Vorrei e non vorrei. Perché è così difficile scegliere ciò che è meglio per noi 9788852093067

Gianna Schelotto racconta dieci casi illuminanti che parlano di indugi, priorità, amori, tradimenti, traslochi, segreti

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Vorrei e non vorrei. Perché è così difficile scegliere ciò che è meglio per noi
 9788852093067

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Il libro

S

posarsi, cambiare lavoro, intraprendere un percorso di studi, ma

anche quali scarpe mettere o cosa mangiare. Ci sono sempre più persone che di fronte alle scelte si bloccano, si tormentano e si

dibattono fra dubbi e paure, temendo di non essere in grado di capire cosa è meglio per loro. È ormai acquisito che nelle decisioni da prendere, grandi o piccole che siano, siamo condizionati non solo dalla ragione, ma anche da una fitta rete di giudizi e pregiudizi, consci e inconsci, norme sociali e intime convinzioni, che esistendo in filigrana dentro di noi rendono impervie le nostre scelte. Tuttavia, gli aut aut nei quali i dubbiosi si dibattono sono una specie di mappa: proprio grazie alle continue esitazioni si riesce spesso a intuire le cause dei malesseri che li affliggono. L’indecisione è quindi una guida preziosa, una sorta di radiografia della psiche. Partendo da questi presupposti, Gianna Schelotto racconta dieci casi illuminanti, che parlano di indugi, priorità, amori, tradimenti, traslochi, segreti e rimpianti. Un mosaico di dilemmi, ansie e contraddizioni che affligge chi, più o meno frequentemente, si dondola sull’altalena del “vorrei” e “non vorrei”.

L’autrice Gianna Schelotto vive a Genova ed è psicologa specializzata in terapia della coppia e in psicosomatica. Saggista, autrice teatrale e giornalista, collabora con diversi settimanali, tra i quali “Gente” e “Starbene”. L’8 marzo 2004 è stata nominata Commendatore della Repubblica dal presidente Ciampi. Tra i suoi libri pubblicati da Mondadori ricordiamo: Una fame da morire, Nostra ansia quotidiana, Equivoci & sentimenti, Per il tuo bene, Distacchi e altri addii, Noi due sconosciuti, SOS cuori infranti, Le rose che non colsi.

Gianna Schelotto

VORREI E NON VORREI Perché è così difficile scegliere ciò che è meglio per noi

Vorrei e non vorrei

A Tina e Angelo

Introduzione

Chissà se il filosofo Giovanni Buridano (1295-1361), maestro delle arti e magnifico rettore dell’Università di Parigi, sarebbe contento di dovere a un asino la popolarità acquisita nei secoli. Si attribuisce a lui l’antica storia del ciuco affamato che, non riuscendo a scegliere tra due invitanti balle di fieno, muore di fame. Diventato col tempo quasi un personaggio da cartoon, protagonista di una gag tragica ma divertente, l’asino di Buridano era nato per affrontare il più vasto problema della libertà dell’uomo di fronte alle scelte complesse che ogni giorno la vita gli impone. L’animale dell’apologo – pensavano i filosofi – diventa vittima di una mortale irresolutezza perché non possiede opinioni o pensieri; l’uomo, dotato di intelletto, ha gli strumenti utili per padroneggiare le proprie titubanze. Una mente razionale dovrebbe essere in grado di stabilire ciò che vuole e di ordinare le sue scelte in base alle sue necessità o aspettative. Quel che accade nella realtà è l’esatto contrario. Il somaro, proprio perché somaro, segue l’istinto e bruca qualsiasi cosa trovi in giro; sono gli uomini i veri specialisti delle complicazioni. L’incapacità di scegliere di cui l’asino è diventato il prototipo è un tema antico e al tempo stesso attualissimo, che mantiene intatto il fascino delle controversie mai risolte. Gli studi sul funzionamento della mente umana, quando sceglie o emette giudizi, hanno coinvolto in anni recenti matematici, economisti, psicologi impegnati a elaborare teorie soddisfacenti. Via via che il consumismo si affermava nei comportamenti collettivi, lo studio del modo in cui le persone scelgono si è trasformato da indagine filosofica in problema di interesse economico e sociale. Le grandi catene commerciali e le politiche pubbliche hanno reso più urgente il bisogno di conoscere i processi che governano le decisioni degli individui, in modo da prevederle e/o orientarle. In

passato si partiva dall’idea che, di fronte alle scelte, l’individuo agisse in modo razionale e fosse in grado di valutare vantaggi e svantaggi. Studi più recenti dimostrano, con prove inconfutabili, che la razionalità recita solo un ruolo – e non il più importante – nel processo decisionale. Questa realtà diventò popolare quando, verso la fine degli anni Cinquanta, il sociologo americano Vance Packard pubblicò I persuasori occulti, suscitando interesse e allarme. Se da un lato risultava affascinante conoscere i meccanismi inconsci che governano le scelte, dall’altro lasciava inquieti l’idea che un esercito di oscuri manipolatori potesse decidere in quale direzione volgere le decisioni altrui. Il grande pubblico scoprì per la prima volta come i pubblicitari, saccheggiando metodi e teorie della psicoanalisi, riuscissero a influenzare i comportamenti collettivi, agendo direttamente sul mondo sotterraneo delle emozioni profonde. Si trattò di una pesante ferita narcisistica per chi credeva di essere guidato nelle proprie scelte solo dalla razionalità. Era difficile accettare l’idea che scegliere non fosse più soltanto il risultato di complesse e lucide valutazioni interiori, ma il cedimento più o meno consapevole a lusinghe e suggestioni manovrate dall’esterno. È ormai acquisito che, nelle decisioni da prendere, grandi o piccole che siano, siamo condizionati non solo dalla ragione, ma da una rete fittissima di giudizi e pregiudizi, di conscio e di inconscio, di norme sociali e di intime convinzioni, che esistendo in filigrana dentro di noi, rende impervie le nostre scelte, anche quando, da un punto di vista puramente razionale, non lascerebbero adito a perplessità. Si chiamano bias le infinite trappole che la mente tende a se stessa quando agisce sotto l’influsso di pregiudizi, di false sicurezze, di ingannevoli presentimenti. Decisioni prese “a caldo”, con la certezza che siano giuste e opportune, sono condizionate dalle nostre gabbie mentali e ci conducono in vicoli ciechi. Molte ricerche mostrano sperimentalmente come certe scelte non siano governate dalle preferenze dei soggetti, ma dall’esistenza di vincoli o da errate interpretazioni degli eventi. Spesso vengono utilizzate illusioni

ottiche; l’aspetto più interessante di questi esperimenti è che le persone, avvertite di trovarsi di fronte a una percezione illusoria, continuano a comportarsi (e a fare scelte) sulla base di ciò che credono di vedere e non di quello che realmente hanno di fronte. Se persino gli occhi ci possono pervicacemente ingannare, se le false immagini possono orientare in modo scorretto le nostre opzioni, chi oserà più scegliere e scegliere a cuor leggero? Si fa presto a dire: “Deciditi!”. Tra il “vorrei” e il “non vorrei” corrono spinte innumerevoli e misteriose che alimentano le insicurezze e creano, come diceva una canzone degli anni Settanta dei Nuovi Angeli, Anna da dimenticare, le grandi decisioni decise mai. Per questo, ogni volta che si cerca di definire come e perché si decide in un senso piuttosto che in un altro, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un puzzle cui mancano troppe tessere per intuire il disegno completo. La scienza del comportamento ha imparato a manipolare le condotte, ma purtroppo non è ancora sufficientemente progredita da riuscire a controllare le emozioni. BURRHUS FREDERIC SKINNER

Le emozioni, certo. Quelle esplicite e quelle sepolte, controllate dall’inconscio, il luogo oscuro e precluso nel quale si agitano le voglie, i silenzi, i divieti e i misteri della psiche. Quante decisioni vengono prese per motivi che risultano a prima vista incomprensibili? E quante volte si rimane bloccati di fronte a scelte che paiono urgenti e opportune, ma che non si trasformano mai in azioni concrete? Gesti che sembrano nascere da bisogni incoercibili si rivelano, col tempo, tranelli tesi da oscuri desideri, da sensi di colpa, da spinte aggressive. E poi ci sono i meccanismi di difesa: quelli basati sulla tendenza inconscia a ignorare realtà che non vogliamo vedere. Tutto questo pesa sulle decisioni e rivela le mille, sorprendenti sfumature che assumono le nostre emozioni quando ci dibattiamo fra un sì e un no. Scegliere un percorso di studi, cambiare lavoro, comprare casa, sposarsi, fare figli sono passaggi emotivamente determinanti che comportano grandi responsabilità. Si tratta di scelte, spesso

irreversibili, che richiedono cambiamenti al buio, basati soltanto sulla fiducia in se stessi e sulla visione ottimistica del futuro. È fisiologico in questi casi darsi il tempo per riflettere; dubbi e ripensamenti sono utili e persino necessari; ma c’è chi riesce a essere perplesso anche di fronte alle più banali incombenze quotidiane. Questi dubbiosi esitano su tutto: temono che qualsiasi opzione possa produrre risultati insostenibili e, finché ci riescono, si tengono alla larga da ogni scelta senza accorgersi che, invece, scelgono anche quando sono convinti di non farlo. Alla base di tanti ripensamenti, e dell’ansia a volte paralizzante che ne deriva, c’è il fatto che la decisione è strettamente connessa con la libertà. Proprio l’idea di essere liberi, cioè responsabili diretti di ciò che accade nella nostra vita, fa sì che a quegli eterni perplessi ogni decisione appaia densa di incertezza e di temibili conseguenze. Conosco bene questi indecisi. Esercito il mestiere di psicoterapeuta da quarant’anni: in tutto questo tempo, molti di quelli che sono passati nel mio studio si aspettavano che la terapia li liberasse dal peso di decidere. Più che un aiuto a capire, gli indecisi chiedevano responsi fulminei per risolvere i conflitti dai quali erano tormentati. Non era sempre facile convincerli che nessuno poteva decidere per loro, e che le risposte giuste ognuno deve cercarle dentro di sé. Gli aut aut nei quali i dubbiosi si dibattono sono tuttavia una specie di mappa: proprio grazie alle continue esitazioni dei pazienti si riesce spesso a orientarsi sulle cause vere dei più o meno profondi malesseri che li affliggono. Da questo punto di vista l’indecisione è per il terapeuta una guida preziosa, una sorta di radiografia della psiche. Ho visto l’indecisione declinata in tutte le sue sfumature e, dopo tanti anni, la straordinaria molteplicità del funzionamento della mente umana quando è costretta a emettere giudizi, a prendere decisioni o, in altre parole, a misurarsi con la propria libertà non ha cessato di stupirmi. Da questo stupore è nato il desiderio di costruire una sorta di mosaico mettendo insieme i dilemmi, le ansie, le contraddizioni di chi, poco o tanto, si dondola sull’altalena del “vorrei” e “non vorrei”.

1

Metti una sera a cena…

L’estate scorsa, come per sortilegio, mi si è piantata nella mente la voglia di scrivere un libro di cucina. Occasione, una cena fra amici: mi ero cimentata con vecchie ricette di famiglia, e ogni pietanza aveva riscosso grande successo. Fossi stata più lucida, mi sarei resa conto che, a suscitare l’entusiasmo, più del cibo erano le circostanze: una terrazza di fronte al mare, la luna quasi piena e una brezza fresca che portava profumo di gelsomino. Da qui l’estasi dei miei ospiti, all’origine di complimenti insolitamente calorosi che, diretti e senza filtri, avevano toccato il mio Narciso in punti sensibili. Scrivere un ricettario rimase per alcuni mesi un assillo. Non riuscivo a liberarmi di quel pensiero, ostinato e al tempo stesso incerto. Volevo e non volevo. Io: “Di libri di ricette sono strapieni i banchi dei librai: ogni casalinga prova a pubblicarne uno”. Me: “Non sarà un ricettario come gli altri; mia nonna era una grande cuoca, esistono segreti che ha confidato solo a me”. Io: “Una psicologa che consiglia pietanze, non ti sembra un po’ assurdo? ‘Monsignore mio, mi tocca vederti sacrestano’ direbbe la nonna”. Me: “Niente affatto! C’è un fortissimo legame tra psiche e cibo”. Quel talk show interiore non conobbe soste sino al giorno in cui, sollecitata dalla domanda di un lettore capii di cosa si trattava: da almeno un paio d’anni mi domandavo se sarebbe stato o no opportuno scrivere un nuovo libro (uno dei miei libri); mi sembrava un’aspirazione audace alla mia età ma, al tempo stesso, la rinuncia definitiva era difficile da accettare. Quel cincischiamento – ricettario sì, ricettario no – era un trucco, una sostituzione per non affrontare il dilemma. Così mi ero inventata il compromesso del ricettario per restare il più a lungo possibile “tra color che son sospesi”. Conoscevo i mille inganni che la psiche riesce a ordire pur di evitare scelte complesse o aggirare ostacoli. Affidandomi alla memoria delle mie esperienze con i pazienti ritrovai persone e storie che avrebbero potuto aiutarmi in anticipo a non cadere nel tranello.

IL CLIC Lucia, infermiera professionista, è fidanzata da tre anni con un medico che lavora nel suo stesso reparto. La famiglia di lui è ostile a quell’amore, che le procura l’invidia e l’antipatia delle colleghe. Quando – e succede spesso – in reparto scoppiano liti o contestazioni, lui non si schiera mai dalla sua parte. “È timido” lo giustifica lei. “Forse si tratta di educazione, forse di carattere. Non potrebbe mai mettersi a litigare o diventare aggressivo.” Il fidanzato, figlio unico, ha molti doveri nei confronti dei genitori. La sera deve tornare a casa presto per non farli stare in pensiero; nei weekend non può lasciarli soli. Le uniche notti che i due passano insieme sono quelle, spesso poco tranquille, in cui entrambi sono di turno in ospedale. “I genitori sono anziani e cagionevoli di salute… e poi non sanno ancora che lui è fidanzato con me” lo giustifica Lucia. “Loro non si sono resi conto di cosa c’è tra noi… oppure fingono… in ogni caso mi trattano come un’estranea.” Delle anomalie di quel fidanzamento Lucia ha una coscienza solo parziale: “Lo so che è un po’ strano, ma so anche che mi ama molto; col tempo le cose si aggiusteranno”. Ad “aggiustare le cose” arriva un evento inatteso. Il fidanzato vince un concorso da primario in una cittadina di provincia. Il trasferimento gli offre un alibi perfetto per allentare la morsa delle aspettative familiari e per placare i sensi di colpa; la fidanzata si trasferirà, potranno convivere in attesa del matrimonio. Lucia accoglie con entusiasmo la notizia. Lo accompagna a visitare il nuovo ospedale, cercano casa insieme, visitano le opere d’arte per cui la piccola città va famosa, al ristorante chiedono i piatti tipici, fanno mille progetti. «Devi andare in amministrazione per comunicare il tuo licenziamento» le ricorda lui. Quello di Lucia è – o sembra? – un sospiro di sollievo: «Basta beghe in reparto!». Spesso aveva pensato di licenziarsi per sottrarsi al clima ostile che si era creato intorno; ma ora, cercando di immaginarsi nelle vesti di moglie del primario in una piccola città dove non conosce nessuno, si

sente invasa dall’inquietudine. Lui insiste: «Non hai alcun bisogno di lavorare. Fai la signora e ti occupi di me». Eppure Lucia gli ha confidato una volta che sognava di diventare infermiera sin da bambina! “È gentile e generoso” pensa Lucia. “Non posso deluderlo.” Ma non arriva a sciogliere il dilemma: tenersi il posto, raggiungendolo nella sua nuova sede tutte le volte che può, o licenziarsi e cambiare vita? Si propone ogni giorno di andare negli uffici amministrativi per informarsi sulle pratiche da avviare per licenziarsi, ma non trova mai il tempo. Se ne ricorda sempre fuori orario, quando gli uffici sono chiusi. Passano i giorni e le sollecitazioni del fidanzato si fanno insistenti. Fastidiose persino. Dopo mesi di tentennamenti, ancora una volta arriva imprevisto l’evento che sembra risolvere ogni problema. Lui telefona per darle la grande notizia: «Si è liberato un posto da infermiera proprio nel mio reparto. Parti col primo treno, abbiamo aspettato anche troppo». La voce è squillante, il tono perentorio. Lei resta attonita, come colpita da una folgore. Non parte l’indomani e nemmeno nei giorni successivi. Gli scrive una laconica mail: “Non siamo fatti l’uno per l’altra”. Ma il dito indugia sul tasto “invio”. Davvero vuol chiudere la relazione con un clic? Si può “giustiziare” una storia d’amore senza regolare processo? Le scorrono davanti le immagini dei tre anni passati con lui; ricorda l’esaltazione dei primi tempi, quando si ripeteva che no, non era possibile: quel giovane dottore dall’aspetto gradevole e di buona famiglia, non poteva volere proprio lei. Quei remoti batticuori avevano scandito giorni di reale felicità. No, lui non la merita affatto quella mail; non le è stato sempre fedele, a dispetto dei corteggiamenti di colleghe, infermiere e pazienti? Non le ha dimostrato in ogni modo di volerla accanto, e per sempre? Chissà come le è maturata nella mente la stupida idea di lasciarlo. Forse a spaventarla è semplicemente il trasferimento in un’altra città, il cambio di ambiente e di amicizie. Sorride, rilegge con sollievo la mail appena scritta e preme il tasto “cancella”. Ma dal computer le arriva il

caratteristico fruscio della posta in partenza; quel rumore sommesso le dice che il suo indisciplinato dito ha schiacciato “invio”.

IL LAUREATO Claudio all’età di ventitré anni si laurea in biologia marina. Alla discussione della tesi assistono, oltre a un nutrito gruppo di amici, la madre e il secondo marito, Mario. Il padre, benché avvisato dell’evento, non si fa vedere. Da quell’ennesima assenza Claudio si sente ferito, ma finge indifferenza. La sera, per festeggiare, vanno in uno dei migliori ristoranti della città e, tra un piatto e l’altro, Mario riesuma un vecchio gioco: «Adesso me lo dirai cosa vuoi fare da grande» dice ridendo. «Te lo chiedo da quando avevi otto anni e non mi hai mai dato una risposta.» È vero: aveva otto anni e Mario e sua madre gli proponevano ruoli prestigiosi: “Vuoi essere il presidente della Repubblica?… O preferisci diventare re d’Inghilterra?… O padrone della Fiat?”. Claudio si schermiva, come se le offerte fossero al di sotto dei suoi meriti e delle sue aspettative. Mario e sua madre ridevano. Già da allora quel copione lo infastidiva: gli sembrava che Mario e sua madre si divertissero a sue spese; e poi, a quel tempo, gli mancava tanto il suo papà. La vecchia schermaglia si ripropone identica, come se lui continuasse ad avere otto anni; e identico è anche il fastidio. A turno, Mario e la mamma gli chiedono se preferirebbe vincere l’Oscar… o il Pallone d’oro… o il Nobel… o le elezioni a presidente degli Stati Uniti… Quando arrivano al dolce, Mario assume un’aria solenne: «Abbiamo un regalo per te» afferma porgendogli dei fogli. La mamma gli lancia uno sguardo che significa: “Vedi quanto ti vuole bene?”. Claudio legge sbalordito: il direttore dell’acquario di Dubai gli offre la possibilità di fare uno stage presso il più grande parco acquatico del mondo! «No!» esclama prima di capire quello che sta dicendo. «No, veramente, no!»

Mario e sua madre ridono: pensano che stia continuando l’antico gioco. «Se lo stage non ti basta, l’acquario di Dubai te lo compriamo…» Ride anche Claudio, per convenienza; quel regalo, e la sua reazione, lo hanno colto di sorpresa; ma insistere che non sta scherzando rischierebbe di rovinare la festa. Forse quel “no”, che lui stesso non si spiega, è solo il frutto dell’antica voglia di sottrarsi agli eccessi di generosità di Mario, senza ferire troppo la mamma. Cambia discorso. Domani, a mente tranquilla, troverà il modo giusto di sciogliere il garbuglio. È attratto dalla prospettiva dell’acquario, ma, al tempo stesso, se ne sente come schiacciato. Dopo cena, quando raggiunge gli amici al bar, non riesce a pensare ad altro. Il regalo di Mario lo costringe, in modo frettoloso e imprevisto, a guardare dentro di sé. C’è posto nei suoi progetti per Dubai? Non lo sa; non si sente pronto ad accettare ma nemmeno a rifiutare. Il pensiero della reazione scandalizzata di Mario e dei sospiri queruli di sua madre lo angustia. Sa di essere un ingrato: “Mario è un brav’uomo e forse, come da sempre giura la mamma, è legato a me da vero affetto. Esibisce troppo la sua ricchezza e le amicizie importanti, ma è generoso, paziente e da anni finge di non accorgersi della mia insofferenza”. L’indomani è il padre a chiamare: «Non sono venuto» sospira. «Ho ben visto» taglia corto lui. «Abbi pazienza, lo sai che mi sento sempre a disagio quando vedo voi tre insieme e io devo fare l’ospite, nemmeno tanto gradito.» Claudio è irritato: “I soliti discorsi” pensa; anche se, avendo lo stesso carattere rustico del padre, sa bene quali sentimenti gli abbiano impedito di assistere alla sua laurea. Cerca di rassicurarlo: «Capisco» dice. «Uno di questi giorni vengo a trovarti a Camogli.» «Devi venire entro domenica. Dopo non posso.» Chissà cosa avrà da fare, pensa Claudio; forse vuole darsi importanza; in tutti questi anni non ha smesso mai di sentirsi in competizione con Mario, eternamente indaffarato. Lo trova al porticciolo mentre traffica intorno al peschereccio di Giuli, l’anziano comandante che da quando è in pensione è diventato

il più abile pescatore di Camogli. Si salutano con la consueta parsimonia emotiva; poi il padre rovista in una consunta borsa di cuoio e tira fuori una busta. “Oh Dio” pensa Claudio. “Un altro regalo! Proprio come Mario!” La busta contiene biglietti aerei, voucher e l’iscrizione a un corso di surf in Algarve. «Mi hai sempre detto che è il paradiso del surf» spiega suo padre. «La prenotazione è aperta, puoi scegliere tu le date.» «Grazie, papà. Chissà quanto avrai speso!» «Ho venduto la macchina. Mi servivano i soldi e dell’auto non so più che farmene.» Le due proposte sono entrambe suggestive. Proprio per questo gli è difficile districarsi; accettarle tutte e due? Scartarle entrambe? Mentre torna a casa in macchina prova a riflettere con calma, ma a complicargli ancora di più le idee arriva la telefonata della madre: «Sei stato da papà? Cosa ti ha regalato?». Claudio glielo spiega. «È sempre il solito. Glielo avevo detto che il surf non andava bene, ma lui non vuol sentire ragioni. Lo sai che parte?» «Parte? E dove va?» Solo a questo punto Claudio si accorge di non avere veramente parlato con suo padre; avrebbe dovuto fargli domande, chiedergli perché gli aveva messo fretta – “Dopo domenica non posso” –, perché aveva venduto l’automobile, perché aveva bisogno di soldi… insomma, interessarsi a lui, alla sua vita. Qualche parziale risposta a quelle domande mai formulate gli arriva ora da sua madre: «Deve portare in Grecia una barca a vela. Un ricco industriale milanese l’ha chiesto a Giuli, ma lui è vecchio, non si sente di farlo da solo. Così quei due matti partono insieme e io sono molto preoccupata. Non ti ha detto niente perché ha paura che tu, come ho fatto io, cerchi di farlo ragionare». Claudio non capisce perché, eppure è costretto a fermarsi; si tasta il polso, che è velocissimo. Occorre un bel po’ perché la tachicardia si acquieti. Di colpo si accorge che l’acquario di Dubai o il surf dell’Algarve gli appaiono ormai due stupide chimere.

Imbocca la prima uscita e, tornando a Camogli, richiama la madre: «Ma’, non ti devi preoccupare, i due matti sono diventati tre»; e senza che lei possa replicare alcunché, comincia a pensare a cosa infilerà nello zaino prima di salire in barca. Gli indecisi sono avvisati. L’incertezza, i dubbi, il continuo tormentarsi per una scelta che non si riesce a fare possono essere a volte soltanto una copertura, un modo per distrarre la mente da un’altra realtà, più inquietante e difficile da accettare. Spesso le ore e i giorni perduti a domandarsi se sia meglio decidere per l’una o per l’altra delle due opzioni a confronto servono a nascondere a se stessi altre urgenze scomode. Esaminandole con attenzione, ci si accorge che nessuna delle possibilità a confronto fa parte del proprio orizzonte emotivo. Per quanto strano possa sembrare, i poli opposti da e verso i quali oscilla l’indecisione sono neutri; nessuno di essi rappresenta veramente un desiderio urgente da soddisfare; si tratta di falsi desideri che sostituiscono quelli veri. Lucia non voleva dire a se stessa che quel fidanzato egocentrico e tassativo non era l’uomo per lei. Fingeva di interrogarsi sul lavoro, incerta se tenere o lasciare il posto in ospedale. Chissà per quanto tempo avrebbe represso il suo disamore, se eventi esterni non l’avessero costretta ad accelerare le decisioni e ad aprire gli occhi sul vero problema. Claudio non aveva il coraggio di ammettere la preferenza per un padre assente e fuggitivo, a lungo atteso e rimpianto. Le sue incertezze riguardo ai doni di laurea offerti dal genitore biologico e da quello supplente si polverizzano quando scopre l’opportunità di andar per mare, e così risarcirsi di un amore paterno che gli è stato negato. Ciò che colpisce in queste storie, quando le si guarda da vicino, è l’artificiosità del conflitto; eppure, è piuttosto frequente che certe altalene fra un sì e un no si prolunghino per mesi e anni, prima che la persona coinvolta capisca dove sta il vero problema. Convivere con questo tipo di indecisioni produce una sorta di inquinamento psicologico e rischia di rallentare la maturazione emotiva dell’individuo. Una scelta sospesa è come un debito non pagato: lo si può rinviare quanto si vuole, ma lascia dentro un’esigenza segreta, che deve essere prima o poi soddisfatta. In genere sono eventi esterni, imprevisti e casuali, a portare alla luce l’inefficacia del conflitto e a svelare le vere cause dell’insoddisfazione. A quel punto bisogna ripartire, con il disagio

di aver ingannato se stessi e con l’impegno di recuperare emozioni e tempo perduti.

2

Ambivalenze

L’ambivalenza è madre di tutte le indecisioni e del vasto corredo di dubbi, rinvii e ripensamenti che le accompagnano. È una specie di peccato originale, un’impronta indelebile e segreta che accompagna ogni relazione dotata di una carica emotiva. Secondo la psicoanalisi, in ogni processo affettivo agiscono, come due facce della stessa medaglia, elementi opposti: a tratti uno prevale, senza mai eliminare completamente l’altro. L’ostilità e l’amore, pur essendo due sentimenti in antitesi fra loro, possono convivere nella stessa persona, al punto da sembrare un sentimento unico. Odi et amo, odio e amo: già Catullo ne era cosciente, anche se a introdurre il termine ambivalenza fu lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler nel 1911. Ben presto il nuovo, illuminante vocabolo uscì dai manuali di psichiatria e diventò di uso corrente. Serviva a esprimere in modo abbreviato la confusione dei sentimenti propri e altrui. Non c’è dubbio che ambivalenza sia un termine felice per indicare uno strano fenomeno: quello che ci spinge a volere contemporaneamente una cosa e il suo contrario. Bello sarebbe poter credere all’assoluta purezza dei sentimenti, all’integrità delle passioni, al senso unico delle azioni e delle parole; e invece si è costretti ad ammettere che ai gesti generosi si mescola spesso l’avarizia, agli atti di coraggio la viltà, ai comportamenti gentili l’insolenza… Ci piaccia o no, dall’altra parte della chiarezza delle emozioni c’è sempre, sommersa e insidiosa, la loro opacità.

LE GRAZIE DI SAN GENNARO La prima volta che intravidi i meccanismi dell’ambivalenza ero ancora una ragazzina, e ne fui turbata. Vivevo con i miei in un complesso di case popolari, e di fronte a noi abitava la signora Ida con la sua numerosa famiglia. Ida era una donna di rara simpatia: si intratteneva spesso con mia

madre e non mancava mai di parlare della nostalgia che nutriva per Napoli, la sua città. Il marito era marinaio e faceva lunghissimi viaggi, cosicché toccava a lei crescere i cinque figli che, come diceva, erano l’uno più appicciato, più attaccabrighe e casinista, dell’altro. Il figlio minore, Michelino, aveva nove anni e non stava mai fermo. Durante i pomeriggi in piazzetta capeggiava drappelli di coetanei e con loro si dedicava a ogni sorta di malefatte. La sera, all’ora di cena, le mamme si affacciavano da finestre e balconi per chiamare a gran voce i figli che, con evidente riluttanza, uno dopo l’altro, tornavano a casa. Michelino no: per lui c’era sempre bisogno di un supplemento di urla ripetute e perentorie. Una sera ero fuori in terrazza a leggere un libro mentre, dal poggiolo a fianco, la signora Ida si scalmanava a chiamare il renitente. Da Michelino nessuna risposta; Ida si prendeva una pausa, rientrava in casa per riapparire poco dopo e lanciare vani, rinnovati appelli. Intanto si faceva buio e dal tono della voce si avvertiva che alla collera si stava aggiungendo la preoccupazione. Alla fine, dopo tanti inutili tentativi, Ida esausta alzò gli occhi al cielo e si lasciò andare a un’incredibile invocazione: “San Gennà, famm’ ’a grazia, fall’ i’ sott’ a ’nu tram!” «Ma è solo un modo di dire!» disse ridendo mia madre, alla quale riferii, scandalizzata e incredula, la frase che avevo appena udito. La risposta non mi persuase e in seguito, ai tempi delle mie rivolte adolescenziali, mi accadde a volte di pensare che forse anche lei, segretamente, chiedeva a san Gennaro, o a chi per lui, di farmi finire sotto un tram.

LA CRISI DEL SETTIMO ANNO Rosanna ha ventisei anni e da sette è fidanzata con Marcello. Non ci sono ombre sul loro rapporto, che procede sereno e senza scosse. Sono una coppia solida e affidabile, e forse per questo gli amici li chiamano spesso a fare da testimoni alle nozze quando, uno via l’altro, decidono di sposarsi. “Cadono come birilli” commenta Marcello ogni volta che ricevono

la partecipazione di un altro matrimonio. Rosanna ride, ma da qualche tempo l’ironia e il cinismo del compagno la infastidiscono. Forse, a influenzare il suo umore, sono anche le allusioni della madre che non manca mai, durante la quotidiana telefonata della buona notte, di parlarle della crisi del settimo anno concludendo che, dopo sette anni di fidanzamento, o ci si lascia o ci si sposa. Una sera, in macchina mentre tornano dall’ennesima festa di matrimonio, Marcello commenta: «Ma perché si saranno sposati quei due? Stavano tanto bene prima!». Lei è colta da un’improvvisa ondata di collera: «Stai andando come un pazzo!» gli urla, fingendo di essere spaventata dalla guida di lui, tutto sommato prudente, come al solito. Lui la guarda sorpreso e divertito. L’episodio, nuovo per lei, costringe Rosanna a interrogarsi. Come può, un uomo che dice di amarla, non essere, dopo tanto tempo, lambito dall’idea che anche lei possa desiderare di sposarsi? È vero, agli inizi della relazione avevano entrambi convenuto che il matrimonio non faceva per loro; ma non sono più ragazzini… o almeno lei si sente cresciuta. Decide di parlargli, non per metterlo davanti a un aut-aut, ma per verificare lo stato di salute del loro legame. Tuttavia, ogni volta che si presenta l’occasione giusta per affrontare l’argomento, Rosanna è colta dall’ansia. Durante il giorno prepara discorsi pacati e convincenti, ma la sera, al momento di avviare il confronto, le parole le mancano. “È un mio diritto sapere!”, pensa incollerita con se stessa, ma con lui parla d’altro. Per questo è irritata; un’irritazione che non riesce a nascondere del tutto. Alla fine, stanca di confrontarsi con la propria irresolutezza, prende un’iniziativa: smette la pillola e interrompe la contraccezione; saranno i fatti a parlare finalmente per lei. E i fatti sembrano parlare ben prima di quanto avesse previsto. Quando, alla scadenza mensile, il mestruo manca all’appuntamento, prima si sgomenta, poi si compiace con se stessa per essersi dotata di un argomento inoppugnabile. “Sono incinta”, pensa con eccitazione, e si convince che il problema sia risolto: il suo nuovo stato l’aiuterà a sciogliere l’ingarbugliato nodo dell’indecisione. Decide di aspettare il weekend per il grande annuncio; quando riesce a dire a Marcello

“Sono incinta”, non può fare a meno di scoppiare in un pianto dirotto. Lui non si mostra stupito e nemmeno dispiaciuto: «Che problema c’è?» domanda imperturbabile. «C’è che ora dovremo sposarci!» grida lei, torcendosi le mani; e mentre lo dice non sa se sta fingendo o se è davvero atterrita da quella prospettiva. «Ribadisco: che problema c’è?» replica lui, cercando di calmarla. «Ci sposeremo, che sarà mai?» Per tutta la notte Rosanna non prende sonno. Lui è freddo e razionale, e proprio di questo aspetto del suo carattere lei si era innamorata sette anni prima. È chiaro che se gli avesse fatto capire di desiderare il matrimonio, lui non avrebbe opposto alcuna resistenza. “Ma che uomo è” pensa Rosanna “uno che non manifesta neanche una briciola di emozione alla notizia che avrà un figlio?” Un figlio? Un bambino? Ecco qualcosa, anzi qualcuno, cui Rosanna non aveva mai pensato: la gravidanza era stata per lei un grimaldello con cui aprire una porta già aperta. A questo punto si rende conto di non essere pronta per il matrimonio. Figurarsi per un figlio! Al termine di quella notte tormentosa prende una decisione: andrà al consultorio per chiedere di abortire e a Marcello dirà che si è sbagliata, che si è trattato di un falso allarme e non c’è alcuna gravidanza in corso. Durante il colloquio di accettazione per l’aborto si sente una deficiente. «Ha fatto un test di gravidanza?» le domanda una dottoressa. «No» risponde lei arrossendo. «L’ha vista un ginecologo?» «No» Quando si stende sul lettino per l’esame, il cuore le balza nel petto; Rosanna non ha mai provato un’emozione così violenta. «Non ho ben capito se per lei è una notizia buona o cattiva» dice la dottoressa sfilandosi i guanti. «In ogni caso non è incinta.» «Ho un ritardo di due settimane» insiste Rosanna, e non capisce se quella notizia la sollevi o la deluda. «Succede,» spiega la dottoressa «spesso, quando si interrompe la

contraccezione, il corpo ci mette un po’ di tempo per riprendere i ritmi consueti; ma non ho capito se la notizia le fa piacere o dispiacere.» «Certo che mi fa piacere! Non sono sposata e sarebbe presto per avere un figlio.» La voce le trema e vorrebbe piangere: le sembra troppo presto persino per sposarsi. L’amore materno è da sempre considerato il più sacro e il più certo dei sentimenti. La signora Ida, con la sorprendente invocazione a san Gennaro, sembra l’eccezione che conferma la regola. Per molti anni la mistica della maternità non ha permesso alle donne gravide di confrontarsi apertamente con le inevitabili ambivalenze dovute al loro stato. Nessuna incertezza era consentita: avere un figlio era considerato un dono, un evento fortunato e straordinario che poteva suscitare solo sentimenti trionfali, di orgoglio e perfezionamento del proprio destino; quelle che, loro malgrado, erano, pur in modo fuggevole, lambite da dubbi e da sgomento, si sentivano colpevoli e indegne. Domandarsi se quel figlio lo volessero davvero era considerato non un ragionevole dubbio, ma una colpa inammissibile. Verso la fine degli anni Sessanta, lavorando in una clinica ginecologica, decisi di fare una ricerca sui lati in ombra della maternità. Interrogai un gruppo di giovani donne che erano al termine della gravidanza e che avrebbero partorito nel giro di pochi giorni. Tutte si mostrarono divertite e gentili, pronte a rispondere alle domande e a sottolineare la gioia e la fierezza di quell’attesa; ma le loro risposte erano evasive e stereotipate. Le cose cambiarono quando chiesi loro di disegnare se stesse. Le immagini che mi presentarono sembravano smentire il quadro idilliaco che mi avevano descritto. Una si disegnò chiusa in un otre e, quando le chiesi di spiegarmi il senso del suo disegno, disse che spesso si sentiva come una specie di prigioniera “che non può più scappare”. Un’altra si rappresentò come un fiore piegato dal peso della corolla e mi disse: «Non ho mai avuto responsabilità, ora dovrò piegarmi». Un’altra ancora disegnò una spirale con al centro un uovo. «Quest’uovo blocca tutto,» mi disse indicandolo con la matita «non mi permette più di tornare indietro, posso solo andare avanti!» In tutti i disegni – indipendentemente dal talento grafico delle gravide – c’era una vena di inquietudine e, dalle spiegazioni che mi vennero date, emerse una realtà a quei tempi negata e disapprovata: la maternità segna un solco profondo tra ciò che si è e ciò che si deve diventare.

Alla felicità per la prossima nascita si mescolano altri sentimenti, come l’ansia di non essere all’altezza, o la resistenza a un cambiamento tanto profondo e definitivo. Anche quando si tratta di una scelta convinta, a tratti si è assediate da incertezze e paure. L’ambivalenza è una specie di iceberg che mostra solo una parte di sé; l’altra parte, quella sommersa, continua a influenzare scelte e comportamenti. Più il progetto è compatto, privo di esitazioni, più c’è il rischio che vacilli nel corso della sua realizzazione… Un secondo caso di ambivalenza è quello dell’anticonformista, in cui si nasconde, subdola e silenziosa, la tentazione di sentirsi come gli altri. Rosanna aveva accettato la convivenza perché riteneva che, in questo modo, avrebbe protetto la sua autonomia. Bello inventare, giorno dopo giorno, le regole dello stare insieme! Della libertà da vincoli religiosi e sociali si sentiva fiera e fermamente convinta, ma i matrimoni degli amici, le parole della madre e un inspiegabile, sottile malumore, avevano soffiato sulla massicciata delle sue sicurezze come il lupo sulla casa dei tre porcellini.

3

Priorità

Il numero degli indecisi sembra crescere di giorno in giorno. Molte persone si tormentano di fronte alle scelte, sia quelle che le impegnano per il futuro, sia quelle legate alla quotidianità e si dibattono fra dubbi e paure, temendo di non essere in grado di decidere cosa sarebbe meglio per loro. Un tempo esistevano gli oracoli: fornivano risposte spesso ingannevoli, ma funzionavano come mappe che, indicando secche e scogli, permettevano di navigare con una certa tranquillità, almeno sino al momento del naufragio. La lettura della mano, gli oroscopi, le carte, i fondi del caffè, le oscillazioni di un pendolino erano solo alcuni dei numerosi espedienti ai quali si ricorreva, e si ricorre ancora oggi, per orientare positivamente le proprie scelte. La moltiplicazione di maghi e affini è la più evidente testimonianza di quanto sia diffuso il bisogno di allentare le maglie dell’insicurezza e di sapere come agire senza sbagliare; ma, a chi non ci crede, questa opportunità non è concessa, e ogni volta che ci si misura con l’incertezza della scelta si prova un profondo senso di disagio. Il bisogno affannoso di cercare risposte, affidandosi a riti, a magie, o anche solo ai consigli di estranei, nasce dalla difficoltà di accettare l’idea di essere in prima persona protagonisti della propria vita; è più facile credere di essere vittime della sfiga che ammettere di contribuire a crearla. A volte ci si trascina a lungo in situazioni delle quali ci si sente prigionieri, ma non si riesce a trovare il coraggio di fare una scelta liberatoria, proprio perché è più comodo immaginare che siano altri a tenere in mano i fili. Certe decisioni diventano drammatiche, indipendentemente dalle reali difficoltà che comportano. Che si tratti di un’incertezza tra sposarsi e non sposarsi, tra partire o restare, o tra qualsiasi coppia di comportamenti o di valori, a creare l’ansia è il semplice fatto di rinunciare a una cosa per concedersene un’altra. Occorre scrutare dentro se stessi per individuare le proprie priorità.

IL LOCANDIERE

Teo ha compiuto da poco quarant’anni ed è proprietario di un resort di lusso, che ospita spesso personaggi illustri. È laureato in architettura, ma a chi gli domanda notizie del suo mestiere ama rispondere: “Faccio il locandiere”. Fin dall’infanzia era convenuto che si occupasse dell’hotel di famiglia: incurante della sua giovane età, il padre, don Giulio, cercava di coinvolgerlo in tutte le decisioni relative all’amministrazione dell’hotel. Lo rendeva partecipe dei guadagni e delle perdite, lo informava sulle nuove iniziative, sul personale, sui flussi di clienti. Era evidente che il ragazzo non nutriva alcun interesse per quelle informazioni. La madre interveniva per alleggerire la tensione creata dagli sproloqui del marito: “Sono discorsi un po’ prematuri, prima o poi tutto questo sarà suo e allora sì che se ne occuperà”. Lui aveva altri progetti per la sua vita, ma si riprometteva di parlarne in famiglia solo dopo la conclusione degli studi superiori. Aveva aspettato l’esame di maturità; dopo averlo superato era deciso a rivelare al padre la sua vera aspirazione: fare l’architetto. Non c’era tempo da perdere. Tornando a casa dalla scuola ripeteva mentalmente il discorso che si era preparato; ma, una volta arrivato, aveva scoperto che la sala delle grandi occasioni era piena di gente. Il padre sapeva già che si era diplomato col massimo dei voti; gli aveva telefonato il sindaco che lo aveva saputo in anteprima. Era stato accolto da applausi, abbracci, complimenti, e subito si era reso conto che, almeno per il momento, non era il caso di rivelare le sue intenzioni. Qualcuno si era informato sulla facoltà universitaria che intendeva frequentare, e lui aveva abbassato la voce: «Architettura». Il padre, che gli dava le spalle, impegnato a intrattenere gli ospiti, si era voltato di scatto: «Architettura?» aveva esclamato. «Ma che novità è questa? Che c’entra un architetto con la gestione di un albergo?» Nelle settimane successive lui, la madre e la sorella avevano cercato di convincere don Giulio che la laurea in architettura sarebbe stata, per l’azienda, un “valore aggiunto”. Lui non sembrava persuaso, ma alla fine si era arreso: gli bastava

che la vera professione del figlio restasse quella di imprenditore, del foglio di carta gli importava poco. Teo si era sentito sollevato: aveva ancora davanti a sé qualche anno prima di infliggere a suo padre la delusione definitiva. Le poche persone con cui ne parlava lo rassicuravano. “Don Giulio è sensibile e intelligente” gli dicevano gli amici. “Vuole solo il tuo bene; finirà con l’accettare qualsiasi cosa tu voglia fare.” Anche lui ne era persuaso. “Ma che ci vuole?” diceva a se stesso. “Ora vado nel suo ufficio e gli dico tutto.” Entrava con quell’intenzione nell’ufficio del padre, ma lui lo interpellava prima che potesse aprire bocca: «Ciao, Teo, giusto te! Mi traduci in inglese questa lettera di benvenuto per i clienti?». Bastavano cose come questa a smontarlo. Se don Giulio fosse stato autoritario e prepotente, tutto sarebbe stato più facile; le pretese paterne avrebbero provocato la sua rivolta; uno strappo senza rimorsi, sarebbe diventato possibile. Ma suo padre era mite e generoso. Come potrebbe dargli questa enorme delusione? Per difendersi dalle incertezze paralizzanti che lo affliggevano Teo provava a convincersi che il desiderio di fare l’architetto fosse solo una fissazione infantile. Se lo avesse voluto fare veramente, niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo. “Si tratta di una falsa aspirazione” diceva a se stesso. “Sei sicuro di avere abbastanza talento per fare l’architetto? Occuparti dell’hotel in fondo non ti dispiace.” Intanto frequentava l’università e cercava di essere il figlio che suo padre desiderava: lo assecondava quando lui fantasticava di ingrandire l’attività, quando lo spingeva a essere galante con le figlie di clienti facoltosi, quando gli affidava per intero il compito dell’organizzazione di grandi eventi. Nel frattempo Teo superava brillantemente un esame dopo l’altro; ma se da una parte non vedeva l’ora di prendere la laurea, dall’altra ogni prova superata avvicinava il momento in cui avrebbe imboccato la sua vera strada, con tutte le conseguenze del caso… Angustiato da pensieri contrastanti, era diventato solitario e scontroso. Fingeva di non accorgersi delle donne che lo corteggiavano;

“Sei il miglior partito dell’Europa occidentale” diceva ridendo la madre. “Cosa aspetti a scegliere fra le tante che ti vogliono?”; e don Giulio annuiva compiaciuto. Ma lui non aveva tempo per le ammiratrici; anzi cercava di scoraggiarle. Trasmetteva messaggi di indisponibilità: a volte ostentava la fede al dito, oppure raccontava di essere stato irrimediabilmente ferito dalle troppe delusioni amorose. A poche settimane dalla discussione della tesi cominciò a parlare con la madre e la sorella per ottenere approvazione e aiuto. Lo fece con riluttanza, ma era indispensabile preparare il terreno. «Papà ne morirà» gli disse la sorella. «Ma no, non preoccuparti» lo rassicurò la madre. «Gli staremo vicini, se ne farà una ragione.» Due giorni dopo don Giulio, seduto in poltrona a guardare la tv, disse di sentirsi molto stanco. La moglie andò in camera a prendere dei cuscini: «Mettiti comodo» gli suggerì, cercando di infilargliene uno dietro alla schiena; ma lui ricadde pesantemente in avanti. La notizia della morte del padre lo raggiunse a Londra dove, in un hotel con spa diventato in poco tempo famoso, era andato in cerca di nuove idee per il resort. «Meno male che non gli avevi ancora parlato!» sospirò fra le lacrime la mamma; ma l’angoscia occupò ogni suo pensiero; aveva tradito il padre, il fatto che lui non l’avesse mai saputo importava ben poco. Spinto dalla madre, aveva discusso ugualmente la tesi, anche se di quella laurea non sapeva più che farsene. Negli anni successivi si era dedicato in modo febbrile a migliorare l’hotel. Aveva cambiato i mobili, allargato le camere, dato vita a nuove iniziative per rendere indimenticabile il soggiorno degli ospiti. Il resort, completamente rinnovato, aveva aggiunto una nuova stella alle quattro che già aveva. A quarant’anni compiuti da poco ha sposato Finnuala, la ragazza irlandese assunta come receptionist. Lei è schiva e riservata persino più di lui. Alta, magra, con gli occhi scintillanti e una grande massa di capelli rossi. “Bella, ma fredda” dicono di lei amici e parenti; e invece è capace di entusiasmarsi: la natura e il paesaggio la commuovono. Accade ogni volta che, partendo da Camogli, riescono a raggiungere a

piedi San Fruttuoso o Portofino. È domenica; sono partiti di buon mattino per una di quelle lunghe passeggiate e si sono inoltrati su per un sentiero impervio che si perde nella boscaglia. «Torniamo indietro» suggerisce lui. «Questo viottolo non porta da nessuna parte»; e invece, pochi passi più avanti, la stradina si spalanca su una vasta radura, alta sul mare. È un panorama che toglie il respiro. Finnuala ne è toccata fino alle lacrime; e lui stesso, di fronte a tanta bellezza, sente il bisogno di abbracciarla. «Non conoscevi questo posto meraviglioso?» gli chiede lei. «Saremo in grado di ritrovarlo? Voglio tornarci sempre…» Un giorno arrivano in hotel tre nuovi clienti: eleganti, distinti, innamorati dell’Italia. Sono cinesi, parlano correntemente l’italiano e si mostrano incantati dai luoghi e dall’ospitalità offerta dal resort. Teo li intrattiene assecondando, con i suoi racconti, tutte le loro curiosità. Una leggenda metropolitana (tale almeno è ritenuta da Teo) circola da un po’ di tempo in Riviera. Si racconta che molti negozi della zona sono stati venduti, seduta stante, ad acquirenti arrivati dalla Cina con le loro ventiquattrore stipate di dollari. A rafforzare queste dicerie c’è il fatto che la più famosa pasticceria di Camogli è chiusa da giorni. I dipendenti spiegano che sono stati messi a riposo con ferie pagate, a causa di importanti lavori di restauro; ma tutti dicono che il negozio lo hanno comprato i cinesi. Teo chiama i titolari della pasticceria, vecchi amici di famiglia, ma non riesce a mettersi in contatto con nessuno di loro. Nei giorni successivi la cosa gli passa di mente, e la ridicola storia dei cinesi pigliatutto sparisce dai suoi pensieri. Il telefono lo sveglia una mattina, a un’ora assolutamente insolita; ancora più insolito è che a chiamarlo è il suo commercialista. «Non farmi ridere» dice Teo quando sente il motivo della telefonata. «Mi stupisce che anche tu ti sia bevuto una fandonia simile e che me la ammannisca a quest’ora antelucana.» L’altro insiste: «Vengo a prendere un caffè e ne parliamo con calma». «Il caffè volentieri, ma non c’è proprio niente di cui parlare…»

E invece c’è da dire, e tanto. I cinesi offrono per il suo resort una cifra inimmaginabile, e come risvegliato da un lungo sonno, un demone interiore gli sibila nell’orecchio: “Vuoi davvero fare il locandiere per il resto dei tuoi giorni? Tu sei nato per fare l’architetto!”. Lo ascolta e si accorge che, dopo tanto penare, è scomparso, come per miracolo, il cupo senso di colpa che lo opprimeva. Ha pagato il debito contratto con la memoria del padre e ora può riprendersi la sua vita. L’affare si conclude in una settimana. «Non crediate che voglia smettere di lavorare» ripete alla madre e alla sorella incerte e un po’ sgomente. «I milioni di dollari fanno gola a tutti» dice la sorella. «Ma cosa ne faremo di tutto quel denaro?» «Per quel che riguarda me, comprerò un terreno sul monte di Portofino. Io e Finnuala lo abbiamo già visto…» «Un terreno? E per farne che?» «Per mettermi a fare finalmente l’architetto!» Si blocca per un attimo; prima di annunciare con una certa solennità: «Sto già lavorando a un progetto: costruirò lassù un nuovo, meraviglioso resort».

L’ANELLO PERDUTO Mara ha ventidue anni e vive con la nonna da quando i genitori sono morti in un incidente d’auto. Le vicende della vita l’hanno resa precocemente matura e responsabile. Ha un diploma di ragioniera e lavora presso un’azienda di prodotti gastronomici per uno stipendio modesto. Conosce Guido P. alla festa di compleanno del suo datore di lavoro; a prima vista non le dispiace e ha l’impressione di piacergli, ma non lo prende in considerazione come possibile corteggiatore: sa di non poter aspirare a uomini ricchi e potenti. Il giorno seguente lui si presenta in ufficio e la invita a cena. Dopo quella sera la incalza, le chiede nuovi incontri, le propone un weekend nella sua casa in montagna, le porta ogni volta dolci, fiori o regali; Mara è confusa. «Figurati se uno come lui sposa una come me» dice alla nonna, che

invece la incoraggia: «Se vuole te è perché è un ragazzo intelligente. Uno che ha fiuto!». Lei ride: «Dai, nonna, scendi dalle nuvole»; ma si fa prendere dall’ansia se per qualche motivo Guido non telefona all’ora abituale. Dopo meno di un mese sono fidanzati, e Mara ha la sensazione che gli eventi le siano scivolati addosso senza alcun intervento della sua volontà. Si considera fortunata perché un uomo ricco e generoso ha scelto proprio lei, e al tempo stesso vive come se, da un momento all’altro, dovesse svegliarsi bruscamente da un sogno che non le appartiene. Quando la nonna le ricorda che con Guido avrà una vita diversa, lei si domanda se quella che ha avuto sin lì fosse poi così sbagliata. Ma si abitua abbastanza presto agli agi, alle comodità e ai privilegi che le derivano dal fidanzato ricco. Ama i weekend fuori città, i golf di cachemire, i ristoranti alla moda; e si convince di amare anche Guido. Le sembra che, come si è abituata ai privilegi, potrà gradualmente abituarsi anche ai numerosi difetti del suo uomo. Lui è verboso, superficiale, arrogante, e a letto funziona una volta sì e cinque no; ma, come direbbe la nonna, a tutto c’è rimedio. Una delle cose che Mara teme di più sono gli inviti a casa P. Durante quei pranzi non riesce mai a rilassarsi. Quando la futura suocera la invita a darle una mano si muove intimidita fra la sala da pranzo e la cucina; ha paura di sbagliare gesti o parole, e l’algida gentilezza di quella donna la fa sentire fuori posto. Il giorno del suo compleanno, invitata a pranzo con la nonna dai futuri suoceri, riceve a sorpresa il dono di un anello molto prezioso. «È un gioiello di famiglia» le dice la signora con un sorriso che la raggela. «Io penso che sia un po’ presto, in verità. Ma Guido dice che siete sicuri di quel che fate, e allora…» Per tutto il resto del pranzo i coniugi P. parlano del brillante incastonato nell’anello; a quanto sembra, i nonni di Guido avevano sempre detto che quel prezioso doveva andare alla moglie del loro primogenito. La sera stessa la nonna sorprende Mara che, come quando era bambina, piange con la testa nascosta sotto il cuscino.

«In quella casa mi sento soffocare» confessa; e dal tono si capisce che lei stessa è stupita da quanto ha appena detto. «Ma tu devi sposare lui, non sua madre e poi a me non è sembrata tanto antipatica.» «Mi soffoca anche lui, nonna, parla solo e sempre di se stesso e delle sue ricchezze.» «Meno male che te ne sei accorta in tempo, allora! Mollalo, se non ti piace.» Si fa presto a dire “Mollalo”, pensa Mara; e prima di addormentarsi promette a se stessa che l’indomani rifletterà seriamente per capire se davvero vuole lasciare Guido. Non solo non lo lascia, ma reprime con cura i pensieri negativi che a tratti le affiorano alla mente. La domenica successiva, per l’anniversario di matrimonio dei P., incombe un altro pranzo di famiglia; per fortuna, vanno al ristorante, e questo riduce il disagio. Mara ripensa ai dubbi di sette giorni prima, con l’impressione che si sia trattato di una paturnia passeggera. Torna a casa più serena; la nonna non osa farle domande; tutto sembra rientrato. Nella notte si sveglia di soprassalto, senza un motivo; sta cercando di riaddormentarsi, quando, come in un film, le passa davanti, nitida e improvvisa, un’immagine: lei che nel bagno del ristorante si toglie l’anello prima di lavarsi le mani e lo posa sul lavello. Lo ha lasciato lì! Lo ha dimenticato! Si riveste precipitosamente. Mezzanotte è passata da poco; forse al ristorante stanno ancora facendo le pulizie. Quando i camerieri le dicono che non hanno trovato niente, lei barcolla. La fanno sedere, le offrono un bicchier d’acqua; il pianista, che stava per uscire, l’accompagna alla macchina temendo che possa accasciarsi da un momento all’altro. «Non ne parliamo con nessuno» cerca di tranquillizzarla la nonna. «Puoi dire che un gioiello così prezioso è meglio non portarlo tutti i giorni. Di’ che l’abbiamo messo in cassetta di sicurezza.» «Ma noi non abbiamo mai avuto una cassetta di sicurezza! Non so nemmeno bene cosa sia.»

«Che ti importa? Quel che conta è convincere loro; poi, con calma, penseremo a come rimediare…» Quella incredibile disavventura fuga di colpo ogni dubbio; lei non ama Guido e non lo vuole; ma se lo lascia, deve restituirgli tutti i regali. Anche l’anello. I giorni sono carichi di ansia, le notti piene di incubi. Sogna di essere ammanettata e portata via dai poliziotti mentre gli inquilini del palazzo la guardano dalle finestre. Un giorno passa da un amico che lavora in una gioielleria e gli descrive l’anello perduto; pensa che se riesce a mettere insieme la somma necessaria per ripagare il monile potrà finalmente chiudere quella storia. «Se era un brillante puro, della grossezza che dici, ti serviranno almeno centomila euro.» Lei si sente mancare, non le basterebbe una vita per saldare quel debito. Più i giorni passano, più il legame con Guido le risulta opprimente. Forse è solo un’impressione dettata dalle circostanze, ma lui le sembra più superficiale e arrogante del solito; temendo di tradirsi, lo lusinga con coccole e parole dolci. Quella storia è diventata un castigo. «Sei una ragazza coraggiosa» insiste la nonna. «Non puoi tenerti uno che non vuoi.» Anche lei lo sa, ma non trova la forza di rompere il fidanzamento. «Sai che ti dico? Stai esagerando la storia dell’anello perché non lo vuoi lasciare veramente» dice la nonna. Invece lei lo vuole; ne è convinta, anche se tornare alle antiche ristrettezze la sgomenta. Mettiamo che, col tempo, riuscisse a pagare il debito; si troverebbe più povera di quanto sia mai stata; è giusto questo? lo merita? Una sera arriva in ritardo all’appuntamento con Guido. Lui è furibondo: «Basta! Questa storia è andata avanti fin troppo». «Scusa, amore» dice lei cercando di ammansirlo. «C’è stato un imprevisto.» «Non ce ne saranno altri» risponde secco lui e, piantandola in mezzo alla strada, mette in moto l’auto e se ne va. «Non sei contenta? Ti ha tolto le castagne dal fuoco!» dice la nonna; ma lei si dispera. E la nonna: «Piangi perché gli devi dire che

hai perso l’anello o perché ti dispiace perderlo?». Passano giorni e mesi senza che Guido si faccia vivo per chiedere la restituzione dei doni. A ogni squillo del telefono Mara sobbalza, pensando che stia arrivando la resa dei conti; ma dai P. non arriva alcun segno. Qualcuno le dice che Guido ha un nuovo amore. Li incontra un giorno mentre fanno la coda alla biglietteria del cinema. Guido è confuso, visibilmente agitato. «Questa è Paola» le dice presentandole la nuova fidanzata. La ragazza è carina, sorride imbarazzata mentre porge la mano a Mara. I due sono in coda proprio davanti a lei, uno accanto all’altra; la ragazza passa ostentatamente la mano sulla schiena del fidanzato, quasi volesse sottolinearne il possesso. Porta al dito un anello: non uno qualunque; uno identico a quello che l’ha fatta tanto soffrire. La sera stessa telefona a Guido. «Dimmi di quell’anello» gli dice perentoria. «Voi P. li fate in serie?» «Lo ha trovato la mamma. Quel giorno al ristorante è andata in bagno subito dopo di te. Lo avevi lasciato sul lavandino, come se si trattasse di un oggetto senza valore. Era la prova della tua sventatezza, dell’incapacità di dare il giusto valore alle cose e alle persone che ti circondano. Lei lo aveva intuito sin dall’inizio, e a quel punto io non potevo che darle ragione!» Spesso le decisioni diventano drammatiche indipendentemente dalle reali difficoltà che comportano. È come se l’ansia non derivasse dal timore di scegliere l’alternativa sbagliata, ma dal semplice fatto di dover decidere. Teo e Mara, i protagonisti delle storie di questo capitolo, trovano difficile prendere decisioni in base a quelle che sono le proprie priorità. Se qualcuno, ai tempi dell’università, avesse chiesto a Teo di stilare la classifica dei suoi riferimenti interiori, avrebbe messo al primo posto il desiderio di fare l’architetto. Via via che la sua aspirazione viene frustrata dalle circostanze, si convince di dover salvaguardare per prima cosa i valori familiari. Sono necessari molti anni e molte esperienze per capire che in quella scala di valori manca un elemento importante: la sua autonomia. Nel caso di Teo la sofferenza non nasce nell’opposizione tra il desiderio di fare l’architetto e la paura di deludere il padre, ma dal non rendersi conto che le due cose

possono convivere: basta che lui lo voglia veramente. Fin da ragazzo ha avvertito la gestione del resort come una sorta di condanna a vita; anche quando quell’impegno lo appassiona e gli dà soddisfazioni, non riesce a dimenticare che l’hotel è frutto del lavoro di suo padre e lui l’ha ricevuto senza esserselo meritato; per questo si convince che l’altro suo desiderio, quello non assecondato di diventare architetto, sia la sua vera, unica aspirazione. Il colpo di testa col quale decide di vendere è la consapevolezza di essere padrone della situazione e di potersi misurare con una scelta di cui è unico responsabile. Finalmente può infrangere gli antichi vincoli. Farà l’architetto e avrà un resort tutto suo. Ci vogliono i cinesi perché riesca a liberarsi dal buio emotivo nel quale è immerso. Per quanto riguarda l’uomo della sua vita, invece, Mara ha una precisa scala di priorità: al primo posto mette l’intelligenza, poi la sensibilità, la gentilezza e, in fondo, anche reddito e patrimonio. Certo, non potendo trovare in una sola persona tutte le doti sperate, sa di dover fare dei compromessi, che consistono nel rinunciare ad alcune cose e nel ridimensionarne altre. Il confronto tra il suo magro stipendio e la ricchezza del fidanzato condiziona sin dall’inizio le sue sensazioni; quando conosce Guido si rende conto di essere più affascinata del previsto dagli agi che lui le offre. Si illude che la scala delle proprie aspirazioni non sia immutabile e sposta il reddito dall’ultimo al primo posto: ma poco a poco si accorge che certe scelte possono risultare psicologicamente costose. Se una qualità, qualunque essa sia, è giudicata la più importante, è possibile che con il passare degli anni la mancanza di altre qualità sia meno avvertita; difficilmente accade il contrario. I difetti di lui si fanno, col passare del tempo, più sgradevoli, ma lei resta incerta sulla qualità dei sentimenti che le si agitano dentro. Lo ama o no? L’inconscio le dà una mano e le insuffla quel momento di distrazione che le permette di dimenticare l’anello. A quel punto i poli del conflitto si modificano: ora sa di non amare Guido; ma come lasciarlo se ha perduto l’anello?

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Rompere gli indugi

Chi può dire di non aver mai vissuto il disagio creato da una festa interminabile, da una riunione senza senso, dalla conferenza di un conoscente che ci ha riservato un posto in prima fila? Si resta per tempi incalcolabili prigionieri fra estranei, incapaci di assecondare l’intenso desiderio di andarsene. Sembra impossibile avere il coraggio di attraversare la sala piena di gente e trovare un pretesto appena credibile per guadagnare l’uscita. “Alzatevi per andarvene, non crederete alle vostre orecchie quando inizierete a snocciolare le scuse creative che vi sono venute in mente lì per lì”: è il metodo suggerito dallo psicologo premio Nobel Daniel Kahneman per trarsi d’impaccio. Ogni volta che riusciamo a svincolarci dalle nostre fermissime indecisioni, ci rendiamo conto di quanto quel gesto liberatorio sia ovvio e naturale; “tutto qui?” ci domandiamo stupiti; “come è stato possibile sprecare tanto tempo a tormentarsi tra il fare e il non fare?”. A quel punto, non solo ci si sente sollevati dal peso dell’incertezza, ma ci si convince anche di aver sconfitto per sempre la tendenza al tentennamento. Rompere gli indugi e scegliere quello che è meglio per noi non è un colpo di testa: quella decisione, presa apparentemente a cuor leggero, in realtà è il frutto di un lungo, sommesso lavorio interiore. “La via per uscire passa dalla porta” diceva Confucio; chissà perché nessuno la prende mai. Forse perché, per varcare quella soglia, è necessario superare il dubbio, che è la fonte di ogni paura e tiene spalancate le porte dell’ansia. La via verso la decisione può risultare ardua perché, mentre la si percorre, bisogna non aver paura della libertà, affrontare a cuor leggero il rischio dell’errore, saper sacrificare una cosa per ottenerne un’altra e infine fare i conti con i propri limiti, reali o presunti.

MOLESTATA E MOLESTATORE

Mimma nasce a sorpresa nel 1990, da coniugi avanti negli anni e ormai rassegnati all’idea di non aver figli. Il suo arrivo è vissuto come una specie di miracolo, e questo influenzerà la sua visione del mondo, anche se lei non ne sarà mai consapevole. Grazie ai racconti relativi alla sua nascita, per tutta l’infanzia Mimma penserà a se stessa come alla protagonista di una bella favola. I genitori si impongono di educarla in modo equilibrato, attenti a non cedere alla tentazione di viziarla o di proteggerla troppo; ma l’atmosfera della famiglia è ovattata e Mimma si sente comunque protetta. Cresce sana e serena, supera senza difficoltà il corso di studi, si laurea brillantemente e, a soli ventotto anni, vince un concorso in un ente pubblico. Questo significa che, se accetterà il lavoro, dovrà trasferirsi in un’altra città; ma l’inatteso cambiamento a tutta prima non la spaventa, al contrario, la nuova esperienza la entusiasma. A parte brevi periodi di vacanze con gli amici, non è mai stata lontana da casa e vive questa “prova” come una sorta di collaudo, un modo per affrontare il trasferimento è un modo per provare a se stessa e agli altri di essere cresciuta. Il suo ottimismo è confermato dai primi contatti con l’ufficio al quale è stata assegnata. I colleghi l’accolgono con curiosità e simpatia. Qualcuno si offre di aiutarla nella ricerca della casa, altri si prodigano in suggerimenti e consigli. Nelle telefonate serali con i genitori, Mimma li rassicura e si compiace con loro dell’accoglienza ricevuta. «Sono tutti così gentili» dice. «Sarà perché sono la più giovane, sembra facciano a gara per adottarmi.» Tra i colleghi anziani la più autorevole è la dottoressa B.; è una donna ancora bella, di età indefinibile, cinquant’anni… forse anche sessanta, ma ben portati. È molto ammirata e, soprattutto, temuta. La chiamano la Zarina, non solo per la sua vicinanza al Gran Capo ma anche per i tratti imperiosi del carattere. Si dice che, prima di vincere il concorso e diventare lei stessa dirigente, fosse un’agguerrita sindacalista, temutissima dalla dirigenza. B. dimostra quasi subito simpatia e comprensione nei confronti della nuova arrivata. Assegna a Mimma incarichi superiori a quelli previsti per una principiante e non perde mai l’occasione di

incoraggiarla e di lodarne le qualità e l’intelligenza. L’insolita predilezione suscita stupore tra gli impiegati; non era mai accaduto che la Zarina, di norma algida e riservata, mostrasse così apertamente le sue simpatie. “Non potendo pensare che sia lesbica, visti i trascorsi, si può solo immaginare che sia stata travolta da un tardivo istinto materno”: è l’opinione che finisce per prevalere. Al Gran Capo, fuori per una lunga trasferta, B. anticipa per telefono note entusiastiche sulla vincitrice del concorso: «La vedrai» gli dice. «Non è solo carina, ma, per educazione e comportamento sembra una ragazza d’altri tempi. Niente a che fare con la sciatteria fisica e mentale delle altre. Se sei d’accordo, la prenderei in ufficio con me e le affiderei i rapporti con il personale.» «Non è un po’ giovane per questo?» replica perplesso il Gran Capo. «E poi, è appena arrivata… rischi di crearle intorno gelosie e inimicizie; comunque, vedi tu, per me va bene.» Così, a poco più di un mese dall’assunzione, senza aver fatto nulla per ottenere quel privilegio, Mimma si trova catapultata, diciamo così, nella stanza dei bottoni; circostanza che rafforza in lei, senza che ne sia consapevole, la visione miracolistica che ha della vita. Un lunedì arriva in ufficio in tarda mattinata e trova un’atmosfera strana: nessuno dei colleghi è al suo posto, tutti sono in piedi, divisi in piccoli gruppi, e parlano fitto e sommesso. La dottoressa B. non è nella sua stanza: «È andata in ospedale» spiega la segretaria; «il Gran Capo ha avuto un infarto. Pare sia grave.» C’è gran turbamento, in ufficio. Il Gran Capo dovrà essere sostituito, e tutti danno per scontata la nomina della Zarina; ma, a sorpresa, le viene preferito un funzionario inviato dal ministero. Michele P., il nuovo Capo, è un uomo ancora relativamente giovane; ostenta affabilità e cortesia; è alto, bruno e, almeno all’apparenza, molto sicuro di sé. Nel discorso con cui si presenta usa un tono benevolo (“mellifluo”, dirà poi la dottoressa B.): «Sono un uomo del Sud, mi piace andare d’accordo con tutti, siamo colleghi, il buon funzionamento dell’ufficio è di comune interesse»; e fin dai primi giorni mostra simpatia e curiosità nei confronti degli impiegati; a ciascuno di loro chiede notizie personali:

«Sposato?… Figli?… Quanti anni hanno?». Queste manovre accattivanti lusingano alcuni e sconcertano altri. I più anziani hanno l’atteggiamento di chi la sa lunga e non si lascia incantare, i giovani invece si sentono gratificati dalla cerimoniosa affabilità del capo. B. apparentemente non prende partito. Non è difficile immaginare il suo stato d’animo, ma lo maschera bene. La stanza del direttore confina con la sua, ma la porta comunicante, che un tempo era sempre aperta, resta chiusa. Se e quando P. la dimentica aperta, lei si affretta a chiuderla, come se fosse necessario marcare una distanza. Se può affida a Mimma le pratiche che comportano un contatto diretto col Capo. La prima volta che gli porta dei documenti da firmare il Capo accoglie la giovane collega con estrema gentilezza: «Finalmente un po’ di 21 marzo in tanto 6 gennaio» dice a voce bassa. Mimma avvampa, sorride imbarazzata, ma non sa che cosa dire. Quando esce dalla stanza B. nota che è rossa in viso e visibilmente confusa. «Che ti succede?» «Niente, è stato molto gentile…» La volta successiva lui le racconta una barzelletta. «Ah, una barzelletta… sconcia?» domanda la Zarina. «Ma no, solo stupida!» e la racconta divertita. Via via che i rapporti con il capo si intensificano, Mimma si rinfranca e la Zarina si allarma; ora vuole che, quando la ragazza entra in direzione, la porta resti aperta; dalla sua postazione esterna può vedere e sentire tutto. Lo vede quando mette le mani sulle spalle della ragazza per sentire la morbidezza del golfino nuovo: «Vero cachemire. Vuol dire che ti paghiamo bene!». Lo sente che si lamenta dell’imperizia dell’addetta alle pulizie: «Qui ci vorrebbe una bella scopata…» e poi ridendo guarda Mimma. «Ah, no, non nel senso che hai pensato tu!» E ancora: «Mimma o minna? Al mio paese la minna è la tetta». Episodi del genere si ripetono quotidianamente. «Devi dirgli di smetterla» insiste B. Ma Mimma è atterrita al solo pensiero di affrontare con lui l’argomento; non troverebbe le parole

adatte, e forse non sarebbe neanche giusto. «È fastidioso» spiega «ma in fondo è gentile, i suoi sono solo complimenti.» «Non sono complimenti, sono molestie» si stizzisce B. «Sono molestie. Non possiamo permettergli di continuare con te o con altre.» Giorno dopo giorno la faccenda si ingrossa. Forse memore dei tempi in cui era sindacalista, B. ha rinunciato al suo proverbiale distacco: ne parla con tutti, coinvolge colleghi e dirigenti. Parte una specie di guerra santa, con schieramenti contrapposti. Stranamente sono i più anziani, quelli che non si erano fatti irretire dalle moine iniziali del Gran Capo, a mostrarsi increduli, mentre i più giovani non si lasciano nemmeno sfiorare dal dubbio che si sia trattato di vere molestie. Mimma si trova, suo malgrado, al centro di una solidarietà morbosa, invischiata come una mosca nella ragnatela. Dovrebbe spiegare con chiarezza che non si è sentita mai veramente offesa dalle attenzioni di P., ma non riesce a interpretare i propri reali sentimenti; vuole o non vuole metter fine alle invadenze del suo capo? “Forse” pensa “sono troppo stupida e non riesco a capire il male, neanche quando viene fatto a me.” L’ansia si dilata enormemente quando dal chiacchiericcio si passa ai fatti. A Mimma viene chiesto di sporgere regolare denuncia, e si decide di indire un’assemblea semiclandestina, convocata di sabato, quando gli uffici sono chiusi. Questa prospettiva la fa sprofondare in un abisso di angoscia. Nel turbinare dei pensieri si alternano le ipotesi più varie. Alcune, appena le si affacciano alla mente, le sembrano risolutive, ma subito dopo sono cancellate da nuove idee, che appaiono migliori delle precedenti. Sa di dover prendere una decisione, ma nell’ansia le sfuggono i termini della scelta. È giusto oppure no accusare una persona di qualcosa di cui non si è convinti? “Vado da P. e lo metto in guardia. Gli dico che i suoi comportamenti possono essere fraintesi e che rischia una denuncia per molestie”; ma l’idea si sfa come una bolla di sapone; sarebbe una delazione nei confronti dei colleghi. E se si sottraesse alla denuncia, semplicemente? Significherebbe rinunciare per sempre all’affetto di B.,

e trovarsela di fronte come nemica. Arriva persino a pensare di non presentarsi più in ufficio e di mandare una mail di dimissioni. Più che una soluzione sarebbe una disfatta. All’incontro del sabato mattina è sfinita dalla notte insonne. Si siede in mezzo agli altri, declinando l’invito a sedersi in prima fila. Il dibattito si fa subito animato; alcuni si schierano apertamente a favore della denuncia, altri esprimono dubbi, altri ancora si oppongono. Mimma ha la sgradevole sensazione di sentire i colleghi che parlano di lei come se non ci fosse. Forse è per questo che a un certo punto sente il suo braccio che si alza come un corpo estraneo a chiedere la parola. Nel breve percorso dal posto al microfono le sembra che a camminare non sia lei, ma il pavimento, che si è messo a correre sotto i suoi piedi, come un tapis roulant. Nella sala si fa silenzio; lei si rende conto che a parlare è la sua voce. «Vi ringrazio tutti, colleghi, per la solidarietà che mi dimostrate, ma non sono la persona giusta per risolvere la questione. Sono stata educata alla tolleranza e all’indulgenza verso i difetti altrui; forse per questo sin dal primo momento i comportamenti del direttore non mi sono sembrati gravi.» «Omnia munda mundi» grida dal fondo della sala un impiegato dell’Ufficio Ragioneria. «Sì, è possibile che sia così» replica Mimma. «Ma se io non vedo il problema, non è detto che il problema non ci sia e che non ci riguardi tutti.» La voce è ferma, le mani hanno smesso di tremare, il respiro è regolare; di colpo le sembra di vedere tutto con estrema chiarezza. Continua: «non siete qui per difendere una fanciulla fragile e immatura, come posso essermi dimostrata io, ma per capire se, e fino a che punto, P. e quelli come lui debbano essere considerati colpevoli e come tali combattuti. La mia denuncia non serve, perché non ha dentro la rabbia, la ferita, la ribellione, e forse non ha dentro nemmeno la verità.» Mimma tace incredula, dove avrà preso tutto quel coraggio? Dopo attimi di un silenzio che sembra eterno, dal fondo della sala qualcuno grida “Brava!”, e il gelo si scioglie; c’è persino chi accenna un applauso. I più accaniti fautori della denuncia sono visibilmente

delusi, ma rispondono ai sorrisi di Mimma senza mostrarsi contrariati. Il lunedì mattina, quando arriva in ufficio, la dottoressa B. è seduta alla sua scrivania e resta con lo sguardo fisso sullo schermo del computer fingendo di non averla vista entrare; al suo saluto non risponde. Poco dopo il Gran Capo entra rumorosamente nella stanza: «Buongiorno mie belle dame» dice ridendo. «Che cos’è quest’aria truce? Ah, capisco, avrete avuto notti tempestose…» «Lei invece dev’essere andato in bianco se questo è il suo primo pensiero del mattino!» Mimma trasecola: chi ha parlato? È stata lei a dire cose tanto audaci? P. avvampa, dalla scrivania di B. arriva il rumore di un oggetto sfuggito dalle mani, e lei, Mimma la timida, si sente invasa da una misteriosa allegria.

UNA DONNA TACITURNA Cosa dice una donna al suo compagno dopo l’amore? “È stato bello, ti amo, sei stato grande”? Giulia non dice niente del genere. Parla, certo: lei, schiva e riservata, racconta alla rinfusa mille cose di sé. Ha l’impressione di scegliere, fra tutte quelle che potrebbe dire, le più inutili, probabilmente le più sbagliate; eppure non riesce a tacere, nel silenzio si sentirebbe perduta. «Ho compiuto trent’anni il mese scorso… Sono nata a Venosa, la città della Lucania dov’è nato Orazio… Mio padre era capitano dei carabinieri e mia madre insegnava matematica nel liceo cittadino…» L’uomo ascolta attento e le accarezza lievemente il collo con il dorso della mano. Guardando la sua espressione Giulia si blocca: “Che bisogno ho di sciorinargli la mia anagrafe?”. «Scusa, forse ti annoio con le mie chiacchiere. È buffo, ma avevo voglia di consegnarmi…» «Si sente che sei figlia di un carabiniere!» ride lui. «La consegna non è una specie di punizione?» La ragazza avvampa. Da quale vocabolario ha pescato quella stupida parola? E pensare che voleva dimostrarsi sicura e disinibita… «Basta, non parlo più» si schermisce. «Rispondo solo alle tue

domande.» Ma continua a parlare… parlano entrambi, soprattutto di lavoro e delle rispettive aspirazioni. “Anche lui” pensa Giulia “ha bisogno di restare su un terreno che gli dia sicurezza: cerca di riempire il silenzio per non parlare di sentimenti.” Lui è Marco, l’uomo di cui pensa di essere innamorata da almeno due anni. Lo ha conosciuto durante un corso di aggiornamento; lavorano entrambi in agenzie di comunicazione e qualche volta si sono incontrati durante convegni o corsi di specializzazione. La società in cui lavora Giulia è grande e nota in Italia e all’estero, quella di Marco invece è piccola e svolge la sua attività in ambito regionale. Durante i primi incontri Marco scherzava su quella differenza: “Tu che sei una donna arrivata, mi dici che strade devo seguire per avere successo anch’io? Dove mandi a dormire i tuoi clienti vip? Quanti numeri segreti di giornalisti famosi hai nell’agenda?”. Da questi interrogatori Giulia era inizialmente infastidita: replicava con secchi monosillabi, ma ogni volta cercava di ammorbidire la risposta con sorrisi concilianti. In ufficio si era confidata con Marina, una collega che aveva vent’anni più di lei e, per carattere, riusciva a sdrammatizzare qualsiasi cosa: «Parla sempre di lavoro perché lo intimidisci. Si deve essere fatto l’idea che tu sia impermeabile ad approcci di altro tipo. Tocca a te mandargli qualche segnale». Forse aveva inconsciamente seguito il consiglio di Marina… fatto sta che una sera, a sorpresa, lui l’aveva invitata a cena. «A cena? Come mai?» aveva esclamato Giulia; ma aveva avvertito il ridicolo di quella domanda e del suo tono allarmato. Lui non si era scomposto: «Sai, nei ristoranti che frequento io non ci sono tavoli per single…». Avevano riso entrambi e la tensione di lei si era allentata. La serata era stata rilassata, gradevole. Quando lo aveva salutato sul portone di casa, Giulia aveva avuto la certezza che il loro rapporto non si sarebbe fermato lì, senza riuscire a capire se quella prospettiva la rendesse felice o sottilmente inquieta. Si erano rivisti nel weekend e, a quel punto, a Giulia era sembrato ovvio concludere la serata a casa sua.

«Benvenuta fra la gente normale!» ride Marina quando, arrossendo, Giulia le confida l’accaduto; «non capisco tante complicazioni; lui ti piaceva, tu gli piacevi, dov’era il problema?» «Sono fatta così, cioè male. Fin da bambina ero timida e scontrosa. Mia madre non si dava pace; mi ha persino portata da uno psicologo perché non le sembrava giusto avere una figlia pronta a nascondersi dietro le sue gonne in qualsiasi occasione.» «Eppure qui in agenzia non sembri timida: con i clienti sei diretta, determinata e ottieni sempre… quasi… quello che vuoi. Si direbbe che tu abbia scelto questo mestiere come un antidoto alla timidezza: però Marco non è un cliente, con lui occorre un approccio diverso.» Forse l’approccio diverso l’ha trovato; e infatti la storia con Marco, poco a poco, prende spazio nei suoi pensieri. Nel frattempo le è stato affidato il compito di preparare l’offerta per una gara che l’agenzia, così le dice il capo, non può permettersi di perdere. «La gara è stata tenuta in sordina per evitare perdite di tempo con le proposte di agenzie non all’altezza; l’unico competitor che abbiamo è la Conrad communication; sono agguerriti, ma noi siamo più bravi di loro. Possiamo e dobbiamo farcela.» A prima vista il progetto, benché impegnativo, non appare difficile. Il possibile cliente è una grande azienda vinicola, un marchio famoso sia in Italia sia all’estero. Giulia ha esperienze nel settore, avendo lavorato per prestigiose case vinicole francesi; ugualmente deve dedicare al nuovo compito tempo e pensieri. Le serve un’idea brillante e ha bisogno della massima concentrazione. Non va in agenzia se non per brevi puntate; lavora da casa, dove è sicura di non essere disturbata. Gli incontri con Marco subiscono continui rinvii. «Sei già stanca di me?» le chiede lui quando, per la seconda volta, gli dice di non essere disponibile per il weekend. «Ma no, lo sai che nel nostro lavoro ci sono periodi che ti assorbono in modo esclusivo: io adesso non mi posso permettere interferenze.» Come al solito, le parole corrono più veloci dei pensieri… Ma perché non riflette prima di parlare? «Ah, se sono un’interferenza posso anche togliere il disturbo.» La risposta di Marco è ineccepibile: lei gli ha passato un assist

formidabile per un perfetto autogol. Giulia si agita, sente l’ansia salirle alla gola e un bisogno imperioso di rimediare. Cerca gli argomenti più persuasivi per rassicurarlo, e non trova di meglio che aggrapparsi alle consuete certezze. Gli racconta della gara, lo blandisce, gli chiede pareri e finalmente la conversazione fra loro ritrova i toni giusti. Due giorni dopo, di prima mattina, riceve una telefonata dall’ufficio. È stata convocata una riunione imprevista che richiede la presenza di tutti, nessuno escluso. «Con quale ordine del giorno?» domanda Giulia, che preferirebbe non interrompere il lavoro. «Comunicazioni urgenti del presidente» è la risposta. Arrivata in agenzia si rasserena: sarà una delle ricorrenti impennate del presidente, che di tanto in tanto si infervora per qualche nuovo progetto e sente il bisogno di condividere i suoi entusiasmi. La riunione non è ancora iniziata quando il presidente le chiede di raggiungerlo nella sua stanza. «È successo qualcosa di grave» le dice. «Prima che scadessero i termini, due agenzie minori hanno presentato domanda per partecipare alla gara che doveva essere riservata solo a noi e alla Conrad. Mi ha chiamato la proprietà per avvertirmi e forse anche perché indaghi. Io naturalmente ho detto che siamo tranquilli e che vinceremo; non ho chiesto i nomi delle agenzie intruse per non dare l’impressione di essere impensierito, ma mi domando come l’abbiano saputo. Penso che ci sia stata una fuga di notizie da parte nostra.» «Perché da parte nostra e non da parte della Conrad?» domanda Giulia. «Perché da loro gli unici a sapere della gara erano i due titolari. Se ne occupavano in prima persona; per sicurezza non avevano coinvolto nessuno dei dipendenti. Ho convocato l’assemblea perché ho bisogno di fare una sfuriata collettiva, anche se sono quasi certo di sapere chi ha fatto filtrare la notizia.» «A chi stai pensando in particolare?» «Alle due segretarie che hanno trascritto il bando e redatto i documenti. Non può essere stata che una di loro.» Giulia è perplessa. Conosce le due ragazze da anni; sono entrambe

serie, scrupolose. Ci deve essere un’altra spiegazione, ma non la trova. Durante la riunione il presidente usa toni accusatori: «Una fuga di notizie come questa rischia di farci perdere un cliente importantissimo. Io devo sapere di chi posso fidarmi. Non voglio una confessione pubblica, ma mi aspetto che qualcuno spieghi a me o a Giulia come è potuto accadere.» Nella sala c’è un brusio confuso. La maggior parte dei presenti è ignara di tutto. Claudia, una delle due segretarie, scoppia in lacrime. «Ho scritto lettere, ho mandato mail, sono l’unica che si è occupata di questa gara. Lo so che tutti pensate che sia stata io.» I colleghi negano, cercano di rincuorarla, ma sono a disagio; quelle lacrime sembrano un’indiretta ammissione di colpa. La riunione si scioglie nel sollievo generale con un nulla di fatto. Com’è sua abitudine, Giulia è rimasta silenziosa per tutta la durata dell’assemblea; al termine il presidente le chiede di seguirlo nel suo ufficio. «La mia tattica ha funzionato» dice. «Ora so con esattezza chi è la colpevole.» «Lo dici perché ha pianto?» replica Giulia. «Non credo sia una prova. Claudia è emotiva, scrupolosa; si è sentita responsabile, non colpevole.» «Sarà, ma, a parte noi, gli altri, o non erano al corrente della gara, o ne avevano una notizia vaga; lei era la sola a disporre di tutti i dati… forse si è lasciata sfuggire qualcosa fra una chiacchiera e l’altra e se n’è resa conto solo quando ne abbiamo parlato.» È in quel preciso momento che Giulia avverte un violentissimo dolore allo stomaco, come se qualcuno le avesse appena sferrato un pugno a tradimento; rapide come saette, le passano nella mente le conversazioni con Marco e le incalzanti domande di lui. Come ha fatto a non pensarci? Mentre gli parlava era solo preoccupata di rassicurarlo, di piacergli; ma nemmeno per un attimo si è resa conto che stava divulgando segreti d’ufficio. “Devo dirlo subito al capo,” pensa “per dovere di lealtà, ma anche per liberare Claudia dagli odiosi sospetti che le sono piovuti addosso.” “Sono stata io, ne ho parlato sventatamente a un amico…”

vorrebbe dire, ma non lo dice. Esce dalla presidenza piegata da un malessere profondo e indecifrabile. «Hai litigato con lui?» le domanda Marina. «Sei paonazza, sembri furibonda… Che è successo?» Ecco, a Marina può dirlo, almeno a lei: “Marco mi corteggiava solo per carpire i segreti dell’agenzia…”. Ma nemmeno a Marina lo dice. Non può. Nel pomeriggio, mentre cerca inutilmente di concentrarsi sul lavoro, è assediata da un unico pensiero: basta reticenze, deve dire tutto e deve farlo apertamente, per dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stessa, che ha il coraggio di ammettere i propri errori. Sa bene che quella confessione pubblica le costerà la stima del capo e il rispetto dei colleghi; ma la sua sventatezza merita un “castigo”. Non deve nemmeno aspettare troppo: il lunedì successivo ci sarà in ufficio una piccola festa di addio per un collega che va in pensione: sarà il momento giusto. L’idea di infliggersi un autodafé la fa sentire meglio e le permette di riprendere il lavoro più serenamente. Alle telefonate di Marco, che si ripetono a poca distanza l’una dall’altra, decide di non rispondere. Solo dopo aver vinto la gara si prenderà il tempo per indagare sulle ferite che lui le ha inflitto. Per tutto il weekend si impegna in un lavoro febbrile, senza pause: consulta volumi, visita siti Internet, rivede vecchi piani. Alla fine, esausta, rilegge i suoi appunti e si rende conto di aver messo insieme un ottimo progetto: sarà stato il rimescolamento confuso delle emozioni a farle produrre tante buone idee: non le è mai capitato di sentirsi così sicura di un lavoro appena concluso. Sono quasi le dieci di sabato sera, un’ora sconveniente per telefonare al capo. Lo fa lo stesso, tanto grande è il bisogno di condividere la soddisfazione. «Brava» le dice lui. «Questa volta li sbaragliamo tutti, i Conrad in primo luogo e qualsiasi altro scalzacane che volesse misurarsi con noi.» Dopo aver incassato i complimenti del presidente, Giulia dà un’occhiata alle telefonate e ai messaggi persi. Marco ha chiamato

ininterrottamente fino al primo pomeriggio; poi ha smesso. Deve aver capito di essere stato scoperto e non ha più il coraggio di proporsi. Lunedì mattina: nella sala riunioni cominciano ad affluire gli impiegati. Sul grande tavolo centrale sono posati vassoi colmi di pasticcini e bicchieri di plastica. C’è un clima cordiale, un parlottio rilassato in attesa dell’arrivo del festeggiato e del presidente. Giulia è stata fra i primi ad arrivare. Nessuno può immaginare la tempesta che le si agita dentro e i dubbi che la tormentano: quando deve chiedere la parola? Prima o dopo il discorso del capo? Forse dopo; il disagio provocato dalla sua confessione potrebbe rovinare la festa; è giusto creare un clima di imbarazzo in un giorno destinato al commiato da un collega? C’è un altro aspetto da tener presente: di quella fuga di notizie nessuno ha più parlato; il presidente, come gli accade spesso, ha già archiviato lo sdegno; perché infliggersi un inutile supplizio? A chi gioverebbe? Intanto, nel silenzio generale, il discorso del presidente si è quasi concluso: “Se devi farlo” dice Claudia a se stessa “questo è il momento”; ma sa che non lo farà. «Prima di sciogliere questa bella riunione c’è qualcosa che dobbiamo dirvi, anzi, che Giulia vi deve dire.» Il presidente sorride complice mentre, con la mano, le fa segno di avvicinarsi; lei è pietrificata: “Come fa a sapere?… Com’è riuscito a penetrare nei miei pensieri?”. Giulia va verso il presidente e sente le proprie parole scorrere fluide e leggere. «Volevo dirvi che ho risolto l’enigma della fuga di notizie. Mi sono ricordata di averne parlato una sera a cena con un amico. A proposito di vino, so bene che non lo reggo, ma ogni tanto ci casco…» Era così facile! Dai presenti parte una risata, Claudia corre ad abbracciarla: «Mi hai tolto un peso»; ma il presidente riprende la parola: «Giulia è molto modesta, preferisce spostare l’attenzione su questioni superate per non raccontarvi che in pochissimi giorni ha preparato un progetto di comunicazione superbo, che ci farà vincere la gara. Era questo che doveva dirvi…». La festa si chiude in allegria, ma le sorprese per Giulia non sono finite. Marina le porta documenti da firmare: «Devi procurarmi tutte le informazioni e i pettegolezzi possibili sulle due agenzie che hanno presentato domanda».

«Ma veramente ti preoccupi di loro?» «No, figurati, voglio solo scoprire che progetti hanno: Marco è uno sveglio, meglio non sottovalutarlo.» «Marco? Ah, è lui l’amico col quale hai parlato della gara?» Giulia sospira ma non risponde. L’altra insiste: «Ma che c’entra Marco? Guarda che le agenzie concorrenti sono la Saviotti e la Martinelli; quella di Marco non risulta». Sul viso e sul collo della ragazza appaiono chiazze rosse che contrastano col gelo che si sente calare sulle spalle; ripensa al momento preciso in cui ha avuto la certezza che a tradire fosse stato Marco. Quando il presidente le ha evocato la scena di Claudia che parla in libertà e si lascia sfuggire il segreto, lei ha bloccato ogni pensiero. Ha solo visto se stessa e il malcapitato che le stava accanto. Sa Dio da chi è partita la fuga di notizie. Magari dai committenti. Il giudizio degli altri diventa insostenibile quando lo si confonde con l’idea che si ha di se stessi. Mimma e Giulia, pur avendo caratteri e storie diverse, sono entrambe prigioniere della timidezza e dell’ansia nell’affrontare situazioni di confronto aperto. La prima, abituata ad avere intorno un mondo protettivo e felpato, non arriva a far proprie le interpretazioni maliziose che gli altri danno del capo e, superando spinose incertezze, riesce a rifiutare di sporgere denuncia su fatti che non ha percepito come oltraggiosi. Al tempo stesso, per rendere chiaro a tutti che la sua decisione non nasce da sudditanze o paura, adotta a sorpresa i comportamenti disinvolti del capo in modo da dimostrare a se stessa e agli altri che è in grado di difendersi da sola: si spinge fino a tradire le proprie maniere di ragazza “acqua e sapone”. Accade spesso agli indecisi di forzare a tal punto le loro incertezze da spingersi un po’ più in là del dovuto. Una volta superata la barriera del dubbio, si aggrappano con tutte le forze alla sicurezza finalmente conquistata e, in certi casi, la trasformano in aggressività o provocazione. Non si tratta però di una conquista matura, definitiva, ma di un modo audace di sfidare l’incertezza e di esorcizzarla. È ciò che accade, sia pure in modo diverso, anche a Giulia. In lei gioca un ruolo importante la malferma autostima che la spinge a pensare di essere

stata raggirata dal suo compagno, e di aver rappresentato per lui solo una fonte di informazioni professionali. Potrebbe limitarsi a spiegare al diretto superiore l’errore in cui crede di essere incorsa, ma progetta una confessione pubblica, per mettersi alla prova e per punirsi della propria leggerezza. In entrambi i casi ha funzionato alla perfezione il consiglio del professor Kahneman: una volta superata l’indecisione, le idee, le parole, il coraggio di guardarsi dentro si sono riversati all’esterno come un fiume che rompe gli argini.

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Procrastinare

Condannato a morte per impiccagione, Bertoldo, l’eroe della favola popolare, chiede e ottiene dal re la grazia di poter scegliere l’albero da cui pendere. Si tratta di un abilissimo trucco: nessun albero sarà quello giusto, e dunque, grazie a una finta ma tenace indecisione, l’astuto contadino avrà salva la vita. Usare l’incertezza per guadagnare tempo è uno dei tanti stratagemmi che adottano gli indecisi per sottrarsi all’irruenza degli eventi. In genere si tratta di un particolare tipo di esitazione, perché chi continua a rimandare non si sta chiedendo se scegliere una cosa o un’altra, al contrario sa perfettamente ciò che sarebbe giusto fare, solo che non lo fa, e continua a spostare avanti nel tempo il passaggio dal pensiero all’azione. Esiste ovviamente una cautela fisiologica, il legittimo scrupolo di agire senza farsi incalzare dalla fretta. Attendere le occasioni propizie, cercare le parole adatte, scegliere i momenti più opportuni non hanno a che fare con l’indecisione, ma piuttosto con le circostanze e la sensibilità individuale. Se poi la scelta sospesa coinvolge terze persone, è giusto valutare il possibile impatto sugli altri. Ci sono i rimandi veniali dovuti alla pigrizia o al desiderio di leggerezza; usare indulgenza verso se stessi e sottrarsi, almeno per un po’, a compiti noiosi o a vario titolo impegnativi, sembra a volte la via più facile e procura un breve quanto fittizio sollievo. “Lo farò domani” è formula comoda e comune. Studiare, riordinare le carte ammucchiate sulla scrivania, risparmiarsi telefonate doverose, saltare riunioni prevedibilmente inconcludenti, fissare un appuntamento con il medico sono solo alcune fra le tante incombenze che, con motivazioni diverse, si rimandano a tempi migliori. Ma persino in questi casi scatta a volte un fastidioso senso di colpa, forse perché, fin da bambini, si è sentito aleggiare il sentenzioso precetto degli adulti: “Chi ha tempo non aspetti tempo!”. Infine, c’è chi rimanda fino all’ultimo istante perché, più o meno

inconsapevolmente, ha bisogno di un carico smisurato di ansia per riuscire a portare a termine un compito a lungo differito. L’urgenza diventa allora una fonte di eccitazione e permette, questo almeno spera il ritardatario, di tirare fuori, sia pure in extremis, il meglio di sé. Si può procrastinare in mille modi e per tanti motivi. La paura di sbagliare, il desiderio di sfuggire ai giudizi altrui, un’autostima che vacilla, l’incapacità di affrontare le prove, il timore del confronto con compiti complessi sono solo alcune delle innumerevoli cause che bloccano l’azione. Ci sono casi nei quali l’indugio diventa un’abitudine permanente e crea un penoso diaframma tra se stessi e la realtà. Una tela di ragno esile all’apparenza, ma vischiosa e insormontabile, imprigiona le persone che vedono ogni giorno la fermezza dei loro propositi infrangersi contro il muro dell’inerzia e della rinuncia. I continui rinvii di Bertoldo erano raggiri e riempivano di soddisfazione il condannato, che riusciva ogni volta a gabbare i suoi carnefici, ma chi si sente costretto dall’ansia a differire costantemente le proprie decisioni in realtà gabba solo se stesso e non prova alcun sollievo; al contrario, si consegna quotidianamente a un amaro, frustrante senso di sconfitta. Col passare del tempo all’inquietudine che rende impossibile individuare le priorità si aggiungono sensi di colpa e di inadeguatezza. Dal sommarsi di tante emozioni nasce un inganno della mente, che ingigantisce il problema e lo fa apparire insuperabile, giustificando così la persistenza di penosi tentennamenti. Nei casi più gravi, quando la decisione sospesa è troppo drammatica per essere superata, l’indeciso vede scendere paurosamente la stima di sé. La scelta continuamente rimandata assume dimensioni emotive del tutto sproporzionate e finisce con l’impedire ogni azione, ogni pensiero. In questo modo ci si condanna all’isolamento, perché l’idea delle cose non dette o non fatte diventa dominante e rende difficile e opaca qualsiasi altra relazione. Diverso è l’atteggiamento del precrastinare. Non è, come può sembrare, un refuso; c’è proprio una “e” al posto della “o”, e questo cambio di vocale assegna alla parola un senso del tutto opposto a quello dell’indugio e del rimando. Questa sindrome, definita di recente, sembra corrispondere, almeno in parte, a quello che gli psicoanalisti definiscono acting out. Chi precrastina risponde all’impulso di anticipare una decisione, anziché rimandarla a tempi

migliori. A prima vista, l’attitudine a togliersi velocemente d’impaccio si direbbe utile e vantaggiosa: perché lasciar passare il tempo, quando è possibile concludere in breve? Ma se un atteggiamento è sbagliato, non è detto che quello opposto sia per forza giusto. Se la tendenza a far slittare in avanti le decisioni comporta disagio e sofferenza, agire in modo precipitoso, senza fermarsi a considerare i vantaggi o gli svantaggi che ogni scelta comporta, potrebbe creare problemi non meno gravi. Certe decisioni-lampo possono essere risolutive, ma potrebbero anche nascondere il bisogno sotterraneo di non pensare troppo, di liberarsi del disagio che una decisione implica. Agire invece di pensare è un modo per ridurre al minimo la tensione del conflitto ed è l’altra faccia dell’indugio, perché muove in fondo dalle stesse premesse. Si può provare a liberarsi dall’ansia usando il tempo come mediatore: lo si dilata a dismisura e si procrastina; lo si contrae al massimo e si precrastina. Questi due comportamenti, che sembrano antitetici, sono in realtà le due facce della medesima medaglia.

LICENZIATO! A quarantatré anni, senza un solo segno premonitore, in un giorno apparentemente uguale a tutti gli altri, Sergio viene convocato dall’Ufficio Personale della società dove lavora da quando di anni ne aveva ventiquattro. Lo riceve una tizia che non ha mai visto (“Viene dalla sede centrale” gli diranno poi); è cordiale, sorridente, affabile; lui non riesce a far collimare ciò che la signora sta dicendo con la gentilezza dei modi e la luminosità dei sorrisi. Parole come crisi, mercato, ridimensionamento, anzianità, buonuscita gli arrivano come voci estranee di cui gli sfugge il senso. Ma un senso ce l’hanno: servono per dirgli che è stato licenziato. Sergio è un tecnico informatico, stimatissimo in azienda per competenza e disponibilità; ha sempre pensato di essere insostituibile, non per presunzione, ma per le quotidiane conferme da parte di capi e colleghi; sembrava che nessuno potesse fare a meno dei suoi interventi… Possibile che adesso, di colpo, tutti abbiano sviluppato

perizia e autonomia, al punto di non aver più bisogno di lui? Il resto della giornata è un frenetico passare da un ufficio all’altro, un continuo squillare di telefoni, un susseguirsi di incredule reazioni. Infine, la dolente conta dei licenziati, nove, si conclude con un’assemblea improvvisata e combattiva. Ma Sergio non s’illude; ricorda che da quasi un anno circolavano voci allarmanti e che i colleghi, lui per primo, le hanno ostinatamente ignorate. Si parlava di rami secchi, di consulenze esterne… i segni erano chiari, ma nessuno li aveva presi sul serio. Quando esce dall’ufficio è più tardi del solito, Fausta ha già chiamato un paio di volte e lui l’ha rassicurata, dicendole che c’è stato un imprevisto. Ora però è troppo esausto per sostenere un confronto anche a casa. Alla moglie parlerà in seguito; inutile caricarla di ansie premature. Nelle settimane successive i giornali non parlano dei licenziamenti, e questo sembra un buon segno. Forse, con discrezione, sindacati e azienda stanno trattando; comunque, fino a quando la crisi della società non diventerà pubblica, Sergio può concedersi ancora una tregua prima di parlarne con la moglie. La sera, quando lei si informa sulla sua giornata di lavoro, non si limita a ripetere qualche frase generica come faceva di solito, ma arricchisce la risposta di particolari e aneddoti. Fare le cose all’ultimo minuto è sempre stata una sua specialità; gli passano per la mente certe scenate dell’infanzia, quando solo in extremis presentava al padre qualche nota dei professori o qualche disastrosa pagella da firmare. Quel ricordo quasi lo intenerisce. Suo padre era un uomo mite e buono, ma abitudinario; i suoi preparativi, la mattina prima di uscire di casa per andare in ufficio, avevano l’andamento di una solenne liturgia. Davanti allo specchio si faceva la barba, nelle giornate buone lo si udiva addirittura fischiettare, e nel breve intervallo fra la prima e la seconda insaponata del viso la mamma doveva trovarsi pronta a porgergli il caffè bollente. Lei era diventata bravissima, sincronizzata alla perfezione con i gesti di lui, al punto da presentarsi con la tazzina fumante nel preciso istante in cui spariva la schiuma della prima passata.

Ma ancor più bravo era lui, Sergio, che riusciva a insinuarsi proprio in quella ridottissima pausa – tre, quattro minuti al massimo – per presentare le pagelle. A quel punto, il padre interrompeva per un attimo il rapido, pensoso sorseggiare, e dava in escandescenze; ma erano solo parole: il resto, mancando il tempo, veniva rimandato a fine giornata. La sera, però, le punizioni o non arrivavano, o si riducevano a una paternale. Forse è il ricordo di quelle ripetute impunità ad alimentare l’inveterata tendenza di Sergio all’omissione; tanto poi, alla fine, non succede granché; quello che sembrava un dramma si sgonfia; tutto si risolve. Questa tendenza a sdrammatizzare dovrebbe rendere le cose più semplici e aiutarlo a svelare qualcosa che comunque finirà con l’emergere; ma no, non lo aiuta. Quando era ragazzo, Sergio non aveva paura: raramente il padre aveva alzato le mani su di lui; se lo faceva, si trattava al massimo di uno scappellotto dato a malincuore, più per restare fedele al ruolo di genitore che per altro. Non per risparmiarsi le botte ritardava nel mostrare al padre brutti voti o provvedimenti disciplinari; piuttosto per quel velo di delusa apprensione che leggeva ogni volta nei suoi occhi. Cosa leggerà negli occhi di Fausta quando si deciderà a dirle che non ha più un lavoro? Di notte dorme poco; nel buio gli passano davanti immagini cupe del futuro che lo attende; trovare un’altra occupazione non sarà facile, alla sua età. Aprire una partita IVA e aspettare con ansia le chiamate di anziani inesperti, da guidare nella terra incognita delle nuove tecnologie, non gli sembra una bella prospettiva; i guadagni non sarebbero comunque sufficienti per pagare il mutuo della casa; il tenore di vita dovrebbe necessariamente abbassarsi. Si tratta di problemi gravi… ma il più grave, il più gigantesco, gli sembra quello di rivelare il licenziamento alla moglie. Ci pensa a lungo, si prepara mentalmente un bel discorso, ma quando se la trova di fronte, la voce gli manca. Si blocca nel momento stesso in cui gli si forma nella mente la frase da dire; le parole si fanno mozze, disarticolate; con enorme fatica

riesce a mettere insieme discorsi sostitutivi più o meno sconclusionati. Fausta lo incalza: «Che ti succede? Si può sapere perché da qualche giorno sei così teso?». “No, non si può sapere” pensa Sergio, e misteriosamente sente dentro di sé una specie di incongruo piacere… come se fosse il comandante di una fortezza che resiste all’assedio. Il nervosismo del marito rende Fausta inquieta: ogni sera lo assilla con interrogatori che oscillano fra il tono accorato e quello rabbioso; ma Sergio, imperterrito, continua a giurare che va tutto bene. Fausta lo studia; si accorge del suo atteggiamento tra imbarazzato e furtivo a ogni squillo del cellulare e finalmente capisce: c’è un’altra donna! Ecco l’inconfessabile motivo di tensioni e trasalimenti… E quella donna non può essere che Stefania, la sindacalista che negli ultimi giorni ha chiamato più e più volte, fingendo di avere urgenti comunicazioni di lavoro. Certo che ha urgenza: vuole costringerlo a prendere decisioni mentre lui – com’è sua abitudine – esita e tergiversa. Di colpo tutto le diventa evidente, come quando si dispongono le ultime tessere di un puzzle. Per Sergio quella donna non è solo una collega esuberante e battagliera: le rare volte che ha partecipato a gite o cene sociali, Fausta è stata la muta testimone della familiarità che correva tra i due, eppure non ha mai avuto sospetti. Pensava di conoscere il suo uomo: si cullava nell’illusione che, se non per fedeltà, Sergio le sarebbe stato fedele per pigrizia; l’idea di un tradimento non l’ha mai sfiorata. Ma un conto è la fiducia, un conto la cecità. «Guarda che ho capito tutto» azzarda una sera nel bel mezzo di una discussione. Sergio sobbalza: insieme all’ansia si fa strada in lui una sorta di ambiguo sollievo. Forse lei lo ha saputo da altri, l’inevitabile è avvenuto, lui non dovrà decidere più niente. «Tutto che?» «Di te e Stefania! Non sono scema.» «Ma come ti vengono in mente certe idee?» Sergio reagisce debolmente, senza l’enfasi che di solito si usa per scagionarsi da un’accusa ingiusta. Si è insinuata in lui l’idea che,

lasciandole credere, solo per poco, di avere scoperto una verità, può guadagnare tempo per proteggerne un’altra. Certo gli pesano i furiosi interrogatori diurni e notturni: “Quando è cominciata? Dove vi vedete? Che cos’ha più di me?”. A tratti si augura che prima o poi le reiterate aggressioni verbali della moglie gli facciano perdere la pazienza; a quel punto, travolto dall’impeto, forse riuscirebbe a rivelare finalmente il suo segreto. La telefonata di Stefania arriva un sabato mattina mentre Sergio è sotto la doccia. Fausta afferra il cellulare e, dopo una rapida occhiata al display, la sua furia esplode: «Lascia in pace mio marito» scandisce, e ogni sua parola è come l’aculeo di un istrice. «Fausta? Sono Stefania…» ribatte l’altra dopo un silenzio. «Lo so chi sei, e te lo ripeto: lascia in pace mio marito!» Poco meno di un’ora dopo, l’attonita Stefania suona alla porta; Sergio le apre, anche lui stupito per quella visita inattesa. «Ma tua moglie è impazzita?» È arrivata l’ora della verità. Il confronto tra le due donne, partito con toni aspri, si fa drammatico, poi dolente, infine benevolo e solidale. Sergio se ne sta in disparte, come colto di sorpresa; non riesce a decidere se e come intervenire. Il futuro, che è incerto, per il momento non lo preoccupa: su tutto prevale un senso di straordinaria leggerezza. Il sogno di ogni specialista del procrastinare sarebbe quello di poter trattare le decisioni come prodotti alimentari provvisti di regolare data di scadenza fissata “d’ufficio” da terzi. Gli irriducibili forse riuscirebbero ad arenarsi persino sull’avverbio “preferibilmente”, che di solito accompagna la scritta stampigliata sul prodotto, ma sarebbero comunque confortati dal fatto che qualcuno, dall’esterno, ha stabilito un limite oltre il quale non ci si può avventurare. Il bisogno di affidarsi a un esterno che impartisca ordini e stabilisca i tempi nasce dalla paralizzante rinuncia al governo di sé. Sembra impossibile che persone adulte, dotate di una normale intelligenza, riescano a imprigionarsi in tortuose elucubrazioni e, pur di differire un compito o una scelta, permettano alle emozioni di prendere il controllo dei comportamenti; ma, a ben guardare, certe penose indecisioni possono presentare anche molti

vantaggi secondari. Concentrare tutte le risorse emotive sulle manovre necessarie a mantenere il segreto con la moglie permette a Sergio di dimenticare la ferita narcisistica che gli è stata inflitta e di attenuare il malessere del licenziamento. Dal punto di vista psicologico lo scopo inconscio del procrastinare può essere proprio quello di diluire nel tempo l’ansia prodotta da un evento ritenuto spiacevole. Visti a distanza, impegni e doveri appaiono più governabili e li si può procrastinare fino a illudersi che possano svanire o perdere gran parte della loro carica inquietante. I procrastinanti sono ignari della loro incredibile abilità nel manipolare la situazione: pur di liberarsi dal bisogno di prendere decisioni, inventano astuti espedienti per indurre altri a decidere al posto loro. Per stornare i sospetti, per salvaguardare i segreti, riescono a mentire senza imbarazzo, anche se non ammetterebbero mai di essere bugiardi; eppure mentono, mentono persino a se stessi. Lo fanno quando si aggrappano a mille pretesti per differire l’azione liberatoria, o quando formulano il proposito interiore di porre fine alla penosa situazione in cui si trovano. Non sono gli altri con i loro giudizi o le loro durezze ad alimentare l’ansia; è la paura di confrontarsi con la libertà, di smarrirsi di fronte ai compiti complessi della vita. Nella storia di Sergio, la moglie, che pure è vittima innocente delle reticenze e delle bugie del marito, diventa poco a poco una inconsapevole carnefice. Lui trasferisce sulla compagna i fantasmi del passato e la trasforma inconsciamente in una sorta di improbabile giustiziere, pronto a punirlo per antiche inadempienze delle quali non è mai riuscito a farsi carico. Per difendersi da immaginari castighi si condanna a un esilio volontario e anaffettivo.

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Amori

Nel lungo, ricchissimo elenco di indecisioni che si incontrano nel corso della vita, quelle che riguardano i sentimenti amorosi sembrano, più di tutte le altre, insormontabili e dolorose. Ciò deriva probabilmente dalle difficoltà di coabitazione che da sempre affliggono il rapporto fra Amore e Desiderio. Se è vero che il desiderio nasce dalla mancanza, l’amore non dovrebbe desiderare altro che se stesso. Per definizione, infatti, si desidera ciò che non si ha; ma amore non è forse quella forma di totale, assoluto, reciproco appagamento che riempie le nostre esistenze? Non dovrebbe, quando è grande, quando è vero, colmare ogni aspettativa, ogni vuoto? Le promesse degli innamorati corteggiano l’eternità: affermano un bisogno di sicurezza e durata, e al tempo stesso negano la disponibilità a nuovi amori. Ma il desiderio è una forza troppo libera per arrestarsi di fronte all’ostacolo rappresentato dai giuramenti degli amanti. Senza l’insidioso soffio delle voglie segrete, l’amore rischierebbe di essere vissuto come una sorta di prigione dorata e finirebbe per dare conferma al cinismo di chi afferma che il matrimonio, dell’amore, può diventare la tomba. Di queste contraddizioni si nutrono i messaggi che molti lettori inviano alle poste del cuore: “Ci si può innamorare di due persone contemporaneamente?”. Accade, e con grande frequenza, che proprio mentre ci si sente protetti dalla stabilità di un amore, il desiderio metta in crisi certezze che si ritenevano salde e invincibili. A quel punto, pur di non affrontare i dilemmi che la nuova situazione presenta, si preferisce bloccare qualsiasi tipo di evoluzione: ci si sente incapaci di scegliere, ogni decisione sembra impossibile, ogni cambiamento carico di minacce. L’errore consiste nel pensare all’amore (e alla vita) come a un percorso tracciato una volta per tutte che non possa subire aggiustamenti o variazioni. I filosofi invocano la saggezza del timoniere che asseconda con il timone i movimenti delle onde e del vento; ma gli indecisi preferiscono affidarsi all’incertezza degli eventi e, fino a quando ci riescono, navigano a vista.

LA PACE DEI GIUSTI “Pupa.” Di quel nomignolo, che le è stato appioppato fin dalla nascita, si è sempre un po’ vergognata; eppure, quando qualcuno la chiama Michela, le sembra di toccare con mano l’indifferenza dell’interlocutore nei suoi confronti e prova un senso di estraneità, come se Michela fosse un’altra. Con gli amici, con i colleghi dello studio legale, con le persone che frequenta da anni e, naturalmente, con Marcello, l’uomo che ama dai tempi del liceo e che prima o poi sposerà, nessun problema. A Savona è Pupa per tutti; anzi Pupa la Rossa, non per ragioni politiche, ma per il colore dei capelli. Nessuno trova imbarazzante quel rimasuglio di vezzeggiamenti infantili; ma quando il suo capo, l’avvocato M., le affida un complicato caso di conflitto familiare da seguire fuori sede, si rende subito conto che, a trentasei anni, deve presentarsi come Michela, sebbene dentro di sé continui a sentirsi la Pupa. A Genova, lo studio legale che la ospita è diverso da quello da cui proviene: è più grande e più prestigioso, e i rapporti fra gli associati sono formali e competitivi. L’unico a dedicarle qualche attenzione quando, un po’ smarrita, si presenta nel nuovo studio, è proprio il titolare, l’avvocato P., fra i più noti esperti di diritto familiare. Fin dal primo giorno la convoca nel suo ufficio e non si limita a parlare di lavoro, si informa su di lei, le chiede notizie dei colleghi savonesi, fa persino qualche battuta sui suoi capelli rossi: «Lei forse non lo sa, ma le rosse hanno grande successo in tribunale; sono considerate più combattive e agguerrite delle bionde e più affidabili e capaci delle brune.» Divertito dal leggero disagio che ha provocato, passa a discutere il caso di cui Michela si sta occupando: due coniugi divorziati si contendono la bambina che hanno adottato in Brasile, quando erano ancora sposati. Il marito brasiliano si aggrappa a una sorta di jus soli e rivendica il diritto di portare la figlia con sé, a Rio de Janeiro. A chiedere aiuto sono i nonni materni della bimba contesa: due anziani e ricchi clienti dello studio M. atterriti dall’idea di perdere la nipotina. Il tribunale competente è quello di Genova e questo ha reso necessario

chiedere l’appoggio dello studio P. Michela è eccitata per il delicato incarico e decide di restare a Genova tutta la settimana e di rientrare a casa nei weekend; tornerà a vivere a Savona solo quando il caso sarà risolto. Giustifica la scelta con le difficoltà del traffico, dopo il crollo del ponte Morandi. Della sua decisione sono tutti scontenti: ai genitori sembra assurdo che lei stia in albergo quando è a meno di un’ora di treno da casa; i colleghi dello studio, forse un po’ invidiosi, protestano perché sono costretti a sbrigare i lavori piccoli e noiosi che sarebbero toccati a lei; il fidanzato è inquieto e la accusa di trascurarlo. Della generale disapprovazione Michela non si dà pensiero: non è più una “pupa” ma una donna adulta che vive fuori casa; la sua autostima cresce di giorno in giorno. Il problema è il fidanzato, che non riesce ad accettare quella che gli sembra una fuga. Qualche volta Marcello la raggiunge nel tardo pomeriggio, cenano insieme e, quando può, si ferma a dormire con lei. Ma ogni visita finisce in un litigio: gli argomenti che Michela usa per giustificare quel provvisorio trasferimento gli sembrano contraddittori e pretestuosi. «Ma cosa fai a Genova da sola? Come occupi tutto il tempo che non passi in studio a lavorare?» Lei gli ricorda che il suo lavoro non si svolge solo in studio: «Accompagno la bambina dallo psicologo, dalla pedagogista, dal consulente di parte. Mi fa pena, povera piccola!». Le discussioni si concludono sempre allo stesso modo: «Mica sei Mary Poppins, sei il suo avvocato!», e Marcello riparte deluso: i tentativi di convincerla a vivere un po’ da pendolare, come tutti i savonesi che lavorano a Genova, sono sdegnosamente respinti. Lei non è per nulla preoccupata dalla litigiosità che si è impadronita di entrambi. Si rende conto che il rapporto con Marcello correva il rischio di diventare una stanca abitudine e dice: «Questa prova ci sta facendo bene, a me pare di amarti di più. Quando non ci vediamo mi manchi da morire e a Savona non mi mancavi mai!». Insomma, lo rassicura e, senza rendersene conto, rinfranca se stessa; ma a tratti si chiede se la distanza possa diventare un tonico e rianimare quell’amore esangue.

Una sera, dopo l’ennesimo litigio, Marcello se ne va infuriato: «Chiamami solo se decidi di tornare a casa» le dice e, prima di sbattere la porta, come se l’idea gli fosse balenata in quell’istante, aggiunge: «A casa per sposarmi!». Quella del matrimonio era un’idea che avevano accantonato da anni; dopo i primi progetti e i primi entusiasmi erano scivolati in una sorta di invincibile pigrizia emotiva. Qualsiasi evento, grave o meno grave, veniva usato come alibi per rimandare la decisione. Prima si erano ammalati a turno i genitori… Poco dopo la casa che avevano scelto di comprare era stata venduta ad altri… Poi Marcello era stato costretto a cambiare lavoro. Alla fine non c’era stato più bisogno di pretesti: avevano smesso di pensarci e sull’argomento era calato il silenzio; non solo il loro, anche quello delle famiglie e dei conoscenti. La parola “sposarsi”, urlata da Marcello con quel tono minaccioso, crea in Michela un allarme che non sa spiegarsi. È preoccupata e confusa come se d’un tratto si fosse ricordata di un antico debito da onorare. Sposare Marcello le appare come un evento che appartiene all’ordine naturale delle cose, eppure scatena dentro di lei fasi alterne di incertezza ed eccitazione. Il venerdì sera, a Savona, non riesce a resistere alla voglia di “sparare” la notizia, per godersi la sorpresa sul viso dei genitori, poi, sempre più infervorata, comincia a chiamare le amiche più vicine e qualche collega per comunicare che presto lei e Marcello si sposeranno. Il lunedì mattina, prima di partire, passa dallo studio e viene accolta con evviva e clamori: «La Rossa si sposa!» grida dalla sua scrivania la segretaria che per prima ha ricevuto la confidenza… «Uomini, mettetevi l’anima in pace!» esclama ridendo una collega anziana… «Che notizia… mi spezza il cuore…» aggiunge un avvocato, fingendosi affranto. Michela è sorpresa; si era sentita poco considerata, se non addirittura rifiutata, e ora si accorge di far parte di quel mondo. Nel pomeriggio, a Genova, è previsto un incontro con il dottor Fabio C., lo psicologo che sta seguendo la sua piccola cliente. Michela non vede

l’ora di informarlo della grande novità; si aspetta auguri, complimenti e anche consigli, non tanto perché lui è psicologo, ma per il feeling che c’è tra loro fin dal primo incontro. In genere, a fine seduta, affidata la bambina alla madre, fanno un pezzo di strada insieme o si fermano a bere un caffè per continuare a discutere del caso; ma oggi è di altro che Michela ha voglia di parlare. Si siedono al tavolino del solito bar; appena il barista che ha portato i caffè si allontana, lei glielo dice d’un fiato: «Ho deciso di sposarmi»… e incredibilmente scoppia a piangere. C. non si mostra stupito; le prende la mano e resta a guardarla in silenzio fino a quando lei si asciuga le lacrime e gli sorride: «Scusa» dice. «Non so che mi è preso. Volevo darti questa bella notizia…» «E ora non ti sembra più tanto bella?» «Non so, non capisco. Ero… sono contenta, l’ho detto a Marcello, l’ho detto a tutti… Sono così confusa! Ora che finalmente abbiamo preso una decisione…» Lui posa la tazza del caffè sul piattino e assume un’aria solenne: «Forse sei confusa perché in realtà le decisioni da prendere sono due». «Due? In che senso?» «Due: la prima è “Decido di sposarmi”. La seconda: “Decido di sposarmi con Marcello”. Non sono la stessa cosa.» Michela sgrana gli occhi come abbagliata da una luce improvvisa e violenta: «Non capisco… Non so che vuoi dire…». Invece lo sa, o almeno crede di saperlo, ed è invasa da un profondo turbamento. Lui parla di ambivalenza, di difficoltà di scelta, di rimpianti; Michela lo ascolta, ed è così emozionata che presto perde il filo del discorso; capisce solo che quella voce la sta mettendo in guardia da una decisione affrettata. Le si affollano dentro mille domande, vorrebbe che C. continuasse a parlare, ma lui d’un tratto si interrompe: «Ho un impegno,» annuncia «devo andare»; decidono di incontrarsi al di fuori delle occasioni legate al lavoro. Si rivedono l’indomani e tutti i pomeriggi successivi; scelgono un bar del porto antico con tavolini di fronte al mare. È uno spazio pieno

di voci e di colore: ci sono bambini che corrono, anziani seduti sulle panchine a leggere il giornale, coppie di innamorati che si scambiano effusioni. È Michela a scegliere il luogo degli incontri: vedere C. in mezzo alla gente la fa sentire al sicuro e rende più neutre e formali le loro chiacchierate. Lui alterna toni professionali ad atteggiamenti amichevoli e, col passare dei giorni, sempre più affettuosi. Il tema del matrimonio, che per Michela sembrava il più urgente, passa in secondo piano; se uno dei due vi fa cenno, l’altro si affretta a divagare. In entrambi c’è il desiderio di scambiarsi confidenze, di conoscersi meglio. Il sabato, tornata a casa, Michela si lascia risucchiare dai progetti per le nozze; una macchina infernale si è messa in movimento e per lei è impossibile da governare. Marcello insiste per fissare la data… il padre incalza per la ricerca di una casa… la mamma le fa trovare pile di riviste con abiti da sposa… dallo studio M. le fanno sapere che, volendo, possono sostituirla nell’impegno a Genova. Lei risponde che non è necessario. Quell’impegno le piace: da quando ha sparso la voce delle prossime nozze, tutti – nello studio P. e in quello M. – sono più gentili con lei; e i pomeriggi a Genova trascorrono veloci, specialmente quando deve occuparsi della bambina contesa dai genitori. Si chiama Rossio ed è dolcissima; affronta test e risponde alle domande ubbidiente e tranquilla; mai un capriccio, mai una lacrima; sembra non percepire l’angoscia dei nonni o il peso del conflitto tra i suoi. Il rapporto con mamma e papà è, o almeno pare, esente da qualsiasi ombra. Lei sta bene con entrambi, circostanza che rende crudele la pretesa di costringerla a scegliere. Ogni volta che incontra Michela si mostra felice di vederla, le corre incontro a braccia tese, le porta piccoli doni: un fiore, una caramella, un disegno. È adorabile. «Mi si stringe il cuore all’idea che, conclusa la causa, non la vedrò più. Mi mancherà certo più di quanto io mancherò a lei» confida un giorno allo psicologo che, prontamente, la rassicura: «Certo che le mancherai. È sensibile e matura; da lei gli adulti avrebbero molto da imparare». Michela si domanda se, tra quegli adulti, il dottor C.

includa anche lei. Nel frattempo i colloqui con lo psicologo le sono diventati necessari; li aspetta con emozione. Lei e C. non sono mai stanchi di raccontarsi episodi relativi all’infanzia, al loro passato. Lui le parla del suo matrimonio finito male, lei gli racconta le rare esperienze adolescenziali che hanno preceduto il fidanzamento con Marcello. Discorsi che restano alla superficie; lei non osa domandarsi che cosa li leghi e dove la porterà l’assiduità dei loro incontri. Un giorno un improvviso acquazzone li sorprende per strada, a due isolati dallo studio di C. Lui glielo propone come riparo; corrono insieme, tenendosi per mano, e in pochi minuti arrivano alla meta, grondanti di pioggia e di eccitazione. Prima ancora di chiudersi la porta alle spalle sono l’una nelle braccia dell’altro, vinti da un desiderio troppo a lungo ignorato. Dopo l’amore restano in silenzio, stretti sul lettino angusto destinato ai pazienti. Michela insegue turbinosi pensieri giocando con le ciocche dei suoi capelli rossi, poi comincia lentamente a vestirsi. «Non dobbiamo più vederci» dice decisa. «Sto per sposarmi.» Si accomiatano ed è come se lui non l’avesse udita. Michela rimugina per tutta la notte su cosa fare: chiederà a una collega o alla mamma della bambina di assistere alle sedute dallo psicologo. Resterà a Savona più a lungo, d’altra parte ha tante cose da fare. Cancellerà tutti gli impegni che comportino un incontro con C. e farà in modo di non restare mai più sola con lui. La mattinata in studio è interminabile; confusa, assonnata, Michela partecipa a riunioni, legge documenti, risponde al telefono, ma non riuscendo a interrompere il flusso indisciplinato dei pensieri, conclude poco o niente. Resiste fino al primo pomeriggio, poi inventa una scusa e torna a Savona. Vedere Marcello la placa. Cenano insieme nel ristorante preferito. Lui è eccitato e felice; ha portato i cataloghi dell’agenzia di viaggio, le mostra foto, espone programmi, controlla preventivi. Michela inizialmente è assente e distaccata, si scioglie poco a poco; l’entusiasmo di Marcello la commuove e alla fine la contagia. Si sente al sicuro, protetta e capita… giusta insomma.

È lui l’uomo della vita, come ha potuto dubitarne? Quando torna a Genova, il lunedì successivo, è rinfrancata. Ha commesso un errore, i sensi le hanno teso un agguato, ma si tratta di un episodio concluso, che non interferirà sul suo futuro; ora deve occuparsi seriamente del matrimonio. Ormai sicura di sé, decide di rivedere C. e di assistere alla consueta seduta con Rossio; e infatti, nessun turbamento, nessun imbarazzo; a incontro concluso lui la invita a cena e Michela accetta a cuor leggero, sicura di avere il controllo della situazione. Ma quella sicurezza frana rovinosamente già durante l’aperitivo. Seguono settimane di angoscia, un travagliato alternarsi di irrevocabili addii e di appassionati ritorni. Ama Marcello e non sa rinunciare a C. Ogni incontro con lui si conclude con un perentorio “Non dobbiamo più vederci”; ma proprio quel vano giuramento testimonia la forza del loro legame. È riuscita a rimandare il matrimonio, ma già la nuova data incombe senza che lei riesca a decidere di quale dei due uomini riuscirebbe a fare a meno. A tratti viene presa da una sorta di fatalismo: “Prima o poi” dice fra sé “sarà la vita a sciogliere questo nodo, accadrà qualcosa che mi indicherà la strada da seguire”. E qualcosa accade davvero. Una mattina si ritrova da sola con Rossio; i genitori non si sono capiti, ciascuno dei due era convinto che toccasse al coniuge andarla a prendere. Del disguido Michela non è dispiaciuta: occuparsi della bimba le permette di prendersi una pausa da se stessa, di accantonare un po’ il dilemma che la tormenta. Anche la piccola non sembra contrariata. «Si sono dimenticati!» dice con un’alzata di spalle e sembra divertita; aggiunge: «La mamma mi vuole, papà mi vuole… e si sono dimenticati!». «Sì, però io ho telefonato e stanno arrivando.» «Viene la mamma o viene il papà?» «Tu chi vuoi che arrivi per primo?» È una domanda sbagliata, lo sa: durante le sedute di Rossio con C. non è mai stato possibile cogliere il benché minimo segno di

preferenza per l’uno o l’altro dei genitori; dai test è sempre risultata una sconcertante equidistanza. È crudele, in una situazione tanto difficile, chiedere alla bimba di esprimersi con una scelta; ma la domanda le è sfuggita prima che avesse il tempo di pensarci. Di colpo si rende conto che sta spiando la bimba: più che una risposta si aspetta un verdetto, qualcosa che magicamente le fornisca uno spunto per illuminare il suo personale buio. «Io voglio te!» esclama inaspettatamente Rossio allargando le braccia. «Vuoi me?» Chissà perché ha voglia di piangere. «Ma io non sono la tua mamma e nemmeno il tuo papà…» «Proprio per questo» esclama la piccola agitando le mani nel vuoto come se volesse rafforzare i suoi argomenti con i gesti. «Mamma e papà ce li ho già. Adesso che sono diventata grande posso anche stare… senza di loro.» Michela si china su di lei per darle un bacio: «Ah, certo,» sospira «a questo punto io e te siamo grandi!». E per quanto le sembri assurdo, si sente invasa da un sentimento nuovo, qualcosa che non ha un nome, ma di cui affiora in lei una definizione che, misteriosamente, le sembra appropriata: la “pace dei giusti”. È molto più comune di quanto si creda che, a sbloccare indecisioni apparentemente granitiche, intervengano eventi non solo imprevedibili ma, soprattutto, semplici, rapidi e precisi come il colpo di spada assestato da Alessandro Magno al nodo di Gordio. La piccola Rossio è diventata, per la sua tormentata vicenda legale, una specie di oracolo: è la voce della verità. L’assenza dei genitori, anziché angustiarla, ha permesso alla bambina di sentirsi autonoma, libera di scegliere nuovi riferimenti affettivi. La logica fulminante della sua protetta ha costretto Michela a prendere coscienza del fatto che, anche per lei, non si tratta di scegliere, ma di assecondare un remoto, inconfessato bisogno di libertà. Se non riesce a decidersi tra i due uomini è perché ciascuno di loro gratifica e sostiene aspetti diversi della sua identità. Per Marcello lei è stata ed è Pupa, l’eterna adolescente che non pensa al matrimonio perché sta molto

bene nel ruolo di figlia accudita e protetta; lui stesso è complice, più o meno consapevole, dell’inerzia psicologica della ragazza e asseconda le sue parti dipendenti e infantili. L’altro, il dottor C., promuove il processo di autonomia che, scegliendo di vivere fuori città, Michela ha messo timidamente in moto. Pupa e Michela dovrebbero convivere, in giuste dosi, nella stessa persona; ma Michela le tiene separate. La completezza della maturità le fa paura. Non riesce a tenere insieme due importanti parti di sé e le vive separatamente un po’ nell’uno e un po’ nell’altro dei suoi uomini. Le sue attuali incertezze non riguardano l’incapacità di decidere quale sia l’uomo giusto, ma creano una cortina fumogena che non le permette di capire ciò che davvero sta chiedendo a se stessa. Lo scrittore e filosofo americano Sam Ken racconta che, nel bel mezzo di una crisi personale, fece visita a un amico “mistico, filosofo, uomo che aveva familiarità con le tenebre e con i viaggi nello spirito”. “Ci sono due domande che un uomo deve porsi” gli disse il vecchio saggio. “La prima è: Dove sto andando? La seconda è: Con chi ci voglio andare? Se ti ponessi queste domande nell’ordine sbagliato, ti troveresti nei guai.”

7

Il galateo degli addii

Qualcuno, prima o poi, dovrebbe decidersi a scrivere un “Galateo degli addii” per trasmettere, a chi ne sentisse il bisogno, le regole del lasciarsi senza fare troppo male a se stessi o ad altri. È vero che la parola “galateo” è ormai del tutto desueta. Forse i giovani di oggi non ne conoscono neppure il significato. Ma è altresì vero che i distacchi, specialmente quelli amorosi, generano sofferenza e sensi di colpa e sono materiale da maneggiare con estrema cautela. Gli indecisi sperano sempre che qualcuno, direttamente o indirettamente, con pensieri, parole o opere, li spinga ad agire. Un libro di questo tipo non sarebbe certo “decisivo”, non convincerebbe cioè i fuggitivi a rinunciare alla latitanza. Forse però riuscirebbe a offrire parole a chi è convinto di non averne. Certo, in questi casi più che le parole manca il coraggio, ma lo sforzo di dare un nome ad alcune nebulose sensazioni potrebbe comunque risultare, se non utile, almeno incoraggiante. Dirsi addio è una delle più dolorose esperienze che si incontrino nella vita. Occorre audacia, qualcuno dice persino ferocia, per decidere di interrompere un legame che è stato importante, carico di emozioni, piaceri o dispiaceri. Chi subisce un simile, impietoso evento vive una lacerazione che non si chiude mai ed è costretto a interrogarsi su se stesso, sugli eventuali errori commessi, sul passato e sul futuro. Poche cose sono più strazianti di un amore che finisce senza addii. La ferita narcisistica che si apre in seguito a un simile abbandono fa vacillare la stima di sé: ci si sente inutili e sbagliati, e si mette sullo stesso piano la slealtà dell’altro e il senso di fallimento personale. Ma è proprio per non sforzarsi di trovare le parole adatte, i gesti giusti, le ragioni adeguate che i fuggitivi cercano di non lasciare tracce dietro di sé e decidono di non decidere. È troppo difficile guardare l’altro negli occhi e farsi carico del suo sgomento. Mettersi in discussione è già arduo di per sé, ma farlo affrontando il dolore o la presumibile aggressività dell’altro può risultare davvero insostenibile. E così si va via in silenzio, ignorando le più elementari regole

del “saper vivere” e saltando a piè pari tutti i riti del congedo. Niente più incontri, basta parole, spenti i cellulari. Chi resta spenderà giorni e mesi a interrogarsi sui motivi di quella diserzione. Chi fugge invece, forse senza parere, ha riflettuto a lungo sullo stato di salute del rapporto che vuole interrompere. Ripensare al modo in cui il legame si è logorato, rivedere le proprie e le altrui responsabilità, misurarsi con la prospettiva di restare soli, scoprire come e quando l’amore, o ciò che sembrava tale, si sia inacidito. Tutto questo porta a una realtà tanto complessa da apparire insormontabile, e il senso di impotenza che ne deriva agisce come un filtro paralizzante. Si rimane sbalorditi, a volte, nel constatare la freddezza con la quale questi “disertori” riescono a recidere legami che pure erano stati importanti e significativi. Quando agiscono si ha l’impressione che lo facciano a cuor leggero, incuranti di qualsiasi possibile conseguenza. Da questo punto di vista risulta difficile stabilire se queste fughe si possano definire atti di viltà o gesti, nella loro infamia, coraggiosi. Ma qualunque “etichetta” si decida di assegnare a questo tipo di comportamento, andarsene “insalutato ospite” finisce, alla lunga, per ritorcersi contro il fuggitivo che non ha saputo chiudere. Si tratti di rimorsi, di tardive rivalutazioni o di rimpianti, il sentimento che rimane, più o meno sotterraneo, è quello di portarsi dentro un sospeso che continua a inquinare l’autostima. Scappare senza guardarsi indietro, di solito, non porta bene. Dai tanti miracoli della modernità arriva, per chi è invischiato nella ragnatela delle indecisioni, una comoda scappatoia: la possibilità di interrompere un rapporto con un rapido clic, senza parlare, senza guardarsi negli occhi. Pare sia sempre più diffusa l’abitudine di chiudere una storia d’amore ricorrendo al linguaggio asciutto e sintetico dei messaggini telefonici. Così, lo stesso magico oggetto che, durante l’innamoramento, alimentava i sogni e le passioni con l’uso compulsivo di frasi, foto, emoticon e simboli, diventa una sorta di boomerang, e riporta indietro, deformati e crudeli, sentimenti che si credevano inossidabili. Un sms è meglio di niente, dice chi non ha ricevuto nemmeno quello, ma è probabile invece che quelle algide note rendano ancor più laconico e brutale l’inatteso commiato.

GIOCARE CON I SENTIMENTI Di aver dimenticato il telefono, Claudio si accorge subito, ben prima di arrivare al parcheggio dove ha lasciato la macchina. Potrebbe tornare a prenderlo in pochi minuti, ma gli è calata addosso una stanchezza invincibile. Deve ripercorrere il viale, suonare, spiegare, riprendere l’ascensore, gesti facili che ora gli sembrano molesti e faticosi. È quasi mezzanotte. Che ne farebbe adesso del telefono? Mara si aspetterà il consueto squillo della buonanotte. Ma vedrà il cellulare dimenticato sul tavolino del salotto e capirà il motivo del silenzio. Quando arriva a casa non accende il televisore come fa di solito, quale che sia l’ora del rientro. Ha solo una gran voglia di dormire, almeno così gli pare, ma a letto comincia ad agitarsi. Il sonno gli è scivolato via di colpo. Gli scorrono davanti, come tanti fotogrammi, i frammenti del giorno appena trascorso. Tutto come sempre. Telefonata del mattino a madre e fidanzata. Chiusura di pratiche e riunioni in ufficio, saluti, raccomandazioni, consigli dai colleghi, e la sera cena con Mara in un ristorante. È su questa parte della giornata che continua a rimuginare. Ripensa a Mara, seduta di fronte a lui, allegra e ciarliera. Dopo aver fatto le ordinazioni, ha cominciato a raccontargli con ricchezza di particolari la storia di una collega che ha deciso di licenziarsi. Non ha interrotto il suo resoconto neanche quando sono arrivati a tavola, profumati e invitanti, gli spaghetti allo scoglio. Lei è fatta così. Si interessa agli altri come se fossero tutti suoi strettissimi parenti. Partecipa alle loro gioie e ai loro dolori con un entusiasmo che inizialmente lo inteneriva e che adesso un po’ lo annoia. Quando lei gli ha preso la mano e gli ha chiesto com’era andata la sua giornata, erano arrivati al caffè. Così non è riuscito a raccontarle niente, nemmeno che l’indomani sarebbe partito per una trasferta di sei mesi. «Claudio,» gli aveva detto il direttore tre giorni prima «so di chiederti un grande sacrificio, ma sei l’unico a cui mi senta di affidare un incarico tanto importante! Ti affiancherò due colleghi, ma sei tu quello che mi serve di più.»

Il compito è gravoso. La società apre una nuova sede in Sicilia. È stato scelto per gestire le fasi di avviamento. A soli trentasei anni, lui, Claudio F., che ha cominciato vendendo elettrodomestici porta a porta, è diventato un “capo”! Ma ancora non lo ha detto alla sua donna. Aveva avuto tutto il tempo per informare Mara della promozione e del trasferimento. Non ci era riuscito. Aveva pensato di aspettare per risparmiarle – o per risparmiarsi – inutili inquietudini. Glielo avrebbe detto di sicuro durante la cena al ristorante, ma lei non gli ha lasciato spazio. Domani, prima di partire, passerà a riprendersi il telefono; avrà tempo di restare un po’ con lei e le spiegherà tutto. Il suo aereo, per fortuna, parte nel pomeriggio. Questo proposito magicamente lo rassicura e gli permette di prendere sonno. Dorme fino a tardi, si sveglia che sono quasi le dieci e si rende conto che ha mille cose da fare prima del volo. Troppe. L’ansia gli lievita addosso. Non passerà a recuperare il cellulare da Mara. Può farne a meno, ha quello aziendale dal quale potrà chiamare chi vuole. Aveva promesso alla mamma di andare a pranzo da lei. «Non ce la faccio, ma’» le spiega. «Ho troppo poco tempo e ho anche perso il telefono. Ti do il numero di quello dell’ufficio, ma tu non darlo a nessuno, per nessuna ragione.» Non c’è la minima possibilità che Mara le telefoni, ma se anche lo facesse, la mamma non glielo rivelerebbe per nulla al mondo. I rapporti fra le due donne sono pessimi, da quando sua madre ha scoperto che Mara è separata e ha sette anni più di lui. «Stai tranquillo» risponde l’anziana signora. E aggiunge: «Chi vuoi che mi telefoni?». Claudio sorride, anche senza vederla sa che lei sta immaginando una rottura fra lui e Mara, e ne è certamente compiaciuta. A questo punto capisce che non solo non andrà a riprendersi il cellulare, ma non le dirà nemmeno che sta partendo. Non subito, almeno. Sa bene che appena arriverà in Sicilia sarà assalito dalla nostalgia e avrà una gran voglia di sentire la sua voce. Perché poi dovrebbe lasciarla? Lui è convinto di amarla, solo che si è un po’ stancato di lei, di certe sue premure soffocanti, di quella pretesa di capire sempre le

cose, anche quelle che lui non ha mai detto. Senza contare il malumore di sua madre, che è anziana. Lui non ce la fa più a vederla sempre triste e sospirosa. In aeroporto incontra i due colleghi che lo affiancheranno nel nuovo lavoro. Uno di loro è in azienda da diversi anni, mentre l’altro è appena passato dalle vendite agli uffici. Sono entrambi molto eccitati dalla novità, ma a Claudio la loro allegria sembra forzata, forse è il loro modo di scaricare l’ansia. Lui non è affatto preoccupato, o forse lo è, ma prevale su tutto la soddisfazione per quell’inatteso avanzamento di carriera. Gianni, il più giovane dei colleghi, si è presentato in aeroporto con un giubbino rossiccio e uno strano berretto calcato sulla fronte. In ufficio le segretarie lo hanno soprannominato “il Figo” per via del suo abbigliamento vistosamente ricercato. Luigi, il più anziano, incrocia lo sguardo di Claudio con complice ironia. «Che non ti venga in mente di fare il bullo in Sicilia. Lo sai che lì sono permalosi!» «Ma quale bullo, mia moglie ha già detto che mi raggiungerà al più presto. È furibonda per questo trasferimento. A voi com’è andata con le vostre?» Luigi alza le spalle come se la domanda non lo riguardasse. «Bene» risponde invece Claudio, ma la sua voce non sembra venire da lui. E così sente il bisogno di attenuare il senso di estraneità che ha percepito nella sua risposta. «Mara ha un buon carattere» spiega con un sorriso. Non poteva certo dire a quei due di aver nascosto alla sua compagna un cambiamento che avrebbe condizionato in modo rilevante la loro vita. È vero che Mara ha un buon carattere. In fondo non ha detto una bugia, lei certo non avrebbe protestato come la moglie di Gianni, al contrario, si sarebbe immediatamente attivata per rendergli le cose più facili. In poche ore gli avrebbe organizzato viaggio e permanenza. Si sarebbe procurata numeri di telefono utili, un elenco di medici, indirizzi di ristoranti, palestre, teatri, referenze di ogni genere. E gli avrebbe preparato le valigie in modo perfetto, non buttandoci dentro ogni cosa alla rinfusa come aveva fatto lui la sera

precedente. A ben pensarci, è davvero assurdo aspettare tanto per raccontarle quello che sta succedendo. La chiamerà appena arrivato. Seduto accanto a lui, Luigi, il collega anziano, ha voglia di confidenze. “Forse” pensa Claudio “ha paura di volare.” «Sono contento del tuo successo» gli dice Luigi. «Mi ricordo di te ragazzino, quando ancora giravi con tuo zio Gigi. Bravo, ne hai fatta di strada. Anch’io a quei tempi andavo sempre su e giù per scale di palazzi e condomini trascinandomi dietro quei pesanti borsoni con tutti gli accessori degli aspirapolvere. Ma tu, come mai avevi scelto quel lavoro ingrato?» «Non lo avevo scelto. Zio Gigi era fratello di mia madre, e dopo la morte di papà lei voleva a tutti i costi sistemarmi. Non mi piaceva per niente quel lavoro. Sono timido, non so vendere, ero proprio negato per quel mestiere. Ma lei pensava che lavorando con suo fratello avrei evitato le cattive compagnie…» Le ricorda benissimo Claudio le mattinate spese a suonare alle porte delle signore. Con lo zio Gigi si limitava a fare il portaborse, ma lo guardava affascinato mentre si esibiva nel ruolo del perfetto venditore. “Guarda e impara” gli diceva fiero quando uscivano da un appartamento con il contratto di vendita firmato. Ma non aveva imparato niente. Le prime volte che faceva il giro da solo era oppresso dalla vergogna e dall’infelicità. Si era preparato un bel discorso introduttivo, ma quasi sempre le signore scuotevano la testa fin dalle prime battute. A quel punto lui non finiva nemmeno la frase appena iniziata. Troncava il discorso, diceva grazie e faceva per andarsene. Ma con sua grande meraviglia lo richiamavano indietro, alcune quasi offese dalla troppo veloce resa del giovanotto, altre forse intenerite da quel ragazzo timido e pentite di averlo così impietosamente bloccato. Alla fine non tutte compravano l’aspirapolvere, ma presto il numero di vendite che lui riusciva a realizzare risultò persino più alto di quello che vantava lo zio Gigi. «Se era una tattica, era ben trovata!» dice Luigi che ha ascoltato in silenzio.

Claudio ha parlato liberamente senza nemmeno ricordarsi di avere un interlocutore. «No, nessuna tattica. Succedeva e basta. È così che ho conosciuto Mara, la mia compagna.» Gli aveva aperto in vestaglia, con in testa una strana retina rosa che nascondeva malamente i bigodini. Claudio si era sentito importuno, ma lei, senza ombra di disagio, lo aveva fatto entrare e offrendogli il caffè lo aveva intrattenuto a lungo. “Un bel ragazzo come lei, non si può lasciarlo sulla porta.” Di aspirapolvere non aveva bisogno, ma forse, ripensandoci, poteva “rottamare” il vecchio per acquistarne uno nuovo. Gli aveva chiesto solo un po’ di tempo per rifletterci su. Lui era tornato l’indomani e poi ancora e ancora. Non era stato amore a prima vista, anzi, a pensarci bene, forse non era stato nemmeno amore. È la prima volta che questo pensiero gli attraversa la mente con tanta chiarezza. Dev’essere l’effetto dei numerosi cambiamenti in corso. Negli ultimi tempi Mara gli chiede sempre più spesso di andare a vivere da lei e di rendere più stabile il loro legame, ma qualcosa lo trattiene. La certezza di dispiacere alla mamma è sicuramente un freno, ma si è molto attenuato il fastidio che prova quando lei gli ripete, come in un ritornello: “Trovati una brava ragazza”. Finora ha pensato che se l’insistenza della mamma lo irrita di meno è perché ci ha fatto l’abitudine, ma a certe cose non ci si abitua mai. Ci dev’essere dell’altro. Un improvviso senso di nausea interrompe bruscamente i suoi pensieri. L’hostess annuncia che stanno incontrando una turbolenza, infatti l’aereo sobbalza in continuazione. È di questo che si tratta – si rassicura –, non di inspiegabili malesseri. Dovrà raccontarlo a Mara quando la chiama. Lei ha tanta paura di volare. Sei mesi dopo non l’ha ancora chiamata. O meglio, lo ha fatto, ma col paracadute. Una sera avverte che le sue resistenze sono meno granitiche del solito. Fuori dalla finestra aperta l’aria ha i colori rosati del tramonto. In strada passa un gruppo di ragazze che ridono fra loro, chissà di che. È a quel punto che sente il bisogno di fare qualcosa. Allora chiama, non il numero di Mara, ma quello del cellulare che

aveva dimenticato da lei la sera prima di partire. Sarà scarico chissà da quanto tempo – si dice mentre compone a memoria il suo vecchio numero. E spera che non ci sia risposta. Invece suona, e una voce femminile risponde prima che l’impulso di riattaccare abbia la meglio. «Finalmente!» dice una donna. «Finalmente ti sei deciso a chiamare!» La voce non è quella di Mara, eppure gli è nota. «Ma tu chi sei?» chiede cauto. Vorrebbe non aver mai fatto quel numero. A rispondergli è Francesca, una delle segretarie dell’ufficio centrale. «Tua moglie mi ha portato questo cellulare due mesi fa. Mi ha chiesto di tenerlo in carica, così, chiamando, lo potevi ritrovare. Le ho proposto di spedirtelo, ma lei ha insistito perché lo tenessi qui fino al tuo ritorno, senza dirti che me lo ha consegnato. Avete litigato?» «Adesso però me lo puoi spedire» risponde lui sconcertato, glissando sulla domanda. «Ma che lo spedisco a fare? Ormai vieni a prendertelo direttamente, visto che la prossima settimana torni da noi.» «Chi torna dove?» domanda Claudio sbalordito. «Ma come, non lo sai? In Sicilia sta arrivando un nuovo capo. Credo che sia partito oggi.» Alla scadenza esatta dei sei mesi previsti, proprio quando pensava di aver lavorato tanto bene da essere confermato, lo sostituiscono! E quel che è peggio, hanno deciso a sua insaputa. Ha parlato con i capi ogni giorno, ma da loro mai una parola, anzi, complimenti e rassicurazioni. Come è possibile giocare con i sentimenti di una persona in questo modo? Sembra una nemesi: i capi hanno deciso per lui a sua insaputa e Claudio avverte sulla pelle la crudeltà di quella esclusione, senza rendersi conto di aver agito in modo altrettanto ingiusto e crudele. L’indecisione alberga subdola e vischiosa nella sua mente e gli consente di eludere scelte e responsabilità. Fa un lavoro che non gli piace perché così ha deciso la madre, vende i suoi elettrodomestici con successo perché le signore si fanno carico delle sue incertezze, si fidanza con Mara perché è una donna

decisa e piena di iniziativa. Un’invincibile inerzia gli rende difficile interrogarsi su come e perché l’insofferenza o il disamore, verso la sua donna, abbiano progressivamente sostituito l’iniziale trasporto amoroso. L’inatteso trasferimento in Sicilia poteva offrire l’occasione per un addio esplicito e sincero, ma Claudio non permette al sotterraneo desiderio di distacco di trasformarsi in una decisione. Preferisce affidarsi a un atto mancato: dimentica il cellulare, che assume così il senso di un “lascito”, una sorta di inconscio risarcimento per Mara e di assoluzione per se stesso.

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Tradimenti

Tutte le decisioni definitive sono prese in uno stato d’animo che non è destinato a durare. MARCEL PROUST

Chi tradisce decide. Supera di solito tormentose esitazioni, sensi di colpa e ripensamenti, ma alla fine compie una scelta. Molto spesso, però, la prima faticosa decisione non è definitiva, perché si affaccia su un territorio inesplorato e denso di interrogativi e di nuovi dilemmi. Ne sanno qualcosa gli adulteri che, dopo aver ceduto alla tentazione di tradire, continuano a sentirsi assediati dal bisogno di mettere ordine nei propri sentimenti. Chi amano veramente, il coniuge o l’amante? Con chi desiderano restare? Su questi interrogativi consumano a volte mesi e anni, e spesso, incapaci di scegliere, si aprono al nuovo amore senza riuscire a chiudere il vecchio. Nascono così le angosciose altalene degli amanti che traboccano dai romanzi, dai film e dalle quotidiane storie di persone comuni. Di tradimenti, infatti, subiti o inflitti, sono piene le nostre vite. Si tradisce in mille modi: con l’infedeltà, l’indiscrezione, la rivelazione dei segreti altrui, la disonestà, la simulazione, il disamore. Chi può dire di non aver mai conosciuto, in modo diretto o indiretto, la pena di essere o di avere tradito? Nel momento in cui spezza i vincoli di fiducia e lealtà verso gli altri, il traditore fa una scelta che non riguarda solo le azioni o le parole, ma coinvolge l’autostima, la sua stessa identità. L’atto del tradire affonda le radici negli ambiti più oscuri della psiche e per questo si nutre di ambivalenze e di dubbi. Dunque il traditore può entrare a pieno titolo nel novero di coloro che patiscono, poco o tanto, il persistente rovello dell’indecisione. Non tutti gli indecisi sono traditori, ma è probabile che tutti i traditori passino attraverso fasi brevi o lunghe di penose indecisioni. Non si riesce a immaginare un traditore che prima di compiere il “reato” non si interroghi sui propri sentimenti, sulle aspettative degli altri, sui vantaggi o gli svantaggi che potranno derivargli dalla “cattiva” azione.

Certo, per tradire occorre una buona dose di indifferenza verso il prossimo, ma spesso il senso di colpa riesce a penetrare, sottile e persistente, attraverso gli schermi difensivi e le autoassoluzioni. Così diventa più greve il peso della decisione, anche quando ci si convince che comunque di quel tradimento non si può fare a meno.

UNA SERA, ALL’IMPROVVISO Al termine di una lunga controversia sindacale, Giulio, direttore generale di una grande azienda alimentare, chiude la riunione convinto di aver avuto la meglio sulle pretese dei dipendenti. Una stanchezza mortale si impadronisce di lui quando dalla sala riunioni torna nel suo ufficio. Non ricorda di aver mai avuto un malessere simile, ha fatto riunioni ben più infuocate di quella appena conclusa ed è comunque abituato ai ritmi forsennati che il suo ruolo gli impone. “Forse mi sta venendo un infarto” pensa sgomento mentre si massaggia il petto e muove il braccio, in avanti e poi verso l’alto. Quei movimenti li ha visti fare tante volte da suo padre che, prima di morire, di infarti ne aveva avuti due. Il ricordo lo commuove e un’improvvisa compassione per se stesso lo invade a tradimento. Lavora troppo, non ha mai tempo per soddisfare le sue personali esigenze. Anche a casa si sente oppresso dalle aspettative di Anita, che gli ricorda ogni giorno i doveri di marito e di padre, e al tempo stesso gli propone impegni mondani, acquisti importanti, o viaggi di rappresentanza. L’ora di cena è passata da un pezzo e forse il malessere che lo opprime è solo un calo di zuccheri. Gli uffici sono ormai deserti ma, quando si decide ad avviarsi verso l’ascensore per tornarsene a casa, gli viene incontro una delle giovani impiegate. È una ragazza esile e garbata. I jeans e le scarpe da tennis le danno un’aria sbarazzina, del tutto incongrua nella severa cornice dell’azienda. «È ancora qui a quest’ora?» le domanda stupito. «Una di noi doveva aspettare che finisse la riunione, ma se non ha bisogno di me…» Sì che ha bisogno di lei. Se ne rende conto d’un tratto e accoglie

quello strano pensiero come un invito risarcitorio. «Venga a cena con me» le dice col tono di chi le ricorda un dovere d’ufficio. La ragazza resta senza parole, ride nervosamente, si schermisce. «Vestita così?» gli chiede confusa. Giulio la incalza, l’imbarazzo di lei gli ha acceso una forte eccitazione, il malessere è scomparso. La porta in centro, in uno dei ristoranti più costosi della città. Vuole stupirla e ci riesce. A tavola le parla di sé, della sua carriera in ascesa e delle prossime nomine nel consiglio di amministrazione. L’amministratore delegato si trasferisce negli Stati Uniti e fra i nomi possibili per sostituirlo c’è anche il suo. Gli altri due aspiranti a quel posto sono anziani e hanno più titoli, ma è probabile che la scelta cada su di lui perché ha cinquant’anni e una visione del mondo degli affari più intraprendente e moderna. Certo, dovrà trasferirsi a Milano con la famiglia. Genova gli mancherà, gli mancheranno il mare e le trenette al pesto, ma non può permettere alla nostalgia di bloccargli la carriera. Parla per tutta la sera, lui di solito schivo, specialmente con i dipendenti. La ragazza riesce solo a dirgli che si chiama Martina, che ha ventidue anni e frequenta corsi serali per prepararsi agli esami universitari. La sua famiglia vive in provincia, lei abita poco lontano dall’ufficio in un piccolo appartamento che condivide con una coetanea. A fine serata, dopo averla accompagnata a casa, Giulio si accorge che non solo il malessere ma anche la stanchezza sono completamente spariti. Anita e i bambini stanno dormendo, ma lui, nonostante l’ora inoltrata, non ha sonno e il pensiero di Martina non lo abbandona. Comincia a fantasticare su come rivederla e decide che chiederà al capo del personale di assegnarla al suo ufficio come segretaria aggiunta. Le affiderà compiti specifici che non entrino in rotta di collisione con Franca, sua assistente storica, e la porterà con sé ogni volta che andrà in trasferta. Franca si lamenta da parecchio tempo di quei viaggi faticosi e impegnativi. Le farà credere che ha chiesto Martina per venire incontro alle sue richieste di lavorare di meno. Sorride di se stesso, è sempre stato abile nel curare i suoi interessi facendo credere agli altri di agire in loro favore.

Una settimana dopo Martina si trasferisce nella saletta riservata alla sua segretaria. Franca non sembra contrariata, accoglie la nuova venuta senza fare domande. Questo cambiamento ha su Giulio un effetto prodigioso. La sola presenza della ragazza nella stanza accanto gli trasmette ottimismo e leggerezza. Delle emozioni che prova non ricordava nemmeno l’esistenza, si abbandona a viaggi immaginari e sogna di mostrare a Martina gli angoli più belli della terra. Ogni tanto una forza invisibile – la coscienza? – cattura i suoi pensieri e lo deride. Eppure non vede l’ora che arrivi la convocazione per una riunione fuori sede. Ora che le aspetta con ansia, quelle trasferte che considerava faticose e inutili si sono ridotte al minimo. D’altra parte, lo aveva sempre sostenuto anche lui: bastano le teleconferenze. Una sera chiede a Martina di fermarsi oltre l’orario. «Devo parlarti» le dice, ma si rende conto che ciò che vorrebbe dire fa parte delle cose proibite per un cinquantenne sposato e padre di famiglia. Così non dice niente. La prende fra le braccia e la bacia sulla bocca. Lei non protesta, ha gli occhi fiammeggianti e asseconda con dolcezza ogni gesto di lui. Restano in ufficio fino a tardi, dividendosi lo spazio angusto del divano e sobbalzando a ogni scricchiolio, nel timore che qualcuno possa ancora vagare negli uffici bui e deserti. Giulio torna a casa esaltato e atterrito al tempo stesso. Cosa sta facendo? Come può comportarsi con tanta incoscienza proprio mentre deve concentrare tutte le sue energie per ottenere la nomina? Non può usare il divano dell’ufficio come alcova, con il rischio di essere sorpreso da qualche guardiano notturno, né può pensare di portare Martina in alberghi o ristoranti dove chiunque potrebbe vederlo e alimentare pettegolezzi. In città lo conoscono tutti, e un gossip sul suo conto sarebbe un’arma efficacissima in mano a chi sta cercando di ostacolargli la carriera. Ma il giorno successivo, a fine lavoro, Martina passa a salutarlo e gli sussurra di aspettarla. Finge di uscire insieme agli altri, ma in meno di mezz’ora è di nuovo da lui. E così ogni sera. L’ansia di essere sorpreso che cresce a dismisura per l’intera giornata si ridimensiona velocemente all’ora dell’appuntamento. A quel punto i pericoli temuti

sembrano svanire per poi ripresentarsi beffardi quando, dopo aver fatto l’amore, si prepara per tornare a casa. Quando confida le proprie ansie a Martina, lei lo rassicura: due volte alla settimana la ragazza che vive con lei va fuori città. Potranno vedersi nel suo appartamento senza rischiare incontri indesiderati. L’alternativa risulta più sicura e, soprattutto, più gradevole. Martina gioca a fare la signora. È riuscita a carpire a Franca molti dettagli su di lui. Sa quali sono i suoi piatti preferiti, che cosa ama bere, che musica gli piace ascoltare. Grazie a queste informazioni prepara cenette a lume di candela e lo sorprende anticipando ogni suo desiderio. Ma le due sere settimanali finiscono per restare le uniche occasioni sicure per i loro incontri. Le trasferte, sulle quali ha tanto fantasticato, quando si presentano sono solo fonte di tensione. Martina lo segue ogni volta, ma con loro in macchina c’è sempre qualcun altro, e l’idea originaria di fermarsi fuori per la notte diventa impraticabile. L’unica volta che ci ha provato, il suo progetto si è trasformato in una beffa. Quando ha saputo che “il dottore” si sarebbe fermato per la notte, l’autista ha dato per scontato che Martina sarebbe rientrata a Genova con lui. Giulio si è dovuto inventare un improvviso annullamento del proprio impegno per non passare una notte rabbiosa e solitaria. D’altra parte, la data in cui si deciderà la sua nomina, anche se non è stata ancora fissata, diventa sempre più incombente. Anita è già elettrizzata, fa mille progetti, chiede preventivi, compila liste di ospiti prestigiosi da invitare al ricevimento che pensa di organizzare non appena la notizia della sua nomina ad amministratore delegato sarà ufficiale. «Lascia perdere» le dice Giulio. «Mia madre diceva che anticipare gli eventi porta male.» «Tua madre vedeva sempre tutto nero, ma Paolo è sicuro che sarai scelto tu.» Paolo B. è l’addetto stampa personale dell’amministratore delegato, dunque è una fonte più che attendibile. Anita lo conosce perché ha sposato la sua più cara amica con la quale mantiene contatti costanti. Non vede l’ora che la nomina di Giulio sia confermata per

potersi finalmente trasferire a Milano e avere più occasioni per rinsaldare l’antica amicizia. Ciò che esalta Anita è invece fonte di sofferenza per Martina. «Come faremo quando te ne andrai a Milano?» «Tutto sarà più facile. Avrai il trasferimento perché Franca non potrà seguirmi. Lavoreremo fianco a fianco, riusciremo a stare insieme molto di più.» Mente. Sa bene che le cose tra loro cambieranno. Il nuovo incarico gli renderà quasi impossibile trovare il tempo per i loro incontri. Inoltre, il trasferimento di Martina susciterebbe chiacchiere e sospetti che lui non può certo permettersi. L’idea di interrompere la scandalosa relazione lo perseguita già da tempo. Se all’inizio il solo pensarci gli creava un’angoscia insopportabile, adesso si dice che nella vita non si può avere tutto. La carriera, il successo, la famiglia non si buttano al vento in cambio di una passione temporanea. Le buone intenzioni, però, lo assediano solo di notte, quando il sonno tarda a venire. Di giorno, ogni volta che incrocia Martina nei corridoi o che lei gli sorride complice quando gli porta documenti per la firma, sente franare dentro di sé i propositi di ravvedimento. Il suo umore alterno allarma Martina, che diventa sempre più inquieta, e questo costringe Giulio a lanciarsi in pericolose promesse che sa di non poter mantenere. Ormai, ogni volta che si vedono è costretto a subire gli inquieti interrogatori della ragazza. Lei lo guarda con occhi adoranti, e questo lo rende incapace di spegnerle i sogni e di costringere se stesso a un esame di realtà. Quando è con lei sente forte dentro di sé il desiderio di assecondarla, gli ritornano in mente i viaggi immaginari ai quali si abbandonava all’inizio della relazione e una sera, non sopportando più la tristezza della ragazza, trasforma in impegno reale una delle sue fantasie di viaggi intorno al mondo. «Ti porterò a Parigi» le dice convinto, e Martina immediatamente gli parla in francese: «Oui, mon amour» sussurra buttandogli le braccia al collo. La sera stessa Giulio si pente, si rende conto che il viaggio promesso è impossibile da realizzare. Inoltre, lo spaventa l’idea che Martina lo prenda troppo sul serio e lo viva come una specie di

viaggio di nozze. Tre giorni all’estero, come gli è venuto in mente di buttarsi in una promessa tanto avventata? Cosa avrebbe detto ad Anita, che in questo periodo ha deciso di cucirgli addosso l’immagine del manager brillante e di successo e che controlla ogni suo impegno quotidiano? Deve inventarsi qualcosa che lo aiuti a uscire dall’impiccio che lui stesso ha creato. L’indomani, appena arriva in ufficio, chiama Martina e le comunica che il loro viaggio è confermato, si è solo modificata la meta. Andranno a Roma per il congresso della Fao, e questo consentirà loro di fermarsi non tre ma quattro giorni. Inoltre, lui avrà una copertura sia per la moglie sia per l’ufficio. Partiranno in treno per ridurre al minimo la possibilità di incontrare in aereo qualcuno che li conosce. Se è delusa, Martina non lo dà a vedere, e lui ha tanto bisogno di autoassoluzioni da convincersi quasi che Roma e Parigi siano equivalenti. Le giornate romane sono esaltanti e felici, Giulio si limita a firmare la presenza al congresso e dopo aver ritirato gli atti con le varie relazioni raggiunge Martina. Insieme vagano per la città incantati come se la vedessero per la prima volta. I cattivi pensieri sembrano svaniti nel nulla e di nuovo lui si convince che di Martina non può fare a meno. L’ultimo giorno, mentre il taxi li porta alla stazione, per rendere meno triste la fine della vacanza si abbandonano a mille progetti e fantasticano su un improbabile futuro di felicità. Prendono posto in treno, Martina si siede accanto al finestrino con un fascio di giornali in grembo, Giulio sistema le valigie. È a quel punto, mentre è girato di spalle, che gli arriva, come una pugnalata, la voce di Paolo Bozzi: «Giulio, eri a Roma anche tu per il congresso della Fao?» Prima di girarsi lui getta uno sguardo allarmato a Martina, che prontamente abbassa gli occhi su una rivista. I due uomini chiacchierano con grande cordialità. «Non avrei mai immaginato di trovare in treno il nostro futuro A.D.» dice Bozzi. Giulio è compiaciuto, superato lo choc iniziale è contento di quell’incontro e dà l’impressione di aver dimenticato del tutto la sua

compagna di viaggio, che continua a tenere gli occhi bassi sfogliando i giornali. Il treno è partito da poco quando arriva il controllore. Giulio tira fuori il suo biglietto, ma si guarda bene dal mostrare quello di Martina, che è rimasto nella sua cartellina da viaggio. «Biglietto, signorina» dice l’uomo rivolto alla ragazza, la quale, mentre finge di cercare ansiosamente nella borsa, si aspetta un gesto di salvataggio che non arriva. Giulio ha ripreso la conversazione con l’amico e sembra non accorgersi della sconsolata umiliazione subita da Martina. «Devo farle il biglietto e la multa» le dice il controllore. «Dove scende?» «Alla prossima fermata» risponde la ragazza porgendo all’uomo le banconote. «Se mi aiuta a tirare giù il bagaglio, mi avvicino all’uscita.»

MIRACOLI DEL SILENZIO Quando aveva dodici anni, la madre, caposala nel reparto chirurgia dell’ospedale pediatrico, fa visitare Luca dal primario. Lui ricorda quella visita come se l’avesse subita un’ora prima. Steso sul lettino, seminudo e con le gambe aperte, si sente esposto come un pollo in macelleria. Parlano di lui come se non fosse lì. Nessuno lo degna di uno sguardo. Il professor M., corpulento e spiccio, scherza con sua madre, fa battute pesanti; lei finge di divertirsi, ma si vede benissimo che, come lui, è piena di vergogna e preoccupazione. Sempre ridendo, sfilandosi i guanti, il professore dice che dovrà operarlo. «Così sarai pronto per le ragazzine!» aggiunge con finta complicità. Lui lo detesta con tutte le sue forze. «Hai un varicocele» gli spiega la mamma. «Una piccola disfunzione che, con l’intervento, andrà completamente a posto.» Che non è andato tutto a posto lo scopre quindici anni dopo, quando lei decide che è abbastanza grande per reggere il peso della verità. Dopo una serie di spiegazioni tecniche incomprensibili: «Sei azoospermico» quasi sussurra. «Significa che non potrai avere figli» e piange.

«Ma si può guarire?» domanda Luca, più per farla smettere di piangere che per reale preoccupazione. «No, guarire no, ma a volte si sbagliano.» Fatta da lei, questa affermazione è veramente incredibile. La sua incrollabile fede nei medici e nella medicina di solito rasenta il fanatismo. Se arriva a dire che può esserci stato un errore, significa che non sa proprio a che santo votarsi. Forse per l’incoscienza dell’età o solo per leggerezza la notizia non lo sconvolge, ma capisce che dovrebbe, perché la mamma riprende l’argomento e cerca di rassicurarlo: «Un po’ più avanti faremo le analisi. Vedrai che si sono sbagliati». Questa accorata insistenza gli dice ancor più chiaramente che no, da quella malattia dal nome impronunciabile non si guarisce. La cosa continua ad apparirgli meno drammatica di quanto la preoccupazione della mamma lasci pensare. Finora non si è mai domandato se vuole o non vuole bambini. Perché avrebbe dovuto? Mettere su casa, sposarsi, avere figli sono tappe della vita che si presentano quando è il momento. Non è che ci si pensi prima. E da quel giorno stesso smette di pensarci. Dopo il diploma va a lavorare nella falegnameria del padre, gli piace da sempre lavorare il legno e respirarne l’odore. Vive da solo in un minuscolo appartamento poco lontano dalla bottega che sogna di trasformare in un laboratorio per il restauro di mobili di antiquariato. Frequenta gli amici, va in palestra, corteggia le ragazze e della sua azoospermia si dimentica completamente, anche perché le rare volte che ha fatto sesso è accaduto con ragazze che prendevano la pillola. La promessa fatta alla mamma di sottoporsi a nuove analisi gli torna in mente di tanto in tanto. Vorrebbe togliersi quel pensiero, ma al tempo stesso si domanda: perché caricarsi di quella seccatura, visto che per il momento non gli serve sapere? Così rinvia il molesto impegno come se fosse un debito senza scadenze. Non ci pensa più da un sacco di tempo, anche perché la madre sembra rassegnata e ha smesso di ricordarglielo ogni volta che ce l’ha a tiro. Ma una sera conosce Dorina. È collega di una ragazza del gruppo di amici che si incontrano

periodicamente. Si è trasferita a Genova da poco. È una biondina dal viso affilato e dai grandi occhi chiari che si illuminano quando sorride. Fin dalla prima volta si è imposta all’attenzione per la parlantina sciolta e decisa. Forse per superare l’imbarazzo di trovarsi in mezzo a estranei, “la nuova”, come la chiamano tutti, assume l’aria di chi ha sempre qualcosa da insegnare agli altri. Luca è stupito della disinvoltura con la quale affronta temi ben più impegnativi di quelli che solitamente circolano fra loro quando si trovano a mangiare una pizza. È ambientalista e vegana, e più che parlare predica, trancia giudizi sul cibo, sulle persone, sulla politica. All’inizio Luca, come altri, è infastidito da quel tono sentenzioso. Poi, con l’implicita approvazione del gruppo, comincia a stuzzicarla: la provoca, la contraddice, le fa il verso, la interrompe. Ma Dorina non si lascia intimidire, le frecciate di Luca sembrano dare più forza ai suoi argomenti. «Guarda che se fai così non trovi marito» l’avverte una delle ragazze ridendo. «E chi lo vuole un marito? Per me, solo prove di convivenza, e naturalmente niente figli.» È a quel punto che in Luca si accende una diversa attenzione per la giovane predicatrice. «Che significa niente figli?» domanda cercando di non mostrare il suo improvviso interessamento. «Significa che la maternità non è un obbligo per una donna. Io voglio essere una persona, non una madre.» Nel gruppo si apre una vivace discussione. Le ragazze, con alcune riserve, le danno ragione, gli uomini si limitano a qualche battuta ironica e si affrettano a cambiare discorso. Ma Luca quella notte non riesce a dormire. Dorina gli è piaciuta fin dal primo giorno, se ne accorge solo adesso perché certe cose per maturare hanno bisogno di tempo. “La storia dei figli” dice fra sé “non c’entra niente.” L’indomani si procura il numero di telefono della ragazza e la chiama per invitarla a cena. Vuole conoscerla meglio, lontano dalle schermaglie che sembrano diventate l’unico modo di comunicare tra loro. Inoltre, è curioso di capire se il fatto di non voler bambini sia una

delle sue solite sparate o una salda convinzione. Ma certo non è per questo che le chiede di uscire. Si accordano per vedersi fuori dall’ufficio dove lei lavora. Raggiungono a piedi un ristorantino nel porto antico. È una bella serata, il cielo sta scolorando poco a poco, si è alzato un leggero vento di tramontana e l’aria si è molto rinfrescata. Dorina si stringe addosso il golfino azzurro, sembra infreddolita o forse solo un po’ imbarazzata. “Si aspetta che io dica qualcosa,” pensa Luca “ma cosa? Dovrebbe aver capito il motivo del mio invito, però tocca a me parlare per primo.” «Questa sera io e te facciamo pace…» azzarda. È una frase stupidissima, ma deve pur cominciare in qualche modo. «Non mi ero accorta di essere in guerra con te, anzi…» Quell’ultima parola, “anzi”, lo incoraggia. Camminano fianco a fianco nel silenzio di chi ha tante cose da dire e non sa da dove cominciare. Lui le prende la mano. «Abbiamo finalmente un po’ di tempo per conoscerci» sorride Dorina. «Non so nemmeno il tuo cognome…» Ridono entrambi rinfrancati. La serata corre veloce ed eccitante, parlano di sé, degli amici, dei rispettivi lavori. Ma fra un discorso e l’altro, ancora una volta lei ribadisce la ferma intenzione di non volere figli. Appoggia sul tavolo i palmi delle mani come se volesse darsi una spinta, e insiste: «Patti chiari…». Luca potrebbe approfittarne, dirle che i patti sono già chiarissimi; è lui l’uomo giusto per lei. Ma ogni volta che prova a toccare l’argomento si sente gelare in bocca le parole. Non si fa una dichiarazione d’amore a una ragazza rivelandole subito i propri difetti. Non vuole nasconderle nulla, ma se gliene parla adesso lei penserà che è solo per questo che la sta corteggiando. Forse è anche un po’ vero, ma si sente molto attratto da lei, e non può essere un caso. L’indomani va a pranzo dai genitori. Si siede in cucina, la mamma gli dà le spalle mentre prepara la sua mitica frittata di carciofi. «Mi piace una ragazza» dice. È una dichiarazione impegnativa e lo sa. Non ha mai parlato delle sue avventure amorose con i suoi, anche

perché la madre non perde mai le occasioni per ricordargli la promessa mancata. «Era ora!» esclama il padre abbassando il giornale e guardandolo compiaciuto. La mamma non si volta, rimane immobile, e per un tempo che a Luca sembra lunghissimo tace. Poi, sempre restando di spalle, sospira: «Sei andato a fare le analisi?». «No, ma lei giura che non vuole bambini.» «E questo che c’entra?» dice il padre interrompendo di nuovo la lettura. «Le donne cambiano idea un giorno sì e l’altro pure…» Suo padre è così, non parla mai, pare che non si accorga di quello che gli succede intorno, ma quando apre bocca è per pronunciare sentenze. E quasi sempre ha ragione: Dorina potrebbe non essere affatto convinta di quello che dice. Forse si atteggia a femminista per distinguersi dalle altre ragazze, per snobismo. Lui non può permettersi di crederle sulla parola, aspetterà l’occasione giusta per andare finalmente a fare le analisi. Ma l’occasione non si presenta mai. Sono insieme ormai da quasi un anno, a sorpresa Dorina si è rivelata la più tradizionale delle fidanzate. Luca non ha dubbi sul loro rapporto, è davvero innamorato. Lo spirito rivoltoso di lei, che spesso lo infastidiva, sembra ora del tutto estinto. Non è più tornata sui “patti chiari” che aveva puntigliosamente ribadito all’inizio, anzi, in alcune occasioni si è persino lasciata scappare di non essere poi tanto contraria al matrimonio. Solo una volta gli spiega che deve andare dalla ginecologa per farsi dare un contraccettivo più “ecologico”: «Non posso prendere la pillola per tutta la vita» dice con forza e lo guarda come se si aspettasse da lui una conferma, una risposta qualunque. Come può sapere che deve dirle qualcosa proprio sulla contraccezione? Comunque, questo è il momento perfetto per liberarsi finalmente dell’ingombrante verità. Che ci vuole a spiegarle: “Guarda che tu non hai nessun bisogno di quelle diavolerie perché io sono sterile?”. Invece annaspa, si confonde e, per un caso fortuito, proprio quando sta per ricomporsi, qualcuno lo chiama al telefono. È un

cliente, chiede notizie di un cassettone che sta restaurando. Luca si dilunga nei particolari, prende accordi per la consegna, chiede indirizzo, numero di telefono, tutte cose che sa già. Ma lui è uno preciso. Quando riattacca ha l’impressione che sia passato un tempo lunghissimo, troppo lungo per riaprire a freddo un discorso che richiede calma e lucidità. Forse, se si decide a fare le analisi previste, potrà affrancarsi dall’inerzia e dalle bugie. Questa volta non sta barando con se stesso. Ha voglia di mettere fine agli indugi e realizzare i suoi propositi così a lungo traditi. Bisogna solo aspettare un’altra occasione. Tre mesi dopo, una notte Luca si sveglia di soprassalto. Ha sentito dei rumori venire dal salotto, e Dorina non è nel letto accanto a lui. Prova a chiamarla, ma non riceve nessuna risposta. La trova accartocciata sul divano, piange disperata e quando lui fa per abbracciarla lo respinge rabbiosamente. «È colpa tua.» La voce è strozzata, gli occhi scintillanti di rabbia. «È tutta colpa tua…» Luca è interdetto: «Che cosa ho fatto?». «Domandati che cosa non hai fatto, invece di fingere stupore…» Le si siede accanto sul divano, cerca di cingerle le spalle con un braccio. Lei lo respinge ancora. «Dove sta scritto che alla contraccezione ci devono pensare solo le donne? Perché me ne dovevo preoccupare soltanto io? Quando ti ho detto che volevo smettere la pillola non hai fatto un gesto, non hai detto una parola…» «Che dovevo dire?» chiede ancora Luca che, invece, pur nella sua confusione, crede di sapere benissimo che cosa doveva dire. «Dovevi dire che ci avresti pensato tu, che ti saresti comprato i preservativi come fanno tutti gli uomini del mondo… e invece hai fatto finta di non capire. Ero così arrabbiata per la tua indifferenza che ho deciso di testa mia. Ho sospeso la pillola per un po’. E senza rendermene conto ho favorito il tuo gioco. Chissà che cosa credevo di fare! Il dispetto l’ho fatto a me!» Luca si sente ottuso, come se avesse la testa chiusa dentro un

sacco: «Ma quale dispetto?». «Volevi mettermi incinta? Bravo, ce l’hai fatta. Ecco quale dispetto!» Ora ha di nuovo l’impressione di essere un pollo, come il giorno della visita del professor M. Indifeso, spaventato, inerme. È ben strana la mente umana: con la caterva di problemi che gli sta precipitando addosso, si sente incomprensibilmente sollevato. Sì, è sollevato all’idea di non doversi più tormentare fra la voglia di dire e quella di tacere che lui di figli non potrà mai averne. E se lei è incinta, ha già la risposta alla domanda che avrebbe dovuto porre ai dottori per le nuove analisi. Il pianto di Dorina si è fatto sommesso, e quando lui cautamente le prende la mano, lei non la sottrae. Gli appoggia la testa sulla spalla e a sorpresa, con un filo di voce, dice: «Ma tu, questo bambino lo vorresti?». Di tutte le domande della vita, passate, presenti e future, questa è certamente la più spaventosa. Come fa a volere un bambino che non può avere? Non può certo dire a Dorina di essere azoospermico. La tardiva confessione le dimostrerebbe che non ha fatto nessun gioco, ma al tempo stesso suonerebbe come un’accusa di tradimento. Allora sceglie la via più facile: dice sì, perché capisce che è esattamente ciò che lei vuole sentirsi dire. Infatti quel monosillabo ha un effetto sedativo. Dopo la solenne promessa di accompagnarla l’indomani dalla ginecologa, la convince a tornare a letto. Si sveglia alle prime luci dell’alba. Ha fatto sogni angosciosi. Sua madre era incinta e il professor M. la minacciava con un coltello da cucina. Lui guardava la scena paralizzato dal terrore, ma la mamma gli gridava di non aver paura perché si trattava di un errore. Scende dal letto in punta di piedi e va ad accendere il computer. È angosciato, in preda a una sorta di frenesia, che significato ha quell’orribile sogno? A quale errore si riferiva la madre? Alla diagnosi sbagliata di allora o al suo comportamento con Dorina? Quando digita la voce “azoospermia” in un motore di ricerca, gli si apre un mondo. E scopre la gigantesca rimozione che ha messo in atto su un problema che pure lo riguardava tanto da vicino. Ma perché in

tutti questi anni non gli è mai venuto in mente di saperne di più? Ci sono articoli di ogni tipo, forum di coppie in cerca di figli che si scambiano informazioni e indirizzi, si raccontano le rispettive esperienze, e qualcuno addirittura afferma di essere stato vittima di diagnosi errate. Chi lo ha detto a sua madre che lui è azoospermico? Il professor M.? Su quali basi? Con quali esami di laboratorio? Dorina è incinta: questo vuol dire che a suo tempo i medici si sono sbagliati. Oppure no. Lei lo ha tradito. Lo ammette, è stato un errore non verificare il proprio grado di fertilità. Domani prenderà l’appuntamento che ha tanto a lungo rimandato. Ma quale vantaggio trarrebbe da questo verdetto? Se le antiche analisi fossero confermate, sarebbe una doppia brutta notizia: la prima che è sterile, la seconda che ha una compagna infedele. Cosa, quest’ultima, assolutamente impossibile. Dunque, tanto vale lasciar correre. Mezz’ora dopo è a casa dei suoi, seduto in cucina, ancora una volta la mamma, che sta preparando il caffè, gli dà le spalle. Così Luca non può vedere la sua espressione quando sferra il primo attacco. «Non è vero che non posso avere figli» dice col tono di chi parla a se stesso. «Dorina è incinta.» La madre si volta di scatto e va a sedersi di fronte a lui. È rossa in viso e le mani le tremano. «Ma non hai fatto le analisi! Così adesso non sai…» «Ti sbagli, so tutto quello che c’è da sapere. E di quelle stupide analisi non ho più bisogno. Dorina è la prova vivente che la diagnosi del tuo professor M. era un clamoroso errore.» Negarsi un cambiamento nella propria vita o vivere nella menzogna per smentire una verità mai accettata. Questo raccontano le storie di Giulio e Luca. Proprio nel momento in cui la sua carriera sta per raggiungere l’apice del successo, Giulio, che pure sembra non desiderare altro, si lascia trascinare dall’idea esaltante di poter ricominciare tutto daccapo. Questo pensiero lo assale a tradimento come una sorta di antidoto alle immagini di solitudine e di morte prodotte forse dalla stanchezza di una lunga giornata di lavoro. L’incontro nei corridoi bui e deserti del suo ufficio

con una giovane segretaria gli accende il desiderio di trasformare un fatto banale in un evento carico di promesse. Nel suo illusorio miraggio, Giulio è confuso, sconcertato, e si lascia attraversare da improvvise quanto contraddittorie ondate emotive. Alla sua amante promette tanto e dà poco, da una parte non vuole mettere in discussione il legame coniugale cementato da tutta una vita e dall’altra gli risulta impossibile ridimensionare le proprie ambizioni. Si sente in fuga, ma è una fuga immobile, come quella dei sogni. Quando sul treno si trova nell’imbarazzante necessità di dover spiegare la presenza della ragazza, si convince di non aver altra scelta che quella di fingere di non conoscerla. A quel punto non esita a sacrificare le sue illusioni e quelle della giovane donna. Il rischio di pregiudicare le opportunità di carriera lo rende insensibile alla mortificante situazione in cui mette la sua compagna. La ragazza scende dal treno, ma è lui che interrompe veramente quel viaggio verso una vita diversa e resta solo con un sogno andato a male. Una visita medica che riguardi l’apparato genitale è imbarazzante per chiunque. Luca, che la subisce in giovanissima età, ne serba una traccia indelebile, ma a rendergli penoso quel ricordo non è solo l’usuale offesa al pudore. Il disagio più forte gli deriva dalla fastidiosa confidenza tra la madre e il professor M., per il quale nutre un’invincibile antipatia. Forse la memoria di quella sgradevole mattinata si sarebbe scolorita nel tempo, se la mamma, con le sue lacrime e i suoi misteri, non avesse reso ancor più inquietante la “strana” diagnosi. La ferita narcisistica prodotta da quegli eventi affiora in Luca di tanto in tanto, ma è puntualmente rimossa grazie alla ferma decisione di ignorare una realtà che preferisce lasciare nell’ombra. L’ostinato rifiuto di sottoporsi a ulteriori accertamenti clinici diventa una forma di inconscio tradimento di sé. L’incontro con Dorina, che giura di non volere bambini, appare a Luca come un’insperata coincidenza e gli offre la possibilità di seppellire in modo definitivo il suo groviglio irrisolto. Ma malgrado il rassicurante atteggiamento della ragazza, non riesce ad ammettere la propria infertilità e continua a difendersi da qualsiasi rischiosa verifica. Persino sulla “miracolosa” gravidanza della sua compagna preferisce non

interrogarsi, come se lo scopo primario della propria vita fosse più quello di contraddire l’antica diagnosi dell’odioso professor M. che quello di arrivare finalmente alla verità.

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Traslochi e altre battaglie

Secondo un’opinione diffusa, il trasloco occupa il terzo posto, subito dopo il lutto e la separazione, nell’elenco delle vicende ansiogene e depressive che capita di incontrare nella vita. Non è chiaro se questa graduatoria derivi da ricerche approfondite o da una fra le tante voci che circolano in rete, ma chiunque abbia vissuto questa esperienza non nutre alcun dubbio sulla fondatezza dell’affermazione. Svuotare una casa per riempirne un’altra non è solo un lavoro lungo e faticoso, ma un impegno psicologico nel quale si addensano emozioni complesse e cariche di ansia. Poco importa se al trasloco si è costretti da circostanze spiacevoli o se sia invece il segno di un cambiamento felice, si tratta comunque di un processo più o meno inconscio che di fatto separa la vita vissuta da quella ancora da vivere. La nostalgia, la memoria, le scelte, gli affetti, le assenze sono chiamati in causa in un continuo rimando fra passato e presente, fra rimpianto e appagamento. Cambiare, si sa, richiede scelte e rinunce, e quando si passa dal prima al dopo diventa necessario, imperativo quasi, provare a liberarsi della grande quantità di cose, ma anche di pensieri, emozioni o fantasie, a cui abbiamo permesso, anno dopo anno, di invadere le nostre esistenze. Quanti sono gli oggetti comprati in ogni angolo del mondo, divertenti sì ma stravaganti, che riempiono gli armadi e i cassetti delle nostre case e, dopo gli iniziali entusiasmi, restano lì per anni, dimenticati e inutili? Decine di must (cose ritenute irrinunciabili e necessarie) con i quali ciascuno ha cercato nel tempo di ammansire segrete nevrosi o di sostenere vacillanti sicurezze. Il trasloco richiede una revisione totale. Ogni gesto, ogni spostamento è governato dall’ineludibile necessità di scegliere, di prendere piccole o grandi decisioni. Tenere o buttar via diventa allora il fastidioso ritornello che accompagna ogni sgombero. Se ci si lascia travolgere dal feticismo affettivo – ciascuna cosa porta con sé una storia – si finisce per celebrare, un oggetto dopo l’altro, un rito interminabile e, in molti casi, per non buttar via quasi

niente. Mentre scrivo queste pagine, a Genova, la mia città, si vivono ore drammatiche. Il tragico crollo, spietato e improvviso, del ponte Morandi sembra aver capovolto l’ordine naturale delle cose. Nella mente e nel cuore dei genovesi il ponte è diventato un arto fantasma, proprio come accade a certi mutilati la cui gamba amputata continua a dolere, come se fosse tenacemente rimasta al suo posto. Ogni cosa ha perso il suo senso originario e si è caricata di più densi significati. Anche il trasloco. Il lutto, la separazione, l’angoscia delle memorie perdute non sono distribuiti in una immaginaria graduatoria, ma gravano tutti insieme e contemporaneamente sulle spalle di chi la casa ha dovuto lasciarla senza poter portar via altro che la propria angoscia. Chi viveva all’ombra di quel ponte invadente e rumoroso, col tempo, si era abituato a considerare il Gigante come uno di casa, un amico scomodo del quale comunque non si poteva fare a meno. Ma, amico o no, quel ponte ha tradito ed è crollato rovinosamente sulle loro certezze. Dopo sessanta giorni di attese deluse, finalmente è stato permesso agli sfollati di entrare per l’ultima volta nei loro alloggi prima del definitivo abbattimento dei palazzi. Un trasloco “d’ufficio” rapido e ridotto che si è rivelato persino più crudele del crollo stesso, perché gravato da pesanti condizioni: due ore di tempo per decidere, scegliere e portar via le proprie cose. Due ore di ansia, perché i tronconi ancora in piedi del viadotto restano sospesi nel vuoto come una spada di Damocle e minacciano case e persone. Qui il tema dell’indecisione si spoglia dei suoi dubbi e diventa disperato. Come si stabiliscono in un tempo tanto breve le priorità? È meglio preferire le cose utili o quelle care? Meglio portar via la scatola di legno che contiene le statuine del presepe, lo stesso che ha incantato i nonni, i figli e i nipoti, o sarà più sensato riempire una valigia di indumenti caldi per coprirsi nell’inverno imminente? Vorrei e non vorrei non è più il ritornello degli eterni indecisi, ma la domanda unica e straziante che non concede ripensamenti. Qui ogni incertezza è spazzata via dall’inesorabile scansione di quei tremendi centoventi minuti.

LA STANZA DI BARBABLÙ Luisa, ventidue anni, esce di casa sbattendo la porta. Non è riuscita a convincere la famiglia della sincerità di Paolo, l’uomo di cui è innamorata. “Un debosciato” dice la madre, che per l’occasione ha riesumato un vocabolario d’altri tempi e sembra provi gusto a sciorinare ogni giorno parole come “libertino”, “dissoluto”, “sregolato”. Nessuno degli altri figli osa contraddirla, e Luisa si persuade di non aver altra scelta che quella di andare, costi quel che costi, dove la porta il cuore. Lui è un musicista quarantenne ancora convinto di poter fare fortuna nei grandi teatri del mondo. Ma – come insiste la madre – l’unica fortuna che spera di acchiappare è quella del patrimonio di Luisa. «Non avrai un soldo» le grida mentre lei si infila il cappotto prima di uscire. «Diglielo al tuo canzonettista che si è preso una nullatenente.» La storia dura meno di un anno e, quando Luisa torna a casa infelice e ferita, trova pronta per lei l’uniforme della ragazza stupida e inutilmente testarda che può solo obbedire e pentirsi. “Tutta suo padre” sospira la signora Maria, alzando gli occhi al cielo ogni volta che Luisa non esegue a puntino i compiti che lei le ha assegnato. In quei sospirosi giudizi si avverte un segreto compiacimento, come se ogni errore della sventata ragazza fosse la conferma della propria lungimiranza. Anche quando Luisa sprofonda in una dolorosa depressione, la mamma si mostra insofferente e poco incline a farsi carico almeno in parte dei problemi della figlia. “È solo teatro!” dice quando il marito si mostra preoccupato per la ragazza. Ada, Francesco e Mario, gli altri tre figli, obbedienti e compatti, sono da sempre schierati con la mamma e non offrono alla sorella alcun segno di solidarietà. Né prima della fuga né dopo il suo tristissimo ritorno. L’unica sotterranea complicità arriva a Luisa dal padre, reduce a sua volta da un’antica sconfitta. Molti anni prima aveva ardito sfidare la moglie e si era avventurato, contro il parere della donna, in un “promettente” investimento che aveva avuto

conseguenze disastrose per l’economia familiare. Luisa ricorda bene i continui rimandi della mamma agli errori del papà. Il richiamo a quel fallimento era onnipresente: ogni volta che c’era in ballo una spesa necessaria – per abiti, libri, cibo – la signora Maria coglieva l’occasione per ricordare ai figli che la loro vita sarebbe stata ben diversa senza le velleitarie imprese paterne. In realtà, le pur ingenti perdite economiche non avevano realmente inciso sullo stile di vita della famiglia grazie al cospicuo patrimonio lasciato dai nonni paterni. Ma la signora aveva drasticamente impugnato l’arma della parsimonia sia per assecondare una propria tendenza naturale, sia per “disarcionare” l’incauto marito dal ruolo di capofamiglia. Col tempo i fratelli di Luisa, chi più chi meno, si convincono che a salvare il benessere di tutti loro sia stata la forza, la prudenza e l’intransigenza della mamma, mentre riservano al padre un affetto venato da indulgente sfiducia. La sconfitta sentimentale di Luisa è stata prontamente ascritta al ramo paterno della famiglia, quello più sventato e velleitario. Anche dopo la morte della madre, Luisa resta la sorella “inadeguata”, quella che non ha completato gli studi, non ha trovato un lavoro e, quando è uscita di casa, lo ha fatto nei tempi e nei modi sbagliati. Lei però non è più turbata dalla supponenza dei fratelli, adesso vive con il padre e si sente meno infelice. Lui, invecchiando, sembra aver perduto la sua cupezza: insieme ascoltano musica, vanno a teatro o fanno lunghe passeggiate. Ricominciano a frequentare conoscenti e vecchi amici di famiglia. Luisa ritrova un po’ di stima di sé, acquista abiti nuovi e si accorge dagli sguardi maschili che quella vecchia disastrosa avventura non l’ha spenta per sempre. Il padre è un suo convinto ammiratore: “Hai solo trentatré anni e sei bella come il sole” le dice. “La vita ti sorride e tu non te ne accorgi… Devi riprendere gli studi.” Quando si sente particolarmente serena e riesce a scherzare con lui su qualsiasi argomento, si sorprende a pensare che quella ritrovata armonia sia resa possibile proprio dalla scomparsa della mamma. Ma quel pensiero la atterrisce, come se fosse l’indizio di un’altra sfida personale, anche solo immaginaria, alla quale potrebbe seguire,

ineluttabile, il castigo. La prima cosa che le viene in mente quando il padre, colpito da infarto, muore all’improvviso, è di essere stata raggiunta dal temuto castigo per gli errori del passato e i cattivi pensieri del presente. Il nuovo lutto sembra creare tra Luisa e i fratelli un rapporto meno formale. Si abbracciano commossi, restano insieme più a lungo e nei primi giorni insistono perché Luisa vada a pranzo dall’uno o dall’altra. Contrariamente alla mamma, che non aveva lasciato alcuna disposizione ereditaria scritta, il padre era andato dal notaio e aveva fatto testamento. Nessuno si aspetta sorprese, la signora Maria aveva più volte illustrato ai figli come avrebbe voluto distribuire tra loro i beni di famiglia, e da parte del marito non c’erano mai state obiezioni. Lo studio notarile è ampio e luminoso. Il notaio è un signore gioviale che suscita immediata simpatia. Ha occhi chiari e penetranti e un sorriso aperto che usa forse per attenuare la solennità delle circostanze di cui si occupa. Luisa e i suoi fratelli sono compostamente seduti di fronte a lui che, prima di iniziare la lettura, esprime le sue condoglianze ricordando il rapporto di fiducia e amicizia che si era stabilito negli anni con i loro genitori. La lettura scorre veloce nel silenzio più assoluto fino a quando si arriva alla parte relativa alla casa di famiglia, quella in cui tutti i presenti hanno trascorso l’infanzia e dove il padre ha vissuto gli ultimi anni della sua vita insieme a Luisa. «La casa di via Corradini con tutto quello che contiene» legge il notaio «è destinata a Luisa, la meno fortunata dei miei figli…» Mentre pronuncia queste parole sembra esitare, ruota lo sguardo su Luisa e i suoi fratelli come per verificarne le reazioni. La frase cade in un silenzio teso. Poi Ada si lascia sfuggire un commento sommesso: «La meno avveduta, forse…», ma si rende conto immediatamente dell’aggressività nascosta nelle sue parole. Allora sorride alla sorella e con la mano le dà piccoli colpi sulla spalla; un gesto che vorrebbe essere affettuoso e riparatorio, ma che sottolinea, suo malgrado, il malumore che quella notizia ha suscitato in tutti.

La breve tregua che Luisa aveva percepito dopo la morte del padre svanisce in quei pochi minuti. A parte l’infelice battuta di Ada, nessuno, in presenza del notaio, dimostra disappunto o contrasto. A fine seduta si salutano freddamente, ma Luisa riesce a ottenere da tutti e tre l’impegno di rivedersi l’indomani nella vecchia casa. Lei stessa è stupita da quella eredità. È vero che ogni domenica il padre impiegava gran parte della mattinata a leggere gli annunci immobiliari sul “Secolo XIX”. Ma Luisa non dava peso a quelle ricerche; le riteneva niente più che una sorta di rito domenicale. Il vecchio signore segnava le proposte che gli erano sembrate più adeguate e gliele sottoponeva. «Dobbiamo cambiare casa» diceva ogni volta. «Qui siamo troppo lontani dal centro.» «Sì, papà, ma siamo immersi nella natura…» «Troppo immersi, nella natura e nei ricordi tristi.» Luisa annuiva sorridendo mentre gli porgeva la tazzina del caffè. «Questa credo sia un’ottima occasione» continuava eccitato lui mostrandole un annuncio più convincente di altri. «È anche vicina all’università, nel caso tu decidessi…» Lei lo aveva sempre assecondato senza mai pensare che davvero volesse vendere la villetta dove aveva trascorso tanta parte della sua vita. Destinandola solo a Luisa, suo padre non si era preoccupato del prevedibile malumore che avrebbe suscitato tra i suoi figli. Con quel lascito, probabilmente, pensava di sottrarre la figlia meno fortunata alle possibili interferenze dei fratelli. Lei avrebbe deciso in tutta libertà se restare o se andarsene altrove. Ed è questo a spaventare Luisa: le volte – poche – che si è concessa una scelta libera ha commesso errori dei quali sconta ancora le conseguenze. Per tutta la notte prova a stanare i suoi veri desideri. “Ma che cosa vuoi veramente?” si domanda, cercando di separare le proprie aspirazioni dalle ultime volontà del padre. A quella casa non è particolarmente affezionata. Le tappezzerie sono impregnate della sua infelicità, gli odori, gli scricchiolii, le luci e le ombre sono mute testimonianze delle umiliazioni subite fra quelle mura. Perché non liberarsene, ora che si può concedere questo lusso

inatteso? Poco a poco si convince che le sue indecisioni non sono il frutto di un residuo attaccamento alla casa, ma nascono dal non aver mai permesso a se stessa di desiderare una destinazione diversa dalla villetta di via Corradini. Da quando vi è rientrata, dopo la cocente sconfitta amorosa, ha pensato di non poter mirare ad altro che a quel rifugio-prigione. La lunga notte, insonne e tormentata, si conclude all’alba, quando si addormenta stremata senza aver preso alcuna decisione. L’indomani, però, all’arrivo dei fratelli, si accorge di avere le idee molto chiare e di essere fermamente decisa a difenderle. «Voglio vendere la casa» dice stupita della propria imperturbabilità. «Ma non dire sciocchezze!» sbotta Ada con un tono che sembra la riproduzione delle soverchierie materne. Francesco e Mario sono meno diretti, ma anche loro si mostrano “affettuosamente” scandalizzati dalla decisione della sorella. «Questa è la casa della nostra infanzia, custodisce ricordi, sentimenti, rimpianti; il fatto che papà l’abbia destinata solo a te non significa che tu la possa alienare escludendoci da ogni decisione.» Con questi argomenti Francesco sfodera un tono accattivante e premuroso, ma a sorpresa Luisa si sente invadere da un sentimento che inizialmente fa fatica a riconoscere. È la ribellione della sua giovinezza, quella che le ha permesso a suo tempo di andarsene di casa sbattendo la porta. L’unica differenza rispetto a quel giorno triste e lontano è che adesso ha deciso di dipendere solo da se stessa. «Io la casa la vendo» dice. «A voi se la volete o ad altri. Ho bisogno di soldi per comprarmene una più moderna e meno periferica. Quelli che papà ci ha lasciato non mi basterebbero per avere una nuova casa e per mantenermi.» L’incontro si chiude in modo tempestoso. Ada va via senza salutare. Francesco e Mario le ricordano impietosi la tendenza a fare scelte sbagliate. Il giorno stesso Luisa, indispettita dalle parole dei fratelli, va in città a cercare un’agenzia immobiliare. La accoglie un giovanotto abbronzato e sorridente. «Ma tu sei Luisa!» esclama festoso. «Luisa, non ti ricordi di me?

Sono Marco.» Non lo vede dai tempi del liceo e, senza un motivo comprensibile, ritrovarlo dopo tanti anni la rincuora. Era il più bello della scuola, e tutte, lei compresa, credevano di esserne innamorate. Se si fosse fermata agli amori adolescenziali invece di infervorarsi per uno spiantato professore di musica! Che fortuna trovare in agenzia una persona amica a cui affidare la vendita della casa! Questo incontro le appare come un segno, un modo inventato dal destino per farle capire che ha preso la decisione giusta. Marco comincia a frequentare Luisa con assiduità. Quasi ogni giorno le telefona per annunciarle che porterà nuovi possibili acquirenti a visitare la villetta. Si alternano coppie giovani e meno giovani, famigliole con bambini o anziani in fuga dai rumori della città. Luisa li osserva curiosa, di ciascuno cerca di indovinare la storia e le aspettative. Ogni volta che Marco le annuncia una visita, lei riempie la casa dei fiori del giardino per renderla accogliente e colorata. «Sei brava» le dice Marco. «Un po’ di fumo negli occhi incoraggia gli acquisti.» Il complimento la infastidisce: «Non è per imbrogliare la gente che cerco di rendere più accogliente la mia casa!». Lui sorride: «Sei rimasta permalosa come quando ti facevo la corte a scuola! Ma oggi per farmi perdonare ti porto a vedere la casa giusta per te. Sono certo che ti piacerà moltissimo». E non si sbaglia. Luisa resta incantata. È un attico in centro, pieno di luce, silenzioso, appartato. Ha un piccolo terrazzo dal quale si apre una vista incantevole. Fra i comignoli e i tetti, in lontananza, un ampio spicchio di mare sembra moltiplicare la luce e allargare l’orizzonte. Per Luisa è un autentico colpo di fulmine, ma la cifra che chiedono va ben oltre quella che si può permettere. Ciò che le dispiace non è tanto l’idea di non poterla acquistare, ma il fatto che ogni appartamento successivamente visitato le appare come un frustrante ripiego. Questa rinuncia diventa una sorta di rovello, un’ombra che cala sull’esaltante sensazione di libertà e di

cambiamento che ha vissuto nelle ultime settimane. Nemmeno la notizia che la vendita della villetta di famiglia sta andando a buon fine riesce a risarcirla del fatto di non poter avere la casa dei sogni. Per consolarla, Marco la invita a cena e le elenca i passi da seguire per liberare la casa dei suoi. L’indomani Luisa chiama i fratelli. «Ho trovato gli acquirenti per la casa. Sono persone affidabili e piacevoli. Sono certa che la tratteranno molto bene.» «Certo meglio di come l’hai trattata tu» sibila Ada. Luisa ignora l’astio e continua: «Gli acquirenti mi hanno chiesto di concedergli novanta giorni prima di fare il rogito. Aspettano dalla banca la conferma del mutuo, ma sono certi che non ci saranno problemi. Quindi abbiamo tre mesi di tempo per renderla disponibile. Ognuno di noi può scegliere e portarsi via in tutta calma le cose che ha amato di più». L’appello di Luisa scatena tra i fratelli reazioni scomposte. Ada tronca la telefonata dopo aver ricordato alla sorella il dolore che le sue alzate di genio hanno procurato a tutta la famiglia. Francesco le dice che il prezzo ottenuto è nettamente inferiore al valore della casa e, d’altra parte, aggiunge, da lei non si sarebbe aspettato niente di meglio. Mario, più diplomatico, le dice che volentieri andrebbe ad aiutarla, ma se lo facesse, se scegliesse anche solo uno degli oggetti di casa, gli sembrerebbe di andare contro il volere del padre. Luisa subisce sbalordita le risposte dei fratelli ma non se ne rattrista, prevale invece lo stupore di scoprire che quelle dosi di veleno hanno perso l’antica efficacia e non hanno più alcun effetto su di lei. Nelle settimane successive si dedica con puntigliosa devozione a svuotare i mobili, a compilare inventari e a mettere le cose che vuole conservare in apposite casse. È un lavoro lungo e a tratti dolente. Le passano tra le mani la memoria dei giorni vissuti, l’allegria dell’infanzia, le tensioni e le paure dell’adolescenza, il coraggio, le angosce e i pentimenti. Si inoltra nell’archivio delle memorie e ritrova a sorpresa, fra gli altri, il sentimento antico per i fratelli, le complicità, l’armonia, le birichinate inventate e consumate insieme. “Perché tutto questo è andato perduto?” Se lo domanda commossa, presa da un acuto senso

di nostalgia che mette via con la cura che si usa di solito per le cose fragili e preziose. Marco va sempre più spesso ad aiutarla e la sua presenza basta, a volte, per sdrammatizzare alcuni passaggi psicologicamente impegnativi. La schedatura di quel che passa tra le loro mani si trasforma in una sorta di puntuale narrazione e scioglie ogni inquietudine latente. Fra le stanze da svuotare ce n’è una, un disimpegno, che veniva adibita a raccogliere le cose che la mamma metteva via con l’idea che prima o poi sarebbero tornate utili. Da piccoli, Luisa e i suoi fratelli la chiamavano la stanza di Barbablù perché era stata proibita ai bambini benché contenesse oggetti inutili e superati. Ricorda molto bene la paura provata quando convinceva gli altri a entrarvi di nascosto, non per prendere o lasciare qualcosa, ma solo per il gusto di violare un tabù. Stranamente, anche dopo la morte della mamma, quella stanza era rimasta inviolata, non tanto per la forza del vecchio divieto, quanto per una sorta di inspiegabile pigrizia. Forse è per questo e non per ragioni di praticità che ha deciso di svuotare per ultimo il disimpegno. È incredibile la quantità di cose che la mamma aveva preservato. Seggioloni, carrozzine, vecchi giocattoli destinati forse ai nipoti a venire, che però non erano serviti per i figli di Ada, Francesco e Mario: troppo antichi e fuori tempo per essere riutilizzati. In un grande armadio, divisi per anni, ci sono i quaderni delle elementari suoi e dei fratelli, le pagelle, le foto di gite scolastiche e lettere, un’enorme quantità di lettere. Se cedesse alla tentazione di leggere tutto, a Luisa non basterebbero i tre mesi che ha a disposizione. Preferisce occuparsi di altro e comincia a tirare fuori cofanetti, pacchi e buste ordinatamente disposti sui piani alti dell’armadio. Le vecchie scatole che hanno contenuto in passato scarpe, dolci, biscotti e camicie sono state riutilizzate per mettervi gli oggetti più impensati. In una ci sono bigodini e mollette serviti a suo tempo per le messe in piega casalinghe, in un’altra piccoli gomitoli di lana di ogni colore, resti di maglie fatte in casa, e poi bottoni di ogni forma,

bomboniere, spille, nastri. La mamma non buttava via niente! Luisa apre, richiude e mette da parte, con l’idea di rivedere con calma se mai ci fosse ancora qualcosa da tenere. È un lavoro lungo ed emotivamente impegnativo. Riesce a occuparsene ogni giorno per non più di due o tre ore, passate le quali interrompe esausta quelle penose esplorazioni. Un giorno decide di svegliarsi presto per accelerare il lavoro, ma a metà mattinata è già stanca. “Ora basta” dice fra sé. “Ne guardo ancora una, il resto lo farò domani.” Sceglie, fra quelle rimaste, una scatola più piccola delle altre. È di latta e ha un gran mazzo di rose stampato sul coperchio; certamente a suo tempo conteneva caramelle o biscotti. Quando la apre ha un sussulto, gli occhi le si appannano, la mano le trema. “Sono stanca” pensa. “Vedo cose che non ci sono.” Prova a richiudere la scatola tenendo la mano ben ferma sul coperchio. Aspetta che il cuore smetta di saltarle nel petto, si siede su una vecchia poltrona sgangherata, cerca di dare un ritmo più regolare al respiro e finalmente, con grande cautela, risolleva il coperchio con le rose. Non si è sbagliata: quella scatola contiene banconote. Tante. Sono divise in tagli diversi e disposte ordinatamente in mazzette. Luisa le conta incredula: sono 925.000 euro. Una fortuna! Una ridda di pensieri le attraversa la mente. “Sono facsimili” dice a se stessa. “Carta stampata di nessun valore.” Ma che senso avrebbe avuto nascondere accuratamente tanto denaro falso? Presa da un’incontenibile frenesia, toglie da un plico quattro biglietti da 50 euro e si precipita fuori casa. L’agenzia della Cassa di risparmio è ancora aperta. «Vorrei fare un versamento» dice al cassiere, che la guarda stupito per la sua evidente agitazione. L’operazione si svolge nella più tranquilla normalità. “Dunque si tratta di soldi veri!” pensa Luisa mentre torna sui suoi passi, convinta che stia per venirle un infarto. A casa riprende la scatola e riconta il denaro. “Perché tutti questi soldi segreti?” si domanda incredula. “Chi ha nascosto questo tesoro? È stata la mamma che nella sua inguaribile avarizia non si fidava delle banche? O papà che a causa dell’infarto improvviso non ha fatto in tempo ad avvertirmi? È questo che voleva dire quando nel testamento ha scritto che mi lasciava la casa con tutto quello che contiene?”

I dubbi più tormentosi riguardano i fratelli. “Devo chiamarli” dice a se stessa. “Devo metterli al corrente dell’incredibile scoperta e dividere con loro la nuova eredità.” Ma qualcosa in lei si ribella. Non ha forse chiesto a ciascuno di loro di darle una mano per svuotare la casa? Come non ripensare alle risposte liquidatorie e cattive che le hanno propinato? Nessuno dei tre le ha mai risparmiato scherno o disistima, perché dovrebbe gratificarli adesso con la propria generosità? Nei giorni e nelle notti seguenti si alternano in lei il rabbioso rifiuto di rivelare la scoperta ai fratelli e il senso di giustizia che da sempre si porta dentro. Non sarebbe corretto escluderli da quella improvvisa fortuna, ma lei – la stupida, la visionaria, la sventata – non è sempre stata esclusa dalle loro vite? A tratti si sente assalire dalla nostalgia dell’infanzia, quando tutti insieme giocavano felici ed era certa che le volessero bene, almeno quanto lei ne voleva a loro. E a quel punto diventa più forte il desiderio di chiamarli al telefono per condividere la gioia del fortunoso ritrovamento. Se si trattasse di persone diverse potrebbe sperare in una loro rinuncia a quel denaro che, viste le circostanze, forse spetterebbe a lei anche legalmente. Ma l’idea di affrontare l’astio di Ada, la sufficienza di Francesco e il distacco di Mario la spaventa più di tutte le sue insicurezze. Una mattina, incapace di reggere ancora la dolorosa altalena tra il sì e il no, decide di consultare Marco. All’inizio non gli dice l’entità della cifra, gli racconta solo che ha trovato del denaro nascosto in casa e che, se non dovesse dividerlo con i fratelli, potrebbe comprare l’attico dei suoi sogni. Lui non capisce. «Quei soldi li hai trovati tu in casa tua. Se tua madre, tuo padre o chiunque li abbia nascosti lì avesse voluto dargli una destinazione diversa, avrebbe lasciato disposizioni precise. Perché dovresti dividerli?» «Perché si tratta di una somma enorme!» esclama infelice Luisa. «Ah,» ride lui «allora sei onesta solo sulle grandi cifre, mentre sulle piccole puoi anche fare eccezioni. E qual è la somma esatta sulla quale puoi glissare?»

Quando Marco se ne va, Luisa si convince che nessuno può decidere per lei e, stanca di tormentarsi, telefona alla sorella. «Ciao Ada, so che ti deludo sempre, ma questa volta ho una bella notizia da darti. Nei giorni scorsi ho svuotato la stanza di Barbablù e sai cosa ho trovato?» «Non lo so e non voglio saperlo» risponde la sorella e aggiunge: «Quello che so è che l’unica cosa che avresti dovuto trovare è quel buon senso che ti è sempre mancato.» «E invece ho trovato proprio quello!» esclama Luisa mentre trionfante interrompe la comunicazione. Il cuore le batte all’impazzata. Non avrebbe mai immaginato che proprio da Ada le sarebbe arrivata l’autorizzazione a tacere. Il sollievo dura poco. Per tutto il giorno è stata serena, convinta che l’aggressione subita dalla sorella fosse la risposta che stava cercando. Ma nella notte l’ansia le cala di nuovo addosso più intensa e vischiosa che mai. A essere onesta dovrebbe chiamare anche Francesco e Mario. Ada ha parlato per sé, ma gli altri due forse le darebbero almeno il tempo di informarli su quello che ha trovato nella stanza di Barbablù. Riesce a placarsi solo quando si ripromette che l’indomani mattina, appena sveglia, chiamerà i fratelli. Dorme un sonno lungo e tranquillo. Forse sogna, ma poi ricorda solo immagini sfocate di cui le sfugge il significato. Se solo suo padre le fosse apparso in sogno per dirle che fare! Nello sforzo di ricordare qualcosa, un’immagine le ritorna confusa alla mente. È quella del notaio che le sorride seduto dietro alla sua monumentale scrivania! Ecco il segno tanto atteso: è arrivato! Corre a cercare il telefono e a dispetto dell’ora antelucana chiama Marco. «Se decido di non vendere più la casa a quei signori, devo pagare una penale?» «Ma che stai dicendo, Luisa? Hai avuto una notte difficile?» «No, ho dormito benissimo. Ho sognato il notaio… ma rispondi alla mia domanda, per favore!» «No, nessuna penale perché non c’è stato alcun impegno scritto. Solo una figuraccia e la perdita di un affare da entrambe le parti. Ma mi spieghi che cos’hai in mente?»

«Vado dal notaio e faccio un atto di rinuncia alla casa dei miei. Non la voglio quella casa, se la prendano i miei fratelli e mi lascino in pace nel mio attico in mezzo alle nuvole!» Il sogno si rivela davvero profetico, ma non nella direzione immaginata da Luisa. «Nessun problema per la rinuncia» le dice il notaio. «La casa andrà automaticamente ai suoi fratelli senza bisogno di un atto di donazione.» Luisa sospira sollevata, ma l’uomo non ha finito: «La grana grossa riguarda il denaro. Nessun notaio potrebbe accettare tutti quei soldi senza conoscerne la provenienza…». La ragazza lo guarda allibita. «Ma se nemmeno io so da dove vengono…» Il notaio è quasi intenerito: «So che è difficile da accettare, ma quel denaro non si può spendere. Non legalmente». «Allora lo verso sul mio conto in banca…» «In tal caso, due ore dopo che l’ha depositato le arriva a casa la Guardia di finanza…» Luisa resta in un silenzio assorto. Poi, come se parlasse fra sé: «Papà aveva ragione» sospira. «Sono la più sfortunata dei suoi figli!» L’uomo scoppia in una sonora risata. «In effetti è una grande sfortuna scoprire di essere molto ricca, di potersi permettere case dagli affitti costosissimi, acquisti, viaggi, crociere sapendo di poter attingere, sia pure segretamente e con cautela, a una specie di pozzo di San Patrizio, misterioso e quasi inesauribile.» Luisa è convinta che le sue penose insicurezze derivino dal malanimo degli altri nei suoi confronti. Nessuno le vuole bene. L’inganno del suo innamorato, la persistente acrimonia della mamma e la mancata solidarietà dei fratelli l’hanno convinta di non meritare né l’affetto né la stima di chi le sta intorno. Per questo cerca di rendersi invisibile e accetta in silenzio gli sgarbi e le malignità che le vengono riservati. Col tempo si è rintanata in una sorta di oscurità affettiva, ha spento i sentimenti, quelli buoni e quelli cattivi, ha bloccato l’ira e i rimpianti, la commozione e il rancore. Non è mai riuscita a lasciarsi alle spalle il ricordo dell’infelice scelta amorosa e non si è accorta che il vero carnefice era lei stessa, con la sua decisione di non reagire a nulla e a nessuno.

Lasciandola erede unica della casa, il padre, che del tormento della figlia si era di certo reso conto, intendeva forse costringerla a riscuotersi dalla dolorosa passività nella quale si era spontaneamente imprigionata. Il vero lascito, infatti, non è la casa e nemmeno il denaro (se proviene dalla volontà paterna), ma l’obbligo di decidere in assoluta libertà che cosa fare della sua vita.

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Segreti

Narra un’antica leggenda che re Mida, avendo ricevuto per castigo divino un paio di monumentali orecchie d’asino, nascondesse la sua anomalia sotto un altissimo copricapo. L’unico a conoscere l’imbarazzante situazione era il barbiere di corte, al quale però era stato intimato il silenzio assoluto, pena la condanna capitale. Il pover’uomo ci provò, ma quel segreto gli rodeva dentro tormentandolo giorno e notte. L’eccitazione che gli derivava dall’essere unico depositario di quella bizzarria regale gli suscitava un’incontenibile voglia di vantarsene in giro, ma oscurare il prestigio del sovrano gli sarebbe costata la vita. Una sera, non riuscendo più a reggere il peso di quel divieto, l’uomo scavò una buca tra le canne e vi soffiò dentro la sua occulta verità: “Re Mida ha orecchie d’asino” borbottò a bassa voce, godendosi il sollievo di quella liberazione. Ma il vento, frugando tra le frasche, si impadronì del suono di quelle parole e spifferò il segreto in ogni angolo della terra. I segreti non si lasciano seppellire. Sembra facile mantenerli: basta decidere di tacere qualcosa, di serbare per sé emozioni e sentimenti, di fingere che certi eventi non siano mai accaduti. Ma facile non è, perché non esiste segreto che non trascini con sé lo stress di una decisione. Che si tratti di nascondere una bugia, di negare un desiderio, di proteggere comportamenti propri o altrui, la condizione psicologica che si determina quando si ritiene di aver scelto il silenzio invece della rivelazione non è mai definitiva. Mentre tutto sembra appianato, il non detto si manifesta sotto le forme più subdole e inattese. Non sono solo la gaffe, la parola di troppo, il ricordo impreciso a mettere in pericolo quella verità celata. C’è molto di più. C’è che il segreto, anche il più accuratamente riposto, “sbava” e crea col suo filo invisibile un’impalpabile ragnatela fra la voglia di liberarsene e quella di trattenerlo. Il più classico dei non detti riguarda il tradimento in amore. Può accadere che anche all’interno di rapporti felici, di legami saldi e importanti si scivoli –

come diceva una vecchia canzone – in una vertigine, in un falso batticuore. E che si tradisca. Che fare dopo, confessare o no? Un’antica regola non scritta dice che chi ha il coraggio di tradire dovrebbe avere anche quello di tacere e di serbare per sé i tormenti più o meno sinceri che ne derivano. Rivelare quel cedimento può essere una forma di riparazione, di lealtà verso il partner, e un modo di punire se stessi della propria leggerezza. Senza contare l’effetto liberatorio che si prova quando ci si scrolla di dosso il senso di colpa. Ma rivelare l’infedeltà provoca nella coppia un sisma emotivo dalle conseguenze imprevedibili, la fiducia sarebbe incrinata per sempre; l’ansia e il sospetto finirebbero per minare la serenità che, fino a quel momento, aveva sostenuto il rapporto. Ecco perché di fronte all’antico dilemma del dire o non dire, molti decidono di mantenere il segreto, convinti che questa sia la scelta più agevole per tutti. Il silenzio dovrebbe cancellare, poco a poco, ogni traccia del tradimento e permettere persino a chi ha tradito di proteggersi con l’oblio, ma l’impulso a confessare continua a scorrere come un fiume carsico e agisce insidioso sulla pace degli adulteri. Tuttavia i segreti più insidiosi sono quelli che aleggiano all’interno delle famiglie. Accade a volte che poche persone siano a conoscenza di eventi familiari ritenuti, a torto o a ragione, indicibili e investano tutte le forze per custodirne gelosamente il contenuto. Eppure certi celati misteri riescono a trasmettere insicurezze e malesseri a chi ne è tenuto all’oscuro. Chi non sa assorbe comunque l’ansia di quelli che sanno e non riesce a identificare i motivi profondi dei propri malesseri.

GRAZIE, ZIA Il giorno del suo quarantaduesimo compleanno, Ivo, per la prima volta – almeno gli sembra – si rende conto che è arrivata l’ora di introdurre qualche cambiamento nella sua vita. L’idea, in verità, gli viene almeno una volta all’anno, ma passata la festa tende a dimenticarsene cosicché al successivo compleanno si convince di aver concepito un pensiero inedito e genuino. Poi, dissolti i fumi delle festive inquietudini, tutto rientra in quella sorta di limbo nel quale si è

da tempo costruita una nicchia protettiva. È la madre, Cecilia, che al taglio della torta comincia a sfogliare le pagine della vita. Le sue rimembranze si fanno, di anno in anno, di racconto in racconto, più epiche e drammatiche. «Sei nato in una notte di pioggia… Dio come pioveva!» «La macchina di papà non è partita» la anticipa Ivo, sperando di abbreviare la cronaca della sua venuta al mondo. «E il taxi non arrivava» completa lei, per niente turbata dalla sfumata ironia nella voce del figlio. Continua imperterrita a ricostruire nei dettagli il lungo travaglio, lo stupore dei medici per il suo coraggio e per la bellezza di quel meraviglioso bambino. «Venivano a vederti anche le ricoverate degli altri reparti, si era sparsa la voce. Somigliavi a Gesù Bambino.» Con un sorriso cristallizzato sulle labbra, Ivo riascolta la ben nota odissea tenendo gli occhi bassi per non incontrare lo sguardo beffardo di Rita, la moglie. Ora, terminata la descrizione del parto, la mamma passerà a parlare della sua forma fisica che, malgrado avesse partorito un bebè di quattro chili, non aveva perduto nulla del primitivo splendore. I quarantadue anni che si stanno festeggiando vengono ricostruiti uno dopo l’altro: nascita, infanzia, adolescenza, scuola materna, elementari, medie, liceo, università. Esaurito il cursus honorum del figlio, la signora Cecilia, instancabile, si esibisce nel racconto di sé, degli “spasimanti” che a dispetto dell’età non le danno tregua, degli abiti appena comprati o delle crociere per le quali si appresta a partire. Anche se ha sentito ripetere milleuna volte le stesse cose, Ivo è sempre un po’ coinvolto dalle narrazioni materne. Gli piace vedere l’eccitazione infantile di Cecilia, lo diverte lo spudorato narcisismo della madre, la trova spiritosa, brillante e tuttora molto bella. Ma deve stare attento a non lasciar trapelare nulla del suo compiacimento o della sua affettuosa indulgenza. Sua moglie Rita, eternamente critica e impietosa nei confronti dell’anziana signora, non glielo perdonerebbe. Anche adesso sa con esattezza ciò che lei gli dirà quando la festa sarà finita e loro resteranno soli: “Non dovrei dirtelo, ma tua madre stasera ha

veramente esagerato!”. Perché tutte le volte inizia i suoi attacchi con l’espressione “non dovrei dirtelo” quando è evidente che non vede l’ora di aprire il suo personale, velenoso vaso di Pandora? Secondo sua moglie, non c’è niente che si possa salvare nei comportamenti di Cecilia, a partire dalla passione per un abbigliamento provocante e ordinario. Indossa minigonne più adatte a un’adolescente che a una settantenne; porta jeans tagliati come le tele di Lucio Fontana; va a ballare quasi ogni sera e sempre con amici diversi. Col tempo la contestazione è diventata una specie di cerimonia. A ogni “dopo Cecilia” Rita recita le sue geremiadi senza alcuna benevolenza, mentre lui, per quieto vivere, si limita a fare cenni vaghi con la testa, tanto vaghi da poter essere letti come un consenso che non ha bisogno di commenti o di adesioni più esplicite. Non può spiegare alla moglie che, se da una parte non capisce gli atteggiamenti della madre, dall’altra tuttavia lo inorgogliscono. È vero che Cecilia è logorroica, ma parlando rivela la sua genuinità. Porta minigonne e jeans sdruciti? Fortunata lei che se li può permettere. È vero che, invece di adattarsi alla terza età, sembra appena entrata in una seconda giovinezza, ma per lui è un merito, non una sconveniente ostentazione. Da ragazzo si era assuefatto alle battutine maliziose dei compagni sulla bellezza di Cecilia, o peggio, alle arie di compatimento delle altre mamme. Tutto questo non lo turbava; quando era ancora alle elementari, la mamma gli aveva spiegato che da sempre sopportava con pazienza e persino con orgoglio tanti attacchi invidiosi. “Meglio essere invidiati che compatiti” diceva. “Devi imparare a leggere le maldicenze come una conferma delle nostre qualità. Molte persone non sopportano che altri siano più fortunati di loro.” Non che adesso, a quaranta e passa anni, continui a pensare alla mamma come alla più bella del reame e a se stesso come a un privilegiato dalla sorte, ma col tempo, grazie alle interpretazioni creative di Cecilia, ha imparato a trasformare critiche e dicerie in puntelli per le proprie sicurezze. Con Rita era andata proprio in questo modo. Fin dagli inizi del

loro rapporto lei aveva cominciato a manifestare una censura discreta ma tenace nei confronti di Cecilia. Ivo non se n’era preoccupato, convinto che, prima o poi, anche lei – che nel frattempo era diventata sua moglie – si sarebbe accorta che i suoi dubbi si basavano più sul conformismo che sulla verità dei fatti. Nei commenti di Rita sulla madre Ivo avvertiva un sentore vagamente pedagogico, come se si fosse assunta il compito di convertire il marito a una visione meno “lassista” – così diceva lei – dei comportamenti femminili. L’idea lo divertiva, era come se lei volesse insegnare ai pesci a nuotare! Così pensava mentre restava in fiduciosa attesa che la conversione di Rita arrivasse a migliorare l’armonia della famiglia. Ma non era mai accaduto. Quando Rita rimane incinta, la sua inimicizia per Cecilia si inasprisce ulteriormente, come se quella novità avesse dato più fiato ai suoi argomenti. L’annuncio della gravidanza eccita Cecilia che, contrariamente alle sue abitudini di discrezione e distacco, si fa più presente nella vita del figlio. Diventa prodiga di attenzioni e consigli per la nuora, prepara torte, compra completini per il bebè, fa progetti, telefona spesso. «Spiega a tua madre che non sarà lei a partorire» sibila Rita, sempre più insofferente. Per Ivo cominciano giorni pesantissimi, non solo per la tensione che si addensa fra la due donne, ma soprattutto perché capisce che Rita ormai non si accontenta più di critiche generiche; vuole che lui si schieri in modo netto e convinto. “O con me o con lei” è l’imperioso messaggio che legge negli occhi scintillanti della moglie. L’inerzia nella quale si è rifugiato fino a quel momento, in attesa dei tempi migliori che non sono mai venuti, non è più praticabile. Ma come convincere la moglie che il suo amore per lei non è paragonabile a quello che prova per la madre? Di Rita ama il sorriso ampio e luminoso, la caparbietà con la quale difende i suoi punti di vista, la coerenza dei suoi principi e l’assoluto disinteresse per la moda o per le cose frivole che tanto seducono le donne. Forse gli piace proprio perché è diversa dalla madre, ma non ha mai pensato che l’una sia migliore dell’altra e che dalle loro differenze potesse scatenarsi quella incomprensibile guerra.

Ora, in nome della creatura che sta per arrivare, Rita gli chiede un’abiura. Per rendere serena la sua gravidanza lui deve “aprire gli occhi” e ammettere finalmente che Cecilia è una donna fatua e dozzinale, che il suo egocentrismo è sconfinato e non le permette di amare nessun altro che se stessa. «Ma ammesso che questo sia vero» controbatte lui «che senso avrebbe adesso prendersela con una donna di settant’anni? Lei è mia madre, è rimasta vedova quando ero ancora molto piccolo, mi ha tirato su facendo sacrifici. Non posso chiederle di cambiare adesso. E comunque, a me va bene così com’è!» «Se è lei il tuo modello di donna, perché allora hai sposato una come me?» Ivo è sconcertato; com’è possibile che il suo rapporto con la madre si sia a un tratto trasformato in un problema indecifrabile? Che significa “modello di donna”? Ne esiste forse uno solo o – come Rita vuole fargli credere – ce n’è uno buono e uno cattivo? Il suo cruccio maggiore è che quel continuo litigare possa nuocere al bambino, e per questo si ripropone di capitolare. Dirà a Rita che sua madre è una donna sbagliata anche se non lo pensa. E a Cecilia dedicherà più tempo e più attenzioni per risarcirla di quel segreto tradimento. Ma i buoni propositi che elabora mentre è in ufficio evaporano appena torna a casa e coglie, nello sguardo ansioso della moglie, i lampi dell’attesa. Lui quelle stupide cose di donne non riesce a dirle, e non può accettare che Rita gli metta in bocca parole che non gli appartengono. Si dibatte da settimane, non sa trovare il bandolo per sciogliere quei nodi. Forse è solo perché non ne capisce il senso, ma trova assurde le richieste di Rita, e al tempo stesso non vuole farla star male. Una mattina, mentre per l’ennesima volta si interroga sulla sua situazione, squilla il telefono. È un po’ in ritardo, sta prendendo il caffè in piedi davanti alla finestra della cucina. Fuori scende un’acquerugiola fine e triste che sembra la cornice più adatta per inquadrare la tetraggine del suo umore. “Non rispondo” si dice, ma subito si rende conto che di mattina presto non può essere il solito promotore di abbonamenti telefonici. Forse è la mamma – pensa

immediatamente inquieto – e se chiama a un’ora tanto insolita vuol dire che non sta bene. «Pronto, Ivo? Caro, sono la zia Evelina! Chissà se ti ricordi ancora di me…» Dell’infanzia Ivo non ha alcuna memoria, le poche cose che sa non sono di “prima mano”, le ha recuperate dalle narrazioni che la madre ogni tanto mette in scena. In questi romanzi familiari zia Evelina non compare quasi mai: Ivo sa soltanto che è una sorella della nonna paterna. Molti anni prima aveva sposato il suo ricchissimo datore di lavoro e si era trasferita con lui in Svizzera. Era tornata da Zurigo solo una volta, in occasione del funerale della nonna, al quale non avevano partecipato né lui né Cecilia per un motivo che non riesce a ricordare. La zia è venuta in Italia per “certi affari di famiglia” – così dice – e avrebbe tanto piacere di incontrarlo. Difficile declinare un invito di questo genere. Ivo accetta senza esitazioni, anche perché della famiglia paterna sa pochissimo, e Cecilia, quando la interroga in proposito, si mostra disinformata e poco disponibile. Quell’appuntamento inaspettato gli cambia l’umore di colpo. Una strana eccitazione si impadronisce di lui, e la giornata gli si spiana davanti meno cupa di com’era iniziata. Dovrebbe svegliare Rita e raccontarle la novità, ma è frenato da un’incomprensibile resistenza. “È perché sono già in ritardo” spiega a se stesso. “Glielo dico dopo, per telefono.” La giornata passa veloce e le mille cose da fare non gli permettono di trovare il tempo per chiamare la moglie. Quando lo fa, è solo per avvertirla che un imprevisto lo trattiene in ufficio più del dovuto; non le dice dell’appuntamento con la zia perché – si convince – sarebbe una cosa troppo lunga da spiegare al telefono. L’hotel è tra i più costosi della città. La zia lo riceve in un salottino elegante e appartato messo a disposizione dal servizio clienti. È una signora minuta e gentile quella che gli viene incontro con le braccia tese. «Caro» dice, ma la voce le si spezza. «Scusa, mi impressiona la somiglianza con tuo padre. Mi è sembrato di veder entrare lui!» Ivo è sbalordito: la commozione della vecchia signora dev’essere

contagiosa, perché sta facendo un enorme sforzo su se stesso per non lasciar trapelare il suo turbamento. Ma che gli sta succedendo? Si commuove davanti a una sconosciuta? «Scusa,» ripete la donna «è un segno dell’età. Gli anziani piangono per nulla… vieni, siediti vicino a me. Mi devi raccontare tante cose…» Ivo la guarda incantato perché la voce, i gesti, il viso di quella signora gli riportano alla mente immagini di una remotissima infanzia che pensava di aver perduto per sempre. «Anche tu» sente dire dalla sua voce «somigli tanto alla nonna Ebe.» «Per forza!» sorride lei. «Eravamo sorelle!» E aggiunge: «Quanto bene ti ha voluto!». Poi comincia a raccontare. Parla con un tono caldo e carico di affetto e poco a poco gli riporta le sue prodezze da bambino, i suoi giochi, le sue paure e, soprattutto, il rapporto con il padre. «Tuo papà ti portava al mare ogni giorno. È lui che ti ha insegnato a nuotare.» Nulla di tutto questo è mai stato presente nei racconti esagitati di Cecilia. «Di lui non ricordo niente» dice Ivo, come se parlasse più a se stesso che alla zia. «Eri così piccolo quando è mancato! E poi, dopo il fattaccio, tuo padre non è più stato lo stesso…» Quella parola, “fattaccio”, gli scatena dentro un’angoscia misteriosa. Ivo avverte con improvvisa lucidità che sta accadendo qualcosa di ineluttabile, qualcosa che cambierà la sua vita; eppure, non riesce a trattenersi. «Quale fattaccio?» Una giovane madre, mentre il marito era all’estero per lavoro, aveva abbandonato il suo bambino in una panetteria. Ne aveva parlato tutta la città. “Non sta certo parlando di me” pensa Ivo, tentando di respingere l’ansia che gli monta dentro. Come mai sua madre, sempre tanto prodiga di realtà romanzesche, non aveva mai inserito questo evento nei suoi racconti? Il bimbo aveva poco più di due anni e non era stato possibile identificarlo

subito. Erano passati parecchi giorni prima che i nonni paterni si rendessero conto che il piccolo abbandonato di cui tutti parlavano poteva essere il loro nipotino. Solo quando il figlio li aveva chiamati da Buenos Aires, preoccupato perché non riusciva a contattare la moglie, avevano cominciato ad allarmarsi. Dopo il “ritrovamento” il piccolo era rimasto in casa dei nonni poco più di tre anni. Il padre nel frattempo si era ammalato gravemente. «I medici dissero che era morto di leucemia» precisa l’anziana signora. «Ma nessuno di noi ci ha mai creduto. Tuo padre è morto di dolore!» Quando la mamma era rientrata dalla sua fuga aveva preteso la restituzione del bambino. A nulla erano valse le suppliche, i tentativi di accordo, le azioni giudiziarie. Cecilia – perché è di lei che si tratta – si era ripresa il figlio con la promessa di permettere ai nonni di vederlo di tanto in tanto. Ma dopo i primi tempi aveva via via ostacolato gli incontri previsti, inventandosi ogni volta un pretesto diverso per renderli difficili e penosi. I nonni non si erano arresi, ma nel frattempo Cecilia era diventata l’amante di uno degli avvocati più potenti della città ed era riuscita a ottenere una specie di diffida perché non si avvicinassero al bambino. A quel punto gli anziani si erano definitivamente trasferiti nella loro casa in riviera, per rendere meno struggente l’idea di vivere nella stessa città del nipote senza poterlo vedere. Il racconto della zia sconvolge Ivo. La sua infanzia era stata fino a quel momento un pozzo sigillato e adesso che può guardarci dentro ha paura di farlo. Un figlio legato da affetto sincero alla madre dovrebbe a questo punto ribellarsi, o quanto meno mettere in dubbio tutto ciò che la zia gli sta raccontando. Ma, per qualche misterioso motivo, ora ha l’impressione di avere sempre saputo. È come se d’un tratto i frammenti della memoria si fossero accorpati formando un’immagine completa. «Mi dispiace di averti costretto a rivangare antiche sofferenze, ma a ottantacinque anni non posso più aspettare. Tu sei l’unico parente che mi è rimasto e vorrei destinare a te i miei beni.»

Ivo è stordito dal succedersi di sorprese che l’incontro gli sta riservando. «Si tratta di una cospicua eredità» continua la zia. «Sarei molto felice di poterti assicurare, almeno dal punto di vista economico, un futuro sereno. Ma c’è qualcosa che mi frena e mi confonde. Tua madre, con il suo mostruoso egoismo, ha seminato nella mia famiglia lutti e dolore. Se ignorassi questo mi sembrerebbe di mancare di rispetto ai tuoi nonni, a tuo padre e a me stessa. Ecco perché non posso stilare questo testamento senza l’assicurazione da parte tua che Cecilia resterà esclusa da qualsiasi beneficio possa derivare dall’eredità. Devi promettermi di escluderla dalla tua vita come lei a suo tempo, e forse ancora oggi, ha escluso te dalla sua.» È troppo, troppo in un giorno solo. Tutto ciò che ha scoperto sulla mamma richiederebbe anni per essere elaborato. Ora, in poche ore, gli si chiede persino di venderla per denaro. La zia ha lo sguardo dolce, accattivante. La sua pelle è bianchissima, attraversata da un reticolo di rughe sottili che mette in risalto il colore azzurro degli occhi. Come può una donna dal viso angelico buttarlo nell’inferno di una decisione così crudele? «Io resto in Italia fino a lunedì. So che ti ho chiesto molto ed è giusto che tu abbia tempo per pensarci. Torna a trovarmi domani per dirmi cosa hai deciso.» La risposta ce l’avrebbe pronta, subito. Non può accettare una condizione simile, ma ugualmente promette alla zia di rivederla prima della sua partenza. Di tornare a casa non ci pensa affatto. Dovrebbe inventarsi chissà quali bugie per non raccontare a Rita quello strano incontro. Le cose che ha appreso sulla madre sono terribili e sembrano confermare uno per uno i pesanti giudizi della moglie. “Sono stato cieco e sordo” pensa Ivo. Com’è stato possibile vivere tanto a lungo nella menzogna senza mai permettere al buon senso, all’intelligenza, alla memoria di aprirmi gli occhi? Ma è giusto rifiutare l’eredità della zia? Ha senso farlo proprio mentre sta per nascergli un figlio? Di questa storia Rita non deve sapere niente, lo sguardo di trionfo sul suo viso sarebbe insopportabile. Se per salvare il rapporto con la

madre lui rinunciasse all’eredità della zia, sua moglie non lo sopporterebbe, se ne andrebbe di casa portandosi via il bambino. Questo pensiero lo atterrisce e gli suscita fortissimo il bisogno di correre a casa. Quando lo sente arrivare, Rita spegne il televisore. È un gesto assolutamente anomalo. Non lo ha mai fatto prima. «Com’è andata?» «Mah, come al solito» risponde Ivo, teso come chi si aspetta un agguato. «Sai, le solite grane dell’ultimo minuto…» «Però una sera dovremmo invitarla a cena…» dice lei a sorpresa, sfoggiando un sorriso a metà fra lo scherno e la tenerezza. «Invitare chi?» «Tua zia Evelina, naturalmente…» Era accaduto quasi un anno prima. La zia era riuscita a procurarsi il numero di casa di Ivo e un giorno, dopo averci pensato a lungo, si era decisa a telefonare. Aveva risposto Rita, e fra le due donne era nata un’immediata simpatia. Da quel giorno si erano sentite spesso all’insaputa di Ivo. Evelina cercava il nipote per mettere fine a tanti anni di silenzio e risentimenti; voleva lasciare a lui i suoi beni, ma temeva le possibili interferenze di Cecilia. «Negli ultimi tempi continuavo a insistere per farti ammettere finalmente i difetti di tua madre, ma tu rifiutavi qualsiasi critica nei suoi confronti. La zia stava programmando il viaggio in Italia e sapevo anche che cosa ti avrebbe chiesto. Volevo prepararti a questo incontro! Com’è andato? Cos’hai deciso? Li prendiamo o no tutti quei soldi?» L’indomani Ivo non va in ufficio. Rimane solo a casa, convinto che l’atmosfera domestica possa rendergli più facili le decisioni. Ma la mente vaga, si distrae di continuo cercando nelle pieghe della memoria immagini del padre, dei nonni, di se stesso bambino. Questa operazione, pur restando incerta e nebulosa, lo fa sentire meglio e gli dà la forza di uscire per raggiungere la zia Evelina. La trova nel dehors davanti al ristorante dell’hotel. La giornata è bellissima, la zia lo accoglie con aria festosa. Ivo le si siede di fronte e si accorge che tutta l’ansia si è dissipata. «Cosa sei venuto a dirmi?» gli chiede la donna posando la mano

rugosa sulla sua. «Sono venuto a dirti una cosa che sai già: quando il buon Dio ha distribuito le mamme, io non ero nelle prime file. Ho preso quella che mi è toccata e me la devo tenere.» La zia resta assorta per un attimo. Poi sorride commossa: «Sono stata più fortunata di te. Quando il buon Dio ha distribuito i nipoti, io nelle prime file c’ero!». Ivo ha sempre intuito, sia pure oscuramente, che nella sua infanzia erano accaduti eventi drammatici e misteriosi. L’impietoso racconto della zia gli ha riportato alla mente le confuse sensazioni di déjà vu che provava quando gli accadeva, ascoltando voci, guardando visi, visitando luoghi, di perdersi in un intricato labirinto di emozioni del quale non sapeva trovare l’uscita. Gli incontinenti racconti della madre erano un espediente, consapevole o no, per mettere rappresentazioni fittizie del passato al posto di ciò che era realmente accaduto. Da questa strana permuta non deriva solo un’assoluta smemoratezza da parte di Ivo, ma anche una sorta di noncuranza per vicende sentite come inaccessibili e minacciose. Per quanto riguarda il presente, invece, Ivo è consapevole delle bizzarrie della madre, sa bene che le critiche che riceve, comprese quelle della moglie, sono tutt’altro che infondate. Se accettasse però di mettere in discussione la condotta materna, dovrebbe anche affrontare il buio che avverte dietro di sé e che gli fa molta paura. Quando si innamora di Rita, che è l’esatto contraltare della madre, Ivo si lascia forse guidare dall’inconscio e fa una scelta che non è solo affettiva, ma anche psicologicamente vantaggiosa. Sua moglie smantella le presunte virtù di Cecilia e avvia, senza rendersene conto, un esame di realtà che Ivo può solo intravedere in lontananza. Da questo punto di vista Rita è provvidenziale, perché dice tutto ciò che il marito non può permettersi di dire e agisce come una specie di valvola liberatoria. La rivelazione dell’antico segreto potrebbe creare in Ivo un serio scompenso emotivo, ma per sua fortuna, nel momento stesso in cui perde ogni illusione sulla mamma quasi perfetta, ritrova gli affetti dell’infanzia che, a sua insaputa, sono stati i puntelli della sua identità.

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Rimpianti anticipati

Tra i numerosi filtri che condizionano le scelte e le decisioni del vivere quotidiano si annida, subdolo e segreto, il timore di non riconoscere le occasioni migliori e di non saperle cogliere al momento giusto. Molte persone intralciano le proprie scelte evocando scenari immaginari nei quali, affacciate sul futuro, pensano di vedere in anticipo il rimpianto per aver preferito una cosa al posto di un’altra. Accade così che, proiettandosi in un mondo di là da venire, trascurino di interrogarsi sulle esigenze della realtà in cui stanno vivendo. Che cosa accadrebbe scegliendo l’opzione A invece dell’opzione B? Purtroppo (o per fortuna!) non c’è modo di saperlo. Il rimpianto anticipato è un espediente come un altro per congelare le decisioni e si basa sulla falsa idea che, decidendo di non agire, tutto resti come prima. Ma le cose cambiano comunque, e l’inquietudine che accompagna certi dilemmi ne è la prova. L’ansia non deriva solo dal non riuscire a scegliere fra due azioni alternative, ma dal fatto che la preferenza dell’una implica la perdita dell’altra, che rimane sospesa e oscura. Ciò che è stato “scartato” non viene seppellito per sempre, ma si annida in una zona d’ombra (come la parte sommersa dell’iceberg), pronto a riemergere e agire se e quando la scelta iniziale dovesse mostrare qualche crepa. Non ci si libera facilmente dall’idea che ogni decisione costringa a lasciare indietro qualcosa o qualcuno, e questo diventa un alibi potente per indugiare e rimandare, a volte per mesi o anni, il momento delle scelte.

CINQUE LETTERE Gloria detesta i matrimoni e le feste in generale. La confusione, le abbuffate, i parenti, i discorsi sempre uguali le mettono addosso un malumore tanto più incomprensibile quanto più sproporzionato. Fin da bambina, le affollate ricorrenze e le riunioni di famiglia la infastidivano.

“Tu sei diversa” le diceva Silvana con quell’insopportabile tono di superiorità che tirava fuori ogni volta che le parlava. E aggiungeva del tutto a sproposito: “Se fai così non troverai marito!”. Ma a chi poteva venire in mente, a undici o dodici anni, di pensare a un marito? Gloria scrollava le spalle indispettita e si rifugiava in qualche angolo a guardare i grandi che fingevano di divertirsi. Silvana è sua cugina, è nata quindici giorni prima di lei e per questa ridicola differenza di età si è sempre atteggiata a sorella maggiore. Le loro mamme sono sorelle e avevano stabilito di comune accordo che le figlie dovessero comportarsi come gemelle: vestiti uguali, capelli uguali, stessi amici. Negli anni dell’adolescenza era impensabile che Gloria potesse fare qualsiasi cosa che non implicasse la presenza di Silvana. Quando provava a sottrarsi a quell’indigesto gemellaggio, la mamma non si limitava a sgridarla: si disperava come se in quei debolissimi segni di rivolta vedesse un attacco alla famiglia o l’approssimarsi di qualche catastrofe incombente. E anche lei, tra il pianto e la furia, ribadiva: “Ma perché devi sempre essere diversa dagli altri?”. A distanza di anni, quando ripensa a certe scenate ancora sente i crampi allo stomaco. I ricordi le riaffiorano a ondate perché si trova nel bel mezzo di una festa di nozze e, a dispetto delle profezie di Silvana, è con il suo fidanzato storico, Lucio. Lei un marito prossimo venturo lo ha trovato. Sua cugina no. È ancora lei la diversa? “Ma se ti vengono in mente queste cattiverie sei identica a loro” dice fra sé, spaventata da pensieri maligni nei quali non si riconosce. Lucio si aggira fra gli invitati, chiacchiera ora con l’uno ora con l’altro ed è del tutto a suo agio. Eppure non conosce nessuno, a parte naturalmente i suoi genitori e Silvana. Gloria lo guarda attenta, il suo fidanzato ha un carattere invidiabile, si adatta a qualsiasi ambiente, ma sembra che abbia dimenticato di essere venuto alla festa con lei. Da quando si sono seduti a tavola, lei da una parte lui dall’altra, non l’ha più nemmeno guardata. A Gloria arriva a tratti l’eco delle grasse risate di lui che ha sempre giudicato un po’ volgari. Chissà cosa trova di così divertente in una tavolata di gente “gonfia di cibo e di

imbecillità”. Silvana è vestita di rosso, un abito di seta aderente che mette in risalto la sua linea non proprio perfetta. I capelli sono più biondi dell’ultima volta che l’ha incontrata e il viso più tondo, ma lo sguardo ha sempre quell’espressione rapace che la inquietava da bambina. E ancora la inquieta; sarà per via di tutto quell’ombretto azzurro sulle palpebre, qualcuno dovrebbe dirle che il trucco pesante è volgare e non si addice alle brave ragazze, quale lei pretende di essere. Gloria è mortalmente annoiata, e i commenti di Silvana su Lucio non migliorano il suo umore. «Non mi ero accorta che fosse tanto simpatico! Ha un repertorio di barzellette irresistibili e le racconta benissimo. Devi portarlo più spesso ai pranzi di famiglia!» Sentire la cugina insolitamente conciliante la mette in allarme. Se Lucio le piace, ci dev’essere in lui qualcosa che non va. “Sei ingiusta e disonesta” dice ancora fra sé mentre l’ondata di malumore si trasforma in una piena di inquietudine. Da mesi si interroga sul suo legame con Lucio e da mesi si dà risposte alterne e confuse. Cerca di scacciare i dubbi che, quando è più serena, considera inconsistenti e bugiardi, ma quelli si ripresentano puntuali e molesti come cambiali in scadenza. “Che ci sto a fare con uno così?” si domanda, e subito si risponde: “Dovresti essere contenta che lui si trovi bene con la tua famiglia. Lo hai scelto proprio perché non è musone come te…” Dev’essere la solita intolleranza alle feste che le fa vedere ogni cosa in negativo, basterà inventare una scusa per andarsene e tutto tornerà come prima. «Andarsene adesso, sul più bello?» dice Lucio. «No, ti prego! Siamo tutti d’accordo che appena gli sposi saranno partiti ci trasferiremo nell’altra sala del ristorante per continuare la serata.» «Tutti chi?» si stizzisce Gloria. «Tutti noi» interviene Silvana, che ha l’aria di una che si è concessa qualche bicchiere di troppo. «Non vorrai portarci via l’anima della festa!» si scandalizza un altro cugino, a sua volta per niente sobrio. “L’anima della festa!” pensa Gloria. “In famiglia solo frasi fatte…”

Intanto lancia al fidanzato occhiate supplichevoli, ma lui non coglie il senso di quegli appelli. La festa continua, ma non per lei, che si rifugia rabbiosa in una saletta attigua per allontanarsi dal rumore e dalle sguaiataggini. Potrebbe prendere un taxi e tornarsene a casa, ma a quel punto Lucio sarebbe costretto a seguirla, e lei, ancora una volta, confermerebbe la propria fama di guastafeste. Lo aspetterà, ma solo per dirgli che tra loro è finita. L’idea le dà pace, ora sa che i dubbi dai quali è stata tempestata negli ultimi mesi non potevano che approdare a ciò. Non è la prima volta che decide in questo senso, ma poi ci ha sempre ripensato, come se dentro di lei agisse un’altra Gloria, passiva, accondiscendente e stupida. Un cameriere le si avvicina per domandarle se può portarle qualcosa da bere, lei lo sorprende perché chiede carta e penna. «Devo scrivere una lettera urgente» spiega al ragazzo, che torna dopo qualche minuto con un foglio intestato del ristorante e una biro. “Una lettera è la scelta migliore” pensa convinta. “Quando vedrò scritto, nero su bianco, ciò che veramente desidero, non ci sarà più possibilità di ripensamenti.” “Lucio, sono molto contenta che tu ti stia divertendo. Apprezzo il tuo buon carattere e la tua capacità di adattarti a qualsiasi situazione. So, anche se tu non l’hai mai detto in modo esplicito, che hai sempre pensato di contagiarmi con la tua allegria e, a dire il vero, anch’io ho sperato che la tua superficialità rendesse più lievi i miei pensieri. Ma nessuno cambia nessuno e, per dirla tutta, a me piace di più il mio modo di essere del tuo. Fin da bambina ho pensato che prima o poi sarebbe arrivato per me un cambiamento importante. Ma stasera, mentre ti guardo sghignazzare fra i miei parenti, penso alle feste cui assistevo da piccola e mi accorgo che nulla è cambiato. Tu non fai altro che rincarare le dosi. Mi dispiace, Lucio, davvero. Ma so per certo che non sei e non sarai l’uomo per me.” Gloria rilegge la lettera due, tre, quattro volte. Le piace molto quello che ha scritto, è sicura che questa decisione segnerà una svolta nella sua vita. Piega il foglio e lo mette nella borsa. Glielo consegnerà a festa finita, prima che lui le faccia la solita domanda: “Vuoi che salga

da te o ci vediamo domani?”. Appena arrivati, però, Lucio si scusa. «Vado a casa» dice. «Temo di aver bevuto più del solito. Meno male che almeno tu sei rimasta sobria.» Lei ha già il foglio in mano, ma vederlo così stanco e compunto le impedisce di infierire. La lettera gliela darà domani, quando lui sarà più lucido e lei meno incline all’indulgenza. Ma l’indomani non si vedono. Lucio le aveva detto che sarebbe partito per un congresso, e Gloria l’aveva dimenticato. Starà via quasi una settimana. Al ritorno le porta in dono una bellissima sciarpa di seta. La lettera è sempre nella borsa, ma dargliela adesso, che lui ha avuto un pensiero così gentile, sarebbe davvero odioso. “Non ti farai comprare da una sciarpa di seta!” pensa un attimo prima di buttargli le braccia al collo per ringraziarlo. Non ha cambiato idea, appena possibile gli dirà che fra loro non può funzionare, ma a renderle difficile quel passo c’è l’ansia di compiere un gesto irrimediabile. Con Lucio non è felice, molte cose di lui la irritano, deve decidersi a interrompere quel legame. Ma che farà dopo? Da quando è fidanzata, ha perso quasi del tutto i contatti con le amiche. Loro l’hanno cercata ogni tanto per proporle una pizza, una passeggiata o uno spettacolo, ma dopo tanti “no” hanno smesso di chiamarla. Non che lei rimpianga la loro compagnia, il tempo passato con Lucio è comunque più vario e stimolante di quello speso a scambiarsi confidenze sulle rispettive attese puntualmente deluse. Quando immagina di riorganizzare le giornate senza i quotidiani messaggini, le accese discussioni, i weekend in montagna, si sente stretta in una morsa d’ansia che attenua di molto il piacere della possibile riconquista della libertà. Intanto passano i giorni e, poco a poco, alla lettera smette di pensarci. Il cupo malumore di quel pomeriggio di festa non era certo dovuto a Lucio, e lei, come spesso le accade, aveva scambiato lucciole per lanterne. Silvana è tornata definitivamente in città dopo aver trascorso un anno all’estero per lavoro. Questa esperienza l’ha cambiata. Ora si

mostra meno rigida, ha perso la supponenza e l’antico vizio di sputare sentenze su tutto e su tutti; inoltre, ha acquisito un’insolita cordialità. È un’autentica sorpresa scoprire la cugina bacchettona e giudicante trasformata in una persona amabile e ospitale. Organizza spesso cene con amici e invita, con particolare insistenza, lei e Lucio. «Hai conquistato mia cugina» dice al fidanzato. «Sono sicura che se fossi stata single non mi avrebbe mai invitata.» Lui si schermisce: «Non ci credo. Voi due siete legatissime, solo che, chissà perché, tu non lo vuoi ammettere». Ecco un’altra delle cose che non sopporta di lui: la presunzione di interpretare i suoi sentimenti senza conoscerne i motivi profondi. La conversione di Silvana non la convince fino in fondo, e per questo, se può, cerca di sottrarsi, ma ogni volta che ci prova arriva puntuale la telefonata della mamma che, chissà come, ha saputo del rifiuto e le rimprovera l’indifferenza per i valori della famiglia. Così, per quieto vivere, lei e Lucio diventano ospiti abituali di Silvana. Col tempo è costretta ad ammettere che quelle cene non sono sgradevoli come si aspettava. Molti degli ospiti di Silvana sono simpatici e colti, le discussioni del dopo cena sono stimolanti. Lucio anima i dibattiti e Gloria si compiace per la ricchezza e la varietà dei suoi argomenti. Una sera, fra gli invitati di Silvana, c’è anche un loro amico d’infanzia che lei ha ripescato chissà come, chissà perché. Si chiama Mario, e Gloria lo ricorda come un ragazzino pestifero che si alleava sempre con i più forti del gruppo e, naturalmente, con Silvana. La serata prende subito una piega diversa dalle solite. Mario comincia a raccontare episodi insulsi dei loro giochi di bambini e Silvana gli dà corda. Ben presto Gloria si rende conto che in quel flusso di ricordi sarà lei il bersaglio preferito. I due fanno a gara per rievocare i suoi comportamenti infantili sottolineando le goffaggini, le paure, le lacrime di quando era una bambina timida e spaventata. Gli altri ospiti si divertono moltissimo. Lucio aggiunge particolari secondo lui spiritosi: «Non è cambiata granché» dice ridendo. «Anche adesso, prima di andare a dormire va a guardare sotto il letto o negli angoli più

reconditi per scoprire eventuali ladri.» Mario, Silvana e Lucio si appassionano, ciascuno di loro ha da raccontare qualche episodio sul suo conto. Sembra una gara nella quale Silvana vanta una specie di primato. «Io la conosco bene!» dice, subito smentita da Lucio: «Nessuno la conosce come me!». Gloria che, fingendo di divertirsi, ha subito per tutto il tempo quel crudele linciaggio, decide che quella sera stessa dimostrerà a Lucio che di lei non conosce un bel niente. Gli scriverà un’altra lettera, quella dei mesi scorsi giace ancora in una delle sue borse, e comunque non è più attuale, né per le circostanze né per i sentimenti. Questa volta gliela darà. Si fa lasciare a casa dicendogli che è troppo stanca per andare a dormire da lui. Ma prima di mettersi a scrivere interroga se stessa. Non vuole lasciarsi guidare solo dalla rabbia per l’umiliazione subita. Lucio ha dimostrato ancora una volta la sua presunzione, ha pontificato su cose di lei che non conosce, ha stretto un’alleanza con Silvana. “Caro Lucio, questa sera il tuo comportamento è stato davvero illuminante. Mentre quei due si divertivano a mettermi alla berlina, tu ti sei esibito in un vero e proprio accanimento dimostrandomi che, se mai avessi bisogno di essere protetta e capita, tu non saresti la persona giusta. E non lo sei. Mi dispiace, ma i dubbi sul nostro rapporto che mi assillano da tanto tempo si sono completamente dissolti. Ora so che non sei tu l’uomo con il quale voglio dividere la mia vita.” La mattina dopo, a sorpresa, le telefona Silvana. «Abbiamo esagerato ieri sera? Scusa, spero che tu non ti sia offesa. Però sei fortunata, Lucio ti ha difeso strenuamente.» «Ah sì? E come mi avrebbe difeso?» «Ma c’è bisogno che te lo dica? Non ha fatto altro che smentire me e Mario. I tuoi difetti da bambina li ha trasformati nei pregi di una donna adulta che non ha perduto l’incanto dell’infanzia. C’era una tale tenerezza nelle cose che diceva…» Gloria è interdetta. Vorrebbe dire alla cugina che le cose non sono come lei le racconta, ma sa che scatterebbe immediato l’eterno rimprovero di voler essere sempre e comunque diversa dagli altri. E se avesse ragione? Forse lei è troppo permalosa. Non può correre il

rischio di perdere Lucio per un errore di interpretazione. A volte pensa che, se non è mai riuscita a ribellarsi alla prepotenza della cugina, è perché segretamente temeva che, quale che fosse il tema della disputa, potesse aver ragione. L’uomo che lei ha descritto – tenero, affettuoso e protettivo – non è il Lucio che le è sembrato di vedere la sera precedente. Ma forse, come al solito, si è lasciata guidare dal pregiudizio. Ogni volta che c’è di mezzo Silvana lei assume l’atteggiamento di chi si aspetta attacchi gratuiti ed eleva barriere difensive. Così, tutto la ferisce, tutto la offende. La lettera per Lucio finisce accanto all’altra, nella borsa di vernice che aveva usato per quel matrimonio. Ancora una volta, si lascia spaventare dal confronto tra la vita con Lucio e quella senza di lui. Se nella prima i dubbi si alternano alle sicurezze, nella seconda non avverte altro che vuoto e solitudine. Sei mesi dopo Gloria è intenta a fare le valigie per il viaggio di nozze. Il matrimonio è fissato per l’indomani e in casa c’è un continuo viavai di gente. La mamma, agitatissima, l’assilla con mille raccomandazioni, Silvana telefona per motivi assolutamente futili, Lucio si comporta come un adolescente che si prepara per un esame. Lei è costretta a interrompere il lavoro per alleviare le ansie e le tensioni dell’uno e dell’altra. Travolta da tanto turbinio, riesce anche a scacciare il pensiero che da qualche giorno la perseguita, e cioè quello di avere tutti intorno perché finalmente ha smesso di essere “diversa”. Domani, con l’abito da sposa addosso, sarà immersa in una di quelle tediose feste di nozze, con l’aggravante di non potersi nascondere in qualche angolo a guardare le cose da lontano. Solo alla sera, quando sembra che tutti si siano placati, si chiude in camera per poter scegliere con calma le ultime cose da mettere in valigia. Insieme all’abito per le occasioni eleganti, le servirà la piccola borsa di vernice nera. Nel momento stesso in cui la prende dalla scatola dorata che la contiene si sente aggredita dall’ansia, forse perché ricorda, di colpo, che in quella borsa ha riposto le prove delle sue eterne indecisioni. Sono ben cinque le lettere che, nel tempo, ha scritto a Lucio tentando

di lasciarlo per i motivi più diversi. Una volta le era sembrato volgare il suo comportamento a una festa di nozze, un’altra volta lui aveva stretto un’irritante alleanza con Silvana, poi si era esibito in una strenua difesa della possibilità di rivedere e correggere la legge sul divorzio, e ancora, non aveva difeso un caro amico da attacchi calunniosi di gente estranea, infine aveva scoperto che in combutta con un amico aveva simulato un falso incidente per ottenere un risarcimento dall’assicurazione. Per ciascuno di questi eventi gli aveva scritto lettere definitive che non aveva mai consegnato. Seduta sul letto, con tutti quei fogli in grembo, Gloria si vede scorrere davanti la vita, quella appena passata e quella che dovrebbe iniziare a partire dall’indomani. Ci sono occasioni che non ritornano. Se le si trascura, sono perdute per sempre. È per questo che va al piccolo scrittoio sotto la finestra e comincia a scrivere: “Caro Lucio…”. Ogni volta che scrive una delle sue lettere definitive, Gloria è convinta di fare la scelta più giusta per lei. Ma quelle missive non arrivano mai a destinazione perché, se è decisa nell’affermare ciò che desidera in quel momento, non è altrettanto pronta ad accettare l’immagine ventura di se stessa di nuovo nel ruolo di single. Trovarsi sola, forse pentita, criticata da parenti e amici le prospetta un futuro carico di agguati che non si sente in grado di affrontare. In altri termini, non riesce ad accettare l’idea di vincere perdendo e resta continuamente in bilico fra la vita che sta vivendo e quella che vorrebbe vivere. A ogni nuova gaffe di Lucio, sente rinascere dentro di sé la spinta a modificare la situazione, ma si tratta solo di manovre per convincersi di essere padrona delle proprie scelte. A dispetto delle apparenze, non sono i comportamenti di Lucio a crearle problemi, ma l’idea di assecondare, con il fidanzamento e il successivo matrimonio, il conformismo della famiglia al quale ha sempre cercato di sottrarsi.

Conclusioni

Là ci darem la mano là mi dirai di sì… Vorrei e non vorrei Mi trema un poco il cor. WOLFGANG AMADEUS MOZART,

Don Giovanni

Quando finge di tormentarsi con il suo “Vorrei e non vorrei”, la bella Zerlina, anche se le “trema un poco il cuor”, ha già deciso di cadere nelle braccia di Don Giovanni. Il miraggio di passare dalla veste di povera contadina a quella di gran dama, che il grande seduttore sembra offrirle, è troppo allettante e non le permette di lasciare spazio ai dubbi. L’apparente dilemma dell’ingenua sposina è solo un debole residuo di convenienza: i giochi sono fatti e nella sua scelta c’è molta più fermezza di quel che sembra. Ma le incertezze di cui si è occupato questo libro sono di tutt’altro genere, a Zerlina ho rubato solo il titolo. Il tema delle indecisioni – le mie e quelle altrui – mi affascina da anni. Ho sempre pensato che gli indecisi siano molto più simpatici dei tanti che non si lasciano mai lambire dal dubbio. Interrogarsi sulle proprie scelte non è necessariamente un atteggiamento negativo, al contrario, in molti casi implica sensibilità, apertura mentale e voglia di contrastare pregiudizi e luoghi comuni. I problemi nascono quando i dubbi, invece di arricchire le nostre scelte, trasformano le pur legittime esitazioni in ostacoli che, a tratti, possono apparire persino insormontabili. È vero che nel nostro mondo “liquido” le occasioni di incertezza si sono moltiplicate; in qualsiasi campo l’offerta è spesso ben più vasta della domanda e, naturalmente, più è ampio il ventaglio delle possibili opzioni, più diventa difficile misurarsi con le proprie reali aspettative. Alle ragazze degli anni Cinquanta non accadeva di attardarsi ogni mattina davanti alle ante spalancate dell’armadio per scegliere, fra i tanti, l’abito da indossare per quel giorno. (C’erano il vestito per i

giorni feriali e quello per le feste. La scelta era obbligata.) I turisti non si misuravano con la prodigiosa realtà dei giorni nostri per la quale “nessun luogo è lontano”. Era di gran lunga più facile decidere le mete dei viaggi perché certe distanze erano ancora percepite come enormi e difficilmente raggiungibili. I gusti alimentari erano limitati alle produzioni territoriali, il sushi e il sashimi erano solo vaghe indecifrabili parole. Si potrebbe andare avanti per ore a descrivere le straordinarie trasformazioni che abbiamo vissuto negli ultimi decenni e la diffusa ambivalenza che, a tutti i livelli, ne è derivata. Ma i dilemmi creati dagli eccessi del benessere e del consumismo si potrebbero ancora definire “veniali” e di scarsa portata. Sono incertezze realistiche create dalle difficoltà di ogni giorno, quelle che tutti affrontiamo con maggiore o minore sicurezza, ma senza gravi conseguenze. Le indecisioni più problematiche sono invece quelle sofferte da persone che – come i protagonisti delle storie narrate in questo libro – non riescono a strappare le loro ragnatele e si sentono prigioniere di un gioco di forze spesso indecifrabili e oscure. Decidere dovrebbe essere una libera espressione di autonomia, conoscenza, volontà, desiderio, ma è proprio su questa sconfinata prateria di occasioni possibili che l’ansia esercita i suoi misteriosi magheggi e blocca le capacità decisionali. È difficile ammetterlo, ed è scontato ripeterlo, ma le radici di ogni dubbio sono saldamente piantate nell’irrazionalità. L’idea che le nostre scelte siano sempre guidate da motivi razionali è legata più al bisogno di rassicurarsi che a fondate convinzioni. Ammettere che nelle nostre incertezze ci sia una forte dose di irrazionalità non significa però accettarla passivamente né condannarsi a subirla. Al contrario, se si riescono a individuare le imboscate che poniamo a noi stessi, può diventare più agevole aggirare gli ostacoli e inventare modelli alternativi per conoscersi meglio e per sfatare il mistero delle proprie inquietudini. Non ho l’ambizione di aver offerto con questo libro la chiave per sciogliere i nodi degli indecisi. Ho solo cercato di fornire qualche modello da guardare dall’esterno per individuare possibili affinità o

decise prese di distanza. Le storie a volte svelano codici emotivi, sia che raccontino vicende altrui sia che, come quella che segue, si riferiscano ad arcaici miti: Allo scopo di salvare re Artù dalle insidie di un potente stregone, sir Gawain acconsente a sposare la sorella dello stregone che è la più orrenda delle donne. Durante la prima notte di nozze essa si rivela tanto bella quanto prima era repellente e propone al marito la scelta tra averla bella di notte e brutta di giorno e viceversa. Gawain chiede alla donna di essere lei a decidere e questa gli rivela allora di essere stata vittima di un incantesimo per cui è condannata a quell’orrendo aspetto finché non troverà un cavaliere così cortese da “renderle la volontà”. L’incantesimo è rotto e d’ora in poi sarà bella sia di giorno sia di notte. GÉZA RÓHEIM,

Il ventre materno

Forse il raffronto è audace, ma davvero le persone in preda all’ansia di decidere si vivono a volte come vittime di cupi incantesimi. Le possibilità di imbattersi in un valoroso cavaliere che risolva il problema è piuttosto remota. Dunque, per restare se stessi, sia di giorno sia di notte, è più agevole rompere il sortilegio e agire in prima persona. La volontà è sempre meglio “rendersela” da soli.

Bibliografia

Argentieri, Simona, L’ambiguità, Einaudi, Torino 2008. Ariely, Dan, Prevedibilmente irrazionale, Rizzoli, Milano 2008. Bauman, Zygmunt, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino 2010. Benini, Arnaldo, La coscienza imperfetta, Garzanti, Milano 2012. Calabrò, Anna Rita, L’ambivalenza come risorsa, Laterza, RomaBari 1997. Hillman, James, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 1997. –, La forza del carattere, Adelphi, Milano 2000. Keen, Sam, Nel ventre dell’eroe, Frassinelli, Milano 1993. Lewis, Michael, Un’amicizia da Nobel, Raffaello Cortina, Milano 2017. Rigotti, Francesca, Il pensiero pendolare, il Mulino, Bologna 2006. Róheim, Géza, Le porte del sogno, Guaraldi, Roma 1973. Yalom, Irvin D., Il dono della terapia, Neri Pozza, Vicenza 2014.

Ringraziamenti

GRAZIE!

Quando ho scelto di scrivere questo libro, sapevo che, addentrandomi tra le nebbie dell’indecisione, avrei avuto, più che in passato, bisogno di pareri, consigli o critiche da parte degli amici più cari. E loro, gli amici, hanno risposto. Sono stata “confortata” da tanti e in particolare da: Ilaria Schelotto, Tommaso e Lorenzo Sorgente, che sono stati lettori attenti e severi di quanto andavo scrivendo; Adriana De Foresta, che se non ci fosse sarei costretta a inventarla; Giovanni Mariotti, che ancora una volta mi ha dato prova della sua straordinaria generosità; Chiara Ghiglione, che ha ridimensionato certi momenti di scetticismo; Carla Cerruti, che ha rinfrescato le mie cognizioni medico-scientifiche; Franco Borghero, che mi ha fornito le conferme “notarili” di cui avevo bisogno. A tutti loro e a quelli che, per raggiunti limiti di età, potrei aver dimenticato, vorrei (e vorrei soltanto) dire grazie di cuore.

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Frontespizio Il libro L’autrice Introduzione 1. Metti una sera a cena… 2. Ambivalenze 3. Priorità 4. Rompere gli indugi 5. Procrastinare 6. Amori 7. Il galateo degli addii 8. Tradimenti 9. Traslochi e altre battaglie 10. Segreti 11. Rimpianti anticipati Conclusioni Bibliografia Ringraziamenti

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