Wes Anderson. Genitori, figli e altri animali 8882483231, 9788882483234

La cura maniacale del décor, i colori squillanti, le case di bambola, la geometria dello sguardo. E i suoi personaggi, c

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Italian Pages 220 [267] Year 2014

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Wes Anderson. Genitori, figli e altri animali
 8882483231, 9788882483234

Table of contents :
Indice
Frontespizio
Colophon
Prefazione di Wes Anderson: una visione unica
1. Ho sempre voluto essere un Tenenbaum
2. Un gioco da ragazzi
2.1 L’importante è correre
2.2 Padri e fratelli putativi
2.3 Un corto da dilettanti?
3. Siamo fuggiaschi
3.1 Eroi della propria narrativa
3.2 Genitori e impostori
3.3 L’amore tradotto
3.4 Salinger al motel
3.5 A caratteri cubitali
3.6 Dentro la scatola
3.7 Confusi e sinceri
4. Fuga dall’acquario
4.1 Max Fischer c’est nous
4.2 Laureati e noccioline
4.3 Rushmore, una nuova pièce di Max Fischer
4.4 Padre, fratello, impostore
4.5 Questa è un’avventura
4.6 Questione di stile
5. Ritratto di un interno con famiglia
5.1 Famiglie di carta (e di pellicola)
5.2 C’era una volta (a) New York
5.3 Una casa sull’albero genealogico
5.4 Diversamente autori
5.5 La sicurezza degli oggetti
5.6 Wes Carosello
Kitchen e Living Room. Ikea (2002)
Meet Mark. Avon (2003)
6. 20.000 leghe sotto il cuore
6.1 Voglio parlarvi della mia nave
6.2 Puoi chiamarmi Stevesey: Zissou, Achab e Cousteau
6.3 Esploratori falliti
6.4 Generi degeneri
6.5 Padri e (scene) madri
6.6 Effetto Anderson
My Life, My Card. American Express (2004)
Hamster, Bear, Dog. Acqua in bottiglia Dasani (2005)
Il calamaro e la balena (2005)
7. Nel continente vero
7.1 Servizio in camera. Hotel Chevalier (2007)
7.2 Ritratti alle pareti
7.3 Famiglie itineranti
7.4 Inchiostro invisibile
7.5 Un viaggio spirituale?
7.6 Esploratori senza mappa
7.7 Spot in giro per il mondo
Seamless World. AT&T (2007)
SoftBank (2008)
8. Robin Hood reloaded
8.1 Il mondo in plastilina
8.2 Dr. Wes e Mr. Dahl
8.3 Dalla Disney a King Kong
8.4 Siamo uomini o volpi?
8.5 L’Inghilterra che non c’è
8.6 Un remake abbandonato. The Rosenthaler Suite (2009)
8.7 Spot da grande schermo
Le Apart-O-Matic. Stella Artois (2011)
Talk to My Car e Modern Life. Hyundai Azera (2012)
Made of Imagination. Sony Xperia (2012)
9. Nel paese delle creature selvagge
9.1 La costruzione di un’isola
9.2 Questa è un’(altra) avventura
9.3 Scontri generazionali
9.4 Piccole donne crescono
9.5 Un racconto morale?
9.6 Moonrise Kingdom e i suoi cugini
9.7 Wes Anderson for Prada
Prada Candy (2012)
Castello Cavalcanti (2013)
10. Pensione completa
10.1 Il mondo di ieri
10.2 Wes at the movies
10.3 Bastardi con gloria
10.4 L’autore è morto, viva l’autore
10.5 La Società delle Chiavi Incrociate
11. Conclusione. Wes Anderson remix
Opere di Wes Anderson
Bietti Heterotopia

Citation preview

Indice PrefazioneWes Anderson: una visione unica 1. Ho sempre voluto essere un Tenenbaum 2. Un gioco da ragazzi 3. Siamo fuggiaschi 4. Fuga dall’acquario 5. Ritratto di un interno con famiglia 6. 20.000 leghe sotto il cuore 7. Nel continente vero 8. Robin Hood reloaded 9. Nel paese delle creature selvagge 10. Pensione completa 11. ConclusioneWes Anderson remix Ringraziamenti Bibliografia Filmografia Discografia

Bietti Heterotopia | 13

WES ANDERSON Genitori, figli e altri animali Ilaria Feole

Collana diretta da Claudio Bartolini, Ilaria Floreano, Giulio Sangiorgio Design e AD: Panaro Design Srl Impaginazione: Studio Caio Robi Silvestro Editing: Nina Leroveri © 2014 Edizioni Bietti – Società della Critica Srl, Milano www.edizionibietti.it ISBN: 978-88-8248-323-4

Prefazione Wes Anderson: una visione unica di Peter Bogdanovich

Ho chiesto a Orson Welles in molti modi differenti perché, in uno dei suoi film, piazzasse la macchina da presa in un certo particolare punto, e nonostante questo ho quasi sempre ricevuto la stessa, elementare risposta: semplicemente credeva che la scena, da quel punto, risultasse migliore. Occasionalmente, mi chiedeva scusa per il fatto di essere così poco illuminante. Quando gli domandavo perché avesse mostrato una scena da un certo «angolo bizzarro», diceva che per lui «non era bizzarro». Esasperato dopo una serie di simili richieste, Welles mi disse infine che lui era proprio come il protagonista di quella barzelletta in cui un tale va dal dottore e dice: «Non so cos’ho che non va, dottore, ma non mi sento affatto bene». Allora il dottore gli risponde: «Bene, mi dica tutto ciò che fa dal momento in cui si sveglia a quello in cui va a dormire». E il tizio: «Ok, dunque, mi sveglio, poi vomito, poi mi lavo i…». «Aspetti un momento» lo interrompe il dottore, «vuol dire che ogni mattina, appena sveglio, lei vomita?» e l’uomo: «Sì, perché, non lo fanno tutti?». Orson sorrise. «Quello sono io, quello è il mio strano modo di vedere le cose. Agli altri può sembrare strano, a me sembra tutto piuttosto normale». Anche a Wes Anderson la sua visione delle cose sembra piuttosto normale, eppure è altrettanto esclusivamente sua almeno quanto lo era quella di Welles, e ugualmente riconoscibile e libera da ogni pretenziosità. Esattamente come Welles, poi, Wes è uno di quei rari cineasti che riescono a visualizzare l’intero film molto prima di girarlo. Questo dono durante le riprese gli permette di avere una consapevolezza

molto forte e precisa di ciò che vuole ottenere, dal momento che ha già visto tutto con gli occhi della mente. La sceneggiatura di I Tenenbaum – firmata da Wes e dal suo primo partner di scrittura Owen Wilson (che dà vita a una performance intensa e complessa interpretando un ruolo chiave) – era una perfetta copia carbone di ciò che sarebbe stato il film. La bozza che lessi appena prima dell’inizio delle riprese era essenzialmente il film che Wes ha poi realizzato. Pensai che lo script fosse brillante. La pellicola è superba. Il cast è straordinario, composto da star che sono tutte perfette per il loro ruolo. La cosa non è sorprendente: Wes e Owen avevano scritto più o meno tutte le parti avendo già in mente chi le avrebbe interpretate. Molti scrivono avendo in mente un cast da sogno, pur sapendo che non l’otterranno mai. Ma Wes non avrebbe mai accettato un «no» come risposta, infatti alla fine ha ottenuto gli interpreti che voleva. Il suo approccio rilassato con gli attori sembrava suggerire implicitamente che li avesse già visti nel film e che dunque fosse certo che sarebbero stati grandiosi: quindi, perché avrebbero dovuto rifiutare? Questo semplice presupposto gli è stato utile, nel corso della sua carriera, tanto che ogni film a seguire presenta un cast impressionante: Moonrise Kingdom. Una fuga d’amore e Grand Budapest Hotel sfruttano al massimo delle loro potenzialità un buon numero di divi. Oltre al talento per la visualizzazione, è la determinazione di Anderson nel fare le cose a modo suo – la sua instancabile tenacia – a fare di lui un cineasta nato. Non è una questione di ego, ma piuttosto un tratto fondamentale del carattere in un campo dove bisogna gestire trecento differenti opinioni e cinquecento alternative possibili in modo rapido ed efficiente, giorno dopo giorno. Queste abilità, che definirei muscolari, sono in aperto contrasto con il modo in cui Anderson appare o si comporta di persona. È secco come un chiodo, con l’aria da studioso, un po’ aristocratico, gentile, dalla voce carezzevole, timido: un giovane texano di Houston terribilmente simpatico, intelligente, piacevole, acuto e insaziabilmente curioso.

Wilson, d’altra parte, in Un colpo da dilettanti – il primo film che lui e Anderson hanno scritto e che Anderson ha diretto – è stato rapidamente riconosciuto come un interprete dal genio comico e drammatico non convenzionale. I due hanno scritto insieme tre sceneggiature prima che Wilson si concentrasse completamente sulla sua fiorente carriera d’attore. I Tenenbaum è nato dal desiderio di Anderson di fare un film a New York, esattamente come Il treno per il Darjeeling è stato realizzato perché Wes voleva girare in India. Si era trasferito a New York dopo l’uscita di Rushmore, la meravigliosa opera seconda, scritta sempre con Wilson. Ricordo che Wes mi disse, all’epoca, che avrebbe voluto fare un film su un’eccentrica famiglia newyorkese che abitava in una grande casa di Manhattan. Gli suggerii un paio di commedie teatrali e di pellicole da vedere, e lui passò molto tempo, da solo e insieme a Owen (che nel frattempo aveva recitato in un paio d’altri film), a familiarizzare con New York e con le storie di famiglie ambientate in quella città. Le influenze eterogenee sul lavoro finale ad alcuni risultano evidenti: la famiglia Glass di J.D. Salinger, Kaufman e Hart, Dawn Powell, Orson Welles. Ma I Tenenbaum è decisamente un oggetto a sé stante, e si distingue come un’opera terza eccezionalmente talentuosa, originale e non convenzionale, la migliore fino a quel momento. Ogni film di Anderson è intriso del medesimo humour pungente – non abbiamo ancora citato il suo ambizioso e tentacolare Le avventure acquatiche di Steve Zissou o il delizioso classico d’animazione Fantastic Mr. Fox – e ciascuno sfoggia una grande sicurezza. La compianta Polly Platt – prima produttrice di Anderson insieme a James L. Brooks – mi disse che già sul set di Un colpo da dilettanti aveva capito quanto fosse talentuoso, consapevole di ciò che desiderava, perfino insistente nel richiederlo; tutto a fin di bene, visto che il film è un’assoluta meraviglia: uno sguardo affascinante, causticamente divertente e da vero bastian contrario sul mondo di un uomo-bambino che riassume in sé numerose “sindromi” maschili.

Il film richiamò poco pubblico, ma fece comunque da traino per la svolta di Rushmore, storia di un outsider d’altro tipo: un bizzarro adolescente con esagerate ambizioni artistiche in un mondo di conformisti. L’idea del personaggio con grandi aspirazioni assume dimensioni ancora maggiori e più variegate in I Tenenbaum, ma ciò che lega tutti i suoi film non è tanto la loro uniformità tematica quanto il loro stile particolare, connaturato alla personalità stessa dell’autore. Quando chiesi a Howard Hawks quali fossero i suoi registi preferiti, rispose: «Mi piace chiunque riesca a farti capire chi diavolo ha diretto il film… Perché il regista è il narratore della storia, e dovrebbe avere il suo personale metodo per raccontarla». Di fronte a un film di Wes Anderson, sai per certo chi diavolo l’ha fatto. Eppure, questo stile è difficile da descrivere, come solo i migliori lo sono. L’espediente del romanzo e del narratore, adottato per I Tenenbaum, o i multipli punti di vista letterari di Grand Budapest Hotel, sembrerebbero rendere lo stile di Anderson più facilmente descrivibile. In realtà sono soltanto una tecnica, che aiuta in qualche modo, tuttavia, a definire l’“Anderson touch”: obliquo ed ellittico, eppure spesso emotivamente potente. Sono particolarmente contento che Wes sia ancora giovane, perché così abbiamo molti grandi “film di Wes Anderson” da attendere. Wes infonde una qualità unica ai suoi personaggi, una sorta di calore umano in una prospettiva ironica che è al tempo stesso maliziosa ed empatica. Poiché i suoi film sono estremamente piacevoli, pervasi da una consapevole innocenza, si rischia facilmente di ignorarne la serietà di fondo, e forse la sedicente avanguardia li troverà troppo accessibili. Spero di no. Anderson è destinato a essere incompreso, ma d’altro canto c’è un ampio club di artisti che lo sono, e lui è un vero artista. Conosco Wes da parecchio tempo e sono felice che abbia una considerevole cultura cinematografica, ossia che abbia una chiara percezione di cosa l’ha preceduto. Una rarità fra i registi

di oggi. Una volta gli ho dedicato una battuta da uno dei miei film preferiti, che ho scoperto essere anche uno dei suoi. In Un dollaro d’onore di Hawks, John Wayne esprime a un amico la sua ammirazione per la professionalità giovanile di Ricky Nelson: «È bello vedere un ragazzo sveglio, una volta tanto».

A Monica e Lucio

1. Ho sempre voluto essere un Tenenbaum Cenni biografici

Leggere la filmografia di Wes Anderson alla luce della sua biografia sarebbe un torto quanto lo sarebbe l’operazione inversa: ingiusto nei confronti di un autore che ha sempre permesso ai suoi protagonisti di romanzare a piacimento la loro autobiografia. Come Jack Whitman in Il treno per il Darjeeling (The Darjeeling Limited, 2007) si affanna a ricordare che i suoi racconti «non sono autobiografici», anche Wesley Mortimer Wales Anderson glissa da vent’anni sui confini tra le sue creazioni e il suo vissuto. Stralci di vita e feticci concreti, perfino, affiorano tuttavia nelle opere del regista, nato a Houston il 1° maggio 1969 da padre pubblicitario e madre archeologa.[1] Due mestieri la cui influenza sulla peculiare estetica andersoniana si può riscontrare facilmente: entrambi danno estrema importanza agli oggetti e a come presentarli, curarli, conservarli, sottoporli all’altrui attenzione evidenziandone al massimo le potenzialità. Entrambi sono connessi con la cura maniacale e pianificata dei dettagli, delle minuzie, dell’inventario, della disposizione degli oggetti (in una teca, in una pagina e, per diretta conseguenza, in una porzione di campo inquadrata). Nel suo DNA c’è anche l’amore per la narrativa avventurosa del bisnonno Edgar Rice Burroughs, lo scrittore la cui fantasia partorì, fra gli altri, Tarzan e John Carter, eroi emblematici della narrativa americana d’avventura di cui Anderson si pone come ideale prosecutore contemporaneo. Nella sua infanzia c’è l’evento chiave, da lui definito cruciale per la sua crescita emotiva, del divorzio dei genitori, avvenuto quando aveva otto anni; ci sono una scuola privata per nulla dissimile da quella di Rushmore (Id., 1998) e due fratelli, Mel ed Eric, con i quali fin da piccolo allestisce spettacoli teatrali scritti da lui e, successivamente, filmati in Super 8. Non c’è, da subito, la passione per il cinema; ma uno dei suoi testi favoriti da

ragazzino è il libro che racconta il dietro le quinte di Guerre stellari (Star Wars, George Lucas, 1977) e dispiega davanti ai suoi occhi la complessità degli storyboard e dei bozzetti, dandogli per la prima volta la percezione di cosa davvero significhi lavorare a un film e facendolo appassionare alle fasi creative preliminari della settima arte, alla genesi del film completo (di un universo intero, in questo caso: lo sarà anche nel caso dei suoi titoli) a partire da un semplice, rudimentale schizzo. Il suo primo “film” dura tre minuti ed è incentrato su un libro preso in prestito in biblioteca: Anderson ricorda che non aveva una vera trama e che «i personaggi erano sostanzialmente ricalcati sulle persone che li interpretavano». [2] Sarà il primo tassello di una vasta produzione artigianale, ispirata alle sue passioni di preadolescente e a quelle dei suoi amici, sempre chiamati a essere se stessi in situazioni più avventurose della vita vera.[3] Di sé il regista racconta che amava disegnare, non veri e propri fumetti, ma amici e conoscenti inseriti in contesti fantastici con dettagli immaginari, spesso dentro enormi alberi o case sugli alberi (le stesse dove Margot Tenenbaum ambienterà le sue pièce e dove gli scout di Moonrise Kingdom. Una fuga d’amore [Moonrise Kingdom, 2012] si arroccheranno sfidando la gravità); che se non si fosse incamminato sulla strada del cinema, sarebbe diventato architetto (e la passione per la costruzione degli spazi si tradurrà in un rigido controllo dell’inquadratura, della simmetria e della scenografia). All’università, però, sceglie di studiare filosofia. Prima ancora di essere folgorato dalla visione in sala, lo studente Wes subisce la fascinazione per la settima arte attraverso la parola scritta: come poi capiterà ai suoi personaggi, il suo approccio alla realtà è filtrato dalla lettura, da manuali, saggistica, rappresentazioni. Si appassiona ai libri di storia e critica del cinema nella biblioteca universitaria, legge avidamente dei registi che inizia ad amare (Fellini, Bergman, Truffaut, Coppola), ma al contempo s’innamora anche e soprattutto degli autori dei testi. Dai saggi di Peter Bogdanovich su John Ford, su Allan Dwan, su Howard Hawks a quelli del suo idolo Pauline Kael, di cui divora le critiche pubblicate sul «New Yorker» (per il giovane Wes sorta di

Bibbia a puntate da consultare con religioso rispetto), per poi andare a guardare tutti i film da lei recensiti. Si avvicina così alle pellicole europee degli anni Cinquanta e Sessanta, aggiunge all’elenco dei suoi miti Orson Welles, Powell & Pressburger, Alfred Hitchcock, Jean-Luc Godard, e poi Martin Scorsese, Roman Polanski e Woody Allen: autori con una voce distinta e squillante, contraddistinti da una consapevolezza del mezzo cinematografico che si offre limpidamente allo spettatore. Da studente universitario Anderson prosegue nel girare piccoli film a budget zero: realizza su commissione un documentario sul suo padrone di casa, Karl Hendler, come pagamento dell’affitto. Non c’è un plot nel film su Hendler, non ha importanza e forse non ne avrà mai nella sua intera filmografia. Per sua stessa ammissione, non è il tipo di narratore che parte dalle trame: «Non ho un dono per quel tipo di cose. Ogni film che ho fatto è nato dall’accumulo di informazioni circa i personaggi: chi sono e come è il loro mondo. Solo successivamente immagino cosa potrebbe succedere».[4] Quello che succede al giovane Wes è di incontrare il compagno d’avventura che innescherà la miccia per trasformare una passione fatta di pagine lette e consumate in un occhio poggiato sulla macchina da presa: Owen Wilson frequenta il suo stesso corso di scrittura all’Università del Texas, i due nemmeno si parlano per un intero semestre, ma quando Anderson scrive una pièce teatrale qualcosa lo spinge a scritturare il giovane Owen come interprete. Da quel momento l’apparente permeabilità fra vita e opera di Anderson si eleva al quadrato: tre sono i fratelli Wilson (Owen, Luke e il maggiore Andrew) come gli Anderson e come saranno i Tenenbaum, i Whitman, i gemellini Bishop; doppia la figura materna che aleggia sui set (la madre dei Wilson, Laura, è fotografa di scena); i nomi dei comuni amici di Wes e Owen diventano spunto per i personaggi delle loro sceneggiature (Tenenbaum è il cognome di Brian, attore ricorrente in piccoli ruoli, così come Stephen Dignan). Mentre il poco più che ventenne Wes fa pratica in una tv via cavo, il sodale Owen lavora come commesso da Blockbuster e

immagazzina citazioni e suggestioni. Li accomunano l’amore per i fratelli Coen, per John Huston e Polanski, e l’umorismo inestricabile dal senso dell’assurdo. Nel 1991, dopo la laurea, Anderson viene accettato alla facoltà di cinema della Columbia, ma ai banchi preferisce l’avventura: chiude con l’università per aprire, definitivamente, il capitolo cinema. Lanciato da quello stesso Sundance Film Festival che ha contribuito a far conoscere la voce di Richard Linklater, Kevin Smith e Quentin Tarantino, dopo il corto autoprodotto Bottle Rocket (Id., 1994) Anderson debutta nel lungometraggio con un titolo distribuito dalla major Columbia ma realizzato con modalità che pertengono al cinema indipendente a stelle e strisce. Si colloca così in una costellazione di cineasti che, nella prima metà degli anni 90, definisce le coordinate della florida scena indie americana: registi coetanei di Anderson e spesso come lui provenienti dall’entroterra degli States, dalle province geograficamente più distanti dal baluginio del Sogno americano, da luoghi privi di fisionomia dove i romanzi di formazione si trasformano in racconti, sinceri e non esenti da cinismo, di una stasi protratta e di un’adolescenza senza fine. Così è per il New Jersey plumbeo di Kevin Smith e dei suoi Clerks (Id. 1994), per gli Slacker (Id., 1991) di Richard Linklater (come Anderson, nato a Houston) che diventano paradigmatici dei “fannulloni” della Generazione X, per i Giovani, carini e disoccupati (Reality Bites, 1994) di Ben Stiller (che, newyorkese di nascita e futuro volto di Chas Tenenbaum, proprio a Houston fa muovere i suoi personaggi dal futuro appannato). Individui dalla crescita bloccata, la cui conoscenza del mondo è costantemente mediata dal consumo di cultura pop e dall’apatia congenita, fisicamente ingabbiati in contenitori dove cullare una visione ombelicale di ciò che li circonda (il Quick Stop di Clerks, l’appartamento condiviso dai neolaureati di Ben Stiller): l’esperienza diretta del reale è impraticabile, negata e raramente cercata, spesso ludicamente e lucidamente procrastinata. Negli stessi anni, sempre grazie al Sundance, si affaccia sugli schermi Quentin Tarantino (un altro ragazzo del profondo Sud, di Knoxville, Tennessee), che con Le iene (Reservoir Dogs, 1992) declina il cinismo generazionale in violenza stilizzata, mediata anch’essa dalla fruizione bulimica di prodotti culturali.

Se dalla medesima matrice nascono i fanciulli eterni e demenziali di Judd Apatow (da 40 anni vergine [The 40 Year Old Virgin, 2005] a Questi sono i 40 [This Is 40, 2013]) e della sua factory, e successivamente le derive del mumblecore, in cui l’universo è ripiegato nello spazio fra due individui dialoganti, per Anderson la visione filtrata e rinviata del mondo e l’impossibilità di esperirlo è problematizzata a livello sia narrativo sia stilistico. I suoi film, nel corso degli anni, sono andati distaccandosi anche per lampanti questioni distributive e finanziarie dal panorama indie e dalle sue derive hipster e solipsiste, avvicinandosi piuttosto alle singolari angolazioni autoriali di Paul Thomas Anderson e Spike Jonze, altri due coetanei impegnati a sviscerare la propria visione ombelicale del mondo secondo modalità meno ludiche, più complesse e drammatiche. Autori che hanno fatto del proprio cinema anche una dichiarazione di resa, dove gli elementi narrativi e scenografici, come accade in Anderson, contribuiscono a riprodurre mondi fittizi, artificiosi e miniaturizzati, metafore di uno sguardo generazionale che ammette il suo scacco, la sua cecità nei confronti della realtà. Vent’anni esatti (e otto lungometraggi) dopo il suo debutto con il corto Bottle Rocket, il ragazzo di Houston, Texas, è un uomo che si divide fra Nuovo e Vecchio continente, fra New York e Parigi, e con le sue creature da grande schermo non ha smesso di avere tanti (intuibili, talvolta smaccati, eppure sempre rinnegabili o glissabili) tratti in comune: a partire da quella non appartenenza geografica che sembra impedirgli di conoscere realmente il mondo che pure percorre, da un Paese all’altro, con curiosità vorace. All’incontro con la stampa in occasione della première berlinese di Grand Budapest Hotel (The Grand Budapest Hotel, 2014), si definiva così: «Vivo in Francia parte dell’anno, ma non ho mai imparato la lingua, il mio francese è pessimo. Mi piace sentirmi uno straniero, a Parigi mi basta svoltare in una via che non conosco per perdermi e scoprire posti nuovi. Quando sono lì mi sento sempre molto americano, anzi, decisamente texano. Poi torno in America e mi sento uno straniero anche nel mio Paese, mi sembra di non riconoscere le consuetudini locali, mi viene da

pensare “Ah, è così che fanno le cose, qua!”. In America non sono abbastanza texano, anzi, mi pare d’essere fin troppo europeo».[5] La sua vera patria, forse, è uno dei mondi inventati che ha edificato per i suoi personaggi.

[1]

Esattamente come la Etheline di I Tenenbaum (The Royal Tenenbaums, Wes Anderson, 2001): Anjelica Huston indossa nel film i veri occhiali della mamma di Anderson e sarà lei per prima a suggerire al regista che, probabilmente e in modo quasi inconscio, le sta facendo interpretare proprio la madre. [2]

Zoller Seitz M., The Wes Anderson Collection, Abrams, New York, 2013, p. 40.

[3]

Un paio di questi film, ricorda, erano ricalcati sulla saga di Indiana Jones. Tutti quanti sono andati perduti anni dopo, quando lo scatolone che li conteneva venne rubato dall’automobile del regista, all’epoca ragazzo. Anderson afferma di non averli mai più ritrovati, pur avendoli cercati nei negozi di pegni di Austin. [4] [5]

Zoller Seitz M., op. cit., p. 96.

Dichiarazioni raccolte durante l’incontro con la stampa al Festival Internazionale del Film di Berlino, in data 7 marzo 2014.

2. Un gioco da ragazzi Bottle Rocket (1994)

ESTERNO GIORNO. VICOLO ANTHONY e DIGNAN camminano lungo il retro di un negozio. Anthony ha 19 anni. Indossa una giacca rossa con una toppa della Enco. Dignan ha 20 anni. Ha i capelli a spazzola e indossa una maglietta sportiva a maniche corte. Porta una borsa da tennis. Ha una custodia per racchetta che non contiene alcuna racchetta.[1]

Così si apre la sceneggiatura originale di Bottle Rocket, firmata a quattro mani da Wes Anderson, fresco di laurea in filosofia all’Università di Austin, e dall’amico Owen Wilson: prima ancora di comparire su qualsiasi schermo, nelle poche righe con cui il regista texano si affaccia sul mondo del cinema, pare già di vedere, in miniatura ma compatto e dettagliato come uno dei suoi diorami a venire, l’universo cui Anderson darà forma negli anni seguenti. Nel titolo c’è il “razzo a bottiglia”, letteralmente un gioco per ragazzini un po’ incoscienti, un fuoco d’artificio piccolo ed economico, illegale per le scarse misure di sicurezza con cui viene realizzato, tradizionalmente lanciato dai bambini americani per celebrare il 4 luglio. Subito sotto, la descrizione di due giovani che bambini non sono, ma come tali si comporteranno, alle prese con un gioco sciocco che può esplodere tra le mani e impegnati a impersonare i rapinatori come si farebbe nel cortile delle scuole elementari: “Facciamo che io ero un ladro…”. Il razzo in miniatura, prima di palesarsi come indizio dell’incontenibile ma innocuo carattere criminale del protagonista interpretato da Wilson, evoca immediatamente il mondo dell’infanzia, le scorribande imprudenti e avventurose dei ragazzini: Anderson ritrae adulti impegnati cocciutamente in attività infantili. L’età anagrafica dei personaggi è specificata nelle prime righe di script, a stretto contatto e

contrasto con il titolo: Anthony e Dignan sono giovani, sì, ma non abbastanza da dilettarsi coi balocchi, e anche se non li vedremo far esplodere niente durante i 13 minuti del cortometraggio, si comportano esattamente come bambini incastrati controvoglia in corpi da adulti. Soldatini, flipper, corse a perdifiato in mezzo alla strada: come studenti delle scuole medie con una capacità di concentrazione estremamente limitata, i personaggi del corto scivolano da un passatempo all’altro, e nella categoria rientrano anche l’armeggiare con le pistole e le rapine stesse, sfide eseguite con un candore lontano dalla goliardia universitaria. Nelle stesse, pochissime righe, c’è già molto altro: il colore degli abiti e la loro foggia, quei dettagli parlanti che raccontano le personalità dei protagonisti, e il primo feticcio, quella custodia sportiva trascinata senza scopo da Dignan, la prima di tante coperte di Linus che Anderson affiderà, con ironica tenerezza, alle mani dei suoi anti-eroi. Dignan coinvolge il suo migliore amico Anthony in uno sconclusionato progetto di piccola criminalità: insieme, i due rapinano una casa che si rivela però essere quella dello stesso Anthony, in seguito rubano un portafogli da una macchina parcheggiata raggranellando una refurtiva di 8 dollari. Il “colpo” inseguito da Dignan è però quello alla libreria: per metterlo in pratica i due si procurano armi da fuoco, si allenano nel tiro a segno e reclutano un terzo amico, Bob, come autista. Il furto nel negozio non viene mostrato, ma ritroviamo il trio soddisfatto del maltolto: un totale di 183 dollari.

2.1 L’importante è correre Il primo dei tanti cortocircuiti fra vita e finzione, tra amicizia e famiglia, del cinema di Anderson, è al centro del corto Bottle Rocket: fratelli nella realtà, Luke e Owen Wilson interpretano due amici per la pelle, il cui legame è il vero protagonista del film e, in qualche modo, l’obiettivo ultimo della loro infruttuosa impresa criminosa. L’affetto amicale è il sentimento più importante e viscerale nello spettro emotivo del cinema di Anderson: più dell’amore romantico e più dei vincoli familiari, il rapporto tra due amici funge da motore dell’azione ed è, una volta spezzato, l’innesco di una faticosa, spesso vana, crescita interiore. Così è in Bottle Rocket, dove l’azione è possibile grazie all’affettuosa passività di Anthony, disposto per puro amore di amico ad assecondare le intenzioni di Dignan: che le rapine non vengano messe in atto per reale necessità è palese, e il fatto che i ragazzi si accontentino di poco è evidente dall’esultanza con cui accolgono bottini risibili. L’inettitudine di Anthony, Dignan e Bob sembra strettamente imparentata con quella degli esemplari idioti del cinema dei fratelli Coen di cui Anderson e Wilson sono ammiratori: anti-eroi fallimentari che con la loro inadeguatezza sconquassano cliché cinematografici come quello del noir e dell’heist movie (dall’esordio Blood Simple. Sangue facile [Blood Simple, 1984], passando per Fargo [Id., 1996], fino a Burn After Reading. A prova di spia [Burn After Reading, 2008]), dirottando le certezze del genere verso derive farsesche e grottesche. A differenza delle opere dei Coen, però, il cinema di Anderson non si pone mai come specchio distorto di un Paese, gli Stati Uniti, delle sue ideologie e dei suoi vizi: smaccatamente (e talvolta snobisticamente) apolitico, racchiuso com’è negli universi privati dei suoi personaggi, non vuole essere il ritratto di una nazione. Nonostante ciò, assistendo alle gesta sconclusionate eppure guidate da estrema convinzione dei protagonisti di Wes Anderson, si può notare come a modo loro inseguano la propria personalissima e sghemba versione del Sogno

americano, la filosofia per la quale impegnandosi chiunque può raggiungere il successo. Sono cresciuti impregnati del liquido amniotico del Sogno, ma faticano a risalire la superficie e galleggiano inconsapevolmente al suo interno, perseguendo obiettivi eccentrici, non inquadrati e non socialmente apprezzabili, quando non addirittura malsani o auto-distruttivi. Un retaggio del significato del Sogno americano permane, come un velo subliminale, su tutti i personaggi andersoniani, i quali in modo variamente peculiare lottano per l’affermazione di se stessi e si imbarcano in imprese folli o strambe senza mai perdere la convinzione incrollabile di avere il diritto e il dovere di perseguirle. Anderson ben sintetizza il sentimento alla base del corto (e del successivo lungometraggio) nelle note di produzione di Un colpo da dilettanti (Bottle Rocket, 1996): [Io e Owen] eravamo ancora al college, ma avevamo terminato le lezioni, quindi la nostra esistenza mancava di organizzazione. Vagavamo in giro, tenendoci costantemente occupati, ma senza essere concentrati, e da quello è nato il film: parla di un gruppo di persone che hanno l’energia e l’urgenza di fare qualcosa, molta ambizione e grandi aspirazioni. Stanno sinceramente provando a realizzare qualcosa, soltanto che non sanno cosa.[2]

Vogliono fare qualcosa, ma non sanno cosa; corrono, ma non sanno dove. Come diventerà più esplicito nel lungometraggio, per Anthony, Bob e soprattutto per Dignan il movimento è più importante della direzione, ed essere fuggiaschi è una condizione che non contempla necessariamente un soggetto da cui fuggire. Più delle coordinate, conta la corsa. Gli anti-eroi di Anderson, però, difficilmente sono etichettabili come ribelli: non scelgono la fuga disorganizzata come gesto eversivo, anzi, stendono piani dettagliati, progetti e planimetrie, disegnano mappe utili soltanto per perdersi. Come rivela la fatidica sequenza del flipper, che sposta il corto su toni grottescamente comici, la casa dove è stato messo a segno il primo colpo era in realtà la casa di Anthony: la natura di impostori dei due è ormai scoperta. Non solo stavano semplicemente “giocando al rapinatore” ma, come Anthony puntualizza lagnandosi come un ragazzino al parco, Dignan

non ha nemmeno seguito le regole del gioco, rubando oggetti che erano sulla lista «cose che Dignan non deve toccare». C’era un piano, per quanto sgangherato, che non sono stati capaci di seguire; c’erano indicazioni immancabilmente mandate all’aria. L’esposizione del “Grande Piano” è uno dei momenti cruciali e leitmotiv del cinema di Anderson, qui esposto da Dignan al centro dell’inquadratura, circondato dai due soci: totalmente immerso nella creazione di una narrativa tutta sua, che ha ben pochi agganci con la realtà, descrive l’incursione all’interno della libreria, mentre la macchina da presa gli fa eco perlustrando gli scaffali del negozio e soffermandosi ironicamente su titoli che si prendono gioco dell’epica risibile dei protagonisti (una copertina di «Utne Reader» con la scritta cubitale «money»; la sezione dei manuali di auto-motivazione con titoli quali Awakening the Heroes Within e The Road Less Traveled). Con l’entrata in scena di Bob (Robert Musgrave), terzo elemento della squadra di ladri, Anderson completa il suo ensemble favorito, il trio, e la sua forma prediletta, il triangolo: in parte retaggio familiare degli sceneggiatori (tre sono i fratelli Anderson, tre i fratelli Wilson), in parte espediente narrativo e geometrico. Il triangolo non è solo una questione formale, ma anche di scrittura e strettamente legata alla natura infantile dei suoi personaggi. Di questi Dignan è il prototipo: ai protagonisti andersoniani non basta essere ammirati/seguiti da un compagno/complice, hanno bisogno di un terzo sguardo che veda/ammiri il legame. Questa tensione scorre attraverso Bottle Rocket e il lungometraggio seguente, così come, esemplarmente, in Il treno per il Darjeeling: due non è un numero sufficiente per l’eroe affinché la sua narrazione sia credibile. Il dialogo con il venditore di pistole, tappa necessaria per le crescenti ambizioni criminali del trio, esplicita l’entusiasmo bambinesco dei ragazzi con domande fra l’ingenuo e l’idiota: «Ha mai ucciso qualcuno?»,«Ha mai ucciso un cane?». Questa seconda, sciocca richiesta suona come un presagio di quello che diventerà un topos ricorrente nella filmografia andersoniana, dove contrariamente alle regole non scritte dell’industria hollywoodiana, sono parecchi i cagnolini – o gli

animali domestici in generale – che vengono uccisi in modo violento. L’acquisto della pistola, che si svolge in un’atmosfera ludica e spensierata, porta alla svolta più significativa nelle dinamiche del trio: la messa in crisi della banda. Bob, colto a giocherellare con l’arma mentre Dignan è nel pieno della creazione della sua fantasia criminale personale, fa crollare l’equilibrio del gruppo e della scena, portando Dignan all’esasperazione. La sequenza, che ha il sapore demenziale e la gioia della coprolalia di una scena madre di Tarantino, è la più rivelatoria del corto. In preda all’ira, Dignan accusa di ingratitudine i due amici, incapaci di apprezzare il piano da lui imbastito, di cui rivendica appassionatamente il copyright: «Io ho inventato tutta la cosa, l’idea è mia!». L’eroe andersoniano in tutto il suo egocentrismo si eleva a narratore e pretende riconoscimento non tanto per la riuscita del piano, ma semplicemente per averlo ideato. Le dinamiche triangolari si ripropongono nella conclusione del corto: un’ellissi ci nasconde la meccanica del furto nella libreria, ma ritroviamo i tre ladri a spartirsi la refurtiva fuori da un drugstore, dove Dignan ha piena libertà di trasformare l’azione in un racconto epico, supportato da Anthony, per suscitare l’ammirazione di Bob, che è rimasto fuori dalla libreria con il motore acceso. Per il protagonista è il momento di raccogliere i frutti e rinsaldare il legame con gli altri tramite il racconto, decisamente gonfiato e abbellito, di un furto che ha raggranellato solo 183 dollari. Note di pianoforte rintoccano malinconiche sulla fine dell’avventura, ma Dignan mantiene fino all’ultimo la sua gioiosa impostura di leader e mentore, complimentandosi con Bob (che significativamente, con la sua quota di bottino ha comprato un cartone di latte) per la sua guida.

2.2 Padri e fratelli putativi Il bianco e nero, l’indolenza priva di motivazioni e direzioni dei protagonisti, il loro discutere animatamente di oggetti di culto popolare contribuiscono ad assimilare Bottle Rocket al coevo esordio di Kevin Smith, Clerks, dove una coppia di amici fancazzisti e sconclusionati dà prova della propria inettitudine al lavoro e contemporaneamente intavola singolari discussioni su Guerre Stellari, il tutto filmato in bianco e nero. Nonostante i successivi e divergenti sviluppi delle carriere dei due autori, sia Bottle Rocket sia Clerks, realizzati con budget bassissimi, fotografavano personaggi incapaci di crescere, aggrappati con (più o meno) malcelata soddisfazione alla propria stasi fanciullesca e a una ribellione goffamente vana, una scarica d’energia esplosiva ma priva di costanza o di scopo; un po’ come i razzetti da quattro soldi da sparare come fuochi d’artificio. Di fronte alla manifesta ma innocua mediocrità dei suoi eroi da strapazzo, di cui il trio di Bottle Rocket non è che il primo esempio, Wes Anderson mantiene un livello variabile di complicità e distacco: li osserva ma non li condanna, li accompagna ma non li incoraggia, fa percepire la presenza del suo sguardo e della macchina da presa ora con la fissità di un osservatore neutrale, lasciando risaltare la comicità delle loro azioni, ora con la partecipazione di un coetaneo emotivamente coinvolto dalle loro gesta. Questo regime di altalenante adesione fa sì che il registro delle sue opere si mantenga in peculiare equilibrio fra demenzialità e romanticismo, fra dramma e commedia, nella misura in cui l’occhio del regista passa dal permettere allo spettatore di sorridere di ciò che vede all’esserne travolto. Anche in Bottle Rocket la macchina da presa viaggia su questo asse: dopo le prime scene di dialogo, l’azione entra nel vivo e la prima rapina della coppia di criminali improvvisati è ripresa con la macchina a mano, conferendo elettricità e concitazione all’operazione di Anthony e Dignan. All’interno della casa, mentre il sassofono in colonna sonora contribuisce alla sensazione di urgenza e

frenesia, i due ragazzi si soffermano su potenziali refurtive di natura smaccatamente infantile: Dignan sottrae una collezione numismatica, Anthony si ferma a osservare uno schieramento di soldatini. Subito dopo, soddisfatti del colpo, alla tavola calda si lanciano in commenti camerateschi sulla cameriera, invero matura e non filiforme: nuovo tentativo, non meno goffo, di dimostrarsi all’altezza di un ruolo del tutto inventato, quello del criminale smargiasso e tosto, subito smentito dall’interesse assai maggiore che suscita nei ragazzi il flipper. La loro disposizione, con Anthony concentrato sul gioco e Dignan osservatore ai lati della macchina, ricorda la sequenza del flipper di I 400 colpi (Les 400 coups, François Truffaut, 1959), film che funge da sottotraccia per tutto il corto e, ancor di più, per il lungo a seguire. Si tratta per Anderson di un omaggio doveroso all’autore e all’opera che più di tutti hanno segnato la sua passione per la settima arte: I 400 colpi è il suo film favorito di Truffaut, nonché la visione (complice una videocassetta della biblioteca del college) responsabile della sua scelta di diventare regista. La citazione ha anche funzione ironica, poiché paragona i due cresciuti fanciulli all’Antoine Doinel bambino. Anche la scena finale, che suggella l’opera abbandonando i toni farseschi e spostandosi in territori più nostalgici, sembra evocare fantasmi della Nouvelle Vague: mentre scorrono i titoli di coda, conclusa l’avventura, restano soltanto Anthony e Dignan, impegnati in una versione sintetica delle sfide affrontate nei 13 minuti precedenti. Scommettono su chi arriverà primo e partono di corsa, attraversando lo schermo, senza una direzione, in un simulacro demenziale delle corse a perdifiato di tanti giovani personaggi della Nouvelle Vague e dei suoi figli (come quella celebre del protagonista di Rosso sangue [Mauvais sang, Leos Carax,1986], cui sembra ammiccare la scena di Un colpo da dilettanti in cui Anthony corre per raggiungere Inez). Anderson, affascinato dalla cultura francese in generale e dalla politique des auteurs in particolare, guarderà spesso agli autori della nuova onda nel corso della sua carriera: a livello tematico, concentrandosi sulla gioventù tormentata e sull’adolescenza come momento cruciale della vita, a livello metalinguistico ricorrendo ai medesimi attori in funzione di alter ego e al prelievo sfacciato dalla cultura pop di dettagli

riproposti in modo decontestualizzato. Bottle Rocket, in maggiore misura nella versione lungometraggio, ha più di un’assonanza anche con Bande à part di Jean-Luc Godard (Id., 1964), che vede protagonista un trio (sebbene con la presenza di un elemento femminile) impegnato in una rapina sleale a casa di un parente della banda e, inoltre, costituisce un ponte fra l’esordio di Anderson e quello di Quentin Tarantino, Le iene (altra opera che mette in scena un tentativo malriuscito di criminalità organizzata, seppure con tutt’altra modalità e motivazione da parte dei personaggi).[3] Ma dei protagonisti della Nouvelle Vague, gli anti-eroi andersoniani non sono che cugini viziati e addolciti, gli angoli della violenza e della ribellione smussati dal privilegio: le loro pistole non uccidono, i loro reati non rompono l’ordine costituito, non sono i bulli e i ripetenti che spadroneggiano, ma piuttosto i compagni di classe meno popolari che sbirciano dalla finestra le azioni degli altri. Allo stesso modo, Anderson non ha intenzione di lacerare le consuetudini della cinematografia con un linguaggio di rottura. Del cinema moderno restano le vestigia, la voce chiara e forte dell’autore e l’attenzione focalizzata sul dispositivo, la presenza della macchina da presa svelata e dichiarata; non le intenzioni rivoluzionarie, ma i residui dello stile. La spontaneità della Nouvelle Vague, l’apertura retorica dei suoi dispositivi, è rimpiazzata dalla cura maniacale e studiata di ogni minimo dettaglio, che diventa parte integrante dei personaggi e del loro modo di relazionarsi alla storia: in Anderson nulla è lasciato al caso.

2.3 Un corto da dilettanti? La prima scena del corto aderisce fedelmente all’incipit della sceneggiatura, a partire dall’aspetto esteriore e nella scelta degli indumenti di Anthony e Dignan, che li caratterizza e li descrive prima ancora che lo spettatore impari a conoscerli. Anche la «toppa della Enco» sul giubbotto di Anthony, di cui nel bianco e nero della fotografia non è possibile apprezzare il rosso, fa bella mostra di sé operando come dettaglio parlante: la Enco era una compagnia petrolifera chiusa negli anni Settanta, qualcosa che può provenire dai ricordi di Anderson come da quella dei protagonisti, e che svolge la duplice funzione di scollare l’opera dal presente, rispondendo alla passione per il vintage, ma anche di palesare un legame feticista e bambinesco dei ragazzi con cimeli provenienti dalla loro infanzia. Attaccati al passato, all’epoca dell’innocenza e dei giochi, Anthony e Dignan parlano di vecchi telefilm, giocano a flipper, sfoggiano toppe fuori produzione che, a una più attenta disamina, potrebbero anche essere un tortuoso ammiccamento cinéphile – pompe di benzina Enco comparivano in Easy Rider (Id., Dennis Hopper, 1969) e in Bullitt (Id., Peter Yates, 1968), i cui protagonisti tosti e sprezzanti del rischio sembrano essere i modelli impliciti per le scorribande del trio di Bottle Rocket o gli oggetti di troppe visioni in tv, di troppi sogni a occhi aperti – che anticipa, nonostante le ristrettezze del budget, la maniacale attenzione al dettaglio di Anderson. Il cortometraggio infatti, scritto da Wilson e Anderson fin dall’inizio con l’intento di sbocciare, prima o poi, in un lungometraggio (il progetto prevedeva di continuare a raccogliere soldi e girarne un pezzetto per volta, a seconda della disponibilità: un piano coraggioso e vagamente incosciente quanto quello di Dignan), viene realizzato con un budget meno che risicato (circa quattromila dollari). Il giovane Wes è, nel 1990, assistente del maggiore fra i fratelli Wilson, Andrew, che lavora col padre confezionando spot pubblicitari. I ragazzi vivono tutti insieme in un piccolo appartamento di

Dallas, sul retro del quale si svolgono le audizioni per il corto, che coinvolgono amici e conoscenti. La lavorazione ultraindipendente concede ad Anderson scarsissime possibilità di dispiegare sullo schermo la ricchezza di dettagli concepiti. La sceneggiatura originale (poi rimaneggiata per il lungometraggio omonimo) permette però di coglierne l’ambizione. Anderson e Wilson, che in materia di settima arte sono entusiasti autodidatti, formano una squadra prima di tutto nella fase di scrittura, processo che per Anderson era e resta operazione da eseguirsi in team, in tandem, in doppio come su un campo da tennis. Il corto si apre su un’inquadratura fissa dai cui margini i due protagonisti entrano ed escono, come fossero sul palcoscenico di una scena teatrale: l’ingresso avviene da dietro la macchina da presa, poi i due si dirigono, in profondità di campo, verso la staccionata che delinea l’orizzonte. L’inquadratura statica, che non si cura dei movimenti dei personaggi e si limita a ritagliare un quadro immobile, diventerà successivamente marchio di fabbrica del regista texano, che da subito utilizza un linguaggio fortemente consapevole del mezzo cinematografico. Parecchie altre cifre dell’Anderson autore in erba sono qui soffocate sul nascere dalla scarsità di fondi raccolti: con un cast & credits composto unicamente di amici e compagni di studi, il corto si distingue dal resto della produzione andersoniana per macroscopiche questioni stilistiche, la prima delle quali è proprio la scelta del bianco e nero. Opzione preferita, forse, per ovviare all’impossibilità da parte dell’autore di mantenere il pieno controllo sulla tavolozza dei colori che sarà in seguito una delle sue magnifiche ossessioni, la bicromia di Bottle Rocket è accompagnata dalle note di motivi jazz incalzanti che fanno pensare più a un Woody Allen in miniatura che a un gusto per il trovarobato (nelle opere successive assecondato da un tripudio di brani pop anni Sessanta-Settanta). Anche il contenuto del dialogo con cui il corto si apre rappresenta un unicum nel panorama andersoniano: Anthony (Luke Wilson) e Dignan (Owen Wilson) stanno discutendo di un episodio della serie Starsky & Hutch (per la precisione, la puntata numero 15 della seconda stagione) e della presenza del personaggio di Huggy Bear. Questo genere di riferimenti alla cultura pop

caratterizza tutto il cinema contemporaneo americano (si pensi alla celebre discussione di Le iene su Like a Virgin di Madonna), ma è raro nelle opere di Anderson, i cui eroi risultano sovente estranei all’universo mediatico nel quale, plausibilmente, si trovano. L’adolescenza infinita e prolungata contro ogni ragionevolezza è l’età mentale propria di quasi tutti i protagonisti andersoniani, indipendentemente dal dato anagrafico: la sindrome di Peter Pan, declinata nella poetica del regista, prevede non solo una certa misura di sviluppo bloccato, ma anche la testarda creazione di un’isola inesistente dove vivere le proprie avventure. Così, difficilmente i suoi personaggi indulgono in ammiccamenti a prodotti culturali esterni alla dimensione del film, quasi interamente chiusa in se stessa e priva di connessioni con il presente, fattore che contribuisce alla sensazione di sospensione temporale dei suoi film. La maggior parte delle opere d’ingegno citate dai protagonisti è infatti puramente inventata (dai volumi pubblicati dai membri della famiglia Tenenbaum al fumetto letto da Ash in Fantastic Mr. Fox [Id., 2009], fino ai romanzi fantasy amati da Suzy in Moonrise Kingdom) e creata da autori interni all’universo edificato da Anderson. Le eccezioni, rare, sono colte, ricercate e poco pop, come il libro di JacquesYves Costeau che funge da espediente narrativo per Rushmore o Alla ricerca del tempo perduto letto da Jane in Le avventure acquatiche di Steve Zissou (The Life Aquatic with Steve Zissou, 2004). Il cineasta che si affaccia sulla scena con i 13 minuti di Bottle Rocket, però, ha già le idee chiare, idee che passano soprattutto tramite uno stile (della messa in quadro, dei costumi, delle musiche) che è sostanza. È il concetto fondamentale alla base dell’analisi di uno dei più assidui e appassionati esegeti della filmografia andersoniana, Matt Zoller Seitz, che in una serie di video-recensioni porta allo scoperto tutte le eterogenee influenze stilistiche e tematiche dell’estetica di Anderson, Elemento che lo mette in buona compagnia fra Quentin Tarantino, David Gordon Green, James Gray e l’altro Anderson, P.T. Ma ciò che fa di Wes Anderson una voce distinta è l’ampio raggio di prodotti artistici che hanno nutrito la sua immaginazione – non solo film americani e stranieri recenti, ma pellicole risalenti anche a trenta, cinquanta o settant’anni fa, oltre a

fumetti, illustrazioni, narrativa. Lo spettro di influenze dà al suo lavoro una diversità di toni che ai suoi imitatori viene inevitabilmente meno. Il suo è uno stile di sostanza .[4]

Le vicende produttive e distributive del cortometraggio sono una storia a sé stante, un mirabolante passaparola destinato ad avere un ruolo di estrema rilevanza nella costituzione della famiglia cinematografica di Wes Anderson, l’ensemble di fedelissimi collaboratori con cui lavora da due decenni. Il padre dei fratelli Wilson, negli anni Settanta direttore della tv pubblica di Dallas, è amico dell’attore e sceneggiatore texano L. M. Kit Carson (autore, fra le altre pellicole, anche di All’ultimo respiro [Breathless, Jim McBride, 1983], remake americano del film di Godard: tout se tient) e riesce a coinvolgerlo nel progetto dei ragazzi fino a farlo diventare produttore esecutivo. Carson innesca la catena che porterà il duo a vedere realizzati i propri sogni: fa arrivare la sceneggiatura originale alla produttrice Barbara Boyle, che a sua volta contatta Polly Platt, la scenografa e sceneggiatrice scomparsa nel 2011 e nota soprattutto per il ruolo importante rivestito nella realizzazione di film dell’ex marito Peter Bogdanovich, tra cui Bersagli (Targets, 1968), L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971), Ma papà ti manda sola? (What’s Up, Doc?, 1972), Paper Moon. Luna di carta (Paper Moon, 1973). Questo tassello rappresenta un ulteriore avvicinamento ai cineasti con cui il giovane Wes sente di avere affinità elettive: Bogdanovich, con la sua capacità di forgiare personaggi strambi e imperfetti, indimenticabili e scritti con affetto palpabile, è un punto di riferimento per Anderson come regista, oltre a essere tra le voci critiche che tanto hanno contribuito ad alimentare la sua passione per la settima arte quando era uno studente divoratore di testi sul cinema. La Platt aveva firmato, inoltre, lo script di Pretty Baby (Id., 1978) per Louis Malle, altra fonte di ispirazione per il cinema di Anderson, oltre che operatore in alcuni documentari di uno tra i suoi miti assoluti: Jacques-Yves Cousteau. In questo gioco dei sei gradi di separazione, il corto arriva tra le mani di James L. Brooks (Polly Platt essendo vicepresidente della sua casa di produzione, la Gracie Films), sotto la cui egida Wes Anderson e Owen Wilson trovano finalmente i fondi e i contratti per fare

diventare Bottle Rocket il lungometraggio che hanno a lungo covato. Investitosi del ruolo di mentore per i giovani, in cui riconosce coraggio e talento, Brooks li aiuta a rimontare una versione più convincente del cortometraggio. Presentata al pubblico del Sundance Festival nel 1994, vale ai ragazzi un posto nel laboratorio di regia del festival dello Utah – dove in realtà i venticinquenni Owen e Wes si ritrovano in veste di semi-impostori, avendo per le mani solo la propria sceneggiatura su cui lavorare e nessun concreto progetto da dirigere. Brooks si impegna in prima persona come produttore per il lungo, fornendo ai due esordienti un budget di sette milioni di dollari: i due ragazzi texani hanno fatto jackpot e nel 1995 sono sul set di un film dalle dimensioni considerevolmente maggiori.

[1]

Anderson W., Wilson O., Bottle Rocket, 1992, p. 2.

[2]

Pressbook di Un colpo da dilettanti, 1996.

[3]

Tarantino, fan devoto dell’opera di Godard, ha chiamato la sua casa di produzione, in onore del regista parigino, A Band Apart. [4]

Zoller Seitz M., The Substance of www.movingimagesource.us/articles/the-substance-of-style.

Style,

2009,

3. Siamo fuggiaschi Un colpo da dilettanti (1996)

È James L. Brooks, come detto, a fungere da mentore e guida nel non semplicissimo processo creativo che porta alla nascita dell’esordio ufficiale nel lungometraggio di Wes Anderson: dimostra ai giovani autori la prolissità della loro prima bozza costringendoli a leggerla per intero ad alta voce (procedura che li lascia privi di voce), li segue nelle successive riscritture durate quasi un anno, li porta a Hollywood negli studios della Sony e usa tutto il suo potere per fare andare in porto il contratto, fino al ritorno in Texas per l’inizio delle riprese, che si svolgono interamente nello Stato natìo di Wes e Owen, a Dallas. Quella che giunge finalmente sul grande schermo (su pochissimi grandi schermi, in realtà: il film è destinato a un magro guadagno) è la storia cui Anderson e Wilson stanno lavorando da ormai un lustro. Il plot ricalca nel primo atto il medesimo del corto precedente, per poi sviluppare le gesta dei protagonisti fino a comprendere una fuga in motel, il disfacimento della banda e il successivo riavvicinamento per il colpo grosso finale. I fratelli Wilson riprendono i loro ruoli, Luke nei panni di Anthony e Owen in quelli di Dignan, così come Robert Musgrave è ancora il volto di Bob, ma il cast si arricchisce questa volta di una vera star, James Caan, coinvolto nella produzione per vestire i panni del minaccioso e inaffidabile Mr. Henry, nonché dell’attore feticcio e mascotte Kumar Pallana – nella vita proprietario del Cosmic Cup, il caffè dove i ragazzi si ritrovavano quotidianamente – arruolato nel ruolo dello scassinatore.

Anthony, appena uscito da un istituto di cura mentale dove si era ricoverato volontariamente, asseconda il desiderio del suo amico Dignan di diventare partner in una serie di rapine. Dignan ha piani dettagliati sul futuro della banda, in cui arruola un terzo membro, Bob, vicino di casa e autista designato. Il complicato progetto a lungo termine di Dignan prevede di mettersi in società con il fantomatico Mr. Henry, piccolo criminale che di giorno svolge l’attività di giardiniere. Dopo un primo colpo messo a segno in una piccola libreria, i tre ragazzi si danno alla fuga, nonostante nessuno li stia inseguendo, e soggiornano brevemente in un motel, dove Anthony s’innamora fulmineamente della cameriera Inez. Mentre l’affetto tra i due cresce, a dispetto delle ingombranti incomprensioni linguistiche, Bob abbandona il gruppo per tornarsene a casa, dove suo fratello è nei guai a causa della coltivazione di marijuana che teneva in giardino. Anthony è costretto a partire insieme a Dignan, consegnando a Inez, a insaputa dell’amico, la busta con la refurtiva. Una volta scoperto, il gesto segna la fine del loro legame: ognuno se ne va per la propria strada, Dignan raggiunge il famoso Mr. Henry mentre Bob e Anthony tirano a campare con qualche lavoretto in cui si impegnano poco. Quando Dignan si ripresenta da Anthony, l’amicizia ha la meglio sulla razionalità e la banda è presto ricomposta per lavorare agli ordini di Mr. Henry, che progetta una grossa rapina presso un’azienda di celle frigorifere. Mentre Dignan e i suoi si imbarcano nel colpo, Mr. Henry ne approfitta per mettere a segno il vero piano, ossia svaligiare la casa di Bob. Intanto la rapina dei ragazzi finisce per essere un fallimento completo. Dignan viene arrestato. Quando Anthony e Bob vanno a fargli visita in prigione, gli rivelano le vere intenzioni di Mr. Henry; Dignan sembra voler architettare un nuovo trucco per evadere, ma infine si congeda dagli amici e rientra in carcere.

3.1 Eroi della propria narrativa Il film si apre con il rumore del già noto bottle rocket, lo sfrigolio di un razzo che, più avanti, farà la sua comparsa come oggetto feticcio di Dignan (è l’unica cosa in grado di donargli nuovamente il sorriso nei momenti di sconforto, balocco per un ragazzino deluso ma ancora ansioso di giocare). Per il momento è un suono extra-diegetico decontestualizzato rispetto alle immagini: mentre ancora lo sentiamo bruciare, compare nell’inquadratura Anthony, affacciato alla finestra dell’ospedale. Il raccordo sul suo sguardo introduce in scena Dignan, appostato fra i cespugli con binocolo e specchietto per le segnalazioni. Il primo dei suoi assurdi e futili piani è già in atto: è convinto di essere in missione per far evadere l’amico dall’istituto in cui è ricoverato. Come scopriamo nel giro di pochi minuti, il ricovero di Anthony non era stato coatto, ma una sua scelta volontaria, il che discorda dalla messa in scena di Dignan, da un mondo che, visto con i suoi occhi, ha poco a che spartire con la realtà. Anderson sintetizza fulmineamente la questione con una soggettiva stilistica del protagonista: Dignan sta osservando la fuga di Anthony attraverso un binocolo, i margini del suo sguardo comprendono solo quel che fa comodo alla sua visione, l’amico intento a calarsi dalla finestra con la classica corda di lenzuola annodate, mentre la verità del contesto resta fuori campo. Tutto ciò che accade, dal punto di vista di Dignan cui Anderson ci permette di aderire letteralmente, ha la forma di un’avventura, di un film action di cui lui è protagonista e, insieme, sceneggiatore. Dignan è il primo della lunga e variopinta galleria di creatori di narrazioni andersoniani: non è un autore in senso stretto, come lo saranno successivamente molti dei personaggi, ma vive rielaborando costantemente la realtà in termini di finzione, come un bambino intrappolato in un eterno gioco di ruolo. La sua insopprimibile passione per la stesura di piani, schemi e diagrammi è infantile nella forma (la calligrafia incerta marcata dai pennarelli Crayola ci viene mostrata, tramite

apposita inquadratura dall’alto, nella presentazione del «Piano Settantacinquennale») come nel contenuto, che si rivela inesorabilmente scollato dalla contingenza dei fatti. L’esigenza primaria e il motore delle azioni di Dignan è dunque quella di creare una finzione di cui essere protagonista: «essere l’eroe della propria narrativa».[1] Visto attraverso le lenti deformanti (letterali e metaforiche) di Dignan, anche il gesto del dottore di ritirare le lenzuola diventa parte integrante del piano: lo individua come complice e si complimenta con l’amico per la trovata di corromperlo. È questo distacco costante fra la narrazione mentale del protagonista e la realtà a essere alla base sia delle situazioni ironiche del film, sia di quelle drammatiche: le opere di Anderson si muovono perennemente sul filo tra le due emozioni, ora suggerendo sottilmente la comicità delle fantasie impossibili di Dignan, ora abbracciando l’amarezza della sua disillusione. Eroe fallimentare, ridicolo eppure meritevole di compassione, Dignan risulta sgradevole nella sua arroganza, ma suscita empatia per la sua dolorosa innocenza. Lo stesso vale per Anthony: è rivelatorio il dialogo fra lui e Stacy, un’amica di Futureman (interpretato dal terzo fratello Wilson, Andrew), che nel suo civettuolo chiosare «Sei un tipo complicato, vero?» genera come risposta un esattamente speculare «Cerco di non esserlo». Ed è la pura verità: come non sanno di essere buffi, gli eroi di Anderson non sanno neanche di essere complicati, vivono costantemente nel gap fra la propria idea di sé (integra, decisa, spavalda e seriosa) e la percezione che invece hanno gli altri, compresi noi spettatori, che da quell’idea si discosta in misura talvolta estrema. Ed è questo miscuglio di comicità e consapevolezza agra a caratterizzare emotivamente la filmografia di Anderson. Nelle parole di Joshua Gooch: «Ci sono poche cose che un fan di Anderson può dire con precisione sui suoi film, eccetto che c’è un’innata comprensione della connessione fra humour e dolore».[2] Se è Dignan il creatore di finzione centrale, il fuoco è però sbilanciato verso Anthony: mentre il primo persegue la sua impresa avventurosa, il sogno infantile di diventare un super criminale, è il secondo a esperire le emozioni più

problematiche, a compiere un arco di trasformazione più complesso e completo. La dinamica tra Anthony e Dignan è l’elemento propulsivo del film e uno schema ricorrente nel cinema di Anderson, dove si trovano sempre almeno due personaggi titolari del ruolo di eroe: chi si ostina a compiere l’impresa e chi, più o meno consensualmente, lo sostiene e assiste nell’avventura, percorrendo un più concreto cammino di evoluzione. Non vi è mai un solo eroe al centro della scena: il riflettore è piuttosto puntato su un rapporto, su una relazione d’attore e d’autore (che è anche, in fondo, quel che anima il processo creativo di Anderson, da sempre – con la sola eccezione del corto Hotel Chevalier [Id., 2007] – una questione di squadra, un dialogo a due con il suo cosceneggiatore). Così è dunque per Dignan, scatenato e incosciente autore del proprio romanzo criminale, chiuso nel suo personaggio e incapace di evolvere, e per Anthony, più passivo e sconclusionato aiutante che, invece, lungo la strada scopre l’amore, il senso dell’amicizia e la voglia di dare un senso alla vita. Non che Anthony non abbia un obiettivo cocciuto e irrazionale da perseguire. Quando il suo medico in apertura gli dice: «Non cercare di salvare chiunque», rivela la natura letteralmente missionaria di Anthony, che nel rapporto con Dignan si manifesta nell’accettare sine conditione la visione dell’amico e nel non infrangere la sua illusione di realtà. Lo scollamento fra autofiction e reale coinvolge anche il terzo vertice del triangolo, Bob. Mentre Dignan si atteggia a eroe duro da stereotipo action, l’unica ragione per cui Bob è scelto come autista è il fatto che sia il solo del trio a possedere un’automobile. Con la prima inquadratura all’interno dell’auto Anderson forma una disposizione triangolare in cui Anthony è al vertice più lontano dalla macchina da presa, sul sedile posteriore: insieme al centro e distaccato dalla banda. Il triangolo è ufficialmente nato, forma instabile eppure necessaria al cinema di Anderson, perché per le sue creature non è tanto importante essere visti dall’altro, ma soprattutto essere visti nell’atto di essere visti: serve uno spettatore oltre a un interlocutore.

«So it begins»: come Steve Zissou e Mr. Fox dopo di lui, Dignan dà il via alla sua impresa annunciandone l’inizio trionfante. La consegna del Piano Settantacinquennale, sul bus (dove Wes Anderson si ritaglia un fugace cameo) sancisce l’avvio della missione e svela allo spettatore la sua totale inconsistenza. Bimbi nel corpo di adulti, Dignan e Anthony manifestano la propria inadeguatezza sin dalla calligrafia stentata e infantile. Anche il quaderno a righe dove Dignan ha elencato scrupolosamente le sue intenzioni per i successivi tre quarti di secolo sembra quello di un ragazzino delle elementari. E così è il tenero ma improbabile ritratto che Anthony disegna di Inez, a cavallo di un unicorno, circondata di stelline. Il piano di Dignan entra nel vivo con la prima rapina, dove la stasi della macchina da presa di Anderson si anima, come sempre nelle scene d’azione, grazie all’uso della macchina a mano, sulle note di 7&7 Is dei Love: il montaggio affastella oggetti e dettagli della casa, arrestandosi poi sullo sguardo di Anthony, rivolto a uno schieramento di soldatini, che (azione omessa nel cortometraggio) si sofferma a riordinare nei ranghi con delicatezza e premura, sottolineando il suo attaccamento a un feticcio dell’infanzia che, scopriremo poco dopo, è in effetti suo. Non ci viene mostrato, ma denota la sua illogicità tutta bambinesca, il famoso elenco di “Cose che Dignan non deve toccare”, in cui rientrano tutti gli oggetti di valore esclusi a prescindere dal bottino della rapina dei due a casa di Anthony. La sequenza contiene uno fra i rari accenni alla questione delle famiglie dei protagonisti: «Sai bene che non c’è niente da rubare a casa di mamma e Craig», afferma Dignan contrito, dettaglio che permette di intuire il divorzio dei genitori, che, come quelli di Anthony e Bob, restano fuori campo per l’intera durata del film. Anderson, cantore delle famiglie inceppate, rotte e inefficienti, afferma nel pressbook che i padri e le madri nel film non si vedono perché i protagonisti «sono stati rifiutati dalle proprie famiglie o le hanno rifiutate»:[3] la disfunzionalità è definita per omissione, a comparire sono solo la sorellina di Anthony (atipica perché straordinariamente più

matura e adulta del fratello maggiore) e il fratello di Bob (disfunzionale perché sostanzialmente dedito alla vessazione costante del minore). La sequenza ambientata nella scuola della piccola Grace, sorellina di Anthony, è uno dei rari momenti in cui i protagonisti interagiscono con la famiglia d’origine. Anderson si prende gioco di loro enfatizzandone il grado di regressione, inquadrando Anthony completamente circondato da bimbi delle elementari. Nel dialogo con la sorellina Grace è evidente come i ruoli e le responsabilità di adulti e ragazzini siano invertiti: Grace, evocazione della piccola e sagace Phoebe di Il giovane Holden, è il primo personaggio nel film a esprimere la sua legittima perplessità per il futuro di Anthony, sottolineando con logica implacabile il nonsense in cui si risolvono le sue scelte. È lei, tra i due, la più dotata di buon senso, lei a porgli la domanda che pare aleggiare nella sua testa: «Quando tornerai a casa?». La risposta di Anthony lascia a desiderare: «Grace, sono un adulto, non devo tornare a casa». Più tardi, preso dallo sconforto per l’inedito cinismo della sorellina, Anthony cerca l’appoggio di Dignan, che con illogicità tipicamente andersoniana lo supporta, sentenziando che la piccola Grace non può permettersi di giudicare la vita del fratello maggiore. «Che cos’ha fatto lei di tanto importante nella vita?». Per le creature di Anderson, niente è peggio della messa in discussione delle proprie imprese: non può tollerare che non venga riconosciuta l’importanza del suo operato. Si pone così esattamente sullo stesso livello della ragazzina, in una rivalità infantile e cocciuta, ma a suo modo genuina e priva di cattiveria, che ritroveremo in Max e Blume in Rushmore e che anima tanti disastrosi condottieri di Anderson. È significativo anche il fatto che, per tentare di risollevare l’amico dal momento di sconcerto, Dignan estragga il suo feticcio più caro, la fotografia che lo ritrae insieme a Mr. Henry e agli altri membri della squadra di giardinieri/rapinatori: propone a Anthony, in sostanza, il ritratto di una famiglia alternativa (quella di cui ha fortissimamente voluto essere parte), come nucleo sostituivo

di una famiglia insoddisfacente, incarnata dalla deludente sorellina. La famiglia migliore, dunque, è quella inventata. Perché è proprio la dinamica familiare non funzionale la materia da cui prendono le mosse le narrazioni dei personaggi: è la costruzione di un nucleo pseudo-familiare alternativo a essere l’unico movente condiviso alla base di azioni poco coeso. Le ultime sequenze del film, nel segno del fallimento della missione criminale, confermano la riuscita di quella che era, in fondo, la vera impresa di Dignan: creare una sua famiglia, una sua unica e speciale comunità di appartenenza. Sembra sottintendere questo quando, in modo apparentemente illogico visti gli esiti disastrosi della rapina, dice ad Anthony, con aria sognante: «L’abbiamo fatto però, vero?» «Sì, l’abbiamo fatto, certo» gli fa eco l’amico. Dignan suggella il momento regalando ai compagni le fibbie fatte da lui, ulteriore oggetto che crea la riconoscibilità del team: l’intero film, dal piano scarabocchiato a pennarello su carta a quadretti fino alla catastrofica rapina alle celle frigorifere, può allora essere letto come la sincera e disperatamente comica genesi di una famiglia. Nel curioso saggio A Community of Characters. The Narrative Self in the Films of Wes Anderson, il pastore Brennon M. Hancock espande il concetto e utilizza le relazioni tra i personaggi delle opere di Anderson per individuare i tratti fondanti della comunità cristiana: Dignan riconosce il bisogno di comunità e lavora per crearne una tutta sua. Lavorando in sintonia come una squadra, lui, Anthony e Bob si impegnano per realizzarsi come criminali, in tal modo affermandosi come quegli anticonformisti che si sentivano destinati a essere. Forse Dignan realizza più degli altri quanto la sua stessa identità dipenda dall’inclusione in tale comunità.[4]

Per la formazione del gruppo sono fondamentali i feticci, le divise: cristallizzati in una concezione infantile di squadra, i protagonisti necessitano di un segnale identitario tutto esteriore per riconoscersi parte di qualcosa. L’amicizia spezzata fra Anthony e Dignan si ricompone tramite il ricorso

a improbabili tute gialle da parà: assurde e inadeguate per una rapina, diventano il suggello del team quando Anthony pone come condizione, per il suo ritorno nella banda, di averne una uguale a quella di Dignan, assecondando l’ansia di riconoscimento dell’amico. Esplicitare la propria appartenenza tramite l’apparenza, come avviene per le squadre sportive dalle magliette di colori distinti, vestire la divisa di una nuova famiglia. L’attaccamento del regista ai suoi dettagliati schemi cromatici di abbigliamento e alle collezioni di oggetti è espressione dell’emotività dei personaggi, troppo annoiati o delusi dalle modalità di associazione adulta per non ripiegare su quelle, manichee, sgargianti e semplici da maneggiare, di una società ridotta a squadre e di una socialità infantile. È con questo spirito che, in una sequenza che ricalca quella del corto omonimo, il trio di aspiranti ladri si impegna nella ricerca dell’arma adeguata, una pistola che risponda alle puerili loro aspettative, commisurate ai troppi film visti e non alle esigenze contingenti. Ed è proprio l’oggetto appena acquistato a scatenare il primo momento di crisi del gruppo. Desiderosi di trastullarsi con la pistola, Anthony e Bob provocano l’esasperazione di Dignan proprio nel momento in cui questi espone il suo complesso piano per la rapina in libreria, tanto che la sua esplosione di rabbia da leadership inascoltata sembra mandare a monte il progetto. «Non so se siamo una banda», afferma nello sconforto. Anthony lo rassicura immediatamente: «Siamo una banda». La conferma verbale sancisce ufficialmente la coesione del gruppo: ancora una volta sono le affermazioni, più che le azioni, a concretizzare le aspettative dei protagonisti. Il meccanismo si ripete quando Dignan giustifica l’insensata fuga in automobile verso una meta ignota con la semplice frase: «Siamo fuggiaschi». Verbalizzandola, crea la sua realtà: non c’è nessuno da cui fuggire né un luogo dove arrivare, è sufficiente per lui proclamare questa verità per investire sé e i compagni del ruolo in un gioco codificato. Come recitava la tagline originale del film, «They just wanted to be wanted»: nelle parole di Matt Browning, «il loro presunto status di fuorilegge

e fuggiaschi è più importante per Dignan rispetto all’avere una direzione e una ragione per andarci».[5] La seconda sequenza di rapina, che inizia con stilemi da film noir, ribadisce e amplia il divario tra l’idealizzazione dei ragazzi e la realtà dei fatti: il travestimento ufficiale scelto da Dignan è composto da alcuni cerotti da applicare sul naso per «distogliere l’attenzione»: quasi una citazione dell’iconica maschera di Jack Nicholson in Chinatown (Id., Roman Polanski, 1974), pellicola dove il processo di decostruzione dell’eroe d’azione era simile a quello operato da Anderson, ma in direzione drammatica anziché ironica. La formazione finzionale di Dignan sembra basata su film polizieschi e fumetti, un eterogeneo e fatale mix di eroi bislacchi e leali. Quando, per esempio, per non rivelare la propria identità a Inez e ai suoi amici, inventa fulmineamente due nomi fittizi e piuttosto improbabili per sé e Bob, sceglie Jerry e Cornelius, si tratta plausibilmente di un riferimento a Jerry Cornelius, protagonista di una serie di romanzi fantasy/satirici di Michael Moorcock, uno dei quali è divenuto anche un film nel 1973, Alfa Omega. Il principio della fine (The Final Programme, Robert Fuest). Proprio il tipo di pellicola che Dignan potrebbe aver visto da ragazzino in televisione. Come già per la precedente, anche questa sequenza di furto è resa frenetica dall’utilizzo della macchina a mano, ma Anderson sfilaccia la tensione costellando il percorso di Anthony in libreria con ironici riferimenti alla mancanza di scopo della sua vita: il primo libro afferrato al volo ha per titolo Job Opportunities in Government 1995 (tuttavia, nelle intenzioni degli autori, il dettaglio del primo libro doveva essere più in linea con la vena infantile e avventurosa di Anthony: si trattava di un volume fotografico con immagini degli aerei impiegati nella Seconda guerra mondiale. Il fotogramma, già incluso nella sequenza originale, fu fatto rimpiazzare dalla produzione perché a loro parere risultava decontestualizzato e poco significativo, e sostituito dunque con il più amaro e ironico frontespizio sulle opportunità di

lavoro, oggetto scenico realizzato in fretta e furia con una stampante laser), poi si ferma davanti allo scaffale della sezione viaggi. Il suo tragitto tra gli scaffali sembra ricordargli le possibilità che non sta nemmeno vagliando, mentre è impegnato a mandare all’aria la sua vita con una serie di rapine assurde. Se quelli di Anthony richiamano i dolori del giovane Benjamin Braddock (il protagonista di Il laureato [The Graduate, Mike Nichols, 1967] interpretato da Dustin Hoffman), Dignan sembra essere la versione cresciuta e tragicomica del piccolo Antoine Doinel di I 400 colpi, già citato nel corto originario: la famiglia assente, le bugie a fin di bene, la chiusura ambientata nella prigione, dove Anderson ripropone l’inquadratura attraverso la rete metallica (ma stavolta sono gli amici a guardare verso Dignan, non, come Antoine, lui a guardare fuori). Del dodicenne Doinel, il ventenne Dignan eredita tratti dolcemente e cocciutamente infantili: parla di sé in terza persona, indulge nel vittimismo, si entusiasma per i dettagli tecnici della rapina (elencati euforicamente senza pensare al loro vero scopo: «Elicotteri, dinamite, gas esilarante!»). E, come un ragazzino, fa a botte: lo scontro fisico tra lui e Anthony, eccezion fatta per la rissa che avviene nel locale dove Dignan viene pestato (in profondità di campo e distante dalla macchina da presa) è l’unico momento violento del film. Un cazzotto in faccia, dritto sul naso, senza preavviso né premeditazione: un colpo destinato a ricorrere in ogni film di Anderson (difficilmente manca un personaggio che si ritrovi con il naso gocciolante sangue dopo il classico pugno sul muso).

3.2 Genitori e impostori In un susseguirsi di apparenze che risultano fasulle, Un colpo da dilettanti propone allo spettatore un via vai di illusioni, di presunte verità che attendono solo di essere smentite. Si pensi alla prima rapina, che si rivela in seguito una semplice simulazione, un gioco ai propri danni. Anche Anthony è coinvolto in un’identica dinamica: perché Mr. Henry è ben lungi dall’essere il criminale di cui Dignan è andato narrando. Ma è, sicuramente, la figura tipica, nel cinema di Anderson, di mentore inaffidabile e padre putativo disastroso. Un impostore, ancora prima di comparire in scena: una ricorrenza, nella filmografia del regista, ossessivamente incentrata sulla ricerca di un padre assente (Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Il treno per il Darjeeling), sull’incompetenza di un padre inefficace o rifiutato (I Tenenbaum [The Royal Tenenbaums, 2001], Fantastic Mr. Fox), o sul ruolo di genitore surrogato o vicario (Rushmore, Moonrise Kingdom, Grand Budapest Hotel). Da un lato questa ossessione accomuna Anderson ad alcuni cineasti suoi contemporanei, su tutti l’altro Anderson, Paul Thomas, di fatto autore di una serie di opere che ruotano intorno al medesimo dramma di una figura paterna disfunzionale se non nociva, o di un falso mentore che si rivela impostore: da Sydney (Hard Eight, 1996) a The Master (Id., 2012), passando per Magnolia (Id., 1999) e Il petroliere (There Will Be Blood, 2007), il suo cinema declina in dramma realistico la stessa materia che per Wes Anderson prende i colori della commedia di formazione. Dall’altro conferma la tendenza dei suoi personaggi a preferire la finzione alla vita. Molti di loro, da Steve Zissou a Peter Whitman fino a Mr. Fox, dicono chiaramente di non voler ricoprire il ruolo di padre, prediligendo piuttosto quello di autore, genitore di una narrativa piuttosto che di un figlio. Mr. Henry, una volta entrato in azione, riveste il ruolo di figura paterna per Dignan, del quale sappiamo, tramite il fugace accenno all’inizio del film, che vive con la madre e il suo compagno: non ci è dato sapere se e come il padre biologico sia uscito di scena, ma

l’intero, incompleto e parzialmente doloroso tentativo di trasformazione di Dignan pare in quest’ottica un piano elaborato per ottenere l’approvazione paterna. Mr. Henry è esempio smaccato di padre vicario fallace e di mentore/mentitore: si atteggia a boss pericoloso, indossa assurdi monili fatti di denti, pratica non meglio precisate arti marziali e fa credere a Dignan di essere un criminale e un suo leale complice, quando in realtà trama alle sue spalle per un colpo che non comporta il minimo grado di rischio da parte sua. Si diverte a rovesciare il contenuto di un bicchiere sulle teste degli amici sotto la finestra: è il padre/bambino impertinente che nel cinema di Anderson raggiungerà il suo apice, con sfumature molto diverse, in Royal Tenenbaum. Ostenta uno stile di vita ricavato, come per i ragazzi, da un improbabile miscuglio di influenze televisive e cinematografiche, e Anderson accentua la sua eccentricità ponendolo al centro di inquadrature sature di elementi contrastanti: è ispirata a David Hockney quella in cui si siede su un divano rosso, mentre ai suoi piedi giace un giaguaro impagliato, e dietro di lui fa la prima apparizione ufficiale un vero mentore di Wes, JacquesYves Cousteau, in un ritratto in bianco e nero firmato da Richard Avedon.

3.3 L’amore tradotto Dopo il risveglio al motel, il tuffo di Anthony in piscina ci riporta alla mente il progenitore Benjamin Braddock, mentre la macchina da presa si sposta sott’acqua per mostrarci il suo smarrimento ondivago, in una posa quasi fetale. Come per Il laureato è nei pressi di una piscina che avviene l’incontro fatidico: in un momento epifanico che diventerà marchio di fabbrica del regista, Anthony vede comparire davanti ai suoi occhi una visione, quella di Inez, minuta donna delle pulizie del motel. Una visione inquadrata da Anderson come una figura già circonfusa dell’amore a prima vista di Anthony: la musica spagnola (Prendeme la vela) potrebbe essere diegetica e provenire dalla radiolina che Inez tiene con sé, ma forse è solo la colonna sonora che nella mente del giovane scatta con l’apparizione dell’amata. La rapida successione di particolari si giustappone agli sguardi rubati di Anthony sulla ragazza: i piedi, i sandali, la radio, oggetti appena conosciuti e immediatamente eletti a feticci della loro relazione, come diventerà in brevissimo tempo la microscopica fotografia della sorella di Inez che Anthony insiste per conservare, nonostante non sia il suo ritratto. Il sentimento teneramente impacciato che nasce fra i due è basato, secondo uno schema tipicamente andersoniano, sull’incomunicabilità: Inez non capisce quasi una parola di inglese, Anthony non sa lo spagnolo, ma la segue comunque (unicamente vestito dell’accappatoio) senza smettere per un solo minuto di parlarle. Al punto che quando li ritroviamo nella lavanderia, Anderson costruisce un’abituale inquadratura a tre maliziosamente ironica: il terzo componente del triangolo è infatti la lavatrice, come a suggerire che per Inez non c’è molta differenza tra i suoni emessi dall’elettrodomestico o dal suo bizzarro accompagnatore. Eternamente cristallizzati in un’età emotiva prepuberale, i protagonisti di Anderson non possono che trasferire questo blocco dello sviluppo anche sul piano sentimentale e sessuale: con rarissime eccezioni,

l’amore dei suoi film è casto e non raggiunge mai il piano dell’intimità erotica. A differenza dei loro illustri antenati, da Holden Caulfield a Benjamin Braddock, fino all’Harold di Harold e Maude (Harold and Maude, Hal Ashby, 1972), i personaggi di Anderson palesano una maggiore refrattarietà a confrontarsi con la realtà della vita: le loro narrazioni sono scritte a pennarello sulla carta e spesso rimangono tali, l’esperienza resta il più delle volte un’utopia. Lo stesso si applica alla componente amorosa: se capita che il sentimento sia il motore principale delle impossibili imprese (primariamente in Rushmore e in Moonrise Kingdom), gli eterni bimbi di Anderson non infrangono mai completamente il loro guscio d’infanzia con l’approccio alla sfera sessuale. Inez e Anthony – con quei loro baci in piscina (scena che è un piccolo saggio di simmetria, spezzata dall’ingresso nel quadro di Dignan) e quel gioioso momento in cui spariscono sotto le lenzuola simulando una tenda giocattolo molto simile a quella dove si rifugeranno Margot e Richie Tenenbaum (un gioco di bimbi, una simulazione, sempre e comunque) – sono quelli che più si avvicinano a un’evoluzione fisica del rapporto, subito bloccata dalle ingerenze di Dignan e dall’impossibilità di comunicare normalmente in una lingua comprensibile a entrambi. Anthony, d’altronde, prova per Inez il sentimento puro e goffo di un ragazzino: ne conserva la fotografia (pur sapendo che non ritrae lei ma sua sorella), le fa dono di un orologio digitale «dotato di suoneria», la raffigura in un disegno dai tratti surreali e infantili («è solo un cavallino da cui sprizzano tutte scintille come una specie di polvere di stelle», si giustifica spiegando i dettagli del disegno a Dignan). Il triangolo diventa figura indispensabile ed espediente comico nella comunicazione fra Anthony e Inez, che devono servirsi di un interprete per parlare: quando il ragazzo le propone di scappare con lui, la banale domanda di Inez sulla direzione fa crollare l’intero castello in aria di Anthony. La direzione non è contemplata: l’insistenza di Inez, più matura e consapevole, nel chiedere una meta alla fuga mette in crisi la consuetudine

di Anthony (e lo stesso vale per i suoi sodali) a non avere alcun punto di riferimento geografico, a non vivere il mondo in termini di coordinate.

3.4 Salinger al motel Le influenze all’opera sul cinema di Anderson sono spiccatamente letterarie, prima che cinematografiche: uno dei punti di riferimento ineludibili per l’Anderson scrittore è J.D. Salinger, autore del cult Il giovane Holden. E tratti del memorabile Holden Caulfield sembrano distribuiti equamente fra entrambi i giovani protagonisti del film, nonostante abbiano qualche anno in più dell’omologo letterario: Anthony, come Holden, affronta un ricovero in un ospedale per problemi psichiatrici; ha una sorella minore particolarmente sveglia e precoce che gli chiede di tornare a casa; riceve un rifiuto dalla ragazza cui è interessato dopo avere tentato di convincerla a scappare con lui. Dignan rappresenta, invece, il lato più immaturo e folle di Holden, quello che racconta bugie a ruota libera e partorisce intere sequenze cinematografiche immedesimandosi di colpo in personaggi visti sullo schermo. Entrambi, inoltre, vivono per un breve lasso di tempo in un motel, luogo in cui si costruiscono false identità, esattamente come Holden soggiorna all’Edmont Hotel di New York fingendosi più grande. Al di là delle somiglianze fra i giovani adulti, è l’irrequietezza, il non sapere cosa fare della propria vita ad accomunare i due amici nel Texas anni Novanta con il ragazzo a zonzo per la Grande mela anni Cinquanta: non bastano i piani accuratamente scarabocchiati a pennarello colorato per mascherare la mancanza di direzione e di scopo, la stessa che dominava le vite di Anderson e Wilson all’epoca della stesura della sceneggiatura. Pare sbucato direttamente dalle pagine di Salinger il momento in cui Anthony racconta a una conoscente le circostanze che hanno portato al suo ricovero volontario: Una mattina eravamo alla casa al mare di Elizabeth… Lei mi ha chiesto se preferivo andare a fare sci d’acqua o andare in barca. Allora mi sono reso conto che non solo non volevo rispondere a quella domanda, ma non volevo mai più rispondere a nessuna domanda sugli sport acquatici, né vedere nessuna di quelle persone per il resto della mia vita. Tre giorni dopo vagavo in mezzo al deserto, e questo è quanto.

Nient’altro ci è dato sapere sul cosiddetto esaurimento di Anthony, se non che a un certo punto qualcosa in lui si è rotto, facendolo sentire inadeguato al mondo circostante. È un sentimento che tutti i personaggi di Anderson conoscono dolorosamente bene, è la base della loro ambizione a costruirsi un universo fittizio in cui hanno il controllo sulle regole, in cui nessuno li costringerà mai più a scegliere quale sport acquatico praticare. Un trauma emotivo pare annidarsi nel passato di ognuno degli eroi andersoniani: un blocco che ha impedito lo sviluppo normale delle funzioni emotive/sentimentali/familiari. I suoi personaggi sono danneggiati, ammaccati e spesso congelati a livello affettivo in un arresto dello sviluppo che si traduce nella tipica impassibilità divenuta marchio di fabbrica dei suoi caratteri. Spesso apparentemente affetti da qualcosa di simile a una lieve forma d’autismo, difficilmente sanno dire cosa provano: ma a completare la loro personalità sopperiscono gli abiti, i feticci e le canzoni che Wes Anderson utilizza come emanazione diretta della loro personalità, spesso facendo coincidere i testi dei brani con i sentimenti dei protagonisti. La «sostanza dello stile» evidenziata da Matt Zoller Seitz è anche questa: prigionieri della loro immaturità, spesso incapaci di esprimersi in modo accettabile dagli altri, i personaggi si affidano a un’esteriorità parlante, tutt’altro che superficiale, e i film finiscono per somigliare a loro, acquisendo carattere dalla giustapposizione di musiche, colori e dettagli. Se Holden Caulfield è il nume tutelare dei giovani dilettanti andersoniani, un’altra figura di cui questi sono nipotini, come detto, è Benjamin Braddock, altro anti-eroe a stelle e strisce della letteratura prima (il romanzo di Charles Webb) e del cinema poi (il citato film di Nichols). Anche lui bloccato nel paradosso di un movimento frenetico ma senza direzione, anche lui sospeso in una dimensione alberghiera dove interpretare un ruolo che non gli appartiene, anche lui avverso a un mondo adulto cui preferisce l’immaturità della fuga. Se Dignan si limita a rubare un’Alfa Romeo uguale a quella di Benjamin nel film di Nichols, è Anthony che con Braddock ha

molto in comune, a partire dal rapporto di amore/odio con l’elemento acquatico: il protagonista di Il laureato è prima calato controvoglia in piscina nella tuta da palombaro, poi utilizza la medesima vasca come sacca amniotica per la sua indolenza. Similmente, l’eterno adolescente Anthony rivela di aver innescato la sua crisi definitiva parlando proprio di sport acquatici, e in piscina si ritrova sia nel momento in cui gli appare Inez, sia quando i due si scambiano il primo bacio. L’acqua riveste per molti personaggi di Anderson un’importanza simbolica: in quanto abbozzi di esseri umani, spesso non completamente e conformemente definiti, galleggiano in essa come in un liquido amniotico, attendendo di assumere la propria forma definitiva mentre si infradiciano di aspettative malriposte.

3.5 A caratteri cubitali Con un vero budget a disposizione, Wes Anderson comincia a dare forma riconoscibile al suo cinema, letteralmente fin dai titoli di testa. Un colpo da dilettanti, in originale Bottle Rocket come il corto omonimo, si apre con il titolo a caratteri cubitali neri su fondo rosso: il font utilizzato è il Futura Bold, griffe del regista per i successivi dieci anni. L’importanza della scelta di un carattere tipografico non può essere trascurata nell’opera di un cineasta che si serve della parola scritta come complemento delle immagini e della narrazione, ma l’uso che Anderson fa del Futura e del Futura Bold va oltre gli ornamenti della post-produzione – i titoli, le didascalie le sovrimpressioni – è parte della diegesi, dell’universo finzionale edificato nei suoi film, dove le insegne, i cartelli e le copertine dei libri spesso ricorrono al medesimo font (perfino i pastelli e pennarelli marca Crayola, strumenti sovente fra le mani degli adulti/bambini andersoniani, negli anni Novanta presentavano un logo in Futura). Creato nel 1928 ma divenuto popolare negli anni Sessanta, il font succitato è un carattere senza grazie che accentua la tendenza al modernariato e al vintage delle scenografie e dei costumi: come la vecchia Mercedes di Bob nel film, anche il Futura è un classico intramontabile, che rende più sfumati i contorni temporali dell’azione. Come sottolinea Patrick Gosnell nella sua attenta analisi della tipografia in Anderson,[6] il Futura ammicca al nitore massiccio dei font grassetti di Stanley Kubrick (un altro regista che, come Woody Allen, prestava particolare attenzione alla scelta tipografica dei suoi titoli), maestro della maniacale cura nella messa in scena, della simmetria nel quadro e del dettaglio la cui influenza sulla formazione dello sguardo registico di Anderson è innegabile. Ma in Futura era anche incisa la targa lasciata dagli astronauti dell’Apollo 11 sulla Luna, nel 1969, anno dell’allunaggio e della nascita di Wes Anderson: un omaggio al segno concreto della più grande avventura affrontata dall’uomo, da un autore che dell’amore

per le avventure, di ogni genere e dimensione, ha fatto la ragione d’essere del suo cinema. Il primo lungometraggio di Anderson denota un controllo sulla messa in scena anomalo per un esordiente: nonostante la non totale autonomia dalle esigenze della produzione, la sua visione è decisamente compatta. La sceneggiatura, che Anderson e Wilson hanno nel tempo limato e rivisto, è calibrata quanto le scelte registiche, già accuratamente dettagliate negli storyboard disegnati dal regista stesso con la medesima mano infantile che sarà propria dei suoi personaggi: ogni dettaglio è già nella mente dell’autore, inquadratura per inquadratura, segno di una consapevolezza rara nell’opera di un neo-regista. Già a partire dall’opera prima, Anderson inaugura la collaborazione con alcuni membri delle sue future crew, come il direttore della fotografia Robert Yeoman (che lavorerà a ogni suo film), gli scenografi David Wasco e Sandy Reynolds-Wasco e la costumista Karen Patch. La presenza costante di questi tecnici contribuisce al senso di continuità stilistica cui Anderson ambisce: la tavolozza cromatica, i movimenti di macchina, la saturazione delle scenografie e la precisione dei costumi si richiamano gli uni con gli altri formando un universo coerente, incrementando la riconoscibilità e a sensazione dello spettatore di trovarsi in un mondo familiare. Per dare vita a un guardaroba che costituisca a tutti gli effetti un ulteriore protagonista in scena, Anderson seleziona con cura, insieme alla Patch, indumenti fuori moda e fuori luogo, sottolinenando la mancata appartenenza dei tre ragazzi a qualsivoglia comunità e insieme. Accessori e vestiti sembrano sbucati dall’infanzia dei protagonisti, serbano un sapore vintage e fanciullesco: esempi chiari sono l’orologio digitale e il particolare binocolo, provenienti da un’epoca indefinita sul finire degli anni Settanta, l’epoca dei ricordi d’infanzia degli autori Anderson e Wilson.

Insieme ai Wasco (che negli stessi anni avevano curato le scenografie per Quentin Tarantino di Le iene, Killing Zoe [Id., Roger Avery, 1993] e Pulp Fiction [Id., 1994]) e a Patch, Anderson crea per Un colpo da dilettanti uno schema cromatico preciso, utilizzando, tra le altre fonti d’ispirazione, le opere del pittore e fotografo britannico David Hockney, caratterizzate da colori primari e saturi, e spesso raffiguranti architetture e piscine di hotel. L’andamento cromatico segue lo sviluppo dell’azione in tre atti. Il primo, che precede il vero apice emotivo delle gesta degli eroi, è il più neutro e privo di cromie vivaci, salvo il rosso acceso di cui è vestito Anthony, colore che lo segnala come elemento speciale all’interno della banda, il più rilevante, ma anche il meno inserito. Nel secondo atto i toni sbocciano al motel, scelto da Anderson proprio per la combinazione di rossi, arancioni e turchesi di porte e pareti. Nel terzo atto, dominato dal piano di Mr. Henry e dalla presa di coscienza tardiva dei ragazzi, i colori tornano a spegnersi e diventano più freddi, con una prevalenza netta di verdi. Le sgargianti eccezioni a questo schema sono certamente le tute gialle utilizzate dai rapinatori nel colpo finale, quanto di più inadatto a un furto discreto. Per una coincidenza casuale, le tute gialle ricordano uno dei costumi di scena utilizzati dai Devo, il gruppo punk da cui proviene il compositore Mark Mothersbaugh, qui alla prima delle collaborazioni con Anderson, esordio di un sodalizio destinato a caratterizzare tutta la prima metà della filmografia del regista. Da amante del jazz, e dimostrando ancora una volta una grande attenzione a tutti gli elementi della messa in scena, Anderson chiede a Mothersbaugh una colonna sonora che segua le vibrazioni di questo genere musicale: si ricollega così al cortometraggio originario, e partecipa in prima persona alla registrazione dei brani, suonando strumenti minori. La squadra è completa: in un inesausto gioco di specchi, il set di Anderson assomiglia alla finzione inscenata dai suoi protagonisti, sempre impegnati in imprese di gruppo, per cui sono la collaborazione e lo scontro di caratteri gli eventi dinamici alla base dell’avventura. Come accade ai suoi eroi

egocentrici e ansiosi di avere il controllo sulla propria creatura, anche Anderson non può fare a meno di affidare la sua visione forte e consapevole a un gruppo di fedeli esecutori; un parallelo che pochi anni dopo Anderson medesimo si divertirà a mettere in scena nel celebre spot dell’American Express dove interpreta se stesso. Non ancora affiancato da Randall Poster, che diventerà uno dei più fedeli collaboratori, Anderson seleziona per il film una colonna sonora popolata di gruppi e ritmi anni Sessanta e Settanta, utilizzando i brani come ulteriore espressione dei pensieri e degli stati d’animo di una manciata di personaggi tragicomicamente incapaci di dirsi le cose come stanno. Come spiega lui stesso, secondo una consuetudine che resterà tale per gran parte delle sue opere, spesso le canzoni vengono prima del film stesso o della sequenza cui sono assegnate: «Molte volte, la musica mi ispira un’idea; magari non ho ancora la sceneggiatura, so solo che voglio usare quella canzone, e ci scrivo una scena intorno. […] Avevo in mente 2000 Man dei Rolling Stones e Over and Done With dei The Proclaimers da anni, già mentre io e Owen scrivevamo le prime bozze del copione al college. Le scene sono state costruite per quelle canzoni».[7] Entrambi i brani funzionano come cassa di risonanza delle emozioni di Dignan: la prima nel suo momento più epico, quando, contro ogni logica, si getta in pasto alla polizia pur di seguire il suo piano. La seconda durante la crisi che segue l’abbandono di Bob e precede la partenza dal motel. Significativamente, la maggior parte dei brani della colonna sonora sembra emanare dalla mente di Dignan, raramente da quella di Anthony, la spalla eroica che spesso ingoia i propri sentimenti per soccombere a quelli dell’amico. Insieme al direttore della fotografia Robert Yeoman, Anderson getta le fondamenta della sua personale grammatica della macchina da presa, destinata a perfezionarsi in schemi piuttosto rigidi nelle opere successive; qui l’ossessione per la prospettiva centrale non è ancora dominante, ma il regista

sceglie di girare interamente con un’ottica 27 mm, lente che permette di aggiungere profondità: «Volevo includere il più possibile lo sfondo, perché ci serviva lo spazio per tenere sullo schermo tutti e tre i personaggi contemporaneamente».[8] L’uso della profondità di campo per creare forme triangolari è caro a uno tra i cineasti fonte di ispirazione per il lavoro di Anderson, Roman Polanski, nel cui cinema i rapporti di forza tra i protagonisti in scena si esplicitano sovente nella scelta formale della composizione triangolare. Anderson utilizza la medesima soluzione, ancora una volta facendo coincidere forma e sostanza: se la storia procede tramite i passaggi di informazione e i legami affettivi che uniscono il trio, ponendo ora uno, ora l’altro membro della gang in posizione di vantaggio, il quadro disegna, tramite la profondità di campo, i rapporti fra i tre. Profondità che viene utilizzata prevalentemente con scopo comico, come nella scena in cui Anthony è impegnato in uno stupido esercizio di gelosia nei confronti di Inez e Dignan è ben visibile, dietro di lui, attraverso la finestra del locale in cui viene pestato a sangue su un tavolo da biliardo. La macchina da presa di Anderson, inoltre, obbedisce a regole precise: si muove prevalentemente su linee orizzontali e verticali, ruota sull’asse in panoramiche a schiaffo o si sposta in carrelli laterali, ma raramente cambia angolazione, mantenendo un punto di vista che simula la presenza di un ulteriore personaggio in scena. La presenza dell’autore/spettatore, da cui il cinema di Anderson non prescinde: l’ironia dei suoi dialoghi e dei suoi scambi di opinione impassibili e autistici è tutta lì, nel punto di vista. I personaggi raramente ridono o si divertono: è lo sguardo percepibile dell’obiettivo che li inquadra, che si sposta da uno all’altro come per seguire una partita di tennis, a rendere ironico ciò che per i protagonisti in gioco può essere anche drammatico. La peculiare costruzione del comico in Anderson è parzialmente fondata proprio su questo insistito distacco fra la percezione del protagonista e quella dello spettatore: i gag si originano dallo scarto fra la profonda partecipazione emotiva

del personaggio e la risibile illogicità della situazione che sta vivendo. Così accade, durante la scena della rapina in libreria, che la foga criminale di Dignan si scontri con la dimensione ridicolmente ridotta dei sacchetti in cui il direttore deve infilare le banconote della refurtiva. Lo stesso vale per il coinvolgimento di Rocky, cameriere del motel e amico di Inez, nel ruolo di traduttore estemporaneo durante gli scambi fra la ragazza e Anthony, ruolo che svolge con incrollabile impegno mentre prosegue nello svolgimento delle sue quotidiane e automatiche mansioni lavorative: l’adesione emotiva dei presenti li rende del tutto inconsapevoli della situazione grottesca in cui si trovano. Costruiti sempre a freddo, con intento di dilatare l’azione in modo ironico e anticlimatico, i gag andersoniani sono basati su tempi comici che disattendono le aspettative dello spettatore più che del protagonista. Si prenda per esempio la scena in cui Anthony, scoperto che Inez ricambia il suo sentimento, tenta di contattarla telefonicamente chiamando il motel: prima di riuscire a sentire la sua voce viene continuamente rimandato, in una serie di inoltri di chiamata, passando per le cornette di una improbabile quantità di impiegati della struttura. La dilatazione temporale disinnesca la possibile empatia dello spettatore nei confronti della concitazione del personaggio, producendo un effetto comico di fronte alla paradossale impassibilità del protagonista. Non solo viene frustrato l’andamento patemico dell’azione, ma si marca un ulteriore distacco, un’ennesima divergenza tra il sentire dello spettatore e quello del protagonista. Lo stesso avverrà in Rushmore con l’espediente dell’albero tagliato da Max per colpire il rivale Blume: la caduta rovinosa del tronco avviene fuori tempo massimo ed è accolta con totale indifferenza dalla vittima designata. Una simile costruzione in controtempo è alla base del gag in cui Royal Tenenbaum comunica alla ex moglie Etheline la sua fittizia malattia terminale: il climax emotivo dell’annuncio è smontato e dilatato in tempi grotteschi dall’indecisione dell’uomo e dal suo malriuscito tentativo di ritrattare la confessione per poi ribadirla, scandito visivamente dal reiterato uscire e rientrare in campo di Anjelica Huston. Altro marchio di fabbrica andersoniano sono le inquadrature da sopra la testa del personaggio: perfettamente perpendicolari

agli oggetti su una scrivania, su un tavolo, tra le mani dei protagonisti. Un’angolazione che mette in rilievo dettagli e feticci, costituendo un punto di vista esterno che non può coincidere con la soggettiva del personaggio, ma che ancora una volta offre allo spettatore un inventario materiale della sua situazione. Nell’ambito di una lavorazione non così travagliata, ma comunque segnata dal notevole divario di età ed esperienza fra i giovani autori e i navigati produttori, Anderson è costretto a rinunciare ad alcune delle sue esigenze: nonostante la sua intenzione di girare il film nel formato prediletto del widescreen (2:35:1) poi utilizzato per gran parte delle sue opere, gli viene imposto il letterbox (1:85:1). Tuttavia non è compromessa la forte consapevolezza del quadro e della forma che avvicina le porzioni di campo inquadrato a illustrazioni di un libro, o ancora di più a strisce di fumetti.

3.6 Dentro la scatola I personaggi di Anderson sembrano subire il riquadramento, limitandosi a essere centrali al singolo specifico quadro, difficilmente esplorando lo spazio circostante. Come le figurine bidimensionali dei Peanuts, appoggiate agli sfondi ma impossibilitate a spostarsi verso orizzonti differenti, anche gli eroi andersoniani conoscono realmente solo la porzione di mondo cui sono relegati: non abitano lo spazio, non lo conoscono, ne sono soltanto circondati. Come accade per Schroeder col suo pianoforte o per Charlie Brown con la cuccia di Snoopy, ogni personaggio può avvicinarsi agli oggetti sempre e solo dalla medesima distanza e angolazione, in una semplificazione della realtà che dalla realtà si distacca per schematismo. In questo senso elenchi, inventari, schemi e progetti diventano apparati indispensabili per i protagonisti, emanazione concreta del loro desiderio di riscrivere la propria appartenenza al mondo. Sono piani segreti, dispacci, mappe: ma a differenza di una vera cartina, i ghirigori tracciati con mano infantile e convinta da Dignan e dai suoi soci ideali sono soltanto mappe per perdersi. Meglio ancora: non servono a individuare la propria posizione rispetto a un mondo esistente e definito, bensì a riscriverne la topografia, facendo in modo che ponga al suo centro l’eroe. Anthony si trova più volte in difficoltà con la geografia (non sa assolutamente collocare il Paraguay, Paese d’origine di Inez, in un ipotetico mappamondo) e con le lingue straniere, entra in crisi quando gli viene chiesto dove andare: la conoscenza del mondo gli è preclusa, può solo giocare a inventarlo, o assecondare l’invenzione del mondo creato da Dignan, lasciarsi racchiudere da lui nel microcosmo del motel. Il romanziere Michael Chabon articola, a questo proposito, un paragone fra il lavoro di Anderson e le opere di assemblage di Joseph Cornell, le cosiddette “scatole”: contenitori di reliquie, oggetti e frammenti montati a comporre un mondo in

miniatura, una narrazione per feticci, e messe sotto vetro in un recipiente rettangolare. Nell’assimilare le due forme d’arte, Chabon pone l’accento sull’importanza della scatola stessa, dei suoi contorni: La scatola, per Cornell, è un gesto – delinea un legame intorno alle cose che contiene e le costringe in una relazione, non semplicemente una con l’altra, ma con tutto ciò che sta all’esterno della scatola. La scatola definisce le proporzioni e media i due estremi di una metafora. […] Nei film di Anderson a ricordare le scatole di Cornell è la rigida, stabile, squadrata costruzione delle singole sequenze, con cui l’inquadratura diventa gesto cornelliano, una scatola disegnata intorno al mondo del film.[9]

Il motel dove i fuggiaschi senza inseguitori si riparano è solo il primo di una lunga serie di strutture alberghiere dove Wes Anderson ama ingabbiare i suoi protagonisti: mondo in miniatura, composto da stanze da cui sbirciare la vita altrui, risponde alla sua passione per le case di bambola, modellini a grandezza naturale da mostrare come in un diorama. Ma l’hotel/motel è anche, ancora una volta, habitat naturale degli eroi creatori di finzione: l’albergo non è una casa, ma il suo contrario, un non-luogo provvisorio e neutrale, tutto da inventare, l’opposto del focolare, lontano dalla famiglia.

3.7 Confusi e sinceri Se i suoi eroi, Dignan in particolare, sembrano essere imbevuti di cultura pop e cinematografica (lo dimostrano i goffi tentativi di trasformarsi in criminali, palesemente fondati su modelli provenienti dal piccolo e grande schermo, non certo su un’esperienza della realtà), sarebbe ambiguo affermare lo stesso dell’Anderson autore. Un colpo da dilettanti, pur contenendo al suo interno qualche ammiccamento e citazione più o meno esplicita, si presenta come un oggetto bizzarro e difficilmente etichettabile, tale per cui risulta comprensibile l’estremizzazione operata da Andrea Bruni nell’analisi delle opere del regista, quando afferma: «Wes Anderson […] è uno invece che il Cinema proprio se l’è dimenticato. Ha resettato la propria memoria cinefila. Ripartendo da zero».[10] Non si riscontra nella filmografia di Wes Anderson la mania per il citazionismo cinefilo, per l’ammiccamento postmoderno rivolto a un gruppo di spettatori dall’affine bagaglio di visioni, la riproduzione fedele di sequenze o inquadrature propria del linguaggio – per esempio – tarantiniano. Certo, lo “zero” da cui riparte Anderson è intessuto di suggestioni e dettagli provenienti da film, fumetti, dischi, illustrazioni del «New Yorker», affastellati uno sull’altro come nelle camerette sature di molti dei suoi protagonisti, ma l’intento di Anderson, non dissimile da quello dei suoi disastrosi eroi, è di dare vita a una sua propria narrazione, autentica e originale. Dove Tarantino sceglie la via della consapevolezza cinica, dell’ironia e della frammentazione, la non linearità dell’intreccio e la digressione come forma d’arte postmoderna, Anderson rivendica il suo diritto di “ripartire da zero” e creare una finzione che abbia dignità propria, una forma di narrativa sincera e coraggiosa. Sono questi i presupposti che hanno fatto comparire il nome di Anderson nell’ambito della teoria della New Sincerity, la risposta al predominio dell’ironia postmoderna preconizzata nel 1990 da David Foster Wallace, in campo letterario, col suo saggio E Unibus Pluram: Gli scrittori americani e la televisione:

I veri futuri ribelli letterari in questo paese potrebbero benissimo emergere come uno strano gruppo di antiribelli, guardoni nati che osano in qualche modo rifiutare il ruolo di spettatori ironici, e che abbiano l’infantile faccia tosta di essere sostenitori e rappresentanti di una serie di principi privi di doppi sensi. [11]

La New Sincerity applicata alla critica cinematografica è stata teorizzata per la prima volta da Jim Collins nel 1993 in Genericity in the 90s: Eclectic Irony and the New Sincerity per descrivere il tentativo di alcune opere, pur differenti tra loro (da Balla coi lupi di Kevin Costner [Dances with the Wolves, 1990] a Hook. Capitan Uncino di Steven Spielberg [Hook, 1991]) di ritornare a una sorta di purezza del mezzo cinematografico, contrapposta all’ironia e all’ibridazione, ed è Mark Olsen, dopo l’uscita di Rushmore, a inserire Wes Anderson nella (contro)tendenza: A differenza di molti sceneggiatori/registi della sua generazione, Wes Anderson non vede i suoi personaggi da un distante Olimpo di ironia. Resta al loro fianco, o meglio, appena dietro di loro, incoraggiandoli mentre inseguono versioni in miniatura del Sogno americano. I personaggi che abitano l’universo cinematografico di Anderson […] potrebbero essere etichettati come perdenti, o perfino […] fannulloni, in realtà sono ambiziosi. [12]

La New Sincerity non ha mai assunto i contorni di un concreto e organico movimento culturale, né d’altra parte è facile ascrivere Anderson a qualsivoglia corrente, proprio per il suo desiderio e la sua capacità di rendere riconoscibile e peculiare il proprio linguaggio; tuttavia i suoi eroi creatori di fiction sembrano esprimere continuamente la loro necessità di dare vita a una finzione pura di cuore e per questo meritevole di attenzione e apprezzamento. Quasi una dichiarazione d’intenti, messa in bocca ai suoi personaggi, che in Un colpo da dilettanti si esplicita nelle parole di Anthony riguardo a Dignan: «Di’ pure quello che vuoi di lui, ma non è un cinico ed è uno che non molla». È lo stesso Owen Wilson, nel pressbook del film, a esplicitare la diretta relazione fra gli autori del film e i suoi protagonisti: «La nostra generazione è

sempre rappresentata come cinica, ma a noi non interessava questo aspetto: i nostri personaggi sono innocenti e ingenui e la cosa importante è che hanno molto entusiasmo, impegno e vitalità, seppure male indirizzata».[13] E al coro si aggiunge la voce di Martin Scorsese, nella celebre lettera pubblicata su «Esquire» nel 2000, dopo la visione del film, in cui indica Anderson come suo erede. Il grande regista newyorkese non si sofferma sui movimenti di macchina e sull’uso della colonna sonora che sembra strizzare l’occhio al suo cinema, ma sulla sorprendente qualità emotiva dell’opera: «Il film mi ha davvero sorpreso. Non c’era una traccia di cinismo, era scaturito ovviamente dall’affetto del regista per i suoi personaggi in particolare e per le persone in generale. Una rarità».[14] Tramite il suo primo lungometraggio, Anderson (insieme a Wilson) lancia la sua sfida e usa la voce dei suoi stessi protagonisti per legittimare la sua operazione: quella di una narrazione autentica e sincera, una fiction autonoma che non affonda il dito nella piaga della morte della narrativa moderna, ma soffia sulla sua fiamma con fiducia e passione.

[1]

Browning M., Wes Anderson. Why His Movies Matter, Praeger, Santa Barbara, 2011, p. 5 [2]

Gooch J., Making A Go of It: Paternity and Prohibition in the Films of Wes Anderson, in «Cinema Journal», vol. 47, n. 1, autunno 2007 [3]

Pressbook di Un colpo da dilettanti.

[4]

Hancock B. M., A Community of Characters. The Narrative Self in the Films of Wes Anderson, in «The Journal of Religion and Film», vol. 9, n. 2, ottobre 2005 [5]

Browning M., op. cit., p. 15.

[6]

Gosnell P., Can Wes Anderson’s Archer-y Skills Hit the Bullseye?, 19 ottobre 2013, www.littlegoosefeet.wordpress.com/2013/10/19/can-wes-andersons-archer-yskills-hit-the-bullseye. [7]

Miller N., The Life Melodic, in «Entertainment Weekly», n. 798, 24 dicembre 2004, p. 42

[8]

Pressbook di Un colpo da dilettanti.

[9]

Chabon M., Introduzione a The Wes Anderson Collection, Abrams, New York, 2013, p. 23. [10]

AA.VV., New American Indie, in «Nocturno Dossier», n. 48, 2005

[11]

Wallace D. F., Tennis, tv, trigonometria, tornado, Minimum Fax, Roma, 1999, pp. 103-104 [12]

Olsen M., If I Can Dream: The Everlasting Boyhoods of Wes Anderson, in «Film Comment», Gennaio/Febbraio 1999. [13] [14]

Pressbook di Un colpo da dilettanti.

Scorsese M., Wes Anderson, www.esquire.com/features/wes-anderson.

in

Esquire,



marzo

2000,

4. Fuga dall’acquario Rushmore (1998)

Mentre Dignan si avviava suo malgrado dietro le sbarre della prigione, restando fiero della sua impresa, l’eroe quindicenne dell’opera seconda di Anderson, Max Fischer, si sceglie una gabbia dorata, altrettanto fiero di potersi rinchiudere, ogni giorno, dietro i cancelli della scuola privata che per lui è una missione di vita. Dopo essersi presi la rivincita di girare alcune scene di Un colpo da dilettanti nell’istituto da cui Owen Wilson era stato espulso a 15 anni (la Saint Marks High School di Austin), Anderson e il suo sodale sono pronti a esorcizzare quel ricordo portando finalmente sul grande schermo il primo progetto a cui hanno lavorato insieme, una sceneggiatura che precede l’ideazione di Bottle Rocket. Max Fischer ha 15 anni e una sincera devozione per la sua scuola privata, la Rushmore Academy. Nonostante i suoi voti lo rendano uno tra i peggiori studenti di sempre, il ragazzo è la mente e il cuore di una miriade di attività extracurricolari, tra cui la scrittura e la messa in scena di ambiziose pièce teatrali. Un appunto scarabocchiato su un libro della biblioteca scolastica lo conduce a Miss Cross, insegnante di prima elementare alla Rushmore e prematuramente vedova. Tra i due nasce un’amicizia che Max confonde per qualcosa di più. Per amore di Miss Cross si imbarca nella costruzione di un enorme acquario, supportato dal magnate dell’acciaio Harold Blume, ma la situazione gli sfugge di mano, viene espulso dalla Rushmore ed è costretto a frequentare la scuola pubblica. Fra Blume e Miss Cross, intanto, nasce un sentimento che, una volta scoperto, scatena l’ira di Max e innesca una parossistica gara di sciocca virilità fra l’uomo e il ragazzino che costa a Miss Cross il posto di lavoro. Solo dopo

una lunga serie di confronti e chiarimenti, Max sembra scendere a patti con la sua realtà di adolescente, scrive una nuova, esplosiva commedia per la scuola pubblica e invita ad assistere Blume e Miss Cross: il legame fra i tre si è trasformato in qualcosa di più maturo e complesso.

4.1 Max Fischer c’est nous Le proiezioni test di Un colpo da dilettanti erano state disastrose, con risultati talmente negativi da persuadere la Columbia Pictures a una distribuzione limitatissima nelle sale americane (successivamente e parzialmente riscattata dagli esiti del mercato home video). Inoltre, l’opera non era stata selezionata da alcun festival, nemmeno dal Sundance: un vero smacco, considerando che proprio il festival di Salt Lake City aveva preso Anderson e Wilson sotto la sua ala facendoli partecipare al laboratorio di regia dopo la presentazione del corto Bottle Rocket. Il conseguente flop al botteghino è ampiamente prevedibile e tecnicamente inevitabile: solo mezzo milione di dollari racimolato a fronte di un budget, di per sé decisamente basso, di sette milioni. Le premesse non sono le migliori per il futuro commerciale dei giovani Anderson e Wilson. Tuttavia la loro voce squillante e fuori dal coro si fa notare dalla critica e lo sfortunato Colpo diventa un biglietto da visita rilevante per il regista. Insieme a Owen Wilson ripesca un soggetto cronologicamente antecedente all’idea di Bottle Rocket, ma che, a differenza di quello, non poteva essere interpretato dai due con amici e conoscenti, perché imperniato su un personaggio quindicenne. Lo script del tanto a lungo covato “film sulla scuola” scava nei loro vissuti di adolescenti, attingendo a cuore aperto a quello artistico e ambizioso del giovane allestitore di commedie scolastiche Wes e a quello dello scapestrato studente espulso dalla scuola privata Owen. Così, di nuovo a quattro mani con quello che è stato forse il suo più affiatato partner di scrittura, Anderson compone un inno ironico, disperato e nostalgico a un’età della vita cui tutti i suoi protagonisti sono dolorosamente e spesso tragicamente legati, pur essendone anagraficamente lontani. Un inno che ha, nel suo mix di commedia sofisticata e romanzo di formazione, una genuinità dirompente: Max Fischer, lo studente mediocre e il geniale inventore di attività

extracurricolari, è, a tutti gli effetti, una miscela dei tratti che contraddistinguevano sia Wes sia l’amico Owen durante gli studi. Se è stato Wilson a farsi espellere per cattiva condotta dalla St. Mark’s di Dallas, anche Anderson riconosce di non essere mai stato uno scolaro eccellente, ma è soprattutto la sua precoce passione per la creazione di spettacoli teatrali a essere trasferita nel DNA di Max, con l’annesso egocentrismo da autore/regista/interprete, come racconta Anderson stesso: I miei genitori stavano divorziando mentre ero in quarta elementare. Non stavo reagendo molto bene e creavo problemi. Un’insegnante fece un patto con me: se mi fossi comportato bene e non avessi avuto guai disciplinari, ogni due settimane avrei potuto allestire una commedia – lei sapeva che mi piaceva scrivere commedie. Così per anni abbiamo messo in scena questi spettacoli, molto influenzati da film e serie tv. Ne facemmo uno intitolatoThe Five Mazeratis ambientato sull’Autobahn. E un altro sulla battaglia di Alamo dove io interpretavo Davy Crockett. E poi King Kong, un sacco di thriller e un vago adattamento di Il cavaliere senza testa dove il cavaliere era l’eroe. Tenevo sempre per me le parti migliori. Era probabilmente proprio questo il motivo per cui scrivevo le commedie.[1]

Una volta ultimata, la sceneggiatura di Rushmore viene messa all’asta da Anderson, Wilson e dal produttore Barry Mendel: quattro studios si fanno avanti con un’offerta ed è la Touchstone Pictures a conquistare lo script, grazie al coinvolgimento dell’allora presidente della Disney Joe Roth, un grande fan di Un colpo da dilettanti. Le riprese del film si svolgono in gran parte nella ex scuola di Wes, la St. John’s di Houston: poco è cambiato nei due lustri trascorsi da quando Anderson si è diplomato[2] e i set dell’istituto mantengono invariato il loro aspetto (anche la divisa, eccetto la giacca personalizzata di Max, è quella autentica dell’istituto). La temutissima scuola pubblica dove Max si ritrova dopo l’espulsione è invece ricostruita nella Lamar High School, frequentata per breve tempo dal padre del regista. A completare il solito “affare di famiglia” in stile Anderson, sul set c’è anche il fratello minore Eric, che gira un documentario sul making of di Rushmore e recita durante la scena degli scavi dell’acquario in un piccolo cameo, il primo di una lunga serie che culmina con il ruolo da protagonista (vocale) di Kristofferson in Fantastic Mr. Fox.

Anderson desidera a tutti i costi che nei panni di Herman Blume ci sia Bill Murray. Ottiene così di fargli leggere il copione: l’attore rimane talmente conquistato che accetta pur non avendo nemmeno visto Un colpo da dilettanti (e Anderson è convinto non lo abbia visto neppure in seguito). Tra Anderson e Murray scatta il tipo di chimica che dà il via a un legame, artistico e amicale, fruttuoso nel corso degli anni: se per Wes Rushmore è il primo vero trampolino di lancio, per la star di Ghostbusters. Acchiappafantasmi (Ghost Busters, Ivan Reitman, 1984) e Ricomincio da capo (Groundhog Day, Harold Ramis, 1993) costituisce un importante riscatto dopo alcuni anni di carriera offuscata. Una scommessa vincente, se si considera che Murray accetta di lavorare “pro bono” per la cifra non hollywoodiana di circa 9.000 dollari. In una divertente sovrapposizione con il suo personaggio, che stacca un po’ incoscientemente un assegno cospicuo per Max Fischer, Murray stesso, per aiutare Anderson a sopperire a un budget limitato, si ritrova a finanziare il noleggio di un elicottero per una scena che poi non viene girata: l’assegno elargito è di 25 mila dollari, quasi tre volte il suo compenso per il ruolo di Blume. Sono 1.800 i ragazzi che partecipano ai provini per trovare il Max Fischer perfetto. Tra di loro viene scelto il diciassettenne Jason Schwartzman, all’epoca batterista dei Phantom Planet e alla sua prima esperienza in assoluto davanti a una macchina da presa. Il ragazzo si presenta alle audizioni vestito da Max di tutto punto, blazer della Rushmore compreso, con tanto di toppa personalizzata. Con l’arrivo di Schwartzman, destinato a divenire uno dei volti più amati della scena cinematografica indie a stelle e strisce, nella factory andersoniana si creano i presupposti per la speculare entrata di Anderson nel “clan” Coppola: Schwartzman è il figlio di Talia Shire, dunque il nipote di Francis Ford Coppola, e suo zio Roman diventerà nel decennio successivo uno dei partner di sceneggiatura favoriti di Anderson. Bill Murray stesso gioverà della “fusione” diventando protagonista di Lost in Translation. L’amore tradotto (Lost in Translation, 2003) di Sofia Coppola.

4.2 Laureati e noccioline Se i diretti genitori, o meglio fratelli di sangue, di Max Fischer sono Wes e Owen, il protagonista di Rushmore ha però una serie di prozii, cugini e parenti stretti, scaturiti tanto dalle pagine lette e consumate da Anderson quanto dalle sue visioni cinematografiche. Un antenato di Max è certamente il suo cocciuto coetaneo Basil Duke Lee, protagonista del racconto giovanile di Francis Scott Fitzgerald L’ombra catturata (1935), a sua volta basato su un’esperienza autobiografica adolescenziale del grande scrittore americano. L’ambizioso Basil a 15 anni scrive e allestisce una pièce teatrale piuttosto complessa, condivide con Max lo studio del francese (ha un quaderno con le coniugazioni dei verbi elegantemente intestato con il nome della scuola, proprio come l’annuario di Max) e la presenza di un genitore (in questo caso la madre) premuroso e paziente, che tenta di confortarlo e tenerlo coi piedi per terra. Come Max, Basil nel corso delle poche pagine del racconto deve affrontare la difficile discrepanza fra realtà e afflati sia artistici sia romantici; per entrambi la vicenda si conclude con il momento catartico della messa in scena della commedia, che ha successo ma li lascia svuotati e malinconici. Come già sugli anti-eroi di Un colpo da dilettanti, qui l’ombra di Benjamin Braddock si allunga su Max, che del protagonista di Il laureato potrebbe essere una versione più giovane, ancora liceale, meno indecisa, ma già alle prese con problematiche simili. Entrambi si ritrovano, infatti, al centro di un triangolo che comprende una donna più matura – anche se, più che la maestra acqua e sapone Miss Cross, un ironico riferimento alla signora Robinson è incarnato dalla provocante Mrs. Calloway (Connie Nielsen), la madre di Dirk (il giovane compagno di scuola e solo amico di Max), che si presenta a scuola su una decapottabile rossa e suscita i pettegolezzi sconci degli studenti della Rushmore circa la sua disponibilità ad appartarsi con i ragazzi. Come sempre in Anderson, però, il sesso è parlato e non agito: Max si trattiene in auto con la donna e le lascia il suo biglietto da visita; in seguito inventa un flirt con la

signora Calloway solo per reagire alle molestie dei bulli, ma non ne è mai realmente sedotto. La suddivisione netta in atti, cadenzati dallo scandire dei mesi in sovrimpressione sul sipario, ricorda il passare delle stagioni del film di Nichols, che Anderson avrebbe voluto emulare anche nella scelta di affidare l’intera colonna sonora a un singolo gruppo musicale. Nel suo caso, al posto di Simon & Garfunkel, i britannici The Kinks, tra i favoriti in assoluto del regista. E se la colonna sonora si è poi trasformata in una playlist di band della “British Invasion”, i The Kinks sono presenti proprio in una delle sequenze più direttamente legate a Il laureato, quella della festa in piscina a casa Blume: Nothin’ In This World Can Stop Me Worryin’ ‘Bout That Girl è il pezzo che accompagna il desolato Herman Blume nella sua ascesa al trampolino, con sigaretta e bicchiere di whiskey, e nel suo sgraziato tuffo a bomba nella piscina. Blume, afflitto e indolente, lancia palline da ping pong nell’acqua e uno sguardo alla moglie, impegnata a flirtare palesemente con un uomo più giovane, poi si esibisce nel tuffo sprofondando nell’acqua, raccolto su se stesso, letteralmente alla deriva. In piena regressione dal suo indesiderato status di uomo adulto, sembra rinnegarlo per tornare a uno stadio infantile, galleggiante nel liquido amniotico che, come detto, sospende l’età anagrafica di molte creature andersoniane. Secondo Matt Zoller Seitz, la sequenza potrebbe addirittura essere letta come una versione della festa in piscina di Il laureato da un punto di vista differente: qui vediamo i fatti con gli occhi del “Mr. Robinson” di turno, il marito tradito, che tuttavia finisce per incagliarsi in piscina esattamente come accadeva al giovane Ben in versione palombaro.[3] E proprio come nel film di Mike Nichols, la presenza dell’acqua si articola sul parallelo fra la piscina e l’acquario. In Il laureato Ben si ritrovava a peso morto sul fondo, una volta indossato lo scafandro, diventando una versione a grandezza naturale del piccolo pupazzo di palombaro immerso nell’acquario della sua camera da letto. Anche in Rushmore Max e Blume finiscono metaforicamente arenati in un acquario, quello progettato e (quasi) edificato per amore di Miss Cross, appassionata di fauna ittica. L’immagine è evocata con anticipo dalla scena in cui Max aiuta la maestra a nutrire i

pesciolini nelle vasche che tiene in classe: inquadrate attraverso il vetro, le loro teste sbucano dal bordo dei contenitori come se Max fosse, letteralmente, un pesce fuor d’acqua. L’immagine suggerisce che stia giocando a un gioco che non gli compete, fingendosi più adulto di quello che è, in modo opposto e speculare a quanto accadeva poco prima a Blume nella piscina, in cerca di una regressione allo stato fetale. Un parente non lontano di Max, già a partire dall’affettata eleganza nel vestire, è Harold di Harold e Maude, film che ha avuto una grande influenza sul cinema di Anderson (il quale gli renderà omaggio esplicitamente inserendo il protagonista Bud Cort nel cast di Le avventure acquatiche di Steve Zissou): entrambi i ragazzi sono studenti scarsi e hanno estreme difficoltà a relazionarsi con i coetanei; condividono hobby inusuali e l’amore per la messa in scena (anche se Max non ha il gusto del macabro di Harold); si innamorano di una donna più grande (pur essendo Miss Cross ben più giovane dell’ottantenne Maude). Come Il laureato, anche il film di Ashby è caratterizzato da una colonna sonora mono-autoriale, integralmente a opera di Cat Stevens, che in Rushmore è titolare di ben due brani, Here Comes My Baby e The Wind, entrambi legati a momenti emotivamente significativi per Max. Accanto al ricordo di Truffaut e del suo I 400 colpi tanto amato da Anderson – una volta iniziata la sua rivalità amorosa con Blume, Max ne combina letteralmente “una più del diavolo”, come Antoine Doinel; una citazione esplicita si trova poi, similmente a quella di Un colpo da dilettanti, nell’immagine di Dirk che guarda Max attraverso la rete mentre viene arrestato – la ribellione di Max si accosta ironicamente a un altro autore francese amato dal regista texano: Louis Malle con il suo Il soffio al cuore (Le souffle au coeur, 1971). Max ripercorre i passi del coetaneo Laurent, che fuma e mette in atto bravate gratuite. Anche in questo caso, però, l’eroe di Anderson non è in grado di esperire niente di ciò che invece vive Laurent, che arriva a consumare un rapporto incestuoso con la madre. La ribellione di Max è

un’escalation di gesti plateali, eccessivi e poco ancorati alla vita reale. Condividono invece la sua fantasia esagitata e perniciosa le protagoniste di La vita privata di Henry Orient (The World of Henry Orient, George Roy Hill, 1964): le due tredicenni protagoniste, precoci e impertinenti, si prendono una cotta per un pianista molto più maturo di loro. Gli rovinano la vita, inconsapevolmente e gioiosamente, ficcando il naso nei suoi affari privati e nelle sue relazioni adulterine, come accade a Max con Miss Cross, e soprattutto con Blume. L’impassibile, tragicomica maschera di Peter Sellers è qui evocata dalla malinconica faccia di bronzo di Bill Murray, ma il paragone fra Orient e Blume va oltre: entrambi sono, in fondo, adulti più immaturi degli adolescenti che li circondano e che provocano loro tanti disturbi. Proprio dal confronto con i “piccoli” emerge la loro incapacità di comportarsi da “grandi” e di far fronte alle prove della vita. Max agisce non sulla base delle esperienze di vita vissuta, ma di una serie di prodotti audiovisivi ingurgitati in giovane età, per questo tenta di replicare nella sua quotidianità situazioni cinematografiche: per questo Rushmore è disseminato di micro citazioni ironiche di Heat. La sfida (Heat, Michael Mann, 1995), come le maschere da hockey indossate dagli studenti e la scena grottesca in cui Max ordina un certo quantitativo di dinamite, ricalcata sulla medesima scena con protagonista Val Kilmer. Ma i parenti più stretti di Max, Herman, Dirk e Miss Cross sono usciti dalle vignette dei Peanuts. È Anderson stesso a sottolineare l’influenza delle strisce di Charles M. Schulz sull’opera, quando evidenzia le similitudini fra l’universo del fumetto e quelli di Un colpo da dilettanti e Rushmore: [Quello dei Peanuts] è una sorta di mondo racchiuso: non si vedono mai i genitori. È come una realtà parallela. […] Il campo dove giocano, il posto dove Lucy fa la psicologa, sono solo alcuni posti, ma non c’è una città, niente. Non c’è un mondo fuori. Ed è il tipo di cosa che abbiamo provato a fare con questi due film, realizzarli in una specie di mondo raccolto e autocontenuto.[4]

In questo universo racchiuso in vignette non solo il mondo esterno non può entrare ma, esattamente come nei Peanuts, ogni luogo è mostrato sempre dallo stesso punto di vista, inalterato e inconoscibile da altre angolazioni. Così è per il “muretto dei pensieri” di Charlie e Linus, o per la cuccia di Snoopy, sempre ritratti dalla medesima prospettiva; così pure per il posto di lavoro di Herman Blume o per lo studio del preside Guggenheim, ritratti da Wes Anderson, in momenti diversi del film, con inquadrature assimilabili che non esplorano altri angoli della visuale, ma limitano il campo visivo a quello inquadrato, ovvero alla “vignetta”. Come riferisce il piccolo Mason Gamble nel pressbook, è stato Anderson a suggerirgli di vedere Un Natale da Charlie Brown (A Charlie Brown Christmas, Bill Melendez, 1965) e a dirgli, dopo la visione: «Ok: tu sei Linus» per rendergli più chiaro il rapporto fra Dirk e Max.[5] Il corto, un episodio speciale della serie animata dedicata negli anni Sessanta alle creature di Schulz, è uno dei favoriti dell’infanzia di Anderson, che lo cita esplicitamente anche nel look invernale di Max, con l’anacronistico cappello da cacciatore che copre le orecchie (non casualmente, lo stesso modello indossato da Holden Caulfield in Il giovane Holden). Dei Peanuts i protagonisti condividono la rigidità della divisa, ovvero la scelta di un abbigliamento invariabile, come il maglione a righe di Charlie Brown o l’abito con il fiocco di Lucy Van Pelt, e rassicurante come la coperta di Linus. Per Max è l’immancabile uniforme della Rushmore (di tanto in tanto accompagnata dal basco rosso) da cui non si separa mai se non per segnare un vero cambiamento nella sua esistenza. In modo più sottile e socialmente accettabile, il discorso vale anche per Herman Blume: per tutta la durata del film, il mentore e rivale di Max indossa il medesimo completo gessato, variando soltanto il colore di camicia e cravatta (sempre cromaticamente abbinate). Anderson ha definito Max Fischer un incrocio fra Charlie Brown e Snoopy, paragone che Zoller Seitz estende a Miss Cross, possibile mix di Miss Othmar (l’invisibile ma gentile insegnante elementare di Charlie) e l’amatissima Ragazzina

dai capelli rossi.[6] Con Charlie, Max condivide la natura solitaria e poco popolare, oltre a una maturità precoce e a un padre barbiere (l’attore Seymour Cassel, che interpreta il papà di Max, è truccato e pettinato in modo da somigliare a Schulz medesimo). Di Snoopy ha la capacità di sognare a occhi aperti fino a costruire realtà parallele. Come il bracchetto dai mille talenti, Max batte a macchina, pratica gli sport più disparati e costruisce fantasie elaborate in cui si finge qualcosa che non è (e se per Snoopy si tratta di un alter ego aviatore, Max si accontenta di essere un genio della matematica). Soprattutto, come lui Max è un vero Walter Mitty, un instancabile creatore di finzioni.

4.3 Rushmore, una nuova pièce di Max Fischer Nella variegata e popolosa galleria di sognatori e creatori di finzione andersoniani, Max occupa un posto speciale: la cocciutaggine nell’edificare piani e progetti che tentano di plasmare la realtà sulla forma dei suoi desideri è, infatti, la più acuta e dolente. E non potrebbe essere altrimenti, vista l’età: Max, adolescente in piena pubertà, non è più un bambino e non ancora un bambino-nel-corpo-di-un-adulto come erano Dignan e Anthony. Non si tratta di un giovane uomo che, dopo aver saggiato la realtà, la rinnega arbitrariamente in favore della fantasia, bensì di un individuo in crescita, la cui percezione del mondo deve ancora formarsi pienamente: il fatto che stia attraversando questa fase di passaggio rende sottilmente più tragica la natura illusoria del suo essere autore di narrazioni. L’età peculiare del protagonista, da Anderson non più affrontata fino al coetaneo Zero di Grand Budapest Hotel, fa di Rushmore uno dei più riusciti amalgami di dramma e commedia nella filmografia del regista texano. Il film si apre con un sipario chiuso, davanti al quale fa mostra di sé il triste ritratto di Herman Blume e famiglia. La tendenza di Max ad alienarsi dal mondo reale per vivere di creative bugie è dichiarata subito dopo l’apertura del sipario: il ragazzo, addormentato in aula magna, sogna di essere un geniale studente di matematica, al punto da risolvere un’equazione impossibile, conquistando così stima e affetto da parte del docente e dei compagni… Prima di risvegliarsi accanto al suo (unico) amico Dirk durante l’orazione di Herman Blume, rivelando la natura puramente onirica della sua gloria. Segue l’esposizione delle diverse attività extracurriculari in cui Max si cimenta. L’elenco dei suoi molteplici e spesso millantati talenti è raccontato tramite l’espediente dell’annuario, in cui il ragazzo si presenta in pose baldanzose e arroganti, completate da didascalie che lo identificano come fondatore e direttore di una miriade di club.

Autore in erba appassionato di drammaturgia e regia teatrale, è anche giornalista (come Jane Winslett-Richardson di Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Mr. Fox) e studioso di calligrafia (le sue passioni, insomma, tendono tutte a voler ridisegnare il mondo). Desideroso di rappresentarsi come un personaggio più distinto ed elegante di quanto non sia davvero, Max è l’unico tra i personaggi di Anderson a scrivere in grazioso corsivo (gli altri, più o meno adulti, sono infatti contraddistinti da una grafia sgraziata e infantile, molto simile a quella del regista). La sua predilezione per i mestieri creativi e la vicinanza alla sequenza onirica di questa serie di “foto in movimento” suggeriscono la forte soggettività e parzialità del corposo curriculum vitae illustrato di Max, montato per rispondere al desiderio del ragazzo di esibire le sue presunte abilità nella forma più appariscente ed egocentrica possibile. Costruendo in questo modo l’incipit, Anderson segnala che l’opera nasce dallo sguardo di un personaggio, legittimando così la sua narrazione a partire da quella creata da una figura immaginaria. L’incapacità di Max di conoscere il mondo, la mancanza di aderenza alla realtà di quanto accade, e di conseguenza la sua scelta di vivere in una narrativa alternativa di cui lui è eroe glorioso, costituiscono la base del film, al punto che l’intero Rushmore potrebbe essere nient’altro che la messa in scena di un suo copione. Il regista sovrappone il suo sguardo a quello del protagonista/autore, si fa portavoce e adattatore di un suo inesistente materiale autografo. Così, Rushmore diventa il primo capitolo di una trilogia di finte trasposizioni in cui Anderson mette la sua macchina da presa al servizio delle fiction partorite dai suoi protagonisti: alla pièce di Max Fischer seguiranno il romanzo fittizio, forse autobiografico, di uno dei Tenenbaum (da cui I Tenenbaum sarebbe tratto) e i documentari sperimentali e artistici del regista ed esploratore Steve Zissou. La passione per il teatro è, tra tutte, quella che più assorbe Max, apparentemente fin dall’infanzia com’è il caso di Wes Anderson. Dal dialogo con il preside Guggenheim si apprende che il ragazzo, proveniente da una famiglia molto più modesta di quelle dei suoi compagni, è stato ammesso alla Rushmore in seconda elementare grazie a una borsa di studio vinta

scrivendo «un atto unico sul Watergate». Max non è solo autore, ma anche agguerrito regista delle sue stesse opere: compiutamente alter ego di Anderson, è al contempo sceneggiatore e direttore d’attori, attività che lo esalta perché gli permette di avere il controllo totale su un mondo creato per intero da lui – risultato ben più complicato da ottenere nella vita vera. Non appena uno dei suoi giovani interpreti salta una riga di copione della rivisitazione di Serpico (Id., Sidney Lumet, 1973), la sua reazione è quella di un feroce demiurgo: «Non dire “non importa”, ogni battuta è importante! Non stravolgere la mia opera!» (il doppiaggio italiano del film opera una costante edulcorazione delle volgarità pronunciate dai protagonisti: nella versione originale la richiesta di Max è «Don’t fuck with my play!»). Con la stessa pervicacia furiosa, Max non può accettare che le cose non vadano come lui ha programmato anche al di fuori del palcoscenico; così è per l’amore non corrisposto di Miss Cross, per il tradimento di Blume, per l’espulsione dalla Rushmore. Per lui, d’altronde, non c’è confine tra l’allestimento di un’opera e la vita di tutti i giorni: sono tante piccole messe in scena quelle che affronta, come dimostrano le sequenze del corteggiamento di Miss Cross. Durante il primo approccio, Max entra ed esce dal lato dell’inquadratura come dalle quinte di un teatro, accende la sigaretta per l’insegnante, poi si ricompone in una posa innaturale, in profondità di campo, col baschetto da intellettuale francese, un voluminoso tomo tra le mani (si tratta di The Powers That Be di David Halberstam, saggio sui media americani), come un attore in attesa del suo attacco per la battuta. Quando riesce ad attirare l’attenzione di Miss Cross imbastendo una conversazione, prosegue nella messinscena costruendosi l’alter ego di studente colto e preparato, che alla pur prestigiosa Università di Harvard preferirebbe quelle di Oxford o la Sorbona. Se sul latino la sua preparazione scricchiola, si riprende rapidamente sfoderando una citazione: «Sic transit gloria» – scopriremo più tardi che sulla lapide di sua madre è incisa una citazione a tema («The paths of glory lead but to the grave»), per cui è forse questo il momento in cui inconsciamente nel ragazzo scatta un’associazione fra Miss Cross e la mamma perduta – e

spostandosi in primo piano, su un ideale proscenio, si presenta ufficialmente. Lo stesso impianto si replica nella sequenza in cui Max esaudisce ogni esigenza di Miss Cross prima che lei se ne renda conto (riempiendole il bicchiere, allungandole una nuova penna), sempre sbucando dai margini dell’inquadratura e poi tornando alla sua postazione, fedele alla regia di una commedia già scritta nella sua testa. Quando Miss Cross, prevedibilmente, fa notare che non possono avere una relazione, Max affetta un «C’est la vie». Un tratto che accomuna molti eroi andersoniani è l’utilizzo a sproposito del francese, lingua privilegiata per darsi un contegno in situazioni di svantaggio e costruire di sé un’immagine sofisticata. Max è affascinato da lingua e cultura francesi (già nell’incipit scarabocchia sul quaderno piccole torri Eiffel), dall’esotismo europeo (tratto ereditato direttamente da Anderson) e forse anche la nazionalità inglese di Miss Cross (annullata dal doppiaggio italiano) incide sulla sua infatuazione. Recita la parte di un tragico esiliato in qualche luogo sconosciuto del mondo quando le parla della sua nuova vita alla scuola pubblica («Mi mancano le stagioni, vedere le foglie cadere»). È anche più elaborata l’ultima micro-commedia imbastita per la donna, quando Max si intrufola direttamente in casa di lei fingendosi ferito: sangue finto, colonna sonora scelta ad hoc (francese, ovviamente: Rue St. Vincent cantata da Yves Montand) e appositamente registrata su musicassetta, infine un sipario tirato, quello delle tendine della stanza, quando la scena è amaramente conclusa. Con Blume non si comporta in modo diverso: mente sul mestiere del padre, spacciato per neurochirurgo, e si adopera per dare di sé un’idea vincente, perfino mentre viene distrutto in un incontro di lotta greco-romana. Tenta di mantenere il controllo e di somigliare all’immagine che ha creato di se stesso: perché di immagini si tratta, quelle di cui si è nutrito Max e che cerca di riproporre. Così il lungo elenco delle attività mostrate nel montaggio iniziale è l’insieme delle rappresentazioni che Max ha di sé: mentre guida la squadra di dibattito, fa scherma, dirige il coro, e via elencando. Lui si

vede così, spavaldo, al centro dell’inquadratura, circondato di figuranti vestiti tutti uguali, e così lo vede lo spettatore. Si possono leggere in questo senso anche le sequenze che attingono a piene mani da cliché del cinema di genere: quella in cui Max esce dall’ascensore dell’albergo di Blume, come fosse un sicario dopo un colpo andato a segno, con aria da duro e togliendosi di bocca una gomma da masticare in un ralenti esasperato, mentre in sottofondo suona A Quick One While He’s Away degli Who, sembra la parodia dei gangster movie dell’amato Scorsese. Ma, ancora una volta, si tratta piuttosto della raffigurazione che Max vuole fare di se stesso, della narrazione allestita attraverso la cultura cinematografica di cui è imbevuto e che ha formato il suo modo di guardare la sua vita. Non è una parodia rivolta agli spettatori in cerca di citazioni, ma la sincera illusione di Max di poter vivere come nei film, o nelle pièce teatrali, che ha visto. Una sincerità cui, come sempre, Anderson aderisce con entusiasmo non esente da ironia. Come evidenzia anche Browning, in un certo senso, Anderson sottolinea come le illusioni dei suoi personaggi derivino precisamente da tali rappresentazioni cinematografiche dei tipi duri (vediamo Max realizzare la sua versione spudoratamente derivativa diSerpico e più tardi una velata riproposizione di Apocalypse Now [Id., Francis Ford Coppola, 1978]).[7]

Una volta trapiantato suo malgrado nella scuola pubblica, Max non smette di indossare la divisa della Rushmore (e quindi di ignorare la realtà) e si aggrappa alle sue abitudini e ai suoi standard elevati. La scuola è ironicamente dipinta come la vedono i suoi occhi: monocroma e disordinata, pare una prigione, come testimonia la telefonata a Blume, che sembra quella di un carcerato con i minuti contati dal secondino. In palestra si allena bardato da scherma, esclama «En garde!» con convinzione, fino a che irrompono i più “proletari” giocatori di basket a guastargli la messinscena. A Max comincia a sfuggire il controllo sulla sua costante regia della vita. Ma ciò che, inesorabilmente, è destinato a sfuggire alla sua narrazione è la morte. Per i piccoli autori di mondi di Wes

Anderson la mortalità è il vero problema, in quanto ineludibile e irreversibile: la filmografia del regista è costellata di immagini di morte, sempre contenenti una gravitas e una serietà nell’approccio dei personaggi all’accaduto che non si riscontrano in altre situazioni. Max è orfano di madre, dettaglio che non manca di utilizzare per stabilire un contatto con la vedova Miss Cross: per entrambi la loro relazione bislacca e sbilanciata ha molto a che vedere con il rimpiazzo di una persona cara venuta a mancare. Se per tutta la prima metà della filmografia andersoniana (fino a Le avventure acquatiche di Steve Zissou) la morte resta fuori campo, mai mostrata esplicitamente, Rushmore è la prima opera a dimostrare l’importanza del tema per i suoi personaggi: creare narrativa – nel caso di Max, creare pièce teatrali – è certamente un atto di sfida alla mortalità, per generare qualcosa destinato a vivere in eterno. Ma si muovono nella stessa direzione anche la scrittura della vita e il progetto di conquistare Miss Cross: secondo Joshua Gooch, è evidente la natura edipica del conflitto di Max, che riversa il suo desiderio su Miss Cross in quanto figura materna sostitutiva della madre defunta. La Rushmore come istituto che forma e accoglie, l’insegnante/amante Miss Cross e la mamma morta si fondono in un unico oggetto del desiderio. E si sostanziano infine in un singolo simulacro che sostituisce la madre: la macchina da scrivere. Feticcio per eccellenza, porta impressa la dedica materna («Bravo, Max. Love Mom») ed è il tramite per ritrovare un contatto con la genitrice scomparsa, come suggerisce anche l’inquadratura che vede Max battere a macchina in giardino, ai confini del cimitero dove la madre è sepolta.[8] Max non è tecnicamente un enfant prodige come lo saranno i bimbi Tenenbaum, in quanto il suo talento è scarsamente riconosciuto dal resto del mondo; ma certamente non è un adolescente medio. Il suo rapporto con un “fantasista” decaduto come Blume (uomo che potrebbe, da giovane, essere stato molto simile a Max) ricorda il legame fra il professor Grady e il giovane narratore prodigio James in Wonder Boys di Michael Chabon, autore con cui Anderson ha più di un’affinità elettiva (il romanzo, datato 1995, sarà successivamente portato al cinema da Curtis Hanson nel 2000). Il tema del ragazzo prodigio è suggerito da Anderson anche tramite il riferimento

al fotografo francese Jacques-Henri Lartigue: nella prima sequenza onirica, alle spalle di Max sono visibili alcuni scatti dell’autore (autentico enfant prodige che scattò le sue prime foto a 7 anni), tra cui anche la celebre Bobsled with wheels, after the bend by the gate, Rouzat, August 1908, che ritrae il fratello di Lartigue, soprannominato Zissou (a lui deve il nome lo Steve di Le avventure acquatiche). La posa, con occhiali sovradimensionati, accosciato su un kart da corsa, è riprodotta fedelmente da Max nel montaggio dedicato alle attività extracurricolari per rappresentare la sua posizione di fondatore degli Yankee Racers. In quanto alter ego in miniatura di un regista, Max è spesso rappresentato nell’atto di impartire ordini, circondato da schiere più o meno numerose di assistenti: accade per la sua attività di caporedattore del giornale della Rushmore, ma anche per la realizzazione della sua grande impresa dedicata a Miss Cross, i lavori dell’acquario. Nel piano sequenza dell’inaugurazione degli scavi la macchina da presa lo segue mentre si sposta per il campo e assegna istruzioni rapide e incisive alla squadra, come un regista capriccioso immerso nella propria creazione: la sequenza è riproposta in modo molto simile da Anderson, nei panni di se stesso, nello spot per la American Express in cui si muove sul set di un suo film immaginario. L’evoluzione di Max è segnalata dal suo progressivo cedere il controllo di situazioni che non può gestire. Nella discrasia fra la sua visione del mondo e la realtà dei fatti risiede tutta la vis comica ma anche il potenziale drammatico di Rushmore: la sequenza in cui Miss Cross lo rifiuta violentemente, facendolo cadere in mezzo agli scatoloni, per Max è uno dei momenti più tragici. La donna gli sbatte in faccia la verità della loro differenza anagrafica, l’impossibilità della relazione, prendendolo in giro e mettendo le cose su un piano, per Max, atrocemente prosaico: «Pensi che faremo sesso?». Lo sgomento del ragazzo di fronte all’improvviso subentrare di un livello fisico, pratico, che non è contemplato dalla sua creatività astratta, lo porta a rifiutare l’idea, ma Miss Cross rincara la dose dicendo che «non sarebbe così assurdo, se avessi avuto esperienze precedenti» (il doppiaggio elimina

integralmente la cattiveria gratuita della maestra, che in versione originale usa il termine «fuck», «se avessi già scopato», avvilendo ulteriormente il ragazzo). Il terzo atto si apre così con una trasformazione. Max ha ceduto, ha abbandonato la divisa, fa l’apprendista barbiere da suo padre, ha iniziato a fumare, porta il cappello da Holden Caulfield/Charlie Brown e non più la giacca della Rushmore. Dopo lo sconforto è il momento di riparare: lo spirito combattivo del regista si prepara a imbastire il suo personale lieto fine. La riconquista degli amici perduti passa attraverso regali-feticcio (Dirk dona a Max il coltellino svizzero con incisione personalizzata della Rushmore; Max a sua volta offre le spillette dell’accademia come pegno di pace a Blume). Max accetta, finalmente, un contatto con la compagna della scuola pubblica Margaret Yang, che scopre essere più simile a lui di quanto pensasse. Mentre fa volare l’aquilone (altro passatempo che condivide con Charlie Brown) insieme a Dirk, qualcosa di amaro e tragico nel suo sguardo fa intuire che ha compreso che l’infanzia è finita per sempre e che è il momento di procedere oltre. Ricomincia a scrivere e riprende il controllo dei suoi atti creativi, offre un ruolo nella sua prossima commedia al bullo della Rushmore che lo infastidiva. L’atto che corrisponde al mese di dicembre si chiude sul dettaglio del nuovo copione fresco di battitura: «Paradiso e Inferno. Una nuova pièce di Max Fischer». A dichiarare l’accettazione dei suoi limiti, l’atto finale (gennaio) si apre con la presentazione da parte di Max della commedia che sta per andare in scena, dedicata a Eloise Fischer (sua madre) e a Edward Appleby (il marito di Miss Cross): non ha potuto sconfiggere la morte, ma può ricordare i defunti attraverso le sue opere. Durante la festa postcommedia, Max pare riconciliato con tutto, apparentemente consapevole e cresciuto: presenta Miss Cross come «amica», il padre per ciò che è davvero, «un barbiere», danza in pista con Margaret. Il creatore capriccioso ha lasciato il posto a un giovane uomo: quando Miss Cross accetta il suo invito a ballare, lo guarda negli occhi e in lui vede l’altrettanto creativo Edward Appleby. Martin Scorsese, nella citata lettera aperta, sottolinea la portata emotiva del momento: «Anderson ha una

grande sensibilità per il modo in cui la musica lavora su un’immagine. Come nel bellissimo finale di Rushmore, quando Miss Cross toglie gli occhiali a Max Fischer e guarda negli occhi del ragazzo – in realtà gli occhi del suo defunto marito – mentre Ooh La La dei The Faces suona in colonna sonora».[9] È il passaggio cruciale del film, composto da intensi primi piani, ma mentre i due raggiungono la pista in ralenti, è proprio la canzone dei Faces a insinuare un dubbio sulla maturazione di Max. Il testo recita «Vorrei aver saputo quello che so ora quando ero giovane» e parla di pesanti delusioni d’amore: potrebbe essere una presa di coscienza di Max, ma anche l’ennesimo tentativo di fingersi ciò che non è. Conosce il brano, è lui a richiederlo al dj, l’aveva appositamente preparato per questo momento: forse sta recitando una nuova parte, quella dell’uomo navigato e consapevole dell’ingannevole natura dell’amore e delle donne.

4.4 Padre, fratello, impostore Rushmore è interamente attraversato da famiglie spezzate: se il rapporto di Max con il padre è buono e affettuoso, nonostante l’iniziale reticenza del ragazzo a parlare del suo “umile” lavoro, e il matrimonio di Miss Cross è stato prematuramente straziato dalla morte del giovane marito, sono soprattutto i Blume a incarnare il leitmotiv andersoniano della famiglia disfunzionale. Maltrattato e messo alla berlina dai suoi terribili figli gemelli, trascurato dalla moglie impegnata in una relazione clandestina, Blume è un estraneo in casa propria, un padre fallito e un marito mancato. Diventa per Max un mentore e una figura paterna vicaria, che il ragazzo dipinge come uomo di successo. Al tempo stesso è Herman a cercare nel ragazzo un figlio alternativo ai due terrificanti gemelli di cui «nemmeno nelle più perverse fantasie» avrebbe pensato di diventare padre. Entrambi, e insieme a loro anche Miss Cross, hanno per differenti motivi il desiderio di crearsi un focolare fittizio, un’alternativa di finzione alla deludente o disastrosa realtà della propria famiglia. Ed è grazie alla cocciutaggine di Max che arrivano a comporre un nucleo bizzarro e sbilanciato, dove Blume e Miss Cross, progressivamente infatuati l’uno dell’altra, fungono da genitori per il finto figlio Max. La dinamica, tra i più riusciti e complessi triangoli costruiti da Anderson, è ironicamente messa in scena dal regista nelle inquadrature in cui Max è collocato in mezzo ai suoi finti genitori, un ritratto di famiglia improbabile e percorso da tensioni contrastanti, ma comunque più vitale e caloroso dell’ingessato dipinto di gruppo con cui il film si è aperto. La natura simile e complementare di Max e Blume deriva dalla loro innegabile identità di impostori: fin dal loro primo incontro, l’orazione del magnate conquista il ragazzo, che a sua volta attira l’attenzione di Blume avvicinandolo all’uscita da scuola. I due sono affascinati l’uno dall’altro, perché inconsciamente alimentano le reciproche fantasie: in elegantissima calligrafia, Max (l’unico ad applaudire per il discorso di Blume) si è appuntato passaggi che confortano le

sue convinzioni («La Rushmore è una delle migliori scuole del paese») e le illusioni di Blume («Questo tizio – il miglior oratore che abbia mai sentito»). Ma il confronto con il preside attraverso la classica dinamica triangolare di smascheramento è per entrambi rivelatore: se Blume si dimostra assai meno idealista e radicale di quanto non abbia fatto trasparire dal suo ispirato discorso, facendo pesare in modo prosaico il suo finanziamento alla realizzazione della piscina, Max è smascherato dalla lapidaria affermazione di Mr. Guggenheim: «È uno dei peggiori studenti che abbiamo». Nel giro di pochi minuti, emerge cosa Max e Blume vogliono far credere di essere, l’immagine che hanno di sé (il geniale studente osannato dalla classe, il profondo demagogo che ispira il prossimo) e ciò che realmente sono: due impostori, creativi e ambiziosi, molto lontani da questa raffigurazione tanto cullata. Ne consegue che la sfida tra Max e Blume va oltre la dinamica sentimentale della “donna contesa”. Lontano dagli eccessi di fantasia e dai sogni a occhi aperti di Max, Herman non è meno illuso e narcisista di lui: pur avendo l’età per essere suo padre, si comporta spesso come un ragazzino e tenta di veicolare un’apparenza che non risponde al vero. Anche lui vive “in posa” e l’incontro fra i due non può che essere problematico. Come sottolinea Browning, Tutti i film di Anderson in realtà parlano della settima arte e di ciò che accade ai personaggi quando la finzione che hanno edificato riguardo se stessi entra in conflitto non tanto con la realtà […] ma con una finzione alternativa e contraddittoria.[10]

Il conflitto fra i due si innesca proprio quando le rispettive finzioni entrano in collisione. Non, come detto, a causa dell’oggetto conteso (l’amore di Miss Cross), ma per il modo in cui si intralciano reciprocamente, mettendo in cattiva luce l’uno con l’altro e demistificando la narrazione che hanno creato di sé. Un esempio efficace è dato dalla cena che segue lo spettacolo Serpico, quando Miss Cross si presenta inaspettatamente con un accompagnatore, scatenando l’ira di Max. Complice l’euforia del dopo-recita e l’eccesso di alcol, la sequenza porta a galla tutte le tensioni e le contraddizioni di

ciascuno: Max non tollera la presenza del “terzo incomodo” Peter (Luke Wilson) e lo deride apertamente additando come uniforme da infermiere la sua divisa da chirurgo (dettaglio che effettivamente rende ridicolo il personaggio del presto accantonato pretendente di Miss Cross, oltre a metterlo sullo stesso piano del quindicenne Max: anche lui, apparentemente, non vuole rinunciare alla divisa e la indossa in circostanze incongrue per sottolineare il suo status sociale). Blume redarguisce il ragazzo che si comporta male a causa della sbronza, ma, come rivela la risposta piccata di Miss Cross, è stato proprio il pessimo mentore a ordinare per Max un whiskey e soda, comportandosi in modo altrettanto incosciente e immaturo. L’intera situazione esaspera i difetti e le emozioni contrastanti del ragazzo, che giunge all’estremo della sua immaturità ma anche, dolorosamente, della sua sincerità: in diretta competizione con Peter, lo colpisce con un cucchiaio e gli lancia addosso il bricco del latte come fosse un poppante imbufalito. La sequenza risulta comicamente disastrosa, ma porta anche allo scoperto per la prima volta l’emotività e la vulnerabilità di Max: «Ha ferito i miei sentimenti, questa serata era importante per me. Ho scritto un’opera di successo. E sono innamorato di lei». Queste sono tutte le verità che contano per Max, non abituato a pronunciarle spesso. È il momento in cui qualcosa in lui si rompe definitivamente. Come un ragazzino competitivo, Blume s’interessa alla donna solo dopo aver scoperto che Max ne è innamorato: uno stacco riconduce in territori brillanti ed elude Max per concentrarsi sugli altri due vertici del nascente triangolo. L’incontro fra Blume e Miss Cross è segnato da una comicità fisica e surreale, in cui Bill Murray diviene corpo comico puro e il suo personaggio regredisce a uno stadio ulteriormente infantile, mentre si avvicina di soppiatto a Miss Cross nascondendosi dietro un albero, celato dagli occhiali da sole. Lo stesso accade quando l’uomo si presenta a casa di lei, senza un piano preciso: Murray muta da volto malinconico a corpo slapstick, e quando lei gli offre una carota pare diventare una versione umanizzata di Bugs Bunny. In barba alle intenzioni romantiche di Max, nelle inquadrature seguenti la composizione del quadro, durante le attività in cui

lui costringe Blume e Miss Cross ad accompagnarlo, anticipa la formazione del triangolo: nel montaggio delle gite e partite in cui il ragazzo coinvolge i suoi due “genitori acquisiti”, i due adulti sono sempre uniti/divisi dalla sua presenza, esprimendo le linee di forza del disastro affettivo sul punto di implodere. Cosa che puntualmente avviene, dopo la rivelazione fatta da Dirk sulla nascente storia fra Blume e Miss Cross: inizia così il segmento più dark del film, con una sequenza da film noir in cui Max si fa trovare nell’auto di Herman, al buio, rivelato in un momento successivo dal carrello verso sinistra. Nello scontro tra i due, entrambi rivendicano in modo infantile di essere innamorati, ma Max fa scattare la competizione rivendicando illogicamente di aver «salvato il latino». È il via a una sfida a colpi di progressiva idiozia fra i due rivali in amore, una gara di mascolinità che si esprime nelle consuete forme della rabbia infantile, comuni a entrambi i protagonisti. Blume, costretto a lasciare casa sua dopo che Max spiffera alla moglie la sua infedeltà, si trasferisce in un albergo – luogo prediletto dagli anti-eroi di Anderson per mettere in pausa la propria vita – dove indossa l’accappatoio, sorta di divisa che, come già per Anthony e come sarà per Royal, per Jack Whitman e altri, segnala la mancanza di programmaticità e direzione, una stasi nella corrente degli eventi. In hotel ha luogo la prima vendetta di Max: uno sciame di api liberato nella sua stanza. Significativamente, quando Blume capisce da dove provengono e chi è il colpevole, la sua prima reazione è un sorriso quasi ammirato, che rivela una certa stima per un gesto infantile e sfrontato. Da quel momento la guerra è dichiarata e Blume, totalmente indifferente al presunto ruolo di padre (vero e putativo) non esita ad abbassarsi al livello di Max, in un susseguirsi di vendette e contro-vendette progressivamente più rischiose. La resa di Max arriva, inaspettata per Blume, di fianco alla tomba della madre. La lapide di Eloise Fischer si presenta come il negativo di quella di Royal Tenenbaum. Dice il vero e lo dice amaramente: «Amata moglie di Bert e madre di Max. I sentieri della gloria non portano che alla tomba». Il verso proviene da Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray e lancia uno sguardo severo sull’ambizione mostruosa di

Max. Il quale, in questo momento, si arrende di fronte all’evidenza che Miss Cross preferisce Blume. Per giustificarsi, Blume esplicita, con una frase diventata celebre, la totale aderenza alla mentalità di Max: «Lei è la mia Rushmore». Miss Cross è per lui un’ossessione e un conforto, un contenitore di speranze e illusioni come lo è l’accademia per Max. Quando i due si incontrano nuovamente, il declino di Blume è completo, come padre (ha un occhio nero e non sa quale gemello glielo abbia procurato, perché non li distingue) e come amante: Miss Cross l’ha lasciato perché è ancora innamorata, così sostiene, del marito morto. E forse è vero: la visita di Max a casa di lei rivela che vive ancora in una stanza completamente piena di oggetti appartenuti a Edward, nella quale pronuncia ad alta voce ciò che Anderson ha suggerito per tutta la durata del film: «Fra te e Herman non c’è poi molta differenza, siete tutti e due dei ragazzini».

4.5 Questa è un’avventura Staticamente bloccati nella propria immaturità e nel proprio mondo fittizio, gli eroi di Anderson hanno però in comune una passione per i personaggi che, al contrario di loro, sono in grado di esplorare il mondo, di vivere avventure, di compiere vere imprese. Soprattutto marittime e legate al tema dei capitani coraggiosi ai quali i piccoli grandi condottieri andersoniani si ispirano in modo piuttosto deviato: a capo di imprese futili, vedono se stessi come vecchi lupi di mare e assecondano una predilezione infantile per un’epica avventurosa e virile che non combacia minimamente con la loro concreta realtà. In Rushmore è il padre di Max ad affrontare per primo il tema, dicendo al figlio, relativamente al suo rapporto con l’accademia, che pare «uno di quei capitani di velieri, […] sposato con il mare». Successivamente, Jacques-Yves Cousteau è l’autore del libro galeotto per l’incontro fra Max e Miss Cross: nella scelta dei berretti rossi (sia il basco che quello da cacciatore) e nell’improvvisato interesse per la fauna marittima per puro amore di Miss Cross, Max segue le orme del mitico esploratore, di cui rinviene il volume Diving for Sunken Treasures in biblioteca. Cousteau, inizialmente solo un MacGuffin, indica a Max la via per la conquista dell’oggetto del suo desiderio, che passa per la progettazione del grande acquario scolastico: la vera avventura del ragazzo comincia grazie all’avventuriero, al suo libro, alla frase scritta su di esso. Con il nome dell’ultimo possessore (e deturpatore, nell’ottica del severissimo Max) del volume stretto fra le mani, il nome di Miss Cross, Max arriva alla porta dell’insegnante, dove è riquadrato dalla finestrella di vetro sulla porta. Una sua soggettiva conduce a sbirciare all’interno della classe, dove Miss Cross legge attorniata di infanti, come una soave Wendy in mezzo ai bimbi sperduti, immagine che fa di Max un Peter Pan a rovescio, desideroso di essere più grande, sì, ma al tempo stesso di poter essere in

mezzo a quei ragazzini ad ascoltare la voce rassicurante della donna. La maestra sta leggendo Il ragazzo rapito di Robert Louis Stevenson, altro grande classico d’avventura che è anche un romanzo di formazione e un’impresa nautica con tanto di naufragio (anche Miss Cross subisce il fascino delle peripezie negli oceani, forse per esorcizzare la morte per annegamento del marito). Lo zoom si avvicina lento su di lei, simulando lo sguardo calamitato di Max, mentre la frase del romanzo che sta pronunciando recita: «Ho visto cattivi e stupidi in gran quantità e credo che gli uni e gli altri finiscano per avere ciò che si meritano, ma gli stupidi per primi». Un monito che suona come presagio rispetto a ciò che avverrà a Max, a Blume e in parte anche a lei: individui sicuramente non cattivi, ma colti in momenti di genuina stupidità. Durante il primo approccio di Max con l’insegnante, inoltre, lei sta leggendo Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne, altro classico subacqueo; poco dopo è il ragazzo ad approfondire la materia, guardando un documentario con protagonista Jacques-Yves Cousteau. Anche se il primo passo, per Max, è l’acquisto di due pesciolini rossi, animali che niente hanno a che vedere con le creature incontrate da Cousteau. Nella loro simulazione di vita, i personaggi di Anderson scelgono consapevolmente di prendere a modello un prototipo d’eroe diametralmente opposto a loro, ovvero il navigante, esploratore, uomo di mare che più di ogni altro conosce il mondo, lo solca e lo attraversa, vi si immerge. Max e Blume (e dopo di loro Royal e Richie, Steve e tutti gli altri) proiettano la propria immagine su quella di capitani coraggiosi. Proprio loro, che non riescono ad andare oltre i confini dell’acquario o della piscina.

4.6 Questione di stile La grammatica della macchina da presa di Anderson si fa con Rushmore ancora più precisa e coerente: l’inquadratura perfettamente simmetrica, con camera perpendicolare a terra, diventa marchio di fabbrica a partire da questo film. Dopo esserselo visto negare per il film precedente, il regista ottiene qui di girare in Cinemascope, in 2.35:1 e con lenti anamorfiche 40 mm di fuoco. Predilige il formato più largo possibile perché consente più facilmente di tenere insieme i personaggi nella stessa inquadratura, necessità fondamentale in un film in cui la relazione fra i tre protagonisti si esplicita anche attraverso la loro posizione nello spazio scenico. Un formato così ampio è insolito per le commedie, genere in cui Rushmore può essere incasellato, e quasi sempre adoperato per film action spettacolari. In questo senso la scelta sembra assecondare, da parte di Anderson, l’ambizione del Max “autore”, che vede la propria vita come un clamoroso ed esplosivo film action e come tale è portata sul grande schermo. Anderson aderisce all’attitudine drammaturgica del protagonista anche tramite espedienti linguistici. La dinamica di campo/controcampo elide sovente dall’inquadratura le spalle dell’interlocutore, appiattendo i dialoghi su una struttura frontale che richiama un impianto teatrale, con l’attore posto direttamente davanti alla macchina da presa come se fronteggiasse una platea. La passione di Max per il palcoscenico diviene così elemento formale oltre che sostanziale. A un simile scopo si presta la scelta di Anderson di utilizzare il grandangolo, che permette di sfruttare la profondità di campo per saturare ulteriormente l’inquadratura con innumerevoli dettagli e oggetti di scena. L’horror vacui della scenografia aumenta esponenzialmente le potenzialità narrative dell’ambiente, incrementando la quantità di informazioni e, di conseguenza, la verosimiglianza della finzione ideata dal protagonista.

Il ben noto amore di Anderson per i dettagli non offre tanto un eccesso di immagine oltre la narrativa, ma piuttosto un eccesso di narrativa oltre l’immagine. Le sue narrazioni si impadroniscono delle immagini e le prosciugano mentre strati su strati di narrazione sono intrisi di dettagli.[11]

L’artificiosa saturazione degli interni, trasformati in vetrine di oggetti di modernariato, domina la pellicola rispetto alle infrequenti riprese in esterno, contribuendo a edificare un universo fittizio e autonomo, un microcosmo parallelo autosufficiente che quasi interamente si nega al mondo esterno. Nel caso di Rushmore, la scelta scenografica pone l’accento sulla natura di finta trasposizione di una pièce teatrale, ma più genericamente posiziona lo stile di Anderson, da sempre affascinato dall’autorialità europea, verso suggestioni del britannico Peter Greenaway, la cui costruzione di spazi chiusi e ipersaturi è richiamata nel production design andersoniano: In questa tendenza al catalogo, in questa esasperata volontà di rinchiudere i personaggi-figure in un iper-manierato zoo narrativo – una bolla che non conosce esterno – con le sue ricorrenze e le sue regole, in queste scenografie curate in ogni centimetro quadrato, ripartite in comparti stagni che contengono centinaia di prop che cercano l’attenzione dello spettatore, nella conseguente necessità di riguardare i film, nell’approccio fintodocumentaristico, trovo parecchi punti di contatto tra il metodo Anderson e il metodo del primo Greenaway.[12]

Se buona parte delle maestranze segue gli immaginari ordini impartiti dal regista in miniatura Max Fischer, la macchina da presa di Anderson si riserva il diritto di muoversi come un personaggio ulteriore rispetto a quelli in scena, filtrando con i suoi movimenti la solennità dei protagonisti e producendo panoramiche e ribaltamenti dotati di senso dell’umorismo. In Rushmore più che mai i personaggi sono afflitti da una palese mancanza di sense of humour: l’unico momento in cui Max sfodera sarcasmo e battute ironiche è per denigrare il compagno di Miss Cross, con una cattiveria tutt’altro che lieve. Max si prende mortalmente sul serio, la macchina da presa espone la sua risibile solennità al nostro sguardo.

Il primo, elaborato piano sequenza realizzato da Anderson si trova all’inizio del film ed è nato per caso, in base a esigenze molto pratiche (il campo da baseball dove l’azione doveva svolgersi si era trasformato in una distesa di fango a causa della pioggia del giorno precedente). Il problema è aggirato muovendo la macchina da presa nella direzione opposta e riempiendo il movimento con svariate piccole azioni sullo sfondo, utili per distogliere l’attenzione dall’aspetto poco piacevole degli spalti. Il risultato è un lungo carrello laterale, che diventerà una delle cifre stilistiche di Anderson, proposto spesso in relazione a personaggi autoritari che danno ordini ai sottoposti (come nel già citato spot di American Express o nella sequenza al campo scout in cui Edward Norton passa in rassegna le truppe in Moonrise Kingdom). Le scelte cromatiche sature e accese del film sono ispirate ai quadri dei ritrattisti del Cinquecento Bronzino e Hans Holbein il Vecchio, che Anderson mostra a scenografi e costumisti come indicazione per la tavolozza coloristica: verdi e rossi cupi, blu intensi, molti colori primari che anticipano uno schema più complesso e legato all’interiorità dei personaggi come sarà in I Tenenbaum. In Rushmore, invece, è ancora la musica a prendere parola per i protagonisti: la colonna sonora infarcita di brani anni Sessanta e Settanta non è usata in funzione ludica ma sempre in modo serio, né ironico né citazionista, perché è il vero cuore dei personaggi, è il loro modo di esprimersi, la dimensione che non sanno e non possono esprimere altrimenti. La scelta dei brani (fra i tanti: The Kinks, The Who, Cat Stevens, The Rolling Stones) è compiuta in collaborazione con Randall Poster, da questo momento collaboratore fedele e, pochi anni dopo, music supervisor anche per Martin Scorsese (ad affermare una continuità stilistica fra il lavoro del maestro newyorkese e quello del giovane regista texano, la cui reciproca stima e ammirazione è cosa nota). Le canzoni, di nuovo, vengono tutte selezionate prima dell’inizio delle riprese, fattore che permette ad Anderson di calcolare la lunghezza delle sequenze avendo già in mente la durata e i ritmi dei singoli brani, perché spesso le scene sono costruite proprio a partire dalla musica. È il caso della sequenza delle

malefatte reciproche di Blume e Max su A Quick One While He’s Away e della citata Ooh La La su cui il film si chiude: «Non avevo ancora un finale […]. Randy Poster mi ha chiamato e me l’ha fatta sentire, ho pensato fosse perfetta. Ho riattaccato e ho scritto l’ultima scena con la canzone ancora in testa».[13]

[1]

Pressbook di Rushmore.

[2]

Proprio durante i giorni della lavorazione del film, per una coincidenza, si svolge fra quelle pareti la tradizionale festa dei dieci anni del diploma della sua classe, quella del 1987, alla quale Anderson non partecipa. [3]

Zoller Seitz M., The Substance of www.movingimagesource.us/articles/the-substance-of-style. [4]

Intervista a Wes Anderson, www.angelfire.com/ga/dogday/anderson.

in

Style,

Dog

Day

2009, Reviews,

[5]

Pressbook di Rushmore.

[6]

Zoller Seitz M., The Wes Anderson Collection, Abrams, New York 2013, p. 99.

[7]

Browning M., Wes Anderson. Why His Movies Matter, Praeger, Santa Barbara 2011, p. 110. [8]

Gooch J., Making A Go of It: Paternity and Prohibition in the Films of Wes Anderson, in «Cinema Journal», vol. 47, n. 1, autunno 2007. [9]

Scorsese M., Wes Anderson, www.esquire.com/features/wes-anderson. [10]

Browning M., op. cit., p. 72.

[11]

Gooch J., op. cit.

in

Esquire,



marzo

2000,

[12]

Pacilio L., Moonrise Kingdom, in Gli Spietati, 9 dicembre 2012, www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4580. [13]

Miller N., The Life Melodic, in «Entertainment Weekly», n. 798, 24 dicembre 2004.

5. Ritratto di un interno con famiglia I Tenenbaum (2001)

Se Rushmore era incorniciato fra le tende di un sipario teatrale, il terzo lungometraggio di Anderson è racchiuso fra le pagine di un libro rilegato in copertina rigida, posato di fronte alla macchina da presa. Popolato da personaggi in gran parte autori di opere stampate a loro volta, I Tenenbaum prosegue il discorso di Anderson sul diritto a esistere di una narrazione originale e sincera, questa volta partendo dal romanzo: sono le sue mani a entrare nell’inquadratura e a mostrare in primo piano il finto volume da cui il vero film è tratto. Opera devota alla parola scritta e letta, è il lavoro di Anderson che maggiormente dichiara i suoi debiti nei confronti di precedenti letterari, quasi mettendoli in fila sullo schermo come accade nella libreria brulicante della piccola Margot Tenenbaum. Dal teatro si passa dunque alla letteratura con una nuova finta trasposizione, quella di una saga familiare di cui restano, nel fittizio passaggio al grande schermo, la divisione in capitoli e la voce narrante. È interessante notare come, nonostante quasi tutti i personaggi di I Tenenbaum siano titolari di almeno una pubblicazione a proprio nome esposta in bella vista con inquadrature dedicate, nessuno di loro sia autore di romanzi: Margot scrive drammi, Eli saggi storici “rivisitati”, Raleigh testi di psicologia, Henry manuali di economia, Etheline memorie autobiografiche (e all’appello manca Chas, autore, tecnicamente, di una nuova specie animale): la forma romanzo entro la quale sono racchiusi non appartiene a nessuno di loro. Sono narratori interrotti, come se la loro energia narrativa e creativa fosse indirizzata, prima di tutto, a strutturare la loro stessa finzione, la porzione di mondo inventato in cui si muovono. Forse l’unico grande narratore è proprio Royal, che con le sue azioni scrive il grande romanzo dei Tenenbaum, narrato solo dopo la sua morte.

Royal Tenenbaum e la moglie Etheline hanno tre figli: Chas, Richie e l’adottiva Margot, tutti dotati di talenti fuori dalla norma. Il primo è un piccolo genio della finanza, il secondo un enfant prodige del tennis e un pittore, l’ultima una drammaturga apprezzata. Quando i genitori divorziano, Royal abbandona la casa e non frequenta i figli per molti anni; la gloria dei Tenenbaum appassisce, Chas resta vedovo precocemente, con due bimbi piccoli, Margot è infelicemente sposata, Richie è segretamente innamorato della sorella e ha abbandonato la carriera di tennista. Vivendo in un albergo e rimasto a corto di soldi, temendo che l’ex moglie si risposi con il serioso commercialista di famiglia, Royal inventa di essere malato terminale per essere riammesso al focolare domestico. Alla spicciolata, tutti i figli fanno ritorno sotto il tetto familiare, dove le tensioni accumulate negli anni sfociano in litigi e confronti dolorosi. Richie, sconfortato dalle numerose storie di Margot, tenta il suicidio ma infine esprime i suoi sentimenti, ricambiati, per la sorella; Chas riesce a perdonare il padre per le sue mancanze di genitore e Etheline può finalmente convolare a nozze con l’affidabile Henry. Stroncato da un infarto, Royal muore dopo essere riuscito a vivere per qualche mese come un membro amato e rispettato dalla famiglia – che si riunisce al completo al suo funerale.

5.1 Famiglie di carta (e di pellicola) I Tenenbaum non solo sono tutti contenuti fra le pagine di un libro immaginario, ma sembrano essere stati partoriti anche da altre pagine, tanti sono i riferimenti letterari che intessono l’albero genealogico della famiglia di Royal. Fin dall’ambientazione newyorkese priva di connotati temporali determinati, il film riecheggia l’opera di J.D. Salinger: dopo l’Holden Caulfield rivisitato dai ladruncoli di Un colpo da dilettanti e da Max Fischer in Rushmore, Anderson esplora altre storie dell’autore newyorkese, sfoglia altri romanzi di formazione in cui fare riflettere come in uno specchio i suoi disastrati piccoli Tenenbaum. È Matt Browning a sottolineare la vicinanza del film al romanzo di Salinger Franny e Zooey e, più in generale, a tutti i titoli dedicati dall’autore alla saga della famiglia Glass, alcuni dei quali originariamente pubblicati sul «New Yorker» alla fine degli anni Cinquanta. I Glass hanno più di un’assonanza con i Tenenbaum: i figli, ben sette, sono tutti dotati nell’infanzia di talenti eccezionali; una volta cresciuti, tra la fragile Franny e il fratello Zooey si crea un legame profondo che non arriva mai ad esplicitarsi nell’amore incestuoso di Margot e Richie, ma lo sfiora. Alcune situazioni del romanzo sembrano letteralmente prendere vita nelle sequenze del film, come l’iconico arrivo di Margot impellicciata alla fermata del bus, che si sovrappone all’arrivo di Franny alla stazione dei treni, immediatamente identificata dal fidanzato Lane grazie alla pelliccia che indossa; il tentato suicidio di Richie dopo essersi rasato barba e capelli raccoglie in sé sia l’ombra del fratello maggiore dei Glass, Seymour, che si è tolto la vita, sia un intenso momento di riflessione che coglie Zooey mentre si rade davanti allo specchio. Matt Zoller Seitz arriva anche a individuare il cognome Tenenbaum (come detto, vero nome di uno dei collaboratori abituali di Anderson) fra le righe di Giù al Dinghy, altro racconto appartenente alla saga dei Glass, mentre Browning suggerisce un parallelo ardito fra la voce narrante di Franny e Zooey, ovvero un altro dei fratelli Glass,

Buddy, e quella del narratore esterno del film, Alec Baldwin, entrambi attori. Salinger resta, per i primi tre lungometraggi di Anderson, un riferimento costante, una sottotraccia fondamentale perché capace di mettere in parole i conflitti e le dissonanze di un percorso di formazione in cui il dolore è sì presente, ma filtrato dalla situazione di sostanziale benessere e privilegio dei protagonisti. Gli eroi brillanti e complessi di Salinger, come quelli di Anderson, vivono in modo acuto le sofferenze della crescita, denunciano una disfunzione che impedisce loro di percepire la famiglia come luogo rassicurante e confortante. In questo senso il regista si pone come ideale continuatore di una narrativa che affronta in modo sincero e non banale le dinamiche familiari della borghesia (classe sociale di appartenenza di tutti i suoi personaggi). Anche se, come evidenzia Browning, ciò che differenzia gli eroi di Anderson dai pur tormentati e incerti personaggi di Salinger è la loro sostanziale inerzia: «I Tenenbaum sono incapaci di prendere le grandi decisioni compiute dai personaggi di Salinger […] che si impegnano con persone, idee o azioni; quelli di Anderson restano fermi e parlano dell’impegno».[1] Richie, Margot, Chas – che girano il mondo restando fermi (Richie è alla deriva sulla sua barca Cote d’Ivoire, Margot ha vissuto ovunque, dalla Rive Gauche alla Papua Nuova Guinea) – sono caratterizzati e in parte afflitti proprio dalla loro stasi. Ne sono una prova perfino i momenti più intensi e drammatici che li coinvolgono: il tentato suicidio di Richie, che non va a segno; il momento di passione fra lui e Margot, subito congelato dalla sorella che afferma: «Credo che dovremmo amarci segretamente e lasciare le cose come stanno». L’eccezione, in famiglia, è rappresentata da Royal, il più imperfetto, ma anche il più dinamico fra i Tenenbaum. Sul versante comico, la variopinta e caotica famiglia di Royal e Etheline ricorda molto da vicino i protagonisti del romanzo autobiografico di Gerald Durrell La mia famiglia e altri animali, pubblicato la prima volta nel 1965. Narrato in prima persona dal piccolo Gerald/Gerry, il libro è il ritratto ironico e ingenuo degli altri componenti del nucleo: la madre vedova, impassibile e svagata, pronta ad accontentare ogni desiderio

dei figli, e gli altri tre fratelli intorno ai vent’anni, Leslie, Larry e Margo. Quest’ultima ha non poche assonanze con la quasi omonima Tenenbaum adottiva: ombrosa e spesso depressa, passa moltissimo tempo rinchiusa in bagno, indossa bikini assai risicati e fa girare la testa a più di un ragazzo. I due maggiori, l’uno riflessivo e dedito alla scrittura, l’altro irrefrenabile e appassionato di armi da fuoco, entrambi pronti a insultarsi e imbastire polemiche infantili, sembrano essere stati fonte d’ispirazione sia per Richie e Chas sia per il fraterno amico Eli. Trasferitisi a Corfù per un soggiorno a tempo indeterminato, i Durrell hanno a disposizione anche Spiro, un tassista tuttofare rozzo nell’aspetto e dotato di esotico accento, che tende ad apostrofare chiunque come «figlio di puttana», proprio come Pagoda, il maggiordomo indiano dei Tenenbaum. Intorno alla famiglia gravita anche il dotto e timido Theodore, il cui carattere schivo, la barba lunga e gli abiti fuori moda sono poi indossati da Henry Sherman. La qualità vivace e surreale dei dialoghi e delle dinamiche fra i Durrell, non di rado aggressivi e raramente affettuosi, risulta spassosa in quanto restituita dal punto di vista del piccolo Gerry, un po’ come accade per il narratore neutro di I Tenenbaum, i cui scambi d’opinione atoni quando non crudeli sono ironicamente inquadrati da Anderson e offerti allo spettatore con finta imparzialità. Al di là delle smaccate somiglianze fra i due nuclei familiari, la passione di Gerry per la natura circostante fa sì che lunghi stralci del romanzo siano dedicati a una vera e propria catalogazione delle numerose specie di flora e fauna presenti sull’isola. È la stessa passione che i piccoli Richie e Margot esplicitano nella fuga al museo (Margot è anche autrice di una commedia in cui tutti i bimbi interpretano animali) e Chas, a suo modo, dando vita a una specie di topolino maculato prima non esistente in natura (la stessa passione che Anderson attribuisce a numerosi personaggi, da Miss Cross fino a Sam di Moonrise Kingdom, variamente affascinati dagli inventari di creature). In particolare, più di un gag nel romanzo di Durrell è dedicato ai disastri provocati in casa da Alecko, l’albatro adottato da Gerry come animale domestico, cui sembra fare eco il falco Mordecai di Richie.

Un romanzo molto amato da Anderson nell’infanzia è The Swiss Family Robinson di Johann David Wyss, incentrato su una famiglia che naufraga nelle Indie Orientali, sopravvive, incontra numerose affascinanti specie animali e costruisce un’ampia casa sull’albero. Il racconto pare inciso in qualche modo nella memoria collettiva di tutti i Tenenbaum, come fosse un romanzo che i genitori erano soliti leggere ai piccoli: Margot scrive nel finale del film una pièce intitolata The Levinsons in the Trees che non viene mostrata nel suo svolgimento, ma suggerisce una simile ambientazione. E una possibile catarsi metaforica della storia familiare tramite sopravvivenza al naufragio. Lo stesso tema riecheggia nell’incongrua lapide di Royal, che ricorda come l’uomo abbia salvato i parenti da una nave che stava affondando.[2] Matt Bucher azzarda un paragone con un’altra complicata, geniale e disfunzionale famiglia letteraria: gli Incandenza di Infinite Jest.[3] I ragazzi Tenenbaum sono tre, come quelli del romanzo di David Foster Wallace (Orin, Hal e Mario Incandenza). Richie è un prodigio del tennis proprio come i due figli maggiori di Avril e James Incandenza. Anche in Infinite Jest la madre, Avril, rimane l’unica figura autoritaria, non dopo il divorzio ma dopo la morte di James. Margot nasconde alla famiglia il vizio del fumo per anni (come Hal, con la marijuana) e scrive commedie teatrali (passione del “difettoso” figlio minore Mario). È Anderson stesso ad aggiungere al nutrito elenco di parenti cartacei dei Tenenbaum una serie di illustri ed eccentrici sconosciuti: le personalità di cui il suo amato «New Yorker» stendeva i profili in passato, personaggi «intelligenti, eccentrici, anticonvenzionali – il tipo di profili che non si [4] scrivono più» e che hanno lasciato qualcosa della propria bizzarra genialità nella creazione della famiglia Tenenbaum. E dal «New Yorker» proveniva anche James Thurber, altro nume tutelare dei Tenenbaum e newyorkese doc. Autore di racconti, vignette e favole per ragazzi dallo spirito pungente e compassato, Thurber è un personaggio trasversale, evocato da ambientazioni e dialoghi della famiglia. Come i Tenenbaum, gli Owen e gli Anderson, anche lui è uno di tre fratelli; sua moglie si chiamava Rosemary come Miss Cross di Rushmore

e, per chiudere il cerchio, è l’autore del romanzo I sogni segreti di Walter Mitty, il cui protagonista è il più celebre creatore di finzioni e fantasie a occhi aperti di tutta la letteratura americana (interpretato anni dopo al cinema proprio da uno dei volti della famiglia Tenenbaum, Ben Stiller). Non mancano i riferimenti cinematografici, che però sovente sono più che altro citazioni “architettoniche”: la casa dei Tenenbaum, e il modo in cui Anderson l’accarezza con la macchina da presa, ricordano L’orgoglio degli Amberson di Orson Welles (The Magnificent Ambersons, 1942), altro ritratto di famiglia decaduta in interno decadente. Anche la villa arredata in modo barocco di Harold in Harold e Maude (e Harold, la sua apatia, le sue passioni bizzarre e il suo vestiario impeccabile ritornano in diversa misura in tutti i figli Tenenbaum) rivive negli arredamenti della casa. Più legato a ispirazioni letterarie che cinematografiche il film assembla ricordi e citazioni e li decontestualizza, li intesse in modo non organico nella narrazione, emanazioni dalla memoria stessa dei protagonisti, come accadeva per Max in Rushmore. Per esempio, la battuta «Ho deciso, domani mi uccido», pronunciata da Richie, è prelevata da Fuoco fatuo di Louis Malle (Le feu follet, 1963), mentre la fuga al museo dei piccoli Margot e Richie rievoca Il segreto della vecchia signora (From the Mixed-Up Files of Mrs. Basil E. Frankweiler, Fielder Cok, 1973). Il caschetto e la pelliccia di Margot sono identiche a quelle della ribelle giovane newyorkese Val di La vita privata di Henry Orient. La scena in cui Royal parla del divorzio ai tre figli attraverso un tavolo assurdamente lungo ricorda le tristi e anaffettive colazioni in cui il tavolo si estende sempre più ingombrante fra Orson Welles e la moglie in Quarto potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1941). Ognuno dei protagonisti porta con sé un pezzetto d’immaginario che possiamo attribuire a serate passate insieme, a casa, davanti alla televisione. Frammenti di cinema che rivivono nelle messe in scena quotidiane di una famiglia che ha perso il dono della comunicazione.

5.2 C’era una volta (a) New York Dopo i 17 milioni di dollari incassati da Rushmore, Wes Anderson aumenta il proprio potere produttivo, ma non abbastanza da assicurarsi subito tutte le star che desidera. Leggendario è il corteggiamento a Gene Hackman, da sempre immaginato nel ruolo di Royal, scritto pensando esclusivamente all’attore. La recalcitranza dell’interprete è in parte dovuta, probabilmente, al basso compenso offerto in proporzione al tempo richiesto sul set: il budget a disposizione non è certo elevato, tutti i protagonisti lavorano a minimo sindacale e le scene da girare sono ben 240 in soli 60 giorni. Il piano di lavoro delle riprese diventa un vero e proprio puzzle in cui far combaciare gli impegni di ciascuno: Gwyneth Paltrow, per esempio, è presente sul set per soli dieci giorni, Ben Stiller per tre settimane. Per compensare, Anderson decide che sia indispensabile avere una vera abitazione, una location reale e non uno studio, dove gli attori possano familiarizzare e fare gruppo. Gli esterni della casa di Archer Avenue sono individuati in un edificio di New York, all’angolo fra Convent Avenue e 144th Street, nel quartiere Hamilton Heights di Harlem, mentre gli interni sono ricostruiti in una casa del New Jersey (così come Parigi, la Giamaica e tutte le altre location “esotiche”). Tutti i set newyorkesi sono allestiti all’interno di luoghi realmente esistenti – eccetto quello dello scavo archeologico dove lavora Etheline – e nulla è artificioso. Il palazzo Lindbergh dove Royal risiede prima di esaurire i liquidi è in realtà il celebre hotel Waldorf Astoria, ma la Grande Mela di Anderson ha ben poco di realistico, non assomiglia a una città concreta, piuttosto all’idea che di quella metropoli ci si può fare consumando pagine di romanzi e «New Yorker» o fotogrammi di cinema. È la New York immaginaria di qualcuno che, come Wes, non vi è cresciuto, ma la conosce tramite film e illustrazioni: per questo è difficile collocarla cronologicamente, come se fosse costituita da un patchwork di ricordi e foto provenienti da epoche diverse. Non viene

nemmeno mai esplicitato se si tratti realmente di New York e Anderson ha appositamente eluso i luoghi più turistici e riconoscibili, lasciando che i personaggi coprissero la visuale della Statua della Libertà sullo sfondo e inventando di sana pianta i bus della Green Line, i taxi Gypsy Cab e i nomi delle strade. Wes Anderson ha girato in 250 location della città, nessuna delle quali compare in una guida per turisti, e del realismo esasperato di I Tenenbaum dice: «Volevo fare un film che fosse come una versione amplificata di New York, una New York più New York della stessa New York. Tutti i nomi delle strade suonano newyorkesi, ma non reali». […] Anderson usa anche movimenti laterali, un orientamento che segna l’ampiezza più dell’altezza, una visione alternativa di una città fortemente verticale.[5] New York è una protagonista aggiunta, una testimone del passare degli anni e dell’affievolirsi dei legami della famiglia Tenenbaum, una città che assume un significato particolare per il pubblico statunitense, considerando che la première avviene a poco meno di un mese dall’11 settembre (presentato nell’ottobre 2001 al New York Film Festival, il film sarà poi distribuito in sala a dicembre). Una coincidenza che ha suscitato letture suggestive del rapporto fra i protagonisti e la metropoli. Il film si propone comunque di fare il quadro (quadretto familiare) di quella che è la condizione della città di New York, soprattutto in un momento storico difficile, non solo per gli Stati Uniti. La pellicola, infatti, circolata e distribuita dopo il crollo delle torri gemelle, ha rappresentato soprattutto per il pubblico newyorkese un ritorno a casa, una sorta di riconciliazione (WASP) che passa attraverso le macerie della propria storia più recente. In fondo si tratta letteralmente di un ritorno a casa, di una grande rim-patria-ta: di un padre (Royal, che lavorava per lo Stato) che non ha più un dollaro e che per essere accolto si inventa di essere malato terminale di cancro; di un figlio […] cresciuto con la fobia di morire e che rivede nella vecchia casa il luogo più sicuro […]. Ad accoglierli nella vecchia dimora di Archer Avenue c’è ancora la madre di tutti loro (Etheline, corteggiata da Henry) ovvero la New York tradita che torna ad accogliere i propri figli, cresciuti come geni e poi persi per strada.[6]

5.3 Una casa sull’albero genealogico Emblema della famiglia disfunzionale, il nucleo dei Tenenbaum esplicita e approfondisce molte tematiche disseminate da Anderson e Owen già nelle loro sceneggiature precedenti. Royal è il patriarca, il più odiato, il più smaccatamente colpevole di mancanze e di assenze, quello più facilmente additabile come causa della crescita non serena e inadeguata dei piccoli Tenenbaum: leader carismatico totalmente inaffidabile, impostore per eccellenza, smargiasso ed egoista, infine semplicemente sparito dalla vita dei ragazzi. Il tema dell’assenza del padre è qui complicato dalla sua riapparizione indesiderata. I figli di Royal non sono meno egoisti di lui e condividono la responsabilità dello sfascio dell’unità familiare. Certo, Royal è il primo e il più cocciuto nel negare l’esistenza di tale unità: fin dal prologo, ambientato durante l’infanzia dei ragazzi, lo vediamo sparare per gioco addosso a Chas, affermando con giubilo che «Non ci sono squadre». I Tenenbaum sono, in modo più tragico e complesso di quanto avveniva in Un colpo da dilettanti – ma meno di quanto avverrà in Le avventure acquatiche di Steve Zissou – una squadra fortemente inefficiente. Non sanno agire per uno scopo comune e ognuno indossa letteralmente la propria divisa e agisce per sé. Come i giochi in scatola affastellati nello sgabuzzino, anche ogni altra attività che richieda di cooperare è stata da tempo abbandonata, in favore di un egoismo che ha cristallizzato i difetti di ciascuno, oltre che il loro aspetto esteriore: ogni componente del clan Tenenbaum è molto più impegnato nella costruzione della rappresentazione di sé che in quella di una famiglia/comunità (sono fallimentari anche i tentativi di costituire “squadre” esterne a quella della casa di Archer Avenue). Abituati allo status di enfant prodige e a rilasciare dichiarazioni ai giornalisti fin da bambini, i Tenenbaum hanno progressivamente perso la capacità di comunicare realmente fra loro: intrappolati in dinamiche al limite dell’autismo, conversano evitando accuratamente il contatto visivo. Perfino quando si tratta di un momento a cuore

aperto come quello della dichiarazione fra Richie e Margot, nella tenda, i due scelgono di stendersi uno di fianco all’altra fissando il soffitto, evitando così di guardarsi negli occhi. Produttori di volumi e di parole scritte, di telegrammi e di assegni, i Tenenbaum hanno lasciato atrofizzare e la propria verbalità e visto disperdersi l’antica gloria di enfant prodige. Tutti e tre, con l’aggiunta del fratello putativo Eli Cash, ampliano e ramificano alcuni tratti che già erano parte della personalità di Max Fischer: l’attività di autore teatrale si trasferisce su Margot, gli hobby variegati (e la passione per le navi) su Richie, la mania del controllo su Chas e l’ansia di appartenere a una comunità esclusiva/prestigiosa su Eli. Ripiegati su se stessi, i Tenenbaum non sanno o non vogliono sapere di essere assurdi, perché hanno tagliato fuori dal loro mondo tutto ciò che non lo è, dunque non sono mai ironici, al contrario mortalmente seri in ogni loro espressione. Sembra paradossale, ma l’unico in grado di osservare la situazione dall’esterno, e dunque di fare uso consapevole dell’umorismo, è Royal. È lui, a tutti gli effetti, il catalizzatore del cambiamento e del movimento per la famiglia, lui che l’ha abbandonata ma che la riporta insieme, proprio come il coraggioso capitano di nave in cui si immedesima sulla sua lapide. Nell’usuale dinamica autore/vero eroe delle opere di Anderson, Royal è senza dubbio colui che si imbarca nell’impresa più grande, che tenta di salvare il suo ruolo nella famiglia. Ma i veri eroi, quelli che affrontano il cambiamento, sono tutti e tre i figli Tenenbaum, e in primo luogo Richie e Chas, che sembrano compiere l’arco di trasformazione maggiore (anche esteticamente parlando). Nelle parole di Wes Anderson, «Royal è quello che fa succedere le cose. Richie è l’eroe, è il centro della famiglia».[7] È Richie, alla fine, a recarsi all’albergo per recuperare il padre, lui a cercare di rimettere tutti insieme. La famiglia finzionale che vuole creare, obiettivo di tutti gli eroi andersoniani, in questo caso coincide con la famiglia autentica: quella che ricompone è la sua vera famiglia, ma finalmente attraversata da sentimenti positivi. Un discorso diverso vale per il quarto Tenenbaum, Eli Cash: per lui la famiglia ideale, di finzione, sono proprio i

Tenenbaum, di cui per tutta la vita ambisce a essere membro. Sono sue le celebri parole «Ho sempre voluto essere un Tenenbaum», cui, significativamente, fa eco la pronta risposta di Royal «Anche io». Eli e Royal, i più incoscienti ed egoisti fra i protagonisti, sono anche i più sinceri e appassionati nel voler (ri)entrare a fare parte del focolare. La cerimonia del matrimonio fra Etheline e Henry è precocemente interrotta dallo schianto di Eli contro la casa di Archer Avenue: truccato come un totem indiano, evidentemente sotto l’effetto di stupefacenti, Eli incarna l’ossessione che lo accompagna da tutta la vita: fondersi con la famiglia (quasi in senso ballardiano, come sottolinea Matt Browning)[8] e ottenere l’attenzione totale di tutti i suoi membri. Il metodo non è dei più maturi, anzi sembra la versione adulta e potenzialmente letale di un capriccio infantile, oltre a suonare speculare in modo sinistro al gesto suicida di Richie: entrambi, più che tentare di togliersi la vita, lanciano un grido nei confronti della famiglia (reale o putativa). Dopo questo momento di rottura, il piano sequenza di fronte alla casa di Archer Avenue, lunghissimo, è il modo per Anderson di riunire la famiglia, rimettendone insieme i pezzi nella stessa sequenza, senza stacchi. The Fairest of the Seasons di Nico è l’agrodolce commento alla ritrovata pace familiare, ma il montaggio che segue i destini dei protagonisti rivela un retrogusto amaro. Speculare al montaggio dell’apertura, vede i Tenenbaum finalmente non più guardarsi allo specchio, ma aprirsi in differenti modi l’uno verso l’altro, cercando un’interazione e spesso addirittura una trasmissione di insegnamenti o un passaggio di informazioni al prossimo: Margot abbandona le pièce a tema erotico per tornare ad allestire una commedia, scavando nella sua infanzia con un lavoro chiaramente autobiografico. Eli Cash, finalmente in riabilitazione, si diletta insegnando il lazo ai compagni di rehab. Richie torna a impugnare la racchetta e diventa maestro di tennis. I piccoli Tenenbaum, forse, hanno imparato a esprimere se stessi. È innegabile peraltro che tutte queste attività siano legate all’infanzia, a giochi o attività che hanno segnato la loro giovane età e segnalano quindi una preoccupante mancanza di sviluppo psicologico.

Il cambiamento più autentico è allora quello di Chas, che ammette di avere dei problemi, ritrova il legame con la famiglia tramite il lutto comune (la vedovanza condivisa da lui e Henry), riscopre il rapporto con il padre e anche la gioia del divertimento senza manie di controllo. Chas è, nel corso del film, il meno approfondito dei tre fratelli e il più estremo nel manifestare i suoi sentimenti verso Royal. Ma è anche l’unico ad aver davvero tentato di costruire un suo nucleo familiare fuori dalla casa di Archer Avenue, per quanto segnato dalla tragedia della morte della moglie. Ed è anche l’unico a portare addosso i segni del trauma della pessima paternità di Royal (il pallino per sempre incastonato sotto la pelle della sua mano). Se Royal è indubbiamente l’autore della grande impresa e Richie e Margot ne occupano il cuore, Chas è il cervello, l’unico ad assistere alla morte del padre. Questa resta fuori campo: mentre Royal muore la macchina da presa è sul volto di Chas, testimone degli ultimi attimi di vita del genitore con cui si è da poco riconciliato (anche la dipartita, di poco precedente, del povero Buckley, cruentemente spiaccicato dall’impatto dell’auto di Eli contro la residenza di Archer Avenue, non viene mostrata). In questo senso, la tuta Adidas nera che indossa al funerale in luogo di quella rossa non è solo un ironico gioco di variazione sul tema, ma segnala il cambiamento interno di Chas attraverso il cambiamento della divisa personale: nessun altro ha smesso la propria uniforme per l’occasione. Il funerale di Royal vede finalmente riunita tutta la famiglia: non ci sono discorsi funebri, ma solo i piccoli Ari e Uzi che sparano a salve, il modo perfetto di celebrare un uomo che con le parole non se l’è mai cavata troppo bene. La lapide di Royal sigilla la sua natura immaginaria di capitano coraggioso, raccontando le circostanze della sua morte in modo avventuroso e falsato: «Morto tragicamente salvando la sua famiglia dall’affondamento di una nave da guerra distrutta». Questa esagerazione, l’ennesima di Royal, è nata forse per invidia: nella visita alla tomba della nonna, sia lui sia la macchina da presa si erano soffermati sulla lapide di tale Nicholas Lundy, «Padre di nove figli morto nel Mar Caspio». In un certo senso l’epitaffio dice il vero – Royal Tenenbaum ha davvero salvato i singoli elementi della famiglia – ma è

anche il suo modo di restare fedele alla finzione, più che alla realtà, fino all’estremo. La sua narrazione resta scolpita oltre la morte: si può affermare che Royal sia l’unico eroe di Anderson ad avere sconfitto la mortalità, l’insormontabile ostacolo di ogni piccolo grande autore di finzioni.

5.4 Diversamente autori Per quanto visivamente caratterizzato e riconoscibile, per quanto esteticamente squillante e coerente, l’universo cinematografico andersoniano è dominato dalla parola scritta. Lettere, biglietti, didascalie, pièce teatrali e articoli, romanzi e saggi sono continuamente esposti alla macchina da presa e ingombrano fisicamente lo schermo: le parole sono spesso il mestiere (o il sogno nel cassetto) dei suoi personaggi, che senza parole non esisterebbero affatto. In I Tenenbaum questa verità diventa paradigma: l’intero film è modellato sulla forma del romanzo, ogni capitolo è introdotto dal frontespizio del corrispondente capitolo del volume immaginario, e le opere d’ingegno prodotte dai protagonisti occupano sovente lo schermo. La presentazione dei personaggi, ventidue anni dopo il prologo, rafforza la finta provenienza letteraria dell’opera, come se quelli che stiamo conoscendo fossero gli interpreti dei protagonisti del romanzo visto aprirsi in apertura del film. Tutti quanti svolgono operazioni di ritocco (radersi, truccarsi, mettersi le ciglia finte) come fossero attori che stanno per andare in scena – in un senso doppiamente vero: come i reali attori il cui nome appare in sovrimpressione, ma anche come i Tenenbaum che si preparano ad allestire la messa in scena della propria personale narrativa. Tutti i personaggi stanno guardando attraverso lo schermo, abbattendo la quarta parete (stanno riflettendosi in uno specchio) quindi tutti guardano se stessi: l’egocentrismo e il solipsismo accomuna i protagonisti, nessuno escluso. Richie addirittura scatta una foto di se stesso (tecnicamente – diremmo oggi – una selfie). Come sempre, la macchina da presa di Anderson oscilla fra regime di soggettiva e semisoggettiva: deride la seriosità dei protagonisti spostando l’attenzione dall’uno all’altro con panoramiche a schiaffo e rapidissimi zoom, ma aderisce anche, appassionatamente, al loro punto di vista. Ad esempio nell’iconica sequenza

dell’arrivo alla fermata del bus di Margot, inquadrata dapprima in una soggettiva di Richie, vista con lo sguardo dell’amore puro, in ralenti, come ogni momento catartico dei sognatori andersoniani. Le imprese/ossessioni degli eroi spesso conducono a un’apparizione, a una sequenza contemplativa al di fuori del tempo e del contesto narrativo che, sebbene condivisa da più di un personaggio, ha sovente la funzione di esprimere una soggettiva mentale del protagonista. Così è per l’arrivo di Margot alla fermata del bus, così sarà per il magnifico e temibile squalo giaguaro in Le avventure acquatiche di Steve Zissou e per il lupus lupus di Fantastic Mr. Fox. Come già in Rushmore, in misura crescente in I Tenenbaum nel dialogo in campo e controcampo raramente si trova l’inquadratura classica che comprende nei margini del quadro anche le spalle dell’interlocutore. Più spesso i dialoghi si svolgono con lo sguardo in macchina o la macchina da presa perpendicolare di fronte ai due dialoganti di profilo. La simmetria che Anderson ha coltivato nelle opere precedenti diventa da questo momento in poi una regola quasi imprescindibile: per i Tenenbaum, come già avveniva per Max Fischer, vedersi esattamente al centro dell’inquadratura (e dunque dell’attenzione) è un retaggio dell’infanzia prodigiosa, una condizione di egocentrismo inscalfibile. Margot, Richie e Chas (ma anche Eli e Royal) si vedono esattamente così, e la regia di Anderson aderisce alla loro visione, calibrando l’inquadratura a misura del loro ego. Da Le due inglesi (Les deux anglaises et le continent, François Truffaut, 1971) Anderson riprende l’idea compositiva di riempire l’inquadratura con molte copie del medesimo libro, che usa per introdurre le copertine dei volumi scritti dai Tenenbaum veri e acquisiti (Family of Geniuses di Etheline Tenenbaum, Accounting for Everything di Henry, The Peculiar Neuro-degenerative Inhabitants of the Kazawa Atoll di Raleigh).[9] Il volume che raccoglie le tre pièce di Margot, invece, Static Electricity, Nakedness Tonight, Erotic Transference, non è introdotto ma solo letto, in più circostanze, da Richie, che se lo porta appresso come simulacro della sorella/amata, introducendo subliminalmente il tema dell’incesto (tanto più se si considera che le opere, di cui

nulla ci è dato sapere, si presentano sin dai titoli con una spiccata connotazione erotica). A fare capolino sullo schermo sono anche i tanti libri posseduti e letti da Margot, tra i pochi casi di opere realmente esistenti immortalate in un’inquadratura di Wes Anderson: da bambina la si vede leggere Arriva l’uomo del ghiaccio di Eugene O’Neill e, durante la fuga al museo, il volume scientifico Sharks of North American Waters di José I. Castro; da adulta ha in mano le pièce di G. B. Shaw e Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov. Non di sole parole sono produttori i Tenenbaum: Richie è anche pittore (caratteristica associata spesso ai protagonisti più dotati di sensibilità e intelligenza emotiva: dipingerà anche la signora Fox), autore di una miriade di ritratti di Margot che sono stati in realtà realizzati dal fratello di Wes, Eric Anderson. Nel solco della permeabilità fra vita e arte che caratterizza molte delle opere del regista, gran parte degli interpreti condivide un parentado illustre e l’idea di un talento ereditario: Gwyneth Paltrow e Anjelica Huston sono figlie d’arte, la madre dei fratelli Wilson, Laura, è presente sul set come fotografa e la finta copertina in cui Eli Cash esibisce i resti di un serpente è ispirata alla serie di foto In the American West di Richard Avedon, di cui è stata assistente. La prima rappresentazione messa in scena dalla piccola Margot vede i bimbi protagonisti in costumi da orso, zebra e giaguaro: il tema dei bimbi “bestiali” tornerà in Fantastic Mr. Fox e in Moonrise Kingdom, come esaltazione del gusto avventuroso dell’infanzia, della bellezza e libertà della natura ferina dei fanciulli. Royal però non sembra apprezzare e commenta acidamente: «Io ho visto solo ragazzini con dei costumi da animali». La frase, ovviamente del tutto inadeguata nei confronti della giovanissima autrice, fa trapelare la sua incapacità di accettare le narrazioni altrui: dal suo punto di vista non si tratta che di una stupida messa in scena, vede la cruda realtà là dove sua figlia vede un mondo intero. Lo stesso problema però affligge, come una tara ereditaria, tutta la compagine dei Tenenbaum: in

quanto singoli microcosmi autistici, non sanno comprendere le narrazioni gli uni degli altri. Il tema dell’autore si fonde, in questo film più che mai, con quello dell’impostore. Tutti i protagonisti lo sono, in diversa misura: Royal come genitore («Lui non è tuo padre!» ricorda a Margot parlando di Henry, «Nemmeno tu!» gli ricorda lei con una sincerità che oltrepassa la questione dell’adozione); Margot come autrice fallita e capace solo di mettere in scena opere autobiografiche («Tu eri un genio, per la miseria!» le ricorda Royal: «Non lo ero: è quello che pensava la gente»); Richie come campione pre-pensionato; Chas come genitore che soffoca la libertà dei figli; Eli come talento millantato (e autore di opere storicamente inattendibili); Raleigh come autorità in campo scientifico. Ognuno è intrappolato nella propria impostura, e anche in questo caso, è proprio Royal a suggerire che possa esistere una via d’uscita: quando afferma, con il solito fare cialtrone, che i giorni passati con i figli sono stati i migliori della sua vita, si rende conto immediatamente dopo che era proprio la verità. Per una volta, la narrazione illusoria del protagonista si rivela talmente aderente alla realtà da scioccare l’eroe stesso. Lo sconcerto è ulteriormente accentuato dai fatti successivi: Pagoda rigira letteralmente il coltello nella piaga pugnalandolo all’addome al solito grido di «Sei un figlio di puttana». Il gesto è preceduto dallo sguardo in macchina di Pagoda, segnale ricorrente, nelle opere di Anderson, per indicare che il personaggio sta per commettere un gesto folle (è il caso, poco dopo, di Richie, ma anche di Steve Zissou e del suo “occhio pazzo”, ricalcato dallo sguardo assente di Kylie in Fantastic Mr. Fox). L’azione imprevedibile di Pagoda assume un significato differente alla luce del succitato aneddoto sul primo accoltellamento, dopo il quale il fedele aiutante salvò la vita di Royal: anche in questo caso, l’aggressione sembra precedere la salvezza, perché la sorpresa segna per il capofamiglia reietto una svolta nell’ambito della sua missione e lo porta a rivedere la sua strategia alla luce di un inedito e problematico senso di responsabilità. La conclusione a cui Royal arriva, tanto semplice quanto insolitamente esplicita nell’ambito di questa famiglia dalla verbalità contrita, è sintetizzata dalla sua domanda, più sincera di quanto sembri: «Uno non può essere stronzo per tutta la vita

e poi riparare?». A suo modo, Royal sta cercando un lieto fine per la sua narrazione.

5.5 La sicurezza degli oggetti Con la casa di Archer Avenue si esprime in modo esplicito il gusto di Anderson per la rappresentazione di spazi artificiosi, saturi e dettagliati, realizzati come diorami infantili o come case di bambola. Il richiamo è, ancora una volta, al modellismo e ad attività fanciullesche che segnalano uno sviluppo bloccato, ma gli interni curatissimi e “parlanti” della casa dei Tenenbaum sembrano essere discendenti in toni pastello di un altro appartamento newyorkese al centro di uno dei film preferiti di Anderson: quello di Rosemary’s Baby (Id., Roman Polanski, 1968). La casa in cui Mia Farrow e John Cassavetes si spostano è in fondo la versione gigante di un diorama andersoniano, dove gli spazi architettonici sono dettagliatamente studiati per diventare protagonisti della vicenda. Ogni stanza ha la sua personalità e influenza i personaggi. I colori delle pareti, gli oggetti e la loro disposizione sono funzionali al suggerire la presenza del male. L’architettura della casa dei Tenenbaum, ogni suo dettaglio d’arredamento, si sovrappone alla personalità dei protagonisti per integrarla: Eric Anderson disegna una grande quantità di schizzi di ogni oggetto e stanza e tutto è già estremamente pianificato quando il lavoro passa nelle mani degli scenografi Sandy e David Wasco. Il font Futura è ovunque, usato non solo per le didascalie e le indicazioni in sovrimpressione, ma anche diegeticamente sui cartelli, sulle etichette e sulle porte (perfino sul piccolo casco del falco Mordecai). La regressione degli ormai adulti Richie, Chas e Margot è sottolineata dall’aspetto adolescenziale e immutato delle loro stanze, che somigliano a enormi scatole di ricordi calcificati dagli anni come lo sono gli ex piccoli Tenenbaum e le loro divise d’ordinanza. Browning evidenzia come ognuno sembri indossare gli stessi vestiti a partire dal preciso momento in cui il suo sviluppo emotivo si è in qualche modo inceppato. Per Margot sono ancora la pelliccia e il vestitino Lacoste di quando scappò di casa per stare con Richie, prima, e per trovare la sua famiglia biologica, poi. Per Richie è la tenuta da

tennis indossata fino alla misera conclusione della sua carriera di campione, modellata su quella di Björn Borg, campione il cui apice corrisponde al periodo in cui i Tenenbaum, e di conseguenza Wes Anderson (che da giovane praticava lo stesso sport) erano ragazzini, e che non dissimilmente da Richie si ritirò dalla carriera prematuramente, a 26 anni. Per Chas è la tuta da ginnastica, così da essere pronto per ogni emergenza e non essere più colto di sorpresa come lo è stato quando la moglie è rimasta uccisa. A loro si aggiunge ovviamente anche Eli, cristallizzato nella sua ridicola tenuta da cowboy, nel momento in cui ha deciso che il suo obiettivo nella vita era essere uno dei Tenenbaum. Anche i quadri esposti in casa sua prolungano la sua personale epica western, opere dell’artista Miguel Calderon, molto crude e forti, che però Eli sfoggia in modo provocatorio, per dimostrarsi un duro: rappresentano gruppi di “maschi alfa” come lui vorrebbe essere e incarnano un certo spirito alla Easy Rider che lui cerca di ricalcare anche nei vestiti. La tavolozza dei colori degli abiti intreccia a sua volta una serie di legami tra i personaggi: Royal e Richie, il figlio prediletto, sono accomunati dal colore della giacca; Etheline e Royal condividono una dominante rosa che simboleggia il loro legame passato e sbiadito, mentre i figli portano cromie dal rosso al blu molto più brillanti e sature. L’importanza della divisa e del suo colore si estende perfino al falco Mordecai, che, lasciato libero, vola via, salvo poi tornare con una quantità maggiore di piume bianche. Il rapporto dei protagonisti con la propria divisa subisce mutamenti solo in vista di veri traumi: Richie la abbandona quando tenta il suicidio, disfacendosi definitivamente del suo ruolo di ex campione, rasando barba e capelli. Royal invece si abbassa a indossarla quando prende la decisione di espiare le sue colpe e diventa lobby boy (proprio come Zero in Grand Budapest Hotel) nell’albergo dove prima era ospite di lusso: la divisa da inserviente dell’hotel ora rappresenta per lui la vera uniforme di un capitano in missione per la salvezza della sua ciurma. Oltre all’abbigliamento, a veicolare sentimenti che i Tenenbaum non sanno esprimere ci pensano gli oggetti

feticcio e cimeli che simboleggiano un legame fino a sostituirlo, a riempirsi di significato laddove i rapporti umani sono invece svuotati. Ogni Tenenbaum identifica e legittima la sua appartenenza alla casa di Archer Avenue tramite surrogati materiali di sentimenti che non ha mai saputo esprimere diversamente. Per Royal è l’amata testa di cinghiale, esiliata dal muro e riesumata dallo sgabuzzino dei giochi in scatola; per Richie sono la tenda da campeggio dell’infanzia, che ricorda il sacco a pelo condiviso con la sorella la sera della fuga al museo, i ritratti di Margot e l’inseparabile pepiera da taschino, che usa per condire i Bloody Mary; per Chas gli onnipresenti roditori dalmata da lui creati e mai più debellati dalla magione (una razza assurda proprio come i Tenenbaum, fra l’altro accuratamente creata da Wes Anderson medesimo che ha pitturato le macchie sui topini con pennarelli indelebili); per Margot, meno sentimentale e più cinica, le sigarette nascoste qualche lustro prima sotto un mattone del tetto. Perché «Gli umani non funzionano mai, sono depressi, delusi, autolesionisti […] invece gli oggetti sono lì, smaglianti nonostante l’età. Nascosti o impolverati ma sempre al loro posto e funzionanti»,[10] come il giradischi che Richie e Margot fanno suonare nella tenda – e che forse è lo stesso appartenuto a Suzy in Moonrise Kingdom. Come sempre in Anderson, le canzoni sono un’emanazione dell’emotività compressa dei Tenenbaum. Quello che non dicono è spesso sopperito dai brani che ascoltano, soprattutto dai testi, e che Anderson (insieme a Randall Poster) assegna loro. Così per Richie sono gli intimisti e malinconici Elliot Smith (Needle in the Hay) e Nick Drake (Fly); per Margot i Ramones (ma per Richie e Margot come coppia, nella tenda, sono i Rolling Stones a suonare), per Eli i The Clash (Police & Thieves e Rock the Casbah), per Chas John Lennon (Look at Me) e per Royal classici come Paul Simon e Bob Dylan. A Hey Jude è affidato il sottofondo del prologo: Anderson avrebbe voluto il pezzo originale dei Beatles, ma la congiuntura era pessima perché all’epoca George Harrison era già malato. Affida allora una cover a Elliot Smith, che però non riesce a realizzarla, e si limita infine alla versione strumentale di Mark Mothersbaugh. Ma il brano più importante della colonna sonora è These Days di Nico, che

accompagna la citata scena dell’arrivo di Margot: «È stata la prima cosa che ho avuto, prima ancora che sapessi di cosa avrebbe parlato il film. Sapevo solo che avrei avuto quella canzone, e che qualcuno avrebbe camminato al suo ritmo».[11] Con I Tenenbaum, all’opera terza, Anderson dimostra sempre più padronanza della materia a disposizione, ha più potere d’azione e maggiori possibilità di reclutare gli attori che ha in mente fin dall’inizio per i suoi personaggi. La sua cocciuta insistenza per avere Gene Hackman nel ruolo di Royal parla da sé: Anderson ha già presente nella sua mente tutti i Tenenbaum, con i vestiti, i capelli e il viso da lui assegnati. Rispetto ai primi due film, entrambi affidati a interpretazioni spesso caricaturali, seppur percorse sempre da un approccio piuttosto naturalistico, è con l’opera terza che Anderson compie il passo definitivo nell’utilizzare i corpi attoriali come elemento ulteriore della sua messa in scena, più importanti degli oggetti e delle scenografie curate nel dettaglio, ma trattati con modalità simili. È a partire da questa pellicola che inizia un processo di irrigidimento di tali corpi su ideali marionette/stilizzazioni già concepite insieme al design degli interni e alla tavolozza cromatica dei costumi: lo sguardo vitreo e imbronciato di Gwyneth Paltrow smarrita nella sua pelliccia; la nevrosi costante della riccioluta caricatura ebraica di Ben Stiller; l’impassibile sconfitta disegnata sul volto di Bill Murray, nel momento in cui per esempio scopre di essere tradito dalla moglie e non muove un solo muscolo facciale, limitandosi a salutare Margot con «Au revoir» (espressione francese che, proprio come Max Fischer, usa per darsi un tono); il languore inamovibile di Luke Wilson. Ogni attore è chiamato a indossare la propria maschera e a rivestire la propria fisicità di informazioni sul personaggio, al pari delle divise immodificabili. La fissità delle inquadrature radicalizza la stasi dei corpi: salvo poche sequenze d’azione, i Tenenbaum sono quasi costantemente in posa, o meglio, disposti all’interno dell’ambiente come manichini. Anderson ha, più o meno consapevolmente, compiuto il primo passo nel percorso che lo porterà, come conseguenza naturale, a utilizzare i pupazzi in plastilina e fil di ferro della stop motion. Già in Le

avventure acquatiche di Steve Zissou ogni personaggio avrà il suo preciso posizionamento plastico nelle inquadrature collettive e se Il treno per il Darjeeling costituisce un episodio ibrido a sé stante, con Fantastic Mr. Fox il regista compie l’estremizzazione di questa pratica. Una scelta che non scalfisce l’intaglio psicologico dei caratteri: proprio perché inscindibili dal loro rapporto di amore/odio con i feticci e gli oggetti dell’infanzia, i Tenenbaum al completo hanno una simbiosi con gli elementi dell’arredamento e con i propri accessori che va al di là del semplice possesso. Un rapporto che Anderson mette in scena trasformando i loro stessi corpi in prop, prolungamenti degli oggetti scenici, complementi d’arredo parzialmente semoventi, ancorati alla scenografia. Si veda in proposito la posizione costantemente dirottata ai margini, negli angoli e in pose spigolose, di Margot, la “diversa” e reietta perché adottata e non inserita nel nucleo, quindi confinata, nelle sequenze di gruppo, in un angolo dell’inquadratura. Oppure la funzione di gag corporale esplicitata dalla rigidità di Danny Glover, protagonista dei momenti più puramente comici del film, come quello in cui sprofonda in una buca mentre Etheline, e la macchina da presa, procedono imperterriti. Il repertorio delle attività segrete di Margot è un rapido montaggio di brevi sequenze al ritmo di Judy Is A Punk. Più che di veri flashback si tratta di messe in scena del dettagliato riassunto dei “misfatti” della Tenenbaum elencati dall’investigatore. La reazione, quasi catatonica e congelata, di Raleigh e Richie risulta comica, ma è presto stroncata da uno degli apici drammatici del film: il tentato suicidio del fratello, segretamente innamorato di Margot. La fotografia si raffredda fino ad attestarsi su inediti toni bluastri, mentre Richie si spoglia della parte più intima della sua immancabile divisa, la barba e i capelli lunghi da eterno campione di tennis in pausa. Sulle note di Needle in the Hay di Elliot Smith, guarda in macchina e dichiara a se stesso nello specchio «Ho deciso, domani mi uccido»: voce fuori campo della sua stessa esistenza, o incoraggiamento a compiere ciò che ha detto solo

a parole. Come sempre, però, i personaggi di Anderson faticano a tenere fede alla propria parola, perfino con se stessi, e Richie si taglia le vene subito dopo, mentre rapidi flash, poco più che subliminali, impressionano sullo schermo i suoi pensieri. A passare fugaci nella sua testa sono le persone amate: prima se stesso, poi Mordecai, la madre Etheline e infine Margot. La musica extra-diegetica subisce un taglio incongruo e brusco quando Dudley entra nella stanza e rinviene il corpo di Richie, per poi riprendere, con le chitarre scatenate nelle corsie dell’ospedale, mentre il gruppo imbrattato di sangue accompagna la barella. In breve tempo nuovamente al sicuro fra le mura di Archer Avenue, Richie mette in atto concretamente la fittizia parabola di rinascita che Royal ha solamente inscenato sino a quel momento: proprio come suo padre, non sta morendo, «ma tornerà a vivere».

5.6 Wes Carosello Mentre si prepara alla lavorazione di quello che sarà il suo film più personale e denso, il più compiutamente aderente alla sua poetica, il regista texano si affaccia al mondo della pubblicità realizzando, tra il 2002 e il 2003, spot televisivi per due grandi aziende, nei quali ripropone stilemi e, nonostante la durata limitata, temi già ampiamente orchestrati nei suoi primi lungometraggi.

Kitchen e Living Room. Ikea (2002) Nel dittico di spot realizzati per il colosso svedese dell’arredamento economico, con la fotografia di Harris Savides, Anderson ripropone in miniatura le dinamiche familiari surriscaldate che con I Tenenbaum l’hanno portato all’attenzione del grande pubblico: entrambe le pubblicità si aprono con una discussione privata dai toni alterati e un po’ isterici. In Living Room a occupare il salotto sono una ragazza e i suoi genitori: l’oggetto della lite è il fatto che la figlia sia rimasta incinta, cosa della quale madre e padre si accusano vicendevolmente. Nel caso di Kitchen si tratta invece di una scenata di gelosia di una donna al suo compagno. In entrambe le situazioni, il colpo di scena dello spot, realizzato in piano sequenza, è una panoramica a schiaffo che fa entrare nel quadro un sorridente commesso Ikea, che chiede ai protagonisti se hanno deciso di comprare il mobilio. Le famiglie sospendono immediatamente l’isteria per affermare che sì, lo compreranno. Era tutta una finta, un gioco, un immaginarsi all’interno della ricostruzione di una vera stanza, come simulacro di una vera famiglia (disastrata e disfunzionale, ça va sans dire). Playing house, come si dice in inglese per “giocare alla famiglia”. Anderson usa così i due spot per riproporre il suo leitmotiv delle vite immaginate, della creazione di una finzione cui aderire incondizionatamente: è sufficiente che si ritrovino in una delle stanze ricostruite dello showroom Ikea perché i suoi protagonisti comincino a immaginare un dramma fittizio di cui essere gli eroi.

Meet Mark. Avon (2003) In collaborazione con il sodale Robert Yeoman, Anderson realizza per il brand Mark, sottomarchio della ditta di cosmesi Avon, uno spot che pare quasi parodiare la galleria di personaggi presentati in rapida successione in I Tenenbaum: nove donne sono mostrate in inquadrature perfettamente simmetriche all’interno di altrettanti set, con vestiti e accessori cromaticamente intonati, mentre parlano di Mark. Il commercial è realizzato come un falso piano sequenza, dando l’impressione che la macchina da presa si sposti rapidamente fra una serie di set adiacenti (lo stesso escamotage sarà usato da Anderson per la serie di spot per AT&T). La macchina si sposta con carrelli rapidi da una all’altra stanza, costruendo uno dei suoi tanti diorami, case di bambola dai colori pastello. Ma il diorama più elaborato della sua filmografia è ancora in procinto di essere costruito, in uno studio di Cinecittà, con le sembianze della nave Belafonte di Steve Zissou.

[1]

Browning M., Wes Anderson. Why His Movies Matter, Praeger, Santa Barbara 2011, p. 38. [2]

Forse non incidentalmente, il medesimo classico per ragazzi di Wyss è citato dal conterraneo di Anderson, Terrence Malick, fra le sue ispirazioni per La rabbia giovane (Badlands, 1973), che più avanti sarà citato da Wes Anderson in Moonrise Kingdom. [3]

Bucher M., The Royal Tenenbaums and Infinite Jest, kottke.org/09/04/the-royaltenenbaums-and-infinite-jest. [4]

Pressbook di I Tenenbaum.

[5]

McMahon G., Magical Realism in New York, in «Film International», vol. 7, n. 5, ottobre 2009, pp. 17-26. [6]

Bucci M., I Tenenbaum, in Effetto notte, www.effettonotteonline.com.

[7]

Zoller Seitz M., The Wes Anderson Collection, Abrams, New York 2013.

[8]

Browning M., op. cit., p. 45.

[9]

Il font Futura, che caratterizza tutto il film, è proprio solo dei membri effettivi della famiglia Tenenbaum ed è utilizzato per i titoli sulle copertine dei libri da loro scritti. [10]

Masneri M., Il soft power di Wes Anderson, 22 febbraio 2014, www.ilsole24ore.com. [11]

Miller N., The Life Melodic, in «Entertainment Weekly», n. 798, 24 dicembre 2004.

6. 20.000 leghe sotto il cuore Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004)

Dopo gli alter ego più o meno velati dei primi tre titoli, Wes Anderson scopre ulteriormente le carte e mette in scena un nuovo autore/impostore, questa volta direttamente legato alla settima arte. Regista di film autobiografici e pseudo-scientifici, interessato alla cattura di scene madri più che all’approfondimento documentaristico, Steve Zissou è la summa degli eroi andersoniani. Padre assente e poi redento, egocentrico convinto, capitano (quasi) coraggioso, sognatore e bugiardo. Il suo percorso segue le tracce di Royal Tenenbaum, ma al contrario: dove per Royal l’avventura marittima era un sogno coronato soltanto da una lapide post mortem, per Steve l’avventura vera comincia una volta sceso dalla nave. Quella che Wes Anderson, forte del successo clamoroso di I Tenenbaum (52 milioni di dollari incassati in America e oltre 70 in tutto il mondo, cui si aggiunge il prestigio della nomination agli Academy Awards per la sceneggiatura originale, firmata insieme a Owen Wilson) si permette di acquistare in duplice copia, sezionare, smontare e ricostruire in uno studio di Cinecittà, trasformandola in un diorama sovradimensionato, proporzionato all’ego di Steve. Con Le avventure acquatiche di Steve Zissou si completa idealmente la trilogia cominciata con l’opera seconda: se Rushmore era l’ipotetico adattamento di una pièce teatrale, scandita da atti, incorniciata dal sipario e partorita dalla mente di Max Fischer, e I Tenenbaum un romanzo, fisicamente presente sullo schermo e narrato in voce over da Alec Baldwin, Anderson chiude il cerchio approdando al metacinema. Le avventure acquatiche di Steve Zissou è un documentario sul documentarista, un dietro le quinte del dietro le quinte, una messa in abisso del processo creativo che

conduce alla creazione di un film. E il dubbio sulla veridicità di quanto accade investe non solo lo spettatore, ma anche i protagonisti: incerti se per il regista Zissou siano considerati persone o soltanto personaggi. A un festival cinematografico europeo il documentarista ed esploratore Steve Zissou presenta il suo ultimo lavoro, in cui racconta la morte violenta del collaboratore Esteban, ucciso da un rarissimo squalo giaguaro. Afflitto da un declino artistico, finanziario e affettivo, Steve decide di imbarcarsi nell’impresa di catturare l’animale, insieme al suo team di scienziati e alla sua troupe, a bordo della Belafonte. Lo segue il pilota Ned, che dice di essere suo figlio biologico ed è disposto a finanziare la spedizione del padre. La missione sarà funestata da ammutinamenti, attacchi di pirati filippini, scarsità di fondi e dalla presenza della giornalista Jane Winslett-Richardson, inizialmente decisa a redigere un poco lusinghiero ritratto di Zissou. Nel corso delle esplorazioni Ned perde la vita, il Team Zissou riesce ad avvistare lo squalo giaguaro ma non a catturarlo e Steve realizza un nuovo film di successo che presenta al festival. Ma qualcosa in lui è cambiato per sempre.

6.1 Voglio parlarvi della mia nave Il film nasce da un racconto breve intitolato Lo squalo giaguaro scritto da Anderson circa 15 anni prima, dichiaratamente ispirato alle opere di Jacques-Yves Cousteau al quale Le avventure acquatiche di Steve Zissou è dedicato. Owen Wilson aveva suggerito più volte di svilupparlo in un film, ma, quando Anderson ha finalmente il potere produttivo per lanciarsi nell’impresa, la carriera attoriale in piena ascesa di Wilson fa sì che non sia disponibile a lavorare allo script (nel quale Anderson gli ritaglia comunque il ruolo di coprotagonista). Con Le avventure acquatiche di Steve Zissou il regista inaugura quindi la collaborazione con un nuovo partner di scrittura, Noah Baumbach, con cui firmerà a quattro mani anche Fantastic Mr. Fox. Newyorkese di nascita, coetaneo di Wes, collaboratore dell’amato «New Yorker», tre film alle spalle negli anni Novanta (Kicking and Screaming, 1995; Mr. Jealousy, 1997; Highball, 1997), Baumbach è interessato a rappresentare personaggi fuori dal coro, disfunzionali e bloccati. Il suo Il calamaro e la balena (The Squid and the Whale, 2005) esce a breve distanza da Le avventure acquatiche di Steve Zissou, prodotto proprio da Anderson. I 50 milioni di dollari di budget costituiscono per Anderson un salto di qualità definitivo, che si traduce nel suo più complesso e gigantesco diorama (almeno fino a Grand Budapest Hotel): la nave Belafonte, cuore del film ed estensione naturale della mente di Zissou. Quando Bill Murray, nei panni di Zissou, si rivolge direttamente allo spettatore dicendo «Voglio parlarvi della mia nave», è facile identificare nel suo orgoglio di padrone e inventore di un mondo in miniatura l’orgoglio dello stesso Anderson: Zissou tiene in mano un modellino della Belafonte, proprio come il regista abbraccia con la macchina da presa la nave a grandezza naturale. Per la Belafonte sono state utilizzate due vere imbarcazioni gemelle, scovate dalla produzione in Sudafrica e trasportate fino a Roma. Una delle

due è servita per le riprese in esterni, l’altra è stata smontata e ri-assemblata in modo da fornire il set per gli interni colmi delle attrezzature vintage del Team Zissou. L’effetto è quello paradossale di un ambiente completamente artificioso, ricreato in ogni minimo dettaglio a partire da una vera barca, fino a ottenerne una versione intensificata e iperrealista, allo stesso modo della New York dei Tenenbaum e del convoglio di Il treno per il Darjeeling. A proposito della ricostruzione della nave, e del collegamento fra le riprese in esterni e quelle all’interno di Cinecittà, Anderson ricorda: Non c’erano teatri di posa abbastanza grandi a Cinecittà per contenere la barca. Abbiamo usato il numero 5, quello di Fellini, ma non era possibile allontanarsi abbastanza da riprendere la barca in campo lungo. […] Io e il mio direttore della fotografia abbiamo visto ogni film rilevante ambientato su una barca e alla fine abbiamo deciso che quello giusto era Black Stallion(The Black Stallion, Carroll Ballard, 1979): in questo film le riprese in esterni dell’incipit sono state realizzate su una vera barca, mentre le scene in interni non comunicano affatto con le precedenti – c’è solo un’inquadratura dove la macchina da presa oscilla come se fosse in mare. Così abbiamo fatto anche noi: una sola inquadratura ed è bastato. Una volta che il pubblico sa che sei sulla barca, non devi fare niente di più.[1]

Completa di cucina, sauna, biblioteca, laboratorio per gli esperimenti, sala di montaggio e sala di registrazione (per i documentari firmati da Zissou), la nave ha anche una eccentrica cupola di osservazione che Steve ha creato dopo averla vista in sogno. Come l’ispirazione di Anderson per il film, nata inizialmente, oltre che dalla suggestione del suo racconto di gioventù, dal semplice desiderio di accostare di due colori, il giallo e l’azzurro, che costituiscono la base di una tavolozza cromatica insolitamente chiara rispetto alle sue opere precedenti e adeguatamente marittima. Anderson si muove sul set come se fosse dentro la scena, l’operatore ombra di Vikram (interpretato da Waris Ahluwalia): la macchina da presa, sin dalla prima sequenza, asseconda i dettami di Steve. Ne è un esempio la scena iniziale della première, in cui Zissou dà la parola al pubblico in sala. Il moderatore (interpretato da Antonio Monda, scrittore italiano e docente alla Tisch di New York, amico di Anderson) dice: «Lassù, lì in fondo» e la macchina da presa segue esattamente

le sue indicazioni, alzandosi e poi avvicinandosi a Ned (Owen Wilson) con uno zoom. Eccezion fatta per le concitate sequenze d’azione, il senso per l’ortogonalità della regia andersoniana raggiunge in Le avventure acquatiche di Steve Zissou i suoi estremi: i movimenti di macchina seguono le architetture della nave, ne percorrono le scale in verticale e i corridoi in orizzontale, spostandosi lateralmente tramite carrelli ma restando frontali, senza mai modificare l’angolo di ripresa, sfiorandone la struttura come fosse una planimetria. La Belafonte è la versione tridimensionale dei tanti schemi, disegni e progetti fantasticati dagli eroi di Anderson. Per realizzarla compiutamente, nel suo film più corale fino a Grand Budapest Hotel, Anderson apporta aggiunte e modifiche alla sua squadra abituale destinate a far evolvere l’estetica del suo cinema in modo determinante. Dietro la macchina da presa il Team Anderson subisce infatti trasformazioni notevoli: Roman Coppola, futuro partner favorito di scrittura e regia, qui dirige la seconda unità, mentre la scenografia passa nelle mani di Mark Friedberg e i costumi in quelle del premio Oscar Milena Canonero. La collaborazione con la celebre costumista – cui sono stati affidati, tra gli altri, gli abiti di Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1971) e Barry Lyndon (Id., 1975), fatto, questo, che permette di tessere un legame ideale tra il regista texano e Stanley Kubrick, con cui Anderson condivide la volontà di controllare in modo totale e assoluto ogni aspetto del fare cinema – costituisce un’ulteriore spinta verso la stilizzazione caricaturale dei corpi attoriali. Ancora più cartooneschi e astratti sono gli indumenti indossati dai protagonisti, che incrementano la sensazione che il tutto si svolga in un universo irreale, pseudo fantascientifico. Le indicazioni di Anderson infatti si ispirano proprio alla sci-fi vintage, alla serie Star Trek e alle sue divise rigide in poliestere: tutta la tecnologia e l’estetica dell’equipe di Steve sembra presa in prestito da una versione stralunata degli anni Sessanta. Come Dignan e come i Tenenbaum prima di lui, anche Zissou è un bambino nel corpo di adulto, anche lui porta con sé i retaggi di show televisivi e canzoni assorbiti nell’infanzia, che possiamo collocare proprio nel decennio cui ogni dettaglio della sua imbarcazione e dei suoi accessori

sembra ispirarsi. In un certo senso, Steve sta cercando di ricreare una squadra super efficiente a bordo di un’astronave dalle tecnologie strabilianti, che in realtà è soltanto una nave la cui stanza tecnologicamente più avanzata è la cucina. La divisa del Team Zissou è completata da sneakers Adidas, personalizzate con il logo di Zissou. Questa scelta sancisce la volontà di Anderson (che aveva già scelto il celebre marchio di moda sportiva per la tuta di Ben Stiller/Chas Tenenbaum) di definire il suo stile cinematografico anche attraverso la sinergia con il mondo dell’alta moda, secondo una tendenza che contraddistingue tutta la seconda parte della sua filmografia (numerosi sono i vestiti e gli accessori realizzati appositamente per i suoi film da grandi maison, come le valigie Louis Vuitton di Il treno per il Darjeeling o il cappotto in pelle by Prada di Grand Budapest Hotel). Anjelica Huston, ineffabile moglie di Steve e «vera mente del Team Zissou», è invece sempre truccata e vestita in modo da sembrare una creatura marina, una sorta di sirena altera e insofferente. All’attrice e agli altrettanto fedeli Wilson e Murray si sarebbe dovuta aggiungere Gwyneth Paltrow, cui era riservato il ruolo di Jane, poi abbandonato per impegni concomitanti. Davanti alla macchina da presa arrivano invece Willem Dafoe e Jeff Goldblum per ironiche e divertite parentesi nella loro filmografia tendenzialmente più seria (cosa che ripeteranno anche in Grand Budapest Hotel), mentre nei panni dello “scagnozzo della produzione” troviamo Bud Cort, il protagonista di Harold e Maude, presenza con cui Anderson omaggia il cinema di uno dei suoi ispiratori, Hal Ashby. Anderson muove anche i suoi primi passi con la stop motion, tecnica amata fin da ragazzino come spettatore per il suo peculiare fascino che alla magia unisce la forte consapevolezza dell’artigianato, l’illusione e al tempo stesso la spiegazione di come l’illusione sia stata realizzata. Ammaliato dal lavoro di Henry Selick per James e la pesca gigante (James and the Giant Peach, 1996 – tratto da Roald Dahl come lo sarà Fantastic Mr. Fox), gli affida la creazione delle immaginifiche e colorate bestiole acquatiche che si integrano nelle riprese dal vivo, contribuendo a dare forma all’universo

parallelo in cui si muove il Team Zissou. Lo squalo giaguaro lungo tre metri, la cui apparizione segna il momento più intenso del film, è stata la più grande creatura animata in stop motion mai realizzata da Selick. Alla quarta opera, Anderson realizza anche il desiderio, già sfiorato in precedenza, di affidare l’intera colonna sonora a un solo autore. La scelta ricade su David Bowie, artista alieno per vocazione che ben si adatta alle atmosfere lunari delle avventure di Zissou, e su un repertorio in linea con la nostalgia Sixties di cui il film è intriso. Accordandosi all’effetto di straniamento e alla perdita di riferimenti geografici che caratterizzano Steve come gli altri eroi di Anderson, il corpus di brani di Bowie è interpretato in portoghese da Seu Jorge. Il regista racconta di essersi accorto solo durante la lavorazione che l’attore (una vera pop star in Brasile) stava inventando le parole di sana pianta, senza tradurre i testi originali di Bowie. A proposito della bizzarra scelta musicale, Anderson chiosa: «Il mio progetto originale era di rendere tutto elettronico e dargli un sentore di Radiohead. Sarebbe stato tutto molto più semplice. Ma questo film non è semplice».[2] Il film si apre a Napoli, dove nel teatro San Carlo è ricostruito l’immaginario festival di Loquasto (nome preso in prestito dallo storico scenografo di Woody Allen), kermesse cinematografica in cittadina di mare che pare una via di mezzo fra quelle di Venezia e Cannes. Nelle riprese ambientate in Italia Anderson dichiara di essersi ispirato ai film con Marcello Mastroianni, a L’avventura di Antonioni (1960) e alle foto di Richard Avedon scattate negli anni Sessanta nel Belpaese. Si tratta però di riferimenti di superficie, dettagli di stile e di look. In molti hanno sottolineato l’assonanza con 8 ½ di Federico Fellini (1963), per la figura centrale del cineasta in crisi alla ricerca di ispirazione. Anderson stesso confessa un presunto debito verso il regista riminese: «Certamente 8 ½ è qualcosa di cui io e Noah Baumbach abbiamo parlato, è un film che amiamo. Lavorando a Cinecittà sentivo una connessione con Fellini e ci siamo decisamente ispirati a lui».

Ma nonostante ciò, Le avventure acquatiche di Steve Zissou di felliniano ha ben poco: il debito di Anderson è più una suggestione visiva che un’ispirazione concreta. Se un debito va identificato, in un film che sfugge a ogni etichetta e sembra giunto da un pianeta in cui il cinema è appena stato inventato, è piuttosto con il documentarista francese Jean Painlevé. Autore, fra gli anni Trenta e i Sessanta, di numerosi corti a soggetto ittico, Painlevé riprendeva ippocampi, meduse e piovre come fossero extraterrestri o mostri inquietanti, accompagnando i loro movimenti con un sottofondo di musiche suggestive, da film di fantascienza, che riecheggiano nei ritmi elettronici di Mark Mothersbaugh. [3]

6.2 Puoi chiamarmi Stevesey: Zissou, Achab e Cousteau Pensato e scritto appositamente per il sodale Bill Murray (apparso in tutti i film di Anderson eccetto il primo, e solo qui protagonista principale), Steve Zissou è la versione titanica degli eterni fanciulli del regista, l’apoteosi di un’infanzia bloccata forse per sempre a quegli undici anni e mezzo che, come rivela nel momento catartico dell’apparizione dello squalo giaguaro, sono «la mia età preferita». Il nome lo eredita dallo scavezzacollo fratello di Lartigue, il fotografo già citato in Rushmore; il cappello rosso dall’idolo Jacques-Yves Cousteau e l’ossessione per un grosso animale marittimo dal suo illustre antenato, il capitano Achab. Ma si potrebbe anche vedere Steve come ciò che Max Fischer sarebbe diventato se fosse davvero cresciuto cercando di imitare il suo mentore Herman Blume, fino ad assumerne i connotati fisici. L’infantile ricerca di una posa da assumere; il rivendicare diritti di prelazione sulla scelta di una ragazza (il monito «Non con questa!» riecheggia il lamentoso «Mi sono innamorato prima io») e in generale l’approccio egoistico nel rapporto con l’altro sesso (il tatuaggio dell’ex amante cancellato perché «non lo amava abbastanza», il rapporto difficile con la moglie Eleanor, la madre abbandonata di Ned/Kingsley e ovviamente Jane, che apostrofa in modo perfido quando capisce che lei non ricambia il suo interesse); il tentativo di stabilire contatti umani tramite l’esibizione del lutto (quando Ned fa presente che è appena morta sua madre, Steve prontamente gli ricorda che ha appena perso il suo migliore amico Esteban); l’aver indubbiamente scelto «una cosa» che ama «da fare per tutta la vita»: tutto ciò fa di Steve la versione adulta di Max, cresciuta ma rimasta legata alle sue incrollabili convenzioni e alla voce che sul finale di Rushmore cantava, con cinismo posticcio e maligno verso la donna amata, delle cose che «avrebbe voluto sapere da giovane».

Come Max, Steve è cresciuto con il mito delle esplorazioni di Jacques-Yves Cousteau: ha modellato la sua carriera e la sua immagine su quella di un idolo – Lord Mandrake, l’equivalente finzionale di Cousteau – ma non in modo programmatico e scientifico, semplicemente prelevando dall’immaginario dell’esploratore acquatico tutto ciò che gli sembrava più affascinante e cool, e riproponendolo senza basi solide. Proprio come avrebbe fatto un adolescente invaghito dei volumi e dei documentari di Cousteau. Il nome della Belafonte è un omaggio all’esploratore (Harry Belafonte era soprannominato “re del calypso” e Calypso era il nome dell’imbarcazione di Cousteau); il rapporto tra Steve e Ned ricalca la vicenda di Cousteau e di uno dei suoi figli, non riconosciuto; la morte incidentale di Ned assomiglia a quella di un altro figlio di Cousteau, Philippe (anche se, nella lunga intervista con Matt Zoller Seitz, Anderson confessa di essersi ispirato, per la questione della paternità negata da un padre regista, anche a una incredibile voce di corridoio secondo la quale Michael Bay sarebbe il figlio illegittimo di John Frankenheimer).[4] Con l’Achab di Herman Melville, Zissou condivide almeno «la caccia, a scopo di vendetta, di un’enorme creatura marina» e il fatto di essere «entrambi capitani dittatoriali con personalità potenti»,[5] oltre al fatto che, alla resa dei conti, nessuno dei due uccide veramente l’animale. Steve Zissou è, in modo inequivocabilmente cialtrone, un avventuriero, un esploratore, un “capitano coraggioso” e il solito, folle promotore di imprese impossibili, ma soprattutto è un regista, un autore di film documentari un tempo amati dalla critica e proiettati ai festival internazionali. Il mestiere di cineasta è messo in una luce ironica: primadonna viziata e capricciosa, Zissou è egoista e disposto a sacrificare tutti per la riuscita delle sue idee, un demiurgo dispotico e irascibile che vuole il controllo sui suoi “attori” e sulla sua troupe. La ciurma della Belafonte diventa così una trasposizione della crew che lavora sul set, spesso bistrattata e umiliata (gli stagisti sono considerati privi di qualsiasi valore umano): una squadra che però, nel caso di Steve, funziona come una

famiglia. Ovvero, secondo la poetica andersoniana, non funziona affatto. Bugiardo carismatico, creatore di fiction, showman: non possiamo mai credere davvero fino in fondo a quanto dice Steve, perché il suo comportamento è sempre filtrato dalla possibilità di essere ripreso. Per lui il confine tra vita e cinema è permeabile e indefinito. Quando Hennessey (ufficialmente definito la sua nemesi, perché per essere davvero l’eroe della sua narrazione, Zissou ha bisogno anche di un arci-nemico, addirittura più tronfio ed egocentrico di lui) gli chiede se questo squalo giaguaro esista davvero, lui risponde enigmatico «Non voglio bruciarmi il finale». Fin dall’inizio, la natura del film nel film è sospesa in un regime di verosimiglianza incerta. Anche Ned subisce questa ambiguità: quando esplode dicendogli che sa di essere «solo un personaggio» nel suo «film», Steve è più sincero di quanto sembri nel rispondergli la sua unica verità: «Questo è un documentario, tutto quello che succede è vero!». Ciò che interessa a Zissou è la presa sul pubblico, il valore filmico dell’opera più di quello scientifico: in questo senso è un cineasta istintivo e appassionato, ma tragicamente legato all’aspetto finanziario dell’industria in cui si muove. Con gli altri autori di narrazione di Anderson, però, condivide un tratto fondamentale: «Sembra essere interessato al risultato, ma in realtà è innamorato del processo».[6] Steve fa credere di essere in missione per uccidere lo squalo, per arrivare a vendicarsi, ma sono piuttosto il viaggio, la ricerca, il percorso a esaltarlo. Il tentativo di cavarne emozioni per il pubblico, la sua ansia di filmare tutto, di non perdere i momenti strappalacrime, lo caratterizzano come un bieco venditore di emozioni, ma nasconde una verità più profonda: gli preme immortalare su pellicola quei momenti (il rapporto con Ned, l’ammutinamento degli stagisti, la caduta rovinosa giù per le scale), più ancora che montarli in un prodotto finito per il pubblico. Così Le avventure acquatiche di Steve Zissou, nel suo eterogeneo mix di commedia e avventura, documentario e animazione, è il più compatto e riuscito esempio della poetica di Anderson, che aderisce completamente al bisogno di narrare del suo eroe. La sua macchina da presa (non quella

dell’operatore Vikram) è lì quando Steve ruzzola per le scale e necessita di un primo piano per esprimere i suoi sentimenti al figlio. «Gli daremo la verità: un vecchio sorpassato, senza amici, senza distribuzione, in crisi matrimoniale, preso in giro da tutti, che si piange addosso». Il tono è melodrammatico, l’espressione impassibile, ma l’intento probabilmente sincero. Dare al pubblico la verità, non in senso documentaristico, ma emotivo. L’esigenza primaria di Zissou, come di Anderson, è quella di raccontare: è questo a fare di Steve un documentarista poco efficace e un grandioso creatore di fiction. Come ipotizza Matt Zoller Seitz, lo squalo giaguaro potrebbe essere una metafora della morte, l’invincibile ostacolo dei narratori: Steve lo fronteggia e decide di lasciarlo vivere, ovvero affronta la sua mortalità, finalmente e pienamente, e con essa il problema del dopo, del suo lascito, di ciò che resta. Nel finale Zissou è di nuovo a Loquasto, un anno dopo, con il nuovo film, ma non resta in sala per vederlo e per parlarne col pubblico. La celebre frase conclusiva in cui sentenzia «Questa è un’avventura» ha il duplice significato di farci credere (sperare) che per l’eroe si sia compiuto un arco di trasformazione, che abbia deciso che la vita vera è al di fuori del set e della macchine da presa. Oppure, semplicemente, Zissou sta per diventare un documentarista dell’anima, ha capito che le vere avventure non sono sott’acqua e bisogna catturarle tutte: il finale, in cui l’intera truppa sale nuovamente a bordo, fa pensare che ci siano altri film da girare per il Team Zissou.

6.3 Esploratori falliti Primo film di Anderson a essere ambientato e girato all’esterno degli Stati Uniti, Le avventure acquatiche di Steve Zissou porta a un livello superiore di complessità il tema dell’impossibilità per i protagonisti di conoscere il mondo. Esploratore e viaggiatore, teoricamente Steve Zissou sarebbe uomo di mondo e conoscitore di culture, ma così non è: il suo mondo fittizio è costituito dalla Belafonte, universo in miniatura che porta letteralmente sempre con sé, e il suo modo di affrontare culture diverse non è meno superficiale di quello degli eroi che lo precedono. Usa il francese come lingua di conforto per le situazioni scoraggianti e solo per atteggiarsi sfruttando il suono di una lingua esotica (a Eleanor che lo lascia dice «Non dirmi addio, dimmi bon voyage»). Ordina Campari (perfino sulla mongolfiera) con la nonchalance gradassa di chi all’estero passa più tempo al bancone dei bar che per strada. È ossessionato dal dare nomi alle cose e alle persone per prenderne possesso, più colonizzatore che esploratore: così la sua isola è battezzata Pescespada, il figlio Kingsley anziché Ned, il sottomarino giallo, che si chiamava Jacqueline come la prima moglie, ora si chiama solamente Deep Search. I nomi dei personaggi del film rispondono a questo schematismo: ridicolizzano e riducono a stereotipo tutto ciò che non è americano, come a riflettere l’incapacità di Zissou di calarsi nella realtà di chiunque altro. Allora la giornalista inglese ha il doppio cognome snob, WinslettRichardson, composto dai nomi di celebri attrici inglesi; il tedesco, «affidabile» membro della squadra si chiama semplicemente Klaus; il brasiliano Pelé Dos Santos evoca il celebre calciatore e la squadra in cui giocò per la maggior parte della sua carriera agonistica. Nessun luogo gli interessa all’infuori della sua nave. Ha migliaia di mappe ma non può, perché non vuole, conoscere il resto del mondo, e l’unico posto che ricorda con dovizia di particolari è il bar dell’ormai diroccato Hotel Citröen.

6.4 Generi degeneri Come nota Matt Zoller Seitz, «Le avventure acquatiche di Steve Zissou è girato in Cinemascope, un formato ampio tipicamente usato per action, sci-fi o film storici, non commedie. Ma qui Anderson e il direttore della fotografia Robert Yeoman creano un glorioso ossimoro: un’epica comica».[7] Imperniato su un’ossatura di commedia drammatica non troppo differente da quelle dei film precedenti, l’opera quarta di Anderson è la prima a stabilire un rapporto con il cinema di genere. Un colpo da dilettanti prendeva le mosse da un presupposto da heist movie, ma deviava rapidamente verso la commedia tout court, così come Rushmore e I Tenenbaum (pur contenendo entrambi qualche accenno, sempre ironico, di noir o spy movie nelle modalità con cui Max e Royal si muovevano durante le loro imprese). Anderson dialoga con i generi a modo suo: Le avventure acquatiche di Steve Zissou è, fin dal titolo, un film d’avventura, punteggiato di scene d’azione, di inseguimenti, di sparatore. La sequenza iniziale, con la proiezione del documentario di Steve, vede lo schermo riempirsi di sangue a causa della morte di Esteban per opera dello squalo giaguaro. Altro sangue si riversa sulla macchina da presa nel momento dell’incidente che costa la vita a Ned, la scena più drammatica, girata senza sottofondo musicale. Steve è il primo eroe andersoniano mostrato nell’atto di uccidere qualcuno: all’attacco dei pirati filippini reagisce sfoderando la pistola, nonostante si aggiri per la nave in accappatoio e infradito, e l’inquadratura sul pirata assassinato è cruenta e inattesa. I protagonisti finiscono bendati e ammanettati, in pericolo di vita, minacciati con armi da fuoco. Tutta la squadra di Hennessey viene massacrata e sepolta in un cimitero improvvisato, Hennessey stesso è ferito (e ironicamente, in quella sequenza, indossa la stessa maglietta della Dr. Pepper, bibita inventata in Texas, con la scritta “I’m a Pepper!” che portava il venditore di pistole nel cortometraggio Bottle Rocket). La scena del salvataggio presso l’Hotel Citröen è

girata con modalità da action, con la truppa al completo che si avventura sull’isola armata fino ai denti, seppure costantemente smorzato dalla comicità dei dettagli (le mute identiche, tranne quella di Klaus che prevede i pantaloni corti). La violenza fa il suo ingresso nel cinema di Anderson – e non si tratta più dei cazzotti sul naso che ogni suo film contempla e che anche Ned e Steve, come da tradizione, si scambiano. Ma il dialogo del regista con il cinema di genere è sempre filtrato dall’aderenza allo sguardo del suo protagonista. Come suggerisce Browning, gli scontri a fuoco del film, per quanto concitati e rumorosi, somigliano molto a quelli della pièce Paradiso e inferno di Max Fischer:[8] è una violenza da cartone animato, stereotipata e non realistica, il tipo di situazione in cui Steve si raffigura come un vero eroe. Il suo presunto linguaggio da duro parla chiaro («Ti prendo a calci in culo finché non diventi miope», «Se non se ne vanno dalla mia nave saranno cazzi molto amari»), così come la colonna sonora rock (una delle pochissime eccezioni, all’interno del film, al dominio di Bowie rivisitato in portoghese) con cui si lancia al contrattacco dei pirati (Search and Destroy di Iggy and the Stooges, che sembra scaturita dalla sua fantasia). Un altro dato in comune fra il maturo Zissou e l’adolescente Max è la passione per la dinamite (vera e propria costante di Anderson: anche Dignan la nominava come elemento cruciale del piano), con cui progetta di ammazzare lo squalo giaguaro – e anche quando, di fronte alla possibilità che sia una specie rara, ritratta e liquida così la questione: «Lo braccherò ma non lo ucciderò. Dov’è la mia dinamite?». Quella a cui stiamo assistendo è la fantasia in Technicolor di un narratore che cerca il facile effetto per il pubblico. Ancora una volta, non si tratta del tentativo di Anderson di cimentarsi realmente con generi differenti dalla commedia drammatica, né di parodiarli con gusto postmoderno, ma solo di offrire la sua macchina da presa alla mente caleidoscopica del suo eroe.

6.5 Padri e (scene) madri L’intero film è percorso da complesse e simmetriche geometrie triangolari che dipanano in modo più intenso del solito le tematiche del padre assente e della ricerca di appartenenza familiare. La più tesa è quella che vede al vertice la giornalista Jane, la donna in cerca «di un figlio per questo padre». Causato dallo shock dell’attacco pirata, il lapsus circa la sua natura di ragazza madre, incinta di un bebè il cui vero genitore si è già dato alla macchia, dice più di quanto lei creda. La sua presenza, il suo costituire un oggetto del desiderio sia per Steve che per Ned, stimola il rapporto fra i due uomini. E senza che nessuno dei due ne sia davvero consapevole, in lei vedono più una figura materna che una donna da conquistare. Il primo contatto fra Ned e Jane avviene perché lui è affascinato dalla sua voce, la sente provenire dalla cabina dove la trova impegnata a leggere Alla ricerca del tempo perduto di Proust, ad alta voce, per il suo bimbo ancora in grembo. Si siede anche lui, di fianco al letto, ad ascoltarla: Jane come la Wendy di Peter Pan, come già era stata Miss Cross per Max, come sarà Suzy per gli scout di Moonrise Kingdom, è una figura materna vicaria. Anche per Steve, che ha tentato un approccio romantico e l’ha insultata chiamandola «cronistucola», «cinghialessa» e «lesbicaccia» per tutto il film, la riconciliazione passa attraverso l’imminente maternità della donna: nel momento in cui vede lo squalo giaguaro, allunga una mano a toccarle la pancia, gesto che Jane accoglie, immaginando che il figlio «fra dodici anni ne avrà già undici e mezzo», ovvero sarà pronto per essere un membro della Zissou Society (infatti nella scena finale il bimbo indossa il cappellino rosso d’ordinanza). Steve perde suo figlio proprio quando ha finalmente metabolizzato il fatto di essere padre. Per buona parte del film presenta Ned dicendo: «Probabilmente mio figlio» e non gli permette di chiamarlo papà perché «è troppo specifico». Quando Ned gli rinfaccia di aver ignorato per anni la sua esistenza, lui esplode sinceramente: «Odio tutti i padri e non

ho mai voluto esserlo!» (pensiero che sarà presto riecheggiato da Peter Whitman in Il treno per il Darjeeling). D’altro canto, il dialogo fra Eleanor e Jane rivela che Steve «spara a salve», cioè non può procreare (deficit che la moglie spiega così: «Credo che sia perché ha passato metà della vita sott’acqua»). Steve è una creatura ibrida (il più sincero scambio con il figlio lo vede confessare il sogno infantile di poter respirare sott’acqua), una sorta di sirena, come nel bruttissimo ritratto che mostra fiero a Ned all’inizio del film. Non può essere genitore, o forse, come ipotizza Joshua Gooch, «tutto ciò che può generare sono film».[9] L’attaccamento di Steve alle sue pellicole, alle sue scene madri, appunto, è allora quello di un padre, di un genitore orgoglioso. Un altro triangolo articolato intorno al ruolo di padre/mentore di Steve vede contrapporsi Klaus e Ned: il primo ha un irrazionale bisogno di riconoscimento da parte del leader carismatico, che per lui è l’unica figura paterna, al punto da sentirsi minacciato dall’arrivo del (potenziale) figlio biologico. Entrambi, non riuscendo a instaurare col padre putativo un rapporto umano, si affidano ai feticci: l’anello della Zissou Society di Ned, il vessillo del Team dove il logo di Klaus prende posto vicino al delfino. Cercano surrogati simbolici come la divisa, il cappello e tutto l’armamentario del Team, uniformi che li facciano sentire parte della famiglia Zissou. Messo al centro di queste tensioni, Steve inizialmente mal sopporta i due, poi prende coscienza del suo ruolo emotivamente decisivo e compie un passo fondamentale: rassicura Klaus, lo promuove «in serie A», si assume le proprie responsabilità nella crescita emotiva bloccata del ragazzo. Come previsto da Jane nella sua confusione, aveva davvero bisogno di trovare un figlio per questo padre.

6.6 Effetto Anderson Nei mesi successivi alla presentazione di Le avventure acquatiche di Steve Zissou alla Berlinale 2004, Anderson è di nuovo al timone di alcune pubblicità per note aziende, fra cui quella per l’American Express, che costituisce un piccolissimo film a sé, sorta di saggio teorico sul suo cinema. Contemporaneamente, come anticipato, figura come produttore per il film dell’amico e collaboratore Noah Baumbach, Il calamaro e la balena.

My Life, My Card. American Express (2004) «Girare un film: come si fa?». Anderson deus ex machina mette in scena se stesso in uno dei suoi spot più celebri e riusciti, gioco meta-cinematografico che funge da compendio di tic, ossessioni, citazioni e ammiccamenti, al tempo stesso legittimandoli come marchi di fabbrica dell’autore. Il commercial è costituito da un unico piano sequenza che si apre sul ciak di un film fittizio: protagonisti sono Jason Schwartzman e l’esplosione di un’auto (attore e mezzo torneranno preponderanti nello spot/cortometraggio Castello Cavalcanti). Wes Anderson in persona, vestito con i toni del beige come da iconografia ormai affermata, entra nell’inquadratura per spiegare al pubblico come si realizza un film. Il riferimento alto è Effetto Notte (La nuit américaine, 1973) di Truffaut, con la dissezione affettuosa, tra sogno e realismo, dell’azione che prende vita su un set: ma senza allontanarci troppo dal mondo di Anderson, il regista gioca spudoratamente a sovrapporsi con la sua più recente creatura, Steve Zissou. Attorniato da una pletora di assistenti e stagisti, si muove a passo deciso fendendo lo spazio attraverso collaboratori e fan: ordina il suo snack, assegna compiti disparati, seleziona modelli di pistole e assiste a letture del copione, il tutto senza fermarsi e reagendo con la medesima palpabile mancanza di emozioni che contraddistingue i suoi eroi. Si tratta di un gioco, certo, ma anche di un’operazione che, con soli quattro lungometraggi alle spalle, sancisce lo status di autore di Anderson, abbastanza noto da mettersi davanti alla macchina da presa, abbastanza riconoscibile ormai per il grande pubblico americano da scherzare con i suoi stessi stereotipi, con la consapevolezza diffusa dei peculiari topoi (il dialogo atono che due attori provano davanti a lui) e modelli ricorrenti (il piano sequenza con carrello laterale) della sua estetica. E quando arriva il momento di nominare il prodotto sponsorizzato, la carta American Express, suggella l’operazione apponendovi letteralmente la firma. Ovviamente

in un corsivo sgraziato e puerile come quello dei suoi personaggi. «Questo sono proprio io», sembra dire Anderson, questo è realmente il modo in cui giro un film. Tutta finzione: il tipo di finzione che, da sempre, le figure andersoniane scambiano per vita vera.

Hamster, Bear, Dog. Acqua in bottiglia Dasani (2005) Per la serie di spot della Dasani, Anderson utilizza come testimonial quelli che Royal Tenenbaum non esiterebbe a descrivere come «solo uomini vestiti da animali». Un orso, un criceto e un cane, ciascuno inserito nel proprio contesto d’appartenenza (per i criceti, un gigantesco set-gabbia che sembra partorito dalla mente di Michel Gondry), decantano le lodi dell’acqua in bottiglia con un effetto straniante. Meno creativi e personali dei suoi precedenti lavori nella pubblicità, gli spot si riallacciano al tema del lato selvaggio dei protagonisti umani, che sfocerà nei successivi Fantastic Mr. Fox e Moonrise Kingdom.

Il calamaro e la balena (2005) In sala pochi mesi dopo l’uscita di Le avventure acquatiche di Steve Zissou, il film di Baumbach ha, con l’opera dell’amico Anderson, qui in veste di produttore (per la prima volta in un’opera altrui) una curiosa assonanza a partire dal titolo “acquatico”. Che in questo caso, però, non ha realmente a che vedere con i contenuti della commedia drammatica: i due animali, o meglio le loro riproduzioni a grandezza naturale, sono evocati in un ricordo d’infanzia che svela il legame di uno dei protagonisti con la madre. Al di là della superficiale e ironica coincidenza marittima, il film esplora un terreno molto noto ad Anderson: quello delle famiglie disastrate, con un padre inaffidabile ed egocentrico e due figli fragili, protagonisti di un’infanzia/adolescenza pronta a spezzarsi. Ambientato in una New York decisamente più concreta e grigiastra di quella di I Tenenbaum (ma fotografata dall’abituale collaboratore di Anderson, Robert Yeoman), dove le strade nominate esistono davvero e il rumore del traffico filtra nei dialoghi, il film di Baumbach accorpa molti temi già affrontati da Anderson, sviscerandoli però in senso realistico e drammatico, senza la scappatoia della realtà parallela, dell’universo di finzione in cui rinchiudersi all’occorrenza. Jesse Eisenberg e Owen Kline interpretano i figli della famiglia Berkman: precoci, malinconici, emotivamente disastrati e in competizione fra loro (il primo vorrebbe fare il musicista, ma riesce solo a plagiare una canzone dei Pink Floyd; il minore ambisce a diventare un campione di tennis). Solitari e in difficoltà nello stabilire rapporti normali con i coetanei, si distinguono dai personaggi di Anderson per il loro urtare concretamente contro la vita. Esperienze sessuali, volgarità e un senso di malessere tangibile li coinvolgono, anche in modo disturbante. Jeff Daniels nei panni di scrittore fallito (il titolo del suo romanzo, Underwater, si pone come ulteriore riferimento alla materia acquatica), afflitto dalla rovina del suo matrimonio e al tempo stesso incrollabilmente deciso a proporsi come uomo di successo, è un incrocio fra

Herman Blume e Royal Tenenbaum, declinato amaramente sulla mediocrità, nonostante si consideri personalmente «l’erede di Kafka». Come in una versione più tragica e ruvida di I Tenenbaum, anche qui il malessere (reale) del padre costituisce una svolta nelle dinamiche affettive e la presenza del museo di storia naturale nei ricordi d’infanzia dei fratelli Berkman sembra ammiccare direttamente alla fuga di Margot e Richie: stesso riferimento per identico processo di crescita traumatizzato. [1]

Scott, K.C., Lesser Spotted Fish and Other Stories, in «Sight and Sound», marzo 2005, pp. 12-15. [2]

Miller N., The Life Melodic, in «Entertainment Weekly», n. 798, 24 dicembre 2004. [3]

Scott, K.C., op. cit.

[4]

Zoller Seitz M., The Wes Anderson Collection, Abrams, New York 2013, p. 187.

[5]

Govender D., Wes Anderson’s ‘The Life Aquatic with Steve Zissou’ and Melville’s ‘Moby Dick’: a Comparative Study, in «Literature Film Quarterly», n. 36, 2008, pp. 61-67. [6]

Browning M., Wes Anderson. Why His Movies Matter, Praeger, Santa Barbara 2011, p. 170. [7]

Zoller Seitz M., op. cit., p. 180.

[8]

Browning M., op. cit., p. 172.

[9]

Gooch J., Making A Go of It: Paternity and Prohibition in the Films of Wes Anderson, in «Cinema Journal», vol. 47, n. 1, autunno 2007.

7. Nel continente vero Il treno per il Darjeeling (2007)

Sceso dalla Belafonte sulla terraferma, Wes Anderson fa i conti con la sua trilogia delle finte trasposizioni e con i risultati deludenti, sia al botteghino sia presso la critica, di Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Dopo l’oneroso universo immaginifico del film precedente, decide quindi di tornare a una dimensione più intima e concreta: a se stesso, alla sua natura di giovane autore cresciuto in un ambiente privilegiato, alla sua ambizione di farsi esploratore di un mondo che non gli si apre davanti se non come proiezione personale, al suo bagaglio di stereotipi. Il viaggio in cui si imbarca è un film che sta tutto in un treno, anzi, in un solo set di valigie. L’idea di partenza contempla solo il convoglio, l’India e tre fratelli. Anderson, che ormai vive a Parigi per buona parte dell’anno, comincia a scrivere insieme al sodale Jason Schwartzman e a suo cugino Roman Coppola. Nello script gli autori riversano esperienze e ricordi personali, poi partono alla volta dell’India per rifinire la sceneggiatura, in realtà per metterla in scena in prima persona e modificarla strada facendo, alimentando lo scritto con il vissuto e viceversa. A bordo di un treno, dotati di stampante portatile (come Francis si doterà della macchina per plastificare le tabelle di marcia), simulano vizi e tic dei fratelli Whitman, vagano come turisti senza meta. Il risultato sono Il treno per il Darjeeling e il suo corto gemello Hotel Chevalier, che lo precede, ma non si limita a esserne un prologo. Entrambe le opere vengono presentate alla Mostra del cinema di Venezia nel 2007 come

un corpus unico: sono perfettamente fruibili se viste autonomamente, ma insieme si arricchiscono vicendevolmente di senso.

7.1 Servizio in camera. Hotel Chevalier (2007) In una camera dell’Hotel Chevalier di Parigi, Jack Whitman riceve la telefonata di una vecchia fiamma che gli comunica una visita imprevista. L’uomo prepara la stanza, sceglie il sottofondo musicale, riceve la donna. Si scambiano poche battute sul loro passato e la loro incerta situazione sentimentale, e, dopo aver fatto l’amore, guardano dalla finestra il panorama parigino.

La fascinazione di Anderson per le strutture alberghiere risulta coerente con la sua passione per le dimensioni fittizie e le realtà sospese: luogo che ricrea il comfort di una casa, senza essere una vera residenza, l’hotel è una pura questione di apparenza e di stile, un a parte teatrale rispetto alla vita vera, una location dove la routine è interrotta e lo spazio illusorio si presta a creare narrazioni alternative. Prima di diventare location unica di questo corto (e, successivamente, preponderante di Grand Budapest Hotel), l’albergo ha fatto capolino in ogni titolo di Anderson: dal motel/rifugio dove i rapinatori di Un colpo da dilettanti assumono identità fasulle all’hotel dove Herman Blume si rintana in Rushmore dopo la separazione dalla moglie, fino al Lindbergh Palace che per Royal Tenenbaum è prima un focolare di riserva, dove cullarsi in un’illusione di benessere che lo protegga dalle sue responsabilità familiari, e poi un luogo di lavoro. Anche in Le avventure acquatiche di Steve Zissou compare fuggevolmente il diroccato Hotel Citröen, decadente simbolo dello splendore un tempo appartenuto al regista/esploratore Zissou. Hotel Chevalier è la prima opera del regista a svolgersi interamente dentro un albergo, per la precisione in una sola stanza (all’interno del vero Hotel Raphael di Parigi). Al fascino persistente del mondo in miniatura unisce lo charme della Ville Lumière, la cui vista è però negata allo spettatore e ai protagonisti, e della cultura francese, fissazione di molti personaggi andersoniani. I due elementi imprimono un’aura di romanticismo maudit alla brevissima eppure complessa

vicenda dei due amanti – o così vorrebbe credere il protagonista, in realtà alle prese con un incontro fugace e goffo, più sottilmente comico e meno passionale e melodrammatico di quanto ci si possa aspettare dallo stereotipo di storia a sfondo parigino. Parigi, però, non si vede. L’ambientazione esotica del corto anticipa anche uno dei temi portanti del lungometraggio cui è legato, quello del viaggio in terra straniera come esperienza paradossale per i viziati e narcisisti caratteri andersoniani: il road movie, a differenza del canone storico, non è qui luogo di diretta crescita personale e di conscia apertura al mondo, ma, al limite, lenta, ironica, inconsapevole messa in crisi di un pensiero chiuso su se stesso. Dall’indole di Jack e dalle condizioni della sua stanza possiamo intuire che viva in una sorta di auto-segregazione. Questo suggerisce, con didascalica ironia, l’accostamento dei piedi di Jack, sporgenti dall’accappatoio-sudario, all’immagine simile presente in Stalag 17 (Id., Billy Wilder, 1953 – uno dei rarissimi casi di film realmente esistente rintracciabile nelle diegesi di Anderson), trasmesso nello stesso momento dalla televisione. In questo modo, Anderson crea un’analogia tra il giovane scrittore e i prigionieri del film. Il suo protagonista ama Parigi in quanto ideale, luogo leggendario e letterario che vuole combaci con la sua fantasia di autore. Un autore che non ha alcuna intenzione di esperire la realtà straniera, di fondersi con essa; ostenta sicurezza nell’ordinare cibo nella lingua autoctona, per esempio, ma è ben lungi dal padroneggiarla. Questo è, oltretutto, un dettaglio autobiografico: anche il regista, residente “part time” in Francia, non ha mai imparato il francese. Il breve film, completamente auto-prodotto, girato in soli due giorni e interpretato da attori che partecipano amichevolmente senza essere retribuiti, sembra allora mettere in scena un momento di crisi artistica simile a quella vissuta da Wes Anderson dopo il flop di Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Sospeso in una condizione temporale dai contorni sfumati – alle domande dirette della visitatrice non sa rispondere: non ricorda da quanto tempo si trovi nell’albergo, sa solo che è più di un mese – il protagonista pare in fuga da qualcosa e privo di destinazione. Nelle parole della donna riecheggiano quelle della sorellina di Anthony in Un colpo da dilettanti («Non credi che sia ora di tornare a casa?»), come a

svelare una condizione di fuggitivo auto-imposta e dunque futile. Nei 13 minuti del film, Jack dà prova di essere, se non un grande scrittore, certamente un fantasioso inventore di storie: assumendo in pieno il ruolo di regista della propria narrazione, sceglie per l’incontro con la ex (Natalie Portman alla sua prima scena di nudo integrale) la colonna sonora di sottofondo, come se stesse dirigendo la scena. Il brano è la hit del 1969 Where Do You Go To (My Lovely) di Peter Sarstedt, il cui testo, come spesso accade, dà voce ai pensieri del protagonista: in questo caso si rivolge a una vecchia fiamma perduta, nomina personaggi e località francesi e dichiara di voler «guardare dentro la testa» dell’amata. La scelta di Sarstedt contiene anche un ulteriore legame con il lungometraggio a seguire: il cantante britannico è di origine indiana, nato a Dehli e cresciuto proprio nel distretto del Darjeeling. Dopo avere offerto alla ragazza un accappatoio dell’Hotel Chevalier, con un gesto galante che cela l’intenzione di inglobarla nell’arredamento e farla diventare parte del setting della scena, Jack le offre la sua «vista di Parigi». Vista che si rivela essere, tramite una classica andersoniana rotazione di 90° della macchina da presa, solo un altro edificio (un altro albergo o un’ala del medesimo Chevalier), mentre il pranzo ordinato con il servizio in camera resta intatto e la canzone di Sarstedt da diegetica si fa extra-diegetica, insinuando il dubbio che l’incontro sia avvenuto solo nella mente di Jack. Il dialogo fra i due protagonisti, d’altra parte («Promettimi che saremo sempre amici», «Ti prometto che non sarò mai tuo amico»), ritorna nel lungometraggio, nel finale dell’ultimo racconto che Jack legge ai fratelli durante il viaggio in India, lasciando lo statuto di verità degli avvenimenti dell’Hotel Chevalier in una condizione di difficile determinazione: accusato per tutto il film di scrivere solo storie autobiografiche, Jack potrebbe aver finalmente sfornato una narrazione completamente inventata, creando l’Hotel Chevalier e il rendez-vous. Ma se, al contrario, l’intero viaggio di Il treno per il Darjeeling non fosse che il parto letterario dello scrittore auto-recluso in un hotel parigino, alle prese con

la rielaborazione del lutto paterno e, soprattutto, della mancata coesione fraterna?

7.2 Ritratti alle pareti È su un registro concitato che si apre il lungometraggio: la corsa del personaggio di Bill Murray per prendere al volo il Darjeeling Limited (l’immaginario convoglio che attraversa l’India) è un inseguimento da thriller e gioca con lo spettatore, costruendo un legame di continuità con il film precedente di Anderson (a tutti gli effetti un action avventuroso con Murray protagonista) per poi smantellare l’illusione. Quella che ci troviamo davanti infatti, nonostante la location esotica, è una commedia drammatica su ferrovia, uno spaccato familiare compresso negli interni di un vagone: come se i fratelli Tenenbaum, dopo la morte di Royal, avessero comprato un biglietto del treno e fossero partiti. A un anno dalla morte del padre in un incidente stradale, i fratelli Francis, Peter e Jack Whitman si riuniscono per affrontare un viaggio in treno attraverso l’India. Il vero obiettivo di Francis è raggiungere la madre, sparita dalle loro vite per auto-esiliarsi in un remoto convento. Il comportamento superficiale ed entropico dei tre uomini li fa cacciare dal treno, così il loro viaggio prosegue a piedi. Dopo aver cercato di salvare alcuni ragazzini travolti dalla corrente di un fiume, assistono al funerale di uno di loro, morto annegato. Si dirigono all’aeroporto per tornare in America, ma all’ultimo decidono invece di proseguire il viaggio, su un altro treno.

Il film è dedicato al grande regista indiano Satyajit Ray, uno tra i preferiti di Anderson, che più volte lo dichiara sua fonte d’ispirazione, in particolare per Three Daughters (Teen Kanya, 1961) e Days and Nights in the Forest (Aranyer Din Ratri, 1970). Il ritratto di Ray è appeso nel vagone del secondo e ultimo treno che compare nel film, ma, come già per Cousteau (anche lui omaggiato nei titoli di coda di Le avventure acquatiche di Steve Zissou e presente sotto forma di ritratto in Un colpo da dilettanti), pure in questo caso l’indicazione di Ray come nume tutelare dell’operazione non corrisponde a un reale confronto con il suo modo di fare cinema. Non ci sono citazioni, piuttosto una presenza affettuosamente assente, un

omaggio emotivo, un’ammirazione che non si traduce in emulazione (lo stesso accadrà con Grand Budapest Hotel per i lavori di Stefan Zweig cui il film è ispirato). Come sempre, Anderson si fa portavoce dei retaggi culturali dei suoi protagonisti: se Zissou era cresciuto a pane e film di Cousteau, i borghesi e raffinati fratelli Whitman, educati in un contesto culturalmente stimolante (lo stesso di Anderson), potrebbero essere ammiratori di Ray e avere mutuato dai suoi film la loro idea di India. Così, piccoli dettagli rubati alle opere di riferimento entrano nella messa in scena di Anderson come residui di un immaginario che il regista condivide con i suoi personaggi: come sottolinea Matt Browning, «Anderson non evoca film per sovvertirli, rinnegarli, criticarli o completarli. Rielabora brani di lavori precedenti, in un tono di omaggio garbato più che di ironia».[1] Altra opera che influenza decisamente Il treno per il Darjeeling è Il fiume (The River, Jean Renoir, 1951), film per cui Satyajit Ray fu assistente alla regia e che Anderson, grazie all’amico Martin Scorsese, riesce a vedere su grande schermo in una versione restaurata: il regista ripropone, oltre all’ambientazione indiana, lo schema dei tre fratelli alle prese con un percorso di crescita, o almeno con un tentativo di intraprenderlo.[2] In un’intervista Anderson elenca altri titoli che gli ronzavano in testa durante la lavorazione del film: «Saint Jack (Id., 1979) l’elegiaco film di Peter Bogdanovich tratto dal romanzo di Paul Theroux, con Ben Gazzara […]; L’ultima corvée (The Last Detail, Hal Ashby, 1973): cupo, triste e divertente».[3] Ispirazioni da cui trapela il sentimento alla base del suo film, quel miscuglio di ironia e dramma che molti gli rinfacciano di non aver riproposto in Le avventure acquatiche di Steve Zissou e che qui pone in una dimensione più raccolta che nelle opere precedenti. Ai titoli succitati potrebbero fare riferimento anche i nomi dei tre fratelli: Peter (da Bogdanovich), Jack (da Nicholson, protagonista di L’ultima corvée) e per quanto riguarda Francis, forse, un omaggio al padre di Roman Coppola. Oppure, in un’ottica più letteraria, visto il cognome altisonante che richiama il poeta Walt Whitman, potrebbero essere omaggi a grandi autori della tradizione americana:

Francis Scott Fitzgerald, Jack Kerouac e Peter Matthiessen, gli ultimi due in sintonia con l’avventura on the road del film. Ma data la stretta parentela con i Tenenbaum, si può trovare nel trio un ulteriore riflesso del già citato La mia famiglia e altri animali di Gerald Durrell: il tema del nucleo familiare all’estero, la spiccata divergenza fra scenario turistico e inadeguata eleganza borghese, la quantità esagerata di valigie con cui i personaggi si spostano sono elementi che ricordano la squinternata trasferta greca dei Durrell, senza contare la presenza del trio di fratelli (uno scavezzacollo, uno scrittore e un vanesio, esattamente come nel romanzo) e la passione per gli animali. I Whitman non esitano a comprare come souvenir un serpente e a tenerselo nello scompartimento come animale da compagnia, almeno finché questo non scappa – dettaglio ironico che riprende il marchio di fabbrica di Anderson delle bestie uccise/abbandonate: dopo Buckley, ammazzato dall’auto di Eli Cash, e il cane pirata Cody, lasciato alla sua sorte da Steve Zissou, anche il pitone da viaggio dei Whitman conclude in anticipo la sua avventura insieme agli umani.

7.3 Famiglie itineranti La centralità del padre assente in questo film più che mai si fa motore della narrazione e del viaggio dei protagonisti. Orfani di padre da un anno, da tempo abbandonati dalla madre, i Whitman s’imbarcano in un’impresa che non serve soltanto a ricucire la mancanza dei genitori, ma anche a ricostruire l’unità tra fratelli, smarrita molti anni prima. Il tema è una variazione su quello, consueto in Anderson, della famiglia disfunzionale. Francis, Jack e Peter sono già fratelli, costituiscono una famiglia vera e propria: il loro obiettivo non è dunque inventarsene una che funga da surrogato, ma tentare di ripristinare la funzionalità di quella che già hanno – impresa forse anche più ardua e dolorosa. Fin dall’inizio, la presenza/assenza del padre defunto è una costante del viaggio: il personaggio di Bill Murray, privo di nome, di battute e di qualsiasi interazione con il resto dei protagonisti, potrebbe essere nient’altro che lo spettro del patriarca Whitman, la proiezione fantasmatica da cui i fratelli non riescono realmente a separarsi. Quando perde la sua corsa per acciuffare al volo il Darjeeling Limited, Peter (Adrien Brody, new entry della factory andersoniana, in un ruolo scritto su misura per lui) sembra guardare nella sua direzione con un sorriso triste, accomiatarsi da un partner di viaggio che vorrebbe con sé ma che non può essere lì, consapevole che l’intera spedizione ha come scopo il riconciliarsi con il vuoto che ha lasciato. Anche l’abbigliamento dell’uomo, ambiguo e difficilmente collocabile nel tempo, e la valigia demodé fanno pensare che si tratti di una figura eterea (riappare nella scena in cui la macchina da presa passa in rassegna tutti i vagoni del treno e i loro occupanti, come se fosse effettivamente a bordo, nonostante l’abbiamo visto perdere il convoglio). Operano in questa direzione anche i ricordi intertestuali veicolati dalla semplice presenza di Bill Murray, già padre mancato/mentore fallito in Rushmore e in Le avventure acquatiche di Steve Zissou.

Accompagnati dalle valigie del padre, firmate JLW (un set di Louis Vuitton realizzato appositamente da Marc Jacobs e personalizzato dai disegni di Eric Anderson con motivi esotici come palme, zebre, elefanti e giraffe, che ricordano le decorazioni della camera di Margot Tenenbaum) e da altri oggetti di culto appartenenti al genitore (la cintura, gli occhiali da sole), i tre uomini si contendono le sue proprietà, non per avidità, ma perché il loro possesso rimpiazza una lacuna emotiva che si appresta a diventare ereditaria: Peter, l’unico dei tre in procinto di creare una famiglia tutta sua, non è affatto felice all’idea di diventare padre e vive in modo conflittuale la gravidanza della moglie. Emblematico a tal proposito il suo commento: «Mi sono sempre aspettato che alla fine avremmo divorziato, non era nei piani avere dei bambini» – a rilevare come la normalità, per lui, sia la famiglia spezzata: perché i fratelli Whitman non hanno il bagaglio emotivo per affrontarne una intera. Alla morte del padre è dedicato anche il primo vero flashback della filmografia di Anderson: eccezion fatta per i brevissimi inserti riguardanti l’infanzia dei piccoli Tenenbaum, questa è infatti la prima volta che assistiamo a un inciso di durata considerevole proveniente da un altro piano temporale. Nell’analessi i tre Whitman sono in procinto di andare al funerale del padre, ma si fermano per recuperare in officina la Porsche rossa a lui appartenuta: a scomparsa appena avvenuta, sentono già il bisogno di compensare il vuoto caricando di attenzioni malriposte un feticcio. Francis (Owen Wilson) stabilisce arbitrariamente che, in assenza di un padre, hanno bisogno almeno di recuperare la madre: da lei ha ereditato la fastidiosa abitudine di prendere decisioni per gli altri, a lei vuole tornare per ricomporre un quadro con i pezzi mancanti. Come per Bill Murray, anche la scelta di Anjelica Huston nei panni di figura materna – affettuosamente distratta come Etheline Tenenbaum, autonoma e distaccata come Eleanor Zissou – rientra nel modus operandi del regista, che riflette le gabbie in cui sono racchiusi i personaggi in scelte di casting chiuse e ripetitive.

Le dinamiche tra fratelli sono cesellate in sceneggiatura e accuratamente edificate dalla macchina da presa: spesso compressi nella medesima inquadratura come nello spazio risicato della cabina, i Whitman cercano una vicinanza che non trovano, soffrono un’intimità che non conoscono, poiché non si parlano ormai da un anno (e forse neanche prima le cose andavano meglio). Tentano di conoscersi, ma sempre per interposta persona: le informazioni tra di loro passano fra due soltanto del trio, a discapito del terzo assente, come su un palcoscenico teatrale in cui, ogni volta che un interprete esce di scena, i restanti ne approfittino per parlare di lui. A dividerli sono piccole vendette sciocche, i litigi per gli oggetti che appartenevano al genitore, la sleale rivendicazione di Peter di essere stato il suo preferito («Me l’ha detto insanguinato in mezzo alla strada, un attimo prima di morire»). E sono le stesse cose che li uniscono: si alleano – ad esempio – per distruggere il profumo appartenuto alla ex di Jack, la boccetta di Voltaire n. 6, che riporta come soprannome ironico e crudele “La petite mort”, perifrasi con cui Bataille indica l’orgasmo. Se la famiglia, per Anderson, è il contrario della finzione, l’operazione di Francis e dei suoi fratelli ha dell’acrobatico: devono fare combaciare le due cose, cioè tornare famiglia senza smantellare la narrazione che hanno costruito di se stessi. È ciò che intende Francis quando si chiede, sinceramente contrito: «Chissà se noi tre saremmo potuti essere amici nella vita, non come fratelli, come persone». Ed è la prima volta che Anderson riflette realmente sul legame fraterno. In I Tenenbaum l’unità familiare è persa e ritrovata solo per colpa o grazie all’intervento di Royal: il legame fra Richie e Margot trascende quello fraterno e amicale, mentre Chas resta piuttosto isolato e l’affetto fra i tre Tenenbaum non è mai oggetto di discussione. Una prima coppia di fratelli putativi era composta dai riconciliati Ned e Klaus, uniti dall’amore per il padre idealizzato Steve Zissou. Ma è qui che Anderson affronta di petto il legame tra fratelli biologici, tema caro all’autore per cause anche autobiografiche. In Fantastic Mr. Fox questo troverà sfogo nel rapporto tra i cugini Ash e Kristofferson: il loro, come quello che unisce i Whitman, è un

legame dolente e complesso, animato da fiducia (elargita e tradita), invidia e ammirazione: non sono solo i genitori assenti a inceppare la funzionalità delle famiglie, ma anche i vincoli di sangue fra persone che non sono amiche, ma vorrebbero esserlo. E che hanno disimparato, o forse non hanno mai imparato, a comunicare verbalmente questi sentimenti, affidandosi piuttosto a surrogati e sottotesti: per questo Francis è il primo a stupirsi, quando pronuncia ad alta voce l’affetto per i fratelli, scoprendo, non diversamente da quanto accadeva a Royal Tenenbaum, il valore dell’espressione orale dell’emotività: «Siete le due persone più importanti al mondo per me. Non l’ho mai detto prima ma è vero». Il liberatorio lancio delle valigie, abbandonate perché ingombranti in ogni senso, è smaccatamente simbolico, la conferma che i fratelli hanno sempre conosciuto il peso metaforico del bagaglio, hanno solo scelto di ignorarlo. In un ralenti finale che è il marchio di fabbrica della prima parte di filmografia andersoniana, sulla musica dei The Kinks i fratelli si liberano delle Vuitton per andare oltre, prendere un altro treno, iniziare, forse, un vero viaggio.

7.4 Inchiostro invisibile Ogni Whitman è un autore, ciascuno a modo suo. Jack è scrittore, sebbene sia quello che più subisce le dinamiche fraterne; Francis è l’ideatore della grande impresa e degli itinerari plastificati, maniaco del controllo che registra la quotidianità, eroe che cerca di incollare insieme i pezzi della famiglia; Peter, che ha il rapporto più conflittuale con il ricordo del padre, è anche l’unico che sta costruendo una famiglia. In una costante confusione tra vita vera e racconto – che riflette quella vissuta da Anderson, Schwartzman e Coppola in fase di sceneggiatura – per tutta la durata del film gli sforzi narrativi di Jack vengono bollati dagli altri due come autobiografici, fatto che lui nega pervicacemente (esattamente all’opposto di Steve Zissou, che opponeva la veridicità di tutto quanto avveniva nei suoi film alle accuse mosse dagli altri personaggi circa la loro falsità). Rispetto alle precedenti opere di Anderson, qui l’ambiguità fra realtà e narrazione originata dalla mente di un eroe/creatore di finzioni è portata all’estremo, elevata esponenzialmente dalla personalità ugualmente forte dei tre protagonisti. Alla fine del film Jack, nuovamente ispirato, sta scrivendo il racconto, la cui trama è quella del corto Hotel Chevalier – il cui statuto (è esperienza vissuta o pura invenzione?) non è possibile definire con certezza. Alcune prove a supporto della veridicità della sua versione dei fatti sono date dall’accappatoio giallo dell’Hotel Chevalier, dalla boccetta di profumo e dalla segreteria telefonica della ex che ascolta ossessivamente, ma il dubbio resta, e si ripropone all’inverso quando, sui titoli di coda, parte la canzone Les Champs Elysées di Joe Dassin. Nonostante tutto ciò che abbiamo visto, forse Jack non si è mai spostato da Parigi, forse il viaggio è il contenuto del suo racconto. Anche la sua produzione letteraria contiene una dose d’ambiguità, fin dal titolo: nel flashback ci viene mostrata la copertina del suo libro, dal significativo titolo Invisible Ink e altre storie, la cui copertina mostra la boccetta di Voltaire n. 6 e il baule marchiato JLW. Invisible ink

è l’inchiostro simpatico, che c’è ma non si vede, o si vede a scoppio ritardato. Un altro segnale che l’intero film potrebbe essere solo un racconto di Jack è l’avvertimento riguardo alla sua ultima opera: «Ho scritto il finale ma non so come comincia». Allo stesso modo, anche al viaggio dei fratelli manca uno svolgimento compiuto, tutto ciò che vediamo è la parte centrale di qualcosa che non ha inizio né fine: del funerale è narrata l’attesa ma non la cerimonia, la riparazione dell’automobile del genitore non è conclusa, il viaggio in India inizia ma certo non finisce, la guarigione di Francis dalle ferite non è completa. Il piano sequenza che attraversa le carrozze del Darjeeling Limited è uno dei pochi momenti evidentemente anti-realistici e surreali del cinema di Wes Anderson. La carrellata sui passeggeri del treno giustappone gli scompartimenti e cataloga tutti i personaggi visti e citati, compresi quelli la cui presenza sul treno è apparentemente illogica o impossibile, come lo sconosciuto/padre Whitman interpretato da Bill Murray, la vecchia fiamma di Jack interpretata da Natalie Portman (che raggiunge appositamente il resto del cast in India per realizzare riprese della durata di pochi minuti), la moglie di Peter e una tigre (un pupazzo realizzato da Jim Henson, papà dei Muppets). Il film di Anderson che maggiormente persegue il realismo delle ambientazioni – girato in vere strade indiane, su un vero treno, in location rigorosamente reali – è anche quello più orientato verso una dimensione onirica, introspettiva: come se l’averlo calato nella realtà concreta del continente asiatico non avesse minimamente modificato la natura illusoria del racconto partorito dal regista e dai cosceneggiatori.

7.5 Un viaggio spirituale? Come la politica, anche la religione è un grande rimosso dei film di Anderson. Aggrappati a un mondo dove l’emotività è convogliata in oggetti, feticci e divise, i suoi protagonisti sono totalmente disinteressati a esplorare un livello di trascendenza. Fa eccezione, parzialmente, Francis Whitman: il suo dettagliato e compulsivo piano per il viaggio collettivo comprende anche una sorta di guarigione interiore affidata a rituali posticci, che dovrebbe consentire ai fratelli di trovare una comunione e superare la perdita del padre. Per tutto il film i tre inseguono questa dimensione spirituale senza mai raggiungerla, la incontrano continuamente senza mai esserne coinvolti: la reiterata «cerimonia della piuma» non va mai a buon segno, la visita al tempio è effettuata solo dopo lo shopping turistico, i tre non riescono a concentrarsi sulla preghiera e il convento dove la madre si è rinchiusa non sembra offrire spunti. Adepti di una religione narcisista ed egoista, sono cultori dei propri feticci, non pronti a fidarsi l’uno degli altri, men che meno ad affidarsi a forze superiori, sebbene Francis propini puntualmente possibili simbolismi, ricorrendo a espressioni abusate: «Dobbiamo ancora capire dove siamo. Non vi pare una frase simbolica?». A scalfire la superficialità dei protagonisti è l’evento più traumatico del viaggio, uno tra i più drammatici del cinema di Anderson: la morte per annegamento del ragazzo indiano e il suo funerale al villaggio. L’intera sequenza del tentativo di salvataggio presenta una gravitas inedita per il regista. Priva di colonna sonora, scandita da un battito cardiaco accelerato, segna uno strappo violento nel tessuto della narrazione dei Whitman e anche l’unico momento di vera riflessione e concentrazione da parte dei tre uomini. Il regista segnala la differente temperatura della situazione anche all’interno del villaggio, dove le spoglie del ragazzo vengono preparate per la cerimonia funebre, tramite lunghi carrelli laterali percorrono lo spazio senza commento musicale né dialoghi. Al funerale un ralenti accompagna

l’incedere dei fratelli, segno abituale, in Anderson, di una particolare intensità emotiva vissuta dai protagonisti. La guarigione tanto inseguita da Francis tramite rituali poco chiari e posticci, probabilmente passa per altre vie: non attraverso piume simboliche, ma scoprendo le ferite che porta in volto, residuo di una tentata auto-distruzione che richiama sia Eli Cash nel suo schianto in auto, sia, nella scena finale allo specchio, il gesto suicida di Richie Tenenbaum: «Ce ne vorrà ancora per guarire», commenta guardandosi: il gesto di togliersi le bende, di abbandonare cioè il travestimento tenuto per tutto il viaggio, richiama alla mente il meccanismo di distrazione di Dignan in Un colpo da dilettanti. Il cerotto sul naso serviva per distogliere l’attenzione, le fasciature per deviarla dai lividi dell’anima.

7.6 Esploratori senza mappa Quello organizzato da Francis per i fratelli è un viaggio, sulla carta, iniziatico: il fratello interpretato da Owen Wilson è l’autore dell’impresa e quindi colui che fissa le regole, le tabelle di marcia e gli itinerari. Nonostante la sua presunta organizzazione, il viaggio sfugge presto al suo controllo, totalmente de-strutturato e negato in quanto percorso di crescita: i tre partono, sì, ma quasi perdono il treno e non sono, in ogni caso, consci della propria meta. Il principio, il vero intento del viaggio (rintracciare la madre dispersa) è tenuto nascosto a Peter e Jack. E in conclusione, non giungono a nulla, semplicemente proseguono su un altro treno. Così come per Dignan la rapina era più importante della refurtiva, per i Whitman il viaggio è più importante della destinazione. Non c’è vero cambiamento, solo movimento. Il film si nutre in modo diretto dell’esperienza di Anderson, da qualche anno impegnato in una vita sostanzialmente nomade, almeno a partire dal tour di promozione di I Tenenbaum, eppure incapace di afferrare, dei Paesi che visita, qualcosa che sia vero. Il suo intento dichiarato, nel coinvolgere Schwartzman e Coppola nell’impresa, è di attingere a esperienze del tutto personali, come ricorda il primo in un’intervista: Wes ha detto: «Penso che dovremmo scrivere un film su tre fratelli in India. È tutto ciò che ho al momento, ma noi tre staremo insieme ogni notte e ci racconteremo storie. Sarà la cosa più personale che possiamo fare – proviamo a farlo anche troppo personale».[4]

Come anticipato, dopo questa prima fase di incontri e scrittura a Parigi, decidono di affrontare l’avventura che stanno scrivendo e di metterla in pratica con un viaggio in Asia: «Gran parte della scrittura è avvenuta a bordo di un treno in India» ricorda Coppola «e parte dell’atto di scrivere derivava dall’avere esperienze

insieme». Anderson è d’accordo: «Abbiamo cercato di recitare la nostra storia mentre viaggiavamo per l’India, contemporaneamente recitando ciò che avevamo già scritto e continuando a scrivere».[5]

Il treno per il Darjeeling è quindi, per Anderson, un’opera espressamente in prima persona e al tempo stesso il film geograficamente più distante dagli Stati Uniti, girato in luoghi autentici, treno incluso (vero e proprio set su rotaie). Non esiste un vero Darjeeling Limited, ma lo scenografo Mark Friedberg si è ispirato al 20th Century Limited, un treno che nella prima metà del Novecento collegava New York e Chicago. Interamente decorato da artigiani e artisti locali, il convoglio è stato poi collocato sui veri binari del trasporto pubblico per girare le scene in movimento, previa autorizzazione del governo. Tutte le riprese negli scompartimenti e nei corridoi – che, secondo la consueta visione ortogonale di Anderson, sfruttano la dimensione orizzontale del convoglio e quella verticale delle cuccette, percorrendole entrambe con la macchina da presa – hanno richiesto, a causa dello spazio d’azione ristretto, sessioni di prova accurate. Per evitare che l’operatore fosse intralciato nei movimenti di macchina, lo spazio del treno è stato ricostruito in un piccolo deposito, dove attori e troupe hanno simulato le scene prima di replicarle all’interno del convoglio. La procedura segna un passo ulteriore nel graduale processo di trasformazione dei corpi attoriali andersoniani in figure da animare in stop motion: accuratamente coreografati in precedenza, i gesti di Wilson, Brody e Schwartzman sono previsti in ogni dettaglio. Non è un caso che il film seguente, dunque, sia un film d’animazione. La ricerca di un realismo forzato nelle location, che non si traduce mai in una reale conoscenza del territorio da parte dei protagonisti, suona come il tentativo di portare alle estreme conseguenze la poetica del regista. Come Anderson, Coppola e Schwartzman hanno visitato quei luoghi senza trarne altro che informazioni su se stessi, così per i Whitman il mondo non si apre alla conoscenza, perché tutto è mediato dal loro immaginario e dal loro egocentrismo.

In questo senso assume connotati diversi l’esotismo superficiale di cui il film è ammantato. La banalità dello sguardo sull’Oriente è una delle critiche principali mosse contro l’opera, colpevole secondo molti recensori di delineare un’India da cartolina, colorata, folkloristica e stereotipata. Tale rappresentazione, piuttosto, lascia trasparire un atto di sincerità e di resa da parte di Anderson, che aderisce alla cecità dei suoi protagonisti e alla loro mancata esperienza del luogo dove si trovano fisicamente. Lo sguardo del regista è dunque quello dei tre fratelli che si trascinano appresso, nel set di valigie firmate, il proprio involucro di privilegio ego riferito. I Whitman si rivelano pessimi turisti, troppo concentrati su se stessi per percepire qualcosa di autentico della terra che stanno visitando: lo dimostrano le assolute banalità che pronunciano riguardo al Paese («Mi piace qui, la gente è bellissima», «Mi piace l’odore di questo Paese, è speziato»). Non sanno letteralmente da che parte guardare, sono spaesati e deconcentrati. Un esempio è la prima tappa nell’iter del trio, il Tempio dei Mille Tori: I movimenti della macchina da presa – una panoramica verticale che scende dalla torre, poi una orizzontale sui tetti e un rapido zoom nel taxi mentre i fratelli escono – suggeriscono l’improvvisa immersione in una cultura che sopraffà nella sua diversità, così che, come i protagonisti, la mdp non sa dove guardare o non sa esattamente cosa sta guardando.[6]

Anche il montaggio, affidato ad Andrew Weisblum, acuisce la sensazione di distrazione perpetua dei protagonisti, portando avanti il lavoro consolidato con David Moritz, il montatore delle pellicole precedenti, insieme al quale «ha sviluppato una struttura di tagli che esprime perfettamente la prospettiva giovanile: tagliando durante un dialogo e/o un’azione, la tecnica di montaggio suggerisce iperattività e un arco di attenzione limitato».[7] Per un autore come Wes Anderson, più attento alla composizione del quadro e al montaggio in macchina, spesso orientato su lunghe ed elaborate sequenze senza stacchi, si tratta di uno dei più interessanti ed espressivi utilizzi del montaggio, funzionali ad aderire al punto di vista peculiare e deformato dei suoi personaggi.

Anche la colonna sonora si muove in questa direzione: oltre ai brani provenienti dalle opere di Satyajit Ray, il tappeto musicale (privo di score originale) è composto anche da estratti delle soundtrack di film di Merchant/Ivory come Il capofamiglia (The Householder, James Ivory, 1963) e Il racconto di Bombay (Bombay Talkie, James Ivory, 1973), che contribuiscono a restituire un’idea di India filtrata da uno sguardo occidentale: quello di un gruppo di individui americani, bianchi e borghesi, per i quali l’Asia è un fascinoso sfondo cinematografico. Il film è dunque un punto di arrivo (il più distante, il più estremo, con le location più lontane) e di ripartenza: se non si può conoscere il mondo, allora è necessario re-inventarlo, riraccontarlo, ricostruirlo in miniatura su set impossibili (il treno, microcosmo dove tutto il mondo conosciuto dai fratelli è racchiuso, interamente, senza eccezioni, compreso il padre morto). Il treno per il Darjeeling è il film più drammatico di Anderson proprio per questo sottotesto, una resa acuta e disperata e al tempo stesso una dichiarazione d’intenti. Da questo momento in poi, il mondo reale resterà fuori, un richiamo vago e doloroso appena accennato, e Anderson si dedicherà solo all’edificazione di mondi interamente artificiali, inventati di sana pianta e geograficamente inesistenti: la campagna non identificabile di Fantastic Mr. Fox, l’isola che non c’è di Moonrise Kingdom, la Repubblica dell’Est di Grand Budapest Hotel.

7.7 Spot in giro per il mondo

Seamless World. AT&T (2007) La serie di spot per la compagnia telefonica AT&T ha in Anderson il coordinatore del progetto, non ufficialmente accreditato per la regia di tutti i commercial: sei personaggi (Reporter, Mom, Businessman, Actor, College Kid, Architect), tutti in qualche modo legati a personaggi già visti nell’universo del regista, alle prese con le difficoltà del proprio ruolo nel mondo. Costretti dal proprio mestiere a essere ubiqui e in costante movimento, si spostano in molteplici location con un movimento simulato dall’espediente (simile a quello già visto nello spot Meet Mark per Avon) dei set semovibili, diorami che si spostano dietro il protagonista simulandone la presenza in luoghi differenti. Caratterizzati da una smaccata artificiosità delle location, dalla recitazione impassibile e da dialoghi recitati con eloquio rapidissimo, gli spot richiamano la citata sequenza della carrellata sui vagoni del Darjeeling Limited dove, come per magia, il mondo è condensato in uno spazio ridottissimo.

SoftBank (2008) Brad Pitt, già volto di SoftBank per altri spot (tra cui quello di David Fincher), è un corpo attoriale molto lontano dall’universo di Anderson, che pure sceglierà di usare, nel suo film seguente, la voce di George Clooney, sodale di Pitt. Il regista lo sfrutta in modo atipico, facendogli indossare i panni sgraziati e buffi di un turista disastroso che porta il caos nella località di villeggiatura dove si reca. Solitamente più affettuoso autore di omaggi che citazionista ironico, Anderson sembra divertirsi a inserire nel terreno della pubblicità le sue citazioni più letterarie e cinefile: dopo quella per American Express, che di Effetto notte riprendeva anche la colonna sonora, è la volta di celebrare Jacques Tati. Dichiaratamente ispirato a Le vacanze di Monsieur Hulot (Les vacances de M. Hulot, Jacques Tati, 1953), lo spot si svolge infatti su un set che ricorda la Costa Azzurra e vede Pitt, abbigliato come il regista e attore francese, coinvolto in una serie di situazioni comiche. Ambientazione e colonna sonora ricamano sulla sempiterna fascinazione di Anderson per la cultura francese, mentre il ruolo di Pitt/Hulot, turista specializzato in gaffe involontarie, è una parodia dei viaggiatori di Il treno per il Darjeeling. La presenza di un gruppo di scout anticipa invece i futuri protagonisti di Moonrise Kingdom.

[1]

Browning M., Wes Anderson. Why His Movies Matter, Praeger, Santa Barbara 2011, p. 116. [2]

Nel film di Renoir si tratta di tre sorelle. Il trio di parenti è comunque, come detto, una forma familiare in tutti i sensi per Anderson. [3]

A Life in Movies: Wes Anderson, in «Newsweek», vol. 150, n. 19, 11 maggio 2007, p. 17. [4] [5]

Brody R., Wild, Wild Wes, in «New Yorker», 2 novembre 2009.

Ginsburg A., Train of Thought: Writing ‘The Darjeeling Limited’, in «Script», vol. 13, n. 6, novembre/dicembre 2007, pp. 54-59.

[6] [7]

Browning M., op. cit., p. 124.

Orgeron D., La Camera-Crayola: Authorship Comes of Age in the Cinema of Wes Anderson, in «Cinema Journal», vol. 46, n. 2, inverno 2007, p. 40.

8. Robin Hood reloaded Fantastic Mr. Fox (2009)

Dalla trasferta intercontinentale al film girato in una stanza d’albergo: quando Il treno per il Darjeeling esce nelle sale, riscuotendo scarsi consensi e registrando uno degli incassi più bassi nella carriera del regista (solo 11 milioni di dollari in patria), Anderson sta già lavorando al suo progetto successivo, ripartendo dalle radici, ovvero dall’amore per la narrazione di storie, per l’avventura, per il piacere del racconto che gli appartiene fin da ragazzino. Dallo scaffale ripesca il primo libro posseduto: una copia di Furbo, il Signor Volpe di Roald Dahl, regalatogli dalla madre quando aveva sette anni. Mr. Fox, un tempo instancabile ladro di galline, è costretto a scegliere un mestiere meno rischioso quando mette su famiglia. Sposato e con un figlio, fa il giornalista ma non ha perso il vizio: quando trasloca nei pressi delle proprietà di tre ricchi fattori non resiste alla tentazione e riprende a rubare. I colpi gli costano cari: perde la coda, sottrattagli da uno dei fattori, e il figlio Ash finisce per imbarcarsi in una pericolosa missione per recuperarla e conquistare così la sua fiducia. L’intera comunità animale è messa a repentaglio dalla brama di vendetta degli umani: Mr. Fox coordina un complicato piano d’evacuazione e, dopo ulteriori avventure, riesce a portare in salvo tutte le bestiole all’interno di un supermercato.

8.1 Il mondo in plastilina Il regista di Houston si cimenta per la prima volta con l’animazione e la scelta segna un cambiamento irreversibile nelle sue modalità di messa in scena. Da sempre maniacalmente attento alla costruzione di mondi curati nel dettaglio, finalmente Anderson ha il controllo totale su ogni aspetto dell’universo che sta fabbricando. Girare dal vivo, in location autentiche, comporta un’apertura al reale, una serie infinita di limitazioni e improvvisi cambi di programma fastidiosi per un regista che ha una visione così vivida e chiara delle proprie inquadrature: non è un caso che Anderson citi continuamente la realizzazione di Fantastic Mr. Fox come ideale rispetto a quelle del passato, per cui ha dovuto modellare alcune scene in base alle esigenze concrete dell’ambiente, della luce, della disponibilità degli attori. A colpirlo è la possibilità di plasmare gli ambienti sulle sue necessità: È necessario fabbricare ogni cosa che immagini, quindi quando dici: «Sarebbe bello avere questo e quest’altro dettaglio» […] qualcuno costruirà tutto, quindi ogni cosa è un’opportunità per aggiungere dettagli. Puoi fabbricare anche il cielo come lo preferisci, è un’opportunità che si ha raramente facendo un film.[1]

Con un film d’animazione non c’è rischio di imprevisti e ogni singolo dettaglio può essere deciso dall’autore. È un potere di cui Anderson non potrà più fare a meno: sia Moonrise Kingdom che Grand Budapest Hotel riflettono il suo desiderio di creare scenografie che siano completamente sotto il suo controllo, astratte e perciò perfettamente modellabili, come film in stop motion realizzati con attori in carne e ossa. Per dare vita al racconto di Dahl, Anderson si rivolge a Henry Selick, con cui ha collaborato per la creazione dei pesci immaginari di Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Impegnato con la lavorazione di Coraline e la porta magica

(Coraline, Henry Selick, 2009), Selick non è disponibile e passa il progetto a Mark Gustafson. Il regista, confinato in una stanza del parigino Hotel d’Angleterre (come il suo alter ego Jack Whitman in Hotel Chevalier) segue gran parte della lavorazione a distanza, coordinando via e-mail e telefono la lavorazione del film, che si svolge in studio a Londra. Circa 65 mila missive elettroniche, che contengono dettagliatissime indicazioni su dinamica delle scene, costumi dei personaggi, oggetti di scena e ogni sorta di suggerimento e perfezionamento delle sequenze che la troupe gli invia a Parigi. Anderson manda anche scansioni dei suoi schizzi su carta intestata dell’albergo e fotografie di vie e piazze scattate in giro per l’Europa, che possano fungere da ispirazione per la main street del villaggio. Quando l’occasione lo richiede, il regista inoltra anche brevi video girati con il telefono, dove interpreta i personaggi per dare un’idea dei loro movimenti ed espressioni: la libertà creativa concessa dall’animazione consente ad Anderson di modellare letteralmente a sua immagine e somiglianza tutti gli “attori”. Il complesso procedimento di realizzazione, che prevede l’invio regolare di materiali, le relative correzioni di Wes e il re-invio della sequenza corretta, si muove a sua volta a passo uno, al pari dei pupazzetti protagonisti, come è stato scherzosamente rilevato da Jason Schwartzman: «È come se stesse dirigendo un film in stop motion in stop motion».[2] Questo non manca di suscitare polemiche nella troupe: il direttore della fotografia Tristan Oliver accusa Anderson di essere affetto da un disturbo ossessivo-compulsivo che gli rende difficile comunicare con altri esseri umani e lo paragona al «Mago di Oz che interagisce da dietro una tenda».[3] Nella sua postazione remota Anderson dispone però anche di un software che gli permette di vedere in diretta ciò che inquadra ognuna delle 29 unità di ripresa: 120 set e 535 pupazzi, di cui 102 soltanto per il personaggio di Mr. Fox. La fase successiva è quella del doppiaggio, anch’esso gestito in modo poco ortodosso. Anderson decide di radunare il cast come se dovesse girare le sequenze per un film live action. Vuole creare il senso di squadra che secondo lui è necessario

per un’opera corale. George Clooney (voce originale di Mr. Fox), Meryl Streep (Mrs. Fox) e tutti gli altri vengono quindi chiamati a registrare i dialoghi insieme, in una fattoria del Connecticut, per ottenere anche suoni ambientali realistici. A questa sessione seguono registrazioni complementari che, nei ricordi di molti degli interpreti, si svolgono ovunque e in svariate occasioni – in alberghi, ristoranti oppure negli studios di Londra – ma con Anderson in remoto, presente solo in cuffia, a coordinare le operazioni in diretta e dare indicazioni agli attori.

8.2 Dr. Wes e Mr. Dahl Fantastic Mr. Fox, in Italia pubblicato come Furbo, il signor Volpe, è il primo libro posseduto da Anderson, letto e riletto con passione inesauribile insieme al fratello Eric: da bambini, entrambi si esaltano per corridoi sotterranei, passaggi segreti e fughe avventurose e del libro amano soprattutto la casa nell’albero – un vero chiodo fisso del piccolo Wes – e le scene in cui gli animali scavano complicati tunnel. Roald Dahl inizia a scrivere il libro nel 1969 (anno di nascita di Anderson): la trasposizione su grande schermo è da subito un fatto personale per il regista texano, che in Dahl vede l’ideale compiuto di Narratore. In gioventù pilota della RAF (che, oltre alle opere per ragazzi, ha firmato anche appassionanti testi autobiografici sul suo passato di aviatore), inventore, giornalista e scrittore, padre e nonno, lo svedese naturalizzato britannico incarna l’Autore e l’Esploratore, la scrittura e l’avventura, ovvero tutto ciò che Anderson cerca da sempre di condensare nei suoi personaggi. Nel mettere in immagini uno dei suoi racconti, quindi, il regista si trova a comporre anche un omaggio affettuoso e minuzioso a una figura con cui le affinità elettive non si contano. Nella filmografia dell’uno e nella bibliografia dell’altro ricorrono elaboratissimi piani, uno sguardo prevalentemente infantile, figure paterne memorabili, spesso altamente conflittuali. Se per il regista si tratta sempre di padri imperfetti, danneggiati o svogliati, per Dahl sono mentori ingannevoli e ambigui (Willy Wonka in La fabbrica di cioccolato), genitori degeneri (il padre di Matilda) o magnifici (il papà di Danny e il campione del mondo, splendida opera sull’amore padre-figlio che Anderson cita esplicitamente nel film, sfruttando l’espediente del sonnifero nei mirtilli per i beagle, molto simile a quello usato con le uvette per i fagiani nel libro di Dahl), in ogni caso centrali e sempre più rilevanti delle figure materne. Soprattutto, a unire le poetiche di due autori distanti per generazione, provenienza e medium di riferimento è la visione epica dell’infanzia come età irripetibile per intensità e densità emotiva: in Dahl, autore di

opere per ragazzi che parlano anche agli adulti, i bambini hanno sempre ragione, vedono di più e meglio, sono eroi furbi e puri al tempo stesso, e la loro fantasia non è mai scalfita o sminuita dalla miopia dei grandi. È un sentimento, quello che segna i suoi libri, che alla nostalgia per l’innocenza perduta dell’infanzia unisce un’acuta tristezza per la sua irrecuperabilità e un ruggente spirito combattivo nel propugnare l’importanza di queste fantasie sopra ogni altra cosa. Emozioni che i personaggi di Anderson conoscono molto bene e da cui sono dominati. C’è, nelle opere di Dahl, anche un lato oscuro e cupo, di violenza sotterranea e cattiveria strisciante, da cui anche i film del regista non sono esenti: È un cineasta molto più cupo di quanto molti dei suoi ammiratori riconoscano, un cantore di famiglie fallite, depressioni suicide e di tutto ciò che svanisce – specialmente l’innocenza dell’infanzia – visto attraverso gli occhi di eroi anticonformisti, ipersensibili ed eccezionalmente percettivi sullo stampo di Salinger/John Kennedy, Toole/Frederick Exley. Sono persone bramose di scappare dalla stasi della propria vita, desiderose di avventure mitiche – soggetti che combaciano bene con la trasformazione notevole dello stesso Anderson dall’allampanato texano che girò Un colpo da dilettanti al dandy continentale vestito di velluto a coste che sembra sbucato da un’inquadratura di un suo film. Di certo, al posto di George Clooney, avrebbe potuto interpretare lui stesso il personaggio principale di Fantastic Mr. Fox, il suo lavoro più sentito sinora, e un profondo studio sul matrimonio, sull’essere genitori e sulla libertà individuale messa in contrasto con la responsabilità morale.[4]

Interessato ad accaparrarsi i diritti del suo libro favorito dell’infanzia sin da prima di girare I Tenenbaum, il regista si incontra con la vedova di Dahl, Felicity detta Liccy, alla Gipsy House, la residenza campestre nei pressi di Oxford, nel Buckinghamshire, dove Dahl abitava. Passa nella tenuta alcune settimane in compagnia del cosceneggiatore Noah Baumbach e insieme sfogliano manoscritti originali dell’autore: decine e decine di pagine riempite di appunti e schizzi ai margini, che dispiegano il processo creativo di Dahl davanti agli occhi di Anderson e gli forniscono anche lo spunto per il finale (tra le note dello scrittore c’era una possibile conclusione alternativa per il racconto, ambientata proprio in un supermercato).

I paesaggi del film sono quindi ispirati a quelli della campagna dove viveva l’autore, l’intero contenuto della stanza dove il romanziere scriveva è riprodotto minuziosamente nello studio da giornalista di Mr. Fox e inevitabilmente i due sceneggiatori si trovano a fare del volpino protagonista un alter ego di Dahl medesimo: «Credo che parte del nostro tentativo di restare fedeli al testo di Dahl sia l’avere deciso che, in un certo senso, Mr. Fox è Dahl».[5] La moglie di Fox si chiama Felicity esattamente come la vedova dello scrittore (il nome viene pronunciato una sola volta, ma la sua firma è visibile sui quadri che dipinge). Fox stesso è un concentrato di ambizioni autoriali (sebbene sia responsabile di una rubrica culturale quotidiana e non di romanzi) e spirito indomito da cacciatore di avventure. Ma nel dare vita all’alter ego, animale e animato, di uno dei suoi scrittori di riferimento, Anderson gli infonde anche caratteristiche che appartengono a se stesso, facendo di Mr. Fox un doppio alter ego e un punto di incontro fra sé e Dahl per interposta e condivisa creatura. Partorita da Roald ma fatta propria da Wes, la figura di Fox è allora un ibrido dei due autori, una fusione ironica e affettuosa di ciò che li unisce. Anderson gli assegna un guardaroba, perfettamente intonato alla tavolozza autunnale del film, che pare uscito dal suo stesso armadio, interamente composto da completi da uomo in velluto a coste color senape e arancione. Il mestiere (di ripiego) di giornalista che accomuna Fox a Max Fischer e alla cocciuta Jane Winslett-Richardson di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (anche lei vestita con le stesse sfumature), aggiunge inoltre un quid metropolitano al personaggio, che nonostante l’ambientazione bucolica mantiene un tratto da dandy di città molto simile a quello di Anderson. Con questi presupposti, e a partire dal legame personale e infantile del regista con il volume di Dahl, la prima volta di Anderson alle prese con un testo scritto da altri diventa in realtà l’occasione per una delle sue opere più personali e intime, come fosse un affare di famiglia. Lo testimonia anche la scelta del cast di doppiatori: se nei panni del nevrotico, perdente e ambizioso Ash troviamo un Jason Schwartzman che riprende la verve seccante del suo Max Fischer, a fargli da

contraltare nel ruolo del serafico e atletico Kristofferson il regista chiama, in principio per colmare una lacuna di casting, il fratello minore Eric Anderson. Anche se il rapporto di invidia/ammirazione e di amore/odio fra i due cugini sembra fare riferimento a quello tra Wes e il maggiore dei fratelli Anderson, Mel, di professione dottore. Insieme a lui Anderson convoca gli immancabili Bill Murray (che presta la sua voce al tasso), Willem Dafoe (il ratto) e Owen Wilson (il coach di “battimazza”), oltre che l’amico intimo Wally Wolodarsky (Kylie). Lo stesso Wes dà voce all’agente immobiliare Weasel, giungendo così al suo terzo cameo ufficiale dopo Un colpo da dilettanti e I Tenenbaum e occhieggiando ancora una volta al proprio nucleo familiare (la madre del regista, un tempo archeologa, all’epoca di Fantastic Mr. Fox lavora proprio come agente immobiliare). Così, il cast nel suo complesso ha tutta l’aria di una famiglia, atipica e affollata, con cui il regista dà vita a una fantasia che rimbalzava nella sua testa da almeno una trentina d’anni.

8.3 Dalla Disney a King Kong Devoto al materiale originale di Dahl fin dall’apertura – in cui, come per I Tenenbaum (e come sarà per Grand Budapest Hotel), due mani dispongono in favore di obiettivo il volume di Fantastic Mr. Fox, realizzato appositamente per il film, ma ispirato alla vera copertina del volume – il regista chiede agli animatori di ispirarsi alle illustrazioni originali di Donald Chaffin per definire l’aspetto dei personaggi. Ma nella costruzione del suo inedito universo animato Anderson affianca alla filologia una serie di suggestioni e visioni provenienti dalla sua infanzia. Il riferimento più immediato è al Robin Hood disneyano (Id., Wolfgang Reitherman, 1973), cronologicamente assai vicino al romanzo di Dahl e fra i migliori risultati della produzione della casa di Topolino di quell’epoca. La forma volpina del Robin Hood animato fa di Fox un suo erede, come l’eroe di Sherwood impegnato (anche se per motivi più egoistici) in una lotta per la difesa dei diritti dei più deboli contro l’avidità dei potenti. Dalla volpe disneyana il Fox andersoniano eredita i tratti fascinosi, spericolati e giocosi e la medesima, edulcorata assenza di sottotesti politici (difficilmente si può indicare come movente delle azioni di Fox l’orgoglio di classe ribelle al potere). Se Kylie (invenzione di Anderson e Baumbach) costituisce una spalla decisamente meno sveglia ed efficace di Little John, anche nel rapporto d’amore travagliato con Mrs. Fox si rispecchia quello tra Robin e Lady Marian, esplicitamente citato dalla scena che si svolge davanti alla cascata e dalla presenza in colonna sonora del brano Love, proveniente dal classico disneyano. Anche il divertito intermezzo musicale del menestrello Petey omaggia affettuosamente i brani della splendida colonna sonora di Robin Hood, ricordando la celebre Urca urca tirulero, ma anche l’inno anti-istituzioni Giovanni re fasullo d’Inghilterra. Similmente a questa, la canzone di Petey inneggia alle gesta della volpe ladra e suscita l’ira del cattivissimo fattore Bean. Il

menestrello ha la voce del cantante britannico Jarvis Cocker, ex leader dei Pulp, rara eccezione alla regola vintage di Anderson: prima di lui soltanto Elliot Smith (in I Tenenbaum con Needle in the Hay) e i Sigur RÓs (protagonisti con Starálfur del momento più intenso di Le avventure acquatiche di Steve Zissou, l’avvistamento dello squalo giaguaro). Disney a parte, Anderson, intenzionato a realizzare un prodotto fruibile dal pubblico infantile come da quello adulto, prende a modello una serie di cartoni animati dai contenuti e dall’aspetto più maturo. Per esempio, le opere del maestro russo Jurij Norštejn come Il riccio nella nebbia (Ёжик в тумане, 1975) e Il racconto dei racconti (Сказка сказок, 1979), oppure i cupi film di Martin Rosen: «Ho pensato ai film per bambini che ancora mi piace guardare […]: La collina dei conigli (Watership Down, 1978) e The Plague Dogs (Id., 1982). Quest’ultimo è più disturbante, e credo meno conosciuto, ma è molto bello. Ha uno dei finali più terribili che abbia visto».[6] E ancora, in un miscuglio di riferimenti tra cultura americana e cultura britannica: il classico Il vento tra i salici di Kenneth Grahame nella sua bizzarra trasposizione firmata dal Monty Python Terry Jones (Wind in Willows, 1996) e interpretata da uomini vestiti e truccati da animali, ibridazione che rispecchia quella operata da Anderson, dove, in misura maggiore che nel libro di Dahl, le bestie si comportano esattamente come esseri umani; oppure Che botte se incontri gli “Orsi” (The Bad News Bears, Michael Ritchie, 1976), esempio di film per ragazzi che non ha obbligatoriamente un lieto fine, non si nega qualche parolaccia e presenta personaggi che fumano (vizio di solito proibito in un film per bambini e invece affibbiato ad almeno uno dei fattori di Fantastic Mr. Fox). La passione per la stop motion, che il regista coltiva per la sua squisita qualità artigianale, deriva dai classici di Ray Harryhausen, ma anche dal primo King Kong (Id., Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack, 1933) e dall’impressione esercitata sul giovane Wes dalla pelliccia del gorilla-pupazzo: effetto realistico e ispido che persegue nella fabbricazione dei suoi attori-pupazzi.

Alle città ordinate e affollate dell’illustratore Richard Scarry si ispira la topografia nitida e dettagliatissima della cittadina di Boggis, Bunce e Bean dove – sui motivi di scacciapensieri in stile western che richiamano alla mente le colonne sonore dei film di Sergio Leone – si svolge il confronto ultimo tra umani e animali, mentre il finale danzante sulle note di Let Her Dance dei Bobby Fuller Four riporta alla memoria, anche per le pose sgraziate dei protagonisti, il ballo di Un Natale da Charlie Brown di Melendez – quindi, per proprietà transitiva, quello di Rushmore – di cui ha lo stesso retrogusto amaro: le bestie sono salve, sì, ma sostanzialmente confinate all’interno di un supermercato che, per giunta, appartiene agli acerrimi nemici umani sin lì combattuti. Quello che Anderson intesse nella sua creatura animata è un ricamo gioiosamente aderente alla sua libreria/videoteca di bambino: dopo avere riempito lo schermo con ricordi e suggestioni dei suoi protagonisti, Wes dispiega davanti alla macchina da presa il suo personale inventario di libri e film dell’infanzia. Non più la scatola dei ricordi di Margot Tenenbaum o dei fratelli Whitman, ma, direttamente, la sua.

8.4 Siamo uomini o volpi? Anderson, alle prese per la prima volta con un testo scritto da terzi, si pone nei confronti del libro con una compresenza di reverenza e di ambizione, rispettandone lo spirito ma giocando a scavare sotto la superficie della favola per plasmarla sulle sue tematiche ricorrenti. Rispetto al brevissimo libro di Roald Dahl, l’operazione principale attuata da regista e sceneggiatore è prima di tutto di espansione: lo scritto originale è un “atto secondo” cui aggiungerne un primo e un terzo. Le descrizioni degli spregevoli fattori Boggis, Bunce e Bean restano pressoché identiche, così come il loro ruolo di antagonisti appena tratteggiati e grottescamente buffi nella loro avida perfidia. Anche molti dei titoli che scandiscono l’azione e il progredire del piano di Fox (talvolta in modo ironico, come «la missione o la va o la spacca») derivano direttamente dal testo di Dahl. La principale differenza è nello spessore conferito ai personaggi secondari, soprattutto ai piccoli di volpe: se nel libro i figli di Fox sono indistinguibili e non hanno nemmeno un nome, per Anderson e Baumbach il rapporto fra Fox e il figlio dodicenne Ash diventa cruciale, così come quello tra il ragazzo e il coetaneo cugino Kristofferson. Anche la moglie Felicity gioca un ruolo molto più attivo, ponendosi come uno tra i personaggi femminili più forti e agguerriti della filmografia di Anderson e anticipando, anche nei modi ferini, il ritratto al femminile più potente del regista, quello di Suzy Bishop in Moonrise Kingdom. La famiglia Fox è il nucleo centrale della narrazione, che sotto la superficie da heist movie animato è una variazione sul tema della famiglia disfunzionale tipico di Anderson. Anche la missione di Ash per recuperare la coda di Fox è aggiunta dagli autori e diventa l’occasione per il confronto fra padre e figlio: Ash soffre per la sottostima del genitore, vorrebbe essere “normale e vincente”, non “speciale e perdente”. La sua diversità passa, come sempre in Anderson, attraverso il look: acconciato come un supereroe casalingo, Ash si ispira a White Cap (personaggio fittizio creato per il

film dallo storyboarder Christian De Vita) di cui ha un poster in cameretta, e comunica attraverso gli abiti il suo bisogno di fuga. Allo stesso modo, tenta di essere ammesso alla comunità del padre, e dunque dei fuorilegge, fabbricando da sé un passamontagna fatto con un calzino e utilizzando una sorta di divisa come simbolo di appartenenza. Kristofferson, superiore per natura, giunge nella vita dei Fox con un carico di differenze segnalate dalle cromie: in una tavolozza interamente bruna, lui è caratterizzato dai toni del blu e dell’azzurro, negli occhi, nella pelliccia, nell’abbigliamento. Le volpi, i tassi e gli scoiattoli di Fantastic Mr. Fox hanno quindi tutti i vizi e le virtù degli umani apparsi nella filmografia del regista: non sono diversi da uomini e bambini vestiti da animali, sono solo maggiormente in contatto con il proprio lato selvaggio. Impeccabili e professionali, manifestano il loro lato bestiale quando mangiano e litigano, e Anderson gioca su questa dicotomia per tutto il film mostrando un sornione Mr. Fox passare dal solito, superfluo sfoggio di francese («Comme ci comme ça») a un’abbuffata scostumata di pancake. Per renderli ancora più antropomorfi, Anderson e Baumbach si inventano un’imprecazione che renda l’idea di personaggi nevrotici e irosi, evitando volgarità poco adatte a un prodotto che nasce per un pubblico infantile: l’esclamazione «Cuss» diventa surrogato di «Fuck» ed è utilizzata in tutte le declinazioni, inclusa una scritta a bomboletta sui muri della cittadina (in italiano l’esclamazione è resa con il più lezioso «Smoccolo» e «Smoccolare»). Umano è anche l’approccio alla morte, come d’abitudine considerata cosa tremendamente seria: anche quella di un ratto merita la sua gravitas. E la solennità con cui Fox allunga il sidro al nemico morente e si accomiata dalle sue spoglie spezza in modo simbolico il ritmo frenetico dell’avventura. Ha talenti artistici tutt’altro che bestiali la signora Fox, autrice di dipinti e di affreschi che ripropongono i paesaggi di campagna inglese delle scenografie. Quello pittorico è un talento che Anderson riserva ai suoi personaggi più sensibili e fragili (era un pittore fallito Richie Tenenbaum, lo sarà Sam in Moonrise Kingdom) e qui si esprime in una tavolozza identica

a quella usata dal regista per dipingere i toni bruni del mondo immaginario del film. Il più umano di tutti, però, è sicuramente lui: Mr. Fox, sintesi in pelo e velluto di due alter ego autoriali e di un’intera galleria di personaggi egocentrici e combattuti: Come Max Fischer, Royal Tenenbaum e Steve Zissou, Mr. Fox è un affascinante furfante, che per vergogna o per un trauma, deve abbandonare la fantasia di una vita perfetta con se stesso al centro, per reinventarsi membro di una comunità. […] Come Dignan in Un colpo da dilettanti, Mr. Fox è davvero innocente – sta soltanto facendo ciò che fanno tutti, alimentare quel tanto di azione e di dramma per riempire i giorni della settimana e i mesi dell’anno. Lui, semplicemente, sa farlo con stile.[7]

Come Max Fischer, Mr. Fox usa il francese e il latino per darsi un tono; è ambizioso, egoista, narcisista (si accerta appena può che qualcuno legga effettivamente la sua rubrica sulla gazzetta); come Royal Tenenbaum e Steve Zissou è un padre negato, disattento ai reali bisogni della sua famiglia, incapace di offrire al figlio il sostegno di cui ha bisogno per crescere efficacemente come individuo; sempre come questi ultimi rischia di perdere tutto pur di imbarcarsi in una missione che ha come obiettivo ultimo la ricomposizione della famiglia e della comunità; come loro cerca una redenzione, per quanto tardiva, parziale e un po’ folle. La condizione di genitore gli calza strettissima: quando lui e Felicity, nel rubare i colombacci, restano intrappolati tra le sbarre nella sequenza iniziale, in un certo senso «Mrs. Fox rinchiude Fox in una gabbia psicologica, rivelandogli che è incinta e obbligandolo a giurare di smettere di rubare polli e di diventare finalmente responsabile».[8] Fiero autore di piani complessi, colmi di titoli, sottotitoli e codici alternativi (tutti ironicamente messi in mostra in numerose didascalie), Mr. Fox è la versione adulta e furba di Dignan, ma un autentico criminale, non un dilettante – e questa è una prima assoluta. In coppia con Baumbach, Anderson dà vita, solitamente, a personaggi moralmente ambigui e discutibili, dato che accomuna Fox allo spesso riprovevole Steve Zissou: Fox è ciò che Dignan sarebbe forse diventato se avesse scelto la famiglia anziché il gusto dell’avventura, solo per arrivare a scoprire che al brivido del

furto non può rinunciare. Ha bisogno di essere al centro dell’attenzione (quando il suo solenne discorso del brindisi viene interrotto dall’inondazione, si incaponisce nel ripeterlo, grottescamente privo di vettovaglie, tutto da capo) e di apporre il suo timbro su tutto ciò che fa: la combinazione di fischio, schiocco e occhiolino da lui proclamata suo «marchio di fabbrica», «come il logo onnipresente di Zissou […] è il segno distintivo di Fox (forse un riferimento all’Hawkeye di Alan Alda in M*A*S*H* [Id., Robert Altman, 1972]) e lo identifica come una creatura di Anderson, un altro pseudo-regista che lascia il suo marchio di fabbrica e orchestra gli eventi».[9] Ma soprattutto, come un bambino mai abbastanza cresciuto, Fox ha una viscerale necessità di essere ammirato, come confessa lui stesso: «Ho bisogno che tutti mi considerino il migliore, il virgolette fantastico Mr. Fox». Personaggio difettoso e generoso, ambizioso e sensibile, Fox riassume Anderson anche nella sua intima necessità di ripetersi: nella volpe che non può resistere al richiamo dell’avventura, perché parte integrante della sua natura, il regista sembra trovare la giustificazione per la voglia di tornare a esplorare tematiche simili, psicologie di adulti/bambini, retaggi di adolescenza che profumano di evasione. La critica che spesso gli è stata rivolta è di «fare sempre lo stesso film»: Anderson risponde con l’irresistibile Mr. Fox, incorreggibile, incapace di scappare a uno schema ripetitivo, pur sempre fantastico.

8.5 L’Inghilterra che non c’è Tratto dal racconto di un inglese, realizzato a Londra, scritto, diretto e interpretato da americani, Fantastic Mr. Fox ha i tratti meticci di un universo geograficamente inattendibile. Come detto, la campagna britannica ha fatto da modello per i paesaggi del film e la strada principale della cittadina è ispirata a quella di Bath, ma i veicoli e molti dettagli della scenografia sembrano tipicamente statunitensi. Anche il font utilizzato per i prop e per le didascalie, non più il Futura ma l’Helvetica bold, ha una connotazione americana: è il carattere tipografico ufficiale usato dal 1989 per tutta la segnaletica della città di New York. Tutti gli attori che interpretano gli animali sono statunitensi e hanno mantenuto il proprio accento, mentre i doppiatori dei fattori Boggis, Bunce e Bean sono rigorosamente britannici (una differenza che ovviamente si perde nel doppiaggio italiano): il gioco del «battimazza» (in originale «Whackbat»), dallo schema assurdamente complicato e dal sistema di punteggio illogico, è una satira grottesca e surreale della complessità del baseball, sport nazionale a stelle strisce. Anche la presenza di animali come l’opossum (Kylie) e il fantomatico lupo, che fa la sua apparizione nel sotto-finale, evoca più la fauna nordamericana che quella inglese; la colonna sonora contribuisce al mix culturale, contrapponendo i Rolling Stones ai Beach Boys – mentre lo score è composto dai trascinanti fiati e percussioni orchestrati da Alexandre Desplat, che prende il posto di Mark Mothersbaugh come collaboratore fisso di Anderson e dà vita a un commento incalzante e incessante, a tratti protagonista aggiunto del film. L’universo dell’opera, completamente inventato, esiste solo nella mente di Anderson. È un microcosmo appartenente al suo autore, richiuso in se stesso, dove tutto è possibile. Dopo avere sperimentato le ambientazioni realistiche e/o direttamente esperite con Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Il treno per il Darjeeling, Anderson inverte la rotta,

riparte dalla fantasia pura, dalla nostalgia per le epopee dell’infanzia e crea un luogo che risponde alle sue regole ed è plasmabile come la plastilina dei pupazzi per la stop motion: un’isola che non c’è, da filmare con gli stessi meccanismi del mondo reale perché ancora più reale. Nel passaggio dal live action all’animazione e ritorno, Anderson non modifica la grammatica della sua macchina da presa: Fantastic Mr. Fox è un cartone animato costruito su carrelli laterali, panoramiche e un uso della profondità di campo decisamente inconsueto in un prodotto d’animazione. Se per i suoi personaggi il mondo non è conoscibile, da questo momento in poi lo creerà lui per loro, integralmente, con geografie interne rigorose e precise, accessibili perché inventate ex novo come una mappa disegnata con pastelli a cera. Lo stesso avverrà per i due lungometraggi a seguire, girati in live action ma fortemente debitori dell’esperienza di Anderson con l’animazione. L’isola di New Penzance (Moonrise Kingdom) è un New England immaginario, la Repubblica di Zubrowka (Grand Budapest Hotel) un Est europeo in stile patchwork. Utilizzando per la prima volta un autore altro che legittima il suo lavoro, si pone in prima persona come depositario di storie, propagatore del piacere del racconto e dell’invenzione, affabulatore e creatore di mondi – ispirati, sì, alle sue fantasie di bambino, alle visioni dell’infanzia, alle ossessioni della crescita bloccata, ma sempre originali. L’enigmatico scambio di saluti a pugno chiuso con il lupo, una tra le scene più evocative e di difficile interpretazione del film, lontano dall’avere valenze politiche sembra allora un gesto di vittoria e di emancipazione, un “via libera” che il lato più selvatico della fauna accorda a Mr. Fox, e che il creato di Anderson accorda al proprio creatore.

8.6 Un remake abbandonato. The Rosenthaler Suite (2009) Poco dopo la presentazione di Fantastic Mr. Fox viene diramata la notizia che il successivo progetto di Wes Anderson sarà per la prima volta il rifacimento di un film altrui, cioè il remake statunitense di Il mio migliore amico di Patrice Leconte (Mon meilleur ami, 2006), che ha per protagonisti le star francesi Daniel Auteuil e Dany Boon. Nella prima bozza dello script, inizialmente diffusa online e firmata dal solo Anderson, l’azione si sposta da Parigi a New York e il protagonista è il solitario mercante d’arte Nicholas (come il personaggio originale di Leconte) uomo scontroso e solo che viene sfidato dalla collega e rivale Lucinda a trovare almeno un amico entro dieci giorni. Esattamente come nel film di partenza, Nicholas finisce per legarsi a un uomo di estrazione sociale molto differente, un tassista: il Bruno di Dany Boon diventa per Anderson un polacco di nome Zbigniew. Al contempo, Nicholas cerca di accaparrarsi la preziosa collezione di quadri di un artista, Moses Rosenthaler, prima che questi muoia facendo salire alle stelle il valore delle opere. Dopo avere adattato il testo di un altro autore con Fantastic Mr. Fox, la scelta di lavorare su una pellicola già esistente, del tutto inedita per Anderson, non risulta così stramba, nonostante l’originale sia uscito poco tempo prima. Inoltre la tematica delle solitudini che s’incontrano e si completano, l’amicizia come legame fraterno e l’ambientazione in un milieu di artisti e intellettuali newyorkesi sono elementi di continuità con le opere andersoniane. Tuttavia il progetto (che secondo voci di corridoio dovrebbe essere diretto da Roman Coppola, con Anderson come solo sceneggiatore) non supera mai la fase embrionale e non viene indicato alcun nome ufficiale per il cast. Anderson si divertirà a riassorbire l’elemento del dipinto dal valore inestimabile nella trama di Grand Budapest Hotel dove, d’altra parte, nessuno dei proprietari del famigerato

Ragazzo con mela sembra minimamente interessato al suo potenziale artistico.

8.7 Spot da grande schermo

Le Apart-O-Matic. Stella Artois (2011) Diretto a quattro mani con Roman Coppola, lo spot per la birra Stella Artois di Wes Anderson è un compendio di passione per il vintage, arredamento da boutique di modernariato, tecnologie retrò e una colonna sonora sbucata direttamente dagli anni Sessanta. Ambientato in una stanza super accessoriata e dotata di gadget ironicamente avveniristici, mette in scena un gioco di seduzione che finisce in semplice passione per la birra sponsorizzata: la ragazza rimorchiata dal protagonista resta sola con una plancia di bottoni e non resiste alla tentazione di provarli, innescando una serie di trasformazioni nell’appartamento automatizzato che la imprigionano all’interno del divano, ma all’uomo non interessa altro che la sua Stella Artois. Le atmosfere Sixties e la messa in scena di un corteggiamento atipico anticipano i contenuti della serie diretta l’anno successivo per Prada Candy. Al tempo stesso Anderson utilizza una comicità slapstick altamente stilizzata, che segnala già il cambiamento avvenuto nella messa in scena del regista dopo l’esperienza con l’animazione. In continuità con le sue precedenti escursioni in terra gallica, dalla finestra della stanza si vede un edificio che potrebbe essere l’Hotel Chevalier, ma anche la villa che faceva da sfondo allo spot dell’American Express.

Talk to My Car e Modern Life. Hyundai Azera (2012) In onda durante la cerimonia degli Oscar 2012, la campagna comprende due diversi spot. Il primo, Talk to My Car, è un concentrato di citazioni e ammiccamenti cinematografici con cui Anderson si diverte a mettere in fila passioni cullate fin dall’infanzia: protagonista una famiglia – padre, madre e bimbo – alle prese con una macchina dai poteri straordinari, cui possono parlare e dare ordini trasformandola in velivolo, in sottomarino e in veicolo da supereroe. Nei 30 secondi del commercial, realizzato con tecnica mista tra live action e stop motion, Anderson spazia tra citazioni e auto-citazioni: il segmento dell’auto volante è un omaggio al classico dell’infanzia Citty Citty Bang Bang ([Chitty Chitty Bang Bang, Ken Hughes, 1968] alla cui sceneggiatura contribuì anche Roald Dahl). Nel secondo, parzialmente ambientato sott’acqua, il sottomarino giallo non può che ricordare quello di Steve Zissou, evocato anche dalla disposizione degli eroi dietro il parabrezza, come il Team Zissou al momento dell’incontro con lo squalo giaguaro. Nell’ultimo segmento, il più psichedelico, il regista si rifà alle saghe supereroiche vintage e richiama i colorati e camp Batman & Robin degli anni Sessanta. Il secondo spot, dal titolo Modern Life, è un breve piano sequenza contraddistinto dalle tipiche panoramiche a schiaffo di Anderson, in cui nel set di una disastrata cucina un padre di famiglia cerca di barcamenarsi con l’impresa impossibile di cucinare la cena seguendo le serafiche istruzioni della madre via telefono. Lo scavalcamento del set, in stile casa di bambola, mostra che la donna è in realtà parcheggiata appena fuori casa e comodamente allungata nella confortevole autovettura. Se l’affanno del capofamiglia, cadenzato dalle percussioni in sottofondo, anticipa la frenesia del concièrge Gustave e del suo garzoncello Zero di Grand Budapest Hotel, lo spot nei suoi fulminei 30 secondi mette in scena una tipica

famiglia disfunzionale governata da due genitori cialtroni che si collocano in sintonia con quelli poco esemplari di Suzy Bishop, pronti a vedere la luce del grande schermo al Festival di Cannes 2012 in Moonrise Kingdom.

Made of Imagination. Sony Xperia (2012) Seconda incursione ufficiale nell’animazione per Wes Anderson, la pubblicità illustra il funzionamento di uno smartphone così come lo immagina la fantasia di un bimbo di otto anni: un meccanismo fra magia e fantascienza, un microcosmo popolato di minuscoli robot, stilizzati con gusto vintage. Realizzato interamente in stop motion e narrato dalla voce del piccolo “inventore”, mette in scena nel dettaglio l’elaborata ricostruzione, tramite una serie di scenari sci-fi teneramente ingenui e immaginari set in sezione da plastico, dove i robot si muovono in gruppo compatto come la gang di Fantastic Mr. Fox, in un’evoluzione tridimensionale del classico schema a mappa di Anderson.

[1]

Davies S., Wild Thing, in «Sight and Sound», n.11, novembre 2009, p.17.

[2]

Specter M., The Making of ‘Fantastic Mr. Fox’, Rizzoli, New York 2009, p.164.

[3]

Brown L., Meet Wes Anderson Cinematographer Tristan Oliver, the New Megan Fox, www.vulture.com/2009/10/meet_wes_anderson_cinematograp.html. [4]

Foundas S., Wes Anderson, in «Cinema Scope», n. 50, primavera 2012, p. 30.

[5]

Zoller Seitz M., The Wes Anderson Collection, Abrams, New York 2013, p. 255.

[6]

Davies S., op. cit., p.17.

[7]

Jones K., Animal Planet, in «Film Comment», vol. 46, n. 6, novembre/dicembre 2009, p. 22. [8] [9]

Zoller Seitz M., op. cit., p. 238.

Browning M., Wes Anderson. Why His Movies Matter, Praeger, Santa Barbara 2011, p. 164.

9. Nel paese delle creature selvagge Moonrise Kingdom. Una fuga d’amore (2012)

È l’estate del 1964 quando Suzy Bishop e Sam Shakusky si innamorano a prima vista. È il 2012 quando Wes Anderson, dopo avere reinventato la geografia, reinventa anche il tempo. Un’isola immaginaria in immaginari anni Sessanta è teatro della più epica tra le storie d’amore: quella fra due dodicenni. Forte della buona accoglienza riservata a Fantastic Mr. Fox (il suo terzo migliore incasso di sempre) e di una nomination all’Oscar per il film d’animazione, il regista aggiunge un tassello alla sua cosmogonia adolescenziale, spingendosi oltre e raccontando non più (non solo) di bambini vestiti da animali, ma di bambini che da animali si comportano e come Mr. Fox trovano nel proprio lato bestiale la possibilità di contrastare il conformismo ottuso del mondo degli adulti. Inno al potere sempiterno dell’infanzia, avventura lungo il fiume e sulle orme di Huckleberry Finn, Moonrise Kingdom. Una fuga d’amore ha il respiro di un apologo biblico illustrato, la potenza di un uragano ad altezza bambino. Suzy Bishop e Sam Shakusky hanno 12 anni e si amano. Lui è orfano, lei vorrebbe esserlo, entrambi sanno di non essere come tutti gli altri. Si sono conosciuti nell’estate del 1964, hanno passato un anno a scambiarsi lettere e hanno deciso che è giunto il momento di fuggire insieme; Sam, scout in campeggio sull’isola dove Suzy vive, organizza un piano di fuga. Insieme si avventurano nell’entroterra a insaputa della famiglia di lei e di quella, adottiva, di lui. Il capo-scout, i genitori di Suzy e quasi tutti gli adulti dell’isola li inseguono, i servizi sociali intervengono e tentano di impedire la loro unione, ma i ragazzi non si arrendono, scappano nuovamente, si sposano con cerimonia ufficiosa e si nascondono in cima a

un campanile dove, complice una tempesta in arrivo e il cuore tenero di un poliziotto, rinunciano ai propositi quasi suicidi e si arrendono. Senza smettere di amarsi e di vedersi clandestinamente.

9.1 La costruzione di un’isola Il “regno della luna nascente” di Sam e Suzy non esiste. Tuttavia esistono sentieri e fiumi che solcano l’isola e sono tracciati in dettagliate mappe che Sam Shakusky impara a memoria per raggiungere la sua Suzy: l’isola di New Penzance è un territorio di fantasia che Anderson ricrea a Rhode Island, nel New England, e riveste di un’aura magica, a partire dalla scelta dei nomi delle località. Se sono i dodicenni protagonisti a ribattezzare “Moonrise Kingdom” la baia dove si rifugiano, lontani dagli occhi degli adulti, la toponomastica dell’isola è già eloquente: si chiama “Summer’s End” – come la nostalgia letale che attanaglia l’anima agli inizi di settembre (proprio il periodo in cui si svolge il film) – la striscia di terra dove la famiglia Bishop vive e si annoia, in un giorno di pioggia e per tutta l’estate del 1965, almeno finché Suzy e Sam non evadono. Dopo l’esperienza con l’animazione di Fantastic Mr. Fox, il modo di fare cinema di Anderson è cambiato radicalmente. Da sempre abituato a visualizzare mentalmente il film per intero e a renderlo visibile agli altri grazie a storyboard disegnati di suo pugno, con la stop motion ha ampliato i suoi orizzonti e scoperto un universo di nuove possibilità. Questa tecnica, infatti, mette a sua disposizione nuove leggi fisiche per creare mondi di fantasia, a metà tra lo slapstick e il cartone animato, e gli permette di pianificare scenografie e coreografie in modo iper-dettagliato. Come anticipato nei precedenti capitoli, da Fantastic Mr. Fox in poi questo studio millimetrico di posizioni e movimenti viene applicato anche ai film live action, riducendo notevolmente la distanza tra i due modus operandi. In Moonrise Kingdom, come sarà per Grand Budapest Hotel, una parte delle sequenze è in effetti realizzata in stop motion con modellini e miniature. Questo espediente conferisce all’isola di New Penzance l’aspetto artificioso di un mondo ricreato in laboratorio, seppure lussureggiante di minuzie e in parte veristico, più colorato e intenso di quello reale. Le sequenze in cui i personaggi si muovono in

controluce, come silhouette in lontananza, ridotti a sagome animate, sembrano scaturite direttamente da Fantastic Mr. Fox. Anderson, tuttavia, riserva un trattamento differente ai suoi corpi attoriali “veterani” e ai due piccoli esordienti. Se agli adulti, ridicolizzati e a volte umiliati, è chiesto di muoversi come fossero cartoon, la macchina da presa si avvicina ai volti di Sam e Suzy abbondando in primi piani e creando così un senso di prossimità ai caratteri mai raggiunto nei film precedenti: ancora una volta Anderson usa il mezzo cinematografico per dare sostanza a un pensiero – in questo caso l’adesione all’emotività dei due ragazzi – segnalando un’ulteriore maturazione della sua poetica e una (quasi) completa padronanza della macchina-cinema. L’affastellarsi di primi piani non è l’unica “stranezza”: a differenza di qualsiasi altra pellicola live action, per Moonrise Kingdom viene realizzato uno storyboard animato. Oltre a quello disegnato a mano, con i tratti infantili ma precisissimi di Anderson, l’animatore Christian De Vita realizza un’animazione – successivamente montata e arricchita di suoni e voci (o meglio, voce, perché il regista interpreta tutti i personaggi, con un procedimento che ripete anche per Grand Budapest Hotel) – come versione in stop motion composta di tavole fisse. Il film è fuoriuscito dalla mente del regista, che non è più il solo a poterlo vedere per intero prima che sia stata girato. A sancire la continuità rispetto al film precedente contribuisce la colonna sonora, nuovamente affidata ad Alexandre Desplat, così stratificata e complessa da porsi come vero e proprio elemento drammaturgico. All’interno del film riecheggiano infatti le musiche del compositore britannico Benjamin Britten, nume tutelare di Anderson durante la realizzazione della pellicola. Come nota lo stesso regista, non c’è quasi alcun momento nel film che sia privo di musica: a Desplat è affidato il tema della love story fra Sam e Suzy, mentre al vecchio collaboratore di Anderson, Mark Mothersbaugh, spettano le percussioni e i tamburi che scandiscono le azioni più concitate e fungono da correlativo sonoro delle truppe di scout protagonisti. Randall Poster, sempre in veste di music supervisor, ha contribuito alla selezione di brani che dessero

voce ai pensieri dei protagonisti: se Suzy si identifica con i dischi di Françoise Hardy, il poliziotto mesto interpretato da Bruce Willis si accompagna a brani country di Hank Williams, quasi onnipresenti sulla radio della sua auto o della stazione di polizia. Da sempre contrario al digitale e accanito sostenitore della pellicola, Anderson sceglie di girare quasi interamente in 16 mm, come spiega il montatore Andrew Weisblum: Per Moonrise Kingdom, l’estetica del Super 16 si adattava bene all’ambientazione anni Sessanta. Inoltre permetteva a Wes di mantenere una troupe ridotta. […] La scelta di quel tipo di pellicola ha anche permesso al direttore della fotografia Robert Yeoman di trovare alcuni angoli interessanti. […] Nel film c’è anche una serie di scene realizzate con modellini e girate in 35 mm, quindi ho lavorato con entrambi i formati.[1]

In un lavoro che si rinnova notevolmente, dal punto di vista estetico, rispetto alle precedenti opere del regista, anche la tipografia vuole la sua parte. In questo caso il font di riferimento è disegnata su richiesta da Jessica Hische ed è un carattere corsivo elegante che, come l’isola di New Penzance o i romanzi fantasy di Suzy, non esisteva negli anni Sessanta né esiste ora, ma che risulta verosimile, inventata e plausibile insieme. L’esistenza della sua isola-che-non-c’è, con cui Anderson rende nuovamente omaggio all’amato Peter Pan (omaggio ancora più esplicito nella sequenza in cui Suzy, come Wendy Darling – e Miss Cross, legge per una schiera di scout, incantati come i Bimbi Sperduti partoriti dalla penna di Sir James Matthew Barrie), è ratificata poi da un narratore esterno, scientificamente attendibile e serioso. Il meteorologo, interpretato da Bob Balaban, funge da cornice del racconto, ne attesta la credibilità – secondo un espediente teatrale per il quale Anderson si ispira alla pièce Piccola città di Thornton Wilder (anch’essa, tra l’altro, ambientata nel New England) – e conferisce un tocco sovrannaturale a questa storia d’amore già segnata dal fato: secondo le sue previsioni mancano tre giorni alla tempesta che farà straripare le dighe di New Penzance, con conseguenze imprevedibili per i suoi abitanti. Il cataclisma costituisce il correlativo meteorologico della

passione precoce fra i due ragazzini, metafora che ispirò da subito il regista, alle prese con la sua prima, compiuta storia d’amore: Volevo fare un film su un’isola e volevo fare qualcosa su due dodicenni che si innamorano con un’intensità che li sovrasta – leggermente disturbante per tutti coloro che li circondano. […] Io mi ricordo com’era. Per alcuni a quell’età innamorarsi può essere così potente che diventa quasi come una fantasia – il mondo intero è alterato. Per me è come quando, a quell’età, trovi un libro che amerai per sempre e, soprattutto se è una storia di fantasia, vorresti così tanto fosse vera che inizi a immaginare che lo sia. Quel qualcosa proprio dei bambini, del loro desiderio che la fantasia sia reale, fa parte del DNA del film.[2]

Nella scena iniziale, appesi alle pareti della casa di Summer’s End, ci sono quadretti ricamati a punto croce che mostrano in anteprima tutti i luoghi presenti nel film. L’intera isola – l’intera storia – è già in quelle stanze, già nella testa di Suzy: il suo amore per Sam è la forza della natura che, come una scossa tellurica, ha portato in superficie un’isola tutta loro.

9.2 Questa è un’(altra) avventura Per scrivere la sceneggiatura di questo film, poi nominata al premio Oscar, Anderson si ricongiunge al sodale Roman Coppola. Quasi coetanei, i due attingono dalla propria memoria elementi autobiografici per dare forma a un immaginario 1965 che solo per motivi anagrafici non hanno vissuto: la madre che usa il megafono per comunicare sbrigativamente con il resto della famiglia è un ricordo di Eleanor Coppola; di una sontuosa messa in scena amatoriale di Noye’s Fludde – nel film all’origine dell’incontro fatidico – è protagonista un giovanissimo Wes Anderson, altresì coinvolto, da bambino, in una rappresentazione della battaglia di Alamo in cui interpreta Davy Crockett indossando lo stesso cappello di procione da cui Sam non si separa mai. Lo spettacolo Noye’s Fludde è stato scritto da Benjamin Britten nel 1957 per essere interpretato da un gruppo di giovani non professionisti all’interno di una chiesa ed è ispirato al racconto del diluvio universale e dell’arca di Noè. Nella scena in cui l’opera è in pieno svolgimento alla St. Jack’s Church, miriadi di bambini vestiti da animali (che farebbero la gioia del cinico Royal Tenenbaum) affollano l’inquadratura, anticipando il tema della natura selvatica di Suzy e di Sam. In apertura riecheggia l’esecuzione di Leonard Bernstein di The Young Person’s Guide to the Orchestra, brano in cui un pezzo di Henry Purcell viene scomposto in sezioni di strumenti e riassemblato a beneficio degli ascoltatori più giovani. Anche la musica, come il resto del mondo rappresentato, è totalmente a misura dei ragazzi: sarà, in fondo, un diluvio universale in miniatura quello che li travolgerà insieme ai loro inefficienti tutori alla fine del film. La maestosità del pezzo di Purcell, che raggiunge l’acme quando finalmente Suzy intercetta l’arrivo dell’ultima e definitiva lettera, quella in cui Sam spiega il piano per la fuga, trasmette un senso di drammaticità che, per Anderson, è il correlativo dei sentimenti vissuti dai due in quel giorno di pioggia: «A noi sembrano solo ragazzini che vagano

nella casa mentre piove, in realtà loro vedono grandi cose in arrivo. Perciò amo questo pezzo».[3] L’avventura di Sam e Suzy – avida lettrice, vero topo di biblioteca cleptomane (prende in prestito i libri e li tiene per un tempo indeterminato) – ha una serie di illustri antenati letterari. Il viaggio lungo il fiume rievoca i piccoli protagonisti dei romanzi di Mark Twain, i vari Tom Sawyer e Huckleberry Finn sospinti, proprio come i due fuggiaschi di Anderson, da urgenze più grandi di loro. Nella messa in scena dell’Eden in miniatura, il “regno della luna nascente” ritagliato sulla spiaggia, riecheggia uno dei classici più amati da Anderson, The Swiss Family Robinson. Lo stesso romanzo ispira Terrence Malick per La rabbia giovane (Badlands, 1973), le cui sequenze del “matrimonio per gioco” a loro volta ispirano in parte l’Eden di Suzy e Sam: anche Holly e Kit danzavano a piedi nudi sulle note di una radio portatile, immersi in una dimensione di innocenza selvatica e gaudente che ha, come per il paradiso perduto di Anderson, anche un accento perturbante. Le storie di amore pre-puberale cui il regista attinge sono tante. Ad esempio Come sposare la vicina di banco e farla in barba alla maestra (Melody, Waris Hussein, 1971), scritto da Alan Parker, tenera love story british su musiche dei Bee Gees in cui due dodicenni decidono di sposarsi, o ancora Black Jack di Ken Loach (Id., 1979), dov’è centrale il tema della reclusione in un’istituzione, in Moonrise Kingdom drammaticamente sfiorato. Il binocolo da cui Suzy non si separa mai, poi, è molto simile a quello della protagonista di Charulata (Id., Satyajit Ray, 1964) la quale, sola e annoiata, guarda fuori dalla finestra e trasforma questo strumento nell’equivalente fai-da-te di un superpotere. Il film di Anderson ricorda illustri predecessori dei turbolenti Sam e Suzy anche attraverso dettagli poco visibili: la copertina del terribile manuale per «affrontare il ragazzo molto problematico» che suscita il dolore di Suzy, per esempio, è ripresa dalla locandina di Buongiorno tristezza (Bonjour tristesse, Otto Preminger, 1958). Come se fosse stata la “cugina grande” Jean Seberg a consigliare alla ragazzina il famoso disco di Françoise Hardy, che diventa il suo preferito.

Su tutte, la fonte d’ispirazione principale di Moonrise Kingdom è però Gli anni in tasca (L’argent de poche, 1976) di François Truffaut, spirito guida insuperabile, cineasta che per primo ha instillato in Anderson la voglia di raccontare storie di ragazzi: dopo avere messo in scena per anni le vite di adulti rimasti bambini, e avere corteggiato il cinema di Truffaut con citazioni più o meno velate, Anderson si avventura per la prima volta in una rappresentazione a tutto tondo, radicale e intima, dell’universo preadolescenziale.

9.3 Scontri generazionali Undici anni e mezzo era l’età preferita di Steve Zissou. Sam e Suzy hanno giusto qualche mese in più, dunque l’età perfetta secondo Anderson. E sono i più ragionevoli in tutta la vicenda che mette sottosopra l’isola di New Penzance. Moonrise Kingdom è narrato e girato ad altezza di bambino: è lo sguardo di Suzy a introdurci al mondo fuori dall’abitazione dove si sente una reclusa, la grande casa rossa di Summer’s End che comprime i suoi sentimenti troppo grandi e troppo forti, come la scatola segreta che racchiude tutte le missive che lei e Sam si sono scambiati. Come accadeva in Un colpo da dilettanti, la soggettiva della bambina attraverso il binocolo detta le regole della nostra visione: suoi sono gli occhi che rompono per primi la quarta parete perché, a differenza dei tanti e inefficienti adulti che la circondano, lei ha sempre saputo dove guardare. Lo stesso vale per Sam Shakusky: nella sequenza in cui, nei camerini del teatro, tra i ragazzini scatta il colpo di fulmine, al piccolo scout basta un’occhiata per sapere cosa sta vedendo e indicare l’unica ragazza che meriti la sua attenzione («Ho detto: che tipo di uccello sei TU?»). La purezza dello sguardo di Suzy e Sam ammanta di epica e tristezza la loro fuga: non c’è alcun dubbio che siano loro dalla parte della ragione. Per convogliare l’attenzione sulla visione dei piccoli protagonisti, Anderson ha adottato tecniche di ripresa differenti, facendo largo uso della macchina a mano e rinunciando spesso, nelle sequenze che li vedono muoversi nel bosco, alla grammatica ortogonale e alla messa in scena teatrale e piatta messa a punto in precedenza, lasciando la macchina da presa libera di seguire il loro movimento o di avvicinarli con estrema facilità. Volevo usare macchine da presa più piccole, perché sapevo che avremmo girato molte scene nei boschi, e volevo avere una squadra ridotta, quasi da documentario, per evitare di circondare dei ragazzini con una classica, enorme troupe cinematografica. […] Abbiamo trovato queste macchine da presa molto piccole della Aaton, chiamate A-Minima, in cui metti la mano

sotto la macchina, guardi dentro da sopra, come una Rolliflex […] e puoi tenerla esattamente all’altezza dello sguardo di un dodicenne.[4]

Girando a questa altezza, Anderson restituisce la dimensione avulsa dalla realtà in cui i ragazzi si rinchiudono, creando grazie a queste piccole e agili macchine da presa un’intimità inaudita. Sul fronte opposto le figure autoritarie e genitoriali che popolano le vite dei ragazzini sono incapaci di vedere oltre il proprio naso. Alcuni esprimono il proprio potere posticcio tramite le divise: i Servizi Sociali, talmente calati in uniforme e ruolo da non avere nemmeno bisogno di un’identità propria, il capo-scout Ward o il capitano Sharp, i cui nomi, ironicamente, sono l’opposto delle loro caratteristiche (Ward, “guardia”, si fa scappare sotto il naso uno scout; Sharp, “acuto”, riesce a farsi dare dello stupido anche da una dodicenne e ammette che Sam probabilmente è più intelligente di lui). Altri al contrario si sottraggono clamorosamente al proprio ruolo. Il genitore adottivo di Sam lo rinnega per non dover più gestire i suoi guai giudiziari. La madre di Suzy, interpretata da Frances McDormand, è negligente nella vita familiare perché impegnata in una relazione adultera. Bill Murray presta il volto al padre della ragazzina: rinchiuso nella sua depressione, desolato e tradito, si comporta da immaturo andando in cerca di «un albero da abbattere», ed è drammaticamente consapevole della lancinante mancanza di rapporto tra adulti e bambini, tanto da dichiarare, parlando dei figli: «Starebbero meglio senza di noi». Edward Norton, leader niente affatto carismatico del piccolo esercito di scout, è incapace di mantenere il controllo sui ragazzi e raffigura in modo quasi pleonastico la crescita bloccata (è un adulto vestito perennemente da bambino). Il patrigno di Sam, tragicomicamente disinteressato al figlio adottivo, porta all’estremo l’indifferenza che era propria di Royal Tenenbaum. Sharp, infine, solitario e sconfitto, trova un senso alla sua esistenza diventando una figura paterna, nonostante sia più immaturo del ragazzino di cui si fa carico: gli assegnerà una

divisa uguale alla sua, in cerca di un legame, non si sa quanto sincero. Suzy e Sam non sono autori come i Tenenbaum: sono lettori di libri e di mappe, avidi consumatori di avventure. Quando Sam chiede alla compagna cosa vuole fare da grande, lei risponde semplicemente: «Vivere avventure». Non scrivono, se non lettere l’uno all’altra, e non hanno ambizione di modellare il mondo a proprio piacimento, perché sanno che il mondo è già loro e appartiene a loro soltanto. A dodici anni non c’è confine tra fantasia e realtà, tanto che i piccoli protagonisti non mettono in dubbio nemmeno per un attimo che la loro sia la vera logica delle cose. Per questo motivo Moonrise Kingdom è intriso di una nostalgia più dolorosa e acuta di qualsiasi altro film di Anderson: Suzy e Sam non sono in grado di comprendere le assurde dinamiche degli adulti, ai loro occhi totalmente incoerenti. «Ci amiamo e vogliamo stare insieme, che male c’è?», commenta Suzy incredula. Il fatto che, per entrambi, il prezzo da pagare per la loro ribellione potrebbe essere un ricovero in qualche pseudo-manicomio o, addirittura, per il nuovamente orfano Sam, l’elettroshock (poi genialmente rimpiazzato, per gentile concessione del meteo, da un fulmine che gli cade dritto in testa, mentre per Suzy i genitori hanno iniziato a ricorrere ai manuali per «ragazzi molto problematici»), conferisce alla loro fuga una dimensione drammatica, seppure latente, con pochi precedenti nel cinema di Anderson. Sotto la superficie dai toni pastello dell’amore dodicenne scorre la tragedia, un pericolo sempre imminente che oltrepassa le avventure spensierate fra i boschi o in canoa e arriva a coinvolgere il loro futuro (dimensione temporale inedita, preoccupante e sempre spaventosa, per Anderson e per le sue creature). Lo scontro fra generazioni differenti, che nei film precedenti era una questione di bisticci, rancori e rimorsi, assume quindi contorni più vasti e profondi: se Suzy e Sam sembrano, almeno fisicamente, i piccoli antenati di Max Fischer e Margot Tenenbaum, nascondono in realtà una riottosità molto più propositiva, che anticipa le rivolte giovanili pronte a scoppiare da qualche parte, nel mondo reale, fuori da New Penzance. Come lo stesso Anderson ha ipotizzato per loro, «Suzy forse

andrà a Berkeley, Sam partirà per il Vietnam: è a questo che vanno incontro».[5] La loro natura selvaggia, di bestiole animate da un fervore incomprensibile agli adulti (i falò appiccati “per sbaglio” da Sam, gli attacchi d’ira di Suzy) sono espressione di una ribellione e segno di un’evoluzione, di uno scatto in avanti che gli adulti saranno costretti ad accettare. Queste emozioni selvagge sono, per Anderson, il motore dell’amore e della bellezza. Sono ciò che motiva i suoi romantici e i suoi artisti, e lui, in cambio, le incarna in forme che non solo abbelliscono ma arricchiscono anche la vita – infondendo queste energie in una sbiadita esistenza middle class. E nessun cineasta dai tempi di Nicholas Ray ha trattato lo scontro di generazioni con tanta forza e discernimento come Anderson.[6]

9.4 Piccole donne crescono Moonrise Kingdom rappresenta una novità nella cinematografia del regista texano anche per l’inedita importanza della protagonista femminile, pari a quella del suo partner. Suzy è l’eroina tanto quanto Sam è l’eroe. Anzi, è lei il vero motore dell’azione: lei prende l’iniziativa di lasciare a Sam il suo indirizzo, dando il via alla relazione epistolare, sempre lei risponde con determinazione alle domande del cugino Ben su quanto siano sicuri di volersi sposare. Ancora lei, con un semplice ma autorevole cenno della testa, dà la sua approvazione perché Sam, sul campanile durante il diluvio, accetti l’offerta di essere adottato dal capitano Sharp. Prima di lei, nella galleria andersoniana, le donne hanno spesso ricoperto ruoli cruciali, ma sempre minori: Inez, in Un colpo da dilettanti, era frenata nell’azione perché non conosceva la lingua; Miss Cross, oggetto conteso dai protagonisti di Rushmore, subisce più o meno passivamente le follie messe in atto dai due uomini; Margot Tenenbaum è bloccata in una stasi sentimentale e artistica; le madri/mogli interpretate da Anjelica Huston sono algidamente distaccate dagli avvenimenti; Jane Winslett-Richardson, per quanto cerchi di incalzare Steve Zissou con i suoi trucchi da giornalista, non esce dalla dinamica di “oggetto desiderato” nell’ambito di un triangolo; Mrs. Fox, determinata e aggressiva, è sempre pronta a seguire il marito in ogni sua impresa. Mai, finora, un personaggio femminile era stato approfondito e ritratto in maniera compiuta, tanto che la dimensione risicata, superficiale e talvolta esecrabile delle sue “eroine” (si vedano in proposito la capricciosa Natalie Portman inspiegabilmente piena di lividi di Hotel Chevalier, la hostess di Il treno per il Darjeeling, protagonista di un’avventura fugace con Jack Whitman o la stagista costantemente in topless, senza ragione apparente, di Le avventure acquatiche di Steve Zissou) aveva scatenato diverse critiche.

Con Suzy il punto di vista dell’altra metà del cielo diventa centrale e dà vita a un personaggio forte e complesso, al punto che Anderson dedica il film alla compagna Juman Malouf, già interprete vocale della volpina Agnes in Fantastic Mr. Fox, come pegno d’amore su pellicola. Per associazione, Suzy è una bestiolina che smarrisce il controllo e azzanna i compagni di scuola, perde la pazienza e si prende a pugni nello specchio, per difendere l’amato accoltella con le forbici uno scout: animalesca e feroce, fisicamente dinamica e inarrestabile, è una vera forza della natura. Sul piano fisico, ed erotico, Suzy e Sam sono anche i primi eroi andersoniani ad abbattere i limiti dei microcosmi autoimposti e a calarsi nella realtà e nelle esperienze, anche sessuali. Come se i piccoli uomini-bambini di Anderson avessero fin qui solo aspettato la “ragazza giusta”: con l’apparire in scena del personaggio finalmente completo di Suzy, Sam, che li rappresenta, è legittimato a esperire l’amore fisico, prima negato, e non più condannato a restare sospeso in un limbo asessuato. I primi approcci sessuali, sdrammatizzati dalla consueta ironia (percepibile solo dallo spettatore, perché Sam e Suzy, in questo come in tutto il resto, sono estremamente seri), avvengono sulla spiaggia lunare del loro personale Eden, con un’innocenza ansiosamente filtrata dalle aspettative («Credo che cresceranno ancora», si giustifica la ragazza quando invita Sam a toccarle il seno ancora acerbo). Con tenerezza e al contempo in modo disturbante il regista sintetizza l’importanza decisiva della “prima volta” nella scena in cui Suzy viene simbolicamente deflorata dagli orecchini artigianali di Sam: il ragazzo le affonda nei lobi pendagli fabbricati con lucenti scarabei, mentre una sottile scia di sangue le scivola lungo il collo. Anderson riprende questa immagine della pubertà fantasiosamente carnale, pudica e oscena insieme, di nuovo portando la macchina da presa vicinissima ai suoi attori, significativamente quasi nudi (cioè privi di qualsivoglia divisa, uniforme o difesa formale), tanto da sfiorarne la pelle.

9.5 Un racconto morale? La tempesta che incombe su New Penzance si condensa e gonfia come la rabbia e il desiderio di Suzy: evento climatico simbolico che trasforma in fenomeno atmosferico lo scoppio della pubertà dei due ragazzi, il diluvio riprende tematicamente la rappresentazione di Noye’s Fludde, tradizionalmente allestita a New Penzance a fine estate (e nel settembre 1965 annullata a causa del maltempo). Il tema del diluvio universale sembra incongruente con la poetica di un autore che ha sempre escluso la religione, preferendo una visione del mondo fantastica che non prevede trascendenza. Ma la parabola dell’amore puro di Suzy e Sam – che può piegare le forze opposte degli adulti, ottenere che Sam abbia una vera famiglia, costringere i signori Bishop ad affrontare il fallimento del loro matrimonio, sconfiggere il sistema che li voleva internati in un istituto o costretti a subire l’elettroshock – ha una forza che viene da “altrove”: la forza di un inedito racconto morale. Di solito, costretti nel proprio microcosmo egocentrico, i suoi personaggi non modificano il mondo circostante, che nemmeno riescono a vedere. I giovanissimi amanti di New Penzance, invece, sovvertono queste regole e aprono il cinema del regista a livelli di lettura più stratificati. C’è una tematica trascendente in Moonrise Kingdom che eleva la tenera e gioiosa storia di due giovani amanti in fuga ad avventura spirituale. La visione morale del mondo, che era sempre stata implicita negli altri film di Anderson, qui esplode in una nuova, estatica, visionaria dimensione cinematografica. […] C’è sempre un elemento di catastrofe nei film di Anderson, eppure qui è messo in termini religiosi e mitopoietici.[7]

Gli autori, di fiction o di grandi imprese, sin qui creati dal regista, agiscono sempre per perseguire il proprio sogno in miniatura, mentre la volontà di Sam e Suzy, per quanto inconsapevolmente, ridisegna il mondo intero rendendolo più simile a loro. Gustave e Zero, i protagonisti di Grand

Budapest Hotel, tenteranno di fare lo stesso, agendo in nome di un’innocenza sostanziale che, come un filo rosso, unisce tutti i personaggi di Anderson, sospinti dallo stesso fervore con cui Dignan, nel finale di Un colpo da dilettanti, affermava serafico: «Non mi prenderanno mai, perché sono innocente».

9.6 Moonrise Kingdom e i suoi cugini Con Moonrise Kingdom la promozione dei film di Anderson inizia a sfruttare l’universo di celluloide creato dal regista tramite le sue espansioni in forma di cortometraggi, videoclip e contenuti extra che vengono diffusi in anteprima (non per il mercato home video) e aggiungono tasselli alla geografia del suo mondo o spessore ai personaggi. Giunto al suo settimo, attesissimo lungometraggio, che apre il Festival di Cannes 2012, e in piena ripresa rispetto ai risultati deludenti di Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Il treno per il Darjeeling, il regista sfrutta la fama consolidata di autore che alimenta l’immaginario collettivo. Ogni suo film è un evento per un pubblico polarizzato e ormai, anche se profano, perfettamente in grado di riconoscere i suoi marchi di fabbrica. Così sarà per il sito internet dedicato alla Repubblica di Zubrowka di Grand Budapest Hotel, così è per due originali trailer utilizzati per il lancio di Moonrise Kingdom. Questi appaiono infatti in rete poco prima dell’uscita in sala del film, operazioni promozionali che allargano il mondo immaginario dell’opera e, almeno in un caso, vedono direttamente coinvolto Wes Anderson. Il primo, Cousin Ben Troop Screening with Jason Schwartzman (Wes Anderson, 2012), della durata di due minuti, è un ironico trailer presentato da regista e protagonista: Jason Schwartzman interpreta di nuovo lo sbrigativo e avido Cugino Ben, alle prese con una proiezione privata e poco remunerativa di Moonrise Kingdom per gli scout del suo campo. Più interessante Moonrise Kingdom. Animated Book Shorts (2012), in cui Bob Babalan riveste il ruolo (e i vestiti sgargianti) del narratore e legge allo spettatore alcuni brani dei libri letti da Suzy nel film. I quattro romanzi sono accompagnati da clip animate con stile e grafica differenti, che portano in vita gli immaginifici estratti delle opere fantasy amate dalla ragazza. Ogni corto è realizzato da differenti

illustratori (David Hyde Costello, Juman Malouf, Sandro Kopp, Andrea Dopaso e Kevin Hooyman) e animatori (Filippo Cigognini, Giulia Barbera e per due volte Christian Kuntz), mentre la direzione del progetto è affidata a Christian De Vita, collaboratore dai tempi di Fantastic Mr. Fox.

9.7 Wes Anderson for Prada Nel 2012 ha inizio una collaborazione fra la casa di moda italiana Prada e il regista texano, incaricato di realizzare prima la campagna di spot televisivi per il profumo Candy – prontamente trasformata, insieme a Roman Coppola, in una mini-trilogia – e poi un corto promozionale. Il rapporto con la maison si estende anche a Grand Budapest Hotel: alcuni costumi indossati dai protagonisti della pellicola vengono infatti disegnati e realizzati appositamente da Prada.

Prada Candy (2012) Per realizzare la mini-saga Prada, Anderson ripropone la sua figura geometrica preferita: il triangolo. In coppia con Roman Coppola confeziona un triplo spot (ogni commercial dura un minuto) in cui l’oggetto pubblicizzato, il profumo, si trasfigura assumendo le forme di una donna che porta il suo nome: Candy. Léa Seydoux, splendido oggetto del desiderio, è al centro di tre fulminanti ménage à trois zuccherini, lontani parenti di Jules e Jim (Jules et Jim, François Truffaut, 1962) e Bande à part avvolti da atmosfere parigine molto Sixties e riassunti nella frangetta maliziosa dell’attrice. Con una tavolozza cromatica virata sui toni del rosa, Anderson imbastisce un gioco di maldestre seduzioni fra due contendenti e la bella Candy: cugini poco più grandi di Sam e Suzy, vivono l’amore come un gioco serioso, tanto da accettare il triangolo come forma di routine (e ad annoiarsi per prima sarà proprio Candy, personaggio forte e volitivo come la piccola protagonista di Moonrise Kingdom). Eccezion fatta per il citato spot di American Express, è con questo trittico che Anderson trasferisce compiutamente la sua estetica in ambito pubblicitario: i tre brevissimi corti portano la sua firma dalla prima all’ultima inquadratura, in ogni dettaglio della patinata e curatissima messa in scena. Rispetto alle sue prove precedenti in pubblicità, è la prima volta che il prodotto risulta secondario rispetto allo stile affermato e riconoscibile dell’autore: il brand è Anderson, che momentaneamente ospita il prodotto da sponsorizzare.

Castello Cavalcanti (2013) Cortometraggio a tutti gli effetti, il piccolo film diretto da Anderson non è tecnicamente un vero e proprio spot (la presenza del logo Prada è discreta e non funzionale al racconto). Scritto e prodotto insieme a Roman Coppola, riporta il regista texano in azione in Italia, negli studi di Cinecittà, a quasi un decennio di distanza da Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Ambientato nel settembre 1955 in un’immaginaria località dello stivale, da cui il corto eredita il titolo, prende le mosse dalla corsa Molte Miglia (nome deformato della Mille Miglia) e si collega idealmente al succitato spot per la American Express, che prevedeva Jason Schwartzman e uno spettacolare incidente stradale. In Castello Cavalcanti il cugino di Coppola, vestito con una tuta gialla di molte taglie più grandi che non può non ricordare le sgargianti divise da rapinatori di Un colpo da dilettanti, è un pilota maldestro che finisce la sua corsa prematuramente contro una statua di Gesù ed è costretto a restare nel piccolissimo paese. Il quale, però, si rivelerà essere il luogo d’origine dei suoi avi. La protagonista femminile, proprietaria del bar dove l’autista resta bloccato, è Giada Colagrande, membro acquisito della factory Anderson in quanto moglie di Willem Dafoe. Divertissement di geometrie cesellate e accostamenti cromatici, Castello Cavalcanti è un pezzo di bravura che potrebbe essere nato da un ciak sul set improbabile dello spot per American Express, con atmosfere surreali che rendono dichiarato omaggio ad Amarcord di Federico Fellini (1973).

[1]

Peters O., Moonrise Kingdom and Media Composer: Andrew Weisblum’s Editing, in «Digital Video», vol. 20, n. 5, maggio 2012, pp. 26-29. [2]

Pinkerton N., An Island of His Own, in «Sight and Sound», vol. 22, issue 6, giugno 2012, p. 16. [3]

Ibidem.

[4]

Zoller Seitz M., The Wes Anderson Collection, Abrams, New York 2013, p. 324.

[5]

Heuring D., Cinematographer Robert Yeoman Talks Super 16 Style on Moonrise

Kingdom, 25 maggio 2012, www.studiodaily.com/2012/05/cinematographer-robertyeoman-talks-super-16-style-on-moonrise-kingdom. [6]

Brody R., Loving “Moonrise Kingdom” For the Right Reasons, New Yorker Online, 15 giugno 2012, www. newyorker.com/online/blogs/movies/2012/06/moonrise-kingdom-wes-anderson. [7]

Brody R., What to See This Weekend: “Moonrise Kingdom”, Twice, New Yorker Online, 24 maggio 2012, www.newyorker.com/online/blogs/movies/2012/05/wes-anderson-moonrisekingdom.

10. Pensione completa Grand Budapest Hotel (2014)

L’ossessione di Wes Anderson per gli alberghi raggiunge l’apice in Grand Budapest Hotel, la sua opera più cinefila e divertita, una commedia d’azione rocambolesca che riprende il tema della fuga e dà vita a un eroe affascinante, contraddittorio e meraviglioso: Monsieur Gustave (ma potremmo dire Fantastic Mr. Gustave). Il concièrge interpretato da Ralph Fiennes, seducente e truffaldino, è il cuore di una struttura che, per la prima volta nella filmografia del regista, dispone quattro livelli temporali uno dentro l’altro come scatole cinesi. Dopo il successo clamoroso di Moonrise Kingdom – con quasi 70 milioni di dollari di incasso e una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura originale (esattamente come per I Tenenbaum) – Anderson gioca al rialzo. Rincuorato dai favori che pubblico e critica gli tributano, come non accadeva da più di un decennio, si concede scenografie complesse, un cast corale che vanta sedici nomi altisonanti (tra ruoli maggiori e camei fugaci) a supporto dell’ottimo esordiente Tony Revolori e una mise en abîme che si muove ludicamente dentro la storia del cinema. Il film viene scelto per aprire la Berlinale 2014 e in poche settimane si assesta in vetta ai box office mondiali. Nel 1985 una giovane lettrice visita la tomba di un celebre Autore, tenendo fra le mani il romanzo sul Grand Budapest Hotel nel quale l’Autore racconta di quando, durante la sua visita all’omonimo albergo nel 1968, incontrò l’enigmatico Zero Moustafa, proprietario della struttura, e ascoltò dalla sua viva voce una storia molto speciale. La storia, che si è svolta nel 1932, è quella del giovane Zero, lobby boy

dell’hotel al servizio del navigato e raffinato Monsieur Gustave, concièrge impeccabile e gigolò di lusso a tempo perso per le attempate clienti dell’albergo. Una di queste, Madame D., muore in circostanze misteriose e lascia in eredità a Gustave un inestimabile quadro del Seicento, ma la famiglia, per nulla intenzionata a separarsi dal dipinto, lo costringe sottrarlo con l’astuzia. Da questo momento iniziano la fuga di Monsieur Gustave e il suo inseguimento da parte di uno dei figli della defunta, che vuole a tutti i costi riappropriarsi del capolavoro. Gustave finisce in prigione ed evade solo grazie all’aiuto di Zero e della sua compagna Agatha. Dopo avventure e pericoli di ogni sorta, Gustave e Zero riescono a recuperare una copia del testamento che certifica i diritti di Gustave come proprietario dell’opera. Ma il peggio deve ancora venire: l’invasione militare straniera pone fine ai giorni della pace, Gustave viene ucciso mentre tenta di difendere Zero dalle forze nemiche e al ragazzo, divenuto uomo, non rimane che raccontare la sua storia.

10.1 Il mondo di ieri Come l’Inghilterra a stelle e strisce di Fantastic Mr. Fox e l’isola di New Penzance di Moonrise Kingdom, anche la Repubblica di Zubrowka di Grand Budapest Hotel è un luogo completamente inventato, la cui natura artificiosa è più voluta e dichiarata che mai. Se, infatti, le riprese in esterno di Moonrise Kingdom erano effettuate in uno spazio naturale, lussureggiante ma realistico, a Zubrowka tutto è di cartapesta: lo scenario si dispiega sullo schermo come se il romanzo dell’Autore, inquadrato in primo piano, fosse un libro pop-up con complesse e fragilissime sculture di carta. Parente stretto dell’Hotel Chevalier, con cui condivide l’architettura da fine Ottocento, il Grand Budapest è un modello iper-dettagliato, la più grande e complessa delle case di bambola edificate da Anderson. La sua facciata ricorda molto quella del Museo Oceanografico di Monaco di cui fu illustre direttore Jacques-Yves Cousteau e, come quello, è abbarbicato sulla nuda roccia, in cima a una montagna raggiungibile solo tramite una funicolare dalle forme geometriche impossibili, quasi un trenino giocattolo uscito dalla stanza del figlio di Mr. Fox. Dopo avere lasciato languire tanti dei suoi personaggi in camere di alberghi e motel, è arrivato il momento di realizzare un intero film tra le stanze di un hotel: l’interno del Grand Budapest è un trionfo di simmetria e accostamenti cromatici tono su tono, di rossi violenti e rosa confetto, summa delle architetture stilizzate dalla bellezza iperrealista e iperdettagliata che Anderson costruisce fin dal suo esordio. Se la facciata dell’Hotel è un autentico modellino animato in stop motion – con il supporto di parte della troupe che ha lavorato a Fantastic Mr. Fox (a sottolineare una volta di più l’avvenuta fusione tra animazione e live action), gli interni sono stati ricostruiti negli storici studi di Babelsberg (costruiti nel 1912, sono tra i più antichi del mondo) alle porte di Berlino: in questo modo, l’autore segnala la connessione con

la cinematografia del passato, diffusamente celebrata dalla pellicola. I pochi esterni non fittizi, invece, sono stati girati a Görlitz, in Sassonia. Anderson ha chiesto ai migliori tra gli artigiani residenti nella cittadina tedesca di realizzare tutti gli eccentrici manufatti del film: dai pericolanti courtesans au chocolat di Mendl’s ai medaglioni in porcellana indossati da Agatha, il regista ha creato una copia conforme (dai colori più intensi) della vera Görlitz, e l’ha chiamata Nebelsbed. Ma l’intera Zubrowka, regno di pura fantasia, è costituita da rimandi a svariate tipicità dell’Est europeo: la colonna sonora comprende jodel alpini, balalaike russe e zither; la versione anni Trenta dell’albergo ricalca edifici viennesi risalenti alla stessa epoca, quella anni Sessanta evoca Berlino Est; i nomi dei personaggi (Ivan, Dmitri, Kovacs, Henckels, l’altisonante e grottesco Villeneuve Desgoffes und Taxis) riprendono e rilanciano le stesse suggestioni. Questo universo fittizio scrupolosamente creato dal nulla ha una sua pregnanza storico-artistica: il quadro al centro dell’intrigo action, Ragazzo con mela, è firmato dall’immaginario Johannes Van Hoytl il Giovane, il cui tratto ricorda vagamente quello del tedesco Hans Holbein il Vecchio (già ispiratore della tavolozza di Rushmore); il dipinto che viene messo al suo posto sul muro, che ha per soggetto uno “scandaloso” amore saffico, è un’imitazione dell’austriaco Egon Schiele ad opera dell’artista di Rhode Island Rich Pellegrino; i costumi di clienti e inservienti creati dalla fedele Milena Canonero, scrupolosamente personalizzati, sono parte integrante della costruzione filmica e come il resto della scenografia dialogano con la storia dell’arte, figurativa e cinematografica (si osservi in proposito l’abito a stampe di Gustav Klimt indossato da Tilda Swinton). Tutto è rigorosamente fatto a mano, come i baffetti disegnati di Zero, e sempre più proiettato oltre la diegesi filmica. L’operazione pubblicitaria organizzata per Moonrise Kingdom, con Grand Budapest Hotel viene rifinita e messa a punto: attraverso la creazione di un sito dedicato alla Repubblica di Zubrowka, in cui è possibile iscriversi a corsi di un’accademia e trovare le istruzioni per confezionare i pasticcini del film, la strategia ha assunto dimensioni da viral marketing.

Anche l’affermata collaborazione tra Anderson e il mondo della moda tracima oltre i bordi dello schermo. Realizzati con l’ausilio di prestigiose maison (Fendi ha creato il cappotto di Henckels ornato dalla testa volpina di Mr. Fox per simboleggiare un immaginario squadrone; Prada il cappotto nero di pelle di Jopling e il set di valigie di Madame D.) alcuni tra gli abiti di scena sono stati messi in commercio. Si attesta così lo status di trend setter di Wes Anderson, creatore di icone non solo cinematografiche e figura influente sull’immaginario collettivo.

10.2 Wes at the movies Mai prima d’ora Anderson ha fatto sfoggio simile della sua fervente cinefilia: Grand Budapest Hotel è una matrioska di citazioni, riferimenti e ammiccamenti, una collezione di cimeli provenienti dal cinema degli anni Venti, Trenta e Quaranta. Stilizzato e denso di colori brillanti, il film è la versione ipersatura delle tantissime pellicole che contiene e omaggia, ricalca e intesse a partire dall’architettura magniloquente dell’albergo fino al più piccolo dettaglio di messa in scena. Durante la conferenza stampa berlinese di presentazione, alla domanda «A cosa ti sei ispirato per questo film?», Anderson elenca come uno scolaro diligente le numerose gemme del passato, recuperate in edizioni dvd ad alta definizione, che il regista ha visto nei suoi appartamenti di Parigi o New York, e nel farlo ripercorre decenni di storia del cinema. Pastiche consapevole e divertito di generi e atmosfere, il film ricorda l’Ernst Lubitsch di Scrivimi fermo posta (The Shop Around the Corner, 1940), spunto per l’aggraziata love story fra Agatha e Zero, e Vogliamo vivere! (To Be or Not to Be, 1942), che riecheggia nella resistenza all’invasione della divisione nazista Zig Zag. Fritz Lang aleggia nei toni cupi e dai chiaroscuri inquietanti dell’inseguimento fra Jopling (Willem Dafoe) e l’avvocato Kovacs (Jeff Goldblum), nella sequenza che sembra ricalcare fedelmente quella, quasi identica, girata da Hitchcock nel museo berlinese di Il sipario strappato (Torn Curtain, 1966). Se, poi, Jopling è uno scagnozzo dall’aspetto vampiresco il quale, data la somiglianza di Dafoe con Max Schrek (sfruttata anche in L’ombra del vampiro [Shadow of the Vampire, E. Elias Merhige, 2000]) non può che ricordare il Nosferatu. Il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau (Id., 1922), l’avvocato Kovacs richiama invece M. Il mostro di Düsseldorf (M, Fritz Lang, 1931), il cui spettro già si aggirava tra i tunnel sotterranei e le note delle angoscianti nenie infantili di Fantastic Mr. Fox. Ci sono un po’ di Frank Borzage (cui Anderson aveva già preso

in prestito un pezzo di titolo da La luna sorge [Moonrise, 1948]) e del suo Bufera mortale (The Mortal Storm, 1940), in cui l’avanzata nazista è raccontata dalla prospettiva di un piccolo paese nelle Alpi tedesche. La giovane maschera del cinema di Budapest di Le vie della fortuna di William Wyler (The Good Fairy, 1935). La Vienna occupata e noir di Il terzo uomo (The Third Man, Carol Reed, 1949), di cui Anderson recupera anche, per la colonna sonora, il caratteristico zither (o salterio) a corde pizzicate. Lo sberleffo all’occupazione di Il grande dittatore (The Great Dictator, Charlie Chaplin, 1940), con il comandante interpretato da Edward Norton il cui nome, Henckels, ammicca all’Hynkel chapliniano. La rigidità di questo personaggio è simile a quella del capitano Eric von Stroheim di La grande illusione (La grande illusion, Jean Renoir, 1937), cult personale di Anderson, omaggiato esplicitamente con la rocambolesca fuga lungo il tunnel dei prigionieri guidati dal tatuato Harvey Keitel. Ancora, ci sono Roman Polanski e il pirotecnico impianto teatrale di Per favore, non mordermi sul collo! (Dance of the Vampires, 1967): le sequenze di inseguimento con lo slittino dentro paesaggi coperti da una coltre di neve candida e palesemente finta sono un omaggio fedele alle corse sullo stesso mezzo di Alfred e Abronsius (senza contare che, come loro, anche Gustave e Zero sono assediati da una specie di vampiro). Dello stesso film Anderson emula la dicotomia fra interni ridondanti e tridimensionali ed esterni piatti e cartooneschi, oltre a ispirarsi dichiaratamente, con la colonna sonora di Alexandre Desplat, al lavoro di Polanski con Krystof Komeda. A questa schiera di nomi vanno aggiunti Billy Wilder e Max Ophüls: Tilda Swinton, il nome del cui personaggio, per esteso, è Madame Céline Villeneuve Desgoffe und Taxis, viene familiarmente chiamata Madame D., ovvero (I gioielli di) Madame de… (Madame De), film di Max Ophüls del 1953. Il regista tedesco, con Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknown Woman, 1948) è d’altronde l’unico ad avere trasposto con successo un lavoro di Stefan Zweig, nume tutelare di Grand Budapest Hotel. Inoltre: dopo essere passato dal Futura Bold all’Helvetica e da questo al corsivo di Moonrise Kingdom, per il suo ottavo lungometraggio Anderson cambia nuovamente font (che

sappiamo essere uno strumento decisivo per la definizione della sua poetica) e sceglie l’Archer. Carattere tipografico decisamente anacronistico, considerato che è stato inventato nel 2001 su richiesta di Martha Stewart (guru delle casalinghe raffinate), le cui origini polacche (il suo vero nome è Martha Helen Kostyra), però, ben si addicono all’atmosfera del Grand Budapest. Il nome Archer richiama tra l’altro il duo PowellPressburger, soprannominati gli Archers, al cui Narciso nero (Black Narcissus, 1947) si rifanno le sequenze ambientate nel convento arroccato sui monti dove Serge X trova asilo come monaco (e in Archer Avenue era sita casa Tenenbaum). Si potrebbe continuare all’infinito a snocciolare i titoli dei dvd esposti in bell’ordine sugli scaffali cinefili di Wes Anderson. Ma l’eccessiva diligenza nell’elencarli suggerisce che non si tratta semplicemente di una galleria da museo per spettatori allenati. Avvolti dalla comicità stralunata tipica di Anderson, i personaggi smentiscono l’aura mitica convocata dalle citazioni colte con la loro volgare meschinità (Dmitri accusa Gustave di essere un «fottuto finocchio», salvo poi ritrattare ed etichettarlo come bisessuale, Gustave interrompe le sue declamazioni, esausto, sbottando con un «Fanculo»). Le venature noir e il dinamismo comico, apparentemente debitori di Buster Keaton (in Francia soprannominato proprio “Zero”), sono inquinati da digressioni grottesche e momenti di umorismo nerissimo, come l’uccisione gratuita e fulminea del gatto di Kovacs (l’ultimo di numerosi animaletti da compagnia che vanno incontro a morte violenta nei film di Anderson). L’omaggio al cinema classico è non solo contenutistico, ma anche formale: il film è stato realizzato in tre differenti formati, 1.37:1, 2.35:1 e 1.85:1, rispettivamente corrispondenti ai segmenti temporali degli anni Trenta, Sessanta e Ottanta. In questo modo, il regista texano sembra dichiarare il suo amore non tanto ai singoli registi o generi, che non ha mai avuto intenzione di replicare o copiare. Il suo, piuttosto, è un inno alla personalità del gruppo di autori sopra citati. Tutti o quasi europei che dal vecchio continente si sono rifugiati a Hollywood per sottrarsi all’avanzare del potere nazista e della dittatura (nel film incarnata, più che dai buffi squadroni Zig Zag, dall’oscura sequenza in bianco e nero che precede il finale, scelta cromatica che Anderson non intraprendeva dal

suo corto d’esordio); tutti o quasi provenienti da quelle nazioni (Germania, Polonia, Austria, Ungheria) che, mescolate, danno origine a Zubrowka, divenuta a questo punto una sorta di mitologico Paese natìo del cinema, terra immaginaria che ha dato i natali a tutti i Polanski, i Lubitsch, gli Archers, i Lang e a tutti gli esuli che hanno trasferito altrove la propria inesauribile capacità di raccontare storie, di mettere in immagini una creatività indomabile, di trasferire la propria voce autoriale dall’altra parte dell’oceano e oltre le differenze culturali. Narratori instancabili nella cui scia Anderson si accomoda, sorridendo, inventando per glorificarli non un semplice un film, ma un’intera madre patria.

10.3 Bastardi con gloria Monsieur Gustave è uomo di mondo: raffinato declamatore di poesie e amante prezzolato per anziane in cerca d’affetto, è caratterizzato da una voluttuosità che sinora non era mai appartenuta ad alcun eroe andersoniano. L’essenza della sua sensualità si chiama Air de Panache ed è un profumo che permane nell’aria «parecchi minuti» e senza il quale Gustave fatica a stare. Identico nella foggia al Voltaire n. 6 di Natalie Portman in Hotel Chevalier – somiglianza che richiama l’attività erotica (come detto, il soprannome del profumo è “la petite mort”, ovvero l’orgasmo) – il suo nome sottintende, tramite l’uso del termine “panache”, maliziose doti di brio e di maestria. Tanto che il regista non esita a mostrarci il concièrge nel pieno dell’attività amatoria, inclusa una fellatio praticatagli da una delle arzille vecchiette, da lui paragonate a tagli di carne di qualità non elevata e tuttavia ancora piuttosto appetibili. Tale ostentata conoscenza delle cose del mondo fa di Monsieur Gustave un personaggio totalmente inedito nella galleria di ego-riferiti, cerebrali ed eterei anti-eroi andersoniani. Zero è suo apprendista da tutti i punti di vista: allievo-adepto, trae dall’esperienza consolidata di Gustave molteplici lezioni sull’arte di accogliere gli ospiti e sedurre le donne. Ad esempio, ruba al maestro l’idea di regalare ad Agatha, la ragazza di cui è innamorato, un volume di Poesie romantiche (e forse a Monsieur Gustave ruba anche il libro). Ben presto l’alunno supera l’insegnante e Zero chiede in sposa Agatha davanti a uno schermo cinematografico, e sulle poltroncine da spettatori si consuma immediatamente il loro amore. Giovani e infervorati, gli amanti sono mostrati nell’intimità della camera da letto. Dopo i timidi approcci sessuali della giovanissima coppia di Moonrise Kingdom, i personaggi di Anderson scoprono infine le gioie dell’amore fisico, cui si abbandonano senza pudore: per la prima volta vediamo personaggi semi-nudi animati da una carnalità appassionata. E non solo: scorre un’abbondante quantità di sangue (forse eguagliata solo da Le avventure acquatiche di

Steve Zissou), le teste si tagliano e recapitano in un paniere, le dita vengono mozzate e disposte, gocciolanti emoglobina, in bell’ordine nella neve. Sono lontani i tempi in cui il dito insanguinato di Margot Tenenbaum, segato con un colpo d’accetta, era stato sottratto alla vista dello spettatore nel passaggio dalla sceneggiatura al montaggio: la violenza, sebbene sempre ironica ed edulcorata, è nettamente più verace rispetto alle esplosioni teatrali messe in scena da Max Fischer e agli attacchi pirateschi di Steve Zissou. Gustave, Zero e Agatha sono calati nella realtà in un modo tutto nuovo e partecipe. Resta il fatto che la “realtà” è quella di un mondo del tutto immaginario. Accade perciò che la violenza della Storia, dell’invasione e dell’oppressione, sia allora privata del suo connotato politico, per farsi solo antagonista narrativo: nella sequenza della sparatoria nell’albergo, spettacolare e grottesca (ai limiti della demenzialità), i proiettili volano da una parte all’altra della hall del Grand Budapest, sibilano passando attraverso il grande lampadario, ma non producono (in questo caso) feriti. La scena è solo uno dei tanti momenti d’azione sdrammatizzati con ironia feroce: Grand Budapest Hotel è, come già Le avventure acquatiche di Steve Zissou e ora più che mai, un miscuglio di generi che va dall’heist movie (il furto del quadro) al noir (l’inseguimento nel Kunst Museum) al prison movie, con fuga spericolata annessa e dotata di tutti i crismi, ma trattata con un registro da commedia (lime e scalpelli sono nascosti nei prelibati dolci di Mendl’s, il boss interpretato da Harvey Keitel è coperto di tatuaggi curiosamente infantili, i fuggiaschi si avviano alla libertà assaltando l’autista di un piccolo bus per il trasporto locale). Il tutto è costellato di sequenze action ridicole: la caccia all’uomo sulla neve termina con un cliffhanger letterale in cui Gustave, aggrappato al ciglio di un burrone, declama poesie prima di essere salvato all’ultimo minuto; i travestimenti sono risibili (si vedano a tal proposito Gustave e Zero in versione monacale); le lotte prevedono gli immancabili cazzotti in faccia, marchio di fabbrica di Anderson, ma distribuiti con effetto domino tra protagonisti e antagonisti durante la lettura del testamento di Madame D. La resa stilizzata dei generi e la messa in discussione ludica degli avvenimenti storici avvicina Anderson al Quentin

Tarantino di Bastardi senza gloria (Inglourious Basterds, 2009) e Django Unchained (Id., 2012), stabilendo un punto di contatto con un autore suo contemporaneo: distanti nella visione del mondo (cinicamente ironica quella di Tarantino, più indulgente quella di Anderson), i due sono accomunati da un controllo assoluto della dimensione estetica declinato in uno stile riconoscibile in grado di incidere permanentemente sull’immaginario collettivo. Il ribaltamento dell’occupazione nazista (lo squadrone si chiama sì Zig Zag, ma è comunque composto da soldati capaci di uccidere) non è infiammato dallo stesso fervore rivoluzionario di Bastardi senza gloria, eppure rappresenta una precisa presa di posizione dell’autore, che contrappone la sua creatività ludica al buio della Storia. Hitler e Stalin non esistono in questo regno di finzione, ma improvvise esplosioni di violenza e la menzione estemporanea di avvenimenti tragici punta dritto verso un buio profondo appena fuori dell’inquadratura. Anderson non è un realista. Questo film si prende gioco meravigliosamente della storia, trasformando i suoi orrori in una serie di scherzi e gesti birichini. Si può chiamarlo escapismo, volendo. Si può anche chiamare vendetta.[1]

Una presa di posizione come sempre apolitica e innegabilmente morale: come accadeva per i giovani protagonisti di Moonrise Kingdom e per la forza dirompente del loro amore, scagliato contro il muro dell’ottusità adulta, anche le gesta di Gustave e Zero sono animate da un senso morale che si oppone alla grettezza, all’ignoranza rozza e alla mancanza di immaginazione dei tetri, monocromatici e maleducati antagonisti, rappresentati come semi-mostri (Jopling) o semi-analfabeti (i militari della sequenza in bianco e nero), sempre caratterizzati da una mancanza di verbalità che li contrappone all’eloquio, furbo e forbito, di Gustave. Le Poesie romantiche contro la dittatura: la rivoluzione di Anderson è soprattutto questione di poetica.

10.4 L’autore è morto, viva l’autore Grand Budapest Hotel si apre con un cimitero e una tomba: quella dell’Autore. Dopo vent’anni di carriera e di creatori in incognito, Anderson mette al centro della sua narrazione un Autore, cui non serve nemmeno un nome di battesimo: è il «tesoro nazionale» della (un tempo gloriosa) Repubblica di Zubrowka, la sua lapide è meta di pellegrinaggio, la sua opera – un libro dal titolo The Grand Budapest Hotel – un feticcio e una reliquia che a distanza di decenni una devota ammiratrice si stringe al petto. La morte, acerrima nemica di Anderson, ha avuto drasticamente la meglio sulla forza creativa dei suoi personaggi, con l’effetto di annichilire, almeno momentaneamente, la loro capacità di narrare (così come ha vinto su Stefan Zweig, che si tolse la vita come a voler certificare l’inutilità di creare ancora opere). E non c’è più posto per l’arte, sembra suggerire il gag ricorrente di Monsieur Gustave che, intento a recitare versi ispirati, è costantemente interrotto da ingerenze della Sua storia e della Storia: forze dell’ordine e militari, invasioni e sparatorie, sirene ed emergenze di vario tipo. Mai un film di Anderson è stato così segnato dalla morte: in un’ellissi dolorosissima scompaiono prematuramente sia Agatha sia Gustave, lasciando Zero completamente solo. Solo con un albergo, il Grand Budapest, che è tutto ciò che resta della personalità del suo mentore: regno illusorio di ordine e precisione, di efficienza e galanteria, di eleganza e bon ton. Quasi quarant’anni dopo, dello splendore dell’albergo non è rimasto niente: ridotto a funzionale e spartano edificio come abbondavano nella Germania Est, con le pareti un tempo rosa pastello e ora di un arancione volgare, è solo un relitto. Il mondo fittizio di cui Gustave era il re indiscusso non è sopravvissuto alla morte, alla storia e al tempo. Anderson dichiara una resa parziale: la vera forza di Zero è quella del racconto. Se il mondo è andato perduto si può, tuttavia, ancora narrarlo, tramandarlo e scriverne.

È la nostalgia per quel mondo di ieri in cui è palpabile la presenza di Stefan Zweig: a lui, all’Autore esule austriaco in America (come i tanti cineasti celebrati nel film), morto suicida nel 1942, il film è dedicato, dichiaratamente ispirato all’insieme delle sue opere ma a nessuna in particolare. Se la struttura del film, in cui la cornice è costituita dal racconto orale fatto da un personaggio a un altro, è espediente ricorrente nei libri di Zweig, la sua fantasmatica influenza si esercita più sull’atmosfera che sui contenuti. Dandy eccentrico e celebre per la sua personalità, è l’uomo Zweig, prima ancora dell’autore, a interessare Anderson e Hugo Guinness, artista britannico, già doppiatore di Bunce in Fantastic Mr. Fox, qui accreditato per il soggetto ma, a detta del regista, autore insieme a lui della sceneggiatura. Non a caso, fra tutti i testi dello scrittore austriaco, le sue memorie hanno per Anderson un valore decisivo, perché raccontano i ricordi di un’Austria già scomparsa da tempo nel momento in cui ne si scrive, di un impero in declino, di un mondo fatto di dignità, classe, formalità ed eleganza che Zweig rimpiange per la sua fondamentale bellezza. In Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (pubblicato nel 1941) non si narrano gli eventi che accadono nello scanzonato pseudo-heist movie di Wes Anderson. Tuttavia il libro è popolato da personaggi che sono pronti a sfoderare il proprio biglietto da visita come essenziale requisito per esistere in società (allo stesso modo di Henckels e perfino del sicario Jopling) e sono intrisi di quella grandeur sognante che dello stile faceva sostanza. Proprio ciò che, da sempre, Anderson realizza con i suoi film e con personaggi legati a un’esteriorità che diventa carattere, a una precisione formale che contiene una sfida al passaggio letale del tempo: «Il senso del suo cinema emerge proprio dallo studio ravvicinato della stasi formale e dalla pulsione di morte che emana da quel reticolo maniacale di oggetti immobili che compongono le sue inquadrature».[2] Gustave è l’alter ego di Zweig (e di Anderson), che si aggrappa a quelle «scintille di civiltà rimaste in questo mattatoio barbarico un tempo noto come umanità»: nella precisione con cui esegue il suo mestiere di servitore, nella formalità con cui officia il rito della cena dello staff, c’è il desiderio di tenere in piedi un mondo fatto di segni destinati

all’oblio. Meno ossessionato dai feticci rispetto ai “colleghi” (in fondo, Ragazzo con mela era inizialmente destinato a una rapida vendita), Gustave si aggrappa piuttosto al bon ton e all’etichetta, surrogati di quei sentimenti e relazioni che invece gli sfuggono tra le dita (e in Grand Budapest Hotel sfuggono, come si è visto, le dita stesse: tranciate di netto insieme alla democrazia con l’arrivo della dittatura). A Zero Moustafa di tutto ciò resta ben poco: solo un albergo scalcinato, conservato come mausoleo agibile ma decadente, malmesso monumento in memoria dell’amata. Laddove, però, la brama di conservare questi tesori soccombe inesorabilmente alla morte e al tempo (scandito da date mai così precise e implacabili in Anderson), arriva l’Autore a conservarne le vestigia, a raccogliere le storie e rinchiuderle come un cimelio all’interno del romanzo. Lui ha il potere di riaprire le porte di quel mondo (e la sua tomba, infatti, è ricoperta di chiavi d’albergo). È il potere della narrazione creativa che gli eroi di Anderson hanno tutti iscritto nel DNA – «Questi autori finzionali supportano la posizione autoriale di Anderson, una posizione che in definitiva cerca di redimere e proteggere l’autore»[3] – e di cui il regista si circonda come di un esercito o di un’affidabile «Società delle Chiavi Incrociate».

10.5 La Società delle Chiavi Incrociate Il rapporto fra Zero e Gustave esplora in modo differente la consueta dinamica fra giovane apprendista e mentore ciarlatano, messa in scena da Anderson già in diverse occasioni. Entrambi privi di famiglia, entrambi pienamente autosufficienti, i due uomini non vogliono conoscere il passato dell’altro (sebbene Zero racconti velocemente di sé e del suo arrivo a piedi come esule di guerra dall’immaginaria località mediorientale di Aq-Salim-Al-Jabat). Non si guardano da altezze differenti, si riflettono l’uno nell’altro. Pieno di ammirazione per la scintillante figura di Gustave, Zero lo considera inizialmente un modello da seguire, ma non un padre. Similmente, Gustave percepisce di poter fare affidamento su di lui perché riconosce la stoffa di cui entrambi sono fatti. Il legame tra loro è certificato durante la prima scazzottata in treno: l’esclamazione di Gustave – «Giù le mani dal mio garzoncello» – è affermazione di proprietà, prima che di affetto, ma stabilisce una relazione forte. Sebbene Gustave proponga un affare ben poco conveniente al ragazzo (in previsione della spartizione della vendita del dipinto gli spetterebbe solo l’1,5% del ricavato), tra i due si instaura un rapporto di mutuo rispetto che rende implausibile anche la consueta forma triangolare tipica delle dinamiche di Anderson: nonostante l’irrefrenabile tendenza di Gustave a flirtare con Agatha, e la reiterata esortazione di Zero a «non corteggiarla», non si arriva mai alla situazione della donna contesa fra due pretendenti. I protagonisti mantengono un equilibrio solido, che Gustave finalmente ufficializza dopo l’evasione dalla prigione, proclamando che ormai sono «fratelli». Parentela acquisita in fretta e resa quasi sacra dall’aspersione del profumo Air de Panache, la cui boccetta viene religiosamente allungata anche a Zero. In un mondo così attaccato alle proprie formalità, gli oggetti restano parte integrante dello scambio emotivo (e in fondo, insieme al Ragazzo con mela che fa ancora mostra di sé nella hall dell’hotel del 1968, il feticcio più ingombrante di tutti è proprio il Grand Budapest,

conservato dall’anziano Zero Moustafa solo in ricordo di Agatha e di Gustave), simbolici e pomposi come lo stemma della «Società delle Chiavi Incrociate» – la cosa più vicina a un surrogato di famiglia di cui Gustave possa usufruire, composta di concièrge pronti a intervenire in caso di emergenza e a rimandare, per aiutarlo, ogni altra attività (come testimonia l’esilarante catena di telefonate di albergo in albergo). Elaborando un rapporto paritario di fratellanza, un’epifania inedita per Anderson, si crea un nuovo tipo di legame, che sostituisce quello eternamente inseguito con la figura paterna vicaria: come in un processo di crescita che dall’autore si trasmette ai personaggi, «Anderson si libera per una volta dal dolore attonito tipico dei suoi figli senza padri». [4]

[1]

Scott, A.O., Wes Anderson’s ‘Grand Budapest Hotel’ Is a Complex Caper, New York Times, 6 marzo 2014, www.nytimes.com/2014/03/07/movies/wes-andersonsgrand-budapest-hotel-is-a-complex-caper. [2]

Tallarita R., Grand Budapest Hotel, in Gli Spietati, 16 aprile 2014, www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5262. [3]

Orgeron D., La camera-crayola: Authorship Comes of Age in the Cinema of Wes Anderson, in «Cinema Journal», vol. 46, n. 2, inverno 2007, pp. 40-66. [4]

Manassero R., Wes Anderson, Zweig e il potere del cinema, in CineForum Web, 6 febbraio 2014, www.cineforum.it/FocusesTexts/view/Grand_Budapest_Hotel.

11. Conclusione Wes Anderson remix

Secondo il manuale satirico Stuff White People Like del canadese Christian Lander, beffarda guida completa ai gusti della classe borghese statunitense di etnia caucasica, in una classifica potenzialmente infinita di prodotti culturali, gastronomici e non solo, i film di Anderson occupano addirittura la posizione numero 10: «I bianchi amano i film di Wes Anderson più dei loro stessi figli».[1] Lungi dall’essere un dato statistico, l’ironico commento di Lander è però significativo circa il livello di riconoscibilità e pervasività dell’opera del regista nell’immaginario di una precisa fetta di pubblico, quella che si identifica con la cultura hipster, con l’umorismo impassibile dei personaggi di Anderson, con il gusto vintage dei loro vestiti. Sono le squillanti caratteristiche esteriori del suo cinema – la tavolozza dei colori precisamente definita, gli accessori demodé ed eccentrici indossati dai suoi protagonisti, la simmetria delle inquadrature – ad averne fatto un oggetto di culto in quella fascia di pubblico che, non solo in America, considera ogni suo film un evento. Le colonne sonore composte da brani del passato, ma mai smaccatamente celebri; il dichiarato teatro solipsistico delle sue narrazioni, rinchiuse in piccoli universi apolitici confezionati con grazia; l’uso progressivamente sempre più stilizzato dei corpi attoriali, divenuti quasi bambole da collezione; il legame con maison di alta moda: tutti questi elementi hanno reso i suoi film prodotti prediletti per consumatori orientati verso un preciso tipo di cultura popolare. Dev’essere questo il segreto di Anderson e del suo soft power intimista che poi incrocia in pieno il fenomeno hipsterico: recupero di modernariato, back to the roots organico, occhiali vetusti e zenzero fresco, vecchie letture e disprezzo di tutto ciò che è nuovo e per le masse; e rifiuto collettivo

inconscio di diventare giustamente grandi, in un mondo reale post-crisi dei subprime e degli spread. [2]

Per lo zoccolo duro dei fan andersoniani, la strisciante accusa di “fare sempre lo stesso film” diventa piuttosto un rassicurante valore aggiunto, che all’evoluzione della poetica dell’autore preferisce il conforto di uno schema estetico perfezionato e riconoscibile. Si tratta dei medesimi elementi che vengono ripresi in una serie di prodotti destinati alla diffusione virale online e sui social network. Su YouTube proliferano i video che propongono classici di generi o filoni diametralmente opposti a quelli toccati da Anderson, girati però come se li avesse realizzati proprio il regista texano. Così ecco il provino firmato Anderson per l’Episodio VII della nuova trilogia di Star Wars, dove i protagonisti si muovono in motocicletta come Mr. Fox,[3] o il porno in stile Wes Anderson, filmato in interni color pastello e caratterizzato da tipici stilemi andersoniani come le intestazioni in font Futura e le inquadrature da sopra la testa dei protagonisti.[4] I dati esteticamente salienti dell’autore diventano oggetto di siti tematici: esiste un blog interamente dedicato alle palette delle sue opere (http://wesandersonpalettes.tumblr.com) e una versione scaricabile del gioco del bingo in cui le tessere sono contrassegnate da feticci ricorrenti nei film del regista, dal binocolo all’accappatoio.[5] I dialoghi asciugati dall’ironia tipici delle sceneggiature di Anderson sono applicati a situazioni stranianti, come nel blog wesandersonbible.com, dove le battute dei suoi film sono prelevate dal contesto d’origine e applicate a passaggi della Bibbia. Nel video The Auteurs of Christmas,[6] montaggio che giustappone versioni differenti della medesima sequenza d’ambientazione natalizia rivisitata secondo lo sguardo di una manciata di registi celebri, Anderson era presente insieme a nomi come Sergej M. Ėjzenštejn, Lars Von Trier, Woody Allen, Stanley Kubrick, Werner Herzog e Martin Scorsese, tutti più affermati e appartenenti a generazioni precedenti rispetto al texano, a rimarcare un coefficiente di riconoscibilità che ha inserito Anderson in una categoria di autori dall’estetica inconfondibile. Superficialmente condensata nei

suoi tratti più evidenti, colorati e modaioli, la coerenza della poetica di Anderson è così spesso oggetto di parodie. Una su tutte, quella realizzata dallo show Saturday Night Live[7] con la partecipazione dell’attore andersoniano Edward Norton e la voce narrante di Alec Baldwin (già comparso in questo ruolo in I Tenenbaum): un trailer fasullo in cui la presenza di didascalie massicce, particolari di lettere scritte a mano, un inventario ironico di oggetti di modernariato (con l’immancabile giradischi) sono la versione semplificata e cristallizzata dell’estetica andersoniana, qui riproposta in una poco plausibile salsa horror. Esperimento interessante di trasferimento su un altro medium è invece lo spettacolo di improvvisazione teatrale Darjeeling Unscripted: A Yes Anderson Production,[8] ideato e diretto nel 2014 da Carolyn Blomberg e Meghan Wolff. Una pièce, appunto, non interamente sceneggiata, in cui gli interpreti sono abbigliati con vestiti e accessori prelevati dai film di Anderson, sono battezzati con nomi assonanti a quelli dei suoi protagonisti e interagiscono gli uni con gli altri secondo modalità mutuate dalle sue sceneggiature. Ogni sera lo spettacolo prevede una nuova messa in scena, a seconda di quali e quanti personaggi calcano il palcoscenico: un vero e proprio remix di brandelli di script di Anderson ricombinati in modo casuale, come in una playlist musicale. Rivolto, con gusto autoironico e a tratti affettuosamente parodico, al medesimo pubblico di riferimento dei lungometraggi di Anderson, l’esperimento si presenta come emblematico di un approccio trasversale al cinema del regista, che non si manifesta in un tentativo di emulazione della sua poetica, ma piuttosto nell’atto di prelevare elementi dalle sue opere e ricollocarli, quasi invariati, in altri ambiti. Come se il suo impianto estetico, fin dagli esordi caratterizzato da un elevato livello di compattezza e definizione, fosse troppo denso e compiuto per dare adito a variazioni sul tema, troppo riconoscibile per non essere dichiaratamente plagiato. Spostando lo sguardo dagli Stati Uniti all’Italia, un esempio di questa tendenza è riscontrabile nel brano Wes Anderson di I Cani[9] – progetto di synth-pop del cantautore romano Niccolò Contessa – e nel suo videoclip, girato da uno dei rari talenti

italiani del settore, Luca Lumaca. Il testo della canzone – inserita in un album che (a partire dal titolo occhieggiante a Dave Eggers, Il sorprendente album d’esordio dei Cani) enuclea e mette in paradosso il vocabolario emotivo di un tipo antropologico contemporaneo, hipster ed egoriferito, costruito via social network e ambizioso, viziato e indifeso – costituisce già un singolare omaggio alle costanti del cinema di Anderson, di cui sono enunciate caratteristiche quali le visioni d’amore in «ralenti», le «inquadrature simmetriche», le colonne sonore dei The Kinks, i personaggi «idiosincratici», i finali «agrodolci». Il video rimette in scena personaggi prelevati dalla prima metà della sua filmografia, riproponendone sia i costumi tipici (il baschetto rosso di un simil-Max Fischer, la pelliccia della pseudo-Margot Tenenbaum) sia le caratteristiche formali (dal carrello laterale allo sguardo in macchina che Max lancia dal palcoscenico teatrale) e perfino inquadrature filologicamente ricostruite (il guanto rosa col dito mozzato di Margot), in una replica low budget e low-fi ma precisa di momenti scelti di Rushmore e I Tenenbaum. «Vorrei vivere in un film di Wes Anderson». Il brano e il video di Lumaca si offrono come simpatico archivio for dummies di un’estetica. E individuano Anderson come metteur en scène, creatore di forme, stilista, del sentire di uno specifico segmento sociale: un carattere sicuramente veritiero, sfruttato dai detrattori come fatto deteriore, eppure non esaustivo di una visione del mondo spesso ridotta e fraintesa, dagli estimatori come dagli haters. Perché non di sola geometrica sgargiante superficie, feticismo retromaniaco, cura da modellista si tratta, ma anche di un cinema che si denuncia allo specchio, di uno stile che proprio nel suo essere costantemente al secondo grado, come una maniera puntualmente applicata, si autoattesta come tragico atto di cecità verso il mondo. Quel che è certo è che questi prodotti parodici – che irridono o constatano le forme ma raramente quel che sta oltre – riconoscono l’unicità dello stile di Anderson, uno stile che rimanda immediatamente al proprio autore, alla sua poetica, e che non è possibile imitare se non facendone il calco esatto. Questo è quello che fa, in modo clamoroso, un film come Happy Family (Gabriele Salvatores, 2010). Caso più unico che raro di prelievo integrale di un’estetica altrui, il film di

Salvatores ripropone l’impianto ortogonale dei movimenti di Anderson, la frontalità di stampo teatrale della sua macchina da presa, i gruppi simmetrici dei suoi protagonisti in interni, la scelta musicale (in colonna sonora è presente un brano di Paul Simon) e la saturazione, anche cromatica, del décor. Le vicende che coinvolgono i protagonisti sono tratte dall’omonima pièce di Alessandro Genovesi e non presentano molti punti di contatto con i nuclei tematici di Anderson, ma quello che Salvatores sperimenta è una sorta di plagio scoperto, il remix d’autore di un’estetica d’altri in un contesto narrativo radicalmente differente, anche molto personale, come se il film fosse l’incontro di due poetiche nell’atto di sciogliersi l’una nell’altra. Più che un omaggio, in questo caso l’effetto è quello di una cover musicale applicata al medium cinema. L’esercizio di uno stile altrui. Come ai personaggi di Anderson accade di rivivere o di rimettere in scena passaggi e dettagli di prodotti della cultura popolare che hanno costituito il loro nutrimento intellettivo nell’infanzia, così capita che le stesse creature e ambientazioni di Anderson si trasformino in un inventario cui attingere per ammiratori e fan. Una collezione, appunto: così è intitolato l’imponente libro-intervista in cui l’autore dialoga con Matt Zoller Seitz, The Wes Anderson Collection. Personaggi come figurine colorate, feticci come accessori con cui arredare la stanza, battute di dialogo da citare a memoria: Anderson ha creato un universo la cui valenza sull’immaginario collettivo si avvicina molto a quella dei film, dei libri e delle canzoni su cui lui stesso ha edificato quell’universo.

[1]

Lander C., Stuff White People Like: A Definitive Guide to the Unique Taste of Millions, Random House Trade Paperbacks, 2008. [2]

Masneri M., Il soft power di Wes Anderson, 22 febbraio 2014, www.ilsole24ore.com. [3]

Wes Anderson’s “Star Wars: Episode https://www.youtube.com/watch?v=BN_Uwo4qQTM. [4]

VII”

Audition

Tape,

A Porno by Wes Anderson, https://www.youtube.com/watch?v=aeopJiWnkFI.

[5]

Vedi www.slate.com/blogs/browbeat/2012/05/24wes_anderson_bingo_play_along_with_ moonrise_kingdom_using_our_bingo_board_generator_.html. [6]

The Auteurs of Christmas, https://www.youtube.com/watch?v=DnKcTTPUjyU.

[7]

SNL ‘The Midnight Conterie https://www.youtube.com/watch?v=-hj_A3vohXc.

of

Sinister

Intruders’,

[8]

Vedi http://vimeo.com/88196146.

[9]

I Cani, Wes Anderson, https://www.youtube.com/watch?v=r8Zo4zXfE5o .

Ringraziamenti

Questo lavoro non sarebbe mai stato portato a compimento senza l’aiuto concreto e il supporto morale di alcune insostituibili persone, cui va tutta la mia gratitudine. Matteo, per la pazienza infinita e per essere un fan di Wes Anderson da prima di me. La mia famiglia, e tutti i nostri animali. Eva, per la consulenza linguistica aperta 24 ore su 24. Claudio Bartolini e Ilaria Floreano, curatori di collana instancabili. Luca Pacilio, per l’aiuto prezioso e tempestivo. Mauro Gervasini, Alice Cucchetti, Chiara Bruno e tutta la redazione di Film Tv, per l’incoraggiamento e il sostegno lungo tutti i mesi della lavorazione. Francesca e Caterina, per la fiducia incrollabile. Edoardo, per l’ascolto a distanza. Giulio Sangiorgio, senza il quale questo libro non solo non sarebbe mai giunto a termine, ma non sarebbe mai nemmeno cominciato.

Bibliografia

A Life in Movies: Wes Anderson, in «Newsweek», vol. 150, n. 19, 11 maggio 2007. Pressbook di Un colpo da dilettanti, 1996. AA.VV., New American Indie, in «Nocturno Dossier», n. 48, 2005. Anderson E.C., Chuck Dugan Is AWOL, Chronicle Books, San Francisco 2005. Baumbach N., The Squid And the Whale: The Shooting Script, Newmarket Press, New York 2005. Becker D., Fagen D., Attention www.steelydan.com/heywes.html, 2006.

Wes

Anderson,

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Effetto

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Opere di Wes Anderson Anderson W., Wilson Owen, Bottle Rocket, 1992. Anderson W., Wilson Owen, Rushmore, Faber & Faber, Londra 1999.

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Filmografia

Bottle Rocket Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson, Owen Wilson; fotografia: Bert Guthrie; scenografia: David Wasco; montaggio: Tom Aberg, Laura Cargile, Denise Ferrari Segell; interpreti: Owen Wilson (Dignan), Luke Wilson (Anthony), Robert Musgrave (Bob); produttori: Cynthia Hargrave; produttori esecutivi: L. M. Kit Carson; produzione: indipendente; origine: Usa, 1994; durata: 13’. Un colpo da dilettanti (Bottle Rocket) Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson, Owen Wilson; fotografia: Robert Yeoman; scenografia: David Wasco; montaggio: David Moritz; costumi: Karen Patch; musiche: Mark Mothersbaugh; interpreti: Owen Wilson (Dignan), Luke Wilson (Anthony), Robert Musgrave (Bob), Lumi Cavazos (Inez), James Caan (Mr. Henry), Donny Caicedo (Rocky), Andrew Wilson (Future Man), Kumar Pallana (Kumar), Jim Ponds (Applejack); produttori: Polly Platt, Cynthia Hargrave; produttori esecutivi: James L. Brooks, Richard Sakai, Barbara Boyle, Michael Taylor; produzione: Columbia Pictures; origine: Usa, 1996; durata: 91’. Rushmore (Id.) Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson, Owen Wilson; fotografia: Robert Yeoman; scenografia: David

Wasco; montaggio: David Moritz; costumi: Karen Patch; musiche: Mark Mothersbaugh; music supervisor: Randall Poster; interpreti: Jason Schwartzman (Max Fischer), Bill Murray (Herman Blume), Olivia Williams (Miss Cross), Brian Cox (preside Guggenheim), Seymour Cassel (Bert Fischer), Mason Gamble (Dirk Calloway), Sara Tanaka (Margaret Yang), Stephen McCole (Magnus Buchan), Luke Wilson (Peter Flynn), Connie Nielsen (signora Calloway), Andrew Wilson (allenatore); produttori: Barry Mendel, Paul Schiff; produttori esecutivi: Wes Anderson, Owen Wilson; produzione: Touchstone Pictures, American Empirical Pictures; origine: Usa, 1998; durata: 93’; premi principali: 2 Independent Spirit Awards (miglior regista, miglior attore non protagonista a Bill Murray). I Tenenbaum (The Royal Tenenbaums) Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson, Owen Wilson; fotografia: Robert Yeoman; scenografia: David Wasco; montaggio: Dylan Tichenor; costumi: Karen Patch; musiche: Mark Mothersbaugh; music supervisor: Randall Poster; interpreti: Gene Hackman (Royal Tenenbaum), Anjelica Huston (Etheline Tenenbaum), Ben Stiller (Chas), Gwyneth Paltrow (Margot), Luke Wilson (Richie), Owen Wilson (Eli Cash), Bill Murray (Raleigh St. Clair), Danny Glover (Henry Sherman), Seymour Cassel (Dusty), Kumar Pallana (Pagoda); produttori: Wes Anderson, Barry Mendel, Scott Rudin; produttori esecutivi: Rudd Simmons, Owen Wilson; produzione: Touchstone Pictures, American Empirical Pictures; origine: Usa, 2001; durata: 110’; premi principali: Golden Globe per il miglior attore protagonista di commedia o musical a Gene Hackman. Le avventure acquatiche di Steve Zissou (The Life Aquatic with Steve Zissou)

Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson, Noah Baumbach; fotografia: Robert Yeoman; scenografia: Mark Friedberg; montaggio: David Moritz; costumi: Milena Canonero; musiche: Mark Mothersbaugh; music supervisor: Randall Poster; interpreti: Bill Murray (Steve Zissou), Owen Wilson (Ned Plimpton), Anjelica Huston (Eleanor Zissou), Cate Blanchett (Jane Winslett-Richardson), Jeff Godlblum (Alistair Hennessey), Willem Dafoe (Klaus), Seu Jorge (Pelé Dos Santos), Bud Cort (Bill Ubell), Waris Ahluwalia (Vikram), Seymour Cassel (Esteban); produttori: Wes Anderson, Barry Mendel, Scott Rudin; produttori esecutivi: Rudd Simmons; produzione: Touchstone Pictures, American Empirical Pictures, Scott Rudin Productions, Life Aquatic Productions; origine: Usa, 2004; durata: 119’. Hotel Chevalier (Id.) Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson; fotografia: Robert Yeoman; scenografia: Kris Moran; montaggio: Vincent Marchand; music supervisor: Randall Poster; interpreti: Jason Schwartzman (Jack Whitman); Natalie Portman (ragazza di Jack); produttori esecutivi: Jerome Rucki, Nicolas Saada; produzione: Fox Searchlight Pictures, American Empirical Pictures; origine: Usa/Francia, 2007; durata: 13’. Il treno per il Darjeeling (The Darjeeling Limited) Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola, Jason Schwartzman; fotografia: Robert Yeoman; scenografia: Mark Friedberg; montaggio: Andrew Weisblum; costumi: Milena Canonero; music supervisor: Randall Poster; interpreti: Owen Wilson (Francis Whitman); Jason Schwartzman (Jack Whitman); Adrien Brody (Peter Whitman); Anjelica Huston (Patricia), Amara Karan (Rita), Waris Ahluwalia (steward), Bill Murray (sconosciuto sul treno); produttori: Wes Anderson, Roman Coppola, Lydia

Dean Pilcher, Scott Rudin; produttori esecutivi: Steven Rales; produzione: Fox Searchlight Pictures, American Empirical Pictures, Collage; origine: Usa, 2007; durata: 91’; premi principali: Leoncino d’oro alla Mostra del cinema di Venezia 2007. Fantastic Mr. Fox (Id.) Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson, Noah Baumbach, dal racconto Furbo, il signor Volpe di Roald Dahl; fotografia: Tristan Oliver; scenografia: Francesca Maxwell; montaggio: Ralph Foster, Stephen Perkins, Andrew Weisblum; musiche: Alexandre Desplat; voci originali: George Clooney (Mr. Fox), Meryl Streep (Mrs. Fox), Jason Schwartzman (Ash), Bill Murray (Tasso), Wallace Wolodarsky (Kylie), Eric Chase Anderson (Kristofferson Silverfox), Michael Gambon (Franklin Bean), Willem Dafoe (Ratto), Owen Wilson (Allenatore Skip), Jarvis Cocker (Petey), Wes Anderson (Weasel); produttori: Allison Abbate, Wes Anderson, Jeremy Dawson, Scott Rudin; produttori esecutivi: Arnon Milchan, Steven Rales; produzione: 20th Century Fox; origine: Usa/Gran Bretagna, 2009; durata: 87’. Moonrise Kingdom. Kingdom)

Una

fuga

d’amore

(Moonrise

Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola; fotografia: Robert Yeoman; scenografia: Adam Stockhausen; montaggio: Andrew Weisblum; costumi: Kasia Walicka-Maimone; musiche: Mark Mothersbaugh, Alexandre Desplat; music supervisor: Randall Poster; interpreti: Jared Gilman (Sam Shakuksy), Kara Hayward (Suzy Bishop); Bruce Willis (capitano Sharp); Edward Norton (caposcout Ward); Bill Murray (mr. Bishop); Frances McDormand (mrs. Bishop); Tilda Swinton (servizi sociali); Jason Schwartzman (cugino Ben), Bob Balaban (narratore); produttori: Wes Anderson, Jeremy Dawson, Steven Rales, Scott Rudin; produttori

esecutivi: Sam Hoffman, Mark Roybal; produzione: Indian Paintbrush, American Empirical Pictures, Moonrise, Scott Rudin Productions; origine: Usa, 2012; durata: 110’. Castello Cavalcanti (Id.) Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson; fotografia: Darius Khondji; scenografia: Stefano Ortolani; montaggio: Stephen Perkins; costumi: Milena Canonero; costumi di Jason Schwartzman: Prada; musiche: Mark Mothersbaugh; music supervisor: Randall Poster; interpreti: Jason Schwartzman (Jed Cavalcanti), Giada Colagrande (barista), Renato Agostini, Igino Angelini, Teodorico Arbore, Francesco Bonaccorso; produttori: Roman Coppola, Jeremy Dawson, Julie Sawyer; produttori esecutivi: Max Brun, Lisa Margulis; produzione: The Directors Bureau, Prada; origine: Usa/Italia, 2013; durata: 8’. Grand Budapest Hotel (The Grand Budapest Hotel) Regia: Wes Anderson; soggetto: Wes Anderson, Hugo Guinness; sceneggiatura: Wes Anderson, ispirata all’opera di Stefan Zweig; fotografia: Robert Yeoman; scenografia: Adam Stockhausen; montaggio: Barney Pilling; costumi: Milena Canonero; musiche: Mark Mothersbaugh; music supervisor: Randall Poster; interpreti: Ralph Fiennes (Gustave H.), Tony Revolori (giovane Zero), Adrien Brody (Dmitri), Saoirse Ronan (Agatha), Willem Dafoe (Jopling), Tilda Swinton (Madame D.), Bill Murray (monsieur Ivan), F. Murray Abraham (Zero Moustafa), Jude Law (giovane Autore), Tom Wilkinson (vecchio Autore), Mathieu Amalric (Serge X.), Jeff Goldblum (vice Kovacs); produttori: Wes Anderson, Jeremy Dawson, Steven Rales, Scott Rudin; produttori esecutivi: Molly Cooper, Christoph Fisser, Henning Molfenter, Charlie Woebcken; produzione: Indian Paintbrush, Scott Rudin Productions, Studio Babelsberg; origine: Usa/Germania, 2014;

durata: 100’; premi principali: Gran premio della giuria alla Berlinale 2014.

Discografia

Bottle Rocket Old Devil Moon, Burton Lane e E.Y. Harburg, eseguita da Sonny Rollins The Route, Chet Baker, eseguita da Chet Baker e Art Pepper Skating, Vince Guaraldi e Lee Mendelson, eseguita da Vince Guaraldi Stevie, Duke Ellington, eseguita da Duke Ellington e John Coltrane Happiness Is, Vince Guaraldi Jane-O, Zoot Sims Quartet

Un colpo da dilettanti 7 & 7 Is, Arthur Lee, eseguita dai Love Zorro Is Back, Susan Duncan-Smith, Guido De Angelis, Maurizio De Angelis, eseguita dagli Oliver Onions, tratta dal film Zorro (Duccio Tessari, 1975) Prendeme la Vela, Abelardo Vasquez, eseguita da Abelardo Vasquez & Cumanana Mambo Guajiro, Rene Touzet Pachanga Diferente, Rene Touzet Alone Again or, Brian Maclean, eseguita dai Love

Over and Done With, Craig Reid e Charles Reid, eseguita dai The Proclaimers 2000 Man, The Rolling Stones Rushmore Making Time, The Creation Take Ten, Paul Desmond Concrete and Clay, Unit 4 + 2 Nothin’ In This World Can Stop Me Worryin’ ‘Bout That Girl, The Kinks A Summer Song, David Stuart, Clive Metcalf, Keith Noble, eseguita da Chad & Jeremy Blinuet, George Handy, eseguita da Zoot Sims Here Comes My Baby, Cat Stevens Jersey Thursday, Donovan A Quick One While He’s Away, The Who I Am Waiting, The Rolling Stones The Wind, Cat Stevens Rue St. Vincent, Bruant Aristide, eseguita da Yves Montand Oh Yoko!, John Lennon Hark! The Herald Angels Sing, Vince Guaraldi Trio Manoir de Mes Reves, Django Reinhardt Ooh La La, The Faces

I Tenenbaum Hey Jude, John Lennon e Paul McCarteny, eseguita da Mutato Muzika Orchestra

String Quartet in F Major, Maurice Ravel, eseguita da Ysaye Quartet Sonata For Cello and Piano in F Minor, George Enescu These Days, Jackson Browne, eseguita da Nico Christmas Time Is Here, Vince Guaraldi e Lee Mendelson, eseguita da Vince Guaraldi Trio Wigwam, Bob Dylan Police and Thieves, Lee “Scratch” Perry e Junior Murvin, eseguita dai The Clash Lullabye, Emitt Rhodes Gymnopedie #1, Erik Satie, eseguita da Aldo Ciccolini Billy. Main Title, Bob Dylan Me And Julio Down By The Schoolyard, Paul Simon Needle in the Hay, Elliott Smith Judy Is A Punk, Ramones She Smiled Sweetly, The Rolling Stones Fly, Nick Drake Stephanie Says, Lou Reed, eseguita dai The Velvet Underground Ruby Tuesday, The Rolling Stones Concerto per liuto e mandolino, Antonio Vivaldi, eseguita da Il giardino armonico Rock The Casbah, The Clash Look at Me, John Lennon Everyone, Van Morrison Fairest of the Seasons, Jackson Browne e Greg Copeland, eseguita da Nico

Le avventure acquatiche di Steve Zissou

Tema della serie di documentari tv Inner Space (1974) composto da Sven Libaek Meteoric Rain, Sven Libaek Ziggy Stardust, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Starman, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Life on Mars, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Oh! You Pretty Things, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Changes, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Rebel Rebel, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Wachet auf, ruft uns die Stimme, Johann Sebastian Bach, eseguita da Angela Hewitt Lady Stardust, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Gut Feeling, Mark e Robert Mothersbaugh, eseguita dai Devo Music for Eels, dalla serie tv Inner Space, composta da Sven Libaek Here’s to You, Ennio Morricone e Joan Baez Sanctify Us, Johann Sebastian Bach, eseguita da Angela Hewitt Space Oddity, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Search and Destroy, Iggy and The Stooges Passacaglia in C Minor, Johann Sebastian Bach, eseguita da Angela Hewitt La Niña de Puerta Oscura, Manuel Lopez-Quiroga, eseguita da Paco de Lucía e Ramon Algeciras Concierto de Aranjuez, Joaquin Rodrigo, eseguita da Paco de Lucía Five Years, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Life on Mars?, David Bowie, eseguita da Seu Jorge 30 Century Man, Scott Walker The Way I Feel Inside, Rod Argent, eseguita dai The Zombies

When I Live My Dream, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Staralfur, Sigur Rós City Lights, dalla serie tv Boney (1972-1973), composta da Sven Libaek Queen Bitch, David Bowie Queen Bitch, David Bowie, eseguita da Seu Jorge Hotel Chevalier Pavane pour une infante défunte for Piano, Maurice Ravel, eseguita da Pascal Rogé Where Do You Go To (My Lovely), Peter Sarstedt

Il treno per il Darjeeling Tema musicale del film La sala da musica (Jalsaghar, Satyajit Ray, 1958), composto da Ustad Vilayat Khan Tema del film Three Daughters, composto da Satyajit Ray Charu’s Theme, dal film Charulata, composto da Satyajit Ray Montage, dal film Baksa Badal (Nityananda Datta, 1970), composta da Satyajit Ray Ruku’s Room, dal film Joi Baba Felunath (Satyajit Ray, 1979), composta da Satyajit Ray The Deserted Ballroom, dal film Shakespeare-Wallah (Id., James Ivory, 1965), composto da Satyajit Ray Arrival in Benaras, dal film Il guru (The Guru, James Ivory, 1969), composta da Ustad Vilayat Khan Tema del film Il racconto di Bombay, composto da Shankar & Jaikishan, eseguito da Kishore Kumar Clair de Lune (Suite Bergamasque), Claude Debussy, eseguito da Alexis Weissenberg

Symphony No. 7 in A, Op. 92, Ludwig van Beethoven, eseguita da The Chicago Symphony Orchestra Les Champs Elysées (Waterloo Road), Mike Wilsh e Mike Deighan, eseguita da Joe Dassin This Time Tomorrow, The Kinks Strangers, The Kinks Powerman, The Kinks Play with Fire, Nanker Phelge, eseguita dai The Rolling Stones Tema del film Il capo famiglia (The Householder, James Ivory, 1963), composto da Jyotirindra Moitra Tema del film Il lamento sul sentiero (Pather Panchali, Satyajit Ray, 1955), composto da Ravi Shankar Tema del film L’invitto (Aparajito, Satyajit Ray, 1956), composto da Ravi Shankar Tema del film Devi (Satyajit Ray, 1960), composto da Ali Akbar Khan Tema del film Il mondo di Apu (Apur Sansar, Satyajit Ray, 1959), composto da Ravi Shankar Tema del film Kanchenjungha (Satyajit Ray, 1962), composto da Satyajit Ray Symphony No. 7 in A, Op. 92 II, Allegretto, Ludwig van Beethoven, eseguita da The Philharmonia Orchestra

Fantastic Mr. Fox The Ballad of Davy Crockett, The Wellingtons Street Fighting Man, The Rolling Stones Heroes and Villains, The Beach Boys Petey’s Song, Jarvis Cocker, Wes Anderson, Noah Baumbach, eseguita da Jarvis Cocker

Fooba Wooba John, eseguita da Burl Ives Night and Day, Cole Porter, eseguita da Art Tatum Love, George Bruns e Floyd Huddleston, eseguita da Nancy Adams Adagio, Georges Delerue Buckeye Jim, Burl Ives Le Grand Choral, Georges Delerue Horn Concerto No. 4 In E Flat Major, Wolfgang Amadeus Mozart, eseguito da Amadeus Concert Orchestra of Polish Radio I Get Around, The Beach Boys Ol’ Man River, Oscar Hammerstein II e Jerome Kern, eseguita dai The Beach Boys The Grey Goose, Burl Ives Let Her Dance, Bobby Fuller Four Une petite île, Georges Delerue

Moonrise Kingdom. Una fuga d’amore The Young Person’s Guide to the Orchestra, Op. 34: Themes A.-F., Benjamin Britten, eseguita da New York Philarmonic Playful Pizzicato, da Simple Symphony, Op. 4, Benjamin Britten, eseguito da English Chamber Orchestra Kaw-Liga, Hank Williams e Fred Rose, eseguita da Hank Williams Noye’s Fludde, op. 59: Noye, Noye, Take Thou Thy Company, Op. 59, Benjamin Britten A Midsummer’s Night Dream, Op. 64, Act 2: On the Ground, Sleep Sound, Benjamin Britten, eseguita da London Symphony Orchestra Long Gone Lonesome Blues, Hank Williams

Volière, da Le Carnaval des animaux, Camille Saint-Saëns, eseguita da New York Philharmonic Le temps de l’amour, André Salvet e Jacques Dutronc, eseguita da Françoise Hardy An die Musik, Franz Schubert, eseguita da Alexandra Rübner e Christophe Manien Ramblin’ Man, Hank Williams Songs from Friday Afternoons, Op. 7 (Old Abram Brown), Benjamin Britten Noye’s Fludde, Op. 59: The Spacious Firmament on High, Benjamin Britten Noye’s Fludde, Op. 59: Noye Take Thy Wife Anone, Benjamin Britten Songs from Friday Afternoons, Op. 7 (Cuckoo!), Benjamin Britten Soave sia il vento, da Così fan tutte, Wolfgang Amadeus Mozart Take These Chains From My Heart, Fred Rose e Hy Heath, eseguita da Hank Williams Cold, Cold Heart, Hank Williams

Grand Budapest Hotel s’Rothe-Zäuerli, Ruedi Roth e Werner Roth, eseguita da Öse Schuppel Concerto for Lute and Plucked Strings I. Moderato, Antonio Vivaldi, eseguito da Siegfried Behrend & DZO Chamber Orchestra The Linden Tree, Pavel Vasilevich Kulikov, eseguita da Osipov State Russian Folk Orchestra, Vitaly Gnutov Roses from the South, Johann Strauss, eseguita da Wurlitzer 153

Kamarinskaya, eseguita da Osipov State Russian Folk Orchestra, Vitaly Gnutov Svetit Mesyats, Vasily Vasilievich Andreyev, eseguita da The Ludmila Zykina State Academic Russian National Balalaika Ensemble and Orchestre de Balalaikas Saint-Georges

Bietti Heterotopia VOLUMI PUBBLICATI 1. Thomas Elsaesser, Warren Buckland Teoria e analisi del film americano contemporaneo 2. Giacomo Ioannisci Lo spettatore immobile. Ennio Flaiano e l’illusione del cinema 3. Alessandro Aronadio Lo strano caso del Dr. David e di Mr. Cronenberg 4. Giuseppe Carrieri Le voci del silenzio. Scene dal cinema dei cantastorie africani 5. Ilaria Floreano Concerto per macchina da presa. Musica e suono nel cinema di Krzysztof Kieslowski 6. AA.VV. The Fincher Network. Fenomenologia di David Fincher 7. David Carradine Kill Bill Diary 8. Alberto Spadafora In cielo, in terra. Terrence Malick e Steven Spielberg 9. Claudio Bartolini Videocronenberg 10. Andrea Fontana

La bomba e l’onda. Storia dell’animazione giapponese da Hiroshima a Fukushima 11. Stefano Locati & Emanuele Sacchi Il nuovo cinema di Hong Kong. Voci e sguardi oltre l’handover 12. Anton Giulio Mancino La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio 13. Ilaria Feole Wes Anderson. Genitori, figli e altri animali

Finito di stampare nel mese di giugno 2014 da Prontostampa, Bergamo