a nascondersi o a fuggire, curando le ferite inferte loro dalla vita, facendo sentire ognuno unico sotto il suo sguardo amorevole, donandosi con generosità, portando con sé il sorriso di Dio e la gioia del Suo perdono.

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IL POEMA GENOVESE SULLA PRESA DI ALMERIA NEL 1147 (AMBR. TROTTI 330) Non molte indagini sono state dedicate alla storia del fondo Ambrosiano Trotti, la più approfondita è quella condotta dal dedicatario di questa Festschrift, che illustrò come Pietro Mazzucchelli avesse lavorato, in aiuto alla famiglia Trivulzio, presso cui svolgeva le mansioni di bibliotecario, per organizzare una divisione dei manoscritti fra il marchese Gian Giacomo (1774-1831) e Cristina (1808-1871), figlia del fratello di lui marchese Gerolamo (1778-1812). La divisione avvenne nel 1816. Cristina sposò nel 1824 il principe Emilio Barbiano di Belgioso; l’unica figlia ed erede, Maria (1838-1913), andò sposa al marchese Ludovico Trotti Bentivoglio (18221914): nel 1907 la coppia donò all’Ambrosiana la maggior parte di quei manoscritti, che vi divennero il Fondo Trotti1. Mazzucchelli poteva ben valutare in vista della divisione: le sue competenze paleografiche e filologiche sono riconosciute ed emergono dai fogli con parere attorno a datazione di codici e identificazione di testi, vergati nella sua riconoscibile scrittura, che oggi si incontrano numerosi, allegati ai codici stessi, soprattutto nelle biblioteche Ambrosiana e Trivulziana. La sua generosa disponibilità e il ruolo straordinario che ebbe nel salvare il salvabile all’epoca delle soppressioni conventi deve ancora venire adeguatamente studiato2. L’inventario 1 C. Pasini, Dalla biblioteca della famiglia Trivulzio al Fondo Trotti dell’Ambrosiana (e «L’inventario di divisione» Ambr. H 150 suss. compilato da Pietro Mazzucchelli), in Aevum 67 (1993), pp. 647-685; uno sguardo rapido sul Fondo Trotti: P. F. Fumagalli, Raccolte significative di manoscritti: Mosè Lattes, fondo Trotti, Giuseppe Caprotti, in Storia dell’Ambrosiana: l’Ottocento, Milano 2001, pp. 167-211: 178-182, 208-209. Su Mazzucchelli (1762-1829), soprattutto in Ambrosiana: C. Pasini, Libri e manoscritti entrati in Ambrosiana tra il 1695 e il 1815, in Storia dell’Ambrosiana: il Settecento, Milano 2000, pp. 113-165: 113-114, 146-147, 151, 157-158, 161, 163-165; M. Rodella, Libri e manoscritti entrati in Ambrosiana tra il 1815 e il 1915, in Storia dell’Ambrosiana: l’Ottocento cit., pp. 213-239: 215-217, 233-234; M. Roda, Mazzucchelli Pietro, in Dizionario biografico degli italiani 72 (2008), on line; F. Lo Conte, L’edi­tio princeps della Iohannis di Corippo curata da Pietro Mazzucchelli: un exemplum di filologia formale nella Milano del primo Ottocento, in Aevum 86 (2012), pp. 287-365; G. Frasso – M. Rodella, Pietro Mazzucchelli studioso di Dante: sondaggi e proposte, Roma 2013; G. Frasso, Una biblioteca, un bibliotecario e tre maestri, Roma 2019, pp. 65-161. 2 S. Castelli, Un antico elenco braidense e i codici dei “conventi soppressi” nelle biblioteche milanesi, in Italia medioevale e umanistica 34 (1991), pp. 199-257: 206-254; Frasso – Rodella, Pietro Mazzucchelli studioso cit., pp. 105-109.

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di divisione della biblioteca Trivulzio, articolato in due liste, Piede A per Gian Giacomo e Piede B per Cristina, si conserva in minuta, compilato di suo pugno da Mazzucchelli, su fogli sciolti uso protocollo (Ambr. H 150 suss.): i volumi portano una numerazione progressiva, che comincia da 1 per ogni Piede, vengono identificati con titolo, materia scrittoria (carta o pergamena), secolo, formato approssimativo, stima economica espressa in Lire. Tutti i codici dei Trivulzio gli erano familiari, e molte sue note sparse nei codici Trotti rivelano che il suo occhio acuto aveva colto il valore particolare di certi manoscritti. Uno di questi è l’attuale Ambr. Trotti 330. Si tratta del «Poema De expugnatione Almeriae per Ianuenses et Comitem Barcinonensem peracta anno 1147, cod. in pergamena del sec. XII in 8°, £ 15» (5 su correzione), con questo titolo registrato al numero 273 nel Piede B dell’inventario di divisione3. Conservato in una busta moderna, è costituito da pochi fascicoli sciolti e incompleti, avvolti in un bifoglio cartaceo, oggi sciupato, sec. XVIIIXIX, su cui Mazzucchelli scrisse il titolo: (f. Ir) «Poema De expugnatione Almeriae per Ianuenses et Comitem Barcinonensem peracta anno 1147, cod. membr. sec. XII (segue, scritto in un secondo tempo sempre di mano di Mazzucchelli:) autogr.». Il titolo è uguale nell’inventario, il cui numero «273» compare in inchiostro rosa a f. Ir, in alto; più in basso, in inchiostro violetto è la precedente segnatura «XLIX» (sec. XVIII-XIX), e, di altra mano in inchiostro nero, «(330)», che corrisponde al successivo inventario dei codici di Cristina, redatto nel 18534. L’ordine dei bifogli nei secoli moderni, fino al Novecento, era scomposto: lo attestano il numero «XLIX» ripetuto nel margine inferiore ai ff. 1r, 3r, 11r, 13r, seguito rispettivamente da a, c, b che appaiono corretti su rasura, e a f. 13r: «(330)», aggiunto nel 1853, mentre solo la numerazione moderna a matita (sec. XX), ff. da 1 a 18, corrisponde all’ordine del contenuto. Mazzucchelli trovò il testo degno di studio e per ricostruire la sequenza dei fogli numerò i versi a penna, in margine, aiutandosi con le rubriche: queste infatti, brevi frasi in prosa per lo più introdotte da quod, suddividono l’opera in capitoli e sono guida sufficiente a percorrere il contenuto; perciò gli riuscì più facile mettere i numeri ripartendo da 1 ad ogni principale articolazione del poema, per

3 Ambr. H 150 suss., p. 31; Pasini, Dalla biblioteca cit., pp. 655, 678. Descrizione quasi invariata in Biblioteca Ambrosiana, Inventario dei manoscritti, vol. 48: Inventario dei manoscritti del Fondo Trotti 13-573, cur. M. Cogliati, ms., Milano 1969 e nel catalogo on line. 4 Attuale Ambr. Q 130 sup., Inventario peritale Trotti (vol. 35 di Biblioteca Ambrosiana, Inventario dei manoscritti), nel quale, p. 63, il Trotti 330 compare con un nome d’autore, strano: «330. Sanensel di Bari, minia(to), De expugnatione Almeriae poemata, codex membr. s. XII. [Formato] 4; [Lire] 5»; Pasini, Dalla biblioteca cit., pp. 661-662.

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un totale (da lui non esplicitato, perché non tirò le somme) di 1335 versi5; ricostituiti i fascicoli, ne poté trarre una copia sensata, integrale, oggi non rintracciata, ma che si conservava fra le sue carte quando morì nel 18296; alla fine del lavoro si sentì di aggiungere al titolo sul f. Ir: «autogr.». Il testo, largamente mutilo, rimasto dimenticato, racconta in esametri latini la conquista di Almeria operata dai Genovesi, che nel 1147 sottrassero la città al dominio dei Mauri di Spagna: impresa in cui Caffaro, come console di Genova e capo della flotta a Minorca nel 1146, ebbe parte attiva e che non solo registrò nei suoi Annales, ma trattò in una operetta specifica7. Autore è un genovese, testimone dei fatti e animato da spirito patriottico. Va subito escluso che possa identificarsi con Caffaro, perché rispetto all’Ystoria non solo vi si trovano particolari in più e in meno, ma anche in contrasto; diverso è pure il rilievo dato ai personaggi in campo, si direbbe per discordante valutazione politica; un confronto stilistico è impossibile, perché del celebre annalista non si conosce nulla in poesia. Il manoscritto, veramente autografo dell’anonimo autore, è un gradino intermedio fra un brogliaccio e una bella copia: rappresenta una fase di redazione ancora molto disordinata, con gruppi di versi, da 5/6 a 10/12, aggiunti in diversi momenti a margine del testo di base, già vergato in colonna; ma in parecchie pagine spazi di una dozzina di linee sono in bianco, in vista di possibili inserzioni. Certamente non è la prima stesura scritta, doveva esisterne una anteriore, testimoniata credo da un bifoglio superstite (Trotti 330, ff. 15-16): una molteplicità di modifiche e aggiunte dovevano averla resa di difficile lettura anche all’autore stesso, che, per inglobare i cambiamenti al punto giusto e magari inter scribendum ancora ritoccare, si decise a ricopiare il tutto nei fascicoli dell’attuale Trotti 330; continuò però a lavorare sulla sua opera, soprattutto nella parte finale, dove si distinguono numerose fasi di interventi. Alla sua mano spettano sia i versi, di aspetto alquanto variabile, perché stratificati a più riprese nel tempo, sia da ultimo le rubriche. Il manoscritto mantiene l’aspetto di una minuta, la scrittura è una tarda carolina alquanto currens, con elementi di transizione, sec. XII circa med., che per la patria dell’autore e la sicura autografia deve essere 5 In realtà i versi in totale sono 1337, e a questa numerazione consecutiva (e virtuale) mi riferisco qui e di seguito. Mazzucchelli sbagliò di due unità nel conteggio, la prima volta fra i vv. 469 e 479 e la seconda fra i vv. 790 e 800; alcuni altri errori corresse cammin facendo. 6 Frasso – Rodella, Pietro Mazzucchelli studioso cit., pp. 119, 121. 7 Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori dal 1099 al 1293, ed. L. T. Belgrano, I, Roma – Genova 1890 (Fonti per la storia d’Italia, 11), pp. 33-35: Annales Ianuenses, ad ann. 1146-47; pp. 77-89: Ystoria captionis Almarie et Turtuose, ann. 1147 et 1148; introduzione e traduzione: Caffaro, Storia della presa di Almeria e Tortosa (1147-1149), cur. M. Montesano, Genova 2002.

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genovese: di fatto è perfettamente coerente con il mondo dei notai cittadini e di Giovanni Scriba, accostandosi al suo livello mediano8. Le somiglianze sono sostanziali, perciò piuttosto indico quello in cui si discosta: nell’ortografia, i dittonghi molto frequenti pur se non sistematici espressi con ae o e caudata; nel ductus, aste ascendenti molto forcute, uso costante di r a forma di due dopo lettera tonda; nelle abbreviazioni, abbastanza fitte (una media di 2,5 per ogni linea), sono inclusi alcuni segni tachigrafici, fra cui spicca est espresso da linea orizzontale fra due punti (in alternanza al più comune e sovrastato da titulus) e, due volte sole, H per enim; qui è in genere abbreviato, la forma usata è sempre q con i sovrascritta, all’epoca abbastanza diffusa nell’Italia nord-occidentale e non ignota allo Scriba, ma nel suo cartulare minoritaria rispetto a q con asta discendente tagliata9. Nel Trotti i tre unici interventi di forse due altre mani, coeve e abbastanza eleganti, sono l’aggiunta marginale di un verso (v. 112, f. 2v: «nos omnes veneranda fides coniunctio sancta»), la riscrittura di un emistichio (v. 152, f. 3r) e una correzione interlineare che modifica un nome (v. 1159, f. 17r: la forma finale voluta è «Voltensis») (Tav. II). Lì il poeta sta cantando la battaglia scatenata il giorno della decollazione di s. Giovanni Battista, 29 agosto 1147; con toni roboanti mette in scena i duci alleati dei Genovesi, Raimondo Berengario IV conte di Barcellona e principe di Aragona, Ponç II conte di Ampurias e Guglielmo VI signore di Montpellier, mentre i «Genuae iuvenes» combattono valorosamente. Il genovese sembra poi preso da rimorso per avere quasi sminuito il ruolo dei suoi compatrioti e rimedia inserendo una memoria celebrativa di singoli meritevoli guerrieri: aggiunge a margine due blocchi di versi, il secondo (vv. 1195-1200, f. 17r marg. inf. e 17v marg. sup.) con rapide lodi e nomi di cinque combattenti, il primo (vv. 1159-1165, f. 17r, nello spazioso marg. est.) dedicato all’eroica morte di Guglielmo della Volta, più volte console di Genova:

8 Es. Il cartolare di Giovanni Scriba, cur. M. Chiaudano – M. Moresco, I-II, Roma 1935 (Regesta chartarum Italiae, 19-20), I, tav. II; II, tav. I-III; Mostra storica del notariato medievale ligure, cur. G. Costamagna – D. Puncuh, Genova 1964, tav. VII-VIII, XIV. Per i livelli corsivo e cancelleresco: Il cartolare cit., I, tav. I, III-IV e II, tav. IV-V; Mostra storica cit., tavv. XII-XIII, XV; Tutti i Genovesi del mondo. La grande espansione commerciale (secoli XI-XVI), cur. G. Olgiati, Genova 2015, p. 17. Non vedo relazione con le eleganti scritture librarie di Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, 2720, n. 1 (copia del sec. XII med.) e 2737 A, n. 12 (doc. del 1161), riprodotti in: Genova, Tesori d’Archivio, cur. G. Olgiati, Genova 2016, pp. 63-65. 9 P. es. Il cartolare cit., I, tav. III, dove compaiono le due forme, con asta tagliata e con i sovrascritta. Il poeta rinuncia alla i sovrascritta soltanto nella parola quidem, indicata dal nesso qd con tutte e due le aste tagliate: nesso quasi costante anche in Giovanni Scriba.

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IL POEMA GENOVESE SULLA PRESA DI ALMERIA NEL 1147

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Voltensis ruit10 in Mauros Guillelmus11 et illos occidens, occisus ab his, caput amputat hostis. Non Guillelmus obit, sed abit susceptus in astris; de Volta volat ad superos, ad regna superna. Laurea m(arty)rii est data, quam Laurencius12 almus ponit et ornat eum; quantum mutatus et alter13, namque inter reges factus de consule rex est14.

Nonostante il manoscritto non fosse ancora una ‘bella copia’ definitiva, tuttavia con apposito spazio bianco vi fu prevista ornamentazione. Iniziali semplici o con qualche decoro, in rosso, di stile molto comune e probabilmente da collocare attorno alla metà del sec XII sono presenti in buon numero. Le più piccole scandiscono le partizioni minori del testo. Di seguito alle rubriche se ne trovano due, tre o anche più ad ogni apertura di pagina, in maiuscola con qualche svolazzo e pallini decorativi alla greca, talvolta richiamate da piccola captio. Alcune di queste sono alte quanto tre/quattro/cinque linee di testo, ombreggiate con filetti comparabili allo stile di Cîteaux di sec. XII1, diffuso in Italia settentrionale sulle ali dei cisterciensi a partire da circa metà secolo15: ff. 3v (due iniziali), 5r, 6r; unica eseguita a pennello in nero e nello spazio risparmiato riempita in rosso è a f. 9r, inc. lib. V. Altre tre sono disegnate, in inchiostro bruno, con modesti viticci: alte da quattro a sei/sette linee, marcano inizio di libro; il disegno è parzialmente dipinto in rosso, nella prima in rosso e blu: f. 2v, inc. lib. IV (Tav. I); f. 10v, che era all’inizio di lib. V (v. 660), ma con ripensamento posteriore all’esecuzione delle iniziali decorate la partizione fra lib. IV e V fu spostata indietro (a f. 9r, v. 548); f. 18r, inc. lib. VIII. I poveri fogli, 18, provenienti da quattro diversi fascicoli originariamen10 Voltensis è della diversa mano sopra la riga, mentre l’originario irruit è stato ridotto mediante rasura a ruit. 11 Segue parola erasa, forse Voltus. 12 S. Lorenzo, cui era intitolato il Duomo di Genova; segue illi, depennato. 13 Cfr. Verg. Aen. 2, 274. 14 Guglielmo della Volta fu console di Genova nel 1123, 1127, 1130, 1132, 1139, 1141 (insieme a Caffaro), 1143: Codice diplomatico della Repubblica di Genova dal 958 al 1163, cur. C. Imperiale, I, Roma 1936 (Fonti per la storia d’Italia, 77), pp. 45, 53-54, 62, 64, 71, 115, 132, 134, 136, 138, 145-146, 153. Ultima sua presenza nel trattato, 1146, settembre?, con cui i Genovesi promisero al conte di Barcellona di intervenire, una volta conclusa l’impresa di Almeria, all’assedio di Tortosa (Codice diplomatico cit., I, pp. 210-214 nr. 168). Ma Guglielmo non arrivò a Tortosa, morendo qui nell’assalto ad Almeria. Non credo che le correzioni di altra mano rispecchino volontà dell’autore; l’aggettivo veneranda non compare altrove nel poema. 15 Y. Zaáuska, L’enluminure et le scriptorium de Cîteaux au XIIe siècle, Cîteaux 1989, p. 174 Des. 4 (sec. XII primo terzo); e per l’Italia nord-occidentale p. es. C. Segre Montel, I manoscritti miniati della Biblioteca Nazionale di Torino, I, Torino 1980, pp. 96-98 e Tavole 113-114, figg. 305-307 (Torino, Bibl. Naz., D IV 39 di Staffarda, sec. XII med.).

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te di 8 ff. ciascuno, sono in pergamena di tipo italiano, con lato carne ben sbiancato; l’affrontatura è secondo la regola di Gregory, con lato pelo esterno; portano tracce di cuciture al centro dei bifogli, lasciate da almeno due assemblaggi nel corso dei secoli; un filo rimane ancora semicucito al bifoglio centrale di due fascicoli, fra i ff. 6 e 7 e fra i ff. 15 e 16. La rigatura, impressa un bifoglio per volta sul lato pelo, è spesso imprecisa e storta; la delimitazione verticale è doppia su ambo i lati; la foratura a guidare le linee, marcata a fascicolo chiuso, è visibile sui margini sup. e inf. e sul margine esterno; le due linee rettrici in alto e le ultime due in basso sono tracciate da margine a margine, passanti; le altre rettrici intenderebbero correre solo all’interno del campo scrittorio, ma spesso debordano. La struttura codicologica si può schematizzare come segue, avvertendo che a motivo delle irregolarità le misure sono approssimate con scarto di alcuni mm; il campo scrittorio è leggermente variabile, sempre 38 le righe tracciate, ma la scrittura (a parte spazi bianchi fra i paragrafi) lascia in bianco a volte la prima o le prime due righe in alto o le ultime due righe in basso, a volte non rispetta la rigatura; come si deduce dai numeri d’ordine superstiti, mancano all’inizio tre fascicoli: membr., ff. 18, mm 227/230 × 140/145: ff. 1-2, 4° fascicolo, resta il bifoglio esterno con numero d’ordine nel marg. inf. al centro «IIII» (f. 2v); mm 18 [168] 44 × 15 | 5 [62] 5 | 53; 38 righe / 38 linee; fra i ff. 1 e 2 lacuna di 6 ff.; ff. 3-10, 5° fascicolo, integro, numero d’ordine eraso a f. 10v; mm 21 [167] 39 × 15/20 | 5 [63] 5 | 53; 38 righe / 38 linee; ff. 11-12, 6° fascicolo, resta il bifoglio esterno, con numero d’ordine nel marg. inf. al centro «VI» (f. 12v); mm 23 [160] 47 × 15 | 4 [67] 5 | 51; 38 righe tracciate a distanze lievemente irregolari, 35/37 linee scritte senza rispettare la rigatura; fra i ff. 11 e 12 lacuna di 6 ff.; ff. 13-18, 7° fascicolo, mutilo del bifoglio esterno (ff. 13r e 18v sono lato carne); misure dei due bifogli esterni (ff. 13-14 e 17-18): mm 23 [167] 40 × 17 | 5 [66] 5 | 51; 38 righe / da 36 a 42 linee (con molti blocchi di versi aggiunti a lato); il bifoglio centrale, ff. 15-16, appartiene a uno strato redazionale precedente, che prevedeva due colonne di testo affiancate (una di base e una di supporto per correzioni e aggiunte): mm 14 [179] 37 × 9 | 4 [47] 4 [49] 4 | 35; 38 righe / 35 o 36 linee sulla prima col., con rubriche aggiunte, numero variabile di versi aggiunti sulla seconda; lacuna di 1 f. fra i ff. 12 e 13, mutilo alla fine.

Superstiti perciò: il solo bifoglio esterno del fasc. IIII; l’intero fasc. V; il solo bifoglio esterno del fasc. VI; i bifogli 2°, 3°, 4° del fasc. VII che è costituito a strati, comprendendo, con modalità risparmiosa, un bifoglio della redazione precedente promosso a bella copia, e manca del bifoglio esterno.

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Il testo risulta di conseguenza mutilo all’inizio, alla fine e in tre punti all’interno, come qui sopra segnalato. A conteggiare l’ampiezza delle lacune aiuta, oltre la struttura dei fascicoli e l’individuazione dei fogli mancanti, una numerazione a margine dei vv. per centinaio, annotata dall’autore, che sembra anteriore alle ultime modifiche e aggiunte, ma sicuramente include alcuni gruppi di versi scritti a lato mentre la rielaborazione faceva crescere il testo16. Tale numerazione appare imprecisa non solo per gli inserimenti posteriori: infatti marca il centinaio a volte dopo soli 93 versi effettivi o fino a 104; si legge, con salti per i fogli mancanti, dal v. 1600 (f. 3v) al v. 3200, sulla penultima pagina superstite17. Nel codice seguono ancora 88 vv., poi il testo è mutilo. L’opera è divisa in libri, ma a causa delle lacune sono presenti rubriche di inizio libro solo a f. 2v, lib. IV (prima del v. 103); f. 9r, lib. V (prima del v. 548); f. 18v, lib. VIII (prima di v. 1253). Il lib. IV, integro, è di 445 (vv. 103-547, ff. 2v-8v); del lib. VII manca probabilmente solo un brano iniziale, ne sono superstiti 421 vv. consecutivi fino alla conclusione del libro (vv. 832-1252, ff. 13r-18r). In totale 1337 vv. sono superstiti, mancano quasi 1500 versi nella parte iniziale, forse qualche centinaio alla fine; circa 400 nella lacuna fra f. 11v e 12r, una settantina nella lacuna fra f. 12v e 13r. La lunghezza della lacuna finale si potrebbe ipotizzare in qualche centinaio di versi per confronto con il Liber Maiorichinus, celebrazione della presa di Maiorca da parte dei Pisani, avvenuta nel 1115, composto da un membro del clero di Pisa negli anni immediatamente successivi, e noto al nostro genovese, che consta di 3544 esametri in 8 libri18. Con il duplice aiuto, della numerazione antica e della struttura dei fascicoli, trascrivendo tutte le rubriche, si arriva allo schema: Lib. I-III, vv. 1-102 (frammenti) Perduti salvo due frammenti vv. 1-69 (f. 1r-v), vv. 70-102 (f. 2r-v); poiché il migliaio di versi mancante all’inizio avrà occupato circa due fascicoli, nel primo fascicolo forse trovava posto qualche testo introduttivo. 16 La numerazione dei vv. a margine è infrequente nel medioevo; la segnala in due esemplari dello stesso testo, nella diocesi di Ivrea, ca anno 1000 e sec. XI med., C. M. Monti, Per la “Cena” di Giovanni Immonide, in Medioevo e latinità in memoria di Ezio Franceschini, Milano 1993, pp. 277-302: 291-292; per un sistema di punti che marca le centinaia in un codice di sec. XV in.: Die ‘Gesta militum’ des Hugo von Mâcon: ein bisher unbekanntes Werk der Erzählliteratur des Hochmittelalters, hrsg. E. Könsgen, I, Leiden etc. 1990, p. 73. 17 Si legge a f. 3r (accanto al v. 158) dc; f. 4v (v. 247) dcc; f. 6r (v. 340) dccc; f. 7v (v. 431) dcccc; f. 8v (v. 531) II (con segno per migliaia); f. 10r (v. 634) c; f. 11v (v. 738) cc; (segue lacuna di sei ff.); f. 12v (v. 804) dcc; (segue lacuna di un foglio); f. 14r (v. 930) dcccc; f. 15v (v. 1047), III (con segno per migliaia, non sono conteggiate le aggiunte di 15 vv. a lato e di altri pigiati in interlinea); f. 17r (v. 1148) c; f. 18r (v. 1249) cc. 18 Liber Maiorichinus de gestis Pisanorum illustribus, ed. G. Scalia, Roma 2017 = Firenze 2017, pp. 25, 27-29, 67-69.

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[Lib. II o III?] vv. 1-69, f. 1r-v [frammento di esortazione a liberare la Chiesa orientale: lettera di Eugenio III?]. «//impugnare piae fidei virtutis et hostes... / ... atque potestates celique exercitus omnis//» (segue lacuna di 6 ff., per circa 400 vv.). — Esortazione, rivolta a un re, a partire con la «beata milicia» in una guerra contro i nemici della fede, i «reges perfidiae», e a liberare dal giogo di Persia e Babilonia le Chiese d’oriente. Il «rex Alemannorum» e il re «Francorum», portando i «crucis eximiae vexilla», debbono dare la libertà alla sposa orientale di Cristo, mentre a «Raimundo comiti» e «regi Castellae» spetterà di allontanare dalle terre ispaniche «Mauros et Moab». I due re hanno il compito di liberare Edessa portando lutto a Babilonia, Ascalona e Damasco: «per vos gaudebit Edessa libera», «ite, mei fratres, Christo duce, precipio, ite!»19. [Lib. III] vv. 70-102, f. 2r [parte finale di epistola di Genova]. «//in thalamis cum luxuriis, thalamis viciorum... / ... fine sub estatis Cereris cum templa replentur. Finit epistola Ianuae». — Si chiude il lib. III; l’epistola di Genova sembra una risposta all’invito del conte di Barcellona, che dichiara di essere stato sollecitato da una cometa a «Maurorum invadere gentes»20; Genova definisce se stessa come la militia che «rex Christus habet» e conclude: «Ianua, classe potens, intrabit cerula ponti», «marchio Barchineus nobis comes atque viae dux, princeps miliciae nostrae». Lib. IV, vv. 103-547 (integro) vv. 103-180, ff. 2v-3v Quod marchio tractat in mente destructionem Almarie. Liber IIIItus. «Almariae excidium iam marchio pectore versat... / ... miliciae laus est, et se Christi cruce signant» (segue spazio bianco di circa 12 linee). — A Barcellona, dopo la messa con sermone del vescovo, il marchese si rivolge ai soldati in volgare e in latino («Romano sermone parique Latino»), chiamandoli «fratres» e ammonendo che una catena li lega con nodo santo, hanno un nemico comune e la fede li ammonisce a combattere con la prodigiosa comparsa di una cometa: «Est urbs Almariae gentis destructio nostrae. Ire super Mauras urbes et reddere Christo nos monet alma fides, monuit nos stella cometa». Ricorda l’impresa delle Baleari di trent’anni 19 Il testo si inquadra nella predicazione della terza crociata, dopo la caduta di Edessa nel 1144; i due re sono Corrado III di Svevia, re di Germania e imperatore, e Luigi VII di Francia. Per la difesa iberica, il conte è Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, che il poeta genovese chiama indifferentemente conte o marchese e anche principe; la qualifica di re di Castiglia è per Alfonso VII, re di Castiglia e Leon, “el Emperador”, a cui i titoli di imperatore, re di Leon (Legionis) o di Toledo vengono dati in altri luoghi del poemetto. I contenuti corrispondono in parte all’epistola Quantum praedecessores di Eugenio III a Luigi VII del 1145 dic. 1 (Regesta Pontificum Romanorum, ed. Ph. Jaffé – S. Loewenfeld, II, Lipsiae 1888, nr. 8796; Patrologiae cursus completus, Series Latina, accurante J.-P. Migne [d’ora in poi: PL], 180, Parisiis 1902, col. 1064-1066), con l’esortazione a liberare la Chiesa orientale, in particolare Edessa, e con la remissio peccatorum per chi partirà: il poeta potrebbe avere versificato il documento pontificio, ampliandolo con riprese di testi biblici e con il parallelo fra l’oriente e la Spagna. 20 La cometa segno celeste che muove alla guerra è anche in Liber Maiorichinus, IV, 343349, ma quasi di sfuggita; è invece messa innanzi subito nella narrazione in prosa della stessa impresa delle Baleari, di altro autore, i Gesta triumphalia per Pisanos facta, ed. G. Scalia, Firenze 2010, p. 4; e cfr. pp. 33-34 per lo stesso tema nelle fonti sulla prima crociata.

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prima: ma dopo che Pisa ebbe conquistate le Baleari sotto il comando vittorioso di suo padre, traendo così dal carcere le membra di Cristo («post Baleas quas Pisa, meo sub principe patre atque triumphanti, tracto de carcere Christo in menbris, cepit»), Pisa se ne ripartì21; allora Almeria divenne il peggior covo di pirati, che uccidono e rendono schiavi i cristiani, «domus Almariae fit carcer Avernus»22. Ora occorre riconquistare Almeria, «sint Christo reddita regna», «Christus regnabit»; come Pisa aiutò il padre, così Genova aiuterà il figlio. Informa che Luigi VII intendeva guidare la spedizione in Spagna, ma poi aveva capito per ispirazione divina di dover andare a est, lasciando a Raimondo Berengario l’impresa nell’ovest. Dopo l’allocuzione del marchese la beata milizia si segna con la croce. vv. 181-186, f. 3v Quod Ianua audit adventum comitis et susceptus fuit a clero et populo Ianuae in processione. «Marchio nubiferas quod iam transcenderat Alpes... / ... illa dies, celebrata dies et leta fuit nox». — Il conte è accolto con grande letizia23. vv. 187-268, ff. 3v-5r Quod comes habuit sermonem de expedicione cum populo Ianuae. «In cetum veniunt, surgit comes atque ita fatur... / ... et bona mens in eis, in eo promissio larga (f. 4v, segue spazio bianco di circa 10 linee). Finit sermo comitis». — Il conte ricorda i meriti militari accumulati da Genova in oriente e racconta a fosche tinte le imprese piratesche di un malvagio delle Baleari, rifugiato in Almeria, che aggredisce le navi, le città cristiane, spoglia le chiese di Dio e fa prigionieri, «urbs est Almariae carcer fidei benedictae, in membris Christus punitur carcere Mauro». Tutti questi flagelli sono permessi da Dio forse a punizione dei peccati della Chiesa, tuttavia ora Dio muove a reagire. Per ispirazione divina Luigi VII e Corrado III vanno in Siria; il marchese non deve tollerare che Dio perda i suoi diritti nel mondo, il re di Castiglia non sopporterà che la sposa di Dio sia gettata in carcere dai Mori e si muoverà portando «sacra signa crucis». Conclude con esortazione a Genova, affinché liberi i fratelli che sono in carcere, e avrà in cambio il possesso di una parte delle terre di Spagna: «subvenias clausis in carcere fratribus: et tu Hispani regni, si mens tua, suscipe partem quae placeat magnam, quam tu delegeris ipsa proque labore tuo quod res tua publica crescat»24. vv. 269-316, f. 5r-v Quod quidam de senatu Genuae respondit et dixit verba prudenciae et honestatis. «Surgit ad hec unus de nobilitate senatus... / ... marchio respondit: “Placet hec convencio scripta”» (segue spazio bianco di quattro linee). — Un membro del senato rievoca dapprima le origini normanne di Raimondo Berengario e l’arrivo dei Normanni nell’Italia meridionale, dove Genova conquistò per loro un 21 Raimondo dice e non dice, le Baleari ricaddero quasi subito in mano islamica, nel 1119: R. Rogers, Latin siege warfare in the twelfth century, Oxford 1997, pp. 165-169. 22 L’attività piratesca di Almeria e l’uccisione dei prigionieri cristiani è tema ricorrente nel poemetto, menzionato anche da Caffaro, proprio in apertura della Ystoria cit., p. 79. 1-5, secondo un topos consueto nella letteratura della crociate. 23 Non è chiaro quando sia avvenuta questa visita del conte a Genova, non altrimenti documentata. 24 Il discorso del conte occupa 78 vv., dei quali 69 propongono una guerra in difesa della religione, 9 offrono una ricompensa politico-economica a Genova per il suo intervento con la flotta. Questa promessa corrisponde al trattato di alleanza del 1146 fra Raimondo Berengario e i Genovesi: Codice diplomatico cit., I, pp. 214-217, nr. 169; cfr. v. 316 e infra, nt. 28.

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regno25; Genova è ancora pronta ad aiutare la stirpe e poiché il marchese ha deciso, con santa devozione e mosso dal Cielo, di combattere i Mori strappando loro Almeria, con lui si muoverà Genova, che ne ha ricevuto esortazione anche dal re di Castiglia, tramite lettera e con la mediazione dei presuli castigliani26. Andrà contro Almeria e «te duce, Tortosam post hec frangemus et urbes vicinas, loca cuncta tuis contermina terris27; subdetur Christi sceptris Hispania vestra». Si faccia un patto: «sit conveniencia scripta»; il marchese dà la sua approvazione28. vv. 317-328, ff. 5v-6r Quod Ianua et marchio mittunt legatos ad dominum Papam. «Ianua legatos et mittit marchio missos... / ... querit et in regno vitae cum rege manere». — Genova manda ambasciatori e il marchese i suoi messi al papa, con una lettera. vv. 329-427, ff. 6r-7r Epistola comitis Barchinonensis ad dominum Papam. «Cum verbo patris sit totus subditus orbis... / ... nos perimet, sua vox gladius, vox nuncia mortis. Finit epistola comitis» (segue spazio bianco di 6 linee). — Il papa ha il dovere di vigilare che nessuno colpisca il popolo dei fedeli. Luigi VII e Corrado III si stanno dirigendo a difendere la «sponsam orientalem», che l’oppressione della «gens perfidiae» ha costretto a tradire la fede (vv. 351-353)29; intento del marchese è strappare ai Mori Almeria, covo di pirati, e ha convinto a questo il re di Castiglia. «Miliciae dux Christus erit». Chiede al papa che mandi una lettera a lui e al re, con l’ordine di combattere questa guerra e l’assoluzione per i peccati: «solve tuum fidei populum peccata fatentem»; chiede anche una lettera analoga per i Genovesi, anche a loro «peccata remittens». La lettera si chiude con una lamentatio messa in bocca ai Mori, che sentiranno Dio contro di loro. vv. 428-547, ff. 7v-8v Epistola Ianuae ad papam Eugenium de querenda licencia eundi per obedienciam. «Cum rex miliciae summae vidisset alumpnos... / ... caelum pro nobis pugnabit sub duce Christo» (segue spazio bianco di circa 6 linee). — Si tratteggia il panorama triste dei cristiani, caduti nel gorgo dei vizi. Ora Dio facendo 25 Cfr.

infra, nt. 44; la notizia non sembra avere riscontro in altre fonti.

26 Questa lettera di Alfonso VII potrebbe corrispondere al pactum del settembre 1146 con

cui l’imperatore promise di partecipare a una spedizione contro Almeria insieme ai Genovesi, ripagandoli per le spese militari e favorendoli con concessioni: Codice diplomatico cit., I, pp. 206-209 nr. 167; lì a pp. 204-206 nr. 166, settembre 1146 la promessa di Genova. Un patto bilaterale fu sollecitato dai Genovesi, e la successiva aggregazione di Raimondo Berengario e Guglielmo di Montpellier fu richiesta da Alfonso secondo la Chronica Adefonsi imperatoris, II, 107-108, ed. A. Maya Sánchez, Corpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis [d’ora in poi: CC, CM], 71, Turnhout 1990, pp. 246-247. 27 Cfr. Lucan. 9, 300. 28 Il membro del senato è attento a sottolineare vecchi debiti che la famiglia del marchese ha nei confronti di Genova e, inoltre, che l’aiuto di Genova sostiene una guerra legittima: terre di Spagna che devono ritornare a un legittimo sovrano di Spagna. La convencio può identificarsi nei mutui patti stipulati fra Raimondo Berengario e i Genovesi, nel 1146, riguardo alla divisione fra Genova e gli Spagnoli di quanto si andrà a conquistare e all’impegno che Genova assume di andare con il marchese, dopo Almeria, anche contro Tortosa: Codice diplomatico cit., I, pp. 210-217 nrr. 168-169. Cfr. supra, nt. 24; infra, nt. 37. 29 Cfr. infra, nt. 31.

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risplendere le comete ispira i peccatori a tornare nella Sua amicizia, e mostra loro la via per ottenere il perdono, la via è restituire al Re celeste la sua sposa, sia quella «occiduam» che quella «solis in ortu». La speranza celeste e l’amore santo ora muovono la milizia santa, unanime, a «delere supersticionem, quam colit infestus populus celis odiosus, Maurorum populus». Alcuni si muovono per rendere a Cristo la Chiesa d’occidente, altri si impegnano in oriente. Il marchese Raimondo ha mosso i Genovesi, che lo aiutano, e già è stato stipulato un patto scritto; al re di Castiglia si sono vincolati con promessa, «nos sanctae fidei coniungit firma cathena»30; ora chiedono che il papa comandi di andare, perché ne verrà l’aiuto divino. Lib. V, vv. 548-759 (restano solo i primi due capitoli) vv. 548-659, ff. 9r-10r Epistola Papae ad Ianuam. Liber Vtus (Liber Vtus, ripetuto tre volte). «Ianua clara, potens, celestis ianua regni... / ... vade tuo servire Deo, dis­ perdere Mauros» (a marg. degli ultimi vv. di f. 10r, residuo di vecchia rubrica, L(iber) V). — Il papa elogia Genova e le dichiara aperta la porta del regno dei cieli. Il marchese Raimondo e il re di Toledo hanno ammonito Genova a «ire super Mauros, Christo sua reddere regna. Anne fuit quondam felix Hispania Christi, felix, cum coleret pia sacramenta salutis?», ma dopo che ha abbandonato il Cielo e la fede, per seguire la superstizione, la Spagna ha perduto il regno celeste; sono nelle tenebre e nel fuoco eterno le anime di chi «pietatem contempsere pii Christi, dum tempus haberent»31. Ora a Genova spetta di esaltare nel mondo «crucis regnum». Il Cielo combatterà per Genova e le è promessa vittoria. Che Genova confessi i suoi peccati con pura devozione del cuore e «ipse remitto tibi, sub Christo et presule Petro crimina cuncta tibi quorum confessio facta est»32. vv. 660-759, ff. 10v-11v [una linea di rubrica e avvertimento a marg. erasi] Epistola Papae ad comitem. «Ignis consumens Deus est et spiritus ardens... / ... ad lucem veram redeat mens luce relucens» (segue spazio bianco di circa 13 linee; quindi lacuna di 6 ff., per circa circa 400 vv.). — Dio fuoco che consuma, luce, sole di giustizia, autore della libertà ha creato l’uomo libero. Chi vuole conseguire il Regno, deve fare lo stesso, dare la libertà alla sposa del Creatore: la sposa orientale, Gerusalemme, e l’«occiduam aecclesiam» che è oppressa da Mori e Moabiti; alle due Chiese gemelle è «libertas reddenda». Il re dei Franchi «rexque Lemanni» andranno contro Babilonia; la Chiesa d’occidente è responsabilità del conte e dei suoi alleati. Il papa comanda di confessare i peccati e ne seguirà la «benedicta remissio»; i soldati di Cristo combattano per la sposa di Dio e pensino alla vita eterna.

30 Cfr.

supra, nt. 26, 28. reticenza è presentata la realtà, nota a tutti i latini, dei molti cristiani di Spagna che, nel corso dei secoli di dominazione, erano passati all’Islam; cfr. vv. 351-353. 32 La remissione dei peccati era promessa nella lettera di Eugenio III a Luigi VII Quantum praedecessores, cfr. supra, nt. 19. Non ho reperito un documento di Eugenio III specificamente per i Genovesi, ma ne parla anche Caffaro, Ystoria cit., p. 79. 9-11. Fu concessa ai Pisani per le Baleari: Liber Maiorichinus, I, 72 e VII, 482-483 (commento ed. Scalia cit., pp. 472, 580). 31 Con

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[Lib. VI?, vv. 760-831 (frammento)] vv. 760-831, ff. 12r-v, [discorso esortatorio, mutilo all’inizio e alla fine] «//improba gens sine lege boni, que nescit honestum... / ... progeniem fidei solis premit hora cadentis//» (segue lacuna di 1 f., per almeno 70 vv.). — Si presentano la malvagità e i vizi dei nemici che sono colpevoli di violare la «sponsam speciosam Regis». Si allegano esempi di violazioni vendicate. La Grecia volle indietro la Ledea e si vendicò causando l’incendio di Troia e riportando la rapita a Micene; e quando la Ledea era ancora vergine la rapì Teseo, ma i fratelli Castore e Polluce «castra movent contra Theseum», che per evitare la distruzione del suo regno e la strage della sua gente la restituì ai fratelli. Dina figlia di Giacobbe, uscita dalle tende, fu rapita e posseduta da Sichem figlio di Emor; i fratelli di Dina fanno strage per vendetta33. Così, «nos de milicia summi regis paciemur quod gens barbariae violet factoris amicam? de geminis populis, gentilibus, Israelitis, ponimus exemplum», e le gemine stelle comete insegnano la strada una a est e una a ovest. Lib. VII, vv. 832-1252 (mutilo all’inizio) vv. 832-901, f. 13r-v Tempus a nativitate Christi M.C.XL et VII anni. «A Christo nato cum iam millesimus34 esset ... /... postponens alias curas classemque revisit» (la rubrica è su rasura, a lato nel marg. esterno brano eraso di circa 16 linee). — Genova prepara la flotta per la distruzione di Almeria. Il 13 giugno 1147 due navi sono inviate a precedere la flotta35; a metà luglio la flotta viaggia e l’isola di Lerin, con il monastero di S. Onorato, accoglie duecento navi. Fu tenuta una concione, con esortazione alla concordia; accompagnati dalle preghiere dei monaci, il secondo giorno col favore del vento la flotta giunse a Marsiglia, al monastero di S. Vittore. Altra concione, preghiere dei monaci e viaggio con prospero vento fino al porto di Caput Crucis36. Genova invia una lettera al conte di Barcellona, che risponde, venendo a ispezionare la flotta. vv. 902-954, ff. 13v-14r Gaudium Ianuensium de adventu comitis. «Adventu comitis gaudet classis peregrina ... / ... vel Mauri sequerentur nos ad bella parati». — Si rinnovano i patti con il conte: «Pacta novant, convencio fit firmataque iura, conmendata stilo et cerae, postea cartis, sicut iuris habet racio ceu constituit lex» (vv. 907-909)37. Arriva una tempesta, la gran parte della flotta «Ebusi devenit ad horas, ad portum Magni»38; il resto, separato dal grosso, arriva con ritardo dopo 33 Fonte per tutti e due gli episodi della vita di Elena, figlia di Leda, sarà stato Ovidio, Heroides, XVI-XVII; la storia di Dina in Gen 34, 1-31. 34 millesinus ms. 35 La data concorda all’incirca con quella di Caffaro, secondo cui la partenza ebbe luogo cinque mesi dopo l’elezione dei consoli, che avveniva di regola in febbraio: Ystoria cit., p. 80.23. 36 Cap di Creus, fra Perpignan e Gerona. 37 Per i patti cfr. supra, nt. 28. Il poeta fornisce dettagli professionali sulla redazione del documento; di tavolette cerate non parlano più le fonti, alquanto posteriori, citate da G. Costamagna, La triplice redazione dell’Instrumentum genovese, Genova 1961, pp. 10-16. 38 Ibiza e Sant Antoni de Portmany; cfr. Ystoria cit., p. 80.24 «ad Portum Magnum».

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un pericoloso approdo a Maiorca. Dopo una battaglia vittoriosa con i Mori, tutta l’isola di Ibiza fu saccheggiata. Si giunge a Cartagena, dove si sbarca per attingere al fiume acqua dolce, incappando in un’imboscata dei Mori. Si combatte, il dardo di una balista colpisce il re di Valenza Barba Rossa, che ne muore. I Genovesi si ritirano sulle navi e procedono approdando a Caput Captae, cosiddetto perché i Mori qui usavano tagliare la testa ai cristiani fatti prigionieri39. Sopra il Capo c’è una torre d’osservazione dei cristiani. vv. 955-973, f. 14r-v Quod querunt Ianuenses de adventu imperatoris. «Queritur utrum rex advenisset Legionis... / ... queque gerenda gerat, caveat quecumque cavenda». — Il re di Leon non è ancora arrivato; i Genovesi se ne stupiscono e inviano diciotto galee con un console a ispezionare e isolare la città di Almeria in vista di assedio40. vv. 974-996, f. 14v Quod veniunt ad quoddam opidum quod vocatur Adera41. «Dum de rege nichil, dum nil de principe certum... / ... nominat est ubi rex totusque exercitus eius». — Alla ricerca del re con il suo esercito, i Genovesi arrivano a Adera, dove «quidam de Mauris» dà notizie del re e si offre di mostrare ove si trova. vv. 997-1013, f. 15r Quod Oto missus est ad imperatorem a consule cum quodam Mauro. «Vir clarus virtute potens animosus in armis... / ... prompcior efficitur super Almariae obsidionem». — Otto42 e il moro finalmente ottengono notizie; la flotta si prepara all’assedio di Almeria. vv. 1014-1110, ff. 15r-16v Quod marchio venit et leticia magna fuit in exercitu. «Cum sic gauderet classis, dum leta maneret ... / ... atque alii pedites Ienuae virtute notati». — Grande gioia nella flotta genovese, anche se unico arrivato è il marchese e non il re43. Il marchese aveva deciso di non avere mai pace con gli Agareni, lui, la cui nonna paterna era figlia di Roberto il Guiscardo «cui nos dedimus post prelia multa Apuliam; post hec regnum senioris Acestae, Trinacriam»44. Il marchese si presenta alla flotta con «verba diserta», si scusa del ritardo e si dichiara pronto a fare «quod vestra voluntas iusserit»; suo intento è servire Dio insieme ai Genovesi; «libertas vestris gladiis sit reddita Christo»; insieme formano la milizia di Cristo e insieme vinceranno; pianifica di fare scendere i cavalli dalle navi, perché si rifocillino, mentre ripete la sicurezza della vittoria, per l’aiuto celeste. Genova risponde con altrettanta sicurezza, perché il marchese ha fiducia in Colui che disse «Vici, confidite, mundum. Hec est vestra fides, mundum victoria vincens» (Ioh 16, 33; I Ioh 5, 4). Tutti si preparano alla battaglia. vv. 1111-1144, f. 16v Comes inquirit locum aptum insidiis. «Interea comes inquirens ubi posse latere... / ... applaudet populo fidei sanctoque triumpho». — I soldati si 39 Cabo

de Gata, che delimita a est il golfo di Almeria. riporta l’episodio, e parla di 15 galee: Ystoria cit., p. 80.24-25. 41 Adra / Abdera, sulla costa a ovest di Almeria. 42 Ottone di Buonvillano, che si recò a Baeza dove stava re Alfonso per sollecitarlo: Ystoria cit., pp. 80.27-81.6; secondo Caffaro l’attesa dell’imperatore si protrasse per un mese. 43 Per l’arrivo del marchese con navi, soldati e 53 cavalli: Ystoria cit., p. 81.12-15. 44 Cfr. supra, nt. 25. 40 Caffaro

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confessano e pregano. Il conte parla di nuovo alle truppe dando istruzioni per la strategia dell’assalto. Al mattino si farà la guerra santa. vv. 1145-1167, f. 17r In decollacione sancti Iohannis Baptistae fuit factum primum bellum. «Ecce dies quae45 m(arty)rio sacrata Iohannis... / ... hos dare terga, fugant, iam bis sunt vela levata». — Tutti prendono le armi, diciotto galee in mare e la milizia di terra46. «Terribiles iubilos emittit gens odiosa». Muore gloriosamente Guglielmo della Volta47; anche altri cadono; viene dato alle galee il segnale di attacco48. vv. 1168-1176, f. 17r Quod marchio cognovit signa et parat se ad bellum. «Marchio vela videt, cognoscit marchio signa ... / ... non poterit nostros tolerare, fugam dabit hostis». — La vera fede anima i santi a sante battaglie. Il marchese esorta i soldati. vv. 1177-1203, f. 17r-v, Quod marchio tendit ad bellum et Ianuenses, et quod ignotus non antea nec postea visus miles super equum album, et ipse albus, de milicia celestis exercitus. «I, comes! I, princeps! I, marchio, presule caelo! ... / ... quam bona mens comitis, mens quam bene provida bello»49. — Il marchese sprona, seguito dai soldati. Ed ecco, disceso dal cielo, un cavaliere bianco, sopra un cavallo bianco apparve ai Mori, abbattendo e minacciando. Molti non lo videro, ma come permise il Signore i più lo videro, come i Mori stessi attestano. La visione significava il re delle milizie celesti; il bianco indica la carne di Cristo senza macchia. Il marchese fa strage, fra i cristiani cadono dei valorosi. vv. 1204-1216, f. 17v Quod iuventus Genuae non cessat interficere Mauros. «At Genuae iuvenes memores de cede duorum... / ... depressit, memorant violamina Barchineae urbis». — I giovani sia di Genova che di Barcellona, ricordando i loro caduti, tutti i prigionieri uccisi dagli Agareni e quelli rinchiusi nel carcere di Almeria, continuano a colpire. vv. 1217-1226, f. 17v Quod Poncius Huguonis comes Impuriarum strenuus fuit in bello contra Mauros. «Poncius in Mauros frendens comes Impuriarum ... / ... Mau-

45 quae

correzione da qua.

46 Ystoria cit., p. 81. 16-18, dove non è specificato il giorno. La decollazione di s. Giovanni

si celebra il 29 agosto. 47 Cfr. supra, nt. 14. 48 Ystoria cit., p. 82. 2-25, narra i fatti con dettagli assenti dal poemetto e tace le azioni del conte di Barcellona e dei suoi (qui vv. 1168-1216). 49 L’intervento di un cavaliere celeste su cavallo bianco in aiuto ai cristiani entrò nella storiografia delle crociate all’inizio del sec. XII: modello biblico era l’apparizione di un «quidam equus terribilem habens sessorem» che salvò il tempio di Gerusalemme contro Antioco (II Mach 3.25); poi il cavallo diventò bianco credo per influsso di Apoc 6.2, 19.11, 19.14. Durante l’assedio di Antiochia nel 1098 si narra che arrivò s. Giorgio sul suo cavallo bianco, solo o con una schiera (nelle Historiae Hierosolymitanae di Roberto monaco, PL, 155, col. 711 e Baudri de Bourgueil, PL, 166, col. 1123; aggiunte al Chronicon di Sicardo, PL, 213, col. 501); in altre circostanze: Guglielmo di Tiro, Chronicon, XVI, 12.55-64, ed. R. B. C. Huygens, CC, CM, 63A (1986), p. 733, dove il cavaliere è «ignotus»; Rodrigo Jiménez de Rada, Historia de rebus Hispanie sive Historia Gothica, IV, xiii. 46-50, ed. J. Fernández Valverde, CC, CM, 72 (1987), p. 133: è s. Giacomo.

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rorum gaudent, letantur morte Agarena». — Ponç figlio di Ugo, conte di Ampurias, memore dei delitti dei Mori, abbatte senza pietà50. vv. 1227-1240, ff. 17v-18r Quod non cessat Guillelmus Montis Pessulani occidere Mauros. «Parte alia pungens magnae virtutis in armis... / ... illa quidem pugnat Christo secura tuente». — Guglielmo di Montpellier, pensando alle gesta di suo padre nell’assalto alle Baleari, feriva da ogni parte51; vedeva il cavaliere bianco, venuto dal cielo, e lui stesso sicuro per l’aiuto celeste faceva a pezzi i nemici. vv. 1241-1252, f. 17v (rubrica e vv. 1241-1245, aggiunti a marg.) e 18r Quod non est dubium quin sit de milicia celi iste eques albus in equo albo. «Hic eques albus erat, equus albus, marte peracto52... /... vincuntur Mauri, cantat victoria caeli». — Cavaliere e cavallo bianco dopo la battaglia non furono veduti da alcuno; era certo un soldato dell’Olimpo, che combatteva per la gente fedele. «Inter et antiquos patres antiquaque bella» non si sentì mai che tanto pochi combattenti potessero vincere un’innumerevole gente53; non sono rimessi i peccati dei Mori, che muoiono in mare. Lib. VIII, vv. 1253-1337 (mutilo in fine) vv. 1253-1282, f. 18r Lib. VIII. Quod in die veneris factum est bellum et data est victoria Christianis, in die illa qua Christus vicit diabolum. «Nempe die veneris Venus est extincta Agarena ... / ... permansit classis mansitque exercitus omnis». — Nel giorno di venerdì furono vinti gli Agareni, nefanda progenie di Venere, perché di venerdì il Salvatore con la sua morte redense gli uomini e perciò Satana fu vinto (vv. 12531269)54. Dopo la battaglia il mare si gonfiò e solo per questo motivo non fu presa la città nello stesso giorno; la flotta e l’esercito non si mossero (vv. 1270-1282). vv. 1283-1288, f.18r-v Quod omnes armati tendunt tentoria ante Almariam. «Tercia 50 Ponç non è menzionato da Caffaro; era fra i nobili impegnati a giurare il patto fra Raimondo Berengario e Genova nel 1146: Codice diplomatico cit., I, p. 217 nr. 169. 51 Guglielmo non è menzionato da Caffaro; cfr. infra, nt. 63. 52 Cfr. Lucan. 7, 299. 53 Per l’inaudita vittoria dei pochi contro i molti: Ystoria cit., p. 80. L’insistenza sulla memoria nei vv. 1204-1240 (memor, memores) e qui il richiamo agli antiqui suggeriscono una allusione al Carmen de victoria Pisanorum del 1087, che per magnificare le gesta dei Pisani con adeguato confronto rinnovava la memoria dell’antica Roma, vv. 1-2 («Inclytorum Pisanorum scripturus historiam, antiquorum Romanorum renovo memoriam») e 47-48: G. Scalia, Il carme pisano sull’impresa contro i Saraceni del 1087, in Studi di filologia romanza offerti a Silvio Pellegrini, Padova 1971, pp. 565-627; sembra però una eco quasi solo verbale, senza la dimensione culturale di «Pisa altera Roma» che dominava nella letteratura della città toscana: cfr. Liber Maiorichinus, II, 323 e VII, 3, e ed. Scalia cit., pp. 10-12, 508, 570; Gesta triumphalia, ed. Scalia cit., p. XLI. 54 L’attacco finale, secondo Ystoria cit., p. 83.22-23, fu sferrato la vigilia di s. Luca (17 ottobre), che nel 1147 cadeva di venerdì, come il 29 agosto, Decollazione di s. Giovanni Battista menzionata dal Trotti, f. 17r, al v. 1145 (cfr. supra, nt. 46). Questa coincidenza delle due feste di venerdì, accanto al giovedì indicato come data della ‘seconda battaglia’ (f. 18v, v. 1327), nel disordine delle aggiunte qui negli ultimi fogli del codice, sollecita qualche dubbio su una possibile confusione cronologica e sull’ordine di lettura di alcuni brani.

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lux aderat, comitis sanctique senatus... / ... continuo figunt in littore papiliones». — Il terzo giorno per comando del conte e del senato, si dispongono le schiere e si dirigono verso la città; nessuno esce contro; si piantano le tende sul lido55. vv. 1289-1299, f. 18v Quod aqua dulcis fuit in littore maris reperta ubi numquam fuit aqua dulcis, nec post recessum classis fuit ibi. «Quam sit grata Deo sanctae reverencia classis... / ... classis discessit, dulcis discessit et unda». — Dio mostrò la sua compiacenza alla santa flotta facendo trovare sulla spiaggia una fonte di acqua dolce, sgorgata come quella di Mosé. Dopo la partenza della flotta la fonte scomparve56. vv. 1300-1311, f. 18v [brano agg. in marg.] Quod stella ardens visa est cadere super Almariam. «Stella cadens super Almariam comburere visa... / ... quorum vita levis viciis est dedita carnis». — Fu vista una stella cadere su Almeria e bruciare tutta la città. Era segno dell’ira divina contro i popoli nemici, «qui nolunt scandere celos». vv. 1312-1326, f. 18v [segno di paragrafo senza rubrica]. «Magnanimi comitis prope sunt tentoria fixa... / ... irruit in Mauros, movet hos victoria sancta». — Le tende del conte sono piantate vicino a una porta e tutti si preparano. I Mori escono, lanciando «iubilos Agarenos» e sperando di bruciare la flotta, ma i giovani di Genova fanno impeto e li muove la vittoria santa. vv. 1327-1332, f. 18v Quod sancta fides movit illos. «Illa dies iovis est qua fiunt bella secunda... / ... sed se preponens, fervens iret super hostem». — La seconda battaglia ha luogo il giovedi57, la santa fede dà audacia ai santi. vv. 1333-1336, f. 18v [segno di paragrafo senza rubrica]. «In gladio Mauros conclusit caelicus ordo... / ... campum Christus habet, campum tua Ianua, Christe». — Il Cielo e i giovani di Genova portano a termine la sconfitta dei Mori. v. 1337, f. 18v Quod victores Ianuenses redeunt ad opus58. «Victores redeunt ad opus, redit omnis ad artem //» (mutilo dopo questo primo verso).

La prima parte del poemetto, ff. 1r-12v, vv. 1-831 conservati di originari circa 2800, è dedicata alle azioni diplomatiche che prepararono la spedizione; la seconda parte, con 506 versi conservati (ff. 13r-18v, vv. 832-1337) di forse 700/800 originari, narra l’azione bellica, che si svolgerebbe fra il 29 agosto (decollazione di s. Giovanni Battista) e, integrando con Caffaro, venerdì 17 ottobre vigilia di s. Luca. Se si considera il mese trascorso in attesa dell’imperatore, la cronologia può essere accettabile59. La narrazione della presa di Almeria è lì conclusa, forse seguiva quella di Tortosa, 55 Secondo Caffaro dopo la prima battaglia, vinta dai genovesi che ne resero grazie a Dio,

furono piantate le tende: Ystoria cit., p. 82.28-83.2. 56 Una fonte di acqua dolce miracolosamente sgorgata e paragonata a quella fatta zampillare da Mosé (Ex 17.5-6; Num 20.8; Deut 8.15) è anche nel Carmen del 1087, vv. 271-276. 57 Cfr. supra, nt. 54. 58 La rubrica è pigiata nel margine, non è chiaro se deve precedere o seguire il v. 1336. 59 Secondo la Chronica Adefonsi II, 107-108, i partecipanti alla spedizione avevano promesso di trovarsi ad Almeria il 1 agosto; lo stesso dice la Prefatio de Almaria, v. 337, ed. J. Gil, CC, CM, 71 (1990), p. 266.

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sbrigata in poche centinaia di versi perché tutti gli antecedenti diplomatici erano già stati presentati e poteva perciò essere limitata all’azione. L’inclusione di discorsi non stupisce, fanno parte integrante della tradizione epica, i documenti assai meno: il Liber Maiorichinus menziona o sunteggia alcune lettere (III, 64-70; III, 248-255; III, 303; V, 329-331; VI, 312-321; VII, 292-302) e quattro volte ha l’apparenza di metterne in versi l’intero contenuto (III, 53-63; VII, 12-92, due, richiesta e risposta; VII, 155-192), ma il totale risulta assai più breve dei verbosissimi 533 versi, che formano le sei epistole (e sono mutile) del testo genovese. Non è escluso che questa propensione ai documenti, come l’accenno alle tavolette cerate (vv. 907-909), sia dovuta alla professione dell’autore, forse un notaio; ad un laico farebbe pensare forse anche il paragone classico pagano sul tema della violenza a una donna, allegato prima di quello biblico (vv. 771-803). Il latino è ben padroneggiato; non così l’esametro, che poche volte presenta irregolarità metriche, ma è spesso contorto, con ordine delle parole forzato, tanto da riuscire poco comprensibile. La Bibbia è fittamente presente; sullo sfondo Ovidio, Virgilio, soprattutto Lucano offrono iuncturae verborum, ma il verso è stentato, mescola parole del tutto prosastiche, formule dure. Le argomentazioni sono assai ripetitive; dominante e con formulario ricorrente è il tema della guerra di fede, della santa milizia, della protezione di Cristo, re e capo della milizia. Certo non vuol dire che ragioni economiche, di commercio, nella guerra di Almeria non fossero presenti al poeta, ma ha fortemente a cuore l’identità religiosa di Genova60. Come suo obbiettivo particolare sostiene la valenza identica che hanno le spedizioni contro i Mori ad occidente e quelle per la Terra Santa ad oriente, obbiettivo condiviso con Caffaro, mentre per altri aspetti sembra distaccarsene: dà infatti molto più rilievo di Caffaro agli alleati spagnoli, Raimondo Berengario è quasi l’eroe principe. Due fonti spagnole coeve raccontano l’impresa di Almeria, ma saranno rimaste ignote o insignificanti per l’autore del Trotti 330. La prima, Chronica Adefonsi imperatoris, vi dedica un paio di capitoli (II, 107-108) e attribuisce ai Genovesi l’iniziativa. Della seconda, la Prefatio de Almaria, mutila, sopravvivono i primi 385 esametri, che presentano le armate dei condottieri spagnoli a francesi, partecipanti alla spedizione sotto la guida di Alfonso, fra gli altri Guglielmo di Montpellier e Ponç di Ampurias. Agli italiani è concesso solo il v. 346: «Et gens Pisana venit in simul et Genuana»61. Invece di forte rilievo per il poeta genovese appare la produzione pisana sulle 60 Cfr. supra, nt. 24; J. B. Williams, The making of a crusade: the Genoese anti-Muslim attacks in Spain, 1146-1148, in Journal of Medieval History 23 (1997), pp. 29-53. 61 Cfr. supra, nt. 26. Pisani ad Almeria non sono citati da alcuna altra fonte.

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‘crociate’ dell’ovest: il bellissimo Carmen per la vittoria pisana del 1087, la cui presenza mi pare si percepisca due volte62; e il Liber Maiorichinus, con il quale è in continua emulazione, forse anche a motivo delle sue frecciate dispregiative contro Genova (vv. I, 130-131; III, 321-322). Potrebbero essere una risposta politica al Maiorichinus gli elogi ai signori alleati di Genova nel 1147, che sono tutti figli dei vecchi alleati di Pisa trent’anni prima alle Baleari: Raimondo Berengario IV figlio di Raimondo Berengario III, Ponç II figlio di Ugo II conte di Ampurias e Guglielmo VI signore di Montpellier, figlio di Guglielmo V63. Il poeta di Almeria intendeva forse anche costruire per Genova una celebrazione letteraria in competizione con quella dei Pisani, ma in questo resta sotto di un buon gradino.

62 Cfr. supra, ntt. 53, 56. Nel Carmen i Genovesi compaiono onorevolmente, sono alleati (vv. 36, 41, 134, 197, 232). 63 Liber Maiorichinus, ed. Scalia cit., p. 27, 473, 488-489, 494-495, 512, e indice s.v.; Gesta triumphalia, ed. Scalia cit., pp. 41-42. — Ricordo grata i miei studenti dell’Università Cattolica del S. Cuore, con i quali ho condiviso lo studio del poema di Almeria: in primis Emanuela Sonzini, che accettò di dedicarvi la sua ottima tesi di laurea (Milano, a.a. 198283); poi i partecipanti ai corsi di Letteratura latina medioevale, a.a. 1986-87 e 1994-95, che si entusiasmarono all’analisi linguistica e metrica degli esametri.

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Tav. I – Milano, Biblioteca Ambrosiana, Trotti 330, f. 2v.

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MIRELLA FERRARI

Tav. II – Milano, Biblioteca Ambrosiana, Trotti 330, f. 17r.

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PRIMI APPUNTI SUI CODICI EPIGRAFICI DI FRANCESCO CICERI* Francesco Ciceri, umanista fiorito a Milano nella seconda metà del Cinquecento, è stato un personaggio noto soprattutto nell’ambiente scolastico ed erudito del suo tempo1. Nato a Lugano nel 1527 e presto trasferitosi nel capoluogo lombardo, vi morì nel 1596 dopo un’esistenza interamente dedicata all’insegnamento nella propria scuola privata e presso le Scuole del Broletto, meglio conosciute come Scuole Palatine, secondo la denominazione che ricevettero nel XVII secolo da Ericio Puteano, successore di Ciceri2. La fama di quest’ultimo è stata tramandata soprattutto dalla bibliografia erudita, mentre studi puntuali sulla sua personalità e sulla sua produzione letteraria sono iniziati soltanto nel secolo XX. Le opere di Ciceri hanno avuto solo in parte l’onore della stampa; alla fine del Settecento Pompeo Casati ne pubblicò l’epistolario latino3, mentre in anni più recenti hanno visto la luce l’edizione parziale dell’epistolario volgare e poi l’edizione integrale dell’epistolario sia latino sia volgare4. Alcuni studi hanno preso in esame gli appunti per le lezioni di greco5, mentre è in preparazione l’edi-

* Ringrazio Ambrogio Piazzoni per avermi onorato dell’invito a partecipare a questa raccolta di saggi per il Prefetto Cesare Pasini. Per la ricerca e per la stesura del testo sono debitore di suggerimenti e consigli a Marco Buonocore, Marco Petoletti, Massimo Rodella e Antonio Sartori. 1 R. Ricciardi, Ciceri, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, 25, Roma 1981, pp. 383-386. 2 R. Ferro, Federico Borromeo ed Ericio Puteano. Cultura e letteratura a Milano agli inizi del Seicento, Milano – Roma 2007, pp. 159-160. 3 Francisci Cicereii Epistolarum libri XII et orationes quatuor, cura et studio Pompeii Casati, Mediolani, Typis imperialis monasterii S. Ambrosii Majoris, 1782. 4 G. Roncoroni, La figura di Francesco Ciceri attraverso l’epistolario in volgare, in Archivio Storico Ticinese 59-60 (1974), pp. 289-352; F. Ciceri, Epistole e lettere (1544-1594), a cura di S. Clerc, Stato del Cantone Ticino 2013. 5 L. Gualdo Rosa, La fede nella ‘paideia’. Aspetti della fortuna europea di Isocrate nei secoli XV e XVI, Roma 1984 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Studi Storici, fasc. 140-142); M. Malvestiti, Il commento all’Oreste euripideo di Francesco Ciceri (1521-1596), tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, a.a. 2011-2012; M. Malvestiti, Il commento di Francesco Ciceri all’Oreste euripideo, in Miscellanea Graecolatina II, edd. L. Benedetti – F. Gallo, Milano – Roma 2014 (Ambrosiana Graecolatina, 2), pp. 325-369.

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zione degli Aneddoti6. Chi scrive ha condotto lo studio di un altro capitolo interessante dell’attività di Ciceri, ossia la sua collezione di manoscritti, oggi conservata quasi integra presso la Biblioteca Ambrosiana7. Aspetti meritevoli di futuro studio, non ancora indagàti, sono le composizioni in versi, gli epitaffi, gli interessi numismatici. Questo breve contributo mira ad offrire i primi appunti attorno ad un ulteriore capitolo peculiare della produzione letteraria di Ciceri non ancora compiutamente investigato, ossia le sue raccolte di epigrafi antiche. L’umanista milanese fu infatti autore di due compilazioni. Della prima, intitolata Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo, si conservano l’autografo Ambr. A 240 inf. e sette copie: Ambr. C 65 inf., Ambr. D 123 inf., Braid. AD XII 29, Estense lat. ΓB.4.20, Estense lat. ΓW.5.10, Triv. 739 pp. 159-280, Vat. lat. 5236 ff. 223-282, oltre alla copia parziale Ambr. & 238 sup., ff. 198v208v; esistevano almeno altre due copie oggi perdute: Trotti 329 e Triv. 811. Della seconda raccolta, Inscriptiones antiquae et sepulcrales Mediolani, Modoetiae et Comi, si conserva soltanto la copia Braid. Morbio 22 e si ha nel 1889 l’ultima notizia dell’esistenza di un’altra. Si tratta delle uniche opere di Ciceri pubblicate e diffuse, seppure soltanto in forma manoscritta, nel corso della sua vita o comunque nel periodo immediatamente successivo e prima della pubblicazione dell’epistolario latino nel 1792. Prima di prendere in esame i codici or ora menzionati, ritengo interessante raccogliere qualche indizio dell’interesse di Ciceri per le antiche epigrafi contenuto nel suo epistolario. La prima notizia in senso cronologico è contenuta in una lettera a Galeazzo Brugora8, datata da Sandra Clerc a prima del 31 ottobre 1558 e a mio avviso databile al 1557-15589: un giovane allievo di Ciceri ha mostrato a quest’ultimo il volume delle Antiquitates di Andrea Alciato posseduto da Brugora «cum» — scrive il maestro — «intelligeret vetustas inscriptiones semper mihi fuisse gratissimas»10; Ciceri allora chiede il libro in prestito per poterne trarre una copia per sé. Egli nota che l’Alciato non ha raccolto in modo completo le epigrafi milanesi e   6 A

cura di Vittore Nason. manoscritti di Francesco Ciceri nella Biblioteca Ambrosiana, Roma 2019 (Fontes Ambrosiani, 9).   8 S. Peyronal, Brugora, Galeazzo, in Dizionario biografico degli Italiani, 14, Roma 1972, pp. 507-510.   9 Cicereii Epistolarum libri XII cit., II, pp. 20-25; Ciceri, Epistole e lettere cit., pp. 11271132 nr. 813. 10 R. Abbondanza, Alciato, Andrea, in Dizionario biografico degli Italiani, 2, Roma 1960, pp. 69-77; cui va aggiunto almeno A. Belloni, L’Alciato e il diritto pubblico romano. I Vat. Lat. 6216, 6271, 7071, Città del Vaticano 2016 (Studi e Testi, 507-508).   7 I

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PRIMI APPUNTI SUI CODICI EPIGRAFICI DI FRANCESCO CICERI



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decide di completare l’opera; così scrive a Brugora: «institui appendicem in eum librum conscribere, tuo nomini dicatam, in qua aliquot adiungantur monumenta quae nemo negligenda iure putaverit et quae male transcripta sunt corrigantur». È l’idea germinale che porterà alla composizione degli Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo. Nel prosieguo della lettera Ciceri offre già un esempio di monumento mancante alla silloge dell’Alciato: «Interim habeas specimen aliquod eorum quae ab Alciato non fuerunt cognita, idque maxime ea ratione, ne quis putet neglecta, ideoque in suum librum ab eo minime ascita». Il prestito del volume delle Antiquitates posseduto da Brugora fu concesso e ne abbiamo testimonianza dalla lettera scritta da Ciceri il 31 ottobre 1558, che accompagna la restituzione del libro: «Gli ho aggionto la coppia delle Antiquità dil signor Alciato che Vostra Signoria mi diede. Io gli ho fatto quelle poche carezze ho potuto, emendandola, aggiongendogle le parolle greche dove manchavano»11. Quel «gli ho aggionto» si riferisce però ad un altro libro consegnato da Ciceri a Brugora: «Mando alla Signoria Vostra per il presente quello libro del quale parlai heri con la Signoria Vostra, quale, tale quale egli è, essa goderà per amor mio, e degneràsi tra tante occupationi di grandissima importanza vederlo al mancho una fiata, quantonque esso non contenghi cose molto degne di lei, come molto basse». Dovrebbe trattarsi, con molta probabilità, degli Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo, forse addirittura in una versione calligrafica di dedica. Di questa sua compilazione Ciceri parla nella lettera di un 26 agosto, datata da Sandra Clerc al 156112: Antonio Maria Venusti, allievo di Ciceri, ha lodato l’opera epigrafica parlandone con il giureconsulto Marco Antonio Caimi, che ora desidera vederla e conoscerne l’autore. Ciceri si schermisce con umiltà, ma offre qualche interessante nota sulle proprie modalità di composizione della silloge epigrafica: «De libello meo tantum habeo tibi polliceri esse in eo descriptionem diligenter factam aliquot antiquorum lapidum, ita ut ne literula quidem una sit illis addita aut detracta, neque in illis immutatum aut translatum quidquam uspiam». Una diligente copia delle antiche epigrafi, dunque. E a proposito del commento che le accompagna: «nihil magnificum aut te ipso dignum expecta: nam eius generis scripta solent esse de singulis literis et syllabis et huiusmodi leviores di-

11 Triv.

665, f. 144v (= p. 288); cfr. Ciceri, Epistole e lettere cit., p. 600 nr. 428. 665, ff. 260r-261r (= pp. 517-519); Cicereii Epistolarum libri XII cit., II, pp. 123125; cfr. Ciceri, Epistole e lettere cit., pp. 1186-1188 nr. 841. 12 Triv.

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sputatiunculas continere». Annuncia quindi annotazioni filologiche, non considerazioni letterarie o storiche. Nel 1569 Ciceri torna a parlare della sua opera epigrafica in una lettera ad Aldo Manuzio iunior datata 31 dicembre13. Afferma cioè di averne inviato in dono una copia al padre di costui, Paolo Manuzio, insieme alle Antiquitates dell’Alciato e alla raccolta epigrafica di Benedetto Giovio14: «Mandai ancora a dì 17 d’ottobre prossimo passato, sì di mia volontà essendogli affetionatissimo, come anche ad instanza dil molto eccellente signor Ottaviano Ferrari15, una copia dell’Antiquità dell’Alciato, Giovio e mia […] Desiderarei sapere se Vostra Signoria le ha havute, perché da quello giorno in qua non n’ho havuto notizia alcuna». Il dono è accompagnato da parole di umiltà e da dichiarazioni di piccolezza in confronto agli altri due celebri autori, ma è indicativo del desiderio di Ciceri di non passare inosservato. Prosegue poi così: «Mando la copia d’alcune poche inscrittioni notabili di novo cavate dalle muraglie di Narbona, quali m’ha dato il gentil giovane et molto nobile, il signor Bartholameo Aresio». L’interesse epigrafico di Ciceri si mostra costante e tale da rendere il maestro un punto di riferimento per altri giovani eruditi milanesi16. Le trascrizioni autografe di queste epigrafi di Narbona17, non riportate nel codice dell’epistolario volgare che Ciceri vergò di sua mano, sono oggi il f. 355 del ms. Vat. lat. 5237 ed accompagnavano la lettera autografa ad Aldo iunior, oggi Vat. lat. 5237 f. 358. Quanto alla copia autografa degli Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo inviata da Ciceri a Paolo Manuzio, non se ne ha traccia. È invece conservata nel Vat. lat. 5236 ai ff. 223-282 la copia che i Manuzio ne trassero, stando al giudizio di Mommsen: «a Manutio ex archetypo sibi misso»18. Giacché Ciceri afferma di avere inviato ad Aldo iunior «una copia dell’Antiquità dell’Alciato, Giovio e mia» ossia le medesime opere contenute nel Vat. lat. 5236, può sorgere il dubbio che quest’ultimo sia proprio il manoscritto inviato ai Manuzio. Tuttavia esso non presenta la benché minima traccia di 13 Vat. lat. 5237 f. 358; Triv. 665, f. 182rv (= pp. 363-364); cfr. Ciceri, Epistole e lettere cit., pp. 773-774 nr. 540. 14 S. Foà, Giovio, Benedetto, in Dizionario biografico degli Italiani, 56, Roma 2001, pp. 420-422. 15 Ciceri, Epistole e lettere cit., p. 1175 nt. 2; C. Pasini, Giovanni Donato Ferrari e i manoscritti greci dell’Ambrosiana (con note su Francesco Bernardino e Ottavio Ferrari e sui manoscritti di Ottaviano Ferrari all’Ambrosiana), in Nea Rhome 1 (2004), pp. 351-386: 354-355. 16 N. Raponi, Arese, Bartolomeo, in Dizionario biografico degli Italiani, 4, Roma 1962, pp. 82-83. Forse fu allievo di Ciceri come il Marco Antonio Arese di cui alle lettere 333, 338, 532, 533, 553 in Ciceri, Epistole e lettere cit. 17 Cfr. CIL XII, nell’ordine nrr. 5273, 4338, 4354, 5244, 5272, 4406, 4345, 6038. 18 CIL V, II, p. 628.

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PRIMI APPUNTI SUI CODICI EPIGRAFICI DI FRANCESCO CICERI

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autografia di Ciceri e anzi è piuttosto disordinato; è compilato da tre mani differenti, come spiegherò sotto nella descrizione del codice. Forse che si tratti di una copia fatta allestire in fretta a Milano per inviarla ai Manuzio? Ciceri non era persona trasandata o disordinata, anzi aveva una grafia molto curata e dall’epistolario appare il suo desiderio di far bella mostra di sé presso i Manuzio padre e figlio. Deve trattarsi più probabilmente di una copia tratta dall’originale inviato da Ciceri a Venezia, proprio come afferma Mommsen. Una conferma può rintracciarsi nella lettera di Ottaviano Ferrari ad Aldo iunior datata 17 ottobre 1569, dalla quale apprendiamo che Ciceri non inviò la sua opera direttamente, bensì per il tramite di Ferrari: Per il Suo messo, che questa mattina mi ha portato la Sua di 11 del mese d’ottobre, io Le mando le Antichità del signor Cicerini; ne sono alquante havute, come vedrà, da lochi diversi quali io raccoglieva per mandarvi, così Vostra Signoria le goderà quali elle sono. Nel sudetto volume troverà anco uno intero sommario di tutte le antichità di Como, di già molti anni sono raccolte da Benedetto Iovio fratello di Paolo, che scrisse Historie de’ suoi tempi. Nel volume più grande sono solo quelle poste insieme dall’Alciato, riscontrate non solo con altri testi, ma con i sassi istessi ancora. Vostra Signoria ne haverà buona cura, et quando ne sarà servita La prego a rimandare con diligenza, cioè per huomo fidato19.

Stando alle parole di Ottaviano Ferrari i manoscritti inviati dovevano essere copiati dai Manuzio e poi restituiti. Conforta in questo senso la probabilità di poter riconoscere in una delle diverse mani che hanno compilato il Vat. lat. 5236 quella di Aldo Manuzio iunior; mi riprometto però di studiare più approfonditamente in futuro il codice per meglio comprenderne la composizione. 19 Vat. lat. 5237 ff. 337-338. Così prosegue Ferrari: «Il signor Cicerini scrisse al padre di Vostra Signoria et con il mezzo del Secretario di Vostra Signoria inviò a Vostra Signoria la sua lettera, acciocché poi Ella a Roma la mandasse a Suo padre. Prego Vostra Signoria ad usare ogni onorevole diligentia a fine ch’ella habbia buono ricapito». La lettera autografa di Ciceri a Paolo Manuzio, datata I settembre 1569, è Vat. lat. 5237, ff. 356-357. La richiesta del 17 ottobre 1569 da parte di Ferrari in favore di Ciceri perché Paolo gli scrivesse, come pure quella omologa di Ciceri del 31 dicembre successivo già citata, non andarono a buon fine; infatti Ottaviano Ferrari scrive ad Aldo iunior il 17 maggio 1570 «Il signor Cicerini molto Le si raccomanda, grandemente desideroso di servirLa, et so certo che per amor mio egli non mancarà. Solo vorrei che vi intravenisse (?) qualche fresco merito di Vostra Signoria verso lui, come dire che il padre di Vostra Signoria lo stimasse degno di una lettera latina con qualche riputazione scritta di questo huomo, il quale etiandio per l’humanità sua, non solo per la letteratura, et sì oltre per la riverenza da lui portata et a l’uno et a l’altro di voi due, lo merita»: Vat. lat. 5237, f. 353rv. Paolo Manuzio scriverà a Ciceri il 7 novembre 1570: E. Pastorello, L’epistolario manuziano. Inventario cronologico-analitico 1483-1597, Firenze 1957, p. 113 nr. 1478; Ciceri, Epistole e lettere cit., pp.1353-1356 nr. 34.

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Un’altra testimonianza di interesse epigrafico, l’ultima contenuta nell’epistolario di Ciceri, è la lettera inviata a Giovanni Battista Fontana20 il 25 luglio 157321. «Io haverei, signor Giovan Battista mio osservandissimo, già risposto alla vostra molto amorevole […] se prima che hora mi fusse stato concesso un pocho di tempo per scartabellare et rugare per alquante memorie de’ sassi antichi qual io ho, desiderandomi di sodisfare alla dimanda vostra»: in casa dell’umanista milanese vi erano dunque raccolte di carattere epigrafico alle quali attingere. All’antico allievo ora trasferito a Roma, che desidera ricevere notizie in questo campo, Ciceri offre la trascrizione, riportata anche nell’epistolario autografo, di due epigrafi tratte «ex Benedicti Iovii Collectaneis antiquitatum Novocomensium» e di due epigrafi, ancora secondo le sue parole, «ex monumentis in Narbonensis provincia repertis, quorum mihi copiam fecit Bartholamaeus Alesius». Queste ultime22 non coincidono con le «poche inscrittioni notabili» pure narbonesi trasmessegli dal medesimo Bartolomeo Arese e trascritte per i Manuzio con la lettera del 156923. Da questi cenni contenuti nell’epistolario si comprende che l’interesse di Ciceri per le antiche epigrafi non dovette essere cosa di un sol momento, ma al contrario dovette accompagnare gran parte della sua vita. Presento ora in maniera sommaria tutti i codici oggi conosciuti che contengono le opere epigrafiche di Ciceri e tento di ricostruirne la storia. Tralascio volutamente l’analisi puntuale del testo, che rimando ad un possibile studio futuro. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 5236 Sec. XVI; cart.; ff. III + 302 + II, mm 200 × 305; legatura ca. 1779-1799.

F. Ir «Antiquitates Mediolanenses»; ff. 1r-3r epistula praefatoria; ff. 4r-204r «Andreae Alciati in patrias antiquorum inscriptiones veteraque monumenta» [prooemium ai ff. 4r-6v; ff. 7r-10r bianchi]; ff. 205r-220r trascrizioni di epigrafi varie; ff. 221-222 bianchi; seguono 13 ff. non numerati; ff. 223r-282v «Antiquorum monumentorum Urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo»; segue un f. bianco non numerato; ff. 283r-299v «Benedicti Iovii Collectanea antiquitatum». Copia all’interno di un codice di contenuto epigrafico milanese (Alciati, Ciceri, Giovio). Vi sono tre mani, delle quali la prima (A) assembla tutto il codice; nell’ordine: epigrafi alciatine (mano A e B), cicereiane (mano C), gioviane (mano A), un foglio di annotazioni (mano C). Secondo la testimonianza di Mommsen il codice 20 Sul

personaggio: Ciceri, Epistole e lettere cit., pp. 813-814 nt. 1. 665, f. 191rv (= pp. 381-382); Ciceri, Epistole e lettere cit., pp. 812-814 nr. 567. 22 Cfr. CIL XII, nrr. 4387, 4359. Riportate nell’epistolario volgare autografo e pubblicate da Sandra Clerc: cfr. nota precedente. 23 Nota 17. 21 Triv.

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fu fatto compilare dai Manuzio: «quem vidimus descriptum esse a Manutio ex archetypo sibi misso ab auctore una cum Alciatinis et Iovianis a. 1569»24. I ff. 224282, corrispondenti all’opera di Ciceri, presentano la numerazione precedente 1-60. A. De Camilli Soffredi, Codici epigrafici di Andrea Alciato, in Epigraphica 36 (1974), p. 240.

Milano, Archivio Storico e Biblioteca Trivulziana, 739 Sec. XVIII; cart.; pp. (8) + 280 + (2), mm 250 × 180, 28 linee lunghe; legatura sec. XVIII.

Dorso: «Alciati et Cicerei Monumenta. V» (mano sec. XVIII) ed etichetta «Trivulziana D 99» (sec. XX); contropiatto anteriore ex libris «Biblioteca Trivulziana. Codice nr. 739. Scaffale nr. 83. Palchetto nr. 3» (sec. XIX) su cui aggiunta a matita «D 99» (sec. XX); p. (1) a matita «P A 333» (sec. XX). P. (5) «Alciati Opusculum et Antiquarium et Cicerei Monumenta ab Alciato praetermissa»; p. (7) «Alciati Opusculum de templo Sancti Eustorgii, Tribus Magis, Fonte ad Sanctae Barnabae, Sancto Petro Martire, Porta Ticinensi, Sancti Laurentii templo et cetera concordatum cum meo quod in Bibliotheca Ambrosiana servatur»; pp. 1-9 «Andreae Alciati Opusculum historicum»; pp. 10-12 bianche; pp. 13-150 «Andreae Alciati Mediolanensis iurisconsulti Antiquarium»; pp. 151-152 bianche; pp. 153-156 epistola latina di Catelliano Cotta; pp. 157-158 bianche; pp. 159-280 «Francisci Cicerei Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato pratermissorum libri duo» ed eraso: «e codice Sitoniano» (?). Copia eseguita nel sec. XVIII da Giovanni (Gian) Antonio Trivulzio, secondo la testimonianza di Giulio Porro poi ripetuta da Liana Montevecchi e da Adriana De Camilli Soffredi. A Gian Antonio Trivulzio25, sacerdote milanese erudito e bibliofilo, Porro attribuisce anche altre copie di manoscritti26. Trivulziana. Catalogo dei codici manoscritti, a cura di G. Porro, Torino 1884, p. 7; L. MonCatalogo dei codici epigrafici delle biblioteche milanesi, in Epigraphica 1 (1939), pp. 75-76; A. De Camilli Soffredi, Codici epigrafici di Andrea Alciato, in Epigraphica 36 (1974), pp. 243-244. tevecchi,

Milano, Biblioteca Ambrosiana, A 240 inf. Sec. XVI (autografo); cart.; ff. III + 49 + VII, mm 240 × 345, 29/34 linee lunghe; legatura sec. XVII in pergamena. Foliazione autografa III (= f. 3) – XLVII (= f. 46); foliazione del sec. XX 1-48 con un «14 bis».

Piatto anteriore «A 240 inf.» (sec. XX); f. Ir «A n. 240 parte inferiore | Francisci 24 CIL V, II, p. 628; A. De Camilli Soffredi, Codici epigrafici di Andrea Alciato, in Epigraphica 36 (1974), p. 240 ne fa semplice menzione, ma lo chiama «olim Codex Manuntianus» (sic). 25 P. Litta, Famiglie celebri italiane, Milano 1819-1885, II, Trivulzio di Milano, tav. I. Gian Antonio Trivulzio († 1767) era lontano parente dei più celebri fratelli eruditi Alessandro Teodoro (1694-1763) e Carlo (1715-1789) Trivulzio del ramo dei marchesi di Sesto Ulteriano: ivi, tav. IV; I manoscritti datati dell’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana di Milano, a cura di M. Pontone, Firenze 2011 (Manoscritti datati d’Italia, 22), pp. 8-10. 26 Trivulziana. Catalogo dei codici manoscritti, a cura di G. Porro, Torino 1884, passim.

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Cicereii de antiquis Mediolani monumentis ab Alciato praetermissis autographum | Exemplum huius cod. vide segnat. C 12 [?] fol. [cassatura sec. XX] | vide Alciati Inscriptiones D 425» (sec. XVII), «Vedi copia del presente: D 123 inf.» (sec. XX); dorso «240» (etichetta sec. XIX). F. 1r «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri II»; f. 2rv «Index eorum quae ex singulis utriusque libri monumentis colliguntur»; ff. 3r-24v «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram liber I»; ff. 25r47r «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram liber II»; tra f. 47 e f. 48 un frammento (mm 60 × 155) con appunti di argomento epigrafico antico (sec. XVII); f. 48r (mm 200 × 300) contiene appunti di carattere epigrafico antico e moderno ed un appunto di carattere ecclesiastico (sec. XVII). Autografo, pare la prima stesura dell’opera. Presenta moltissime correzioni e integrazioni autografe sia in margine sia in interlinea, e belle immagini delle trentotto epigrafi commentate. Inventario Ceruti dei manoscritti della Biblioteca Ambrosiana. A inf. – E inf., I, Trezzano sul Naviglio (Milano) 1973 (Fontes Ambrosiani, 50), pp. 129-130; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, London – Leiden 1963, p. 280; L. Montevecchi, Catalogo dei codici epigrafici delle biblioteche milanesi, in Epigraphica 1 (1939), p. 54; P. Revelli, I codici ambrosiani di contenuto geografico, Milano 1929, p. 29 nr. 19.

Milano, Biblioteca Ambrosiana, C 65 inf. Sec. XVII (ante 1612); cart.; ff. 72 + IV, mm 215 × 310, 24/25 linee lunghe; legatura sec. XVII in cartone.

Piatto anteriore «C 65 inf.» (sec. XX); f. 1r «C 202 65 parte inferiore | Q» (sec. XVII); f. 1v «Carolus a Basilica Petri episcopus Novariae haec historica monumenta in Ambrosiana Bibliotheca collocavit gratum fundatori munus ob largitoris decora qui inter antiquos memorari dignus erat | Antonio Olgiato eiusdem Bibliothecae quam primus omnium tractavit Praefecto anno 1612» (sec. XVII). F. 2r «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri II | Vide autographum in hac Bibliotheca signatum A 240 fol.»; ff. 3r-4v «Index eorum quae ex singulis utriusque» (sic); ff. 5r-37v «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram liber I»; ff. 38r-72r «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram liber II». Copia donata alla Biblioteca Ambrosiana da Carlo Bascapè nel 1612. Presenta belle immagini delle trentotto epigrafi commentate. Inventario Ceruti dei manoscritti della Biblioteca Ambrosiana. A inf. – E inf., I, Trezzano sul Naviglio (Milano) 1973 (Fontes Ambrosiani, 50), p. 227; L. Montevecchi, Catalogo dei codici epigrafici delle biblioteche milanesi, in Epigraphica 1 (1939), p. 55.

Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 123 inf. Sec. XVIII-XIX; cart.; ff. I + 47 + I, mm 200 × 295, 37/40 linee lunghe; legatura sec. XVIII in cartone.

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Piatto anteriore «D 123 inf.» (sec. XX); contropiatto anteriore «D 123 inf.» (sec. XX); f. Ir «D 123 inf.» (sec. XX); dorso «Cicereii monumenta patria ab Alciato prae­ termissa» (sec. XVIII). F. 1r «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum libri II ad Galeatium Brugoram senatorem amplissimum» e stemma comitale Casati con sigle «C | C»; ff. 3r-26r «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram liber I»; ff. 26v-45r «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram liber II»; ff. 45v-46v «Index eorum quae ex singulis utriusque libri monumentis colliguntur». Copia del sec. XVIII-XIX, entrata nell’Ambrosiana verisimilmente come dono dello storico milanese Carlo Casati27. Presenta belle immagini delle trentotto epigrafi commentate, alle quali spesso si accosta in margine il riferimento, di mano del copista, alle Inscriptiones antiquae di Jan Gruter28 e al Novus Thesaurus veterum inscriptionum di Ludovico Antonio Muratori29. Inventario Ceruti dei manoscritti della Biblioteca Ambrosiana. A inf. – E inf., I, Trezzano sul Naviglio (Milano) 1973 (Fontes Ambrosiani, 50), p. 447; P. O. Kristeller, Iter Italicum, VI, London ecc. 1992, p. 33.

Milano, Biblioteca Ambrosiana, & 238 sup. Sec. XVI; cart.; ff. IX + 214 + I, mm 230 × 173, 24/25 linee lunghe; legatura originale.

Dorso: «Andreae Alciati Patriae antiquorum inscriptiones veteraque monumenta | R. D. Innoc. Ab Ecclesia 1»; contropiatto anteriore «Don Innocentius (seconda mano) Paulus ab Ecclesia (prima mano)». F. Ir «Veterum urbis et agri Mediolanensis monumentorum ab domino Innocentio clericus regularis in saeculo Paulo Ecclesia collectorum liber primus»; ff. 1r-187r Andrea Alciato Patriae antiquorum inscriptiones veteraque monumenta; ff. 188r-214r trascrizione da diverse fonti di altre epigrafi: ai ff. 198v-208v le sole epigrafi censite da Ciceri senza il commento: «Ex Francisci Cicerei Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum». Silloge epigrafica compilata dal barnabita Innocenzo Chiesa (1567-1637)30. 27 F. Calvi, Famiglie notabili milanesi, Milano 1875-1884, IV, tav. XVIII; M. Rodella, Libri e manoscritti entrati in Ambrosiana tra il 1815 e il 1915, in Storia dell’Ambrosiana. L’Ottocento, Milano 2001, pp. 226-228. 28 J. Gruter, Inscriptiones antiquae totius orbis Romani, [Heidelberg], ex officina Commeliniana, 1602. 29 L. A. Muratori, Novus Thesaurus veterum inscriptionum, Mediolani 1739-1742. 30 G. Boffito, Scrittori barnabiti o della Congregazione dei Chierici regolari di San Paolo (1533-1933), Firenze 1933-1937, I, pp. 459-463: a p. 462 nr. 9 si legge «Monumenta Mediolanensia vetera. Esisteva nella Biblioteca del Collegio S. Alessandro in Milano, come sappiamo dal Grazioli (De praeclaris Mediolani edificiis, Mediolani, in Regia Curia, 1735, p. 101) che cita quella raccolta e vi attinge qualche monumento che riporta e descrive»; in P. Grazioli, De praeclaris Mediolani aedificiis, Mediolani, in Regia Curia, 1735 non rintraccio tale notizia, ma leggo a p. 151 «in monumentorum quorundam Mediolanensium collectione Innocentius Ecclesia, mei Ordinis vir dissertissimus, ac editis etiam nunnullis operibus celebris, in ma-

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FEDERICO GALLO

M. Cogliati, catalogo manoscritto dei codici dell’Ambrosiana, vol. 50 [continuazione di Inventario Ceruti dei manoscritti della Biblioteca Ambrosiana. S sup. – + sup., V, Trezzano sul Naviglio (Milano) 1979 (Fontes Ambrosiani, 63)], & 205 sup. – & 263 sup. [s.d.], f. 36r; P. O. Kristeller, Iter Italicum, VI, London ecc. 1992, p. 62

Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, AD XII 29 Sec. XVII; cart.; ff. (I) + VII + 85 [= 1-92] + (I), mm 185 × 235, 19/20 linee lunghe; legatura sec. XVII in cartone.

Contropiatto anteriore «AD XII 29» (sec. XIX); f. Ir «Costa £ 20 | Vale £ 24» (sec. XVIII); dorso «Cicereius | Monumenta urbis Mediolani | M.S.» (sec. XVIII), «AD XII 29» (etichetta sec. XIX). F. Ir «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum libri II ad Galeatium Brugoram senatorem amplissimum »; ff. IIIr-VIIr «Index eorum quae ex singulis utriusque libri monumentis colliguntur»; ff. 1r-42v «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram liber I»; ff. 43r-85r «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram liber II». Copia del sec. XVII, probabilmente appartenuta ai gesuiti di San Fedele di Milano e poi — secondo l’affermazione di Isacco Ghiron — al conte Karl Joseph von Firmian prima di confluire nella Braidense31. Presenta belle immagini delle trentotto epigrafi commentate, spesso accostate in margine dal riferimento, di altra mano, alle Inscriptiones antiquae di Jan Gruter e al Novus Thesaurus di Ludovico Antonio Muratori. Bibliotheca Firmiana sive thesaurus librorum. Manuscripta, Milano 1783, p. 2; I. Ghiron, Bibliografia lombarda. Catalogo dei manoscritti intorno alla storia della Lombardia esistenti nella Biblioteca Nazionale di Brera, Milano 1884, p. 29; L. Montevecchi, Catalogo dei codici epigrafici delle biblioteche milanesi, in Epigraphica 1 (1939), p. 67; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, London – Leiden, 1977, p. 352.

Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Morbio 22 Sec. XVII-XVIII; cart.; ff. (VII) + 164, mm 135 × 185; legatura sec. XVII-XVIII.

nuscripto p. 192». Nella scheda su Innocenzo Chiesa (non citata da Boffito) in F. Argelati, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, Mediolani, in Aedibus Palatinis, 1745, I, II, coll. 567568, si legge alla col. 568 nr. 10 «Ad Alciati Incriptiones veteres Additamenta. Manuscriptus in 4° ibidem [in Collegio S. Barnabae]. Ex illis clarus pater Gratiolus quaedam desumpsit, quae in suo De Mediolani sculpturis opere promulgavit atque illustravit». Non ho elementi per stabilire se uno dei codici citati da Grazioli, Argelati e Boffito corrisponda all’Ambr. & 238 sup. 31 Il codice è descritto come «A 414» alla p. 2 del volume Bibliotheca Firmiana sive thesaurus librorum. Manuscripta, Milano, typis Imperialis Monasterii S. Ambrosii Maioris, 1783: vi si afferma «p. 170». Poiché la foliazione antica a penna è 1-85, immagino che il descrittore abbia calcolato il numero di pagine semplicemente raddoppiando il numero dei fogli. Anche le misure coincidono: «alto cent. 24, largo 19 circa». Sulle vicende dei manoscritti di San Fedele dopo la soppressione del 1773 e dei manoscritti del conte Firmian: P. Tacchi Venturi, Dei mss. delle antiche biblioteche dei gesuiti in Milano, in Rivista delle biblioteche e degli archivi, 10 (1899), pp. 93-96; I manoscritti datati della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano, Firenze 2004 (Manoscritti datati d’Italia, 10), pp. 4-5.

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Dorso «Cicereii Inscript. [Mediol. Modoet.] Comi Mss.»; dorso e f (I)v etichetta sec. XX «Biblioteca Nazionale Braidense Milano | Mss. Morbio 22»; taglio inferiore «EPITAFIA»; f. (I)v «Costa £. 50». F. (I)r «Inscriptiones antiquae et sepulcrales Mediolani, Modoetiae et Comi [mano 1] [cassato «additisque nonnullis aliis monumentis a Iosepho Aglio Cremonae spectantibus et pertinentibus», mano 2] collectore Francisco Cicereio, de quo abbas Philippus Picinellus in Athenaeo Litteratorum Mediolanesium late disserit32 [mano 3] sic F. Arisio testatus fuit Iohannes Sitonus de Scotia iuris consultus notarius Mediolanensis chronista peritissimus [mano 4] additisque nonnullis aliis monumentis Cremonae spectantibus per me Ioseph Aglio [mano 2]», ff. (II)r-(VII) v «Index nominum et cognominum», ff. 1r-132r iscrizioni milanesi, ff. 133r-147r iscrizioni monzesi, ff. 149r-164r iscrizioni comasche. Copia non calligrafica, riporta soltanto le iscrizioni all’interno di riquadri ad imitazione dello spazio scrittorio senza alcun commento. Il codice presenta un riferimento all’erudito cremonese Francesco Arisi (1657-1743)33, corrispondente dell’erudito milanese Giovanni Sitoni di Scozia (1674-1762)34; non compaiono le aggiunte del cremonese Giuseppe Aglio35. L. Frati, I codici Morbio della R. Biblioteca di Brera, Forlì 1897 (Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, ed. G. Mazzatinti, 8), 29; L. Montevecchi, Catalogo dei codici epigrafici delle biblioteche milanesi, in Epigraphica 1 (1939), p. 73.

Modena, Biblioteca Estense Universitaria, lat. ΓB 4 20 Sec. XVIIIex-XVIIIin; cart.; ff. 143 + I, mm 280 × 185, 29 linee lunghe; legatura sec. XIX.

Contropiatto anteriore: «Acquistato dal Cecchi di Firenze»; Ff. 1r-69r «Francisci Cicerei antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum libri duo ad Galeatium Brugoram senatorem amplissimum»; ff. 69v-73v bianchi; ff. 74r-101r «Antiqua monumenta urbis et agri Mediolanensis ex Iani Gruteri inscriptionibus Romanis excerpta | [altra mano] Per I.C. Camillum de Sitoni a Scotia Mediolanensem»; f. 102r inserto con iscrizione di argomento Sitoni; ff. 103r-126v bianchi; ff. 127-143 sillogi di epigrafi. Copia calligrafica tra la fine del secolo XVII e l’inizio del secolo XVIII appartenuta o copiata da Camillo Sitoni di Scozia (1631-1708)36. 32 F.

Picinelli, Ateneo dei letterari milanesi, Milano, nella stampa di Francesco Vigone, 1670, pp. 207-208. 33 C. Mutini, Arisi, Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, 4, Roma 1962, pp. 198-201. 34 L. Fois, À rebours: des parchemins milanais de Paris et Halle à la collection oubliée de Giovanni Sitoni (1674-1762), in Bibliothèque de l’École des chartes 168 (2010), pp. 173-208; id., Giovanni Sitoni. Erudizione, studi genealogici, collezionismo documentario, in «Un tesoro infinito inveduto». Erudizione e archivi a Milano tra XVII e XIX secolo, a cura di L. Fois e M. Lanzini, Milano 2013, pp. 3-15. 35 Di costui mi sono note soltanto alcune pubblicazioni di interesse locale, quali ad esempio Le pitture e le sculture della città di Cremona, Cremona 1794. 36 Fois, Giovanni Sitoni, cit. Propendo per l’appartenenza del codice a Camillo Sitoni, padre del già citato Giovanni, perché indicato come trascrittore della seconda opera a f. 74r e

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FEDERICO GALLO

L. Lodi, Catalogo dei codici e degli autografi posseduti dal marchese Giuseppe Campori. Parte prima (Sec. XIII-XV), Modena 1875, p. 180 nr. 285.

Modena, Biblioteca Estense Universitaria, lat. ΓW 5 10 Sec. XVII; cart.; ff. II + 53 + I, mm 220 × 160, 24/34 linee lunghe; legatura sec. XX.

Piatto anteriore: «Cicerei Monumenta | Matthaeus Campori in patrui reverentiam ex integro ligari iussit MCMXXI»; f. Ir timbro «Giuseppe Campori» e timbro «Codici e mss. Campori». Ff. 1r-52v «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo». Copia non calligrafica del secolo XVII; gli unici due disegni, peraltro stentati, sono ai ff. 11v e 42v. Nessun segno di possesso oltre all’appartenenza ai marchesi Campori indicata sulla coperta: «Cicerei Monumenta | Matthaeus Campori in patrui reverentiam ex integro ligari iussit MCMXXI». Forse il copista non era milanese, perché a f. 4v sbaglia scrivendo «Brugera» per Brugora. R. Vandini, Appendice seconda al catalogo dei codici e manoscritti già posseduti dal marchese Giuseppe Campori, Modena 1886, p. 517 nr. 1704.

Appare notevole la fortuna della quale godette la prima delle due raccolte di Ciceri, Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo, ancor oggi testimoniata da un certo numero di copie quasi tutte del secolo XVII. L’interesse allora diffuso per l’epigrafia e il riferimento all’autorità dell’Alciato, della cui compilazione quella di Ciceri rappresentava il complemento, giocarono a favore della sua accoglienza in àmbito milanese: tutte le copie infatti — tranne le due oggi conservate alla Biblioteca Estense di Modena e la copia ‘manuziana’ conservata nella Biblioteca Vaticana — si trovano ancora in biblioteche della città di Milano; anche quelle scomparse, secondo le testimonianze bibliografiche, erano conservate a Milano. Così pure una semplice copia delle iscrizioni senza commento, quale è il caso dell’Ambr. & 238 sup. contenente la compilazione del barnabita Innocenzo Chiesa, conferma l’interesse che l’opera epigrafica di Ciceri destava negli eruditi del suo tempo e del secolo successivo. È interessante notare che essa fu sempre copiata come opera autonoma a se stante, tranne nel caso del Triv. 739 e, per le ragioni illustrate sopra, nel caso del Vat. lat. 5236. Gli Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo sono una raccolta di trentotto epigrafi, ripartite in due libri rispettivamente di ventidue e di sedici epigrafi; di ognuna di esse Ciceri presenta un commento dettagliato e una copia a disegno. L’opera si apre con una dichiarazione delle autorità consultate da perché a f. 102r si riporta una epigrafe datata 1690 dedicata dal giureconsulto Camillo Sitoni figlio di Giovanni Battista.

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Ciceri — Konrad Peutinger sulle epigrafi di Vienna37, Iohannes Huttich su quelle di Magonza38, i già citati Benedetto Giovio sulle epigrafi di Como ed Andrea Alciato su quelle di Milano — e del metodo osservato da Ciceri nel citare le opere di costoro. Seguono il sommario, i due libri di epigrafi ed una dichiarazione finale dell’autore. L’altra opera, Inscriptiones antiquae et sepulcrales Mediolani, Modoetiae et Comi, si presenta così nell’unico codice oggi conosciuto (Braid. Morbio 22): l’indice dei nomi e la semplice copia delle epigrafi, il cui testo è racchiuso in un riquadro ad imitazione dello spazio scrittorio lapideo originale, raggruppate per luogo di conservazione. Si tratta per lo più di iscrizioni di epoca medievale e moderna, ma ve ne sono anche molte di epoca romana. Le iscrizioni medievali sono spesso accompagnate anche da uno stemma. Va notata la novità di questa raccolta: è una delle prime che nel Cinquecento abbia preso in considerazione anche epigrafi di epoca non antica. Agli Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo fa cenno la bibliografia dei secoli XVII-XIX. La prima menzione in senso cronologico si trova nell’Ateneo dei letterati milanesi pubblicato da Filippo Picinelli nel 167039. Per un errore dovuto al doppio modo con il quale il nostro umanista veniva chiamato in italiano, ossia ‘Ciceri’ ufficialmente ma ‘Cesarino’ in modo corrente40, Picinelli crede che siano esistiti sia un «Francesco Cesarino», al quale attribuisce la biografia già pubblicata con questa forma del nome da Paolo Morigia nel 1595 ossia un anno prima della morte di Ciceri41, sia un «Francesco Ciceri», al quale attribuisce la produzione epigrafica con queste parole: Havendo il dottissimo Andrea Alciati stampato un libro in cui raccolte si trovano le più ragguardevoli antichità di Milano, Francesco Ciceri, nostro compatriotto, che per tale dichiara se stesso come soggetto di copiosa erudizione, havendo osservato che molte venerabili memorie di lapide et inscrittioni erano sfuggite al grande Andrea, esso perciò le raccolse in un volume intitolato Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum libri 37 K. Peutinger, Romanae vetustatis fragmenta in Augusta Vindelicorum et eius dioecesi, [Augusta], Erhardus Ratoldus Augustensis impressit, 1505. 38 I. Huttich, Collectanea antiquitatum in urbe atque agro Moguntino repertarum, Moguntiae, ex aedibus Iohannis Schoeffer, 1520. 39 Picinelli, Ateneo cit., pp. 207-208. 40 Ne dà testimonianza chiara l’epistolario, ad esempio Ciceri, Epistole e lettere cit., pp. 1053-1054 nr. 759. Diversa è la forma in latino: ‘Cicerinus’ negli anni giovanili, poi dal 1559 ‘Cicereius’. 41 P. Morigia, La nobiltà di Milano, Milano, nella stampa del quondam Pacifico Ponzio, 1595, p. 155.

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duo che manuscritto si conserva nella Libraria Ambrosiana, a quella donato da monsignor Carlo Bascapè vescovo di Novara.

Il Picinelli si riferisce alla copia manoscritta Ambr. C 65 inf., per l’appunto donata all’Ambrosiana da Carlo Bascapè nel 1612, come si legge alla pagina 2 per mano del primo prefetto dell’Ambrosiana, Antonio Olgiati. Filippo Argelati, nella celebre Bibliotheca scriptorum Mediolanensium edita nel 1745, offre la menzione di entrambe le compilazioni epigrafiche di Ciceri — poste al numero X e XI dell’elenco delle sue opere — con queste parole42: X. Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum libri duo ad Galeatium Brugoram senatorem amplissimum. Incipit «In commentariolis hiscis nostris etc.». Desinit autem sic: «Haec Franciscus Cicereius scribebat ad octo et triginta antiqua monumenta emendaturus, immutaturus, si quid ipsi Galeatio Brugorae, cui quidquid est operis dicatum vult, aut Octaviano Ferrario, aut Francisco Petreio Nigro, aut Lucio Annibali Cruceio, aut aliis doctissimis hominibus visum fuerit». Extat manuscriptum apud clarissimum Sitonum, in Bibliotheca Ambrosiana, in Regia Parisiensi, sicut extabat etiam apud Iacobum Valerium. XI. Francisci Cicerei, vulgo Cesarini, Inscriptionum antiquarium et sepulcralium Mediolani, Modoetiae et Novocomi collectanea. Manuscriptum paenes eundem iuris consultum Sitonum.

Si nota che il titolo della prima opera è di poco differente rispetto a quello che abbiamo scritto sinora e che abbiamo visto citato da Picinelli. I codici infatti si dividono in due famiglie a motivo di alcune piccole differenze nel testo43. La prima famiglia è rappresentata dagli Ambr. A 240 inf e C 65 inf., dall’Estense ΓW 5 10 e dal Vat. lat. 5236; la seconda dall’Ambr. D 123 inf., dal Braid. AD XII 29, dall’Estense ΓB 4 20 e dal Triv. 739. Il titolo dell’opera, coerentemente citato da Picinelli secondo la forma della prima famiglia perché desunto dall’Ambr. C 65 inf., è invece citato da Argelati secondo la forma testimoniata dalla seconda famiglia. Il desinit, citato in modo integro da Argelati, è identico a quello che si legge nella copia Estense ΓB 4 20 e quasi identico a quello che si legge nelle copie Braid. AD XII 29 ed Ambr. D 123 inf., ossia negli altri codici della seconda famiglia. Ritengo quasi certo che Argelati abbia consultato proprio la copia oggi Estense ΓB 4 20, a quel tempo posseduta dal giureconsulto milanese Camillo Sitoni di 42 Argelati,

Bibliotheca scriptorum cit., I, II, coll. 429-431. riferisco soprattutto al titolo e al desinit. Ho compiuto qualche sondaggio anche nel corpo dell’opera, costituito dai commenti epigrafici, ma ne rimando al futuro una vera e propria collazione completa. 43 Mi

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Scozia. Un manoscritto della seconda opera epigrafica di Ciceri era posseduto da Giovanni Sitoni di Scozia figlio di Camillo, come si legge nelle pagine di Vincenzo Forcella che lo descrivono e che prenderò tra poco in considerazione, quindi è quasi certo che Argelati avesse visto proprio questi due codici in casa Sitoni. Quanto alle altre copie degli Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo citate da Argelati, immagino che quella «in Bibliotheca Ambrosiana» fosse il codice C 65 inf., mentre di quella «in Regia Parisiensi» non ho alcuna notizia; infine quella conservata «apud Iacobum Valerium» comparirà qualche anno più tardi, come vedremo, nella biblioteca del monastero milanese di Sant’Ambrogio. Al gesuita Francesco Antonio Zaccaria44 si deve un’analisi della prima opera epigrafica di Ciceri all’interno degli Excursus literarii per Italiam (1742-1752) editi a Venezia nel 1754. All’interno del Caput VII, dedicato al periodo di studio che l’autore trascorse a Milano tra l’estate 1747 ed il febbraio 1748 risiedendo a San Fedele, si trova l’Epistola III indirizzata a Giovanni Battista Passeri45, «in qua antiqua urbis Mediolani monumenta ab Alciato praetermissa et libris duobus a Francisco Cicereio comprehensa describuntur, pluresque Gruteriani ac Muratoriani Thesauri inscriptiones emendantur»46. L’autore annota le proprie osservazioni, «quas ex egregio Francisci Cicereii codice manu scripto deprompsi». Le biblioteche visitate da Zaccaria durante il suo soggiorno a Milano sono, secondo le sue parole, la biblioteca di San Fedele e quella Braidense, dunque le biblioteche dei gesuiti. Egli testimonia che l’opera di Ciceri si trovava a San Fedele: a pagina 131 si legge infatti in fatto di codici di antichità è superiore a quella di Brera la nostra libreria di S. Fedele, avendo noi tre manoscritti veramente belli e corretti delle inscrizioni e de’ monumenti di Milano e di Como, cioè le Antichità di Milano del famoso Andrea Alciati, il supplemento di Francesco Cicerei, e la raccolta delle inscrizioni di Como di Benedetto Giovio.

Si può presumere che si tratti della copia oggi Braid. AD XII 29 anzitutto per la testimonianza di Isacco Ghiron, secondo il quale il codice, descritto da Zaccaria, poi appartenne al conte Firmian, nella cui biblioteca erano confluiti alcuni manoscritti di San Fedele dopo la soppressione del 44 C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, 8, Bruxelles – Paris 1898, coll 1381-1435. 45 C. Sodini, Passeri, Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli Italiani, 81, Roma 2014, pp. 631-633. 46 F. A. Zaccaria, Excursus literarii per Italiam (1742-1752), Venetiis 1754, pp. 100-105.

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177347. Inoltre il titolo dell’opera è riportato dallo studioso gesuita nella forma della seconda famiglia. Siamo sicuri che tale forma sia fedele all’originale perché Zaccaria dichiara che sta riportando il testo di Ciceri «ea diligentia ac fidelitate, ut qui isthaec legeris (quod ad inscriptiones adtinet, nam animadversiones eiusdem Cicereii quid quaeras? prolixas illas, neque ad seculi nostri eruditionem satis belle effictas) codicem ipsum habere te existimare vere possis». Il gesuita annota per ogni monumento dell’opera di Ciceri il riferimento a Muratori o a Gruter e le proprie emendazioni. Nel 1761 Angelo Fumagalli48, cisterciense del monastero milanese di Sant’Ambrogio, scrisse una Vita di Ciceri49, che poi nel 1792 l’abate Pompeo Casati50 tradurrà in latino e porrà in apertura alla sua edizione delle epistole latine di Ciceri51. Nella Vita del 1761 si legge tra le quali [opere] la prima forsi è quella che ha per titolo Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum libri duo ad Galeatium Brugoram senatorem amplissimum. In essa riporta egli e spiega copiosamente 38 antiche iscrizioni alla città di Milano spettanti, che nella sua raccolta omesse furono dall’eruditissimo Andrea Alciati.

A questa presentazione sommaria fanno séguito un lungo brano tratto dalla già citata lettera di Ciceri del 31 ottobre 1558 a Galeazzo Brugora — che il monaco cisterciense poteva leggere nella copia autografa dell’epistolario latino allora conservato a Sant’Ambrogio «oggi non rintracciato o distrutto»52 — poi il desinit dell’opera nella forma della seconda famiglia ed infine un’interessante considerazione del medesimo Angelo Fumagalli: In quanto pregio sia stata quest’opera tenuta, dalle varie copie mss., che di essa fatte furono, si può rettamente inferire, delle quali oltre quella che segnata num. 104 conservasi nella Libreria di S. Ambrogio de’ monaci cisterciensi, una ve ne ha nella Biblioteca Ambrosiana di questa città, una nella Reale di Parigi, 47 I. Ghiron, Bibliografia lombarda. Catalogo dei manoscritti intorno alla storia della Lombardia esistenti nella Biblioteca Nazionale di Brera, Milano 1884, p. 29; per San Fedele e Firmian: nota 31. 48 G. Fagioli Vercellone, Fumagalli, Angelo, in Dizionario biografico degli Italiani, 50, Roma 1998, pp. 717-719. 49 Vat. lat. 9276, ff. 395-412, edita in R. Martinoni, Una ‘Vita’ settecentesca di Francesco Cicereo, in Musaico per Antonio: miscellanea in onore di Antonio Stäuble, a cura di J.-J. Marchand, Firenze 2003 (Quaderni della Rassegna, 30), pp. 157-176. 50 A. Ratti, Del monaco cisterciense don Ermete Bonomi milanese e delle sue opere, in Archivio Storico Lombardo, serie III, fasc. I anno XXII (1895), pp. 303-382: p. 308 nt. 1. 51 Cicereii Epistolarum libri XII cit., pp. XIII-XXV. 52 M. Ferrari, La biblioteca del monastero di S. Ambrogio: episodi per una storia, in Il monastero di S. Ambrogio nel Medioevo, Convegno di studi nel XII centenario: 784-1974, Milano 1988, pp. 127, 147 nr. 73.

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un’altra presso il chiarissimo Sitoni, ed altre presso altri soggetti che per brevità passo sotto silenzio.

Il monaco cita il titolo dell’opera seguendo la forma della seconda famiglia di manoscritti e presumo che egli avesse consultato la copia conservata nella biblioteca del suo monastero ambrosiano, «segnata num. 104»; ho l’impressione che Fumagalli annoverasse poi le altre copie (Ambrosiana, Parigi, Sitoni) non per conoscenza diretta, bensì citando l’Argelati. La copia «segnata num. 104» è nota attraverso i cataloghi di manoscritti del monastero di Sant’Ambrogio compilati nel secolo XVIII53: l’opera di Ciceri si trova infatti nel catalogo del 1724 al numero 83 e poi nel catalogo della seconda metà del secolo al numero 104; secondo la testimonianza di Pompeo Casati nell’edizione dell’epistolario latino di Ciceri data alle stampe nel 1792, questo codice era stato copiato da Gian Giacomo Valeri (1572-1651)54, del quale molti manoscritti erano confluiti nel monastero di Sant’Ambrogio55: «Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum libri duo, qui in bibliotheca nostra servantur Iacobi Valerii charactere conscripti, cod. 104»56, mentre l’autografo era in casa Belgiojoso: «Autographum vero huiusmodi opus in Archivo extat Belgiojosiano». Angelo Fumagalli conclude poi così: Diversi altri saggi di sua erudizione diede ancora il Cicereo intorno alle antiche iscrizioni sì in lapidi che in medaglie espresse, del che autentico testimonio sono varie sue lettere a tal sorte di erudizione spettanti, che sparse ritrovansi ne suoi mss. volumi

ossia nell’epistolario. Il già citato abate Pompeo Casati nell’elenco delle opere dell’umanista dà queste notizie: V. Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum libri duo. Codex authographus in Archivo principis Belgiojosi, eiusdem exemplar in Bibliotheca nostra, in Bibliotheca Ambrosiana, apud haeredes Iohannis 53 Ferrari,

La biblioteca del monastero cit., p. 148. Bibliotheca scriptorum cit., II, coll. 1117-1118; E. Motta, Il museo di un letterato milanese del Seicento, Bellinzona 1892: a p. 21 tra i manoscritti appartenuti a Valeri «Observationes ad sepulcra Mediolanensia Cicereii»; Ferrari, La biblioteca del monastero cit., p. 123 nt. 144; A. Rovetta, Tra un ‘paragone’ e un ‘abbozzo’ di Giacomo Valeri. Milano città d’arte ai tempi di Federico Borromeo e Cesare Monti, in Studi di Storia dell’arte in onore di Maria Luisa Gatti Perer, Milano 1999 (Bibliotheca erudita. Studi e documenti di storia e filologia, 14), pp. 307-315. 55 Ferrari, La biblioteca del monastero cit., p. 124. 56 Cicereii Epistolarum libri XII cit., II, p. 24; cfr. anche I, p. 108. 54 Argelati,

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FEDERICO GALLO

Baptistae Sitoni et in Bibliotheca Vaticana. […] XVII. Inscriptionum antiquarum et sepulcralium Mediolani, Modoetiae et Novocomi collectanea. Codex apud haeredes Iohannis Baptistae Sitoni57.

Per la prima opera di Ciceri, oltre alla copia conservata presso il monastero di S. Ambrogio «segnata num. 104» di mano del Valerio, che non riesco a dire se sopravvissuta o no, riconoscerei gli altri codici elencati da Casati in questo modo: presso i Belgiojoso l’autografo Trotti 329 (del quale dirò meglio sotto), nell’Ambrosiana l’Ambr. C 65 inf., presso Sitoni l’Estense lat. ΓB 4 20, nella Vaticana il Vat. lat. 5236. Quanto alla seconda opera, dovrebbe trattarsi della copia vista alla fine dell’Ottocento da Vincenzo Forcella, come dirò tra poco. Agli studi epigrafici di Ciceri dedicano soltanto un cenno molto essenziale alcuni degli autori successivi58. Degli Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum libri duo si occupa invece in dettaglio Theodor Mommsen nel 187759. Ecco alcune delle molte parole di apprezzamento che lo studioso germanico scrive a proposito della raccolta: «Sylloge exigua est […] sed accurata, exempla Alciatinis longe praeferenda». Egli dà notizia di ben nove esemplari: nell’ordine Ambr. A 240 inf., Trotti 329, Vat. lat. 5236, Braid. AD XII 29, Ambr. C 65 inf., Triv. «post Alciatum formae quartae», Triv. «post Alciatum formae maximae», «Mediolani apud heredes Iohannis Baptistae Sitoni», «Taurinis apud bibliopolam Schieppati». Mommsen afferma di aver consultato i due autografi, i primi menzionati nel suo elenco: Ambr. A 240 inf. e Trotti 329. L’Ambr. A 240 inf. è la prima stesura, autografa, dell’opera di Ciceri, colma delle sue correzioni pure autografe. Purtroppo il codice «Trotti 329», che Mommsen testimonia come autografo e che ritengo corrisponda all’autografo precedentemente conservato dai Belgiojoso come affermato da Casati, fu venduto intorno al 1886 e se ne sono perse le tracce60; esso compare 57 Cicereii

Epistolarum libri XII cit., I, pp. XVI-XVII. B. Giovio, Gli uomini della comasca diocesi antichi e moderni nelle arti e nelle lettere illustri. Dizionario ragionato, Modena 1784, pp. 59-60; G. Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, VII/I, Modena 1791, pp. 259-260; G. Rovelli, Storia di Como, II, Milano 1794, III, 2, p. 246; G. A. Oldelli, Dizionario storico-ragionato degli uomini illustri del Canton Ticino, Lugano 1807, pp. 69-70. 59 CIL V/II, pp. 628-629. 60 Il Trotti 329 fu venduto alla fine del secolo XIX: C. Pasini, Dalla biblioteca della famiglia Trivulzio al fondo Trotti dell’Ambrosiana (e «l’inventario di divisione» Ambr. H 150 suss. compilato da Pietro Mazzucchelli), in Aevum, 67 (1993) / 3 (settembre-dicembre), pp. 662-664, 679. Si veda anche Inventario peritale Trotti del 12 luglio 1853: Ambr. Q 130 sup., inventario manoscritto nr. 35, p. 64 e M. Cogliati, Inventario dei manoscritti del Fondo Trotti, Milano 1959 [manoscritto], f. 5r. 58 G.

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come numero 103 nel catalogo antiquario dei centoventi manoscritti che Ulrico Hoepli vendette in quegli anni con questa descrizione: «Cicerius, Antiquorum monumentorum urbis Mediolani. Con fig. 48 ff. in -4. Su carta. Perg.»61. Poiché l’autografo A 240 inf. è costituito da 48 fogli cartacei ed è legato in pergamena, il Trotti 329 (48 fogli, cartaceo, legatura in pergamena, secondo la descrizione di Hoepli) parrebbe essere stato un suo gemello, verisimilmente la copia calligrafica allestita da Ciceri per il dedicatario Galeazzo Brugora. A questi due autografi Mommsen affianca un terzo manoscritto importante: longe utiliora sunt collectanea autographa servata in bibliothecae Belgiojosanae hodie Trivulzianae codice n. 209 … Continentur eo primum praetermissorum prima temptamina cum exemplis architypis saepe manifesto ex ipsis lapidibus exceptis; deinde fasciculus emendationum Alciatinarum, scriptarum … circa anno 1553; denique schedae diversae habentes titulos non Mediolanenses solum … scriptae fere post praetermissa absoluta variis temporibus ad annum usque 1594 … Iam inter praetermissorum temptamina quaedam repperi non spernenda ab auctore postea reiecta.

A mio modesto avviso pare che vi sia un errore di segnatura. Il manoscritto Triv. 209 è di tutt’altro genere62. Riconosco invece come rispondente alle parole di Mommsen il manoscritto Triv. 811, che Giulio Porro nel 1884, sette anni dopo lo scritto di Mommsen, descrive così: Questo codice … è il zibaldone in cui il Ciceri le [iscrizioni] copiava. È libro prezioso ed unico tanto più importante per l’epigrafia romana del Milanese e del Comasco, che molte delle iscrizioni qui trascritte più non esistono o sono perdute, essendo stati quei marmi adoperati come materiale di fabbrica. Oltre alle iscrizioni vi sono disegnati molti monumenti63.

Stando alle descrizioni di Mommsen e di Porro, sembrerebbe trattarsi di uno zibaldone contenente il materiale che Ciceri adoperò per la stesura di entrambe le sue opere epigrafiche. Questo codice Triv. 811 purtroppo scomparve nel corso della seconda guerra mondiale64. 61 Raccolta di manoscritti con miniature dal secolo X in avanti già appartenenti al marchese Carlo Trivulzio (in parte con note storiche-letterarie dello stesso) ed ora acquistati e messi in vendita dalla Libreria antiquaria di Ulrico Hoepli, Milano 1886, p. 22 nr. 103. 62 Trivulziana. Catalogo dei codici manoscritti, a cura di G. Porro, Torino 1884, p 156. 63 Ibid., p. 76. Cfr. L. Montevecchi, Catalogo dei codici epigrafici delle biblioteche milanesi, in Epigraphica 1 (1939), 77. 64 Debbo la notizia delle circostanze della perdita del manoscritto Triv. 811, verisimilimente durante i bombardamenti del secondo conflitto mondiale, a Loredana Minenna dell’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana di Milano, che ringrazio (3 agosto 2018).

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FEDERICO GALLO

L’elenco di Mommsen conta nove copie dell’opera di Ciceri. Oltre ai due esemplari poc’anzi analizzati (Ambr. 240 inf. e Trotti 329), sono noti i codici Vat. Lat. 5236, Braid. AD XII 29, Ambr. C 65 inf. Ne restano quattro da individuare. «Bibliothecae Trivultianae … post Alciatum formae quartae» dovrebbe essere il Triv. 739 (mm 270 × 190), nel quale gli Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo si trovano dopo due opere dell’Alciato. Il manoscritto, secondo l’affermazione di Giulio Porro, era stato copiato da Gian Antonio Trivulzio; poiché a pagina 159 mi sembra di poter leggere nella rasura al termine del titolo dell’opera «e codice Sitoniano», questo potrebbe essere segno che Gian Antonio Trivulzio nel XVIII secolo copiò il testo da un antigrafo posseduto dal Sitoni, verisimilmente l’Estense lat. ΓB 4 20. «Bibliothecae [Trivultianae] post Alciatum formae maximae p. 255-276, excerpta tantum habens» potrebbe essere il Triv. 812, pure perso durante il secondo conflitto mondiale65. Così lo descrive il Porro: «Alciatus, Andreas. Patriae inscriptiones veteraque monumenta quibus addita sunt quaedam alia eius generis ab aliis scriptoribus collecta. Cod. cart. del sec. XVI in fol.»; purtroppo sull’identità degli «alii scriptores» nulla dice neppure Liana Montevecchi, che però del codice offre le dimensioni «cm 33 × 24» ed il numero di pagine «pp. numerate 289», compatibili con i dati di Mommsen e di Porro. «Mediolani apud heredes Iohannis Baptistae Sitoni» potrebbe essere l’Estense lat. ΓB 4 20, che abbiamo visto essere legato a Camillo Sitoni di Scozia, forse antigrafo del Triv. 739, mentre non riconosco la copia che negli anni attorno al 1877 si trovava, secondo la notizia di Mommsen, «Taurinis apud bibliopolam Schieppati». Nel 1899 Vincenzo Forcella prende in esame la produzione epigrafica di Ciceri66 ed afferma: Le iscrizioni raccolte da questo insigne letterato non oltrepassano l’anno 1560, il che ci prova che il Cicereio dedicossi all’epigrafia prima di contrarre matrimonio, e quando precisamente era libero docente, cioè dall’anno 1550 all’anno 1560.

Non so donde Forcella derivi questa convinzione, poiché né la prima raccolta Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praeter65 Debbo la notizia della perdita del manoscritto Triv. 812 ad Isabella Fiorentini dell’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana di Milano, che ringrazio (10 luglio 2019). 66 Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano, a cura di V. Forcella, II, Milano 1889, pp. V-XI.

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PRIMI APPUNTI SUI CODICI EPIGRAFICI DI FRANCESCO CICERI

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missorum ad Galeatium Brugoram libri duo né la seconda Inscriptiones antiquae et sepulcrales Mediolani, Modoetiae et Comi sono datate. Penso che tale considerazione derivi a Forcella dall’epistolario di Ciceri: la già citata lettera del 31 ottobre 1558 mostra che a quell’altezza cronologica l’opera Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo era già compilata67. A quest’ultima, completamento della «raccolta delle iscrizioni romane dell’Alciato» compilato da Ciceri, Forcella fa soltanto un breve cenno, mentre descrive più in dettaglio la seconda raccolta. Egli afferma di avere a disposizione «una bella copia tratta dall’originale l’anno 1709 dal giureconsulto Giovanni Sitone di Scozia» dal titolo «Francisci Cicereii vulgo Cesarini Inscriptionum antiquarum et sepulcralium Mediolani Modoetiae et Novo Comi collectanea ex authoris originali apud clarum virum doctorem iuris consultum Franciscum Arisium Cremonensem historicum existente tramsumptata 1709 observante iuris consulto Iohanne de Sitonis de Scotia Mediolanensis Collegii iudicum chronista», tratta dunque da un originale appartenuto all’erudito cremonese Francesco Arisi. Il titolo corrisponde a quello riportato da Argelati: «Francisci Cicerei, vulgo Cesarini, Inscriptionum antiquarium et sepulcralium Mediolani, Modoetiae et Novocomi collectanea». Non si tratta dell’unica copia oggi superstite Braid. Morbio 22, il cui frontespizio recita: «Inscriptiones antiquae et sepulcrales Mediolani, Modoe­ tiae et Comi collectore Francisco Cicereio, de quo abbas Philippus Piccinellus in Atheneo Litteratorum Mediolanensium late disserit, sic Francisco Arisio testatus fuit Iohannes Sitonus de Scotia iuris consultus notarius Mediolanesis chronista peritissimus additisque nonnullis aliis monumentis Cremonae spectantibus per me Ioseph Aglio». Questo codice Braid. Morbio 22 dovrebbe essere l’antigrafo, appartenuto a Francesco Arisi, dal quale Giovanni Sitoni trasse la sua copia consultata da Forcella, della quale costui dice che «fa parte di un volume miscellaneo» e ne offre una sommaria descrizione; questi i passaggi di proprietà del codice, secondo Forcella, dopo la morte di Sitoni: eredi di Sitoni, Martino de Pagave, Michele Caffi, Emilio Seletti. Ne ignoro l’attuale proprietà e collocazione. La bibliografia del Novecento tace o quasi sull’attività di Ciceri come trascrittore e commentatore di epigrafi antiche68. Ne fa invece un quadro 67 Ciceri sposò nel 1560 Daria Pirogalli (Peragalli, Peregalli, Perogalli): Ciceri, Epistole e lettere cit., lettera nr. 448, pp. 625-627; cfr. ivi, lettera nr. 447, pp. 624-625 e lettera nr. 456 pp. 636-638. 68 Nessun cenno in L. Zoppi, Scrittori della Svizzera italiana, Bellinzona 1936, I, pp. 9-22; C. Salzmann, Der Luganersee. Betrachtung zu einem Brief des Humanisten F. Cicereio aus Mailand an den Luganeser Arzt G. Camuzio aus dem Jahr 1559, Gesnerus X (1953), pp. 69-76; M. E. Cosenza, Dictionary of the Italian humanists, 1962: pp. 1004-1005; Gualdo Rosa, La

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FEDERICO GALLO

succinto, specie a proposito del manoscritto ambrosiano A 240 inf., Sandra Clerc69. Mi avvio alla conclusione di questi appunti presentando un’ipotesi ricostruttiva che scaturisce dai dati presentati sin qui. Ciceri, maestro di lingue classiche appassionato anche di antiquaria, avrebbe concepito prima del 1558 l’idea di una raccolta delle epigrafi milanesi antiche non censite da Andrea Alciato: Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo, come risulta da una lettera indirizzata al medesimo Brugora databile al 1557-1558. Avrebbe raccolto i suoi appunti in un brogliaccio oggi perduto (Triv. 811), contenente peraltro anche appunti relativi ad epigrafi non milanesi. Ciceri avrebbe eseguito una prima stesura degli Antiquorum monumentorum urbis Mediolani ab Alciato praetermissorum ad Galeatium Brugoram libri duo colma di correzioni e ripensamenti (Ambr. A 240 inf.) ed una copia — presumo calligrafica e con qualche variante testuale nel titolo e nel desinit — consegnata al dedicatario Galeazzo Brugora il 31 ottobre 1558; probabilmente quest’ultima è la copia finita sul mercato antiquario alla fine del secolo XIX dopo essere stata dei Belgiojoso e poi dei Trotti (Trotti 329). Suppongo che la copia calligrafica consegnata a Brugora contenesse le correzioni appartenenti a quella che ho chiamato ‘seconda famiglia’ di manoscritti, correzioni che distinguono il testo da quello della prima stesura conservato nei codici della ‘prima famiglia’; la correzione nel titolo infatti pare particolarmente adatta a lusingare il dedicatario, mentre quella nel desinit pare obbedire a criteri di maggiore eleganza. Eccone il testo secondo le versioni della ‘prima’ e della ‘seconda famiglia’ (corsivi miei): Antiquorum monumentorum urbis Me- Antiquorum monumentorum urbis Me­ diolani ab Alciato praetermissorum ad diolani ab Alciato praetermissorum libri duo ad Galeatium Brugoram senato­rem Galeatium Brugoram libri duo. amplissimum. Haec Franciscus Cicereius ad octo et tri­ginta antiqua monumenta scribebat, emendaturus immutaturusque si quid aut ipsi Galeatio Brugorae, cui quid­ quid hoc est operis dicatum vult, aut Octaviano Ferrario, aut Francisco Pe-

Haec Franciscus Cicereius scribebat ad octo et triginta antiqua monumenta, emendaturus immutaturusque si quid ipsi Galeatio Brugorae, cui quidquid est operis dicatum vult, aut Octaviano Fer rario, aut Francisco Petreio Nigro, aut

fede nella ‘paideia’ cit. Un semplice cenno in Roncoroni, La figura di Francesco Ciceri cit., p. 292. Ricciardi, Ciceri, Francesco cit., p. 385 ripete il giudizio di Zaccaria, Excursus litterarii per Italiam cit., p. 101 traducendolo: «le osservazioni del C. sono prolisse, e inefficaci». 69 Ciceri, Epistole e lettere cit., pp. XXVII-XXVIII.

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PRIMI APPUNTI SUI CODICI EPIGRAFICI DI FRANCESCO CICERI

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treio Nigro, aut L. Annibali Cruceio, Lucio Annibali Cruceio, aut aliis doctisaut aliis doctissimis atque humanissi- simis hominibus visum fuerit. mis hominibus emendadum immutandumque visum fuerit.

Nel 1569 Ciceri inviò una copia della propria opera a Paolo Manuzio, tratta dalla prima stesura verisimilmente conservata presso di sé (Ambr. A 240 inf.) e non dalla copia calligrafica donata dieci anni prima a Brugora; non è oggi noto il manoscritto originale, verisimilmente autografo, inviato a Manuzio, mentre la copia trattane da costui dovrebbe essere il Vat. lat. 5236. Dalla prima stesura Ambr. A 240 inf. discenderebbero anche la copia Ambr. C 65 inf. donata dal Bascapè all’Ambrosiana nel 1612 e la copia Estense lat. ΓW 510, poi appartenuta a Giuseppe Campori. Dalla presunta copia calligrafica consegnata a Brugora (probabilmente Trotti 329), portatrice di alcune correzioni nel titolo e nel desinit, discenderebbero queste copie: Ambr. D 123 inf., posseduta da Carlo Casati; Braid. AD XII 29, descritta da Francesco Antonio Zaccaria mentre era conservata a San Fedele e poi passata al conte Firmian; Estense lat. ΓB 4 20, appartenuta ai Sitoni e poi a Giuseppe Campori: al tempo in cui apparteneva a Sitoni ne dovette essere tratta da Gian Antonio Trivulzio la copia Triv. 739, come credo di leggere nella rasura a p. 159: «e codice Sitoniano». L’assenza dei testi di commento impedisce di collocare in una ‘famiglia’ la copia parziale Ambr. & 238 sup. Ciceri compilò anche — non ci sono elementi per presumere se in un tempo precedentemente o seguente la prima opera — una raccolta di epigrafi antiche e medievali conservate a Milano, Monza e Como: Inscriptiones antiquae et sepulcrales Mediolani, Modoetiae et Comi. Di essa sono attestate soltanto due copie: Braid. Morbio 22, con annotazioni che fanno riferimento a Francesco Arisi, Giovanni Sitoni di Scozia e Giuseppe Aglio; da questa nel 1709 il medesimo Giovanni Sitoni di Scozia trasse la sua copia, che fu vista da Forcella alla fine del secolo XIX quando ancora era posseduta da Emilio Seletti. Auspico che in futuro proseguano le ricerche degli studiosi allo scopo di descrivere le epigrafi studiate da Ciceri ed il metodo di lavoro da lui osservato, nonché allo scopo di approfondire le conoscenze sul mondo, soprattutto milanese, degli eruditi che al tempo di Ciceri e nei secoli successivi si dedicarono allo studio appassionato delle testimonianze epigrafiche sopravvissute.

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ELEONORA GIAMPICCOLO – GIANCARLO ALTERI

IL CULTO DI SANT’AMBROGIO DOCUMENTATO DALLE MONETE DELLA ZECCA DI MILANO CONSERVATE NEI MEDAGLIERI AMBROSIANO E VATICANO Premessa Tutto considerato, non c’è che da approvare che ci siano tanti santi; ogni credente può così scegliersi il proprio e rivolgersi con piena fiducia a quello che gli è più congeniale …1.

Con tali parole si esprimeva Goethe nel suo Viaggio in Italia, introducendo il discorso su san Filippo Neri il 26 maggio 1787, a Napoli. La caratteristica di avere un proprio santo protettore personale, a cui rivolgersi nei momenti del bisogno, tipica, secondo il grande scrittore, praticamente di ogni italiano, si può estendere a tutte le singole città ed a tutti i singoli paesi della Penisola, che in effetti si sono assicurati nel tempo un santo protettore “collettivo”: il patrono. Questo “municipalismo sacralizzato”, come è stato definito2 costituisce, infatti, un aspetto distintivo, tipico del paesaggio religioso italiano, in cui la devozione al proprio patrono diventa un fattore di coesione e, nello stesso tempo, di articolazione decisivo, dal momento che tale devozione, se da una parte accomuna tutte le comunità, dall’altra le ragioni, le motivazioni e i comportamenti specifici in cui essa si estrinseca sono invece estremamente variabili da comunità a comunità e dipendono da fattori storici, sociali e culturali diversi. Così ì vari santi patroni, da san Francesco a san Gennaro, da sant’Ambrogio a san Marco, a san Nicola, a san Petronio, finiscono per riflettere i caratteri delle città, dei paesi, delle comunità che li hanno eletti come patroni. In ogni caso, comunque, i santi patroni diventano delle vere e proprie incarnazioni locali del soprannaturale, mediatori tra il Cielo e la terra, garanti delle fortune municipali al punto da offuscare, il più delle volte, perfino il culto di Gesù, della Madonna, quando lei stessa non è eletta a patrona di una determinata città, o di Dio Padre. I primi santi patroni della maggior parte delle città medievali italiane vengono scelti in genere tra i loro più antichi vescovi3. Del resto, nel Medio1 J.

W. Goethe, Ricordi di Viaggio in Italia nel 1786-1787, Milano 1875, pp. 366-367. M. Niola, I Santi patroni, Bologna 2007, p. 7 e segg. 3 Si veda lo studio di J. Ch. Picard, Le souvenir des évêques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xe siècle, Rome 1988. 2 Cfr.

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ELEONORA GIAMPICCOLO – GIANCARLO ALTERI

evo italiano una città si individua, si distingue per la presenza del vescovo: se non c’è il vescovo non c’è la civitas, che è, appunto, la comunità cristiana della città che si riconosce nel suo vescovo. Questo profondo legame tra la città e il suo vescovo caratterizza la vita urbana delle città italiane nel passaggio dalla tarda antichità all’alto Medioevo ed influenza in modo diretto la nascita del culto per il santo patrono cittadino, che viene individuato generalmente, come abbiamo detto, proprio in uno dei primi vescovi della città stessa, sulla cui tomba si costruisce una nuova cattedrale dedicata ora al santo patrono, la devozione verso il quale qualche volta arriva perfino a far cambiare il nome alla città, che assume quello del patrono, come è il caso, per esempio, di Imola, che da Civitas Corneliensis diventa Castrum S. Cassiani, oppure di Modena, Mutina, che per molto tempo durante l’alto Medioevo viene chiamata Civitas Geminiana, dal nome del vescovo patrono san Geminiano. L’importanza assunta dal vescovo nelle città italiane tra la fine dell’Impero Romano e l’inizio del Medioevo ha le sue radici nelle condizioni dell’Italia in quel confuso e tormentato periodo storico, caratterizzato, da una parte, dal vuoto di potere venutosi a creare in seguito al crollo di tutti i centri dirigenziali e di tutte le strutture imperiali e, dall’altra, dalle situazioni disperate, dalla profonda insicurezza e dalla paura delle popolazioni provocate dalle continue invasioni barbariche, dalle guerre, dalle devastazioni, dai saccheggi e dalle brutali soggezioni delle città, la cui popolazione, per lo più dispersa nel contado, trova un punto di riferimento per conservare coesione ed identità, oltre che una difesa non di rado efficace, proprio nel vescovo. Questi, in effetti, viene visto come l’unico punto di riferimento sicuro, tanto più che nella maggior parte dei casi egli appartiene a quello strato di cittadini colti ed eminenti, da tempo attrezzati per un sostanziale esercizio di governo, a quello strato di cittadini cioè analogo a quello dei ceti dirigenti di un tempo. Una testimonianza sicura di quanto appena affermato ce la offre il comportamento ben noto del vescovo di Milano sant’Ambrogio, anche se è pur vero che un pieno esercizio della direzione politica, civile ed amministrativa da parte del vescovo si attuerà in pieno solo qualche tempo più tardi. Ambrogio nasce a Treviri, in Germania, intorno al 339/340 da una nobile famiglia romana della Gens Aurelia. Suo padre è governatore delle Gallie; ma quando improvvisamente muore, Ambrogio con la madre e la sorella Marcellina tornano a Roma dove continua gli studi nella carriera legale con notevole successo, tanto che l’imperatore Valentiniano lo nomina, nel 370, governatore della Liguria e dell’Emilia, con sede a Milano. Proprio in una delle chiese di quest’ultima città, presbiteri e laici, cattolici e ariani stanno discutendo così animatamente da mettere in pericolo

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perfino l’ordine pubblico, per trovare il successore del vescovo di Milano Aussenzio, ariano, morto da poco. Ambrogio come governatore non può fare a meno di recarsi in questa chiesa per calmare gli animi ed esortare il popolo ad eleggere il nuovo vescovo in un clima di dialogo e di rispetto reciproco. Ma, mentre tutti i presenti nella chiesa si mostrano subito ben propensi ad accogliere le sue esortazioni, essendo egli un governatore stimato e ben voluto da tutti, ecco che dalla folla qualcuno grida forte. “Ambrogio vescovo”, e questo grido tutti, cattolici ed ariani, ripetono entusiasti a gran voce. Ambrogio, essendo, tra l’altro, ancora semplice catecumeno e del tutto digiuno di teologia, cerca in ogni modo di evitare questo gravoso incarico per il quale si ritiene completamente inadeguato. Ma il popolo insiste e lo stesso imperatore Valentiniano I (364-375) è favorevole a tale elezione, che non esita a ratificare. Così Ambrogio alla fine accetta e il 7 dicembre del 374 diventa vescovo di Milano, deciso a rompere ogni legame con la vita precedente. Consapevole, quindi, della sua impreparazione nel campo teologico, si dedica con grande fervore allo studio della Sacra Scrittura e delle opere dei Padri della Chiesa, in particolare di Origene, di Atanasio e di Basilio. La sua vita diventa frugale e semplice, le sue giornate dense di incontri con la gente di ogni ceto sociale. Ma soprattutto diventa il protettore dei poveri cui dona le sue ricchezze, mantenendo per sé soltanto una piccola parte per provvedere alle necessità della sorella Marcellina, che alcuni anni prima si era consacrata Vergine nella basilica di san Pietro a Roma durante una solenne liturgia di Natale, presente papa Liberio (352-366). Quando, dopo la sconfitta di Adrianopoli nel 378, i Visigoti rendono schiavi uomini, donne e bambini, egli non esita a fondere i calici d’oro delle chiese per riscattarli. La decisione suscita critiche, ma Ambrogio non esita a rispondere: Se la Chiesa ha dell’oro, non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno… Meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo…4.

Compie innumerevoli viaggi apostolici per esortare, correggere, amministrare, fondare chiese, recuperare reliquie dei martiri. Soprattutto combatte contro l’eresia ariana, potendo contare anche sull’amicizia dell’imperatore Graziano (375-383). Ma quando questi viene ucciso, la madre dell’imperatore Valentiniano II (375-392), l’imperatrice Giustina, che è ariana, cerca di far cedere una basilica milanese ai suoi protetti. Ambrogio si oppone con ogni mezzo, tanto che si giunge allo scontro aperto, con l’intervento addirittura della truppa imperiale. Ma il vescovo minaccia 4 Sant’Ambrogio, Opere Morali. I doveri. Introduzione, traduzione e note di Gabriele Banterle,

Milano 1977, cap. 28 par. 136.

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di scomunica i soldati e alla fine l’ha vinta. Ambrogio ha ottimi rapporti anche con l’imperatore Teodosio (379-395); rapporti che, comunque, vengono messi a dura prova da due avvenimenti: l’incidente di Callinico e la strage di Tessalonica. Nel 388 a Callinico sull’Eufrate i cattolici incendiano la sinagoga per consiglio del vescovo locale. L’imperatore dà l’ordine di punire i colpevoli ed obbliga il vescovo di Callinico a ricostruire la sinagoga. Questa disposizione suscita l’immediata reazione di Ambrogio, che scrive a Teodosio invitandolo a revocare l’ordine. Non avendo avuta alcuna risposta, qualche tempo dopo, alla presenza dell’imperatore, Ambrogio manifesta l’intenzione di non celebrare la Messa in mancanza della revoca dell’ordine. Teodosio allora è costretto a cedere, ma il rapporto col vescovo subisce un raffreddamento. A rendere ancora più teso il rapporto tra Teodosio ed Ambrogio contribuisce la strage di Tessalonica del 390, quando gli abitanti di questa città linciano il magister militum Boterico. Teodosio per rappresaglia li fa radunare nello stadio e ne fa uccidere dalle truppe settemila, tra cui molte donne e bambini. La strage provoca una profonda indignazione in Ambrogio, che costringe Teodosio alla pubblica penitenza. Questo fatto suscita un enorme scalpore: per la prima volta un imperatore si umilia ai piedi di un vescovo. Nell’anno 397, la mattina del 4 aprile, Sabato Santo, Ambrogio rende l’anima a Dio e viene sepolto nella basilica Ambrosiana, accanto ai corpi dei ss. Protasio e Gervasio. Agli inizi di quello stesso 397, ormai molto debole e di salute precaria, Ambrogio aveva dettato il suo commento al Salmo 44. Giunto al verso 24, che recita: Svegliati, perché dormi, Signore? Destati, non ci respingere per sempre.

aveva scritto: È duro trascinare in giro tanto a lungo questo corpo, già avvolto nell’ombra della morte. Alzati, o Signore. Perché dormi? Vuoi respingermi ancora?

Queste sono le sue ultime righe. Esse mostrano che la vita del vescovo di Milano era stata solo una lunga attesa del suo Signore e Maestro. Egli aveva trascorso la sua vita nella donazione, nella fede, nella dedizione di sé. Aveva compiuto la sua missione pastorale di vescovo di Milano difendendo i bisognosi, i deboli contro i soprusi di ogni genere, e combattendo con determinazione l’eresia ariana, che pur aveva molti seguaci anche tra le più alte autorità civili e militari come imperatori e imperatrici, governatori, ufficiali dell’esercito romano. Aveva osato affrontare, armato solo della sua indiscussa autorità morale, l’imperatore Teodosio il Grande e costringerlo

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a pentirsi pubblicamente dopo l’episodio della distruzione della sinagoga di Callinico sull’Eufrate e, soprattutto, dopo la strage di Tessalonica. Per la sua personalità di eccezionale energia e determinazione, per la sua ferma indipendenza di giudizio e decisionale, perfino nei confronti dell’autorità imperiale, Ambrogio aveva saputo affrontare ogni aspetto organizzativo e normativo della società del suo tempo, sia sul piano religioso sia su quello civile e politico, gestendo una indiscussa autorità in un Impero che proprio in quegli anni stava attraversando quella profonda crisi, che avrebbe aperto le porte al Medioevo: proprio per tutte queste qualità universalmente riconosciute, Ambrogio, una volta elevato agli onori degli altari, fu eletto a santo patrono di Milano, perché continuasse a proteggere la sua città dai nemici interni ed esterni ed a promuoverne lo sviluppo, come aveva già fatto durante la vita. Questo legame tra Ambrogio e Milano si andò, quindi, sempre più consolidando non solo rielaborando le agiografie, in modo che queste rendessero più convincente tale legame, ma anche, e soprattutto, incidendo l’immagine del santo sulle monete della città nei momenti più significativi della storia di quest’ultima, dalla Prima Repubblica (1250-1310) fino all’età di Maria Teresa (1740-1780). 1. Le monete di Milano nella collezione del Medagliere Vaticano Anche se le raccolte di monete più importanti del Medagliere Vaticano, quelle che ne costituiscono il vanto, sono quella romana e quella pontificia, di un certo prestigio è anche la raccolta di monete italiane5. Questa sezione si è formata in maniera graduale, grazie a donazioni e acquisizioni, a volte di piccole raccolte numismatiche a volte di singoli esemplari. Sembra che le prime monete delle zecche italiane siano entrate al Medagliere già nel Settecento: alcune di esse facevano parte della collezione del cardinale Gaspare Carpegna6 acquisita nel 1741, mentre altre7 furono prelevate dal­ 5 Sono

escluse da questa sezione quelle monete emesse nelle varie città italiane dai papi, in quanto, essendo i pontefici le autorità emittenti, esse rientrano nella categoria Monete Pontificie. 6 Gaspare Carpegna era stato Vicario di Roma per oltre un quarantennio, dal 1671 al 1714. Grande appassionato di numismatica, egli aveva incrementato notevolmente, nel suo palazzo presso la Sapienza, una piccola raccolta di monete e medaglie pontificie iniziata dallo zio, il cardinale Ulderico Carpegna (1595-1679). Poco prima di esser colpito dall’ictus, nel 1714, Gaspare Carpegna aveva lasciato le sue celebri collezioni d’arte, compresa quella numismatica, all’amato nipote Francesco Maria Carpegna, in fidecommesso e primogenitura perpetua (ASR, Notari Segretari della Camera Apostolica, prot. 408, ma cfr. anche Vat. lat. 7933, f. 5 e segg.), il quale le venderà, qualche anno dopo, alla Biblioteca Vaticana; cfr. S. Le Grelle, Saggio storico delle collezioni numismatiche vaticane, in C. Serafini, Le monete e le bolle plumbee del Medagliere Vaticano, Milano 1910, pp. XIX-XXI (7-9). 7 Si tratta di doppie, ducati e mezzi ducati della seconda metà del XVI secolo delle zecche

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l’Erario Sanziore8 nel 1764. Il 20 marzo 1778 il Prefetto dei Musei Sacro e Profano, Giovanni Elia Baldi, riceveva da Giovanni Battista Visconti, allora Commissario delle Antichità, diciotto monete d’oro ritrovate negli scavi di Orte e precisamente una di Federico II, 3 fiorini e 6 ducati di Genova, 6 di Venezia e 2 di senatori; qualche mese dopo, venivano consegnate al Medagliere 12 fiorini delle città di Bologna, Firenze e Venezia mancanti nella raccolta vaticana e ancora una doppia del re Alfonso di Aragona, due ducati d’oro di Genova, un ducato d’oro di Francesco Maria della Rovere, uno di Alfonso d’Aragona e uno di Ludovico di Savoia9. Purtroppo di esse non vi è più traccia perché, come le più importanti e preziose monete e medaglie della collezione vaticana, non furono risparmiate dall’avidità dei Francesi all’epoca del saccheggio10 della Biblioteca Vaticana e così oggi a male pena riusciamo a farci un’idea di quella che doveva essere la consistenza di questa sezione all’epoca. Le prime informazioni certe riguardanti l’acquisizione di monete di zecche italiane risalgono agli anni della ricostituzione del Medagliere, quando la Commissione di Antichità e Belle Arti, presieduta da Antonio Canova, con la consulenza numismatica di Giuseppe Baldi, si adoperò per acquistare nel 1829 circa 2.200 monete medievali e moderne italiane11, d’argento e di rame, provenienti dalla collezione degli eredi di Carlo Tomassini Barbarossa, morto nel 1818, della quale Antonio Nibby aveva pubblicato il catalogo nel 182112. Si dovette aspettare ancora molto tempo perché questa sezione si arricchisse di nuovi e importanti esemplari grazie alle monete acquistate in occasione della vendita di monete italiane, medievali e moderne appartenenti alla collezione del cavaliere Giancarlo Rossi di Roma nel 188113. Nel 1902, su ordine di Leone XIII, di Ancona, Bologna, Camerino, Castro, Correggio, Ferrara; Firenze, Lucca, Mantova, Massa, Masserano, Milano, Mirandola. Modena, Monferrato, Montalcino, Napoli, Nizza, Parma, Pesaro, Piacenza, Novara, Reggio, Sabbionetta, Savoia, Siena, Urbino; cfr. Le Grelle, Saggio storico cit., p. XXIX (17).   8 L’Erario Sanziore era stato creato nel 1586 da Sisto V per sovvenire alle necessità più gravi della popolazione, decretando regole precise per il prelievo del denaro ivi contenuto e pene severissime per i trasgressori. Si trattava, in pratica, di tre forzieri che tuttora sono conservati in Castel Sant’Angelo. Cfr. Le Grelle, Saggio storico cit., p. XXIX(17).   9 Le Grelle, Saggio storico cit., p. XXXV(23), nt.12. 10 Cfr. Le Grelle, Saggio storico cit., pp. XLII-LI (30-39); E. Giampiccolo, Il Medagliere Vaticano: dispersione e ricostituzione, in La Biblioteca Vaticana dall’occupazione francese all’ultimo papa re (1797-1878) a cura di A. Rita (Storia della Biblioteca Vaticana, V), Città del Vaticano 2020, pp. 625-640. 11 Altra parte della collezione, relativa alle medaglie pontificie, fu acquisita attraverso la raccolta di Andrea Belli; cfr. Le Grelle, Saggio storico cit., p. LXVII-LXIX (55-57); Giampiccolo, Il Medagliere Vaticano cit., p. 633. 12 Le Grelle, Saggio storico cit., pp. LXI-LXII (49-50). 13 Nel Catalogo delle monete italiane, medioevali e moderne componenti la collezione del

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entrava in Vaticano ciò che rimaneva dell’importantissimo medagliere di Propaganda Fide. Esso, che ammontava a 11.445 pezzi, oltre alle monete greche, romane, bizantine, estere, orientali, medaglie, sigilli, pietre incise, piombi e calchi, conteneva un discreto numero di monete italiane14. In tempi più recenti, nel luglio 2007, è entrata al Medagliere la collezione di mons. Salvatore Nicolosi, prelato d’onore di Sua Santità e per lunghi anni docente di Filosofia presso la Pontificia Università Lateranense. La collezione di monete da lui lasciata alla Biblioteca Vaticana, prima di morire, è costituita da monete, più di 3.000, coniate in un arco di tempo che va dal VI secolo a.C. fino al XX secolo ed è suddivisa in settori tanti quanti sono i contesti storici nei quali sono state battute le varie monete; si va, infatti, dalle monete greche e romane a quelle del Regno d’Italia, con una presenza notevole di monete di città italiane. Queste ultime ammontano a 568 pezzi. Oggi la sezione di monete italiane del Medagliere Vaticano consta di 414015 pezzi e al suo interno la zecca di Milano è adeguatamente rappresentata da ben 24416 pezzi che ne illustrano la storia, dalla conquista carolingia, con la serie CHRISTIANA RELIGIO, inaugurata probabilmente nell’812 da Carlo Magno e che può essere considerata una sorta di euro ante litteram, fino alla dominazione asburgica. 2. Le monete della zecca di Milano nella collezione del Medagliere Ambrosiano Senza dubbio, la sezione più ricca del Medagliere Ambrosiano17 è quella delle monete delle zecche italiane emesse dall’Età Carolingia all’Unità d’Italia. Si tratta di monete che un tempo appartenevano alla raccolta del cavaliere Enrico Osnago (1831-1913), commerciante di sete, ma anche appassionato raccoglitore di materiale documentario riguardante l’Epoca Napoleonica e, soprattutto, apprezzato studioso di numismatica. Benemerito della “Società Numismatica Italiana”, egli non era semplicemente un collezionista, ma era anche uno studioso che con un rigido metodo scientifico affrontava tutti gli aspetti e tutti i problemi connessi alle varie emissioni. Cav. Giancarlo Rossi di Roma le suddette monete erano indicate con i numeri: 237, 246, 261, 683, 1176, 1236, 2209, 3258, 3264, 3703, 3704, 3746, 3770, 3773, 3774, 3779, 3780, 3781, 3784, 3785, 3803, 3806, 3807, 3818, 3832, 3838, 3854, 3875, 3895, 3917, 3922, 3929, 3957, 4199, 4198, 4202, 5801; cfr. Le Grelle, Saggio storico cit., p. LXXII (60). 14 Giornale dei nuovi acquisti I, pp. 288-289. 15 A questo numero vanno aggiunte le 568 monete che appartengono al Fondo Nicolosi. 16 A questo numero vanno aggiunte 56 monete che appartengono al Fondo Nicolosi. 17 Sulla storia del Medagliere Ambrosiano si veda G. Alteri, La Veneranda Biblioteca Ambrosiana e il suo nuovo Medagliere, in Historia Mundi 5 (2016), pp. 216-251.

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Alla sua morte, avvenuta il 5 giugno del 191318, la splendida collezione di monete delle zecche italiane, più un piccolo nucleo di monete romane, come pure circa 200 volumi di numismatica, oltre a volumi ed al materiale di argomento napoleonico, furono donati, per esplicita volontà dell’insigne numismatico, alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana dal nipote Luigi Osnago, come comunicò, durante l’adunanza del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere del 27 novembre dello stesso 1913, l’allora Prefetto dell’Ambrosiana Achille Ratti, il futuro papa Pio XI: Era Enrico Osnago — disse, tra l’altro, il Ratti in quell’occasione — un vecchio ambrosiano che dopo una vita laboriosa dedita al fortunato commercio delle stoffe di seta, si era dato con giovanile entusiasmo alle raccolte bibliografiche e storiche… Enrico Osnago per impedire la dispersione della sua cospicua raccolta volle ch’essa pervenisse all’Ambrosiana… Sono circa 200 volumi di materia numismatica, che accompagnano un ricco e scelto medagliere di monete romane e delle altre città d’Italia legato anch’esso all’Ambrosiana; più di 4000 monete delle quali ben 905 milanesi. I volumi rimanenti costituiscono una raccolta napoleonica di rara omogeneità e sceltezza, accompagnati alla loro volta da una ricca collezione di stampe che per scelta e per il numero e per lo stato di conservazione gareggiano coi volumi.

Il Ratti volle che una lapide ricordasse questo legato e dettò l’epigrafe: HENRICO OSNAGO QUOD LIBROS DIAGRAMMATA NOMISMATA ET PECUNIAE COPIAM ANNO MDCCCXIII LEGAVERIT NEC NON ALOISIO NEPOTI ET HEREDI QUOD INTEGRE LIBERALITERQUE PRAESTITERIT AMBROSIANA BYBLIOTECA CUM GRATA BENEFICI MEMORIA19

La Collezione Osnago, dunque, è costituita nella quasi totalità da 4.508 monete coniate tutte dal Medio Evo all’Età Moderna da zecche italiane dell’Italia settentrionale e centrale fino allo Stato Pontificio, mentre non sono presenti monete emesse da zecche dell’Italia meridionale. Per quanto riguarda le due isole maggiori, se la Sardegna è presente con poco più di 50 emissioni, la Sicilia non è rappresentata da alcuna moneta. Significativi sono invece i nuclei di monete di Venezia, con oltre 500 esemplari, quindi, 18 E.

Gnecchi, Enrico Osnago in Rivista Italiana di Numismatica 126 (1913), p. 253. C. Marcora, I benefattori dell’Ambrosiana, in Memorie storiche della Diocesi di Milano 16 (1969), pp. 277-340; p. 331. 19 Cfr.

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con un numero di pezzi via via decrescente, quelli delle zecche minori della Lombardia, dell’Emilia, della Toscana, della Liguria, delle zecche minori del Veneto, del Piemonte, fino al nucleo di 166 monete di Casa Savoia. Ma i nuclei più consistenti della Collezione Osnago sono quello delle monete papali della zecca di Roma, con 982 esemplari, e quello delle monete della zecca di Milano, che di esemplari ne conta 939. Quest’ultimo nucleo20 copre un arco temporale che va dalla conquista dei territori lombardi che facevano parte del Regno longobardo da parte di Carlo Magno (774-814) fino agli Asburgo. Degne di note sono le monete in oro in esso contenute tra le quali si citano i fiorini di Gian Galeazzo Visconti (1378-1402)21, il doppio ducato di Galeazzo Maria Sforza (1466-1476)22, la quadrupla di Filippo IV (1621-1665)23 o la doppia di Maria Teresa d’Asburgo (1740-1780)24. Nella collezione non mancano varianti uniche, la cui importanza non sfuggì ai compilatori del Corpus Nummorum Italicorum, che ad esempio, citarono25 il denaro di Berengario I (888-924) con segnatura Medagliere Ambrosiano 944. 3. Aspetti iconografici nelle monete della zecca di Milano con sant’Ambrogio Come anticipato nella premessa, Sant’Ambrogio ricorre costantemente sulle monete di Milano, a partire dalla Prima Repubblica (1250-1310) fino all’età di Maria Teresa (1740-1780); ma se in origine in esse si fa riferimento al santo non solo come patrono della città, al quale la comunità cittadina si rivolge per chiedere aiuto e protezione, ma anche come custode dei valori e degli ideali della città, con l’affermarsi della signoria viscontea la sua figura subisce una sorta di strumentalizzazione “politica”. Sant’Ambrogio si presenta con mitria e nimbo26, seduto in cattedra, di prospetto, con la destra benedicente e il pastorale nella sinistra, secondo 20 Sulle monete di Milano conservate nel Medagliere Ambrosiano si vedano: G. Alteri, Le monete della zecca di Milano conservate nel Medagliere della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Milano 2018. 21 Corpus Nummorum Italicorum. Primo tentativo di un catalogo generale delle monete medievali e moderne coniate in Italia o da Italiani in altri paesi, vol. V. Lombardia (Milano), Roma 1914 (d’ora in poi CNI V), pp. 87-88, nn. 1-2; C. Crippa, Le monete di Milano dai Visconti agli Sforza (dal 1329 al 1535), Milano 1986 (d’ora in poi Crippa 1986), p. 76 n. 1. 22 CNI V, p. 162 n. 3; Crippa 1986, p. 191 n. 1. 23 CNI V, p. 342 n. 155; C. Crippa, Le monete di Milano durante la dominazione spagnola (dal 1535 al 1706), Milano 1990 (d’ora in poi Crippa 1990), p. 279 n. 1/A. 24 CNI V, p. 397 n. 107; Chiaravalle 1983, p. 235 n. 563. 25 CNI V, p. 31 n. 33; C. Crippa, Le monete di Milano da Desiderio re dei Longobardi a Ludovico il Bavaro e Azzone Visconti (dal 757 al 1329), Milano 2014 (d’ora in poi Crippa 2014) dubita, erroneamente, della sua esistenza (p. 139). 26 A volte anche senza nimbo. Cfr. CNI V, p. 57 n. 9; Crippa 2014, p. 346 n. 20.

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una iconografia comune a vari santi protettori di città, sul rovescio degli ambrosini27 e dei sesini28 della Prima Repubblica29, risalenti alla metà del Duecento e la cui emissione continuò fino al 131030. La stessa rappresentazione venne adottata anche in monete di epoca successiva, come ad esempio, sul rovescio dei grossi da due soldi31, dei grossi32 e dei soldi33 in argento di Enrico VII di Lussemburgo (1310-1313); nel rovescio dei soldi34 di Ludovico V di Baviera (1314-1329); nel rovescio dei grossi35 e dei soldi36 di Azzone Visconti (1329-1339); nel rovescio dei fiorini d’oro37 e dei grossi38 di Luchino e Giovanni Visconti, signori di Milano dal 1339 al 1349 e nei grossi39 dell’arcivescovo Giovanni Visconti (1349-1354). Con l’avvento al potere di Galeazzo II e Barnabò Visconti, signori di Milano dal 1354 al 1378, l’iconografia del Santo subisce dei cambiamenti: basta osservare i 27 Gli

ambrosini si dividono in ambrosini pesanti, la cui coniazione iniziò dalla metà del Duecento e che si caratterizzavano per il loro peso di 2,90 g, e gli ambrosini piccoli (cfr. CNI V, p. 58 nn. 23-30; Crippa 2014, p. 356 n. 27 A-D) la cui coniazione affiancò o forse sostituì la precedente a partire dal 1299 e che si caratterizzavano per il loro peso di circa 2,10 g. 28 CNI V, p. 58 n. 31; Crippa 2014, p. 359 n. 28. 29 Questa prima tipologia, secondo E. Arslan, Ambrogio, i Visconti e le monete di Milano: un caso esemplare in Il significato delle immagini. Numismatica, Arte, Filologia, Storia. Atti del II incontro internazionale di studio del Lexicon Iconographicum numismaticae (Genova, 10-12 novembre 2005), a cura di Rossella Pera, Roma 2012, pp. 391-409, p. 27, sembra dipendere dal Matapano, il primo grosso argenteo, emesso a Venezia nel 1194, con la figura del ­Redentore frontale, in trono, al rovescio e, al dritto, le figure affiancate del Doge e di san Marco. 30 Nei denari terzaruoli (o denari imperiali) dello stesso periodo compare il nome del santo: cfr. CNI V, p. 60 nn. 32-35; Crippa 2014, p. 361 n. 29. 31 CNI V, pp. 60-61 nn. 1-8; Crippa 2014, p. 383 n. 5. Queste monete mostrano, al dritto, i santi Gervasio e Protasio, nimbati in piedi, di prospetto, con piccola croce nella mano destra, mentre fra di essi verticalmente compare il nome del sovrano. La tipologia dei grossi da due soldi compare anche sul famoso ambrosino d’oro, una moneta conosciuta in tre soli esemplari (uno presente nell’antica collezione di Pietro Verri, uno quello del Museo Nazionale Romano e il terzo conservato al Gabinetto numismatico di Brera) che, secondo studi abbastanza recenti come Crippa 2014, pp. 370-371, si ascriverebbe al periodo di Enrico VII. 32 CNI V, pp. 61-62 nn. 9-13; Crippa 2014, p. 384 n. 6. Essi recano, al dritto, il nome del sovrano hENRICVS:REX e la croce accantonata da quattro trifogli. 33 CNI V, pp. 62-63 nn. 15-24; Crippa 2014, p. 381 n. 3; p. 384 nn. 6/A; 6/B. 34 CNI V, p. 64 nn. 1-5 e Crippa 2014, p. 390 n. 1 a nome LVDOVICVS REX; CNI V, pp. 64-65 nn. 6-9 e Crippa 2014, p. 393 n. 4 a nome LVDOVICVS IMP. 35 CNI V, pp. 67-68 nn. 1-10; Crippa 1986, p. 27 n. 2. 36 CNI V, pp. 68-69 nn. 11-16; Crippa 1986, p. 28 n. 3. 37 CNI V, p. 71 nn. 1-2; Crippa 1986, p. 36 n. 1. 38 I grossi hanno come dritto alcuni lo stesso tipo del dritto del fiorino ovvero il drago alato col bambino nelle fauci (CNI V, p. 71 n. 3; Crippa 1986, p. 37 n. 2) altri la croce gigliata (CNI V, pp. 71-72 nn. 4-14¸ Crippa 1986, p. 37 n. 3). 39 CNI V, p. 73 nn. 1-3; Crippa 1986, p. 43 n. 1.

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grossi40 e pegioni41 che furono emessi in questo periodo sui quali la mano destra del Santo non è più benedicente, ma regge lo staffile, il flagello a tre code che simboleggia il dogma della Trinità. Questa rappresentazione trasse origine dal racconto della battaglia di Parabiago, combattuta il 21 febbraio 1339 tra le truppe milanesi di Azzone Visconti, guidate dallo zio di questi Luchino, e la Compagnia di San Giorgio di Lodrisio Visconti, altro zio di Azzone, escluso dal governo e che per questo aveva chiesto e ottenuto protezione dagli Scaligeri di Verona, i quali ambivano a scacciare i signori di Milano. Si narra42 che nel corso del combattimento il Santo sia apparso, a cavallo, armato dello staffile, per aiutare le truppe di Azzone che così ebbe la meglio sull’avversario. Dal momento che l’intervento del Santo permise il consolidamento del potere visconteo a Milano, questa raffigurazione, seppur con alcune varianti, fu ripresa anche dai vari Visconti che si succedettero al potere43, per esempio, da Galeazzo II Visconti, signore di Milano dal 1354-1378 nei suoi pegioni44 o da Gian Galeazzo Visconti, signore e poi duca di Milano dal 1385 al 1402, nei suoi grossi45; da Filippo Maria Visconti, III duca di Milano dal 1412 al 1447, nelle sue berlinghe46,

40 CNI

V, pp. 75-78 nn. 9-35; Crippa 1986, p. 50 n. 2/C. V, pp. 78-79 nn. 36-40; Crippa 1986 p. 52 n. 4/C 42 Così il predicatore domenicano Galvano Fiamma nel suo Chronicon maius, (Rerum Italicarum Scriptores 2, 12/4, 1938) racconta: XLIIII. – De miraculo beati Ambroxij quando civitatem liberavit. 168. Postquam Lodrisius Vicecomes Abduam transivit, et Legnanum pervenit theutonici ipsi subesse aut obedire contempserunt. Determinaverunt inter se, si civitatem optinere potuissent, interfectis civibus de Mediolano, rusticos pro agricoltura conservare, et theutonicos innumirabiles de Allamania convocare, et Lombardiam sub jugo theutonicorum supponere, et civitatem Mediolanensem in coloniam redigere. Sed Deus tantorum malorum refrenator existens, misit beatum Ambroxium, qui in albis cum scutica in manu visibiliter hostes victoria potitos percussit: ex quo perdiderunt vires et superati sunt; ex hoc facta est in civitate processio cleri et religiosorum, et progressi sunt ad sanctum Ambroxium. Insuper juxta Parabiagum in loco conflictus constructa fuit ecclesia in honorem beati Ambroxij, et primum lapidem posuit Johannes Vicecomes episcopus novariensis supradictus. Et post pauca Lodrisius Vicecomes in castro sancti Columbani inclusus est quadam cavea. O fallas fallax, quoties fortuna resolvis! Imis summa gradu, nam sydera splendida tangens; ides Lodrisius; Volvitur ecce luto, flos est tua Gloria vanus. 43 Anche la Seconda Repubblica (1447-1450) ripropone sui fiorini d’oro (CNI V pp. 142143 nn. 1-4), grossi (CNI V, pp. 143-144 nn. 5-12) e sesini (CNI V, p. 144 nn. 13-16) l’iconografia ambrosiana ereditata dai Visconti. 44 CNI V, p. 81 nn. 9-11; Crippa 1986, p. 60 n. 2. 45 CNI V, p. 88 nn. 4-5 mentre Crippa 1986, p. 77 dubita della loro esistenza (primo periodo); CNI V, pp. 90-93 nn. 23-50 e Crippa 1986, pp. 81-84 nn. 4/C-7 (secondo periodo). 46 CNI V, pp. 120-123 nn. 17-43; Crippa 1986, p. 127 n. 7. 41 CNI

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nei suoi grossi da tre47 e due soldi48, nei soldi49 e nei sesini50. Ma è partire dai grossi da 8 soldi51 e dai grossi da 5 soldi52 emessi da Galeazzo Maria Sforza, V duca di Milano (1466-1476), che la rappresentazione “aggressiva” del Santo si arricchisce di un particolare in più: nei primi il Santo, nimbato e con paludamento, è rappresentato a cavallo nell’atto di mettere in fuga alcuni guerrieri armati di scudi (gli Ariani)53 di cui uno, con spada54, viene abbattuto e calpestato dal cavallo, nei secondi è raffigurato nell’atto di percuotere con lo staffile un guerriero, che trattiene con la mano sinistra. Sant’Ambrogio si presenta su un cavallo al galoppo e con staffile su diverse emissioni successive, tra le quali si citano il doppio ducato55, la moneta da 4 testoni56 e i testoni57 di Luigi XII d’Orleans, re di Francia e Duca di Milano dal 1500 al 1512, le berlinghe58 battute da Carlo V d’Asburgo imperatore e duca di Milano dal 1535 al 1556, le monete da due doppie59 di Filippo II, re di Spagna e duca di Milano dal 1556 al 1598; mentre è rappresentato stante, nimbato e con paludamento, con lo staffile nella destra e il pastorale nella sinistra, con un guerriero con la spada sguainata ai suoi piedi nei grossi da 15 soldi di Francesco II Sforza IX duca di Milano (1522-1535)60. Merita di essere descritta l’iconografia dei ducatoni da soldi 10061 di Carlo V, nei quali sant’Ambrogio compare insieme a sant’Agostino; que­ st’ultimo, genuflesso, viene rappresentato nell’atto di abiurare il manicheismo per la fede cattolica nelle mani di Sant’Ambrogio che gli sta innanzi e lo benedice, tenendo il pastorale nella sinistra e lo staffile nella destra, mentre in alto appare lo Spirito Santo. Nel Settecento il patrono di Milano è ancora rappresentato, a mezzo busto sulle nuvole, con pastorale e 47 CNI

V, pp. 123-124 nn. 44-57; Crippa 1986, p. 121 n. 2. V, pp. 124-134 nn. 58-152; Crippa 1986, pp. 122-126 nn. 3-6. 49 CNI V, pp. 134-135 nn. 153-162; Crippa 1986, p. 128 n. 8. 50 CNI V, pp. 135-136 nn. 163-173; Crippa 1986, p. 129 n. 9. 51 CNI V, pp. 173-174 nn. 97-100; Crippa 1986, p. 201 n. 9A. 52 CNI V, pp. 174-175 nn. 105-107; Crippa 1986, p. 201 n. 9A. 53 Gli Ariani vengono rappresentati come uomini abbattuti a terra nei mezzi ducatoni (CNI V, p. 282 nn. 330-332; Crippa 1990, p. 135 n. 18) di Filippo II, sui quali il Santo appare in piedi con il pastorale nella sinistra e lo staffile nella destra alzata. 54 Esiste una variante che presenta sotto il cavallo un guerriero senza spada (CNI V, p. 174 nn. 101-104; Crippa 1986, p. 201 n. 9/B). 55 CNI V, pp. 201-202 nn. 2-14; Crippa 1986, p. 277 n. 1. 56 CNI V, p. 205 nn. 21-22; Crippa 1986, p. 277 n. 1. 57 CNI V, pp. 206-210 nn. 26-65; Crippa 1986, p. 282 n. 3. 58 CNI V, p. 234 nn. 39-40 descritte come testoni; Crippa 1990, p. 58 n. 13. 59 CNI V, p. 246 nn. 7-8; Crippa 1990, p. 203 n. 59. 60 CNI V, p. 226 nn. 16-17; Crippa 1986, p. 328 n. 4. 61 CNI V, p. 231 nn. 15-16; Crippa 1990, p. 40 n. 4. 48 CNI

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staffile, nelle monete da 5 soldi del 1722, del 1724 e del 1737 di Carlo VI (1711-1740)62 per poi scomparire durante la dominazione austriaca, con Napo­leone e con il Regno d’Italia. La sua ultima rappresentazione, a mezza figura, risale al progetto dello zecchino63, senza data, per la nuova monetazione di Maria Teresa, nel quale il Santo appare col pastorale nella sinistra e la destra alzata benedicente. 4. Percorso iconografico testimoniato dagli esemplari vaticani e ambrosiani

Ambrosino della Prima Repubblica (1250-1310) D/ MEDIOLANV, nel giro. Croce accantonata da quattro globetti e mezzelune. R/ SCS AN BROSIV, nel giro. Sant’Ambrogio mitrato e nimbato, seduto in cattedra di prospetto, benedicente con la destra e con il pastorale nella sinistra. Argento, 22,00 mm, 2,64 g Argento, 23,00 mm, 2,88 g Argento, 22,46 mm, 2,91 g Argento, 22,97 mm, 2,87 g Bibliografia: CNI V, p. 58 n. 18; Crippa 2014, p. 352 n. 24. Segnatura: BAV-Mt.It.Milano,27; BAV-Mt.It.Milano,28 (foto); Medagliere Ambrosiano 989; Medagliere Ambrosiano 990

62 CNI 63 CNI

V, p. 375 n. 42; p. 377 n. 54; p. 382 n. 97. V, p. 397 n. 105.

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Grosso da due soldi di Enrico VII di Lussemburgo Imperatore (1310-1313) D/ S GERVASI S PROTASI, a sinistra e a destra; H/N/R/I/C/./I/P/A/T, tra i due santi. Le figure nimbate di san Gervasio stante di prospetto a sinistra e san Protasio stante di tre quarti a destra recanti una piccola croce nella mano destra. R/ S. AMBROSI’ MEDIOLANVH, nel giro. Sant’Ambrogio, con mitria e nimbo, benedicente, seduto in cattedra di prospetto, con il pastorale nella mano sinistra. Argento, 27,00 mm, 4,20 g Bibliografia: CNI V, p. 61 n. 8; Crippa 2014, p. 383 n. 5. Segnatura: Medagliere Ambrosiano 999

Grosso di Luchino e Giovanni Visconti (1339-1349) D/ IONES 3 LVChINVS VICECOMITES, nel giro. Croce accantonata da quattro trifogli entro cornice a quattro archi. R/ S AMBROSI MEDIOLANV, nel giro. Sant’Ambrogio mitrato e nimbato, seduto in cattedra di prospetto, benedicente con la destra e con il pastorale nella sinistra. Argento, 24,40 mm, 2,76 g Bibliografia: CNI V, p. 72 nn. 13-14; Crippa 1986, p. 37 n. 3/A. Segnatura: BAV-Mt.It.Milano,35

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Fiorino di Luchino e Giovanni Visconti (1339-1349) D/ +LVChINVS VICECOES MEDIOLANVM, nel giro. Scudo visconteo sormontato dall’elmo con cimiero a figura di drago alato con fanciullo nelle fauci. R/ IOHS VICECOES S. AMBROSI’, nel giro. Sant’Ambrogio, con mitria e nimbo, seduto in cattedra di prospetto, con la mano destra benedicente e con il pastorale nella sinistra. Oro, 20,00 mm, 3,51 g Bibliografia: CNI V, p. 71, nn. 1-2; Crippa 1986, p. 36 n. 1. Segnatura: Medagliere Ambrosiano 1015

Pegione di Galeazzo II e Bernabò Visconti (1354-1378) D/ BERNABOS 3 GALEAZ VICECOMITES, nel giro. Nel campo incorniciato da quattro archi doppi la biscia fra le iniziali B G; sopra, l’aquila imperiale; ai quattro angoli della cornice i tre anelli. R/ S AMBROSI MEDIOLANV, nel giro. Sant’Ambrogio mitrato e nimbato, seduto, tiene nella destra lo staffile e nella sinistra il pastorale. Argento, 24,80 mm, 2,48 g Bibliografia: CNI V, p. 78 n. 36; Crippa 1986, p. 52 n. 4/A. Segnatura: BAV-Mt.It.Milano,40

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ELEONORA GIAMPICCOLO – GIANCARLO ALTERI

Fiorino della Repubblica Ambrosiana (1447-1450) D/ (scudetto con croce) COMVNITAS (stella) MEDIOLANI (stella), nel giro. La lettera M in caratteri gotici all’interno di una cornice formata da sei archi doppi, ornati all’interno da sei trifogli e all’esterno da cinque stelle. R/ (scudetto con croce) S (stella) AMBROSIVS MEDIOLANI (stella), nel giro. Mezza figura di sant’Ambrogio di prospetto con staffile nella mano destra e pastorale nella sinistra. Oro, 22,00 mm, 3,50 g Bibliografia: CNI V, p. 143 n. 2; Crippa 1986, p. 141 n. 1/B. Segnatura: Medagliere Ambrosiano 1102

Soldo di Francesco Sforza Duca IV (1450-1466) D/ FR SF D VX MLI 3C, nel giro. Biscia coronata e sormontata da scopetta entro cornice a quattro archi. R/ S AMBROSIVS MEDIOLANI, nel giro. Mezzo busto di Sant’Ambrogio mitrato e nimbato con staffile nella destra e pastorale nella sinistra. Mistura, 20,00 mm, 1,54 g Bibliografia: CNI V, p. 153 n. 67; Crippa 1986, p. 164 n. 12. Segnatura: BAV-Mt.It.Milano,76

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IL CULTO DI SANT’AMBROGIO DOCUMENTATO DALLE MONETE

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Doppio ducato di Luigi XII D’Orleans, Re di Francia e Duca di Milano (15001513) D/ LVDOVICVS DG FRA NCOR REX, nel giro. Busto a destra di Luigi XII col berretto ornato da gigli e giglio sul petto. R/ MEDIOLANI DVX, nel giro. Sant’Ambrogio a cavallo verso destra con lo staffile alzato; sotto, lo scudo di Francia coronato. Oro, 28,60 mm, 6.95 g Bibliografia: CNI V, p. 204 n. 12; Crippa 1986, p. 277 n. 1/A. Segnatura: BAV-Mt.It.Milano,97

Testone di Luigi XII D’Orleans, Re di Francia e Duca di Milano (1500-1513) D/ + LVDOVICVS D G FRANCOR REX, nel giro Busto a destra di Luigi XII con berretto ornato da gigli e giglio sul petto. R/ ME DIO LA NI D VX, nel giro. Sant’Ambrogio, mitrato e nimbato al galoppo con mantello e staffile nella mano destra. Sotto, lo scudo di Francia coronato. Argento, 29,00 mm, 9,61 g; Argento, 29,00 mm, 9,37 g Bibliografia: CNI V, p. 206 n. 26: Crippa 1986, p. 282 n. 3. Segnatura: BAV- Mt.It.Milano,98; Medagliere Ambrosiano 1209 (foto)

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ELEONORA GIAMPICCOLO – GIANCARLO ALTERI

Grossone o ducatone di Luigi XII D’Orleans, Re di Francia e Duca di Milano (1500-1513) D/ + LVDOVIC’ D G FRANCOR REX, nel giro Scudo di Francia coronato tra due gigli. R/ ME DIO LA NI D VX, nel giro. Sant’Ambrogio, mitrato e nimbato, seduto di prospetto, con staffile nella destra e pastorale nella sinistra. Argento, 27,80 mm, 8,35 g; Argento, 27,00 mm, 9,24 g Bibliografia: CNI V, p. 210 n. 67; Crippa 1986, p. 283 n. 4. Segnatura: BAV- Mt.It.Milano,99; Medagliere Ambrosiano 1212 (foto)

Grosso da 3 soldi di Francesco II Sforza, Duca IX (1522-1535) D/ (testina) FRANC SECVNDVS DVX MLI, nel giro. Corona da cui escono due rami; sotto, un nastro con le lettere FROVC. R/ + SANCTVS AMBROSIVS, nel giro. Mezza figura di sant’Ambrogio mitrato e nimbato con paludamento e rosa in petto, con lo staffile nella destra e il pastorale nella sinistra. Argento, 22,80 mm, 2,30 g Bibliografia: CNI V, p. 228 n. 28; Crippa 1986, p. 331 n. 9. Segnatura: BAV-Mt.It.Milano,108

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IL CULTO DI SANT’AMBROGIO DOCUMENTATO DALLE MONETE

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Berlinga di Carlo V, Imperatore e Duca di Milano (1535-1556) D/ CAROLVS RO IMPERATOR, nel giro. Aquila bicipite coronata e caricata dello scudo con le armi di Spagna. R/ SANCTVS AMBROSIVS, nel giro. Sant’Ambrogio, mitrato e nimbato, su cavallo al galoppo a destra con lo staffile alzato; sotto il cavallo, M. Argento, 33,00 mm, 7,34 g Bibliografia: CNI V, p. 234 n. 39; Crippa 1990, p. 58 n. 13. Segnatura: Medagliere Ambrosiano 1252

Trillina di Carlo V, Imperatore e Duca di Milano (1535-1556) D/ CAROLVS V IMPE, nel giro Busto di Sant’Ambrogio mitrato e nimbato, di prospetto, fra le iniziali S-A. R/ Anepigrafe Aquila bicipite coronata fra le iniziali K-V. Mistura, 16,80 mm, 0,90 g Bibliografia: CNI V, p. 242 n. 112; Crippa 1990 (che chiama la moneta terlina o quattrino) p. 72 n. 23/B. Segnatura: BAV-Mt. It. Milano, 112

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ELEONORA GIAMPICCOLO – GIANCARLO ALTERI

Mezzo scudo di Filippo II, Re di Spagna e Duca di Milano (1556-1598) D/ PHILIPPVS REX ETC MLI DVX, nel giro. Busto a testa nuda e con corazza del re a sinistra, con il collare del Toson d’oro sul petto. R/ SAN AMB, a sinistra e a destra. Sant’Ambrogio, mitrato e nimbato, su una nube con pastorale nella mano sinistra, scaccia a colpi di staffile tre uomini nudi che simboleggiano gli Ariani. Argento, 30,00 mm,16,50 g Bibliografia: CNI V, p. 282, nn. 326-329; Crippa 1990, p. 135 n. 18/B. Segnatura: Medagliere Ambrosiano 1271

Bibliografia essenziale Corpus Nummorum Italicorum. Primo tentativo di un catalogo generale delle monete medievali e moderne coniate in Italia o da Italiani in altri paesi, vol. V. Lombardia (Milano), Roma 1914 G. G. Belloni, La zecca di Milano, Milano 1971. M. Chiaravalle, La zecca e le monete di Milano. Catalogo della Mostra, Milano 1983. C. Crippa, Le monete di Milano dai Visconti agli Sforza (dal 1329 al 1535), Milano 1986. C. Crippa, Le monete di Milano durante la dominazione spagnola (dal 1535 al 1706), Milano 1990. S. Zuffi, Un volto che cambia una figura che si consolida: l’iconografia ambrosiana dalle origini all’età sforzesca, in Ambrogio: l’immagine e il volto, Venezia 1998, pp. 13-21. P. Boucheron, La mémoire desputée: le souvenir de saint Ambroise, enjeu des luttes politiques à Milan au XVe siècle, in H. Brand – P. Monnet – M. Staub (eds.), Memoria, Communitas, Civitas. Mémoire et conscience urbaines en Occident à la fin du Moyen Âge, Ostfildern, J. Thorbecke, 2003 (“Beihefte der Francia”, 55), pp. 203-223. L. Travaini, Sovrani e santi sulle monete italiane medievali e moderne. Contributo per il lessico iconografico numismatico in L’immaginario e il potere, 2004, pp. 137-152.

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IL CULTO DI SANT’AMBROGIO DOCUMENTATO DALLE MONETE

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G. Cariboni, Comunicazione simbolica e identità cittadina a Milano presso i primi Visconti (1277-1354) in Reti Medievali Rivista 9 (2008), pp. 1-51. E. Arslan, Ambrogio, i Visconti e le monete di Milano: un caso esemplare in Il significato delle immagini. Numismatica, Arte, Filologia, Storia. Atti del II incontro internazionale di studio del Lexicon Iconographicum numismaticae (Genova, 10-12 Novembre 2005), a cura di Rossella Pera, Roma 2012, pp. 391-409. C. Crippa, Le monete di Milano da Desiderio re dei Longobardi a Ludovico il Bavaro e Azzone Visconti (dal 757 al 1329), Milano 2014.

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MANUELA GOBBI

PIO XI E LA FOTOGRAFIA L’INEDITA VICENDA DEL FOTOGRAFO FRANCESE HENRI MANUEL E L’INSTALLAZIONE DEL “BELINOGRAFO” IN VATICANO Accade spesso in Istituzioni centenarie di così grande prestigio come la Biblioteca Apostolica Vaticana che si scoprano, ancora oggi, interessanti novità: così materiali a cui non si è mai prestata particolare attenzione, sebbene fossero sotto gli occhi di molti, rinascono a nuova vita alla luce di recenti sudi e ricerche. E talvolta si aprono inaspettatamente percorsi di indagine in cui si intrecciano vicende e personaggi ricostruendo storie sconosciute a tanti. «È bello che vi sia del “mistero” là dove stanno i tesori dell’umanità, le testimonianze di una storia e di una cultura che attraversa i secoli e i continenti: in questo senso “mistero” significa qualcosa di più grande e profondo […] È il mistero delle cose da scoprire, delle molte realtà che non si conoscono ancora (e forse non si conosceranno mai…), il fascino dell’attività di quanti si dedicano alla ricerca e talvolta giungono a scoprire un testo, una notizia, una bella immagine, un disegno o una fotografia, una riflessione, un dato sfuggito ai precedenti ricercatori che — magari — sono transitati tante altre volte su quelle pagine di manoscritti o stampati, su quelle stampe e disegni, su quelle monete e medaglie, non cogliendo il punto nuovo e importante»1. È questo il caso di un disegno in cornice, esposto da tempo presso l’Ufficio Promozione e Sviluppo della Biblioteca, oggetto da parte della scrivente di una più attenta analisi per la realizzazione della sua scheda inventariale. Sul foglio sono delineati, con un segno vivo ed arguto, una serie di ritratti di papa Pio XI, recanti in basso a destra la firma Henri Manuel Paris (Tav. I)2. Henri Manuel nacque nel 1874 a Parigi dove, intorno al 1900, fondò con suo fratello Gaston uno studio fotografico specializzato in ritrattistica, che divenne ben presto molto popolare e frequentato da numerose personali1 C. Pasini in Conoscere la Biblioteca Vaticana. Una storia aperta al futuro, catalogo della mostra, Città del Vaticano, Braccio di Carlo Magno, 11 novembre – 31 gennaio 2011, a cura di A. M. Piazzoni e B. Jatta, Città del Vaticano 2010, p. 12. 2 Il foglio reca la doppia segnatura BAV, O.A. 667 e Disegni Generali 602: matite colorate e pastelli su carta bianca montato in cornice lignea, 55 × 70,6 cm, in basso a destra il timbro a secco della cartiera Canson e la firma dell’artista.

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MANUELA GOBBI

tà. Circa dieci anni dopo i due decisero però di prendere strade separate: nel 1913 i suoi fratelli Gaston e Lucien fondarono un nuovo laboratorio fotografico, G.L. Manuel frères, in 47 rue Dumont-d’Urville, mentre Henri si trasferì nel 1925 in 27 rue du Faubourg-Montmartre dove prese in affitto un edificio di cinque piani che accolse il suo atelier e galleria d’arte, il laboratorio e i servizi commerciali. Manuel ritrasse numerosi personaggi appartenenti al mondo dell’arte e dello spettacolo, come cantanti, artisti, attori, musicisti, scrittori e modelle, ma anche sportivi, politici, industriali, medici e accademici. Celebre è lo scatto che ritrae Claude Monet mentre dipinge le grandi tele delle ninfee, così come quello raffigurante Gustave Eiffel ai piedi della sua Torre. I suoi ritratti iniziarono a essere pubblicati frequentemente da quotidiani e riviste tanto che nel 1910 aveva creato un proprio servizio stampa responsabile della commercializzazione, l’Agence universelle de reportage Henri Manuel3. Numerosi giovani aspiranti fotografi iniziarono a frequentare il suo studio, tra cui l’americana Thérèse Bonney, della quale parleremo più avanti. Per rendere ancora più redditizia la propria attività iniziò a diversificare la produzione dedicandosi con attenzione al campo della pubblicità e della moda: arrivò a lavorare per circa trenta riviste, fotografò abiti di grandi stilisti come Chanel, Lanvin, Patou, Poiret e Schiaparelli fino a divenire, nel periodo tra le due guerre, il più prolifico fotografo del settore. Partecipò a tutte le Esposizioni Universali a partire dal 1904, dove ottenne i massimi riconoscimenti, divenendo poi consulente del Commercio Estero dal 1912. La fama del suo studio crebbe e lui ottenne la carica di fotografo ufficiale del governo francese dagli anni della prima guerra mondiale al 1944. Manuel, abituato a lavorare principalmente in studio, iniziò a dedicarsi all’attività di reportage, vista anche la concorrenza di agenzie straniere come Keystone e Wide World. Oltre a diversi scatti di feriti della prima guerra mondiale, oggi conservati al Musée d’Orsay, realizzò nel 1930 un servizio sull’ospedale di Sainte-Anne e ottenne poi, tra il 1929 e il 1931, una importante commissione dal Dipartimento di Giustizia, un reportage sulle carceri e gli istituti di correzione minorili4. Partecipò a numerose mostre, 3 In generale su Henri Manuel si veda Les Portraits d’Henri Manuel. Une œuvre étonnante, une énigme photographique, in Prestige de la photographie 10 (oct. 1980), pp. 4-33; F. Denoyelle, La lumière de Paris, II: Les usages de la photographie, (1922-1939), Paris 1997, pp. 73-86; F. Denoyelle, Le studio Henri Manuel et le ministère de la Justice: une commande non élucidée, in Revue d’histoire de l’enfance «irrégulière», 4 (2002), pp. 127-143. 4  In particolare sull’argomento si veda Denoyelle, Le studio Henri Manuel cit. Le fotografie sono conservate presso il Centre National de Formation et d’études de la Protection Judiciaire de la Jeunesse, dal 2008 denominato l’École Nationale de Protection Judiciaire de la Jeunesse, e presso l’École Nationale d’Administration Pénitentiaire (giunte qui nel 2007 dal Musée National des Prisons à Fontainebleau). Si veda anche il catalogo della mostra

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PIO XI E LA FOTOGRAFIA

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oltre ad esporre sistematicamente nella propria galleria d’arte5. Nel 1938 fu insignito del titolo di commendatore della Legione d’onore. Durante la seconda guerra mondiale lo studio fu sequestrato; nel 1941 Henri Manuel, vittima delle leggi razziali, fu costretto a cedere i suoi affari a uno dei suoi collaboratori, Louis Silvestre, che ottenne la nomina di amministratore provvisorio. Quest’ultimo firmò poi una dichiarazione, mai registrata, in base alla quale, dopo un periodo di tre anni, Manuel avrebbe potuto rivendicare la propria attività. Ma rientrato a Parigi nel 1944, Henri Manuel, dinanzi al rifiuto di Silvestre, fece ricorso in tribunale per l’annullamento della vendita forzata dei suoi beni, che riuscì a ottenere nel 1946, un anno prima della sua morte. Quando il suo studio fu venduto nel 1941, l’inventario comprendeva oltre un milione di immagini; la maggior parte delle lastre fu distrutta e un gran numero fu addirittura venduto per il recupero del vetro usato. Circa 500 lastre furono acquistate dallo stato nel 1988 e oggi sono conservate, con le relative stampe fotografiche, nell’archivio della Médiathèque de l’Architecture et du Patrimoine a Charenton-le-Pont6. Indagando nella vita di questo artista, che lavorò principalmente in Francia, non emergono espliciti riferimenti a Pio XI e al Vaticano. Si potrebbe quindi pensare che il disegno in esame fosse stato semplicemente un dono del fotografo al pontefice in segno di stima e reverenza. E questo sicuramente corrisponde a verità, ma la storia è ben più articolata. La Biblioteca Vaticana ha recentemente acquisito una serie di fotografie che divengono tasselli fondamentali nello sviluppo di questa vicenda. Si tratta di sette scatti realizzati da Henri Manuel raffiguranti il pontefice Pio XI, altri personaggi della sua corte, oltre ad alcuni ambienti vaticani. Sul verso di ogni foto è incollato un foglietto dattiloscritto su cui sono riportati i dati delle immagini, i nomi del fotografo Henri Manuel e dell’agenzia Kadel & Herbert, e la seguente notizia: L’impossible photographie, prisons parisiennes (1851-2010), Musée Carnavalet, 10 février au 4 juillet 2010, Paris 2010. 5 Sul quotidiano La Liberté, in data 10 novembre 1935, si commenta l’originale esposizione di 150 proverbi francesi illustrati con fotografie di Henri Manuel, «grand photographe», a dimostrazione della sua propensione a nuove e diverse esperienze artistiche, cfr. R. Lannes, Cent cinquante proverbes illustrés par Henri Manuel, in La Liberté (10 novembre 1935), p. 2. 6 Sulle vicende del fondo fotografico Henri Manuel e la sua consistenza si veda nello specifico Denoyelle, La lumière de Paris cit.; F. Denoyelle, Les archives, une source de premier ordre pour les historiens de la photographie, in La Gazette des archives 180-181 (1998), pp. 1518. Si conservano fotografie dell’artista in diverse istituzioni come la Bibliothèque Nationale de France, il Musée d’Orsay, il Musée des Beaux-Arts du Canada, la National Library of the Netherlands – Koninklijke Bibliotheek, l’Hellenic Literary and Historical Archive – Cultural Foundation of the National Bank of Greece, il Kunstbibliothek – Staatliche Museen zu Berlin, la National Library of Spain ed altre ancora. Si vedano poi le banche dati digitali di Gallica (https://gallica.bnf.fr/) ed Europena (https://www.europeana.eu/portal/it).

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MANUELA GOBBI

These exclusive photos are the first to be made showing the inner workings of the Vatican, the Pope’s staff, the surroundings, etc. They were made by special permission of the Pope in October 1923.

Finalmente sappiamo che nell’ottobre del 1923 Manuel riceveva l’autorizzazione a fotografare il pontefice (Tav. II)7, diversi ambienti interni del Palazzo Apostolico tra i quali la sala Clementina con le guardie svizzere in posa (Tav. III)8, la sala delle conferenze (Tav. IV)9, una stanza indicata come «Secret Anti-Chamber of the Pope’s private room» ma forse identificabile con la sala detta del tronetto (Tav. V)10, ed alcuni operai intenti a ripulire i pavimenti (Tav. VI)11, ma anche spazi esterni come i giardini vaticani con la grotta e il santuario di Lourdes (Tav. VII)12 e il papa a passeggio (Tav. VIII)13. Si tratta purtroppo di fotoriproduzioni più tarde,   7 BAV, R.G. Fotografie, b. 610 (1): fotoriproduzione, 255 × 205 mm, sul verso copyright di Kadel & Herbert, N.Y., timbro «Reference dept. / Dec. 26 1923 / N.E.A.», e foglietto dattiloscritto incollato su cui si legge: «Photo Henri Manuel, © Kadel & Herbert, N.Y. / First and exclusive interior photos ever taken of Vatican showing pope’s secret chambers, conference rooms, etc. / These exclusive photos are the first to be made showing the inner workings of the Vatican, the Pope’s staff, the surroundings, etc. They were made by special permission of the Pope in October 1923 / Photo shows latest photo, considered the best ever taken, of the Pope Pius XI, and shows him seated on the sacred throne in the Vatican».   8 BAV, R.G. Fotografie, b. 610 (2): fotoriproduzione ritoccata a mano, 145 × 230 mm, sul verso copyright di Kadel & Herbert, N.Y., timbro «Nov. 1 1926», e stesso foglietto dattiloscritto incollato e in parte strappato (vedi supra, nt. 7).   9 BAV, R.G. Fotografie, b. 610 (3): fotoriproduzione, 156 × 237 mm, sul verso copyright di Kadel & Herbert, N.Y., timbro «Reference dept. / Dec. 7 1923 / N.E.A.», e stesso foglietto dattiloscritto incollato su cui si legge: «Photo Henri Manuel, © Kadel & Herbert, N.Y […] Photo shows private meeting room of the Pope and Cardinals» (vedi supra, nt. 7). 10 BAV, R.G. Fotografie, b. 610 (4): fotoriproduzione, 155 × 206 mm, sul verso stesso foglietto dattiloscritto incollato su cui si legge: «Photo Henri Manuel, © Kadel & Herbert, N.Y […] Photo shows Secret Anti-Chamber of the Pope’s private room» (vedi supra, nt. 7). 11 BAV, R.G. Fotografie, b. 610 (5): fotoriproduzione, 153 × 205 mm, sul verso copyright di Kadel & Herbert, N.Y., timbro «Reference dept. / Dec. 26 1923 / N.E.A.», e stesso foglietto dattiloscritto incollato su cui si legge: «Photo Henri Manuel, © Kadel & Herbert, N.Y […] Photo shows before the pope receives an audience the marble floor of the hall is cleaned by Swiss Guards» (vedi supra, nt. 7). 12 BAV, R.G. Fotografie, b. 610 (6): fotoriproduzione, 205 × 153 mm, sul verso copyright di Kadel & Herbert, N.Y., timbro «Reference dept. / Dec. 7 1923 / N.E.A.», e stesso foglietto dattiloscritto incollato su cui si legge: «Photo Henri Manuel, © Kadel & Herbert, N.Y […] Photo shows the Chapel of Notre Dame de Lourdes in the Gardens where the Pope often prays in the course of a walk» (vedi supra, nt. 7). 13 BAV, R.G. Fotografie, b. 610 (7): fotoriproduzione, 153 × 205 mm, sul verso timbro «Reference dept. / Dec. 7 1923 / N.E.A.» e stesso foglietto dattiloscritto incollato su cui si legge: «Photo Henri Manuel, © Kadel & Herbert, N.Y […] Photo shows the Pope in the Vatican Garden. He is seen taking a walk, pointing out the gardening work to be done to his garden, accompanied by his walking companion, Mgr. Arborio Mella» (vedi supra, nt. 7).

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PIO XI E LA FOTOGRAFIA

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collocabili intorno agli anni Cinquanta e Sessanta: la tecnica di stampa su carta lucida, il taglio particolare di alcune scene e i numeri di serie, stampati sul recto di due foto e riportati sul verso di ognuna, confermano la tipologia di materiale. Osservando poi il ritratto del pontefice si nota che la stampa riproduce una foto ritoccata a mano. A queste si devono aggiungere altre tre fotografie in commercio, scattate nella stessa occasione, come indica il foglietto apposto sul verso, raffiguranti Giuseppe Migone, cameriere segreto partecipante, il marchese Sacchetti, maggiordomo di Sua Santità, e piazza San Pietro vista dall’alto dei Palazzi Apostolici. Sebbene queste immagini non possano vantare il valore artistico proprio di un originale scatto d’epoca, assumono, in questo contesto specifico, una grande rilevanza documentaria fornendoci interessanti spunti d’indagine. Confrontando infatti le fotografie con il disegno firmato da Manuel scopriamo che l’artista ha usato le immagini da lui realizzate come modelli per la composizione vaticana, costruita come un collage di foto liberamente ricopiate. La figura del pontefice, che in compagnia di monsignor Alberto Arborio Mella di S ­ ant’Elia, cammina nei giardini vaticani indicando qualcosa dinanzi a loro14, è ora raffigurata sul foglio, in basso a sinistra, vicino al grande cancello di ingresso alla grotta e santuario di Lourdes, uno dei luoghi di preghiera a lui cari. Nasce così dall’unione di due scatti una nuova “istantanea”, di fantasia, ma storicamente credibile anche per i particolari accuratamente riprodotti. Al centro campeggia il ritratto di Pio XI seduto sul trono, attenta copia della corrispondente fotografia, la quale fu evidentemente ritoccata e ridipinta da Manuel con l’aggiunta, in alto a sinistra, dello stemma con le armi papali. Questa immagine trova pieno riscontro in una foto commercializzata dal Getty Images divergente solo nella postura del papa, qui volto a destra, e per la presenza della firma dell’artista in basso15. Entrambe le fotografie, scattate nella sala del tronetto, presentano un fondale bianco, privo di elementi ambientali, utilizzato per conferire maggiore risalto alla figura. In alto a sinistra è presente lo stemma papale, schizzato da Manuel anche sul foglio vaticano. Ovviamente la firma dell’artista è identica e facilmente confrontabile con quella di al14 Pio XI, appassionato alpinista in passato, era solito fare giornalmente lunghe passeggiate all’aperto. Lo stesso monsignore Arborio Mella ricorda che: «discorrendo in una delle quotidiane passeggiate nei viali del giardino, il Santo Padre mi intratteneva sui ricordi delle sue grandi ascensioni compiute col suo amico Grasselli, e si animava tanto, come se ancora respirasse l’aria fina di quelle luminose altezze che tanto lo infervoravano nello spirito», cfr. A. Arborio Mella di Sant’Elia, Istantanee inedite degli ultimi 4 papi, [Modena 1958], pp. 144-145. 15 Si veda la risorsa elettronica al seguente link https://www.gettyimages.it/detail/fotografie-di-cronaca/pope-pius-xi-fotografie-dicronaca/3321814?adppopup=true, consultato in data 12 dicembre 2019.

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tre sue opere. Completano il disegno altri tre ritratti del pontefice: in basso a destra è effigiato in piedi con le mani che stringono la catena della croce pettorale e lo sguardo dritto verso l’osservatore, mentre in alto a sinistra e a destra è raffigurato solo il volto, di profilo e di tre quarti (in quest’ultimo caso affine alla fotografia del Getty Images). Il pontefice acconsentì quindi a posare per lui, in scatti ufficiali e in altri più liberi mentre passeggia e dialoga amabilmente nei giardini vaticani. Nel 1923 Henry Manuel era già un artista molto affermato e apprezzato in Francia, fotografo ufficiale del governo e di numerose personalità, tra cui Charles Albert Céléstin Jonnart, fino al novembre dello stesso anno ambasciatore francese presso la Santa Sede. Jonnart fu ritratto dall’artista in uno scatto pubblicato su L’Image nel 1917, all’epoca della sua carica di alto commissario della repubblica francese a Salonicco16. Questo legame, o, più in generale, le conoscenze politiche dovute al suo ruolo pubblico, crediamo possano aver reso possibile la sua visita in Vaticano. Come già accennato, sul verso delle stampe sono trascritti il nome del fotografo e quello della società fotografica americana Kadel & Herbert17, la quale deteneva il copyright delle immagini come rimarca anche il relativo timbro a inchiostro blu. Per capire questo passaggio di proprietà bisogna indagare la storia editoriale di queste fotografie, che già nel 1923 iniziarono a essere pubblicate in riviste americane e australiane. Risale infatti al 10 dicembre l’uscita sul Daily News18 di un contributo dal titolo Within the Vatican: Personal Glimpses of Pope Pius XI con due immagini esemplificative: la foto del pontefice del Getty Images e quella in cui passeggia nei giardini vaticani. Nel breve commento si legge che queste erano le migliori immagini fino a quel momento realizzate ma soprattutto si può notare che sono già indicate by Kadel & Herbert. All’inizio del 1924 sul giornale australiano The News19 è pubblicato nuovamente il ritratto del pontefice del Getty Images con il riferimento Kadel and Herbert, photo e poche righe descrittive: «Exclusive photograph of the Pope, showing him on his throne in the Vatican. This is one of a series of interior photographs, the first ever taken, which were made by special permission at the end of 1923». Si trat16 Cfr. L’Image de la guerre: publication hebdomadaire illustrée 139 (juillet 1917). La foto ebbe poi grande diffusione e fu ripubblicata in diverse occasioni. Su di lui si veda J. Vavasseur-Desperriers, République et liberté: Charles Jonnart, une conscience républicaine, 18571927, Villeneuve-d’Ascq 1996. 17 Il nome deriva da George Kadel il quale si specializzò in fotografia (di reportage e pubblicità poi) presso Underwood e Underwood, la famosa firma della stereoscopia. La società fu attiva soprattutto intorno agli anni Dieci e Venti del secolo. 18 Daily News: New York’s picture newspaper, 10 december 1923, p. 42. 19 The News, Adelaide, II, 160 (26 January 1924), p. 1.

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ta sostanzialmente delle stesse parole trascritte sul foglietto applicato sul verso delle foto vaticane20. Le fotografie di Manuel continuarono quindi a essere utilizzate da diversi giornali australiani negli anni successivi, senza tra l’altro espliciti riferimenti a lui o alla società Kadel & Herbert21. Sul The Freeman’s Journal ad illustrazione di un articolo, in cui si descrivono alcuni ambienti vaticani e le relative consuetudini papali, furono poste la foto della sala conferenze e quella del pontefice a passeggio nei giardini22, quest’ultima poi riutilizzata dalla stessa rivista nel 1928 in riferimento ad un piccolo incidente accorso al papa, una leggera distorsione alla caviglia che fu da impedimento alle sue camminate quotidiane23. Le immagini dell’artista furono edite nello stesso periodo anche da giornali inglesi e francesi con l’indicazione del nome del fotografo Henri Manuel24. In particolare su Le Pèlerin del 1925, in occasione dell’apertura dell’anno santo, è pubblicata una foto del pontefice seduto in trono (Tav. IX)25, ritoccata a colore, identica nella tipologia agli altri due scatti noti di Manuel. Osservandola meglio ci si accorge che si tratta del modello da cui è tratto il profilo di Pio XI disegnato dall’artista in alto a sinistra sul foglio vaticano. Nella raccolta fotografica della Biblioteca si conserva un album con immagini di vari autori raffiguranti Pio XI, tra le quali vi è un ritratto del papa seduto in trono (Tav. X), pressoché identico a quello appena analizzato, privo di firma o indicazioni di responsabilità e leggermente divergente nell’inclinazione della testa: si tratta sicuramente di due scatti eseguiti da Manuel nello stesso momento26. 20 Si

veda supra p. 284. In particolare sul retro del ritratto di Pio XI seduto sul trono è riportato che la foto era «considered the best ever taken» facendo quindi riferimento a un giudizio precedentemente espresso. 21 Sul The Telegraph, Brisbane, 12 February 1925, p. 5 si trova il ritratto del pontefice seduto in trono; sul The News, Adelaide, 3 March 1925, p. 7 vi è la foto del Getty Images ridotta ad un ovale del busto, nuovamente pubblicata in The Herald, Melbourne, 11 February 1939, p. 44 ed erroneamente riferita al giorno della sua elezione al Soglio Pontificio. 22 The Freeman’s Journal, Sydney, 14 February 1924, p. 17. È pubblicata poi una terza immagine chiamata “Reception Chamber of the Vatican” senza alcun riferimento ma è lecito chiedersi se anche questa possa essere stata scattata da Manuel. 23 The Freeman’s Journal, Sydney, 27 September 1928, p. 19. 24 Il ritratto del papa seduto in trono è pubblicato quasi a piena pagina in Illustrated London News, 5 January 1924, p. 16 e in Weekly Freeman’s Journal, Ireland, 1 december 1923, pp. 33-34 con l’indicazione Photograph Henri Manuel. 25 Le Pèlerin, revue illustrée de la semaine, nr. 2493, 4 janvier 1925. Cfr. BAV, R.G. Fotografie, b. 610 (8). 26 Si veda BAV, Stampe II.201, tav. 22: fotoriproduzione, 256 × 203 mm. In generale quasi tutte le immagini contenute nell’album sono fotoriproduzioni, molte presentano il copyright di Wide World Photos e United Press International e gli ormai usuali foglietti dattiloscritti sul verso. Nell’Archivio Fotografico Storico Umberto Cicconi si conserva un quinto scatto,

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Da questa breve analisi si deduce che la diffusione fuori dall’Europa delle fotografie di Manuel spettò alla società americana Kadel & Herbert che ne deteneva, a quanto si è visto, i diritti d’autore27. L’anello di connessione e di passaggio potrebbe identificarsi nella figura di Thérèse Bonney, fotografa americana celebre per i suoi reportage di guerra, la quale si era trasferita nel 1919 a Parigi per completare gli studi di dottorato alla Sorbona28. Viaggiò molto in Europa e cercò sempre di sviluppare i rapporti culturali tra la Francia e gli Stati Uniti. Si appassionò di giornalismo e iniziò a collaborare con riviste e periodici in Inghilterra, Francia e Stati Uniti, in particolare con il New York Times, per conto del quale lavorava come corrispondente dalla sede parigina e incrementò il servizio del Times Photo Service, poi noto come Wide World Photos. Frequentò lo studio di Henri Manuel, uno dei più importanti all’epoca, che la ritrasse tra l’altro in una carte-de-visite intorno al 192029. Nel 1924 i due lavoravano ancora insieme a un articolo sulla moda primaverile parigina30. Bonney fondò in quel periodo il primo servizio di stampa illustrato americano in Europa: raccoglieva testi e immagini di vario genere (moda, arti decorative, ritratti ecc.) da fotografi, agenzie e negozi e li rivendeva per pubblicazioni in diversi paesi, in particolar modo negli Stati Uniti. Erano principalmente scatti realizzati da altri artisti come ad esempio i ritratti dell’attrice Sarah Bernhardt di Henri Manuel, oggi nella collezione Bonney alla Bancroft Library di Berkeley. Soleva poi riportare sul retro delle foto le didascalie con i diritti di riproduzione, stesso metodo utilizzato per le immagini vaticane di Manuel. Possiamo ipotizzare che Bonney avesse acquisito le fotografie da Manuel all’epoca della loro frequentazione per poi rivenderle a Kadel sostanzialmente uguale e attribuibile a Manuel, con una dedica del papa a monsignor Confalonieri. Anche nella fotoriproduzione vaticana si intravede una scritta in basso a destra. 27 Il timbro della società N.E.A (Newspaper Enterprise Association) conferma la circolazione delle immagini nel settore della stampa americana. 28 Autrice di varie pubblicazioni e curatrice di numerose esposizioni, su di lei si vedano anche C. Bonney, Thérèse Bonney: The Architectural Photographs, doctoral dissertation, Zürich, University of Zürich, 1995; L. Schlansker Kolosek, The invention of chic. Therèse Bonney and Paris Moderne, New York 2002; Breaking the frame. Pioneering women in photojournalism, Thérèse Bonney, Olga Lander, Hansel Mieth, Grace Robertson, Esther Bubley, Margaret Bourke-White, edited by C. McCusker, San Diego 2006. Il suo archivio personale, con materiale manoscritto e alcune fotografie, si conserva alla Bancroft Library, University of California, Berkeley, mentre gran parte delle sue fotografie sono state depositate intorno al 1930 nella New York Public Library e nella biblioteca del Cooper-Hewitt Museum of the Decorative Arts. 29 R. Becherer, Picturing Architecture Otherwise: the voguing of the Maison Mallet-Stevens, in Art History 23, 4 (2000), pp. 559-598. 30 Spring Models in Gowns and Wraps Designed in Distinctive Styles by Parisian Artists, in The New York Times, Rotogravure section 5 (30 March 1924), pp. 1-2.

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& Herbert oltreoceano31, due delle agenzie fotografiche più importanti del periodo. Così come Manuel, anche l’artista americana ebbe il privilegio di ricevere, nel marzo del 1938, l’autorizzazione a fotografare ambienti e persone in Vaticano realizzando una serie di scatti che videro la luce nella pubblicazione dal titolo The Vatican, edita l’anno successivo32. Apre il volume un ritratto in primo piano di Pio XI, utilizzato in data 12 febbraio 1939 come illustrazione del New York Times per commemorare la morte del pontefice: il copyright del Times Wide World testimonia il prosieguo della collaborazione lavorativa del quotidiano con l’artista americana, alle prese con uno dei suoi primi servizi fotografici. A differenza di Manuel, Bonney ritrasse il papa con la sua corte e il collegio di cardinali in un concistoro pubblico nella sala del Trono, un onore se si considera che il pontefice aveva i suoi fotografi ufficiali e che Thérèse era una donna in un ambiente prettamente maschile. Si segnalano in particolare le bellissime fotografie della Biblioteca Vaticana con gli studiosi ai tavoli e i dipendenti in servizio, tra cui colpisce l’immagine di giovani catalogatrici al lavoro: è questa una delle innovazione apportate da Pio XI e dal cardinale Eugène Tisserant, l’apertura della scuola di Biblioteconomia e della catalogazione alle donne33. Leggendo le parole di monsignore Carlo Confalonieri, segretario particolare del papa, in riferimento alla richiesta di un ritratto fotografico del pontefice nel 1937, scopriamo che in realtà Pio XI «era sempre stato piuttosto restio, e negli ultimi anni decisamente contrario ad ammettere i fotografi»34, forse a causa delle lunghe sedute in posa. Alla luce di questo si capisce ancora di più l’importanza dell’accoglienza riservata a Henri Manuel, e successivamente anche a Thérèse Bonney, All’interno della collezione fotografica della Vaticana si custodisce un album dal titolo Souvenir des fêtes du V.ème Centenaire de Jeanne d’Arc à Orléans Mai 1929 firmato da Henri Manuel Paris, dedicato a Pio XI con scatti autografi dei festeggiamenti e delle personalità presenti35. Viene così spontaneo supporre che Manuel avesse realizzato per Sua Santità un dono simile, composto dalle fotografie realizzate nel 1923 in Vaticano, e forse 31 Colgo

l’occasione per ringraziare vivamente la prof.ssa Helena Pérez Gallardo dell’Universidad Complutense di Madrid per avermi suggerito tale ipotesi e per le preziose indicazioni al riguardo. 32 M. Thérèse Bonney, The Vatican, with an introduction by the Reverend J. La Farge, S.J., Boston 1939. Tutte le fotografie si conservano alla Bancroft Library, University of California, Berkeley. 33 Bonney, The Vatican cit., pp. 88-101, in particolare 101. 34 C. Confalonieri, Pio XI visto da vicino, Torino [1957], p. 108. 35 Si veda BAV, R.G. Fotografie, obl. I.352: album con legatura in cartoncino marrone, dedica, titolo e firma manoscritti in bianco, composto da 68 fotografie (ritratti e scene dei festeggiamenti) tutte firmate dall’artista.

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accompagnato dal disegno oggi in Biblioteca. Purtroppo non abbiamo rinvenuto documentazione a tal riguardo e per questo non possiamo escludere che Manuel possa aver scelto di omaggiare il pontefice unicamente con l’originale studio grafico, magari anche in un secondo momento, insieme all’album celebrativo di Giovanna d’Arco36. Queste non sono però le uniche fotografie dell’artista in Biblioteca: sono da lui firmati alcuni ritratti del cardinale Luigi Maglione impreziositi nella veste editoriale dal logo della Galerie d’Art Henri Manuel (Tav. XIa-b)37 e alcuni scatti nel fondo Bignami Odier38. L’operato di Manuel e di Bonney si inserisce all’interno di un contesto culturale in pieno sviluppo che vede l’affermarsi dei moderni mezzi tecnologici di comunicazione come la fotografia. La salita al Soglio Pontificio di Pio XI inaugurò un’epoca di cambiamento e di rinnovamento39. In particolare dopo la firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929)40 e la conseguente nascita dello Stato della Città del Vaticano si avvertì l’esigenza di nuove strutture e di servizi funzionali alle diverse esigenze amministrative, politiche, economiche e culturali di un territorio ormai autonomo. Il papa promosse così una fervida attività urbanistica e architettonica affidata all’ingegnere Leone Castelli e all’architetto Giuseppe Momo. Rivolse il suo interesse anche alle nuove tecnologie, dai mezzi di trasporto, con la realizzazione della stazione ferroviaria41 e

36 Probabilmente il disegno faceva parte della sezione Indirizzi Pio XI, raccolta eterogenea di vari materiali inviati al papa in occasione di diversi eventi. A tal riguardo si veda Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, I: Dipartimento Manoscritti, a cura di F. D’Aiuto e P. Vian, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 466), pp. 729-736. 37 BAV, R.G. Fotografie, Folio V.213 (28-29): in totale sei fotografie alla gelatina ai sali d’argento, alcune con timbro a secco, in cartelline originali con impresso Henri Manuel 27, Rue du Faub.g Montmartre Paris (28), logo decorato con Éditions d’Art, Henri Manuel Paris e carta velina Galerie d’Art Henri Manuel Photographe d’Art […] (29). 38 L’inventario della raccolta Bignami.Odier.Fotografie, giunta in Biblioteca nel marzo 2017, è consultabile presso il Gabinetto della Grafica. 39 Sulle varie imprese realizzate durante il pontificato di Pio XI si veda 1929-2009. Ottanta anni dello Stato della Città del Vaticano, catalogo della mostra, Città del Vaticano, Braccio di Carlo Magno, 11 febbraio – 10 maggio 2009, a cura di B. Jatta, Città del Vaticano 2009. 40 Sull’argomento si veda la preziosa documentazione grafica custodita in Biblioteca: R.G. Fotografie, obl. I.480, 481, Stampe III.288 (Carboni in 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 73-88, cat. a pp. 327-329). 41 Cfr. Martini in 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 173-180, cat. a pp. 356-361. Alcune delle rare immagini in BAV, R.G. Fotografie, b. 23.

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l’utilizzo dell’automobile42, ai sistemi di comunicazione come la posta43, la radio, il telefono44, le apparecchiature cinematografiche45 e la fotografia. E proprio la fotografia ebbe un ruolo di grande rilevanza, o meglio divenne un elemento di frequente e abituale utilizzo durante il suo pontificato: mons. Arborio Mella racconta che «il giorno dopo la sua elezione, il fotografo Pontificio venne a prendere la fotografia del nuovo Papa in diversi atteggiamenti e pose»46. Da quel momento in poi gli eventi, le celebrazioni e le inaugurazioni a cui il Santo Padre presiedeva vennero immortalati in scatti fotografici, molti dei quali eseguiti da Giuseppe Felici, nominato da Leone XIII “fotografo pontificio”, e dai suoi figli47. Si ricorda a tal proposito la ricca documentazione grafica riguardante i lavori di ammodernamento promossi dal papa “bibliotecario” in Vaticana, luogo a lui, e a tutti noi, così caro48. Egli ne fu prefetto dal 1914 al 1919 e «Quante cure prodigò anche da Papa alla Biblioteca Vaticana doppiamente sua! ”Lì i denari, diceva, sono sempre bene spesi”»49. Si aggiungano poi le numerose immagini di udienze con reali, corpi diplomatici e gruppi vari come i partecipanti al primo Congresso mondiale

42 Mons. Arborio Mella scriveva, non senza rammarico, che «l’amministrazione pontificia venne nella determinazione di adattarsi ai nuovi tempi e di acquistare un numero di vetture automobili per i necessari servizi, vendendosi tutti i cavalli» (Istantanee inedite cit., 1958, p. 155). 43 Alcune fotografie in BAV, R.G. Fotografie, b. 24. Cfr. Francini in 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 187-190. 44 Per la documentazione grafica si veda BAV, R.G. Fotografie, obl. 51, obl. I.602. Cfr. 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 411-412. 45 Cfr. Ibid., p. 410. 46 Arborio Mella di Sant’Elia, Istantanee inedite cit., 108. 47 Su G. Felici si veda F. Bonetti in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 46, Roma 1996, ad vocem. 48 Si fa riferimento all’inaugurazione nel 1928 del nuovo ingresso, del magazzino a tre piani con strutture metalliche e del cortile del Belvedere risistemato (R.G. Fotografie, obl. I.62, obl. I.63,II) e alla visita nel 1931 per la disposizione dei nuovi locali destinati ad accogliere la raccolta di stampe e di carte geografiche, del laboratorio di restauro, della sala ad uso dei fotografi dei manoscritti e del Cortile del Belvedere terminato (R.G. Fotografie, obl. I.453). Qui venne collocata, in una nicchia dell’emiciclo, la statua di Maria Mater Sapientiae, copia di quella seicentesca nella Biblioteca Ambrosiana, e per questo a lungo ammirata dal papa. Si aggiungano poi i lavori di ricostruzione del Salone Sistino in seguito al crollo avvenuto nel dicembre 1931 (R.G. Fotografie, obl. I.452 e sul crollo Disegni Generali 368 e R.G. Fotografie, b. 577). A tal riguardo, e più in generale su papa Ratti bibliotecario, cfr. Pasini in 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 49-62 e cat. a pp. 306-308, 382-385 ed anche G. Borghezio, Pio XI e la Biblioteca Vaticana, in La bibliofilia 31, 6/7 (1929), pp. 210-231; G. Galbiati, Un papa che fu bibliotecario, in Accademie e biblioteche d’Italia 13, 3 (1938/39), pp. 227-238; E. Tisserant, Pius XI as librarian, in The library quarterly 9, 4 (1939), pp. 389-403. 49 Confalonieri, Pio XI cit., p. 237.

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delle biblioteche e di bibliografia ricevuti con particolare benevolenza da Pio XI nel Salone Sistino50. Fu soprannominato anche il “papa costruttore”, soleva ripetere che «la vita è azione» e «godeva molto di visitare egli stesso i lavori di costruzione in corso nel piccolo Stato onde rendersi esatto conto delle cose. Oltre al dovere d’ufficio, ve lo conduceva il desiderio di attestare così la stima che nutriva della collaborazione e della fatica altrui»51. Tutti i lavori sono testimoniati dalla vasta campagna fotografica che fu promossa e di cui la Biblioteca conserva una ricca documentazione52, una cronistoria per immagini della trasformazione moderna della Città del Vaticano. Se Leone XIII consacrò la fotografia facendola raffigurare tra le arti nell’allegoria dipinta da Domenico Torti nella Galleria dei Candelabri in Vaticano, Pio XI ne sviluppò appieno le possibilità divulgative, non solo come fonte di documentazione, ma soprattutto quale strumento atto a far crescere e rafforzare il sentimento di vicinanza della Chiesa al popolo di Dio nel mondo. Fece della comunicazione un elemento cardine del suo pontificato: fino a quel momento la propagazione del messaggio cristiano era stata affidata a mezzi quali la posta, il telegrafo, il telefono e la carta stampata che egli modernizzò e ampliò53, ma soprattutto aprì lo Stato a nuovi servizi come la radio. Il 12 febbraio 1931 Pio XI pronunciò il suo primo radiomessaggio Qui arcano Dei consilio inaugurando così la stazione radio vaticana, evento impresso nella mente di molti grazie anche al celebre scatto della “Fotografia Pontificia G. Felici Roma” raffigurante il pontefice con il segretario di stato Eugenio Pacelli e il marchese Guglielmo Marconi54. L’invenzione di Marconi, già premio Nobel per la fisica, stava rivoluzionando il sistema comunicativo mondiale e Pio XI volle fortemente portarla in Vaticano: si apriva una nuova era in cui la parola di Dio poteva 50 Di

questa occasione si conservano due fotografie con segnatura BAV, R.G. Fotografie, b. 100. Il congresso si tenne a Venezia e a Roma nel giugno del 1929 e in rappresentanza della Vaticana presenziarono Giovanni Mercati ed Eugène Tisserant. Pio XI salutò in udienza «gli antichi Colleghi […] rivolse loro la parola, quasi “ad abbracciarli tutti con animo e cuore di bibliotecario in uno sguardo che realmente era più del cuore che degli occhi”» (Confalonieri, Pio XI cit., pp. 225-226). 51 Confalonieri, Pio XI cit., pp. 45, 59, 86. 52 Si veda in generale 1929-2009. Ottanta anni cit. 53 Pio XI rinnovò la tipografia vaticana, eresse la libreria vaticana, istituì il servizio postale vaticano e promosse l’installazione del sistema telefonico automatico (cfr. 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 187-196). 54 BAV, R.G. Fotografie, b. 29 (1). Sulla radio vaticana si vedano anche R.G. Fotografie, obl. I.432-433, 561, 595, 602. Cfr. Ceresa in 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 157-172, cat. a pp. 375-378 e F. Bea e A. de Carolis, Ottant’anni della radio del papa, 2 voll., Città del Vaticano 2011.

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risuonare contemporaneamente in diverse parti del mondo, poiché il pontefice «verso il cielo rizzò Antenne d’acciaio, per spaziare liberamente con le radiotrasmissioni fino agli ultimi confini della cristianità»55. Nello specifico, la raccolta fotografica conserva, in buste con annotazioni autografe del papa, scatti della Stazione Radio Vaticana. Pio XI. Esperimenti diversi realizzati nel 193156: in data 12 febbraio tre foto dell’inaugurazione tra cui quella sopra citata, al 19 aprile due immagini della prima trasmissione scientifica della Pontificia Accademia della Scienze, al 16 ottobre una foto del discorso tenuto dall’arcivescovo Carlo Salotti sotto lo sguardo vigile di padre Giuseppe Gianfranceschi, direttore della stazione radio, e infine al 24 ottobre tre scatti dell’inaugurazione del “belinografo”. Si tratta di un telestereografo, uno strumento telefotografico in grado di inviare fotografie a distanza, prima tramite telegrafo e poi con l’uso di onde radio, un antesignano del fax, che prende il nome dal suo inventore, il francese Édouard Belin57. In quell’occasione si tenne una dimostrazione del suo funzionamento: da Parigi giunsero una foto e un messaggio del cardinale Jean Verdier, arcivescovo della città francese, in risposta ai quali furono inviati l’immagine dell’inaugurazione appena realizzata e un biglietto scritto dal cardinale Pacelli a nome del Santo Padre. Nello scatto di rito, che si conserva in Vaticana (Tav. XII), si vedono disposte intorno all’apparecchio le diverse personalità presenti all’evento: sulla destra il papa in posa, vicino a lui Belin, il governatore dello Stato Camillo Serafini, e il visconte Joseph de Fontenay, nuovo ambasciatore di Francia presso la Santa Sede58, al centro padre Gianfranceschi e a sinistra i monsignori Camillo Caccia Dominioni e Alfredo Ottaviani. Nella seconda immagine, contenuta nella stessa busta, il gruppo, dove si riconoscono anche il cardinale Pacelli, l’arcivescovo Giuseppe Pizzardo e i monsignori Arborio Mella di Sant’Elia e Confalonieri, posa dinanzi all’ingresso della radio, mentre nell’ultima foto il papa legge il messaggio arrivato da Parigi59. Le medesime foto si ritrovano in un album composto da 16 scatti dal titolo 55 Confalonieri,

Pio XI cit., p. 45. fa riferimento a BAV, R.G. Fotografie, b. 29, stampe alla gelatina ai sali d’argento. 57 Su Belin e la sua invenzione si veda B. Auffray, Édouard Belin. Le Père de la Télévision, Paris, 1981; M. Chermette, Transmettre les images à distance. Chronologie culturelle de la téléphotographie dans la presse française, in Études photographiques 29 (2012), pp. 136-169; M. Coussement, Edouard Belin, un inventeur méconnu, Frotey-les-Vésoul 2015. 58 Si veda BAV, R.G. Fotografie, b. 81 (12): fotografia scattata da G. Felici in occasione della presentazione delle credenziali dell’ambasciatore ed Inviato straordinario di Francia Visconte de Fontenay, 3 maggio 1928. 59 BAV, R.G. Fotografie, b. 29 (4-6). Sul verso timbro “Fotografia pontificia G. Felici”. Sulla busta, di mano di Pio XI, si legge «Radio 24.X.31 (telefotogr. Belin)». Cfr. 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 375-376 cat. 3. 56 Si

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Inaugurazione dell’apparecchio radio-fotografico Belin alla Stazione Radio della Città del Vaticano. 24 Ottobre 1931 omaggio della “Fotografia Pontificia G. Felici Roma”60. Le immagini illustrano l’avvenimento, dall’arrivo in macchina del pontefice alle foto dell’esperimento e dei macchinari fino all’incontro con gli alunni del Collegio Etiopico fuori dalla stazione radio. Un particolare cattura l’attenzione quando due collaboratori di Belin provano il funzionamento dell’apparecchio61 e sul cilindro trasmittente si intravede un’immagine che corrisponde alla già citata fotografia dell’arcivescovo Salotti al microfono della radio62 (Tavv. XIII-XIV). In realtà, dopo un’attenta analisi della stampa, ci sembra di individuare nella fotografia conservata in Biblioteca proprio l’immagine ricevuta dal belinografo: si vedono chiaramente i segni delle impronte digitali sul margine destro, forse lasciati nel togliere la foto dal cilindro, inoltre la tipologia della carta63 e i tagli circolari bianchi negli angoli superiori sembrano confermare questa ipotesi. La stampa dell’epoca raccontò con dovizia di particolari l’avvenimento64. La foto inviata dal cardinal Verdier fu scattata all’inaugurazione, nel giugno dello stesso anno, del padiglione delle Missioni Cattoliche all’Esposizione Coloniale Internazionale di Parigi, al cui successo di pubblico l’arcivescovo francese faceva appunto riferimento nel messaggio inviato al pontefice. In particolare Verdier figurava circondato da suore e ragazze di colore65. All’evento, ambientato nella suggestiva cornice della chiesa di Notre Dame des Missions, progettata dall’architetto Paul Tournon, e ricostruita a Épinay-sur-Seine nel 1933, presero parte numerose personalità66. 60 BAV,

R.G. Fotografie, obl. I.428. Fotografie alla gelatina ai sali d’argento. R.G. Fotografie, obl. I.428 (11). 62 BAV, R.G. Fotografie, b. 29 (7): sulla busta, di mano di Pio XI, si legge «S.E.il Card. Salotti e Padre Gianfranceschi / Staz. Radio 16-X-31». 63 Si tratta della stesso tipo di carta di un’altra fotografia teletrasmessa, si veda infra p. 296 e nt. 73. 64  La Croix, 52, 14927 (25-26 octobre 1931), pp. 1-2; 14928 (27 octobre 1931), p. 1; The New York Times, 25 October 1931, p. 8; Catholic Transcript, XXXIV, 21 (29 October 1931), p. 1 e Catholic News Service – Newsfeeds 26 October 1931, p. 42. Su Pro Familia 32, 45 (8 novembre 1931), p. 1 sono pubblicate anche due foto del cardinal Verdier che riceve la risposta dalla Santa Sede, firmate dalla Keystone Press Agency. Un’altra immagine della stessa occasione si trova in commercio con il copyright dell’Acme Newspictures. Nell’Illustrazione Vaticana II, 20 (ottobre 1931), pp. 9-12 sono edite ovviamente le fotografie vaticane scattate da Felici. 65 Lo stesso Verdier, in data 25 ottobre, ordinò sacerdote un ragazzo originario del Senegal, padre Joseph Faye, nella basilica di Notre-Dame des Missions, una vera affermazione della diffusione della chiesa cattolica nel mondo. 66 All’inaugurazione presenziarono molte autorità tra cui il maresciallo Louis Hubert Gonzalve Lyautey, assistente del governatore generale Olivier con funzioni di commissario generale, Paul Reynaud, ministro delle Colonie, l’ammiraglio Lucien Lacaze, presidente del comitato organizzativo, l’ambasciatore de Fontenay, il cardinale Verdier, arcivescovo di Parigi e il cardinale Maglione, nunzio apostolico in Francia. Alla messa d’inaugurazione, celebra61 BAV,

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Un album fotografico della collezione vaticana, donato a Pio XI, ricorda le varie celebrazioni che si tennero anche nei mesi successivi: sulla sinistra della scalinata che conduce all’altare si notano appunto gruppi di suore e di ragazze africane, descritte dalla stampa contemporanea con i colori che la fotografia ancora non poteva restituirci «sudanese girls dressed in blue and wearing a yellow headdress, gave a significant touch to the scene in the chapel to the Catholic Missions’ Pavilion at the International Colonial Exhibition […] but it was the presence of the little Sudanese girls that gave the colonial character to the ceremony»67. Non sappiamo se tra queste vi sia la foto inviata al pontefice68, possiamo solo immaginare che suscitò il consenso generale a riprova dei diversi modi del cristianesimo di giungere in terre lontane. Dalle carte d’archivio69 apprendiamo che Belin era stato ricevuto da Pio XI già nell’aprile del 1929 presentando la sua invenzione e proponendola in dono al pontefice. Questi lo aveva ringraziato lasciandosi del tempo per riflettere. Il 12 dicembre 1930 Belin si era allora rivolto, rinnovando le sue intenzioni, all’ambasciatore de Fontenay, il quale, in data 9 gennaio 1931, si raccomandò con il segretario di stato Pacelli che chiese una valutazione a padre Gianfranceschi. Probabilmente per convincere Sua Santità vi era bisogno di una “prova”, di un documento che mostrasse le capacità applicative dell’apparecchio. Fu scattata una fotografia di gruppo in cui ben si riconoscono seduti in prima fila il cardinale Maglione a sinistra, l’ambasciatore de Fontenay a destra, e in piedi, sulla sinistra, Belin. Questa immagine fu teletrasmessa nell’ottobre del 1930 e forse portata con sé dall’ambasciatore in Vaticano come testimonianza concreta a sostegno della sua personale esperienza. Entrambe le fotografie, quella trasmessa e quella ricevuta, sono oggi conservate in Biblioteca e presentano una nota manoscritta di Pio XI sul passepartout (Tav. XV)70. Il pontefice prese quinta da R. P. de Reviers da Mauny, commissario del padiglione, seguirono discorsi di Verdier, Lacaze, Lyautey e Reynaud. 67 BAV, R.G. Fotografie, obl. I.22. Album in pelle bianca con armi papali in oro composto da 78 pagine con 99 fotografie alla gelatina di bromuro d’argento accompagnate da relative didascalie manoscritte. Sul verso il copyright di Wide World Photos e di Keystone View Company. Il gruppo di suore e ragazze di colore è visibile nelle foto nrr. 64, 65, 67, 68 (5 giugno, inaugurazione), 76 (16 settembre, messa per la Francia e l’Inghilterra). Alcune delle foto sono pubblicate ad illustrazione del testo di R. P. de Reviers da Mauny, Les heures glorieuses du pavillon des missions catholiques a l’exposition coloniale de Paris en 1931, Paris 1932 (in particolare le ultime pagine). 68 La nr. 67 è verosimilmente la più vicina alla descrizione d’epoca: si vede infatti il cardinale in primo piano e dietro le suore e le ragazze sudanesi. Si veda anche la nr. 68. 69 AAV, Segr. Stato, 1930, rubr. 240, fasc. 3, ff. 121-122, 123, 125. Cfr. I “fogli di udienza” del cardinale Eugenio Pacelli Segretario di Stato, II (1931), a cura di G. Cocco e A. M. Dieguez, Città del Vaticano 2014 (Collectanea Archivi Vaticani, 95), p. 20. 70 BAV, R.G. Fotografie, obl. I.1005: sulla cartellina marrone a matita blu «1930» e a ma-

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di tempo prima di accettare, ma alla fine, dopo le dovute considerazioni, si decise ad accogliere questa nuova invenzione, avendo compreso l’importanza dell’adeguarsi ai moderni processi tecnologici traendone i possibili benefici. Il 29 gennaio 1932 una delegazione dei membri del Consiglio municipale di Parigi fu ricevuta in Vaticano, come ci documenta il resoconto fotografico realizzato da Felici71: in tale circostanza non mancarono di visitare la stazione radio e la sala del belinografo, accolti ancora una volta da padre Gianfranceschi72. Quello del 21 ottobre 1931 non fu comunque il primo esempio di telefotografia in Vaticano. In realtà al 9 ottobre risale un 1° Saggio telefotografico spedito e ricevuto nella Stazione Radio Vaticana in cui fu utilizzata l’immagine del pontefice scattata durante la trasmissione radiofonica della Pontificia Accademia della Scienze dell’aprile dello stesso anno73. Fortuite coincidenze legano comunque i personaggi di queste storie. Un anno dopo la sua venuta in Vaticano, Henri Manuel fotografò l’allora trentottenne Edouard Belin, il quale, nel suo stabilimento a Rueil-Malmaison, mostrava l’utilizzo del belinografo e di un dispositivo di telecinematografia con cui una foto, trasmessa senza fili, veniva visualizzata su uno schermo attraverso un proiettore74. Poco dopo Manuel ritrasse anche il cardinale Maglione, inviato nel 1926 come nunzio apostolico in Francia75 e ovviamente non mancò di immortalare anche il cardinale Verdier in occasione della sua nomina ad arcivescovo di Parigi nel 192976. tita nera «fotogr. trasmesse per Radio», sul passepartout in basso a sinistra scritta autografa di Pio XI «fotogr. trasmesse per radio ottobre 30», di altra mano in alto a destra «telefotografia». Le due fotografie alla gelatina ai sali d’argento sono montate sullo stesso passepartout. 71 BAV, R.G. Fotografie, obl. I.458: album con 5 fotografie alla gelatina ai sali d’argento, sulla coperta si legge La Visita dei membri del Consiglio Municipale di Parigi alla Città del Vaticano, 29 Gennaio 1932. Omaggio della Fotografia Pontificia G. Felici, Roma. 72 Si veda la foto nr. 3. A destra si riconosce l’ambasciatore de Fontenay. 73 BAV, R.G. Fotografie, b. 29 (10): sulla busta annotazione autografa del pontefice ripetuta sul verso della foto con l’aggiunta della data «9.X.31». Lo scatto originale di riferimento è BAV, R.G. Fotografie, b. 29 (9). 74 Su questa invenzione e la nascita della televisione cfr. L. Fournier, Television by the Belin System, in Practical Electrics (March 1924), pp. 244-246; R. Soulard, Édouard Belin et la télévision in Revue de l’histoire des sciences 18, 3 (1965), pp. 265-281; Auffray, Édouard Belin cit. Le fotografie, alcune recanti la firma di Manuel, fanno parte del Nederland Nationaal Archief (collection Het Leven) e sono consultabili alla risorsa elettronica https://www. nationaalarchief.nl. 75 Si veda supra, p. 290 e Tav. XIa. 76 L’immagine devozionale fu all’epoca ampiamente commercializzata attraverso cartoline e santini.

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In conclusione desidero dedicare questo mio breve studio a don Cesare Pasini, essendo quanto mai evidente e vivo il suo legame con Achille Ratti, il “papa bibliotecario”, con il quale, come lui stesso ha sottolineato, si trova «a condividere la cura e l’affetto per due istituzioni»77, la Biblioteca Ambrosiana e la Biblioteca Vaticana, delle quali entrambi sono stati prefetti in secoli diversi. Nonostante per monsignor Ratti fosse scritto un cammino diverso, il libro rimase «il suo riposo e il suo sollievo»78, e questa naturale inclinazione lo accompagnò sempre durante il suo pontificato. L’attaccamento alla conoscenza e la curiosità della scoperta si riversavano nella cura spirituale e fisica del libro quale strumento di apprendimento, riflessione e comunicazione. Un sentimento condivisibile che guida l’attuale prefettura della Biblioteca e l’operato quotidiano di tutto il personale «in quella magnifica e benefica battaglia che combattono per la verità e per il bene, a vantaggio delle intelligenze e dell’umanità»79. Don Cesare nel catalogo alla mostra Conoscere la Vaticana scriveva che «Vivere al di dentro di una istituzione, da prefetto o con qualsiasi altro incarico, è un passo in avanti grandissimo per poterla conoscere […] per respirarne dal di dentro l’aria, percepirne direttamente il clima, coglierne la missione proprio mentre la si sta vivendo»80. Lo spirito umanistico e di universalità, su cui si fonda l’Istituzione, ha trovato nell’evoluzione tecnologica, non un nemico, ma un alleato alla conservazione e alla divulgazione di quella tradizione secolare che la Biblioteca custodisce. L’interesse e la propensione per le innovazioni nel rispetto del passato e, anzi, a favore della sua diffusione, hanno segnato il papato di Pio XI e la prefettura di don Cesare, grande sostenitore di numerosi e importanti progetti di digitalizzazione che conferiscono nuova vita alle antiche e moderne testimonianze del sapere che “dimorano” in Biblioteca, come una storia aperta al futuro.

77 Prefazione di mons. Cesare Pasini ad U. dell’Orto, Pio XI, un papa interessante, Milano 2008, pp. 6-7. 78 Confalonieri, Pio XI cit., p. 241. 79 Con queste parole Pio XI salutò i bibliotecari riuniti nel Salone Sistino nel 1929, cfr. Confalonieri, Pio XI cit., p. 226. 80 Pasini in Conoscere la Biblioteca Vaticana cit., p. 12.

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Tav. I – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, O.A. 667 – Disegni Generali 602. Henri Manuel, Ritratti di Pio XI, disegno a matite colorate e pastelli su carta bianca, 1923 c.

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Tav. II – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 610 (1). Henri Manuel, Pio XI seduto in trono, 1923, fotoriproduzione del 1940-1950.

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Tav. III – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 610 (2). Henri Manuel, Sala Clementina con le guardie svizzere, 1923, fotoriproduzione del 1940-1950.

Tav. IV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 610 (3). Henri Manuel, Sala delle conferenze, 1923, fotoriproduzione del 1940-1950.

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Tav. V – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 610 (4). Henri Manuel, Sala del tronetto, 1923, fotoriproduzione del 1940-1950.

Tav. VI – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 610 (5). Henri Manuel, Operai intenti a ripulire i pavimenti, 1923, fotoriproduzione del 1940-1950.

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Tav. VII – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 610 (6). Henri Manuel, Grotta e santuario di Lourdes nei Giardini Vaticani, 1923, fotoriproduzione del 1940-1950.

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Tav. VIII – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 610 (7). Henri Manuel, Pio XI a passeggio nei Giardini Vaticani in compagnia di mons. Arborio Mella di Sant’Elia, 1923, fotoriproduzione del 1940-1950.

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Tav. IX – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 610 (8). Frontespizio de Le Pèlerin, revue illustrée de la semaine 2493 (4 gennaio 1925), A Sa Sainteté le pape Pie XI, qui vient d’ouvrir à Rome l’Année Sainte du Jubilé, lounge vie et heureux pontificat! (Phot. Manuel).

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Tav. X – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Stampe II.201 (22). Henri Manuel (?), Pio XI seduto in trono di tre quarti, [1923], fotoriproduzione del 1940-1950.

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Tav. XIa – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, Folio V.213 (29). Henri Manuel, Ritratto del cardinale Maglione, gelatina ai sali d’argento, 1926.

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Tav. XIb – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, Folio V.213 (29). Logo editoriale della Galerie d’Art Henri Manuel. Photographie d’art. Chevalier de la Légion d’honneur […], stampato su carta velina, 1926.

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Tav. XII – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 29 (4). G. Felici, Inaugurazione del “belinografo” alla stazione radio vaticana, gelatina ai sali d’argento, 1931.

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PIO XI E LA FOTOGRAFIA

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Tav. XIII – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, obl. I.428 (11), part. G. Felici, Inaugurazione del “belinografo” alla stazione radio vaticana. Dimostrazione del suo funzionamento, gelatina ai sali d’argento, 1931.

Tav. XIV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, b. 29 (7). Discorso dell’arcivescovo Carlo Salotti alla radio vaticana, fotografia teletrasmessa (?), 1931.

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MANUELA GOBBI

Tav. XV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Fotografie, obl. I.1005. Esempio di fotografia teletrasmessa, gelatina ai sali d’argento, 1930.

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SANTO LUCÀ

VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO A NAPOLI Incerto e oscuro è il periodo della formazione intellettuale di Guglielmo Sirleto (Guardavalle, in Calabria, 1514 – Roma, 6 ottobre 1585), l’illustre cardinale di Santa Romana Chiesa (12 marzo 1565) che, come ampiamente noto, fu uno dei protagonisti della politica religiosa della Chiesa e delle vicende culturali della Roma cinquecentesca ruotanti intorno ai lavori del Concilio tridentino, nonché punto di riferimento degli intellettuali di tutta Europa che a lui si rivolgevano per chiedere aiuto e protezione o per essere supportati nelle loro intraprese editoriali1. In effetti, la carenza di fonti non ha permesso agli studiosi che finora si sono occupati del dotto calabrese — la vasta erudizione e la profonda dottrina universalmente riconosciute gli valsero, essendo ancora in vita, l’epiteto di “Calaber sapientissimus”2 — di definire in dettaglio la carriera scolastica e il percorso di studi da lui compiuto, prima del suo arrivo, nel 1539/1540, nell’Urbs da Napoli3. Quel poco che si sa — molte affermazioni sono congetturali non essendo supportate dalle fonti — è riassumibile in poche battute4. Nato nel 1514 1 Cfr. S. Lucà, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, in La Biblioteca Vaticana tra Riforma cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio (1535-1590), a cura di M. Ceresa, Città del Vaticano 2012 (Storia della Biblioteca Vaticana, 2), pp. 144-188 (con bibliografia). Utile, anche se di seconda mano, il quadro presentato da L. Calabretta, Le diocesi di Squillace e Catanzaro. Cardinali, Arcivescovi e Vescovi nati nelle due diocesi, Cosenza 2004, pp. 23-35. 2 Pare che l’epiteto sia stato coniato dal cardinale Gian Pietro Carafa (1536-1555), poi ­Paolo IV (1555-1559), insieme al cardinale Marcello Cervini (1539-1555), ossia papa Marcello II (9 aprile – 1° maggio 1555): D. Taccone-Gallucci, Monografia del cardinale Guglielmo Sirleto nel secolo decimosesto, Roma 1909, pp. 7-8; F. Lo Parco, Il cardinale Guglielmo Sirleto. Notizie bio-bibliografiche, con la pubblicazione del suo testamento inedito (dal Cod. Vat. Barb. lat. 4760 [già LII, 36], ff. 43-46), in Bollettino del bibliofilo 1 (1919), pp. 261-276: 265. Si rimanda anche ai contributi raccolti nel volume collettaneo Il «sapientissimo calabro». Guglielmo Sirleto nel V centenario della nascita (1514-2014). Problemi, ricerche, prospettive [= Atti del Con­vegno, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Corsini – Sala delle Canonizzazioni, 13-15 gennaio 2015], a cura di B. Clausi – S. Lucà, Roma 2018 (Quaderni di Νέα Ῥώμη, 5). 3 Lo si evince da una sua lettera datata 23 giugno 1565, nella quale lo stesso Sirleto asserisce di essere a Roma da ventisei anni: G. Denzler, Kardinal Guglielmo Sirleto (1514-1585). Leben und Werk. Ein Beitrag zur nachtridentinischen Reform, München 1964 (Münchener theologische Studien. I. Historische Abteilung, 17), pp. 5-6 e nt. 1 [l’opera è stata tradotta in lingua italiana per le cure di G. Montillo (Catanzaro 1986)]. 4 Si veda peraltro la sintesi proposta da Denzler, Kardinal Guglielmo Sirleto cit., pp. 3-6.

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a Guardavalle, un piccolo borgo della Calabria ionica reggina, ubicato a pochi chilometri da Stilo in diocesi di Squillace5, crebbe in una famiglia numerosa (sei fratelli e una sorella) e non molto agiata della borghesia locale6. Il padre Tommaso, «dottor famosissimo di medicina»7, poté assicurargli, in rapporto all’epoca e all’ambiente, una educazione primaria e secondaria di buon livello, probabilmente nella stessa cittadina natia o in qualche altro centro della diocesi, forse Stilo o la stessa Squillace8. Cfr. pure Lucà, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, cit., p. 146. Non è dato sapere neppure dove e da chi Sirleto abbia appreso la lingua ebraica. Tuttavia, il cenno allo studio dell’ebraico che occorre in una sua lettera del 1545 (Vat. lat. 6177, parte II, ff. 185r-186r: 185v), nella quale confessa di aver utilizzato una «bibia hebrea» della collezione libraria di Cervini «per che me diletto di studiar’ alcuna volta la lingua hebraica», fa presumere che sia stato probabilmente un autodidatta. 5 Cfr. l’epistola con la quale il Sirleto, non potendo fornire adeguato ausilio, affida al nunzio apostolico nel Regno di Napoli la richiesta di intercessione al viceré della stessa città affinché si adoperasse per arginare i saccheggi che bande di predoni perpetravano di continuo ai danni degli abitanti del «casale di Stilo detto Guardavalle mia patria (…) et di più luogo del mio vescovado in un anno tanto difficile per le cattive raccolte»: Vat. lat. 6946, ff. 141v-142v. La lettera, scritta nel mese di agosto di un anno imprecisato, non è datata, ma databile agli anni 1567-1575, allorché Sirleto, dopo essere stato vescovo di S. Marco Argentano (dal 16 settembre 1566), venne designato vescovo di Squillace il 27 febbraio 1568, al cui governo rinunciò nel 1575. Se così fosse, il viceré andrebbe identificato con Antoine Perrenot de Granvelle (1517-1586), il quale esercitò tale funzione dal 19 aprile 1571 al 18 luglio 1575 ed ebbe buoni rapporti col Sirleto, piuttosto che con Pedro Afán di Ribera, che invece ricoprì la carica negli anni 1559-1571; nel nunzio apostolico, di contro, andrebbe riconosciuto il genovese Antonio Maria Sauli (1541-1623), che fu a capo della nunziatura di Napoli dal 9 novembre 1572 al 15 ottobre 1577, essendo succeduto ad Alessandro Simonetta (novembre 1570-novembre 1572). E poiché nella stessa lettera si fa esplicito riferimento all’affetto che il nunzio nutriva per il Sirleto, si ritiene che l’identificazione col Sauli sia più che fondata. Ne segue che la datazione dell’epistola vada verosimilmente collocata nella forbice temporale compresa fra il 9 novembre 1572 (nomina a nunzio apostolico del cardinale Perrenot) e il 1575 ca., allorché Sirleto abbandonò definitivamente la sede vescovile della diocesi di Squillace. La lettera conservata nel Vat. lat. 6946 viene evocata anche da P. Paschini, Note per la biografia del cardinale Guglielmo Sirleto, in Archivio storico della Calabria 5 (1917), pp. 44-104, confluito poi in id., Tre ricerche sulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Roma 1945, pp. 155-281, col titolo «Guglielmo Sirleto prima del cardinalato», da cui cito, p. 155 e nt. 2, il quale menziona anche un’altra epistola del 10 luglio 1562, già edita dal Taccone Gallucci (Taccone Gallucci, Monografia cit., pp. 25-26), in cui Sirleto ribadisce che era nato «in Guardavalle, la quale come minima parte della diocesi di Squillace è mia patria ed è figliuola della detta diocesi»: ibid. 6 «Peu opulente» la definisce Batiffol, La Vaticane cit., p. 2. Di contro, Domenico Taccone Gallucci riferisce di «nobile famiglia ascritta al patriziato della città di Stilo»: Taccone Gallucci, Monografia del cardinale cit., p. 2 e nt. 4. Cfr. anche Lo Parco, Il cardinale Guglielmo Sirleto cit., p. 262. 7 Si veda l’orazione in morte del cardinale pronunciata a Squillace il 26 ottobre 1585 dal minore conventuale Lattanzio Arturo (Napoli 1586), riprodotta anastaticamente da P. E. Commodaro, in La Provincia di Catanzaro 3 (1985), pp. 218-219. 8 A Stilo pensano Denzler, Kardinal Guglielmo Sirleto cit., p. 5; Lo Parco, Il cardinale Guglielmo Sirleto cit., p. 2; V. Peri, Guglielmo Sirleto e la Chiesa greca, in Rivista storica calabrese, n.s. 8/1 (1987), pp. 145-181: 148-151. Francesco Russo, accanto a Stilo, annovera anche, ma

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In Calabria, probabilmente nella stessa Stilo, un greco di Taranto, a quanto asserisce Pierre Batiffol, gli avrebbe insegnato la lingua greca9. L’affermazione, però, non è suffragata da alcuna prova concreta e allo stato non sembra verisimile. Probabilmente lo studioso francese, che ebbe modo di compulsare gran parte della corrispondenza per lo più ancora inedita del cardinale, reperì la notizia in qualche fonte d’archivio. Lo spoglio (parziale), condotto da chi scrive, del dossier sirletiano di lettere e documenti conservati in Vaticana non ha finora dato alcun riscontro. Non escluderei tuttavia, come si vedrà, che Batiffol abbia dato una lettura cursoria delle epistole indirizzate a Sirleto da Vittorio Tarantino, suo maestro (ma a Napoli, non in Calabria), e abbia scambiato il cognome Tarantino per l’etnonimo10. E d’altro canto, sebbene insolita ed eccezionale fosse la conoscenza del greco, parlato e scritto, nella Calabria dei primi decenni del secolo XVI — a quell’altezza cronologica alcuni dotti calabresi per istruirsi nell’idioma greco emigrarono nel Salento, dove per tutto il secolo XVI la grecità conobbe momenti di robusta floridezza, giacché né la cultura calabro-greca dell’età bizantina, né i fermenti insorti alle corti di Ruggero II, di Federico II e poi degli Aragonesi, né il risveglio ellenistico della Messina umanistica e rinascimentale correlato soprattutto alla figura di Costantino Lascaris hanno esercitato, né avrebbero potuto, in un contesto di assoluto degrado culturale alcun influsso benefico atto a riattivare l’antica tradizione —, non è del tutto inverosimile supporre che nel territorio della diocesi squillacese potesse ancora operare qualche professore di estrazione religiosa più che laica in grado di insegnare adeguatamente le nozioni fondamentali di grammatica e di sintassi della lingua greca. Certo è che a fronte di una labile persistenza del rito liturgico e delle consuetudini della Chiesa bizantina, ora sempre più disseminate di formule proprie del rito latino, tanto nei monasteri cosiddetti ‘basiliani’ quanto senza citare la fonte, S. Caterina dello Ionio, cittadina confinante con Guardavalle e Badolato, in provincia di Catanzaro: F. Russo, La biblioteca del card. Sirleto, in Il Card. Guglielmo Sirleto (1514-1585). Atti del Convegno di Studio nel IV Centenario della morte, Guardavalle – S. Marco Argentano – Catanzaro – Squillace, 5-6-7 ottobre 1986, a cura di L. Calabretta – G. Sinatora, Catanzaro – Squillace 1989, pp. 219-299: 219. Molto più cauta la posizione di Pio Paschini (Paschini, Tre ricerche cit., p. 157), il quale si limita ad affermare che l’educazione giovanile di Sirleto, basata sugli studi letterari, avvenne in Calabria, dove avrebbe appreso anche la lingua greca.   9 P. Batiffol, La Vaticane de Paul III à Paul V d’après des documents nouveaux, Paris 1890, p. 4. 10 Pare che anche Vittorio Peri sia incorso nel medesimo fraintendimento, allorché nella lista dei corrispondenti greci o ellenofoni del cardinale annovera un «Vittorio prete greco di Taranto»: Peri, Guglielmo Sirleto e la Chiesa greca, cit., p. 158 e nt. 55 (a p. 179).

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in varie parrocchie diocesane, l’ignoranza della lingua (greca) è tale che già sin dal secolo XV il cardinale Bessarione, allo scopo di recuperare un minimo di decenza spirituale nella condotta del monachesimo italogreco, diede alle stampe un opuscoletto di precetti morali e spirituali in lingua greca, latina e volgare11, raccomandando anche ai vari egumeni di provvedere all’istruzione dei monaci nella lingua greca. I resoconti della visita compiuta nel 1456/1457 da Atanasio Calceopilo ai monasteri greci di Calabria testimoniano un quadro desolante non solo sul piano dell’osservanza del rito e della condotta morale, ma anche, e soprattutto, dell’incompetenza linguistica12, che risulta ancor più accentuata nel corso del secolo XVI13. Rammento, ad esempio, che il crotonese Giovanni Pelusio frequentò la scuola di Antonio Arcudi a Soleto nella seconda metà del secolo XVI14. Non è attendibile, dunque, l’ipotesi di Pietro Emilio Commodaro secondo cui il futuro cardinale avrebbe imparato il greco nel noto monastero di S. Giovanni Terista (Bivongi, vicino a Stilo)15. Nonostante il fatto che i Sirleto siano stati munifici protettori del ricco e famoso cenobio16, la puntuale relazione del Calceopilo, che ha visitato l’abbazia il 10 novembre 1457, rende poco credibile la congettura — sia l’archimandrita che i monaci, anche quelli di Guardavalle, ignorano completamente la lingua greca17 —, tanto che già Francesco Russo ha avuto gioco facile nel rigettarla18. 11 Mi limito a rimandare a S. Lucà, Il libro greco nella Calabria del sec. XV, in I luoghi dello

scrivere: da Francesco Petrarca agli albori dell’Età moderna [= Atti del Convegno internazionale di studio dell’Associazione Italiana dei Paleografi e Diplomatisti, Arezzo, 8-11 ottobre 2003], a cura di C. Tristano – M. Calleri – L. Magionami, Spoleto 2006, pp. 331-373: 333-338. 12 Le ‘Liber Visitationis’ d’Athanase Chalkéopoulos (1457-1458). Contribution à l’histoire du monachisme grec en Italie méridionale, éd. par M.-H. Laurent – A. Guillou, Città del Vaticano 1960 (Studi e testi, 206). 13 Cfr., ad esempio, la documentazione richiamata in S. Lucà, Il libro bizantino e postbizantino nell’Italia meridionale, in Scrittura e libro nel mondo greco-bizantino, a cura di C. ­Casetti Brach, Bari 2012 (Il futuro del passato, 4) [= Territori della cultura 10 (2012)], pp. 25-76: 30-32. 14 S. Lucà, Guglielmo Sirleto e Francisco Torres, in Il «sapientissimo Calabro» cit., pp. 533-602: 557, 591, 592 e nt. 234, 593 e nt. 235. Sulla produzione letteraria di Pelusio si veda, fra l’altro, P. Manzi, La tipografia napoletana nel ’500. Annali di Giovanni Paolo Suganappo – Raimondo Amato – Giovanni de Boy – Giovanni Maria Scotto e tipografi minori (1533-1570), Firenze 1973 (Biblioteca di bibliografia italiana, 70), pp. 130-132; G. B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, III, parte IV, In Napoli 1755, pp. 271-272. 15  P. E. Commodaro, Il Card. Sirleto (1514-1585), in La Provincia di Catanzaro 3/4 (1985), p. 18 e nt. 4. 16 Lo si evince dalla già menzionata orazione in morte di Sirleto (supra, nt. 7), pronunciata a Squillace da Lattanzio Arturo nella quale, al netto dalla retorica panegiristica, si fa esplicito riferimento a numerose iscrizioni lapidee collocate nel monastero per commemorare vari membri della famiglia: Arturo, Oratione cit., p. 216. 17 Le ‘Liber Visitationis’ cit., pp. 86-95: 86, 87, 91, 93, 94. 18 Russo, La biblioteca del card. Sirleto, cit., p. 219.

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E tuttavia rimane sullo sfondo l’ipotesi che l’insegnamento della lingua sia avvenuto in Calabria, forse grazie ad un precettore (privato), un religioso piuttosto che un laico, magari appartenente a un ordine mendicante, un francescano o un domenicano19, ovvero alla stessa famiglia Sirleto. Il nobile e antico casato, infatti, annoverava fra i suoi componenti alcuni uomini di Chiesa che, accanto al latino e all’italiano, avevano anche dimestichezza col greco20, sicché possiamo convenire con Vittorio Peri sul fatto che la tradizione liturgica e religiosa bizantina facesse parte «del patrimonio ancestrale della stessa famiglia, anche nel più plausibile caso che essa si fosse nel frattempo italianizzata e il giovane Sirleto venisse ordinato nei quattro gradi minori di rito latino»21. 19 Rammento

che il minorita conventuale Stefano Bardari, originario di Stilo, tradusse nel 1624 dal greco in latino il bios di s. Giovanni Terista, allora conservato in un cimelio criptense, ora perduto; a lui si deve anche la versione della Vita Nili, eseguita nel 1623: S. Lucà, Le diocesi di Gerace e Squillace tra manoscritti e marginalia, in Calabria bizantina. Civiltà bizantina nei territori di Gerace e Stilo, Soveria Mannelli 1998, pp. 245-331: 304-305 e nt. 338. Nel 1689 il monaco ‘basiliano’ Gregorio Carnuccio, anch’egli di Stilo, volse dal greco in italiano diverse vite di santi: ibid. Su quest’ultimo, che fu maestro di greco a Grottaferrata, cfr. anche Dei varj opuscoli di D. Grisostomo Scarfò, Dottor teologo Basiliano, parte I, dedicato all’illustrissimo Signor D. Fortunato dei Falletti, conte palatino, in Napoli, per Domenico Raillard, 1722, p. 28. Quanto alla presenza in Calabria di Domenicani e Francescani segnalo, per un primo approccio anche bibliografico, il volume collettaneo La Calabria nel viceregno spagnolo: storia, arte, architettura, urbanistica, a cura di A. Anselmi, Roma 2009, specialmente i contributi di: G. Galasso, La Calabria spagnola (pp. 47-54); E. Novi Chavarria, Ordini religiosi, spazi urbani ed economici nella Calabria spagnola (pp. 537-546); R. Banchini, Francescani e Minimi: architettura in Calabria tra XVI e XVII secolo (pp. 559-592); F. Passalacqua, Città e architettura dei Domenicani nella Calabria del viceregno (pp. 631-645). Cfr. anche I Domenicani in Calabria. Storia e architettura dal XV al XVIII secolo, a cura di O. Milella, Roma 2004; L. G. Esposito, La riforma domenicana in Calabria tra Quattrocento e Cinquecento. Momenti e figure, in S. Francesco di Paola. Chiesa e società del suo tempo [= Atti del Convegno internazionale di studio, Paola, 20-24 maggio 1983], Roma 1984 (Bibliotheca Minima, 1), pp. 43-82. 20 Secondo una notizia veicolata nell’orazione commemorativa per la morte di Sirleto tenuta a Roma da João Vaz da Mota, uno zio di Sirleto sarebbe stato egumeno di un monastero, forse quello di S. Giovanni Terista: Funebris oratio in illustriss. et reuerendiss. S.R.E. cardinalem Gulielmum Sirletum. Habita a Ioanne Vaz Mota Lusitano I.V.D. in aede D. Laurentii in Pane et Perna. Ad illustriss. et reuerendiss. Vincentium Laureum card. Montis Regalis, Romae, Apud Ioannen Osmarinum Giliotum, M.D.LXXXV, p. 127. Il testo integrale è reperibile al sito web: https://www.amazon.com/illustriss…/B07R2C8XCK, da cui cito. Sul casato si veda anche Barb. lat. 4760, f. 9r (Albero delli Sirleti della Città di Stilo): Peri, Guglielmo Sirleto cit., pp. 149-150, nonché Dei varj opuscoli di D. Grisostomo Scarfò cit., pp. 113-143. 21 Vat. lat. 7093, f. 416r: Peri, Guglielmo Sirleto cit., p. 150 e nt. 25 (a p. 175). Sirleto venne ordinato suddiacono il 18 aprile 1565 da Carlo Visconti e sacerdote il 26 ottobre dello stesso anno: ibid., nt. 25 (con bibliografia). Per quanto attiene a circolazione e produzione libraria nella diocesi di Squillace cfr. Lucà, Le diocesi cit. D’altro canto, non sembri inopportuno rammentare come il cardinale si sia adoperato per recuperare all’Occidente sia la tradizione culturale greco-orientale sostenendo, fra l’altro, l’istituzione nel 1573 del Collegio Greco, sia quella del monachesimo italogreco, facendosi promotore, subito dopo l’incarico di “protettore” da parte di Pio V nel 1571, del tentativo di riforma, che ne determinò l’inquadramento

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Sia come sia, verosimilmente dopo aver compiuto il diciottesimo anno di età, e quindi nel 153222, il giovane, distintosi per sagacia e propensione allo studio, al fine di approfondire e completare gli insegnamenti ricevuti si trasferì a Napoli23, che al tempo non solo era capitale vicereale del governo aragonese e centro di vivace fervore intellettuale, imperniato principalmente sulle attività dello Studio e dell’Accademia Pontaniana, ma anche sede di una nutrita e vivace comunità di profughi greci24. Nella città partenopea, ove soggiornò per un settennio, precisamente sino agli anni a cavaliere del 1539/154025, fu ospite della facoltosa famiglia Pignatelnella Congregazione italiana dell’Ordo s. Basilii deliberato nel Capitolo generale del 1579, che si svolse nel monastero di S. Filareto a Seminara con l’elezione del primo Generale nella persona del calabrese Colantonio Ruffo. Nell’uno e nell’altro caso è possibile certamente cogliere una qualche sincera finalità ecumenica, pur con l’obiettivo, non dichiarato, di ricondurre la grecità orientale e il monachesimo ‘basiliano’ nell’alveo delle risoluzioni tridentine e della Chiesa di Roma. Si veda, per il Collegio Greco, Lucà, Guglielmo Sirleto e Francisco Torres, cit., pp. 554-555, 584-590 (con bibliografia) e, per il monachesimo, V. Peri, La Congregazione dei Greci (1573) e i suoi primi documenti, in Studia Gratiana 13 (1967) [= Collectanea Stephan Kuttner, III, ed. by J. Forchielli – A. M. Stickler, Bologna 1967], pp. 129-256; id., Documenti e appunti sulla riforma postridentina dei monaci basiliani, in Aevum 51 (1977), pp. 411-478; P. P. Rodotà, Dell’origine, progresso, e stato presente del rito greco in Italia (…), II, Roma 1760 (rist. Cosenza 1961), pp. 163-171. 22 Denzler, Kardinal Guglielmo Sirleto cit., p. 5 e nt. 14. Cfr. anche l’epistola — citata in Paschini, Tre ricerche cit., p. 157 e nt. 2 —, che lo stesso Sirleto da Roma indirizzò al fratello Girolamo il 12 novembre 1554 (Vat. lat. 6186, f. 18r): «son più di ventidue anni che son fuori di Stilo». Vale la pena di riportare per esteso quanto a tal proposito annotò Gian Grisostomo Scarfò: «Divenuto gramatico e latino e greco andossene a Napoli, dove nei Studj delle Scienze, appalesò la vivacità, e acutezza del suo ingegno», cfr. Dei varj opuscoli di D. Grisostomo Scarfò cit., p. 115. 23 La situazione civile, sociale e culturale della Calabria del tempo e di Guardavalle in particolare non erano confortanti: ristrettezza e arretratezza intellettuale e culturale degli abitanti, strade impervie, rischi anche per la sopravvivenza quotidiana consigliavano, a quanti fossero nelle condizioni di poterlo fare, di trasferirsi in luoghi più accoglienti e civili. Basti qui rimandare alla missiva che il feudatario Giovanni Girolamo Morano indirizzò al Sirleto il 26 marzo 1568, a seguito della nomina (1567) a vescovo di Squillace (Vat. lat. 6184, f. 72r), ovvero alla missiva che il principe di Bisignano scrisse il 13 gennaio 1567 per congratularsi per la nomina a vescovo della diocesi omonima (6 settembre 1566) e, soprattutto, per essere arrivato sano e salvo a S. Marco Argentano (Vat. lat. 6183, f. 43r), ovvero a quella, a proposito delle «male strade» di Calabria, che il cardinale Alessandro Farnese gli inviò il 5 aprile 1568 (Vat. lat. 6181, f. 374r). Per tutto ciò cfr. Batiffol, La Vaticane de Paul III à Paul IV cit., pp. 3-4 e nota 1 di p. 4 (la numerazione dei fogli dei suddetti manoscritti è quella antica). 24 Infra, pp. 334-335. Per il Tafuri Sirleto «imparò nell’Università Napoletana le lettere umane, e le scienze più migliori, e con un tal Capitolo si portò a Roma»: Tafuri, Istoria, III/4, cit., pp. 200-206: 201. 25 Da una lettera del 28 novembre 1539 (Vat. lat. 6189, f. 2r) si apprende che egli in quella data era ancora a Napoli: Paschini, Tre ricerche cit., p. 157 e nt. 3; id., Guglielmo Sirleto e il decreto tridentino sull’edizione critica della Bibbia, Lecco 1935, p. 5; id., Note per la biografia cit., p. 48. Si veda anche la lettera che Sertorio Pepi (Vat. lat. 6184, p. 327) inviò da Napoli a

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li26, svolse attività privata di precettore27, poté nutrirsi della dottrina di maestri famosi e affermati, quali l’agostiniano Agostino Nifo28, il conventuale fra’ Ottaviano da Tagliacozzo per la teologia scolastica, un profugo cretese proveniente da Candia, di cui si ignora il nome, per lo studio della lingua greca29. Certamente nella città partenopea ebbe modo, agevolato dal fatto di saper scrivere e parlare correttamente il greco (circostanza rarissima in quel periodo), di allacciare fecondi e intensi relazioni culturali con alcune fra le personalità più eminenti del tempo, quali Girolamo Seripando (1493-1563) e/o Marcantonio Flaminio (1498-1550), che nella stessa città partenopea soggiornò certamente nel 1515 e poi nel 1540 e che lo segnalò proprio al Seripando30, che a sua volta lo raccomandò a Marcello Cervini, al quale spetta il merito di averlo introdotto nella cerchia degli intellettuali operosi a Roma e quindi nella Biblioteca Vaticana31. Che il quadro delineato dagli studiosi circa il primo trentennio di vita del nostro cardinale nel complesso sia ripetitivo, sovente ipotetico, del tutto carente sul tema della sua formazione giovanile, per oggettiva scarsità Sirleto nel marzo 1565. Sul Pepi cfr. ora F. Pagnani, Fabio Sertorio Pepi. Rimatore dimenticato del XVI secolo, Contursi Terme (SA) 2009. 26 Cfr. Taccone Gallucci, Monografia cit., p. 3. Con tale famiglia i Sirleto avevano ottimi rapporti se nel luglio 1562 Marcello Sirleto († 1594) è il precettore dei due figli di donna Lucrezia Pignatelli: Paschini, Tre ricerche cit., p. 156. 27 Mi limito a rimandare a Paschini, Tre ricerche cit., pp. 166-167. 28 Su di lui rinvio alla voce «Nifo, Agostino» di M. Palumbo, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXVIII, Roma 2013), pp. 547-552. Cfr. anche E. De Bellis, Bibliografia di Agostino Nifo, Firenze 2005 (Quaderni di Rinascimento, 40); Tafuri, Istoria (…), III/I cit., pp. 297-309. 29 Cfr. Dei varj opuscoli di D. Grisostomo Scarfò cit., p. 116; Taccone Gallucci, Monografia cit., p. 4; Lo Parco, Il cardinale Guglielmo Sirleto cit., p. 2; Peri, Guglielmo Sirleto e la Chiesa greca, cit., p. 152; Russo, La biblioteca cit., p. 219. Osservo che i vari autori non indicano le fonti su cui fondano le loro affermazioni. Solo per il maestro cretese Batiffol menziona l’orazione funebre di Lattanzio Arturo: Batiffol, La Vaticane cit., p. 218, ripreso da Peri, Guglielmo Sirleto e la Chiesa greca, cit., p. 151. 30 Paschini, Tre ricerche cit., p. 158; Denzler, Kardinal Guglielmo Sirleto cit., p. 6; Lucà, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, cit., p. 146 e nt. 7 (a p. 177). Sul Seripando cfr. la voce di M. Cassese, «Seripando Girolamo», in Dizionario biografico degli Italiani, XCII, Roma 2018, ad loc.; H. Jedin, Gerolamo Seripando: Sein Leben und Denken im Geisteskampf des XVI. Jahrhunderts, Würzburg 1937, ora in trad. italiana, col titolo «Girolamo Seripando. La sua vita e il suo pensiero nel fermento spirituale del XVI secolo, a cura di G. Colombi – A. M. Vitale, I-II, Brescia – Roma 2016; A. Marranzini, Il cardinale Girolamo Seripando, arcivescovo di Salerno, legato pontificio al Concilio di Trento, Salerno 1994; id., Guglielmo Sirleto e Girolamo Seripando: due amici nella Chiesa del Cinquecento, in Il Card. Guglielmo Sirleto cit., pp. 51-121. 31 Le informazioni sul periodo ‘romano’ sono cospicue e nel complesso note, sebbene non sia stato compulsato tutto il materiale archivistico concernente il cardinale e non siano stati approfonditi adeguatamente diversi aspetti e problemi della sua poliedrica attività. Per avere un primo, sommario quadro, è sufficiente rinviare alle voci bibliografiche citate in questo lavoro.

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di fonti32, è innegabile. Poiché la storia non si costruisce con i «se»33, è evidente che nuovi e validi tasselli tanto per confortare o smentire le ipotesi sopra formulate, quanto per arricchire e completare le nostre conoscenze sul porporato calabrese potranno venire soltanto dall’auspicabile edizione integrale dell’«epistolario Sirleto», dal vaglio dei numerosi materiali d’archivio che giacciono ancora inesplorati34, dalla riconsiderazione della sua attività in campo scientifico, non sempre valutata come avrebbe meritato soprattutto per il fatto che egli non diede alle stampe quasi nulla. Ne trarrebbe sicuro vantaggio lo studioso che vorrà (ri)scrivere una nuova e più completa biografia, che non si limiti soltanto alla registrazione, ancorché indispensabile, dei dati evenemenziali ma che anche indaghi il contributo fornito dal porporato al progresso degli studi scritturistici, patristici, agiografici e di storia della Chiesa e il ruolo che egli svolse — ponendosi sempre, come artefice e catalizzatore, sovente dietro le quinte, di ogni intrapresa — al servizio del papato in tutte le urgenze della Chiesa cinquecentesca. Ciò anche al fine di puntualizzare le dinamiche della sua azione e di contestualizzare più efficacemente le vicende del Concilio di Trento — ne fu protagonista e insieme interprete fedele e inflessibile — e i riverberi che le stesse risoluzioni tridentine, non di rado da lui stesso ispirate per il tramite del legato pontificio Marcello Cervini, comportarono sino ai nostri giorni. Lungi dal voler colmare tali lacune, qui ci si prefigge soltanto di far compiere un piccolo passo in avanti alle nostre conoscenze sul periodo che il cardinale, «calabro di nascita ma greco di erudizione ed ellenista di carriera»35, trascorse a Napoli. Grazie alle notizie fornite da due epistole 32 Scarne e nel complesso banali, quando non anche errate, sono le notizie che si ricavano dalla Vita Sirleti, scritta forse da un suo nipote, mons. Fabrizio Sirleto, e conservata ora nell’Ambr. G 350 inf. (int. 6): C. Marcora, Il Cardinal Sirleto nei documenti della Biblioteca Ambrosiana, in Il Card. Guglielmo Sirleto (1514-1585) cit., pp. 183-198 e 199-216 (Appendice). Vi si racconta concisamente della nascita a Stilo, della famiglia «non ricca», della dimora nella città natale sino all’età di vent’anni dopo «hauer fatto studio et profitto grande nella humanità», del trasferimento a Napoli, relativamente al quale si dice che «fu mandato dal padre a Napoli con pensiero de studiare legi civili et canoniche, dove dimorò per spacio de dui anni»: ibid., p. 199. A Napoli, invero, dimorò almeno 7 anni. Fabrizio Sirleto guidò la diocesi di Squillace negli anni 1603-1635: Calabretta, Le diocesi di Squillace e Catanzaro cit., pp. 48-49. 33 Sul concetto di «storia fatta con i se» rinvio da ultimo alle ineccepibili puntualizzazioni di G. Sergi, Antidoti all’abuso della storia. Medioevo, medievisti, smentite, Napoli 2010, pp. 16, 41, 74. 34 Si vedano, ad esempio, i documenti d’archivio elencati, ma finora solo parzialmente utilizzati, presso R. De Maio, La Biblioteca Apostolica Vaticana sotto Paolo IV e Pio V (15551565), in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. Card. Albareda a Bibliotheca Vaticana edita, Città del Vaticano 1962 (Studi e testi, 219), pp. 265-313, riedito in id., Riforme e miti nella Chiesa del ‘500, Napoli 1973 (Esperienze, 17), pp. 313-363 (= Napoli 19922, [Saggi, 38]). 35 Cfr. Taccone Gallucci, Monografia cit., p. 29, che riprende le parole di P. Batiffol, L’Abbaye de Rossano. Contribution à l’histoire de la Vaticane, Paris 1891, p. 27.

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inedite è possibile conoscere almeno il nome del maestro (o meglio di uno dei maestri) di lingua greca del dotto ellenista di Guardavalle durante il settennio napoletano, e tentare anche di illuminare, sebbene per via induttiva, l’ambiente nel quale e col quale egli ebbe modo di istruirsi e confrontarsi. I vettori di dette epistole sono il Vat. gr. 2124 e il Vat. gr. 1890I, che custodisce anche materiali approntati in Vaticana per Sirleto. Le due missive non recano la data topica e cronica, ma, essendo indirizzate a Sirleto cardinale — la nomina risale al 12 marzo 1565 sotto il pontificato di Pio V —, sono certamente da collocare negli anni seguenti a quell’anno36. Tutte e due, inoltre, non fanno cenno alla città di Napoli, limitandosi l’una, quella conservata nel Vat. gr. 2124, a recare la firma Βικτώρις ὁ ποτέ σοι ἐλάχιστος διδάσκαλος, l’altra invece, a consegnare nell’intestazione il nome del mittente: Βικτώριος Ταραντένος. Si tratta, come si può osservare nelle riproduzioni (tavv. 1 e 2) di una stessa persona: l’esame paleografico non lascia spazio a incertezze; ché anzi l’identità è così evidente che appare financo superfluo farne una analitica dimostrazione. Il tessuto grafico, privo com’è di legamenti arditi, mostra una mano occidentale, che conosce le più usuali abbreviazioni tachigrafiche, ma scrive con ductus lento, quasi incerto e impacciato, che la non perfetta disposizione delle righe accentua, facendo presumere uno scrivente attempato. Il nome di battesimo è Vittorio; il cognome — piuttosto che l’etnonimo — è Ταραντένος. Questa voce, però, non è attestata né come cognome né come aggettivo; non risulta documentata, del resto, neppure quella di Tαραντῆνος. Occorre, dunque, ritenere che il lemma corretto sia Tαραντῖνος e che l’autore della lettera, pensando allo scambio itacitisco di ι/η, abbia scritto coscientemente Ταραντένος facendo propria la dizione etacistica/erasmiana, che si era già affermata nel primo Cinquecento. L’oscillazione ε/η ovvero η/ε, comune nel Cinquecento, è certificata, ad esempio, nella lettera inviata al cardinale da un anonimo compagno di studi, nella quale occorre la voce ἡρωδιός invece del corretto ἐρωδιός («airone»)37. Tarantino, come già detto, può essere tanto un cognome quanto un aggettivo, col significato di originario della città di Taranto. E tuttavia, nel caso specifico è indubitabile, a mio parere, che si tratti proprio di un cognome, peraltro molto diffuso nel meridione d’Italia, non soltanto in 36 Cfr.

l’edizione: infra, Appendice, nrr. I-II. gr. 1902, f. 395r-v. Anche questa epistola non reca datazione cronica o topica. Cfr. infra, Appendice, nr. III. Si può congetturare che la scuola napoletana di greco, e comunque il professor Tarantino, avesse fatta propria tale oscillazione. Analogo errore fonetico occorre anche nella trascrizione da lui eseguita dell’epitafio per s. Basilio Magno, ove al verso 36 il medesimo scrive τηλόθη in vece del corretto τηλόθι o τηλόθε: infra, Appendice, nr. IVa. (p. 351). 37  Vat.

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Puglia, almeno sin dal secolo XI38. All’altezza cronologica qui considerata appare difficile che il vocabolo possa essere utilizzato per indicare l’etnico: i nomi greci in genere, anche quelli provenienti dal Levante, si accompagnano sempre al cognome. Al di là della testimonianza inequivoca della lettera conservata nel Vat. gr. 1890, confortano l’asserzione altre due occorrenze che evocano il nostro διδάσκαλος: un’edizione a stampa apparsa a Napoli nel 1526 pubblica, fra l’altro, nella parte introduttiva due serie di distici elegiaci, entrambe attribuite a Vittorio Tarantino «Βικτωρίου τοῦ Ταραντίνου»39; l’epistola custodita al f. 395r-v del Vat. gr. 1902 (tav. 3) rende noto che l’anonimo mittente è stato allievo di Tarantino insieme al cardinale, cui si rivolge implorando sostegno economico proprio in nome del comune maestro, oramai scomparso: «Μέμνησο πάλιν, καὶ μυριάκις δέομαι, καὶ λιτανεύω τῶν τοῦ Βικτορίου (!) τοῦ Ταρεντίνου ποδῶν τε, καὶ ὀστῶν, κοινοῦ νῷν διδασκάλου κτλ.»40. Nell’uno e nell’altro caso, a parte le coordinate cronologiche desumibili dalla documentazione superstite che ben si adattano 38 Si veda, ad esempio, quanto ha scritto a proposito del notaio Γεώργιος ὁ Ταραντῖνος, che compare in un bifoglio insiticio del Vat. gr. 1574 (ff. 4r-5v: 5v), A. Jacob, Les annales du monastère de San Vito del Pizzo, près de Tarente, d’après les notes marginales du Parisinus gr. 1624, in Rivista di studi bizantini e neoellenici, n.s. 30 (1993), pp. 123-153: 150-153; id., Tra Basilicata e Salento. Precisazioni necessarie sui menei del monastero di Carbone, in Archivio storico per la Calabria e Lucania 68 (2001), pp. 21-52: 30-34. Contra A. Doda, Osservazioni sulla scrittura e sulla notazione musicale dei Menaia ‘carbonesi’, in Scrittura e Civiltà 15 (1991), pp. 185-204: 200-202; id., Menaia ‘carbonesi’ e metodo paleografico, in Römische historische Mitteilungen 39 (1996), pp. 61-82: 64-77. 39 Cfr. infra, 326. 40 Cfr. infra, Appendice, nr. III (pp. 344-347). Si presti attenzione al fatto che in greco la forma Ταρεντῖνος, a meno che non sia un errore per Ταραντῖνος, è un hapax. Il nome greco della città di Taranto è Τάρας/Τάραντος: è sufficiente rinviare allo Scylitzes Continuatus [= E. T. Tsolakes, Ἡ συνέχεια τῆς χρονογραφίας τοῦ Ἰωάννου Σκυλίτση, Θεσσαλονίκη 1968, p. 168] e alle occorrenze registrate nella versione on line del ThLG della Irvine University. Una sola volta, stante alla fonte or ora citata, occorre la forma Τάρας/Ταρεντός: Eustathii Thessalonicensis Commentarium in Dionysii periegetae orbis descriptionem, § 376 [ed. K. Müller, Geographi Graeci minores, II, Paris 1861]. Ritengo che lo studente napoletano, già compagno di Sirleto, il quale mostra, come si vedrà, di aver acquisito un buon bagaglio culturale e di aver letto e assimilato testi greci e latini, d’età classica e tardoantica, abbia adoperato la variante latina Tarentinus da Tarentus/Tarentum. Si tratta, insomma, di una semplice fluttuazione linguistica del cognome Tarantino/Tarentino, la cui origine toponomastica è palese. Il cognome Tarantino, se ne è fatto cenno, è diffuso specialmente in Puglia, soprattutto a Taranto e Brindisi, ma anche in tutto il Meridione d’Italia (Campania, Sicilia, Calabria, Basilicata). Di un Secondo Tarentino, del resto, riferisce Tafuri, Istoria (…), III/2, cit., pp. 102-103; mentre un Giovanni Tarantino chiese in prestito l’Organon di Aristotele a Casole, come si legge nel Taur. C III 17, cfr. il recente contributo di M. Chiriatti, El typikón de San Nicolás de Casole: un monasterio, un scriptorium y una biblioteca, in Estudios bizantinos 4 (2016), pp. 107-121: 111 e nt. 37. Si tratta forse del Giovanni Tarentino, discepolo di Cavoti, che è menzionato in F. A. Arcudi, Galatina Letterata (…), in Genova 1709, p. 63, ora in id., Galatina Letterata, a cura di L. Di Mitri – G. Manna, Maglie 1993, p. 63 (ristampa anastatica).

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alla stessa persona, il nome Vittorio è seguìto da ὁ Ταραντίνου/Ταρεντίνου, che segnala inequivocabilmente il cognome della famiglia. Ma ritorniamo al contenuto della corrispondenza di Tarantino al cardinale. Nell’epistola conservata nell’attuale Vat. gr. 2124, il maestro, esprime il proprio rammarico per non aver avuto da parte del cardinale riscontro alcuno alle sue precedenti missive e rinnova l’invito ad essere informato se nel frattempo gli siano state recapitate quelle sue stesse lettere e le γνῶμαι τοῦ μεγάλου Γρηγορίου, cioè carmi imprecisati di Gregorio di Nazianzo, che egli stesso aveva trascritto e vòlto in versi italiani. Aggiunge di aver temuto per la salute e la stessa vita del porporato sulla base di voci discordanti, ma ora, avendo ricevuto notizie confortevoli, manifesta la propria contentezza. Chiede poi se le sue conoscenze di lingua e letteratura greca possano essere di qualche utilità a qualcuno presso lo stesso cardinale (Βουλοίμην

εἰδέναι εἴπερ παρὰ σοί δυναίμην εἴς τινα χρήσιμος εἶναι τοῖς ἐμοῖς ἑλληνικοῖς γράμμασιν). Non dissimile è il tenore complessivo dell’epistola custodita nel Vat. gr. 189041. Il maestro, rivolgendosi all’allievo, che si era distinto fra tutti i suoi scolari sia per la mitezza del carattere e i modi garbati di comportamento, sia per capacità di apprendimento e istruzione (πρoσφιλέστατε ἐμοὶ πάντων τῶν ἐμῶν μαθητῶν καὶ διὰ τοὺς τρόπους καὶ τὴν παιδείαν), rinnova il proprio dispiacere per non aver avuto risposta alle sue reiterate missive, né da parte dei corrieri che riteneva affidabili, né da parte del cardinale. Sono andati delusi, perciò, tanto la possibilità di condividere col cardinale un κεφάλαιον allegato a quelle stesse lettere, quanto il suo proposito di recarsi a Roma per rivedere e salutare il valente discepolo. Glielo impedisce la povertà, non la vecchiezza: egli è sì vecchio per la canizie e per gli anni, non certo per la vigoria (fisica e mentale)! Dopo i saluti di rito, viene aggiunto una sorta di post scriptum, in cui il mittente elenca partitamente le γνῶμαι del Nazianzeno che ha spedito al cardinale, affinché valuti se la versione italiana in endecasillabi dei predetti carmi sia degna di essere data alle stampe, e cioè i carmi monostici, distici e tetrastici, nonché l’epitafio per Basilio Magno (Εἴη σοι τὴν ἐπιστολὴν ταύτην ἐπιδοθῆναι, ἁπάσας τὰς τοῦ Γρηγορίου τοῦ μεγάλου γνώμας καὶ μονοστίχους καὶ διστίχους καὶ τετραστίχους μετέγραψα ἐν ἐνδεκασυλλάβοις ἱταλικοῖς [sic!], ὡς τὰδε [sic acc.] τὰ ἐπιτάφια εἰς τὸν μέγαν Βασίλειον). Ribadisce infine che alla richiesta di trasferirsi a Roma e di vivere presso il cardinale non è stato dato riscontro. Quel che emerge di più significativo dalla lettura delle due lettere può 41 Sul

manufatto e la lettera rinvio anche a P. Canart, Codices Vaticani Graeci. Codices 1745-1962, I: Codicum enarrationes, in Biblioteca Vaticana 1979, pp. 499-520: 501-503 (vi); id., Codices cit., II: Introductio, Addenda, Indices, Città del Vaticano 1973, p. liii.

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essere così riassunto: Vittorio Tarantino ha insegnato lingua greca al porporato calabrese; egli è anziano ma, a suo dire, ancora dinamico; è così indigente da dover implorare l’aiuto dell’ex discepolo per trasferirsi a Roma, dove la sua competenza nelle lettere greche potrebbe essere di qualche giovamento presso la corte pontificia e/o la Vaticana in eventuale intrapresa editoriale o, piuttosto, avrebbe potuto svolgere attività di precettore; infine, ha curato e trasmesso al cardinale la versione italiana delle sententiae di Gregorio, che una delle due lettere, quella del Vat. gr. 1890, elenca in modo particolareggiato. Per una serie di felici e fortuite circostanze il manoscritto, che è latore, pur parziale, di tali carmi, si conserva tuttora in Biblioteca Vaticana. Si tratta di una sezione (ff. 339r-364v) dell’attuale Vat. gr. 1896 (tavv. 4-5), che è stato analiticamente descritto a stampa dal compianto Paul Canart42. Ne presento qui i dati essenziali, rimandando per altri dettagli al catalogo dell’insigne Maestro. La parte che qui ci interessa, la nr. XI nel catalogo, misura mm 145 x 106 e consta di ff. 32, attuali ff. 339-370 (sono vacui i ff. 345r-v, 356r, 365v, 366v-370v). Databile alla seconda metà del secolo XVI, grazie al conforto della filigrana della carta che risulta utilizzata, ad esempio, a Salerno, fra gli anni 1568/157543, conserva i carmi nazianzenici registrati nella lettera del Vat. gr. 1890, con testo greco e versione italiana in endecasillabi sciolti, precisamente: (ff. 339r-343v. 366r [vv. 4750]) Ἐπιτάφια τοῦ μεγάλου Γρηγορίου εἰς τὸν μέγαν Βασίλειον (Epitaphium in s. Basilium = Carm. II 2, 119: PG 38, coll. 72A1-75A8; Anth. Pal. 8, 2-11; BHG3, 245b); (ff. 343r-344v) Τοῦ αὐτοῦ μονόστιχοι παραινετικοί (Carme I 2, 30: PG 37, coll. 908 A14-910 A10); (ff. 344v. 346r-355v. 356v-365r; sono bianchi i ff. 345r-v, 356r, 365v) Τετράστιχα τοῦ αὐτοῦ (Carm. I 2, 33: PG 37, coll. 927A8-945A10)44. Vi mancano, tuttavia, le sententiae in distici, vale a dire il carme I 2, 31 o il carme I 2, 3245, che ricerche mirate, condotte nella stessa Biblioteca dei papi, potrebbero forse un giorno portare alla luce, a meno che non siano andate definitivamente perdute. In ogni caso, dal momento che nel Vat. gr. 1896 i carmi conservati si snodano senza soluzioni di continuità, è da credere che le γνῶμαι δίστιχοι fossero contenute nella parte iniziale, andata 42 Canart,

Codices cit., I, pp. 546-554: 554 (xi) in cerchio con corona (ff. 340 + 343) pressoché identica al tipo Briquet 7112: Canart, Codices cit., I, p. 554. 44 Per quanto attiene alla disposizione del testo greco e della versione italiana e alla sua valutazione si rimanda all’edizione presentata in Appendice IV. 45 Carm. I 2, 31: Γνῶμαι δίστιχοι (inc. Γυμνὸς ὅλος …, expl. …ἔξοχά σοι μελέτω), PG 37, coll. 910 A11-915 A8; Carm. I 2, 32: Γνωμικὰ δίστιχα (inc. Ἀρχῆς καλῆς …, expl. …βίου μεμηνότες), ibid., coll. 916 A1-927 A7. 43 Giglio

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smarrita, dell’attuale manufatto, ovvero che siano state spedite separatamente e poi ugualmente disperse. Che il manufatto Vaticano sia proprio quello vergato dal Tarantino e inviato al cardinale in lettura per l’eventuale pubblicazione dei testi nazianzenici versati in lingua italiana è inconfutabile. Dissipa ogni dubbio anche un semplice, fugace confronto della scrittura — si vedano gli specimina qui editi alle tavv. 4-5 — con quella delle due lettere (tavv. 1-2). Impianto grafico complessivo, struttura morfologica delle singole lettere, disegno, ductus, nonché uso di abbreviazioni tachigrafiche, o di iota sottoscritto, qualche piccolo errore di iotacismo e di scambio tra omicron e omega, confermano l’assunto. Si presti attenzione, fra l’altro, alle forme di gamma maiuscolo ad asta alta, di kappa maiuscolo — i cui tratti obliqui eseguiti in un solo tempo formano un occhiello che oltrepassa il tratto verticale — di phi con anello angoloso, e così via. Al di là dell’identificazione, quel che resta del cimelio originario fornisce un valido dato cronologico, da collocare verosimilmente — si sono viste le ragioni — nell’arco cronologico compreso tra il 1568 e il 1575. Alla stessa altezza cronologica risale la stesura delle due lettere, le quali tuttavia vennero esemplate qualche mese o anno dopo la trascrizione del codicetto, che si configura come un prodotto allestito per scopo personale46. Il manoscritto nella sua attuale consistenza costituisce, invece, una miscellanea assemblata in Vaticana con materiali appartenuti al cardinale e rimasti nella stessa istituzione dopo la sua morte, alla stessa stregua di quanto è avvenuto per le miscellanee, anch’esse ‘sirletiane’, che recano la segnatura Vat. gr. 1862, 1890, 1898, 1949, tutte descritte da Paul Canart47. Occorre ora affrontare il problema del dove, quando e come il professor Vittorio Tarantino si è formato e ha svolto il proprio magistero, e di riflesso conoscere su più solide basi anche gli studi compiuti dallo stesso cardinale calabrese, ricostruendo tentativamente il contesto culturale complessivo. Che abbia operato a Napoli durante il periodo che il giovane studente Sirleto vi trascorse, dal 1532 al 1539/154048, è certo. Come già ricordato, il Vat. gr. 1902 trasmette una lettera di un anonimo interlocutore — il tentativo di identificarlo sulla base della sua scrittura 46 Cfr. a proposito anche l’intuizione di Paul Canart che annotò «Haec folia [scil. ff. 339365v] a viro quodam docto in usum proprium sunt transcripta, ut puto»: Canart, Codices cit., I, p. 554. 47 P. Canart, Les “Vaticani Graeci 1487-1962”. Notes et documents pour l’histoire d’un fonds de manuscrits de la Bibliothèque Vaticane, Città del Vaticano 1979 (Studi e testi, 284), pp. 89-90; id., Codices cit., I-II, ad indicem. 48 Supra, p. 316.

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non ha finora dato esito — indirizzata al cardinale calabrese (εὐσεβέστατε καὶ τιμιώτατε τῶν Ἀρχιεραρχῶν κορυφαῖε Συρίλετε)49, dal cui esame si evincono spunti significativi per rispondere ai nostri quesiti. L’ignoto mittente fa sfoggio di una buona erudizione; scrive nel complesso, a parte qualche errore fonetico (iotacismo) e di scambio di quantità (omicron/omega), un greco di discreta fattura, pur presentando qualche asperità sintattica; palesa conoscenze di prima mano di: Omero, Sinesio, Malala, Physiologus, Orazio, nonché, sebbene siano menzionati soltanto i nomi, Demostene, Demetrio Falereo, Apollonio Molone, la cui ars oratoria egli evoca per poter celebrare degnamente il dotto calabrese, che per la sua vasta e profonda erudizione e cultura in campo religioso (θεῖα ἀγχίνοια) viene celebrato come astro dell’Italia e dell’intera ecumene, avendo conseguito, al pari dell’aquila che vola altissimo (ἀετὸς ὑψιπετής), vette eccelse nell’esegesi sacra (θεία ἀναγωγή), partendo e volando primieramente, come fa l’airone, in basso, nel fango melmoso50. Dopo l’enfatico e retorico omaggio, egli chiede al cardinale, in nome del defunto Vittorio Tarantino, maestro di entrambi a Napoli — Μέμνησο πάλιν, καὶ μυριάκις δέομαι, καὶ λιτανεύω τῶν τοῦ Βικτορίου (sic!) τοῦ Ταρεντίνου ποδῶν τε, καὶ ὀστῶν, κοινοῦ νῷν διδασκάλου ἐν τῇ Παρθενόπῃ, ὡς ἂν καὶ ἐμοὶ τῆς μνήμης ταύτης ἕνεκα, ἀγαθόν τι εὐποιήσῃς, καὶ τῷ εὐσεβεστάτῳ Μαϊοράνῳ εὖ πράττειν παρ’ἐμοῦ λέγειν ἀξιώσῃ κτλ.51 —, di essere aiutato finanziariamente (ὡς ἂν καὶ τὶ ἀργυρίδιον ἐπιπέμψῃς), giacché, essendo ammalato, è costretto a letto per l’artrite e non può raggiungere Roma, di cui dottamente evoca il mito veicolato, fra gli altri, da Giovanni Malala, che collega le origini dell’Urbs a Valentia sul Foro Boario, nei pressi della Bocca della Verità (ὥστε μὴ εἰς τὴν Βαλεντίαν ἐξωχωτάτην (!) τῶν πόλεων, καὶ Ῥώμην ἔπειτα καλουμένην, μὴ ἀφικέσθαι πώποτε). Conclude rinnovando la supplica al cardinale di adoperarsi per lui e di portare i suoi saluti, e quindi essere raccomandato, all’εὐσεβέστατος Niccolò Maiorano. Del resto, egli sa molto bene che gli scritti di Dionigi Areopagita, di Gregorio (di Nazianzo) e di molti altri famosi scrittori cristiani nutrono giorno e notte (ἐπιτρέφειν) l’ex collega di studi (Sirleto), o piuttosto, e forse meglio, ma soltanto se si condivide la dotta lezione originaria (ἐπιστρέφειν), egli è ben informato del 49 Sul cimelio, che raccoglie materiali sirletiani assemblati in Vaticana, cfr. Canart, Codices cit., I, pp. 587-615: 611 «incerti epistula ad G. Sirletum, inc. Τὸ περιβόητον… (auctor loquitur de Victore Tarentino, sui ipsius et Sirleti professoris linguae graecae Neapoli); id., Codices cit., II, p. 172. 50 Cfr. l’edizione con commento presentata in Appendice, nr. III (pp. 344-347). 51 «Ancora (cioè, ripeto), ricordati (di me), e ti prego infinitamente, e ti supplico per i piedi e le ossa di Vittorio Tarentino, comune maestro di entrambi a Napoli, che in virtù di questo ricordo tu mi ti mostri in qualche modo benevolo e ti degni di salutare da parte mia il reverendissimo Maiorano ecc.».

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fatto che Sirleto volge per le mani notte e giorno le opere (…) dei predetti autori cristiani e di molti altri, alludendo probabilmente ai versi 268-269 dell’Ars poetica di Orazio: «Vos exemplaria graeca / nocturna versate manu, versate diurna»52. Ma v’è di più. Nella stessa città partenopea venne pubblicata nel 1526 per il torchio dell’editore napoletano Antonio de Fritiis53, la versione in latino, con testo greco e commento, del De virtute morali di Plutarco, che aveva curato il duca di Atri e di Teramo e conte di Conversano, Andrea Matteo III Acquaviva (1457-1529), illustre accademico pontaniano e munifico mecenate di letterati e artisti54, dedicandola ai Caracciolo principi di Melfi, e cioè il testo a Tristano Caracciolo, che di Andrea Matteo fu consuocero, e il commento al figlio di questi, Giovanni55. L’edizione, invero, venne data alle stampe grazie alle premure di Giovanni Antonio Donato Acquaviva (14851554), duca di Gioia del Colle (BA) e terzogenito di Andrea Matteo: lo si evince dalla epistula praefatoria di Pietro Summonte, al quale il rampollo di Andrea Matteo si era rivolto per un consiglio56. Essa, inoltre, è corredata da 52 Vat.

gr. 1902, f. 395v «Τῶν τοῦ Διονισίου (!), καὶ Γρηγορίου, καὶ τῶν ἄλλων τῆς θείας γραφῆς ἐνδόξων ξυγραφέων τὰ ἐπιτηδεύματα, καὶ χριστιανὰ σὲ ἐπιτρέφειν (ex ἐπιστρέφειν) νύκτας τε, καὶ ἡμέρας, ἀκριβέστατα αὐτὸς οἶδα». L’allusione oraziana mi è stata suggerita da Antonio Rollo, che ringrazio. 53 Sull’editore (1517-1526) rimando a P. Manzi, La tipografia napoletana nel ‘500. Annali di Sigismondo Mayr – Giovanni A. De Caneto – Antonio De Frizis – Giovanni Pasquet de Sallo (1503-1535), Firenze 1971 (Biblioteca di bibliografia italiana, 62), pp. 167-181: 174, 189-191, 218-218 nr. 30. Nell’Indice dei nomi edito da id., La tipografia (…). Annali di Mattia Cancer ed eredi (1529-1595), Firenze 1972 (Biblioteca di bibliografia italiana, 65), pp. 167-181: 174, viene registrato il nostro Vittorio Tarantino. 54 Plutarchi De Virtute morali libellus Graecus. Eiusdem libelli translatio per Illustriss. Andream Matth. Aquiuiuium Hadrianorum Ducem. Commentarium ipsius Ducis in eiusdem libelli translationem in libros quatuor diuisum. Index totius operis, qui singillatim materias in uno quoque libro contentas ostendit, Neapoli ex officina Antonii de Fritiis Corinaldini ciuisque Neapo. summo ingenio artificis Anno MDXXVI Iunio Mense. Ac fideliter omnia ex archetypis Hadrianorum Ducis ipsius manu scriptis [ho consultato l’esemplare conservato in Biblioteca Apostolica Vaticana con la segnatura «Stamp. Barb. J.V.92»]. Sull’edizione cfr. V. Bindi, Di Giovanni Antonio Acquaviva conte di Gioia e di una rara edizione napoletana del principio del sec. XVI, in Rivista delle Biblioteche 4 (1891), pp. 157-159; Dizionario biografico degli Italiani, I, Roma 1960, pp. 185-187 (Andrea Matteo Acquaviva) e pp. 196-197 (Giovanni Antonio Donato); V. Bindi, Gli Acquaviva letterati, Napoli 1881; infra, p. 326 e nt. 57. 55 F. Fabris, La geneaologia della famiglia Caracciolo, a cura di A. Caracciolo, Napoli 1966, ad indicem; F. Petrucci, Caracciolo, Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, XIX, Roma 1976, pp. 377-380. 56 Di Pietro Summonte (1453-1526) si sa che fu discepolo di Giovanni Pontano — alla sua morte (1503) gli subentrò alla guida dell’Accademia Pontaniana in Napoli sino al 1526, allorché ne prese il posto Jacopo Sannazaro —, insegnò nell’Università napoletana, raccolse e curò la pubblicazione, tra il 1505 e il 1512, delle opere del maestro, ed ebbe anche il merito di aver salvato l’Arcadia del Sannazaro. Si veda anche infra, p. 332.

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una Praefatio (inc. «Socrates ille sapientissimus»), dall’epistola citata del Summonte «P. Summontius Antonio Donato Aquivivo: Ioviano comiti S.» (pp. Aii-Aiiiv), nonché da due serie di distici elegiaci attribuiti al nostro Vittorio Tarantino (p. Aiiiv), anch’essi dedicati a Giovanni Antonio Donato57. Di questi ultimi versi si riproduce qui il testo:         Βικτωρίου τοῦ Ταραντίνου. Ὑψιμέδων Ζεὺς κηδόμενος μάλ’ ἑῶν θεραπόντων,     ἄγγελον ἀθανάτων λαμπροτάτῳ Δονάτῳ ἰοβιήων ἡγεμονῆι δαίφρονι πέμπεν,     ὅφρ’ ἐλθὼν εἴπῃ οἱ Κρονίδου τάδ’ ἔπη. Σὸς γενέτης πολύμητις δόξης οὐκ ἀλεγίζει.     Τῷ ῥ’ἑὰ τοῖς ἄλλοις οὐκ ἐθέλει παρέχειν. ἀλλὰ τύποις αὐτοῦ ἀέκοντος ἄνωγα σὺ κοίνου,     ἥδ’ ἀνθρώποις καὶ Ζηνὶ χάρις μεγάλη.                 Τοῦ αὐτοῦ Ἥ ῥα μέγιστον ὀφείλεθ’ ὑμεῖς μεγαλήτορες ὑῖες   Ῥωμαίων, Δαναῶν οἱ φιλέοντες ἴχνη, ἀδριανῶν πολέμων εὖ εἰδότι ἡγεμονῆι,   ὅττ’ ἠθῶν ἀρετῆς οἷμον, ἐόντα μάλα παιπαλόεντά τε καὶ χαλεπὸν, μέτ’ ἀπείρονας ἄθλους,   θῆκεν ἅπασιν ὑμῖν ῥηίδιον πολύ γε.

Una seconda edizione della traduzione di Andrea Matteo Acquaviva del plutarcheo Περὶ ἠθικῆς ἀρετῆς è stata pubblicata in Germania nel 1609 presso l’editore Johann Theobald Schönwetter (1575-1657)58. Questa intrapresa conserva — oltre il testo greco (pp. 1-12), la versione latina (pp. 57 Oltre alla bibliografia citata nella nota 54, sull’edizione si vedano le precisazioni fornite da F. Tateo, Chierici e feudatari del Mezzogiorno, Roma – Bari 1984, pp. 79-80; id., Sulle traduzioni umanistiche di Plutarco. Il «De virtute morali» di Andrea Matteo Acquaviva, in Filosofia e cultura. Per Eugenio Garin, I-II, a cura di M. Ciliberto – C. Vasoli, Roma 1991, I, pp. 195-211 (note a pp. 211-214): 197 e nt. 7 [a p. 212]. Un semplice cenno occorre anche presso F. Becchi, Le traduzioni latine dei Moralia di Plutarco tra XIII e XVI secolo, in Plutarco nelle traduzioni latine di età umanistica [= Seminario di studi, Fisciano, 12-13 luglio 2007], a cura di P. Volpe Cacciatore, Napoli 2009 (Strumenti per la ricerca plutarchea, 8), pp. 9-52: 38 nt. 106. Cfr. anche F. Tateo, «Socrates ille sapientissimus»: la dedicatoria originale di Andrea Matteo Acquaviva in un codice adespoto di Plutarco, in Roma nel Rinascimento (2006), pp. 115-119. Non vi è menzione, invece, nel volume collettaneo Gli scritti di Plutarco: tradizione, traduzione, ricezione, commento [= Atti del IX Convegno internazionale della International Plutarch Society, Ravello, 29 settembre-1° ottobre 2001], a cura di G. Pace – P. Volpe Cacciatore, Napoli 2013 (Collectanea, 32). 58 Andreae Matthaei Aquivivi Principis omnibus belli, & pacis artibus Excellentissimi Hadrianorm, interamnatumqve Ducis (…) in Plutarchi Chaeronei De virtute morali (…) Iam pridem exoptatum, & nunc primum in Germania editum, Helenopoli, Apud Iohannem

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17-35), l’epistola dedicatoria ai Caracciolo (pp. 36-39), l’epistola del Summonte (pp. 40-42) e i versi del Tarantino (p. 43), cui seguono il commento e l’index —, una praefatio di Giulio Belli (Iustinopolitanus)59 indirizzata al cardinale e arcivescovo napoletano Ottavio Acquaviva senior (1560-1612)60 — inc. «Omnem Rempublicam pacis artibus»… — in memoria dell’illustre antenato, un elogio allo stesso Matteo Andrea Acquaviva di Paolo Giovio (1483-1552), Novocomensis episcopus Nucerinus61 (inc. «Nemo ex his, qui, illustribus orti familiis»…), due componimenti di 10 versi ciascuno in distici elegiaci di Actius Syncerus Sannazarius (il napoletano Jacopo Sannazaro)62, nonché dieci versi in distici di Bartolomeo Lato, Arlu­nensis63. Theobaldum Schônvvetterum Anno M. DC.IX. Sull’editore cfr. Deutsche Biographie, https:// www.deutsche-biographie.de/pnd122448197.html [22.04.2019]. 59 Sul compositore conventuale Giulio Belli (1560-1621) si rimanda alla voce «Belli [Bello, Del Bello], Giulio» di A. M. Monterosso Vacchelli, in Dizionario biografico degli Italiani, VII, Roma 1970, pp. 657-660. Qui è forse opportuno rammentare che egli è stato allievo del poeta e musicista Giovanthomaso Cimello (1510-1591) proprio a Napoli certamente prima del 1569: M. Lopriore, voce «Cimello, Tommaso (Giovanthomaso)», in Dizionario biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, pp. 560-562. Il Cimello, a seguito di alcuni screzi, poi sanati, con Annibale Zoilo (1537-1592), valente musicista e persona di fiducia di Sirleto, indirizzò una lettera al cardinale: R. Casimiri, Lettere di musicisti al cardinale Sirleto (1579-1585), in Note d’archivio 9/2 (1932), pp. 97-111: 97. Su Zoilo cfr., ad esempio, R. Casimiri, Annibale Zoilo e la sua Famiglia, in Note d’archivio per la storia musicale 17 (1940), pp. 1-25; L. Navarrini Dell’Atti, Nuovi cenni biografici su Annibale Zoilo, in Anuario Musical 41 (1986), pp. 105-136; M. Croci, Il Libro secondo de madrigali a quattro et a cinque voci di Annibale Zoilo, in La cartellina. Musica corale e didattica 32 nr. 180 (sett.-ott. 2008), pp. 21-35. Fra i poliedrici interessi culturali di Sirleto occorre, dunque, annoverare anche quello per la musica. 60 La nomina a cardinale risale al 1591, mentre la designazione ad arcivescovo di Napoli al 1605. Su di lui, che è stato anche buon letterato ed ebbe un ruolo fondamentale nel riordinamento del Seminario, cfr. V. Bindi, Gli Acquaviva letterati. Notizie biografiche e bibliografiche, Napoli 1881, pp. 157-162; R. De Maio, Le origini del Seminario di Napoli, Napoli 1958, p. 222, e la voce «Acquaviva d’Aragona, Ottavio» in Dizionario biografico degli Italiani, I, Roma 1960, p. 198. 61 La nomina a vescovo di Nocera è del 1528. Circa lo storico, diplomatico e cortigiano comasco, autore fra l’altro delle Historiae sui temporis, I-II, in officina Laurentii Torrentini Ducalis typographi, Florentiae 1550-1552 [ora riedite in Pauli Iovii Historiarum sui temporis, I-II/1, a cura di D. Visconte, Roma 1957 e 1964; II/2, a cura di D. Visconte – P. Zimmermann, Roma 1985], e ottimo collaboratore dei Medici e dei Farnese (nella chiesa di S. Lorenzo a Firenze, dove morì e fu sepolto, proprio all’ingresso che porta alla Biblioteca Laurenziana è posto il suo sarcofago con epigrafe), mi limito a citare la voce «Giovio, Paolo» di T. C. Price Zimmermann, in Dizionario biografico degli Italiani, LVI, Roma 2001, pp. 430-440. Vd. anche id., Paolo Giovio: The Historian and the Crisis of Sixteenth-Century Italy, Princeton 1995 (rist., in versione italiana, Milano 2012). 62 I: inc., «Cernis, vt exultet patriis Aquivivus in armis»…; …expl. «sed nomen factis quaerere, et ingeniis»; II: inc. «Moesta Bituntino duxerunt otia Nymphae»…; expl. …«et lucebit ubi Sol, Aquivivus erit». Sull’illustre umanista cfr. la voce «Sannazaro, Iacopo» di C. Vecce, in Dizionario biografico degli Italiani, XC, Roma 2017, ad loc. 63 Inc. «Dum grauis incumbit fauos Aquivivus in hostes»…; expl. … «Ni citharam ut,

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Quasi tutti i personaggi che compaiono nelle due stampe del De virtute morali plutarcheo sono figure ben note di letterati e intellettuali del Cinquecento napoletano, che furono legate per un verso o per l’altro all’Accademia Pontaniana e allo Studio. Napoli in quel tempo rappresentava per le genti del Mezzogiorno d’Italia, in ispecie per coloro che intendevano acculturarsi, la «palestra delle lettere e delle scienze»64. Come molti altri giovani calabresi — oltre al già menzionato Giovanni Paolo Parisio [= Aulo Giano Parrasio] di Cosenza65, ci si riferisce, ad esempio, ai fratelli Martirano di Cosenza [Coriolano (1503-1557) e Berardino (1490 ca.-1548)], Domenico Pizzimenti (1520-1592) di Vibo Valentia, Giovambattista Modio di Santa Severina (1550 ca.–1560), Gabriele Barrio (1506 ca.-1577ca.) di Francica (CZ), Antonio Lauro di Amantea (1498-1577), Vincenzo Lauro (1523-1592) di Tropea — anche il diciottenne Sirleto si trasferì nella città partenopea per studiare all’Università66. La mancanza di testimonianze impedisce di stabilire precise e circostanziate relazioni da lui intrattenute con l’ambiente culturale del tempo. È lecito ritenere, tuttavia, che gli amici del maestro siano stati anche i suoi interlocutori privilegiati e che nei circoli intellettuali della città egli abbia avuto modo di allargare e approfondire lo spettro delle sue conoscenze fino a imporsi all’attenzione di molti e diventare punto di riferimento per buona parte della società colta del Regno. A Napoli, come peraltro anche a Roma, Firenze e Genova, la conoscenza del greco non era molto diffusa nel primo Cinquecento e pochi erano in grado di leggere speditamente i manoscritti67: lo attesta il medesimo quantum classica, semper ames?» [qui e altrove ho citato dall’esemplare conservato nella Biblioteca dei papi con segnatura «Stamp. Barb. L.VII.12»]. Circa il teologo e filologo belga Bartolomeo Latomo [Steinmetz] (1498-1570), detto Arlumensis, giacché nativo di Arlon, il quale scrisse varie poesie e commentò Cicerone (Orazioni) e Terenzio, si veda: Storia ecclesiastica di Monsignore Claudio Fleury, VII, Siena 1787, pp. 14-15; Dizionario storico, portatile che contiene (…), IV, Bassano 1790, p. 15; Nuovo dizionario storico ovvero Biografia classica universale, III/1, Torino 1835, p. 338. Il commento a Cicerone è stato pubblicato a Basilea nel 1539 (Ex officina Roberti Winter), quello a Terenzio a Venezia nel 1545 (Apud Hieronymum Scotum). 64 Taccone Gallucci, Monografia cit., p. 3 e nt. 7 (con bibliografia). 65 Sull’umanista cosentino la bibliografia è molto vasta; si vedano le voci annoverate, ad esempio, in Aulo Giano Parrasio, De rebus per epistolam quaesitis (Vat. Lat. 5233, ff. 1r-53r), Introduzione, testo critico e commento filologico a cura di L. Ferreri, Roma 2012 (Libri, Carte, Immagini, 7), e in M. R. Formentin, Aulo Giano Parrasio alla scuola di Giovanni Mosco, in A.I.O.N. Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Sezione filologicoletteraria 27 (2005) [= Parrhasiana III: tocchi da huomini dotti. Codici e stampati con postille di umanisti. Atti del III seminario di studi, Roma, 27-28 ottobre 2002], pp. 15-23 (da usare con cautela in merito alle attribuzioni dei manoscritti). 66 Denzler, Kardinal Guglielmo Sirleto cit., p. 5 e nt. 14. 67 Si veda, ad esempio, quanto riferisce il gesuita tedesco Johannes von Reidt (Rethius):

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cardinale in una lettera a Cervini, che reca la data 18 giugno 155268. Ciò non di meno, la città partenopea conobbe proprio in quel periodo un vigoroso rigoglio umanistico — basti qui solo menzionare, ad esempio, i nomi di Jacopo Sannazaro (1457-1530) che successe al Summonte nella guida dei pontaniani, Giano Anisio (1475ca.-1540), Scipione Capece (1480-1551), Berardino Rota (1509-1574), Camillo Porzio (1525-1603), tutti noti letterati napoletani69 —, la cui cifra si può cogliere tanto nella intensa attività editoriale di tipografi, primo fra tutti il tedesco Sigismondo Mayr, quanto nella presenza di una folta schiera di letterati e grecisti, alcuni dei quali si erano giovati dell’insegnamento di Sergio Stiso di Zollino, in Terra d’Otranto70. Questi, com’è noto, svolse un ruolo fondamentale nella diffusione della civiltà ellenica fra ’400 e ’500 e coltivò ottime relazioni anche con il leccese Galateo, ossia Antonio De Ferrariis (1444-1517), autore del noto De situ Japigiae71. Fra i suoi numerosi discepoli che operarono o interagirono col milieu culturale napoletano, ricordo qui, fra gli altri, il cosentino Aulo Giano Parrasio (1470-1522) che seguì le sue lezioni a partire dal

V. Peri, Ricerche sull’“Editio princeps” degli atti greci del concilio di Firenze, Città del Vaticano 1975 (Studi e testi, 275), p. 51 e nota 13. 68 Vat. lat. 6177, ff. 159r-162v: 145v, in cui trovandosi a Napoli e verificando che un giovane aveva dimestichezza con la lingua greca, Sirleto tentò di convincerlo che il «Nazanzeno era un bel scrittore». Cfr. anche G. Mercati, Cenni di A. del Monte e G. Lascaris sulle perdite della Biblioteca Vaticana nel sacco del 1527. Seguono alcune lettere del Lascaris, in Miscellanea Ceriani, Milano 1910, pp. 607-632, rifluito in id., Opere minori: III (1907-1916), Città del Vaticano 1937 (Studi e testi, 78), pp. 130-153: 137 e nt. 2, 144; Peri, Guglielmo Sirleto e la Chiesa greca, cit., p. 148. Del resto, la controprova è data dalla carenza di pubblicazioni a stampa di grammatiche e classici greci sin grosso modo alla fine del Quattrocento: C. De Frede, I lettori di umanità nello studio di Napoli durante il Rinascimento, Napoli 1960, pp. 109-110. 69 Si vedano le rispettive «voci» nel Dizionario biografico degli Italiani. 70 A. Jacob, Sergio Stiso de Zollino et Nicola Petreo de Curzola. À propos d’une lettre du Vaticanus gr. 1019, in Bisanzio e l’Italia. Raccolta di studi in memoria di Agostino Pertusi, Milano 1982, pp. 154-168; C. M. Mazzucchi, Diodoro Siculo fra Bisanzio e Otranto (cod. Par. gr. 1665), in Aevum 73 (1999), pp. 385-421: 386; D. Speranzi, Per la storia della libreria medicea privata. Giano Lascaris, Sergio Stiso di Zollino e il copista Gabriele, in Italia medioevale e umanistica 48 (2007), pp. 77-111; P. Pellegrino, Sergio Stiso tra Umanesimo e Rinascimento in Terra d’Otranto, Galatina 2012, pp. 47-52. 71 F. Lo Parco, Sergio Stiso grecista italiota e accademico pontaniano del secolo XVI, in Atti dell’Accademia Pontaniana 24 (1919), pp. 217-236; C. Vecce, Esercizi di traduzione nella Napoli del Rinascimento, II. Alessandro d’Afrodisia, Altilio e Galateo, in Annali dell’Istituto Universitario Orientale (sezione romanza) 32 (1990), pp. 103-137; M. Santoro, Tristano Caracciolo e la cultura napoletana della Rinascenza, Napoli 1957 (Biblioteca del «Giornale italiano di filologia», 7), p. 41 e nt. 54 (bibliografia); D. Arnesano, S. Nicola di Casole e la cultura greca in terra d’Otranto nel Quattrocento, in La conquista turca di Otranto (1480) tra storia e mito [= Atti del Convegno internazionale di studio, Otranto – Muro Leccese, 28-31 marzo 2007], I, a cura di H. Houben, Galatina 2008, pp. 107-140: 133-138.

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148372, il soletano Matteo Tafuri (1492-1584)73, Francesco Cavoti di Soleto († 1581)74, il corcirese Nicola Petreio (1486-1568)75, il galatinese Marcantonio Zimara (1470 ca.-1532)76, il melpignanese Niccolò Maiorano77 e lo stesso Andrea Matteo III Acquaviva (1458-1529)78. La versione in latino del De virtute morali — il testo greco a quel che pare riproduce quello dell’edi72 F. Lo Parco, Aulo Giano Parrasio. Studio biografico-critico, Vasto 1899; C. De Seta, L’Accademia cosentina, Cosenza 1965, pp. 53-60; T. Cornacchioli, Nobili, borghesi e intellettuali nella Cosenza del Quattrocento, Cosenza 1985, pp. 81-88; C. Fanelli, Il contributo dato alla storia e alla cultura italiana degli umanisti dell’Accademia cosentina, in Tra storia e letteratura. Atti del Primo Decennio (1993-2003) del Premio «Galeazzo di Tarsia», a cura di D. Cozzetto, Cosenza 2004, pp. 53-65: 54-56; F. D’Episcopio, Aulo Giano Parrasio fondatore dell’Accademia Cosentina, Cosenza 1982. 73 L. Rizzo, Il pensiero di Matteo Tafuri nella tradizione del Rinascimento meridionale, Presentazione di F. Tateo, Roma 2014 (Renascentia, 2), specie pp. 145-195; Tafuri, Historia (…), III/3, cit., pp. 97-109 (con bibliografia). Si veda anche G. Gabrieli, Bartolomeo Chioccarello e la biografia degli scrittori napoletani nel sec. XVII, in Rendiconti della R. Accademia Nazionale dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche, ser. VI, 4 (1929), pp. 596-626; P. Canart, Un copiste expansif: Jean Sévère de Lacédémone, in Studia codicologica, hrsg. von K. Treu, Berlin 1977 (Texte und Untersuchungen, 124), pp. 117-139: 136-137, confluito ora in id., Études de paléographie et de codicologie, Reproduites avec la collaboration de M. L. Agati et M. D’Agostino, I, Città del Vaticano 2008 (Studi e testi, 450), pp. 285-317: 304-305; G. Vallone, Restauri salentini, in Bollettino storico di Terra d’Otranto 1 (1991), pp. 143-178: 153-159. 74 A. Jacob, Un nouveau manuscrit des Hymnes orphiques et son copiste, François Cavoti de Soleto, in L’Antiquité classique 52 (1983), pp. 246-254; id., scheda sul Casan. gr. 264 in Codici greci dell’Italia meridionale, a cura di P. Canart – S. Lucà, Roma 2004, nr. 73 (= p. 150); S. Parenti, Liturgie bizantine a confronto in una lettera di Francesco Cavoti del 1570 e nei suoi Memoriales libelli per la Congregazione dei Greci del 1577, in Studi sull’Oriente cristiano 22/2 (2018), pp. 45-71. 75 D. Arnesano, Copisti salentini del Cinquecento, in «Colligite fragmenta». Studi in memoria di Mons. Carmine Maci, a cura di D. Levante, Campi Salentina 2007, pp. 83-94: 93; Tafuri, Historia (…), III/I, cit., pp. 118-128; De Frede, I lettori di umanità cit., p. 99. 76 B. Nardi, Marcantonio Zimara e Teofilo Zimara: due filosofi galatinesi del Cinquecento, in Archivio storico pugliese 8 (1955), pp. 121-159, confluito in id., Saggi sull’aristotelismo padovano dal sec. XIV al XVI, Firenze 1958, pp. 322-355; L. Carbone, Della fama di Marcantonio Zimara e della fortuna editoriale dei suoi Problemata. Annotazioni aggiunte alla bibliografia di e su Zimara, in Il Delfino e la Mezzaluna 5/6-7 (2018), pp. 111-140. Vd. anche Manzi, La tipografia (…). Sigismondo Mayr cit., pp. 202-204. 77 Infra, Appendice, nr. III (p. 347) e nt. 147 con relativo contesto. 78 R. Moscheo, Matematica, filologia e codici in una lettera della fine del XVI secolo, in Helikon 33-34 (1993-1994), pp. 159-241: 170; Tafuri, Historia (…), III/I, cit., pp. 21-28; Tateo, Chierici e feudatari cit., p. 77 e nt. 2; id., Sulla cultura greca di Matteo Acquaviva, in Territorio e feudalità nel Mezzogiorno rinascimentale. Il ruolo degli Acquaviva tra XV e XVI secolo [= Atti del Primo Convegno Internazionale di studi su «La Casa Acquaviva d’Atri e di Conversano», Conversano – Atri, 13-16 settembre 1991], a cura di C. Lavarra, I, Galatina 1995 (Biblioteca di Cultura Pugliese, 96), pp. 31-38; D. Defilippis, Un feudatario letterato: Andrea Matteo Acquaviva, in Il territorio a sud-est di Bari in età medievale. Società e ambiente [Catalogo della mostra, Conversano, Museo Civico, maggio-ottobre 1983], a cura di V. L’Abbate, Fasano di Brindisi 1983, pp. 183-187.

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zione aldina del 1509 curata da Demetrio Ducas79 — testimonia non solo della riscoperta dell’Occidente dello scrittore di Cheronea80, ma anche i variegati interessi eruditi di Andrea Matteo Acquaviva, che si esplicarono anche nella committenza di libri manoscritti latini e greci81 e contribui79 Tateo, Chierici e feudatari cit., p. 79 e nt. 29. Un’altra versione dell’opuscolo plutarcheo, probabilmente ignota al duca di Atri, era stata eseguita nel 1497 dall’umanista bresciano Carlo Valgulio (1440-1498) e riedita poi a Venezia nel 1505 «per Bernardinum Venetum de Vitalibus»: ibid., p. 79 e nt. 29. 80 Le prime traduzioni latine dei Moralia, tuttavia, datano tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento: Becchi, Le traduzioni latine dei Moralia cit., pp. 38-39 e nt. 106. Sulla ricezione plutarchea si veda, con bibliografia, il recente volume A Companion to the Reception of Plutarch, ed. by S. Xenophontos – K. Oikonomopoulou, Leiden – Boston 2019 (Classical Reception, 20). Pare opportuno qui osservare che, nonostante Enrico Aristippo nella lettera prefatoria alla sua traduzione del Fedone segnali fra i libri manoscritti presenti nella Sicilia normanna la disponibilità di Philosophica (…) Plutarchi, forse proprio i Moralia, il Mezzogiorno d’Italia di lingua greca non ne ha conservato, a quel che mi consta, nessun testimone né in ambito calabro-siculo, né in quello salentino. Invero, la proposta di attribuire all’Italia meridionale la copia del Vind. philol. gr. 129 e del Laur. Ricc. 45 avanzata da Guglielmo Cavallo (G. Cavallo, La trasmissione scritta della cultura greca antica in Calabria e in Sicilia tra i secoli X-XI. Consistenza, tipologia, fruizione, in Scrittura e Civiltà 4 [1980], pp. 157-245: rispettivamente 192 e 230-232; id., La cultura italo-greca nella produzione libraria, in I Bizantini in Italia, Milano 1982, pp. 495-612: 541 e 558, 588), appare, a mio parere, non condivisibile per ragioni paleografiche. Il Vindobonense risulta vergato da due mani coeve — A ff. 1r-146v. 148r-195v; B ff. 147r-v. 196r-246v — che paiono doversi assegnare piuttosto alla Costantinopoli della seconda metà avanzata del secolo XI, o tutt’al più agli anni a cavaliere dei secoli XI e XII (la scrittura di B è una elegante minuscola corsiveggiante che anticipa i ‘nuovi’ stili del secolo XI/XII); il Riccardiano, invece, che del Vindobonense è copia, è databile alla prima metà del secolo XIV e ascrivibile alla stessa capitale dell’impero bizantino. Del resto, anche la scrittura degli interventi marginali e/o di restauro (sec. XIII ex.) del Vindobonensis esibisce (cfr., e.g., f. 1r) caratteristiche di netto stampo costantinopolitano. Sui due cimeli rinvio a S. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione testuale del De tranquillitate animi di Plutarco, Firenze 2006 (Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria». Studi, 232), rispettivamente pp. 94-95 e tav. V (scheda nr. 55 sul Ricc.: dove sono avanzate caute riserve sull’origine italogreca del cimelio), e pp. 42-45 (scheda nr. 249 sul Vind.), con bibliografia. Circa la notizia riportata da Aristippo, si veda anche ibid., p. 94 nt. 360; B. Zucchelli, Petrarca, Plutarco e l’«Institutio Traiani», in L’eredità culturale di Plutarco dall’Antichità al Rinascimento [= Atti del VII Convegno plutarcheo, Milano – Gargnano, 28-30 maggio 1997], a cura di I. Gallo, Napoli 1998 (Collectanea, 16), pp. 205-206 e nt. 12; Becchi, Le traduzioni latine dei Moralia cit., p. 11 e nt. 2; Cavallo, La cultura italo-greca cit., p. 577. — Ringrazio il collega Rudolf Stefec per avermi procurato diversi facsimili del codice Vindobonense, che avevo esaminato de visu nel lontano 2002. 81 Cfr. T. De Marinis, Un manoscritto di Tolomeo fatto per Andrea Matteo Acquaviva, Verona 1956; Cavallo, La cultura italo-greca cit., p. 607; A. Jacob, scheda nr. 74 sul Neap. II A 35 (Libro d’Ore: an. 1500), in Codici greci dell’Italia meridionale, cit., p. 151, e scheda nr. 75 sul Neap. III D 12 (Alessandro di Afrodisia, esemplato dal sacerdote Angelo Costantino di Sternatia nel 1523): ibid., p. 152 (con segnalazione di altri manufatti commissionati dal duca di Atri). Si veda inoltre H. J. Hermann, Manoscritti miniati della biblioteca del duca Andrea Matteo III Acquaviva d’Aragona, a cura di C. Lavarra, Galatina 2013 (Gli Acquaviva tra Puglia e Abruzzi, 1), e C. Bianca, La biblioteca di Andrea Matteo Acquaviva, in Gli Acquaviva

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rono efficacemente al rilancio della cultura umanistica anche attraverso l’apporto da lui fornito allo sviluppo della tipografia napoletana. Egli, del resto, fu socio attivo dell’Accademia Pontaniana82 — a lui il fondatore Giovanni Pontano (1429-1503) dedicò il De magnanimitate e il primo libro del De rebus coelestibus — e ben noto mecenate di artisti e letterati del tempo83. Fra gli umanisti che collaborarono con Andrea Matteo III Acquaviva occorre annoverare Pietro Summonte, il quale, s’è già detto, non solo ha prefato l’edizione del De virtute morali del 1526, ma ha anche avuto il merito, una volta subentrato al maestro alla guida dell’Accademia, di recuperare e dare alle stampe le opere del fondatore, intervenendo non di rado, come è stato sottolineato, con correzioni e aggiustamenti propri, e quindi «lesivi della volontà dell’autore e come tali inammissibili»84. Intesserono fecondi rapporti di collaborazione, non solo per vincoli di parentela, col duca di Atri anche Tristano Caracciolo e il figlio Giovanni, ai quali venne dedicata la versione dell’operetta plutarchea. Tristano (1434/1439-1522), fra l’altro, non solo è stato letterato e umanista, membro dell’Accademia Pontaniana e allievo e biografo dello stesso Pontano, ma ebbe anche contatti con personaggi influenti della corte aragonese, ad esempio il letterato napoletano Diomede Carafa (1406-1487), e con illustri intellettuali, quali Antonio De d’Aragona, Duchi di Atri e Conti di S. Flaviano [= Atti del sesto Convegno del Centro abruzzese di Ricerche storiche], I, Teramo 1985, pp. 158-173. 82 S. Furstenberg-Levi, The Fifteenth Century Accademia Pontaniana – An Analysis of its Institutional Elements, in History of Universities, XXI/1, Oxford 2006, pp. 33-77: 52, 67 e nt. 101; F. Tateo, Andrea Matteo Acquaviva e Giovanni Pontano: divergenze parallele, in Biblioteche nel regno fra Tre e Cinquecento [= Atti del Convegno di Studi, Bari, 6-7 febbraio 2008], a cura di C. Corfiati, Lecce 2009, pp. 15-28. 83 F. Tateo, La cultura alla corte degli Acquaviva, in Paolo Fenoglio e il suo tempo. Un pittore napoletano alla corte degli Acquaviva, Napoli 2000, pp. 59-62; id., Aspetti della cultura feudale attraverso i libri di Andrea Matteo Acquaviva, in Società, cultura, economia nella Puglia medievale [= Atti del Convegno di Studi «Il territorio a sud-est di Bari in età medievale», Conversano, 13-15 maggio 1983], a cura di V. L’Abbate, Bari 1985, pp. 371-384. M. Della Sciucca, Mutamenti estetici nei trattati di Andrea Matteo III Acquaviva d’Aragona e Luigi Dentice, in Rivista italiana di musicologia 31/1 (1996), pp. 33-51. Si sa, del resto, che per Andrea Matteo III Acquaviva lavorò il miniatore Reginaldo Piramo di Monopoli: A. Perriccioli Saggese, Piramo, Reginaldo, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXXIV, Roma 2015, al sito web «http:// www.treccani.it/enciclopedia/reginaldo-da-monopoli-pirano_(Dizionario-Biografico)». 84 Fra i numerosi lavori sull’argomento segnalo qui soltanto, a titolo esemplificativo, L. Monti Sabia, La mano di Pietro Summonte nelle edizioni postume di Giovanni Pontano, in Atti dell’Accademia Pontaniana, n.s. 34 (1986), pp. 191-204; ead., Manipolazioni onomastiche del Summonte in testi pontaniani, in Rinascimento meridionale e altri studi in onore di Mario Santoro, a cura di F. D’Episcopo [et alii], Napoli 1987 (Testi e Studi di letteratura italiana, 23), pp. 293-320; ead., Pietro Summonte e l’editio princeps delle opere del Pontano, in L’Umanesimo umbro [= Atti del IX Convegno di studi umbri, Gubbio, 22-23 settembre 1974], Perugia 1977, pp. 451-473: 460 (citazione virgolettata). Per un quadro d’insieme sull’eredità pontaniana si veda De Frede, I lettori di umanità cit., pp. 113-149 (cap. IV).

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Ferrariis (1444-1517), Francesco Elio Marchese (1448 ca.-1517), Pietro Gravina (1452 ca.-1526)85. Se ora volgiamo lo sguardo all’edizione del 1609, si evince che i ‘nuovi’ letterati che vi collaborarono con propri scritti, ossia Giulio Belli che ne scrisse la prefazione, Paolo Giovio che aggiunse un proprio elogio agli Acquaviva, Jacopo Sannazaro, alias Actius Syncerus, e Bartolomeo Lato che, invece, pubblicarono dei versi encomiastici, si formarono a Napoli e/o si rapportarono con gli ambienti culturali del circolo pontaniano86. Nella città del resto operò intensamente e proficuamente anche lo Studio. Fondato nel 1224 da Federico II, «il primo sovrano moderno dell’Europa medievale»87, l’istituzione pubblica, che disponeva di un rigoroso regolamento per il reclutamento degli studenti e dei professori e per la scelta delle discipline impartite, si prefiggeva innanzi tutto attraverso lo studium universale di formare funzionari — giudici, avvocati, grammatici — che potessero educare, amministrare e porsi alla guida dell’amministrazione del regno88. Esso esercitò, quindi, pur tra alterne vicende, un ruolo di prim’or85 Cfr. la voce «Caracciolo, Tristano» curata da F. R. Hausmann per il Dizionario biografico degli Italiani, XIX, Roma 1976, pp. 463-467. Vd. anche Santoro, Tristano Caracciolo cit., specialmente pp. 6-9 e nt. 2 (bibliografia), 10 e nt. 3 (opere manoscritte), 45-49 (ambito culturale); G. Vitale, L’umanista Tristano Caracciolo ed i principi di Melfi, in Archivio storico per le province napoletane, ser. III, 2 (1962), pp. 343-381: L. Tufano, Tristano Caracciolo e il suo “discorso” sulla nobiltà. Il regis servitium nel Quattrocento napoletano, in Reti medievali 14/1 (2013), pp. 211-261: 213-215 e nt. 18 (bibliografia); C. Corfiati, Il Principe e la Fortuna: note sul De varietate fortunae di Tristano Caracciolo, in Acta Conventus Neo-Latini Upsaliensis. Proceedings of the international Congress for Neo-Latin Studies, Uppsala, 2009, ed. by A. Steiner [et alii], Leiden – Boston 2012, pp. 307-316: 309 nt. 12 (bibliografia); ead., La fortuna e la storia: figure tragiche in Tristano Caracciolo, in Il principe e la scena. Metafore del potere tra antico e moderno, a cura di G. Distaso, Bari 2014, pp. 46-51; ead., Esiti tragici nella scrittura di Tristano Coriolano, in Comico e tragico nella vita del Rinascimento [= Atti del XXVI Convegno internazionale, Chianciano – Pienza, 17-19 luglio 2014], a cura di L. Secchi Tarugi – F. Cesati, Firenze 2016, pp. 217-226; ead., Dal Petrarca al Pontano: l’umanesimo di Tristano Caracciolo, in Humanistica 11/1-2 (2016), pp. 105-120. 86 Cfr. supra, pp. 326-327 e relativo contesto. Sul Giovio cfr. inoltre M. De Nichilo, Dal Pontano al Giovio: l’Historia di Girolamo Borgia, in La storiografia umanistica, I/2 [= Atti del Convegno internazionale, Messina, 22-25 ottobre 1987], Messina 1992, pp. 699-729: 702-707; F. Minonzio, Paolo Giovio: una bibliografia, in Paolo Giovio. Elogi degli uomini illustri, Torino 2006, pp. xcix-cvi; P. Giovio, Gli elogi degli uomini illustri, a cura di R. Meregazzi, Roma 1972. 87 G. Arnaldi, Fondazione e rifondazioni dello Studio a Napoli in età sveva, in Università e società nei secoli XII-XVI [= Atti del IX Convegno internazionale di studi di storia e arte, Pistoia – Montecatini Terme, 20-25 settembre 1979], Pistoia 1982 (Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte – Pistoia. Atti, 9), pp. 81-105: 81, rifluito poi in F. Torraca – G. Arnaldi, La fondazione fridericiana dell’Università di Napoli, Napoli 1988, pp. 21-48. 88 Cfr. L. Capo, Federico II e lo Studium di Napoli, in Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, a cura di G. Barone – L. Capo – S. Gasparri, Roma 2001, pp. 25-54. Si veda anche G. Vitolo, Federico II. Un imperatore medievale o un sovrano moderno?, in Linea tempo 5/3

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dine nella società napoletana sino al secolo XVI e costituì il punto di riferimento obbligato per quanti volessero acculturarsi e ricevere un’istruzione superiore. Nello Studio — vi insegnò retorica anche il Parrasio nell’anno 1488/89 — accanto alle tradizionali discipline (diritto, filosofia, medicina), venne introdotto nel 1465, per espressa volontà di Ferrante I d’Aragona, l’insegnamento dei litterarum studia89, che comprendevano anche quello di lingua greca, tenuto primariamente e per un brevissimo periodo dal celebre Costantino Lascaris90, cui subentrò nel 1531 il tedesco Johannes Albrecht Widmanstetter (alias Iohannes Lucretius Osiander) che, giunto in Italia nel 1527 e a Napoli nel 1530, collaborò con i milieux pontaniani e fu amico, fra gli altri, dei fratelli Anisio e Martirano, e degli agostiniani Agostino Nifo, Girolamo Seripando ed Egidio da Viterbo (1469-1532), e conobbe forse anche il Sannazaro († 6 agosto 1530), cui si deve, fra le tante altre cose, la traduzione delle Olimpiche di Pindaro e degli Idilli di Teocrito91. Vari indizi, del resto, fanno congetturare che almeno dal secolo XV a Napoli fosse praticato, in modo forse occasionale, l’insegnamento della lingua greca dai Greci della diaspora, insegnamento che, come su ricordato, venne ufficialmente istituito soltanto nel 1465 con l’esule costantinopolitano Costantino Lascaris. Già precettore privato a Milano di Ippolita, figlia di Francesco Sforza, il dotto ellenista giunse a Napoli al seguito della (dicembre 2001), pp. 9-14; id., Napoli, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, Roma 2005, pp. 383-388, nonché «Il più grande principe del mondo». I grandi protagonisti della storia di Napoli, IV: Federico II, a cura di G. Vitolo, Napoli 1995. 89 Per un quadro d’insieme sulla presenza greca nella città partenopea dal XV al XVI secolo si rimanda a De Frede, I lettori di umanità cit., pp. 13-37 (cap. I); J. Korinthios, I Greci di Napoli e del Meridione d’Italia dal XV al XX secolo, Cagliari 2012 (Agorà, 53; Diaspore, 1), pp. 15-42. Per brevi periodi vi operarono, tra l’altro, nel secolo XV illustri eruditi, quali Teodoro Gaza, Giorgio Trapezunzio, Nicola Secundino, Michele Marullo Tarcaniota e così via: V. Giura, La comunità greca a Napoli (1534-1861), in Clio 18/4 (1982), pp. 524-560: 533; J. K. Hassiotis, La comunità greca di Napoli dal XV al XIX secolo, in Il Veltro 27/3-4 (1983), pp. 477-494: 480-481. 90 F. D’Oria, Greco classico e greco volgare nella tradizione umanistica partenopea, in Vichiana, ser. IV, 1/2 (1999), pp. 135-154: 135-137. Soltanto nel 1592 l’insegnamento del greco «risorse a nuova vita» con Cortesio Branas: ibid., pp. 138-139; De Frede, I lettori di umanità cit., pp. 111-112; Korinthios, I Greci di Napoli cit., pp. 103-104. Rammento che nella stessa Napoli grosso modo tra il 1577 e il 1582 prestò attività di amanuense il cipriota Giovanni Santamaura: F. D’Oria, I codici della comunità greca di Napoli, in Classicità, medioevo e umanesimo. Scritti in onore di Salvatore Monti, a cura di G. Germano, Premessa di S. D’Elia, Napoli 1996, pp. 449-465: 453-459; e già id., Ἐν Παρθενόπῃ, in Mathesis e Philia. Studi in onore di Marcello Gigante, a cura di S. Cerasuolo, Napoli 1995, pp. 391-409; G. De Gregorio – D. Surace, Giovanni Santamaura, copista al servizio del cardinale Guglielmo Sirleto, in Il «Calabro sapientissimo» cit., pp. 495-532: 497-498. Sul copista cfr. anche I. K. Chassiotis, Ἕνα ἰδιότυπο εἰκονογραφημένο κείμενο τοῦ Ἰωάννου Ἁγιομαύρα (1578), in Ἑλληνικά 19/1 (1966), pp. 108-113. 91 De Frede, I lettori di umanità cit., pp. 102-108; D’Oria, Greco classico cit., p. 138.

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nobile discepola, andata in sposa al duca di Calabria Alfonso, figlio del re Ferrante d’Aragona, ma esercitò il suo magistero solo per un brevissimo periodo (solo dieci mesi)92, essendosene allontanato per trasferirsi, su invito del Bessarione, a Messina dove insegnò dal 1468, ma senza apprezzabili risultati dato lo scarso interesse degli scolari, la lingua greca ai monaci del S. Salvatore e morì nel 1503. In ogni caso, ebbero una buona conoscenza del greco numerosi letterati del Quattrocento e primo Cinquecento che furono attivi nella città partenopea: oltre agli intellettuali menzionati nel corso di questo lavoro, è opportuno almeno ricordare ancora una volta Giovanni Pontano († 1503) e Jacopo Sannazaro († 1530), ma anche il medico e arcivescovo di Trani Giovanni Artaldo († 1493), l’abate Giovanni Albino († post 1495), che fu traduttore di Plutarco, Francesco Elio Marchese († 1517), il nolano Ambrogio Leone (1457-1525), Pomponio Gaurico (1481/1482-1530), che era stato anche a Costantinopoli, il cardinale Egidio da Viterbo (1469-1532), il sessano Agostino Nifo († 1538), il medico e filosofo Simone Porzio (1496-1554) 93. Non meno importante nello sviluppo della conoscenza della lingua greca fu l’impegno profuso dalla comunità grecofona di quei letterati esuli a Napoli dopo la conquista turca di Costantinopoli (1453)94. Essi hanno avvertito il bisogno di svolgere un ruolo effettivo nella conservazione della παιδεία e della lingua quanto meno all’interno delle stesse comunità elleniche: μὴ (…) ἄφωνοι τὸ πάμπαν μένοιεν καὶ βαρβάρων τε καὶ ἀνδραπόδων οὐδὲν διαφέροιεν, scrisse a Michele Apostolio il cardinale niceno Bessarione95. 92 De

Frede, I lettori 93 Ibid., pp. 88-102.

di umanità cit., pp. 81-112 (cap. III): 92-93.

94 Sulla comunità greca di Napoli rinvio a Giura, La comunità greca a Napoli (15341861), cit.; Hassiotis, La comunità greca di Napoli dal XV cit.; Korinthios, I Greci di Napoli cit. Utile anche la lettura di S. Lambros, Ἡ ἑλληνικὴ ἐκκλησία Νεαπόλεως, in Νέος Ἑλληνομνήμων 20 (1926), pp. 3-19, 158-181, e di F. Mosino, Greci a Napoli nel Cinquecento, in Ἑλληνικὰ Μηνύματα 3 (2000), pp. 85-87. 95 L’epistola è stata edita per la prima volta da S. Lambros in Νέος Ἑλληνομνήμων 6 (1909), p. 394, ora ep. 30 Mohler [L. Mohler, Aus Bessarions Gelehrtenkreis: Abhandlungen, Reden, Briefe von Bessarion, Theodoros Gazes, Michael Apostolios, Andronikos Kallistos, Georgios Trapezuntios, Niccolò Perotti, Niccolò Capranica, Paderborn 1942 (Quellen und Forschungen aus dem Gebiete der Geschichte, 24), pp. 478-479: 479, ll. 18-21]. Analoghi concetti sono espressi anche nelle lettere indirizzate al σοφός Teodoro Gaza [ibid., epp. 36 (= pp. 485-488) e 37 (= pp. 488-489)]. Si veda anche J. Harris, Common Language and the Common Good: Aspects of Identity among Byzantine emigres in Renaissance Italy, in Crossing Boundaries: Issues of Cultural and Individual Identities in the Middle Ages and the Renaissance, ed. by S. McKee, Turnhout 1999 (Arizona Studies in the Middle Ages and the Renaissance, 3), pp. 188-202. Circa la diaspora di intellettuali ellenici nell’Italia del secolo XV e sul ruolo svolto nel ridestare l’interesse per la grecità del Levante, cfr. H. Lamers, Greece Reinvented. Transformations of Byzantine Hellenisme in Renaissance Italy, Leiden 2015 (Brill’s Studies in Intellectual History, 24).

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E dunque nell’ambiente napoletano, qui succintamente delineato96, in cui le esperienze dello Studio si intrecciarono con quelle dell’Accademia Pontaniana in un fecondo rapporto di reciproca interazione anche con i Greci profughi dall’Oriente, Sirleto poté conseguire la formazione che gli avrebbe garantito poi il successo e la notorietà una volta che, trasferitosi a Roma, entrò ufficialmente, grazie soprattutto a Cervini, in Biblioteca Vaticana e quindi nella cerchia della corte pontificia dal papato di Marcello II (9.4.1555-1°.5.1555) fino a quello di Gregorio XIII (1572-1585), assumendo un’incisiva funzione di stimolo e di promozione nello studio delle Sacre Scritture e dei Padri della Chiesa, svolgendo un ruolo di primaria importanza nelle risoluzioni del Concilio tridentino, palesando una poliedrica gamma di interessi, che abbracciava, oltre alla letteratura classica e tardoantica, soprattutto quella biblica e patristica, l’arte, la musica, la matematica, il diritto canonico. Non sappiamo, invero, né quali corsi di studio abbia frequentato né tanto meno le discipline che sostanziarono il bagaglio culturale del letterato ed ellenista calabrese. Si può, tuttavia, presumere che la sua formazione, a parte qualche singolare apertura verso gli autori cristiani, che poi approfondì e perfezionò a Roma, sia stata essenzialmente condotta sullo studio dell’antichità classica e tardoantica. Una lettura cursoria dei versi composti da Vittorio Tarantino, pubblicati nell’edizione del De virtute morali del 152697 mostra, infatti, che il maestro era in possesso di una buona preparazione, avendo letto e assimilato diversi poeti d’età classica e tardoantica di cui utilizza il lessico per elogiare il committente, Andrea Donato Acquaviva. È sufficiente rinviare alle occorrenze di alcune voci98: ὑψιμέδων Ζεύς (v.1) ricorre, ad esempio, in Nonno di Panopoli (ma anche in Clemente Alessandrino); κηδόμενος (v. 1) riferito a Zeus è annoverato in Epitteto99; δαΐφρων (v. 3) risulta registrato, fra gli altri, in Omero (Il. V, 181, etc.) e Quinto Smirneo (Posthomerica, VIII, 317); πολύμητις (v. 5) è voce omerica; ἀλεγίζω (ibid.) è sovente usato nei carmi di Gregorio di Nazianzo; il sintagma ἀέκοντος ἄνωγα (v. 7) è omerico (ad esempio, Il. XIV, 105)100; poetica è la forma Ζηνί pro Διί (v. 8)101. Nella   96 Cfr. T. R. Toscano, Letterati, corti, accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli 2000; A. Della Rocca, L’umanesimo napoletano del primo Cinquecento e il poeta Giovanni Filocalo, Napoli 1988; C. Vecce, Giano Anisio e l’umanesimo napoletano. Note sulle prime raccolte poetiche dell’Anisio, in Critica letteraria 88-89 (1995), pp. 63-80.   97 Supra, p. 326.   98 Si rimanda alla consultazione di esse nella versione on line del Thesaurus Linguae Graecae della Irvine University.   99 H. Schenkel, Epicteti dissertationes ab Arriano digestae, Leipzig 1916, III, 15, 2. 100 Essa non è estranea al vocabolario poetico di Gregorio di Nazianzo. 101 Per Ζηνί in iunctura con χάρις o χαρίζω cfr. Orpheus, Hymn. 43, 9 [W. Quandt, Orphei hymni, Berlin 1962 (rist. 1973)].

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seconda serie sono voci poetiche, ancora una volta per lo più omeriche, μεγαλήτορες (v. 1) e παιπαλόεντα (v. 5)102. Anche quel poco che di lui ci è pervenuto conforta l’asserzione: in una sua epistola occorre, ad esempio, una chiara allusione ad un’orazione di Libanio e ad un’ epistola di Sinesio, nonché un riferimento esplicito ad alcuni carmi di Gregorio, che tradusse in endecasillabi italiani (infra, Appendice, nrr. I, II e IV)103. Questi indizi sono avvalorati anche dall’epistola che al cardinale indirizzò l’anonimo allievo di Tarantino e compagno di studi di Sirleto. Le letture dello scolaro, che asserisce di sapere che Sirleto è impegnato notte e giorno nello studio di Gregorio di Nazianzo, di Dionigi Areopagita e di altri non meglio precisati autori cristiani104, concernono, infatti, Omero, Demostene, Demetrio Falereo, Apollonio Molone, Giovanni Malala, forse anche Orazio. Ma al di là di tutto ciò, è lo stesso Sirleto, oramai attivo a Roma, che, sollecitato a svolgere attività di insegnamento di lingua greca sulla cattedra di Perugia o di precettore presso l’arcivescovo Ranuccio Farnese a Napoli, dichiara di non volere ritornare a studiare Omero e Demostene «essendome già un pezzo in qua ritirato dal studio di quelli»105, né tanto meno a occuparsi di Crisolora e Luciano, «hauendo già incomminciato a conuersar’ con li autori diuini»106, giacché per l’appunto ha definitivamente abbandonato gli studi classici per la Sacra Scrittura e la letteratura cristiana107. Il mutamento di indirizzo di studi è certificato, peraltro, anche da Pier Vettori nel 1553: «Guilelmus Sirletus (…) doctissimus homo: et ut olim in humanioribus studiis magna cum laude versatus, ita nunc in sacris abditisque literis toto animo occupatus»108. Nondimeno, anche a Roma egli mise a frutto le proprie competenze ac102 Non

di rado l’aggettivo è usato anche in Nonno (Dionysiaca) e Quinto Smirneo. ricorda che il Pontano coltivò l’endecasillabo: I. Pontani Hendecasyllaborum libri, ed. L. Monti Sabia, Napoli 1978. 104 Supra, pp. 320-321. 105 Paschini, Tre ricerche cit., p. 171; Peri, Guglielmo Sirleto e la Chiesa greca, cit., p. 153 e nt. 35 (a p. 176); P. Piacentini, Marcello Cervini (Marcello II). La Biblioteca Vaticana e la biblioteca personale, in La Biblioteca Vaticana tra riforma cattolica cit., pp. 105-143: 111-113; Lucà, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, cit., p. 149 e nt. 28 (a p. 178). La lettera reca la data di maggio 1546. 106 Paschini, Tre ricerche cit., p. 171; Peri, Guglielmo Sirleto e la Chiesa greca, cit., p. 153 e nt. 34 (a p. 176); Lucà, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, cit., p. 149 e nt. 28 (a p. 178). La lettera è datata ottobre 1545. 107 Paschini, Tre ricerche cit., p. 172; Lucà, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, cit., p. 148 e nt. 25 (a p. 178). Non a torto al cardinale calabrese venne attribuito l’epiteto «biblioteca di Cristo»: Lo Parco, Il Cardinale Guglielmo Sirleto cit., p. 265; Taccone Gallucci, Monografia cit., p. 2 e nt. 3. 108 Peri, Guglielmo Sirleto e la Chiesa greca, cit., p. 153 e nt. 36. 103 Si

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quisite nel campo della letteratura antica, soccorrendo, ad esempio, il sodale Marcello Cervini nell’edizione di vari autori classici e Giovanni Sambuco nella curatela ecdotica del De materia medica di Dioscoride Pedanio, ovvero traducendo il De machinis bellicis di Erone per la committenza di Angelo Colocci109. Si ha motivo di ritenere, perciò, che l’istruzione ricevuta da Sirleto durante il settennio napoletano sia stata di stampo tradizionale, prettamente classica. Essa non dovette essere dissimile da quella conseguita nella stessa epoca e nel medesimo ambito culturale dal già menzionato Coriolano Martirano (Cosenza 1503-Napoli 1557). Questi, dopo aver frequentato la scuola di Aulo Giano Parrasio nella città natale, perfezionò, assieme al fratello Berardino, gli studi a Napoli, dove divenne punto di riferimento soprattutto per i letterati cosentini, anche grazie alla stretta amicizia con alcuni letterati del tempo, quali Girolamo Seripando, Cosimo e Giano Anisio, Berardino Rota, Scipione Capece, Johann Albrecht Widmanstetter (alias Ioannes Lucretius Osiander)110. Oltre a tradurre dal greco in latino alcune tragedie di Eschilo (Prometeo)111, Sofocle (Elettra)112, Euripide (Medea, Baccanti, Fenicie, Ippolito e il dramma satiresco Ciclope), le commedie di Aristofane (Pluto e Nuvole), la Batracomiomachia, i primi dodici libri dell’Odissea, il primo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio, esibendo una onesta interpretazione del greco, egli curò l’edizione del poemetto Aretusa del fratello, compose in versi, fra l’altro, l’opera Christus113 che, ispirandosi al Christus patiens di Gregorio di Nazianzo (CPG, 3059), mostra attenzione, come nel caso di Sirleto, per i testi religiosi e costituisce coi poemetti del 109 Cfr.

Lucà, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, cit., pp. 148 e nt. 24 (a p. 178), 158 e nt. 9 (a p. 159), 148 e nt. 25 (a p. 178); Piacentini, Marcello Cervini cit., pp. 119-120. 110 Cfr. E. Valeri, Martirano Coriolano, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXI, Roma 2008, ad loc. Sui fratelli Martirano è ancora fruttuosa la lettura di F. Pometti, I Martirano, Roma 1897; B. Croce, I fratelli Martirano, in Aneddoti di varia letteratura, I, Bari 1953, pp. 377-386; V. G. Galati, Coriolano Martirano, in Almanacco calabrese (1960) pp. 105-121. Sul filologo e orientalista tedesco Widmanstetter (1506-1557) rinvio, di contro, a C. De Frede, L’orientalista Johann Albrecht Widmanstetter e i suoi rapporti con i Pontaniani del ‘500, in Atti dell’Accademia Pontaniana 32 (1983), pp. 287-299. 111 Cfr. M. Mund-Dopchie, Un travail peu connu sur Eschyle: le Prométhée latin de Coriolano Martirano (1566), in Humanistica Lovaniensia 27 (1978), pp. 160-170. 112 J. Sárközi, L’Elettra latina di Coriolano Martirano, in Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae 39 (1999), pp. 313-328. 113 C. Fanelli, Il Christus di Coriolano Martirano: la scena negata, in id., Con la bocca di un’altra persona. Retorica e drammaturgia nel teatro del Rinascimento, Roma 2011 (Biblioteca teatrale, 175), pp. 280-300; id., Tragico e comico, sacro e profano nel teatro di Coriolano Martirano, in Sacro e/o profano nel teatro del Rinascimento ed Età dei lumi [= Atti del Convegno di studio, Bari, 7-10 febbraio 2007], a cura di S. Castellanata – F. S. Minervini, Bari 2009, pp. 345-366.

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Sannazaro, primo fra tutti il De partu Virginis, e con la Christias di Marco Gerolano Vida (1485-1566), una delle opere più notevoli «che l’eleganza umanistica consacrò alla materia cristiana»114. In conclusione, partendo da notizie desunte dall’epistolario sirletiano, s’è fatta un po’ di luce su uno dei maestri di lingua e letteratura greca del cardinale Sirleto nel contesto della grecità napoletana della prima metà del Cinquecento e del clima di splendore umanistico e rinascimentale che contraddistinse la vita culturale e civile della città partenopea. In essa si palesò, infatti, in tutti i suoi aspetti migliori la ‘nuova’ cultura115, che si aprì alle istanze e ai fermenti provenienti non tanto o non soltanto dal Salento — qui «il movimento umanistico rimase espressione di singolari personalità»116 e si caratterizzò principalmente come insegnamento scolastico di impronta filologico-grammaticale ed esegetico-erudita, specialmente degli scritti aristotelici — quanto piuttosto dalla Firenze medicea grazie all’intenso dialogo culturale intercorso fra le due città (Firenze e Napoli) e incoraggiato da Lorenzo de’ Medici e da Ferdinando I117. È oramai 114 Berardino Martirano, Aretusa – Polifemo, a cura di P. Crupi, Soveria Mannelli 2002,

p. 111. 115 Per

un quadro di sintesi che spazia dalle iniziative culturali, sostanzialmente chiuse e poco efficaci nel rivitalizzare le altre istituzioni culturali regnicole — in età alfonsina l’Università della città visse uno dei momenti peggiori ma presso la corte di Alfonso il Magnanimo intellettuali del calibro di Antonio Beccadelli, detto il Panormita (1394-1471), Francesco Filelfo, Pier Candido Decembrio, Lorenzo Valla, Giovanni Aurispa, Teodoro Gaza, Niccolò Secundino, Giorgio Trapezunzio promossero una florida attività culturale —, fino alla nascita dell’Accademia di Giovanni Pontano, che invece recepì ben presto le pulsioni dell’umanesimo, e al regno di Ferrante durante il quale il modello culturale è tutto proteso alla legittimazione della dinastia al potere, si veda B. Figliuolo, La storiografia umanistica napoletana e la sua influenza su quella europea (1450-1550), in Studi storici 43/2 (2002), pp. 347-365; G. Ferraù, La storiografia come ufficialità, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo latino, a cura di G. Cavallo – C. Leonardi – E. Menestò, III: La ricezione del testo, Roma 1995, pp. 661-693: 692-693. 116 F. Tateo, La cultura nel periodo spagnolo, in Storia della Puglia, II: Età moderna e contemporanea, a cura di G. Musca, Bari 1979, pp. 45-62 (con Nota bibliografica alle pp. 63-64): 45-48. 117 Un importante ruolo di collegamento fra umanesimo fiorentino e ambito culturale aragonese svolse, ad esempio, Francesco Pucci, già allievo di Angelo Poliziano e professore allo Studio, dal quale il cosentino Aulo Giano Parrasio apprese il metodo filologico polizianeo, cfr. la voce «Pucci, Francesco» di F. Pignatti, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXXV, Roma 2016, ad loc.; M. Santoro, Uno scolaro del Poliziano a Napoli: Francesco Pucci, Napoli 1948; L. Ferreri, L’influenza di Francesco Pucci nella formazione di Aulo Giano Parrasio. Con particolare riguardo alla riflessione sui compiti e i fini della retorica, in Valla e Napoli. Il dibattito filologico in età umanistica [= Atti del Convegno internazionale, Ravello, Villa Rufolo, 23-23 settembre 2005], a cura di M. Santoro, Pisa – Roma 2007, pp. 187-221: 190192. In siffatto contesto si innestavano anche, soprattutto fra gli Agostiniani, primo fra tutti Egidio da Viterbo, istanze e aneliti maturati in seno all’umanesimo veneto: cfr., ad esempio, Santoro, Tristano Caracciolo e la cultura cit., pp. 45-49, 69, 185-186.

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acquisito, del resto, che al novero delle principali corti italiane (Venezia, Firenze, Roma) del Quattrocento e Cinquecento occorre annettere anche quella della Napoli aragonese, nella quale furono in auge non solo le lettere ma anche le variegate espressioni storico-artistiche (architettura, scultura, miniatura, pittura e così via), le quali, ibridandosi reciprocamente con quelle catalane, toscane, fiamminghe, diedero forma e sostanza al multiforme panorama rinascimentale a gravitazione mediterranea118. Costituisce emblema pregnante di quella fioritura il trionfo di Alfonso, che celebrò nel 1442 la presa della città facendola immortalare nel marmo sull’Arco di Castelnuovo (Maschio Angioino). Se la nostra ricostruzione ha un qualche fondamento, il maestro napoletano del porporato calabrese sarebbe nato nella stessa Napoli nei primissimi anni del secolo, avrebbe raggiunto una buona notorietà all’età di 25/30 anni tanto da partecipare attivamente al circolo umanistico del mecenate Andrea Matteo Acquaviva e dell’Accademia di Giovanni Pontano — alla cui guida subentrò dopo il decesso del fondatore († 1503) Pietro Summonte (1463-1526) —, e già vecchio per il peso degli anni, nonostante ancora si sentisse pienamente vitale, fra il 1565/1572 avrebbe tradotto in endecasillabi italiani le Sententiae di Gregorio di Nazianzo, e sarebbe passato a miglior vita grosso modo verso il 1575 ca.119. Insomma, sulla base dei pochi e fragili dati in nostro possesso si può congetturare che l’esistenza e l’attività di Tarantino si siano dispiegate nell’arco dei primi settanta/ ottanta anni del secolo XVI. Future, desiderabili indagini fra i materiali custoditi nelle Biblioteche (specialmete Biblioteca Nazionale e Biblioteca Oratoriana dei Gerolamini) e negli Archivi di Napoli da parte degli storici del Rinascimento napoletano apporteranno verosimilmente nuovi tasselli atti a precisare ulteriormente la nostra ipotesi e a delineare meglio la figura del dotto umanista, il cui nome occorre ora ascrivere alla schiera degli intellettuali cinquecenteschi del Sud d’Italia e a quella degli scriventi/copisti per passione ed esigenze personali di studio. Grazie alle occorrenze dei nomi di letterati presenti nell’edizione del 1526 e nella ristampa del 1609 dell’operetta plutarchea, s’è potuto anche tentare una sommaria ricostruzione del clima culturale della Napoli del 118 Fra i numerosi studi condotti sull’argomento, primieramente da Federico Zeri, Giovanni Previtali e Ferdinando Bologna, ricordo qui soltanto F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli 1977. Si veda anche, ma solo per la miniatura dei libri commissionati da Andrea Matteo Acquaviva, J. Hermann, Miniaturhandschriften aus der Bibliothek des Herzogs Andrea Matteo III. Acquaviva, in Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen der Allerhöchsten Kaiserhauses 19 (1898), pp. 147-216. 119 Infra, Appendice, nr. IV, p. 348.

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primo Cinquecento, nella quale, attraverso l’operosità dell’Accademia Pontaniana, che allora costituiva «an alternative to the University»120, dello Studio, della comunità greca esule dal Levante e del Sud d’Italia (specie la Terra d’Otranto)121, fu in auge lo studio dell’antichità classica con qualche significativa apertura al periodo tardoantico e alla lettura dei Padri della Chiesa122. In tale ambiente operò il maestro di Sirleto, nel medesimo ambiente ricevette l’istruzione superiore il cardinale. E tuttavia, si è consci del fatto che la questione di chi e di come il cardinale sia stato educato meriti certamente un ulteriore approfondimento. Qui, per concludere vorrei richiamare ancora una volta un’epistola che Sirleto indirizzò da Roma al sodale Marcello Cervini, allora a Trento, il 13 febbraio 1546, ora conservata in copia nel Barb. lat. 883 (p. 82). In essa, a parte i convenevoli di rito e le comunicazioni fornite al cardinale di Santa Croce, Sirleto si lascia andare ad un commosso e delicato ricordo di un suo maestro, di cui non esplicita il nome, ma i cui tratti distintivi, icasticamente evocati — pontaniano, povero, compositore di versi — si attagliano perfettamente a Tarantino: «(…). Questi di passati ritrovandose qui uno del Paese mio, mi son ricordato d’un mio maestro, persona certo molto dabbene et letterata, il quale è stato uno de li discipuli del Pontano e fà buoni versi. Io volendole mostrare un segno di memoria et gratitudine le ho scritto una epistola in versi, et la intentione mia è consolarlo de la sua povertà, mostrandole che per il più la povertà è amica dei virtuosi; e perche ho finita questa Epistola nel giorno della festa di s. Antonio, ho fatto mentione di quel che fa lui, il quale da piccolo cominciò a gustare la povertà christiana per amore della vera virtù. Ho pensato mandarle a V.S. R.ma come quella “cui omnia mea debeo, qualiacunque illa sint”123. Lo scarno ritratto che del Tarantino ha delineato Guglielmo Sirleto riceve inaspettata conferma dalla letteratura erudita del Cinquecento, che fornisce ulteriori, interessanti notizie. Il cappuccino Luigi Tasselli ritiene che il professore sia originario di Castrignano dei Greci in Terra d’Otranto: « … Vittorio Tarantino Poeta nell’Idioma Greco di Castrignano delli

120 Furstenberg-Levi,

The Fifteenth Century Accademia Pontaniana cit., p. 34. il decesso di Summonte († 1526) fu nominato titolare della cattedra di umanità il pugliese Filocalo Troiano: De Frede, I lettori di umanità cit., pp. 151-159 (cap. V: Le ulteriori vicende della cattedra di umanità durante il secolo XVI). 122 Un quadro molto dettagliato sui personaggi attivi a Napoli offre il ricco e documentato volume di De Frede, I lettori di umanità cit. Si consulti anche id., Studenti e uomini di legge a Napoli nel Rinascimento. Contributo alla storia della borghesia intellettuale nel Mezzogiorno, Napoli 1957. 123 Il brano della lettera è pubblicato anche in Lo Parco, Il cardinale Guglielmo Sirleto cit., p. 9 e nt. 37. 121 Dopo

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Greci»124, mentre stimano che egli sia napoletanto tanto Paolo Emilio Santoro nella sua Storia del monastero dei ss. Elia e Anastasio di Carbone, in Basilicata125, quanto Pietro Napoli Signorelli126. Il Santoro, inoltre, informa che, a seguito di controversie insorte circa alcuni possedimenti del monastero carbonese fra l’abate commendatario dell’epoca e i Sanseverino, feudatari di Bisignano, il senato di Napoli, ossia l’amministrazione regia, deliberò, verso gli anni Settanta del secolo XVI, di inviare il galatinese Giovanni Paolo Vernaleone, «praestanti doctrina, multaque rerum cognitione, & Graecae linguae gnarus», e Vittorio Tarentino «Neapolitanus (…) non indoctus homo, & graecis litteris excultus», affinché trascrivessero e interpretassero gli atti in lingua greca in possesso del monastero, che erano stati recuperati nella Certosa di S. Lorenzo a Padula (Campania)127. Tarantino, infine, viene celebrato come «de l’Argive Muse / gloria maggior, ti stai cantando in parte, / ove sue gratie il ciel tutte ha richiuse» in una lunga elegia (Pelagio d’amore) — una sorta di galleria encomiastica dei protagonisti della lirica napoletana del Cinquecento — di M. Lodovico Paterno128. 124 L.

Tasselli, Antichità di Leuca, città già posta nel capo Salentino (…), Lecce 1693,

p. 501. 125 P. E. Santoro, Historia Monasterii Carbonensis Ordinis Sancti Basilii, Romae, apud Gullielmum Faciottum, 1601, p. 145; cfr. anche id., Storia del monastero di Carbone dell’Ordine di s. Basilio (…) annotata e continuata da M. Spena, Napoli 18592, p. 54. 126 P. Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle due Sicilie, o sia Storia ragionata (…), VIII, in Napoli, V. Orsini ed., 1811, pp. 51-53. 127 La controversia si risolse a favore del monastero di Carbone. Per tutto ciò cfr. Santoro, Historia cit., p. 145; Napoli Signorelli, Vicende della coltura cit., pp. 51-53, in cui, oltre a ribadire che Tarantino è il nome di famiglia, si dà conto anche degli epigrammi di Tarantino pubblicati nell’edizione del 1526 più volte menzionata del De virture morali di Plutarco; E. Aar, Gli studi storici in Terra d’Otranto, in Archivio storico italiano, ser. IV, 9 (1882), pp. 233265: 241 nt. 2; e soprattutto Moscheo, Matematica, filologia e codici cit., p. 166 e nt. 10. Su Vernaleone cfr. G. Petraglione, Opere di scrittori salentini in codici Ambrosiani, in Rivista storica salentina 2 (1904), pp. 76-82. 128 Le Nuove Fiamme di M. Lodovico Paterno, partite in cinque libri (…), in Venetia, per Gio. Andrea Valuassori, detto Guadagnino, 1561, pp. 103-105. L’opera venne ristampata a Lione nel 1568, «appresso Guglielmo Rovilio». Si veda ora S. Fanelli, Le Nuove Fiamme di Lodovico Paterno, in Il nuovo canzoniere. Esperimenti lirici secenteschi, a cura di C. Montagnani, Roma 2008 («Europa delle Corti». Biblioteca del Cinquecento, 139), pp. 15-50: 47. — Avverto il dovere di ringraziare colleghi ed amici coi quali ho avuto modo di confrontarmi su temi specifici trattati nel presente saggio, per avermi generosamente fornito anche supporto bibliografico: Giancarlo Abbamonte, Luigi Ferreri e Giovanni Vitolo per la grecità napoletana della prima metà del ‘500; Stefano Martinelli Tempesta per la versione in latino de De virtute morali di Plutarco; Zisis Melissakis e soprattutto Antonio Rollo e Francesco D’Aiuto per aver discusso proficuamente con me sulla lettera (qui, Appendice, III) che un anonimo compagno di studi indirizzò al cardinale; Carmine Chiodo e Roberto Rea per una sommaria valutazione degli endecasillabi italiani di Tarantino. Un grazie riconoscente devo all’amico Roberto Pal-

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APPENDICE Vengono qui di seguito editati i testi oggetto di commento nel corso di questo saggio. Avverto che la trascrizione delle lettere e della versione dei carmi rispetta il testo così come trasmesso, essendomi solo limitato a emendare banali ed evidenti errori di copiatura, a ripristinare la maiuscola per i nomi propri, aggiungere iota sottoscritto nei casi in cui è stato omesso, sciogliere tacitamente le abbreviazioni tachigrafiche e per troncamento. In apparato, invece, ho registrato la forma corretta delle parole che nel codice presentano evidenti errori itacistici o di scambio di omicron/omega, e talora qualche piccola proposta emendativa al testo. Ho inserito, inoltre, fra parentesi angolate le lettere omesse per evidente errore dello scrivente di turno. In nota a piè di pagina ho segnalato anche i ripensamenti proposti dallo stesso Tarantino alla versione italiana dei carmi nazianzenici. I. Vat. gr. 2124, f. 54r Al R.mo Cardinal Sirleto mio S.or oss.mo.

Ἔγραψα πολλάκις καὶ νῦν γράφω καὶ πάλιν γράψω, ἕως οὗ τινος καὶ μικρᾶς ἀποκρίσεως ἀντιτύχω παρὰ τῆς τιμιωτάτης σου χειρός, καὶ εἰδῶ, εἴπερ ἐπέδωκάν σοι τὰ ἐμὰ πρὸς σὲ γράμματα καὶ τὰς τοῦ μεγάλου Γρηγορίου γνώμας μεταγεγραμμένας στίχοις ἰταλυκοῖς λελυμένοις (ὥς φασιν) ἐν τῷ μεταξὺ δὲ ποτὲ μέν, ὡς τὸ πρῶτον, ἥσθην, ἐφ’οἷς ἤκουσα περὶ σοῦ οὐ μόνον ζῶντος καὶ καλῶς ἔχοντος ἀλλὰ καὶ σὺν θεῷ εὐτυχοῦντος· ποτὲ δὲ λίαν ἠνιάθην129 ἀκούσας οὐ καλῶς ἔχοντός σου. Ἐφοβούμην γὰρ μή τι ἀνθρώπινον πάθῃς, οὕτω γὰρ ἐλέγετο, ἀλλ’ ἔπειτα ἥσθην ἀκούσας ὅτι ψεῦδος ἦν ὅπερ οὐ καλὸν οὐδ’ εὐκτέον ἐλέγετο· καλῶς οὖν θεοῦ χάριτι ἔχοντός σου. Βουλοίμην εἰδέναι, εἴπερ παρὰ σοί δυναίμην εἴς τινα χρήσιμος εἶναι τοῖς ἐμοῖς ἑλληνικοῖς γράμμασιν. Καὶ ἐῤῥωσό μοι, τιμιωτάτη κεφαλή. Βικτώρις ὁ ποτέ σοι ἐλάχιστος διδάσκαλος.

5

10

5 Lege ἰταλικοῖς 9 εὐκτέον ex εὐκταίον 10 ἐλέγειτο cod., ut videtur. la, che, con le sue arcinote competenze circa la trasmissione testuale dei Carmi di Gregorio di Nazianzo, è stato prodigo di preziose informazioni e puntuali suggerimenti sulle poesie nazianzeniche versate in endecasillabi italiani dal Tarantino. Infine, per alcuni controlli effettuati per me in Biblioteca Vaticana esprimo grata riconoscenza a Domenico Surace, nonché al collega Filippo D’Oria per avermi procurato la riproduzione di alcuni suoi contributi sulla Napoli greca. Ovviamente, degli eventuali errori è responsabile solo e soltanto chi scrive. 129 La iunctura ἥσθην … ἠνιάθην trova paralleli nell’epistolografia; cfr., e.g., Liban., ep. 224 (1) [R. Foerster, Libanii opera, X-XI, Lipsiae 1921-1992, rist. Hildesheim 1997]; Demetrius Cydones, ep. 77 (4) [R.-J. Loenertz, Démétrius Cidonès, Correspondance, Città del Vaticano 1956 (Studi e testi, 186)].

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II. Vat. gr. 1890, parte I, f. 30r-v + 37130.

Καρδινάλι Συρλαίτῳ Βικτώριος Ταραντένος εὖ πράττειν.

5

10

15

Οὐχ ἅπαξ μόνον ἀλλὰ καὶ δὺς καὶ τρὶς καὶ μετὰ τούτων τετράκις δέδωκα πρὸς σὲ γράμματα, Συρλαίτε, πρoσφιλέστατε ἐμοὶ πάντων τῶν ἐμῶν μαθητῶν καὶ διὰ τοὺς τρόπους καὶ τὴν παιδείαν, ἀλλ’ οἶμαι ἡμαρτηκέναι διακομιστῶν πιστῶν· οὔτε γὰρ ἀντέγραψαν ἐκεῖνοι οἷς τὰ εἰς σὲ γράμματα ἐπέτρεψα, οὔτε σὺ ἐν οἷς ἅπασι τόδε ἦν τὸ κεφάλαιον ἐμὲ συνησθῆναί σοι, καὶ βούλεσθαι ἐς Ῥώμην ἐλθεῖν τοῦ ἰδεῖν σε καὶ συγχαίρειν σοι, ὅτι τε ἡ πενία με κωλύοι ἀλλ’ οὐ τὸ γῆρας· εἰμὶ γὰρ πολιᾷ γέρων καὶ ἔτεσιν ἀλλ’ οὐ ῥώμῃ. Νῦν τάχα ἐπιδώσει, ᾧ δέδωκα νῦν οὖν, θεῷ κεχαρισμένε, ἐῤῥωμένως καὶ εὐδαίμων διαβιῴης131, καὶ Βικτωρίου μέμνησο νῦν εἴπερ οὐ προτοῦ, καὶ φίλησον. Ἔρρωσο. Εἴη σοι τὴν ἐπιστολὴν ταύτην ἐπιδοθῆναι, ἁπάσας τὰς τοῦ Γρηγορίου τοῦ μεγάλου γνώμας καὶ μονοστίχους καὶ διστίχους καὶ τετραστίχους μετέγραψα ἐν ἐνδεκασυλλάβοις ἱταλικοῖς ὡς τάδε τὰ ἐπιτάφια εἰς τὸν μέγαν Βασίλειον, ἅσπερ σὲ ἀξιῶ ἀναγνῶναι καὶ ἰδεῖν εἴ σοι τάχα δοκοίῃ δύνασθαι, ἀξίως μεταδοθῆναι τετυπωμένας τοῖς πολλοῖς μετὰ τῶν ἄλλων οὑτοσὶ ὄντας μεταγεγραμμένας, καὶ γράψαι μοι εἴ τινι τρόπῳ ἐν Ῥώμῃ παρὰ σοὶ καλῶς δυναίμην βιοῦν. Ἔρρω σὺν πάσῃ ἐν θεῷ εὐτυχίᾳ. 2 Lege δίς 7 συγχαίρειν ex συμχαίρει 8 οἰ cod., ut videtur  ἐπιδόσει 9 ἐῤῥωμένος 13  ἰτα­ λι­κοῖς  τὰδε cod.  16 τινι ex τίνω

III. Vat. gr. 1902, f. 395r-v132. La lettera, non datata, è vergata da uno scrivente occidentale che adopera una scrittura dal ductus lento ma dal disegno perspicuo e ordinato. La menzione esplicita di Niccolò Maiorano, che all’epoca risiedeva a Roma, e soprattutto l’aggettivo qualificativo di εὐσεβέστατος, che è riservato alle 130 La

lettera è segnalata anche in Canart, Codices cit., I, pp. 499-520: 501-502 (VI); II,

p. liii. 131 L’espressione θεῷ … διαβιῴης riprende ad verbum l’ep. 97, 9 di Sinesio [A. Garzya, Sinésios de Cyrène, III, Correspondance: Lettres LXIV-CLVI, Paris 2000, pp. 220-221, lin. 8-9]. Cfr. anche dello stesso Sinesio le epp. 99, 21; 149, 45; 142, 15, nonché l’ep. 28, 22 di Teofilatto di Bulgaria [P. Gautier, Théophylacte d’Achrida, Lettres, Thessalonique 1986 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae. Series Thessalonicensis, 16/2)]. 132 Essa è registrata nella descrizione catalografica del cimelio: Canart, Codices cit., I, pp. 587-615: 611 (auctor [idest epistulae] loquitur de Victorio Tarentino, sui ipsius et Sirleti professoris linguae graecae Neapoli); id., Codices cit., II, p. 172.

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gerarchie ecclesiastiche, vescovi e cardinali (infra: testo), consente di proporne una datazione verso gli anni Settanta del secolo XVI. Già custos della Libreria Vaticana dal 1531/1532 al 1553, egli fu nominato vescovo di Molfetta il 15 dicembre 1553, sede che raggiunse soltanto il 4 marzo 1560 e governò fino al 13 marzo 1566. Ritornò poi a Roma, dove soggiornò nell’agosto 1568, nel novembre 1569, e vi rimase fino almeno al 1572133. Tenendo conto che la sezione IX dell’attuale Vat. gr. 1896 parrebbe databile in base alla filigrana del supporto cartaceo nella forbice temporale 1568/1572, sarei propenso a proporre come datazione dell’epistola gli anni immediatamente seguenti il 1572 e a fissare la morte del Tarantino negli anni Settanta del secolo XVI (1572-1575?). Il dato, peraltro, non confligge con l’anno 1526, in cui il giovane Tarantino appare figura di intellettuale già affermato, se all’epoca faceva parte del circolo umanistico dei Pontaniani e dell’entourage di Andrea Matteo Acquaviva134. Si osservi, inoltre, che la stessa epistola presenta tre correzioni marginali (ll. 13, 19 e 24) che, a mio giudizio, appartengono alla mano del destinatario, Sirleto (vd. sotto, il testo con relativo apparato).

Τὸ περιβόητον, εὐσεβέστατε καὶ τιμιώτατε τῶν Ἀρχιεραρχῶν κορυφαῖε Συρίλετε, παρέβη πάσης τῆς Ἰταλίης, καὶ μᾶλλον εἰπεῖν τῆς οἰκουμένης τὰ ὄρια, ὥστε καὶ πάντας θαυμάζειν τὴν σοῦ θείαν ἀγχίνοιαν, καὶ τῶν ἄλλων κορυφαίων ἀρετῶν τὸ ὑψώτατον· καθὼς γὰρ ἀετὸς ὑψιπετὴς135 καὶ ἡρωδιός136, τὸν νοῦν ἐκ τῶν ἰλύων καὶ γεωδῶν τούτων εἰς τὴν θεῖαν ἀναγωγὴν ἐπάρας, καὶ ἁπάντων ὀλιγορήσας, τοιαύτης τιμῆς καὶ στεμμάτων ἠξιώθης, μέγιστε κύδιστε137, ἄστρον πολυόμματον, καὶ ἀρήδηλον ἐν βροτοῖς μᾶλλον δὲ κατὰ τὸν

5

3 Lege ὅρια 4 ὑψότατον  ἐρωδιός 5 ἱλύων  θείαν 7 ἀρίδηλον 133 Cfr.

la bibliografia citata infra, nt. 147. può dunque opinare con qualche fondamento che nel 1526 Tarantino avesse compiuto almeno 25/30 anni d’età e che fosse nato proprio all’inizio del ’500. 135 L’espressione, di ascendenza classica, è molto utilizzata; cfr., e.g., Il. XII, 219 e XIII, 822; Od. XX, 243. 136 Per la forma ἡρωδιός anziché ἐρωδιός/ἐρῳδιός, cfr., supra, p. 319. Il volo dell’airone dal mare fa presagire l’arrivo della poggia e/o di vento: Cyranid., 3, 13 [D. V. Kaimakes, Die Kyraniden, Mesenheim am Glan 1976]; Theophr. Phil., fragm. 6, 28, 7 [F. Wimmer, Theophrasti Eresii opera, quae supersunt, omnia, Paris 1866]; Aelian. de natura animalium, VII, 7, 10 [R. Hercher, Claudii Aeliani de natura animalium libri XVII (…), I, Leipzig 1864]. L’immagine dell’uccello che vola fra fiumi e paludi occorre nell’Historia animalium di Aristotele: A. I. Bekker, Aristoteles graece, I-V, Berolini 1831-1836, p. 593b, lin. 1; nella stessa opera v’è un accenno di contrapposizione fra aquila ed airone: ibid., p. 609b, lin. 7. Lo scritto aristotelico è stato riedito: P. Louis, Aristote, Histoire des animaux, I-III, Paris 1964-1969. 137 Cfr. Il. II, 412; III, 276, 298, 320 etc. Cfr. anche Plut. Quomodo adolescens poetas audire debeat, p. 23D, lin. 4 Stephanus [F. C. Babbit, Plutarch’s Moralia, I, Cambridge 1927, rist. 1969]. 134 Si

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SANTO LUCÀ

ὑμνολόγον φαεινώτατον, τῶν γὰρ εὖ πεπραγμένων, καὶ ἐναραίτων αἱ ἡμέραι μάρτυρες σοφώτατοι. Τούτων γὰρ τῶν σῶν ἐνδόξων, καὶ θαυμασίων, οὐδὲ ὁ μακρός, καὶ ἀναρήθμητος χρόνος λήθην ἐμβαλεῖν τοῖς ἄριστά σου πεπραγμένοις, καὶ χριστιανώτατα δύναιτ’ ἂν πόποτε. Τοιαύτη γὰρ ἡ ἰσχὺς τῶν ἀρετῶν· πόνῳ γὰρ τῶν γραμμάτων οὐ τῶν ὅπλων, τοσούτων ἔτυχες, θεοσεβέστατε.Τοσαῦτα γάρ μοι τῶν ἀγαθῶν ἐπιτηδευμάτων στέμματα ἐπέρχεται138 συνεχῶς εἰς τὴν διάνοιαν, ὥστε τὸν πρῶτον ῥήτορα139, καὶ Δημήτριον τὸν Φαληρέα140, καὶ τὸν δεινὸν Ἀπολλώνιον141, εἰς τὸ ἐγκωμιάζειν ἐξαπαιτεῖν καὶ ὅσῳ μᾶλλον λέγω, τοσούτῳ, καὶ πλείῳ, καὶ εὐρύτερα λέγεσθαι ἐπέρχονται. Ὑγίαινε, καὶ ἐμοῦ μὴ ἐπιλάθου, ὡς ἂν καὶ τὶ142 ἀργυρίδιον ἐπιπέμψῃς, ὅπως τὸν πενιχρώτατον τοῦτον τὸν βίον, αὐτὸς βιοῦν δύναμαι143 νοσερὸν ἀεί, καὶ ἀρθριτικὸν ἐν λέχει βίον διάγω144. Ταῦτα γὰρ ἐμοὶ ἐμποδών, ὥστε μὴ εἰς τὴν Βαλεντίαν145 ἐξωχωτάτην τῶν πόλεων, καὶ Ῥώμην ἔπειτα καλουμένην146, μὴ ἀφικέσθαι πώποτε. Μέμνησο πάλιν, καὶ μυριάκις δέομαι, καὶ λιτανεύω τῶν τοῦ Βικτορίου τοῦ Ταρεντίνου

8 φαεινότατον  ἐναρέτων 10  ἀναρίθμητος 11 πώποτε 19 ἐξοχωτάτην 21 Βικτωρίου

138 Sirleto

propone forse meglio ἔρχεται. tratta con ogni verisimiglianza di Demostene, ‘primo’ oratore. 140 Demetrio Falereo, oratore, discepolo di Teofrasto. 141 Si allude quasi certamente ad Apollonio Molone. Se ciò è vero, pur rimanendo nel perimetro dell’oratoria greca, l’ex compagno di studi del cardinale elogia anche il più grande oratore latino, Cicerone, che di Molone fu discepolo. 142 Sic acc. 143 La sintassi avrebbe richiesto il congiuntivo (ὅπως… δύνωμαι). L’uso dell’indicativo con ὅπως, piuttosto raro, occorre talvolta per segnalare uno scopo che si valuta irragiungibile: F. Blass – A. Debrunner, A Greek Grammar of the New Testament and Other Early Christian Literature, trad. ital., a cura di U. Mattioli – G. Pisi, Brescia 1997, pp. 437, 445-447 (§§ 361 e 369). 144 Probabilmente è meglio emendare διάγω in διάγων. 145 Sirleto in margine adotta la forma erudita Οὐαλεντίαν. In greco, infatti, il suono /v/ è reso col dittongo ου piuttosto che con β: Georg. Choerob. De orthographia (epitome) (e codice Barocc. 50), p. 187, lin. 2 [J. A. Cramer, Anecdota Graeca e dodicibus manuscriptis bibliothecarum Oxoniensium, II, Oxford 1835, rist. Amsterdam 1963]. 146 L’autore mostra di conoscere il mito delle origini di Roma sul Foro Boario, nei pressi della piazza «Bocca della Verità», come racconta Giovanni Malala, Chron. VII, 1 «οἵτινες [idest Romolo e Remo] καὶ τὰ ὅπλα τοῦ Ἡρακλέος τοῦ ἐκ τοῦ γένους τοῦ Πίκου Διὸς εὑρηκότες ἀπέθεντο ἐν τῇ παρ’ αὐτῶν κτισθείσῃ πόλει Ῥώμῃ τῇ πρῴην λεγομένῃ κόμῃ Βαλεντίᾳ ἐν τῷ Βοαρίῳ φόρῳ εἰς τὸν ναὸν τοῦ Πίκου Διός, ἀποκλείσαντες αὐτὰ ἐκεῖ ἕως ἄρτι», e VI, 24 [I. Thurn, Ioannis Malalae Chronographia, Berlin – New York 2000 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae. Series Berolinensis, 35]. Cfr. anche L. Dindorf, Chronicon paschale, I, Bonnae 1832, p. 204, lin. 5-7, e la voce di F. Coarelli, «Forum Boarium», in Lexicon topographicum urbis Romae, II, a cura di E. M. Steinby, Roma 1995, ad loc.; id., Il foro Boario. Dalle origini alla fine della Repubblica, Roma 1988. 139 Si

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

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ποδῶν τε, καὶ ὀστῶν, κοινοῦ νῷν διδασκάλου ἐν τῇ Παρθενόπῃ, ὡς ἂν καὶ ἐμοὶ τῆς μνήμης ταύτης ἕνεκα, ἀγαθόν τι εὐποιήσῃς, καὶ τῷ εὐσεβεστάτῳ Μαϊοράνῳ147 εὖ πράττειν παρ’ ἐμοῦ λέγειν ἀξιώσει148. Τῶν τοῦ Διονισίου, καὶ Γρηγορίου149, καὶ τῶν ἄλλων τῆς θείας γραφῆς ἐνδόξων ξυγραφέων τὰ ἐπιτηδεύματα, καὶ χριστιανὰ σὲ ἐπιτρέφειν νύκτας τε, καὶ ἡμέρας, ἀκριβέστατα αὐτὸς οἶδα. Ἔῤῥωσο, τῆς Ἑλλάδος πρόβλημα ὀχυρώτατον καὶ τῶν Ἀρχιεραρχῶν στέφανος τιμιώτατος.

25

24 Διονυσίου 26 ἐπιτρέφειν: ἐπιστρέφειν ante corr.

147 Circa

Niccolò Maiorano di Melpignano, nei pressi di Otranto (1491/1492-1584/1585 ca.), che avrebbe imparato il greco da un certo Roberto in Abruzzo, cfr. P. Paschini, Un ellenista del Cinquecento, Niccolò Maiorano, in Atti dell’Accademia degli Arcadi e scritti dei soci 11 (1927), pp. 47-62, rist. in id., Cinquecento Romano e Riforma cattolica. Scritti raccolti in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’autore, Roma 1959, pp. 219-236, e la voce di M. Ceresa, «Majorano Niccolò», in Dizionario biografico degli Italiani, LVII, Roma 2006, ad loc. 148 Scriverei meglio ἀξιώσῃ (seconda persona del congiuntivo medio di ἀξιόω, che appare la soluzione più economica), οvvero ἀξιώσῃ. La correzione marginale di Sirleto che suggerisce ἀξίωσον non mi sembra convincente, giacché tutta la frase dipende, a mio parere, dal Μέμνησο (…) della proposizione principale. Cfr. supra, p. 324. 149 Il riferimento concerne Gregorio di Nazianzo e con ogni verisimiglianza Dionigi Areopagita piuttosto che Dionigi Alessandrino, autori verso i quali Sirleto ha mostrato sicuro interesse. Segnalo qui soltanto A. Baldoncini, Sirleto traduttore di Gregorio di Nazianzo, in Il «sapientissimo Calabro» cit., pp. 339-356; quanto all’Areopagita, cfr. la lettera del 25 aprile 1548 inviata a Cervini [Vat. lat. 6177]: W. E. Tentzelii [Tentzel], Exercitationes selectae in duas partes distributae (…), Lipsiae & Francofurti, apud Joh. Frid. Gleditsch., 1692, p. 281; Lucà, Guglielmo Sirleto e la Biblioteca Vaticana, cit., p. 174 e nt. 239 (p. 187) [copia trasmessa dal Barb. lat. 883, pp. 157-158], nt. 88 (p. 181). Sirleto si occupò anche dello Ps.-Dionigi Alessandrino: D. Surace, La corrispondenza teologica con Paolo di Samosata (CPG 1705, 1708-1709). Considerazioni sull’editio princeps romana del 1608, in Rivista di studi bizantini e neoellenici, n.s. 52 (2015) [2016], pp. 295-346. Ricordo anche che lo stesso Sirleto fu promotore e patrono della versione in latino delle poesie del Nazianzeno curata dal cremonese Giacomo Oliva, versione che questi da Viterbo trasmise al cardinale nel 1583: R. Palla, «… il meglio ch’ho puotuto, et saputo…»: i carmi di Gregorio Nazianzeno nella traduzione di Giacomo Oliva, in Cassiodorus 2 (1996), pp. 267-276. È ben noto, del resto, che lo stesso cardinale aiutò, con suggerimenti e l’invio di manoscritti, l’abate benedettino Jacques de Billy [Billius] (1535-1581) nella cura dell’edizione di Gregorio, apparsa a Parigi nel 1575 e nel 1583: R. Palla, Alle fonti della prima edizione billiana dei carmi di Gregorio di Nazianzo, in Polyanthema. Studi di letteratura cristiana antica offerti a Salvatore Costanza, III, Messina 1998, pp. 83-113; Gregorio Nazianzeno, Sulla virtù, carme giambico [I, 2, 10], Introduzione e traduzione di C. Crimi, Commento di M. Kertsch, Appendici a cura di C. Crimi – J. Guirau, Pisa 1995 (Poeti cristiani, 1), pp. 95-99; C. Crimi., Nazianzenica XX. Sopra un codice vaticano perduto e un “Sirleti liber” utilizzato da Jacques de Billy, in Bizantinistica. Rivista di studi bizantini e slavi, ser. II, 16 (2014-2015), pp. 349-359; G. Cardinali, Un acquisto «poco giuditioso» del cardinale Antonio Carafa: il Gregorio di Nazianzo commentato da Elia di Creta Vat. gr. 1219, in Νέα Ῥώμη 10 (2013), pp. 303-318.

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SANTO LUCÀ

IV. Viene qui trascritto il testo greco dei carmi di Gregorio Nazianzeno tradotti in endecasillabi italiani dal Tarantino così come presentati nell’attuale Vat. gr. 1896 (ff. 339r-366r). Risulta arduo allo stato delle mie conoscenze stabilire se il maestro di Napoli abbia utilizzato per il testo greco un manoscritto o piuttosto, come ritengo, un’edizione a stampa. A meno che egli non abbia ricevuto da Roma o dallo stesso Sirleto un testimone manoscritto, a Napoli sono tuttora conservati, a quel che mi comunica per litteras del 20 luglio 2019 Roberto Palla, soltanto due manufatti librari latori dei carmi I, 2, 31 e I, 2, 32 (le γνῶμαι δίστιχοι), che, seppur annoverate nella lettera di Tarantino (qui nr. II), sono andati perduti, non risultando veicolati dal Vat. gr. 1896150. D’altronde, nessun altro codice napoletano è latore degli altri carmi nell’ordine presentato dal medesimo Tarantino nel codice Vaticano. Difatti, i manoscritti che consegnano l’epitaph. 119 in onore di s. Basilio sono i Neap. II C 33 (ma solo i vv. 1-15), II C 34 (vv. 1-50), II A 24 (completo); in II C 33 si conserva un doppio carme abecedario, ma entrambi sono diversi da I, 2, 30; il carme I, 2, 31 occorre, invece, nel Neap. II A 24, mentre il carme I, 2, 33 è conservato in II B 29, dove però mancano i vv. 181-196 e 201-224. In ogni caso, sia il II A 24 che il II C 33 all’epoca dell’allestimento del Vat. gr. 1896 facevano parte della collezione Farnese. Neppure nelle edizioni a stampa edite sino al 1549, a parte l’Aldina del 1504, compaiono tutti insieme i carmi tradotti da Tarantino151: per quanto mi consta, essi vengono pubblicati nell’Hervagiana del 1550 (Basilea), che dipende dall’Aldina. Osservo tuttavia che la sequenza carmi I, 2, 30 e I, 2, 33 ed epitaph. 119152, accompagnata dal commento di Niceta David, è registrata nell’edizione di Zacharias 150 Il

carme I, 2, 33 è conservato, ma mutilo, nel Neap. II B 29, che proviene dal monastero di S. Giovanni a Carbonara; mentre carme I, 2, 31 nel Neap. II A 24. Circa il carme I, 2, 33 cfr. C. Crimi, Nazianzenica XXI. L’edizione postuma di Stefano Antonio Morcelli del carme I, 2, 33, in Clavigero nostro. Per Antonio V. Nazzaro, a cura di R. Palla – M. G. Moroni – C. Crimi – A. Dessì, Pisa 2014, pp. 73-83. 151 Cfr. Gregorio di Nazianzo in Occidente, I. Edizioni e traduzioni latine a stampa 15001549, a cura di R. Palla – M. G. Moroni – C. Crimi – A. Dessì, Pisa 2010 (… et alia. Studi di filologia classica e tardoantica, 1); R. Palla, ‘Edizioni antiche’ ed ‘edizioni moderne’ dei carmi di Gregorio di Nazianzo, in Leggere i Padri tra passato e presente [= Atti del Convegno internazionale di studio, Cremona, 21-22 novembre 2008], a cura di M. Cortesi, Firenze 2010, pp. 127-143. 152 Su di essi cfr. C. Crimi, Note su alcune edizioni di Gregorio Nazianzeno apparse tra il 1550 e il 1568, in I Padri sotto il torchio. Le edizioni dell’antichità cristiana nei secoli XV e XVI [= Atti del Convegno di studi, Certosa del Galluzzo – Firenze, 25-26 giugno 1999], a cura di M. Cortesi – C. Leonardi, Firenze 2002, pp. 147-165; R. Palla, Tra filologia e motivi confessionali: edizioni e traduzioni latine di Gregorio Nazianzeno dal 1569 al 1583, ibid., pp. 167-188.

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

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Skordylios153, che, al pari del Vaticano, offre anche la medesima ripartizione dell’epitafio in dodici epigrammi distinti. Il confronto tra l’edizione di Skordylios e il testo fornito da Tarantino, sebbene qua e là riaffiorino delle lezioni separative, consente cautamente di non escludere a priori che il docente napoletano abbia utilizzato proprio l’edizione di Skordylios154. Un cenno, infine, agli endecasillabi sciolti. Ovviamente, sarà compito degli studiosi del Rinascimento esprimere un giudizio sulla tecnica versoria, sul metro e sul lessico utilizzati dal professore napoletano; qui è sufficiente osservare che la comprensione del testo risulta nel complesso valida, ma la traduzione non si segnala per qualità e ricchezza lessicale; la metrica155, invece, con accenti principali di quarta e di sesta, rispetta grosso modo le ‘regole’, sia pure talora a prezzo di qualche ipometro, sinalefe/ dialefe o dieresi, non sempre del tutto ortodosse (cfr. e.g., infra, pp. 353, 354, 355: vv. 20, 61, 74). a) Vat. gr. 1896, ff. 339r-343r. 366r (vv. 47-50), Epitaphium in s. Basilium Magnum: PG 38, 72 A1-75 A8 [= H. Beckby, Anthologia Graeca, I-IV, Munich2 1965‑1968, II, pp. 448-454: epigr. VIII, 2-11b]. Il carme, risulta ripartito in singoli epigrammi e non come componimento unico in numerosi testimoni ed edizioni a stampa156. Ἐπιτάφια τοῦ μεγάλου Γρηγορίου εἰς τὸν μέγαν Βασίλειον. 1 Σῶμα δίχα ψυχῆς ζώειν πάρος, ἢ ἐμὲ σεῖο,   Βασίλιε, Χριστοῦ λάτρι φίλ᾽, ὠϊόμην.

Basilio, di Christo seruo caro, pensaua pria più presto che senz’ alma

153 Νικήτα φιλοσόφου τοῦ καὶ Δαβὶδ ἑρμηνεία εἰς τὰ τετράστιχα τοῦ μεγάλου Γρηγορίου τοῦ Ναζιανζηνοῦ. Τοῦ αὐτοῦ εἰς τὰ μονόστιχα. Τοῦ αὐτοῦ εἰς τὰ ἐπιγράμματα τὰ εἰς τὸν μέγαν Βασίλειον παράφρασις. Ἰωάννου τοῦ Γεωμέτρου ἐπιγράμματα, Venetiis, apud Franciscum Zanetum, M. D.

LXIII, rispettivamente pp. 5-40v, 41-51v, 53-55v. L’edizione è reperibile sul sito del Münchener DigitalisierungsZentrum. 154 Ad esempio, relativamente al carme I, 2, 30 Skordylios registra al v. 24 la lezione φυλάξει al posto di ποιήσει; in carme I, 2, 33 le differenze più significative sono: κακίστοις Skordylios: κακοῖς (v. 132); ὑπέρτατος: ὑπέρτερος (v. 152); σωφρονεῖν: σωφρονέστερος (v. 229). Se così fosse, le divergenze potrebbero essere dovute al Tarantino stesso, che forse aveva sotto mano un’altra edizione. 155 Sull’endecasillabo cfr. F. D’Ovidio, Sull’origine dei versi italiani, in La metrica, a cura di R. Cremante – M. Pazzaglia, Bologna 1972, pp. 237-242; S. Avalle d’Arco, Preistoria dell’endecasillabo, Milano – Napoli 1963; id., Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale, I, Napoli 1932, pp. 166-172. 156 Cfr. R. Palla, Da dodici a uno. Le molte vicende di un ciclo di epigrammi (Greg. Naz. Epitaph. 119 = Anth. Pal. 8, 2-11), in Sermo varius et accomodatus. Scritti per Maria Silvana Celentano, a cura di F. Berardi – L. Bravi – L. Calboli Montefusco, Perugia 2018 (Monographs, 5), pp. 169-176.

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SANTO LUCÀ

Ἀλλ᾽ ἔτλην καὶ ἔμεινα. Τὶ μέλλομεν; Οὐ μ᾽ ἀναείρας, uiurebbe il corpo, ch’ io sol senza uoi.   θήσεις ἐς μακάρων, σήν τε χοροστασίην; L’ ho comportato e stommi. Ché tardiamo? 5 μή με λίπῃς, τύμβον ἐπόμνυμι, οὔ ποτε σεῖο non m’ alzerai al tuo choro e de beati?   λήσομαι157, οὐδὲ θέλων. Γρηγοροιο λόγος. Non mi lasciar, ti giuro pel sepolcro, non m’ uscirai di mente, benché uoglia. Queste sono parole di Gregorio. 2 Ἡνίκα Bασιλίοιο θεόφρονος ἥρπασε πνεῦμα Quando la Trinità rapì lo spirto,   ἡ Tριάς, ἀσπασίως ἔνθεν ἐπειγομένου, Basilio tuo che uolontier andasti, πᾶσα μὲν οὐρανίη γήθησεν ἰόντος. si rallegrò l’ essercito del cielo. Ogni città di Cappadocia pianse, 10   Πᾶσα δὲ Kαππαδοκῶν ἐστονάχησε πόλις· οὐκ οἶον κόσμος δὲ μέγ᾽ ἴαχεν· ὤλετο κῆρυξ158, anzi tutto il mondo, ché si perse   ὤλετο εἰρήνης δεσμὸς ἀριπρεπέος. la tromba et la catena della pace. 3 Κόσμος ὅλος μύθοισιν ὑπ᾽ ἀντιπάλοισιν S’ è posto in gran tempesta il mondo tutto,   σείεται, ὁ Τριάδος κλῆρος ὁμοσθενέος. che non s’ accordan nella Trinità. 20 Αἲ αἲ Βασιλίου δὲ μεμυκότα χείλεα σιγῇ· La bocca tua, Basilio, sta serrata;   ἔγρεο καὶ στήτω σοῖσι λόγοισι σάλος, alzati et fermarassi la tempesta, σαῖς τε θυηπολίῃσι. Σὺ γὰρ μόνος ἶσον ἔφηνας, col tuo bel dir et co’ tuoi sacrificij,   καὶ βιότον μύθῳ, καὶ βιοτῆτι λόγον. tu sol al dir la uita festi uguale. 25

4 Εἷς Θεὸς ὑψιμέδων, ἕνα δ᾽ ἄξιον ἀρχιερῆα Un Dio signor del ciel159, Pontefice uno,   ἡμετέρη γενεὴ εἶδε σε, Βασίλιε, Basilio, te conobe nostra etate, ἄγγελον ἀτρεκίης ἐριηχέα, ὄμμα φαεινὸν tromba sonora della ueritate,   χριστιανοῖς, ψυχῆς κάλλεσι λαμπόμενον, et di christiani lucidissimo occhio. Πόντου Καππαδοκῶν τε μέγα κλέος· εἰσέτι καὶ νῦν, Per le uirtù dell’ alma risplendente,   λίσσομ᾽, ὑπὲρ κόσμου ἵστασο δῶρ’ ἀνάγων. per il mondo ti prieggo, offri sù doni. 5

Ἐνθάδε Βασιλίοιο Βασίλιον ἀρχιερῆα   θέντο με Καισαρέες, Γρηγορίοιο φίλον, ὃν περὶ κῆρι φίλησα· Θεὸς δὲ οἱ ὄλβια δοίη   ἄλλα τε καὶ ζωῆς ὡς τάχος ἀντιάσαι ἡμετέρης. Τί δ᾽ ὄνειαρ ἐπὶ χθονὶ δηθύνοντα 30   τήκεσθ᾽, οὐρανίης μνωόμενον φιλίης; 25

Basilio di Basilio qui m’ han posto amico di Gregorio i Cesaresi, il qual di cuore amai, a cui Dio dia l’ altre cose filici et questa uita, che gioua che stia in terra lungo tempo pensando a questa uita consumarsi?

6 Τυτθὸν ἔτι πνείεσκες ἐπὶ χθονί, πάντα δὲ Χριστῷ, Poco spiraui in terr’ anchor che desti   δῶκας ἄγων, ψυχὴν, σῶμα, λόγον, παλάμας, l’ alma, il corpo, il dir, le man a Christo, Βασίλιε, Χριστοῖο μέγα κλέος, ἕρμ᾽ ἱερήων, Basilio, di Christo gloria grande,   ἕρμα πολυσχίστου νῦν πλέον ἀτρεκίης. di uerità fermezza hor sì diuisa. 157 Λήσοσομαι

cod. cod. 159 La proposta alternativa «dell’alto» è stata cassata dallo stesso Tarantino. 158 Κήρυξ

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

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7 Ὦ λόγοι, ὦ ξυνὸς φιλίης δόμος, ὦ φίλ᾽ Ἀθῆναι, O studij, e casa amica, o care Atene et o diuina uita da fanciulli!   ὦ θείου βιότου τηλόθη160 συνθεσίαι. Ἴστε τόδ᾽, ὡς Βασίλειος ἐς οὐρανόν, ὡς ποθέεσκε, Basilio al ciel sì come desiaua;   Γρηγόριος δ᾽ἐπὶ γῆς, χείλεσι δεσμὰ φέρων. Gregorio in terra sta, non può parlare.

8 Καισαρέων μέγ᾽ ἄεισμα, φαάντατε ὦ Βασίλειε, 40   βροντὴ σεῖο λόγος, ἀστεροπὴ δὲ βίος· ἀλλὰ καὶ ὣς ἕδρην ἱερὴν λίπες, ἤθελεν οὕτω   Χριστός, ὅπως μίξῃ σ᾽ ὡς τάχος οὐρανίοις.

Basilio chiaro spirto di Cesarea, il dir tuo tuono et la uita era un lampo; con tutto ciò lasciasti il sacro seggio, sì volse Christo: al ciel ch’ andassi presto.

9 Βένθεα παντ’ ἐδάης τὰ πνεύματος, ὅσσα τ’ ἔασι Sapesti ogni secreto dello spirto   τῆς χθονίης σοφίης, ἔμπνοον ἱερὸν ἔης. et del saper humano tempio uiuo. 45 Ὀκταέτη λαοῖο θεόφρονος ἡνία τείνας, Ott’ anni governasti il popol pio   τοῦτο μόνον τῶν σῶν, ὦ Βασίλει’, ὀλίγον. di quanto hauesti questo sol fu poco. 10 Χαίροις, ὦ Βασίλειε, καὶ εἰ λίπες ἡμέας ἔμπης· Basilio godi anchor che mi lasciasti;   Γρηγορίου τόδε σοι γράμμ’ ἐπιτυμβίδιον. Gregorio questo al tuo sepolchro scriue. 11 Μῦθος ὃ δ’ ὃν φιλέεσκες· ἔχεις χρέος, ὦ Βασίλειε, Basilio prendi il don che desiavi, debito d’ amistà contra mia uoglia. 50   τῆς φιλίης, καί σοι δῶρον ἀπευκτότατον. 12 Γρηγόριος, Βασίλειε, τεῇ κονιῇ ἀνέθηκα τῶν ἐπιγραμματίων τήνδε δυωδεκάδα.

Basilio, questi dodici epigrammi Gregorio scrisse sopra la tua polve.

b) Vat. gr. 1896, ff. 343r-344v: Carme I 2, 30: PG 37, 908 A12 – 910 A10. Nel codice ad ogni singolo stico del carme abecedario segue la traduzione. Qui per comodità, invece, la medesima poesia viene presentata senza soluzione di continuità. Τοῦ αὐτοῦ μονόστιχοι παραινετικοί. Ἀρχὴν ἁπάντων καὶ τέλος ποιοῦ θεόν. Βίου τὸ κέρδος ἐκβιοῦν καθ’ ἡμέραν. Γίνωσκε πάντων τῶν καλῶν τὰ δράματα. Δεινὸν πένεσθαι χεῖρον δ᾽εὐπορεῖν κακῶς. 5 Εὐεργετῶν νόμιζε μιμεῖσθαι Θεόν. Ζήτει Θεοῦ σοι χρηστότα χρηστὸς ὤν.

Fa’ Dio principio et fine d’ ogni cosa. Donando il uiuer ogni dì l’ acquisti. Sappi l’ operation di tutti buoni. Esser pouer è mal, peggio è mal ricco. Pensa ch’ imiti Dio quando ben fai. Cerca benigno Dio, se sei benigno.

160 Sic. cod. Ne ho mantenuto la lezione, invece di scrivere τηλόθε/τηλόθι, per le ragioni esposte sopra (p. 319).

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SANTO LUCÀ

Ἡ σάρξ κρατείσθω καὶ δαμαζέσθω καλῶς. Θυμὸν χαλίνου, μὴ φρενῶν ἔξω πέσῃς Ἵστη μὲν ὄμμα, γλῶσσα δε στάθμην ἔχοι. 10 Κλεὶς ὠσὶ κείσθω, μηδὲ πονεύει γέλως. Λύχνος βίου σοι παντὸς ἡγείσθω λόγος. Μή σοι τὸ εἶναι τῷ δοκεῖν ὑποῤῥέῃ. Νόει τὰ πάντα, πρᾶσσε δ’ ἃ πράσσειν θέμις. Ξένον σεαυτὸν ἴσθι, καὶ τίμα ξένους. 15 Ὅτ᾽ εὐπλοεῖς, μάλιστα μέμνησο ζάλης. Πάντ᾽ εὐχαρίστως τἀκ Θεοῦ δέχεσθαι χρῆ. Ῥάβδος δικαίου πλεῖον, ἢ τιμὴ κακοῦ. Σοφῶν θύρας161 ἔκτριβε, πλουσίων δὲ μή. Τὸ μικρὸν οὐ μικρόν, ὅταν φέρῃ μέγα. 20 Ὕβριν χαλίνου, καὶ μέγας ἔσῃ σοφός. Φύλασσε σαυτόν, πτῶμα δ᾽ ἄλλου μὴ γέλα. Χάρις φθονεῖσθαι, τὸ φθονεῖν αἶσχος μέγα. Ψυχὴν θύοιτο μᾶλλον ἢ τὸ πᾶν Θεῷ. Ὤ τίς ποιήσει ταῦτα καὶ σωθήσεται;

Tengasi et raffreni ben la carne. Per non cader di mente, frena l’ ira. Tien fermo l’ occhio et alla lingua squadro. Serra l’orecchie, il riso casto sia. Per luce la ragion guidi la uita. L’ esser per il parere non ti fuga. Sappi ogni cosa et fa’ quel che si deue. Sei peregrino, honora i peregrini. Ben nauigando, pens’ alla tempesta. Piglia ogni cosa et rendi gratie a Dio. Baston di giusto è più c’ honor di tristo. Usa case di sauii, non di ricchi. Picciol non è, se porta cosa grande. Sarai gran sauio, se l’ offesa freni. Guardi tu, non rider s’ altri cade. La ’nuidia è gratia, l’ inuidiar uergogna. Da’ l’ alma a Dio più presto ch’ ogni cosa. Chi farà queste cose e sarà saluo?

c) Vat. gr. 1896, ff. 344v-364v: Carme I 2, 33: PG 37, 927 A8-945 A10 (ff. 345rv bianco). Nel codice ad ogni quartina di testo greco segue alternativamente la versione italiana. Τετράστικα τοῦ αὐτοῦ. Πρᾶξιν προτιμήσειας, ἢ θεωρίαν; Ὄψις τελείων ἔργων162, ἡ δὲ πλειόνων. Ἄμφω μέν εἰσι δεξιαί τε καὶ φίλαι· 5 σὺ δὲ πρὸς ἣν πέφυκας, ἐκτείνου πλέον.

Il contemplar ouer l’ oprar piu stimi? È de perfetti l’ un, l’ altro è di molti. L’uno e l’ altro è bono caro et altro163 a quel che s’ è164 inchinato, più ti stendi.

Ἤρετό μέ τις πρόβλημα τῶν ἐκ πνεύματος ἢν ἐκρυπωθῇς, εἶπον. Ἀλλὰ σωφρονεῖς ἢν ἐκρυπωθῇς. Νῦν δὲ δεῖ καθαρσίων. Μῦρον δοχεῖον σαπρὸν οὐ πιστεύεται.

2 Fui domandato un dubbio dello spirto se ti nettasti, dissi, et hor sei sauio se ti nettasti, hor purgation bisogna: profumo non si mette in uaso sporco.

Μήτ’ ἀντίτεινε πᾶσι, μήθ’ ἕπου λόγοις;

3 Non contrastar nè165 consentire sempre,

161 θήρας

cod. cod. 163 «alttro» cod. 164 «se» cod. 165 «ne» cod. 162 ἔργον

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

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ἀλλ’ οἷς ἐπίστῃ καὶ ὅσον καὶ πηνίκα Θεοῦ δὲ πλεῖον, ἐξέχου ἢ προστάτῃ166. Λόγῳ παλαίει πᾶς λόγος, βίῳ δὲ τίς;

m’ alle cose che sai, et quanto et quando pender uogli da Dio non contrastare, Al dir contrasta ognun, al uiuer chi?

Ἢ μὴ διδάσκειν ἢ διδάσκειν τῷ τρόπῳ. Μὴ τῇ μὲν ἕλκειν, τῇ δ’ ἀπωθεῖσθαι χεροῖν. 15 Ἧττον δεήσῃ τοῦ λέγειν, πράττων ἃ δεῖ. Γραφεὺς διδάσκει τὸ πλέον τοῖς ἐκτύποις.

4 Non insegnar ouer col modo insegna. Non trar con l’una et spingere con l’altra. Il dir men ti bisogna oprando bene. Più con ritratti insegna il dipintore.

Ὑμῖν λέγω μάλιστα τοῖς τοῦ βήματος ὀφθαλμὸν εἶναι μὴ σκότους πεπλησμένον, μὴ καὶ πρόεδροι τοῦ κακοῦ φαινοίμεθα. 20 Εἰ γὰρ τὸ φῶς τοσοῦτον, τὸ σκότος ποσον;

5 A uoi che state al tribunale dico ch’ occhio non siate pieno di tenebre, che non siam presidenti di mal fare. S’ è tal luce167, com son le tenebre?

10

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Ἄφωνον ἔργον κρεῖσσον ἀπράκτου λόγου. Βίου μὲν οὐδεὶς πώποθ’ ὑψώθη δίχα· λόγου δὲ πολλοὶ τοῦ καλῶς ψοφουμένου. Οὐ γὰρ λαλούντων εὖ βιούντων δ’ ἡ χάρις.

6 Il ben far è miglior del dire solo. Nissun giamai s’ alzò senza ben fare, senza ben dire molti andaro in alto. La gratia è del ben fare, non del ben dire.

Δῶρον Θεῷ κάλλιστόν ἐστιν ὁ τρόπος. Κἂν πάντ’ ἐνέγκῃς, οὐδὲν οἴσεις ἄξιον. Ὃ καὶ πένης δίδωσι, τοῦτο πρόσφερε. Μίσθωμα πόρνης ἁγνὸς οὐ μερίζεται.

7 I boni modi a Dio son belli doni. Tutte le cose apporta non son degne. Dà quel ch’ ogni mendico anchor può dare. Non piglia il puro don da meretrice.

Μηδέν ποτ’ εὔξῃ, μηδὲ τῶν σμικρῶν Θεῷ, 30 Θεοῦ γάρ ἐστι πρὶν λαβεῖν. Τί οὖν λέγω; Κλέπτεις τὰ σαυτοῦ μὴ διδούς· καινοῦ κρέους! Ἀνανίας σε πειθέτω, Σάπφειρά τε.

8 Non far mai uoto a Dio d’ alcuna cosa, ch’ innanzi che le piglia son le sue. Rubbi le cose tue se non le dai. Saffira et Anania t’ amonisca.

Πανήγυριν νόμιζε τόνδε τὸν βίον, ἣν πραγματεύσῃ, κέρδος· ἀντάλλαγμα γὰρ 35 μικρῶν τὰ μείζω καὶ ῥέοντ’ ἀϊδίων. Ἢν δ’ αὖ παρέλθῃ καιρόν, ἄλλον οὐκ ἔχεις.

9 Pensa che questa uita sia mercato, ch’ aurai guadagno, se traficherai per poco molto et per caduco eterno. Se questo tempo passa, altro non hai.

10 Πολὺς μὲν ἔστιν ὁ προκείμενος δρόμος, Il corso è molto, il merito è maggiore. Πλείων δ’ ὁ μισθός. Μὴ βλέπων τὸ πᾶν ἅμα, Non guardar tutto che non lasci’ l tutto; τοῦ παντὸς ἐκστῇς. Καὶ πλέεις οὐ πᾶν ἅμα. che non si passa il mar tutto in un tratto. 40 καὶ τοῦτο πεῖρα πολλάκις τοῦ δυσμενοῦς. Quest’ l nemico spesso ne fa fare. 166 Forse 167 Forse

meglio: προστάτει è meglio scrivere «se tal è la luce…».

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SANTO LUCÀ

11 Μὴ σφόδρα θαῤῥεῖν, μὴ δ’ ἀπελπίζειν ἄγαν. Non ti fidar nè desperar souerchio. L’ un ti fa negligente, l’ altro pigro. Τὸ μὲν γὰρ ἐκλύει σε, τῷ168 δ’ ἀνατρέπει. Τὸ μὲν κατόρθου, τοῦ δ’ ἔχου· τοῦδ’ οὐ φθόνος. L’ un fà perfetto, l’ altro non lasciare. Non come in via, il resto perde il fatto. Οὐχ ὡς ὁδοῦ τὸ λεῖπον169 ἀχρειοῖ πόνον. 45

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12 Μὴ θερμὸν ἄττειν, ἐμμένειν δ’ οἷς ἂν κρίνῃς. Non saltar presto, mall’ impresa dura. Κρεῖσσον προκόπτειν, ἤ τι κόπτειν τοῦ καλοῦ. Al ben è meglio aggiunger che leuare. Καὶ γὰρ κακοὺς καλοῦμεν, οὐχὶ τοὺς κάτω, Non chiamiam tristi que’ che stan nel basso, τοὺς δ’ ἡνίχ’ ὑψωθῶσι, πίπτοντας μέγα. ma quei che d’ alto fanno gran caduta. 13 Σπινθὴρ ἀνάπτει καὶ μικρὸς πολλὴν φλόγα. Poca fauilla accend’ una gran fiamma. Σπαράγμ’ ἐχίδνης πολλάκις διώλεσε. Ιl uiperino morso uccido spesso. Ταῦτ’ οὖν ὁρῶν, ἔκκλινε καὶ μικρᾶς βλάβης. Per questo schif’ anchor picciol’ offesa. Μικρὸν μὲν ἔστιν, εἰς δὲ μεῖζον ἔρχεται. Picciol’ è certo, ma diuien magiore. Ἐρεύνα σαυτὸν πλεῖον, ἢ τὰ τῶν πέλας· τὸ μὲν γὰρ αὐτὸς κερδανεῖς, τὸ δ’ οἱ πέλας. Κρεῖσσον λογισμὸς πράξεων, ἢ χρημάτων· τὰ μὲν γάρ ἐστι τῆς φορᾶς, τὸ δ’ ἵσταται.

15 Ὁ νοῦς ἀεί σοι καμνέτω τυπούμενος Sempre ti s’ affatichi lo ’ntelletto θείοις νοήμασί τε, καὶ βίου λόγοις. ne’ diuini pensier et uiuer bene. Γλώσσης δὲ φείδου, καὶ γὰρ εὐκολωτέρα Frena la lingua a nuocere più pronta βλάπτειν· τὸ κέρδος θ’ ἧσσον εὐ κινουμένης. et meno gioua anchor che ben si moua. Ὄψις συνήρπασέ με πλὴν ἀλλ’ ἐσχέθην· εἴδωλον οὐκ ἔστησα τῆς ἁμαρτίας. Εἴδωλον ἔστη, πείραν ἐκπεφεύγαμεν· βαθμοὶ τάδ’ εἰσι τῆς πάλης τοῦ δυσμενοῦς.

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14 Cerca li fatti tuoi più che l’ altrui: nell’un guadagni tu, altri nell’ altro. Megli’ è contare fatti che parole: restan i fatti et passan i dinari.

16 La uista m’ hà rapito, ma io m’ astenni; nissun idolo feci di peccato. L’idolo sol si fece et non l’ effetto; la lotta del nemico ha tanti gradi.

17 Κηρῷ τὰ ὦτα, φράσσε πρὸς φαύλους λόγους, Serra l’ orecchie alle parole brutte ᾠδῶν τε τερπνῶν ἐμμελῆ λιγύσματα. et a canzoni che non sono honeste. Datti alle cose che son bone e honeste, Τοῖς δ’αὖ καλοῖς170 κἀγαθοῖς ἀεὶ δίδου, εἰπεῖν, ἀκοῦσαι καὶ δράσαι, μικρὸν μέγα. in dir, udir et far, picciol’ et grande. Μὴ σφόδρα δ’ ὀσμῶν ἐκλύου θηλύσμασιν, ἀφῆς τε λειότησι, μηδὲ γεύσεσιν. 168 τὸ

169 Ex

18 Molto non ti dilettino gli odori, et quel che piace al tatto ouer al gusto.

cod.

πλεῖον.

170 καλλοῖς

cod.

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

Τί ἄν ποτ’ ἀνδρίσαιο τῶνδ’ ἡσσώμενος; Χωρὶς γυναικῶν κἀῤῥένων ἡδύσματα.

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Che cosa d’ huom faresti da ciò uinto? Altri piaceri ha l’ huom, altri le donne.

19 Δός, εἶπε γαστήρ. Ἢν λαβοῦσα σωφρονῇς171 Dà, dice il ventre. Uolontier darotti δώσω προθύμως. Ἢν δὲ τοῖς κάτω δίδῳς, se da poi uiui ben. Ma se giù stai, κόπρον λάβοις μέν, ἀλλ’ ὅμως οὐ πλουσίως, sterco piglieraiti, et quel non molto, ἢ172 δ’ αὖ κατάσχοις, δώσομεν καὶ πλουσίως. ma se ti frenerai, darotti molto. Γέλως γέλωτος εὖ φρονοῦσιν ἄξιος, μάλιστα μὲν πᾶς, τὸ πλέον δ’ ὁ πορνικός. Γέλως ἄτακτος συλλέγει καὶ δάκρυον. Κρεῖσσον ταπεινὸν ἦθος, ἢ τεθρυμμένον.

20 Degno di riso giudica ogni riso il sauio173, et più quel ch’ è de meretrici. Lacrime accoglie il risso immoderato. Viso chino è miglior ch’ altiero et lieto.

Κάλλος νόμιζε τὴν φρενῶν εὐκοσμίαν, οὐχ ὃ γράφουσι χεῖρες, ἢ λύει χρόνος ˙ ὄψει δ’ ὅπερ νοῦ σώφρονος γνώριζεται. Αἶσχος δ’ ὁμοίως τὴν φρενῶν ἀκοσμίαν.

21 Quel bello stima il qual è della mente non quel che la man pinge o guasta il tempo, che da mente sauia è conosciuto; et brutto lo ’ntelletto non ornato.

Λύπαι προσῆλθον, ἠδοναί, θάῤῥη, φόβοι, πλοῦτος, πενία, δόξα, δύσλεια, θρόνοι ῥείτωσαν, ὡς θέλουσιν. Οὐδὲν ἅπτεται τῶν οὐ μενόντων ἀνδρὸς εὖ βεβηκότος.

22 Venner dolor, piacer, ardir et tèma, ricchezze, pouertà, gloria, mal nome, et come uoglian, corran’ alti seggi. Quel che non resta, huom stabile non tocca.

Ὑψοῦ βίῳ τὸ πλεῖον, ἢ φρονήματι· ὁ μὲν θεοῖ σε, τῷ δὲ καὶ πίπτεις μέγα. Τεύξῃ δὲ τούτου μὴ μικροῖς μετρούμενος, κἂν πλεῖον ἀρθῇς, εἶ κάτω τῆς ἐντολῆς.

23 Non col parer, ma col uiuer piu t’ alza: l’ un ti fa dio, l’ altro ti mette al basso. Misurati col molto et t’ alzerai, ch’ anchor se molto t’ alzi, stai nel basso.

24 Δόξαν δίωκε, μήτε πᾶσαν, μήτ’ ἄγαν· Non seguir ogni gloria, né souerchio: κρεῖσσον γὰρ εἶναι τοῦ δοκεῖν, εἶ δ’ ἄμετρος. è miglior molto l’ esser del parere. Μὴ τὴν κενὴν θήρευε, μήτε τὴν νέαν. Non procaciar la uana né la noua. Τί γὰρ πιθήκῳ κέρδος, ἢν δοκῇ λέω; Che ual se par la simia ch’ è leone? Αἴνει μὲν ἄλλον, μὴ φρόνει δ’ αἰνούμενος· καὶ γὰρ δέος τῶν ἐπαίνων ὑστερεῖν. Μὴ δ’ ἄλλον εὐθὺς πρίν γε τῇ πείρᾳ μάθῃς, μήπως κακοῦ φανέντος, αἰσχύνην ὄφλῃς.

25 Laud’ altri et non [..]174 s’ altri ti lauda, che tema che non sii quel che si dice. Né subito altri pria che facci proua, che se riesce tristo, t’ è uergogna.

171 σωφρονεῖς

cod. scrivere: εἰ. 173 Per errore nel cod. è iterato «il savio» nel verso precedente. 174 La parola a me risulta illeggibile; proporrei per motivi metrici «sprezzar». 172 Meglio

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SANTO LUCÀ

Κακῶς ἀκούειν κρεῖττον, ἢ λέγειν κακῶς. Ὅταν προθῇ τις ἄλλον εἰς κωμῳδίαν ὡς εὐφρανῶν σε, σαυτὸν ἐγκεῖσθαι δόκει, ὧδ’ ἂν μάλιστα δυσχεραίνεις175 τῷ λόγῳ.

26 Mal udir è meglio che mal dire. S’ alcun propon qualcun per dirne male per allegrarti, pensa che ch’ ei tu sei, et si t’ attristerai per tal sermone.

Μηδὲν μέγ’ εἴπῃς εὐπλοῶν πρὸ πείσματος. Πολλοῖς πρὸς ὅρμον εὐπλοοῦν ἔδυ σκάφος· πολλοὶ προσωρμίσθησαν176 ἐκ τρικυμίας. Μι’ ἀσφάλεια μὴ ὀνειδίζειν τύχας.

27 Non dir gran cosa nauigando bene. A molti s’ annegò la naue al porto, et molti si saluar dalla tempesta. Sicuro è dir disgratia a nissun mai.

Κρεῖσσον καλῶς βιοῦντα, καὶ πονούμενον, 110 παρρησιάζεσθαί τι πρὸς τὸν Δεσπότην, ἢ μὴ καλοῖς θάλλοντ’178 ἀπαιτεῖσθαι δίκην· εἰ179 καὶ τὰ πάντα σὺν λόγῳ πορεύεται.

28 Meglio è uiuendo ben esser oppresso177, et al Signor parlar con qualch’ ardire, che per non ben fiono pagare pena quantunque con ragio uadi ogni cosa.

Πρόου τὰ πάντα καὶ θεὸν κτῆσαι μόνον, εἶ γὰρ μεριστὴς χρημάτων ἀλλοτρίων· 115 εἰ δ’ οὐ θέλεις τὰ πάντα, δὸς τὰ πλείονα. Εἰ δ’ οὐδὲ τοῦτο, τοῖς περιττοῖς εὐσέβει.

29 Spendi ogni cosa et sol acquista Dio, che spenditore sei di robbe d’ altri; οuero spendi la maggiore parte. Εt se non questo, dà quel che t’ auanza.

30 Καλόν τι σητῶν ἁρπᾶσαι καὶ τῆς φθόνου. È ben dar quel ch’ è180 uerme e inuidia. Χριστὸν χρεώστην μᾶλλον, ἢ τὰ πάντ’ ἔχειν· Debitor Christo è meglio d’ ogni cosa181, ὃς βασιλείαν κλάσματος χαρίζεται. che per pezzo di pan ti don’ un regno. 120 Χριστὸν σκέπεις τρέφεις τε, τὸν Χριστὸν τρέφων. Ciò ch’ a pouer doni, a Christo doni. Πένης προσῆλθεν, εἶτ’ ἀπῆλθε μὴ τυχών· δέδοικα, Χριστέ, μὴ κἀγὼ τῆς σῆς χερὸς χρῄζων, ἀπέλθοιμ’ ἐνδεής, ἐμοῖς νόμοις. Ὁ γάρ τι οὐ δέδωκε, μηδ’ ἐλπιζέτω.

31 Non detti al bisognoso ch’ a mè uenne; per la mia legge molto temo Christo, che da te non mi parta senza gratia. Nissun deue sperar quel che non dona.

125 Πένητος ἀνδρὸς οὐδὲν ἀσφαλέστερον, πρὸς τὸν Θεὸν νένευκε καὶ μόνον βλέπει. Σὺ δ’ ἀγκαλίζου, καὶ γὰρ ἀετὸς λόγος

32 Del pouer huom niun è più sicuro ch’ a Dio s’ inchina et sol a Dio guarda. Tufa sì come l’ aquila si dice,

175 Δυσχαναίνεις

cod. cod. 177 Sup. lin. «afflitto». 178 θάλλαντ’ cod. 179 ἢ cod. 180 «che» cod. 181 Sul margine Tarantino suggerisce «guasto». 176 προσορμίσθησαν

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

πολύς, λεπτὸν ὄρνιν ἀμφέπει.

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ch’ al nido suo fa star piccioli uccelli.

Κρεῖσσον πενία, μὴ δικαίας κτήσεως· 130 καὶ γὰρ νόσος γε, τῆς κακῆς εὐεξίας. Λιμῷ μὲν οὔ τις ῥᾳδίως διεφθάρη· τοῖς δ’αὖ κακοῖς θάνατος μοχθηρία.

33 Migliore pouertà c’ hauer non giusto, sì come il morbo dello star mal sano. Nissun per fame sì tosto si perse; genera a tristi morte la ’ngiustitia.

Τί δεσπότης, ἢ δοῦλος, ἢ φαύλη τομή; Εἷς πᾶσι πλάστης, εἷς νόμος, κρίσις μία. 135 Ὑπηρετοῦ μὲν, ὡς δὲ συνδούλος βλέπε, ὅταν λυθῆς φάνηθι τιμιώτερος.

34 Che signor, oue seruo, è mal diuiso? Un giudicio, una legge, un creatore. fatti seruir, et mira i tuoi conserui, nel morir mostra quanto sei migliore182.

35 Οἱ δ’ οἰκέται, καὶ μάλισθ’ ὅσοι Θεοῦ, Serui, quei di Dio massimamente, μὴ φευγέτωσαν εὐνοεῖν τοῖς δεσπόταις. uogliano esser beneuoli a padroni. Ἐλεύθερον καὶ δοῦλον ὁ τρόπος γράφει. I costumi ci fan liberi o serui. 140 Καὶ Χριστὸς ὤφθη δοῦλος, ἀλλ’ ἠλεθέρου. Liberò Christo i serui et par un seruo.

145

Κακὸς δ’ ἀκούων αἰσχύνου, μὴ δυσγενής· γένος γάρ εἰσιν οἱ πάλαι σεσηπότες. Γένους προάρχειν κρεῖσσον, ἢ λύειν γένος. ὡ καλὸν εἶναι, ἢ καλῶν πεφυκέναι.

36 T’ è vergogn’ esser tristo et non mal nato: i genitori son già puzzolenti. È meglio esser principio, ch’ esser fine. Meglio è che tù sii buon, c’ habbi buon padre.

Θείων ἀπλείστως καὶ θεοῦ μόνου ἔχου, ὃς τοῖς λαβοῦσι καὶ πλέον χαρίζεται, διψῶν τὸ διψᾶσθ’ ἀφθόνως ἀεὶ ῥέων. Ἐν τοῖς δὲ λοιποῖς, καὶ φέρειν ἡσσώμενος.

37 Non ti satiar di Dio nè de sue cose, ch’ anchor più dona a quel c’ haura pigliato, et fa’ sempre abbondar quei c’ hanno sete. Nell’ altre cose soffri, se sei uinto.

38 Μὴ πάντα νικᾷν, μηδ’ ἀεί, σπουδὴν ἔχε. Non uoler uincere ogn’ impresa sempre. 150 Καλῶς κρατεῖσθαι κρεῖσσον, ἢ νικᾷν κακῶς. È meglio perder ben che uincer mal. Καὶ γὰρ παλαιστὴς οὐχ ὁ κείμενος κάτω, Non sempre il luttator che sta giù perde, πάντως κρατεῖται πολλάκις δ’ ὑπέρτερος. che spesso è uinto quel ch’ è stato sopra. 39 Καὶ ζημιοῦ τι· τοῦτο κέρδος πολλάκις, Spess’ è guadagno hauer alcuno danno, ὥσπερ καθαίρειν φυτὸν εἰς εὐκαρπίαν. com’ el potare l’ arbor per far frutto. 155 Εἰ δ’ οὐ καλῶς προστίθης183 οἷς νῦν ἔχει s’ a quel che tieni malamente aggiongi, ὕλῃ φέρεις πῦρ, ἢ νόσον τῷ σώματι. porti alla selua foco, al corpo morbo. Εἰ μηδὲν ὄφλεις τῷ Θεῷ τιμωρίας, 182 Per

40 Se debitor di pena a Dio non sei,

tutto il v. 136 viene proposta anche la versione «mostrati nel morir quanto ui

uagli». 183 προστίθεις

cod.

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SANTO LUCÀ

μὴ δ’ αὐτὸς ἴσθι τοῖς ὄφλουσι συμπαθής. Non hauer compassion di debitori. Εἰ δ’ οἶδας ὄφλων καὶ πρόχησο τὸ πρᾶον. Sei debitor? Fa’ che cortese sii. Οἴκτῳ γὰρ οἶκτος καὶ Θεῷ σταθμίζεται. Dio compassion con compassione pesa. 41 Ὅταν ποθ’ ὕβρις ἐκκάῃ τὴν σὴν φρένα, Quando alcun torto accende la tua mente μνήσθητι Χριστοῦ, τῶν τ’ ἐκείνου τραυμάτων. ricordati di Christo et de’ suoi colpi. Πόση τε μοῖρα ταῦτα τῶν τοῦ Δεσπότου. Quant’ è la parte tua? Quant’ è di Christo? Ὧδ’ ἂν τὸ λυποῦν, ὥσπερ ὕδατι, σβέσαις. Come con acqua spegnerai la fiamma.

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Ἔρως, μέθη, ζῆλός τε καὶ δαίμων, ἶσα· οἷς ἂν προσέλθῃ, τὸ φρονεῖν ἐπέκλυσε. Τῆξις, προσευχή, δάκρυον· τὰ φάρμακα ἥδ’ ἰατρεία τῶν ἐμῶν νοσημάτων.

42 Il demonio, l’ amor, il uin, la ’nvidia parimente tolgon lo ’ntelletto. Il digiunar, le lacrime et l’ orare sono la medicina de miei mali.

Ὅρκον δὲ φεῦγε πάντα. Πῶς οὖν πείσομεν; Λόγῳ τρόπῳ τε τὸν λόγον πιστούμενοι. Ἄρνησίς ἐστι Θεοῦ ψευδορκία. Τὶ δεῖ Θεοῦ σοι; Τὸν τρόπον μέσον τίθει.

43 Schifa ogni giuramento, haurai fede per le parole184 et per i buon costumi. Il falso giuramento è negar Dio. Che ti bisogna Dio, s’ hai li costumi?

Τί χρηστότητος δόγμα συντομώτερον; Τοιοῦτος ἴσθι τοῖς φίλοις καὶ τοῖς πέλας, οἵους σεαυτῷ τούσδε τυγχάνειν θέλεις· καὶ συντομώτερόν τι, τὰ Χριστοῦ πάθη.

44 Precetto di bontà qual è più breue? Tal uer gli amici et li uicini sii, quali esser uerso te gli amici uuoi, altro più breve è la passion di Cristo.

Πιστοῦ φίλου νόμιζε μηδὲν ἄξιον, ὃν οὐ κρατὴρ ἔδειξε, καιροῦ δὲ ζάλη· ὃς οὐ χαρίζετ’ ἢ μόνον τὸ συμφέρον. Ἔχθρας ὅρους γίνωσκε, φιλίας δὲ μή.

45 Non stimar cosa quanto un buon amico, ch’ el bisogno non il uin manifesta, ch’ altro non dona, se non quel che gioua. Sappi fini di odiar, ma non d’ amare. 18546185

185

Τἄλλα βλέπων ὀφθαλμός, αὑτὸν οὐ βλέπει, ἀλλ’οὐδὲ τἄλλα, ἢν ἄγαν λημῶν τύχῃ. Τούτου χάριν σύμβουλον εἰς ἅπαντ’ ἔχε· καὶ γὰρ χερὸς χείρ, καὶ ποδὸς ποῦς ἐνδεής. Εἰ τοῖς καλοῖς ἕποιο νουθετούμενος, οὐκ ἐντραπήσῃ τοῖς κακοῖς γελώμενος. Ὅταν ποτ’ αἰσχρὸν ἐννοῇς, νόμιζέ σοι πολλοὺς παρεῖναι, καὶ σεαυτὸν ἐντρέπου.

L’ occhio uede ogni cosa et sé non uede, nè uede l’ altre cose quando è lippo. Per questo in ogni cosa habbi consiglio: la man la mano aiuta, il pie’ lo pie’. 47 Se quando sei ammonito segui i boni, Se ’l tristo ride non harai uergogna. Et quando alcuna cosa brutta pensi, vergognati di tè, s’ altri non sono.

184 Sup.

lin. scrive «ragion». ripristinato la sequenza progressiva delle quartine, che il copista trascrive nell’ordine 45, 47, 46. 185 Ho

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

Ἀεὶ προτίμα τοὺς καλοὺς τῶν μὴ καλῶν· κακοῖς ὁμιλῶν, καὶ κακὸς πάντως ἔσῃ. Κακοῦ παρ’ ἀνδρὸς μή ποτε χρηστὸν πάθῃς, ζητεῖ ὧν βεβίωκε συγγνώμην ἔχειν.

359

48 Proponi sempre a rei quei che son boni, pratticando co’ tristi, sarai tristo. Dal tristo non uoler mai beneficio, che cerca hauer perdon del uiuer suo.

49 Ἐγώ τι κέρδος ἐκλέγω καὶ δυσμενοῦς· Io cauo anchor guadagno da nemici; τὰς186 γὰρ λαβὰς φεύγοντας, ἀσφαλεστέρους. chi fugge l’ occasion è più sicuro187. Εἶναι παραινῶ, καὶ τὸ πικρὸν φάρμακον Io temo pur la medicina amara, ὅμως δέδοικα, καὶ τὸ γλυκὺ μέμφομαι. nè sto (?) senza paura della dolce. 50 Καλοὺς δ’ ἀμείβου, τοὺς κακοὺς περιφρόνει, Remunera li boni et sprezza i tristi, κἂν τοῖσδε κείσθω, τοῦ παθεῖν μηδέν, χάρις· che non t’ han fatto mal, habbi lor gratia ὡς ἂν καλοὺς καὶ τούσδε ποιήσῃς χρόνῳ. che facci lor benigni anchor col tempo, Τῷ μακροθύμῳ χρηστότης καλὴ δόσις. con la benignità ch’ è buono dono. Πᾶσι μὲν ἴσθι χρηστός, εἰ τοῦτο σθένος, πλέον δὲ τοῖς ἔγγιστα. Τοῦ χάριν λεγω; Τίς ἄν σε πιστεύσειε τοῖς ξένοις καλὸν εἶναι, τὸν οὐ δίκαιον οἷς ὀφείλεται;

51 Sii liberal a tutti s’ hai le forze et a prossimi più. Per che ciò dico? Chi crederà ch’ a peregrini sei liberal, se non sei a quei che deui?

52 Τί πάντα τὸν δύστηνον αἰτιώμεθα Non uogliam’ incolpar sempre il nemico, ἐχθρόν, διδόντες τῷ βιοῦν ἐξουσίαν; dando l’ arbitrio a lui del uiver nostro? Μέμφου σεαυτόν, ἢ τὸ πᾶν, ἢ τὸ πλέον. Incolpa sempre tè o le più uolte. Τὸ πῦρ παρ’ ἡμῶν, ἡ δὲ φλόξ τοῦ Πνεύματος. La fiamma è dello Spirto, il foco è nostro188. 210

215

Μὴ σφόδρ’ ἕπεσθαι παιγνίοις ἐνυπνίων, μὴ δὲ πτοητὸν εἰς ἅπαντ’ ἔχειν φρένα, μηδὲ πτεροῦ μοι δεξιοῖς φαντάσμασι, λόχος τάδ’ ἐστί, πολλάκις τοῦ δυσμενοῦς.

53 Giochi de sogni non seguire molto, né paurosa hauer la mente sempre, né prender penne per destri fantasmi, che sono inganni spesso del nemico.

Ἐλπὶς προκείσθω δεξιοῦ παντὸς τέλους· εἰ γὰρ συνεργός ἐστί τις τοῦ χείρονος, πῶς οὐ καλοῦ δίκαιον εἶναι καὶ πλέον; Οὐ γὰρ φέρω γε τῷ κακῷ νικώμενος.

54 Speranza di buon fin sia in ogni cosa, che se del189 peggio aiuta non è giusto. ché non aiuti molto più nel bene? Soffrir no posso che mi uinca il male.

186 τοὺς

cod. margine superiore è proposta anche la seguente versione «la riprension chi fugge è più sicuro». 188 Questo verso è stato reiterato e poi cassato dal copista. 189 Sup. lin. corregge «nel». 187 Sul

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SANTO LUCÀ

Ἡγοῦ τύχης φρόνησιν ἀσφαλεστέραν· ἡ μὲν γάρ ἐστι πραγμάτων κούφη φορά, 220 ἡ δ’ οἰακισμός. Μηδὲ ἓν παιδεύσεως νόμιζε κρεῖσσον, ἢ μόνη κεκτημένων.

55 Un leggier mouimento è la fortuna, della qual il gouerno hà la prudenza, la qual è molto più di lei sicura, et è de possessori et è migliore.

Τὸ δραστικὸν δείκνυε μὴ τῷ δρᾷν κακῶς, τῷ δ’ εὖ τι ποιεῖν, εἰ θέλεις εἶναι θεός. Τόδ’ ἐστὶν ἀνδρὸς εἰδότος τὸ συγγενές. 225 Κτείνει δὲ ῥᾷστα καὶ τρυγὼν καὶ σκορπίος.

56 Non mostrar nel mal far la tua possanza, ma nel ben far, se uuoi esser un dio. Ciò fà l’ huom’ che conosce sua natura. La tortora e ’l scorpion uccidon presto.

57 Αἰσχρὸν νέον γέροντος ἀσθενέστερον È brutt’ esser più debole ch’ un uecchio, εἶναι, γέροντα δ’ ἀφρονέστερον νέου. ouer d’ un giouan’ esser meno sauio. Ὅμως ὁ μὲν καθ’ ὥραν ἔστω πάνσοφος· Innanzi tempo il giuane sia sauio, τὸν δὲ κράτιστον καὶ πρὸ ὥρας σωφρονέστερος. il vecchio almen al tempo sia prudente. f. 364v 230

Ἀεὶ μὲν ἐργάζοι τὴν σωτηρίαν· καιρὸς δὲ δὴ μάλιστα ἡ βίου λύσις. Τὸ γῆρας ἦλθεν· ἔξοδος κῆρυξ βοᾷ. Πᾶς εὐτρεπιζου· πλησίον γὰρ ἡ κρίσις.

Πέρας λόγου δισσή τις ἄρνησις Θεοῦ, 235 ἔργῳ, λόγῳ τε. Μὴ κλαπῇς, περισκόπει ἀεὶ διώκῃ λαθραίοις παλαίσμασι, μή πως δεηθῇς ἐσχάτων καθαρσίων.                                      

58 Lauora sempre per la tua salute, ma nel fin della uita è necessario. Nella vecchiezz’ andar, grida il trombetto. Ecco ’l giudicio, ognuno si apparecchi. 59 In due maner’ in fin si niega Dio: in parole et in fatti. Statti attento, sei seguitato sempre occultamente, non ti bisogni l’ ultimo rimedio.                               Τέλος

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

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Tav. I – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 2124, f. 54r.

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SANTO LUCÀ

Tav. II – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1890, parte I, f. 30r.

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

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Tav. III – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1902, f. 395r.

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SANTO LUCÀ

Tav. IV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1896, ff. 339r e 343r.

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VITTORIO TARANTINO, MAESTRO DI LINGUA GRECA DI GUGLIELMO SIRLETO

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Tav. V – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1896, ff. 344v e 356v.



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ANTONIO MANFREDI

S. AMBROGIO NELLA VATICANA DI NICCOLÒ V E IL VAT. LAT. 4223 1. Niccolò V e s. Ambrogio: ricerche di codici e allestimenti librari Come anche più volte ha sottolineato mons. Pasini, la collezione patristica vaticana è testimonianza concreta della riscoperta di s. Ambrogio in età umanistica e agli albori dell’età moderna1. Il santo vescovo e padre della Chiesa fu infatti autore prolifico, ma il complesso della sua opera non ebbe diffusione così ampia in età medievale fuori diocesi, fatti salvi alcuni scritti, tra cui vanno annoverati sicuramente l’Exameron e il De officiis ministrorum, e il vasto commento a Luca2. Padre della riscoperta umanistica santambrosiana è, come noto, il Petrarca3, ma un ruolo decisivo ebbe certamente in questo recupero, il fondatore della Vaticana, Tommaso Parentucelli, eletto papa con il nome di 1 Si

veda in particolare l’intervento presentato al Dies academicus ambrosiano 2018 con titolo La conoscenza di Ambrogio nel mondo antico con qualche cenno all’Ambrosiana e alla Vaticana. Don Cesare ha voluto in quell’occasione coinvolgermi mettendo a frutto anche altre comuni riflessioni su questi temi, condivise più volte. Qualche sommaria linea di storia della tradizione santambrosiana con riferimento particolare a Niccolò V e alla Vaticana ho potuto offrire, sempre su invito e tramite di mons. Pasini, in due conferenze alle Romite Ambrosiane il 9-10 febbraio 2013, con titolo Per la tradizione manoscritta delle opere di Sant’Ambrogio dal Medioevo all’Umanesimo prima della stampa, in un luogo che sappiamo carissimo a lui e caro a molti di noi, per fraternità, accoglienza, condivisione e attenzione spirituale. 2 Non è disponibile un censimento dei codici superstiti delle opere santambrosiane, come quelli per Agostino: Die handschriftliche Überlieferung der Werke des heiligen Augustinus, IVII, Wien 1969-1997 (Sitzungsberichte der Österr. Akad. des Wiss. 263, 267, 281, 286, 289, 292, 303, 350, 601, 645); o una guida ai mss. come quella per Girolamo: B. Lambert, Bibliotheca Hieronymiana manuscripta, Steenbrugge 1969-72 (Instrumenta patristica, 4). Sulla tradizione manoscritta di Ambrogio si veda anche C. Gerzaguet, La «mémoire textuelle» d’Ambroise de Milan en Italie: manuscrits, centres de diffusion, voies de transmissions (Ve-XIIe siècle), in La memoria di Ambrogio di Milano. Usi politici di una autorità patristica in Italia (secc. V-XVIII), a cura di P. Boucheron e S. Gioanni, Roma 2015 (Collection de l’École française de Rome, 503), pp. 211-233. 3 G. Billanovich – M. Ferrari, La tradizione milanese delle opere di sant’Ambrogio, in Ambrosius episcopus, Atti del congresso internazionale di studi ambrosiani, II, Milano 1976 (Studia patristica Mediolanensia, 6), pp. 5-102; F. Santirosi, Le postille del Petrarca ad Ambrogio (Codice parigino Lat. 1757), Firenze 2004 (Materiali per l’edizione nazionale delle opere di Francesco Petrarca, 2); C. M. Monti, Petrarca e Ambrogio a Milano, in Ambrogio a Milano e all’Ambrosiana. Atti del quinto “dies academicus”, 30-31 marzo 2009, a cura di R. ­Passarella, in Studia Ambrosiana 4 (2010), pp. 46-68.

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ANTONIO MANFREDI

Niccolò V, che, come già altrove si è detto, fin da giovane si occupò non solo in generale di patristica, ma in particolare dei principali esponenti della letteratura cristiana latina4. E in questi suoi studi, oltre ad Agostino, sicuramente autore prediletto, un posto proprio è occupato da Ambrogio. Dobbiamo infatti a lui il recupero di testimoni importanti delle opere del vescovo milanese, come gli attuali Vat. lat. 264, una grande silloge del sec. XI, da lui ritrovata nella biblioteca del capitolo di Bologna, e la raccolta epistolare ora Vat. lat. 286, ottenuta dal monastero di S. Ambrogio a Milano5. Egli poté condurre ricerche di libri nell’antica biblioteca monastica di Pomposa, ricca anch’essa di importanti testimoni santambrosiani. Così Parentucelli riuscì ad allestire, negli anni più fortunati della sua prima maturità, un discreto corpus di opere di Ambrogio in tre grandi volumi, connotati dal suo emblema vescovile, gli attuali Vat. lat. 269, una collezione soprattutto di commenti scritturistici6, Vat. lat. 280, con il commento a i dodici salmi e la collezione in dieci libri delle Epistolae7, e Vat. lat. 314 una silloge complessa in cui sono contenute le opere di argomento dogmatico e sacramentale (De fide, De incarnationis dominicae sacramento, De Sipritu Sancto, De mysteriis e De sacramentis) e la sequenza completa dei discorsi in funere (De excessu fratris, De obitu Valentiniani, De obitu Theodosii)8. Le ricerche condotte e i codici allestiti gli permisero di compilare un elenco di opere del padre milanese che costituisce una sezione a sé stante del cosiddetto Canone9, commissionatogli per la nuova biblioteca che Co4 Da ultimo: L. Gargan (†) – A. Manfredi, Le biblioteche dei certosini tra Medioevo e Umanesimo. Un repertorio di manoscritti superstiti e di inventari antichi e uno studio sulle ricerche dei codici nella prima metà del sec. XV, Città del Vaticano 2017 (Studi e testi, 515). Su Parentucelli e Ambrogio si veda in sintesi anche Gerzaguet, La «mémoire textuelle» d’Ambroise cit., p. 225. 5 A. Manfredi, Vicende umanistiche di codici vaticani con opere di s. Ambrogio, in Aevum 72 (1998), pp. 559-589. 6 Il codice si può vedere ora, con annessa descrizione sommaria e bibliografia, in https:// digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.269, consultato 20 settembre 2019. 7 Il codice si può vedere ora, con annessa descrizione sommaria e bibliografia, in https:// digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.280, consultato 20 settembre 2019. 8 A. Manfredi, S. Cipriano: da Pomposa alla biblioteca papale del secolo XV, in Pomposia, Monasterium modo in Italia primum. La biblioteca di Pomposa, a cura di G. Billanovich, Padova 1994 (Medioevo e Umanesimo, 86), pp. 272-295; id., La biblioteca personale di un giovane prelato negli anni del Concilio fiorentino: Tommaso Parentucelli da Sarzana, in Firenze e il Concilio del 1439, convegno di studi, Firenze, 29 novembre – 2 dicembre 1989, a cura di P. Viti, Firenze 1994 (Biblioteca storica toscana, 29), pp. 649-712. Il Vat. lat. 314 si può vedere ora, con annessa descrizione sommaria e bibliografia, in https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat. lat.314, consultato 20 settembre 2019. 9 Sul Canone, primo strumento moderno di questo tipo, si vedano A. Petrucci, Le biblioteche antiche, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, II, Torino 1983, pp. 547-549; M. G. Blasio, C. Lelj, G. Roselli, Un contributo alla lettura del canone bibliografico di Tommaso

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simo de’ Medici andava allestendo nei primi anni ’40 del sec. XV presso il convento di San Marco a Firenze, sulla base della splendida eredità libraria di Niccolò Niccoli10. La sezione del Canone dedicata ad Ambrogio mostra una discreta conoscenza delle sue opere ed è stata compilata in relazione alle scoperte fatte da Parentucelli e ai libri della sua raccolta privata di quegli anni11. Così il futuro papa mostra di conoscere tutta la serie dogmatica e sacramentale; ampia e quasi completa è anche la sequela dei commentari biblici, aperta da quello a Luca, cui segue quello sull’epistola ai Romani, del cosiddetto Ambrosiaster; compaiono quindi i due trattati sul libro dei Salmi: quello sui dodici davidici e quello sul lungo Salmo 118 (Super «Beati immaculati»), quindi ancora l’Exameron, i commentari ai libri dei patriarchi e le opere di carattere pastorale e morale, fino alle orazioni funebri, alle lettere (Epistule ipsius plures), a qualche spurio, tra cui la silloge dei sermoni ora attribuita a s. Massimo di Torino (Sermones eius ad papulum plures), e alla notizia, cavata da Agostino, di un suo trattato perduto De philosophia contra Platonem libri II. La sua conoscenza delle opere del vescovo milanese non è inferiore a quella che mostra il dotto arcivescovo ambrosiano di quegli anni, il bolognese Francesco Pizolpasso12, legato anche personalmente a Parentucelli Parentucelli, in Le chiavi della memoria. Miscellanea in occasione del I centenario della Scuola vaticana di paleografia, diplomatica e archivistica, Città del Vaticano 1984 (Littera antiqua, 4), pp. 125-165; L. Gargan, Gli umanisti e la biblioteca pubblica, in Le biblioteche nel mondo antico e medievale, a cura di G. Cavallo, Bari 1988 (Biblioteca universale Laterza, 250), pp. 165-186: 174-176; A. Manfredi, La biblioteca personale di un giovane prelato negli anni del Concilio fiorentino: Tommaso Parentucelli da Sarzana, in Firenze e il Concilio del 1439, convegno di studi, Firenze, 29 novembre – 2 dicembre 1989, a cura di P. Viti, Firenze 1994 (Biblioteca storica toscana, 29), pp. 649-712: 687-696. 10 B. L. Ullman – Ph. A. Stadter, The Public Library of Renaissance Florence, Padova 1972 (Medioevo e Umanesimo, 10); aggiornata da La Biblioteca di Michelozzo a San Marco: tra recupero e scoperta, a cura di M. Scudieri – G. Rasario, Firenze 2000; un commento culturale a inventario e biblioteca fornisce E. Garin, La biblioteca di San Marco, Firenze 1999. Sull’importanza di questa raccolta per la diffusione delle scoperte umanistiche S. Rizzo, Per una tipologia delle tradizioni manoscritte di classici latini in età umanistica, in Formative stages of Classical Traditions: Latin Texts from Antiquity to the Renaissance, ed. by O. Pecere and M. D. Reeve, Spoleto 1995, pp. 389-390. Sulla struttura architettonica dell’istituzione: A. Campana, Le biblioteche del Rinascimento a tre navate, a cura di A. Manfredi, Cesena 2015, edito quindi in A. Campana, Scritti, II, Biblioteche, codici, epigrafi, II, a cura di R. Avesani, M. Feo, E. Pruccoli, Roma 2017, pp. 913-940: 918-922; e A. Manfredi, Su un inedito di Augusto Campana: «Le biblioteche italiane del rinascimento a tre navate», in Studi romagnoli 66 (2015), pp. 580-604: 593-595. 11 Blasio, Lelj, Roselli, Un contributo alla lettura cit., pp. 135-137, nrr. 20.1-40. 12 Su di lui F. Somaini, Pizolpasso, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXIV, Roma 2015, pp. 330-333, sui suoi studi e la sua biblioteca riferimenti principali sono: A. Paredi, La biblioteca del Pizolpasso, Milano 1961, e M. Ferrari, Un bibliotecario milanese del Quattrocento: Francesco della Croce, in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana, Milano 1981, X, pp. 175-261.

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ANTONIO MANFREDI

da stima e interessi di studio comuni13, ma che attinse a fonti diocesane, prima tra tutte la silloge romanica allestita dal prevosto di S. Ambrogio, Martino Corbo, al principio del sec. XII e ora smembrata in varie biblioteche tra Milano e la Vaticana14. Così l’elenco dei libri del Pizolpasso redatto nel 1443 annovera sei codici di Ambrogio, quasi tutti identificati in esemplari ora all’Ambrosiana15, da cui emerge uno spiccato interesse per gli scritti esegetici e minor attenzione per quelli dogmatici, ma identico gusto per l’epistolario. Invece è ben diversa, rispetto a Parentucelli e Pizolpasso, la presenza santambrosiana nell’inventario redatto nel 1426-1427 della raccolta libraria di un altro importante prelato umanista, Giordano Orsini, facente capo a Roma e alla curia di allora16. Dall’elenco emergono quattro segnalazioni di opere del vescovo di Milano, due delle quali aperte dall’Exameron, e corrispondenti agli attuali Archivio del capitolo di San Pietro, B 46, una bella silloge miniata del sec. XIV, di origine francese e di impianto scolastico17, e D 168, un’altra raccolta d’età gotica e di argomento patristico18, entrambe poco note agli editori. Nel catalogo orsiniano compaiono altri due esemplari, riferiti a trattati santambrosiani, finora non identificati: uno aperto dalla serie sulla verginità e sulla vedovanza e l’altro dal De officiis e dal De Spiritu Sancto19. 13 A.

Manfredi, I libri di Enrico Rampini nella Vaticana di Niccolò V. Prime ricerche, in Incorrupta monumenta ecclesiam defendunt, Studi offerti a mons. Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, I, La Chiesa nella storia. Religione, cultura, costume, t. 2, a cura di A. Gottsmann – P. Piatti – A. E. Rehberg, Città del Vaticano 2018 (Collectanea Archivi Vaticani, 106), pp. 1027-1045: 1044. 14 Billanovich – Ferrari, La tradizione milanese cit., pp. 6-26. Su Martin Corbo si veda ora M. Petoletti, Le lettere di Martino Corbo «Ambrosianis saporis amicus». Vicende politiche e filologiche nella Milano del sec. XII, in La memoria di Ambrogio di Milano cit., pp. 387-419. 15 Paredi, La biblioteca di Francesco Pizolpasso cit., pp. 73-74 nrr. 18-23. 16 Su di lui e sulla sua biblioteca si veda Ch. S. Celenza, Orsini, Giordano, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXIX, Roma 2013, pp. 657-662. L’inventario è consultabile in una vecchia ma preziosa edizione in F. Cancellieri, De secretariis basilicae Vaticanae veteris ac novae, libri II [...], Roma, Ex officina Salvioniana ad Lyceum Sapientiae, 1786, pp. 906-914. 17 Cfr. https://digi.vatlib.it/mss/detail/Arch.Cap.S.Pietro.B.46, consultato il 20 settembre 2019. Il bellissimo volume in textualis del sec. XIV contiene appunto l’Exameron (ff. 1r-41v), il De dignitate sacerdotali di Silvestro II, ma attribuito al vescovo di Milano con titolo di Pastorale Beati Ambrosii de informatione episcoporum (ff. 42r-44v); quindi (ff. 46r-111v) la silloge dogmatica De fide, De Spiritu Sancto, De incarnationis Dominicae sacramento, infine (ff. 112r-146v) il De officiis ministrorum. 18 Il volume databile al sec. XIII-XIV è aperto da tre opere ambrosiane: l’Exameron appunto (ff. 1r-33v), il De officiis (ff. 34r-36v) e il De bono mortis (ff. 37r-49r). Cfr. https://digi. vatlib.it/mss/detail/Arch.Cap.S.Pietro.D.168, consultato il 20 settembre 2019. 19 A meno che non si tratti della seconda parte dell’attuale Archivio del capitolo di San Pietro, B 46, qui appena citato: cfr. a nt. 17.

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Gli studi di Parentucelli su s. Ambrogio influenzarono la sezione della biblioteca fiorentina di San Marco dedicata al vescovo di Milano: essa occupava, secondo l’inventario quattrocentesco, quasi tutto il dodicesimo banco ex parte orientis, con ben undici manoscritti20, in gran parte conservati fino ad oggi soprattutto tra la Nazionale Centrale e la Laurenziana di Firenze; si tratta di volumi soprattutto di area italiana, poco considerati nelle edizioni critiche recenti, sostenute soprattutto da spogli di biblioteche del nord Europa. Tra gli esemplari santambrosiani della vecchia biblioteca domenicana mancano le opere dogmatiche, compaiono invece alcune sillogi degli scritti morali (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, San Marco, 510, 516, 519), e di quelli esegetici (Firenze, Biblioteca Laurenziana, San Marco, 507, 511, 515) e dell’epistolario (London, British Library, Add. 14775; Firenze, Biblioteca Laurenziana, San Marco, 520). Un panorama discreto che ai diversi codici provenienti dall’eredità del Niccoli affianca le acquisizioni di Cosimo sulle indicazioni del Canone. Quelli del Niccoli sono tutti volumi di età romanica o altomedievale, quelli acquisiti da Cosimo lo sono anch’essi in gran parte, con qualche trascrizione commissionata appositamente, come l’attuale Firenze, Biblioteca Laurenziana, Acquisti e doni, 139, con lo spurio De vocatione omnium gentium copiato per la nuova biblioteca nel 1446. La nuova biblioteca papale voluta a Roma da Niccolò V21 beneficiò quindi ampiamente delle scoperte e delle nuove conoscenze su s. Ambrogio, per il quale il catalogo redatto nel 1455 prevede una sezione propria, custodita nel secondo armadio di destra22: qui sono collocati, ad esempio, i libri allestiti da Parentucelli prima del pontificato accanto a testimoni più remoti, tra cui un esemplare di Epistolae di origine nonantolana (Vat. lat. 285)23, credo recuperato durante il pontificato, perché del tutto privo di postille autografe del pontefice: il manoscritto riporta infatti glosse marginali e mostra l’opera di un paziente correttore coevo, ma nessuna mano chiaramente umanistica sembra avervi lasciato tracce; un altro recupero 20 B.

L. Ullman – Ph. A. Stadter, The Public Library cit., pp. 143-145. rinascita umanistica della biblioteca dei papi e sulla fondazione della Vaticana con al centro Niccolò V si veda: Le origini della Biblioteca Vaticana tra Umanesimo e Rinascimento (1447-1534), a cura di A. Manfredi, Città del Vaticano 2010 (Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, I). 22 A. Manfredi, I codici latini di Niccolò V. Edizione degli inventari e identificazione dei manoscritti, Città del Vaticano 1994 (Studi e testi, 359), pp. 121-126. 23 Ibid. p. 124 nr. 194, ma anche J. Ruysschaert, Les manuscrits de l’abbaye de Nonantola. Table de concordance annotée et index des manuscrits, Città del Vaticano 1955 (Studi e testi, 182 bis), p. 34 nt. 2, che riprende R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne’secoli XIV e XVI, a cura di E. Garin, Firenze 1967, I, p. 90. Cfr. https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat. lat.285, consultato il 20 settembre 2019. 21 Sulla

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dello stesso periodo corrisponde a un bel manoscritto dell’Exameron e del De paradiso (Vat. lat. 270), risalente a un ignoto centro italiano di copia del sec. XI e giunto a Niccolò V e alla Vaticana tramite le raccolte dei predecessori Gregorio XII e Eugenio IV24. Noti invece i legami diretti di Parentucelli con Nonantola25. Un altro segnale della costante attenzione del papa per le opere del vescovo di Milano è la vicenda del Vat. lat. 26426, da lui ritrovato, come si accennava, durante il periodo in cui visse a Bologna, mentre si dedicava agli studi e al riordino della biblioteca capitolare: il codice gli fu poi spedito a Roma su sua richiesta nel 1453, come avverte una nota di prestito sul catalogo coevo dei libri della cattedrale27. Questo grande volume era il solo santambrosiano della vasta collezione diocesana riordinata da Parentucelli con il sostegno dell’Albergati, un codice di provenienza antica, già presente nella raccolta originaria28. 2. Un altro testimone poco noto: il Vat. lat. 4223 L’attuale Vat. lat. 4223 è un esemplare librario davvero singolare e pressoché inedito: è un grande composito fattizio, allestito tra la fine del sec. XVI e il principio del XVII29. Non risulta infatti né negli inventari quattrocinquecenteschi del fondo antico, né in quello redatto alla metà del sec. 24 Manfredi, I codici latini cit., pp. 124-125 nr. 195; J. Fohlen, La Bibliothèque du Pape Eugène IV (1431-1447), contribution à l’histoire du fonds Vatican latin, Città del Vaticano 2008 (Studi e Testi, 452), pp. 198-199. Cfr. https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.270, consultato il 20 settembre 2019. 25 Sulle ricerche di Parentucelli per incarico di Niccoli e Traversari a Pomposa e Nonantola anche S. Gentile, Parentucelli e l’ambiente fiorentino: Niccoli e Traversari, in Niccolò V nel sesto centenario della nascita. Atti del convegno internazionale di studi, Sarzana, 8-10 ottobre 1998, a cura di F. Bonatti e A. Manfredi, Città del Vaticano 2000 (Studi e testi, 397), pp. 237-254. Da Nonantola Parentucelli recuperò lo splendido e antichissimo Lattanzio oggi Bologna, Biblioteca Universitaria, nr. 701 del V sec. (CLA, III 280): A. Manfredi, Dispersione dei codici e visite di umanisti a Pomposa tra Quattro e Cinquecento, in Pomposia monasterium cit., pp. 321, 325-326, 328; Gentile, Parentucelli e l’ambiente fiorentino cit., p. 246; A. Daneloni, in Umanesimo e padri della Chiesa. Manoscritti e incunaboli di testi patristici da Francesco Petrarca al primo Cinquecento, a cura di S. Gentile, s.l. 1997, scheda 7, pp. 151-152; Sul manoscritto anche T. De Robertis, Nuovi autografi di Niccolò Niccoli (con una proposta di revisione dei tempi e dei modi del suo contributo alla riforma grafica umanistica), in Scrittura e civiltà 14 (1990), pp. 105-121. 26 Cfr. in https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.264, consultato il 20 settembre 2019, con annessa descrizione sommaria e bibliografia. 27 Manfredi, Vicende umanistiche cit., pp. 570-586. 28 Sulla biblioteca dei canonici bolognesi in questi anni A. Sorbelli, La biblioteca capitolare della Cattedrale di Bologna nel sec. XV, in Atti e memorie della Deputazione di Storia patria per la Romagna s. III, 21 (1903), pp. 1-180. Il Sorbelli però non arrivò mai al Vat. lat. 264. 29 Una doppia segnatura provvisoria è incollata sul foglio di guardia inziale (Iv) e ri-

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XVI da Ferdinando Ruano30, ma si ritrova descritto nel quinto tomo dell’inventario ranaldiano31, quasi al termine di una sezione di libri biblici, patristici e teologici, in cui alla fine del sec. XVI confluirono esemplari giunti in Vaticana nei primi anni della fondazione, ma anche codici di acquisizione più recente32. La datazione di allestimento del Vat. lat. 4223 trova conferma, oltre alla presenza/assenza nei cataloghi, anche dalla legatura su assi di cipresso, rivestite di cuoio rosso e ornate sui piatti dagli stemmi di papa Urbano VIII e del cardinale Scipione Cobelluzzi, che governò la Biblioteca tra il 1618 e il 162633. Se si tiene conto dell’elezione di Maffeo Barberini al 1623, la coperta si colloca nel triennio 1623-1626, tra l’ascesa al trono del pontefice e la morte del bibliotecario. Entro queste date la miscellanea era ormai costituita definitivamente. Un prodotto interno alla Vaticana dunque, allestito tra fine sec. XVI e inizio XVII: funzionale a raccogliere elementi librari affini, e probabilmente fino ad allora rimasti divisi tra di loro e mai catalogati in singulis, elementi frammentari che una biblioteca di quel genere sicuramente possedeva e che emergono raggruppati in età moderna: un altro esempio, ma molto diverso da questo, è costituito dal Vat. lat. 7171, di cui nel suo complesso bisognerà parlare altrove. La datazione dell’assemblaggio risulterà utile anche per comprendere motivazioni, genesi e struttura di questo monumento librario membranaceo, dal formato decisamente imponente sia per le misure (mm 495 × 335), sia per spessore (ff. I, 324): costituito da 323 grandi fogli — con la legatura sono stati aggiunti anche gli attuali ff. I e 324, in funzione di guardie — numerati solo da pochi decenni con sistema meccanico, a sostituire conteggi più antichi, sporadici e incerti. Il volume non è mai stato esaminato nel suo insieme34. Da un primo esame generale esso risulta costituito di sei parti manda anche al nr. 4202; un’altra (350) si riferisce a una delle parti e compare nel margine superiore del f. 258r. 30 Su questi inventari vaticani A. Di Sante, La biblioteca rinascimentale attraverso i suoi inventari, in Le origini della Biblioteca Vaticana cit., pp. 309-350: 325-328. 31 Vat. lat. 15349, pt. 5 (Ex sala mss. 305), ff. 166-167; sull’inventariazione di questi anni A. Di Sante, A. Manfredi, I Vaticani latini: dinamiche di organizzazione e di accrescimento tra Cinque e Seicento, in La Vaticana nel Seicento (1590-1700): una biblioteca di biblioteche, a cura di C. Montuschi, Città del Vaticano 2014 (Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, 3), pp. 461-502: 462-473. 32 Vat. lat. 4192-4350, inventariati solo nel sec. XVI-XVII; sto allestendo, su incarico della Vaticana, un catalogo analitico di tutta la sezione. 33 Cfr. M. A. Visceglia, La Biblioteca tra Urbano VII (15-17 settembre 1590) e Urbano VIII (1623-1644): cardinali bibliotecari, custodi, scriptores, in La Vaticana nel Seicento cit., pp. 77-121. 34 Cfr. nt. 26. Per i testi agostiniani cfr. M. Oberleitner, Die handschriftliche Überlieferung der Werke des Heiligen Augustinus, I/1, Wien 1969 (Sitzungsberichte der österreichischen

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distinte, tutte databili alla metà del sec. XV, e corrispondenti ad altrettante sezioni di manoscritti a contenuto teologico, in gran parte patristici: un’opera canonistico-scolastica collocata all’inizio, un doppio blocco santambrosiano, e tre blocchi agostiniani: I (ff. 1r-78v) Iohannes De Turre Cremata, O.P., Tractatus de poenitentia dai Commentaria in Decretum Gratiani: Prohoemium ad Nicolaum papam V35, distinctiones I, II, III, interrotta a metà colonna del f. 78r (expl. reiterandam non intendit36), il f. 79v è vuoto, non sono state copiate le distinctiones IV, V, VI, VII37. II (ff. 79r-98v) S. Ambrosius ep. Mediolanensis, Explanatio super psalmos XII38, incompleta: Ps. 1, 35, 36, 37, interrotto a 38, 2 (expl. vitram meam nunciabo tibi posiusti)39; il f. 98v è completo; mancano parte del commento al 38, e poi tutti i commenti a 39, 40, 43, 45, 47, 48, 61. III (ff. 99r-157v) S. Ambrosius ep. Mediolanensis, Expositio Evangelii secundum Lucam, completa con rubriche e suddivisioni interne40. IV (ff. 158r-257v) S. Augustinus, Contra Academicos ll. I-III (ff. 158r-180r), aperti dall’excerptum dalle Retractationes (ff. 158r-159r); De beata vita (ff. 180r-187v), aperto dall’excerpAkademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse, 263), pp. 18, 24, 109, 123, 133, 182, 187, 192, 386; id., Die handschriftliche Überlieferung der Werke des Heiligen Augustinus, I/2, Wien 1970 (Sitzungsberichte der österreichischen Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse, 267), p. 280; G. Cardinali, Le vicende vaticane del Codice B della Bibbia dalle carte di Giovanni Mercati, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XX, Città del Vaticano 2014 (Studi e testi, 484), p. 390. 35 Mancando un’edizione recente, si rimanda qui a Ioannis a Turre Cremata … In tractatum de poenitentia commentarii…, Lugduni, Claudius Servanius, 1555; La copia della stampato posseduta dalla Vaticana con segnatura R.G. Teol. S. 50, viene — non credo finora sia mai stato rilevato — dalla biblioteca francescana dell’Aracoeli: lo mostrano i timbri di possesso sul frontespizio; su questa biblioteca P. Vian, Altri codici aracoelitani nella Biblioteca Vaticana, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, II, Città del Vaticano 1988 (Studi e testi, 329), pp. 287-311, e A. Rita, Biblioteche e requisizioni librarie a Roma in età napoleonica. Cronologia e fonti Romane, Città del Vaticano 2012 (Studi e testi, 470), p. 49. 36 Cfr. Ioannis a Turre Cremata In tractatum cit., f. 68rb, riga 16. 37 Cfr. ibid., f. 94r. 38 Cfr. Clavis patrum latinorum, qua in Corpus christianorum edendum optimas quasque scriptorum recensiones a Tertulliano ad Bedam, recludit E. Dekkers, opera usus qua rem praeparavit et iuvit AE. Gaar, Steenburgis 19933, p. 42 nr. 140. 39 Cfr. Ambrosii Opera, VI, Explanatio Psalmorum XII, rec. M. Petschenig, ed. altera supplementis aucta curante M. Zelzer, Vindobonae 1999 (CSEL, 64), p. 166 lin. 10; il ms. è citato tra i deteriores a p. IV nr. 13. 40 Cfr. Clavis patrum latinorum cit., p. 43 nr. 143.

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tum dalle Retractationes (f. 180rv); De ordine ll. I-II (ff. 187v-204r), aperti dall’excerptum dalle Retractationes (f. 187v); De vera religione ll. I-II, aperti dall’excerptum dalle Retractationes (ff. 204r-205v); De moribus ecclesiae catholicae et de moribus manichaeorum ll. I-II (ff. 223v-248r)41, aperti dall’excerptum dalle Retractationes (ff. 223v-224r); De duabus animabus (ff. 248r-255r), aperto dall’excerptum dalle Retractationes (ff. 248r-249v); De utilitate credendi (ff. 255r-257v), aperto dall’excerptum dalle Retractationes (ff. 255r-256r), e interrotto al principio di 8 (expl. liberator noster in evangelio allegoria42). V (ff. 258r-267v) S. Augustinus, Sermones «de verbis Domini»: 109 (ff. 259r-261r), 54 (ff. 261r-262v), 268 append. (ff. 262v-263r), 55 (ff. 263r-267v), 61 (ff. 264v-267v), 62 (ff. 267v-268v), interrotto a attende enim quod nul-; la silloge è aperta dalla tavola completa della doppia raccolta De verbis domini e De verbis apostoli (ff. 258r-259r). VI (ff. 268r-323v) S. Augustinus, Contra Iulianum pelagianum ll. VI, il primo mutilo dei primi sei paragrafi e di gran parte del settimo (inc. ingentis sceleribus exuimus: I, 743).

Le sei sezioni corrispondono ad altrettanti segmenti di libri, da descrivere come entità autonome dal punto di vista codicologico e paleografico44; solo accorperemo assieme la seconda e la terza sezione, quelle santambrosiane, perché costituiscono due elementi tra loro particolarmente affini, credo nati per confluire in un solo volume, magari con altre opere del padre milanese: I (ff. 1r-78v) (ff. 1r-10v), (ff. 11r-20v), 310 (ff. 21r-30v), 410 (ff. 31r-40v), 510 10 (ff. 41r-50v), 6 (ff. 51r-60v), 710 (ff. 61r-70v), 88 (10 -9°, -10°) (ff. 71r-78v); richiami all’ultimo f. v all’estrema destra in verticale circondati da gruppi di quattro puntini disposti a losanga; numeri di registro presenti su tutti i fascicoli tranne l’ottavo, composti da lettera (a-h) e cifre arabe (1-5), non sempre conservati, a causa del taglio dei margini per la legatura. perg.: in folio grande, di qualità piuttosto buona e spessore omogeneo anche se evidentemente cospicuo; concia di livello discreto, pur con qualche difetto ai margini, soprattutto macchie e ombreggiature brune, specie sul lato pelo, dovute a tracce di follicoli. fasc.:

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210

41 Il ms. è citato nella recensio di Aureli Augustini Opera, Sect. VI Pars VII, De moribus ecclesiae catholicae et moribus Manichaeorum libri II, rec. J. B. Bauer, Vindobonae 1992 (CSEL, 90), p. XIII, ma non è stato utilizzato nell’edizione. 42 Aureli Augustini De utilitate credendi, De duabus animabus, Contra Fortunatum, Contra Adimantum, Contra epistulam Fundamenti, Contra Fastum, rec. I. Zycha, Vindobonae, Pragae, Lipsiae, 1891 (CSEL, 25, pars 1), p. 10 riga 24. 43 Cfr. PL. XLIV, col. 644; cfr. Clavis patrum latinorum cit., p. 132 nr. 351. 44 Si è scelto di proporre un conteggio continuo dei fascicoli, senza iniziare da capo a ogni sezione, per dare un’idea dell’attuale assetto del libro.

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rigatura: a mina grigia su quattro rettrici verticali, con fori in corrispondenza; due colonne di 80 linee, su campo scrittorio di mm 353 × 190: ciascuna colonna mm 353 × 88 c., intercolunnio largo mm 22 c. scrittura: textualis di una sola mano tedesca operante in Italia, modulo mediopiccolo, ductus regolare e abbastanza preciso, iniziali maiuscole gotiche ricche di tratti decorativi a chiaroscuro; frequente uso di abbreviazioni. L’esecuzione è piuttosto rigida nel suo insieme, anche se non disarmonica, buono il rapporto tra pieni e vuoti e chiara la separazione delle parole; forte il contrasto tra tratti larghi e filetti. decorazione: il copista ha lasciato spazi per lettere iniziali, rubriche e segni di capitolo mai aggiunti. note: completamente assenti, neppure di mano del copista.

II-III (ff. 79r-98v; 99r-158v) 910 (ff. 79r-88v), 1010 (ff. 89r-98v); 1110 (ff. 99r-108v), 1210 (ff. 109r-118v), 1310 (ff. 119r-128v), 1410 (ff. 129r-138v), 1510 (ff. 139r-148v), 169 (10 -10°) (ff. 149r158v); richiami all’ultimo f. v all’estrema destra, decorati con tratti di penna; numeri di registro, in parte conservati, a lettere maiuscole e cifre arabe: A, B sui primi fasc. 9 e 10; l’11 riprende da A. perg.: come nella sezione precedente in folio grande, di qualità buona e spessore omogeneo anche se evidentemente cospicuo; differenze notevoli di colore tra lato pelo e lato carne; concia di livello discreto, pur con qualche difetto ai margini. rigatura: a mina grigia su quattro rettrici verticali, con fori in corrispondenza; due colonne di 59 linee, su campo scrittorio di mm 303 × 210; ciascuna colonna di mm 333 × 95, intercolunnio di mm 20. scrittura: textualis di una sola mano tedesca operante in Italia, modulo medio, ductus regolare e abbastanza ordinato, iniziali maiuscole gotiche con tratti decorativi; frequente uso di abbreviazioni. decorazione: il copista ha lasciato spazi per lettere iniziali e segni di capitolo che poi non sono mai stati aggiunti; rubriche in rosso del copista. annotazioni: rare e di mano del copista, forse tratte da antigrafi. fasc.:

IV (ff. 158r-257v) 1710

1810

fasc.: (ff. 158r-167v), (ff. 168r-177v), 1910 (ff. 178r-187v), 2010 (ff. 188r197v), 2110 (ff. 198r-207v), 2210 (ff. 208r-217v), 2310 (ff. 218r-227v), 2410 (ff. 228r237v), 2510 (ff. 238r-247v), 2610 (ff. 248r-257v); richiami all’ultimo f. v al centro, decorati con tratti di penna laterali; numeri di registro composti da lettere minuscole (a-k) e numeri romani o cifre arabe da 1 a 5. perg.: in folio grande, omogenea e di qualità notevole; minimi difetti. rigatura: a mina grigia su quattro rettrici verticali semplici, con fori in corrispondenza; due colonne di 42 linee, su campo scrittorio di mm 315 × 220: ciascuna colonna di mm 315 × 100; intercolumnio di mm 20. scrittura: textualis di una sola mano tedesca operante in Italia, grande e con ductus regolare ed elegante, iniziali maiuscole con pochi tratti decorativi; meno frequente, rispetto agli altri elementi, l’uso di abbreviazioni.

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decorazione: il copista ha lasciato spazi per lettere iniziali decorate, ma mai eseguite; rubriche e conteggi di paragrafo in rosso di mano del copista. annotazioni: del tutto assenti, neppure di mano del copista.

V. (ff. 258r-267v) 2710

fasc.: (ff. 258r-267v); richiamo all’ultimo f. v al centro decorato con tratti di penna e filetti sui quattro lati. perg.: in folio grande, di qualità buona, con tracce di macchie dovute probabilmente alla conservazione del fascicolo per conto proprio. rigatura: a mina bruna su quattro rettrici verticali semplici, con fori in corrispondenza; due colonne di 41 linee, su campo scrittorio di mm 300 × 195: ciascuna colonna di mm 300 × 90; intercolumnio largo mm 18 c. scrittura: textualis di una sola mano tedesca operante in Italia, grande e ductus regolare e elegante, iniziali maiuscole con tratti decorativi; frequente l’uso di abbreviazioni. decorazione: il copista ha lasciato spazi per iniziali decorate, ma mai eseguite; rubriche e conteggi di paragrafo in rosso di mano del copista. annotazioni: completamente assenti; al f. 258r nel marg. sup. compare una vecchia segnatura forse cinquecentesca (210).

VI. (ff. 268r-323v) 288 (ff. 268r-275v), 2910 (ff. 276r-285v), 3010 (ff. 286r-295v), 3110 (ff. 296r305v), 3210 (ff. 306r-315v), 338 (10 -9°, -10°) (ff. 316r-323v); richiami ultimo f. v al centro decorati con tratti di penna laterali, in parte rifilati con il taglio legatore. perg.: in folio grande, di qualità buona e omogenea; pochissimi difetti. rigatura: a mina grigia su quattro rettrici verticali semplici, fori in corrispondenza si sono perduti con il taglio del legatore; due colonne di 55 linee ciascuna, su campo scrittorio di mm 360 × 240: ciascuna colonna di mm 360 × 105; intercolumnio largo mm 25. scrittura: textualis di una sola mano tedesca operante in Italia, ductus di media grandezza, andamento regolare, iniziali maiuscole con pochi tratti decorativi; non molto frequente l’uso di abbreviazioni. decorazione: lettere iniziali a foglie e fiori multicolori su fondo d’oro e bottoni d’oro, alte sei/nove linee di testo e diffuse sui margini, ai ff. 274v, 290r, 301r, 311r; rubriche, titoli correnti e conteggi di capitolo in rosso di mano del copista. annotazioni: di mano del copista, non frequenti in bella notularis, forse tratte dall’antigrafo. fasc.:

La perfetta coincidenza nelle varie parti tra contenuto e contenente rivela che l’attuale Vat. lat. 4223 raccoglie almeno cinque, se non sei manoscritti distinti. La caratteristica principale che unisce queste elementi è che essi non risultano provenienti da smembramenti di altri codici reperibili in Vaticana o altrove, ma che costituiscono nuclei di volumi iniziati e non finiti: la stessa doppia silloge santambrosiana contiene un’opera copiata per intero e una trascritta solo in parte. Questa incompiutezza emerge già

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a partire dal primo testo: copiato per meno di metà su un numero regolare di fascicoli e staccando la penna nel mezzo della prima colonna del f. 78r, lasciando quindi vuoto il f. 78v, l’ultimo del fascicolo. Situazione diametralmente opposta si rileva nell’ultima sezione che contiene un’opera trascritta quasi per intero e già provvista di iniziali miniate: mancano però i fogli iniziali, quelli che dovevano contenere la prima facciata, forse ancora da affidare al miniatore principale. Segni di incompiutezza marcano infatti tutti gli altri elementi: non solo rispetto al testo copiato, che si interrompe alla fine esatta di fascicoli già predisposti con parole di richiamo ad essere completati con altri che evidentemente non sono venuti, ma anche per l’assenza, tranne nell’ultimo elemento, di capilettera miniati, previsti però nell’impaginazione, o per la presenza o meno di rubriche: in taluni casi risultano già aggiunte, in altri no. Il caso più evidente è l’elemento V costituito dal solo fascicolo iniziale di una grande e doppia silloge omiletica agostiniana, aperto dalla tavola delle opere contenute e chiuso dal richiamo a un secondo fascicolo probabilmente mai vergato. Così l’analisi del rapporto tra testi contenuti e stato attuale del volume spinge a concludere che nel tardo Cinquecento in Vaticana giacevano fascicoli di libri iniziati e non finiti, che furono accorpati assieme almeno con il doppio criterio dell’affinità di contenuto e di formato. In effetti un confronto stringente tra i vari elementi mostra differenze tra l’uno e l’altro, ma anche evidenti affinità codicologiche e paleografiche. Gli elementi infatti sono tutti di grande formato con supporti pergamenacei di qualità alta: se poi, tranne nel nucleo II-III, ogni elemento è scritto da un copista diverso, tutti fanno uso di una accurata textualis tendenzialmente rotonda, probabilmente opera di scribi transalpini, ma allestita con gusto italiano su pergamene sicuramente conciate in Italia. La scrittura stessa, pur di mani diverse, è ben codificata e si data al centro del sec. XV: l’impressione è anche che le mani siano tra di loro affini, pur usando moduli e ductus distinguibili. Identica impressione offrono le caratteristiche codicologiche principali: utilizzo di inchiostri neri per il testo, rossi e non rosati per le rubriche quando presenti, distribuzione su due colonne, rigature a mine grigie o brune e non a secco, utilizzo di rettrici prevalentemente semplici; parole di richiamo, quando presenti, prevalentemente collocate al centro del margine inferiore di ciascun fascicolo, scritte in orizzontale, tranne nei due elementi II e III, ove compaiono collocate all’estrema destra e scritte in verticale; le mani diverse dei copisti caratterizzano poi con punti o filetti o cornici le decorazioni delle parole richiamate. Sono anche rilevabili i numeri di registro, che di solito ripartono da capo per ogni elemento librario:

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assente invece una numerazione continua e remota sui fogli e/o qualsiasi indizio che faccia pensare a un qualche progetto di allestimento generale precedente all’operazione cinque-secentesca. Ben distinte sono infatti le esecuzioni dei copisti da elemento a elemento: per modulo di scrittura, disposizione e formato delle colonne rispetto al supporto membranaceo, numero di righe previsto per la copia, ampiezze diverse di campi scrittori. Siamo di fronte insomma a cinque corpi librari incompiuti, se consideriamo parte di un unico elemento i due blocchi santambrosiani, del tutto identici per copista e caratteristiche esterne di trascrizione. Questi libri rimasti a stadi iniziali di lavorazione rispondono a tipologie ben individuabili: il primo elemento ha infatti impostazione chiaramente gotica, da libro di lusso pur con impianto universitario; la scrittura vi è disposta piuttosto fittamente, ma sono previsti margini abbondanti per le note. Degli elementi II e III si è già notata l’affinità: nonostante il modulo più piccolo della textualis, si presentano come due parti di un unico progetto di volume di grande formato, da banco, con ampio spazio per annotazioni ai margini; stesso tipo, con addirittura maggior dispendio di pergamena e di eleganza formale hanno i tre elementi agostiniani, soprattutto il IV e VI, eseguiti con scritture accuratissime, di modulo grande e elegante. Trascrizioni di lusso, quasi monumenti librari consacrati al teologo di Ippona, vergati con cura formale e massima attenzione alla leggibilità. Tutti e sei gli elementi sono dunque dei grandi formati, allestiti con pergamene di concia accurata, impiego di scritture gotiche di alta esecuzione professionale, quasi su modello liturgico. Resta così da domandarsi se si tratti di operazioni di copia condotte in periodi diversi o avviate e non finite in uno spazio di tempo non lungo, per rimanere depositate del tutto incompiute in Vaticana: mai catalogate, essendo elementi in fieri, fino a quando non si è deciso di unirle assieme, forse per non farle ulteriormente disperdere o danneggiare, ma dentro una prospettiva biblioteconomica oramai lontana da quella in cui questi cinque grandi libri erano stati progettati. 3. Una proposta di collocazione cronologica Le affinità tra gli elementi librari che compongono il Vat. lat. 4223 sono tali rispetto alla storia della Vaticana che essi non possono allontanarsi troppo dalla metà del secolo XV. Le committenze dell’età di Sisto IV, riferite in particolare a testi patristici obbediscono infatti a criteri del tutto umanistici, per impiego dell’antiqua o della corsiva umanistica e per un gusto decorativo del tutto differente da quello espresso nel VI elemento librario che qui stiamo esaminando. Un esempio monumentale di tale pro-

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duzione è l’attuale Vat. lat. 263, con la versione di Cristoforo Persona dal commento paolino di Teofilatto di Bulgaria, attribuito ad Atanasio fino all’edizione erasmiana. Un codice bellissimo, tutto in antiqua, decorato secondo i modelli classicisti e antiquari che si imposero a Roma sotto il pontificato del papa ligure45: capofila di una produzione di lusso, per altro non abbondante, che da un lato andò ad arricchire la già splendida collezione papale, dall’altro si poneva ormai in modo differente anche nella dialettica con le edizioni a stampa46. Ma i cinque elementi costitutivi del Vat. lat. 4223 sono distanti anche dalla produzione curiale accanto o a margine della Vaticana, durante i pontificati di Pio II e Paolo II: ben più marcate sono infatti le scelte verso un modello fiorentino e diversi i gusti decorativi adottati da Pio II, un po’ più affini quelli che emergono da un esame delle committenze pontificie finora note di Paolo II47. Notevoli invece sono le affinità soprattutto con la produzione patristica di lusso promossa dal pontefice fondatore, Niccolò V. Bastino qui alcuni rapidi confronti con i grandi manoscritti da banco in textualis, già individuati in gruppo e studiati nelle loro caratteristiche paleografiche e decorative48: ad esempio l’opera omnia di Leone Magno ora Vat. lat. 658 o le sillogi agostiniane, come il Vat. lat. 501, firmato Batholomaeus de Medemblic, molto simile al terzo elemento del Vat. lat. 4223. Si tratta di codici splendidamente miniati a grandi fogliami colorati, scritti su pergamene di qualità da copisti tedeschi o francesi, come ad esempio il monaco olivetano Iohannes Baptista de Francia, presente tra gli scribi ingaggiati da Niccolò V, e attivo, ad esempio, sui Vat. lat. 169 e 198, ma anche sul Vat. lat. 541, con una scrittura molto affine ad alcuni dei copisti all’opera negli elementi librari del Vat. lat. 4223, in particolare la silloge di opuscoli agostiniani del

45 Una scheda descrittiva, a firma di Sebastiano Gentile è in Umanesimo e Padri della Chiesa. Manoscritti e incunaboli di testi patristici da Francesco Petrarca al primo Cinquecento, a cura di S. Gentile, Firenze 1997, pp. 329-33 nr. 84. Bibliografia e descrizione sommaria in https://digi.vatlib.it/mss/detail/Vat.lat.263 (consultato il 10 settembre 2019). 46 A. Rita, la Vaticana di Sisto IV fra libri tipografici e libri manoscritti, in La stampa romana nella città dei papi e in Europa, a cura di C. Dondi, A. Rita, A. Roth, M. Venier, Città del Vaticano 2016 (Studi e testi, 506), pp. 78-80. 47 Rimando all’ottimo esame sulla decorazione dei codici papali condotto a L. Zabeo, I libri dei papi umanisti. La miniatura a Roma nel primo Rinascimento, tesi di dottorato, Università degli studi di Firenze, a.a. 2016/2017, relatore A. De Marchi, tesi che ho avuto il piacere di leggere e studiare. Ringrazio l’autrice anche per i confronti da cui ho imparato davvero molto. 48 Si veda l’ampio studio a quattro mani E. Caldelli – F. Pasut, Copisti e Miniatori per Niccolò V, in Niccolò V nel sesto centenario cit., pp. 71-155, in cui figurano in più punti i mss. che via via qui citeremo; per ciascuno dei quali rimando anche alle schede e digitalizzazioni del catalogo elettronico vaticano.

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IV elemento, o la trascrizione quasi completa del Contra Iulianum, il VI elemento della silloge. È infatti emerso, studiando l’allestimento della prima Vaticana49, che Parentucelli, la cui committenza libraria giovanile sia per i padri che per i classici si orientava verso un modello fiorentino, dominato dall’antiqua per la scrittura e dai bianchi girari per la decorazione, in quella pontificia di maggior lusso in vista della costruzione della nuova biblioteca, per i classici mantenne in netta prevalenza l’impiego dell’umanistica libraria, mentre per i Padri si diresse verso l’uso di una textualis molto formalizzata di gusto italiano che «nel XV secolo è prevalentemente relegata, almeno in Italia, “in ambiti ristretti: qualche testo filosofico o letterario, di norma in latino… ma essenzialmente opere liturgiche, libri per la preghiera personale e comunitaria”»50. Il papa e i suoi collaboratori si orientarono su un modello di libro non di carattere universitario, ma più simile a taluni splendidi prodotti liturgici coevi: decorazioni a fogliami colorati, uso di una textualis di modulo medio grande, molto chiara e leggibile, elegante e ben impaginata. In questa direzione si muovono anche i libri incompiuti riuniti oggi nel Vat. lat. 4223. Va detto però anche che un primo esame sistematico non ha portato a rilevare identità perfetta tra i copisti impegnati nella produzione di lusso niccolina in textualis e quelli attivi nei sei elementi che compongono il codice fattizio in esame; nessuno di quelli già individuati in altri codici della stessa tipologia preparati per la Vaticana di allora, sembra infatti ripresentarsi al lavoro anche su uno solo dei sei elementi incompiuti. Va però ripetuto in merito ciò che acutamente rileva Elisabetta Caldelli nel suo saggio sui copisti di papa Parentucelli, in particolare su quelli in textualis, quando dichiara la difficoltà di arrivare, soprattutto sugli esemplari non firmati, all’«attribuzione ad un solo copista»51, tanto risultano omogenei indirizzo generale di impostazione dei volumi ed elementi specifici delle scritture adottate, che puntano a una forte uniformità. Bisognerà dunque condurre analisi paleografiche e codicologiche più accurate di quelle qui appena abbozzate. Basti per ora rilevare la stretta somiglianza delle scelte adottata nei codici niccolini di lusso in textualis e il lavoro condotto dai copisti dei cinque elementi ora conservati assieme nel Vat. lat. 4223. In effetti con questi soli dati di natura codicologico-paleografica non si può escludere del tutto che le copie non finite siano state avviate anche 49 E. Caldelli, Copisti alla corte di Niccolò V, in Caldelli – Pasut, Copisti e Miniatori cit., pp. 87-89, 97-99. 50  Ibid., p. 87, con citazione da. S. Zamponi, Elisione e sovrapposizione nella littera textualis, in Scrittura e civiltà 12 (1988), p. 169. 51 Caldelli, Copisti alla corte cit., p. 89.

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dopo Niccolò V tenendo come modello i bellissimi monumenti librari patristici commissionati per la nuova biblioteca da papa Parentucelli; bisognerà dunque cogliere altri legami che confermino la collocazione degli elementi librari del Vat. lat. 4223 entro il progetto di allestimento della Vaticana sostenuto da papa Parentucelli. 4. Affinità testuali con la produzione niccolina: i testi santambrosiani tra Torquemada e le sillogi agostiniane Indizi significativi per rafforzare il legame tra uno degli incompiuti che compongono il Vat. lat. 4223 e Niccolò V sono offerti dal primo testo contenuto: il commento alla sezione De poenitentia del Decretum Gratiani condotta dal domenicano, dotto teologo e amico del papa, Juan de Torquemada sen.52. Personalità di notevole spicco, il Torquemada fu relatore ai concili di Basilea e Firenze, si occupò si tutti i principali temi teologici discussi nel sec. XV53, e, eletto cardinale del titolo di San Sisto, divenne tra i teologi più vicini a papa Parentucelli54. E infatti proprio a Niccolò V è dedicata un’opera per cui tuttora il Torquemada è ben noto nell’ambito degli studi ecclesiologici, il Tractatus de ecclesia55. Al papa sarzanese il cardinale 52 Una scheda bio-biografica di sintesi con il catalogo delle opere in Th. Kaeppeli, Scriptores ordinis praedicatorum Medii Aevi, III, Romae 1980, pp. 24-42; quindi Th. M. Izbicki, Protector of the Faith Cardinal Johannes de Turrecremata and the Defense of the Institutional Church, Washington 1981; ma U. Horst, Kardinal Juan de Torquemada op und die Lehrautorität des Papstes, in Annuarium historiae Conciliorum 36 (2004), pp. 389-422; id., Juan de Torquemada und Thomas de Vio Cajetan: Zwei Protagonisten der päpstlichen Gewaldenfülle, Berlin 2012; id., Kardinal Juan de Torquemada und sein Traktat zur Verteidigung der Neuchristen, in Dominikaner und Juden. Personen, Konflikte und Perspektiven vom 13. bis 20. Jahrhundert. Dominicans and Jews. Personalities, Conflicts, and Perspectives from the 13th to the 20th Century, hrsg. von E. H. Füllenbach op und G. Miletto, Berlin, München, Boston 2015 (Quellen und Forschungen zur Geschichte des Dominikanerordens, Neue Folge, Bd. 14), pp. 251-271. 53 Dal diffusissimo Tractatus de sacramento eucharistae (Kaeppeli, Scriptores ordinis prae­dicatorum cit., pp. 29-30 nr. 2711), a quello sull’Immacolata concezione (ibid., p. 30 nr. 2712). 54 Nota è anche la sua biblioteca personale, di cui si conservano diversi volumi: J. M. Garrastachu, Los manuscritos del Cardenal Torquemada en la Biblioteca Vaticana, in La cienca tomista 41 (1930), pp. 188-217; Th. M. Izbicki, Notes on the manuscript library of Cardinal Johannes de Turrecremata, in Scriptorium 35 (1981), pp. 306-311; C. Bianca, Tre note da inventari: Palmieri, Torquemada, Perotti, in Roma nel rinascimento (1996), pp. 312-318. 55 Un accenno a quest’opera in rapporto all’ecclesiologia di quel periodo in A. Manfredi, La Penitenzieria Apostolica nel Quattrocento attraverso i cardinali penitenzieri e le bolle dei giubilei, in La Penitenzieria Apostolica e il sacramento della penitenza – Percorsi storici-giuridiciteologi e prospettive pastorali, a cura di M. Sodi e J. Ickx, Città del Vaticano 2009 (Monumenta studia instrumenta liturgica, 55), pp. 63-87: 64-66; cfr. anche la definizione del trattato in Th. M. Izbicki, Defending a Conservative View on Witches: Juan de Torquemada on c. Episcopi [C.26 q.5 c12], in Law as Profession and Practice in Medieval Europe: Essays in Honor of

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domenicano dedicò anche le prime due parti di un ponderoso commento teologico-canonistico al Decretum, che lo avrebbe impegnato per molti anni, praticamente fino alla fine della sua esistenza56. Le sezioni offerte a Niccolò V sono tratte dal terzo libro, e costituiscono il De consecratione e il De poenitentia, particolarmente significativo quest’ultimo in anni di riflessioni dottrinali sul sacramento della riconciliazione e in rapporto alla imponente celebrazione del Giubileo nel 1450. Nel catalogo dei codici latini della Vaticana di Niccolò V compare solo il codice di dedica del De consecratione, l’attuale Vat. lat. 227357, datato al 1449. Ad esso doveva quindi essere affiancato anche un analogo volume per il De poenitentia, che andrà individuato appunto nel primo troncone del Vat. lat. 4223, preceduto dalla lettera dedicatoria del Torquemada al papa. In effetti un rapido confronto tra le pagine iniziali di questo esemplare, compresa la dedica a Niccolò V, e l’autografo del Torquemada ora Vat. lat. 257658, sembra stringere molto il rapporto testuale tra i due testimoni, al punto che il Vat. lat. 4223 sembra configurarsi come apografo diretto della copia personale del cardinale. Inoltre i due codici di dedica delle sezioni di commentario — il Vat. lat. 2273 e la prima parte del Vat. lat. 4223 — mostrano molte affinità: non sono scritti dalla stessa mano, ma hanno la medesima impostazione e un identico modello di scrittura. Si può dunque proporre con buona dose di sicurezza che il primo dei cinque manoscritti incompiuti avrebbe dovuto prendere posto, una volta terminato, accanto al suo gemello nella Vaticana di Niccolò V: se così fosse, bisogna però anche ammettere che non si fece in tempo a concludere la seconda copia di dedica prima della morte del pontefice. Un secondo punto di contatto testuale tra la raccolta libraria niccolina e questa silloge fattizia ci viene proprio dalle opere santambrosiane. La James A. Brundage, ed. by K. Pennington and M. Harris Eichbauer, Farnham, Surrey, and Burlington, VT, 2011, pp. 27-40: 29: «His Summa de ecclesia (1453), the most comprehensive overview of the ecclesiastical polity written in the Middle Ages. was supplemented wich a commentary on Gratian’s Decretum». 56 Kaeppeli, Scriptores ordinis praedicatorum cit., p. 38; K. Binder, Kardinal Juan de Torquemada Verfasser der Nova ordinacio decreti Gratiani, in Archivum fratum praedicatorum 22 (1952), pp. 268-293; Th. M. Izbicki, A Papalist Reading of Gmtian: Juan de Torquemada on c. Quecumque [c. 24 q. 1, c. 6), in Proceedings of the Tenth International Congress of Medieval Canon Law, Syracuse, 13- 18 Augst 1996, ed. By K. Pennington, S. Chodorow and K. H. Kendall, Città del Vaticano 2001 (Monumenta Juris Canonici, Series C: Subsidia), pp. 603634: 626; Izbicki, Defending a Conservative View, pp. 27-40. 57 S. Kuttner – R. Helze, A Catalogue of Canon and Roman Law Manuscripts in the Vatican Library, II, Città del Vaticano 1986 (Studi e testi 322), pp. 303-304; Manfredi, I codici latini cit., pp. 311-312, nr. 497; la descrizione nell’inventario del 1455 è precisa: «Lectura domini Iohannis de Turre Cremata super 3am partem Decreti que intitulatur de consecratione». 58 Kuttner – Helze, A Catalogue of Canon cit., p. 142.

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Vaticana delle origini per la sezione dedicata al vescovo di Milano non conserva esemplari di committenza papale simili a quelli agostiniani di cui sopra si faceva cenno, ma, come abbiamo visto, soprattutto raccolte allestite da Parentucelli durante il concilio fiorentino e gli anni immediatamente successivi. Il secondo e terzo elemento del Vat. lat. 4223 sembrano, come è già stato evidenziato, due parti di uno stesso progetto librario, anch’esso abortito: identici copista, impaginazione, sistemi di rigatura e di richiamo. Le due sezioni contengono altrettanti commentari biblici santambrosiani: neppure metà parte di quello ai dodici salmi davidici e la copia completa di quello al vangelo di Luca. Nessun dato significativo si può trarre per ora, dal punto di vista testuale, dallo spezzone di commento ai salmi. Il testimone contenuto nel Vat. lat. 4223 è noto infatti alla magra edizione critica, ormai vecchia di ben oltre cento anni, ma tuttora l’unica disponibile, e di recente appena rimpolpata in una seconda edizione59. Essa si basa su quindici manoscritti per un testo che, secondo questa recensio, non sembra avere avuto gran diffusione in età medievale60; il nostro esemplare è collocato nell’edizione quasi alla fine dei deteriores. La recensio non è stata finora allargata, ma forse varrà la pena di farlo, visto che almeno un altro codice ignoto emerge, senza troppo sforzo di ricerca, in Vaticana ed è l’attuale Vat. lat. 13981, sul quale dovremo tornare in altra sede, perché si appaia per età ai più antichi tra quelli utilizzati dal Petschenig: dunque andrà debitamente collazionato. Ed è finora ignoto e del tutto privo, per quanto ho potuto accertarmi, di descrizione e di riferimenti bibliografici: ad un primo sguardo risulta copiato da tre mani probabilmente nell’Italia padana, alla fine del sec. XI o forse piuttosto entro la prima metà del XII secolo. Il volume riporta un numero di catena molto alto nel fondo Vaticano latino, perché giunto in Vaticana come dono dell’amico personale di Eugenio Pacelli, il barone tedesco Theodor Freiherr von Cramer-Klett, a papa Pio XI, come lo stesso 59 Cfr. qui a nt. 39. Anche l’edizione Ambrosius, Explanatio super Psalmos XII, Opere esegetiche. VIII/1-2, Commento ai dodici salmi, introduzione, traduzione, note e indici di L. F. Pizzolato, Milano – Roma 1980 (Sancti Ambrosii Mediolanensis opera, 7), che offre una corposa introduzione di carattere storico ed esegetico, tuttavia riproduce l’edizione Petschenig, pur evidenziando (p. 33) la sua «tendenza ipercritica nei confronti della tradizione» e segnalando «i punti i cui ci discosteremo dalle lezioni del Petschenig, generalmente per ripristinare la lezione unanime dei manoscritti». Un’analisi puntuale dell’opera in chiave esegetica è offerta da L. F. Pizzolato, La “Explanatio Psalmorum XII”. Studio letterario sulla esegesi di sant’Ambrogio, Milano 1965 (Archivio ambrosiano, 17); e in F. Braschi, L’”Explanatio psalmorum XII” di Ambrogio: una proposta di lettura unitaria. Analisi tematica, contenuto teologico e contesto ecclesiale, Roma 2007 (Studia ephemeridis “Augustinianum”, 105). 60 Ambrosii Opera, VI cit., pp. I-V.

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pontefice annota direttamente sulla guardia incollata al contropiatto anteriore della legatura antica, in buonissimo stato di conservazione61. La nota autografa del papa porta la data 12.vi. 34. Esso si presenta dunque o come un testimone finora inedito, oppure potrebbe essere individuato nel nr. 7 della recensio di Petschenig: in un esemplare cioè che nel 1897 era nelle mani di Jacob Rosenthal e che l’editore critico ha poi perso di vista; a ciò farebbe pensare un primo rapido riscontro con la descrizione sommaria e con alcune delle varianti riportate di seconda mano dall’editore critico62. Potrebbe dunque essere stato poi acquistato della potente e ricca famiglia nobile tedesca, e donato a Pio XI, di cui bene si conoscevano i gusti librari e il legame santambrosiano. Ma torniamo al Vat. lat. 4223 e all’altro testo di Ambrogio contenuto, il commento a Luca, attaccato da Girolamo, ma apprezzato nel Medioevo e quindi non privo di testimoni, anche molto antichi, di cui le due edizioni critiche disponibili, hanno fatto ampio uso, ovviamente mettendo in secondo piano codici appena più recenti o recentissimi63. In questi elenchi il Vat. lat. 4223 non figura mai: andrà dunque aggiunto in un futuro catalogo di testimoni quattrocenteschi. Un aggancio alla Vaticana di Niccolò V permette il confronto tra questo tardo esemplare e il Vat. lat. 264, di cui si è accennato già più sopra: il prezioso manoscritto bolognese noto al giovane Tommaso da Sarzana e richiesto in prestito da Niccolò V; esso porta infatti in prima sede (ff. 1r74v) il commentario lucano e un confronto serrato con il III elemento del Vat. lat. 4223 conduce alla conclusione, pur ancora da sottoporre a ulteriore verifica, che quest’ultimo sia apografo diretto del codice bolognese per quanto attiene al testo scritturistico santambrosiano. Sembra dimostrarlo la collazione completa del prologo secondo l’edizione Corpus Christianorum mettendo a confronto il Vat. lat. 264 (V1) e il terzo elemento del Vat. lat. 4223 (V2); ecco le varianti più significative: 61 Sul donatore si vedano notizie e bibliografia in http://www.pacelli-edition.de/dokument.html?idno=1018 (consultato il 23 settembre 2019), dove è pubblicato un documento che lo riguarda nell’edizione critica on-line delle lettere di Pacelli mentre era nunzio in Germania. Una biografia a stampa è di L. B. von Cramer-Klett, Theodor Freiherr von CramerKlett: Weg und Wirken eines christlichen Mannes, Aschau 1966. 62 Ambrosii Opera, VI cit., p. III. 63 Ambrosii Opera, IV, Expositio Evangelii secundum Lucan, ex recensione C. Schenkl … absolvit H. Schenkl, Pragae, Vindobonae, Lipsiae, 1902 (CSEL, 32), pp. XVII-LX; Ambrosii Opera, IV, Expositio Evangelii secundum Lucam. Fragmenta in Esaiam, cura et stusio M. Adriaen, Turnhout 1957 (CCL, 14), pp. XI-XVIII; a questa edizione si rifà anche Ambrosius, Expositio evangelii secundum Lucam. Opere esegetiche. IX/I-II, Esposizione del Vangelo secondo Luca, introd., trad., note e indici di G. Coppa, Milano, Roma 1978 (Sancti Ambrosii episcopi Mediolanensis opera, 11-12), cfr. pp. 60-63.

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2, 15: ethicis puteus] et hic puteus V1 V2; 2, 39: est, de mirabilibs autem et rationabilibus] est non volens. De rationabilibus autem et moralibus V1 V2; 2,32: conectitur] innectitur V1 innectitur V2; 3, 3: ut et administrationem] et administrationem V1 V2; 4, 50: et pura] et si pura, si marg. sup V1 et si pura V2; 5, 67: vindicat] vindicat corr. vendicat V1 vendicat V2; 5, 68: spiritalis] spiritualis V1 V2; 5, 76-77: distantiam fecit] aliam distantiam fecit V1 distantiam aliam fecit V2; 5, 99: verrit] vertit V1 V2; 7, 119-102: quia a sacerdotibus] quia sacerdotibus V1 V2; 8, 135: virtutum est singularum] singularum virutum est V1 V2; vivida morte] vivit a morte V1 V2; 8, 142: diffudit] diffusit V1 V2.

Le varianti mi pare mostrino infatti la dipendenza di V2 da V1, e non solo rispetto alle varianti testuali, ma anche alla recezione da parte dell’apografo di correzioni proprie dell’antigrafo, e dall’assetto generale della copia: nella perfetta coincidenza delle rubriche, nella frequentissima corrispondenza nelle trascrizioni delle maiuscole a inizio di periodo, nella comune tendenza all’utilizzo di ci per ti, nelle frequenti corrispondenze di trascrizione delle abbreviazioni. Dunque è più che possibile che anche la sezione santambrosiana sia stata commissionata dal papa umanista per la Vaticana delle origini: Parentucelli, lettore attento di Ambrogio, ma sprovvisto finora del commento a Luca e, insieme, conoscitore profondo dell’esemplare bolognese, potrebbe aver richiesto in prestito nel 1453 il volume antico anche proprio con l’intento di trarre copia del commento evangelico, da affiancare in un solo ampio volume ad altri scritti di esegesi biblica del vescovo di Milano: il lavoro iniziato da uno degli scribi in textualis del papa, si sarebbe quindi interrotto alla morte del pontefice nel 1455. I tre primi tronconi della silloge che stiamo esaminando sembrano così condurci verso la Vaticana delle origini. E le affinità del Vat. lat. 4223 con l’ampia raccolta di codici e opere agostiniane censite nell’inventario del 1455 sarà in tal senso da approfondire. Un primo passo simile a quello condotto per il commento a Luca si può infatti condurre sulla piccola quinta sezione, costituita da un solo fascicolo, in cui un elegante copista in textualis di modulo grande e ben arrotondata, coeva a quelle che operarono in altre sezioni, ha iniziato a trascrivere la doppia silloge omiletica agostiniana che va sotto i due titoli, recenti ma molto diffusi di De verbis Domini e De verbis apostoli64. L’antigrafo da cui il copista traeva il testo era infatti provvisto di una accurata tavola iniziale, con l’elenco delle due serie omiletiche, con rubriche molto analitiche per ciascuno dei sermoni riprodotti. Tavola, rubriche e testo di questa parte del Vat. lat. 4223 corrispondono 64 Cfr. almeno P. Verbraken, La collection de Sermons de saint Augustin «De verbis domini et apostoli», in Revue bénédictine 77 (1967), pp. 27-46.

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S. AMBROGIO NELLA VATICANA DI NICCOLÒ V E IL VAT. LAT. 4223

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perfettamente a un altro codice antico tuttora presente in Vaticana e già catalogato alla morte di papa Parentucelli, che vi aveva lasciato sui margini alcune sue postille autografe: il Vat. lat. 47565. Si recupera così un altro antigrafo utilizzato per allestire una copia che purtroppo è testimoniata solo dal primo fascicolo. Se queste prime indagini sul Vat. lat. 4223, ampio e complesso codice, che si sta rivelando preziosa custodia di cinque manoscritti incompiuti, verranno confermate da ulteriori e più precisi approfondimenti — codicologici, paleografici, testuali — saremmo ancor più certi di aver di fronte il frutto incompiuto di un altro gruppo cospicuo di allestimenti librari di lusso e da banco avviati ma non conclusi per la nuova biblioteca papale voluta da Niccolò V, uno sforzo notevole e quasi parallelo per gusti e cura filologica ad altri manoscritti compiuti prima della morte del papa sarzanese. Verrebbe quindi confermata anche da questa serie di incompiuti il noto giudizio di Vespasiano da Bisticci, molto vicino al papa umanista e testimone de visu di un’impresa che «sarebbe suta cosa mirabile, se poteva conducere, ma pervenuto a morte non si poté finire»66, lasciando non concluse, ma non disperse, molte iniziative legate alla collezione libraria in allestimento: committenze di traduzioni, riordino di libri già acquisiti, catalogazione avviata ma non terminata, su cui poi, soprattutto nel settore greco si poté appoggiare l’inventario redatto all’elezione di Callisto III67. A questi sentieri interrotti possiamo aggiungere ora anche una serie codici già commissionati, avviati ma non finiti, conservati però insieme ai libri già pronti e in fase di ordinamento. Questo gruppo di abbozzi di codici, tutti conservati in Vaticana e rilegati assieme alla fine del sec. XVI, riapre anche una questione che suggerivo anni fa: presupporre cioè entro le mura stesse del palazzo apostolico e poco distante dalla biblioteca che veniva formandosi, anche un gruppo di scribi direttamente all’opera durante il pontificato di Niccolò V, quasi in forma di scriptorium papale68; sarebbe difficile infatti pensare che tutti questi manoscritti iniziati e non conclusi giacessero sparsi per più botteghe, per poi finire non nelle mani di qualche ricco committente successivo, ma tra i 65 Manfredi, I codici latini cit., p. 190 nr. 154. Bibliografia e descrizione sommaria del codice in https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.475, consultato il 23 settembre 2019. 66 Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed. critica con introd. e commento di A. Greco, I, Firenze 1970, p. 65. 67 Cfr. A. Manfredi, La nascita della Vaticana in età umanistica: libri e inventari da Niccolò V a Sisto IV, in Le origini della Biblioteca Vaticana cit., pp. 147-236: in particolare alle pp. 182-183 per il passaggio tra Niccolò V e il successore Callisto III. 68 A. Manfredi, Primo Umanesimo e teologi antichi, in Italia medioevale e umanistica 32 (1989), pp. 155-203: 201. Di parere diverso, e non senza ragioni proprie, Caldelli, Copisti alla corte cit., p. 90.

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fogli e i frammenti della Vaticana. La presenza di scribi di casa, congedati dal successore spagnolo appena morto Niccolò V, confermerebbe il senso di smarrimento e di disagio che gli stessi umanisti hanno espresso per la fine del pontificato quasi improvvisa, certamente per loro improvvida, di papa Parentucelli. Tra queste testimonianze librarie una, finora pressoché ignota e davvero singolare, riguarda alcuni esemplari santambrosiani, che un’occasione festosa mi ha dato modo di riaprire e di far conoscere.

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IL WORKFLOW DELLA DIGITALIZZAZIONE DEI MANOSCRITTI DELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA ATTRAVERSO ALCUNI ESEMPI DI ILLUSTRI TESTIMONI AMBROSIANI * 1. Introduzione Workflow è un termine divenuto di uso comune in molti contesti della lingua italiana, con particolare riguardo agli ambiti discorsivi di tipo tecnico-informatico e gestionale. Il sostantivo di per sé designa un complesso di cose che riguardano il controllo dei processi lavorativi, attraverso la creazione di un modello, e l’amministrazione dell’insieme delle operazioni che devono essere svolte per raggiungere un obiettivo, includendo altresì gli attori che sono parte del medesimo processo. Tale insieme di attività, in un contesto tipicamente informatico, si distingue per la sua natura seriale: una concatenazione di interazioni, sotto forma di scambi di informazioni tra i diversi agenti, da intendersi sia in quanto agenti intelligenti, sia in quanto macchine, cioè le applicazioni o i servizi e i processi di dati così come i software di terze parti. Dunque il workflow può descrivere il circuito di esecuzione e di validazione dei compiti che devono essere attuati per risolvere un complesso di operazioni includendo i tempi, i modi e le fattispecie implicate in ciascuna fase. Negli attuali usi linguistici, prendiamo in prestito questo termine dall’inglese perché è molto più pervasivo, nella sua articolazione concettuale, di quanto non sia la sua traduzione letterale italiana (flusso di lavoro) e ad esso ci riferiamo, in questo contributo, per illustrare tutte le procedure che sono state finora definite per raggiungere il duplice scopo del Progetto di digitalizzazione della collezione dei manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV) che consiste nella conservazione a lungo termine delle copie digitalizzate e nella relativa divulgazione attraverso la consultazione online. Come tutte le attività sperimentali, il procedimento “per tentativi ed errori” ha consentito il consolidamento delle prassi da cui proviene l’attuale workflow. Pur considerando d’imprescindibile importanza il primo biennio * La segnalazione dei manoscritti vaticani ambrosiani qui presentati pro­ viene da: C. ­Mon­tuschi, Ambrogio di Milano nelle miniature di alcuni manoscritti della Bi­blio­teca Vaticana, pp. 433-481 in questo volume.

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di attività 2010-2012 e i primi traguardi raggiunti, ad esempio sul versante delle dotazioni strumentali e degli standard relativi alle riprese fotografiche, così come dell’adeguamento sistemistico del Data Center della BAV, questo contributo si limita ad esaminare lo status quaestionis attuale del Progetto di digitalizzazione. Valutazione del presente, dunque, con uno sguardo rivolto anche verso il futuro per stimare gli esiti a cui inevitabilmente conduce la realtà del digitale e la sua influenza nelle biblioteche in cui sono conservati materiali unici, per importanza e rarità, quali sono i manoscritti. Nel suo aspetto più macroscopico, il workflow con cui si sta realizzando la collezione digitale, si struttura essenzialmente in due sezioni principali, distinte secondo i rispettivi obiettivi del Progetto: il flusso dell’archiviazione dei file ad alta risoluzione1, allo scopo dell’archiviazione a lungo termine, e il flusso della pubblicazione dei manoscritti digitalizzati nella piattaforma Web della biblioteca digitale. A questi due punti cardine del processo si arriva attraverso una serie di azioni preliminari che predeterminano l’archiviazione e la distribuzione online delle copie digitalizzate. Tale serie è vincolata da diverse condizioni che si estendono dalle primissime fasi di selezione degli originali, e relativa analisi dello stato di conservazione, fino all’acquisizione, post produzione e controllo di qualità delle riproduzioni fotografiche. Illustriamo queste fasi preliminari e successivamente le due linee principali del workflow, esemplificando le procedure adottate attraverso alcuni testimoni digitalizzati, scelti tra i manoscritti d’interesse ambrosiano, al fine di commentare tutti i passaggi relativi alla composizione dell’oggetto digitale e di valutare l’adozione delle soluzioni tecnologiche finalizzate allo studio dei manoscritti. 2. Le fasi preliminari La scala di priorità adottata nella scelta dei manoscritti da digitalizzare tiene conto, in linea di principio, di quattro criteri principali: la fragilità dei manoscritti, la determinazione del loro valore (importanza e preziosità), la disponibilità delle risorse finanziarie, mirate alla digitalizzazione di specifiche selezioni di manoscritti, e infine le richieste degli utenti. Ma al di là di queste valutazioni, è determinante il parere del Laboratorio di Restauro della BAV che indica se un codice possa essere o meno sottoposto al processo di acquisizione digitale e, in caso affermativo, come trattarlo durante le riprese fotografiche. Le liste di queste selezioni, unitamente alla traccia delle azioni preliminari (ad esempio, i dettagli circa il prelievo e il trasporto, l’assegnazione 1 Si

intende la risoluzione delle riproduzioni con scanner, da 400 a 800 ppi.

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del manoscritto all’operatore che ne esegue l’acquisizione e che poi che ne controlla la qualità) vengono registrate in un sistema di controllo, denominato Inside e realizzato allo scopo di centralizzare e documentare tutta l’informazione generata nelle diverse fasi di lavorazione. Sicché, data una segnatura di un manoscritto, possiamo ricostruire la storia della sua digitalizzazione attraverso questo software sviluppato in BAV. Prendiamo ad esempio il manoscritto Vat. lat. 275, manoscritto della metà del XIV secolo che contiene l’Expositio de Psalmo CXVIII di Sant’Ambrogio. Di questo codice sappiamo, in qualunque momento consultando Inside, i passaggi all’interno delle fasi previste dal workflow (status “Ricollato” a seguito del processo di ripresa, status “Finalizzato” al fine di autorizzare la conservazione a lungo termine e la pubblicazione nel Web, ecc.).

Nella descrizione si evidenzia anche la traccia delle note dei restauratori che ne hanno ammesso la digitalizzazione, con le indicazioni specifiche per il fotografo.

È inoltre riassunta la timeline di tutti gli interventi che ha un andamento incrementale: aumenta di “nodi” ogni volta che un’azione viene completata. Tornando alla fase di acquisizione e successiva validazione delle immagini è importante menzionare l’ubicazione dei file master in Isilon: com-

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plesso sistemistico amministrato dal CED. Esso è strutturato in un’area di stage in cui le immagini, una volta generate dallo scanner, vengono depositate e revisionate dai tutor del Laboratorio Fotografico, responsabili del lavoro degli operatori, al fine di ricevere o meno la validazione che implica il successivo trasferimento automatico (delle sole immagini finalizzate), nell’area certificata del sistema (le immagini che non sono finalizzate tornano invece alla fase iniziale del processo di acquisizione). Da quest’area le cartelle delle immagini master ad alta risoluzione (suddivise come i volumi e denominate come le segnature) sono interessate da automatismi che implicano, da un lato, il deposito nell’archivio di conservazione a lungo termine e dall’altro la conversione nel formato compresso per la pubblicazione nel Web. In ciascuna di queste distinte fasi interagiscono diversi sistemi e programmi di utilità (ad es. lettura dei file di log del software degli scanner utilizzati nel Progetto), script per l’esecuzione delle certificazioni dei file, ecc.) di cui Inside eredita le informazioni utili per le fasi successive. 3. Archiviazione a lungo termine Il tema della conservazione digitale è stato dibattuto, possiamo dire negli ultimi quindici anni ovvero dalla concezione dell’OAIS2 in poi, attorno ad un problema centrale: la definizione, sul piano teorico, della protezione dei dati. Quest’ultima è concepita in modo sistematico solo quando sia garantita per lunga durata e libera da dipendenze strutturali così come da errori di conservazione al fine di abilitare, per tutto il periodo in cui l’informazione è conservata, il recupero della medesima informazione. Mentre sul piano pratico se ne evidenzia l’interesse industriale e commerciale in considerazione dello sviluppo di molti sistemi applicativi (open source e proprietari) che ha portato all’ingegnerizzazione degli archivi di conservazione, strutturati secondo modelli e principi normativi adottati a diversi 2 Cfr.

ISO 14721:2003, Space data and information transfer systems — Open archival information system — Reference model. Lo standard definisce concetti, modelli e funzionalità inerenti agli archivi digitali alla conservazione digitale.

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livelli istituzionali, per l’archiviazione digitale in ambiente di riproduzione di beni librari e archivistici (o digitali nativi) e dei documenti amministrativi3. Dal punto di vista della soluzione sistemistica il Progetto di digitalizzazione della BAV ha richiesto la costituzione di un complesso di archiviazione digitale in grado di conservare l’ingente “peso” della collezione degli oltre 80 mila manoscritti che, coi dati finora acquisiti, stimiamo si aggiri, una volta completata l’acquisizione di tutti i manoscritti, attorno a 1.657 PB4. L’esigenza di una segmentazione delle procedure di archiviazione e di creazione di un modello di riferimento non va giustificata solo per questo ordine di grandezza poiché l’organizzazione di un flusso per il controllo dell’archiviazione a lungo termine sarebbe tale anche se venisse trattata una minima parte di questa mole di dati. Considerando dunque gli aspetti che vengono implicati nel workflow della conservazione, si rileva la caratteristica primaria che riguarda i criteri di nomina dei file digitali, oggetto di archiviazione, ovvero le immagini dei fogli (o delle pagine) di cui sono composti i codici. Secondo le specifiche studiate dalla BAV, i software che gestiscono le fotoriproduzioni sono stati ingegnerizzati affinché ciascun nome dei file contenga una sequenza fissa di elementi quali: segnatura del manoscritto di appartenenza, tipologia del materiale a cui si riferisce la ripresa fotografica (legatura, foglio (o pagina) di guardia, foglio (o pagina) di testo, scala millimetrica, Color Checker, ecc.), posizione, nella sequenza, dei file componenti il volume digitalizzato, locus e indicazione eventuale delle eccezioni (ad es. relative alle anomalie di fascicolazione del manoscritto, al tipo di ripresa, alla presenza di filigrana, ecc.). Come precedentemente accennato, la serie ordinata di immagini componenti un manoscritto digitalizzato viene gestita, nel sistema Isilon, in una cartella il cui nome corrisponde alla segnatura. Va da sé che, per rispettare il principio cardine dell’archiviazione digitale, la congruità della copia digitale con l’originale deve essere assicurata e dunque, la corrispondenza univoca del signans al signatum, deve essere necessariamente rispettata. Di conseguenza, per la creazione dei manoscritti digitalizzati e la relati3 Oltre al citato standard ISO 14721:2003, si pensi, quale esempio di norme di adozione nazionale, in ambito italiano, al Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD), adottato con d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, modificato recentemente con i decreti legislativi n. 179 del 2016 e n. 217 del 2017 e anche alle best practices emanate dalla Digital Preservation Coalition britannica (disponibile a: , data di visita 30 luglio 2019). 4 1 Peta Byte: quinta potenza di mille ovvero 1 biliardo di byte.

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va archiviazione è stata costituita una lista di autorità delle segnature che ha una funzione specifica nel workflow quale thesaurus delle stringhe controllate in cui si descrive, per ciascuna unità fisica, la segnatura del volume e la sua pertinenza amministrativa (le diverse ubicazioni dei manoscritti nei magazzini) oltre alla modalità descrittiva5. Le immagini e le relative cartelle di appartenenza sono dunque verificate in fase di post produzione, prima del versamento nell’archivio di conservazione. Una menzione importante che qualifica l’archiviazione riguarda la scelta del formato delle immagini digitalizzate, che deve evitare la dipendenza dagli strumenti di acquisizione (scanner, corpi macchina che producono formati di file TIFF o RAW). Pertanto il formato di archiviazione a lungo termine è stato opportunamente stabilito in conformità ai principi di sostenibilità che le linee guida indicano e a cui ci riferiamo, come formulati dalla Library of Congress di Washington6. “An archival format must be utterly portable and self-describing, on the assumption that, apart from the transcription device, neither the software nor the hardware that wrote the data will be available when the data are read”7. Nelle fasi di avvio del progetto, la BAV ha scelto il formato di immagine FITS (acronimo di Flexible Image Transport System) che è un formato estremamente diffuso per l’archiviazione di immagini e dati in astronomia e astrofisica spaziale, nato nell´ambito della radioastronomia in Europa e poi adottato dalla NASA, e in generale dalle altre istituzioni scientifiche del settore. L’adozione di questo formato, standardizzato nel 19798, ha avuto, 5 La modalità descrittiva si riferisce all’impiego dei metadati in funzione della tipologia di materiale: TEI (Text Encoding Initiative), per i manoscritti oppure EAD (Encoding Archival Description), per le carte di archivio. 6 Cfr. Sustainability of Digital Formats: Planning for Library of Congress Collections (disponibile a: , data di visita 30 luglio 2019). I principi di sostenibilità sono: — Disclosure — Adoption — Transparency — Self-documentation — External dependencies — Impact of patents — Technical protection mechanisms 7 Steering Committee for the Study on the Long-Term Retention of Selected Scientific and Technical Records of the Federal Government, [US] National Research Council, Preserving Scientific Data on our Physical Universe (National Academy Press, 1995), p. 60. 8 Nel 1988 lo IAU (International Astronomical Union), associazione internazionale e senza scopo di lucro, ha costituito lo IAU FITS Working Group, una struttura tuttora esistente che si occupa di gestire questo formato e di renderlo sempre utile alle esigenze della scienza moderna.

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e tuttora ha, lo scopo di facilitare lo scambio di immagini e di dati nel dominio scientifico di provenienza. Il formato si conforma alle specifiche che consentono la gestione di dati digitali secondo un sistema binario standard facilmente leggibile e indipendente sia dagli strumenti di origine, sia dai sistemi operativi. Il formato non prevede licenze d’uso ed ha un continuo aggiornamento. Da un punto di vista strutturale esso è suddiviso in due parti distinte: nella prima parte (header), in caratteri ASCII, sono contenute la descrizione e le informazioni secondo una definizione di keyword di dati digitalizzati (riguardanti l’immagine codificata in binario che segue all’header del file, ovvero il singolo il foglio manoscritto). La BAV ha adottato le keyword ufficiali dello standard e proposto un insieme di elementi codificati per la gestione specifica dei progetti di digitalizzazione dei beni culturali, di cui ha ottenuto un riconoscimento ufficiale da parte della comunità internazionale del FITS9. La Biblioteca, nella scelta dell’uso del formato FITS, ha incontrato la collaborazione volontaria da parte di ricercatori nel campo dell’astrofisica e allo stesso tempo ha goduto della preziosa collaborazione delle istituzioni internazionali che gestiscono lo standard FITS, con l’obiettivo di renderlo pienamente adeguato per la conservazione a lungo termine dei manoscritti digitalizzati. Tuttora operante è la collaborazione scientifica tra l’Agenzia spaziale europea (ESA) e la Biblioteca per contribuire agli studi sul FITS e sulla conservazione digitale a più ampio spettro. 3.1  Versamento nell’Archivio di conservazione Le condizioni che ammettono la conservazione a lungo termine di un oggetto digitale sono determinate da una serie di elaborazioni automatizzate che seguono alla validazione, per ogni manoscritto digitalizzato, svolta da parte dei tutor responsabili delle riproduzioni fotografiche. Le elaborazioni successive, che interessano la fase di versamento, comprendono un iniziale controllo dei file di immagine nei formati di acquisizione realizzato con l’integrazione del componente open source JHOVE10 che viene attivato mediante un comando automatico, gestito dal software Inside. Solo gli oggetti digitali che superano questo controllo vengono   9 Cfr.

, data di visita 30 luglio 2019. (Application Programming Interface) di validazione degli oggetti digitali gestita in Java. JHOVE è un open source, prodotto nell’ambito del progetto congiunto di JSTOR e della Harvard University Library (cofinanziato dalla Mellon Foundation) per sviluppare un framework estensibile per la convalida dei formati digitali. Cfr. ; per la programmazione e per la descrizione del progetto: , data di visita 30 luglio 2019. 10 API

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convertiti nel formato FITS e solo i file che superano la successiva fase di ulteriore validazione del formato FITS vengono effettivamente versati. In caso contrario, il processo torna alla fase iniziale. Gli operatori controllano l’integrità degli oggetti digitali i quali, una volta corretti, riprendo le tappe del flusso di validazione. Per quanto riguarda il processo di conversione la BAV, in collaborazione con DBSeret11, ha realizzato uno strumento in grado di riconvertire in formato FITS i file di acquisizione opportunamente validati. In questa fase vengono gestiti i dati nella porzione header di ciascuna immagine riconvertita che contiene tutte le informazioni necessarie alla documentazione di ogni immagine archiviata, dalla sua generazione in poi. I dati delle sopra menzionate keyword del FITS, generate nell’header al momento del versamento, sono ulteriormente gestiti all’interno del data base dell’applicativo OMNES12, organizzato in conformità con lo standard PREMIS13. Per esemplificare le fasi di archiviazione finora descritte, prendiamo ad esempio il codice del Passionario angioino-ungherese, Vat. lat. 8541, manoscritto iconografico ad opera del Maestro del Leggendario Angioino Ungherese. Consideriamolo in una delle sue peculiarità: quella di essere miniato solo sul “lato carne” della pergamena. Interrogando il sistema OMNES abbiamo tutte le informazioni circa la sua composizione digitale. Abbiamo il dettaglio della sequenza e delle singole immagini provenienti dalle informazioni scritte nei file FITS. I dati registrati sono rappresentati nel sistema secondo il citato modello PREMIS in cui si evidenziano gli elementi distintivi dell’immagine (nel segmento informativo Object), i vari interventi (chi/come/quando sono state eseguite riprese, la conversione del formato FITS) specificati nella modalità di esecuzione (operatori umani o agenti software) e infine i dati relativi al Copyright. Ma ritornando alla peculiarità della foliazione del codice ovvero la presenza di contenuti solo su un lato dei fogli pergamenacei, notiamo nella sequenza che alcuni nomi dei file presentano un’informazione racchiusa tra parentesi quadre: si tratta di un esempio di codifica relativa alla gestio11 Cfr.

DBSeret, , data di visita 30 luglio 2019. , data di visita 30 luglio 2019. 13 PREservation Metadata Implementation Strategies, cfr. , data di visita 30 luglio 2019, sviluppato, tra il 2003 e il 2005, da un gruppo di lavoro internazionale promosso da OCLC e RLG (Online Computer Library Center e Research Libraries Group) con l’obiettivo di definire un insieme di elementi basilari e facilmente implementabili per la conservazione degli oggetti digitali.  12 ivi,

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ne delle eccezioni precedentemente menzionate e che viene in questo caso impiegata per registrare la presenza di fogli non numerati (corrispondente al codice ‘fx’) in relazione alle pagine bianche del “lato pelo” della pergamena, privo di miniature. L’indicizzazione dei metadati ovvero il contenuto delle keyword del FITS e delle informazioni desunte dal nome del file, oltre a generare le descrizioni conformi a PREMIS, consente la rilevazione di tutti gli elementi che descrivono gli eventi di conservazione, le fattispecie degli oggetti digitali e il filtraggio delle immagini secondo le codifiche di eccezione. La registrazione di un oggetto digitale nel sistema OMNES implica infine l’allocazione automatica nel file system della cartella dei file dell’oggetto, all’interno di Isilon, il sistema residente nel Data Center principale della BAV. Da qui il contenuto dell’archivio viene sistematicamente replicato, per motivi di sicurezza, nel Data Center secondario della BAV. L’architettura sistemistica dell’archivio di conservazione a lungo termine, gestito nei due Centri, include: — un sistema NAS (Network Attached Storage) per la memorizzazione di immagini digitali, in grado di fornire un accesso altamente disponibile ai dati mantenendo prestazioni elevate; — una rete di archiviazione (SAN) per l’infrastruttura virtuale. Lo storage NAS scalabile EMC Isilon della Biblioteca Vaticana è un sistema di storage cluster composto da 35 + 5 nodi. Ogni nodo è un dispositivo autonomo, montabile in rack che contiene hardware di natura standard, tra cui unità disco, Central Processing Unit (CPU), memoria e interfacce di rete ed è integrato con il software del sistema operativo chiamato OneFS.

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L’attuale dimensione dello storage Isilon è 5.6 PetaByte (2 Elastic Cloud Storage da 2,8 ciascuno). SAN è composta da 2 array di storage ibrido unificato EMC VNX (30 TeraByte ciascuno). L’intera infrastruttura di archiviazione è supervisionata e gestita da un virtualizzatore, EMC ViPR, in grado di modulare dinamicamente lo spazio disponibile nel Data Center principale. Il software ViPR è integrato con VMWare e attualmente gestisce oltre 100 macchine virtuali con UNIX, LINUX e Microsoft OS. L’ottimizzazione computazionale dell’infrastruttura è regolata da 7 nodi di backup principali + 3. I 7 nodi principali hanno una capacità totale di: 212 GigaHertz per la CPU e circa 1 TeraByte di memoria ad accesso casuale (RAM). Tutta questa apparecchiatura è fornita da DELL EMC Corporation. 4. La Biblioteca digitale nel Web Come più volte evidenziato, solo i manoscritti digitalizzati che superano la fase di finalizzazione vengono gestiti per l’archiviazione e poi pubblicati

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nel Web per la consultazione attraverso la piattaforma della biblioteca digitale denominata DVL14. Andando per gradi, è sempre Inside che gestisce l’invio al sistema AMLAD15 di tutti i dati relativi al reperimento dei file master ad alta risoluzione, da convertire nel formato compresso JPG2000, per la visualizzazione nel Web. A seguito del completamento del processo di conversione AMLAD risponde con un log, descrittivo del processo terminato, che Inside registra e notifica agli operatori del Laboratorio Fotografico i quali possono procedere, avvalendosi dell’impiego dell’applicativo DWF16, con i controlli necessari alla pubblicazione. Quando nella pubblicazione del manoscritto digitalizzato non sia contemplata anche la creazione dei metadati descrittivi e strutturali, gli interventi manuali sono ridotti a meri controlli estremamente rapidi. L’interazione con Inside consente infatti l’interpretazione automatica delle informazioni necessarie a tradurre, nel visualizzatore della piattaforma del DVL, l’aggregazione dei file per rappresentare e virtualmente “sfogliare” il volume digitale a cui vengono assegnati gli URI17: indirizzi, raggiungibili nel Web, corrispondenti all’oggetto digitale identificato nel suo insieme così come nelle singolarità dei suoi componenti. Nelle selezioni di manoscritti facenti parte di progetti in cui sia prevista la contestuale creazione di metadati, il workflow della pubblicazione offre l’interazione con l’OPAC18 per la cattura automatica nel DWF delle descrizioni direttamente derivate dal catalogo dei manoscritti19. I dettagli analitici, per locus, relativi alle descrizioni interne, sono ulteriormente elaborati per il collegamento dei contenuti (ad es. autori e titoli delle opere presenti nel codice) alle contestuali immagini dei fogli. L’associazione degli URI degli oggetti digitali ai metadati disponibili è un altro elemento cardine del processo di pubblicazione. Da questo deriva 14 DVL: DigiVatLib, disponibile a: , piattaforma ideata dalla BAV e ingegnerizzata dalla società giapponese NTT Data. 15 AMLAD è il nome del componente software di NTT Data su cui sono stati sviluppati diversi framework: DVL (DigiVatLib) per la consultazione della biblioteca digitale, DWF (DigiWorkFlow) per gestire ad uso interno le fasi di pubblicazione degli oggetti digitali, OVL (OpacVatLib, cfr. ) per la consultazione degli OPAC della BAV. Le specifiche funzionali e i flussi di tutti i framework sono stati forniti dalla BAV. 16 Cfr. supra, n. 15. 17 URI (Uniform Resource Identifier): sequenza di caratteri che identifica universalmente ed univocamente una risorsa. 18 OPAC (Online Public Access Catalogue): genericamente designa un catalogo di biblioteca, disponibile online. 19 Cfr. Catalogo dei manoscritti della BAV, disponibile a: .

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la possibilità di interrogare il motore di ricerca del DVL per parole chiave e per scorrimento di indici derivati dalle descrizioni dei manoscritti. Un altro modo per consultare la biblioteca digitale è attraverso la galleria delle collezioni, corrispondenti ai fondi delle segnature. Caratteristica rilevante della gestione del DWF, da un lato nel dialogo con Inside e dall’altro col DVL, è la conformità allo standard OAIS, precedentemente menzionato. Il sistema infatti immagazzina le immagini convertite nel formato di pubblicazione JPG2000 e i metadati come “pacchetti informativi” che lo standard OAIS distingue in: AIP (Archival Information Package), per l’archiviazione e DIP (Dissemination Information Package), per la distribuzione/consultazione. Il pacchetto di archiviazione consiste di tutte le immagini di formato JPG2000 e dei dati che nella fase antecedente del workflow sono stati recepiti attraverso Inside. Il pacchetto di distribuzione è invece il pacchetto informativo disponibile all’interfaccia utente (nel DVL), in risposta alle richieste di accesso. Esso può riferirsi a un singolo pacchetto di archiviazione oppure a una raccolta di pacchetti archiviati come un unico set informativo. L’aspetto più rilevante dell’applicazione del modello OAIS nel workflow è la differenziazione tra gli oggetti acquisiti, archiviati e presentati all’utente: le diverse esigenze collegate alle differenti fasi di gestione delle risorse

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nell’OAIS determinano trasformazioni della struttura, del formato e dei contenuti degli oggetti digitali. Per fare qualche esempio concreto, esemplifichiamo il percorso di questa sezione del workflow, relativa alla pubblicazione, ancora una volta attraverso manoscritti ambrosiani. E per far questo ci avvaliamo di qualche informazione relativa ai codici Vat. lat. 268, 275, 281: Nel Tre e nel Quattrocento la grande edizione santambrosiana fu modello autorevole e studiato. Fra il 1366 e il 1374 Andrea Serazoni, agostiniano in S. Marco di Milano, poi vescovo di Piacenza e di Brescia, ne trasse apografo di parecchi testi, allestendo due volumi di considerevole mole, attuali Vat. lat. 275, 281. Apografo integrale del Vaticano lat. 268 è contenuto nei ff. 81r-112v del Vat. lat. 281: De vocatione omnium gentium sancti Ambrosii Mediolanensis epischopi (ff. 81r-103v); De vera humilitate ad sacram virginem Demetriadem (ff. 103v-110r); Epistola Mansueti episcopi Mediolanensis ad Constantinum Imperatorem e l’Expositio fidei (ff. 110v-112v). Nel Vat. lat. 281 seguono poi alcune epistole di s. Ambrogio (ff. 112v-124r: Epist. Extra coll. 14, Extra coll.13, Extra coll. 12 = 63, 23, 1 Maur.), quindi le letterine scambiate fra Martino Corbo e Paolo e Gebeardo chierici di Ratisbona (ff. 124r-125v), letterine tuttora conservate in originale nell’archivio della Basilica. […]20

I tre manoscritti, presenti nel DVL, sono stati pubblicati nel 2017 nell’ambito del Progetto Polonsky21, iniziativa sostenuta dall’omonima Fondazione, in collaborazione con le Bodleian Libraries di Oxford.

20 M. Ferrari, Il nome di Mansueto, arcivescovo di Milano (c. 672-681), in Aevum 82 (2008) fasc. 2., pp. 281-291. 21 Cfr. Polonsky Foundation Digitization Project, disponibile a: , data di visita 30 luglio 2019.

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Sono stati interamente descritti e, per ciascuno, associate le immagini ai contenuti. Il nome del copista, Andrea Serazoni, è valorizzato come legame ipertestuale delle schede bibliografiche e per un confronto dei codici, di mano del medesimo copista, o per prendere visione in contemporanea dei fogli del Vat. lat. 281, che contengono l’apografo Vat. lat. 268, possiamo attivare la visualizzazione comparata, offerta dal visualizzatore del DVL, di più pagine digitalizzate, di manoscritti diversi.

Questa funzione è la risultante di due fattori: la conformità dello strumento al protocollo internazionale di interoperabilità, noto come IIIF22 e la produzione, nella fase della creazione del sopra menzionato DIP (Dissemination Information Package) del cosiddetto manifest dell’oggetto digitale conforme al IIIF come di seguito esplicitato. Ma prima di aggiungere altre informazioni relative all’impiego del IIIF in Vaticana, è utile definire gli scopi di questa tecnologia che si possono riassumere nei seguenti principi: — Offrire agli studiosi un livello di accesso uniforme alle risorse basate su immagini e raggiungibili via Web: — Definire una serie di applicazioni per l’interfaccia di programmazione (API) in grado di gestire l’interoperabilità tra diversi archivi di immagini. — Sviluppare, coltivare e documentare tecnologie condivise, come server di immagini e client Web, che forniscano al pubblico internazio22 IIIF (International Image Interoperability Framework). Le specifiche funzionali sono disponibili a: , data di visita 30 luglio 2019.

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nale la possibilità di visualizzare, comparare, manipolare, annotare immagini di cui sono composti gli oggetti digitali23. Tali scopi sono raggiunti mediante l’implementazione nel workflow di pubblicazione delle API descritte nelle specifiche funzionali dello standard, denominate API Immagine e API Presentazione. La prima elabora una modalità per richiedere e fornire immagini secondo una sintassi di interrogazione comune. Permette, in sostanza, l’interoperabilità delle immagini digitali. Infatti l’API fornisce le istruzioni per costruire URI parametrizzati al fine di ottenere, attraverso un visualizzatore compatibile, una particolare regione e / o dimensione di un’immagine digitale. Questa capacità di manipolare in modo scalare un’immagine è ciò che consente una gestione dinamica delle immagini: dalle miniature (thumbnail) fino alla visualizzazione più estesa con uso di zoom. L’API Immagine specifica anche un modo per gestire le informazioni di tipo tecnico dell’immagine digitale, concepita nella sua interezza, e dei suoi possibili derivati (gestione di dettagli, orientamento dell’immagine, ecc.). In altre parole, l’API Immagine specifica un servizio Web che restituisce al browser un’immagine rispondente a una richiesta inviata tramite protocollo standard HTTP o HTTPS. L’obiettivo dell’API Presentazione è fornire le informazioni necessarie per consentire a un visualizzatore compatibile con lo standard IIIF di essere impiegato dagli utenti in combinazione con l’API Immagine. In altre parole l’API Presentazione fornisce un metodo per esporre gli oggetti digitali e i dati che li descrivono. Ma l’API Immagine, che consente di fruire e condividere le immagini, per sé stessa non contiene alcuna informazione testuale relativa al contenuto dell’oggetto digitale. Infatti, per associare i metadati descrittivi e strutturali alle immagini che compongono un oggetto digitale occorre l’implementazione di questa seconda API, costituita da un documento scritto secondo sintassi JSON-LD24, chiamato manifest di presentazione. Esso include tutte le informazioni dell’intera risorsa necessarie alla consultazione. Sicché per richiamare diversi manoscritti, in un visualizzatore compatibile con il protocollo IIIF, è sufficiente conoscere l’URI in cui si trova localizzato il manifest dell’oggetto digitale. Tale indicazione è riportata nel DVL nel dettaglio informativo di ogni oggetto digitale presente nella piattaforma. 23 Cfr. 24 Cfr.

About IIIF, , data di visita 30 luglio 2019. JSON for Linking Data, data di visita 30 luglio 2019.

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Ma è ovviamente possibile importare URI compatibili con lo standard IIIF tratti da biblioteche digitali diverse. Si consideri ad esempio un insieme di URI che rappresenta manoscritti d’interesse di studio per la liturgia ambrosiana: l’URI appar­tenente alle Bodleain Libraries e corrispondente al Canon. Pat. Lat. 229 che contiene frammenti di Inni ambrosiani con l’URI relativo al Vat. lat. 82, appartenente alla Biblioteca Vaticana.

Esempio comparativo di due manoscritti, provenienti da biblioteche diverse, con l’uso del visualizzatore Mirador.

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Quale che sia il visualizzatore impiegato, se quello disponibile nel DVL oppure quello associato al servizio della piattaforma digitale delle Bodleain Libraries, il risultato non cambia: avremo sempre l’opportunità di comparare insiemi ibridi di materiali provenienti da archivi diversi. Il IIIF rende inoltre possibile ricomporre virtualmente collezioni smembrate i cui manoscritti sono conservati in biblioteche diverse oppure di ricostruire frammenti di manoscritti. Un’altra caratteristica del protocollo IIIF è quella di consentire agli utenti di visualizzare e creare annotazioni relative ai dettagli di immagini presenti, ad esempio, in una pagina (in un manoscritto: l’identificazione di una glossa, il commento a una miniatura, la trascrizione di un testo, ecc.). Il visualizzatore compatibile col IIIF che abilita la gestione delle annotazioni è il Mirador25. La Biblioteca, grazie al sostegno ricevuto dalla Fondazione Mellon, ha implementato un flusso di lavoro per la produzione delle annotazioni in Mirador e la gestione di un progetto editoriale basato sulle funzionalità del IIIF. Il Progetto26, svoltosi nel triennio 2016-2019, in collaborazione con Stanford Universities Libraries, è denominato: Web Thematic Pathways of Medieval Manuscripts from the Vatican Collections using International Image Interoperability. Esso rappresenta, a tutti gli effetti, una delle prime formulazioni editoriali disponibili in IIIF, quale pubblicazione online che ha lo scopo di presentare tematiche derivate dallo studio della collezione dei manoscritti conservati presso la BAV. In particolare, il Progetto mira a dimostrare, tra i vantaggi del IIIF per i manoscritti, come il livello descrittivo delle annotazioni sia un’innovazione fondamentale per lo studio dei contenuti: trascrizioni, commenti, analisi comparativa di testi e immagini. Il progetto è suddiviso in quattro grandi percorsi tematici, ciascuno progettato in base a una selezione di manoscritti27. Nelle sue linee essenziali, un percorso tematico è composto da tre diversi tipi di informazioni: 1) La narrativa curatoriale (introduzione, informazioni storiche, ecc.) relativa al tema scelto, che rappresenta il filo conduttore della selezione dei manoscritti; 2) I metadati descrittivi e strutturali; 25 Cfr.

Mirador, , data di visita 30 luglio 2019. progetto è disponibile a: . 27 I percorsi sono: Courses in Paleography: Greek and Latin, from antiquity to the Renaissance, Latin Classics, Vatican Palimpsests, The Library of a ‘humanist prince’. 26 Il

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3) Le annotazioni, i commenti le informazioni relative a testi, glosse, miniature e trascrizioni di interi fogli o di altre unità informative presenti nel manoscritto. Tutti i contenuti dei metadati e delle annotazioni sono ricercabili come parole chiave e termini di ricerca indicizzati. 5. Conclusioni La consultazione delle riproduzioni digitali dei manoscritti (e con essa il complesso delle tecnologie che dall’acquisizione fotografica si estende fino a tutte le successive fasi del workflow), a mano a mano si sta inserendo nel mondo degli studi, dal momento che il digitale si conferma essere uno strumento in grado di determinare nuovi approcci alla consultazione e dunque di influenzare indirizzi di ricerca. Ci riferiamo in particolare alle analisi sulle immagini, oltre all’opacità dei supporti e al limite del visibile. Senza entrare nel dettaglio tecnico, menzioniamo ad esempio l’impego delle riprese speciali (ottenute con fluorescenza a raggi ultravioletti o riflettografia infrarossa) per la lettura della scriptio inferior nei palinsesti vaticani e l’importanza degli esiti dell’API Immagine del IIIF per la ricostruzione virtuale dei testi28. Oppure consideriamo la conservazione a lungo termine delle riprese fotografiche, acquisite in diversi momenti, per uno stesso codice. Esse documentano stati dell’originale mutati nel tempo, ad esempio, dopo interventi di restauro oppure a causa del deterioramento degli inchiostri. In questo secondo caso l’immagine digitale, acquisita ad esempio anni addietro, si scopre essere più leggibile dell’originale e da qui la necessità di conservare diversi “strati di produzione digitale”, anche se gli strati successivi siano di migliore risoluzione rispetto ai precedenti. Infine è praticamente d’obbligo riepilogare il ruolo del IIIF, la cui adozione internazionale ha finora prodotto più di 1 biliardo di immagini compatibili. Al Consorzio internazionale del IIIF appartengono 130 istituzioni che sostengono lo sviluppo dello standard tra cui, solo per quanto riguarda i beni librari, la maggior parte delle Biblioteche nazionali, oltre a reti informative quali Europeana, OCLC, oltre alle storiche biblioteche universitarie quali le Bodleian Libraries di Oxford e le più importanti università dell’America del Nord, e ancora, oltre alla Vaticana. Sicché in considerazione di questa importante diffusione e della disponibilità degli strumenti che il IIIF offre, con particolare attenzione alla comparazione e alle analisi dei 28 Si veda, in proposito, il percorso Vatican Palimpsests: Digital Recovery of Erased Identities del Progetto Mellon, disponibile a: .

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manoscritti, lo scenario di un mondo di studi sempre più pervaso dal digitale, più che futuribile, è in molti casi già consolidato nel presente. Certamente la disponibilità del digitale non potrà mai rispondere alle necessità di consultazione degli originali. Piuttosto consideriamo l’effetto contrario: come la circolazione nel Web dei manoscritti digitalizzati e del relativo corredo informativo possa fungere da volano per dirigere sempre più l’attenzione allo studio dei manoscritti originali, al fine di orientare nuovi ambiti di ricerca e dunque migliorare l’affluenza degli studiosi nelle biblioteche. Infatti, la visita virtuale presso la migliore delle piattaforme digitali non potrà mai superare un’esperienza in una biblioteca reale. Ma, per contro, l’auspicio che le voci degli studiosi possano maggiormente risuonare anche attraverso il Web (partecipando alla produzione di metadati e annotazioni) è il fine più ultimo della tecnologia con cui stiamo lavorando per la conservazione e la divulgazione dei manoscritti vaticani. 6. Bibliografia Biblioteca Apostolica Vaticana, BAV FITS Keyword Dictionary (Version 1.0), 2015, disponibile a: , da­ta di visita 30 luglio 2019. C. Bogen, Image Open Access: Implementing IIIF, in CONTENTdm, OCLC Developer Network. 23 (2017), disponibile a , data di visita 30 luglio 2019. M. W. Bolton – C. Aster, Spotlight at Stanford, Duraspace, 2018, disponibile a , data di visita 30 luglio 2019. T. Cramer, The International Image Interoperability Framework (IIIF): Laying the Foundation for Common Services, Integrated Resources and a Marketplace of Tools for Scholars Worldwide, in Coalition for Networked Information. 13 (2011), disponibile a , data di visita 30 luglio 2019. T. Crane, An Introduction to IIIF, Digirati, 2017, disponibile a , data di visita 30 luglio 2019. G. Gaisler, Projectblacklight: Spotlight, 2015, disponibile a , data di visita 30 luglio 2019. IFLA, Linee guida per pianificare la digitalizzazione di collezioni di libri rari e manoscritti, 2015, disponibile a , data di visita 30 luglio 2019. Library of Congress, PREMIS Data Dictionary for Preservation Metadata, 2015, disponibile a , data di visita 30 luglio 2019.

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P. Manoni, The Mellon Project at the Vatican Library, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae, XXV, Città del Vaticano, 2019, pp. 265-281. G. Michetti, Il modello OAIS, in Digitalia 1 (2008), pp. 32-49. NASA, FITS resources, disponibile a: , data di visita 30 luglio 2019. A. Salarelli, International Image Interoperability Framework (IIIF): a panoramic view, in JLIS 8,1 (2017), disponibile a data di visita 30 luglio 2019.

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PRIME OSSERVAZIONI SULLE NOTE A ISOCRATE AUTOGRAFE DI LAZZARO BONAMICO NEL CODICE AMBR. O 122 SUP. Nel 1988 Francesco Piovan concludeva la sua importante ricerca biografica su Lazzaro Bonamico — largamente fondata su un esame sistematico dei fondi d’archivio — con queste parole1: […] fuori dal quadro è però rimasta la questione della ‘filologia’ di Lazzaro, nel senso sia del lavoro di emendazione sui classici «utriusque linguae», sia del metodo espositivo da lui usato nelle lezioni universitarie; ed è questione, credo, di un qualche rilievo per chi voglia fare storia della cultura padovana nella prima metà del Cinquecento […]. In questa direzione le linee di una nuova possibile futura ricerca potranno essere molteplici e mirare innanzitutto alla ricostruzione della biblioteca di Lazzaro, mai neppure tentata finora; alla raccolta e all’edizione dell’epistolario e, infine, all’analizi del consistente materiale conservato nei manoscritti dell’Ambrosiana […].

Mi è sembrato un buon modo per festeggiare il compleanno di don 1 F.

Piovan, Per la biografia di Lazzaro Bonamico. Ricerche sul periodo dell’insegnamento padovano (1530-1552), Trieste 1988, p. 128. Sull’umanista bassanese Lazzaro Bonamico, oltre alla monografia di Piovan, vd. R. Avesani, Bonamico, Lazzaro, in Dizionario Biografico degli Italiani, II, Roma 1969, pp. 533-540; A. Pontani, Inediti greci di Lazzaro Bonamico, in Medioevo e rinascimento veneto. Con altri studi in onore di Lino Lazzarini, II, Padova 1979, pp. 51-67; A. Cataldi Palau, Un gruppo di manoscritti greci del primo quarto del sel XVI secolo appartenenti alla collezione di Filippo Sauli, in Codices manuscripti 12 (1986), pp. 93-124; ead., Catalogo dei manoscritti greci della Biblioteca Franzoniana (Genova). (Urbani 2-20), Roma 1990 (Supplemento al Bollettino dei Classici, 8), pp. 23-24, 68, 108; ead., Catalogo dei manoscritti greci della Biblioteca Franzoniana (Genova). (Urbani 21-40), Roma 1996 (Supplemento al Bollettino dei Classici, 17), p. 208 ad indicem; F. Pontani, Sognando la crociata. Un’ode saffica di Giano Lasckaris su Carlo VIII, in Italia medioevale e umanistica 56 (2015), pp. 251294: 254-256. Sulla sua scrittura greca vd. S. Bernardinello, Autografi greci e greco-latini in Occidente, Padova 1979, p. 68 (nr. 71); P. Eleuteri – P. Canart, Scrittura greca nell’umanesimo italiano, Milano 1991 (Documenti sulle arti del libro, 16), pp. 15, 119-121, nr. XLV; S. Martinelli Tempesta, Per un repertorio dei copisti greci in Ambrosiana, in Miscellanea Graecolatina I, a cura di F. Gallo, Roma – Milano 2013, pp. 101-153: 139, 146, 148 (tav. 10). Importanti considerazioni su Lazzaro si trovano anche nella due recenti monografie su Marco Musuro: D. Speranzi, Marco Musuro. Libri e scritture, Roma 2013 (Supplemento al Bollettino dei Classici, 27), ad indicem; L. Ferreri, L’Italia degli Umanisti, 1, Marco Musuro, Turnhout 2014 (Europa Humanistica, 17), ad indicem.

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Cesare, che ai fondi della Biblioteca Ambrosiana ha dedicato tanti anni di cure e di studi, raccogliere l’auspicio di Piovan e tentare di posare un ulteriore mattoncino utile alla ricostruzione della filologia greca di Lazzaro a partire da una delle molte testimonianze manoscritte presenti nella biblioteca voluta da Federico Borromeo e ivi giunte per il tramite della biblioteca di un altro importante, seppur adottivo, padovano, Gian Vincenzo Pinelli2, grande ammiratore del dotto bassanese, del quale raccolse molte carte, probabilmente acquisendole direttamente dalla famiglia dopo la sua morte, avvenuta il 10 febbraio 1552, prima, cioè, dell’arrivo di Pinelli a Padova nel 15583. La ricostruzione del metodo filologico ed esegetico dei dotti dell’Umanesimo e del Rinascimento passa necessariamente attraverso lo studio dei loro commentari, manoscritti o a stampa, degli appunti utilizzati per preparare le lezioni, delle recollectae trascritte, più o meno fedelmente, dalla viva voce del maestro da parte di allievi, e, infine, dalla ricostruzione delle 2 Sulla biblioteca di Gian Vincenzo Pinelli vd. ora A. M. Raugei, Gian Vincenzo Pinelli e la sua biblioteca, Genève 2018 (con tutta la bibliografia precedente). 3 Vd. Meschini, Inediti greci cit., pp. 53-54, nt. 14. Sulle vicende dei beni di Lazzaro dopo la sua morte (ma non specificamente sui suoi libri) vd. Piovan, Per la biografia cit., pp. 107125. Talvolta è possibile un passagio intermedio attraverso Pietro Bembo: potrebbe essere il caso dei ff. 246-311 dell’Ambr. O 122 sup., come ipotizzato da M. Danzi, La biblioteca del cardinal Pietro Bembo, Genève 2005, pp. 285-286. I codici ambrosiani — ad oggi a me noti dalla bibliografia e da controlli in situ — in cui compare a vario titolo (copista; autore; annotatore) la mano greca di Bonamico sono i seguenti: & 145 sup. (Pletone et alia; copista), A 164 sup. (Commento di Proclo a Euclide; annotatore), C 6 inf., ff. 29-56 (Niceforo Gregora; copista), C 61 inf., ff. 88-97 (Itinerarium di Urbano Bolzanio; copista), C 69 sup., ff. 228-331 (Psello; copista), D 295 inf., ff. 58v, 73r (due lettere autografe), D 355 inf. (scolii autografi a Demostene), D 450 inf. (compominenti poetici autografi; missive autografe etc.), E 102 sup. (Epistole di San Paolo del sec. XIV; annotatore), H 43 sup., ff. 136r-v, 139v-141v (Giamblico; Teodoro Gaza; copista), I 95 sup., f. IIr (epistola di Michele Apostolis; copista), I 220 inf., ff. 89r-149v (quaedam ethica; copista/autore?; gli scoli a Teocrito dei ff. 33-85 gli sono attribuiti come autore, ma non sono autografi), I 224 inf., ff. 111r-134v (estratti da Aristotele; copista), M 53 sup. (Strabone copiato da Costantino Mesobote; annotatore), N 289 sup., ff. 1r-140v (Euclide; Tolomeo; Proclo; Strabone; copista), N 337 sup. (epigrammi autografi), O 122 sup. (scholia varia; autografi), P 72 sup. (lettere di Teodoro Gaza; copista), Q 23 sup. (Dossapatre, Aftonio, Ermogene etc., del sec. XIII; annotatore), R 98 sup., ff. 347r-360v (Plutarco, adulat. et am.; copista; annotatore; traduttore interlineare). A questi manoscritti si aggiunga la seguente Aldina dei Moralia di Plutarco segnata S. Q. I. VIII. 13, la cui postille sono state attribuite dubitativamente — ma cogliendo senz’altro nel segno — a Lazzaro da Danzi, La biblioteca cit., p. 271. Su questo postillato e sul suo possibile legame con Musuro vd. ora S. Martinelli Tempesta, Marc Antoine Muret e i Moralia di Plutarco, in Marc Antoine Muret, un humaniste français en Italie, éd. par L. Bernard-Pradelle, C. de Buzon, J.-E. Girot et R. Mouren, Genève c.d.s., pp. 337-387, in part. 341-342 e ntt. 15-16. Lettere in greco sono segnalate da P. O. Kristeller, Iter Italicum. A Finding List of Uncatalogued or Incompletely Catalogued Humanistic Manuscripts of the Renaissance in Italian and Other Libraries, I, Italy (Agrigento to Novara), London – Leiden 1977, p. 322, nell’Ambr. D 385 inf.

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loro biblioteche ‘virtuali’. Quest’ultimo aspetto della ricerca contempla sia il reperimento dei libri posseduti o, almeno, passati per le mani di questi illustri lettori, sia un’indagine sulle loro letture documentabili attraverso le citazioni nelle loro opere erudite, oppure grazie alle reminiscenze che emergono dalla loro produzione più ‘letteraria’. Nel caso di Lazzaro Bonamico manca del tutto uno studio complessivo di tale tenore, reso difficile, in particolare, dal fatto che egli non si curò affatto di pubblicare i frutti dei suoi studi4. Lo studioso deve, pertanto, fondarsi quasi soltanto su materiale manoscritto e, anche se in gran parte — nella fattispecie per gli studi greci — i testimoni sono conservati a Milano in Ambrosiana, si tratta di materiali non sempre agevoli da datare, analizzare e pubblicare in una forma che li renda utilizzabili alla comunità scientifica. Anche la ricostruzione della sua biblioteca è tuttora un desideratum e ci si deve, per il momento, accontentare di sporadiche segnalazioni di postille di suo pugno su manoscritti o su stampati. La notevole quantità di autori letti, copiati, escerpiti o commentati, a partire da manoscritti o da edizioni a stampa complica, inoltre, ulteriormente il lavoro di scavo, dato che si deve anche tentare di collocare, per quanto possibile, i singoli testimoni nel quadro della circolazione umanistica e rinascimentale degli autori antichi. Per quanto ne so l’unico tentativo criticamente fondato di entrare nel merito della produzione erudita di Lazzaro grecista è stato quello di Anna Meschini, nel suo importante contributo del 1979, nel quale, oltre a pubblicare testi in greco inediti, ha proposto un equilibrato giudizio sulle competenze effettive di Lazzaro. Il materiale studiato in quella sede, tuttavia, si limitava soltanto a testi epistolari e poetici; ad altra sede si rinviava l’indagine sui manoscritti Ambrosiani «D 355 inf., I 220 inf. e O 122 sup. contenenti scoli autografi a Demostene, Teocrito, oratori ed epigrammi dell’Antologia (di cui è da verificare l’originalità, per alcuni già esclusa dai cataloghi)»5. La studiosa ha pubblicato alcuni fondamentali contributi sull’esegesi umanistica alla Planudea, ma, a mio sapere, non ha mai visto la luce nulla di specifico sugli altri scoli autografi di Lazzaro6. 4 Su

questo aspetto della personalità di Lazzaro Bonamico si vedano le importanti considerazioni, frutto di un esame sistematico delle testimonianze d’archivio, di Piovan, Per la biografia cit. 5 Meschini, Inediti greci cit., p. 54 nt. 16, ma gli scoli a Teocrito non sono autografi (vd. supra a nt. 3). 6 A. Meschini, Lattanzio Tolomei e l’Antologia Greca, in Bollettino dei Classici s. III, 3 (1982), pp. 23-62; A. Pontani, Per l’esegesi umanistica greca dell’Antologia Planudea: i marginalia dell’edizione del 1494, in Talking to the Texts: Marginalia from Papyri to Print. Proceedings of a Conference held at Erice (26th september – 3rd October 1998) as the 12th Course of International School for the Study of Written Records, edited by V. Fera, G. Ferraù, S. Rizzo,

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Lungi da me anche soltanto l’idea di tentare in questa sede di colmare una lacuna, per la quale ci vorrebbero lo spazio e il tempo per una corposa monografia. Mi basterà qui proporre, mediante un piccolo specimen, l’edizione di una porzione — non ampia, ma a mio parere significativa — di uno dei commenti universitari di Lazzaro, nella fattispecie quello a Isocrate, uno degli autori più importanti nel contesto dell’educazione universitaria cinquecentesca. La scelta non è motivata soltanto dai miei specifici interessi sul testo isocrateo e sulla sua trasmissione, bensì anche dal fatto che il commento del Bonamico non ha trovato posto nel libro più importante sulla fortuna dell’oratore attico nel Quattrocento e nel Cinquecento, nell’ambito della quale il contributo di Lazzaro, seppure non esente da limiti, merita di avere una sua collocazione7. L’Ambr. O 122 sup. è un codice composito, frutto dell’assemblamento di vari quaderni di formato differente, risalenti a tempi diversi e contenenti materiali esegetici ed estratti tutti autografi di Lazzaro Bonamico8. Messina 2002, II, pp. 557-613. Da questi studi emerge che, nel caso specifico della Planudea il commento di Lazzaro contenuto nell’Ambr. O 122 sup. non è originale, ma è, in una forma abbreviata, la trascrizione di un commento anonimo, attestato, in una forma un po’ più ampia, dal Neap. II D 44, autografo di Girolamo Aleandro (che in un primo tempo era stato ritenuto l’autore del commento: A. Pontani, L’umanesimo greco a Venezia: Marco Musuro, Girolamo Aleandro e l’Antologia Planudea, in I Greci A Venezia. Atti del Convegno Internazionale di studio nel quinto centenario della fondazione della Comunità greca [Venezia, 5-7 novembre 1998], Venezia 2002, pp. 381-466), e a sua volta dipendente dall’esegesi di Marco Musuro, all’origine del corpus scoliastico vulgato e ricostruibile sia grazie alle postille autografe dell’Inc. III.81 della Biblioteca Apostolica Vaticana, sia ai commenti di Lattanzio Tolomei e dell’anonimo servito da modello ad Aleandro e a Bonamico. 7 Mi riferisco, naturalmente, al celebre libro di L. Gualdo Rosa, La fede nella ‘paideia’. Aspetti della fortuna europea di Isocrate nei secoli XV e XVI, Roma 1984, nel quale, se non ho visto male, il nome di Lazzaro Bonamico neppure compare. Adeguata attenzione (pp. 75-78) viene, invece, riservata ai due commenti universitari, rimasti manoscritti, quello di Marco Musuro, conservato non autografo, ma grazie alle recollectae di un anonimo allievo nel Vat. lat. 11483, ff. 1r-35v (vd. Ferreri, Marco Musuro cit., pp. 449-451, ma le due orazioni commentate sono Ad Dem. e Ad Nic., non soltanto l’Ad Nic.; da accogliere è, infatti, la correzione proposta da Gualdo Rosa Titulus est oratio paraenetica ad Demonicum in luogo di titulus est oratio paraenetica Ad Nicoclem del manoscritto [f. 2r, l. 18]; un cenno a questo codice anche in Speranzi, Marco Musuro cit., p. 122 e nt. 99), e quello autografo di Francesco Ciceri (Guelf. 4° 75 Gud. gr.). Il commento isocrateo di Lazzaro è appena menzionato in G. Marangoni, Lazzaro Bonamico e lo Studio padovano nella prima metà del Cinquecento, in Nuovo Archivio Veneto, n.s., 2 (1901), pp. 131-192, in particolare p. 171 nt. 5, nell’ambito di una lista di autori la cui lettura, non si comprende su quali basi, è attribuita, pur con dubbio, al secondo decennio del suo insegnamento presso lo Studio patavino (curiosa la svista, nel testo e non nella nota, per cui le orazioni di Isocrate si sono trasformate in orazioni di Socrate, un errore del resto non ignoto alla tradizione indiretta antica e medievale dell’oratore ateniese). 8 Vd. la descrizione del manoscritto in E. Martini – D. Bassi, Catalogus codicum Graecorum Bibliothecae Ambrosianae, I-II, Milano 1906, p. 688. Per una bibliografia aggiornata

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L’attuale assemblamento, come si può dedurre dalla rilegatura con piatti in cartone, è stato realizzato in Ambrosiana agli inizi del Seicento e non è privo di interesse notare che il suo attuale contenuto non corrisponde al pinax che una mano riconducibile ad ambiente pinelliano ha vergato al f. Ir, dove si legge9: Scholia et notae in Isocr. | in Aristot. Rhet. | in Epigr.ammata | Excerpta ex Simp. in phy. | in Meteora ex ….. | ex Eustratio in ethica | Quaedam ἐθικὰ imo (?) quae ad phrases et verba pertinent | Excerpta ex Simplicio in Epictetum.

Questo pinax corrisponde perfettamente — anche nella sequenza degli items — soltanto ai testi contenuti tra il f. 81 e la fine del codice. Se ne può arguire che in casa Pinelli fossero stati accorpati soltanto i quaderni contenenti i materiali registrati nel pinax, mentre gli appunti su Demostene (e sui relativi paratesti libaniani), Eschine, Licurgo nonché quelli su Aristofane, attualmente contenuti ai ff. 1-80 — sulla cui provenienza pinelliana non è lecito dubitare — dovevano trovarsi separati e non necessariamente legati10. Il composito assemblato in casa Pinelli si apre con un piccolo quaderno al 2006 vd. C. Pasini, Bibliografia dei manoscritti greci dell’Ambrosiana (1857), Milano 2007, p. 293. Il carattere composito del manoscritto impone di considerare il 1519, data che si legge al f. 189r (M. D. XVIIII. iam. pridie | ἀντονιείων) un riferimento cronologico valido soltanto per quella specifica sezione del manoscritto, nella fattispecie quella contenente la prima parte (ff. 136r-189r) del commento agli epigrammi dell’Anthologia Planudea (ff. 136r-221v), sul quale vd. Meschini, Lattanzio Tolomei cit., p. 55; Pontani, Per l’esegesi umanistica greca cit., pp. 577, 583, 609. Avesani, Bonamico cit., p. 534, menziona l’Ambr. O 122 sup. nel suo complesso come testimonianza degli studi di Bonamico intorno al 1519. Al gennaio 1519 il codice risulta assegnato nell’insieme anche in M. Vogel – V. Gardthausen, Die griechischen Schreiber des Mittelalters und der Renaissance, Wiesbaden 1909 (Zentralblatt für Bibliothekswesen, Beiheft 33), p. 451. Corretta, invece, la valutazione di I. Hadot, La tradition manuscrite du commentaire de Simplicius sur la Manuel d’Épictète, in Revue d’histoire des textes 8 (1978), pp. 1-108: 63. Secondo la studiosa (in part. pp. 62-63 e 87) i brevi estratti da Simplicio contenuti nell’Ambr. O 122 sup. appartengono a un gruppo (groupe α) di manoscritti, tutti di area veneziana, apografi più o meno diretti del Vat. gr. 327 (C), copiato da Giorgio Trivizia, senza che si possa, soltanto su basi testuali, specificare un legame peculiare con uno di questi codici. Alla luce del fatto che due di questi manoscritti, il Vat. Pal. gr. 100 (copia diretta di C) e il Vat. Ross. 1023 (copia diretta del precedente) sono stati copiati da Costantino Mesobote, varrà forse la pena di riconsiderare la questione, tenendo conto del fatto che almeno in un caso è possibile documentare una relazione diretta tra Lazzaro Bonamico e Costantino Mesobote: il bassanese, infatti, ha annotato lo Strabone Ambr. M 53 sup, di mano, appunto, di Mesobote: vd. supra nt. 3.   9 Sopra il pinax, di altra mano per me anonima, si legge: Lazari Bonamici. 10 Fuorviante, in questo caso, risulta la registrazione del contenuto nel, peraltro meritorio, catalogo di Martini e Bassi, nel quale si legge: «Scholia et notulae gr. et lat. varii generis (1) in scriptores graecos nonnullos praecipue in oratores (Demosthenem, Aeschinem, Isocratem, Licurgum) et in Aristophanem (90) in Aristotelem Rhetoricam […]» (Martini – Bassi,

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cartaceo autonomo (ca. 22 × 16 cm)11, composto da fogli piegati in quarto (vergelle verticali; filoni orizzontali) che si articolano in due fascicoli: un quaternione (ff. 81-88) e un binione costituito dai ff. 89, . I ff. , , sono bianchi, mentre sul f. Gian Vincenzo Pinelli ha scritto: Laz Bon. | ad Isocratem12. Inoltre i ff. e sono ancora attaccati lungo la piegatura in alto, essendo rimasti intonsi. Bonamico doveva essersi costruito un quadernetto composto da 8 + 4 fogli; i suoi appunti hanno occupato l’intero quaternione e il primo foglio (r-v) del binione seguente. Gli ultimi due fogli bianchi, intonsi, devono essere stati ripiegati di 360°, andando a costituire una sorta di coperta protettiva, sulla quale poi Pinelli, una volta acquisito il quadernetto, ha apposto il titolo, che in origine doveva, dunque, trovarsi all’inizio e non alla fine come nell’attuale posizione — probabilmente esito di una risistemazione dei fascicoli in occasione della rilegatura seicentesca. Il quadernetto contiene un commento, evidentemente destinato all’insegnamento universitario, all’intero corpus delle orazioni isocratee, Epistole escluse. L’ultima nota, al f. 89v, è relativa a un passo dell’orazione Contra Lochitem (12, p. 20, 5 Dr.: ἐπιδόξους), che è la penultima del corpus secondo la sequenza dell’editio princeps di Calcondila, riprodotta nella sostanza nella prima (1513) e nella seconda (1534) edizione aldina13. Non si tratta di un vero e proprio commento continuo, ma piuttosto di note puntuali non troppo sistematiche destinate ad accompagnare la lettura del testo durante le lezioni. Alcune orazioni sono più annotate di altre e le ultime — le giudiziarie — lo sono pochissimo, ma già il fatto che le note ambiscano a trattare tutte (o quasi) le orazioni costituisce un fatto nuovo nel panorama del commenti isocratei del primo Cinquecento, per lo più limitati a una o due orazioni, oppure al corpusculum delle tre parenetiche (talvolta Catalogus cit., p. 688), dal quale sembrerebbe che le note a Isocrate facessero parte di una sezione appositamente dedicata al commento degli oratori. 11 Per le filigrane e per un’aggiornata descrizione del manoscritto si rinvia alla scheda di E. Gamba, di prossima pubblicazione nei CAGB (http://cagb-db.bbaw.de/). La studiosa rileva ai ff. 89a-b una bilancia del tipo Mazzoldi 303 (a. 1528) e ai ff. 82, 84/85 e 87 un’ancora forse identica a Piccard Online 119133 (a. 1533). 12 Altri titoli sicuramente attribuibili alla mano di Pinelli sono i seguenti: Laz. Bon. | ex … in meteora (prima del f. 241, che è rilegato capovolto); Laz Bon. | quaed. ethic. (prima del f. 312); Laz. Bon. | Ex Simpl. in Epict. (dopo il f. 316). Altri titoli sono inseriti da una mano molto simile, ma un po’ più posata, che si trova spesso nei manoscritti di provenienza pinelliana: Laz. Bon. | Scholia in Aristot. Rhet. (prima del f. 90); Laz. Bon. | In epigrammata Graeca. (prima del f. 136); Laz. Bon. | ex simplicio in physica (prima del f. 222); Laz. Bon. | ex eustratio, et Aspasio in ethica (prima del f. 246). In mancanza di uno studio sistematico della scrittura latina e greca di Pinelli, sulla possibilità che si possa trattare di due realizzazioni grafiche con differente grado di corsività della medesima mano di Pinelli preferisco sospendere il giudizio. 13 L’ultima orazione del corpus è quella In Euthynoum.

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soltanto due o anche una)14. Bisognerà, infatti, attendere la monumentale edizione di Hieronymus Wolf (1570)15, per avere il primo ampio commento a tutto Isocrate, in questo caso Epistole comprese. Si tratta, tuttavia, di una tendenza, quella di affrontare nei corsi la lettura integrale di un autore, che non era nuova nel milieu padovano e può trovare un illustre precedente nel grande progetto di Ermolao Barbaro il Giovane di leggere e commentare, tra Padova e Venezia, tutto Aristotele, progetto realizzato solo in parte, ma che è emblematico di un metodo critico ed esegetico utilizzato da Ermolao anche nel Corollarium in Dioscoridem e nelle Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam16. La redazione di queste note si può sicuramente datare agli anni dell’insegnamento padovano (1530-1552) e non a una fase precedente degli studi o dell’insegnamento privato di Lazzaro. La prova si ricava non tanto dalle filigrane, per le quali i paralleli non sono sempre stringenti, quanto piuttosto dal fatto che il commento è redatto utilizzando come testo base quello di due edizioni a stampa del corpus isocrateo, facilmente riconoscibili, poiché Lazzaro ne cita pagina e rigo. Quasi tutte le note di commento, a partire da Ad Dem. 12, p. 97, 8 Dr. si basano su pagina e rigo della prima edizione Aldina (Ald1), apparsa a Venezia nel 1513 come terza parte degli Oratores Attici, impresa per la quale è pressoché sicuro il coinvolgimento di Musuro. Questa edizione non contiene le Epistole, il che spiega la loro assenza nel commento di Lazzaro. Esse sono invece presenti, tratte della princeps aldina degli Epistolografi, nella ristampa aldina realizzata assai probabilmente da Paolo Manuzio e apparsa a Venezia nel 1534 (Ald2)17. Era proprio un esemplare di questa edizione — che presenta una impaginazione differente e numera le carte soltanto sul recto — quello che Lazzaro aveva inizialmente scelto come testo base e a partire da esso aveva redatto le prime note ad Ad Dem.18. Queste poche note ci consentono di 14 Per

un quadro di insieme vd. Gualdo Rosa, La fede cit. a Gualdo Rosa, La fede cit., pp. 167-175, vd. ora anche E. Zingg, Osservazioni sulla ricezione dell’Archidamo nella Germania del Cinquecento, in Isocrate. Per una nuova edizione critica, a cura di M. Vallozza, Firenze 2017, pp. 167-202, in part. 180-189. 16 Vd., per esempio, V. Branca, La sapienza civile. Studi sull’Umanesimo a Venezia, Firenze 1998, p. 71. 17 Su questa edizione vd. S. Martinelli Tempesta, Un equivoco di lunga durata. Sepa­ razione e ricongiunzione nella tradizione delle «Epistole» isocratee, in Acme 40 (2007), pp. 261272. 18 Spiegare perché Lazzaro, dopo avere cominciato a lavorare su un esemplare di Ald2, abbia poi preferito passare ad Ald1, non è agevole. Forse Bonamico avrà ritenuto migliore e più autorevole il testo di Ald1 in virtù del diretto coinvolgimento di Marco Musuro, e avendo, inoltre, notato che sul piano testuale Ald2 — che pure è più completa, perché contiene anche le Epistole — non costituisce un miglioramento della precedente edizione. 15 Oltre

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stabilire come terminus post quem per la stesura del commento il luglio del 1534, data che si ricava dal colophon di Ald2.19 Quanto alla tecnica esegetica che traspare dal commento, essa eredita, in certo modo, l’impostazione generale che aveva caratterizzato il commento universitario del suo maestro, Marco Musuro, anche se, almeno a un primo superficiale controllo dei ff. 1r-35v del Vat. lat. 11483, non ho riscontrato tracce di una dipendenza diretta20. Entrambi seguono l’impostazione retorica ermogeniana della tradizione bizantina e vi innestano quella del commento umanistico fondato sul continuo confronto e riscontro con i passi paralleli ricavati dalla lettura degli auctores21. Su questa struttura di fondo, Lazzaro inserisce alcune sintetiche osservazioni di carattere prettamente lessicale e grammaticale, oltre ad alcune note che consistono nella traduzione parafrastica di alcuni passi. Emerge molto chiaramente una tecnica espositiva che parte dalla traduzione e dall’interpretazione precisa del testo, accompagnata da una esegesi che allarga la prospettiva mediante l’ampio utilizzo di fonti parallele greche e latine, poetiche (Antologia Planudea; Sofocle; Euripide; Virgilio; Orazio), oratorie/retoriche (Cicerone; Ermogene con la tradizione esegetica), filosofiche (Platone; Aristotele; Sinesio; Cicerone; Seneca) e storiografiche (Erodoto; Sallustio), patristiche (Basilio)22, oltre che degli usuali strumenti di erudizione mitologica ed enciclopedica (Ateneo; Polluce; Esichio; Suda; Stefano di Bisanzio; Eustazio di Tessalonica; Plinio il Vecchio; Igino; Solino; Marziano Capella), non senza avanzare, sia pure sporadicamente e senza argomentare, proposte di emendazioni a corruttele — vere o presunte — del testo aldino di riferimento23. 19 Per un quadro di insieme sulla circolazione a stampa del testo isocrateo tra Umanesimo e Rinascimento vd. S. Martinelli Tempesta, Vicende del testo isocrateo tra Quattrocento e Cinquecento. Per uno stemma delle edizioni, in Isocrate. Per una nuova edizione cit., pp. 139166 (con tutta la bibliografia precedente). 20 A parte il fatto che le recollectae del corso di Musuro documentano soltanto la lettura commentata di Ad Dem. e di Ad Nic. (del commento al Nic. resta soltanto il titolo), il confronto è reso difficile anche dalla natura differente dei due documenti: da un lato, infatti, abbiamo, appunto, delle recollectae che sono il frutto della trascrizione delle lezioni tenute dal maestro, dall’altro, invece, gli appunti preparati a proprio uso dal maestro per fare lezione. La prospettiva è opposta e spiega, per esempio, la differente impostazione espositiva, più distesa e ampia nelle recollectae, più concisa e sintetica negli scoli autografi. Un’altra macroscopica differenza tra i due testi è data dalla presenza, nelle recollectae vaticane non autografe, di un paratesto introduttivo letto e tradotto per intero a lezione dal maestro (la Vita di Isocrate di Filostrato: il testo è trascritto in Ferreri, Marco Musuro cit., pp. 449-451), di cui non è traccia negli appunti di Lazzaro. 21 Vd. Gualdo Rosa, La fede cit., 74-75. 22 Vd. infra nt. 48. 23 Non mancano casi in cui Lazzaro recupera la lezione della prima famiglia della tradi-

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Non è questa la sede per entrare in dettaglio e, del resto, nello specimen di edizione proposto di seguito, ho cercato di fornire al lettore tutti gli strumenti necessari per esprimere un giudizio criticamente fondato sulla qualità del commento di Lazzaro. Voglio, tuttavia, concludere con un esempio tratto da una sezione del commento esclusa dallo specimen ecdotico, che mi sembra significativo per osservare la tecnica con cui Lazzaro combina le fonti per costruire le sue note, non senza introdurre innovazioni che, talvolta, non sono agevoli da spiegare. Si tratta del passo del proemio polemico dell’Elena in cui si parla di Protagora (Hel. 2, p. 66, 6-7 Dr.). Lazzaro organizza una nota di commento assemblando due fonti, una soltanto delle quali, Diogene Laerzio, è esplicitamente menzionata. Ecco il testo della nota (f. 83r, ll. 10-18): Protagoras tres ut ait Diog. Astrologus, in quem Euphorion epicedium scripsit, alter philosophus stoicus. 3us hic, cuius meminit Socr. Abderitis Ar­te­ monis sive Meandri filius, qui, cum esset24 φορτοβαστάτης Democritoque occurrisset, factus est eloquentiae studiosus. Primus hic orationum certamina exagi­ tavit, primus mercedis gratia centum minas exegit, primus orationem in tria divisit, εὐχωλήν, ἐρώτησιν, ἀπόκρισιν. Cuius volumina Athenis cremata sunt, cum quadam oratione sic cepisset περὶ θεῶν οὐκ ἔχω εἰδέναι οὔτε ὡς εἰσίν, οὔτε ὡς οὐκ εἰσίν. Fuit autem Platone philosopho vetustior.

I primi due segmenti testuali (Astrologus … stoicus e 3us Meandri filius) sono tratti da Diogene Laerzio, rispettivamente da D.L. 9, 56, ll. 86-88 Dorandi e 9, 50, ll. 1-3 Dorandi. Tutta la sezione seguente coincide con una voce del perduto Onomatologon di Esichio di Mileto, ricostruibile grazie alla convergenza tra la voce su Protagora della Suda (Su. π 2958 Adler) e lo scolio a Pl. Resp. 600c (p. 273 Greene). La dipendenza di Lazzaro zione isocratea, ma per il momento il materiale è troppo esiguo per pensare che egli avesse avuto accesso a qualche postillato o a qualche collazione frutto di contatto del testo della seconda famiglia (alla base della vulgata a stampa) con quello della prima. Per quanto sia stato possibile anticipare ai primissimi anni Cinquanta i reiterati tentativi — tutti destinati all’insuccesso — da parte di Michele Sofianòs, più tardi assiduo frequentatore di casa Pinelli insieme a Nicasio Ellebodio, di dare alle stampe un nuovo Isocrate frutto della collazione tra il testo a stampa vulgato e quello dell’attuale Ambr. O 144 sup. (Ε), apografo dell’Urb. gr. 111 (Γ), capostipite della prima famiglia, si tratta pur sempre di una data, a mio parere, troppo bassa perché Lazzaro (morto nel 1552) potesse averne avuto contezza. Su tutta la vicenda vd. ora Martinelli Tempesta, Vicende del testo isocrateo cit., pp. 155-157, e Zingg, Osservazioni cit., pp. 191-202 (con tutta la bibliografia precedente). D’altra parte ci sono casi in cui possiamo essere certi che Lazzaro inteveniva ope ingenii, come dimostrano i passi in cui emenda in modo errato, o propone di correggere un testo perfettamente sano. 24 Prima del termine greco φορτοβαστάτης si vede un tratto verticale che non mi risulta perspicuo.

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dalla Suda, che poteva essere facilmente consultata nell’editio princeps di Calcondila, apparsa a Milano presso Ulrich Scinzenzeler nel 1499, è dimostrata dalla presenza nella sua nota del termine φορτοβαστάτης, che è una piccola svista per φορτοβαστάκτης (facchino)25, attestato soltanto nella Suda e nello scholion platonico. Negli altri passi in cui si racconta l’attività del giovane Protagora ‘portatore di pesi’ e del suo provvidenziale incontro con Democrito che lo avrebbe indirizzato alla filosofia, vengono utilizzati termini differenti: in Aulo Gellio (Gell. V, 3) si legge ἀχθοφόρος, in Diogene Laerzio (D.L. 9, 53, l. 41 Dorandi) φορμοφόρος. Resta misteriosa, tuttavia, la riduzione da quattro a tre dei πυθμένες τῶν λόγων, con l’omissione dell’ἐντολή.26 Non ne ho trovata attestazione nelle fonti antiche, che parlano concordemente di quattro ‘parti’ (D.L. 9, 53-54, ll. 43-46 Dorandi; Quint. inst. 3, 4, 10; Su. π 2958 e 3132 Adler; Schol. Pl. Resp. 600c) e potrebbe, quindi, essere una innovazione di Lazzaro, per spiegare la quale, tuttavia, sarà necessario un supplemento di indagine27. Si tratta, insomma, di un commento che pur nella sintesi, talvolta estrema, si configura come un prodotto di buon livello destinato a un insegnamento universitario. Per il momento conviene fermarsi qui. Prima di esprimere un fondato giudizio sull’originalità del commento di Lazzaro — della quale allo stato attuale delle conoscenze non ho motivo di dubitare —, bisognerà, infatti, indagare più a fondo sui postillati isocratei. Nuova luce potrebbe, per esempio, derivare dal reperimento di un postillato isocrateo — sinora non emerso — con marginali autografi di Lazzaro. Un siffatto ritrovamento nel caso dei Moralia di Plutarco, infatti, da un lato ha con25 Si tratta probabilmente di un conio effettuato a partire proprio da Diogene Laerzio (o dalla sua fonte) che, riferendo l’aneddoto dell’invenzione del cercine, utilizza l’espressione τά φορτία βαστάζειν. Su questa tradizione vd. M. Corradi, Protagora tra filologia e filosofia. La testimonianza di Aristotele, Pisa – Roma 2012, pp. 15-31. 26 Per una discussione sul significato di questa difficile testimonianza su Protagora, basti qui il rinvio a Corradi, Protagora cit., pp. 144-149, e ad A. Rademaker, The Most Correct Account: Protagoras on Language, in Protagoras of Abdera: The Man, His Measure, ed. by J. M. van Ophuijsen, M. van Raalte, P. Stork, Leiden – Boston 2013, pp. 87-111, in part. p. 92. 27 Una possibile pista di indagine potrebbe essere cercata nell’interferenza concettuale tra i quattro πυθμένες τὼν λόγων e i tria genera causarum o i tre generi di discorso, che stanno al centro della discussione quintilianea nell’ambito della quale viene menzionata en passant la dottrina protagorea (Quint. inst. 3, 4, 1-11). Si dovrebbe, però, trattare di una interferenza indiretta, poiché la presenza nel commento di Lazzaro dei tre termini greci lascia pensare che il dotto bassanese avesse utilizzato una fonte greca e non direttamente Quintiliano (dove l’unico termine che compare in greco è εὐχωλὴν, spesso corrotto nelle edizioni a stampa, come nell’Aldina del 1514, dove si legge εὐκαλήν). Ho controllato anche i due passi della Suda nell’editio princeps di Calcondila (c. Πiiiiv, ll. 3-14 = π 2958 Adler, Ρviiiv, ll. 34-36): il testo, a parte l’omissione della forma alternativa del nome di Meandro (ἢ Νεάνδρου) non si discosta da quello costituito da Ada Adler e non contribuisce a spiegare l’innovazione di Bonamico.

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sentito di constatare il legame — seppur non passivo — con corpora criticotestuali ed esegetici circolanti proprio attraverso i postillati, dall’altro ha permesso di aggiungere un possibile ulteriore tassello dei debiti (dichiarati) di Lazzaro nei confronti del suo antico maestro Marco Musuro28. Propongo ora al lettore uno specimen di edizione del commentario a Isocrate di Bonamico, limitandomi alla prime quattro orazioni (Ad Demonicum, Ad Nicoclem, Nicocles, Euagoras)29.

Lazari Bonamici scholia in Isocratis orationes Ad Dem., Ad Nic., Nic., Euag. [Ambr. O 122 sup., ff. 81r-83r, l. 6]

[f. 81r]

Ἰσοκράτους

Ald2, c. 9r (Ad Dem. 1, p. 93, 7-94, 2 Dr.) ἐν πολλοῖς πρώτη πρότασις; πολὺ δὲ ⟦καὶ?⟧ με δευτέρα πρότασις; οἱ μὲν γὰρ πρώτη κατασκευή; καὶ τὰς μὲν τῶν φαύλων δευτέρα (scil. κατασκευή)30.

c. 9r, 5 (Ad Dem. 1, pp. 93, 9-94, 1 Dr.: οἱ μὲν γὰρ … τιμῶσιν) ὅπερ τῇ μισανθροπωτάτῃ τῶν παροιμιῶν ἀρμόττει. Τηλοῦ φίλοι ναίοντες, οὐκ εἰσὶ φίλοι. (Athen. 5, 3, 21-22)31. 28 Vd.

supra a nt. 3. dicevo, Bonamico indica sempre numero di carta (Ald2) o di pagina (Ald1); ho aggiunto dinnanzi ai numero l’indicazione della carta (c.) o della pagina (p.). Ho, inoltre, segnalato accanto a ogni scolio l’indicazione del passo isocrateo nell’edizione di riferimento: Isocratis Opera omnia, ed. E. Drerup, I, Leipzig 1906. A essa rinvio per l’indicazione dei sigla dei manoscritti, e degli editori precedenti, citati in questa sede soltanto con il nome. In nota ho fornito anche i dati relativi agli apparati che saranno pubblicati nella nuova edizione isocratea, in corso di preparazione per la collana degli Oxford Classical Texts, a cura di un gruppo di studiosi coordinati da chi scrive. Per i sigla utilizzati in queste stringhe di apparto rinvio a: Isocrate. Per una nuova edizione cit. pp. xvii-xix. Nella trascrizione ho sciolto tacitamente tutte le abbreviazioni, tranne alcune di quelle utilizzate per indicare gli auctores. Le parentesi quadre doppie indicano parole cassate da Lazzaro stesso. Le parentesi quadre semplici designano integrazioni in lacuna, mentre quelle uncinate sono utilizzate per supplire ciò che nel testo è stato erroneamente omesso. Ho riprodotto le sottolineature con le quali Bonamico evidenzia i lemmi commentati. Non le ho introdotte laddove sono state tralasciate da Lazzaro. 30 Sull’origine ermogeniana di queste partitiones proemiali basti qui il rimando a H. Lausberg, Handbook of Literary Rhetoric. A Foundation for Literary Study, ed. by D. E. Orton – R. Dean Anderson, foreword by G. A. Kennedy, Leiden – Boston – Köln 1998, pp. 135-136, 835. 31 Cfr. Athen. Epit. vol. 2, p. 65, 2-3 Peppink; Nic. Greg. Epist. 45, 1; 49, 1; Appendix 29 Come

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c. 9r, 36 (Ad Dem. 9, p. 96, 10 Dr.) πόνοις nam ex moderatis laboribus, ut Plato ait, homines robur acquirunt32. c. 9, 37 (Ad Dem. 9, p. 96, 11-12 Dr.: ἁπέλαυε μὲν … ἀθάνατος) λούκ ̣ (= Ps.Lucian., Epigr. A.P. X 26 = Plan. Ia, 12, 6 [f. 4r]) ὥστε θνηξόμενος (ὡς τεθνηξόμενος Ps-Luc.)33 τῶν σῶν ἀγαθῶν ἀπόλαυε, ὣς (ὡς Ps.-Luc.)34 δὲ βιωσόμενος φείδεο σῶν κτεάνων. ἐστὶ δ᾿35 ἀνὴρ σοφὸς οὗτος, ὃς ἄμφω ταῦτα νοήσας, φοιδοῖ (φειδοῖ Ps.-Luc.)36 καὶ δαπάνῃ μέτρον ἐφηρμόσατο37. Ald1, p. 18, 4 (Ad Dem. 12, p. 97, 8 Dr.) ἐφάμ⟦κ⟧ιλλος par vel ὅμοιος

p. 18, 18 (Ad Dem. 15, p. 98, 10 Dr.) αὐθάδης quod si placet . ὑπερήφανος . θυμώδης . παράνομος . αὐτάρεστος p. 18, 19 (Ad Dem. 15, p. 98, 11 Dr.) κόσμον honestum p. 18, 21 (Ad Dem. 16, p. 98, 14 Dr.) αὐτῷγε σαυτῷγε38. Cicero Pro Milone (re vera Cic. Catil. 3, 27, 35) magna est vis conscientiae.

p. 18, 25 (Ad Dem. 17, p. 99, 5 Dr.) τῆν δόξαν. Cicero Pro Cluentio (= Cic. Cluent. 70, 71, 13). perinde ut opinio est de cuiusque moribus, ita quid ab eo factum ⟦..⟧ et (aut Cic.) non factum sit existimari potest.

p. 19, 21 (Ad Dem. 26, p. 103, 7 Dr.) εὐεργεσίαις. Cicero Pro Gn. Plantio (lege Plancio = Cic. Planc. 81, 41, 9) nihil tam inhumanum, tam immane, tam ferum, quam committere ut beneficio non dicam indignus sed victus esse videaris. (in mg.) περιεγία (Ad Dem. 27, p. 104, 2 Dr.: τὸ περίεργον) supervacua operositas Quint. (Quint. Inst. 8, 3, 55).

proverbiorum Cent. 3, 99, 2 Schneidewin. 32 Non mi è chiaro a quale passo platonico Lazzaro si stia riferendo: forse Pl. Resp. 410b5-8. 33 Sia nell’incunabolo lascariano (interamente in caratteri maiuscoli), c. Biv, sia nell’Aldina del 1503, c. Biir Ως è privo di segni diacritici e, sebbene vi sia un piccolo spazio separativo in entrambe le edizioni antiche, la svista non è difficile. 34 ὡς è correttamente senza accento anche nell’incunabolo e nell’aldina. 35 Lazzaro ha scritto la particella per compendium. Impossibile, quindi, stabilire se intendesse elidere. Nelle due stampe antiche si trova l’elisione. 36 Una svista di tal tenore si piega soltanto a partire dal nesso epsilon-iota nella minuscola dell’aldina. Risulterebbe inspiegabile a partire dai caratteri maiuscoli dell’incunabolo lascariano. 37 Il medesimo epigramma è citato ad loc. anche da Engelbert Drerup nell’apparato dei loci paralleli. 38 σαυτῷ γε è lezione del della seconda famiglia (b), passata poi alla princeps e alle edizioni successive, a eccezione dell’Aldina, nella quale si legge, appunto αὐτῷγε (sic). Gli editori, a partire da Dindorf, di norma accolgono la lezione di Γ (σεαυτῷ), priva della particella.

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p. 20, 15 (Ad Dem. 34, p. 108, 5 Dr.: βουλεύου μὲν βραδέως; ἐπιτέλει δὲ ταχέως τὰ δόξαντα) priusquam incipias consulto, vel consulueris, mature facto opus est (Sall. Catil. 1, 6) p. 20, 35 (Ad Dem. 38, p. 110, 9) παρεσκεύαζε (παρασκεύαζε Isocr.)39 Plinius XVIII (Plin. nat. 18, 273-274, vol. III pag. 219, l. 1-10 Mayhoff)40 Democritus, qui primum intellexit ostenditque cum terris caeli (caeli cum terris Pl.) societatem, praevisa olei caritate ex futuro (futura ex Pl.) vergiliarum ortu, coemit omne oleum in toto tractu (coemisse in toto tractu omne oleum Pl.) unde potuisset maximan pecuniarum vim sibi comparare, sed restituit mercedem anxiae dominorum poenitentiae. contentus ita probasse opes sibi cum vellet in facili fore. Hoc tamen a Cicerone et Aristotele Thaleti Milesio attribuitur. (Aristot. Pol. I 11, 1259a14-19; Cic. Div. 1, 111) p. 21, 6 (Ad Dem. 43, p. 113, 1-3: δεῖ γὰρ εἶναι … ἐν τῷ ζῆν ἀδοξίαν) Σοφοκλῆς ἢ καλῶς ζῆν, ἢ καλῶς τεθνηκέναι τὸν εὐγενῆ χρή (Soph. Ai. 479-480).

p. 22, 28 (Ad Nic. 5, p. 118, 9 Dr.) ἀσίας Cicero Pro Pomp. (Cic. Manil. 14, 9, 8) Asia tam opima. p. 23, 41 (Ad Nic. 18, p. 121, 18-19 Dr.) ἐργασίας executiones legum; πραγματείας cavillationes. p. 24, 5 (Ad Nic. 20, p. 122, 9 Dr.) ταῖς μὲν ἀρχαῖς τῶν τιμῶν41 magistratibus honorificis. p. 24, 14 (Ad Nic. 22, p. 123, 4 e sgg.: περὶ πλείστου δὲ ποιοῦ …) contra quam fecerint Parthorum reges, quos ut inquit Seneca non [posse si]ne munere salutare (= Sen. epist. 17, 11). [f 81v] p. 25, 16 (Ad Nic. 33, p. 126, 16 Dr.) πλεονάζειν praeoccupare vel superabundare. p. 26, 43 (Ad Nic. 51, p. 130, 23 Dr.)42 συμβουλεύεσθαι βουλεύεσθαι. 39 Si

tratta di una svista di Lazzaro. Nell’Aldina si legge l’esatto παρασκεύαζε. passo pliniano è riportato con parafrasi e tagli (sono omessi i due segmenti testuali spernentibus … civium, dopo civitatem, e qua diximus … spem olivae, dopo vergiliarum ortu). 41 L’apparato preparato da Daniela Colomo per la nuova edizione oxoniense è il seguente: τῶν φίλων Γ : τῶν τιμῶν π16 (ων τιμων) π17 π25 Λ : τῶν τῶν τιμῶν φίλων Π1ac : τῶν τιμῶν τῶν φίλων ΠrecNSVa. La lezione dell’Aldina è quella di Λ. 42 L’apparato preparato da Daniela Colomo per la nuova edizione oxoniense è il seguente: βουλεύεσθαι Γ b : βουλευcαcθαι π16. Lazzaro corregge, restituendo la lezione della paradosi, 40 Il

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p. 26, 45 (Ad Nic. 52, p. 130, 24 Dr.) ἔλεγχον explorationem. (Ad Nic. 52, p. 131, 1 Dr.) ἀποδοκιμάζειν43 reprobare. p. 26, 48 (Ad Nic. 53, p. 131, 3 Dr.) θεράπευε cole44.

p. 27, 10 (Nic. 1, p. 131, 15 Dr.) πλεονεξίαν ἐκάλεσαν οἱ νομοθέται τὴν ἐν ἀπολαύσεσι ὑπεροχήν. Ἀθήναιος (Athen. 12, 65, 34 = Aristox. fr. 50, l. 57 Wehrli)45. διατρίβω τὸ διάγω, ὅθεν διατριβὴ ἡ διαγωγή, ἡ ὁμιλία, ἡ ῥαστώνη, ἡ τέρψις, τὸ ἐπιτήδευμα, τὸ διδασκαλεῖον, τὸ παίγνιον καὶ γέλως ὡς καὶ παρὰ Συνεσίῳ, ἵνα μή διατριβή τοῖς ὁρῶσι γενώμεθα (Syn. Ep. 109, l. 5). p. 27, 33 (Nic. 5, p. 132, 26 Dr.) καταδεέστεροι Cicero in Rhet. (Cic. inv. 1, 4, 5, p. 5, l. 17) ac mihi quidem videntur homines cum multis rebus humilio­ res et infirmiores sunt, hac re maxime bestiis praestare. p. 27, 39 (Nic. 6-7, pl 133. 1-6 Dr.) est hoc loco auxesis a comparatione, a ratione cum dicit plurimum eloquentiam mortalibus profuisse, et elocutio­ ne sola fieri ut belluis omnibus antecellamus (cfr. Mar. Victorin. Rhet., 1, 4). Thebas condidit Amphion non quod lyra, ut inquit Solinus (= Sol. 7, 21), saxa duxerit, neque (neque enim Sol.) par est ita ita gestum videri, sed quod affatus suavitate homines rupium incolas et incultis moribus rudes ad obsequi civi[vi]lis pellexerit disciplinam. p. 28, 6 (Nic. 9, p. 133, 21 Dr.) ἔδη46 deorum simulacra ἀγάλματα, ξόανα, ἕδη, εἰκάσματα, εἰκόνες, μιμήματα, τυπώματα, ἰδέαι, βρέτας. p. 28, 22 (Nic. 13, p. 134, 17 Dr.) Euagoras Nicoclis pater, sive Timarchus ut Aristocles (lege Aristoteles = Aristot. fr. 527 Rose)47 ait et Pollux in calce una innovazione prodottasi nell’editio princeps di Calcondila e poi trasmessa alle edizioni successive precedenti quella di Corais. 43 L’apparato preparato da Daniela Colomo per la nuova edizione oxoniense è il seguente: ἀποδοκίμαζε Γ1 (inter scrib. corr.) : ἀποδοκιμάζειν π16 Γ b. 44 L’interpretamentum e collocato supra lineam. 45 Cfr. anche Athen. Epit. vol. 2, 2, p. 95, l. 34 Peppink. 46 L’apparato preparato da Mariella Menchelli per la nuova edizione oxoniense è il seguente: ἕδη (ἔδη Π N S Vat, ἔδει Auct vid.) post θεῶν add. b. La lezione dell’Aldina è, dunque, quella della seconda famiglia, accolta dagli editori fino a Dindorf, il quale corresse, al pari di Baiter apud Bremi (p. 218) e di Benseler (ad Areop., p. 226), sulla base di Paneg. 156, donde la lezione sembra essere stata interpolata. 47 Il fr. 527 Rose è tratto dal passo di Polluce citato anche da Lazzaro e da Plin. nat. 11, 167. Cfr. anche Tzetzes Chil., hist. 115, vv. 264-265.

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l. II (Poll. 2, 95) Timarchum eum appellat, duplici dentium ordine eum insignem fuisse memorat.

Τρεῖς αἱ καθόλου πολιτεῖαι κατ᾿Εὐστάθιον (Eust. Ad Il., vol. 1, p. 308, ll. 17 e sgg. van der Valk), μοναρχία, ἥτις εἰς βασιλείαν διαιρεῖται καὶ τυραννίδα· ὀλιγαρχία, ἥτις εἰς ἀριστοκρατείαν· καὶ πολυαρχία, ἥτις εἰς δημοκρατείαν καὶ ὁχλοκρατείαν. p. 29, 4 (Nic. 18, p. 136, 2 Dr.) λυμαίνομαι τὸ λυπῶ, παραφθείρω καὶ βλάπτω. γρ(άφεται) καὶ ἐπί πάθους ut apud Theologum λυμαινομένην τὴν ἐκκλησίαν (cfr. Basil. Epist. 188, 10, 25-26)48. Attice tamen sempre active. p. 29, 25 (Nic. 23, p. 137, 3-9 Dr.) Philistus ait equum a Dionysio relictum in caeno haerentem, ut sese evellisset, secutum vestigia domini examine apum49 iubae inhaerente, eoque ostento tyrannidem a Dionysio occupatam, Plinius l° viii (Plin. nat. 8, 158, vol. 2, pag. 133, ll. 3-6 Mayhoff = Filist. fr. 48 Müller)50. p. 30, 8 (Nic. 30, p. 138, 17 Dr.) virtutes a philosophis appellantur ideae ἀπὸ τοῦ εἴδους quod speciem formamque significat. p. 30, 23 (Nic. 33, p. 139, 5 Dr.) συλουμένων51 nobis ubique direptis a Graecis, quia s(cilicet) regem Persarum secuti essemus, et quia multis Graecorum damna intulissemus, plurima horum, ⟦malorum⟧ damnorum scilicet, dissolui, quibus alios affectatis. [f. 82r]

p. 31, 2 (Nic. 38, p. 140, 8-9 Dr.: ὅσοι τοὺς μὲν κτλ.) legem (legem enim Cic.) sibi indicunt innocentiae, continentiae, virtutumque omnium, qui ab altero retionem vitae repetunt (reposcunt Cic.)52. Nam qui sibi (sibi hoc Cic.) sumpsit, ut corrigat mores aliorum, et peccata reprehendat, quis huic ignoscat, si qua in re ipse ab religione officii declinarit? Cic. actione iiii in Verrem (Cic. Verr. II, 3, 1-2). p. 32, 3 (Nic. 48, p. 142, 10-13 Dr.: μηδενὸς … σπουδάζετε περὶ αὐτῶν) ne contemnite iussa existimantes quod non per haec quae singuli administra48 Vale

la pena di ricordare che Lazzaro ha aggiunto di suo pugno il pinax greco-latino al Basilio del sec. X-XI oggi Urbani 18 della Biblioteca Franzoniana di Genova, appartenuto Filippo Sauli: vd. Cataldi Palau, Catalogo (Urbani 2-20) cit., pp. 105-109. 49 In apparato Mayhoff scrive: apium] aptum F1a. apum v a. S. 50 Cfr. anche Cic. div. 1, 79; Ael. 7, 12, 46. 51 L’apparato preparato da Mariella Menchelli per la nuova edizione oxoniense è il seguente: 3 συλωμένων] συλουμένων b. La lezione della seconda famiglia è quella della tradizione a stampa antecedente l’edizione di Corais. 52 Lazzaro omette il seguente segmento testuale: atque eo magis … communi.

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tis summa res male habebit et propterea negligatis, sed sic diligenter circa partes ipsas agatis tamquam tota re habitura vel bene vel male propter singulas partes. ἐξὸν τὸ σύμπαν pro ἐξόντος τοῦ σύμπαντος. p. 33, 1 (Nic. 57, p. 144, 18 Dr.)53 qui didicerunt parere, norunt et imperare. p. 33, 12 (Nic. 60, p. 145, 10 Dr.)54 παρ (sic) εμοῦἐμοί p. 33, 14 (Nic. 60, p. 144, 12, 13 Dr.)55 παρ᾿ ἐμοῦοὶ.

Εὐαγόρας ἔστι δὲ ὅτε ὁ πανηγυρικὸς λόγος συμβουλὴν ἔχει ὡς ἀπὸ ἐπιταφίου Θυκουδίδου δῆλον, παραίνεσιν ἔχοντος, καὶ τοῦ εἰς Εὐαγόραν Ἰσοκράτους Herm. Commentarii pag. 21 (Schol. Herm. Rhet. Gr. vol. IV, p. 52, 18 Waltz)56. quod preciosissima quaeque defunctorum regis imponerent variaque certamina celebrarent docet Homerus in Patrocli funere, Virg. in Anchisae. Pli. l° 12 de Arabiae felicitate. Beatam illam facit (fecit Plin.) hominum etiam in morte luxuria etc. (Plin. nat. 12, 82 = vol. II, p. 404, l. 19 Mayhoff) p. 33, 14 ἀγωνία Ξενοφῶν ἀντὶ τοῦ ἀγῶνι, Suid. (Su. α 330 Adler)57. p. 34, 5 (Euag. 6, p. 147, 19 Dr.) Τρωικὰ καὶ τοὺς58. p. 34, 7 (Euag. 6, p. 147, 21/22 e segg. Dr.) ἄδηλον. ὁ φθόνος ἐστὶ κάκιστον, ἔχει δέ τι καλὸν ἐν αὐτῷ, τῄκει γὰρ φθονερῶν ὄμματα καὶ κραδιήν (= A.P. XI 193 [adespoto], Plan. Ia, 81, 5). p. 34, 21 (Euag. 9, p. 148, 14-15 Dr.: καὶ περὶ τούτων … μεταφοραῖς) singula

53 La lezione dell’Aldina (ἐὰν γὰρ ἄρχεσθαι μάθωσιν, πολλῷ μᾶλλον ἄρχειν δυνήσονται) è quella della seconda famiglia. Γ legge: ἢν γὰρ καλῶς ἄρχεσθαι μάθωσιν, πολλῶν ἄρχειν δυνήσονται. 54 L’apparato preparato da Mariella Menchelli per la nuova edizione oxoniense è il seguente: ἐμοὶ Γ : ἐμοῦ Λ Π Νpc S Vat : ἑμαυτοῦ Nac. 55 In questo caso, forse fuorviato dalla precedente correzione — che, invece, coglie nel segno (παρ᾿ ἐμοί, «presso di me») —, Lazzaro emenda una lezione perfettamente sana (παρ᾿ ἐμοῦ, «da parte mia») e comune a tutta la tradizione manoscritta e a stampa. 56 Il numero di pagina corrisponde a quello dell’edizione Aldina, nel secondo volume dei Rhetores Graeci (Venetiis 1509). 57 Vd. Xen. Cyr. 2, 3, 15. 58 Τρωικὰ τοὺς è errore dell’editio princeps di Calcondila (Med) che passa anche ad Ald. La lezione esatta comune a tutti i mss., recuperata da Lazzaro supra lineam è Τρωικὰ καὶ τοὺς. In diverso tentativo di correggere il testo vulgato è quello di Braubach (τοὺς τ᾿), la cui proposta fu accolta da Wolf, Stephanus, Auger, Lange. Dall’appendix critica di Drerup (p. 193) ricavo anche che la presenza della congiunzione è presupposta anche dalla versione di Guarino (atque antea).

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verba sunt, inquit Fab. (Quint. inst. 1, 5, 3), aut nostra aut peregrina, aut simplicia aut composita, aut propria aut translata, aut usitata aut ficta. p. 34, 27 (Euag. 10, p. 148, 22 Dr.: ἐνθυμήμασι … εὐρυθμίαις) enthymema syllogismum rhetoricum, latine commentum. Cicero in Topicis (Cic. top. 55-56), F. de refutatione (Quint. inst. 5, 10, 1). Rythmum, ait Capella in IX, est compositio quaedam ex sensibilibus collocata temporibus ad aliquem habitum ordinemque connexa (Mart. Cap. 9, 967). F. l° IX (cf. Quint. inst. 9, 4, 50 e 9, 4, 55).

τοῦτο τὸ γένος ὁ αἰακὸς διήνεγκε (Euag. 14, p. 149, 14-16 Dr.: τοῦτο … Αἰακὸς … διήνεγκεν) illustre reddit et praeclarum. p. 34, 49 (Euag. 15-16, pp. 149, 23-150, 3 Dr.: ἐπειδή δὲ … ᾀσθῆναι) Cicero Tusc. l.° I iudices apud inferos Minos, Rhadamanthus, Aeacus, Triptolemus (Cic. Tusc. 1, 41, 98). Quae pene furvae regna Proserpinae, et iudicantem vidimus Aeacum (= Hor. carm. 2, 13, 21-22). Pleus, Telamon, et Phocus e diversis uxoribus filii fuere (cfr. Ov. met. 7, 475). Nam hi ex Endeide Scyronis (Chironis Hygin.) filia geniti (cf. Hyg. fab. 14, 8, 43), Phocus ex Thetide sorore Paus. auctor (Paus. 2, 29, 9)59. [f. 82v] Est, inquit Pausanias (Paus. 2, 29, 6-8), in Aegina Aeacium, hoc est Aeaci templum, quadrangulari candidiss(im)oque lapide structum, in cuius ingressu sunt eorum statuae, qui ob nimiam siccitatem monente oraculo ab universa Graecia missi sunt ad Aeacum legati, ut pluviam ab Iove peterent, quam Aeacus πανελληνίῳ Διὶ θύσας exoravit. p. 35, 1 (Euag. 16, p. 149, 26-27 Dr.) apud Sophoclem (Soph. Ai. 463-465) πῶς με τλήσεται ποτ᾿ εἰσιδεῖν, γυμνὸν φανέντα τῶν ἀριστείων ἄτερ, ὧν αὐτὸς ἔσχε στέφανον εὐκελίας μέγαν Aiax Telamonis filius ex Eribea ut est apud Sophoclem (Soph. Ai. 569), Teucer ex Hermione Laomedontis filia (cf. Hyg. fab. 97, 3, 9)60. p. 35, 12 (Euag. 18, p. 150, 12-13 Dr.)61 Salamis insula est iuxta Atticam, ut ait Steph. (= Steph. Byz. σ 19 Billerbeck) dicta a Salamine Aesopi (Asopi

59 Nel

passo di Pausania il nome si legge nella forma Σκίρων. passo di Igino si legge l’esatta forma del nome (Hesione). Le principali fonti greche che attestano il nome della madre di Teucro (Esione, sorella di Priamo) sono le seguenti: Anon. in Aristot. Rhet., CAG 21.2, p. 238, 30; Eust. Ad Il., vol. 2, p. 581, l. 12 van der Valk; Schol. Lycophr. 53, 10; 452, 7; 452b 2; 467, 2; Tzetzes Theog. v. 616; Tzetzes Ad Il. 1 (ad Il. 1, 1), l. 289. 61 In questa nota Lazzaro non si sofferma a parlare di Salamina di Cipro, ma, piuttosto dell’isola alla quale Teucro, originario di lì, si era ispirato per la nuova fondazione cipriota. 60 Nel

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Paus.)62 matre ut Paus. testatur, quam incoluerunt Aeginenses, qui cum Τelamone fuerunt (Paus. 1, 35, 2, vol. I, p. 81, ll. 13-15 Rocha Pereira)63. Dicta est etiam κυχρεία a quodam Cychre et Scyras a quodam heroe, a quo Scyras Minerva apud Athenienses et Scira locus in Attica ut Eustathius refert (Eust. Ad Dion. Perieg. 506, 507, p. 314, 8 e 11-14 Müller).

Σόλοι (Euag. 27, p. 152, 5 Dr.) Steph. (Steph. Byz. σ 244 Billerbeck) p. 36, 3 πλανός (Euag. 28, p. 152, 10 Dr.) ὁ πλανίτης (lege πλανήτης) καὶ ὁ ἀπατεών64, errabundos, exulares, vel potius seductores exulares. (Euag. 37-38, p. 154, 12-25 Dr.) Cyrus Cambisis mediocris viri inter Persas filius65. p. 37, 2 (Euag. 38, p. 154, 22-23 Dr.) Cyrus Astyagem Medorum regem matris patrem a se captum non solum nullo malo afficiens penes se habuit, quoad vita excessit, ut Herodotus testatur (Hdt. 1, 130, 3), verum etiam si Iustino credimus nepotem in illo magis quam victorem se gerens maxime Hyrcanorum genti praeposuit (Pomp. Trog. Iust. 1, 6, 16)66. p. 37, 12 (Euag. 40, p. 155, 9-11 Dr.) hinc est illud Eteoclis apud Euripidem ἐν Φοινίσσαις (Eur. Phoen. 503-506) ἐγὼ γὰρ οὐδὲν, μῆτερ, ἀποκρύψας ἐρῶ, ἄστρων ἀνέλθοιμ᾿ ἡλίου πρὸς ἀνατολὰς καὶ γῆς ἐνέρθεν (sic), δυνατὸς ὢν δρᾶσαι τάδε, τὴν θεῶν μεγίστην ὥστε ἔχει (ἔχειν Eur.) τυραννίδα et paulo infra (Eur. Phoen.524-525) εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρὴ τυραννίδος πέρι κάλλιστον ἀδικεῖν, τἆλλα δὲ εὐσεβεῖν χρεών. 62 Si

tratta di una svista di Lazzaro. probabilmente, leggeva il testo di Pausania nell’Aldina del 1516, che presenta un testo corrotto, p. 26, ll. 9-10: πρῶτον δὲ τῇ νήσῳ θέσθαι τοῦτο ἀπὸ τῆς μητρὸς, Σαλαμίνος τῆς Ἀσωποῦ καὶ ὕστερον Αἰγινήτας τοὺς σὺν Τελαμῶνι ἐποικῆσαι; nell’ edizione Rocha Pereira il testo si presenta così: πρῶτον δὲ {ἐν} (om. recc.) τῇ νήσῳ (suppl. Hitzig coll. Diod. Sic. 4, 72; τὸ ὄνομα Pamg) θέσθαι τοῦτο (recc.; -ον β) ἀπὸ τῆς μητρὸς, Σαλαμίνος τῆς Ἀσωποῦ καῖ ὕστερον Αἰγινήτας τοὺς σὺν Τελαμῶνι ἐποικῆσαι. 64 L’accostamento dei tre termini si legge soltanto in Hesych. π 2454 Latte-Hansen. La glossa esichiana si riferisce a un passo del del Vangelo di Matteo (Ev. Matth. 27, 63), dove πλάνος è, in effetti, tradotto da Gerolamo seductor. Il termine exularis («che è proprio di un esule, errabondo»), è del latino tardo (Amm. Marc. Hist. 14, 4; 15, 3). 65 Cfr. Pomp. Trog. Iust. 1, 4, il quale, parlando del regno di Astiage, nonno di Ciro, racconta che il primo, spaventato da un sogno e da un oracolo che gli preannunciava la nascita di un nipote che ne avrebbe oscurato la fama, dà la figlia in sposa a un uomo mediocre fra i Persiani, Cambise appunto: hoc responso exterritus, neque claro viro, neque civi filiam, ne paterna maternaque nobilitas nepoti animos extolleret, sed ex gente, obscura tum temporis, Persarum, Cambysi mediocri viro in matrimonium tradidit. 66 Il testo di Giustino recita così: In eo proelio Astyages capitur, cui Cyrus nihil aliud quam regnum abstulit nepotemque in illo magis quam victorem egit eumque maxime genti Hyrcanorum praeposuit. 63 Lazzaro,

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PRIME OSSERVAZIONI SULLE NOTE A ISOCRATE



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(in mg.) (Euag. 41, p. 155, 17 Dr.) αὐτοσχεδιάζειν, αὐτονόμως πράττειν67. p. 37, 37 (Euag. 44, p. 156, 15 Dr.) ἀτάκτως ἄτακτος68. p. 38, 12 (Euag. 49, p. 157, 21 Dr.) τόπον τρόπον69. p. 38, 25 (Euag. 52, p. 158, 14 Dr.) Conon, ut ait Iust. l.° v, a Lysandro Lac. duce superatus Atheniensium crudelitatem metuens, cum 8 navibus ad regem Cypri contendit Euagoram (Pomp. Trog. Iust. 5, 6, 10)70. Tisaphernes et Pharnabasus Artaxerxis regis Persarum praefecti71. p. 39, 10 (Euag. 58, p. 160, 9 Dr.) Cyrus Artaxerxis frater erat, id est Darii filius. Iust. l.° v (Pomp. Trog. Iust. 5, 11, 1). p. 39, 19 (Euag. 59, p. 160, 16-19 Dr.) in summo imperatore 4. Cicero pro lege manilia (Cic. Manil. 28)72. p. 39, 46 (Euag. 65, p. 161, 24 Dr.) μεῖζον μείζω73. 40, 7 (Euag. 67-67, p. 162, 8-11 Dr.) Lacedaemo(nes) apud Cnidum superati a rege Persarum Conone duce Paus. l.° I. Conon Veneris templum struxit post Lacedaemoniorum classem apud Cnidum superatam. Cnidos una cum quinque civitatibus Doricae Graeciae, ubi Venus religiosissime colebatur Paus. l.° primo (Paus. 1, 1, 3). [f. 83r] 67 Sembra

che Lazzaro abbia attinto alla Suda (Su. α 4528 Adler, p. 423, 13-14: καὶ

αὐτοσχεδιάζωσιν, αὐτονόμως πράττωσιν).

68 Non si tratta di una nota critico-testuale, bensì soltanto linguistica. Lazzaro segnala l’aggettivo dal quale l’avverbio deriva. 69 Si tratta probabilmente di proposta congetturale di Lazzaro, che, tuttavia, peggiora il senso di un testo perfettamente sano. 70 Il testo di Giustino suona così: Cum dux Conon eo proelio superfuisset solus, crudelitatem civium metuens, cum octo navibus ad regem Cyprium concedit Euagoram. 71 Cfr. Pomp. Trog. Iust. 6, 1, 2. 72 Nel passo ciceroniano si legge: ego sic existimo, in summo imperatore quattuor has res inesse oportere, scientiam rei militaris, virtutem, auctoritatem, felicitatem. Su questa orazione ciceroniana Bonamico tenne il suo primo corso presso lo Studio patavino tra il novembre 1530 e il dicembre 1531 (le relative recollectae si trovano nell’Ambr. H 28 inf. e sono state studiate nell’ormai datato G. Antonibon, Di Lazzaro Bonamico e del suo commento alla Maniliana di Cicerone, Cividale 1893), e poi ancora nel 1532-1533: Avesani, Bonamico cit., pp. 535-536. 73 Secondo l’apparato preparato da Maddalena Vallozza per la nuova edizione oxoniense, la lezione di Γ, accolta a testo in quanto evita lo iato (così già Drerup), è ἂν μείζω, mentre quella della seconda famiglia (a) è μείζω ἂν. La lezione dell’Aldina, μεῖζον ἂν, è innovazione dell’editio princeps passata anche all’edizione dello Stephanus, emendata in μείζον᾿ ἂν da Wolf, Auger e Lange (vd. l’appendix critica dell’edizione di Drerup, p. 196). Lazzaro recupera, dunque, la lezione originaria della seconda famiglia dei manoscritti isocratei.

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p. 40, 42 (Euag. 74, p. 164, 5 Dr.) σεμνουνομένους κομπάζοντας74. p. 40, 43 (Euag. 74, p. 164, 6 Dr.) φιλοτιμία ἡ ἐπίδειξις, φιλοτιμεῖσθαι τὸ ἐπιδείκνυσθαι, καὶ ἐνδείκνυσθαι. p. 41, 16 (revera ad 41, 40 vel 41 = Hel. 3, p. 66, 10 Dr.: ἢ Ζήνωνα) Diogenes L. 8 (revera 7) Zenones fuisse tradit. Primus Eleates philosophus. 2us Citieus, stoicus. 3us Rhodius. 4us historicus, qui Pyrrhi in Italia gesta scripsit. 5us Chrysippi discipulus. 6us medicus. 7us grammaticus, cuius epigrammata feruntur. 8us Sydonius philosophus. (= D.L. 7, 35)75.

74 Dopo un ampio spazio bianco, verso la fine del rigo, rilevo due segni il cui significato non comprendo: il primo sembra il compendio per ου, il secondo è un A maiuscolo. 75 Ecco il testo nell’edizione principe frobeniana del 1533, p. 328: γεγόνασι δὲ Ζήνωνες ὀκτώ. πρῶτος ὁ Ἐλεάτης περῖ οὗ λέξομεν. Δεύτερος αὐτός οὗτος. Τρίτος Ῥόδιος ἐντόπιον γεγραφὼς ἱστορίαν ἐνιαίαν. Τέταρος ἱστορικὸς τὴν Πύρρου γεγραφὼς ἱστορίαν [στρατείαν mss.] εἰς Ἰταλίαν καὶ Σικελίαν, ἀλλὰ καὶ ἐπιτομὴν τῶν πεπραγμένων Ῥωμαίοις τὲ καὶ Καρχηδονίοις. Πέμπτος Χρυσίππου μαθητής, βιβλία μὲν ὀλίγα γεγραφώς, μαθητὰς δὲ πλείστους καταλελοιπώς. Ἕκτος ἰατρὸς Ἡροφίλιος, νοήσαι μὲν ἱκανός, γράψαι δὲ ἄτονος. Ἕβδομος γραμματικός, οὗ πρὸς τοῖς ἄλλοις καὶ ἐπιγράμματα φέρεται. Ὅγδοος Σιδώνοις τὸ γένος φιλόσοφος ἐπικούρειος, καὶ νοῆσαι καὶ ἑρμενεῦσαι σαφής.

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CARLO MARIA MAZZUCCHI

LA VERITÀ E DEMOCRITO NELLA SCUOLA D’ATENE Chi è il giovane personaggio in veste candida fregiata d’oro che, estraneo alle discussioni dei filosofi, guarda davanti a sé1? Non è rivolto allo spettatore, che sta più in basso, ma a un oggetto alla sua altezza. Più precisamente: le pupille non sono simmetriche, poiché quella destra (la sinistra per chi osserva) è leggermente girata verso l’angolo esterno dell’occhio; la sinistra mira quel che ha di fronte, cioè l’ostensorio con l’ostia consacrata sull’altare della “Disputa”. La soluzione sta in un testo greco tradotto più di mezzo secolo prima dell’affresco nell’àmbito della corte papale, cioè quella specie di novella epistolare che sono le lettere di Ippocrate intorno alla follia di Democrito, composte forse in età tardo repubblicana2. Compì la versione nel 14491450 Rinuccio d’Arezzo, che la dedicò a Niccolò V e la offrì all’influente cardinale Antonio Cerda3. Il testo fu stampato a Firenze il 22 giugno 1487 insieme alla traduzione delle epistole di Bruto, opera del medesimo Rinuccio, e quelle di Diogene per Francesco Aretino (il volume ebbe una ristampa veneziana verso il 1495). Nella lettera XV, indirizzata a Filopemene, Ippocrate, sempre preoccupato per il filosofo, racconta un sogno che lo fece svegliare di soprassalto. Gli parve di vedere, presso le porte di Abdera, Asclepio, non con l’aspetto mite, tradizionale nell’iconografia, bensì spaventoso, con un corteo di enormi serpi sibilanti e di attendenti con ceste di farmaci sigillate. Il dio gli tese la mano e Ippocrate, prendendola, lo pregò di aiutarlo a guarire Democrito. «Non hai al momento alcun bisogno di me» rispose Asclepio «Ora ti sarà guida la dea comune agli immortali e ai mortali»4. 1 Per G. Reale, La “Scuola di Atene” di Raffaello, Milano 20052, p. 68 si tratterebbe del «simbolo emblematico dell’efebo greco che coltiva filosofia e incarna la greca kalokagathia». V. ora F. Buzzi, Quale Europa cristiana? La continuità di una presenza, Milano 2019, 214-21. 2 A. Th. Sakalis, Ιπποκρατους επιστολαι, Ioannina 1989, p. 89, ritiene che si possa restringere l’arco temporale tra il 40 e il 30 a.C. 3 D. P. Lockwood, De Rinucio Aretino Graecarum Litterarum interprete, in Harvard ­Studies in Classical Philology 24 (1913), pp. 51-109. Cfr. L. Radif, v. Rinuccio d’Arezzo in Dizionario Biografico degli Italiani, 87, Roma 2016, pp. 627-28; A. A. Strnad, v. Cerdá y Lloscos, Antonio, ibid., 23, Roma 1979, pp. 704-06. 4 Il testo è citato secondo l’edizione di Sakalis (v. nt. 2).

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carlo maria mazzucchi

Ἐγὼ δὲ ἐπιστραφεὶς ὁρέω γυναῖκα καλήν τε καὶ μεγάλην, ἀφελὲς πεπλοκισμένην, λαμπρείμονα· διέλαμπον δ’ αὐτέης οἱ τῶν ὀμμάτων κύκλοι καθαρόν τι φῶς, οἷον ἀστέρων μαρμαρυγὰς δοκέειν. «E io, giratomi, vedo una donna bella e grande, acconciata con semplicità, con una veste splendente. I bulbi degli occhi brillavano di una luce pura, così da sembrare lo scintillio delle stelle».

Asclepio scompare, e la donna, prendendo lievemente per il polso Ippocrate, lo conduce in città. Giunta vicino alla casa dove il medico pensava di essere ospitato, la figura si dilegua dopo aver detto che l’indomani egli l’avrebbe rivista presso Democrito. Mentre quella si gira per andarsene, Ippocrate le chiede chi sia e come debba chiamarla. ἡ δὲ «Ἀλήθειαν» ἔφη. «αὕτη δὲ ἣν προσιοῦσαν ὁρῇς — καὶ ἐξαίφνης ἑτέρη τις κατεφαίνετό μοι, οὐκ ἀκαλλὴς μὲν οὐδ’ αὐτή, θρασυτέρη δὲ ἰδέσθαι καὶ σεσοβημένη — Δόξα» ἔφη «καλέεται· κατοικέει δὲ παρὰ τοῖσιν Ἀβδηρίταισιν». E quella «Verità» disse. «E questa che vedi venire — e improvvisamente mi apparve un’altra donna non priva di bellezza neppure lei, ma più baldanzosa e agitata — si chiama» disse «Opinione e abita presso gli Abderiti».

Svegliatosi, Ippocrate concluse che l’amico non aveva bisogno di un medico, dato che Asclepio stesso si era ritratto, e che la Verità — cioè la salute — stava presso Democrito, mentre l’opinione — ovvero la malattia — era presso gli Abderiti. Il contrasto espresso in queste parole non è fra sapienza e stoltezza, ma fra la verità e le pur ammirevoli opinioni. Figura imponente, veste luminosa, capelli sciolti, occhi brillanti, sesso femmineo, o almeno incerto fra tanta virilità: Raffaello ha riprodotto uno per uno i caratteri di Ἀλήθεια, θεὸς κοινὴ ἀθανάτων τε καὶ θνητῶν, che, in mezzo all’agitarsi delle δόξαι, pur degne di rispetto, guarda all’ostia consacrata e, insieme, con la coda dell’occhio destro posa uno sguardo di amorevole compassione sui mortali che ha intorno. I due affreschi non sono giustapposti, bensì connessi dalla figura della tanto ricercata verità, che coincide con il mistero dell’Incarnazione. La lettera — come si disse — era di casa nella curia pontificia; ma ideare in base a essa il soggetto dei due affreschi, che proseguono l’uno nell’altro anche per le architetture, come dalla navata al presbiterio5, richiede una mente di letterato e filosofo, quali erano Inghirami, Sadoleto, Egidio da Viterbo. 5 Cfr.

W. S. Schöne, Raphael, Berlin – Darmstadt 1958, p. 14: «Die Schule von Athen und die Disputa stehen einander gegenüber, ja sie antworten sich, ihre Bildwelten ergänzen einander ähnlich wie Langhaus und Apsis eines Kirchenraums».

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LA VERITÀ E DEMOCRITO NELLA SCUOLA D’ATENE

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La lunga lettera XVII ci rivela chi sia il personaggio a destra della Verità, coronato di foglie, che scrive sorridendo appoggiato a un cippo (l’unica significativa struttura non architettonica nell’affresco: infatti il plinto di Michelangelo fu un’aggiunta dell’ultima ora, poiché è assente nel cartone6). Ippocrate va a trovare Democrito e lo trova seduto sotto un platano largo e basso («ὑπό τινι ἀμφιλαφεῖ καὶ χθαμαλωτάτῃ πλατανίστῳ» § 27), su un seggio di pietra («ἐπὶ λιθίνῳ θώκῳ»), mentre sulle ginocchia scrive con fervore («ξυντόνως») un libro sulla pazzia. Egli ride degli uomini che consumano la vita ricercando con grande impegno cose di nessun conto («γελώτων ἄξια διοικεῦντες» § 4), infantili nelle loro aspirazioni («γελῶ τὸν ἄνθρωπον […] πάσῃσιν ἐπιβολῇσι νηπιάζοντα» § 5), perennemente incostanti («ἐν οὐδεμιῇ καταστάσει βεβαίην ἔχουσι τὴν γνώμην» § 8), in nulla diversi da bambinetti che giocano («τί νηπίων ἀθυρόντων διαφέρουσι […];»). Nell’ampio testo ci sono numerosi altri particolari, tralasciati nel dipinto, così come sono stati selezionati alcuni caratteri della fisionomia di Democrito, forse ricorrendo anche alla traduzione latina, poiché è indubitabile che la fonte primaria fu l’originale greco. Lo dimostra il fatto che la figura della Verità risponde a esso («ἀφελὲς πεπλοκισμένην, λαμπρείμονα»), non al fraintendimento della versione («comas splendide et apposite comptam»). Il filosofo è descritto (ep. XVII 2) come «ὠχριακὼς πάνυ καὶ λιπόσαρκος, κουριῶν τὰ γένεια» propriamente «assai pallido e magro, con la barba incolta», mentre nell’affresco è piuttosto in carne e sbarbato. «Λιπόσαρκος» (composto di λείπω) è reso giustamente nella versione con «tenuis», ma l’epiteto poteva essere inteso anche come composto di λίπος (cfr. λιπόρρινος «senza pelle» in Nonno, Dionysiaca I 44, detto di Marsia, e «dalla pelle grassa» in Nicandro, Alexipharmaca 537, della salamandra). Anche «κουριῶν» non manca di ambiguità, poiché «κουρά» significa «taglio di capelli, tosatura», e, in effetti, la traduzione di Rinuccio è «tonsus barbam». Il filosofo coronato di fronde, che sorride (l’unico personaggio in tutto il gruppo) scrivendo intensamente un libro, ha intorno due bambini, uno quasi infante: non sono elementi esornativi, ma — come abbiamo visto — il simbolo per Democrito dell’umanità insensata. Chi gli pone le mani sulle spalle con un gesto di assorta protezione sarà molto verosimilmente Ippocrate.

6 Sul quale v. ora A. Rocca, Il Raffaello dell’Ambrosiana. In principio il cartone, Milano 2019. 7 I paragrafi sono stati introdotti da W. D. Smith, Hippocrates, Pseudepigraphic Writings, Leiden – New York – København – Köln 1990 (Studies in Ancient Medicine, 2).

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CLAUDIA MONTUSCHI

AMBROGIO DI MILANO NELLE MINIATURE DI ALCUNI MANOSCRITTI DELLA BIBLIOTECA VATICANA Dall’incontro con le Romite ambrosiane del Sacro Monte di Varese è nato questo lavoro: nell’ottobre del 2012 Barbara Jatta1 ed io fummo invitate a presentare nella sala conferenze del monastero l’iconografia di Ambrogio, l’una nelle stampe e nelle incisioni, l’altra nei manoscritti della Biblioteca Vaticana. Chi si reca in visita al Sacro Monte ha la possibilità di vivere un’esperienza intensa dal punto di vista sia spirituale che culturale, muovendosi tra il monastero di S. Maria del Monte e alcuni musei2, percorrendo la Via sacra che conduce al santuario attraverso le cappelle dedicate ai misteri del Rosario e, soprattutto, incontrando le Romite ambrosiane, che tengono viva l’esperienza monastica da oltre cinque secoli. La loro origine e l’istituzione del monastero sono legate a Sisto IV (1471-1484)3, proprio come la Vaticana, in quegli stessi anni4 riorganizzata dal medesimo pontefice, a compimento del progetto iniziato da Niccolò V (1447-1455). Nell’ambito degli approfondimenti su temi ambrosiani tenuti presso le Romite, gli studi condotti sul patrimonio conservato in Vaticana stabiliscono un ponte ideale tra queste due storie parallele e coetanee. Senza alcuna pretesa di esaustività, ma con l’intento di offrire un punto di partenza per ulteriori indagini e confronti, presento di seguito le miniature raffiguranti Ambrogio in alcuni manoscritti vaticani, raggruppate per tipologia iconografica e, all’interno di questa suddivisione, ordinate crono1 Attualmente Direttrice dei Musei Vaticani, Barbara Jatta era allora Responsabile del Gabinetto della Grafica della Biblioteca Apostolica Vaticana. 2 Museo Baroffio e Casa Museo Lodovico Pogliaghi, oltre al Centro Espositivo P. Macchi, ubicato lungo la Via sacra. 3 La bolla di Sisto IV Pastoralis officii cura del 10 novembre 1474 costituisce l’approvazione ufficiale dell’esperienza che Caterina da Pallanza viveva da anni con le sue compagne. Il monastero fu eretto il 10 agosto 1476: per la storia si veda Romite dell’Ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus, Il Monastero di Santa Maria del Monte sopra Varese, [Varese] 2006 (La storia di Varese, IV.2). 4 È del 15 giugno 1475 la bolla Ad decorem militantis Ecclesiae, con cui Sisto IV riorganizzò la Biblioteca e il personale che vi lavorava, ampliandone la sede, stabilendo rendite e riconfermandone la finalità. Sulle origini della Vaticana: Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, I, Le origini della Biblioteca Vaticana tra Umanesimo e Rinascimento (1447-1534), a cura di A. Manfredi, Città del Vaticano 2010.

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CLAUDIA MONTUSCHI

logicamente. Alcune di esse erano già note5, altre sono state reperite sia durante tale indagine sia in uno studio successivo che ha condotto all’ampliamento di quanto presentato oralmente nell’occasione sopra menzionata. Ambrogio come scriba Tra le più antiche miniature di Ambrogio individuate nei manoscritti latini della Vaticana si trova la tipologia iconografica dello scriba, ispirata a quella usata per gli evangelisti in epoca tardo-antica: la ripresa del modello attesta l’idea di continuità tra gli evangelisti e i padri, custodi, questi ultimi, della tradizione attraverso il loro lavoro di esegesi. Si tratta della miniatura a tutta pagina dell’incipit del Vat. lat. 268 (mm 380 × 250 ca.), del­l’inizio del XII secolo, di origine milanese6, contenente l’opera De vocatione omnium gentium di Prospero di Aquitania, attribuita ad Ambrogio da una parte della tradizione, a cui appartiene questo manoscritto. A tale errore di attribuzione corrisponde la scelta compiuta dall’artista, che al f. Iv (Tav. I) ha ritratto proprio Ambrogio, a figura intera e a tutta pagina. Inquadrata da una doppia cornice, all’interno della quale corrono motivi 5 P. Courcelle, Recherches sur Saint Ambroise: “vies” anciennes, culture, iconographie, Paris 1973 (nel quale sono menzionati i Vat. gr. 1613, Vat. lat. 268 e Vat. lat. 8541). Sull’iconografia di Ambrogio in generale si vedano, per esempio: L. Réau, Iconographie de l’art chrétienne, III, Iconographie des saints, I, Paris 1958, pp. 63-67; H. Aurenhammer, Lexikon der christlichen Ikonographie, I, Wien 1959, pp. 98-103 (manoscritti vaticani: Vat. gr. 1613 e Vat. lat. 8541); R. Aprile, Ambrogio nell’arte, in Bibliotheca Sanctorum, I, Roma 1961, coll. 989-990 (dei manoscritti vaticani è menzionato solo il Vat. gr. 1613). Sull’iconografia si vedano anche P. Cherubelli, Sant’Ambrogio e la rinascita. Fonti manoscritte, edizioni a stampa e iconografia del santo nei secoli XIV, XV e XVI, in Sant’Ambrogio nel XVI centenario della nascita, Milano 1940, pp. 571-592: pp. 587-592; La città e la sua memoria. Milano e la tradizione di sant’Ambrogio [catalogo di mostra, Milano, Museo Diocesano ai Chiostri di Sant’Eustorgio, 3 aprile – 8 giugno 1997], a cura di M. Rizzi et al., Milano 1997 (in particolare L. Crivelli, Linee di iconografia ambrosiana, ibid., pp. 287-288); Ambrogio: l’immagine e il volto. Arte dal XIV al XVII secolo [catalogo di mostra, Milano, Museo di Sant’Eustorgio, 17 marzo – 14 giugno 1998], a cura di P. Biscottini, e in particolare S. Zuffi, Un volto che cambia, una figura che si consolida: l’iconografia ambrosiana dalle origini all’età sforzesca, ibid., pp. 13-21; La memoria di Ambrogio di Milano. Usi politici di una autorità patristica in Italia (secc. V-XVIII), a cura di P. Boucheron, S. Gioanni (Collection de l’École française de Rome, 503, Histoire ancienne et médiévale, 133. Série du LAMOP, 2), Paris – Rome 2015; L. Frigerio, Ambrogio. Il volto e l’anima, prefazione di M. Navoni, Milano 2018. Si vedano anche infra, ntt. 8 e 9. 6 Codices Vaticani Latini recensuerunt M. Vattasso et P. Franchi de’ Cavalieri, I, Codices 1-678, Romae 1902 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti), ad loc.; A. Manfredi, Prospero d’Aquitania, De vocatione omnium gentium; Mansueto arcivescovo di Milano o Damiano vescovo di Pavia, Epistula ad Constantinum imperatorem, in Diventare santo. Itinerari e riconoscimenti della santità tra libri, documenti e immagini [catalogo di mostra, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Salone Sistino, 21 dicembre 1998 – 16 marzo 1999], a cura di G. Morello, A. M. Piazzoni, P. Vian, Città del Vaticano – Cagliari 1998, p. 118, con bibliografia.

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ornamentali geometrici (cappi intrecciati sui lati lunghi, meandri e semicerchi sui lati corti) in arancio, verde, azzurro, giallo e rosso, la miniatura (mm 260 × 185) lo presenta giovane, imberbe, con i capelli castani e la tonsura, nell’atto di scrivere, collocato in un rettangolo con sfondo azzurro, all’interno di un altro con sfondo violaceo, entrambi decorati da stelle rispettivamente bianche e bianche e rosse. Come è stato notato, essa richiama una miniatura di un manoscritto coevo dell’Archivio Capitolare della Basilica di S. Ambrogio (già Biblioteca Capitolare) di Milano, M 31, f. 3v7. In entrambi i casi si tratta di una evidente citazione della più antica effigie ambrosiana conosciuta, la più fedele alle sembianze del santo8: il ritratto del sec. V nel mosaico di S. Vittore in ciel d’Oro a Milano. Il modello della tipologia dell’evangelista per Ambrogio — e in generale per i padri della Chiesa — risale ai codici carolingi9. Nella miniatura egli appare ispirato dalla colomba dello Spirito Santo che si avvicina in volo come per parlargli all’orecchio, anch’essa trasposizione di un motivo iconografico classico (la Musa ispiratrice del poeta); la colomba e l’aureola rompono la regolarità geometrica del riquadro rettangolare azzurro, nella parte superiore della scena. Vestito all’antica, come un funzionario romano, con la tunica sotto la quale si intravede un’altra veste e con il mantello fermato da una fibbia sulla spalla destra, Ambrogio è seduto su un trono, poggia i piedi su una pedana, ha un piano scrittorio sulle ginocchia, con il calamaio a forma di corno fissato a un angolo; nella mano destra stringe la penna e nella 7 Courcelle, 8 Sulla quale

Recherches cit., p. 160; Zuffi, Un volto che cambia cit., pp. 13-14. si vedano A. Ratti, Il più antico ritratto di s. Ambrogio, in Ambrosiana. Scritti varii pubblicati nel XV centenario dalla morte di S. Ambrogio, Milano 1897, estr. XIV; Courcelle, Recherches cit., pp. 155-156; Physiognomic Representations as a Rhetorical Instrument, edited by I. Foletti with the collaboration of A. Filipová, Roma – Brno 2013, pp. 61-83, secondo il quale il modello di questo ritratto “ufficiale” di Ambrogio risalirebbe a prima del 374; Frigerio, Ambrogio. Il volto e l’anima cit., in particolare pp. 32-37. Le recenti indagini scientifiche effettuate in seguito all’ultima ricognizione sulle reliquie, conclusa il 30 ottobre 2018, confermano che tale raffigurazione potrebbe essere molto vicina alle sembianze reali (probabilmente eseguita sul modello di un ritratto del santo fatto quando era ancora in vita). I risultati delle ricerche sono stati presentati nel convegno Apparuit Thesaurus Ambrosius. Le reliquie di sant’Ambrogio e dei martiri Gervaso e Protaso tra storia, scienza e fede, svoltosi nella basilica di S. Ambrogio a Milano, il 30 novembre 2018: L. Rosoli, Santi Ambrogio, Gervaso e Protaso: la scienza conferma la tradizione, in Avvenire, 2 ottobre 2018; C. Pasini, L’occhio sinistro di Ambrogio. Convegno a Milano sulle reliquie del santo vescovo e dei martiri Gervaso e Protaso, in L’Osservatore Romano, 30 novembre 2018, p. 5. Mentre correggo le bozze di questo contributo, apprendo della pubblicazione degli Atti del Convegno nel volume: Apparuit Thesaurus Ambrosius. Le reliquie di Sant’Ambrogio e dei martiri Gervaso e Protaso tra storia, scienza e fede, Milano 2019. 9 S. Piazza, Il volto di Ambrogio. La fortuna del modello paleocristiano e alcune varianti altomedievali, in La memoria di Ambrogio di Milano cit., pp. 87-119: pp. 94-95 (sull’omeliario di Berlino, Staatsbibliothek, Phillips 1676, f. 18v).

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sinistra il raschietto, strumento dalle molteplici funzioni (preparazione del fascicolo, correzione, affilamento del calamo). Il volto è reclinato e lo sguardo è orientato verso un libro aperto: sul libro si intravedono le parole veritas e misericors (o misericor), binomio che non si trova nell’incipit dell’opera, ma che ritorna nel testo10. L’identificazione della figura è resa inequivocabile dalla ‘didascalia’ della miniatura, «S. AMBROSIVS», vergata in bianco poco sopra l’aureola, nel rettangolo con fondo violaceo, oltre che nel margine superiore del foglio. Ai suoi piedi sono inginocchiati due personaggi oranti non immediatamente identificabili, che Courcelle interpreta come le personificazioni delle nazioni chiamate alla Cristianità11, in riferimento all’opera che segue. Il manoscritto appartiene alla raccolta di opere ambrosiane di Martino Corbo, nato nell’ultimo ventennio dell’XI secolo e morto tra il 1152 e il 1154, prevosto (post 1130) della canonica di S. Ambrogio a Milano12, impegnato nella diffusione della conoscenza della storia e della liturgia della Chiesa di Milano e del culto dei santi milanesi. Originariamente appartenevano a questa raccolta, tra l’altro, quattro grandi volumi per la Biblioteca del Capitolo di S. Ambrogio a Milano (Vat. lat. 268, f. 41r). Quando rientrarono in questa città da Basilea, dove erano stati trasferiti durante il concilio (1417-1431), i quattro volumi furono divisi in 8 o 9 tomi più piccoli e rilegati di nuovo. Il Vat. lat. 268 costituisce la seconda parte di un volume che si apriva con la raccolta di 82 epistole, oggi perduta e ricostruita in base a un inventario (1422-1437) studiato da Mirella Ferrari, e in base a un apografo (Milano, Biblioteca Ambrosiana di Milano, F 114 sup.). Nel 1475 era già nella biblioteca papale13. Il foglio in cui si trova la miniatura, il primo del primo quaternione, è solidale con l’ultimo del fascicolo, dunque anche originariamente era collocato nella medesima posizione ed è da riferire senza dubbio all’opera che segue. Ambrogio vescovo Nella maggior parte delle miniature — come avviene costantemente, a partire dal sec. XII, anche nella pittura e nella scultura14 — il santo è pre10 2,1: Deus quippe, apud quem non est iniquitas, et cuius universae viae misericordia et veritas, omnium hominum bonus conditor, iustus est ordinator; 2, 49: Ipse enim operatur omnia in omnibus, sed omnia procul dubio iusta et bona: universae enim viae Domini, misericordia et veritas (Prosper, De vocatione omnium gentium ediderunt R. J. Reske et D. Weber, Wien 2009 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 97). 11 Courcelle, Recherches cit., p. 161. 12 A. Ambrosioni, Corbo (Corbus, Corvus), Martino, in Dizionario biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 770-774. 13 Manfredi, Prospero d’Aquitania, De vocatione omnium gentium cit. 14 Zuffi, Un volto che cambia cit., passim.

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sentato con paramenti vescovili ed è riconoscibile in base al testo in cui è collocato o per la presenza di un attributo specifico. In questa veste si trova in scene che raffigurano episodi biografici e, più frequentemente, all’interno di iniziali di testi da lui composti o a lui attribuiti, e in libri liturgici in corrispondenza della festa a lui dedicata; più raramente in campo libero, a corredo di testi enciclopedici o, in ambito greco, liturgici. Compare dunque come protagonista di episodi della sua vita, come autore del testo o come oggetto del contenuto. Riquadri con scene della vita Una serie di sequenze che illustrano episodi autobiografici o agiografici si trova nel cosiddetto Leggendario (o, meglio, Passionario) angioinoungherese, Vat. lat. 8541 (mm 283 × 214), degli anni ’30-’40 del sec. XIV, codice interamente iconografico. Costituito da sole miniature eseguite sul lato carne (il lato pelo è vuoto), in pannelli (mm 212 × 165 ca.) quadripartiti da una cornice a motivi floreali e geometrici, è opera di un artista denominato proprio da questo manoscritto “Maestro del Leggendario Angioino Ungherese”, secondo alcuni proveniente da Esztergom, secondo altri di scuola bolognese15. Le raffigurazioni sono accompagnate da didascalie che identificano gli episodi illustrati delle vite di diversi santi, in relazione con la Legenda aurea di Jacopo da Varazze (Varagine [1228/9-1298]). Il codice è attualmente smembrato e conservato in diverse sedi16. La parte Vaticana,

15 S. L’Engle, Maestro del Leggendario Angioino Ungherese (Hungarian Master), in Dizionario biografico dei miniatori italiani. Secoli IX-XVI, a cura di M. Bollati, Milano 2004, pp. 562-564; B. Z. Szakács, The Visual World of the Hungarian Angevin Legendary, Budapest 2016, pp. 7-9. 16 New York, The Morgan Library, M.360.1-26; San Pietroburgo, Gosudarstvennyj Muzej E˙ rmitaà (Museo Statale Ermitage), ms. 16930-16934; Berkeley, University of California, Bancroft Library, Special Collections, 130: f 1300:37 [olim 2MS A2M2 1300:37]; New York, The Metropolitan Museum of Art, ms. 1994.516; Paris, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques, R.F.29940; G. Klaniczay, B. Z. Szakács, “Vinum vetus in utres novos”. Conclusioni sull’edizione CD del leggendario ungherese angioino, in L’État angevin. Pouvoir, culture et société entre XIIIe et XIVe siècle. Actes du Colloque internationale […] Rome – Naples 7-11 novembre 1995, Roma 1998 (Istituto storico italiano per il Medio Evo, Nuovi studi storici, 143), pp. 301-315; Szakács, The Visual World cit., pp. 14-17 et passim. Sui fogli vaticani: Heiligenleben »Ungarisches Legendarium« Codex Vat. lat. 8541. Kommentarband zur Faksimileausgabe Cod. Vat. lat. 8541 der Biblioteca Apostolica Vaticana (Codices e Vaticanis selecti quam simillime expressi [...], LXXVIII), Zürich 1990; G. Morello, Vitae sanctorum, in Diventare santo cit., p. 226; G. Török, Bottega bolognese e miniaturisti ungheresi, Leggendario Angioino Ungherese, in Mille anni di Cristianesimo in Ungheria. Hungariae Christianae Millennium [catalogo di mostra, Città del Vaticano, Musei Vaticani, 10 ottobre 2001-12 gennaio 2002; Museo Nazionale Ungherese, febbraio 2002 – maggio 2002], a cura di P. Cséfalvay, M. A. De

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la più cospicua (106 fogli17), contiene gli episodi relativi a Maria Vergine e a vari santi, tra i quali Ambrogio, secondo un ordine che ricorda quello delle litanie, ma con alcune varianti18. I fogli entrarono in Vaticana come oggetto museale e furono rilegati in un volume con le insegne di papa Benedetto XIV (1740-1758). Fu questo papa, nel 1757, a istituire il primo museo nell’ambito della Biblioteca Vaticana, il Museo Cristiano19, dove anche il Vat. lat. 8541 fu collocato. Nel secolo successivo il codice risulta regolarmente inserito tra i manoscritti Vaticani latini20. Sul dorso si legge l’indicazione del contenuto, impressa in oro: «ACTA SS. PICTIS IMAGINIBUS ADORNATA». Ambrogio, come gli altri padri, è raffigurato in sei scene, ovvero in uno spazio ridotto, nell’economia generale del volume, rispetto a quanto ci si aspetterebbe21: quattro al f. 74v (Tav. II) e due nella metà superiore del f. 75r. Gli episodi sono i seguenti: l’attacco delle api al volto di Ambrogio neonato che alludono alla divina eloquenza, secondo un topos pagano trasposto in ambito cristiano, attribuito già a Pindaro, Platone ed Esiodo22; l’elezione ad arcivescovo (7 dicembre 374), con la particolarità della presenza dei soldati23; la predicazione ispirata da un angelo; il tentato e miracolosamente fallito omicidio nei confronti del vescovo, commissionato dall’imperatrice Giustina; il terremoto che travolge un uomo ricco incontrato da Ambrogio (vicenda erroneamente a lui attribuita, appartenente invece alla biografia di s. Emerenziana); la sepoltura. Molte di queste scene sono rare nell’iconografia di Ambrogio; viceversa, manca l’episodio Angelis, Budapest 2001, pp. 285-287. Sul miniatore: S. L’Engle, Maestro del Leggendario cit.; Szakács, The Visual World cit., pp. 14-15 et passim. 17 Sul numero esatto ha fatto chiarezza Szakács, The Visual World cit. 18 Giovanni Battista, Pietro, Paolo, Andrea, Giovanni evangelista, Giacomo, Matteo, Filippo, Simone e Giuda, Marco, Luca, Stefano, Lorenzo, Fabiano, Sebastiano, Vincenzo, Biagio, Giorgio, Cristoforo, Cosma e Damiano, Clemente, Pietro martire, Sisto, Giuliano e Donato, Stanislao, Demetrio, Gerardo, Thomas Becket, Silvestro, Gregorio Magno, Ambrogio, Agostino, Girolamo, Martino, Emerico, Ladislao, Benedetto, Antonio eremita, Bernardo, Domenico, Francesco di Assisi, Ludovico d’Angiò, Brizio, Egidio, Alessio, Eustachio, Paolo eremita, Remigio, Ilario, Maria Maddalena, Caterina d’Alessandria. Sull’ordine in cui si susseguono: Szakács, The Visual World cit., pp. 38-41. 19 Arch. Bibl. 70 (inventario del 1762), f. 82v, dove è registrato al nr. 555 (arm. VIII); v. anche: Arch. Bibl. 72, f. 63v (nr. 555; Arm. IX, Ordo II); Arch. Bibl. 73, f. 26r (3 giugno 1762; Arm. IX, Ordo II, s.n.). 20 Inventarium codicum Latinorum Bibliothecae Vaticanae, tomus XI, a n. 8472 ad 9019, opera et studio J. B. De Rossi script. Linguae Latinae, F. Massi script. Linguae Latinae, P.  Scapaticci script. Linguae Syriacae, A. Vincentii script. Linguae Hebraicae, an. 18521855. L. Masciarelli scripsit ann. 1880, Vat. lat. 15349 (1) (già Sala Cons. Mss. 312 rosso). 21 Szakács, The Visual World cit., pp. 45-49 e pp. 109-116: pp. 111-112 (per Ambrogio). 22 Per esempio Aurenhammer, Lexikon cit., p. 101. 23 Szakács, The Visual World cit., p. 111.

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della cacciata degli eretici con il flagello, attributo distintivo a lui tradizionalmente associato (v. infra). Non stupisce che nelle scene immediatamente successive si trovi Agostino: l’accostamento delle due figure è frequente e ha un fondamento biografico, in particolare in riferimento al battesimo di Agostino conferito da Ambrogio nella notte di Pasqua del 387. Come gli altri fogli, anche questi sono caratterizzati dal fondo oro e da colori vivaci, tra i quali prevalgono il rosso-arancio, l’azzurro, il rosa e il grigio, e il protagonista della miniatura è segnalato dall’indicazione per l’artista vergata nel margine superiore esterno, ancora ben leggibile al f. 74v, perché non tagliata dalla rifilatura. La tipologia iconografica adottata è molto simile a quella utilizzata per gli altri santi nello stesso volume: sguardo austero, occhi contornati da una sottile linea nera e capelli, sopracciglia e barba bianchi, quest’ultima riccioluta e folta, secondo un uso tipico dell’artista24. Gli elementi distintivi sono costituiti dalle vicende della vita e dai nomi dei santi indicati nelle rubriche che accompagnano le immagini. Iniziali Nelle iniziali egli compare spesso senza elementi distintivi, ed è dunque identificabile soltanto in base al testo. Così avviene per esempio nell’iniziale Q (Qualis esse debeat) (mm 84 × 58) al f. 66v del Vat. lat. 6451 (mm 543 × 367) (Tav. III), Omeliario-Passionario di grande formato, della metà del sec. XII e di area probabilmente toscana: Liber II a resurrectione domini usque ad eius adventum (f. 1r), pars aestivalis di un Omeliario in più volumi e per questo associato ad altri due, i Vat. lat. 6450 e 6452, che però presentano alcune differenze25. Contiene omelie, commenti biblici e testi agiografici da leggersi a Mattutino o a commento del Vangelo del giorno. L’iniziale del f. 66v segna l’incipit dell’omelia per la feria V di Pentecoste, tratta, come indica la rubrica, ex tractatu S. Ambrosii episcopi, e precisamente dall’Expositio evangelii secundum Lucam (6, 6526). L’iniziale in giallo, a motivi geometrici colorati, emerge, come le altre di questo codice, dallo sfondo azzurro (nella parte superiore), rosso e verde (agli angoli inferiori) di un campo rettangolare, che invece di chiudersi in basso si prolunga verso destra, includendo il tratto inferiore della lettera; l’occhiello ovale della Q deborda in alto e ai lati del campo. All’interno dell’ovale è adattata 24 L’Engle,

Maestro del Leggendario cit., p. 563. veda per es. G. N. Verrando, Omeliario-leggendario toscano, in Diventare santo cit., pp. 200-201. 26 Sancti Ambrosii Mediolanensis Opera, Pars IV, Expositio evangelii secundum Lucam, Fragmenta in Esaiam, cura et studio M. Adriaen, Turnholti 1957 (Corpus Christianorum, Series Latina, 14). 25 Si

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perfettamente la figura a mezzobusto di un giovane imberbe, benedicente, nimbato, con lo sguardo rivolto alla sua sinistra, che indossa paramenti vescovili e ha in mano un libro aperto rilegato in giallo e smussato all’angolo superiore, su fondo azzurro. La figura assume una funzione decorativa e di ‘segnalibro’, più che identificativa, ed è molto simile a quelle di altri incipit del codice. Il progetto illustrativo di questo Omeliario prevede iniziali istoriate che possono presentare, oltre al ritratto dell’autore del testo, anche quello di una figura legata al contenuto (per es. ai ff. 95r e 158v, e 190v non si trovano, rispettivamente, gli autori delle omelie, Agostino e Ambrogio, ma Cristo, in riferimento al contenuto, così come al f. 25v sembra essere raffigurato Costantino nell’iniziale C [Constantino licet] invece di Ambrogio, autore del sermo). Nel Barb. lat. 599 (mm 370 × 237 ca.), del sec. XII e di area toscana, al f. 65v, nella Vita Ambrosii di Paolino di Milano, Ambrogio, con il pastorale nella sinistra e la destra un po’ sproporzionata, sollevata e stretta al petto — i cui tratti e colori poco definiti non permettono di distinguere con esattezza se vi sia anche un libro —, emerge a mezzobusto dal corpo superiore dell’iniziale H (Hortaris venerabilis pater) (mm 48 × 35) su fondo scuro. La lettera è contornata di rosso, come lo sfondo del campo sottostante al tratto orizzontale, decorato a tralci e caulicoli réservés. La figura è tracciata con tratti veloci; sono usati soltanto il rosso e il grigio, mentre le mani, il volto e i capelli non sono colorati. A margine di questo incipit si trova un’indicazione liturgica: «hic legitur in ordinatione sancti Ambrosii quae est VII. Idus Decembris». La Vita Ambrosii è collocata nella seconda unità del manoscritto, con agiografie originariamente appartenenti a un leggendario-lezionario27. In Arch. Cap. S. Pietro B.46 (mm 334 × 226 ca.), del sec. XIV, contenente diverse opere di Ambrogio, al f. 46r, nel corpo dell’iniziale H (Hierobaal) (mm 50 × 35) del De fide28, egli compare a figura intera, leggermente rivolto verso la sua destra, con il pastorale e la mitra, seduto sul trono episcopale costituito da due quadrupedi disposti uno di fronte all’altro; la veste (blu e rossa), il libro (rosso) nella mano sinistra e il ricciolo del pastorale (rosso), oltre ai due animali, sono colorati, mentre le mani, il volto e la parte inferiore del corpo sono bianchi (biacca con lumeggiature). Neanche qui compare un attributo specifico, e l’identificazione è suggerita dal testo. L’iniziale del f. 46r e quella del f. 1r — dove però si trova una raffigurazione 27 G. N. Verrando, Omeliario romano e leggendario-lezionario toscano, in Diventare santo cit., pp. 219-220. 28 Inventarium codicum manuscriptorum Latinorum Archivii Basilicae S. Petri in Vaticano maxima ex parte e recensione Cosimi Stornajolo depromptum, I (A-H), 1968 (dattiloscritto: Sala Cons. Mss. 411 (1) rosso), pp. 125-126.

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del contenuto (il Creatore) piuttosto che dell’autore dell’opera (Exameron) —, che pongono in evidenza gli incipit di due tra le opere ambrosiane contenute nel manoscritto, sono le sole istoriate di tutto il volume. Nel Vat. lat. 29029 (mm 315 × 224 ca.), del sec. XIV-XV, Ambrogio non è raffigurato in apertura del manoscritto, nel De officiis, né nelle lettere incipitarie dei libri che la compongono (dove si trovano diverse figure femminili), ma soltanto in quella del De Helia et ieiunio, al f. 50r: a mezzobusto, di tre quarti, imberbe e giovane d’aspetto, con paramenti vescovili, su fondo giallo, all’interno dell’occhiello della lettera D (Divinum ad patres resultavit) (mm 30 × 33), su campo blu. Il corpo della lettera è marrone chiaro tendente al rosa antico e l’asta in forma di foglia, dello stesso colore, diventa blu nella parte finale che fuoriesce dal campo verso il margine superiore del foglio e trova un corrispettivo nella foglia ornamentale rossa discendente lungo il margine interno dello specchio scrittorio. Un’altra iniziale, T (Tantum) (mm 20 × 20), con il ritratto del vescovo è al f. 2r, in apertura dell’Exameron, nel Vat. lat. 13394 (mm 141 × 97 ca.) (Tav. IVa-b), datato Milano 1444 e vergato da Baldassarre Garimberti30 della chiesa di S. Eufemia (colophon al f. 194r, «Expletus est liber iste ad honorem dei, gloriose virginis matris eius, et beatissimi Ambrosii patroni nostri totiusque curiae caelestis, per me presbiterum Baldesarrem Garimbertum, rectorem ecclesiae Sanctae Eufemiae. Mediolani 1444, die 19 Mai»). Vi è raffigurato di profilo, con barba e capelli bianchi, con il pastorale e il flagello nella mano destra, che lo rende ben riconoscibile. Il flagello è uno dei suoi attributi distintivi, diffuso a partire dalla fine degli anni ’30-’40 del sec. XIV, ma attestato già dal XII; rimanda all’immagine di Gesù che caccia i mercanti dal tempio (il particolare dello strumento con cui li allontana è in Gv 2, 15) e diventa simbolo del vescovo militante, segno visibile della forza della sua parola31. L’iniziale in oro risalta sul campo az29 Testimone che S. Zincone, Alcune osservazioni sul testo del «De Helia et ieiunio» di S. Ambrogio, in Augustinianum 16 (1976), pp. 337-351, proponeva di considerare nell’edizione delle opere ambrosiane. 30 R. Lasagni, Dizionario biografico dei Parmigiani, II, Parma 1999, p. 929 (il manoscritto citato senza segnatura è molto probabilmente proprio il Vat. lat. 13394). 31 G. Calligaris, Il flagello di Sant’Ambrogio e le leggende delle lotte Ariane, in Ambrosiana. Scritti varii pubblicati nel XV centenario della morte di S. Ambrogio, Milano 1897, pp. 1-63 [numerazione propria] (il racconto dell’apparizione del santo nella battaglia di Parabiago, nel 1339, avrebbe contribuito a diffondere sia l’immagine equestre sia il flagello, già precedentemente attribuito al santo); [E. Cattaneo], La tradizione ambrosiana – Il flagello santambrosiano ed il Fiamma, in Storia di Milano, IX, L’epoca di Carlo V (1535-1559), Milano 1961, pp. 544-546; E. Cattaneo, Il flagello di Sant’Ambrogio. Lo sviluppo di una leggenda, in Studi storici in onore di Ottorino Bertolini, Pisa 1972, I, pp. 93-103; Zuffi, Un volto che cambia cit., pp. 15-16; Piazza, Il volto di Ambrogio cit., p. 104 e nt. 73; G. Cariboni, L’iconografia ambrosiana in rapporto al sorgere e al primo svilupparsi della signoria viscontea, in La memoria di

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zurro, con volute bianche, di un riquadro bordato di verde, dai cui vertici interni si dipartono due decorazioni con foglie, fiori e occhielli dorati che si estendono in obliquo verso il margine del foglio. In questo caso la figura non è iscritta nella lettera e non ne segue i tratti, ma è in primo piano, preponderante e autonoma rispetto ad essa, tanto che il braccio sinistro, teso per sostenere il pastorale, passa sopra, orizzontalmente, l’asta verticale della T, coprendone una parte. Il volume appartenne a Baldo Martorelli (1420/1427 – 1475)32: al f. 2r si trovano il nome per esteso nel margine superiore esterno e le lettere iniziali attorno a un’impresa nel margine inferiore, «BAL. MAR.», in oro ai lati di una ghirlanda circolare nella quale si trova l’impresa della bilancia sormontata da ramo di palma (a sinistra) e da ramo di cedro (a destra) con i rispettivi frutti, a illustrare il motto iscritto in un cartiglio bianco che corre lungo la semicirconferenza inferiore della ghirlanda: «Iustus ut palma florebit sicut cedrus Libani multiplicabitur» (cfr. salmo 91, 13)33. Martorelli dalla metà del sec. XV fu precettore di Galeazzo Maria e Ippolita Maria, figli del duca di Milano Francesco I Sforza e di Bianca Maria Visconti. Nella sua raccolta, caratterizzata da opere di contenuto soprattutto grammaticale e storico, ma non solo, si trovano testi scritti interamente o parzialmente da Martorelli stesso o fatti scrivere sotto

Ambrogio di Milano cit., pp. 129-153: pp. 132-135; A. Albuzzi, La barba di Ambrogio. Iconografia, erudizione agiografica e propaganda nella Milano dei due Borromeo, ibid., pp. 171-172, nt. 39; Frigerio, Ambrogio. Il volto e l’anima, cit., pp. 38-49. 32 D. Cingolani, Baldo Martorello da Serra de’ Conti. Un umanista al servizio degli Sforza. Biografia con edizione delle lettere e della grammatica latina dal ms. trivulziano 786, Comune di Serra de’ Conti 1983; S. Bernato, Martorelli, Baldo, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXI, Roma 2008, pp. 358-359; M. Ferrari, “Per non manchare in tuto del debito mio”. L’educazione dei bambini Sforza nel Quattrocento, Milano 2000, in particolare pp. 132-134, 229-231, 235-236 e ad indicem. 33 Un’impresa simile si trova in altri manoscritti di Baldo Martorelli: Milano, Biblioteca Ambrosiana, T 16 sup., f. 1r, dove però compare in una forma semplificata, con il solo ramo di palma e senza motto (Cingolani, Baldo Martorello cit., pp. 105-107; cfr. M. Zaggia, Codici milanesi del Quattrocento all’Ambrosiana: per il periodo dal 1450 al 1476, in Nuove ricerche su codici in scrittura latina dell’Ambrosiana. Atti del Convegno, Milano, 6-7 ottobre 2015, a cura di M. Ferrari e M. Navoni, Milano 2007, pp. 331-384: p. 338); London, British Library, Add. MS 21984, f. 3r [olim 4r], in apertura del De senectute di Cicerone, datato 1458, ma con alcune varianti rispetto al Vat. lat. 13394: il cartiglio è in parte intrecciato alla ghirlanda d’alloro; il motto presenta l’integrazione della congiunzione et «[…] et sicut cedrus Libani […]»; la collocazione della palma e del cedro (rispettivamente a destra e a sinistra) è invertita; al posto delle prime lettere del nome di Martorelli, ai lati dell’impresa, si trovano quelle di Ippolita («HIP MA»). Su quest’ultimo manoscritto: Cingolani, Baldo Martorello cit., pp. 124-125; E. Pellegrin, La Bibliothèque des Visconti et des Sforza ducs de Milan, au XVe siècle, Paris 1955 (Publications de l’Institut de Recherches et d’Histoire, V), p. 364; ead., Bibliothèques d’humanistes lombards de la cour des Visconti Sforza, in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance 17, 2 (1955), pp. 218-245: p. 240.

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la sua supervisione34. Ai manoscritti di Martorelli elencati da Elisabeth Pellegrin deve essere dunque aggiunto anche il Vat. lat. 13394. Nel sec. XVI il volume appartenne poi a Ottaviano Malaspina (f. 1v: «Octaviani Malaspinae Marchionis Scaldasolis)35; «alias nunc M. Ant. Turtae [?]»); nel sec. XIX fu acquisito da Jacques Rosenthal (1854-1937), libraio antiquario monacense36 (ex libris adeso al contropiatto anteriore), che nel 1929 durante un’udienza lo donò a Pio XI (1922-1939), dal quale giunse in Vaticana il 4 luglio del medesimo anno37. Ancora nel sec. XV troviamo una raffigurazione di Ambrogio nell’incipit dell’Urb. lat. 41 (mm 370 × 259 ca.), prodotto a Firenze e databile ante 1474, al f. 2r (Tav. V), nella grande iniziale S (Summum incentivum) (mm 70 × 50), unica lettera istoriata tra le tante che introducono in questo codice le opere di Ambrogio. Nella pagina incipitaria, ornata da una cornice aperta realizzata con motivi vegetali, uccelli, puttini e bottoncini d’oro cigliati, in cui sono inseriti clipei con stemma e imprese di Federico di Montefeltro (stemma quadripartito, nel I e nel IV d’oro all’aquila di nero coronata, nel II e nel III bandato d’azzurro e d’oro all’aquila di nero sulla prima banda d’oro, senza sigle; fiammelle inquartate con la sigla del titolo di Federico, bombarda esplodente rovesciata), l’iniziale S, d’oro con un’anima rossa, campita su fondo blu, introduce l’opera Enarrationes in Psalmos. L’occhiello superiore è riempito da un campo verde con volute dorate, mentre in quello inferiore Ambrogio a mezzobusto emerge dal cielo azzurro cosparso di nuvole bianche, nimbato e con la mitra, la barba scura, il volto e il corpo leggermente ruotati verso la sua sinistra, lo sguardo serio e pensoso; le mani, rivestite da guanti bianchi impreziositi da un ovale dorato, stringono da un lato un volume rilegato in verde, dall’altro il pastorale. I colori si richiamano elegantemente: all’oro, al verde e al rosso dei tratti e del campo corrispondono i medesimi colori dell’aureola, del pastorale e del libro. Il particolare della parte superiore della mitra e dell’aureola che scompare sotto la S conferisce naturalezza alla figura, che sembra emergere dal cielo 34 Pellegrin, Bibliothèques d’humanistes lombards cit., pp. 235-241; Cingolani, Baldo Martorello cit., pp. 103-128. 35 Ottaviano (m. post 1566), figlio di Ludovico e di Beatrice Adorno, era marchese di Sannazzaro de’ Burgondi con Pieve di Albignola, Alagna e Ferrara, signore di Scaldasole (15 giugno 1523); sposò Giulia Birago, figlia di Giangiacomo Galeazzo, signore di Frascarolo, e di Anna Trivulzio: Genealogie delle famiglie nobili italiane, a cura di D. Shamà, © 2003-2018, http://www.sardimpex.com, s.v. Malaspina: Marchesi di Fosdinovo, Massa e Sannazzaro. 36 Jakob (dal 1878 Jacques): S. Krämer, Rosenthal, Jakob, in Neue Deutsche Biographie 22 (2005), pp. 77-78 [https://www.deutsche-biographie.de/pnd116625910.html#ndbcontent]. 37 Arch. Bibl. 115, f. 41v: alla data del 4 luglio 1929 è indicato come proveniente «dal S.o Padre», che a sua volta lo aveva ricevuto in dono da Rosenthal (in data non precisata), insieme ad altri due manoscritti e a uno stampato, provenienti da diversi donatori.

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dello sfondo per affacciarsi nella parte inferiore della lettera. In base al disegno del volto e alla marcata ombreggiatura, Ada Labriola vi ha riconosciuto la mano del Maestro del Senofonte Hamilton, erede delle modalità espressive di Francesco di Antonio del Chierico, di cui probabilmente fu allievo38. Oltre che come ritratto d’autore nelle iniziali di manoscritti che tramandano sue opere, Ambrogio abita anche lettere incipitarie di libri liturgici che hanno la funzione di contraddistinguere il testo della festa a lui dedicata. Il luogo privilegiato per la raffigurazione è il Santorale, come nel Breviario del card. Giordano Orsini (1405-1438), Arch. Cap. S. Pietro B.82 (mm 350 × 261 ca.), vergato e forse in parte anche decorato da «Antonius de Isimbardis» «presbyter», «frater de Mediolano», l’8 giugno 1423 (ff. 244v, 315v, 411v, attorno ai richiami, nel margine inferiore)39. Tra i santi raffigurati nelle lettere incipitarie delle feste, si trova anche Ambrogio, al f. 263v, In festo ordinationis sancti Ambrosii archiepiscopi Mediolani, dopo l’indicazione dell’antifona ai Vespri, nell’inziale dell’oratio, O (Omnipotens sempiternus deus) (mm 430 × 480), campita su fondo oro, in un riquadro bordato di rosso. Essa occupa lo spazio di sette righe, distinguendosi così tra quelle più rilevanti del Santorale. Il corpo della lettera è in due tonalità di rosa, più chiaro all’interno; esternamente, in corrispondenza dei quattro angoli del rettangolo in cui è inserita, essa è ornata da foglie verdi e azzurre. Ambrogio, all’interno dell’ovale bordato di giallo chiaro, è raffigurato, su fondo azzurro intenso, con la barba, lo sguardo rivolto alla sua destra e un’espressione seria, il piviale di un azzurro più chiaro rispetto a quello dello sfondo, bordato d’oro, e i guanti bianchi. Con la sinistra regge il pa38 A. Labriola, Saint Gregory the Great, Moralia in Job Libri I-XXXV, in Federico da Montefeltro and his Library [catalogo di mostra, New York, The Morgan Library and Museum, 8 giugno – 30 settembre 2007], edited by M. Simonetta, Milano – Città del Vaticano 2007, pp. 120-129: p. 126; per altri manoscritti Urbinati miniati da questo artista: A. Labriola, Repertorio dei miniatori fiorentini, in Ornatissimo codice. La biblioteca di Federico di Montefeltro [catalogo di mostra, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, 15 marzo – 27 luglio 2008], a cura di M. Peruzzi, con la collaborazione di C. Caldari, L. Mochi Onori, Milano 2008, pp. 227-234: pp. 230-231. Sul Maestro del Senofonte Hamilton, distinto da Attavante da A. Garzelli, alla quale si deve anche il nome dell’artista, si vedano anche, per esempio, M. Bollati, Maestro del Senofonte Hamilton, in Dizionario biografico dei miniatori italiani cit., pp. 666-667; https://spotlight.vatlib.it/humanist-library/feature/maestro-del-senofontehamilton, a cura di E. Ponzi. 39 Inventarium codicum manuscriptorum Latinorum Archivii Basilicae S. Petri cit., I pp. 99-100; P. Salmon, Les manuscrits liturgiques latins de la Bibliothèque Vaticane, I, Psautiers, Antiphonaires, Hymnaires, Collectaires, Bréviaires, Città del Vaticano 1968 (Studi e testi, 251), p. 100 (e V, p. 103); V. Saxer, Trois manuscrits liturgiques de l’Archivio di San Pietro, dont deux datés, aux armes du cardinal Jordan Orsini, in Rivista di storia della Chiesa in Italia 27 (1973), pp. 501-505; F. Manzari, Breviario del cardinale Giordano Orsini, in Liturgia in figura cit., pp. 105-109.

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storale, e con la destra, che emerge parzialmente dall’ovale della lettera, tiene un libro rosso chiuso, in parte coperto dai paramenti. La scelta di rappresentare alcuni elementi come ben visibili e di lasciarne intuire altri dietro i tratti della lettera o delle vesti è un espediente ricorrente nelle lettere incipitarie del Breviario, che conferisce naturalezza e movimento alla figura. Nelle oltre 130 miniature del codice è stata riconosciuta l’opera di un unico atelier di miniatori guidati da un maestro di notevoli capacità, che la critica ha recentemente riconosciuto come di ambito fiorentino, vicino a Battista di Biagio Sanguigni, ma attivo a Roma e probabilmente educato nello stesso ambito di Stefano dell’Aquila, nella Cancelleria papale40. Come è naturale, dato il carattere ambrosiano del volume, il santo è raffigurato anche nel libro liturgico Vat. lat. 9236 (mm 290 × 205 ca.), degli anni 1488-1497, costituito da due unità distinte ma vergate dalla stessa mano e decorate dallo stesso miniatore: Sacramentario festivo più Lezionario di Guidantonio Arcimboldi, arcivescovo di Milano (1489-1497)41. Il Sacramentario (ff. 1r-78v) contiene il formulario per le messe da S. Ambrogio fino all’Annunciazione, l’Oratio b. Ambrosii dicenda post confessionem, Ordo Missae, prefazi, Canone, Pater, messe da Pasqua alla Natività della Vergine, dedicazione della chiesa maggiore e orazioni, messe per i defunti. Il Lezionario, mutilo (ff. 79r-95v), originariamente appartenente a un altro codice, contiene le letture per le messe di Natale fino all’Epifania (nelle parti riservate all’arcivescovo si trova la notazione musicale romboidale su quattro righe)42. Al f. 1r (Tav. VI), la rubrica introduce il contenuto del 40 Manzari, Breviario del cardinale Giordano Orsini cit.; A. Labriola, Miniature fiorentine e committenza romana: il Breviario del cardinale Giordano Orsini, in Nuovi studi sulla pittura tardogotica. Intorno a Lorenzo Monaco. Atti del Convegno internazionale di studi. Fabriano, 31 maggio, Foligno, 1° giugno, Firenze, 2-3 giugno 2006, a cura di D. Parenti, A. Tartuferi, Livorno 2007, pp. 128-137; F. Manzari, La tradizione tardogotica nella Roma di Martino V: nuovi contributi sul Breviario di Giordano Orsini (Arch. Cap. S. Pietro B.82) e sulla miniatura romana degli anni venti del Quattrocento, in Manuscrits il.luminats: La tardor de l’Edat Mitjana i els inicis del Renaixement, ed. J. Planas, Lleida 2017, pp. 27-43: pp. 32-41; ead., More on Illumination at the Time of the Great Schism. Book Patronage in the two Curias and a Long-lasting Stage of Gothic Illumination in Rome, in Vom Weichen über den Schönen Stil zur Ars Nova. Neue Beiträge zur europäischen Kunst zwischen 1350 und 1470, Hg. J. Fajt, M. Hörsch, Köln 2018 (Studia Jagellonica Lipsiensia, Band 19), pp. 129-146: p. 138. 41 N. Raponi, Arcimboldi, Guidantonio, in Dizionario biografico degli Italiani, III, Roma 1961, pp. 777-779. 42 A. Melograni, Sacramentario ambrosiano festivo e Lezionario di Guidantonio Arcimboldi, in Liturgia in figura. Codici liturgici rinascimentali della Biblioteca Apostolica Vaticana [catalogo di mostra, Biblioteca Apostolica Vaticana, Salone Sistino, 29 marzo – 10 novembre 1995], a cura di G. Morello e S. Maddalo, pp. 248-251; M. Marubbi – L. Longhi, Sacramentario e Lezionario di Guidantonio Arcimboldi, in L’oro e la porpora. Le arti a Lodi nel tempo del vescovo Pallavicino (1456-1497) [catalogo di mostra, Lodi, chiesa di S. Cristoforo, 9 aprile – 5 luglio 1998], a cura di M. Marubbi, Cinisello Balsamo, Milano 1998, pp. 188-189.

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volume dando notizia anche del committente (Incipiunt misse solempnes celebrande per Reverendum dominum Guidantonium archiepiscopum ecclesie mediolanensis), ritratto nell’iniziale del testo, D (Deus mundi auctor) (mm 83 × 83), e al f. 31v, nel Te igitur, ai piedi della Crocifissione a tutta pagina. Al f. 1r, la lettera D — la maggiore delle 16 istoriate del manoscritto —, tracciata su campo a foglia d’oro in rosso chiaro e sottili disegni geometrici bianchi, presenta una scena dove compaiono, separati da un piano rosso, tre personaggi sullo sfondo di un paesaggio montuoso con una città fortificata in lontananza: Ambrogio è in piedi, nimbato e con la mitra, i paramenti rossi, e stringe con la sinistra l’asta del pastorale; davanti a lui, in ginocchio, l’arcivescovo Guidantonio, con un piviale rosso, un libro aperto e il pastorale terminante a croce; dietro di lui un chierico con la veste chiara, con le mani giunte. Da notare, nell’arcivescovo e nel chierico, la tonsura che rimanda a una delle regole ripristinate all’interno del clero milanese dai decreti promulgati da Guidantonio (in particolare tra il 1489 e il 1490). Ambrogio è riconoscibile sia in base al testo liturgico, quello della messa del 7 dicembre, sia per la presenza del suo specifico attributo iconografico, il flagello, che invece di essere impugnato pende dal ricciolo del pastorale, come elemento inerte, puramente evocativo43. La miniatura è stata avvicinata ad altre due in cui l’Arcimboldi, committente dei codici, figura con Ambrogio, rispettivamente nel Messale ambrosiano della Biblioteca del Capitolo Metropolitano di Milano (ms. II.D.1.13, f. 1v), con Martino di Tours, e nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze, con la Vergine e il Bambino, nel codice Milano, Biblioteca Braidense, ms. AE.XII.27, f. 1r. Quest’ultima è attribuita da alcuni alla stessa mano, da altri a una mano diversa da quella che decora il codice vaticano44. L’artista potrebbe essere identificato con Zeno de Pegorari, che firma il volume braidense al f. 370v45. Da notare che nel codice vaticano le figure non sono semplicemente giustapposte, ma interagiscono e si intrecciano tra loro, in un contesto che lascia trasparire uno spirito di quotidiana familiarità, diversamente da quanto avviene nel Messale del Capitolo Metropolitano, dove i personaggi sono distanziati e avvolti da un’atmosfera formale. Nel nostro codice Ambrogio accoglie e abbraccia l’arcivescovo, cingendogli il collo con la destra e avvicinando la sinistra, con cui regge il pastorale, alla destra di Guidantonio, di cui afferra il mignolo. Il libro, elemento frequente nell’iconografia ambrosiana, in questo caso è invece aperto tra le mani di Guidantonio, 43 Così anche, per esempio, in un tondo marmoreo tardorinascimentale nella basilica di S. Ambrogio a Milano: Zuffi, Un volto che cambia cit., p. 16. 44 Melograni, Sacramentario ambrosiano festivo cit. 45 G. Z. Zanichelli, Zeno de Pegorari, in Dizionario biografico dei miniatori italiani cit., pp. 995-997.

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che alza lo sguardo verso Ambrogio. L’intreccio delle mani e degli sguardi suggerisce l’idea dello stretto legame tra i due personaggi, traducendo in immagine l’incontro tra la protezione dell’uno e l’affidamento dell’altro. Ambrogio è dunque inserito in una scena di devozione ma ritratto in movenze naturali, poco convenzionali. La mano dell’artista mostra una certa raffinatezza, in particolare nella resa dell’incarnato e nel drappeggio delle vesti. Una ricca cornice piena, costituita da foglie di acanto verdi e azzurre, fiori stilizzati e bottoncini d’oro cigliati, impreziosisce il foglio; al centro del margine inferiore, lo stemma della famiglia Arcimboldi46, d’oro alla banda di rosso caricata di tre stelle di otto raggi del campo, sovrastato dalla croce. L’iniziale istoriata conferisce adeguato risalto alla messa di s. Ambrogio, in linea con il programma dell’arcivescovo che intendeva rilanciare la liturgia ambrosiana47. Un altro esempio si trova nel Santorale del lussuoso Breviario di Mattia Corvino, Urb. lat. 112 (mm 393 × 271 ca.), databile agli anni 1487-149248, che il re di Ungheria (m. 1490) non riuscì a vedere terminato. Il Breviario, firmato da Martino Antonio presbyter (f. 597r)49, contiene il calendario, il Temporale, il salterio-innario, il Santorale, gli Uffici della Vergine e dei defunti. Quattro coppie di miniature a tutta pagina affrontate, attribuite a uno degli artisti prediletti dal re di Ungheria, il miniatore fiorentino Attavante degli Attavanti50, marcano le principali partizioni del libro liturgico, impreziosito ovunque da cornici, iniziali istoriate e decorate. Al f. 351r (Tav. VII), riccamente decorato e ornato da una cornice piena, nella lettera incipitaria D(eus qui populo tuo) (mm 44 × 38) della festa a lui dedicata 46 J.

B. Rietstap, Armorial général [...], 2a éd., Gouda 1884-1887, I, p. 61; G. B. CrollaDizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti [...], Bologna [1965], I, p. 56. 47 Melograni, Sacramentario ambrosiano festivo cit., p. 251. 48 Codices Urbinates Latini, recensuit C. Stornajolo, I, Codices 1-500, Romae 1902 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti), pp. 140-141; G. Török, Atelier di Attavante degli Attavanti (Castel Fiorentino 1452 – ? 1520 o 1525), Breviario di Mattia Corvino, in Mille anni di Cristianesimo in Ungheria. Hungariae Christianae Millennium [catalogo di mostra, Città del Vaticano, Musei Vaticani, 10 ottobre 2001-12 gennaio 2002; Museo Nazionale Ungherese, febbraio 2002-maggio 2002, a cura di P. Cséfalvay, M. A. De Angelis], Budapest 2001, p. 312 (in particolare per la datazione). 49 A. C. De la Mare, New Research on Humanistic Scribes in Florence, in Miniatura fiorentina del Rinascimento, 1440-1525: un primo censimento, a cura di A. Garzelli, Firenze 1985 (Inventari e cataloghi toscani, 18-19), I, pp. 393-600: pp. 474, 513. 50 Scheda descrittiva dettagliata in A. Rorro, Breviario di Mattia Corvino, in Liturgia in figura cit., pp. 236-241; Iconografia agostiniana, XLI, 2, il Quattrocento, Secondo tomo, Il corpus, di A. Cosma – G. Pittiglio, Roma 2015 (Opera omnia di Sant’Agostino, parte V: Sussidi), p. 35; D. Galizzi, Vante di Gabriello di Vante degli Attavanti, in Dizionario biografico dei miniatori italiani cit., pp. 975-979. lanza,

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Ambrogio risalta sul fondo azzurro e indossa il piviale di colore rosso, particolare ricorrente nell’iconografia quattrocentesca del santo in ambito fiorentino51. È raffigurato in età matura, con la barba brizzolata, lo sguardo intenso e l’indice della destra sollevato, come per accompagnare l’adlocutio, elementi che evocano l’insegnamento e l’autorevolezza. La tipologia iconografica è quella solitamente adottata per i santi vescovi (per es. per Martino, al f. 534v).

Due casi particolari nelle iniziali: le Ore e il Salmo

Se è naturale la scelta di raffigurare Ambrogio nelle lettere incipitarie di opere (o di parti di esse) da lui composte o in testi liturgici a lui associati, insolita risulta la presenza della figura del santo in una delle Ore dell’Ufficio della Vergine, luogo tipicamente contrassegnato da temi iconografici ben diversi (ciclo dell’infanzia di Gesù e ciclo della Passione)52. È il caso di Terza (f. 56v) nel Chig. D.IV.55 (mm 100 × 80 ca.), del sec. XV (secondo-terzo decennio del secolo, in base all’ornamentazione)53, di area lombarda, e dei Vespri (f. 54v) nel Ross. 93 (mm 96 × 74 ca.), del primo quarto del sec. XV, prodotto in Italia settentrionale54: due libri ­d’Ore di formato tascabile, ovvero pensati per l’uso corrente. Nel Chigiano, al f. 56v, nella lettera D (Deus in adiutorium meum) (mm 30 × 35), tracciata in rosa antico su campo blu e ornata da due foglie che dalle estremità dell’asta della lettera si estendono a coprire tutta la lunghezza del margine esterno del foglio, Ambrogio, con aureola e paramenti vescovili, barba e capelli bianchi, ritratto di tre quarti, su fondo d’oro costellato da piccole croci e puntinato di bianco, è facilmente riconoscibile grazie al flagello stilizzato (con nastri inoffensivi al posto delle corde) nella mano destra. L’incipit è preceduto da alcune righe di testo cancellate: sono le preghiere conclusive

51 G. Leoncini, Iconografia di Sant’Ambrogio nell’arte fiorentina, in La presenza di ­ an­t’Am­brogio a Firenze. Convegno di studi ambrosiani, Firenze 9 marzo 1994, a cura di M. S Naldini, Firenze 1994, pp. 43-64: pp. 49-50. 52 V. Leroquais, Les livres d’heures manuscrits de la Bibliothèque Nationale, I, Paris 1927, pp. XL-LXXXV: pp. XLV-XLVI. 53 C. David, Libro d’Ore, in Diventare santo cit., pp. 233-236; F. Manzari, Tipologie di strumenti devozionali nella Lombardia del Trecento, in Il Libro d’Ore Visconti, commentario al codice, a cura di M. Bollati, Modena 2003, pp. 52-217: pp. 141-144; ead., Libri d’ore e strumenti per la devozione italiani e nordeuropei nel Tardo Medioevo: temi e aspetti della ricerca e della catalogazione, in La catalogazione dei manoscritti miniati come strumento di conoscenza, a cura di S. Maddalo, M. Torquati, Roma 2010, pp. 141-160: p. 152 e nt. 51. 54 N. Falaschi, Ross. 93, in Catalogo dei codici miniati della Biblioteca Vaticana, I, I manoscritti Rossiani, 1, Ross. 2-413, a cura di S. Maddalo, con la collaborazione di E. Ponzi e il contributo di M. Torquati, Città del Vaticano 2014 (Studi e testi, 481), pp. 121-123.

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di Prima, ripetute sempre uguali ad ogni Ora dell’Ufficio della Vergine55, che in questo libro d’Ore sono quasi sempre sistematicamente cassate. La raffigurazione a mezzobusto in una lettera incipitaria è comune, ma il fatto che si tratti dell’iniziale di un’Ora dell’Ufficio costituisce una particolarità, riconducibile, a quanto sembra, a un uso di area lombarda56. A conferma di questo si può considerare anche un altro libro d’Ore di area lombarda, Cambridge, The Fitzwilliam Museum, MS 147, databile agli anni 14601480, dove le Ore della Vergine sono contraddistinte da figure di santi e Ambrogio è al f. 62v, a Compieta57. Anche in tale area, comunque, la raffigurazione più consueta di Ambrogio nei libri d’Ore è collocata in una sede diversa, ovvero nell’incipit del Te Deum, generalmente con Agostino, secondo la tradizione che li vuole autori dell’inno58. Le Ore dell’Ufficio della Vergine nel manoscritto Chigiano sono rese facilmente individuabili dalle iniziali istoriate con le figure di Maria Maddalena (f. 34v, Lodi), Cristo (f. 51r, Prima), Ambrogio (f. 56v, Terza), Pietro martire (f. 61v, Sesta), Stefano (f. 66r, Nona), Giovanni Battista (f. 70v, Vespri), Caterina (f. 79v, Compieta). Altri santi sono raffigurati a tutta pagina in eleganti miniature inserite tra il calendario e l’Ufficio della Vergine, con una funzione devozionale autonoma59. Molto simile è l’iconografia nel f. 54v del Rossiano, dove Ambrogio è nella medesima lettera, D (Deus in adiutorium meum) (mm 32 × 39), ma dei Vespri, piuttosto che di Terza. Anche qui la mano destra brandisce il flagello, mentre la sinistra scompare sovrapponendosi al tratto curvo della lettera; il volto e le mani risultano, come in molte altre miniature di questo libro d’Ore, non perfettamente leggibili. Raffigurato di tre quarti, risalta con i paramenti rossi su fondo scuro, all’interno di una lettera tracciata in rosa antico su campo d’oro e ornata, come nel Chigiano, 55 Per

lo scambio tra due reclames, Mariam / misericordiam (ff. 83v-84r e ff. 149v-150r) e il conseguente errore nella disposizione dei fascicoli, in questo volume il testo degli Uffici è parzialmente dislocato. 56 Manzari, Tipologie cit., pp. 79-83: pp. 81-82, a proposito del Libro d’Ore di Bianca, Modena, Biblioteca Estense e Universitaria, Ms. Lat. 862 (= α.S.2.31), datato 1383, al f. 23r, nell’incipit del Mattutino; ead., Libri d’ore e strumenti cit., p. 152. Anche nel Vat. lat. 6259, della metà del sec. XV e di area fiorentina (fiamminga per i fogli aggiunti contenenti miniature a tutta pagina: G. Morello, Libro d’Ore, in Diventare santo cit., pp. 236-240), si trova un uso simile, con raffigurazione dei santi (tra i quali però non compare Ambrogio), ma solo per due Ore dell’Ufficio della Croce, ai ff. 159r, 171r (quest’ultimo aggiunto). 57 Illuminated Manuscripts in Cambridge. A Catalogue of Western Book Illumination in the Fitzwilliam Museum and the Cambridge Colleges, edited by N. Morgan, S. Panayotova and S. Reynolds, Part two, Italy and the Iberian Peninsula, Volume one, London 2011, pp. 233-235 (ff. 24v Bernardino da Siena alle Lodi; 37r Paolo a Prima; 42r Caterina a Terza; 46v Filippo a Sesta; 50v Pietro a Nona; 55r Chiara ai Vespri; 62v Ambrogio a Compieta). 58 Manzari, Tipologie cit., p. 108. 59 Manzari, Tipologie cit.

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da due foglie che si prolungano dall’asta della D lungo il margine esterno, oltre i limiti dello specchio scrittorio. Gli altri incipit dell’Ufficio sono marcati dalle immagini di Giovanni Battista (f. 24v, Lodi), Pietro (f. 38v, Prima), Caterina (f. 43r, Terza), Maria Maddalena (f. 47r, Sesta), un santo cistercense (f. 50v, Nona), Antonio abate (f. 63r, Compieta), opera di un artista forse di ambito padano60. Nei due codici, dunque, le Ore sono segnalate dai medesimi soggetti iconografici (con poche varianti: Cristo e Stefano nel Chigiano, un santo cistercense e Antonio abate nel Rossiano), distribuiti secondo un ordine differente e senza un preciso riferimento al testo che introducono. Per le altre partizioni, invece, ovvero per i Salmi penitenziali, gli Uffici dei defunti, dello Spirito Santo e della Croce, in entrambi i libri d’Ore le lettere incipitarie sono abitate da figure sempre attinenti al testo (Chig. D.IV.55, f. 112r e Ross. 93, f. 110r: Davide per i Salmi penitenziali; Chig. D.IV.55, f. 142v e Ross. 93, ff. 134v, 140v: Ecce Homo, e scheletro ed Ecce Homo per l’Ufficio dei defunti; Chig. D.IV.55, f. 193v e Ross. 93, f. 160v: Crocifissione per le Ore della Croce; Chig. D.IV.55, f. 198r e Ross. 93, f. 155v: colomba per le Ore dello Spirito Santo). Nella scansione delle varie partizioni della preghiera quotidiana la serie dei santi si sostituisce al più consueto programma iconografico che prevede la sequenza delle scene della vita di Gesù e di Maria, mantenendo la medesima funzione di ‘guida visiva’ per chi usa il libro61. Il differente ordine in cui si susseguono nell’uno e nell’altro libro d’Ore, così come in Cambridge, The Fitzwilliam Museum, MS 147, sopra citato, non consente di individuare un criterio che possa spiegare il tipo di associazione tra le figure e il testo, nel quale esse sembrano collocate in modo casuale. Un altro caso differente dagli altri individuati è quello in cui Ambrogio non compare specificamente come vescovo né propriamente come scriba nell’incipit di una sua opera. Nel Vat. lat. 275 (mm 331 × 238 ca.)62, datato 1366 (colophon al f. 62v), con l’Expositio de psalmo CXVIII, al f. 1r (Tav. VIII), nell’iniziale istoriata L (Licet) (mm 55 × 43) è raffigurato nimbato, con capelli e barba canuti, con i paramenti rossi, a figura intera e 60 Falaschi,

Ross. 93 cit. medesimo uso, ma senza la raffigurazione di Ambrogio, si trova anche in due libri d’Ore della Biblioteca Ambrosiana, S.P. 13 (ff. 1r, 11r, 24r, 29r, 34v, 39v, 44v, 53r, 80r) e S.P. II.191 (ff. 40r, 48v, 56r, 63v, 70r, 82v), della seconda metà del sec. XV: anche qui le lettere incipitarie delle Ore sono abitate da figure di santi, la cui sequenza non sembra riconducibile a un criterio ben definito. Per la descrizione di questi manoscritti si veda I libri d’Ore della Biblioteca Ambrosiana, a cura di C. Marcora, Milano 1973, ad loc. 62 Codices Vaticani Latini recensuerunt M. Vattasso et P. Franchi de’ Cavalieri, I cit., ad loc. Ringrazio Mons. Marco Navoni e Francesca Manzari per la generosa disponibilità al confronto su questa e altre miniature ambrosiane. 61 Il

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seduto, e alla sua sinistra un libro aperto su un leggio mobile; lo sguardo è rivolto nella direzione opposta al libro, e le mani, grandi, sproporzionate ma espressive, sono ritratte l’una nel gesto che solitamente accompagna l’adlocutio, l’altra aperta e sollevata, come nelle figure oranti. Ambrogio è seduto in uno stallo del coro e il libro aperto sembra un breviario: tali particolari stabiliscono una stretta corrispondenza tra immagine e testo, per cui egli è presentato come autore dell’opera sul salmo 118 ma anche come colui che prega con il salmo. Il libro è infatti aperto ma Ambrogio non ha in mano uno strumento scrittorio, né è presentato specificamente come vescovo. La veste episcopale è invece trasferita su un’altra figura, nello stesso foglio, che è stata interpretata — erroneamente, a mio avviso — come una duplicazione della prima. Nel margine inferiore, in un piccolo medaglione dal contorno mistilineo collocato nella cornice disegnata dall’antenna che si dirama dall’iniziale, il vescovo a mezzobusto, benedicente, che stringe a sé un volume rosso, e dotato di mitra, con barba e capelli bianchi, lo sguardo rivolto dalla parte opposta rispetto a quello di Ambrogio nella lettera iniziale, indossa la cocolla nera: in base a questo particolare sarei propensa a considerare il ritratto non come una duplicazione del primo63, ma come una raffigurazione di Agostino. Tale interpretazione sarebbe coerente con i destinatari, ovvero gli Agostiniani del convento di S. Marco a Milano, per i quali il codice venne confezionato, e con il copista del codice. Al nome di quest’ultimo allude probabilmente la sigla A compresa tra due punti sul margine esterno del foglio: Andrea Serazoni (f. 62v: Andreas de Serazonibus), agostiniano eremitano nella chiesa di S. Marco a Milano, che poi fu vescovo di Piacenza (1381-1383) e di Brescia (1383[1384]-1387)64. Vergato dallo stesso copista è anche un altro codice vaticano, il Vat. lat. 281, sottoscritto nell’anno 1374 (f. 78v), contenente, tra l’altro, alcune opere ambrosiane e pseudo-ambrosiane (tra cui De vocatione omnium gentium). Anche questo, come il Vat. lat. 275, era destinato a S. Marco a Milano, e appartenne al card. Filippo Calandrini (1448-1476), fratellastro di Niccolò V, prima di entrare nella biblioteca del pontefice65. 63 Codices

Vaticani Latini recensuerunt M. Vattasso et P. Franchi de’ Cavalieri, I cit., ad loc. 64 Hierarchia Catholica Medii Aevi [...] edita per C. Eubel, I, Monasterii 1913, pp. 401, 147; Colophons de manuscrits occidentaux des origines au XVIe siècle, ed. par les Bénédictins du Bouveret, I, Fribourg 1965 (Spicilegii Friburgensis Subsidia, 2), nrr. 765-766. 65 C. Gennaro, Calandrini, Filippo, in Dizionario biografico degli Italiani, XVI, Roma 1973, pp. 447-449; A. Manfredi, I codici di Niccolò V. Edizione degli inventari e identificazione dei manoscritti, Città del Vaticano 1994 (Studi e testi, 359), pp. 73-74, 123-124. Sui due manoscritti v. anche E. Caldelli, I codici datati nei Vaticani latini 1-2100, Città del Vaticano 2007 (I codici latini datati della Biblioteca Apostolica Vaticana, 2), pp. 19-21.

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In campo libero Oltre che nelle iniziali, il vescovo si trova anche all’interno di un programma iconografico particolare, quello della Satyrica Historia rerum ges­ tarum mundi di Paolino da Venezia (Paolino Minorita), che narra gli avvenimenti della storia universale da Adamo ed Eva al 1321: al f. 191r del Vat. lat. 1960 (mm 440 × 288 ca.), databile agli anni 1334-1339, Ambrogio è disegnato nel margine inferiore del foglio, in campo libero (in uno spazio di mm 30 × 23 ca.), sotto la colonna di testo cui si riferisce, che tratta De sancto Ambrosio. Raffigurato a mezzobusto con mitra e pastorale nella destra, e con l’altra mano appoggiata su un piano, con il volto e il busto ruotati leggermente verso la sua sinistra e un’espressione severa, è reso riconoscibile, come gli altri disegni, dalla didascalia in rosso «.s. Ambrosius». L’illustrazione a margine del testo voluta dall’autore — dal 1324 vescovo di Pozzuoli, dove giunge due anni dopo, e consigliere del re Roberto d’Angiò66 — attira l’attenzione su alcuni personaggi e fatti narrati. I disegni che illustrano il codice sono di un’unica mano o di una medesima officina napoletana, come si deduce dall’uniformità stilistica; diversa invece la mano che disegna le carte geografiche67. Nei manoscritti bizantini L’Oriente bizantino raffigura Ambrogio come vescovo, come per esempio nel Menologio di Basilio II e in un Lezionario, rispettivamente in una miniatura tabellare e in campo libero. Il cosiddetto Menologio di Basilio II, del sec. XI (mm 363 × 290 ca.), Vat. gr. 1613, uno dei maggiori capolavori della miniatura bizantina, ma in realtà un Sinassario, libro liturgico che riporta brevi notizie della vita dei santi del giorno, disposte secondo l’anno liturgico bizantino, a partire dal 1° settembre, da leggere nel “mattutino” (órthros), fu composto per l’imperatore Basilio II (976-1025) ed era originariamente costituito di due volumi con 430 miniature; ci è giunto soltanto il primo, relativo ai mesi settembrefebbraio. Le miniature, su fondo a foglia d’oro e delimitate da una cornice, occupano circa metà del foglio, e nello spazio rimanente è vergato il testo 66 E. Fontana, Paolino da Venezia, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXXI, Roma 2014, pp. 85-87. 67 B. Degenhart – A. Schmitt, Marino Sanudo und Paolino Veneto. Zwei Literaten des 14. Jahrhunderts in ihrer Wirkung auf Buchillustrierung und Kartographie in Venedig, Avignon und Neapel, in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte 14 (1973), pp. 1-137: pp. 96-122; I. Heullant-Donat, Entrer dans l’Histoire. Paolino da Venezia et les prologues des chroniques universelles, in Mélanges de l’École française de Rome 105 (1993), pp. 381-442 (alle pp. 430-431 la descrizione del codice).

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relativo al santo. Nonostante gli artisti bizantini avessero l’abitudine di rimanere anonimi, in questo codice le miniature sono invece firmate, o meglio attribuite all’autore da un calligrafo, fatto che denota la considerazione che l’imperatore aveva degli artisti. Lo stile è diverso, a seconda dell’artista che le ha realizzate, ma organici sono il programma iconografico, il rapporto tra testo e immagine, l’impostazione di ciascuna miniatura e la sua collocazione nel codice in modo tale che nelle pagine affrontate l’una non toccasse l’altra. I motivi in cui sono ambientate le scene sono ricorrenti: architettonici (generalmente in associazione alla tipologia del santo orante), paesaggistici (spesso associati alle scene bibliche, a quelle del martirio o del trasporto delle reliquie), talvolta integrati da illustrazioni di concili. A p. 227 (Tav. IX) il santo, all’interno di un riquadro (mm 124 × 177) collocato nella parte inferiore della pagina, è raffigurato come «orante e benedetto da Dio», in uno sfondo architettonico e paesaggistico insieme, realizzato da Michele Blachernita, uno degli otto artisti che hanno lavorato all’ornamentazione68. È ritratto all’orientale, di profilo e con le mani levate al cielo, indossa una veste bianca e il pallio, ha un volto molto espressivo e capigliatura e barba grigie, particolare, quest’ultimo, che in Occidente si diffonde solo più tardi, a partire dal Tardo Medioevo69. Dal cielo compare la mano di Dio benedicente. Il manoscritto vaticano tramanda la recensio B del Sinassario, che per Ambrogio riassume la vita precedente all’episcopato e l’elezione a vescovo e dedica ampio spazio al singolo episodio in cui Teodosio fu fermato da Ambrogio mentre si accingeva a entrare in chiesa dopo la strage di Tessalonica: tale scelta evidenzia la fortezza d’animo e la libertà di parola di Ambrogio, con cui egli si rapportava all’autorità imperiale70. Nel margine inferiore, come negli altri casi, si trova l’indicazione della data della festa e del nome del santo apposta per facilitare la consul68 

Sui miniatori del Menologio: A. Zacharova, Los ocho artistas del “Menologio de Basilio II”, in El Menologio de Basilio II: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1613, Libro de estudios con ocasión de la edición facsímil, dirigido por F. D’Aiuto, edición española a cargo de I. Pérez Martín, Città del Vaticano – Atenas – Madrid 2008, pp. 131195 (pp. 158-163 per Michele Blachernita; cfr. anche p. 326 nella tabella riassuntiva in fondo al volume), che riprendendo uno studio precedente propone anche una nuova attribuzione di alcune scene (indipendentemente dal nome dell’autore indicato nelle relative miniature). Sull’attenzione che l’Oriente bizantino riservò ad Ambrogio, più che agli altri padri della Chiesa, specificamente per i suoi scritti e il suo stile, e per episodi significativi della sua vita, oltre che per il prestigio della sede in cui aveva esercitato il suo ministero, si veda Le fonti greche su Sant’Ambrogio, a cura di C. Pasini, Milano – Roma 1990 (Tutte le opere di Sant’Ambrogio, Sussidi 24/1). 69 Piazza, Il volto di Ambrogio cit., pp. 98-99. 70 Le fonti greche su Sant’Ambrogio cit., pp. 231-232; A. Luzzi, El «Menologio de Basilio II» y el semestre invernal de la recensio B del sinaxario de Constantinopla, in El Menologio de Basilio II cit., pp. 47-52.

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tazione dei lettori occidentali da una mano del sec. XVI, diversa da quella che verga l’elenco dei santi in ordine alfabetico anteposto al Sinassario, di Leone Allacci (1588 ca.-1669), scriptor Graecus (coadiutore dal 1618, scriptor dal 1619), poi secondo (dal 1660) e primo (dal 1661) custode della Vaticana71. In campo libero, sempre a figura intera ma di piccole dimensioni, si trova invece nel lussuoso Lezionario della fine del sec. XI, Vat. gr. 1156 (mm 353 × 273 ca.), prodotto probabilmente a Costantinopoli, contenente una sezione sinassariale (pericopi evangeliche per il ciclo delle feste mobili, da Pasqua a Sabato santo) e una sezione menologica per le feste dei santi. Il ricco apparato illustrativo è costituito da miniature a piena pagina (tra cui quelle degli evangelisti, che scandiscono le quattro sezioni previste dall’uso liturgico bizantino) e tabellari, e da miniature in campo libero, marginali o intercalate al testo, che illustrano le feste fisse tramite singole figure o scene più elaborate. Una sorta di ‘calendario figurato’, notevole nel panorama della miniatura bizantina72, fitto di santi, in particolare nei primi mesi, tra i quali si trova anche Ambrogio, al f. 270v (Tav. X), penultima figura nella prima colonna: è raffigurato (in uno spazio di mm 42 × 18 ca.) frontale e benedicente, con barba e capelli bianchi — che si intravedono nonostante la caduta di pigmento in corrispondenza della parte alta del volto —, con il pallio e un libro in mano. Ambrogio vescovo tra i dottori della Chiesa Come vescovo è raffigurato frequentemente anche insieme agli altri dottori della Chiesa latina. La canonizzazione dei quattro ‘pilastri’ della 71 F. D’Aiuto, El «Menologio de Basilio II» como libro: un estudio paleográfico y codicológico, in El Menologio de Basilio II cit., pp. 91-130: p. 92 e nt. 8. Su Allacci in Vaticana: Th. Cerbu, Tra servizio e ambizione: Allacci studioso e bibliotecario nella corrispondenza con Antonio Caracciolo, in Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, III, La Vaticana nel Seicento (1590-1700): una biblioteca di biblioteche, pp. 175-198; D. Surace, Vita e opere di Leone Allacci, in Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, III cit., pp. 199-204. 72 M. D’Agostino, Lezionario, in Oriente cristiano e santità. Figure e storie di santi tra Bisanzio e l’Occidente [catalogo di mostra, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, 2 luglio – 14 novembre 1998], a cura di S. Gentile, [Milano] 1998, pp. 172-175; F. D’Aiuto, Tetravangelo. Greco, in Vangeli dei popoli. La Parola e l’immagine del Cristo nelle culture e nella storia [catalogo di mostra, (Roma), Città del Vaticano, Palazzo della Cancelleria, 21 giugno – 10 dicembre 2000], a cura di F. D’Aiuto, G. Morello, A. M. Piazzoni, Città del Vaticano – Roma 2000, pp. 244-248. In particolare sul tipo di illustrazione del lezionario, strettamente collegata alla sua funzione liturgica, si vedano: M.-L. Dolezal, The Middle Byzantine Lectionary: Textual and Pictorial Expression of Liturgical Ritual. A dissertation [...], University of Chicago 1991 (pp. 260-290 et passim sul Vat. gr. 1156); ead., Illuminating the Liturgical World. Text and Image in a Decorated Lectionary (Mount Athos, Dyonision Monastery Cod. 587), in Word and Image 12, 1 (1996), pp. 23-60.

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Chiesa risale a Bonifacio VIII (1295), secondo un primato già formalizzato da Beda il Venerabile e attestato già dal sec. VIII73 (sul versante orientale si trovano spesso altre quattro figure: Atanasio, Basilio, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo). A differenza di Gregorio e Girolamo, facilmente identificabili, Ambrogio e Agostino sono frequentemente ritratti senza attributi distintivi, quindi non sempre distinguibili tra loro. Insieme, raffigurati in gruppo, rappresentano l’autorità e le gerarchie della Chiesa, e in virtù di tale valore simbolico possono essere inseriti in testi di genere diverso. Un esempio piuttosto antico è costituito dai tondi disseminati, tra tanti altri simboli, al f. 16r del Pal. lat. 565 (mm 275 × 180) (Tav. XI), del sec. XII (Frankenthal [ff. 1r, 82v, 133v], 1150-1555 ca.)74, contenente lo Speculum virginum seu Dialogus cum Theodora virgine75. In quest’opera didatticoallegorica attribuita a Konrad von Hirsau76, scritta in forma di dialogo (tra l’insegnante spirituale Peregrinus e Theodora), essi simboleggiano i cardini della fede accanto ai protagonisti biblici della storia di salvezza. Il testo è corredato da dieci disegni che occupano tutta o gran parte della pagina, in marrone, nero, rosso, giallo. Al f. 16r il Paradiso mistico (mm 195 × 180) è presentato in una raffigurazione concentrica che ha il fulcro nel volto di Gesù con il libro della Parola aperto, su cui si legge «Si quis sitit veniat et bibat»; vi sono raffigurati i protagonisti delle beatitudini, i simboli degli Evangelisti, le personificazioni delle quattro virtù cardinali, e dei quattro fiumi del Paradiso. I dottori della Chiesa si trovano all’interno di medaglioni sorretti dalla mano sinistra delle personificazioni dei fiumi, mentre la mano destra sostiene i medaglioni con gli evangelisti. Ambrogio è associato al simbolo di Luca — come di frequente anche nella pittura — ed è sorretto da Phison; nimbato e con la mitra (nella forma diffusa all’epoca), stringe il pastorale nella destra e tiene nella sinistra un libro con l’abbre-

73 Per esempio Aurenhammer, Lexicon cit., p. 100; L. Morganti, Dottori della Chiesa, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, V, Roma 1994, pp. 716-719; Iconografia agostiniana, XLI, 1, Dalle origini al XIV secolo, di A. Cosma – V. Da Gai – G. Pittiglio, Roma 2011 (Opera omnia di Sant’Agostino, parte V: sussidi), pp. 130-131, 155 et passim. 74 A. Cohen-Mushlin, Speculum Virginum, in Bibliotheca Palatina [catalogo di mostra, 8 luglio – 2 novembre 1986], hrsg. von E. Mittler in Zusammenarbeit mit W. Berschin [et al.], Textband, Heidelberg [1986], pp. 500-501; ead., A Medieval Scriptorium: Sancta Maria Magdalena de Frankendal, I, Text, Wiesbaden 1990 (Wolfenbütteler Mittelalter-Studien, 3), pp. 202-206 et passim, per la descrizione del manoscritto, il “copista A” e il rapporto tra il manoscritto vaticano con Köln, Historisches Archiv, W 276a e London, British Library, Arundel 44. 75 Iconografia agostiniana cit., XLI, 1, pp. 356-357. 76 Cfr. per es. G. Glauche, Konrad v. Hirsau, in Lexikon des Mittelalters, V, Stuttgart [1977]-1999, coll. 1359-1360; G. Roth – J. Seyfarth, Speculum virginum, ibid., VII, coll. 2090-2091.

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viazione del proprio nome, come anche Agostino (con Giovanni), Gregorio (con Marco) e Girolamo (con Matteo). Inserito nel gruppo dei quattro, oppure con Francesco, Ambrogio si trova nel manoscritto illustrato e autografo dello stravagante chierico pavese Opicino de Canistris (1296-1352 ca.), Pal. lat. 1993, databile agli anni 1335134277, composto da 27 fogli di pergamena di grande formato, attualmente conservati sciolti (il volume doveva essere di mm 555 × 465 ca.). «Imagines» definiva genericamente l’opera l’autore. Le tavole risalgono a un periodo in cui Opicino, che dal 1329 risiedeva presso la Curia ad Avignone, era gravato dalla malattia: i suoi tormenti si riflettono nelle frequenti citazioni dal libro di Giobbe, e in paradossali e singolari associazioni di parole, tra realtà, fantasia e manie apocalittiche. Le tavole si ispirano ai portolani ma sono corredate da didascalie e citazioni di passi biblici o dei padri della Chiesa, etimologie dei toponimi, da una ricca simbologia mistico-religiosa, e spesso le terre sono rappresentate in forma umana. In questo complesso sistema allegorico, si trovano anche i quattro dottori, che insieme a varie altre figure sono collocati in un sistema di cerchi concentrici e simmetrie, talvolta accompagnati da didascalie, e simboleggiano il cuore (o la base) della Chiesa. Raffigurati a mezzobusto o di tre quarti, disposti generalmente in cerchio, ma in ordine non sempre identico, essi si trovano in particolare nei seguenti fogli78. Al f. 3v, dove Opicino stabilisce una sorta di parallelismo tra Francesco e Ambrogio («Apud deum nulla est differentia inter Ambrosium et Franciscum») in base alla simmetria delle date in cui cadono le rispettive feste, 4 ottobre e 4 aprile, segnate accanto ai loro ritratti. Al f. 4v, nella rappresentazione della Lombardia, terra di origine dell’autore, dove i dottori della Chiesa sono identificati da un’iscrizione e accompagnati da passi del Vangelo e delle loro opere: Ambrogio, in posizione speculare rispetto a Gregorio — piuttosto che rispetto ad Agostino, come più frequentemente —, è rappresentato frontale, con lo sguardo rivolto alla sua destra, il pastorale e il libro. Al f. 17v, dove i quattro dottori — Ambrogio è regolarmente di fronte ad Agostino, con il libro e il pastorale — sono identificati dalle iscrizioni del loro nome e raffigurati all’interno di un articolato sistema di cerchi concentrici e di figure simboliche (due crocifissi simmetrici, Cristo morto e Cristo vivo, Maria, pianeti, metalli, 77 R. Salomon, Opicinus de Canistris, Weltbild und Bekenntnisse eines avignonesischen Klerikers des 14. Jahrhunderts, London 1936 (rist. Lichtenstein 1969), I-II, I, p. 19. 78 Per la descrizione dettagliata di questi fogli: Salomon, Opicinus de Canistris. Weltbild cit., pp. 160-165 (Tafel 4 = f. 3r), 169-172 (Tafel 7 = f. 4v), 247-249 (Tafel 32 = f. 17v), 252-254 (Tafel 35 = f. 18r), 278-282 (Tafel 46 = f. 24r), 282-285 (Tafel 47 = f. 24v); D. Hauck, Die Karten des Opicinus de Canistris – eine rätselhafte Mischung von Geographie und mittelalterlicher Mystik, in Bibliotheca Palatina cit., pp. 322-323; Iconografia agostiniana cit., XLI, 1, pp. 410-412.

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autori delle varie regulae: Benedetto, Basilio, Agostino, Francesco), attorno al fulcro costituito da Maria con il Bambino. Al f. 18r, diviso in due ovali, con la mappa della Terra da un lato e l’immagine di Maria-Ecclesia circondata dai simboli degli evangelisti e dai dottori della Chiesa identificati dai nomi e da titoli di opere, disegnati lungo i bordi esterni, come metaforici punti cardinali: Ambrogio, con libro e pastorale, è di fronte a Girolamo. Al f. 24r (Tav. XII), la cui struttura ricorda quella del f. 17v, con una grande figura che simboleggia la Chiesa e, in corrispondenza del suo volto, una ruota con i quattro dottori e i rispettivi nomi: Ambrogio e Agostino, con le vesti colorate di marrone, sono collocati uno di fronte all’altro e accomunati dall’incipit del Te Deum, scritto sopra i rispettivi ritratti, variante di un’iconografia attestata proprio per l’incipit dell’Inno79. Al f. 24v, ancora in un sistema di cerchi concentrici con cui vengono raffigurate le relazioni tra il divino, il mondo, la Chiesa, Ambrogio è accanto ad Agostino in una ruota che costituisce il basamento della Chiesa («columnae Ecclesiae»), su cui poggia i piedi la figura del papa. Dal sec. XIV l’iconografia dei padri diventa usuale e dopo il Concilio di Trento riceve un ulteriore impulso, in quanto i quattro assumono il ruolo di garanti dell’ortodossia cattolica80. Nel gruppo sono presentati generalmente come vescovi, ma anche nella veste di vescovo-scriba, e Ambrogio può essere raffigurato anche in una tipologia diversa rispetto a quella adottata per gli altri tre. Tondi con i loro volti sono frequenti nei libri liturgici, come per esempio nella cornice del f. 189r del Messale del Card. Bertrand de Deux, Arch. Cap. S. Pietro B.63 (mm 352 × 256 ca.) (Tav. XIII), attorno alla scena principale della Crocifissione, a tutta pagina, ambientata nel momento in cui Gesù viene colpito al costato, in corrispondenza del Te igitur81, a fronte della Maiestas Domini (f. 188v). Il codice è della prima metà del sec. XIV (la nomina cardinalizia di Bertrand è del 133882), probabilmente commissionato da Fontanier de Vassal, ministro generale (1343-1348) dei Francescani, a Bologna, come dono per il cardinale. Contiene, oltre al calendario, il Temporale dalla I di Avvento alla XXIV dopo Pentecoste, il Santorale da s. Andrea a s. Caterina, il Comune dei santi, messe per la dedicazione, messe 79 Per

es. Manzari, Tipologie cit., pp. 108, 166-168. 80 M. Marubbi, Illustrare i Padri, in Leggere i Padri tra passato e presente. Atti del Convegno internazionale di studi, Cremona, 21-22 novembre 2008, a cura di M. Cortesi, Firenze 2010 (Millennio medievale, 88), pp. 157-169; Iconografia agostiniana cit., XLI, 1, p. 155. 81 P. Vian, Messale del card. Bertrand de Deux, in Maria. Vergine, Madre, Regina. Le miniature medievali e rinascimentali [catalogo di mostra, Roma, Biblioteca Vallicelliana, dicembre 2000 – febbraio 2001], a cura di C. Leonardi, A. Degl’Innocenti, [Milano] 2000, pp. 253-258. 82 Hierarchia Catholica cit., I, p. 17.

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votive e per i defunti. I padri incorniciano dunque il momento centrale della liturgia della Messa, e anche in questo caso Ambrogio è collocato al margine inferiore (in un tondo dal diametro di mm 40), insieme ad Agostino; essi non risultano chiaramente distinti: l’uno, nell’angolo destro, scrive, vestito di rosso, mentre l’altro, con il libro ancora chiuso, appuntisce la penna con il taglierino; sono raffigurati su fondo blu, attorniati da raggi d’oro, rivolti verso l’interno del foglio, e accomunati dalla veste di scriptor. Tale tipologia, frequentemente adottata per i padri della Chiesa, qui presenta una variante: sono tutti intenti nella scrittura tranne uno (Ambrogio o Agostino), ritratto nel momento precedente, mentre si prepara a scrivere. Sulla cornice sono distribuiti altri santi e, al centro, nei margini superiore e inferiore, i simboli della vita e della morte. L’ornamentazione, di area bolognese, è stata a lungo attribuita a Niccolò da Bologna, poi al “Maestro del 1346”, da questo distinto83, formatosi alla scuola dell’“Illustratore”; egli avrebbe operato forse in occasione del trasferimento di Bertrand de Deux a Napoli, nel 1346, come legato e vicario apostolico. Una variante è costituita da una miniatura in cui Ambrogio è raffigurato come vescovo ma dotato sia di un attributo identificativo del santo sia degli strumenti scrittori, ed affiancato da uno scriba, all’interno di una cornice in cui si trovano anche gli altri dottori della Chiesa: nell’incipit del primo volume dei tre che costituiscono la Bibbia commissionata dall’abate dei Celestini Matteo Planisio, Vat. lat. 3550, pt. 1 (mm 386 × 268 ca.), f. 1r (Tav. XIV). Il committente è riconoscibile dall’iniziale e dal monogramma che ricorrono negli intrecci della decorazione (per es. ai ff. 59r, 67r, 101v). La Bibbia fu scritta e completata nel 1362 dal sacerdote Giorgio di Napoli, secondo quanto risulta dal colophon (Vat. lat. 3550, pt. 3, ff. 720v-721r)84. Appartenne al cardinale (1568 [Bibliotecario dal 1585]-1591) Antonio Carafa (stemma ai ff. IIr, 6r), che ne fece dono alla Vaticana (f. 6r). Al f. 1r sono raffigurati i dottori della Chiesa distribuiti in diverse collocazioni85. 83 M. Medica, Maestro del 1346, in Dizionario biografico dei miniatori italiani cit., pp. 475-476; id., Maître de 1346 (Bologne, première moitié du XIVe siècle), Missel du cardinal Bertrand de Deux, in Bologne et le pontifical d’Autun. Chef d’oeuvre inconnu du premier Trecento, 1330-1340 [catalogo di mostra, Autun, Musée Rolin, 12 settembre – 9 dicembre 2012], commissariat scientifique F. Avril, B. Maurice-Chabard, M. Medica, Langres 2012, pp. 94-99. 84 Per la discussione sulla datazione: A. Bräm, Neapolitanische Bilderbibeln des Trecento: Anjou-Buchmalerei von Robert dem Weisen bis zu Johanna I., Wiesbaden 2007, I, p. 403. 85 Ormai identificati come tali, ma in passato le interpretazioni sono state diverse, per es.: R. Tozzi, La Bibbia dell’abate Matteo de Planisio e la miniatura napoletana del XIV secolo, Città del Vaticano 1936. Si vedano anche S. Magrini, La Bibbia di Matheus de Planisio (Vat. lat. 3550, I-III): documenti e modelli per lo studio della produzione scritturale in età angioina, in Codices manuscripti 50-51 (2005), pp. 1-16; F. Manzari, Un nuovo foglio miniato della bottega di Orimina, un Graduale smembrato e la figura di un anonimo miniatore napoletano del

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Girolamo occupa un posto di rilievo, come anche più avanti (ff. 4v, 106r), raffigurato nell’iniziale F (Frater Ambrosius) dell’epistola a Paolino, mentre gli altri si trovano nei riquadri all’interno della cornice: nel margine esterno Agostino e, molto probabilmente, papa Bonifacio VIII86; nel margine inferiore, al centro, la Trinità nella mandorla attorniata da angeli e tre religiosi, e ai lati i riquadri con Gregorio Magno (a sinistra) e Ambrogio (a destra, mm 71 × 68). La tipologia iconografica dei dottori della Chiesa come scribi seduti nello studio è comune, ma originali risultano la raffigurazione dei padri vincitori sull’eresia, simboleggiata dal personaggio sottomesso, disteso a terra vicino ai loro scritti, e la loro collocazione nel primo foglio della Bibbia. Sono inoltre accompagnati da uno scriba e da un angelo in volo che reca oggetti simbolici ad essi legati. Ambrogio è seduto davanti al personaggio intento nella scrittura, e sul proprio piano scrittorio, accanto all’atramentarium, si trovano due volumi chiusi, nonostante la mano destra, sollevata in un elegante gesto, tenga la penna sospesa come in attesa dell’ispirazione per scrivere; nella sinistra (piuttosto che nella destra, come più di frequente nell’iconografia del santo) egli brandisce il flagello. Alla sua destra un angelo vola recando in mano uno strumento musicale87, che allude al ruolo del santo come fondatore dell’innologia occidentale88; in basso, oltre all’eretico disteso e sottomesso, vi sono dei volumi, alcuni dei quali aperti. Il programma iconografico del codice prevedeva una ricca ornamentazione rimasta incompiuta, costituita da scene istoriate a fondo pagina, cornici e fregi marginali e iniziali istoriate, attribuita al napoletano Cristoforo Orimina, attivo dall’inizio degli anni Trenta del sec. XIV. La Bibbia di Planisio è una delle opere più tarde dell’artista, riconducibile ai

Trecento, in Storie di artisti, storie di libri. L’editore che inseguiva la bellezza. Scritti in onore di Franco Cosimo Panini, Roma 2008, pp. 293-312: pp. 295-296; G. Corso, Cristoforo Orimina e bottega, Bibbia latina, Antico Testamento, Volume I (Ottateuco-Re), in Giotto e il Trecento. “Il più Sovrano Maestro stato in dipintura”. Le opere [catalogo di mostra, Roma, Complesso del Vittoriano, 6 marzo – 29 giugno 2009], a cura di A. Tomei, Milano 2009, pp. 300-303. 86 Secondo alcuni il papa qui raffigurato sarebbe Celestino V e il santo con il saio accanto a Maria, nel margine inferiore, sarebbe Francesco; per altri quest’ultima figura è da identificare con papa Celestino V (si veda il particolare della tiara sospesa sulla sua testa) e il papa nell’altro riquadro sarebbe invece Bonifacio VIII: cfr. per esempio Magrini, La Bibbia di Matheus cit. 87 Bräm, Neapolitanische Bilderbibeln cit., I, pp. 25-26, per gli oggetti simbolici di ciascun personaggio portati dagli angeli nelle relative scene. Nel caso di Ambrogio lo strumento musicale è identificato con la lira (ma il disegno stilizzato non permette di stabilire con esattezza di quale strumento si tratti). 88 Su cui si vedano per esempio A. Franz, Ambrosius als Hymnendichter, in Lexikon für Theologie und Kirche, I, Freiburg – Basel – Rom – Wien 1993, col. 497; C. Pasini, Gli inni di sant’Ambrogio, in La città e la sua memoria cit., pp. 219-228.

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primi anni Sessanta del sec. XIV, nonostante parte della critica abbia voluto retrodatare di circa vent’anni l’apparato illustrativo89. Nel già menzionato Breviario di Mattia Corvino, Urb. lat. 112, all’inizio del Salterio — contraddistinto, come di consueto, dalla miniatura tabellare raffigurante Davide in preghiera —, al f. 279r i dottori della Chiesa (agli angoli), insieme ai santi Domenico e Francesco (nella parte mediana), sono distribuiti nella cornice di una pagina riccamente miniata, secondo uno schema ricorrente in questo lussuoso volume: le principali miniature sono ornate da cornici dove sono disseminati, oltre agli stemmi di Mattia Corvino e a vari elementi decorativi, piccoli riquadri con profeti, evangelisti, santi e varie personificazioni. In questo caso i padri sono rivolti verso il centro del foglio, ciascuno con una propria espressione del volto. In alto a sinistra Agostino, con la cocolla nera eremitana, a destra Girolamo, con il cappello cardinalizio, in basso a sinistra Gregorio, che si distingue dagli altri per la tiara papale, il pallio e il libro aperto verso l’osservatore, piuttosto che chiuso come nel caso degli altri tre, e di fronte a lui Ambrogio (mm 50 × 37), con la mitra, il piviale rosso, con cui è raffigurato anche, come si è visto, al f. 351r, le mani coperte da guanti rossi ornati da un ovale dorato che stringono un volume rilegato in blu e fermagli metallici. I due santi nel margine inferiore hanno un incarnato molto chiaro e un’espressione malinconica, sono entrambi imberbi, particolare, questo, che sembra poco frequente nelle miniature di quest’epoca. L’iconografia di Ambrogio glabro potrebbe essere una ripresa umanistica di modelli antichi, sopra citati; ebbe poi ampia diffusione in epoca borromaica, in quanto simbolo di una vexata quaestio (è del 1576 il decreto De barba radenda di Carlo Borromeo, relativo all’uso del clero)90. L’uso contestuale, nello stesso manoscritto, di due iconografie diverse non sorprende se confrontato con quanto avviene nelle altre arti figurative: dal sec. XII l’iconografia sposta l’attenzione dalla ricerca della verosimiglianza dell’aspetto fisico — che dunque presenta diverse varianti — al ruolo del santo vescovo, del pastore, del difensore dell’ortodossia, dell’autore di opere; l’abito vescovile rimarrà costantemente presente91. Un altro esempio simile, e ancora in un testo liturgico, è il f. 305r del Barb. lat. 610 (Tav. XV), lussuoso Messale per il Battistero di Firenze, data89 Iconografia agostiniana cit., XLI, 1, pp. 412-413; A. Perriccioli Saggese, Orimina, Cri-

stoforo, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXIX, Roma 2013, pp. 494-497. Per una datazione coerente con il colophon si è espressa invece giustamente Francesca Manzari: Manzari, Un nuovo foglio miniato cit., pp. 295-296. 90 Su questo si veda per esempio Albuzzi, La barba di Ambrogio cit., pp. 155-201. 91 Zuffi, Un volto che cambia cit., pp. 13-14.

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bile agli anni 1494-1502, miniato da Monte di Giovanni92 e vergato da Zenobio Bartolomeo Moschino (f. 388v). I tondi raffiguranti i padri, incastonati tra motivi ornamentali costituiti da perle e pietre preziose, sono distribuiti nella cornice di una miniatura a tutta pagina (mm 364 × 255) con il protagonista iconografico del codice, S. Giovanni Battista, raffigurato in trono attorniato da angeli, sullo sfondo di un paesaggio. La miniatura, collocata all’interno del Santorale, in corrispondenza della memoria del martirio del santo, mostra tutte le qualità pittoriche di Monte di Giovanni, che fu anche pittore e mosaicista. Nella cornice, in cui prevalgono il blu, il rosso e il verde come nel quadro principale, fitta di elementi decorativi, di simboli, insegne e personaggi, i quattro padri sono collocati non in corrispondenza degli angoli, come di frequente, ma lateralmente, distribuiti in modo simmetrico nella fascia centrale, all’interno di tondi bordati d’oro (mm 30): Gregorio e Girolamo — identificati rispettivamente dalla colomba ispiratrice, oltre che dalla tiara, e dal cappello rosso sul retro — all’altezza della testa del Battista, e i vescovi Ambrogio e Agostino in corrispondenza dei piedi; sono tutti accomunati dal medesimo sfondo, bipartito tra l’azzurro del cielo e un elemento ligneo il cui piano orizzontale è marcato da linee dorate, e distinti, oltre che dagli elementi identificativi, anche dal colore delle vesti (giallo, marrone, verde, rosso). Pur essendo raffigurati, come di consueto, per il valore simbolico assunto dal gruppo dei padri, i loro ritratti non si presentano come immagini puramente decorative, ma sembrano superare l’immobilismo dei medaglioni e della cornice in cui sono inseriti, dialogando con l’osservatore e con la scena principale attraverso alcuni espedienti: le varie espressioni e inclinazioni dei volti, gli sguardi orientati in direzioni diverse, un elemento (il supporto scrittorio di Girolamo) che deborda dalla circonferenza del tondo. Ambrogio e Agostino, entrambi con la barba (biondo-castana nella figura di sinistra, grigio scuro in quella di destra), con il pastorale, ma uno solo di loro con il libro, non presentano elementi distintivi, come avviene spesso anche nelle altre arti figurative. In particolare proprio nel Battistero fiorentino i dottori della Chiesa sono raffigurati, oltre che nei riquadri a mosaico, che sono tra le più antiche immagini del gruppo, dove i singoli sono identificati dai nomi, anche nelle formelle della porta nord, di Lorenzo Ghiberti, dove non è possibile distinguere Ambrogio da Agostino93. Nella fascia inferiore del foglio del Messale, inoltre, la cornice si amplia con le scene della decapitazione di Giovanni, ambientate nel contesto architettonico della Firenze contemporanea. 92 A. Rorro, Messale per il Battistero di Firenze, in Liturgia in figura cit., pp. 270-274; D. Galizzi, Monte di Giovanni, in Dizionario biografico dei miniatori italiani cit., pp. 798-801. 93 Si veda per es. Leoncini, Iconografia di Sant’Ambrogio cit., in particolare pp. 57-59.

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La cornice con i padri nei cantoni ritorna in un Messale più tardo, della metà del sec. XVI (al f. 1r gli stemmi di Paolo III Farnese [1534-1549], di Carlo V [1530-1556] e di Bernardino della Croce, vescovo di Como dal 1548 al 1559), Arch. Cap. S. Pietro I.16 (mm 412 × 284 ca.), al f. 87r, in apertura della Passione e a fronte di una miniatura a tutta pagina con la Crocifissione, a sua volta collocata all’interno di una cornice simile. Agli angoli del f. 87r si trovano in alto Gregorio e Girolamo, in basso Ambrogio e Agostino, disegnati a biacca all’interno di riquadri neri (mm 42 × 23): Ambrogio è inconfondibile perché stringe nella destra il flagello, al posto del pastorale, che in questo caso richiama il flagello raffigurato insieme ad altri simboli della Passione di Gesù nel campo, anch’esso nero, dell’iniziale I, I(n) illo tempore, nel medesimo foglio. Alla tecnica a grisaille riservata ai padri, si contrappongono le tinte vivaci usate per Pietro e Paolo, inseriti nei riquadri sui lati lunghi della cornice. Anche nei testi giuridici si possono trovare i quattro dottori della Chiesa: nel Vat. lat. 2260 (mm 423 × 282 ca.), f. 1r (Tav. XVI) sono all’interno di una scena sacra nell’incipit del volume. Il codice, contenente il commento al Decretum Gratiani del canonista Giovanni Antonio Sangiorgio, vescovo di Alessandria, poi uditore di Rota e infine cardinale (1493)94, è un esemplare di dedica offerto a papa Alessandro VI (1492-1503), di cui fu preparata l’edizione a stampa (Roma, Andreas Freitag, 1493), progettata e studiata insieme al manoscritto. Il raro volume è presente in Vaticana in due esemplari, di cui solo uno completo (Inc. S.248): nell’edizione la disposizione del testo è la stessa, una xilografia riproduce la pagina iniziale miniata con poche varianti; per Ambrogio l’unica modifica riguarda il libro, aperto invece che chiuso95. Al f. 1r si trova una miniatura tabellare, che occupa metà dello specchio scrittorio con l’Incoronazione della Vergine (mm 178 × 188), attribuita da una parte della critica a Pinturicchio e da un’altra parte a Bartolomeo Caporali96: la Vergine è attorniata dagli evangelisti con i rispettivi simboli (ai quattro angoli) e dai dottori (tra gli evangelisti). Invece di essere distribuiti in riquadri autonomi della cornice, gli otto personaggi si trovano all’interno della scena, alternandosi tra di loro 94 S.

Kuttner – R. Elze, A Catalogue of Canon and Roman Law Manuscripts in the Vatican Library, I, Città del Vaticano 1986 (Studi e testi, 322), pp. 291-292. 95 L. Michelini Tocci, Dalla miniatura all’incisione: un manoscritto di dedica ed una editio princeps romani, in Studi di Storia dell’arte, bibliologia ed erudizione in onore di Alfredo Petrucci, Milano 1969, pp. 81-88 (p. 87 nt. 23 per gli esemplari vaticani dell’edizione a stampa). 96 R. Bentivoglio-Ravasio, Bernardino di Benedetto di Biagio Bardi detto il Pinturicchio, in Dizionario biografico dei miniatori italiani cit., pp. 96-97: p. 97; Pinturicchio, Incoronazione della Vergine con Dottori della Chiesa ed Evangelisti, in Iconografia agostiniana cit., XLI, 2, secondo tomo, p. 38, dove si dà notizia anche della versione a stampa (Roma, Andreas Freitag, 1493, f. 37v, xilografia).

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in una sorta di ampliamento del coro dei cherubini che circondano Dio Padre mentre incorona Maria97; essi sono disposti idealmente ai vertici di una croce, piuttosto che agli angoli di una cornice. Ambrogio è raffigurato con la mitra, la barba bianca e un volume in mano e si distingue da padri ed evangelisti perché, invece di essere munito di penna e calamaio come tutti loro, brandisce il flagello: l’elemento identificativo, posto in evidenza anche per le dimensioni, in questo caso prende il posto dello strumento scrittorio determinando una variante rispetto all’iconografia che accomuna gli altri componenti del gruppo. Nella collocazione speculare, sul lato opposto, si trova Girolamo, contraddistinto dal leone. I due santi occupano una posizione di rilievo nella miniatura, Ambrogio alla sinistra di Dio Padre e Girolamo alla destra di Maria. Dottori della Chiesa ed evangelisti, trasferiti dalla cornice alla scena principale, vi partecipano da vicino pur mantenendo la valenza simbolica del gruppo a cui appartengono. *  *  * Da questa indagine condotta sui manoscritti vaticani emerge che Ambrogio è raffigurato prevalentemente in codici di area centro-settentrionale, in gran parte, anche se non solo, lombardi, nel periodo compreso tra il XII e il XVI secolo, e in particolare nel XIV98 (quando, tra l’altro, si stabilizza e si diffonde l’iconografia del gruppo dei quattro dottori della Chiesa) e XV secolo. Ambrogio è innanzitutto vescovo (Vat. lat. 8541, ff. 74v-75r, Vat. lat. 6451, f. 66v, Barb. lat. 599, f. 65v, Arch. Cap. S. Pietro B.46, f. 46r, Vat. lat. 290, f. 50r, Vat. lat. 13394, f. 2r, Urb. lat. 41, f. 2r, Arch. Cap. S. Pietro B.82, f. 263v, Vat. lat. 9236, f. 1r, Urb. lat. 112, f. 597r, Chig. D.IV.55, f. 56v, Ross. 93, f. 54v, Vat. lat. 1960, f. 191r, Vat. gr. 1613, p. 227, Vat. gr. 1156, f. 270v): la tipologia iconografica nettamente prevalente — e l’unica individuata tra i manoscritti greci — è quella che lo presenta con mitra e pastorale (e libro), utilizzata anche nel caso in cui egli sia raffigurato nel gruppo dei quattro dottori della Chiesa (Pal. lat. 565, f. 16r, Pal. lat. 1993 passim, Urb. lat. 112, f. 279r, Barb. lat. 610, f. 305r, Vat. lat. 2260, f. 1r, Arch. Cap. S. Pietro I.16, f. 87r); in questa veste è identificabile nella maggior parte dei casi in base al testo, al contesto iconografico o alle “didascalie”, e talvolta (e, nei manoscritti qui esaminati, soltanto in alcuni dei secc. XV e XVI) per la pre97 Per la raffigurazione dei padri nelle scene mariane nella pittura dei secoli XV e XVI (nel sec. XVI la loro presenza è significativa all’interno della diatriba immaculista), si veda Marubbi, Illustrare i Padri cit., pp. 166-167. 98 Lo stesso dato è stato riscontrato anche per l’iconografia di Agostino: Iconografia agostiniana cit., XLI, 1, passim.

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senza del flagello, generalmente tenuto nella mano destra, come elemento inerte (Vat. lat. 13394, f. 2r, Chig. D.IV.55, f. 56v, Ross. 93, f. 54v) o, con allusione alla funzione specifica, sollevato e brandito come un’arma (Vat. lat. 2260, f. 1r, Vat. lat. 3550, pt. 1, f. 1r, Arch. Cap. S. Pietro I.16, f. 87r), oppure appeso al pastorale come attributo specifico del santo ma con una funzione puramente evocativa (Vat. lat. 9236, f. 1r). Diffusa, ma meno frequente tra i codici considerati, la tipologia dello scriba o evangelista (Vat. lat. 268, f. Iv), che è la più antica, con le varianti del vescovo-scriba, insieme agli altri tre dottori della Chiesa (Arch. Cap. S. Pietro B.63, f. 189r, Vat. lat. 3550, pt. 1, f. 1r), e del santo seduto in preghiera (Vat. lat. 275, f. 1r). Quest’ultima costituisce l’esempio di raffigurazione più attinente al testo, in quanto instaura uno stretto nesso tra la variante iconografica e il tipo di opera ambrosiana in cui è collocata. Tra le scene relative alla sua biografia, si trova anche Ambrogio neonato (Vat. lat. 8541, f. 74v) nell’unico caso in cui la rappresentazione figurativa è preponderante, ovvero dove l’immagine non illustra un testo ma, viceversa, il “testo” è costituito dalla miniatura e una breve rubrica illustra l’immagine. Complessivamente non si rileva una corrispondenza sistematica tra iconografia e genere testuale: in un medesimo genere di testo si possono trovare diverse tipologie iconografiche. Le sembianze con cui egli è rappresentato sono ricorrenti e riconducibili al modello della figura autorevole di vescovo e padre della Chiesa. Il particolare della barba bianca compare presto in ambito greco, mentre nei manoscritti latini si notano alcune diversità secondo le epoche: nei codici più antichi la barba è spesso assente e l’aspetto è giovanile, mentre dal Trecento in poi — con un’eccezione più tarda (Urb. lat. 112) — prevalgono la barba canuta e l’aspetto maturo. Le iniziali costituiscono la collocazione più frequente della raffigurazione di Ambrogio come singolo (a mezzobusto, a figura intera e anche in una scena con il committente del volume): vi compare come ritratto d’autore, nell’incipit di sue opere o di omelie da queste tratte (Vat. lat. 6451, f. 66v, Arch. Cap. S. Pietro B.46, f. 46r; Vat. lat. 290, f. 50r, Vat. lat. 13394, f. 2r; Urb. lat. 41, f. 2r; Vat. lat. 275, f. 1r) o come oggetto del testo, nei testi liturgici e agiografici (Barb. lat. 599, f. 65v, Arch. Cap. S. Pietro B.82, f. 263v, Vat. lat. 9236, f. 1r, Urb. lat. 112, f. 351r). Un’interessante eccezione si verifica negli incipit delle Ore dell’Ufficio della Vergine in due libri d’Ore di area lombarda (Chig. D.IV.55, f. 56v, Ross. 93, f. 54v), in cui Ambrogio da un lato è reso ben identificabile grazie ad attributi iconografici specifici, dall’altro sembra non avere alcun legame diretto con il testo in cui si trova. Una variante, dunque, non solo rispetto all’uso iconografico ambrosiano, ma anche rispetto al programma figurativo dei libri d’Ore, dove le miniatu-

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re dei singoli santi sono solitamente collocate in corrispondenza dei suffragi piuttosto che delle Ore, che solitamente presentano invece temi diversi. Un’altra collocazione frequente è costituita da tondi o riquadri (Arch. Cap. S. Pietro B.63, f. 189r, Vat. lat. 3550, pt. 1, f. 1r, Urb. lat. 112, f. 279r, Barb. lat. 610, f. 305r, Arch. Cap. S. Pietro I.16, f. 87r), che presentano Ambrogio insieme agli altri tre dottori della Chiesa, distribuiti attorno a una scena principale, in particolare nella Bibbia, nei testi liturgici, nei testi di tipo storico-enciclopedico, didattico-allegorico, “cartografico”. L’ampia varietà di testi in cui i padri sono inseriti è dovuta al fatto che raffigurati in gruppo essi rappresentano le auctoritates della Chiesa, i garanti dell’ortodossia. Oltre che affacciarsi lungo la cornice, a mezzobusto, come di consueto, da tondi o piccoli riquadri, possono essere anche i protagonisti di scene più elaborate (Vat. lat. 3550, pt. 1, f. 1r), dove interagiscono con altre figure in un sottile e fine gioco di richiami, con elementi che li accomunano (l’eresia sconfitta, lo scriba che li accompagna) o che li distinguono (gli attributi specifici tenuti in mano da loro stessi o condotti da un angelo). Una doppia variante è costituita da un caso, in apertura di un testo giuridico (Vat. lat. 2260, f. 1r), in cui non solo la raffigurazione dei quattro padri è collocata all’interno della scena principale, piuttosto che nella cornice, ma Ambrogio è anche ben distinto dagli altri. In miniature tabellari (Vat. gr. 1613, p. 227) e a tutta pagina il santo è raffigurato molto raramente, nei manoscritti più antichi o in quelli in cui l’immagine prende il posto del testo (Vat. lat. 268, f. Iv, Vat. lat. 8541, ff. 74v-75r); in campo libero si trova nel calendario figurato di un Lezionario bizantino (Vat. gr. 1156, f. 270v) e a corredo di un testo enciclopedico latino (Vat. lat. 1960, f. 191r), come segnale indicatore dell’argomento trattato. Pur caratterizzata dalla ricorrenza di alcuni elementi convenzionali, la figura di Ambrogio nelle miniature, opera di mani di artisti differenti attraverso i secoli, presenta una serie di varianti nella tipologia iconografica, nella collocazione e nel rapporto con il testo, anche dove ci si aspetterebbe una raffigurazione standardizzata e immobile, come nel gruppo dei dottori della Chiesa.

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CLAUDIA MONTUSCHI

Tav. I – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 268, f. Iv.

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AMBROGIO DI MILANO NELLE MINIATURE DI ALCUNI mss della bav

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Tav. II – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 8541, f. 74v.

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CLAUDIA MONTUSCHI

Tav. III – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6451, f. 66v (particolare).

Tav. IVa – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 13394, f. 2r (particolare).

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AMBROGIO DI MILANO NELLE MINIATURE DI ALCUNI mss della bav

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Tav. IVb – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 13394, f. 2r.

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CLAUDIA MONTUSCHI

Tav. V – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. lat. 41, f. 2r.

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AMBROGIO DI MILANO NELLE MINIATURE DI ALCUNI mss della bav

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Tav. VI – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9236, f. 1r.

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CLAUDIA MONTUSCHI

Tav. VII – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. lat. 112, f. 351r.

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AMBROGIO DI MILANO NELLE MINIATURE DI ALCUNI mss della bav

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Tav. VIII – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 275, f. 1r.

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CLAUDIA MONTUSCHI

Tav. IX – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1613, p. 227.

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AMBROGIO DI MILANO NELLE MINIATURE DI ALCUNI mss della bav

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Tav. X – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1156, f. 270v.

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CLAUDIA MONTUSCHI

Tav. XI – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 565, f. 16r.

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AMBROGIO DI MILANO NELLE MINIATURE DI ALCUNI mss della bav

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Tav. XII – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 1993, f. 24r (particolare).



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CLAUDIA MONTUSCHI

Tav. XIII – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro B.63, f. 189r.

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AMBROGIO DI MILANO NELLE MINIATURE DI ALCUNI mss della bav

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Tav. XIV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3550, pt. 1, f. 1r.

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CLAUDIA MONTUSCHI

Tav. XV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 610, f. 305r.

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AMBROGIO DI MILANO NELLE MINIATURE DI ALCUNI mss della bav

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Tav. XVI – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 2260, f. 1r.

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MARCO NAVONI

«IMPORTANTISSIMA CORRISPONDENZA DI UN DOTTO AD UN ALTRO DOTTISSIMO». LE LETTERE DI GIUSEPPE COZZA-LUZI AD ANTONIO MARIA CERIANI CONSERVATE ALLA BIBLIOTECA AMBROSIANA Cesare Pasini, nel suo volume dedicato al carteggio tra il Prefetto dell’Ambrosiana Antonio Maria Ceriani (d’ora in avanti C.)1 e Giovanni Mercati, prima dottore dell’Ambrosiana e poi scrittore greco presso la Biblioteca Apostolica Vaticana2, intercetta necessariamente anche la figura di Giuseppe Cozza-Luzi (d’ora in avanti C-L.), monaco basiliano del monastero di Grottaferrata, di cui fu abate per un triennio prima di diventare vicebibliotecario presso la Biblioteca Vaticana3. Di fatto C-L. intrattenne con C. un lungo rapporto epistolare, durato per più di trentacinque anni, documentato da centoquaranta lettere conservate alla Biblioteca Ambrosiana (con segnatura W 11 inf., C. IV, ff. 233-391). Un anonimo catalogatore ordinò in tempi passati (presumibilmente nella prima metà del Novecento) queste lettere, numerandole e facendone un indice molto sommario con il seguente titolo: «Importantissima corrispondenza di un dotto ad un altro dottissimo». Proponiamo un elenco ragionato delle lettere, con un sunto essenziale del contenuto e, dove opportuno, con la trascrizione dei passi che abbiamo ritenuto più significativi, consapevoli che tale corrispondenza meriterebbe 1 Per

le notizie biografiche e l’attività culturale di C. (1828-1907) si veda il volume Monsignor Antonio Maria Ceriani. Convegno nel centenario della morte. Uboldo 4 marzo 2007, Gerenzano 2007. 2 Carteggio Ceriani-Mercati 1893-1907, a cura di C. Pasini, Città del Vaticano 2019 (Studi e Testi, 531). Per la biografia e l’attività culturale di Giovanni Mercati (1866-1957), si vedano le pp. 63-77 e 105-112. 3 Per le notizie biografiche e l’attività culturale di C-L. (1837-1805), si vedano in particolare i due saggi di G. M. Croce, Giuseppe Cozza-Luzi monaco e abate di santa Maria di Grottaferrata, in L’abate Giuseppe Cozza-Luzi archeologo, liturgista, filologo. Atti della Giornata di Studio, Bolsena, 6 maggio 1995, a cura di S. Parenti e E. Velkovska, Grottaferrata 1998, pp. 39-40 e di V. Peri, Un Basiliano di Bolsena nella Biblioteca Vaticana, in Ibi, pp. 156-157. Cfr. anche L. Carboni, La caduta dell’ultimo sotto-bibliotecario, in Studi in onore del Cardinale Raffaele Farina, a cura di A. M. Piazzoni, Città del Vaticano 2013 (Studi e Testi, 477), I, pp. 87-122.

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marco navoni

indagini ben più approfondite, cosa non attuabile in questa sede per la vastità della corrispondenza stessa. Lettera n. 1, f. 237: Roma, 12 febbraio 1869 «Benché fossi persuaso della sua bontà, pure sono stato veramente sorpreso per le sue tante premure per me, ed è bene insufficiente ogni parola a mostrarle la grande riconoscenza che le debbo per la sua tanta benigna quanto dotta lettera dalla quale mi studierò trarre ogni miglior profitto … Se non temessi di troppo infastidirla bramerei bene spesso aver nelle sue dotte lettere le desiderate lezioni scientifiche di che tanto abbisogno specialmente dopo la perdita dell’ottimo maestro». Accenna alla morte del barnabita padre Carlo Vercellone (19 gennaio 1869), che lo fece chiamare a Roma nel 1866 e lo volle collaboratore nella pubblicazione del celebre codice Vaticano Greco 1209 della Bibbia (d’ora in avanti Codex Vaticanus)4. La lettera tratta soprattutto dell’edizione che C-L. stava approntando del libro di Daniele (che verrà pubblicata nel 18775). Lettera n. 2, f. 238: Roma, 17 marzo 1869 «La sua lettera, le sue premure e la bella scuola che ritrovo ne’ suoi detti, mi sono di molto conforto nella perdita del p. Vercellone; e perciò io debbo considerarla come il mio nuovo affettuoso maestro. … Mi congratulo con lei dei progressi de’ suoi studi biblico-siriaci. Vorrei ancor io poter apprendere qualche cosa di queste lingue sì necessarie ai biblici studi. Se vi potrò applicare qualche mese nell’estate, bramo averne la sua direzione e i suoi consigli pel metodo e pe’ libri». Accenna alle critiche del filologo tedesco Lobegott Friedrich Konstantin von Tischendorf all’edizione dell’Apocalisse del cardinale Angelo Mai6 e pensa di rispondere con alcune animadversiones per le quali chiederà consiglio a C. stesso7. Lettera n. 3, f. 239: Roma, 16 aprile 1869 Tratta dell’edizione del libro di Daniele.

4 Cfr. Croce, Giuseppe Cozza-Luzi monaco cit., pp. 39-40 e Peri, Un Basiliano di Bolsena, pp. 156-157. 5 Daniel iuxta Septuaginta Graecos interpretes ad similitudinem textus unici codicis Chisiani a I. Cozza Luzi editi, Tusculani 1877. 6 Sul biblista protestante Tischendorff (1815-1874) in riferimento alle critiche da lui mosse al cardinale Mai, soprattutto per l’edizione del Codice Vaticano Greco della Bibbia, cfr. Croce, Giuseppe Cozza-Luzi monaco cit., pp. 39-40. 7 In effetti nello stesso anno esce l’opuscolo di C-L. titolato: Ad editionem Apocalypseos S. Ioannis iuxta vetustissimum codicem basilianum-vaticanum 2066 Lipsia anno 1869 evulgatam: animadversiones, Roma 1869.

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«IMPORTANTISSIMA CORRISPONDENZA DI UN DOTTO»

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Lettera n. 4, f. 240: Roma, 11 maggio 1869 «Mi congratulo dell’importante commissione sì bene affidata che onora non meno lo scienziato che quei conservatori ed onorerà la scienza e l’Italia». Le congratulazioni si riferiscono probabilmente al progetto di C. (che prende corpo proprio al 1869) di pubblicare i due codici siriaci dell’Ambrosiana, B 21 inf. e C 313 inf. Lettera n. 5, f. 241: Roma, 1 luglio 1869 Chiede notizie sul siriacista inglese Frederick Field8. Lettera n. 6, f. 242: Grottaferrata, 11 agosto 1869 Tratta dei metodi fotolitografici «che ci potranno molto giovare. Esorti il suo bravo fotografo a trattare nuove e più belle scoperte». Il fotografo di fiducia di C., cui allude C-L., dovrebbe essere Angelo Della Croce. Lettera n. 7, f. 243: Roma, 13 novembre 1869 Ringrazia C. per il dono della sua ultima Memoria9. Lettera n. 8, f. 244: Roma, 24 dicembre 1869 «Rinnovo i ringraziamenti per le erudite sue lettere, e ne bramo sempre altre che potranno far molta luce e decidere le questioni sul Cod. Vat. … Mi rallegro della sua nomina all’Accademia di Berlino: potrà essere un titolo da far valere meglio le sue ragioni presso quei Signori». Lettera n. 9, f. 245: Roma, 7 marzo 1870 «Con molto piacere sento la notizia del suo nuovo ben meritato onore e me ne congratulo ben di cuore. Son sicuro che non mi toglierà di poter avere le sue bramate ed erudite corrispondenze». Il riferimento è alla nomina di C. a Prefetto dell’Ambrosiana (25 gennaio 1870). Lettera n. 10, f. 246: Roma, 1 marzo 1871 Scrive, interrompendo questo «nostro lungo silenzio». «Mi rallegro del progresso della sua fotolitografia e mi auguro vederne presto qualche esemplare». Intanto prosegue la stampa del Codex Vaticanus. Pensa di offrire al Field le sue carte sul libro di Daniele, per fare l’edizione in Inghilterra.

8 Sui rapporti tra C. e il Field (1801-1885), cfr. C. Pasini, Ceriani all’Ambrosiana, in Monsignor Antonio Maria Ceriani cit., pp. 47-50. 9 Dovrebbe trattarsi del fascicolo Le edizioni e i manoscritti delle versioni siriache dell’Antico Testamento, in Memorie del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, vol. XI, Milano 1869.

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marco navoni

Lettera n. 11, f. 247: Roma, 11 marzo 1871 Cita ancora il Field e chiede a C. di ringraziarlo per il “fascicolo” ricevuto. «Per le nostre si sta in qualche apprensione per le vicende politiche». Lettera n. 12, f. 248: Roma, 4 settembre 1871 «Vengo a rompere un lungo silenzio». Ha raccolto e completato un volume della Nova Patrum Bibliotheca (d’ora in avanti NPB) con gli inediti del cardinale Angelo Mai: è risaputo che fu il cardinale Jean-BaptisteFrançois Pitra (1812-1889), Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, ad affidare a C-L. l’incarico, per volere di papa Pio IX, di pubblicare gli inediti del Mai10. Chiede poi se alla Biblioteca Ambrosiana vi sia una lettera di Isacco Siro su cui sta studiando. «In questa circostanza non posso non rallegrarmi con loro della bella soddisfazione di aver potuto vedere le preziose reliquie dei SS. Ambrogio, Protasio e Gervasio»: allude alla ricognizione sui corpi dei tre santi avvenuta l’8 agosto 1871. C. appunta sulla stessa lettera la risposta sulle opere di Isacco Siro contenute nel codice ambrosiano R 8 sup. Lettera n. 13, f. 249: Roma, 15 dicembre 1871 Parla di una sua grave malattia. Accenna ad alcune prossime pubblicazioni. Lettera n. 14, f. 250: Roma, 26 dicembre 1871 Accenna alla spedizione a C. del volume VIII della NPB. Lettera n. 15, f. 251: Roma, 16 del 1872 (evidentemente 16 gennaio: anche nelle altre lettere C-L. omette quasi sempre di indicare il mese di gennaio, dandolo per scontato). Accenna al libro del biblista inglese John William Burgon (1813-1888) sul vangelo di Marco11, avuto per la mediazione di C. Lettera n. 16, f. 252: Roma, 8 febbraio 1872 Chiede a C. di farsi mediatore presso il Burgon per avere le fotografie del Codice Sinaitico. A breve sarà pubblicato il III volume del Codex Vaticanus.

10 Cfr. Peri, Un Basiliano di Bolsena cit. pp. 157 e 160. Nel 1871 viene in effetti pubblicato il volume VIII dell’opera, nel 1888 il IX; il X uscirà postumo nel 1905. 11 The last twelve verses of the Gospel according to S. Mark vindicated against recent critical objectors and established, Oxford-London 1871.

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«IMPORTANTISSIMA CORRISPONDENZA DI UN DOTTO»



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Lettera n. 17, f. 253: Roma, 21 febbraio 1872 Accenna al Field e al Burgon. Il III volume del Codex Vaticanus è compiuto e si sta dando l’avvio al IV. Lettera n. 18, f. 254: Roma, 29 aprile 1872 «La ringrazio vivamente del suo doppio regalo: di avermi fatto conoscere il suo egregio discepolo sac. Amelli, e di avermi inviata la collezione de’ suoi preziosi lavori giuntami quest’oggi. L’uno e l’altro accrescono la mia riconoscenza e stima verso la sua persona e dottrina». Guerrino Amelli (1848-1933) era scrittore all’Ambrosiana; nel 1885 divenne monaco benedettino a Montecassino con il nome di Ambrogio. Lettera n. 19, f. 255: Grottaferrata, 12 settembre 1872 «Devo fare i miei rallegramenti col Prof. Amelli per la sua bella scoperta Biblica, di cui mi parlò il Prof. De Rossi»: allude alla scoperta (datata appunto 1872) da parte dell’Amelli di un’antica versione del vangelo di Giovanni nel codice purpureo di Sarezzano12. Viene citato per la prima volta nel carteggio il celebre archeologo Giovanni Battista De Rossi (18221894), che nutriva nei confronti di C-L. vera stima13. Lettera n. 20, f. 256: Roma, 3 novembre 1872 Ringrazia per le fotografie ricevute da Burgon tramite C. È acclusa una minuta di lettera di C. (f. 257), in latino, datata 13 novembre 1872, che tratta di codici liturgici di rito ambrosiano della Biblioteca Ambrosiana. Lettera n. 21, f. 258: Roma, 17 marzo 1873 «Questa volta ho una scusa del lungo ritardo che Ella non può non ammettere: e si è che essendo stato testé quasi costretto dopo due rifiuti ad accettar di esser scrittore alla Bibliot. Vaticana, mi trovo occupatissimo specialmente nel principio. Ed il Card. Pitra Bibliotecario bramando che io compia per la parte greca, ciò che il laborioso Com. De Rossi sta compiendo per la latina degli ultimi volumi di Inventario mi trovo quasi sopraffatto d’occupazione». Parla anche del «cataclisma attuale e l’occupazione del Monastero di S. Croce, mi fa quasi disperare di trovar le carte del Card. Bona». Fu dunque il cardinale Pitra a volere C-L. scrittore alla Vaticana. Nella lettera si accenna all’incameramento da parte dello Stato Italiano della basilica e del monastero di Santa Croce in Gerusalemme, con il timore che i manoscritti del cardinale Giovanni Bona (1609-1674), che era stato generale dell’Ordine Cistercense, fossero andati dispersi. 12 Cfr. 13 Cfr.

la voce (non firmata) su Amelli in DBI, II, p. 760. Croce, Giuseppe Cozza-Luzi monaco cit., p. 39.

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marco navoni

Lettera n. 22, f. 269: Grottaferrata, 7 settembre 1873 Presenta le condoglianze per il «suo domestico lutto»: allusione alla morte del papà di C.14. Lettera n. 23, f. 270: Grottaferrata, 7 dicembre 1873 «Scrivo il giorno di S. Ambrogio anche per rallegrarmi delle loro feste che sono mondiali, e della Bolla ricevuta dal S. Padre sopra i sacri depositi. Un discepolo di S. Basilio non può essere indifferente alle nuove glorie di S. Ambrogio. Io quasi ardirei pregarla se in quest’occasione si potesse avere qualche reliquia di cotesto Dottore». Si dice «occupatissimo per la soppressione della Badia di Grottaferrata, che sembra volersi dichiarar Monumento Nazionale coi monaci a custodi». È la prima lettera in cui C-L. si rivolge a C. chiamandolo «Carissimo mio Professore»; prima aveva sempre usato la formula «Sig. Professore» o «Sig. Prefetto». Lettera n. 24, f. 271: su carta intestata della Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in avanti: BAV), 22 dicembre 1873 La lettera inizia con «Carissimo mio Ceriani». Informa di essere impegnato per le conferenze di archeologia cristiana al posto del professor De Rossi che «va sempre deperendo». «Sento con piacere che il Messale sta al termine. Per mia parte ho avuto occasione di poter far sollecitazioni presso quelli della Congregazione dei Riti». Invia un biglietto da consegnare al «venerando Cesare Cantù». È la prima lettera in cui si accenna al compito affidato a C. di portare a termine una revisione critica del Messale Ambrosiano, lavoro che si protrasse dal 1871 fino al 1902; nella lunga vicenda, a partire dal 1884, ebbe un ruolo anche C-L. quale consultore presso la Congregazione dei Riti15. Ed è la prima volta che nel carteggio viene citato il celebre storico milanese Cesare Cantù (1804-1895). Lettera n. 25, f. 272: Roma, 3 marzo 1874 «Sento con dolore la perdita del Conservatore della Biblioteca Am­ brosiana. Qualche dì innanzi il Biraghi scriveva di miglioramenti a Monsignor Bartolini, ma poi i giornali annunziaron l’infausta novella. Anche qui ebbe decorosi funerali. Spesso in questi giorni parliamo di Milano e delle feste di S. Ambrogio. Tutti se ne interessano e si spera riusciranno quali lo richiede il grande avvenimento. Dica a Monsignor Biraghi che il 14 Cfr.

Pasini, Carteggio cit., p. 23, nt. 73. revisione del Messale Ambrosiano, cfr. M. Navoni, Antonio Maria Ceriani studioso di liturgia, in Monsignor Antonio Maria Ceriani cit., pp. 52-68; sul ruolo che in tale revisione ebbe C-L., cfr. M. Petta, Attività liturgica di Giuseppe II Cozza-Luzi, in L’abate Giuseppe Cozza-Luzi cit., pp. 182-183 e Pasini, Carteggio cit., p. 42, nt. 158. 15 Sulla

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suo lodevolissimo zelo qui incontra la più sentita approvazione. … Mi dica se vi è nulla edito degli inni liturgici greci in onore di S. Ambrogio. Ne avrei in vista alcuni16». In questa lettera troviamo citati per la prima volta il beato Luigi Biraghi (1801-1879), apprezzato studioso di sant’Ambrogio e dal 1855 dottore della Biblioteca Ambrosiana, e lo storico, archeologo e agiografo monsignor Domenico Bartolini (1813-1887), che l’anno dopo sarebbe diventato cardinale e dal 1878 al 1886 Prefetto della Congregazione dei Riti: sarà lui a chiamare C-L. nel 1884 come consultore per la revisione del Messale Ambrosiano. L’inizio della lettera si riferisce alla morte del conservatore della Biblioteca Ambrosiana conte Vitaliano VIII Borromeo Arese, avvenuta il 26 febbraio 187417. Lettera n. 26, f. 273: Roma, 16 marzo 1874 Ringrazia C. per aver fatto da intermediario con un senatore suo amico (di cui non viene rivelato il nome) che si è interessato per le delicate questioni della Badia di Grottaferrata, con il rischio di trasferimento di tutti i monaci18: «Essendo quella Badia un monumento letterario greco, dove si potrebbe trovar l’abnegazione di persone capaci che volesser quivi ritirarsi? Inoltre vi son vari giovani che ben coltivano gli studi, vi è l’insegnamento e (se si vuol considerare) anche l’esercizio del Rito Greco, unico luogo or rimastone in Italia, e per tal titolo rispettato anche nelle soppressioni francesi. … Qualunque notizia mi comunicherà in proposito, mi riuscirà carissima, trovandoci ora in una situazione che ben può pensare quanto sia amara». Lettera n. 27, f. 274: Roma, 22 marzo 1874 Dettagli sulla municipalità di Grottaferrata nei rapporti con la Badia. Lettera n. 28, f. 275: Roma, 29 aprile 1874 Ringrazia C. per avergli fatto conoscere lo storico milanese Giulio Porro Lambertenghi (1811-1885), di cui ha apprezzato l’erudizione e gentilezza e al quale ha consegnato alcune strofe greche inedite in onore di sant’Ambrogio da far avere a monsignor Biraghi. Comunica che è volere 16 L’interesse di C-L. per testi liturgici greci in onore di sant’Ambrogio (cfr. anche lettera n. 28) troverà sbocco editoriale nel 1883: In honorem Sancti Ambrosii episcopi mediolanensis Hymnologia Graecorum nell’Opera Omnia di sant’Ambrogio promossa dal patriarca P. A. Ballerini (vol. VI, coll. XV-XVI e XVII-XLIV). 17 Nella Congregazione dei Conservatori (l’organo amministrativo dell’Ambrosiana) è sempre presente per statuto un membro della famiglia Borromeo. 18 Sulla situazione della Badia di Grottaferrata, divenuta possesso del Regio Demanio in seguito alle leggi eversive del 1873, e sul lavoro “diplomatico” di C-L., fino al 1874, quando la Badia diventa monumento nazionale, cfr. Croce, Giuseppe Cozza-Luzi monaco cit., pp. 43-46.

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di papa Pio IX la sua nomina a custode e superiore della Badia di Grottaferrata, la qual cosa «è per me un disturbo». Lettera n. 29, f. 276: Roma, 19 giugno 1874 Si congratula per il successo delle feste in onore di sant’Ambrogio: allude alle due traslazioni (del maggio precedente) delle reliquie del patrono dalla basilica ambrosiana al Duomo e dal Duomo alla basilica ambrosiana e alla loro deposizione (con i santi Gervaso e Protaso) nella nuova urna d’argento. Lettera n. 30, f. 277: Roma, 21 novembre 1874 Dà notizie sul monastero di Grottaferrata divenuto Monumento Nazionale. Invia tramite C. i propri ringraziamenti al senatore che si è fatto mediatore per la soluzione del problema. Lettera n. 31, f. 278: Roma, 15 febbraio 1876 Ha ricevuto il volume di C. sulla versione siro-esaplare della Bibbia19: elogia l’introduzione con «un bel saggio del metodo nuovo per le pubblicazioni critiche». Lettera n. 32, f. 279: Grottaferrata, 22 gennaio 1877 Dà notizie codicologiche sul codice Vaticano Greco 2125, detto Codex Marchalianus (di cui C. avrebbe steso una Commentatio introduttiva). I suoi lavori purtroppo vanno a rilento «a cagione di molteplici imbarazzi e faccende». Lettera n. 33, f. 280: Roma, 21 giugno 1877 È conclusa la stampa del libro di Daniele, nonostante le molte difficoltà: «Non può credere quanti intralci mi si frappongono ai nostri poveri studi». Lettera n. 34, f. 281: Roma, 19 luglio 1877 Spedisce il volume sul libro di Daniele, chiedendo il parere di C. Procede il lavoro sul Codex Vaticanus. Vi sono invece difficoltà nella stampa del codice Marchaliano.

19 Codex Syro-Hexaplaris Ambrosianus pholithographice editus curante et adnotante A. M. Ceriani, Mediolani 1874 (Monumenta sacra et profana, 7).

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Qui andrebbe inserita la lettera n. 114. Lettera n. 35, f. 282: Grottaferrata, 8 novembre 1879 Per il centenario di san Benedetto è in programma la pubblicazione della vita tradotta in greco da san Zaccaria presente in un antico manoscritto (codice Vaticano Greco 1666, un tempo del monastero di Grottaferrata). Chiede riscontri su un codice ambrosiano onciale con il libro II dei Dialoghi di Gregorio Magno (si tratta del codice B 159 sup., appartenente al fondo bobbiese dell’Ambrosiana). È la prima lettera del carteggio spedita da C-L. nella sua qualità di abate del monastero di Grottaferrata: la nomina (per un triennio) risaliva al gennaio dello stesso anno 187920. Lettera n. 36, f. 283: Grottaferrata, 20 novembre 1879 Ringrazia per la risposta di C. e per le informazioni sul codice ambrosiano. Lettera n. 37, f. 284: Grottaferrata, 13 dicembre 1879 Ringrazia per le bozze ricevute. Lettera n. 38, f. 285: Grottaferrata, 29 [gennaio] del 1880 Chiede informazioni sul codice ambrosiano dei dialoghi di san Gregorio. Lettera n. 39, f. 286: Grottaferrata, 11 febbraio 1880 Ringrazia per l’invio delle informazioni (che egli volgerà in latino, citando l’autore) sul codice ambrosiano. Lettera n. 40, f. 287: Grottaferrata, 5 marzo 1880 Ringrazia per le osservazioni inviate e chiede le fotografie per la stampa litografica. Lettera n 41, f. 288: Grottaferrata, 6 marzo 1880 Ringrazia per il “vetro” mandato a Montecassino: probabilmente una lastra fotografica. Lettera n. 42, f. 289: Grottaferrata, 14 aprile 1880 Ringrazia per le fotografie «che resteranno per noi bel monumento di letteraria amicizia».

20 Cfr.

Croce, Giuseppe Cozza-Luzi monaco cit., pp. 50-51.

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Lettera n. 43, f. 290: Grottaferrata, 11 maggio 1880 Si sta concludendo la stampa del libro su san Benedetto21. Una lettera dall’editrice milanese Hoepli lo aveva informato dell’invio del IV volume del Codice Alessandrino, purtroppo non ancora ricevuto: dovrebbe trattarsi dell’edizione in facsimile del celebre Codice Alessandrino della Bibbia, curata da E. M. Thompson e pubblicata a Londra nel 1879, procurata dall’editrice Hoepli, evidentemente tramite C. Lettera n. 44, f. 291: Grottaferrata, 20 giugno 1880 Informa che il volume atteso dall’editrice Hoepli è arrivato. Lettera n. 45, f. 292: Grottaferrata, 12 [gennaio] del 1881 L’ultimo volume del Codex Vaticanus «va molto innanzi». È questa l’ultima lettera spedita da Grottaferrata: nel 1882 lascerà definitivamente il monastero basiliano per stabilirsi a Roma, presso la Biblioteca Vaticana, di cui, il 30 marzo di quell’anno, diventa vicebibliotecario22. Lettera n. 46, f. 293: Roma, 2 [gennaio] del 1883 Sta facendo ricerche su un’opera di san Pietro d’Argo. Lettera n. 47, f. 294: Roma, 22 febbraio 1883 Ringrazia C. e il «dr. Villa» per le ricerche su san Pietro d’Argo in Ambrosiana. Il riferimento è a Fortunato Villa, scrittore della Biblioteca Ambrosiana dal 1876 (e dottore dal 1884). Informa inoltre che a breve a Bergamo sarà portata a termine la pubblicazione di cento lettere del cardinale Mai, ove si cita anche l’Ambrosiana. Lettera n. 48, f. 295: Vaticano, 23 giugno 1886 Informa che lascia Roma per Bolsena. Lettera n. 49, f. 296: Biblioteca Vaticana, 27 ottobre 1886 Cita il codice ambrosiano E 101 sup. con i sermoni di Teodoro Studita e chiede se sia possibile averlo in Roma per consultarlo23. 21 Historia

S.P.N. Benedicti a SS. Pontificibus romanis Gregorio I latine descripta et Zacharia graece reddita, nunc primum e codicibus saeculi VIII Ambrosiano et Cryptensi-Vaticano edita et notis illustrata, cura J. Cozza-Luzi, Tusculani 1880. Alle pp. XVI-XVII C-L. cita (in latino) le informazioni paleografiche sul codice B 159 sup. inviategli da C. in una lettera del 10 febbraio 1880, come da lui promesso nella lettera n. 39. 22 Cfr. Peri, Un Basiliano di Bolsena, cit., pp. 154-157. 23 Gli studi su Pietro d’Argo (cfr. lettere nn. 46 e 47) e su Teodoro Studiata confluiranno nel volume IX della NPB che uscirà nel 1888.

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Lettera n. 50, f. 297: Bolsena, 5 [gennaio] del 1887 Elogia «il suo degno Collega sì bravo ed insieme sì modesto»: il riferimento è ancora a Fortunato Villa. Lettera n. 51, f. 298: Roma, 29 [gennaio] del 1887 Ringrazia per gli appunti ricevuti sui sermoni di Teodoro Studita dal codice ambrosiano e fa altre richieste, dal momento che nella sua visita a Milano non ha potuto fare tutti i riscontri. Lettera n. 52, f. 299: Roma, 18 febbraio 1887 Ringrazia per gli appunti inviatigli dal collega di C. (Fortunato Villa). Accenna al progetto di una pubblicazione per il giubileo di papa Leone XIII a cura della Biblioteca Vaticana: il riferimento è al giubileo episcopale del papa che si sarebbe celebrato nel 1893, essendo egli stato ordinato vescovo nel 184324. Lettera n. 53, f. 300: Bolsena, 14 settembre 1887 Sottopone al C. le bozze di un lavoro su un «evangeliario pupureo»25. Chiede notizie sul «magistrale lavoro» di C. sul Messale Ambrosiano e si augura una rapida approvazione. Chiede ancora notizie sul codice ambrosiano E 101 sup. e manda i ringraziamenti al dottor Fortunato Villa che lo ha aiutato, dandogli «sì buoni appunti». Lettera n. 54, f. 301: Roma, 23 ottobre 1887 Ringrazia il «dotto amico» (Fortunato Villa) per le osservazioni inviate. Per quanto riguarda il Messale Ambrosiano informa che la Congregazione riprenderà la revisione con il nuovo Prefetto, essendo nel frattempo defunto il cardinale Bartolini (2 ottobre). Cita infine la «grande figura… che farà Milano nell’Esposizione Vaticana»: allusione all’Esposizione Vaticana di Arte Sacra che si sarebbe tenuta nel 1888. Lettera n. 55, f. 302: 2 febbraio 1888 (manca l’indicazione del luogo) Parla dell’imminente viaggio a Roma di C., ospite atteso in Vaticana. Cita l’Esposizione Vaticana che si sta approntando. Sulla quarta facciata della lettera minuta della risposta di C. datata 3 febbraio 1888.

24 In effetti nel 1893 uscì un volume intitolato Nel giubileo episcopale di Leone XIII. Omaggio della Biblioteca Vaticana, con un contributo di C-L. 25 Riferimento allo studio Pergamene purpuree vaticane di evangeliario a caratteri d’oro e d’argento, Roma 1887.

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Lettera n. 56, f. 303: BAV, 18 maggio 1888 Tratta di varie pubblicazioni da farsi a Roma e a Milano presso l’editrice Hoepli, con la collaborazione di C. stesso. Lettera n. 57, f. 304: Bolsena, 23 luglio 1888 Elogia gli eruditi studi di C. che «fanno ben augurare l’applauso con cui verrà salutata dai dotti». Parla del Segretario di Stato che in gioventù era stato in Vaticana con C-L. per «trattar codici ed ha qualche bel lavoro fatto; ma è timido a pubblicarlo». In quel periodo Segretario di Stato era il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro (1843-1913), il quale in effetti svolse anche attività di ricerca storica, lasciando numerose opere rimaste inedite26. Infine chiede una copia del celebre Rotolo di Ravenna, in quel tempo depositato presso la Biblioteca Ambrosiana perché vi venisse copiato e studiato da C. e da Giulio Porro Lambertenghi27. Lettera n 58, f. 305: Bolsena, 26 agosto 1888 Cita un rapporto inviato a papa Leone XIII nel quale si fa presente che «tra le più insigni biblioteche non fosse dimenticata l’Ambrosiana». Ringrazia per il dono della Bibbia siriaca28. Lettera n. 59, f. 306: BAV, 20 novembre 1888 Condivide il dolore per la morte del dottor Fortunato Villa (10 ottobre 1888): una perdita non solo per l’Ambrosiana, ma anche per la Vaticana, e si rallegra per la sostituzione, con la speranza di trovare nel neo-dottore «redivivo il buon Villa»: il neo-dottore a cui accenna C-L. è Achille Ratti, nominato l’8 novembre 1888. Lettera n. 60, f. 307: Bolsena, 5 [gennaio] del 1889 È contento di sentire che C. si compiace del nuovo dottore, Achille Ratti, «di cui mi fa desiderabile la personale conoscenza». Solleva alcuni problemi nei rapporti con l’editrice Hoepli. Lettera n. 61, f. 308: su carta intestata della Biblioteca Apostolica Vaticana, Gabinetto di mons. Vice-Bibliotecario (d’ora in avanti: BAV-GV), 4 marzo 1889. 26 Si

veda la voce di J. M. Ticchi, in DBI, LXXXVI, pp. 341-342. 27 Si veda la Prefazione di A. Paredi a Inventario dell’Archivio Falcò Pio di Savoia, Vicenza 1980, p. 5. 28 Dovrebbe trattarsi dell’opera in due volumi Translatio Syra Pescitto Veteris Testamenti ex codice Ambrosiano saec. fere VI photolithographice edita, curante et adnotante A. M. Ceriani, Mediolani 1876-1883.

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È questa la prima lettera del carteggio su carta intestata del vicebibliotecario. C.-L. solleva alcuni problemi nei rapporti tra l’editrice Hoepli e la ditta romana della famiglia Danesi29, specializzata nella fotolitografia, per la stampa del Codex Vaticanus e chiede a C. una «dotta prefazione». Lettera n. 62, f. 309: BAV-GV, 22 marzo 1889 Ritorna sui rapporti tra l’editrice Hoepli e la ditta Danesi. Lettera n. 63, f. 310: Roma, 9 aprile 1889 Ancora sui rapporti tra l’editrice Hoepli e la ditta Danesi. Interessante l’annotazione seguente: «Credo che ora il treno lampo ci congiunge fulmineamente a Milano!». Lettera n. 64, f. 311: Bolsena, 23 settembre 1889 Lettera scritta «sotto la più triste impressione per la perdita del mio carissimo Card. Bibliotecario, che mi era piuttosto un antica [sic] amicizia che un superiore»: si riferisce alla morte del cardinale Pitra avvenuta a Roma il 9 febbraio. Chiede se la Biblioteca Ambrosiana possiede qualche documento su santa Cristina di Bolsena e su Bolsena stessa30. Nella quarta facciata della lettera vi sono appunti di C. sulle attestazioni del nome di un’isola presso Creta, su cui C-L. stava studiando31. Lettera n. 65, f. 312: BAV, 14 ottobre 1889 Presenta progetti per la stampa in fototipia del codice Marchaliano. Lettera n. 66, f. 313: BAV-GV, 23 ottobre 1889 Tratta della stampa della Commentatio introduttiva di C. per l’edizione del codice Marchaliano32. Grazie all’arte della fototipia, sono «qui rianimati i studi biblici, pei quali il S. Padre ebbe delle espressioni molto incoraggianti». Lettera n. 67, ff.314-315 (scritta su due bifogli): BAV-GV, 1 novembre 1889 Ringrazia per il rotolo ricevuto (la copia del Rotolo di Ravenna: cfr. let29 Si

veda la voce di M. Miraglia in DBI, XXXII, pp. 564-567. catacombe di santa Cristina a Bolsena e sugli studi di C-L. in proposito, cfr. F. T. Fagliari Zeni Buchicchio, Cozza-Luzi cultore della storia di Bolsena, in L’abate Giuseppe Cozza-Luzi cit., pp. 187-188. 31 Su tale argomento C-L. pubblicherà un opuscolo dal titolo Dell’isola Caudon presso Creta discoperta nei palinsesti straboniani e relative notizie. Memorie geografico-critiche, Roma 1890. 32 La Commentatio verrà pubblicata nel 1990. Nella copia presente in Ambrosiana sono acclusi alcuni fogli manoscritti di C. con note integrative. 30 Sulle

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tera n. 57). Chiede consigli a C. su come poter vendere all’estero l’edizione del codice Marchaliano e del Nuovo Testamento Greco «fototipato»33: da tale operazione potrebbero infatti venire i mezzi finanziari per ulteriori pubblicazioni in programma: il «Rotolo di Giosuè»34 e il «Codice Chigiano» con il commento a Geremia35. Lettera n. 68, f. 316: BAV-GV, 11 novembre 1889 Accenna ai lavori per il Messale Ambrosiano. Lettera n. 69, f.317: BAV-GV, 27 novembre 1889 Chiede di ringraziare «il suo Ratti pel concorso che presta». Lettera n. 70, f. 318: BAV-GV, 7 dicembre 1889 «Oggi festa di S. Ambrogio mi unisco di cuore alla gioia de’ miei Ambrosiani». Si è radunata la Società per gli Studi Biblici e il professor De Rossi ha fatto una comunicazione sul Canone Muratoriano della Biblioteca Ambrosiana. Lettera n. 71, f. 319: BAV-GV, 16 dicembre 1889 Tratta della stampa del codice Marchaliano e dei rapporti tra l’editrice Hoepli e la ditta Danesi. È iniziato il lavoro «eliotipico» per l’Antico Testamento «e pare che il S. Padre scriverà una lettera da mettervi in fronte». Chiede notizie biografiche sul Field (che era morto il 19 aprile 1885) per farne una commemorazione. Lettera n. 72, f. 320: BAV-GV, 22 dicembre 1889 Esterna le difficoltà a frequentare la Biblioteca Chigiana, aperta poche ore alla settimana, dove sta trascrivendo il codice con il commento a Geremia. Lettera n. 73, f. 321: BAV-GV, 31 dicembre 1889 Verranno spedite quanto prima alcune bozze per le correzioni. Lettera n. 74, f. 322: BAV-GV, 31 [gennaio] del 1890 Ricopia la lettera a lui indirizzata quale Pro-praefectus della Biblioteca 33 In

effetti il Nuovo Testamento dal Codice Vaticano Greco 1209 venne pubblicato in quello stesso anno 1889. 34 Si tratta del Codice Vaticano Palatino greco 431: sarà pubblicato da P. Franchi de’ Cavalieri nel 1905. 35 Il Codice Chigiano in questione verrà pubblicato postumo nel 1905 nel X volume della NPB.

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Vaticana in data 25 gennaio da papa Leone XIII, lettera che verrà riprodotta nell’edizione del codice Marchaliano e in quella dell’Antico Testamento del Codex Vaticanus36. Lettera n. 75, f. 323: BAV-GV, 8 febbraio 1890 Dà alcune notizie sull’attività della Società Biblica, con le conferenze del professor De Rossi. Lettera n. 76, f. 324: BAV, 22 febbraio 1890 Parla del «nostro ‘O Callagan [sic]», studioso di difficile identificazione, che partecipa alle riunioni bibliche e archeologiche e dimostra grande stima verso C. Viene a sapere del malessere di Cesare Cantù. Lettera n. 77, f. 325: BAV, 7 marzo 1890 Segnala problemi nella diffusione dell’edizione del codice Marchaliano: «Dalla Germania molte richieste, ma voglion pagarle con un articolo favorevole! Ecco perché le riviste germaniche non son troppo indipendenti e giuste». (Dopo questa lettera, con numerazione f. 386, segue un foglio su carta intestata BAV-GV, con la descrizione di un codice e trascrizioni di frasi in siriaco. Non necessariamente era allegato alla lettera 77). Lettera n. 78, f. 327: BAV, 17 marzo 1890 Ricorda il «venerato Cantù». Il professor De Rossi ha visto nel museo Trivulzio a Milano un cimelio d’oro trovato nella Basilica Vaticana nella tomba di Maria, figlia di Stilicone, consorte dell’imperatore Onorio: chiede se è stato pubblicato il disegno; diversamente chiede descrizione, trascrizione delle iscrizioni e dimensioni; «Come poi venne a Milano?». Lettera n. 79, f. 328: BAV, 22 marzo 1890 Tratta di alcune bozze da spedire a Roma. Cita il «venerato Cantù». Qui andrebbe inserita la lettera n. 111bis. Lettera n. 80, f. 329: Bolsena, 16 luglio 1890 Si sta trattando con la ditta Danesi per la pubblicazione dei quattro volumi dell’Antico Testamento dal Codex Vaticanus, già tutto fotografato. Cita la Società Storica Volsinese che fu onorata dal «nostro venerato 36 Di

fatto nell’edizione del Codice Marchaliano del 1890 non è acclusa la lettera del papa trascritta da C-L.; nel frontespizio si legge semplicemente che l’edizione è stata fatta auspice Leone XIII.Pont.Max.

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Cantù»: per questo chiede un suo ritratto in fotografia e le sue produzioni autografate. Lettera n. 81, f. 330: Bolsena, 15 agosto 1890 Da Oxford chiedono la Commentatio di C. Si lamenta del modus operandi dei librai e anche dell’editrice Hoepli: «ha un tal modo di agire che sempre tace quando si tratta di regolare i conti. … I nostri librai vorrebber sforzarci a rimetterci anche nelle spese…». Spera sempre che arrivi il ritratto con firma di Cantù. Chiede alcune verifiche sulle schede del Muratori in Ambrosiana. Lettera n. 82, f. 331: Bolsena, 19 agosto 1890 Chiede ancora di fare riscontri sulle schede muratoriane in Ambrosiana. Invia per verifica la prova di dedica dell’Antico Testamento dal Codex Vaticanus, nella speranza che in quell’anno la pubblicazione possa essere compiuta. Cita sempre il «venerando Cantù». Lettera n. 82bis, f. 332: Bolsena, 3 agosto 1890 Continua il lavoro sull’Antico Testamento dal Codex Vaticanus, ma persistono problemi per il fallimento della tipografia. Lettera n. 83, f. 333: Roma, 23 ottobre 1890 Sono riprese le trattative per la stampa della Commentatio di C. e cita il «venerando Cantù». Lettera n. 84, f. 334: BAV, 29 ottobre 1890 Chiede a C. le bozze per trattare con la tipografia, augurandosi che tutto possa concludersi in fretta. Cita il «vener. Cantù». Lettera n. 85, f. 335: Roma, 2 novembre 1890 È in attesa del manoscritto di C. da trasmettere in tipografia. Lettera n. 86, f. 336: BAV-GV, 4 novembre 1890 Con la settimana seguente la tipografia comincerà a comporre la Commentatio di C. La ditta Danesi spera di riprendere il lavoro sull’Antico Testamento dal Codex Vaticanus, mentre è sospesa la vendita dell’edizione del Nuovo Testamento, essendone rimasti pochi esemplari, da vendersi insieme alla imminente edizione dell’Antico. Chiede la mediazione di C. con il «libraio di Londra» per la vendita delle edizioni vaticane. Qui va inserita la Lettera n. 112bis.

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Lettera n. 87, f. 337: BAV, 19 dicembre 1890 Sta terminando la trascrizione del «Geremia tratto dal Chisiano», ma sarà difficile trovare un editore a buone condizioni: «Giustamente Ella dice delle difficoltà che si fanno da certi cerberi i quali poi son tutta facilità per gli stranieri!!». La prima parte dell’Antico Testamento dal Codex Vaticanus è stata già «fototipata». Cita il «chiarissimo e venerato Cantù». Lettera n. 88, f. 338: BAV-GV, 19 febbraio 1891 Invia a C. i propri complimenti «per il compimento del suo sì bello e serio lavoro sul codice Marchaliano»: verrà presentato alla Società per gli Studi Biblici. Purtroppo l’edizione di tale codice non ha acquirenti, mentre i volumi del Codex Vaticanus vanno assai in America, e andrebbero assai di più se non vi fossero dazi pesanti. Sta terminando la trascrizione del «Geremia chigiano» e ne sta progettando la stampa. Lettera n. 89, f. 339: BAV-GV, 26 febbraio 1891 Ancora complimenti per la Commentatio di C. al codice Marchaliano: fu presentata alla Società di Studi Biblici «con parole di ammirazione e riconoscenza. È un lavoro che fa onore all’Italia ed ai Cattolici». Lettera n. 90, f. 340: 12 maggio 1891 (manca l’indicazione del luogo) I volumi del Nuovo Testamento dal Codex Vaticanus sono quasi esauriti. Invece la vendita del codice Marchaliano va a rilento. Lettera n. 91, f. 341: Bolsena, 2 luglio 1891 Si complimenta con C. per l’aggiornamento erudito della sua Commentatio. La stampa del Codex Vaticanus è al termine. Cita il lavoro sul Messale Ambrosiano che ormai dovrebbe concludersi con l’approvazione da parte della Congregazione dei Riti. Si lamenta che i «periodici esteri» non abbiano parlato abbastanza della pubblicazione del codice Marchaliano. Lettera n. 92, f. 342: Roma, 18 novembre 1891 Chiede la consulenza di C. per «ciò che se ne è detto all’estero recentemente» sulla pubblicazione del Codex Vaticanus. Nella Società Biblica verranno presentati i vari commentari di C. al codice Marchaliano. Ha studiato una lettera inedita di Francesco di Sales e chiede notizie bibliografiche recenti sul santo. Parla di un progetto da parte della ditta Danesi circa la pubblicazione del fac-simile del rotolo figurato di Giosuè della Biblioteca Vaticana e chiede consiglio.

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Lettera n. 93, f. 343: 22 dicembre 1891 (manca l’indicazione del luogo) Ha spedito ad Achille Ratti la trascrizione di un documento della Vaticana: «Non so se il suo Ratti siane stato soddisfatto». Chiede al C. un articolo sulle pubblicazioni della Biblioteca Vaticana. Il progetto per il rotolo di Giosuè procede e ringrazia per le notizie bibliografiche su Francesco di Sales37. Lettera n. 94, f. 344: BAV, 20 febbraio 1892 Informa di essere stato consultato sul lavoro del Messale Ambrosiano e comunica che la revisione si restringe ora alla sola parte testuale. Lettera n. 95, f. 345: Roma, 24 marzo 1892 «Ho piacere che abbia potuto verificare i passi rettificati dal Mai, e come le flagellazioni di alcuni astiosi critici si rivolgano su loro stessi»: cita il filologo olandese Carel Gabriel Cobet (1813-1889), «il quale si arroga un’autorità che non si merita. È bene che Ella mostri le prove del falso valore di questi critici». «Riguardo al messale può esser sicuro che nella città eterna non si va mai di fretta». Apprezza le «critiche e belle osservazioni» di C. e conclude: «È necessario dar una buona lezione a tutti cotesti barbassori nei quali la modestia e sincerità è in ragione opposta del loro valore e dei loro studi». Lettera n. 96, f. 346: BAV, Bolsena, 17 ottobre 1892 Cita la Società Biblica e spera che prossimamente sia pubblicato il primo volume degli Atti della medesima Società. La ditta Danesi invierà a Chicago38 le edizioni fototipiche vaticane. È in progetto un volume con le miniature dantesche di Giorgio Giulio Clovio e chiede notizie biografiche sull’artista39. Cita il «venerando Cantù, non mai dimenticato dalla Soc. St. Vols. in questi lidi». Lettera n. 97, f. 347: Roma, 12 [gennaio] del 1893 Segnala come problematico il fatto che i manoscritti Vaticani non compaiono nelle edizioni tedesche, ma in quelle inglesi. Cita l’«egregio e venerando Cantù». 37 Di

fatto nel 1892 C-L. pubblicherà quattro contributi su san Francesco di Sales, compresa la lettera inedita citata nella lettera n. 92: cfr. E. Velkovska, Bibliografia di Giuseppe Cozza-Luzi, in L’abate Giuseppe Cozza-Luzi cit., pp. XIII-XIV. 38 Si riferisce alla World’s Fair: Colombian Exposition organizzata in occasione dei quattrocento anni dalla scoperta dell’America. 39 Importante miniaturista del Rinascimento (1498-1678): nel 1893 C-L. darà alle stampe l’opera Il Paradiso Dantesco nei quadri miniati e nei bozzetti di Giulio Clovio, pubblicati sugli originali della Biblioteca Vaticana.

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Lettera n. 98, f. 348: BAV, Bolsena, 29 marzo 1893 Critica alcune recensioni straniere negative sulla pubblicazione del codice Marchaliano: «Veramente è a dolere che molte riviste si fanno alla leggera. È pur troppo vero anche per gli studi che la merce si stima secondo provenienza e con pregiudizio, e non obiettivamente». Cita il «veneratissimo Cantù. … Sono assai lieto nell’udir le notizie della sua incredibile operosità e buona salute». Lettera n. 99, f. 349: BAV, Bolsena, 4 luglio 1893 Ringrazia C. per l’apprezzamento per il catalogo da lui curato dei codici greci Ottoboniani della Vaticana40. Fa alcune considerazioni sulle edizioni bibliche spedite dalla ditta Danesi all’esposizione di Chicago. Cita il lavoro sul Messale Ambrosiano, augurandosi che possa speditamente concludersi: «Per mia parte farò il possibile in ossequio a S. Ambrogio, e per riconoscenza agli Ambrosiani tutti». Apprezza le osservazioni di C. «sopra il Rito Ambrosiano-romano»41. Ricorda ancora il «venerando Cantù» e manifesta il desiderio che invii alla Società Storica Volsinese una sua pubblicazione firmata: «questo gioverebbe molto ai nostri giovani per incitarli». Rileva l’uscita di numerose pubblicazioni bibliche: «Sinora non mi sembra che siasi da tutto ciò ricavato un gran costrutto». Lettera n. 100, f. 350: 23 dicembre 1893 (manca l’indicazione del luogo) Ha inviato alcuni libri a C. «per speciale riconoscenza a cotesta Biblioteca che fu tanto larga colla Vaticana». Sulla quarta facciata del bifoglio, minuta di lettera di C. Lettera n. 101, f. 351: BAV, 3 [gennaio] del 1894 Ha preparato il «Geremia» dal codice Chigiano e vorrebbe riprodurne il testo con qualche «nota dichiarativa». Sta lavorando alla pubblicazione delle «figure dantesche del Clovio». «Mi riverisca il dottor Mercati»: è la prima volta che viene citato nel carteggio Giovanni Mercati (dottore dell’Ambrosiana dal 9 ottobre 1893). Lettera n. 102, f. 352: BAV, 16 [gennaio] del 1894 «Alla vigilia di S. Antonio faccio le mie felicitazioni, se questi è il suo»: C-L. è in dubbio se C. festeggi l’onomastico il 17 gennaio (festa di sant’An40 In

effetti tale Catalogo fu pubblicato nel 1893 dalla Tipografia Vaticana. allude probabilmente a qualche scritto o lettera inviatagli da C. circa l’origine della liturgia ambrosiana che egli riteneva “figlia” di quella romana, o meglio riteneva espressione di quella che potrebbe essere definita la liturgia romana antica: cfr. su questo Navoni, Antonio Maria Ceriani studioso di liturgia, pp. 68-73. 41 C-L.

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tonio abate) o il 13 giugno (festa di sant’Antonio di Padova). C. deve avergli risposto confermando come data onomastica quella del 13 giugno, come risulta dai rinnovati auguri inviatigli nella lettera n. 104 dell’11 giugno seguente (cfr. anche la lettera n. 136). Nella lettera cita il «venerando Cantù» e invia gli auguri per il suo 90° compleanno: «Spero che gli sia gradita la benedizione che procurai avesse dal S. Padre colla maggiore effusione. Questi volle veder la lettera che il “grande storico” mi avea diretta». «Mi riverisca il dottor Mercati; e gradirò conoscer qualche cosa de’ suoi studi». Lettera n. 103, f. 353: BAV, 26 giugno 1894 Cita ancora il «venerando Cantù», per il quale ottenne la «bramata benedizione pontificia». «Mi rallegro col Dottor Mercati» e ringrazia per le notizie liturgiche inviate da C. su santa Cristina. Lettera n. 104, f. 354: Roma, 11 giugno 1894 «Ora ripeto per far le più liete felicitazioni nel fausto onomastico e con quel cuore che sa». Auspica la mediazione di C. per la stampa del «Geremia del Chisiano». Chiede se di santa Cristina ci siano memorie nella liturgia ambrosiana e si interessa dei lavori di C. e di Mercati «cui riverisco». Lettera n. 105, f. 354bis: BAV, 23 dicembre 1894 Accenna alla morte del professore De Rossi (20 settembre 1894). Cita il «suo bravo collega Mercati». Informa che in ottobre la ditta Danesi ha subito un grave incendio: è andato perso quanto vi era rimasto e le poche copie rimaste nei depositi esterni ora costano il doppio. Invia saluti agli amici milanesi «e specialmente al Dottor Mercati». Lettera n. 106, f. 355: Bolsena, 12 settembre 1895 Informa di aver ricevuto in dono «il libro liturgico-eucaristico»42 di C. «Mi dica de’ progredienti studii nella sua Biblioteca colla cooperazione de’ suoi bravi dottori». Parla di «ristrettezza» nella consultazione dei Codici alla Vaticana, «dopo l’infelice furto», a causa della «troppa facilità, lasciando soli gli studiosi, in tempi proibiti…»43. Informa che la ditta Danesi sta riedificando lo stabilimento incendiato. 42 Si tratta dell’opera Notitia Liturgiae Ambrosianae ante saeculum XI medium et eius concordia cum doctrina et canonibus oecumenici Concilii Tridentini de ss. Eucharistiae sacramento et de sacrificio missae, Mediolani 1895. 43 Su questo furto, avvenuto sotto la prefettura di Isidoro Carini (1843-1905), cfr. R. Farina, «Splendore veritatis gudet Ecclesia». Leone XIII e la Biblioteca Apostolica Vaticana, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae XI, Città del Vaticano 2004 (Studi e Testi, 423), p. 306.

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Lettera n. 107, f. 356: BAV, 25 novembre 1895 Accenna a tre fogli di un codice vaticano oggetto di furto e poi recuperati. «Ora mi dica de’ suoi lavori e di quelli del suo Mercati». Lettera n. 108, f. 357: Roma, 14 dicembre 1895 C. farà avere due esemplari dell’Antifonario di Bangor44. Dell’edizione del codice Marchaliano in un anno è stata venduta una sola copia ai Certosini di Firenze. Ringrazia per le «gradite parti del bravo Mercati, e mi auguro veder i frutti de’ suoi studi». Chiede riscontri su alcuni manoscritti del Petrarca, «sui quali mi trovo a studiare per forza altrui»45. Lettera n. 109, f. 358: BAV, 6 marzo 1896 Ringrazia per i due esemplari «del lavoro del chiarissimo Ratti», chiede di complimentarsi con l’autore e tratta del problema della data di istituzione della festa del Corpus Domini46. Cita come ancora aperta la questione del Messale Ambrosiano, anche per i cambiamenti di personale nella Congregazione dei Riti, cosa che renderà meno facile il disbrigo delle questioni: consiglia di insistere da Milano. Elogia la trattazione di C. sull’ufficio dei Defunti e ne auspica la pubblicazione47. Lettera n. 110, f. 359: BAV, 27 dicembre 1896 Si compiace per il nuovo titolo di protonotario ad instar concesso a C. Lettera n. 111, f. 360: BAV, 21 marzo 1897 Ringrazia «i suoi degni Colleghi Dottori Ratti e Mercati». «Godo, anche per mio interesse, che in quest’anno i loro voti siansi potuti offerire all’intercessore celeste …»: il riferimento è alle celebrazioni per l’anno centenario della morte di sant’Ambrogio. Lettera n. 111bis, f. 361: BAV-GV, 21 maggio (a matita è stato aggiunto 44 È uno dei manoscritti più preziosi e antichi conservati in Ambrosiana, appartenente al fondo bobbiese (con segnatura C 5 inf.); nella lettera si allude probabilmente ai due volumi The Antiphonary of Bangor: an Early Irish MS., ed. F. E. Warren, London 1893, o anche all’opera The antiphonary of Bangor: an early Irish manuscript in the Ambrosian library at Milan, pubblicata in quello stesso anno 1895. 45 Gli studi su Petrarca cui allude C-L. trovano il loro sbocco editoriale negli articoli Del Ritratto di Francesco Petrarca nel Codice Vaticano 3198, in Archivio Storico dell’Arte 1 (1895), pp. 238-242 e Epistola autografa di Francesco Petrarca nel manoscritto Vaticano 3196, illustrazioni, testo e note in Giornale Arcadico 1 (1898), pp. 395-420. 46 Si tratta dell’opuscolo di A. Ratti, Contribuzione alla storia eucaristica di Milano, Milano 1895. 47 Si riferisce alla trattazione di C., che verrà pubblicata in opuscolo nel 1897, dal titolo Circa obligationem recitationis officii defunctorum.

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1897 con un ?). Lettera fuori posto da collocarsi verosimilmente dopo la lettera n. 79. Allega un brano dei Dialoghi di san Gregorio pregando di confrontarlo con il testo presente nel codice onciale dell’Ambrosiana, codice su cui già ebbe riscontri per il libro II (cfr. lettera n. 35 dell’8 novembre 1879 e seguenti). Prosegue la fototipia dell’Antico Testamento dal Codex Vaticanus, che dovrebbe uscire entro l’anno. «Avrà inteso del nuovo Bibliotecario di S.R.C.». La lettera dovrebbe dunque essere datata al 1890, quando appunto è iniziato il lavoro eliotipico sull’Antico Testamento (cfr. lettera n. 71). Inoltre l’accenno al «nuovo» Bibliotecario di Santa Romana Chiesa dovrebbe riferirsi alla nomina del card. Alfonso Capecelatro, avvenuta il 29 aprile 189048. Lettera n. 112, f. 362: BAV, Bolsena, 17 agosto 1897 Ha ricevuto dalla Congregazione dei Riti la Tabella Festorum e il Calendario Ambrosiano: esprime qualche perplessità su cambiamenti di giorni nel calendario liturgico. Lettera n. 112bis, ff. 363-365: BAV-GV, 12 novembre (a matita è stato aggiunto 1897 con un ?). Lettera fuori posto da collocarsi verosimilmente dopo la lettera n. 86. Cita la Commentatio di C. al codice Marchaliano e ricorda il «venerando Cantù». Nella lettera è inserito un foglietto (numerato f. 364) dove si parla nuovamente del «venerato Cantù» e si torna a chiedere «ritratto e sottoscrizione autografa». Un secondo foglio (numerato f. 365), inserito nella stessa lettera, ha come incipit «Ecco un’altra mia»: chiede un riscontro sul manoscritto della Biblioteca Ambrosiana I 87 inf. con l’elenco degli oggetti appartenuti al cardinal Bessarione49. Sul retro del foglio vi sono appunti autografi di C. per la risposta. La lettera andrebbe dunque collocata nel 1890 (cfr. lettere nn. 83 e 86 dove si cita la Commentatio). Anche il primo foglietto sarebbe da datarsi al 1890: cfr. le lettere nn. 80 e 81, nella quali si chiede il ritratto autografato di Cesare Cantù. Lettera n. 113, f. 366: BAV, 20 dicembre 1897 Accenna al trasporto degli stampati dalla sala Borgia e alla «ricollocazione ancora arretrata», il che rende difficile trovare i volumi: allude al 48 Cfr. la scheda di C. M. Grafinger, in J. Mejia – C. Grafinger – B. Jatta, I Cardinali Bibliotecari di Santa Romana Chiesa. La quadreria nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2006, p. 295. 49 L’interesse di C-L. in proposito troverà sbocco editoriale nell’opera La croce del cardinal Bessarione donata a Venezia, Roma 1904.

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trasferimento di 300.000 stampati dall’Appartamento Borgia, promosso dal Prefetto della Vaticana, padre Franz Ehrle (1895-1934)50, per altro mai citato per nome nel carteggio. Lettera n. 114, f. 367: Grottaferrata, 4 marzo 1878 (il 7 si legge male e sembra corretto). Lettera fuori posto da collocarsi verosimilmente dopo la lettera n. 34. Ringrazia C. per il dono di due suoi volumi, cita il Field e chiede a C. di ringraziarlo a nome suo. Invia saluti a Biraghi e ad Amelli. Gli studi vanno a rilento «per molte occupazioni distraenti»: l’allusione dovrebbero riferirsi agli impegni presso il monastero di Grottaferrata (cfr. lettera n. 33); inoltre i personaggi citati si ritrovano nelle lettere di quegli anni. Lettera n. 115, f. 368: BAV, 14 maggio 1898 Cita il lavoro di C. sui defunti e la questione del Messale Ambrosiano. Informa che il «Custode Prefetto» (padre Ehrle) gli ha consegnato un appunto (accluso alla lettera) con le opere di C. mancanti in Vaticana. «Ella sarà stata tranquilla nei suoi studi, mentre a Milano tuonava!»: allusione alla dura e sanguinosa repressione dei moti milanesi di inizio maggio da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris. Lettera n. 116, f. 369: BAV, 20 maggio 1898 Ringrazia per le opere che C. ha inviato alla Vaticana. Cita il «prossimo compimento del Messale e spero che presto possa servirsene sull’altare». Accenna nuovamente ai moti e alla repressione e si rallegra che C. «nulla abbia avuto a soffrire costì. Speriamo giorni migliori». Lettera n. 117, f. 370: BAV, Bolsena, 20 giugno 1898 Spedisce a C. «i fascicoli straboniano-vaticani»51 e si rallegra con lui perché «il suo nome vale per mille». Lettera n. 118, f. 371: BAV, Bolsena, 3 settembre 1898 Ha letto e apprezzato il lavoro di C. sull’ufficiatura dei defunti e auspica un lavoro analogo per la liturgia bizantina che C. potrebbe fare egregiamente. Il Prefetto della Vaticana (padre Ehrle) è impegnato «per il rifacimento di vecchi codici... Ma è questione più chimica che bibliofila». Manda ossequi «al suo condottore Ratti». Poi allude (senza fare il nome) a 50 Cfr. Farina, «Splendore veritatis gudet Ecclesia» cit., pp. 310-316 e Pasini, Carteggio cit., pp. 33-34, nt. 117. 51 Si tratta dell’opera di C-L., in sette parti, dal titolo Della Geografia di Strabone. Frammenti scoperti in membrane palimseste, Roma 1884-1898.

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Giovanni Mercati appena giunto presso la Vaticana: «Per l’altro che devo salutarle in Biblioteca (il che farò al mio ritorno là) convengo che volentieri sarebbe rimasto a Milano. … E forse ciò sentirà più vivamente; giacché mi si dice che non deve far altro che cataloghi... Lavoro improbo, inutile, ed anche non possibile totalmente. Ma il nostro prefetto si è messo in capo di far così. È un anno che vi stentan sopra in diversi, e nulla vidi... Udii però i gemiti... Vedremo... Non è uomo da diriggere [sic] certi lavori». È la prima lettera del carteggio dove affiora chiaramente lo scontro di vedute tra C-L. e il padre Ehrle nella gestione della Vaticana; le critiche sono rivolte esplicitamente al Prefetto mentre Mercati sembrerebbe (per ora) esserne in qualche modo “vittima” e rimpiangerebbe per questo l’Ambrosiana52. Lettera n. 119, f. 372: BAV, 2 novembre 1898 «Ebbi una visitina del suo già ambrosiano ora qui indicista... Non pare ancor sappia in quale ambiente si trovi»: nuova allusione alle difficoltà di Mercati nel suo inserimento presso la Biblioteca Vaticana. Chiede «un Pater per me alla tomba di S. Carlo». Lettera n. 120, f. 373: BAV, Bolsena, 20 dicembre 1899 Ringrazia per il dono della ristampa dell’antico Messale Romano «conservato dagli Ambrosiani»53. Sta terminando il lavoro del volume X e ultimo della NPB. Lettera n. 121, f. 374: BAV, Bolsena, 10 febbraio 1900 Si informa circa la possibilità di stampare il volume X della NPB, preferibilmente all’estero. Qui dovrebbe essere inserita la lettera n. 125bis. Lettera n. 122, f. 375: BAV, Bolsena, 26 giugno 1900 Ancora sulla stampa del volume X della NPB. È dispiaciuto per le «reiterate fatiche del Messale. Uscirà nel 1901, col secolo XX? Ammiro la sua forte perseveranza in questo come in altri lavori».

52 Sull’inserimento non facile di Mercati presso la Biblioteca Vaticana, cfr. Pasini, Carteggio cit., pp. 71-72 (e anche p. 36 per il lavoro affidato a Mercati in riferimento alla compilazione dei cataloghi, cui accenna C-L. nella lettera). Sul progetto di catalogazione dei manoscritti sotto la prefettura di padre Ehrle e sul ruolo ricoperto da Mercati, cfr. Farina, «Splendore veritatis gudet Ecclesia» cit., pp. 323-324. 53 Allude al prezioso incunabolo Missale Romanum, Antonii Zarotte Mediolani, 1474, conservato in Ambrosiana e ripubblicato nel 1899 a Londa da Robert Lyppe.

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Lettera n. 123, f. 376: BAV, 10 novembre 1900 Ringrazia per la spedizione di articoli e studi. Accenna ai lavori del Messale Ambrosiano che ormai volgono al termine: «Per me il suo lavoro è veramente magistrale e degno del libro dei grandi misteri». Per la stampa del volume X della NPB ha chiesto alla Tipografia Vaticana, ma «ancora non si può avere una decisione nella Roma Aeterna». Lettera n. 124, f. 377: Bolsena, 19 dicembre 1900 Auguri per Natale e per fine secolo. Lettera n. 125, f. 378: Bolsena, 25 dicembre 1901 Accenna al lungo silenzio epistolare tra i due. Il Messale Ambrosiano è davvero al termine: si augura che venga stampato l’apparato delle emendazioni apportate da C., come attestazione della «coscienziosa cura di tutto ciò che si è fatto intorno al gran libro liturgico». Accenna alla «dipartita di quel sant’uomo di Scurati» e cita Ratti e Amelli. Lettera n. 125bis, f. 379, BAV. Il catalogatore ha supposto (errando) come data il 16 gennaio 1902, dal momento che la lettera esordisce: «Siamo alla vigilia del suo santo» (per la questione dell’onomastico di C. cfr. le lettere nn. 102, 104 e 136). Al termine della missiva C-L. invia i saluti a monsignor Giacomo Scurati (che muore a Milano il 31 maggio 1901)54: la data corretta dovrebbe quindi essere il 12 giugno 1900 e quindi la lettera sarebbe da collocarsi verosimilmente dopo la lettera n. 121. C-L. parla dei problemi nel trovare l’editore per il vol. X della NPB. Lettera n. 126-126bis, ff. 380-381 (scritta su due bifogli): BAV, Vaticano, 24 [gennaio] del 1902 Sta iniziando la stampa del vol. X della NPB, «di cui il S. Padre accettò la dedica pel suo giubileo e volle far la spesa nella sua tipografia e la bramò come un omaggio alla memoria del Mai, che ei ben conosceva». Non mancano i fastidi: «ed ora in pochi giorni avrò quello di dover sloggiare dall’appartamento … Se Ella avesse occasione occasione [sic] di scrivere al D. Mercati vegga di dir qualche buona parola. Gli donai il Suo lavoro sul Cod. Marchalianus, ma ancora…». Gradirebbe vedere il decreto di approvazione del Messale Ambrosiano «a cui pure cooperai». In questa lettera affiorano esplicitamente i gravi problemi che erano venuti a crearsi tra C-L. e la dirigenza della Biblioteca Vaticana, problemi che già si erano 54 Giacomo Scurati (1831-1901) era il direttore del Seminario Lombardo per le Missioni Estere.

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acuiti dal 1899 con l’invito da parte della Segreteria di Stato a dare le dimissioni e a lasciare libero l’appartamento da lui occupato in Vaticano55. Ed è la prima missiva in cui emerge freddezza di rapporti con Mercati56. Lettera n. 127, f. 382: BAV, 11 febbraio 1902 «La sua lettera fu un vero conforto fin dalle prime linee. La edificante condotta indicatami è messa in atto. E lasciamo le cose a Dio e in mano della buona Madre». Invia ringraziamenti a Ratti. «Incontrai Mercati. Vi fu qualche parola più benevola ed una stretta di mano. Ma qualche nube vi è ancora. E non so donde nata...». «Ogni sua lettera è per me una gioia, mi istruisce, edifica, conforta». Sulla quarta facciata del bifoglio, con data 12 febbraio, C-L. scrive: «Riapro la lettera poiché mi giunge altra sua carissima. ... I fastidi continuano...». Dall’inizio della missiva si deduce che C. aveva inviato a C-L. consigli su come comportarsi nei frangenti difficili in cui era venuto a trovarsi. C’è qualche miglioramento nei rapporti con Mercati, che restano però freddi e C-L. non sa spiegarsi il perché57. Lettera n. 128, f. 383: BAV, senza data: ma è il 28 febbraio 1902 Finalmente è stato approvato il Messale Ambrosiano «che le è costato tante fatiche e per tanti anni». Ancora notizie sul volume X della NPB. «Le cose mie fastidiose van componendosi, ma il Mercati è più che riservato». Sulla quarta facciata del bifoglio C-L. aggiunge ulteriori osservazioni e anticipa che spedirà un pacco di stampe «dimani 1 Marzo». Lettera n. 129, f. 384: BAV, Bolsena, 9 maggio 1902 C-L. parla dell’«ex discepolo... Ha proseguito e prosegue ostilmente... ed anche con puerile condotta. … In un articolo della Palestra trovò che alcuni della Biblioteca Vaticana eran menzionati come cooperatori nell’edizione del tom. X. Andò prima a lamentarsi col Comm. Burini, volendone saper l’autore. Poi alla Segreteria di Stato fece ricorso, perché egli, gran pezzo della Biblioteca, non fosse menzionato con suo disdoro. Il sottosegretario me ne fece osservazione. La risposta fu semplice: Perché nulla faceva. Tuttavia per mezzo del detto sottosegretario, e due volte personalmente, richiesi che mi desse qualche suo lavoro (che tiene misterioso), per trattarlo amichevolmente... ma non volle!! Gli regalai delle stampe mie, e 55 Sulla

questione cfr. Peri, Un Basiliano di Bolsena cit., pp. 158-160 e soprattutto L. ­Carboni, La caduta dell’ultimo sotto-bibliotecario, pp.96-99 e 121-122. C-L. si ritirerà definitivamente a Bolsena, anche se nel carteggio con C. continuerà a usare carta intestata della Biblioteca Vaticana (cfr. lettere dalla n. 129 in avanti). 56 Su questa lettera, cfr. Pasini, Carteggio cit., p. 43. nt. 161. 57 Anche per questa lettera, cfr. Pasini, ibidem.

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neppure disse verbo di ricevimento. Che anzi col nostro Amelli (il quale tentava rammollirlo) dichiarò che era stato compromesso perché l’articolo porta le iniziali G.M. Ma quelle non son le sue soltanto e sarebbero pur di un G(rammatico) M(ediocre). Insomma vuol andare innanzi con una febbre che lo accieca. Vedremo. Si lamenta di non esser curato e di non poter studiare. È menzionato “Il ciclone della Biblioteca”, trasferendo qua e là ogni cosa senza tregua. Se Ella, Monsignore, può giovarlo, lo giovi. Per me sto bene e tranquillo». È la prima lettera del carteggio che documenta la rottura netta di rapporti tra C-L. e Mercati con pesanti giudizi del primo nei confronti del secondo58. Lettera n.130, f. 385: BAV, Bolsena, 11 luglio 1902 Accenna ai «periodi giubilanti» per C., cioè al cinquantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale. Nella seconda facciata del bifoglio minuta di risposta di C. Lettera n. 131, f. 386: BAV, 26 dicembre 1902 Porge a C. «le più cordiali felicitazioni centuplicate… coll’immutato affetto e stima di tanti anni di cara amicizia e devozione». Procede il lavoro sul vol. X della NPB, «per quanto si può nella Roma aeterna». «Io sto benissimo in questo ritiro con i miei vecchi studi, non invidiando ai nuovi, che suscitano tante agitazioni a Roma e a Firenze. Un prelato mi scrisse che sono caotici, ed un arcivescovo gode di esser vecchio per non vederne le conseguenze... Fede non vi è più... E del soprannaturale?!». «Che fa il suo coadiutore Ratti, che ebbe la gentilezza di spedirmi una scoperta di Milano vecchia». In queste ultime lettere emerge la difficoltà di C-L. di confrontarsi con la nuova impostazione storico-filologica (di ispirazione laica) che stava permeando anche gli studi di carattere biblico59. Lettera n. 132, f. 387: BAV (il catalogatore ha aggiunto come data presunta il 16 gennaio 1903; ma è il 12 giugno: cfr. le lettere nn. 102, 104 e 136). Invia gli auguri per sant’Antonio. «Che ne dice di questo nuovo e non temperato movimento biblico?... Presto svanirà come diverse reclame. In fondo in fondo non sono che riproduzioni antiche, che gli scrittori di oltre alpi [sic] ci danno come loro ritrovati, e qui si accolgono come nuovi portati di scienza propria — pur sì modesta —. Avremo adunque dei telegrammi dei vecchi agiografi che dicano quello che veramente essi dissero in origine... È una telegrafia senza i fili della tradizione, della critica te58 La questione dell’identificazione di chi fosse indicato con le iniziali “G.M.” è documentata anche dal carteggio tra C. e Mercati: cfr. Pasini, Carteggio cit., pp. 44-45, nt. 163. 59 Cfr. Peri, Un Basiliano di Bolsena cit., pp. 151 e 160-161.

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stuale e della logica (spesso)». «Che fa il suo bravo Ratti?». Lettera n. 133, f. 388: BAV, 28 marzo 1903 Condoglianze per la «perdita domestica» di C.: allusione alla morte della sorella Teresa60. Il vol. X della NPB ritarda nella stampa: a Roma «come in ogni cosa si va lenti». «Voglia far le mie speciali parti al suo gentilissimo Dottor Ratti». Lettera n. 134, f. 389: BAV, Bolsena, 22 settembre 1903 Auguri a C. di piena ripresa dopo un malessere. Parla della consulta biblica. Prende di mira le «innovazioni fantasticate da un certo clero, detto Giovane Clero, il quale presume insegnare non solo ai suoi provetti maestri, ma eziandio alle autorità pur si voglia supreme». Lettera n. 135, f. 390: BAV, Bolsena, 29 novembre 1903 Ringrazia C. per un lavoro biblico inviatogli e aggiunge: «Per certuni gli agiografi sono simili ai moderni scrittori di centoni più o meno bene tra loro cuciti e rattoppati con fantasie proprie e citazioni strane e straniere». Frecciata contro coloro (soprattutto se Gesuiti!) che «sembrano abbacinati da certi scritti, e più se al cognome hanno il S.J.». Cita il «suo degnissimo coadiutore Prof. Ratti». Lettera n. 136, f. 391: BAV, Bolsena, 10 giugno 1904 Lettera indirizzata al «venerando e carissimo Ceriani». Invia gli auguri per l’onomastico, che diventa «occasione per rivolgermi a lei, a cui mi sento sempre più attratto, commemorando la lunga amicizia e comunanza di studi, e sentendomi stimolato dalla riconoscenza verso i suoi tanti favori». Gli consiglia un po’ di riposo, «ma ben so che per lei l’otium è non altro che otium litterarium». «Se le recasse disagio lo scrivere, mi faccia fare una cartolina dal gentilissimo suo collega prof. Ratti. A questo porgo i miei speciali rispetti; e con i ringraziamenti di favori già ricevuti unisco quelli anticipati per ciò che di bene me ne riprometto». È finita la parte prima del vol. X della NPB; poco manca al completamento anche delle altre due parti. Allude al suo ritiro a Bolsena, in «questa solitudine ove mi trovo molto bene e contento».

60 Cfr.

Pasini, Carteggio cit., p. 56.

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REPRODUCING THE INVISIBLE: THE EARLY OBSERVATION OF PALIMPSESTS Palimpsest texts that have been erased or washed off from the parchment sheets before recycling for new texts often fail to provide philologists with objective criteria of judgement. Hardly legible texts permit multiple readings of the same detail that features in a specific location in a specific manuscript. Whoever reads the same detail differently and challenges the readings and the conjectures of former editors is also expected to justify his or her point. Thus, palimpsests normally do not provide their observers with the comfort of objectivity. In this paper, I shall explore how scholars sought to overcome the lack of objectivity when reading and publishing texts recovered from Vatican palimpsests in the early phase of palimpsest research. By presenting a few case studies, I seek to give an overview of the development of the scholarly practices which departed from the initial efforts to read the lower texts and led to the use of photography to reproduce the evidence that can be viewed as objective by scholars as well as to assist the conservation of the fragile documents. 1. Inventing Palimpsests: Antiquarian Philology Fascination with palimpsests, strangely enough, is a relatively new phenomenon which developed from an antiquarian mindset. Before the end of the seventeenth century, antiquarians and philologists were not interested in identifying the traces of erased or clear-washed texts. In the Vatican Library, which holds many palimpsests and has been one of the most important centres of antiquarian and philological studies since its foundation, palimpsests long remained unnoticed. For example, Leone Allacci (1586-1669), the industrious and knowledgeable scriptor Graecus of the Vatican Library, did not find it important to spot and identify any erased texts based on their vaguely legible traces. At the same time, Allacci wrote meticulously on the phenomenon of erasing or clear-washing of papyri, wooden tablets or parchment sheets, but exclusively on the basis of written sources including attestations of the rare term palimpsestus.1 1 L.

Allacci, Animadversiones in antiquitatum Etruscarum fragmenta, ab Inghiramio

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Allacci provides his readers with a carefully constructed list of citations from classical authors, Catullus (22,5), Cicero (Fam. 7,18,2) and Plutarch (Mor. 779c, 504d) and others, who used this term for the recycled writing surfaces as an indication of their inferior quality. Allacci also refers to various philological and antiquarian books published in the sixteenth and seventeenth centuries, which took note of this classical meaning. Such a dichotomy between the antiquarian curiosity in word usage and the lack of interest in the lower texts in manuscript artefacts persisted until the end of the seventeenth century. The idea of distinguishing the lower text from the upper one and attributing more credit to the discarded, erased and hardly legible lower text is a relatively late step in the development of antiquarian philology. The growing interest in the lower text can be paralleled with the gradually growing interest in the textual fragments understood as such both in the concrete and in the abstract senses. In the concrete sense, lower texts are comparable with inscriptions which suffer from deficiencies or missing elements, require careful study of their formal features, and can be reassembled into a no-longer extant manuscript artefact. In the abstract sense, a palimpsest page is like a citation which can be given a double credit of authorship, the author who is citing and another author who is being cited and can be understood as the author of the textual fragment. Like textual fragments, palimpsest texts can be reassembled into the framework of lost complete texts and can be viewed as fragments of a textual witness which aids in the reconstruction of texts. The relationship between the citing and the cited authorities is random just like that between the upper and the lower texts of a piece of recycled writing surface. As for textual fragments,2 fascination with palimpsests also requires an approach to the past which began not before the Renaissance. When contrasting different layers of the past and beginning to prioritize the earlier one, antiquarian sensibility reached the point of overcoming the challenges of the legibility and re-contextualization of the lower texts. The precise date and the specific palimpsest manuscript that first aroused the curiosity of a scholar enough to begin deciphering hardly legible lower texts remain uncertain. Among the first such palimpsest manuscripts, the most important and the best documented is the Codex Ephraemi rescriptus (Par. gr. 9; earlier Reg. 1905), a fifth-century witness to the Greek Old and New Testaments (siglum C), recycled for the edita, Parisiis 1640, pp. 100-109. See the detailed antiquarian survey in F. Mone, De libris palimpsestis tam Latinis quam Graecis, Carlsruhae 1855, pp. 2-4, 29-41, 52-53, 56-58. 2 N. András, Excerpts versus Fragments: Deconstructions and Reconstitutions of the «Excerpta Constantiniana», in Canonical Texts and Scholarly Practices: A Global Comparative Approach, ed. G. W. Most – A. Grafton, Cambridge 2016, pp. 253-274: 265-271.

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treatises of Ephrem the Syrian in Greek in the twelfth century, which was esteemed after its discovery with a value equal to that of the Codex Alexandrinus and the Codex Vaticanus. Jean Boivin (1663-1726), the French King’s librarian, is normally credited with its actual discovery in 1692; but another candidate, Pierre Allix (1641-1717) must have preceded him by almost a decade.3 Already in 1699, Bernard Lamy published an engraved plate reproducing the script of the lower text of the Codex Ephraemi rescriptus.4 He described the manuscript and hinted at the readings found in it. Referring to Boivin, he says that the Royal Library of Paris holds not a few such manuscripts. At the turn of the eighteenth century, hardly legible lower texts began to catch curious eyes. In the Biblioteca Ambrosiana between 1695 and 1700, Ludovico Antonio Muratori identified two manuscripts with recycled writing surface,5 as did Bernard Montfaucon not only in the Royal Library of Paris6 but also during his Italian visit (1698) in Venice (Library of Gian Carlo Grimani), in Florence (Library of the Badia Monastery) and in Rome (Collegio di S. Basilio).7 In the College of S. Basilio, for example, Montfaucon saw two palimpsest manuscripts which were to arrive in the Vatican Library together with the other codices Basiliani (Vat. gr. 1963-2123) a century later.8 During his short visit to the Vatican Library, he was shown a few highlights of the Library, none of them palimpsest manuscripts,9 so he 3 S. Timpanaro, Angelo Mai, in Atene e Roma 6 (1956), pp. 1-34; republished also in id., Aspetti e figure della cultura ottocentesca, no. VI, Pisa 1980 (Saggi di Varia Umanità, 23), pp. 225-293: 248-249. On its first discovery by P. Allix, see J. J. Wettstein, Novum Testamentum Graecum cum variis lectionibus et commentario, I, Amstelaedami 1751, pp. 27-28. 4 B. Lamy, Commentarius in harmoniam sive concordiam quatuor evangelistarum, I, Parisiis 1699, p. 656 (on Regius 1905) with a folding plate illustrating its scriptio inferior. 5 L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, Mediolani 1740, p. 833 (today Ambrosianus M 14 sup. and Ambrosianus Q 6 sup.). See Timpanaro, cit. (n. 3), p. 250. 6 B. Montfaucon, Palaeographia graeca, sive De ortu et progressu literarum graecarum, et de variis omnium saeculorum scriptionis graecae generibus: itemque de abbreviationibus & de notis variarum artium ac disciplinarum. Additis figuris & schematibus ad fidem manuscriptorum codicum, Parisiis 1708, pp. 186, 213-214 (presentation of the Codex Ephraemi Rescriptus and an engraved plate depicting its lower text), p. 231 (Par. gr. 1330), p. 233 (Par. gr. 633), p. 319 (Par. gr. 301). See Timpanaro, cit. (n. 3), pp. 251-252. 7 B. Montfaucon, Diarium Italicum, Paris 1702, p. 478 (Venice, Library of Gian Carlo Grimani), p. 416 (Florence, Badia Monastery, today B. Laurenziana, Conv. Soppr. 152). id., Palaeographia cit. (n. 6), p. 186 (Conv. Soppr. 152). id., Bibliotheca bibliothecarum mss. nova, I, Paris 1749, p. 416 (Conv. Soppr. 152). 8 B. Montfaucon, Diarium cit. (n. 7), pp. 213-215 (Vat. gr. 2063), 216-221 (Vat. gr. 2019). id., Bibliotheca cit. (n. 7), pp. 195 (Vat. gr. 2063) and 196-198 (Vat. gr. 2019). 9 B. Montfaucon, Diarium cit. (n. 7), pp. 276-278. When dealing with Greek manuscripts, he relied on the help of Lorenzo Zaccagni, primus custos of the Vatican Library. In contrary to Timpanaro’s view (Timpanaro, cit. (n. 3), p. 251), I regard Montfaucon’s hint as it refers

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cannot be credited as the first scholar who discovered such manuscripts here. To Montfaucon, who found fascination in ancient scripts and focused on their formal typologies, the traces of erased texts enriched his repertory of samples, each presented on engraved plates in his Palaeographia graeca (Paris 1708). In this framework, he published an engraved plate of the lower text of the Codex Ephraemi rescriptus, without the intent to show the upper text and the relationship between the two in order to facilitate future attempts at decipherment. Montfaucon played a pioneering role in setting the discourse on the very phenomenon of recycling the writing surface of ancient texts for new ones within the framework of antiquarian philology. When joining the distinguished members of the French Academy in 1729, he used a powerful picture when saying that “the Polybiuses, the Dios, the Diodoruses of Sicily and other authors whose texts we do not have any longer were transformed into Triodions, Pentecostarions, Homilies and other books of the Church”.10 In the end, he concluded with a general and exaggerated statement that the majority of parchment manuscripts after the twelfth century belong to the type of recycled books. At the same time, Montfaucon was minimally interested in deciphering the lower texts; he only noted their presence and gave an estimate on the date of their scripts and their nature if it was possible. When presenting lower texts, Monfaucon and his predecessors never used the classical term palimpsestus, which always qualified the once discarded and later reused writing surface (papyri, wax tablets and parchment), as he discussed in the introductory part of his Greek palaeography.11 Neither did Montfaucon use the Latin term rescriptus, which did not have the meaning “overwritten” for the writing surface in classical antiquity, in the Middle Ages and in the early modern period until the early eighteenth century.12 Around this time, the term rescriptus gained the addito palimpsest manuscripts he saw in other libraries. Cf. Permultos alios ejusdem vetustatis bibliorum codices vidi, ubi cum aetate nimia characteres pene oblitterati essent, alia superscripa sunt; aliquot hujusmodi superius annotavimus. B. Montfaucon, Diarium cit. (n. 7), p. 277. 10 B. Montfaucon, Dissertation sur la plante appelée papyrus, sur le papier d’Egypte, sur le papier de coton, & sur celui dont on se sert aujourd’hui, in Mémoires de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, VI, Paris 1729, pp. 592-608, here p. 606 on recycling of ancient texts. 11 On palimpsestus or pugillar or palinxystum, see Montfaucon, Palaeographia cit. (n. 6), pp. 19-20. 12 See the verb “rescribo” in Ae. Forcellini, Lexicon totius Latinitatis, IV, Bononiae 1965, p. 574; Oxford Classical Dictionary, Oxford 1968, p. 1627; C. D. du Cange – D. P. Carpentieri, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, V, Paris 1845, p. 720. See also “palimpsestus” in Forcellini, cit., III, p. 574; du Cange – Carpentieri, cit., p. 30; Oxford Classical Dictionary, cit., p. 1284; παλίμψηστος as adj. and παλίνψηστον as noun in H. G. Liddell – R. Scott – H. S. Jones, A Greek-English Lexicon, Oxford 1961, p. 1292.

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tional meaning “overwritten” used in philological and antiquarian studies for the writing surface or the codex which fully or partially consisted of recycled parchment sheets.13 The lack of standardized terminology makes it difficult to explore the earliest development of palimpsest studies. Franz Anton Knittel (1721-1792) is to be credited with the first detailed presentation of the universal phenomenon of recycling the writing surface. He applied the term rescriptus to the writing surface of the upper text, which later became a standard term, and established the link between rescriptus in this new meaning and palimpsestus, already used by Allacci and Montfaucon, which later became reserved for the erased text instead of its recycled writing surface.14 The occasion of Knittel’s detailed discourse was a major discovery. He had identified several folios with the fragments of Ulphilas’s Gothic translation of the Bible, otherwise known from the codex Argenteus, in Cod. Guelf. 64 Weiss., which had been recycled for the Etymologies of Isidore of Seville in Bobbio. In the context of the exhaustive publication of his important discovery, in which he attempted to read accurately the Gothic text of this manuscript, he made a systematic survey of the codices rescripti in the Herzog August Bibliothek of Wolfenbüttel, describing both the upper texts (textus postea scripti) and the lower texts (textus antea scripti).15 Knittel distinguished between different types of rescripti based 13 On

the classical, medieval and early modern use of rescriptus for the writing surface and the recycling of the writing surface by erasure (palimpsest), see Ch. G. Schwarz, De ornamentis librorum et varia rei librariae veterum supellectile dissertationum antiquariarum hexas, Lipsiae 1756, pp. 24-25, 139, 173 (palimpsestus), 79-82, 197, 210-215 (erasure with pumice), 233-234 (libri rescripti). 14 F. A. Knittel, Ulphilae versionem gothicam nonnullorum capitum epistolae Pauli ad Romanos venerandum antiquitatis monumentum (…) eruit commentatus est datque foras, [Wolfenbüttel 1762], pp. 201-220. 15 F. A. Knittel, Ulphilae versionem gothicam nonnullorum capitum epistolae Pauli ad Romanos etc., Brunsvigae 1758, with an engraved plate showing the two overlying scripts, each printed with a separate plate one over the other. id., Ulphilae [1762] cit. (n. 14), pp. 507-526: rescripti cum textibus semianimibus: (1) Cod. Guelf. 64. Weiss., (2) Cod. Guelf. 76. Weiss., (3) Cod. Guelf. 14.15 Aug. 4o, (4) Cod. Guelf. 227. Gud. lat., (5) Cod. Guelf. 30. Gud. lat., (6) Cod. Guelf. 112. Gud. gr., (7) Cod. Guelf. 76.29 Aug. fol. with an old annotation by Hermannus Conringius (1606-1681) cited on p. 515, (8) Cod. Guelf. 56.24 Aug. 8o, (9) Cod. Guelf. 82.3 Aug. fol.; rescripti cum textibus semisepultis aut sepultis: (10) Cod. Guelf. 60.15 Aug. 4o, (11) Cod. Guelf. 50.4 Aug. 4o, (12) Cod. Guelf. 50.5 Aug. 4o, (13) Cod. Guelf. 311. Gud. lat., (14) Cod. Guelf. 68.18 Aug. 8o, (15) Cod. Guelf. 42. Gud. lat., (16) Cod. Guelf. 51.12 Aug. 4o, (17) Cod. Guelf. 82.10 Aug. 8o. Knittel uses other criteria of distinction between categories of codices rescripti: superimposition of manuscript above manuscript or print above print (homogenei manuscripti et impressi or the latter type as codices reimpressi) and that of manu­ script above print or vice versa (heterogenei semiimpressi et semiscripti). See his examples for codex heterogeneus semiimpressus and codex reimpressus in Knittel, Ulphilae cit. (n. 14), pp. 523-526.

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on the legibility of their texts: textus semianimes, which he found relatively well legible; semisepulti; and sepulti, which appeared barely legible; he also made effort to distinguish between the different types of lower texts as well. Knittel wanted to share the visual appearance of the pages with scholars to confirm his readings and conjectures and to clarify the points of uncertainty. For this purpose, he published several engravings of each palimpsest (Ulphilas, Greek Bible and Galen), some with the upper and lower texts combined16 and some showing only the lower texts, as well as plates of similar scripts for comparison. Knittel was consistent in using precise references to pages and folios of manuscripts in Wolfenbüttel. At the same time, he refused the use of chemical reagents, already applied without major success by Boivin, saying that “a critic approaches a codex rescriptus not as a physician but as Oedipus”.17 The basis of Knittel’s significant discourse on palimpsest studies has a close link with a Vatican manuscript, Vat. lat. 5763, which was identified as rescriptus as early as 1797,18 and was also copied in Bobbio. The lower text of Vat. lat. 5763, f. 30 was in fact part of the same Galen manuscript which was recycled in Cod. Guelf. 64 Weiss.19 In the end it was Angelo Mai who discovered, transcribed and identified this text.20 However, he did not make the link with the Wolfenbüttel manuscript which was available in Knittel’s publication with an engraved plate and a detailed presentation of this text and its script.21 The study of palimpsests was normally a collaborative work between scholars sometimes from distant places. Diplomatic 16 On the engraved facsimiles of Ulphilas, see Knittel, Ulphilae [1762] cit. (n. 14), Tab. I: f. 256 (combined print from two respective plates: the upper text of Isidore of Seville and the Gothic and Latin lower text in outlined form), Tab. II: print from the Gothic and Latin lower text in solid form. 17 Knittel, Ulphilae [1762] cit. (n. 14), p. 219. 18 F. Arevalo (ed.), S. Isidori Hispalensis episcopi Hispaniarum doctoris opera omnia, II, Romae 1797, pp. 289-290. 19 H. Schöne, Ein Palimpsestblatt des Galen aus Bobbio, in Sitzungsberichte der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften 1902, pp. 442-447. K. Koch, Das Wolfenbüttler Palimpsest von Galens Schrift περὶ τῶν ἐν ταῖς τροφαῖς δυνάμεων (Sitzungsberichte der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften. Gesammtsitzung vom 31. Januar. 1907. V.), pp. 103-111. D. Harlfinger, C. W. Brunschön, M. Vasiloudi, Die griechischen medizinischen Palimpseste (mit Beispielen ihrer digitalen Lektüre), in Ärzte und ihre Interpreten. Medizinische Fachtexte der Antike als Forschungsgegenstand der Klassischen Philologie. Fachkonferenz zu Ehren von Diethard Nickel, hrsg. C. W. Müller, Ch. Brockmann, C. W. Brunschön, Lepizig 2006, pp. 143-164, here pp. 146-150. 20 See Mai’s transcription of Vat. lat. 5763, f. 30 in Vat. lat. 9535, f. 289r-v. A. Mai, Iuris Civilis Anteiustinianei reliquiae ineditae ex codice rescripto Bibliothecae Pontificiae Vaticanae, Romae 1823, pp. 457-458 (Appendix III). 21 Knittel, Ulphilae [1762] cit. (n. 14), pp. 250-263 (§§. 80-96), Tab. VI. Spec. III-IV.

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transcriptions and facsimile plates played an important role in providing colleagues with a solid ground for a profitable academic discourse. 2. Publishing classical literature from palimpsests: epigraphy or philology? Pal. lat. 24, the first palimpsest manuscript discovered in the Vatican Library, played an important role in the history of recovering erased classical literary texts in general. Hardly legible lower texts could be seen and approached with the means of epigraphy and philology as well. Physical fragmentation and illegibility invited the epigrapher’s approach, which sought to reproduce the image of the inscriptions and their careful diplomatic transcription. Epigraphers’ editorial interventions served the attempt to reconstruct what had been damaged or lost.22 Philologists, on the other hand, treated damaged and illegible sections differently. They regarded these texts primarily as literary ones written by authors whose style and vocabulary were often known, enabling intuitive conjectures according to the intended meaning of the text. Angelo Mai, for example, combined the scholarly method of assembling textual fragments recovered from various secondary authorities (Photius’ Bibliotheca, the Suda, collections of excerpts and epitomes) and from palimpsests, when publishing the new passages from various historians recovered from the lower text of Vat. gr. 73, which included the recycled fragments of the De sententiis collection of the Excerpta Constantiniana.23 When studying Pal. lat. 24, Angelo Mai and Barthold Georg Niebuhr left behind ample space for improvements to the hardly legible texts. At the same time, Niebuhr sought to present arguments which could be a basis for further debate. The layout of the individual pages and the distribution of texts have been important in this discourse from the very beginning. Niebuhr was the first to use references to the folio numbers which were already present in Pal. lat. 24 by the mid-seventeenth century.24 In some 22 A. E. Cooley, The Cambridge Manual of Latin Epigraphy, Cambridge 2012, pp. 435-438. 23 Mai complemented the new classical fragments recovered in Vat. gr. 73 from other sources and edited them according to the primary authors. Scriptorum veterum nova collectio, ed. A. Mai, II, Romae 1827, pp. 296-318 (Eunapius), 331-347 (Dexippus), 352-353 and 364-366 (Menander Protector), 465-526 (Dionysius Halicarnasseus), 527-568 (Cassius Dio), 568-570 (Diodorus Siculus). On the inclusion and exclusion of authors and Mai’s diplomatic transcription of Vat. gr. 73 in Vat. lat. 9544, see A. Németh, The Excerpta Constantiniana and the Byzantine Appropriation of the Past, Cambridge 2018, pp. 271-272; id., Layers of Restorations: Vat. gr. 73 Transformed in the Tenth, Fourteenth and Nineteenth Centuries, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae XXI, Città del Vaticano 2015 (Studi e testi, 496), pp. 281-330, esp. Table 1 on p. 292. 24 See its description in Vat. lat. 7122, f. 37r: n. 32. On this inventory, see C. Montuschi, Le bibliotheche di Heidelberg in Vaticana: i fondi Palatini, in Storia della Biblioteca Apostolica

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way, the first publication of a fragment from Livy, Book XCI from this palimpsest set future editors a model to follow despite the scholarly controversy about the appropriate way of publishing this new fragment in five different editions in 1773. The first discovery of a Vatican palimpsest was encouraged by an engraved plate reproducing a detail of Pal. lat. 24. In 1772, Paul Jakob Bruns, a German theologian, Biblical scholar and philologist, visited the Vatican Library to study Hebrew manuscripts and other old witnesses of Biblical texts. As we have seen, the early study of palimpsests focused on ancient Biblical texts and Biblical translations, making Biblical scholars alert to palimpsests and making them the first to identify classical literary texts hiding under the upper texts.25 Bruns’ curiosity was aroused by Giuseppe Bianchi, who briefly referred to Pal. lat. 24 as a very early example for a few Old Testament Books in Latin and published an engraved plate of a ­facsimile-type detail without hinting at the presence of lower texts.26 Thereafter, Bruns’s discovery was purely accidental as he retold how he found a new fragment from Livy, Book XCI with a secure attribution based on the running title and the corresponding contents.27 Without a specialization in Greek and Latin classics, Bruns was not confident in reading the hardly legible traces of the former script and was happy to collaborate with the Neapolitan Jesuit scholar, Vito M. Giovenazzi, whom he met in Rome. They read the hardly legible text independently and differently without arriving at an agreement. However, the diplomatic transcriptions of the two indecisive scholars arrived to the hands of Francesco Cancellieri, who did not hesitate to quickly publish this important discovery in print. He collated the two transcriptions and invited Giovenazzi to comment on the Vaticana, III: La Vaticana nel seicento (1590-1700): una biblioteca di biblioteche, ed. ead., Città del Vaticano 2014, pp. 279-336: 311-313. 25 The first discovery of a classical literary palimpsest text was by Wettstein, who discovered an older underlying text on two folios of the codex Claromontanus (a famous bilingual Greek and Latin Biblical manuscript, Par. gr. 107B, ff. 162-163) from a tragedy which he mistakenly attributed to Sophocles. J. J. Wettstein, Novum Testamentum Graecum Editionis Receptae. II. Continens Epistolas Pauli, Acta Apostolorum, Epistolas Canonicas et Apocalypsin, Amstelaedami 1752, p. 6 with a tentative transcription of a portion of text following its layout in the manuscript. On the identification of the fragment as from Euripides, see G. Hermann, Euripidis fragmenta duo Phaethontis e Cod. Claromontano, Lipsiae 1821, pp. 3-5. On the controversy about the first publications of the disagreeing transcriptions, see J. Diggle, Epilegomena Phaethontea, in L’antiquité classique 65 (1996), pp. 189-199: 190-191. 26 Cf. G. Bianchini, Vindiciae canonicorum scripturarum vulgatae latinae editionis etc., I, Romae 1740, p. cccxxi with the first facsimile of Pal. lat. 24, f. 150r. 27 Bruns addressed the preface to Benjamin Kennicott, the canon of Christ Church in Oxford, P. I. Bruns, Fragmentum ex Lib. XCI. Historiarum Titi Livi Patavini, Parisiis (Nic. Aug. Delalain) 1773 and another edition in Hamburg (Bode) 1773. I saw the Paris edition: pp. 5-32.

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text. In 1773, following Bruns’s editorial guidelines, Cancellieri published a diplomatic transcription, a normalized one, and appended a list of alternative readings and Giovenazzi’s antiquarian commentary which was rich in examples from the field of Latin and Greek epigraphy. At the back of the book, Cancellieri published two engraved plates of the Livy fragment on which the lower text is depicted with dots (Tab. I: Pal. lat. 24, f. 78v, Tab. II: f. 75v) [Plates I-II]. In the front of this collection, he appended a preface in which he described in an appealing style the adventurous discovery of the new Livy fragment by Bruns and how he got the material from Bruns and Giovenazzi.28 Cancellieri’s rushed publication disappointed both scholars and encouraged each to publish the new discovery on his own. On the one hand, Giovenazzi found a publisher in Naples, Domenico Torres, who republished in the same year the core of the Roman edition (with diplomatic and normalized transcriptions, a list of alternative readings, an improved commentary and a longer list of corrections). Instead of Cancellieri’s preface, Torres appended his own in the front, as well as Gaetano Migliore’s letter in the back, with short reading samples from a palimpsest text he allegedly attributed, wrongly as it turned out later, to Cicero.29 This edition purposefully omitted the engraved plates of the two pages, saying that they were inaccurate and reproduced an incorrect transcription of the depicted pages. On the other hand, Bruns found a publisher in Hamburg who published his own transcription (normalized and diplomatic versions) without Giovenazzi’s commentary. Bruns appended a long preface in which he explained the story of the discovery and his editorial principles which Cancellieri also followed. The identical edition came out in Paris also in 1773. At the same time, Johann August Ernesti discovered the disagreement between Bruns’ and Giovenazzi’s readings and saw it profitable to republish the first Roman edition together with Giovenazzi’s commentary, which 28 F. Cancelleri, In Titi Livi fragmentum ἀνέκδοτον praefatio, in V. M. Giovennazio – P. I. Bruns, Titi Livi historiarum libri XCI fragmentum ἀνέκδοτον, Romae 1773, pp. i-xiv. F. Lo Monaco, In codicibus … qui Bobienses inscribuntur: Scoperte e studio di palinsesti bobbiesi in Ambrosiana dalla fine del Settecento ad Angelo Mai (1819), in Aevum 70 (1996), pp. 657-719: 668 n. 41. 29 Titi Livi historiarum libri XCI fragmentum ἀνέκδοτον descriptum et recognitum a praeclaris viris Vito M. Giovennazio, Paullo Iacobo Bruns, ex schedis vetustissimis Bibliothecae Vaticanae. Eiusdem Giovenazzii in idem fragmentum scholia nova accessionibus in altera edition locupletata. Accedit clariss. viri Caietani Migloire de nonnullis Ciceronis, ut videtur, fragmentis ex eodem Vaticano codice excerptis epistola, Neapoli, Apud Domenicos Terres et filios, 1773, pp. ix-xvi (Torres’ preface), xvi (argument for the omission of the engraved plates). S. Pittia, Vraies et fausses redécouvertes du plaidoyer cicéronien pro Roscio comoedo, in Revue de philologie, de littérature et d’histoire anciennes 83 (2004), pp. 265-288: 279-287.

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was absent from the Hamburg edition. With the permission of the Roman publisher, he edited a second, basically unchanged version of the entire package of the Roman edition, appending his own preface and a final note to readers in Leipzig in 1773. The controversies around the publication of the first securely identified classical literary fragment from a palimpsest manuscript demonstrates how important the scholarly community found the problem of objective observation. Despite the various disagreements, all agreed to publish a diplomatic transcription of the lower texts, line by line, column by column and page by page, in the fashion of epigraphical publications and of the earliest papyrological ones. However, the first publishers did not refer to the folio numbers which were already present in the manuscript. Diplomatic transcription was an essential element of the scholarly decipherment of palimpsest texts from the very beginning, but not all scholars agreed in sharing this working phase with the public. As we have seen, Bruns set the model and underlined the importance of sharing a diplomatic transcription in print: all publications of the new Livy fragment included the respective editors’ diplomatic transcriptions. In his industrious and systematic survey and exploration of codices rescripti, nevertheless, Angelo Mai rejected the idea of sharing the result of this working phase with his colleagues. Mai’s surviving diplomatic transcriptions demonstrate how important it was to Mai to prepare careful and reliable diplomatic transcriptions, his schedae, as he called them.30 These diplomatic transcriptions enabled Mai to establish the sequence of the folios, and to prepare the normalized transcriptions and commentaries for final publication in print. His exclusive access to the manuscripts made Mai’s position unique compared to others who were interested in classical lower texts. The omission of the diplomatic transcriptions in some way reinforced his privileged access to manuscripts and hampered the later verification of his readings. When Mai published the first discoveries he made in the Biblioteca Ambrosiana, he did not include diplomatic transcriptions and did not indicate the location within the manuscripts from which the published texts derived. By this approach, he delivered a massive body of newly discovered classical literary texts to the field of textual philology without any concern for their unique material manifestations. Mai’s rushed publications of new classical texts left ample space for criticism and conjectures for careful philologists. Among other points, Niebuhr had two major critical disagreements with 30 On

Mai’s diplomatic transcriptions, see Th. Janz, Angelo Mai e i palinsesti della Vaticana, in Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, V: La Biblioteca Vaticana dall’occupazione francese all’ultimo papa re (1797-1878), ed. A. Rita, Città del Vaticano 2020, pp. 193-220.

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Mai.31 First, Niebuhr did not agree in the reconstructed order of the palimpsest folios that included Fronto’s letters as Mai reassembled the textual fragments. Second, Niebuhr found it fundamental to publish a diplomatic transcription of the palimpsest texts as Bruns and editors of inscriptions and the Herculaneum papyri had done before.32 Niebuhr, who did not see the Fronto palimpsest in the Biblioteca Ambrosiana when correcting Mai’s mistakes, had to refer to the page numbers of Mai’s first publications, since Mai had not indicated where the new texts come from.33 When responding to Niebuhr’s criticism, Mai referred to the page numbers of his own Milan edition and Niebuhr’s Berlin edition and did not refer to the manuscript.34 Let us have a closer look at Mai’s and Niebuhr’s different views of the role of objective observation and of the importance of sharing diplomatic transcriptions of lower texts such as those found in Pal. lat. 24. Niebuhr began to study palimpsests in the Vatican Library before Mai’s arrival. Understandably, Niebuhr focused on Pal. lat. 24, the manuscript which was famous for its fragment of Livy and several other lower texts, as hinted at by Bruns and Giovenazzi, waiting for further exploration. Niebuhr identified most of its ten different source manuscripts,35 and illustrated seven of them with engraved plates,36 and some of them with dip31 B. G. Niebuhr, M. Cornelii Frontonis reliquiae ab Angelo Maio primum editae: meliorem in ordinem digestas suisque et Ph. Buttmanni, L. F. Heindorfii ; ac selectis A. Maii animadversionibus instructas edidit, Berolini 1816, pp. viii-x (on the revised order of the folios), xiv-xv (on the utility of diplomatic transcriptions). 32 B. G. Niebuhr (ed.), M. Tulli Ciceronis orationum pro M. Fronteio et pro C. Rabirio fragmenta, T. Livii lib. XCI. fragmentum plenius et emendatius, L. Senecae fragmenta ex membranis Bibliothecae Vaticanae, Romae 1820, p. 27. On the Herculaneum papyri, see Herculanensium voluminum quae supersunt, I-XI, Neapoli 1793-1855. 33 Mai did not give precise indications (shelfmark and page or folio numbers) of the provenance of the new texts he edited from Ambrosianus R 57 sup. (M. Tullii Ciceronis trium orationum pro Scauro, pro Tullio, pro Flacco partes ineditae etc., ed. A. Mai, Romae 1814), Ambrosianus R 147 sup. (M. Tullii Ciceronis trium orationum in Clodium et Curionem de aere alieno Milonis de rege Alexandrino etc., ed. id., Mediolani 1814; M. Cornelii Frontonis opera inedita cum epistulis item ineditis Antoni Pii M. Aurelii L. Veri et Appiani nec non aliorum veterum fragmentis, ed. id., Mediolani 1815). See Niebuhr’s references to Mai’s 1815 edition of Fronto’s letters in Niebuhr, M. Cornelii Frontonis [1816] cit. (n. 31), pp. 3, 18, 74-76, 96, 113-114, 153-154, 179-180, 209, 227, 239-240, 286-288. 34 A. Mai, De editionibus principibus Mediolanensibus fragmentorum Ciceronis atque operum Frontonis commentationes, Mediolani 1817. 35 Niebuhr, M. Tulli Ciceronis [1820] cit., pp. 35-64 (overview of the separate lower texts including the identification of Lucanus, Gellius and hints on the Greek medical fragment and the rhetorical Latin fragment), 108-114 (Cicero, Pro Fronteio), 65-83 (Cicero, Pro C. Rabirio, Pro Sex. Roscio), 85-97 (Livy), 99-104 (Seneca), 105-107 (Hyginus without the identification of the author). 36 Niebuhr, M. Tulli Ciceronis [1820] cit. (n. 32), a plate with small details from seven lower texts inserted between pp. 8 and 9.

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lomatic transcriptions,37 leaving three undeciphered. Right after Niebuhr’s publication, Angelo Mai focused on the texts that his German colleague had left unexplored; he made diplomatic transcriptions of each of them, but published none of his diplomatic transcriptions.38 For example, Mai was proud to be able to read and publish the fragment from Fronto (Pal. lat. 24, ff. 46+53) which Niebuhr could not read. In addition, he suggested improvements on some of the sections of Pal. lat. 24.39 Unlike Mai, Amedeo Peyron followed in the footsteps of Bruns, Giovenazzi and Cancellieri (1773) and of Niebuhr (1820), publishing a diplomatic transcription of Cicero’s orations with commentaries, without reference to the page numbers of the source manuscripts from Turin but with reference to the folios in the list of variant readings.40 However, Mai seems to have learnt from Niebuhr’s criticism and marked the page or quire breaks of the source manuscript or inserted diagrams with the collations of the respectively reconstructed codices in the numerous editions he made from Vatican palimpsests.41 By doing so, Mai established an objective foundation for 37 Niebuhr,

M. Tulli Ciceronis [1820] cit. (n. 32), pp. 47-52 (Cicero, Pro Fronteio), 71-73 (Cicero, Pro C. Rabirio), 89-90 (Livy). 38 A. Mai, Nuove notizie del codice Vaticano Palatino XXIV, Intorno a’ frammenti di Seneca nel codice Vaticano Palatino XXIV, in Giornale Arcadico di Scienze, Lettere ed Arti 8 (1920), pp. 86-93 (Fronto and the Greek medical fragment), 233-236 (comments on the fragment from Seneca). See Mai’s edition of Pal. lat. 24, ff. 46 + 53 in Mai (ed.), M. Cornelii Frontonis et M. Aurelii imperatoris epistolae, L. Veri et Antonini Pii etc. epistolarum reliquiae e codice rescripto Bibliothecae Pontificiae Vaticanae, Cellis 1832, pp. 144-146. id. (ed.), M. Cornelii Frontonis et M. Aurelii imperatoris Epistulae et alia scripta, Romae 1846, pp. 237-239. See his diplomatic transcription in Vat. lat. 9535, ff. 223-225. See Mai’s diplomatic transcriptions of Pal. lat. 24, f. 122r (Cicero, Pro C. Rabirio: Vat. lat. 10163, f. 20r), Gellius (Vat. lat. 10163, 46r-67v), f. 52r-v (fragmenta oratorica: Vat. lat. 10163, 101r-v), ff. 41-42 (Greek medical fragment: Vat. lat. 10163, 102r-103v), f. 46 (Fronto: Vat. lat. 10163, 104r-v) and ff. 53+46 (Vat. lat. 9535, ff. 223r-235v, 289). 39 E.g. Cicero, Pro Fronteio and Pro C. Rabirio (Pal. lat. 24, ff. 81+86, 100+101, 74+77, 122+128a, 125+126) in Classici auctores, II, ed. A. Mai, Romae 1828, pp. 363-372. 40 A. Peyron (ed.), M. Tulli Ciceronis orationum pro Scauro, pro Tullio, et in Clodium fragmenta inedita pro Cluentio, pro Caelio, pro Caecina etc., Stuttgardiae-Tubingae 1824, pp. 8-9 (the reconstructed order of folios), 13-68 (diplomatic transcriptions), 185-217 (variant readings with references to folio numbers), 221-222 (diplomatic transcription of Taurinensis A.II.2* with folio numbers), 228-231 (arguments against Mai based on the published layout and precise reference to page number of the manuscript). 41 E.g. his various editions of Cicero, De re publica; the Excerpta Constantiniana de sententiis from Vat. gr. 73 in Scriptorum veterum [1827] cit. (n. 23), indicating the linebreaks and the reconstructions of the correct order of the recycled folios with diagrams on pp. 134, 462-464; commentaries on Cicero’s orations (Ambrosianus E 147 sup. and Vat. lat. 5750), in Classici auctores, II, Romae 1828, pp. (on the reconstruction of the original codex) 2, 46-47, 89, 121) and Fronto with reference to quires (again Ambrosianus E 147 sup. and Vat. lat. 5750) in M. Cornelii Frontonis et M. Aurelii imperatoris epistulae. L. Veri et Antonini Pii et Appiani episto-

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a scholarly discourse on the appropriate order of folios. Perhaps his habit of paginating manuscripts somehow is linked with this practice. In addition, Mai found it important to follow Cancellieri’s example in ­publishing engraved plates that illustrate the superposition of the two scripts and the palaeographical features of each.42 Normally, he used separate plates to reproduce the exact position of the two overlying scripts and create the facsimile of a small detail of an actual manuscript. Mai assembled most such engraved plates in one of his manuscripts (Vat. lat. 9586), demonstrating his antiquarian curiosity which persisted from the beginning of his study of palimpsests. In his earliest writings on palimpsests, Angelo Mai too emphasized the analogy of the phenomenon of recycling the writing surface of manuscripts with those of re-striking coins, adding new details to paintings, re-carving statues, and the spolia in architecture.43 However, he promoted himself as an editor of new texts and collector of alternative readings of important texts, often obscuring the borderline between observation and conjecture, which finally outweighed his antiquarian approach to palimpsests. In the footsteps of Bruns e Giovenazzi, several other editors of palimpsest texts followed the principle of diplomatic transcriptions to facilitate the consultation of important and hardly legible manuscripts, while others omitted them as did Mai. Instead of exploring the various forms of diplomatic transcriptions of palimpsests in detail, I mention a few major options from which scholars chose when publishing palimpsest texts in the nineteenth century. Reproducing the page and line breaks was a frequent solution. Theodore Heyse, for example, published the Polybian excerpts from Vat. gr. 73 in Berlin in 1846 in the framework of an annotated diplomatic transcription but full with conjectural readings.44 Konstantin von Tischendorf combined the idea of facsimile-like editions with the application of larum reliquiae etc., ed. A. Mai, Romae 1823, pp. xiv-xv (with a diagram of the collation from Vat. lat. 5750); see also Mai (ed.), Iuris Civilis Anteiustinianei [1823] cit. (n. 20), pp. xiv (with a diagram of the collation of the original codex from Vat. lat. 5750); Cicero, In Verrem II-V (Reg. lat. 2077) in Classici auctores, II, Romae 1828. The quire breaks are indicated in Mai (ed.), M. Cornelii Frontonis [1846] cit. (n. 38), pp. xxi-xxii (with a diagram of the collation of the original codex). 42 E.g., Mai (ed.), M. Cornelii Frontonis [1823] cit. (n. 41), folio inserted after p. xiv (engraved facsimile of a detail of Pal. lat. 24, f.46 column 2). 43 A. Mai, De Ciceronis fragmentorum nupera inventione dissertatio, in id. (ed.), M. Tullii Ciceronis trium orationum [1814] cit. (33), pp. i-xiv: ix. 44 Th. Heyse, Polybii Historiarum Excerpta Gnomica in palimpsesto Vaticano LXXIII Ang. Maii curis resignato, Berolini 1846. On his practice of supplying the diplomatic transcription of the hardly legible text with conjectural readings, see A. Németh, The Suicide of Hasdrubal’s Wife Revisited in a New Fragment of Polybius, in the publication at press for the memory of Paul Canart.

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movable typefaces in different sizes and with a range of frequent ligatures when publishing the appealing transcriptions of many majuscule Greek Uncial codices, including several palimpsests.45 This was an improvement compared to the diplomatic transcription of the Codex Ephraemi Rescriptus in uppercase Greek letters.46 Editors sometimes published their own facsimile-like transcriptions of the lower texts as Eduard Böcking did with the Verona codex of Gaius’ Institutiones.47 Virtual facsimile unification of a former codex from palimpsest fragments of different codices also took place in print. Hans Ferdinand Massmann, for example, published the Gothic fragments in their reconstructed order from Ambrosianus E 147 sup. and Vat. lat. 5750.48 The idea of photographic facsimile edition of hardly legible texts was not raised before the end of the nineteenth century. 3. The first facsimile of an entire palimpsest codex: Vat. lat. 5750 Document photography, which is almost as early as analog photography, normally satisfies the scientific need for objectivity because it is able to mechanically reproduce an objective vision of a manuscript page.49 This technical approach seems to eliminate the mediation of the subjective human observer who earlier produced engravings or hand-written facsimile copies or typeset facsimiles.50 However, palimpsests continued to challenge philologists and photographers alike and prompted collaboration between them. The photography of palimpsests requires great expertise from the photographer who is expected to reproduce an improved visibility compared to what a normal eye is able to see with natural light. The col45 K. von Tischendorf (ed.), Monumenta Sacra Inedita, II, Lipsiae 1857, p. xiv. Tischendorf published this series at the publishing house of Hermann Giesecke and Alphonse Devrient. 46 K. von Tischendorf (ed.), Codex Ephraemi Syri Rescriptus, Lipsiae 1843. 47 See the reconstructed collation of the recycled original codex in E. Böcking (ed.), Gai Institutiones Codicis Veronensis Apographum ad Goescheni Hollwegi Bluhmii Schedas conpositum, Lipsiae 1866, p. ix. 48 H. F. Massmann, Auslegung des Evangelii Johannis in gothischer Sprache: aus römischen und mayländischen Handschriften; nebst lateinischer Übersetzung, belegenden Anmerkungen, geschichtlicher Untersuchung, gothisch-lateinischem Wörterbuch und Schriftproben, München 1834, pp. 3-34 (quasi-facsimile edition with possible alternative interpretations inserted as notes). 49 Ch. Faraggiana di Sarzana, La fotografia applicata a manoscritti greci di difficile lettura: origini ed evoluzione di uno strumento di ricerca e i principi metodologici che ne regolano l’uso, in A. Escobar (ed.), El palimpsesto grecolatino como fenómeno librario y textual, Madrid 2006, pp. 65-80; K. Krumbacher, Die Photographie im Dienste der Geisteswissenschaften, Leipzig 1906. 50 On the late nineteenth- and early twentieth century discourse on scientific objectivity, see L. Daston – P. Gallison, Objectivity, New York 2007.

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laboration between two German scholars, Ernst Pringsheim, a physicist, and Otto Gradenwitz, a historian of Law and lexicographer, resulted in a special method that enabled the enhancement of lower texts of recycled manuscripts.51 They processed two geometrically perfectly congruent negative plates, an over-exposed one and an under-exposed one, each producing different intensity for the lower script. Then they used a positive plate made from the under-exposed negative plate as a mask to process a positive reproduction without the upper script. In addition to the simultaneous reproduction of the two superimposed scripts, it thus was possible to process respective positive reproductions for the upper script and for the lower script. The increasingly common practice, in large libraries, of granting the learned public open access to their collections, together with the idea of international collaboration across borders, gradually put photography at the service of scientific study and document conservation. In 1895, a couple of decades after his Vatican experience of studying various Bobbio palimpsests (Vat. lat. 5757, Vat. lat. 5750),52 Willem Nikolaas du Rieu (1829-1896) invited Franz Ehrle, the new prefect of the Vatican Library, to participate in the new project of the Société de Reproduction53 under his coordination. With regulations and distinguished membership criteria and a subscription fee, the “Society of Reproductions” attempted to coordinate faithful and complete photographic editions of important manuscripts in the service of conservation and philological studies based on scientific instead of commercial criteria.54 In the end, Ehrle decided not to participate in this project but adopted the idea. He launched a Vatican series of facsim51 E. Pringsheim and O. Gradenwitz, Photographische Reconstruktion von Palimpsesten, in Jahrbuch für Photographie und Reproduktionstechnik 15 (1901), pp. 52-56. See the bibliographical note on this publication in Veröffentlichung in den Verhandlungen der Physikalischen Gesellschaft in Berlin, 1894 in Ehrle’s hand in Arch. Bibl. 205, f. 361r. 52 W. N. du Rieu, M. Tulli Ciceronis De re publica codex palimpsestus Vaticanus, in Schedae Vaticanae in quibus retractantur: palimpsestus Tullianus de re publica, C. Iulius Victor, Iulius Paris, Ianuarius Nepolitanus, alii ab Angelo Maio editi, Lugduni-Batavorum 1860, pp. 1-126 (Vat. lat. 5757), 127-136 (Vat. lat. 5750). W. N. du Rieu – S. A. Naber, M. Cornelii Frontonis et M. Aurelii imperatoris epistulae. L. Veri et T. Antonini Pii et Appiani epistularum reliquiae, Lipsiae 1867. 53 The idea came from an international conference of the American Library Association in Chicago in 1894. The American libraries had few mediaeval parchment codices, so photographic reproductions could enrich their collections. On this project, see A. W. Sijthoff, A. W. Sijthoff’s enterprise of the Codices graeci et latini photographice depicti duce Bibliothecae Universitatis leidensis praefecto, Lugduni-Batavorum [1908]. 54 See the correspondence on 23 July 1895 in Arch. Bibl. 205, ff. 339-345. This initiative gave birth to the first facsimile series of photographic editions of entire manuscripts: Codices Graeci et Latini photographice depicti, vols. I-XXII, Lugduni-Batavorum 1897-1970.

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ile reproductions (Codices e Vaticanis selecti phototypice quam simillime expressi) in the conference in Sankt Gallen in 1898 for the same purpose, namely to substitute the access to the original manuscripts with facsimile editions, for conservation purposes, and to facilitate scientific research even at a distance.55 A few palimpsest manuscripts were selected for this project, despite the technical limitations which made it impossible to guarantee legibility in those manuscripts which had been treated with nutgall tincture by Angelo Mai. In 1905, Edmund Hauler realized that he could not continue his work on the collated diplomatic transcription of Fronto’s letters, which was to be the basis of a new critical edition.56 He had already received a substantial portion of proofs which had been corrected by a distinguished group of German professors of Latin philology. Vat. lat. 5750 could not be consulted because it had been unbound and treated with gelatine. This conservation treatment preceded the photography of the entire manuscript by Giulio Danesi, a professional photographer. One year later, readers had the option of consulting the photographic facsimile of this entire codex in print. However, philologists who wanted to decipher the hardly legible texts had mixed feelings. The high quality black & white photographs were not an appropriate substitute for the study of the original manuscript on most pages. Because of World War One and the evolvements of the events, this publication of Fronto’s letters from Vat. lat. 5750 and Ambrosianus E 147 sup. was never finished.57 The first photographic facsimile edition of an entire palimpsest manuscript (Vat. lat. 5750), the predecessor of today’s digital equivalents, was made under the supervision of the Vatican Library.58 The contract between the Administration of the Vatican Library, the photographer and the pub55 M. G. Critelli, La Biblioteca Vaticana e i facsimili, in Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena, Memorie Scientifiche, Giuridiche, Letterarie Ser. VIII, v. XV (2012), fasc. II. pp. 491-506: 491-494. F. Ehrle, S.J., Über die Erhaltung und Ausbesserung alter Handschriften, in Zentralblatt für Bibliothekswesen 15 (1898), pp. 17-33: 18-21 (on the damage of palimpsests caused by chemical treatments), 23-27 (on the use of gelatine); id., Die internationale Konferenz in St Gallen am 30. September und 1. October 1898 zur Beratung über die Erhaltung und Ausbesserung alter Handschriften, in Zentralblatt für Bibliothekswesen 16 (1899), pp. 27-44: 31-33 (on the photography of palimpsests and their conservation treatments). 56 E. Hauler, Bericht über den Stand der Frontoausgabe, in Verhandlungen der 48. Versammlung Deutscher Philologen und Schulmänner in Hamburg 1905, Leipzig 1906, pp. 51-53. 57 On the permanent interruption of this diplomatic transcription and the planned new critical edition, see M. P. J. van den Hout, Prolegomena, in M. Cornelii Frontonis Epistulae (schedis tam editis quam ineditis Edmundi Hauleri usus), ed. M. P. J. van den Hout, Leipzig 1988, pp. viii-lxxx: lxviii-lxxi. 58 M. Cornelii Frontonis aliorumque reliquiae quae codice vaticano 5750 rescripto continentur (Codices e Vaticanis selecti, 7), Mediolani 1906.

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lishing house enable us to see how Vatican palimpsests were photographed in 1905-1906. The Vatican Library established a business model with one of Rome’s best professional photographers, Giulio Danesi, and with the Milanese publisher, Ulrico Hoepli.59 The Administration of the Vatican Library maintained the scientific verification of the quality of the images, the right to produce explanatory material and to control the print run and the profit of the photographer and the distributor. At the same time, this business model protected the financial interest of the photographer and the distributor under Vatican supervision and enabled the Vatican Library as well to make a small profit. Ehrle took up the role of writing the scientific introduction to the facsimile edition of Vat. lat. 5750, in which he was careful to meet the various criteria of objectivity. A facsimile edition is expected to reduce the need to consult the original manuscript to exceptional cases. For this purpose, Ehrle made a special effort to describe precisely the collation of the actual codex and to present the scholarly debate on the reconstruction of the former codices of the various lower texts, together with those originating from Ambrosianus E 147 sup. As we have seen above, Angelo Mai initially did not pay adequate attention to the correct reconstruction of Fronto’s letters, and was criticized for this by Niebuhr. The scholarly debate went on about the correct order of the recycled bifolios. In his conclusions about the most probable reconstructions, spotting Angelo Mai’s mistakes in his reconstructions of two of the recycled codices, those of Fronto and of the orations of Cicero, Ehrle used photographic details as evidence to support his arguments.60 At this point, Ehrle refuted the observation of Angelo Mai, who had been one of the greatest palimpsest experts, with objective photographic evidence, contestable by the reader, instead of making reference to subjective observation of other experts or of his own. Ehrle used the photographic prints of palimpsest manuscripts to facilitate scientific research and to guarantee the conservation of the damaged manuscripts. Between 1906 and 1908, for example, three young scholars 59 See the contract, signed in Rome and Milan on 15 September 1906, in Arch. Bibl. 222, pt. A, ff. 61r-62v. Giulio Danesi guaranteed the printing of 155 copies, of which he kept one and sent 19 to the Vatican Library (in addition to two sets of proofs); Hoepli was obliged to buy 135 copies with a 40% reduction from Danesi, and had the option to buy with the same reduction 15 copies from the Vatican Library. Danesi received 60% of the set price of 135 copies from Hoepli (300 lira each); Hoepli earned 40% of the price of the sold copies; and the Vatican Library could make some money from 15 copies. Danesi was not allowed to print more than 155 copies or to use the negative glass plates without the permission of the Vatican Library. 60 F. Ehrle, Prafetatio, in M. Cornelii Frontonis [1906} cit. (n. 58), pp. 5-31: 9, 12.

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studied Vatican palimpsests in photographic prints.61 Konrat Ziegler, the German scholar, came to Rome in 1906 to study the Ennius fragments cited by Cicero in his De re publica. In 1914, still under Ehrle’s prefecture, when he returned to Rome to prepare the critical edition of this work, he principally worked from photographic prints at the German Archaeological Institute. The only relevant manuscript, Vat. lat. 5757, which is a palimpsest, had been photographed in 1903-1904. Another young scholar, Elias Avery Lowe (1879-1969) stayed in Rome between 1907 and 1911 and also experienced the advantage of photography for palaeographical research when studying manuscripts in the Vatican Library. A few decades later, in 1934, he published the first volume of Codices Latini Antiquiores: a Palaeographical Guide to Latin Manuscripts Prior to the Ninth Century (CLA), which he dedicated to Cardinal Franz Ehrle. This volume presented Vatican manuscripts, including many palimpsests, each illustrated with excellent photographs, printed from Lowe’s rich collection of negatives. The young American scholar Albert William van Buren (1878-1968) was the third scholar; he spent his Roman fellowship year at the American School of Classical Studies in the company of photographic prints. In 1908, he prepared a diplomatic transcription of Cicero’s De re publica from the photographic prints of Vat. lat. 5757 which Ehrle had lent to the American School. In the end, van Buren’s tentative diplomatic transcription was not acknowledged by the Vatican Library because of its shortcomings; he published it independently in 1908.62 The facsimile of Vat. lat. 5757 was published as late as in 1934, with Giovanni Mercati’s preface, from the negative glass plates which Giulio Danesi had made in 1903-1904. Conclusions Scholarly observation has been highly influenced by disciplinary frameworks, as is demonstrated by the changing perception of palimpsests. Antiquarian philology first focused on textual sources about palimpsests and ignored their real manifestations. Later on, it adapted the use of classical terms (palimpsestus and rescriptus) to the updated framework of scientific observation. For the first observers, palimpsests did not fit an obvious disciplinary framework. They resembled damaged antiquities with prestigious texts, like inscriptions or papyri. At the same time, they featured in 61 A. Németh, Recovery of Conflicting textual identities: Augustine and Cicero in Vat. Lat. 5757, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae XXIII, Città del Vaticano 2017 (Studi e testi, 516), pp. 405-450: 413-416. 62 A. W. Van Buren, The Palimpsest of Cicero De Re Publica, in Supplementary Papers of the American School of Classical Studies in Rome, II, New York 1908, pp. 84-262.

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books that preserved overlaying Biblical, liturgical, scientific, literary and legal texts that were studied in the framework of the same discipline, textual philology. Because of the difficulty of reading them, the balance between productive and intuitive subjectivity and reliable objectivity, the appreciation of individual observation and productive collaboration, and the means of collating and objectifying individual observations played an important role in the scholarly discourse on palimpsests. As we have seen with the engraved or typographical or photographical facsimiles and various other means of facilitating debate on the highly intuitive reading of palimpsests, the scholarly answers to the challenges prompted by palimpsests fostered the development of both philology and photography, in which the Vatican Library played a significant role.

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Plate I – V. M. Giovennazio – P. I. Bruns, Titi Livi historiarum libri XCI fragmentum ἀνέκδοτον, Romae 1773, Tab. I with engraved plate of Pal. lat. 24, f. 78v.

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Plate II – Vatican City, Vatican Apostolic Library, Pal. lat. 24, f. 78v (upper text: Hieronymus, Praefatio in librum Job (cum asteriscis... liber foeditatem), lower text: Livy, Ab urbe condita XCI, fragmentum) 14 × 9 cm.

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PRESENZE FEMMINILI IN VATICANA DURANTE LA PREFETTURA DI ACHILLE RATTI (1914-1918)* La maggiore apertura al pubblico dell’Archivio Segreto e della Biblioteca Apostolica, istituzioni considerate unitariamente da papa Leone XIII (1878-1903), fu un’iniziativa senza precedenti, quale i tempi richiedevano1. Per il pontefice «la ricerca storica doveva […] svelare la verità negata e contraffatta dai nemici della fede; di questa verità, di questa ricerca della verità la Chiesa non aveva alcun timore; e mentre incitava i cattolici agli studi rigorosi e seri, apriva l’Archivio Segreto e la Biblioteca Apostolica a tutti gli studiosi, senza alcuna preclusione confessionale, ideologica o politica, come luogo e teatro di questa ricerca»2. Per realizzare veri centri di studi, mettendo a disposizione di coloro che cercavano la verità l’abbondante messe di documenti ivi conservati, fu necessaria una riorganizzazione radicale, a livello normativo, gestionale, logistico, del personale, degli strumenti bibliografici; in Biblioteca tutta la vita istituzionale fu reinterpretata. L’iniziativa del pontefice si tradusse in un costante aumento della presenza dei ricercatori, che cominciarono a giungere numerosi non più esclusivamente dall’Europa, ma anche da Oltreoceano. Nei registri degli studiosi introdotti nel 1885, si trovano dati interessanti in tal senso, e risulta subito evidente l’assenza di nomi femminili. Bisognerà attendere trent’anni e la prefettura di Achille Ratti perché la

* Un sentito ringraziamento a Paolo Vian e ad Alberto Forni. 1  L’Archivio Vaticano fu aperto formalmente a tutti gli studiosi nel 1881, mentre la Biblioteca si predisponeva ad affrontare grandi cambiamenti al suo interno per migliorare il servizio offerto. Il 23 novembre 1892 il cardinale Bibliotecario, Alfonso Capecelatro (18901912), arcivescovo di Capua, con una manifestazione solenne inaugurò la Sala Leonina nel piano sottostante il Salone Sistino, la nuova Sala di Consultazione, della cui necessità aveva discusso il Congresso direttivo (istituito con nuovo Regolamento, 21 marzo 1885) fin dal 30 aprile 1885, nel corso della sua terza adunanza. Nel 1885 erano stati riorganizzati gli spazi dedicati allo studio, con l’allestimento di una seconda Sala presso l’ingresso della Biblioteca Sistina, realizzata dalla Prefettura dei SS.PP.AA. Le adunanze del Congresso avevano luogo nella Sala appena allestita. 2 R. Farina, “Splendore veritatis gaudet ecclesia”, Leone XIII e la Biblioteca Apostolica Vaticana, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XI, Città del Vaticano 2004 (Studi e testi, 423), p. 301.

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presenza femminile in Biblioteca diventi “abituale” e venga regolarmente registrata. In Italia l’accesso delle donne ai licei e alle facoltà universitarie fu reso possibile solo dal 1874, quando il processo di unificazione del paese era stato completato e si stava realizzando un piano di riforme degli studi. ­L’iscrizione universitaria prevedeva l’obbligo di presentare la licenza liceale; non tutte le scuole superiori all’inizio accolsero le domande al femminile. La prima iscrizione di una studentessa alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma si ebbe nell’anno 1882-1883. Fino al 1890 furono pochissime, circa venti, le studentesse che conseguirono la laurea; nel 1900 circa duecentocinquanta ragazze erano iscritte nelle università italiane. Nel periodo 1901-1915 un numero crescente di studentesse conseguì il diploma di laurea; «i numeri cominciano a essere rilevanti, la sparuta pattuglia di fine Ottocento diventa un gruppo consistente; 102 si laureano in Lettere, 12 conseguono il titolo di dottore in Filosofia»3. Le richieste al femminile di ottenere l’ammissione in Vaticana per motivi di studio furono rare nel corso dell’Ottocento; e nel nuovo secolo, fino agli anni che precedettero il primo conflitto mondiale, la presenza del gentil sesso risulta sporadica. La prima domanda di ammissione, non datata, ma collocabile tra il 1802 e il 1809, fu presentata da Fulvia Bertocchi, romana, che chiedeva di poter riscontrare «quei Autori di cui ella n’è priva e che saranno a Lei necessari»4. Dalle prime richieste regolarmente conservate dal 1763 al 1885, anno di svolta nella storia istituzionale per i grandi cambiamenti posti in essere, le signore che risultano aver inoltrato domanda per studiare i manoscritti o le miniature, indipendentemente dall’esito ottenuto, sono undici, e Fulvia Bertocchi è l’unica italiana. Dal consolato di S. M. Britannica, in data 14 aprile 1856 venne presentata l’istanza della dama Charlotte Burton «per esaminare dei manoscritti»5. Il 30 novembre 1857 il dr. James Henry, irlandese, inoltrò domanda, che venne accolta,

3 G. Ciampi, Gli studenti di Lettere e Filosofia, in Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia de “La Sapienza”, a cura di L. Capo e M. R. Di Simone, Roma 2000, p. 637. 4 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 1 (1763-1860), f. 22. Maria Fulvia Bertocchi (17751852), poetessa e scrittrice, autrice di testi teatrali e didattici, in quel periodo preparava la Istoria generale dei popoli della Grecia. Con la descrizione e carte geografiche e carte cronologiche, Roma 1806. Ancora giovanissima, fu accolta nell’Accademia dell’Arcadia, e in seguito in altre accademie romane. Scrisse i testi che accompagnavano le incisioni di soggetti della storia greca e romana di Bartolomeo Pinelli (1871-1835), pubblicati nel 1821. Si evidenzia che le richieste raccolte nelle prime due scatole delle Ammissioni allo studio sono numerate; dalla scatola n. 3 i fogli non recano numerazione. 5 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 1 (1763-1860), f. 384.

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per «permettere a sé e alla propria figlia Caterina trarre le varie lezioni dai codici vaticani contenenti l’Eneide di Virgilio»6. Fino ad allora le richieste erano giunte prevalentemente da nobildonne che, come si evince dalle missive conservate, chiedevano di poter visitare la Biblioteca e ammirare qualche famoso manoscritto o gli splendidi affreschi, oppure desideravano riprodurre in disegno taluni soggetti artistici; richieste di questo tipo continuarono ad arrivare e non è sempre facile distinguerle da quelle presentare per motivi di studio. La risposta alla richiesta della principessa «Speranza Sciachovscoë», Nadeàda Šachovskaja7, ma soprattutto la corrispondenza ad essa collegata, ci fa comprendere la posizione delle autorità vaticane rispetto all’ammissione delle donne in Biblioteca per motivi di studio. La missiva della nobildonna fu inviata al card. Giacomo Antonelli (1806-1876), Segretario di Stato, nel 1866; ella chiedeva di poter consultare alcuni codici «desiderando far uno studio sulle miniature di alcuni manoscritti greci». Il 10 marzo la lettera fu trasmessa al primo custode, Alessandro Asinari di San Marzano8, che diede questa risposta: «Il regolamento non esclude il sesso femminino dal privilegio di studiare alla biblioteca tuttavia sarebbe poco conveniente introdurre una tale usanza — quanto alla domanda nulla osta salve le dovute cautele». Il 14 marzo Antonelli rispose ad Asinari che rimetteva al «savio di lui arbitrio il permettere ad essa [scil. la principessa Speranza] di accedere alla Biblioteca medesima»9. Un’altra studiosa di miniature, «la contessa Sofia Tolstoy», che abitava a Palazzo Campanari, in via delle Tre Cannelle, chiese l’ammissione alla Biblioteca nel 1866, accolta anch’essa10. Il 2 aprile 1869 Antoinette Marchand inoltrò istanza per «travailler à la Bibliothèque du Vatican, d’apres les manuscrits». Tra gli altri manoscritti chiedeva di prendere visione del codice «concernant la

  6 Ibid.,

f. 515.

  7 Nadeàda (Nadia) Šachovskaja (1847-1922) era consanguinea della famiglia reale russa.

Nel 1866 sposò l’archeologo Wolfgang Helbig (1839-1915), secondo segretario dell’Istituto archeologico germanico fino al 1887, ammesso alla Biblioteca dal 10 dicembre 1862, Arch. Bibl. Ammissione allo studio 2, pt. 1 (1861-1870), f. 143; trasferitosi a Roma, vi rimase tutta la vita. Villa Lante, la residenza degli Helbig, divenne un celebre salotto, frequentato da importanti personalità del mondo della cultura storica, letteraria e musicale.   8 Alessandro Asinari di San Marzano (1795-1876) fu nominato primo custode (prefetto) della Biblioteca il 27 giugno 1853; fu arcivescovo di Efeso e nunzio in Belgio.   9 AAV, Segr. Stato, anno 1866, rubrica 47, ff. 30r, 31v; 32v; e in Arch. Bibl. Ammissione allo studio 2, pt. 1 (1861-1870), f. 283; l’autorizzazione è datata 16 aprile 1866. 10 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 2, pt. 1 (1861-1870), f. 289. Sembrerebbe trattarsi della contessa Sofja Andreevna Miller nata Bakhmeteva (1827-1895), che sposò in seconde nozze il poeta Aleksej Kostantinoviç Tolstój, lontano cugino di Lev Tolstój.

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chasse au faucon», il Pal. lat. 107111. Al 1877-1878 risale la richiesta di miss Anna Brewster di Filadelfia di «esaminare con agio e tempo gli affreschi del Pinturicchio e d’altri, desiderando essa farvi uno studio particolare»12. Il 17 marzo 1864 ottenne «facoltà di essere ammessa» nella Biblioteca la signorina Aarestrup, di Copenhagen, presentata dal console di Danimarca, Giovanni Bravo13. Alla stessa data il card. Antonelli scriveva al console: «In seguito del desiderio che V.S. Ill.ma mi esponeva col suo foglio del 15 corrente, presi volentieri contezza della dimanda che in esso contenevasi. Ottenute le occorrenti notizie, non esito significarLe darsi da me contemporaneamente gli ordini opportuni a Monsig.r Primo Custode della Biblioteca Vaticana, affinché la nobile Sua raccomandata consegua l’effetto, pel quale Ella s’interpose»14. Nel 1878 la scrittrice Mary Agnes Tincker presentò la richiesta di poter consultare alcuni libri in Biblioteca15; nel 1871 aveva formulato analoga supplica e ottenuto l’accesso una certa Lana Connelly16. Marie Pellechet, francese, nel presentare richiesta di poter studiare in Biblioteca, datata 4 dicembre 1880, comunicava l’oggetto delle sue ricerche, di tipo liturgico, riguardanti la diocesi di Autun17. La studiosa era già stata in Biblioteca nel gennaio dell’anno precedente, presentata dal card. Alfonso Capecelatro (1824-1912), Bibliotecario di S.R.C.18. Tutte le richieste di ammissione venivano indirizzate alla Segreteria di Stato, che autorizzava, sentito il parere delle autorità della Biblioteca, con formula del tipo: «Analogamente al parere esternato da Msr. Primo 11 Arch.

Bibl. Ammissione allo studio, 2, pt. 1 (1861-1870), f. 442r-v.

12 Arch. Bibl. Ammissione allo studio, 1 (1763-1860), f. 61. Anne Maria Hampton Brewster

(1818-1892) visse a Roma e in altre città italiane e morì a Siena. Fu scrittrice e giornalista, una delle prime corrispondenti dall’estero per i quotidiani di diverse città americane; scrisse dell’arte italiana, di archeologia, architettura e di politica. 13 Ibid., f. 202. 14 Ibid., f. 201. 15 Arch. Bibl. Ammissione allo studio, 2, pt. 2 (1871-1889), f. 556. L’americana Mary Agnes Tincker (1833-1907) era una scrittrice di romanzi; discendeva da Thomas Tincker, che fu tra i primi a raggiungere il nuovo mondo a bordo della “Mayflower”. Ella cominciò a scrivere quand’era molto giovane; nel 1873 giunse in Europa e trascorse diversi anni in Italia e a Roma, dove approfondì la conoscenza della lingua e dei costumi locali, che le servivano per ambientare le storie che scrisse durante la permanenza nel nostro paese. 16 Ibid., f. 572. 17 Ibid., ff. 1205-1206. Marie Pellechet (1840-1900) pubblicò i cataloghi degli incunaboli di diverse città francesi prima di dedicarsi all’impresa del Catalogue général des incunables des bibliothèques publiques de France, iniziato nel 1897, che non riuscì a terminare. L’opera fu ripresa e completata da L. Polain; la pubblicazione dei 26 volumi di cui si compone l’opera si realizzò solo nel 1970. 18 Fu sotto-Bibliotecario nel 1879-1880; elevato alla porpora cardinalizia nel 1885, divenne cardinale protettore della Biblioteca nel 1890.

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Custode … si concede la facoltà di essere ammesso …»19. Di norma esse venivano accolte senza troppe difficoltà, stando a quanto scriveva p. Johan Bollig, S.I., secondo custode della Biblioteca, a commento della bozza del nuovo Regolamento che il Papa gli aveva chiesto di rivedere20. La riforma leonina prevedeva anche l’ammissione degli studenti universitari che ne facevano richiesta; il tema fu inserito nella bozza del nuovo Regolamento della Biblioteca21. Lo spazio della Sala di Studio, dove si studiavano sia i manoscritti che gli stampati, non era però sufficiente, come sottolineava p. Bollig. «L’idea degli allievi o alunni da ammettersi nella Biblioteca Vaticana è bella, ma per adesso non praticabile, perché non si saprebbe dove metter tanta gente, essendo già talvolta necessario di metter gli studiosi esterni nei posti degli scrittori […]. Se però il S. Padre, nel suo sincero zelo per le scienze e nella sua nobile generosità, volesse, come generalmente da lui si aspetta, allargare le troppo strette ed anche troppo oscure sale dello studio attuale, allora l’esecuzione di suddetta idea sarebbe magnifica»22. La Sala di Studio ospitava otto banconi, le scrivanie degli scrittori e dei due custodi della Biblioteca, queste ultime collocate ai lati della finestra, mentre i banconi degli scrittori erano «disposti tre per tre nelle due pareti più lunghe»23. Un tavolo grande rettangolare con le testate semicircolari occupava il centro della Sala. Nel vano della finestra si trovava un tavolino di ciliegio di forma quadrata. La presenza di 30 sedie «intorno ai tavolini», 19 Art.

73 del Regolamento (1885): «L’ammissione degli studiosi alla biblioteca si concede dal Sommo Pontefice con particolare rescritto, o immediatamente, per organo della Segreteria di Stato. Le domande devono essere dirette allo stesso Sommo Pontefice e presentate per mezzo della detta Segreteria, alla quale per cura del Sotto-bibliotecario della disciplina, saranno tosto trasmesse quelle, che i postulanti credessero di depositare negli offici stessi della biblioteca». Ibid., art. 75: «Ottenuta la licenza pontificia, i Prefetti ammettono i postulanti nella sala di studio, assegnano ad essi un posto, fanno porgere loro la scheda di domanda, nella quale ciascuno indica il codice o volume domandato, e mette la propria firma». 20 Cfr. Arch. Bibl. 143, f. 22v. Johann Bollig (1821-1895), scrittore per l’arabo dal 4 luglio 1865, ricevette l’incarico il 13 luglio 1876 e lo conservò fino alla morte. Per la sua biografia si veda P. Vian, Un apripista di Franz Ehrle. La lettera di Johann Bollig a Leone XIII sulla Biblioteca Vaticana (8 novembre 1879), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XIX (Studi e testi, 474), Città del Vaticano 2012, pp. 535-568. 21 Non più presente nella stesura definitiva, in cui si parla genericamente di studiosi. Si veda supra, nt. 19. 22 Arch. Bibl. 143, f. 20r; si riferisce all’art. 35 del Regolamento e subito dopo (f. 20v) fa menzione delle due Sale di Studio. La realizzazione della seconda Sala era in programma. Cfr. infra, nt. 40. Le osservazioni del padre gesuita sono ai ff. 14r-24r e recano la data del 19 gennaio 1885. Il Regolamento, profondamente innovativo rispetto ai precedenti, fu promulgato in via sperimentale il 21 marzo 1885 e divenne definitivo il 1° ottobre 1888. 23 S. Volpini Descrizione degli oggetti e dei mobili esistenti nella Biblioteca Apostolica Vaticana compilata da Salvatore Volpini nell’anno del Signore 1884 ed ora ritoccata e ampliata in più luoghi. Vat. lat.14649, f. 38.

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indica il numero dei posti disponibili nella Sala medesima, inclusi quelli per il personale che, evidentemente, non erano più sufficienti. Si ingrandirono dunque gli ambienti destinati allo studio con l’allestimento della seconda Sala nello spazio occupato dalla Sala d’ingresso24, cui si accedeva dalla Galleria Lapidaria tramite un’entrata collocata a breve distanza dal portone dall’antica Sala di Studio, l’attuale Vestibolo o Sala degli Scriptores; il portone reca il nome e i simboli di papa Urbano VIII Barberini25. La Sala d’ingresso era costituita da uno spazio rettangolare contiguo alla Sala di Studio che misurava 15,50 × 7,10 metri; la sua lunghezza era corrispondente alla larghezza dell’attuale Sala Manoscritti più quella dell’anticamera della prefettura. Dalla Sala d’ingresso, tramite una porta che si trovava sul lato di destra, di fronte alle finestre, si accedeva alla Sala del primo custode o prefetto. Un’altra porta a sinistra delle finestre ai cui lati erano collocati due armadi, si apriva su un «piccolo corridore pel quale si passa alla Sala dello studio»26. Gli studenti universitari ebbero dunque l’accesso alla Biblioteca e il loro numero negli anni aumentò. Studiosi e studenti trascrivevano sui registri, introdotti anch’essi nel 1885, il proprio nome, la nazionalità, l’indirizzo, la qualifica. Nel 1885-1886 in Biblioteca si registrarono 147 presenze, tutte maschili, che comprendevano nove studenti (qualificati come tali nei registri)27. Le sporadiche presenze femminili non risultano registrate, probabilmente perché le signore ottenevano solo un accesso temporaneo, mentre gli studiosi ricevevano un permesso della durata minima annuale. Il “percorso” delle donne all’interno della Biblioteca richiederà del tempo, come accennato, prima di trovare la collocazione definitiva in Sala di Studio, e con essa il riconoscimento formale dello status di studiose. La risposta alla richiesta presentata nel dicembre 1885 da «Monsieur et Madame Vander Straeten», musicologi in missione per il governo bel24 Tale ambiente nei tempi più remoti aveva ospitato la Sala dei Legatori; «ivi stavano coloro che legavano i libri ed i codici della Biblioteca stessa». Successivamente fu denominata Sala dei Papiri «perché in essa si custodiva la preziosa raccolta di scritti Egiziani in corteccia papiracea». Ibid., f. 15. 25 La porta attualmente dà sulla scala che conduce all’appartamento del prefetto della Biblioteca, che si trova al piano superiore rispetto alla Biblioteca Sistina. La modifica, che dunque eliminò tale accesso alla Sala d’ingresso, poi nuova Sala di Studio, fu realizzata durante il pontificato di Pio XI Ratti (1922-1939); un’iscrizione sull’architrave di marmo reca il nome del pontefice “Pius XI, An. XV” e il suo stemma orna la maniglia della porta. 26 Ibid., f. 18. Sul verso del medesimo foglio si fa riferimento a lavori eseguiti nella nuova “Sala da Studio”, iniziati nel luglio 1885. 27 Nell’anno 1886-1887 vennero registrate 114 presenze; tra queste sei studenti; nel 18871888 si ebbero 132 presenze, undici studenti; nel 1888-1889: 134 presenze, dieci studenti; nel 1889-1890: 140 presenze, quindici studenti; 1890-1891: 114 presenze, diciotto studenti.

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ga, conferma che la presenza femminile non veniva incoraggiata. I due chiesero di consultare manoscritti della Vaticana e della Cappella Sistina (allora non ancora incorporata in Vaticana, perché di competenza del Maggiordomo di Sua Santità)28. Stefano Ciccolini, primo custode29, l’11 dicembre 1885 rispose che «secondo recenti disposizioni la signora Vander Straeten non potrebbe essere ammessa a consultare i codici. Per il suo marito non vi può essere difficoltà quando si munisca del relativo permesso». Non vengono però date motivazioni del diverso esito delle richieste30. Nella comunicazione dalla Segreteria di Stato del 12 dicembre 1885 alla Biblioteca, a firma del card. Jacobini31, si fa dunque riferimento al solo sig. Van der Straeten (il nome è sottolineato con matita rossa, mentre nella presentazione dei due studiosi inoltrata dalla rappresentanza diplomatica belga, il riferimento alla consorte è depennato), «che desidera esaminare e studiare le opere musicali esistenti nella biblioteca»32. Le «recenti disposizioni» in tal senso non trovano riscontro esplicito nei documenti consultati, ma è evidente che con l’introduzione del nuovo Regolamento vennero usate maggiori cautele in materia di ammissione allo studio. Era necessaria una formale presentazione dei richiedenti da parte di istituzioni (e talvolta non bastava, come in questo caso), o di personalità conosciute del mondo accademico; la presenza delle donne veniva considerata un’eccezione. Dall’entrata in vigore del Regolamento nel 1885 fino al 1896, in Biblioteca risultano pochissime richieste al femminile, di qualunque tipo: due pittrici residenti a Roma, Maria Morganti e Anna Marchetti, inoltrarono domanda in data 29 settembre 1887, per «vedere e copiare i capolavori d’arte ceramica che conservansi nella Collezione Vaticana»; un’istanza del­ l’ambasciatore di Francia presso la Santa Sede fu inviata in favore della signora Pidoux, che fu accolta. La signora, secondo la comunicazione della Segreteria di Stato dell’8 marzo 1892, veniva «ammessa a consultare, colle dovute cautele, i documenti relativi a musica sacra che si trovino nella Bi28 Edmund Sebastian Joseph van der Straeten (1855-1934) era un violoncellista e compo-

sitore tedesco. Studiò nei conservatori di Colonia e Londra. 29 Stefano Ciccolini (1810-1895) fu il primo dei custodi “Leoniani” della Biblioteca; nominato nel 1880 fu giubilato nel 1889. Cfr. N. Vian, Bibliotecari della Vaticana un secolo fa, in Almanacco dei bibliotecari italiani 1954, Roma [1954], pp. [165]-171. 30 AAV, Segr. Stato, anno 1885, rubr. 47, fasc. unico, f. 111r. Nella minuta della risposta, al f. 113, sono depennate alcune righe che davano la motivazione. 31 Ludovico Jacobini (1832-1887), nunzio a Vienna dal 1874 al 1880, fu creato cardinale nel 1879; nel dicembre 1880 Leone XIII lo nominò Segretario di Stato, carica che mantenne fino alla morte. 32 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 3, pt. 2 (1883-1885).

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blioteca Vaticana»33; Emma Maria Maggiorani, con lettera del 16 dicembre 1895, chiese di poter studiare i codici miniati34. Nell’adunanza del Congresso direttivo che ebbe luogo il 28 ottobre 1896, fu posta in evidenza la “questione femminile” in occasione della domanda presentata da una studiosa nominata nel corso della riunione. «Riguardo all’ammissione delle signore allo studio, il Prefetto35 chiede come debba regolarsi. Il Comm. Stevenson36 fa distinzione di due categorie quelle che studiano le miniature e quelle desiderano fare studî particolari. Riguardo alla Sig. Pittaluga37 la quale già cominciò uno studio sui Codici, l’E.mo38 è di parere che solo in via eccezionale, il Prefetto la possa ammettere e le assegni un tavolo presso la finestra della sala d’ingresso»39. Si tratta del vano con finestra all’interno dell’antica Sala di Studio40. Non vi era, come si comprende, una programmatica esclusione del genere femminile dallo studio, ma la ricerca al femminile sicuramente si inseriva come elemento nuovo negli ambienti maschili della Biblioteca. Tra gli studiosi presenti in Biblioteca in quel periodo vi era anche William Warner Bishop (1871-1955), futuro responsabile del progetto venten33 Arch.

Bibl. Ammissione allo studio 6 (1892-1894). Bibl. Ammissione allo studio 7 (1895-1896). 35 Franz Ehrle, S.I. (1845-1934), fu prefetto della Biblioteca (1895-1914) e poi Archivista e Bibliotecario di S.R.C. (1929-1934); il suo operato fu determinante nelle attività che portarono alla modernizzazione della Biblioteca voluta da Leone XIII. 36 Henry Stevenson Jr. (1854-1898), eminente studioso di archeologia cristiana, fu scriptor graecus e dal 1894 custode del Gabinetto numismatico. 37 Erminia Pittaluga, prima donna ammessa alla Scuola Normale di Pisa nell’anno 18891890; era figlia del tenente generale Michelangelo Pittaluga. Il 16 giugno 1896 la studiosa Pittaluga inoltrò richiesta per poter «consultare e trascrivere alcuni codici». Arch. Bibl. Ammissione allo studio 7 (1895-1896). Si conserva la lettera del padre della studiosa, indirizzata al prefetto Ehrle e datata 21 novembre 1896; egli «ringrazia distintamente […] del gentile biglietto col quale ha la bontà di partecipare a mia figlia lo speciale favore concessole di poter consultare codici e lavorare nella Biblioteca Vaticana, per terminare un suo lavoro già da tempo incominciato». Ibid. 38 È il card. Mariano Rampolla del Tindaro (1843-1913), Segretario di Stato (1887-1903), a lungo facente funzioni di Bibliotecario per la prolungata assenza del titolare, il card. JeanBaptiste Pitra (1812-1889), che ebbe l’incarico nel 1869; nel 1912 il card. Rampolla fu nominato Bibliotecario di S.R.C. 39 Arch. Bibl. 163, ff. 168v-169r. 40 Lo spazio occupato dalla Sala di Studio e gli ambienti circostanti erano stati rimodulati e riorganizzati. «28 luglio 1885. Si è cominciato lo sgombero della sala attigua alla sala di studio, e di quella della Cappella e di parte dello archivio, per por mano alla costruzione di una nuova sala di studio a norma degli artt. 79, 80 e 81 del Reg. 21 marzo 1885. 30 luglio. Si sono cominciati dai muratori i lavori preparatori per la predetta costruzione. 1° ottobre. Si è tenuto il Congresso per la riapertura dello studio a norma del Regol. 2 ottobre 1885. Si è aperto lo studio». Arch. Bibl. 115A, f. 2r. «1° ottobre 1886. Si è aperta la Biblioteca allo studio nella nuova Sala a bella posta acconciata, lasciando per solo uso d’ingresso l’antica». Ibid., f. 3r. 34 Arch.

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nale di collaborazione tra la Biblioteca Apostolica e il Carnegie Endowment of International Peace41, che attivò un’ulteriore fase di modernizzazione della Biblioteca; egli fu uno dei primi studenti americani a ottenere il permesso di studio in Biblioteca42. A seguito del suo primo soggiorno nella Biblioteca papale scrisse un articolo nel quale fece riferimento alla postazione riservata alle signore in Biblioteca: «By this window is generally seated a woman at work on some manuscript, for women are not admitted to the sacred precints of the reading-room itself. In return, however, for this treatment the feminine student gets the best light in the place43. It will interest Americans to know that the wife of one of our best-known librarians was the second woman to secure the privilege of studying the Vatican manuscripts»44. Si tratta della postazione presso il finestrone dell’attuale Vestibolo, nell’originaria Sala di Studio, che veniva in tal modo impiegata secondo le disposizioni del Congresso direttivo. A seguito di un incendio divampato la sera del 1° novembre 1903 negli ambienti soprastanti la nuova Sala di Studio, che ospitavano i locali usati dal restauratore e l’appartamento del prefetto, fu necessario eseguire lavori per ripristinare i luoghi e per evitare futuri eventi nefasti. Furono costruite «delle volte reali sopra la Sala di Studio, le due stanze del cardinale e la Segreteria e che tutti questi vani vengano separati tra loro da muri 41 Per la storia della collaborazione tra le due istituzioni, si veda N. Mattioli Háry, The Vatican Library and the Carnegie Endowment for International Peace: the history, impact, and influence of their collaboration, Città del Vaticano 2009 (Studi e testi, 455). 42 Dal 1885 la Biblioteca aveva ospitato ventotto americani, tra studiosi e studenti; B ­ ishop fu il nono studente proveniente dagli Stati Uniti ammesso alla Biblioteca. Giunse in Vaticana il 5 dicembre 1898, per consultare il codice “Vat. 1610”, probabilmente il Vat. lat. 1610. 43 È possibile che si tratti di Erminia Pittaluga. 44 The Vatican Library: some notes by a student (Library Journal, March, 1900), in The backs of books and other essays in librarianship, Baltimore 1926, p. 18. La signora americana cui Bishop si riferisce è Grace Duncan Ely (m. 1933), che nel 1891 sposò Ernest Cushing Richardson (1860-1939), noto bibliotecario e professore a Princeton, presidente dell’American Library Association nel 1904-1905. Egli fu il direttore di Bishop alla biblioteca della Princeton University dal 1902 al 1907. Richardson chiese di accedere alla Biblioteca nella primavera del 1898, presentato dall’arciv. John J. Keane (1839-1918), primo rettore della Catholic University of America, con una lettera del 25 marzo, per studiare «matters connected with the earliest ecclesiastical writers», Arch. Bibl. Ammissione allo studio 8 (1897-1900). Alla fine di marzo 1914 Richardson era in Vaticana per studi patristici. In seguito fu coinvolto da Bishop nella preparazione del progetto che promosse la seconda modernizzazione della Vaticana e che riguardò soprattutto l’attività di descrizione bibliografica. «Bishop noted that Richardson was “far and away the best man” to advise with him on the subject, especially as he was well known at the Vatican and was persona grata there. Furthermore, Richardson’s studies of manuscripts and his own publications had given him a standing which most American librarians did not have». Mattioli Háry, The Vatican Library and the Carnegie Endowment cit., pp. 226-227. Il “progetto americano” fu avviato nel 1927 e, tra alterne vicende, non ultima la seconda Guerra Mondiale, la collaborazione tra le due istituzioni si protrasse fino al 1947.

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maestri»45. Nel frattempo si cercò uno spazio adatto a ospitare una nuova e più comoda sala da destinarsi allo studio, che venne individuato nel piano sottostante, un tempo occupato dai compositori tipografici. L’allestimento dell’area che ancora oggi ospita la Sala Manoscritti fu completato nel 1912. I soffitti rifatti dopo l’incendio recano lo stemma di papa Giuseppe Sarto (Pio X, 1903-1914), succeduto a Leone XIII, nel secondo anno del suo pontificato. La Sala che era stata d’ingresso, poi adibita a Sala di Studio, continuò a ospitare le riunioni del Congresso direttivo; qualche anno più tardi tale ambiente, ridotto nella cubatura, accolse la collezione, ma soprattutto i pregevoli armadi, appartenuti allo studioso belga Gustave de Molinari (1819-1912), esperto di economia46. Per circa quattro decenni, dagli anni Settanta del sec. XX, quello spazio ha ospitato l’anticamera e l’ufficio del Bibliotecario. L’apertura della nuova Sala di Studio al piano inferiore realizzò la perfetta unione delle due sale principali, trovandosi l’ultima nelle immediate vicinanze della Sala di Consultazione, allestita nel 1891-1892 per maggiore comodità degli studiosi e una migliore organizzazione dei servizi. I locali della seconda Sala di Studio sono attualmente occupati per una parte dal disimpegno del Salone Sistino, e dall’archivio fotografico per la maggior parte della superficie. Fino all’anno accademico 1915-1916 le studiose o studentesse ammesse in Biblioteca non firmarono il registro degli studiosi e non ebbero accesso alla Sala di Studio, rimanendo probabilmente nella Sala di Consultazione, dove potevano prendere visione anche dei manoscritti47. I nomi nelle richieste del periodo sono quelli di Francesca Albertini-Orsolini, «cultrice dell’arte musicale», la cui domanda reca la data del 10 maggio 1897; madamoiselle Marie Vogel, che aveva bisogno di consultare alcuni manoscritti greci, 23 ottobre 1897; Jeanne Carlyle Graliam, vedova Speakman, 26 novembre 1898; Miss Evelyn Jameson, 19 gennaio 1906; Clara Pieri, 12 novembre 1907; Anna Schiffrer, 25 aprile 1908; madamoiselle Florowsky, 25 ottobre 1910; Margarethe Fleck, per la storia della miniatura, 31 marzo 1911; Miss K. K. Radford,12 marzo 1913; Gertrud Hengstenberg, 4 aprile 1913. Il 4 maggio 1914 Charles H. Beeson (1870-1949), di Chicago, professore associato di latino, si recò in Biblioteca accompagnato dalla consorte 45 Arch.

Bibl. 164A, f. 45v. volumi, poco più di mille, prevalentemente in lingua francese, giunsero in Vaticana nel 1919. «1919. Settembre 16 e 17. Trasportati in Biblioteca e collocati nella stanza del Congresso — secondo che aveva stabilito con la donatrice nel 1917 S.E. mons. Ratti — i libri e gli scaffali artistici donati dalla Sig.ra Elisa [Bronner, m. 1922] ved.va Molinari». Arch. Bibl. 115, f. 21r. Si tratta di opere moderne di storia sociale, narrativa e di economia. 47 Finora non se ne ha conferma, ma risulta difficile fare ipotesi riguardo a postazioni di lavoro collocate in altro luogo. 46 I

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Mary Farrington (1869-1963) per compiere ricerche di tipo filologico; il nome della signora non compare nel registro, ma il marito nell’apporre la propria firma, annotò: «Professor Charles H. Beeson e moglie»48; l’8 febbraio 1915 Anna Schönheyder inviò richiesta per studiare in Biblioteca. Purtroppo le domande di ammissione degli anni 1916-1917 non sono conservati nella serie “Ammissione allo studio”, ma dai registri degli studiosi si rileva la presenza femminile in Vaticana. Il periodo della prefettura Ratti, settembre 1914 – maggio 191849, coincise con quello della Grande Guerra, che ebbe conseguenze anche nella vita della Biblioteca, per le assenze di parte del personale richiamato alle armi dopo l’entrata dell’Italia nel conflitto, il 24 maggio 1915, e la preoccupazione che ne derivò nei confronti degli assenti; per il difficile reperimento di opere da acquistare sul mercato, che penalizzavano gli studi ormai non più di primario interesse, e quelle da pubblicare, che languivano; per la diminuzione del numero degli studiosi provenienti dai paesi entrati in guerra nel 191450. Il senso dell’assenza dominava i luoghi e coloro che vi lavoravano. In Biblioteca, come in molti settori della vita civile, le signore poterono ottenere uno spazio mai avuto prima; il numero delle loro presenze presso la Vaticana aumentò in maniera decisiva, e certamente non senza l’azione efficace del prefetto, molto attento alle questioni pratiche, che volle introdurre anche la tessera personale per gli studiosi. La registrazione delle presenze femminili in Biblioteca risulta dunque dal 1915-1916, quando per la prima volta venne documentata insieme a quella maschile. I nomi nel registro di quell’anno, che iniziò con un nuovo volume, sono quindici: Carlotta Antonietti, la prima, 20 ottobre 1915, insieme a Giuditta Capella; Olga Stirpe, Carmela Castelli, Margherita Chiaramonti, Giuseppina Percolla, M. Antonietta Kulozycka, Elisabetta Di Pietro, M. Rosaria Filieri, Laura Barbieri, Giannina Biscaro, A. Clelia Pierantoni, Elvira Rogato, Laura Germani ed Emilia Saso. 48 Arch. Bibl., Registro degli studiosi (1907-1915). Come studente, Beeson, era già stato in Biblioteca nel maggio 1905. 49 La nomina di mons. Ratti a vice-prefetto della Vaticana, con diritto di successione, è del 20 febbraio 1912, ma egli mantenne il suo ruolo di prefetto dell’Ambrosiana per altri due anni, in attesa di un successore, venendo a Roma ogni mese per una settimana. Trasferitosi a Roma e in Vaticana, ebbe l’incarico fino ad allora ricoperto dal p. Ehrle, quello di prefetto della Biblioteca. Formalmente il suo mandato terminò nel maggio 1919, ma di fatto si concluse con la partenza per la missione apostolica in Polonia, nel maggio 1918; durante la sua assenza venne sostituito da Giovanni Mercati (1866-1957). Mercati fu nominato prefetto della Vaticana il 23 ottobre 1919; nel 1936 papa Ratti (1922-1939) lo creò cardinale e lo nominò Bibliotecario e Archivista di S.R.C. 50 Da 285 presenze registrate nel 1907-1908 e circa trecento nel 1913-1914, si passa a 161 nel 1914-1915.

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Nel vicino Archivio Segreto, dove la regolare registrazione degli studiosi era stata introdotta nel 1909, fin dall’inizio sono presenti nomi femminili; in quel primo anno ve ne furono cinque, tre dei quali italiani51. Una delle due straniere è la finlandese Liisi Karttunen (1880-1957), storica, che diventerà assidua frequentatrice della Biblioteca dal 191752; l’altra è Louise Ross, francese, che studiava documenti riguardanti Martino V (1369-1431). Il 1° aprile 1916 mons. Ratti annotava nel Diario del prefetto: «Per economia di tempo e di personale e per migliore sorveglianza sui manoscritti dati in istudio, si fanno venire nella Sala di Studio de’ mss. le signore e signorine che ne fanno richiesta e si mette a loro esclusiva disposizione il primo tavolo presso ai cataloghi»53. A quella data undici signore risultano nel registro delle persone ammesse allo studio. Anche il Congresso direttivo della Biblioteca si occupò della questione, come risulta dal verbale della riunione del 16 aprile. «Aumentando di continuo in Biblioteca il numero delle studentesse, si è creduto opportuno ammetterle nella Sala di studio, dove si è riservato loro uno dei tavoli»54. Il Congresso confermò dunque le disposizioni del prefetto, che accolse le studiose nella Sala, sia pure riservando loro uno spazio apposito. In riferimento alle difficoltà segnalate da mons. Ratti, che lo indussero ad accogliere le signore in Sala di Studio, sappiamo che in quel periodo il personale stava lavorando alla revisione della biblioteca di consultazione e alla schedatura delle raccolte per un migliore controllo delle asportazioni. Un assistente era venuto a mancare e si poteva contare su una persona soltanto, mentre aumentava la necessità di allestire gli spazi per le nuove acquisizioni e di darne una descrizione catalografica. In tale contesto il

51 Margherita Anfora, alunna del IV corso di Magistero, Maria Milanesi, che si occupava di storia veneziana, e Rita Peccioli. 52 Nell’anno seguente in Archivio vi furono nove signore, e dodici l’anno successivo; nove furono le registrazioni nel 1912-1913, mentre nel 1913-1914 se ne contano dodici; nove nel 1914-1915; nel 1915-1916 le signore furono sette e dodici l’anno seguente. Dal 1917-1918 la presenza delle studiose in Archivio risulta in costante aumento. Molte di esse, come Ida de Longis, Raffaella Nucci, Maria Facini, Isabella Rinaldi, Giannina Biscaro, Olga Stirpe, Gemma Calisti, Gemma Carlotti, Gina Zenari, frequentarono entrambe le istituzioni. 53 Arch. Bibl. 115A, f. 31r. Cfr. anche P. Vian, Il Diario di Achille Ratti viceprefetto e prefetto della Biblioteca Vaticana (13 ottobre 1913 – 8 aprile 1918), in Miscellanea Bibliohecae Apostolicae Vaticanae, XXIII, Città del Vaticano 2017 (Studi e testi, 516), p. 690. 54 Arch. Bibl. 162, f. 144. Un breve accenno alla presenza femminile in Biblioteca durante il periodo bellico lo fece Luigi Berra (1888-1982), scrittore latino della Biblioteca dal 1° luglio 1931, nell’articolo La Biblioteca Vaticana negli anni della guerra, in Vita e pensiero, XI, Milano 1919, pp. 558-565: «La quiete delle aule dovette dunque essere solenne in questi anni di guerra; nè la turbò un gaio gruppo di signorine della scuola romana di magistero, che vi adirono con lodevole costanza», p. 565.

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trasporto dei codici da una sala all’altra per un numero ampio di studiose poteva costituire una difficoltà. Anche la registrazione della loro presenza non risulta sia stata una deliberazione del Congresso; il prefetto diede evidentemente disposizione che le signore firmassero il registro, come già facevano tutti gli studiosi di sesso maschile. Tutto ciò non desta meraviglia se si considera l’attitudine del prefetto a organizzare, sistemare e tracciare quanto più possibile la vita dell’Istituzione che ormai conosceva bene. La menzionata introduzione della tessera degli studiosi e la redazione del primo catalogo delle pubblicazioni della Biblioteca voluti da Ratti lo confermano. Le donne che frequentarono la Biblioteca tra il 1915 il 1916, oltre il 12% delle presenze registrate, erano prevalentemente studentesse dell’Università di Roma, e della Facoltà di Magistero; due di esse arrivavano da Milano, una da Todi, una da Cosenza, una da Bologna, una da Caltagirone, una era docente a Brescia. L’ambito degli studi di queste signore riguardava la letteratura italiana, la storia, il Rinascimento, la storia dell’arte, la pedagogia. Margherita Chiaramonti, di Todi, arrivò in Biblioteca il 3 dicembre 1915 per studiare manoscritti barberiniani55; Maria Rosaria Filieri si era trasferita a Roma dalla provincia di Lecce per frequentare l’università, e giunse alla Vaticana per i suoi studi di storia letteraria il 4 gennaio 191656. Negli anni successivi la presenza femminile continuò a crescere; nel 1916-1917 vi furono ventidue signore, tra le quali una studentessa statunitense, Grace Frank, e la finlandese Liisi Karttunen, laureata in Lettere. Nel 1917-1918, l’anno che vide il minor numero di presenze degli studiosi, 104, si contano ventiquattro ricercatrici, mentre nel 1918-1919 ve ne furono diciassette. Nell’anno 1919-1920, quando si era ormai tornati a una relativa normalità, terminato che fu il conflitto, trentatré signore si recarono a studiare nella Biblioteca Apostolica. Qualche anno più tardi anche William Warner Bishop, che aveva annotato la rara presenza femminile in Vaticana, tornò alla Biblioteca per consultare alcuni manoscritti; la sua firma reca la data del 31 marzo 1924. In un secondo articolo sull’antica Istituzione, pubblicato a seguito della nuo55 Nata nel 1894, dopo aver frequentato l’Istituto magistrale a Perugia, decise di iscriversi alla Facoltà di Magistero di Roma, dove si trasferì nel 1913; uno dei suoi docenti fu Luigi Pirandello. Conseguì il diploma di laurea con una tesi su Francesco Dalmazzo Vasco, un intellettuale piemontese. Insegnò in una scuola di Norcia dal 1920. Tornò a Todi e nel 1924 sposò Angelo Caporali dal quale ebbe due figli. Fu autrice di liriche e testi teatrali; corposo il suo carteggio con personalità della cultura italiana e internazionale. Morì il 25 settembre 1988. 56 Maria Rosaria Filieri nacque a Galatone, il 1° gennaio del 1895, in un’agiata famiglia di piccoli proprietari. Si trasferì a Roma per iscriversi all’Istituto superiore di Magistero diplomandosi in Lingua e letteratura italiana nel 1916. Si dedicò all’insegnamento, prima a Lecce, poi in diverse città italiane prima di tornare in Puglia. Morì a Galatone, il 19 settembre 1944.

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va visita a un quarto di secolo di distanza dalla prima, evidenziò i cambiamenti occorsi. «The changes at the Vatican Library seem wholly desirable and happy. Begun by Father Ehrle before he was raised to the cardinalate and finished by the present Pope while still he was Monsignore Ratti, these improvements have made the Vatican one of the most comfortable and convenient workshops for scholars to be found anywhere»57. E non mancò di far riferimento alla mutata situazione delle signore presenti in Biblioteca. «It should perhaps be noted as not the least of the changes of a quarter century that women are no longer relegated to the ante-room, but now have the same privileges as men»58. Le pioniere degli studi al femminile in Vaticana raramente raggiunsero la notorietà, ma aprirono la strada alle studiose che arrivarono in seguito, in gran numero e sempre più competenti. Alla fine degli anni Venti un gruppo di giovani ricercatrici che frequentavano la Biblioteca e l’Archivio, furono coinvolte nel progetto che prevedeva la realizzazione di un Indice dei manoscritti, quello che sarà poi chiamato Schedario Bishop, oggi IAM (Indice Alfabetico dei Manoscritti), un inventario cartaceo a schede mobili per un più rapido reperimento dei documenti; ventisette studiose, prevalentemente paleografe, si alternarono durante la realizzazione del lungo progetto che produsse un repertorio non completo, ma decisamente utile per tutti i ricercatori delle successive generazioni. Era stato necessario seguire un lungo percorso, fatto di piccoli passi discreti all’interno dell’Istituzione, per guadagnarsi un posto nella Sala di Studio; le circostanze, ma anche la sensibilità di chi era alla guida della Biblioteca, lo resero possibile. Quel tavolo riservato alle signore in Sala di Studio presto non bastò più ed esse cominciarono a scegliersi la postazione dove lavorare; col tempo le studiose della Vaticana divennero sempre più assidue e numerose. Nell’anno appena trascorso, 2018-2019, il numero delle ricercatrici in Biblioteca ha rappresentato oltre il 47% del totale.

57 W. W. Bishop, The Vatican Library: twenty-five years after, 1924, in The backs of books cit., Baltimore 1926, p. 25. 58 Ibid., p. 27.

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SERGIO PAGANO

LA SOPPRESSIONE DEI GESUATI MILANESI E LA BIBLIOTECA AMBROSIANA (1669-1671) Scriveva Paolo Morigia, ben noto storico di Milano e gesuato egli stesso, che «noi siamo detti Giesuati perché sovente il nome di Giesù habbiamo nella nostra bocca, [...] sapendo che quando noi ci scontriamo l’uno con l’altro, ogni volta diciamo: Lodato sia Giesù Christo»1. Un ordine laicale, quello dei Gesuati, sorto sulla scorta dei movimenti parimenti laicali umbro-toscani fra il 1360 e il 1364 ad opera del senese beato Giovanni Colombini (1304-1367)2, che si sviluppò soprattutto al centro Italia (Toscana, Umbria, Lazio) e solo in un secondo momento anche al nord Italia, con crescente espansione in Lombardia, Piemonte e Veneto. Ai dieci conventi fondati nel corso del Trecento, si aggiunsero nel XV secolo quelli di Tolosa, Verona, Padova, Pisa, Treviso, Montenero di Livorno, Vicenza, Roma, Milano, Brescia, Piacenza e Cremona3. Nato e mantenuto dal fondatore e dai primi suoi seguaci nel rigido stato laicale dei suoi membri (eccezion fatta dal XV secolo per qualche chierico, ma non per sacerdoti), l’ordine dei Gesuati conobbe scossoni sia al suo interno, sia all’esterno, anche ad opera della gerarchia ecclesiastica, che ne seguiva le svolte ideali, combattute fra pauperismo, eremitismo, quietismo, «devotio moderna». Sotto il severo Pio V l’ordine fu ascritto (nel 1567) fra quelli «mendicanti», ancora di formazione laicale; ma Paolo V, dopo resistenze e tensioni incontrate dai suoi predecessori Giulio II e Clemente VIII, riusciva nel 1606 a «clericalizzare» l’ordine, concedendo ai Gesuati che un certo numero di confratelli potessero accedere al sacerdozio. Le tensioni delle origini fra spinte laicali e disciplinamento clericale rimasero a lungo nell’ordine, che conobbe una sia pur modesta «fortuna», con figure anche notevoli nel campo intellettuale, nel corso del Quattro, Cinque e Seicento, fino alla soppressione dell’istituzione religiosa per volere di Clemente IX nel 1668. 1 Paradiso de’ Giesuati nel quale si racconta l’origine dell’Ordine de’ Giesuati di S. Girolamo ... nuovamente corretto, riformato et ampliato dal R. P. F. Paolo Morigi, Milanese..., in Venetia, presso Domenico et Gio. Battista Guerra fratelli 1582, p. 373. 2 Sulla figura di Giovanni Colombini si veda la voce di A. M. Piazzoni in «Dizionario biografico degli italiani» [DBI], XXVII, Roma 1982, pp. 149-153. 3 Sulla storia dei Gesuati si veda soprattutto la voce di R. Guarnieri in «Dizionario degli Istituti di Perfezione», IV, Roma 1977, coll. 1116-1130, con bibliografia specifica.

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Se possediamo, da una parte, notizie e studi storici sui Gesuati fino alla loro soppressione, dall’altra parte su quest’ultima vicenda solitamente gli storici sorvolano (anche lo stesso storico dei papi von Pastor non parla di questo aspetto), scrivendo che ormai i Gesuati, come i Canonici di San Giorgio in Alga di Venezia e i Girolamini di Fiesole, contestualmente soppressi, avevano terminato la loro funzione e non risultavano più compatibili con la clericalizzazione degli ordini religiosi voluta dalla riforma tridentina4. Più ragionata è invece l’analisi che della soppressione dei Gesuati, giunta quando l’ordine «aveva perso lo slancio vitale perché aveva deciso di sacrificare la propria identità», compie (credo quasi sola) Isabella Gagliardi5. Con il breve Romanus Pontifex del 6 dicembre 1668 Clemente IX, adducendo «gravissimis et rationabilibus causis» non meglio precisate, decretava la soppressione dei Gesuati, dei Canonici di San Giorgio in Alga di Venezia e dei Girolamini di Fiesole6. Tre esemplari autentici del breve papale furono affissi, secondo il solito, il 14 dicembre alle porte della basilica vaticana, a quelle della Cancelleria Apostolica e in Campo dei Fiori7. Il breve veniva comunicato a tutti i presuli che ospitavano nelle loro diocesi i tre ordini soppressi, chiedendo loro che notificassero ai vari conventi il provvedimento papale, lasciando ai religiosi un mese di tempo per dimorare ancora in comunità, dopo il quale, presa con loro la personale biancheria e qualche utile suppellettile dalle loro celle, essi avrebbero dovuto lasciare l’abito dei relativi tre ordini e cercarsi una nuova prospettiva di vita religiosa, sia fra il clero regolare di altre famiglie religiose, sia fra il clero secolare. Il movente di tali soppressioni si evince facilmente dal breve che il papa, il giorno seguente, indirizzava al nunzio a Venezia Lorenzo Trotti, con il quale annunciava di voler applicare il ricavato della vendita dei beni (e non erano pochi) delle tre congregazioni religiose soppresse (che potevano es4 Guarnieri, Gesuati, col. 1127; si veda anche Le lotte politiche e dottrinali nei secoli XVII e XVIII (1648-1789), a cura di Edmond Prèclin e Eugène Jarry, in Storia della Chiesa diretta da August Fliche e Victor Martin, XIX/2, Torino 1985, p. 778. 5 I. Gagliardi, Li trofei della Croce. L’esperienza gesuata e la società lucchese tra Medioevo ed Età Moderna, Roma 2005, pp. XIV, 284 e passim. 6 AAV, Sec. Brev., Reg. 1439, pp. 231, 245; ed. in Bullarum diplomatum et privilegiorum sanc­torum Romanorum Pontificum Taurinensis editio..., Augustae Taurinorum 1869, pp. 737739. 7 Traggo questa notizia e le seguenti da un prezioso faldone giacente nell’archivio della Dataria Apostolica, proprio in ragione della preminenza che questo ufficio ebbe nell’incameramento dei beni dei tre soppressi ordini religosi, oggi segnato AAV, Dataria Ap., Congr. speciale per la soppressione dei tre ordini: Gesuati, Girolamini, Canonici Regolari di San Giorgio in Alga, f. 370v, del quale si dirà appresso.

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sere acquistati solo da istituzioni ecclesiastiche) alla guerra contro il Turco a favore della Repubblica di Venezia, che difendeva la Cristianità in quel di Candia8. Stessa sorte decise il pontefice per i beni dei soli Canonici di San Giorgio in Alga nel regno di Sicilia, e segnatamente a Palermo9. A fronte di una così importante e pesante decisione papale non doveva trovarsi, come saremmo indotti a pensare, una lunga preparazione e studio della questione, perché ancora nell’agosto del 1668 si dava facoltà ai conventi dei Gesuati di ricevere novizi alla prefessione dei voti10. Tre mesi dopo i Gesuati e gli altri due ordini erano dichiarati estinti. Si può ipotizzare che le pesanti perdite inflitte a Venezia nel settembre del 1669 con la vittoria turca su Candia abbiano impresso, se non forse ispirato, la soppressione delle tre famiglie religiose, notoriamente ricche di beni. A governare le non semplici operazioni di soppressioni canoniche, di valutazione dei beni delle tre compagini regolari, del loro incameramento da parte della Santa Sede, così come ad affrontare i prevedibili e inevitabili ricorsi e suppliche, il papa istituiva una speciale commissione, detta «super negotio religionum suppressarum», che ebbe naturalmente come figura preminente il cardinale datario di Clemente IX Pietro Vito Ottoboni (divenuto poi Alessandro VIII)11, sostituito nel 1670 dal datario di Clemente X Gaspare Carpegna12, e la cui direzione era affidata al cardinale Marzio Ginetti13, mentre come segretario avrebbe agito mons. Carlo De Vecchi, arcivescovo titolare di Atene e segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari14. Ovviamente a far parte della commissione erano chiamati anche i cardinali protettori dei tre ordini interessati dalla soppressione, e per i Gesuati fu convocato quindi Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni, elevato alla porpora tre anni prima15. Le carte che tale commissione originò nello svolgimento del suo breve   8 AAV,

Sec. Brev., Reg. 1439, pp. 247-251; ed. in. Bullarum diplomatum..., pp. 739-742. Sec. Brev., Reg. 1439, pp. 263-267. 10 AAV, Congr. Vescovi e Regolari, Registra Regul. 75, f. 110v, 111v, 132r. 11 Si veda la voce omonima di A. Petrucci in «Enciclopedia dei papi», III, Roma 2000, pp. 389-393. 12 Si veda la omonima voce di G. Romeo in DBI, XX, Roma 1977, pp. 589-591. 13 Sul porporato (1585-1671) si veda la voce di S. Tabacchi in DBI, LV, Roma 2001, pp. 15-18. 14 Su Carlo de Vecchi (1612-1673), governatore di Tivoli (1643), di Faena (1644), di Fano (1648), eletto vescovo di Chiusi nel 1648, segretario della Congregazione sulla Residenza dei Vescovi, arcivescovo titolare di Atene nel 1667 e da questo anno segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari, si veda C. Weber, Legati e governatori dello Stato Pontificio (15501809), Roma 1994, pp. 641-642. 15 Sulla figura del cardinale si veda la voce di A. Stella in DBI, II, Roma 1960, pp. ­561-564.   9 AAV,

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mandato (1668-1672) furono quasi subito raccolte entro faldoni e rilegate. Tali faldoni, se non vado errato, dovevano essere almeno 14, perché nell’unico faldone superstite — quello appunto relativo ai Gesuati — troviamo sul dorso in «N° XIV». Esso reca pure una etichetta posteriore con la probabile segnatura (non si legge chiaramente neppure con la lampada di Wood) F 149 che, come sappiamo, si deve alla classificazione applicata all’Archivio Vaticano a Parigi da Pierre-Claude-François Daunou nel 1813, quando gli archivi papali si trovavano sequestrati sul suolo francese per volere di Napoleone. La lettera F nella detta classificazione denotava i pezzi documentari della Dataria Apostolica16, segno evidente che gli incartamenti prodotti della commissione «super negotio religionum suppressarum» si trovavano nell’archivio della Dataria. A quanto oggi risulti, degli almeno 14 faldoni inerenti la soppressione e l’incameramento dei beni dei tre ordini regolari soppressi si è salvato solo il tomo XIV, quello relativo ai Gesuati, e segnatamente ai loro insediamenti e beni in Alessandria, Arezzo, Bologna, Cremona, Faenza, Firenze, Lodi, Lucca, Milano, Pavia, Parma e Piacenza17. Da tale elenco, e quindi dal nostro faldone, mancano i beni dei conventi dei Gesuati nel Veneto, o meglio nei territori della Repubblica di Venezia (Corpus Domini di Brescia, Santo Spirito di Padova, San Bartolomeo di Verona, San Girolamo di Vicenza, San Girolamo di Treviso, Santa Maria Elisabetta del Buon Gesù di Venezia) perché del loro incameramento, vendita e destinazione era stato incaricato il nunzio a Venezia Lorenzo Trotti, che si occupò di tutta la vicenda, unitamente ad alcuni nobili eletti dal senato veneziano (Alvise Foscarini, Alvise Contarini, Andrea Pisani), e della quale ha lasciato abbondanti carte nell’archivio della cancelleria della Nunziatura a Venezia18. Con i conventi italiani dei Gesuati la soppressione colpiva anche quello milanese di San Girolamo, fondato nel 1458 (sotto Francesco I Sforza) e divenuto assai celebre in città. Esso, al momento della soppressione, contava 24 sacerdoti (ma residenti in Milano soltanto 14), 7 chierici e 6 conversi, tutti professi, più un chierico novizio e un converso non professo, «che subito partirono, sì come anco partì un sacerdote mantovano, restando 16 H.

Bordier, Les archives de la France ou histoire des Archives de l’Empire, des Archives des Ministères, des Départements, des Communes, des Hôpitaux, des Greffes, des Notaires etc., contenant l’inventaire d’une partie de ces dépôts, Paris 1855, pp. 398-399; G. Roselli, Appendici, in G. Gualdo, L’Archivio Segreto Vaticano da Paolo V (1605-1621) a Leone XIII (18781903). Caratteri e limiti degli strumenti di ricerca messi a disposizione tra il 1880 e il 1903, in Archivi e Archivistica a Roma dopo l’unità. Genesi storica, ordinamenti, interrelazioni. Atti del Convegno, Roma, 12-14 marzo 1990, Roma 1994, p. 198. 17 AAV, Dataria Ap., Congr. speciale per la soppressione dei tre ordini: Gesuati, Girolamini, Canonici Regolari di San Giorgio in Alga, f. 1r. 18 AAV, Fondo Veneto II, 1-14bis; sui beni dei Gesuati ibid., 474-720.

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tutti li altri milanesi»19. Il monastero, si scriveva in una anonima relazione inviata a Roma nel 1669, «è assai commodo e spatioso, fabrica buona parte antica et in parte moderna; ha novitiato, giardino e vigna annessi, cinti da muro. Ha chiesa divota, dotata di più sante reliquie, assai capace, tutta dipinta, con dieci cappelle ben ornate, organo, facciata et atrio d’avanti di novo fabricati per opera del signor Carlo Moraschi»20. Il convento, situato a Porta Vercellina, sul Naviglio, possedeva nell’approssimarsi della sua soppressione quindici case in Milano e altre case e «torrioni» a Cassano sull’Adda, quattro case nel Lodigiano e alcuni possedimenti altrove; «ha luoghi di Banco S. Ambrosio, livelli, censi e legati» per un valore di scudi romani 13.22021. Nella cassa comune del convento furono trovati allora 6980 «denari contanti». Un patrimonio non indifferente, così come assai ambito sarebbe divenuto il convento stesso una volta divulgatasi la notizia della soppressione. I Gesuiti milanesi, e in specie il rettore del noviziato Giovanni Maria Visconti, supplicarono subito il papa per avere a loro uso l’estinto convento, giardino compreso, pronti naturalmente a comprarlo22; ma Roma prese alcun tempo per la decisione. Anche le monache benedettine cisterciensi milanesi di Santa Lucia (ben 60 religiose), il cui monastero «è formato da più case ridotte in un sol corpo senz’essersi fabricato concerto di monastero», chiesero alla Congregazione dei Vescovi e Regolari quel luogo comodo e confacente dei Gesuati per loro dimora, disposte ad un «cambio di valore» dei rispettivi edifici, con sicuro guadagno delle monache per l’edificio di San Girolamo. Ad un certo punto spuntò anche l’ipotesi di vendere il complesso gesuato ai Teatini, ma tramontò quasi subito. Alla fine, con il pare19 AAV, Dataria Ap., Congr. speciale per la soppressione dei tre ordini: Gesuati, Girolamini, Canonici Regolari di San Giorgio in Alga, f. 488v; G. Dufner, Geschichte der Jesuaten, Roma 1975, p. 333. 20 AAV, Dataria Ap., Congr. speciale per la soppressione dei tre ordini: Gesuati, Girolamini, Canonici Regolari di San Giorgio in Alga, f. 488r. Carlo Moraschi, gesuato milanese (15971669), entrato nell’ordine nel 1612, fu più volte provinciale dei Gesuati e per trent’anni priore in diversi conventi; fece fare a sue spese un palio d’argento per la chiesa del convento di San Girolamo di Milano, nel 1667 fece restaurare la facciata della chiesa e il portico antistante, indorare l’organo, stuccare e indorare tre cappelle e arredò la chiesa con spalliere in noce. All’età di 72 anni fu colpito da apoplessia. mentre si trovava nel convento di San Girolamo di Milano, ove poi veniva a morte nel dicembre del 1669; ibid., ff. 527rv, 529r; Congr. Vescovi e Regolari, Registra Regul. 75, f. 138r; Il ritratto di Milano diviso in tre libri, solorito da Carlo Torre..., Milano, per Federico Agnelli 1674, p. 176; Philippi Argelati Bononiensis Bibliotehca scriptorum Mediolanensium..., II, Mediolani, in aedibus Palatinis 1745, col. 959; Dufner, Geschichte der Jesuaten, p. 333. 21 AAV, Dataria Ap., Congr. speciale per la soppressione dei tre ordini: Gesuati, Girolamini, Canonici Regolari di San Giorgio in Alga, ff. 482r-489r. 22 Ibid., ff. 492r-494r.

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re positivo dell’arcivescovo di Milano cardinale Alfonso Litta, il convento passò in mano ai Gesuiti al prezzo di 17.000 scudi, che vi stabilirono il loro noviziato. Alcuni dotti ecclesiastici milanesi non mancarono di supplicare Clemente X nel 1672 a volersi «degnare» di beneficiare con i proventi delle vendite dei beni dei soppressi Gesuati (stimate in un ammontare complessivo di 301.620 scudi almeno l’Ospadale Maggiore della città e la collegiata di Santa Maria della Scala, che aveva allora poche entrate, e fu interessato anche il senato spagnolo milanese)23. Fra i beni del convento milanese dei Gesuati, censiti subito dopo la soppressione, risultavano anche — e qui entra in scena l’Ambrosiana — «tre pitture in quadri di mezzana grandezza e di qualche stima, cioè una Circoncisione del Signore, un S. Girolamo et un ritratto del P. Moriggia, già istorico milanese; si sono assicurati in deposito nella Galleria presso la libraria del Collegio Ambrosiano di Milano»24. I tre dipinti restarono depositati all’Ambrosiana dalla fine del 1668 al febbraio del 1669, quando il collegio dei Conservatori della medesima Biblioteca supplicava Clemente IX a volerli donare alla loro Pinacoteca, posta del resto al servizio della città e dei milanesi25: Sanctissime Pater Cum in Bibliotheca Ambrosiana Mediolani, quam civibus atque externis quotidie patentem condidit Cardinalis Federicus Borromaeus, Archiepiscopus eiusdem urbis et consobrinus Divi Caroli, eamque institutionem Clemens Octavus Pontifex Maximus comprobavit, ac multis deinde privilegiis ornarunt Paulus Quintus et Urbanus Octavus, repositae fuerint uti in medio ac tuto loco aliquot tabulae pictae, quae repertae sunt in cubiculo hospitalitio Patris Provincialis Jesuatorum coenobii S. Hieronymi Mediolani, donec de eisdem Sanctitas Vestra certi aliquid statueret. Idcirco Conservatores eiusdem Bibliothecae humillime ad pedes Sanctitatis Vestrae provoluti enixe rogant ut eas tabulas dignetur addicere eidem Bi­blio­ the­cae, huic Apostolicae Sedi immediate subiectae, quo Academiae Pictorum inserviant, quam idem Cardinalis inibi bono publico instituit. Immo humillimas alias preces iidem Conservatores offerunt Sanctitati Vestrae ut libri Bibliothecae coenobii eorundem Jesuatorum apostolica auctoritate eidem Bibliothecae Ambrosianae assignentur. Quod se impetraturos a Sanctitate Vestra sperant ut gloriari merito possint illam eandem Bibliothecam

23 Ibid.,

ff. 558r-559r. f. 488v. 25 Sul collegio dei Conservatori, sorto nel 1607 sempre per volontà del cardinale Federico Borromeo, si veda C. Marcora, Il collegio dei Dottori e la Congregazione dei Conservatori, in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento, Milano 1992, pp. 194-200. 24 Ibid.,

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a Clemente Nono Summo Pontifice ornatam large, quam antea nascentem Clemens Octavus maxime decoravit26.

Dunque il collegio dei Conservatori dell’Ambriosiana non solo chiedeva al papa Clemente IX alla fine di gennaio del 1669 che i tre dipinti depositati presso di loro passassero in proprietà della Pinacoteca Ambrosiana, ma domandava anche di venire in possesso della biblioteca dell’estinto cenobio gesuato, o almeno, se non di tutta la biblioteca, è presumibile chiedesse in dono i libri più antichi e rari. Con la supplica veniva spedita a Roma, per maggiore chiarezza, probabilmente ad opera degli incaricati arcivescovili della divisione dei beni dei Gesuati di San Girolamo, una nota esplicativa o sommario: Li quadri sono tre, uno di S. Girolamo, l’altro la Circoncisione di N. S., e l’ultimo di Paolo Moriggia, che scrisse l’Istorie di Milano, di mediocre grandezza; e questi non sono della chiesa ma del convento di S. Girolamo de’ PP. Gesuati soppressi. Si desiderano per la Biblioteca di S. Ambrosio che è opra pia et a beneficio del publico, et è luogo immediatamente soggetto alla Santa Sede Apostolica, arricchito da essa di molti privilegii et indulti. Si desiderano ancora dalla libreria del detto convento alcuni libri de’ più singolari per accescere la detta publica Biblioteca Ambrosiana27.

La supplica ebbe il suo iter negli uffici di curia, come si evince dalla nota posta nel suo margine alto sinistro: Remittatur. Essa fu trasmessa a mons. Carlo De Vecchi, segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari, uno dei membri della commissione «super negotio religionum suppressarum», già sopra incontrato; il quale, dopo aver riferito la supplica nella particolare congregazione, vi espresse nel verso la mente dei cardinali: essere cioè necessario, prima di procedere ad una eventuale grazia, conoscere i nomi degli autori dei tre dipinti28. Nel nostro faldone, così come sembra anche nell’archivio della Biblioteca Ambrosiana29, non si ha notizia della risposta dei conservatori. Essa però — se vi fu, come sembra naturale — non dovette convincere troppo la congregazione romana, che, a quanto risulta indirettamente, piuttosto che il semplice dono dei tre qua26 AAV, Dataria Ap., Congr. speciale per la soppressione dei tre ordini: Gesuati, Girolamini, Canonici Regolari di San Giorgio in Alga, f. 552r; cfr. Dufner, Geschichte der Jesuaten, p. 334. 27 AAV, Dataria Ap., Congr. speciale per la soppressione dei tre ordini: Gesuati, Girolamini, Canonici Regolari di San Giorgio in Alga, f. 553r. 28 Ibid., f. 564v. 29 Ringrazio qui per le ricerche svolte e a me comunicate con tanta competenza e cortesia da mons. Federico Gallo, dottore dell’Ambrosiana e direttore della Classe di Studi Greci e Latini dell’Accademia Ambrosiana.

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dri, preferì la loro vendita a privati (onde rimpolpare le somme di denari destinate alle armate veneziane). Infatti uno dei tre dipinti che oggi si può identificare con relativa sicurezza, ovvero il ritratto di Paolo Morigia della pittrice Fede Galizia, giunse sì alla Pinacoteca Ambrosiana nel 1670, essendo però in precedenza in possesso (per acquisto) del notaio e giureconsulto Tommaso Buzzi, che in tale data lo donava appunto all’Ambrosiana30. Quindi la supplica dei conservatori della celebre Biblioteca non ebbe accoglienza completa da parte del pontefice e almeno una tela nel febbraio del 1669 non venne loro concessa. Quale destino ebbero gli altri due dipinti? A parte il ritratto di Paolo Morigia oggi all’Ambrosiana, — quadro rispondente ai canoni della ritrattistica religiosa di cui era dotato anche il convento dei Gesuati di Milano — nonostante la precisione delle nostre fonti, non si saprebbero identificare le altre due tele dei Gesuati nominate sopra. La Pinacoteca Ambrosiana non possiede oggi (né sembra abbia mai posseduto) un quadro raffigurante la Circoncisione di Gesù, malgrado questo venga chiaramente indicato come tale nelle fonti dei Gesuati e dei commissari dell’arcivescovo di Milano al tempo della soppressione. Dove è finito quel dipinto e chi ne era l’autore? Anche sul terzo quadro, un san Girolamo, restano aperte alcune ipotesi. Attualmente la Pinacoteca Ambrosiana possiede quattro tele con soggetto il santo del deserto, ma di nessuna di esse è nota la provenienza, sicché non è facile dire quale possa provenire dai Gesuati31. In ragione del fatto che gli ufficiali dell’arcivescovo incaricati dell’inventario dei beni dei Gesuati dicono i tre dipinti «di mezzana grandezza»32, e che il quadro di Paolo Morigia (l’unico sicuro dei tre elencati) misura cm 88 × 79, penso si possa ritenere di possibile provenienza gesuata uno dei due San Girolamo in preghiera di fronte al Crocifisso (n° Inv. 806, cm 84 × 74) e San Girolamo penitente (n° Inv. 1017, cm 95 × 72), mentre mi sembrerebbe di poter escludere da tale provenienza, sempre a motivo delle dimensioni, il San Girolamo nel deserto (n° Inv. 775, cm 118 × 94) e il San Girolamo con angelo (n° Inv. 1181, cm 183 × 125). Tutti dipinti di vario valore e attribuiti a diversi artisti o scuole. In attesa di future indagini più tecniche e particolari, mi pare che non si possa andare oltre. 30 Il

dipinto della Galizia e le sue vicissitudini sono descritte con dovizia di precisi particolari da G. Berra in Pinacoteca Ambrosiana, Milano 2006, pp. 149-153, n° 234; il quadro è stato riprodotto anche in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento, p. 330. 31 Sono i numeri di Inventario 775, 806, 1017, 1181, le cui schede descrittive si trovano rispettivamente in Pinacoteca Ambrosiana, III, Milano 2007, p. 218, n° 619 (Giuseppe Fusari); II, pp. 288-289, n° 350 (Patrizia Tosini); p. 321, n° 386 (Giuseppe Fusari); III, pp. 140-141, n° 528 (Silvia A. Colombo). 32 Cfr. sopra, p. 552.

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LA SOPPRESSIONE DEI GESUATI MILANESI E LA BIBLIOTECA AMBROSIANA

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Anche nel caso dei libri Bibliothecae coenobii eorundem Jesuatorum, parimenti richiesti al papa nel 1669 dal collegio dei Conservatori ambrosiani, si è costretti a restare altra volta nel vago. Certo è che la biblioteca dei Gesuati non poteva passare inosservata ai vigili ed esperti Conservatori, i quali proprio pochi mesi dopo (nel corso del 1670), lamentavano che alla Biblioteca Ambrosiana «c’è scarsità» di nuovi libri33. La biblioteca del convento di San Girolamo di Milano, della cui qualità non siamo informati, doveva riflettere gli interessi dei più colti frati Gesuati del convento di San Girolamo, fra i quali si annoveravano (giusta la formazione laicale, non clericale) studiosi di fisica, delle scienze naturali, della matematica, di geometria, di architettura, cultori di storia, di filosofia, di diritto e anche un certo numero di studiosi delle discipline ecclesiastiche. Non dovevano mancare in quella biblioteca manoscritti; vi erano quasi certamente incunaboli ed edizioni pregievoli del Cinque-Seicento. Sappiamo che la medesima biblioteca riceveva nel 1507 una donazione libraria da parte del prete Giovanni Munti, confessore della comunità milanese dei Gesuati; non un grande complesso di libri (solo 60 fra manoscritti e stampati), ma di certa qualità34. Più che scontato, quindi, il sollecito interesse dei Conservatori dell’Ambrosiana per quel complesso di opere. Riuscirono essi nel loro intento? Anche a questo riguardo prevalgono i dubbi. Infatti quanto a manoscritti di argomento o provenienza gesuata poco si conosce; alcuni codici di tal genere restano senza una provenienza certa (A 128 sup., 199 inf., C 54 sup., N 129 sup.), mentre uno giunse all’Ambrosiana nel 1805 (Z 39 sup.). Di incunaboli e stampati gesuati passati all’Ambrosiana si sa ancor meno. Per i volumi a stampa poi — anche nell’ipotesi di un passaggio dalla biblioteca milanese dei Gesuati all’Ambrosiana attorono al 1669 o al 1670 — bisognerebbe considerare il grave vulnus che gli stampati ambrosiani ebbero a subire nell’incendio che li colpì la notte fra il 15 e il 16 agosto 194335. Considerate queste premesse, il presente contributo si restringe, nella sua modestia, a semplice spunto per possibili future ricerche sia nell’ambito di talune tele della Pinacoteca, sia di eventuali donazioni o acquisti «gesuati» nella storia della Biblioteca Ambrosiana nel Seicento.

33 M.

Panizza, La crescita della Biblioteca dopo la morte del cardinale Federico, in Storia del­l’Ambrosiana. Il Seicento, p. 242. 34 L’elenco dei libri del prete Giovanni Munti si ha in M. Pedralli, Novo, grande, coverto e ferrato. Gli inventari di biblioteca e la cultura a Milano nel Quattrocento, Milano 2002, pp. 624-631. 35 A. Paredi, Storia dell’Ambrosiana, Milano 1981, p. 60.

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DELIO VANIA PROVERBIO

BATIDAN DOG˘ UYA DOG˘ RU AKAN MÜREKKEP NEHRÌ. A STREAM OF INK FLOWING FROM WEST TO EAST The present, brief contribution is decidedly more aimed at putting into due context a number of (more or less) representative Turkish-written ink recipes, rather than putting forth a number of so far unpublished Vatican documents. More precisely, we are primarily interested in typologizing the Turkish ink recipes with respect of ingredients. Obviously, properly achieving our goal, above all, entails referring to the relevant literature: therefore, we begin with setting forth a selected bibliography, minimally annotated, arranged in chronological order, as follows: The Greek manuscript tradition Carlo Maria Mazzucchi, Inchiostri bizantini del XII secolo, in Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici 42 (2005), pp. 157-62. Peter Schreiner & Doris Oltrogge, Byzantinische Tinten-, Tuschen- und Farb­ rezepte, Wien: Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2011 (Österreichische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-Historische Klasse, Denkschriften, Bd. 419 = Veröffentlichungen der Kommission für Schrift- und Buchwesen des Mittelalters; Reihe IV, Bd. 4) [hereinafter referred to as: B; 80 recipes are published with a German translation]. Lisa Benedetti, Ricette bizantine del XII secolo per tinture e inchiostri, in Aevum 88, Fasc. 2 (maggio-agosto 2014), pp. 443-454.

The Syriac and øaršûní manuscript tradition Alain Desreumaux, Des couleur et des encres dans les manuscrits syriaques, in Ma­­ nuscripta Syriaca. Des sources de première main, edited by Françoise Briquel-Chatonnet and Muriél Debié, Paris: Geuthner, 2015 (Cahiers d’études syriaques, 4), pp. 161-193. Jimmy Daccache & Alain Desreumaux, Les textes des recettes d’encres en syriaque et en garshuni, in Manuscripta Syriaca cit., pp. 195-246. [87 recipes are published with a French translation]. Philippe Boutrolle & Jimmy Daccache, Lexique commenté: les végétaux, les animaux et les minéraux des recettes d’encres en syriaque et en garshuni, in Manuscripta Syriaca cit., pp. 247-270 [hereinafter cumulatively referred to as: S].

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DELIO VANIA PROVERBIO

The Arabic manuscript tradition Vladimir Minorsky, Calligraphers and painters. A treatise by Qâdí Aümad, son of Mír-Munshí, Washington: Smithsonian Institution, 1959 (Freer Gallery of Art, Occasional Papers, no. 3[2] = Smithsonian Institution, Publication no. 4339). Adolf Grohmann, Arabische Paläographie, I. Teil, Wien: Hermann Böhlau, 1967 (ÖAW, Philosophisch-Historische Klasse, Denkschriften 94, Abh. 1; Forschungen zur islamischen Philologie und Kulturgeschichte, Bd. 1), pp. 127-131. Gerhard Endress, Handschriftenkunde, 9.2.2: Die Tinte, in Geschichte der Arabi­ schen Philologie, Band I: Sprachwissenschaft, herausgegeben von Wolfdietrich Fischer, Wiesbaden: Dr Ludwig Reichert Verlag, 1982, pp. 276-277. Monique Zerdoun Bat-Yehouda, Les Encres Noires au Moyen Âge (jusqu’à 1600), Paris: Éditions du CNRS, 1983 (Institut de Recherche et d’Histoire des Textes: Documents, études et répertoires), pp. 123-141 (L’encre des pays d’Islam), 237243 [hereinafter referred to as: Z; 94 recipes (arranged as follows: 11 [China], 10 [Maghreb], 2 [Africa], 65 [Europe], 6 [Greek tradition]) are published with a French translation]. Jan Justus Witkam, Midâd, in 2Encyclopaedia of Islam 6 (1990), col. 1031b. Noureddine Abouricha, L’encre au Maghreb, in Nouvelles des Manuscrits du Moyen-Orient, 3[1] (1993), pp. 3-4. F. Déroche, A. Berthier, M.-G. Guesdon, B. Guineau, F. Richard, A. VeranyNouri, J. Vazin & Muhammad Isa Waley, Manuel de codicologie des manuscrits en écriture arabe, Paris: Bibliothèque nationale de France, 2000 (Études et recherches), pp. 120-125 (Les encres noires), 125-127 (Les encres de couleur). Annie Vernay-Nouri, Calames orientaux et maghrébins. Úmaø, gomme arabique, noix de galle, écorce de grenade, écorce de noyer, fenugrec, in L’art du livre arabe. Du manuscrit au livre d’artiste, Paris, Bnf (site Richelieu, galerie Mazarine), 9 oct. 2001-13 jan. 2002, edited by M.-G. Guesdon & A. Vernay-Nouri, Paris: Bibliothèque nationale de France, 2001, p. 23 nr. 6. Armin Schopen, Tinten und Tuschen des arabisch-islamischen Mittelalters, Dokumentation – Analyse – Rekonstruktion. Ein Beitrag zur materiellen Kultur des Vorderen Orients, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 2006, (Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften zu Göttingen: Philologisch-Historische Klasse, Dritte Folge, Band 269) [hereinafter referred to as: T; 217 recipes are published with a German translation]. Adam Gacek, The Arabic Manuscript Tradition. A Glossary of Technical Terms and Bibliography. Supplement, Leiden – Boston: Brill 2008 (Handbook of Oriental Studies, 1. Near and Middle East, no. 95), pp. 14, 27-28 (üibr), 120-121; 204-206 (Inks, Inkwell, Pens and other writing accessories). Adam Gacek, Arabic Manuscripts. A Vademecum for Readers, Leiden: Brill, 2009 (Handbook of Oriental Studies, I/98), pp. 76-77 (Coloured inks and paints); 132135 (Ink). Lucia Raggetti, Cum grano salis. Some Arabic Ink Recipes in Their Historical and Literary Context, in Journal of Islamic Studies 7(3) (2016), pp. 294-338.

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˘ UYA DOG ˘ RU AKAN MÜREKKEP NEHRI BATIDAN DOG

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The Turkic manuscript tradition Nefes Zâde Ìbrahim, Gülzar-ı Savab, Tashih ve tertib eden Kilisli Muallim Rifat, Ìstanbul: Güzel Sanatlar Akademisi Ne›riyatindan, 1938 (1939) [hereinafter referred to as: G] Александр Александрович СЕМЕНОВ, Гератская художественная рукопись эпохи Навои и ее творца, in Алишер Навои: Сборник статей, edited by А. К. Боровков, Москва & Ленинград: Издательство Академии наук СССР, 1946, pp. 153-174 [hereinafter referred to as: Н]. M. U≈ur Derman, Eski Mürekkepçili≈imiz, Ìslâm Dü›üncesi 1[2] (1967), pp. 97-112 [hereinafter referred to as: D]. Mahmud Bedreddin Yazir, Medeniyet Aleminde Yazı ve Ìslam Medeniyetinde Kalem Güzeli, I-II, Ankara: Ayyıldız Matbaası, 21981 (Diyanet I›leri Ba›kanlı≈ı Yayınları), pp. 151-156 [hereinafter referred to as: K]. M. U≈ur Derman, Mürekkep ve Hokka, in Aletler ve Adetler. ‹evket Rado Ba›kanlı≈ı’nda bir heyet tarafından hazırlanmı›tır, Ìstanbul: Akbank Kültür Yayınları, 1987 (Ak Yayınları Kültür Kitapları Serisi, 12) [hereinafter referred to as: R]. Mübahat S. Kütüko2lu, Osmanlı Belgelerinin Dili (Diplomatik), Ìstanbul: Kubbealtı Akademisi Kültür ve San’at Vakfı, 1994; Ankara: Türk Tarih Kurumu Basımevi, 42018 (Türk Tarih Kurumu Yayınları IV/A-2-2.8 Dizi; Sayı: 41), pp. 41-46. ‹inasi Acar, Eski Mürekkepler, Hokka ve Divitler, Antik ve Dekor 44 (1998), pp. 92102 [hereinafter referred to as: A]. Bahattin Yaman, Türk Kitap Sanatlarında Mürekkep, in Türkler Ansiklopedisi, 12 (2002), pp. 283-288 [hereinafter referred to as: Y]. M. U≈ur Derman, Osmanli Ça≈inda Hat Sanati Ve Hattatlara Dair Yapilan Ara›tirmalar, in XIII. Türk Tarih Kongresi, (Ankara, 4-8 Ekim 1999) Kongreye Sunulan Bildirirler, II. Cilt, Ankara: Türk Tarih Kurumu Basımevi, 2002, pp. 41-85. M. U≈ur Derman, Mürekkep, in Türkiye Diyanet Vakfı Ìslâm Ansiklopedisi 32 (2006), pp. 46-47 (https://islamansiklopedisi.org.tr/murekkep). Y`. Mämmedow, Geçmi›in goly`azma y`adygäelikleri, Miras 1[1] (2006), pp. 53-58: col. 56b = pp. 152-156: coll. 154b-153a (english transl.) [hereinafter referred to as: M]. Yûnus Emre Çelik, Geleneksel Yöntemlerle Ìs Mürekkebi Yapimi ve Uygulama Sonuçlari, Yüksek lisans tezi, Ìsparta, Süleyman Demirel Üniversitesi, Güzel Sanatlar Enstitüsü, Geleneksel Türk Sanatları Anasanat Dalı, 2018 [hereinafter referred to as: Ç]. A Acar, Eski Mürekkepler B Schreiner & Oltrogge, Byzantinische Tinten Ç Çelìk, Geleneksel Yöntemlerle Ìs Mürekkebi D Derman, Eski Mürekkepçili≈imiz G Nefes Zâde Ìbrahìm, Gülzar-ı Savab K Yazìr, Kalem Güzeli M Mämmedow, Geçmi›in goly`azma y`adygäelikleri

R S T Y

Derman, Mürekkep ve Hokka Manuscripta Syriaca Schopen, Tinten und Tuschen Yaman, Türk Kitap Sanatlarında Mürekkep Z Zerdoun Bat-Yehouda, Les Encres Noires H СЕМЕНОВ, Гератская художественная ­руко­пись

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DELIO VANIA PROVERBIO

Let now examine the following Turkish recipe: Vat. turc. 63 (seventeenth century), f. 86v [pl. 1]: recipe for making (black) ink [mürekkeb]

‫ا ّول مازوي دوغوب اون بش درهم صو اييل بر گون بر گج | دوره بعده صوين الوب بر چنق‬ ‫ ينه اول صويه قوپ اسالداسن | بعده ساير اجراي قوپ دوكسني }ضمع{ ايچندن قيوپ‬ .‫نقدر دوكرسن دقي اعال اولور صح‬ e͗ vvel mâzûyı dô¨ gû¨ b,1 ’ôn be› dirhem-i úû ’ílê˙ 2 bir gû¨ n bir gece3 devirэ, ba‘dehu úûyını a’ lûp, bir çanaq ’í˙ çinden qıyûp, úamø yenэb ’ôl úûyɒa qôp4 ı’ slâdâ#sın5 ba‘dehu sâьˉ ir ı’ crâyı qôp dô¨ ksí˙ n ne-qadar dônarsın daqí a’‘ lâ ’ôlûr. Úaü. First of all, one has to pound the gallnuts, then turn over (the mashed gallnuts) with 15 dirhems of water for a day and night. Afterwards, one has to recover the infusion ant put it in a cup; (then), once the gum Arabic has been incorporated into the water, (the liquid) should turn loosely black. Afterwards, one has to purge (the liquid from) the formation of residues, however much they could solidify, and finally it will be fine. Verified.

In order to contextualize the above black-ink recipe, we will compare its composition with that of some Turkic and non-Turkic, Mediterranean recipes, with tabulating the data in a synoptic spreadsheet that shows the frequency with which ingredients occurs. As a result, if, from one hand, the comprehensive list counts 41 ingredients (ten of which, according to S and T, are unknown to most of the recipes), nevertheless it turns out that only four components, shared by the large majority of recipes, from West to East, appears quite ‘unavoidable’ for producing black ink. List of examined recipes6 *Vat. sir. 104, f. 87v (end of ninth century) [pl. 2] *Vat. ebr. 509, f. 54r (fourteenth century) [pl. 3] *Vat. ebr. 437, f. 292r (fifteenth century) *Vat. turc. 96, f. 2r (a) [pl. 4]

‫א‬111 ‫ב‬111 ‫ג‬111 α112

1 Written , a substandard orthography which denotes that pronunciation shift [g] > [ɣ] was already in act. 2 If we adopted the (otherwise possible) reading “úû ’ílí” — which would represent the syntagm úû-yı ’ílí (’ílí úû, “tepid water”) — the resulting phrase, much more than being a syntactically substandard sentence, would turn to be semantically inconsistent. 3 Written , an orthography that is decidedly substandard with respect of classical Osmanlı tradition. 4 Qôp, ‘çok, much’ is definitely a non-Anatolian lexeme. 5 #-dA# is an Old-Anatolian infix: Güren Gülsevin & Erdo≈an Boz, Eski Anadolu Türkçesi, Ankara: Gazi Kitabevi, 2004, p. 156. 6 An asterisk marks the recipes so far unpublished.

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*Vat. turc. 96, f. 2r (b) β112 *Vat. turc. 63, f. 86v (seventeenth century) γ112 BnF, Supplément turc 1160, f. 31v (1718 CE) τ711 BnF, Supplément turc 1160, f. 32r υ112 BnF, Supplément turc. 1212, f. 242r-v (sixteenth century) [pl. 5] δ811 Ìstanbul, Topkapı Sarayı Müzesi Kütüphanesi, Hazine, nr. 1292, f. 56r ε112 Ìstanbul, Topkapı Sarayı Müzesi Kütüphanesi, Hazine, nr. 1292, f. 56v   ζ112 Ìstanbul, Topkapı Sarayı Müzesi Kütüphanesi, Hazine, nr. 1292, f. 57v(a)   η112 Ìstanbul, Topkapı Sarayı Müzesi Kütüphanesi, Hazine, nr. 1292, f. 57v(b)   θ112 Ìstanbul, Hacı Selim A≈â Kütüphanesi, Kemanke›, nr. 500, ff. 18r-v   κ912 Ìstanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, A›ir Efendi, nr. 289, ff. 37v-38v   λ112 Ìstanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, A›ir Efendi, nr. 289, f. 2v   μ112 Ìstanbul, Topkapı Sarayı Müzesi Kütüphanesi, Yeniler, nr. 658, f. 1v   ν112 Ìstanbul, Arkeoloji Müzesi Kütüphanesi, nr. 472, f. 38v ξ112 Ìstanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Esad Efendi, no. 3783, f. 313 ω Tashkent, Ўзбекистон Миллий Кутубхонаси, Ms. No. 415/V, f. 182r-v Ψ10 *Sbath 767, f. 72v↓11 (nineteenth century) π12 Ìstanbul, Millet Yazma Eser Kütüphanesi, Ali Emiri, Tarih 809, ff. 2r, 11v-12r ρ12 Ìstanbul, Millet Yazma Eser Kütüphanesi, Ali Emiri, Tarih 809, f. 10v   σ12

A Mediterranean milieu that turns to East

(Southern) Italy Vat. ebr. 437 Vat. ebr. 509

Syria Vat. sir. 104 Sbath 767

Anatolia BnF, Supplément turc 1160 BnF, Supplément turc 1212 Ìstanbul, Arkeoloji Müzesi Kütüphanesi, nr. 472 Ìstanbul, Hacı Selim A≈â Kütüphanesi, Kemanke›, nr. 500

Ìstanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, A›ir Efen­di, nr. 289 Ìstanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Esad Efendi, no. 3783 Ìstanbul, Millet Yazma Eser Kütüphanesi, Ali Emiri, Tarih 809 Ìstanbul, Topkapı Sarayı Müzesi Kütüphanesi, Hazine, nr. 1292 Vat. turc. 96 Vat. turc. 63

Central Asia

Tashkent, Ўзбекистон Миллий Кутубхонаси, Ms. No. 415/V

  7 Cfr.

https://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc93160w. Z, pp. 136-137; https://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc93216g.   9 Ç (ibid., p. 36) claims to have transcribed the text of ms. κ, ff. 18r-v, but its recipe is different from that publisheb by Y (ibid., p. 285, no. 5), who nevertheless makes the same claim. But compare the text of recipe ω, as transcribed in G (ibid., p. 118) with the text transcribed in Ç: “Revak et Kırk dirhem zamkı ey yâr | Havan içinde ey tâlib-i vefâdâr || Koy (e≈er) on dirhem (aña) dûd-i siyah ı | Dokuz (Yedi) dirhem dahi zâc ekle (bil bu) râhi || Ìki dirhem dahi kat za’ferânı | Buçuk dirhem dahi milhi enderâni […]”. 10 Н, pp. 159-160; M, col. 56b. 11 Nusæa üibr al-aümar. Two variats (written by two different hands) of a øaršûní recipe for making red ink. 12 Cfr. Delio V. Proverbio, Turcica Vaticana, Città del Vaticano: Biblioteca Apostolica Vaticana, 2010 (Studi e testi, 461), pp. 223-228.   8 Cfr.

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DELIO VANIA PROVERBIO

Ingredients (eczâ)

‫א‬ zamq-ı ‘arabí˙ ,13 úamø-ı ‘arabí˙ ; qomis‫[ א‬κόμμι], ‫יקא‬ ַ ‫ַר ֵב‬

‫ב‬

‫ג‬

α

‫ גומה‬gômâ rabêqâ‫ ב‬14

(siyahζ) mâzû (úûyíευ); apúô‫[ א‬κικίδι], ‫ אלג‬galâ‫ב‬ zâc-ı Qıbríz(í)α17 (suyuεηυ), zâg-ı türkΨ; qalaqaδís‫[ א‬καλακάνθι], dûdûγ,

dûdэδυ,

âhenβ,

za‘ ferânδγξω19,

(Acem

neftiξ)

‫ וִ וִ ִדריאולו‬ṿidrí’ôlô‫ב‬

is(i)

demir (yongasıεζ)(hurdasıθ)20

nebâtγτυ; nevbet ›ekerí˙ δζθ (keskinζ) sirke; ‫ חומץ‬æômeú‫בג‬ gül (suyuεθλΨ)(sirkesiζη)(ya≈ıλ) mersûnδ, mersin (yemi›i suyuε; tuæm-ıΨ)(yapra≈ıδζ); murdλ23 (e͗ k›í˙ τ) (kuruζ) nâr (qâbûøíδε)(suyuε)(goncasıθ) milüγυ, Üâcıbekdâ›δθκ (ýûzí) *úuqûýrí,25, úabr-ı ’úquýrτ, sabr-ı sükotaraζ, úabûrΨ, azvayν za‘ ferân (safran); ‫ כרכום‬karkôm‫ג‬ e͗ ftímûn (qalamíδ) zenârδτυ; ‫ בירדירמי‬βêrdêramê‫ג‬ (Yemenζ) ›apı, ›ebb-i yemâní˙ τ úıøır veyâ qoyûn ö͗ dí˙ ηυ kına (yapra≈ı) vesme27 13 The scribe of ms. δ wrote ‹ʕrɒby›, thus appearing to denote a kind of paretymological analysis of the otherwise morphologically opaque lexeme “‘arabí˙ ”: #qara# [“black”] – #bi#. See infra, note 14. 14 The lexeme rabêqâ (which is a phonetic transcription from a diatopic gesture of lexeme ‘arabica’) denotes a Southern-Central Italian, atonic vocalism, of the type [fé.mméné] versus [fé.mmone], [fé.mmαne], [fé.mmine], [fímmini]; [d͡ʒúvéné], &c.; cfr. K. Jaberg & J. Jud, Sprachund Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Band I.1. Familie, Zofingen: Ringier & Co., 1928, karte 48 (“due donne”), 51 (“giovani”). MS ‫( ג‬deleted by a stroken of pen): ‫מים גומעה‬, sic pro ‫“ מי גומה‬gum water”. 15 R identifies two main qualities of smaø: the Cellâbí˙ type, from Sudan, and a variety from Jeddah. 16 R, col. 78b: “Musul Mazısı; […] Mazı Suyu”. 17 The scribe of ms. δ wrote sâc-ı Qubrûs, again betraying the tendency to paretymologize. In fact, there exist (at least) two homograps: sâc “iron-sheet” and sâc “ebony, black wood”. 18 A, p. 94: “bezir isi” soot made of burned linseed oil (Linum usitatissimum). 19 At least as far as mss δγξω are concerned, za‘ferân would not mean “saffron”, but, according to Redhouse, “rust of iron, âhen”.

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α

Black ink

β

γ

δ

563

˘ UYA DOG ˘ RU AKAN MÜREKKEP NEHRI BATIDAN DOG



ε

ζ

η

θ

κ

Red ink

λ

μ

ν

ξ

τ

υ

ω

Ψ

π

ρ

σ

R

A

15 16

18 21

22

24

26

20 Compare the text of recipe ω, as transcribed in G (ibid., p. 118): “[…] | Havan içinde ey tâlib-i vefâdâr || Ko on dirhem aña dudi siyahı | Yedi dirhem dahi zaç bil bu rahı || iki dirhem dahi kat za’feranı | […]” (put ten dirhem of lampblack, which is the mother of blackness; then seven dirhem of vitriol, the basic [ingredient] of such a liquor; then [add] an amount of two dirhem of za’feran) with the text of recipe κ, as transcribed in Ç, (ibid., p. 36): “[…] | Havan içinde ey tâlib-i vefâdâr || Koy e≈er on dirhem dûd-i siyahi | Dokuz dirhem dahi zâc ekle râhi || […] || Ìki dirhem dahi kat zâferânı” 21 R, col. 78b: “Demir kırıntısı”. 22 A, p. 94: “paslı bakır parçaları”. 23 Y, col. 285b: mürde (sic) yapra≈ı. 24 R, col. 78b: “Milh-i Enderûnî […] Karaduz [qarɒ ýûz, milü ‘aswad, black salt]”. 25 δ: ú(u)qdûrí. Cfr. Z, p. 137: “sakdoure (?)”. 26 R, col. 78b: “Kına Suyu”, extract of henna. 27 Although “vesme” and “çivit” appear to be considered as synonyms by Meninski and Redhouse, we translate “vesme” as “râstıq”, according to Lehce-i Osmâní˙ , Qâmûs-i Türkí˙ , and Kanar.

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DELIO VANIA PROVERBIO

Ingredients (eczâ)

‫א‬ üamrô‫א‬, ‫ישן‬

‫ב‬

‫ג‬

α

‫ יין‬yayin yašan‫ב‬

efsintinζ, e͗ {ni}sintí˙ nτ, dermenэΨ gözta›ıε çivit, çivit otu (kabu≈unun ate›te) yanmı› nârξ; nı›astanın (demir sac üzerinde) kömürüξ kefk-ı deryâ misk anzerut kâfur otu gav kuyru≈u (çiçe≈i) ‘araq-ı kâsnı a͗ ntí˙ môn suræ dar (dâr) katır tırna≈ı çiçe≈i (suyu) katır kuyru≈u çiçe≈i meyan balı za≈ topra≈ı sarı zırnık nı›adır bal qırmız çevgan, çôøân lôýûr33 yumurta

28 R,

col. 78b: “Asma Yapra≈ı Suyu […] Koruk Suyu”, extract of wine-grape leaves; ver-

juice.

29 A,

p. 94: “pelin”.

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α

Black ink

β

γ

δ

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˘ UYA DOG ˘ RU AKAN MÜREKKEP NEHRI BATIDAN DOG



ε

ζ

η

θ

κ

Red ink

λ

μ

ν

ξ

τ

υ

ω

Ψ

π

ρ

σ

R

A

28 29 30 31

32

30 A,

p. 94: “lâcivert”. col. 78b: “Lâhur çividi”, indigo of Lahore. 32 R, col. 78b: “Öküzkuyru≈u Çiçe≈i”. 33 Written with a prosthetic aliph, as in the case of ’uúquýr instead of úuquýra. 31 R,

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566

DELIO VANIA PROVERBIO

Ingredients âhenβ,

za‘ferânδγξω, demir (yongasıεζ)(hurdasıθ)

Iron filings, rust

a͗ ntí˙ môn

Antimony

anzerut

Sarcocolla, ‘anzarûý, Astragalus sp. (Sarcocolla tragacantha)

‘araq-ı kâsnı

Chicory distilled water

bal

Honey

T, pp. 223-224

çevgan, çôøân

çevgan, çôøân [çö≈en, Saponaria officinalis; Y, p. 287a] Indigo, çiví˙ dí˙ , Indigofera tinctoria, Isatis tinctoria:

T, pp. 215-217; S, pp. 255

çivit (otu)

T, pp. 183-186, 206; S, p. 264

dûdûγ, dûdэδ, (Acem neftiξ) is(i) efsintinζ, e͗ {ni}sintí˙ nτ, dermenэΨ

Soot (from Persian naphthaξ)

T, pp. 183-186, S, p. 256

Wormwood, Artemisia absinthium

T, p. 234

e͗ ftímûn34

Dodder, Cuscuta epithimum

gav kuyru≈u (çiçe≈i)

Oxtail (flowers), úíøír qûyrûøû, Phlomis sp.; Verbascum sp.,

gözta›ıε

Lapis lazuli35

gül (suyuεθλΨ)(sirkesiζη) (ya≈ıλ)

Rose (waterεθλΨ)(vinegarζη)(oilλ) T, p. 229

üamrô‫א‬

Wine, οἶνος

kâfur otu

Sothernwood, Artemisia arborea

katır kuyru≈u çiçe≈i

Flowers of Stinking Bean Trefoil, Anagyris foetida

katır tırna≈ı çiçe≈i (suyu)

(extract from) common Broom flowers, Cytisus scoparius

kefk-ı deryâ

Meerschaum, kaf-e darya

T, pp. 232-233; S, p. 264

kına(yapra≈ı)

Henna, üinnâ leafs, Lawsonia tinctoria

T: p. 225; S, p. 254

T, pp. 217; S, p. 265

B, p. 128; S, p. 260

34 K,

p. 153, note 2: “Türkçe’de gelin saçı, cin saçı kâfir saçı [bride’s hair, djinn’s hair, infidel’s hair] isimleriyle tanınan ve eski tıpda kullanılan bir madde”. 35 The mysterious ‹ówzd’šy› occurring in Ms Charfet, Raümani 78, is nothing but the Turkish syntagm gözta›ı, “blue stone”.

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˘ UYA DOG ˘ RU AKAN MÜREKKEP NEHRI BATIDAN DOG



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Ingredients lôýûr36

Bark of Lodhra tree, Symplocos Y, p. 287a; racemosa37; berries of D, p. 103 Phytolacca pruinosa

(siyahζ) mâzû, mazı (suyuε)

(blackζ) Gallnut38 (extractε)

T, pp. 189-191 S, p. 256

mersûnδ, mersin (yemi›i suyuε; tuæm-ıΨ)(yapra≈ıδζ); murdλ

Myrtle (berries juiceεΨ)(leafsδζ)

T, pp. 196-197; S, p. 256

meyan balı

Licorice extract, Glycyrrhiza glabra

milüγ, Üâcıbekdâ›δθκ (ýûzí)

Rock-salt: T, p. 230; S, pp. 261

T, p. 230; S, pp. 261

misk (e͗ k›í˙ τ) (kuruζ) nâr (qâbûøíδε) (suyuε)(goncasıθ)

Musk

T, p. 227

(sourτ)(driedζ) Pomegranate39 (shellδε)(extractε)(flower-budθ

T, pp. 195-196; S, p. 254

)

(kabu≈unun ate›te) yanmı› nârξ; nı›astanın (demir sac üzerinde) kömürüξ nebâtγυ; nevbet ›ekerí˙ δζθ

Charcoal40

T, pp. 186-187; S, p. 251

(Molded) Sugar, nabât

T, pp. 234-235; S, p. 259

nı›adır

Ammonia

T, pp. 229-230; S, p. 263

qínâr úû(yı)

Artichoke, Cynara sp. (water)

qırmız

Cochineal

D, p. 102; Y, p. 287; S, p. 226

sabr-ı sükotaraζ, *úuqûýrí, úabûrΨ, azvayν

(Socotrine) Aloe

T, p. 231; S, p. 248

safran

Saffron

T, p. 229; S, pp. 257-258

sarı zırnık

Orpiment

T, p. 214; S, p. 262

sı≈ır veya koyun ödü

(Cattle) Gall

T, p. 103; S, p. 261

36 G,

p. 114, note 2: “Ekseriya ›ekerciler tarafından kullanılan bir nevi boyadır”. to Redhouse. 38 M, col. 56b: “Pisse agajynyn ˇ y`apraklaryndan buzgunça [smelly (gallnut) from pistachio-tree leaves]”. 39 ‫א‬: qolpô dé-rûmonô üamûúô dé-ýabn (Ταϐένη ?) [shell of unripe pomegranate, not in B]. 40 “Charcoal from burnt pomegranate shell; charcoal from burnt starch”. 37 According

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DELIO VANIA PROVERBIO

Ingredients (keskinζ)

sirke

T, pp. 233-234; S, p. 260

Red wood (?)

suræ dâr (Yemenζ)

Wine vinegar, æall

›apı

Allum

T, p. 223; S, p. 266

(za≈) topra≈ı

Black Clay/Soil (?)

vesme

Koül, râstıq (râsûæt), Isatis tinctoria

T, p. 187; S, p. 265

yumurta

Egg

T, p. 222; S, p. 261

Vitriol (solutionεη) zâc-ı Qıbrízα, zâc-ı Kıbrısî (suyuεη), zâg-ı türkΨ zamq-ı ‘arabí˙ 41, úamø-ı ‘arabí˙ Gum-Arabic, smaø (qalamí) zenârδ

Verdigris

T, pp. 198-205; S, p. 267 T, pp. 218-219; S, p. 252 T, pp. 215; S, pp. 231, 266

41 K, p. 153, note **: “Acacia Senegal” ve di≈er bâzı Afrika akasya cinslerinin gôvde ve dallarından akıp havada katıla›an zamkdır.

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˘ UYA DOG ˘ RU AKAN MÜREKKEP NEHRI BATIDAN DOG

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Pl. I – Vat. turc. 63, f. 86v (seventeenth century).

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DELIO VANIA PROVERBIO

Pl. II – Vat. sir. 104, f. 87v (end of ninth century).

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˘ UYA DOG ˘ RU AKAN MÜREKKEP NEHRI BATIDAN DOG

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Pl. III – Vat. ebr. 509, f. 54r (fourteenth century).

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DELIO VANIA PROVERBIO

Pl. IV – Vat. turc. 96, f. 2r (a).

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˘ UYA DOG ˘ RU AKAN MÜREKKEP NEHRI BATIDAN DOG

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Pl. V – BnF, Supplément turc. 1212, f. 242r (sixteenth century).

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ANTONIO RIGO

GLI ESTRATTI DEL SYNODIKON DELL’ORTODOSSIA DEL VAT. GR. 1700 (VERSO 1370) La restaurazione del culto delle immagini a Bisanzio ebbe luogo l’11 marzo 843. Quel giorno, prima domenica di Quaresima, diventò da allora la Domenica dell’Ortodossia, con un cerimoniale proprio già fissato alla fine del ix secolo. Momento centrale della ricorrenza era la lettura pubblica di un documento redatto per l’occasione, il Synodikon dell’Ortodossia1. La parte dottrinale di questo testo ha conosciuto delle integrazioni nelle età successive. Agli articoli originari di m, legati alla fine dell’Iconoclasmo, furono aggiunti durante i Comneni quelli connessi alle dispute teologiche di quell’età, a partire dalla condanna di Giovanni Italo (c), e infine altri articoli furono inseriti nel xiv secolo, durante l’epoca paleologa (p), con le dispute teologiche legate al nome di Gregorio Palamas, in occasione del Concilio del 13512. La Biblioteca Apostolica Vaticana, oltre a un certo numero di esemplari di m, conserva cinque testimoni del Synodikon dell’Ortodossia p. Due di questi manoscritti sono da lungo tempo conosciuti, tanto da essere stati già utilizzati da Leone Allacci3. Il primo è il Synodikon del Vat. gr. 7894. La seconda unità del codice (ff. 66-113), che è quella che qui ci interessa, è stata eseguita da due copisti coevi dell’ultimo scorcio del xiv secolo (a: ff. 66-102; b: ff. 103-113). 1. (ff. 66r-89r) Synodikon dell’Ortodossia. 2. (ff. 89r-90r) *Giovanni Crisostomo, Sermo catecheticus in S. Pascha (CPG 4605). 3. (ff. 90r-113v) Passio S. Artemii (BHG 172).

1 J. Gouillard, Le Synodikon de l’Orthodoxie. Édition et commentaire, in Travaux et mé­ moires 2 (1967), pp. 1-316. 2 Al riguardo cfr. A. Rigo, Le Synodikon de l’Orthodoxie et le Palamisme. La forme primi­ tive de p (1351 – avant 1360): les sources et les témoins, in Laudator temporis Acti. Studia in memoriam Ioannis A. Boàilov, II, Sofia 2018, pp. 227-241. 3 Cfr. R. Devreesse, Codices Vaticani graeci, t. III. Codices 604-866, In Bibliotheca Vaticana 1950, p. 307; L. Allatius, De Symeonum scriptis diatriba, Parisiis 1664, pp. 186-188. 4 Cfr. Devreesse, Codices Vaticani graeci cit., t. III, pp. 306-307.

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ANTONIO RIGO

Alla fine di questa unità, nel margine inferiore del f. 113v figura una nota (di possesso?), tracciata con monocondilo iniziale da una mano del xv secolo: † ὁ Μακρϊδούκας. † τῶν εὐτυχούντων πάντες ἄνθρωποι φίλοι τῶν δὲ δυστυχούντων οὐδὲ αὐτὸς ὁ γεννήτωρ. Il cognome Μακρυδούκας/5 Μακροδούκας6 è conosciuto. Segnaliamo qui, senza peraltro possedere alcun elemento concreto che permetta un’identificazione, il Makrodoukas attestato a Costantinopoli verso il 14007 e il copista Simon Makrodoukas che eseguì un manoscritto medico (Wien, Österreichische Nationalbibliothek medic. gr. 17) nel primo quarto del xv secolo, come sappiamo dalla sottoscrizione che era presente in un foglio poi andato perduto8. Questo esemplare completo del Synodikon, d’origine costantinopolitana, come si evince dall’assenza di acclamazioni per vescovi o metropoliti, presenti invece nella recensioni provinciali, è databile con facilità sulla base del contenuto. I polychronia (f. 85v) per l’imperatore allora regnante Giovanni viii Paleologo († 1391) e il patriarca in carica, Nilo Kerameus (1380-1388) forniscono un primo riferimento, precisato dalle ultime acclamazioni per i defunti: Giovanni vi Cantacuzeno († 1383) (f. 86v), Irene Cantacuzena († dopo 1365/1366) (f. 87v) e Filoteo Kokkinos († 1377/78) (f. 88r). La datazione 1383-1388 per l’esecuzione di questo Synodikon è confermata dalle filigrane, che risalgono appunto a quegli anni9. Il Synodikon del Vat. gr. 789 è stato poi copiato nella prima metà del xvi secolo a Roma da Zacharias Kallierges10 nel Vat. gr. 722, ff. 73r-88v11, dal quale poi è stato esemplato, nel secolo successivo, il Synodikon del Vat. Ott. gr. 225, ff. 54r-66r12.   5 Cfr. Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, a c. di E. Trapp et a., Wien 19761994 (d’ora in poi PLP), nr. 16436.   6 Cfr. PLP 16393-16400.   7 PLP, nr. 16393 e 16399.   8 Cfr. J. Bick, Die Schreiber der Wiener griechischen Handschriften, Wien – Prag – Leipzig 1920 (Museion. Abhandlungen, i. Band), nr. 179; PLP, nr. 16400.   9 V. A. Mošin, Сербская редакция Синодика в Неделю Православия. Анализ текстов, in Vizantijskij Vremennik 16/41 (1959), p. 345 n. 104 indicava il tipo Huchet, Mošin-Traljiò 4997 (a. 1385); una verifica mostra peraltro che la filigrana del codice, senza corrispondenza nei repertori, è piuttosto simile a Piccard 119408 (Montpellier 1392), 119595 (Venezia 1395); cfr. anche Briquet 7672 (Udine 1392). 10 Cfr. Repertorium der griechischen Kopisten, 800-1600, 3. Teil, Handschriften aus Bibliotheken Roms mit dem Vatikan, erstellt von E. Gamillscheg, unter Mitarbeit von D. Harlfinger – P. Eleuteri, Wien 1997 (Österreichische Akademie der Wissenschaften. Veröffentlichungen der Kommission für Byzantinistik, III/3), nr. 197 11 Sul quale v. innanzitutto Devreesse, Codices Vaticani graeci cit., t. III, pp. 222-224. 12 Cfr. E. Feron – F. Battaglini, Codices manuscripti Graeci Ottoboniani Bibliothecae Vaticanae, In Bibliotheca Vaticana 1893, pp. 130-131; J. Darrouzès, Documents inédits d’ecclésiologie byzantine, Paris 1966 (Archives de l’Orient chrétien, 10), pp. 87-88.

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GLI ESTRATTI DEL SYNODIKON DELL’ORTODOSSIA DEL VAT. GR. 1700

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Un altro testimone ben noto è il Synodikon dell’Ortodossia della metropoli di Tessalonica, Vat. gr. 172, eseguito presso la metropoli della città da Kyriakos nel 1439 e poi integrato con alcune nuove acclamazioni nei decenni successivi13. Il quinto esemplare, il Vat. gr. 1700, del quale ci occupiamo in questa sede, non conserva, a differenza dei precedenti il testo per intero, ma soltanto alcuni estratti dal Synodikon dell’Ortodossia. Questo manoscritto era soltanto ricordato, assieme ad alcuni altri testimoni frammentari (o perduti) del Synodikon, da J. Gouillard, che non lo utilizzava per l’edizione: «Parmi les témoins fragmentaires de p, on peut encore compter le Vatic. gr. 1700, xve siècle, papier, fol. 15-16, codex disparate à l’extrême. Le texte, réduit à la partie strictement doctrinale, néglige les grands articles prosopographiques (Andronic, Grégoire, champions de l’Orthodoxie); il est encadré entre les deux anathèmes nicéens, au lieu d’en être précédé comme ailleurs. Il s’agit certainement d’un emprunt, légèrement adapté, à un Synodikon de type pkab»14. Il codice Vat. gr. 1700 in realtà era stato datato al secolo xiv, e precisamente all’anno 1332/33, da Ciro Giannelli nel catalogo postumo curato da Paul Canart, che però era già apparso prima della pubblicazione del Synodikon da parte di J. Gouillard15. Il manoscritto, dal contenuto disparato (nomocanone, opere ed escerti patristici, medici, testi apocalittici), era stato copiato per la sua maggior parte, ff. 1-79v, 87-89v, 100-157v (e anche per i fogli che qui ci interessano) da Daniel (sottoscrizione ai ff. 26r, Ἰησοῦ βοήθει μοι τῷ γράφει Δανιήλ e 55v, τοῦ εὐτελοῦς Δανιήλ), che è stato fatto risalire al secondo quarto del XIV secolo16. Del copista Daniel, sempre collocato nella prima metà di quel secolo17, è conosciuto un altro manoscritto, Paris, BnF Coisl. 21618. Il codice con13 Cfr. G. Mercati – P. Franchi de’ Cavalieri, Codices Vaticani Graeci, i. Codices 1-329, In Bibliotheca Vaticana 1923, pp. 196-197; Repertorium der griechischen Kopisten, 800-1600 cit., 3. Teil, nr. 359; L. Petit, Le synodicon de Thessalonique, in Échos d’Orient 18 (1918), pp. 236-254; V. Laurent, La liste épiscopale du synodicon de Thessalonique. Texte grec et nouveaux compléments, in Échos d’Orient 32 (1933), pp. 300-310; Gouillard, Le Synodikon de l’Ortho­ doxie, cit., p. 34; A. Rigo, Il Synodikon dell’Ortodossia di Tessalonica, in Revue des études byzantines 78 (2020). 14 Gouillard, Synodikon cit., p. 35. 15 C. Giannelli, Codices Vaticani graeci. Codices 1684-1744. Addenda et indices curavit P. Canart, In Bibliotheca Vaticana 1961, pp. 30-41. 16 Repertorium der griechischen Kopisten, 800-1600 cit., 3. Teil, nr. 156. 17 Repertorium der griechischen Kopisten, 800-1600, 2. Teil, Handschriften aus Biblio­ theken Frankreichs und Nachträge zu den Bibliotheken Großbritanniens, erstellt von E. Gamillscheg und D. Harlfinger, Wien 1989 (Österreichische Akademie der Wissenschaften. Veröffentlichungen der Kommission für Byzantinistik, III/2), nr. 122. 18 Cfr. R. Devreesse, Le fonds Coislin, Paris 1945, pp. 197-198; A. A. Dmitrievskij,

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ANTONIO RIGO

tiene il Typikon di san Saba, seguito dalla spiegazione del monaco Marco (xiii secolo?), dal De ascetica disciplina (CPG 2890) attribuito a Basilio di Cesarea e da altri brevi testi, ed è sottoscritto dal copista, che menziona le sue origini, al f. 206v: † Εὔχου μοι, ἀξιῶ ἱκετικῶς τῶ μοναχῶ κατὰ πάντα ἐλαχίστω γράφει δὲ τούτων Δανιὴλ τῶ ἐξ Ἰουδαίων [... Il manoscritto coisliniano, già appartenuto al monastero della Grande Lavra sul Monte Athos (f. iv τυπικὸν τοῦ ἁρμαρίου τῆς Λάβρας, ff. 1r e 201r τῶν κατηχουμένων) presenta sul margine inferiore del f. 189v la nota: Ὁ ταπεινὸς μητροπολίτης Ἱερισσοῦ καὶ Ἁγίου Ὄρους καὶ ὑπέρτιμος Ἰάκωβος. Giacomo di Hierissos è un personaggio ben noto19, che fu prima vescovo della sede, poi elevato alla dignità di metropolita (1344) che conservò sino alla morte († ante 1365). La nota nel manoscritto non è autografa del metropolita né è stata vergata da Daniel20. Ritorniamo al Vat. gr. 1700. Ciro Giannelli, seguito da tutti gli altri studiosi21, ha datato il codice al 1332/33 sulla base delle tavole pasquali degli anni 1333-1394, precedute dalla spiegazione sul come calcolare il giorno della Pasqua (inc.: Εἰ θέλεις εὑρεῖν τὸ Πάσχα, ὀφείλεις ἀριθμεῖν ἀπὸ τὴν β ʹ τῆς διακενησίμου ἡμέρας τν ʹ ), che seguono immediatamente ai ff. 18r-19r gli estratti del Synodikon dell’Ortodossia e che sono sempre copiate da Daniel. In effetti qui leggiamo:

Πασχάλιον Ἔτους ͵Ϛωμαʹ ἰνδικτιῶνος αʹ ἡλίου κύκλος θʹ σελήνης κύκλος αʹ θεμέλιον ιδʹ ἡ ἀπόκρεω φεβρουαρίου ζ ʹ νομικὸν φάσκα ἀπριλλίου β ʹ χριστιανῶν πάσχα ἀπριλλίου δ ʹ νηστεία τῶν ἁγίων Ἀποστόλων ἡμέραι κθ ʹ. Описание литургических рукописей, хранящихся в библиотеках Православного Востока. Том 3: Τυπικά, Kiev 1917, pp. 344-345. 19 Sul quale cfr. cfr. PLP, nr. 92063 e, soprattutto, D. Papachryssanthou, Hiérissos, métropole éphèmere au XIVe siècle, in Travaux et mémoires 4 (1970), pp. 396, 399-410 e ead., Histoire d’un évêché byzantin: Hiérissos en Chalcidique, in Travaux et mémoires 8 (1981), pp. 377, 392-393 (nr. 16); v. anche A. Rigo, Gregorio Palamas, Tomo aghioritico. La storia, il testo, la dottrina, Leuven 2020 (Orientalia Lovanensia Analecta), pp. 65-66 (nr. 21). 20 Cfr. Papachryssanthou, Hiérissos, métropole éphèmere au XIVe siècle cit., figg. 2-6. 21 Cfr. P. Canart – V. Peri, Sussidi bibliografici per i manoscritti greci della Biblioteca Vati­ cana, Città del Vaticano 1970 (Studi e testi, 261), p. 634; M. Buonocore, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana, II, Città del Vaticano 1986 (Studi e testi, 319), p. 923; M. Ceresa, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1981-1985), Città del Vaticano 1991 (Studi e testi, 342), p. 395; id., Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1986-1990), Città del Vaticano 1998 (Studi e testi, 379), p. 451; id., Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1991-2000), Città del Vaticano 2005 (Studi e testi, 426), p. 569; v. da ultimo K. Levrie, Maximi Confessoris, Capita de duabus Christi naturis necnon Pseudo-Maximi Confessoris Capita gnostica, Turnhout 2017 (Corpus Christianorum. Series graeca, 89), p. 144* e anche https://pinakes.irht.cnrs.fr/notices/cote/68329/ (ultima con­sultazione 5 giugno 2019).

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GLI ESTRATTI DEL SYNODIKON DELL’ORTODOSSIA DEL VAT. GR. 1700

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Ἕτερον πασχάλιον ἀκριβέστερον καὶ συντομώτερον Inc.: Ἔτους μβʹ θεμέλιον σελήνης κεʹ νομικὸν φάσκα μαρτίου κβʹ ἡμέρα γʹ χριστιανῶν μαρτίου κζʹ, des.: Ἔτους ρβʹ θεμέλιον Ϛʹ πάσχα ἀπριλλίου ιʹ ἡμέρα δʹ. Le tavole coprono il periodo 1333-1394 (6841-6902), cosa che ha condotto Ciro Giannelli a fissare quale data per la redazione del Vat. gr. 1700 l’anno 1332/33. Gli elementi ricavabili dal riesame del codice mostrano invece che Daniel copiò il metodo sul calcolo del giorno della Pasqua e le tavole successive da un manoscritto che li presentava in quella forma. Le tavole pasquali non possono in questo caso essere utilizzate per la datazione del codice. Gli estratti del Synodikon dell’Ortodossia, il paschalion e le tavole che seguono immediatamente sono infatti copiati in un quaternione (ff. 15-22), la cui filigrana, Bœuf, benché non esattamente identificabile con nessun tipo preciso, può essere avvicinata a Mošin-Traljiò nr. 1249 (anni 1360/70), 1248 (anni 1360/75) e 1245 (anni 1370). La datazione del Vat. gr. 1700 va pertanto posticipata al terzo quarto del xiv secolo, attorno al 1370, e dobbiamo collocare in quel periodo anche l’attività del copista Daniel. Un indizio in questo senso era già stato fornito dalla nota di Giacomo di Hierissos del Paris, Coisl. 216, che era stata peraltro apposta in un momento successivo all’esecuzione del codice. Questa nota (e l’appartenenza a Lavra di quel manoscritto) ci conduce a pensare che Daniel vada collocato nell’ambiente tra l’Athos e Hierissos. Questo risultato è confermato dalla presenza degli estratti del Syno­ dikon dell’Ortodossia nel codice. Gli articoli di p, redatti come abbiamo detto a seguito del Sinodo del 1351, costituiscono un sicuro termine post quem per l’esecuzione del manoscritto. Dopo aver stabilito ciò, veniamo agli estratti del Synodikon dell’Orto­ dossia (Vat. gr. 1700, ff. 15r-17v), dei quali presentiamo di seguito l’analisi dettagliata. I. τῆς χριστιανοκατηγορικῆς αἱρέσεως – ἀπορρήξαντα διεκδικεῖ, ἀνάθεμα. Gouillard, Synodikon, ll. 763-764.

II. Βαρλαὰμ καὶ τοῖς ὁπάδοις καὶ διαδόχοις αὐτῶν. – Τοῖς αὐτοῖς φρονοῦσι καὶ λέγουσι τὸ λάμψαν ἀπὸ τοῦ Κυρίου φῶς ... – Ἔτι τοῖς αὐτοῖς φρονοῦσι καὶ λέγουσι μηδεμίαν ἐνέργειαν ... – Ἔτι τοῖς αὐτοῖς φρονοῦσι καὶ λέγουσι κτιστὴν εἶναι ... – Ἔτι τοῖς αὐτοῖς φρονοῦσι καὶ λέγουσι σύνθεσίν τινα ... – Ἔτι τοῖς αὐτοῖς φρονοῦσι καὶ λέγουσι ἐπὶ τῆς θείας οὐσίας ... – Ἔτι τοῖς αὐτοῖς φρονοῦσι καὶ λέγουσι μεθεκτήν ...

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ANTONIO RIGO

– Πᾶσι τοῖς δυσσεβέσιν αὐτῶν λόγοις τε καὶ συγγράμμασιν, ἀνάθεμα. Gouillard, Synodikon, ll. 572, 574-634.

– – – –

Τῶν ὁμολογούντων ἕνα Θεὸν τρισυπόστατον, παντοδύναμον ... Τῶν ὁμολογούντων τὸν Θεόν ... Τῶν ὁμολογούντων τὸ ἐκλάμψαν ἀππορήτως φῶς ... Τῶν δοξαζόντων τὸ φῶς ... Gouillard, Synodikon, ll. 724-751.

III. Εἴ τις οὐ προσκυνεῖ τὸν Κύριον ἡμῶν Ἰησοῦν Χριστὸν ἐν εἰκόνι περιγραπτὸν κατὰ τὸ ἀνθρώπινον, ἤτω ἀνάθεμα. Πολλὰ τὰ ἔτη τῶν βασιλέων. Gouillard, Synodikon, ll. 765-767.

Gli estratti del Synodikon dell’Ortodossia conservati nel Vat. gr. 1700 presentano quindi tutti gli anatemi di p, mentre mancano le prime acclamazioni nominali: di sicuro quelle originarie, risalenti al 1351, dell’imperatore Andronico III e di tutti gli ortodossi22 e, forse, quella di Gregorio Palamas introdotta verso il 136023. Questi estratti non si distinguono per varianti significative rispetto agli altri testimoni del Synodikon p (da rilevare soltanto la lezione Τοῖς αὐτοῖς all’inizio dell’anatema nr. 1, propria di rtuy). La presenza, all’inizio e alla fine, degli anatemi “niceni” sulle immagini (i. e iii.) indica che gli estratti furono copiati da Daniel sulla base di un Synodikon dell’Ortodossia completo. Va sottolineato inoltre che questi estratti del Vat. gr. 1700, vergati attorno al 1370, sono uno dei più antichi testimoni della tradizione del Syno­ dikon p, attestato indirettamente grazie alle citazioni di Giovanni Ciparissiota, Trasgressioni palamite, iv degli inizi degli anni ’60. Il manoscritto più antico sino a oggi conosciuto del Synodikon p era infatti Athos, Monè Koutloumousiou 33 (3102), eseguito a Costantinopoli verso il 138024. Resta da aggiungere che se la nostra ipotesi circa il luogo di attività del copista Daniel fosse fondata, questa copia (sia pur parziale) del Synodikon sarebbe stata eseguita in un area vicina all’Athos (o addirittura sul Monte Santo stesso) e non a Costantinopoli come la maggior parte dei primi syno­ dika p greci dei quali si abbia notizia25. 22 Gouillard,

Synodikon cit., ll. 683-691, 714-723. ll. 692-709; cfr. Rigo, Le Synodikon de l’Orthodoxie et le Palamisme cit., p. 746. 24 Cfr. A. Rigo, Un nouveau témoin du Synodikon de l’Orthodoxie p: le manuscrit de la Sainte-Trinité de Chalki 34, in Revue des études byzantines 76 (2018), pp. 77-82. In Rigo, Il Synodikon dell’Ortodossia di Tessalonica cit., presentiamo un nuovo Synodikon proveniente da Tessalonica, e che risale alla seconda metà degli anni 60 del xiv secolo. 25 V. anche la nota precedente. Sempre all’ambiente athonita conduce anche il Syno­ dikon slavo del ms. Bucare›t, Biblioteca Academiei Române, slav. 307, cfr. I. Biliarsky, Палео­ логовият синодик в славянски превод, Sofia 2013, pp. 26-97. 23 Ivi,

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STEFANO SERVENTI

SULL’AMBR. E 49-50 INF. (GREGORIO DI NAZIANZO) 1. Le due mani dell’Ambrosiano Databile con intervallo largo al sec. IX, l’Ambrosiano è fra i testimoni più antichi della collezione completa delle Omelie di Gregorio, e va celebre per le miniature dorate, che lungo i margini le illustrano1. È stato copiato 1 Pur

limitandosi agli interventi più significativi, la bibliografia sul manoscritto è nutrita: Ae. Martini – D. Bassi, Catalogus codicum Graecorum Bibliothecae Ambrosianae, II, Mediolani 1906 [rist. anast. Hildesheim – New York 1978], pp. 1084-1086 nr. 1014; I. Sajdak, Historia critica scholiastarum et commentatorum Gregorii Nazianzeni, I: De codicibus scholiastarum et commentatorum Gregorii Nazianzeni, Cracoviae 1914 (Meletemata patristica, 1), pp. 222, 270; C. Nordenfalk [rec.], K. Weitzmann, Die byzantinische Buchmalerei des 9. und 10. Jahrhun­ derts […] Berlin 1935, in Zeitschrift für Kunstgeschichte 4 (1935), pp. 344-351 [ed. anast. Nendeln 1972]: 346; A. Grabar, Les miniatures du Grégoire de Nazianze de l’Ambrosienne (Am­ brosianus 49-50), Paris 1943 (Orient et Byzance, 9); id., Les manuscrits grecs enluminés de provenance italienne (IXe-XIe siècles), Paris 1972 (Bibliothèque des Cahiers archéologiques, 8), pp. 20-21, tavv. 4-5 (figg. 11-16); H. Belting, Byzantine Art among Greeks and Latins in Southern Italy, in Dumbarton Oaks Papers 28 (1974), pp. 1-29: 8-9, 10; G. Cavallo, Funzione e strutture della maiuscola greca tra i secoli VIII-XI, ne La paléographie grecque et byzantine (­Paris 21-25 octobre 1974), Paris 1977 (Colloques internationaux du C.N.R.S., 559), pp. 95137: 101-102, 103, 119 tav. 13; K. Weitzmann, The Miniatures of the Sacra Parallela Parisi­ nus Graecus 923, Princeton 1979 (Studies in Manuscript Illumination, 8), pp. 14-15, 20-25, 31, 263; G. Cavallo, La cultura italo-greca nella produzione libraria, in G. Cavallo – V. von Falkenhausen – R. Farioli Campanati – M. Gigante – V. Pace – F. Panvini Rosati, I Bizan­ tini in Italia, Milano 1982 (Antica Madre), pp. 495-612: 507, figg. 464-467; J.-M. Sansterre, Les moines grecs et orientaux à Rome aux époques byzantine et carolingienne (milieu du VIe s.-fin du IXe s.), I, Bruxelles 1983 (Académie Royale de Belgique. Mémoires de la Classe des Lettres. Collection in-8°, s. II, 66.1), pp. 170-171, 174, 203-204; G. Cavallo, Le tipologie della cultura nel riflesso delle testimonianze scritte, in Bisanzio, Roma e l’Italia nell’Alto Medioevo. 3-9 aprile 1986, II, Spoleto 1988 (Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 34), pp. 467-529: 504-506, 510-511, tav. XXXIX; S. Lucà, Scritture e libri della «scuola niliana», in Scritture, libri e testi nelle aree provinciali di Bisanzio. Atti del seminario di Erice (18-25 settembre 1988), a cura di G. Cavallo – G. De Gregorio – M. Maniaci, I, Spoleto 1991 (Biblioteca del «Centro per il collegamento degli studi medievali e umanistici nell’Università di Perugia», 5), pp. 319-387 con tavv. I-XXIV: 329 nt. 38; A. Pontani, La biblioteca di Manuele Sofianòs, in Paleografia e codicologia greca. Atti del II Colloquio internazionale (Berli­ no – Wolfenbüttel, 17-21 ottobre 1983), a cura di D. Harlfinger – G. Prato – M. D’Agostino – A. Doda, I, Alessandria 1991 (Biblioteca di Scrittura e civiltà, 3), pp. 551-569: 553, 559 nt. 17, 568-569; K. Corrigan, Visual Polemics in the Ninth-Century Byzantine Psalters, Cambridge – New York 1992, pp. 107-111, 118-119, 138, 304-307 figg. 105-107; Répertoire de réglures dans les manuscrits grecs sur parchemin, base de données établie par J.-H. Sautel à l’aide du fi-

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in ogivale inclinata, col corredo regolare e sistematico di spiriti e accenti, e parimenti di interpunzione con τελεία στιγμή, μέση e ὑποστιγμή nelle due forme del punto e della virgola. Gli scholia e i titoli alla fine delle omelie, che fungono da explicit, sono in ogivale diritta, con interpunzione regolare, ma per lo più senza spiriti e accenti. L’ogivale diritta rubricata riveste il ruolo di Auszeichnungsschrift nei titoli, che introducono le omelie, e nelle scritture di corredo alla miniatura, vale a dire le didascalie e gli incipit delle omelie trascritti sui rotoli, che Gregorio, raffigurato nell’atto della predicazione, regge e mostra all’uditorio. In apertura del manoscritto crisografie su fondo purpureo: una maiuscola mista di forme quadrate, rotonde e ogivali in contrasto modulare è stata impiegata per il carme in onore di Gregorio e Basilio di Cesarea2, chier Leroy et des catalogues récents à l’Institut de recherche et d’histoire des textes (CNRS), Turnhout 1995 (Bibliologia, 13), pp. 153, 343, 345; E. Follieri, Le scritture librarie nell’Italia bizantina, in Libri e documenti d’Italia: dai Longobardi alla rinascita delle città. Atti del Conve­ gno Nazionale dell’Associazione Italiana Paleografi e Diplomatisti (Cividale, 5-7 ottobre 1994), a cura di C. Scalon, Udine 1996 (Libri e biblioteche, 4), pp. 61-85: 67-68; K. Weitzmann, Die byzantinische Buchmalerei des 9. und 10. Jahrhunderts, I: Nachdruck der Ausgabe Berlin 1935-II: Addenda und Appendix, Wien 1996 (Österreichische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-Historische Klasse. Denkschriften, 243-244 – Veröffentlichungen der Kommission für Schrift- und Buchwesen des Mittelalters. R. IV, 2.1-2), I, pp. 77-82, tavv. LXXXVIILXXXVIII (figg. 546-553); II, p. 66; V. Somers, Histoire des collections complètes des Discours de Grégoire de Nazianze, Louvain-la-Neuve 1997 (Publications de ­l’Institut Orientaliste de Louvain, 48), pp. 565-571; Repertorium Nazianzenum: Orationes. ­Textus Graecus, VI: Codices Aegypti, Bohemiae, Hispaniae, Italiae, Serbiae. Addenda et corrigenda, recensuerunt I. Mossay – B. Coulie, Paderborn – München – Wien – Zürich 1998 (Studien zur Geschichte und Kultur des Altertums. N.F., R. II: Forschungen zu Gregor von Nazianz, 14), pp. 177-181 nr. 187; C. Pasini, Inventario agiografico dei manoscritti greci dell’Ambrosiana, Bruxelles 2003 (Subsidia hagiographica, 84), pp. 203-205; M. D’Agostino, Il Gregorio Nazianzeno Ambr. E 49 inf. + E 50 inf. (gr. 1014). Un’indagine codicologica con qualche riflessione paleografica, in Sit liber gratus, quem servulus est operatus. Studi in onore di Alessandro Pratesi per il suo 90° comple­ anno, a cura di P. Cherubini – G. Nicolaj, I, Città del Vaticano 2012 (Littera antiqua, 19), pp. 91-102; id., Furono prodotti manoscritti greci a Roma tra i secoli VIII e IX? Una verifica codicologica e paleografica, in Scripta 6 (2013), pp. 41-56; V. Pace, Alla ricerca di un’identità: affreschi, mosaici, tavole dipinte e libri a Roma fra VI e IX secolo, in Roma e il suo territorio nel Medioevo. Le fonti scritte fra tradizione e innovazione. Atti del Convegno internazionale di studio dell’Associazione italiana dei Paleografi e Diplomatisti (Roma, 25-29 ottobre 2012), a cura di C. Carbonetti – S. Lucà – M. Signorini, Spoleto 2015 (Studi e ricerche, 6), pp. 471-498 con tavv. I-XIV: 492-498; P. Orsini, La maiuscola ogivale inclinata. Un contributo preliminare, in Scripta 9 (2016), pp. 89-116: 113. Cfr. C. Pasini, Bibliografia dei manoscrit­ ti greci dell’Ambrosiana (1857-2006), Milano 2007 (Bibliotheca erudita, 30), pp. 356-357. 2 Ambr. E 49 inf., p. I. Del carme, che mi risulta inedito, fornisco trascrizione diplomatica, solo adeguando al nostro l’uso delle maiuscole: + Γρηγόριος |lin. 2 βροντῆς νοερᾶς. |lin. 3 γόνος ἐστὶν ἀληθής‧ |lin. 4 ὃς χθονίην σοφίη Χ(ριστο)υ ὑπο- |lin. 5 τάξας. ἤχησεν νοερῶς |lin. 6 μυστήρια πιστὰ θεοῖο‧ εἰς |lin. 7 δέκα γὰρ λυκάβαντας. ὅλην βασι- |lin. 8 λιΐδα ποίμνην. αἱρετικῶν πολε- |lin. 9 μοῖσι τινασσομένην ἐσάωσεν‧ |lin. 10 καὶ σὺ θεωρρήτων ἑπέων Βασίλειε |lin. 11 γεωργὲ· Καίσαρος ἀντέλλων μεγά- |lin. 12 λης ὑπὲρ ἄστεος αἴγλης. ἐσθλὸν |lin. 13 ἔχεις ἐγγὺς γραφίδεσσιν ὁμο- |lin. 14

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per l’inscriptio del πίναξ3 e l’esplicazione dei quattro segni marginali del­ l’ἡλιακόν, ἀστερίσκος, ὡραῖον, e σημείωσαι4; per il πίναξ5 l’ogivale diritta, con forme rotonde nelle lettere ἐν ἐκθέσει. Il corpus nazianzenico, compresi gli scholia, i titoli rubricati e quelli in fondo alle orazioni, è opera di un solo scriba (Mano A) a eccezione di un foglio (Ambr. E 49 inf., pp. 3-4)6 copiato da una seconda mano (B), che si distingue sia per la forma e il tracciato di alcune lettere, sia per l’aspetto della pagina nel complesso: è meno evidente lo sviluppo in altezza della scrittura, minore il contrasto di tratti spessi e sottili, e risulta non così congestionato come nella Mano A il campo scrittorio. Facile e dirimente il confronto di csi spezzato nell’ogivale inclinata: nel copista principale singolarissimi gli apici del tratto superiore rivolti verso l’alto e il primo tratto della parte inferiore, che viene raddoppiato con altro sottile; nella Mano B gli apici son rivolti verso il basso, la parte inferiore della lettera è schiacciata e la base si risolve in un ampio svolazzo. Caratterizzanti la Mano A sono anche delta e zeta, colla base che tende a inclinarsi e si allunga molto a destra, tanto che spesso sopra delta poggia la lettera che segue. Distingue invece l’altra mano il καὶ abbreviato per troncamento con una vistosa appendice, che si trova sulla penultima linea dell’Ambr. E 49 inf., p. 3, col. a: è palesemente soluzione da piede della colonna e difatti lì l’ultima linea fu aggiunta in seguito, per rimediare a un’omissione per omeoarcto7. Alla Mano B attribuirei anche le rubricature della miniatura e le crisografie8.

τρόπον ἑταῖρον. Γρηγόριον |lin. 15 πινυτὸν θεοτέρπεος ἔμ- |lin. 16 φρονα βύβλου. ἐγγύθι. καὶ |lin. 17 τριάδος πα[νακ]ηράτου |lin. 18 ἐστὲ χορευταί · ·· · 3 Ibid., p. III, col. a, ll. 1-6: «Τάδε ἔνεστιν ἐν τῆδε τῆ βίβλω τοῦ ἁγίου Γρηγορίου ἐπισκόπου Ναζιανζοῦ τοῦ Θεολόγου». 4 Ibid.,

p. IV, col. b. pp. III, col. a, l. 7-IV, col. a. 6 Sul recto (p. 3) Greg. Naz., Or. I, da par. 6 «ἐλπίζει καὶ» sino alla fine [ed. J. Bernardi, Paris 1978 (Sources chrétiennes, 247), p. 78 l. 2-82]; sul verso (p. 4) id., Or. II, 1 sino a «οὐκ ἀφιεὶς αἰτίας» [ibid., pp. 84-86 l. 12]. 7 La linea di testo, che era stata omessa, inizia con «καλῶν», la prima linea della col. b con «κανών». Si spiega così anche perché coll’«ἀρετῆς», che sta in fondo alla linea ripristinata, il copista sia andato a capo nel margine inferiore anziché sulla col. b. La rettrice tracciata in aggiunta si distingue dal resto della rigatura per il solco più leggero. 8 Jan Sajdak (Historia critica, I, p. 270) parlò di «manus posterior» per il carme iniziale; Marco D’Agostino (Il Gregorio Nazianzeno, pp. 99-100) introduce una seconda mano per le didascalie e i rotoli delle miniature. 5 Ibid.,

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2. Le fasi di lavoro e le miniature Il primo fascicolo del manoscritto copiato dalla Mano A era un quaternione regolare: si può ipotizzare che il secondo foglio si sia guastato irrimediabilmente nel corso dell’illustrazione, e la Mano B, coinvolta per l’appunto nelle miniature, abbia provveduto a risarcire il danno con una pergamena nuova. Secondo il numero delle linee di scrittura per colonna e delle lettere per linea, come si riscontra nel corso dell’Ambrosiano, l’Or. I terminava sulla prima colonna del verso del foglio perduto, mentre l’Or. II cominciava così come oggi colla prima linea della seconda colonna. La Mano B fece in modo di concludere l’Or. I sul recto, per lasciare sul verso un’intera colonna all’illustrazione: è l’unico caso in tutto il manoscritto, dato che il copista principale non ha riservato spazi, e le miniature hanno trovato posto nei margini e negli spazi vuoti sotto l’explicit delle omelie. I fogli iniziali colle crisografie sono codicologicamente autonomi. Indubbiamente la seconda mano intervenne in una fase ulteriore rispetto alla Mano A, ma la questione del loro rapporto è se l’Ambrosiano nel suo complesso sia il prodotto di un’unica iniziativa, oppure la miniatura e le pagine monumentali crisografate costituissero un progetto seriore, messo in opera quando il manoscritto era già stato copiato da tempo. Il confronto squisitamente paleografico tra le due mani non risulta dirimente, dato che entrambe sono ascrivibili allo stesso stile e lato sensu contemporanee. Né l’uso della Mano B di segnare regolarmente spiriti e accenti anche negli scholia in ogivale diritta vale necessariamente come prova di recenziorità, dato che potrebbe doversi solo a differenti educazione e abitudini grafiche. In una miniatura9 Gregorio al centro regge colla mano sinistra il rotolo, sul quale si leggono le parole iniziali dell’Encomio dei monaci10, e, rivolgendosi all’imperatore Giuliano, indica colla destra un gruppetto di monaci alle sue spalle. La didascalia rubricata della Mano B recita: «ὁ θεο(λόγος), ὡς προς τον Ιουλιανον» («Il Teologo nell’atto di rivolgersi a Giuliano»). A destra dell’illustrazione il copista principale ha annotato:«λοιπὸν ἔνθα ὁ ἀποστάτης κατ’ ἐρώτησιν ἀναγνώσεως. ἑτέρας ἀντέχου τῆς ἐν ἀποφάσει‧ οὕτω γὰρ βέλτιον ἀναγνωσόμεθα‧» («Inoltre qui l’Apostata che chiede di poter leggere: “Tieni ferma l’altra [mano], invece di indicare! Così infatti leggeremo meglio”»), come se Gregorio, levando il braccio per indicare i monaci, non tenesse fermo il rotolo, e Giuliano faticasse a leggere. Si tratta di un intervento quasi divertito, personalissimo e originale, che non può essere   9 Ambr.

E 50 inf., p. 721, marg. inf. Naz., Or. IV, 71 «Ὁρᾶς τοὺς ἀβίους τούτους — τὸ τῆς ἀσεβείας δρᾶμα μετὰ τῶν σῶν δαιμόνων» [ed. J. Bernardi, Paris 1983 (Sources chrétiennes, 309), pp. 182 l. 8-184 l. 31]; nell’Ambr. E 50 inf., pp. 721, col. b, l. 19-722, col. b, l. 1. 10 Greg.

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derivato da modelli e attesta che la Mano A fruì dell’Ambrosiano anche dopo la miniatura. La gestazione del codice deve quindi collocarsi tutta in un solo ambito e in arco cronologico piuttosto ristretto. *  *  * Le miniature a veste dorata mostrano nel corso del manoscritto diversità di mani, perizia, cura e qualità; l’oro, generalmente steso sopra la sinopia, è stato talora applicato direttamente alla pergamena. Potrebbe tradire un quid di rilievo intervenuto in corso d’opera, forse un semplice ripensamento, il fatto che alcune figure nascondano sotto la doratura una colorazione precedente delle vesti, che riaffiora dove l’oro si è staccato, o si vede in trasparenza sull’altro verso del foglio. Ad es. nel margine inferiore dell’E 49 inf., p. 119 sotto le vesti di Gregorio e di una folla di chierici e laici si vedono il porpora, l’azzurro e l’arancione. Questa caratteristica, sulla quale di recente Valentino Pace ha richiamato l’attenzione11, non passò inosservata nel secolo scorso, quando la si ritenne una tecnica specifica12, finalizzata forse a ottenere diversi toni e gradazioni dell’oro. A giudicare dallo stato attuale delle miniature, l’aspetto dell’oro non muta a seconda del fondo, e del resto i colori ricoperti sono gli stessi impiegati per le vesti, che non furono dorate. 3. Altri manoscritti Se si indagano i manoscritti, che ormai tradizionalmente fanno gruppo coll’Ambrosiano13, la Mano B ha copiato in ogivale inclinata anche i ff. 9r13r del Par. gr. 923 (Sacra)14, dove ebbe un ruolo di collaborazione nella copia, dato che il resto del quaderno (ff. 13v-16v) è di un’altra mano, cui 11 Pace,

Alla ricerca, p. 495. J. Tikkanen, Studien über die Farbengebung in der mittelalterlichen Buchmalerei, nach dem Manuskript des Verfassers herausgegeben von T. Borenius, Helsingfors 1933 (Societas Scientiarum Fennica. Commentationes humanarum litterarum, 5.1), pp. 162-163; Weitzmann, Die byzantinische Buchmalerei, I, p. 81; M. L. Gengaro – F. Leoni – G. Villa, Codici decorati e miniati dell’Ambrosiana ebraici e greci, Milano [1959] (Fontes Ambrosiani, 33-A), p. 78. 13 A partire da Weitzmann, Die byzantinische Buchmalerei, I, pp. 77-82 e Nordenfalk, K. Weitzmann, attraverso gli interventi di Guglielmo Cavallo (Funzione, pp. 101-102; La cultura italo-greca, pp. 506-508; Le tipologie, pp. 503-506), ancora Kurt Weitzmann (The Miniatures), Jean-Marie Sansterre (Les moines grecs, I, pp. 170-171), Kathleen Corrigan (Visual Polemics, p. 110), Enrica Follieri (Le scritture librarie, pp. 67-68), sino ai più recenti di D’Agostino (Il Gregorio Nazianzeno; Furono prodotti), Pace (Alla ricerca, pp. 492-498) e Pasquale Orsini (La maiuscola ogivale inclinata, p. 113). 14 Disponibile su Gallica (www.gallica.bnf.fr). 12 J.

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si devono anche i ff. 17r-24v, 37r-87v, 104r-v. Il particolare καὶ troncato ricorre tre volte sempre sull’ultima linea15, e ripetutamente nella stessa posizione in un terzo copista, che ha vergato larghe porzioni dei Sacra16. Nel Vat. gr. 749 (Iob cum catena)17 le didascalie delle miniature sono ancora della Mano B. Il copista del Vat. Ott. gr. 424 + Leipzig, Universitätsbibliothek, gr. 69/ II, ff. 1-2 (olim Tischendorfianus VIA) + Sinaiticus gr. 365, ff. 275-276 + Sinaiticus gr. ΝΕ ΜΓ 25 (Gregorii Nazianzeni Orationes; Gregorii Presbyteri Vita Gregorii)18 adotta lo stesso καὶ19, e mostra notevoli somiglianze colla Mano A dell’Ambrosiano: anzi nei due manoscritti, che hanno in comune il rarissimo tipo di rigatura 220A2ds Leroy – Sautel20, gli scolî marginali in ogivale diritta sembrano talora di una stessa mano. 4. Suggestioni basiliane, forse anzi studite Il Parigino e l’Ambrosiano dichiarano origine e destinazione monastiche. Fra le miniature, che nei margini dei Sacra ritraggono le auctoritates dell’antologia e ne illustrano gli escerti, tre figure di monaci non hanno attinenza con essi: a fianco del titolo dello Στοιχεῖον γ� (Περὶ γεωργίας καὶ γεωργῶν· καὶ ὅτι καλὸν τὸ ἐργάζεσθαι) un monaco in piedi fa mostra di copiarne il testo21; così un altro seduto nel margine esterno del f. 197r, a fianco del titolo dello Στοιχεῖον ζ� (Περὶ τοῦ ἐπιζετεῖν τὸν θεὸν· καὶ αὐτῶ ἕπεσθαι· καὶ ἐπὶ τῷ ὀνόματι αὐτοῦ πάντα διαπράττειν). Infine nel margine esterno del f. 208r a fianco del titolo dello Στοιχεῖον ι� (Περὶ ἰσότητος· ὅτι ἡ ἰσότης φιλαδελφίας ἐστὶν μήτηρ τὰ πρὸς ἀξίαν ἑκάστῳ νέμουσα) un monaco in piedi, forse un egumeno, volge lo sguardo al testo e benedice; tiene nella sinistra una sottile croce rossa col braccio verticale molto allungato, come quella che in un medaglione al f. 146r regge Giovanni Climaco, che fu per l’appunto egumeno di Santa Caterina. Veste e mantello dei monaci sono dorati. Il cappuccio marrone scende davanti a coprire il petto e, in verticale sulla testa e in orizzontale sul 15 Par.

gr. 923, ff. 9v, col. b; 12r, col. b; 13r, col. b. gr. 923, ff. 31r-36v, 88r-102v, 105r-133v, 135r-202r, 240r-269v, 271r-288v, 290r394v. Il καὶ e.g. f. 33r, col. b e 33v, col. a. 17 Disponibile sulla Digital Vatican Library (digi.vatlib.it). 18 P. Orsini, Nuovi frammenti del codice Vat. Ottob. gr. 424, in Codices Manuscripti et Impressi 95-96 (2014), pp. 1-14, dove viene elencata la bibliografia precedente. L’Ottoboniano è disponibile sulla Digital Vatican Library, i frammenti lipsiensi nella Digitale Sammlungen della Universitätsbibliothek (www.digital.ub.uni-leipzig.de). 19 E.g. Vat. Ott. gr. 424, f. 2r, col. b, due volte sull’ultima linea. 20 Sautel, Répertoire, p. 153, dove è repertoriato solo l’Ambr. E 49-50 inf. 21 Par. gr. 923, f. 99r, marg. est. 16 Par.

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SULL’AMBR. E 49-50 INF. (GREGORIO DI NAZIANZO)

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petto, lo percorrono croci bianche entro una fascia con bordatura doppia bianca; la fascia è nera sulla testa, marrone sul petto. Nella stessa foggia i giovani monaci senza barba, che illustrano un escerto delle Collationes di Cassiano22, e i busti delle autorità monastiche nel corso di tutto il codice: Cassiano per l’appunto23, Diadoco di Fotica24, Giovanni Climaco25, Giovanni Damasceno26, Gregorio di Nissa27, Isidoro di Pelusio28, Massimo Confessore29, Nilo30; inoltre l’abate Mosè delle Collationes31 e Romano del Sermo di Gregorio di Nissa in suo onore (CPG 3200)32. Nell’Ambrosiano i gruppi di monaci dalle lunghe barbe nere, che compongono l’uditorio del Nazianzeno insieme a chierici e laici, portano lo stesso abito, colla differenza che veste e mantello sono marroni, non ci sono dorature, e le croci si alternano bianche e rosse33. A queste presenze, che da sole obbligano a proseguire in ambito monastico la ricerca del luogo di origine di questi codici, bisogna aggiungere il ruolo di Basilio nel carme, che apre l’Ambrosiano, e nella miniatura a piena pagina, che oggi si trova in fondo al manoscritto34, ma con ogni verisimiglianza stava all’inizio, affacciata al carme: Gregorio, mentre pronuncia un’omelia e mostra il rotolo, tiene gli occhi levati verso Basilio, rappresentato nella sua condizione gloriosa. Il monaco, che trascrive il testo al f. 99r del Parigino, colla testa cinta dell’aureola, il volto ben caratterizzato, l’espressione mite, la lunga barba bianca, i piedi nudi a differenza di tutti gli altri, che sono calzati di nero, ritrae un santo monaco, che visse nella povertà e mansuetudine evangeliche sino a età avanzata, facendo della scrittura la propria occupazione caratte22 Par.

gr. 923, f. 237v. ff. 30r, marg. est.; 74v, marg. inf. 24 Ibid., f. 375v, marg. est. 25 Ibid., f. 146r, marg. est. 26 Ibid. 27 Ibid., f. 38r, marg. est. 28 Ibid., f. 266v, marg. est. 29 Ibid., f. 146r, marg. est. 30 Ibid., ff. 45r, marg. inf.; 54v, marg. est.; 61r, marg. sup.; 78r, marg. inf.; 84r, marg. est.; 85v, marg. inf.; 97v, marg. sup.; 100v, marg. est.; 113v, marg. est.; 130v, marg. est.; 131v, marg. est.; 153r, marg. est.; 154r, marg. est.; 156v, marg. est.; 157v, marg. est.; 159v, marg. est.; 170v, marg. est.; 186r, marg. est.; 194v, marg. inf.; 219v, marg. est.; 229v, marg. est.; 251r, marg. est.; 274v, marg. est.; 297v, marg. est.; 331r, marg. sup.; 348v, marg. est.; 351r, marg. est.; 386r, marg. est. 31 Ibid., f. 237v, marg. est. 32 Ibid., f. 38r, marg. est. 33 Le croci sono bianche e rosse anche nei medaglioni con Nilo nel Par. gr. 923, ff. 297v e 351r. 34 Ambr. E 50 inf., p. 814. 23 Ibid.,

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ristica. Vengono alla mente i grandi studiti, dei quali le agiografie attestano attività e perizia calligrafiche: lo stesso Teodoro († 826)35, Nicola († 868)36, ma soprattutto Platone di Saccudion († 814), se nel συρμαιογραφεῖν37 il nipote riconobbe il suo tratto distintivo: Χειρῶν ἐργασία διὰ σπουδῆς‧ τοῦτο γὰρ τῶν ἐκείνου κατορθωμάτων παρὰ τοὺς πολλοὺς, ἵνα μὴ λέγω τοὺς πάντας, τὸ ἐπίσημον, ἢ μᾶλλον, οἰκειότερον εἰπεῖν, σὺν τῷ ἱερῷ Ἀποστόλῳ φάναι, ἔχοντος, «Ταῖς χρείαις μου καὶ τοῖς οὖσι μετ’ἐμοῦ ὑπηρέτησαν αἱ χεῖρες αὗται», ὅτι μηδὲ δωρεὰν ἄρτον ἔφαγεν. Ποία γὰρ χεὶρ τῆς ἐκείνου δεξιᾶς μουσικώτερον ἐσυρμαιογράφησεν, ἢ τίς ἐπιπονώτερον τῆς ἐκείνου προθυμίας ἐσπου­ δαιογράφησεν; καὶ πᾶν ὁτιοῦν προσπεσὸν ἔργον θερμῶς διεχειρίσατο. Πῶς ἄν τις ἐξαριθμήσειεν, τοὺς τὰ ἐκείνου πονήματα εἴτ’ οὖν βιβλιδάρια ἔχοντας, ἐκ διαφόρων θείων Πατέρων ἀνθολογηθέντα, καὶ ἱκανὴν ποριζόμενα τοῖς κεκτημένοις τὴν ὠφέλειαν; Ταῖς καθ’ ἡμᾶς δὲ μοναῖς πόθεν ἄλλοθεν ἡ τῶν δέλτων εὐπορία; ἢ οὐχὶ ἐκ τῶν ἐκείνου ἁγίων χειρῶν καὶ πόνων; ἃς οἱ μετιόντες καὶ τὴν ψυχὴν φωτιζόμεθα, καὶ τὴν γραφίδα θαυμάζομεν ὁποία τε καὶ ἡλίκη38.

Raffigurarlo del resto come umile copista poteva risultare una deminu­ tio nel caso di Teodoro, e l’accesa devozione basiliana del codice di Milano conviene maggiormente ai suoi anni che ai successivi, dopo la sua morte e beatificazione. E se questi codici ci avessero serbato la mano di alcuno dei padri studiti?

35 Michael studites, Vita Theodori Studitae, 22 [Patrologiae cursus completus. Series Grae­ca, accurante J.-P. Migne (d’ora in poi: PG), 99, Lutetiae Parisiorum 1860, col. 264A]: «ἀλλ’ ἐκοπία αὐτὸς ταῖς ἰδίαις χερσὶ γράφων δέλτους, καὶ ταύτας τοῖς τῶν ἀδελφῶν συνεισφέρων

ἔργοις‧ ἐξ ὧν καί τινα μέχρι τοῦ δεῦρο σώζονται παρ’ ἡμῖν σεβασταὶ τυγχάνουσαι, καὶ πάσης ἀποδοχῆς ἄξιαι». BHG 1754. 36 Vita s. Nicolai Studitae [PG, 105, Lutetiae Parisiorum 1862, col. 876A-B]: «ἀλλ’ ἦν ταῖς χερσὶ κοπιῶν, καὶ δέλτους ἄριστα συρμεογραφῶν, εἰ καί τις ἄλλος, οἶμαι, τῇ ὠκύτητι χειρῶν, τὸν Ἀσαὴλ ἐκεῖνον ἐπὶ τῇ τῶν ποδῶν ἐξισούμενος. Καὶ μαρτυροῦσιν αἵ τε βίβλοι, καὶ τὰ ἐκείνου πονήματα». BHG 1365. II Rg 2, 18: «καὶ ἐγένοντο ἐκεῖ τρεῖς υἱοὶ Σαρουιας, Ιωαβ καὶ Αβεσσα καὶ Ασαηλ, καὶ Ασαηλ κοῦφος τοῖς ποσὶν αὐτοῦ ὡσεὶ μία δορκὰς ἐν ἀγρῷ».

37 Per l’interpretazione di questo termine, le questioni connesse e la bibliografia vd. O. Kresten, Litterae longariae, quae graece syrmata dicuntur. Eine begriffsgeschichtliche Un­ tersuchung, in Scriptorium 24 (1970), pp. 305-317; id., Einige zusätzliche Überlegungen zu ΣΥΡΜΑΙΟΓΡΑΦΕΙΝ, in Byzantinische Zeitschrift 63 (1970), pp. 278-284. Se veramente la miniatura raffigurasse un monaco studita, costituirebbe un elemento ulteriore, su cui confrontarsi. 38 Theodorus Studites, Oratio XI (Laudatio s. Platonis hegumeni), 3, 16 [PG, 99, coll. 817D-820B]. BHG 1553. Act 20, 34: «αὐτοὶ γινώσκετε ὅτι ταῖς χρείαις μου καὶ τοῖς οὖσιν μετ’ ἐμοῦ ὑπηρέτησαν αἱ χεῖρες αὗται». Nel testo della Patrologia la citazione dagli Atti è indicata col corsivo, che impropriamente è prolungato sino a «ἔφαγεν».

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SULL’AMBR. E 49-50 INF. (GREGORIO DI NAZIANZO)

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Tav. I – Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambr. E 49-50 inf., p. 3.

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STEFANO SERVENTI

Tav. II – Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambr. E 49-50 inf., p. 4.

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SULL’AMBR. E 49-50 INF. (GREGORIO DI NAZIANZO)

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Tav. III – Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambr. E 49-50 inf., p. 5.

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STEFANO SERVENTI

Tav. IV – Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambr. E 49-50 inf., p. I.

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SULL’AMBR. E 49-50 INF. (GREGORIO DI NAZIANZO)

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Tav. V – Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambr. E 49-50 inf., p. IV.

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STEFANO SERVENTI

Tav. VI – Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambr. E 49-50 inf., p. 721.

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SULL’AMBR. E 49-50 INF. (GREGORIO DI NAZIANZO)

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Tav. VII – Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambr. E 49-50 inf., p. 814.

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PAOLO VIAN

IL COMMIATO DI ACHILLE RATTI DALLA BIBLIOTECA AMBROSIANA. IL DISCORSO MILANESE SULLA CULTURA NEL CONCETTO E NELL’OPERA DEL CARD. FEDERICO BORROMEO (8 DICEMBRE 1913) 1. Achille Ratti alla fine del 1913.  2. Il discorso dell’8 dicembre 1913 all’associazione «Pro Cultura» e i suoi due resoconti noti.  3. Il testo del discorso dall’autografo.  4. L’irradiamento sociale di una biblioteca specialistica.

1. Achille Ratti alla fine del 1913 Alla fine del 1913 le sorti della complessa partita per la successione di Franz Ehrle alla prefettura della Biblioteca Vaticana erano ormai segnate1. Dall’8 novembre 1911 Achille Ratti era stato nominato viceprefetto con diritto di successione. Pur conservando il governo effettivo della Biblioteca Ambrosiana, per un lungo periodo, secondo gli accordi, Ratti era venuto a Roma per una settimana al mese. Verso la fine di quel 1913 la presenza a Roma divenne più stabile e il 1° dicembre, alla vigilia di questo più accentuato distacco, alcune personalità milanesi offrirono a don Achille, «partente per Roma», un banchetto al ristorante Cova2. In realtà l’ancora prefetto dell’Ambrosiana nulla faceva per affrettare il conseguimento della pienezza di una carica che avrebbe comportato una definitiva separazione dal suo mondo di origine, per molteplici motivi non voluta né gradita. Nel frattempo però il prefetto gesuita, che era stato il vero, grande interprete del nuovo corso inaugurato da Leone XIII, sempre più logorato da non facili rapporti col “palazzo” e indebolito nella salute e nelle forze, spingeva per essere sollevato da un incarico per lui sempre più gravoso e dal quale si era dimesso già nel dicembre 19093. 1 N.

Vian, Una illustre successione alla Biblioteca Vaticana: Achille Ratti, in Mélanges Eugène Tisserant, VII: Bibliothèque Vaticane. Deuxième partie, Città del Vaticano 1964 (Studi e testi, 237), pp. 373-439 [ristampato in id., Figure della Vaticana e altri scritti. Uomini, libri e biblioteche, a cura di P. Vian, Città del Vaticano 2005 (Studi e testi, 424), pp. [135]-[203]]; C. Pasini, Il Collegio dei Dottori e gli studi all’Ambrosiana sotto i prefetti Ceriani e Ratti, in Storia dell’Ambrosiana. L’Ottocento, Milano 2001, pp. 77-127: 116-119. 2 G. Galbiati, Papa Pio XI (…), Milano et alibi 1939 (Le grandi figure della storia), p. 309. Fra i promotori e i partecipanti dell’incontro conviviale vi erano i dottori dell’Ambrosiana, il senatore Emanuele Greppi, Ulrico Hoepli, Tommaso Gallarati Scotti e Stefano Jacini. 3 Sulle dimissioni di Ehrle, cfr. P. Vian, Le dimissioni di Franz Ehrle dalla prefettura della

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PAOLO VIAN

2. Il discorso dell’8 dicembre 1913 all’associazione «Pro Cultura» e i suoi due resoconti noti In questo momento, alla fine del 1913, Ratti tenne una conferenza all’associazione «Pro Cultura» di Milano su «La cultura nel concetto e nell’opera del card. Federico Borromeo». Ultimo intervento pubblico di Ratti nella città lombarda, essa sembra essere il suo commiato dalla Biblioteca Ambrosiana, evocata nell’intervento come la «mia vecchia e cara amica», nella quale l’oratore aveva trascorso, dal 1888, venticinque anni di lavoro. Alla conferenza milanese, tenuta nella solennità dell’Immacolata Concezione, nell’anniversario della fondazione dell’Ambrosiana ma anche della ratifica dello Statuto dell’associazione e dell’inizio dei suoi corsi4, accennò Giovanni Galbiati, che di essa offrì anche un breve resoconto (forse sulla base di appunti personali)5: Biblioteca Vaticana e i primi passi della nomina di Achille Ratti in un dossier di Giovanni Mer­ cati e in documenti dell’Archivio Vaticano (1909-1914), in preparazione. 4 Due anni prima, l’8 dicembre 1911, l’arcivescovo di Milano Andrea Carlo Ferrari aveva ratificato lo statuto dell’associazione e nello stesso giorno Emilio Galli aveva inaugurato il primo anno di studi con una conferenza sulla storiografia milanese dal medioevo al XX secolo. Fondata a Milano il 23 febbraio 1910, l’associazione ebbe fra i primi promotori Agostino Gemelli, Angelo Mauri, Ludovico Necchi. Con corsi sistematici e conferenze svolse per alcuni decenni opera di istruzione popolare con l’intento di creare «una vera scuola anonima di appassionati, di entusiasti, i quali si abituino così, in qualunque contingenza, a meditare sulle supreme ragioni dell’essere, e a convincersi che la spiegazione del profondo mistero, data dal cristianesimo, è in piena armonia con i dati rigorosamente positivi della scienza, come qualsiasi fenomeno della natura è in piena, necessaria armonia con l’università del creato», G. Migliori, Nel XXV dell’Associazione milanese «Pro Cultura», in La scuola cattolica 64 (1936), pp. 41-50: 43. Con la riforma statutaria dell’ottobre 1934, l’associazione entrò a far parte dell’Azione Cattolica diocesana, ibid., p. 49 nt. 3. Sull’associazione cfr. anche C. D. Fonseca, I cattolici lombardi della «Pro Cultura» e la prima guerra mondiale, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale. Atti del convegno di studio tenuto a Spoleto nei giorni 7-8-9 settembre 1962, a cura di G. Rossini, Roma 1963, pp. 499-508. Appena alcuni cenni in P. Bondioli, L’Università Cattolica in Italia dalle origini al 1929, Milano 1929, pp. 62, 72; F. Olgiati, L’Università Cattolica del Sacro Cuore, I, Milano 1955, p. 348. Fra il 1914 e il 1915 la rivista Vita e pensiero pubblicò un bollettino dell’associazione. Il celebre articolo programmatico di Gemelli, Medioevalismo, pubblicato dalla rivista nel dicembre 1914, era la prolusione ai corsi dell’associazione del 1914. 5 Galbiati, Papa Pio XI cit., p. 309 nt. 1 (all’interno della «Bio-bibliografia di Achille Ratti»). Galbiati fu anche assistente ecclesiastico dell’associazione (Migliori, Nel XXV dell’As­ sociazione cit., p. 49 nt. 3) che nel 1955 promosse un’iniziativa per il suo cinquantesimo di sacerdozio: Fragmenta dierum et vitae. Discorso di Francesco Gabrieli con un’aggiunta biblio­ grafica a Fronde sparte (1911-1940) di G. Galbiati dal 1940 al 1960, per iniziativa della Pro Cultura milanese nel cinquantesimo anno sacerdotale e bibliotecario di Giovanni Galbiati, 1905-1955, Milano 1960. Per indicazioni relative a fatti e a manoscritti della Biblioteca Ambrosiana sono debitore nei confronti di mons. Federico Gallo, dottore della Biblioteca Ambrosiana, e del dottor Massimo Rodella, della Biblioteca Ambrosiana: a entrambi esprimo il mio più vivo ringraziamento.

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IL COMMIATO DI ACHILLE RATTI DALLA BIBLIOTECA AMBROSIANA

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Trattandosi dell’ultimo discorso pubblico tenuto a Milano dal Ratti, già nominato Pro-Prefetto della Vaticana, discorso di cui non esiste altra traccia, ne vogliamo consegnare qui un riassunto. Msgr. Ratti comincia lumeggiando il programma della «Pro Cultura» mettendolo in correlazione col significato etimologico della parola cultura, per concludere che oltre ad un significato intrinseco essa ha un riflesso morale che si può riassumere nelle parole: Tutta la luce a tutti. Passando al tema propostosi, mette in luce il programma di cultura del cardinale Federico concepito e attuato con criteri eminentemente moderni, quali noi stessi possiamo oggi attuare. Anzitutto il cardinale Federico era uomo colto e l’ha dimostrato con una mole importantissima di opere stampate e manoscritte: Msgr. Ratti ne fa una rassegna secondo i generi, da quelle di filosofia a quelle di teologia, matematica, arti sacre e profane e di letteratura. In questa congerie di lavoro se ne vede la profondità e l’organicità di concezione e di sviluppo. Nelle opere manoscritte si può seguire tutto il lavoro serio e minuto di preparazione che ha portato il cardinale Federico nella sua azione di studioso. Interessante e curioso è, ad esempio, un opuscolo in cui il cardinale Federico descrive la peste di Milano del 1630 nel quale c’è l’episodio di Cecilia e della madre da cui il Manzoni ha tratto quasi alla lettera il noto episodio dei Promessi Sposi. A questo punto l’oratore si domanda: con tante opere, come il cardinale Federico non è largamente conosciuto come scrittore? E legge il tratto dei Promessi Sposi, con cui il Manzoni, ponendosi la stessa domanda, si esime dal recare una risposta. Ma nota che nei brani inediti ci sono circa dieci pagine dedicate a rispondere a questa domanda con osservazioni acute e profonde, che l’oratore però non si sente di poter accettare e che, in fondo, [non] debbono aver persuaso lo stesso Manzoni, se egli non ha creduto di includere il brano nella definitiva redazione del romanzo. La ragione vera, secondo l’oratore, è che il cardinale Federico, sebbene uomo d’ingegno, non è stato, come scrittore, un genio originale. Ciò nulla toglie alla grandezza dell’opera di cultura del cardinale, che rifulge sopratutto nella sua azione di vescovo, il quale, nel campo della cultura, fu geniale per quello che operò dando vita alla Biblioteca Ambrosiana. Qui l’oratore crede di non poter meglio assolvere il suo còmpito, che leggendo un brano del Manzoni, che parla appunto della fondazione di essa. Per suo conto non ha che da aggiungere alcune note, che riescono però di sommo interesse, perché rivelano i tesori, sopratutto in fatto di manoscritti, di cui è ricca la Biblioteca Ambrosiana. A Msgr. Ratti, nel constatare che questa ha un valore sopratutto retrospettivo ed è adatta a pochi studiosi, si affaccerà l’obiezione se questa aristocrazia del sapere non sia qualche cosa di essenzialmente diverso dalle caratteristiche della cultura. E porta un felice paragone: come la gran massa d’acqua dei fiumi trae la sua origine da pochissime vette inaccessibili, così la grande ondata del sapere comune attinge le sue origini necessariamente alla fonte dei pochi cultori e profondi indagatori della verità. Msgr. Ratti conclude additando il cardinale Federico alla riconoscenza dei posteri, e soprattutto dei milanesi, facendo notare, fra l’altro, come la sua insigne fondazione, sorta in epoca di servitù spagnuola, si sia intitolata Ambrosiana, cioè col nome del grande vindice di libertà, che fu appunto Sant’Ambrogio.

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PAOLO VIAN

E poiché la cerimonia odierna, diceva Msgr. Ratti, cade nello stesso giorno, in cui fu inaugurata l’Ambrosiana, l’oratore ne trae ottimi auspici per l’avvenire della «Pro Cultura». Questa pallida traccia di ciò che disse il Prefetto dell’Ambrosiana non basta certo a spiegare l’attenzione vivissima e intensa che prestò allora il folto uditorio, per circa un’ora e un quarto, alla bellissima conferenza. In essa Msgr. Ratti fu, come sempre, scrittore originale e nuovo pur nella indagine della storia, e fu anche dicitore efficace. Particolarmente seguìta col massimo interesse fu la parte in cui egli espose e commentò gli studi che del cardinale Federico fece il Manzoni.

Un resoconto più sintetico diede il Corriere della sera il 9 dicembre, all’indomani della conferenza6: Alla presenza di numeroso pubblico, il presidente dell’associazione, avv. Padoan, ne illustrò gli scopi e ringraziò Ratti. L’articolo offriva poi un breve riassunto della conferenza: «L’oratore dopo aver dato il significato della parola cultura, che vuol dire dare tutta la luce a tutti, mise in evidenza il concetto tutto moderno che della cultura aveva il cardinale Federico. Dimostrò come il cardinale fosse un uomo colto e passò in rassegna le sue molteplici opere stampate, le quali trattano i più svariati argomenti dalla teologia alla letteratura, dalla matematica alle arti. Parlò anche delle sue opere manoscritte ed accennò ad un opuscolo sulla peste del 1630 in cui è narrato l’episodio di Cecilia e della madre da cui il Manzoni certamente ha tratto il suo “Scendeva dalla soglia, ecc.” Monsignor Ratti si domanda perché il cardinale Federico non è molto conosciuto come scrittore, domanda che si era posto anche il Manzoni, e risponde dicendo che il cardinale Borromeo non fu un uomo che aprì nuove vie, ma fu un grande assimilatore. Il che nulla toglie alla grandezza di lui che fu principalmente un grande vescovo, e un uomo d’azione come dimostra la fondazione dell’Ambrosiana, di cui è detto nei Promessi sposi al cap. XXI (sic), che l’oratore legge. E dopo d’aver detto che scopo della cultura è di propagare quanto hanno raggiunto i più grandi cultori del sapere, l’oratore concluse additando il cardinale Federico alla riconoscenza dei milanesi facendo notare come egli in tempi di asservimento abbia creduto bene dare alla sua istituzione il nome del campione della libertà milanese, il grande Ambrogio. Chiuse poi, vivamente applaudito, il suo discorso accennando al fatto che l’odierna cerimonia cade appunto nel giorno anniversario della fondazione dell’Ambrosiana, dal quale fatto trae lieti auguri per l’Associazione Pro Cultura».

3. Il testo del discorso dall’autografo Sfuggito alle ricerche di Galbiati, il testo del discorso era in realtà rimasto 6 L’inaugurazione

dei corsi alla «Pro Cultura», in Corriere della sera, 9 dicembre 1913, p. 5. Tre giorni prima il quotidiano aveva annunciato l’incontro: Una conferenza di mons. Ratti, ibid., 6 dicembre 1913, p. 6. Anche Migliori, Nel XXV dell’Associazione cit., p. 46, ricorda la conferenza di Ratti che il 20 novembre 1921, da arcivescovo di Milano, partecipò alla seduta inaugurale dell’anno accademico.

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IL COMMIATO DI ACHILLE RATTI DALLA BIBLIOTECA AMBROSIANA

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nelle carte di Ratti, che lo portò con sé anche a Roma; ed è venuto alla luce nelle Carte Pio XI, fondo dell’Archivio Vaticano in parte costituito da carte del pontefice trasmesse dal card. Carlo Confalonieri nel 19767, recentemente inventariato dall’archivista vaticano Alejandro Mario Dieguez, al quale debbo, con particolare gratitudine, la notizia del ritrovamento del testo8. L’autografo (Città del Vaticano, Archivio Apostolico Vaticano, Carte Pio XI, b. 2, fasc. 7, ff. 1-23) è costituito da 20 ff., mm 275 × 215; numerati a penna (1-20) nell’angolo superiore destro; i ff. 1-5, 11-15, di carta intestata con stemma pontificio e la legenda Biblioteca Apostolica Vaticana; seguono un foglietto e un bifoglio, di formato minore, che recano una foliazione a matita, di mano recente (21-23; f. 21: mm 145 × 130; ff. 22-23: mm 171 × 111), nell’angolo inferiore destro. Il bifoglio 2223 è di carta intestata della Biblioteca Apostolica Vaticana. I ff. 21-23 presentano aggiunte e appunti serviti per la conferenza (sono bianche le facciate interne del bifoglio, cioè i ff. 22v-23r). I primi 20 ff. sono utilizzati solo sul recto; ma l’ultimo f., il f. 20, presenta sul verso una indicazione di Ratti, a matita viola, forse cronologicamente successiva: Conferenza Pro Cultura / 8.XII.13 / Milano. Anche nell’angolo superiore sinistro del f. 1r è indicata a penna, sempre da Ratti, la data della conferenza: 8.XII.1913. La scrittura, in tutti i ff. di carta intestata tranne il primo (ff. 2-5, 11-15), lascia nella parte sinistra uno spazio bianco, approssimativamente al di sotto dello stemma e dell’intestazione, spesso utilizzato per correzioni e aggiunte; negli altri ff. la scrittura occupa invece tutto lo spazio disponibile. Il testo è il frutto di una stesura molto laboriosa, con numerosissime correzioni, depennamenti, aggiunte interlineari e marginali inserite nel testo con segni di richiamo vergati anche utilizzando matite di colore diverso (rosso, verde). La diversità dei moduli di scrittura e soprattutto di inchiostri induce a credere che il testo sia stato composto a più riprese, in uno spazio temporale forse non breve (all’inizio del testo, Ratti stesso accenna alla proposta di tenere la conferenza e alle «dilazioni» da lui ottenute, con rinvii). L’esito del complesso travaglio appare però estremamente controllato: nel complicato intersecarsi e sovrapporsi di interventi (la pagina più tormentata appare, in questo senso, il f. 13r), Ratti presta attenzione che il testo finale sia alla fine plausibile e corretto, anche nei minimi particolari. 7 Sul Confalonieri, che fu segretario particolare di Ratti dall’inizio dell’episcopato milanese (settembre 1921), cfr. S. Garofalo, Il cardinale Carlo Confalonieri, 1893-1986, Roma 1993 (Coscienza, 23); Il cardinale Carlo Confalonieri e L’Aquila, 1943-1944. Atti del convegno, a cura di A. Esposito, L’Aquila 2004; A. Esposito, Una figura emergente dell’episcopato: Carlo Confalonieri, in La Chiesa aquilana. 750 anni di vita: 1256-2006. Appunti per una storia. Atti del convegno. L’Aquila, Cattedra Bernardiniana, 6-7-8 dicembre 2005, a cura di P. Poli, Roma 2007 (Collectanea Archivi Ecclesiae Aquilanae), pp. 385-397. 8 Oltre alle due buste trasmesse da Confalonieri nel 1976, il fondo comprende altre carte di Ratti (anche di natura epistolare), prima e dopo l’elezione papale. L’inventario del fondo vedrà presto la luce in Dall’Archivio Segreto Vaticano. Miscellanea di testi saggi e inventari. A Dieguez devo altri, preziosi aiuti e suggerimenti (anche nella lettura del non facile autografo di Ratti), pervenuti inoltre da Francesca Di Giovanni e Giuseppina Roselli, dell’Archivio Vaticano. A tutti esprimo la mia più viva gratitudine.

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Al di là di alcuni lapsus, solo in due casi, ai ff. 13r e 16r, è stato necessario inserire nell’edizione del testo alcune parole, depennate, senza le quali le frasi sarebbero risultate mutile (nel secondo caso si è dovuto ricorrere a una congettura, risultando illeggibile la parola o le parole depennate). Considerata la complessità degli interventi di cui si sarebbe dovuto dar conto, con numerosissime note, si è creduto opportuno nell’edizione del testo offrire lo stato finale, evitando di segnalare gli stati intermedi della stesura e se i brani siano aggiunti e in quale posizione. Solo in pochi casi, quando è apparso necessario per spiegare alcune imperfezioni del testo finale, si è fatto cenno alle fasi preliminari nella stesura del testo. Ancora per quanto riguarda l’edizione del testo, si è cercato di osservare la massima fedeltà all’originale, nella punteggiatura, nell’uso delle maiuscole/minuscole e delle parole fra virgolette e sottolineate (rese col corsivo), nella successione dei capoversi, mai correggendo la scrittura di Ratti (tranne in tre punti, ai ff. 14r, 18r e 16r, rispettivamente per due duplicazioni di termini corrette nel testo ma segnalate in nota e per un’erronea presentazione di un inciso fra parentesi) e usando l’indicazione (sic) per segnalare che proprio questa era stata la grafia di Ratti. Le abbreviazioni per troncamento sono conservate, quelle per contrazione sciolte, senza uso di parentesi per le integrazioni. I puntini sospensivi sono sempre tre, anche se nell’originale possono essere di più o di meno. Alcuni accenti gravi sono stati trasformati in acuti. Si avverte che, sottolineando i titoli delle opere di Borromeo, Ratti spesso seleziona solo alcune parole e alcune di esse non completamente. Rendendo il sottolineato col corsivo, sono state rispettate le scelte di Ratti; solo le parole parzialmente sottolineate vengono rese interamente col corsivo. Fra parentesi quadre si inseriscono segni di punteggiatura, parole o lettere mancanti (o impropriamente cancellate) nell’originale.

Ecco il testo del discorso: Em. reverendissima, Illustrissimo Signor Sindaco9, Signori, Signore, Se siete disposti a contentarvi dell’eloquenza delle cose, oso promettervi che non andrete interamente delusi — Saxa ipsa loquentur10 — parleranno se non altro le pietre stesse della mia Ambrosiana — Ma se alcuno fra voi è venuto nella speranza e nell’attesa del conferenziere brillante, dalla parola colorita e dalla frase alata, io lo compiango sinceramente e lo prevengo, mentre è ancora tempo, che si è ingannato o che l’hanno ingannato. Non è impunemente che si passa un quarto di [f. 1r]

  9 Il 4 dicembre 1913 il sindaco di Milano Emanuele Greppi (1853-1931), esponente della

Destra storica, eletto il 30 gennaio 1911 e sostenuto da una coalizione di liberali e cattolici, si era dimesso, a seguito del ridimensionamento dei consensi al partito liberale nelle elezioni politiche del 26 ottobre 1913. Non riuscendo a formare una nuova giunta, il consiglio comunale fu sciolto. A Greppi subentrò il commissario regio e prefettizio Filiberto Olgiati, che rimase in carica sino al 30 giugno 1914. Per il titolo utilizzato da Ratti, si può pensare che alla conferenza fosse presente Greppi. Per i rapporti di Greppi con Ratti, Galbiati, Pio XI cit., pp. 38, 273, 309, 318. Col sindaco era presente l’arcivescovo di Milano, card. Andrea Carlo Ferrari. 10 «(…) tellus nobis aetherque chaosque / Aequoraque et campi Rhodopaeaque saxa loquentur», Lucan., VI, 617-618; ed. D. R. Shackleton Bailey, Stutgardiae et Lipsiae 1997, p. 155.

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secolo nel pensoso silenzio di una biblioteca, sia pur’essa ricca e simpatica come la nostra Ambrosiana, sieda pur’essa e si apra nel cuore di una città così operosamente vivace e conversevole come la nostra Milano. Nelle mie peregrinazioni alpine (sono un alpinista… ormai smesso, purtroppo, e passato a quelle ultime riserve, che, mentre i giovani baldi e validi subentrano al fuoco, stanno a casa a custodire i focolari amati, i cari vecchi, le tombe lagrimate…), nelle mie peregrinazioni alpine ho fatto spesso l’esperienza, che i pastori abituati ai vasti e solenni silenzi degli alti pascoli perdono non dico l’uso della parola, ma la facilità della conversazione e[,] lungi dal rifarsi della solitudine selvaggia conversando col rarissimo visitatore[,] non rispondono se non a monosillabi ed a cenni. Così le biblioteche più che a preparare dei conferenzieri sono atte a formare dei silenziosi, anzi dei silenzieri (in grazia dell’impiego, si capisce). Per questa e per altre ragioni anche più gravi io ho cercato di sottrarmi non al piacere ed all’onore che altamente apprezzo di parlarvi, ma al pericolo di mettere a dura prova la vostra pazienza. Non riuscito a sottrarmi, concessemi con spietata cortesia tutte le dilazioni, poiché la conferenza doveva essere, pregai che fosse in questo giorno della Vergine Immacolata, ed anche questo mi venne gentilmente consentito. Non mi attrasse soltanto la candida mistica bellezza del mistero in questo giorno celebrato, sì ancora un grande ricordo per noi dell’Ambrosiana domestico: e tanta fu l’attrazione, da farmi subire la non invidiabile sorte di prendere la parola dopo tanti illustri e dotti oratori11 quanti parlarono durante [la] scorsa Settimana Sociale12 suscitando l’ammiraz. la discuss. la contraddizione. Tutto insomma ma non l’indifferenza. Propriamente in questo giorno, or sono trecento e quattro anni il Cardinale Federico Borromeo inaugurava con grande, religiosa e civica solennità la sua Ambrosiana, l’avvenimento di cui or sono quattro anni, in questo medesimo giorno, nel recinto dell’Ambrosiana si celebrava il terzo centenario, con quel benevolo ||[f. 2r] e benefico intervento di tutte le autorità, con quella simpatica partecipazione, si può ben dire, di tutta la cittadinanza che hanno fatto di quel giorno uno dei giorni più belli dell’Ambrosiana13. Fu un punto solo richiamarmi allo spirito la cara e buona imagine paterna14 del grande Cardinale e l’opera sua e vedere come un vasto arco di luce librarsi brillando attraverso la notte dei tre secoli andati e a tanta distanza mirabilmente congiungere la Pro Cultura e i suoi pratici intenti col geniale Porporato e l’opera sua. Evidentemente, non 11 Autentico topos dell’oratoria rattiana, utilizzato più volte: la sorte infelice di subentrare a migliori. 12 Dal 30 novembre al 6 dicembre 1913 si era svolta a Milano l’VIII Settimana sociale dei cattolici italiani, dedicata al tema «La libertà dei cattolici» e aperta da una prolusione dell’arcivescovo di Udine Antonio Anastasio Rossi su «Il centenario costantiniano e la libertà della Chiesa». 13 Sulle celebrazioni, nel 1909, del terzo centenario della fondazione della Biblioteca Ambrosiana (8 dicembre 1609), Pasini, Il Collegio dei Dottori cit., p. 116. Ratti tenne un discorso nella sala maggiore della Biblioteca, non pubblicato, Galbiati, Pio XI cit., p. 299. Sull’inaugurazione dell’Ambrosiana (8 dicembre 1609), nella festa dell’Immacolata, cfr. M. Rodella, Fondazione e organizzazione della biblioteca, in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento, Milano 1992, pp. 121-147: 126-129; A. Paredi, Storia dell’Ambrosiana, Milano 1981 (Fontes Ambrosiani, 68), p. 16. 14 Dante, Inf. XV, 83.

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fu anche questa opera e grande opera di cultura? — Da questo alla determinazione del mio tema non fu che un passo: La cultura nel concetto e nell’opera del Cardinale Federico Borromeo. Il concetto del grande Cardinale venne da lui stesso consegnato a’ suoi scritti, l’opera sua si assomma e sopravvive nell’Ambrosiana; non vi spiaccia dunque di seguirmi per breve tempo nella considerazione di quelli e di questa per vedere e ciò che fosse la cultura per il Cardinale Federico e ciò che Egli per essa ha fatto. È sempre interessante ed utile il conoscere sopra un dato argomento le vedute di una intelligenza superiore e le aspirazioni di un cuore nobile e grande. Negli scritti e nell’opera del Cardinale Federico noi vedremo come Egli avesse della cultura il più alto e completo concetto, come ne intendesse la natura e gli elementi che la devono costituire, le alte finalità alle quali deve tendere, le profonde genuine sorgenti dalle quali può unicamente scaturire e nutrirsi e le15 leggi supreme alle quali deve ottemperare16. || [f. 3r] Forse non mai, come a’ giorni nostri si è tanto parlato di cultura e, diciamolo senza orgoglio, forse non mai si è tanto fatto più largamente per promuoverla[.] Che cosa è dessa? Che cosa si deve intendere per cultura? Certo è ed evidente che il termine è preso dal linguaggio agricolo, ed in questo linguaggio cultura o coltura non differisce da coltivazione se non in quanto questa parola dice più astrattamente l’arte ed i vari processi del coltivare, quella invece ha significato più concreto e ne dice l’atto pratico ed il suo effetto: nei libri di agricoltura, in una scuola agricola si può più o meno imparare l’arte del coltivare, la coltivazione; entrando in un campo ne vediamo e constatiamo la più o men buona cultura o coltura, la maniera cioè ond’è coltivato ed i frutti che se ne raccolgono o sperano: è in questo senso appunto che si applica alla coltivazione dello spirito umano17. Ora verità e virtù sono tutte le ricchezze delle quali lo spirito umano può avvantaggiarsi; verità e virtù tutti i frutti che lo stesso spirito può e deve produrre a bene proprio ed altrui. Il nostro grande Stoppani, che non fu soltanto (di gran lunga nò) un grande geologo, ma anche un grande scrittore[,] ha scritto tra l’altro uno stupendo discorso sulla santità delle parole18 e voleva proprio dire l’alta e non mai impunemente violabile sanzione che le accompagna e che le dovrebbe sempre difendere dall’oblio del vero lor senso e dall’abuso ed il frutto prezioso che immanchevolmente raccoglie chi ne usa con sincera integrità. Voi ne avete una prova di più nel mio brevissimo cenno e richiamo al genuino senso e significato della parola cultura: ciò che subito per via di evidenza 15 Nell’originale,

per imperfetto intervento di riscrittura, le le. ultime quattro righe del f. 2r, dalle parole «Negli scritti» alle parole «deve ottemperare», sono affiancate sul margine sinistro da una parentesi graffa, a penna, accanto alla quale, trasversalmente, a matita, è vergato un tratto verticale ed è indicato (da Ratti?): «Che intendeva F per cultura». 17 La sezione iniziale del testo del f. 3r, approssimativamente dalle parole «Forse non mai» sino a «coltivazione dello spirito umano», è affiancata trasversalmente da un tratto a matita e dalle parole «Fine delle opere di Fed. nella Introd.» (non è però chiaro se la mano sia quella di Ratti; propenderei anzi per credere il contrario). 18 A. Stoppani, La santità del linguaggio. [Discorso (…) letto all’Accademia della Crusca in Firenze il giorno 25 novembre 1883], in La rassegna nazionale, an. VI, vol. 16 (1884), pp. 432-479; ma anche come pubblicazione autonoma, con più edizioni: Firenze 1884; Modena 18842; Milano 18904. 16 Le

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ne consegue è altrettanto importante che magnifico: ne consegue che la cultura, dico cultura umana, cioè degna dell’essere umano, deve || [f. 4r] procurargli nella più larga misura non soltanto la scienza della verità, ma anche la scienza della virtù o, se più vi piace, non soltanto il bene della scienza ma anche la scienza del bene, o insomma non soltanto una scienza comecchessia e purchessia, ma una scienza vera e buona e virtuosa; perché l’uomo è essenzialmente ed unitamente intelletto e volontà e tutto quello che è e vuol dirsi perfettivo dell’essere suo deve soddisfare all’uno ed all’altra di quei due elementi essenziali od almeno così provvedere e venire in aiuto all’uno, che l’altro non ne resti pregiudicato. — Ed è per questo (permettetemi la parentesi) che anche la suprema legge dell’arte (qualunque questa voglia essere: arte del pensare ed arte del dire, arte dell’esporre ed arte del rappresentare), la suprema legge dell’arte che vuole mantenersi fedele alla sua ragion d’essere, alla sua alta missione di elevare, di ingentilire, di nobilmente dilettare la natura umana19, rimarrà sempre, checché si voglia dire o delinquere in contrario, quella così mirabilmente formulata e proclamata dal nostro Manzoni, non già di ignorare l’errore [e] il vizio, ma — il santo ver mai non tradir — non dir mai verbo — che plauda al vizio e la virtù derida20. Chiudo la parentesi e continuando dico che per conseguenza la nostra Pro Cultura fa bene, fa molto bene, fa il suo dovere associando alle sue conferenze ed a’ suoi corsi di letteratura e d’arte, di storia e di economia, di filosofia pura e di scienze, associando dico e mettendo alle viste conferenze e corsi di scienze religiose e morali od aventi con queste i più stretti e manifesti rapporti, come le scienze psicologiche e sociali. Che vale il dire che non sono scienze esatte? Ma se anche le scienze esatte (in mezzo a questo rivelarsi degli infinitamente piccoli e degli infinitamente tenui inafferrabili e sfuggenti ad ogni preciso calcolo) non si osan più chiamar tali… E poi sono scienze umane e tanto basta, deve bastare, a raccomandarle a chi persegue e promuove l’umana cultura. || [f. 5r] Ciò detto e ciò posto si capisce come sia non soltanto non usurpato ed insospettabile di danno, ma anche pienamente legittimo ed altamente benefico non soltanto umano ma anche altamente cristiano quel programma di totalità e di gene­ ralità che è congenito ed indispensabile per la istituzione che ha puramente e senza limitazione di sorta scritto sulla sua bandiera: Pro Cultura, che è come dire: tutta la luce a tutti; supposte e salve, ben si intende, quelle ragioni di metodo, che è come dire di distribuzione e di coordinazione, di graduatoria e di adattamento, senza di che ogni formazione di spirito è impossibile o non può essere se non tumultuaria e confusa. Sì[,] tutta la luce a tutti! Tutta la luce; perché ogni luce rischiara; perché non è scienza che non riceva luce dalle altre scienze, ed anche in questo somiglia la scienza creata alla Scienza increata che è lumen de lumine21, come dice il Simbolo 19 Nel f. 4r, la sezione del testo che approssimativamente comprende le parole «perché l’uomo è essenzialmente (…) di elevare, di ingentilire, di nobilmente dilettare la natura umana» è affiancata trasversalmente da un tratto a matita e dalle parole «Anche nell’arte – ­Introd.». 20 A. Manzoni, In morte di Carlo Imbonati, vv. 213-215; A. Manzoni, Opere, a cura di R. Bacchelli, Milano – Napoli 1953 (La letteratura italiana. Storia e testi, 53), pp. 23-24 (nella citazione di Ratti, leggere differenze rispetto all’edizione). 21 Symbolum Nicenum (H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion symbolorum (…), Barcinone – Friburgi Brisgoviae – Romae 197636, p. 52).

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della nostra fede, o come Dante ha cantato: iri da iri22; perché è nelle cose, nella profonda immensa unità del creato l’unità che si impone allo scibile ed alla scienza; ed anche dove il dualismo è necessario ed irreducibile[,] Creatore e creato, spirito e materia, fede e ragione; anche là regna sovrana la più maravigliosa ed inviolabile armonia: perché il creato non è se non ciò che dalla mente divina «per l’universo si squaderna»23; perché spirito e materia formano l’unica umana natura; perché fede e ragione non sono che raggi diversi dell’unica, somma Verità… Tutta la luce… A tutti — perché della luce tutti hanno bisogno; perché alla luce anela tutto ciò che vive; perché sovra tutti gli occhi dell’uom cercan la luce; né soltanto morendo, come cantò il poeta24, ma anche vivendo, anzi per vivere ed è di ogni anima il grido (inteso o no, esaudito non curato o deriso); «A luce, a luce, a più ampia luce fate luogo, a luce!»25[.] Ed all’universo naturale fa eco quest’universo sopranaturale che è la Chiesa e che secondo la bella parola di Agostino unum gestit … ne ignorata damnetur26… Che tale appunto sia stato il contenuto ed il programma di cultura nel concetto del Cardinale Federico Borromeo lo dicono i suoi scritti. Il suo concetto, il suo pensiero ad essi egli medesimo affidava e noi abbiamo il diritto di cercarlo in essi. Per giovare al mio intento come per rispondere alla vostra legittima curiosità e brama di illuminarvi sempre più sopra una personalità così grande che neanche la grandezza veramente colossale del suo santo cugino S. Carlo valse a nascondere e che il genio di Manzoni circumfuse di luce tanto simpatica, io credo di non poter far di meglio che presentarvi un sommario rapido catalogo ragionato de’ suoi scritti27. A Jove principium — e viene primo un manipolo di scritti di contenuto teologico: De selectis divinarum rerum probationibus libri septem — o del modo di dimostrare le cose divine28[.] 22 Dante,

Par. XXXIII, 118. Par. XXXIII, 87. 24 «(…) perché gli occhi dell’uom cercan morendo / il Sole; e tutti l’ultimo sospiro / mandano i petti alla fuggente luce», U. Foscolo, Dei sepolcri, vv. 121-123; cfr. U. Foscolo, Opere, I, a cura di F. Gavazzeni, Milano – Napoli 1974 (La letteratura italiana. Storia e testi, 51/1), p. 309. 25 Non ho sinora individuato l’origine delle parole citate, che ritornano in chiusura, al f. 20r, attribuite al «poeta». In esse è possibile che vi sia un’eco delle ultime, celebri parole di Goethe morente. Ma non sembra che si possano identificare tout court con quelle. La stessa frase era stata vergata, e poi depennata, alla quarta riga dello stesso f. 5r. 26 In realtà Tert., Apol., I, 2; ed. E. Dekkers, Turnholti 1954 (Corpus Christianorum. Series Latina, 1), p. 85. 27 Cfr. Appendice II: Opere a stampa del card. Federico Borromeo esistenti all’Ambrosiana, in Card. Federico Borromeo, arciv. di Milano. Indice delle lettere a lui dirette conservate all’Am­ brosiana. Appendice: Opere manoscritte e a stampa del card. Federico esistenti all’Ambrosiana, Milano 1960 (Fontes Ambrosiani, 34), pp. 383-387. Di seguito, per quanto riguarda le opere a stampa citate da Ratti, dopo i titoli, si indicheranno fra parentesi le pp. e i numeri relativi nell’Appendice II. 28 De selectis divinarum rerum probationibus. Libri VII, Mediolani 1626; con postille autografe (p. 385, nr. 64). Ma furono pubblicati solo i libri I-III. 23 Dante,

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De providentia Dei etc. liber unus29[.] De nominibus et numero angelorum. libri tres30. De cognitionibus quas habent dèmones. liber unus31[.] De miraculis gentilium. liber unus32[.] De Sede et apparitionibus dèmonum. liber unus33[.] Come vedete, ce n’è non soltanto per i teologi di vero e proprio nome ma anche per quelli che ora sembrano voler far loro concorrenza, gli occultisti ed i teosofi e che rendono alla vera fede ed alla vera religione || [f. 6r] una testimonianza che forse non vogliono, attestando col fatto proprio che una fede ed una religione pur ci vuole, a costo di contentarsi della superstizione. La scienza teologica del Cardinale Federico si specifica e diventa scienza biblica: De sacris libris theoreticis tractatus decem et septem34. Salomon, liber unus35. Canticorum explanatio iuxta litteralem sensum. libri quattuor36. Notè in duodecim prophetas minores37. De moribus Christi. De moribus B. Virginis Mariè. De Evangelicè narrationis dignitate38. Observationum in Apocalypsim libri septem39. De nonnullis Sacrè Scripturè locis passim usurpatis. Liber unus40. E dopo la teologia teoretica, la teologia pratica: morale ed ascetica:

29 De providentia Dei, et illius permissione cum malignis spiritibus. Liber unus, Mediolani 1624; con postille autografe (p. 384, nr. 50). 30 De linguis, nominibus et numero Angelorum. Libri III, Mediolani 1628 (p. 385, nr. 76). 31 De cognitionibus quas habent daemones. Liber unus, Mediolani 1624; con postille autografe (p. 384, nr. 49). 32 De miraculis gentilium. Liber unus, Mediolani 1629 (p. 385, nr. 79). 33 Parallela cosmographica de sede, et apparitionibus daemonum. Liber unus, Mediolani 1624; con postille autografe (p. 384, nr. 52). Accanto ad alcuni titoli, nel complesso undici, Ratti ha indicato, nel margine destro/sinistro dei ff., un numero arabo, che è poi il numero progressivo dell’opera nella sua elencazione. Accanto a questo titolo, nel margine destro del f. 6r, è indicato 6. 34 De sacris libris theoreticis tractatus XVII, Mediolani 1629 (p. 385, nr. 80). 35 Salomon, sive opus regium. Liber unus, Mediolani 1617; con postille autografe (p. 383, nr. 21). 36 Canticorum explanatio iuxta litteralem sensum. Libri IV, Mediolani 1624; 1627 (pp. 384, nr. 48; 385, nr. 66). 37 Notae in duodecim Prophetas minores, Mediolani 1620; con postille autografe (p. 384, nr. 33). 38 De moribus Christi. Libri IV. De moribus B. Virginis Mariae. Liber unus. De Evangelicae narrationis dignitate. Liber unus, Mediolani 1619; con postille autografe (p. 384, nr. 26). 39 Observationum in Apocalypsim. Libri VII, Mediolani 1628; con postille autografe (p. 384, nr. 39). 40 De nonnullis Sacrae Scripturae locis passim usurpatis. Libri II, Mediolani 1625; con postille autografe (p. 384, nr. 57). Accanto al titolo, nel margine sinistro del f. 6r: 13.

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Tutto un volume = De vita perfecta — De acquirendo orationis habitu — De assi­ dua oratione — De vario revelationum et illusionum genere41[.] — Un altro — De vita contemplativa42. Un terzo — De insanis quibusdam tentationibus43. Un quarto — De vera et occulta sanctitate44. Poi un gioiello di libro: De christianae mentis iocunditate45, che Federico stesso traduceva in italiano: I tre libri dei piaceri della mente cristiana46 — e completava con la = Epistola — Ad aridam mentem47[.] = Seguono: I tre libri delle laudi divine48. E connesso: Il libro … della facilità dell’orare49. Poi: De actione et contemplatione libri quattuor50[.] Chiudono il ciclo teologico tre volumi indirizzati ai vescovi, ai sacerdoti, agli ecclesiastici in genere: Consolatoria atque adhortatoria oratio ad Episcopos51[.] De presbyterio liber unus52. Cypria Sacra sive De honestate et decoro ecclesiastici moris, liber unus53. Il Diritto canonico[,] che già si annuncia, anzi si accusa presente nei libri da ultimo accennati[,] e (sic) espressamente rappresentato e nelle sue funzioni più elevate e più vaste in due scritti l’uno di diritto ecclesiastico pubblico interno: De pru­ dentia in creando Pontifice Maximo54; l’altro di diritto ecclesiastico publico esterno

41 De vita perfecta. Liber unus, Mediolani 1617 (p. 383, nr. 19). De acquirendo contempla­ tionis habitu. Liber unus, Mediolani 1617 (p. 383, nr. 13). De assidua oratione. Liber unus, Mediolani 1617 (p. 383, nr. 14). De vario revelationum, et illusionum genere. Liber unus, Mediolani 1617; con postille autografe (p. 383, nr. 18). 42 De vita contemplativa, sive de valetudine ascetica. Libri II, Mediolani 1630 (p. 385, nr. 82). 43 De insanis quibusdam tentationibus. Liber I, Mediolani 1629; con postille autografe (p. 385, nr. 78). 44 De vera et occulta sanctitate. Libri III, Mediolani, Montia 1650 (p. 385, nr. 93). 45 De christianae mentis iucunditate. Libri III, Mediolani 1632 (p. 385, nr. 83). 46 I tre libri de’ piaceri della mente christiana, Milano 1625; con postille autografe (p. 384, nr. 60); Milano 1629 (p. 385, nr. 81). Ai fini del suo conteggio (cfr. infra, nt. 94), Ratti attribuisce all’edizione latina e a quella italiana un unico numero. 47 Ad aridam mentem epistola, Mediolani 1620; con postille autografe (p. 384, nr. 29). 48 I tre libri delle laudi divine, Milano 1632 (p. 385, nr. 87). 49 Il libro intitolato «L’idiota, ovvero della felicità dell’orare», Milano 1626 (p. 385, nr. 65). Si noterà il lapsus di Ratti (facilità per felicità). 50 De actione contemplationis. Libri IV, Mediolani 1621; con postille autografe (p. 384, nr. 35). 51 Consolatoria atque adhortatoria oratio ad episcopos, Mediolani s.d. (p. 386, nr. 121). 52 De praesbyterio. Liber unus, Mediolani 1622; con postille autografe (p. 384, nr. 37). 53 Cypria sacra, sive de honestate et decoro ecclesiastici moris. Liber unus, Mediolani 1628 (p. 385, nr. 73). Il titolo è affiancato, nel margine sinistro del f. 6r, dal numero 25. 54 De prudentia in creando Pontifice Maximo. Liber unus, Mediolani 1617; con postille autografe (p. 383, nr. 17).

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e proprio dei rapporti tra Chiesa e Stato: Litterae de ecclesiastica iurisdictione ad Regem Catholicum Philippum II55. || [f. 7r] L’ideale di fede, di religione, di carità[,] di perfezione di cui la teologia ne’ suoi diversi rami traccia le linee è tradotto in viva pratica nella vita dei Santi; la agiografia è per ciò stesso la corona della teologia, una delle parti più belle e più efficaci della Storia della Chiesa, una tal quale applicazione sopranaturale delle naturali scienze storiche, come la teologia stessa è la applicazione soprannaturale delle scienze filosofiche. Alla agiografia dedicava Federico due volumi, l’uno in tre, l’altro in dodici libri56: e, particolare che mi sembra (non so perché) molto moderno e suggestivo, come è certamente originale e rivela uno spirito particolarmente attento al contenuto essenzialmente etico della santità cristiana, le memorie che il grande Cardinale raccoglie sono quasi sempre di santi veri bensì, ma non di santità ufficialmente riconosciuta e proclamata per mezzo della canonizzazione. Della teologia tutta quanta, non esclusa la storia ecclesiastica e l’agiografica, raccoglie, espone ed applica il frutto l’eloquenza sacra, ed a questa che a ragione fu detta la grande arte del vescovo, dedicò il Card. Federico particolarissime cure e ne lasciò monumenti e documenti ben degni di essere studiati e che rivelano come non inutilmente uno dei più celebrati oratori sacri dell’epoca, il Toleto, al giovane Cardinale che nominato nostro Arcivescovo modestamente gli chiedeva qualche suprema norma questa dava: preparate a lungo, dite breve57. Quattro forti volumi sono rispettivamente di Sacrae conciones per tempora et annos, prout recitatè fuerunt58 — Plebanarum visitationum exordia; tractatus ad homines agros colentes; et ad Clerum plebanum59 — Conciones synodales60 — Tractatus ad sacras virgines61[.] — È il Cardinale Arcivescovo nell’ordinario e quasi quotidiano adempimento del sacro ufficio in città:

55 Litterae

de ecclesiastica iurisdictione ad Regem Catholicum Philippum II, [Mediolani 1596] (p. 383, nr. 1). Il titolo è affiancato, nel margine sinistro del f. 6r, dal numero 27. 56 De vita Catharinae Senensis monacae conversae. Libri III, Mediolani 1618; con postille autografe (p. 384, nr. 23). I tre libri della vita di Suor Caterina monaca convertita, Milano 1618; con postille autografe (p. 384, nr. 24). Philagios sive de amore virtutis. Libri XII, Mediolani 1623; con postille autografe (p. 384, nr. 45). Approssimativamente all’altezza dell’indicazione, nel margine sinistro del f. 7r, è indicato il numero 29. 57 All’Ambrosiana sono conservate tre lettere (1595-1596) al Borromeo di Francisco Toledo (1532-1596), gesuita spagnolo, cardinale dal 1593, Card. Federico Borromeo, arciv. di Milano. Indice delle lettere a lui dirette cit., p. 343. Per i rapporti di Borromeo col gesuita, cfr. A. Borromeo, Alle origini dell’Ambrosiana: il mondo culturale del giovane cardinale Federico Borromeo, in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento cit., pp. 21-44: 31, 38. 58 Sacrae conciones dispositae per tempora, et annos, prout recitate fuerunt. Vol. IX, Mediolani 1627 (p. 385, nr. 72). 59 Plebanarum visitationum exordia. Tum tractatus ad agrorum incolas et ad clerum pleba­ num, Mediolani 1616; con postille autografe (p. 383, nr. 12). 60 Conciones synodales. Vol. I, Mediolani 1633 (p. 385, nr. 89). 61 Tractatus habiti ad sacras virgines, I-II, Mediolani 1620-1623; con postille autografe (p. 384, nr. 34). Nel margine sinistro del f. 7r, accanto alla prima riga delle quattro dedicate ai «quattro forti volumi», è affiancato il numero 33.

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tra il clero e il popolo rurale nelle visite pastorali; nelle solenni adunanze sinodali; nella delicata cura della parte più eletta del suo gregge, le sacre vergini. Anche la dottrina oratoria ha la sua parte: De concionante episcopo libri tres62 –; e perfino la storia della sacra eloquenza: De sacris nostrorum temporum oratoribus libri quinque63. || [f. 8r] Spero che la ammirazione per tanta scienza e per tanto lavoro sosterrà la vostra pazienza: ne ho bisogno grande; perché non vi ho presentato se non un lato, un lato solo, della grande figura del nostro Cardinale e della sua maravigliosa cultura: il lato, diciam così, teologico puro. Ben 14 altri volumi ci attestano che la sua cultura non era meno vasta e meno maravigliosa nei domini della filosofia, sia speculativa che pratica e delle lettere belle. Ho appena bisogno di ricordare che a que’ tempi la filosofia comprendeva pressoché tutto che non era stretto giure o teologia — che matematica e geometria erano una filosofia della quantità. Seguitemi prego nella rapida rassegna. De primis rerum nominibus libri duo64. De Pythagoricis numeris libri tres65. De Cabbalisticis inventis libri duo66[.] — De actibus prudentiè libri quatuordecim67. De variis amoris moribus liber unus68. De ordine liber unus69. De contemptu deliciarum liber unus70. = Del disprezzo delle delizie71[.] = De tribus vitiis — libri tres72. De fugienda ostentatione libri duo73[.]

62 De

concionante episcopo. Libri III, Mediolani 1632 (p. 385, nr. 84). sacris nostrorum temporum oratoribus. Libri V, Mediolani 1632 (p. 385, nr. 85). All’altezza della penultima riga del f. 7r, ove è registrato il titolo, nel margine sinistro, è indicato il numero 35. 64 De primis rerum nominibus. Libri II, Mediolani 1627; con postille autografe (p. 385, nr. 68). 65 De Pythagoricis numeris. Libri III, Mediolani 1627 (p. 385, nr. 69). 66 De Cabbalisticis inventis. Libri II, Mediolani 1627 (p. 385, nr. 67). Dopo i primi tre titoli di questa sezione Ratti ha tracciato due tratti orizzontali, evidentemente per separarli da quelli che seguono. 67 De actibus prudentiae. Libri XIV, Mediolani 1628 (p. 385, nr. 74). 68 De variis amoris moribus. Liber unus, Mediolani 1620; con postille autografe (p. 384, nr. 32). 69 De ordine rerum. Liber unus, Mediolani 1625 (p. 384, nr. 58). 70 De villa Gregoriana sive de contemptu deliciarum. Liber unus, Mediolani 1623 (p. 384, nr. 44). 71 Trattato del disprezzo delle delizie, overo della Villa Gregoriana, Milano 1624; con postille autografe (p. 384, nr. 53). 72 De tribus vitiis. Libri III, Mediolani 1620; con postille autografe (p. 384, nr. 31). 73 De fugienda ostentatione. Libri duo, Mediolani 1623; con postille autografe (p. 384, nr. 42). 63 De

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De non vulgari extimatione et fama — liber unus74. De consiliariis — disputationes duae75[.] De gratia principum — liber unus76 = Il libro intitolato la Gratia dei princi77 pi [.] — Meditamenta litteraria78 — De rebus inveniendis79[.] — Se la severità, la solidità, la copia stessa di così alte e varie cose minaccia di opprimervi, eccovi delle portate di una freschezza e di una grazia veramente squisite, la prova splendida del gran posto che tennero nella cultura del Cardinale Federico le arti belle, il loro amore, il loro studio, il loro culto. È un volume che precisamente questo culto ha per oggetto: Pallas compta, sive de bonarum artium cultu liber unus80. È un altro volume nel quale Federico descrive con signorile eleganza e modesta compiacenza il suo Museo, la sua pinacoteca, quella pinacoteca ch’Egli donava poi con gesto più che principesco alla Sua Ambrosiana e che rimane ancora al presente la parte più larga e più cospicua delle sue ricchezze d’arte: Museum81. Il mio compianto, incomparabile amico Mons. Luigi Grasselli82 || [f. 9r] ne dava una nitida traduzione italiana che quell’illustre amico dell’Ambrosiana che è l’Arch. Luca Beltrami83 corredava di note ed in elegante veste tipografica all’Ambrosiana donava nel ricordato 3° centenario della sua fondazione84. È finalmente un terzo volume, nel quale il mirabile Cardinale detta sapienti norme intorno alla pittura

74 De 75 De

non vulgari existimatione, et fama. Liber unus, Mediolani 1623 (p. 384, nr. 43). consiliariis. Disputationes duae, Mediolani 1623; con postille autografe (p. 384,

nr. 40). 76 De gratia Principum. Liber unus, Mediolani 1625; con postille autografe (p. 384, nr. 56). 77 Il libro intitolato: La Gratia de’ principi, Milano 1632 (p. 385, nr. 88). Accanto al duplice titolo, nel margine sinistro del f. 8r, è indicato il numero 49. Fra questo titolo e il successivo Ratti ha vergato un doppio tratto orizzontale, con la stessa funzione dei tratti precedenti. 78 Meditamenta litteraria, Mediolani 1633 (p. 385, nr. 91). 79 De rebus inveniendis. Liber unus, Mediolani 1625 (p. 384, nr. 59). Gli ultimi due titoli sembrano aggiunti in un secondo momento. Poiché il numero 49 sembra vergato accanto al titolo De gratia principum / La Gratia de’ principi, si deve dedurre che, contrariamente a quanto accaduto prima (cfr. supra, nt. 46), in questa sezione dei «14 altri volumi» Ratti attribuisce numeri diversi alle edizioni latine e a quelle italiane; e che gli ultimi due titoli aggiunti non sono compresi nel conteggio complessivo. 80 Pallas compta, sive de bonarum artium cultu. Liber unus, Mediolani 1617 (p. 383, nr. 20). 81 Musaeum Bibliothecae Ambrosianae, Mediolani 1625 (p. 384, nr. 61). All’altezza del titolo, nel margine sinistro del f. 8r, è indicato il numero 51. 82 Su Luigi Grasselli, cfr. Galbiati, Pio XI cit., pp. 42, 48, 204, 210, 264, 266, 274, 276, 307; C. Confalonieri, Pio XI visto da vicino. Nuova edizione con l’aggiunta di due appendici a cura di G. Frasso, Cinisello Balsamo 19933 (Grandi biografie, 2), pp. 90, 168. 83 Luca Beltrami (1854-1933), P. Mezzanotte, Beltrami, Luca, in Dizionario biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 71-74; cfr. Galbiati, Pio XI cit., p. 370 (s.v. in indice); Confalonieri, Pio XI visto da vicino cit., pp. 46, 47, 49, 71, 146, 161, 294, 295. 84 Il Museo del cardinale Federico Borromeo arcivescovo di Milano, traduzione del sac. L. Grasselli; prefazione e note dell’arch. L. Beltrami, Milano 1909.

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sacra: De pictura sacra libri duo85; di nuovo un libro, come non pochi altri de suoi, che ci ammonische (sic) non essere nato oggi tutto quello che noi onoriamo col titolo di moderno. E non ho finito ancora con le opere stampate. Rimangono e mettono il fastigio o la base, come meglio amate dire e pensare, a tutto l’edificio quattro volumi di metodologia e pedagogia scolastica. De delectu ingeniorum libri duo86[.] De addiscendis scentiis (sic) liber unus (ad Com. Fed. Borr.)87[.] De exercitatione et labore scribendi libri tres88. De suis studiis commentarius89. Per non dire degli aurei avvertimenti sparsi nel volume intitolato: Domesticarum epistolarum liber unus90. Circulus et calamus / Non fa scienza91[.] La rassegna delle opere date alle stampe dal nostro grande Arcivescovo è ormai finita: per rapida ch’essa sia stata, per monotona ed inetta ne sia stata la presentazione da me fattane, è impossibile non rimanere altamente sorpresi e come sbalorditi. Dove prendeva quest’Uomo il tempo, la lena, la serenità di tanto lavoro di mente e di penna con quella sua assiduità all’ufficio pastorale che lo fece così forte emulo dello stesso S. Carlo, in mezzo a quell’imperversare di guerre, di epidemie, di prepotenze straniere, di ingiuste ingerenze ed aspre, lunghissime lotte giurisdizionali? O piuttosto che larga e ricca preparazione dev’egli essersi dato?! Di che potente e maravigliosa facilità e rapidità di lavoro dev’egli essere stato dotato?! Non voglio dir nulla di esagerato o che possa sembrar tale, non dico che ogni pagina, ogni volume sia un lampo di genio[;] al contrario, come dirò fra poco, quel complesso di cose che abbiam passate in rassegna rimane pur sempre mirabile anche se ogni cosa non lo è egualmente92; e, dirò anch’io col Manzoni allo stesso proposito: 85 De pictura sacra. Libri II, Mediolani 1624; con postille autografe (p. 384, nr. 46). Accanto al titolo, nel margine sinistro del f. 9r, è indicato il numero 52. 86 De delectu ingeniorum. Libri II, Mediolani 1623 (p. 384, nr. 41). 87 De addiscendis scientiis ad comitem Federicum Borromaeum. Liber unus, Mediolani 1626; con postille autografe (p. 384, nr. 63). 88 De exercitatione et labore scribendi. Libri III, Mediolani 1625; con postille autografe (p. 384, nr. 55). 89 De suis studiis commentarius, Mediolani 1627 (p. 385, nr. 70). 90 Domesticarum epistularum, Mediolani s.d. (dopo il 1629); con postille autografe (p. 387, nr. 125). Accanto al titolo, nel margine sinistro del f. 9r, è indicato il numero 57. 91  All’altezza del titolo della raccolta epistolare, in modulo di scrittura più piccolo e in forma incipitaria, le due frasi, nella loro espressione completa, indicano, quali condizioni per l’acquisizione del sapere, la necessità del confronto con gli altri («Circulus et calamus fecerunt me doctorem») e la memorizzazione di quanto appreso («[…] ché non fa scïenza, sanza lo ritenere, quanto appreso […]», Dante, Par. V, 41-42). 92 «(…) d’un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente (…)», A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXII. Per comodità si fa riferimento ad A. Manzoni, I promessi sposi, edizione a cura di C. C. Secchi (…) e di D. Sparpaglione, Milano 19715, che segue il testo dell’edizione del 1840. Di seguito i brani del romanzo saranno quindi identificati con le pp. e i numeri delle righe dell’edizione Secchi-Sparpaglione (per questo passo, p. 375, rr. 392-393). Per l’edizione utilizzata da Ratti, cfr. infra, nt. 131.

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non ho voluto scrivere un (sic) orazione funebre93. Ma sono ben cinquantasette volumi di un bel formato in ottavo94; tutti[,] com’avete potuto vedere od indovinare, del contenuto il più svariato né solamente quasi sempre serio e solido, ma ancora pregevolissimo, e sempre in una forma (sia dessa italiana o latina) piena di sobria eleganza e di dignità, massime se si tien conto del tempo, tempo di vere abominazioni letterarie. Tale la cultura che il Cardinale Federico s’era dato95. || [f. 10r] Tale, ma non ancora tutta quanta; per compierne, almeno nei tratti precipui ed essenziali, l’imagine dovrei farvi passare un’altra rassegna, quella delle opere che il Cardinale Federico lasciava manoscritte96. Ve n’ha di svariatissime, vi abbondano quelle delle quali il recitatovi elenco delle stampate vi ha forse destato il pensiero ed il desiderio. Se in queste lo studio e la cultura del Cardinale nell’ambito delle classiche letteratura (sic), pure attestandosi o tradendosi per ogni parte, non ha che poca rappresentanza apposita e speciale, nei manoscritti si affermano altamente ed ampiamente; e negli scrittori classici lungamente studiati, dottamente annotati ci rivelano la scuola e la sorgente di quella elegante e dignitosa compostezza di pensiero e di forma che è così costante negli scritti del Cardinale e di cui i classici ed essi soli sembrano possedere il segreto e saperlo insegnare97. D’altra parte se nei manoscritti si trovano volumi che non fanno che aggiungere qualche unità a gruppi già rappresentati98, come a quello del genere storico, il volume sulla peste99, volume certamente veduto e studiato dal Manzoni che ne traeva quasi alla lettera il mi93 «(…) perché non paia che abbiam voluto scrivere un’orazione funebre», Manzoni, I promessi sposi cit., XXII, p. 375, rr. 393-394. 94 A questo conteggio complessivo era dunque finalizzata la numerazione marginale dei volumi citati (ma per le sue irregolarità e imperfezioni, cfr. supra, ntt. 46, 79). Nella sua ultima opera, i Meditamenta litteraria, Borromeo dava notizia di 95 opere da lui composte, cfr. F. Casolini, Borromeo, Federigo, in Enciclopedia cattolica, II, Città del Vaticano 1949, coll. 1927-1930: 1929-1930. L’elenco completo fu stilato da Giuseppe Antonio Sassi nel De studiis litterariis Mediolanensium antiquis et novis prodromus ad historiam Typographicam Mediolanensem (1729). Cesare Cantù, nei Ragionamenti sulla storia lombarda del secolo XVII (1832), elencò 109 opere, di cui 61 stampate in latino, 5 in italiano, 20 manoscritte in latino e 23 manoscritte in italiano, cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, con il commento di P. Nardi sul testo curato da A. Chiari e F. Ghisalberti, Milano 196523, p. 541, nt. sub 378. 95 Nel margine sinistro del f. 9r, il brano «La rassegna delle opere (…) Cardinale Federico s’era dato» è affiancato da un tratto verticale, a matita. 96 Appendice I. Opere manoscritte del card. Federico Borromeo esistenti nell’Ambrosiana, in Card. Federico Borromeo, arciv. di Milano cit., pp. 377-382. Di seguito i titoli delle opere manoscritte di Borromeo sono individuati con riferimento ai numeri che contraddistinguono le diverse opere nell’elenco, seguiti fra parentesi dalle segnature dei manoscritti ambrosiani che le trasmettono. Cfr. anche Catalogo dei manoscritti del card. Federico Borromeo nella Bibliote­ ca Ambrosiana, a cura di C. Marcora, Biblioteca Ambrosiana 1988 (Fontes Ambrosiani, 79). 97 Cfr. Appendice I. Opere manoscritte cit., p. 377, nr. 5 (A 167); p. 377, nr. 16 (X 31 sup.); p. 379, nr. 101 (I 74); p. 379, nr. 102 (B 206). La sezione del testo che va approssimativamente dalle parole «Se in queste lo studio e la cultura» sino a «il segreto e saperlo insegnare» è affiancata da un tratto a matita e dall’indicazione «Lo studio dei classici». 98 Molti volumi a stampa hanno, infatti, precedenti e completamenti nei testi manoscritti. 99 De pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit: Appendice I. Opere ma­ noscritte cit., p. 379, nr. 84 (F 20 inf., n° 1); Marcora, Catalogo dei manoscritti cit., pp. 35-36.

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rabile episodio della madre della piccola Cecilia coi monatti100; se ne trovano pure di quelli che ci rivelano lati ed orizzonti affatto nuovi nella cultura del Cardinale: sono note e lettere che chiaramente accennano all’attenzione ed allo studio ch’Egli dedicava alle iscrizioni ed ai monumenti dell’antichità sacra e profana101, alle lingue orientali102, alle scoperte ed ai progressi della astronomia, della geografia, della cartografia103. La sua corrispondenza[,] che gli dà un posto d’onore tra gli «amici e corrispondenti di Galileo»104 che a lui con una mirabile lettera inviava una (sic) dei primi esemplari105 del suo famoso «Saggiatore»106, ce lo mostra in commercio epistolare come coi residenti di Venezia e di Genova negli scali del Levante mediterraneo107, così coi missionari dell’estremo Oriente e dell’America meridionale108; e co’ suoi manoscritti, con la sua corrispondenza l’Ambrosiana conserva pure la sfera armillare che serviva a’ suoi studi astronomici109. Un (sic) importantissima osservazione a questo punto si impone. Come vedete non ci troviamo davanti ad una cultura comechessia, ad uno sport scientifico e letterario dovuto più che ad altro a vana e leggere (sic) vaghezza di sapere o ad un dilettantismo facoltoso e … capriccioso (il grande pericolo, al quale — lasciatemi 100 Manzoni,

I promessi sposi cit., cap. XXXIV, pp. 581-584, rr. 386-441. Appendice I. Opere manoscritte cit., p. 380, nr. 122 (F 17 inf., n° 1). 102 Cfr. Appendice I. Opere manoscritte cit., p. 377, nr. 7 (X 32 sup.); p. 377, nr. 9 (G 4 inf., n° 4); p. 377, nr. 13 (G 4 inf., n° 3); p. 379, nr. 109 (G 21 inf., n° 1); p. 379, nr. 114 (L 47); p. 380, nr. 127 (G 2 inf., n° 3); p. 380, nr. 130 (G 2 inf., n° 2); p. 381, nr. 170 (G 4 inf., n° 6); p. 381, nr. 203 (G 1 inf.); p. 382, nr. 204 (G 4 inf., n° 5); Marcora, Catalogo dei manoscritti cit., pp. 44, 45, 54. Cfr. E. Galbiati, L’orientalistica nei primi decenni di attività, in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento cit., pp. 89-120, in particolare pp. 89-91 e passim. 103 Cfr. Appendice I. Opere manoscritte cit., p. 378, nr. 57 (G 9 inf., n° 4); p. 379, nr. 113 (G 24 inf., n° 6); Marcora, Catalogo dei manoscritti cit., pp. 47, 58. 104 A. Favaro, Federigo Borromeo e Galileo Galilei, in Miscellanea Ceriani. Raccolta di scritti originali per onorare la memoria di M.r Antonio Maria Ceriani prefetto della Biblioteca Ambrosiana, Milano 1910, pp. 307-328 (poi ripreso nella ristampa anastatica: A. Favaro, Amici e corrispondenti di Galileo, a cura e con nota introduttiva di P. Galluzzi, II, Firenze [1983]. pp. 891-910). 105 La non concordanza si spiega perché in un primo momento Ratti aveva scritto «una delle prime copie», correggendo poi ma non perfettamente le parole. 106 Sono conservate in Ambrosiana cinque lettere di Galilei a Borromeo, fra il 27 aprile 1613 e il 18 novembre 1623. L’invio della copia del Saggiatore avvenne con l’ultima lettera (S.P. 47); un suo facsimile è pubblicato da Paredi, Storia dell’Ambrosiana cit., p. 107; e in Sto­ ria dell’Ambrosiana. Il Seicento cit., p. 178. Cfr. Guida sommaria per il visitatore della Biblio­ teca Ambrosiana e delle collezioni annesse, Milano 1907, pp. 14, 114, 119. La lettera era stata oggetto di un articolo di Ratti: A. Ratti, Lettera di Galileo Galilei al card. Federico Borromeo, in San Carlo Borromeo nel terzo centenario della canonizzazione, nr. 19, pp. 385-386; ripubblicato in A. Ratti (Pio XI), Scritti storici, introduzione di P. Bellezza, Firenze 1932, pp. 273-275. 107 Cfr. Guida sommaria cit., p. 15; Paredi, Storia dell’Ambrosiana cit., p. 10. 108 Card. Federico Borromeo, arciv. di Milano. Indice delle lettere cit., p. 346 [Torres (de) Diego S.I.]. 109 In Biblioteca Ambrosiana è conservata una sfera armillare, in ottone argentato, opera di Giannello Torriani, secondo la tradizione appartenuta al card. Borromeo. Cfr. Guida sommaria cit., p. 106. Fra questa riga e la successiva è vergato un tratto orizzontale a matita. 101 Cfr.

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dire, lasciatevelo dire dal grande Card. — al quale è esposta la nostra istituz.); siamo davanti ad una cultura organica che mano (sic)110 si allarga fino ad abbracciare armonicamente tutto quanto lo scibile; e questo (è pur da aggiungere) movendo dalla larga e sicura base di una eccellente preparazione regolare e sistematica ottenuta non soltanto con la privata istruzione; ma con la || [f. 11r] più alta e completa formazione universitaria consentita dai tempi frequentando con esemplare diligenza — anche allora rara, volevo dire rara allora, i corsi di Bologna e di Pavia111. Ho nominato un’altra volta Manzoni, e proprio là dov’egli parla del nostro grande Cardinale, all’ultima pagina del cap. XXII dei Promessi Sposi112. O m’inganno, od io mancherei al mio dovere non soffermandomi un momento su questa pagina, perché quanto son venuto dicendo se da una parte la dichiara e da (sic) significato pieno e luminoso alle solenni, ma assai compendiose ed implicite affermazioni che essa contiene dall’altra parte può sembrare che renda sempre più enigmatiche le domande ed insolubili i problemi che la chiudono. «Circa cento sono le opere che rimangono di lui, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca da lui fondata; trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d’antichità sacra e profana, di letteratura, d’arti e d’altro»113. — Credo di non farvi ingiuria114, Signori, supponendo che per più d’uno fra voi queste parole del Manzoni non hanno mai avuto un significato così chiaro e così preciso ed insieme così largo e grandioso come in questo momento. Ma non è probabilmente così, è forse, come accennavo, il contrario per quello che tien dietro. «E come mai tante opere sono dimenticate, o almeno così poco conosciute così poco ricercate? Come mai con tanto ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candore d’animo, con tant’altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore, questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che sono riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo anche da chi non le legge? Come mai tutte insieme, non sono bastate a procurare almeno col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi posteri?»115[.] — Non vi faccio certamente torto pensan[d]o che mai come adesso la domanda vi è sembrata ragionevole e la questione interessante, per usare le parole sempre così sobrie e discrete del nostro Autore116. || [f. 12r] Ed egli che già poco prima a propo-

110 Probabilmente

per «mano mano». Borromeo, Federigo cit., col. 1928; P. Prodi, Borromeo, Federico, in Diziona­ rio biografico degli Italiani, XIII, Roma 1971, pp. 33-42: 33-34. 112 Manzoni, I promessi sposi cit., XXII, pp. 367-375. 113 Manzoni, I promessi sposi cit., XXII, p. 375, rr. 398-402. Sul numero complessivo delle opere composte dal Borromeo, cfr. supra, nt. 94. 114 Anche qui riecheggiamento di Manzoni, I promessi sposi cit., XXII, p. 375, r. 395: «Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori (…)». 115 Manzoni, I promessi sposi cit., XXII, p. 375, rr. 403-413. Con l’omissione di poche parole. 116 «La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione molto interessante (…)», Manzoni, I promessi sposi cit., XXII, p. 375, rr. 414-415. 111 Casolini,

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sito dei difetti ed errori che sono nelle opere del Card. Fed.117 aveva osservato che la scusa del tempo che fu suo[,] quella scusa «così corrente e ricevuta… applicata così nuda ed alla cieca, non significa proprio nulla» — e solo può avere qualche valore ed anche molto «per certe cose e quando risulti dall’esame particolare dei fatti»118; pel fenomeno prospettato da quelle domande dice invece che «le ragioni si troverebbero con l’osservare molti fatti generali; e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più alti fenomeni simili». — «Ma sarebbero (soggiunge) molte e prolisse; e poi se non v’andassero a genio? Se vi facessero arricciare il naso?» — «Sicché (conchiuse) sarà meglio che riprendiamo il filo della storia e che, invece di cicalar più a lungo intorno a quest’uomo, andiamo a vederlo in azione…»119. Potete vedere nei Brani inediti (pp. 269-274)120 quali fossero le ragioni pensate dal Manzoni a spiegare il fenomeno. Sono dieci piene pagine che rivelano una volta di più la sua vasta dottrina ed il suo acume singolare: sono considerazioni di una mente che guarda gli uomini e le cose da punti di vista altissimi, una specie [di] elevata filosofia sullo svolgimento della cultura attraverso i secoli. Ma oso (sono già sotto l’accusa di qualche audacia ne’ miei rapporti con Manzoni!)121 oso dubitare che, almeno per quel che riguarda il caso del Card. Federico[,] quelle pagine finiscano di persuadere; e si direbbe che il Manzoni stesso stralciandole di sana pianta ed omettendole senza remissione mostri d’aver nutrito lo stesso dubbio, dubbio che già si rivela in quelle domande122: «e poi se non vi andassero a genio? Se vi facessero arricciare il naso?»[.] — Dico quelle pagine così come ci sono pervenute; forse solo un primo abbozzo messo giù a grandi linee da una mano maestra; ma non finite in tutti i particolari, sovratutto, non ricondotte ed applicate al caso ed alla persona che ne ha fornito l’occasione. Perché sfrondando 117 Anche in Guida sommaria cit., p. 13, Ratti aveva notato, realisticamente, che il card. Federico non si sottrasse interamente ai difetti del suo tempo. Cfr. Paredi, Storia dell’Ambro­ siana cit., p. 20. 118 Malgrado le virgolette, Ratti in realtà non cita alla lettera ma leggermente ritocca, adatta, inverte. Il testo manzoniano infatti recita: «(…) scusa che, per certe cose, e quando risulti dall’esame particolare de’ fatti, può avere qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla», Manzoni, I promessi sposi cit., XXII, p. 374, rr. 385-388. 119 Manzoni, I promessi sposi cit., XXII, p. 375, rr. 415-421. Con l’omissione di poche parole. 120 Brani inediti dei Promessi sposi, per cura di G. Sforza, I, Milano 19052 (Opere di Alessandro Manzoni, 2), pp. 269-274. 121 Il riferimento dovrebbe essere alle vicende legate alla pubblicazione di A. Ratti, La vita della «Signora di Monza» abbozzata per sommi capi dal Cardinale Federico Borromeo ed una lettera inedita della «Signora» al Cardinale, in Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scien­ ze e Lettere, 1912, ser. II, vol. XLV, fasc. XVIII, pp. 852-862. Per ristampe dello scritto, cfr. Galbiati, Pio XI cit., pp. 306-307. 122 A differenza di quanto sembra qui suggerire Ratti, l’omissione di Manzoni a proposito del Borromeo non dovette avere particolari motivi di contenuto (Luigi Russo ipotizzò che i tagli fossero avvenuti per «ragioni agiografiche»). In realtà dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi Manzoni soppresse sistematicamente «tutte le digressioni e dissertazioni del genere»; cfr. Manzoni, I promessi sposi, con il commento di P. Nardi, cit., p. 541, nt. sub 396.

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le generalità, riportandole ed applicando severamente agli scritti ed alla persona del Cardinale, leggendo tra linea e linea i facili sottintesi e tirando le conseguenze dal Manzoni soltanto indicate e preparate, ne balza fuori una ragione altrettanto semplice e persuasiva che attestata dagli scritti medesimi; una ragione che forse il Manzoni rifuggì || [f. 13r] dal formulare nettamente perché non gli parve necessario, fors’anche perché così formulata gli sembrò poco riverente al suo grande Cardinale e ciò — per quel delicato senso della misura che mai non l’abbandona, e per quella verecondia paterna ond’egli suole circondare le più belle creature del suo genio. E la ragione è questa[:] che il Cardinale Federico così grande, e in certe parti grandissimo, non ebbe tutte le grandezze; così geniale e (vedremo) vero genio in altro senso e in altro campo, non fu un vero e proprio genio, nel senso letterario e scientifico della parola; e così riccamente fornito di quasi tutte le doti che formano il grande scrittore, non ebbe quella singolarità di ingegno e di vocazione che porta irresistibilmente alcuni pochissimi, i sommi, ad elevarsi sulla moltitudine contemporanea, ad elevarla seco, od a staccarsi se occorra da essa — da essa compresi od incompresi — ammirati o vilipesi a loro non cale — tenendosi in comunicazione con un’altra età, con un (sic) altra società d’uomini; battendo nuove vie cercando e trovando cose nuove, perché scorti da una luce che gli altri non vedono[;] sono i filosofi, i letterati, gli scienziati di vero nome in tempo specificato e di genio. Al cardinale Federico (bisogna che io lo dica123 pel rispetto che devo alla verità, pel rispetto che dovremo a lui stesso) non mancò il genio né l’opera geniale ma fu d’altro genere e lo vedremo presto; ma egli non fu di quelli che or ora dicevo. Teologia, filosofia, lettere, lingue, scienze naturali, belle arti, tutto quanto a’ suoi tempi si poteva studiare e sapere tutto egli studiò e seppe a meraviglia, ma non fu quel che si dice un teologo, un filosofo, un letterato, uno scienziato[,] un artista di vocazione o di professione. — Di vocazione e di professione egli è stato per ben 36 anni vescovo e gran vescovo e di grande diocesi, che vuol dire la grande benedizione e l’elevazione unica di un gran popolo, benedizione ed elevazione più preziosa in tempi di inenarrabili miserie e depressione. Ma Egli è stato ed ha fatto anche altro di che la Pro Cultura gli deve e memoria e riconoscenza. A giudicarlo dai soli suoi scritti egli è stato un grande amatore e propagatore della cultura[.] Egli ha mostrato con l’esempio che alle cure più assorbenti della professione si può e si deve associare (a sollievo, a decoro, a sussidio) la cultura, e non una cultura qualsiasi, ma una cultura vasta, multiforme, organica; una cultura preparata con studi severi, raccolta e nutrita con lavoro continuo, diligente, come attestano non solo gli scritti passati in rassegna ma anche innumerevoli note, i molti libri di selve o estratti miscellanei della immensa lettura, i numerosi codicetti mnemonici124 che come poi Napoleon I sempre portava seco a pronto richiamo di cose più importanti e predilette. Di tale cultura, della vera, dell’alta cultura egli fu vero principe, da meritare di essere (salva la ragion dei tempi) preso e proposto come tipo rappresentativo dell’uomo colto, 123 Le parole «che io lo dica» sono state depennate; in questo modo, però, la frase all’interno della parentesi risulta monca. Si è dunque deciso di ripristinare nel testo le parole eliminate. 124 Per i codici mnemonici e i vari Repertoria, Selve e selezioni di testi, cfr. Appendice I. Opere manoscritte cit., p. 381, nrr. 188-195.

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propriamente e specificamente tale. Non è lo scienziato necessariamente confinato in una letteratura, in una scienza, in una lingua od al più in un gruppo di l. di s. di l.125, inviolabilmente astretto al rigore del metodo, dei termini[,] delle formole etc; ma l’uomo largamente e seriamente informato sopra un almeno discreto, possibilmente grande, sempre più gran numero di soggetti, nei vari rami dello scibile; cercando di bene intendere ed assimilare i risultati via via migliori dell’indagine scientifica e le loro applicazioni al miglioramento dell’individuo e della società, al progresso del bene, alla difesa della verità; avvicinandosi possibilmente alle fonti e valendosi delle opere di seria ed alta divulgazione o diciamo propaganda scientifica e letteraria; e di questa facendosi egli stesso idoneo strumento. — Così appunto il Cardinale Federico, che || [f. 14r] quando della miglior cultura al suo tempo concessa ebbe raccolto un immenso tesoro — come forse nessuno a’ suoi giorni — dando egli stesso alle stampe un buon numero de’ suoi scritti, di questo tesoro si fece egli stesso liberale divulgatore, distributore, promuovendo e diffondendo la buona cultura non solo con fare così che la sua stessa divenisse quella di molti, ma anche dandone a tutti e savie norme ed il pratico esempio, più efficace in tanta sua elevazione sociale e di sacra dignità. E questa sollecitudine per la diffusione della buona cultura lo accompagnò fino all’estremo della santa e laboriosissima vita; ed una delle sue ultime volontà e disposizioni era per la pubblicazione delle sue opere ancora inedite. Così che anche solo per la considerazione de suoi scritti si può e si deve dire che quel programma di totalità e di generalità[,] che la Pro Cultura ha scritto sulla sua bandiera, non solamente è stato il suo programma, ma anche che è stato da lui pienamente e luminosamente inteso e magnificamente eseguito. Ma è ormai tempo che anche noi andiamo a vederlo in azione; e dopo avere veduto nello specchio de suoi scritti quello che della cultura ha pensato ed il concetto che n’ha avuto, passiamo a vedere quello che egli ha più propriamente fatto ed operato. Giacché se pensare, scrivere, pubblicare è già molto fare ed operare e giustamente gli126 scritti d’un autore pubblicati si dicono le sue opere, il Cardinal Federico ha fatto ben più e meglio per la cultura (proprio Pro Cultura!); un’opera, che rimane la sua opera per eccellenza; un’opera proprio di quelle che da tutti sono reputate insigni e che almeno di titolo a tutti conosciute; un’opera ideata colla luminosa vastità del genio, eseguita colla splendida munificenza d’un sovrano; un’opera per la quale egli ha bensì molto anzi moltissimo pensato e scritto, ma che egli seppe altresì sustanziare in una istituzione vivente di vita propria, in un’istituz. destinata a sopravivergli, a traversare i secoli conservando[,] portando alle generazioni venture inestimabili tesori di cultura e di scienza: la sua Biblioteca, la sua Ambrosiana…127. || [f. 15r]128 Ho io bisogno di presentarvi l’Ambrosiana? Sento il grave torto, la grave ingiuria che farei ed a voi ed alla mia vecchia e cara amica. Ma che vi dirò per entra125 Con le tre iniziali Ratti certamente intende indicare, in forma abbreviata, i sostantivi appena elencati per esteso: quindi «in un gruppo di letterature di scienze di lingue». 126 Per lapsus, l’articolo viene ripetuto. 127 Nel margine inferiore del f. 14r, Ratti ha tracciato un duplice tratto orizzontale, piuttosto spesso, a matita verde: evidentemente per segnare l’inizio di un’altra sezione del testo, quella dedicata all’Ambrosiana. 128 Nell’angolo superiore sinistro del f. 15r, al di sopra dello stemma pontificio e dell’in-

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re subito in argomento, che sciegliere (sic) tra le infinite cose tutte, a mio credere, bellissime ed interessantissime che la dimestichezza di tanti anni mi suggerisce ed affolla nella mente — Dico scegliere129 anche per non abusare della vostra pazienza — ed anche perché è a notizia di tutti voi [che] il nostro Manzoni ne ha già parlato tanto bene e proprio scegliendo il meglio di quanto più mi gioverebbe ricordare all’intento mio; e son certo certissimo che rientrati nelle vostre case riprenderete in mano per la ennesima volta il libro immortale e lo riaprirete e rileggerete là sulla fine del capo 22; e guai a me, se poteste istituire un confronto tra quello che ivi si legge e quello che avessi detto io di mio! Non mi resta dunque che un partito ragionevole per quanto sembrerà ardito e spicciativo: quello di rileggere con voi quelle pagine così dense di notizie, di rilievi, di fini ed alte osservazioni. È quello che faccio — P.S.130 pp. 319-321131. Ed ora?132 A rigore, anzi pel vostro e mio meglio io potrei e dovrei dire: jam sata biberunt133, inchinarvi[,] rientrare nel mio silenzio e lasciarvi tranquillamente raccogliere in tanta messe di cose e di pensieri. Ma poiché l’orologio mi da (sic) ancora un momento di tempo e voi un resto di pazienza, farò quello che unicamente mi è lecito, procedere umilmente spigolando dietro il grande mietitore. La Cultura (l’avete udito or ora [?]) è nominata una sola volta e quasi di sfuggita, ma quanto luminosamente traspare dal tutto insieme e da ogni linea che siamo in presenza di una grande, immensa, inestimabile opera di cultura… Che dico un’opera? Un’elemosina, dice lui; la più grande, la più utile delle elemosine! E come ci è fatta sentire la preziosità e il beneficio immenso di questa elemosina di cultura in mezzo alla penuria intellettuale dell’epoca svelataci con que’ cenni così sobrii e così efficaci, così malinconici e tristi fra gli amari sorrisi della fine ironia… E rimane legittima e pienamente giustificata la lode di novità e di singolarità che il nostro Autore tributa al bel gesto, al gesto regalmente benefico del suo grande Cardinale. Se il Petrarca, se il Cardinal Bessarione, se il nostro arcivescovo Pizzolpasso avevano || [f. 16r] avuto ed espresso un intento di pubblica utilità legando i loro libri, quelli alla Marciana, questi al nostro Capitolo Metropolitano dal quale, (sia detto

testazione, Ratti ha tracciato un duplice tratto obliquo, con matita verde (la stessa utilizzata nel f. precedente e anche per segni di richiamo al f. 13r). 129 Nello spazio di poche righe Ratti utilizza due grafie diverse per lo stesso verbo: scie­ gliere / scegliere. 130 Abbreviazione per il titolo: Promessi Sposi. 131 L’indicazione delle pagine permette di identificare l’edizione utilizzata da Ratti: I pro­ messi sposi. Storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta da A. Manzoni, illustrati con 40 tavole tratte dai disegni originali di Gaetano Previati, e preceduti da uno studio sugli anni di noviziato poetico del Manzoni di M. Scherillo, Milano 1908 (Opere di Alessandro Manzoni, 1). Il brano letto va dalle parole «In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare» sino alle parole «la più parte de’ suoi», cfr. I promessi sposi cit. (come nt. 92), pp. 370-372, rr. 195-291. 132 Accanto alla riga, circa alla metà del f. 15r, Ratti ha vergato un tratto orizzontale di penna, leggermente ondulato: quasi a segnalare l’inizio di un’altra sezione del testo. 133 La frase virgiliana (Ecl. III, 111) recita: «Claudite iam rivos, pueri, sat prata biberunt» (ed. G. Ianell, Lipsiae 1930, p. 10). Si deve quindi pensare a un lapsus di Ratti.

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di passaggio)134 ricompravali per l’Ambrosiana il Card. Federico135, la costui opera e per le sue stesse proporzioni senza confronto maggiori e per la maggiore liberalità ed efficacia delle disposizioni da lui date rimane senza pari e si può dire senza emuli degni di considerazione. Ma che dire di quel dubbio che il Manzoni sembra sollevare «sugli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica»136? Il dubbio ci interessa da vicino, perché, come vedete, si tratta della cultura pubblica, proprio di quella alla quale la Pro Cultura si è dedicata. [Viene]137 dunque da dire innanzi tutto che il dubbio nell’A. non è che apparente; è evidente nelle sue stesse parole che egli crede che di buoni effetti ve ne sono stati veramente, se non miracolosi; solamente è per lui fuor di tempo e per lo scopo suo senza costrutto il cercarne e spiegarne la misura. Non è fuor di tempo né senza costrutto per noi e pel nostro scopo, né il farcene qualche idea sommaria è cosa di molta fatica. Basta riflettere che da ormai più di tre secoli l’Ambrosiana sta aperta al pubblico; che da più di tre secoli sono accessibili al pubblico i suoi immensi e svariati tesori di lettere, di scienze e d’arte; e che da più di tre secoli il pubblico secondando il nobilissimo invito viene all’Ambrosiana e ne fa suo pro. Non è, non è forse mai stato un pubblico molto numeroso, ma fedele, ma costante, ma rappresentante tutte le età, tutte le classi cittadine… Quanti sono ormai passati su quelle soglie; quanti in quel recinto così suggestivo, così saturo di scienza ed arte hanno trovato pascolo ed incremento alla loro cultura[,] alla loro educazione artistica? Dirlo con esattezza è impossibile; le provvide ed utilissime sollecitudini della statistica, sono si può dire di ieri e non per l’Ambrosiana soltanto; ma certamente furono sempre, come ancor sono, parecchie migliaia ogni anno; dopo trecento anni un popolo grande. Questo popolo, è vero, sarebbe molto più grande, indubbiamente, e senza confronto più grandi sarebbero stati e sarebbero gli effetti sulla pubblica comune coltura, se l’Ambrosiana fosse altro da quello che è e che una cotale necessità storica risultante di molte cause l’ha fatta essere: una biblioteca prevalentemente retrospettiva; ma non omnis fert omnia tellus138, ed anche di tali biblioteche (lo sanno gli studiosi) è sentita la necessità quanto benefica la presenza. Ed un’altra osservazione va fatta. L’Ambrosiana è ancora più prevalentemente una biblioteca da manoscritti e di questi essa è[,] per merito quasi totale del suo 134 Per

lapsus, Ratti ha mal collocato la parentesi d’apertura: (dal quale, sia detto di pas­ saggio) ricompravali (…). 135 Per l’acquisizione di manoscritti del Petrarca (attraverso la biblioteca visconteo-sforzesca) e di Francesco Pizolpasso, cfr. Paredi, Storia dell’Ambrosiana cit., p. 12; M. Rodella, Le raccolte manoscritte e i primi fondi librari, in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento cit., pp. 4588: 49-50, 54-64. Cfr. anche Guida sommaria cit., p. 15. 136 «Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica (…)», Manzoni, I promessi sposi cit., XXII, p. 372, rr. 277-278. 137 All’inizio della frase Ratti ha depennato una o più parole (la prima lettera sembra una D), che ora risultano illeggibili. Per dare un senso alla frase si inserisce una parola (sicuramente non è quella vergata da Ratti ma non dovrebbe tradire l’intenzione dell’autore). 138 Verg., Ecl. IV, 39; ed. G. Ianell, Lipsiae 1930, p. 10. Per quanto in corsivo nel testo di Ratti, la negazione non è virgiliana.

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fondatore[,] è a meraviglia ricca e come poche al mondo139. È dunque, mi dirà taluno, una biblioteca scientifica, una biblioteca destinata alle ricerche di prima mano, ai dotti e scienziati di professione, non una biblioteca di comune cultura; e già forse temete di vedere per altra via menomate le benemerenze del Cardinale Federico verso la cultura stessa propr. detta. Ma è verissimo il || [f. 17r] contrario e le sue benemerenze si rilevano di molto cresciute e con titolo nuovo alla vostra gratitudine. Perché, o Signori, se alla comune pubblica cultura sono di assoluta e continua necessità gli studi ed i libri di alta e sana divulgazione e di facile ma soda lettura, questi non possono alla lor volta nutrirsi e mantenersi all’altezza della loro missione senza gli studi ed i libri strettamente e specificamente scientifici; né d’altra parte la ricerca e la critica possono, come devono, sicuramente condursi e controllarsi, se non sian costantemente fatte risalire come alle loro pure sorgenti, alle grandi raccolte documentarie ed ai testi manoscritti. Scesi i fiumi al piano che essi fertilizzano e rendono ameno, si svolgono tranquilli e placidi fra le città e le borgate e suddividonsi in rivi e rivoli che portano dovunque ed a tutti freschezza ed energia di vita. Ma il segreto della loro benefica perennità è lassù[,] nelle selvagge e ghiacciate solitudini delle montagne altissime[,] accessibili e praticabili soltanto a pochi e ben addestrati; e sono questi pochi, sono gli alpinisti di professione e di vocazione quelli che hanno dischiuso alla folla le vie e i godimenti dell’alta montagna in una misura che sembrava impossibile a raggiungersi; è il cercatore solitario, lo scienziato silenzioso e meditabondo140, il poeta e il musicista di genio, che fa la scoperta di cui poi tutti parlano e godono, che accende l’idea che poi tutti illumina, che trova la strofa e le note che poi tutti ripetono. Le biblioteche scientifiche, le biblioteche di manoscritti sono le officine riservate a queste alte, feconde, benefiche ricerche: esse costituiscono per ciò stesso il primo e più prezioso e più necessario servigio che alla pubblica cultura si possa rendere; e questo servigio il Cardinale Federico le ha resa in una misura raggiunta da pochissimi da che mondo è mondo. In questo punto io sono veramente desolato (non pretendo lo siate anche voi) di non esser ancora al principio del tempo concessomi; mi sarebbe tanto facile e tanto gradito il darvi un’idea almeno compendiosa del contributo che l’Ambrosiana in tre secoli ha dato alle ricerche dei dotti di ogni paese non che d’Italia. Ma lasciatemi dire che gli studi biblici vi trovano un testo greco del V-VI sec.141 l’antico codice della vers. siriaca peshitto142[,]

139 L’Ambrosiana è per Ratti una biblioteca di manoscritti, esattamente come gli apparirà la Vaticana, cfr. P. Vian, Il Dipartimento Manoscritti, in Conoscere la Biblioteca Vaticana [catalogo della mostra «Conoscere la Biblioteca Vaticana. Una storia aperta al futuro», Braccio di Carlo Magno, 11 novembre 2010-31 gennaio 2011], a cura di A. M. Piazzoni – B. Jatta, Città del Vaticano 2010, pp. 33-34; id., Il Dipartimento dei Manoscritti, in La Biblioteca Aposto­ lica Vaticana luogo di ricerca al servizio degli studi. Atti del convegno, Roma, 11-13 novembre 2010, a cura di M. Buonocore – A. M. Piazzoni, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 468), pp. 351-394: 352 nt. 4. 140 Nell’originale, per lapsus, meditamondo. 141 A 147 inf. 142 B 21 inf.; B 21 bis inf. Cfr. Guida sommaria cit., p. 117.

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il del pari unico della siriaca esaplare143, un codice principale della vers. araba144 — e testi latino (sic) del V145; e il famoso canone muratoriano146 e l’unica reliquia delle Esaple di Origene147[.] — E la patrologia testi unici e primarii per più d’un padre148[.] — E la storia delle matematiche il matematico greco Bobbiese149 e altri moltissimi greci, arabi, latini,[.] E la storia dell’astronomia l’Albactani150 e l’arabo Alfarabi151[,] la Musica numerosi testi musicali gregoriani[.] — E la geografia tutto un tesoro di carte da navigare manoscritte, di testi d’ogni genere che il prof. Revelli152 tra poco rivelerà come parte già rivelarono o studiarono ­l’­Uzielli153, l’Errera154, il Kretschmar155, il Nordenskiöld156[.] — E gli studi celtici 143 C

313 inf. Cfr. Guida sommaria cit., p. 117. è piuttosto generica e non permette un’identificazione sicura e incontrovertibile. Anche con l’aiuto di Delio Proverbio, scriptor Orientalis della Biblioteca Vaticana, che ringrazio, l’attenzione si è concentrata su quattro manoscritti arabi ambrosiani, che potrebbero corrispondere al manoscritto indicato da Ratti: B 20 inf. A-B (Epistole paoline; Epistole cattoliche; Atti degli Apostoli; secc. XIII-XIV; O. Löfgren – R. Traini, Catalogue of the Arabic Manuscripts in the Biblioteca Ambrosiana, I: Antico fondo and Medio fondo, Vicenza 1975 [Fontes Ambrosiani, 51], pp. 3-4); C 47 inf. (Vangeli nella traduzione di Ibn al-Assal; an. 1280 A.D.; Löfgren – Traini, Catalogue, I, cit., pp. 6-7); C 58 inf. (il più antico manoscritto datato conosciuto in arabo dei Profeti; an. 1226 A.D.; Löfgren – Traini, Catalogue, I, cit., pp. 4-5); X 200 sup. (libri di Salomone; Giobbe, Siracide; secc. XI-XII; acquistato da Ratti nel 1910; Löfgren – Traini, Catalogue, I, cit., pp. 5-6). 145 Il riferimento dovrebbe essere genericamente a palinsesti biblici latini per i quali cfr. Codices Latini Antiquiores. A Palaeographical Guide to Latin Manuscripts prior to the Ninth Century, edited by E. A. Lowe, III: Italy: Ancona-Novara, Oxford 1938, pp. 11-29, nrr. 304-365. 146 Trascrizione e riproduzione fotografica del frammento muratoriano (I 101 sup.), all’interno del quale, ai ff. 10r-11r, il testo del «canone», in Paredi, Storia dell’Ambrosiana cit., pp. 116-123. 147 O 39 sup. 148 La Guida sommaria cit., p. 117, ricorda il palinsesto con frammenti antichi del poeta cristiano Sedulio. Ma numerosi manoscritti patristici altomedievali sono segnalati in Codices Latini Antiquiores, III, cit., pp. 11-29. 149 Il riferimento è al manoscritto L 99 sup., «‹Anthemii› Novum fragmentum mathematicum bobiense», Catalogus codicum Graecorum Bibliothecae Ambrosianae, digesserunt Ae. Martini – D. Bassi, II, Mediolani 1906, p. 593. 150 Come mi indica ancora Delio Proverbio, che ringrazio, Ratti deve qui riferirsi al testimone ambrosiano della traduzione latina di Platone di Tivoli della Scienza delle stelle di al-Battani (H 109 sup.). 151 C 40 inf., cfr. Löfgren – Traini, Catalogue of the Arabic Manuscripts cit., p. 70. 152 Paolo Revelli di Beaumont (1871-1956) aveva pubblicato a Pinerolo nel 1910 Mano­ scritti d’interesse geografico della Biblioteca Ambrosiana. Saggio di repertorio. Cfr. Galbiati, Pio XI cit., pp. 329, 330, 335. 153 Gustavo Uzielli (1839-1911). 154 Carlo Errera (1867-1936). 155 Paul Gustav Kretschmar (1865-1942), storico del diritto romano. 156 Otto Nordenskjöld (1869-1928), geologo, geografo ed esploratore svedese. 144 L’indicazione

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i due terzi dell’antico linguaggio celtirlandico157 — e i Germanistici un buon terzo del gotico di Wulfila158[.] — E gli studi classici il Plauto, il Terenzio, il Tibullo, il Cicerone159 come per i lirici greci, per gli storici, i tragici160 e la storia dell’arti il più antico testo illustrato[,] il maraviglioso Omero del 4° secolo161. Lasciatami (sic)162 ricordarvi che vi sono passati cercando e trovando — trovandovi spesso || [f. 18r] le più belle tra le loro scoperte, uomini come Ferrini e Mercati[,] Ceriani ed Ascoli, Mai e Muratori, Hänel e Mommsen163, Montfaucon et Mabillon, i Bollandisti e Pastor, Castiglioni e Uppstrom164 e cento altri ed il Manzoni stesso traeva dai cimeli dell’Ambrosiana pagine tra le più belle del suo belliss. libro e il già accennato gioiello dell’episodio della peste. Un’altra spigolatura… di tutt’altro genere; ma che ci mette in cara e forte armonia con la ricorrenza ieri celebrata: era il nostro Sant’Ambrogio; nome storico e fatidico per la patria nostra; per lunga (sic)165 volgere di secoli Sant’Ambrogio 157 Sui due manoscritti “irlandesi” (C 5 inf.; C 301 inf.), provenienti (come i “gotici”) dal monastero di Bobbio «che contengono gran parte dell’antico celtico», cfr. Guida sommaria cit., p. 117. 158 Sui manoscritti della traduzione di Ulfila della Bibbia (I 61 sup.; S 36 sup.; S 45 sup.), cfr. Guida sommaria cit., pp. 116-117; Paredi, Storia dell’Ambrosiana cit., p. 34. 159 Nella Guida sommaria cit., p. 117, sono ricordati palinsesti con frammenti antichi di Cicerone e del Truculentus di Plauto, quest’ultimo datato al IV secolo. 160 Numerosi sono i testi di autori classici greci presenti in Martini-Bassi, Catalogus codicum Graecorum, I-II, cit. 161 La celebre Ilias picta, F 205 inf. Cfr. Guida sommaria cit., pp. 118-119 (riproduzioni), 120. La sezione del testo che comprende le parole «Ma lasciatemi dire (…) maraviglioso Omero del 4° secolo» sono vergate sul f. 21r e inserite nel testo alla penultima riga del f. 17r con un segno di richiamo, corrispondente a quello che si trova in apertura dell’aggiunta (una sorta di cancelletto, in termini contemporanei). Al f. 21v sono notate alcune date del pontificato di Paolo V con provvedimenti, fra il 25 febbraio 1606 e il 14 marzo 1613, relativi a biblioteche. A differenza della scrittura del verso, quella del recto, con inchiostro diverso, è particolarmente corsiva e poco curata. 162 In un primo momento Ratti aveva sicuramente scritto «Devo contentarmi»; ha poi depennato le due parole e soprascritto nell’interlineo la forma verbale, che riprende quella utilizzata poco prima. 163 In realtà la congiunzione presenta la d eufonica (ed) perché in un primo momento Ratti aveva scritto «Mommsen ed Hänel», invertendo poi i cognomi, soprascrivendo su di essi i numeri 2 e 1 (l’uso dell’inversione dei termini coi numeri soprascritti è attestato anche altre volte). 164 La serie degli studiosi citati è significativa. Vengono citati, senza ordine apparente, nomi più e meno recenti (11 defunti, 2 viventi, un gruppo), in modo diverso legati all’Ambrosiana: Contardo Ferrini (1859-1902), Giovanni Mercati (1866-1957), Antonio M. Ceriani (1828-1907), Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), Angelo Mai (1782-1854), Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), Gustav Friedrich Hänel (1792-1878), Theodor Mommsen (1817-1903), Bernard de Montfaucon (1655-1741), Jean Mabillon (1632-1707), i Bollandisti, Ludwig von Pastor (1854-1928), Carlo Ottavio Castiglioni (1784-1849), Anders Uppström (1806-1865). 165 La desinenza femminile dell’aggettivo, che non concorda con il maschile «volgere», si spiega perché in un primo momento Ratti aveva scritto, dopo l’aggettivo, «stag», probabilmente per «stagione», depennando poi il termine, sostituto appunto da «volgere».

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volle dire Milano: Milano libera o anelante a libertà e combattente per essa; e Ambrosiana si166 nomò quella republica che dell’antica libertà doveva essere ultimo guizzo fugace167. Ed il Cardinale Federico chiamava Ambrosiana la sua biblioteca[,] quella biblioteca ch’egli apriva al pubblico, perché vi si istruisse, si redimesse dall’ignoranza complice di tutte le tirannie e coefficiente di tutte le servitù; e tal nome sceglieva e proclamava in piena dominazione Spagnuola168. Si capisce anche di qui come la città abbia sempre amato la sua Ambrosiana, e come questa in ogni più solenne e valido modo favorita e sostenuta dai Sommi Pontefici Romani[,] come i documenti attestano169, non conservi una sola traccia di favore ricevuto dai dominatori stranieri salvo quello di lasciarla vivere. Ma o di nuovo mi inganno od il grande Cardinale ci ammoniva che la nostra cultura non deve aspirare solo al contentamento di curiosità per quanto nobili o peggio a pascolo di vanità, sibbene alla formazione di cittadini più coscienti come dei loro diritti così dei loro doveri più illuminati e più saggi e per ciò stesso più idonei strumenti del pubblico bene. Egli, il magnanimo Cardinale, giunto al termine della Sua santa e gloriosa vita, volgendo il pensiero alla sua opera prediletta, pur constatando, confessando di non esser riescito ad eseguire se non una piccola parte del suo vasto programma, volgendo lo sguardo al mondo e all’Italia che ancora non esisteva, poteva rendersi e si rendeva la nobile testimonianza d’aver fatto «opera la cui utilità sarà perpetua et cosa tanto cara ancora alle esterne nazioni, non solo a Italia»170. Ed un’altra ancora: vi spira il mistico profumo della solennità odierna: l’Immacolata. In questo giorno sacro alla Vergine Madre il grande Cardinale volle inaugurare la sua biblioteca; alla Vergine Madre egli la commendava e dedicava; e disposando quel suo squisito senso d’arte con la sua ingenua pietà le sceglieva per insegna e numisma una delle || [f. 19r] più splendidi (sic) Madonne di Rafaello, la Madonna della Seggiola171. Non so perché 166 Nell’originale, «si si», forse spiegabile col fatto che il primo «si» era seguito da «recò», poi depennato (ma l’intera frase presentava originariamente un andamento diverso: «e la / quella republica Ambrosiana si recò […]»). 167 Per l’effimera vicenda della Repubblica Ambrosiana (1447), cfr. Storia di Milano, VII: L’età sforzesca dal 1450 al 1500, [Milano] 1956, pp. 4-5, 16, 23; XI: Il declino spagnolo (16301706), [Milano] 1958, pp. 234, 236, 237. 168 Anche in Guida sommaria cit., p. 14, Ratti si era soffermato sulla fondazione dell’Ambrosiana come reazione alle degenerazioni della cultura barocca e sulla scelta del nome, «da quello del santo più caro a Milano, suo patrono, suo grido di guerra e sua bandiera, in piena dominazione spagnuola». Cfr. anche supra, al f. 9r, il riferimento alle «abominazioni letterarie» del tempo di Federico. 169 Per interventi dei pontefici sugli Statuti, cfr. A. Annoni, Le Costituzioni e i regolamenti, in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento cit., pp. 149-184: 157, 169, 176. 170 Le parole, non riferite nei resoconti degli ultimi momenti del cardinale nelle biografie di Francesco Rivola e Biagio Guenzati, sono invece presenti negli Additamenta alle Constitu­ tiones Collegii ac Bibliothecae Ambrosianae, s.d. [ma 1630 ca.], S.P. 21 ter, p. 17. 171 La «Madonna della seggiola» è un dipinto a olio su tavola di Raffaello, databile agli anni 1513-1514 circa e conservato nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze; prende il nome dalla sedia “camerale” sulla quale è assisa la Madonna. Il riferimento potrebbe essere al distintivo che Borromeo consegnò ai dottori il giorno dell’inaugurazione della Biblioteca, di cui scrive Rodella, Fondazione e organizzazione della Biblioteca cit., p. 127.

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questo tratto mi richiama alla mente l’inciso di Manzoni che tra le qualità del grande scrittore novera il candore dell’animo172; e più vivamente e con più chiaro senso mi sovvengono le parole del sacro testo: In malevolam animam non intrabit sapientia neque habitabit in corpore subdito peccatis173. Ancora una osservazione[,] una spigolatura, ed ho finito. In molte pagine del nostro grande Cardinale traspare la luce d’una grande idea; vi passa la vampa di una grande aspirazione; idea ed aspirazione che si elevano sopra tutte le altre. È come un (sic) alta nobilissima ambizione che lo pervade e lo esalta, come si esaltavano i cavalieri d’un tempo[,] i crociati. Proprio così; è l’ambizione d’una crociata di nuovo e più nobile genere[,] la crociata della scienza in servigio della fede per la conversione degli eretici e degli infedeli, (e quasi presago di un avvenire che è il nostro presente) sovra tutto degli infedeli di quel primo e prossimo oriente, che ora così altamente e particolarmente interessa l’Italia. — La cultura come la scienza, come l’ignoranza, come la fame non sono né cattoliche ne (sic) protestanti, né cristiane né pagane, lo sappiamo tutti; sono di chi le ha; ma è certo che la nostra cultura non può proporsi come meta ultima una meta più nobile, che quella additata dal grande Cardinale, quella di poter servire alla causa di Dio e della Religione pel bene delle anime, siano pure le anime nostre le prime, e se avviene anche le sole. Il Cardinale Federico si174 propose queste altissime finalità, certamente senza deludere quelle minori, e puramente umane che quelle non sopprimono ne (sic) impediscono ma piuttosto agevolano et elevano. Quindi la compilaz. e la stampa del più grande diz. arabo tutto tratto da’ mss. Ambrosiani175[,] quindi la gram.176 o il diz. della lingua armena177 e poi della persiana178; e vicino a spegnersi il santo Cardinale osava dire e scrivere di aver colla sua Bibl. fatto opera che sarebbe stata «Gloria di Dio grandissima»179. Fu infatti e veramente bene detto (credo da Rugg. Bonghi) che manca qualche gran cosa a vera e somma grandezza dove manca la divinità180; e nelle sacre pagine Dio si chiama Signore delle scienze: 172 Manzoni,

I promessi sposi cit., XXII, p. 375, r. 407. 1, 4. 174 Nell’originale, «si si», spiegabile col fatto che il secondo «si» è in apertura di un’aggiunta di tre righe («si propose queste altissime finalità (…) Gloria di Dio grandissima»), nel margine inferiore del f. 19r, inserita nel testo con segno di richiamo e divisa dal testo che precede da un tratto orizzontale e ondulato. 175 A. Giggi, (…) sive Thesaurus linguae arabicae (…), Mediolani 1632; facsimile del frontespizio riprodotto in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento cit., p. 142. Cfr. Guida sommaria cit., p. 20. 176 F. Rivola, (…) Grammaticae armenae libri quattuor, Mediolani 1624; facsimile del frontespizio riprodotto in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento cit., p. 138. 177 F. Rivola, Dictionarium armeno-latinum auspiciis Federici Card. Borromaei (…), confectum, & editum, Mediolani 1621; facsimile del frontespizio riprodotto in Storia dell’Am­ brosiana. Il Seicento cit., p. 201. 178 Il riferimento potrebbe essere a un’altra opera del Giggi, rimasta manoscritta: Gaza Persica sive apparatus linguae Persicae, D 204 inf.; cfr. Galbiati, L’orientalistica nei primi decenni cit., p. 116. 179 Cfr. supra, nt. 170. 180 Non ho ancora identificato il passo citato, la cui attribuzione da parte di Ratti non è 173 Sap

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Deus scientiarum Dominus181. E non meno veramente ed argutamente disse Leibnitz parlando di certa scienza in confronto della pura e schietta scienza: La cavalleria || [f. 20r] leggera passa davanti all’altare caracollando, fingendo di non vederlo ed anche voltandogli le spalle; la cavalleria pesante, gambe alla sua altezza, marca il passo, si volge sugli arcioni e saluta con riverenza182. «Perché anche la scienza non basta né a tutto, né a se (sic) né allo scibile: perché è di queste vette (?) eterne onde morte a vita si alterna quanto comprende il guardo?, e d’altri firmamenti scende la luce che scioglie del creato il mistero e ci posa nel vero»183! E nessun più alto e benefico godimento per uno spirito immortale che vedere[,] in luce mano mano sempre crescente come quella del sole che monta all’orizzonte[,] vedere dico le profonde armonie che avvincono scienza e fede, ragione e rivelazione anche là dove le prime apparenze sembrano annunciare antinomie e contraste (sic); e constatare come passate le prime sorprese e le agitazioni causate da scoperte che sembravano prima incredibili e poi iconciliabili (sic) con quanto pareva più certo, constatare dico che nessuna delle verità veramente accertate sia dalla ragione o sia dalla fede ha perduto le sue posizioni; constatare alla luce della storia e dei suoi risultati certi che sulle grandi vie della religione e della rivelazione talvolta viene[,] come deve, spegnendosi qualche piccolo lume acceso dagli uomini, i grandi fari accesi dalla mano [di] Dio [vengono]184 splendendo agli uomini di buona volontà di una luce sempre più viva; e che contrasto vero ed insanabile in fine non resta se non là dove comunque certa. Ma nette affermazioni sull’ineliminabilità del senso religioso dalla coscienza e dalla società si trovano, per esempio, in un intervento del 1886, R. Bonghi, Religione, clericalismo e scuole, in id., Programmi politici e partiti, a cura di G. Gentile, Firenze 1933 (Opere di Ruggero Bonghi, 1), pp. 383-394: «Dio non si caccia dal mondo, no. Dio non si caccia dall’umana coscienza, poiché è quello che vi ha di più profondo nella coscienza stessa. (…) Questo è Dio, ed esso si alza nella vostra coscienza e vi segna la via. E se voi poteste cacciare dalla umana società questo Dio, che vi segue dovunque, un immenso buio vi avvolgerebbe, e invano cerchereste di uscirne in cerca di luce» (pp. 385-386). 181 1 Sam 2, 3. Titolo della costituzione apostolica con la quale, il 24 maggio 1931, Pio XI riordinò gli studi ecclesiastici superiori. 182 Non ho ancora identificato il passo citato. Nulla in Pensées de Leibnitz sur la religion et la morale recueillies par M. Emery (…) et suivies du système théologique de Leibnitz traduit par le prince A. de Broglie, Tours 18802. L’omaggio del cavaliere all’altare è immagine frequente. 183 La citazione potrebbe essere composita, cioè alimentata da fonti diverse, e, come verificato altre volte, imprecisa o, meglio, adattata da Ratti che probabilmente cita a memoria e quindi leggermente altera e modifica secondo le sue esigenze. La sua ultima parte (la prima rimane da identificare) riprende, modificandoli, alcuni versi di Per l’albo d’una cieca di Giacomo Zanella: «Di questa fuga eterna / onde per cerchio immenso / Morte a vita si alterna, / Quanto comprende il senso? Non siam noi che all’ignoto / Porgiamo colore e moto? / Veggenti e non veggenti / Unica notte involve; / E d’altri firmamenti / Esce l’alba, che solve / Del creato il mistero / E ci posa nel vero», G. Zanella, Poesie, Firenze 18773, pp. 79-83: 83; cfr. anche A. Zardo, Giacomo Zanella nella vita e nelle opere, Firenze 1905, p. 118. Ringrazio Elisabetta Deriu per l’identificazione del passo. 184 Le due parole fra parentesi quadre, «di» e «vengono», sono parzialmente integrate perché nel punto il f. 20 presenta alcune, piccole lacerazioni, quasi in coincidenza con la piegatura orizzontale del foglio.

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l’ignoranza umana ha dato nome di scienza e di dogma a quella che scienza vera e vero dogma non era. Ho finito: vi ho promesso che nel pensiero e nell’opera del Card. Fed. avreste della cultura veduto rispecchiarsi ed esprimersi pieno concetto, le alte finalità, le genuine sorgenti, le leggi supreme. Credo di avere per quanto poveramente mantenuta la promessa, ed ora sia anche il gran nome del Cardinale Federico[,] di questo grande Signore della cultura e di cult. mecenate di genio[,] nuovo e felicissimo augurio, nuovo, sicurissimo auspicio di onorato e fecondo avvenire alla Pro Cultura, che da questa nuova più ampia fede sembra gridare a tutti gli amici del vero: dilatentur spatia veritatis185; o di nuovo col poeta: a luce, a luce — a più ampia luce fate luogo — a luce186. —

4. L’irradiamento sociale di una biblioteca specialistica Nella loro inevitabile sommarietà, i due resoconti noti del discorso, del Corriere della sera all’indomani dello svolgimento della conferenza e di Galbiati nel 1939, non riflettono la bellezza e l’organicità dell’intervento di Ratti. Il testo è chiaramente suddiviso in due parti: nella prima, che comprende i primi quattordici ff. dell’autografo, il protagonista è il cardinale Federico e il concetto di cultura come si esprime nei suoi scritti, a stampa e manoscritti; nella seconda parte (gli ultimi sei ff.), al centro è invece la sua creatura più amata, la Biblioteca Ambrosiana, la realizzazione pratica del concetto federiciano di cultura, il vertice più alto e concreto dell’opera di promozione della cultura, di «miglioramento umano», svolta dal Borromeo. A proposito del primo soggetto del discorso, il cardinal Federico, la considerazione di ammirazione non è mai agiografica ma, nella linea della guida manzoniana, sempre intelligente187. Il Borromeo, «così grande, e in certe parti grandissimo, non ebbe tutte le grandezze; così geniale e (…) vero genio in altro senso e in altro campo, non fu un vero e proprio genio, nel senso letterario e scientifico della parola». Perché Federico, agli occhi di Ratti, è soprattutto ed essenzialmente un vescovo, «di vocazione e di professione», «per ben 36 anni», «e gran vescovo e di grande diocesi». Ma, a differenza di altri, è stato un pastore che ha sentito la promozione della cultura come parte integrante della sua missione di pastore. Per tale fine 185 Leggera

modifica di espressione di Agostino: «Dilatentur spatia caritatis» (Serm. 69, 1); ed. P.-P. Verbraken, Turnhout 2008 (Corpus Christianorum. Series Latina, 41Aa), p. 460. 186 La citazione è ripetuta, ma non ne ho ancora individuato l’origine. Cfr. supra, nt. 25. Il termine «poeta», qui utilizzato, al f. 5r era stato riferito a Foscolo. 187 Si confronti con quanto Ratti aveva scritto nel 1907 in Guida sommaria cit., pp. 1320. Ibid., p. 13, aveva affermato che «nessuno meglio del nostro Manzoni nei Promessi Sposi (c. XXII segg.)» aveva scritto del cardinale. Sul rapporto Borromeo-Manzoni, cfr. Paredi, Storia dell’Ambrosiana cit., pp. 38-39.

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scrisse tante opere, ma soprattutto con questo obiettivo lasciò ai posteri la sua opera principale, la Biblioteca Ambrosiana. Se qui la trattazione esperta di Ratti tradisce per un attimo l’affetto di una consuetudine venticinquennale, arrivando al punto di definire la Biblioteca la «mia vecchia e cara amica», subito si riprende e s’innalza a una valutazione più elevata e ancora una volta «intelligente»: nei suoi tre secoli di storia, aprendo le porte a innumerevoli frequentatori (un «popolo grande»), l’Ambrosiana ha corrisposto al progetto del cardinale, ha irradiato cultura nella città. Subito dopo averlo affermato il prefetto dell’Ambrosiana avverte però che la sua biblioteca non è come le altre, perché presenta le caratteristiche di essere «retrospettiva» e «da manoscritti». Come conciliare, allora, l’affermata e voluta funzione sociale della Biblioteca (gli effetti «sulla coltura pubblica»), con la sua prerogativa di essere inevitabilmente per pochi, non una «public library» anglosassone ma una biblioteca per specialisti? A questo punto il vecchio alpinista, che ha esordito con l’arguta immagine dei bibliotecari come «silenzieri» (non conferenzieri) delle biblioteche, perché simili ai pastori abituati alle grandi altezze e ai sublimi paesaggi parlano poco, ricorre a un’altra similitudine tratta dalle escursioni in montagna. L’Ambrosiana gli appare così come una di quelle sorgenti, accessibili a pochi ma che pure alimentano i fiumi, che nel loro corso irrigano largamente la pianura: beneficano molti ma conservano il segreto della loro purezza, della loro benefica perennità «lassù nelle selvagge e ghiacciate solitudini delle montagne altissime accessibili e praticabili soltanto a pochi e ben addestrati; e sono questi pochi, sono gli alpinisti di professione e di vocazione quelli che hanno dischiuso alla folla le vie e i godimenti dell’alta montagna in una misura che sembrava impossibile a raggiungersi; è il cercatore solitario, lo scienziato silenzioso e meditabondo, il poeta e il musicista di genio, che fa la scoperta di cui poi tutti parlano e godono, che accende l’idea che poi tutti illumina, che trova la strofa e le note che poi tutti ripetono. Le biblioteche scientifiche, le biblioteche di manoscritti sono le officine riservate a queste alte, feconde, benefiche ricerche: esse costituiscono per ciò stesso il primo e più prezioso e più necessario servigio che alla pubblica cultura si possa rendere». In questo modo Ratti congiunse la specificità dell’Ambrosiana, biblioteca specialistica, con il suo irradiamento sociale. Nella Vaticana che si apprestava pleno iure a governare mancò per comprensibili motivi un rapporto profondo con la città; fu però accentuato il carattere di luogo accessibile a pochi ma per il beneficio di molti. Tale identità il prefetto Ratti cercò di alimentare e consolidare nei difficili anni della sua prefettura, coinciden-

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IL COMMIATO DI ACHILLE RATTI DALLA BIBLIOTECA AMBROSIANA



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ti con la grande guerra che travolse un mondo188. Ma a tale sua estrema esperienza di bibliotecario si avvicinò con questo concetto di biblioteca, espresso mirabilmente nel discorso dell’8 dicembre 1913: presidio di libertà, baluardo di conoscenza contro l’ignoranza, luogo di luce contro le tenebre dell’oscurantismo (si noterà l’insistenza sul tema della «luce», termine che nel testo compare venticinque volte). Il discorso milanese dell’8 dicembre 1913 appare così il manifesto di un lombardissimo illuminista cristiano, del quale colpisce la convinzione che ragione e fede, in quanto espressione di un’unica Verità, non possono essere in contraddizione «e che contrasto vero e insanabile in fine non resta se non là dove l’ignoranza umana ha dato nome di scienza e di dogma a quella che scienza vera e vero dogma non era». Con queste certezze, con l’equilibrio e la moderazione che furono stigma del suo carattere, Achille Ratti, il discepolo di Antonio Ceriani, l’amico di Giovanni Mercati e di tanti altri eruditi studiosi e ricercatori della verità, attraversò gli anni difficili e dolorosi del modernismo e dell’anti-modernismo; con queste certezze Pio XI avrebbe affrontato la difficile stagione del post-modernismo.

188 P.

Vian, «Una cambiale scontata prima di presentarsi ufficialmente allo sportello?». Achille Ratti prefetto della Biblioteca Vaticana (1914-1918), in Miscellanea Bibliothecae Aposto­ licae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 469), pp. 801-870; id., Il diario di Achille Ratti viceprefetto e prefetto della Biblioteca Vaticana (13 ottobre 1913-8 aprile 1918), ibid., XXIII, Città del Vaticano 2017 (Studi e testi, 516), pp. 673-724.

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INDICE DEI MANOSCRITTI, DEGLI STAMPATI, DEGLI OGGETTI D’ARTE E D’INTERESSE STORICO La varietà della documentazione citata nella presente pubblicazione ha suggerito la compi­ lazione di un indice unitario.

Athina, Βυζαντινό και Χριστιανικό Μουσείο inv. nr. ΒΧΜ 1565 135 nt. 69

–, Γεννάδειος Βιβλιοθήκη B/BG 407.33

136 nt. 72

  (= fondo Doris Papastratu),   nr. 526 (= DPA-0466)

127 nt. 53

Συλλογή Ντόρης Παπαστράτου

–, Εθνική Βιβλιοθήκη της Ελλάδος ΘΕΟΛ-2741-Η 128 nt. 54 Athos, Μονὴ Ἁγίου Παντελεήμονος gr. 769

118

–, Μονὴ Μεγίστης Λαύρας Β.32 134 nt. 68, 139, 140, 141 Berkeley, University of California, Ban­ croft Library, Special Collections 130 437 nt. 16 Berlin, Staatsbibliothek Lat. qu. 563 Phillips 1676

95 nt. 43 435 nt. 9

Bucure‹ti, Biblioteca Academiei Române slav. 307 580 nt. 25 Cambridge, University Library Add. 565 65 nt. 30, 74 nt. 77 –, The Fitzwilliam Museum MS 147

449, 450

Città del Vaticano, Archivio Apostolico Va­ ticano Carte Pio XI, b. 2, fasc. 7 601 Misc. Arm. XI, 93 69 nt. 50 Segr. Stato, 1885 rubr. 47, fasc. unico   539 Segr. Stato, 1866 rubr. 47 535 Segr. Stato, 1930 rubr. 240, fasc. 3 295

–, Biblioteca Apostolica Vaticana Arch. Bibl. 11 66 nt. 37 Arch. Bibl. 70 438 nt. 19 Arch. Bibl. 72 438 nt. 19 Arch. Bibl. 73 438 nt. 19 Arch. Bibl. 115 443 nt. 37, 542 nt. 46 Arch. Bibl. 115A 540 nt. 40, 544 nt. 42 Arch. Bibl. 143 537 nt. 20 Arch. Bibl. 162 544 nt. 54 Arch. Bibl. 163 540 nt. 39 Arch. Bibl. 164A 542 nt. 45 Arch. Bibl. 205 525 ntt. 51, 54 Arch. Bibl. 222, pt. A 527 nt. 54 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 1 (1763-1860) 535, 536 ntt. 12, 13, 14 Arch. Bibl, Ammissione allo studio 2, pt. 1 (1861-1870) 535 ntt. 7, 9, 10, 536 nt. 11 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 2, pt. 2 (1871-1889) 536 ntt. 15, 16, 17 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 3, pt. 2 (1883-1885) 539 nt. 32 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 6 (1892-1894) 540 nt. 33 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 7 (1895-1896) 540 ntt. 34, 37 Arch. Bibl. Ammissione allo studio 8 (1897-1900) 541 nt. 44 Arch. Bibl. Registro degli Studiosi (1907-1915) 543 nt. 48 Arch. Cap. S. Pietro B.46 370 e ntt. 17, 19, 440, 441, 463, 464 Arch. Cap. S. Pietro B.63 457, 458, 463, 464, 465, 478 tav. XIII Arch. Cap. S. Pietro B.82 444, 445, 463, 464

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indice dei manoscritti, degli stampati,

Arch. Cap. S. Pietro D.168 440 nt. 18 Arch. Cap. S. Pietro I.16 462, 463, 464, 465 Barb. lat. 26 97 Barb. lat. 599 440, 463, 464 Barb. lat. 610 460, 461, 463, 464, 465, 480 tav. XV Barb. lat. 883 341, 347 nt. 149 Barb. lat. 4760 315 nt. 20 Chig. D.IV.55 448, 450, 463, 464 Chig. I.IV.146 20 Chig. R.VIII.54 (olim   Chig. gr. 45) 70 nt. 54, 496 e nt. 35, 499, 501, 502 Cicognara IV.1849bis 192 nt. 17, 193 fig. 8, 206 nt. 38, 207 fig. 17 Cicognara IV.2109 obl. 182 e nt. 8, 183 (fig. 2) Cicognara IV.2073 (int. 1) 210 nt. 43, 211 fig. 19 Cicognara VI.3609 204 fig.16 e nt. 33 Cicognara VII.2119a 202 (fig. 14) Disegni Generali 368 291 nt. 48 Disegni Generali 602 281 e nt. 2, 298 (tav. II) Inc. II.140 99 e fig. 12, 100 e fig. 13, 101 (fig. 14) Inc. III.81 412 nt. 6 Inc. S.248 462 Mt. It. Milano, 27 271 Mt. It. Milano, 28 271 (fig.) Mt. It. Milano, 35 272 (fig.) Mt. It. Milano, 40 273 (fig.) Mt. It. Milano, 76 274 (fig.) Mt. It. Milano, 97 275 (fig.) Mt. It. Milano, 98 275 Mt. It. Milano, 99 276 Mt. It. Milano, 108 276 (fig.) Mt. It. Milano, 112 277 (fig.) O.A. 667 281 e nt. 2, 298 (tav. II) Ott. gr. 3 77 e nt. 89 Ott. gr. 23 70 nt. 53 Ott. gr. 34 73 nt. 74 Ott. gr. 40 69 nt. 51, 73 nt. 74 Ott. gr. 47 71 Ott. gr. 270 71, 72 Ott. gr. 379 72 Ott. gr. 424 86 e ntt. 18, 19

Pal. lat. 24 517, 518 e nt. 26, 519, 521, 522 e ntt. 38, 39, 523 nt. 42, 530 (tav. I), 531 (tav. II) Pal. lat. 565 455, 463, 476 tav. XI Pal. lat. 1993 456, 463, 477 tav. XII Pal. gr. 100 413 nt. 8 Pal. gr. 431 496 e nt. 34, 499, 500 Perg. Patetta, b. 2, n. 2 26 Reg. lat. 2077 523 nt. 41 R.G. Fotografie, b. 23 290 nt. 41 R.G. Fotografie, b. 24 291 nt. 43 R.G. Fotografie, b. 29 292 e nt. 54, 293 e ntt. 56, 59, 294 e nt. 62, 296 e nt. 73, 309 (tav. XIV) R.G. Fotografie, b. 81 293 e nt. 58 R.G. Fotografie, b. 100 292 nt. 50 R.G. Fotografie, b. 577 291 nt. 48 R.G. Fotografie, b. 610 284 e ntt. 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 287 e nt. 25, 19, 20, 292 (tav. II), 293 (tavv. III, IV), 301 (tavv. V, VI), 302 (tav. VII), 303 (tav. VIII), 304 (tav. IX) R.G. Fotografie, Folio V.213 290 e nt. 37, 306 (tav. XIA), 307 (tav. XIB) R.G. Fotografie, obl. 51 291 nt. 44 R.G. Fotografie, obl. I.22 295 e nt. 67 R.G. Fotografie, obl. I.62 291 nt. 48 R.G. Fotografie, obl. I.63, II 291 nt. 48 R.G. Fotografie, obl. I.352 289 e nt. 35 R.G. Fotografie, obl. I.428 280 ntt. 60, 61, 309 (tav. XIII) R.G. Fotografie, obl. I.432 292 e nt. 54 R.G. Fotografie, obl. I.433 292 e nt. 54 R.G. Fotografie, obl. I.452 291 nt. 48 R.G. Fotografie, obl. I.453 291 nt. 48 R.G. Fotografie, obl. I.458 296 e nt. 71 R.G. Fotografie, obl. I.480 290 nt. 40 R.G. Fotografie, obl. I.481 290 nt. 40 R.G. Fotografie, obl. I.561 292 e nt. 54 R.G. Fotografie, obl. I.595 292 e nt. 54 R.G. Fotografie, obl. I.602 291 nt. 44, 292 e nt. 54 R.G. Fotografie, obl. I.1005 295 e nt. 70, 310 (tav. XV) R.G. Liturg. I.100 196 (fig. X), 197 nt. 26 R.G. Liturg. II.187 180 figg. 1a-b R.G. Liturg. III.270 (int. 13) 135 nt. 69 R.G. Liturg. III.271 (int. 4) 127 nt. 53

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degli oggetti d’arte e d’interesse storico

R.G. Teol. S. 50 374 nt. 35 Ross. 93 448 e nt. 54, 450, 463, 464 Ross. 1023 413 nt. 8 Sbath 767 561, 563, 565 Stampe I.214 189 fig. 6 Stampe II.201 287 e nt. 26, 305 (tav. X) Stampe III.57 208 fig. 13a, 210 ntt. 40, 41 Stampe III.288 290 nt. 40 Stampe V.77 184 fig. 3, 187 nt. 12 Stampe V.84 194 fig. 9 Stampe V.106 197 fig. 11, 199 fig. 12, 203 fig. 15 Stampe V.141 200 fig. 13 Urb. gr. 111 417 nt. 23 Urb. lat. 10 XI, 90 nt. 27, 92 e nt. 32, 94 Urb. lat. 41 443, 463, 464, 470 (tav. V) Urb. lat. 112 447, 460, 463, 464, 465, 472 (tav. VII) Urb. lat. 151 90 nt. 27 Urb. lat. 229 82, 83 nt. 14, 85 e fig. 3, 86, 87 e fig. 4 Urb. lat. 324 90 nt. 27 Urb. lat. 326 86 nt. 22 Urb. lat. 336 90 nt. 27 Urb. lat. 338 80 nt. 5 Urb. lat. 350 90 nt. 27 Urb. lat. 351 86 nt. 22 Urb. lat. 365 XI, 90 e nt. 27, 92 Urb. lat. 368 86 nt. 22 Urb. lat. 392 90 nt. 27, 95 nt. 41 Urb. lat. 410 95 nt. 43 Urb. lat. 419 86 nt. 22 Urb. lat. 420 86 nt. 22 Urb. lat. 427 90 nt. 27 Urb. lat. 460 95 nt. 43 Urb. lat. 548 XI, 79, 87, 88 figg. 6-7, 89 e fig. 8, 90 e nt. 25, 92, 93, 94, 97 Urb. lat. 646 82, 87 e fig. 5 Urb. lat. 701 95 nt. 43 Urb. lat. 702 98 Urb. lat. 884 98 Urb. lat. 885 82, 83 nt. 14, 84 e fig. 1 Urb. lat. 1182 95 nt. 43 Urb. lat. 1193 86 nt. 22 Urb. lat. 1200 97 nt. 48 Urb. lat. 1260 99 Urb. lat. 1324 86 nt. 22 Urb. lat. 1388 83 nt. 14 Urb. lat. 1430 82, 84, 85 e figg. 2 e 3,

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90 nt. 24, 100 Urb. lat. 1761 83 e nt. 15, 94 nt. 38 Vat. arm. 15 191 (fig. 7) Vat. ebr. 437 560, 561, 562, 563 Vat. ebr. 509 560, 561, 562, 563, 564, 571 Vat. gr. 73 517 e nt. 23, 522 nt. 41, 523 Vat. gr. 172 577 Vat. gr. 327 413 nt. 8 Vat. gr. 438 67 nt. 37 Vat. gr. 771 163 Vat. gr. 722 575, 576 Vat. gr. 727 67 nt. 37 Vat. gr. 749 XIX, 586 Vat. gr. 789 575, 576 Vat. gr. 807 110 nt. 8 Vat. gr. 808 110 nt. 8 Vat. gr. 1156 454 e nt. 72, 463, 465, 475 (tav. X) Vat. gr. 1209 (Codex Vaticanus) 484, 485, 486, 487, 490, 492, 495, 496 e nt. 33, 497, 498, 499, 504, 513 Vat. gr. 1574 320 nt. 38 Vat. gr. 1613 434 nt. 5, 452, 453, 463, 465, 474 (tav. IX) Vat. gr. 1666 491 Vat. gr. 1677-1678 69 nt. 52 Vat. gr. 1700 XIX, 575-580 Vat. gr. 1862 323 Vat. gr. 1890 319, 320, 321, 322, 323, 344, 362 (tav. II) Vat. gr. 1896 322, 345, 348, 349, 351, 352, 364 (tav. IV), 365 (tav. V) Vat. gr. 1898 323 Vat. gr. 1902 319 n. 37, 320, 323, 325 nt. 52, 344, 363 (tav. III) Vat. gr. 1949 323 Vat. gr. 2019 513 nt. 8 Vat. gr. 2061, pt. A 505 Vat. gr. 2063 513 nt. 8 Vat. gr. 2124 62 nt. 15, 319, 321, 343, 363 (tav. I) Vat. gr. 2125 (Codex Marchalia­ nus) 490, 495, 496, 497 e nt. 36, 499, 501, 503, 504, 507 Vat. gr. 2131 70 nt. 54 Vat. gr. 2305 493 Vat. gr. 2307-2321 116

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indice dei manoscritti, degli stampati,

Vat. gr. 2309 XI, 103, 116, 117, 118, 122, 132, 136, 142 Vat. gr. 2337 116 Vat. lat. 82 404 Vat. lat. 268 401, 402 Vat. lat. 264 368, 372 e ntt. 26, 28, 385 Vat. lat. 268 401, 402, 434 e nt. 5, 436, 464, 465, 466 (tav. I) Vat. lat. 269 368 e nt. 6 Vat. lat. 270 372 e nt. 24 Vat. lat. 275 391, 401, 450, 451, 464, 473 (tav. VIII) Vat. lat. 281 401, 402, 451 Vat. lat. 280 368 e nt. 7 Vat. lat. 285 371 e nt. 23 Vat. lat. 286 368 Vat. lat. 290 441, 463, 464 Vat. lat. 314 368 e nt. 8 Vat. lat. 475 387 e nt. 65 Vat. lat. 1610 541 nt. 42 Vat. lat. 1790 95 e nt. 43, 96 e fig. 9 Vat. lat. 1960 452, 463, 465 Vat. lat. 2260 462, 463, 464, 465, 481 (tav. XVI) Vat. lat. 2863 97 e fig. 11 Vat. lat. 3196 503 Vat. lat. 3198 503 Vat. lat. 3550, pt. 1 458, 464, 465, 479 (tav. XIV) Vat. lat. 3550, pt. 3 458 Vat. lat. 3563 96 e fig. 10 Vat. lat. 4223 XIV, 367-388 Vat. lat. 5236 XIII, 236, 238, 239, 240, 241, 246, 248, 252, 254, 257 Vat. lat. 5237 252 e nt. 13, 253 nt. 19 Vat. lat. 5750 XVII, 522 nt. 41, 524, 525 e nt. 12, 526, 527 Vat. lat. 5757 525, 528 Vat. lat. 5763 516 e nt. 20 Vat. lat. 6163 72 ntt. 62, 65 e 67, 73 nt. 74, 77 nt. 89 Vat. lat. 6177 61 nt. 8, 66 nt. 36, 67 nt. 38, 69 nt. 53, 70 ntt. 56-57, 73 ntt. 72-73, 312 nt. 4, 329 nt. 68, 347 nt. 149 Vat. lat. 6178 60 nt. 6, 61 nt. 7, 66 ntt. 33, 35, 73 nt. 75 Vat. lat. 6416 XI, 61, 63 nt. 20, 78

Vat. lat. 6181 316 nt. 23 Vat. lat. 6183 316 nt. 23 Vat. lat. 6184 316 ntt. 23, 25 Vat. lat. 6186 316 nt. 22 Vat. lat. 6189 316 nt. 25 Vat. lat. 6259 449 nt. 56 Vat. lat. 6450 439 Vat. lat. 6451 439, 463, 464, 468 (tav. III) Vat. lat. 6452 439 Vat. lat. 6946 312 nt. 5 Vat. lat. 7122 517 nt. 24 Vat. lat. 8185 77 nt. 89 Vat. lat. 8541 396, 434 nt. 5, 437, 438, 463, 464, 465, 467 (tav. II) Vat. lat. 9063 94 nt. 39 Vat. lat. 9236 445, 446, 463, 464, 471 (tav. VI) Vat. lat. 9276 264 nt. 49 Vat. lat. 9535 516 nt. 20, 522 nt. 38 Vat. lat. 9544 517 nt. 23 Vat. lat. 9586 523 Vat. lat. 10163 522 nt. 38 Vat. lat. 11483 416 Vat. lat. 13236 68 nt. 45 Vat. lat. 13394 441 e nt. 30, 442 e nt. 33, 443, 463, 464, 468 (tav. IVa), 469 (tav. IVb) Vat. lat. 14649 537 nt. 23, 538 Vat. lat. 15349, pt. 1 (già Sala   Cons. Mss. 312 rosso) 438 nt. 20 Vat. lat. 15349, pt. 5 (già Sala   Cons. Mss. 312 rosso) 349 nt. 31 Vat. Sir. 104 560, 561, 562, 563, 564, 570 Vat. Turc. 63 560, 561, 563, 569 Vat. Turc. 96 560, 561, 562, 563, 572 –, Musei Vaticani inv. 40093

135 nt. 69

El Escorial, Biblioteca del Real Monasterio de S. Lorenzo ms. T. II. 3 60 nt. 3 Firenze, Archivio di Stato Carte Cervini 20

68 nt. 44

–, Biblioteca Medicea Laurenziana Acquisti e doni 139 371 Plut. 53.10 95 nt. 43 Ricc. 45 331 n. 80

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degli oggetti d’arte e d’interesse storico

San Marco 507 San Marco 510 San Marco 511 San Marco 515 San Marco 516 San Marco 519 San Marco 520

371 371 371 371 371 371 371

–, Biblioteca Nazionale Centrale Conv. Soppr. 39 Conv. Soppr. 152

72, 74 513 nt. 7

Genève, Musée d’art et d’histoire inv. 1984-0084 135 nt. 69 Hamburg, Staats- und Universitätsbibliothek Ms. 221 in Scrinio 72 Ìstanbul, Arkeoloji Müzesi Kütüphanesi 472 561, 563 –, Hacı Selim A≈â Kütüphanesi, Kemanke› 500 561, 563 –, Millet Yazma Eser Kütüphanesi, Ali Emiri, Tarih 809 561, 563, 565 –, Süleymaniye Kütüphanesi A›ir Efendi 289 Esad Efendi, 3783

561, 563, 565 561, 563, 565

–, Topkapı Sarayı Müzesi Kütüphanesi Hazine, 1292 561, 563, 565 Yeniler, 658 561, 563 Köln, Historisches Archiv W 276a

455 nt. 74

Leipzig, Universitätsbibliothek gr. 69/II (olim Tischendorfianus VIA) 586 London, British Library Add. 10274 77 ntt. 87, 88 Add. 14775 371 Add. 21984 442 nt. 33 Add. 43725 (Codex Sinaiticus) 486 Arundel 44 455 nt. 74 D-3365.g.27 127 nt. 52 Harley 3567 90 nt. 28 Royal 1.D.V-VIII (Codex Alexan­ drinus) 492, 513 Yates Thompson 7 95 nt. 41 Madrid, Biblioteca Nacional de España Vitr. 22-1 90 nt. 27 Vitr. 22-5 90 nt. 28

Mantova, Archivio di Stato Archivio Gonzaga, b. 1228 Archivio Gonzaga, b. 1229 Archivio Gonzaga, b. 2409

635

92 nt. 30 92 nt. 33 91 nt. 29

Milano, Archivio Capitolare della Basilica di S. Ambrogio (già Biblioteca Capitolare) M 31 435 –, Biblioteca Ambrosiana A 147 inf. 621 nt. 141 A 164 sup. 410 nt. 3 A 209 inf. 95 nt. 43 A 240 inf. 236, 241, 242, 248, 252, 253, 256, 257 B 20/a-b inf. 622 nt. 144 B 21 inf. 485, 494 nt. 28, 621 nt. 142 B 21 bis inf. 621 nt. 142 B 159 sup. 491, 492 nt. 21 C 5 inf. (Antifonario di Bangor) 503 e nt. 44, 623 nt. 157 C 6 inf. 410 nt. 3 C 40 inf. 622 nt. 151 C 47 inf. 622 nt. 144 C 58 inf. 622 nt. 144 C 61 inf. 410 nt. 3 C 65 inf. 236, 242, 248, 249, 252, 254, 257 C 69 sup. 410 nt. 3 C 301 inf. 623 nt. 157 C 313 inf. 485, 490 nt. 19, 622 nt. 143 D 123 inf. 236, 242, 243, 248, 257 D 204 inf. 625 nt. 178 D 295 inf. 410, nt. 3 D 355 inf. 410 nt. 3, 411 D 385 inf. 410 nt. 3 D 450 inf. 410 nt. 3 E 49-50 inf. xix, 581-588; 589 (tav i), 590 (tav. ii), 591 (tav. iii), 592 (tav. iv), 593 (tav. v), 594 (tav. vi), 595 (tav. vii) E 101 sup. 492, 493 E 102 sup. 410 nt. 3 E 147 sup. 522 nt. 41, 524, 526, 527, 623 nt. 159 F 16 inf. 33 nt. 13 F 17 inf./1 614 nt. 101 F 20 inf./1 613 nt. 99 F 114 sup. 436 F 205 inf. 623 nt. 161

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G 1 inf. G 2 inf./2 G 2 inf./3 G 4 inf./3 G 4 inf./4 G 4 inf./5 G 4 inf./6 G 9 inf./4 G 21 inf./1 G 24 inf./6 G 66 inf. G 82 sup. G 350 inf./6 H 43 sup. H 50 suss. H 109 sup. I 61 sup. I 87 inf. I 95 sup. I 101 sup. I 220 inf. I 224 inf. L 99 sup. L 106 suss. M 14 sup. M 53 sup. N 289 sup. N 337 sup. O 39 sup. O 122 sup. O 144 sup. P 72 sup. Q 6 sup. Q 23 sup. R 8 sup. R 57 sup. R 98 sup. S 36 sup. S 45 sup. T 16 sup. X 31 sup. X 32 sup. X 200 sup. & 145 sup. & 238 sup. S.P.13 S.P.21 ter S.P.47

indice dei manoscritti, degli stampati,

614 nt. 102 614 nt. 102 614 nt. 102 614 nt. 102 614 nt. 102 614 nt. 102 614 nt. 102 614 nt. 103 614 nt. 102 614 nt. 103 77 nt. 86 623 nt. 159 318 n. 32 410 nt. 3 216 e nt. 3 622 nt. 150 623 nt. 158 504 410 nt. 3 622 nt. 146 410 nt. 3, 411 410 nt. 3 622 nt. 149 77 nt. 86 513 nt. 5 410 nt. 3, 413 nt. 8 410 nt. 3 410 nt. 3 622 nt. 147 xv, 409, 410 nt. 3, 411, 412 e nt. 6, 413 nt. 8, 419 417 nt. 23 410 nt. 3 513 nt. 5 410 nt. 3 486 521 nt. 33 410 nt. 3 623 nt. 158 623 nt. 158 442 nt. 33 613 nt. 97 614 nt. 102 622 nt. 144 410 nt. 3 236, 243, 244 e nt. 30, 246, 257 450 nt. 61 624 nt. 170 614 nt. 106

S.P.II.191 450 nt. 61 S.Q.I.VIII.13 410 nt. 3 Medagliere 989 271 Medagliere 990 271 Medagliere 999 272 (fig.) Medagliere 1015 273 (fig.) Medagliere 1102 274 (fig.) Medagliere 1209 275 (fig.) Medagliere 1212 276 (fig.) Medagliere 1252 277 (fig.) Medagliere 1271 278 (fig.) Perg. 4314 8, 11 Perg. 3894-3894bis 11 Perg. 3906 11 Perg. 4587 11 Pio Falcò V.N.1 (Rotolo   di Ra­venna) 494, 495 Trotti 329 (perduto) 236, 252 e nt. 60, 253, 254, 256, 257 Trotti 330 xii, 215, 216 e nt. 4, 217, 218, 229 nt. 54, 231; 233 fig. i, 234 fig. ii –, Biblioteca Braidense AD XII 29 236, 244, 248, 249, 252, 254, 257 AE XII 27 446 Morbio 22 236, 244, 245, 247, 255, 257 –, Biblioteca del Capitolo Metropolitano ms. II.D.1.13 446 –, Biblioteca Trivulziana 209 253 665 236 nt. 11, 237 nt. 12, 238 nt. 13, 239 nt. 21 739 236, 241, 246, 248, 254, 257 797 95 nt. 43 800 95 nt. 43 811 236, 253 e nt. 64, 256 812 254 e nt. 65 Modena, Archivio di Stato Lettere di principi esteri, Urbino B.1 93 nt. 34 –, Biblioteca Estense Universitaria It. 416 (= α.G.5.1) 91 nt. 28 Lat. 862 (= α.S.2.31) 449 nt. 56 Lat. Γ.B.4.20 236, 245, 246, 248, 252, 254, 257 Lat. Γ.W.5.10 236, 246, 248, 257

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degli oggetti d’arte e d’interesse storico

Moskva, Gosudarstvennyj Istoriçeskij Muzej Sinod. gr. 438 (299 Vlad.) 139 nt. 80, 165 Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Ema­ nuele III II A 24 348 e nt. 150 II A 35 331 nt. 81 II B 29 348 e nt. 150 II C 33 348 II C 34 348 II D 44 412 nt. 6 III D 12 331 nt. 81 New York, The Metropolitan Museum of Art ms. 1994.516 437 nt. 16 –, The Morgan Library M.360 Oxford, Bodleian Library Canon. Pat. Lat. 229 –, Christ Church College 113 114

437 nt. 16 404 91 nt. 28 91 nt. 28

Paris, Bibliothèque nationale de France Coisl. 220 139, 140, 141 Coisl. 216 577, 579 gr. 9 512 gr. 107B 518 nt. 25 gr. 259 p. xi, 103, 115, 116, 122 e nt. 44, 129 nt. 60, 131, 132, 133, 136, 142 gr. 301 513 nt. 6 gr. 633 513 nt. 6 gr. 923 xix, 585, 586 e ntt. 15, 16, 21, 587 ntt. 22, 33 gr. 1330 513 nt. 6 gr. 1539 110 nt. 8 Supplément turc. 1160 561, 563 Supplément turc. 1212 561, 563, 573 –, Musée du Louvre, Département des arts graphiques R.F.29940 437 nt. 16 Parma, Biblioteca Palatina Pal. 1021(1) Parm. 706

65 nt. 29 98 nt. 50

Patmos, Μονὴ τοῦ Ἁγίου Ἰωάννου τοῦ Θεο­λό­

γου

gr. 212

135 nt. 69

Prato, Archivio storico diocesano Archivio del monastero di San Vincenzo in Prato, Manoscritti 10, fasc. 50 83 nt. 15 Rhethymno, Πανεπιστήμιο Κρήτης ΠΠΚ122333 135 nt. 69 Roma, Archivio Generale dell’Ordine dei Pre­ di­catori XIV, 53 10 –, Biblioteca Casanatense gr. 264 CC.A.III.28

330 nt. 74 108 nt. 3

Sankt-Peterburg, Gosudarstvennyi Muzej ¦rmitaà ms. 16930-16934 437 nt. 16 Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati I.IX.14 98 nt. 50 Sinai, Μονὴ τῆς Ἁγίας Αἰκατερίνης gr. 365 586 gr. 548 114 nt. 18 gr. 736 163 ΝΕ ΜΓ 25 586 Tashkent, Ўзбекистон Миллий Кутубхо­ наси Ms. No. 415/V 561, 563, 565 Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria A.II.2* 522 nt. 40 J.I.22-23 91 nt. 28 Tortona, Museo diocesano Codex Sarzanensis

487

Uppsala, University Library De la Gardie 1 (codex Argenteus)

516

Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana 4.D.49 (14) 120 nt. 34 4.D.50 (7) 120 nt. 34 –, Collezione K. Stampogles n.n.

135 nt. 69

Wien, Österreichische Nationalbibliothek medic. gr. 17 576 philol. gr. 129 331 nt. 80

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indice dei manoscritti, degli stampati,

Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek Cod. Guelf. 14.15 Aug. 4° 515 nt. 15 Cod. Guelf. 30. Gud. lat. 515 nt. 15 Cod. Guelf. 42. Gud. lat. 515 nt. 15 Cod. Guelf. 50.4 Aug. 4° 515 nt. 15 Cod. Guelf. 50.5 Aug. 4° 515 nt. 15 Cod. Guelf. 51.12 Aug. 4° 515 nt. 15 Cod. Guelf. 56.24 Aug. 8° 515 nt. 15 Cod. Guelf. 60.15 Aug. 4° 515 nt. 15 Cod. Guelf. 64. Weiss. 515 e nt. 15, 516

Cod. Guelf. 68.18 Aug. 8° Cod. Guelf. 76. Weiss. Cod. Guelf. 82.3 Aug. fol. Cod. Guelf. 82.10 Aug. 8° Cod. Guelf. 227. Gud. lat. Cod.Guelf. 311. Gud. lat.

515 nt. 15 515 nt. 15 515 nt. 15 515 nt. 15 515 nt. 15 515 nt. 15

Yerushalayim, Πατριαρχικὴ Βιβλιοθήκη Ἁγίου Σάββα 83 139, 141 Τιμίου Σταυροῦ, gr. 40 114 nt. 18

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