Woody Allen dall'inizio alla fine. Un anno sul set con un grande regista 8851190453, 9788851190453

Nel 1968, i manager di Woody Allen, Jack Rollins e Charles Joffe, vengono ricevuti negli studios della Palomar Pictures

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Woody Allen dall'inizio alla fine. Un anno sul set con un grande regista
 8851190453, 9788851190453

Table of contents :
Colophon
Frontespizio
Indice
Introduzione
1. La sceneggiatura
2. I soldi
3. Il cast e il direttore della fotografia
4. Le location, la scenografia, i costumi
5. Le riprese
6. Il montaggio
7. La colonna sonora
8. La color correction, il missaggio
9. The end
Ringraziamenti

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Titolo originale: Start to finish Copyright © 2017 by Eric Lax This translation published by arrangement with Alfred A. Kopf Doubleday Group, a division of Penguin Randomhouse. © 2017, DeA Planeta Libri S.r.l. Redazione: Via Inverigo, 2 − 20151 Milano In copertina: ©Ernesto Ruscio/Getty Progetto grafico: XxY studio www.deaplanetalibri.it Prima edizione e-book: settembre 2017 ISBN 978-88-511-5287-1 www.utetlibri.it www.deagostini.it Utetlibri @utetlibri Referenze fotografiche Tutte le fotografie sono di Sabrina Lantos, copyright © 2015 by Gravier Productions, Inc., con l’eccezione delle seguenti, che sono state scattate dall’autore: alle pp. 15, 16, 143, 190 e 295. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org Edizione elettronica realizzata da Gag srl

Eric Lax

WOODY ALLEN DALL’INIZIO ALLA FINE Un anno sul set con un grande regista Traduzione di Violetta Bellocchio

Indice

Introduzione 1. La sceneggiatura 2. I soldi 3. Il cast e il direttore della fotografia 4. Le location, la scenografia, i costumi 5. Le riprese 6. Il montaggio 7. La colonna sonora 8. La color correction, il missaggio 9. The end Ringraziamenti

A David Wolf e William Tyrer

«Quello che io offro, sempre, è una storia. Per me è questo che sono i film.» Woody Allen

Introduzione

Fino a qui, Woody Allen ha scritto e diretto quarantasette film e recitato in ventisette, totalizzando una media di un film all’anno dal 1969: il suo è un corpus di opere che non ha paragoni nel cinema moderno. Questa lista non include i cinque film che Woody ha sceneggiato ma non diretto; i tre in cui ha recitato, ma che non ha scritto né diretto; uno che ha scritto e in cui ha recitato, senza dirigerlo; e le serie e i film per la tv che ha scritto e diretto. Non include nemmeno Che fai, rubi? (1966), dove i dialoghi riscritti da lui trasformano il film d’avventura giapponese Kokusai himitsu keisatsu: Kagi no kagi nella caccia a una ricetta top secret per l’insalata di uova. Lavorare a quei ritmi è una sua peculiarità; il suo metodo di lavoro e ciò che ha imparato dagli altri, secondo me, possono essere illuminanti per chiunque abbia a cuore il fare cinema. L’idea, la sceneggiatura, i soldi, il casting, il direttore della fotografia, le location, la scenografia, i costumi, le riprese, il montaggio, la colonna sonora, la color correction, il missaggio: ed ecco il film. Ne esistono di tanti tipi diversi – grandi produzioni, pellicole indipendenti realizzate con un budget ridottissimo, film di nicchia realizzati con qualche soldo in più, blockbuster tutti azione che costano centinaia di milioni di dollari. Che si tratti di Guerre stellari o Stardust Memories, Harry Potter e la pietra filosofale o Harry a pezzi: non importa quale sia il film o chi l’abbia diretto, per girare ciascuno di questi c’è stato bisogno di visione, determinazione e organizzazione. E ogni regista si affida a una gamma

vitalissima di talenti che lo assistono. Parte di quanto rende unico Woody è il gruppo di collaboratori straordinari che ha saputo attrarre, ieri come oggi, per dare vita sul grande schermo alla sua visione. Insieme a una galassia di grandi attori, tra cui Cate Blanchett, Michael Caine, Leonardo DiCaprio, Mia Farrow, Gene Hackman, Anthony Hopkins, Scarlett Johansson, Diane Keaton, Geraldine Page, Emma Stone, Charlize Theron, Max von Sydow, Dianne Wiest e Kate Winslet, per citarne solo alcuni, Woody ha usato gli occhi di alcuni tra i più notevoli direttori della fotografia al mondo, come Gordon Willis, Sven Nykvist, Carlo Di Palma, Vilmos Zsigmond, Darius Khondji e Vittorio Storaro. A Santo Loquasto si devono le geniali scenografie di metà dei suoi film, Juliet Taylor ha quasi sempre supervisionato il casting, Helen Robin ha mandato avanti la produzione per decenni, Alisa Lepselter ha montato una ventina tra i suoi ultimi film, e gli altri componenti della troupe sono anche loro ugualmente esperti nei rispettivi campi. Woody non potrebbe realizzare le sue opere senza il loro prezioso contributo, però alla fine, ovviamente, ogni film rimane una sua creatura. Woody ha sempre avuto il pieno controllo su ogni aspetto della lavorazione a partire dal suo debutto alla regia, Prendi i soldi e scappa (1969); anche se viene accreditato come regista, sceneggiatore e attore per Che fai, rubi?, lui considera Prendi i soldi e scappa il suo primo vero film. A differenza di quanto succede a quasi ogni altro regista, il finanziamento dei suoi film non dipende dalle previsioni al botteghino o dal cast che scrittura. Le idee di Woody passano dalla sua testa allo schermo senza incontrare alcun ostacolo: le sue sceneggiature non vengono lette da chi finanzia e distribuisce i suoi film. Le riprese terminano quando lui sente di aver finito, non importa se questo significa sforare i tempi previsti dal budget e detrarre la differenza dal proprio compenso. Woody è sempre presente in sala di montaggio e decide ogni singola inquadratura, sceglie la musica, supervisiona la color correction e il

missaggio del sonoro, e approva i cartelloni pubblicitari che compaiono a New York (perché sono quelli che vedrà con i suoi occhi). Nel corso degli anni è cambiato il suo modo di fare film, ma molto poco del modo in cui li scrive. Gli capita molto meno spesso di rigirare una scena, un po’ perché è diventato più competente, un po’ per le limitazioni del budget. La fase delle riprese è più rapida – di solito si assesta tra i trenta e i trentacinque giorni, invece degli ottanta o più che a volte gli sono serviti in passato. Oggi Woody preferisce guardare le scene sul monitor, invece di osservarle da dietro la macchina da presa. Ha cominciato a montare i film in digitale e, dal 2015, ha sostituito la pellicola con la macchina da presa digitale. A non essere mai cambiati, però, sono la sua visione e il suo impegno. Ha superato gli ottant’anni, ma questo artista originale e dalle mille sfumature non ha perso energia e non ha rallentato la sua produzione. Per un caso fortuito più che per un piano ben preciso, fin dal 1971 io ho potuto parlare con lui, a proposito dei suoi film e del fare cinema in generale. Nei decenni seguenti l’ho guardato realizzare più di mezza dozzina di film dal primo all’ultimo giorno, e per un’altra ventina di produzioni sono stato presente solo a tratti. I suoi film e i suoi vari progetti scorrono con tale naturalezza dall’uno all’altro che a volte si sovrappongono. Il cuore di questo libro è la lavorazione di Irrational Man, ma nei diciotto mesi che hanno delimitato l’inizio e la fine del processo produttivo di questo film, Woody ha anche portato a termine Magic in the Moonlight, ha partecipato all’adattamento di Pallottole su Broadway come musical teatrale, ha scritto Café Society, e ha ideato Crisis in Six Scenes, una serie televisiva in sei puntate prodotta da Amazon che poi ha diretto e interpretato. Lungo tutto questo arco di tempo la nostra conversazione non si è mai interrotta: abbiamo

parlato a casa sua, nella sua sala di proiezione, passeggiando lungo le strade di Manhattan. Sono stato con lui durante l’intera lavorazione di Irrational Man. Woody mi ha permesso di stargli a fianco mentre faceva i suoi sopralluoghi per le location, mentre sceglieva i costumi e ragionava sul casting. Gli sono stato seduto accanto mentre lavorava, e tra un ciak e l’altro abbiamo commentato il suo lavoro: sono stato con lui in sala di montaggio, sia nel caso di Magic in the Moonlight che di Irrational Man, ed ero lì mentre visionava diverse versioni provvisorie di entrambi i film. Ero presente a tutto quello che ho raccontato in questo libro: prendevo appunti mentre Woody lavorava, e mi segnavo cosa veniva detto da lui e da altre persone. Ho registrato oltre trenta ore di interviste più lunghe, e più formali. Se non è segnalato altrimenti, le frasi attribuite a lui mentre stava lavorando ad altri film durante gli ultimi quarantasei anni risalgono a conversazioni avvenute all’epoca. Non esistono due registi che lavorino in maniera identica: non esiste uno schema che garantisca come risultato un film avvincente, nemmeno se viene seguito con fedeltà assoluta. Un certo mestiere è necessario, ma l’arte sfugge a tutto. Se copiate ogni singola mossa di Bergman, Fellini, Kurosawa, Welles, Godard, Antonioni, Hitchcock o Scorsese, potete arrivare a creare un facsimile di certi film, ma non le loro opere geniali. Tuttavia il genio innesca la scintilla dell’innovazione, e dall’osservare un grande regista all’opera può emergere nuova arte. Anche se si può parlare con certezza dei “film di Woody Allen” come categoria, i temi di cui si è occupato spaziano moltissimo. Qui c’è un documentario, lì c’è un musical. Alcuni film sono in bianco e nero, mentre la maggior parte avvolge il pubblico con colori ricchi e caldi. Alcuni pongono grandi domande su questioni morali, altri vanno presi come semplici divertissement. Diversi portano alla luce lo scetticismo del regista riguardo alla possibilità che esista un giudizio e una salvezza da parte di un Dio assente, ma anche la

sua speranza che esista una forza spirituale che porti ordine e significato nel mondo. Altri film comprendono la commedia pura (Il dittatore dello stato libero di Bananas); la fragilità del matrimonio (Mariti e mogli); il falso documentario (Prendi i soldi e scappa, Zelig); la fantasia che soccombe alla realtà (La rosa purpurea del Cairo); l’identità e l’autoinganno (Blue Jasmine); un’età dell’oro che sembra molto banale a chi la vive (Midnight in Paris); la lealtà come virtù (Broadway Danny Rose); la mutevolezza e i vantaggi della notorietà (Celebrity); i vitalissimi anni della sua infanzia (Radio Days); l’attaccamento primario dei genitori verso i figli (La dea dell’amore); una vita immaginata due volte, come una commedia e come un dramma (Melinda e Melinda); la differenza, spesso molto marcata, tra l’uomo e l’artista (Pallottole su Broadway, Harry a pezzi, Accordi e disaccordi); Guerra e pace raccontato da Bob Hope, Ingmar Bergman, Charlie Chaplin e Sergej Ejzenštejn (Amore e guerra); la nostra vana lotta contro la morte (Ombre e nebbia); un musical cantato da voci scelte apposta tra quelle che non si dovrebbero mai sentire tranne sotto la doccia (Tutti dicono I Love You); le dinamiche intergenerazionali all’interno di una famiglia (Interiors, Hannah e le sue sorelle, Settembre); l’imprevedibilità dell’amore (Io e Annie, Manhattan, Vicky Cristina Barcelona, Basta che funzioni, Hannah e le sue sorelle, e almeno un’altra decina di film); e le conseguenze personali (o l’assenza di conseguenze) di un omicidio, raccontate in chiave comica (Pallottole su Broadway, Scoop), in chiave drammatica (Match Point, Sogni e delitti), o in entrambi i modi (Crimini e misfatti, Misterioso omicidio a Manhattan), e di nuovo in chiave di dramma tradizionale con Irrational Man, che non ha avuto un titolo fino a mesi dopo il termine delle riprese, e nell’attesa veniva chiamato soltanto The Boston Story, come accadrà anche in buona parte del libro che state per leggere.

Questo volume è il resoconto della lavorazione di Irrational Man, da quando è sopraggiunta l’idea a quando il film era pronto per essere distribuito. Il libro contiene anche riferimenti a tutti gli altri film di Woody, oltre ai suoi commenti riguardo ai registi, ai direttori della fotografia, agli scrittori e ai molti professionisti che ammira. I migliori cineasti riescono ad assorbire il passato e a trovare lo stesso una visione originale, come scoprirete anche voi seguendo la maniera che ha questo geniale artista di creare un film, dall’inizio alla fine. Eric Lax, gennaio 2017

1 La sceneggiatura

Un giorno Woody Allen, vestito da cima a fondo, se ne stava sdraiato sul letto matrimoniale della sua camera da letto che gli fa anche da studio, al terzo piano della sua villetta a schiera di Manhattan. Stava scrivendo la sceneggiatura di un film su un taccuino giallo, di quelli che usano gli avvocati. Il letto è il posto dove Woody scrive per abitudine, da decenni, anche quando alloggia in albergo. Quello che non rientrava nelle sue abitudini, il giorno in questione, nel febbraio del 2013, era il fatto che Woody stava lavorando a due sceneggiature a fasi alterne: una era un dramma ambientato nel tempo presente, protagonista un professore di filosofia sull’orlo dell’esaurimento che improvvisamente trova un nuovo motivo di esistere nella decisione di uccidere un giudice che sta per rovinare la vita di una donna innocente e dei figli di lei; l’altra era una commedia romantica ambientata negli anni venti, protagonista un mago burbero che viene ingaggiato per smascherare una giovane donna dotata di apparenti poteri paranormali. Woody non sapeva quale delle due sceneggiature girare quell’estate, sulla scia di Blue Jasmine, che era valso a Cate Blanchett l’Oscar come miglior attrice e a lui stesso una candidatura per la miglior sceneggiatura originale. Lavorava per alcuni giorni sulla commedia, fino a quando il suo entusiasmo andava scemando, e a quel punto passava al dramma – finché poi il suo interesse si affievoliva, e lui tornava alla commedia. Magari restava concentrato su un’idea

per quindici minuti – o tre giorni interi – prima di essere distratto dall’altra. Anche se questa situazione non rientrava nella normalità, in diverse altre occasioni Woody aveva scritto materiale per due idee distinte in simultanea, e in almeno un caso ha scritto tre sceneggiature diverse nell’arco di quattro mesi prima di trovare quella giusta. «Perdo fiducia in me stesso», diceva mentre passava da un’idea all’altra, «e a volte vado nel panico e penso, “Non cercare di aggiustare le cose. Abbandona la scialuppa”.» In questo caso, però, piacendogli entrambe le idee, è caduto vittima di una momentanea «indecisione ossessiva». A un certo punto ne ha scelta una e ci si è buttato a capofitto perché riusciva a «vedere tutte le cose che andavano a posto in una maniera splendida: il mago fa scomparire l’elefante, lo chiamano per sbugiardare la sensitiva, e lui incontra questa bella ragazza dalla rossa chioma preraffaellita». Ma l’idea passò rapidamente «dall’idealizzazione nella mia testa alla realtà della pagina stampata, e dall’ideale platonico della perfezione a un ammasso di difetti», così lui è tornato a dedicarsi all’omicidio. Woody la definisce «ansia automatica da ripensamento», e riflette la sua preoccupazione che qualsiasi cosa scriva non sia adatta a seguire il suo ultimo film, in termini di varietà tematica. Dice, «potrei avere in mano Via col vento o Un giorno alle corse con i Fratelli Marx» e comunque penserebbe di aver fatto la scelta sbagliata. Anche se resta in balia della sua incertezza, l’obiettivo per Woody è raccontare una storia che appassioni il pubblico: «Quello che io offro, sempre, è una storia. Per me è questo che sono i film». Quando, a marzo, Woody ha finito di scrivere a mano la sceneggiatura della commedia sul mago, si è seduto al tavolino nell’angolo della stanza e ha usato una macchina da scrivere portatile Olympia (la stessa che si porta dietro dall’inizio della sua carriera) per battere su fogli protocollo gialli quello che stava scritto sulle pagine del taccuino, e che a quel punto era

coperto da cancellature e riscritture nella sua grafia difficile da decifrare. Poi ha fatto altre correzioni, con una penna a sfera, sopra il testo che aveva battuto a macchina, ha ritagliato e pinzato insieme alcune parti di queste pagine ulteriormente revisionate, e ha mandato tutto a Helen Robin, che da molto tempo lavora con lui come produttrice associata, e che da quasi trent’anni batte al computer le versioni “pulite” delle sue sceneggiature. Woody è l’unico giudice del proprio lavoro. Nessuna autorità può fare cambiamenti dall’esterno.

La prima pagina della prima stesura di The Boston Story. In alto a sinistra è appuntato un altro possibile titolo: Crazy Abe (“Abe il pazzo”).

Dopo che Woody revisiona il testo, Helen Robin lo batte al computer, impaginandolo come una vera sceneggiatura. Dato che un’azione è indicata soltanto dall’iniziale del nome del personaggio, spesso sta a Robin capire dove termina una scena.

«Il suo stile di sceneggiatura è quasi prosa», dice Robin. «Di solito il nome del personaggio sta sul lato sinistro della pagina. Quando ribatto al computer uso un programma di scrittura che impagina il testo direttamente in forma di sceneggiatura, e decido dove interrompere una scena basandomi sui suoi appunti. La mia versione trascritta al computer torna a lui insieme alla sua copia, e dopo qualche giorno mi arriva una combinazione tra le pagine originali dattiloscritte e qualche ritaglio estrapolato dal testo che io ho battuto al computer, il tutto pinzato e condito da annotazioni scritte a mano. A questo punto io faccio la nuova revisione e rimando tutto a lui.

Andiamo avanti così fino a quando non giriamo, di solito stiamo tra le due e le quattro revisioni.» Quando Robin ha restituito a Woody la prima versione della sceneggiatura comica, tre giorni più tardi, lui le ha mandato quella drammatica, la storia del professore. Entrambe sono presto state mandate a un piccolo gruppo di lettori fidati, tra cui la sorella di Woody, Letty Aronson, coproduttrice dei suoi film, e Juliet Taylor, che si è occupata del casting per oltre quarant’anni fino a quando è andata in pensione nel 2016. Su qualsiasi sceneggiatura fosse caduta la scelta, il film sarebbe stato il numero quarantaquattro scritto e diretto da lui nell’arco di altrettanti anni. Un calendario di lavorazione tanto regolare richiede tempistiche scandite quasi al millesimo, e permette a Woody di vivere, in massima parte, all’interno di un mondo di sua creazione. Cresciuto a Brooklyn negli anni quaranta, dice, «correvo al cinema per evadere dalla realtà; vedevo anche dodici o quattordici film a settimana», e il cinema è ancora il suo rifugio: «Riesco a fare i film che voglio fare, e così per un anno, mentre lavoro a un film, riesco a vivere in un mondo irreale, popolato da belle donne e uomini arguti e situazioni drammatiche e costumi e scenografie, e posso manipolare la realtà. Sono fuggito verso una vita al cinema, ma dall’altro lato della macchina da presa, e non dal lato del pubblico». Dato che la sua vita alternativa dentro i film è tanto completa, per indole Woody non riesce a cimentarsi con l’idea (o le idee) per il prossimo film fino a quando quello che sta realizzando non arriva a uno stadio di lavorazione così avanzato da permettergli di distaccarsene emotivamente, cosa che di solito succede appena dopo aver finito il montaggio, quando decide la musica. Non sono le scelte che gli mancano. Negli anni sessanta ha detto al suo amico Dick Cavett, «Non riesco a immaginare una vita abbastanza lunga per poter realizzare il numero di progetti

che ho in mente». In un cassetto del suo studio c’è una busta piena di pezzi di carta con sopra annotate varie possibilità, quasi mai più lunghe di una o due frasi. Tra di loro c’è un foglietto sempre aggiornato che porta il titolo “Le migliori tre idee al momento”. Alcuni degli appunti custoditi nel cassetto sono stati aggiunti di recente, altri stazionano lì da anni: idee che gli piacciono ma sono arrivate a un punto morto. La rosa purpurea del Cairo (1985), in cui il personaggio di un film esce letteralmente dal grande schermo e si mischia al pubblico in sala, è rimasto a fermentare per anni fino a quando Woody ha capito una cosa: sia il personaggio in fuga sia l’attore che lo interpreta dovevano entrare in contatto con una donna che guarda quel film ogni giorno per cercare di sfuggire alla sua squallida vita, durante gli anni della grande depressione. «Il mondo è pieno zeppo di ottime idee che non vanno da nessuna parte», ha detto dopo aver portato a termine entrambe le nuove sceneggiature. «Succede in continuazione, a me come a chiunque altro. Arriva una grande idea: un tizio cammina per la strada, trova un portafoglio, entra nella casa corrispondente all’indirizzo, e c’è un cadavere sul pavimento. E poi?» Ha riso. «Quell’e poi? è la cosa che ti ammazza.» La commedia con protagonisti il mago e la sensitiva era un’altra idea che Woody aveva tenuto da parte per anni, non riuscendo a capire cosa sarebbe successo una volta stabilita la premessa: un mago di fama mondiale riceve una richiesta da parte di un amico di vecchia data, un illusionista di minor calibro. Gli si chiede di smascherare la presunta ciarlataneria di una giovane donna che sembra saper percepire i dettagli più intimi sul conto delle altre persone, e comunicare con i loro parenti morti nel corso di sedute spiritiche. La ragazza e sua madre, che viaggia con lei, sono state accolte dalla matriarca di una famiglia molto ricca, in segno di gratitudine per averla “messa in contatto” con il defunto marito. L’amico spiega che la signora sta per fare una grossa donazione alle due donne, perché possano creare una fondazione per la ricerca sul

paranormale, e che il figlio di lei si è perdutamente innamorato della chiaroveggente. Si teme che quest’ultima possa mettere le mani sul patrimonio di famiglia. Lo spunto alla base della sceneggiatura era nato dieci o quindici anni prima, quando Woody e Marshall Brickman – con cui ha scritto Il dormiglione (1973), Io e Annie (1977), Manhattan (1979) e Misterioso omicidio a Manhattan (1993) – avevano parlato di scrivere un film su un mago e una falsa medium ambientato all’inizio del Novecento, quando lo spiritismo era all’apice della popolarità. Il mago, che è anche un escapologista, comincia a perdere fiducia in se stesso e diventa sempre più restio a farsi incatenare in un bidone del latte e gettare in mare, e presto finisce sul lettino dello psicanalista. Quando gli viene chiesto di smascherare una spiritista, accetta la sfida con entusiasmo, ma presto si innamora di lei. (Una volta Woody aveva letto che il grande mago ed escapologista Harry Houdini era stato incaricato di smascherare una medium, solo che in quel caso fu lei a innamorarsi di lui.) A Woody piaceva che il film si potesse girare facilmente e in maniera poco costosa, con una casa come location principale, ma nonostante molti tentativi di portare avanti la storia nel corso degli anni «non è mai andata da nessuna parte fino a quando ho capito una cosa di colpo: l’amico che chiede aiuto al mago è in combutta con la truffatrice». Scrivendo il copione avrebbe fatto in modo che il pubblico non sospettasse la doppiezza dell’amico. «Una volta che ho avuto chiaro quel pezzo di storia, avevo tutto il film. Ma per anni non l’ho avuto.» Nella sceneggiatura, il mago è estremamente sicuro di sé: è convinto che saprà smascherare la medium in un baleno. Però rimane sconcertato dalle cose che lei misteriosamente dimostra di sapere sul suo conto e su quello della sua famiglia. Alla sua arroganza si sostituisce prima un’irritata confusione, poi lo sbigottimento, poi la speranza che dopo una vita passata a dubitare e a non credere nell’esistenza di un mondo spirituale

ce ne possa davvero essere uno, finché, finalmente, il mago capisce che è stato proprio l’amico di cui si fidava, e di cui quindi non sospettava, a passare alla ragazza tutte quelle dettagliate informazioni personali. Scrivere la sceneggiatura gli era piaciuto così tanto che, diceva, «non ero sicuro che fosse abbastanza buona per girarla» perché un tale piacere avrebbe potuto impedirgli di vedere i problemi della storia. A fasi alterne, lavorava su questo e sulla storia del professore di filosofia assassino, che aveva preso il titolo The Boston Story, perché Woody credeva che il posto giusto dove girare il film fosse un campus universitario a Boston. Anche questa idea era rimasta qualche anno a riposare nel cassetto, dopo che la scintilla iniziale era stata innescata da una conversazione a cena con un’amica della moglie Soon-Yi Previn. L’amica era alle prese con un contenzioso legale che andava per le lunghe tra lei e un costruttore a cui si era rivolta. Si lamentava del fatto che il giudice favorisse apertamente l’avvocato del costruttore: i due uomini si sorridevano in tribunale e il giudice si pronunciava regolarmente in suo favore. Il giudice era prevenuto nei confronti della donna, anche se a lei sembrava di aver dimostrato chiaramente che il lavoro pattuito non era mai stato portato a termine e che quanto era stato completato perdeva acqua. «Stavo seduto a tavola e pensavo», ha detto Woody dopo aver finito la sceneggiatura, «“Se io uccidessi il giudice, a lei ne verrebbe assegnato un altro – non potrà essere peggiore di questo, probabilmente sarà migliore – e nessuna persona al mondo penserebbe mai che io sia coinvolto. Non ho nessun legame con lui, nessun movente, non c’entro nulla. Nessuno sospetterebbe di me”. Mi è sembrata un’idea interessante.» Come fa sempre, Woody ha giocato con l’idea in chiave comica, per vedere se sarebbe risultata più efficace di un dramma, ma la storia poi è diventata un dramma. Il professore

uccide il giudice sostituendo di nascosto un contenitore di spremuta d’arancia avvelenata, identico a quello che il giudice ha appena comprato. Dato che i due ufficialmente non si conoscono, il professore la fa franca, e si ritrova trasformato da un tipo passivo e con tendenze suicide a uno aggressivo e pieno di vita. Poi, settimane più tardi, un uomo innocente viene accusato del crimine, e qui nasce un dilemma morale: il professore può scegliere se seguire i propri alti ideali filosofici e consegnarsi alla giustizia, oppure, sentendosi vivo per la prima volta in molti anni, uccidere un’amica, la sola persona a conoscenza del crimine che lui ha commesso, facendo in modo che quella morte sembri un incidente ed evitando così le ripercussioni legali di entrambi gli omicidi. Woody ha preso in considerazione una circostanza attenuante: il giudice è corrotto, certo, ma potrebbe essere un buon padre affettuoso, e come tale andrebbe risparmiato. D’altro canto ha tenuto presente che, come dirà un personaggio del film, «È come quei boss della mafia che fanno cose orribili… dovremmo lasciar correre perché sono mariti e padri splendidi?». Per lui, è stato un caso di «Mi spiace, non basta». Per aggirare questo potenziale ostacolo, Woody ha tratteggiato il personaggio del giudice come uno scapolo senza figli. Per quanto riguarda il professore, invece, voleva che venisse visto «come uno psicopatico», e voleva sottolineare che «l’omicidio non è una soluzione», ma anzi «ti porta su una brutta china dove potresti dover uccidere qualcun altro per restare a galla. Se non l’ho rovinato in fase di scrittura, penso che sarà un film interessante. Se lo vedessi in bianco e nero, girato da un regista/sceneggiatore francese o italiano durante l’epoca d’oro del cinema europeo», qualcosa di simile a Le beau Serge, il thriller del 1958 di Claude Chabrol che si ispirava a L’ombra del dubbio (1943) di Alfred Hitchcock, in cui il protagonista cerca di commettere il delitto perfetto, «penseresti, “Ehi, questo è un gran film”. Non sto dicendo che

il mio film sarà per forza così, ma ha dentro un’idea matura. È una storia adulta, forte e semplice». Una sceneggiatura di Woody Allen prevede due fasi diverse, e la definizione migliore l’ha data Marshall Brickman: c’è lo scrivere, e c’è il prendere nota. Lo scrivere, in cui in realtà non viene scritto niente, è la fase in cui Woody pensa e ripensa ai personaggi e alla trama in ogni dettaglio. I dialoghi arrivano dopo. Cosa diranno i personaggi non è dato saperlo finché non si deciderà che cosa faranno. Una volta che quell’elemento sarà chiaro, le loro parole verranno quasi spontanee. «Questa è la parte peggiore», dice Woody, riferendosi al periodo di diverse settimane dove lui, alternativamente, sta sdraiato sul letto, cammina su e giù per la stanza, e, per «un tonificante cambio d’ambiente», si fa lunghe docce per sbloccare i pensieri. È un momento di «pensieri ossessivi» e costante disagio, durante cui la sua ipocondria raggiunge la piena fioritura, il reflusso gastrico gli brucia lo stomaco, e Woody raggiunge uno stato di profonda spossatezza. La storia sta sempre in cima ai suoi pensieri, ma ha una data di scadenza. Se dopo un mese ancora non si vede il modo di procedere, l’idea viene abbandonata – o rimessa nel cassetto – e sostituita con una nuova. «In una partita a scacchi», aggiunge, «non riesco a vedere più in là di una sola mossa. Ma quando sto scrivendo una sceneggiatura – anche piuttosto complicata, con molti personaggi – riesco a vedere lontano e a risolvere i miei problemi.» Woody paragona l’intero processo alla scrittura di una sinfonia. «Il tema musicale si plasma qui, ma risuonerà con forza solo tre movimenti più tardi, e se questo è sbagliato, quello sarà pessimo.» Non prende appunti e non stende una scaletta della trama. Agli inizi della sua carriera ha letto Playwright at Work, un libro del drammaturgo John Van Druten (Mamma ti ricordo!, Una strega in paradiso, La voce della tortora), ed è rimasto

convinto dall’insistenza con cui Van Druten faceva una raccomandazione precisa agli scrittori: bisognava conoscere tanto a fondo la storia da non aver bisogno di stendere una scaletta per la trama. Quindi Woody giocherella mentalmente con la sua storia, lasciando che si dipani in tutte le possibili direzioni. «Penso, “Il professore sta per arrivare all’università. È entusiasta di quel lavoro”, e seguo quel filo per un giorno. Poi penso, “No, no, funziona meglio se lui è un tipo disincantato ed è l’università a cercarlo ma lui vuole smettere di insegnare”, e seguo quell’altro filo per un giorno. Poi ritorno alla prima possibilità, poi di nuovo alla seconda. Penso, “No, è assolutamente meglio se lui non vuole quel lavoro ed è emotivamente esausto. Poi ha una relazione con un’altra insegnante e forse lei è sposata. No, no, sarebbe meglio se avesse una relazione con una sua studentessa, la figlia di un insegnante. Oppure lei si prende una cotta per lui, ma lui non avrebbe mai una relazione con lei perché è il suo professore”. Penso e ripenso a queste soluzioni e le porto alle loro logiche conseguenze per vedere quali di loro offrono il materiale più ricco.» Una cosa contro cui Woody sta sempre in guardia è la scrittura “intelligente” fine a se stessa. «Non puoi avere in scena alcune persone intente a sciorinare quelle che tu speri siano osservazioni acute o battute brillanti, perché mentre loro parlano il pubblico non penserà: “Però, ecco un epigramma degno di G.B. Shaw”. Il pubblico lo sentirà come il dialogo tra personaggi in una data situazione: lui dice così perché lei la pensa così e lui vuole entrare nelle sue grazie. Il pubblico guarda l’azione della storia. Quando perdi di vista questo elemento, e capita a tutti noi – di certo capita a me – pensi di stare riempiendo di sagge osservazioni il tuo testo, ma in realtà ti stai suicidando. Ti stai deliberatamente schierando contro il gradimento del pubblico.»

Rispetto alle settimane passate a elaborare la storia, la fase della scrittura vera e propria sembra incredibilmente facile. Woody dice che quando ha la trama ben chiara in mente, «posso starmene sdraiato sul letto a scrivere tutto il giorno senza fare alcuna fatica. Non sono George S. Kaufman, non sto scrivendo una pièce teatrale, dove ogni frase dev’essere perfetta. Io scrivo e basta, e quando riscrivo posso cambiare tutto quanto. Faccio cinema, e nei film i personaggi parlano come parla la gente nella vita reale, e non in maniera poetica come in un’opera di Tennessee Williams, perché suonerebbe artificiale». Il giorno in cui Woody trova il bandolo della matassa è il momento in cui il suo lavoro smette di essere «molto, molto sgradevole» e diventa «eccitante. Sono pieno di energia: chiacchiero a ruota libera. Me ne vado in giro per la strada e faccio cose che facevo a vent’anni». Il suo problema cronico è trovare il finale giusto. È probabile che cambi nel corso del tempo, e in alcuni casi, come per Io e Annie, non si trova finché Woody non termina il montaggio. (Il finale di quel film: Annie e Alvy si incontrano di nuovo in amicizia, e poi Alvy si rivolge direttamente al pubblico.) Dato che Woody, in buona sostanza, sta scrivendo un manuale d’istruzioni per un film che poi sarà lui a dirigere, le sue sceneggiature sono diversissime da quelle che vengono consegnate al regista di un film ad alto budget. Woody dice di ammirare molti film ma poche sceneggiature perché «nell’arco della storia del cinema, il ruolo degli sceneggiatori è sempre stato quello meno rispettato, meno influente. I produttori ricevono una sceneggiatura e la passano a un nuovo scrittore, e poi a un altro ancora. Le mie sceneggiature non sono uniche nel loro genere perché io non ci metto indicazioni. Se leggo una o due pagine della sceneggiatura di qualcun altro ci trovo mucchi di indicazioni specifiche su ogni singola sfumatura dei personaggi o su come lo scrittore pensa che vada girata una scena. Il film è già tutto scritto, immagino perché dovrà essere venduto. Le mie sceneggiature invece sono solo dialoghi

costellati da un milione di TBD (to be determined: “ancora da stabilire”). Nel caso degli altri, i capi degli studios devono essere in grado di visualizzare la sceneggiatura quando la leggono». L’approccio di Woody alla sceneggiatura è diverso anche rispetto a quello dei registi che hanno il pieno controllo sul loro materiale. Ingmar Bergman, il regista che Woody ammira di più, diceva di scrivere i suoi film «senza capire fino in fondo cosa avevo scritto. Poi li giravo, e ai miei occhi prendevano un certo significato. Ma cosa significassero davvero, io non lo capivo finché non era passato del tempo. Molto tempo. Se ho un rapporto tanto strano con le mie creazioni, è perché spesso quando scrivo e giro un film sono dentro una specie di guscio protettivo. Non mi fermo ad analizzare cosa sto facendo e perché. Razionalizzo tutto soltanto dopo». Rispetto a Bergman, Woody si considera più sicuro del proprio lavoro «sul piano intellettivo, ma meno sul piano della competenza. All’inizio so cosa sto facendo e cosa voglio fare, e dato che non sono troppo competente, il risultato finale si trasforma in qualcosa di diverso, che mi sorprende sempre». (La valutazione che offre del proprio lavoro e delle proprie capacità ridefinisce radicalmente il concetto di modestia.) Però si trova completamente d’accordo con Bergman sul fatto che «non va mai sottovalutata l’importanza della tetraggine nell’arte». «Io, da parte mia, trovo grande bellezza nella tetraggine» ha detto qualche anno fa. «La ritrovo nelle coreografie di Martha Graham. Molta gente guarda Radio Days e ride alla scena in cui dico “Ricordo che la mia infanzia è stata bellissima”, appena prima dello stacco su Rockaway Beach, nel Queens, in un giorno di pioggia con le onde alte. Io ho scritto quella battuta in totale serietà.»

Mentre le due sceneggiature finite erano in lettura presso alcuni selezionati collaboratori, Woody ha soppesato di nuovo le idee e ha pensato, “The Boston Story è un concetto più stimolante. Il film con il mago e la veggente è leggero, romantico, ed è questa la cosa che odio. Però se in questo istante avessi per le mani una storia incentrata su un omicidio, forse direi lo stesso: è la storia di un omicidio, ricca di conflitti intellettuali e morali, ed è questa la cosa che odio. Dopo il film con Cate Blanchett [Blue Jasmine] sarebbe bello fare un film lieve e musicale, adatto alle musiche di Cole Porter. È un genere che mi viene più facile, mi ci sento più a casa, e me lo godo di più. Lo devo tenere in considerazione. È più divertente fare quel genere di film; è più divertente fare Midnight in Paris rispetto a un film serio. Provo più gusto ad allestire una scena che avrà una colonna sonora di mio gradimento”. Quando Woody ha scritto la scena di Manhattan dove lui e Mariel Hemingway fanno un giro in carrozza a Central Park, sapeva già che gli sarebbe piaciuto metterci in sottofondo un brano romantico ancora prima che la scelta cadesse su He Loves and She Loves di George e Ira Gershwin. Sul desiderio che hanno i comici di scrivere tragedie sono stati versati fiumi d’inchiostro, e ci sono periodi in cui Woody dà tutto se stesso alla scrittura di un film drammatico, anche se mai uno in cui apparirebbe anche lui come attore. Vuole scrivere Amleto, non interpretarlo: ma sa benissimo a cosa va incontro. «Se la sai fare, la commedia non è difficile. Se non la sai fare, è impossibile. Lo stesso vale per il dramma. Arthur Miller e Tennessee Williams avevano una magnifica sensibilità per il dramma. A me non viene altrettanto naturale, anche se come spettatore lo preferisco alla commedia. Preferisco un film di Bergman oppure Ladri di biciclette o Un tram che si chiama Desiderio o un’opera di C ˇ echov. E allora, naturalmente, mi viene l’impulso di scrivere qualcosa di altrettanto serio. Col dramma non ho avuto un successo paragonabile alla commedia nel corso degli anni, ma non per

questo intendo rinunciare a provarci. Credo che Match Point (2005) mi sia venuto piuttosto bene, forse il miglior risultato che ho avuto a partire da un materiale cupo, però faccio sempre una gran fatica. Penso sempre che il mio dono di natura sia far divertire la gente. Guarda in quanti hanno preso Blue Jasmine per una commedia. È stata una cosa incredibile. Ai Golden Globe non sapevano se candidarlo nella categoria “commedia” o “dramma”. Noi gli abbiamo detto, “Non potete candidarlo come commedia. Non è una commedia”. [Alla fine il film è stato inserito nella categoria “dramma”.] Resta il fatto che la gente trova divertenti alcune parti del film, e che molti lo considerano una black comedy.» In certi casi, l’idea per un film ha origine in un altro film. La protagonista di Un’altra donna (1988), Marion Post, è sposata con Ken, un cardiologo, «che qualche anno fa mi visitò il cuore, gli piacque ciò che vide e si fece avanti». Marion è una donna di mezz’età che ha represso le sue emozioni dopo un aborto subìto a poco più di vent’anni. Si trova costretta ad affrontare il suo passato quando ascolta per caso le sedute psicanalitiche di una donna più giovane, e incinta, attraverso il sistema di ventilazione del suo studio, adiacente a quello dell’analista. A un primo sguardo, Marion sembra una donna molto sicura di sé, ma in realtà prova sentimenti tanto profondi che la sua unica scelta è negarne l’esistenza, oppure esserne travolta. Questo non era né il primo né l’ultimo film basato su qualcosa che si ascolta per sbaglio. Cinque anni prima, Woody aveva pensato di fare una commedia alla Charlie Chaplin con protagonista un uomo che ascolta una donna raccontare i propri problemi a un analista nello stesso palazzo. Quando la donna esce dallo studio dell’analista, l’uomo si accorge che è molto bella, e così ordisce un piano per farle credere di essere il suo uomo ideale, quello che può soddisfare tutti i suoi desideri. Ma presto Woody si era accorto che origliare, in sé, era una cosa di cattivo gusto: anche fatta con le migliori

intenzioni, gli sembrava un’azione meschina, e allora ha lasciato perdere il film. Poi, anni più tardi, ha pensato a una versione drammatica della stessa storia: una donna ascolta un’altra donna che parla al di là di una parete. La domanda era: cosa potrebbe mai sentire lei di tanto sconvolgente? Il suo primo spunto era «la sorella della donna che parla e il marito di lei hanno una relazione. La protagonista torna a casa e pensa: “Che cosa terribile”. Poi scopre che anche la propria sorella e il proprio marito hanno una relazione. A quel punto era diventato tutto troppo hitchcokiano. Era il tema sbagliato». Woody l’ha utilizzata in Hannah e le sue sorelle (1986). Ma il concetto di “origliare” «mi ha perseguitato per anni. Poi mi è venuta l’idea di un personaggio con una vita riservata. Ho pensato che avrebbe potuto essere un dramma interessante. C’è più intensità se il contenuto della conversazione evoca sentimenti profondi nella donna che origlia». I sentimenti, evocati dall’ascoltare di nascosto la giovane donna, si aprono una strada dentro la protagonista e riportano alla luce ricordi sepolti legati ad altre persone che hanno fatto parte della sua vita. Al termine della lavorazione di Un’altra donna, Woody ha detto una cosa alquanto rivelatoria anche sul proprio conto: «Ci sono persone che hanno difficoltà a gestire i loro sentimenti eppure sono estremamente abili nel gestire la loro vita intellettuale e fanno opere di beneficienza. Io potrei essere una di queste persone». Ha riso e ha aggiunto, «forse rimpiangerò di non aver scritto questa storia in chiave comica». Mentre alcuni amici prendevano posto nella sua sala di proiezione per vedere una versione del film già montata ma non ancora missata, ha detto, «Se avessi voluto fare le cose per bene avrei dovuto girare due film: questo, e una commedia. La commedia incasserebbe bene e avrebbe un buon successo,

mentre questa pellicola al massimo sarà buona per ritagliarla e ricavarne dei plettri per chitarra». Otto anni dopo, Woody ha interpretato un personaggio che scopre i più intimi segreti sul conto di una donna e così diventa l’uomo ideale di Julia Roberts) nella commedia musicale del 1996 Tutti dicono I Love You. Per diversi anni Woody aveva ripetuto di voler girare «una commedia musicale originale. Ne vado pazzo. Sono cresciuto con i grandi musical di Broadway». Fare il film gli ha tolto quello sfizio, ma nonostante il magnifico cast (oltre a Julia Roberts: Goldie Hawn, Alan Alda, Drew Barrymore, Edward Norton) e numeri musicali piacevolissimi, negli Stati Uniti incassò appena 10 milioni di dollari. Un aspetto che affascinava molto Woody era l’avere un cast formato non da cantanti professionisti, ma da persone qualsiasi, che cantano come cantiamo noi tutti quando nessuno ci guarda. «Cosa c’è di più ridicolo di un uomo o una donna che canta o balla?» ha detto Woody al critico John Lahr. «Quella è l’espressione più completa dei nostri sentimenti più profondi, messa in musica. Togliendo la musica sembrerebbe tutto molto sciocco.» La votazione su quale sceneggiatura girare non è stata unanime. La sorella di Woody, Letty, è stata la prima a rispondere, e ha espresso la sua preferenza per The Boston Story. A Woody però è sembrato che altri lettori fossero meglio disposti verso la storia del mago, e alla fine sono stati loro ad avere la meglio. Entro certi limiti, Woody è consapevole di dove si possano collocare i suoi singoli progetti all’interno del suo corpus filmico, e in certi casi discute con la sorella – come faceva con Juliet Taylor – se sia o meno il momento adatto per sviluppare una certa idea. Queste decisioni non sono democratiche come potrebbero sembrare. «Devi imparare a fare la tara a quello che dice la gente», spiega lui. «Devi “ascoltare tra le righe”. Anche quando mostri il film a qualcuno: non devi badare al contenuto letterale di

quello che ti dice, che gli sia piaciuto o meno, ma piuttosto devi farti un’idea del suo entusiasmo o di quanto si sia sentito coinvolto dalla storia. Midnight in Paris (2011) è stato un film a cui ho pensato per dieci o quindici anni prima che lo girassi e si rivelasse un gran successo. [In un primo momento il budget era più alto del normale per lui, così il progetto è stato accantonato.] Match Point è stato un altro film a cui ho pensato per anni [una storia che gli piaceva ma non funzionava ancora a dovere]. Ma anche La maledizione dello scorpione di giada (2001) è rimasto in ballo per anni [altre idee sembravano più opportune nel periodo in questione] e quel film non è stato un successo, affatto. Non è una scienza esatta. Non impari mai quello che vorresti poter imparare, ovvero: non metterti a fare il film del giudice perché quella storia è destinata a fallire fin dall’inizio. Quello non lo impari mai.» L’idea improvvisa di ambientare il film del mago nel sud della Francia negli anni venti ha rafforzato la decisione: «Avevo in mente gli anni venti di Isadora Duncan e di Matisse e Picasso, con le case in cui dipingevano». Woody aveva persino già un titolo – Magic in the Moonlight – qualcosa che di solito gli arriva molto tempo dopo, e aveva chiesto subito a Helen Robin di ottenere il permesso di utilizzarlo. Non è sempre semplice, ottenere il permesso. L’Ufficio Registrazione Titoli della MPAA (Motion Picture Association of America) cataloga tutti i titoli usati o registrati in vista dell’utilizzo futuro da parte dei sei più grandi produttori cinematografici e di molti altri affiliati. Qui possono nascere questioni legate al copyright, là dove il titolo proposto non è proprio uguale a quello di un film che è già stato girato ma lo stesso richiama un titolo registrato, oppure, per usare le parole di Woody, «ti dicono, “Beh, la Paramount ha un film che si chiama Magic in India, e ha protestato”. A quel punto devi affrontare una causa. Di solito la spunti tu, ma devi spendere dei soldi. Io per questo film voglio un titolo romantico». A un certo punto degli anni

novanta Woody voleva chiamare un film Untitled, “Senza titolo”, ma l’Ufficio Registrazione Titoli aveva detto che qualcun altro l’aveva già prenotato. A Woody piace girare film in costume perché offrono molti più spunti sul piano visivo, e cita Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci, ambientato nella Roma fascista degli anni trenta con vari flashback nel passato recente, come esempio di un film dove il regista sfrutta al massimo il settore della scenografia, della direzione artistica e della fotografia. «Ho cercato periodi storici che risultassero visivamente stimolanti per i direttori della fotografia, gli scenografi e i location manager. Magic in the Moonlight e Midnight in Paris sono molto piacevoli da guardare. Se la storia però non si presta a essere raccontata nel passato, cerco di fare il miglior lavoro possibile all’interno del tempo presente. The Boston Story è un film ambientato nel presente in un campus universitario. Ma se io sono a casa e sto pensando a una storia, so già che se la ambiento in un certo periodo storico sono già in vantaggio del novanta percento. Se dico, “Questa storia si svolge a Coney Island”, ok, va bene. Ma se dico, “Questa storia si svolge a Coney Island nel 1935”, faccio impennare il budget e l’aspetto visivo del film diventa subito incredibilmente potente. [Il suo film del 2017 Wonder Wheel è ambientato nella Coney Island degli anni cinquanta e, per la prima volta nella carriera di Woody, ha richiesto un utilizzo massiccio del green screen – gli sfondi sono stati aggiunti in digitale – cosa che ha aumentato il budget in maniera considerevole.] Non stiamo rappresentando la realtà nuda e cruda, ma la stiamo ammantando di una luce nostalgica e idealizzata. Lo faccio sapendo che la mia percentuale sugli incassi potrebbe non ripagarmi di tutte le spese extra. L’ho già fatto cinque o sei volte. All’inizio della mia carriera mi dicevano, “Lo puoi fare, ma sforerai il budget di un milione di dollari”. Venivo pagato un milione di dollari per scrivere,

dirigere e interpretare il film, ma per me era più importante fare un buon film, quindi ci mettevo i soldi di tasca mia.» Woody ammira l’uso del passato che faceva Federico Fellini. «Amarcord (1973) è molto piacevole da vedere, perché si basa sui suoi ricordi d’infanzia, e quindi tutto risulta esagerato, stilizzato, bellissimo. I vitelloni (1953) è in bianco e nero e mostra questi personaggi che bighellonano in città. Cosa puoi girare? In un film ambientato nel presente, la gente ha i cellulari e le cose succedono in fretta. Tutto questo cambia il ritmo della storia. Se il film è girato in un periodo storico precedente all’avvento degli smartphone, i personaggi non possono mandare sms: devono prendere un taxi e andare dall’altra parte della città. Un’ambientazione contemporanea va bene se si sposa con la tua storia, ma non è altrettanto affascinante e non offre la stessa quantità di stimoli visivi agli artisti.» Mentre Woody scriveva la sceneggiatura, aveva in mente Colin Firth per il personaggio di Stanley, il mago. Non si erano mai incontrati, quindi si era convinto che fosse l’attore giusto basandosi soltanto su come l’aveva visto recitare sul grande schermo, soprattutto nel Discorso del re (2010). Non era sicuro che i molti impegni di Firth gli avrebbero permesso di prendere parte al film, però, con grande sollievo di Woody, si è risolto tutto per il meglio. La prima scelta per il ruolo di Sophie, la veggente americana, era Emma Stone. Juliet Taylor aveva detto a Woody che non le veniva in mente nessuna attrice in grado di interpretare meglio la parte. Per fortuna Stone era a New York per le riprese di The Amazing Spider-Man 2 e ha potuto incontrare Woody nello studio dove lui monta e proietta i film. Taylor l’aveva avvisata che l’incontro poteva durare anche solo trenta secondi, giusto il tempo di mettere dentro la testa: la riunione serviva soltanto a fare in modo che Woody si facesse un’idea di lei.

«Vuole sincerarsi che tu non sia incredibilmente brutta di persona», ha commentato Stone, divertita, in un secondo momento. «In quello studio la luce è molto bassa, quindi una volta che Woody mi ha guardato bene si è accorto che sono effettivamente brutta forte, ma Darius [Khondji, il direttore della fotografia] è un vero genio. Mia madre mi ha accompagnato in quel labirinto. Ha guardato il telefono quando siamo uscite dallo studio: l’incontro era durato quattro minuti! In effetti il mio amico Jesse Eisenberg aveva avuto un colloquio di quindici minuti, che pare sia il più lungo della storia. Jesse e Woody hanno parecchio in comune.» Eisenberg ha interpretato un ruolo di primo piano in To Rome with Love (2012) e in Café Society (2016). A Woody, Emma è piaciuta subito, e le ha chiesto di tornare quando avesse avuto tempo di leggere la sceneggiatura nel suo ufficio. Dopo le riprese di Magic ha detto di lei, «Mi è sembrata la sosia perfetta di Esther Williams, e ci sono stati momenti, non si vede tanto facilmente, in cui assomigliava a Jodie Foster, e poi – non si vede facilmente nemmeno questo – ci sono stati momenti in cui assomigliava ad Alfa Alfa [il ragazzino alto e lentigginoso della serie di cortometraggi comici anni trenta Simpatiche canaglie]. Voglio dire, Emma ha un aspetto fisico molto versatile. Va al di là della semplice bellezza». A volte gli sembrava che Colin Firth assomigliasse a Bob Hope: «La bocca, gli occhi e il naso. Io lo noto tanto. L’ho visto quando ho girato con lui. Ho pensato, “Mio Dio, è molto divertente, chi mi ricorda? Sì, Bob Hope». Hope ha avuto un’enorme influenza su Woody, e le sue interpretazioni in molti dei suoi film si rifanno al personaggio comico tenuto a battesimo da Hope – un donnaiolo tanto sbruffone quanto codardo – soprattutto in film come Monsieur Beaucaire (1946) e La grande notte di Casanova (1954). Nel Dormiglione, ad esempio, Woody e Diane Keaton, travestiti da dottori, cercano di rapire quello che rimane del tirannico Leader – il suo naso – dall’ospedale dove sta per essere

clonato a partire dal Dna del Leader stesso. Mentre corrono lungo i corridoi in cerca della sala operatoria, Miles (Woody) dice a Luna (Keaton), mentre le prende la mano e se la porta alla bocca, «In queste situazioni non c’è che il sangue freddo». «Miles», risponde lei, «mi mangi le unghie.» «Perché sei tesa», dice lui. Quando incontrano delle guardie sospettose, Miles si ricompone, più o meno, dà un colpetto sul torace di una delle guardie e dice, con una classica spacconata in stile Bob Hope, «Siamo qui per il naso. Sembra che goccioli». Per contrasto, il regista che più ha influenzato Woody è Ingmar Bergman. Un comico americano e uno svedese in apparenza cupo possono sembrare una strana combinazione, ma Bergman ha dato ai film di Woody molta della loro sensibilità. Nel 1953, quando aveva diciassette anni, Woody portò la sua ragazza a vedere Una vampata d’amore. «Ero incollato alla poltrona. Pensavo, “Chi ha fatto questo film?”.» Quattro anni dopo, la coppia andò al Fifth Avenue Cinema del Greenwich Village a vedere Il settimo sigillo e Il posto delle fragole (entrambi realizzati nel 1957). Per Woody l’esperienza segnò una profonda trasformazione. «Dalla prima scena del Posto delle fragole, io ero quasi ipnotizzato. La tensione mi ha preso e non mi ha lasciato più. E quando ho visto Il settimo sigillo mi è sembrato finalmente tutto chiaro – la fotografia netta, l’uomo sulla spiaggia, e poi la comparsa della figura della morte. Ero catturato dal film, che entrava in risonanza con tutte le mie ossessioni e preoccupazioni; con tutte le cose a cui pensavo e che mi interessavano sul piano intellettuale ed emotivo, e per me ha avuto un significato enorme. Era una storia raccontata con grande immaginazione, interpretazioni magnifiche e meravigliosi movimenti di macchina. Bergman era uno splendido mago che mi raccontava storie.»

Woody considera ancora Bergman «il miglior regista che io abbia mai visto». E in verità la sua ambizione all’inizio della carriera era di diventare un drammaturgo, non un comico; vedeva la commedia come un mezzo per raggiungere il vero obiettivo, anche se la strada sarebbe stata lunga. «Come chiunque stia cominciando, io ero il prodotto delle mie influenze, solo che le mie influenze erano opposte e contraddittorie. Dico sempre che non sono né carne né pesce: non sono abbastanza artista né abbastanza commerciale. A un primo sguardo posso sembrare un intellettuale perché porto gli occhiali. Ma per gli intellettuali non mi considerano uno di loro.» A un certo punto degli anni ottanta, Bergman invitò a cena Woody nella suite d’albergo dove alloggiava a New York. Woody prova sempre diffidenza all’idea di incontrare i suoi miti, per paura che si rivelino non all’altezza della loro opera, ma per lui la serata fu «una bella sorpresa. Bergman non era per niente come lo si poteva immaginare: non era un formidabile genio cupo e spaventoso. Era un uomo come tanti, caloroso, divertente e perfino insicuro dei suoi enormi talenti. Ci lamentammo insieme degli incassi deludenti, dei problemi con le donne e del dover gestire il rapporto con i produttori». Da quell’incontro nacque un’amicizia che prevedeva molte lunghe telefonate tra Manhattan e l’isola di Fårö, sul mar Baltico, dove Bergman risiedeva. Woody fu invitato a raggiungerlo per una visita, ma «non amavo volare, e l’idea di raggiungere un puntino di terra vicino alla Russia con una specie di aeroplanino giocattolo, per quello che mi immaginavo sarebbe stato un pranzo a base di yogurt, non mi entusiasmava», ha detto Woody dopo la morte di Bergman nel 2007. «Il mondo lo considerava un genio, e lui si preoccupava degli incassi del weekend. Parlava in maniera semplice, informale, non si lasciava andare a grandi dichiarazioni sul senso della vita. [Il suo operatore di lunga data] Sven Nykvist mi ha raccontato che mentre giravano tutte quelle scene sulla

morte sparavano battute a raffica e spettegolavano sulla vita sessuale degli attori. Mi piaceva il suo atteggiamento: un film è solo un film, niente di trascendentale. Per lui il cinema era soltanto un gruppo di persone al lavoro. In parte mi sono ispirato a lui. A volte Bergman girava due o tre film in un anno. [Per un totale di sessantasette film nell’arco di sessantatré anni, compresi venticinque film per la tv. Inoltre diresse 171 tra opere teatrali e radiofoniche.] Lavorava a un ritmo molto rapido; girava sette-otto pagine di sceneggiatura alla volta. Non avevano i soldi per fare altrimenti. Credo che i suoi film saranno sempre attuali perché affrontano le difficoltà delle relazioni interpersonali, l’assenza di comunicazione, le aspirazioni religiose e la mortalità: tutte tematiche esistenziali che saranno ancora importanti tra mille anni. Quando molti dei film che oggi hanno successo e fanno tendenza saranno stati ormai relegati a polverosi pezzi di antiquariato, i suoi saranno ancora freschi e godibili.» Un’altra influenza profonda sulla scrittura di Woody, di cui non si parla mai molto, è l’ha avuta il filosofo William Barrett, i cui libri sull’esistenzialismo, in particolare Irrational Man (1958), spiegavano questa corrente di pensiero esaminando le sue radici nella filosofia del passato, da sant’Agostino fino a Søren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e Jean-Paul Sartre, e anche attraverso i romanzi di Dostoevskij, Tolstoj, Joyce e Hemingway. Per citare lo stesso Barrett: «L’esistenzialismo, con maggiore o minore fortuna, ha cercato di riunire tutti gli elementi della realtà umana in un ritratto esaustivo dell’uomo», inclusa la nostra innata irrazionalità. Per un esistenzialista, un pensiero filosofico che non tiene in considerazione i nostri impulsi irrazionali non può dirsi completo. «L’esistenzialismo non è un funereo diletto ma una filosofia umanista dell’azione, dello sforzo, della lotta e della

solidarietà», scriveva Sartre in un saggio presente nella raccolta Abbiamo soltanto questa vita da vivere. «L’uomo deve creare la propria essenza: nel gettarsi nel mondo, soffrendo e lottando, definisce gradualmente chi sia quest’uomo prima di morire, o cosa sia l’umanità prima di scomparire.» E aggiungeva, in L’essere e il nulla: «La vita non ha alcun significato a priori… Tocca a voi darle un significato, e non c’è valore se non il significato che scegliete.» Tutto questo era un materiale molto potente per uno spiritoso ragazzo di ventitré anni che desiderava diventare un drammaturgo. Anche se venne bocciato alla New York University quando era ancora una matricola, lui e la sua prima moglie, Harlene Rosen, chiesero a un tutor della Columbia University di poter seguire privatamente un corso in quell’università, intitolato “Grandi libri”. Essendo un lettore forte e un autodidatta – ha studiato per conto proprio la poesia, la letteratura, l’arte e la musica – Woody spesso inserisce riferimenti letterari e artistici nei suoi film. La filosofia, specie l’esistenzialismo, lo interessava in modo particolare. I libri degli autori esistenzialisti diventarono una sorta di Bibbia per lui e per la sua piccola cerchia di amici che la pensavano allo stesso modo. L’esistenzialismo raggiunse la sua massima espressione negli anni seguenti alla seconda guerra mondiale, quando lo spettro di un’imminente catastrofe nucleare faceva parte della vita di tutti i giorni; avremmo potuto morire prima di capire il vero significato dell’essere vivi. Per Woody e i suoi amici, che non trovavano alcun conforto nella religione e quindi non avevano un potere superiore su cui ripiegare o al quale rendere conto per gesta anche atroci, che sarebbero comunque rimaste impunite, una vita basata sull’azione avrebbe dato un significato alla loro esistenza. Per citare Sartre, «Non c’è realtà che nell’azione». E un’azione poteva essere ancora più potente e liberatoria se era assurda e andava al di là dei vincoli sociali, come nel caso dell’omicidio

commesso da Raskol’nikov in Delitto e castigo o il comportamento di Meursault nello Straniero di Camus. La visione del mondo di Woody era stata plasmata anche da un’esperienza traumatica vissuta in tenera età. Quando era bambino – e si chiamava ancora Allan Konigsberg – fu affidato a una serie di donne poco istruite e non qualificate, che venivano pagate un tanto all’ora e di solito restavano in circolazione una o due settimane prima di andarsene o di essere licenziate. Quando Woody aveva tre anni, la tata di turno si avvicinò al suo letto, gli coprì il viso con il lenzuolo, lo avvolse in un fagotto talmente stretto da non permettergli di respirare, e gli disse: «Lo vedi, adesso potrei soffocarti e buttarti nella spazzatura, e nessuno si accorgerebbe della tua mancanza». Poi lo liberò. Woody conserva ancora parecchi ricordi di se stesso a sei o otto anni, sdraiato a letto nel buio, consapevole che un giorno sarebbe morto e che quella sarebbe stata la fine di tutto. La sensazione che siamo tutti appesi a un filo non l’ha mai abbandonato. Diviso tra le intuizioni tipiche di un comico e un desiderio da drammaturgo di affrontare le idee più sostanziose sulla vita e sulla morte, sull’amore e sullo scopo ultimo, Woody incorporò nei suoi monologhi comici la sua visione della vita come priva di senso. «Ho dato un esame sull’esistenzialismo», diceva sempre. «Ho lasciato il foglio in bianco e ho preso il massimo dei voti.» In un altro monologo diceva, rivolto al pubblico, «All’università ho seguito tutti i corsi di filosofia astratta, come Verità e Bellezza, Verità e Bellezza II, Verità intermedia, Introduzione a Dio, e ABC della Morte. Mi hanno buttato fuori dalla New York University al primo anno. Ho imbrogliato all’esame finale di Metafisica. Ho guardato dentro l’anima dello studente che mi sedeva accanto.» Nel suo racconto Mr Big, apparso sul “New Yorker”, un investigatore privato viene ingaggiato per trovare Dio, ma

scopre che Dio è stato ucciso da un esistenzialista. L’assurdità può avere un effetto rigenerante. A volte un gesto assurdo è l’unica via di fuga. La domanda su cui Woody riflette da sempre è se la vita valga la pena di essere vissuta, e perché. Quando stava realizzando Crimini e misfatti ha detto: «Una cosa che mi affascina e ho trattato in altri dei miei film è la crisi di Tolstoj: lui arrivò a un punto della sua vita in cui non riusciva a capire perché non avrebbe dovuto suicidarsi. Vale la pena di vivere in un mondo senza Dio? La testa ci dice di no, ma il cuore ha troppa paura di compiere l’azione finale». Una variante comica, seppur in parte seria, di questa crisi viene affrontata da Mickey, il personaggio interpretato da Woody in Hannah e le sue sorelle. In una scena di The Boston Story il professore, citando Kierkegaard, dice ai suoi studenti, «Okay, Kierkegaard. Quando prendiamo decisioni di ogni giorno, abbiamo un’assoluta libertà di scelta. Tipo, non fare niente o qualunque cosa, e questa sensazione di libertà crea un senso di terrore – una vertigine – “l’ansia è la vertigine della libertà”». (A ben vedere, invece di uccidere il giudice, il professore avrebbe anche potuto aiutare se stesso – anche se non la sceneggiatura del film – ricordandosi una frase tratta da Herzog di Saul Bellow: «Un pensiero omicida al giorno leva lo psichiatra di torno».) Dopo aver scelto di girare Magic in the Moonlight, Woody disse che The Boston Story era un ottimo candidato a diventare il suo film del 2014, ma poi l’ha rimesso nel cassetto e per un po’ di tempo se n’è dimenticato. Voleva scrivere una commedia basata su due personaggi principali, da interpretare in coppia con Louis C.K., di cui aveva ammirato molto le doti attoriali sul set di Blue Jasmine, però non riusciva a trovare un’idea abbastanza buona.

«Preferirei fare una commedia, ma non ne ho trovata ancora nessuna che sia divertente e abbia un certo spessore», disse mentre rifletteva sul suo prossimo progetto. Soprattutto non voleva girare la solita storia al solito modo. «Mi piacerebbe fare un film diverso, ma nel cinema non c’è rimasto niente che sia ancora diverso: né in termini di storia né di modalità di presentazione della stessa. Orson Welles aveva fatto qualcosa di diverso quando in Quarto potere aveva utilizzato una messa in scena tanto stilizzata, e poi, anni dopo, Jean-Luc Godard aveva dato al suo film quel taglio brusco, quello profondamente diverso [in Fino all’ultimo respiro (1960), con le riprese a mano]. Io ho usato lo stile del documentario, prima in una maniera un po’ rozza con Prendi i soldi e scappa. Poi anche altri hanno cominciato a girare in forma di documentario. Ho usato quello stile in un altro modo con Zelig, che era un buon documentario. Ogni tanto qualcuno riesce ancora a fare qualcosa di insolito, particolare. La vita di Adele [Abdellatif Kechiche, 2013] è un film fatto quasi solo di dialoghi in primo piano, ma non dà fastidio. Il film è interessante perché quei primi piani sono interessanti. Bergman ha fatto un film sistemando in un punto fisso la macchina da presa [Come in uno specchio, 1961], con i personaggi che entravano e uscivano dall’inquadratura. Ma la verità è questa: se ti viene un’idea, è il contenuto che detta la forma, e il contenuto detta quasi sempre una forma ragionevolmente realistica. Magari può essere stilizzata come le riprese di Scorsese o Godard, ma di base quello che loro fanno è mantenere un certo realismo fondamentale rispetto alle storie, anche se per raccontarle usano un gran numero di espedienti e di trucchi cinematografici.» E così Woody ha ricominciato a pensare a The Boston Story. «Trovare la maniera diversa di filmare una storia ti offre una bella base da cui partire», ha detto. «Alcune storie si possono raccontare come se fossero documentari, oppure in bianco e nero, oppure cambiando l’ordine cronologico delle singole

scene, ma nella maggior parte dei casi vengono raccontate nel modo più tradizionale. Al centro di The Boston Story c’è una bella idea, con un certo spessore intellettuale, che si presta a diventare qualcosa di piacevole da guardare sul grande schermo. Non ci sono soltanto due persone che parlano in una stanza. Succedono parecchie cose. «È difficilissimo ideare una grande commedia. Quelle di Shakespeare secondo me non sono divertenti. La cosa bella di quei testi è il linguaggio. Ma le trame restano sempre stupide, e a me non fanno mai ridere, indipendentemente dagli attori che le interpretano. Molière, uhhh… [ridacchia]. Pigmalione è una grande commedia; la più grande, a mio avviso. Alla gente di solito piace L’importanza di chiamarsi Ernesto, però a me non piace. I film dei fratelli Marx sono esilaranti, come lo sono quelli di W.C. Fields, ma sono anche semplici trasposizioni dei loro sketch teatrali; se togli gli attori, non resta più nulla. Mi piace Nata ieri, ma non è che una rilettura di Pigmalione.» Woody era preoccupato per Magic in the Moonlight, che sarebbe stato distribuito alcuni mesi più tardi. Sentiva che era un film piacevole ma troppo debole. Parte del problema stava nel fatto che il film usciva subito dopo Blue Jasmine. «Hai sempre dei problemi col film che segue un film di grande successo. Io e Annie fu un successone. Poi io ho deciso di fare Interiors [1978], e sì, era molto diverso, certo, ma uscire dopo Io e Annie era rischioso. Così come uscire dopo Manhattan [Stardust Memories, 1980]. La gente guarda Blue Jasmine, e ci trova un bel po’ di spessore, un tono molto più serio, la grande interpretazione di Cate. Le aspettative sono molto alte, e la gente vuole che siano appagate. E uno poi se ne esce con un filmetto romantico ambientato nel sud della Francia. Già mi immagino la gente che dice, “Be’, lo sai, è una cosetta da poco. Non è mica come Blue Jasmine. Quello sì che era un vero film.”

Woody, naturalmente, ha fatto parecchi film innovativi, a cominciare da Prendi i soldi e scappa, la prima commedia girata alla maniera di un documentario, con spezzoni di cinegiornali e fotografie intervallate alle scene. «All’epoca ero molto influenzato da Quarto potere», dice Woody, riferendosi al falso documentario di Orson Welles. «Quando sono diventato un regista più esperto e ho fatto Zelig, Vincent Canby, il critico del “New York Times”, ora scomparso, ha paragonato il film a Quarto Potere, per certi aspetti, anche se io da parte mia non faccio alcun paragone in termini di qualità o di importanza.» Quel film ha avuto un notevole effetto anche al di là dello specifico cinematografico: “Zelig” è diventato il termine con cui oggi si definisce un personaggio onnipresente, che si adatta a ogni situazione come un camaleonte. «E il merito va ai creatori di Quarto potere», dice Woody. Quando arrivò sul grande schermo, Io e Annie era una commedia romantica molto originale: il personaggio di Alvy si rivolgeva al pubblico, si interrompeva per poi ricominciare, e rivedeva parti della sua infanzia in flashback che potevano osservare anche i suoi amici Annie e Rob. Zelig, con un tocco magistrale, inseriva il suo protagonista in vari cinegiornali del passato. Nella Rosa purpurea del Cairo, il personaggio di un film e l’attore che lo interpreta si contendono le attenzioni di una donna presente nel pubblico. Ma Woody, ora, vorrebbe tanto riuscire a fare qualcosa di nuovo un’altra volta. «Negli ultimi dieci anni ho lavorato in chiave molto realistica – con “realistica” intendo molto spontanea – e vorrei riuscire a inventarmi qualcosa che abbia stile, per dare un contributo al cinema. Ma non è una cosa che puoi decidere di fare a tavolino, devi davvero sentire un legame tra lo stile e il materiale di cui disponi.» Quando ha girato Mariti e mogli (1995), voleva «trasgredire tutte le piccole formalità del cinema, ideate per compiacere il pubblico: avevo personaggi che guardavano nella stessa direzione, staccavo con un taglio di montaggio quando decidevo io, non facevo niente per

rispettare quell’etichetta che ci viene insegnata quando facciamo un film». In To Rome with Love, il personaggio di Alec Baldwin parla spesso con quello di Jesse Eisenberg – in una stanza, in macchina, lungo la strada – e quest’ultimo è l’unico che riesce a vedere o a sentire Baldwin. Per quanto Woody desideri girare un film con qualcosa di “diverso”, quando gli viene un’idea simile, dice, pensa sempre, “Non rovinarla scrivendo personaggi che parlano rivolti al pubblico, perché così facendo si aumenta la distanza tra te e la realtà del film”. Secondo lui, soltanto pochi dei suoi film sono davvero diventati come se li immaginava. Ha cose belle da dire riguardo Match Point, Mariti e mogli, Vicky Cristina Barcelona, Midnight in Paris, Café Society, Broadway Danny Rose e La rosa purpurea del Cairo. Un film come Stardust Memories (1980) sta appena un gradino più in basso, anche se quando Woody l’ha girato era il suo preferito. Misterioso omicidio a Manhattan (1993), aggiunge, è un altro dei suoi preferiti. «Mi ero molto ispirato ai gialli che guardavo quando ero ragazzo.» Gli scambi di battute tra Woody e Diane Keaton, che nel film sono marito e moglie, ricorda molto quelli tra William Powell e Myrna Loy nell’Uomo ombra (1934), ma soprattutto quelli delle commedie di Bob Hope. «Soprattutto», dice Woody, «quando io e Keaton siamo nella stanza d’albergo, a controllare il posto dove avevamo visto il cadavere, e la porta si apre ed entra la donna delle pulizie. Prova a guardare quella scena subito dopo aver visto i primi minuti della Mia brunetta preferita [1947], fino al momento in cui la governante di Bob Hope, Mabel, esce dall’ascensore. Noterai che il mio è stato un furto spudorato. Ho ripreso tante cose di Bob Hope in quel film.» Ma la lista si ferma qui, e, immancabilmente Woody tende a sottolineare gli aspetti dove è più carente. Si considera un regista capace, ma come sceneggiatore non si sente all’altezza: «Per me, il punto debole è sempre stata la scrittura. So dirigere una scena, so ottenere

una buona interpretazione da un attore, so fare delle inquadrature gradevoli. Non è tanto difficile: non è nemmeno tanto facile, ma non è così difficile. Un sacco di gente ci riesce. Ma vorrei saper scrivere meglio». Nella sua recensione di Broadway Danny Rose (1984) apparsa sul “New York Times”, Vincent Canby definiva Woody «l’autore più genuino, più serio e più costante che abbiamo in America»: un regista i cui film sono l’espressione di uno stile e di una visione del mondo profondamente originale. La teoria dell’autore, o “politica degli autori”, venne formulata per la prima volta verso la metà degli anni cinquanta da François Truffaut e altri giovani critici francesi. Questo gruppo promuoveva i film di alcuni registi, tra cui Alfred Hitchcock, Jean Renoir, Erich von Stroheim, Howard Hawks, Nicholas Ray e Stanley Kubrick. Woody è consapevole che spesso gli viene attribuita l’etichetta di “autore”, ma lui non ci si sente a proprio agio, a meno che non possa precisare alcune cose. «Certo, potrei essere considerato un autore, ma questo non significa che io sia un grandissimo regista o un bravo autore. Per me un autore è soltanto una persona che presenta film suoi. È una categoria del fare cinema. Io non considero un autore superiore a un ottimo regista. Voglio dire, [Elia] Kazan non sarà un autore, ma è davvero un grande regista. Esistono grandi autori come ne esistono di mediocri, o di scadenti. «Una volta ho parlato con [Michelangelo] Antonioni mentre eravamo a cena da Elaine’s.» Quando? «Quando era vivo», precisa Woody, ridendo. (Antonioni è morto nel 2007.) I due si erano conosciuti tramite Carlo Di Palma, che è stato il direttore della fotografia per diversi film di Antonioni, compreso Blow-Up (1966), e per dodici film di Woody realizzati tra il 1986 e il 1997. «Lui stava cercando uno sceneggiatore per un progetto e io gli ho suggerito Joan Didion. Pensavo che il loro sarebbe stato un incontro tra grandi intelligenze. Se sei un regista dallo stile così marcato e collabori con uno scrittore e partecipi alla stesura della

sceneggiatura, è un conto. Altrimenti mi viene difficile immaginare che se non sei tu a scrivere la sceneggiatura, se la fai scrivere a un altro o adatti il libro di un altro, tu possa essere considerato un “autore”.» Certo, ci sono delle eccezioni. «Hitchcock sceglieva progetti che avevano un punto di vista hitchcockiano e che si rivelavano immancabilmente come film di Hitchcock. Continuava a interessargli lo stesso soggetto; aveva uno stile tagliente e una visione del mondo tutta sua. Ci sono registi che hanno un enorme senso dello stile. Scorsese, ad esempio, ha uno stile fantastico. Qualsiasi materiale su cui lavora diventa un film di Martin Scorsese, la sua voce individuale e creativa si impone sul materiale. Oliver Stone ha uno stile inconfondibile. Per come la vedo io, puoi avere un grande stile ed essere un ottimo regista, ma per essere un autore devi presentare al pubblico materiale scritto da te. Non è soltanto una questione di stile. Mel Brooks è un “autore”, ma non è un regista bravo quanto Martin Scorsese». Si può parlare di autori, ma non di uno “stile autoriale”. I film degli autori possono essere ricchissimi di dialoghi come possono essere quasi muti. Parlando di Akira Kurosawa, Woody dice, «Rashomon è un capolavoro sotto ogni punto di vista: il modo in cui lui ha scelto di raccontare la storia, il modo in cui l’ha girata, il modo in cui gli attori l’hanno interpretata, il modo in cui è stata montata. La scena della ragazza che attraversa la foresta a cavallo avrebbe potuto realizzarla qualsiasi altro regista, ma il modo in cui l’ha realizzata lui – la musica, la luce che si intravede tra gli alberi, il montaggio – è magico. Kurosawa e Bergman usano il cinema più come mezzo fotografico che verbale: suscitano emozioni attraverso le immagini in movimento. Sussurri e grida è un film ipnotico. I personaggi si muovono in maniera stilizzata: gli orologi ticchettano, le persone girano per casa, il marito e la moglie si mettono a tavola per la cena e nessuno dice nulla, ma la tensione è insopportabile. Poi la moglie si alza, va nell’altra stanza e si ferisce. Questi registi usano il

film per creare emozioni. Un altro capolavoro come La regola del gioco [Jean Renoir, 1939] funziona in modo opposto. È tutto molto verbale; si mettono in scena le convenzioni sociali, e i personaggi si comportano in maniere altamente intellettuali, cerebrali. «Non esistono regole, quindi. Un ottimo film può essere tutto dialoghi come The Dead – Gente di Dublino [1987] di [John] Huston oppure Il falcone maltese [1941], ma può anche essere asciutto come Il settimo sigillo. Non ha importanza. Quello che conta è l’effetto finale, come nei numeri di magia. Magari qualcuno sa fare un trucco che ti lascia sbalordito perché quella persona è particolarmente scaltra di mano. Qualcun altro invece userà un compare, uno che dirà, “Hai proprio ragione, avevo pescato il sette di picche”, e riuscirà ad affascinare comunque il pubblico perché la tecnica è irrilevante; la cosa importante è l’effetto sullo spettatore, e lo stesso vale per i film. Il pubblico guarda La grande illusione [1937] di Jean Renoir e ne viene rapito perché il film è pieno di conflitti tra i personaggi che vengono portati avanti tramite i dialoghi. Bergman ottiene lo stesso effetto con Il settimo sigillo o Il posto delle fragole; e così fa un regista come Fellini, che gira un film con un’enorme tecnica cinematografica e un’audacia clamorosa. Quarto potere ha lo stile pirotecnico di Orson Welles, ma si potrebbe anche dire che quello stile mette distanza tra il film e il pubblico. In alcuni film di Fellini si ammira la tecnica, certo, ma la storia ti cattura quanto succede con L’invasione degli ultracorpi [1956] di Don Siegel? Quello è un modo molto pratico di fare cinema. Inquadrature semplici che ti tengono col fiato sospeso dall’inizio alla fine. «Conta quello che il regista vede e sente dentro di sé. Nel jazz, i musicisti suonano quello che sentono nella loro testa. Ecco perché un musicista produrrà suoni di una bellezza incredibile, mentre un altro farà un’esibizione professionale, ma meno bella. Se prendi il copione di Quarto potere e lo dai a

William Wyler, a Jean-Luc Godard e a Orson Welles, otterrai tre film diversi. Da una sceneggiatura buona ma semplice come quella, i bravi registi tireranno fuori film interessanti, cosa che non accadrà con i registi di minore talento». Woody non è arrivato a nulla dopo aver pensato molto a varie idee che poteva realizzare insieme a Louis C.K., e dopo un’altra falsa partenza, il fascino di The Boston Story è aumentato ai suoi occhi. È tornato al suo cassetto, ha esaminato le sue idee e si è chiesto se c’era qualcosa che bruciasse dalla voglia di fare. Si era detto che prima o poi avrebbe riletto The Boston Story: solo, non pensava sarebbe accaduto tanto presto come nel gennaio 2014. Ma quando ha terminato la rilettura, con sua grande sorpresa, ha detto, «Ehi, questa non è male. C’è una buona storia e i personaggi sono effettivamente interessanti. Forse non avrei dovuto abbandonarla». Allora l’ha usata come rete di salvataggio durante il mese in cui si è gettato a capofitto in altre vecchie idee, due delle quali lo convincevano abbastanza. (Una di queste, una rielaborazione più divertente e vivace della sua pièce teatrale del 2004 A Second Hand Memory, è diventata il film Café Society.) Ma The Boston Story lo attirava di più. Woody lo trovava «più solido. Continuavo a pensare, “Non puoi permetterti di lasciartelo sfuggire”. Ora, potrei pentirmi di aver pensato in questi termini, magari in un secondo momento penserò, “Oddio, in realtà avresti proprio dovuto lasciartela sfuggire, è imbarazzante”. Ma lì per lì ho pensato che c’era un ottimo ruolo per un attore. E mentre lavoravo sui miei appunti e aggiungevo varie cose, il ruolo della ragazza cresceva, almeno così mi sembrava. A quel punto ho pensato, “Ci sono un paio di ottimi ruoli qui”». Poi c’è stato anche un altro ruolo femminile che è cresciuto, una professoressa dell’università, e così Woody si è ritrovato un film più complesso e molto promettente. Ma ci doveva ancora lavorare sopra: «È dieci volte più lungo di quanto dovrebbe; tre scene di seguito sono

ambientate in interni durante la notte; ci sono troppe cose da spiegare; non è abbastanza convincente. Ho corretto tutto quanto. Ma poi ho visto che le mie correzioni non erano ancora abbastanza buone». Woody si è sistemato sul letto con la copia della sceneggiatura ribattuta al computer con le nuove correzioni a mano inserite. Mentre la riesaminava, gli sembrava che alcune parti «non fossero credibili». Faceva fatica a pensare che il professore avrebbe agito in maniera così immediata e radicale come aveva scritto, quindi ha allungato i tempi della depressione del personaggio e la sua indifferenza riguardo alla vita, scrivendo diverse scene in più, tutte collocate cronologicamente prima che il professore decida di uccidere il giudice, per rendere meno brusco il cambiamento del personaggio da apatico a pieno di vita in seguito a questa sua decisione. Woody ha anche capito che l’idea di avere il professore come unico narratore della storia non avrebbe funzionato: per aumentare la complessità della sceneggiatura, ha affidato una parte della narrazione alla studentessa che diventa amica del professore. A Woody piace usare le voci fuori campo nei suoi film, perché così il pubblico può ascoltare i pensieri dei personaggi. Ha anche cercato di guardarsi dal «cadere negli errori in cui cado sempre»: discorsi interminabili che andranno tagliati a metà in sede di montaggio; scene troppo lunghe. Quando inizia un film, dice, «Io penso, “Se riesco a mantenere brevi le scene” – schiocca le dita diverse volte – “nei primi quattro o cinque minuti, mi faccio un gran favore”. Se il film si muove così – bang bang bang – ti risucchia dentro il suo mondo. Ma se nei primi cinque minuti le scene sono più lunghe, è una noia. Ho riletto il copione cercando di eliminare o accorciare i dialoghi senza sacrificare le idee che ne erano alla alla base, e cercando di capire dove ambientare le scene. Sto sdraiato sul materasso e immagino, “Dove posso collocare questa scena? Al minigolf? Su una giostra?”. Ora, io posso andarmene a

Boston, o dovunque decidiamo di girare, e dire, “Guarda un po’, qui c’è un posto dove tutti quanti di pomeriggio se ne vanno in mongolfiera”. E poi penso…», scoppia a ridere, «… Be’, non ho intenzione di girare quello né niente di simile a quello…». La sceneggiatura revisionata gli sembrava buona: «Così funziona». Ma l’aveva scritta un anno prima – ora l’aveva rielaborata – quindi sperava che le prime versioni non l’avessero accecato a un punto tale da avergli fatto perdere di vista possibili alternative migliori. «Sto cercando di fare in modo che il professore sia un tipo irresistibile per le donne; molto intelligente e tormentato. Ma poi ti viene il dubbio, “E se non fosse un professore universitario? E se fosse un pubblicitario, o magari un disoccupato? E se con lui non ci fosse una ragazza più giovane, ma a qualcun altro?”. Ci sono scelte che non ho fatto e che avrebbero potuto rivelarsi migliori di quelle che ho fatto, ma forse è già troppo tardi, perché certe cose ti restano impresse nella psiche.» Woody ha accorciato scene che sentiva troppo lunghe; ha semplificato – o tolto – alcune parti della storia troppo difficili da spiegare; per quanto riguarda le tre scene di seguito ambientate in un interno, ha spostato in esterni una parte dell’azione. E poi, «ho cercato di sviluppare un po’ di più il personaggio della donna matura [Rita, una docente di chimica che desidera una vita più eccitante rispetto a quella con suo marito], ma non ho trovato una maniera soddisfacente di uccidere il giudice. Le cose difficili da farsi venire in mente sono quelle grandi idee sul come commettere un omicidio e poi un altro in modo che sembrino incidenti. Non voglio assassinare il giudice a colpi di pistola e sicuramente non a coltellate. Per sparare non serve una particolare intelligenza. E poi, il professore vuole farlo sembrare un malore. Allora decide di avvelenarlo, ma la maniera di mettere il veleno in una bevanda mi sembra ancora un tantino artificiale. Proprio non so come altro compierlo, a

parte far mettere il veleno in quello che sta bevendo il giudice, a sua insaputa. «La migliore idea in assoluto è già stata messa in scena: l’avvelenamento graduale in Notorious [1946]. Quella è una trovata incredibile, ma che, ovviamente, va presa nel contesto di quella che Hitchcock avrebbe chiamato “una fetta di torta”. In un film realistico, invece, se avveleni qualcuno giorno dopo giorno, questo andrebbe subito da un medico che sarebbe in grado di diagnosticargli cosa sta succedendo. In quel film, la protagonista veniva tenuta in una casa da cui non se ne poteva andare, e il dottore era un nazista complice del disegno criminale. Era tutto poco realistico, ma completamente credibile nel contesto in cui Hitchcock ti ha calato fin dall’inizio, e tu sei felice di rimanerci dentro, perché lui è un regista pazzesco. Ma nella vita vera…», qui Woody si interrompe, «… vorrei che ci fosse una maniera più spettacolare di commettere un omicidio, perché è pur sempre un film». Hitchcock padroneggiava la suspense in maniera tale da tenere aperta ogni strada. In Notorious sappiamo da subito che Ingrid Bergman sta subendo un avvelenamento graduale e i nostri timori dipendono dalle sue possibilità di salvarsi, mentre nel Sospetto (1941) possiamo solo domandarci, con ansia crescente, se Cary Grant abbia messo o no del veleno nel bicchiere di latte che porta a Joan Fontaine al piano di sopra. La colpa, reale o presunta, è uno dei marchi di fabbrica del cinema di Hitchcock, e la suspense sta nello scoprire quale sia la verità. Durante i mesi in cui Woody rifletteva sul modo migliore di scrivere un secondo, spettacolare omicidio, sosteneva di ritornare sempre sull’idea di una colluttazione accanto a una tromba dell’ascensore vuota. «Io penso, “Be’, prendiamo L’ombra del dubbio (1943), il grande film di Hitchcock. Joseph Cotten lotta con Teresa Wright su un treno, poi lui cade giù. In quel caso c’era l’aspetto visivo del treno a rafforzare l’effetto”.» Gli sono venute un paio di idee su come dare un

finale ironico alla sua scena, senza rinunciare all’ascensore. «Il professore non può avvelenare di nuovo qualcuno, perché questa deve restare una scena autonoma. La persona potrebbe essere accoltellata, oppure potrebbe essere uccisa a colpi di arma da fuoco, ma questo andrebbe a creare un sacco di problemi. È meglio se rimane soltanto un incidente. Ma quanti tipi di incidenti ci sono, poi? Si può cadere da una finestra. O essere investiti da un’auto pirata, ma quello sarebbe rischioso, perché qualcuno potrebbe vedere la targa oppure la persona potrebbe anche non morire sul colpo. Mi serve un modo spettacolare per uccidere qualcuno ma che sembri davvero un incidente. Se un personaggio cade in una tromba dell’ascensore e atterra dieci piani più in basso, possiamo stare sicuri che è morto. Il pubblico potrebbe benissimo credere a una caduta mortale. Forse può esserci un cantiere aperto, o qualcosa di simile, e la persona ci passa accanto ogni giorno mentre torna a casa, ma ancora non so.» Woody ha avuto la stessa difficoltà quando ha scritto Misterioso omicidio a Manhattan. (L’omicidio che sta al cuore del film era già presente nella prima stesura di Io e Annie.) Lui ha «lottato e stravolto e manipolato le cose» finché non ha trovato un finale visivamente stimolante, in cui un assassino spara ai personaggi in una casa degli specchi collocata dietro lo schermo di un cinema dove stanno proiettando la scena della casa degli specchi nella Signora di Shanghai di Orson Welles. L’omicidio di Sogni e delitti si svolge di notte in un parco, e noi non vediamo né la sparatoria né il cadavere, come non vediamo i due brutali omicidi di Match Point; soltanto in Crimini e misfatti vediamo il corpo della donna, con gli occhi aperti e privi di vita, un filo di sangue sul suo maglione rosso, perché i suoi occhi rappresentano uno dei temi del film: Dio vede tutto, oppure è cieco?; in Café Society si vedono due sparatorie sanguinose. Woody non trova tanto interessanti le conseguenze fisiche di un omicidio, ma il semplice fatto che il

delitto venga commesso. Non c’è bisogno di mostrare i cadaveri. «La cosa importante non era l’omicidio né il sangue, quindi non ho sentito alcuna necessità di farvi vedere la scena degli spari», ha detto dopo Match Point. La stessa discrezione la riserva al sesso. In quel film, ad esempio, l’intensità erotica deriva dai due attori principali. Woody li ha «messi in situazioni che sono già sexy, in un certo senso; è più sexy Jonathan Rhys-Meyers che massaggia con l’olio la schiena di Scarlett Johansson, rispetto al vedere due persone che fanno l’amore, oppure anche quando lui la butta a terra [nell’erba alta] sotto la pioggia. C’è della sensualità senza mostrare il sesso vero e proprio. Rende l’idea. Ed è più divertente. Di sesso vero e proprio ne potete vedere quanto vi pare». Questo non significa che Woody non sia tentato da idee più cinematografiche per sbarazzarsi di un personaggio. Per Sogni e delitti aveva scritto un omicidio hitchcockiano, che avrebbe dovuto essere girato in un luna park sul molo di Brighton; la vittima si trova a testa in giù su una giostra quando viene colpita da un proiettile. All’inizio Woody credeva che sarebbe stato «un modo più scenografico di realizzare la scena. Ma quando ci ho pensato su bene, sembrava fin troppo scenografico in quel contesto. Tutto il resto del film era realistico». E nel caso di The Boston Story, per quanto lui poteva volere che il professore uccidesse il giudice con uno spettacolare omicidio hitchcockiano, gli serviva qualcosa di più sottile. Magic in the Moonlight pone una domanda: esiste un lato spirituale della vita? E se non c’è, a cosa possiamo aggrapparci? The Boston Story, tra le altre cose, ci pone la seguente domanda: si può giustificare un omicidio che elimina dalla società una persona malvagia? Indipendentemente dal tema specifico del film, Woody sa che ogni sua storia gira intorno a un dilemma morale – o intellettuale – che richiede un’argomentazione, cosa che lui trova fastidiosa. «La filosofia entra sempre nei miei film», dice parlando di The Boston

Story. «Il fatto che questo film abbia proprio un contenuto filosofico è…», si interrompe prima di dire, «…la morte. Terrà lontani gli spettatori. Se Hitchcock avesse in mano questa storia, il film sarebbe ricchissimo di suspense, e se ce l’avesse in mano Scorsese, lui metterebbe l’accento su qualche altro aspetto, ma sarebbe comunque entusiasmante. Non voglio che il mio film sia fatto di personaggi che si parlano in una stanza. Quindi ci sono scene dove i personaggi si parlano mentre passeggiano per il campus, o mentre stanno seduti in classe, o mentre vanno a prendersi un caffè dopo la lezione, e di scene così ce ne sono veramente tante.» Woody spera che la presenza di interrogativi morali sarà in grado di differenziare il film rispetto a un semplice thriller, nello stesso modo in cui Delitto e castigo e Macbeth sono sì storie incentrate su un omicidio, ma vanno anche al di là del puro intreccio giallo. «Il film sul tennis [Match Point] era qualcosa di più di un giallo», ha detto lui. «Non c’era soltanto l’omicidio: aveva una sua personalità, c’erano dei conflitti e delle idee. Quindi la mia speranza è di riuscire a fare lo stesso anche qui. Un film come Notorious non ha un contenuto intellettuale, però è un film bello come ne esistono davvero pochi.»

2 I soldi

Woody presenta al pubblico in media un film all’anno, da più di cinquant’anni: un risultato ancora più clamoroso se consideriamo che ha avuto il pieno controllo sulla sceneggiatura, sul casting e sul montaggio fin dal suo primo film, nel 1969, un privilegio di cui non gode nessun altro regista. Per conservare intatto il suo status quo è più che disponibile ad alzare la posta in gioco. Qualsiasi sforamento del budget viene ripagato con il denaro preso dal suo compenso e dalle quote che ha sul film come sceneggiatore e regista. La sua produzione ininterrotta di un film all’anno è il risultato di diversi fattori concomitanti. I suoi budget sono piccoli, rispetto agli standard di Hollywood, dove un film abitualmente costa decine e decine di milioni di dollari, e in parecchi casi arriva a costarne 150 (o molti di più), senza contare i costi di lancio. Prendi i soldi e scappa è costato 1,7 milioni di dollari; il costo di un film di Woody Allen oggi sta al di sotto dei venti milioni. I suoi primi trentotto film sono stati prodotti da grandi studios americani: la United Artists ne ha fatti otto, a partire dal Dittatore dello stato libero di Bananas; la Orion Pictures ha fatto i successivi undici. Poi la TriStar e la DreamWorks ne hanno fatti tre ciascuna, e la Miramax ne ha fatti quattro. Trovare i soldi è sempre stato quello che Woody definisce “una corsa”, ma nonostante tutto c’è sempre stato qualcuno che ha creduto nel suo lavoro e ha voluto finanziarlo. Il primo

è stato il leggendario (e oggi scomparso) Arthur Krim, che, insieme a Robert Benjamin, aveva riportato in vita la United Artists negli anni cinquanta e l’aveva trasformata in una potenza di Hollywood, gestita da David Picker, anche lui un estimatore di Woody; a Krim piaceva raccontare di essere entrato nell’industria cinematografica con Charlie Chaplin e che ne sarebbe uscito con Woody Allen. La United Artists sapeva offrire autonomia artistica e libertà creativa assieme a una percentuale su ogni dollaro che il film avesse guadagnato, più il pagamento per la scrittura, la direzione e la recitazione: condizioni di cui godeva solo un gruppo ristretto di registi. Quando Krim ed Eric Pleskow se ne andarono nel 1978 per fondare la Orion Pictures Corporation, quando la United Artists visse un momento di difficoltà, dopo che fu comprata dal gigante delle assicurazioni Transamerica, Woody si unì a loro appena terminò il suo contratto con la UA, e restò con la Orion fino alla sua chiusura nel 1999. Tra i suoi film realizzati in quel periodo ci sono grandi successi di critica e di pubblico: Manhattan (1980), Broadway Danny Rose (1984), Crimini e misfatti (1989), Hannah e le sue sorelle (1986), Radio Days (1987) e Pallottole su Broadway (1994). Ma c’è anche Ombre e nebbia (1991), che aveva un budget superiore ai quindici milioni di dollari e ne incassò meno di tre negli Stati Uniti. Nel 1991 la Orion si trovava in un momento di gravi difficoltà finanziarie, e il film uscì prima in Europa, distribuito dalla Columbia Pictures. Woody dice, «Quando ho fatto quel film sapevo che non l’avrebbe visto nessuno: un film in bianco e nero, una storiella esistenziale ambientata in una Germania degli anni venti ricostruita in un teatro di posa. Quando Eric Pleskow lo vide, commentò, “Devo dire, ogni volta che vengo a vedere uno dei tuoi film resto sempre sorpreso da quanto siano diversi l’uno dall’altro”. Stava cercando di farsi venire in mente qualcosa da dire mentre frugava con la mano in cerca della sua capsula di cianuro. Ma Ombre e nebbia io lo volevo fare, e speravo che l’avrebbero visto abbastanza persone da

non crearmi problemi con i produttori». I dirigenti della Orion non gli davano mai alcun problema, anche se non potevano fare a meno di sperare – in silenzio – che La rosa purpurea del Cairo avesse un finale più commerciale. Quello è uno dei film più surreali e più toccanti di Woody. Cecilia (Mia Farrow) fa la cameriera nella tavola calda di una cittadina americana durante gli anni della grande depressione. È sposata con un perdigiorno (Danny Aiello) che la maltratta e la tradisce, ed è una vorace consumatrice di riviste patinate, sa tutto sul conto sulla vita privata delle stelle di Hollywood, e passa il tempo libero vivendo di riflesso nel mondo immaginario dei film: torna più volte a vedere e rivedere la pellicola in cartellone per la settimana nel cinema della città. Mentre Cecilia sta guardando – di nuovo – La rosa purpurea del Cairo, in cui l’affascinante egittologo Tom Baxter (Jeff Daniels) viene condotto a New York da un gruppo di facoltosi e sofisticati americani, Tom di colpo interrompe la scena e si rivolge direttamente a lei. («Mio Dio, deve proprio piacerti questo film… Sei stata lì tutto il giorno, e ti avevo già visto altre due volte.» «Dici a me?» chiede Cecilia, guardando lo schermo. «Sì, a te, a te. Questa è la quinta volta che lo vedi.») Tom esce dal film, dallo schermo scende tra il pubblico, e presto lui e Cecilia si innamorano. («Ho appena incontrato un uomo stupendo», dice lei. «È immaginario, ma non si può mica avere tutto.») La cosa scatena lo scompiglio tra i frequentatori del cinema, che sono sconvolti da quanto è successo al personaggio di Tom Baxter. «Avevo già visto il film ieri l’altro, era un’altra cosa!» dice una donna. «Io voglio che nel film succeda quello che succedeva ieri l’altro, altrimenti che senso ha più la vita?» La decisione di Baxter getta nel panico i produttori del film, e anche Gil Shepherd (sempre Daniels), l’attore che lo interpreta, la cui carriera è messa in pericolo dalla fuga del suo imprevedibile personaggio. Spinto dal proprio istinto di sopravvivenza, Gil arriva in città, corteggia Cecilia e le propone di andare a vivere

a Hollywood con lui. Cecilia accetta, e questo costringe Tom a tornare dentro lo schermo. Ma appena Tom è di nuovo al suo posto, Gil, che si è salvato la carriera, se ne va in California senza nemmeno avvisare Cecilia. L’ultima scena vede la donna di nuovo seduta al cinema, intenta a guardare Cappello a cilindro (1935), persa nel mondo immaginario di Fred Astaire e Ginger Rogers che ballano sulle note di Cheek to Cheek. Nonostante il grande umorismo presente nel film, il finale era l’elemento a cui Woody voleva arrivare. A parte la trama originale, il suo messaggio – e il suo senso ultimo – è che la fantasia inevitabilmente soccombe alla realtà. Scegliendo Gil, Cecilia capisce di dover scegliere una persona in carne e ossa, cosa che per lei rappresenta un passo avanti, anche se la risoluzione la vedrà infelice. «La realtà ti schiaccia e ti delude», dice Woody. «Un finale allegro sarebbe stato solo molto banale. Per come la vedo io, la realtà è sempre un posto deprimente; ma non puoi mangiare cibo cinese da nessun’altra parte. Un dirigente della Orion mi ha chiamato dopo una proiezione tenuta a Boston e mi ha chiesto, “Quello è il finale definitivo?”. «“Oh, sì”, ho detto io. «“Okay”, ha risposto. Ma sono certo che sulla sua faccia ci fosse una smorfia di dolore.» Sia in Ombre e nebbia che nella Rosa purpurea del Cairo, Woody tende a scegliere una storia in grado di soddisfare una sua smania particolare. A volte, come gli è capitato dopo Manhattan, scopre che quel desiderio è stato appagato al punto che non sente più il bisogno di fare un film simile. Quando aveva cominciato la lavorazione di Manhattan, era determinato a mostrare New York come un «paese delle meraviglie». Pensa di esserci riuscito talmente bene che non sente più il bisogno di presentare la città «in quella maniera

marcatamente glamour. Adesso tendo a mostrarla con più discrezione. Ma questo è un aspetto secondario al film in sé». Il barocco Stardust Memories, con le sue scene quasi felliniane, soddisfa la stessa esigenza per quel tipo di film. Come diceva Eric Pleskow, i film di Woody sono talmente diversi tra di loro che i suoi finanziatori non sanno mai bene che cosa otterranno. Woody è disposto a dare loro un’idea generale di ciò che li aspetta, ma niente di più. Alcuni anni fa, racconta Woody, un potenziale nuovo sponsor gli ha scritto per dire «che capiva tutte le mie libertà e mi avrebbe dato una quantità X di dollari – anche un po’ misera – e in cambio mi chiedeva solo una sinossi di cinque pagine. E noi gli abbiamo mandato una mail con la risposta: io una sinossi di cinque pagine non la faccio nemmeno per me. Non faccio nemmeno una sinossi di una pagina, per me. A nessuno che abbia mai prodotto uno dei miei film ho mai dato più di tre o quattro righe in modo da calmare le loro peggiori paure – è a colori, l’ambientazione è contemporanea – perché nessuno vuole un film di Andrej Tarkovskij in bianco e nero ambientato nel Quattrocento. [Uno degli ultimi film più celebri del regista russo era Andrej Rublëv, 1966, protagonista l’omonimo pittore di icone attivo nella Russia del Quattrocento.] Quindi cerco di dare loro una vaga idea di quello che sto facendo, ma non voglio pormi dei limiti perché a volte mentre sto scrivendo è proprio quello che scrivo a suggerirmi un’idea diversa, e voglio poter essere libero di passare a quella. La cosa buffa in tutto questo è che per anni le persone si sono lamentate con me a proposito dei film in costume, e ogni volta che ne esce uno – Titanic, Braveheart, Via col vento oppure Il padrino – fanno tutti incassi da capogiro.» Ciononostante, «le persone con cui stringo accordi sono sempre contente», diceva dei suoi finanziatori nei tardi anni novanta. «Pagano una certa cifra per distribuire il film, quindi devono dire di essere contente, anche se di tanto in tanto non riescono a nascondere la delusione. Quando ho fatto il musical

[Tutti dicono I Love You], Harvey Weinstein [il capo della Miramax, la compagnia che aveva acquistato i diritti di distribuzione] era mortificato. Aveva pagato un sacco di soldi per quel film, e quando l’ha visto gli si è fermato il cuore. Di solito la gente riesce a nascondere la delusione, però [ride] Harvey stava singhiozzando». Un giorno del 2012, a San Francisco, quando niente sembrava andare per il verso giusto durante le riprese di una breve e in apparenza semplice scena in esterni di Blue Jasmine, Woody ha sussurrato: «Plettri per chitarre». Quando gli è stato ricordato che aveva temuto la stessa sorte per Un’altra donna, ha fatto un sorriso ironico e ha precisato, «Mi viene spesso questa sensazione a proposito dei miei film: si possono salvare soltanto tagliando a pezzi la pellicola e facendone plettri per chitarra, o per mandolino. Credo che probabilmente Harvey abbia ricavato così qualche soldo dal musical». Quando è cambiato il sistema di finanziamento da parte delle grandi major, nei primi anni duemila, Woody ha avuto accesso a finanziatori facenti parte di una piccola cerchia di Paesi esteri, spesso con la prospettiva di ottenere forti sgravi fiscali qualora avesse accettato di girare nei paesi in questione. Circa due terzi degli incassi delle opere più recenti di Woody arrivano da territori che non sono gli Stati Uniti, forse perché il suo lavoro ha una sensibilità europea che è il riflesso delle opere che lo hanno più influenzato nella sua giovinezza. Dice che i film con cui è cresciuto – quelli diretti da Bergman, Fellini, Truffaut, De Sica e Antonioni – «mi hanno lasciato un segno indelebile. I ragazzi che frequentavo a Brooklyn non erano intellettuali. Amavano lo sport e il jazz, giocavano nel cortile della scuola, andavano a zonzo e ci provavano con tutte le compagne di scuola. Eppure, i film che ci piacevano di più e che vedevamo più spesso erano quelli europei. Erano più intelligenti e più appassionanti perché non erano stupidi come tanti di quelli che arrivavano da Hollywood. Gli europei

lavoravano con maggiore libertà, e con molta più complessità. Quando eravamo adolescenti e guardavamo un film europeo, c’erano veri rapporti sessuali: non intendo scene di sesso esplicito, ma invece di vedere coppie sposate che dormivano in letti separati vedevamo cose normali, che non insultavano l’intelligenza umana. I film europei che venivano distribuiti in America erano sofisticati, adulti». Nonostante Woody preferisca l’Europa, a lungo è stato considerato il regista di New York per antonomasia: dei suoi primi trentaquattro film, trentadue sono stati girati (del tutto o in parte) in quella città. Ma tra il 2004 e il 2015 soltanto quattro dei suoi film sono stati girati negli Stati Uniti (Basta che funzioni a New York; Blue Jasmine a San Francisco e New York; The Boston Story nello stato di Rhode Island; e Café Society a New York e Los Angeles), mentre otto sono stati realizzati in Europa: Match Point, Scoop, Sogni e delitti e Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni a Londra; Midnight in Paris e Magic in the Moonlight in Francia; Vicky Cristina Barcelona in Spagna; e To Rome with Love in Italia. Alcuni fattori diversi, messi insieme, hanno reso un decennio di riprese tra l’Inghilterra e l’Europa un’alternativa più allettante rispetto a New York o a qualsiasi altra città americana. Dopo tanti anni, i film ambientati nelle stesse città tendono a sembrare un po’ tutti uguali, anche se le sceneggiature sono molto diverse tra loro. Woody ha usato come location praticamente ogni zona di Manhattan che fosse anche interessante sul piano delle immagini, quindi è sempre più complicato trovare luoghi nuovi che siano anche adatti alle sue storie. Inoltre, cambiare aria può avere un effetto vivificante. Ma la ragione principale è stata una: trovare i soldi alle condizioni che Woody impone stava diventando sempre più difficile. Per decenni le grandi case di produzione erano aziende per lo più indipendenti, erano state felici di finanziare i suoi progetti. Col passare del tempo, però, quelle sono diventate quasi tutte di proprietà di multinazionali che

pretendono un sempre maggior controllo sui loro investimenti. Quando nel 1968 i manager di Woody, Jack Rollins e Charles Joffe, negoziarono il suo primo contratto da sceneggiatore/regista/attore per Prendi i soldi e scappa, la Palomar Pictures chiese loro quali erano i termini per raggiungere un accordo. «Mettete due milioni di dollari in un sacchetto di carta, dateci il sacchetto, andate via, e noi vi porteremo un film», fu la risposta di Joffe. La richiesta venne esaudita, e Woody ha continuato così da allora. Il suo processo di allontanamento dagli studios americani è cominciato nel 1993. Jean Doumanian, che è stata la sua amica più cara per oltre trent’anni – si erano conosciuti quando Woody si esibiva a Chicago durante i suoi primi anni da cabarettista, andavano spesso a cena insieme, viaggiavano insieme, condividevano persino la segreteria telefonica –, e il suo compagno Jacqui Safra, un investitore svizzero, membro di una nota famiglia di banchieri, diventarono rispettivamente la sua produttrice e il suo finanziatore attraverso la loro compagnia privata, la Sweetland Films. I due film precedenti di Woody, Misterioso omicidio a Manhattan e Mariti e mogli, erano stati finanziati dalla TriStar. Venne firmato un contratto per tre progetti (Pallottole su Broadway, La dea dell’amore, e Tutti dicono I Love You) per un prezzo compreso tra i diciotto e i venti milioni di dollari l’uno, e col passare degli anni vennero presi accordi verbali per altri sei film (Harry a pezzi, 1997; Celebrity, 1998; Accordi e disaccordi, 1999; Criminali da strapazzo, 2000; la versione televisiva di Don’t Drink the Water, 1994; e il documentario di Barbara Kopple Wild Man Blues, 1997). Sembrava l’incontro perfetto, non soltanto tra amici intimi ma anche tra un artista e dei sostenitori che apprezzavano e capivano il suo modo di lavorare. Ma una partnership solida obbliga a una contabilità meticolosa. Per anni il suo commercialista Stephen Tenenbaum e il suo produttore di ventuno film, Robert Greenhut – che aveva interrotto la collaborazione dopo aver trovato molto difficile

lavorare con la Sweetland – hanno supplicato Woody di farsi dare dettagliati rendiconti finanziari dei film. Woody credeva che il suo denaro fosse al sicuro, in mano a persone di cui si fidava. Nel 2000, però, il regista ha fatto causa alla Sweetland per una cifra segnalata come 12 milioni di dollari, in royalties che non gli erano mai state versate per gli otto film da lui scritti e diretti, e l’amicizia con Jean Doumanian si è interrotta. Il caso è arrivato in tribunale, ma verso la fine del processo c’è stato un patteggiamento e a Woody è andata una cifra che non è stata resa pubblica. La Sweetland avrebbe dovuto finanziare e produrre La maledizione dello scorpione di giada, ma in seguito alla brusca fine della collaborazione,Woody si affrettò a firmare un accordo con la DreamWorks SKG, che avrebbe finanziato e distribuito il film. La DreamWorks ha prodotto anche i due film seguenti di Woody, Hollywood Ending (2002) e Anything Else (2003). Poi è stato il turno della Fox Searchlight Pictures che ha acquisito Melinda e Melinda (2004). Nessuno di questi film è stato un grande successo commerciale. Quando Woody era pronto a dirigere Match Point, che in origine doveva essere ambientato negli Stati Uniti, gli studios non erano più disposti a mettere milioni di dollari in un sacchetto di carta e uscire di scena. Volevano essere trattati meno come banche e più come soci. Volevano vedere la sceneggiatura e sapere quali attori aveva scelto. Erano ancora disposti a lasciare a Woody il final cut, l’ultima parola sul montaggio, ma una volta imboccata questa china, quanto tempo ci sarebbe voluto prima che cercassero di rinegoziare anche quello? Woody ammetteva che le loro richieste erano ragionevoli, ma non era così che lui era abituato a lavorare, e non intendeva cambiare. Dice che se, nel corso della sua carriera, non avesse avuto il controllo totale dei suoi film, allora avrebbe smesso di farne e avrebbe piuttosto scritto, o lavorato per il teatro, perché crede che «gli uomini in giacca e cravatta non hanno la minima idea di cosa sia una

buona recitazione o una buona trama». Aggiunge poi che non ha «nessun talento o fiuto per gli affari», quindi, per la stessa ragione per cui non dice ai finanziatori cosa fare del loro denaro, non vuole sentirsi dire come realizzare un film. Quando alcune compagnie inglesi, e poi spagnole e francesi, hanno detto che a loro bastava fargli da semplici banchieri, e gli hanno offerto finanziamenti indipendenti senza vincoli di consultazione o approvazione, Woody è stato felice di accettare le loro offerte e lavorare quasi soltanto all’estero per un decennio, cominciando con Match Point, che ha girato a Londra. Negli anni seguenti, finanziatori residenti in cinque o sei altri paesi tra l’Europa e l’America Latina (Woody è popolarissimo in Argentina e in Brasile) si sono contesi il privilegio di fargli fare un film, ma poi è arrivata una bella offerta negli Stati Uniti. Edward Walson, figlio di John Walson Sr, il fondatore della prima compagnia americana di tv via cavo, ha conosciuto Woody a una festa nel 2006, e i due hanno scoperto di avere in comune la passione per il jazz. Walson è diventato produttore di Relatively Speaking, la trilogia di pièce teatrali scritta da Woody, Elaine May ed Ethan Coen andata in scena a Broadway nel 2011, e ha collaborato ad altre opere teatrali di Broadway, tra cui Cenerentola e Un americano a Parigi. Ha finanziato Blue Jasmine e ha prodotto diversi altri film a parte quelli di Woody. Poi, nel 2013, un investitore di Chicago che si chiama Ronald L. Chez ha telefonato all’allora manager di Woody, Stephen Tenenbaum, dicendo che gli sarebbe piaciuto finanziare i film di Woody. Tenenbaum all’inizio non ha dato peso a quella conversazione – quanto spesso capita che un perfetto estraneo ti telefoni offrendoti milioni di dollari? – però Chez, che ammirava i film di Woody, parlava sul serio. Insieme a Walson ha finanziato Magic in the Moonlight, di cui è anche produttore esecutivo. Adam Stern, il genero della sorella di Woody, Letty Aronson, ha riunito un gruppo di

investitori, e nel 2014 loro, Walson e Chez hanno stretto un accordo per finanziare i successivi quattro film di Woody con un totale di diciotto milioni di dollari (del 2014) a film. Secondo l’accordo sono Walson e Chez a mettere nella produzione le quote più consistenti. Se il budget viene sforato, Woody paga la differenza di tasca propria. In linea con la prassi di Woody, gli investitori non leggono la sceneggiatura e non hanno diritto di parola per quanto riguarda il casting, il montaggio, la colonna sonora o qualsiasi altro aspetto creativo del film. Hanno stabilito un budget di diciotto milioni di dollari perché l’esperienza ha dimostrato che quella cifra garantisce un buon margine di profitto (almeno in teoria) per i film di Woody Allen. Di solito si rientra nel budget ancora prima che il film arrivi nelle sale, grazie agli accordi di distribuzione con gli Stati Uniti e con molti paesi stranieri. L’accordo prevedeva anche che Woody potesse realizzare un film con un altro gruppo finanziario, cosa che lui ha fatto con Amazon Studios per il suo film del 2017, Wonder Wheel, dove il budget è più alto del suo solito. Woody è consapevole di quanta libertà d’azione gli venga concessa. «È una gran cosa, per un uomo come me, che lavora da tanto tempo e ha una certa età, fare un accordo per quattro film e avere il completo controllo creativo», ha detto lui dopo la firma del contratto. Aveva settantotto anni. I suoi finanziatori non ci hanno rimesso, anzi. Midnight in Paris, To Rome with Love e Blue Jasmine hanno incassato circa 325 milioni di dollari in tutto il mondo, e metà di questa cifra è andata ai distributori. Questo risultato non ha fatto colpo sui grandi studios americani. Dopo Midnight in Paris, che ha totalizzato incassi pari a 150 milioni di dollari – di cui cinquantasette solo negli Stati Uniti – «nessuno ha chiamato per dire, “Vorremmo produrre il tuo prossimo film”», dice lui. «Non un solo studio ci ha offerto un centesimo dopo Midnight». Soltanto la Sony Pictures Classic voleva distribuirlo, «perché quella è una compagnia che punta alla

qualità e segue con interesse il mio lavoro. Ragionano anche sui bassi budget, non pagano grandi cifre per i film [in questo caso si è parlato di cinque milioni di dollari di costi di lancio del film in sala] e io li capisco. Ma non l’ha voluto nessun altro». (Una casa di distribuzione si era offerta di sostenere i costi di lancio, ma non senza minimo garantito.) Una delle ragioni per cui la Sony Pictures Classic è in tale sintonia con Woody: il co-presidente Michael Barker ha lavorato con Arthur Krim e ha ereditato la sua sensibilità. La Sony ha distribuito i sette film realizzati da Woody tra il 2009 e il 2015, che negli Stati Uniti hanno incassato un totale di circa 130 milioni di dollari, dai 3,2 milioni di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni ai 5,3 di Basta che funzioni, arrivando ai cinquantasette di Midnight in Paris (che ne ha portati a casa altri novantacinque sui mercati esteri) e ai trentaquattro di Blue Jasmine (sessantacinque provenienti dai mercati esteri). I distributori nei vari paesi acquisiscono i diritti di distribuzione per i loro territori. Da quando le multinazionali si sono comprate le case di produzione che prima erano quasi del tutto indipendenti, la nuova Hollywood “aziendale” preferisce scommettere 100 o 200 milioni di dollari su un film nella speranza che raccolga un miliardo di dollari (o più) in biglietti staccati: non è interessata a finanziare, tanto meno a lasciare il completo controllo creativo di un progetto a un regista che ha budget relativamente basso, e anche se poi il film si rivelerà redditizio. La posta in gioco è troppo bassa. Quello che per Woody è un successone, per loro è soltanto il buon incasso di un singolo weekend. Dopo che Amore e guerra (1975) portò a casa recensioni entusiastiche in tutto il paese e un totale di venti milioni di dollari al botteghino americano (l’equivalente di novantuno milioni di dollari odierni), Charles Joffe disse a Woody, «Se per fare questi numeri devi avere delle recensioni così, non so quanto potremo durare nel mondo del cinema, perché non avrai delle recensioni così per ogni film».

«Quando sfoglio il “Times” e guardo il boxino dei dieci film più visti, nelle pagine di economia», dice Woody, «ci trovo film che i critici hanno appena fatto a pezzi. Magari sono usciti da due settimane e hanno incassato tra i sedici e i diciotto milioni di dollari e vengono considerati dei flop catastrofici. Ma se io con i miei film avessi portato a casa quelle cifre negli Stati Uniti nell’arco degli anni, vivrei nel lusso.» Anche così, non se l’è cavata male, fosse anche per una semplice questione di volume. Il giorno dopo aver finito di montare Magic in the Moonlight, nel settembre 2013 – alcune settimane più tardi sarebbero stati messi a punto altri dettagli tecnici – ha parlato della sua vena produttiva, che lo porta a realizzare un film all’anno. (Nessun film fu rilasciato nel 1974 e nel 1977, ma ce ne furono due nel 1987 e nel 1989.) «Non prova che io sia un bravo regista», ha detto. «Semmai, una specie di traffichino del cinema.» Ammette che si tratta di un risultato eccezionale, ma sostiene che rifletta più le sue rigorose abitudini lavorative e la fortuna nel trovare finanziatori che non un piano preciso. «Io non la considero una vena», ha detto. «È che non so cos’altro fare. Hai visto, ieri, ho finito il montaggio e ora ho un paio di settimane libere finché inizia il missaggio del suono. Quindi stamattina mi sono svegliato, ho fatto una corsetta sul tapis roulant, ho fatto la doccia, e poi sono rimasto a casa senza fare niente. E ora che faccio? Allora ho aperto il mio cassetto, ho tirato fuori qualche foglio e mi sono messo a leggerli. Cosa farei se non lavorassi?» Questa domanda retorica è la prova della sua autodisciplina di ferro e della sua forte etica del lavoro. Una volta Woody ha detto di essere «una formica scavatrice», e questa è una descrizione molto appropriata. Così come si esercita al clarinetto ogni giorno e fa ginnastica sul tapis roulant ogni mattina, Woody lavora sulla sua scrittura, oppure pensa a cosa scriverà, ogni giorno. Lui e gli amici parlano spesso della sua abilità nel dividere la vita in compartimenti stagni, in modo

tale da poter sempre lavorare, indipendentemente da qualsiasi imprevisto. Se deve fare tre piani in ascensione, si assegna una domanda su cui riflettere durante il tragitto, e non soltanto perché soffre di claustrofobia patologica – durante un viaggio in Norvegia negli anni novanta, ha chiesto al suo autista di fare un giro di due ore intorno alle montagne sulla costa, pur di evitare il tunnel di pochi chilometri che passava attraverso quelle montagne – ma soprattutto perché detesta perdere tempo. Per quanto riguarda il fatto di girare un film all’anno, «la gente crede che sia un’impresa. Non è un’impresa. Ho già i fondi necessari. E così, il giorno in cui finisco la sceneggiatura, la mando a Helen [Robin] e lei calcola il piano finanziario. Di solito, quando uno finisce una sceneggiatura, poi deve fare sei milioni di riunioni con vari attori famosi per capire chi scritturare, e poi deve trovare i soldi, trovare un regista, trovare un produttore. Io non ho questi problemi. Scrivo una cosa, e quando ho finito la giro. «Non c’è nessuno che sta sopra di me e che può dirmi, “Fammi vedere i giornalieri”, o “Non puoi rigirare una scena se non ti do il permesso”. Ricordo quando ho fatto Il prestanome [1976] con Marty Ritt, e lui doveva chiedere il permesso ogni volta che voleva girare di nuovo una scena. Gli studios spedivano un delegato sul set, oppure qualcuno spediva i giornalieri agli uffici della Columbia a Los Angeles, e i dirigenti li guardavano e dicevano, “Sì”, oppure “No, non puoi rigirare”. E anche quarant’anni fa per me quella era una cosa inaudita. Se volevo girare di nuovo una scena, lo facevo e basta. Ecco cosa significa lavorare a basso budget: rinunciare a un sacco di soldi ma avere il controllo totale. C’è gente che scrive una sceneggiatura e guadagna più di quanto io prenda per lavorare come scrittore, regista e attore in un anno intero. E poi se il mio film non incassa – e se sfora il budget intervengo io di tasca mia – io di soldi ne vedo molto pochi. Ma in questo modo ho sempre potuto fare tutto quello che

volevo, quando volevo». Uno dei vantaggi della regolarità con cui Woody fa film è che ha potuto mantenere uno zoccolo duro di collaboratori importanti, che sanno di doversi tenere liberi per lui; tra di loro ci sono la produttrice associata Helen Robin, lo scenografo Santo Loquasto e la montatrice Alisa Lepselter. Alcuni critici – e spettatori – si chiedono come mai Woody faccia un film all’anno. Se passasse più tempo su una sceneggiatura, secondo loro, forse ne uscirebbe fuori un film migliore, o più levigato. Queste persone non capiscono che quasi tutte le sue sceneggiature hanno avuto una lunga gestazione, e sono state ripensate e riscritte nel corso di molti anni. «Più tempo non cambierebbe nulla», dice Woody. «I miei film sono il meglio che possono essere. Non rinuncio a nulla in nome della velocità.» Le risposte più semplici sul perché giri un film all’anno sono due: perché se lo può permettere, e perché, «come Ingmar, anch’io voglio lavorare». Ha la sceneggiatura, ha i soldi, ha un elenco di attori famosi che sgomitano per apparire nei suoi film, e ha sempre l’impulso a essere produttivo. I suoi film di solito vanno bene – nel peggiore dei casi vanno comunque in pareggio – e spesso realizzano ottimi risultati. I dieci film fatti tra il 2005 e il 2014 (Match Point, Scoop, Sogni e delitti, Vicky Cristina Barcelona, Basta che funzioni, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, Midnight in Paris, To Rome with Love, Blue Jasmine, e Magic in the Moonlight) hanno avuto un costo complessivo di 180 milioni di dollari e ne hanno incassati oltre 680 col solo passaggio nelle sale di tutto il mondo. A questi vanno aggiunti gli introiti relativi all’home video, alla vendita di diritti televisivi e tutto il resto. L’incasso complessivo al botteghino di tutti i film da lui diretti si aggira intorno al miliardo e 230 milioni di dollari, di cui un po’ più di metà proviene dai mercati esteri. Dei dodici film fatti tra il 2002 e il 2014, in tre casi gli attori sono stati candidati all’Oscar; e due di loro hanno ottenuto la statuetta (Cate Blanchett e Penelope Cruz). Tre dei suoi copioni sono stati

candidati all’Oscar nella categoria “miglior sceneggiatura originale” (Match Point ha vinto). Midnight in Paris ha ricevuto una candidatura come miglior film. Sommando tutti i premi e le candidature agli Oscar, ai BAFTA, ai Golden Globe, agli Screen Actors Guild Awards e ai Writers Guild Awards, e ai premi importanti vinti all’estero, nel corso degli anni i film di Woody hanno ottenuto 199 candidature e 131 premi. Per chi, come Woody, non si presenta mai alle premiazioni perché pensa sia impossibile stabilire che un’opera d’arte sia migliore dell’altra, questi risultati non contano. Ma anche se i premi lasciano Woody indifferente, sono comunque un solido indicatore di quale opinione abbiano del suo lavoro i critici, il pubblico e la comunità dei suoi colleghi. Proprio in virtù di ciò che pensa sui premi, Woody non è un membro della Academy of Motion Picture Arts and Sciences, l’organizzazione che assegna gli Oscar, e non è mai andato a ritirare gli Oscar che gli sono stati assegnati: tre alla miglior sceneggiatura originale, uno al miglior film e uno al miglior regista. Questo non ha impedito all’Academy di candidarlo sedici volte come sceneggiatore, sette volte come regista (al momento è terzo a pari merito come numero di candidature alla regia), e una volta come attore. L’unica volta che ha presenziato alla cerimonia degli Oscar l’ha fatto nel 2002, pochi mesi dopo l’attacco terroristico al World Trade Center, per fare una sorpresa al pubblico e invitare i produttori a non smettere di girare film a New York. Woody non porta avanti i progetti che crede potrebbero fruttare gli incassi migliori, ma quelli che desidera fare di più, ben sapendo che alcuni di loro non sono destinati a essere campioni d’incassi, ma che sul tempo lungo i suoi finanziatori ci guadagneranno. Lavora seguendo un ritmo tutto suo. Perché dovrebbe imporsi una disciplina artificiale se a dare un senso alla sua vita è il processo artistico e non il consenso del pubblico? Picasso era un pittore prodigioso. Alcuni suoi quadri sono migliori di altri. Woody è uno scrittore prodigioso.

Alcuni suoi film sono migliori di altri. Il loro corpus di opere parla da solo. Woody paragona il suo piacere nel fare film a quello che prova un compositore o un pittore che vuole creare qualche cosa di gradevole e poi si diverte a farlo, «come un bambino durante l’ora di educazione artistica». Di certo ha uno stile suo – uno dei suoi tratti distintivi è l’utilizzo costante del vecchio jazz di New Orleans e dei grandi classici dell’“American Songbook”1 degli anni trenta e quaranta – ma di solito lascia che sia il contenuto a dettare la forma del film. I vorticosi movimenti di camera a mano presenti in Mariti e mogli sono il riflesso della frenesia presente in quella storia. Il geniale falso documentario Zelig combina vecchie pellicole d’archivio e l’effetto tecnico che consiste nel collocare il personaggio di Leonard Zelig all’interno di cinegiornali anni trenta per dar vita a un film completamente diverso dagli altri. A uno sguardo superficiale, queste opere non sembrerebbero venire dalla stessa persona, mentre non ci vorrebbe molto per capire che Notorious e, per esempio, Il delitto perfetto sono realizzati dallo stesso artista. Per molti anni Woody ha detto che se dovesse scrivere una storia per cui servono effetti speciali, di certo la realizzerà, proprio come ha già fatto quando ha avuto per le mani una storia che si raccontava meglio alternando passato e presente (Midnight in Paris), o un’altra in cui i bruschi tagli di montaggio ne amplificavano l’effetto (Harry a pezzi). «Un milione di decisioni le devi prendere da solo», dice. «A volte i creativi hanno un assistente o un partner con cui collaborano, o con cui si consultano. Questo io lo faccio in una prima fase del lavoro, quando ho finito la sceneggiatura. Ma alla fine sei tu il responsabile, quello a cui vengono affidati milioni di dollari. Da quando ho fatto il mio primo film so che se non prendi decisioni non vai proprio da nessuna parte. A un certo punto se non ti decidi in un senso o nell’altro non hai più

un vero progetto. Se non prendi decisioni non hai più un vero progetto. Sono stupefatto se penso che autori come Francis Ford Coppola e Steven Spielberg lavorino su grandissima scala. Non soltanto controllano il materiale: riescono a farlo in maniera artistica.» The Boston Story per Woody è il ritorno a uno dei suoi argomenti preferiti. Le sue riflessioni sull’omicidio possono portare a tre conclusioni diverse: in Pallottole su Broadway, Misterioso omicidio a Manhattan e Scoop, l’assassino viene scoperto e catturato, oppure ucciso. In Sogni e delitti, due fratelli commettono il crimine perfetto, ma mentre uno di loro vede l’omicidio come l’inizio di una nuova vita, l’altro viene distrutto dal rimorso, e al termine di una lite nessuno dei due sopravvivrà. Crimini e misfatti, Match Point e The Boston Story si collocano nel discorso di Sogni e delitti. L’assassino non si pente di quello che ha fatto, la sua coscienza lo lascia in pace, e la società non lo punisce, perché in un universo senza Dio se non vieni scoperto non esiste alcuna altra forma di giustizia. La sorella di Woody, Letty, considera Sogni e delitti (2007) uno dei suoi lavori migliori, ma quel film non ha mai coinvolto il pubblico ed è stato uno dei suoi pochi veri flop. Realizzato con un budget di diciotto milioni di dollari, ne ha incassato meno di uno negli Stati Uniti e ventidue nel resto del mondo, di cui undici sono finiti nelle tasche degli esercenti. Woody nutriva parecchie speranze per il film, con i suoi rimandi a Delitto e castigo di Dostoevskij, ma quelle speranze sono durate assai poco. «Ho capito che il film era spacciato quando ho fatto la conferenza stampa a Cannes. La stampa straniera mi adora, e mi tratta sempre bene, ma quel giorno una donna si è alzata e ha chiesto, “Cosa spera di farci provare con questo film?”. E lì ho pensato… [fa un lamento]… Ho detto, “Beh, speravo che provaste empatia per i personaggi e che vi godeste la storia”, ma in quel momento sapevo che avevo sbagliato tutto.»

Crimini e misfatti è molto apprezzato sia dai critici che dagli spettatori (ha incassato diciannove milioni di dollari negli Stati Uniti, pareggiando il budget, ed è andato anche meglio sui mercati esteri), ma Woody non ha un’opinione altrettanto favorevole: lo trova “meccanico”, perché crede di aver lavorato troppo per mettere insieme la storia comica e quella drammatica. In tutti i modi, pensa di aver evitato quella trappola con Match Point. Ai suoi occhi, quel film «scorre in maniera organica. Mi è capitato di avere i personaggi giusti nel posto giusto al momento giusto». Il tempo, nel senso del momento storico in cui vengono realizzati i suoi film, non rappresenta una fonte di preoccupazione per Woody: i suoi film non si legano mai a eventi storici o a tematiche attuali, quindi non appartengono a nessun’epoca in particolare. Woody non racconta problemi caratteristici delle persone nel tempo specifico in cui gira il film. Di certo non usa mai musica dell’epoca in questione. «Io non appartengo a un periodo storico», ha detto alcuni anni fa. «I problemi su cui rifletto possono essere comuni a certe persone, ma mai a tutti, e non sono mai questioni sociali. Sono sempre questioni psicologiche, romantiche o esistenziali. Sono immutabili. Se il film è brutto, lo sembrerà sempre. E se il film è bello, non sembrerà mai datato.» Le diverse influenze che ha avuto e il suo stile personale, aggiunge, hanno collocato i suoi film «in uno strano limbo. Come dire, non sono né film commerciali né film d’arte, anche se alcuni di loro hanno incassato bene».

1. Con il termine “American Songbook” (Canzoniere americano) si intendono le canzoni, soprattutto jazz, prodotte dagli autori legati al panorama dei teatri di Broadway e all’industria musicale newyorkese, a cavallo tra gli anni venti e i primi anni sessanta.

3 Il cast e il direttore della fotografia

1. «Non otterrei mai una parte come attore se dovessi leggere.» Quando Juliet Taylor ha cominciato a lavorare con Woody come responsabile del casting, nei primi anni settanta, lui si limitava a darle una copia della sceneggiatura finita e lei gli suggeriva gli attori. Nei quattro decenni successivi, Woody è arrivato a chiederle regolarmente consiglio, non soltanto, come nel caso di The Boston Story, a proposito della sceneggiatura, ma spesso anche per chiederle se le piace un’idea prima di mettersi a svilupparla, o per sapere cosa ne pensa di un’idea che richiede un particolare attore per essere realizzata. (L’ultimo film in cui Taylor ha lavorato con Woody è stato Café Society, anche se lui le chiede ancora consigli sulla rosa principale del cast, e continua a farle leggere le sceneggiature, nonché a mostrarle i primi montati dei film.) Oltre ad aver curato il casting per più di quaranta film di Woody, Taylor ha lavorato a Taxi Driver (1976) e ha dato a Meryl Streep il suo primo ruolo, con Giulia (1977) di Fred Zinnemann. Conosce il mondo degli attori di cinema e di teatro in modo talmente ampio e profondo da saper pescare l’interprete ideale tra migliaia di candidati. Quando si parla di attori, nella maggior parte dei film bisogna aspettare il “Sì” dei produttori o dei finanziatori, e spesso la lavorazione viene posticipata fino a quando si libera

l’attore desiderato – vale a dire, quello che offre le migliori garanzie al botteghino. Nei film di Woody, «niente dipende mai dagli attori», dice Taylor. «Lui non cambia i suoi piani per venire incontro a nessuno.» Ha cambiato progetti, però. In almeno un’occasione, dopo aver letto la sceneggiatura, Taylor gli ha detto che non le piaceva, e lui non l’ha girata. Lei guarda un primo montato dei suoi film, e sa di potergli «dire tutto», sia sul casting sia sul film in generale, titolo compreso. «Possiamo farlo tutti», ha detto quando ancora lavorava a tempo pieno. «Woody sa ascoltare e prendere tutto con umorismo. È uno che assorbe le cose. Puoi andare da lui con la peggior notizia possibile, e ti risponderà, “Okay”. È sempre gentile, sempre.» Woody e Taylor hanno iniziato a lavorare insieme con il secondo film da regista di Woody, Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971), quando Taylor era l’assistente di Marion Dougherty, una responsabile casting molto stimata; a partire da Amore e guerra (1975) e fino a Café Society, si è occupata del casting di tutti i suoi film. Negli ultimi tempi Woody era l’unico regista con cui lavorava; mentre negli ultimi vent’anni ha sempre avuto una socia, Patricia Kerrigan DiCerto, che collabora anche con altri registi. Taylor prima legge la sceneggiatura per assimilare bene i personaggi, e la sua conversazione iniziale con Woody riguarda soltanto la storia in sé, perché lui vuole sapere se lei crede che la sceneggiatura funzioni. Una volta che questo è stato stabilito, parlano di chi potrebbe interpretare i vari ruoli. Poi, dice Taylor, quando sfoglia le sue liste di attori, «è una cosa istintiva, c’è un nome che ti colpisce. Con un po’ di fortuna, questa sensazione si ripeterà per un certo numero di persone che possono anche essere molto diverse tra loro. C’è da aver paura quando vedi una sola persona che secondo te è adatta», perché gli attori che Woody sceglie come protagonisti dei suoi film sono molto richiesti, ed è sempre meglio avere una gamma di possibilità. Ciononostante, spesso ottiene la sua prima scelta.

«Pare che recitare in un film di Woody Allen stia sulla lista di cose da fare prima di morire per gran parte degli attori in circolazione», dice lei. «Gli agenti ci telefonano di continuo per chiederci di tenere in considerazione i loro clienti. E poi ci sono alcune persone che hanno fatto sapere direttamente a Woody di voler fare un film con lui, allora quando lui ha una parte per loro è davvero felice.» Cate Blanchett è una di questi. Woody sapeva di interessarle e sentiva che lei sarebbe stata perfetta per Blue Jasmine. Dietro l’entusiasmo degli attori non ci sono ragioni economiche. Tutti gli interpreti dei film di Woody, indipendentemente dal loro livello di celebrità, vengono pagati appena un po’ di più rispetto alla tariffa minima stabilita dalla Screen Actors Guild, 3239 dollari a settimana, a cui si aggiunge una diaria giornaliera. Nessuno riceve una quota degli incassi del film, anche se alcuni all’inizio faticano a crederci. Nel corso degli anni è capitato che qualche attore rifiutasse un ruolo per via del basso compenso, dice Taylor, «quei pochi che l’hanno fatto erano tutti uomini». La ragione – almeno, una delle ragioni – potrebbe stare nel fatto che i ruoli femminili scritti da Woody vengono notati e molto apprezzati dalla critica. «Woody ha un talento particolare nel dirigere le donne, che nei suoi film sono più belle e più brave di quanto non lo siano mai state. Le fa sempre vestire splendidamente. Ha molto gusto in materia di abbigliamento e di stile. Forse dipende solo da questo. Lui ama le donne: apprezza davvero la loro intelligenza. Si identifica con parecchie delle situazioni in cui si ritrovano.» Gli attori famosi tra i quaranta e i sessant’anni sono il quelli più difficili da ingaggiare perché sono molto richiesti, vengono pagati cifre da capogiro, e spesso sono anche produttori dei loro film. Alcuni anni fa Taylor chiese a Jack Nicholson se era interessato a un ruolo. «Lusingato che abbiate pensato a me», ripete lei, imitando egregiamente la voce di Nicholson, «però io ho bisogno di guadagnare.» Dustin Hoffman si è detto pentito di aver rifiutato, quando era ancora un giovane attore,

le offerte di Woody, come anche di Fellini, Bergman e Spielberg. Gli attori che hanno la reputazione di essere “difficili” sul set possono fare a meno di presentare la loro candidatura. A Woody non interessa dover dimostrare chi è che comanda, e nei primi anni della sua carriera da regista, Taylor diceva agli agenti degli attori scritturati, «Voglio essere sicura che loro sappiano che se c’è un problema, è tutto finito in un giorno». La risposta di George C. Scott non si fece attendere: «Okay, andate affanculo!». Ci sono state occasioni in cui una sceneggiatura che Woody voleva realizzare non fosse fattibile sul piano economico. All’inizio è stato così per Midnight in Paris. Quando lui lo voleva girare, alcune persone del suo team di produzione temevano da un lato che la presenza nel copione di molti scrittori e artisti degli anni venti rendesse il tutto troppo astruso e anticommerciale, e dall’altro che l’attore su cui Woody aveva messo gli occhi per il ruolo da protagonista non fosse abbastanza noto da assicurare buoni incassi. Oltretutto, in quel periodo, girare a Parigi era particolarmente costoso, e il film richiedeva un budget molto superiore al solito. A quel punto Woody ha girato Match Point. Poi, nel 2009, il governo francese ha cominciato a offrire consistenti sgravi fiscali a chi decidesse di girare un film in quel paese, cosa che ha permesso a Woody di ridimensionare un po’ il budget. Restava però il problema di quale attore scegliere per il ruolo da protagonista. «Se non riesci ad avere il tuo candidato ideale per il modo in cui è scritta la parte», dice Taylor, «devi cambiare strategia. Non è consigliabile scegliere un attore simile all’altro, ma di seconda fascia. È meglio trovare una chiave stimolante per riscrivere la parte, con un attore che possa davvero dare vita al ruolo e che sia piacevole da guardare sul grande schermo.» Il protagonista, per com’era stato tratteggiato all’inizio, era un giovane intellettuale della East Coast. Per adattarsi meglio allo

stile e all’immagine pubblica di Owen Wilson, Woody ha riscritto la sua parte, trasformando il protagonista in un rilassatissimo californiano biondo. Ci possono volere un paio di mesi per decidere chi saranno gli attori principali, e circa sei mesi prima che si arrivi a completare il cast con tutti i ruoli minori. Woody tende a conservare un alto livello di segretezza, perciò gli attori sanno soltanto ciò che è necessario sapere. Gli interpreti dei personaggi secondari ricevono soltanto le pagine della sceneggiatura con le loro scene. Indipendentemente dal loro grado di celebrità, i candidati ai ruoli da protagonista devono sottoporsi tutti alla stessa trafila. Un delegato di Woody si presenta dal candidato, gli consegna la sceneggiatura, e aspetta fuori dalla porta finché non finisce di leggere. Dopo di che si riprende il copione e se ne va. Per dirla come Santo Loquasto, lo storico scenografo di Woody, gli attori ricevono «pagine scritte con il latte che vanno lette a lume di candela, prima che da loro scompaia ogni traccia». Nel caso di Emma Stone, lei ha letto la sceneggiatura di Magic in the Moonlight nello studio dove Woody monta e proietta i suoi film, per poi lasciarla lì quando se n’è andata, un paio d’ore più tardi. Ha accettato la parte senza alcuna esitazione. Gli attori sono disponibili ad affrontare tutto questo, e a essere pagati poco, perché sanno che un film di Woody Allen con ogni probabilità gli regalerà una bella parte che li valorizzerà. (Diciotto tra gli attori apparsi nei suoi film sono stati candidati all’Oscar; sette lo hanno vinto. Gli attori di William Wyler avevano ricevuto trentasei nomination e quattordici premi; Woody è il terzo di questa lista.) Le parti che scrive per le donne risultano particolarmente forti, forse perché Woody non ha fratelli, solo una sorella minore, e sua madre aveva sette sorelle che avevano solo figlie femmine: la sua infanzia, quindi, era popolata di zie e di cugine. Ma il fatto che lui scriva delle belle parti non significa che tutti gli attori si divertano durante le riprese. Molti di loro, per natura, si

portano dietro un certo livello di insicurezza che gli rende difficile ammettere di aver fatto un buon lavoro. Woody questo lo sa bene, e li capisce, ma non può farci niente. «Marion Cotillard [Midnight in Paris] era ambivalente», ha detto un giorno, nella biblioteca di casa sua, prima di partire per la Francia dove avrebbe girato Magic in the Moonlight. Le pareti della stanza sono tappezzate di scaffali pieni di libri, a parte una tv sistemata di fronte a un divano. «Penso che alcune attrici – forse anche alcuni attori, ma più spesso le attrici – non sappiano quanto sono brave o attraenti. Fanno fatica a crederci. Quando ho fatto quel film greco con Mira Sorvino e il coro greco [La dea dell’amore, 1995, per cui Sorvino vinse l’Oscar come miglior attrice non protagonista], lei era sempre insicura, sul suo aspetto fisico, sulla sua intelligenza, e sul suo talento. Era sempre molto critica – era la critica più severa di se stessa. Quando Cate Blanchett ha visto Blue Jasmine, ha detto, “Oh, adoro questo film. È di me che non voglio dire nulla”. Anche Marion era così. Spesso capita che le persone meravigliose non riescano ad accettare la loro meravigliosità. Quindi Marion è stata molto male quando abbiamo girato il film francese, ma non ce n’era alcun bisogno. E non credo che Cate si sia divertita molto a girare Blue Jasmine.» Woody tende a non socializzare con gli attori e molto raramente passa del tempo insieme a loro tra una scena e l’altra. Alle persone che sceglie, lui chiede poche cose, molto semplici: sa che possono dare vita ai loro personaggi, altrimenti non le avrebbe ingaggiate; le ha scelte per le loro abilità innate, e si aspetta di vederle sullo schermo. Se non gli piace il modo in cui viene detta una battuta, lui gira di nuovo la scena, anche dieci volte, spesso senza spiegare cosa vuole che venga fatto diversamente. In un certo senso li spinge a uscire dalla loro comfort zone, a essere un po’ meno attori, e a credere davvero a ciò che dicono. Questo su qualcuno può avere un effetto sconvolgente, ma per Woody l’interpretazione è l’aspetto più importante dei suoi film. Stando a quanto Cate

Blanchett ha raccontato alla trasmissione televisiva 60 Minutes, nel primo giorno di riprese Woody ha detto così: «È tremendo. Tu sei tremenda». Ma per un bravo attore una critica simile, per quanto brusca, può servire da stimolo. «A me piace essere terrorizzata», ha detto Blanchett. «Penso che per me sia l’unico modo di lavorare. Recito molto meglio quando mi dicono la verità. Anche se fa male. Quando ti spingi al limite, come a me è successo con Blue Jasmine, rischi sempre di fallire su tutta la linea.» E di finire con un premio Oscar ben stretto tra le mani. Per Marion Cotillard, che nel 2014 è stata definita «l’attrice francese più “vendibile” del XXI secolo» e che nel 2007 ha vinto l’Oscar come miglior attrice protagonista per la sua interpretazione di Edith Piaf nella Vie en rose, Midnight in Paris «è stata un’esperienza molto dura… perché mi ci è voluto un sacco di tempo prima di credere che stavo davvero sul set di un film di Woody Allen», ha dichiarato in un’intervista durante il New York Film Festival. «Ho incontrato Woody Allen cinque giorni prima dell’inizio delle riprese, e non c’è stato un grande scambio tra di noi. Abbiamo parlato un po’ di come lui vedeva il mio personaggio, ma avevo pochissime indicazioni. Poi, stare sul set con lui… Avevo sempre paura di non dargli quello che voleva, perché avevamo parlato talmente poco… Sono molto felice di aver lavorato con lui… Avrei potuto fare di meglio.»Woody non concorda con quest’ultima affermazione: «Marion è una grande attrice ed è stata magnifica». Per i suoi primi venti e passa film, Woody ha usato spesso attori che conosceva personalmente e con cui si sentiva a proprio agio, in particolare Mia Farrow, che è stata la star in tredici casi, Diane Keaton, Dianne Wiest e Tony Roberts. (Questa tendenza gli derivava da Ingmar Bergman, che aveva usato Max von Sydow in undici film, Liv Ullmann in dieci, e Bibi Andersson in nove.) Woody guarda soltanto una minima parte dei film, delle pièce teatrali e delle serie tv che Taylor

guarda per lavoro. Nel corso degli anni, è stata lei a convincerlo ad allargare i propri orizzonti, «sono molti gli attori che lui non conosce. Lui dice, “Accidenti, se hanno già trentacinque anni e io nemmeno li conosco, non saranno poi tanto bravi”. Al che gli dico, “No, non è vero”. È ancora un po’ riluttante con le persone nuove, ma molto meno rispetto ai primi tempi. Però ha un ottimo fiuto in fatto di casting, e quasi sempre ci troviamo d’accordo». In passato, durante le lunghe settimane in cui si cerca e si decide un cast, Taylor mostrava a Woody qualche spezzone tratto dal lavoro degli attori che lui non conosceva ma che secondo lei potevano essere adatti a un certo ruolo. Oggi, con DiCerto, il metodo è rimasto lo stesso. Se a Woody piace quello che vede, c’è un rapido faccia a faccia con l’attore, e per “rapido” si intende un minuto, non di più. Quando ha girato Il dittatore dello stato libero di Bananas – e per diversi film successivi – Woody era talmente intimidito dal dover parlare con gli attori che se ne stava seduto in fondo alla stanza in silenzio, cercando di non farsi notare, e lasciava che fossero Taylor e l’aiuto regista Fred Gallo a gestire il colloquio con i potenziali attori. Woody è molto migliorato rispetto ad allora, ma i colloqui sono ancora molto brevi. Taylor avvisava sempre gli attori: la brevità dell’incontro non rispecchiava lo scarso entusiasmo di Woody. Ancora oggi, a nessuno viene detto per quale ruolo sta concorrendo, né niente che riguardi il film. Ogni colloquio è la replica quasi identica del precedente. Il supplicante viene fatto accomodare in sala di proiezione. Woody è in grado di capire in fretta se un attore è giusto per una parte, come dimostra l’alto livello delle interpretazioni nei suoi film. Sta in piedi al centro della stanza, dopo di che va verso l’attore, gli stringe la mano, e dice: «Buongiorno, sto per girare un film a luglio. Abbiamo pensato che lei potrebbe essere adatto a uno dei ruoli, e oggi volevo soltanto vedere che aspetto ha». A questo punto di solito l’attore balbetta qualche frase ragionevolmente adeguata alle circostanze. Poi Woody lo

ringrazia, e quello se ne va. Una volta ha detto a un’attrice: «Volevo vedere la sua faccia», e lei ha risposto, «Beh, eccola qua». «Grazie di averla portata», ha detto lui. Woody conosce già il lavoro di un attore sulla base delle loro precedenti interpretazioni o degli spezzoni che gli sono stati mostrati, però, a volte, chiede a qualcuno di leggere qualche battuta. Non dà nessuna indicazione, prima. La cosa che più gli sta a cuore è la naturalezza della voce dell’attore. «È terribile, dover leggere», dice. «Non otterrei mai una parte come attore se dovessi leggere. Il problema è che quando entrano e si limitano a parlare, sono bravi», ma appena entrano nei personaggi scritti sul copione «di colpo precipitano dentro duecento anni di lezioni di recitazione. Non suonano più come persone reali.» A volte Woody si scivola su una sedia a poca distanza e china la testa di lato per osservare il volto dell’attore di profilo, immaginandolo sullo schermo. A volte chiede all’attore di leggere di nuovo. Quando il provino finisce, si scambiano dei goffi «Grazie» e «Arrivederci»: una logica conclusione per un incontro di per sé molto goffo. Nel caso di The Boston Story, Woody è riuscito ad avere gli attori protagonisti che voleva. Mentre riscriveva la sceneggiatura dopo aver terminato la lavorazione di Magic in the Moonlight, ha pensato che il ruolo di Jill – la studentessa universitaria che stringe un legame con Abe, il professore – potesse essere adatto a Emma Stone, che l’aveva favorevolmente impressionato sul set di Magic in the Moonlight. Però, lasciando che la prudenza prendesse il sopravvento sull’entusiasmo, Woody si è preso un po’ di tempo prima di offrirle il ruolo. Lui e Taylor hanno preso in considerazione diverse altre attrici che avrebbero potuto interpretare Jill, ma non hanno mai cambiato idea: Stone era senza dubbio la scelta migliore. Durante la lavorazione di Magic, Stone gli aveva confessato il suo desiderio di

cimentarsi con più ruoli drammatici, e lui era certo che lei avrebbe potuto interpretarli a regola d’arte. Le hanno mandato una copia della sceneggiatura a Los Angeles. Il corriere ha aspettato due ore che lei finisse di leggere e poi se l’è portato via. Stone aveva accettato subito la parte di Sophie in Magic, perché era una parte comica, ma si è presa un giorno per riflettere sul questo ruolo drammatico, in modo da «capire Jill», avrebbe detto in seguito. Quella parte le offriva due incentivi: da un lato «era un grandissimo onore» che le venisse chiesto di fare un altro film di Woody Allen. «Lui sapeva che io volevo disperatamente interpretare [ride] Blanche DuBois in Un tram che si chiama Desiderio e Nina e Irina nel Gabbiano. Mi ha davvero colpito che lui pensasse a me per quel film, perché sapeva che provo un forte interesse per queste tematiche e questi personaggi». Woody dice, «Basta guardarla alle prese con un ruolo comico per capire che sarebbe un’ottima attrice drammatica». Per il ruolo di Abe, Joaquin Phoenix è venuto in mente sia a Woody sia a Taylor. Woody non l’aveva mai incontrato, ma pensava che avrebbe dato un valore aggiunto al personaggio. «È fantastico», ha detto Woody durante il casting. «È come Cate Blanchett, solo che è un uomo.» La parte della professoressa di chimica, Rita, è stata assegnata grazie a una coincidenza fortunata. Taylor e Parker Posey facevano entrambe parte della giuria al Festival del Cinema di Cracovia nel 2013, e quando Taylor ha letto la sceneggiatura di The Boston Story, ha subito pensato a Posey. A lungo Posey aveva sperato di ricevere una simile offerta, e iniziava a pensare che non le sarebbe mai arrivata. Attrice di culto per registi indipendenti come Christopher Guest e Noah Baumbach, le veniva facile immaginarsi in vari film di Woody Allen. Era arrivata al punto che, dice lei in tono non troppo scherzoso, «non riuscivo nemmeno a vedere gli ultimi film di Woody da tanto fastidio mi dava non esserci anch’io».

Posey aveva fatto il suo primo colloquio con Woody nel 1993, quando lui stava cercando attori per Pallottole su Broadway, quindi sapeva già che l’incontro sarebbe stato breve. «Al colloquio lui è stato gentilissimo. Sono entrata in sala di proiezione e lui era già lì. Io ero incredula. Lui ha detto, “È bello vederti”. Al che ho cominciato a straparlare e a riempirlo di complimenti. Lui ha detto, “Volevo solo incontrarti per essere certo che non fossi pazza”.» Poco dopo aver ottenuto la parte, Posey si è rotta il polso. Woody si è offerto di cambiare la sceneggiatura in modo che il suo personaggio portasse il gesso, o una fascia rigida, ma lei ha rifiutato; quando iniziarono le riprese, lei era già in grado di togliersi il tutore prima di girare le sue scene. Woody e Taylor hanno preso in considerazione diversi attori di New York per il ruolo di Roy, il fidanzato coetaneo di Jill, ma anche se per chiamare un attore apposta dall’estero serve una liberatoria della Screen Actors Guild, Woody pensava che il candidato migliore fosse Jamie Blackley, un attore inglese emergente, capace di recitare con un impeccabile accento americano. In totale c’erano trentanove ruoli parlanti, o da inserire nei titoli di coda, e altri sessantadue figurazioni non accreditate. Quali attori scegliere a New York e quali nelle vicinanze del set è stata una decisione soprattutto economica, ma anche artistica. A Boston, Taylor ha trovato un responsabile casting molto quotato che ha ripreso un po’ di attori mentre leggevano le battute dei ruoli parlanti. Woody, Taylor e DiCerto hanno deciso, a intuito, chi andava bene. Se a Woody piaceva particolarmente un attore che aveva già incontrato a New York, proponeva di trovare una parte per lui o per lei, ma questo solo se lui e Taylor concordavano che fosse necessario per la buona riuscita del personaggio far arrivare l’attore da New York anziché reclutarlo sul posto. Il budget è sempre una questione da considerare, e ingaggiare qualcuno sul posto comporta spese minori.

2. «So cosa voglio e riesco a descriverlo. Non ho idea di come arrivarci.» Gli attori danno vita ai personaggi. I direttori della fotografia plasmano la vita, lo stile e l’atmosfera del film attraverso la macchina da presa. Woody si è servito di molti tra i più grandi tecnici al mondo: Sven Nykvist (l’operatore di Ingmar Bergman per molti dei suoi film, ha diretto la fotografia per Un’altra donna, Edipo Relitto, Crimini e misfatti, Celebrity), Carlo Di Palma (la dozzina di film da Hannah e le sue sorelle a Harry a pezzi), Ghislain Cloquet (Amore e guerra), Zhao Fei (Accordi e disaccordi, Criminali da strapazzo, La maledizione dello scorpione di giada), Vilmos Zsigmond (Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, Sogni e delitti, Melinda e Melinda), Remi Adefarasin (Match Point, Scoop), Javier Aguirresarobe (Blue Jasmine, Vicky Cristina Barcelona), Vittorio Storaro (Café Society e Wonder Wheel), e infine Gordon Willis, scomparso nel 2014, con cui Woody ha intrattenuto la collaborazione più fruttuosa. Willis ha diretto la fotografia di otto film tra il 1976 e il 1985, tra cui Io e Annie, Manhattan, Zelig e La rosa purpurea del Cairo. Tra i suoi altri ventinove film ci sono Una squillo per l’ispettore Klute e Tutti gli uomini del presidente, oltre alla trilogia del Padrino. Woody sostiene che Willis ha definito i criteri fondamentali del suo stile di regia. Una volta Willis ha detto, «Woody e io amiamo le stesse cose e odiamo le stesse cose. I nostri cervelli sono un ottimo sistema di rimandi incrociati». Una differenza tra di loro stava nel fatto che Willis voleva essere ben preparato per ogni inquadratura prima dell’inizio delle riprese, mentre a Woody piace arrivare sul set senza un piano preciso, e solo allora farsi venire delle idee. Una caratteristica che, dice lui, «asseconda la mia pigrizia. Non mi piace fare i compiti a casa e non mi piace pensarci, quindi arrivo sul set e faccio. Invece a Gordon, che era un operatore bravo come ne ho visti pochi in vita mia, piaceva rimuginare

sulla scena e chiedermi, “Come la vuoi girare questa, così posso capire cosa ti serve?”. Io cercavo sempre di andargli incontro. Prima di ogni film veniva a casa mia e insieme esaminavamo tutte le inquadrature, e quando andavamo sul set lui mi diceva, “Fammi vedere come prepari questa scena”. Di solito non lavoro così, ma volevo dare spazio al suo genio. Carlo Di Palma era la classica “cattiva influenza” per me, perché era [ride] l’incarnazione del laissez faire. Arrivavamo sul set la mattina senza la minima idea di come avremmo girato. E Carlo diceva [fa un accento italiano strascicato], “Vieni a vedere dove sta il sole, oggi è nuvoloso…”. Io facevo come lui: “Come posso sfangare la giornata facendo il minimo indispensabile?”». Woody ha raccontato di un incontro con Willis prima di Io e Annie. «Lui ha detto, “Tu stai sul divano dello psicanalista e lei sta sul divano dello psicanalista. Come pensi di farla?”. E io gli ho detto, “Beh, giriamo le due scene e facciamo uno split screen”. E lui ha detto, “Perché non costruiamo un set con due divani, così li riprendiamo entrambi con una panoramica?”. Poi siamo passati alla scena successiva, una partita di basket al Madison Square Garden. “Questa come la vuoi girare?”, mi ha chiesto. E io, “Beh, magari con un teleobiettivo, in modo da passare in mezzo ai giocatori”. Al che lui diceva, “Sì, si potrebbe e fare anche così”, e poi iniziavamo a discutere.» Ma Woody qualche idea ben precisa ce l’aveva: ad esempio, sapeva come voleva mostrare i suoi posti preferiti, e quelli che gli piacevano di meno. «Quando siamo andati in California ho detto, “Facciamo vedere che c’è molto sole, un sole fastidioso, e a New York mettiamoci sempre la luce grigia del sole al tramonto”. «Quando giravamo Stardust Memories, di solito progettavo un’inquadratura e poi Gordie le dava un’occhiata e diceva, “Benissimo”, oppure “Va ritoccata”, e trasformava una mia idea da decente a ottima. Ci sono stati dei casi in cui mi ha detto, “Pretenzioso”, e non abbiamo fatto quell’inquadratura.

Non ho mai litigato con lui, né gli ho mai detto, “Senti, il regista sono io e voglio quell’inquadratura”. Mi sono sempre affidato alla guida di persone più sagge e più preparate di me. Sono bravo a lavorare con gli altri, perché li rispetto molto, e mi rimetto al loro giudizio.» Una volta, però, Woody non l’ha fatto. Al termine della prima settimana delle riprese di Hollywood Ending, ha licenziato il famoso Haskell Wexler, che lui tuttora considera «uno dei più grandi direttori della fotografia di sempre. Basti guardare Il ribelle dell’Anatolia [1963] di Elia Kazan. Ma lui voleva sempre girare da un milione di angolazioni diverse, e io continuavo a dirgli, “Non ho la pazienza, non ci sono i soldi, andiamo avanti”. E la scena dopo ricominciava tutto quanto da capo». In alcuni casi Woody non tiene conto dei suggerimenti del direttore della fotografia, come quando secondo lui c’è un passaggio cruciale della sceneggiatura con cui una certa inquadratura va a interferire, specialmente se, dice lui, «non farò ridere nessuno se giriamo la scena come vogliono loro. In uno dei miei film con Gordie [Io e Annie] c’era una sequenza onirica con un nazista, e senza dirmelo Gordie ha girato la scena in modo tale che la fascia con la svastica sul braccio del nazista si rifletteva sulle lenti dei miei occhiali. A me sembrava una pessima idea e gli ho detto che non si poteva fare. Ma 99 volte su 100, quando un direttore della fotografia mi dice “Qui penso che sia meglio scurire”, oppure “Illumina questa metà e scurisci quest’altra”, seguo le sue indicazioni. Una volta ho detto a Gordon, “Non si vede la donna, è al buio”, e lui ha detto, “Beh, si sente la sua voce”. Allora, facendolo, ho capito che aveva ragione lui. Non tutti gli attori devono essere illuminati e la macchina da presa non deve stare puntata sulla persona che sta parlando, o su qualcuno in particolare». Molti registi, e Woody ovviamente è uno di loro, preferiscono continuare a lavorare con lo stesso direttore della fotografia. Bergman ha fatto ventuno film con Nykvist; Walter Hill ne ha fatti dieci con Lloyd Ahern II; Scorsese ne ha girati

sette con Michael Ballhaus e altrettanti con Robert Richardson; Clint Eastwood sta a quota tredici con Tom Stern. Jean Renoir, oltre al ruolo di regista, ricopriva anche quello di direttore della fotografia, con eccellenti risultati. Nel 2003 Woody ha chiamato Darius Khondji per girare Anything Else. Khondji aveva appena finito le riprese di Panic Room (2002), e tra i suoi quaranta film (fino ad allora) c’erano Se7en ed Evita. È tornato per Midnight in Paris e To Rome with Love, e poi per Magic in the Moonlight. Woody sperava di lavorare con Khondji anche in The Boston Story, ma lui si era già impegnato con Civiltà perduta di James Gray, che sarebbe partito proprio nello stesso periodo. Visto che quel film aveva un budget stimato molto alto e la produzione aveva parecchi problemi con le location, la data di inizio delle riprese non era stata ancora fissata. C’era la possibilità che Khondji fosse libero, quindi, e Woody voleva metterlo il più possibile nelle condizioni di accettare. Ai primi di marzo Civiltà perduta era ancora fermo. Woody era determinato a girare tra luglio e agosto, e ha detto a Khondji che fino all’ultimo minuto non avrebbe ingaggiato un operatore. Boston, diceva, era ancora la sua location preferita, «perché voglio qualcosa che ai miei occhi sia un po’ più nuovo rispetto a New York». A maggio il film di James Gray è stato rinviato al 2015, e Khondji era libero di girare quello che sarebbe stato il suo quinto film con Woody. Un giorno Woody ha parlato a proposito dei punti di contatto e delle differenze tra i suoi vari direttori della fotografia. «Gordon era lento e meticoloso e aveva in testa un milione di diverse angolazioni complesse: era uno che pitturava con la luce», ha detto. «Darius è come lui: è molto poetico nella sua fotografia. Anche Sven era poetico, e veloce quando lavorava. Era un vero campagnolo svedese, uno a cui piaceva tagliare la legna, e un uomo dolcissimo. Otteneva i suoi effetti con

pochissime luci e molto in fretta. Era specializzato in film in bianco e nero. Sono stato io a convincerlo a girare con le luci e i colori caldi, perché non era quella la sua inclinazione, e poi ha cominciato a prenderci gusto. Arrivava sul set e bang bang bang, due o tre cose ed eravamo pronti a girare e l’effetto finale era molto bello. Dipende tutto dal loro ritmo corporeo. Alcuni direttori della fotografia vogliono un mucchio di attrezzature e lavorano con quintali di fari diversi. Altri invece no; dipende dalla loro poetica.» Per una ripresa notturna sul Quai de Montebello durante la lavorazione di Tutti dicono I Love You, in cui il personaggio di Goldie Hawn sembra ballare sospeso nell’aria, «Carlo ci ha messo giorni per illuminare tutto quanto. Avevamo noleggiato ogni singolo faro sul mercato francese. Notre-Dame era illuminata, l’altra riva della Senna era illuminata – ci saranno stati cinquecento fari in funzione». I registi europei come Bergman lavoravano con budget più ridotti rispetto alle loro controparti americane, e quindi avevano meno tempo sia per girare i film sia per preparare le inquadrature – questa è una delle ragioni per cui registi e operatori europei sono spesso molto più bravi con lo zoom. Willis e Nykvist erano agli estremi opposti, e Woody ha saputo sfruttare al meglio i loro rispettivi punti di forza. Willis considerava l’intera inquadratura e non si preoccupava più di tanto degli attori. Nykvist invece, durante il suo lungo rapporto di lavoro con Bergman, era sempre concentrato moltissimo sugli attori, che per Bergman erano l’aspetto principale di un film: ogni scena che hanno girato insieme è costruita e illuminata per mettere in risalto i volti degli attori, uno stile che Nykvist chiamava «due facce e una tazza di tè». Anche a Woody interessano gli attori, è ovvio, ma gli interessa di più l’inquadratura nel suo complesso. In una prima fase delle riprese di Un’altra donna (1987), le loro diverse tendenze hanno finito per scontrarsi durante una scena con Gene Hackman e Gena Rowlands, girata in fondo a un corridoio.

Solo dopo che Woody aveva guardato i giornalieri si è reso conto che Nykvist l’aveva illuminata l molto di più di quanto volesse lui. «Accidenti», ha detto Woody, «è così accesa, luminosa. Quel corridoio me lo immaginavo buio, con soltanto un po’ di luce che filtrava dalla finestra sul fondo. Ho scelto quel corridoio apposta.» Nykvist, perplesso, ha detto, «Con quel tipo di illuminazione non avremmo potuto vedere le facce degli attori. Sarebbe stata una bella immagine, ma non avremmo visto le facce». Questo è stato l’unico punto su cui hanno dovuto imparare a lavorare insieme; sotto ogni altro aspetto, tra loro c’era grande armonia. L’inquadratura, nel film finito, era molto più scura. Quella scena è un buon esempio delle differenze stilistiche tra Nykvist e Willis, e di quale sia l’approccio preferito da Woody, a metà strada fra i due. «Voglio vedere le facce degli attori, entro certi limiti, ma sono molto più disposto a non vederle rispetto a Sven o a Bergman. Io sarei per fare quella scena in modo che all’inizio non si vedano le facce degli attori, soltanto la luce che filtra dalla finestra, e poi man mano che la macchina da presa si avvicina vediamo un po’ meglio le facce. Non voglio fare nulla di disastroso, ma mi spingo molto più in là di quanto Sven non sia abituato a fare. Tutto il resto di quello che abbiamo girato è sembrato naturale a tutti e due; entrambi ci troviamo bene a girare i master shot, evitando le inquadrature di raccordo e copertura.» Tra gli stili di Willis, Di Palma e Nykvist, ciascuno “bello” alla sua maniera, esistono anche altre differenze. Una volta Woody ha detto, parlando di Willis, «Lo stile di Gordon è molto americano. Sarebbe stato grandioso se avesse lavorato con John Ford. Le sue inquadrature sono illuminate alla perfezione, come quadri di Rembrandt». A Di Palma, invece, piaceva che la macchina da presa fosse in costante movimento: un esempio estremo della sua tecnica sono i continui scatti della camera a mano che si vedono in Mariti e mogli, dove lo

stile rispecchia l’atmosfera emotiva della storia. Era bravissimo a creare un’atmosfera e a usare il colore. Sua madre faceva la fiorista, e una volta mi ha detto che l’essere cresciuto in mezzo a tante tonalità brillanti ha influenzato profondamente il suo lavoro. A Nykvist piaceva muovere la macchina da presa, ma non tanto come a Di Palma. Woody sa bene che tra quello che vede nella sua testa mentre scrive e quello che poi può effettivamente girare c’è una bella differenza. «Non riesco mai a ricreare sullo schermo le cose che immagino quando sto scrivendo una sceneggiatura. Ricordo che quando Bergman scriveva Luci d’inverno, lui e Sven andavano a sedersi in molte chiese e guardavano la luce che cambiava, finché a un certo punto Bergman diceva, “Ecco la luce che voglio”. Durante le riprese di Un’altra donna, Nykvist mi ha detto, “Luci d’inverno è il film preferito di Ingmar. Per quel film ho dovuto cambiare il mio stile: non c’erano ombre a parte sul finale, perché lì hanno un significato. Ho cominciato a usare delle tavole [supporti realizzati con un materiale simile al cartone nero per i poster, utilizzati per bloccare la luce o farle cambiare direzione] per poter ottenere la luce giusta. Poi ho capito che funzionavano anche con i colori». Anche Woody vuole una certa luce, «Ma non faccio niente per ottenerla», dice. «Mi ripeto, “Vorrei la leggera luce color seppia che si vede nelle giornate d’estate proprio quando comincia a calare il crepuscolo”. Però non vado a Central Park giorni prima e aspetto e poi dico, “Questo è il momento giusto”. Se ho la luce giusta la notte in cui giriamo, benissimo, e se non ce l’ho, riscrivo la scena o trovo un’altra soluzione. Preferisco sempre i film caldi. Il blu è fatale. È molto rischioso. Non l’ho mai usato con Gordon. È troppo freddo. Questo film [Un’altra donna] è quasi monocromatico. Il giallo avrebbe “asciugato”. Il granata diventa fango. Il bianco per Gordon era pericoloso. Sven ha detto che Sussurri e grida era piacevole da guardare, perché un film rosso è intrinsecamente

caldo. Quando hanno fatto la color correction, e hanno eliminato il rosso dalle facce degli attori, le pareti degli interni hanno trattenuto il rosso ma i personaggi hanno riacquisito il loro incarnato naturale. «Gordon è un po’ come l’idea platonica di un direttore della fotografia. Era tutto perfetto, ogni composizione, ogni luce: lui sapeva tutto delle macchine da presa, della pellicola, dell’emulsione e non ha mai fatto una brutta inquadratura in vita sua. Non ci riusciva proprio, era più forte di lui. Darius rende tutto quanto molto bello, ed è un tipo maniacale, in senso buono. Quando abbiamo girato Midnight in Paris lui si è documentato sui lampioni in uso negli anni venti, così da poter riprodurre la loro luce, come se qualcuno potesse venire lì a dire, “Beh, il filamento di quel lampione non è proprio come dovrebbe essere”.» Sempre per avere altri riferimenti, Khondji ha anche studiato le immagini di Brassaï, il grande fotografo e cineasta ungherese naturalizzato francese, oltre a quelle di altri fotografi attivi negli anni venti. Prima di girare Prendi i soldi e scappa, Woody si era messo in contatto con Arthur Penn per chiedergli consiglio. Aveva appena visto Gangster Story, che considera «uno dei più grandi film americani di sempre. Gli chiesi di dirmi dove raccogliere informazioni, e lui mi raccontò di aver passato in rassegna molte fotografie di piccole città e di banche del Texas, e di aver messo a punto le sue inquadrature proprio in base a queste». Circondato da tali e tante persone di talento sul piano tecnico, Woody sostiene di non averne affatto. Girare una scena significa prendere in anticipo parecchie decisioni: scegliere la lente, il diaframma, la densità del colore, e così via. Ma, dice, «Io non penso a niente di tutto ciò. Non saprei distinguere un diaframma da un altro. So cosa voglio e riesco a descriverlo. Non ho idea di come arrivarci. Lo devo dire all’operatore e sta a lui farlo. Ora, io sono comunque quello che studia la composizione delle inquadrature. Ci sono registi che non si avvicinano nemmeno alla macchina da presa; si

affidano completamente ai loro operatori. Io quello non potrei mai farlo». Dopo aver collaborato così a lungo, Woody e Khondji si misero d’accordo quasi subito su come sarebbe dovuto apparire The Boston Story. Woody diceva che Il terzo uomo (1949), il film di Carol Reed interpretato da Orson Welles, era un modo di entrare nella storia, perché, come Hitchcock, anche Khondji quando gira racconta a se stesso una storia nella storia. Vuole che il suo lavoro sia il riflesso del regista e dice che Woody si presenta sul set con «una pagina bianca e molti meno problemi» di lui, e che ha «una grande immaginazione poetica». Nei primi incontri hanno parlato del calore della fotografia – di solito Woody preferisce «una patina ricca e satura» – e quando, per forza di cose, si è arrivati a ragionare sul formato dello schermo, Khondji ha proposto di girare con l’anamorfico, che avevano già usato per Magic in the Moonlight e che convince entrambi, perché lo schermo panoramico può contenere moltissime informazioni. Nel caso di Magic, a Woody piaceva il fatto che lo schermo permettesse una veduta molto ampia della campagna francese, dando allo spettatore l’opportunità di osservare quel territorio in tutta la sua bellezza. Il formato anamorfico, anche noto come CinemaScope o Panavision, permette un’immagine larga e rettangolare, uno schermo con un rapporto di 2,39 unità in larghezza a 1 in altezza, e si differenzia dal tipo di immagine più frequente, quella che tende al quadrato, con una proporzione di 1,85 per 1. Quando passa in televisione, un film girato così dev’essere un po’ compresso per entrare nello schermo, e buona parte di ciò che occupa i lati dell’inquadratura si perde inesorabilmente. (Quando lo si mostra con le proporzioni corrette, sullo schermo appare una doppia banda nera, sopra e sotto l’inquadratura, che forma quello che viene chiamato letterbox, detto così per via della forma rettangolare che lo fa assomigliare a una buca per le lettere.) In questo caso, Woody

era attratto dall’anamorfico perché in passato aveva avuto «buona fortuna usandolo nei suoi film “intimi”», soprattutto in Manhattan. Tra i suoi altri film realizzati in CinemaScope ci sono Anything Else, Blue Jasmine e, ovviamente, Magic in the Moonlight. Per Woody, «più intimo è un film più lo schermo panoramico si presta: l’esatto contrario di quanto si possa pensare. Quando ne avevo parlato per la prima volta con Gordon, lo schermo panoramico si usava soltanto per i western e i film di guerra. Pensavamo di usarlo per Manhattan perché la tensione tra l’intimità della storia e lo schermo panoramico avrebbe reso il film visivamente più interessante». Dopo aver deciso di tornare all’anamorfico per The Boston Story, Woody, facendo notevole sfoggio del suo proverbiale pessimismo, ha detto, con un po’ di tristezza, «Sai com’è, si parte sempre sperando per il meglio, e si resta inevitabilmente delusi».

4 Le location, la scenografia, i costumi

Le location – che siano case, stanze, strade, ristoranti, campagne, ovunque si svolga l’azione – devono evocare il senso della sceneggiatura e renderla visivamente ed emotivamente vera. Woody preferisce girare in luoghi reali, che possano magari essere riarredati con qualche piccolo aggiustamento, rispetto ai set costruiti nei teatri di posa: Ombre e nebbia e Settembre, le eccezioni che confermano la regola, sono stati girati dalla prima all’ultima scena su set fabbricati per l’occasione. Se altri film richiedono un set particolare (nel caso di The Boston Story la casa degli specchi di un luna park), è Santo Loquasto che li progetta e ne supervisiona la costruzione, così come supervisiona tutti i set e le location in generale. È la persona responsabile di tutto ciò che è ripreso dalla telecamera. La prima volta in cui Loquasto ha lavorato con Woody è stata nel 1980, come costumista di Stardust Memories, e sempre come costumista ha fatto Commedia sexy in una notte di mezza estate e Zelig, dopodiché è diventato il suo scenografo, ed è rimasto tale per l’ultima trentina di film che Woody ha girato negli Stati Uniti. Al di là del suo notevole lavoro al cinema, è un affermato costumista e scenografo teatrale; ha curato le scenografie o i costumi per oltre settanta rappresentazioni, comprese quelle di Woody, ed è membro della Theater Hall of Fame. Ha ricevuto diciannove candidature ai Tony Awards (inclusa una per le scenografie di

Pallottole su Broadway nel 2014) e quattro premi, senza contare le numerose candidature all’Oscar. Ha anche curato scenografie e costumi per le produzioni dell’American Ballet Theatre, della Metropolitan Opera, e per il Gianni Schicchi che Woody ha diretto nel 2008 per la Los Angeles Opera. È un uomo barbuto e con gli occhiali, dotato di una mente ironica, uno spirito arguto, e una faccia seria che spesso non riesce a trattenere le risate. Il suo lavoro è sempre un’avventura. Per Basta che funzioni (2009) aveva realizzato la camera da letto e il corridoio dell’appartamento nell’Upper East Side del protagonista Boris (Larry David)negli Astoria Studios, nel Queens. Un giorno, mentre Woody camminava sul set insieme a Loquasto, si è voltato e ha esclamato, «Oh, dov’è la cucina?». «Mi si è fermato il cuore», ricorda Loquasto. «Gli ho chiesto, “Di cosa stai parlando?” Lui ha detto, “Beh, Boris attraversa il corridoio e si beve un bicchiere di latte”. Al che io gli ho detto, “Woody, lo sai che questa cosa nella sceneggiatura non c’è?”.» Mentre cercava uno spazio che potesse ospitare la galleria d’arte presente in alcune scene del film, Loquasto ha trovato una galleria che al piano di sopra aveva un appartamento. Un solo sguardo e ha detto a Woody, «Boris abita qui», cosa che ha trovato Woody subito d’accordo. «Era uno spazio immenso. Poteva farci quello che voleva», dice Loquasto. «C’era una cucina in cui poteva entrare, alcune cose le abbiamo nascoste e altre le abbiamo costruite, e funzionava alla perfezione: purtroppo solo dopo che avevamo allestito un altro set, ma sono cose che succedono. A un certo punto capisci di poter stravolgere un bel pezzo di sceneggiatura per sfruttare al massimo una location migliore.» La cieca fiducia di Woody nei confronti di Loquasto gli ha fatto guadagnare il soprannome di «l’uomo che sussurrava a Woody Allen» per la sua capacità di intuire i bisogni del

regista e di portargli le brutte notizie. Woody spesso lo saluta con un «Che si dice di brutto?». «Mi piace pensare di essergli utile, per me è un privilegio», dice Loquasto. «Di sicuro mi ascolta quando sono io a dargli cattive notizie. Mandano sempre me a dire, “Abbiamo perso una location e non abbiamo soldi”.» Loquasto è uno dei due componenti della troupe – l’altra è Helen Robin – che si sente a proprio agio nel fare battute ai danni di Woody: il divertimento è reciproco. Quando si trovavano in un appartamento di San Francisco prima di girare una scena di Blue Jasmine, che molti critici avrebbero paragonato a Un tram che si chiama Desiderio di Tennessee Williams, Loquasto ha detto, «Mi mettono molta ansia i punti in comune tra questo film e Un tram». Woody lo ha guardato con serenità e ha risposto, «Oh, no. Non ti preoccupare». «Forse hai ragione», è stata la risposta di Loquasto. «Quello che stai facendo non ha niente della sua poesia e della sua sensualità.» «Mi ha viziato, in realtà», dice Loquasto. «La maniera in cui lavora, il suo controllo. Qui non funziona come per la stragrande maggioranza dei film: non ci sono produttori creativi né tutta l’altra gente pronta a mettere bocca su tutto. Si va direttamente da Woody. Lui si rimette al direttore della fotografia, e lo faccio anch’io; lavoro per Woody e per il direttore della fotografia. Abbiamo gusti abbastanza simili, e mi piace pensare che capisco il suo modo di vedere le cose. Più o meno so quando una cosa dovrebbe essere diversa, e cerco di tararmi in base a quello. Lui mi permette di seguire le mie idee. Anche se voglio la sua approvazione, non devo fargli vedere un campionario di cinquantatré modelli.» Christie Mullen ha cominciato a lavorare con Woody come assistente alle location per Accordi e disaccordi (1999). È lei

che estrapola dalla sceneggiatura le location necessarie, e poi si incontra con Loquasto e con il location designer per decidere quali sopralluoghi fare. Mullen parla con una traccia di accento del North Carolina di cui è originaria. Dice che quando Woody prende in considerazione una location si comporta tanto da sceneggiatore quanto da regista: pensa a come può modificare la sceneggiatura per adattarla al set. «Vede la storia di finzione nella realtà del mondo, e questo è davvero ottimo per il mio lavoro. Woody può essere molto deciso quando si tratta di location. Sa che cosa vuole e cosa no, ma sa anche cambiare idea. Se qualcosa non è disponibile, o è troppo difficile da ottenere, lui dice, “Okay, lasciatemici lavorare”. Molti registi non hanno quella fiducia in se stessi, o quell’esperienza: allora tu continui a girare a vuoto: “Possiamo vedere altri dieci ristoranti italiani?”. “No, non ce ne sono altri dieci. Usa l’immaginazione, per piacere.” Woody si toglie gli occhiali, guarda con attenzione una fotografia e chiede, “Cosa posso fare qui, e qui?”. Mi riempie di domande sulla “realtà” dei posti che visitiamo e delle persone che li abitano. Quando facevamo i sopralluoghi per Criminali da strapazzo e vedevamo diverse fabbriche di biscotti, lui mi ha chiesto, “Perché mai la gente vorrebbe fare proprio questo lavoro?”.» Quello che nel caso di The Boston Story sembrava un compito semplice – trovare un classico e verdeggiante campus universitario in una città piena di università dove si potesse girare per dieci o quindici giorni – si è rivelato, nei fatti, impossibile. Per un mese Mullen ha contattato college e università, senza risultati. Molte avevano in programma corsi estivi o altre attività, quindi sarebbero state troppo affollate. Altre non avevano quell’aria da piccola università che Woody cercava. Altre ancora avevano regolamenti che non permettevano l’accesso alle troupe cinematografiche. Alcune erano disposte a ospitarli per uno o due giorni di riprese, ma non per due o tre settimane. E in certi posti che avrebbero

anche potuto essere adatti, gli amministratori volevano leggere la sceneggiatura per capire che immagine avrebbe dato del loro istituto, cosa, questa, che Woody non permette mai. Come sempre, gli ha fornito una vaghissima sinossi ma stavolta ha dovuto aggiungere che il film includeva un crimine non meglio precisato. Non è stato un aiuto, no. Mullen ha cominciato a guardare una serie di licei privati nei dintorni di Boston, perché sapeva che «puoi trasformare tutto in qualsiasi cosa. Il posto avrebbe potuto essere una scuola per infermieri, se aveva l’aria giusta». Ma nessuno di questi ce l’aveva, e perciò The Boston Story si doveva per forza girare altrove. L’aria giusta sembrava avercela il Seminario Teologico Episcopale che si trova nel West Side di Manhattan, ma il cortile del campus era un po’ piccolo. Avrebbe potuto essere usato insieme ad altre location simili, ma Woody voleva qualcosa di nuovo e diverso, lontano da New York, dove potesse portare la sua famiglia per l’estate. Loquasto ha suggerito la Brown University, a Providence, nello stato di Rhode Island, ma anche lì, come era successo per le università di Boston, gli amministratori non erano disposti a ospitare una troupe per più di uno o due giorni, specialmente sulla base di una vaga sinossi che comprendeva un crimine indefinito. La Rhode Island Film Commission, però, era pronta a venire in aiuto. Sono stati loro a suggerire la Rhode Island University, ma per Woody era troppo dispersiva. Pensa in continuazione alla logica interna delle sue sceneggiature, e cercava un’area limitata, così che i personaggi della storia potessero realisticamente imbattersi l’uno nell’altro in continuazione. Mullen ha proposto di fare un giro in macchina a Providence e Newport, per capire se una delle due città avesse l’aria giusta. Uno scout locale che era stato ingaggiato da Mullen gli ha consigliato di dare un’occhiata alla Salve Regina University di Newport, anche se l’istituto non ha quel classico aspetto da piccola università che Woody immaginava. Si tratta di un istituto composto da diversi palazzi

dell’Ottocento, su una scogliera che dà sull’Oceano Atlantico: un posto splendido, con grandi giardini fioriti, prati verdi e vecchi alberi imponenti. Appena la macchina si è fermata, Woody è uscito e si è guardato intorno con attenzione. Mullen ha subito chiamato gli uffici dell’università per avere il permesso di farci un giro. «La mia paura più grande», dice lei, «è mostrargli qualcosa che gli piace e poi non avere l’autorizzazione a usarla.» Woody era soddisfatto, ma sapeva già che l’area aveva una struttura poco tradizionale, e che per legare insieme i vari edifici avrebbe dovuto usare metodi non ortodossi. Per fortuna altre troupe avevano già lavorato lì e gli amministratori non erano spaventati all’idea di avere un centinaio di persone che gironzolava nel campus per diversi giorni, però volevano lo stesso sapere qualcosa di più sul crimine al centro della storia. A quel punto Woody aveva deciso di utilizzare Providence e Newport come location, e il tempo cominciava a scarseggiare, se voleva girare il film secondo il calendario previsto. Tanto per non correre rischi, Mullen e Robin stavano esaminando altri college a un paio d’ore a nord di Manhattan, e hanno detto a Woody che se voleva il Salve Regina doveva sbottonarsi di più con i suoi funzionari. Woody ha buttato giù una descrizione della storia in cui si diceva che veniva commesso un omicidio, ma non chi ne era l’autore, e così ha ottenuto il via libera. A fine maggio, Loquasto e Mullen si sono incontrati con Woody e Helen Robin al Manhattan Film Center, per guardare insieme le foto di possibili location a Newport e a Providence. Nelle settimane precedenti, avevano cercato, insieme a vari location scout del luogo, ristoranti, case, negozi, parchi pubblici e altri luoghi che potevano funzionare nel film, e tutte le varie possibilità sono archiviate nel computer portatile di Mullen. La donna sistema il computer sopra l’armadietto dei dischi nella sala di proiezione di Woody, accanto alla custodia

nera del banjo di Eddy Davis; Davis, come altri componenti della band di Woody, spesso si esercita con lui in quella stanza. Prima dell’avvento del digitale Mullen si presentava all’appuntamento con scatoloni pieni di fascicoli di foto di possibili location. A volte Woody quando li vedeva diceva, «Questa cos’è, un’altra scatola di compromessi?». I quattro guardano lo slide show delle immagini. Prevedono che il grosso dell’azione si svolgerà a Newport, con alcuni giorni di riprese a Providence e dintorni, a quarantacinque minuti di distanza. Una location importantissima è il parco pubblico dove Abe avvelenerà il giudice. Sullo schermo scorrono diverse alternative. La prima ha un’aria troppo cartolinesca, e si vede chiaramente che si trova a Providence, perché sullo sfondo c’è il palazzo del governatore del Rhode Island. Altre non sono convincenti. Poi ne arriva una dove i prati sono divisi da un ampio vialetto. C’è una zona attrezzata per i bambini, ma il parco è abbastanza grande da permettere di isolare un punto dove lo scambio dei contenitori non verrebbe notato da nessuno, e Woody comincia a immaginare la scena ambientata in quella location. In più, su un lato del parco c’è un chiosco con una caffetteria e dei tavolini sistemati sul davanti: qui il giudice potrebbe comprare la sua bevanda dopo aver finito la solita corsa del sabato mattina, cosa che permetterebbe alle due scene di essere accorpate in fase di riprese. La domanda ancora senza risposta è: come farà Abe ad avvelenare quest’uomo, nei dettagli? In questo stadio l’idea è che Abe rovesci per sbaglio la tazza di caffè del giudice, e che gli offra quella avvelenata. (Più tardi la tazza di caffè diventerà una spremuta di arancia.) Pensando a voce alta, Woody dice, «Se il giudice si compra il caffè, perché non dovrebbe sedersi qui al chiosco a leggere il giornale? Deve stare seduto da un’altra parte per poter accettare la bevanda che gli viene offerta. Se ci fosse una panchina nelle vicinanze, andrebbe a sedersi in un posto più comodo». Continua a pensare e aggiunge, «Mettiamo che

dopo aver corso si compra il caffè e il giornale e si metta a leggere per un’oretta. Magari il nostro uomo gli cammina accanto e gli rovescia la tazza». «Il giudice sta in piedi o seduto?», chiede Loquasto. «Lo dobbiamo ancora decidere», risponde Woody, poi si ferma a guardare un’altra caffetteria, più grande, dove potrebbe andare il giudice, e poi scuote la testa. «Forse è troppo grande. Magari va meglio per gli studenti.» Nel film, questa caffetteria sarà il posto dove il personaggio di Emma Stone, Jill, si rimetterà insieme al suo fidanzato Roy. Alcune fotografie suscitano lunghe discussioni. Altre vengono liquidate in fretta. Loquasto dice che una stanza con il soffitto alto «sembra il posto in cui Jill potrebbe prendere lezioni di piano». «Forse, ma non è quello che avevo in mente», dice Woody. Si passa alla foto successiva. È un fienile in legno, che potrebbe essere usato per una scena in cui si va a cavallo, e Loquasto dice, «Mi viene in mente Pallottole su Broadway. Avevamo ambientato in una stalla una di quelle scene dove i personaggi discutono. Forse potremmo usarla di nuovo?». Una foto sembrava troppo una fattoria. La foto seguente ritrae un fienile in pietra, una costruzione che avrà cent’anni, a Portsmouth. Sembra promettere bene. Loquasto cerca di capire se ha i box per i cavalli. «Con le luci fluorescenti accese non va bene», dice, «ma nell’altra stalla avevo appeso io le luci: è un’idea fattibile?» «Possibile», riflette Woody. (Questa sarà la location usata nel film.) I piccoli dettagli sono importanti. A Loquasto piacciono le finestre con i vetri decorati. Altri dettagli sono un po’ più consistenti, ad esempio: in quale tipo di casa abita il giudice?

Un’abitazione che altrimenti sarebbe adatta sembra troppo grande per un uomo che vive da solo. Dove si terrà il cocktail di benvenuto al college di Abe? A Woody non piace l’idea di un club troppo serioso e preferisce pensare a una grande casa, forse quella del preside. E dove ambientare la scena in cui Abe e Jill sentono la madre raccontare in lacrime ai suoi amici i maltrattamenti subiti dal giudice? Un ristorante sembra il posto più probabile, ma la scelta rappresenta un problema. «Quanti ristoranti informali abbiamo? No, perché li detesto quasi tutti», dice Loquasto. Woody aggiunge, «dev’essere un posto con i séparé o qualcosa in cui si può origliare:non i tavoli messi l’uno accanto all’altro». La sceneggiatura prevede una festa a casa di uno studente, Danny, i cui genitori hanno appena comprato un dipinto di Willem de Kooning. Nel tentativo di sollevare il morale ad Abe, Jill lo invita ad andare alla festa insieme a lei e Roy. Non è ancora stato stabilito come dev’essere questa casa. Loquasto ne ha diverse da mostrare, e suggerisce, «Potrebbe essere una casa in stile moderno». «Il giardino com’è?», chiede Woody. «Dovrebbe essere bello. Ci sarà una dozzina di persone.» Sullo schermo appare una bella casa in stile moderno. «Temo che questa sia troppo piccola per le riprese», dice Loquasto. «Potrebbe funzionare», dice Woody, ma non è tanto convinto: ci sta solo pensando su. «Ce n’è una più grande», gli dice Loquasto. «Sarebbe bello se fosse un po’ isolata, con un bel po’ di terreno», dice Woody. «Darius vorrà girare in notturna [e quindi usando il buio naturale]», fa presente Robin. Woody si siede a pensare su una

delle sedie verde bosco in fondo alla stanza, vicino allo schermo. Dopo alcuni secondi chiede, «Com’è che si chiama il ragazzo?». Danny, gli rispondono. «Questo tipo, Danny, suo padre non è un professore, abita da solo lì in zona.» «Il padre di Emma è un professore di musica», gli ricorda Robin. Woody continua a pensare a voce alta, nel tentativo di trovare risposta alle numerose questioni rimaste in sospeso nella sceneggiatura. Dice, «Il padre di Danny gestisce fondi d’investimento, oppure è un avvocato o un dottore». Questo scambio di battute racconta bene quanto siano fluide le sceneggiature di Woody in questo stadio della lavorazione, e quanto gli sia facile rivedere una scena per adattarla a location particolari. Una o due settimane più tardi, la scena della festa verrà modificata ancora, dopo che Sophie von Haselberg avrà fatto il provino per il ruolo di April, una studentessa amica di Jill. Nella sceneggiatura originale April faceva solo due brevi apparizioni, ma la naturalezza dell’attrice aveva colpito Woody tanto da spingerlo a ingrandire la sua parte: saranno i genitori della ragazza ad aver comprato il dipinto, e sarà lei a dare la festa. Danny rimarrà nel film, ma diventerà soltanto uno degli invitati. La sceneggiatura prevede una seconda festa, ma non specifica in quale luogo. Per Woody potrebbe svolgersi in una casa privata, ma potrebbe anche essere una festa di compleanno in un bar affittato per l’occasione. Immagina la gente che balla: «Negli anni sessanta non c’era un film che non avesse una scena ambientata in una sala da ballo.» Loquasto, guardando la foto di una stanza gigantesca dove ci sarebbe abbastanza spazio anche per un ballo in stile country, dice, «Dovremmo rimpicciolirla, in modo da non farla sembrare una pista di pattinaggio; o peggio, una sala da ballo».

Compare la foto di una bella spiaggia. Subito Woody dice, «Perché non lo trasformiamo in un barbecue sulla spiaggia?». «La grigliata di pesce», dice Robin. «Giusto, la grigliata di pesce.» «Verrebbero molto bene le passeggiate sul bagnasciuga, con le onde che si infrangono.» Sullo schermo appare la foto di un faro sugli scogli. Woody si illumina. «Che ne dite del faro? A me piace. Potrebbe esserci una grigliata di gamberi davanti al faro. Sono tentato di spostare tutta la scena più verso il pomeriggio.» «O nell’“ora magica”», suggerisce Loquasto [il momento prima del tramonto in cui il sole è basso sull’orizzonte e l’aria è satura di luce color rosso oro]. Robin fa un lamento, perché girare di giorno, diventerebbe più costoso. Woody sta ancora guardando l’ultima foto. Con una certa energia dice, «Questo posto mi convince sempre di più. È una location molto entusiasmante e possiamo trasformare la festa in una grigliata di pesce. Posso riscrivere quella scena in modo che tutto torni». (Alla fine lo fa, ma nel film ci sarà una festa e basta, in una casa privata; il faro sarà il luogo dove Abe dice a Jill che devono restare soltanto amici.) La situazione economica dei genitori di Jill è un’altra delle cose ancora da definire. Entrambi insegnano all’università. Dove alloggino è un aspetto di una questione più ampia: dove alloggiano i professori dell’istituto? Woody immagina che gli alloggi per i docenti siano vicini al campus e anche questo porta con sé delle conseguenze. (Dieci giorni dopo, durante vari sopralluoghi nel Rhode Island, Woody indica varie abitazioni fatiscenti – o comunque molto umili – e dice con un sorriso: «Alloggi per i docenti».) Un’aria piuttosto fotogenica ce l’ha una schiera di case di mattoni rossi in Stile Federale,

anche nota come Athenaeum Row, a Providence. Woody ha pensato che potrebbero essere quelli gli alloggi per i docenti. «Sarebbe bello mischiare un po’ le cose», dice. «Qualche palazzo in arenaria, quella schiera di case di mattoni rossi.» «Forse è lì che stanno i genitori di Jill», propone Loquasto. Ma Woody ha un’idea diversa. «Casa loro la immaginavo più simile a una vera casa normale. Sono una bella famigliola. Potrei mettere Abe in una casa costosa di mattoni rossi, perché lui è una specie di celebrità, e potrei scrivere qualche battuta in cui un personaggio spiega che questo alloggio è per la superstar del campus, mentre la ragazza e i suoi genitori stanno in una bella casetta indipendente.» Alla fine sarà il giudice ad abitare in una delle case di Athenaeum Row, ma nessun docente dell’università. I genitori di Jill abiteranno in un’accogliente villetta in stile Cape Cod adiacente a un parco. Questa casa non è stata segnalata da un location scout, ma l’ha trovata Woody quando è andato a vedere un’altra casa nei paraggi. Gli interni della villetta sono più piccoli rispetto a come avrebbe dovuto essere la casa ideale, e questo ha reso più difficile muovere la macchina da presa, ma per Woody, che tende a preferire i posti raccolti, quella villetta aveva proprio l’atmosfera giusta. (Quando un set viene costruito in un teatro di posa, le stanze sono sempre molto più grandi del normale, per lasciar posto alle attrezzature e alla troupe.) Woody continua a guardare le foto in cerca di vetrine e negozi interessanti, ma ne trova pochi. Vuole sempre qualcosa di più unico che raro, e quindi dice, «Sarebbe bello se ci fosse un ospedale delle bambole». Va ancora deciso in quale luogo ambientare una cena romantica tra Abe e Jill, in cui l’uomo dà alla ragazza il suo regalo di compleanno. Vengono presi in considerazione parecchi ristoranti, ma per Woody sono tutti troppo asettici, troppo simili ai posti che frequenterebbe il giudice.

«Potrebbero starsene in macchina a mangiare cibo da asporto e sarebbe altrettanto romantico», dice. «Mi sa che finiremo a girare tutto in macchina», dice Loquasto. Il copione prevede già scene ambientate in macchina per Abe, per Jill, Roy e Abe che vanno a una festa, per Rita e suo marito, e ora forse anche questa. «Una volta che li fai stare faccia a faccia non importa dove lui le dia il regalo», dice Woody, ancora immerso nei suoi pensieri. «Sai cos’altro è romantico? La pioggia.» Loquasto dice che lavorerà un po’ sull’idea della pioggia e aggiorna Woody su come sta andando la ricerca di una sala giochi o di un luna park per la scena del primo bacio tra Abe e Jill. «C’è una piccola sala giochi a Newport. Non hanno la gallina che gioca a tris», dice, riferendosi al volatile ammaestrato che costituiva l’attrazione principale di una sala giochi di Chinatown, a New York, «ma hanno una cabina per le fototessere.» Woody non sembra apprezzare la foto di un negozio che vende animali di pezza e giocattoli di plastica da quattro soldi. «Pacchiano», dice. «Questo non è un luna park.» Robin alza le sopracciglia. «Se vuoi andare a girare nel Midwest, sono sicura che ti possiamo trovare uno splendido luna park.» Un’altra location che stanno ancora cercando è un bar buio dove Abe e Jill vanno dopo il luna park e Abe la esorta a non innamorarsi di lui. «Potrebbe essere una conversazione in macchina», propone Woody. «Il problema delle macchine senza tettuccio apribile è che non hai molto spazio di manovra», gli ricorda Loquasto. Woody scuote la testa. «A certi dettagli io non penso mai.»

Scegliere le location in base alle fotografie significa che Woody passa meno tempo in giro a Providence e Newport. Per la prossima settimana è in programma un sopralluogo insieme a Loquasto, Mullen, Robin e lo staff della zona. Fare sopralluoghi è una delle attività che a Woody piace di meno: si passa troppo tempo andando da un posto all’altro. Loquasto dice che se non riescono a vedere tutte le location in un giorno solo, l’indomani chiamerà Khondji, in modo da proseguire con lui. Woody, che ha già trovato le location principali, si allarma subito. «Si era detto “tour di un giorno”. A me bastano le fotografie. È stupido andare se devo starmene lì a dire, “Va benissimo”.» Loquasto si stringe nelle spalle. «Come Alfred Hitchcock, che non scendeva nemmeno dalla macchina: abbassava il finestrino e basta.» (E “tour di un giorno” fu. La migliore scoperta per Woody è stato il palazzo di una banca, un edificio vuoto di ventisei piani fabbricato negli anni venti, il più alto di Rhode Island, con un vano ascensore tre piani sotto terra, dove il professore può compiere un secondo crimine facendolo passare per un incidente. Manomettendo i comandi dell’ascensore, Abe può far sì che l’ascensore resti fermo al piano seminterrato mentre a uno dei piani alti si aprono le porte. La sua idea è spingere la vittima nel vano dell’ascensore, così che la morte sembri il risultato del cattivo funzionamento del macchinario. Nella parte inferiore dell’armadietto metallico dove si trovano i comandi c’è un ammasso di cavi intrecciati. Woody li guarda per un attimo e dice, «Harpo [Marx] li tirerebbe tutti fuori», e mima un gesto goffo. Gli ascensori – come ogni altro spazio piccolo e chiuso – suscitano in Woody una tale claustrofobia che invece di prenderne uno ha preferito arrancare su e giù per i 108 scalini che li separavano dall’atrio. Altri dettagli. Si parla della scena in cui una docente universitaria lascia il marito. Forse sta piovendo. «Potremmo

fare un totale della casa con la veranda, e poi entrare», dice Woody. Loquasto annuisce. «La pioggia ti apre molte possibilità.» Nel film, tutta la scena si svolgerà all’interno di un’automobile mentre piove a dirotto. Fotografia dopo fotografia, si fa sempre più chiaro che Newport non possiede tante location adatte quante si immaginava, e uno dei presupposti centrali del film cambia. «Providence ha un aspetto più uniforme», ammette Woody. «Sarebbe meglio se l’università stesse proprio ai margini della città e fosse la location principale della storia.» Newport, dove avrebbero dovuto svolgersi l’ottanta percento delle riprese, comparirà soltanto nel venti percento. La riunione è quasi terminata. Woody resta in silenzio per qualche secondo e poi dice, «Non potrei mai azzardarmi a girare il film in bianco e nero, vero?» I film della sua giovinezza a Brooklyn erano spesso in bianco e nero, e hanno plasmato la sua visione del mondo, e soprattutto di Manhattan, quel posto magico sull’altra sponda dell’East River. Woody aveva seriamente pensato di girare Un’altra donna in bianco e nero; Stardust Memories, Manhattan, Zelig, Broadway Danny Rose, Celebrity e Ombre e nebbia sono in bianco e nero, ognuno per una ragione diversa. «Manhattan ha proprio qualcosa del bianco e nero», ed ecco spiegata quella scelta per il film omonimo; la scena in cui Woody e Mariel Hemingway fanno un giro in carrozza è stata girata nello stesso angolo in cui James Stewart ed Eleanor Powell fanno una passeggiata in Nata per danzare (1936), perché è stato quel film a dare a Woody l’idea del bianco e nero. Ombre e nebbia, un film fortemente ispirato all’espressionismo tedesco, per lui doveva essere in bianco e nero, anche se Woody sapeva che quella scelta avrebbe diminuito le sue possibilità di successo. Quando ne abbiamo parlato nel 2000, ha ammesso che il bianco e nero è un bel grattacapo: «Ormai girare in bianco e nero è una gran

rottura di scatole, anche se ogni tanto mi torna ancora la voglia. I laboratori non sono più abituati, e ci sono tantissimi problemi tecnici: interferenze sulla pellicola; quando fai i tagli di montaggio la pellicola diventa fragile e devi far rivestire l’intero film perché la temperatura della lampada fonde la pellicola in bianco e nero che passa nel proiettore». Ma ha ancora un debole per il risultato finale. «Lo stai chiedendo alla persona sbagliata, io lo adoro», risponde subito Loquasto. Nonostante il loro entusiasmo, entrambi sanno bene che si tratta soltanto di un volo di fantasia. «È un problema strettamente economico, perché la tv non compra film in bianco e nero e alcuni paesi, come il Giappone, non li distribuiscono nemmeno», dice Woody, in termini molto concreti. Appena finiscono di parlare di location, entra in gioco Suzy Benzinger, la costumista, per parlare di come saranno vestiti i personaggi principali. I costumi danno un’idea – sottile ma immediata – del carattere di un personaggio. Il suo primo lavoro con Woody è stato per la versione televisiva Don’t Drink the Water (1994). A partire da Harry a pezzi (1997) ha curato i costumi per la maggior parte dei suoi film girati negli Stati Uniti; quelli fatti all’estero prevedono costumisti locali. Benzinger e Woody stanno in piedi davanti al bancone sopra cui è ancora aperto il computer portatile con le immagini delle location. Senza perdersi in chiacchiere, Woody esclama, «Voglio che Joaquin sia bello e affascinante. Niente baffi, ma un accenno di barba può andare bene». Benzinger annuisce. «Mi raccomando, abiti realistici: camicie a maniche lunghe, un paio di pantaloni colorati, una giacca. Sarebbe carino se avesse qualcosa che può tirarsi fuori dalle tasche.» Benzinger mostra a Woody la foto di una giacca

marrone dal taglio morbido a cui sta pensando: «Poi possiamo invecchiarla». «Questi sono i colori a cui ho pensato. Non voglio che Joaquin sembri un fotomodello.» «Gli farei indossare jeans larghi e camicie a scacchi.» «Io credo che lui non butterebbe via due secondi a pensare a come vestirsi, ma avrebbe il buon senso di non conciarsi da tamarro», dice Woody. «Scarpe con i lacci, in pelle marrone di buona qualità ma un po’ consumata. Può tirarsi fuori una cravatta dalla tasca e infilarsi la camicia nei pantaloni all’occorrenza.» «Non sarebbe meglio se avessimo due giacche invece di una?» chiede Woody. «Tanto per evitare che la gente poi si chieda “Ah, la stessa giacca”?» Benzinger ride. «Posso ritoccare il budget per farci stare due giacche.» In verità il budget con cui lavora è incredibilmente basso, attorno ai 25 000 dollari. «In passato Abe è stato un dongiovanni, soltanto di recente le cose si sono messe male per lui.» «Un guardaroba modesto: qualche giacca, un completo, un pullover.» Ma la preoccupazione maggiore di Benzinger riguarda la stagione estiva. «Questo film si doveva girare in primavera, ma adesso finiremo ad agosto inoltrato? Se è così, io ti consiglio di schiarire i colori, oppure di appesantirli. Le riprese andranno avanti fino alla fine del semestre?» «Ci possiamo adattare», dice Woody. «Non voglio togliere le foglie dagli alberi.» «È meglio se la storia copre un arco di tempo breve. Siamo nel New England, quindi il cambio di stagione si vede.» (L’azione si svolgerà tutta nel corso di una sessione estiva.)

«Joaquin ha trentanove anni, giusto?» chiede Woody, pensando al suo personaggio. Abe deve avere qualche anno di più per aver raggiunto una fase simile nella sua vita. «Se nel film avesse quarantadue, quarantatré anni… Io non ho mai visto Joaquin di persona. L’ho visto al cinema, è ovvio. Ci siamo parlati brevemente al telefono. È stato molto gentile. Mi ha fatto due domande. Poi gli ho detto, “Ci vediamo alla prova costumi”. Scarlett [Johansson] mi ha detto che è un tipo molto piacevole con cui lavorare.» Tutto questo succede in meno di dieci minuti. Benzinger propone di passare ai capelli di Emma Stone. Woody dice, «All’inizio le ho detto, “Per questo ruolo dovresti essere bionda”. Lei ha detto, “Ti prego, no, non ho melanina e il biondo mi sbatte, sembrerò un fantasma”. Io le ho detto, “Come vuoi. L’attore che ho appena preso per la parte del tuo fidanzato ha ventidue anni. Cerca solo di non sembrare sua zia”.» «Emma non porta parrucche, anche se ormai le portano tutte le attrici protagoniste», dice Benzinger. «Vuole tenersi la frangia. Le ho chiesto come sta con le trecce, e lei ha detto, “Bene”.» «Le hai chiesto quale colore vuole?» «Rosso tendente al ramato.» «Basta che si senta a proprio agio.» «Per i vestiti di Emma userei tonalità chiarissime: beige e verde pallido. Belle, delicate e morbide.» Woody annuisce. «Semplici e adorabili.» Passano a parlare di Parker Posey. «Rendila delicata e carina. Non volevo chiamare una come Angelina Jolie per la parte: è un’insegnante di biologia e Angelina sarebbe troppo bella, ma non farle mettere i guanti.» (Nel film, il personaggio

insegnerà chimica per rendere più credibile un aspetto della trama.) «Per lei ho pensato a un turchese scuro, non quel blu che detesti.» (Per anni Woody ha avuto un’avversione per le tonalità più scure del blu, perché tendono a raffreddare lo schermo. Recenti sviluppi della tecnologia hanno corretto quella situazione, ma ormai non usare certi toni di blu è diventato una tradizione per lui.) «Okay», le dice Woody. Hanno finito. Come nella maggioranza dei film di Woody, il resto del cast indosserà abiti in tenui colori autunnali e varie tonalità di cachi, in modo tale che i loro costumi non distolgano l’attenzione: una gamma cromatica che Helen Robin definisce «cinquanta sfumature di beige». Alle comparse viene specificato quali abiti e quali colori indossare. Chiunque si presenti con addosso un capo di abbigliamento chiaramente associabile a una marca – una t-shirt con un logo, ad esempio – viene fatto cambiare con ciò che i costumisti hanno sotto mano, perché non ci sono il tempo o il denaro necessari a ottenere il permesso di riprendere abiti protetti da copyright. Per un film simile, con molte comparse, Benzinger va «ogni giorno dall’Esercito della Salvezza a fare scorta di vestiario». «Woody ha una certa estetica, ed è molto classica», ha detto Benzinger in un secondo momento. «Pochi fronzoli, qualche capo appariscente qua e là. Non si può usare molto rosso, perché l’occhio lo segue in automatico. A Woody non sfugge niente. Se in una scena metto qualcosa che non gli piace, la macchina da presa non la filma.» Un caso in cui Woody voleva che lo sguardo dello spettatore venisse attratto da un elemento in campo è in Interiors, quando Pearl (Maureen Stapleton), la nuova fiamma di Arthur (E.G. Marshall), entra per la prima volta in scena. Fino a quel momento, le stanze, l’arredamento e i costumi del film hanno colori tenui, soprattutto il grigio e il bianco. Di colpo, il rosso acceso dell’abito di Pearl colpisce

l’occhio di chi guarda. Lei è come un soffio di vento capace di cambiare l’atmosfera, un personaggio un tantino volgare ma effervescente e vitale, che irrompe in una famiglia altoborghese controllata e trattenuta. Quando Woody recita nei suoi film, indossa abiti di Ralph Lauren, come molti altri suoi personaggi, perché, come sottolinea Benzinger, «i modelli di Ralph hanno una splendida resa sullo schermo e sono di ottima fattura. E il suo staff è incredibilmente generoso con noi». La generosità è ben accetta, e spesso necessaria. Il budget per i costumi di Blue Jasmine, figurazioni incluse, era di 35 000 dollari, ma data la celebrità di Cate Blanchett parecchi stilisti sono stati felici di prestare o donare abiti di sartoria, compresa una giacca bianca di Chanel da oltre 8000 dollari. L’atelier di Benzinger sta nel suo loft al Greenwich Village, il posto in cui lei lava, tinge, stira e invecchia i costumi, per poi appenderli nell’appartamento o sul piccolo tetto terrazzato. Per dare a quella giacca di Chanel un aspetto logoro, rappresentativo della personalità di Jasmine, che non accetta le ristrettezze economiche in cui si ritrova e quindi continua a indossare i simboli ormai malandati della sua passata ricchezza, Benzinger ha fatto lavare il capo a secco, poi l’ha immerso nell’acqua, e l’ha appeso ad asciugare sul tetto. Alla fine è riuscita a ottenere il risultato desiderato, però ammira la qualità della fattura: «È difficile rovinarla», dice. Quando Woody guarda un film qualsiasi, è consapevole di cosa renda una scena interessante e coinvolgente, e separa, per istinto, la direzione della fotografia dagli elementi scenografici. «Di solito, dopo aver visto Barry Lyndon (Kubrick, 1975) la gente dice, “Oh, che straordinaria fotografia”. Quando lo vedo io, invece, penso che la fotografia sia bella, sì, ma sono le location a essere eccezionali.» Lo stesso accade con i costumi. «In un film contemporaneo, non vuoi che i costumi siano troppo appariscenti. Ci sono alcuni

costumisti e registi che, quando c’è un macchinista o un attrezzista, lo vestono con salopette e pullover o con il gilet. L’eccesso, nella recitazione o nei costumi o nella fotografia, è sempre un difetto: recitare in modo troppo enfatico; strafare. Sei consapevole che stai esagerando: quel personaggio non indosserebbe mai un basco. Vuoi una macchina, e ti portano una Ferrari. A quel punto sta a te dire, “No, una normalissima Chevrolet”. Non devi quasi mai dirti: “Fai di più”.» I film di Woody Allen si appoggiano sulle spalle di Helen Robin. Di solito un film ha un produttore esecutivo e un direttore di produzione, ma Robin ricopre entrambe le posizioni. «Quando devi trattare con un grosso produttore ci sono molte cose da fare», spiega lei. «Io sono quella da cui passa tutto, più o meno, quindi perché non farlo?» Nativa di New York, è un tipo concreto con spiccate doti organizzative e un sesto senso che si allerta quando qualcuno cerca di metterle i piedi in testa. Se qualcosa va storto, cosa che tende a succedere una volta ogni dieci minuti durante la produzione di un film, Robin l’avrà già previsto e starà già lavorando per correre ai ripari. Descrive se stessa come «una persona pessimista, perché a un certo punto da bambina devo aver fatto una cosa con spirito ottimistico, quella cosa non ha funzionato, e a quel punto mi sono detta, “Lo sai, ci si sente meglio se ci si prepara al peggio”.» Robin sa essere dura o cordiale a seconda della situazione, e ha un incredibile senso dell’umorismo. Il suo primo compito, dopo che Woody ha deciso quale sceneggiatura girare, è stabilire un piano di lavorazione. Una volta fatto quello, comincia a preoccuparsi del budget. «Ogni anno c’è una quantità X di soldi, indipendentemente dalla sceneggiatura in sé, o dal luogo delle riprese», ha detto dopo aver chiuso il budget di The Boston Story. «Quindi io so già più o meno quanti giorni di riprese ci possiamo permettere, ovunque saremo, e di solito abbiamo trentacinque giorni. Allora faccio lo spoglio della sceneggiatura. C’è un programma che si chiama Movie Magic Scheduling. Prendi

una copia della sceneggiatura, una penna e un righello, e ogni pagina del copione viene considerata l’insieme di otto ottavi. Sottolineo il cast, le figurazioni speciali, la presenza di animali, di mezzi di trasporto particolari – tutto ciò che esula dalla normalità – e poi batto al computer, “Interno scuola, giorno, due ottavi”. Alla fine ti ritrovi con un centinaio di strisce, una per scena, e le devi accorpare come in una specie di puzzle. La cosa che facilita la vita, e che di solito non vale per chi lavora ad altri film e copre il mio stesso ruolo, è che in un modo o nell’altro devo portare a casa il film in trentacinque giorni, una costante. Io so come gira Woody. Devo tener conto del direttore della fotografia che useremo, perché alcuni sono più veloci di altri. Abbiamo un cast di attori di primo piano e io so che devo organizzare tutto anche in base ai loro impegni. Una volta che conosciamo il grosso del cast e le loro disponibilità, organizzo il piano in base a loro. «Quando calcoli il piano finanziario non pensi ai costi giornalieri; devi guardare il quadro generale. Ogni dipartimento va preso separatamente: questo è il compenso dello scenografo, queste sono le persone di cui ha bisogno. Un film in costume costa di più perché bisogna fare molte più cose. Il 99,9 percento delle volte il budget finale non corrisponde alla cifra di cui disponi. Ci sono cose che non si possono cambiare, come lo stile di vita di Woody e quello di tutti gli altri. Allora sei lì e ti chiedi, “Ma dobbiamo proprio girare un film in un’altra città, o in un altro paese, con tutto che bisogna far spostare così tante persone e trovargli un alloggio?”. Questo film è l’esempio perfetto. Lo si poteva girare in qualsiasi punto degli Stati Uniti. Penso che Woody si sia messo in testa Boston perché per lui è la classica città universitaria, ma quando abbiamo saputo che Boston era fuori questione, potevamo scegliere di girarlo in qualsiasi altra città. Avremmo speso di meno girando a New York. L’unico che ci rimette è Woody. Ma è la sua visione.»

Nelle sei settimane successive, Robin ha supervisionato un complicato processo logistico: ha messo su un ufficio per la produzione a Warwick, una cittadina a metà strada tra Providence e Newport; ha ingaggiato una troupe di oltre 120 persone e la ditta di catering che a quelle persone deve dare da mangiare durante il giorno; ha negoziato con i sindacati a proposito di varie norme lavorative, e con le autorità locali a proposito di permessi vari; ha stabilito un piano di lavorazione che inizialmente era di trentacinque giorni ma che presto si è ridotto a ventotto per ragioni di budget, trasformando un mal di testa in un’emicrania cronica; e ha trovato un hotel che ospitasse la troupe, oltre a un certo numero di case per i membri più anziani del team. Per finire, lei e Letty Aronson hanno dovuto trovare una casa con una bella cucina per Woody e la sua famiglia, dove ci fosse spazio per tutti, compresa la loro ragazza alla pari. La casa in cui Woody abita mentre gira deve avere tre caratteristiche fondamentali: un impianto di aria condizionata potente e affidabile; un tapis roulant, oppure un posto dove può essere collocato un tapis roulant affittato apposta; e soprattutto, dice lui con aria divertita, ben consapevole della propria eccentricità, «una bella doccia pulita con un getto piuttosto potente e sufficiente acqua calda, così che nessuno di noi si trovi mai in una situazione dove l’acqua non è calda o scende col contagocce». Inoltre, visto che a Woody piace radersi sotto la doccia, ci dev’essere abbastanza luce, e un posto dove lui possa fissare il suo specchietto a ventosa. «La doccia è un fattore fondamentale, fondamentale. Non potrei farne a meno. Se non ci fosse, non riuscirei a girare il film. Andrei in albergo.» Non sarebbe la prima volta, in effetti. Quando, negli anni sessanta, Woody si esibiva al celebre Crystal Palace di St. Louis, insieme alla bravissima cantante jazz Irene Kral, oggi scomparsa, la sua paga includeva vitto e alloggio. Ma la sua sistemazione, anche se sotto ogni altro aspetto era ottima, non aveva una buona doccia, così diverse volte a settimana Woody

se ne andava al vicino motel della catena Howard Johnson, affittava una stanza, si dava una lunga e vigorosa lavata, e poi usciva. «Ci ho speso tutta la paga», ricorda. In preparazione all’inizio delle riprese, fissato per il 7 luglio, ci sono stati alcuni giorni di sopralluoghi tecnici, in cui i responsabili dei vari dipartimenti hanno esaminato le location per capire di cosa avrebbero avuto bisogno. Khondji ha valutato le esigenze della sua squadra di operatori e assistenti, e lui e Woody hanno deciso dove sistemare la macchina da presa per le scene in esterni. Gli attori principali si sono riuniti per un giorno di prove costumi, filmate in un magazzino vicino all’ufficio della produzione. Il giorno seguente – cinque giorni prima dell’inizio delle riprese – Woody, Soon-Yi e le loro figlie adolescenti, Bechet e Manzie, si sono sistemati in un’immensa casa in pietra che sorge su un ampio terreno recintato, con una bella vista su Second Beach, la spiaggia di Newport a un chilometro e mezzo di distanza, e sull’intero orizzonte. Alle nove di sera la famiglia partirà per Barcellona, ospite del produttore Edward Walson sul suo aereo privato, per tre giorni di svago prima dell’inizio delle riprese. Questa sarà l’occasione per la famiglia di Woody di fare almeno un breve viaggio insieme, prima che le figlie si imbarchino nelle loro diverse avventure estive. Sono quasi le cinque di pomeriggio e Woody siede tra Suzy Benzinger e Helen Robin al bancone della grande cucina dai pavimenti in pietra, decorata con un’imponente stufa La Cornue. Guarda su un iPad i video delle prove costumi, in modo da prendere le ultime decisioni sul look dei tre personaggi principali. Soon-Yi è impegnata con i suoi preparativi per il viaggio in un’altra parte della stessa stanza. La conversazione si sposta su altri film, altri attori, e sulle loro fisime. Benzinger dice che quando un attore invecchia si sente

più libero di verbalizzare le lamentele sulle numerose malattie immaginarie che lo affliggono. «Davvero?», chiede con aria incredula Woody, un ipocondriaco cronico (anche se lui preferisce definirsi “un allarmista”). Soon-Yi alza gli occhi e senza perdere un colpo dice, «Non l’avrei mai detto, Woody». Ridono tutti quanti, nessuno più di lui. Ci sarà una trentina di stanze in questa casa, che si estende su tre piani, compreso un seminterrato con due grandi camere da letto e una sala da biliardo dotata di un caminetto gigantesco. «Il signore del castello», dice Woody ironizzando sulla sua situazione abitativa, dopo aver preso alcune decisioni riguardo ai costumi. «Però sono contento della sceneggiatura, sono contentissimo di Emma e di Joaquin e di Parker Posey e degli altri attori. Una volta che comincio a girare vorrei soltanto poterlo fare per ventiquattr’ore di fila; sarebbe un aiuto per me. Quando stacchiamo il venerdì sera e ho davanti il weekend, lì per me è durissima. Il weekend non mi passa mai.» Quando Woody gira a Londra, a Parigi o a Barcellona è un discorso diverso, perché in quelle città c’è sempre molto da fare. Ma che fare a Newport, se non piace né il sole né l’oceano? Woody sta già valutando varie possibilità. «Forse potrei tornare a New York, o andare a Boston o da qualche altra parte a fare il turista. Tra due settimane devo andare alla prima di Magic a New York e poi a Chicago, almeno questo… [si ferma e ride di nuovo] … genererà abbastanza ansia da farmi superare il weekend». Un modo sicuro di placare quell’ansia è il lavoro; Woody sta ancora rimaneggiando «compulsivamente» la sceneggiatura. «Continuo a vedere delle cose, anche se non sono certo che siano migliori. Forse sono soltanto mosse laterali che sembrano migliori solo perché sono nuove.» La troupe, soprattutto le persone che si occupano dei costumi e delle location, sta lavorando senza sosta da

settimane. Woody si è regolato in modo da essere nel pieno delle forze all’inizio delle riprese, anche se questo spesso si è dimostrato frustrante per quelli che vogliono soltanto lavorare il meglio possibile per lui, ma non sempre riescono ad avere la sua attenzione quando si tratta di scegliere cosa lui vuole. Woody si sente più a suo agio nel prendere decisioni quando è pronto per girare, e non prepara mai niente prima, perché questo porterebbe via molta della spontaneità che per lui è cruciale. Si rende conto che il suo atteggiamento crea inevitabilmente problemi ai vari professionisti che per lavoro devono accertarsi che per quel momento tutto sia già il più possibile pronto, ma lui lavora così, e gli altri imparano ad adattarsi. Mentre cerca di mantenere il controllo su se stesso prima del lunedì dell’inizio riprese, Woody si paragona a un giocatore di baseball, un lanciatore che sta per affrontare una squadra molto tosta. «Devi tenere alta la guardia in ogni singola scena, così quando arrivi in sala di montaggio hai tutto quello che ti serve. Quando sei nella tua sesta settimana di ripresa, cominci a stancarti e le cose magari non vanno tanto bene, tendi a dire, “Sentite, si gela”, oppure “Fa caldo”, oppure “È tardi, giriamo la scena e andiamocene a casa”, però poi in sala di montaggio te ne puoi pentire. Allora il lanciatore deve darci dentro anche con i tre battitori più scarsi della squadra. Non puoi abbassare la guardia con loro solo perché non sono i più bravi; ogni piccola cosa, ogni passaggio d’automobile è importante. Poi magari il film non è buono per un miliardo di altre ragioni, ma almeno non ti senti come mi sentivo io tanti anni fa. I primi cinque anni, io non tenevo alta la guardia in tutte le scene. Mi perdevo per strada qualche pezzo, non davo il meglio di me, e poi me ne pentivo. Continuavo a ripetermi, “Ma tu non impari mai? Ti ricordi quando, in sala di montaggio avresti voluto avere un primo piano del calamaio così da poter accorciare la scena?”. Arriva il momento in cui l’aiuto regista ti chiede, “Abbiamo finito qui?”. E invece di

dirgli, “È meglio fare anche un primo piano del calamaio”, io dicevo, “Abbiamo finito, andiamo avanti”.» Il viaggio a Barcellona è un gradevole diversivo per passare il tempo in attesa dell’inizio delle riprese, ma Woody è pronto a mettersi al lavoro. «Il posto è come lo volevo io, la sceneggiatura è quella che ho ideato io, e me ne sto qui a contare i minuti, a intagliare col coltello la testata del letto e a tirare una linea sui cinque giorni che mancano.»

5 Le riprese

I film non vengono quasi mai girati seguendo l’ordine delle scene per come appaiono nella sceneggiatura, ma piuttosto l’ordine che meglio limita le spese. Di solito tutte le scene ambientate in una particolare location vengono accorpate, e, quando possibile, gli attori non protagonisti terminano il lavoro entro pochi giorni, così da non dover essere pagati e spesati per l’intera durata della produzione. Questo capitolo racconta cos’è successo sul set dal primo all’ultimo giorno, nel corso di sette settimane, invece di seguire la sceneggiatura dall’inizio alla fine.

1. «Ho tagliato il chiacchiericcio.» L’orario di convocazione di Woody il primo giorno delle riprese è fissato per le otto di mattina; il luogo è il Fastnet Pub di Newport, che ha quella tipica aria autentica da finto pub irlandese. Sul muro troneggia una foto del faro che sembra inchiodare Fastnet Rock all’oceano Atlantico nel sud dell’Irlanda. A un lato della grande sala c’è un bancone, con i rubinetti per la birra alla spina e decine di bottiglie di liquori disposte davanti a uno specchio a tutta parete. Diverse insegne al neon pubblicizzano marche di birra. In un’area più piccola, discostata dalla sala principale, c’è un tavolo da biliardo. Quando Woody arriva sul set, una dozzina tra elettricisti, attrezzisti e macchinisti, convocati alle sei del mattino insieme al resto della troupe, hanno montato le luci con le travi al soffitto, hanno pinzato dei pezzi di stoffa neri chiamati flags (“bandiere”) a treppiedi regolabili, in modo da poter

modificare la luce, e hanno montato diversi fogli da 36,5 per 60 centimetri di Ultrabounce (una stoffa bianca che riflette la luce, tesa all’interno di telai in alluminio) per deviare la luce e diffonderla facendo sembrare tutto molto naturale. La squadra di ripresa – composta da un operatore, due assistenti, e un loader – si è posizionata proprio sull’uscio dell’ingresso, così che la macchina da presa possa fare una panoramica verso il basso, a partire dal tavolo da biliardo che è collocato su un’area rialzata in fondo alla sala, fino ad arrivare a Jill (Emma Stone) mentre la ragazza cammina verso il bancone sul lato opposto insieme a un’amica, e lì ci trova Rita (Parker Posey) seduta su uno sgabello; un incontro casuale nella scena 101. La panoramica è una modifica dell’ultimo minuto da parte di Woody, che vuole riprendere il tavolo da biliardo per far capire al pubblico che si tratta dello stesso pub che vedranno ancora, pur se da un’angolazione diversa, nella scena 126. Il sound mixer, il tecnico del suono, sta in un altro angolo, e i produttori Edward Walson e Stephen Tenenbaum stanno pigiati in uno spazio ridottissimo alle spalle della macchina da presa, seduti sui sottili cuscini di una panca molto stretta. Vicino alla macchina da presa ci sono due monitor su cui Woody e Khondji guarderanno i vari ciak ascoltando i dialoghi tramite cuffie. Quando la location è meno scomoda, o meno affollata, il sound mixer sta insieme a loro nel cosiddetto “video village”. La sedia da regista di Woody è sistemata di fronte ai monitor; Woody è miope dall’occhio destro, e durante i ciak tiene il viso a pochi centimetri dallo schermo che mostra l’inquadratura per come apparirà nei cinema. Dato che il formato anamorfico “stira” l’immagine, questa attraversa la porzione centrale del monitor, con due bande nere sopra e sotto. Accanto a Woody c’è Virginia McCarthy, la segretaria di edizione, che tiene conto di ogni scena e inquadratura registrando ogni minimo particolari – la cosiddetta continuity (coerenza interna) – su un iPad dove ha scaricato una app per

facilitarsi il lavoro. McCarthy misura la durata di ogni ciak con un cronometro, e la sua continuity riporta ogni dettaglio del film: il tipo di inquadratura (campo lungo, totale, figura intera, piano americano, mezza figura, primo piano, carrello); la posizione degli attori; qualsiasi eventuale modifica ai dialoghi; indicazioni su quale ciak fosse migliore per il tecnico del suono o per l’operatore; e così via. I ciak che Woody vuole stampati vengono evidenziati in verde, gli altri in rosso. L’assistente alla regia Danielle Rigby, che gestisce il set con i suoi modi pacati ma decisi e ha già lavorato con Woody in quattro dei suoi film precedenti, sta posizionando le quarantacinque comparse sui vent’anni che fingeranno di essere clienti del bar. Nel frattempo, Woody legge le quasi quattro pagine di sceneggiatura da girare entro sera (ogni mattina lui e i componenti principali della troupe ricevono gli stralci, la porzione della sceneggiatura prevista per quel giorno), e dice, un po’ sorpreso, «Questa è una scena lunga». Fa una pausa ed esclama con enfasi, come se leggesse quelle parole per la prima volta: «È lunghissima». Loquasto ride e gli risponde, «Lo dici tutte le mattine». Loquasto è sul set dalle 4.30, in modo da essere certo che tutto sia sistemato alla perfezione. È cresciuto a Easton, Pennsylvania, in una casa che stava sopra un salone di bellezza e poi sopra un bar, ma afferma di non saper preparare nessun drink. «Quattro anni di università e tre anni di specializzazione – Yale School of Drama, prima che ci andasse Meryl Streep, visto che me lo chiedono tutti – e nella vita faccio questo?» si chiede, fingendosi orripilato. Woody indossa pantaloni color crema, una camicia di cotone beige a maniche lunghe con il colletto logoro, scarpe marroni un po’ consumate di Varda e un cappello da pescatore di Borsalino che ha l’aria di essere stato portato molto: solo uno tra i tanti cappelli che l’azienda produttrice gli ha regalato mentre era in Francia a girare Magic in the Moonlight.

Woody arrotola il cappello e se lo infila nella tasca posteriore dei pantaloni, poi sale sul dolly e guarda attraverso la lente, sistemandola un po’: «Devo cambiare occhiali», dice. Lo dice con un tono che fa ridere tutti i componenti della troupe a portata d’orecchio. Poi Woody raggiunge Jill e Rita e dice loro di tagliare le prime battute della scena, uno scambio di convenevoli che occupava circa un quarto di pagina. «Ho tagliato il chiacchiericcio», dice quando ritorna. «È una scena lunga e dobbiamo arrivare al sodo.» (Più tardi aggiunge: «Ho fatto quei tagli perché è come quando vai in scena in uno spettacolo di cabaret: provi e riprovi le battute, e poi sali sul palco e capisci, “Quello non lo posso dire, e se dico questo muoio! Devo tagliare tutte le battute dalla prima alla nona, non vanno bene”. Qui funziona allo stesso modo. Arrivo sul set e penso, “Oh, Dio, questa parte era bellissima quando ho letto la sceneggiatura, ma adesso che qualcuno la recita a voce alta, è veramente troppo lunga”. Quindi ho tagliato qualcosa al volo, come faccio sempre. È quello che io chiamo “lo scontro con la realtà”. Tutto quanto è successo prima era pura speculazione. Adesso gli artifici della pagina scritta non valgono più, sei sul set, e se un dialogo è scritto male, lo senti. La realtà ti getta in una spirale negativa».) Woody torna di nuovo da Jill e le dice di stare in piedi oppure seduta, come preferisce – «Mettiti comoda» – mentre lui parla un attimo con Rita, che è già seduta al bar e deve avere l’aria di chi si è scolato un paio di scotch. Poco dopo le 9.30 tutto è pronto per girare la prima scena. Khondji controlla per l’ultima volta il suo esposimetro e cambia leggermente posizione a un riflettore. Letty Aronson arriva e si siede tra Tenenbaum e Walson. «Abbiamo già finito?» chiede, in tono vivace. Rigby si rivolge alle comparse: «Molta energia sullo sfondo: siete al bar e vi state divertendo». L’accento di Rigby tradisce le origini australiane (suo padre era il grande vignettista Paul Rigby). «Motore», annuncia uno degli operatori. La parola viene ripetuta a gran voce da un coro

di assistenti di produzione che stanno dentro e fuori dal pub; un modo molto rumoroso di chiedere il silenzio. Chiunque sia nei paraggi deve stare fermo senza dire nulla, per evitare che il ciak venga rovinato da qualche rumore imprevisto. «Sfondo!» grida Rigby, e le comparse iniziano a giocare a biliardo. «E… azione!» La macchina da presa inquadra il tavolo da biliardo. Comincia la panoramica. Il caricatore della pellicola si inceppa. «Ovviamente», dice Woody. «È successo anche al primo ciak di Magic», gli ricorda Khondji. «Spero che questo primo giorno di riprese non vada buttato», dice Woody, a bassa voce. Senza dubbio si sta ricordando le molte volte, anche durante la lavorazione di Magic in the Moonlight, in cui ha dovuto buttare la giornata perché l’immagine non era come la voleva lui, oppure c’era qualche battuta che voleva cambiare, oppure gli attori non avevano ancora trovato il loro ritmo. Per girare questa scena bisogna preparare cinque inquadrature: la panoramica del pub in cui Jill incontra per caso Rita e scambia con lei le prime battute; un’inquadratura soltanto di Rita, vista da sopra la spalla destra di Jill: una di Jill da sopra la spalla sinistra di Rita; e un primo piano per ciascuna. Segmenti delle varie inquadrature verranno montati insieme in modo da ottenere il massimo effetto drammatico. «Faremo molte inquadrature di raccordo e copertura perché questa sceneggiatura è più intima e psicologica del solito», dice Woody. Nella maggioranza dei suoi film, si affida alle inquadrature totali ogni volta che può, in modo da catturare l’intera scena in un colpo solo. Spesso una scena fatta in un teatro di posa non ha la verosimiglianza di una scena fatta in un vero edificio, ma ha il vantaggio di essere girata in un ambiente che si può

controllare, privo di rumori estranei. Una scena come questa, invece, filmata tra le mura di un pub in un quartiere molto affollato, trae sicuramente vantaggio dalla realtà del contesto, ma un ciak può essere rovinato dal clacson di un’automobile o da altre interruzioni che disturbano l’intimità del dialogo. Si possono fare degli aggiustamenti, certo, ma in generale il lavoro del tecnico del suono è in balia dell’SNR – Signal to Noise Ratio (rapporto segnale/rumore). Più alta è la voce degli attori, più il tecnico del suono può abbassare il sonoro di sottofondo; più bassa è la voce degli attori, più alti saranno tutti gli altri rumori registrati dai microfoni. Questa è una scena in cui gli attori devono parlare a voce relativamente bassa, quindi David Schwartz, il tecnico del suono, deve fare del proprio meglio. Dice che si sente un po’ di rumore d’ambiente all’esterno del pub, ma invita a proseguire. «Alzate la voce sopra il brusio», dice Woody, in tono bonario ma un po’ frustrato. Quasi tutti i registi superano questi problemi con l’ADR (Additional Dialogue Recording), un tipo particolare di doppiaggio per cui gli attori vanno in uno studio di registrazione e ripetono le loro battute così che corrispondano al movimento delle loro labbra sullo schermo. Ma per Woody è impossibile migliorare la qualità di un dialogo registrato sul momento, e preferisce tenersi le battute meglio recitate e il rumore di fondo, piuttosto che liberarsi del rumore accontentandosi però di interpretazioni meno riuscite. In più, quello che per un fonico professionista rappresenta un problema spesso non lo è per Woody o per lo spettatore medio. La scena viene girata da capo. Stavolta il caricatore non si inceppa. «Va bene per te?» Woody chiede a Khondji. Va bene. «Facciamone ancora una o due», dice Woody. Il ciak successivo non è buono, parte subito male; Woody fa pollice verso a McCarthy, ma lascia finire la scena agli attori così da non disturbare la loro concentrazione. Il terzo ciak è okay, il quarto non è buono. Parte del problema per Woody sta nel fatto che negli ultimi sei mesi ha sentito questi dialoghi solo

nella sua testa. Ascoltare gli attori che li recitano è sempre deludente, specie il primo giorno di riprese, perché la realtà, com’è inevitabile, si impone sull’immaginazione. Dopo il ciak Woody si abbassa le cuffie e dice, con una risata malinconica: «Quando li senti dire quelle parole, capisci quanto è scadente la tua sceneggiatura». Questa, per lui, è una costante. Il film dentro la sua testa diventa qualcosa di diverso nell’attimo in cui sente le prime battute di dialogo, perché la voce che si era immaginato non è quella dell’attore del film. Ma ci sono state due eccezioni: la prima volta in cui la voce nella testa di Woody corrispondeva a quella dell’attore è stata quando Martin Landau ha recitato le prime battute del suo personaggio in Crimini e misfatti, perché Landau era cresciuto a Brooklyn, a un isolato di distanza dalla casa in cui Woody aveva vissuto da bambino, e parlava esattamente con la cadenza e il tono del suo quartiere. La seconda volta è successo con Match Point: quando Woody ha sentito Jonathan Rhys-Meyers recitare un passaggio della sua voce fuori campo, ha subito pensato, “Mio Dio, ma questa l’ho scritta io? L’accento inglese della voce narrante suonava strepitoso alle mie orecchie”. Ma di solito le cose vanno in modo diverso. «Quando non devo misurarmi con la realtà, quando me ne sto a casa a scrivere, posso immaginare un litigio in fondo a un molo tra George C. Scott e Paul Newman. Poi faccio il film, e trovo dei bravi attori, sì, ma le loro voci non suonano come le avevo immaginate e con un molo che non è come l’avevo concepito; in più, l’attore non può cadere giù dal molo perché se lo facesse si romperebbe il collo. Quindi adesso deve correre fino in fondo al molo e poi fare qualcos’altro. Tutto quanto è in continua evoluzione, oppure, più spesso, sta tutto quanto degenerando, e lì sta il problema. Il novanta percento del materiale risulta peggiore di come tu l’avevi concepito.» Si passa al mezzo primo piano di Jill, mentre Rita le racconta nei dettagli la sua teoria: Abe avrebbe assassinato il

giudice. Woody si chiede se nel primo ciak il tono della conversazione non fosse troppo leggero, e chiede alle attrici di recitarne una versione più seria, in modo da poter avere una scelta in sala di montaggio. La scena inizia con un paio di battute tra le due donne. Poi: JILL Ho incontrato Ellie Tanner ieri e mi ha detto che lei ha una teoria a proposito di Abe. RITA Oh mio Dio, non farmi parlare… Vuoi per caso uno scotch? JILL Ha detto che è una teoria molto divertente. RITA Ah, sì, beh, è, come dire, una teoria pazzoide, ma non è totalmente sballata.

Dopo le inquadrature su Jill, la macchina da presa viene spostata dall’altro lato per le due inquadrature dedicate a Rita. Rita deve dire le battute come se lei stessa considerasse la propria teoria un’assurdità. La conversazione dura più di tre minuti, e vengono battuti parecchi ciak. Woody chiede di stampare il primo e il quinto, nonostante il fatto che Parker Posey, un’attrice di grande esperienza, per qualche ragione ha difficoltà a recitare la battuta della «teoria pazzoide» nel tono colloquiale che vorrebbe il regista. Woody va da lei e le ripete, con dolcezza, una versione del dialogo: «È buffo, tu penserai che sono matta, e in effetti è un po’ una follia, ma…». Posey lo ringrazia e ci riprova, senza successo, e naturalmente a ogni ciak diventa sempre più nervosa e agitata. Questa situazione è il peggior incubo di un attore. Tutte le persone lì intorno sentono la tensione, e fanno il tifo perché Posey dica la battuta come vuole Woody. (Lei, tuttavia, ha preso la cosa in maniera molto professionale. «A me stava bene», ha detto dopo le riprese. «Non sono andata a piangere nella mia roulotte.») Dopo altri tentativi fallimentari, Woody torna da lei e le suggerisce, in un tono assolutamente colloquiale: «È un’assurdità e forse non ci crederai», oppure «So che sembra

folle». Dopo un altro paio di ciak insoddisfacenti, le dice, «Ripeti dopo di me» e «Usa le mie parole», ma l’intenzione stenta a venir fuori, finché, al nono ciak, tutto va per il verso giusto. «Questa era ottima», dice Woody. Si gira qualche altro ciak. In uno degli ultimi, il rumore del ghiaccio che si scioglie nel bicchiere di Rita copre la parte finale del suo dialogo. Dopo che la sequenza verrà rimessa insieme in sala di montaggio, non riporterà la minima traccia di queste difficoltà. Posey ha fatto, al solito, un lavoro superbo. Stone e Phoenix sono gli attori protagonisti e compaiono in quasi ogni scena, quindi, per necessità, hanno ricevuto l’intera sceneggiatura e conoscono tutta la storia. Gli altri attori del film – come è tradizione per i film di Woody Allen – non la conoscono. Woody crede che gli attori non debbano sapere la trama o cosa succede nelle scene in cui non sono presenti; questo rischierebbe solo di complicare la loro interpretazione, rendendola più studiata, meno naturale. Gli attori sono esseri umani, quindi si costruirebbero una loro idea sul senso della storia, invece di recitare le loro battute in modo spontaneo e naturale quando si trovano sul set. Perciò, a differenza di molti registi che sottopongono i loro attori a prove meticolose – Mike Leigh, per esempio, alle prove dedica settimane – Woody non prova quasi mai niente (se non quando c’è da capire come debbano muoversi fisicamente gli attori all’interno di una scena) e nelle rare occasioni in cui ha dovuto provare una scena sul set, in seguito ha detto che gli sarebbe piaciuto filmare la prova, perché i dialoghi erano al massimo della naturalezza. Non vede alcuna ragione di cambiare metodo.

Woody, durante la prima scena del primo giorno di riprese, spiega a Parker Posey come devono essere pronunciate le battute di Rita. Spesso le scene del primo giorno vanno rigirate, ma dopo diversi ciak questa è venuta come la voleva lui.

«Nel corso degli anni ho seguito il mio metodo di lavoro e ho ottenuto magnifiche interpretazioni dagli attori; non gliele tiro fuori con la forza. Gli attori non fanno prove, molti hanno soltanto i loro stralci di sceneggiatura, vengono sul set [schiocca le dita] e partono, così, e sono splendidi. E quando vedono il film finito non potrebbero essere più felici della loro performance. Quindi nessuno è mai venuto da me a lamentarsi, prima, durante o dopo le riprese. Nessuno mi ha mai detto, “Ah, se solo avessimo provato di più”. E nessuno si è mai lamentato del fatto di non aver ricevuto la sceneggiatura completa. [Del resto, molti attori sono insicuri e non metterebbero mai in discussione un regista, specialmente uno del calibro di Woody.] Gran parte dell’industria del cinema è spazzatura, a cominciare da tutte quelle riunioni e da tutto il tempo perso a cercare di far partire un progetto, dal denaro sprecato, e dalla gente che si dà tante arie. È solo una questione di buon senso, mettersi insieme e fare un film. Lo dimostrano tutte le persone che non hanno soldi né tempo, eppure uniscono le forze e lavorano benissimo.»

Quando si è seduta al bancone per il suo primo ciak, Posey non sapeva se stesse recitando in una commedia o in un dramma, però non ha fatto domande, e questo a Woody stava bene. I due avevano scambiato solo qualche chiacchiera durante la prova costumi, alcuni giorni prima, ma questo vale per quasi tutti gli attori; niente informazioni approfondite sul personaggio; niente prove; nessuna visita alla roulotte il primo giorno di riprese, nessun benvenuto ufficiale. Soltanto un «Eccoci qui; mettiamoci al lavoro». Woody è sicuro che gli attori sappiano interpretare bene la loro parte, altrimenti non li avrebbe scelti. Il suo approccio ormai è talmente famoso che nessuno si sorprende. Però una cosa è sapere in linea teorica come lavora, un’altra è farne esperienza diretta. Trovarsi esposti allo sguardo di un ammiratissimo sceneggiatore/attore/regista che di colpo ti chiede di fare qualcosa diversamente da come sei abituato rischia di paralizzarti. Alcuni attori, come dice Loquasto, «È come se diventassero sordi. Piombano nel panico: pensano, “Le sue labbra si stanno muovendo ma non riesco a sentire cosa dice”. Ma ci può anche essere un’enorme carica liberatoria, nell’avere la libertà di diventare il proprio personaggio senza che ci sia alcuna sovrastruttura, ma sapendo che Woody reagirà e proporrà un’alternativa se ce ne sarà bisogno. Dopo che Posey ha terminato di girare le sue scene, mi ha mandato un messaggio per spiegarmi la combinazione tra sfida ed emozione che per lei è stata interpretare il personaggio di Rita. Sono tornata a casa e ho trovato la lettera che Woody mi aveva scritto per offrirmi la parte. Non era neanche una vera offerta, era un semplice «Cara Parker, Rita è… Saluti, Woody». Era soltanto un paragrafo in cui descriveva questa donna, in maniera breve e stringata, e insieme alla lettera ho ricevuto una ventina di pagine della sceneggiatura. La lettera non parlava del fatto che Rita fosse «una donna sola»… Questa è una delle cose che Woody mi ha detto, guardandomi fissa negli occhi, il primo giorno di riprese, il giorno dei venti ciak. Oltre a spiegare che Rita «ha un matrimonio infelice», la lettera la descriveva come una a cui piace flirtare e «un tipo facile», che prova dei sentimenti per Abe e «fantastica» che prima o poi lui la porti via con sé. Sapevo che Rita tendeva a lavorare molto di fantasia, ma il fatto

che lei fosse «una donna sola» non mi era stato messo per iscritto. Io pensavo, “Anche se Rita ha un matrimonio infelice, ha la passione necessaria a seguire i suoi desideri ed è arrivata al punto della sua vita in cui quei desideri possono trovare una manifestazione positiva”. «Si sente come in trappola» è stata un’altra delle cose che Woody mi ha detto sul conto di Rita durante quella prima scena con Emma. (Parlerò di questa sensazione ad Abe quando siamo sulla scogliera, più avanti nella storia.) Sapevo che lei aveva questo genere di desideri, insomma, ma visto che non avevo letto la sceneggiatura per intero non sapevo se questo fosse uno dei film cupi di Woody Allen oppure uno più leggero. Quel primo giorno, al primo ciak, ho cominciato a intuire che fosse abbastanza cupo e profondo. E che io fossi intenzionalmente tenuta all’oscuro di parecchie cose. Sedevo rivolta verso l’esterno, lontana dal bancone del bar, e osservavo gli studenti – mentre aspettavo e cercavo Abe – e Woody mi ha detto, «Cosa stai facendo? Sembra che tu stia aspettando l’arrivo della macchina da presa». Io non avrei risposto,«No, per niente, mi ero solo distratta seguendo i miei pensieri», né «Darius mi ha detto di guardare verso l’esterno perché è lì che hanno montato le luci», cosa che peraltro era vera. Non mi sarei infilata in quel genere di discussione, piuttosto sarei stata accondiscendente. Ricordo di aver pensato, “Ha ragione lui, sto aspettando che arrivi la macchina da presa”, e poi sono precipitata in un vortice di negatività, del tipo “Non so più recitare, mi sono proprio dimenticata come si fa”. Lui mi sta dirigendo e io atterrerò in quella proiezione, sono pagata per questo, questo è il mio lavoro, essere l’oggetto. Lavorare quel primo giorno è stato emozionante e spaventoso insieme, ma io so che Woody è un maestro in quello che fa, ma ormai è tutto così complicato. Posso descrivere la situazione così: era come se stessi in una di quelle piscine con le onde artificiali mandate al massimo, e anche Woody stava nell’acqua con me. Ricordo di aver riso e di avergli detto che mi stava manipolando come fa un osteopata. Tra parentesi, io sono stata davvero DENTRO una di quelle piscine con le onde quando ero bambina, e ho ingoiato un’onda enorme che mi ha spaventato da morire. Sono sopravvissuta, ovviamente.

Il giorno seguente, Woody ha parlato della scena. «La prima inquadratura è andata molto bene. Abbiamo fatto Emma per prima perché Darius voleva cominciare da lì. E ho pensato, “Bene, Parker rifarà la sua parte un po’ di volte fuori campo”. «Cercavo di dirle delle cose carine: “Ti sei messa sulla strada sbagliata, e quando stai su quella strada sei bravissima, ma l’idea non è quella. Voglio che tu sia bravissima stando sulla strada giusta”. Cercavo un modo carino per dirle che non stava facendo bene la scena. Alla fine sono rimasto molto soddisfatto del suo lavoro.» Tanto che l’ha chiamata per il suo film successivo. Rispetto al passato, oggi Woody è più disponibile a dire agli attori come devono recitare le loro battute, anche se tuttora

preferisce evitarlo. «Ricordo le tre ragazzine [Natalie Portman, Gaby Hoffmann e Natasha Lyonne] nel mio musical [Tutti dicono I Love You, 1996], quando stavano nel negozio di gastronomia ed entrava quel bel ragazzo», mi ha detto una volta. «Mi sono dovuto ammazzare a spiegargli che, “No, questa la dovete recitare così” [mima una scena quasi isterica]. A volte la recitazione può essere incerta perché l’attore è insicuro oppure non riesce a credere che io voglia farlo recitare in maniera tanto marcata. Ho un forte istinto per la recitazione marcata. Allora mi metto le mani sul viso [fa gesti molto teatrali] e voglio che gli attori premano sull’acceleratore, che esagerino. Mi aspettavo che le ragazze recitassero in quel modo, e loro non lo facevano. Erano molto più trattenute, molto più inibite. Alla fine sono riuscito a farle recitare come volevo io, e vista sullo schermo è una scena divertente.» Woody sa bene come realizzare una scena divertente, e gli altri attori comici si affidano alle sue indicazioni. In qualche rara occasione, un comico ingaggiato per una parte chiede a Woody il permesso di cambiare un dialogo in base alla sua particolare cadenza, per aumentare così l’effetto delle sue battute – Andrew “Dice” Clay l’ha fatto durante le riprese di Blue Jasmine e Woody gli ha subito detto di sì – ma quasi tutti rispettano la sceneggiatura. In Basta che funzioni Larry David aveva un monologo lungo diversi minuti: l’ha provato per giorni, in modo da dire bene ogni singola parola. I comici tengono Woody in una tale considerazione che anche i più brillanti, o quelli di maggior successo, possono sembrare intimoriti da lui. Quando stavano girando Harry a pezzi, qualcuno ha sentito Robin Williams e Billy Crystal dirsi tra di loro, «Riesci a credere che siamo sul set di un film di Woody Allen?». A cogliere di sorpresa anche alcuni tra gli attori più affermati è la tendenza di Woody a girare molti totali, e la necessità, quindi, di dover memorizzare diverse pagine di

dialogo alla volta. Ogni tanto qualche attore si presenta sul set, va da Suzy Benzinger e le chiede, «È vero che gireremo la scena tutta insieme?». È una lezione che si impara presto e non si scorda mai. «Gli attori che hanno lavorato tanto a teatro sono i migliori in questo», dice Benzinger. Le difficoltà incontrate da Posey non si ripetono durante la seconda scena che lei gira il primo giorno, e nemmeno durante il resto del film. Il pomeriggio, per la scena 126, l’azione si svolge nello stesso pub dove Rita ha incontrato Jill. Stavolta sono lei e Abe a bere un drink e a discutere della possibilità di scappare insieme, lasciandosi alle spalle l’università e il marito di Rita. ABE (F.C.) (seduto a un tavolo del bar) Quella sera andai a letto con Rita, e giocai perfino con l’idea di portarla con me in Europa. RITA Lo sai che lascerei Paul in un minuto. Accidenti, insieme in Europa. ABE E se fossi serio? RITA Non ci posso credere, sarebbe… come un sogno. Ricominciare tutto, a Roma o in Spagna, o a Londra.

La tensione del mattino svanisce con le prime battute di Posey, recitate in una perfetta combinazione di speranza, eccitazione, e vaga incredulità. Però si considera comunque necessario girare altri ciak. Uno è eccellente, ma rovinato dal malfunzionamento della macchina da presa; a rovinarne un altro, il migliore del gruppo, arriva l’improvviso rumore di un’automobile all’esterno. Woody è esasperato dai ritardi, ma più tardi dirà, «Quello che per loro è un problema di sonoro o d’immagine potrebbe non essere nulla. L’ho imparato anni fa». Il messaggio di Posey continua: E poi c’è stata la seconda scena, quella piccola scena nel pub con Joaquin verso la fine del film, dove lei gli dice che lascerebbe Paul in un secondo, e la sua fantasia

di abbandonare la vita universitaria comincia ad avverarsi. Quando siamo arrivati sul set (per Joaquin era la prima scena), Woody mi ha detto di nuovo, «È una donna sola», poi è tornato alla sua sedia e abbiamo girato solo tre o quattro ciak; le prime due volte la temperatura era giusta, ma la terza volta io non ero del tutto immersa nella scena e Woody ha detto, «Assicurati che la tua voce non sia troppo impostata, non devi suonare troppo come un’attrice», al che io ho fatto una risata isterica e mi sono alzata e ho finto di beccarmi una pugnalata in pancia, e lui ha detto, «L’ho fatto apposta» e io detto «Rifallo!», e ho finto di beccarmi un’altra pugnalata, questa volta sulla schiena. È stato buffo, lui ha riso, io ero sollevata. Ma queste sono le cose che impari dai bravi insegnanti di recitazione: recitare non significa recitare, ma essere, e vivere la parte in quel momento. Perché Woody avrebbe dovuto assecondare le mie fantasie sulla parte e sul personaggio? Per lui sarebbe stata una perdita di tempo! Il mio lavoro era starlo a sentire e operare qualche aggiustamento, fare del mio meglio per essere la donna che lui vedeva.

Per Woody, in ogni primo giorno c’è qualcosa di impacciato, perché gli attori devono trovare il loro passo. «Il primo giorno di riprese ho avuto problemi con alcuni dei migliori attori del mondo», ricorda lui. Sul set di Una commedia sexy in una notte di mezz’estate (1982), José Ferrer si arrabbiò quando Woody gli chiese di girare quindici ciak di una scena perché una battuta fosse come la voleva lui. L’incidente di stamattina con Posey e quello con Ferrer mostrano bene che cosa si aspetta Woody dai suoi attori, oltre alla differenza tra il suo essere a proprio agio sul suo set e il nervosismo degli attori che girano la loro prima scena con un regista che ammirano molto. Nel corso del film, Woody si è trovato «benissimo» con Ferrer. «Lo trovavo un uomo di una piacevolezza rara. Ma un giorno, alla fine delle riprese, mi ha detto [fa una buona imitazione di Ferrer] “Non ce la faccio più, mi hai trasformato in un ammasso di paure”. E io ho pensato, “Mio dio, tu sei José Ferrer. Come posso io averti trasformato in un ammasso di paure? Sei un attore magnifico e io ti ho solo detto, ‘No, non la volevo così, rifalla’”. Quindi credo di essere un tipo insensibile, perché penso sempre che loro debbano dare per scontate le mie richieste.» Le persone che lavorano con Woody da molto tempo pensano che lui risulti davvero un po’ insensibile rispetto ai sentimenti individuali, ma solo perché è impaziente di voler

fare la scena giusta, anche se l’effetto su un attore può essere lo stesso. Una volta, dopo che Woody aveva cercato di rassicurare un attore in maniera assai poco convincente, Loquasto gli ha detto: «Certe volte hai il tocco di un proctologo molto maldestro». Ma la prova che il suo metodo funziona sta nell’elenco di eccezionali interpretazioni che da decenni gli attori sfornano sotto la sua guida. Hitchcock diceva «Tutti gli attori dovrebbero essere trattati come bestiame», ma Woody la pensa in modo opposto: «Io faccio affidamento sugli attori, gli lascio cambiare tutte le battute che desiderano e non li dirigo mai, a meno che, secondo me, stiano facendo qualcosa di sbagliato». Terminate le scene al pub, la troupe si sposta di un paio di isolati per la scena 40: Abe e Jill camminano e chiacchierano dopo essere stati al cinema insieme. Jill lo provoca, suggerendogli che lei forse sarebbe in grado di sbloccarlo, e Abe le dice di non volere che il loro rapporto diventi più intimo. Il cartellone del cinema pubblicizza un immaginario “Northern Lights Film Festival”, tanto per mostrare quale genere di film abbia visto la coppia senza citarlo nei dialoghi. Nella vetrinetta di fronte al cinema c’è un poster che il pubblico non potrà vedere con chiarezza, perché la scena comincia con un’inquadratura a campo lunghissimo, che poi diventa un piano americano di Abe e Jill mentre camminano. Ma siccome Loquasto crede che ogni singolo particolare deve essere del tutto credibile, e siccome nessuno, nemmeno Woody, sa quali inquadrature sceglierà il regista finché non arriveranno sul set, il poster presenta il calendario dettagliato del festival, con una serie di titoli e registi immaginari (e date di programmazione inventate) concepiti da Loquasto e dal suo staff per rendere omaggio ai film di Bergman che Woody ammira da sessantacinque anni. NORTHERN LIGHTS FILM FESTIVAL I film provenienti dai paesi del nord Europa sono spesso rinomati per la loro ombrosa sintesi dei principi della mortalità e dell’esistenza.

La rassegna Northern Lights onora questa corrente cinematografica profonda e contemplativa. SVEZIA Venerdì 27/9 – Le sorelle del sole Jernberg, 1959 DANIMARCA Sabato 28/9 – Duo Angstrom, 1980 NORVEGIA Domenica 29/9 – Rapsodia Johansson, 1967 ISLANDA Lunedì 30/9 – Lo sfortunato Bergen, 1955 FINLANDIA Martedì 1/10 – Dag e Kristina Jernberg, 1975 ESTONIA Mercoledì 2/10 – Desideri d’autunno (Svårmod) Olsson, 1977 Giovedì 3/10 – Il tredicesimo giro Lundquist, 1963 Venerdì 4/10 – Principio Jernberg, 1970 Sabato 5/10 – Parole, silenzio Magnuson, 1964

Molti registi prima di cominciare un film disegnano elaborati storyboard di ogni scena, perché hanno già deciso tutte le inquadrature. Hitchcock è stato uno dei primi grandi registi a seguire questo metodo. Uno storyboard si rivela particolarmente utile per i film d’azione: i disegni di Victor Fleming per Via col vento erano fatti a colori, e l’incendio di Atlanta era stato concepito scena per scena con una cura meticolosa. Tra i contemporanei di Woody, a usare gli storyboard troviamo Steven Spielberg, Joel e Ethan Coen, e Martin Scorsese. Woody, come anche Clint Eastwood e Christopher Nolan (salvo per le grandi scene d’azione e di effetti speciali), non lo fa. Preferisce arrivare sul set e affidarsi all’ispirazione del momento, e così lui e Khondji prendono in considerazione varie angolature da cui seguire Jill e Abe mentre escono dal cinema, attraversano la strada e costeggiano il parco nella piazza opposta al cinema. Cominciano con un’inquadratura della coppia dall’alto, attraverso le foglie e i rami di un grande

albero, poi la macchina da presa si abbassa all’altezza degli occhi. Il primo ciak «non funziona», dice Woody, «perché non c’è bisogno di vederli che escono prima». Nel ciak successivo troppe comparse escono dal cinema prima della coppia. Per il terzo ciak la macchina da presa parte da dentro l’albero e Jill e Abe escono dall’edificio dopo qualche altra coppia, così la scena sembra più naturale: una buona via di mezzo. Questa è la prima scena insieme per Stone e Phoenix. Inizia con la voce fuori campo di Abe, sovrapposta all’azione. (I miei commenti sono fra parentesi quadre.) ABE (F.C.) Passavo molto tempo con Jill – passeggiate, conversazioni, caffè, musei. Una volta il cineforum del campus dava Il settimo sigillo, il vecchio film di Bergman, e io ce l’ho portata. (Abe e Jill escono.) JILL Grazie del film. È stato un piacere vederlo con te. Da sola non avrei colto tutte le citazioni filosofiche e mi piace come il personaggio principale sta cercando un’azione che dia un senso alla sua vita e la trova nel proteggere quella famiglia che attraversa la foresta. [I due hanno attraversato la strada e stanno lungo il marciapiede che costeggia il parco.] ABE A volte se trovi quell’azione… JILL Tu insegni, Abe, questo conta. ABE Non mi soddisfa. JILL Tu scrivi. ABE Ho rinunciato. Sono tutte stronzate. Vedi, il mio libro di merda su Martin Heidegger non farà un briciolo di differenza per il mondo. JILL Ma perché dici una cosa del genere? Tu che cosa ne sai? ABE

Lo volevo cambiare, il mondo, invece sono un intellettuale passivo che non riesce a scopare. [Jill è rimasta un passo indietro rispetto ad Abe. Ha un attimo di esitazione, tiene gli occhi bassi, poi li alza e parla con fare titubante.] JILL Magari Rita Richards non è riuscita a smuovere la tua vena creativa, ma non credi che forse io ci riuscirei? ABE No, Jill, no. JILL No che cosa? ABE Non fare questo. È… JILL (si avvicina ad Abe) Noi due passiamo un sacco di tempo insieme, Abe, giusto? Io lo so che… Ok, ok, pensavo che tu ti fossi accorto che io ci tengo a te. Voglio dire, ormai è ovvio per tutti. ABE Incluso il tuo fidanzato? JILL Io non sono pronta per un impegno esclusivo con lui. Lui… Mi faccio tante domande. ABE Forse passiamo troppo tempo insieme. Non dovrei monopolizzare il tuo tempo. JILL (IMPROVVISATO) (si ferma, il suo viso si indurisce. Parla in tono piatto.) Ok. [Si volta e se ne va.]

«È difficile che un dialogo funzioni quando le persone parlano mentre camminano», dice Woody dopo la scena. «Io lo faccio per differenziare le varie parti del film. Sarebbe stato più efficace se li avessi messi a sedere su una panchina del parco e avessi fatto dire loro le stesse cose, ma voglio fare in modo – e lo vuole anche Darius – che il film abbia un respiro e un’apertura. Non è facile parlare di cose tanto serie mentre si

cammina.» Noto che Jill resta un passo indietro mentre Abe le dice di aver perso la vena creativa, e poi gli si avvicina di nuovo. «Sì, Emma è stata bravissima. Non ho dovuto dirle niente. Quelle erano tutte scelte sue. Non le ho detto nulla. Lei non ha fatto domande, non mi ha detto che avrebbe fatto così, l’ha fatto e basta, ed è stato un piacere per me guardarla. Ha avuto un ottimo istinto – e ce l’ha avuto anche lui. Joaquin è così tormentato, tutto quello che dice [Woody ride] gli viene tirato fuori a forza. Ma è un bene per il personaggio». Le prime riprese del mattino successivo prevedono parte della scena 89, Jill e Abe che vanno in bicicletta lungo una strada di campagna. Nonostante Abe fosse determinato a non entrare in intimità con Jill, i due sono appena diventati amanti, e questa gita serve a mostrarli felici e rilassati insieme. Su entrambi i lati della stretta strada asfaltata si estende un campo da polo, e il percorso è delimitato da vecchi e massicci alberi di castagno dalle foglie verdissime. Mentre la troupe prepara la scena, Woody sta in mezzo alla strada, impegnato a parlare con la figlia quattordicenne, Manzie, che verrà sul set quasi ogni giorno durante il primo mese di riprese, per poi partire alla volta di un campo estivo. Una normale giornata di riprese dura anche dodici ore, a volte di più. La regola è che circa l’ottantacinque percento di quel tempo lo si impiega spostando le attrezzature e preparando le luci e la macchina da presa per le inquadrature; forse trenta minuti di film verranno stampati per i giornalieri. La maggior parte delle ore in cui sono convocati sul set, gli attori la passano in roulotte ben poco confortevoli, dotate di un tavolino pieghevole, un paio di sedie, una piccola panca imbottita e un gabinetto, parcheggiate al campo base insieme alla roulotte dei costumi e a quella per gli assistenti di produzione. Woody non ha una roulotte in cui rifugiarsi durante il tempo che passa tra il momento in cui si stabiliscono i dettagli di una scena e quello in cui è tutto pronto. A seconda di quanto tempo ci sia a disposizione – si può arrivare a due

ore – lui gioca a scacchi sul telefonino, si occupa delle questioni del giorno insieme alla sua assistente, Ginevra Tamberi, oppure si accomoda sui sedili posteriori della berlina nera che lo accompagna sul set, alza i finestrini, e pratica i suoi esercizi quotidiani al clarinetto (note lunghe, uso della lingua, articolazione), oppure cerca di rispondere alle domande che gli fa Helen Robin su questioni legate alla produzione. A volte invece ciondola sul set e chiacchiera con le persone. «Una volta sono andato a una partita di polo e mi sono annoiato un sacco», dice, lo sguardo rivolto ai campi da gioco, «e io sono uno che ama tutti gli sport, anche il traino dei camion o le gare dei taglialegna.» Per un uomo di città come lui, questo è un mondo sconosciuto. Si guarda attorno e pesta un piede a terra. «Sai dove vorrei che fosse questo piede? Su Madison Avenue.» La situazione è comunque migliorata rispetto a un anno fa. Dopo diversi giorni passati a girare sull’erba e il terriccio che circondavano una villa di campagna, durante le riprese di Magic, Woody ha pestato lo stesso piede a terra – facendo sollevare un nuvolone di polvere – e ha detto, «Se non mi date subito un marciapiede, io divento pazzo».

Jill (Emma Stone) e Abe (Joaquin Phoenix) il giorno dopo l’inizio della loro relazione. La scena è deliberatamente lunga, per rafforzare il senso di eccitazione presente in una nuova storia d’amore. Invece di far pedalare i due attori in linea retta, Woody ha voluto che le biciclette si avvicinassero e si allontanassero più volte.

Arriva finalmente il momento del primo ciak: Abe, che indossa un paio di jeans e una polo, e Jill, in una gonna corta e un top leggero che mostra un accenno di pancia nuda, pedalano lungo la strada. La macchina da presa è posizionata sul retro di un furgone che li precede. È una bella inquadratura, ma è anche statica e noiosa – ci sono soltanto loro due che pedalano verso la cinepresa. Woody suggerisce una modifica all’azione, ma prima chiede un cambio d’abiti per Jill. Dopo aver visto l’inquadratura e il paesaggio circostante, si è convinto che un paio di jeans e una camicia a scacchi siano più adatti all’occasione mentre la gonna e il top possano andare meglio per una scena ambientata di sera. Woody vuole tenere fede alla sua intenzione: potenziare l’intimità del film e i suoi aspetti psicologici girando più inquadrature di copertura (prese da diverse angolazioni e con più lenti per variare lo stile della scena) del solito. Ecco perché vengono battuti molti ciak con le biciclette che procedono a

zig zag lungo la strada, i due ciclisti allegri e spensierati che si avvicinano l’uno all’altra e poi si allontanano prima di avvicinarsi di nuovo. La scena è deliberatamente lunga, per rafforzare il senso di eccitazione presente in una nuova storia d’amore e il piacere puro che i due amanti traggono l’uno dall’altra. «Inizialmente Darius voleva un’inquadratura frontale, e andava bene, per una scena breve», spiega Woody mentre gli attori e il furgone con la macchina da presa tornano al punto di partenza per un nuovo ciak, «ma questa è lunghissima. E io so come funziona questo genere di scene grazie alla mia esperienza in Vicky Cristina Barcelona, dove c’era un’altra passeggiata in bicicletta – certo, i dintorni erano più interessanti in Spagna, i personaggi pedalavano in mezzo alle città e tra vecchie mura. Così avrò tutti i pezzi. Non andrà avanti per sempre, ma quando si vive una storia d’amore, fare avanti e indietro dà una vera sensazione esaltante.» La troupe si sposta di circa un chilometro per la scena 99, che anticipa e prepara la scena 101, con Jill e Rita al pub, girata ieri. In questa, Jill e la sua amica Ellie sono a cavallo e stanno tornando verso la stalla. Questo è un punto di svolta per Jill, che nella scena precedente dice dell’omicidio, «Quando non mi guardava in faccia dalle prime pagine o dal telegiornale, io non davo molto peso alla cosa, finché non incontrai per caso Ellie Tanner quando andammo insieme a cavallo». La scena si apre sulle due ragazze che parlano mentre i loro cavalli percorrono un sentiero erboso. (Roy è il fidanzatino del college di Jill, che lei ha messo da parte in favore di Abe.) Ciò che le dice Ellie instilla i primi dubbi nella mente di Jill: forse Abe non è quello che sembra. JILL Roy ha detto che non mi stavo comportando bene, e aveva ragione, era proprio così. Ma io non sapevo più che cosa fare ormai. Abe è talmente interessante.

ELLIE La conosci Rita Richards? JILL Oh, sì. Mi vuoi dire che ha avuto una storia con lui? Perché chi in facoltà non è andato a letto con Rita Richards. ELLIE Lei ha una teoria spassosa su Abe Lucas. JILL Sentiamo. ELLIE Lei dice che sarebbe un perfetto indiziato nel caso del giudice ucciso, sai, quello in prima pagina. JILL Per favore, sta scherzando. ELLIE Oh, beh, solo a metà. JILL Com’è arrivata a questa bizzarra conclusione? ELLIE Eravamo al barbecue organizzato da suo marito e lei ha cominciato a urlare che Abe aveva detto che il giudice meritava di morire e una cosa tipo, non lo so, l’estetica di commettere il crimine perfetto. Più o meno. Era un barbecue e mi concentravo sulle costolette. (Jill resta un po’ spiazzata.)

La pittoresca stalla in pietra ha un arco sotto il quale il sentiero sterrato e pietroso è in pendenza. Alcuni cavalli sono rinchiusi in un recinto collegato alla stalla; altri vengono tenuti lungo l’ampio sentiero erboso, parallelo alla stalla, che percorreranno le ragazze. Ci sono volute parecchie ore di pianificazione e di lavoro per progettare e preparare la scena: quasi due ore solo perché i macchinisti (uomini e donne forti e agili che assemblano e spostano un arsenale di attrezzi ovunque sia necessario: a terra, sui tetti, fuori da una finestra al secondo piano di un palazzo) finissero di spianare e pareggiare il terreno inclinato per montare i binari del dolly, in modo tale che la macchina da presa possa riprendere i cavalli che

procedono verso di lei, lungo la curva e fin dentro la stalla. Per dare maggiore bellezza e ricchezza all’immagine, la scena verrà girata durante “l’ora magica”. Non sanno andare a cavallo né Emma Stone né Kate McGonigle, l’attrice che interpreta Ellie, ma la produzione ha noleggiato due cosiddetti “cavalli da cinema”, animali che si muovono a comando, senza bisogno di una guida da parte di chi li cavalca. Almeno, in teoria. L’addestratore aiuta Jill e Ellie a montare in sella. È arrivata l’ora magica, e la luce è perfetta. La macchina da presa parte. L’addestratore fa avanzare i cavalli di qualche metro, per fargli prendere il passo, e poi si tuffa dietro un grosso cespuglio di erbe alte e folte, sul ciglio del sentiero, in modo da non essere visto. Le due ragazze iniziano a parlare – e i cavalli si fermano. Woody è leggermente divertito dalla cosa.

L’addestratore e i cavalli poco collaborativi.

Nel secondo ciak, i cavalli si muovono ma poi si fermano quasi subito. Jill ed Ellie battono i tacchi e scuotono le redini, ma i cavalli sanno che loro sono incompetenti e non si muovono. Woody si lascia sfuggire una risatina. Anche il terzo ciak è inutile. Ellie e Jill agitano le gambe come fossero pinne,

ma di nuovo i cavalli non si muovono. A questo punto Woody ride tanto forte da tenersi la faccia tra le mani. È inutile continuare, non funzionerà: Woody dovrà pensare a una location alternativa che non preveda la presenza di animali. Il giorno successivo, quando riguarda i giornalieri, si fa un’altra risata, e dice, «Hitchcock sapeva il fatto suo quando retroproiettava tutto su pannelli trasparenti, anche se si capiva che era un trucco». Subito dopo il grande fiasco, Stone è scoppiata in una risata fragorosa. «Ha voluto un cavallo nel film? Sono andata a parlargli appena prima che ci facessero salire sui cavalli e gli ho detto, “Woody, non puoi farmi questo. Senti, io non posso salire sul cavallo”. «“Perché?” mi ha chiesto. “Che cosa ti ha fatto di male?”» Stone ha scosso la testa, fingendo disgusto. «Un cavallo mi ha disarcionato quando avevo dieci anni e da allora non ci sono più andata. Gli ho chiesto, “Perché hai scritto una scena con i cavalli?”. “Pensavo che fosse carino”, ha detto lui. “E va bene, proviamo.” Io ero già andata nel pallone. Andare nel pallone è il modo più semplice di far ridere Woody. Ero totalmente nel pallone. Era nel pallone anche il cavallo. Ci sono momenti che credo mi ricorderò per sempre, e uno di questi momenti è Woody che scoppia a ridere perché non sono capace di stare su un cavallo.» Il mattino successivo l’atmosfera è più seria. La scena 45, che è cruciale ai fini della storia, si svolge in una caffetteria (gli esterni sono quelli di una tavola calda a qualche isolato di distanza, perché quel palazzo ha una facciata più interessante): Jill e Abe sono seduti in un séparé, e si parlano dai due lati del tavolo; poi Jill sussurra ad Abe di spostarsi sul suo lato per ascoltare la conversazione in corso nel séparé alle loro spalle. Ciò che Abe sente è il catalizzatore che giustificherà la decisione di compiere un omicidio, e quello che Abe pensa tra sé e sé dopo aver origliato quella conversazione è il prodotto

di una spiccata sensibilità drammatica, capace di trasformare in sceneggiatura una chiacchierata qualsiasi fatta durante una cena. CAROL Non so che fare. Ormai sono alla frutta. HAL Chi è il giudice? CAROL Spangler… Thomas Spangler. BIFF Com’è possibile che uno così sia finito al tribunale della famiglia. HAL Sono nomine politiche. Alcuni sono okay ma ce ne sono parecchi che rubano lo stipendio. CAROL Non è giusto. Assegnerà i ragazzi a Frank. Lui non si cura di loro. Lui non li vuole nemmeno. Vuole solo fare del male a me. BIFF È vero. Non gliene importa niente dei suoi figli. CAROL (quasi in lacrime) Quando glieli porto loro non ci vogliono andare, piangono. E che cosa fa Frank? Li sbatte in un angolo del garage dove lavora e stanno in quel sotterraneo tutto il giorno. E invece dovrebbero stare fuori, all’aria aperta. E adesso quello assegnerà la custodia a Frank. EVE Con che motivazioni? CAROL Nessuna. Solo perché in qualche modo è amico dell’avvocato di Frank. EVE Cambiare la custodia sarebbe un disastro. HAL Non ha senso. CAROL Ho coinvolto i loro insegnanti, ho coinvolto i medici… non è servito. Il giudice è amico dell’avvocato di Frank.

BIFF Sei sicura che non possa essere ricusato? CAROL (in lacrime alla fine) Il mio avvocato non c’è riuscito. Io non posso pagare tutte queste spese legali, e il giudice lo sa. Ogni volta che voglio qualcosa lui dice, faccia istanza, io lo faccio, e lui la rifiuta. Ho speso tutto quello che avevo e perderò i miei figli. HAL Sei sicura che sia amico dell’avvocato di Frank? CAROL Si scambiano occhiate, si sorridono. Ho avuto proprio jella a beccarmi questo giudice. EVE È tutto così ingiusto. CAROL Ho l’udienza tra sei settimane, se lui non la rimanda ancora… Lo farà perché sa che aiuta Frank. La notte non riesco più a dormire. Vorrei andarmene coi ragazzi in Europa. Sì, ho pensato di portarli fuori dal paese. HAL E ti vuoi nascondere per tutta la vita? Sempre in fuga? EVE Ti sono vicina, Carol, davvero. Sei un’ottima madre. CAROL (frustrata, trattiene le lacrime) Spero che al giudice venga il cancro. ABE (F.C.) Non gli verrà il cancro perché augurarlo non funziona. E per come va il mondo i peggiori bastardi non hanno mai quello che si meritano. Se lo vuoi morto devi fare in modo che succeda, ma non sarai mai capace di farlo, e anche se tu lo facessi saresti la prima a essere sospettata. Potrei farlo io per te e nessuno al mondo penserebbe che sono stato io. Potrei eliminare questo scarafaggio e porre fine alla tua sofferenza. Fu in quel preciso momento che la mia vita prese forma. Potrei compiere questa buona azione per quella povera donna e nessuno mi collegherebbe mai alla cosa. Non conosco nessuna delle parti coinvolte, non ho alcun movente, e quando uscirò da qui non incontrerò mai più nessuna di queste persone. Tutto quello che mi serve è il nome: giudice Thomas Spangler.

Il marciapiede e la porzione di strada subito fuori dalla finestra accanto ai séparé sono pieni di attrezzature per le luci. Se gli attori fossero ripresi vicino alle finestre che corrono lungo

tutto il lato della caffetteria, e nella luce naturale, il risultato sarebbe disomogeneo: risulterebbe o troppo illuminato o troppo in ombra, e cambierebbe con lo spostarsi del sole nel cielo. Fuori dalle finestre, perciò, i macchinisti montano un arsenale che comprende riflettori giganteschi e telai in alluminio con pezze di tessuto Ultrabounce larghi fino a tre metri per sei che simulano la luce uniforme del giorno all’interno della tavola calda.

I teli di materiale riflettente noto come Ultrabounce mantengono la luce uniforme, inquadratura dopo inquadratura. La luce naturale cambierebbe con il movimento del sole e si oscurerebbe al passaggio delle nuvole.

«I macchinisti danno forma alla luce», dice il capo macchinista Billy Weberg, dopo che lui e la sua squadra hanno messo in posizione cinque riflettori da 15 000 kilowatt l’uno e cinque teli di Ultrabounce per diffondere la luce all’interno del locale e mantenerla costante nell’arco dell’intera giornata. Weberg, un uomo sulla cinquantina dalla muscolatura tonica e

compatta, è anche il proprietario di una roulotte lunga dodici metri che al suo interno contiene ogni possibile attrezzatura in grado di riflettere o diffondere la luce più una miriade di supporti necessari a fissare le apparecchiature. Ciascuno di questi ha un nome che suona misterioso: cardellini, gobos, grid clamps, baby plates, C-clamps, Big Ben, junior plates, century stands, pigeon plates, pancakes e apples (un pigeon, “piccione”, viene spesso fissato a un pancake). C’è il Beadboard (pannelli di polistirolo bianco in formati che vanno dal mezzo metro per mezzo metro al metro per due metri e mezzo), che serve a riflettere la luce, e ci sono i supporti per il Beadboard (placche sottili che tengono fermo il pannello), chiamati onky-bonks, flappers o Billygrips (dal nome del direttore della fotografia inglese Billy Williams, che usava regolarmente il polistirolo per il suo arsenale di luci), platypus e clamps. «Trasformiamo in realtà la visione del regista e del direttore della fotografia usando la forza in modo intelligente», aggiunge Weberg, mentre si aggira nella sua roulotte con diverse centinaia di migliaia di dollari in strumenti tecnici, tutti impilati, inscatolati o appesi al posto giusto. «Il metodo non è cambiato più di tanto negli ultimi cent’anni. Abbiamo solo migliorato la qualità dell’equipaggiamento.» Per girare la scena ci vuole tutto il giorno, e per dare copertura adeguata agli attori, presi da soli o in gruppo, serve una decina di variazioni delle lenti e della messa in scena: la storia in sé si dipana nel giro di tre minuti. Dopo un ciak Phoenix chiede a Woody se deve rimanere fermo in una certa posizione mentre ascolta il triste racconto di Carol nel séparé. «Sei liberissimo di muoverti come vuoi», gli dice Woody, «basta che non agiti le braccia sopra la testa.» L’inquadratura fissa su Abe mentre ascolta Carol che dice la battuta «Spero che al giudice venga il cancro» deve durare quarantanove secondi, tanto quanto la voce fuori campo di Abe. McCarthy aziona il cronometro, fa un cenno con la testa

a Woody quando il tempo è scaduto, e gli mostra il cronometro. «Perfetto», dice lui. «Le mie uova sono pronte.» Come d’abitudine, mentre la macchina da presa è in funzione, i componenti della troupe che non sono impegnati nella scena controllano il telefonino o la mail. *** Per Woody l’idea di un giudice che nega a un genitore la custodia dei figli ha una risonanza personale, ed è qualcosa a cui pensa spesso, anche se non è stata questa la ragione che lo ha spinto a scrivere la sceneggiatura di The Boston Story. Nel giugno 1993, in seguito a una feroce e clamorosa battaglia legale che finì sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, Mia Farrow ottenne la custodia dei tre figli della coppia. Woody e Mia non si erano mai sposati, ma avevano avuto una relazione durata dodici anni, e insieme avevano adottato un ragazzo di quattordici anni, Moses, e una bambina di sette, Dylan. Avevano anche avuto un figlio, Satchel, che all’epoca aveva cinque anni e oggi ha cambiato nome in Ronan. (In un articolo apparso su “Vanity Fair” nel 2013, Farrow ha detto che il padre naturale di Satchel/Ronan «potrebbe essere» Frank Sinatra, di cui la donna era diventata la compagna a diciannove anni e la moglie a ventuno; quattro anni più tardi chiese il divorzio, ma rimase sempre in ottimi rapporti con Sinatra.) Farrow e il suo secondo marito, il compositore André Previn, avevano avuto tre figli maschi e adottato tre figlie femmine, tra cui Soon-Yi Previn, nata in Corea nel 1970. Per l’intera durata del loro ménage, Woody e Mia avevano continuato a vivere ciascuno nel proprio appartamento ai lati opposti di Central Park, lei sul West Side e lui sull’East Side. Woody sostiene che la loro storia d’amore era andata in crisi nel 1987, dopo la nascita di Satchel.

Nel 1991 cominciò la relazione sentimentale tra Woody e Soon-Yi Previn. Com’era prevedibile, il fatto ebbe gravi ripercussioni emotive sulla famiglia. Farrow passò all’attacco. Woody racconta che l’ex compagna gli telefonava spesso a tarda notte per urlargli contro, e che, tra le altre cose, gli diceva, «ti sei preso mia figlia e io mi prenderò la tua» – con «la tua» intendeva Dylan. La sorella di Woody, Letty, afferma di aver sentito fare minacce simili a Farrow in un’altra occasione. Nel corso di una delle sue telefonate a Woody, Farrow lo mise in guardia: «Ho in serbo qualcosa per te». Quando il regista, per scherzo, le chiese, «cosa vuoi fare, spararmi?» lei gli rispose, «no, molto peggio». All’inizio dell’agosto 1992 Farrow accusò Woody di aver molestato Dylan nella casa di campagna in Connecticut di proprietà della donna. (Dylan aveva appena compiuto sette anni.) Il luogo esatto della presunta molestia cambiò più volte: prima si sarebbe trattato della sala tv, dove insieme a Woody c’erano diversi bambini e almeno una babysitter; poi di una scalinata; e infine di una soffitta utilizzata come ripostiglio. Woody si è sempre dichiarato innocente. Tutte le prove raccolte nel corso delle indagini confermano la sua versione dei fatti. E se di fronte a una simile accusa fosse emersa anche la minima prova di colpevolezza, i servizi sociali non avrebbero dato due bambine in adozione a Woody e Soon-Yi dopo il loro matrimonio nel 1997. In seguito all’accusa da parte di Farrow, Woody si sottopose volontariamente alla macchina della verità. A fargli il test c’era Paul Minor, il principale esperto in materia dell’FBI dal 1978 al 1987. Nel suo verbale Minor scrisse: «Dopo un’accurata analisi del tracciato del poligrafo, si conclude che il signor Allen non abbia mentito consapevolmente, e che, pertanto, abbia risposto alle domande con sincerità». Farrow portò Dylan da un pediatra per verificare se la bambina presentava segni di un’avvenuta violenza. Il pediatra

non trovò nulla, ma una visita medica di quella natura, per legge, andava segnalata alle autorità e sottoposta ad accertamenti. Nel settembre 1992 la polizia dello stato del Connecticut affidò il caso al Child Sexual Abuse Clinic, un gruppo di esperti che comprendeva assistenti sociali, psicologi e medici specialisti, attivo presso lo Yale-New Haven Hospital. Questi esperti avrebbero dato il loro giudizio sulla fondatezza o meno delle accuse basandosi su una serie di colloqui e di test clinici. Si giunse a un resoconto formale nel marzo 1993. Stando al rapporto redatto dal Child Sexual Abuse Clinic, erano stati condotti nove colloqui con Dylan, da sola, a cavallo tra il 18 settembre e il 13 novembre 1992. In altri momenti erano stati ascoltati separatamente il padre e la madre, due babysitter, e due psicoterapeuti che in precedenza avevano avuto Dylan e Satchel come pazienti – gli ultimi di questi colloqui si erano svolti ai primi di gennaio 1993. La conclusione degli esperti era la seguente: «È nostra opinione che Dylan non sia stata abusata sessualmente dal signor Allen». Ecco alcuni passaggi del rapporto: «le dichiarazioni rese da Dylan presentavano discrepanze significative», «Dylan sembrava avere difficoltà nell’articolare la maniera in cui sarebbe stata toccata», «raccontava l’episodio in un modo che sembrava troppo meditato e controllante», «le sue dichiarazioni erano prive di spontaneità, e davano l’impressione di essere state, in una certa misura, recitate. Le sue descrizioni dei dettagli relativi al presunto episodio erano bizzarre e contraddittorie». Per arrivare al loro giudizio, gli esperti avevano preso in considerazione «tre ipotesi. La prima: che le dichiarazioni di Dylan siano vere e che il signor Allen abbia abusato di lei. La seconda: che le dichiarazioni di Dylan non siano vere ma siano state fatte da una bambina emotivamente vulnerabile che era stata segnata da una famiglia disturbata e che stava reagendo alle tensioni in famiglia. La terza: che Dylan sia stata indottrinata o influenzata da sua madre, la signora Farrow.

Riteniamo più verosimile che una combinazione di queste ultime due ipotesi spieghi meglio le accuse di molestia sessuale avanzate da Dylan». La valutazione espressa dal Child Sexual Abuse Clinic si basava su numerosi colloqui approfonditi con tutte le parti in causa, e la pubblica accusa dello stato del Connecticut decise di non incriminare Woody. La stessa valutazione, però, non venne accettata da Elliot Wilk, il giudice della Corte Suprema di New York incaricato di decidere a chi andassero affidati i tre figli di Mia e Woody. Gli esperti non avevano conservato gli appunti presi durante i colloqui, una volta stilato il loro rapporto, e non erano disposti a testimoniare. Agli occhi del giudice, che secondo alcuni parteggiava per Farrow durante le udienze, questi due fatti «hanno compromesso la capacità [della corte] di esaminare i risultati ottenuti e hanno portato alla stesura di un rapporto ritoccato, e, pertanto, meno credibile». Nel maggio 1993, Wilk assegnò a Farrow la custodia dei figli e stabilì che Woody non avrebbe potuto vedere Dylan per almeno sei mesi, nonostante gli esperti fossero dell’avviso che visite regolari tra padre e figlia sarebbero state un bene per la bambina. In realtà, Woody non ha più avuto la possibilità di vedere Dylan dal giorno in cui è stato accusato di averla molestata, venticinque anni fa. Ha speso un fiume di tempo e denaro nel tentativo di rimettersi in contatto con lei, anche solo per via telefonica, in modo che la figlia sapesse «che non era stata abbandonata», come ha dichiarato nel 2000. Nella sentenza relativa all’affidamento, il giudice Wilk definiva Farrow «una madre non irreprensibile», ma sosteneva che «la sua principale lacuna, in termini di responsabilità genitoriali, sembra essere stata la prolungata relazione con il signor Allen». Basandosi in massima parte sulla testimonianza della donna, riteneva che Woody non si fosse «dimostrato adatto a occuparsi di Moses, di Dylan o di Satchel», e che «l’atteggiamento del signor Allen verso Dylan è stato

scandalosamente inappropriato e devono essere prese misure per proteggerla». Eppure, nell’autunno del 1993, il Dipartimento dei Servizi Sociali dello Stato di New York dichiarò conclusa l’indagine indipendente condotta dai suoi periti nell’arco di quattordici mesi. In una lettera datata 7 ottobre che sarebbe poi stata in parte pubblicata dal “New York Times”, il dipartimento informava Woody che «non sono state trovate prove attendibili che il minore in questione abbia subito abusi o maltrattamenti. Pertanto non c’è motivo di proseguire la nostra indagine». Il giudice Wilk non stava dalla parte di Woody. Lo stesso si può dire del tribunale rappresentato dall’opinione pubblica. Per alcune persone, un uomo capace di avere una relazione con la figlia adottiva dell’ex compagna avrebbe potuto macchiarsi di colpe ben più gravi, nonostante l’assenza di elementi concreti a suo sfavore. Per quanto riguarda Soon-Yi, avrebbe poi dichiarato Woody, «Ci eravamo innamorati, e i più grandi tra i figli di Mia non avevano mai pensato a me come a una figura paterna. André Previn era il loro padre. I ragazzi lo sapevano». Di recente ha aggiunto, «Mi hanno criticato in molti per il fatto di essermi innamorato di Soon-Yi, ma ne è valsa davvero la pena, e non rinuncerei a un minuto del tempo che abbiamo passato insieme». Durante la lavorazione di The Boston Story, ho ricevuto nuove informazioni sul caso da parte di un membro della famiglia Farrow che viveva insieme alla madre e ai fratelli quando scoppiò lo scandalo, e che racconta una diversa versione di una storia che fino a oggi si conosce principalmente grazie a un altro punto di vista. Ne parlo in questa sede non per rivangare un passato doloroso, ma perché i nuovi elementi potrebbero cambiare la prospettiva attraverso cui molti giudicano il lavoro di Woody. Moses Farrow è nato in Corea nel 1978, affetto da paralisi cerebrale. I genitori naturali lo avevano abbandonato in una

cabina telefonica. Era poi finito in un orfanotrofio, ed è stato adottato da Mia Farrow quando aveva due anni. Nel 1985 Farrow adottò Dylan; nel 1991 Woody diventò ufficialmente il padre adottivo di Moses. Oggi Moses ha trentanove anni ed è uno psicologo specializzato in terapia familiare. L’atmosfera domestica creata dalla madre, racconta, l’aveva portato a «provare il bisogno costante di guadagnarmi la sua fiducia e la sua approvazione». Tornando indietro nel tempo fino ai suoi primi ricordi, «c’è stata una volta in cui Mia mi ha svegliato nel cuore della notte. Io andavo all’asilo. Dormivo nella camera delle ragazze con [le sorelle adottive] Lark e Daisy, sul piano più basso di un letto a castello. Mia mi ha trascinato fuori dal letto. Ero ancora mezzo addormentato e lei mi continuava a chiedere, in tono brusco, se avevo preso le sue pillole. Non era preoccupata che io le avessi inghiottite: mi stava accusando di avergliele rubate. Mi ha portato nel suo bagno personale. Io piangevo e lei mi guardava dall’alto in basso, con un’aria severa. Le avrò ripetuto una decina di volte che non avevo preso niente, ma alla fine ho detto quello che voleva sentirsi dire lei. Però a Mia non bastava che io dicessi “ho preso le pillole”, e continuava a farmi domande. Sono stato costretto a raccontare una bugia più complicata, per cui avevo preso quattro o cinque pillole perché credevo fossero delle Tic Tac. Mia mi ha trascinato al lavandino, mi ha ordinato di mettermi in bocca la saponetta e poi di lavarmi la bocca, e intanto mi ripeteva, “non bisogna dire le bugie, è sbagliato”. Quando mi sono asciugato la bocca, lei mi ha riportato a letto. Il giorno dopo mi sono messo a cercare quelle famose pillole e le ho trovate sotto un armadietto che stava tra il water e la vasca da bagno, però a Mia questo non l’ho mai raccontato, perché temevo che mi sarei cacciato di nuovo nei guai. È stata la prima volta in cui ho davvero avuto paura di Mia, e da quel momento lei ha fatto di tutto per mettermi paura. Avevo davanti una sfida

impossibile che non sarebbe mai terminata: conquistarmi la sua approvazione. Ricordo molte situazioni in cui lei mi ha fatto capire che spettava a me guadagnarmi la sua fiducia. «Durante l’estate tra la prima e la seconda elementare, Mia stava facendo posare la nuova carta da parati nella camera dove dormivo io, dall’altro lato del corridoio rispetto alla sua, al primo piano della casa in Connecticut. La sera mi stava preparando per andare a dormire, e poi, sul mio letto, ha visto che c’era un metro a nastro. Io non sapevo nemmeno cosa fosse. Lei ha cambiato faccia di colpo, e mi ha guardato con una durezza che mi ha paralizzato. È stato spaventoso. Mi ha chiesto se avevo preso io quel metro. Lo stava cercando da tutto il giorno, ha detto, in un tono di voce che mi era fin troppo familiare. Io stavo immobile di fronte a lei. Mia ha chiesto perché il metro stava sul mio letto. Le ho detto che non lo sapevo, forse ce l’aveva lasciato il tappezziere. Ma lei da me voleva una risposta precisa, allora mi ha ripetuto la stessa domanda, e poi mi ha tirato uno schiaffo talmente forte che mi ha fatto cadere gli occhiali. Mi ha dato del bugiardo. Mi ha ordinato di raccontare ai miei fratelli e sorelle che ero stato io a prendere il metro. Mi sono messo a piangere, e mentre piangevo lei mi ha spiegato che avremmo “fatto le prove” di cosa avrebbe dovuto succedere. Lei sarebbe entrata di nuovo in camera, io le avrei detto che mi dispiaceva di aver preso il metro, che l’avevo preso perché ci volevo giocare, e che non l’avrei fatto mai più. Abbiamo provato questa scena almeno cinque o sei volte. Si era fatto tardi, io ero spaventato e sfinito a furia di piangere. Quando Mia è stata contenta della “scena”, mi ha preso in braccio e mi ha tenuto sulla sedia a dondolo. Dopo un po’ mi ha portato in cucina e mi ha preparato una cioccolata calda, poi mi ha messo a letto. Da quel momento ha continuato a indottrinarmi, ad addestrarmi, a “riscrivere” una situazione secondo parametri tutti suoi e a sottopormi a “prove” di com’era andata.

«Col passare degli anni sono diventato sempre più ansioso e spaventato. A quel punto avevo imparato che potevo fare tre cose: difendermi, scappare, o bloccarmi. Spesso sceglievo di scappare o di bloccarmi. Per esempio, quando ero molto piccolo, avevo ricevuto un nuovo paio di jeans. Pensavo che sarebbero stati più belli se avessi tagliato uno o due passanti della cintura. Quando mia madre se n’è accorta, mi ha sculacciato a ripetizione – com’era sua abitudine – e mi ha fatto spogliare completamente. “Tu non te li meriti, i vestiti”, ha detto. Poi mi ha costretto a stare in piedi nudo in un angolo della sua camera». Monica Thompson ha lavorato come bambinaia a casa Farrow dal 1986 al 1993. Nel gennaio ‘93 rilasciò agli avvocati di Woody una dichiarazione giurata che venne ripresa dal quotidiano “Los Angeles Times”. Thompson sosteneva di aver visto Farrow prendere a schiaffi Moses perché il ragazzo non riusciva a trovare il guinzaglio del loro cane. L’episodio risalirebbe al 1990. «Gli altri bambini erano sconvolti, e hanno detto alla madre che non poteva essere stato Moses a perdere il guinzaglio. Farrow ha risposto che i bambini non dovevano fare commenti su quanto era accaduto. I bambini avevano paura della madre e non volevano confidarsi con lei, perché temevano che avrebbe reagito molto male.» (Thompson ammise di aver dato una diversa versione alla polizia del Connecticut – nel 1992 aveva dichiarato che Farrow era una buona madre e non alzava le mani sui figli – ma disse che all’epoca temeva di perdere il lavoro, e che le erano state fatte pressioni perché confermasse le accuse mosse contro Woody. Si è licenziata nel gennaio 1993 dopo essere stata chiamata a testimoniare durante la causa per l’affidamento.) In almeno un’occasione, Moses cercò di difendersi. «Eravamo nella casa in Connecticut, era estate, e Mia mi ha accusato di aver lasciato chiuse le tende nella sala tv; erano state chiuse il giorno prima, quando Dylan e Satchel avevano guardato un film. Mia insisteva che ero stato io a chiuderle

senza poi riaprirle. Un’amica era venuta a trovarla. Loro due stavano in cucina e mia madre continuava a insistere sulla questione delle tende. A un certo punto non sono riuscito a trattenermi. Le ho gridato, “Bugiarda!”. Lei mi ha dato un’occhiataccia e mi ha portato nel bagno vicino alla sala tv. Ha cominciato a picchiarmi, era fuori controllo. Mi ha preso a schiaffi, mi ha spintonato, mi ha colpito sul torace. Diceva, “Come osi darmi della bugiarda davanti alla mia amica. Sei tu il bugiardo patologico”. Mi sentivo sconfitto, abbattuto e demoralizzato. Mia mi aveva tolto tutta la voce e la consapevolezza che potevo avere di me. Non sopportava che io mettessi anche solo minimamente in discussione la realtà per come l’aveva costruita lei. Eppure, crescendo, sono diventato un figlio devoto e ubbidiente, anche se continuavo a vivere nel terrore. In base alla mia esperienza personale, credo sia possibile che Mia abbia fatto “provare” a Dylan quello che poi Dylan ha dichiarato nei video in cui raccontava di essere stata molestata. Mia si comportava allo stesso modo con me, quindi è plausibile che anche in quella circostanza sia stata lei a preparare la scena, a creare una certa atmosfera, e a “sceneggiare” cosa sarebbe accaduto.» Nel 1993, durante la causa per l’affidamento, una persona che frequentava spesso casa Farrow trovò Dylan in lacrime. Il racconto che segue è stato confermato da un altro visitatore abituale. «Dylan mi ha chiesto, “è giusto dire le bugie?”. Sentiva di non volerlo fare, e si domandava cosa ne avrebbe pensato Dio. Desiderava una bambola della linea Attic Kids, però Mia gliel’aveva proibita. Pochi giorni dopo Dylan avrebbe dovuto incontrare una persona coinvolta nella causa per l’affidamento. Diceva, “la mamma vuole farmi dire una cosa, ma io non voglio”. Una settimana più tardi, Dylan aveva una bambola Attic Kids, con un vestitino giallo. “Cos’è successo?” le ho chiesto. E lei: “ho fatto quello che voleva la mamma”.»

Moses non è affatto sorpreso dall’episodio. «Di questo posso parlare con sicurezza. Mia era molto abile e molto determinata a manipolare i figli perché eseguissero i suoi ordini, però, d’altro canto, viveva con la paura costante che si venissero a scoprire i suoi abusi segreti, e che andasse in frantumi la reputazione che si era costruita: quella di una madre affettuosa che aveva adottato uno stuolo di bambini e bambine da tutto il mondo. Ero terrorizzato al pensiero che io o i miei fratelli potessimo venire rifiutati – anzi, scomunicati – da lei e dal resto della famiglia. Vivevo sotto questa minaccia costante. Per un figlio adottivo, non c’è paura più grande del perdere la propria famiglia.» Secondo Soon-Yi Previn, «a Mia piaceva tormentare le persone. Si sceglieva i bersagli più facili e vulnerabili. Si arrabbiava molto facilmente. C’è stata una volta in cui mi ha preso a calci e mi ha picchiato con il telefono. Con noi era sempre aggressiva e violenta. Io avevo capito che dovevo starle il più lontana possibile e cercare di sopravvivere, mentre Moses era quello a cui andava peggio di tutti, perché era troppo innocente, troppo tenero, per rendersi pienamente conto della situazione. Mia lo maltrattava in maniera sistematica, sul piano fisico e su quello emotivo.» Dopo l’inizio della relazione tra Woody e Soon-Yi, Moses racconta di aver passato «molti giorni e molte notti insieme a Mia, cercando di darle il mio sostegno». Un giorno il ragazzo uscì da solo dalla porta di casa Farrow e si lanciò in un’appassionata invettiva contro il padre, a beneficio della folla di giornalisti e inviati televisivi che stavano accampati di fronte all’abitazione, subito oltre il vialetto dell’ingresso. «Avevo tredici anni, e pensavo che la mentalità giusta fosse quella», dice. «Stavo dimostrando lealtà verso mia madre. Lei aveva già messo le cose in chiaro: “se non siete con me, siete contro di me. Siamo in guerra. Questa è una battaglia per l’affidamento. Dobbiamo restare una famiglia unita”.»

Col proseguire della battaglia legale, tuttavia, Moses scoprì di sentirsi «combattuto» tra i due genitori, nonostante continuasse a restare leale alla madre quasi in automatico. Durante un colloquio con il giudice Renee Roth, che aveva supervisionato la sua adozione, Moses venne informato che Woody aveva proposto di farlo venire a vivere con lui. L’intensa emozione suscitata dalla possibilità di riparare a un torto evoca la madre disperata di The Boston Story – una madre che sta per perdere i suoi figli. «Credo che Woody sapesse quale genere di madre fosse Mia a quel punto», afferma Moses. «Stava cercando di proteggere i suoi figli, e di offrirci una vita migliore, con gentilezza, con amore e con affetto. Woody è fatto così.» Ma dato che Moses si sentiva «sopraffatto dalla lealtà che Mia pretendeva da me», scelse di rimanere con la madre, e presto cominciò a frequentare la Kent School, un esclusivo collegio del Connecticut. A seguito del forte stress provocato dalla causa per l’affidamento, si sottopose a una perizia psicologica. «Ho raccontato la verità, e ho detto alla psicologa che mi sentivo una pedina in un gioco più grande di me. Non sapevo chi scegliere tra Mia e Woody. Dopo che la perizia è stata inoltrata alle autorità, Mia mi ha telefonato in collegio. È stato molto disturbante. Ha detto, “stai facendo a pezzi il mio caso! Non ci credo che hai detto di non sapere chi scegliere. Devi ritrattare le tue dichiarazioni. Chiama il tuo avvocato e sistema tutto”.» E Moses fece come gli era stato ordinato. Nei suoi ricordi, il rapporto che aveva con Woody quando era bambino era l’esatto contrario di quello che aveva con la madre. «Woody arrivava al nostro appartamento ogni mattina alle 6.30. A me piaceva molto svegliarmi prima degli altri ragazzi, così io e Woody ce ne stavamo seduti insieme al tavolo della cucina. Portava sempre con sé due quotidiani e cinque o sei muffin enormi – muffin ai mirtilli, muffin di granturco, muffin di frumento. Apriva il “New York Times” e lo sfogliava pagina dopo pagina, mentre io prendevo il “New

York Post” e andavo direttamente alle pagine dei fumetti e delle parole crociate. Leggevamo insieme prima di svegliare Dylan. Erano momenti memorabili, di grande pace. Woody preparava un paio di toast con il miele e la cannella per Dylan, e le teneva compagnia mentre lei faceva colazione. Prendersi cura di mia sorella sembrava piacergli molto. E nei miei confronti era un padre premuroso. Mi aiutava a stare bene con me stesso, e sentivo che faceva tutto quanto gli era possibile perché noi fossimo parte della sua vita.» (Per molti anni la casa di produzione di Woody si è chiamata Moses Productions. Ce n’era un’altra che si chiamava Dylan and Satchel Productions.) Moses è sicuro che Woody non abbia molestato Dylan. Quell’accusa, secondo lui, era «una mossa ben precisa. Mia poteva contare su un giudice che sembrava solidale con lei; si è trovata un avvocato che l’ha aiutata a presentare la sua tesi in maniera convincente; ha influenzato i suoi figli facendo leva sul proprio ruolo di madre, e poi, sempre facendo leva sul proprio ruolo di madre, è riuscita ad accattivarsi i giornali e la tv». Moses continua, «quando Mia ha detto a Woody che “aveva in serbo qualcosa per lui”, ha usato una frase emblematica del suo modo di fare. Il suo comportamento oscillava tra due estremi. Da un lato cadeva preda di una rabbia incontrollabile, ma dall’altro stava molto attenta a pianificare le cose per bene. Incuteva terrore. Pretendeva ubbidienza. Non si limitava a tirare qualche sberla: reagiva in maniera clamorosamente sproporzionata. Oggi io non vivo più con la paura che Mia mi rifiuti, quindi sono libero di raccontare che sono stato plagiato e manipolato, proprio come è successo a Ronan e Dylan. Nel 2002 ho detto a Mia che volevo recuperare un rapporto con Woody. All’inizio si è dimostrata comprensiva, materna: “Posso capire che ti manchi un padre, e sono dalla tua parte”. Nel giro di un giorno, però, ha detto, “Ti proibisco di

contattare Woody”». Nonostante ciò, Moses ha ricominciato a frequentare Woody. Farrow ha tagliato i ponti con Moses. Il primo febbraio del 2014, mentre Woody era nel pieno della pre-produzione e del casting di The Boston Story, un giornalista del “New York Times” ha pubblicato sul suo blog una lettera aperta di Dylan, in cui la donna raccontava nei dettagli la presunta molestia subita nel 1992: «[Mio padre] mi disse di stendermi sulla pancia e di giocare con il trenino di mio fratello. Quindi abusò sessualmente di me… Ricordo che fissai quel trenino girare in tondo lì in soffitta, e ancora oggi mi viene difficile guardare i trenini». È una lettera straziante, soprattutto perché Dylan crede a ogni parola che ha scritto, senza ombra di dubbio. Ma la soffitta non è stata il primo teatro della presunta molestia, e alcuni dettagli presenti nella lettera non corrispondono a quanto Dylan aveva dichiarato agli esperti del Child Sexual Abuse Clinic. E poi, stando a Moses, i ricordi della sorella presentano un aspetto molto problematico: «In quella soffitta non c’era nessun trenino, te lo garantisco. Non era un posto adatto a farci giocare i bambini, nemmeno volendo. Era una soffitta non ristrutturata con le pareti e il soffitto coperti di materiale isolante. C’era odore di naftalina, e sparsi sul pavimento c’erano trappole per topi e capsule di veleno. Mia madre la usava come ripostiglio: ci teneva diversi bauli pieni di abiti smessi e cose simili. Non ha il minimo senso, l’idea che in quello spazio potesse trovare posto un trenino che girava in tondo per la soffitta. Uno dei miei fratelli ce l’aveva, un trenino, ma lo teneva nella camera dei ragazzi, un ex garage al piano terra. Forse è quello il trenino che mia sorella crede di ricordare». In una testimonianza resa nel 1992, Farrow definiva la soffitta «un cunicolo… lì dove si abbassa il cornicione». Nel 2014 Moses ha rilasciato un’intervista al settimanale “People”. «È ovvio che Woody non ha molestato mia sorella»,

ha detto. «Lei gli voleva bene ed era sempre felice di vederlo quando lui veniva a trovarla. Non si è mai nascosta da lui finché nostra madre non è riuscita a creargli attorno un’atmosfera di paura e odio.» Ha anche detto che il giorno della presunta molestia, insieme a Woody, nella zona giorno della casa c’erano sei o sette tra bambini e bambinaie, e nessuno di loro si era allontanato dagli altri. Moses ha ribadito che per i figli era molto importante «non avere contro» la madre. Interpellata dalla redazione di “People”, Farrow ha scelto di non rispondere alle accuse di Moses, ma su Twitter ha commentato così: «Voglio bene a mia figlia. La proteggerò sempre». In un secondo tweet ha scritto di aspettarsi «molte cose sgradevoli» nei propri confronti. Nello stesso articolo di “People”, Dylan ha sostenuto che le dichiarazioni di Moses rappresentavano un tradimento rispetto a lei e al resto della famiglia, e ha affermato: «mio fratello per me è morto». Ha precisato che i ragazzi Farrow non sono mai stati picchiati, ma qualche volta venivano mandati in castigo in camera loro. La bambinaia Monica Thompson non si trovava a casa Farrow il giorno della presunta molestia, però, stando all’articolo del “Los Angeles Times”, nella sua dichiarazione giurata disse che quando il giorno seguente si era presentata al lavoro «Moses è venuto da me e ha detto che secondo lui la signora Farrow aveva inventato l’accusa che Dylan stava ripetendo». Sulla credibilità di Thompson è stato avanzato qualche dubbio, dal momento che era Woody a pagarle lo stipendio, ma il regista non la pagava direttamente; il salario di Thompson, dice Woody, arrivava dalla cifra – un milione di dollari – che lui aveva versato a Farrow come contributo generale alle spese per il mantenimento dei figli. Nel 1970 la cantautrice Dory Previn incise un album dal titolo On My Way to Where. Dory aveva sposato André Previn nel 1959 e aveva divorziato nel 1970, dopo che il marito aveva

messo incinta Mia Farrow. Nell’album è presente una canzone dedicata al tema dell’incesto, With My Daddy in the Attic (“In soffitta con papà”). Alcuni versi tratti dal testo della canzone: «And he’ll play/His clarinet/When I despair/With my/Daddy in the attic». (“E lui suonerà il clarinetto/Quando io mi dispererò/In soffitta con papà.”) Woody racconta che Dory – scomparsa nel 2012 – gli telefonò quando l’accusa di molestie finì sui giornali, e che gli disse, «Ecco da dove viene la trama della storia che si è inventata Mia». Prima di diventare una celebre autrice di romanzi gialli, Linda Fairstein era a capo del primo reparto investigativo dedicato ai crimini sessuali negli Stati Uniti. A conferirle l’incarico, nel 1976, era stato il procuratore distrettuale di New York Robert M. Morgenthau. Fino al 2002 Fairstein ha supervisionato le indagini relative a migliaia di accuse di stupro e di violenza sui minori, e su questa accusa in particolare si è fatta una sua opinione. «Una volta che si è cominciata a sospettare la relazione tra Woody Allen e Soon-Yi, c’erano tutti i presupposti perché Mia Farrow reagisse con rabbia o arrivasse a fare una follia, e non esiste arma più potente dei propri figli. Allora si prende l’anello debole della catena – la figlia femmina, la minore – e si lancia un’accusa tale da convincere l’opinione pubblica che la controparte sia un mostro. «Quando circolò la notizia che Mia aveva filmato Dylan” – si trattava di undici brevi video girati in momenti e in luoghi diversi; in uno dei video Dylan compariva nuda nella vasca da bagno, in altri, girati in esterni, la bambina era a torso nudo – «a me sembrava una delle cose più incredibili che avessi mai sentito. È la mossa peggiore, sotto ogni punto di vista. Innanzi tutto, la bambina è stata filmata mentre era nuda e la madre la tempestava di domande su cos’era successo. Perché mettere la propria figlia in un video che un giorno potrebbe diventare di

dominio pubblico o essere visionato in un’aula di tribunale? Questo fatto era già un bel campanello d’allarme». Riguardo alla minaccia di Mia – «ti sei preso mia figlia e io mi prenderò la tua» – Fairstein aggiunge, «a me suona molto vera. È proprio il genere di veleno che sono abituata a vedere e sentire in questo tipo di caso: “tu mi hai rovinato la vita, io ti colpirò dove ti fa più male”. Prendere un personaggio pubblico e dirgli la cosa peggiore che potrebbe finire dentro un titolo di giornale è perfettamente in linea con il modo in cui queste storie vengono strumentalizzate durante una separazione». Fairstein cita ad esempio alcune ricerche effettuate negli ultimi vent’anni a proposito «di quanto siano suggestionabili i bambini. A Dylan era stata raccontata una storia, e le era rimasta una sola persona da compiacere. Il papà era già stato tolto di mezzo. Una situazione spaventosa. Se non può stare con entrambi i genitori, un bambino vuole stare con almeno uno dei due. Quindi non penso che da quel punto in avanti Dylan fosse libera di cambiare la sua versione dei fatti. Se credete, come credo io, che l’accusa fosse falsa, allora va considerata colpevole la donna che ha inventato quell’accusa, e che ha ferito a morte la sua bambina. «Ho lavorato con la procura distrettuale per trent’anni, di cui ventotto li ho passati a occuparmi di abusi sessuali, quindi ho partecipato a migliaia di indagini su casi simili. Non ho ragione di credere che questo episodio sia veramente accaduto».

2. «Sono circondato dal disastro.» Mentre continua la prima settimana di riprese, Woody pensa spesso a come risolvere la scena rimasta in sospeso, quella dove Jill ed Ellie dovevano andare a cavallo. Vuole evitare un’altra scena di persone che parlano al ristorante o in ambienti interni. Un’idea potrebbe essere una passeggiata sulle

scogliere, ma il sole è un problema: gli attori reciterebbero all’aperto, e la luce sarebbe troppo diretta, a meno che il cielo non sia nuvoloso. La scena 48a è breve: il sonoro è la voce fuori campo di Abe, ripreso mentre se ne sta sull’oceano al tramonto, la schiena rivolta alla macchina da presa: Sono Abe Lucas e ho ucciso. Ho avuto molte esperienze e ora ne vivo una unica. Ho soppresso una vita umana, non in battaglia o per legittima difesa. Ho fatto una scelta in cui credevo e l’ho portata a termine. Mi sento un autentico essere umano.

Due scene più tardi, il suo atteggiamento è completamente cambiato. Abe non è più cupo e depresso, anzi, è pieno di energia mentre lui e Jill festeggiano con una cena romantica l’ultima notizia: il giudice è morto per quello che sembra un attacco di cuore. Il cameriere porta due Martini. JILL Mi piace che ordini per me. ABE Mi sento in forma stasera. Rilassato. Felice. JILL Dopotutto stiamo festeggiando, no? Anche se è un po’ macabro decidere di festeggiare la morte di qualcuno. ABE Certo che la vita è ironica, no? Un giorno una persona è impantanata in complicati irrisolvibili problemi, il mondo sembra buio, i problemi preponderanti. E poi in un batter d’occhio le nuvole nere si aprono e torna a godere una vita normale. È stupefacente. A volte basta una piccola cosa. JILL Tipo un attacco di cuore. ABE Oppure, non so, vincere alla lotteria.

La scena, le cui riprese occupano tutto il venerdì, continua con Abe che regala a Jill un libro di poesie di Edna St. Vincent Millay: la ragazza ha da poco festeggiato il suo compleanno, e credeva, un po’ delusa, che lui se ne fosse dimenticato. «Puoi avere uno migliore di me», le dice Abe, ma lei risponde, «Non

dovrei essere io a decidere?» La scena termina con lei che lo convince a portarla nel suo appartamento – e a letto – invece di ordinare la cena. È una scena lunga ed emozionante. Dopo un ciak perfetto su un primo piano di Jill, Woody esclama, per scherzo, «Andiamo avanti. Non ci riuscirà mai». Non tutto è così semplice, però. «Sono circondato dal disastro», dice Woody il lunedì mattina. La cena romantica va girata di nuovo. Dopo aver visto i giornalieri, gli sembra che l’abito e l’acconciatura di Jill siano troppo sofisticati e che Abe debba essere più rilassato, più allegro. E bisogna ancora risolvere la scena con i cavalli. Le scene da girare oggi sono sparse qua e là nell’ultimo terzo della sceneggiatura. Scena 87: Jill e Abe sono a letto dopo aver fatto l’amore per la prima volta; scena 105: Jill si intrufola in casa di Abe attraverso una finestra rimasta aperta; scena 108: Jill rovista nell’appartamento di Abe; scena 110: Jill trova un appunto scritto a mano sul giudice Spangler in uno dei libri di Abe; scena 112: Jill sente Abe che torna a casa; scena 114: Jill si spoglia in fretta e si nasconde nel letto fingendo che sia una sorpresa, per mascherare il crescente sospetto che sia stato Abe a uccidere il giudice. Il video village si trova nella stanza che dà sullo stretto pianerottolo su cui affacciano le quattro stanze del secondo piano. Fino a pochi anni fa, prima di ogni inquadratura Woody guardava sempre attraverso l’obiettivo della macchina da presa, e restava lì attaccato mentre si girava un ciak. Non vedeva com’era venuta una scena finché non arrivavano i giornalieri. Nutriva una certa diffidenza verso i monitor, anche molto dopo che usarli era diventato la regola, perché temeva che dopo aver guardato una scena su schermo, nel suo formato definitivo, avrebbe avuto la tentazione di rigirarla all’infinito. Quando finalmente ha provato a utilizzare il monitor, ha scoperto che riusciva a resistere a questa tentazione e che, in effetti, i monitor gli facilitavano il lavoro. Ora, dice lui, «Non

devo mettermi dietro il fotografo di scena e altre sei persone solo per poter dare una sbirciatina. Posso starmene in un angolo e guardare le scene sul monitor. È molto comodo, e semplice. Ma quello a cui non ho mai smesso di resistere è dire a scena finita, “Okay, guardiamola sul monitor per essere sicuri che sia buona”, perché poi magari gli attori e l’operatore si avvicinano e l’attore dice, “Oh, posso fare un altro ciak? So fare molto meglio di così”. A volte il direttore della fotografia nota, ad esempio, che è entrato il sole in campo, ma quelle cose io non le guardo mai. Voglio farmi un’idea mia quando monto il film, uno o due mesi dopo. Ho visto la scena. Ma anche quando non riesco a vederla, posso sempre ascoltarla. Sento l’attore che recita e penso: “Ci siamo”. Non so lavorare in quell’altro modo. Però tutta questa nuova tecnologia è stata un buon cambiamento». Anche se agli attori non viene consentito di guardare i vari ciak, quando un attore chiede di farne un altro perché non è contento di come ha appena recitato, Woody acconsente. Spesso, nel corso degli anni, ha constatato che il ciak venuto malissimo secondo un attore è quello che a lui piace di più, ma in molti casi l’attore aveva ragione. Se, di tanto in tanto, un attore viene a fargli una domanda mentre lui sta al monitor, Woody risponde con gentilezza e simpatia, ma non si lascia mai coinvolgere in una conversazione che esuli dal lavoro: Woody è noto per tenere gli attori a una certa distanza. Negli anni ci sono stati soltanto pochi attori con cui Woody ha passato volentieri del tempo tra un ciak e l’altro: Diane Keaton, Tony Roberts e Scarlett Johansson, tra gli altri, e da poco anche Emma Stone. Durante le riprese di Magic in the Moonlight i due hanno stretto un rapporto cordiale e scherzoso, che va avanti anche su questo nuovo set. Dopo che Woody ottiene il ciak che voleva, Stone va a sedersi su una sedia accanto a lui, e i due cominciano a discutere le maniere possibili per sostituire la scena con i cavalli. Woody dice che Jill potrebbe narrare una sequenza in

cui incontra Ellie per caso mentre sta facendo shopping. Questo renderebbe più rapida l’azione. Stone ci pensa su per un po’, poi propone di ambientare la scena durante una lezione di yoga. «Sai fare la verticale in appoggio sulle mani?» le chiede Woody. Stone la sa fare. A Woody l’idea piace. «Sarebbe una bella immagine divertente, voi due che fate la verticale contro un muro e intanto parlate. Anche l’altra ragazza sa fare la verticale?» (Woody conosce soltanto i nomi degli attori principali e di qualche componente della troupe.) Stone pensa proprio di sì. Quando la controfigura di Jill prova la scena 108 a beneficio della macchina da presa, frugando in giro e nei cassetti in cerca di un indizio che Abe sia coinvolto nell’omicidio del giudice, Woody fa una finta telecronaca mentre guarda il monitor. «La ragazza entra nella stanza… Ha una bruttissima sensazione… Sta immaginando gli incassi del film.» Loquasto guarda il monitor e vede che le cornici da soffitto bianche hanno lo stesso colore del soffitto, ma non delle porte, che sono color crema. Gli scappa una smorfia di dolore. «Non credevo che si sarebbe visto. Avremmo dovuto ridipingere le cornici dello stesso colore delle porte, così non avrebbero fatto contrasto. Ci dev’essere un’uniformità nel modo in cui la luce riflette sulle superfici; non deve interrompersi senza un vero motivo.» Loquasto è arrivato in questa location alle 5.45 di mattina. «È importante che la casa abbia un aspetto preciso», dice, e infatti negli ultimi giorni lui e gli arredatori hanno apportato parecchie piccole e grandi modifiche. Il motto è “Fare tutto il necessario al costo minimo”, e di solito la location prescelta, là dove è possibile, è sempre quella su cui non bisogna lavorare molto. Qui sono stati tolti e sostituiti alcuni mobili. Per riempire le mensole, sono stati comprati libri al metro: tutti romanzi e testi di filosofia. Le pareti che

verranno inquadrate dalla macchina da presa sono state ridipinte di un grigio talpa, al posto del bianco usato dal proprietario (il primo piano del palazzo, nella realtà, è una palestra di pilates). Quando, qualche giorno prima, Woody ha visitato il set per sincerarsi che fosse di suo gradimento, ha chiesto a Loquasto di togliere di mezzo alcuni mobili di vimini, che le danno un’aria da «casa di villeggiatura». («Woody si fida degli ambienti reali», dice Loquasto. «Non puoi mostrargli uno spazio vuoto.»)

Woody cerca di risolvere uno tra i molti problemi quotidiani insieme allo scenografo Santo Loquasto e alla produttrice associata Helen Robin, che scandisce il ritmo delle riprese. Entrambi hanno lavorato con Woody per più di trenta film.

Una volta che l’inquadratura è stata decisa, ad aggirarsi nella camera da letto è Stone e non più la sua controfigura. «Non entrare in campo troppo in fretta», la avvisa Woody. «Fallo lentamente, come una silfide.» Anche se queste scene sono girate in interni, all’esterno della casa vengono sistemati dei fari, in maniera tale da aumentare la luce del sole. Poco tempo prima una nuvola si era fermata proprio sopra la casa, nell’attimo in cui stava per partire un ciak, e per evitare disomogeneità nell’illuminazione,

le riprese si erano fermate fino a quando la nuvola non se n’era andata. Adesso, Rigby dice che devono aspettare che passi un’altra nuvola. Woody fa un’espressione insofferente. «È una nuvola veloce?» chiede. Purtroppo no. Finalmente le riprese ripartono. Al termine della scena, Stone e Woody si rimettono a parlare di Jill e Ellie a lezione di yoga. «Sei davvero capace di fare la verticale in appoggio sulle mani?» chiede lui. «Sì, ma la faccio meglio contro il muro.» «Le altre persone in palestra farebbero la stessa cosa?» «Non per forza.» Woody tira un sospiro di sollievo: questo significa che non bisognerà coordinare tutte le comparse. «Allora mentre voi fate la verticale, qualcun altro potrebbe stare nella posizione del nodo piano fatato?» La troupe è pronta a girare la scena 110c: un primo piano della mano di Jill che tiene il libro di Abe (Delitto e castigo, non a caso), aperto a una pagina sul cui margine Abe si è appuntato i nomi di una serie di assassini: “Spangler – vedi Hannah Arendt – la banalità del male. Raskol’nikov, Stavrogin, Verchovenskij, Lucas”. Stone, notando un suo difetto che non sarebbe visibile a nessun altro, dice, «Le mie mani sono abbastanza brutte». Woody annuisce e le dice, «Scommetto che sei pentita di aver usato detersivo di scarsa qualità per tutti questi anni». Sul monitor, il libro sembra essere stato schiacciato troppo forte sulla costa per appiattire le pagine in questione, e i nomi sono un po’ difficili da leggere, anche se sul grande schermo si vedranno molto meglio. Woody fa spallucce. «Se non funziona lo rigiriamo… È solo un dettaglio». Questa inquadratura e le

prossime sono scene di raccordo che servono a muovere l’azione fino alla scena 114, un incontro potenzialmente problematico tra Jill e Abe. La ragazza deve convincerlo di essersi infilata nel suo letto per fargli una sorpresa, senza fargli sospettare che in realtà si è intrufolata in casa sua per cercare qualche prova a suo carico. Abe apre la porta della camera da letto e resta sorpreso – oltre che contento – di trovare Jill tra le lenzuola, piena di desiderio. Quando Jill è già sotto le coperte, Woody si avvicina. «Sei a letto per fargli una sorpresa. Lui entra e dice, “Cosa ci fai qui?” «“Pensavo ti sarebbe piaciuto”, gli rispondi. «“No”, dice lui. “Il giovedì mi rifaccio il letto e ora mi tocca rifarlo”.» Stone ride. La macchina da presa parte. JILL Sorpresa. Pensavo di farmi perdonare per essere stata tanto bacchettona al lago l’altro giorno. [Questa scena, la 103, è la prima con Abe in cui Jill sospetta che lui sia coinvolto nella morte del giudice.] ABE Santo cielo, questo senso del teatro non è da te. JILL Non voglio che tu mi veda come una borghese noiosa e priva di immaginazione erotica. ABE Ti vedo come una sfrenata pronta a tutto. La abbraccia.

Woody dice ad Abe, «Hai parlato con autorevolezza. Io ti ho creduto.» Sono le 18.30 passate. Le riprese si fermano, ma resta da stabilire quali saranno le luci e i movimenti degli attori nella scena 87 (Jill e Abe a letto insieme per la prima volta), così

che si possa girare domani di prima mattina. Abe e Jill se ne vanno ed entrano in scena le loro controfigure. «Queste sono le inquadrature più noiose del mondo», dice Woody. «Non c’è modo di filmare due persone a letto insieme e dargli un grande significato.» Ci riflette su: Abe potrebbe stare a letto mentre Jill si riveste, ma non gli sembra che funzioni. Per dare un limite al numero di angolazioni possibili, sistema la coppia così che la macchina da presa li possa riprendere entrambi, se arriva da sopra la spalla di uno dei due. Subito dopo, Woody se ne torna a Newport. L’automobile è appena partita quando Loquasto esce dalla casa con in mano il cappello da pescatore di Woody, un po’ floscio da quanto è stato indossato. Il regista se l’è dimenticato sul set. «Ecco la nostra Sacra Sindone», annuncia Loquasto. Il mattino seguente arriva la scena di Abe e Jill a letto che segue la cena in cui hanno festeggiato la morte (in apparenza per cause naturali) del giudice Spangler. Anche se Jill dice, «Stiamo ballando sulla tomba di qualcuno», sente che la morte del giudice possa solo portare fortuna a quella madre finita nella sua aula di tribunale. La macchina da presa fa una panoramica, da due paia di gambe sotto le coperte passa al volto di Abe, sopra la spalla sinistra di Jill, tanto per evitare l’inquadratura più noiosa e convenzionale di due persone a letto insieme. ABE Avevo giurato che non l’avrei fatto, ma non so cosa mi è preso. JILL Lo sai cosa ti è preso. Hai finalmente deciso di festeggiare la vita invece di celebrare la morte con la tua idiota roulette russa.

Intorno agli attori ci sono cinque o sei componenti della troupe. Frans Wetterings, il gaffer (capo elettricista, che supervisiona il posizionamento delle luci), è appena fuori dall’inquadratura, vicino alla testa di Jill, e tiene in mano una eye light – uno strumento che somiglia a una vaschetta per il

ghiaccio lunga e sottile, ed è dotato di piccole lampadine – a cui ha messo sopra un diffusore, per far brillare di più gli occhi. Sopra la testa di Abe c’è anche una birdcage (“gabbia per uccelli”), una luce a incandescenza con su un panno morbido per la diffusione, e ai piedi del letto c’è un faro. Nonostante tutte queste attrezzature e queste persone, alcune a pochi centimetri dai loro volti, gli attori recitano una conversazione intima in maniera convincente. Sembra un paradosso, usare così tante luci per ottenere una patina morbida, ma come dice Khondji: «La bellezza di illuminare un set sta nell’utilizzare una grande quantità di luci e poi nel tagliare, e ancora tagliare, e ammorbidire, finché non ti rimangono che i resti di tutta quella luce. È come la fine di una giornata. Se utilizzi una grande fonte di luce – per scherzo lo chiamo “stile tedesco” – illumini il set con grande esposizione, ma la bellezza e la delicatezza stanno in quello che resta della luce». Quando arriva il momento di girare, Woody si avvicina a Jill e le dice, «Vacci leggera, anche quando parli di “Ballare sulla tomba di qualcuno”». Ad Abe dice, «Quando dici, “Avevo giurato che…” vuoi provocarla. Sei un uomo nuovo e sei sincero quando dici che non avresti voluto succedesse tutto questo. Tra i due sei tu quello con più esperienza e quindi non sei euforico quanto Jill, che l’ha desiderato molto». Woody crede che Abe dovrebbe appoggiarsi sul gomito – sembrerà più padrone di sé – mentre Jill dovrebbe avere un’aria sfinita. «Il pubblico aspetta questa scena dall’inizio del film», ricorda agli attori. Entrambi ascoltano con attenzione, poi annuiscono. «Okay», aggiunge Woody. «Io il mio dovere di regista l’ho fatto. Ora trovate voi la vostra sintonia», e con questo va verso il video village. Ha già in mente come monterà questa scena a tempo debito, e mentre prende posto davanti al monitor dice, «Mi devo ricordare i vari stacchi, così se qualcosa va storto non mi mangio le mani».

Khondji, come succede per quasi ogni ciak, deve fare qualche piccolo ritocco. Woody dice, «quando Gordon Willis illuminava scene come questa c’erano cutters [i cutters sono piccoli ritagli di stoffa che diffondono e ammorbidiscono la luce] e fari ovunque, e lavorava dalle otto di mattina alle quattro di pomeriggio. Un altro direttore della fotografia ci mette un’ora e al mio occhio da profano il risultato non sembra tanto diverso». Loquasto chiede se vanno bene le lenzuola, che sono di un beige chiaro e neutro; dice che ne ha anche di più eleganti. A Woody queste vanno bene. «Il nostro bianco», Loquasto chiama il colore prescelto. Nel primo ciak gli attori non parlano con il tono confidenziale che vuole Woody, il quale di colpo si trasforma in T.S. Eliot: si toglie le cuffie, salta in piedi e si mette a recitare a gran voce dei versi tratti dal Canto d’amore di J. Alfred Prufrock. «Non è per niente questo che volevo dire/Non è questo, per niente.» Vengono girati altri due ciak. Durante il quarto, Woody fa segno con il pollice verso a Virginia McCarthy. «Avvisami quando è finita», dice. Ride mentre ripete, «non è questo, per niente», con maggior enfasi, e poi aggiunge: «So esattamente cosa si provi, a essere frainteso». Un ciak è un’inquadratura più intima di Abe a petto nudo, e un altro è più ravvicinato, in modo che Woody possa cambiare un po’ le cose in sala di montaggio. Nell’inquadratura più stretta si vede soltanto un accenno della spalla di Jill. Prima di ogni inquadratura bisogna aggiustare le luci e riposizionare la macchina da presa, e le ore giornaliere si accumulano. Nonostante il grande rispetto che Woody nutre per Khondji, c’è una certa inevitabile tensione tra il suo desiderio di passare subito all’inquadratura successiva e il bisogno che ha Khondji di rendere ogni inquadratura più bella possibile. Woody pensa a questo contrasto mentre aspetta di girare di nuovo: ci vorrà

più di un’ora. «Nelle lettere di [Elia] Kazan ce n’è una a Boris Kaufman [direttore della fotografia], in cui Kazan gli spiega perché non l’ha voluto per un film. Kazan vuole girare un altro ciak subito dopo che ha spiegato agli attori cosa fare, ma Kaufman era uno che doveva sempre sistemare una cosa o l’altra. Io ho lo stesso problema: voglio girare subito, ma tutti i migliori direttori della fotografia hanno qualche ritocco da fare. Poi Kazan ha richiamato Kaufman, per Splendore nell’erba [1961]. E alla fine io mi rimetto sempre al genio.» «Tutto quello che ho imparato su come si fa un film l’ho imparato da Gordon Willis e da Ralph Rosenblum [montatore, oggi scomparso]», mi ha detto Woody in diverse occasioni. Lui e Willis hanno lavorato insieme a otto film tra il 1977 (Io e Annie) e il 1985 (La rosa purpurea del Cairo). «Quando preparavo una scena o proponevo qualcosa, Gordon mi diceva, “Quello non ti serve”, oppure “Non c’è ragione di muovere la macchina da presa, allora perché la muovi?”, oppure “Questa inquadratura indugia troppo sul primo piano, dopo la butterai via”. Tutti gli elementi inutili, lui li chiamava “cuoio da scarpe”. Gli piacevano i movimenti di macchina di Kurosawa, dove erano gli attori a spostare la macchina da presa con le loro azioni, non la macchina da presa a muoversi in maniera indipendente. Mi ha mostrato con quanta semplicità si potesse girare. Pensavo che avrebbe usato una quantità di lenti lunghe e di trucchetti vari, invece girava quasi ogni film con una lente da quaranta millimetri, la meno romantica che ci sia. Scena dopo scena, io dicevo, “Accidenti, ma io ho davvero il coraggio di farlo?”. E lui mi rispondeva, “Sì, dovremmo proprio”: personaggi che parlano fuori campo [Woody e Diane Keaton che entrano ed escono dall’inquadratura in Io e Annie], oppure si muovono in un ambiente talmente buio che è impossibile vederli in faccia [la stessa coppia che cammina nel paesaggio lunare al Museo Americano di Storia Naturale in Manhattan]; personaggi inquadrati da molto lontano, con la macchina da presa che non

si muove finché loro non si avvicinano. Inoltre, voleva essere sicuro che nella sua testa il prossimo stacco fosse sulla scena che stavamo girando. Per fare un esempio molto semplice: se due personaggi stavano in due parti opposte della città e stavano facendo una telefonata, Gordon si assicurava che Keaton fosse sulla destra dell’inquadratura, così quando staccavi su di me io stavo a sinistra. Prima di Gordon, io avrei potuto stare a destra e staccare su Keaton e poi di nuovo su di me. Magari avrebbe funzionato lo stesso – stiamo al telefono, siamo in due parti opposte della città, ma il risultato estetico non sarebbe sembrato altrettanto piacevole. Gordon mi ha mostrato come illuminare una scena con una luce romantica se era quella l’atmosfera da restituire. E capiva la sceneggiatura. Era sulla mia stessa lunghezza d’onda e sapeva cosa volevo. Dopo un paio di film con lui ero diventato un espertone.» Rosenblum ha montato sei dei primi film di Woody, a partire da Prendi i soldi e scappa, che ha salvato, rimontandolo, per arrivare a Interiors nel 1978. «Ralph mi ha insegnato l’importanza della musica, l’importanza di fare tagli davvero sensati. Ecco un buon esempio: nel Dittatore dello stato libero di Bananas c’è una scena in cui io vengo rapito e spinto dentro una macchina, e Ralph ha estratto la sezione intermedia di un lungo piano-sequenza – lo faceva da un sacco di tempo – e mi ha spiegato che nel ritmo concitato dell’azione non si sarebbe notato, e infatti non si nota. Ralph cercava sempre di utilizzare qualche inquadratura per ogni angolazione da cui giravo. Se avevo sei angolazioni, lui cercava di usarle un po’ tutte.» Scena 30: Abe non riesce ad avere un’erezione con Rita. Sono a letto insieme dopo che, in una sera piovosa, la donna si è presentata a casa sua con una bottiglia di scotch di puro malto, nella speranza di sedurlo. È una sera tempestosa, e lo scroscio della pioggia collega questa scena alla 28 (Rita arriva con lo scotch e ci prova con Abe) e alla 29 (Jill e Roy cenano

insieme ai genitori di lei a casa loro): anche lì si sente la pioggia. ABE Mi dispiace. Lo so, dev’essere una delusione, come minimo. RITA Hai provato qualcosa contro l’impotenza? ABE Non è una cosa fisica. Tu non c’entri, non te la prendere. Non riesco più a farlo da quasi un anno. RITA Hai visto uno psichiatra? Io ne conosco uno bravo per certi problemi. ABE Spero sempre che finisca misteriosamente com’è cominciata. Mi dispiace averti delusa. RITA No, dispiace a me. Sarà orrendo per te. ABE Grazie per lo scotch.

Questa è la prima scena con Phoenix e Posey dall’inizio delle riprese, e quando i due attori sono insieme, ricorda lei in un secondo momento, Woody li rassicura, «Nessuno di voi verrà licenziato». Posey tira «un sospiro di sollievo, e ovviamente trova la battuta molto divertente. Woody ha un umorismo sardonico – ce li ha tutti, i tipi di umorismo – ed è molto divertente e stargli vicino è un vero sballo». Il suo sollievo, però, ha una ragione più profonda: Woody è famoso per sostituire i suoi attori a film cominciato. È successo anche con uno dei protagonisti della Rosa purpurea del Cairo (gli sembrava «troppo contemporaneo» per un film ambientato negli anni trenta) e di Un’altra donna, e con diversi membri del cast quando ha rigirato Settembre (1987) dalla prima all’ultima scena. Nel caso di Celebrity, invece, Woody ha tagliato la parte di Vanessa Redgrave al montaggio non perché non gli piacesse lei, ma perché non gli piaceva il modo in cui lui stesso aveva tratteggiato il personaggio: «Vanessa è

un’attrice brava come poche al mondo. È ovvio che la mia decisione non aveva a che fare con la sua interpretazione». Il numero di queste sostituzioni è molto basso rispetto al numero di film che Woody ha girato, ma è abbastanza alto perché gli attori, insicuri per natura, temano di essere i prossimi a ricevere il benservito. All’inizio di Magic in the Moonlight Stone era «catatonica»: «La prima settimana ero sicura che sarei stata licenziata. Ne ero certissima. Avevo sentito dire che Woody licenziava gli attori, che ne sceglieva uno e poi quando lo vedeva recitare restava sconvolto dal suo aspetto fisico, oppure era troppo moderno oppure aveva il look sbagliato o la voce sbagliata. Tutto quello che si diceva fosse successo in passato, io ero sicura che sarebbe successo a me. Mi ero rassegnata all’idea di essere licenziata». In certi casi Woody comunica molto chiaramente agli attori che devono cambiare modo di recitare. Parecchi anni fa, durante le riprese di un film, Woody aveva visto i primi giornalieri al termine del secondo giorno di riprese. Il mattino seguente ha preso da parte uno dei protagonisti e gli ha detto, «Senti, lo sai che ti considero un grandissimo attore e non devi fraintendermi e forse sei fermamente convinto delle scelte che stai facendo per il personaggio, ma se continui così, ti dobbiamo sostituire». L’attore, senza battere ciglio, ha risposto, «Dimmi come la vedi tu». Come sempre, Woody non aveva dato indicazioni a nessun membro del cast prima dell’inizio delle riprese, affidandosi alla loro innata capacità di arrivare sul set e recitare in maniera per lui soddisfacente, e cioè senza sembrare degli attori. «Sei bravissimo, sei un grande, puoi fare tutto quello che vuoi», ha detto a un altro attore in un’altra occasione, «però io non voglio che in questo film si reciti.» È un paradosso: quando eviti di recitare, stai recitando davvero. E Woody ha ottenuto l’interpretazione che voleva.

Adesso come adesso, non sta pensando di licenziare nessuno. «Qual è la scena che viene prima di questa?» chiede mentre i tecnici stanno preparando l’inquadratura. Quando gli viene risposto che è una delle scene con i genitori di Jill, lui dice, «Bene, basta che non sia qui al piano di sotto». Per un fatto di gusto personale, vuole che le scene consecutive si girino in location diverse, e, se possibile, preferisce che una scena in interni sia immediatamente seguita da una scena in esterni, perché, dice lui, «Mi piace passare dalla luce al buio, dal dentro al fuori: adoro il contrasto tra le luci». Woody discute l’inquadratura con Khondji e i macchinisti, e decide che i binari del carrello devono costeggiare il lato del letto occupato da Abe. Sotto i binari c’è una tavola di compensato livellato e fissato con delle zeppe, il cosiddetto dance floor (pista da ballo), per fare in modo che la macchina da presa, montata sul dolly, si muova sempre in maniera uniforme e mantenga diritta l’inquadratura. Woody trova una posizione per Abe: deve stare girato sulla spalla sinistra, senza guardare Rita, che è sdraiata dietro di lui e gli tiene le mani sul fianco e sulla spalla, per rassicurarlo. I due sono sistemati in modo che entrambi i volti siano nell’inquadratura, cosa che evita a Woody di dover staccare dall’uno all’altra in sala di montaggio. I macchinisti sistemano una birdcage accanto a ciascuno dei due attori, un faro ai piedi del letto, una “bandiera” alle spalle di Rita, e accendono tutte e tre le lampade da tavolo presenti nella stanza, da cui sembra provenire la luce. L’inquadratura comincia con la macchina da presa che avanza sul carrello e poi si avvicina alla coppia. Il ciak è realistico, ma piuttosto trattenuto, poco emotivo. Per il secondo e il terzo ciak, Woody propone che Abe sia più «amareggiato» dalla situazione, e questo aggiunge una punta di durezza alla scena.

Mentre aspetta, Woody, come sua abitudine, si fa camminare una moneta sulle nocche della mano destra ruotando le dita. In altri casi gioca con tre monetine nascoste tra il pollice e l’indice del suo palmo destro. Ha preso l’abitudine quando era un ragazzo, negli stessi anni in cui ha sviluppato un interesse per la magia e la prestidigitazione. È più difficile usare le monete, rispetto alle carte, ma è più facile trovarne l’occasione; le persone hanno sempre qualche spicciolo in tasca, e solo di rado portano con sé un mazzo di carte da gioco. Le scene 50 (Abe a letto che non riesce a dormire) e 50a (Abe che si sveglia il mattino dopo aver ascoltato la madre che si lamentava nella tavola calda) sono un punto di svolta della storia, perché segnano l’inizio della trasformazione di Abe, da uomo privo di scopo a uomo risoluto. All’inizio l’idea di uccidere il giudice lo metteva in agitazione. Ora non più. ABE (F.C.) Vertigini e ansia erano scomparsi, e io accettavo completamente e con vera gioia la mia libertà di scegliere il da farsi. Ero troppo eccitato per poter dormire. La mia vita era un vulcano di idee e di piani per uccidere il giudice Spangler. Grazie a un incontro fortuito con una sconosciuta tutto a un tratto la mia vita aveva uno scopo. Quando finalmente mi addormentai, dormii il sonno del giusto.

McCarthy legge la voce fuori campo tra sé e sé e la misura col cronometro: trentadue secondi. Intanto Woody è nella camera da letto con Khondji a studiare l’inquadratura. «Abbiamo poche scelte, qui, per andare a coprire tanta voce fuori campo», dice. «Lui potrebbe alzarsi dal letto e camminare per casa. Oppure potremmo far partire l’inquadratura con lui davanti allo specchio della camera e poi riaccompagnarlo qui, lui si rimette a letto e tira su le coperte, e poi resta sdraiato. Oppure potrebbe stare seduto sul bordo del letto. Non dobbiamo per forza tenerlo sdraiato a letto. Possiamo scegliere.» Khondji filma Abe mentre sta a letto fino a ottenere un primo piano. La sceneggiatura recita: «Dorme, si sveglia il mattino dopo – una splendida giornata – gli uccelli

cinguettano, il sole è alto». Mentre Abe si stiracchia nel letto con aria appagata, c’è una voce fuori campo che dura sette secondi: Il giorno dopo mi svegliai che ero un uomo nuovo. Non avevo più quella letargia apatica, priva di appetito.

Le brevi scene che seguono mostrano come si manifesta, in concreto, il suo cambiamento. Lo vediamo mangiare di gusto una colazione abbondante; poi, mentre cammina a passo svelto nel campus, incontra Rita, che nota subito come lui sia «pieno di energia stamattina» e gli chiede da cosa sia provocato un simile risveglio: «Hai avuto un’epifania religiosa?». Lui risponde, «Ho solo deciso che era ora di smettere di piagnucolare e che dovevo agire facendo succedere qualcosa». Nella scena 55, lui e Jill fanno una gita in macchina al faro, sulla scogliera che si affaccia sul mare. Lui le dice, «Non posso fare a meno di pensare a quella frase di Emily Dickinson: “Inebriata di aria”. Essere inebriati di aria, senza doversi affidare allo Scotch di puro malto». Jill dice ad Abe, «Lo sai che sono innamorata di te», e lui le risponde, «Credi di esserlo. Quello di cui sei innamorata è il concetto romantico dell’essere innamorata del tuo professore… Sarò sempre tuo amico». Tutto questo serve a gettare le basi per la scena 56, Abe e Rita che fanno l’amore con passione. Quando Woody vede i giornalieri il pomeriggio seguente, si preoccupa che passare da Abe e Jill a Abe e Rita potrebbe confondere il pubblico – con quale donna sta facendo l’amore Abe? – perché, guardando la scena su un iPad, non è sicuro che la differenza le due donne risulti subito chiara. Chiede a Khondji di dare un’occhiata. «Nessun problema», risponde lui. «Vediamo la faccia di Rita subito prima che scompaia in un bacio, e poi la vediamo di nuovo pochi secondi dopo.» «Ne sei sicuro?» chiede Woody. «Sono molto sicuro.»

«Be’, se sei molto sicuro.» L’attrezzatura viene trasportata al piano di sotto della casa per la scena 57: Abe e Rita dopo aver fatto l’amore, in un’inquadratura della cucina vista dalla sala da pranzo. Woody ha spostato l’azione al primo piano «per evitare altre chiacchiere tra le lenzuola. Questo stacco elimina l’ennesima scena di letto». Comincia a studiare i movimenti degli attori: Abe entra nell’inquadratura e va al bancone della cucina, Rita entra e cammina verso la macchina da presa posizionata in sala da pranzo, Abe le mette le mani sulle spalle e la bacia. Mentre le attrezzature vengono sistemate, Woody si scambia sms con Soon-Yi, una cosa che fa diverse volte al giorno, sia con la moglie sia con l’assistente, Ginevra Tamberi. (Per lui è un’impresa relativamente nuova; tuttora non ha un account di posta elettronica.) A ogni messaggio, subito dopo aver premuto il tasto “invia”, Woody fa un gesto scaramantico con la mano destra rivolta allo schermo, come se fosse necessario per far arrivare l’sms a destinazione. La scena, girata in un totale a piano americano, comincia: RITA È stato fantastico. Mio Dio, ma che cosa hai mangiato a colazione? ABE Non è tutto merito mio. Tu sei merce bollente, cara signora. RITA Che fine ha fatto il professore di filosofia? Cristo, sembravi un uomo delle caverne. ABE Per la prima volta dopo tanto tempo mi sono sentito libero. Una libertà senza limiti. RITA Vieni via con me. ABE Dove? A Tahiti? Come Gauguin? A fare l’amore ai tropici?

Rita gli chiede se va a letto con Jill. «No, mai», risponde Abe, «Siamo solo amici» (è vero, a questo punto della storia).

Stando alle chiacchiere del campus, loro due sarebbero più che amici: ABE Solo chiacchiere. La gente riempie il vuoto coi pettegolezzi. Levatela dalla testa, e lasciati stringere finché devi tornare a casa.

Prima del primo ciak, Woody dice a Rita e Abe: «Parlate con brutale candore ed energia: nessuna pietà». Loro ridono, ma lui è molto serio. Torna al monitor e sussurra, «Adesso tocca a loro». I primi due ciak sono un po’ piatti. «È come se non stessero davvero parlando l’uno con l’altro, solo ripetendo le battute», dice Woody, poi gli chiede di rifarla da capo. Va meglio. Il settimo ciak è molto buono, visto che gli attori hanno aggiunto alla scena i loro tocchi naturali. Abe mette le mani sulle spalle di Rita, gliele massaggia, si china in avanti e la bacia sulla bocca. «Mi piacciono questi movimenti», afferma Woody. «Il ciak dove lui alla fine la bacia è molto meglio.» Quando parte il motore per l’ottavo ciak, lui esclama «Questa è la volta buona», come se augurarselo bastasse a farlo succedere. In effetti, il ciak è molto buono. «Ottimo ciak. Correggiamo una sfumatura e poi andiamo avanti», dice Woody. Il nono ciak viene interrotto poco prima della fine perché è stata saltata una battuta, ma buona parte potrebbe tornare utile al montaggio. «Stampiamolo», indica Woody. «Ne facciamo un altro.» Tutti si preparano al ciak numero dieci. «Questo è l’ultimo», dice Woody. Quando finisce, avvisa McCarthy, «Stampa questo, non quello prima». Va dagli attori e dice, «Ecco un altro geniale colpo di scena», e gli suggerisce dei baci più sfumati. Il ciak che segue sembra perfetto. «Stampiamo questo», è l’ultimo commento di Woody.

Abe e Rita dopo aver fatto l’amore. Per tenere vivo il ritmo della storia, Woody ha spostato la scena in cucina «per evitare altre chiacchiere tra le lenzuola. Questo stacco elimina l’ennesima scena di letto». Ha apprezzato l’intimità che gli attori hanno aggiunto alla scena.

Vanno ancora girate diverse scene in casa di Abe: altri interni da aggiungere alla lunga serie di scene d’interni girate negli ultimi giorni. «Voglio uscire fuori all’aria aperta – le strade, i negozi – e fare surf sugli scogli!» dice Woody a Helen Robin mentre discutono i prossimi impegni previsti dal piano di lavorazione. «Non ne posso più di questi posti bui. È da troppo tempo che sono lontano dal Carlyle.» Lui e la sua band suonano molto spesso il lunedì sera al Carlyle Hotel su Madison Avenue. «Io te l’avevo detto di restare a New York», gli ricorda Robin. Woody finge di essere l’assistente della presidentessa del college, quella che mostra ad Abe la sua casa: «I nostri docenti alloggiano al Carlyle». Poi, con la sua voce normale, aggiunge: «Sarebbe divertente: il dipartimento di Filosofia ha il servizio in camera gratis al Carlyle».

3. «Per me, il punto debole di ogni situazione è sempre la scrittura.» Negli ultimi giorni Woody ha letto con grande entusiasmo le bozze di Hope: Entertainer of the Century, la biografia di Bob Hope scritta dal giornalista Richard Zoglin, e ogni mattina è arrivato sul set raccontando un nuovo aneddoto o una battuta di spirito tratta dal libro. Ora sta rallentando il ritmo della lettura a due o tre pagine al giorno, perché è quasi arrivato alla fine e vorrebbe che non finisse mai. Per chi non ha familiarità con l’immenso talento di Hope come cabarettista e con i suoi grandi film degli anni quaranta e cinquanta – i migliori, stando a Woody, sono Monsieur Beaucaire (1946), La grande notte di Casanova (1954), Avventura in Brasile (1947), Il grande amante (1949) e La principessa di Bali (1952) – tutta questa devozione da parte di Woody può lasciare perplessi, ma nel suo periodo d’oro – e quel periodo durò più di vent’anni – Hope era l’umorismo fatto persona. Era il più popolare cabarettista degli Stati Uniti, il più popolare conduttore radiofonico, un attore capace di trascinare le folle al cinema, e spesso presentava lui la serata degli Oscar. La combinazione tra la sua leggerezza, la sua finta vigliaccheria e l’illusione di essere irresistibile per le donne aveva portato alla nascita di un personaggio comico che Woody idolatrava, e cercava di imitare. Questo si nota soprattutto nei suoi primi film (Amore e guerra e Il dormiglione ne sono ottimi esempi), ma anche in uno arrivato tra i più recenti, come To Rome with Love; se togliete a Woody i suoi occhiali e gli mettete un naso all’insù, quelle battute potrebbero essere benissimo di Bob Hope. «Hope e io siamo entrambi autori di monologhi, i nostri personaggi sono convinti di far impazzire le donne, e sono vanitosi e codardi», ha detto Woody nella prima fase della sua carriera da regista. «Il nostro umorismo nasce dalla stessa identica sorgente. È difficile capirlo, forse, perché io sono diversissimo da lui sia nell’aspetto fisico che nel tono di voce.

Ma ci sono certi momenti in cui credo che lui sia la cosa più divertente che abbia mai visto. A volte mi devo trattenere con tutte le mie forze per non scimmiottarlo.» La scena di Amore e guerra in cui Boris prende appuntamento con la contessa potrebbe venire tranquillamente da Monsieur Beaucaire. CONTESSA Da me a mezzanotte? BORIS Perfetto. Ci sarà anche lei? CONTESSA È naturale. BORIS A mezzanotte. CONTESSA (si porta la mano al petto) Mezzanotte. BORIS Facciamo un quarto alle dodici? CONTESSA Mezzanotte. BORIS Mezzanotte, sicuro.

Un caso in cui Woody ha fatto male i conti, decidendo di non interpretare fino in fondo un personaggio alla Bob Hope, è stato La maledizione dello scorpione di giada. In quel film Woody è C.W. Briggs, un investigatore assicurativo che ha un rapporto di amore/odio con l’esperta di efficienza Betty Ann Fitzgerald (Helen Hunt). Entrambi cadono vittima di un ipnotizzatore (David Ogden Stiers) che li manovra in modo da far loro commettere diversi furti. Per il ruolo di Briggs, Woody aveva scelto un attore che all’ultimo momento non ha potuto essere disponibile a causa di un altro impegno. Non riuscendo a trovare un sostituto in poco tempo, ha deciso di interpretare lui quella parte, ma dopo una o due settimane di riprese si è

reso conto che «il film non avrebbe funzionato con me in quel ruolo». In molti dei migliori film di Hope, il protagonista, per caso o di proposito, viene scambiato per qualcun altro, proprio come Boris non è chi gli altri credono che sia. Parecchie battute di C.W. Briggs riprendono quelle di Hope ma, dice Woody, «Era il tono del film a essere sbagliato. Se vuoi fare un film dove io interpreto l’investigatore, dev’essere una cosa più alla Bob Hope, dove io non faccio davvero l’investigatore, ma sono gli altri a scambiarmi per lui». Woody considera questo film probabilmente il suo peggiore, e crede di aver deluso i «grandi attori» che aveva riunito: Hunt, Dan Aykroyd, Wallace Shawn e Charlize Theron, per citarne solo alcuni. «Loro erano tutti magnifici. Ma riuscivo a sentire che il film non stava venendo come volevo io, e che ero io a non essere credibile.» Gli incassi al botteghino americano non hanno superato i 7,5 milioni di dollari, però, a dimostrare che un pubblico diverso può reagire in maniera diversa, è stato il suo film (fino ad allora) di maggior successo in Giappone e in Spagna. La sua autorità sul set, come per ogni altro regista, è assoluta, ma Woody la esercita in maniera quasi silenziosa: non alza la voce e non ha pretese, a parte girare bene una scena. Mentre aspetta che finiscano gli ultimi ritocchi alle luci, racconta la prima volta in cui ha visto quanto potere avesse un regista. «Io e Charlie Joffe [il suo manager di lunga data insieme a Jack Rollins] eravamo andati sul set di Ciao Pussycat [1965]. Non ci potevamo credere. Clive Donner, che era un uomo mite e gradevole, diceva, “Mi serve una piattaforma laggiù”, e la troupe saltava sull’attenti e gli fabbricava una piattaforma. Mi ha chiesto se volevo qualcosa da mangiare e io ho detto, “Beh, una tavoletta di cioccolato”. E lui ha detto a uno della troupe [Woody schiocca le dita] “Portate una tavoletta di cioccolato a Mr. Allen”.»

Restano da girare alcune inquadrature, ma è stata una giornata lenta. C’erano in programma nove scene; ne sono state fatte sei. Sperando, senza troppa fiducia, di rientrare nella tabella di marcia, Robin aveva segnato tutte le scene come già girate, con ottimismo, e aveva fatto ordinare la cena per la troupe. Alle 18.45, però, con un’altra lunga preparazione in vista e una giornata di lavoro di dodici ore alle spalle, Rigby avverte Woody che le riprese di oggi non finiranno prima delle 21.30. Woody sbianca, anche perché è già stato stabilito che anche le riprese di domani finiranno a quella stessa ora, e cerca lo sguardo di Robin. Lei fa spallucce e dice, «È il tuo film. Comunque oggi non finiremo in orario». Woody si affretta a chiamare lo stop alle riprese e si avvia a passo veloce verso l’automobile che lo aspetta. Robin dice a Rigby di annullare la cena. La seconda settimana di riprese dura soltanto tre giorni e mezzo, perché giovedì sera a New York c’è la prima di Magic in the Moonlight, seguita da una proiezione a Chicago venerdì. Ronald Chez, uno dei finanziatori del film, abita proprio a Chicago. L’entusiasmo che Woody provava una settimana fa si è già smorzato. «Sono triste», dice tra una scena e l’altra il mercoledì. «Le scene che vedo mi sembrano spente, non nel senso delle immagini, ma della loro resa. È troppo presto per poter parlare, ma il film non mi sembra emozionante. Non credo che stia funzionando.» Non è la prima volta che Woody ha questa sensazione – l’ultima in ordine di tempo ce l’ha avuta per Blue Jasmine. Prima che il film arrivasse nelle sale ha detto, «Non sono mai contento. Sono molto soddisfatto di Cate, e del cast in generale – Bobby Cannavale, Louis C.K. e Sally Hawkins, naturalmente, e Alec Baldwin, che è grandioso come sempre. Che faccia una commedia o un film serio, lui è incredibile. Sono così felice di aver avuto questo splendido cast e tutti

quanti hanno dato il massimo. Per me, il punto debole di qualsiasi situazione è sempre la scrittura». La sceneggiatura di Blue Jasmine ha poi ricevuto una valanga di candidature ai premi principali, compresi gli Oscar, ma questo per Woody conta ben poco, essendo sempre stato convinto che l’arte non sia giudicabile. «Se accetti un premio quando ti dicono che il tuo film è bello, poi devi essere d’accordo con loro anche quando ti dicono che è brutto», dice, con una battuta ispirata a Verdi colline d’Africa di Ernest Hemingway, e lui non è disposto ad accettarlo. «A volte ho ragione io» rispetto a un film che non gli sembra funzionare, dice, sempre ridendo, ma sarebbe difficile trovare molte persone secondo cui Blue Jasmine non funzionava, non importa quanto Woody se ne fosse preoccupato. Ma quella è acqua passata, e ora ci sono nuove preoccupazioni più urgenti. «Domani ho la prima di un film, tra una settimana lo distribuiscono, e ho la sensazione che non abbia mai funzionato.» Considerando che Woody sforna un film all’anno, quando ne esce uno in sala lui se ne è già allontanato emotivamente ed è coinvolto in un altro progetto. Stava girando Magic in the Moonlight in Francia quando Blue Jasmine è arrivato sugli schermi americani, nel luglio 2013, quindi era troppo lontano per presenziare alla prima del film e affrontare le interviste promozionali. Quest’anno, Woody era talmente assorbito dal suo film del momento che non sopportava alcun genere di pausa. Adesso, invece, questa breve parentesi qualche lato positivo ce l’ha. «Di solito mi ucciderebbe», dice. «Per anni ho detestato qualunque interruzione, persino nel weekend. Stavolta non credo che mi darà fastidio, ma solo perché mi permetterà di passare un weekend in più lontano da qui. Con i giorni feriali me la cavo bene. Lavoro dalla mattina alla sera e la notte dormo, quindi è okay. Ma nel weekend, quando ti alzi e [fa

una voce stanca] hai davanti il sabato e la domenica. Vorrei poter girare sei giorni a settimana; anni fa ne avrei voluti sette, tanto ero preso dal film.» Tra due giorni usciranno le prime recensioni di Magic. All’inizio della sua carriera, Woody le recensioni le leggeva, ma dai primi anni settanta in poi evita di seguire cosa dicono i critici, anche se si fa un’idea di massima in base a quello che gli raccontano sua sorella e altre persone coinvolte nella lavorazione del film. Dice di provare «un certo affetto» per Magic perché «l’ho fatto io e provo affetto per gli attori. Ora, però, bisogna avere il gusto per questo tipo di… Non so nemmeno io come definirla… Diciamo che è un tipo di commedia… da salotto borghese. C’è Colin Firth che incontra questa rozza ragazza americana. È un misto tra i film di James Ivory e il Masterpiece Theatre1, ma non è altrettanto buono [ride]. Colin e Emma e tutti gli altri attori sono talmente bravi che io ho un certo affetto per il film. Ma questo non vuole dire niente. Il pubblico lo sente che non è abbastanza divertente, che è troppo parlato – e infatti è troppo parlato: è stata una decisione precisa, io volevo fare proprio quel genere di film. Uscire subito dopo Blue Jasmine potrebbe essere uno svantaggio. Sono certo che sarebbero tutti felici se fosse un altro film simile a Blue Jasmine, ma non era quello che volevo fare io. Come ti muovi, sbagli. Se fai la stessa cosa, ti dicono, “Ah, stai facendo la stessa cosa”, e se fai una cosa diversa, va a finire che non gli sta bene nemmeno quella. Allora tendi a ignorare le chiacchiere, perché se le ascolti diventi pazzo. Per un regista, un film è roba seria: è il nostro lavoro. Ma per la gente che va al cinema, è solo un fatto di “Cosa vuoi fare stasera? Andiamo al cinema. Dopo andiamo a cena”». Per Woody il film è il risultato di un anno di lavoro serrato, ma per il pubblico è «un’ora e mezza abbastanza secondaria delle loro vite. Si siedono in sala e sperano che il film li faccia divertire, o emozionare. Poi, se va tutto bene, quando il film è

finito si dicono, “Accidenti, gran bel film, dove vuoi andare a mangiare?”. In caso contrario si dicono, “Madonna, che noia mortale, dove vuoi andare a mangiare?”. «Una ragazza una volta mi ha detto, parlando di un film di qualcun altro, “È stato un nobile fallimento”. E io ho pensato, “Tu non lo puoi sapere se è stato un successo o un fallimento o se è stato nobile o ignobile”» ha detto una decina d’anni fa. «Era una brava persona, quella ragazza, ma la gente ripete le frasi che sente dire senza capirle. Sono solo discorsi sui film. Accendi la televisione, ci trovi gente che parla, e quasi sempre stai sentendo quello che Norman Mailer anni fa chiamava “l’inquinamento intellettuale”. Tutte chiacchiere vuote. Il formato l’hanno inventato [Gene] Siskel e [Roger] Ebert quando parlavano di cinema; l’idea che due uomini distinti, potessero non andare d’accordo. Adesso ogni volta che accendi la tv ci trovi della gente che parla di cinema. Alcuni sono più qualificati di altri, ma hanno tutti il diritto ad avere un’opinione. Ma nessuno di loro ha niente a che vedere con il vero mondo del cinema, dove le persone girano film e collaborano con serietà, costanza e dedizione. E questo è vero anche per molti critici che al cinema hanno dedicato tutta la loro vita. È molto difficile distinguere tra quella che Gore Vidal chiamava la differenza tra “critica” e “semplice opinione”, perché la critica, di base, è un semplice fatto di opinione. Una critica cinematografica che sapeva scrivere davvero molto bene come Pauline Kael, ecco, quando lei scriveva di un film e magari quel film era una porcheria, ma se le era piaciuto, presentava tutti i buoni motivi per cui il film sarebbe dovuto piacere anche a te, e lo faceva sembrare emozionante. Sapeva argomentare, e la sua logica era solida, però poi andavi a vedere il film ed era brutto. Ed era brutto perché a te non era piaciuto». I critici si sono divisi a proposito di Magic in the Moonlight. C’è stata qualche stroncatura e qualche recensione entusiastica, ma nella maggioranza dei casi il film è stato

considerato un gradevole diversivo, non certo uno dei migliori della sua produzione. Woody si trova in una posizione molto strana. Dato che i suoi film escono una volta all’anno, come il solstizio d’estate, non sono circondati dall’attesa che suscitano i grandi registi che fanno un film ogni cinque anni. Il film dell’anno precedente non è ancora passato di mente a nessuno quando arriva quello successivo. Però, uscendo dopo Blue Jasmine, che è piaciuto praticamente a tutti e ha incassato un centinaio di milioni di dollari in tutto il mondo (un terzo dei quali negli Stati Uniti), Magic ha avuto un ottimo primo weekend di programmazione in diciassette sale tra New York e Los Angeles (di solito i film di Woody escono prima in queste due città e solo dopo nel resto del paese), che sarebbero diventate 964 nelle settimane seguenti. Ma i buoni risultati del primo weekend non si sono ripetuti con il passaggio all’ampia distribuzione: l’incasso totale, considerando anche i mercati esteri, si è fermato alla metà, 32 milioni di dollari. Il lunedì mattina dopo la première, Woody è di nuovo a Providence e non sta più pensando al destino di Magic: un vantaggio, questo, dell’essere assorbito dal nuovo film. Al momento sta pensando a come rendere visivamente interessante la scena 9, in cui la preside del college mostra ad Abe la sua nuova casa il giorno del trasloco. La palazzina è stata costruita negli anni trenta, e si trova in un quartiere piacevole, medio-borghese, con case accoglienti e piccoli giardini recintati. Cinque o sei scalini collegano il marciapiede alla veranda e alla porta d’ingresso. L’inquadratura deve accompagnare Abe e l’assistente dall’automobile di lui fin dentro la casa. È stata denominata “9a” per distinguerla dalla porzione che verrà girata in interni. I binari del dolly sono stati montati sulla strada, a un angolo di quarantacinque gradi rispetto alla casa. La prima idea sarebbe tenere la macchina da presa su Abe e sull’assistente (interpretata da Nancy Giles) mentre escono dall’automobile, e dopo indietreggiare per poi riprenderli col carrello e seguirli in campo lungo fino alla

porta. Ma dopo aver visto com’è venuta una prova, Woody pensa che la parte migliore dell’inquadratura sia il campo lungo. A questo punto propone di tagliare l’automobile e di far camminare i personaggi: «Se noi stiamo larghi e loro arrivano e salgono le scale – niente macchina – noi li seguiamo». Dopo averci riflettuto un altro po’, decide di partire dall’automobile, e di anticipare le battute dell’assistente a proposito della casa e del quartiere, che da copione dovevano essere dette una volta entrati in casa, al tragitto dall’automobile all’ingresso, in modo da evitare i tempi morti. I primi due ciak sono noiosi. Per il terzo, Woody propone di far arrivare in automobile Abe e l’assistente per poi farli scendere – «La macchina deve accostarsi un po’, altrimenti è brutto da vedere» – ma nemmeno questo lo convince. Insiste con l’eliminare l’automobile, McCarthy però gli ricorda che lì dentro ci sono i bagagli di Abe, e che lui li porta con sé durante la scena in interni. Woody scuote la testa mentre pensa. «Voglio togliere la zavorra da questa scena», dice. La soluzione è partire dalla veranda e iniziare a fare una panoramica quando si sente la portiera dell’automobile che si chiude, inquadrare gli attori e restare su di loro mentre camminano e salgono le scale. Ma i due nuovi ciak si rivelano un buco nell’acqua, e Woody dice a McCarthy di non stampare neanche quelli. Lei mi indica l’iPad con i dettagli di tutto il girato. «Lo vedi? È tutto rosso. Rosso sangue.» Seguono altri due ciak inutili. Poi, finalmente, ne arriva uno buono, e un altro ancora. Grande soddisfazione. Nel pomeriggio ci si sposterà in un’altra casa per girare la scena 10, una festa tra professori per dare il benvenuto ad Abe. Loquasto sta per dirigersi verso la nuova location, ma prima controlla che qui sia tutto a posto, in previsione della scena d’interni che vi verrà girata in seguito. Sembra tutto a posto. «Sta andando tutto liscio?» Woody si informa sulla prossima location.

«Sì, certamente.» «Liscio come la seta?» Loquasto, che sa quanto sia basso il budget del film, gli risponde prontamente con una battuta: «Più che seta, poliestere». Per quanto riguarda le scene ambientate all’interno dell’abitazione di Abe, la necessità è di presentare in modo chiaro la casa, ma è ostacolata dalle limitate dimensioni delle stanze. È impossibile far vedere più di tanto in un’inquadratura, quindi non si può girare un totale che mostri tutto quanto. Quindi ci sarà un’inquadratura di Abe e dell’assistente che entrano in casa da destra, poi un’altra dal pianerottolo in cima alle scale. Woody chiede all’assistente alla regia Danielle Rigby di dire all’attrice Nancy Giles se può aggiungere «La casa è piccola ma confortevole» alle sue battute, e poi se può dire dove si trovano tutte le stanze, sia al piano terra che a quello di sopra, per aggirare il problema di non poter filmare la disposizione delle stanze in maniera chiara. Woody dice a Rigby di passare un altro messaggio all’attrice: prima di cominciare a parlare dovrebbe entrare e chiudere la porta. Così facendo si distribuiscono meglio le battute nei vari ciak, che finiscono con Abe che offre all’assistente un sorso dalla fiaschetta da cui l’abbiamo già visto bere. «Oh, no», risponde lei, un po’ stupita ma cordiale, e aggiunge, preparando quanto poi seguirà: «C’è un piccolo cocktail per darle il benvenuto alle sei». Il bisogno di preparare così tante inquadrature diverse sta rallentando il ritmo della produzione. Al film serve un po’ di varietà, in termini di location e di scelte possibili, ma per girare questa varietà ci sono soltanto ventotto giorni a disposizione. Le scene che erano in programma e non sono state girate devono essere aggiunte ad altre giornate, ma non possono essere posizionate a caso; ogni giorno di riprese è stato già pianificato in base alla disponibilità di questa o quella

location, perciò spesso capita che una location non può essere “restituita” ai legittimi proprietari nei tempi prestabiliti, e quindi per continuare a usarla bisogna pagare altri soldi, e di conseguenza bisogna posporre le date fissate per l’utilizzo di location successive, e questo, immancabilmente, significa che servono giorni di riprese extra, al costo di 175 000 dollari al giorno. E quindi, cosa ancora più importante, il budget rischia di aumentare a dismisura. Quando si sfora il budget i soldi necessari vengono dedotti dalle quote di Woody, perciò soltanto lui può decidere quando fermarsi, visto che ci rimette di tasca propria. La casa di Abe è già occupata da più tempo di quanto concordato con i padroni del palazzo. Woody ci vorrebbe girare un’ultima, brevissima scena – Abe nella sua camera da letto dopo il cocktail – ma oggi non ci sarà abbastanza tempo per farlo. Quando gli viene chiesto se ne ha davvero bisogno, Woody risponde, «Preferisco girarla e buttarla via se viene fuori che non ci serve». Khondji dice, «La possiamo girare il giorno che torniamo e finiamo la scena al piano di sopra». Nel montaggio finale del film non ci sarà traccia di quella scena. Nessuna location in un film di Woody Allen è rimasta inutilizzata per tanto tempo quanto i tre isolati di Long Island City trasformati in edifici degli anni trenta per le riprese di Accordi e disaccordi. Una location simile funziona solo se tutti i suoi abitanti collaborano, in cambio di una bella sommetta: in questo caso, dalle finestre andavano tolti i condizionatori, alcuni tendoni dovevano restare dove lo scenografo li aveva sistemati, erano state fabbricate bancarelle per la frutta, la cartellonistica della metropolitana sopraelevata era stata sostituita, le strisce bianche sull’asfalto erano state cancellate a colpi di vernice, e il percorso di vari autobus era stato modificato. Christie Mullen, al suo primo impiego nel reparto location, aveva dovuto trattare con cinquantuno persone diverse per una scena messa in calendario il primo giorno delle riprese: Sean Penn scende dalla sopraelevata e passa davanti a

un’edicola. Sorge il sole, è una bella giornata – un’eresia per Woody, che preferisce il cielo nuvoloso, perché il sole tende a sbiadire i colori. Woody arriva sul set, scende dall’auto, dà un’occhiata al set pronto, e dice, «Okay, passiamo alla prossima location». Più di una volta, nelle sedici settimane successive, si vociferava che la location di Long Island City fosse in programma per l’indomani. La troupe si affannava a riportare tutto quanto al 1938, però, vuoi perché c’era di nuovo il sole, vuoi perché bisognava proprio usare un’altra location, quella scena non è stata girata fino all’ultimissimo giorno di riprese. E anche lì ci sono stati dei problemi. C’era il sole, di nuovo, e la scena è stata cambiata in modo che l’azione si svolgesse sotto un tendone e sotto la sopraelevata. Le location di Radio Days (1987) mostrano un periodo che a Woody sta molto a cuore. Chiunque abbia visto il suo affettuoso omaggio all’infanzia passata a Brooklyn negli anni quaranta si è fatto un’idea di come fosse la sua vita allora: una famiglia allargata di zie e di zii abita nella stessa casa, come nel caso di Woody e Letty, nata quando lui aveva sette anni e cresciuta con molta meno severità da parte dei genitori. Un giorno, durante un pranzo con l’allora manager di Woody Stephen Tenenbaum e sua moglie Rosalee, entrambi originari di Brooklyn, la conversazione si è spostata sulla loro infanzia e sulla loro pasticceria preferita, Ebinger’s, dove la madre di Woody e Letty, Nettie, andava a comprare mezza torta tutti i giorni. Stando a quanto racconta la figlia, Nettie era una brava cuoca, anche se prevedibile: il lunedì si mangiava pesce; il martedì costolette d’agnello; il mercoledì bistecca; il giovedì fegato; il venerdì si accendevano le candele per una cena dello Shabbat dove si mangiava pollo ma non si recitavano preghiere. Arrivavano sempre ospiti quella sera, e in tutto, attorno al tavolo, c’era una dozzina di persone. La governante che veniva di venerdì rispondeva così al telefono: «Viene stasera? Basta che mi dice il nome». Il sabato si mangiavano gli avanzi; la domenica cibo cinese.

Le scene 10 e 11 sono gli esterni del cocktail di benvenuto per Abe, e verranno filmate in una casa vittoriana con un’ampia veranda. Di fianco alla casa galleggiano due palloni grigi riempiti di elio, delle dimensioni di sei metri per sei metri per un metro: sembrano navicelle aliene, ma servono a bloccare il sole e restituire una luce uniforme. Woody e Khondji fanno un giro intorno alla casa, pensando a quali riprese si possono fare, finché Woody dice: «Niente continuità, tre inquadrature sul portico e poi una dentro. Oppure due e due». Significa che le inquadrature non dovranno susseguirsi in tempo reale, ma serviranno come frammenti della conversazione alla festa. Nella scena 10, girata con una Steadicam (un sistema di stabilizzazione indossato dall’operatore che gli permette di seguire gli attori in maniera fluida, senza irregolarità o salti bruschi nell’inquadratura), Abe è sulla veranda, e scambia chiacchiere di circostanza con tre professori che sono stati assunti a giornata per questa ripresa. (In questa conversazione scopriamo che Abe arriva dall’Adair College, la stessa università da cui era stato espulso il personaggio interpretato da Woody in Harry a pezzi e che poi l’aveva celebrato quando lui era diventato un famoso romanziere. Anche il personaggio interpretato da Scarlett Johansson in Scoop studia all’Adair. Woody ha scelto questo nome per l’università in omaggio alla poetessa Allison Adair.) Subito prima del primo ciak, Woody va da loro. «Gli ho detto di parlare di quello che vogliono finché non sentono la battuta d’entrata. Gli ho detto questo. Adesso vediamo che cosa fanno.»

Palloni riempiti di elio galleggiano sopra la veranda della casa dove si gira la festa di benvenuto per Abe.

I tre professori fanno quello che gli è stato detto di fare. «Sono molto in gamba», dice Woody, piacevolmente sorpreso dalla loro capacità. Si passa alla scena 11, un breve sketch in cui due docenti parlano di Abe. Questa scena, unita a una serie di precedenti scene che raccoglievano le reazioni da parte di professori e studenti del Braylin College alla scoperta dell’imminente arrivo di Abe (scene 2, 3 e 4) e a due passaggi in cui lo vediamo bere da una fiaschetta, servono a mostrare Abe come un uomo profondamente problematico a cui non interessa cosa pensino gli altri di lui. DOUG Pensi che sia attraente? Harriet lo trova sexy. LAURA Sembra un uomo interessante. Chiaramente è un tipo vissuto.

Kenneth Edelson, il dermatologo di Woody, è pronto per il suo cameo annuale: stavolta interpreta un professore che ascolta un collega spettegolare sul conto di Abe. Diversi amici di Woody spuntano in questa o quella scena con regolarità, e a volte dicono anche qualche battuta. A Woody piace inserirli nei suoi film, ma si meraviglia dell’entusiasmo che loro dimostrano: «Vengono in aereo, in barca e in slitta pur di recitare la loro parte». La scena 14 è ambientata all’interno della casa: Abe incontra Rita e suo marito Paul, che si presentano vicino alla scala dell’ingresso. Gli ospiti della festa socializzano tra di loro. Il video village è posizionato nella cucina, che è piena zeppa di attrezzature e di persone. Ci sono molti cavi elettrici srotolati sul pavimento all’ingresso. La luce è bassa, e ogni volta che Woody va a parlare con gli attori per poi tornare in cucina, incespica un po’ sull’intreccio dei cavi; sembra Lillian Gish nel film muto di D.W. Griffith Agonia sui ghiacci (1920), quando cammina sulla lastra di ghiaccio diretta verso la cascata. Tutti cominciano a preoccuparsi – prima o poi Woody farà un volo – ma nessuno vuole rischiare di offenderlo chiedendogli se vuole una mano. Dopo essere uscito indenne da diversi passi falsi, inizia quello che sembra un capitombolo disastroso, ma recupera subito l’equilibrio. Punta l’indice destro verso il soffitto, come un professore che fa lezione agli studenti, e dice, «Inciampo ma non cado. Ecco il segreto della comicità». Alla fine, comunque, qualcuno decide di usare il buon senso, e copre i cavi con un tappetino di gomma.

Darius Khondji istruisce l’operatore Maceo Bishop, che indossa una Steadicam, sui movimenti di macchina per la prossima inquadratura sulal veranda, sempre durante la festa di benvenuto per Abe.

Una delle figurazioni speciali presenti nella scena non è all’altezza di quelle sulla veranda, e Woody, pensando che non dirà mai una battuta in modo decente, si lamenta: «Questo tizio è senza speranza». Ma dopo un altro paio di tentativi falliti, la battuta viene recitata con naturalezza, e Woody si rilassa. Una scena in apparenza simile a questa – una coppia di coniugi si presenta al nuovo arrivato – è ricca di sfumature, e se il dialogo stonasse anche solo di poco, l’intera conversazione sembrerebbe falsa, innaturale. A volte bastano una o due parole a fare la differenza, ad esempio quando Rita parla con Abe, dopo che il marito va a prendere altri drink. La macchina da presa avanza verso la coppia. RITA Sono Rita Richards. Dipartimento di Scienze. Senti, se per caso ti annoi e vuoi qualcuno che ti racconti i fatti di chi scopa chi in questo college, fammi un fischio.

Posey dice, «Sono Rita Richards del dipartimento di Scienze», e Woody interrompe la scena; la battuta non funziona, né come scrittura né come interpretazione, perché non è abbastanza colloquiale. Torna dagli attori. «Non dire “Sono Rita Richards

del dipartimento di Scienze”– è troppo formale. Prova a dire, “Sono Rita Richards, insegno Scienze”», le ordina, semplificando la battuta.

4. «Quello che poche settimane prima sembrava giusto spesso non lo è più quando sei pronto a girare.» La terza settimana di produzione inizia alle prime luci del mattino, con il giudice Spangler che cammina lungo la strada accanto a casa sua (scena 59a, una carrellata senza dialoghi), e quando arrivano le 9.30 la troupe si è già spostata a un isolato di distanza, allo Hope Club, un elegante edificio in mattoni rossi costruito prima della guerra di secessione, situato in una zona molto verde vicino alla Brown University. Lo Hope Club farà da location a quattro porzioni diverse del film, ciascuna ambientata in uno dei locali dell’edificio: il club del bridge dove Spangler gioca a carte con gli amici; un corridoio dell’università dove Jill e il suo ragazzo, Roy, camminano mentre parlano; e una caffetteria del campus dove Roy comunica a Jill di volerla lasciare. La scena 59b inquadra il palazzo mentre Spangler arriva al suo club, senza dialoghi. La macchina da presa parte dall’alto e si inclina verso l’ingresso, con due uomini che escono dal club e si dirigono a destra, uscendo dal campo visivo. È una luminosa giornata estiva, e anche se di solito la facciata del palazzo è in ombra, il lato sinistro è comunque più assolato di quanto non fosse tre settimane prima, quando Woody e Khondji avevano fatto i loro sopralluoghi. L’idea iniziale era di inquadrare il palazzo dal lato destro, ma stamattina a Woody piace di più quello sinistro, perciò la troupe – che era arrivata prima proprio per sistemare la macchina da presa – sposta tutto l’armamentario sulla sinistra; un altro esempio del perché Woody non voglia mai pianificare le inquadrature in anticipo.

«Quello che poche settimane prima sembrava giusto spesso non lo è più quando sei pronto a girare», dice. La troupe si sposta all’interno del palazzo per preparare la scena 8: Abe incontra la preside del college. Mentre aspetta, Woody si lamenta del fatto che la miopia al suo occhio destro non gli permette più di ricevere le palle da baseball con la facilità di un tempo; la perdita di percezione della profondità gli rende difficile seguire la traiettoria della palla fino alla mano sinistra. Da ragazzo era un giocatore accanito, e lo è rimasto fino a ben dopo i trent’anni. Durante tutta la sua infanzia a Brooklyn, giocava a baseball per ore e ore, e ha continuato con il campionato degli attori di Broadway; era uno tra i migliori, da adulto, ma da adolescente era un vero asso. Nei tardi anni sessanta ha giocato in seconda base con una squadra formata dagli attori e dalla troupe di Provaci ancora, Sam, e anche con gli Schlissel Schleppers, una squadra messa insieme da Jack Schlissel, il manager del produttore David Merrick. Ha anche giocato contro vari esponenti della Major League in una partita svolta al Dodger Stadium nel 1967 (e trasmessa in televisione), la cosiddetta “First Annual All-Star Celebrity Softball Game”, dove celebrità del mondo dello spettacolo fronteggiavano campioni di baseball come Willie Mays, Roberto Clemente, Jimmy Piersall e Willie McCovey. Vin Scully e Jerry Lewis facevano la telecronaca dell’evento. A un certo punto Don Drysdale, il grande lanciatore dei Dodger, ha tirato contro Woody, il primo battitore, colpendolo in pieno. Ma lui non si è fatto male, e Mays lo ha eliminato prendendo al volo una palla in un momento successivo della partita. «Ero un ottimo esterno, correvo veloce, e abbiamo passato ore a lanciarci le palle. Giocavo in seconda base e anche come esterno», ricorda Woody con affetto, come se stesse rivivendo l’esperienza. «Se potessi tornare indietro nel tempo per un giorno, io non sceglierei un giorno di sesso o una serata al

cinema, ma una partita di baseball da adolescente, quando ero al massimo della forma.» Al bar del club, la “trovarobe” Jen Gerbino scarta dalla confezione due mazzi nuovi di carte da gioco Bicycle, che verranno usate nella prossima scena, in cui il giudice Spangler gioca a bridge con gli amici. Woody toglie un mazzo dalla scatola, lo apre a ventaglio, lo dispone sul tavolo, lo raccoglie, lo mischia, lo taglia diverse volte. La carta in cima al mazzo è l’asso di cuori. Woody non lo perde mai d’occhio mentre taglia, mischia e taglia con una mano sola. Ogni volta l’asso di cuori spunta in cima al mazzo. Poi compare il due di cuori. Woody continua a tagliare e mischiare. Arriva il tre di cuori. Woody taglia e mischia ancora. Ogni volta compare il re di quadri. Woody prende quella carta dal mazzo e se la strofina, a faccia in giù, sulla manica sinistra. Quando gira la carta e la mostra a tutti, è diventata un re di picche. Woody dichiara di non toccare un mazzo di carte da due o tre anni. «Ci vorrebbero un paio di settimane per rimettermi in forma le mani.» La magia, l’illusionismo, i viaggi nel tempo e i personaggi visibili da una sola persona nella stanza sono una costante del cinema di Woody Allen: nella Rosa purpurea del Cairo il personaggio di un film esce dallo schermo; in Midnight in Paris uno scrittore viene trasportato dal 2010 agli anni venti, e poi ancora più indietro nel tempo; in Alice una donna diventa invisibile grazie a misteriose erbe magiche, e quindi è in grado di stare in una stanza e ascoltare cosa stanno dicendo gli altri; in To Rome with Love, un architetto chiacchierone può essere visto e sentito soltanto da un personaggio; e in Edipo Relitto, l’episodio di New York Stories girato da Woody, una madre scompare davvero dalla scatola cinese di un mago, che avrebbe dovuto farla scomparire e poi riapparire. Dopo una breve assenza, la donna si materializza di nuovo: stavolta occupa tutto il cielo della città, e da lassù, ormai visibile a tutti, tormenta il figlio senza dargli tregua. «Sai dove troverà il

suo pubblico, questo film?», ha detto Woody mentre cercava l’attrice che avrebbe interpretato la madre. «In Israele. Sarà il Via col vento di Israele.» Loquasto chiede a Woody cosa dovrà esserci sulla tavola il giorno successivo, per due diverse scene ambientate a cena dai genitori di Jill. «Dei dessert», risponde subito Woody. «Sono sempre antipasti o dessert», dice Loquasto, «mai portate principali.» Sono più semplici da preparare e sistemare. Durante il pranzo Woody e Letty parlano dei recenti raduni antisemiti in Francia e in Germania. Magic in the Moonlight verrà distribuito in Francia verso la fine del mese prossimo, non troppo tempo dopo la fine delle riprese, e Woody conta di esserci. Letty non sa se il fratello faccia bene a partire, e gli propone di controllare prima quanto sia diffuso l’astio verso gli ebrei, visto che Woody, pur essendo popolarissimo in Francia, potrebbe ritrovarsi a diventare un bersaglio. Woody torna sul set per la scena 59 – il giudice che gioca a bridge – un campo lungo di 30 secondi (anche detta “establishing shot”, inquadratura di ambientazione; mostra la scena in rapporto all’ambiente) con Spangler e i suoi amici seduti al tavolo da gioco e il carrello che avanza lentamente verso di loro. La scena, priva di dialoghi, viene girata in un lampo. Altrettanto facile è la scena 96, in cui Roy lascia Jill, ma in un paio di ciak si sente il rumore di un aeroplano di passaggio e il clacson di qualche automobile. Rigby raggiunge Woody al monitor e chiede se i tecnici del suono possono alzare di un filo il volume dei microfoni degli attori, in modo da bilanciare i rumori sullo sfondo. «Certo», le dice Woody. Dopo che Rigby se ne va, lui commenta, «Niente male come regia, eh?».

Adesso è più ottimista riguardo al film. Gli attori protagonisti hanno preso confidenza con i loro ruoli, e gli attori locali utilizzati per le parti minori hanno fatto un ottimo lavoro. Jamie Blackley, da poco arrivato sul set, gli sembra «eccellente» per come sta interpretando il fidanzato di Jill, Roy. E inoltre, come per ogni film girato da Khondji, il risultato è molto bello da vedere. Tutta l’azione prevista per la giornata di oggi è concentrata nella casa dei genitori di Jill – due scene ambientate a tavola, la terza nel soggiorno dove Jill apre i regali di compleanno che le hanno fatto i genitori e Roy. Nella scena 29, Jill e Roy cenano con i genitori di lei. Jill è diventata amica di Abe, che al campus sta sulla bocca di tutti, e ha una gran voglia di raccontare le cose che sa di lui, senza timore che i suoi genitori e Roy possano trovare qualcosa da ridire su questa nuova amicizia. L’entusiasmo della ragazza è un primo campanello d’allarme per Roy, il quale deve mostrare il suo disagio in uno scambio di battute sereno con Jill, che a questo punto del film non ha ancora intrecciato una relazione sentimentale con Abe. Woody vuole che Roy sia rilassato e giocosamente irritato, ma deve anche mostrare che, sotto sotto, fiuta una potenziale minaccia: improbabile, sì, ma non impossibile. Nella scena 115, è Abe che cena con Jill e i suoi genitori. Anche se le due scene sono molto distanti nell’arco del film, Woody non vuole che risultino troppo simili. Ha deciso che nella 115 gli attori resteranno seduti, quindi la 29 dev’essere più movimentata, con commensali che vanno e vengono dal tavolo. Jill entra dal soggiorno senza smettere un secondo di parlare; poi il padre si alza, porta i piatti in cucina, e poi torna, seguito dalla madre che fa lo stesso. Il tutto per «infondere alla scena un po’ di energia apparente. Non si può fare molto senza che sembri forzato. Si possono forzare le cose, ma io non lo

voglio fare. Negli anni ho scoperto che è meglio mettere in scena ciò che verrebbe naturale fare in una certa situazione». Come ogni regista, Woody ha sempre in mente alcune delle sue scene preferite dei film girati da altri, scene che possono entrare in gioco nei propri film in maniera spesso inconscia ma a volte deliberata, come nel caso di Misterioso omicidio a Manhattan e della sparatoria nella casa degli specchi, omaggio della Signora di Shanghai di Orson Welles. In questo caso, ci sono due scene ambientate intorno a un tavolo che Woody ha sempre in mente: una, il flashback in cui un uomo rivede un pranzo di famiglia nel Posto delle fragole di Ingmar Bergman («Forse Marty Landau [in Crimini e misfatti] non avrebbe mai rivisto la propria famiglia durante un seder se io non avessi visto Il posto delle fragole»); l’altra, presente nello Straniero di Orson Welles (1946), è la scena in cui il personaggio interpretato da Welles e la sua futura famiglia siedono intorno a un tavolo; c’è tensione perché Welles è un ex nazista, un criminale di guerra in fuga, e uno dei commensali è deciso a smascherarlo. Woody ci ha pensato a lungo mentre scriveva la scena dove Abe è a cena a casa di Jill «perché ha una profonda componente psicologica, e anche questa scena ha un che di psicologico – seppur a livello più superficiale. Non è la stessa cosa, ma una somiglianza c’è. Quindi se la interpreti in un certo modo dovrebbe funzionare, perché la struttura è abbastanza simile a quell’altra. Ho pensato, se lui è riuscito a far funzionare quella scena, allora io dovrei essere in grado di far funzionare questa. Certo, lui forse è partito con un materiale e una situazione migliori. Ma questo è il meglio che so fare io. Sto dando per scontato che si farà coinvolgere dai personaggi, e che i personaggi si faranno coinvolgere dagli altri personaggi, e che vederli interagire in una maniera un po’ tesa e un po’ scherzosa possa riuscire a tenere alto l’interesse; e che in sala di montaggio non mi verrà voglia di dire, “Oh, Dio, tagliamo questa scena e teniamo solo due discorsi”». Spesso non ci si rifà a una scena o a

un’inquadratura memorabile in maniera consapevole; piuttosto, dice Woody, «essendo cresciuto guardando questi film, sento che una scena funzionerà in un modo e non in un altro. Nel Dottor Stranamore [1964], il bombardiere manipola tutti i comandi dell’aeroplano, e anche se non voglio copiare Kubrick, va a finire che lo faccio, perché è diventato parte del DNA di chi fa cinema. «Ci sono scene che ti restano sempre in mente, e se tu ne stai girando una che si avvicina minimamente a loro, è lì che ti rivolgi per farti guidare. Quando scrivevo Criminali da strapazzo mi sono ricordato che i film di [Billy] Wilder e di [Ernst] Lubitsch cercavano sempre di chiudere su una nota alta. Ci ho provato anch’io, perché il mio film era dello stesso genere. Il finale del film è un omaggio a quello di Mancia competente [1932]; più che un omaggio è un furto, davvero. Guarda Sciuscià [Vittorio De Sica, 1946] e confrontalo con l’inizio e la fine di Sogni e delitti. E poi guarda il finale di Accordi e disaccordi, e confrontalo col finale della Strada [Federico Fellini, 1954]. Influenze! Solo di recente ho visto Lady Eva [1941] per la prima volta: [Preston] Sturges ha girato un finale fantastico, di quelli col botto, uno dei migliori in assoluto». Woody ammette di non aver ancora mai visto molti film considerati classici. «Al contrario di quello che può pensare la gente, io non sono un grande esperto di cinema. Saresti sorpreso della mia ignoranza. Ho visto Il mago di Oz [1939] solo a cinquant’anni. Non ho mai visto Il navigatore [Buster Keaton, 1924] né Il circo [1928] di Charlie Chaplin né il suo film di guerra, Charlot soldato [1918]. Quando mi ha telefonato Aljean Harmetz mentre stava scrivendo il suo libro su Casablanca, perché pensava che l’autore di Provaci ancora, Sam conoscesse quel film alla perfezione, è rimasta sorpresa che io ne avessi visto soltanto qualche spezzone, e allora io avrò avuto cinquant’anni, forse di più. Ho visto Ombre rosse [John Ford, 1939], Com’era verde la mia valle

[John Ford, 1941], Il fiume rosso [Howard Hawks, 1948] o Alba fatale [William Wellman, 1943] solo intorno ai quarant’anni, ma quando li ho visti li ho amati quasi tutti.» (Orson Welles diceva di aver guardato Ombre rosse decine di volte mentre girava Quarto potere, il suo esordio alla regia.) «Non sto dicendo queste cose con orgoglio – o con vergogna – sto solo citando i fatti nudi e crudi. Stranamente, però, ho visto tutti i film di Bergman, Fellini, Truffaut, De Sica, eccetera.» Spesso gli tornano in mente scene presenti nei film di Bergman. Nel 2016, mentre girava Wonder Wheel, Woody ha detto che una scena dove Kate Winslet e James Belushi mangiano in silenzio nella cucina di casa loro era stata influenzata da una scena di Sussurri e grida, in cui marito e moglie non si parlano. «Ci sono le stesse radici, e si nota, ma naturalmente la scena di Bergman è un capolavoro e la mia ha uno scopo diverso; è ambientata negli anni cinquanta e i personaggi appartengono a un’altra classe sociale. Bergman raccontava un gruppo di persone in una casa vittoriana nella campagna svedese, io una coppia un po’ rozza che abita a Coney Island, quindi si partiva da due presupposti molto diversi. Però dentro di te senti sempre l’eco delle scene che hai visto.» A produrre i grandi capolavori del cinema è l’intuizione artistica sul come far funzionare al meglio le singole scene. «La grande illusione [ambientata in un campo di prigionia durante la prima guerra mondiale, è la storia di un gruppo di soldati francesi – diversi per grado ed estrazione sociale – che progettano la fuga dal campo: il film, tra le altre cose, mostra la futilità dei conflitti tra nazioni] è un’opera molto matura, una grande storia raccontata da un regista che non si preoccupa di compiacere il pubblico, e senza volerlo ottiene proprio quel risultato. [Jean] Renoir la racconta benissimo, ma in maniera molto semplice, utilizzando sia il ritmo che i dettagli nella struttura del film e nelle interpretazioni. Se la stessa storia l’avesse girata Orson Welles nel periodo della sua

vita in cui ha fatto Quarto potere, ci sarebbero state inquadrature molto espressioniste o stilizzate: riprese dall’alto o dal basso, ombre. Ma Renoir, come Satyajit Ray o John Huston, offre un tipo di cinema molto essenziale, diretto. Racconta la storia usando il buon senso: qui voglio che il pubblico si spaventi; qui voglio che sia triste, commosso oppure teso. Quando ho diretto il mio primo film, mi hanno chiesto se fossi preoccupato perché mi era stata data la responsabilità di gestire un milione di dollari. E io ho pensato, “No. Non significa niente che io non abbia mai girato un film da regista. È una questione di buon senso. So bene cosa voglio vedere sullo schermo”.» Per spiegarsi meglio, fa un paragone con il jazz. «Per chi suona il clarinetto, non è importante una diteggiatura corretta. I musicisti di New Orleans, ad esempio, diteggiano come meglio credono. Pensano, “Questo è quello che voglio sentire io. Non mi importa se tu suoni un re tenendo le dita in un certo modo. Io voglio farlo in quest’altro modo perché così il suono è più intenso, o più morbido perché io suono in base a quello che sentono le mie orecchie”. Con i film succede la stessa cosa. Qualcuno che ha frequentato una scuola di cinema potrebbe venire da me a dirmi, “Be’, questo non si può fare”. E io gli risponderei, “Voglio che il pubblico rida in questo punto del film, e non riderà nessuno se l’inquadratura sarà più lunga o più corta. Non capisci? Non farà ridere se il personaggio prima della battuta finale ne dirà altre due”. Groucho [Marx] una volta ha detto a [Dick] Cavett, “La gente non capisce che una sillaba in più rovina completamente una battuta”. Ovviamente è molto difficile fare un ottimo film, perché ti serve un ottimo materiale di partenza. Prendi i soldi e scappa era una sceneggiatura leggera, una serie di gag messe in fila. Ma ammettiamo che io avessi in mano la sceneggiatura di Quarto potere. L’avrei girata in modo tale che tu ti interessassi a quella storia e a quei personaggi. Non avrebbe mai avuto lo stile eccezionale o il genio di Welles, ma il buon

senso mi avrebbe suggerito che, per esempio, il personaggio interpretato da Welles e quello della moglie dovevano essere tesi quando stavano a tavola a fare colazione, e questo risultato non l’ottieni piazzando la macchina da presa sopra le loro teste, come faceva Hitchcock. Lo ottieni se mostri la faccia della moglie. O lo sai o non lo sai.» Woody è sempre alla ricerca di nuovi elementi nel lavoro degli altri registi, cose che lui sia «felice di copiare e rubare e far passare per semplici influenze. Non ho mai avuto scrupoli da quel punto di vista». Se guardando la tv o facendo zapping gli capita di vedere un’inquadratura interessante in un film di cui non sa nemmeno il titolo – magari un film tremendo, di quelli che non escono nemmeno in sala e approdano direttamente sulla tv via cavo – pensa subito che quella stessa inquadratura funzionerebbe bene se fosse messa al servizio di un materiale più sostanzioso. Una piacevole sorpresa per Woody è stato il film brasiliano City of God, diretto da Fernando Meirelles e Kátia Lund, ambientato nell’omonima favela di Rio de Janeiro: un film che dà le vertigini per com’è usata la macchina da presa e per il tasso di virtuosismo delle immagini. Lo sguardo della regia sembra essere in grado di arrivare ovunque, e rimbalza rapidamente da un posto all’altro. Nel flashback che dalla favela ci riporta al campetto da calcio dove il narratore giocava quando era piccolo i colori cambiano in un lampo, da un’oscurità vibrante si passa a un marrone scaldato dal sole. I rapidi stacchi di montaggio e l’instabilità della macchina da presa a mano trasmettono all’azione un senso di urgenza e di pericolo, lo stesso che può provare chi vive davvero nei luoghi della storia. «Un film fantastico», dice Woody. «Guardandolo ho pensato che mi piacerebbe utilizzare la stessa tecnica irregolare ed esplicita per fare un film sulle relazioni di coppia, non una crime story al fulmicotone. Insomma, vorrei girare la storia di una coppia sposata senza la solita pacatezza, ma con quello stesso genere di riprese convulse lì. Mariti e mogli era

già su quella linea, ma ho apprezzato molto l’approccio radicale di Meirelles e Lund.» Se City of Gods e le sue inquadrature realizzate con la macchina da presa a mano vi hanno dato il mal di mare, per questo film fareste bene a procurarvi un antiemetico. Di tanto in tanto, mentre Woody sta scrivendo una scena, gli capita di pensare che il modo migliore di portarla sullo schermo sarebbe attraverso una serie di stacchi rapidi. Come al solito, quando stamattina è arrivato sul set, non aveva un’idea precisa di quali inquadrature avrebbe girato: la sala da pranzo però gli ha subito fatto venire in mente molte idee. Quando Rigby gli ha detto che Khondji pensava di sistemare la macchina da presa in un angolo della stanza, Woody ha subito risposto di no, anche se l’inquadratura sarebbe venuta sicuramente bene. Woody ammira il fatto che Khondji sappia rendere bellissima qualsiasi inquadratura, e gli offre spesso la possibilità di lavorare al suo meglio, ma ci sono delle volte in cui la bellezza estetica di una scena non è abbastanza, e questa è una di quelle volte. «La cosa importante qui è aggiungere un po’di movimento alla scena: non può essere l’ennesima scena di gente seduta attorno a un tavolo», dice Woody, dopo che la macchina da presa è stata sistemata dietro le spalle degli attori che interpretano la madre e il padre di Jill. Questa scena si colloca in mezzo tra la scena in cui Rita piomba a casa di Abe con una bottiglia di scotch, e quella in cui Abe e Rita sono a letto, dopo che lui non è riuscito ad avere un’erezione. Le tre le scene sono unite dal rumore della pioggia in sottofondo. JILL (parte dal soggiorno) Quando l’uragano colpì New Orleans Abe andò laggiù e si fermò per sei settimane. Ha detto che i problemi erano davvero immensi e che burocrazia politica e corruzione erano uno scandalo. Non poteva credere a quanta stupidità ci fosse. PAPÀ È stato uno scandalo per George Bush.

(Si alza e comincia a sparecchiare mentre parla.) JILL Abe ci si è ritrovato proprio in mezzo tentando di combinare qualcosa. E nel frattempo sua moglie si è innamorata del suo miglior amico. MAMMA Uh-huh… JILL Ma vi rendete conto? Abe amava veramente sua moglie. Si erano incontrati a Machu Picchu a vedere le rovine… Provarono tutti e due la mescalina. Lui ha provato ogni droga – le detesta – è molto conservatore in modo liberale, direi. MAMMA A quanto pare si è molto aperto con te. A detta di tutti non è facile riuscire a conoscerlo. (Il papà è di nuovo al suo posto; ora è la mamma a sparecchiare.La macchina da presa rimane su Roy e Jill per il resto della scena.) JILL Io non me ne sono proprio accorta. ROY Ehi, possiamo chiudere l’argomento Abe Lucas? Scusa, ma non sono molto contento che tu lo abbia invitato a uscire con noi senza chiedermelo prima. JILL Ha bisogno di contatti umani, altrimenti sta seduto nella sua stanza a rimuginare. ROY Hai capito perché potrei essere geloso? JILL Sciocchezze. ROY Le ultime parole famose.

Woody sperava di poter girare questa scena con un’inquadratura totale, ma ci sono troppi problemi con l’azione. Una singola inquadratura finirebbe col soffermarsi troppo a lungo su Jill e Roy senza niente che succeda nel frattempo, quindi, invece che una sola inquadratura, ce ne saranno tre: una che parte su Jill in soggiorno e indietreggia fino a mostrare Roy, la mamma e il papà seduti a tavola mentre Jill li raggiunge – prima il padre (Ethan Phillips) e poi

la madre (Betsy Aidem) escono di scena da destra; un’altra che parte su Roy e poi va a includere anche Jill quando la ragazza entra in scena da destra; e l’ultima fissa sulla madre. La prima inquadratura è pronta. «Purtroppo», si lamenta Woody, che ancora vorrebbe trovare la maniera di filmare tutta la scena in un colpo solo. Dice a Jill di calcolare bene i tempi mentre percorre il tragitto dal salotto, in modo da essere a tavola quando dice «Non poteva credere a quanta stupidità ci fosse»; quello è il punto in cui il padre si alzerà per sparecchiare e lei si metterà seduta, mentre il padre dirà, «È stato uno scandalo per George Bush».

Woody prova i movimenti dei suoi attori: prima il padre di Jill e poi la madre devono alzarsi da tavola e mettersi a sparecchiare in modo da dare più ritmo alla lunga scena della cena.

Come tutti gli altri attori a parte Stone e Phoenix, Jamie Blackley ha ricevuto soltanto le pagine della sceneggiatura in cui compare il suo personaggio. Del film lui sa soltanto quello che ha letto, e quello che ha visto sul set. Dice di trovarsi bene così, «perché, soprattutto col mio personaggio, non c’è ragione che io sappia cosa sta succedendo. Il mio personaggio è molto paranoico riguardo ad Abe, quindi in un certo senso il fatto di non sapere niente mi aiuta. Non puoi dare nessuna

interpretazione personale. Sei costantemente spiazzato, e questo funziona a meraviglia». Woody gli dice di recitare le sue battute su Abe non con il fare arrabbiato «di chi ne ha le tasche piene». Blackley però ha qualche problema a trovare la chiave giusta durante i primi ciak, perché, come commenterà lui dopo, «la cosa mi ha messo in difficoltà. Stavo cercando di intercettare la nota giusta e proprio non ci riuscivo. C’era una battuta dove Roy diceva, “Lo inviti a uscire senza chiedermi nulla”, e io non trovavo il modo di dirlo senza che suonasse troppo invasivo». Woody è stato paziente con lui, e ha perfino scherzato. Questo ha messo Blackley a proprio agio, specie dopo aver sbagliato completamente un ciak: «Aspettavo la mia battuta d’entrata ed Emma aveva invertito l’ordine delle sue battute, quindi stavo aspettando una battuta che non sarebbe arrivata. Sono andato nel panico e ho soltanto detto le mie battute. Poi Woody è venuto da noi e ha chiesto, “Che c’è, ti è preso un ictus?”. È stato fantastico». Mentre tutto viene preparato per i prossimi ciak, Woody continua a spiegarmi perché non è stato possibile girare questa scena in un totale. «Dovevo fare in modo che Emma raggiungesse il tavolo da pranzo in tempo per mostrare il padre che si alzava e portava i piatti in cucina, altrimenti al tavolo ci sarebbe stata una sedia vuota. Quindi se lei arriva appena in tempo per far alzare lui, poi ha un sacco di cose da dire mentre sta seduta, quindi restiamo fermi molto a lungo su di lei che sta seduta sulla sedia. Se non avessi avuto il problema del padre che si alzava e andava nell’altra stanza per movimentare un po’ la scena, Emma avrebbe potuto parlare più lentamente e sarebbe arrivata al tavolo parecchi secondi dopo, e una volta seduta io avrei potuto soffermarmi su di lei per molto meno tempo. Invece lei doveva arrivare presto, in modo che il pubblico vedesse il padre uscire di scena. Quindi è stata una scocciatura. Ho dovuto cambiare i movimenti degli

attori, e per far funzionare la scena servivano due inquadrature in più.» Per la conversazione a tavola durante la scena 115 non serve tutta l’elaborata coreografia della 29, ma si tratta comunque di una conversazione lunga, che arriva quando Jill si trova a un punto di svolta. Nella sua mente si sta facendo strada piano piano l’idea che Abe sia un assassino, anche se lei fa di tutto per non crederci. Ad alimentare i dubbi della ragazza c’è stato l’incontro casuale con Rita nella scena 101 (girata il primo giorno delle riprese), con la spiegazione della sua «teoria pazzoide» per cui Abe sarebbe coinvolto nell’omicidio del giudice. RITA Stavo giusto pensando a te. JILL A me? RITA Sì, è ironico, abbiamo una cotta per lo stesso uomo. JILL Ho incontrato Ellie Tanner ieri e mi ha detto che lei ha una teoria a proposito di Abe. RITA Oddio, non farmi parlare… vuoi uno Scotch? JILL (ordina un bicchiere di vino bianco) Ha detto che la sua teoria è molto buffa. RITA Ah, sì. Beh come dire, è una teoria pazzoide, ma non è totalmente sballata. JILL Io le adoro le teorie pazzoidi. RITA Prometti di non raccontarlo? JILL Le do la mia parola. RITA

Tu l’hai seguito il caso di quel giudice avvelenato? JILL Spangler? Il giudice Spangler? RITA (parla con un tono a metà tra il serio e il faceto) Spangler, esatto. Beh, non si sa chi sia stato. La mia teoria è che sia stato… Abe Lucas, della nostra facoltà di filosofia. La nostra comune cotta. JILL (in tono scherzoso) La teoria è molto, molto intrigante. RITA Beh, è assurda, ma non del tutto. JILL Ma perché pensa ad Abe? RITA Beh, una volta o due, mentre ero sola con lui, dopo un momento diciamo di intimità… dopo la passione… JILL Sì, capisco, non deve entrare nei dettagli… RITA Ci siamo detti che avevamo sperimentato molte cose nella vita, ma una cosa che lui non aveva mai provato e che lo incuriosiva era come fosse davvero uccidere. JILL Mi sembrano i soliti discorsi a caso tipici di Abe. Insomma, lo sa com’è quando beve. RITA Ha detto che sarebbe stata una stimolante sfida artistica, compiere il delitto perfetto. Questo prima che il giudice fosse avvelenato. JILL Sì, ma tutti prima o poi fantasticano sul crimine perfetto. RITA Quando gli ho detto che era immorale togliere la vita a qualcuno, lui ha detto che non ci sono regole: siamo tutti liberi di scegliere, prendere le nostre decisioni morali. JILL Okay, ma Abe insegna filosofia, questi discorsi drammatici sono il suo pane quotidiano.

RITA Ah, è esattamente quello che ho pensato anch’io, è Abe che fa Abe, ma mio marito lo ha visto lasciare il campus presto la mattina in cui il giudice fu avvelenato, ma molto presto, alle sei e mezzo, e a te risulta che Abe si sia mai alzato alle sei e mezzo? A malapena riesce ad arrivare in aula in tempo. JILL Quindi la sua teoria è che si alza alle sei e mezzo, va a Lippitt Park, si avvicina a un perfetto estraneo e versa il veleno nel succo di un perfetto estraneo? Voglio dire, nemmeno lo conosceva il giudice, non poteva andargli vicino, e anche se l’avesse conosciuto non l’avrebbe fatto. È radicale, ma non fuori di testa. RITA Lascia che ti dia l’ultimo bocconcino. JILL Sì? RITA Qualche settimana fa ho perso la chiave del laboratorio. Non perdo mai niente, ma quella chiave è sparita dalla mia borsa e apre tutte le porte di tutte le stanze del laboratorio in cui sono tutti i veleni e le sostanze chimiche pericolose. JILL Mi spiace, è troppo assurdo. RITA Ti ho detto che era una teoria pazzoide, ma devi ammettere che i fatti sono piuttosto stuzzicanti.

La conversazione a tavola nella scena 115 si mantiene su un tono leggero, e fa da contrappunto superficiale a quello che sta succedendo in profondità tra Abe e Jill. Per costruire la scena in sala di montaggio serviranno parecchi stacchi diversi; Woody vuole cinque inquadrature diverse in modo da poterla rendere più variegata.

Lo scenografo Santo Loquasto mentre allestisce la scena della cena. Sul set è soprannominato «L’uomo che sussurrava a Woody Allen», per la sua capacità di prevedere tutte le esigenze di Allen. Tra i due uomini c’è grande intesa e stima reciproca, e quindi spesso è Loquasto che viene incaricato di portare a Woody una brutta notizia.

Sul tavolo da pranzo sono stati sistemati quattro piatti di – indovinate un po’? – dessert (una torta di fragole e rabarbaro), e Woody vuole che si accendano molte candele sia sul tavolo sia nel resto della stanza, in modo da ricreare la tipica atmosfera rilassata che nasconde il dramma. Mentre vengono fatti gli ultimi ritocchi alle luci in vista del primo ciak, Woody comunica a Loquasto, con finta solennità, «Questo sarà il mio più grande film». «O il più complesso», risponde Loquasto. Poi, guardando la quantità di candele accese, aggiunge, «Sembrerà Barry Lyndon» – un riferimento al film di Stanley Kubrick del 1975 dove la luce delle candele gioca un ruolo chiave nella messa in scena. Nella sequenza subito precedente a questa, Jill penetra nell’appartamento di Abe e scopre una serie di nomi di assassini scritta a mano sulle pagine della copia di Delitto e castigo che sta sulla scrivania dell’uomo. Questo accende i

sospetti di Jill, ma non basta a convincerla che lui sia davvero colpevole. La scena 115 è stata scritta in modo da rendere espressamente manifesto il delirio narcisistico e sociopatico di Abe, il quale si diverte a partecipare alla discussione, ragionando a voce alta sulle possibili dinamiche di un omicidio che ha commesso lui stesso. Alla fine è Jill a indovinare, nei dettagli, come sono andate le cose (scena 79). ABE La cena era squisita. Siete stati gentili a invitarmi. MAMMA Beh, ci faceva piacere… soprattutto perché Jill parla così bene di lei. ABE Stai bene, Jill? JILL Oh, sì… Sì… ABE Ultimamente sei molto distratta. MAMMA Si sta sforzando di finire la sua tesina su Marcel Proust. ABE Sì, beh, con Proust si fa fatica, ma ne vale la pena. Sto rubando troppo tempo ai tuoi studi? JILL No, affatto. PAPÀ State seguendo l’omicidio del giudice Spangler? ABE (guarda Jill) Seguire? Io e Jill abbiamo un legame speciale col giudice Spangler. C’erano delle persone che parlavano di lui, di quanto fosse corrotto, e abbiamo sperato in un infarto o che fosse investito. MAMMA Io facevo jogging in quel parco con Sally Kelly.

Woody impegnato a riscrivere una scena.

Woody e Manzie. PAPÀ Io ho pensato che gli avessero somministrato il veleno a colazione, e che avesse fatto effetto nel parco, ma dato che era cianuro, la mia teoria è crollata in frantumi. JILL Avevi ragione tu, Abe, era proprio cianuro. Tu l’hai detto dall’inizio, ricordi? PAPÀ Hanno detto che era cianuro.

ABE Sì, beh, io penso sempre al cianuro. È un classico perché è rapido e letale. L’arsenico richiede tempo ed è molto doloroso. E nessun erbicida è rapido e risolutivo. MAMMA Io non so niente sui veleni. ABE Neanch’io, l’ho solo letto. MAMMA Ma chi vuole uccidere un giudice? PAPÀ Praticamente tutti quelli contro cui ha deliberato. JILL Ma credo che abbiano controllato tutti quelli che lo conoscevano, inclusa la donna che abbiamo sentito, e sono stati tutti esclusi. MAMMA Ecco perché pensano che sia uno scambio di persona, o addirittura uno scherzo sadico. JILL Si tratta di un veleno rapido, quindi gliel’hanno versato nel bicchiere lì nel parco. PAPÀ Giusto. È ragionevole. ABE Ma non facile da fare, un perfetto sconosciuto in pieno giorno in un posto pubblico. MAMMA A meno che non fosse lì con qualcuno che conosceva, e fidato. Un amico. PAPÀ Durante i weekend… Nel weekend la mattina presto non c’è un’anima in giro. ABE Qualcuno che conosceva. JILL Hanno interrogato tutti quelli che lo conoscevano. PAPÀ Hanno detto che era un normale succo d’arancia. Lo comprava lì nel weekend e leggeva il giornale dopo aver fatto jogging. JILL

Se era una routine, qualcuno potrebbe averlo seguito e aver versato il veleno nel bicchiere. ABE Però non sarebbe stato su una panchina a leggere il giornale se non fosse stato da solo, il che esclude un amico. MAMMA Che ne sappiamo che fosse un uomo? Magari era una donna. ABE Giusta osservazione. PAPÀ Forse ha girato le spalle. ABE E qualcuno è apparso, così dal nulla, e ha versato qualcosa nel succo? MAMMA Ma i bicchieri non hanno un coperchio con dentro una cannuccia? JILL O qualcuno è andato da Pascal, ha comprato il succo, ci ha versato il veleno e l’ha scambiato con quello del giudice. ABE La polizia avrà esaminato ogni teoria. JILL Diciamo che il giudice è seduto al parco col suo succo e arriva qualcuno con lo stesso identico bicchiere, pieno di veleno. ABE Ma chi arriva? Qualcuno che vuole uccidere il giudice. Chiunque fosse, doveva aspettare che il giudice si girasse per poter fare lo scambio. Ha corso un grosso rischio. JILL Pensaci bene. Il tizio si siede accanto al giudice. Non dev’essere uno che lo conosce. Si siede lì e il giudice sta bevendo il suo succo. Il giudice apre il giornale, si gira ed è coperto per un tempo sufficiente, chiaro? MAMMA Ma se non conosceva il giudice, perché prendersi tanto disturbo per farlo fuori? PAPÀ Doveva conoscere la sua routine nel dettaglio. JILL

Ma che ci vuole? Uno pedina il giudice per una settimana e scopre che quello era il suo rito del sabato mattina. ABE Geniale. Quello che dice Jill ha un senso. È congegnato bene. Il giudice legge il giornale, blocca la sua visuale, uno scambio rapido. Se uno ti si siede accanto su una panchina ti giri dall’altra parte. PAPÀ La polizia sarà parecchio avanti a noi.

Questa è la prima volta che il pubblico vede Jill. Woody si assicura che le sue attrici protagoniste entrino in scena in modo da risultare attraenti, ma anche in modo da mostrare chiaramente chi siano i loro personaggi.

Raramente Woody si trattiene dal chiedere a un attore di cambiare la maniera in cui recita una battuta, ma ha deciso di non correggere Phoenix, che ha un modo molto particolare di parlare, cosa che arricchisce il personaggio di Abe. «È molto insolito come attore», dice Woody dopo la scena, «ha un grande talento naturale e parla seguendo un ritmo tutto suo: ha i suoi tempi, le sue sfumature, le sue piccole idiosincrasie. E il trucco, secondo me, sta nel seguirlo, invece che nell’obbligarlo a riprodurre esattamente le voci che sento nella mia testa. Con “seguirlo” intendo correggerlo solo quando fa un grave errore, qualcosa che danneggia la storia o che fa un bruttissimo effetto

sullo schermo. Però questo non succede mai. Con i due giovani attori, Emma e Jamie, è semplice. Io dico, “Dammi un po’ più di questo”, “Dammi un po’ meno di quello”, “Vai un po’ più veloce”, e loro lo fanno. Sul piano della vocalità e delle emozioni, stanno all’interno di una sfera che io riconosco. Ma Joaquin è un tipo eccentrico, con una personalità singolare, e penso che l’unico modo per tirare fuori il meglio da lui – visto che è stato strepitoso in moltissimi film – è seguire istintivamente quello che vuole fare lui, e dimenticarmi di portare a casa una scena che suoni come voglio io». C’è una certa ironia nel fatto che, lavorando su questo set, Phoenix non abbia mai insistito per recitare secondo la sua maniera «naturale». In generale, dice Woody, «Io cerco di non dirigere molto gli attori, provo a lasciarli molto liberi, ed ero convinto che lui l’avrebbe apprezzato, e invece no. A lui piace avere un regista che lo diriga, quindi sto cercando di dargli qualche indicazione senza ostacolare la sua personalità.» Il giorno termina con la scena 73, che è piuttosto semplice. Roy e i genitori di Jill sono in soggiorno per festeggiare il compleanno della ragazza. Si aprono i regali, poi Jill va nella stanza accanto per controllare i messaggi sul telefonino e per vedere se Abe si è ricordato del compleanno, ma resta delusa nello scoprire che non le è arrivato niente da lui. Sono le 18:00 passate quando Woody ottiene la scena che desiderava. «Abbiamo fatto abbastanza cinema per oggi», dice. Come ogni sera, strappa gli stralci di sceneggiatura del giorno in otto pezzi, poi si affretta a raggiungere l’automobile che lo aspetta per riportarlo a Newport.

5. «Alcune scene cominciano ad assomigliare a come volevo che fossero quando le ho scritte.»

Una delle quattro scene più drammatiche del film, la 117, è un lungo dialogo tra Jill e Abe. La scena è preparata dalla precedente, la 116, in cui Jill incontra per caso la sua amica April nell’aula studenti e scopre che i suoi crescenti sospetti sul conto di Abe sono fin troppo veri. JILL Come sta venendo il tuo saggio? APRIL Bene, anche grazie a Abe Lucas. L’ho incontrato nel laboratorio di chimica e mi ha dato una lista completa di autori da leggere per capire i punti confusi in cui mi ero impantanata. JILL Era nel laboratorio? APRIL Sì. Era l’unico alla chiusura, anzi, l’ho spaventato e mi è dispiaciuto. JILL E che ci faceva lì dopo l’orario? APRIL Non so. Credo facesse ricerche per un libro che sta scrivendo a proposito di veleni o sostanze chimiche. Una cosa così. JILL Ma nel laboratorio la roba tossica e tutti i veleni sono chiusi a chiave. APRIL Sì, ma aveva la chiave. Ha detto che gliel’aveva prestata qualcuno. (pausa) Sembri preoccupata.

Nella sceneggiatura, le indicazioni relative al posto dove Jill affronta Abe sono intenzionalmente vaghe: «Il giorno seguente, dopo le lezioni. Jill porta Abe in un posto poco frequentato. Potrebbe essere una caffetteria o un luogo all’aperto isolato. Nota: potrebbe anche essere un’aula vuota o un’automobile parcheggiata, qualsiasi cosa riusciamo a trovare». Woody girerà la scena sul patio della casa dei genitori di Jill, anche per poter accorpare due scene in una sola location.

Il patio è lastricato di grandi pietre irregolari, e farci passare direttamente sopra un dolly porterebbe a un’inquadratura traballante, così, mentre la troupe passa un’ora a sistemare le tavole di compensato spesse qualche centimetro su una serie di zeppe di legno, in modo da fabbricare un dance floor, Woody attraversa la strada e si accomoda sulla sedia da regista con il sedile di tela, all’ombra di un tendone di plastica. Comincia a riscrivere varie voci fuori campo di Abe e Jill, che verranno registrate sabato. Il lavoro lo assorbe completamente, tanto che lui non si accorge di Manzie mentre la ragazza gli si avvicina e gli dà un bacio. Dalla sorpresa Woody fa un salto, poi sorride quando vede la figlia. La scena 117 ha una fortissima carica emotiva, ed è anche piuttosto complessa. Jill si è innamorata di Abe ma poi ha scoperto che lui è un mostro. Ha il cuore spezzato ed è piena di rabbia, ma è anche razionale. Il suo filosofo, un tempo affascinante, si è rivelato un uomo privo di coscienza, oltre che pazzo. In questa scena Abe deve dimostrare che il suo gesto risulta pienamente giustificato alla luce delle sue argomentazioni intellettuali, almeno dal suo punto di vista. In totale, la scena dura sei minuti e verrà girata da cinque angolazioni diverse alternativamente su un attore, sull’altro, e su tutti e due insieme. Per gli attori recitare questa scena è un vero tour de force. Si parte da Jill che esce dalla porta della cucina, scende gli scalini che portano al paio, e lì trova Abe, ignaro di quello che lo aspetta. ABE Perché sei così strana? Cosa c’è di così importante? Sei incinta? JILL Tu hai ucciso Spangler. Non è così? ABE Perché lo dici? JILL

Hai preso il cianuro nel laboratorio, Abe, e gliel’hai versato nel succo. Al parco. Sei andato a Lippitt Park, non a fare una Tac. ABE Sei matta? JILL Non ci girare intorno. Ho visto il tuo libro. Ho visto che hai scritto “Spangler e la banalità del male”. Hai deciso che lui meritava di morire e hai rubato le chiavi di Rita. E poi April ti ha visto. ABE (pausa) Ho fatto la scelta di aiutare quella donna. Tu avevi ragione l’altra sera. Io ho sempre detto che tu hai un cervello di prim’ordine. JILL Tu eri nel parco? Sulla panchina? Quello si è girato? Oddio, me lo sentivo, Abe. Ma non volevo crederci. ABE Ti ho insegnato a fidarti del tuo istinto. Non tutto è afferrato dall’intelletto. Se senti che è giusto, spesso è così. Questa è l’azione significativa che cercavo. JILL Oh, Dio, Abe… Hai fatto una pazzia. ABE Secondo me era una cosa molto ragionevole da fare. Lei sperava nel cancro. Ma che diavolo è la speranza – una puttanata, Jill – si deve agire. JILL Non puoi prenderti la responsabilità di uccidere una persona. ABE Parli di regole, ma non esistono regole innate. Ogni scelta va fatta caso per caso. JILL Non puoi pensare che sia morale quello che hai fatto. ABE Io mi considero un uomo morale con una vita morale che è andato in aiuto di una poveretta che subiva una grave ingiustizia. JILL E adesso andrai in prigione per tutta la vita? ABE Non mi sospetteranno mai perché sono un completo estraneo per tutti e non ho un movente. Sarà soltanto un altro delitto insoluto.

JILL Sai che secondo Rita Richards potresti essere stato tu? ABE Sì, lo so. Ci siamo fatti una bella risata. JILL Come hai potuto farlo, Abe? ABE Il mondo non è migliore senza quell’orrendo giudice? JILL Oh mio Dio. ABE Ti sto chiedendo se il mondo non è un posto migliore senza il giudice Spangler. JILL Sono distrutta, Abe. Sono completamente smarrita. Cosa devo fare? ABE Ma cosa vuoi dire? JILL Voglio dire che ci tengo a te, moltissimo, ma non posso continuare a vederti ormai. È imperdonabile. ABE Stai pensando di denunciarmi? JILL Certo che penso di denunciarti. Naturalmente. Ma non ci riesco. Se non lo faccio sono complice di un omicidio, ma non voglio vederti in prigione. Questa è una follia, Abe. ABE Devi mettere da parte le nostre supposizioni quotidiane e fidarti della tua esperienza di vita. Per vedere sul serio il mondo dobbiamo rompere con la nostra abituale accettazione di esso. Nell’attimo in cui ho deciso di compiere questa azione, il mio mondo è cambiato. Tu l’hai visto. A un tratto ho trovato un motivo per vivere. Sono riuscito a fare l’amore – a provare dei sentimenti per te – perché fare questa azione per quella donna ha dato un significato alla mia vita. JILL Tu te ne devi andare, Abe. Non posso restare con te. Non dirò niente. Io penso che tu creda di aver fatto qualcosa di moralmente valido, io ne sono convinta, però non puoi giustificare questa azione con queste puttanate degli esistenzialisti francesi del dopoguerra. Questo è omicidio, e apre la porta ad altri omicidi. Io non sono in grado di confutare questi argomenti, non so discutere con te, ma sei tu che mi hai

insegnato a seguire il mio istinto, e io non ho bisogno di riflettere, lo sento, che è una cosa sbagliata. ABE Okay… Finisco le mie ultime settimane qui e me ne vado. Non mi vedrai più. JILL Andare dove? Che ne sarà di te? ABE Non lo so. Via. In Europa. JILL Per me sarà dura, Abe. Io ero davvero innamorata di te. ABE (fa per baciarla) Jill… JILL No. È finita. Manterrò il tuo segreto. ABE Mi spiace di averti deluso. Un giorno capirai, anche se ti sembra un controsenso. Ho fatto una scelta e me ne assumo la piena responsabilità.

Il video village è stato sistemato in cucina, si estende dal punto in cui Jill entra in scena passando dalla porta con la zanzariera fino a un piccolo pianerottolo in cima alle scale; la macchina da presa sta su Jill mentre lei si avvicina al patio dove sta Abe. Di solito, prima di ogni ciak, Stone e Woody si parlano, ma qui la loro conversazione è come smorzata, in modo da non interferire con la scena emotivamente difficile che sta per essere girata. Undici dei dodici ciak delle cinque diverse inquadrature vengono filmati dall’inizio alla fine e stampati. I primi tre sono buoni, ma Woody è sicuro che gli attori possano fare di meglio. Prima del quarto ciak dice a Stone, «Butta fuori tutto, arrabbiati, fidati del tuo istinto. Sei arrabbiata e ferita, fallo vedere». Le assicura che il girato è già buono e che questi ciak verranno smontati per dar corpo alla scena. Stone segue i suoi consigli: la sua performance è straordinaria. Da un momento all’altro Jill diventa arrabbiata, ferita, confusa, gelida, quasi in lacrime: una giovane donna la cui vita è

appena stata stravolta, e che di colpo, dolorosamente, raggiunge una consapevolezza profonda e dolorosa sulla natura umana. Ciak dopo ciak, Stone sapeva esattamente cosa volesse Woody. «È stato piuttosto stringato», avrebbe detto in seguito. «Con me Woody è sempre molto preciso e calmo, qualsiasi sia la scena. Non sembra lasciarsi travolgere dall’emozione. Sa che cosa vuole e cosa sta cercando. È sempre in grado di dirlo a parole, e per quanto abbia un punto di vista specifico vuole anche che gli attori si sentano liberi. Perciò, anche se ci può essere una situazione in cui tu e lui la pensate in modo diverso, lui è molto comprensivo. Forse essendo a sua volta un attore, capisce che se qualcosa non ti viene naturale, e per te non ha senso, allora risulterà falso. Quindi non insiste su niente che non percepisci come naturale. «Quando intrattieni un rapporto di lavoro di tipo creativo con qualcuno, esiste un genere di comunicazione impalpabile. Io credo di capire il ritmo di Woody, e la sua scrittura, e credo, credo, la sua intenzione. Mi identifico con il suo modo di raccontare storie, con i suoi dialoghi e con i suoi personaggi.» Woody dice di lei, «Emma è un’attrice di un talento infinito. Grande versatilità, grande bellezza, grande intelligenza. Sono davvero convinto che possa fare tutto, e farlo benissimo. Il suo unico difetto è che, se ci fai caso, parla un po’ come Gatto Silvestro». Quando Woody guarda il monitor mentre si gira una scena, non prova le emozioni che può provare uno spettatore, ma quelle di un regista che aspetta finché non può dire, “Oh, bene, ci siamo, e poi quando sarò al montaggio lo schermo traboccherà di emozione”. Di tanto in tanto un ciak che per lui è meno buono si rivela essere il migliore. «A volte», dice, «quello che piace a te è troppo “recitato”, oppure la recitazione è troppo diversa da quella della scena precedente. Ma di solito quando gli attori lavorano bene te ne accorgi lì per lì. Mentre

giravo Blue Jasmine, Cate Blanchett faceva qualcosa e io dicevo, “Questa era ottima”, era effettivamente ottima quando rivedevo la scena in un secondo momento.» Dopo aver terminato la scena 117, la troupe va in pausa pranzo. Per portare a termine quella scena ci è voluta quasi un’ora, e i dialoghi sono stati ripetuti molte volte. Per fortuna la scena in programma per il pomeriggio, la 38, in cui i genitori di Jill le fanno qualche domanda veloce a proposito della sua recente amicizia con Abe, sempre sul patio, è relativamente facile, tanto più se paragonata all’ultima. Anche qui, Jill esce dalla porta della cucina e scende le scale per raggiungere i suoi genitori, che stanno seduti su un divanetto da giardino. Nel primo ciak, Stone è molto naturale. Woody le dice di farne uno un po’ più leggero: «Naturale ma non lugubre». Lei ride. Woody si aspetta che il ciak sia perfetto, ma prima serve qualche ritocco alle luci. Stone aspetta vicino alla porta. Woody la prende in giro per le sue gambe pallidissime. «È come cercare di illuminare un fantasma», dice lei. «Nemmeno la mia cucina è così bianca», risponde Woody. «E se ti spruzzassimo addosso un po’di beige?» «Sono già in beige», dice lei, indicando gli abiti che indossa, e che, come da tradizione nei film di Woody Allen, variano tra il grigio talpa, il marrone chiaro, e il beige. Woody è infastidito dai ritardi. «Adesso vado e li prendo a calci», annuncia, mentre si alza dalla sedia e infila la testa fuori dalla porta. «Siamo pronti?» chiede, la voce rivolta al cortile; questa è la sua versione del prendere a calci qualcuno. Non ancora. A parte i ritardi tecnici, quasi tutti i ciak sono compromessi da qualche rumore imprevisto – tre aeroplani di passaggio (dopo una di queste interruzioni Woody dice, «Era ottima. Adesso facciamone una senza aeroplano»); una sirena che parte a metà della scena; gente che parla a voce alta lungo

la strada; un tagliaerba; bambini che gridano e ridono in uno dei cortili più vicini. Finalmente arriva il silenzio. Jill si prepara ad entrare in scena. «Veloce ed energica», dice Woody. Secondo una certa scuola di pensiero, un regista si deve innamorare della sua protagonista femminile attraverso la macchina da presa, in modo da far innamorare di lei anche il pubblico. Per Woody è importante mostrare chiaramente il fascino o la personalità dell’attrice alla sua prima apparizione sullo schermo, e far sì che il pubblico la veda nella maniera in cui l’aveva immaginata lui. Un buon esempio è Barbara Hershey in Hannah e le sue sorelle. All’inizio appare una scritta bianca su schermo nero, «DIO, È BELLA…», e nel primo piano del suo volto sorridente, Hershey è talmente splendida che ti viene voglia di prendere un vocabolario per trovare una parola più esagerata rispetto a “bella”. Era proprio questo l’obiettivo di Woody: «Bisogna sapere perché gli uomini sono attratti da lei». Per ottenere esattamente la scena che vuole, si prende tutto il tempo necessario – se n’è preso molto per assicurarsi che il pubblico capisse al volo perché Jason Biggs fosse tanto ossessionato da Christina Ricci in Anything Else, e come mai sopportasse sia di stare con una ragazza che lo tradisce sia di vivere con la nevrotica madre di lei. Dalla prima volta che il pubblico vede Ricci – scende da un taxi sotto la pioggia, e poi se ne sta adagiata su una poltrona del soggiorno con addosso una vestaglia di satin, le gambe nude fino quasi alla vita – è palese che, come dice Woody, «Christina aveva un qualcosa di irresistibile, qualcosa di molto sexy, e un uomo poteva tranquillamente fissarsi con lei». Per arrivare allo stesso risultato con Scarlett Johansson in Match Point, Woody ha girato tre volte la scena in cui la ragazza incontra Jonathan Rhys-Meyers al tavolo da ping-

pong, in modo da mostrare subito chiaramente la sua bellezza e la sua sensualità pericolosa, che sono elementi chiave della storia. «Le ho cambiato l’acconciatura», dice Woody, «e gli abiti di scena [alla fine Johansson indossa un vestitino bianco aderente e scollato], ho cambiato l’inquadratura; ne ho parlato col direttore della fotografia [Remi Adefarasin]: per me era molto importante mostrare quella che era la mia visione di lei all’interno di quel personaggio.» Invece in Scoop, il film girato sempre con Johansson l’anno seguente, l’attrice interpreta quella che Woody definisce «una mezza nerd», e in quel caso lui non ha cercato di farla sembrare sexy: «La scarsa attenzione che ho dedicato all’aspetto fisico del personaggio era per fare in modo che sembrasse una ragazza che andava al college, un tipo potenzialmente attraente». Woody era combattuto su come affrontare la prima apparizione di Emma Stone in Magic in the Moonlight. Quando entra in scena insieme alla madre, Sophie indossa abiti modesti, però, tra le molte rivelazioni in un film che indaga la differenza tra la realtà e l’apparenza, c’è il fatto che la ragazza si rivela bellissima quando indossa un abito elegante per il ballo verso la fine del film, nella stessa maniera in cui Eliza Doolittle, sia in Pigmalione che in My Fair Lady, si rivela bella da mozzare il fiato nella scena del ballo. (Quest’ultimo film, dice Woody, ha influenzato Magic.) In sede di montaggio Woody ha tribolato con l’entrata in scena di Stone, e alla fine non è rimasto del tutto soddisfatto. «Sento di averla sbagliata un po’. Volevo che lei avesse una grande entrata in scena, ma credevo anche che non dovesse sembrare troppo bella, più come una ragazzina in disordine, così poi quando si sarebbe presentata al ballo avrebbe sfoggiato una bellezza clamorosa. È per questo che le ho fatto comprare tutti quei vestiti da Brice [il rampollo della ricca famiglia, che è innamorato di Sophie; lo interpreta l’attore Hamish Linklater]. Solo che poi mi sono arenato, perché da una parte volevo che Emma avesse una bella entrata in scena, ma dall’altra non

volevo [ride] che sembrasse troppo bella lei. Ho avuto lo stesso problema con Penelope Cruz in Vicky Cristina Barcelona. La prima volta che la vediamo è quando Javier Bardem la riporta a casa dall’ospedale. Volevo che avesse un aspetto mozzafiato, ma doveva anche avere l’aria di una che ha appena tentato il suicidio. È difficile trovare un equilibrio tra le due cose. Ora, secondo me, Emma è molto carina quando entra in scena. Ma è rimasta così, una via di mezzo. Non sono riuscito a darle né un’entrata in scena da ragazza di strada, né un’entrata in scena da bellezza spettacolare. È stato difficile con Emma, che è di una bellezza sorprendente e lo è in una maniera unica. Il suo viso è molto più che bello, è straordinariamente interessante. Irradia umorismo e intelligenza, e in più ha dei lineamenti splendidi. Durante le riprese di Magic, ho fatto troppo affidamento sui costumi, sulla bellezza naturale di Emma e sul suo fascino. Ma non l’ho gestita bene.» Ecco un esempio di un’entrata in scena pensata non per mostrare l’attrice come una donna desiderabile ma piuttosto per dare un’idea della sua personalità: la prima volta che vediamo Diane Keaton nel Dormiglione. In quel caso, Woody voleva presentare il personaggio come una donna interessata soltanto alla sua bellezza fisica e alla vita comoda che le garantisce il suo maggiordomo robot, perciò quando vediamo Keaton aprire la porta, indossa un caftano bianco, ha i capelli ancora bagnati e avvolti in un asciugamano, e la faccia coperta da una maschera di fango verde, che le lascia scoperti solo gli occhi e la bocca; se il teatro vaudeville faceva ricorso alla cosiddetta blackface quando portava in scena attori bianchi con il viso dipinto di nero, in questo caso si potrebbe parlare di greenface. Per Irrational Man, comunque, Woody ha intenzioni diverse. Vediamo Jill per la prima volta in una delle inquadrature iniziali. Cammina per il campus mentre in sottofondo sentiamo la sua voce narrante, ha uno zainetto sulle

spalle e un laptop tra le mani: una studentessa seria e attraente. Poi con la scena 5 la vediamo più da vicino, a casa sua: nella scena, che dura ventotto secondi, parla con i suoi genitori, e indossa un paio di shorts e una camicetta leggera; una ragazza all’ultimo anno di università, intelligente e idealista. Dice Woody, prima della scena, «La sua bellezza ha un qualcosa di unico, ed è questo l’aspetto che voglio mostrare». Siamo arrivati alla metà delle riprese, e Woody rimane vagamente ottimista. «Dopo i primi traumatici giorni, che sono sempre tremendi, comincio a vedere che alcune scene cominciano ad assomigliare a come volevo che fossero quando le ho scritte», dice un pomeriggio mentre la troupe prepara la scena successiva. Per lui, questo stato emotivo è molto vicino alla soddisfazione. «E mi piacciono gli attori. Joaquin è una persona molto gradevole con cui lavorare, ed Emma è un tesoro, e poi con lei ci conosciamo dall’ultimo film. Sono sempre contento di lavorare con una persona più di una volta, sempre che sia giusta per la parte. Ho lavorato con grandi attori che poi mi hanno detto, “Non hai più voluto lavorare con me”. Ma è successo solo perché non c’è più stato un ruolo per cui erano adatti.» Woody sta aspettando di girare le scene 95 e 103, che si svolgono a qualche giorno di distanza nello stesso punto vicino a un lago; la 95 segna l’inizio dell’arco narrativo che porterà Jill a scoprire la colpevolezza di Abe. All’inizio Woody aveva preso in considerazione questa location non per il lago, ma per un vecchio fienile che ospita un ristorante con un grande pavimento per i balli in stile country; qui si sarebbe potuta girare la scena di una festa, ma Woody ha pensato che il fienile fosse troppo grande, e ha riscritto la scena, trasformando la festa in un piccolo ritrovo tra amici e ambientandolo nella casa dei genitori di una studentessa, che hanno appena comprato un quadro di Willem de Kooning. Anche se il fienile agli occhi di Woody non funzionava, il lago gli era piaciuto molto. Con il suo pontile di legno mezzo

marcio e la sua riva costeggiata da alti alberi, gli è sembrato un altro posto dove far stare due amanti dopo aver fatto l’amore. Così facendo, avrebbe evitato di riprenderli per l’ennesima volta sotto le lenzuola. Questa giornata è un tipico esempio di come Woody in qualsiasi momento, può decidere di modificare qualcosa dopo aver incaricato i vari capi reparto di allestirla per com’era descritta nella sceneggiatura. «Riesco a vedere la scena ambientata qui», aveva spiegato dopo aver fatto i sopralluoghi tecnici, poco prima dell’inizio delle riprese. «Se sei l’autore, puoi vedere le cose con maggiore profondità e visione d’insieme rispetto alle persone che lavorano su un aspetto specifico del progetto. Gli attori, gli scenografi, Juliet Taylor e tutti gli altri sono costretti a darti quello che gli hai chiesto, e vogliono aiutarti a realizzarlo. Però a volte durante il casting Juliet arriva e io le dico, “Perché non diamo a questa persona la parte del dottore, e a Wallace Shawn facciamo fare Rocky Marciano?”. Nel giro di un secondo mi convinco che questo dottore o questo professore universitario sia giusto, e lei non ci sarebbe mai arrivata, perché stava cercando di darmi qualcosa per com’è descritta nella sceneggiatura. Lo stesso succede con Santo. Molte volte nel corso degli anni Santo ha avuto opinioni utilissime. Mi diceva, “Perché non puoi girare quella scena in un luna park?”. Io cambio le cose di continuo e adesso lo fa anche lui. Lo stesso succede con gli attori. Gli attori vogliono darti quello che hai scritto tu, e gli dico sempre, “Non darmi quello che ho scritto io. Improvvisa, decidi tu cosa dire”, e spesso loro esitano a farlo.» Accanto al sentiero che conduce al pontile di legno troneggia una sedia da bagnino alta più di due metri; è costruita con tubi di ferro pitturati di un verde chiaro, e la vernice è scheggiata e sbiadita. Il sedile in legno appare segnato dalle intemperie. Nel complesso, la struttura è in pessime condizioni, relitto di un passato in cui era stata più utile, quando i bambini giocavano nell’acqua del lago.

Khondji e Woody si chiedono se spostarla o meno. Loquasto, sbalordito, dice, «No, è fissata al terreno col cemento. E poi ha un’aria romantica». Woody, che di solito concorda con Loquasto, si gira e inclina la testa, poi lo guarda interrogativo. «Romantico», ripete con fermezza. «Ho pensato, “Non può dire sul serio”», dirà Loquasto in un secondo momento. «Per me quella sedia da bagnino semidistrutta era la cosa più importante della location! Quando Abe sta in piedi sul pontile, è tutto bellissimo.» Woody però è irremovibile, e Loquasto sa bene che stavolta è inutile discutere, anche se negli anni è diventato più insistente nel difendere le sue idee. «C’è quel momento in cui pensi, “Tiriamo fuori la sega e abbattiamola”», continua. Ma non sarà necessario. Si possono fare inquadrature in modo che la sedia da bagnino non entri in campo. La cosa di cui non si è accorto nessuno durante i vari sopralluoghi è il forte rumore del traffico proveniente dall’autostrada 95, poco oltre gli alberi sull’altra sponda del lago, a meno di un chilometro di distanza. Adesso che per le riprese serve il silenzio, il ronzio di sottofondo si nota fin troppo. Questo è un problema per il tecnico del suono David Schwartz, che deve ridurre al minimo il rumore mentre registra il dialogo, ma tutto ciò che non si può controbilanciare o nascondere si può eliminare quasi del tutto durante il missaggio; è una tecnica di routine, per quanto complicata. Schwartz chiede a Woody se può alzare il volume dei microfoni sistemati addosso a Jill e ad Abe. Woody, per nulla preoccupato dal rumore d’ambiente, gli dice di sì: «Al limite lo copro con un po’ di musica». Ha dovuto affrontare ben di peggio sul set di Magic; le cicale della campagna francese producevano sinfonie cacofoniche durante quasi tutte le scene girate in esterni. Sono state eliminate al missaggio. Nella scena 95 c’è la voce fuori campo di Abe, nella 103 quella di Jill. Woody e Khondji camminano su e giù per

decidere come rendere diverse le due scene. Il pontile di legno fatiscente si estende per circa quattordici metri sul lago, e alla sua estremità è collassato fino a immergersi totalmente nell’acqua. I due personaggi saranno ben separati se uno sarà sul ciglio del pontile e guarderà l’orizzonte mentre in sottofondo passerà la voce fuori campo. «Ho una domanda per te», dice Woody, «Non ti dà fastidio che nella prima scena vediamo lei sul pontile e nella seconda vediamo lui?» Dopo aver discusso ancora, dice, «C’è una voce fuori campo, quindi nell’inquadratura ci dev’essere qualcosa che catturi l’attenzione e non sia ripetitiva». Woody decide di lasciare il pontile solo ad Abe. Jill farà qualche passo, dalla coperta su cui staranno seduti a un punto posizionato tra due alberi, e lì prenderà un maglione dalla sua borsa, in modo da dare distanza e favorire la sua narrazione fuori campo. Qualcuno ventila la possibilità di girare la scena con un totale, ma la conversazione termina in fretta quando Woody dice, «È inutile girare gran parte della scena con questa ampiezza, non lo useremo mai». Ci devono essere per forza quattro inquadrature. Le chiacchiere dopo l’amore tra Jill e Abe si trasformano in lei che dice, «Oggi per un assurdo momento ho pensato che sarebbe ironico se avessi ucciso tu il giudice Spangler». Parlando dell’omicidio, Abe dice, «Se avessi dovuto eliminare qualcuno gli avrei sparato o lo avrei investito. Il cianuro è un’altra cosa». Jill, perplessa, dice che in nessuno degli articoli sul caso si è parlato di cianuro. Abe svia la conversazione dicendo che ha solo dato per scontato che si trattasse di quel veleno, e Jill, sollevata, ricomincia a fare ipotesi: «Doveva essere qualcuno che lo conosceva. Una persona così vicina a lui da potergli mettere il veleno nel caffè. O forse era la spremuta, vero?». Mentre stanno seduti insieme, in un momento romantico, Abe dice, in una narrazione fuori campo divertita e raggelante: «Mi sono goduto tutta la conversazione. Era come essere seduto a un tavolo di poker e avere in mano un full e

chiacchierare innocentemente, fiducioso di avere una mano vincente, ma sentendomi eccitato dalla possibilità di essere battuto da una scala reale o da un poker d’assi». Alla fine della scena, Jill rivela ad Abe che i suoi sentimenti per lui l’hanno portata a litigare con Roy, il quale la lascerà nella scena seguente. ABE Proprio quello che non volevo fare… mettermi tra te e Roy. JILL Hai provato a scoraggiarmi ma è successo, ed eccoci qui a fare l’amore. ABE Devo dire che tu sei stata speciale fin dal primo giorno. JILL Hai letto la mia tesina e la mia mente ti ha attratto. È stato molto eccitante. ABE La tua mente e i tuoi occhi. JILL E io ti ho messo subito gli occhi addosso. ABE Aha, è l’ora della verità. JILL Ricordo il giorno dopo che sei cambiato – è stato proprio un giorno dopo che avevamo sentito parlare del giudice Spangler – come se sentire per caso la terribile ingiustizia che toccava a quella povera donna ti avesse motivato a rimetterti in sesto, e forse a capire quanto eri fortunato.

Durante le riprese, e poi mentre guarda i giornalieri, Woody sta già immaginando come montare il film: «Sto pensando, “Ci sono, posso prelevare il primo piano di questo ciak e la terza battuta di quest’altro ciak e la quinta battuta di quest’altro ciak ancora e quando lui entra e dice, ‘Ciao, George’ posso togliere quelle due parole dal sonoro del terzo ciak e inserirle nel quinto, così quel ciak è buono, se non per le prime due parole che andrò a pescare da un altro ciak”». Quando sa di avere tutti gli elementi a posto, può passare alla prossima scena.

La scena 103 è sempre ambientata sul lago, ma ha un’atmosfera completamente diversa. Jill ha da poco scoperto quale sia la «teoria pazzoide» di Rita riguardo ad Abe, dopo averla incontrata al pub, e adesso deve tenere a bada i suoi nuovi sospetti. Questo è evidente nella sua voce fuori campo: Senza dubbio mi aveva innervosito molto l’assurda teoria di Rita. Il mio professore di psicologia avrebbe detto che Abe l’aveva delusa, e allora lei gli faceva interpretare la parte di un folle assassino. Ricordavo la reazione rabbiosa di Abe all’ingiusto trattamento del giudice verso quella povera donna, e poi che cosa faceva in giro alle sei e mezza di un sabato mattina? I miei pensieri erano molto confusi, e altre rivelazioni più devastanti erano in arrivo. Ma per il momento scivolai in totale rifiuto, dicendo a me stessa che era tutto troppo assurdo per essere preso in considerazione. Non dovevo lasciarmi affascinare dalla mia sfrenata immaginazione, però una nuvola nera aveva coperto la luna.

La carrellata parte su Abe, poi indietreggia fino a mostrare Jill, in primo piano a sinistra, la schiena appoggiata a un albero. Quando termina la voce fuori campo, Abe si avvicina a Jill. Sotto il margine dell’inquadratura, il corpo di Emma è coperto da una stoffa nera, in modo da evitare che i suoi abiti riflettano la luce. A seguire, due mezzi primi piani speculari, ciascuno preso da dietro la spalla dell’altro attore. Una volta stabiliti i dettagli tecnici, le inquadrature vengono girate rapidamente. Woody è impressionato dalla profondità che Stone sta dando a Jill in tutte le sue scene. La sceneggiatura è stata scritta con l’idea che sarebbe stato Abe il personaggio più carismatico, e che Jill sarebbe stata una specie di contraltare, ma non è questo che sta succedendo. Stone sta arricchendo tutte le scene di Jill con sfumature impreviste. «Emma è anche più brava di quanto mi aspettassi», affermerà Woody dopo l’ultimo ciak, con evidente soddisfazione. «Non lo dico soltanto perché questo è il mio film o perché lei mi sta simpatica, lo dico nel modo più obiettivo possibile. Ha superato le mie aspettative. Sapevo che sarebbe stata brava. Joaquin è più maturo, lavora da molti anni, ha interpretato ruoli drammatici, e mi aspettavo – un po’ come con Cate Blanchett o Marion Cotillard – che fosse una

specie di genio del cinema indipendente, perché è così che lo vedo. Invece Emma ha fatto pochi film, e io pensavo, “Beh, è un’attrice molto brava, e poi ho già lavorato con lei in uno dei miei film, ma non l’ho mai vista interpretare ruoli drammatici in passato”. Ha fatto solo commedie, e così pensavo, “Sarà una graziosa studentessa e so che farà bene questa parte; è la perfetta scelta di casting”. Ma non mi aspettavo che fosse così brava. Mi ha sorpreso. E credo che almeno in parte l’asse della storia si sposterà, perché lei è molto forte. Credevo che nessuno sarebbe stato in grado di tenere testa a Joaquin. Emma è una ragazzina di venticinque anni che sta cominciando ad emergere soltanto adesso, ma sta completamente alla pari con Joaquin in termini di impatto emotivo, forza ed efficacia sullo schermo. Credo che, anche se molta dell’attenzione resterà per forza su Joaquin, il pubblico risponderà altrettanto a lei, e il film non sarà un gioco a due tra un grandissimo attore di quarant’anni con molta esperienza e una star emergente; sarà un gioco a due tra due attori egualmente forti.» «Recitare in Magic», ha Stone qualche giorno dopo, «ha cambiato la mia traiettoria professionale, perché da ragazzina mi piaceva guardare film comici e adoravo il Saturday Night Live. Credo sia stato quando ho visto Io e Annie e i successivi film di Woody che ho capito che c’era un modo di riunire questi due concetti in un prodotto solo, e da lì mi ci sono appassionata. Non ho mai pensato che avrei lavorato davvero proprio con la persona che mi faceva sentire in quel modo, o che avrei interpretato due personaggi scritti da lui. Recitare in Magic mi ha cambiato la vita perché aveva tutte le caratteristiche di un sogno che si avvera, e in più mi è successo quando ero giovanissima – conosco un sacco di attori che hanno aspettato trent’anni prima di essere chiamati da lui. Colin [Firth] diceva di aver passato tutto quel tempo ad aspettare un cenno di Woody.» Quello che la attira maggiormente di questo film, aggiunge, «è il fatto che sia un’esperienza irripetibile. Tutti sono qui per una ragione sola,

e quella ragione è Woody». Si ferma un attimo. «E la paga», aggiunge con una gran risata. «Avere quest’àncora nella tempesta è rassicurante e ti dà un’enorme soddisfazione. Sai che ti stai muovendo all’interno di un film di Woody Allen, sei in un mondo creato da lui, interpreti una persona creata da lui, e ti fidi di quest’uomo che ha fatto quarantacinque film.» «Tutte queste donne belle, spiritose e piene di talento», dice Woody delle attrici dei suoi film, con cui raramente lui riesce a scambiarci qualche chiacchiera rilassata. «A questo punto avrò fatto almeno cinque film con Judy Davis [Alice, Mariti e mogli, Harry a pezzi, Celebrity e To Rome with Love]. Non sto dicendo che lei si comporti così con tutti, però a me non è mai sembrata il tipo che gradisca fare quattro chiacchiere. Con Cate Blanchett, non avrei osato; Cate mi intimidiva. Molte delle persone con cui ho lavorato nel corso degli anni mi hanno fatto quell’effetto, perché non sono soltanto stelle del cinema, sono grandi attrici e donne straordinarie: Geraldine Page, Maureen Stapleton, Diane Keaton, Gena Rowlands, Judy Davis, Marion Cotillard, Scarlett Johansson, Cate Blanchett, Penelope Cruz, Naomi Watts, Emma, Eileen Atkins, e, per poco, Meryl Streep, giusto per citarne alcune. Continuano ad arrivare una dopo l’altra.» Ci vorranno due notti per girare la scena 37, quella della festicciola a casa di un’amica di Jill, April, una studentessa universitaria i cui genitori hanno appena comprato un grande dipinto di Willem de Kooning. È la prima delle quattro scene più drammatiche del film. Comincia in maniera abbastanza serena – Jill ha convinto Abe a venire alla festa con lei e Roy, nella speranza di tirarlo un po’ fuori dalla sua malinconia – ma gli eventi precipitano finché non vediamo quanto può essere irrazionale Abe. La scena in origine era ambientata nel fienile vicino al lago dove Abe e Jill hanno il loro breve intermezzo romantico, ma è cambiata sotto molti aspetti. Woody ha ampliato il ruolo di April perché è rimasto colpito dall’attrice Sophie von Haselberg durante il provino.

«È pronta a fare grandi cose. È una di quelle attrici che io chiamerei in un attimo se sentissi che c’è qualcosa di adatto a lei in uno dei miei film. E lo sapevo quindici secondi dopo che è entrata, e così anche Juliet. È bravissima, sorride sempre, capisce al volo le indicazioni, le sa mettere in atto, è una macchina da guerra.» La scena è cambiata anche per altri versi, al di là del personaggio di April. Le prime versioni della sceneggiatura prevedevano una festa nel fienile, una festa in casa, e due scene con greenscreen da girare dentro un’automobile (Abe, Jill e Roy che vanno alla festa e poi tornano a casa). Adesso, invece che in quattro scene distinte, succede tutto in una sola location. Ricordando quanto diceva Gordon Willis a proposito delle scene che non mandano avanti la storia, Woody dice che le scene ambientate in automobile erano «cuoio da scarpe». Anche se le sue modifiche al copione erano finalizzate a migliorare lo scorrere dell’azione e non a fare economia, ha comunque risparmiato alla produzione centinaia di migliaia di dollari riunendo quattro scene in una e richiedendo soltanto 50 comparse invece delle 150 o 200 che ci sarebbero volute per riempire il fienile. Quando Woody raggiunge la casa al crepuscolo – le riprese non inizieranno fino a dopo le 21.00, quando il buio sarà calato completamente – gironzola per la grande sala dotata di un camino che separa la zona soggiorno dalla sala da pranzo, e controlla com’è stato allestito il set. Il divano su cui si siederanno Abe e Jill è stato sistemato proprio contro la parete. Woody vuole che venga scostato un po’. Tra il divano e la parete viene inserito un tavolo lungo e sottile, e su ciascuno dei tavolini laterali viene posizionata una lampada, in modo tale che la luce possa raggiungere anche il retro del divano, migliorando l’atmosfera complessiva. «Queste cose sono sempre un problema», dice. «Di solito non viene bene filmare una persona o un oggetto proprio

addossato a un muro. Potremmo farli stare in piedi, ma così non risulterebbe altrettanto naturale. In effetti», aggiunge, voltando la testa da una parte all’altra, «la stanza così ha un aspetto migliore. Stasera provo a portare a casa il materiale introduttivo, e domani entreremo nel clou della scena. Però davvero non so cosa farò. Si potrebbe partire da un’inquadratura del de Kooning, per poi arretrare e assistere alla conversazione. Questa è la tipica scena – una gran scocciatura – che ha bisogno di parecchie inquadrature di copertura. Per far crescere la tensione devi staccare da una persona all’altra, questo significa lunghe ore d’attesa, preparare molte inquadrature. Voglio dare una spinta in quella direzione [da destra a sinistra, l’azione copre un raggio di 270 gradi in due inquadrature] così poi posso staccare sulla stanza dove sta appeso il dipinto.» L’inquadratura di ambientazione mostrerà alcuni ospiti nella piscina coperta che sta a poca distanza dal soggiorno, e alcuni studenti, in piedi, intenti a fumare marijuana. Helen Robin si avvicina a Woody. «Vuoi che si veda la droga?» chiede. Lui ci pensa su un attimo. «Sì.» «Voglio solo ricordarti che se la fai vedere ti assicuri una R2» «La avremo lo stesso, però, non è vero?» «È probabile.» Woody fa spallucce e ricomincia a esaminare il set. (Il film finirà per avere un visto censura “R”.) Jill si allontana da Roy al termine dell’inquadratura d’ambientazione, e la macchina da presa la segue per una decina di metri fino al divano su cui è seduto Abe. JILL

Stai avendo una delle tue malsane intuizioni sull’effimera futilità della gioia umana? ABE Ho la faccia così truce? JILL Oppure stai osservando gli studenti e ti senti triste per loro, perché ancora non hanno capito quanto vuota è la vita? ABE Se vuoi saperlo, guardavo le ragazze e pensavo che fino a poco tempo fa le avrei considerate una distesa di roselline in boccio che desideravano essere colte da me. JILL E adesso? ABE Adesso non potrei andarci a letto senza mettermi in imbarazzo. ROY (si avvicina) Qualcuno vuole un altro drink? ABE Certo. Per citare il grande Tennessee Williams, io bevo finché non sento quel click nella testa. SANDY (si avvicina) Avete visto il de Kooning? I genitori di April l’hanno comprato il mese scorso.

La seconda notte delle riprese viene dedicata al cuore della scena. È anche la notte in cui sul set arrivano gli amici e i familiari di Woody. Per Manzie sono le ultime ore prima di partire per il campeggio la mattina seguente, mentre Bechet è appena arrivata dopo alcune settimane passate in campeggio. Ron Chez e la sua compagna Athena Marks sono arrivati per fermarsi una settimana; Chez farà una comparsata nel ruolo di un professore. Aveva anche una vera parte in Magic in the Moonlight, per una scena lunga e costosa ambientata in un accampamento di zingari, però in sede di montaggio quella scena non funzionava, nonostante tutti i tentativi di Woody di renderla funzionale alla storia, e così è stata tagliata. Anche un finanziatore può finire sul pavimento della sala di montaggio

se la sua scena non manda avanti la storia. Sono arrivati anche Pedro Chomnalez e Maria Herrera, due amici argentini di Woody e Soon-Yi che vivono a New York per la maggior parte dell’anno: saranno ospiti degli Allen per il weekend. Chomnalez, un finanziere che vuole spingere Woody a girare un film a Buenos Aires, ha interpretato un giornalista in Magic. La macchina da presa comincia inquadrando il de Kooning, alto un metro e mezzo (il quadro è una copia, perciò la casa di produzione deve pagare meno per poterla utilizzare, e deve consegnare il falso ai proprietari una volta terminate le riprese), poi arretra fino a mostrare Jill, Abe, Roy, April, Danny, Mark, Jane, e cinque comparse che non hanno battute. Jill, piuttosto sbalordita, afferma di non aver mai visto un de Kooning in una casa privata. April risponde che i suoi genitori hanno appena cominciato a collezionare opere d’arte – hanno un Marie Laurencin e un Warhol – e che questa l’hanno comprata a un’asta. È qui che la scena comincia a voltare verso il dramma. JANE Non hai paura dei furti? APRIL No, guarda che la casa ha allarmi dappertutto. Una volta sono entrati e hanno rubato dei gioielli.

Woody dice a April di rispondere subito quando le viene chiesto se ha paura dei furti. «Non fare pause», dice, e aggiunge che deve parlare a voce molto alta, perché in sottofondo verrà messa della musica, e la voce di lei dovrà sovrastare il chiasso della festa. «Sgolati, supera il brusio della reazione alle opere d’arte», aggiunge. Dopo un ciak dice agli altri attori, «Dovete essere rumorosi ed energici. Entrate nella scena, non dite le battute e basta. Ma abbiate un po’ di pietà per April – lei deve parlarvi sopra». Ad April, dopo un altro

ciak, dice, «Non lasciarti intimorire. Vai come un bulldozer. Non importa come ci riesci, fallo e basta». Lei lo fa. Il fidanzato di April dice che la ragazza dovrebbe far vedere agli amici cosa tiene nascosto suo padre. «No», risponde lei, ma lui va verso un armadietto e tira fuori un revolver. La cosa suscita un certo nervosismo. Qualche chiacchiera sulla pistola, April dice che il padre la usa per sparare nei boschi. Il fidanzato afferma di amare la parte di Guerra e pace dove si gioca alla roulette russa. Una studentessa chiede, «Cos’è la roulette russa?», e lui glielo spiega mentre mette un proiettile in canna e fa girare il tamburo. Altre chiacchiere, poi Abe prende la pistola, fa girare di nuovo il tamburo e si punta la pistola alla testa. Subito partono le grida: «Attento!», «Non farlo!». JILL Abe, non è divertente. (Abe preme il grilletto – sulla stanza cala un silenzio di tomba – sono tutti sconvolti e spaventati. Si sente il click del cane, ma nessuno sparo.) JILL Cosa diavolo stai facendo, Abe? ABE I numeri erano in mio favore. JILL Pensi che sia divertente? MARK Ne vale la pena? Ha provato qualcosa? ABE Cinque contro uno, no. JILL Non è divertente. ABE Ecco. (Abe fa girare il tamburo, tra le proteste generali, si punta la pistola alla testa e preme il grilletto tre volte: tre colpi a vuoto.) ABE (CONT.)

Ecco – fifty-fifty. (Altre proteste, altre reazioni di shock. La pistola gli viene strappata dalle mani.) ROY Lei è pazzo? ABE Allora, qual’è la morale della storia? JILL (agitata e arrabbiata) Ti fai saltare il cervello. È questo che cerchi di fare? MARK Se si vuole suicidare, vada a Chimica e prenda del cianuro. Non lo faccia davanti a noi. (Altre grida.) ABE La vita è rischio. Se giocate d’azzardo, fatelo con una posta alta. In questo momento mi sento vivo – tu hai parlato di Guerra e pace – hai letto l’autobiografia di Graham Greene? Questa è una lezione sull’esistenzialismo migliore di qualunque libro. JILL Sei ubriaco. Andiamo a casa, forza. Hai bevuto troppo. ABE Fifty-fifty, ragazzi, è più di quanto tanta gente ha nella vita.

Intorno al tavolo vicino al dipinto ci sono undici persone. Per registrarle tutte servono altre tre inquadrature. Tra un ciak e l’altro di Abe che preme il grilletto, Woody dice agli attori: «La prima volta vi terrorizza, la seconda [quella in cui Abe preme tre volte il grilletto] vi fa arrabbiare. Non avete mai visto una pistola fino ad ora e quando lui lo fa per la prima volta siete sconvolti e reagite. Poi, quando lo fa per tre volte, non è più una bravata, ma qualcosa di molto disturbante. Dovreste gridare, “È pericoloso”, “La metta giù”, “Odio le pistole”. Dovrebbero essere tutte sensazioni negative. Quando lui lo fa la prima volta c’è una reazione, ma la seconda volta dovrebbe essere molto increscioso». La macchina da presa riparte, ma le voci del gruppo sono ancora un po’ troppo pacate. «Non siete abbastanza

sconvolti», dice Woody. «Quando lui lo fa per la prima volta, voi dovete essere sconvolti. Sembra che vi stiate tenendo l’agitazione da parte per quando premerà il grilletto tre volte di fila, ma voi non lo potete sapere quando lui lo fa la prima volta.» Durante la serata giunge voce che Morgan Neville, l’assistente al montaggio di Woody rimasta a New York, ha notato che alcune scene girate nella casa di Abe (alcune in bagno, un’altra sulle scale) sono leggermente fuori fuoco, perché una delle lenti Panavision è sfasata. È un problema tanto piccolo che Khondji non l’aveva notato sulla grande tv che usa per visionare i giornalieri; Woody se n’era accorto quando li aveva guardati per conto suo, ma non gli aveva dato fastidio. La questione, comunque, non è che effetto faccia in tv o su un iPad, ma quando verrà proiettato al cinema, su uno schermo di quindici metri. Khondji pensa che l’inconveniente possa essere sistemato in post-produzione, ma dice che riguarderà quelle scene nel fine settimana. Woody apprezza la grande attenzione prestata al dettaglio, ma non se ne preoccupa quasi per niente. «Se sei un creativo, non ti interessa», dice. «Molto spesso queste cose non sono affatto importanti. Ma sono molto importanti per i tecnici.»

Woody spiega agli studenti riuniti per la festa come reaggire di fornte ad Abe che prende una pistola e gioca alla roulette russa. Sophie von Haselberg, la quarta da sinistra, è piaciuta così tanto a Woody che ha aumentato la spazio del suo personaggio.

Al momento è molto più importante ottenere le inquadrature che vuole. All’una di notte si sta avvicinando il termine delle riprese in notturna. «Un’altra e possiamo controllare il finestrino3», dice Woody. «Tenetemi pronto il sonnifero.» (Il finestrino, detto anche “quadruccio” o “mascherino”, è la parte della macchina da presa in cui la pellicola viene esposta alla luce. Se un granello di polvere o un capello entra nel finestrino, avrà l’effetto di produrre un graffio sul negativo.) Loquasto, seduto sulla sedia dietro di lui, dice, «Credevo che tu avessi già il ciak che volevi». «Questo è sicuramente l’ultimo ciak», annuncia Woody, ma qualche goccia di gel che dà tono al colore scivola giù da una lampadina sistemata sopra le teste degli attori e finisce nell’inquadratura. Il ciak successivo è buono: Woody e Letty sgattaiolano via dalla porta sul retro, lasciando Khondji e Rigby a girare l’inserto del fidanzato che prende la pistola dall’armadietto.

6. «Niente pause! Scordatele! Devi andare avanti!» Dopo un weekend per smaltire le due lunghe nottate di riprese, la quinta settimana comincia con la scena 69: Abe prende del cianuro dal magazzino del laboratorio di chimica, servendosi della chiave passepartout che ha sfilato di nascosto dalla borsetta di Rita durante un incontro segreto a casa sua. Il ragazzo che nella scena 37 aveva gridato ad Abe, «Se si vuole suicidare, vada a Chimica e prenda del cianuro», ha indicato con precisione il luogo in cui Abe potrà trovare il veleno necessario a uccidere il giudice. Abe entra nel laboratorio dopo la fine delle lezioni, convinto di passare inosservato, ma viene sorpreso dall’arrivo di April. La location è il laboratorio di chimica della Salve Regina University. L’istituto ha rimosso gran parte delle attrezzature scientifiche, ma Woody ha chiesto a Loquasto di riportarne un po’– non troppe. «Non farmi una cosa alla dottor Jekyll e Mr. Hyde», l’ha avvisato. Una parete color verde pallido che rientrerà nell’inquadratura è stata ridipinta di un verde muschio perché Khondji vuole che assomigli a un’ombra. Abe entra nel laboratorio dal corridoio; mentre lui sta dentro, si vedrà April che percorre il corridoio verso la porta. L’inquadratura conterrà una bacheca per annunci coperta da una lastra di vetro, sul muro accanto alla porta, e anche se il contenuto della bacheca quasi sicuramente risulterà indecifrabile agli spettatori, Loquasto e la sua troupe ci hanno appeso una serie di finti annunci rivolti agli studenti: testi deliziosamente assurdi stampati sulla carta intestata del Braylin College. Uno di questi annunci comunica che giovedì 10 luglio 2014 alle ore 12.00, all’interno di un ciclo di seminari promosso dalla facoltà di Sociologia, il professor H. Carlyle Vento dell’Universidade Umberto terrà una relazione dal titolo Nichilismo e protostasi nel migliore dei mondi possibili. Un altro annuncio elenca i seminari promossi dalla facoltà di Studi Medievali per l’estate 2014. Tra gli argomenti

trattati: “Prestidigitazione e comportamento pluranaturale alla corte di Carlo Magno”; “Cavalieri e bellimbusti: l’estetica da camera nell’arte di governare”; “Cambiare fa bene: monete e coniazione come ritratto delle famiglie reali”; e per finire “Microbi merovingi: dai germi ai Germani”. Woody e Khondji decidono quali movimenti debba fare la macchina da presa per mostrare Abe che apre la porta ed entra nel piccolo magazzino del laboratorio, si infila i guanti di gomma, trova il cianuro e ne versa una piccola quantità in una boccetta per le spezie che ha portato con sé. Proprio mentre Abe sta per mettersi la boccetta in tasca, April entra nel laboratorio e si sorprende nel trovarlo lì. APRIL Professor Lucas? Che cosa ci fa qui? Sono April. (Sorpreso, Abe improvvisa una risposta.) ABE Faccio delle ricerche per un libro che sto scrivendo. APRIL Beh, meno male che ha messo i guanti, perché un sacco di questi veleni sono molto pericolosi. ABE Sì, lo so. APRIL Come ha fatto a entrare? Questa stanza è sempre chiusa. ABE Mi sono fatto prestare la chiave. APRIL Anzi, aspetti, visto che è qui posso farle una domanda per il mio saggio su Kant? ABE Sì, certo, ma possiamo parlare camminando? (Abe si mette in tasca la boccetta con il veleno mentre April gli dà la schiena.) APRIL (mentre si avviano verso la porta) Sa, è per venerdì, e fondamentalmente io non capisco i suoi principi morali.

Per quanto breve sia la scena, girarla è complicato. Sulla porta del magazzino c’è un adesivo giallo con la parola ATTENZIONE: Woody vuole che l’adesivo sia in campo, e lui e Khondji ragionano insieme se sia meglio averlo nella prima o nella seconda inquadratura, e come potrebbe essere tagliato in montaggio. Per la seconda inquadratura si sistema la macchina da presa dietro la porta del laboratorio: da qui accompagna Abe mentre lui gira a sinistra e apre la porta del magazzino. La terza prende Abe alle spalle, così che la porta sia in bella evidenza, e la quarta parte da dentro il magazzino, con Abe che ci viene mostrato attraverso la finestrella rettangolare sulla porta. Una volta dentro il magazzino, Woody e Khondji ragionano su come Abe si guarderà intorno prima di trovare il cianuro, e sul modo migliore per illuminarlo dall’alto. Khondji chiede se sia il caso di aggiungere un’inquadratura di April sulla porta del magazzino, già che quel punto è illuminato. Woody preferisce inquadrare prima Abe e decidere il resto dopo. (Alla fine si farà anche un’inquadratura di April.) Per Abe che cerca il veleno, Khondji propone un campo lungo, ma Woody risponde, «Non tanto lungo. Ci serve un’inquadratura a due di April e Abe tra gli scaffali con le sostanze chimiche». La scena si chiude con April che esce dalla stanza, seguita da Abe. Woody dice agli attori di prendere bene i tempi delle battute, così che la conversazione finisca nel magazzino. Woody ha finito di leggere la biografia di Bob Hope, sia pure con grande riluttanza, ma sta continuando a pensare al comico. Mentre aspetta nel corridoio fuori dal laboratorio, in attesa della prossima preparazione, mi parla di quando, a diciassette anni, era stato in lizza per scrivere i testi di Hope. Nel 1952, dopo la scuola, lavorava per David Alber, un ufficio stampa che si occupava di piazzare battute di spirito e osservazioni sagaci a nome dei suoi clienti nelle rubriche dei quotidiani dedicate alle celebrità. Alber pensava che Woody fosse il migliore tra i suoi scrittori, e spedì una lettera di

raccomandazione a James L. Saphier, l’agente e manager di Bob Hope, insieme a una raccolta di battute di Woody che secondo lui si sposavano bene allo stile di Hope. (Hope lavorava da casa: viveva in California, a Toluca Lake, un quartiere residenziale della San Fernando Valley.) «Queste battute sono ottime», rispose Saphier. Però, aggiunse, «in questo momento siamo fermi. Forse in autunno ci potrebbe essere qualcosa». «Beh, non avevo bisogno di sentire altro», dice Woody, che ride mentre racconta questo aneddoto. «A vedermi sembrava che avessi appena vinto alla lotteria. Era impossibile starmi accanto. Credevo che me ne sarei andato a vivere a Toluca Lake.» Circa un anno più tardi Woody, che lavorava allo Writers Development Program della rete televisiva NBC, fu spedito a Los Angeles per lavorare in coppia con Danny Simon, il fratello maggiore del futuro commediografo Neil Simon. (In diverse occasioni, Woody ha detto: «Tutto quello che ho imparato sulla commedia l’ho imparato da Danny Simon».) Il programma organizzò un incontro con Saphier, che invitò Woody ad assistere alle prove per uno degli speciali televisivi di Hope, ma alla fine non se ne fece niente. «Non so come o perché», dice Woody. «Per quanto ne so, lui terminò di girare quello speciale e un’ora dopo se ne volò a Saigon.» Woody tornò a New York e in breve tempo cominciò a scrivere testi per il comico Sid Caesar, tra gli altri. Alcuni anni dopo si mise a fare cabaret anche lui ed esordì al cinema quando fu assunto per scrivere la sceneggiatura di Che fai, rubi?. Chissà cosa sarebbe successo alla sua carriera se Bob Hope gli avesse offerto un lavoro. Woody crede che sarebbe comunque finito a scrivere e dirigere film tutti suoi, però dice, «Non so se avrei mai cominciato a fare cabaret se non avessi visto dal vivo Mort Sahl. Se Lester Colodny [il capo dello Writers Development Program della NBC] non mi avesse mandato al Blue Angel a vedere Sahl, non sono sicuro che sarei mai diventato un comico».

Sahl esercitò una fortissima influenza su Woody. Erano rivoluzionari sia il suo stile sia il contenuto dei suoi monologhi. «La gente parlava di lui come i musicisti parlavano di Charlie Parker. Aveva creato una maniera di andare in scena che non sembrava affatto una performance, o una recita. Era un giovane intellettuale pieno di vita che ti parlava in una maniera buffa; le sue battute le diceva con un’abilità incredibile. Era un tipo molto divertente, ma il suo era un genere di “divertente” diverso dagli altri. Non assomigliava per niente ai comici venuti prima di lui.» Oggi Sahl ha quasi novant’anni e va ancora in scena, e secondo Woody «è rimasto un grande». A un punto tale che, nel corso degli ultimi anni, Woody ha detto più volte di sentirsi ispirato a tornare sul palco a propria volta. «Alla gente dico sempre, “È tutta fortuna”, e loro mi rispondono, “Sei molto modesto, tu hai talento, la fortuna non c’entra”, ma la fortuna gioca davvero un ruolo enorme. Se Danny Simon avesse letto le mie battute e mi avesse liquidato con un “Sì, sono buone, ti chiamerò”, non so cosa sarebbe successo. Invece è capitato l’esatto contrario. Lui ha detto, “Sono ottime. Hai un grande futuro. Voglio lavorare con te”. Mi ha dato una carica pazzesca.» All’inizio della sua carriera, la scrittura di Woody dava la precedenza assoluta agli attori uomini. Tra gli sketch che Alber aveva mandato a Saphier ce n’era uno pensato per Bob Hope e la sua partner, l’attrice e cantante Kathryn Grayson. Le battute riservate a Hope furono apprezzate, ma il pezzo fu comunque rifiutato, ricorda Woody, perché «dissero, “Non ci sono abbastanza battute per Kathryn Grayson”. Penso che fosse uno sketch di cowboy ambientato in un saloon. Ma quasi tutte le battute migliori le avevo date a Hope. Nei miei primi film non scrivevo mai niente per le donne. C’ero solo io al centro della scena, e se lavoravo con donne forti come Louise [Lasser, la sua seconda moglie] o Keaton, loro si inventavano sempre qualcosa, ma io non le aiutavo mai.»

La sua storia d’amore con Diane Keaton tra i tardi anni sessanta e i primi anni settanta ha cambiato il suo modo di scrivere per le donne. I due vissero insieme per un paio d’anni e sono rimasti in ottimi rapporti. «Recitavo il mio materiale alla maniera di Hope; c’era sempre il tizio che guardava le ragazze e andava in bianco, con il classico arsenale di trucchi comici alla Hope: la codardia e la sbruffonaggine; tutto sempre dal punto di vista maschile. Poi, quando abitavo con Keaton, lei era così spiritosa e intelligente… Vivere con lei mi ha aperto gli occhi su molte cose, e questo perché io vivevo quello che viveva lei. Quando scrivevo Io e Annie insieme a Marshall [Brickman], all’inizio il film era il riflesso del mio punto di vista, ma poi abbiamo continuato a ingrandire e approfondire il ruolo di Annie Hall e Keaton ha fatto un ottimo lavoro quando l’ha interpretata. [Tanto da ricevere l’Oscar come miglior attrice protagonista nel 1977.] Ho cominciato a vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Forse è stato William Gibson, il drammaturgo, a dire che quando ami qualcuno vivi il mondo attraverso i suoi occhi. E questo era vero con Keaton. Ero pazzo di lei, e a oggi provo soltanto ammirazione e rispetto nei suoi confronti. Vedo ancora le cose attraverso i suoi occhi. Mi immedesimo in lei quando vediamo lo stesso ponte, lo stesso film, lo stesso tramonto o gli stessi due individui che discutono durante una cena. Vedo attraverso i suoi occhi. Ed è stato grazie a lei che ho cominciato a scrivere per le donne.» Arrivato al sesto decennio di attività come sceneggiatore e regista, Woody ha creato decine di personaggi femminili molto sfaccettati. Tra questi: Jasmine (Cate Blanchett), la donna sull’orlo di una crisi di nervi in Blue Jasmine; la seducente Nola (Scarlett Johansson) in Match Point; la muta Hattie (Samantha Morton) in Accordi e disaccordi; l’ipercritica Sally (Judy Davis) in Mariti e mogli; la tenera prostituta dalla voce stridula Linda (Mira Sorvino) nella Dea dell’amore; la diva del teatro Helen Sinclair (Dianne Wiest) in Pallottole su

Broadway; le tre protagoniste di Hannah e le sue sorelle; la sognatrice Cecilia (Mia Farrow) nella Rosa purpurea del Cairo; l’adolescente molto matura per la sua età anagrafica Tracy (Mariel Hemingway) in Manhattan; e poi, ovviamente, Diane Keaton con i suoi «la di da» in Io e Annie. Non ha certo guastato che due tra i più grandi idoli di Woody, Ingmar Bergman e Tennessee Williams, avessero creato dei ruoli femminili complessi. Da loro ha imparato che le donne sono i personaggi più interessanti. «Gli uomini tendono a vedere le cose più in bianco e nero; almeno, lo facevano quando io ero ragazzo. Si comportavano da “machi”, si imbarazzavano per le cose personali, e certi atteggiamenti per loro erano importanti se volevano sentirsi mascolini, mentre le donne avevano sentimenti più complicati. Prendi un’opera teatrale come Un tram che si chiama Desiderio. Stanley vuole che tutto resti com’è, inclusi i suoi semplici piaceri: la partita di poker, il sesso, il cibo. Invece Blanche è molto più complicata. Ha dei desideri e delle paure; si sente in colpa per la morte che ha provocato; è mossa da mille sentimenti riguardo alla vita, alla cultura, alla raffinatezza e alla complessità dell’espressione nell’ipersessualità. I film di Bergman avevano spesso al centro un personaggio femminile perché le donne provavano sentimenti complessi riguardo la vita, la sessualità, l’amore, i bambini. I problemi umani erano sempre molto femminili. Un problema esistenziale poteva risultare più maschile solo se magari aveva un carattere più simile a una lotta tra la vita e la morte, aveva un nucleo più semplice, pur avendo ramificazioni complesse. Il cavaliere del Settimo sigillo vuole conoscere il significato della vita. Si arriva a complesse questioni filosofiche, ma il concetto di base è semplice. Invece in Persona si parla delle emozioni femminili e dell’identificazione con una donna che ha un esaurimento nervoso e suoi sentimenti sulla maternità. Quel genere di emozioni sono più seducenti per me.» (Sulla parete di uno dei soggiorni della casa di Woody c’è un’opera

incorniciata di Ed Ruscha, lettere bianche su sfondo verde a formare la frase: HE ENJOYS THE CO. OF WOMEN, “Lui gradisce la compagnia delle donne”.) Woody trova più divertente lavorare con le attrici «perché è sempre una faticaccia trovare gli uomini: in giro ci sono un sacco di brave attrici ma in pochi scrivono per loro, e così sono sempre felici di lavorare. Gli attori sono più difficili da incastrare, da bloccare. Hanno sempre quell’atteggiamento da machi riguardo ai soldi. E di solito per i film americani è vero che gli uomini sono gli eroi, hanno armi da fuoco, gli sparano addosso, loro sparano ai cattivi. Di tanto in tanto arriva un personaggio geniale come Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore, ma si tratta di una rarità. Guarda Amleto o qualsiasi altra opera di Shakespeare: le storie a quei tempi parlavano sempre di uomini, e i ruoli femminili erano sempre molto secondari. Ma il mondo moderno non è dominato dagli uomini come era l’Inghilterra del Cinquecento. Nella società moderna, dove le donne sono esseri umani forti, sviluppati, complessi, che hanno raggiunto la parità dei diritti – fuorché nelle buste paga – diventano molto interessanti; almeno per me. Allora quando mi viene un’idea per una storia penso sempre, “La si può fare con una donna? La stessa storia si può raccontare meglio attraverso gli occhi di una donna?”. Se la risposta è sì, sono sempre felice». Scena 120: Jill e Rita nel laboratorio di chimica, dopo che Jill ha affrontato Abe chiedendogli se è coinvolto nell’omicidio. Rita ha sentito dire che Abe lascerà il Braylin College e chiede a Jill se è vero. «Sì», dice Jill, e aggiunge che Abe sta pensando di trasferirsi in Europa. Nel vedere che la sua possibilità di farsi una nuova vita sta scomparendo, Rita dice, «Vorrei che andasse in Spagna e mi portasse con sé». JILL Ha detto che vi siete fatti una bella risata sulla sua teoria che fosse lui il killer di Lippitt Park. RITA

Ci siamo fatti una bella risata. Solo che, se venisse fuori che è stato lui, io sarei sorpresa, ma non allibita, o sbalordita. Andrei lo stesso con lui in Spagna.

Woody vuole girare la scena con una singola inquadratura, un totale, in modo da portare a casa diversi risultati. Innanzitutto, il pubblico si fa un’idea di come sia il laboratorio, poi Woody vuole che il pubblico veda entrambe le donne bene in faccia, e non di profilo prese da sopra una spalla, perché i volti devono comunicare emozioni importanti. Per finire, Woody vuole che Jill venga mostrata nella maniera più lusinghiera possibile, prima che la macchina da presa si scosti leggermente per raggiungere Rita mentre la donna sta dicendo la sua ultima battuta e si avvicina a Jill. A parte Khondji, i componenti della squadra di ripresa non avevano mai lavorato con Woody prima di questo film, ma ognuno di loro conosce e apprezza la sua sensibilità. Dice Faith Brewer, l’assistente di fotografia, mentre fervono i preparativi: «Woody ha creato uno stile. I suoi totali durano molto tempo e possono metterti a disagio, il che è un bene, perché così non sei tu ad avere il controllo di ciò che sta succedendo; ma è lui ad avere il controllo su di te. Senti che dovrebbe accadere qualcosa ma sei soltanto un semplice spettatore. Per esempio, in Match Point, quell’inquadratura dove Jonathan Rhys-Meyers è seduto al tavolo in silenzio mentre tutti gli altri parlano, e noi sappiamo che lui è un assassino. Una scelta simile porta il pubblico a concentrarsi sull’intenzione dietro la storia». In un secondo momento, Khondji spiegherà che questa scena presentava diversi elementi supplementari di cui doveva tenere conto. «Avevamo queste due attrici, e avevamo due diverse preoccupazioni. Al cinema le attrici devono essere sempre belle, in ogni possibile circostanza. Sono pochissimi i casi in cui non vogliamo che lo siano. Penso che Woody si sia fatto quest’immagine immacolata di Emma e che voglia preservarla. Secondo me la utilizza non soltanto per il suo incredibile talento – credo sia una delle attrici migliori con cui

io abbia mai lavorato – ma perché vuole renderla bellissima in tutte le situazioni. Alcune attrici le vuoi far sembrare brutte o “rovinate”, ma anche quando il personaggio che interpreta è in difficoltà, quando piange ed è molto arrabbiato, noi vogliamo sempre mostrarla al meglio. Quindi ci lavoriamo in continuazione. Quando Woody sa che stiamo illuminando la protagonista, è sempre molto disponibile. Tutti i grandi registi con cui lavoro sono così.» Woody spiega a Jill e Rita come debbano muoversi e mentre se ne va dice, facendole sorridere, «Starò al monitor così posso cronometrare i vostri errori». Nel primo ciak Rita cambia lievemente una battuta; la modifica funziona, e il dialogo viene recitato così nei ciak seguenti. Nella sceneggiatura, il film si apre con un montage di varie inquadrature che presenta il luogo in cui si svolgerà l’azione. Col passare dei giorni, però, i luoghi più pittoreschi del campus vengono utilizzati, e Woody si ritrova a dover cercare tre nuove inquadrature per il montage, per ora senza molta fortuna. Khondji suggerisce che, visto che il campus si estende fino all’oceano, una delle inquadrature potrebbe mostrare il mare aperto, ma Woody risponde, «È molto graziosa ma non dice niente, non ha un legame con gli edifici del college». Khondji prova a pensare a un’inquadratura panoramica che dal mare si spinga sul retro dell’edificio che ospita l’amministrazione del college, e che, visto di fronte, è un elegante palazzo in pietra rossa risalente alla cosiddetta Gilded Age (1870-1900 circa), mentre visto dal retro ha un aspetto monolitico e – con le tendine abbassate – sembra uscito da un quadro di Edward Hopper. Woody ci pensa su un attimo, poi dice, «A voi non fa venire in mente un ospedale psichiatrico?». La troupe addetta ai sopralluoghi ride, e ride anche Khondji, che dice, «Stavo cercando di non pensarci». Il giorno dopo, il problema non è ancora risolto. Alle 8.00 del mattino Woody si esercita al clarinetto sul sedile posteriore

della Chevrolet mentre fervono i preparativi per la scena 100. Abe dà a Jill le poesie che ha scritto per lei, in quello che la sceneggiatura definisce «un posticino romantico», e che in questo caso è un pergolato coperto di rampicanti. Quando Woody esce dall’auto, Helen Robin lo saluta e gli suggerisce che all’inizio del film potremmo vedere Abe che guida alla volta di Newport sul ponte sospeso di Claiborne Pell, quello attraversa lo East Passage della baia di Narragansett. A Woody l’idea piace subito, e dice, senza esitazioni, che già immagina tre inquadrature. Questo aggiungerà almeno mezza giornata al piano di lavorazione, e costerà almeno 85 000 dollari.

Woody si esercita al clarinetto ogni giorno. A volte, quando una scena richiede lunghi tempi di preparazione, Woody si esercita nell’automobile che lo porta dal set a casa e viceversa, tenendo alzati i finestrini per non farsi sentire.

Il grosso della giornata viene passato a un isolato di distanza, per tre scene che si girano all’interno dell’Athenaeum, la biblioteca di Providence: una gemma di architettura neogreca, che, se si esclude un computer sulla scrivania del bibliotecario e le luci appese al soffitto tramite lunghi cavi, non sembra essere affatto cambiata da quando fu costruita nel 1838.

La dozzina abbondante di lampade a ioduri di mercurio sistemata sul tetto della biblioteca brilla nella stanza attraverso il lucernario opaco. Tutto questo serve per la scena 67a, in cui Abe cammina tra gli scaffali della biblioteca e poi si infila in una nicchia in cerca di un libro sui veleni. La luce che filtra in questa nicchia è stata ridotta molte volte, in modo da sembrare leggera e naturale. L’azione si svolge sia nella biblioteca sia in casa di Abe. Viene girata senza il sonoro, e deve durare in tutto trentotto secondi, che corrispondono alla narrazione fuori campo di Abe. ABE (F.C.) Avevo ragione a pensare che l’omicidio sarebbe stato un atto di creatività. Era una sfida artistica pensare a come eliminare Spangler e farlo alla perfezione. Soppesate tutte le opzioni, arrivai alla conclusione che l’unico modo in cui potevo sperare di farla franca era avvelenarlo. Facendo attenzione a non lasciare tracce sul mio computer, feci ricerche su tutti i veleni, e capii perché il cianuro fosse diventato un cliché popolare per scrittori di gialli e spie. Il cianuro è rapido e indolore. STACCO SU: INT. NOTTE – CASA DI ABE (Abe guarda Rita che mette le chiavi dentro la sua borsetta.) ABE (F.C.) E mentre sarebbe stato impossibile ottenerlo legalmente, io sapevo dove l’avrei trovato senza compilare alcun modulo. Ogni singolo passo del procedimento era rischioso, e, devo ammetterlo, elettrizzante.

Gli scaffali della biblioteca sono bagnati da un’intensa luce marrone con sfumature dorate. L’inquadratura comincia con Abe, ripreso a figura intera, mentre entra in campo da sinistra, poi cammina verso la macchina da presa, si gira verso la nicchia, e prende i libri. Durante un ciak si va quasi fuori fuoco mentre Abe volta l’angolo. Woody dice di stampare lo stesso il ciak; a lui non dà fastidio. Si preoccupa solo che, a giudicare da come la si vede sul monitor, l’inquadratura sia troppo scura: «Non voglio che abbia un’aria sinistra». (L’oscurità, tuttavia, non dipende da come è stata girata la scena: basterà alzare il livello di luminosità del monitor.) La scena 26 ha per protagonisti Jill e Roy, che si trovano all’Athenaeum in un momento precedente del film: Jill vuole

parlare di Abe, e Roy non ne vuole sapere. A giugno, quando Woody aveva visitato la location, aveva pensato che se avesse ripreso i due ragazzi seduti a una scrivania dall’alto, da un’apertura su una balconata al secondo piano, l’inquadratura sarebbe risultata «molto hitchcockiana». Ripensandoci oggi, invece, Woody dice, «Non ci trovo niente», e quindi fa sistemare gli attori accanto a una nicchia nella sala di lettura principale. JILL Ho avuto una conversazione eccezionale con Abe Lucas, è un tipo molto intenso. ROY Uh-huh. JILL Ha detto che il mio saggio era ben presentato e originale. ROY Oddio, vedo già come andrà a finire. JILL Oh, piantala, per favore. È affascinante perché è un uomo geniale, ma soffre. ROY Perfetto, tu sei sempre attratta da chi soffre. Noi ci siamo incontrati così. JILL Lui soffre sul serio, Roy, tu avevi l’herpes. È rimasto traumatizzato quando il suo migliore amico è stato ucciso in Iraq. Era un giornalista, una cosa orribile. ROY Gli hanno tagliato la testa, no? JILL Tagliato la testa? No. Un’esplosione. Dio, è da pazzi come la gente ricama su queste storie. Secondo Abe le persone costruiscono drammi per poter continuare a vivere le loro vite vuote. ROY Secondo Abe… Senti, possiamo lasciar perdere Abe Lucas, per favore? Non fai che tessere le sue lodi da almeno mezz’ora. JILL Beh, posso tessere le tue? ROY Sì, sì.

JILL Mi piaci con quel pullover. ROY Certo che ti piaccio, sei stata tu a comprarmelo. JILL Beh, sei un gran figo con questo colore. Lo sai che la madre di Abe si è suicidata? ROY Abe? Ancora? JILL Te lo immagini? Lui aveva dodici anni. Ha bevuto varechina. Che tristezza. Abe è affascinante e sa nascondere la rabbia, ma poi gli viene fuori. ROY Qualcuno mi aiuti.

Su un piedistallo accanto alla nicchia c’è il busto del grande autore horror H.P. Lovecraft; il dettaglio sembrerebbe a dir poco bizzarro, se lo scrittore non fosse stato nativo di Providence. Woody vuole che Jill e Roy si muovano nello spazio in maniera che le loro battute migliori siano dette vicino alla macchina da presa, e che la parte più intima della scena si svolga all’interno della nicchia, il luogo più intimo della sala. All’inizio della scena Roy cerca un libro sugli scaffali. Woody dice a Roy: «Non sei arrabbiato, ma un po’ infastidito; vorresti che Jill la piantasse». E a Jill dice: «Sei indifferente alle lamentele di Roy». Woody sta alle spalle dei due attori mentre provano i loro movimenti, e con la mano sinistra mima la presenza della macchina da presa mentre decide come e dove farli spostare. A Jill: «Dì la tua battuta». A Roy: «Adesso arrivi tu». Si scambiano i posti. Roy si avvicina a Jill, poi torna indietro. Woody studia nuovi incroci. A Khondji dice, «Parti su di lei, prendi anche lui con il campo lungo», poi si appoggia alla base del busto di Lovecraft e accenna una posa noncurante. Gli attori ridono. Woody dice

a Stone, «Ti ci puoi appoggiare anche tu o ti fa schifo?». Stone lo imita, con la testa lievemente girata. A quel punto Woody dice, «Se fossi in te mostrerei bene la faccia alla macchina da presa». Poi aggiunge, «Vedetevela voi». Stone propone di cambiare ordine alle mosse suggerite da Woody – lei farà quelle di Blackley e lui le sue, e la cosa funziona alla perfezione. La scena viene girata in un totale. La cantina dell’Athenaeum ha delle finestre che affacciano sul parco al livello della strada. Senza troppi problemi, la stanza è stata trasformata nell’aula docenti del college: Loquasto ha dovuto soltanto aggiungere «luci su luci» agli scaffali e allacciare alla corrente alcune lampade da tavolo, oltre a dare una mano di pittura alle pareti. Nella stanza c’erano già diversi tavoli da biblioteca, uno dei quali verrà usato per la riunione. «Il fatto di creare vari strati di luce negli spazi angusti deriva da Gordon Willis e dal suo senso della composizione della scena», spiega. «Gordon ha insegnato molto a Woody sull’architettura degli oggetti in primo piano.» Nella scena 79, Abe scambia il suo contenitore di succo con quello del giudice Spangler mentre l’uomo siede su una panchina del parco dopo aver fatto la sua solita corsa del sabato mattina. Poi Abe se ne va senza farsi notare. La sua malsana teoria filosofica riguardo al rendere il mondo un posto migliore si è trasformata in una tragica realtà. Adesso, nella scena 80, Abe partecipa a un consiglio docenti dell’università (uno dei professori è interpretato da Maurice Sonnenberg, un amico di Woody che spesso compare nei suoi film), e la monotonia dell’incontro è in netto contrasto con la terribile azione che lui ha appena commesso. ABE (F.C.) Nessuno mi vide lasciare il parco. Non riuscii a vedere Spangler bere il succo d’arancia, e anche se tentai di essere concentrato al consiglio dei docenti, la mia mente era lontana. (La riunione è in corso. Qui vanno improvvisate varie osservazioni sui corsi offerti dalla scuola, le immagini accompagneranno la narrazione fuori campo. Poi

sentiamo un frammento di conversazione che coglie Abe sovrappensiero.) KEVIN Tu che dici, Abe? È buffa? ABE Cosa? KEVIN Cosa pensi della battuta di Greenberg? ABE La battuta?… KEVIN Tre urrà per la vecchia Alma Mahler. Carina, no? L’hai capita?

Gli attori che interpretano il collegio docenti devono reagire alla battuta di Kevin con risate e cenni del capo. «Vi state divertendo, quindi vi viene naturale», Woody li istruisce. Il primo ciak viene interrotto quasi subito: è passato troppo tempo prima che l’altra persona dicesse la sua battuta («troppo tempo» qui significa, letteralmente, meno di un decimo di secondo), e ciò che segue è una lezione magistrale sulla comicità. Woody recita le battute alla velocità con cui vuole che le recitino gli attori: «Non l’hai capita? Abe, oggi perdi i colpi». Ci provano di nuovo, ma anche qui, una minima pausa tra una battuta e l’altra rovina il ritmo, e spinge Woody a interrompere il secondo ciak. Woody si avvicina all’attore e gli ripete di nuovo quello che deve dire: «Cosa pensi della battuta di Greenberg? Tre urrà…». Ma anche il terzo ciak è un nulla di fatto. «Non devi prendere fiato tra “la sua battuta” e “tre urrà”. E non c’è nessuna pausa dopo», strilla Woody. Il quarto ciak viene stampato, ma il quinto e il sesto vengono interrotti a metà. «Niente pause!», grida. «Niente pause! Scordatele! Devi andare avanti!» Dopo il sesto ciak: «Non puoi aspettare la risposta! Imponiti!». Il settimo ciak porta fortuna: «Questo era molto meglio. Un altro e ci siamo». Mentre la macchina da presa parte, Woody grida, «Tutti pronti!». Ma anche questo ciak viene tagliato. «Niente pause, deve essere un tutto unico! Non aspettare Abe.» Il nono e il decimo ciak non contengono

tempi morti, ed entrambi vengono stampati. La lezione è finita. Per tenere alto il ritmo della storia, Woody taglierà la scena al montaggio. Questa e altre scene in cui Woody ha spinto gli attori a recitare usando toni più colloquiali, è un buon esempio del perché spesso i comici sono ottimi attori. Per conquistare il pubblico devono sembrare del tutto naturali, e questo è difficile. «Il cabaret è una cosa estenuante», parla per esperienza personale. «Stai lì da solo sul palco e devi far ridere la gente di nuovo, e poi di nuovo, per un’ora, una risata dopo l’altra. È molto dura. Ti stai rivolgendo direttamente al pubblico, e quelle persone non sono spettatori di una pièce teatrale, come quando sei sul palco e stai avendo una conversazione brillante con Tony Roberts o Diane Keaton; stai parlando col pubblico, stai creando un legame con loro. È una dinamica totalmente diversa rispetto alla recitazione, ed è più faticosa. I comici se la cavano bene quando hanno un appuntamento con una ragazza. Mi ricordo quando, nella mia tarda adolescenza, ho visto Lunatics and Lovers [1954], la commedia teatrale di Sidney Kingsley, a Broadway. Avevano assegnato una parte importante a Buddy Hackett, che era un comico di grana grossa, e lui [schiocca le dita] ha subito vinto un premio per il miglior debutto. Era bravissimo, ce l’aveva nel sangue. Alan King sapeva recitare. Hanno fatto fare dei film a Red Buttons e lui ha vinto l’Oscar per Sayonara [1957]. Ed Wynn era molto bravo al cinema. [Venne candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista per Il diario di Anna Frank, 1959.] E poi naturalmente c’erano Bob Hope e [Jackie] Gleason e Charlie Chaplin: tutti attori di prim’ordine. Essere un cabarettista è più difficile. Se sai fare cabaret, ci sono buone probabilità che tu possa essere un bravo attore.» Forse a questo punto è già evidente che lo stile di Woody come regista si può riassumere in due parole: «Rendilo

naturale». Parlando degli attori in tutti i film che ha diretto, e non di quelli con cui sta lavorando ora, dice, «È lì che sbagliano. Se il dialogo risulta naturale, allora va tutto bene. Altrimenti suona sempre falso o troppo impostato. Anche certi attori molto bravi fanno un ciak e a me tocca dirgli qualche cosa». Fa l’esempio di una battuta, all’interno di un lungo dialogo, su cui di recente ha incespicato un attore con un ruolo minore. «Andava tutto benissimo tranne per quella singola frase che non mi suonava vera. Suonava come se venisse detta in un certo modo perché era così che io avevo suggerito di dirla. Così ho avvisato l’attore e lui ha detto, “Oh, okay, ho capito”, e al ciak seguente sembrava già più vera. Ma bisogna che suoni sempre come qualcosa che sta dicendo una persona reale, altrimenti si nota che l’attore sta recitando. A volte dico, “Non mi importa che usiate le mie parole. Non so che dirvi, dovete arrivarci voi. Non posso farlo io”. A volte gli attori ci arrivano subito, altre volte invece c’è bisogno che io dica una cosa del tipo, “Sarebbe stato perfetto se solo tu non avessi aspettato tanto a lungo prima di parlare, o se non fossi stato tanto arrabbiato quando sei entrato in scena”.» L’importante è che il pubblico sappia cosa sta comunicando un dialogo, non come lo si recita. «Se suona artificioso», aggiunge Woody, «non mi piace adesso e non mi piacerà dopo. «Questo è uno dei problemi di quando io recito una battuta per gli attori. Se non riescono a fare una scena, vado da loro e gli dico la battuta, e loro sono sempre sconvolti da quanto l’ho detta bene. Ma io non la sto dicendo bene perché sono un attore più bravo di Joaquin; non riuscirei a stargli dietro due secondi. È solo che l’ho scritta io, quindi l’ho fatto usando il mio ritmo, il mio linguaggio. Quando correggevo Sam Shepard durante le riprese di Settembre, gli dicevo, “Il tono è più simile a questo”. E lui mi rispondeva, “Sì, ma se dico la battuta così suona troppo ebrea”. [Woody ride di cuore.] E aveva ragione lui al cento percento. All’epoca non lo capivo. Quindi Joaquin o Emma magari pensano, “Dio, è bravissimo,

sa dire così bene le sue battute e il suo materiale, vorrei saperlo fare anch’io così bene”. Ma il punto non è quello. Joaquin è cento volte più bravo di me. È solo che io dico una battuta come voglio sentirla, l’unica differenza sta lì. A me suona meglio, ma è solo più simile a come l’avevo immaginata io.» Sam Shepard è uno dei pochissimi attori che dopo aver lavorato con Woody è sembrato apertamente critico nei suoi confronti. In un’intervista ad “Esquire” del 1988 ha dichiarato che Woody e Robert Altman, «sono pessimi con gli attori. Saranno anche cineasti dotati, ma non hanno alcun rispetto degli attori. Nessuno dei due sa nulla in fatto di recitazione. Allen ne sa anche meno di Altman, e Altman ne sa zero». Ciò che intendeva Shepard, come avrebbe chiarito parlando col giornalista Mitchell Zuckoff per il libro Robert Altman: The Oral Biography (2009), era questo: «Sono stato in larga parte viziato dall’aver lavorato a teatro, con grandi registi che conoscono davvero gli attori… che hanno un dialogo con loro, che alle prove riservano settimane. Nel cinema questo lusso non esiste. Questa gente vuole fare film. E magari è bravissima col casting, trova gli attori perfetti per le parti. Quegli attori sanno recitare, e loro lo sanno bene. Ma non c’è nessun dialogo, nessuna discussione. È tutto un, “Giriamo”. Stanno facendo un film! Si concentrano sulla macchina da presa, sulle luci, sul set, su ciò che finirà sulla pellicola. A loro non interessa come l’attore stia approcciando il personaggio e quali aspetti stia investigando, niente del genere. Né Altman né Allen se ne starebbero a lavorare su un personaggio insieme all’attore per sei o otto settimane. Non c’è proprio il modo… Certo io non lo intendevo come un insulto. Era solo la mia impressione, legata soprattutto alla differenza tra il cinema e il teatro». Dopo la fine del film, l’attore ha regalato al regista alcuni rari album di Sidney Bechet che stavano nella collezione di

dischi del padre, e Woody dice, «Personalmente Sam mi è sempre piaciuto, e mi piace ancora». Come sottolinea Emma Stone, anche se Woody dice sempre agli attori di recitare usando le loro parole e non le sue, questo non è sempre facile. «Woody scrive talmente bene che io sto malissimo quando mi innervosisco e sbaglio le sue battute. La cosa che vuoi di più al mondo è recitare le sue parole. Ecco perché è così strano quando Woody viene da te e ti dice, “Al diavolo le mie parole, non ti preoccupare del mio dialogo. Inventati qualcosa di meglio, quello che ho scritto io è spazzatura” – cosa che non è mai vera. Al limite vorresti sfoltire un po’ il dialogo o riformulare una frase perché ti suona un po’ troppo estranea, ma succede molto di rado che una battuta non sia proprio come dovrebbe essere. Questo ti dà una libertà enorme. La libertà che vedevo sempre in Diane Keaton nei film di Woody. Lei è una delle mie attrici preferite perché, sia che interpreti un’intellettuale fredda in Manhattan sia una versione di se stessa in Io e Annie, il modo in cui si combinano l’uno con l’altro, l’elettricità che scorre tra di loro, lei sapeva azzeccare tutti tempi delle sue battute e capiva il suo stile. Penso che in un rapporto di lavoro creativo ci sia sempre un qualche tipo di comunicazione intangibile. C’è qualcosa con cui io mi identifico nel modo in cui Woody racconta le storie, nei suoi dialoghi e nei suoi personaggi.» Mentre le riprese arrivano agli ultimi dieci giorni, si stanno accumulando sempre più scene previste per i giorni precedenti ma che per qualche motivo non sono mai state girate. Ci sono sette scene di esterni tratte da diverse parti della sceneggiatura (scene 3, 4, 31, 84, 92 e 137) che devono essere girate in un solo giorno in zone diverse del campus: una ha due pagine di dialogo, due si assestano su una pagina ciascuna, e una, anche se è lunga soltanto una pagina, è l’ultima scena del film, e per giunta è una lunga carrellata. Le previsioni meteo sono favorevoli: nuvolosità in mattinata, possibili precipitazioni nel pomeriggio, sole verso il tramonto, quando servirà la luce

dorata dell’ora magica. La scena più importante della mattinata è la 92: Abe incontra per caso Rita nel campus. Mentre i due parlano e camminano, Jill chiama Abe da una ventina di metri di distanza e si affretta a raggiungerlo per raccontargli l’ultima novità: la polizia ha annunciato che il giudice non è morto per arresto cardiaco; è stato assassinato. Dopo qualche battuta, Rita se ne va e Abe e Jill si incamminano verso il punto da cui lei era entrata in scena. La troupe è arrivata sul set alle 6.30 per preparare la scena mattutina, ma al posto delle nuvole, che avrebbero reso uniforme la luce, c’è un sole splendente, e non ci sono palloni per coprirlo. A questo punto arrivano le nuvole, ma continuano ad andarsene, e le ultime previsioni del tempo danno coperto con il cinquanta percento di possibilità di pioggia. Khondji consulta un’app che mostra l’arco solare relativo alla giornata, così che le scene possano essere preparate e girate al momento migliore. Woody avrebbe dovuto essere sul set alle 7.00, invece si presenta alle 7.20. Tamberi gli porge gli stralci del giorno. «Ah, le parole», dice lui, e poi si guarda attorno come un passante che sia capitato lì per caso. «Dov’è il film?» Chiede a McCarthy qual è l’ultima scena prima di questa: è quella in cui Abe guarda Jill impegnata nella sua lezione di pianoforte. Woody fa sempre questa domanda perché non vuole staccare, per esempio, da Abe in classe che dice, «Quindi questo è il tema esistenziale della storia, e per domani…» ad Abe che beve una tazza di caffè in un ristorante, «perché non sarebbe bello da vedere». Woody presta molta attenzione a una cosa: se deve sbagliare, meglio farlo per un eccesso di esterni. Come molti registi, cerca di non passare da un interno a un altro interno, ben sapendo che in certe situazioni è necessario, ma si sforza di girare quanto più film possibile all’aperto. Cerca anche di alternare il formato delle inquadrature, in modo da non dover staccare, per dire, da un campo lunghissimo a un altro campo lunghissimo. «Penso a tutte queste cose quando

giro, e anche quando scrivo», dice. «Magari non ho ancora la location, ma so che voglio qualcosa in esterni.» Girare in esterni di solito gli piace, ma di certo non questa mattina, con la luce che si comporta in modo così bizzarro. Cambia troppo e troppo in fretta perché si possa girare qualcosa che piaccia a Woody, allora la troupe fa quello che fa sempre lui quando non ha la luce che desidera: aspetta. Alcuni dei tecnici più giovani, che non avevano mai lavorato con lui, si stupiscono nel vedere quanto tempo passi senza che si giri nulla, ma questo non è niente rispetto ai quattro mesi di attesa per una scena in Accordi e disaccordi. A volte una troupe riesce a inseguire la luce e a girare al volo; in altri casi, come adesso, l’unica è aspettare che sia la luce a trovare la troupe. «Giriamo quando c’è la luce giusta, e se questa non c’è, non giriamo», dice Woody, facendo spallucce. «E se ci vuole più tempo per fare il film, se costa di più e sforiamo il budget, ci metto i soldi di tasca mia. Sforiamo il budget quasi sempre, ma voi vedete tutta quella bellezza. Alla fine provo un certo orgoglio. Guardi Magic in the Moonlight e dici, “Dio, è tutto bellissimo”. E sì, certo, è tutto bellissimo perché noi giravamo alle sei, alle sette di pomeriggio, e ce ne stavamo seduti a girarci i pollici tra le tre e le sei, cercando un punto all’ombra per girare un dettaglio, oppure spostandoci in un interno. E se non c’è niente da fare, aspettiamo.» Una scena in esterni con due attori è già abbastanza complicata da illuminare, ma una dove ci sono tre attori che hanno bisogno ciascuno di una luce diversa è davvero difficile, spiega Khondji, mentre cerca di adeguarsi alle mutevoli condizioni del tempo. «Joaquin ha due luci specifiche per il suo viso. Ce n’è una che scende dall’alto sopra la sua testa, come se lui fosse una statua, o un imperatore romano. Ha un gran bel viso. La luce dall’alto gli dona moltissimo; a una determinata altezza, però. Se si sale troppo il discorso cambia. Ma se lo illumini

dall’altezza giusta Joaquin diventa come un dio. E poi c’è la penombra, che rivela la doppiezza del suo personaggio. Ora, quando hai Joaquin che sta tra Emma e Parker, diventa difficile. Emma ha bisogno di una luce molto specifica: dev’essere illuminata in maniera uniforme, molto delicata e semplice, e da un’altezza leggermente superiore. La luce su Emma dev’essere molto pura. Non la si può illuminare da dietro le spalle, o con altre sorgenti di luce che normalmente si trovano in natura. La natura è fatta di luce riflessa e della luce che arriva dal cielo. Per rendere Emma estremamente bella, devi inondarle il viso con una luce pura. Anche quella di Parker è luce pura, una luce molto semplice ed elegante. Quindi abbiamo tre persone e una luce diversa per ognuna di loro.» Il problema è che la luce naturale che Khondji sta cercando di raggirare non collabora affatto. Se il budget lo permettesse, la troupe avrebbe a disposizione i palloni sospesi molto più spesso. L’inquadratura parte su Abe e Rita, poi la macchina da presa fa una panoramica a sinistra fino a Jill, che chiama Abe da lontano, e poi torna verso destra mentre lei si avvicina alla coppia. Rita esce dal campo a sinistra mentre Abe e Jill s’incamminano allontanandosi dalla macchina da presa, verso il punto da cui Jill è partita. Si tentano un paio di ciak, ma non sono buoni. Il sonoro è disturbato dal canto di un uccello e il sole è troppo forte per la macchina da presa; nel terzo ciak, poi, la luce cambia tutta nel bel mezzo della scena, che dura quasi due minuti. Mentre aspettano di poter ricominciare, i tre attori parlano di altri film. Posey dice qualcosa a proposito di Babe, maialino coraggioso (1995). Woody la sente mentre si avvicina a loro e dice, «Ah, sì, Babe. Lo davano in un doppio spettacolo con La grande illusione». Intorno alle 9.00 si decide di accantonare questa scena e di passare alla scena 4 (tre studentesse sedute su una panchina

sotto un albero – l’albero filtrerà la luce – che commentano la notizia del prossimo arrivo di Abe al Braylin College; le scene 2 e 3 sono brevi reazioni da parte dei professori del campus). Khondji lascia la macchina da presa in posizione per la scena 92, in attesa di condizioni atmosferiche più propizie, e fa preparare una seconda macchina da presa per filmare le studentesse. Però, proprio quando la scena 4 sarebbe pronta, tornano le nuvole. Tutti quanti si precipitano di nuovo in posizione per la scena 92, ma durante ogni ciak c’è un momento in cui spunta il sole. Poi il cielo si libera del tutto. L’app del meteo dice che passeranno almeno venti minuti senza altre nuvole in vista, quindi la troupe arranca di nuovo lungo la sessantina di metri che li separa dalla location della scena 4. Woody parla alle tre ragazze, che hanno soltanto questa scena da girare. «Parlate una sull’altra, sovrapponetevi. Deve sembrare una vera conversazione. Non preoccupatevi delle battute della sceneggiatura, basta che diate tutte le informazioni.» Il primo ciak viene interrotto, ma a Woody piace la naturalezza con cui le ragazze parlano. «Andava bene… Avete capito molto bene l’idea. State andando bene, non ho niente da aggiungere.» Una delle ragazze dice, «Andremo fuori di testa». «Non andate fuori di testa», risponde lui. «È l’unica cosa che non potete fare.» Le ragazze ridono, poi eseguono i due ciak seguenti alla perfezione. Ci sono voluti meno di cinque minuti tra il primo ciak e il «controllo del finestrino». «Siete state grandi, assolutamente splendide», si complimenta Woody. «Aspettatevi un extra nella busta paga.» Sarebbe bello se tutte le scene fossero così facili, ma oggi nessun’altra lo è. Sono le 15.00 passate quando terminano la 92. Questa è l’ultima scena di Posey, e alla fine Rigby, come

da tradizione quando un attore sta per lasciare il set, annuncia, «Signore e signori, Parker Posey!». La troupe applaude, seguono abbracci e strette di mano, e Woody si avvicina all’attrice per ringraziarla a tu per tu. In questi momenti, lui è sempre molto trattenuto, ma sul viso dell’attore compare sempre un sorriso e uno sguardo riconoscente. «Ha schivato un abbraccio da parte mia dicendo che aveva l’ebola», ha dirà Parker in un secondo momento, «e mi ha ringraziato per la mia interpretazione. Mi ha detto che avevo recitato le battute come lui le aveva scritte e sentite nella sua testa, e poi ha aggiunto, “Adesso i tuoi genitori possono essere fieri di te”.» Alle 18.00 passate resta solo da girare la scena 137. Ma questa, ahinoi, non può cominciare: il sole è ancora abbastanza alto da gettare una luce brillante sulle foglie degli alberi, col risultato di alterarne i colori. Il tramonto è previsto per le 19.57. Ci sarà una finestra di circa quaranta minuti prima che la luce passi da ideale a inutilizzabile. La 137 è l’ultima scena del film, e perché funzioni deve tirare le somme della storia con eleganza. La scena in sé è piuttosto semplice: Jill e Roy sono tornati insieme. Sembrano rilassati, dopo l’alta tensione della scena precedente. Passeggiano tra un enorme salice piangente e un ampio prato del campus, e poi spariscono in un raggruppamento di alberi con rami e foglie che arrivano a toccare il terreno. La scena, che dura poco meno di 50 secondi, dev’essere romantica e deve dare un senso di conclusione alla storia. Quindici metri di pista per il carrello vengono sistemati a terra in modo che la macchina da presa possa seguire Jill e Roy mentre parlano e camminano. Ciascuno di loro ha quattro battute, che ripercorrono gli eventi del film. La scena termina con Jill che smette di parlare di ciò che può essere accaduto e comincia a parlare di ciò che può accadere ora: JILL

Questo non è il momento o il luogo per iniziare una discussione filosofica. ROY Di solito tu ami le discussioni filosofiche. JILL Andiamocene via da tutta questa gente e seguiamo l’istinto. ROY C’è un sacco di gente in giro. JILL (lo attira tra gli alberi) La vita è rischio.

Niente va per il verso giusto. Dopo i primi due ciak, Woody dice agli attori di non eliminare le ultime due battute. Dopo sette ciak ancora non ne ha fatto stampare uno. La luce è bella, ma sta cominciando a svanire. Woody e Khondji si consultano dopo ogni ciak. Alla fine Khondji propone di far muovere gli attori in modo tale che Jill e Roy non partano da sotto l’albero, ma dall’ampio prato, passeggino tra i rami dell’albero, e poi attraversino il terreno aperto fino a scomparire tra il fogliame degli altri alberi. A Woody l’idea piace: ha l’effetto di “aprire” la scena e di darle un senso di commiato. Il primo ciak sembra promettente. Woody dice a Jill, «Soffermati sulla parola “istinti”». Si batte una dozzina di ciak da questa nuova angolazione, di cui sei vengono stampati. La luce è calata in maniera considerevole, ma la pellicola è tanto sensibile che il colore saturerà comunque lo schermo. Woody, però, è ancora scontento: c’è qualcosa che non va, ma non riesce a capire cosa. Fa registrare al tecnico del suono una traccia audio volante dell’ultima battuta di Jill, soltanto la sua voce senza immagini, che potrebbe rivelarsi utile in sede di montaggio. Regista e attrice stanno uno di fronte all’altra, e Woody le chiede di ripetere dopo di lui: «Dimentichiamoci la filosofia e seguiamo l’istinto». «Seguiamo l’istinto.» «Seguiamo l’istinto», dice lui, di nuovo.

«Seguiamo l’istinto», dice lei, imitando la sua cadenza. Woody manda a casa la troupe proprio mentre sta calando il crepuscolo. «Aveva un problema con l’ideazione dell’inquadratura, e non riusciva a trovare la grana esatta del materiale», dirà Khondji il giorno seguente. «Ne abbiamo parlato. A volte la soluzione la trova lui, oppure io, o qualcuno della troupe, e ieri è capitato a me. Io uso sempre qualcosa che dice lui. Quando ascolti i registi, alcuni dicono molto, alcuni molto poco. Woody dice molto poco e non spiega granché, ma quando lavori con lui, più spesso che no riesci a capire cosa devi fare. Ieri non percepiva cosa ci fosse di sbagliato. È stato un momento difficile, non riuscivamo a trovare la posizione della macchina da presa, l’inquadratura, o i movimenti degli attori. A volte sei come cieco, non hai nessuna risposta, sei bloccato, e lo siamo tutti. E io ci sto male perché non posso aiutare. È una bruttissima sensazione. E poi ho intercettato una sua frase a proposito degli “attraversamenti incidentali”, e l’ho sottolineato come se stessi leggendo un libro con la matita in mano: l’albero li incornicia mentre loro lo attraversano e poi escono allo scoperto diretti verso un altro albero. L’ho anche ascoltato dire, “Potrebbero arrivare dal campo, ma da un’altra direzione”. Allora mi sono limitato a dirglielo a mia volta, invece di ammettere, “Okay, non abbiamo una soluzione, gireremo un altro giorno”. Ma qui siamo a corto di giorni. «Stavo usando una pellicola da giorno, che ho usato per tutte le riprese diurne in esterni del film. È adatta alla luce bassa, che ha un bel tocco e conferisce un tono molto bello alla pelle. Le immagini risultano molto reali, molto organiche. Ha anche un aspetto spontaneo e la si può manipolare molto facilmente, come fa uno scultore con la creta. Ricordo che stavamo visionando gli ultimi ciak e Woody ha chiesto se potevamo continuare a girare perché sentiva che la luce stava

svanendo. Woody ha una grande sensibilità per la luce. Il suo non è un talento tecnico, è più simile a un’intuizione.» La luce che passava nella macchina da presa era molto migliore di quanto lo fosse a occhio nudo, e Khondji ha commentato così, «Siamo fortunati a usare la pellicola invece di girare in digitale. Il digitale crea la luce dove non ce n’è, e devi continuamente abbassare la luce. Quando illumini una scena, immagina che siamo qui dentro, vicino a una grande finestra con una luce naturale molto delicata, c’è comunque un po’ di controluce e dentro non si vedono i dettagli. Qui ci mettiamo una piccola fonte di luce che viene dall’alto. Quando usi il digitale sistemi un pezzo di tela bianca e subito il nero prende vita. Questi sono i lati positivi del digitale. Ora come ora io voglio girare soltanto in pellicola perché non durerà tanto a lungo. Mi piace sviluppare la pellicola, mi piace il rischio che comporta, mi piace la sensazione del lasciare che siano il tuo cervello e le tue emozioni a dirti come procedere. Nel digitale queste cose non le hai. Lo guardi su uno schermo e ciò che vedi è quello che sarà. Lo sa fare il primo cretino che passa per strada». Khondji e la sua squadra stanno utilizzando tre diversi tipi di pellicola: di solito usano la Kodak 5219 500 al tungsteno, perché è la più sensibile alla luce, ma ogni tanto usano anche la Kodak 5213 200 al tungsteno, e la Kodak 5203 50 per la luce del giorno. Quest’ultima viene usata negli esterni perché, una volta sviluppata, vira al blu; dato che le luci incandescenti tendono all’arancione, la pellicola e la luce artificiale si compensano a vicenda, dando come risultato un tono neutro. La pellicola costa circa un dollaro ogni trenta centimetri, compresi i costi di laboratorio e il trasferimento video: mille dollari per un rullo da trecento metri, che corrisponde a una decina di minuti di visione. Di solito si gira a ventiquattro fotogrammi al secondo: quasi mezzo metro di pellicola. Questa velocità è stata stabilita con l’avvento del cinema sonoro. La pellicola usata a quei tempi non era abbastanza

sensibile per una velocità maggiore, e rallentare significava indebolire troppo il suono. Per ottenere l’effetto rallenty servono più fotogrammi al secondo, mentre per velocizzare ne servono di meno. Durante le riprese di questo film verranno usati oltre duecento rulli, ma visto che non si utilizza ogni singolo centimetro di pellicola in un rullo, ne verranno girati circa 45 000 metri – circa 1600 metri al giorno. Non è nemmeno tanto, per gli standard attuali. Woody è arrivato alle sue conclusioni rispetto a ieri sera. «Beh, è stata quasi tutta colpa mia», dice mentre aspetta che venga illuminata la scena 128 (Roy e Jill si riconciliano in una caffetteria). «Avevo pensato a un’inquadratura, ma quando l’ho vista con gli attori in carne e ossa, sembrava troppo forzata, sdolcinata e artificiale. Non mi piaceva la messa in scena, stavamo perdendo la luce e ci eravamo incartati. E poi gli attori hanno sbagliato un paio di ciak, tutto nella norma, e hanno avuto bisogno di aiuto, ma la colpa era quasi tutta mia. Abbiamo fatto un paio di tentativi, i miei erano tutti pessimi, li ho interrotti subito. Avevo la sensazione che se gli attori non si fossero subito diretti verso l’albero ma ci fossero arrivati quasi di sfuggita sarebbe stato meglio. Poi Darius ha avuto un’idea ottima, farli entrare in scena dal lato, e tutto sommato ha funzionato.» Poco prima della scena in cui Jill e Roy si rimettono insieme, Jill, sapendo che Abe è un assassino, l’ha affrontato e gli ha lasciato tempo fino al lunedì successivo per costituirsi, altrimenti andrà lei dalla polizia. Abe accetta, ma nella voce fuori campo che segue scopriamo che in realtà lui non ha alcuna intenzione di farlo. Jill, che ignora di essere in pericolo, si rende conto di aver fatto un terribile sbaglio a innamorarsi di Abe, e si meraviglia che Roy riesca a capirla e ad accettarla quando lui le confessa di non aver mai smesso di volerle bene. Jill dice di essere stata una stupida, ma non vuole spiegare cosa le abbia fatto cambiare idea.

ROY Ma sento che c’è qualcosa che continui a nascondermi. JILL Te lo dico lunedì, d’accordo.

La scena termina con un bacio, ma Woody chiama lo stop prima che il bacio possa diventare lungo. «Non sopporto la roba appiccicosa», commenta.

Jill dice a Roy che ha fatto un grosso errore a lasciarlo.

7. «È sempre tutto una delusione.» Mentre le riprese si avvicinano alla conclusione, nonostante gli occasionali alti e bassi e le difficoltà tecniche, Woody comincia a sentirsi un po’ più speranzoso. «La situazione mi ricorda quel film di Truffaut, Effetto notte [1973], dove all’inizio va tutto storto ma poi si trova un ritmo, cominci a fare il film e le cose si sistemano. Ed è andata così per noi. Ho lavorato meglio e ora comincio a sentirmi un pochino più a mio agio.» Questo non significa che lui sia felice. «Be’, è sempre tutto una delusione », dice sorridendo. «Non sembra che il film stia diventando quella cosa elettrizzante,

rivoluzionaria e sbalorditiva che immaginavo; e in effetti non sarà così. A questo punto della lavorazione continuo a pensare, “Se qui faccio questa cosa o se sposto qui la voce fuori campo, o se ci metto quest’altra cosa, forse sopravvivrò”. Il film si trasforma in una lotta per la sopravvivenza.» Spesso i film di Woody cambiano – e non poco – in sede di montaggio. Di recente, in Magic in the Moonlight, alcune informazioni che venivano date al pubblico sul personaggio di Emma sono state trattenute in un secondo momento, mentre il personaggio di Colin Firth è stato ridisegnato in modo che la ragazza non gli interessasse sul piano sentimentale fino alla fine del film. Ma questo per Woody non è motivo di consolazione. Di paura, semmai, anche se è lui il primo a dire quanti risultati si possano ottenere durante il montaggio. «Come diceva Ralph Rosenblum, “I registi si innervosiscono in sala di montaggio perché quella è la loro ultima occasione di mettere le mani sul film; e se non riesci a farlo funzionare al montaggio, è finita, non si può più tentare niente”.» Quando, verso sera, arrivano i giornalieri, la scena 137 – Jill e Roy sul prato – è bellissima da vedere. Ma la fotografia non è tutto. L’importante è l’effetto che ha sul pubblico, e questa scena non chiude il film sulla nota alta che Woody immaginava. Lui sa di dover fare qualcosa di più, ma non sa che cosa. Il venerdì che chiude la quinta settimana di riprese è riservato alla location più impegnativa del film, una ripresa notturna in un luna park. La Washington Country Fair sta per aprire i battenti, e Robin ha affittato la location con tutte le attrazioni per un giorno e una notte, così da poter girare la scena 62 (Abe, deciso a vincere un premio per Jill, spara a un bersaglio con una foga tale da rendere molto evidente il suo lato folle e maniacale), la 63 (Abe indovina il numero vincente alla ruota della fortuna e ottiene un premio per Jill) e la 64

(Abe e Jill visitano una fun house, ovvero una casa degli specchi: è qui che si baciano per la prima volta). La ragione per voler girare in notturna è semplice: il luna park sarà molto più bello con le sue luci sgargianti che brillano sullo schermo. Con la luce del giorno, le giostre e gli stand sembrano squallidi e scadenti, e il terreno su cui è allestito il parco dei divertimenti ha un aspetto molto trascurato. Woody voleva un luna park che fosse grazioso a vedersi, ma «hanno tutti un’aria così pacchiana a parte i Giardini di Tivoli o Playland, quello che si trova a Rye, nello stato di New York. Quindi avevamo pensato di costruirne uno noi, ma poi Santo ha detto, “Tu penserai che sia squallido e pacchiano, ma se giriamo in notturna verrà cento volte meglio”. Quindi, nonostante i miei pregiudizi, ho detto, “Okay, il luna park lo facciamo di notte”. Ovviamente voglio che ci sia la ruota panoramica, e tutti gli altri cliché associati ai luna park». Le prime inquadrature serviranno a presentare il luna park. Poi ci sarà un’inquadratura di Jill e Abe che guardano una di quelle giostre torci-budella e la ruota panoramica; a seguire la coppia visiterà un chiosco dove si spara ai bersagli con fucili ad aria compressa, e poi passerà alla ruota dei numeri lì accanto. Per finire, la coppia entrerà nel buco nel muro che rappresenta l’ingresso alla casa degli specchi. Le inquadrature ospiteranno una serie di camei, compresi quelli di Bechet (Manzie è già in un’altra scena), dell’assistente di Woody Ginevra Tamberi, e del suo caro amico John Doumanian, che lo conosce fin dai tempi in cui faceva cabaret a Chicago e oggi è il manager della sua band. «La fun house non è mai un posto divertente», dice Woody. «Questa qui non ha che qualche specchio deformante, e la maggior parte di loro ti fa sembrare basso, non ti deforma in un altro modo, ma a noi serviva solo dare un’idea. Santo ci ha lavorato in maniera molto più artistica di me. Sul piano delle immagini, lui è straordinario. Partiremo sugli specchi, poi

vedremo Jill e Abe arrivare dal buco d’ingresso, e infine entreremo nel vivo della scena. Bisognerà inquadrare lo specchio mentre loro parlano, quindi non potremo cavarcela con un’inquadratura sola. Parte del dialogo lo gireremo inquadrando i personaggi riflessi nello specchio, quindi staccheremo sugli attori in carne e ossa, nella speranza che riescano a concludere la scena in un’unica inquadratura a due. Proprio non vorrei dover girare da altre angolazioni.» Il terreno polveroso su cui sorge il luna park è costellato da alberi molto alti che gettano ombra. Mentre la squadra di ripresa prepara le varie scene e altri membri della troupe aspettano il calare della notte, Woody sta seduto all’ombra sulla sua sedia da regista, vicino alla casa degli specchi, che è stata appena completata e ha richiesto un paio di settimane per essere progettata e costruita. Dall’esterno sembra soltanto un insieme di assi di legno e teli di plastica, ma all’interno è un classico miracolo del cinema: tutta specchi deformanti e faretti luminosi. Di solito Loquasto è capace di allestire e rendere operativo un set con spese minime. Questo però è un elemento importantissimo per il film, e alla fine probabilmente costerà il doppio dei 10 000 dollari previsti, perché sono state fatte parecchie modifiche, senza contare le migliorie apportate alle luci dell’interno. Ma è stato comunque un bell’affare. L’interno misura undici metri per quattro, ed è stato rivestito con quasi trecento metri di stoffa nera a lustrini, che costa tre dollari al metro. Per cercare di risparmiare un po’, Loquasto e Suzy Benzinger il giorno prima sono andati da Savers, una catena di negozi dell’usato, perché il giovedì il negozio offre uno sconto del dieci percento ai clienti che abbiano superato i cinquantacinque anni. «Un altro servizio speciale di Santo», dice Woody, in tono di approvazione. Loquasto ha anche aggiunto una frangia rossa al chiosco della ruota della fortuna. Questi piccoli ritocchi fanno una grande differenza.

Devono ancora passare diverse ore prima che sia abbastanza buio da poter girare. Nel frattempo, Woody ha il compito di controllare questo o quell’elemento della scenografia quando viene interpellato. In caso contrario, si trova a gestire gli inevitabili tempi morti, ed è in vena di riflessioni su questo film e altri registi. Restano soltanto nove giorni di riprese, e Woody sa che ormai può fare ben poco per cambiare il corso dell’opera. «Il film sta andando avanti, nel bene e nel male. Ora come ora», dice con una risatina, «è fuori dal mio controllo. È come un masso che rotola giù per la montagna, e si muove con una velocità tutta sua.» Ci sono registi americani che Woody ammira, ma la ragione per cui tuttora preferisce lo stile europeo sta nella libertà creativa di cui godevano i registi europei e che era negata agli americani alle prese con gli studios di Hollywood, indipendentemente dal loro successo al botteghino, perché «gli americani erano sempre vincolati ai dirigenti degli studios che regolarmente gli facevano a pezzi i film». Per esempio, Orson Welles girò L’orgoglio degli Amberson (1942) subito dopo Quarto potere, che gli era valso l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale nonché nove candidature, tra cui quella per la miglior regia, il miglior attore protagonista e il miglior film. Non contò nulla. La RKO Pictures non fu contenta della versione finale di Welles, mise le mani sul montaggio, ne cambiò il finale e lo accorciò di circa un’ora, incaricando due registi non accreditati (uno dei quali era Robert Wise) di fare a pezzi l’opera. «Essere un bravo regista a Hollywood è un’impresa», continua Woody. «John Huston, John Ford, Welles, William Wyler e George Stevens hanno fatto un ottimo lavoro in condizioni terribili e hanno girato molti film meravigliosi. Il tesoro della Sierra Madre [John Huston, 1948] se la gioca alla pari con alcuni dei migliori film europei di sempre. Forse perché non c’era molto da censurare. In quel film non c’era

sesso, non c’era violenza né questioni politiche che interferissero con il senso generale della censura.» Dello stile di Huston Woody non ammira niente in particolare, ma trova ammirevole l’effetto complessivo dei suoi film. «Era un regista molto bravo, ma il risultato dipendeva dal materiale che aveva a disposizione. Allora quando ha avuto per le mani The Dead – Gente di Dublino o Il falcone maltese ha fatto un lavoro eccellente. Per come funzionavano le grandi case di produzione a Hollywood, lo stesso materiale avrebbe potuto essere affidato a cinquanta altri registi che avrebbero creato film di qualità inferiore. Secondo me, se Huston e Stevens e Wyler avessero potuto lavorare liberamente tutto il tempo sui progetti che volevano, senza censure o intromissioni da parte dei capi supremi, avrebbero sfornato solo grandi capolavori.» Il cavaliere della valle solitaria (George Stevens, 1953) è un film per cui Woody nutre un affetto particolare. Anche se non ama i western, dice che questo film trascende il suo genere di riferimento. «Mi prende completamente. È una grande favola e una storia avvincente girata benissimo, con protagonista un uomo che è un artista nel maneggiare le armi da fuoco. Prova a smettere, ma nella vita arrivano dei momenti in cui serve qualcuno che entri in azione e dia una bella ripulita. È un film umano ed eroico nel miglior senso del termine, qualcuno che dica, “Voi povera gente non saprete mai gestire questa brutta situazione. Vi serve qualcuno che sappia il fatto suo”. Uno come lui. Non ritrovo gli stessi elementi in altri western. Alba fatale [1943], Mezzogiorno di fuoco [1952] e Il fiume rosso [1948] sono ottimi film, ma per me nessuno di questi è paragonabile al Cavaliere della valle solitaria.» Quando Woody parla dei suoi registi e dei suoi film preferiti, quasi sempre si torna alla sua giovinezza, il periodo in cui noi tutti siamo più suggestionabili e abbiamo più cose da imparare. Ma il suo apprezzamento, già allora, si sviluppava

su due binari diversi. Per quanto lo potessero colpire certe eccezionali pellicole hollywoodiane come Il tesoro della Sierra Madre, Quarto potere, La fiamma del peccato (1944), La furia umana (1949) e Orizzonti di gloria (1957), sono pochissimi i film americani ad averlo influenzato quanto quelli realizzati dai cineasti europei degli anni quaranta, cinquanta e sessanta, tra cui Godard, Alain Resnais, Fellini, Hitchcock, Ernst Lubitsch e Vittorio De Sica. (Gli unici non europei della lista sono Akira Kurosawa e Satyajit Ray.) «Ecco perché i miei film sono stati apprezzati più in Europa che negli Stati Uniti, nonostante io li abbia imitati.» Gli piacciono anche diversi registi contemporanei. «Naturalmente ho sempre amato Scorsese, e mi piacciono David O. Russell e Paul Thomas Anderson. Scorsese è un talento naturale con una grande sensibilità cinematografica. Te la fa sentire. Uno scrittore eccezionale – Anton C ˇ echov o Norman Mailer quando fa giornalismo – ti fa percepire la tensione, il terrore o la gioia, e con Scorsese tu arrivi a sentire quello che sta succedendo sullo schermo. Anderson ha una magnifica immaginazione e un grande occhio. Russell al cinema è un meraviglioso narratore per immagini. Riesci a sentire la sua eccitazione. Oliver Stone. David Fincher è un ottimo regista che fa film molto buoni. Christopher Guest è un grandissimo regista di commedie, purtroppo sottovalutato. David Zucker e Jerry Zucker. Ho adorato l’umorismo dell’Aereo più pazzo del mondo [1980] e di Una pallottola spuntata [1988]. Ovviamente Tim Burton è un grande talento: Edward mani di forbice [1990], Il mistero di Sleepy Hollow [1999] e Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street [2007] lo testimoniano. E poi c’è Coppola, un vero maestro. Di certo mi sto dimenticando qualcuno, lo dico subito perché vorrei evitare che qualche regista operoso e di talento si sentisse escluso a causa della mia incipiente demenza senile.» I registi che lo attirano di più, però, quelli che l’hanno influenzato in maniera profonda, appartengono a due o più

generazioni fa. «Rimango ancora sconvolto dal modo in cui i registi dei film più vecchi sapevano gestire gli attori e il ritmo della storia: quando guardi un film di [Preston] Sturges, sei travolto dalla velocità e dall’energia di tutto quanto. Non ci sono grandi esibizioni di tecnica cinematografica, e va bene così. Per i registi più vecchi al primo posto c’era la storia, nessuno, tranne Orson Welles, poneva l’accento sullo stile. E quella storia, loro la sapevano raccontare benissimo. Il mio film preferito di Sturges, e questo dice tutto, è Infedelmente tua [1948], con Rex Harrison. In questo caso Sturges non metteva in scena gente comune, con personaggi del Midwest interpretati da Betty Hutton, William Demarest, Eddie Bracken e dai suoi soliti attori. Qui c’erano Rex Harrison e Linda Darnell. Io tendo ad più essere più attratto da questo genere di raffinatezza: uomini in smoking, bottiglie di champagne, attici con vista. Mi piace di più quell’ambientazione. Di Sturges ho amato molto Lady Eva [1941], che ho visto solo di recente. Non sono un grande intenditore di cinema. Resteresti sorpreso da quanto sono ignorante. Sono un grande ammiratore dell’adattamento cinematografico di Nata ieri [1950]. Quando pensi alle commedie “parlate”, con dialoghi fitti, è difficile trovarne una migliore. La commedia teatrale Prima pagina [di Charles MacArthur e Ben Hecht, che debuttò a Broadway nel 1928 e fu portata al cinema nel 1931], era bellissima, e così anche il Pigmalione di Shaw [1938]. Ma le commedie parlate sono molto rare. A me molte delle cosiddette screwball comedies non sembrano granché divertenti. La signora del venerdì [1940], con Rosalind Russell e Cary Grant, basata su Prima Pagina, è piacevole, ma io posso anche farne a meno; non regge il confronto con la versione teatrale, se fatta bene. Trasformare il protagonista in una donna è stata una mossa commercialmente azzeccata, però ha annacquato la storia. Sia Mancia competente [1932] che Scrivimi fermo posta [1940] di Lubitsch sono fantastiche commedie molto parlate – ed

entrambe nascono come opere teatrali. Lubitsch era moderno e sofisticato. Ma se togli le commedie basate su sketch e battute, come quelle dei fratelli Marx e di Bob Hope, che sono esilaranti ma non per forza grandi capolavori del cinema, è difficile trovarne di divertenti. Non ho mai trovato divertente Susanna! [Howard Hawks, 1938], anche se alcune parti di Ninotchka [Ernst Lubitsch, 1939] sono meravigliose. Adoro Billy Wilder ma non A qualcuno piace caldo [1959]. Tutto sommato, ci sto andando molto piano con queste cose. Rido a crepapelle davanti ai fratelli Marx, a certi film di Bob Hope, e a W.C. Fields. E basta, direi. Anche quand’ero un ragazzino non sono mai riuscito a farmi piacere Stanlio e Ollio o I tre marmittoni, non sono il mio genere. Non mi sento in competizione con loro e non mi sento superiore a loro, è soltanto il mio gusto personale. Non mi fanno ridere, punto. I fratelli Marx, è vero, erano dei buffoni, ma erano buffoni raffinati. Lavoravano con [George S.] Kaufman, con [S.J.] Perelman. Ti affascinavano con la loro arguzia. Per me l’arguzia è una cosa piacevolissima; in giro non se ne trova poi tanta.» Nel pantheon dei suoi registi preferiti, Bergman occupa il primo posto, Woody però dice che Kurosawa «da un certo punto di vista troneggia su tutti gli altri. È uno straordinario artista visivo. È maturo. Non si perde in frivolezze e non temporeggia. Sono gli attori a guidare i movimenti della macchina da presa. Non è sofisticato, ma ogni suo piccolo tocco ottiene un effetto clamoroso. Un paio di film non erano all’altezza del suo genio, ma il suo Trono di sangue [1957] è il miglior Macbeth che io abbia mai visto, e la sua versione di Re Lear [Ran, 1985] è eccezionale. Alcuni dei suoi altri film, come I sette samurai [1954], ti travolgono con la sua grandezza di cineasta, però alla fine sono solo western. È come se Rembrandt si fosse messo a dipingere pagliacci. «De Sica era un altro regista molto semplice. Esistono ben pochi film paragonabili a Ladri di biciclette [1948] a Sciuscià

[1946] o al Giardino dei Finzi Contini [1970]. Non sono come i film di Fellini. La prima volta che ho visto La dolce vita [1960] e 8½ [1963], li ho ammirati, ma non mi hanno preso fino in fondo. Poi quando ho visto i suoi film precedenti, come La strada e I vitelloni, sono stato preso eccome. I film precedenti al suo periodo barocco erano storie umane raccontate con poesia. Col passare degli anni ho visto film che mi sono piaciuti molto, e altri per cui provo ammirazione, come Amarcord, che riguarderei una volta all’anno. Mi sono divertito molto con Giulietta degli spiriti [1965]. Alcuni dei film venuti dopo, li potevo ammirare ma non mi coinvolgevano. Ho adorato Roma [1972] e I clown [1970], il suo documentario, e mi è piaciuto Ginger e Fred [1986], quello era divertente. Potrei dire, “Quest’uomo è un artista del cinema”, ma le sue storie non mi interessavano molto. «Truffaut era sempre interessante. La prima volta che ho visto I 400 colpi [1959], ero consapevole della sua straordinaria energia. Era come se non avessi mai visto un film, da quanto quello era fresco e vivace. Poco dopo ho visto Fino all’ultimo respiro [1960], il film di Godard. Era un grande momento per il cinema. Mi sono piaciuti sia L’uomo di Rio [1964] sia Weekend – Una donna e un uomo da sabato a domenica [1967]. Weekend non aveva una storia forte, ma era molto immaginifico. C’erano cose da capogiro come la scena dell’ingorgo stradale. Chi ci avrebbe mai pensato?». Un piano sequenza che dura quasi sette minuti e mezzo ripercorre una strada della campagna francese con una serie di macchine incolonnate, mentre una coppia incurante ed egoista comincia a tagliare la fila per aprirsi un varco nella confusione; dopo circa sette minuti, si arriva a mostrare i corpi insanguinati sul ciglio della strada. Sono le vittime dell’incidente che ha causato l’ingorgo. Woody ha una tecnica interessante per misurare l’abilità di un regista. «Ho sempre pensato che Sidney Lumet fosse sottovalutato. Puoi sminuire un regista se guardi solo ai suoi

film migliori. Molto spesso gli attori hanno fornito la loro più grande interpretazione nei film di Lumet: era tra i più bravi a dirigere gli attori. La cosa migliore che ho visto fare a Sean Connery era La collina del disonore [1965], la cosa migliore che ho visto fare a Chris Sarandon e ad Al Pacino era Quel pomeriggio di un giorno da cani [1975]. Ovviamente ho sempre provato grande ammirazione per Coppola. I suoi lavori sono pieni di sentimento, come quando un musicista jazz suona un paio di note e senti che grondano di sentimento. Non lo puoi codificare; è talento naturale. Picasso traccia una linea a matita, io traccio una linea. Quale delle due credi che prenderà vita sulla pagina? È soltanto una linea, eppure, dato che lui è un genio e io no, la sua respirerà.» Da quando ha cominciato a dirigere i suoi film, Woody ha recitato in cinque film di altri registi, ciascuno dotato di un suo stile personale. Herbert Ross «era un gran professionista, un tipo pratico che si poteva ingaggiare sapendo che avrebbe realizzato un prodotto di buon livello, ben girato, molto professionale. Se guardi I ragazzi irresistibili [1975], è ottimo, e Ross ha fatto un buon lavoro con l’adattamento di Provaci ancora, Sam [1972]. Era molto rigoroso e cercava di fare le cose con una certa classe. Non prendeva mai scorciatoie. Quando si è accorto che il trucco pensato per Keaton non gli piaceva, ha fatto chiamare Dick Smith [Il Padrino, L’esorcista, un premio Oscar per Amadeus] perché venisse sul set e lo sistemasse. Magari in un ciak c’era qualcosina che a me non avrebbe minimamente infastidito, e invece lui lo notava. Era più meticoloso ed esigente, più scrupoloso. «Marty Ritt [Il prestanome, 1976] faceva molte prove. Leggevi la sceneggiatura e poi facevi le prove, ma quando volevo mi lasciava anche improvvisare. Marty però era più un tipo da teatro che da cinema. Me ne accorgevo perché quando giravamo, lui cominciava una scena e la macchina da presa faceva una lunga carrellata e solo dopo gli attori cominciavano a parlare. E io pensavo, “Tanto lo so che dopo dovrai tagliare

la carrellata”, e infatti la tagliava, perché quando vedi un film finito non vuoi dover aspettare che gli attori parlino, vuoi [schiocca le dita] arrivarci subito e andare avanti. Però Marty affrontava tematiche sociali in tutti i suoi film. [Sospettato di avere simpatie comuniste, Ritt rimase per cinque anni nella lista nera durante gli anni cinquanta. Nel Prestanome, Woody interpreta un uomo che “presta” il proprio nome agli scrittori finiti sulla lista nera.] Per un attore era molto facile lavorare con lui. Era sempre lì a bordo campo a fare il tifo per te. Era un tipo molto simpatico, un personaggione. Volevo bene a Marty per tanti motivi. Diceva, “In quel film ho fatto un errore. Una tizia dell’Idaho se n’è accorta e mi ha scritto una lettera per rimproverarmi. “La giacca sportiva non era dello stesso colore in quella scena.” Io ribattevo, “E tu cos’hai fatto?”. E lui, “Non le ho risposto”. «Girava una scena da tante angolazioni diverse, proprio come faceva Mazursky. Paul [che ha diretto Woody in Storie di amori e infedeltà, 1991] voleva avere la copertura maggiore possibile per tutti i dialoghi perché a lui piaceva così. Io non ho la sua pazienza. Quando lavoravo con lui, ci ha fatto provare il copione, poi è andato sulle location in cui avremmo lavorato e ha delimitato con il nastro adesivo gli oggetti con cui dovevamo interagire nonché il pavimento, nei punti dove dovevamo fermarci. E questo è un modo ammirevole di lavorare, Paul ha fatto dei bei film, ma io non ho l’abnegazione che aveva lui. La maggior parte dei registi con cui ho lavorato giravano una scena da un considerevole numero di angolazioni. Questo non è un errore né un sintomo di scarsa immaginazione, anzi, stavano lavorando nel modo giusto, perché quel girato se poi vedi che non ti serve lo puoi sempre buttare via. Però ce l’avevano. Io non ce l’ho mai avuto, e così quando c’era un problema ho sempre dovuto inventarmi qualcosa. Loro, no. Se una scena era troppo lunga, potevano accorciarla. Io dovevo lambiccarmi il cervello per farlo, e non è sempre stato facile; però il set l’ho sempre

vissuto meglio, perché non ho mai lavorato duro come loro. Forse ho lavorato di più in sala montaggio, però lì almeno stai seduto.» Nell’intervallo tra la fine delle riprese di To Rome with Love e l’inizio di Blue Jasmine, Woody ha recitato per John Turturro in Gigolò per caso (2013). Dice che Turturro non gli ha chiesto «nessuna preparazione, nessuna. Sapeva come lavoro di solito; è un bravo attore a sua volta. [Ha interpretato uno scrittore in Hannah e le sue sorelle.] Mi ha dato la piena libertà di improvvisare, e se io improvvisavo con lui, lui mi rispondeva a tono. Aveva un bravissimo direttore della fotografia, Marco Pontecorvo, e il film è visivamente molto bello. È un tipo facile con cui lavorare, direi più vicino al mio stile, che è tranquillo e rilassato. Girava le scene da più angolazioni di quanto avrei fatto io, ma ha fatto un ottimo lavoro». Non per mancare di rispetto ai registi con cui ha lavorato, ma Woody non ha modificato il proprio metodo di lavoro traendo spunto da qualcuno di loro. Uno dei motivi è che i suoi primi film erano commedie grossolane, che puntavano tutto sulla sua predisposizione comica. «Mentre giravo Prendi i soldi e scappa, procedevo in modo del tutto istintivo. Ho seguito il mio istinto nel Dittatore dello stato libero di Bananas e poi in tutti i miei film. Qualcosa l’ho imparata guardando i film degli altri. Capivo le tecniche dei grandi registi, ma era difficile metterle in pratica, perché io facevo commedie un po’ sceme, di grana grossa. Quando torni dal cinema dopo aver visto L’avventura [Michelangelo Antonioni, 1960], e nel tuo film non c’è nulla che debba essere così straordinariamente bello, ardente e carico di significato, come puoi applicare tutto ciò ai tuoi personaggi che prendono le torte in faccia? Non funziona.» Un momento in cui Woody ha consapevolmente imitato altri registi, in una prima fase della sua carriera, è stato durante

Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972), soprattutto nell’episodio ambientato in Italia. L’idea iniziale era di ispirarsi a De Sica e Rossellini e girare l’episodio in bianco e nero, usando lo stile neorealista di Roma città aperta (1945) e Ladri di biciclette. A un certo punto però, Louise Lasser, che recitava nell’episodio con Woody, gli propose di passare allo stile modernista di Bernardo Bertolucci e Antonioni, usando colori densi e forti contrasti tra luci e ombre. Woody racconta, «È stato uno spasso giocare a fare quelle inquadrature pretenziose, perché si sposavano bene con lo sketch. Mi sarebbe piaciuto fare un film intero così, non una parodia. In Interiors [1978] ho inserito parecchie inquadrature alla Bergman, proprio come volevo; ma alla fine pochissime persone hanno visto il film, e ancora meno l’hanno apprezzato. «Non mi sono mai dimenticato una recensione di Amore e guerra, penso fosse apparsa su “The New Republic”. È interessante. Stanley Kauffmann e John Simon sono due critici che nel corso degli anni mi hanno bacchettato parecchio, e tuttora li rispetto molto. Ci sono critici che mi hanno bacchettato per le ragioni sbagliate, e verso di loro non provo alcun rispetto. [Questo era prima che Woody smettesse di leggere le recensioni.] Kauffmann sottolineava che Amore e guerra era visivamente splendido, ma che il film non richiedeva affatto questa bellezza estetica. Penso che fosse un’osservazione ragionevole, ma discutibile. Secondo me il film così era più bello e non ha perso niente. Però è vero che tutto lo sforzo che ci abbiamo messo non era necessario. «Su Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, Kauffmann ha detto che la macchina da presa stava sempre nel posto sbagliato. Questa per me non era un’osservazione corretta, perché non esiste un solo posto giusto dove mettere la macchina da presa; è una cosa soggettiva.

«Il posto giusto è quello dove la vuole mettere il regista e il pubblico è la cartina al tornasole: se funziona, funziona. È come quando qualcuno vede un film e dice, “Be’, quella battuta non fa ridere”. In realtà sta dicendo che quella battuta non fa ridere lui. A me capita in continuazione. Lo sceneggiatore di un film campione di incassi dirà, “Woody si sbaglia. Secondo me, se scrivo queste battutacce sconce che a lui non fanno ridere, il pubblico ne andrà pazzo”; ed effettivamente il pubblico ne va pazzo. Allora se io non rido a quelle battute, è solo per via del mio gusto personale. Se a parlare è un critico, c’è il sigillo di approvazione della carta stampata e il logo di un quotidiano o di una rivista, e chi legge ha la sensazione che un professionista, uno che la sa lunga, abbia detto una verità inconfutabile. Ma non è una verità oggettiva, anche se la spacciano come tale». Al calare del buio, le riprese possono iniziare. La scena 62 parte con un campo lungo su una delle giostre, cosa che definisce il luogo dove ci troviamo, poi la macchina da presa arretra e si abbassa fino a mostrare Abe e Jill. JILL Non pensavo di riuscire a portarti in un luna park. ABE Dov’è Roy stasera? JILL A studiare. ABE Be’, con l’età mi sto addolcendo, e dato che siamo qui, voglio vincere un premio per te. (Abe e Jill comprano i popcorn.) JILL Pensi mai a quella povera donna e a quel giudice? ABE Sì, certo. JILL

Io ancora mi arrabbio se ci penso. Se fossi al suo posto avrei preso i bambini e sarei scappata in Europa – anche in Iran – pur di non perdere i miei figli. (Un chiosco di tirassegno. Abe comincia a sparare con un’intensità che Jill nota.) JILL Piano, Abe, non voglio vincere il panda così tanto. ABE Avevi ragione tu: quel giudice era una carogna.

Nella scena 63, Jill e Abe entrano da destra e si fermano di fronte a una ruota della fortuna. È qui che Abe sceglie il numero su cui si fermerà la ruota, e Jill prende una decisione che si ripercuoterà sul finale del film. ABE Non è possibile. Ho vinto. DONNA Lei è un uomo fortunato. ABE La fortuna regola l’universo. JILL Lo pensi davvero? ABE Anzi, non la fortuna; il caso. Siamo tutti alla mercé del caso. Allora, quale premio vuoi? JILL Voglio la torcia. (È una piccola torcia rossa che si può tenere in borsetta.) ABE Una scelta molto pratica. JILL Io non sono pratica, mi piace il colore e la compattezza del design. ABE Ricordati, non puoi mai conoscere un oggetto: solo la nostra percezione di esso. JILL Lo terrò a mente: scusa il gioco di parole. ABE (accende la torcia) Che questa torcia sia l’eterno simbolo del caso nell’universo.

JILL Non voglio essere pratica. Sono molto più libera di quanto pensi tu.

Qui Woody aveva scritto una voce fuori campo per Jill, che sarebbe dovuta venire dopo questa scena, ma alla fine non è stata utilizzata. JILL (F.C.) Mi piaceva la mia torcia rossa. Abe diceva che gli portavo fortuna, e che aveva scelto il numero vincente perché stava in un biscotto della fortuna al ristorante cinese dove avevamo cenato noi due insieme. Io sapevo solo che avrei sempre tenuto la torcia con me, e l’avrei custodita come il souvenir di una splendida serata romantica, anche se era stata romantica solo per me.

La scena successiva, la 64, vede i due personaggi nella fun house. Qui Jill bacia Abe. Lui contraccambia il bacio, ma poi si allontana e le dice che non è una buona idea. ABE Non vorrai coinvolgerti con un estremista come me. JILL Perché no? Io so correre dei rischi quanto te. ABE Ci siamo lasciati trasportare. E adesso dimentichiamoci questo bacio. Okay? JILL E se non ci riesco? ABE Allora devo farmi carico io di tenere le cose sotto controllo.

Nella scena seguente, la 66, Abe guarda Jill a lezione di pianoforte (la scena 65 è stata eliminata). Ecco la voce fuori campo scritta in origine per Jill: Mi aveva avvisato. Non aveva lasciato niente tra le righe; io la penso diversamente, aveva detto. Ma non importava. Ero innamorata. Per quanto io tenessi a Roy, e ci tenevo sul serio, avevo perso la testa per Abe Lucas. Più lui tentava di non far succedere niente di serio, più io volevo che succedesse.

La voce fuori campo è stata riscritta in modo far riferimento alla regola, presente nella maggior parte dei campus americani, che vieta le relazioni tra insegnanti e studenti:

Ero sicura che Abe provasse qualcosa per me, ma forse non era innamorato di me quanto io lo ero di lui. Cercavo di raccontarmi che la ragione per cui non si lasciava troppo andare era che una relazione tra un professore e una studentessa era contro il regolamento di Braylin, ma dentro di me sapevo che Abe era troppo romantico per tirarsi indietro davanti al rischio. La cosa di cui ero sicura era che per quanto io tenessi a Roy, e ci tenevo sul serio, avevo perso la testa per Abe Lucas; più lui tentava di non far succedere niente di serio, più io volevo che succedesse.

Woody, a questo punto dovrebbe essere chiaro, non è un uomo dai facili entusiasmi, ma un paio di giorni dopo arriva sul set ed è al settimo cielo. Ieri si stava esercitando al clarinetto sulle note di alcuni vecchi dischi di New Orleans jazz e si è imbattuto in una versione di Sheik of Araby suonata da George Lewis che non aveva mai sentito: l’ha trovata in un disco di jam session messo sul mercato nel 1991. (Ovviamente l’incisione del brano risaliva a molti anni prima.) Lewis ha avuto un’influenza fondamentale nel modo di suonare di Woody. «Questa la devi sentire», dice con grande entusiasmo, passandomi il telefono e gli auricolari. «È un perfetto esempio di New Orleans jazz. La polifonia, il suono grezzo, l’impennata delle note alte, lo swing, il ritmo, le note chiare: è tutto perfetto. Ho messo su un disco di Bunk Johnson così da poterci suonare sopra, e a un certo punto è arrivata la canzone. Mi sono ritrovato ad accompagnare le sue note ancora prima di ascoltarla, ma presto mi ha travolto al punto tale che mi sono fermato e l’ho ascoltata e basta per bene. È bellissima, un’esecuzione straordinaria. È così piena di sentimento – questo è il punto di forza della scuola di New Orleans – e il ritmo è sensazionale, il tono è bellissimo, la posizione di labbra e il movimento della lingua, l’articolazione, e le idee di Lewis sono talmente deliziose: lui era un musicista delizioso. Di solito ha un suono morbido, lirico, appassionato e spesso religioso, perché lui era una persona molto religiosa, ma qui invece sta suonando della rozza musica da bordello. È un tipo di jazz molto grezzo. Lo stile di Lewis deriva dalla musica delle parate, con tonnellate di arpeggi. Ma è così bello il modo

in cui si dipanano, e quello che dicono, e il modo in cui lui lo dice. Era un genio, un genio assoluto.» Nel brano in questione, Lewis alterna note dal registro più alto a quello più basso. «A lui piaceva. Ogni nota è bellissima. In questo disco corre abbastanza, e la linea musicale continua a fluire da un bel punto a un altro altrettanto bello. Queste cose mi entusiasmano come quando avevo quindici o sedici anni.» Questa giornata, che inaugura la sesta settimana di riprese, è riservata alle undici scene ambientate nell’aula dove insegna Abe, e che sono sparse qua e là nel copione. Due scene corrispondono a circa una pagina di sceneggiatura, ma tutte le altre corrispondono a massimo mezza pagina; alcune a un paio di battute. Verranno filmate come secondo la tecnica del block shooting – la macchina da presa riprende tutto ciò che si trova in campo da un lato del set, e poi viene girata e riprende tutto di nuovo ma dall’altro lato, in modo da risparmiare tempo sulla preparazione e accorciare un po’ la giornata lavorativa. Fuori dalle finestre del secondo piano sono sistemati una gru a cestello, chiamata condor, un crane e un elevatore scissor, per riversare all’interno una luce accecante che viene poi smorzata da tende e sete varie. Billy Weberg, capo macchinista e veterano con trent’anni di cinema alle spalle, incita la sua squadra a preparare tutto in fretta. «Ciò che più interessa ai grandi direttori della fotografia come Darius, Bob Richardson o Janusz Kaminski [collaboratore di lunga data di Steven Spielberg] è la qualità della luce… Vogliono conservarla il più naturale possibile, potenziare quella che già c’è», dice Weberg quando hanno finito di sistemare tutto. «Woody è un vero regista. Io ho lavorato con [Robert] Altman, [Sidney] Lumet, e ora con lui: il trio perfetto. Loro sono gli ultimi, veri registi. Sanno scrivere, dirigere, persino produrre, e hanno l’ultima parola sui film. Sono degli artigiani. Io ho fatto Amistad [1997] con Steven Spielberg. La macchina da presa non si muoveva mai. Era statica perché teneva in considerazione il periodo storico in cui

era ambientato il film. Dall’altro lato c’è stata La guerra dei mondi [2005]. Spielberg usa un sacco di luci. Janusz deve illuminare il set a trecentossanta gradi perché Spielberg non sa mai in quale direzione vuole girare. Rispetto al numero di luci che usiamo qui, lì ce ne sono dieci volte tante. E sono distribuite ad ampie pennellate, con tre macchine da presa, non una come noi qui. Ridley Scott in American Gangster [2007] usava cinque macchine da presa contemporaneamente, girava da tutte le angolazioni, perché sapeva come avrebbe montato il materiale. Con Woody, con chiunque, devi essere svelto. E allestisci il patio di casa di Jill, e gonfia i palloni, lo devi fare in fretta; ed è per questo che il personale va e viene» se non sei abbastanza veloce, vieni rimpiazzato. «Si dice che esistano tre film diversi: quello di cui fai le prove, quello che giri, quello che monti.»

Le luci che servono a illuminare l’aula dove insegna Abe, secondo piano a sinistra. Alle finestre vengono fissati dei condotti per l’aria condizionata, in modo da mantenere fresco l’interno, dove ci sono altre luci.

Dal momento che Woody non fa le prove, di film ne ha soltanto due. (Naturalmente, però, i movimenti degli attori

scena Woody li prova, mentre la squadra di ripresa prova i movimenti di macchina. Sul pavimento vengono appiccicati pezzi di nastro adesivo per segnare il punto dove il carrello si deve fermare, e l’addetto alla messa a fuoco misura la distanza tra la macchina da presa e gli attori.) La scena 22, in cui Abe dice a Jill che la sua tesina è sia buona sia originale, è la prima scena del film in cui gli attori compaiono insieme. Al contrario di quella che è stata l’entrata in scena di Jill, Woody dice che questa scena «non va enfatizzata». Tra una scena e l’altra dice che sta pensando di chiamare il film Crazy Abe (“Abe il pazzo”). Ha in mente questo titolo da quando ha iniziato a scrivere, ma non ne ha fatto parola a nessuno. Sua sorella, Letty, non è convinta: si rischia che il pubblico pensi a una commedia. Woody non se ne preoccupa. «Tanto lo pensano sempre», dice, e ricorda a Letty che Merton of the Movies (1927, rifatto nel 1947) parla di un attore convinto di recitare in maniera drammatica, ma che si ritrova protagonista di commedie di successo. Il titolo Crazy Abe ha un corollario piuttosto divertente. In Prendi i soldi e scappa c’è un personaggio minore di nome Abe interpretato da Minnow4 Moskowitz – suo fratello si chiamava Fishy – un amico di Woody conosciuto quando faceva cabaret al Mister Kelly’s di Chicago negli anni sessanta. «Era molto simpatico. Era un fessacchiotto che aveva venduto un paio di sketch a qualcuno, e si illudeva di essere un commediografo. Io non credevo che fosse quello il suo futuro. Arrivò a San Francisco mentre stavamo girando, e io l’ho usato nella scena in cui ci riuniamo tutti in una stanza per guardare il filmato della banca che vogliamo rapinare. [Prima però c’è un documentario, Pesca delle trote nel Canadà.] Minnow è quello che dice, “Il documentario c’è sempre, non ti salvi”.

«Mi sono fatto un sacco di risate con lui. Ci siamo frequentati per anni. Ogni volta che andavo a Chicago lui si faceva sentire. Giocavamo spesso a biliardo. Ricordo che quando io andavo in bianco con le belle ragazze lui diceva, “Non ci credo che vai in bianco. Io ci vado a letto solo perché ti conosco!”.» L’ordine del giorno contiene un breve riassunto delle scene che vanno girate quotidianamente. Ecco quello di oggi: «17: Abe insegna Kant; 19: Lezione su Kierkegaard; 22: Abe pensa che il saggio di Jill sia buono; 32: Abe è in ritardo, dice alla classe che si sta riprendendo da una sbronza; 53: Discussione sulla scelta esistenziale; 61: Discussione sulla filosofia continentale; 88: Abe parla del Cavaliere della valle solitaria; 106: Abe termina la lezione sull’Essere in sé; 107: Abe termina la lezione e si prepara a tornare a casa; 124: Jill affronta Abe. Lui dovrebbe costituirsi; 127: Abe pensa di uccidere Jill». Sono quasi tutte scene brevissime, e servono a mostrare Abe che espone qualche teoria significativa e come collegamenti ad altre sezioni della storia. Per esempio, ecco la scena 53 nella sua interezza: ABE Oggi discuteremo di scelta esistenziale, cioè, la vita ha il significato che voi scegliete di darle. Esamineremo Jean-Paul Sartre e la sua intuizione: «l’inferno sono gli altri».

Woody fa stampare i primi due ciak ma nel terzo Phoenix non pronuncia bene le sue battute. Woody visiona la scena sul monitor in un’aula dall’altro lato del corridoio: scoppia a ridere, chiama lo stop e alza la voce in direzione di Phoenix. «Vatti a prendere un po’ d’aria di mare. Fa’ una crociera e vedrai che starai bene». Phoenix ride a propria volta. Più tardi, mentre si sta girando un’altra scena ambientata in classe, Phoenix chiede di poter ripetere il ciak. «Non stavo parlando in inglese», dice a Woody, «In quello che ho detto neanche una parola era in inglese.»

«Be’», risponde Woody, «prova a essere comprensibile. Per questo film si vendono i biglietti.» Tutta questa leggerezza svanisce di colpo nel pomeriggio, quando sul set arriva la notizia che Robin Williams si è tolto la vita. Woody e Williams avevano avuto gli stessi manager: Jack Rollins e Charles Joffe. Williams aveva dato memorabile prova di sé in un piccolo ruolo in Harry a pezzi, interpretando un attore che non soltanto si sente fuori fuoco, ma è effettivamente fuori fuoco in tutte le scene. Woody è profondamente amareggiato, e per diversi giorni Woody continuerà a chiedere, «Com’è potuto succedere?». Il giorno seguente l’atmosfera è sempre cupa, ma c’è un film da girare e le scene rimandate si stanno accumulando. Tutti sapevano che sarebbe stato praticamente impossibile portare a casa le undici scene in programma per ieri, e infatti ne sono rimaste fuori tre. Di queste, è da qualche giorno che Woody pensa di eliminarne una, la 88. BECKY L’abbiamo vista al cineforum ieri sera. Come le è sembrato il film? ABE Non sono un grande fan dei western, ma Il cavaliere della valle solitaria è speciale. Perché è speciale? Perché finisce con l’eroe che arriva in città e uccide tre uomini, tre uomini che meritavano di morire. Mette a repentaglio la sua vita per aiutare gli altri: è omicidio, ma è morale. BECKY È ancora più morale la resistenza passiva, quella che predicava Gandhi. ABE Martin Buber chiese a Gandhi se secondo lui la resistenza passiva avrebbe funzionato contro i nazisti.

La spiccata preferenza che Woody nutre per questo film lo ha spinto a eliminare la scena: «Ho pensato che non voglio fermare il ritmo del film con una pausa tanto lunga, e ho pensato che gli spettatori assocerebbero questa dichiarazione a me personalmente, perché ho sempre detto che Il cavaliere della valle solitaria è un capolavoro». Quando Woody, con

nonchalance, chiede a Phoenix se è pronto a girare la scena, l’attore, per scherzo, risponde «Mica tanto». «Allora togliamola», dice subito Woody. Sorpreso, Phoenix risponde, «No, aspetta, sono felicissimo di girarla». La finta ambivalenza di Phoenix è abbastanza perché Woody decida di eliminare la scena. «L’attimo esatto in cui mi ha detto, “Oh, non la voglio fare”, in tono mezzo scherzoso, io ho detto, “Bene, allora non farla”. Poi ho potuto atteggiarmi a grand’uomo per un attimo, come se il mio fosse un gesto di grande magnanimità». Ma naturalmente Woody non decide mai di eliminare una scena per magnanimità; lo fa perché crede che quella scena abbia perso la sua funzione nel film. «Era in programma per quel giorno, e io ho pensato, “Be’, potrei girarla e poi se non mi convince posso sempre buttarla via in un secondo momento”. Se Joaquin avesse detto, “È la mia scena preferita e muoio dalla voglia di farla”, allora io l’avrei girata.» Il cavaliere della valle solitaria è un film del 1953, ed è poco probabile che gli studenti lo conoscano; lo stesso discorso, purtroppo, vale per molti spettatori. (Si potrebbe dire che Abe si è identificato con il Cavaliere, vendicatore dei torti subiti dai più deboli.) Al posto della scena 88, è la 124 a occupare gran parte della mattinata. Si tratta di una delle scene a maggiore carica emotiva. Abe, fino a questo punto, ha commesso un delitto impunito, e soltanto Jill ha la certezza che lui sia colpevole. Poi, nella scena 123, il padre di Jill le legge un articolo del giornale locale: La polizia è sicura di aver trovato chi ha avvelenato il giudice Thomas Spangler, il magistrato assassinato a Lippitt Park. Il presunto assassino, Albert Podesta, impiegato in un laboratorio medico, aveva accesso allo stesso tipo di cianuro usato nell’omicidio. Podesta, che nega di avere a che fare con l’assassinio, testimoniò davanti a Spangler due anni fa, e si scontrò col giudice in un processo contro suo fratello. Se ritenuto colpevole, Podesta rischia l’ergastolo. 124 – INT. GIORNO – AULA

(Abe ha appena terminato una lezione. Dopo che tutti gli studenti sono usciti, il professore riordina degli opuscoli sul davanzale della finestra in fondo all’aula. Jill entra, furiosa.) JILL Che cosa pensi di fare adesso? ABE Non lo so. JILL Non lo sai? Certo non lascerai che un uomo innocente si prenda la colpa al posto tuo. ABE Ho fatto mille giri attorno a questa faccenda da quando l’ho saputo. JILL Mille giri? Ma che significa? ABE Significa che ho tentato di compiere un delitto perfetto, e apparentemente ci sono riuscito anche troppo bene. JILL E tutte le chiacchiere a proposito della tua superiorità morale? ABE Senti, ci devo riflettere, è chiaro? JILL Ma cosa c’è da riflettere? Un innocente avrà la sua vita rovinata. ABE Okay, io… io mi costituirò. È questo che vuoi? JILL Non è quello che tu vuoi? Tutte queste chiacchiere a proposito della cosa giusta da fare e cosa sia meglio… ABE Okay. Okay… Se non si accorgono di aver fatto uno sbaglio e non lo lasciano andare tra pochi giorni, allora io… mi vado a costituire. JILL Io non riuscivo più a vivere con me stessa, e adesso questo è… Stiamo parlando di un innocente che verrà processato per questo. ABE Lo so – sono d’accordo – ma lasciami vedere se ho ancora fortuna, e se invece quelli capiscono di avere sbagliato.

JILL Quell’uomo sarà terrorizzato. Lo devi fare entro lunedì, però, Abe. Lo devi fare entro lunedì, se no… ABE Se no? JILL Lo dovrò fare io. ABE Piantala. Tu non devi fare niente, chiaro. Dammi fino a lunedì. JILL Lo fai lunedì mattina. (Jill esce dall’aula sbattendo la porta. Nella scena successiva, Abe è seduto in una caffetteria. Ascoltiamo la sua voce fuori campo.) ABE (F.C.) Ma non avevo alcuna intenzione di costituirmi. Pochi mesi prima la mia vita non significava niente per me, non ne ricavavo nessuna gioia. Non mi sarebbe importato se quel giochetto della roulette russa vi avesse posto termine. Ma da quando avevo pianificato e messo in atto l’eliminazione del giudice Spangler, la mia vita era cambiata. Capivo perché la gente amasse la vita e la considerasse un’esperienza gioiosa. Provavo piacere a vivere. Non volevo suicidarmi, né passare il resto dei miei giorni dietro le sbarre. Volevo vivere, insegnare, scrivere, viaggiare, fare l’amore.

L’ultima inquadratura dell’aula arriva nella scena 127, un grandangolo di Abe e dei suoi studenti mentre il professore passeggia tra i banchi e i ragazzi svolgono un esame scritto, all’indomani della sua discussione con Jill. La scena non contiene dialoghi, solo una voce fuori campo, che dura 45 secondi, ed è agghiacciante: ABE (F.C.) La polizia aveva un indiziato. Rita Richards, che non aveva mai davvero sospettato di me, avrebbe visto che era stato un altro, e che la sua teoria era pazzoide. L’Europa con Rita cominciava a avere un suono eccitante. La sua passione per amore e lussuria era contagiosa. C’era soltanto un ostacolo. Jill mi aveva dato pochi giorni per scagionare un uomo ingiustamente accusato. Esisteva un modo per impedirle di parlare? Secondo me aveva ragione a dire che un omicidio apre la porta ad altri omicidi.

8. «Se mi ci metto, forse riuscirò a sviluppare una seconda stesura in sala montaggio.» Le riprese del film dovrebbero terminare con la fine della settimana, ma non andrà così. L’obiettivo ora è limitare il più possibile il numero dei giorni supplementari. Il martedì, Helen Robin, Loquasto, la troupe addetta alle location e Woody si riuniscono in uno dei salotti del palazzone in pietra risalente all’Ottocento che oggi viene utilizzato per diverse aule dell’università: gli intarsi in legno e i soffitti alti richiamano alla memoria quella che un tempo era la grandeur della città di Newport. Per domani si prevede pioggia. Tutti controllano l’app del meteo sul telefonino, per capire quanto sarà brutto il tempo: molto brutto, pare, con il cento percento di possibilità che si verificheranno precipitazioni e fino a cinque centimetri di pioggia. E resta anche il problema della scena 137, che forse va riscritta e girata di nuovo (è quella in cui Jill e Roy se ne vanno via insieme alla fine del film). «In Midnight in Paris e in Blue Jasmine, i finali sono imposti dal film, in questo caso no», dice Woody. La scena finale di Midnight in Paris vede il personaggio di Owen Wilson che incontra di nuovo, per una felice combinazione, quello interpretato da Léa Seydoux; Blue Jasmine termina con la discesa verso la follia del personaggio di Cate Blanchett. «In quei film sapevi già che lui sarebbe andato con lei, e che Jasmine si sarebbe ritrovata a parlare da sola in mezzo alla strada. Qui no. Questo film in realtà finisce con la scena precedente.» Woody accenna a Robin che forse non saprà cosa fare finché non approderà al montaggio: «Non sai mai cosa farai quando sei a New York e sei disperato», e aggiunge che non è sicuro di voler rigirare nessuna scena al momento. «Non vorrei tornare qui di corsa, a girare qualcosa e poi usare lo stesso la prima versione.» Robin lo guarda di traverso: si sta sicuramente trattenendo dal cominciare la sua risposta con la frase, «Ma sei pazzo?».

Invece si limita a dire, «Costa molto meno girare qualcosa intanto che siamo qui, anche se ci vorrà un giorno in più. Se sei a New York devi cominciare da zero e far tornare qui una troupe». Woody decide di scrivere una nuova scena, in modo da poter scegliere tra le due in fase di montaggio. Dopo una lunga discussione, si modifica l’ordine in cui verranno girate diverse scene tendo conto delle condizioni atmosferiche, e si decidono le location di un paio di scene rimaste in sospeso, compresi i due esterni, che andranno girati nel pomeriggio in due posti molto vicini tra loro. Una è la nuova versione della scena 99, quella con i cavalli che non c’era stato verso di portare a termine. L’idea di ambientarla in un centro di yoga, con le attrici che fanno la verticale in appoggio sulle mani, è stata scalzata da un’altra: ascolteremmo la voce fuori campo di Jill mentre la ragazza incontra l’amica Ellie che sta uscendo da un negozio; l’amica la mette al corrente della teoria di Rita secondo cui Abe potrebbe essere coinvolto nell’omicidio. La seconda scena è la numero 84: Jill telefona ad Abe per avvisarlo della morte del giudice, che secondo i giornali sarebbe dovuta a un infarto, e Abe risponde così: Sì, certo che l’ho letto, è una cosa davvero incredibile. Sono stupefatto. Come? No, no, non dobbiamo per niente sentirci in colpa, era un uomo terribile. Senti, cosa fai più tardi? Sei libera? Perché potremmo cenare noi due da soli. Sì, un perfido festeggiamento. Sette e mezzo? Perfetto.

Il mattino seguente la pioggia diventa un diluvio: allaga diverse parti di Providence e inzuppa la troupe che aspetta, sotto un telone bucato fuori dal ristorante, di rigirare la scena 86, la cena romantica tra Abe e Jill dove si festeggia la morte del giudice Spangler. Questa era la scena in cui, dopo aver visto i giornalieri, Woody pensava che l’abito e l’acconciatura di Jill fossero troppo sofisticati, e che Abe dovesse sembrare più rilassato e allegro. Quando Woody arriva alla location, ha le maniche della camicia completamente fradice. Si unisce il pollice e l’indice davanti alla fronte e dice, «Avevo un

ombrellino di carta da cocktail». A tratti la pioggia è talmente forte che battendo sul tetto crea problemi al tecnico del suono. Sia Abe che Jill sono più rilassati di quando hanno girato la scena per la prima volta; sono talmente rilassati, in realtà, che scoppiano a ridere più volte mentre la cinepresa è in funzione. Mancano soltanto cinque giorni alla fine delle riprese, «Sono come gli ultimi giorni di scuola», commenterà Woody in un secondo momento. «Si tende un po’ a fare gli scemi. Hai visto Emma stamattina, non riusciva a smettere di ridere durante la scena.» Mentre la troupe si prepara alla prossima inquadratura, Khondji dice che ora capisce perché Woody voleva rigirare la scena del ristorante. Anche se a lui la prima versione piaceva, quella di oggi è molto meglio. «Già», dice Woody, più tardi. «Anche a me è sembrata leggermente migliore questa, perché se giri qualcosa per la seconda volta, hai il vantaggio del senno di poi. E gli attori, tra l’altro, hanno recitato insieme per più tempo e si sentono più sicuri, si lasciano un po’ andare, perciò questa è venuta meglio. Valeva la pena di spendere tutti questi soldi per rigirarla? Lo saprò solo in sala di montaggio. Però penso che questa sarà la migliore. [E infatti è questa versione a comparire nel film finito.] Penso che Emma fosse più bella in questa scena, e Joaquin più disinvolto. Tutto viene meglio la seconda volta. Vorrei poter girare di nuovo tutti i miei film. Chaplin girava sempre una prima versione, poi la guardava e la girava di nuovo. A quei tempi lo potevi fare.» Khondji prima ha citato Una squillo per l’ispettore Klute (1971) come esempio di un film particolarmente adatto al formato Panavision. Quello che vorrebbe fare Khondji è catturare l’atmosfera misteriosa di quel film nel personaggio di Abe.

«Sì», dice Woody quando lo viene a sapere. «È un’ottima idea, però io sono già felice se abbiamo una lente che non va fuori fuoco.» Un’intera giornata la si dedica alla preparazione e all’esecuzione dell’omicidio: Abe pedina il giudice per scoprire le sue abitudini. Cosa che la scaletta di produzione riassumono in questi termini: «Scena 60: il giudice Spangler fa jogging e poi legge il giornale su una panchina del parco; 71: Abe spia il giudice mentre fa jogging; 75: Spangler fa jogging; 76: Abe guarda Spangler; 77: Spangler compra il succo d’arancia e il giornale; 78: Abe segue Spangler alla sua solita panchina del parco». E poi arriva la 79, la scena importantissima in cui Abe lascia al giudice il contenitore di succo avvelenato a Lippitt Park, un isolato composto da prati, alberi, un campo giochi, delle panchine, e un paio di sentieri che tagliano il verde. Quasi sei ore di questa giornata vengono passate su Abe che arriva alla panchina sotto un albero dove Spangler sta leggendo il giornale e scambia rapidamente il suo contenitore di succo di frutta – pieno di cianuro – con quello identico del giudice. Per essere certi di coprire ogni possibile angolazione, vengono preparate undici inquadrature: una a figura intera, che parte sul giudice e poi arriva a includere Abe che si siede ed esce di scena in entrambi i casi da sinistra; una con al centro i contenitori del succo (Abe entra da sinistra, si siede, appoggia il suo contenitore, prende quello del giudice, ed esce da sinistra); una in cui Abe si siede sulla panchina e spinge in avanti il suo contenitore e un’altra in cui si siede sulla panchina ma senza spingere in avanti il contenitore, uscendo sempre di scena da sinistra; una in cui Abe è ripreso di profilo, con il giudice leggermente fuori fuoco; un primo piano di Abe che esce da sinistra; un mezzo primo piano del giudice; un primo piano del giudice; un piano americano (l’attore viene ripreso dalle ginocchia o dal petto in su) di Abe e del giudice, che viene girato due volte: una con il fuoco che passa dal

giudice ad Abe, e un’altra con il fuoco che passa da Abe al giudice; un piano americano di Abe e del giudice; un mezzo primo piano di Abe girato con la Steadicam; e infine, da dietro la panchina, un campo lungo a figura intera girato con il dolly (la macchina da presa si muove sui binari del dolly in modo da mostrare gli attori per intero) che parte sul giudice per poi comprendere Abe che entra in scena ed esce da sinistra mentre il carrello gli si avvicina lentamente. Per Woody quest’inquadratura dal retro sarà l’«inquadratura-madre» di tutta la scena. Si girano trentacinque ciak e se ne stampano ventinove, per un totale di ventisei minuti di pellicola; la scena finale durerà un minuto e mezzo.

Per girare la scena in cui Abe avvelena il giudice Spangler è stata necessaria quasi una giornata intera.

Girare questa scena è più difficile di quanto sembri. Un uomo arriva e si siede su una panchina accanto a un altro uomo, impegnato a leggere il giornale, con un contenitore di succo al suo fianco. Il primo uomo rimpiazza il contenitore senza farsi notare e se ne va. «Il problema», dice Woody nei tempi morti tra un’inquadratura e l’altra, «è: “Come avvelenare uno sconosciuto a meno di, ecco, spedirgli una torta a casa e avvelenare anche tutti i suoi parenti?”. Non è una cosa facile.

Allora questo è stato l’escamotage che ho trovato: Abe era in grado di scoprire le abitudini del giudice (fa jogging e poi beve una spremuta o qualcosa del genere). [Alla fine ha optato per la spremuta, e non per il caffè, perché non c’è modo di sapere come beve il caffè il giudice, anche se era possibile sapere cosa ordina di solito.] Quindi la domanda è: “Come avvelenare la sua bibita?”. Be’, non si può, perché il contenitore ha sopra un coperchio, non ci si può mettere dentro del veleno senza essere notati. Serve un contenitore uguale che abbia già dentro il veleno, e bisogna scambiarlo di posto con l’altro. «Riprendo tutto da più angolazioni e ho due idee guida ben chiare in testa. Innanzitutto, lo scambio dei contenitori non deve sembrare ridicolo o comico, come in un film di Gianni e Pinotto. Inoltre, se funziona, posso avere un minimo di tensione allungando il tempo in cui si svolge l’azione.» Sebbene Woody e Khondji avessero pensato che l’inquadratura più drammatica dello scambio fosse quella dal retro, Woody, che sta già montando la scena a mente, ha un ripensamento mentre vengono girati altri ciak da davanti e dai lati. «Sembra che forse ce la caveremo più facilmente così. Adesso mi sembra che se mostriamo il viso di Joaquin e poi il viso del giudice e poi i due contenitori e poi la sua mano che si avvicina al contenitore e se poi stacchiamo un secondo, e lo facciamo all’interno di un montage dove non si vede mai l’intera azione, allora me la posso cavare, non risulterà comico e il pubblico non capirà quanto sarebbe difficile farlo veramente. Se io sto seduto a leggere su una panchina, sono sovrappensiero e non immagino minimamente che qualcuno stia pensando di uccidermi, non me ne accorgerò se un tipo si siede vicino a me e scambia i contenitori: è sicuramente fattibile. Devo solo fare in modo che il pubblico ci creda. Potrebbe andare storto per un milione di ragioni. Cioè», aggiunge, mettendosi a ridere, «un bambino potrebbe vederlo e potrebbe gridare, “Mamma, mamma, quell’uomo ha rubato la bibita a quell’altro!”.»

Dopo il diluvio di ieri, il cielo è blu e l’aria è limpida: una bella giornata estiva. Mentre la troupe prepara una delle inquadrature, Woody vuole capire se riesce ad afferrare bene una palla potendo seguire la sua traiettoria con un solo occhio buono. Va dal trovarobe, si fa dare una palla da tennis e passiamo una mezz’ora a fare qualche lancio – lui non lo faceva da una vita. I suoi lanci sono fluidi e leggeri, e il movimento del corpo è quello di un giocatore professionista. Quando andiamo a pranzo, il suo autista Greg Miller racconta che i suoi colleghi camionisti gli hanno detto, «Ehi, il tuo amico è bravo».

Woody si rilassa durante una pausa.

A quattro giorni dal termine delle riprese, si trova finalmente una soluzione per il montage che apre il film. Invece di mostrare Abe che attraversa il ponte in automobile, ci saranno una serie di inquadrature di Abe che guida lungo quelle stradine vicine al mare che circondano Newport, e intanto sentiremo la sua voce fuori campo: Kant dice che la mente umana è tormentata da domande che non riesce ad ignorare, ma alle quali non riesce a dare risposta. La scienza fa progressi e la filosofia no, perché alle domande più profonde della filosofia non possono avere risposta.

Quindi di che cosa stiamo parlando? Moralità? Scelta? La casualità della vita, estetica, omicidio? Fortuna? Tutto quanto – è tutte queste cose.

Poi, qualche inquadratura della vita al campus, con le lezioni e gli studenti che vanno e vengono: JILL (F.C.) Credo che Abe fosse pazzo fin dall’inizio. Si trattava di stress? Di rabbia? Era disgustato da ciò che considerava l’infinita sofferenza della vita? O era solo annoiato dalla mancanza di significato della vita di tutti i giorni? Era un uomo maledettamente interessante. E diverso. Un ottimo conversatore. Sapeva sempre intorbidare un argomento con le parole. ABE (F.C.) (sta ancora guidando) Da dove cominciare? Secondo gli esistenzialisti non succede niente finché non si tocca il fondo. Diciamo che quando andai a insegnare al Braylin College emotivamente io ero a Zabriskie Point. Accettai il lavoro al Braylin perché era un piccolo college del Rhode Island dove potevo insegnare e forse rimettermi in sesto. Naturalmente la mia reputazione – o meglio, una certa reputazione – mi aveva preceduto.

Woody dava per scontato che questa sequenza sarebbe stata l’opportunità di dare un’occhiata al campus, però, visto che nel frattempo ne ha già utilizzato tutti gli scorci più fotogenici, ora pensa che sarebbe «interessante se subito dopo l’ultimo titolo di testa ci fosse un primo piano di Joaquin alla guida, ripreso attraverso il parabrezza, e intanto si sentisse la sua voce fuori campo che parla di Kant. Inoltre sarebbe bello vedere Ocean Drive dal finestrino dell’auto, e a quel punto potrebbe inserirsi la voce di Emma». Se non ha insistito prima per questa soluzione, è stato «perché è costosa e una gran seccatura da realizzare, e perché io odio le scene in automobile. Ti piazzano sul rimorchio che traina l’automobile e il monitor lo guardi da lassù». Questa inquadratura sarà il primo momento in cui il pubblico potrà dare uno sguardo ad Abe. Woody non vuole far fare un bell’ingresso in scena soltanto alle sue protagoniste femminili: se la storia lo richiede, lo fa anche per gli attori uomini. Javier Bardem in Vicky Cristina Barcelona, ad esempio, ci viene mostrato mentre tiene la schiena addossata a

una colonna, con un bicchiere di vino rosso tra le mani, una camicia di satin rosso e un’aria un po’ losca: risulta chiaro da subito che è un tipo sexy, e che porta guai. In questo caso però, riflette Woody, «Non voglio vedere Joaquin fino a quando l’automobile non arriva al college – è solo una voce misteriosa – e quando scende ha gli occhiali da sole. In questo modo avrà comunque una bella entrata in scena, ma non nella maniera che volevo io, perché abbiamo esaurito le parti del campus che volevamo mostrare». La mattina di venerdì si comincia presto, così da poter avere la luce migliore. Gran parte della mattinata viene passata a girare undici inquadrature di Abe al volante della macchina, con gli alberi, le siepi e l’oceano che gli scorrono accanto. La vecchia Volvo di Abe è collocata sul pianale di un rimorchio trainato da un furgone: sul retro del furgone è posizionata la macchina da presa. Ma c’è un grosso problema con il girato, e non se ne accorgerà nessuno fino al penultimo giorno della lavorazione. Il mattino seguente, alle 6.00, sempre per poter avere la luce migliore, Woody gira la scena finale alternativa (138) che ha appena scritto: Jill cammina da sola sul bagnasciuga di una piccola baia deserta. L’oceano riempie la metà dello schermo. L’immagine coprirà la sua voce fuori campo, che dura quarantacinque secondi: Quando ripenso ad Abe Lucas devo ammettere che è stata un’esperienza da cui imparare. E col senno di poi vedevo in prospettiva la vita, l’amore, la psicologia, la filosofia, e chi fossi io. Avevo perfino visto, per un terrificante attimo, la morte da vicino. Imparai anche a diffidare di chiunque fosse convinto della propria superiorità morale. L’intera storia era stata una vera lezione. Una lezione dolorosa, di quelle che, secondo Abe, non si possono imparare dai libri.

Quando Woody guarda i giornalieri, il martedì seguente, dice, «Mi piacerebbe poter vedere un po’ più del suo viso sullo schermo. Non è la fine del mondo. Ci possiamo lavorare, ma sono un tantino deluso».

Resta ancora un problema da risolvere. La musica dei film di Woody Allen è quasi sempre un mix di jazz e canzoni degli anni trenta e quaranta, spesso firmate dai suoi compositori preferiti, come George Gershwin, Cole Porter, Irving Berlin e il duo formato da Richard Rodgers e Lorenz Hart. Spesso Woody ha un’idea di quale tipo di musica vorrà usare prima ancora di scegliere il titolo definitivo del film. Stavolta, a un paio di giorni dalla conclusione delle riprese, non sa proprio cosa farà, e per la prima volta da settimane ci sta riflettendo sul serio. «Questo è un film inquietante, un melodramma. Quando ho fatto Match Point, ho usato la lirica perché era quello che il film suggeriva: la trama era tipica dell’opera, e in più la famiglia del film amava l’opera e lo invitava spesso all’opera [Woody parla del protagonista, il tennista che diventa un assassino], quindi alla fine funzionava, e ho potuto usare tanti vecchi dischi di Caruso; secondo me era di grande effetto. [Woody ha usato registrazioni d’epoca, soprattutto delle arie cantate da Enrico Caruso, più un motivo di Andrew Lloyd Webber.] Qui, invece, la trama non suggerisce nessuna musica particolare. Jill suona il piano, ma non credo che il pianoforte classico sarebbe molto emozionante. Quindi sto pensando a qualcosa di totalmente spiazzante. Alla fine non lo farei mai, però potrebbe essere che tutte le canzoni contengano nel titolo la parola crazy, “pazzo”: You’re Driving Me Crazy (“Mi stai facendo diventare pazzo”), I’m Crazy Because I Love You (“Sono pazzo perché ti amo”). Non posso usare It’s a Wonderful World perché è già stata usata ironicamente in Questo mondo è meraviglioso [1939, con Claudette Colbert e James Stewart, diretto da W.S. Van Dyke]. Se trovi il giusto brano musicale lo puoi fare. Magari esiste da qualche parte un pezzo di Cole Porter o di Rodgers & Hart che sia adatto. Quando ho fatto Mariti e mogli, abbiamo trovato quella splendida vecchia registrazione di What Is This Thing Called Love? (“Cos’è questa cosa chiamata amore?”) con Bubber

Miley alla cornetta, Eddie Duchin al pianoforte e Lew Conrad alla voce. Ecco, la canzone centrava benissimo il punto. Nell’Affittacamere [1962, con Jack Lemmon, Kim Novak e Fred Astaire, diretto da Richard Quine] avevano usato A Foggy Day in London Town (“Un giorno di nebbia a Londra”) perché il film era ambientato a Londra e ogni volta in cui si sentiva della musica – o almeno molto spesso nel corso del film – c’era quel brano. Quindi se ci fosse un qualche pezzo blues da nightclub di Johnny Mercer… Ironicamente, potrebbe essere I’ve Got the World on a String (“Ho il mondo in pugno”). In Crimini e misfatti ho usato Murder, He Says (“Omicidio, dice lui”) cantata da Betty Hutton. «Vorrei trovare un pezzo vivace, perché quando sullo schermo vedi persone che passeggiano per il campus o che vanno in automobile, un brano musicale allegro e piacevole ti viene incredibilmente in aiuto. In Psyco [1960], quando Janet Leigh è in auto diretta al motel, si sente una musica minacciosa, come un cattivo presagio, e funziona benissimo, perché lei è ancora in fuga. Ma devi trovare il brano giusto oppure fartelo scrivere da qualcuno. La musica di Quincy Jones per A sangue freddo [1967] non è la mia preferita tra quelle che ha composto, ma di sicuro crea tensione. Però, ripeto, nessun aspetto di questo film mi suggerisce nulla, ed ecco perché mi sto un po’ mangiando le mani per non aver seguito il mio primo istinto [a cui aveva accennato alcune settimane prima]. Avevo fatto comprare un lettore cd da aggiungere alle cose che Abe avrebbe portato nel nuovo appartamento, e pensavo che quando sarebbe tornato dal cocktail di benvenuto avrebbe messo su un cd, e che la sua musica preferita, ironicamente, sarebbe stata quella di Jelly Roll Morton, o simili: un intellettuale come lui non avrebbe faticato a giustificare una raffinatissima passione per il boogiewoogie più proletario, e la cosa sarebbe parsa verosimile. Ma non ho dato seguito alla intuizione, non so perché. Poi stamattina durante la scena romantica, stavo quasi – quasi –

per avvicinarmi a Emma per chiederle di aggiungere una battuta, “Che bella musica c’è qui”. Ci avrei messo della musica diegetica, musica da cocktail – e a quel punto Joaquin avrebbe potuto dire una cosa come, “L’unica musica che mi piace davvero è il boogie-woogie”, e avrei potuto usarlo come un filo tematico senza doverlo giustificare, ma non mi convinceva del tutto. Volendo si può fare a meno della musica. Ovviamente quando vanno al cocktail di benvenuto con i professori ci devi mettere qualcosa in sottofondo, e per il ristorante chic serve comunque qualcosa per coprire il rumore della pioggia. Ma il film in sé non mi suggerisce nulla.» La gente si dimentica che Io e Annie non aveva una colonna sonora – tutta la musica presente nel film era diegetica, ovvero proveniva da radio o stereo presenti nelle inquadrature – e anche se Woody durante le riprese di questo film ha lasciato intendere una o due volte che c’era anche la possibilità di non usare musica, adesso dice, «Ai tempi di Io e Annie ero più coraggioso, e per quanto riguarda questo film non sono altrettanto sicuro di me: quella era una commedia romantica, qui ci si potrebbe provare, ma non è stato girato per restare senza musica. Non inserire la musica va bene quando hai tanti stacchi, ma quando stai davanti a un totale la musica ti serve. E per me una delle parti divertenti del lavoro è proprio mettere la musica nei film. Non vorrei privarmi del piacere che provo quando, con Alisa [Lepselter, la sua montatrice per gli ultimi diciannove film], cominciamo a inserire la musica nel film e di colpo una scena noiosissima prende vita grazie a una canzone di Louis Armstrong o Cole Porter». Armstrong è una grande passione di Woody. Alcuni giorni prima aveva detto che prima o poi vorrebbe trovare un film adatto per inserire le sue versioni di Shadrach, Meshach, and Abednego (“Azaria, Anania e Misaele”) e The Night Before Christmas (“La notte prima di Natale”). Non qui, però. «Non potrei usare mai niente di simile, non sarebbe il caso, ma adoro sentirlo cantare» – parla di The Night Before Christmas –

«Adoro tutto quello che ha fatto. Ma con questo film non mi è d’aiuto. Ho usato moltissimo blues in Blue Jasmine – King Oliver, Sidney Bechet e Louis Armstrong – e non voglio fare la stessa cosa qui.» Il 19 agosto è il penultimo giorno di lavorazione. Oggi e domani le riprese si svolgeranno in un palazzone di cemento che al momento è vuoto ma un tempo ospitava una banca e una serie di uffici. (È noto come “il palazzo di Superman” perché assomiglia a quello che, nella serie tv di Superman, è la sede del “Daily Planet”.) Le impressioni che Woody ha del film, e che nel corso delle ultime sei settimane sono oscillate dalla gioia alla disperazione, ora si sono assestate sulla solita ambivalenza di quando arriva alla fine delle riprese. «Giunto a questo punto, non sarei affatto sorpreso se al montaggio mi trovassi a dire, “Ehi, il film è buono, la storia funziona”. E non sarei nemmeno sorpreso se il pubblico non se lo filasse proprio, o se trovasse la storia poco credibile. Gli spettatori potrebbero pensare che ho mischiato una trama pseudo drammatica con atmosfere alla Hitchcock e che c’è troppa patina intellettuale per questo genere di storia; oppure potrebbero pensare che va bene così com’è. Se mi ci metto, forse riuscirò a sviluppare una seconda stesura in sala montaggio.» Woody è impaziente di finire, tornare a New York e dormire nel suo letto. «Ah! Non trovo le parole», dice con un sorriso, la voce carica di piacere. «Non esiste la maniera di dirti come mi sento quando la mattina dalla mia camera da letto scendo le scale, vado all’ingresso a prendere il “New York Times”, e fuori c’è la mia bellissima strada. È New York, è Manhattan, è appena fuori dalla mia porta di casa. Io lì ci vivo: sono il proprietario di un pezzo di Manhattan. Non ho parole per dirti che emozione sia. Potrei restare cinque minuti in piedi sulla soglia a guardare e basta: gli alberi, la gente che passa. È Manhattan, e tutto ciò che ci divide è una porta.» Woody ride per l’intensità della sua gioia, ma non cerca di nascondere

come si sente. «Per me è un piacere straordinario. Il mio isolato è sempre stato considerato uno dei più belli dell’Upper East Side, se non il più bello. Ci sono gli alberi da entrambi i lati, con piccole villette indipendenti. Prima di andarci a vivere mi era sempre piaciuto passeggiare su quella strada, e parlavo sempre di quanto fosse bello. Ci ho fatto abitare Alvy [Singer, il protagonista di Io e Annie].» Questo sogno a occhi aperti viene bruscamente interrotto quando arriva Helen Robin con i giornalieri delle inquadrature di Abe nella sua automobile. Il sedile della Volvo non era stato fissato bene: Abe sembra un ragazzino che saltella tutto felice perché sta andando a mangiare il gelato. Mentre la scena veniva girata, nessuno gli ha fatto notare quanto fossero marcati e costanti i sussulti dell’attore, ma adesso è tutto fin troppo evidente. Se n’erano accorte diverse persone della troupe, però nessuno aveva commentato la cosa, credendo che Woody volesse ottenere esattamente quell’effetto. A volte una troupe prova fin troppa deferenza per un maestro del cinema. Woody manda avanti velocemente tutti i ciak, e giunge presto a una conclusione: non c’è abbastanza girato che possa fornire la copertura necessaria alla scena. Il suo buonumore scompare. Mezz’ora fa era contentissimo all’idea di tornare a casa domani, ma adesso deve per forza rigirare tutto, e questo comporterà almeno un’altra giornata di lavoro. In parecchi condividono il suo scoramento. Nessun componente della troupe accoglie con entusiasmo l’ennesima giornata supplementare, tanto meno Robin e il resto della produzione, che stanno facendo i salti mortali per far rientrare il film nel budget. Robin chiama la polizia per capire se si può di nuovo bloccare al traffico Ocean Drive, ma scopre che prima del weekend non si può fare nulla. La giornata viene (letteralmente) tratta in salvo da Virginia McCarthy, la segretaria di edizione, che si è sistemata in un angolo dell’ingresso art déco del palazzo a guardare i

giornalieri con il cronometro alla mano. McCarthy sostiene di aver trovato un numero sufficiente di frammenti (della durata di quattordici o ventitré secondi) in cui Abe non sembra stare su un trampolo a molla: il montage può funzionare. Woody non aveva esitato a chiedere uno o due giorni in più: il denaro necessario, circa 175 000 dollari al giorno, ce l’avrebbe messo di tasca sua, dato che la produzione aveva già tre giorni di ritardo sulla tabella di marcia. Ha imparato la lezione molto tempo fa: prima di lasciare un set bisogna essere sicuri di avere tutto quello che serve. «Un bel po’ di volte mi sono trovato in sala di montaggio senza quello di cui avevo bisogno perché ero andato di fretta oppure avevo accettato troppi compromessi. Per me è un gran sollievo che Virginia mi abbia trovato delle parti che funzionano.» Con altri film Woody non ha avuto la stessa fortuna. Dopo aver guardato un primo montato di Crimini e misfatti, all’inizio del 1989, aveva detto che la parte drammatica del film, quella con Martin Landau, era meglio di quanto pensasse, ma la sua parte comica con Mia Farrow e Alan Alda non funzionava per niente. Nelle settimane successive ha buttato via un terzo della storia e ha riscritto sia la trama sia l’intreccio; alla fine ha rigirato 80 scene su 139, in parte durante le riprese e in parte dopo, e si è sobbarcato lui le spese di tutto il lavoro supplementare. Stavolta, però, non si dovrà ripetere una simile impresa eroica. Una volta risolta la crisi, la troupe si prepara a girare le sei scene previste per oggi. Quattro mostrano Jill a lezione di piano oppure Jill che si reca a lezione di piano, scene sparse nella seconda metà della storia. L’esterno per quelle scene è un palazzo di uffici alto sette piani, con la facciata di mattoni scuri. Le scene in interni, che comprendono lo studio dell’insegnante di piano e l’ascensore dove si svolge l’epilogo del film, si gireranno in un palazzo molto più alto; l’impianto dell’ascensore è risultato ottimale per inscenare il piano di Abe

per impedire a Jill di denunciarlo alla polizia. Il corridoio che collega l’ascensore allo studio dell’insegnante di pianoforte, che prima delle riprese era di un bianco sbiadito e consumato, è stato ritinteggiato con due diverse tonalità di vernice verde, e abbellito da un battisedia in legno che Loquasto ha fatto installare sulle pareti, a circa un metro d’altezza, per, dice lui, «creare tensione». Il battisedia guida il nostro sguardo lungo il corridoio di quasi ventitré metri, e ci spinge fino a alla porta dove c’è lo studio dell’insegnante di Jill. La moquette verde e sporca che ha coperto il pavimento per molti anni riesce a sembrare nuova, in qualche modo. Vicino all’ascensore c’è un elenco degli uffici presenti a questo piano. Tra i nomi, anche se nelle varie inquadrature non si riescono a leggere, troviamo lo studio Kordish & Kordish all’interno 613 (Scott Kordish è l’assistente di Helen Robin); il chiropratico T Me Do; e l’insegnante di piano, M. Wildmann. Sulla parete accanto all’ascensore, per aggiungere un tocco gradevole, c’è un lucente estintore di rame. È stato costruito anche un tramezzo con una porta finestra, per fare in modo che subito dopo l’ascensore ci sia un muro, e non il corridoio spazioso che in effetti c’è. Per quanto riguarda la scenografia della stanza dove Jill prende lezioni di piano, Loquasto la definisce «il classico studio di uno psicanalista, con un pianoforte». Lungo la strada ci sono due fari da quindici kilowatt l’uno, tenuti sollevati da due gru a cestello, che fanno entrare molta luce nella finestra opaca e ornata di tende dello studio. Sul pavimento sono state sistemate piastrelle di linoleum rosso e verde, e appeso a una parete c’è un poster con i ritratti dei più grandi compositori medievali e rinascimentali, barocchi, classici, romantici e moderni, da Guillaume Dufay a Igor Stravinskij. C’è anche un busto di Beethoven, su una libreria piena di volumi dedicati alla musica classica: ma tra di loro, per far divertire Woody, c’è un elemento del tutto fuori contesto: The Way to Tin Pan Alley, un libro che raccoglie canzoni e partiture musicali

risalenti al periodo tra la guerra civile americana e la prima guerra mondiale, con titoli quali I’m Going to Do What I Please (“Farò quello che voglio”) e $15 in My Pocket (“Ho 15 dollari in tasca”). «È una strizzata d’occhio al pubblico», dice Loquasto a Woody mentre dà un’occhiata alla stanza. «Non temete, gente, il prossimo film sarà una commedia.» Scena 91: Abe osserva la lezione di Jill, nel momento più sereno della loro storia d’amore. JILL (F.C.) Ricordo quanto mi sono divertita il giorno che Abe ha assistito alla mia lezione di piano. Mi ispirava molto. Avevo detto a Roy che mi serviva un po’ di spazio. Dio, che razza di cliché; ma lo spazio mi serviva eccome. Volevo prendere le distanze dalla nostra relazione per potermi dedicare ai miei sentimenti per Abe, che adoravo.

L’inquadratura mostra Jill intenta a suonare in presenza dell’insegnante e di Abe, seduto all’altra estremità del pianoforte a mezza coda. La macchina da presa è stata sistemata di fronte al piano, in modo da non mostrare le dita di Jill sulla tastiera, visto che Stone non sa suonare. «Fate entrare Deanna Durbin5», grida Loquasto mentre viene preparata l’inquadratura. La scena deve durare abbastanza da coprire i diciotto secondi di voce fuori campo. Woody chiede di restare su Jill per dieci secondi e poi di spostarsi su Abe. Tra un ciak e l’altro, truccatori e parrucchieri entrano in campo per dare qualche ritocco a Stone. Woody sta perdendo la pazienza. «Sembra di stare girando la pubblicità di un prodotto di bellezza», dice a voce alta, «Su, andiamo». Le scene dove Jill fa lezione di piano e poi congeda la sua insegnante non servono tanto alla trama, quanto a movimentare la sequenza. C’è bisogno di qualche elemento narrativo mentre Abe sta nel seminterrato a manomettere l’ascensore: «Stacchi su di lei che entra nello studio dell’insegnante mentre lui sale le scale; lei è con l’insegnante, sta provando vari accordi; lui la aspetta sul pianerottolo; e poi lei esce dallo studio. Queste piccole cose mi servono per far scorrere bene la sequenza».

La scena 130 segna l’inizio del crescendo con cui termina il film. Vari stacchi ci mostrano Abe che segue Jill mentre lei va a lezione. ABE (F.C.) Amavo Jill? Pensavo che fosse una ragazza fantastica, ma davo troppo valore alla mia vita per lasciare che lei la distruggesse.

Jill entra nel palazzo e Abe la segue poco dopo. Abe scende nel seminterrato, dove c’è la sala comandi dell’ascensore. In primo piano c’è l’armadietto con i comandi, in secondo piano il vano dell’ascensore. Nella scena 25 Abe e Jill parlano per la prima volta mentre fanno una passeggiata, e nel raccontarle qualcosa del suo passato lui le dice, «Ho guidato un taxi, sono stato tuttofare in un palazzo, ho manovrato un ascensore». Adesso quell’informazione entra davvero in gioco. ABE (F.C.) La sua morte doveva sembrare un incidente. Pensai a tutti quelli che potevano capitarle, e ci arrivai: la mia breve esperienza con gli ascensori mentre ero al college adesso mi poteva essere utile. Buffo come le idee migliori vengano quando uno è sotto pressione.

Scena 132: Abe nella sala comandi dell’ascensore. Si infila i guanti di gomma e comincia ad armeggiare nell’armadietto metallico. L’ascensore si muove, un po’, dopo di che si ferma con un tonfo. ABE (F.C.) Era perfetto. Il sabato aveva lezione di piano. Quasi tutti gli uffici erano chiusi. C’era poco movimento nel palazzo. Non potevo far sembrare che l’ascensore fosse stato manomesso, ma ne sapevo abbastanza per farlo sembrare rotto.

Nell’ingresso del seminterrato è stata posizionata una macchina da presa con una lente da cinquanta millimetri. Questo ci permette di vedere Abe più da vicino, ma non ci mostra tutta la stanza e la tromba dell’ascensore, che sarebbero le cose più importanti. Woody suggerisce di spostare la macchina da presa dietro la porta della sala comandi, e di usare una lente da quaranta millimetri, in modo che il pubblico possa vedere meglio l’ascensore: «Dobbiamo solo dare l’idea

che Abe stia combinando qualcosa. Per me, l’ascensore è la parte più importante dell’inquadratura. Non c’è bisogno di vedere Joaquin in primo piano, non c’è bisogno di vedere quale espressione abbia o cosa stia facendo di preciso con le dita. L’elemento che mi attira è la stanza. Il cuore dell’inquadratura è il vano dell’ascensore». L’unica inquadratura che viene fatta fuori dal palazzo si gira davanti al tribunale sull’altro lato della strada. Viene lasciata per ultima, per approfittare della luce tardo-pomeridiana. La scena 58 è una tra quelle dove Abe pedina il giudice Spangler per scoprire le sue abitudini, nella speranza di individuare il momento e il luogo adatti per ucciderlo senza testimoni. Spangler scende la scalinata del tribunale, cammina in direzione della macchina da presa, ed esce di campo da destra. Abe, che lo tiene d’occhio sullo sfondo, entra da sinistra ed esce da destra. Woody vuole che Abe sia presente nell’inquadratura senza che lui abbia «un’aria furtiva» e senza dover staccare su di lui. Abbiamo visto Abe spiare il giudice in molte situazioni diverse: da una panchina del parco, nella sua automobile, e a piedi. La scena è attraversata da una decina di comparse, tutte vestite in varie tonalità di beige. Woody raccomanda all’operatore di «soffermarsi sul giudice. È la prima volta che lo vediamo. Non può sembrare una comparsa che passa per caso davanti alla macchina da presa. Dev’essere una cosa alla “Signore e signori, ecco il giudice!”». Si gira un ciak, ma nell’inquadratura ci sono troppe persone e non si riesce a distinguere subito Spangler. «Eliminate la comparsa davanti al giudice, così lui esce da solo e non ci sono dubbi su chi sia», dice Woody, «e poi Abe deve stare ancora più indietro.» Ma ci sono ancora troppe persone sulla scalinata alle spalle del giudice. Un bel consiglio agli aspiranti registi lo dava Arthur Penn: un buon ottanta percento delle comparse presenti nel primo ciak, nel terzo sono sparite. «Abe dovrebbe stare

sempre in movimento, non appostato», dice Woody, a voce alta per farsi sentire. Il quarto ciak è migliore, il quinto è perfetto. «È proprio utile sbarazzarsi delle comparse», dice Woody, «in questo modo sai dove devi guardare.» Pochi secondi dopo si è già infilato nell’auto che lo riporterà a Newport. Il 20 agosto è il trentaduesimo e ultimo giorno delle riprese – quattro giorni in ritardo sul piano di lavorazione, ma tre in meno rispetto a quanto era stato pianificato all’inizio. Resta da girare soltanto la scena 136, la più drammatica del film. La scena prevede tre preparazioni: Jill esce dallo studio dell’insegnante di pianoforte e avanza lungo il corridoio; stacco su Abe, che la aspetta vicino all’ascensore; Jill volta l’angolo, vede Abe, i due hanno uno scambio di battute, e poi, quando si aprono le porte dell’ascensore, Abe afferra Jill per le braccia e cerca di spingerla giù nel vano vuoto dell’ascensore. L’idea è di finire tutto entro l’ora di pranzo, così che Woody e la sua famiglia alle 17.00 possano essere già a bordo dell’aereo privato di Edward Walson, diretti a New York. Woody è felicissimo di tornare a casa, anche se, dice lui, «Dopo che sono via da un po’ non mi ricordo più dove si programmano i film nei 200 o 500 canali [della sua tv digitale], né il codice dell’allarme, né dove tengo le mie vitamine». La troupe è stipata nel poco spazio libero sul pianerottolo e intorno all’ascensore. Woody appoggia la schiena alla parete, vicino alla macchina da presa. «Sono di una tristezza involontaria e inspiegabile. Inspiegabile perché muoio dalla voglia di andarmene da qui e sono contento che il film sia finito. Non vedo l’ora di montarlo. Però, quello che succede è, tu segui un progetto, lavori tutti i giorni a ritmi frenetici con le stesse persone: le vedi alle sette di mattina, stai con loro fino a sera, i loro problemi diventano i tuoi problemi e viceversa, e questo stato di cose può durare vari mesi. E d’un tratto» – sbatte le mani – «è finita. Non esiste un vero legame tra di voi. Io non ho un vero legame non Emma, non ce l’ho con Joaquin

o con Darius, nemmeno so come si chiama la maggior parte di quelli della troupe. Immagino che in certe situazioni si crei dell’intimità per forza di cose.» Questa è una scena che Woody ha pensato e ripensato per mesi, l’ha progettata con cura e ha spesso cambiato qualche dettaglio, eppure ancora non sa se funzionerà davvero. «Spero che quando vedrò il film non penserò, “Non ci crederà nessuno che lui decida di ucciderla, è stato troppo romantico con lei”. Sono preoccupato. Non so se mi sarò guadagnato il finale, se la gente penserà, “Mio Dio, era tutto così romantico. La ragazza per tutto il film si stava innamorando di questo vecchio scoppiato, ma non avrei mai pensato che lui avrebbe cercato di ucciderla”. [Il film ha un punto di contatto con Match Point: in entrambi i casi il pubblico non prevede che l’assassino voglia eliminare la sua amante.] Forse sarebbe credibile se lui si costituisse o se fosse pieno di rimorso. Sì, è pazzo, e io sto facendo affidamento sul titolo Crazy Abe, ma non voglio che il suo comportamento sia solo drammaticamente irrazionale e che non abbia una sua coerenza. Non dev’essere soltanto, “Lui è pazzo”, deve sembrare che lui potrebbe fare qualsiasi cosa; potrebbe mettersi a prendere lezioni di tip tap.» Le prime due parti della scena vengono girate senza problemi. Ora è il turno dell’azione, la più importante. Terminata la lezione, Jill avanza lungo il corridoio, e quando volta l’angolo per andare a prendere l’ascensore vede Abe. JILL Ciao. Mi hai spaventato. Ma… che ci fai qui? ABE È solo che ti volevo parlare prima di andare alla polizia. JILL Se vuoi dirmi qualcosa che non sia andarti a costituire non ne voglio parlare, chiaro? ABE

No, non vedo altro modo. Solo, volevo chiederti scusa per tutti i guai che ti ho causato. (Abe preme il pulsante dell’ascensore.) JILL Sì, è un incubo, lo so… ma io non vedo altra soluzione che raccontare alla polizia tutta la storia. ABE Quale? Che ho ammazzato un giudice? JILL Io ti starò vicino… voglio dire, come amica. ABE Non servirà, chiaro – è omicidio premeditato – mi metteranno in galera a vita. JILL Forse non lo faranno – magari con un buon avvocato – non si sa mai… ABE Ma dai. Mi prendi in giro? JILL Non so cosa dire… È tutto così tragico. (La porta dell’ascensore si apre su un vano buio e vuoto.)

In realtà, la cabina dell’ascensore è ferma un metro più in basso. In cima è stato sistemato un materasso per attutire la caduta di Abe, ma la cabina, rispetto al livello della porta, è abbastanza giù da far sì che al momento della caduta l’attore scomparirà completamente. Phoenix vuole girare lui la scena della caduta, ma prima uno stuntman farà diverse prove, per sincerarsi che non ci siano rischi particolari e perché Khondji decida come è meglio filmare questa parte della scena; Khondji filma le prove sul suo iPhone e le mostra a Woody. Per quanto riguarda la colluttazione tra i due attori, Stone ne girerà una parte, ma i passaggi più bruschi verranno affidati a una controfigura, che è stata trovata e assunta tramite uno stunt coordinator specializzato). L’inquadratura verrà girata con due macchine da presa, in modo da filmare l’azione con lenti diverse, da angolazioni diverse e con diverse velocità, cosa che renderà possibile montare la scena in maniera più elettrizzante:

è la prima volta in tutta la lavorazione che viene usata più di una macchina da presa. I sei cavi dell’ascensore vengono illuminati per enfatizzare il fatto che non c’è la cabina, ma a parte questo tocco di luce, il vano dell’ascensore è buio. Tra una prova e l’altra Woody si rimette a giocare a scacchi sul suo telefono. «Non ho mai vinto», afferma. Gli stralci di sceneggiatura di oggi non servono più. Woody interrompe la partita a scacchi per strappare le sue pagine nei soliti otto pezzi, poi le agita davanti alla bocca di Virginia McCarthy. Lei prende la carta tra il pollice e l’indice. «Non permettere che cadano nelle mani dei jihadisti», dice Woody. «So che il mio compito è mangiarle», risponde McCarthy, fingendo un tono solenne. «Già, si vede che hai messo su peso a forza di mangiarti la sceneggiatura.» «È una storia pesante.» Passano due ore e non è ancora stato girato nulla. Woody entra in modalità “dittatore spietato”. «Possiamo girare? Altrimenti non ce ne andremo mai.» Questa inquadratura genera una certa eccitazione nella troupe, un po’ perché è l’ultima in programma, un po’ perché è altamente drammatica, anche se si tratta pur sempre di una messa in scena; almeno, finché non comincia l’azione. Di colpo tutto sembra molto reale: un uomo cerca di spingere una donna giù per il vano di un ascensore. La donna lotta per mettersi in salvo. L’uomo sembra avere la meglio, ma poi la porta dell’ascensore si chiude, e lui deve cambiare leggermente posizione per poter premere di nuovo il pulsante. La donna si agita e si dimena con tutte le sue forze. Nel parapiglia, la borsa della donna cade a terra, e rotolano fuori diverse cose, tra cui alcuni spartiti e la torcia che lei aveva

scelto come premio al luna park. Entrambi scivolano per un attimo sugli spartiti, ma poi l’uomo rafforza la presa sulla ragazza ed è quasi arrivato al punto in cui può spingerla giù nel vano. Proprio in quel momento, lui mette il piede sulla torcia; la torcia rotola in avanti, e l’uomo cade all’indietro, nella porta aperta. Lascia andare la donna per cercare di aggrapparsi agli stipiti, ma non ci riesce, e grida mentre precipita, andando incontro alla morte. La donna raccoglie dal pavimento la torcia, la luce accesa nella direzione della telecamera, la guarda, poi guarda giù nel vano dell’ascensore. Alcuni membri della troupe, nonostante la loro pluriennale esperienza nel cinema, non riescono a trattenere un sussulto quando Abe cade. Tutti quanti applaudono appena la testa di Phoenix fa capolino dall’ascensore. Ma l’emozione della scena è molto evidente sul volto degli attori e, per quel che conta, su quello di molti degli astanti. Questa è la scena madre del film, e Khondji e Woody hanno prestato grande attenzione alle immagini sul monitor, per essere certi di aver ripreso tutto quello che gli serviva. Nessuno vuole che la star – o una controfigura – cada di nuovo nel vano di un ascensore, a meno che non sia strettamente necessario. L’inquadratura è buona, e si può andare avanti. Ora vanno girati altri particolari di Jill e Abe, per poter avere più angolazioni diverse tra cui scegliere quando si tratterà di montare la scena della colluttazione: Abe con la controfigura di Jill; le loro gambe durante la lotta; la borsa e la torcia sul pavimento; un altro dettaglio, un dettaglio della torcia e un particolare dei piedi di Abe, con il destro che scivola sulla torcia, filmato a trenta fotogrammi al secondo invece dei soliti ventiquattro in modo da poter poi rallentare l’azione in maniera impercettibile. Si stampano poco più di nove minuti di pellicola, per andare poi a montare una colluttazione che sullo schermo durerà venticinque secondi.

Sono passate le 13.00 quando sul set si sente per l’ultima volta la parola “Stop”, seguita dalla frase “Controlla il finestrino”. Altri applausi. Subito il cast e la troupe si dirigono verso una grande sala sullo stesso piano, per scattare la tradizionale foto di gruppo. Stone e Phoenix si fanno fotografare con i componenti dei vari reparti. Poi Phoenix va da Woody e gli fa un inchino profondo. «Maestro», gli dice, stringendogli la mano. La sera stessa c’è una festa di fine riprese, ma prima che possa cominciare Woody è già a casa sua, a New York.

1. In onda dal 1971, Masterpiece Theatre è una serie di film prodotta per la rete americana PBS: in molti casi i film sono adattamenti originali di grandi romanzi e biografie letterarie, ma in altri si tratta di progetti televisivi inglesi che vengono distribuiti così negli Stati Uniti. 2. “R” sta per “Restricted”: in base a questo visto di censura il film viene vietato ai minori di 17 anni non accompagnati. 3. In italiano, un termine forse più usato per questa pratica è “controllare il pelo”. 4. Nome che letteralmente significa “pesciolino”; anche il nome del fratello, Fishy, si potrebbe tradurre con “pesciolino”. 5. Attrice e cantante canadese molto popolare negli Stati Uniti durante gli anni trenta e quaranta, considerata il prototipo della “ragazza della porta accanto!. La battuta è un riferimento a Emma Stone, la tipica “fidanzatina d’America”.

6 Il montaggio

Il glamour del mondo del cinema quasi sempre latita durante le riprese di un film. E non è mai presente in sede di montaggio, che in questo caso trasformerà circa 60 000 metri di pellicola, contenenti una grande varietà di ciak presi da angolazioni diverse, in una storia da circa 2700 metri. Woody lavora in tre stanze che riuniscono un ufficio vero e proprio, una sala riservata al montaggio e una sala proiezione, oltre a un bagno e a una cabina di proiezione. Queste stanze si trovano sul retro di un palazzo di appartamenti a Park Avenue. L’intero spazio è senza finestre, a parte una, minuscola, che dà su un cortile interno dall’aria molto triste. Una volta era un club dove si giocava a bridge. Woody l’ha affittato negli anni settanta, principalmente per guardarci i film, e poi ha scoperto che poteva sfruttarlo per varie fasi del lavoro. L’ufficio misura due metri per cinque: dentro ci sono una scrivania di legno, un paio di sedie e alcune librerie. Un poster della Dea dell’amore sta appeso vicino all’entrata del piccolo corridoio che porta al distributore dell’acqua, al bagno e alla cabina di proiezione. La sala di proiezione, invece, che misura sei metri per dodici, contiene una mezza dozzina di sedie imbottite con un rivestimento in velour verde foresta che si intona al colore delle pareti. A Woody è riservato un divanetto beige, sistemato su una piattaforma rialzata appena sotto la finestrella di proiezione. Lungo una parete, invece, c’è un armadietto fabbricato su misura, che ospita le centinaia di dischi di

musica classica, jazz e da varietà da cui Woody pesca per le colonne sonore dei suoi film. Quando è chiuso, sembra soltanto un bel piano di lavoro in legno. All’interno, invece, i dischi sono sistemati in contenitori che somigliano a quelli dei vecchi negozi di dischi – almeno, tornando con la memoria a quando di negozi di dischi ce n’erano tanti, e Woody ne era un assiduo frequentatore. L’unico elemento a essere cambiato con gli anni (tappezzeria compresa) è la tecnica di montaggio che viene utilizzata nella stanzetta di cinque metri per nove riservata a questo compito. L’ingombrante Moviola era stato il dispositivo con cui, fin dalla sua invenzione nel 1924, si montava un film finito a partire da migliaia di frammenti di celluloide. Woody l’ha utilizzato per i suoi primi dodici film. Nel 1981 l’ha sostituito con due banchi di montaggio Steenbeck, ciascuno contenente un rullo di pellicola (circa 300 metri) e due rulli di tracce audio. Woody detesta sprecare tempo, quindi se ne era comprati due (costavano circa 30 000 dollari l’uno) per poter montare una scena su un banco e paragonarla subito a un’altra versione sul secondo banco senza dover smontare il rullo. Con entrambi i dispositivi bisognava prestare grandissima attenzione ai molti spezzoni di pellicola che venivano presi in considerazione per costruire una scena. Gli spezzoni venivano appesi come stelle filanti su una graffetta semi-aperta attraverso le perforazioni presenti nel nastro, e venivano lasciati cadere in un contenitore di tela abbastanza simile a un grande sacco per la lavanderia. Era una procedura noiosa che portava via moltissimo tempo. Per esempio, quando il regista voleva capire se tre quarti di secondo in più – pari a diciotto fotogrammi – miglioravano un’inquadratura, i fotogrammi andavano tagliati e montati a mano, e sempre a mano andavano rimossi se non funzionavano. Nei primi anni novanta, la software house Avid Technology mise sul mercato un programma che permette di montare il film digitalmente su un computer Apple con una tastiera

modificata, e che conserva in memoria tutte le versioni di una scena (e di un film intero) che si desidera. Se una volta ci volevano ore per fare un montaggio, oggi lo si può fare in pochi minuti, o in pochi secondi. Basta premere qualche pulsante per aggiungere quei diciotto fotogrammi, oppure per toglierli, se necessario. Woody ha cominciato a usare questo programma nel 1998 per Accordi e disaccordi, il primo film in cui Alisa Lepselter si è occupata del montaggio. Lepselter è una maga dell’Avid dalla voce morbida e i capelli rossi, che potrebbe sembrare la cugina di Julia Roberts. Prima di incontrare Woody era stata assistente al montaggio per due film di Nora Ephron e per L’età dell’innocenza (Martin Scorsese, 1993): in quest’ultimo caso aveva lavorato con la grande Thelma Schoonmaker, da cui dice di aver imparato moltissimo. Dopo che Lepselter ha montato Parlando e sparlando (1996), il debutto alla regia di Nicole Holofcener, è stata raccomandata a Woody quando girò la voce che lui cercava un nuovo montatore. I due si sono incontrati per un colloquio di dieci minuti – quindi un colloquio lungo, date le sue abitudini – e poche settimane più tardi lui le ha proposto di lavorare insieme. Lepselter è la sua terza montatrice in quasi quarantacinque anni. Prima di lei c’era stata Susan E. Morse, che ha montato ventuno film di Woody Allen a partire da Manhattan, nel 1979, fino a Celebrity (1998); ha anche montato la versione televisiva di Don’t Drink the Water (1994). Morse era stata assistente al montaggio per il classico di Walter Hill I guerrieri della notte (1979) ed era stata l’assistente di Ralph Rosenblum, che si era occupato della versione finale di Prendi i soldi e scappa, e poi del Dittatore dello stato libero di Bananas, del Dormiglione, di Amore e guerra, di Io e Annie e di Interiors. Tra i quaranta film di Rosenblum ci sono L’uomo del banco dei pegni (1964), L’incredibile Murray (1965), Il lungo viaggio verso la notte (1962) e Per favore non toccate le vecchiette, il primo adattamento del musical The Producers

diretto da Mel Brooks. Sono molti i casi in cui un regista si affida allo stesso montatore per un lungo arco di tempo. Martin Scorsese lavora con Schoonmaker fin dal 1967; Clint Eastwood con Joel Cox dal 1977; e Steven Spielberg con Michael Kahn dal 1977. Rosenblum arrivò a occuparsi di Prendi i soldi e scappa, che in buona sostanza è una lunga serie di sketch comici raccontati in chiave documentaristica, dopo che un primo montaggio non funzionava per niente. Stando a Woody, l’ottanta percento del materiale era piuttosto buono, ma è stato Rosenblum a salvare il film, letteralmente. Mostrò a Woody come una musica più vivace potesse animare alcune scene; lo incoraggiò a utilizzare alcune parti di una lunga intervista ai genitori del criminale fallito Virgil Starkwell che erano quasi tutte state tagliate, in modo da creare una sorta di ponte tra i segmenti che non scorrevano l’uno nell’altro in maniera abbastanza fluida e naturale; cambiò l’ordine di diversi sketch, spostandoli da un rullo all’altro, per dare al film un ritmo migliore; convinse Woody ad abbandonare un finale originale molto cupo, sanguinoso e realistico, dove Virgil moriva durante una sparatoria ispirata a quella con cui termina Gangster Story (1967), un finale del tutto inadatto a una commedia brillante («Non mi ero guadagnato quel finale», dice Woody); e poi, per dare maggiore unità al mix di elementi eterogenei che era il film, diede più spazio alla voce fuori campo di Woody e aggiunse una serie di interviste del narratore Jackson Beck a Virgil. La voce fuori campo è un elemento che Woody utilizza spesso, perché permette al pubblico di sapere cosa stanno pensando i personaggi. È il filo conduttore che unisce Zelig, Radio Days, Broadway Danny Rose, Un’altra donna, Mariti e mogli, La dea dell’amore, Vicky Cristina Barcelona e questo film, tra gli altri. Una tattica usata da alcuni registi di commedie prevede che si lasci un po’ di spazio tra una battuta divertente e il dialogo successivo, in modo che il pubblico

possa ridere senza perdersi ciò che viene detto subito dopo. L’hanno fatto Herbert Ross e la sua montatrice Marion Rothman per Provaci ancora, Sam, e lo facevano anche i fratelli Marx nei loro film, ma per Woody il ritmo è troppo importante per rischiare di perderlo così. A seconda che il film in questione sia una commedia oppure un dramma, ci sono diversi aspetti su cui riflettere, e diversi obblighi da rispettare. Per le commedie, il ritmo è fondamentale. Il primo montato di Scoop (2006), ad esempio, durava due ore e quattordici minuti; il film finito durava un’ora e trentasei minuti. «Il problema principale è stato mantenere alto il ritmo del film», ha spiegato Woody poco dopo aver terminato il montaggio. «È una commedia, una commedia leggera, e non ci sono molti elementi su cui giocare, a parte una storia leggera che deve rimbalzare da una parte all’altra in maniera gradevole. Se cominci a impantanarti, è la fine. Ho imparato la lezione – o meglio, l’ho capita ma non sono riuscito a metterla in pratica – quando ho scritto il mio primo testo teatrale, Don’t Drink the Water (1966), e ci ho aggiunto un sacco di materiale supplementare. Si tende a scrivere troppo per rendere poi le cose chiare e ben sviluppate. Io avevo scritto cinque o sei pagine di dialogo tra Tony Roberts, che interpretava il figlio dell’ambasciatore, e la figlia di Lou Jacobi e Kay Medford, ma nell’attimo in cui entrava in scena la famiglia con la figlia giovane e lei guardava lui e lui guardava lei… [schiocca le dita] tutto quel dialogo non serviva più. Era superfluo. Lo stesso vale anche al cinema. L’ho imparato [ride] un migliaio di volte e mi incasino lo stesso, e l’ho fatto anche con questo film. Pensi che il pubblico non capirà un passaggio, allora lo spieghi, lo chiarisci, ma la verità è che il pubblico sta sempre molto avanti a te.» Sia al cinema sia in tv, è prassi comune che il montatore metta insieme i vari giornalieri durante le riprese, in modo che

il regista possa guardarli e capire subito che cos’ha in mano, per poi decidere come proseguire. Ma Woody non ragiona in questo modo. Vuole essere lui a occuparsene. Nessun montatore tocca un fotogramma senza la sua supervisione, anche se spesso Woody lascia che sia Lepselter ad apportare una modifica già discussa o a sperimentare un’idea venuta da lei. Durante le riprese, Lepselter e i suoi assistenti mettono in ordine i giornalieri, raccolgono suoni o frammenti di sottofondo musicale che possono essere usati come tappabuchi in sede di montaggio, e in linea di massima preparano tutti i materiali così che il montaggio vero e proprio sia il più rapido possibile. Poi arriva Woody e parte dalla scena 1. Stando a Lepselter, lui ha «una straordinaria memoria fotografica per quanto riguarda le scene, i ciak e i dialoghi, in parte perché ha scritto il film e ha vissuto ogni inquadratura». Mentre gira, Woody pensa costantemente al futuro e cambia il film mille volte nella sua testa. Spesso sa di voler cambiare posto a una scena anche prima di arrivarci perché già la immagina in un altro punto della storia. Va in sala di montaggio entro al massimo una o due settimane dal termine delle riprese. Per arrivare a un primo montato del film ci vogliono circa dieci giorni: molto più lavoro resta da fare nel mese successivo. Anche quando Woody finisce il primo giro, per così dire, non è sicuro di ciò che ha finché non guarda il film dall’inizio alla fine senza interruzioni. «Mentre sto montando», ha detto un giorno con un sospiro, «non ho la più vaga idea di quale sarà l’effetto complessivo del film. È tutta un’autocelebrazione, un trionfo di fiducia, positività e ottimismo. E poi guardi la tua opera… [ride ironicamente] e ti si spezza il cuore. Il film è sempre troppo lungo, sempre troppo lento. Immancabilmente, le cose che tu trovavi divertenti o meravigliose non lo sono affatto, i rapporti tra personaggi che pensavi avrebbero preso una certa direzione ne prendono un’altra. Tutto quello che può andare storto, lo fa, e niente è buono come tu speravi che fosse.»

David Picker, uno dei grandi sostenitori di Woody alla United Artists, una volta disse a un regista esordiente, «Non ti preoccupare. Nessun film è bello come i giornalieri o brutto come il primo montato». Verso metà settembre 2014, dopo un viaggio in Francia per la prima di Magic in the Moonlight e le varie interviste promozionali, Woody e Lepselter cominciano il montaggio di The Boston Story. A Woody piacerebbe ancora intitolarlo Crazy Abe, ma non ne ha parlato con nessuno di quelli che hanno collaborato al film, a parte sua sorella e Helen Robin. Woody e Lepselter stanno seduti all’Avid uno accanto all’altra, nell’angolo in fondo a destra della sala di montaggio. Alla destra di Woody c’è un monitor da quarantasei pollici, per dargli una visualizzazione ingrandita del materiale a cui stanno lavorando, e un tavolino di legno che a volte lui usa come poggiapiedi. Alle spalle della coppia, sulla porzione superiore della parete, ci sono decine di schede (che misurano quattro centimetri per venticinque ciascuna) appese a dei ganci e sistemate in colonna. Ogni scheda corrisponde a una scena del film, e ha un colore particolare a seconda di quali elementi del film siano presenti in quella scena: se è sistemata in un punto particolare, quel punto corrisponde al momento della trama in cui avviene la scena. Una scena scritta per comparire in un certo passaggio del film può facilmente essere messa prima o dopo. Su altre colonne sono disposti gli scarti, le schede delle scene che sono state eliminate. Lungo una parete dietro di loro c’è una rella con ventisette costumi di scena di Magic in the Moonlight in attesa di essere venduti, donati o messi in magazzino. Vicino alla porta, invece, ci sono due assistenti al montaggio che lavorano ai rispettivi computer. Dietro le sedie occupate da Woody e Lepselter c’è anche un divano a tre posti. Alla sinistra della donna c’è un leggìo su cui è appoggiato un raccoglitore a fogli mobili: dentro ci sono la sceneggiatura del film con tutti i dettagli sui singoli ciak che si è appuntata la segretaria di edizione durante le riprese. Lepselter comunica a

Woody quanti ciak sono stati fatti per ogni inquadratura prima di visionarli. Quando sta al montaggio Woody si concentra come quando sta scrivendo, il che significa che è completamente assorbito dal compito. Non mangia, non mette musica in sottofondo, non cerca nessuna distrazione durante le pause: e comunque di pause vere e proprie lui non ne fa. Dal lunedì al venerdì arriva in studio tra le 9.00 e le 9.30, lavora fino a mezzogiorno, torna a casa a piedi per il pranzo, torna in ufficio intorno all’una e continua a lavorare fino alle 17.00 o poco più tardi. Non perde tempo in chiacchiere e non inizia una conversazione di natura personale: la sua attenzione va tutta al lavoro. In sala di montaggio si comporta come sul set: è calmo, beneducato, e non prova alcun interesse verso le vicende umane della troupe. A lui interessa solo lavorare, non farsi nuovi amici. Se c’è un momento di vuoto, magari mentre Lepselter modifica una scena all’Avid in base a quanto hanno deciso insieme, Woody le resta seduto accanto in silenzio, oppure si incontra con la sua assistente Gini Tamberi, risponde a una telefonata o a una mail, si occupa di qualsiasi altra faccenda sia all’ordine del giorno. «Montare i film di Woody è diverso dal montare i film della maggior parte degli altri registi», dice Lepselter. «Lui non gira da un gran numero di angolazioni. Speriamo sempre di selezionare il ciak dove l’attore ha dato l’interpretazione che funziona meglio ai fini della storia. Scegliere i ciak, cambiare l’ordine delle scene, allungare o accorciare certi passaggi del film: lo scopo è sempre quello di trovare cosa sia più funzionale alla storia, e sincerarsi che questa sia raccontata in maniera autentica. La narrazione dovrebbe scorrere con naturalezza; dovrebbe essere efficace e lasciarti prendere un po’ di fiato ogni tanto. Il ritmo di una scena dovrebbe risultare in linea con il modo in cui quella scena è stata girata. Io credo che sia il film a dirti cosa devi fare, sempre a patto che tu gli presti attenzione.» Tra le cose da tenere d’occhio durante il

montaggio ci sono il ritmo delle voci degli attori, l’intonazione delle parole, e la dolcezza (o la durezza) della pronuncia. Ma ci sono anche gli alti e bassi emotivi di certe scene, che vanno tenuti in considerazione per capire la maniera migliore di combinare quelle scene così che la storia vada avanti. Tra il ciak che contiene l’interpretazione migliore e il ciak più gradevole da guardare, Woody sceglierà sempre il primo, anche se magari non sarà perfettamente a fuoco. Una delle ragioni per cui non gli interessano poi tanto i piccoli difetti tecnici sta nel desiderio di evitare che i suoi film sembrino «patinati e commerciali», come succede con i grossi studios, quando mettono al primo posto la perfezione formale. Inoltre, come sottolinea lui, il pubblico raramente si accorge dei minimi errori notati dai professionisti. Quindi sullo schermo finisce tutto ciò che a Woody sembra più vero. Anche se in fase di montaggio non riesce ancora a capire quale sarà l’effetto complessivo del film, si fa comunque un’idea del suo ritmo, e solo a quel punto capisce cosa va tagliato. «In certi momenti, quando stai montando, lo senti che vuoi passare alle scene successive, allora io guardo Alisa e lei guarda me e sappiamo tutti e due la stessa cosa: a chi mai interesserebbe questa scena?» Il montaggio di ogni scena inizia con Woody e Lepselter che visionano i giornalieri, ma il girato è già stato trasferito integralmente sull’Avid in formato digitale, quindi possono accedere a tutto il materiale. Lepselter prende nota di quale ciak sia il suo preferito e quale piaccia di più a Woody, oppure se si trovano d’accordo su un ciak in particolare; a volte capita che a uno dei due piaccia il modo in cui è stata pronunciata una certa battuta. Come per quasi tutti i film, di solito l’ordine del montaggio prevede di cominciare con un’inquadratura d’ambientazione, seguita da qualche campo medio e poi dai primi piani. E di solito dopo aver visto il materiale Woody e Lepselter hanno le idee piuttosto chiare su come procedere con la scena, almeno nel primo montato.

Sulla copia della sceneggiatura piena di appunti che Lepselter si tiene accanto c’è una linea che collega tutti gli scambi di battute recitati quando in campo appare un certo personaggio, ad esempio, Jill nella scena 92a. Se Woody chiede quanta copertura le sia stata data, Lepselter può subito vedere da quante angolazioni sia stata ripresa l’attrice. Sulla facciata sinistra ci sono gli appunti – utilissimi – che sono stati presi per molti ciak: qual è il migliore per il sonoro e quale per la fotografia; se in uno risulta visibile un microfono; quali ciak sono stati interrotti; in quali casi, in sottofondo, si sente il rumore di un aeroplano di passaggio. Ma Woody sa già quasi tutto, tant’è che, dice Lepselter, certe volte resta «sbalordita dalla precisione con cui lui si ricorda quali sono i suoi ciak preferiti. Woody ricorda tutto ciò che è successo sul set. Se esistono venti ciak di una certa inquadratura, lui dice, “Andiamo direttamente agli ultimi due”, perché si ricorda che stava cercando di ottenere un certo effetto o una certa interpretazione. Allora visioniamo per primi gli ultimi due ciak, e poi andiamo a recuperare i precedenti; questo gli rinfresca la memoria rispetto a cos’era successo quel giorno sul set». Woody ascolta i suggerimenti di Lepselter, e accetta quelli che offrono una soluzione migliore rispetto a quella pensata da lui, però, a differenza di altri registi che magari dicono, “Questa è l’idea, ora trova il modo di realizzarla e poi io torno a vedere cos’hai fatto”, Woody è presente per ogni singolo fotogramma. Nel corso degli anni, Lepselter ha elaborato diverse scorciatoie: ha programmato la sua tastiera in modo da lavorare a una velocità notevole. Ma anche così, ci può volere del tempo per arrivare a montare una scena. «A volte», racconta divertita, «so di poter fare qualcosa in maniera diversa e che a lui piacerebbe di più, però mi serve un po’ di tempo per mettere in pratica quello che ho in mente. Allora dico, “Mi ci vuole qualche minuto, va’ a farti un giro e poi torna”, ma Woody preferisce starsene seduto ad aspettare che

io trovi la soluzione, perché non ha voglia di alzarsi e di uscire.» Per Woody è «inconcepibile» non essere coinvolto in ogni più piccolo aspetto del film. Ai suoi occhi, la sceneggiatura, il casting, le location, la regia, il montaggio e la colonna sonora sono tutte parti della stessa opera. La sceneggiatura è soltanto un manuale d’istruzioni. «Quando monti e scegli la musica, stai “scrivendo per immagini”. Per me fa tutto parte del processo creativo.» Come già succede con le varie stesure della sceneggiatura, il montaggio è il momento giusto per affinare o smussare un po’ le scene, per riordinarle in modo da far scorrere meglio la storia, e per tagliare tutto ciò che ormai sembra irrilevante. A differenza di quello che succede mentre si scrive, non è affatto semplice «fare qualcosa di nuovo»: ci si deve accontentare del materiale girato. L’unica cosa facile da cambiare è la voce fuori campo, e infatti Woody riscriverà alcuni passaggi di quella di Jill. Fino a una ventina di anni fa, Woody faceva il piano finanziario dei suoi film in modo da potersi permettere di tornare sul set per rigirare qualche scena. «Di base, io filmo la sceneggiatura», ha detto durante la lavorazione di Un’altra donna. «Mi piace avere una prima stesura su pellicola e poi vedere a che punto sono. In questo modo scopro cose profondissime che altrimenti non avrei mai saputo. La sceneggiatura non è che una guida in previsione del lavoro che verrà.» Oggi però gli capita meno di frequente, un po’ perché, dopo tanti film, ha già un’idea piuttosto precisa di cosa gli servirà, e un po’ perché i budget ormai sono più bassi e le location più costose. Adesso, se Woody vuole provare a rigirare una scena, di solito lo fa subito. È finita l’epoca in cui poteva rigirare un film dall’inizio alla fine, come ha fatto con Settembre. Inoltre, quando Woody girava soltanto a New York, spesso utilizzava diversi attori con cui aveva un buon rapporto e che abitavano in città e potevano ritagliarsi il tempo per qualche ripresa extra. Nei loro contratti gli attori di solito

avevano una clausola secondo cui dovevano restare disponibili per un paio di mesi dopo la fine delle riprese. Oggi Woody non può più permettersi di far ricostruire un set e di riportare gli attori, ad esempio, in Costa Azzurra. Allora, per usare le sue parole, «mi sono dovuto adattare». Non capita più di doversi barcamenare tra trentacinque ore di girato, dopo una lavorazione di 101 giorni, come era successo con Il dormiglione. A volte, quando Woody sa già come vuole la colonna sonora, le scene vengono via via montate con una musica d’appoggio, e non si passa alla scena successiva finché quella su cui si sta lavorando non è sistemata. «Se non fai così», dice lui, «spesso sei costretto a fare parecchi aggiustamenti in un secondo momento. Perché quando monti un inseguimento o una scena dove si cammina oppure si guida senza metterci la colonna sonora, porti la scena alla lunghezza che dovrebbe avere se fosse muta. E poi di colpo ci metti in sottofondo un brano di Django Reinhardt o di Benny Goodman e pensi, “Oh, dovrebbe durare tre volte tanto. Che delusione che finisca qui”. O viceversa.» In quattro giorni, Woody e Lepselter assemblano le prime 86 scene su 138. Nel corso del mese successivo, di scene ne vengono eliminate ventuno, di cui quattro in apertura del film: sono scenette di o con Abe che rallentavano il film senza dare informazioni o spunti necessari a capire il personaggio. In questi casi Woody aveva ceduto alla tentazione di spiegare troppo in fase di scrittura. Sparisce anche un’altra decina di scene brevi, sempre di Abe, due delle quali erano accompagnate dalla sua voce fuori campo, e il resto senza dialoghi: Abe angosciato dopo il cocktail di benvenuto dei professori; Abe che mangia da solo in cucina; Abe che si affretta ad andare in classe: in totale saranno due minuti di film. Infine, per tenere vivo il ritmo della storia, vengono tagliate tre scene con Jill – in totale, il quindici percento delle

scene. Altre cinque scene vengono spostate in punti diversi del film per rendere la storia più forte. Una di queste è la 84a, dove Abe guarda l’oceano al tramonto, con la sua voce fuori campo in sottofondo: Sono Abe Lucas e ho ucciso. Ho avuto molte esperienze e ora ne vivo una unica. Ho soppresso una vita umana, non in battaglia o per legittima difesa. Ho fatto una scelta in cui credevo e l’ho portata a termine. Mi sento un autentico essere umano.

Adesso è collocata dopo la scena 92, in cui Jill dice ad Abe e Rita che secondo la polizia il giudice è stato assassinato. L’abilità di Abe nel fingere sorpresa e nell’assecondare i discorsi di Jill conferisce alla sua confessione interiore e alla giustificazione per le sue azioni una risonanza maggiore rispetto a quando la stessa scena era collocata subito dopo la scena 82, in cui Abe veniva a sapere della morte del giudice leggendo un quotidiano. La scena del pub (la numero 101), quella con protagoniste Jill e Rita che è stata girata il primo giorno di riprese, offre più di venti minuti di materiale e si può montare facilmente alternando campi e controcampi delle due donne. Alcuni dei ciak sono un tantino fuori fuoco, ma a Woody questo non dà fastidio. Resta solo da capire una cosa: con quale personaggio si deve chiudere? Woody opta per Jill, perché il punto chiave della scena è la sua reazione alla «teoria pazzoide» di Rita secondo cui l’assassino sarebbe Abe. L’unico punto dubbio è proprio la fine della scena – da quando Rita termina di parlare a quando Jill se ne va. Serve una reazione sfumata da parte di Jill. «Non abbiamo un suo primo piano?» chiede Woody. «Cercami una qualsiasi inquadratura dove lei non sia indifferente alle implicazioni ma nemmeno distrutta.» «Un momento in cui la prende sul serio ma sembra prenderla alla leggera», propone Lepselter. «La classica reazione adorabile alla Emma Stone.»

In tutto il resto del girato, però, Jill sembra aver preso piuttosto sul serio quella parte della conversazione, quindi i due decidono di usare un’inquadratura dove lei beve un sorso di vino e dice, «Ci rifletterò senz’altro». Alcuni aggiustamenti sono minimi. Nella scena 103, Jill e Abe sono in riva al lago. Jill è in piedi, la schiena contro un albero, mentre Abe se ne sta sul pontile fatiscente. Ascoltiamo la voce fuori campo di lei: Senza dubbio mi aveva innervosito molto l’assurda teoria di Rita. Ricordavo la reazione rabbiosa di Abe all’ingiusto trattamento del giudice verso quella povera donna, e poi che cosa faceva in giro alle sei e mezza di un sabato mattina? I miei pensieri erano molto confusi, e altre rivelazioni più devastanti erano in arrivo. Ma per il momento scivolai in totale rifiuto, dicendo a me stessa che era tutto troppo assurdo per essere preso in considerazione. Non dovevo lasciarmi affascinare dalla mia sfrenata immaginazione, però una nuvola nera aveva coperto la luna, per quanto io resistessi.

L’inquadratura non si sofferma abbastanza a lungo sul volto di Jill, col risultato che Abe entra in campo prima che lei abbia finito di parlare. Si tentano diverse alternative, senza fortuna, quindi Woody decide di usare quella che lui considera la migliore tra le versioni di quella voce fuori campo e aggiunge, «Forse non ci serve il “Per quanto io resistessi”». Funziona: eliminando la battuta, i tempi della scena sono perfetti. Altre modifiche, invece, sono più complicate. Nelle scene tra la 105 e la 108, il crescente sospetto che Jill nutre nei confronti di Abe la porta a intrufolarsi nella casa dell’uomo, in cerca di qualcosa di compromettente. Da copione, ci sono due punti in cui sentiamo la voce fuori campo di Jill: il primo mentre lei sta per entrare in casa di Abe passando dalla finestra della veranda. Va al piano di sopra, in camera da letto, e si mette a frugare nei cassetti e sui vari tavoli, alla ricerca di qualcosa che possa collegare Abe alla morte del giudice. Alla fine trova, scritta a mano sulle pagine di un’edizione tascabile di Delitto e castigo, una lista di nomi di assassini, compreso quello di Abe. A quel punto sentiamo Jill che dice:

Una volta entrata in casa di Abe sentii che lo stavo tradendo, e mi sentii colpevole e stupida. Non avevo idea di cosa mi aspettavo di trovare, però sulla sua scrivania c’era una copia di Delitto e castigo, con a margine delle note con il nome del giudice Spangler e una citazione di Hannah Arendt [a proposito della banalità del male].

Pochi attimi dopo, Jill sente che Abe sta rientrando in casa: cercando di salvare le apparenze, si spoglia rapidamente e si infila a letto, come se fosse lì per fargli una sorpresa romantica. Woody ha scritto questa scena per introdurre un po’ di suspense – e di azione – nella storia. Sembrava che funzionasse quando è stata girata, ma adesso Woody non ne è più tanto sicuro. «Secondo te l’intera sequenza è troppo “terra terra”per il film? Il libro non è la prova decisiva: quella è quando April dice di aver visto Abe nel laboratorio. Tutto ciò che è successo fino a qui è stato abbastanza verosimile.» Woody ci riflette sopra, a testa bassa. Lepselter gli lascia il tempo di pensare, poi dice, «Per me gli appunti presi sul libro sono un po’ forzati – la lista degli assassini con il nome di Abe Lucas alla fine – mi sembra di calcare la mano.» «L’unica ragione per cui esiste questo passaggio è che altrimenti abbiamo soltanto scene di personaggi che parlano tra di loro», le risponde Woody. «Non ci sono oggetti, non c’è azione. Questa è azione. Potremmo lasciare soltanto il libro e togliere l’arrivo di Abe.» Dopo aver visionato una versione modificata della scena, Woody chiede, «Così non è un po’ farsesca?» «Potremmo lasciare Jill che si guarda intorno ma non viene scoperta.» Woody scuote la testa. «Non impariamo niente da questa scena. Andiamo dritti alla cena a casa dei genitori. Abbiamo tralasciato qualcosa?»

«Se lui non torna a casa, no, non c’è niente. Pensi di tagliare tutta la scena?» «Lei che entra in casa di lui aggiunge suspense. Ma se non arriva nessuno, non c’è tensione. Prima capiamo se funziona e poi in caso la montiamo bene.» Questa è la sequenza degli eventi che viene testata: Jill apre la finestra ed entra in casa; Abe si prepara a uscire dall’aula (è stata tagliata la prima parte della scena, dove lui faceva lezione) e sistema dei fogli nella valigetta; gli studenti escono dall’aula; poi un’inquadratura di Jill a casa di Abe. «Dobbiamo vederla che va al piano di sopra?» chiede Lepselter. «Sì, usiamo la seconda metà del ciak, poi va in camera da letto. Oppure vuoi vederla che volta l’angolo?» Lepselter dice di sì. Woody sta ancora pensando a Jill che si intrufola in casa di Abe. Il segmento è diviso in due parti: c’è Jill che rovista in giro, e poi c’è Jill si spoglia e si infila a letto quando sente rientrare Abe. Woody e Lepselter guardano Jill che entra dalla finestra. «Montata così, mi pare credibile», dice Woody. «Finché va da qualche parte non sembra ridicola.» «Se non trovasse niente non sarebbe ridicolo», propone Lepselter. «La cosa che trovo stupida è la pseudo tensione di lui che torna a casa.» «Però se lei non trova niente la scena è cuoio da scarpe. Sono d’accordo con te che questa tensione è artificiale, allora facciamo entrare Jill dalla finestra, facciamole leggere il libro e dire, “Ecco qui: Spangler, a mezzogiorno” o qualcosa di simile. Oppure giriamo un particolare, che sarebbe la cosa più difficile, ma visto che Emma deve comunque tornare può

andare bene. Facciamo una voce fuori campo di lei nello studio?» «Mi sento imbrogliata se non vediamo il libro.» Woody si chiede se il dettaglio del libro con su la lista degli assassini risulterà abbastanza chiaro perché il pubblico possa metterlo in relazione con Abe. Sul monitor si vede bene – sempre ammesso che voi sappiate che Raskol’nikov, Stavrogin, Kirillov e Verchovenskij sono personaggi di Dostoevskij. A Woody, però, importa solo che il pubblico riesca a leggere i nomi; se qualcuno non sa chi siano questi assassini, amen. «Non voglio che la gente guardi una lista di nomi e non capisca di cosa si tratta. Potremmo farne leggere una parte alla voce fuori campo di Emma, e poi staccare, giusto? Bene, la sequenza è finita.» Dopo aver discusso un paio di alternative, Woody si ferma a pensare e poi scuote la testa. «Ci torneremo su.»

La copia di Delitto e castigo con la lista degli assassini dostoevskijani scritta da Abe, e il suo nome aggiunto alla fine.

Ci tornano su, diverse volte. Alcuni giorni più tardi, al termine dell’ennesima visione, l’opzione migliore sembra quella di tagliare la tensione artificiale creata dall’imminente ritorno di

Abe, lasciando solo Jill che entra dalla finestra e poi trova il libro con la lista degli assassini. Questa scelta manda avanti la storia e dà alcune informazioni a Jill senza dover fare ricorso a una trovata di sceneggiatura che risulterebbe poco coerente. Alzandosi per andare a pranzo, Woody dice, «Ho fatto parecchi sbagli sia mentre scrivevo che mentre giravo. La sequenza all’interno della casa avrebbe dovuto essere un momento d’azione. Ora mi ritrovo con molti dialoghi e poco spazio tra l’uno e l’altro. Dovrò improvvisare». Dopo che Woody se n’è andato, Lepselter sorride. «Fa sempre così», dice. «Il film non ha nessun problema insormontabile. È come se Woody volesse che il film gli uscisse tutto intero dalla testa. Ha poca pazienza. Stiamo solo montando, ma per lui è una tortura.» Al ritorno di Woody la coppia si mette al lavoro sulla scena 117, una tra le più drammatiche del film. Jill ha appena capito che Abe ha ucciso il giudice, e lo affronta sul patio della casa dei propri genitori. La delusione che prova la mette in difficoltà, perché nel corso del film Jill è passata dall’ammirare Abe ad amarlo, ma ora si sta accorgendo che non è l’uomo che lei credeva. Jill è sotto shock, e cerca di chiarirsi le idee. Il dialogo tra i due personaggi dura più di cinque minuti, e per mantenerli in movimento è stato necessario studiare una coreografia ben precisa: Jill scende le scale, poi la coppia si siede su un divanetto da giardino, e ognuno dei due si alza in piedi in momenti diversi. Il materiale comprende un’inquadratura d’ambientazione, due inquadrature realizzate da sopra la spalla degli attori, due primi piani di Jill, quattro inquadrature di Abe più un cosiddetto pick up (un’inquadratura minore girata dopo che le riprese della scena si sono concluse allo scopo di aumentare il girato) e a tre suoi primi piani; in totale tredici inquadrature, cosa non insolita, se non fosse che non tutte si legano bene l’una all’altra, perché è difficile far combaciare tutti i movimenti degli attori.

Woody vuole essere sicuro di avere la migliore inquadratura di Jill in una sequenza dove ce n’è già una particolare di Abe. A metà della scena Jill chiede: «E adesso andrai in prigione per tutta la vita?». La sua battuta si sovrappone alla risposta di Abe: «La polizia non sospetta affatto di me». In un primo momento questo a Woody dà fastidio, ma poi ci pensa un po’ e arriva alla conclusione che le due battute sovrapposte sono molto adatte all’agitazione della scena. «Questo ci viene in aiuto», dice. Il suo ottimismo è di breve durata. Dopo qualche minuto passato lavorando su un’altra inquadratura, Woody esclama, «Oddio, che fastidio». «Provo a dare a Jill un fotogramma in più, vediamo come va», dice Lepselter. Va bene: un ventiquattresimo di secondo in più cambia davvero le cose. Woody si rianima. Dice di provare due inquadrature da sopra la spalla di Jill, e poi di passare a un campo lungo di Abe che dice, «Il mondo non è migliore senza quell’orrendo giudice?». Il campo è troppo lungo, concordano i due. Woody dice di staccare su Jill che chiede: «Come hai potuto farlo?». Poi, qualche secondo dopo: «Può avere senso aggiungere qualche stacco e rendere la scena agitata e frenetica – o verrebbe troppo gridata?». «Io voglio di più, mi pare che si stiano trattenendo», dice Lepselter. La donna fa partire questa combinazione. Woody è affascinato dal risultato. «L’intensità dell’interpretazione è molto vitale», dice. Tengono questa versione, almeno per ora, ma guardano un’altra inquadratura di Jill che dice la stessa battuta, ripresa stavolta da sopra la spalla di Abe. «Questa era buona», dice Woody. Resta seduto sulla sedia, con la schiena appoggiata allo schienale e le braccia conserte.

Lepselter se ne accorge e chiede, «Non ti piace?». «Sì, mi piace. Andava bene, era una battuta molto sentita.» Peccato che Woody stia parlando con quel tono distaccato che usa quando qualcosa ancora non lo soddisfa. «Abbiamo cominciato con lei che era molto melodrammatica, è difficile smorzare i toni adesso», dice. Hanno dedicato tre ore a questa versione della scena. «Sto cercando di cavarne fuori tutto il possibile», dice Woody. Quando Abe e Jill si alzano dal divano, parte un lungo scambio: JILL Tu te ne devi andare, Abe. Non posso restare con te. Non dirò niente. Io penso che tu creda di aver fatto qualcosa di moralmente valido, io ne sono convinta, però non puoi giustificare questa azione con queste puttanate degli esistenzialisti francesi del dopoguerra. Questo è omicidio, e apre la porta ad altri omicidi. Io non sono in grado di confutare questi argomenti, non so discutere con te, ma sei tu che mi hai insegnato a seguire il mio istinto, e io non ho bisogno di riflettere, lo sento, che è una cosa sbagliata. ABE Okay… Finisco le mie ultime settimane qui e me ne vado. Non mi vedrai più.

La scena termina con tre brevi scambi di battute. «Continuiamo con questa inquadratura a due?» chiede Woody. «Oppure chiudiamo su di lei che dice, “Lo sento, che è una cosa sbagliata”? Da quando si alzano non ci sono interruzioni. A me piace, non ci sono stacchi, sono stufo di staccare.» Chiede a Lepselter di montare la scena come hanno deciso insieme, e poi aggiunge, «Mi dispiace per gli attori… Tutti quei ciak». Lepselter gli dice che David Fincher (L’amore bugiardo, 2014, The Social Network, 2010) gira abitualmente trenta ciak per inquadratura, se non di più. «Davvero?» risponde Woody, con sincera sorpresa. «Be’, i suoi film sono splendidi.» Poi se ne torna a casa per pranzo.

Lepselter dice, «Woody è disposto ad accettare qualche difetto tecnico se gli piace un ciak, ma lavorare così è dura per i professionisti che fanno del loro meglio perché tutto sia il più possibile perfetto». Al suo ritorno, Woody conferma ciò che Lepselter ha appena detto. La scena presenta una lieve variazione luminosa in un paio di punti – la luce si fa più chiara – e su uno dei divanetti c’è una macchia di sole. Lei spera che Khondji riesca a sistemare entrambi i problemi durante la fase della color correction. «Io non me ne preoccupo mai», le risponde allegramente Woody. Però adesso è contento di come ha montato la scena. «Mi piace che abbia una certa asprezza», dice. «L’hai resa più emozionante di com’era. Hai scelto i passaggi migliori. Possiamo tornarci su nel pomeriggio.» A fine giornata la coppia ha montato un altro paio di scene e ritorna sulla 117 per finirla. Vengono eliminate le prime battute: ABE Perché sei così strana? Cosa c’è di così importante? Sei incinta?

Il montaggio funziona meglio senza queste battute, e ora si apre con la risposta di Jill, una domanda che in realtà è un’affermazione: «Tu hai ucciso Spangler. Non è così?». A Woody piaceva il riferimento a una possibile gravidanza, ma non gli importa davvero di averlo tagliato. L’unica battuta che rimpiange di aver eliminato è quella di Abe: «Parli di regole, ma non esistono regole innate». Quella frase serviva a ribadire il pensiero esistenzialista di Abe, ma il montaggio ideale della scena non le lasciava spazio. Nonostante il rammarico, la reazione di Woody è una semplice (e un po’ triste) scrollata di spalle: «Nell’arco del film c’è sempre qualcosa che va sacrificato». (Una battuta che non si è pentito di aver tagliato stava in una delle voci fuori campo di Jill – la ragazza diceva

di non fidarsi di nessuno che fosse convinto della propria superiorità morale – «Volevamo abbreviare il suo monologo e poi mi suonava troppo retorico».) Questa versione della scena brilla per la recitazione intensa. Le emozioni degli attori sono in bella mostra sui loro volti. Quando Jill dice, «Sono distrutta, Abe. Sono completamente smarrita. Cosa devo fare?», è stato utilizzato il ciak in cui improvvisamente lei scoppia in lacrime e il suo volto quasi si deforma. Si passa il dorso di una mano sul viso, come se volesse allo stesso tempo asciugarsi il naso e strofinarsi via il dolore. Abe parla con la sincera emozione di chi si sente sicuro delle proprie azioni, e questo rende la recitazione dell’attore ancora più inquietante. Woody è molto soddisfatto sia delle interpretazioni che del montaggio. «Sapevo che sarebbero stati bravi tutti e due», dice. «Qui Joaquin aveva meno dramma, perché non ne aveva bisogno; è lei a restare sconvolta dalle azioni di lui. Ho coreografato gli attori quando eravamo lì in giardino. Non si poteva fare molto, perché è una scena di confronto verbale. Ci sono due persone in conflitto l’una con l’altra – non stanno propriamente litigando, ma c’è una situazione di crisi. Non li volevo far stare seduti su delle sedie, quindi ho cercato di metterci un po’ di movimento. Potevano solo parlare, allora io li ho fatti entrare, stare in piedi e poi sedersi, poi lui si è alzato ed è andato verso l’altra sedia, poi è ritornato – non si poteva andare da nessuna parte. Ho fatto del mio meglio per tenere viva l’azione, sapendo che in massima parte si sarebbe trattato di un lungo botta e risposta con gente che fa avanti e indietro, e che moltissimo sarebbe dipeso dalla qualità della recitazione. Abbiamo montato il tutto dando un occhio di riguardo al materiale più realistico e meglio interpretato. In alcuni ciak Emma era più contenuta, in altri più agitata, e finché non ti metti a montare la scena non sai quale sia la versione giusta. Come autore, ti sembra che la versione più azzeccata sia una, e spesso è così, molte volte però non lo è: ti rendi conto che la versione più contenuta della stessa scena, quella che gli attori

hanno recitato seguendo l’istinto, era proprio quella giusta. Immaginavi che ci sarebbero stati fuochi d’artificio tra di loro, ma magari funziona meglio quella tensione sommessa che gli attori hanno conferito istintivamente alla scena. Quel confronto verbale necessitava proprio del materiale che abbiamo scelto.» In un primo momento, sembra che la scena di Jill e Ellie a cavallo – abortita – possa ancora essere utilizzata, come breve inquadratura d’ambientazione. Un frammento della voce fuori campo che avrebbe dovuto accompagnare la scena dura tra gli otto e i dieci secondi, tanto quanto il frammento di girato che si può usare, prima che i cavalli si fermino. Per un attimo pare che quel frammento si possa collegare a una seconda scena, la 119, dove le ragazze chiacchierano nella stalla: Jill dice a Ellie che Abe ha deciso di lasciare l’università, e che lei stessa non è così «all’avanguardia» come credeva. Lepselter però si accorge che nelle due scene le attrici indossano abiti leggermente diversi, e così la brevissima cavalcata viene anticipata a dopo la scena 98: Jill non nutre alcun sospetto su Abe, fino a quando incontra per caso Ellie che sta uscendo da un negozio, e l’amica le dice di aver sentito Rita raccontare la sua teoria durante una festa. La conversazione termina con Ellie che propone all’amica di farsi una cavalcata insieme in settimana. La scena nella stalla, poi, è piuttosto toccante: una giovane donna idealista che sentiva di poter contare sulla propria istruzione e sulle sue notevoli facoltà mentali, e che credeva di poter spiccare il volo insieme a un professore brillante e tormentato, si accorge che in realtà le andavano benissimo il fidanzato sicuro e affidabile e la vita decisamente tranquilla che aveva avuto in passato. Un’inquadratura dell’autostrada costiera del Rhode Island vista attraverso il parabrezza di un’automobile, che inizialmente doveva far parte della scena 1, dà il la alla voce fuori campo di Abe al volante: l’uomo dice che le sue azioni

sono pienamente giustificate. Queste brevi scene segnano la svolta verso il finale del film. Le cinque scene che preparano il momento culminante della storia – quello dell’ascensore – vengono montate con relativa facilità: in una la voce fuori campo di Abe rivela che non andrà a costituirsi; nella seconda Abe e Rita si incontrano in un pub e parlano di andare insieme in Europa; nella terza Abe cammina su e giù nell’aula universitaria mentre gli studenti svolgono un esame scritto, e intanto la sua voce fuori campo riflette sulla possibilità di uccidere Jill per impedirle di andare alla polizia; nella quarta Jill e Roy si riconciliano in una caffetteria; e nella quinta Rita lascia il marito, in previsione di una nuova vita con Abe. Woody chiede che ore sono: le 17.13. Per oggi si è lavorato abbastanza. «Chiudiamo questa e domani finiamo il film. E dimmi a quanti minuti siamo arrivati perché sono molto preoccupato.» Lepselter controlla l’Avid. «Ottantacinque minuti e mezzo.» All’inizio Woody sperava che il film toccasse le due ore, ma ora è sollevato all’idea che il film si fermi ai novanta minuti. «Un film così dovrebbe essere più lungo», dice Woody, a voce bassa. «Nessuno trova da ridire se un film dura novanta minuti.» «Controlla Match Point, sono sicuro che fosse più sostanzioso.» Lepselter cerca sull’Internet Movie Database e poi esclama, sorpresa, «Più di due ore: 124 minuti esatti.» «Wow!» dice Woody. Nel primo pomeriggio del giorno seguente la coppia è pronta ad assemblare la sequenza finale del film – brevi ciak delle scene dalla 130 alla 137 che, a parte la voce fuori campo di Abe nelle scene 130 e 132, non contiene dialoghi fino alla

scena 136. La sequenza parte con Jill che cammina per strada, diretta alla lezione di pianoforte. Abe la segue da una certa distanza mentre la ragazza entra nel palazzo. Abe entra di nascosto dopo di lei, Jill percorre il corridoio che porta allo studio dell’insegnante; stacco sul seminterrato, dove c’è Abe che manomette i comandi dell’ascensore; Jill è a lezione; poi Abe sale le scale. «Magari usa più frammenti di un paio di ciak, così sembra che lui stia salendo parecchi piani», dice Woody. Questo non basta a ottenere l’effetto desiderato, perciò si stacca di nuovo su Abe lungo le scale mentre Jill termina la sua lezione. Woody chiede, «Possiamo continuare a sentire il rumore dei suoi passi, così sembra che lui stia salendo un’altra rampa?». Jill esce dallo studio dell’insegnante e attraversa il corridoio in direzione dell’ascensore, dove c’è Abe che la aspetta, nascosto dietro l’angolo, finché Jill non svolta e lo vede. Ora bisogna capire dove staccare da Jill ad Abe. L’idea iniziale di Woody è staccare appena prima che lei dica «Ciao». Poi però Woody decide di staccare dopo il saluto, perché Abe si volta verso di lei dopo un certo lasso di tempo, e la battuta di Jill («Mi hai spaventato. Ma… che ci fai qui?») sarà abbastanza lunga da coprire l’esitazione di lui. Woody e Lepselter visionano il totale della scena fino alla fine della colluttazione. Quello in cui Abe scivola sulla torcia e casca nel vano vuoto dell’ascensore è un passaggio talmente realistico che Lepselter sussulta e si copre la bocca con la mano, come avevano fatto alcuni della troupe durante le riprese. Non importa che la montatrice sapesse cosa stava per succedere e l’avesse già visto molte volte nei giornalieri. «È stato bravissimo», dice Woody di Phoenix. «Sembra proprio che cada.» Adesso bisogna creare una combinazione tra primi piani e piani medi, ripresi da angolazioni diverse, per aggiungere tensione e dramma alla scena. In queste inquadrature a volte

c’è Emma Stone, a volte la sua controfigura, Becca G.T.: è stata la seconda a girare i ciak più violenti. Woody comincia con Stone, poi stringe su un suo primo piano dopo uno stacco sulla controfigura. Vuole soffermarsi il più possibile su un campo lungo di Stone, poi staccare sulla controfigura, infine riapprodare sul campo lungo di Stone; i suoi primi piani fanno sembrare che l’attrice fosse presente in tutta l’azione. Durante la colluttazione, quando alla ragazza cade la borsa da cui rotolano fuori gli spartiti, le chiavi e la torcia, Woody dice che se non c’è abbastanza materiale sulla borsa si può staccare sulla torcia, poi sulla controfigura che lotta con Abe, e infine sul piede di lui che calpesta la torcia, «ma senza togliere spazio alla caduta, che sembra così naturale». Woody usa due inquadrature della borsa e degli oggetti sparsi a terra, poi si sposta su Abe che precipita nell’oscurità. Funziona, anche se il regista ancora non sa ancora quanto bene. «Penso che questo sia un montaggio accettabile», dice, ma poi chiede, «Avrebbe lo stesso impatto se staccassimo sul piede di lui sopra la torcia, invece di restare sul totale senza interromperlo?». «Una cosa», aggiunge. «Dimmi a quanti minuti siamo arrivati. Ci resta soltanto una scena che dura circa un minuto. Sentiamo subito le brutte notizie.» Ancora teme che il film duri meno di novanta minuti, ma così non è: resta da montare una scena e il film già dura novantuno minuti e mezzo. Woody e Lepselter riguardano la scena della colluttazione con gli ultimi stacchi proposti, e il risultato con la torcia in campo è nettamente migliore. Woody temeva che, «visto che il totale non prevedeva il dettaglio della torcia, se avessimo staccato sul piede di Abe sulla torcia, avremmo interrotto quel qualcosa, quell’emozione che si crea solo quando si assiste a una scena dall’inizio alla fine. Ma in realtà la scena funziona meglio se lo vediamo calpestare la torcia». Woody spinge indietro la sedia.

«Okay», dice a Lepselter. «Chiudiamo uno dei finali [Jill e Roy che passeggiano per il campus; Woody non ha ancora deciso se usare questa oppure la scena alternativa che ha girato] e cominciamo con la musica. Questo film non ce lo vedo con la musica classica; lo poterebbe in una direzione troppo seriosa. Niente pop. Niente di stravagante come il boogie-woogie.» Si ferma a pensare. «Le diverse parti del film chiedono di avere una musica diversa: ci serve della classica per le scene col pianoforte e col violoncello [rispettivamente, il saggio di Jill e il concerto a cui vanno lei e Abe], qualcosa che le renda romantiche e inquiete. Ma il film non può avere un tema ricorrente, perché ha troppe parti disparate.» Lepselter, che ha un debole per i film con la colonna sonora originale, chiede, «Funzionerebbe se avessimo una colonna sonora originale, con della musica adatta alle varie tematiche?». A Woody le colonne sonore originali non piacciono, un po’ perché si diverte a scegliere lui la musica, un po’ perché non ama lavorare insieme ai compositori. Allora la sua risposta è immediata: «No. In Hannah e le sue sorelle abbiamo associato una musica diversa per ciascuna scena, abbiamo giocato su un’estrema varietà, e non se n’è accorto nessuno a parte noi». Tra i ventiquattro brani presenti in quel film ci sono il Concerto per due violini in re minore di Bach, Madama Butterfly e Manon Lescaut, I’m in Love Again di Cole Porter, quattro canzoni scritte da Rodgers & Hart, e The Trot di Benny Carter, suonata da Count Basie con la sua orchestra. Quando monta un film, di solito Woody pensa sempre alla colonna sonora che lo accompagnerà, e spesso anche quando lo gira, ma sappiamo che si sta avvicinando alla soluzione soltanto quando decide quali generi musicali non funzioneranno. «Questo film non mi suggerisce niente, di per sé», dice ora, come diceva verso la fine delle riprese. «Non userò mai più una colonna sonora originale. Non voglio il jazz

d’epoca. Charlie Parker non funzionerà, John Coltrane non funzionerà; forse [Thelonious] Monk perché in un certo senso sta a metà tra vecchio e nuovo. La musica classica risulterebbe noiosa e pretenziosa, e non voglio rovinare così il film.» Aveva pensato al jazz, ma solo perché al jazz lui pensa sempre. E la tentazione di usare il boogie-woogie non è ancora abbastanza forte. «A un certo punto avevo pensato di usare canzoni nonsense come Mairzy Doats, ma non funzionerebbe neanche quello. Ho pensato di lasciare il film senza musica, ma quello sarebbe un errore disastroso. E non voglio una di quelle cose pesanti e seriose alla Philip Glass [che pure ha usato, molto bene, in Sogni e delitti]. In tutto questo tempo non ho ancora trovato una soluzione, e ho continuato a rinviare il momento di affrontare il problema, ma oggi mi tocca.» Woody lascia che sia Lepselter ad aggiungere un ciak alla scena finale, poi spinge all’indietro la sedia e si alza. «Vado a dare un’occhiatina ai nostri dischi», dice, mentre si avvia verso la sala di proiezione.

7 La colonna sonora

Lavorare sulla colonna sonora, per Woody, è il ricco premio che arriva alla fine del lavoro. Pregusta a lungo il momento in cui abbinerà la musica al suo film, e poi si diverte moltissimo a farlo. «A quel punto hai montato il film», dice, «e qualsiasi cosa ci aggiungi è un arricchimento. Non esistono lati negativi. Non puoi che migliorare l’opera.» La musica – in particolar modo il jazz, ma anche la musica classica e i sessanta classici dell’American Songbook – è più di una passione per Woody: è una parte fondamentale della sua vita. Capire fino a che punto arrivi questo amore significa capire perché Woody si diverta così tanto a scegliere la colonna sonora dei suoi film. Soltanto in cinque casi si è servito di un compositore che scrivesse musiche originali: c’è stato Marvin Hamlisch per Prendi i soldi e scappa e Il dittatore dello stato libero di Bananas; poi Mundell Lowe per Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso; Dick Hyman per Zelig; e Philip Glass per Sogni e delitti. Hyman ha curato gli arrangiamenti della Rosa purpurea del Cairo, di Pallottole su Broadway, della Dea dell’amore e di Tutti dicono I love you; in totale, lui e Woody hanno collaborato per undici film. La doccia a casa di Woody ha un sistema di filodiffusione per cui, anche quando lui sta sotto l’acqua, può ascoltare jazz, musica classica e i grandi classici del passato. Sul suo telefono ci sono interi album di New Orleans jazz, e lui li ascolta ogni volta che può. Si esercita tutti i giorni al clarinetto, senza eccezioni, e suona

seguendo le registrazioni dei suoi jazzisti prediletti, come Albert Burbank e la Bunk Johnson Band. Il callo a metà del labbro inferiore è il risultato di decenni passati a stringere l’ancia del suo clarinetto. Spesso, mentre aspetta sul set o gli capita di non avere nulla di urgente da fare, fischietta un vecchio brano jazz, e a volte quando ha difficoltà a prendere sonno si inventa le scalette di concerti immaginari (in altri casi scrive a mente un articolo di giornale con la cronaca di una partita di baseball a cui ha assistito). Ogni esibizione della sua band è diversa, che sia il lunedì sera al Carlyle Hotel o uno dei tanti concerti in Europa o negli Stati Uniti. Prima di raggiungere il luogo dell’esibizione, Woody dice alla band quali sono i primi due brani da eseguire. Poi, una volta suonati quelli, si alza e rivolge qualche parola al pubblico, dopo di che, mentre torna a sedersi, annuncia ai musicisti il titolo della canzone seguente. Il resto del programma viene scelto spontaneamente. L’autenticità a Woody sta molto a cuore, perciò non risparmia sforzi per ottenerla, anche se l’unico che se ne accorge è lui. Per la colonna sonora di Magic in the Moonlight, dato che la storia si svolge durante gli anni venti, ha voluto solo musica di quel periodo. «Hai davanti tre scelte», ha esclamato mentre montava quel film. «Puoi avere musica originale degli anni venti; oppure puoi avere musica degli anni venti riarrangiata per l’occasione, quindi Dick Hyman oppure la mia band che suona Ain’t She Sweet o Five Foot Two; oppure puoi fare come è stato fatto nel caso di Splendore nell’erba, che è ambientato negli anni venti ma ha una colonna sonora “normale”. Se c’è una band che suona a una festa, per esempio, suonano il charleston, ma se, sempre per esempio, c’è un personaggio che guida l’automobile, si sente una colonna sonora anni cinquanta con il sassofono. Ne ho parlato a lungo con Alisa e alla fine ho deciso che volevo autentica musica anni venti, il che ci ha messo in una situazione molto difficile, perché di quella

musica ce n’è poca, anzi, pochissima, che sia anche romantica. Non ci sono archi. Quando senti una canzone anni venti, è sempre jazz. Abbiamo imbrogliato un pochino, perché abbiamo preso della musica dai primi anni trenta, sperando che nessuno facesse storie. Se proprio dovevamo imbrogliare, abbiamo preferito fermarci all’inizio del decennio. Quando si arriva agli anni trenta inoltrati comincia lo swing: Benny Goodman diventò famoso alla fine degli anni trenta.» Dopo che Woody ha deciso quale tipo di musica vuole, comincia la gioia dello scegliere le canzoni giuste. Nel suo archivio mentale c’è un gran numero dei brani scritti tra il 1900 e il 1950 (ne ha usati più di 450): passato il 1950, per lui, è finita la storia della musica. Di quanto è arrivato dopo, con rare eccezioni, Woody non conosce nulla, perché «ascoltare quella musica è una punizione. A me piacciono soltanto la classica e il jazz. Adoro le orchestrazioni “cosmopolitane”: una cantante in un piano bar, qualcuno che suona piano la tromba. Voglio la musica con cui sono cresciuto, come le persone più giovani dicono, “Voglio la musica con cui sono cresciuto io”. Però nei miei film ho potuto mettere la musica che volevo, quella che per me ha un significato». Woody controlla le scalette sul retro dei suoi molti dischi, oppure, se si ritrova a un punto morto, sfoglia il “libro dei titoli” dell’ASCAP, che riporta tutte le canzoni depositate presso la American Society of Composers, Authors and Publishers. Se tra i suoi dischi non riesce a trovare un’incisione adatta, può sempre consultare la raccolta di cd (ben divisi in classificatori) di riserva, ma preferisce sempre il vinile. Prima del 2012, quando ha chiuso i battenti il grande negozio di dischi Colony Music di Manhattan, nei casi in cui la canzone giusta non saltava fuori nemmeno dopo lunga ricerca, Woody faceva telefonare al negozio da uno degli assistenti al montaggio, gli faceva dire che c’era bisogno di una canzone simile a, per esempio, Sing Sing Sing, magari in chiave minore, e chiedeva qualche suggerimento. I commessi

del negozio lui li chiamava «i pescivendoli», perché contava sempre che gli portassero qualcosa di fresco. Forse un compositore darebbe al film una colonna sonora raffinata e uniforme, ma per Woody significherebbe cedere a qualcun altro il controllo su una parte importante del film. Inoltre, se non gli piace una scelta che è stato lui stesso a fare, Woody può tranquillamente scartarla e provare con un altro brano, ma è molto più difficile ragionare così se c’è di mezzo un’altra persona. Un compositore lavora su una colonna sonora originale per settimane, a volte di più, e quando la suona per Woody senza dubbio è soddisfatto del proprio risultato. Ma quello che piace a una persona non per forza piace anche a un’altra, e spesso Woody si è trovato a dire che la musica non era proprio perfetta per lui. «Il compositore ci rimane malissimo e gli ci vuole molto tempo per scrivere un tema nuovo che magari a te non piacerà. E si va avanti così. Lui suona le canzoni, tu sai che ci ha speso un sacco di tempo, eppure quelle canzoni non funzionano proprio. Il gioco non vale la candela. «Non riuscivo a gestire quelle situazioni, mi frantumavano i nervi. Allora ho pensato, “Perché?”. Io ho tutta la musica di Cole Porter, di Louis Armstrong e John Coltrane; posso scegliere tra la musica migliore del mondo. Se una cosa non mi piace, posso cercarne un’altra e ho centinaia di opzioni, là dove un compositore ci rimarrebbe malissimo e passerebbe sei mesi a scrivere del nuovo materiale. Così per me è molto più facile lavorare.» Tuttavia, Woody si considera molto fortunato ad aver lavorato con Philip Glass per Sogni e delitti. Al di là dell’aver scritto una colonna sonora tesa e di grande atmosfera, Glass presentava un valore aggiunto: era l’eccezione alla regola. «Era velocissimo. Se non ti piaceva qualcosa, lui andava avanti e il giorno dopo arrivava con qualcos’altro. La sua creatività era inarrestabile.» In più, lo stile di Glass si adattava

bene a Sogni e delitti. «È un film con una vena tragica, e il lavoro di Philip mi sembrava pieno di, come dire, [sorride] sofferenza e angoscia. Sembrava che non sarebbe stata una colonna sonora di routine: una carica di sentimento, piuttosto, e adatta alla storia.» La colonna sonora in un film di Woody Allen deve fare soltanto due cose: intensificare il più possibile l’azione, e piacere al regista. Se qualcuno tra il pubblico non ha mai sentito quelle canzoni, o se non sono di suo gusto, peggio per lui. Così come Woody gira il film che vuole, e non quello che si presume piaccia al suo pubblico, anche la scelta della musica è l’ultima impronta personale che lui lascia su un film del tutto personale. «La musica», dice, sottolineando qualcosa in cui crede profondamente, «esalta il film e a volte salva una scena – senza la musica, quella scena non funziona, con la musica invece sì. [Questa teoria verrà dimostrata quando Woody troverà il giusto accompagnamento per la sequenza d’apertura del film.] Se hai un buon film e ci metti della buona musica, è come avere una mano vincente a poker. Se hai un film mediocre, oppure brutto, e ci metti della buona musica, ti puoi tirare un pochino fuori dai guai, ma un brutto film non lo si salva soltanto con la musica.» Le colonne sonore di Woody sono caratterizzate dall’incontro tra mezzi tecnologici limitati e ottima memoria. Nella troupe non c’è nessun tecnico del suono che si occupi solo della musica. Non c’è un elenco di scelte possibili, e non ci sono nemmeno appunti presi in proposito. C’è soltanto la sensibilità di Woody su cosa funzioni e cosa no; per usare le sue parole, «è tutto molto casereccio». Poco tempo fa un editore gli ha proposto di fare un libro sulla musica nei suoi film: Woody l’ha avvisato, «Il punto è che c’è un armadietto pieno di dischi nella stanza qui accanto. Noi li prendiamo e li

suoniamo e montiamo la musica così, sui due piedi, in modo da farla stare dentro le scene». Oltre a consultare la collezione di dischi di Woody, Lepselter e la sua squadra passano molto tempo a cercare musica online. «Se lui cita il nome di un artista, noi possiamo fare una ricerca rapida e trovare molte canzoni che Woody possa ascoltare prima di andare a frugare tra i vinili. A volte lui preferisce andare direttamente a cercare nella sua collezione, ma spesso è più rapido – e più produttivo – “provinare” il materiale direttamente al computer.» A differenza di registi come Mike Figgis, Clint Eastwood, John Carpenter, David Lynch, Satyajit Ray e Charlie Chaplin, che hanno composto colonne sonore originali, Woody compone la propria colonna sonora intrecciando il jazz, la classica e i grandi successi del passato in un solo film. Quando si tratta di scegliere in quali punti usare la musica e quale canzone scegliere, lui segue l’istinto. Se sente che a una scena serve della musica, lui riprende un brano già usato oppure ne trova un altro che gli piace. Non cerca mai un tema ricorrente per i personaggi. Avanza a tastoni attraverso il film, fino alla fine, e poi inevitabilmente scopre che in un caso o due, ha sbagliato, in un punto in cui «la musica qui dà un gran fastidio», o in un altro in cui invece dovrebbe proprio esserci. Ma secondo lui «non ci sono troppi errori, perché non è una cosa difficile da fare». La musica trasforma un film, perciò Woody vuole concentrarsi sulla scelta dell’accompagnamento solo quando ha già un buon primo montato. Preferisce aspettare il più possibile, «come quando ordino una pizza e una birra e non bevo la birra fino a quando non ho mangiato almeno mezza pizza e non la sopporto più, allora la birra ha un sapore buonissimo. La stessa cosa con la musica. Cerco di aspettare, se posso. Poi quando la metto è una grande gioia. Perché, in

fondo, cosa sto mettendo nel film? Ci metto della musica meravigliosa, sempre.» In alcuni casi Woody sa fin dall’inizio quale musica vuole, e l’esempio migliore è Manhattan, dove ci sono soltanto brani di George Gershwin, a parte la Sinfonia n. 40 di Mozart che si sente durante un concerto. Ma spesso ha già comunque un’idea di quale genere di musica vuole. Mentre girava Blue Jasmine gli capitava spesso di pensare, «Per questa scena devo trovare un bel pezzo blues, e per quest’altra scena voglio un brano di King Oliver, e quest’altra scena verrebbe benissimo se riuscissi a trovare il brano giusto di Louis Armstrong. Pensavo spessissimo al blues». Questo è un buon esempio di come lui scelga cose che saranno apprezzate appieno solo da pochi altri. «Woody pensava che usare il blues per Blue Jasmine fosse una mossa coraggiosa», ha detto un giorno Lepselter. Ma la sua idea di «mossa coraggiosa» è caduta nel vuoto. Il pubblico medio non conosce come lui le molte differenze (nette o sottili) tra il jazz e il blues, quindi «la maggioranza delle persone ha solo pensato, “Ah, è la tipica musica da film di Woody Allen”.» Dopo che Woody ha lasciato Lepselter in sala di montaggio, perché lei ritoccasse la scena dell’ascensore come avevano discusso, se n’è andato nella sala di proiezione a frugare nei suoi tre contenitori di album. Due sono dedicati al jazz e all’American Songbook, il terzo alla musica classica. Woody apre tutti e tre i contenitori, ma richiude subito quello con la musica classica, e si mette a spulciare quello al centro. Passa in rassegna gli album, di tanto in tanto ne tira fuori uno per esaminarne il contenuto, fa un leggero “mmm” mentre legge e decide se ascoltarlo o rimetterlo a posto. Dopo dieci minuti ha messo da parte una pila di dodici album: Pyramid del Modern Jazz Quartet; Chico Hamilton Quintet; The Greatest Hits of Ramsey Lewis; E = MC2 di Basie; The Art of Dave Brubeck: The Fantasy Years; Timeline di Gerry Mulligan e Chet Baker;

Jelly Roll Morton Plays Jelly Roll Morton; tre album di Thelonious Monk, The Riverside Trios, It’s Monk’s Time e Straight, No Chaser; Place Vendôme del Modern Jazz Quartet; e per finire Giants of Boogie Woogie. Raccoglie i dischi e se ne torna in sala di montaggio. L’assistente al montaggio Morgan Neville porta un contenitore di plastica nera dove sistemare gli album. Accanto a Woody viene sistemata e accesa una piantana. Lepselter mette sullo schermo la sequenza d’apertura del film, in pausa sul primo fotogramma, con Abe al volante. «Voglio cominciare a provare un po’ di musica per vederne l’effetto su alcune scene», dice Woody. Mentre controlla la scaletta sul retro della copertina, chiede all’assistente al montaggio Sharon Perlman di mettere la quarta traccia dell’album di Chico Hamilton, The Sage, scritta da Fred Katz, che parte con un violoncello piuttosto cupo. Woody fissa per quasi un minuto il fermo-immagine del film, poi chiede a Perlman di mettere The Kid from Red Bank di Count Basie: qui c’è un pianoforte vivace prima che si inserisca il resto della band. Nessuno dei due brani colpisce in modo particolare Woody, che le chiede di inserire il terzo brano dell’album di Count Basie, Splanky, con le trombe sordinate e un pianoforte dal ritmo elegante. «Mi piace», dice subito Lepselter. Woody annuisce e dice, «Sì, da qualche parte ce la vedo». Non all’inizio del film, però. Woody prende la copertina di Place Vendôme e chiede di mettere la traccia che dà il titolo all’album, un pezzo jazz dove spiccano pianoforte e xylofono. Assolutamente no. Woody passa a Giants of Boogie Woogie. La prima traccia è St. Louis Blues. Non va bene. La terza è Bass Goin’ Crazy. Niente. Lato B, traccia 2, Blues De Lux. Idem. Prende l’album di Mulligan e Baker, studia l’elenco dei brani, poi lo mette da parte. Dà un’occhiata a Straight, No Chaser di Monk. È abbastanza vivace, però, di colpo, nel brano entra una voce narrante.

Niente da fare. Da It’s Monk’s Time Woody chiede la prima traccia, Lulu’s Back in Town, dove c’è un pianoforte jazz in puro stile Monk ma il suono e il ritmo sono troppo veloci. Woody segue lo stesso iter per ogni canzone. Prova a capire come starebbe nel film guardando il fermo-immagine, e così decide se la si può prendere in considerazione. Pescando nel contenitore arriva il turno dell’album di Ramsey Lewis. Woody chiede di mettere la prima traccia del lato A, The “In” Crowd, scritta da Billy Page, che comincia con un ritmo trascinante. Woody sta seduto fermo a guardare lo schermo. Le altre quattro persone presenti nella stanza sono visibilmente trascinate dal brano. «Proviamo!» dice Woody, e Lepselter fa partire la prima scena del film con la musica in sottofondo. L’esibizione in questione è stata registrata dal vivo, quindi all’inizio si sentono degli applausi. Per la maggior parte dei registi questo sarebbe un disastro, ma a Woody non importa. Il brano è perfetto come accompagnamento alle prime scene. Il volume viene abbassato quando parte la voce fuori campo di Abe, poi viene alzato di nuovo fino a quando Abe arriva al campus. Quella che era una scena molto statica con un uomo al volante, adesso è interessante e carica di energia. Woody ha imparato che il giusto brano musicale può dare vita a una scena quando Ralph Rosenblum, in Prendi i soldi e scappa mise un brano di Eubie Blake come sottofondo alla buffa scena in cui Virgil si veste per un appuntamento galante. Il compositore Marvin Hamlisch aveva scritto un brano triste, un po’ alla Charlie Chaplin, che appiattiva del tutto la scena. Rosenblum propose di usare un ragtime al pianoforte di Blake, che in sala di montaggio ridiede vita alla scena. Questo episodio ebbe l’effetto di aprire gli occhi a Woody sugli effetti della colonna sonora. «Come dice Marshall Brickman», osserva Woody dopo aver guardato la scena con il brano di Ramsey Lewis, «la musica in

un film è grandeur presa a prestito». «Cosa stiamo vedendo qui?», continua. «Vogliamo un brano musicale che leghi tutto quanto insieme? Se sì, non può essere troppo invasivo.» Si interrompe. «Potremmo interromperlo e rimetterlo più in là.» «Lo facciamo partire sui titoli di testa?» chiede Lepselter. «Oppure non mettiamo musica sui titoli di testa.» «Così mi sembra un errore», dice subito Lepselter. Woody si stringe nelle spalle. «L’abbiamo già fatto in passato. Dipende dalla musica.» Nel caso di Io e Annie, i titoli di testa non hanno musica, e quasi non c’è una colonna sonora in tutto il film. La sola eccezione è By the Sleepy Lagoon di Eric Coates, suonata da Tommy Dorsey con la sua orchestra. Il brano parte quando vediamo per la prima volta la casa di Alvy sotto le montagne russe, e continua fino a quando Alvy bacia una bambina a scuola, e poi riparte quando Alvy, Annie [Diane Keaton] e Rob [Tony Roberts] visitano la casa in un flashback. Il resto della musica presente nel film proviene da un’autoradio o viene suonata a una festa, e due canzoni le sentiamo cantare da Annie in un locale notturno: It Had to Be You e Seems Like Old Times. Quando Woody girò questo film era fortemente influenzato da Bergman, che una volta aveva detto di considerare la musica al cinema «una barbarie». A Woody non interessava che il pubblico condividesse il suo punto di vista: «Pensavo che Bergman avesse per forza capito qualcosa. Mi dicevo, “Lui è un grande regista, se pensa che la musica nei film sia sbagliata, sarò io che avrò un punto debole”. Quindi ho usato della musica diegetica [musica di sottofondo che arriva da una radio, ad esempio]. E in Interiors non ho usato alcun tipo di musica». Man mano che Woody andava avanti nella sua carriera, però, ha capito che i suoi film potevano sì essere influenzati da

Bergman, ma non erano girati da Bergman. «Cominciavo a guadagnare fiducia in me stesso e pensavo, “In realtà io i film non li vedo così. È la musica a trasmettermi le emozioni”. Per me la musica ha un significato particolare. È intrinsecamente legata al materiale.» Oggi, dice, i suoi film «traboccano» di musica, non soltanto perché la musica si lega alla storia, alle immagini e alle emozioni del film, ma perché si lega alle sue emozioni individuali. Lepselter propone di ascoltare il brano di Ramsey Lewis anche in sottofondo alla voce fuori campo di Jill. Woody è d’accordo. «Per esempio potremmo aprire su Abe senza voce fuori campo e poi staccare su di lei [Jill che cammina sul prato con i libri in mano] e far partire la voce fuori campo. Prendiamo Abe che guida e stacchiamo su una soggettiva di lui che guarda dal parabrezza, o qualcosa del genere.» Arriva un’inquadratura dal parabrezza. «Scateniamoci un po’. Vai all’inquadratura laterale; ne abbiamo una di lui che guida ripreso dal lato? L’abbiamo già cercata senza trovarla, mi sa.» Si interrompe. «Una volta che entriamo nella storia sarà tutto rigorosamente segnato, ma qui siamo liberi.» Ascolta la voce fuori campo di Abe: Kant dice che la mente umana è tormentata da domande che non riesce ad ignorare, ma alle quali non riesce a dare risposta. Quindi di che cosa stiamo parlando? Moralità? Scelta? La casualità della vita? Estetica? Omicidio? Fortuna? Forse tutte queste cose insieme.

«Quindi se usiamo soltanto la battuta su Kant e poi andiamo a “Di che cosa stiamo parlando?” suppongo che questa cosa potrebbe interessare il pubblico sul piano filosofico e non è un chiacchiericcio privo di senso. In più, se vogliamo allungare il film, dobbiamo farlo qui, mentre abbiamo ancora un pubblico disponibile a seguirci, prima che ci si rivolti contro.» Poi, guardando un’inquadratura di Abe al volante che beve da una fiaschetta, aggiunge: «Vediamo se possiamo avere anche un’immagine che lui possa commentare, prima di arrivare al terzo rullo. Proviamo con The “In” Crowd di Lewis. Dopo che

finisce la voce fuori campo di Jill passiamo ad Abe che dice, “Da dove cominciare?”, così che possiamo giustificare quest’inquadratura». A seguire arrivano due rapidi spezzoni con studenti e professori che reagiscono all’arrivo di Abe, dicendo cose come «Questo metterà un po’ di viagra nella facoltà di Filosofia» e «È molto interessante, ma sembra totalmente andato». Le inquadrature di Abe in automobile sono quelle che Virginia McCarthy è riuscita a salvare in mezzo a tutto il materiale in cui l’attore ballonzolava troppo sul sedile. Alla sequenza viene aggiunta un’inquadratura della strada, che termina su una pittoresca baia e una grande villa con vista sull’acqua. Ha il vantaggio di mostrare Abe lateralmente, quindi non lo si vede più ripreso soltanto dal davanti. «Adesso partiamo dal vero inizio del film [dopo i titoli di testa] e sentiamo Ramsey Lewis. Potrebbe avere la durata sbagliata. Se comincia con l’applauso puoi sovrapporlo allo “SCRITTO E DIRETTO DA”, così il film può cominciare con quello. [Alla fine sarà così.] Non dobbiamo usare tutta la canzone, magari partiamo solo con l’intro di basso, quella breve improvvisazione.» Guardano la scena così, poi Woody dice a Lepselter, «Abbassa la musica e alza di parecchio la voce di Jill». In un secondo momento Woody spiegherà, «Pensavo che il film avrebbe avuto molto più impatto drammatico se sui titoli di testa non si sentisse musica e l’attacco fosse Abe con The “In” Crowd in sottofondo. Gangster Story comincia senza musica, e il silenzio assoluto che c’è durante i titoli di testa di Bergman ti provoca una reazione emotiva. È solo che nei miei film i titoli di testa di solito hanno sempre un accompagnamento musicale, quindi non volevo che il pubblico pensasse, “C’è qualche problema tecnico?”. Ho anche pensato che se poi mi fossi reso conto che il silenzio totale sui titoli di testa non funzionava, potevo sempre

inventarmi qualcosa come far sentire il ticchettio di un orologio, così il pubblico in sala avrebbe capito che il sonoro funzionava, e quel rumore avrebbe significato sia il passaggio del tempo sia il fatto che il personaggio ha un temperamento simile a una bomba a orologeria: un simbolismo alquanto pretenzioso; cioè, prodigioso». La musica resta in sottofondo mentre Jill cammina sul prato, Abe è in macchina e dice «Da dove cominciare?» e poi beve da una fiaschetta, si vedono brevi frammenti di dialogo tra gli insegnanti, e poi tre studentesse che parlano tra di loro. Woody suggerisce di lasciar proseguire la musica fino a quando Abe incontra la preside del college. Il lungo brano musicale arriva a coprire le prime otto scene del film. In questo arco di tempo incontriamo i due protagonisti, ascoltiamo cos’hanno da dire gli altri a proposito di Abe, e scopriamo che ci sono guai in vista: tutto questo senza affaticare il pubblico. In termini dell’attenzione degli spettatori, si tratta di tempo libero, diversi minuti in cui non devono affrontare la complessità della storia ma soltanto restare seduti ad ascoltare, lasciandosi trasportare dalla musica e dalla narrazione. Woody ha fatto qualcosa di simile all’inizio di molti dei suoi film, a partire da Prendi i soldi e scappa, dove i primi otto minuti servono a presentare l’infanzia e l’adolescenza di Virgil Starkwell, e i titoli di testa arrivano soltanto dopo. Alcuni altri esempi: Manhattan comincia con una voce fuori campo che parla per quasi quattro minuti mentre Rhapsody in Blue accompagna romantiche immagini in bianco e nero di Manhattan; Vicky Cristina Barcelona ha quasi otto minuti che mescolano il brano Barcelona, la voce fuori campo che accompagna la presentazione dei personaggi, e bellissime inquadrature dedicate alla Catalogna; mentre Midnight in Paris si apre con oltre tre minuti di Si tu vois ma mère nella toccante esecuzione di Sidney Bechet, mentre lo schermo si illumina con una serie di magnifiche inquadrature di Parigi.

A Woody piace che si sentano gli applausi e le varie esclamazioni del pubblico durante The “In” Crowd, anche se, di prassi, si dovrebbe sentire soltanto musica. Vuole che il brano sia «meno patinato», proprio come voleva che le arie cantate da Enrico Caruso in Match Point conservassero le imperfezioni e i graffi delle vecchie incisioni da cui erano state tratte. Secondo Woody, gli applausi e le esclamazioni fanno un bell’effetto e si sposano bene con lo spirito del personaggio di Abe, anche perché il pubblico può vedere e sentire altri personaggi oltre a lui. «Mi suona meglio, per me va bene così», dice. In altre occasioni dove The “In” Crowd accompagna scene «di azione» – ad esempio, quando vediamo il giudice che fa jogging – sentiamo anche le grida di incoraggiamento del pubblico rivolte alla band che suona. Secondo Woody, questo «dà alla scena una bella energia». Woody sa che il brano di Lewis non è l’unico in grado di dare vita alla scena; è solo uno dei tanti brani potenzialmente giusti per quella scena. Come dirà in un secondo momento, «Tanta musica può essere giusta. Se non avessi avuto sotto mano un disco di Lewis avremmo trovato qualcos’altro – del boogie-woogie o qualcosa di Erroll Garner – e la sequenza avrebbe preso vita lo stesso. Il brano di Lewis ha un che di sinistro, un tocco blues un po’ sporco che funziona bene nel film. Quel genere di musica vibrante si presta bene ad accompagnare l’ansia e l’azione. Non è il Clair de lune». Quando si abbina una musica a una scena spesso si scoprono problemi che nessuno aveva notato durante il montaggio. Per il passaggio in cui Abe e Rita camminano accanto a un’alta siepe in direzione della casa di lei, Woody decide di non usare nessuna musica, però si accorge che la scena è troppo lunga. Lepselter propone di selezionare i dialoghi migliori e di accorciare la passeggiata, dato che in buona parte della scena non si vedono le bocche degli attori. Questa sequenza – la prima dedicata a questi personaggi dopo che si sono conosciuti al cocktail di benvenuto per Abe – serve

a mostrare che tra i due sta nascendo un rapporto, con Rita che vorrebbe avere una tresca con Abe anche se lui è piuttosto distaccato. Viene tagliato un terzo del loro dialogo. Per la scena della festa, quando Abe gioca alla roulette russa, serve musica contemporanea. «Abbiamo della musica per questa sequenza, ma a te non piacerà», dice Lepselter. Si tratta di due brani pop di Mike Ballou, e anche se non è proprio il genere di Woody, in quel contesto funzionano. Per le scene dove c’è bisogno di canzoni moderne, Woody lascia che sia Morgan Neville a trovare qualcosa di adatto. Quando per una scena di Melinda e Melinda (2004) serviva un brano moderno e sensuale, è stato immediatamente proposto Barry White. Woody non aveva idea di chi fosse Barry White, ma Come On era perfetta. In questa scena, però, la sua preoccupazione non è tanto la musica, quanto il fatto che l’inizio della sequenza con la roulette russa ancora non funziona come dovrebbe. La notte in cui è stata girata, Woody ha esortato più volte gli attori che interpretavano gli studenti essere più animati, più espansivi; il problema però rimane. In fase di montaggio Lepselter aggiunge alla traccia audio alcune voci di repertorio, e altre verranno registrate e aggiunte a loro volta durante il missaggio del sonoro, per arrivare all’effetto desiderato. Woody vuole che ci sia della musica quando Abe si sveglia in camera sua, eccitato all’idea di uccidere il giudice (è la scena 50a), perché «altrimenti è un momento vuoto», e dice di provare con The “In” Crowd. Alla fine lo stesso brano verrà usato quattro volte, sempre come accompagnamento a lunghe sequenze: le prime otto scene, le ultime nove, e due blocchi centrali da sei: in totale, circa il venti percento del film. In questo caso, la musica parte con Abe che si sveglia; va avanti mentre noi lo vediamo gustarsi una colazione abbondante, l’appetito rinnovato dalla sua decisione, e fino a quando nel campus lo vediamo incontrare Rita, che nota subito il suo entusiasmo. Tre scene più tardi, Abe comincia a seguire di

nascosto il giudice Spangler per scoprire quali sono le sue abitudini – uscire dal tribunale, andare a fare jogging, comprare la spremuta allo stesso chiosco, sedersi su una panchina del parco per leggere il giornale – e qui arriva il momento di portare in campo un po’ di musica nuova. Lepselter chiede a Woody se vuole «della musica da inseguimento». «No, vorrei qualcosa di simile a Ramsey Lewis ma lo stiamo già usando troppo.» Viene proposto un brano di Count Basie, ma non è del tutto adatto. Lepselter chiede se per caso vuole metterci la versione di Splanky suonata sempre da Count Basie. A Woody piacerebbe, però, quando la ascoltano, non sembra giusta né a lui né a Lepselter. «Fa troppo Pantera rosa», dice lei. «Fa troppo Jerry Lewis», risponde lui, e chiede di sentire altri brani di Ramsey Lewis. «Aveva inciso una bellissima cover di A Hard Day’s Night. [Questo è uno dei rari casi in cui Woody sta anche solo pensando di usare una canzone pop anni sessanta, anche se questa colonna sonora, alla fine, sarà composta interamente di jazz dello stesso periodo.] Probabilmente costerà un patrimonio, ma per il film andrà benone.» Ascoltando il brano, in effetti, è chiaro che Woody ha ragione. Però poi aggiunge, «In effetti non so se possiamo permettercelo». «No. Le canzoni dei Beatles costano troppo per noi», gli risponde Lepselter. Una volta il budget per la musica in un film di Woody era molto alto – si aggirava intorno ai 750 000 dollari – ma adesso è la metà, se non meno. Quindi provano un altro pezzo molto ritmato di Ramsey Lewis, Wade in the Water: parte con una tromba, poi arrivano il pianoforte e l’accompagnamento. [Il giorno seguente il brano verrà spostato su un blocco di tre scene nella parte centrale del film;

al suo posto verrà inserita Look-A-Here, sempre di Lewis, che diventerà la scelta definitiva.] «Troviamo qualcosa per quando ruba il veleno», dice Woody quando si arriva alla sequenza formata da tre scene in cui Abe fa ricerca sui veleni all’Athenaeum, la biblioteca di Providence, poi ruba dalla borsa di Rita la chiave che apre il magazzino del laboratorio di chimica, e infine cammina per il campus fino al palazzo che ospita la facoltà di chimica. La voce fuori campo di Abe dice, «L’omicidio sarebbe stato un atto di creatività». «Vuoi provare Wade in the Water intanto che ce l’abbiamo qui?», chiede Woody. La provano. «Divertente», dicono entrambi. «Il fatto che suoni molto simile a The“In” Crowd non sarà un problema?» chiede lui. Lepselter pensa di no. «Okay, allora mettila. Adesso fammi vedere il film da quando attacca The “In” Crowd così le possiamo sentire tutte e due insieme.» Funziona bene. Lepselter ricorda a Woody che ha già usato The “In” Crowd nella Dea dell’amore. «Già», dice lui, «ma solo in un punto», cioè quando il personaggio di Woody, Lenny, bussa alla porta di casa di Linda, il personaggio di Mira Sorvino, e la ragazza gli fa fare il giro dell’appartamento. The “In” Crowd parte sul finire della voce fuori campo di Abe e accompagna il personaggio mentre attraversa il campus e arriva al laboratorio per rubare del cianuro. Poi versa il veleno nella boccetta che ha portato con sé. Qualcuno propone di sfumare la musica quando Abe viene sorpreso dall’amica di Jill, April. Invece Woody preferisce mandare avanti il brano durante il loro scambio di battute, ma a un volume più basso. Il dialogo finisce con April che chiede aiuto ad Abe per una tesina mentre i due personaggi escono insieme dal laboratorio. «Eh sì», dice Woody, «dobbiamo proprio lasciarla, e mescolarla alla scena successiva perché ha un ritmo

trascinante: è come il Bolero di Ravel. Sarebbe bello poterla usare dall’inizio alla fine, come il tema portante del film.» Alcuni giorni più tardi Woody deciderà di usare Wade in the Water per questa sequenza, in modo da lasciare un po’ riposare The “In” Crowd prima di riprenderla cinque scene dopo, per una sequenza formata da sei scene. Ecco la sequenza: la musica parte mentre suona la sveglia di Abe, la mattina in cui uccide il giudice. Woody chiede di eliminare l’allarme per vedere come verrebbe la scena se il personaggio si svegliasse in maniera naturale. «La vuoi già quando lui apre gli occhi?» chiede Lepselter. «No, mettila sullo stacco.» Riguardano la scena ritoccata secondo questa indicazione e Woody dice, «No, forse è meglio come avevi proposto tu». Riguardano la scena un’altra volta. Woody non è soddisfatto. «Proviamo a far suonare la sveglia con due bip, e a quel punto facciamo partire la musica.» Per allungare l’inquadratura Lepselter ci aggiunge qualche fotogramma. Guardano questa versione e Woody, ridendo, dice, «Adesso i bip li devi far diventare quattro, e nel frattempo continuiamo a sentire la musica: tutto pur di aggiungere qualche secondo al film». La sveglia ora suona con un bip-bip-bip-bip. «Sono troppo vicini tra loro, i bip?», chiede Woody. «La mia sveglia suona così.» «Puoi far partire la musica mentre lui si tira su a sedere, e da lì procediamo a ritroso?» I bip terminano quando inizia la musica, che continua in sottofondo durante queste scene: Abe è in cucina, impegnato a mettere il veleno nella spremuta; il giudice fa jogging, poi compra la spremuta e il giornale e va a sedersi sulla panchina del parco; Abe cammina fino alla panchina, il giudice lo vede con la coda dell’occhio e cambia leggermente posizione in modo da avere maggiore privacy; poi Abe scambia i

contenitori e se ne va, il suo volto demoniaco, i suoi occhi cerchiati di rosso. La sequenza viene guardata di nuovo. Woody chiede a Lepselter di aggiungere un’inquadratura del giudice che arriva di corsa al chiosco, e poi dice, «Se preferisci staccare direttamente su di lui che preleva la spremuta per me va bene, poi stacchi su Joaquin». Il risultato piace a tutti e due. Lepselter vorrebbe che Abe avesse un’aria cupa e pensierosa. Woody non ne è tanto sicuro. Dice di aggiungere l’inquadratura in cui, dopo aver scambiato i contenitori e aver aspettato qualche secondo, Abe spinge il contenitore avvelenato fino al punto in cui il giudice aveva posato il suo. Ma così non funziona, e Woody ribadisce ciò che lo preoccupava già durante le riprese della scena: sembra «troppo buffo, troppo in stile Gianni e Pinotto». La scena migliora quando viene aggiunto un campo lungo del giudice che beve un sorso di spremuta, subito prima dell’arrivo di Abe. Poi l’uomo si siede accanto a lui, scambia i contenitori e se ne va camminando in direzione della macchina da presa. Woody vuole che ci sia della musica nella scena in cui Abe e Jill cenano insieme per festeggiare la morte del perfido giudice. Pensa a una cover di Stardust di Hoagy Carmichael, con Les Paul alla chitarra. Più avanti cambia idea, e si orienta su Darn That Dream (“Maledetto quel sogno”) di Jimmy Van Heusen, una melodia languida per chitarra e sassofono, nella versione suonata dal Jimmy Bruno Trio. Il sogno d’amore di Jill presto diventerà un incubo, e anche se questa canzone in particolare non è stata la primissima scelta per la scena, spesso Woody fa in modo di collegare il titolo di una canzone all’azione che accompagna. Qualche esempio tratto da Magic in the Moonlight: sui titoli di testa scorre You Do Something to Me (“Tu mi emozioni”) di Cole Porter (che sentiamo anche durante il primo appuntamento di una coppia nella Dea dell’amore); poi durante la penultima

sequenza arriva c’è It All Depends on You di Lew Brown, Buddy DeSylva e Ray Henderson (“Dipende tutto da te”), per sottolineare il momento in cui il mago Stanley, un uomo intelligente ma molto tardo a comprendere le proprie emozioni, arriva a capire di essere innamorato di Sophie durante una conversazione con sua zia Vanessa; mentre per il finale del film, in cui Stanley e Sophie si ritrovano, c’è I’ll Get By (As Long As I Have You) [“Me la caverò (fin tanto che avrò te)”] di Fred Ahlert e Roy Turk( la stessa canzone arriva anche alla fine di Zelig). Sui titoli di testa di Mariti e mogli c’è What Is This Thing Called Love? (“Cos’è questa cosa chiamata amore?”) di Cole Porter. In Hannah e le sue sorelle c’è You Made Me Love You (“Non posso non amarti”) di James V. Monaco e Joe McCarthy, subito dopo che Mickey dice a Holly di aver apprezzato moltissimo una storia scritta da lei; nella Dea dell’amore c’è I’ve Found a New Baby (“Ho trovato un nuovo amore”) di Jack Palmer e Spencer Williams, mentre Lenny fruga tra archivi di un’agenzia per le adozioni, nella speranza di scoprire il nome della madre naturale di suo figlio adottivo. In Tutti dicono I love you c’è la canzone eponima di Harry Ruby e Bert Kalmar. Sui titoli di testa di Edipo relitto c’è I Want a Girl (Just Like The Girl That Married Dear Old Dad) [“Voglio una ragazza (come la ragazza che ha sposato il mio caro papà)”] di Harry Von Tilzer e William Dillon, e la stessa canzone si sente sui titoli di coda e in vari momenti del film. Chi tra il pubblico ha qualche familiarità con i brani in questione ne ricava un doppio divertimento; per tutti gli altri, saranno solo canzoni che si sposano bene con quanto succede sullo schermo. Secondo Woody, la musica aiuta sempre una commedia, mentre un film drammatico può essere buono anche facendone a meno. «Però è sempre meglio usare della musica», si affretta ad aggiungere, «la musica fa parte del piacere che un certo tipo di film provoca sul pubblico. Come diceva Noël Coward

[nell’opera teatrale Vite private], “È strano quanto potente sia la musica dozzinale”.» Dopo una breve scena che inizialmente arrivava prima, ma che è stata collocata qui, Abe e Jill vanno al concerto di una violoncellista. Siamo al tramonto, e il giardino è illuminato dalle fiaccole. A questo punto il film è di nuovo sincronizzato sul primo montato di Woody. La musica è il preludio alla Suite n.1 in sol maggiore di J.S. Bach, e si adatta bene ai movimenti eseguiti dalla violoncellista sullo schermo. «Non esiste nessuna musica per violoncello che tenga il passo con il jazz», riflette Woody. La storia è in dirittura d’arrivo. Nella scena 103, Jill e Abe tornano al lago dove in un momento precedente del film avevano fatto l’amore. È la prima volta che Jill comincia a porre domande dirette ad Abe nel tentativo di confrontare le azioni dell’uomo con la «teoria pazzoide» di Rita. Ad esempio, come mai Abe, che non è certo un tipo mattiniero, è stato visto lasciare il campus alle 6.00 di un sabato mattina? Lui sostiene di essere dovuto andare a Providence per fare una TAC. Questa è l’ultima scena in cui Jill riesce a mettere a tacere i propri dubbi. Nella scena seguente, la storia di Abe la ossessiona. Woody riprende Look-A-Here per accompagnare questa e le due scene successive, con Jill che cerca qualche prova in casa di Abe e poi trova la copia di Delitto e castigo con la lista degli assassini scritta a mano. Woody ancora non è contento di come ha montato la scena, che parte con Jill che cammina lungo la strada di Abe. Gli piacerebbe poter avere una maggior quantità di girato tra cui scegliere. «Così non è emozionante», esclama, e cambia l’attacco della scena, con Jill che apre la finestra e si arrampica

all’interno. Ride e dice, «Lo sai, quando giriamo andiamo sempre al risparmio». Si ferma a pensare, poi si rivolge a Morgan Neville e le chiede di realizzare un cartello per i titoli di testa con le parole “CRAZY ABE”. Questa è la prima volta che parla con i montatori, anche se tre settimane fa ne aveva già parlato sul set e sono mesi che ci rimugina sopra. «Il film si intitola Crazy Abe?» chiede Lepselter. «Sì.» Il titolo gli è rimasto impresso, e Woody non ha mai considerato nessuna valida alternativa. Per un po’ in effetti si è chiesto se Crazy Abe fosse la scelta giusta, però, visto che in mente non gli veniva nient’altro, si è tenuto quello. «Non volevo avere uno di quei titoli seri alla Crimini e misfatti, e volevo che nel film ci fosse una certa leggerezza», dirà in un secondo momento. «Ti garantisco che se al pubblico piacerà il film, il novanta percento degli spettatori lo prenderà per una black comedy, perché tutto quello che faccio io viene preso per una commedia. E qui che cos’abbiamo? La storia di un tizio che si sente impotente da ogni punto di vista e poi, quando decide di ammazzare qualcuno, gli va tutto benissimo – sta alla grande, riesce ad andare a letto con le donne, gli piace la sua colazione e la sua vita va per il verso giusto. C’è qualcosa di comico in questo.» Quando ha chiesto a Helen Robin di avviare la procedura per poter usare Crazy Abe, ha detto, «È un titolo vivace, non è troppo serio, e racconta la storia». Il resto della musica viene scelto e montato rapidamente, con Ramsey Lewis che fa la parte del leone. Sono state eliminate diverse scene, così l’azione passa direttamente da Jill che trova il libro in casa di Abe ad April che le racconta di aver incontrato Abe nel laboratorio, e poi a Jill che affronta Abe accusandolo di aver ucciso il giudice. In queste scene non c’è musica di sottofondo. Look-A-Here viene ripresa nelle due

scene successive (Jill in classe è distratta e poi dice a Ellie che Abe presto lascerà il college). Ascoltiamo Wade in the Water mentre Abe guida e si sente pienamente giustificato per quello che ha fatto. Non serve musica per la scena 128, in cui Jill e Roy si rimettono insieme, né per la 129, dove Rita lascia il marito, perché il dialogo porta avanti la storia in entrambi i casi. Ma poi arriva di nuovo The “In” Crowd per le ultime nove scene, che iniziano con Abe che segue Jill mentre lei va a lezione di piano e terminano con Jill che cammina sulla spiaggia, la sua voce fuori campo che riepiloga gli eventi del film. L’idea di chiudere i film con una sorta di “coda” non è una novità per Woody: in effetti la ritroviamo in parecchie occasioni, a partire da Prendi i soldi e scappa. In Crimini e misfatti abbiamo Cliff (Woody) e l’assassino non pentito Judah (Martin Landau) che siedono sulla panchetta di un pianoforte durante il matrimonio della figlia di Ben, il rabbino cieco interpretato da Sam Waterston. La scena offre a Cliff l’opportunità di riassumere ciò che sia lui che Woody pensano della casualità della vita. In questo caso, Woody pensa che il suo discorso abbia funzionato in virtù della sua lunga esperienza in fatto di monologhi, e perché, sempre secondo lui, «i miei film sono talmente personali che io non mi vergogno a fare la morale alla fine. È come quel vecchio tormentone del Sid Caesar Show riferito agli scrittori. Sid Caesar riassumeva uno sketch dicendo, “Se c’è una cosa che ho imparato…”. Forse tutti gli scrittori erano bravi ragazzi ebrei educati a impartire una nobile lezioncina alla fine di una storia». Woody è soddisfatto di aver usato due diversi narratori per mandare avanti la trama, anche se uno di loro – come succedeva in Viale del tramonto (1950) – è morto. Ma lui non ha usato Abe allo stesso modo in cui Billy Wilder aveva usato William Holden. Wilder, dice Woody, «Voleva sempre avere un morto come narratore. Per lui significava qualcosa. Ma per

me non significava niente chi fosse il narratore. Abe rappresenta uno di quei casi in cui la logica non mi interessa. Il film dovrebbe essere una fiaba, una favola, perché non è realistico». Woody ammira il lavoro di Wilder, anche se, dice, «Viale del tramonto è molto appassionante, e anche divertente, però secondo me è un genere di divertimento camp. Invece La fiamma del peccato [1944] è uno dei migliori film americani di sempre, e ho adorato L’asso nella manica [1951]». La ricerca della musica per questo film si è risolta molto più in fretta del solito. Woody aveva passato tre ore solo cercando di incastrare Bye Bye Blackbird in Magic in the Moonlight, senza peraltro riuscirci: qui ci ha impiegato meno tempo ad approntare l’intera colonna sonora, anche se ovviamente ci sono volute parecchie altre ore di ritocchi e aggiustamenti prima che la musica fosse proprio come la voleva lui. «Abbiamo risolto la colonna sonora appena abbiamo trovato Ramsey Lewis, ma è stata tutta fortuna», dirà Woody. «Potrei stare ancora qui a rompermi la schiena con Alisa. La musica di Ramsey Lewis ha qualcosa di sporco e sexy e ti dà la sensazione che stia per succedere qualcosa. Ha tutto, insomma. Quindi adesso io sto solo aspettando che mi comunichino… [ride] …che non la possiamo usare perché costa troppo. «La musica trasforma le cose. Appena la senti, un film che era morto stecchito diventa vivo e piacevolissimo.»

8 La color correction, il missaggio

1. «L’unica cosa che conta è l’impatto sul pubblico.» Mentre stava ultimando il montaggio e la scelta della colonna sonora, Woody ha più volte mostrato il film ad alcuni amici per raccogliere le loro opinioni. Non si aspetta le stesse osservazioni negative o positive che potrebbe fargli uno sconosciuto. «Gli stimoli non ti arrivano mai dagli applausi. I miei amici fanno il tifo per me, quindi dicono, “Mi è piaciuto questo aspetto” oppure “Ho adorato quest’altro”. Ma se mostro lo stesso film a sei persone che non stanno dalla mia parte, loro potrebbero trovarlo pessimo. È tutto molto soggettivo. Ecco perché l’unico vero piacere del film dev’essere la sua lavorazione.» Woody è anche consapevole di quanto segue: non importa quante volte lui e Lepselter possono aver visto un film ancora non terminato, nel momento in cui lo vede un qualsiasi nuovo spettatore, tutto cambia. «Quando guardi il film da solo è un conto. Ma quando lo vedi con qualcun altro – il ragazzo del bar che viene a portare i caffè – e quella persona comincia a guardare lo schermo, di colpo cambia la tua intera percezione psicologica di quanto sta succedendo. Il film che adesso stanno guardando non è più lo stesso di prima, quello in cui ti sei sollazzato, che hai manipolato a tuo piacimento. Se il film è lento ti senti un po’ in imbarazzo, e vorresti dire, “Ehi, ragazzo del bar, questa scena la eliminiamo e la storia andrà

molto più veloce”. Ti cambia la percezione. È davvero un grosso aiuto guardare il film con altre persone. Non devi per forza parlarne fino all’esaurimento – io faccio domande precise: “Hai capito che è stato lui a fare quella cosa?”, oppure “Ti ha sorpreso che sia successa quell’altra cosa?”. Ma a quel punto lo senti, senti davvero di cosa c’è bisogno. È come quando mi preparavo a salire sul palco per i miei monologhi di cabaret. Anche lì lo sentivo. Lo capivo subito: “Taglia questa battuta e passa direttamente a quell’altra”. Senti proprio qualcosa nell’aria: c’è un solo posto in cui può stare una battuta. È una cosa intangibile eppure reale, come uno sgabello o una lampada. E quasi sempre hai ragione.» Dopo queste proiezioni di prova, e dopo aver ritoccato ancora un po’ il film, velocizzando l’inizio, Woody è pronto per le ultime due fasi della produzione. Una volta che il film è stato montato e la colonna sonora è stata aggiunta alle varie scene, cominciano la color correction e poi il missaggio, che servono a bilanciare suoni e colori, nonché a ripulirli, affinarli ed evidenziarli. La color correction, anche nota come timing, utilizza un computer per illuminare, scurire o rendere più profondi i colori, in modo che quanto passa sullo schermo appaia il più vivido possibile. Esistono due diversi tipi di correzione. Quella primaria va a modificare i “medi”: il rosso, il verde, il blu e il cosiddetto “gamma”, ovvero il rapporto che i colori hanno tra di loro; gli highlights, ovvero i bianchi; e le ombre, o neri, presenti sullo schermo. La color correction secondaria, invece, si concentra su gradazione, saturazione e luminosità, senza andare a modificare il resto dello spettro cromatico. Si tratta di un lavoro lungo e completamente soggettivo, ma chi lo fa bene apporta al film una bellezza e una ricchezza che lo elevano molto sulla rispetto alla pellicola sviluppata o all’immagine digitale. Tra i professionisti migliori nel campo c’è Pascal Dangin. Titolare della Box Studios, insieme ai suoi dipendenti ritocca fotografie per servizi di moda, copertine di riviste e

campagne pubblicitarie: in moltissimi vogliono che sia lui ad apportare gli ultimi ritocchi a un film, così che possa prendere vita sullo schermo. Nel caso di questo film, Dangin e Darius Khondji hanno lavorato su ogni singolo fotogramma per una settimana verso la fine di novembre. È la seconda volta che Dangin lavora a un film di Woody Allen, e conosce bene sia i gusti sia i bisogni del regista. Woody, a sua volta, si fida di lui, e si limita a fare qualche commento mentre lo guarda; non prende appunti scritti, né adesso né durante le varie proiezioni del film. La maggior parte delle modifiche proposte lo soddisfa, però, com’è inevitabile, qualche piccolo cambiamento lo chiede anche lui. Nella scena iniziale, le inquadrature frontali del viso di Abe devono essere più luminose, e così come nella seconda scena, quando si vede Jill che cammina sul prato, i colori devono essere più luminosi, in modo tale che ci sia meno contrasto dopo aver visto Abe. Dangin ha eliminato un pochino di blu dall’ombra su Abe e Jill durante la scena in cui i due passeggiano per la prima volta per il campus, e ha anche cancellato un attrezzo di produzione presente in un’inquadratura della cucina di Abe quando lui parla con Rita. «Ci ho messo del beige», dice, in modo da mimetizzarlo con il colore delle pareti. Ha aumentato la luminosità del cielo nella scena in cui Abe e Jill sono appena stati al cinema insieme e ha aggiunto un tocco di blu all’ombra. Ha anche aggiunto un po’ di luminosità alla scena ambientata nella tavola calda, quando Abe ascolta per caso la triste storia della donna. «Così mi piace», gli dice Woody. La prima scena di sesso tra Abe e Rita adesso è un punto più scura, e ne ha guadagnato in atmosfera. Woody è soddisfatto, ma chiede di controllare il volto di Rita quando lei ed Abe sono in cucina, prima di spostarsi in camera da letto. «Quello non l’abbiamo toccato», dice Khondji.

«Voglio essere sicuro che lei non sembri troppo cerea», dice Woody. Khondji, che parla un ottimo inglese, ma è iraniano naturalizzato francese, non è sicuro di cosa si intenda con “cerea”. «Imbalsamata», risponde Woody. Viene leggermente aumentata la luminosità della prima scena in cui vediamo il giudice e di un’altra in cui sta giocando a carte con i suoi amici. «La seconda è stata una faticaccia», dice Woody: per lui non era abbastanza ricca. Khondji è d’accordo: «l’abbiamo pulita», afferma. Molti minuti vengono dedicati alla scena in cui Roy sta seduto sulla veranda prima che Jill esca dalla casa e gli dica di non poter andare a un concerto con lui. La scena inizia con Roy da solo, e, secondo Woody, «ha un’atmosfera malinconica. Quando Jill esce per raggiungerlo è buona». Questa scena arriva dopo quella in cui Abe ruba il veleno dal laboratorio di chimica, una scena buia. Woody vuole amplificare il contrasto. «Dopo il laboratorio sarebbe bene che avessimo una bella scena pomeridiana, tanto per riprendere energia sulla veranda.» Dangin prova ad aggiungere un po’ di sole tardo-pomeridiano, però, dice, «Non c’è un’ombra consistente da nessuna parte». «Non mi importa se è mattina, mezzogiorno, oppure notte», dice Woody. «Mi basta avere un cambiamento gradevole rispetto all’ultima scena.» «Se aumenti troppo la luminosità perdi i toni della pelle», dice Khondji. Cercano di aggiungere un colore dorato simil miele, ma il risultato viene giudicato pacchiano. La scena è comunque abbastanza godibile, quindi si sarebbe trattato di modifiche minori in ogni caso. Per Woody non è un problema lasciarla così. «Okay, andiamo avanti. Queste cose sono tutte soggettive, e se per te va bene, ci siamo.»

Dangin ritocca una scena in cui Abe si allontana da Jill: adesso è più pulita, e, come dice lui, «non così scialba». «La preferisco un pochino più calda», dice Woody. «Meno grigia», dice Dangin. «Più calda è, meglio è», risponde Woody. Questa nel suo caso è una modifica ricorrente. Col passare degli anni non ha mai smesso di preferire «un film caldo» rispetto all’alternativa. Viene ritoccato anche il concerto all’aperto dove vanno Abe e Jill quando si sono appena messi insieme, in modo da aumentarne l’atmosfera. Ora c’è più oro sui personaggi e il cielo che sovrasta lo specchio d’acqua sullo sfondo è più blu – un problema facile da risolvere. Non si dimostra altrettanto facile la scena in cui Jill e Roy si lasciano. Come un oculista che confronta le varie lenti, Khondji diminuisce l’intensità del colore di mezzo punto, poi la aumenta sempre di mezzo punto, e dopo ogni modifica chiede, «Ti piace di più così… oppure così?». Chiaramente, Woody preferisce il tono leggermente più chiaro. La scena sotto il pergolato coperto di rampicanti, in cui Abe regala a Jill le poesie che le ha scritto, è stata molto rafforzata. Khondji ha aggiunto dell’oro e ha tolto del verde. La mattina in cui la scena è stata girata sembrava già bella, ma così lo è ancora di più. «Mi piace il “buio buono”», dirà Woody in un secondo momento, «quel buio alla Gordon Willis che ricorda il buio vero, ma il “buio scadente” è soltanto tetro.» Alcune piccole cose che passano inosservate mentre si monta all’Avid, di colpo, viste su uno schermo più grande si notano eccome. Nella scena in cui Jill e Rita parlano al pub, è stato cancellato il riflesso di un microfono sul bicchiere di vino di Jill; quando Rita lascia il marito Paul, è stato eliminato il giallo dalle inquadrature. «Sapevamo che quello era un problema, perché abbiamo girato molto presto», dice Woody. In teoria la scena si svolge nel tardo pomeriggio, ma,

nonostante la pioggia artificiale e le “bandiere” usate per bloccare la luce del sole, dal parabrezza dell’automobile filtra molta luce. La scena ne ricorda una presente in Magic in the Moonlight, dove la macchina di Stanley si ferma per un guasto durante un temporale e lui e Sophie cercano riparo in un osservatorio astronomico. Quella scena, però, era stata girata in un giorno di sole: la pioggia e il cielo scuro erano stati inseriti in digitale. In questo caso, invece, hanno utilizzato un macchinario per la pioggia artificiale. Ora ci si chiede se la pioggia sia abbastanza forte o se ne vada aggiunta altra. Khondji dice a Woody, «Pensavo che avremmo aggiunto della pioggia come abbiamo fatto in Magic. Non dobbiamo farlo per forza se tu non vuoi. Un grosso albero copre lo spazio tra l’automobile e la veranda, ma c’è un’area della macchina che è rimasta scoperta». Alla fine aggiungono un pochino di pioggia. Vengono apportate migliorie ad altri passaggi. Per rendere più fluida la transizione rispetto alla scena precedente, si aggiungono minimi tocchi di colore a Jill che cammina per il campus. La scena in cui Roy e Jill si lasciano è troppo blu se paragonata alla precedente; quella con Abe nella sala comandi dell’ascensore è troppo buia, così come quella in cui Abe e Rita camminano lungo la siepe fino a casa di lei. Si aumenta un po’ la luminosità della scena del cocktail di benvenuto per Abe, per far meglio entrare il pubblico nella storia. Si schiarisce anche la scena dove Jill e Abe vanno in visita al faro: «Troppo scialba», dice Khondji. Woody preferisce i toni caldi, quindi è felice di assecondare il direttore della fotografia, e aggiunge: «Forse anche in casa di Emma possiamo salire di mezzo punto». «Sono minuzie», dice Khondji. «Se senti che lo vuoi fare, allora facciamolo. Non aumentiamo il contrasto, soltanto la luminosità.»

«Non voglio che il pubblico si rassegni a una storia cupa», dice Woody. Khondji lo rassicura: aumentando la luminosità si ottiene un bell’effetto.

Rita (Parker Posey) lascia il marito nell’automobile parcheggiata fuori casa.

Si arriva alla scena finale, in cui Jill cammina lungo la spiaggia con la sua voce fuori campo in sottofondo. Durante il montaggio Woody ha già ritoccato più volte i colori. «L’ultima inquadratura è troppo fredda?», chiede, ancora incerto. «C’è bisogno di giallo?» Khondji dice che a lui piace la doratura presente sulla sabbia e sulle alghe sparpagliate. «Per te è abbastanza caldo?» continua Woody. «Lo puoi cambiare, ma è meglio non fare niente che vada a modificare il blu dell’oceano: è bellissimo. Vuoi vedere com’è con un filo di oro in più?» Allo stato attuale, il blu dell’acqua somiglia al colore dei mari dell’Europa del Nord. «Se tu vuoi provare», dice Woody. Ma l’oro non funziona. «Non è proprio quel tipo di oro che si può aggiungere alla scena. Va bene così.»

Pur facendo tutto il possibile per potenziare al massimo la resa estetica dei suoi film, Woody crede che tutte queste rifiniture servano solo fino a un certo punto, e che alla fine, la magia della tecnica conti fino a un certo punto. Il giorno dopo questa seduta di color correction dice, «Sono anni che lo ripeto a Darius, e sono anni che lo ripeto ai montatori: tutto ciò che conta è l’impatto finale. Poco importa se vedi una bandiera sullo sfondo o un microfono sopra la testa degli attori, oppure se il montaggio non è perfetto, o se il colore non è realistico, o se è troppo rosso. Essere perfetti e accuratissimi non significa niente. È bello, certo, ma l’unica cosa che conta è l’impatto sul pubblico».

2. «Un film è davvero finito solo dopo il missaggio.» I risultati che si possono ottenere durante la color correction vanno di pari passo con quanto viene fatto al sonoro durante il missaggio, che unisce tutti gli elementi di un film. Se anche soltanto una vocale o una consonante di una battuta suona strascicata, o flebile, può essere sostituita con un’altra presa da un altro ciak, o persino da una voce diversa. Se in una scena si sente un rumore estraneo al film – automobili di passaggio, aeroplani, il ronzio di un generatore – quel rumore può essere cancellato o controbilanciato, grazie alla tecnologia informatica e all’orecchio fino del montatore del suono. Lee Dichter supervisiona il missaggio dei film di Woody da trent’anni: ha cominciato con Hannah e le sue sorelle. Del suo lavoro dice, «Posso abbassare un rumore, alzarlo, cambiarlo di tono, allungarlo o accorciarlo, oppure invertirlo». Può persino far sembrare più grande o più piccolo uno spazio utilizzando diversi programmi per modificare il riverbero dei suoni. Tuttavia, aggiunge, «È difficile parlare di suono, perché è una cosa soggettiva». Ma tutta l’arte è soggettiva, e Dichter è un vero artista.

Woody lo definisce «il miglior montatore del suono in circolazione. Se non è libero, io lo aspetto sempre – lo devi chiamare con un anno d’anticipo, e non so come questo lavoro non lo faccia impazzire. La mattina se ne va in una saletta buia e ci resta seduto tutto il giorno. Il suo è un lavoro meticolosissimo.» Insieme a Dichter, che ha curato il missaggio di oltre 300 film, ci sono Sylvia Menno, che da anni segue il missaggio dei dialoghi dei film di Woody, e Harry Higgins, il fonico di missaggio. Robert Hein, il supervisore al montaggio sonoro, inserirà nel film circa 5000 rumori diversi: passi, bicchieri appoggiati sul tavolo, porte che si aprono, e così via. Li preleva da un archivio sterminato di possibilità che in parte ha raccolto e in parte ha registrato personalmente. La squadra lavora in una piccola sala di proiezione, dietro una consolle dotata di sette schermi da dodici pollici, otto file di tracce audio e otto manopole di equalizzazione, più un fader mobile in fondo a ogni traccia che slitta in automatico alla sua ultima impostazione: il movimento delle manopole, verso l’alto e verso il basso, ricorda quello dei tasti di una pianola meccanica. Il mixer di Dichter contiene tutti i suoni del film, da una parte quelli registrati tramite i microfoni messi agli attori e dall’altra quelli registrati tramite la “giraffa” (è il microfono che di tanto in tanto rischia di fare capolino sopra le teste degli attori). Il computer di Menno, invece, contiene tutti i dialoghi del film, e anche questi sono divisi tra battute registrate dalle giraffe e quelle registrate dai microfoni messi agli attori. Per eliminare i rumori indesiderati, Menno monta le battute con il programma Pro Tools, e tiene pronte alcune alternative in caso la sua prima scelta mostri qualche difetto. Dichter equalizza il suono, un compito, questo, che per essere svolto bene richiede facoltà uditive quasi canine. Certe parti del dialogo suonano troppo acute, o troppo basse, o attutite, allora Dichter deve tirare fuori dal pantano acustico qualche battuta pronunciata in maniera cristallina. Per esempio, nella

scena in cui Jill affronta Abe in classe, si sentiva in sottofondo il ronzio del generatore che alimentava i fari ad alta potenza sistemati fuori dalle finestre: Dichter ha intercettato la frequenza e l’ha equalizzata; con “equalizzare” s’intende che ha eliminato i rumori indesiderati dalla traccia audio. Prima si lavora sulle parole, per renderle più chiare possibili, poi si aggiunge la musica, e per ultimo si inseriscono gli effetti sonori. Il materiale registrato sul set può suonare confuso, o risultare compromesso, se all’attore è stato sistemato male il microfono. Spesso si perdono le sibilanti. A volte un microfono registra anche il battito cardiaco dell’attore, e in quei casi Dichter deve usare soltanto l’audio raccolto dalla giraffa. Due voci che non sono state registrate insieme non saranno mai bilanciate, allora Dichter dovrà fare in modo di allinearle. Può capitare che gli attori si vengano in aiuto – sia pure involontariamente – con le loro battute. Per esempio, nel confronto verbale tra Jill e Abe in classe, una delle battute di Jill conteneva le parole «up and back» (“mille giri”). La sua “k” suonava particolarmente “dura”, e quindi chiara. Ma nella scena in cui Rita lascia il marito, la “k” di “talk” (“parlare”), nell’ultima battuta, quasi non si sente. Allora Dichter prende il suono di quella consonante nella battuta di Jill, lo copia e lo inserisce nella battuta di Rita. In un altro caso, un’attrice pronuncia la parola “just” («solo») in maniera un po’ strascicata: il microfono era stato quasi sepolto dentro la sua camicetta, col risultato che il suono non è abbastanza chiaro. Menno cerca nel suo archivio di battute e ci trova un’altra parola dove la “j” è più scandita: allora la copia e la incolla. La color correction e il missaggio rappresentano un’eccezione rispetto alle altre fasi della lavorazione del film, nel senso che qui Woody non è presente ogni giorno, e non prende lui tutte le decisioni. Nei suoi primi quindici film, più o meno, arrivava al missaggio «l’attimo stesso in cui cominciava, e non me ne andavo mai, nemmeno per un

singolo fotogramma». Poi ha capito che non era necessario. I suoi gusti erano talmente chiari e costanti che, secondo lui, «tutti sapevano cosa volevo. Poteva occuparsi direttamente il responsabile del missaggio di tutto il lavoro faticoso, e poi, alla fine della giornata, o alla fine del secondo giorno, io potevo venire a controllare cos’era stato fatto, e dire, “Sì, così è perfetto”, oppure, “No, il volume non è abbastanza alto”, o anche “Be’, è venuto benissimo, però potreste abbassare il rumore dei grilli?”. Lavoro da molto tempo con Alisa, e da moltissimo tempo con Lee. Ormai loro sanno che cosa voglio». La qualità del suono è strettamente legata a come un personaggio dice le sue battute nella scena precedente. Quando la voce fuori campo di Abe recita, «Volevo vivere, insegnare, scrivere, viaggiare, fare l’amore», il suo monologo di per sé suona bene, ma ha un tono completamente diverso rispetto a come parla l’attore nella scena successiva. La maggior parte dei registi convocherebbero l’attore per una sessione di ADR (“additional dialogue recording”), ma visto che a Woody l’ADR non piace, Dichter ricrea al computer una traccia digitale di ogni parola – la forma d’onda analogica di ogni parola, per la precisione – e poi lavora su quella. Lo stesso succede con la scena in cui Rita rompe con il marito in automobile. La pioggia che cade sulla carrozzeria di un’auto rappresenta un problema: se alzi il volume del dialogo, alzi anche quello della pioggia. Anche qui un altro regista doppierebbe la scena; gli attori andrebbero in uno studio di registrazione e ripeterebbero le loro battute facendo in modo che corrispondano al movimento delle loro labbra sullo schermo. L’equalizzatore aiuta, anche se non tanto quanto vorrebbe Dichter. Però una cosa va detta: il miglioramento apportato alla scena è stato notevolissimo, e forse soltanto lui e poche altre persone al mondo si accorgerebbero dei difetti rimasti.

Finalmente si risolve un problema che Woody si è portato dietro per parecchio tempo: la scena della festa, quando Abe fa la roulette russa, e gli studenti reagiscono in maniera considerata insufficiente per volume e intensità. Mentre preparava i suoi effetti sonori, Hein ha registrato un piccolo gruppo di attori in una sala di doppiaggio. Ne ha fatti parlare due alla volta, non di più, così da poter poi assemblare un crescendo di voci, e il risultato dà proprio quella reazione emotiva che Woody voleva ottenere fin dal principio. Per il tonfo dell’ascensore che si ferma prima che Abe lo saboti, ha fatto cadere a terra dei grossi pezzi di metallo in sala d’incisione. Il ronzio dell’ascensore, invece, è un rumore fatto con delle corde di pianoforte, e poi lavorato in modo da farlo sembrare un rumore di cavi in movimento. La maggior parte dei suoni e dei rumori è sottile, quasi impercettibile e suggestiva: si sente ma non si nota. Alcune leggere modifiche al sonoro vanno a rendere ancora più potente la scena della colluttazione accanto all’ascensore. I primi due strilli lanciati da Jill quando Abe la afferra per le braccia sono stati registrati durante le riprese, ma Dichter li ha filtrati e potenziati. Viene eliminato uno strillo molto acuto che Jill fa quando Abe le copre la bocca con la mano. Lepselter si chiede se debba esserci un rumore quando Abe, durante la caduta, colpisce i cavi dell’ascensore. O forse dovrebbe esserci soltanto silenzio finché lui non tocca terra? Provano questa soluzione, ma così sembra un rumore troppo isolato. Si deve aggiungere un fruscio indistinto, dal volume basso. Dichter arriva alla soluzione vincente. «Adesso è sicuramente morto», dice Hein. Dichter non è ancora soddisfatto della scena in classe tra Jill e Abe. Ci vuole lavorare ancora un po’. Parte del problema sta nel fatto che il dialogo è drammatico, ma suona troppo acuto. Ci aggiunge dei bassi, in modo da eliminarne l’asprezza senza ridurre l’emozione.

Nessun dettaglio è troppo piccolo. Quando Roy e Jill si riconciliano, in sottofondo si sente il rumore di un’automobile prima che si veda passare il veicolo (più simile a una macchia sfocata, in verità): audio e immagine vengono sincronizzati. Alla fine dei titoli di testa, la musica sfuma subito dopo il cartello SONY PICTURES CLASSICS, la compagnia che distribuisce il film negli Stati Uniti. «Forse dovrebbe durare un piede in più? Sembra un po’ troppo breve», chiede Dichter. Con «un piede» si intendono sedici fotogrammi: tre quinti di secondo. Più tardi, dopo aver guardato l’intero rullo dall’inizio alla fine, Dichter propone di allungare la musica di un secondo e mezzo: l’equivalente di trentasei fotogrammi. Dall’inquadratura di una porta che si chiude, al termine di una scena, Dichter elimina un brevissimo cigolio che prima gli era sfuggito. Di recente si è occupato del missaggio di Grand Budapest Hotel, il film di Wes Anderson, e racconta, «Più Wes ascoltava il suo film, meno effetti sonori lasciava». Sempre a proposito di effetti sonori, quelli per la cabina che si ferma con un tonfo in fondo al vano dell’ascensore si sovrappongono alla voce fuori campo di Abe, perciò vengono spostati in avanti di due fotogrammi – un dodicesimo di secondo – in modo da sincronizzarsi con la musica, mentre Hinds aggiunge un ronzio alla scintilla che ci mostra che Abe ha sabotato il meccanismo. Dichter si accorge che la musica cala leggermente mentre Jill avanza lungo il corridoio verso l’ascensore e vede Abe ancor prima che lo veda il pubblico. Lui vuole che la musica non cambi, per aumentare l’effetto sorpresa. «Deve quasi sembrare che la sua voce interrompa la musica», dice. Questi ritocchi aumentano la tensione della scena. Alla colluttazione tra Abe e Jill, Hein ha aggiunto rumori di schiaffi per quando è lei a colpire lui, ma ancora non tutto funziona come dovrebbe. Provano l’effetto che fanno vari tipi di urla, e ne aggiungono uno a un primo piano. Inoltre, i rumori raccolti da due diversi microfoni non sono ancora del

tutto sincronizzati. Quello della giraffa è un tantino distante, perciò aggiungerci un riverbero lo fa sembrare strano, e il microfono messo all’attore ha un suono soffocato. Alla fine Dichter riesce a combinarli. Come ultimo tocco, viene eliminato un debolissimo respiro affannato di Jill fuori campo, subito prima che Abe precipiti nel vano dell’ascensore. Lepselter trova «un po’ bassa» la prima battuta della voce fuori campo di Jill nell’ultima scena («Col passare del tempo, l’orribile chiarezza di quell’esperienza…») e chiede di «far sfumare la musica giusto un attimo prima. Mi sembrava che la musica le stesse troppo “addosso”». Viene anche attenuato il rumore delle piccole onde che lambiscono la spiaggia, in modo tale che la voce fuori campo non abbia attorno troppi elementi. In questa scena si sentono onde, gridi di gabbiani, musica e voce fuori campo, e bisogna bilanciare il tutto in maniera tale che nessun suono si imponga sugli altri. Il giorno seguente, Woody arriva a controllare come sono stati lavorati il quarto e il quinto rullo, gli ultimi quaranta minuti del film. (Per la proiezione in sala, ogni rullo contiene 600 metri di pellicola – il doppio di quanto succede durante le riprese.) Ha già visto e ascoltato il missaggio dei primi tre rulli e ha chiesto di fare modifiche minime. Le visite in sala di missaggio, quando non c’è da visionare uno o due rulli, le tiene in serbo «per quando stanno missando una sequenza particolare che richiede una creatività capace di avere un effetto sulla storia». Gli aggiustamenti tecnici lo trovano sempre soddisfatto, quindi, quasi tutto ciò che cambia lui sono «piccoli ritocchi creativi». I titoli di testa del film sono un buon esempio. A Woody piace che la musica entri in scena con forza, e sui titoli di testa non ne voleva affatto. Dichter lo ha convinto a far sentire un’automobile in movimento sul cartello col titolo del film – pochi secondi dopo l’inizio, dunque – giusto per far capire al pubblico che il sonoro funzionava. Quando appare il cartello «SCRITTO E DIRETTO DA WOODY ALLEN» si sente ancora il rumore dell’automobile,

e lo si sente per tre secondi, prima che sfumi. A quel punto, per una frazione di secondo, si sente l’applauso all’inizio di The “In” Crowd, poi lo schermo diventa nero, e poi si vede Abe al volante dell’auto. Woody però vuole che la musica entri in maniera diversa: «L’applauso che si sente nell’album è troppo forte e rovina l’attacco della musica», spiegherà in un secondo momento. «Gli ho chiesto di abbassare l’applauso, così è la musica a essere l’attacco drammatico. Questa è l’unica modifica che farei. Il resto del rullo era perfetto.» Nel rullo numero 5, quando Abe cammina su e giù tra i banchi degli studenti che stanno svolgendo un esame scritto e noi ascoltiamo la sua voce fuori campo, Woody dice, «Assicuratevi che la musica non languisca in maniera snervante». Per una scena ambientata in una caffetteria, chiede di abbassare la musica che accompagna la voce fuori campo di Abe («Ma non avevo alcuna intenzione di costituirmi…»). Dichter attenua la musica nel segmento che va da Jill che sbatte la porta dell’aula fino alla voce fuori campo di Abe nella caffetteria, però Woody dice, «Così non ti dà la stessa spinta verso la scena seguente». Preferisce la musica com’era prima. «Lì c’è bisogno di un’accelerata. Sono troppo insicuro per tenere la musica più bassa.» La sua preoccupazione principale, a questo punto, è la caduta di Abe. «Andrà bene il rumore del corpo che tocca terra? Mi sembra quasi comico». Il rumore è quasi simile a un “boom”. Guardano di nuovo la scena. «Sembra uno di quei numeri da vaudeville, dove un tizio dal palco cade nella buca dell’orchestra», dice Woody. Hein abbassa la risonanza del rumore, e lo attutisce appena. Woody commenta: «Questo ha sempre un che di comico, come un colpo di piatti e rullante». Si elimina il “boom”, e si alza leggermente il rumore del corpo che colpisce i cavi dell’ascensore. Visionano di nuovo la scena. «Il rumore dei cavi è un bell’aiuto. Ora non è più tanto comico», dice Woody, e poi aggiunge, «Così va meglio, è meno buffo».

«Capisco cosa intendi», dice Hein. «Suona come se qualcuno fosse caduto su un tamburo.» Nel giro di un’ora Woody ha finito. Dopo che se n’è andato, Dichter dice, «Quasi tutti i film di Woody sono narrativi, quindi è il film a suggerirmi come dev’essere missato. Questo è così dialogato che è fondamentale far scorrere bene la storia. Per una scena si montano insieme tanti ciak e tante versioni diverse degli stessi elementi. Noi lavoriamo per ore e ore sulla stessa scena per farla scorrere come se stesse succedendo in tempo reale. Se sento qualcosa che considero una distrazione, la affronto e poi la minimizzo oppure la elimino. La mia priorità è mettere bene a fuoco i dialoghi, non importa come siano stati registrati, e poi farli spiccare all’interno di tutto il missaggio. Mentre stanno montando il film, Woody e Alisa preparano un primissimo missaggio che a noi serve come riferimento per sapere che cosa vuole lui, ma Woody è sempre aperto a nuove idee. Comunque, non è il caso di fargli troppe sorprese, quanto piuttosto di aiutarlo a portare a compimento la sua visione. Il nostro compito è ottenere il più possibile dall’interpretazione degli attori e tenere altissimo il contenuto emotivo del film». Per usare le parole di Woody, «Un film è davvero finito solo dopo il missaggio».

9 The end

Nel dicembre 2014 Woody ha mostrato il film montato – ma non ancora missato – ad alcuni dirigenti della Sony Pictures Classics. A loro è piaciuto tutto tranne il titolo, ma non ne hanno parlato direttamente a Woody: hanno sollevato l’argomento con sua sorella Letty. «Quando vogliono fare qualcosa ci vanno sempre con i piedi di piombo», ha commentato Woody. «Sono andati da Letty e le hanno detto, “Il film è bellissimo, ma non credi che Crazy Abe faccia pensare a una commedia, dato che è un film di Woody?”». Questo è un problema ricorrente per i suoi film drammatici, però, va detto, i dirigenti della Sony non sono stati i primi ad avanzare qualche riserva sul titolo. Una reazione simile l’hanno avuta Juliet Taylor, l’amica (ed ex assistente) Jane Martin e l’addetta stampa Leslee Dart. Le preoccupazioni espresse dalla Sony hanno finalmente convinto Woody che era il caso di cambiare rotta, per quanto Crazy Abe a lui piacesse ancora molto. Un paio di settimane più tardi, gli è venuta «un’idea al limite del plagio: chiamare il film Irrational Man». Il libro omonimo di William Barrett che spiegava l’esistenzialismo «era un libro famoso; be’, famoso nella mia cerchia di amici. Pensavo che sarebbe stato un ottimo titolo per il film. Non è Crazy Abe, ma esprime lo stesso concetto in chiave seria, e più generale». Helen Robin si stava informando per capire se usare il titolo di un libro avrebbe creato problemi di carattere

legale. In caso non ce ne fossero, Robin avrebbe contattato l’Ufficio Registrazione Titoli della MPAA per vedere se era libero. Per sicurezza, Woody le aveva chiesto di verificare anche la disponibilità di due titoli ispirati a Nietzsche (Al di là del bene e del male) e a Kierkegaard (Timore e tremore). Con il secondo non c’erano problemi, ma per il primo, si è scoperto, c’era un film in preparazione che si intitolava proprio così. Woody ci ha riflettuto e poi ha deciso di optare per Irrational Man, però un aspetto lo preoccupava. «Non vorrei che gli eredi di William Barrett mi facessero causa, perché a me piacciono sia il libro sia William Barrett. Tra questo film e il libro non esiste alcun legame, ma io non voglio finire sui giornali per via di un’azione legale dei figli di Barrett. Ho pensato, “È davvero il titolo migliore, quindi usiamolo e speriamo che per loro non abbia un valore particolare”. Adesso aspetto solo… [ride] …che qualcosa vada storto, perché per questo film è il proprio il titolo perfetto.» E legale, come si è appurato. Quando il lavoro sul film era quasi terminato – in quel momento mancavano solo la color correction e il missaggio – Woody poteva esaminare il risultato con un po’ più di distacco. «Mi sento abbastanza soddisfatto», ha detto. «Mi sembra un film onesto. Non mi sembra che ci sia qualche parte in cui devo solo chiudere gli occhi durante una scena e sperare di passarla liscia. È venuto piuttosto simile a come lo volevo io. Non sto pensando, “Oh, Dio, ho mandato tutto all’aria e anche se dovesse piacere alla gente sono disperato”. Mi sembra di aver fatto un buon lavoro. Joaquin è stato grande, Emma è stata grandissima. Tutto il cast ha lavorato molto bene. «Spero che gli elementi filosofici della storia non tengano lontano il pubblico», ha continuato, «e spero che non venga considerato un film intellettuale. Voglio che la gente si appassioni e si interessi alla storia. Ci sono buone probabilità

che succeda, credo, ma non ne sono sicuro.» Ha fatto spallucce. Come succede sempre con i suoi progetti, che lo interessano davvero per circa un anno, il presente stava volgendo rapidamente al passato. «Quando il film uscirà io sarò già a buon punto con un altro.» Alla fine del 2014 Woody si stava già concentrando sui suoi prossimi due progetti: la sceneggiatura del film previsto per il 2015 e un’idea – ancora da scrivere – per la serie tv che aveva accettato di girare per Amazon. Gli era stata fatta un’offerta, un anno prima, che gli dava totale libertà di realizzare qualsiasi cosa volesse. Ogni episodio poteva durare trenta o sessanta minuti; lui poteva partecipare anche come attore, oppure no. «Nasce tutto dal fatto che il mio agente, John Burnham, ha detto a quelli di Amazon, “Non gli interessa”, quando loro sono andati da lui», ha raccontato Woody a un certo punto dell’anno intero in cui non aveva ancora deciso se accettare o meno l’offerta. «È la risposta migliore che si può dare: “Lui fa cinema, non guarda la televisione, non gli interessa”. Ed era vero. Però, appena lo dici, loro ribattono, “Possiamo incontrarlo?”. E poi, “Che cosa vorrebbe fare?”. Quando ti vogliono, ti danno tutto quello che gli chiedi. E quando non ti vogliono non riesci nemmeno a parlarci al telefono. È la classica situazione alla Jerry Lewis. C’è stato un periodo in cui dicevano: “Se Jerry Lewis vuole incendiare la casa di produzione, voi dategli i fiammiferi”. E poi, quando sono arrivato io a volere che dirigesse lui Prendi i soldi e scappa, mi hanno risposto, “No, non lo vogliamo”. Si era fatto terra bruciata intorno.» Il più grande problema di Woody stava nel non riuscire ad accettare la rapida ascesa del binge-watching come maniera abituale di guardare le serie tv in streaming. «Ancora non mi va giù che queste cose stiano diventando in qualche modo più importanti dei film», dirà alcuni giorni dopo. «La voce della

realtà mi dice, “Senti, i film stanno via via scomparendo e la gente in ufficio non parla più dell’ultimo film di Jean-Luc Godard o di Martin Scorsese, non sono più quelle le cose che aspettano con ansia. Adesso non vedono l’ora di guardare i vari Homeland e I Soprano, perché le serie hanno raggiunto un livello di importanza artistica paragonabile ai film”. Ma tutti le guardano sul computer portatile o sullo schermo del telefonino, allora ti chiedi, “Ho davvero bisogno che arrivi Darius Khondji a fotografare una serie?”. Se guardi un film sul grande schermo, è una magia. Ma se lo guardi in televisione, o, peggio, su un iPhone… Questa pratica non ha catturato la mia immaginazione, ma quella del pubblico sì. Pare che le serie siano ben fatte, valide e ben scritte, vero intrattenimento per adulti, mentre i film, salvo poche eccezioni, sono diventati prodotti industriali concepiti in base alla pura venalità. Cercano tutti di fare commedie o thriller che risultino “gradevoli” e non disturbino il pubblico, e farebbero qualsiasi cosa per raggiungere quest’obiettivo. I film hanno perso la loro individualità, che è stata rimpiazzata da una patina commerciale, e questo vale sia per la fotografia sia per il film in generale.» Il progetto per Amazon acquistava più fascino per via di qualcosa che a Woody non era quasi mai capitato, ovvero, il suo scarsissimo entusiasmo rispetto a tutti i potenziali spunti per un nuovo film. Si stava prendendo una pausa, e avrebbe scritto un paio di racconti da proporre al “New Yorker”. «Con i miei film sono arrivato a un punto morto», ha detto intorno alla metà di novembre. «Ora come ora non c’è niente che mi ispiri e si sta avvicinando il momento di lavorare a questa cosa per Amazon. Loro continuano a fare riunioni con Steve [Tenenbaum, il manager di Woody] e continuano ad accettare tutte le sue richieste. Sono così ansiosi di arrivare a un accordo che sono pronti a tutto. Allora Steve mi chiama e mi fa, “Senti, io non so più cosa dirgli. Non lo vuoi fare? Perché loro stanno dicendo di sì a tutte le mie richieste”. Non mi mettono nessun

limite, è un buon affare e sembra un peccato rifiutare. Nessuno mi farà più un’offerta simile per la tv.» Di spunti per una serie gliene sono venuti parecchi, ma ancora maggiore è stata la sua incertezza riguardo il portarne avanti uno. «Adesso provo davvero quel sentimento di cui si parla tanto ma che io non avevo mai provato: sto facendo di tutto per evitare di cominciare a scrivere», ha detto, con un misto di frustrazione e divertimento. «Proprio non ho voglia di farlo, però devo. Posso scegliere se scrivere sei oppure otto episodi. Mi piacerebbe cavarmela con sei. Se ne scrivessi otto guadagnerei di più, perché prendo una percentuale per ogni episodio, però, se dopo che ne ho scritti due o tre e Helen ha calcolato il piano finanziario, se a quel punto scopriremo che con sei riuscirò a guadagnare i soldi che voglio, allora ne farò sei. Invece, se per arrivare a un buon investimento ne dovrò scrivere altri due, allora lo farò. Però, davvero, non so cosa sto facendo; mi sono messo in un gioco più grande di me. Non ho mai visto una miniserie, mai. Non ho mai visto una puntata dei Soprano o di Mad Men o di Breaking Bad. Se non guardo queste cose è solo perché non sono mai a casa. La sera vado fuori a cena, e quando ceno a casa salgo al piano di sopra e guardo la partita di baseball, e all’arrivo del quarto tempo cominciano a chiudermisi gli occhi. Se riesco a restare sveglio metto sul telegiornale. Al più tardi vado a dormire alle 23.30.» Questa situazione di stallo, rarissima per lui, è durata tre settimane. Poi gli è venuta un’idea che considerava buona per il suo film del 2015. A fine gennaio ha finito la sceneggiatura di Café Society e si è subito messo a lavorare alla serie. Alla fine, «per frustrazione», ha rimaneggiato un copione intitolato A Rainy Day in New York, che aveva scritto circa quindici anni fa e che poi aveva rimesso nel cassetto. Da quel momento, ogni tanto, ne prendeva qualche parte e la utilizzava per un altro dei suoi film. In vista della serie tv, ha rimaneggiato i passaggi che aveva usato altrove, in modo da non ripetersi, e

ha diviso la sceneggiatura in sei episodi, nessuno dei quali prevedeva la sua presenza come attore. Problema risolto. Poi però gli è venuta un’altra idea: una storia ambientata negli anni sessanta in cui avrebbe potuto recitare anche lui. Circa un anno prima ne aveva parlato come di un’idea per il cinema che gli ronzava per la testa da un po’. «Mi sono detto, “Scrivila”. Ci ho pensato e ripensato allo sfinimento. Mi sono guadagnato il mio compenso», ha detto a fine aprile. «Oggi ho finito quattro dei sei episodi. Mi serviranno almeno altre due settimane, perché come metodo di scrittura è molto noioso e ripetitivo. Non sto lavorando su un’unica storia, per cui non procedo per aggiunte successive fino a raggiungere un unico climax, e questo mi ha creato due problemi. Primo, non posso affrontare la puntata successiva prima di concludere la precedente. Questa è una cosa che mi ammazza. Secondo, sto cercando di raccontare una storia in economia, per tenere basso il budget.» La trama parla di una coppia in là con gli anni che abita in un sobborgo benestante di New York e che si ritrova la vita sconvolta dall’arrivo della figlia di un amico, una giovane estremista ricercata dalla polizia. È uno scontro tra generazioni e visioni politiche opposte, in cui avrebbe potuto tranquillamente recitare Bob Hope. Uno degli aspetti che piace a Woody è questo: «Potrebbe funzionare molto bene come una pièce teatrale dove non si cambia mai la scenografia, dato che è tutto ambientato in una casa. Questo ci aiuta sul piano economico, perché non siamo di fronte a una storia enorme che mi costerà una fortuna. Poi, certo, magari la finisco, la batto a macchina, la rileggo, la trovo pessima e mi rimetto sull’altra idea». Passerà un altro mese prima che Woody arrivi decisione definitiva; e sono ormai parecchi mesi che indecisione ha superato il livello di guardia. «Sarò contento quando questa esperienza con Amazon sarà

a una la sua molto finita.

Non faccio che ripensare alla storia di Martha Graham. Quando ero un ragazzino c’era un programma radiofonico idiota ma molto popolare, Truth or Consequences (“Verità o paga pegno”). Una volta all’anno facevano un concorso che si chiamava Miss Hush (“Miss Silenzio”), dove dovevi scoprire l’identità di un ospite del programma. La prima settimana ti davano un indizio talmente criptico che non lo capiva nessuno. Poi ogni settimana ne davano un altro, e tutta l’America si chiedeva, “Chi sarà Miss Hush?”. Martha Graham non era ancora molto famosa all’epoca. [Nel 1947.] Io ho capito che l’ospite era lei alla dodicesima settimana, insieme probabilmente a mezza America. Sono dovuto andare in biblioteca per arrivarci. L’indizio che mi ha sbloccato [si mette a ridere] aveva qualcosa a che fare con i Graham crackers1. Sono andato in biblioteca e ho visto che esisteva una danzatrice di nome Martha Graham. [Qualche tempo dopo Woody l’avrebbe conosciuta di persona.] Martha odiava il fatto di aver preso parte a quel programma. Per me questa cosa con Amazon è come il concorso di Miss Hush.» Nonostante ciò, Woody trova che i dirigenti di Amazon siano «persone gradevolissime, e sul piano artistico mi stanno lasciando davvero libero, non si mettono in mezzo. Sto cercando di lavorare alla serie nei ritagli di tempo in modo da non dover interrompere il mio solito piano di lavorazione del film.» Forse Woody si sarebbe espresso diversamente se avesse saputo che, un anno più tardi, Amazon avrebbe sborsato la bellezza di quindici milioni di dollari per distribuire Café Society negli Stati Uniti (altri cinque sono stati spesi solo per sostenere i costi di pubblicità, promozione e stampa delle copie), e una cifra ancora superiore sarebbe stata offerta per produrre il suo film del 2016 Wonder Wheel, che sarà distribuito nell’autunno 2017. Amazon vuole affermarsi anche sul mercato del cinema, e ha pagato Woody diversi milioni di dollari in più rispetto a quanti lui ne abbia mai ricevuti dai

distributori consolidati: la Sony Pictures Classics nel caso dei suoi ultimi sette film. Il progetto per la tv, alla fine, sarà la storia della ragazza che si rifugia a casa dei due coniugi: il titolo sarà Crisis in Six Scenes. Il personaggio della moglie di Woody verrà interpretato da Elaine May, che, come Woody, salì alla ribalta insieme al suo partner Mike Nichols quando come manager aveva Jack Rollins. La giovane sovversiva sarà Miley Cyrus, che secondo Woody è «fantastica». Ma prima di arrivare a scegliere lei dovrà finire di scrivere la serie. Il mattino seguente, vestito da cima a fondo, Woody si è sdraiato sul letto, con il viso molto vicino alla pagina, e ha cominciato a prendere appunti per la sua nuova sceneggiatura.

1. I crackers Graham sono dei biscotti a base di farina integrale, ispirato alle teorie nutrizionali del ministro presbiteriano Sylvester Graham, sostenitore dell’utilizzo di cereali integrali.

Ringraziamenti

Fin dal 1971, dando vita alla più lunga intervista “permanente” mai condotta a New York o altrove, Woody Allen ha risposto alle mie domande con franchezza e buon umore, e mi ha permesso di avvicinarmi completamente al suo lavoro. Nel corso dei suoi quarantasei film mi è capitato di vederlo più per caso che con intenzione. C’era sempre qualcosa di nuovo in corso e di cui parlare, e così ho avuto la rara opportunità di osservarlo e scrivere di un artista attraverso la sua intera carriera e i suoi film. La mia gratitudine nei suoi confronti è pari solo al piacere che ne ho ricavato. Juliet Taylor, Letty Aronson, Helen Robin e Santo Loquasto sono stati un aiuto prezioso durante la produzione e sui set per decine di anni. A loro vanno miei ringraziamenti per la gentilezza e la mia ammirazione per le loro grandi capacità. Darius Khondji è sempre stato generoso nelle sue spiegazioni sui singoli dettagli dell’arte cinematografica, nella quale girare non è un’opzione. Sono grato a Parker Posey per le nostre conversazioni e per le sue mail davvero molto dettagliate riguardo alla sua esperienza sul set di Irrational Man; devo ringraziare anche Emma Stone e Jamie Blakely per le loro idee e opinioni. Virginia McCarthy, che una volta ha letteralmente salvato la situazione, è stata una fantastica compagnia giorno per giorno. Suzy Benziger è riuscita a vestire anche le ombre e ha fatto sì che tutto avesse un bell’aspetto. Grazie a Edward Walson per i molti pranzi, e alla troupe, specialmente a Danielle Rigby, Christie Mullen, Billy Weberg, Brad Robinson, Mike McGuirk, Carl Sprague, Faith Brewer, Julie Snyder, Jen Gerbino, Lindsay Boffoli,

Greg Miller, Frans Wetterings, Scott Kordish, Amy Trachtman e David Schwartz. Sabrina Lantos ha scattato le ottime fotografie che corredano il testo e anche quella che è in copertina (nell’edizione americana, ndr). Alicia Lepselter è stata una guida genorosa nella stanza di montaggio per moltissimi film; devo ringraziarla per aver potuto guardare da sopra la sua spalla e per le sue risposte alle mie numerose domande. Grazie anche a Morgan Neville, Kate Rose Itzkowitz, Sharon Perelman, Lee Dichter, Patricia DiCerto, Lauren Cheung, e John Doumanian. Ginevra Tamberi, l’impareggiabile assistente di Woody durante molti anni, mi è stata costantemente d’aiuto. Ha i miei ringraziamenti più cari per questo, così come per la sua amicizia. Sono in debito anche con Wayne Kabak e James Gregorio per la loro preziosa guida e per le loro abilità contrattuali, e a Don C. Skemer, archivista, e ai suoi colleghi alla Rare Books LIbrary della Princeton University e al Dipartimento delle Collezioni speciali. L’incomparabile Susan Stroman mi ha gentilmente permesso di gironzolare sul set durante le prove e la messa in scena di Pallottole su Broadway. Speravo che una parte del musical, che è nato durante gli anni di riprese di Irrational Man, potesse finire nel libro. Purtroppo le mie opinioni sulla sua genialità come regista e coreografa saranno messe per iscritto un’altra volta. Moses Farrow e Soon-Yi Previn mi hanno parlato diffusamente di alcune situazioni difficili e mi hanno fornito un’altra versione di una vecchia storia, e Linda Fairstein ha graziosamente fornito anche le sue idee e opinioni al riguardo. Le sono davvero molto grato. Alla Knopf, Chip Kidd è arrivato con un’altra copertina che sintetizza perfettamente il libro. Sono sempre felice quando lavora a una mia copertina. Iris Weinstein ha fatto il suo solito ottimo lavoro di design. I miei ringraziamenti a Amy Ryan per aver lavorato con cura al testo, trovando errori piccoli e grandi che, se stampati, mi avrebbero fatto vergognare. La brillante

Victoria Pearson si è presa cura del manoscritto con attenzione, humor e suggerimenti che sono sempre stati puntuali. È stato un enorme piacere e un divertimento lavorare con loro. Per lo più abbiamo comunicato tramite note a margine, ma scritte in maniera tale che la sensazione era quella di star seduti uno a fianco all’altro a discutere di ogni virgola, nozione o gancio del libro. Il direttore di produzione Roméo Enriquez ha trasformato il lavoro di tutti in uno splendido volume. Grazie anche a Meghan Hauser e a Julia Ringo, l’affascinante assistente di Jonathan Segal, che ha gestito le mie centinaia di telefonate e mail con grazia e tempestività; ad Anke Steincke, per il suo acuto aiuto legale; a Nicholas Latimer e Michael Lionstar, che hanno scoperto l’autore che c’è in me; e al mio faro Kathryn Zuckerman, che ancora una volta è riuscita a far emergere le mie capacità. Infinita gratitudine va anche ai buoni amici che mi hanno consigliato e aiutato: Robert B. Weide per la sua profonda conoscenza di Allen; Andrew Wolk per aver tenuto un occhio da regista su queste pagine; Linda “Sherlock” Amster per il suo infallibile fiuto; e E.C. McCarhty Robert Wallace, David James Fisher, Dexter Cirillo e mio figlio John Lax per le loro utili letture del manoscritto. I miei apprezzamenti a Walter Hill. Il mio amore, sempre, a Constance Lax Midgley, Joy Lax Lloyd e Margaret Lax Winter. Il mio affetto, e la mia gratitudine, a Cathy Sulzberger e Joe Perpich, per avermi dato asilo per anni. Jonathan Segal è stato insuperabile nel saper arrivare al cuore di quello che una frase, di un paragrafo o un capitolo dovrebbero essere, e nessuno nell’editoria è migliore di lui nel far funzionare un libro. Qualsiasi manoscritto lavorato da Jon è pieno della sua intelligenza, passione e cura. La sua matita staziona su ogni parola, ma i suoi segni sono invisibili al lettore. Sono fortunato ad aver lavorato con lui e nell’averlo avuto per compagno durante trentacinque anni; in qualche modo non è invecchiato di un solo giorno. William Tyrer e David Wolf hanno letto e riletto il mio lavoro per anni,

offrendo sempre critiche oneste ed appoggio costante, incoraggiamenti e amicizia. Il loro aiuto è visibile in ogni libro che ho scritto, e questo libro è dedicato a loro. Il mio amore per mia moglie, Karen Sulzberger, e I nostri figli, Simon e Jhon, è sconfinato: sono tutto il mio mondo.

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TIFFANY WATT SMITH, Atlante dellle emozioni umane. 156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non provarai mai MARCO SCARDIGLI, Il viaggiatore di battaglie. Sulle tracce delle piccole e grandi guerre combattute in Italia SALVATORE SETTIS, Cieli d’Europa. Cultura, creatività, uguaglianza ARRIGO PETACCO, La guerra dei mille anni. Dieci secoli di conflitto fra Oriente e Occidente MASSIMO BOCCHIOLA, MARCO SARTORI, La battaglia di Canne. Il trionfo di Annibale GIGI DI FIORE, Briganti!. Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi VICTOR DAVIS HANSON, L’arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica ATTILIO BRILLI, Il viaggio della capitale. Torino, Firenze e Roma dopo l’Unità d’Italia VITTORIO SABADIN, Diana. Vita e destino HENRIK EBERLE, MATTHIAS UHL, Il dossier Hitler. La biografia segreta del Führer ordinata da Stalin HANS ULRICH OBRIST, Vite degli artisti, vite degli architetti GREG MITCHELL, Tunnel

CLASSICI

IMMANUEL KANT, Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi BARUCH SPINOZA, Etica e Trattato teologico-politico, a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani JOHN MAYNARD KEYNES, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di Terenzio Cozzi ADAM SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di Anna e Tullio Bagiotti PLUTARCO, Vite parallele I, a cura di Antonio Traglia PLUTARCO, Vite parallele II, a cura di Domenico Magnino OVIDIO, Metamorfosi, a cura di Nino Scivoletto LUCREZIO, De rerum natura, a cura di Armando Fellin Apocrifi dell’Antico Testamento, a cura di Paolo Sacchi, 2 voll. Avestaˉ, a cura di Arnaldo Alberti MOSÈ MAIMONIDE, La guida dei perplessi, a cura di Mauro Zonta KARL MARX, Il capitale, a cura di Aurelio Macchioro e Bruno Maffi, 3 voll. GIUSEPPE FLAVIO, Antichità giudaiche, a cura di Luigi Moraldi, 2 voll. AMMIANO MARCELLINO, Le Storie, a cura di Antonio Selem GIORDANO BRUNO, Opere italiane, a cura di Nuccio Ordine, 2 voll. ALEXIS DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, a cura di Nicola Matteucci Il Corano, a cura di Gabriele Mandel, Introduzione di Khaled Fouad Allam ISIDORO DI SIVIGLIA, Etimologie o origini, a cura di Angelo Valastro Canale, 2 voll. ERODOTO, Le Storie, a cura di Aristide Colonna e Fiorenza Bevilacqua, 2 voll. OMERO, Odissea, a cura di Franco Ferrari IMMANUEL KANT, Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di Pietro Chiodi GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL, La filosofia dello spirito, a cura di Alberto Bosi

SEVERINO BOEZIO, La consolazione della filosofia, a cura di Claudio Moreschini GUIDO GOZZANO, Opere, a cura di Giusi Baldissone MARZIALE, Epigrammi, a cura di Giuseppe Norcio TUCIDIDE, Le Storie, a cura di Guido Donini, 2 voll. ARISTOTELE, La metafisica, a cura di Carlo Augusto Viano MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, 2 voll. ABELARDO ED ELOISA, Epistolario, a cura di Ileana Pagani ORAZIO, Opere, a cura di Tito Colamarino e Domenico Bo AVICENNA, Libro della guarigione. Le cose divine, a cura di Amos Bertolacci LUDOVICO ARIOSTO, Orlando furioso e cinque canti, a cura di Remo Ceserani e Sergio Zatti, 2 voll. ARISTOTELE, Retorica e poetica, a cura di Marcello Zanatta ELIODORO, Le Etiopiche, a cura di Aristide Colonna MICHELANGELO, Rime e lettere, a cura di Paola Mastrocola ARISTOTELE, Politica e Costituzione di Atene, a cura di Carlo Augusto Viano AVERROÈ, L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, a cura di Massimo Campanini CICERONE, Epistole ad Attico, a cura di Carlo Di Spigno, 2 voll. AA.VV., Viaggiatori del Seicento, a cura di Marziano Guglielminetti LUCANO, La guerra civile, a cura di Renato Badalì NICCOLÒ MACHIAVELLI, Il principe, a cura di Rinaldo Rinaldi, Introduzione di Tim Parks BLAISE PASCAL, Pensieri, a cura di Bruno Nacci AULO GELLIO, Le notti attiche, a cura di Giorgio Bernardi-Perini, 2 voll. Testi dello Sciamanesimo Siberiano e centro-asiatico, a cura di Ugo Marazzi GEORGES SOREL, Scritti politici, a cura di Roberto Vivarelli