A caso. La sorte, la scienza e il mondo [1st ed.]
 8833907147,  9788833907147

Table of contents :
A caso......Page 1
Colophon......Page 6
Indice......Page 7
Prefazione......Page 9
Cap. 1 - Alea......Page 13
Cap. 2 - Destino......Page 39
Cap. 3 - Anticipazione......Page 63
Cap. 4 - Caos......Page 80
Cap. 5 - Rischio......Page 120
Cap. 6 - Statistica......Page 137
Conclusione......Page 155

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IVAR EKELAND

A CASO

LA SORTE LA SCIENZA E IL MONDO

BOLLATI BORINGHIERI

Saggi scientifici

IVAREKELAND

A

caso

La sorte, la scienza e il mondo

BOLLATI BORINGHIERI

Prima edizione settembre 1992 © 1992 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla Stampatre di Torino CL 61-9673-X ISBN 88-339-0714-7

Titolo originale Au hasard © 1991 Éditions du Seui!, Paris

Traduzione di Libero Sosio Schema grafico della copertina di Federico Luci

A caso : la sorte, la scienza e il mondo/ Ivar Ekeland. -Torino 156 p. ; 22 cm. -(Saggi scientifici) l. EKELAND, Ivar l. PROBABILITÀ. Teoria CDD 519.2

(a cura

di S. &

T. - Torino)

Bollati Boringhieri, 1992

INDICE

Prefazione

7

Alea

11

2

Destino

37

3

Anticipazione

61

4

Caos

78

5

Rischio

118

6

Statistica

135

Conclusione

153

FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI

Pagine

II,

37 , 61, 78, u8, 13 5 , 1 53 : da Snorri Sturlasson, Kon gesa gaer,].M. Grenerssen

& C. Forlag, Christiania 1899· Pagine 96, 99 : da L'Art scandinave, I, coli. >, che l'Onnipo­ tente indica i colpevoli, Gionata (l Samuele, 1 4, 37-43), Giona (Giona, l, 1 - 1 0), Acan (Giosuè, 7, 1 0-2 3), e che designa Saul come re di Israele (l Samuele, 1 0, 2 0-24). Secondo l'espressione di sant'Agostino (Enarra­ tiones Psalmos, ps. 3 0, 1 6, enarr. 2 , serm. 2), «sors non est aliquid mali, sed res, in humana dubitatione, divinam indicans voluntatem >>. Fin qui la dimostrazione di frate Edvin è irreprensibile, tanto dal punto di vista del ragionamento quanto da quello dell'ortodossia. A partire da questo momento, però, egli si lascia visibilmente trascinare 3 Vangelo secondo Giovanni, 1 9 , 2 3 -24. 4 «Si dividono fra loro le mie vesti, tirano a sorte la mia tunica» (Salmi, 22, 1 9) .

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dal suo argomento e s i discosta dal cammino che avrebbe suggerito la prudenza. Avendo in tal modo fermamente stabilito, nella prima parte del suo manoscritto, che il risultato del procedimento di gettare le sorti non può essere altro che la manifestazione della volontà divina, frate Edvin pone poi il problema pratico di come preservarla dalle interferenze umane, sempre possibili. La seconda parte del manoscritto passa allora a lungo in rassegna i diversi giochi d'azzardo noti a quel tempo - le carte, i dadi, la lotteria -, e mostra come un manipolatore abile e male intenzionato possa controllarne l'esito, e impedire quindi il manife­ starsi della volontà divina. Edvin conclude che l'uso di strumenti mate­ riali lascerà sempre sorgere dubbi sulla regolarità delle operazioni, e aprirà quindi la porta a ogni sorta di contestazione. Edvin propone infine una soluzione molto originale. In occasioni importanti, come quella che mise di fronte Olav Haraldssen e il re di Svezia, quando il modo di tirare a sorte dev'essere incontestabile, ognuno dei due avversari sceglie in segreto un numero e lo scrive su un rotolo di pergamena che viene sigillato. Nel giorno stabilito, i due re o i loro rappresentanti consegnano le pergamene a un arbitro, uomo dotto e pio, assistito da chierici capaci di far di conto. L'arbitro rompe i sigilli e legge i due numeri; i chierici li sommano, dividono la somma per sei e annunciano il resto. Ci sono sei possibilità:

l, 2, 3, 4, 5 , o, che corrispondono ai sei risultati possibili del lancio di un dado:

l, 2, 3, 4, 5, 6, e quella che viene annunciata è considerata il risultato del tiro a sorte. Così, se uno dei due antagonisti avrà scelto, per esempio, il 1 7 e l'altro il 3 05 1 , la somma dei due numeri sarà 3 068, e divisa per sei darà come resto 2 . Ora, questa è la cifra che annuncerà l'arbitro. Secondo la no­ stra tabella, questo risultato corrisponderà a un lancio di 2 con un dado, ma il procedimento di frate Edvin offre il vantaggio di non poter essere pilotato né dall'abilità né dalla frode. È un risultato casuale, quale può essere realizzato da un chierico del secolo xm. Frate Edvin si avventura allora in considerazioni matematiche molto interessanti. Egli osserva che se, anziché sommare, si moltipli­ casse, il procedimento sarebbe vergognosamente manipolabile: baste-

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rebbe infatti che uno dei due giocatori scegliesse un multiplo di 6, e il risultato del procedimento sarebbe O qualunque fosse stata la scelta del suo avversario. Si avrebbe infatti in questo caso il prodotto di due numeri anziché la loro somma, e se uno dei fattori è divisibile per 6 lo sarà anche il loro prodotto. La seconda osservazione di Edvin è che, per il risultato finale, importa solo il resto della divisione per 6 dei due numeri scelti. Si è visto che, se uno dei due antagonisti sceglie il l 7 e l'altro il 305 1 , il risultato sarà 2 . Se si sostituisce il l 7 con 5 e il 3 051 con 3, che sono i relativi resti delle divisioni per 6, si trova 5 + 3 = 8, che dà di nuovo il risultato 2 . Frate Edvin conclude che è inutile che i gio­ catori scelgano grandi numeri; il fatto di scegliere un numero com­ preso fra l e 6 non restringe infatti in alcun modo le loro possibilità di vittoria. Egli osserva che la scelta di un numero da un ambito più vasto dà però ai giocatori l'illusione di accrescere le loro possibilità, e che è quindi bene lasciare loro una tale scelta. L'ultima parte del manoscritto contiene una discussione dei vari modi di migliorare il metodo. Viene preso in considerazione anche il caso di tre giocatori o più, e frate Edvin fa notare che, pur lasciando a due soli giocatori la possibilità di vincere, possono esserci dei vantaggi a introdurne un terzo. Così, qualora fossero in gioco interessi impor­ tanti, come nel caso della sorte di una città, si potrebbe chiedere al Santo Padre di mandare da Roma un terzo numero, che sarebbe dis­ suggellato assieme agli altri due. Si farebbe allora la somma e si pren­ derebbe come risultato il resto della divisione per 6. Così, se ai due numeri 1 7 e 3 0 5 1 si somma 442 , la somma diventa 3 5 1 0 e il risultato O, che corrisponde a un lancio di 6 con un dado. L'introduzione del terzo giocatore e la sua indipendenza dagli altri due garantiranno ancor meglio la totale imparzialità del procedimento. Frate Edvin aggiunge infine che in certi casi può accadere di tirare a sorte da soli, e si chiede allora come si possa consultare la sorte senza l'intervento di un altro giocatore. Confessa di non essere riuscito a risol­ vere il problema in modo soddisfacente, ma propone in via provvisoria il procedimento seguente. Il giocatore sceglie un numero di quattro cifre e lo eleva al quadrato. Ottiene allora un numero di sette o otto cifre, di cui sopprime le ultime due e la prima o le prime due, in modo da ottenere di nuovo un numero di quattro cifre. Ripete quest'operazione quattro volte e prende il resto della divisione per 6 dell'ultimo numero in tal modo ottenuto. Così, partendo dal numero 865 3 , lo eleva al qua-

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drato, ottenendo 74 874 409, di cui conserva le quattro cifre centrali (8744) . Ripetendo l'operazione, trova successivamente

865 3 , 8744, 45 7 5 , 93 06, 60 1 6, e, dividendo l'ultimo numero per 6, ottiene un resto di 4, che equivale a un lancio di 4. Il vantaggio del metodo consiste nel fatto che, salvo particolari eccezioni, è impossibile prevedere il risultato finale senza eseguire i cal­ coli, i quali, come sottolinea frate Edvin, non sono alla portata del primo venuto, richiedendo sia una buona pratica dell'abaco sia la conoscenza del « calcolo indiano >>, quale è esposto per esempio nel Liber abaci di Leonardo Fibonacci. 5 Così, il resto della divisione per 6 del numero scelto inizialmente (865 3 ) è l, e il risultato finale è 4, e sarebbe davvero molto bravo chi fosse riuscito a prevederlo. Frate Edvin non tralascia di indicare che si potrebbe rendere il procedimento ancora più sicuro au­ mentando il numero delle cifre conservate (per esempio sei invece di quattro, partendo da un numero di sei cifre), con la condizione natural­ mente che il tutto venga fissato in partenza e che il giocatore non possa decidere di cambiare le regole nel corso della partita. Ma frate Edvin non è meno pronto a denunciare il difetto del suo metodo, difetto che risiede proprio nell'esistenza di eccezioni. Non c'è bisogno di essere un grande dotto per prevedere che, se si parte da 0000, tutti i numeri successivi saranno 0000 e il risultato finale sarà dunque O. L'apparizione di zeri può però disturbare il gioco anche in modi più insidiosi. Se, per esempio, si prende l'avvio da 02 00, si ottiene successi­ vamente 0400, 1600, 5600, 3 600, 9600, 1600, e a partire da questo nu­ mero ricomincia il ciclo 1 600, 5600, 3 600, 9600, 1600, che si riproduce indefinitamente. Diventa dunque perfettamente possibile prevedere il risultato del quarto, diciassettesimo o milionesimo passo del procedi­ mento, e quindi barare con se stessi. Frate Edvin propone qualche rimedio, fra cui in particolare l'ob­ bligo di scegliere per il primo numero quattro cifre differenti fra loro e diverse da zero. È però troppo intelligente per non rendersi conto che, oltre a queste eccezioni evidenti, possono esisterne altre più sottili. Tali eccezioni potrebbero essere addirittura indizi di una regolarità più profonda, che rimane celata ai nostri occhi inesperti, ma che potrebbe 5 La notazione numerica greca o romana mal si prestava alle operazioni, e il minimo calcolo simbolico era una vera impresa.

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essere rivelata da un'analisi più penetrante. Come si potrebbe essere certi che non ci sia una formula nascosta, capace di fornire i suoi risul­ tati in modo semplice e diretto, e non solo in casi particolari come l 00 l ma per tutti i numeri? Il fatto che noi siamo incapaci di trovare una tale formula non ci garantisce affatto che essa non esista. Se la for­ mula esistesse, il caso sarebbe estromesso dal nostro gioco. Chiunque la trovasse potrebbe o tenerla per sé, e far fortuna scommettendo su ogni partita, o rivelarla, e ridurre in polvere il risultato di tanti sforzi. Su questa nota malinconica, che è forse un presentimento, si con­ clude il manoscritto. È facile immaginare quali noie esso può avere creato al suo autore. Ecco frate Edvin che manipola i numeri come cose, senza preoccuparsi del loro senso occulto. Che cosa poteva venire di buono da un procedimento così riduttivo? È noto, per esempio, e affermato esplicitamente da san Giovanni, che il numero della Bestia è 666 (Apocalisse, 1 3 , 1 8). Che cosa avverrebbe se questo numero appa­ risse nel corso dei calcoli? Non sarebbe forse il segno più esplicito del­ l'intervento del demonio? Come pensare che il risultato non ne fosse alterato? Abbandonando le interpretazioni tradizionali, frate Edvin si espone all'accusa di praticare la divinazione, e abbiamo ragione di temere che tale accusa gli sia stata effettivamente rivolta. Dopo un'eclisse di vari secoli, i problemi sollevati da frate Edvin e i suoi scrupoli morali sono tornati d'attualità quando si è dovuto intro­ durre il caso nei computer. Non si trattava più di speculazioni disinte­ ressate né di processi di canonizzazione, ma di costruire un'arma ter­ monucleare, la bomba H, il cui primo prototipo fu fatto esplodere nel 1 952. Questo successo fu il punto d'arrivo di uno sforzo scientifico e tecnologico senza precedenti - messo in atto dagli Stati Uniti dopo la famosa lettera di Einstein al presidente Roosevelt - al quale vanno ricondotte fra l'altro le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. I calcoli concernenti la bomba A erano stati eseguiti a mano, con l'aiuto di regoli calcolatori e di calcolatrici meccaniche. L'ENIAC, il primo calcolatore elettronico- un monumento di 30 metri di lunghez­ za, 3 metri di altezza, 90 centimetri di larghezza, 1 8 000 valvole elet­ troniche, più di 500 000 saldature - fu pronto a funzionare alla fine del 1 94 7. Durante il suo lungo periodo di gestazione era stata presa la decisione di usarlo per simulare il comportamento dei neutroni in un materiale fissile: un passo cruciale nello sviluppo di una bomba termo-

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nucleare. Gli esperti che avevano già costruito la bomba A, in partico­ lare Enrico Fermi e John von Neumann, si erano occupati del proble­ ma, giungendo alla conclusione che lo si sarebbe potuto affrontare solo con metodi statistici. In ogni istante un neutrone ha una certa probabi­ lità di entrare in collisione, e ogni collisione ha una certa probabilità di essere o una semplice diffusione del neutrone incidente o una fissione che dà origine a vari nuovi neutroni. Ogni singola traiettoria è allora il risultato di una partita giocata secondo regole complesse, ma con pro­ babilità note. Si pensò di affidare alla macchina il compito di giocare un gran numero di tali partite, tirando a sorte le decisioni secondo le probabi­ lità indicate, e di studiare statisticamente i risultati ottenuti. Era nato il metodo di Montecarlo. In attesa di poter usare l'ENIAC, Fermi aveva inventato un piccolo carrello, battezzato immediatamente FERMIAC, che veniva spostato su un piano di sezione del reattore per rappresen­ tare una possibile traiettoria neutronica, tirando ogni volta a sorte la direzione dello spostamento e la distanza dalla prossima collisione. C'erano anche altre regolazioni, che venivano eseguite tenendo conto del materiale attraversato dal neutrone. All'entrata in funzione del­ I'ENIAC questo piccolo dispositivo fu relegato nel magazzino dei fer­ rivecchi, ma l'ENIAC divenne a sua volta obsoleto nel 1 952, quando entrò in servizio, a Los Alamos, il MANIAC. Su tutte queste macchine il metodo di Montecarlo diede eccellenti risultati. Esso rimane oggi uno dei principali strumenti di calcolo in fisica. Il metodo di Montecarlo è semplice e versatile. Per riprendere un esempio di Stanislaw Ulam, supponiamo che io voglia conoscere la probabilità di riuscire a risolvere un solitario. Questa dipende, beninte­ so, solo dall'ordine iniziale delle carte nel mazzo. Ora, abbiamo 52! = 52 x 5 1 x 50 x 49 x 48 x . x 3 x 2 x l .

.

modi diversi di distribuire 52 carte. Questo numero (il fattoriale di 52: è questo il significato del punto esclamativo) è un numero enorme, che si scrive con una settantina di cifre, tanto grande da escludere un esame sistematico di tutte le distribuzioni per contare le partite vincenti. La probabilità cercata: numero di solitari riusciti numero di distribuzioni possibili

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è quindi inaccessibile a un calcolo esatto. Per contro, se ne può dare una stima empirica giocando anche solo un piccolo numero di partite - qualche centinaio, o qualche migliaio-, purché le carte siano mesco­ late con cura prima di ogni distribuzione. In altri termini, si stima la probabilità incognita tirando a caso e indipendentemente un certo numero di distribuzioni fra le 5 2 ! distribuzioni possibili, e prendendo la frazione di solitari riusciti nel campione così realizzato. È facile pro­ grammare un computer per fare un solitario, e quindi per concludere in qualche millisecondo se una certa distribuzione è o no vincente. Occorre inoltre che il computer impari a mescolare le carte, ossia a scegliere una distribuzione fra le 5 2 ! distribuzioni possibili, ognuna con la stessa probabilità di 1 /52!, in modo indipendente rispetto alle scelte precedenti. In pratica rappresenteremo le carte per mezzo di numeri, e il calcolatore dovrà scegliere a caso un primo numero da l a 5 2 , poi un secondo numero fra i 5 1 restanti, poi un terzo fra i 50 restanti, e così via sino all'esaurimento. Come realizzare tutte queste estrazioni a sorte in modo equiprobabile, e indipendentemente dalle estrazioni precedenti? Al bridge si ottiene questo risultato rimescolando le carte prima di ogni distribuzione. La cosa è meno semplice di quanto possa sembrare. Il baro sa scozzare le carte in modo da servirsi la mano migliore, e il prestigiatore sa ritrovare nel mazzo una carta infilatavi da un'altra per­ sona. Non basta neppure che chi fa le carte le rimescoli bene, ma occorre che le rimescoli a lungo: almeno sette volte, secondo studi recenti. Soddisfatte tutte queste condizioni, i giocatori non cerche­ ranno di ricordare l'ordine delle carte della distribuzione precedente per trame informazioni sulla distribuzione in corso, ma considereranno indipendenti le due distribuzioni. Ciò non impedisce loro, una volta distribuite le carte, quando ognuno ha in mano le sue e prima ancora che siano cominciate le dichiarazioni, di farsi un'idea della ripartizione complessiva. Quest'idea si fonda non sui ricordi della distribuzione precedente (l'asso di picche aveva preso il re, io avevo notato che il re seguiva immediatamente all'asso nella presa e, ritrovandomi ora in mano l'asso di picche, il re dovrebbe essere alla mia sinistra), ma sul­ l'ipotesi che le altre carte siano ripartite in modo uniforme (io ho quat­ tro picche, ne rimangono nove per tre giocatori, e quindi è probabile che essi ne abbiano tre ciascuno). È questa l'idea che si esprime dicendo che le distribuzioni casuali sono equiprobabili. Si scozzino carte o si lancino dadi, il caso deriva solo dalla mancanza

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di abilità umana: noi siamo incapaci di controllarci quanto basta per fermare un dado a nostro piacimento o per dirigere singolarmente le carte del mazzo. Il confronto rimane nondimeno istruttivo ed evidenzia bene i limiti di questo modo di creare il caso. Poco importa chi lanci i dadi, ma non lasceremo che sia una persona qualsiasi a rimescolare le carte. Una persona troppo incapace non riuscirà a scozzarle in modo adeguato, mentre una troppo brava suscita la nostra diffidenza. Come fare allora con un computer, che non potrà certo essere accusato di incapacità, e il cui comportamento non lascia alcun margine all'incer­ tezza? In fondo, questo è il problema già sollevato da frate Edvin, e se i nostri mezzi tecnici hanno compiuto enormi progressi, lo stesso non si può dire della nostra riflessione. Il metodo dei quadrati successivi fu il primo metodo usato (esso porta oggi il nome di von Neumann), ma molto presto ci si rese conto che, dopo un certo numero di estrazioni, usciva infallibilmente il numero 2 1 00, seguito da 4 1 00, da 8 1 00, da 6 1 00 e poi di nuovo da 2 1 00, e che a partire da questo punto aveva inizio un ciclo che si ripe­ teva indefinitamente: 2 1 00, 4 1 00, 8 1 00, 6 1 00, 2 1 00; le eccezioni erano quelle segnalate da frate Edvin, e il loro solo difetto era quello di sfociare in un ciclo (d'altronde diverso dal precedente) più rapidamente delle altre! Del resto, basta un istante di riflessione per convincersene. Il computer prende un numero di quattro cifre, lo eleva al quadrato un certo numero di volte conservando ogni volta solo le quattro cifre centrali, e il risultato finale è un nuovo numero di quattro cifre, che viene ritenuto casuale. Per « sorteggiare» vari numeri si ripete la procedura, ossia si parte dall'ultimo numero uscito per otte­ nere il seguente. Ogni numero generato dipende così per intero ed esclusivamente dal precedente. Se il primo numero ottenuto è 865 3, il secondo 8 744 e il terzo 45 7 5 , si può affermare con sicurezza che, ogni volta che uscirà 1'865 3 , lo seguiranno 1'8744 e il 45 7 5 . Nella simula­ zione scompare una delle caratteristiche fondamentali del caso, l'indi­ pendenza delle estrazioni successive, ed è per questa ragione che com­ paiono i cicli. Immaginiamo un croupier senza immaginazione che comandi la sua roulette con un pedale e che cerchi di dare l'idea di uscite casuali facendo invece uscire i numeri in un ordine preciso. Egli si costruisce

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un elenco, il più possibile aleatorio, e vi si attiene. Dopo il 7 farà uscire sempre il 3 5, dopo il 3 5 il 1 3 , dopo il 1 3 il 2 2 , e così di seguito, avendo cura di far uscire ogni volta un numero sempre diverso, al fine di con­ trollare la sorpresa. Ma alla roulette ci sono solo 3 7 numeri, contando anche lo zero, cosicché dopo un massimo di 3 7 uscite egli sarà costretto a produrre un numero che è già uscito, per esempio il 7 . A partire da questo punto egli ricalcherà le uscite precedenti, e farà quindi uscire successivamente il 3 5, il 1 3 , il 22 e via di seguito, finché, a un certo punto, uscirà di nuovo il 7, e poi il 3 5, il 1 3 , il 22 e così via indefinita­ mente. Quanto tempo impiegheranno i giocatori ad accorgersi del suo controllo? Come un croupier meccanico produrrà alla roulette un ciclo di non più di 3 7 uscite, il metodo dei quadrati successivi o un qualsiasi altro metodo deterministico produrrà un ciclo formato da un massimo di l O 000 uscite, l O 000 essendo il numero totale dei numeri di quattro cifre. Si può cercare di rimediare a questa situazione, per esempio ope­ rando con numeri di cinque cifre, cosa che potrebbe permetterei di giungere fino a l 00 000 scelte, ma sussisterà sempre la limitazione di fondo. Si potrà anche mascherare la realtà, alla maniera di frate Edvin, dando del risultato finale solo il resto della divisione per 6. In tal modo si potrà dar l'impressione di scegliere un numero da O a 5, mentre in realtà si sceglie un numero da O a 9999. Così, le uscite successive 60 1 6, 1 92 2 , 6940, 1 6 3 6 s i leggeranno: 4,

2,

4,

4,

dando l'illusione del caso, poiché un 4 può essere seguito da un 2 o da un 4, come se le uscite fossero indipendenti. Purtroppo il primo 4, che rappresenta il numero 60 1 6, non è uguale al secondo, che rappresenta il 6940. La macchina opera sul 60 1 6 e sul 6940 e mostra 4 e 4, come un illusionista che inganni lo spettatore con un gioco di specchi. Ai nostri tempi, nella generazione dei numeri casuali il metodo dei quadrati successivi è praticamente abbandonato. Si preferisce utilizzare generatori aritmetici, descritti da formule del tipo X"= (aX"_, + c) modulo M,

le quali significano che la n-esima uscita xn viene ottenuta prendendo il

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2)

risultato della (n - l)-esima uscita x._ I' moltiplicandolo per a , som­ mando al prodotto così ottenuto c, e dividendo per M. Il resto di questa divisione è il risultato della n-esima uscita. I numeri interi a, c ed M caratterizzano il generatore e sono scelti una volta per tutte. Questi generatori aritmetici soffrono degli stessi inconvenienti del metodo dei quadrati. Ogni uscita è determinata per intero dalla prece­ dente, e si osserveranno quindi cicli la cui estensione massima è deter­ minata dal numero M. Nella pratica si sceglie volentieri M = 2 32, che rende facilissima la divisione per M per le macchine che lavorano con numeri binari, oppure M= 2 3 1 l, per il quale la divisione per M non è molto più difficile e che presenta il vantaggio di essere un numero primo. Per numeri così grandi, l'estensione dei cicli è tale che essi sono inosservabili nella pratica: il numero 2 30 è dell'ordine di un miliardo. Si può dunque sperare di avere imitato il caso in modo soddisfacente. Purtroppo non è così. Il problema dei cicli è solo il primo scoglio, e molti altri ce ne sono sulla nostra strada. La nozione di caso si decom­ pone in effetti in una moltitudine di proprietà, talmente diverse fra loro da apparire a volte contraddittorie. Così, se abbiamo parlato del­ l'indipendenza delle uscite successive, non abbiamo detto nulla della loro distribuzione. Ciò che desideriamo è che questa sia uniforme, ossia, per esempio per il metodo dei quadrati, che tutti i numeri com­ presi fra O e 9999 escano con la stessa frequenza. Ora, è noto che ogni successiOne di uscite finisce per stabilizzarsi in un ciclo, che sarà in generale -

2 1 00, 4 1 00, 8 1 00, 6 1 00, 2 1 00. Questi quattro numeri escono dunque con una frequenza di 1 14, e gli altri non escono più (frequenza 0). La distribuzione uniforme non può dunque esistere se non in un periodo transitorio, in cui il computer non ha ancora avuto il tempo di raggiungere il ciclo limite e in cui si può sperare che le uscite successive si distribuiscano in maniera grosso modo uniforme fra O e 9999. Si possono regolare i parametri a e c dei generatori aritmetici in modo che i loro cicli abbiano un periodo molto lungo. Si può addirit­ tura fare in modo che ci sia un solo ciclo, che passi a volta a volta per ciascuno dei punti da O a M - l. La distribuzione sarebbe in questo caso uniforme, nel senso che gli M numeri da O a M - l uscirebbero cia­ scuno una volta per ciclo, e avrebbero quindi tutti la stessa frequenza

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IlM. Ma, dopo tutto, ciò che il computer fa in questo caso non è altro che produrre i primi M numeri in un ordine diverso dall'ordine natura­ le: è quindi giustificato parlare di caso per un'operazione di questo genere? Anche qui il caso è nell'occhio dell'osservatore: è la nostra in­ capacità di abbracciare in un sol colpo d'occhio un miliardo di numeri o più, unita alla nostra ignoranza della regola usata dal computer per classificarli, a farci apparire casuale la loro successione. Un osservatore più perspicace saprebbe senza dubbio scoprire nella loro distribuzione regolarità nascoste, le quali sarebbero altrettanti indizi del fatto che qui il caso non ha nulla a che fare. Ecco un esempio semplice di una tale situazione. Supponiamo che si voglia sorteggiare un punto dell'intervallo (0, 1), secondo una distribu­ zione uniforme. Decidiamo innanzitutto la precisione con cui operere­ mo, per esempio 32 bit. Ciò significa che il computer non prenderà in considerazione se non numeri la cui rappresentazione binaria comporti solo 3 2 segni, il che equivale a sostituire l'intervallo (0, l) con una rete di M = 2 32 punti equidistanti compresi fra O e l. Ciò fatto, si sorteggerà uno di di tali punti utilizzando un generatore aritmetico

X. +, = (aX. + c) modulo M. Si potranno adattare le costanti a e c in modo che ci sia un solo ciclo, di periodo M, così che gli M punti dell'intervallo (0, l) vengano sorteggiati ognuno una volta per ciclo. Si può quindi ritenere che essi abbiano tutti la stessa frequenza 1 /M e che si sia realizzato così un sor­ teggio uniforme sull'intervallo (0, 1 ) . M a che cosa accade s e s i vuole estrarre a sorte u n punto in u n qua­ drato, sempre seguendo una distribuzione uniforme? Diciamo che il quadrato ha lato l; ogni punto del quadrato è rappresentato allora da due numeri, x e y, compresi entrambi fra O e l, che rappresentano uno la sua proiezione orizzontale (ascissa) e l'altro la sua proiezione verti­ cale (ordinata). Se si sostituisce, come in precedenza, l'intervallo (0, l) con M punti equidistanti, si ottengono M possibilità per la proiezione orizzontale, x, e M possibilità per la proiezione verticale, y, cosa che corrisponde a M x M= M2 possibilità per il punto (x,y). Si ottengono infine M2 punti distribuiti uniformemente sul quadrato. Per tirare a sorte uno di questi punti, basta sorteggiare successivamente le sue due proiezioni x e y. Se queste due uscite sono indipendenti, e distribuite uniformemente, si potrà ottenere qualsiasi punto del quadrato, ognuno con la stessa frequenza 1 1M2•

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Occorre però che le due uscite siano indipendenti, ed è proprio questa richiesta che ci permetterà di cogliere in fallo il generatore arit­ metico. Utilizziamolo per sorteggiare le due proiezioni del punto cer­ cato, innanzitutto quella orizzontale, x, e poi quella verticale, y . Queste due uscite danno l'impressione di essere indipendenti, mentre in realtà sappiamo che non lo sono, giacché il generatore deduce ogni uscita dalla precedente, e quindi y da x, per mezzo della formula

y = (ax+c) modulo M. Avendosi, per ogni x, M possibilità, ognuna delle quali determina perfettamente y, per la coppia (x,y) ci saranno solo M possibilità, in luogo delle M2 che avrebbe dato il caso. Il generatore aritmetico ha accesso solo a M degli M2 punti del quadrato, ossia a una frazione MIM1 = 1 1M. La grandissima maggioranza delle posizioni gli è quindi inaccessibile. Inoltre, non c'è più alcuna garanzia che gli M punti possi­ bili siano distribuiti nel quadrato in modo uniforme. Si è costruito un ciclo di M punti che serpeggia su un insieme di M2 punti, ed è possibi­ lissimo che questo ciclo si concentri in certe regioni del quadrato, ignorandone del tutto altre (cfr. scheda 1 ) . Abbiamo dunque u n modo per scoprire se uscite successive equidi­ stribuite in (0, l) siano o no indipendenti: raggrupparle a coppie per ottenere punti nel quadrato, ed esaminare se questi sono o no equidi­ stribuiti. Se lo sono, non possiamo dire nulla; forse un raggruppamento per gruppi di tre potrebbe mostrare una distribuzione irregolare di punti nel cubo, rivelandoci così correlazioni che potrebbero esserci sfuggite. Ma se non lo sono, si può affermare che le uscite conside­ rate sono collegate, ossia che ognuna di esse dipende dalle precedenti. Questo è quello che si chiama un test d'indipendenza. Un genera­ tore aritmetico può benissimo superarlo con successo: è infatti possi­ bile scegliere il coefficiente a e l'intero M (il valore di c non ha molta influenza) in modo tale che i punti ottenuti appaiano distribuiti unifor­ memente nel quadrato. Ma ci sono molti altri test d'indipendenza, e un generatore che ne inganni uno può essere smascherato da un altro. In effetti ogni test ha i suoi favoriti, nel senso che riconosce certi genera­ tori e non altri. Secondo un vecchio adagio, un generatore può ingan­ nare un test tutte le volte, e tutti i test qualche volta, ma non può ingannare tutti i test tutte le volte. Il problema, qui, è che un generatore aritmetico non ha la ricchezza

CAPITOLO PRIMO

28 SCHEDA I

Un esempio di generatore aritmetico: X l=(X"+ 3) modulo IO n+

È un modello rudimentale, che ci permette di «sorteggiare>> un numero intero O a 9. Prendendo l'avvio da X=O e iterando, si ottengono successivamente

da

X6=8 X7=l X8=4 X9=7 X10=0=X0 Xu=3=X�>

X0=0 X1=3 X2=6 X3=9 X4 =2 X5=5

ossia un ciclo completo, che passa per tutti i numeri interi da

O a 9. Ciò equivale

a scrivere questi numeri in un ordine diverso da quello naturale. Il computer conserva in memoria l'ultimo numero fornito e, ogni volta che gli si chiede un numero, dà quello successivo nell'elenco. Questo generatore può essere utilizzato per «sorteggiare>> un punto apparte­ nente all'intervallo

[0, 1]. A questo scopo si sostituisce l'intervallo con 10 punti

equidistanti:

O=Q ! I l � i Q 2 � 2=1 ' 9' 9' 9' 9' 9' 9' 9' 9' 9' 9 che si possono così rappresentare geometricamente:

o

2

3

4

s

6

7

8

9

Ordinandoli come abbiamo ordinato gli interi, otteniamo una regola di succes­ sione che rappresentiamo simbolicamente in questo modo (ogni punto è con­ nesso da una freccia a quello che lo segue):

In dieci sorteggi si percorre tutto l'intervallo. Anche in questo caso il computer conserva in memoria l'ultima posizione toccata, e ogni volta che gli si chiede di tirare a sorte una nuova posizione fornisce il punto seguente sull'elenco. È evi­ dente che questo tipo di comportamento non è affatto casuale, anche se pre­ senta molte proprietà di una sequenza di sorteggi indipendenti ed equidistri­ buiti, tanto da poter ingannare un osservatore disattento.

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Le insufficienze di questo generatore aritmetico risulteranno però manifeste qualora lo si voglia utilizzare per sorteggiare dei punti in un quadrato. Il qua­ drato

[0, l] x [0, l] è sostituito da lO x lO=l00 punti: 1 8

9

7

9

6

9 5

:

9 3

9

2

9 l

9 o e

l

9

� 9

1 9

4

9

� 9

6

9

?.. 9

! 9

«sorteggiamo>> successivamente le due coordinate di ogni punto. Così, se la

O, la coordinata verticale dovrà essere il valore che 0/9 , ossia 3/9 . Questo procedimento fornisce, in totale, solo lO possibi­ lità per l 00 punti: coordinata orizzontale è

segue a

e,

questa volta, nessuno potrà ingannarsi: questi punti non sono equidistribuiti.

I sorteggi non sono quindi indipendenti. I generatori aritmetici d'uso corrente fanno intervenire suddivisioni molto più

fini e cicli molto più lunghi (M""' 2 32). I cicli, nondimeno, esistono, e possono condurre a sorprese sgradevoli.

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inesauribile del caso. Se X�' X1, , X" sono uscite indipendenti equidi­ stribuite, se ne può estrarre una su due, le si può raggruppare per cop­ pie, o invertirle, e si otterranno sempre uscite indipendenti equidistri­ buite, e trasformazioni più complicate, come x;,�' . . . , � (ogni risul­ tato è elevato al quadrato), daranno ancora uscite indipendenti, seguendo una distribuzione che non è più uniforme ma che si può calcolare. Per contro, se un generatore aritmetico costruisce una sequenza xl xl, . . . , x. ' equidistribuita, non è detto che raggruppando i termini a coppie si otterrà una sequenza equidistribuita nel piano, né che elevandoli al quadrato essi si distribuiranno secondo la legge voluta. Si potrà certo ideare un generatore con tale proprietà, ma che ne sarà dei raggruppa­ menti dei termini in gruppetti di tre o della sequenza dei cubi x:, x;, . . . ,X!? E che accadrà se ci verrà la fantasia di cambiare l'ordine dei ter­ mini? La sequenza ottenuta saprà comportarsi come una sequenza aleatoria? È possibile imporre al generatore questi vincoli supplemen­ tari, e anche altri, ma si corre sempre il rischio che, una volta entrato in funzione, esso si imbatta in un test che non era stato previsto a priori e che si tradisca. Il caso, invece, salta spontaneamente tutti gli ostacoli che si possono frapporre sul suo cammino. In questa fase della nostra riflessione, quando ci si rende conto che i computer più potenti sono incapaci di riprodurre le proprietà che noi attribuiamo spontaneamente al caso, si riaffaccia il sospetto. Il caso esi­ ste veramente, o siamo vittime di un'illusione? Esso potrebbe essere una nozione essenzialmente matematica, un'idealizzazione della realtà, nello stesso modo in cui la retta infinita e priva di spessore del geome­ tra è un'idealizzazione della linea tracciata sul quaderno di uno scolaro. Lo scienziato pratico, dal canto suo, non si pone più il problema. Il fisico che vuole calcolare un integrale col metodo di Montecarlo non si propone di imitare il caso in generale. La serie di numeri che gli fornisce il computer gli interessa solo nella misura in cui gli permette di ottenere il più rapidamente possibile una buona approssimazione al valore cercato. Egli lavorerà in generale in uno spazio di dimensione N grande, e sarà cruciale per lui che, raggruppando le uscite in gruppi di N, si otten­ gano punti equidistribuiti in questo spazio. Per contro, poco gli importa l'esito di test di indipendenza o di equidistribuzione, che non hanno nulla a che fare col suo problema. In effetti l'utilizzatore conser­ verà, delle infinite proprietà di una serie di uscite indipendenti ottenute con la stessa legge, solo quelle che gli interessano direttamente, e •••

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costruirà il suo generatore aritmetico in conseguenza; il risultato finale avrà a volte perduto persino l'apparenza del caso. È possibile un altro atteggiamento, consistente nel prendere atto della nostra impotenza a costruire sequenze veramente aleatorie e nel­ l'andare a cercare il caso là dove si trova, ossia nella natura. Ecco perché certi generatori di numeri « casuali >> combinano un procedimento aritmetico, simile a quelli che abbiamo descritto, con un ricorso all'oro­ logio, strumento sempre presente nei computer. In certe fasi del cal­ colo è sufficiente far intervenire l'ora nella sequenza delle operazioni. Si può, per esempio, prendere come punto di partenza X0 di un gene­ ratore aritmetico il tempo trascorso dalle ore 17 del 14 luglio 1 900, espresso in secondi. Un'alea naturale viene così a rafforzare un'alea artificiale. Questo ricorso a dati esterni può essere spinto molto più avanti. Costruire un generatore aritmetico adattato ai propri bisogni è un compito difficile, e utilizzare i software disponibili in commercio comporta dei rischi. Si può quindi essere tentati di usare tavole di numeri casuali, ottenute per mezzo di un montaggio sperimentale più che per mezzo di un algoritmo matematico. Le prime tavole sono di origine demografica, ma ci si volse abbastanza presto a dispositivi fisici. Fu così che nel 195 5 la Rand Corporation pubblicò un elenco di un milione di cifre, estratte da un rumore di fondo elettronico. Purtroppo qualche anno dopo ci si accorse di errori di montaggio che inficiavano i risultati e compromettevano l'indipendenza delle uscite successive. Ciò mostra che non è poi tanto più facile conseguire il caso con un meccanismo fisico che con un algoritmo matematico, soprattutto quando si tratta di produrre serie molto lunghe di numeri casuali. Ci troviamo dunque in un vicolo cieco, come i due re nella storia narrata da Torstein Frode, quando per tre volte di seguito sono usciti due sei e si determina una situazione di difficoltà. È allora che inter­ viene il caso, sconvolgendo l'immagine che ci siamo fatti della situazio­ ne, infrangendo il quadro ristretto delle nostre previsioni per creare qualche cosa di veramente nuovo, come Alessandro tagliava il nodo gor­ diano. La realtà getta la maschera, l'elemento indivisibile si rompe in due, e la cifra che non poteva essere se non uno o sei diventa sette. Bur­ lati dalla natura, ci troviamo respinti, estranei e ridicoli, al margine di un mondo che si occulta al nostro sguardo.

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La stessa sensazione dovettero provare i fisici all'epoca della rivolu­ zione scientifica iniziata con la scoperta della radioattività, quando tante precedenti certezze si rivelarono ingannevoli. Appena stabilito come componente primario della materia, l'atomo - l'unità fondamen­ tale, il cui nome stesso significa indivisibile - si rivelò costituito da elet­ troni orbitanti attorno a un nucleo, che non avrebbe tardato a rivelarsi a sua volta composto da neutroni e protoni. Ma ben presto ci si sarebbe resi conto di non avere ancora toccato il fondo della realtà ultima. Per mezzo di collisioni in acceleratori sempre più potenti si ruppero pro­ toni e neutroni facendone emergere altre particelle, ancor più « ele­ mentari >>: pioni, particelle lambda, sigma, rho, attualmente in numero di più di quattrocento. Negli anni settanta fu fondata la cromodinamica quantistica, la quale mostrò che, alla base di tutta questa profusione, c'erano componenti ancora più elementari: i quark. Certe particelle (i barioni) si decompongono in tre quark, altre (i mesoni) in un quark e un antiquark. Mentre scrivo, si conoscono cinque quark diversi, e si sospetta l'esistenza di un sesto quark, cosa che dà già spazio a una grande fantasia. Ci sono poi altre sei particelle di spin 1 /2 (i leptoni) - fra cui l'elettrone e i neutrini - che non si decompongono in quark. Se si passa alle particelle di spin l , se ne trovano altre dodici: il fotone, i gluoni (otto) e le particelle W e Z (tre). Ci troviamo così ad avere ventiquattro componenti elementari, le cui diverse combinazioni dovrebbero permettere di rendere conto di tutte le varietà di particelle osservate, e per ora il quadro sembrerebbe completo. Fino al momento in cui, ovviamente, verrà a sconvolgerlo una teoria più ambiziosa. I fisici non hanno rinunciato al sogno della « grande unificazione >>, una teoria capace di abbracciare in sé la meccanica quantistica e la relatività generale, e ogni passo in questa direzione comporterà una modifica­ zione profonda del paesaggio. Ogni volta che crediamo di aver trovato il componente ultimo della realtà, il mattone elementare con cui è costruito l'universo, questo si frammenta come il dado del re Olav. Per i platonici, questo fatto evoca irresistibilmente l'ottava ipotesi del Parmenide. 6 Più prosaicamente, è

6 [Il riferimento è a Parmenide, 26, 1 64b- 1 65d. In particolare: « Quali sono le affe­ zioni conseguenti agli altri, se l'uno non è? » «Perché sempre quando si voglia afferrare col pensiero qualcuno di essi ( ... ) avanti al principio sempre appare un altro principio e dopo la fine sempre un'altra fine rimane e in mezzo sempre altre parti che sono più in mezzo della parte intermedia e più piccole» (trad. A. Zadro, in Platone, Opere complete, vol. 3 , Universale Laterza, Laterza, Bari 1 97 1 , pp. 64 sg., 1 64b, 165a-b)].

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una sorta di caccia in cui la selvaggina riesce sempre a sottrarsi alla cat­ tura, come in quei cartoni animati classici in cui si manifesta una vera genialità nel mettere in ridicolo il cacciatore. Ben si comprende il ner­ vosismo di quest'ultimo, e la meticolosità con cui mette in atto trap­ pole sempre più elaborate per mettere infine le mani sul responsabile delle sue sofferenze. Noi sappiamo bene che i suoi sforzi saranno vani e che egli avrà di nuovo la peggio, ma egli ci crede a tal punto, e sem­ bra ogni volta così vicino a raggiungere il suo obiettivo, che la crudeltà e l'ingegnosità con cui il cartoonist ritorce a suo danno le situazioni più favorevoli ci lasciano palpitanti e ammirati. È dunque da conoscitori che apprezzeremo l'abilità con cui la natura ci si sottrae, e particolar­ mente il modo in cui si serve del caso per celarsi al nostro sguardo. A cominciare dalla scala della molecola, si entra nel regno della meccanica quantistica. Certo, questa fa qualche incursione nel campo macroscopico, e fenomeni come la superfluidità o la superconduttività faranno parte d'ora in poi della nostra percezione. La teoria si presenta come un dittico, la cui prima tavola è puramente deterministica. Essa raffigura l'evoluzione dei sistemi fisici isolati. Ognuno di essi è rappre­ sentato da un vettore di stato preso in uno spazio di dimensione infini­ ta: lo spazio di Hilbert. È proprio della meccanica quantistica fare appello a questo spazio per descrivere lo stato di un sistema fisico isola­ to, e i fisici hanno avuto una certa difficoltà ad abituarvisi. Questo disa­ gio si manifesta particolarmente nella terminologia, in cui il «vettore di stato» stenta a imporsi sul suo sinonimo « funzione d'onda». Ma l'evoluzione stessa è puramente deterministica, essendo governata da un'equazione differenziale, l'equazione di Schrodinger, la quale si svolge quindi in uno spazio di Hilbert in sostituzione degli spazi abi­ tuali di dimensione finita. Volendo essere perfettamente rigorosi, ci si dovrebbe limitare a considerare una sola funzione d'onda, quella del­ l'universo nella sua interezza, ma, come nella fisica classica, ci si può anche accontentare di approssimazioni, e considerare certi sottosistemi come se fossero isolati, almeno momentaneamente, e avessero quindi una funzione d'onda loro propria: particelle, atomi o molecole. L'altra tavola del dittico è puramente probabilistica: essa descrive le operazioni di misura. Misurare una grandezza fisica - posizione o velo­ cità, energia o tempo - equivale a trasferire il sistema dalla prima tavola alla seconda. Il risultato della misurazione sarà quello di un sorteggio. Più precisamente, il vettore di stato può essere analizzato come una

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somma di componenti, gli « stati propri >> della grandezza considerata, corrispondenti ciascuno a un valore ben determinato di questa. L'ope­ razione di misura ha misteriosamente l'effetto di proiettare il sistema in uno di questi stati propri: la decisione sarà conseguita in virtù di un sorteggio, condotto seguendo regole ben precise. Lo stato proprio sor­ teggiato determinerà il valore che sarà registrato dallo strumento, che sarà il valore del sistema dopo la misurazione. La meccanica quantistica sarebbe dunque puramente deterministica se non ci fossero osservatori. Siamo noi, chiedendo un'informazione, eseguendo una misura, a perturbare l'evoluzione del sistema e a intro­ durre un elemento aleatorio. Il fatto è che è impossibile prevedere il risultato di una sola misurazione. La teoria permette al massimo di cal­ colare a priori tutti i risultati possibili e la probabilità di ciascuno di essi. Ciò non significa che la meccanica quantistica non sia precisa, o che non permetta di fare certe previsioni. Semplicemente, queste pre­ visioni saranno di natura statistica, concernendo un gran numero di misure o fenomeni macroscopici, cosa che non esclude una grande pre­ cisione. A titolo di esempio, il momento magnetico dell'elettrone ha un valore sperimentale di 1 ,00 1 1 59 652 2 1 (con un'incertezza dell'ordine di 4 nell'ultima cifra), per un valore teorico (e quindi calcolato a priori) di 1 ,00 1 1 59 652 46 (con un'incertezza cinque volte maggiore). Ab­ biamo quindi conseguito uno scarto fra previsione teorica e risultato sperimentale di 1 1(4 x l 09), dell'ordine cioè di un millimetro su quat­ tromila chilometri. Quanto è strana, nondimeno, questa teoria! Esaminiamo, per esem­ pio, la propagazione del fotone. Il fotone viene emesso nel punto E (sorgente) e ricevuto nel punto R (ricevitore); fra il punto di partenza e il punto d'arrivo c'è uno schermo in cui sono stati praticati due forellini in A e B. L'ottica geometrica ci dice che, perché si possa osservare della luce nel punto R, occorre che esso sia allineato o con E e A o con E e B. La meccanica quantistica, al contrario, ci insegna che, quali che siano le posizioni dei fori, e particolarmente se non c'è allineamento, un fotone emesso dal punto E ha sempre una certa probabilità di andare a colpire il punto R. Questo è effettivamente ciò che si osserva se i fori praticati in A e B sono abbastanza piccoli. Tale osservazione contraddice beninteso l'intuizione grossolana secondo la quale il fotone è un corpuscolo che si propaga in linea retta, ma questo non è ancora l'aspetto più sorprendente della situazione. Sempre secondo la mecca-

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nica quantistica, il fotone che ritroviamo in R ha una certa probabilità di essere passato per A, e una certa probabilità di essere passato per B, senza che si possa mai determinare con certezza che percorso abbia seguito effettivamente. Trattandosi di una particella elementare, indi­ visibile per essenza, la domanda sembra naturale. Essa risulta tuttavia priva di senso, se si presta fede all'esperienza, in quanto nel punto R si possono evidenziare frange di interferenza la cui unica interpretazione possibile è che il fotone sia passato sia per A sia per B. Se si cerca di forzare una risposta catturando il fotone, per esempio ponendo in A e in B due rivelatori che ne registrino il passaggio, si constaterà che il fotone passa per A o per B (uno solo dei due rivelatori viene attivato), ma le frange d'interferenza scompaiono ! L'interposizione di uno strumento di misura supplementare modi­ fica quindi il fenomeno. Cercando di localizzare il fotone in A o in B, si costringe il sistema in uno stato che è estraneo alla sua evoluzione spontanea, e in questo modo si introduce un elemento aleatorio. Dicia­ mo, per esempio, che una misurazione richiede un'interazione tal­ mente complessa fra il sistema e l'osservatore, che in essa vengono a svolgere un ruolo cruciale parametri estranei all'uno e all'altro - ma rappresentati nella funzione d'onda dell'universo -, e che il risultato non può essere appreso se non in modo statistico. Questa è soltanto un'ipotesi, o forse addirittura una metafora. Una cosa sola è certa: nella meccanica quantistica misurare è tirare a sorte. La domanda che si pone subito è: «Va bene, ma chi è che tira a sor­ te? » Non l'osservatore, e probabilmente neppure la particella. C'è una risposta possibile, ma non piacerebbe a tutti. Si può non porsi la domanda, come Niels Bohr. Ma se ci si pone la domanda, come fece Einstein, e si stabilisce che Dio non gioca a dadi, ci si trova in un vicolo cieco, a meno che non si dimostri che questo stesso tirare a sorte è anch'esso solo un'illusione. Di qui i tentativi ostinati di Einstein e dei suoi discepoli di dimo­ strare l'esistenza di «variabili nascoste >> nella meccanica quantistica. La tesi che Einstein sostenne fino alla sua morte è che noi abbiamo accesso solo ad alcune delle variabili che determinano lo stato di un sistema quantistico. Se potessimo osservarle tutte, potremmo predire - almeno a breve scadenza - l'evoluzione del sistema e il risultato di qualsiasi misurazione. Certe variabili, però, ci sono nascoste, ed è quest'ignoranza a creare l'illusione del caso. La nostra situazione è

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simile a quella di un osservatore situato sotto un tavolo di vetro traspa­ rente su cui si svolga una partita a carte: egli vedrebbe solo il dorso delle carte e non potrebbe quindi comprendere gli sviluppi del gioco. Nonostante l'intima convinzione di Einstein, la teoria delle variabili nascoste non ha mai trovato la minima conferma. Sul piano concet­ tuale, von Neumann e numerosi altri hanno tentato di dimostrarne l'incompatibilità con i fondamenti della meccanica quantistica. Se non sono pervenuti a un'impossibiltà assoluta, hanno nondimeno stabilito che una tale teoria dovrebbe avere proprietà almeno altrettanto para­ dossali di quelle della meccanica quantistica. Sul piano sperimentale, Einstein, Podol'skij e Rosen hanno indicato una linea di approccio che nel corso degli anni - grazie soprattutto alla scoperta a opera di Beli di certe disuguaglianze che sarebbero violate se esistessero effettivamente delle variabili nascoste è sfociata in esperimenti realizzabili. Questi hanno dato tutti esito negativo. Siamo dunque ridotti all'idea che il caso che interviene nella meccanica quantistica non sia riducibile a un sottostante determinismo. Lo stesso determinismo macroscopico che regna alla nostra scala è riducibile al caso quantistico grazie alle leggi della statistica, che si esercitano su numeri immensi di particelle. È dunque il caso che sembra essere il dato fondamentale, il messaggio ultimo della natura. Eccoci quindi costretti a rimetterei a qualche macchina enorme, in grado di spiare il comportamento delle particelle elementari. Forse in futuro si perverrà ad addomesticare il caso quantistico, e a dispensarlo in dispositivi miniaturizzati, che troveremo nelle calcolatrici per stu­ denti come pure nelle slot-machine. Tutti, matematici e giocatori, avranno allora accesso alla fonte stessa del caso, puro e inalterabile. Ma questo caso addomesticato non ci sorprende più; noi ci attendiamo una scelta fra varie uscite che conosciamo in anticipo. L'emozione dinanzi all'imprevisto, la gioia di vedere l'orizzonte recedere bruscamente e il timore dei pericoli che si celano in nuove terre, tutti questi sentimenti che ci turbano quando vediamo fendersi il dado e uscire il sette, dob­ biamo cercarli nella nostra storia, e non in nuove tecnologie. -

CAPITOLO 2 Destino

Il re Olav Trygvesson partì per Tunsberg, dove convocò il ting. Presavi la paro­ la, proclamò che chiunque si dedicasse apertamente alla magia o alla stregone­ ria, o praticasse il seid, 1 doveva lasciare il Paese. Poi ordinò di cercare tutti coloro che, nella città o nei dintorni, si dedicavano a tali pratiche. Fra costoro c'era un uomo di nome 0yvind Kjelda, che discendeva da Araldo Bella chioma e che era molto esperto nel seid e nella magia. Il re Olav li fece riunire tutti in una grande sala dove offrì loro un banchetto, avendo cura che non mancassero di nulla e che bevessero molto. Quando furono ubriachi, fece appiccare il fuoco alla casa, la quale arse con tutti i suoi occupanti, a eccezione di 0yvind Kjelda,

1 Il seid, o sejdr, era un insieme di riti magici destinati particolarmente alla divina­ zione; pare che, dopo essere stato una delle pratiche essenziali del paganesimo nordi­ co, sia scomparso con la cristianizzazione dei paesi scandinavi, spesso condotta con metodi brutali.

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CAPITOLO SECONDO

che fuggì dal tetto. Quando era ormai lontano dalla città, 0yvind incontrò alcuni viaggiatori che andavano dal re . Chiese loro di annunciargli che 0yvind Kjelda era sfuggito all'incendio, che non sarebbe mai più caduto nelle sue mani e che avrebbe continuato a praticare la propria arte. Giunti in presenza del re, i viaggiatori gli riferirono il messaggio di 0yvind, e il re disse che era un vero peccato che 0yvind non fosse morto. Tornata la primavera, il re Olav partì verso ovest e soggiornò nei suoi possedi­ menti del Vik. Fece annunciare in tutta la regione che nell'estate avrebbe arruolato un esercito e sarebbe partito verso il nord del Paese. Poi risalì verso Agder. Verso la fine della quaresima si mise in viaggio alla volta del Rogaland, e trascorse la notte di Pasqua ad Àgvaldsnes, nell'isola di Karm, con trecento uomini. La stessa notte nell'isola arrivò, a bordo di una nave lunga/ 0yvind Kjelda. L'equipaggio della nave era composto di praticanti del seid e di stregoni di ogni sorta. 0yvind e i suoi uomini sbarcarono sull'isola e cominciarono a gettare il malocchio a destra e sinistra. Essi suscitarono una nebbia così densa che il re e i suoi uomini non potessero vederli. Quando però arrivarono ad Àgvaldsnes, si era fatto giorno, e le cose andarono diversamente da come aveva previsto 0yvind. La magia si ritorse contro di loro, e la nebbia da loro suscitata li colse, impedendo loro di vedere a un palmo dal naso, cosicché non facevano altro che girare in cerchio. Le guardie li scorsero, anche se non riuscivano a capire che cosa facessero. Fu avvertito il re, che si alzò e si vestì, come pure il suo seguito. Quando il re vide 0yvind e i suoi compagni, ordinò ai suoi uomini di armarsi e di andare a identificarli. Gli uomini del re riconobbero 0yvind e lo fecero prigioniero, lui e gli altri. 0yvind fu condotto alla presenza del re e dovette dirgli che cos'era accaduto. Il re Olav li fece legare tutti a una scogliera che all'alta marea veniva ricoperta completamente dal mare. Così perirono 0y­ vind e i suoi compagni; da allora quella roccia si chiama Skratteskja:r, la Sco­ gliera dei Maghi. 3

Questa fosca storia è ben nota a tutti i norvegesi. Nell'edizione clas­ sica della Heimskringla (saga), quella che ho avuto da mio nonno, è accompagnata da una splendida illustrazione di Eilif Peterssen. Vi si vede il profilo di 0yvind dominare le onde, con tutta la sua vita con­ centrata nello sguardo, mentre attorno a lui i suoi compagni si abban­ donano in balia dei flutti, sullo sfondo di un orizzonte indistinto in cui acqua, cielo e terra si confondono. Ancor oggi mi chiedo che cosa pen­ sasse in quel momento 0yvind, Prometeo legato alla sua roccia, in attesa del mare, che sarebbe venuto per lui una volta sola. Sollevandosi al di sopra del desiderio di vendetta e della pietà per i suoi compagni, il 2 Una nave da combattimento, un drakkar, in contrapposizione alla nave tonda, che era un'imbarcazione mercantile. 3 6/rifs saga Tryggvasonar (Saga di Olav Trygvess0n), cap. 63 .

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suo spirito si era innalzato da quella situazione elementare alle grandi speculazioni metafisiche? 0yvind si pose gli interrogativi eterni? Per­ ché le cose sono così e non altrimenti? Perché c'è qualcosa piuttosto che niente? Secondo l'immortale definizione di Wittgenstein, « Die Welt ist alles, was der Fall ist>>,4 « il mondo è tutto ciò che accade >>, tutto ciò di cui si dà il caso, tutto ciò che si constata. La nostra prima esperienza è quella della contingenza. Questa roccia è qui, ben concreta e reale, come que­ ste funi che mi immobilizzano, come l'acqua che sale. Tutto questo costituisce ora il mio universo, ed è qui che io devo trovare il mio posto. Il bambino, trascinato dal desiderio della scoperta, passa di per­ ché in perché; il vecchio, rinsavito, medita e risponde: Die Ros ' ist ohn ' Warum; sie bliihet, w eil sie bliihet Sie acht ' nicht ihrer selbst, fragt nicht, ob man sie siehet. 5

Ma questa contingenza è completa, o lascia qualche posto al senso? Possiamo accontentarci di una constatazione di fatto, o dobbiamo cer­ care una ragione? Gli eventi si susseguono a caso o il mondo funziona secondo certe regole che possiamo scoprire e utilizzare? Molto spesso l'ordine delle cose non ci piace, e alcuni si spingono fino a dare la vita per cambiarlo; la ricerca del senso fa dunque parte della vita umana. Ma prima di portare la discussione a questo livello, chiniamoci sulle origini, sull' apparizione della vita sulla terra e su quell'albero dell'evo­ luzione di cui l'Homo sapiens è un ramo forse effimero. Qui troviamo una prima risposta: ogni nicchia ecologica è un'oasi di regolarità, in cui le varie specie si giustappongono e contrappongono in una logica rigo­ rosa. Da quando il primo bipede riuscì ad accendere il fuoco, la specie umana applica le risorse del suo cervello nel ricercare le regolarità del mondo e nell'usarle a suo profitto per soppiantare le altre forme di vita. La ricerca del senso si compie solo in vista di un'azione, in generale aggressiva. Per la ragione umana sarà dunque un esercizio difficile sol­ levarsi al di sopra delle necessità immediate dell'azione, e non è nep­ pure chiaro se essa sia adattata a un tale sforzo. 4 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, l , in Tractatus logico-philoso­ phicus e Quaderni 1 9 1 4- 1 9 1 6, trad. A. G. Conte, Einaudi, Torino 1 974 ( l ' ed. 1 964), P· 5 .

5 «La rosa è senza perché; fiorisce perché fiorisce, l non si cura di se stessa né si chiede se alcuno la guardi>> (Angelus Silesius Oohann Scheffler, 1 624-77), Cherubini­ scher Wandersmann, 1 6 5 7).

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CAPITOLO SECONDO

Facciamo tuttavia questo tentativo, e cerchiamo di rappresentarci la situazione dell'Homo sapiens. I suoi organi di senso trasmettono al cer­ vello un flusso continuo di informazioni da elaborare. In un modo che ignoriamo totalmente, il cervello analizza queste informazioni, individua situazioni tipiche e le estrapola nel tempo. Così, nella savana primitiva, la retina dell'Homo sap iens riceve un pacchetto di fotoni da cui il suo cervello estrae un insieme di forme: fra queste egli riconosce quella della pianta che gli fornisce il cibo. Dal cervello parte allora l'or­ dine di estrarre dal terreno la radice della pianta, e prende il via la complessa procedura al termine della quale la radice, pestata, lavata e cotta, diventerà infine un alimento consumabile. Un'azione di questo tipo si fonda su un numero quasi infinito di regole constatate nel passato e proiettate nel futuro, e sulla capacità di riconoscere nel presente le situazioni in cui esse si applicano. Tutte queste regole costituiscono il senso, almeno operazionistico, che noi diamo al mondo. Dire che il mondo non ha un senso equivarrebbe a dire che non vi discerniamo alcuna regola, che non comprendiamo il passato e che non siamo in grado di predire il futuro; una tale afferma­ zione equivale alla contingenza totale, la quale sembra difficilmente compatibile con l'esistenza, anche precaria, di una coscienza indivi­ duale. Dire che il mondo ha un senso significherebbe, se questo senso fosse compreso perfettamente, che il passato e il futuro sono aperti davanti a noi come un libro. La verità si colloca a metà strada fra questi due estremi: noi discerniamo cioè del senso a livello locale, cosa che ci permette di agire in certe direzioni, mentre in altri ambiti il senso ci sfugge. Illustriamo la situazione con un esempio semplicissimo. Immagi­ niamo che l'informazione sensoriale si presenti al cervello nella forma di una sequenza continua di bit, ossia di O e di l :

o o l o l o o o l l o l l o ..., e sostituiamo il cervello con un diavoletto preso a prestito da Maxwell. Il nostro diavoletto non riceve altre informazioni oltre a quelle che gli arrivano attraverso il canale dei sensi, aggiungendo ogni istante un nuovo bit alla catena a lui già nota. Essendo un diavolo, egli è immor­ tale. Alla fine dei tempi avrà perciò accumulato una sequenza infinita di O e di l , e noi gli chiediamo allora se questo mondo ha un senso. Questo modo di porre il problema elude vari interrogativi impor-

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tanti, fra cui in particolare quello della percezione (come fa il cervello a classificare le informazioni che gli pervengono?) e quello dell'azione (che si ripercuote a sua volta sulla percezione, in quanto il cervello non riceve le informazioni passivamente, ma ordina azioni in conseguenza, particolarmente per confermare le informazioni ricevute o per cercarne di nuove). Questa impostazione ha però almeno il merito di permet­ terei di abbozzare una soluzione. Beninteso, se la catena infinita che il nostro demone ha osservato nel corso del tempo è uniforme, composta cioè esclusivamente di zeri:

o o o o o o o ..., o esclusivamente di uno:

l l l l l l l ..., il diavoletto risponderà immediatamente di sì. Similmente, se la sequenza è periodica, con alternanza regolare dei valori zero e uno:

o l o l o l o l ..., o o l o o l o o l ..., egli si trova dinanzi a un universo particolarmente semplice e traspa­ rente. Le leggi della fisica in quest'ultimo caso sono tre: dopo l viene O dopo ( l , O) viene O dopo (0, O) viene l . Se la sequenza non è né costante né periodica, il nostro diavoletto cercherà di ricondurla a qualche regola semplice. Queste regole pos­ sono essere evidenti, come nel caso delle sequenze 0 1 0 0 1 1 0 0 0 1 1 1 0 0 0 0 1 1 1 1 0 0 0 0 0 ... (uno zero seguito d a u n uno, poi due zeri seguiti d a due uno, poi tre zeri seguiti da tre uno ecc.) e

o l 0 0 0 1 1 o 1 1 0 0 0 0 0 l o l 0 0 1 1 1 0 0 l o 1 ... Quest'ultima sequenza è stata introdotta nella letteratura mate­ matica da D. G. Champernowne. 6 Si forma scrivendo una dopo l'altra 6

In > diventerebbe vera una volta passata la set­ tantasettesima sequenza di mille zeri, e si sarebbe trovata anche in que­ sto caso una regola di predizione. Ma una sequenza così organizzata come mille zeri in fila può essere comunicata in modo molto più economico che copiandoli uno dopo l'altro. Basta dire: « Contare mille zeri a partire da tale posizione >>, e il gioco è fatto. In conseguenza di regolarità di questo genere è inevita­ bile che si possano trasmettere i primi N termini della sequenza con

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meno di N caselle, e quindi che l'entropia non sia esattamente uguale a l , ma leggermente inferiore. Per considerare un altro esempio, se invece di simboli matematici O e l si allineano caratteri di stampa - per esempio se immaginiamo la classica scimmia che batte a caso sui tasti di una macchina per scri­ vere -, il risultato sarà un testo scritto, un testo peraltro infinito se il processo prosegue eternamente. Per lo più questo testo sarà privo di senso, ma si può facilmente immaginare che ogni tanto, fra i « gfwsavk» e gli «jmuuzxnmlkj », il caso faccia apparire una parola rico­ noscibile, molto spesso corta, come «una », e a volte più lunga, come «unanime>>. Molto di rado si vedrà una frase completa, ma il nostro diavoletto ha davanti a sé l'eternità : ha il tempo di aspettare la prima frase di Notre-Dame de Paris, il tempo di aspettare il primo paragrafo, il tempo di aspettare il primo capitolo, il tempo di aspettare l'opera com­ pleta, il tempo di aspettarla in due copie consecutive o in quattromila­ cinquecentonovantadue copie consecutive. Durante tutto questo tempo verranno prendendo forma sotto i suoi occhi altre opere, fra cui in par­ ticolare anche questo libro, compresi i suoi capitoli futuri, che non conosco ancora nel momento in cui scrivo questa frase, e i libri che scriveranno altri. Supponendo che il diavoletto non conosca Guerra e pace o Notre-Dame de Paris, avrà dunque occasione di leggerli una prima volta, cosa che gli permetterà di riconoscerne le altre copie man mano che appariranno. Egli potrà dunque accorciare considerevol­ mente il messaggio sostituendo il testo per esteso con la menzione: «A questo punto va un altro esemplare di tale opera >>. Ogni inserimento di questo genere diminuisce l'entropia, mentre ogni sequenza di simboli incoerenti la fa avvicinare a l . Ed ecco dunque la nostra definizione finale: una sequenza è contin­ gente se l'entropia dei primi N termini rimane permanentemente vicina a l , al suo massimo, e si approssima tanto più a l quanto più N è grande. In altre parole, la comunicazione dei primi N termini della sequenza richiede un po' meno di N caselle o, nel linguaggio della teoria dell'informazione, di N bit. Questa definizione è dovuta al grande matematico russo Andrej N. Kolmogorov ( 1 903 -87), il fonda­ tore della teoria delle probabilità. Fra i suoi numerosi titoli di gloria figura quello di avere introdotto l'uso dell'entropia come strumento di analisi in questo genere di problemi. La definizione di contingenza data in origine da Kolmogorov presentava tuttavia grandi difficoltà sul

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piano strettamente logico, le quali furono infine eliminate dal matema­ tico svedese P. Martin-LOf. Una sequenza contingente nel senso di Kolmogorov e di Martin­ Lof è dunque la formalizzazione di un mondo in cui la sola regola esi­ stente è che non ci sono regole. Osserviamo che questa è, per il mo­ mento, una costruzione puramente logica, in cui il caso, nel senso del calcolo delle probabilità, non ha alcun posto. È per sottolineare questo punto che ho preferito chiamare queste sequenze « contingenti >> piut­ tosto che « aleatorie>>, come Kolmogorov o Martin-Lof. Esse sono senza dubbio aleatorie, nel senso che non può esserci un procedimento per indovinare un termine della sequenza a partire dai precedenti, e neppure per condensare l'informazione contenuta nei primi N termini, ma non sono ottenute in conseguenza di estrazioni indipendenti secondo una legge data, come vorrebbe il modello classico della teoria delle probabilità. Il miracolo è che i due punti di vista concordano. Secondo un'intui­ zione fondamentale di Kolmogorov, le sequenze contingenti che abbiamo descritto sono aleatorie nel senso della teoria delle probabi­ lità. Di fatto si mostra che, se una sequenza è contingente nel senso di Kolmogorov e di Martin-Lof, la frequenza degli O e degli l in qualsiasi campione è sempre prossima a 1 12. Misuriamo bene la portata di questa proprietà. Non diciamo solo che nei primi N termini della sequenza ci sono press'a poco tanti zeri quanti uno, e che le frazioni rispettive di O e l sono tanto più vicine a 1 12 quanto più N è grande. Diciamo anche che, quale che sia il procedimento di campionamento o di estrazione scelto, i campioni estratti dalla sequenza devono presentare la stessa proprietà. Così, dalla sequenza periodica O l O l O l O l ..., prendendo solo un termine su due, si estrae il campione O O O 0 . . . , ossia una sequenza costante, in cui la frequenza degli zeri è l e la frequenza degli uno è O. Una sequenza periodica non può dunque essere contingente nel senso di Kolmo­ gorov. Per quanto concerne la sequenza di Champernowne, possiamo costruire un campione osservando successivamente i termini di posizione 3 = 1 + 2 x l , 1 1 = 3 + 2 2 x 2 , 3 5 = 1 1 + 2 1 x 3 , ... La regola è che, se la (n - l )-esima osservazione è stata fatta sul termine di posizione r, la n-esima dovrà essere fatta sul termine di posizione r+ 2 " x n. Il campione così estratto dalla sequenza di Champernowne è

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la sequenza costante O O 0 . . . Neppure la sequenza di Champernowne è dunque contingente nel senso di Kolmogorov. Si richiede, beninteso, che il procedimento adottato sia non antici­ pativo; ci dev'essere cioè l'obbligo di dichiarare, avanti di eseguire la prima estrazione, se si conserverà o no il suo risultato. In altre parole, si deve poter decidere, conoscendo la posizione di un termine della sequenza ma non il suo valore, se esso sarà conservato o no nel cam­ pione. Evidentemente, non si possono prendere gli N primi termini e rifiutare tutti gli l , pretendendo di aver estratto un campione com­ prendente solo degli O! Per le sequenze contingenti nel senso di Kolmo­ gorov, ogni campione estratto secondo un procedimento non anticipa­ rivo presenterà una frequenza empirica di O e di l prossima a 112 . Queste sequenze supereranno con successo anche test statistici più sottili, troppo tecnici per poter essere riferiti qui, fondati sull'ipotesi che esse risultino da estrazioni successive indipendenti ed equiprobabili. In effetti, dal punto di vista operazionistico, esse sono esattamente sequenze di uscite indipendenti ed equiprobabili, in quanto appari­ ranno tali in tutte le prove a cui l'ingegnosità umana potrà sottoporle. Ricapitoliamo. Siamo passati da un estremo all'altro. Da un lato abbiamo le sequenze generate meccanicamente con una regola di itera­ zione: anche se possono sembrare aleatorie a un osservatore superfi­ ciale (è il fenomeno del caos deterministico), esse rappresentano un mondo puramente deterministico, in cui il futuro è esattamente preve­ dibile a partire dal passato. Dall'altro abbiamo le sequenze contingenti, le quali testimoniano un mondo del tutto privo di senso, in cui la sola regola è l'assenza di ogni regola e l'impossibilità di strappare mai al passato alcuna certezza sul futuro. Quale non è allora la nostra sorpresa nel vedere scaturire da una situazione come questa un'altra razionalità! Questo mondo che rifiuta tutte le regole deterministiche si piega docil­ mente al calcolo delle probabilità. Queste sequenze, costruite con tanta cura perché non si possa mai prevedere il risultato di una singola usci­ ta, si rivelano accessibili alle previsioni statistiche. È dunque il modello probabilistico ad apparire agli antipodi del modello deterministico. Questi due modelli costituiscono i poli fra i quali oscilla la nostra com­ prensione del mondo: quanto più ci si allontana dall'uno, tanto più ci si avvicina all'altro. Un mondo rigorosamente non deterministico dev'es­ sere perfettamente probabilistico.

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E il mondo in cui muore 0yvind Kjelda e in cui viviamo noi ? Non sappiamo dove situarlo in questa scala che collega il caso alla necessità, ma ciò - paradossalmente - non ha molta importanza. Se la realtà ultima è descritta dal calcolo delle probabilità, il mondo sarà soggetto alle leggi della statistica. Queste permettono di aggregare eventi indi­ pendenti affetti da incertezza alla scala microscopica per ottenere, alla scala macroscopica, una certezza quasi assoluta. È per questo che il determinismo è per noi un fatto di esperienza. 0yvind può predire con certezza che morirà nel quarto d'ora seguente. È vero che la marea montante si decompone in una moltitudine di molecole ciascuna delle quali è governata dal calcolo delle probabilità, ma il loro numero è tale che le alee individuali vengono a costruire una certezza ineluttabile. Non c'è alcuna speranza di vedere il flusso fermarsi ai piedi dello sco­ glio, o al contrario sollevarsi fino a inghiottire i carnefici: due eventi entrambi possibili, ma infinitamente improbabili . È questo il senso del secondo principio della termodinamica. Anche se la situazione struttu­ rata che noi osserviamo oggi è estremamente improbabile rispetto al brodo primordiale, essa esiste, e a partire da qui l'evoluzione deve aver luogo secondo leggi statistiche, ossia in modo ordinato. Noi torneremo certamente a tale brodo primordiale, ma non importa come. Se non vogliamo pensare che si verificheranno di continuo miracoli, e che a una situazione di partenza estremamente improbabile si unirà uno sce­ nario ancora più improbabile, dobbiamo prevedere che alla scala macroscopica si affermerà l'evoluzione più probabile. In altri termini, l'entropia del sistema, che prende l'avvio da un valore estremamente piccolo, dovrà salire verso il suo valore massimo. Quest'intuizione è stata formalizzata da Boltzmann nella sua teoria dei gas perfetti, e il grande merito di questo fisico austriaco è quello di aver mostrato che la crescita dell'entropia è una conseguenza alla scala macroscopica di quella che egli ha chiamato l'ipotesi del « Caos molecolare ». Non ci sottrarremo al determinismo. Se lo cacciamo dalla porta, postulando un'incoerenza totale, esso rientrerà per la finestra, sotto la copertura delle leggi statistiche. La sua natura, sia essa magica o mate­ matica, analogica o meccanica, ci sfugge, ma la sua presenza sembra essere una necessità logica, stabilità in modo irrefutabile da Kol ino­ gorov e dai suoi discepoli . A qualche secolo di distanza, e sotto il camuffamento di un diverso formalismo, ritroviamo la famosa dimo­ strazione dell'esistenza di Dio data da sant'Anselmo. Dio ha, per defi-

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nizione, tutte le perfezioni; ora, la prima di tutte le perfezioni è l'esi­ stenza; dunque Dio esiste. In linguaggio scolastico, la sua essenza im­ plica la sua esistenza. Similmente l'esistenza del determinismo, che è una questione di fede, procederebbe direttamente dalla sua natura, che è una questione matematica. Se oggi l'argomento di sant'Anselmo non ci convince più, è perché siamo abituati a distinguere le questioni di fatto dalle questioni di dirit­ to. L'uomo moderno è dualista, e separa nettamente l'universo mate­ riale, in cui si decidono le prime, da un universo intellettuale in cui si discutono le seconde, e in cui si affrontano le teorie. La questione del legame esistente fra questi due universi, pur essendo fondamentale se vogliamo comprendere la nostra relazione al mondo, non gli interessa molto; se dovesse scegliere, l'uomo moderno preferirebbe relativizzare il secondo a vantaggio del primo. Per questo motivo siamo visceral­ mente convinti che non si possa dimostrare l'esistenza di qualche cosa. Eccoci dunque ben motivati a cercare dove risieda l'errore di san­ t' Anselmo. Possiamo individuar! o nelle premesse del ragionamento, ossia che Dio abbia tutte le perfezioni, o che una di queste sia l'esistenza. Io preferisco affrontare più direttamente la questione dell'esistenza. In matematica si ha una formalizzazione di questa nozione, da cui risulta che oggetti che non esistono sono dotati di proprietà mirabolanti e permettono di dimostrare qualsiasi cosa. È così per esempio che, se una frazione irriducibile p/q ha per quadrato il numero 2 , il suo denomina­ tore q dev'essere al tempo stesso pari e dispari. Se ne conclude giusta­ mente che una tale frazione non potrebbe esistere, ossia che V'I non è un numero razionale; questa è quella che si chiama una dimostrazione per assurdo. Il cosiddetto argomento antologico di sant'Anselmo è la prima metà di una dimostrazione per assurdo la cui conclusione non potrebbe essere che l'inesistenza di Dio. Certo nessuno ha ancora for­ nito la seconda metà della dimostrazione, quella che dovrebbe permet­ tere di pervenire alla contraddizione decisiva; ma il dubbio sussiste e, se un giorno sarà eliminato, non potrà esserlo se non negativamente. Immaginiamo il primo matematico, greco o babilonese, che studiò la \(2 nella forma di una frazione p/q. Dopo molti sforzi, egli dimostrò forse che il denominatore doveva essere un numero pari; il suo teorema rimase valido fino al giorno in cui un altro, suo rivale o successore, dimostrò che quel denominatore doveva essere anche dispari. Simil­ mente, nulla ci garantisce che, partendo dalle stesse premesse, cioè che

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Dio è dotato di tutte le perfezioni, non si possa giungere logicamente a una conclusione opposta, ossia che Dio non esiste. In quel momento la sola conclusione logicamente stringente sarebbe allora che effettiva­ mente Dio non può esistere. Molti secoli sono passati dal tempo di sant'Anselmo d'Aosta, e la lo­ gka formale ha compiuto abbastanza progressi da permetterei di evi­ tare d'ora in poi questa sorta di trabocchetti. Anche l'analisi di Kolmo­ gorov, che sembra instaurare il determinismo come legge del mondo attraverso la semplice forza logica di un ragionamento matematico, ci opp o rrà una maggiore resistenza. Essa è certamente ben fondata sul piano della logica pura. Eccoci dunque costretti ad accettare l'idea pla­ tonica che l'infinita varietà del mondo sia regolata da tutta l'eternità da qualche teorema. Le cose sono, gli eventi si succedono, ma tutto questo è necessariamente strutturato dalle matematiche. Queste segnano dunque un limite alla contingenza, in quanto appartengono chiaramente all'universo del diritto e non del fatto. Non si potrebbe immaginare che le matematiche fossero diverse da come sono, e l'uni­ verso fisico stesso è vincolato dalle loro leggi. Ci siamo dunque elevati al di sopra della contingenza del mondo, e abbiamo creduto di trovare il nostro rifugio nelle matematiche. Il fisico che scopre una legge insospettata, l'ingegnere che calcola una struttu­ ra, l'economista che cerca correlazioni, attestano la potenza delle mate­ matiche e dischiudono la speranza che l'universo sia un giorno del tutto aperto ad esse. Quel giorno si potrà dire che l'uomo avrà domi­ nato la contingenza e che l'universo sarà infine diventato del tutto tra­ sparente per lui. I fisici avranno unificato la relatività generale e la meccanica quantistica, gli psicoanalisti avranno formalizzato le leggi dell'inconscio e gli uomini esclameranno: « Finalmente abbiamo capi­ to. Le cose sono così perché non potevano essere diversamente». Allora comincia a prender forma, insidioso ma persistente, il sospet­ to. Perché mai si dovrebbe accordare questo status particolare alle atti­ vità cerebrali di una specie vivente prigioniera nel suo cantuccio di uni­ verso? Perché mai le matematiche dovrebbero sottrarsi all'imperio del caso? Questa necessità alla quale esse si riferiscono, non è essa stessa contingente? Le matematiche non avrebbero potuto essere diverse da come sono oggi su questo pianeta? A prima vista, nelle matematiche non c'è alcun posto per la contin­ genza. Tutto è vero per necessità; in esse non ci sono né constatazioni

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di fatto né argomenti d'autorità. Da Euclide in poi, tutti i matematici recano in sé la stessa immagine della loro scienza: essa si fonda su pochi assiomi semplici, le cui combinazioni secondo certe regole logi­ che permettono di dimostrare altre proposizioni. La verità si estende, in qualche modo per contagio, dagli assiomi di base, riconosciuti come tali, a tutto ciò che essi permettono di dimostrare, ossia, a quanto si credeva, all'insieme delle matematiche, che si trovavano così fondate su una pura necessità logica, con esclusione di ogni contingenza esteriore. Eccole sottratte così al caso e alla storia. Toccò a Kurt Godei, nel 1 93 0, dimostrare che quest'immagine era sbagliata. In un teorema famoso, 1 0 pubblicato l'anno seguente, egli dimostrò che, quale che sia il sistema di assiomi e di regole accettato (purché tali assiomi c regole siano in numero finito), si potrà sempre enunciare una proposizione concernente i numeri interi la quale non possa essere né dimostrata né confutata in tale sistema. In altri termini, ci sono proposizioni matematiche che sono vere ma che non possono essere dimostrate; si può solo constatarle, purché si abbia una visione abbastanza ampia. Il nostro diavoletto di Maxwell, che è in grado di abbracciare in un sol colpo d'occhio l'infinità dei numeri interi, con­ stata immediatamente se una proprietà è vera o no, ma l'uomo non ha questa capacità: egli non può constatare de visu una proprietà aritme­ tica se non nel caso che i numeri in gioco non siano troppo grandi. 1 1 Se sono troppo grandi, la sua unica risorsa è quella di cercarne una dimo­ strazione; se non la trova, ciò non significa necessariamente che la pro­ prietà in questione sia falsa. Può darsi che gli sia semplicemente andata male e che un altro, più intelligente o più fortunato di lui, riesca infine a trovare il metodo giusto. I matematici hanno una grande abbondanza di congetture, ossia di 1 0 Vedi K. Godei, E. Nagel, U. Newman, J . Y. Girard, Le théorème de Godei, Le Seui!, Paris 1 989. [L'articolo classico di Godei è : Ober formai unentscheidbare Siitze der Principia mathematica und verwandter Systeme, in «Monatshefte der Mathematik und Physik», XXXVIII ( 1 9 3 1 ), pp. 1 7 3 -98 (trad. ingl. On Formally Undecidable Propo­ sitions, Basic Books, New York 1 962); in italiano si può vedere E. Nagel e }. R. New­ man, La prova di Godei, Boringhieri, Torino 1 96 1 ; nuova ed., Bollati Boringhieri, Torino 1 992 ] . 1 1 A titolo d'esempio, il massimo numero primo oggi noto è 2 2 1 609 1 - 1 . [Esso fu trovato nel 1 98 5 con l'aiuto del supercomputer Cray X-MP, acquistato dalla Chevron Geosciences Company di Houston, che impiegò più di tre ore di lavoro, alla velocità di 400 milioni di calcoli al secondo] .

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questioni in sospeso che attendono di essere risolte, a volte da secoli. Il teorema di Godei ci fa intravedere la possibilità che esse non vengano mai risolte. Esso si spinge addirittura molto oltre, permettendo di costruire esplicitamente una proposizione indecidibile nel sistema con­ siderato. Questa proposizione può allora essere presa come un nuovo assioma, e aggiunta agli assiomi esistenti per costituire un nuovo siste­ ma, che a sua volta comporterà una proposizione indecidibile, la quale potrà essere di nuovo aggiunta agli assiomi precedenti per costituire un nuovo sistema, e così di seguito, indefinitamente. A ogni tappa, però, si ha un'ambiguità: se una proposizione è indecidibile, lo è anche la sua contraria, così che si ha da scegliere quale delle due prendere come assioma. A seconda che si scelga una proposizione o la sua contraria, si ottengono due matematiche diverse, dotate l'una e l'altra di una per­ fetta coerenza interna ma incompatibili fra loro. Il teorema di Godei afferma in definitiva l'esistenza di un'infinità di matematiche distinte, tutte figlie della stessa necessità. Le matematiche non sono determinate unicamente dalla logica, ma in esse ha un suo posto anche l'arbitrio. Sono perciò possibili due atteggiamenti. Si può ritenere che gli oggetti matematici, come per esempio i numeri interi, abbiano un'esistenza indipendente, così che ogni proposizione che li concerne debba essere vera o falsa, indipen­ dentemente dal fatto che essa sia o no dimostrabile. Non esiste in tal caso che una sola matematica legittima: quella che rende conto esatta­ mente di tutte le proprietà dei numeri interi. Questo è l'atteggiamento platonico adottato d'altronde dallo stesso Godei - che nel suo articolo del 1 93 1 fa notare che la proposizione da lui costruita è indecidibile ma «vera » - e dalla maggior parte dei logici, i quali si riferiscono a un « modello standard » dei numeri interi, ossia in ultima analisi all'intui­ zione che ne hanno. Oppure si può avere un atteggiamento pragmatico, e ritenere che gli oggetti matematici esistano solo al livello operazioni­ stico. Una questione indecidibile è una domanda senza risposta, perché non può essere risolta per mezzo dell'esperienza fisica. Quale che sia la nostra inclinazione, non c'è un altrove in cui possiamo collocarci per decidere che la risposta debba essere sì piuttosto che no. Questo è un atteggiamento che fa il paio con quello di Nieis Bohr nella meccanica quantistica: la domanda non sarà posta. Se la maggior parte dei matematici sono platonici, ciò dipende dalla

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bellezza trascendente dell'edificio della matematica, che non sembra essere stato costruito da mano umana. Ma dipende anche dalla nostra esperienza di ricercatori, dominata dall'impressione di svelare i segreti della natura, di liberare dalla loro matrice d'incomprensione delle verità eterne, più che di plasmare umili oggetti domestici. Il momento della scoperta è quello dell'illuminazione: vedo infine le cose come sono; il mistero che le avvolgeva si è dissipato. In tale momento l'evi­ denza è così lampante che ci si impone il mito platonico della metem­ psicosi, nel quale le anime contemplano le verità eterne durante il loro soggiorno agli inferi, prima di bere l'oblio nelle acque del Lete e risa­ lire sulla terra per ricominciare un nuovo ciclo. Ma chiunque abbia mai riflettuto sulla storia delle matematiche non può non essere pervaso dal dubbio. Certamente qualche grande crea­ tore ha svolto in tale storia un ruolo eminente. Che cosa sarebbero l'analisi senza Newton o Leibniz, l'algebra senza Galois, la geometria senza Gauss? Ma la storia delle matematiche non dipende solo da qual­ che intuizione geniale. Essa si inscrive nello sviluppo generale delle scienze e delle tecniche: l'analisi nella sua fase nascente fu pilotata dalla meccanica celeste, e il libro in cui Gauss getta i fondamenti della geo­ metria è anche un trattato di geodesia. Se le circostanze storiche fos­ sero state diverse, se i bisogni da soddisfare fossero stati altri, le mate­ matiche non sarebbero state diverse? Se la Terra fosse stata l'unico pia­ neta in orbita attorno al Sole, e se non avesse avuto un satellite, non si sarebbero accumulate nel corso di tanti secoli le osservazioni planetarie né si sarebbero architettati sistemi per spiegare le peregrinazioni degli astri erranti sulla sfera delle stelle fisse, la meccanica celeste non esiste­ rebbe e noi non riconosceremmo le matematiche. Noi crediamo di vedere un itinerario obbligato, uno sviluppo logico tendente verso una meta, ma è l'illusione della teleonomia, quella di consacrare lo stato attuale in un processo evolutivo e di interpretare il passato in funzione del presente. Là dove noi vediamo un progresso regolare lungo un cammino tracciato da tutta l'eternità, non c'è stato forse altro che un cammino a caso, secondo il capriccio delle sollecita­ zioni esteriori. Scrive Antonio Machado, citato da David Ruelle in un contesto simile: 1 2 12

Are Our Mathematics Natura/?, in «Bulletin of the American Mathematical

Society>>, XIX ( 1 988), pp. 2 5 9-68.

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S7

Caminante, son tus huellas el camino y nada mas; caminante, no hay camino, se hace camino al andar. 1 3

Non ci rimane che meravigliarci della singolarità del nostro destino. L'edificio della scienza, e così la storia umana, comprendono molto arbitrio, cosicché ci si sorprende a sognare ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato. Noi siamo i superstiti di uno spietato processo di selezione che sceglie, nell'infinita varietà dei futuri possibili, quello che infine si realizzerà. Gli eventi rifiutati da questa divinità senza volto che chiamiamo caso hanno altrettanto diritto all'esistenza di quelli che essa finirà col conservare e che faranno parte d'ora in poi della nostra espe­ rienza. Il nostro solo merito è quello di esistere, senza alcuna ragione apparente, e a spese di altre possibilità, certamente altrettanto ricche e forse più seducenti. Perché proprio io? La domanda non ha risposta. Non c'è quindi nulla di strano nel fatto che chi si lascia andare a questi pensieri subisca una crisi d'identità: che cos'è questo mondo così con­ tingente, che cos'è questo io dinanzi a tante altre esistenze virtuali? Lasciamo, per concludere, la parola al poeta: 14 Questa vita barocca e inaudita: Ecco che in mezzo a un gran numero di pretendenti una cellula maschile perviene infine a una cellula femminile e io accedo all'essere Non sorprende che io dubiti di essere me stesso E poi, questa società in cui tutti abbaiano gli uni contro gli altri come in un canile totalmente convinti di essere se stessi Guerre, sacrifici umani Io non credo di essere esistito più a lungo che fino alla fecondazione, macolata concezione lo, spermatozoo, giro in cerchio a grandi colpi di flagello alla ricerca dell'uovo del mondo ma dove trovarlo? 13 [Viandante, son le tue impronte I la via e nulla più; l viandante, non c'è una via, I la via si fa camminando] . 14 Gunnar Ekeliif, Detta oerhiirda, in Opus incertum, ! 959.

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Dinanzi all'assalto di questa contingenza multiforme, l'umanità si sforza di identificare i determinismi sottostanti, ossia di dare un senso al mondo. Come abbiamo visto, può trattarsi di concatenazioni neces­ sarie come di regolarità statistiche: si tratta solo di svelarle. Il senso può essere una conquista personale dell'individuo, o il frutto di un'an­ tica tradizione. Può anche essere imposto con la forza. La violenza è contingenza pura, ma il suo stadio ultimo è quello di imporre un senso. Il tiranno non vuole solo essere obbedito, vuol essere amato. L'occu­ pante confisca il Paese ed esige l'adesione delle popolazioni depredate, come il coro saluta la cacciata di Filemone e Bauci da parte di FaustY Das alte Wort, das Wort erschallt: Gehorche willig der Gewalt! Und bist du kii h n und haltst du Stich, So wage Haus und Hof und - dich!

Come ha mostrato Claude Lévi-Strauss, gli uomini hanno sempre attribuito a certi simboli il potere d'interpretare il mondo o di trasfor­ marlo. È quella che chiamiamo una teoria: un insieme di elementi fon­ damentali e di regole formali che permettono di combinarli in elementi nuovi, e un gioco di corrispondenze fra l'universo formale così creato e il mondo che ci circonda. È in questa corrispondenza misteriosa che si situa il determinismo, mentre i vari formalismi proposti e poi abbando­ nati sono innumerevoli come le civiltà cui si deve la loro creazione. Noi abbiamo una predilezione culturale per lo schema che associa un modello matematico a una verifica sperimentale, ma altri schemi sono logicamente possibili e sono stati utilizzati: fra questi c'è la magia, con tutte le scienze occulte che ci sono trasmesse dalla tradizione, e di cui il seid degli antichi norvegesi non è altro che l'espressione locale, nel tempo e nello spazio. Sono rari i documenti che ci informano in proposito con una qualche precisione, e l'azione distruttrice dei re cristianizzatori ha dato un contributo grandissimo a questo oblio volontario. Per fortuna ci nmane il ricordo di Egil Skalagrimsson, grande vichingo e grande scaldo, maestro del seid, forse la personalità più 15 Goethe, Faust, parte II, atto V, Tiefe Nacht (Notte profonda). « La parola, l'antica parola risuona: Ubbidisci volente alla violenza! Se sei ardito ed opponi resistenza, allora arrischia casa e beni e te stesso! » [trad. G. V. Amoretti, Faust e Urfaust, testo tedesco con traduzione a fronte, Utet, Torino 1 950, e Feltrinelli, Milano 1 965, pp. 6 1 6 sg.].

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significativa dell'Antichità nordica. La saga di Egil, un capolavoro di tale grandezza che si sospetta possa esserne autore Snorri Sturluson, ci riferisce come Egil usò il seid contro il re Erik Asciasanguinosa e la regina Gunnhild. Lasciando la Norvegia dopo aver saldato i suoi conti con i nemici, Egil eresse un nidstang, un palo per il sortilegio, vi impalò una testa di cavallo rivolta verso l'interno del Paese, e pronunciò questa imprecazione Y « Erigo qui un palo d'infamia e lo rivolgo verso il re Erik e la regina Gunnhild; lancio questo sortilegio sugli spiriti tutelari che abitano questo Paese, affinché perdano tutte le loro vie e nessuno trovi mai un'oasi di pace fino a quando non abbiano cacciato dal Paese il re Erik e la regina Gunnhild ». La maledizione fu incisa sul palo in caratteri runici, e qualche anno dopo il re Erik e la regina Gunnhild furono cacciati dalla Norvegia e costretti a vivere in esilio nelle isole Orcadi. Essi ebbero la loro rivin­ cita quando Egil, gettato da una tempesta sulla costa, cadde nelle loro mani. Si voleva procedere immediatamente alla sua esecuzione, ma fra i cortigiani c'erano amici di Egil che ne perorarono la causa, soste­ nendo che non si doveva mai uccidere nessuno fra il tramonto e il levar del sole: «0 re, non è un assassinio uccidere un uomo di notte? >> Egil ebbe dunque in dono una notte, che mise a profitto per comporre un capolavoro della poesia nordica - la prima composizione poetica in rime - un'ode alla gloria del suo nemico, che il giorno dopo declamò dinanzi al re Erik e alla sua corte. Per uno scaldo in una situazione disperata questo era un modo riconosciuto per salvare la testa, e la poe­ sia è nota oggi come Hofudlausn (Riscatto della testa). In questa storia si concatenano vari determinismi : la pratica del seid, il rispetto di un costume, l'arte poetica. Noi non riconosciamo più nessuna di queste cose come nostra; con i vichinghi sono scomparsi il seid, la poe­ sia scaldica e quello strano riguardo che proibiva di uccidere il peggior nemico quando fosse scesa la notte. Ma l'esigenza che tutte queste cose esprimevano, di identificare e al bisogno costruire oasi di regola­ rità nel deserto della contingenza, rimane viva ancor oggi, anche se noi l'appaghiamo con altri mezzi. Il formalismo e il rigore della poesia scaldica non sono affatto inferiori a quelli delle matematiche moderne, e chi sa adattare i kjenninger 1 7 rispettando le regole dell'allitterazione

1 6 Egilssaga (Saga di Egil Skalagrimsson), cap. 5 7 . 1 7 L e regole molto rigorose della poesia scaldica avevano condotto a sostituire nu­

merose parole usuali con metafore, i kjenninger, che meglio rispondevano alle esigenze dell'allitterazione, e che divennero nel corso dei secoli sempre più raffinate.

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saprà anche concatenare i teoremi secondo le regole della logica. In un caso come nell'altro, la creatività è qualcosa di più; è la creatività a dare il senso e la bellezza e a distinguere gli artisti dagli abborracciatori. Se la poesia scaldica è caduta in disuso, è per eccesso di formalismo. Se il seid è scomparso, è perché è stato sconfitto da altre pratiche. L'umanità genera di continuo sistemi che vivono per qualche tempo, per poi morire di malattia o per incidente. Il seid era stato senza dub­ bio molto utile a 0yvind Kjelda in altre circostanze, ed ecco che lo abbandona nel momento cruciale, senza che si comprenda veramente che cosa sia accaduto. Un determinismo ne soppianta un altro, la mec­ canica celeste scaccia l'astrologia, ma continua a sussistere questa misteriosa corrispondenza fra gli universi intellettuali da noi creati e il mondo materiale in cui viviamo.

CAPITOLO 3 Anticipazione

Il ricordo del re Olav Trygvesson è inseparabile da quello del suo drakkar, Ormen Lange (il Lungo drago). Egli lo aveva fatto costruire sul modello di un drakkar che aveva portato da Halogaland, e che era già una nave superba; ma, per la sua grandezza e bellezza, il nuovo drakkar doveva superare di molto il suo modello, che fu chiamato ormai il Drago corto. La fama del Lungo Drago aveva varcato i mari. All'epoca dell'ultima spedizione del re Olav, i suoi nemici - i re di Svezia e di Danimarca, così come lo jarl Eirik, con settantun navi - gli tesero un agguato nei pressi dell'isola di Svolder, davanti alle coste meridionali del Baltico. La flotta del re Olav, ignorando la presenza del nemico, s'apprestò a rientrare in Norvegia. Le navi più piccole presero il mare per prime e, essendo anche

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CAPITOLO TERZO

le più veloci, scomparvero ben presto alla vista. Olav Trygvesson rimase con le sue undici navi più grandi, che un traditore, lo jarl Sigvalde, doveva guidare verso il mare libero per un canale che assicurasse loro un pescag­ gio sufficiente. In realtà le guidò diritte nelle fauci del lupo. Svein di Danimarca, Olav di Svezia e lo jarl Eirik erano presenti con mtto il loro esercito. Il tempo era bello e il cielo chiaro; i capi salirono su un'almra, ognuno col suo seguito, e videro una lunga fila di navi allontanarsi in mare . Poi videro una nave grande e maestosa far vela verso di loro. I due re dissero allora: « Che nave imponente, e com'è bella! Dev'essere il Lungo drago». Eirik replicò: « Non è il Lungo drago», e aveva ragione, poiché quel drakkar apparteneva a Eindride di Gim­ san. Qualche istante dopo videro passare un altro drakkar, molto più grande del primo. Il re Svein disse allora : «Olav Trygvesson ha paura; non osa inalberare un'insegna sulla sua nave » . Ma Eirik ribatté: «Non è la nave ammiraglia. Io cono­ sco la nave e la sua vela, la quale ha delle righe. Quello che sta passando è Erling Skjalgsson: !asciamolo andare. Per noi è meglio che il re Olav non possa contare su questo drakkar; armato com'è, ci causerebbe molti danni ». Un po' dopo videro i drakkar dello jarl Sigvalde, e li riconobbero; i drakkar si diressero proprio verso di loro. Poi videro tre drakkar con le vele spiegate, il primo dei quali era di una gran­ dezza davvero eccezionale. Allora il re Svein ordinò di imbarcarsi, gridando che stava arrivando il Lungo drago. Eirik disse: « Hanno molte altre navi grandi e impo­ nenti, oltre al Lungo drago, aspettiamo ancora un po' >>. Cominciò allora a spargersi

un mormorio: « Lo jarl Eirik non vuole battersi e vendicare suo padre. È una grave onta, e se ne diffonderà la fama nel mondo intero : noi rimaniamo inattivi con la nostra immensa flotta, e il re Olav prende il largo sotto il nostro naso >>. Questa discussione stava ancora continuando quando essi videro quattro drakkar che procedevano a vele spiegate, e uno di essi inalberava un' enorme testa di drago ricoperta d'oro. Allora il re Svein si levò e disse: «Il Drago mi leverà in alto questa sera; sarò io a pilotarlo>>. Gli altri esclamarono che il Drago era una nave gigante­ sca, e bellissima, e che era un uomo coraggioso colui che l' aveva fatta costruire. Ma Eirik disse, in modo che in pochi lo sentissero: «Anche se il re Olav non avesse un drakkar più grande di questo, il re Svein e i suoi danesi, da soli, non riuscirebbero a prenderlo>>. Gli uomini scesero allora verso le navi e cominciarono a smontare le tende. Ma mentre i capi aspettavano discutendo dei fatti che abbiamo appena rife­ rito, videro apparire tre possenti drakkar, e un quarto dietro di essi, ed era quello il

Lungo drago. Le altre due navi che avevano in precedenza scambiato per il Lungo drago erano l'una il Tranen e l' altra l'Ormen Smtte, il Drago corto. Non appena eb­ bero visto il Lungo drago, lo riconobbero però rutti per quello che era, e non ci fu alcuna discussione; era Olav Trygvesson che stava solcando il mare. Si imbarca­ rono e si prepararono alla battaglia . 1

I nemici di Olav Trygvesson affrontano qui un problema di deci­ sione del tutto tipico: essi non devono scoprirsi fino al momento in cui non sarà in vista il drakkar del re. Se si mostreranno troppo presto 1 6/dfs saga Tryggvasonar (Saga di Olav Trygvesson), cap.

1 00.

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verrà dato l'allarme e il re avrà il tempo di fuggire, ma se si imbarche­ ranno troppo tardi il re sarà passato e l'occasione non si ripresenterà più. Essi devono quindi riconoscere il Lungo drago. Il problema è che non lo hanno mai visto; o piuttosto lo ha visto solo uno di loro, a cui essi non accordano però una grande fiducia. Ben presto accusato di vil­ tà, nel seguito della discussione egli si trova ridotto al silenzio. I due re devono quindi farsi guidare dalla fama del Lungo drago. Essi ne conoscono una descrizione generica: sanno che è molto grande, ric­ camente ornato e che è abbastanza fuori del comune da giustificare la fierezza del suo possessore, Olav Trygvesson, il cui splendore era già leggendario. Poiché peraltro l'architettura navale non offre una varietà infinita, ed essi sono necessariamente conoscitori di drakkar, si fanno infine un'idea abbastanza precisa del Lungo drago, molto più precisa, per esempio, di quella che possiamo farcene noi oggi. Ciò non impedisce che sbaglino cinque volte, ogni volta con eccel­ lenti ragioni. Ogni drakkar è più grande e più bello del precedente, e ogni volta pare che si sia raggiunto il massimo; a ogni passaggio rie­ splode il dissenso, e gli uni son sempre più sicuri di sé, gli altri sempre meno numerosi. Soltanto l'apparizione del vero Lungo drago mette fine alle dispute. A quel punto tutto è chiaro, non c'è più bisogno di discu­ tere, e ci si precipita alle navi. Retrospettivamente, cade il velo dagli occhi, e ci si chiede come sia stato possibile lasciarsi ingannare da così pallide imitazioni. Ora pare che la descrizione che era stata data, di un drakkar gigantesco e coperto d'oro, non possa convenire che a questa nave fiabesca che avanza sotto il sole. Ma non è affatto così . È l'illusione classica, forse inevitabile, di coloro che scrivono la storia, di prestare ai personaggi storici gli occhi dello spettatore che sa già come sono andate a finire le cose. È in effetti molto difficile ritrovare a posteriori, nei nostri ricordi, la freschezza della prima impressione. Finché non ha visto il Lungo drago, il re Svein può essere ingannato dal Drago corto, e può anche convincere altri che il suo punto di vista sia quello giusto. La finezza del ragionamento e l' espe­ rienza in materia di costruzioni navali non saranno d'alcun aiuto. Solo l'apparizione di Olav Trygvesson sul suo Lungo drago potrà farlo ricredere. L'incertezza è fra i dati fondamentali della storia umana, e della nostra vita quotidiana. Dobbiamo prendere di continuo decisioni in un conte­ sto che valutiamo imperfettamente. Una giusta valutazione della situa­ zione è fondamentale per poter giudicare correttamente le conseguenze

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CAPITOLO TERZO

delle nostre azioni. Possiamo contare, per le nostre valutazioni, sul­ l'esperienza passata, e su tutto un sapere accumulato da noi o da altri, e tuttavia non siamo mai sicuri di aver formulato la giusta diagnosi. Dob­ biamo tuttavia agire, correndo il rischio di prendere una decisione che in seguito, una volta a conoscenza del vero stato delle cose, potrà appa­ rirci non solo pericolosa, ma stupida. Osserviamo che non si tratta di avventurarsi nell'ignoto. La situa­ zione che cerchiamo di analizzare rientra in un quadro noto. Sappiamo che c'è un certo numero di situazioni tipo che rendono conto di ciò che osserviamo, e cerchiamo semplicemente di sapere quale sia quella buona. Questo drakkar, immenso e magnifico, appartiene alla flotta del re Olav, ma è il Lungo drago? Bisogna interrogare l'evento, come Giovanni il Battista che, dal carcere in cui era rinchiuso, inviò i suoi discepoli a chiedere a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o ne dobbiamo aspettare un altro? >> La condizione umana è quella di non poter ottenere a questa domanda se non risposte ambi­ gue: «Andate a riferite a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risuscitano, i poveri sono evangelizzati ed è beato chi non si scan­ dalizza di me>> (Matteo, 1 1 , 2 -6; Luca, 7, 1 8-2 3). È un tema ricorrente nel Nuovo Testamento: bisogna saper leggere i segni dei tempi. Questa lettura non può essere puramente obiettiva, in quanto comporta una decisione e un rischio personali. Chi vuole intendere, intenda. Un secondo tema si mescola allora al primo: ed è che la fede porta alla realizzazione. Per chi ha accettato di intendere, il Regno di Dio è già arrivato. Per la comunità dei credenti, le promesse sono in parte già realizzate: Ed erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli, nella comunione frater­ na, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Il timore aveva preso ogni anima,

poiché molti prodigi e segni venivano compiuti per mano degli apostoli. E tutti quelli che avevano creduto stavano insieme e avevano tutto in comune. Vende­ vano poi le proprietà e i beni e ne distribuivano il ricavato a tutti, secondo che ognuno ne aveva bisogno (Atti, 2, 42 -45).

Una volta condivisa, l'attesa comune del Giudizio induce comporta­ menti che confermano la scelta iniziale. La profezia si realizza se c'è un numero sufficiente di persone che ci credono, un po' come se l'arrivo di Olav Trygvessr> Il fatto è che gli indicatori economici - come il livello dei prezzi, il tasso di disoccupazione o la bilancia del commercio con l'estero - pur essendo obiettivamente misurabili, richiedono comunque di essere interpretati. Di per sé sono ambigui, nello stesso modo in cui uno stesso sintomo può appartenere a varie malattie. Mettiamoci per esem­ pio nei panni di un produttore che vede aumentare i prezzi nel suo set­ tore. Egli deve stabilire se si tratta di un'illusione monetaria (nel qual caso si limiterà ad adeguare i suoi prezzi al livello generale dell'infla­ zione), di un aumento temporaneo della domanda (in questo caso do­ vrà farvi fronte con i mezzi di produzione esistenti) o di un movimento di fondo (in quest'evenienza dovrà cercare di investire, e il più rapida­ mente possibile, per scongiurare il pericolo che di queste nuove parti di mercato emergenti si appropri la concorrenza). Un errore di valuta­ zione può condurre al disastro, sia che egli abbia investito nel mo­ mento sbagliato, ritrovandosi ad avere una capacità produttiva supe­ riore al fabbisogno e un forte indebitamento, sia che non abbia perce­ pito le nuove tendenze e non sia quindi il grado di mantenere il suo posto in un mercato in espansione. Anche il consumatore si trova di fronte a questo genere di proble­ ma: a volte può essere utile cercare di ritardare un forte investimento, per esempio l'acquisto di una casa o di un'automobile, in attesa di un calo dei prezzi o dei tassi d'interesse. Il risultato di tutto ciò è che tutti gli operatori dell'economia sono intenti di continuo a chiedersi che cosa stia accadendo. Non occorre essere grandi esperti per constatare che si è in un periodo di crisi o di espansione. Ciò che è difficile, e che è anche l'informazione più preziosa, è percepire i mutamenti di tendenza. Chi avrà previsto correttamente la fine della crisi avrà un vantaggio deci­ sivo sui suoi concorrenti, ancora paralizzati dalla preoccupazione. Il punto più notevole di quest'analisi è che le valutazioni degli ope­ ratori economici fanno parte integrante della situazione che essi cer­ cano di analizzare. Se tutti giudicano che la crisi durerà ancora, non si

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faranno investimenti, i consumi saranno ritardati e la crisi si prolun­ gherà. Se, per contro, tutti stimano che la crisi sia ormai terminata, diventeranno disponibili liquidità per gli investimenti, la domanda avrà una brusca impennata e si avrà il tanto atteso rilancio dell'economia. Nella realtà, beninteso, le opinioni saranno divise, fino al momento in cui una di esse non avrà la meglio e la situazione non si volgerà decisa­ mente in una direzione, come l'apparizione del Lungo drago metteva infine tutti d'accordo. Presentire le opinioni altrui, anticipare le reazioni degli operatori economici prima che essi stessi ne abbiano coscienza, è quindi un eser­ cizio che riveste un'estrema importanza in materia economica. La cosa peggiore è questo stato di attesa generale in cui ognuno si rinchiude nel proprio guscio in attesa di giorni migliori, mentre la situazione ideale è quel clima di fiducia che tutti i governi ricercano e che per­ mette agli operatori economici, produttori o consumatori, di non vedere i rischi che si assumono. Questi sono gli stessi meccanismi che operano in borsa, e che determinano in gran parte i prezzi delle azioni. Certo le considerazioni economiche vengono prima di tutto, e non c'è nulla come i cattivi risultati per far cadere il corso delle azioni, ma nelle grandi borse, come Wall Street, e sui titoli più importanti, la gran massa delle tran­ sazioni sono acquisti e rivendite nell'arco della giornata. È chiaro che a un operatore di borsa che conservi il suo portafoglio di titoli meno di ventiquattr'ore non interessa molto sapere che profitto apporteranno le azioni in cinque anni. Ciò che determina il prezzo è il mercato, ossia le anticipazioni che migliaia di operatori in tutto il mondo fanno sulle reazioni dei loro simili . Quest'osservazione era già stata fatta da Keynes: 2 (. . .) l'investimento professionale può venir paragonato a quei concorsi dei gior­ nali, nei quali i concorrenti d evono scegliere le sei facce più graziose fra u n cen­ tinaio d i fotografie, e nei quali il premio viene concesso al concorrente che si sia più avvicinato, con la sua scelta, alla media fra tutte l e risposte ; cosicché ciascun concorrente d eve scegliere, non quelle facce che egli ritenga più graziose, ma quelle che ritiene più probabile attirino i gusti degli altri concorrenti, i quali a loro volta affrontano tutti quanti il problema dallo stesso punto di vista. Non si tratta di scegliere quelle che, giudicate obiettivamente, sono realmente le più

2 ] . M. Keynes, The Genera/ Theory of Employment lnterest and Money, Harcourt Brace, New York 1 93 6 , cap. 1 2 , sez. V [trad. A. Campolongo, Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, Utet, Torino 1 968, pp. 1 3 6 sg. ] .

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CAPITOLO TERZO

graziose, e nemmeno quelle che una genuina opinione media ritenga le più gra­ ziose. Abbiamo raggiunto il terzo grado, nel quale la nostra intelligenza è rivolta ad indovinare come l'opinione media immagina che sia fatta l'opinione media medesima. E credo che ci siano alcuni i quali praticano il quarto, il quinto grado e oltre.

Ci si può fare un'idea per quanto vaga di queste sottigliezze parteci­ pando a giochi come la morra, in cui i due giocatori calano simultanea­ mente una mano e vince quello che, al tempo stesso, dice la somma delle dita presentate, o come la morra giapponese (o cinese), nella quale a un segnale i giocatori presentano o la mano aperta, che significa «carta», o l'indice e il medio distesi, che significano «forbici», o il pugno chiuso, che significa «pietra»: la carta vince sulla pietra, la pietra sulle forbici e le forbici sulla carta. Lo scopo, in questo gioco, è quello di essere in anti­ cipo di un passo sull'avversario. Se il mio avversario ha vinto al colpo precedente giocando «carta >>, mentre io ho giocato «pietra>>, potrà essere tentato di rifare il gioco che gli è già riuscito: questo è un modo di procedere ingenuo, quello che si potrebbe chiamare il livello zero del­ l'astuzia. Ma ciò presuppone che anch'io rigiochi «pietra>>, ossia che non modifichi una strategia perdente. È invece più probabile che io anticipi la sua reazione e che giochi «forbici >>, sventando in questo modo la strate­ gia ingenua. Se il mio avversario è capace di un minimo di riflessione, riterrà probabile che io cerchi di modificare una strategia perdente, e riprodurrà il mio ragionamento. Anticipando a sua volta la mia conclu­ sione, cercherà di battere la mia scelta «forbici >>, cosa che lo condurrà a giocare «pietra>>: questo è il primo livello dell'astuzia. Nulla m'impedisce di seguirlo su questo terreno, e quindi di giocare «carta>>, e se egli pensa che io adotterò questa strategia giocherà «forbici >>. Il secondo livello del­ l'astuzia corrisponderà in questo modo al livello zero: in altri termini, la stessa strategia può essere adottata per ingenuità come per sottigliezza. E che dire dei livelli terzo, quarto o più? Ricordiamo anche l'angoscia del portiere di calcio prima del calcio di rigore. Il regolamento gli proibisce di muoversi prima che la palla sia stata colpita, e il suo scatto dev'essere praticamente simultaneo al tiro perché egli possa avere qualche probabilità di fermarlo. Poiché, una volta fatta la sua scelta, non avrà il tempo se non di apportarvi corre­ zioni minime, dovrà nei limiti del possibile anticipare il rigorista, deci­ dendo per esempio da che parte buttarsi. Certi portieri cercano effetti­ vamente di indovinare, sulla base delle abitudini del tiratore, del suo stato di affaticamento e dei rigori da lui tirati in precedenza, da che

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parte batterà il rigore. Ma l'avversario non è necessariamente meno astuto di lui, e il tiratore potrà cercare di anticipare il portiere. Ecco perché alcuni rinunciano a impegnarsi nel gioco senza fine delle antici­ pazioni reciproche e si rimettono al caso, o all'impressione del momento. Il portiere cerca di indovinare in quale angolo l'altro tirerà, dice Bloch. Se il por­ tiere conosce il centravanti, sa quale angolo sceglie in generale. Ma il centravanti può benissimo prevenire il ragi onamento del portiere. Il portiere continua quindi a riflettere e si dice che questa volta la palla non sarà tirata nello stesso angolo. Sì,

ma se il centravanti segue sempre il ragi onamento del portiere e si prepara a tirare verso il solito angolo? E così via, e così via. l

Quel che risulta nel modo più chiaro da tutte queste situazioni è che non può esistere un metodo che garantisca il successo a uno dei gioca­ tori. Occorre infatti partire dal principio che essi sono entrambi razio­ nali, che dispongono della stessa informazione, e che ognuno di loro è quindi in grado di riprodurre i ragionamenti dell'avversario. Se esi­ stesse un argomento invincibile che convincesse per esempio il portiere a buttarsi a destra, questo argomento sarebbe in possesso anche del suo avversario, che, giudicandolo perfettamente convincente, anticiperebbe non meno perfettamente la reazione del portiere e tirerebbe dall'altra parte. Ecco perché il meglio che la teoria dei giochi abbia potuto fare nel­ l'analisi di questo genere di situazioni è stato di introdurre nella deci­ sione un elemento di caso. Se il portiere tira a testa o croce da quale parte buttarsi, si immunizza per sempre contro la sottigliezza mentale dei suoi avversari e, se la sua carriera è abbastanza lunga, alla fine avrà avuto ragione una volta su due. Egli deve però resistere alla tentazione di affidarsi alla propria sottigliezza mentale, la quale metterebbe imme­ diatamente in moto il meccanismo delle anticipazioni. Se egli constata, per esempio, che i rigori vengono tirati sistematicamente alla sua destra, non deve perciò buttarsi meno spesso alla sua sinistra. Ogni mutamento di strategia da parte sua sarebbe infatti osservato rapida­ mente dall'avversario, che ne approfitterebbe per piazzare qualche tiro alla sua sinistra. In effetti, quei tiri sistematici da una sola parte potreb­ bero avere lo scopo di convincere il portiere ad abbandonare la sua strategia di testa o croce e a tornare a una gara di anticipazioni, dove l'avversario si sente più a suo agio. l P. Handke,

cio di rigore,

Die Angst des Tormanns beim Elfmeter [trad. B.

Feltrinelli, Milano 1 97 1 ] .

Bianchi,

Prima del cal­

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CAPITOLO TERZO

Quando, nel 1 93 0, il matematico Émile Borel propose di introdurre un elemento di caso nelle strategie dei giocatori, vi vide all'inizio un principio di economia che permetteva di eliminare l'astuzia e di uscire dal ciclo infernale delle anticipazioni reciproche. Ai nostri tempi si pre­ ferisce insistere piuttosto sugli effetti informativi di queste strategie aleatorie. Il portiere lascia definitivamente i suoi avversari in una situa­ zione d'incertezza: i loro ragionamenti più fini, le loro strategie più sottili non potranno impedirgli di avere ragione una volta su due. Nep­ pure il tradimento potrà aiutare il rigorista: se il portiere confida all'a­ mante la propria intenzione di tirare a testa o croce da quale parte buttarsi, e se l'amante confida questa informazione agli avversari, questi non potranno servirsene per migliorare le loro probabilità di successo. Il portiere potrà anche gridare ai quattro venti che, non solo per una partita, ma per tutta la sua carriera, si rimetterà al caso, senza che i suoi avversari possano trame alcun vantaggio. C'è ovviamente una contropartita, ed è che egli rinuncia a migliorare la sua percentuale di successi, sfruttando per esempio le tendenze statistiche che potrebbe osservare nei suoi avversari: in questo modo egli introdurrebbe infatti nella propria strategia una tendenza statistica (ossia quella di buttarsi più spesso da un lato che dall'altro), da cui un avversario astuto potrebbe trarre vantaggio. In altri termini, il portiere deve saper rinun­ ciare a vantaggi facili a breve termine per non fornire informazioni che potrebbero essere sfruttate contro di lui a lungo termine. Prenderemo ora in considerazione tutta quest'analisi in un quadro più adatto, quello del poker. Può sembrare paradossale che si consigli a un giocatore di poker di tirare a sorte la sua decisione, e soprattutto che questo modo di procedere sia quello ottimale in certe circostanze. È tuttavia ciò che faremo, se non per il poker, almeno per una versione molto semplificata di questo gioco. I risultati che otterremo resteranno qualitativamente validi per il poker stesso, ma i calcoli effettivi sono troppo complicati per poterli tentare qui. Si gioca da soli contro il mazziere. Per cominciare, fai una puntata iniziale, e il mazziere dovrà mettere nel piatto una somma uguale. Fatto questo, egli prende un mazzo di carte nuovo, lo sfascia e ne trae i sette, che mette davanti a sé. Poi rimescola le carte restanti e ti invita ad alzare, dopo di che ti dà la prima carta, prendendola con una lunga spatola e facendola scivolare verso di te con la faccia nascosta. Non si prenderanno più altre carte.

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Si tratta di far meglio del sette del mazziere. L'asso vale uno; nel mazzo ci sono quindi ventiquattro carte inferiori al sette e ventiquattro superiori. C'è dunque una possibilità su due che la tua carta sia vincen­ te, e una su due che sia perdente. Dopo aver dato un'occhiata discreta alla tua carta, hai due possibilità: passare o rilanciare . Se passi, il mazziere raccoglie le puntate e la partita è terminata. Se rilanci devi puntare di nuovo, sempre la stessa somma. Il mazziere può allora passare o vedere. Se passa, sei ru a raccogliere le puntate. Se ti chiede di vedere, deve puntare di nuovo, sempre la stessa somma. Tu volti la tua carta, il mazziere tiene sempre il suo sette, e la carta più alta vince. In ogni caso il gioco termina a questo punto. Una prima analisi mostra che ci sono esattamente quattro strategie possibili: l ) rilanciare su una buona carta e passare su una cattiva; 2) rilanciare sempre; 3) passare su una buona carta e rilanciare su una cattiva; 4) passare sempre. Quest'ultima strategia è chiaramente da evitare, perché conduce a perdere con certezza la puntata iniziale. Del resto, non si capirebbe perché il giocatore debba pagare il diritto di partecipare al gioco (è questo il senso della puntata iniziale) se decide di passare sempre. La terza strategia - passare su una buona carta e rilanciare su una cattiva - sembra paradossale. Essa offre tuttavia una possibilità di gua­ dagno, qualora il mazziere si ritirasse dopo il rilancio. Se però il maz­ ziere chiede sistematicamente di vedere, la perdita è massima, in quanto si perde una puntata ogni volta che si ha una carta buona e due puntate ogni volta che se ne ha una cattiva, cosa che si traduce nella perdita media di una puntata e mezza. Le altre due strategie sono più redditizie. La prima - rilanciare su una buona carta e passare su una cattiva - fa perdere una puntata se la carta è cattiva e guadagnare una puntata se la carta è buona, a meno che il mazziere non rilanci, nel qual caso si guadagnano due puntate. Se il mazziere passa sistematicamente, la speranza di guadagno è nulla. Quanto alla seconda strategia - rilanciare sempre - il risultato dipende dalla strategia del mazziere: l ) se egli passa sistematicamente, il suo avversario guadagna una pun­ tata in ogni caso; 2) se egli chiede sempre di vedere, il suo avvversario perde due pun-

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CAPITOLO TERZO

tate su una carta cattiva e guadagna due puntate su una carta buona: anche in questo caso, dunque, si ha una speranza di guadagno nulla. Mettiamoci ora nei panni di un giocatore inveterato, un habitué del casinò che va a giocare tutte le sere. Qualunque strategia egli adotti, il mazziere riuscirà infine a scoprirla e metterà in atto la difesa corrispon­ dente. Se il giocatore rilancia sistematicamente, il mazziere chiederà sistematicamente di vedere, e se il giocatore passa sempre su una cat­ tiva carta, il mazziere non chiederà mai di vedere. Pare dunque che il mazziere possa sempre ridurre a zero la speranza di guadagno del gio­ catore. Considerando le cose in quest'ottica, è chiaro che tutte queste stra­ tegie presentano lo stesso difetto: il loro uso sistematico le smaschera. È questa informazione che il mazziere, una volta che l'abbia raccolta, può utilizzare contro il giocatore e che gli permette di ridurne a zero la speranza di guadagno. Se il giocatore vuole aumentare la sua speranza di guadagno, deve trovare un modo di nascondere l'informazione, di celare la strategia che utilizza. Tale modo esiste, ed è quello di utilizzare una strategia aleatoria. Se il giocatore decide che, avendo una carta cattiva, passerà due volte su tre ma rilancerà una volta su tre, il calcolo mostra che la sua spe­ ranza di guadagno sale a 1/3 di puntata, il che significa che in media, su tre partite, vincerà una puntata, che è un risultato tutt'altro che disprezzabile. Giocando in questo modo, egli ottiene il risultato di togliere al mazziere la possibilità di ricavare dallo svolgimento delle partite un'informazione utilizzabile. Qualunque strategia adotti il maz­ ziere, sia che passi sistematicamente, sia che veda sistematicamente, sia che adotti anche lui una strategia mista, l'andamento medio del gioco non ne risentirà e il suo avversario continuerà a intascare una puntata ogni tre partite: ciò beninteso a condizione che il giocatore rimanga fedele alla strategia fissata in partenza, ossia che, quando ha una carta cattiva, rilanci una volta su tre. Il calcolo stesso dimostra che questo è il modo di giocare ottimale, ossia che nessun'altra strategia permette di far meglio contro qualsiasi difesa. Rilanciare avendo una cattiva carta si chiama bluffare. Un bluff riu­ scito permette di vincere la partita con carte che normalmente non lo permetterebbero. Il principiante è confuso da questa possibilità, e bluffa a tutto spiano o, al contrario, è così paralizzato dal timore che non osa rischiare. Quanto al giocatore esperto, egli sa che bisogna saper per-

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dere un bluff, in modo che l'avversario che lo sorprende flagranti cri­ mine sappia che egli è dedito al bluff e ne sia indotto a rispondere la prossima volta che egli rilancia, poiché si vuole che al secondo giro il mazziere passi su una carta cattiva e stia al gioco su una buona. Il bluff persegue due obiettivi contraddittori, poiché si vuole che al secondo giro il mazziere passi su una carta buona e stia al gioco su una cattiva. Per conseguire tali obiettivi si dovrà coltivare una situazione di incer­ tezza nell'avversario, e quindi adottare una strategia imprevedibile. Per essere imprevedibile, essa dev'essere aleatoria. Non val la pena di bluf­ fare sistematicamente, neppure rispettando il rapporto ideale di una volta su tre, per esempio decidendo di bluffare sempre alla terza occa­ sione (su tre carte cattive, passare le prime due volte e rilanciare la ter­ za). Alla lunga il mazziere scoprirebbe la strategia, e potrebbe sfruttare questa informazione. Egli saprebbe per esempio che, se ti ha sorpreso in flagrante delitto di bluff (tu hai rilanciato, e lui ha chiesto di vedere), sarà d'ora in poi al sicuro finché non avrai passato due volte, e che fino a quel momento potrà permettersi di passare sistematicamente ogni volta che tu rilanci. Questa nuova strategia diminuirebbe le tue spe­ ranze di guadagno. Si vede così che il mazziere ha interesse a esplorare di continuo le nostre reazioni per individuare le pecche nella nostra decisione, o le tendenze involontarie che lasceremo trasparire nel nostro modo di gio­ care. Anche per lui la migliore strategia è aleatoria. Il calcolo mostra che, se il giocatore ha rilanciato, il mazziere deve passare una volta su tre e chiedere di vedere due volte su tre. Perché una strategia sia veramente impenetrabile, e rimanga impre­ vedibile da una partita all'altra, la cosa migliore è che sia imprevedibile per colui che la applica, e che sia quindi aleatoria. Se il giocatore decide un bluff in funzione dello svolgimento della partita o dell'impressione del momento, il suo ragionamento rischia di essere capito dall'avversa­ rio, e la sua impressione di essere condivisa. Se egli lancia un dado, decidendo che punterà se esce uno o due, e che passerà se esce un numero più alto, sarà al riparo da ogni anticipazione, a condizione di nascondere il suo procedimento all'avversario. L'obbedienza a questa regola, però, dev'essere cieca: non si deve cercare di influenzare la sorte o di capire, come il giudice Bridoye (Briglialoca), il quale emet­ teva le sue sentenze ai processi fondandosi sul tiro dei dadi.

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CAPITOLO TERZO

( . ..) procedo come voi fate, Signori, e secondo la consuetudine dei giudizi, alla quale le nostre Leggi comandano di attenerci sempre: ut no. extra. de consuet., c. ex literis, et ibi lnnoc. E cioè, avendo visto ben bene e rivisto, letto e riletto, squa­ dernato e sfogliato, protestazioni, aggiornamenti, comparizioni, nomi del rela­ tore, istruttorie prima del processo, e dichiarazioni, allegazioni, richieste di pro­ va, contraddittorie, inchieste, repliche, dupliche, tripliche, processi verbali, ricuse di testimoni, riserve opposte alle ricuse, deposizioni, confronti, impugna­ zioni, depignatorie, anticipatorie, evocazioni, invii, rinvii, conclusioni, dichiara­ zioni di non luogo a procedere, dilatorie, rilievi, confessioni, transazioni, ordini esecutori, e simili confetti e spezierie, da una parte e dall'altra, come deve sem­ pre fare il buon giudice, secondo quanto si trova nello Speculum, De ordinario § 3, et tit. de offi. omn. ju. § fi. et de rescriptis praesenta. § l . I o metto poi d a una parte del tavolo, nel mio gabinetto, tutte l e scartoffie del convenuto, e concedo a lui per primo gli eventuali favori della sorte, appunto come fate voi, Signori; e come si trova in /. Favorabiliores, ff. De reg. jur., et in c. cum sunt eod. tit. lib. VI, dove è detto: Cum sunt partium jura obscura, reo faven­ dum est potius quam actori. Dopo di che, colloco tutte le scartoffie del querelante, come fate voi, Signori, dall'altra parte del tavolo, visum visu. Perché, com'è noto, opposita juxta se posita magis elucescunt, come è detto in l. I, § videamus, ff. De bis qui sunt sui ve/ alie. jur. et in l. munerum. /. mixta, ff. De muner. et honor. E così, ammetto anche lui agli eventuali favori della sorte. - Ma, - domandò Trincamella, - ditemi, caro, come vi rendete conto dell'in­ certezza delle ragioni allegate dalle due parti in causa? - Come fate voi, Signori, - rispose Briglialoca: - e cioè quando vedo una gran quantità di pratiche da una parte e dall'altra . E allora, tiro fuori bellamente i miei dadi, quelli piccoli: come fate voi, Signori, in virtù della legge Semper in stipulationibus, ff. De reg. jur. e della legge versale versificata la quale, eod. tit., dichiara : Semper in obscuris quod minimum est sequimur, canonizzata in c. in obscuris eod. tit. lib. VI. E posseggo anche altri dadi grossi, assai belli e armoniosi, dei quali faccio uso,

come fate voi, Signori, quando la materia è più liquida, vale a dire quando c'è un minor numero di incartamenti. - E fatto tutto ciò, - domandò Trincamella, - come date poi la sentenza, caro? - Come fate voi, Signori, - rispose Briglialoca. - Io dò sentenza favorevole a colui che primo arriva al numero di punti richiesto dalla sorte giudiziaria, tribu­ niana, pretoriale, dei dadi. Come comanda il nostro diritto, ff. Qui po. in pig., l. potior leg. creditor. C. de consul., l. I. Et de reg. jur. in VI, Qui prior est tempore potior est in jure.4

4 François Rabelais, Gargantua et Pantagruel, !b. III, cap. 39 [trad. M. Bonfantini, Gargantua e Pantagruele, Einaudi, Torino 1 9 5 3 , vol. l , pp. 452 sg. ] .

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Non facciamoci beffe di Bridoye-Briglialoca, che d'altronde Rabe­ lais tratta con molta indulgenza. Giacché in definitiva, nel corso dei secoli, giudici e preti, generali e dittatori, re e imperatori, hanno deciso gli affari più gravi con un lancio di dadi, un volo di uccelli, una caduta da cavallo, l'appetito dei polli sacri, le viscere degli animali sacrificati, la nascita di un mostro, il passaggio di una cometa, i fondi del caffè, le farneticazioni della Pizia, le braci del focolare, una nube di fumo, le linee della mano, uno starnuto, un grido, un sogno. In questa frenesia che l'umanità ha sempre manifestato di consultare la sorte e d'inter­ pretare i segni, non c'è il desiderio di penetrare le intenzioni di un Altro? Siamo forse impegnati in una partita contro un Giocatore la cui abilità suprema è quella di dissimulare, non solo la sua strategia, ma anche la sua esistenza e ciò che egli si attende da noi? Oppure abbiamo tutti semplicemente paura del rischio, e cerchiamo disperatamente di liberarci della responsabilità che grava sulle nostre spalle? Certo, quando si tratta di decidere in questioni di routine, per le quali non mancheranno le occasioni di rifarsi, ci si può permettere di sbagliare a cuor leggero e si possono apprezzare i successi statistici delle strategie aleatorie. Le perdite di oggi saranno compensate do­ mani da altri guadagni. Ma chi può dire il senso di angoscia degli ate­ niesi prima della battaglia navale di Salamina nel 480 a. C.? Molte altre città greche si erano assoggettate ai persiani senza troppo combat­ tere. Gli ateniesi, non essendo in grado di difendere la loro città contro le forze preponderanti di Serse, abbandonarono Atene affidandosi al mare nonostante la loro inesperienza e trasportando donne e bambini in altri luoghi, fra cui l'isola di Salamina. La flotta greca, composta principalmente da navi di Atene, Egina e Megara, si preparò ad affron­ tare nel canale fra Salamina e l'Attica un esercito e una flotta dieci volte superiori in numero. Se fosse stata presa una decisione sbagliata non ci sarebbe stata una seconda possibilità; gli uomini sarebbero stati passati a fil di spada, le donne e i bambini sarebbero stati ridotti in schiavitù e la Storia avrebbe dimenticato gli ateniesi e la loro città. Anche se esempi così estremi sono rari, ci accade di continuo di prendere decisioni talvolta gravi, in circostanze che non si ripresente­ ranno più. Un matrimonio, la scelta di un mestiere ci impegnano per tutta la vita; un investimento, l'acquisto di una casa presentano gravi rischi finanziari. Ognuna di queste decisioni è unica nel suo genere e avvolta da incertezza; prendendola, sappiamo che non potremo più tor-

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CAPITOLO TERZO

nare indietro, ma sappiamo anche che non possediamo tutti gli ele­ menti del problema. Non possiamo dunque far altro che tentare di rac­ cogliere tutte le informazioni disponibili, quand'anche non abbiano che un lontano rapporto col problema, come l'appetito dei polli sacri o l'aspetto delle macchie solari. E si può sempre beneficiare di un effetto di autorealizzazione: se gli sposi sono convinti che il loro matrimonio comincia sotto buoni auspici, la vita coniugale può esserne facilitata. Se tutti gli investitori sono persuasi che le macchie solari provochino crisi economiche, quando le macchie diventeranno numerose prenderanno le loro contromisure, provocando in tal modo la crisi che avevano pre­ visto. Gli oracoli e tutte le forme di mantica svolgono visibilmente un ruolo sociale importante, orientando le previsioni individuali verso un esito favorevole alla collettività e aumentando in tal modo le probabi­ lità della loro realizzazione. Quando i caldei assediano Gerusalemme, i profeti percorrono la città in lungo e in largo, predicendo l'arrivo degli egizi e la levata dell'assedio; essi svolgono il loro ruolo sociale. Occorre chiamarsi Geremia per avere il coraggio di predicare il disfattismo: « Chi rimane in questa città morrà di spada, di fame e di peste, mentre chi passerà ai Caldei vivrà, la sua vita salva sarà il suo bottino e vivrà » (Geremia, 3 8, 2). Si comprende la reazione violenta dei capi del posto e del re Sedecia, che lo gettano in una cisterna. Ma proprio il suo non­ conformismo era il segno migliore della sua elezione da parte del Signore. È questo d'altronde il senso ultimo dell'apologo di Bridoye-Briglia­ loca, che si conclude con la storia del Conciliatore di processi (cap. 4 1 ) . Quando l a lite, dopo una bella e lunga vita, h a perso ogni vigore, e le parti si sono rovinate in processi e in appelli, dando fondo alle risorse della loro famiglia e dei loro amici, e la collera ha lasciato posto da molto tempo alla stanchezza, arriva il momento della conciliazione. Le parti non aspirano più se non alla pace. Una cosa sola le trattiene: l'ignominia di dover fare il primo passo. A questo punto è loro sufficiente un segnale esteriore, il giudizio che langue, un concilia­ tore che interviene, perché i due avversari si rappacifichino e tutta la lite venga sepolta. Poco importa allora quale sarà la decisione finale, purché ce ne sia una. Bridoye-Briglialoca può gettare i suoi dadi, pic­ coli o grossi, nel suo studio, davanti ai sacchi di scartoffie. Il processo è arrivato alla sua perfezione, le lagnanze iniziali sono dimenticate da molto tempo. L'oracolo di Briglialoca crea le condizioni formali che

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permettono alle parti di riconciliarsi e di riparare lo strappo del tessuto sociale. Rimettersi alla sorte sarebbe assurdo se si trattasse di applicare criteri logici o morali. La cosa diventa invece perfettamente ragione­ vole se si tratta di dare un segnale sociale, come due automobilisti che arrivano simultaneamente a un incrocio accettano che sia il semaforo a decidere chi deve passare per primo. In una famosa conferenza sulle Mille e una notte, Borges riferisce un racconto che non ho trovato nella mia edizione. Un abitante del Cairo riceve in sogno l'ordine di recarsi a Ispahan, dove, in una certa mo­ schea, lo attende un tesoro. Il sogno si ripete varie volte, così che il nostro uomo decide infine di intraprendere il viaggio. Non è una cosa tanto semplice: egli passa di carovana in carovana, trovandosi alla mercé di furfanti di ogni sorta, e arriva infine a Ispahan sfinito e deru­ bato di tutto. Trascorre la notte nella moschea del suo sogno, che si rivela essere un covo di ladri. Proprio quella notte la polizia fa una re­ tata. Dopo una solenne bastonatura, il cairota viene condotto davanti al cadì, che gli ingiunge di spiegare le ragioni della sua presenza. Egli rac­ conta allora il suo sogno, al che il magistrato scoppia in una risata ome­ rica, tanto da cadere a terra. Dopo essersi rialzato e asciugato gli occhi, pieni di lacrime per il riso incontenibile, gli si rivolge in questi termini: «Straniero ingenuo e credulone, sono tre volte che sogno che devo andare al Cairo, in una certa strada: ivi troverò una casa, nella casa un giardino, nel giardino una vasca, un quadrante solare e un vecchio fico, e sotto il fico un tesoro. lo non vi ho mai prestato fede, e oggi vedo che ho fatto bene. Eccoti del denaro, prendilo, tornatene a casa, e guardati d'ora in poi dal credere ai sogni che ti manda il Maligno». Il cairota lo ringrazia, se ne torna a casa, va nel suo giardino, scava sotto il fico, tra la vasca e il quadrante solare, e trova il tesoro. La bellezza di questa storia consiste nel fatto che tanto il cadì quanto il viaggiatore possono felicitarsi dell'eccellenza del loro giudi­ zio. Le loro analisi, diametralmente opposte, sono entrambe piena­ mente confermate dai fatti. Il cadì morirà a lspahan facendosi beffe degli ingenui che affrontano un viaggio così lungo alla ricerca di un tesoro che non esiste. E il cairota si rallegrerà per tutta la vita d'aver creduto al suo sogno. Essi hanno usato perfettamente l'anticipazione, ognuno a modo suo.

CAPITOLO 4 Caos

Einar Tambarskjelve era in piedi sul Lungo drago, al piede dell'albero. Nessuno era potente come lui nel tiro con l'arco. Einar scagliò la sua freccia contro lo jarl Eirik; la freccia si piantò nel timone, appena sopra la testa dello jarl, e la punta penetrò fino alle legature. Lo jarl la vide, e chiese se qualcuno avesse individuato l'arciere, ma un'altra freccia era già su di lui; lo sfiorò, passando fra il suo braccio e il suo corpo, e si piantò dietro di lui su una tavola che trapassò da parte a parte. Lo jarl disse allora a uno dei suoi uomini, di cui alcuni dicono che si chiamasse Finn e altri che fosse di origine finlandese, anche lui grande tiratore con l'arco: «Mira a quel pezzo d'uomo al piede dell'albero ». Finn tirò, e la sua freccia colse l'arco di Einar nel centro, proprio nel momento in cui que­ sti lo tendeva per la terza volta. L'arco si spaccò in due. Il re Olav chiese allora: >. 2 Effettivamente, se la flotta di Antonio si disperse nella battaglia di Azio - in cui si affron­ tarono la flotta di Ottaviano, agli ordini di Marco Vipsanio Agrippa, e quella di Antonio e Cleopatra - mentre la vittoria era ancora alla sua portata, è perché si vide la nave ammiraglia abbandonare il campo di battaglia, al seguito della galera di Cleopatra che si sottraeva a una bat­ taglia troppo aspra. Un mondo romano in cui avesse regnato Antonio anziché Augusto, sarebbe stato molto diverso? È lecito dubitarne, ma si può anche ritenere che la fioritura intellettuale che contrassegnò il secolo di Augusto sia stata molto legata alla personalità di quest'ultimo e del suo amico Mecenate e che, senza l'episodio della fuga di Antonio, non avremmo avuto né Virgilio né Orazio né tanti altri creatori che hanno contrassegnato profondamente la nostra civiltà. Ricordo di aver letto, molto tempo fa, un racconto di fantascienza di cui ho dimenticato il titolo e l'autore. Se lo riferisco qui è in parte per curiosità, per sapere se qualcun altro l'ha letto e può aiutarmi a ritrovarlo. La storia comincia col ritratto di un professore di fisica che 2 Blaise Pascal, Pensées, in ffiuvres complètes, a cura di J. Chevalier, coli. « La Pléia­ de», Gallimard, Paris 1 9 5 4, frammento 1 80 [trad. P. Serini, Pensieri, Einaudi, Torino 1 962 , frammento 2 8 7 ] .

CA OS

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vegeta in un laboratorio di second'ordine. Scontento della sua sorte, si reca all'insaputa dei suoi colleghi, e quasi di se stesso, a consultare una sorta di marabut, che lo sottopone a uno stringente interrogatorio, al termine del quale gli annuncia che tutti i suoi fastidi finiranno se egli è disposto a cambiare una lettera al suo cognome. Il professore ha un cognome polacco - con una grande prevalenza delle consonanti sulle vocali - che è assolutamente impronunciabile senza uno speciale adde­ stramento (la storia si svolge negli Stati Uniti). Vergognandosi un po' della sua credulità, il professore ubbidisce, intraprende i passi necessari e qualche mese dopo apprende di essere stato nominato a una cattedra importante in un'università prestigiosa. Il risvolto negativo della sua richiesta di modifica del cognome è che proprio la lieve entità del mutamento richiama su di lui l'attenzione della polizia. Sarebbe stato comprensibile che, afflitto da un cognome simile, ne avesse scelto un altro, o vi avesse apportato qualche modifica drastica. Ma cambiare una sola lettera, per passare da un nome impro­ nunciabile a uno che non lo era di meno, era una cosa tale da richia­ mare l'attenzione delle autorità competenti. La sua pratica viene infine sottoposta al controspionaggio; qualcuno ha l'idea di andare a cercare i suoi omonimi nell'Est e scopre negli schedari dell'organizzazione uno specialista sovietico in un campo un po' ignorato della ricerca nucleare. Si intraprendono allora ricerche sistematiche, dalle quali risulta che tutti gli specialisti noti in quel campo sono scomparsi dalla circolazione nel corso dell'anno, per essere senza dubbio avviati a lavorare in un laboratorio clandestino. Un passo dopo l'altro viene messo in luce un vasto sforzo militare dell'Vnione Sovietica, viene evitata una terza guerra mondiale e infine, non sapendo che cosa fare del modesto ricer­ catore la cui richiesta di cambiamento di cognome ha messo in moto tutto questo meccanismo, lo si estromette dal circuito militare propo­ nendogli un posto prestigioso in un laboratorio civile. Il punto centrale della storia è la sua conclusione. Il marabut è in realtà un extraterrestre. Egli ha vinto una scommessa con un suo simile: ottenere un effetto di primaria importanza (come quello di evitare la distruzione di un pianeta) attraverso un impulso di decimo ordine (il cambiamento di una lettera nel cognome di un personaggio oscuro). Il perdente prende atto con disappunto della sua sconfitta e propone al suo avversario un « lascia o raddoppia»: saresti in grado di mettere in atto il procedimento inverso e ottenere la distruzione del pianeta con

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CAPITOLO QUARTO

un impulso di decimo ordine? La scommessa viene accettata, e la storia finisce a questo punto. Ciò che mostra questo apologo, e che è sottolineato dalla medita­ zione di Pasca!, è che modificazioni infime nello svolgimento normale di un processo temporale possono avere conseguenze di grande impor­ tanza. Il fenomeno è ben noto in matematica, sotto il nome di instabi­ lità esponenziale. Si sa, per esempio, che in meteorologia l'ampiezza di una perturbazione si raddoppia ogni tre giorni se niente viene a contra­ starne lo sviluppo. In linguaggio matematico, le equazioni che gover­ nano la circolazione atmosferica, e dalle quali dipende il tempo che fa, hanno la proprietà dell'instabilità esponenziale. A una condizione ini­ ziale data, ossia a un certo st ato dell'atmosfera (pressione, temperatura, umidità) alla superficie del globo, corrisponde un'evoluzione futura perfettamente determinata, risultato di un calcolo che può essere impossibile, ma in cui il caso non interviene affatto. Se ora si modifica lievemente questa condizione iniziale, se per esempio una farfalla batte le ali o se qualcuno accende una candela, questo mutamento infimo avrà solo poche conseguenze nei primi istanti o nei primi giorni, tanto che non si distinguerà gran che lo stato di prima dallo stato modificato dell'atmosfera. Il mutamento ha però la vocazione ad amplificarsi col tempo, a un ritmo esponenziale; se esso presenta un raddoppiamento ogni tre giorni, si avrà in un mese una moltiplicazione per oltre mille, in due mesi una moltiplicazione per più di un milione, e in un anno una moltiplicazione per più di 2 x 1 0 16• È un valore enorme, il quale ci dice che il battito d'ali di una farfalla o la fiamma di una candela pos­ sono effettivamente esser causa di un ciclone entro un anno, nel senso che, come potrebbe testimoniare un'atmosfera in cui tutte le altre con­ dizioni fossero state eguali, se questa farfalla o questa candela non fos­ sero esistite, non ci sarebbe stato quel ciclone. Ciò non significa beninteso che non ci si deve fidare delle farfalle, o che le candele nuocciono all'ambiente. Il normale futuro di una pertur­ bazione è quello di essere compensata da altre. È molto probabile che il lieve soffio creato dalle ali di una farfalla o dalla fiamma di una can­ dela finisca col diluirsi fra la miriade di altri lievi spostamenti d'aria che agitano in ogni istante l'atmosfera. Ma le perturbazioni possono a volte combinarsi e, se si trovano riunite le circostanze favorevoli, il minimo alito d'aria sarà sufficiente a innescare nell'atmosfera un processo evo-

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lutivo complesso il cui termine lontano sarà un ciclone o qualche altra grande catastrofe, nello stesso modo in cui una roccia in equilibrio instabile può esser fatta precipitare con una minima spinta. Ciò signi­ fica che, se si vuoi prevedere ciò che accadrà, se si vuoi predire che tempo farà l'anno prossimo lo stesso giorno a Parigi, si deve davvero tener conto di tutto, persino delle farfalle che volano nelle foreste amazzoniche, persino dei ceri che ardono nelle chiese. La conseguenza pratica è che ciò non è possibile: come raccogliere, e come trattare, una tale quantità di osservazioni? Ecco perché la scienza della meteorolo­ gia, pur disponendo dei computer più potenti che si sappiano costruire, è incapace di predire il tempo a lunghissima scadenza. Tutte queste idee sono oggi molto di moda, ma le si può far risalire, come molte altre, a John von Neumann. Importante consigliere scien­ tifico del governo americano durante la seconda guerra mondiale, aveva molto riflettuto sulle possibilità dei calcolatori elettronici, i cui primi esemplari furono costruiti a Los Alamos sotto la sua direzione. Uno dei principali problemi strategici è quello di prevedere corretta­ mente il tempo - si sa quanto sia stato cruciale questo problema in relazione al lancio dell'operazione Overlord -, e ben presto si fece ricorso alle nuove possibilità del calcolo automatico. Von Neumann si rese rapidamente conto dei limiti di questo approccio, e comprese che la sensibilità delle equazioni rispetto alle condizioni iniziali avrebbe impedito ogni previsione esatta a lungo termine. Ma la sua genialità gli permise di trame anche un'altra conclusione, molto più originale: ossia che questa stessa instabilità avrebbe forse permesso di guidare il tempo. Dopo tutto, se un battito d'ali di una farfalla o una fiamma di candela possono avere ripercussioni così grandi, perché non provocare tali ripercussioni a ragion veduta? Forse è più facile pilotare il tempo che preveder! o. Quando si guida un'automobile, si può mettere in evidenza un'in­ stabilità analoga. Perché appaia è sufficiente lasciare il volante: si vede allora la traiettoria della macchina incurvarsi, dapprima leggermente, poi in modo sempre più deciso, finché la vettura non esce di strada o non fa un testa-coda. È proprio per tale motivo che basta un dito per guidare una vettura di una tonnellata e più. Purtroppo, per l'atmosfera non c'è un meccanismo che permetta di controllarne l'instabilità in modo così diretto. L'effetto di una piccola perturbazione si fa sentire solo dopo parecchio tempo, un anno se si scende alla scala del battito

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CAPITOLO Q UARTO

d'ali di una farfalla. Se si vogliono ottenere effetti più direttamente osservabili, e quindi meglio controllabili, si devono infliggere all'atmo­ sfera perturbazioni molto maggiori, dell'ordine di un'esplosione ter­ monucleare. Rinviamo il lettore alle avventure di Blake e Mortimer in S OS Météores, perché ritrovi attraverso i meravigliosi disegni di Edgar P. Jacobs l'antica linea di Sceaux e i suoi dintorni sommersi dalla piog­ gia e perché veda quali energie colossali il professor Miloch avesse dovuto padroneggiare per controllare il tempo. Noi siamo ancora ben lontani da una tale tecnologia. Notiamo, per concludere, che tutti questi fenomeni dipendono dalla scala a cui ci si colloca. Alla scala di un anno, l'instabilità esponenziale si traduce nell'impossibilità di predire il tempo. Nessùn calcolo sarà mai abbastanza preciso per dirci se l'anno prossimo, lo stesso giorno, pioverà o no a Parigi. Se ci si pone a una scala più modesta non si ha più questo problema, e si può predire con un discreto successo che tempo farà domani, né c'è bisogno di essere grandi esperti per indovi­ nare che tempo farà tra un minuto o addirittura tra un'ora. Per contro, se ci si colloca a una scala maggiore, quella del millennio, il tempo cede il posto al clima, e l'instabilità esponenziale ci appare sotto un'altra luce. A questa scala, in effetti, non si tratta più di predire il tempo, bensì di rilevare certe regolarità che i geografi classificano e studiano sotto il nome di clima. Clima oceanico o continentale, temperato o tropicale, equatoriale o polare: questi termini ci sono familiari e noi non abbiamo mai pensato di mettere in discussione l'esistenza di queste grandi regola­ rità, che riconducono grosso modo le stesse condizioni alle stesse epo­ che. Quando il tempo sembra discostarsi dalla norma, quando si succe­ dono vari anni più caldi e più secchi del solito, è il clima che si è modifi­ cato, e le cause di queste variazioni devono essere ricercate in qualche agente esterno, come l'inquinamento atmosferico o la bomba atomica. E tuttavia, perché mai dovremmo attenderci alla scala di qualche millennio una regolarità che non si osserva alla scala del giorno o del­ l'anno? Nel corso di una stessa stagione si succedono giorni sereni e nuvolosi, secchi e piovosi. Non è ragionevole pensare che dovrebbe essere la stessa cosa a tutte le scale, e che a periodi freddi dovrebbero succedere naturalmente periodi caldi, senza che ci sia bisogno di far ricorso a qualche agente esterno per spiegarli? Si devono davvero invo­ care i cicli solari per spiegare le epoche glaciali, oppure queste possono essere semplicemente il risultato dell'evoluzione interna di un sistema

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esponenzialmente instabile? La nozione stessa di clima ha un senso oltre la durata di qualche secolo? Perché ostinarsi a vedere una regola­ rità là dove manifestamente non c'è, e cercare sempre di spiegare deviazioni rispetto a una norma che esiste solo nella nostra mente? Ecco dunque questo pianeta così singolare, come lo vedono gli astronauti, ossia come un gioiello azzurro sospeso in un cielo d'ebano. Alla sua superficie si osserva il bianco gioco delle nubi, portatrici di pioggia e testimoni delle correnti atmosferiche. Questa Terra è unica sotto più di un aspetto, e particolarmente perché noi non possiamo far altro che seguire questo perpetuo balletto, senza poterne predire con molto anticipo le figure. Alla scala geologica, vediamo variare il livello degli oceani e spostarsi in modo aleatorio la fronte dei ghiacciai. E tut­ tavia, paradossalmente, questa imprevedibilità quasi completa si ac­ compagna a una grande stabilità strutturale. Un anno dopo l'altro, anche se qualche volta si fa attendere, il monsone torna a bagnare le coste dell'Asia, dall'India alla Cina. L'anticiclone delle Azzorre si spo­ sta a seconda delle stagioni e degli anni, ma non scompare mai: noi sappiamo che in ogni momento troveremo un grande anticiclone al largo di Gibilterra. Se il Creatore offrisse al nostro sguardo un'altra Terra, costruita secondo le stesse regole di questa, vedremmo svolgersi uno spettacolo del tutto simile a quello che osserviamo quaggiù. Certo, su di essa il tempo non sarebbe più prevedibile che sul nostro pianeta, e la succes­ sione dei climi non vi sarebbe meno irregolare, ma lo spettacolo osser­ vabile ci sarebbe in ogni istante familiare. Una bella giornata su tale pianeta assomiglierebbe in tutto e per tutto a una bella giornata sulla Terra. Ritroveremmo anche su di esso la successione delle stagioni, col loro corteggio di eventi atmosferici, il monsone in Asia e l'anticiclone delle Azzorre nell'Atlantico, a condizione ovviamente che la distribu­ zione dei continenti fosse press'a poco la stessa. In altri termini, condi­ zioni geografiche simili produrranno effetti climatici simili, mentre non è vero che condizioni geografiche simili a un dato istante produr­ ranno condizioni atmosferiche simili un anno dopo. L'instabilità espo­ nenziale impedisce ogni previsione quantitativa a lungo termine, ma non esclude previsioni di ordine qualitativo, anche a scadenze molto remote. Il lettore giudicherà forse che io mi stia estasiando per ben poco.

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CAPITOLO QUARTO

Non occorre certo essere grandi scienziati per rendersi conto che l'at­ mosfera è un sistema di estrema complessità, in cui regioni molto lon­ tane fra loro o di altitudine molto diversa finiscono con l'influenzarsi reciprocamente. A ciò si aggiunge l'influenza della superficie terrestre e del vuoto interplanetario, con i quali l'atmosfera è in contatto perma­ nente. Che cosa c'è di sorprendente nel fatto che un sistema così com­ plicato abbia un comportamento complesso? Il carattere aleatorio di ogni previsione deriverebbe semplicemente dall'impossibilità di padro­ neggiare tutti i parametri significativi. Ma non è affatto così. Non è la complicazione del sistema la causa dell'imprevedibilità del suo comportamento: esistono sistemi molto semplici il cui comportamento è altrettanto complesso. Il grande merito del meteorologo Edward Lorenz è stato in effetti quello di aver ricondotto la moltitudine delle equazioni che governano l'evoluzione dell'atmosfera a tre sole, e di aver mostrato che il modello ridotto con­ servava la complessità quasi infinita dell'originale. L'instabilità esponenziale e la difficoltà di predire quale ne sarà la conseguenza sono dunque fenomeni correnti, che si manifestano in situazioni molto varie, nelle più semplici come nelle più complesse. Per comprendere bene tale instabilità, è meglio tuttavia studiarla su un esem­ pio semplice. Abbandoneremo temporaneamente la meteorologia, con le sue migliaia di variabili legate da equazioni differenziali, per occuparci di sistemi descritti da una sola variabile x. Basterà dunque, per definire completamente lo stato del sistema, un solo numero: il valore assunto dalla variabile di stato nell'istante considerato. Per continuare il nostro sforzo di semplificazione, supporremo che il tempo sia discreto, ossia che la variabile tempo non possa assumere che valori interi n = l , 2 , 3 , . . . , indicando il valore n = O l'istante iniziale, e i valori -negativi n = - l , - 2, - 3 , . . . istanti passati più o meno lontani. L'evoluzione del sistema nel corso del tempo è dunque completamente descritta dalla sequenza x. dei valori che la variabile di stato x assume in tutti gli istanti n del passato (n < O) e del futuro (n > 0), sequenza che è dunque doppiamente infinita in quanto l'indice n assume tutti i valori interi positivi e negativi. Un sistema è deterministico se lo stato x . all'i­ stante n è legato allo stato precedente x . _ , da una relazione del tipo f(x . _ ).

x = .

La funzione f è la legge del sistema. La sua sola presenza garantisce

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che tutta la storia del sistema e tutto il suo futuro sono inscritti nello stato iniziale x 0 • In effetti, una semplice applicazione della formula precedente dà successivamente x 1 =f(x 0), e poi

" e così via, secondo la formula generale x. =f (x0). Si dice che x. è l'n -esimo iterato di x 0 • Questi modelli a una sola variabile di stato e a tempo discreto, per semplicistici che possano apparire, non riproducono tuttavia meno bene fenomeni che si sarebbero potuti credere propri dei modelli a più variabili di stato e a tempo continuo. Fra tali fenomeni c'è l'instabilità esponenziale. Confrontiamo per esempio i due sistemi x. = x._ , + 1 0, x. = l O x x._ , . Essi conducono alle due formule esplicite

x. = x 0 + n x l 0 " x. = x0 x l 0 , che danno lo stato nell'istante n in funzione dello stato iniziale e che manifestano due comportamenti molto diversi per due sistemi entrambi perfettamente deterministici. Nel primo caso si passa da uno stato al seguente aggiungendo una quantità fissa alla variabile descrittiva. Un tale sistema perpetua indefi­ nitamente la precisione delle osservazioni. Se, per esempio, è stato compiuto un errore di 0,00 1 nella determinazione dello stato iniziale, sarà questo stesso errore a incidere sugli stati successivi, per quanto lontano ci si spinga nel futuro o si risalga nel passato. La formula espli­ cita x. = x 0 + l On mostra che l'errore compiuto nella misurazione di x 0 si ripercuote su x. senza riduzione né amplificazione. Per contro, nel se­ " condo caso, la formula esplicita x. = l 0 x 0 mostra che a ogni iterazione gli errori si moltiplicano per 1 0, e vengono quindi amplificati molto ra­ pidamente nel corso del tempo. Un errore di 0,00 1 nel valore iniziale x 0 diventa un errore di l già alla terza iterazione, di l 000 alla sesta, di wn-l all'n-esima. Un modo per farsi un'idea visiva di questa situazione consiste nel­ l'immaginare che la variabile di stato x rappresenti la posizione di un punto su una circonferenza, misurata in numero di giri a partire da una

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posizione di riferimento A . Così il valore x = O della variabile di stato significa che il punto rappresentativo M si trova in A. Il valore x = 1 14 significa che si trova M compiendo un quarto di giro in senso positivo (ossia in senso antiorario) a partire da A, x = 1 12 rappresenta il punto diametralmente opposto ad A sulla circonferenza, e x = l dà nuova­ mente il punto A. È importante notare che due valori di x che differi­ scono di l corrispondono a posizioni separate da un giro completo, ossia rappresentano di fatto lo stesso punto sulla circonferenza. Le due leggi deterministiche che abbiamo presentato si manifestano quindi per mezzo di comportamenti assai diversi. Con la prima, x " = x " _ , + 1 0, il punto rappresentativo M rimane fisso: lo si sposta di dieci giri completi a ogni iterazione, cosicché lo si ritrova perpetua­ mente nella stessa posizione. Questa legge non è dunque altro che un modo complicato di descrivere l'immobilità: il punto rappresentativo del sistema rimane dove si trovava all'inizio. È ovvio che un errore di localizzazione, o un piccolo spostamento rispetto al punto iniziale, si ritrovano immutati in ogni istante. Non vale la stessa cosa per il secondo sistema. La legge adottata si traduce ora in uno spostamento effettivo del punto rappresentativo: spostamento che dipende a un tempo dalla posizione iniziale e dal­ l'istante considerato. Un punto situato all'inizio in A (x0 = O) vi rimarrà indefinitamente (x " = 0). Se, al contrario, si prende l'avvio dal punto B, diametralmente opposto ad A sulla circonferenza (x 0 = l /2), ci si ritro­ verà in A già alla prima iterazione, e vi si resterà (x " = 1 0 "/2 è un numero intero, dato che n > l). In generale, se il valore x 0 ha uno svi­ luppo decimale finito, ossia se si scrive x0 = a 0 ,a 1a 1a 3 a N OOO . . . , tutte le cifre dopo a N essendo zeri, allora il punto rappresentativo M si ritro­ verà in A dopo l'N-esima iterazione, per non spostarsene più. Per contro, se il valore iniziale x 0 richiede uno sviluppo decimale infinito, il movimento sarà molto più complicato. Per l'esattezza, se la posizione iniziale è data da x 0 = a 0 ,a 1 a 1a 3 , con un numero infinito di cifre dopo la virgola, la posizione nell'istante n sarà ottenuta spostando la virgola di n posti verso destra. Così, alla prima iterazione si ottiene x 1 = a� "a 1a 3a4 ; si possono, beninteso, ignorare le due cifre davanti alla virgola, che corrispondono a un numero intero di giri e non influi­ scono quindi sulla posizione. Questa è determinata dalle cifre restanti, cioè dal numero O,a 1a 3 a4 Similmente, la posizione nell'istante n sarà data da x " = O,a " . 'a " .2 ; l'indicazione più importante è data da a " . " che •••

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CAOS

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determina la poslZlone sulla circonferenza con l'approssimazione di 1 / 1 0. Da questo punto di vista, il nostro sistema funziona come una lente, o piuttosto come un microscopio, che, a ingrandimenti diversi, rivela particolari sempre più minuti. Ogni osservazione supplementare rivela un decimale in più. La posizione iniziale è data essenzialmente da a " la prima cifra dopo la virgola; ma con l'osservazione seguente questa cifra non ha più alcuna importanza e diventa preponderante a r A ogni tappa, per avere un'idea della posizione del punto rappresentativo, si devono andare a cercare cifre sempre più lontane dalla virgola in x0: per conoscere lo stato del sistema nell'istante n occorre conoscere lo stato iniziale x0 fino a (n + l ) cifre dopo la virgola. La conseguenza immediata è che, se si vuoi essere in grado di pre­ dire tutta l'evoluzione futura del sistema, si devono conoscere tutte le cifre dopo la virgola : una prospettiva decisamente irrealistica. Il mate­ matico non ha alcuna difficoltà a scrivere di porre un punto di ascissa 112, o 2, o Jt; è un'operazione puramente intellettuale, un'astrazione geometrica, nella quale si manipolano punti immateriali, senza forma né spessore. Nella realtà la precisione delle osservazioni non può però essere illimitata. Un modello matematico come quello che abbiamo proposto non ha dunque più significato fisico al di sotto di una certa scala o al di là di una certa durata; il comportamento a lungo termine è determinato allora da fluttuazioni che si situano al di fuori del modello considerato. Peggio ancora, pur potendo seguire per qualche tempo il sistema, si osserva una progressiva perdita di precisione. Se nell'istante iniziale t = O si conosce lo stato del sistema fino a N decimali, non se ne cono­ sceranno più di N- 1 nell'istante seguente t = l , e di N - n nell'istante t = n, fino a perdere ogni informazione nell'istante t = N. In altri termi­ ni, a ogni tappa gli errori si moltiplicano per 1 0, fino ad annullare l'in­ tera informazione di cui si è provvisti inizialmente. È questa l'instabi­ lità esponenziale. Per un sistema che abbia questa proprietà, sia esso unidimensionale e semplice come quello che abbiamo descritto, o mul­ tidimensionale e complesso come l'atmosfera, la dinamica agisce come un rivelatore: essa svela man mano tutta l'informazione che è conte­ nuta nelle condizioni iniziali e che è inaccessibile a un'osservazione diretta in conseguenza della precisione inevitabilmente limitata delle nostre misurazioni. Nel caso elementare da noi trattato, l'n-esima osser-

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vazione rivela l'(n + I )-esimo decimale della posizione iniziale. Nel caso della meteorologia, il tempo che osserveremo fra un anno rivelerà informazioni sullo stato dell'atmosfera oggi, informazioni che si si­ tuano a una scala troppo fine perché possiamo osservarle direttamente. Si può adottare anche un altro punto di vista, e ritenere che ogni informazione sia necessariamente finita, e che sia vano per esempio cercare di conoscere con più di dodici cifre significative quale sia il limite attuale di precisione delle costanti fisiche. A quel punto non si ha più rivelazione, bensì in verità creazione d'informazione. Se si possono conoscere soltanto i primi dodici decimali dello stato iniziale, x 0 = O,a 1 a r .. a 12 , la dodicesima osservazione x 1 2 = O,a 1 3 a 24 apporta un'in­ formazione realmente nuova. Similmente, sarebbe molto difficile, se non addirittura impossibile, e assai poco interessante, estrarre dalle condizioni meteorologiche che prevarranno fra un anno le informa­ zioni che ci mancano sullo stato dell'atmosfera oggi. È meglio pensare che si abbia creazione d'informazione col passare del tempo. A seconda del punto di vista in cui ci si colloca, si ha dunque rivela­ zione o creazione di informazione. Nell'uno come nell'altro caso, manca un'informazione essenziale riguardo all'evoluzione futura del sistema. Si può ritenere che questa mancanza sia dovuta a una nostra insufficienza - nel qual caso si avrebbe rivelazione di un'informazione latente -, o al contrario che essa sia nella natura delle cose: in questo caso il dodicesimo decimale che emerge in ogni nuova osservazione sarebbe una creazione ex nihilo. Si può opportunamente esprimere que­ sto stato di cose dicendo che l'evoluzione futura del sistema dipende dal suo stato, quale lo constatiamo oggi, e dal caso. Noi gettiamo così il velo del caso sulle informazioni che rinunciamo a conoscere. Nella prima interpretazione si tratta di un caso relativo, umano, come per il giocatore che non può controllare sufficientemente i suoi dadi per far uscire il totale che desidera. Nella seconda si tratta di un caso essenziale, naturale, come quello che riconosciamo nella mec­ canica quantistica. Ma si abbia creazione o semplice rivelazione d'in­ formazione, si pone sempre lo stesso interrogativo: a quale ritmo? È questo ritmo che misura l'entropia del sistema. Il concetto di entropia ha conosciuto molte vicissitudini. Mi riferirò qui alle idee di Shannon e di Kolmogorov, ossia adotterò il punto di vista della teoria dell'informazione e dei sistemi dinamici e non mi lascerò andare ad alcuna interpretazione in termini di ordine o di • • •

CA OS

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disordine. L'entropia di un sistema dinamico è per noi un numero che misura la velocità con la quale esso crea (o rivela) informazione. Per un sistema unidimensionale su una circonferenza, come i due precedenti, la conoscenza di un decimale supplementare permette di localizzare il punto in questione con una precisione dieci volte maggio­ re, nel senso che, fra tutti i punti il cui sviluppo decimale comincia con O,a 1 a 2 aN, solo una parte pari a 1 1 1 0 ammette come (N+ 1 )-esimo decimale una cifra data, per esempio 3 . In altri termini, i numeri il cui sviluppo decimale comincia con O,a 1 a r .. aN occupano un piccolo inter­ vallo, diviso in dieci sottointervalli uguali corrispondenti alle dieci pos­ sibilità per aN+ l; dire che !'(N+ 1 )-esimo decimale è un 3 elimina nove di questi dieci sottointervalli . Così la rivelazione dei decimali successivi divide ogni volta per l O il campo delle possibilità. Si converrà che que­ sto guadagno di un fattore l O corrisponda a un'entropia di l . La rivela­ zione di due decimali supplementari corrisponde a un guadagno di un fattore 1 00 = 1 02, e quindi a un'entropia di 2. Per contro lo status quo, ossia il fattore di guadagno l = 1 0°, corrisponde a un'entropia O. L'entropia di un sistema misura il guadagno medio di precisione apportato da ogni nuova osservazione. Così, per il nostro primo siste­ ma, x. = x._ , + 1 0, per il quale abbiamo già osservato che corrisponde al­ l'immobilità pura e semplice, l'entropia è O, cosa che significa che una nuova osservazione non apporta alcuna informazione supplementare. Ma per il secondo sistema, x. = 1 0 x x • - " ogni nuova osservazione apporta un decimale supplementare: l'entropia di questo sistema vale dunque l . Per sistemi pluridimensionali, la situazione è complicata dal fatto che essi possono presentare simultaneamente fenomeni di stabilità e di instabilità esponenziale. Spieghiamoci meglio. Vediamo innanzitutto come sarebbe un sistema unidimensionale descritto dalla legge x. = x. _/ 1 0 sulla circonferenza. A ogni tappa, la variabile di stato (numero di giri a partire da A) è divisa per l O, cosa che la fa tendere rapidamente a zero, cosicché si finisce col ritrovarsi sempre al punto A, corrispondente allo stato x = O. Questo punto è quello che si chiama un attrattore. Quale che sia la posizione di par­ tenza M0 scelta, al passare del tempo il punto rappresentativo M. all'istante n tende ineluttabilmente verso A. È un fenomeno di stabilità (e non più d'instabilità) esponenziale, che corrisponde a una perdita (e non più a un guadagno) d'informazione: poco importa da dove si sia •••

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partiti, si finirà sempre per ritrovarsi al punto A. Ogni informazione sulla posizione iniziale si rivela a lungo termine ridondante. Si può facilmente mettere in evidenza questo fenomeno in un sistema pluridimensionale. Immaginiamo, per esempio, che l'insieme rappresentativo sia un cerchio. In altri termini, a ogni punto M del cer­ chio corrisponde uno stato del sistema: si ha dunque a che fare con un sistema di dimensione 2 . Come nel caso unidimensionale, si specifica poi la legge che definisce la successione degli stati. Qui converremo che, se nell'istante n !o stato è nel punto M" , nell'istante (n + l) esso sarà nel punto di mezzo M" + ' del segmento OM" , essendo O il centro del cer­ chio. Formalmente, la legge del sistema si scriverà OMn+ l = OM/2 , che è l'analogo bidimensionale delle leggi che abbiamo scritto finora. Il com­ portamento del sistema è facile da descrivere: quale che sia il punto di partenza M0 , al passare del tempo, ossia al crescere di n, il punto rap­ presentativo M" si approssima indefinitamente al centro O . Si esprime questo fatto dicendo che O è un attrattore per il sistema. È facile costruire in modo analogo un attrattore per un sistema di dimensione 3 : basta prendere quello che i geometri chiamano un toro, ossia un solido in forma di camera d'aria per pneumatici, un anello cir­ colare pieno, e comprimerlo attorno alla sua « anima ». Più precisamen­ te, il toro ha un asse di simmetria (il mozzo della ruota), e le sezioni con piani che passano per quest'asse sono cerchi. I centri di questi cer­ chi descrivono una circonferenza, simmetrica rispetto all'asse: è quella che chiamiamo l'anima del toro. Contraendo, come illustrato nella scheda 2, ognuno di questi cerchi attorno al suo centro, si definisce una legge deterministica per l'intero toro, che si trova così a essere com­ presso attorno alla sua anima. Questa viene dunque a essere un attrat­ tore per il sistema tridimensionale così costruito: il punto rappresenta­ tivo M" converge verso la proiezione del punto iniziale M0 sull'anima del toro. L'attrattore è un po' più complesso che nel caso precedente, essendo una curva anziché un punto, e questa complessità si ritrova nel movimento, poiché lo stato finale verso cui tende il sistema dipende dallo stato iniziale: a due punti di partenza diversi corrispondono due proiezioni diverse sull'anima del toro. Abbiamo quindi visto esempi di sistemi instabili e di sistemi stabili, con proprietà assai diverse. Ma uno fra gli aspetti più affascinanti dei sistemi pluridimensionali è che essi possono presentare simultanea­ mente queste due proprietà, per quanto contraddittorie. In effetti,

CAOS SCHEDA 2

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Un attrattore semplice nel toro

Anima Sezione

Il toro è un solido pieno costruito attorno a una circonferenza (l'anima del toro) e le cui sezioni trasversali sono cerchi . Contrazione di u n a sezione d e l toro:

Prima iterazione

Seconda iterazione

Attrattore

essendo disponibili varie dimensioni, si possono immaginare leggi deterministiche che conducano a una dilatazione in certe direzioni e a una contrazione in altre. Si può pervenire in questo modo a costruzioni geometriche spettacolari, di cui è stato l'iniziatore Stephen Smale. Gli siamo particolarmente debitori dell'esempio che descriverò qui di seguito, e che ci aprirà la porta del regno misterioso degli attrattori strani.

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CAPITOLO Q UARTO

Riprendiamo il toro di poco fa e contraiamolo attorno alla sua ani­ ma, come abbiamo appena fatto. Questa volta gli faremo però subire una trasformazione supplementare: lo stireremo e lo avvolgeremo su se stesso. Ne risulterà non più un toro bensì un anello tortile, che si avvolge due volte attorno all'anima del toro originale, e che occupa un volume più ridotto di questo. I punti del toro rappresentano sempre gli stati del sistema. Se M è uno di tali stati, scriveremo f(M) il punto che gli corrisponde nella tra­ sformazione che abbiamo ora indicato; si tratta di un punto del doppio anello, e quindi di un punto del toro giacché l'uno è contenuto nell'altro. L'evoluzione del sistema è governata dalla successione M.+ 1 = g(M.), che è l'esatto analogo delle leggi in cui ci siamo imbattuti finora. Que­ sta volta, però, il comportamento del sistema è molto più complicato. A ogni tappa l'insieme degli stati è stirato nella direzione longitudinale (quella dell'anima del toro) e contratto nelle due direzioni trasversali (quelle delle sezioni) . Una prima conseguenza è che il punto rappre­ sentativo M. non si accontenterà più di restarsene in una stessa sezione trasversale, ma girerà attorno al toro. Soprattutto, però, i due effetti si combinano per imporre un attrattore che non è più né un punto né una curva, ma qualcosa di molto più complicato, che seguendo la termino­ logia di Benoit Mandelbrot chiameremo un frattale. Per vedere quest'attrattore cerchiamo di seguire non più un punto, bensì il toro tutto intero (cfr. scheda 3). La prima manifestazione del­ l'attrattore, ottenuta nella prima tappa, è il doppio anello torrile. Nella tappa seguente, ciascuno dei suoi anelli si sdoppia e si ottiene un qua­ druplo anello tortile contenuto nel doppio anello, che è a sua volta incluso nel toro iniziale (l'anello semplice). Di tappa in tappa si passa a otto, sedici, trentadue giri, passando successivamente per tutte le po­ tenze del 2 . Si ottiene così una sequenza infinita di anelli tortili inclusi l'uno nell'altro e sempre più fini, i quali ricordano la meticolosità con cui uno scultore lavora un blocco di marmo per ricavarne i particolari più minuti di una statua. Al termine di tutto questo procedimento non troveremo un qualche soggetto maestoso o tormentato, bensì un oggetto abbastanza complicato da aver meritato il nome di attrattore strano. Per farcene un'idea possiamo ovviamente rappresentarci un anello intrecciato, composto da un'infinità di anelli avvolti nel toro iniziale. Questa è senza dubbio un'immagine esatta, la quale però non esaurisce

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CAOS SCHEDA

3

L 'attrattore di Smale nel toro

La legge deterministica che è all'origine dell'attrattore di Smale è la seguente:

Stiramento, restringimento con perdita di volume

Doppia ripiegatura

Ritorno nel toro iniziale

Si costruiscono così successivamente tori sempre più sottili, che si avvolgono due, quattro, otto, sedici, 2 " volte nel toro iniziale. Ognuno di essi è un'appros­ simazione dell'attrattore di Smale. L'approssimazione è tanto migliore quanto più n è grande, ossia quanto più il nostro potere di risoluzione è elevato. L'at­ trattore è un limite, corrispondente a una risoluzione infinita.

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Il collare d'oro di Àl leberg, formato a prima vista da tre tori giustapposti, pre­ senta a un esame più minuzioso un intreccio di tori più fini e tutta una fauna esuberante. La tecnica prodigiosa manifestata dall'artista - filigrana, granulazio­ ne, sbalzo, stampaggio - gli consente di realizzare solo un'approssimazione, preziosa ma imperfetta, del vero oggetto che ha in mente e che, per la finezza e la varietà dei suoi dettagli, non è realizzabile da mano umana.

CAOS

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tutta la ricchezza della struttura di un attrattore strano. Ciò che impor­ ta, qui, è il ritmo binario. È facile rappresentare l'attrattore a un livello di precisione dato, per esempio facendo calcolare a un computer i tra­ sformati successivi di un punto qualsiasi. La scelta del punto iniziale non ha molta importanza; dopo una fase transitoria, i suoi trasformati si ritroveranno sull'attrattore. Portando su un grafico le loro posizioni successive, si vede prender forma una nube i cui contorni, precisandosi gradualmente, disegnano una rete di tubi capillari che vanno avvolgen­ dosi attorno al toro. Se però si passa a un ingrandimento maggiore, aumentando per esempio la precisione dei calcoli, si avrà la sorpresa di vedere ognuno di questi capillari sdoppiarsi in due tubi più fini, che solo l'imprecisione delle osservazioni aveva potuto far credere costi­ tuissero un tubo solo. È in questa rete complessa che circolano i punti M, rappresentativi dello stato del sistema. Cerchiamo di capire bene questo paradosso. Tutti i punti del toro rappresentano stati potenziali del sistema, e ognuno di essi può essere scelto come punto iniziale. L'evoluzione naturale del sistema, però, fa sì che dopo una breve fase transitoria esso si confini in una regione molto più piccola, come al centro della tela di un ragno, e che quindi la maggior parte di questi stati potenziali non siano mai osservati. Ecco dunque l'attrattore di Smale, che potrà forse sembrare al let­ tore una costruzione un po' artificiale. Ma anche le equazioni della meteorologia contengono il loro attrattore strano, come ha mostrato in un articolo famoso Edward Lorenz.1 L'attrattore di Lorenz non ha esattamente la stessa struttura dell'attrattore di Smale; quest'ultimo era un oggetto intermedio fra una curva e una superficie, mentre l'attrattore di Lorenz è intermedio fra una superficie e un volume (cfr. scheda 4). Per darne un'idea, immaginiamo un libro i cui fogli siano numerati su una faccia sola, come ai primordi dell'arte della stampa. Immagi­ niamo inoltre che a questo libro vengano strappati tutti i fogli tranne quelli il cui numero contenga solo le cifre 2, 3 , 4, 6, 7 e 8 (dopo que­ st'operazione, il libro non conterrà più fogli nella cui numerazione compaiano le cifre O, l , 5 e 9) . Per un libro di dieci fogli (numerazione a una sola cifra), si salvano i fogli 2 , 3 , 4, 6, 7 e 8 (ossia sei fogli su die­ ci). Per il caso di un libro di cento fogli (numerazione a due cifre: sup-

3

[Cfr. E. N. Lorenz, Deterministic Nonperiodic Flow, ]. Atmos. Sci., vol. 20, 1 3 0-4 1 ( 1 963)] .

CAPITOLO QUARTO

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scHEDA 4

L 'attrattore di Lorenz

Questo disegno rappresenta una traiettoria tipica, in tre dimensioni, del sistema di Lorenz: dx

dt

= - ax + ay

_Qy = bx - y - xz dt

dz - cz + .xy. dt=

La traiettoria, uscita dal punto O, descrive curve divergenti attorno al punto A, lo abbandona per andare a ruotare attorno al punto B, torna poi attorno ad A, quindi di nuovo attorno a B, e così via indefinitamente. Si osserva dunque una successione infinita di oscillazioni la cui alternanza sembra aleatoria, essendo il numero di tori descritti ogni volta estremamente variabile. Se si lascia proseguire il movimento, la traiettoria, accumulandosi, finisce col disegnare un oggetto stratificato, intermedio fra una superficie e un volume: l'attrattore di Lorenz. Troviamo una rappresentazione molto semplificata di questo movimento sulla pietra incisa di Vallstenarum, nell'isola di Gotland. Essa rappresenta una sorta di labirinto, la cui pianta generale ricorda un quadrifoglio: le quattro foglie vengono esplorate una dopo l'altra. Il sistema di Lorenz comprende invece un'infinità di foglie, unite tutte allo stesso stelo. Esse sono raccolte in mazzolini, ognuno dei quali dà l'impressione di costituire una sola foglia, ma la complessità della struttura sottostante è rivelata dal comportamento caotico delle traiettorie, costrette a seguire una dopo l'altra ogni foglia, e quindi a oscil­ lare in modo imprevedibile da un mazzolino all'altro.

CAOS

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poniamo che i numeri fino a 9 siano preceduti da uno zero) restereb­ bero due gruppi distinti, formati dai fogli da 2 2 a 48 e da 62 a 88. Ognuno di questi due gruppi comprende in verità non ventisette fogli bensì diciotto, giacché se ne devono ancora togliere i fogli conte­ nenti le cifre «proibite >>; dal primo gruppo, per esempio, si devono infatti ancora togliere i fogli 2 5 , 29, 3 0, 3 1 , 3 5, 39, 40, 41 e 45 . Per un libro di mille fogli (numerazione a tre cifre), ottenuto per esempio sud­ dividendo ogni foglio del libro precedente in dieci fogli più sottili, si vedono apparire delle lacune in questi gruppi omogenei. Al posto del foglio 22 dovremmo avere dieci fogli numerati da 2 2 0 a 2 2 9, ma

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CAPITOLO QUARTO

ne mancano quattro: i fogli 2 2 0, 2 2 1 , 2 2 5 e 229. In effetti, tra i fogli 2 2 2 e 2 48 si vedrà riformarsi un nuovo gruppo di diciotto fogli, del tutto analogo a quello che abbiamo osservato alla scala superiore. Si osserverà che la frazione di fogli restanti viene moltiplicata per 6/ 1 0 a ogni tappa; dal 60 per cento per un libro di dieci fogli si passa al 3 6 per cento per un libro di cento fogli e al 2 1 ,6 per cento per un libro di mille fogli, ossia il libro si dirada sempre più. Al limite, ci si deve rappresentare un libro avente un'infinità di fogli infinitamente sottili, sempre contenuto nella rilegatura iniziale. La grandissima maggioranza dei fogli sono stati strappati, poiché la frazione di fogli intatti tende a zero, ma ne rimangono ancora un'infinità, che continuano a presentarsi in gruppi di diciotto. Più esattamente, ogni foglio del libro è esso stesso un libro, riproduzione fedele dell'originale. E ogni foglio di ognuno di questi volumi che appaiono in numero incalcolabile è esso stesso un libro costruito sullo stesso modello.4 L'attrattore di Lorenz si presenta come una superficie ripiegata su se stessa nel comune spazio a tre dimensioni. Ma se si considera questa superficie al microscopio, si vede apparire una struttura stratificata come quella che abbiamo appena descritto. In altri termini, il nostro strumento d'osservazione, non potendo abbracciare l'insieme del­ l'attrattore, stacca artificialmente dei fogli in quello che in realtà è un solo e grande foglio. Così, se concentriamo la nostra attenzione sul movimento che esce da un punto preciso M0, solo al termine di un tempo abbastanza lungo vedremo apparire nel campo visivo del nostro strumento il punto rappresentativo M., e quanto maggiore sarà l'in­ grandimento impiegato tanto più ristretto sarà questo campo visivo, e tanto più a lungo dovremo aspettare. Se proseguiamo l'esperimento, 4 [Questa strana immagine di un libro i cui fogli si moltiplicano diventando sem­ pre più sottili, richiama alla mente il racconto di Borges La biblioteca di Babele. La nota a piè di pagina con cui Borges conclude il racconto dice: >. « Non me ne andrò>> disse Gunnar, «e vorrei che restassi anche tu >>. « No >> ribatté Kolskegg, « io non agirò bassamente né in questa né in alcun'altra circostanza in cui qualcuno mi abbia prestato la sua fiducia. Ecco la sola cosa che poteva separarci. Dì ai miei parenti e a mia madre

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CAPITOLO QUARTO

che non ho intenzione di rivedere l'Islanda, perché arrivando apprenderei della tua morte, fratello, e questo non m'invoglierà a tornare ». Si lasciarono: Gunnar tornò a Hlidarendi, mentre Kolskegg andò alla nave e partì per Paesi stranieri. Hallgerd si rallegrò nel vedere Gunnar tornare a casa, ma sua madre non disse molto.

« Hallgerd si rallegrò nel vedere Gunnar tornare a casa, ma sua madre non disse molto >>. Raramente ci si è spinti più avanti nell'arte della litote e nell'espressione della disapprovazione. Hallgerd era la moglie di Gunnar, e i lettori della saga conoscono bene il suo carattere vendicativo e l'animosità che essa manifesta verso il marito. Se si ralle­ gra del ritorno di Gunnar non è per amore, ma perché questo fatto le fornisce l'occasione di vendicarsi di lui. Per contro la madre di Gunnar, che aveva visto partire i suoi due figli senza essere sicura di rivederli prima di morire, quando uno dei due ritorna si rinchiude nel silenzio. Essa sa, come tutti, che è un suicidio. La gioia di Hallgerd è sconve­ niente, e lo sarebbero anche i rimproveri; sarebbero anzi inutili, in quanto Gunnar conosce il pensiero della madre senza che essa abbia bisogno di esprimerlo. La donna accudisce alle sue faccende nella casa, muta come il dolore. Il fatto è che la decisione di Gunnar ha la subitaneità e l'irrevo­ cabilità delle catastrofi naturali; non c'è nulla che la faccia presagire. Gunnar è presente all'althing quando si discute la sua causa, assiste agli sforzi di Nj:'H per arrivare a un arbitrato e non manifesta malcontento per gli accordi conclusi. Al contrario, promette a Njal che li rispetterà e fa i suoi preparativi per partire. Si congeda dai familiari e parte, e solo un caso fortuito, una pietra o un'ombra che passa, che fa inciampare il suo cavallo, gli offre l'occasione di modificare la decisione già presa. Questo voltafaccia si verifica nel momento più inopportuno. La sua decisione di rimanere determina il distacco dal fratello Kolskegg; era forse l'unico modo in cui egli poteva staccarsi da questo alleato indefet­ tibile. Da questo momento in poi gli avvenimenti precipitano. Gunnar è messo al bando nell'althing dell'estate seguente, a cominciare dal­ l'autunno i suoi nemici organizzano una spedizione che ha finalmente ragione di lui. Tutto questo accade perché, per un caso, si è voltato, ha levato lo sguardo verso la fattoria dove era vissuto per tanti anni, vedendola come per la prima volta, rannicchiata contro la collina, circondata da campi, luminosi e profumati. Perché il cavallo è inciampato? Decisioni

RISCHIO

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così gravi dipendono davvero da circostanze così accidentali? Se lo zoc­ colo del cavallo si fosse posato dieci centimetri più avanti, o se essi fos­ sero passati in quel luogo dieci minuti dopo, non ci sarebbe stata la caduta da cavallo, o non sarebbe stato Gunnar a cadere. Lui e il fratello avrebbero compiuto i loro tre anni di esilio, sarebbero rientrati al Paese coperti di gloria e d'onore, e i loro nemici sarebbero stati definitiva­ mente ridotti al silenzio. Non ci sarebbero stati né l'assedio di Hlida­ rendi, in cui perì Gunnar, né l'incendio di Bergthorshvall, in cui mori­ rono Njal e i suoi figli, e noi oggi non leggeremmo la saga di Njal. Gunnar ha salutato la madre, la moglie, i figli, gli amici. Cavalca verso la spiaggia a fianco del fratello : fra qualche minuto saranno in mare; fra qualche ora l'Islanda sarà scomparsa all'orizzonte. La sua anima già lo precede alle Orcadi o in Norvegia. Qual destino lo at­ tende laggiù? Un caso, uno sguardo, e Gunnar cambia opinione e de­ stino. La sua decisione è indifendibile, lo sa, ma è irrevocabile, ed egli vi si atterrà inflessibilmente. I suoi amici hanno fatto il possibile per dissuaderlo; d'ora in poi non gli rimane che rifiutare il loro aiuto, per evitare di trascinarli nella sua caduta. Tutto questo perché attorno a Hlidarendi, all'alba, la campagna è bella. La teoria delle decisioni vuole che si considerino tutti gli eventi possibili attribuendo loro delle probabilità, le quali traducano la loro plausibilità più o meno grande. Una probabilità zero significa che l'evento in questione è considerato impossibile e lo si può quindi igno­ rare. Un evento di probabilità uno, per contro, è considerato certo, ossia si è sicuri che avrà luogo. Le probabilità intermedie, fra O e l , esprimono i diversi gradi della certezza, nello stesso modo i n cui le divisioni del termometro fra O e 1 00 misurano la temperatura del­ l'acqua. Si può pervenire alla valutazione delle probabilità in molti modi. Il più naturale consiste nel far ricorso a esperti. È così che si valutano correntemente i rischi industriali, e che si vede attribuire a eventi come la « sindrome cinese >>, la fusione del nocciolo di una centrale nucleare, una probabilità certo infima, da w - w a w - s a seconda degli autori dello studio e dei suoi destinatari, ma comunque positiva. Analogamente, si esprimono numericamente la probabilità di avere un incidente di mac­ china in un certo momento, su un certo itinerario, o la probabilità che il lancio di una navetta spaziale fallisca.

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CAPJTOLO QUINTO

Alla base di queste valutazioni c'è l'idea che un evento importante come un incidente non è mai altro che il risultato chiaramente cata­ strofico di un concorso di circostanze minori, di un tessuto di piccole coincidenze, di cui nessuna avrebbe importanza individualmente, ma la cui sfortunata accumulazione scatena fenomeni a una scala maggiore. Nella centrale nucleare di Three Mile Island si ebbe qualche anno fa un grave incidente dovuto al fatto che una valvola era rimasta aperta mentre la spia sul pannello di controllo la segnalava chiusa. Gli opera­ tori lavorarono dunque per varie ore avendo un'immagine erronea della situazione, e le misure da loro prese l'aggravarono considerevol­ mente. Ci si trovò in una situazione in cui, in caso di ulteriore sfortuna, come l'apertura di un'altra valvola o la rottura di un tubo, si sarebbe potuto avere un incidente ancora più grave, sino alla famosa sindrome cinese. Ora, la probabilità che una valvola non si chiuda può essere sti­ mata ragionevolmente da un ingegnere, così come la probabilità che una spia non si accenda, ed è quindi possibile calcolare la probabilità globale di una tale situazione. Facendo un catalogo esauriente di tutte le situazioni che possono condurre alla sindrome cinese, e stimando la probabilità di ciascuna di esse, si potrà assegnare una probabilità alla sindrome cinese stessa. Questa stima di probabilità diventa allora uno strumento di gestione, nel senso che permette di esprimere quantitati­ vamente il rischio in forma obiettiva. Ogni miglioramento tecnologico che riduca questa probabilità diminuisce tale rischio. Il progresso tec­ nologico non è tuttavia necessariamente benefico, in quanto può aumentare altri rischi, come quello di inquinamento dell'atmosfera, che saranno quantificati in modo analogo. Ci si può stupire nel veder assegnare in questo modo delle probabi­ lità a eventi che non si sono mai prodotti, e che ci si augura non si pro­ ducano mai. L'idea che è alla base di queste stime è che gli eventi in questione si compongano di microelementi indipendenti di cui è necessaria la realizzazione simultanea, come l'apertura di certe porte richiede la presenza di tre persone, ciascuna munita di una chiave diversa. Se queste persone sono presenti in media un giorno su dieci, e se le loro date di presenza sono indipendenti, la probabilità che si possa aprire la porta in un giorno dato è di 1 1 1 O x 1 1 1 O x 1 1 1 O = 1 1 1 000; si potrà cioè aprire una tale porta in media una volta ogni tre anni. Se la porta serve a tener rinchiusi i quattro cavalieri dell'Apocalisse, si potrà considerare troppo grande il rischio di veder devastare la Terra ogni

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tre anni. Si munirà allora la porta di otto serrature anziché di tre. Lo stesso calcolo dà questa volta una probabilità di un centomilionesimo: la porta verrà cioè aperta in media una volta ogni tremila secoli circa. Poiché la storia umana non ha avuto inizio più di cinquanta o sessanta secoli fa, si può stimare che la fine del mondo sia spostata in questo modo a una data ragionevole. In definitiva, però, la teoria delle decisioni non richiede che si abbiano basi obiettive per le probabilità di eventi futuri. lo posso essere perfettamente convinto che domani mattina ci sarà la fine del mondo : attribuirò quindi a questo evento la probabilità l e mi comporterò di conseguenza. È una probabilità soggettiva; essa non vale né per la forza delle ragioni che posso addurre né per il numero delle persone che la condividono, ma per la mia intima convinzione. Se domani non succe­ derà nulla, sarò costretto a rivedere questa probabilità; nell'attesa, però, sarà essa a determinare il mio comportamento. In effetti, a tutte le grandi scadenze si vedono comparire quelli che predicono l'immi­ nente fine del mondo, e i loro adepti che abbandonano i beni terreni per prepararsi al ritorno del Signore. Una convinzione non ha meno forza per il fatto di essere irrazionale; e una probabilità non influirà con meno efficacia su chi deve prendere decisioni per il fatto di essere soggettiva. Si possono quindi esprimere valutazioni anche delle probabilità di eventi su cui si hanno solo scarse informazioni. Chi non ha mai sentito le conversazioni al bar in cui si smascherano i colpevoli di crimini impuniti e in cui si fanno rivelazioni confidenziali sulla malattia segreta e sulla prossima morte di uomini politici eminenti? Senza dubbio coloro che propalano queste voci vi attribuiscono qualche credito, e quindi esse devono ripercuotersi sulle loro previsioni e decisioni . Si possono attribuire probabilità addirittura a eventi su cui non si ha alcuna informazione. Se devo scommettere su una partita di pelota basca, e non ho altra informazione che i nomi dei giocatori, tirerò a testa e croce; ossia attribuirò a ciascun giocatore la stessa probabilità di vittoria. Nel caso di una finale di tennis, c'è qualche probabilità che i nomi mi dicano qualcosa, e in questo caso potrò allontanarmi dall'attri­ buzione del 50 per cento di probabilità a ciascun giocatore, che riflette una totale mancanza d'informazione. Posso fare addirittura un passo avanti, e chiedermi quale fiducia io assegni alle mie probabilità sogget­ tive: ossia posso stimare la forza delle mie convinzioni. Se sono sicuro

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di me, se per esempio i due finalisti sono divisi da un divario considere­ vole nella classifica ATP, risponderò che la mia stima è probabilmente esatta, e potrò spingermi fino a esprimere questa probabilità in cifre. Si possono avere così risposte complesse, del tipo: «Penso che X abbia un 90 per cento di probabilità di battere Y, e, tenendo conto degli ele­ menti di cui dispongo, sono sicuro della mia previsione al 60 per cento>>. È chiaro che il linguaggio probabilistico traduce qui due situazioni diverse, e che la sua precisione è più adatta al tennis che alla pelota basca. Quando io dico che X ha un 90 per cento di probabilità di bat­ tere Y, mi riferisco a un modello matematico in cui le alee da cui di­ pende l'esito dell'incontro sono state identificate e pesate, e la probabi­ lità di 0,9 appare allora come il risultato di un calcolo, forse sommario, ma sempre necessario. In una situazione ideale, se fossi intimo di X e di Y e disponessi quindi di tutti gli elementi di valutazione, perverrei senza dubbio a una stima abbastanza esatta delle probabilità di ciascuno dei due avversari. All'altro estremo, se non conosco né X né Y, e se non ne ho addirittura mai sentito parlare, non dispongo di alcuna informa­ zione che mi permetta di prendere posizione in un senso o nell'altro. È quella che chi amerò, al seguito dei numerosi psicologi che hanno lavo­ rato sull'argomento, una situazione di « ignoranza>>, mentre la situa­ zione precedente, in cui si dispone di un modello probabilistico esatto, è designata come « aleatoria>>, in ricordo del gioco dei dadi (in latino

alea). In pratica ci si troverà per lo più in situazioni intermedie fra questi due estremi : si parlerà allora di situazioni «incerte >>. È quanto espri­ meva il pronosticatore dicendosi sicuro al 60 per cento della sua previ­ sione. Egli si poneva più vicino all'alea che all'ignoranza, in una scala continua che va dall'una all'altra. Si può anche realizzare la transizione fra l'alea e l'ignoranza costruendo lotterie. Si organizzano due incontri, il primo fra due giocatori che conosco perfettamente (situazione pura­ mente aleatoria; sono sicuro al 1 00 per cento del mio modello), l'altro fra due giocatori di cui non so niente (situazione d'ignoranza totale; nessuna fiducia nel mio modello) . Si tirerà a sorte quale dei due incon­ tri debba aver luogo. Mi trovo allora in una situazione d'incertezza, e il livello di questa dipende dalle probabilità scelte. Se il primo incontro ha sei probabilità su dieci di uscire, dirò che sono sicuro del mio mo­ dello al 60 per cento, o che il mio livello di fiducia è del 60 per cento. È quindi possibile passare in modo continuo dall'alea all'ignoranza

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totale attraverso tutti i gradi dell'incertezza, ed esprimere quantitativa­ mente questi gradi per mezzo di probabilità. Il processo decisionale in una situazione di futuro incerto può dunque - almeno in linea di prin­ cipio - essere ridotto per intero al calcolo delle probabilità. L'esempio caricaturale di questa situazione è la scommessa di Pascal, almeno quale è stata compresa dagli autori di manuali. La probabilità che Dio esista è certamente piccola (forse di 1 0 - 10), ma i vantaggi che noi rica­ veremmo dalla sua esistenza sono talmente grandi (un'eternità di felici­ tà, ossia forse 1 0 1000 in unità da precisare), che il guadagno atteso 000 ( 1 0 - 10 x 1 0 1 = 1 0 990, una cifra più che rispettabile) deve indurci ad agire come se Dio esistesse. L'altro termine della scommessa, l'inesistenza di 0 Dio, che può vantare una probabilità molto maggiore ( 1 - 1 0 - 1 , diciamo l per non contare i decimali), ma un profitto molto minore (al massimo l 00 anni di felicità, ossia l 0 2 nelle stesse unità di prima), con­ duce a una speranza di guadagno di l x l 0 2 = l 0\ molto inferiore alla prima. Penso di rendere giustizia a Pascal dicendo che molto probabil­ mente non era questa la sua interpretazione. 1 Purtroppo le cose non sono così semplici, perché gli esseri umani manifestano abitualmente una grande avversione per il rischio. Nella situazione della scommessa di Pascal il guadagno potenziale è senza dubbio immenso, ma le probabilità di successo sono così esigue che la scommessa appare in definitiva poco interessante, tenuto conto soprat­ tutto della grandezza dell'investimento iniziale (probabilmente tutta una vita di rinuncia e di ascesi). Chiunque scommetterebbe a cuor leg­ gero mille lire a cento contro uno, ma si esiterebbe di più a scommet­ tere alle stesse condizioni cento milioni di lire. Questo genere di avver­ sione per il rischio è ben noto agli economisti e ai finanzieri, e la sag­ gezza popolare ne ha ricavato dei proverbi, come «A bird in the band is worth two in the bush>> (dei britannici), o «Meglio un uovo oggi che una gallina domani >>. Ciò fa sì che un investimento considerato rischioso - un'obbligazione di una società che produce merci scadenti o le azioni di una società di alta tecnologia - deve offrire un rendimento più elevato rispetto a investimenti considerati sicuri, o semplicemente meno rischiosi, per poter convivere con questi negli stessi mercati

1

Blaise Pasca!, Pensées, in ffiuvres complètes, a cura di ]. Chevalier, coli . « La Pléia­ de», Gallimard, Paris 1 954, in particolare il Discours di Filleau de la Chaise (pp. 1 4745 0 1 ) . [Per la « scommessa», cfr. B. Pasca!, Pensieri, trad., introd. e note di P . Serini, Einaudi, Torino 1 962, pp. 65-7 3 ] .

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finanziari . Dal rendimento atteso si sottrae un « premio di rischio >>, che è tanto maggiore quanto più elevato viene valutato il rischio. Ma a quest'avversione per il rischio si aggiunge un'avversione per l'incertezza, che è d'altra natura e molto più difficile da quantificare. Se si affrontano due giocatori di pari forza, e io so che sono di pari forza, attribuirò a ognuno di loro una probabilità di vittoria 0,5. Per un incon­ tro fra due sconosciuti, darò ancora le probabilità al 50 per cento, ma mi troverò in una situazione molto più scomoda: in effetti, come ha mostrato un famoso esperimento di psicologia di Ellsberg/ l'applica­ zione del formalismo probabilistico alle situazioni di incertezza con­ duce a paradossi . L'esperimento di Ellsberg è il seguente. Si presentano ai soggetti due urne, contenenti l 00 palline ciascuna. Si annuncia che la prima urna contiene esattamente 50 palline rosse e 50 palline nere; quanto alla seconda, si dice semplicemente che contiene palline rosse e palline nere, senza precisare in quale proporzione. Si aprono allora le scommesse sulla prima urna. I soggetti scelgono un colore, dopo di che si estrae una pallina. Coloro che hanno indovi­ nato il colore vincono cento dollari, gli altri niente. L'esperimento dimostra che la maggior parte delle persone punta indifferentemente sul rosso o sul nero, ossia che le probabilità soggettive sono di 0,5 e 0,5. Si fa poi una serie d i scommesse sulla seconda urna. L e condizioni della scommessa sono le stesse, ma questa volta i soggetti non hanno alcuna informazione sul contenuto dell'urna, tranne il fatto che la pal­ lina che ne uscirà sarà nera o rossa. Ci troviamo dunque in una situa­ zione d'ignoranza, mentre la precedente era una situazione aleatoria. In conformità alla teoria, la maggior parte delle persone scommettono indifferentemente sul rosso o sul nero; esse continuano quindi ad asse­ gnare ai due colori probabilità soggettive 0,5 e 0,5. E d ecco che arriva i l paradosso. Si apre una terza serie d i scom­ messe. Si guadagnano cento dollari ogni volta che esce una pallina rossa, e niente quando esce una pallina nera, ma si ha il diritto di sce­ gliere l'urna da cui la pallina sarà estratta. Poiché le probabilità sogget­ tive sono le stesse per le due urne, e i soggetti stimano quindi che, in

1 D.

Ellsberg, Risk, Ambiguity, and the Savage Axioms, in « Quarterly Journal of Eco­ nomics », LXXV ( ! 96 ! ), pp. 643 -69; e in >, LXXVII ( ! 963), pp. 3 3 6-42 . Vedi anche H. Einhor e R. Hogarth, Decision Making under Ambiguity, in Rational Choice, a cura di R. Hogarth e M. Reder, University of Chicago Press, Chicago ! 987, pp. 41 -66.

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un caso come nell'altro, hanno una probabilità su due di vincere, la teoria esigerebbe che essi scegliessero indifferentemente l'una o l'altra urna. In realtà la maggior parte delle persone esprime una preferenza marcata per la prima urna (quella le cui proporzioni sono note) . Questa preferenza si rivela ancor più spiccata se si tratta di perdere cento dol­ lari anziché guadagnarli, ma si trovano meno soggetti disposti a pre­ starsi all'esperimento. Ci si comporta quindi come se l'ignoranza fosse un fattore di rischio supplementare di cui le probabilità soggettive da sole non riescono a tener conto. Da tutta quest'analisi emergono due interrogativi : che cos'è il rischio? come padroneggiarlo? Noi distinguiamo un rischio aleatorio, che naturalmente risulta dai metodi abituali del calcolo delle probabili­ tà, e un rischio d'ignoranza, dovuto a un'assenza di informazione su ciò che può accadere. La distinzione non resisterebbe a un'analisi fine (il caso è qualcosa di diverso dall'espressione della nostra ignoranza?), ma ha una grande importanza pratica. L'esperienza mostra che l'essere umano accetta più volentieri il rischio aleatorio che non il rischio d'.ignoranza, anche se nella maggior parte delle situazioni concrete essi si presentano congiuntamente. La saggezza popolare ci insegna che « è meglio i l diavolo che s i conosce d i quello che non s i conosce », e anche 3 il poeta ci dice, per bocca del principe di Danimarca: ( . . . ) perché chi sopporterebbe le sferzate e gl'insulti del mondo, l'ingiustizia del­ l'oppressore, la contumelia dell'uomo orgoglioso, gÙ spasimi dell'amore disprezzato, l'indugio delle leggi, l'insolenza di chi è investito di una carica, e gli schemi che il paziente merito riceve dagli indegni, quando egli stesso po­ trebbe fare la sua quietanza con un semplice pugnale? chi vorrebbe portar far­ delli, gemendo e sudando sotto una gravosa vita, se non che il timore di qualche cosa dopo la morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggia­ tore ritorna, confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbia­ mo, che non volare verso altri che non conosciamo?

In effetti, se gli individui e i popoli affrontano quotidianamente rischi a volte molto grandi, purché l'esperienza ne abbia fissato i limiti, li si sente molto più disarmati quando si tratta di affrontare l'ignoto. La vita umana è fatta di rischi accettati. Il primitivo che vive di caccia o raccolta non sa se domani troverà qualcosa da mangiare. Il contadino

3

William Shakespeare, Amleto, atto III, scena l , trad. R. Piccoli, in Tutte le opere, a cura di M. Praz, Sansoni, Firenze 1 964, p. 699.

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che semina oggi non sa se, fra sei mesi o fra un anno, il raccolto ripa­ gherà i suoi sforzi. Il commerciante che rifornisce il suo magazzino non sa se riuscirà infine a vendere tutte le merci. Ognuno di questi rischi si inquadra in un modello sperimentato, trasmesso da una gene­ razione all'altra, che assegna limiti al possibile e determina delle proba­ bilità. Il contadino conosce, per esperienza o per sentito dire, le diverse calamità che possono distruggere il suo raccolto, il gelo e la siccità, l'inondazione e l'incendio, le cavallette e la malattia. Può immaginare che le cose vadano ancor peggio, per esempio che si verifichino le dieci piaghe d'Egitto, anche se esse non si sono più ripetute a memoria d'uo­ mo. Sa però che il cielo non gli cadrà sulla testa; sa anche che tutte queste calamità hanno probabilità piccole, che si possono ancor più ridurre prendendo certe precauzioni e praticando certi riti, come atte­ sta il semplice fatto che, dopo tante generazioni, egli sia ancora lì a col­ tivare la stessa terra. Egli ha dunque una probabilità ragionevole di sopravvivere, come l'hanno avuta prima di lui i suoi antenati, e se l'anno si annuncia sfavorevole, l'anno seguente dovrà essere migliore. Raffìguriamoci ora l'irruzione dei conquistadores nell'impero incaico. La società indiana era abituata ad assumersi un certo numero di rischi: era una società contadina, e i rischi agricoli le erano familiari; era anche un impero che era stato fondato attraverso la conquista, e i rischi militari non le erano ignoti. Pare che gli inca non abbiano saputo affrontare il nuovo rischio rappresentato da questi esseri barbuti e corazzati, che montavano animali sconosciuti e maneggiavano strane !ance tonanti, e il cui modo di combattere sfidava le leggi comuni del­ l'umanità. Le ragioni del crollo dell'impero incaico sono scomparse con Atahualpa e con milioni di suoi sudditi, ma pare plausibile che fos­ sero connesse a un'incapacità psicologica di assumersi certi rischi. È meglio sottomettersi che combattere un avversario di cui non si è in grado di misurare la potenza. In generale non pensiamo che un contadino o un commerciante, che pure si assumono quotidianamente certi tipi di rischio, abbiano bisogno di coraggio. Per contro, il personaggio dell'esploratore è l'archetipo del coraggio. Perché? Perché penetra in quella terra inco­ gnita, in quell'area bianca delle vecchie carte geografiche la cui vista induce un tale disagio che i cartografi preferivano riempirla di vignette, o cingerla con la scritta: «Hic sunt leones>>. Un'informazione di questo genere, per quanto fantastica e riconosciuta come tale, è più rassicu-

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rante di una totale mancanza d'informazione. E tuttavia quest'area bianca della carta potrebbe essere l'Eldorado, in cui il minimo fiume contiene pepite, o la mitica terra che l'Eterno promise al suo popolo e in cui scorrono latte e miele. L'esploratore va forse verso la fortuna: perché immaginare sempre il peggio, se non perché temiamo l'ignoto? Vediamo dunque disegnarsi due zone di rischio: il campo dell'alea­ torio, in cui regna il calcolo delle probabilità, e il campo dell'ignoto, dove l'unica regola è la prudenza. Questa impostazione sarebbe senza dubbio sufficiente a darci un'immagine coerente delle decisioni umane, se la frontiera fra questi due ambiti non fosse vaga, e se il calcolo delle probabilità non si fosse imposto a poco a poco come uno strumento universale. È così che, nella valutazione dei rischi legati alle centrali nucleari, la comunità dei politici e dei tecnici, appoggiandosi a modelli probabilistici, si oppone all'opinione pubblica, che tende a essere molto più prudente. Si tratta semplicemente di mancanza d'informazione o di mancanza di competenza da parte del pubblico, oppure è messa in discussione la validità dei modelli probabilistici? L'importanza di que­ sto problema è tale che è legittimo dedicargli alcune pagine. La prima osservazione da fare è che troppo spesso, quando si rendono pubbliche le stime ufficiali delle probabilità di incidente, esse risultano spesso in aperta contraddizione con le frequenze osservate. L'esempio più famoso è quello della NASA, che nel 1 985 stimava la probabilità di incidente nei lanci spaziali l su 1 00 000,4 mentre studi anteriori avevano concluso per una probabilità dell'ordine di l su 1 00, e il razzo vettore è esploso in realtà al venticinquesimo lancio. Non conosco le valuta­ zioni ufficiali circa il rischio di incidenti in centrali nucleari, sempre che siano state pubblicate, ma dubito che la probabilità di un incidente a Three Mile Island o a C emobyl sia stata stimata al suo valore reale. Infine, ricordiamo che il Titanic era stato definito inaffondabile; la probabilità che affondasse non era solo infima, non esisteva proprio. Si può sempre sospettare che politici corrotti o ingegneri fanatici trucchino le cifre per imporre i loro progetti, ma persino in circostanze in cui non sono in gi oco poste concrete le probabilità di insuccesso cal­ colate da persone competenti e in buona fede possono rivelarsi siste­ maticamente sottovalutate. Un articolo recente 5 esamina ventisette 4 Space Shuttle Data for Planetary Mission RTG Safety Analysis (NASA, Marshall Space Flight Center, AL, 1 5 febbraio 1 985). 5 M. Henrion e B. Fischhoff, in «American Journal of Physics>>, LIV ( 1 986), p. 79 1 .

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misurazioni della velocità della luce pubblicate fra il 1 87 5 e il 1 9 5 8 . Ognuna d i esse era accompagnata, come d'uso, d a una stima del mar­ gine di errore suggerita dallo stesso sperimentatore: questi fornisce uno scarto tipo che permette, per ogni quantità e, di calcolare la proba­ bilità che il valore misurato si discosti più di e dal valore esatto. Se si fa il calcolo, prendendo per e lo scarto fra il valore misurato e il valore del 1 984, considerato talmente esatto da essere usato oggi come riferi­ mento per la definizione dell'unità di lunghezza, si trovano in ogni caso probabilità inferiori allo 0,5 per cento. In altri termini, se si accettano le valutazioni dei successivi sperimentatori, si deve ritenere che gli eventi abbiano effettivamente congiurato contro di loro per falsarne i risultati: si sarebbe estratto ventisette volte di seguito un evento che aveva meno di cinque probabilità su mille di prodursi. La seconda osservazione è che l'imprevisto esiste, e che molto spesso l'errore è umano. Nel 1 987, in Brasile, nella città di Goiània, due rottamai scoprirono in una clinica adibita ad altro uso, una capsula contenente un centinaio di grammi di una polvere fosforescente. Era cesio 1 3 7 radioattivo, che si trovò così a essere liberato fra la popola­ zione in modo del tutto imprevisto. Quando la disseminazione fu infine bloccata, nel dicembre 1 987, erano già stati catalogati 1 2 1 casi di contaminazione, di cui quattro mortali, e più di l 00 000 abitanti si erano presentati a esami di controllo della radioattività. Il timore di contaminazione sui mercati esteri aveva ridotto alla metà il valore totale della produzione agricola dello Stato di Goias, e ne aveva sof­ ferto anche la produzione industriale. In breve, si dovettero pagare costi umani ed economici considerevoli per un rischio che nessuno si era assunto coscientemente. E si possono immaginare, a partire dalla scoperta iniziale, scenari ancor più catastrofici. Che cosa sarebbe acca­ duto, per esempio, se il cesio 1 3 7 fosse caduto in mano a ricattatori, e il Brasile avesse dovuto far fronte alla minaccia di una contaminazione organizzata? L'esperienza dimostra che, in materia nucleare, il rischio sfugge in gran parte alla misurazione. A Three Mile Island come a C ernobyl, sono stati scenari imprevisti a condurre all'incidente, con la coopera­ zione involontaria degli operatori della centrale. Si può parlare di errore umano, ma ciò equivale a spostare troppo facilmente sugli ope­ ratori la responsabilità di chi ha progettato la centrale. L'errore umano dovrebbe essere integrato nei meccanismi di sicurezza e nei calcoli di

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affidabilità, allo stesso titolo dei guasti tecnici. In questa prospettiva, l'errore umano dovrebbe ricevere molta più attenzione degli incidenti dovuti ad avarie, giacché, se l'errore o la negligenza possono fare tanto danno, quanto di più potrebbe farne l'intenzione deliberata di sabo­ tare? Si potrebbe pensare di eliminare questi rischi concependo cen­ trali completamente automatiche, ma il rischio umano non si limita certamente agli operatori. Dopo tutto, gli ingegneri possono commet­ tere errori, gli esperti possono mentire, i sorveglianti possono dormire. Coloro a cui competono le decisioni - e il pubblico - devono prendere in considerazione tutti questi rischi, e sono in grado di apprezzarli meglio dei tecnici. Ci si deve render conto che un solo rischio trascurato o ignorato può invalidare tutti i calcoli di affidabilità fatti sugli altri rischi. Inoltre la moneta cattiva scaccia la buona, nel senso che i fattori che aggravano il rischio hanno una netta prevalenza su quelli che tenderebbero a diminuirlo. Immaginiamo per esempio una centrale in cui la probabi­ lità di incidente fosse stimata 1 1 1 000 000. Immaginiamo che siano stati dimenticati due fattori di rischio, uno che moltiplica il rischio per mille e uno che lo diminuisce nella stessa misura, così che per il l O per cento del tempo la centrale funzioni in effetti con una probabilità di inci­ dente di 1 1 1 000, per il l O per cento con una probabilità di incidente di 1 / 1 000 000 000 e per il restante 80 per cento con la probabilità stimata in precedenza, ossia di 1 1 1 000 000. Un semplice calcolo dimostra allora che la probabilità reale di incidente è dell'ordine di 1 1 1 0 000. Essa è press'a poco insensibile a qualsiasi cosa si possa fare per diminuire i rischi noti . Se, per esempio, un lavoro assiduo e rigoroso sulle norme di sicurezza riduce la probabilità di incidente in quel 90 per cento del tempo in cui il rischio ignorato non opera a 1 1 1 000 000 000, la proba­ bilità reale di incidente resterà press'a poco di 1 1 1 0 000. A queste considerazioni poco incoraggianti occorre aggiungerne un'altra: essa è che mai, nella storia dell'umanità, si sono prese deci­ sioni che abbiano comportato un impegno per il futuro a così lunga scadenza. L'industria nucleare produce scorie che resteranno estrema­ mente pericolose per almeno diecimila anni. Quelle che non si per­ dono (può succedere anche questo) o che non vengono riciclate, sono accumulate in siti speciali, miniere abbandonate o caverne di granito, dove in teoria sono sottoposte a una sorveglianza costante. Ma dieci­ mila anni sono una durata doppia rispetto al tempo trascorso da quando

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esiste la scrittura, il doppio della durata della storia umana. Immagi­ niamo che nostri lontani antenati, nella notte dei tempi, molto tempo prima delle prime dinastie egizie o cinesi, molto prima dell'emergere delle religioni attuali, ci avessero lasciato sepolcri da non aprire e a cui neppure avvicinarsi. Le guardie sarebbero state fedeli durante quella lunga successione di imperi, di guerre e di calamità? Si sarebbe conti­ nuato a trasmettere l'ordine nei secoli e nei millenni, il ricordo si sarebbe perpetuato? O qualche conquistatore avrebbe fatto aprire quei sepolcri dinanzi a sé per affrontare la leggenda? Senza dubbio ci si culla nella speranza che le scorie radioattive non restino nei loro depositi per diecimila anni, e che molto prima le future generazioni abbiano trovato una cura per il cancro, un vaccino contro l'Aids, il segreto dell'eterna giovinezza e il modo di sbarazzarci delle nostre scorie. Queste potranno essere trattate in stabilimenti non inquinanti, o trasportate nello spazio da veicoli che non esplodano in volo. Gli stessi veicoli saranno senza dubbio comodissimi per reinte­ grare lo strato dell'ozono, e si attende con curiosità di vedere in che modo i nostri discendenti riusciranno a diminuire la quantità di ani­ dride carbonica presente nell'atmosfera. La verità è che la civiltà industriale procede senza misurare i rischi in modo adeguato e senza considerarli in modo globale. Senza dubbio si può fare una requisitoria contro l'energia nucleare, ma non è un bene neppure bruciare combustibili fossili, e anche le dighe delle cen­ trali idroelettriche hanno i loro inconvenienti. È il problema delle sor­ genti di energia del pianeta, problema che si pone accanto a tanti altri che non richiamano sufficientemente l'attenzione. Si riuscirà a metter fine all'epidemia di Aids? In certi paesi africani è già infettato un terzo della popolazione. Abbiamo riflettuto su tutte le conseguenze di questo fenomeno? Un altro grave problema è quello di intere popolazioni che sono state scacciate dalle loro terre e vivono da più di quarant'anni in campi per profughi. Se si lascia perpetuare, una generazione dopo l'al­ tra, questo genere di situazione, si creano deliberatamente grandi rischi storici. Chi li ha misurati ? Chi li prende in conto? Noi procediamo anestetizzati fra i rischi creati da noi stessi. Di tanto in tanto un incidente ci scuote dal nostro torpore, e noi gettiamo uno sguardo nel precipizio. Si verifica un incidente a C ernobyl, e noi non beviamo più latte; scoppia una rivolta popolare, e noi andiamo in vacanza in un altro posto. Come Gunnar di Hlidarendi, che fu ripor-

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tato a se stesso da una caduta da cavallo. Ma il suo gesto aveva un'altra grandezza. L'assunzione di un rischio non è sempre il risultato di un calcolo. In materia economica appunto, come faceva notare Keynes : 6 « S e la natura umana fosse assolutamente insensibile all'attrattiva di tentare la sorte e alla soddisfazione (a parte il profitto) di costruire una fabbrica, una ferrovia, una miniera o una fattoria, il freddo calcolo potrebbe non essere sufficiente da solo a dar luogo ad un investimento cospicuo >>. Un po' sopra scriveva che « quando le imprese erano principalmente proprietà di coloro che le gestivano o dei loro amici e soci, l'investi­ mento dipendeva dall'esistenza di un numero sufficiente di individui di temperamento ottimista e di impulsi costruttivi, i quali si dedicavano agli affari come un modo di vivere, senza basarsi effettivamente su un calcolo preciso di profitti prospettivi>>. Perché gli ateniesi si assunsero, prima a Maratona e poi a Salamina, il rischio di affrontare da soli un nemico nettamente superiore, dinanzi al quale molte altre città greche avevano capitolato, mentre i lacede­ moni si isolavano nel Peloponneso? Ecco con quale fierezza, un secolo e mezzo dopo i fatti, gli ambasciatori ateniesi parlarono ai lacedemoni a Sparta: 7 «Affe rmiamo, dunque, che a Maratona fummo primi e soli ad affrontare il barbaro; e quando egli tornò per la seconda volta, non essendo noi in grado di opporci a lui per terra, saliti in massa sulle navi, insieme con voi combattemmo a Salamina >>. Il rischio era stato assunto due volte. Se l'impresa fosse fallita, mai più nessuno avrebbe sentito parlare degli ateniesi. Ma essa riuscì, e se ne parla ancora a distanza di venticinque secoli . Eschilo, autore di tanti capolavori, non volle si menzionasse sulla iscrizione funebre altro titolo di gloria oltre al fatto di aver combattuto a Maratona : « Questa tomba racchiude Eschilo, figlio di Euforione, ateniese, morto a Gela, produttrice di messi. Il suo valore possono dirlo il sito glorioso di Maratona e il medo dalle lunghe chiome, che lo hanno conosciuto >>. Ci sono casi in cui il comportamento sembra dettato non da calcoli di utilità bensì da imperativi morali che, una volta accettati, non 6 J . M . Keynes, The Genera! Theory of Employment Interest and Money, Harcourt Brace, New York 1 9 3 6, cap. 1 2 , sez. III [trad. A. Campolongo, Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, Utet, Torino 1 968, pp. 1 3 2 sg.). 7 Tucidide, La guerra del Peloponneso, lb. I, cap. 73, trad. L . Annibaletto, vol. l , Mondadori, Milano 1 95 2 , l ' ed. Oscar Mondadori 1 97 1 , p . 49.

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CAPITOLO QUINTO

lasciano molta scelta. Per il soldato impegnato in una lotta disperata, la motivazione sarà da ricercarsi nel senso dell'onore, o nella solidarietà con i compagni d'armi; per il capitalista, animato dall'etica protestante, nella convinzione che il denaro debba dare frutto, come nella parabola dei talenti. A partire dal momento in cui la coscienza si affida esclusiva­ mente a una regola decisionale, che le detta un'azione senza conside­ rare le possibilità alternative, è la nozione stessa di rischio a scompari­ re, lasciando posto a quella di destino. Quando Gunnar cade da cavallo e decide di restare in patria, non soppesa il pro e il contro, ma è il suo destino a imporglisi. Non correrà per mare, esiliato dagli intrighi dei suoi nemici, fosse pure per tornare dopo tre anni. Morirà nella sua ter­ ra, le armi in pugno, e la sua principale preoccupazione sarà ormai quella di non trascinare gli amici nella sua caduta. Ogni problema di decisione ha una dimensione morale, e quanto più la decisione è grave, tanto più questa dimensione è importante. Diceva Albert Camus: «Non c'è rischio a scegliere ciò che vi disonora ».

CAPITOLO 6 Statistica

Allora Faraone disse a Giuseppe: «Nel mio sogno, ecco che io stavo presso il fiume. Ed ecco che sette vacche, grasse di carne e belle di aspetto, salivano dal fiume e si mettevano a pascolare nella giuncaia. Ed ecco che, dopo di quelle, salivano altre sette vacche, deboli, bruttissime d'aspetto e magre di carne, io non ne vidi mai di così brutte in tutta la terra d'Egitto. Poi, le vacche magre e brutte divorarono le prime sette vacche, quelle grasse, che entrarono nel loro corpo, ma non ci si accorgeva che erano entrate nel loro corpo, essendo il loro aspetto deforme come prima. Allora io mi svegliai. Poi vidi ancora nel mio so­ gno ed ecco che da un unico stelo venivano su sette spighe piene e belle. Ma ecco che venivano su, dopo di quelle, sette spighe gracili, sottili e arse dal vento d'oriente. E le spighe sottili divorarono le sette spighe belle. E io l'ho narrato agli indovini, ma nessuno me lo sa spiegare >>. Allora Giuseppe disse a Faraone : « Il sogno di Faraone è uno solo. Dio ha mani­ festato a Faraone ciò che egli sta per fare. Le sette vacche belle sono sette anni e le sette spighe belle sono sette anni : è un solo sogno. Le sette vacche magre e brutte che salgono dopo quelle, sono sette anni e così le sette spighe sottili, arse dal vento d'oriente; ci saranno sette anni di carestia. Questo è ciò che io dicevo a Faraone : Dio ha fatto vedere a Faraone quello che egli sta per fare. Ecco, stanno per venire sette anni di grande abbondanza in tutta la terra d'Egitto,

CAPITOLO SESTO

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poi, dopo questi, verranno sette anni di carestia e nella terra d'Egitto si dimen­ ticherà tutta quell'abbondanza; la carestia consumerà il paese. Nessuno cono­ scerà più l'abbondanza del paese, a causa della carestia che verrà appresso, per­ ché sarà molto grave. E se il sogno di Faraone si è ripetuto due volte, significa che la cosa è decisa da Dio e che Dio ben presto la eseguirà. Ora dunque, Faraone provveda un uomo intelligente e saggio e lo metta a capo della terra d'Egitto. Procuri Faraone di stabilire dei sovrintendenti nel paese per riscuo­ tere la quinta parte della terra d'Egitto durante i sette anni di abbondanza. E radunino essi tutte le vettovaglie di queste buone annate che stanno per venire e ammassino il frumento sotto l'autorità di Faraone come vettovaglie della città e le custodiscano. Tali vettovaglie resteranno in deposito per la terra nei sette anni di carestia che verranno nella terra d'Egitto; così il paese non sarà distrutto dalla carestia». '

La terra scandinava era dura verso i suoi figli, i quali appresero ben presto a volgersi verso il mare, più ricco di risorse e di promesse. La pesca e la pirateria, le spedizioni di conquista o di scoperta: questo era l'universo vichingo. Il capo è colui che guida i suoi uomini alla vittoria. La potenza del re è innanzitutto militare; il tributo e il saccheggio sono le fonti della sua ricchezza. La cattiva stagione è innanzitutto quella in cui è impossibile navigare. È dall'ubertosa terra d'Egitto, e forse della Mesopotamia, due mil­ lenni prima dell'ingresso degli uomini del Nord nella storia, che ci vengono i miti fondatori dell'agricoltura, e i metodi di gestione che applicano ancor oggi i nostri governi . Certo, la Scandinavia conosceva le carestie. Snorri S turluson racconta come Domalde, uno dei re mitici, primi discendendi di Odino, fu sacrificato dopo tre cattivi raccolti con­ secutivi : 2 Domalde assunse l a successione di suo padre Visbur e regnò sul Paese. Fu un periodo di carestia e di miseria. Gli svedesi organizzarono allora grandi sacrifici a Uppsala. Il primo autunno sacrificarono dei tori, ma il raccolto non migliorò molto; l'autunno seguente sacrificarono vite umane, ma il raccolto rimase uguale se non peggiore. Il terzo autunno gli svedesi si recarono in gran numero a Uppsala per i sacrifici; i capi tennero allora consiglio, e furono d'accordo che quelle carestie dipendevano da Domalde, loro re, e che essi dovevano prenderlo e sacrificarlo per ottenere raccolti migliori, prenderlo, ucciderlo e aspergere del suo sangue le pietre sacrificali. E così fecero.

Qui la responsabilità del re è d'ordine magico o cerimoniale. Siamo nel periodo travagliato in cui è ancora vivo il ricordo di Odino, e m 1

Genesi, 4 1 , 1 7-36.

2 Heimskringla, Ynglinga-Saga, c a p .

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cui la storia si separa a poco a poco dal mito. Il raccolto è il risultato visibile di un gioco complesso fra la società umana e le potenze sopran­ naturali che controllano la fertilità del suolo, un gioco in cui il re svolge un ruolo importante. Forse Domalde è vittima del seid, poiché sua suocera aveva fatto lanciare una maledizione contro di lui. Forse paga il fatto di avere usato il seid contro suo padre, il re Visbur, e di averlo sorpreso e arso vivo nella sua villa. Il fatto è che il sacrificio porta i frutti attesi, poiché dopo di lui regna suo figlio Domar, e Snorri precisa che egli visse a lungo e che il Paese godette per tutto il suo regno di abbondanza e tranquillità. La storia di Giuseppe ci mette di fronte a un ordine di responsabi­ lità del tutto diverso, burocratico e temporale. Faraone si interessa a ciò che accadrà in un periodo di quattordici anni; egli vuole prevenire i mali che si preannunciano, e ha i mezzi materiali per farlo. Imporrà un tributo speciale del venti per cento in natura sui prodotti agricoli, e accumulerà il prodotto durante i sette anni di abbondanza. Sovrinten­ derà alle operazioni un corpo di funzionari appositamente creato, e diretto da un ministro con pieni poteri. Diciamo, per precisare le nostre idee, che durante i sette anni grassi il raccolto sarà al 1 2 5 per cento del livello normale, e durante i sette anni magri al 7 5 per cento. La ripartizione proposta da Giuseppe conduce a limitare nel primo periodo i consumi al livello normale ( 1 2 5 - 2 5 = l 00 per cento), cosa che consentirà di mantenerli normali (75 + 2 5 = 1 00 per cento) anche durante il secondo periodo. L'operazione regge, e avrà un grande suc­ cesso, almeno per Faraone, che si è procurato del grano gratuitamente e può rivenderlo a peso d'oro (Genesi, 4 1 , 56-57). È chiaro che un'operazione di questo genere richiede una grande burocrazia, molto superiore alle possibilità dei re vichinghi. Si deve pro­ cedere a un censimento della produzione, creare una rete di magazzini reali, farvi depositare il 20 per cento del raccolto di sette anni, assicu­ rarne la conservazione e tenerne la contabilità, e poi rivendere queste eccedenze a un ritmo adeguato a farle durare sette anni, cosa che impone di avere un'idea abbastanza precisa del fabbisogno della popola­ zione. Oltre alle solite guardie, ai soliti gabellieri e agenti del fisco, occorrerà anche un esercito di contabili e di statistici. Ne è ben consape­ vole Faraone, che crea un corpo specializzato. Questi scribi eseguiranno calcoli economici, contabilità analitica e controllo di gestione, e si servi­ ranno delle loro competenze tecniche per accedere al potere politico, a

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immagine dello stesso Giuseppe, che ricevette da Faraone il nome di Safenat-Panea e divenne suo ministro: una bella carriera. Anche in tempi normali, il governo dei due regni dell'Alto e Basso Egitto richiedeva di gestire risorse in vista del futuro, cosa che presup­ poneva un'amministrazione efficiente, in grado di svolgere una politica a lungo termine, di illuminarla con previsioni e di imporla nell'imme­ diato. L'economia era essenzialmente agricola, e il Paese viveva al ritmo delle inondazioni del Nilo. Occorreva dunque valutare regolar­ mente ogni nuovo raccolto, da un capo all'altro del Paese, stimare se esso sarebbe stato o no sufficiente, se si potevano accumulare ecce­ denze o se invece si doveva attingere alle riserve, tenere una contabilità esatta delle entrate e delle uscite, e cercare di prevedere l'entità del rac­ colto successivo, allo scopo di gestire efficacemente l'affluenza presente. Giuseppe semplificò considerevolmente il problema di Faraone, predicendogli in modo certo non soltanto il prossimo raccolto, ma addirittura i prossimi quattordici. A quel punto non c'era bisogno di essere un genio per decidere la politica da seguire: economizzare durante i sette anni grassi, per ridistribuire durante i sette anni di care­ stia. Ma il problema concreto, quando non si ha il beneficio dell'assi­ stenza diretta dell'Altissimo, è che non si sa come sarà il domani. Se quest'anno il raccolto è buono, non si sa se l'anno prossimo sarà buono o cattivo, e quindi se quest'anno conviene economizzare o consumare. E se due raccolti di seguito sono buoni, il problema rimane lo stesso: si deve continuare a immagazzinare in vista di tempi difficili che non si preannunciano ancora, oppure ci si può lasciar andare senza preoccu­ pazioni alle gioie del consumo? In assenza di premonizioni, Faraone può far ricorso a qualche ricetta sperimentata. La prima, molto in voga ancor oggi, è quella di espandere il proprio territorio con conquiste e annessioni. Così facendo egli diversifica il rischio, e in tal modo lo diminuisce. Le altre terre agricole della Mezzaluna Fertile - Palestina, Libano, Siria, la stessa Mesopotamia - non sono infatti sottoposte alle stesse condizioni dell'Egitto. La sorte di queste regioni dipende in definitiva dalle ·preci­ pitazioni sulla doppia catena costiera del Libano e dell' Antilibano, e non dalle precipitazioni sul lontano massiccio etiopico che alimenta il Nilo. Quanto alla lontana Mesopotamia, vi è sviluppato un sistema di irrigazione alimentato dal Tigri e dall'Eufrate, che discendono dai massicci della Cappadocia. Tre economie, sottoposte ciascuna a rischi

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propri, ma fra loro indipendenti; se non piove in Etiopia, cio non significa che non pioverà nel Libano. Un impero che si estendesse dal­ l'Egitto alla Mesopotamia non sarebbe quindi esposto a gravi carestie se non nel caso di una siccità diffusa dall' Mrica centrale all'Asia Mino­ re. Siccità simultanee in regioni così lontane fra loro possono effettiva­ mente prodursi, ma molto meno spesso di siccità localizzate. Se, per esempio, si stima che un anno su sette non ci sarà l'inonda­ zione del Nilo che feconda i terreni agricoli dell'Egitto, che un anno su sette il Tigri e l'Eufrate saranno in secca, e che questi eventi siano indipendenti, la probabilità che essi si producano contemporaneamente è solo di uno su quarantanove, cosicché l'imperatore può considerarsi praticamente al riparo da una simile catastrofe durante il suo periodo di regno. L'altra ricetta consiste nel rimettersi al tempo. Se effettivamente l'anno prossimo sarà una brutta annata, ciò non implica necessaria­ mente che lo sarà anche l'anno successivo. Certo possono esistere cicli climatici, o manifestazioni di collera divina, ma, in assenza di indizi probanti, è ragionevole pensare che il tempo che farà l'anno prossimo sia indipendente dal tempo che fa quest'anno. La conseguenza è sem­ plice. Se si stima, come in precedenza, che gli anni di siccità abbiano la frequenza di uno su sette, la probabilità che ce ne siano due consecutivi è solo di uno su quarantanove, e la probabilità che ce ne siano sette consecutivi è di l su 82 3 543 (= T). Quest'evento è così improbabile che la sua realizzazione sarà un indizio probante di un intervento soprannaturale, o di un errore nel modello. Al cuore di questi ragionamenti, come di ogni analisi statistica, si trova la nozione di indipendenza. Essa può essere spaziale, dovuta alla lontananza, o temporale, dovuta all'oblio. Senza dubbio, da un certo punto di vista, l'indipendenza non esiste. La circolazione atmosferica dipende in ultima analisi dall'irraggiamento solare e dalla rotazione della Terra. Le perturbazioni locali che si osservano qua e là non sono altro che conseguenze delle interazioni complesse di cui è teatro il sistema globale. Le precipitazioni in Etiopia e in Cappadocia hanno cause co­ muni, ma lontane. Lo sa bene l'astronauta che, in orbita attorno alla Terra, abbraccia in uno sguardo un intero emisfero e ammira il bal­ letto dei sistemi nuvolosi. Ma le figure sono abbastanza variate, il loro svolgimento presenta abbastanza imprevisti, perché la proporzione dei giorni di pioggia in Etiopia sia la stessa, la si riferisca alla tota-

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lità del periodo o solo ai giorni di pioggia in Cappadocia. In altri termini, la constatazione che piove ad Addis Abeba non modifica (o modifica troppo poco perché possiamo rendercene conto) la proba­ bilità che piova ad Ankara, ed è questa l'idea che esprimiamo dicendo che questi eventi sono indipendenti. Similmente, la constatazione che oggi piove al Cairo non ci dice molto sul tempo che farà nello stesso luogo fra un anno. In teoria, la risposta è già contenuta nello stato attuale dell'atmosfera, ma da qui a trecentosessantacinque giorni sarà passato abbastanza tempo per diluire il ricordo dell'acquazzone caduto oggi fra innumerevoli altre influenze, ancor più insignificanti o al con­ trario considerevoli, il battito d'ali di una farfalla o un ciclone nel Mar Cinese. Alla scala di un anno, la meteorologia non ha memoria. Colui che sa che oggi ha piovuto e colui che non lo sa, sono nelle stesse con­ dizioni per predire se pioverà o no fra un anno. In statistica si isolano degli eventi, di cui si postula l'aleatorietà, in un senso matematico molto preciso. Schematizziamo questo modo di procedere raffigurandoci per ogni avvenimento una grande urna, riem­ pita di palline rosse e verdi; ogni volta che si deve prendere una deci­ sione, Dio estrae una pallina dall'urna. Se la pallina è verde l'avveni­ mento ha luogo, mentre se è rossa esso non si produce. Il lavoro dello statistico consistere nel predire la proporzione fra le palline rosse e le verdi. Nel caso più semplice le estrazioni sono indipendenti. Ciò significa che, se si eseguono varie estrazioni successive, il risultato dell'ultima non è influenzato dalle precedenti. Un primo modo di garantire questa indipendenza è quello di rimettere nell'urna la pallina estratta, e di agitare poi coscienziosamente l'urna per omogeneizzare la distribu­ zione delle palline. La frequenza empirica, ossia il numero di uscite del verde diviso per il numero delle estrazioni, dovrebbe essere vicina alla porzione di palline verdi presenti nell'urna, con un'approssimazione tanto migliore quanto più grande è il numero delle estrazioni. Un altro modo di realizzare l'indipendenza è quello di estrarre le palline da urne separate. La probabilità di estrarre due palline verdi, una da ciascuna urna, si ottiene allora moltiplicando la probabilità di estrarre una pal­ lina verde dalla prima per la probabilità di estrarre una pallina verde dalla seconda. Per esempio, se due eventi hanno ciascuno una probabi­ lità di 1 12 , e sono indipendenti, la probabilità che si producano entrambi è di 1 14.

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Ci sono vari modi di realizzare una dipendenza (si dice piuttosto: una correlazione) fra certi eventi. Si possono estrarre simultaneamente le palline dalla stessa urna. A tale scopo si devono introdurre due nuovi colori, il bianco e il nero. Se chiamiamo X e Y gli eventi considerati, avremo il seguente codice dei colori: verde = hanno luogo X e Y bianco = ha luogo X, e non Y nero = ha luogo Y, e non X rosso = non hanno luogo né X né Y; e, come in precedenza, Dio estrarrà una pallina ogni volta che ci sarà da prendere una decisione. Se i quattro colori sono in parti uguali, 25 per cento ciascuno, ritroviamo le probabilità assegnate in prece­ denza per due eventi indipendenti di probabilità 1 /2 , e l'estrazione così realizzata sarà rigorosamente equivalente a una doppia estrazione da due urne contenenti palline di due colori. Si dirà dunque a buon diritto che X e Y sono indipendenti. All'altro estremo, si può rinunciare a usare sia le palline bianche sia le palline nere. In questo caso, X e Y risultano connessi nel modo più stretto, giacché non si osserva mai l'uno senza l'altro; noi non cerchiamo di separare X e Y volendo sapere se l'uno è la causa dell'altro, ma notiamo semplice­ mente che appaiono sempre insieme. Fra questi due estremi si trovano tutti i gradi della correlazione. A titolo di esempio, esaminiamo che cosa significhino proporzioni del 30 per cento per il verde, 20 per il bianco, 20 per il nero e 30 per il ros­ so. Se si è interessati solo all'evento X, ci si rende conto che esso ha luogo sia per una pallina verde sia per una pallina bianca; esso ha dun­ que il 30 + 20 = 50 per cento di probabilità di prodursi . Questa è dun­ que la probabilità che si attribuisce a X in assenza di ogni altra informazione. Ma se si sa per altra via che si è realizzato l'evento Y, la pallina che è stata estratta è verde o nera. Viste le rispettive propor­ zioni, ci sono tre probabilità contro due che essa sia una pallina verde, e quindi che si realizzi anche X. Questa informazione supplementare fa dunque passare la probabilità dell'evento X al 66 per cento in luogo del 50. Il fatto che si sia prodotto Y aumenta la probabilità che si produca X; si dice che gli eventi X e Y hanno fra loro una correlazione positiva. Si può ovviamente tener conto delle correlazioni, ma il cuore della statistica è lo studio degli eventi indipendenti. Il risultato migliore e

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più universale è il teorema del « limite centrale », che descrive in modo molto preciso il risultato di un gran numero di estrazioni indipendenti. Supponiamo, per esempio, un'urna che contenga palline bianche e nere in parti uguali. Si intuisce che, se si procede a un gran numero di estrazioni, si dovrebbero estrarre press'a poco tante palline bianche quante nere, pur comprendendo che si potrebbe anche essere sfortu­ nati ed estrarre dall'urna solo palline nere. Questo teorema ci dà la fre­ quenza relativa di tali casi patologici, e ci permette di constatare che essa diminuisce molto rapidamente all'aumentare del numero delle estrazioni. Così, se si eseguono 1 500 estrazioni, si ha un numero astro­ 00 nomico, 2 1 5 , di scenari possibili, ma per la metà di essi la frequenza osservata delle palline bianche sarà compresa fra 49 e 5 1 per cento, ossia si discosterà meno dell' l per cento dalla proporzione esatta. La probabilità di osserVare fra il 49 e il 5 1 per cento di palline bianche in 1 500 estrazioni è dunque di 0 , 5 , e sale a 0,954 se si compiono 1 0 000 estrazioni, e a 0,999 se se ne compiono 2 7 000. In quest'ultimo caso si ha dunque meno di una probabilità su mille di sbagliare situando la proporzione esatta in una forcella dell' l per cento attorno alla fre­ quenza osservata. Il primo insegnamento del teorema del « limite centrale >> è che la precisione aumenta come la radice quadrata del numero delle estrazio­ ni. Per un livello di fiducia dato, per esempio 1 1 1 000 (ossia se si vuole avere meno di una probabilità su mille di sbagliare), se la porzione esatta di palline bianche nell'urna è di 1 12 , al termine di cento estra­ zioni la frequenza esatta si situerà in un intervallo pari a 0,3 3 per cento a entrambi i lati del 50 per cento, intervallo che scenderà a 0,03 3 per cento dopo diecimila estrazioni, e a 0,003 3 per cento al termine di un milione di estrazioni. L'intervallo si riduce di un fattore l O ogni volta che il numero delle estrazioni viene moltiplicato per 1 00, il livello di fiducia rimanendo fissato a 1 1 1 000. In altri termini, le estrazioni aber­ ranti continuano a esistere ed è sempre possibile estrarre consecutiva­ mente cento, dieci, mille o un milione di palline bianche, ma la loro frequenza relativa diminuisce. Si può interpretare questo risultato dicendo che errori aleatori indipendenti e di media nulla tendono a compensarsi se li si somma. Il teorema del « limite centrale >> possiede anche un'interpretazione geometrica, che otterremo cercando di rappresentare con una curva il risultato di un gran numero N di estrazioni indipendenti . lmmagi-

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niamo che si tratti di palline bianche o nere, e alla fine contiamo le nostre palline bianche. Può capitare che ci si trovi senza alcuna pallina bianca, se tutte le estrazioni hanno dato una pallina nera, con N palline bianche, se ogni estrazione ha dato una pallina bianca, o con un qual­ siasi numero intermedio. Per ogni numero n compreso fra O ed N, riportiamo su un grafico il numero di scenari che arrivano a questo totale di palline bianche. Si ottiene una caratteristica curva a campana, detta curva di Gauss, simmetrica attorno al valore N/2 (se l'urna conte­ neva un numero uguale di palline bianche e di palline nere). L'univer­ salità di questa curva, onnipresente in tutti i campi della scienza e della tecnica, è una conseguenza del teorema del « limite centrale >>. Man mano che si vanno raccogliendo le misure, si vede apparire una curva di Gauss. La statura delle reclute il giorno del censimento dei giovani di leva, gli errori di arrotondamento nei calcoli, le misure spe­ rimentali di costanti fisiche si ripartiscono in maniera gaussiana. Lo si comprende facilmente, se si considera che la statura di un uomo dipende dalle costanti che influiscono su tutta la popolazione (tipo di alimentazione, corredo genetico), ma anche da parametri individuali (gusti alimentari, livello di vita, attività fisica, ereditarietà e mutazioni) la cui ripartizione è aleatoria. Ogni individuo estrae i suoi parametri alla nascita, e poiché queste estrazioni hanno luogo in modo indipen­ dente nella popolazione, la ripartizione delle stature in essa si conforma al teorema del «limite centrale >>. Similmente, ogni misura fisica è infi­ ciata da errori di varia origine, dovuti particolarmente alle limitazioni del dispositivo sperimentale e alla precisione degli strumenti usati . Riprodurre l'esperimento, ripetere la misurazione, corrisponde a ese­ guire una nuova estrazione, indipendente dalle precedenti, e quindi mettersi nelle condizioni di applicazione del teorema del « limite centrale >>. Quest'ultimo è così potente da estendersi ad ambiti in cui il caso non ha visibilmente alcun posto. Uno di questi è l'aritmetica. Ricor­ diamo innanzitutto che un numero è primo se non ha divisori (oltre naturalmente a l e a se stesso) . Così 2, 3 , 5, 7, 1 1 , 1 3 , 1 7 , 1 9, 2 3 , 29, 3 1 , 37 sono numeri primi; questo è solo l'inizio di una sequenza infi­ nita che ha affascinato i matematici dalla più remota antichità fino ai nostri giorni. Se un numero non è primo, si decompone in un prodotto di fattori primi; 6 ha due fattori primi (6 = 2 x 3) e 2 1 O ne ha quattro (2 1 0 = 2 x 3 x 5 x 7). Per essere divisibile per 6, un numero dev'essere

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divisibile per 2 e per 3 . Ora, metà dei numeri sono divisibili per 2 , un terzo sono divisibili per 3, e un sesto sono divisibili per 6. Poiché 1 16 = 1 12 x 1 13 , esiste un'analogia formale con la regola di moltiplica­ zione delle probabilità di eventi indipendenti. Ci si può spingere oltre e applicare il teorema del « limite centrale », come se si avesse veramente a che fare col caso? La cosa sarebbe altamente paradossale; che cosa c'è di più deterministico della successione dei numeri interi? E tuttavia Mare Kac e Paul Erdos hanno mostrato nel 1 93 9 che il numero dei fattori primi segue una ripartizione gaussiana. Esattamen­ te, il numero di fattori primi di un intero m è dell'ordine di log log m, e la porzione di interi m per i quali questo numero è compreso fra log log m + a V 2 log log m e log log m + b Y 2 log log m, 2

2

è data dall'area sotto la curva di Gauss .n - 1 1 exp (- x ) fra x = a e x = b. La situazione assomiglia a ciò che si avrebbe se la sequenza infinita dei numeri interi fosse il risultato di altrettante estrazioni indipendenti fra i numeri primi. Come se Dio avesse creato dapprima i numeri primi e poi avesse costruito gli altri tirando a sorte fra questi. Il primo giorno egli estrasse il 2 e il 3 , e il 6 fu. Il secondo giorno estrasse il 2 , il 3 , il 5 e il 7, e il 2 1 O fu. Questa è una presentazione statica della nozione di indipendenza; se ora vogliamo dare ad essa una dimensione dinamica, possiamo occu­ parci per esempio del moto browniano. Questo è in origine il moto irregolare che anima particelle microscopiche in sospensione in un liquido. Scoperto nel 1 82 7 dal botanico scozzese Robert Brown osser­ vando i moti disordinati di granelli di polline in sospensione in acqua, e identificato nel 1 905 da Albert Einstein e da Marjan Smoluchowski come l'effetto del moto aleatorio delle molecole circostanti, la sua teo­ ria matematica fu sviluppata da Norbert Wiener e da Paul Levy. Oggi esso è uno fra i principali strumenti per la costruzione di modelli di fenomeni dipendenti dal tempo e dal caso; la sua ubiquità non è affatto inferiore a quella della ripartizione gaussiana, alla quale è d'altronde strettamente legato. Il moto browniano è per definizione un moto del tutto sprovvisto di memoria. La particella di polline, in movimento nell'acqua, non sa

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quando subirà il prossimo urto, né in quale direzione e con quale forza sarà spostata. Il modello matematico idealizza questa situazione e costruisce una particella che, in ogni istante, dimentica da dove viene, guarda dov'è e decide dove vuole andare. In altri termini, lo sposta­ mento istantaneo dev'essere indipendente dalla storia passata; si può immaginare che esso sia continuamente estratto a sorte. Rappresentia­ moci questa traiettoria in cui, a ogni istante, interviene un mutamento di direzione e di velocità, e che nondimeno è continua. Quale matassa da sbrogliare sul piano dell'esperimento! Se ne ingrandiamo certe por­ zioni, o se al contrario cerchiamo di guardarla da maggior distanza, ritroviamo la stessa struttura a tutte le scale, una sorta di linea spezzata che procede a tentoni nel nostro campo visivo. Fisicamente non si può scendere più in basso della scala molecolare, ma matematicamente si può continuare a ingrandire indefinitamente, ritrovando sempre lo stesso aspetto generale. A qualsiasi scala di tempo, per quanto piccola, la particella muta continuamente di direzione e di velocità: per questo motivo le traiettorie del moto browniano ricordano quelle curve conti­ nue ma prive di tangenti che i matematici del secolo scorso considera­ vano curiosità un po' morbose. Il fisico Jean-Baptiste Perrin fece que­ st'osservazione nel libro Les atomes ( 1 9 1 3), che attrasse l'attenzione del matematico Norbert Wiener. Fu Wiener a dare, nel 1 92 3 , la prima definizione matematica rigo­ rosa del moto browniano. La difficoltà consisteva nel mostrare che esi­ ste effettivamente un ente matematico dotato di tutte le proprietà che i fisici attribuivano comunemente al moto browniano. Wiener risolse il problema appoggiandosi a due proprietà fondamentali. Da un lato, tutte le traiettorie devono essere continue; dall'altro, una volta che la posizione della particella è stata osservata nell'istante t = O (ed è dunque nota), la sua posizione (aleatoria) in un istante successivo t dev'essere governata da una legge di Gauss, i cui parametri dipendono beninteso dal tempo t trascorso. Tutte le altre proprietà del moto browniano si deducono da queste. Una volta posto su solide basi matematiche, il moto browniano avrebbe svolto un ruolo centrale nella costruzione di modelli dei feno­ meni aleatori. Nelle trasmissioni, per esempio, il segnale è sempre associato a un rumore di fondo; il problema della filtrazione consiste nel separare il segnale dal rumore. Esso fu risolto per la prima volta dallo stesso Wiener, che inaugurò così i nuovi strumenti da lui intro-

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dotti. I suoi risultati furono d'altronde coperti per molto tempo dal segreto militare, in quanto si applicavano a una tecnologia nuova di grande importanza in guerra: il radar. Oggi sono stati scoperti metodi di filtrazione più efficienti, usati per esempio dai piloti automatici e dalle guide inerziali degli aerei di linea o dei sottomarini. Ma le appli­ cazioni del moto browniano vanno ben oltre il trattamento del segnale: si tratti di studiare la propagazione di un'epidemia o la diffusione del calore, esso è lo strumento di base della costruzione di modelli. In questi ultimi anni il moto browniano ha trovato un'altra applica­ zione. Alla fine del secolo scorso, un matematico di nome ]. Bachelier sostenne una tesi con la quale proponeva di sviluppare un modello del corso delle azioni in borsa per mezzo di un moto browniano. 3 Né i mercati di borsa né la tecnica matematica erano ancora all'altezza di quest'idea, e Bachelier sprofondò nell'amarezza e nell'oblio. Si dovet­ tero attendere i lavori di Wiener perché l'idea conoscesse un ritorno di fortuna, che divenne un trionfo a partire dal 1 97 3 , quando Fischer Black e Myron Scholes dimostrarono la loro famosa formula che per­ metteva di stimare le opzioni su azioni. Ci si deve rendere ben conto che l'idea di costruire modelli del corso di azioni per mezzo di un moto browniano non ha nulla di arbi­ trario, ma riflette idee precise sul comportamento dei mercati di borsa. Se si assume che questi siano efficienti, ossia che il prezzo di un'azione rifletta tutta l'informazione disponibile in proposito, si deve ammettere che le variazioni di questo prezzo riflettono l'acquisizione di nuove informazioni. Fra queste, alcune erano prevedibili e altre no. Per quanto concerne le prime, se il mercato ha fatto quanto doveva, ne ha già tenuto conto nel prezzo delle azioni : il rialzo o il calo hanno avuto luogo per anticipazione, e la realizzazione di ciò che era previsto non influisce più sui corsi. Questi dunque dipendono soltanto dalla parte veramente nuova dell'informazione, ossia da quella che non era preve­ dibile a partire dagli elementi disponibili in precedenza. Da que­ sto punto di vista è naturale assimilare i corsi della borsa a un processo a incrementi indipendenti, ossia in ultima analisi a un moto browniano. Da un altro punto di vista, sono gli operatori a determinare i corsi delle azioni, e riesce difficile accettare l'idea che queste migliaia di indi3 J. Bachelier, Théorie de la spéculation, in « Anna! es Scientifiques de l'École Nor­ male Supérieure», XVII ( 1 900), pp. 2 1 -86.

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vidui seduti alle loro scrivanie in tutto il mondo, ognuno con le sue intuizioni e le sue fobie, si diano tutto quel daffare per costruire un moto browniano. La verità indubitabile è che quest'ipotesi è sufficiente per spiegare (se non per prevedere) il 95 per cento dei movimenti dei corsi nel 9 5 per cento delle situazioni di borsa, ma che è nel restante 5 per cento che si manifesta l'ingegnosità umana e che si fanno o di­ sfanno le fortune. L'utilizzazione del moto browniano nella teoria finanziaria va peraltro molto oltre un semplice adattamento ai corsi, poiché permette di determinare i prezzi di certi prodotti finanziari, come le opzioni . Un'opzione su un'azione è un contratto col quale ci si impegna a vendere entro tre mesi una certa azione a un prezzo determinato oggi. L'acquirente ha il diritto di non esercitare l'opzione se il prezzo si rive­ lerà infine superiore al corso constatato alla scadenza. Il detentore di un grosso pacchetto di azioni, che desidera premunirsi contro una ca­ duta dei corsi, vorrà comprare le corrispondenti opzioni, salvo non esercitarle se i corsi restano stabili. Colui che gli venderà le opzioni si assume un rischio, e dev'essere quindi remunerato. Il problema del giusto prezzo dell'opzione è stato risolto da Black e Scholes nel 1 9 7 3 . L a loro formula non fa intervenire l a probabilità che il corso aumenti o diminuisca, ma esclusivamente la sua «volatilità», ossia il suo tracciato più o meno accidentato. Non si chiede quindi agli operatori di fare previsioni, neppure statistiche, sull'evoluzione del corso dell'azione, bensì di mettersi d'accordo sul valore della sua volatilità, ossia, in defi­ nitiva, di identificare uno dei parametri che governano un moto brow­ niano. Così, per determinare il prezzo dell'opzione non c'è bisogno di sapere se l'azione salirà o scenderà. Questo risultato notevolissimo è alla base di tutta la teoria moderna della finanza, e ha reso il moto browniano popolare fra persone che non si credevano destinate a occu­ parsi di matematiche.

È semplice e bello ricondurre la statistica al teorema del « limite centrale » e alle sue manifestazioni, fra cui il moto browniano. Pur­ troppo lo statistico si trova di fronte ad altri problemi . Più di qualsiasi altro scienziato, egli risente dolorosamente del fatto di non poter con­ validare alcun modello, e di non poter apportare con certezza se non risposte negative. Siamo partiti da urne contenenti certe proporzioni di palline di

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colori diversi, e ci siamo chiesti se le frequenze di tali colori osservate nel corso di una successione di estrazioni indipendenti si discostereb­ bero o no dalle proporzioni esatte. Purtroppo lo statistico non dispone di quest'osservatorio privilegiato. Tutto quel che gli viene fornito è una serie di osservazioni, tanto meglio se numerose. Egli non può riconoscere il caso, non può trarre conclusioni dalle palline estratte riguardo al contenuto dell'urna, predire il contenuto di questa e affer­ mare che le osservazioni sono il risultato di estrazioni indipendenti. Esiste sempre la possibilità che siano in gioco altri meccanismi là dove si crede di riconoscere il caso, come avviene per un baro che sa rime­ scolare e alzare le carte in modo da distribuirle come vuole lui. Lo sta­ tistico non può mai confermare («verificare >>) un modello probabilisti­ co: egli può al massimo invalidarlo (« falsificarlo >>), constatando che le osservazioni sono aberranti rispetto al modello proposto: se questo fosse il modello giusto, le estrazioni osservate avrebbero avuto solo una probabilità molto piccola di prodursi. Lo statistico constata se esiste o no compatibilità fra un modello probabilistico e una serie di osservazioni. Egli conclude per l'incompa­ tibilità se la probabilità conferita dal modello alle osservazioni in esame è troppo piccola, dell'ordine di 1 1 1 000 o meno. Si riconosce qui il vec­ chio principio euristico secondo il quale gli eventi di probabilità troppo piccola non si producono, principio che conduce in questo caso a escludere il modello proposto. Per contro, se si conclude a favore della compatibilità, ossia se la probabilità della serie osservata, calcolata a partire dal modello proposto, è dell'ordine di 1 / 1 0 o più, non si può concludere che il modello sia valido, conclusione alla quale non si po­ trebbe legittimamente pervenire neppure se la probabilità salisse a 9/ 1 0, a 99/ 1 00 o ancor più. Il fatto è che non si può mai escludere la possibilità che un altro modello, scelto meglio, si dimostri ancora migliore, ossia che in ultima analisi il fenomeno considerato non dipenda dal caso. Questo è evidentemente il problema generale della scienza. Noi non siamo stati ammessi nelle officine del Creatore, non sappiamo che cosa accada realmente e, come faceva notare non so chi, forse avremmo potuto dargli qualche buon consiglio. 4 Non possiamo far altro che for4 [Uno di questi fu il re di Castiglia Alfonso X il Saggio. Insoddisfatto della com­ plessità e imprecisione del sistema tolemaico, egli aveva incaricato numerosi astro­ nomi ebrei e cristiani di compilare nuove tavole planetarie, che da lui presero il nome di Tavole alfonsine. «Il retto giudizio di Alfonso era urtato dal groviglio di tutti quei

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mulare piani da parte nostra e controllare se i fenomeni osservati si accordano o no con essi. Lo scienziato è sempre alla ricerca dell'espe­ rienza decisiva che gli permetta di invalidare una teoria. In statistica, però, quest'attività di controllo si estende sino al livello tecnologico. Nelle fabbriche come nei ministeri, sul campo o nelle università, lo sta­ tistico fa ipotesi e le sottopone al vaglio dell'esperimento. Per un con­ trollo di qualità, per esempio, si tratta di controllare che la porzione di pezzi difettosi che escono da una catena sia inferiore a un limite dato. Lo statistico farà l'ipotesi che sia così, adotterà un livello di fidu­ cia e verificherà l'ipotesi sul campione che gli viene fornito. Egli inter­ verrà se l'esperimento contraddice l'ipotesi, ossia se questa è incompa­ tibile, al livello di fiducia fissato, con i risultati ottenuti. Questo modo di procedere, per falsificazione di modelli, se è poco ambizioso, è per contro estremamente generale e versatile. In un con­ trollo di qualità è il rifiuto del modello che è interessante, in quanto dimostra che i valori attribuiti a certi parametri non sono quelli giusti, ossia che le soglie teoriche non sono rispettate. In altre situazioni sarà più interessante la compatibilità di un modello probabilistico con le osservazioni, la quale significherà che non si può escludere l'ipotesi che il fenomeno studiato sia un prodotto del caso. Si tratti di valutare le risposte a questionari in cui lo studente deve scegliere fra varie possibi­ lità proposte, di sperimentare un nuovo farmaco o di analizzare esperi­ menti di parapsicologia, ci si deve sempre porre la domanda: il caso da solo avrebbe potuto fare altrettanto bene? Supponiamo che io debba rispondere a cento domande scegliendo ogni volta fra quattro risposte possibili: se non so niente dell'argomento e do le risposte tirando a sor­ te, posso sperare di imbroccarne venticinque. È questo il motivo per cui, in questo genere di prova, si dà il punteggio zero per venticinque o meno di venticinque risposte esatte. L'attribuzione di un voto comincia solo al di sopra della soglia delle venticinque risposte esatte, cosa che d'altronde non esclude le ingiustizie. cerchi nei quali si facevano muovere i corpi celesti ; intuiva che i modi della natura dovevano essere più semplici : "Se Dio - diceva - mi avesse chiamato a consiglio, le cose avrebbero avuto un miglior ordine"». Così scrive Pierre-Simon de Laplace in Compendio di storia dell'astronomia, ultima parte della Exposition du système du monde, 1 796, (trad. M. Viscardini, Universale Economica, Cooperativa del Libro Popolare, Milano 1 9 5 3 , p. 5 1 ) . Cfr. anche J. L. E. Dreyer, Storia dell'astronomia da Talete a Keple­ ro, trad. L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1 970, p. 249, e A. L. Mackay, A Dictionary of Scientific Quotations, Adam Hilgher, Bristol, Philadelphia e New York 1 99 1 , p. 3 ] .

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Solo una volta escluso il caso si possono proporre altre spiegazioni, ossia la preparazione dello studente, i benefici di una terapia o la tra­ smissione del pensiero. Finché i test statistici non escludono il caso, non ci sarà niente di dimostrato. Questa può sembrare un'affermazione elementare, ma non lo è. Ben pochi si rendono conto che, rispondendo a caso, si imbroccherà spesso la risposta giusta, e che inoltre si potranno realizzare serie spettacolari. Notiamo che lo statistico non potrà mai dimostrare la presenza del caso; può solo chiudergli certe porte, o !asciargliele aperte, senza poter garantire che saranno usate, essendo sufficiente che questa spiegazione non possa essere esclusa. La sola evenienza in cui lo statistico può affermare la presenza del caso è quando lo introduce lui stesso. In un sondaggio, per esempio, egli metterà ogni cura nel prelevare i suoi campioni a caso, ossia nell'organizzare in un modo o in un altro estra­ zioni indipendenti di palline da un'urna. La cosa sembra molto sempli­ ce, e se si tratta di prelevare degli esemplari al termine di una catena di produzione si può procedere effettivamente in questo modo, ma se si vuoi condurre un sondaggio per conoscere le opinioni politiche o le abitudini sessuali in una popolazione il problema è del tutto diverso. Come interrogare la gente? In strada? E le persone che non si spo­ stano, o che usano la propria automobile? Per telefono? Non tutti l'hanno, il telefono, e uno stesso numero può servire varie persone. A domicilio? Come tirare a sorte su tutto il territorio, senza discriminare fra città e campagne? E che cosa si deve fare se qualcuno si rifiuta di rispondere? Lo si deve sostituire, o se ne deve tener conto in modo diverso? E quanto valgono le risposte stesse che otteniamo? Chi mi as­ sicura che gli intervistati abbiano risposto sinceramente? Non si con­ fessano volentieri certe preferenze politiche, che vengono invece espresse liberamente nel segreto dell'urna. Si deve quindi tener conto di una certa distorsione nelle risposte, e come? Lo statistico è indotto ben presto a elaborare protocolli di sperimentazione estremamente rigorosi, nei quali il caso non occupa più se non un ruolo accessorio. La grande scoperta di questi ultimi anni, in effetti, è che la statistica può perfettamente fare a meno del caso. La generalizzazione delle tec­ niche informatiche di gestione ha condotto all'accumulo di masse enormi di dati in tutti gli ambiti della vita sociale, e la loro semplice classificazione, per non parlare della loro interpretazione, pone pro­ blemi considerevoli. In questo compito di elaborazione dell'informa-

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zione si dispone dei metodi statistici tradizionali, come l'analisi fatto­ riale, ma sono emersi anche nuovi metodi di classificazione automatica e di analisi dei dati che si riferiscono sempre alla statistica, ma non più a un modello probabilistico. Ci si preoccupa di più di riconoscere forme, rappresentando per esempio i dati come punti in uno spazio di grande dimensione, e cercando di separarli in nubi il più possibile distinte. È un lavoro che in due dimensioni facciamo senza difficoltà a occhio, ma che richiede l'aiuto di un computer e calcoli complessi quando il numero dei parametri da trattare è maggiore di tre. Ci tro­ viamo allora di fronte a un problema di geometria in cui l'aleatorietà non ha più alcuna parte. Ma la situazione potrebbe rovesciarsi di nuovo. La parola « statisti­ ca » viene a significare sempre più « trattamento automatico di dati >>, e lo sviluppo del settore è dominato dalle masse sempre più grandi di dati informatizzati . Accanto ai problemi tradizionali, di classificazione e interpretazione, se ne pongono di nuovi, come la compressione dei dati: le masse di dati da immagazzinare sono tali che le memorie dei computer si saturano rapidamente e i tempi di accesso diventano proi­ bitivi. Diventa dunque necessario trattare l'informazione in modo che essa occupi il minor numero di bit possibile; in questo gioco di taglio e ricostruzione i modelli probabilistici e le statistiche classiche ripren­ dono paradossalmente tutti i loro diritti. Similmente, niente di tutto ciò sarebbe possibile senza i progressi considerevoli dei mezzi di cal­ colo conseguiti negli ultimi dieci o vent'anni; ma il progresso tecnolo­ gico non basta a permetterei di padroneggiare l'esplosione dei dati disponibili, e si sono dovuti quindi sviluppare metodi di calcolo molto efficienti, che sfruttassero appieno la struttura interna dei computer, come l'elaborazione in parallelo. Si perviene a una situazione in cui si progetta il computer in funzione del genere di elaborazioni che dovrà eseguire. La circolazione dei bit - cioè degli O e degli l nella mac­ china nelle diverse fasi dell'elaborazione diventa una fra le preoccupa­ zioni maggiori del progettista, così come l'architetto affronta il pro­ blema del flusso dei viaggiatori in una stazione o in un aeroporto, con l'aiuto dei modelli probabilistici e delle statistiche classiche, che si prendono così la loro rivincita. -

La statistica non è fatta per dimostrare l'esistenza del caso, o per svelame la presenza. Essa si fonda, al contrario, su un postulato ini-

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ziale: che il mondo sia probabile. Come ognuno di noi, lo statistico prende l'avvio dal principio che il mondo esiste, ma gli chiede qualcosa di più: gli chiede di essere probabile. È teoricamente possibile - e in ogni caso perfettamente compatibile col calcolo delle probabilità - che da domani tutte le monete lanciate in aria senza barare diano testa, e che alla roulette del casinò non escano più che rosso, pari e manque (i numeri dall' I al l 8) . Una cosa del genere è senza dubbio infinitamente poco probabile ma è possibile, e se si producesse non ci sarebbe da cambiare una virgola nei trattati di statistica. Questi ci insegnerebbero allora che, se il Creatore decidesse di rifare l'universo, avrebbe molte probabilità di costruirne uno dal comportamento più normale. Nel­ l'attesa, però, rioi ci troveremmo a vivere in un universo improbabile, in cui i fiumi salirebbero verso la loro sorgente e in cui l'entropia dimi­ nuirebbe col tempo. Noi postuliamo che non sia così. Crediamo di vivere in un universo in cui gli eventi di probabilità troppo debole non si producono, e ci comportiamo in conseguenza. Finora l'esperienza non ci ha smentiti, ma nessuno può essere certo di come sarà il futuro.

CONCLUSIONE

Quella notte il re Olav riposò in mezzo al suo esercito e, come abbiamo detto, vegliò a lungo e pregò Dio per sé e per i suoi uomini, e dormì poco. All'alba si assopì, e quando si risvegliò stava facendo giorno. Il re si disse che era il momento di dare la sveglia all'esercito, e fece chiamare Tormod lo scaldo. Questi non era lontano, e rispose; chiese al re che cosa volesse. Il re rispose: « Intonaci un canto >>. Tormod si alzò e cantò con voce così forte che tutto l'esercito lo sentì . Egli intonò l'antico canto di Bjarke, ed eccone i primi versi:

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CONCL USIONE

Il giorno è venuto col sole Le piume del gallo si rizzano È l'ora per il servo Di andare alla sua fatica. Non al vino vi chiamo Né al riso delle donne, Ma piuttosto vi risveglio Per Hild 1 e il suo gioco feroce.

La battaglia ebbe luogo quel giorno, il 2 9 luglio 1 03 0, a Stiklestad, e il re Olav vi perì con la maggior parte del suo esercito. Dopo la morte cominciò il suo vero destino. Il popolo e i baroni la cui coali­ zione lo aveva sconfitto non tardarono a pentirsi di avere sconsiderata­ mente abbandonato la Norvegia nelle mani del re di Danimarca. Essi trasferirono con gran pompa il corpo di Olav Haraldmm nella catte­ drale di Nidaros, e andarono a cercare suo figlio Magnus nel suo esilio russo di Novgorod per incoronarlo re. La fama della santità di Olav si estese rapidamente in tutti i Paesi nordici, e la sua tomba divenne uno dei luoghi di pellegrinaggio più popolari del Medioevo. La cattedrale fu distrutta in gran parte al tempo della Riforma, e oggi nessuno sa più dove riposino le spoglie di Olav il Santo. Lo scaldo Tormold combatté sotto le insegne del re Olav e fu gra­ vemente ferito. Morì quella sera stessa, strappandosi da sé la freccia che lo aveva colpito. Snorri Sturluson racconta che alla cuspide della frec­ cia estratta erano attaccate fibre cardiache, bianche e rosse, e che Tor­ mod disse: « Il re ci ha nutriti troppo bene. Le radici del mio cuore sono ricoperte di grasso». Gli uomini muoiono; solo l'arte sopravvive. I temi del vecchio can­ tico, la fatica quotidiana e la singolar tenzone, la pesante abitudine del presente e la speranza inquieta del futuro, risuonano ancor oggi. Al di sopra della mischia, al di là del frastuono e del furore, s'innalza come un'invocazione all'armonia del mondo. È perché odono questa invoca­ zione, che gli uomini di Olav Haraldsson accettano di seguirlo in una battaglia senza speranza. E io, perché dovrei accettare di dedicare la mia vita alla scienza? È per scoprirmi sballottato dal caso, incapace di prevedere, ridotto a regi­ strare l'istante, come Fabrizio del Dongo, nella Certosa di Parma di

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Hild o Hilde è una valchiria; il suo gioco è la guerra.

CONCL USIONE

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Stendhal, quando attraversava da semplice spettatore il campo di batta­ glia di Waterloo? Perché dovrei impegnarmi in questa battaglia, dopo tante altre, se essa conduce ineluttabilmente a incoronare il caso come re dell'universo? È che anch'io ho udito il canto di Tormod. Il caso non è tutta la scienza, anche se io gli ho dedicato questo libro. Nel mio lavoro di ricer­ catore esploro altri ambiti, in cui il caso non ha molto spazio. La geome­ tria, la relatività generale, la dinamica dei sistemi conservativi, la fisica delle particelle elementari, sono altrettante teorie di una bellezza quasi sovrumana, nelle quali ritrovo una medesima armonia che si esprime sotto la stessa forma matematica, quella di un principio variazionale. Un principio variazionale è un criterio matematico che permette di distinguere una soluzione particolare fra una moltitudine di soluzioni possibilì. Il più semplice, e meglio noto, è quello che caratterizza la linea retta come il percorso più breve fra due punti. Per mettere in opera questo principio variazionale, dovremo innanzitutto definire la distanza fra due punti, e poi la lunghezza di una curva. Dovremo tro­ vare allora, nell'infinita varietà delle curve che vanno da un punto a un altro, quella più breve. È così che definiremo il segmento di retta, e tutte le sue proprietà ulteriori deriveranno da questa proprietà fonda­ mentale. Ci troveremo allora ad aver costruito la geometria euclidea non sugli assiomi di Euclide ma su una sola proprietà semplice, che è un principio di economia. Questo modo di procedere non sarebbe altro che una curiosità da matematici se non lo si ritrovasse nel cuore della fisica. Già nel Seicen­ to, Pierre de Fermat enunciava il principio che i raggi luminosi minimizzano il cammino ottico. Quest'affermazione equivale a sotto­ mettere a un principio variazionale tutta l'ottica geometrica, ossia, per l'epoca, la punta più avanzata della scienza. Per trame partito occorre innanzitutto definire il percorso ottico, che non è esattamente la lun­ ghezza, ma che la pondera attraverso l'indice di rifrazione del mezzo attraversato. Occorre poi cercare, fra tutte le traiettorie possibili, quella che ha il cammino ottico minimo. Misteriosamente, è propria questa la traiettoria che percorre il raggio di luce. La si può così calcolare: sarà un segmento di retta se l'indice di rifrazione del mezzo è costante, una curva più complessa se esso varia. Tutte le leggi dell'ottica geometrica - riguardino esse la riflessione, la rifrazione o i sistemi di lenti - si tro­ vano a essere le conseguenze di quest'unico principio.

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CONCLUSIONE

Fu lo stesso Fermat a ricondurre le leggi della meccanica a un unico principio variazionale, da lui chiamato «principio di minima azione ». Quest'ultimo ha attraversato indenne le due rivoluzioni della fisica contemporanea, adattandosi alla relatività generale come alla mecca­ nica quantistica. Esso si trova sempre al cuore del sapere; ogni nuova crisi conduce a una riorganizzazione attorno ad esso, rafforzandone però la posizione centrale. Quest'economia della scienza aveva già meravigliato gli uomini del Seicento. A che cosa si deve tale ruolo del principio di minima azione? L'interrogativo risuona nella filosofia dell'epoca, per esempio in Male­ branche e soprattutto in Leibniz, la cui opera è il tentativo più audace di dargli una risposta. Dire che questo mondo è il migliore di tutti i mondi possibili è una formulazione che si presta in modo anche troppo chiaro alla canzonatura, ma che traduce l'esperienza e l'entusiasmo dell'epoca. Nell'istante stesso in cui Leibniz costruiva il linguaggio del­ l'analisi matematica, vedeva il mondo fisico impadronirsene come se esso fosse la sua lingua materna. I princìpi variazionali vi si esprime­ vano naturalmente, e si vedevano nascere i metodi di calcolo che avreb­ bero permesso di trattarli. Leibniz presentì lo sviluppo della scienza attorno a questo centro di organizzazione, e volle comprenderne le ragioni prima di vederne i frutti. Non possiamo far altro che ammirare la sua audacia e condividere la sua meraviglia. A distanza di più di tre secoli, noi perseguiamo la stessa sintesi, alberghiamo in noi la stessa visione. Dal Parmenide di Platone, sappiamo che la verità non si può circoscrivere, che - se esiste una realtà ultima essa arretra tanto più dinanzi a noi quanto più la incalziamo, fino a sva­ nire nell'inconsistenza. Da una particella elementare a un'altra, da un'analisi psicologica a un'altra, la discesa è sottile e senza fine. Questo cammino non può essere altro che una rivelazione della contingenza, e il caso sarà quindi il nostro compagno di viaggio. Ma è un altro il cam­ mino che cerchiamo, un'ascesa in cui vedremo le cose riunirsi anziché disperdersi, e in cui il caso ci abbandonerà, come Virgilio abbandonò Dante all'ingresso del Paradiso. La bellezza sarà la nostra guida.

Dalla massa informe e vuota della terra, caos originario che la Bibbia pone al principio del tempo, al crepuscolo degli dèi e distruzione del mondo, alla dinamica dei sistemi complessi che la scienza chiama col nome suggestivo di caos; dagli effetti del naso di Cleopatra nella storia del mondo, alle strategie della teoria dei giochi, all'imprevedibilità dei fenomeni meteorologici, quello che noi chiamiamo caso ricorre sotto una molteplicità di aspetti nella vita dell'uomo. Esso sembra contingente, irrazionale, imprevedibile; ma è anche oggetto della scienza, che lo studia sotto una varietà di aspetti . La scienza ha le sue leggi, che ci servono di guida nell'interpretazione dei fenomeni e nella conoscenza del mondo. Ma ci sono molti fenomeni che non si lasciano inquadrare nella cornice della scienza deterministica. Ci sono inoltre fenomeni in cui il caso, la contingenza sembrano essere ingredienti essenziali, irriducibili dell'accadere o campi come quello dell'economia in cui la previsione di ciò che può accadere si traduce in comportamenti che possono incidere sugli sviluppi reali. Il matematico Ekeland si è proposto in questo libro di illustrare alcuni aspetti matematici del caso, e lo fa, non a caso, in sei capitoli : sei come le facce di un dado. Sei facce interconnesse e indipendenti come i capitoli di questo libro, che il lettore può leggere nell'ordine che più gli aggrada, o a caso,

gettando un dado. In questi capitoli Ekeland ci guida in un lucido esame del calcolo delle probabilità e della teoria dei giochi, del teorema di Godei e delle sue implicazioni per la presunta necessità della matematica, dell'anticipazione, della teoria dei sistemi complessi, del rischio e della teoria della decisione, della statistica e della valutazione della probabilità. Ma, e proprio qui è una delle ragioni principali del fascino che emana da questo libro, la trattazione scientifica si intreccia con le vicende umane. Vediamo quindi operare i diversi aspetti del caso in alcuni episodi delle antiche Saghe dei re di Norvegia di Snorri Sturluson, in varie storie bibliche, nella curiosa vicenda del giudice Briglialoca di Rabelais che decide le sentenze tirando due dadi, nelle tormentose elucubrazioni del portiere di Handke, solo davanti al giocatore avversario che si accinge a battere il calcio di rigore . . .

Ivar Ekeland è preside deli'Université Paris-Dauphine ed è membro del Centre de recherche de mathématiques de la décision. Fra le sue opere si ricordano La théorie desjeux (197 4), Éléments d'économie mathématique (197 9) e Convexity Methods in Hamiltonian Systems (19 9 0). Ha ricevuto il premio J e an Rostand per la divulgazione scientifica. In Italia è stato tradotto Il calcolo e l'imprevisto. Il concetto di tempo da Keplero a Thom

(Comunità, Milano 198 5).

I SBN 88-339-07 1 4 -7

L. 26 000 ( i . i .)

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