Vocabolario greco della filosofia
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Testi e pretesti

Vocabolario greco della filosofia A cura di Ivan Gobry Traduzione e cura dell’edizione italiana di Tiziana Villani

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Bruno M ondadori

Avvertenza

Riferimenti per la Metafisica di Aristotele

Titolo originale: Le vocabulaire grec de la Pbilosophie, collana “Vocabulaire de...”, curata da Jean-Pierre Zarader, pubblicata da Ellipses © 2002 Édition Marketing S.A. Traduzione dal francese di Tiziana Villani Tutti i diritti riservati © 2004, Paravia Bruno Mondadori Editori E vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di una specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle erbe 2, 20121 Milano, tel./fax 02-809506, e-mail [email protected] Progetto grafico: Massa & Marti, Milano La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro.

www.brunomondadori.com

A a B Γ Δ

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alfa maiuscolo = libro I alfa minuscolo = libro II

beta = libro III gamma = libro IV delta = libro V E - epsilon = libro VI Z - zeta = libro VII H - età = libro V ili Θ - theta = libro IX I - iota = libro X K - kappa = libro XI Λ - lambda = libro XII M - mi = libro XIII N -

ni = libro XIV

Per alcuni autori che hanno pubblicato una sola ope­ ra conosciuta e frequentemente citata, il titolo è sot­ tinteso: Aezio, Placito-, Diogene Laerzio (indicato con D.L.), Vite dei filosofi-, Plotino, Enneadi-, Ateneo, Oeipnosophistai. Tutto ciò che è indicato con fr. (frammento), senza precisazioni, si riferisce a DielsKranz, I presocratrici. Testimonianze e frammenti.

Premessa di Tiziana Villani

Questo libro offre al lettore italiano 370 parole chiave ricorrenti nella filosofia classica. La scelta di ciascun lemma è il frutto di una duplice ne­ cessità: da un lato la contestualizzazione del ter­ mine all’interno delle analisi svolte dai filosofi che li hanno impiegati, dall’altro la chiarificazio­ ne concettuale riferita a ogni singolo termine. Si tratta, pertanto, di una selezione che p er­ mette un uso rigoroso e allo stesso tem po agile di uno strum ento di lavoro indirizzato sia agli studiosi, sia agli appassionati della materia. L’approfondim ento del significato dei singoli termini, varia in relazione all’impiego e agli svi­ luppi che questi stessi hanno avuto nell’opera dei diversi filosofi dell’antichità. Alcuni lemmi appaiono così appena citati, m entre altri sono trattati in m odo più diffuso e articolato. In que­ st’ultimo caso la trattazione perm ette non solo di accogliere la rilevanza dei concetti, ma anche il percorso compiuto per giungere sino a noi co­ me fonti necessarie dell’esercizio del sapere. La filosofia che nasce sulle sponde della G re­ cia inventa una propria lingua che si emancipa dall’orizzonte strettam ente mitologico per ap­ prodare nella polis. In quest’ambiente l’agire fiIX

Vocabolario greco della filosofia losofico elabora una propria concezione del m ondo, una concezione molteplice che si realiz­ za non solo in un atteggiamento pedagogico, ma soprattutto in una “società di amici” . La disami­ na degli eventi, la capacità dialettica e oratoria consentono Pindividuazione di piani e figure di riflessione che hanno intrecciato il proprio dive­ nire con quello di una disciplina che ha segnato profondam ente il pensiero dell’Occidente. Le parole della filosofia greca ineriscono a campi di sapere che nei secoli sono andati diffe­ renziandosi. Tuttavia a quest’unità originaria è utile risalire, in modo genealogico, quando si vuole indagare la peculiarità degli eventi che an­ cora oggi caratterizzano i nostri interrogativi sull’esistenza e altro ancora. L’atteggiamento genealogico può essere utile anche al lettore che sfogliando queste pagine può disporre di uno strum ento capace di offrire un’immediata individuazione e conoscenza di quelle parole-concetto, che i greci forgiarono e che in modo più o m eno consapevole, tuttora ci aiutano a com prendere il nostro essere al mondo.

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A

adikia (he) / άδικία (ή), l’ingiustizia —» dikaiosyne.

agathon (to) / αγαθόν (τό), il Bene. N eutro sostantivato dell’aggettivo agathos / α ­ γαθός, buono; superlativo, to anston / xò dptστον: il Sommo Bene; latino: summ um bonum. Nella filosofia greca, il Bene è l’obiettivo che si offre a ciascun uom o per dare un senso alla p ro ­ pria vita. È fonte di felicità {eudaimonia), ricerca incessante dell’anima. Ma solo il sapiente può raggiungere il Bene, perché è il solo a saper uti­ lizzare in modo adeguato la ragione. Tuttavia, nessun filosofo pare aver raggiunto il fine della sua ricerca (il che giustifica il significato della parola filosofo, “colui che ama il sapere” e che lo cerca poiché non lo ha trovato), in quanto so­ no tutti in disaccordo sulla natura del Bene. Da qui la ricchezza della filosofia greca su questo argomento. «Scienza superiore ad ogni altra, al­ la quale tutte sono subordinate» scrive A ristote­ le per riassumere il parere comune «è quella che 1

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com prende il fine per il quale si compie ogni azione, e che è per ogni essere il p roprio bene, e per tutti il Sommo Bene (to ariston) nella natura universale» (Metafisica, A, 2, 982b). La ricerca della natura del Bene è relativa­ m ente tarda. I prim i pensatori sono interessati alla natura e all’origine del m ondo: pan, holon. E Pitagora colui che pone il Bene in cima alla gerarchia degli esseri, identificandolo con Dio, con l’Intelletto e con la M onade generatrice de­ gli esseri (Aezio, I, VII, 18), dando così origine a una tradizione filosofica che concepisce il Bene non come un principio morale o economico, ma essenzialmente metafisico. Q uesto include, cer­ to, il bene come valore morale, ma anche la Bel­ lezza, la Verità e la felicità; più esattam ente, esso trascende questi valori secondi ed è causa del lo­ ro avere valore. Il Bene metafisico è il valore as­ soluto e originario. Archita adotta una disposizione più m odesta e popolare nel suo testo Trattato dell’uomo buo­ no e felice, ampiamente citato da Stobeo. Per Euclide di Megara, allievo sia di Parm enide sia di Socrate, «il Bene è l’Essere che è uno» (Cice­ rone, Academica posteriora, II, 42); Diogene Laerzio offre u n ’altra formulazione: «il Bene è l’uno, anche se lo si chiama con altri nomi: P en­ siero, Dio, Intelletto» (II, 106). Per Platone «l’Essenza del Bene è il fine della scienza più elevata» (Repubblica, VI, 505a). Il Bene, in effetti, «è causa di ciò che vi è di giusto 2

e bello» (ivi, VII, 517c); nel m ondo sensibile «ha creato la luce e il signore della luce», ossia il Sole; e nel m ondo intelligibile «è ciò che presie­ de alla verità e all’intelligenza» (ivi, VI, 508c509a). Esso è «Γassolutamente perfetto (teleotaton) e supera tutti gli esseri» (Filebo, 20d). «È ben oltre l’Essenza per maestà e potenza» (Re­ pubblica, VI, 509b). D i conseguenza, è ineffabi­ le (ivi, VI, 505a-506b), non concettualizzabile, bisogna raggiungerlo al term ine di un’ascensio­ ne (anabasis) dell’intelletto (ivi, VII, 519c-d). N ell’uom o «è in funzione del Bene che si com ­ piono tutte le azioni» (Gorgia, 468b), e senza di esso tutto quanto possediamo è inutile (Repub­ blica, VI, 505a). In Aristotele, il Bene si identifica con il prim o M otore (.Metafisica, K, 1), con l’Essere necessa­ rio, con il Principio, con il Pensiero autonomo, con l’A tto che sussiste e che è Dio (ivi, A, 7). Tutte le arti e le scienze sono dirette verso il Be­ ne (Etica Nicomachea, I, I, 1) e il Sommo Bene {ariston) è il fine ultimo, sia dell’individuo sia dello Stato (ivi, I, II, 1-7). D otato di numerosi aspetti, «com prende tante categorie quante ne com prende l’Essere: in quanto sostanza, il Som­ mo Bene è Dio e Intelletto; in quanto qualità è virtù, in quanto quantità è la giusta misura, cen­ tro» ecc. (ivi, I, VI, 3-5). Attraverso u n ’inversio­ ne dei termini, Aristotele conclude che il Som­ mo Bene è la felicità (eudaimoma), e precisa: «il Bene proprio dell’uom o è l’attività dell’anima in 3

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conformità con la virtù» (ivi, I, VII, 8-15; V ili, 8). Infine, questo Bene-felicità consiste «nel vi­ vere conform em ente con la parte più perfetta di noi stessi (ivi, X, VII, 8), che è il principio divi­ no della ragione contemplativa {epistemonikon). P er Epicuro, il bene non è tanto metafisico; infatti il bene prim o e congenito (agathon proton kai syngenikon) è il piacere: hedone / ήδονή (D.L., X, 128-129). Ancora, è un Sommo Bene molto soggettivo quello che propongono gli stoici. Alcuni ne fanno un assoluto, preferibile a ogni cosa e incom parabile (Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, II, 6). È, secondo Diogene di Ba­ bilonia, «l’assoluto per natura: natura absolutum » (Cicerone, De finibus bonorum et maiorum, III, 10). In effetti, non appena occorre dare un contenuto a questa definizione formale, tro ­ viamo delle definizioni piuttosto deludenti: «La perfezione, secondo la natura di un uom o ragio­ nevole, in quanto ragionevole» (D.L., VII, 94). «Ciò che è utile» (ivi, Sesto Em pirico, Contro i dogmatici, II, 10; Ipotiposi, III, X X II, 169). O ancora, secondo Ecateo e Crisippo, la Bellezza (D.L., VII, 100-101; M arco Aurelio, II, 1; Cice­ rone, Tusculanes disputationes, V, VII, 18; XV, 45; XXX, 849). Per Zenone di Cizio, è la Virtù (Sesto Empirico, Contro i dogmatici, III, 77; Ci­ cerone, De finibus bonorum et malorum, III, 11). Per Erillo di Cartagine, il Bene è la Scienza {episteme) (Clemente d ’Alessandria, Stremata,

II, XXI, 129; Cicerone, De finibus bonorum et malorum, III, 9; D.L., VII, 165 ecc.). È Plotino che conferisce al Bene una più consi­ derevole rilevanza metafisica, al punto da intro­ durlo ovunque nella sua vasta opera. Principio di tutte le cose, il Bene è identico all’Uno [ben), pri­ ma ipostasi (II, XI, 1). Essendo il migliore degli esseri (to ariston ton onton) (VI, VII, 23), si situa al di là dell’Essere e del Pensiero (III, IX, 9), al di là della Bellezza suprema (I, VI). Tutto quello che possiamo dire è che è la Volontà {boulesis / βούλησις) ; poiché è la sua stessa volontà che gli dona l’esistenza (VI, V ili, 13), ed è la potenza di tutte le cose (V, IV, 1). Ciò che il Bene genera spontaneamente e direttamente, è l’Intelletto, se­ conda ipostasi e suo primo atto (I, V ili, 1; II, IX, 1), immagine del Bene che pensa il Bene, poiché il Bene non pensa (V, VI, 4; VI, VII, 40). Tutti gli esseri partecipano del Bene (I, VII, 1), ogni cosa riceve da esso bellezza e luce (VI, VII, 31); è il Desiderato verso il quale tendono tutte le anime (I, VI, 7; V,V, 13; VI, VII, 25), è il premio del sa­ piente, per il quale è sufficiente. Proclo, seguendo Plotino, afferma che «il Bene è principio e causa di tutti gli esseri», e che, prin­ cipio di unità, è identico all’Uno {Teologia, 1213). Ugualmente, per Ermete Trismegisto, il Bene e Dio sono due termini interscambiabili (II, 38). Nella Politica (I, I, 1), Aristotele chiama il Sommo Bene (della comunità) to kyriotaton /

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κυριοτατόν, da kyrios: il maestro, il sovrano (nella liturgia cristiana: il Signore = Dio).

Il sostantivo aion / αιών, da cui deriva l’aggettivo aionios, ha un significato imprecisato: il più delle volte significa durata (di una vita, di un secolo), ma anche eternità. È in questo senso che lo si ritrova in Eraclito: logos aion·. il Logos-eternità (fr. 50). Pitagora parla del Dio eterno: aidios theos (Aezio, IV, VII, 5; Pseudo Plutarco, Epitome, VI, 7). Ma il suo discepolo Filolao preferisce ricorrere ad aei: Dio è l’eternamente sussistente (Filone d ’Alessandria, Creazione del mondo, 23); il m on­ do si muove eternamente in cerchio (Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, X X , 2). Diogene d ’Apollonia considera l’aria come un corpo eterno

{aidion soma) (frr. 7,8). Eraclito utilizza una for­ mula originale e pleonastica: l’universo {kosmos) era, è, e sarà sempre {aei) un fuoco «eternamente vivente», in u n ’unica parola: aeizoon / άείζωον (fr. 30). Per Anassagora, «l’Intelligenza {nous) esiste in eterno», aei esti / ά εί έστι, che si può an­ che tradurre «è eterno». Melisso ricorre a due formule: l’Uno è eterno, aidion (Simplicio, Fisica, III, 18); ma esiste anche eternamente, aei esti {ibid.). Platone usa aidios quando invoca la So­ stanza eterna {aidios ousia) o gli dei eterni {aidios theoi) {Timeo, 37e, c) e aionios quando definisce il tempo {chronos / χρόνος) come un’immagine mobile dell’eternità {aion / άίων): il modello del m ondo sensibile è allora eterno {aionios), m a an­ che un Vivente eterno {zoon aidion) (ivi, 37d). Aristotele utilizza aidios quando parla dell’e­ ternità del movimento {Fisica, V ili, 6) e soprat­ tutto del prim o Motore: «Il prim o M otore è ne­ cessariamente uno ed eterno»: ananke einai ben kai aidion to proton kinoun, ανάγκη είν α ι εν καί άίδιον τό πρώτον κινούν {ibid.). Una simile affermazione la si ritrova ne II cielo (I, 12): ciò che è senza generazione e senza corruzione è eterno. E l’atto di Dio, è la vita eterna: zon aidios / ζων ά ίδιος (ivi, II, 3). È più o m eno lo stesso linguaggio utilizzato nella Metafisica (Λ, 7): Dio è un Vivente eterno perfetto: zoon aidion ariston, ζώον àihtov άριστον, una sostanza eterna, ousia aidios / ουσία άίδιος. Plotino ha composto un trattato intitolato

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agenetos / άγένητος, senza inizio (ingenerato). E il caso, in Platone, dell’essenza {eidos) {Timeo, 52a) e dell’anima umana {Fedro, 245e), e in A ri­ stotele della materia {Fisica, I, 9).

aei / άεί, eternamente; spesso impiegato come aggettivo. Questi term ini danno il senso di una durata illi­ mitata nel tempo: l’essere eterno non ha inizio né fine.

aitia

aidios Dell'eternità e del tempo, Peri aionos kai chronou / Π ερ ί αίώνος καν χρόνου (III, VII), nel quale fa dell’eternità un Essere della stessa natu­ ra degli intellegibili.

aidios / άίδιος, eterno, aionios / αιώνιός, eterno.

aisthesis (he) / αίσθησις (ή), la sensazione; lati­ no: sensus.

cupa il rango più basso. Nella Repubblica (VI, 508b, 5 Ile ) e nel Teeteto (186b-187a), Platone oppone la sensazione, conoscenza del corpo, alla scienza, conoscenza dell’anima. Nella prima par­ te della Metafisica (A, 1) Aristotele fa notare come la sensazione sia comune all’uom o e all’animale, mentre il ragionamento e la tecnica appartengano unicamente all’uomo. Per Epicuro, invece, tutte le nostre conoscenze provengono dalle sensazio­ ni, e la conoscenza sensoriale resta nel proprio or­ dine un criterio di verità, poiché la ragione non può confutarla (D.L., X, 31-32). Nel suo breve trattato Della sensazione e della memoria (IV, VI), Plotino cerca di dimostrare, contro la concezione materialista di Aristotele e degli stoici, che la sen­ sazione non ha nulla di un’im pronta nel soggetto, ma è dovuta a una facoltà attiva dell’anima.

La parola ha due significati: facoltà di sentire (sensibilità) e atto del sentire (sensazione). Inoltre, essa com prende non solo ciò che noi chiamiamo sensazione (conoscenza sensoriale di una qualità), ma anche ciò che chiamiamo p er­ cezione (conoscenza sensoriale di un oggetto). Aristotele distingue nettam ente i due significa­ ti, affermando che il termine può significare sia il sentire in potenza (aver la facoltà), sia il sentire in atto. Nell’atto, si nota u n ’azione dell’identico sul­ l’identico: l’occhio vede il visibile, l’orecchio sen­ te l’udibile (LAnima, II, 5). Q uest’oggetto che ri­ ceve l’azione è il sentito: aistheton (αισθητόν). Da questa parola deriva il term ine “estetica”; neH’“Estetica trascendentale”, prim a parte della Critica della ragion pura, Kant tratta infatti di una filosofia della conoscenza sensibile. Nei sistemi della conoscenza, la sensazione oc­

Questo sostantivo femminile e questo aggettivo neutro sostantivato, in uso presso i filosofi a partire da Plotino, derivano dal qualificativo ai-

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aisthesis koinè / αισθησις κοινή, il senso comune. H a come oggetto i sensibili comuni: ta koina aistheta / τα κοινά αισθητά.

aitia (he) / αιτία (ή), la causa; latino: causa-, più raram ente aition (to) / αίτιον (τό).

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tios (αίτιος), che significa “artefice d i”: un uo­ mo buono è artefice di u n ’azione virtuosa, un generale di una vittoria. È da questa parola che deriva il term ine eziologia, ricerca delle cause. Come d ’abitudine, Aristotele ha tentato di definire più le cause che la causa. Nella Fisica (II, 7, 198a), perviene al celebre quartetto che nel XIII secolo sarà adottato dagli scolastici: la m ateria (hyle), ossia ciò da cui la cosa è uscita, per esempio il bronzo per la statua; la forma {ei­ dos), ossia la natura stessa della cosa, per esem­ pio la figura della statua; il m otore (kinesan), os­ sia l’artefice del cambiamento, per esempio lo scultore; la finalità (to hou heneka), ossia il m oti­ vo per cui si opera il cambiamento, per esempio il motivo che spinge lo scultore a scolpire. Aristotele vi ritorna poi nella Metafisica, ac­ cordando ad aitia una menzione nel suo quadro storico (A, 3), poi un cenno nel suo vocabolario filosofico (A, 2), infine nel libro V ili sulla mate­ ria (H, 4). Alessandro di Afrodisia riprende que­ st’esposizione nel suo trattato Del destino (III). La nozione di causa prima {aitia prote) occupa un posto im portante tra i filosofi greci. Essa si confonde con quella ài principio {arche), m a ap­ pare in form e diverse. Così, nel Fedone (97c), Socrate spera di trovare «la causa di tutte le co­ se» {aition panton). Nel Timeo (29a) Platone ri­ tiene che il mondo, la più bella delle cose, ne­ cessiti di un artefice, che è la più perfetta delle cause (ariston ton aition), facendo così distinzio-

ne tra due tipi di cause: quelle che, per azione dell’intelligenza, producono ciò che è buono e bello, e quelle che, prive di razionalità, agiscono per caso (48a). Allo stesso m odo Aristotele constata che il fi­ losofo dovrà, al fine di spiegare l’insieme delle cause seconde, risalire fino a una causa prim a efficiente, che chiamerà il prim o M otore {Fisica, II, 3, 195b); quest’ultimo, confondendosi con l’Intelligenza e il Bene, è al contem po la causa finale ultima. A questo doppio titolo, D io è il primo Principio {Metafisica, Δ, 6-7, 107lb 1072b). Plotino in parte concorda con Aristotele quando afferma che tutto avviene per cause n a ­ turali e che quest’ordine e questa ragione com ­ prendono anche i più m inuti dettagli (VI, III, 16). Ma se ne distanzia per quanto concerne la classificazione delle cause: occorre fin dall’inizio distinguere tra la causa degli esseri e quella degli eventi. Per quello che riguarda la prima, ci sono due tipi di esseri: coloro che non hanno causa, poiché sono eterni, e coloro che hanno la p ro ­ pria causa in questi esseri eterni (III, I, 1). Q uan­ to agli eventi, anche essi sono di due tipi: quelli che sono prodotti fuori di noi, da cause esterne alla nostra volontà, e che dunque fanno parte dell’ordine naturale, e quelli che derivano dalla nostra interiorità (III, I, 10).

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akinetos

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akinetos / άκίνητος, immobile. D a kino, muovo, e a privativo. Il term ine si tro ­ va: in Filolao, «l’Uno è eternam ente immobile» (in Filone d ’Alessandria, Creazione del mondo, 23); in Platone, l’Essere è al contem po im m obi­ le e mobile (Sofista, 249d); in Aristotele: il pri­ m o M otore è immobile (Fisica, V ili, 5).

akon / άκων, involontariamente, suo malgrado.

pubblica, VI, 501d); il suo compito consiste nel­ lo spingere l’anima a raggiungere la Verità in se stessa (ivi, VII, 526b). P er Aristotele la filosofia è «la scienza della verità»: episteme tes aletheias / έπιστέμη τής άληθείας {Metafisica, a, 1, 993b). Per Plotino, il desiderio fondam entale dell’anima è quello di trovare, al di là di tutte le altre forme dell’Essere, «ciò che è più vero del vero» (VI, VII, 34).

La filosofia ha come obiettivo ultimo il raggiun­ gimento della verità. Il filosofo, secondo Plato­ ne, è «amante dell’Essere e della Verità» {Re-

- Verità ontologica. Per Parm enide ci sono due percorsi di ricerca: l’opinione che conduce al non-essere, e il pensiero {noema / νόημα) che conduce all’Essere, ossia alla verità (frr. I, 30, II, 1-8, V ili, 39-40, 30-32). In Platone, la Verità ci è spesso presentata come ciò che esiste al di là dei sensi e del m ondo sensibile. L’anima «rag­ giunge la verità» quando, grazie al ragionam en­ to, vede svelarsi gli Esseri {ta onta / τα όντα) {Fedone, 65-bc); ed è questo desiderio della ve­ rità che la induce alla caccia degli Esseri (ivi, 66a). Allo stesso m odo, colui che orienta così la sua ricerca è il vero filosofo, testualm ente «il ve­ ram ente filosofo»: alethos philosophos / άληθώς φιλόσοφος (ivi, 64b, e). Ugualmente, vi è un’opi­ nione vera, alethes doxa / αληθής δόξα, che ci porta al bene reale da praticare in questo m on­ do (Menone, 98c). Per Aristotele, la verità consi­ ste nel conoscere l’Essere in sé: to on auto / τό óv αύτό (Metafisica, Θ, 10). Per Epicuro, crite­ rio della verità sono le sensazioni (D.L., X, 31).

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«Coloro che fanno del male, lo fanno sempre in­ volontariamente» (Platone, Gorgia, 509e). «Ognuno pecca involontariamente» (Epitteto, Dis­ sertazioni, I, XVIII; 14). akousios / άκούοιος, involontario.

aletheia (he) / άλήθεια (ή), la verità; latino: ve­ ri tas. Si intende per alethes ciò che è incontestabile sia nei fatti {reale, veritiero), sia nelle parole {evi­ dente dal punto di vista della logica, veridico dal punto di vista del soggetto che afferma).

anamnesis

aletheia

Per Plotino la verità si compie nella visione del Bene: to agathon / το άγαθόν (VI, VII, 34). - Verità logica. Platone ci mostra Socrate pronto a rilanciare la discussione chiedendo ai suoi udi­ tori d ’aver amore per la verità (Fedone, 9 le). Se­ condo Aristotele, lo studio delle categorie consi­ ste nel distinguere il vero dal falso (Categorie, IV), distinzione che è anche l’oggetto del trattato Dell’interpretazione (I). Nella Metafisica (E, 4) e nel trattato Dell’interpretazione (I) egli affronta il significato dell’Essere come vero, opposto al non-essere come falso (pseudes / ψευδής); e più avanti (Θ, 10), chiede di esaminare l’Essere e il non-essere, che corrispondono al vero e al falso, secondo le differenti specie di categorie; poi (K, 8), fa della verità dell’Essere un esercizio del pensiero. Per Epitteto, «la natura della nostra ra­ gione è di assentire alla verità» (Dissertazioni, I, XXVIII, 4).

ro sia il falso» (Ipotiposi, I, 7). In conclusione non vi è alcun criterio di verità (ivi, II, 4).

alethes / αληθής, vero, veritiero.

alloiosis (he) / άλλοίωσις (ή), l’alterazione. Da allos / άλλος, altro. U na delle forme del cambiamento (μεταβολή) in Aristotele. Defini­ zione: «Un cambiamento nelle affezioni di un substrato (hypokeimenon) che perm ane identico e percettibile» (Sulla generazione, IV). Aristote­ le ne parla anche nella Fisica (VII, 3). Platone ne fa, con la traslazione (phora), una delle due spe­ cie di m ovimento (Teeteto, 181a, 182c).

anamnesis (he) / άνάμνησις (ή), la reminiscenza.

- La negazione della verità. Aristotele riferisce che, secondo Eraclito, «tutto è vero e tutto è fal­ so» (Metafisica, Γ, 8) e, secondo Democrito, «nulla è vero; oppure la verità non ci è accessibi­ le» (Metafisica, Γ, 5). Protagora, invece, sostiene che «tutto è vero» (Sesto Empirico, Contro i lo­ gici, I, 60). Q uanto allo stesso Sesto, egli ragiona così: «Se io dico “tutto è falso”, intendo che que­ sta proposizione sia vera; lo stesso quando dico: “Nulla è vero”. In tal m odo, affermiamo sia il ve­

In un celebre passaggio del M enone (82a-86c), Socrate, interrogando con abilità un giovane schiavo ignorante, gli fa trovare il principio pita­ gorico della duplicazione del quadrato. N e con­ clude che «la verità esiste da sempre nella nostra anima» (86b). In conclusione, «ogni sapere è una reminiscenza (81d); il che perm ette, nel Fe­ done (72e-78a), un argom ento a favore dell’im ­ mortalità dell’anima, teoria adottata anche da Plotino (VI, III, 23; V, IX, 5).

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ananke (he) / άναγκή (ή), la necessità; latino: necessitas.

fermarsi». È il famoso ananke histasthai / α ­ νάγκη ϊστασθαι (Fisica, V ili, 5).

Dal significato originario di «decreto inesorabi­ le degli dei» (Empedocle, frr. 125 e 126), fu uti­ lizzato successivamente in senso filosofico (Pla­ tone, Aristotele, Epicuro, gli Stoici). Aristotele, nel suo lessico filosofico (Metafisi­ ca, Δ, 5), dedica un cenno all’ananke sotto forma del qualificativo neutro anankaion / άναγκαιον: il necessario. E ne fornisce cinque significati: - la condizione (synaition / συναίτιον), per esempio il cibo per il vivente, che non può sussi­ stere senza di esso. - la forza avversa {bia / βία); - l’impossibilità che possa essere diversamen­ te, la m adre delle necessità; - la necessità logica, tratta dalla dimostrazio­ ne, Γapodeixis / άπόδειξις; - la necessità metafisica. Aristotele dice: il semplice (to haploun / το άπλοΰν). Q uesta è infatti propria degli esseri eterni e «immobili», senza cambiamento. Troviamo questa necessità anche nell’opposizione dell’es­ sere necessario, sempre uguale, e dell’essere per accidente, votato al cambiam ento (Metafisica, E, 2). Così per trovare l’esistenza del prim o M oto­ re: tutto è mosso da qualcosa di diverso da sé; ora, da mosso a m otore (da effetto a causa) non si può risalire all’infinito; «è dunque necessario

Platone, secondo la propria abitudine, non offre esposizioni didattiche riguardo a questo term i­ ne. Lo impiega nei sensi più diversi: di destino, riguardo alla sorte delle anime (Fedone, 86c); di inclinazione tra i sessi (Repubblica, V, 458d); di coercizione politica (ivi, V, 519e); di determ ini­ smo cosmico (Fedone, 97e; Politico, 269d; Ti­ meo, 46e); di necessità metafisica (Fedone, 76de; Fedro, 246a; Timeo, 42a). Aristotele distingue tra la necessità matematica (la somma degli an­ goli interni di un triangolo è uguale a 2 angoli retti), di ordine razionale, e la necessità fisica, di ordine sensibile (Fisica, II, 9). Gli stoici ricorrono largamente alla nozione di ananke, poiché nel loro sistema tutto è neces­ sario; e di una necessità sia metafisica sia cosmi­ ca, poiché, essendo Dio al contem po il mondo, la necessità della sua esistenza appartiene ai due ordini. «Tutto ciò che accade» scrive M arco A u­ relio «è necessario» (II, 3). L’Intelligenza uni­ versale ha preso u n ’unica decisione e tutto ne deriva di conseguenza (V, 10; VI, 9; IX, 28). Il saggio è «colui che ha la virtù di sottomettersi alla necessità» (Epitteto, Manuale, LUI, 2). Epicuro ha edificato la sua saggezza sulla di­ stinzione dei piaceri: gli uni sono naturali e ne­ cessari, altri naturali ma non necessari, altri an­ cora né naturali né necessari {Massime, 29).

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andreia

antikeimenos

andreia (he) / ανδρεία (ή), il coraggio; latino: fortitudo. Femminile sostantivato dell’aggettivo andreios / ανδρείος, maschile, virile, deriva anch’esso da aner / άνήρ (genitivo andros), l’uomo in opposi­ zione alla donna. Andreia indica originariam en­ te il coraggio del guerriero, l’ardim ento, il valo­ re, in seguito diviene la virtù interiore della for­ za per il bene. La maggior parte dei moralisti greci ha inclu­ so il coraggio tra le principali virtù, partendo dalla considerazione che il bene non è facile da compiere, e che esige da parte del soggetto, di qualunque sesso egli sia, uno sforzo di acquisi­ zione e uno sforzo di resistenza al male —» arete. Platone, pur contemplando il coraggio tra le principali virtù (Protagora, 329c-e, 361b; Fedone, 67b, 68b-e), gli attribuisce un ruolo molto preci­ so, che coincide con il significato originario: la virtù dei guardiani della Città. Tuttavia, egli lo colloca entro una gerarchia delle virtù, dopo la saggezza e prima della temperanza, assegnando­ gli come funzione propria dell’individuo quella di regolare il cuore: thymos, luogo del sentimento e della collera (Repubblica, IV, 430b-c, 442b-c). Aristotele pone il coraggio all’interno del suo schema delle virtù, m ostrando come questo si collochi nel giusto mezzo tra la paura e la tem e­ rarietà {Etica Nicomachea, II, VII, 2) e distin­ guendone sei tipi (ivi, III, VI-IX; Etica Eudemea, 18

III, I, Grande Etica, I, XX). Zenone di Cizio, se­ guendo Platone, pone il coraggio tra le quattro virtù principali (Plutarco, Le contraddizioni degli stoici, VII), e in questo viene imitato dagli altri stoici (D.L., VII, 92).

anthropos (ho) / άνθρωπος (ò), l’uomo. Come specie, opposto alla specie animale (op­ posto alla donna si dice aner / άνήρ; genitivo an­ dros). In Aristotele sostanza composta, nella quale «l’anima è causa e principio del corpo vi­ vente» {LAnima, II, 4) alla quale si aggiunge u n ’anima intellettuale (ivi, III, 4, 10, 11).

antikeimenos / άντικείμενος, opposto; plurale antikeimena / άντικείμενα, neutro sostantivato. D a keimenos, participio del verbo keim ai / κείμα ι, io sono posto, e unti / αντί, di fronte. Gli opposti costituiscono una categoria logica studiata da Aristotele nelle Categorie (X) e nella Metafisica (Δ, 10). Egli ne distingue quattro tipi: i relativi {pros ti / προς τι), come il doppio e la metà; i contrari {enantia / εναντία), come il m a­ le e il bene; la privazione {steresis / στέρησις) e il possesso (hexis / έξις), come la cecità e la vi­ sta; l’affermazione (kataphasis / κατάφασις) e la negazione (apophasis / άπόφασις). 19

apeiron

antiphasis antiphasis (he) / άντίφασις (ή), la contraddizione. Logica. «Opposizione di u n ’affermazione {kataphasis) e di una negazione (apophasis)» (Ari­ stotele, Dell’interpretazione, VI).

antithesis (he) / αντίθεσις (ή), l’opposizione. Logica. Nelle Categorie (X), Aristotele distingue quattro tipi di opposizione: la contraddizione {antiphasis), la contrarietà {enantiosis), la rela­ zione {pros ti) e il possesso-privazione {hexis / έξις; steresis / στέρησις).

aoristos / άόριστος, indeterminato. Il movimento è qualcosa di indeterm inato (Ari­ stotele, fisica, III, 2). La materia è indeterm ina­ ta (Plotino, II, IV, 14).

apathes / άπαθής, impassibile, insensibile; lati­ no: impatiens.

to), e uno morale·, insensibile (privo di passioni). Questo stato è quello dell’apatheia / άπαθεία, l’impassibilità. • Significato metafisico. Tra i presocratici, «Anassagora» scrive Aristotele «è il solo ad affer­ mare che lo Spirito è impassibile» (LAnim a, I, 2; III, 4). Aristotele stesso insegna come l’intel­ letto separato {nous choristos / νους χωριστός) sia impassibile (ivi, III, 5). Plotino ha scritto il trattato Dell’impassibilità degli incorporei (asomata) (III, VI), dove difende la teoria secondo la quale la materia sensibile, come substrato dei corpi, è un incorporeo, poiché precede il corpo per farne un composto; essa è dunque impassi­ bile (III, VI, 7). Allo stesso m odo l’anima del m ondo è impassibile (II, IX, 18). • Significato morale. Lo si incontra spesso tra gli stoici (stoico, in italiano, significa impassibile). Il filosofo diviene saggio quando supera le passioni (Epitteto, Dissertazioni, III, XIII, 11; Manuale, III, XXIX, 6-7). Plotino ritiene che i demoni possano patire attraverso la loro parte irrazionale; il sapien­ te, invece, perviene all’insensibilità (IV, IV, 43).

Da pathos / πάθος, la passione, il fatto di subi­ re,con il prefisso privativo afa: senza passione.

apeiron (to) / άπειρον (τό), l’indeterminato, l’informe, l’infinito.

Il termine possiede due significati. Uno metafisi­ co·. impassibile (che non può ricevere alcun affet­

N eutro sostantivato di apeiros, indeterminato. È il negativo di peras, il limite, il termine, che deri­

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apeiron

apeiron

va da perao, terminare, portare a compimento, alla perfezione. L’apeiron è dunque metafisicamente l’idea di un essere informe o incompiuto, e logicamente, quella di un indeterminato, inde­ finito e indefinibile, senza un proprio contenuto. I primi pensatori greci, ionici, impiegano questo termine in un significato cosmologico. L'apeiron è la materia primitiva indeterminata, che non è nessun elemento preciso, ma dalla quale deriva­ rono tutti gli elementi. Non bisogna pertanto tradurre il termine con mescolanza, poiché la mescolanza è a posteriori, m entre il caos origina­ le è potenzialmente multiplo, ma attualmente semplice. Il secondo esponente della scuola di Mileto, Anassimandro, successore di Talete, fa ά ύΥ apeiron l’origine di tutti gli altri esseri (Ari­ stotele, Fisica, 1 ,4, 187a; D.L., II, 1). D opo di lui Anassagora pone come principio prim o le omeomerie, particelle del tutto simili, indifferenziate e indiscernibili, che anch’egli definisce come apei­ ron (frr. 1 e 4) e talora come mescolanza: symmixis (fr. 4). I pensatori della M agna Grecia, benché di origine ionica, danno al term ine un significato metafisico. Per Pitagora e i suoi discepoli, la ca­ tegoria fondam entale dell’ontologia è la coppia peras-apeiron, ossia com piuto e incom piuto, perfetto e imperfetto; il prim o term ine si riferi­ sce alla m onade, o U no originario, il secondo al­ la Diade, o essere secondo generato dal primo; 22

qui dunque abbiamo, diversamente dagli ionici, un apeiron derivato e non originario. Platone si ispira a Pitagora. N el Filebo (15b27e), le cose in divenire sono indeterm inate e in­ compiute, m entre il m ondo intelligibile è com ­ piuto. Seguendo tutti questi pensatori, Aristotele consacra alla nozione di apeiron cinque capitoli della Fisica (III, dal 4 al 9), nel tentativo di trar­ re dalle diverse nozioni preesistenti una nozione comune; ma, se riesce a form ulare in m odo cor­ retto le teorie degli ionici, non riesce invece a trovare una definizione comune, e ne fornisce sei che sono contestabili. I nostri contem poranei, sulla scia di H erm ann Diels (Doxographi Graeci, 1879; Fragmenta der Vorsokratiker, 1903), traducono abitualmente apeiron con infinito (tedesco unendlich)d E un profondo controsenso che rende i testi inintellegibili. Ecco alcune di queste incongruenze. «Per Anassimandro, il prim o principio era l’infinito, senza tuttavia precisare se si trattasse dell’aria, dell’acqua o di altra cosa» (D.L., II, 1 tradotto in Penseurs grecs avant Socrate, G am ie 1941). Che rapporto c’è? Ora, Aristotele spiega che Anassi­ m andro «fa derivare tutto dal chaos» - ossia dal­ la mescolanza originaria. Altra incoerenza: per Anassagora, «esiste uriinfinità di omeomeri» e 1 Tuttavia Nietzsche traduce correttamente das Unbestimmte.

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aphthartos

apophansis

«egli sostiene l'infinità perché [...] nulla può es­ sere generato dal nulla; questo, infatti, è ciò che [gli] fa porre la “mescolanza prim itiva”» (Ari­ stotele, Fisica, I, 4 tradotto nell’edizione BellesLettres). Che rapporto c’è? Ancora u n ’altra: Anassagora «amm ette dei principi in num ero infinito. Quasi tutte le cose, dice, sono form ate da principi simili» (Aristotele, Metafisica, A, 3, tradotto nell’edizione Vrin). Plotino (I, V ili, 3; II, IV, 13) pone u n ’equivalenza tra apeiron e aoriston, che significa indefinito. In altro ambi­ to, Aristotele, contrapponendo l’arte alla scienza, constata come l’arte, che ha come oggetto le sin­ gole realtà, sia apeiron, indefinita, perché non comporta delle definizioni, m entre la scienza, che ha come oggetto l’universale, formula delle definizioni (Retorica, I, II, 6). In effetti, gli ionici, eredi di una tradizione gre­ ca molto povera in questo campo, e viaggiatori presso i vicini mesopotamici, fenici ed egizi, vi trovarono il mito del caos originario, mito com u­ ne alle antiche civiltà del M editerraneo orientale.

contraddistingue gli esseri la cui sostanza non è mai toccata dal cambiamento, che esistono da sempre, che non possono morire. Si tratta degli esseri che sono al di fuori del m ondo sensibile, poiché gli esseri sensibili sono soggetti alla cor­ ruzione. «Pitagora e Platone» scrive Aezio «insegnano che l’anima razionale (to logikon / τό λογικόν) è incorruttibile» (IV, VII, 5). «Il prim o M otore {to proton kinoun / τό πρώτον κινούν)» dice da par­ te sua Aristotele «è privo di generazione e corru­ zione» {Fisica, V ili, 3). E d ’altra parte {Il cielo, I, 3), il cielo «è ingenerato e incorruttibile» (stessa affermazione in 1 ,10; 11). Per gli stoici, il m ondo è una divinità incorruttibile (D.L. VII, 137).

aphthartos / άφθαρτος, incorrutibile; latino: incorruptus.

apophansis (he) / άπόφανσις (ή), la proposizione.

apodeixis (he) / άπόδειξις (ή), la dimostrazione. Logica. Sillogismo scientifico, che deve partire da premesse vere (Aristotele, Analitici secondi,

II, 1).

Composto da phthartos, corruttibile, e dal p re­ fisso privativo a / a. Caratteristica degli esseri indistruttibili. Q uesta caratteristica è connessa all’eternità e

Logica. Enunciato di un giudizio, che afferma o nega che un predicato (kategorema) sia attribui­ to a un soggetto {hypokeimenon). Aristotele, in Dell’interpretazione (V-VIII), passa in rassegna i diversi tipi di proposizione.

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apophasis

arche

apophasis (he) / άπόφασις (ή), la negazione.

La causa originaria, la Realtà prima dalla quale procedono le altre nell’universo. La parola può avere un significato cosmologico, il Principio è un corpo materiale (i presocratici), e uno metafisico, il Principio è una Realtà impersonale che può prendere il nome di M onade (Pitagora), di Uno (Parmenide, Plotino), di Essenza (Platone). Platone che utilizza largamente la parola ar­ che, ne dà una definizione nel Fedro (245c-d): «Il Principio è l’ingenerato (ageneton); poiché è necessario che tutto ciò che proviene dall’essere vi giunga a partire da un principio, ossia da ciò che non procede da nulla». Il principio è d u n ­ que ciò che viene per prim o nell’esistenza, e ge­ nera successivamente gli altri esseri. Anche Aristotele definisce il Principio, ma in modo molto vago. Nella Metafisica (Δ, 1), dedi­ ca a questo term ine la prim a delle sue riflessioni. Vi attribuisce cinque significati: - il punto di partenza (di una linea, di una

strada). Vi è pertanto un principio simmetrico, il punto d ’arrivo; - l’inizio migliore (arte pedagogica); - ciò che è prim o e im m anente nel divenire (le fondam enta di una casa); - la causa non imm anente che precede (il p a ­ dre e la m adre per il bambino); - la libera volontà di un essere razionale (principio degli eventi). Nella Fisica (I, 1, 184a), sviluppando la storia delle teorie, Aristotele attribuisce agli elementi primi, per gli ionici (i Fisiologi), il nome di p rin ­ cipi. Nella Metafisica (A, 5), lo attribuisce alle grandi realtà prim e di alcuni filosofi precedenti: il N um ero per Pitagora, l’Uno per Senofane, l’Essere per Parmenide. Per i primi ionici, chiamati da Aristotele i Fisio­ logi, il Principio è un elemento cosmico. Il primo tra loro, Talete di Mileto, dichiara che esso è l’Ac­ qua (Aristotele, Metafisica, A, 3; Cicerone, De na­ tura deorum, I, X, 23 ; Pseudo Plutarco, Placita, I, 3; D.L. I, 27). Aristotele attribuisce questa “sco­ perta” all’osservazione, ricordando come la pri­ ma mitologia greca ponga l’Oceano all’origine del mondo; Nietzsche afferma che in ciò vi è un ele­ mento di genialità. In realtà, è una semplice ere­ dità delle cosmogonie orientali. Talete, di origine fenicia, conosceva bene i miti semitici. La Cosmo­ gonia caldea, libro sacro della tradizione babilo­ nese, di cui Damaselo e Berosio hanno preservato dei frammenti, dice: «In origine la totalità delle

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Logica. «Dichiarazione che una cosa è separata da un’altra cosa.» Aristotele, Dell’interpretazione (VI). Più esattamente, affermazione che un predicato Ckategorema) non è compreso in un soggetto.

arche (he) / άρχή (ή), il Principio; latino: Principium.

archon

arche

terre era mare». E YEnuma Elis, altro racconto babilonese della creazione dice: «Quando in alto il cielo non era ancora nominato, quando la terra in basso non aveva nome, dall’oceano Apsou, lo­ ro padre, e da Tiamat la tumultuosa, madre di tutti, le acque si confondevano nell’Uno». Dal Li­ bro dei morti, il più antico testo dell’Egitto: «All’i­ nizio non vi era che Noun, l’abisso dell’acqua pri­ mordiale»; ora, la Fenicia aveva dominato cultu­ ralmente l’Egitto fin dal III millennio, e in ogni caso Talete compì un soggiorno in Egitto e vi se­ guì gli insegnamenti dei sacerdoti (D.L. 1,27). Anassimandro, successore di Talete alla testa della scuola di Mileto, scelse come Principio pri­ mo Γindeterminato (—> apeiron / άπειρον). Il ter­ zo capo della scuola, Anassimene (586 ca-528 ca a.C.), stabilisce come prim o Principio l’aria {aer / άήρ). Anche questo è un antico mito fenicio. Tro­ viamo questa teoria in Diogene di Apollonia (V secolo). Infine, Ippasio di M etaponto (VI secolo) ed Eraclito di Efeso (550 ca-480 ca a.C.) adotta­ no come primo Principio il fuoco (pyr, πΰρ). Gli italici, filosofi di origine ionica dell’Italia del sud (Magna Grecia), sviluppano principi me­ tafisici. Per Pitagora è il Numero, più precisamente la —» Monade, Unità originaria dell’essere. Per Senofane (VI secolo), l’Uno originario è un Dio unico e incorporeo; per Parmenide, suo di­ scepolo, è l’Essere, che è l’Uno questa volta nel significato di Unico, poiché non ammette altro; per Anassagora, il Principio primo è duplice: una

materia informe, inerte e un’Intelligenza assoluta, dinamica, che ne fa emergere l’universo nella sua varietà. Per Empedocle, sono l’amore (philotes / φιλότης) e l’odio (neikos / νεικος), che uniscono e separano gli elementi preesistenti, identificati nei quattro classici —» stoicheia. Platone non ha una posizione definita: le Essenze considerate collettivamente nel fedone·, l’Essere nel Sofista-, il Bene nella Repubblica; Dio nelle Leggi. Per Ari­ stotele, il Principio è il primo Motore, che si confonde con l’Intelligenza e il Bene (Metafisica A, 6-7). Ma per ciò che riguarda gli esseri della Natura (ta phisei onta / xà φύσει όντα), egli con­ sidera tre principi: la materia (hyle / ύλη), la for­ ma (morphe / μορφή) e la privazione (steresis / στέρησις) (Fisica, I, 7). Per Plotino, il Principio è l’Uno, che è nello stesso tem po il Bene.

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archetypos (ho) / αρχέτυπος (ó), il modello, l’archetipo —> paradeigma.

archon (ho) / άρχων (ò), il governante, l’arconte. Participio presente sostantivato del verbo archo / άρχω, io comando. Filosofia politica: in Plato­ ne, gli arconti form ano una precisa classe socia­ le, con una propria formazione e virtù (la sag­ gezza) (Repubblica, VII, 540d-541a; V, 428b429a; VI, 504d-506a; V ili, 543b; Leggi, IV,

arete

arete

Come sottolinea Aristotele, la virtù non è una serie o una ripetizione di atti, per quanto l’azio­ ne sia il segno di un soggetto morale. Essa è «una disposizione (hexis / έξις) acquisita volon­ tariam ente» (Etica Nicomachea, II, VI, 13). Q uesto significa che, da un lato in quanto ac­ quisita, essa non è il frutto di buone disposizio­ ni naturali, ma di uno sforzo; e che in quanto di­ sposizione, è lo stato di un soggetto che è conti­ nuam ente disposto ad agire moralmente.

G li ionici non si erano troppo occupati del te ­ ma della virtù, m entre i pitagorici lo hanno m ol­ to sviluppato. Secondo Pitagora, la virtù è l’ar­ monia dell’anima come la salute è l’armonia del corpo (D.L., V ili, 33), e i neopitagorici Teage e M etope redigono entram bi un trattato Della virtù (Peri aretes / Π ερ ί αρετής). Senofonte ci m ostra Socrate che incita i suoi discepoli a p rati­ care la virtù (D etti memorabili, I, VII, 1) attra­ verso il suo esempio più che tram ite il suo inse­ gnamento (ivi, I, II, 3). Platone sviluppa dapprim a nel Menone (97blOOb) una virtù di tipo socratico praticata nel m ondo sensibile, attraverso l’azione, ispirata dal favore divino, e definita come opinione vera (—» doxa); poi, nella Repubblica (IV, 429e-441c), di­ stingue tre tipi di virtù in funzione sia delle po­ tenze dell’anima sia delle classi sociali; vi sono in­ fatti tre potenze dell’anima: la concupiscenza (iepithymia / έπιθυμία), la cui sede si trova nel ventre e presiede alla vita vegetativa; il cuore (thymos / θυμός), che ha sede nel petto e presiede al­ la vita relazionale (potremmo chiamare questa tendenza «lo slancio spontaneo verso i valori»); infine la ragione (logos / λόγος), che ha sede nella testa e presiede alla vita intellettuale. L’armonia dell’anima al pari di quella della società necessita di tre virtù, insieme specifiche e gerarchiche: - la tem peranza (sophrosyne / σωφροσύνη), che regola la concupiscenza ed è propria del p o ­ polo;

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715c). Termine impiegato da Solone (Apophtegmes, 34), da Chilone (Apophtegmes, 17), da P lu ­ tarco (Discorsi conviviali), da Anacarsi (Apoph­ tegmes, 20; in Stobeo, Antologia, XI, V ili, 47).

arete (he) / αρετή (ή), la virtù; latino: virtus. Il termine, come il latino virtus, possiede il doppio significato fisico e morale. Per questo motivo di­ versi etimologisti lo fanno derivare da ares, che, nome proprio, è dio della guerra (il M arte dei L a­ tini) e, nome comune, indica il combattimento e il coraggio. La radice ar- porta a haristos / άριστος, valente, valoroso, ma anche ad arsen / άρσην, m a­ schio, virile e da qui forte, coraggioso; e probabimente ad archo / άρχω, comandare, detenere p o ­ tere, e aro / άρώ: seminare, fecondare (da qui gli strumenti per arare). La virtù è dunque, in senso morale, la forza dell’anima tesa verso il bene.

arete

arete - il coraggio (andreia / ανδρεία), che regola il cuore ed è proprio dei guerrieri; - la saggezza (sophia / σοφία), che regola la ragione ed è propria dei governanti. Una quarta virtù, la giustizia (dikaiosyne / δικαιοσύνη), è necessaria per l’intera anima e alle tre classi, poiché essa assicura armonia nel­ l’individuo e nella città. Q ueste quattro virtù platoniche sono com u­ nem ente chiamate le «virtù cardinali». Ne tro ­ viamo diversi abbozzi, antecedenti la Repubbli­ ca, nel Protagora (349b): giustizia, saggezza, san­ tità, coraggio sono quattro aspetti di un’unica virtù, ai quali si aggiunge più tardi la tem peran­ za (316b); nel Fedone, due triadi appaiono di volta in volta: coraggio, saggezza, giustizia (67b) e temperanza, giustizia, coraggio (68b-e). Aristotele, a sua volta, definisce due virtù in relazione alle parti dell’anima; pertanto vi è una grande differenza rispetto a Platone. Q uest’ulti­ mo dà alla concupiscenza e al cuore, che sono infrarazionali, la capacità di esercitare la virtù; Aristotele situa i due livelli della virtù nell’anima razionale (psyche): se la virtù è infatti acquisita, lo è razionalmente; essa è però il frutto non di una ragione teoretica, che tende alla verità, ma di una ragione pratica, che tende all’azione {Eti­ ca Nicomachea, VI, II, 1-3). La parte razionale dell’anima consta di due li­ velli. Quello superiore è 1'epistemonikon / έπιστημονικόν, che è per Aristotele ciò che la noe­

sis è per Platone, ossia la ragione intuitiva; l’in­ feriore è il logistikon / λογιστικόν, che è per Aristotele ciò che la dianoia è p er Platone, ossia la ragione raziocinante. Il prim o è la sede delle virtù dianoetiche, o contemplative; il secondo quello delle virtù etiche, o attive (ivi, II, I), e in quanto tali deliberative (ivi, VI, I, 6). La virtù etica {ethike / ηθική) si manifesta tra­ mite le seguenti caratteristiche: essa è una praxis, abitudine acquisita razionalmente, che la porta costantemente a fare il bene (Etica Nicomachea, II, VI, 15); essa è giusta misura {mesotes / μεσότης) a mezza distanza tra due mali, l’uno dovu­ to all’eccesso, l’altro al difetto: per esempio, il co­ raggio è il giusto mezzo tra la paura e la tem era­ rietà (ivi, II, VIII-IX); inoltre, essa è volontaria, oggetto di una scelta ponderata (proairesis / προαίρεσις) (ivi, III, II-V). Da ciò ne deriva co­ me la virtù morale fondamentale sia la prudenza {phronesis / φρόνησις), virtù dell’uomo a con­ fronto con le difficoltà umane (X, V ili, 3), che pratica l’abilità nell’azione. Le altre virtù morali sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la munificienza, la magnanimità, la dolcezza, il p u ­ dore, la giustizia (ivi, III, VI-XII, IV, I-VII, V). La virtù dianoetica {dianoetike / διανοητική), quella del sapiente giunto alla sommità della cono­ scenza e che non è più tributario del suo corpo né del m ondo sensibile, consiste nella contemplazio­ ne intellettiva {theoria / θεωρία), che gli assicura la felicità {eudaimonia / ευδαιμονία) (ivi, X, VI-

òi

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arithmos

arete

Vili). Diversamente da Platone, Aristotele consi­ dera che l’uomo pubblico, per compiere correttamente la propria funzione, non ha bisogno delle virtù dell’uomo privato (Politica, III, IV, 3). Per gli stoici la virtù equivale al bene (Sesto Empirico, Contro i dogmatici, III, 77), e conduce al Bene supremo (Cicerone, De finibus honorum et malorum, III, 11). Essa consiste nell’armonia dell’anima in accordo con l’ordine dell’universo (Seneca, De vita beata, V ili; Clemente d ’Alessandria, Stromata, II, XXI, 129; D.L., III, 165). La virtù è una totalità: o si è interamente virtuosi o non lo si è (D.L., VII, 90; Cicerone, Academici se­ condi, I, 10). Gli stoici ammettono tuttavia che si possano distinguere un certo numero di virtù. Ze­ none riprende le quattro virtù cardinali di Platone (Plutarco, Le contraddizioni degli stoici, VII). Altri distinguono le virtù primarie (cardinali) da quelle secondarie: magnanimità, padronanza di sé, pa­ zienza, ardore, discernimento (D.L., V ili, 92). Plotino ha consacrato un piccolo trattato alle virtù: il II della I Enneade. La virtù è qui defini­ ta come la rassomiglianza con Dio; e ci si pervie­ ne attraverso la katharsis, grazie alla quale l’ani­ ma um ana diviene puro intelletto. L’autore ap­ plica questa definizione a saggezza, prudenza, giustizia, coraggio, temperanza, che sono già eter­ nam ente nell’Intelletto a titolo di modello (I, II, 7). Egli torna su questo tem a nel VI trattato del­ la III Enneade, m ostrando come la virtù consi­ sta, «per ogni parte deH’anima, nel rendersi si­

mile alla sua essenza obbedendo alla ragione» (IH, VI, 2).

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aristokratia (he) / άριστοκρατία (ή), Paristocrazia. P er Platone il governo della ragione e della virtù, realizzato tram ite i saggi (Repubblica, VITI 544e, 545d, 547c). Aristotele la nom ina di sfuggita (Politica, IV, 7).

ariston (to) / άριστον (τό), il Sommo Bene —» agathon. Impiegato da Pittaco (Apophtegmes, 10).

arithmos (ho) / αριθμός (ό), il numero; latino: numerus. Nozione im portante per i filosofi, poiché il n u ­ mero è una pura astrazione, ottenuta tramite la ragione (più spesso dianoia) a partire dalle realtà. L’insegnamento deH’aritmetica era molto svi­ luppato presso le scuole filosofiche, soprattutto tra i pitagorici e nell’Accademia platonica; ma pare restasse a un livello non molto elevato, poi­ ché si ripetevano le lezioni dei primi maestri. Era soprattutto la geometria a essere oggetto di di­ scussioni e progressi. A partire dal III secolo a.C.,

asomaton

arithmos

la matematica sarà sempre più coltivata da scien­ ziati puri, senza intenzioni filosofiche. Occorre dunque citare i Trattati dei numeri di Butero di Cizico e di M oderato di Gades, il Trattato dei nu­ meri di Proro di Cirene (II secolo a.C.), l’Introdu­ zione all’aritmetica e le Ricerche teologiche sui nu­ meri di Nicomaco di Gerasa (II secolo); il Tratta­ to della matematica di Teone di Smirne (II seco­ lo); il Trattato dei numeri di Numenio (III seco­ lo); i Teologomeni dell’aritmetica dello Pseudo Giamblico; l’Introduzione all’aritmetica di Anatolio d’Alessandria (III secolo), tutti neopitagorici. L’interesse per il num ero in filosofia deriva dai pi­ tagorici, che gli conferirono un ruolo metafisico. Secondo i pitagorici, il fondamento del reale è il numero, ossia ciò che vi è di più razionale nelle cose. «Essi ne hanno fatto» dice Aristotele «la so­ stanza dell’essere» (Metafisica, A, 5). Allo stesso modo in cui il Num ero universale, quello che non è questo o quel num ero determinato, è prin­ cipio di tutto il sensibile, i diversi numeri, nella loro diversità, sono i principi di tutte le singole realtà. Così possiamo comprendere la frase di Aristossene: «Il Num ero è l’intelligenza di tutti i numeri» (Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, I, 6). E quella di Filolao: «La natura del Num ero è la maestra della conoscenza» (Stobeo, ivi, Intro­ duzione). Questo carattere trascendentale del N u­ mero, essenza delle cose, non lo deve far confon­ dere con l’Uno (hen), che ne è il Principio tra­ 36

scendente. È il motivo per cui bisogna ben com­ prendere Aristotele quando afferma che, per i pi­ tagorici, il Num ero è principio; e aggiunge «in quanto materia degli esseri» (Metafisica, A, 5). P er Platone l’interesse del num ero è quello di essere un agente di misura e di bellezza, che ne fanno un elemento necessario dell’educazione (.Repubblica, VII, 522c). Aristotele consacra tu t­ to il Libro N della Metafisica alla critica del n u ­ m ero nei pitagorici e in Platone. Plotino si ispira ai pitagorici quando fa derivare il num ero dalla diade (dyas) (V, IV-V); e nel suo trattato I N u ­ meri, egli si spinge ad affermare che il N um ero in sé è anteriore all’Essere (VI, VI, 9).

asomaton (to) / άσώματον (τό), l’incorporeo. Usato di solito al plurale: τά άσώματα; latino: incorporalia. Essere privo di corpo. N eutro sostantivato del­ l’aggettivo asomatos. Da soma, il corpo, e dal prefisso a / a, che indica la negazione. Il term ine, poco impiegato, è vago, e può ave­ re diversi significati: le Essenze (eide), l’anima, o semplicemente delle realtà indeterm inate. «Pitagora» scrive Aezio (I, XI, 3 ) «insegna co­ me le cause prime siano incorporee.» Stessa af­ fermazione da Stobeo (Eclogae physicae et ethi­ cae, I, X III, 1). «Gli esseri incorporei» dice Pla­ 37

ataraxia

athanasia

tone «Sono i più belli e i più grandi» (Politica, 286a). Altrove egli nota come l’arm onia dell’ani­ m a sia invisibile e incorporea (Fedone, 85e). N el­ la sua Lettera a Erodoto, Epicuro attacca coloro che concepiscono l’esistenza degli incorporei (D.L., X, 67, 69, 70). Stessa reazione da parte di Pirrone e degli scettici (D.L., IX, 98-99). Plotino impiega il termine in senso più ampio, e consa­ cra anche un libro a Γimpassibilità delle realtà in­ corporee (III, VI). «L’anima» afferma altrove (IV, II, 1) «non è un corpo, e non è, tra gli incorporei, né l’armonia, né l’entelecheia (entelecheia) di un corpo.» Q uanto a Ermete Trismegisto, egli de­ duce che il luogo in cui si muovono i corpi è ne­ cessariamente un incorporeo (II B, 3-4).

ataraxia (he) / αταραξία (ή), la tranquillità, l’atarassia; latino: tranquillitas. La perfetta pace dell’anima che nasce dalla libe­ razione dalle passioni. Il concetto appartiene al periodo filosofico elle­ nistico che segue Aristotele, durante il quale il saggio ricerca una calma saggezza che superi l’a­ gitazione. E la ragione che ottiene questo risul­ tato. Grazie a essa, il saggio non prova «né dolo­ re, né collera, né costrizione, né ostacoli». Egli vive senza passione: apathes / απαθής (Epitteto, Dissertazioni, III, X III, 11). 38

Pare che il primo teorico dell’atarassia sia stato Democrito. «Egli chiama così» dice Stobeo «uno stato di pace, di armonia e di simmetria (interiori)» (Eclogae physicae et ethicae, II, VII). E l’obiettivo di Epicuro, per il quale l’atarassia consiste «nell’es­ sere libero da tutte le paure» (D.L., X, 82). Ma so­ no soprattutto gli stoici che hanno fatto senza ri­ serve l’elogio dell’atarassia: in questo stato di «apa­ tia», il saggio è incrollabile (D.L., VII, 117), rima­ ne impassibile di fronte a ciò che gli giunge dall’e­ sterno (Marco Aurelio, IX, 31), non prova più al­ cun turbamento dell’anima (Epitteto, Manuale, XXIX, 7; Cicerone, Tusculanes disputationes, V, VII, 17), è una volta per tutte incapace di provare dispiacere o paura (Epitteto, Dissertazioni, III, XXIV, 117). Lo scetticismo, per quanto professas­ se un atteggiamento negativo in tutte le cose, in questo caso sviluppa un progetto positivo: «suo principio e causa», secondo Sesto Empirico «sono la speranza dell’atarassia» (Ipotiposi, I, 6). Esso la ottiene grazie alYepoche, o «sospensione del giudi­ zio su tutte le cose» (ivi, I, XIII).

athanasia (he) / άθανασία (ή), l’immortalità; la­ tino: immortalitas. Plotino ha redatto uno dei suoi prim i trattati (il secondo, a parere di Porfirio) Sull’immortalità dell’anima (Peri athanasias psychés / Π ερί αθα­ νασίας ψυχής, IV, VII). 39

atomos

athanatos athanatos / αθάνατος, immortale; latino: immortalis.

atomos (ho) / άτομος (ò), l’atomo; latino: atomus.

Q uesto aggettivo si com pone di thanatos {ho) / θάνατος (ò) : la m orte, e del prefisso a / a, che indica la negazione. L’essere athanatos è per n a ­ tura incapace di morire. Q uest’aggettivo viene applicato a un princi­ pio impersonale, agli dei, all’anima umana. I pitagorici veneravano «gli dei immortali» {Versi aurei, 1, 50), e affermavano l’imm ortalità dell’anima um ana (Ippolito, Confutazione di tut­ te le eresie, I, II, 11); ma questa, dopo essere sta­ ta prigioniera del corpo, non poteva accedere all’immortalità se prim a non si fosse purificata, divenendo così simile agli dei immortali {Versi aurei, 70-71). Alcmeone di Crotone professava la stessa dottrina (Aristotele, L’Anim a, 1 ,2,405); Diogene di Apollonia era dello stesso avviso (frr. 7 e 8), ma per lui l’anima è un corpo form a­ to d ’aria. Platone afferma chiaramente l’im m or­ talità dell’anima (M enone, 81b-c), ma anche quella di un Imm ortale in sé, di cui partecipa l’anima {Fedone, 106c-e). Per Aristotele è l’intel­ letto agente {nous poietikos), o anima separata, che è immortale {LAnima, III, 5). Per il pitago­ rico Secundus {Detti, 3): «Dio è u n ’intelletto immortale: athanatos nous». Epicuro ammette che vi è una natura immortale e beata, che è quella degli dei (D.L., X, 76-77, 123).

Uso sostantivato dell’aggettivo a-tomos, che si­ gnifica non tagliato, indivisibile. L’atomo è per­ tanto la più piccola particella della materia, quel­ la che persiste quando non la si può più dividere.

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I filosofi denominati atomisti, il cui caposcuola era Leucippo di M ileto, pongono come punto di partenza una dottrina che non è fisica, ma metafisica; per reazione contro Parm enide e i suoi discepoli, che affermano che non vi è il non-essere, poiché per definizione l ’Essere è e il non essere non è, essi creano una dottrina se­ condo la quale il non essere è il vuoto, che si as­ socia all’Essere pieno per form are la natura, e che separa tra loro gli atomi, o particelle della materia, che costituiscono l’essere. Il prim o teorico dell’atomismo fu Leucippo. Per lui gli atomi sono estremamente piccoli, e si distinguono gli uni dagli altri per via di tre carat­ teristiche: la forma {schema / σχήμα), l’ordine {taxis / τάξις) e la posizione {thesis / θέσις). Tutto questo spiega il fatto che la loro unione dia forma a oggetti differenti. L’anima, materiale, è formata da atomi sferici ignei (D.L., IX, 30-33); si tratta di un materialismo (Aristotele, Sulla generazione e la corruzione, I, 8). Democrito di Abdera, discepolo di Leucippo, sviluppa la sua dottrina (D.L., IX, 34-49). Epicuro si dimostra suo adepto. Gli atomi

auxesis

autos

sono mossi da un movimento perpetuo, che non ha avuto un inizio; il loro incontro per formare i diversi corpi non obbedisce ad alcuna finalità; co­ sì l’universo è frutto del caso (tyche / τυχή). Nella logica, Yatomon è la specie ultima, che non può più essere ridotta in genere e differenza (Aristotele, Categorie, V).

autos / αυτός, egli stesso, in sé; riflessivo —> hautos / αυτός. Gramm aticalm ente, autos significa a un tempo io stesso, se stesso, la cosa stessa (latino: ipse); e lo stesso, la stessa cosa·, to auto / τό αύτό (neutro) (latino: idem). Platone lo impiega nel senso di sostanza: Yin sé; Aristotele nel senso di identico: 10 stesso di sé. Dal duplice punto di vista logico e metafisico, autos si avvicina a homoios / όμοιος, simile. Si oppone a: - l’altro: heteros / έτερος; - un altro: allos / άλλος; - differente: diaphoros / διάφορος; - opposto: antikeimenos / άντικειμένος; - contrario: enantios / ενάντιος; - dissimile: anomoios / ανόμοιος; Espressione: kath’hauto / καθαυτό, per sé, che dà a se stesso l’esistenza (1’a se latino, e non 11 per se, o in se = la sostanza, ciò che esiste da sé e non per i suoi accidenti). 42

Platone impiega autos per definire l’Essenza {eidos); stesso significa in questo caso l’assoluto, come quando si dice «egli è la bontà stessa». E così che Platone evoca le Essenze matematiche: l’Eguale in sé: auto to ison / αύτό τό Ίσον {Fedo­ ne, 74a), la Grandezza in sé: auto to megethos / αύτό τό μέγεθος (ivi, 102d), i Num eri in sé: autoi hoi arithmoi / αύτοί οι αριθμοί {Repubblica, VI, 525d); ma anche il G iusto in sé: dikaion au­ to / δίκαιον αύτό {Fedone, 65 d), il Bene in sé (ivi, 76d), la Verità in sé: ante he aletheia / αύτή ή αλήθεια {Repubblica, VII, 526b), e soprattut­ to la Bellezza in sé: auto to kalon (ivi, V, 476b: Cratilo, 439c; Simposio, 211e ecc.). Nel Sofista (254d-258c), Platone espone la teoria del non essere come alterità opponendo lo Stesso {tauton / ταύτόν, contrazione di τό αύτόν) e l’Altro {thateron / θάτερον, contrazione di τό έτερον). Aristotele si impegna a confrontare lo Stesso con tutti i suoi opposti, ma anche a distinguere lo Stesso secondo l’essenza {kath’hauto); e lo Stesso secondo l’accidente (kata symbebekos) {Metafisi­ ca, Δ, 9-10). Nel trattato Categorie (X-XI), analiz­ za successivamente gli opposti e i contrari.

auxesis (he) / αύξησις (ή), l’accrescimento. Una delle forme del cambiam ento (Aristotele, Categorie, XIV) —> kinesis.

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boulesis

B

basileia (he) / βασιλεία (ή), la sovranità.

proairesis i mezzi per raggiungerlo» (Etica Nicomachea, III, II, 9). Plotino conferisce grande im­ portanza a questo termine; la boulesis è un atto ponderato, l’essenza stessa dell’Uno; questo è l’onnipotenza, che è ciò che vuol essere, e che fa ogni cosa secondo la propria volontà (VI, V ili: Sulla libertà e sulla volontà dell’Uno).

Aristotele distingue due tipi di sovranità quella assoluta che volge in tirannia, e quella relativa, come a Sparta (Politica, III, XIV-XV). Restano, del periodo ellenistico, tre trattati sulla sovra­ nità (Peri basileias) dovuti a neopitagorici: Efante, Diotogene e Stenida.

boule (he) / βουλή (ή), la deliberazione. Segno della libertà di scelta (proairesis) che presie­ de all’azione virtuosa (Aristotele, Etica Nicomachea, III, III). Politica: il Consiglio della Città (che delibera) (Aristotele, Politica, VI, III, IV, V ili).

boulesis / βούλησις (ή), la volontà. Volontà spontanea, diversa dalla volontà delibe­ rata (proairesis). E in un certo senso un deside­ rio affermato, che non obbedisce alla ragione (Platone, Leggi, III, 687e). «La boulesis» dice Aristotele «concerne il fine da raggiungere; la 44

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c

D

chronos (ho) / χρόνος (ò), il tempo.

daimon (ho) / δαίμων (ό), lo spirito, il demone; latino: daemon, genius.

«Prim a della vita attuale vi è stato un altro tem ­ po» (Platone, M enone, 86a). «Il tem po è u n ’im ­ magine m obile dell’eternità» (Id., Timeo, 37d). «Il tem po è la m isura del m ovim ento» (metron kineseos / μέτρον κινήσεω ς, Aristotele, Fisica, IV, 12). «Il tem po è l’immagine dell’eternità» (eikon aionos / είκ ώ ν οαώνος, Plotino, I, V, 7). «Il tem po è la causa di tutte le cose» (aition panton, Periandro, Apophtegemes, 11).

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Puro spirito che non possiede lo statuto di divi­ nità, oppure è considerato come un dio minore. La nozione di spiriti intermedi tra l’uomo e Dio, o tra l’uomo e gli dei celesd è tratta dalle religioni orientali. I babilonesi, presso i quali Pitagora risie­ dette per diversi anni, avevano realizzato una tavola gerarchica dei personaggi celesti. Per i greci, i demo­ ni, parola che li designa globalmente, si ricongiun­ gono con le vicende degli eroi, uomini divinizzati, e dunque a mezza strada tra la divinità e rumanità. Aezio (I, V ili, 2) attribuisce globalmente a Talete, Pitagora, Platone e agli stoici la dottrina dei demoni, «sostanze dotate di anima». Per ciò che riguarda Talete, il fatto ci è confermato da D io­ gene Laerzio («Il m ondo aveva u n ’anima ed era popolato da demoni», I, 27), e anche per quel che riguarda Pitagora (V ili, 32). Ritroviamo il termine con un significato vago in Eraclito (fr. 79), in Em pedocle con il significato di eroe (fr. 115, 5), in Democrito con quello di anima um a­ na, o più precisamente di ciò che l’anima umana possiede di divino (Stobeo, Estratti, II, 7). 47

demokratia

daimon M a è Socrate che ha fornito al demone la sua reputazione. Per lui questi è una guida legata al­ la sua persona, un angelo custode. «Socrate pre­ tendeva» racconta Senofonte «di ricevere degli avvertimenti da un demone» (Detti memorabili di Socrate, I, I, 2; Apologia di Socrate, 12). Abbia­ mo la stessa testimonianza in Platone (Alcibiade, 103a, 224e; Apologia 28e, 31d, 32b; Fedro, 242b). Lo stesso Platone pensa che Dio ci abbia donato un’anima alla stregua di un demone (Ti­ m eo, 90a), come una divinità che dimora in noi (ivi, 90c) e che ci conduce al giudizio finale (Fe­ done, 113d). L’idea dell’angelo custode è ripresa da Epitteto: ciascuno di noi ha accanto un genio che gli è imposto dalla Provvidenza per guidarci verso la verità (Dissertazioni, I, XXIV, 12). Ploti­ no adotta questa concezione: il demone che ci guida è un dio di questo m ondo, non una facoltà mentale, ma uno spirito trascendente la nostra anima (III, IV, 3). Egli stesso era assistito, rac­ conta Porfirio, «da uno di questi demoni che so­ no prossimi agli dei» (Vita di Plotino, 10). Per Alessandro d ’Afrodisia, il daimon di un uomo è la sua propria natura (D el destino, VI). Aggettivo derivato: daimonios / δαιμόνιος, divino, demoniaco, angelico. Nel genere neutro: to daimonion / xò δαιμόvtov, l’essere divino, soprannaturale (Senofonte, D etti memorabili, I, 1, 2, 4 ecc.). Liside, citato da Giamblico (Vita di Pitagora, 76), chiama P i­ tagora «l’uom o divino», daimonios.

demiourgos (ho) / δήμιουργος (ό), l’artigiano, il demiurgo; latino: faber, creator.

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L’artigiano divino che plasma il m ondo a partire dalla materia prima. Il term ine è composto da demios / δήμιος, plebeo, popolare, e da ergon / εργον, l’opera, il lavoro. Il significato originario di demiourgos è operaio, artigiano, fabbricante. Si deve a Platone l’assegnazione di un significa­ to filosofico. Già nella Repubblica troviamo menzione di que­ sto artigiano divino che ha concatenato i movi­ menti celesti (VII, 53 Oa) e che ci ha dato gli organi dei sensi (VI, 507c). Ma è nel Timeo che lo vedia­ mo all’opera: gli occhi fissi sui Paradigmi eterni, egli plasma il mondo a loro immagine (28a-29b). Per Plotino l’ordinamento del m ondo ha una dop­ pia causa: il demiurgo e l’anima del mondo (IV, IV, 10). Per Ermete Trismegisto il demiurgo crea il mondo attraverso la sua parola, ossia attraverso la sua volontà (IV, 1). Questa insistenza sulla volontà la si trova già in Plotino (IV, IV, 12).

demokratia (he) / δημοκρατία (ή), la democrazia. Per Platone, governo del disordine, della licenza e della lotta di classe (Repubblica, V ili, 555b55 8c). L’uom o democratico è l’uom o dell’incon­ seguenza e deH’immoralità (ivi, 558c-562a). Per Aristotele è il potere suddiviso tra le diverse

dialektike

diagramma

classi sociali, e per questo ingovernabile {Politi­ ca, III, XI-XIII; IV, IV).

diagramma (to) / διάγραμμα (τό), la proposi­ zione geometrica (Aristotele, Categorie, XII).

dialektike (he) / διαλεκτική (ή), la dialettica; latino: dialectica.

si compie in quattro tappe, descritte nel libro V II della Repubblica (532a-534c), e preparate attraverso l’esposizione delle m odalità della co­ noscenza nel libro VI (509d-511e): episteme t noesis / νσησις ragione intuitiva => (επιστήμη) i Principi (intelligibili) scienza dianoia / διάνοια ragione discorsiva => le ipotesi (nozioni) doxa (δόξα) opinione

A pistis / πίστις

credenza => le realtà sen­ sibili eikasia / εικασία congettura => le imma­ gini del sensibile

Aggettivo sostantivato, derivato dal verbo dialegomai / διαλέγομαι, anch’esso com posto da le­ go, parlare, e da dia, preposizione che indica un movimento. La dialettica è, in senso originario, un dialogo. Platone, che adotta questo term ine in filosofia, gli dà il significato di u n ’ascensione spirituale. Aristotele ne m antiene il significato logico. Allo stesso modo in cui la purificazione (katharsis) produce una lenta separazione dell’a­ nima dal corpo, la dialettica platonica costituisce un esercizio progressivo della conoscenza, che parte da quella più sensibile e si eleva sino a quella più intelligibile. Allora viene rivelato nella sua pienezza il m ondo delle Essenze che induce la beatitudine {eudaimonia). La dialettica aristo­ telica è una discussione atta a pervenire alla ve­ rità a partire da affermazioni problematiche. In Platone, l’ascensione dialettica è connessa alla m odalità della conoscenza (—> psyche). Essa

Q ueste modalità della conoscenza presentano per ogni coppia delle analogie: il visibile (oggetto dell’opinione) è rim m agine dell’intelligibile (og­ getto della scienza); le immagini (oggetto della congettura) sono le imitazioni delle realtà sensi­ bili; le nozioni (oggetto della dianoia) sono le imitazioni delle Essenze eterne. Nel trattato ha dialettica (Enneadi, I, III), P io­ tino precisa che essa è il m etodo per raggiungere il Bene intelligibile, e parte dalla bellezza sensibi­ le. Il significato è dunque pienamente platonico. Per Aristotele la dialettica è una discussione che parte da u n ’interrogazione o a proposito di una tesi (thesis / θέσις), pensiero paradossale form ulato da un eminente pensatore, oppure in funzione di una premessa ( protasis / πρότασις), che suscita un sillogismo dialettico (Topici, 5,

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10- 11) .

dikaiosyne

dianoia

«Cam eade diceva che la dialettica è simile a una piovra» (Demofilo, Similitudini, 105, in Stobeo, Florilegio, LX XXII, 13).

dianoia (he) / διάνοια (ή), il pensiero; latino: intellectus, cogitatio. Il term ine possiede un significato vago, che in­ dica abitualm ente una m odalità di pensiero m e­ no elevata della noesis. Classicamente la dianoia è la conoscenza discor­ siva, attraverso il ragionamento. Così, per Plato­ ne, essa è il grado inferiore della scienza, che si avvale di concetti invece di contemplare direttam ente le Essenze (—> dialektike, psyche); per Aristotele, è il pensiero raziocinante (Metafisica, Γ, 7, 1012a); per Plotino, essa è la conoscenza in­ diretta (Enneadi V, III, 3).

carne (D.L., X, 143); E pitteto raccom anda di la­ vorare al suo miglioramento (Dissertazioni, III, XXII, 20); M arco Aurelio resta impreciso (III, 6, 8; VII, 68; V ili, 59). L’aggettivo dianoetikos indica per Aristotele un’intelligenza intuitiva, propria della virtù del saggio (—> arete); ma per Plotino inerisce alla ra­ gione discorsiva (V, 2). diaphora (he) / διαφορά (ή), la differenza. Logica. L’im portanza di questa nozione è espressa da Aristotele nella Metafisica (Z, 12): come m antenere l’unità di un genere (genos) malgrado le differenze interne? Il dibattito è svi­ luppato negli Analitici secondi (II, 3-13) e più sommariamente nei Topici (I, 16-18). Porfirio fa della differenza uno dei quattro predicabili: kategoroumena (Isagoge, III, V ili).

In altri filosofi essa assume un significato indeci­ so. Pitagora diceva che occorreva sempre ante­ porre Dio al pensiero (dianoia) (Giamblico, Vita di Pitagora, 175), e che bisognava evitare di ac­ cecare se stessi con il proprio pensiero (dianoia) (Aulo Gelilo, N otti attiche, VI, II, 11). Ma un autore della sua scuola, Brontino, oppone que­ sto concetto al nous nel titolo stesso che assegna alla sua opera: Peri nou kai dianoias. Epicuro constata come la dianoia limiti le pretese della

dikaiosyne (he) / δικαιοσύνη (ή), la giustizia; latino: iustitia.

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È un termine dal duplice significato: istituzione, o giustizia politica; virtù, o giustizia morale. I pensatori greci si sono occupati di entram bi gli aspetti, Platone e Aristotele in m odo particolare. Sinonimi a volte impiegati: dike / δίκη; dikaiotes / δικαιότης; dikaion / δίκαιον: il giu­ sto, ciò che è giusto.

dikaiosyne

dikaiosyne

La giustizia è essenzialmente misura (mesotes / μεσάτης; meson / μέσον). E poiché questo carat­ tere è quello della virtù in generale (Aristotele, Etica Nicomachea, II, V ili), la giustizia diventa la virtù più im portante e ammirevole; e Aristotele (ivi, V, I, 15) cita a questo proposito un verso di Teognide: «Nella giustizia è compresa ogni virtù». D ’altra parte, a partire da Platone, la giu­ stizia diviene una delle quattro virtù principali, con la temperanza, il coraggio e la saggezza (Pla­ tone, Repubblica, IV, 429e-441c), oppure con la temperanza, il coraggio e la prudenza (Zenone, Plotino, I, II, 7) —> arete / αρετή. I pitagorici avevano grande rispetto per la giustizia, poiché nel loro sistema l’armonia è il principio di unità cosmica, psichica e morale, e Polo di Lucania, secondo il pitagorico «la giusti­ zia è Γarmonia deH’anima» (Ateneo, IX, 54). Un passaggio dei Versi aurei (13) ingiunge di prati­ care la giustizia. Secondo Aristosseno, Pitagora affermava che occorre fondare la giustizia politi­ ca sul «Principio divino» (Giamblico, Vita di Pi­ tagora, 174). Archita aveva scritto un trattato Sulla legge e sulla giustizia. Platone stabilì uno stretto legame tra la giusti­ zia morale e la giustizia politica grazie alla no­ zione pitagorica di armonia. M oralmente, ognu­ na delle tre altre virtù concerne una parte dell’a­ nima umana; per quanto possano apparire auto­ nome, è la giustizia che realizza l’accordo tra tutte e tre; politicamente, ognuna delle tre altre

virtù concerne una specifica classe sociale: è la giustizia che stabilisce l’accordo tra tutte e tre, poiché è attraverso la giustizia che ciascuna del­ le classi compie una funzione che concorre al bene comune della Città (Repubblica, IV, 435b443e). All’inverso, l ’ingiustizia (adikia / αδικία) è un disaccordo fra le tre parti dell’anima e le tre classi della società (ivi, IV, 434b-c; 444b-d). Aristotele si propone di considerare separatamente giustizia morale e giustizia politica, l’uomo privato e l’uomo pubblico che esercitano delle at­ tività differenti (Politica, III, IV, 3-7). Tuttavia, non può sviluppare la prima, alla quale consacra un li­ bro intero, senza far riferimento alla legge: il giusto si definisce attraverso l’uguaglianza e la legalità, poiché non vi è giustizia che per uomini che vivo­ no sotto la legge, necessaria per regolare i loro rap­ porti {Etica Nicomachea, V, II, VI). Tuttavia, affin­ ché vi possa essere virtù, è necessario che la giusta azione sia compiuta volontariamente (ivi, V, II, 13; V, 1; V ili, 1-4). D ’altra parte, Aristotele procede a una classificazione, divenuta celebre, delle diver­ se forme di giustizia: la giustizia distributiva (que­ sta parola medievale non figura nel testo), quella che ripartisce gli onori e le ricchezze (ivi, V, II, 12; III, 7; IV, 2); la giustizia contrattuale {synallagmatike / συναλλαγματική), che è volontaria e concer­ ne le operazioni economiche e commerciali (ivi, V, IV, 12-13); la giustizia correttiva (diorthotike / διορθωτική), che è involontaria, ed è l’opera del giudice che ripara l’ingiustizia. Tornando alla leg-

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dike

doxa

ge, nella Politica, anziché considerare la giustizia come istituzione, Aristotele la inquadra come virtù civica, che consiste nel servire il bene comune (III, IV, 1-7). Per Archelao, il giusto e l’ingiusto non esisto­ no per natura, ma per convenzione (D.L., II, 16). D opo di lui, Epicuro riduce la giustizia al contratto (syntheke / συνθήκη) e la fonda sull’u ­ tilità (Massime, 3 3 ,36,37). Plotino si preoccupa poco della giustizia; esiste una giustizia {dike) universale, fatta propria dall’Anima, e che coor­ dina il movimento degli astri (II, III, 8); e per ogni anima umana, la giustizia consiste, al m o­ m ento della sua incarnazione, nello scegliere il corpo che le conviene (IV, III, 13).

dike (he) / δίκη (ή), la giustizia; impiegata so­ prattutto da Plotino —> dikaiosyne.

dogma (to) / δόγμα (τό), dottrina, insegnamento. Deriva come doxa dal verbo dokeo / δοκέω, cre­ dere, pensare, da cui dogmatikos / δογματικός, dottrinale. Q uest’ultimo term ine viene attribui­ to come un biasimo dagli scettici (—> skepticos) ai loro avversari.

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doxa (he) / δόξα (ή), l’opinione; latino: opinio. L’opinione è una conoscenza relativa, sia nel suo oggetto, che è sottomesso al divenire e all’illu­ sione, sia nel suo soggetto, che non ne ha una completa certezza. È opposta alla scienza {—> episteme). Per Platone la parola doxa ha due diversi signifi­ cati, il prim o dei quali è quello originale e il secon­ do classico. È nel Menone (97b-100b) che trovia­ mo il prim o significato: l’opinione è il primo gradi­ no della virtù, quello dell’uomo ordinario, del non filosofo, di colui che non ha ancora conquistato la virtù contemplativa del sapiente; essa è allora una divinazione spontanea del bene da compiere nel mondo sensibile. Nella sua natura, essa è un deli­ rio {mania), ossia un’emozione. Nella sua origine, è un favore divino {theia moira). Dunque, non ha bisogno di essere insegnata, diversamente dalla dottrina socratica che si ritrova nel Protagora (357d): «Essa non è né un dono della natura, né frutto dell’insegnamento» (Menone, 99e). Al fine di rispettare il significato classico, per il quale l’opinione è una conoscenza incerta, Plato­ ne si vede obbligato a distinguere due tipi di opi­ nione: l’opinione giusta {orthe doxa / όρθή δόξα) {Menone, 98b; Simposio, 202a), o anche l’opinio­ ne vera {alethes doxa / άληθής δόξα) {Menone, 98c; Teeteto, 187b), e l’opinione falsa {pseudes doxa / ψευδής δόξα) {Teeteto, 187b). Ora, «per quel che riguarda l’azione, l’opinione giusta non 57

doxa

doxographos

è meno buona o utile della scienza, e l’uomo che la possiede vale quanto il saggio» (M enone, 98c). Q uesto significato classico della doxa era ap­ parso con Parm enide ma in m odo fuggevole (I, 30). E dunque Platone il prim o che ne fa un uso sistematico. Nella Repubblica (V, 477d-479d), la considera una conoscenza mediana, tra l’igno­ ranza (agnosia) e la scienza. Egli assegna a questi m odi del conoscere un oggetto ontologico: la scienza ha come oggetto l’Essere, l ’ignoranza il non-essere, l’opinione tutto l’am bito interm e­ dio, ossia l’apparenza (io doxazein, verbo so­ stantivato), che è un non essere relativo. Aristotele fa appello alla doxa. Nell’Etica Nicomachea (VI, IX, 3) la oppone alla deliberazione; nel trattato LA nim a (III, 3), nomina senza defi­ nirla l’opinione vera. Nella Politica (III, IV, 11) fa dell’opinione vera la virtù di chi governa, mentre quella dell’uomo privato è la phronesis. Invece, es­ sa assume tutta la sua importanza presso gli stoici: la doxa (o anche il dogma) è un falso giudizio dato sul reale, che provoca la passione, ossia un atteg­ giamento irrazionale: paura, tristezza, turbam en­ to. «La morte non è un male, ma l’opinione che ci facciamo che la morte è un male, questo è il male» (Epitteto, Manuale, V). L’opinione è dunque una menzogna, e il solo m etodo che si possa usare per sfuggire alle passioni è la sua soppressione (alla doxa e al dogma, Marco Aurelio preferisce Yhypolepsis). Per Epicuro, come per Platone, l’opinione può essere vera o falsa; è quest’ultima che è fonte

di errore, e non la sensazione che non ci inganna mai (D.L., 34, 50). Plotino, a sua volta, impiega solo molto occasionalmente il termine doxa, nel senso di pregiudizio (II, I, 2; VI, I, 1).

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doxographia (he) / δοξογραφία (ή), la dossografìa.

doxographos (ho) / δοξογράφος (ó), il dossografo. Raccolta, trascrizione e pubblicazione di testi di autori filosofici. Colui che compie questo lavoro. Termini m oderni che designano realtà anti­ che. Form ati da doxa, l’opinione, la dottrina, e graphia, la scrittura. L’utilità della dossografia consiste nel ritrova­ re e pubblicare degli estratti di opere oggi p e r­ dute. G li antichi dossografi sono coloro che hanno costituito queste raccolte dal IV secolo a.C. sino al VI secolo d.C.; possiamo suddivi­ derli in due categorie: gli occasionali (come A ri­ stotele), che riproducono solo brevi citazioni a sostegno delle proprie affermazioni; e i sistema­ tici, che non fanno un lavoro da storici, ma rag­ gruppano dei pezzi scelti. I dossografi m oderni sono quelli che pubblicano gli antichi, compito che abitualm ente esige la ricerca dei m anoscrit­ ti, l’accertam ento del l’autenticità e la raccolta

doxographos

dyas

dei frammenti. I più importanti sono stati JeanAlbert Fabricius, di Lipsia (1668-1736), con la sua Bihliotheca graeca (1705-1728) in dodici volu­ mi; Jean-Conrad Orelli, di Zurigo (1770-1826), con i suoi Opuscula Grecorum veterum (18191821); Fr.-Guil. Mullach, con i suoi Fragmenta philosophorum graecorum (1875-1890) in tre vo­ lumi; Herm ann Diels con Doxographi Graeci (1879) e Die Fragmente der Vorsokratiker (1903). Alcuni compilatori, essenzialmente storici delle idee, si fanno talora divulgatori di questi testi. Tali furono Aristotele con la sua opera Sui filosofi, oggi perduta; Aristosseno di Taranto con le sue Vite di Pitagora, di Archita e di Seno­ filo; e nel III secolo Ieronim o di Rodi (Memorie storiche), Erm ippo di Smirne {Vite), Neante di Cizio (Vita degli uom ini illustri). Nel II secolo compaiono i diadochisti, autori d ’opere sulla successione delle scuole (il term ine diadoche / διαδοχή significa infatti successione). Il loro predecessore è Ippobote, con le sue Scuole di f i ­ losofia, seguito da A pollodoro di Atene {Le scuole di filosofia), Clitomaco di Cartagine (stes­ so titolo), Sozione {La successione dei filosofi, in 13 libri), Sosicrate (stesso titolo), Eraclide Lem ­ bo (stesso titolo), Alessandro Poliistore {idem), Diocle di Magnesia (I secolo, Vite dei filosofi)·, infine, il più celebre oggi, poiché la sua opera ci è giunta pressoché intera, ma che appartiene al III secolo d.C., Diogene Laerzio con la sua Rac­ colta delle vite e delle dottrine dei filosofi.

Significato aritmetico: il num ero due. Significa­ to metafisico: per i pitagorici, l’essere secondo, creato dalla M onade, dunque imperfetto, causa della m ateria (Alessandro Poliistore, in D.L., V ili, 25; Aezio, VII, 18). Criticato da Aristotele

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I dossografi propriam ente detti hanno inizio con Teofrasto, prim o successore di Aristotele al­ la guida del Liceo, autore delle Opinioni dei fisi­ ci, in 18 libri, di cui non ci resta che il libro sulle Sensazioni salvato da Simplicio nel VI secolo. Imita il suo esempio Aezio (I secolo d.C.), con la sua Raccolta di estratti interessanti·. Feri ton areskonton synagoge / Π ερί των άρεσκόντων συ­ ναγωγή, più conosciuta con il titolo latino di Flacita philosophorum-, consta di 130 capitoli in 5 libri; a lui seguono lo Pseudo Plutarco, G ale­ no, e i cristiani Atenagora, Eusebio e Teodoreto. Infine nel VI secolo apparve l’opera grandiosa del bizantino Giovanni Stobeo, che com prende 5000 frammenti tratti da 500 autori greci; l’ope­ ra originaria si intitolava Antologia, ed era divisa in 4 libri: in seguito fu suddivisa in due opere: le Eclogae physicae et ethicae (Ekklogai / Εκκλογαί), ossia brani scelti, in due libri composti da 49 capitoli di fisica e 8 di etica; e VAntologia {Anthologion) = Florilegio, in due libri com po­ sti da 126 capitoli.

dyas (he) / δυάς (ή), la diade; genitivo dyados.

dynamis

dynamis

Dal verbo dynamai / δύναμαι: posso, sono capa­ ce. Proprietà di ciò che, p u r essendo attualm en­ te passivo, può o passare all’azione o ricevere l’azione di un agente. Definizione dell’Essere secondo Platone: «C o­ lui che ha il potere o di agire (poiein / ποιειν) su di un altro, o di subirne l ’azione» (paschein / πάσχειν) (Sofista, 247d-e). Q uattro significati. 1) La capacità, la proprietà, la «virtù» (nel si­ gnificato medioevale è la virtù dormitiva di alcu­ ne piante. «La scienza (episteme) ha un certo oggetto, ed essa possiede una virtù propria che le perm ette di raggiungere il suo oggetto» (Pla­ tone, Carmide, 168b). Le Essenze eterne hanno proprietà tali che perm ettono di paragonarle so­ lo tra loro (Parmenide, 150c-d). 2) La facoltà mentale. «Le facoltà (dynameis / δυνάμεις) sono qualcosa degli esseri grazie alle quali possiamo fare quel che possiamo». Data questa definizione, Platone designa la scienza {episteme) e l’opinione (doxa), ma anche la vista e l’udito {Repubblica, V, 477c). «Chiamo facoltà

- dice Aristotele - la nostra possibilità di prova­ re passioni [...] ad esempio collera, odio o pietà» {Etica Nicomachea, II, V, 2). Altrove le facoltà dell’anima sono la nutritiva, la sensita, l’appetiti­ va, la locomotoria e la razionale {JJAnima, II, 3). 3) La potenza passiva (opposta all’atto: energeia / ενέργεια). E il significato più classico a partire da Aristotele: «Chiamiamo dynamis la potenza del movimento (kinesis) o cambiamen­ to (metabole) in un essere [...] La facoltà di esse­ re cambiati o mossi da un altro» {Metafisica, Δ, 12). «La potenza passiva (esattamente, la poten­ za di subire / dynamis tou pathein) è, nell’essere passivo (il paziente: ho paschon), il principio del cambiamento {arche metaboles) che egli è atto a subire da un altro, o da se stesso in quanto al­ tro» (ivi, Θ, 1). N ell’analisi della sensazione (aisthesis), Aristotele constata che questa può esse­ re intesa in due modi: in potenza e in atto, a se­ conda che ci si ponga dalla parte della facoltà del sentire o dell’oggetto che causa la sensazione (L;Anim a, II, 5). Altrove {Metafisica, Θ, 5), A ri­ stotele elenca tre tipi di potenze: quelle che so­ no innate, come i sensi; quelle che sono acquisi­ te tram ite l’abitudine, come l’arte di suonare il flauto; e quelle che sono ottenute attraverso lo studio (mathesis). Plotino scrive un trattato (II, V) per rispondere a questo problema: «Che co­ sa vuol dire in potenza e in atto?». 4) La potenza attiva (opposta alla potenza pro­ priamente detta, ossia passiva). Per Platone, la ve-

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nella Metafisica, N, 1-4. Per Plotino è la causa dei num eri e delle idee, in associazione con l’U ­ no (V, IV, 2).

dynamis (he) / δύναμις (ή), la potenza, la capa­ cità; latino: potentia.

dynaton

ra causa (aitia), che è dynamis, è una forza divina (Fedone, 99c). Le realtà del m ondo sensibile non hanno potere (dynamis) su quelle del m ondo in­ telligibile (Parmenide, 133e). In questo senso, le arti, dice Aristotele, sono potenze di cambiamen­ to in un altro essere (Metafisica, Θ, Ι ) —> energeia. Per Plotino, l’Uno (hen) è Potenza, e Potenza in sommo grado, poiché è colui che crea tutti gli altri esseri: è Principio (arche) (V, II, 15-16).

dynaton (to) / δυνατόν (τό), il possibile; plurale dynata (ta) / συνάτα (τά). È ciò che è contenuto nell’essere in potenza p ri­ ma di essere realizzato daU’atto. Aggettivo deri­ vato dal verbo dynamai / δύναμαι, io posso. A ri­ stotele consacra diverse pagine (Metafisica, Θ, 15) al possibile e all’attuazione dei possibili.

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E

eidos (to) / είδος (τό), l’essenza, l’idea, la for­ ma, il genere, la specie; latino: species, form a, essentia. La parola eidos ha molteplici significati, che com­ prendono in ogni caso la nozione di generalità, che si trovi negli esseri o nell’intelligenza. Eidos deriva dal verbo arcaico e poetico eidomai / είδομαι, appaio (sono visto); da qui il senso originario di eidos, l’aspetto, l’apparenza. Il p er­ fetto dell’inusitato eido / είδω (oida / ο’ί δα), as­ sume un significato presente: io so. Solo in età tarda e in m odo marginale eidos ha adottato un significato filosofico; il term ine latino species, che indica insieme aspetto e specie, è quello che rende meglio il duplice senso. Lo stesso senso fi­ losofico può assumere significati diversi m etafi­ sico, fisico, psicologico, logico. 1) Significato metafisico. L’essenza degli esseri. Può essere di due tipi. a) Trascendente alle cose. E il significato pla­ tonico. Le Essenze form ano il M ondo intelligi­ bile. Esse sono le vere Realtà (Fedro, 247c), esi­ stono in sé (Fedone, 75d), e per sé (ivi, 65c, 78d; 65

eidos

eidos

Parmenide, 133a). L’Essenza è sostanza (ousia) (Teeteto, 186d); essa è eterna, senza inizio né fi­ ne (agenneton kai anolethron, Timeo, .52a); essa è perfetta, assolutamente pura, il che significa che non ammette alcun elemento che le sia estraneo (ibid.). E alle Essenze che bisogna attri­ buire l’esistenza del m ondo sensibile, attraverso il fenomeno della partecipazione (methexis), gra­ zie al quale le cose sono costituite sul modello {eikon) delle Essenze. N el Sofista (247d-256d), Platone pone alla sommità delle Essenze cinque di loro, che sono stati chiamati, ferm andosi al loro significato logico, i Generi supremi·, sono l’Essere (to on / xò óv), il M ovimento (he kinesis / ή κίνησις), il Riposo (nel senso di stabilità, he stasis / ή στάσις), lo Stesso (tauton / ταύτόν) e l’Altro (to heteron / xò έτερον). Platone esprime l’in-sé che è l’Essenza, o con l’aggettivo autos / αύτός, egli stesso, o con la formula ho esti / ò έστι, ciò che è. Aristotele si è impegnato nella critica della filosofia delle Essenze2 propria di Platone, specialmente nella Metafisica (A, 9; Z, 14 e 15, M, 4). Egli designa abitualm ente l ’Es­ senza platonica attraverso il term ine idea / ιδέα. 2 Quando si dice «Γidealismo platonico», con il pretesto che la filosofia platonica è una dottrina delle Idee, si è in errore. L’idealismo è una teoria che fa del pensiero o Tuni­ ca esistenza, o il fondamento del reale. Le Idee platoniche, unico fondamento del reale, esistono realmente al di fuori del pensiero: si tratta dunque di un realismo, e perfino di un iperrealismo.

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b) Imm anente alle cose. Q uesto significato si trova fin da Pitagora: egli assegna alle essenze (etde e ideai) «un’esistenza inseparabile dai cor­ pi» (Aezio, I, X, 2; Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, I, XII, 6). P er Aristotele, le forme speci­ fiche (eide) sono identiche alla quiddità (to ti en einai), ossia ciò con cui si definiscono; esse sono pertanto immanenti alla realtà (Metafisica, Z, 4). Ne L A n im a (II, 2), l’anima in quanto forma del corpo è detta sia eidos sia morphe. Così la sostan­ za um ana può essere definita o tram ite la materia o tram ite la forma (eidos) o tram ite l’unione di entrambe. Troviamo questa nozione anche in Plotino: l’anima è una forma (eidos) immanente a se stessa (I, I, 2) e il male (to kakon) è la forma del non essere: me on (I, V ili, 3). 2) Significato fisico. E il significato metafisico applicato agli esseri della natura. E proprio di Aristotele e ha spesso come sinonim o morphe / μορφή. E parso allora utile trad u rre questo d u ­ plice term ine con “form a”. Le realtà sensibili sono com poste da due principi, la m ateria (hyle / ΰλη) e la form a (Fisica, II, 1; IV, 3). La fo r­ ma è così una causa: aitia / α ιτ ία (ivi, II, 3, 7). 3) Significato psicologico. L’idea mentale. Tro­ viamo eidos con questo significato in Diogene d ’Apollonia (fr. 8) e in Parm enide (fr. VI, 4); in quest’ultimo, il plurale è eidotes / είδότες. Ma lo si trova anche in Platone, che, sulle orm e di Socrate, impiega di preferenza idea·, così l’idea del Bene che ci formiamo nel nostro pensiero 67

eikon

eikasia

{Cratilo, 418e; Repubblica, VII, 534b), l’idea dell’Essere, ottenuta tram ite il ragionamento (Sofista, 254a). 4) Significato logico·, l’idea generale, o immagi­ ne dell’essenza universale delle cose nel pensiero. Quando l’idea mentale acquisisce un significato che può definire tutta una classe di idee, essa di­ viene essenza logica. E così che, nel Fedro (249bc), Socrate incoraggia i suoi interlocutori ad ac­ quisire l’idea (eidos) attraverso un esercizio razio­ nale che va dalla molteplicità delle sensazioni al­ l’unità. La parola può allora assumere il significa­ to di “specie”: nel Parmenide (129d-e), vengono enumerate tre coppie di contrari: somiglianza e dissomiglianza, pluralità e unità, riposo e movi­ mento. Per Aristotele, la definizione (horismos / ορισμός) di un essere si ottiene non a partire dalla materia, ma dalla forma (eidos) (Metafisica, Z, 10). Altrove, fa dell’eidos la specie all’interno del gene­ re (genos) (Fisica, IV, 3). È con questo significato di specie che il termine a volte viene impiegato: vi sono quattro specie di sovranità (Politica, IV, IV, 24); tre specie di retorica (Retorica, I, III, 1); tre specie di disprezzo (ivi, II, II, 2).

eikasia (he) / εικασία (ή), la congettura.

eikon (he) / είκών (ή), l’immagine; latino: ima­ go, simulacrum, species. Riproduzione o di un oggetto sensibile (tramite l’opera d ’arte), o di una realtà intelligibile (tra­ mite la natura). Questa parola è in origine il participio presente del verbo eikein / ε’ί κ ειν (rassomigliare), che ha come derivato eikasia / εικασία, la percezione, la congettura. Già in Pitagora troviamo la parola eikon·. «Gli uomini sono a immagine di Dio» (Temistio, Di­ scorsi, XV).3 Per Platone, gli oggetti sensibili sono le immagini delle Realtà intelligibili (Repubblica, VI, 520a), come queste sono a loro volta le imma­ gini del Bene (ivi, VII, 533a). Le opere d ’arte, in­ vece, non sono che l’immagine della realtà sensibi­ le (ivi, VII, 402c). Plotino, contrariamente a quan­ to ci si potrebbe aspettare, usa poco questa parola: l’Intelletto (nous) è l’immagine dell’Uno (ben) (V, I, 7). Il m ondo sensibile è rimmagine del m ondo intelligibile (VI, III, 1), ma anche rimmagine del­ l’Anima universale (II, III, 18); il tempo è rim m a­ gine dell’eternità (III, V ili, 1). Eikon ha come sinonimo mimema / μίμημα, la copia, utilizzato dai filosofi classici. I corpi «sono le immagini degli esseri eterni: mimemata ton aei onton» (Timeo, 50c). Il pittore, come

Per Platone, conoscenza indiretta degli oggetti sensibili, prim a tappa della dialettica (Repubblica, VI, 5 I le ; V II,537a).

3 Ma forse questa citazione di un commentatore tardo (IV sec. d.C.) è un’interpretazione.

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einai

energeia

il poeta, è un im itatore, mimetes / μιμητής, e la sua arte u n ’imitazione, mimesis / μίμησις (Re­ pubblica, X, 597c-605c). Aristotele riprende questa teoria, con le stesse parole, nella Poetica (I-VI). Plotino ripete, in m odo diverso, che i corpi sono «le immagini degli Esseri»: mimemata ton onton (III, VI, 11) e che il m ondo sen­ sibile è l’immagine del m ondo intelligibile (II, IV, 4).

einai / είναι, essere (infinito); latino: esse. Sostantivato: to einai·. l’Essere —> on.

eleutheria (he) / έλευθερία (ή), la libertà. Morale, a) D ’azione (Senofonte, D etti memora­ bili, I, II, 6; II, I, 11; Epicuro, Massime capitali, 77; Plotino, III, III, 4). b) Interiore (Platone, Fe­ done, 114e; Teeteto, 175e; Epitteto, Dissertazio­ ni, II, I, 21-23; IV, I; M arco Aurelio, V ili, 1). Politica (Platone, Leggi, III, 693c-694a; Ari­ stotele, Politica VI, II, 1-2).

le è a partire dall’esperienza che si raggiungono l’arte e il ragionamento (Metafisica, A, 1).

enantios / ένάντίος, contrario.

enantiosis (he) / έναντίωσις (ή), la contrarietà. La nozione dei contrari all’inizio è cosmologi­ ca; per giustificare l ’ordine della natura, i filo­ sofi difendono l’arm onia dei contrari; così i p i­ tagorici (Nicomaco, Aritmetica, II; Proclo, Commentario del Timeo, III, 176); Eraclito (fr. 10); Crisippo (Aulo Gelilo, N o tti attiche, VI, 1). E sul curioso argom ento della successione dei contrari (il vivente = l’anima, nasce dal m orto = il corpo) che Platone cerca di fondare l’im m ortalità dell’anim a (Fedone, 70c-72c). La nozione di contrario diventa poi logica. A risto­ tele l’analizza nelle Categorie (XI) e nella M eta­ fisica (Δ, 10).

energeia (he) / ενέργεια (ή), l’atto; latino: actus. empeiria (he) / εμπειρία (ή), l’esperienza. Per Platone le arti (technai) sono nate dall’espe­ rienza (Gorgia, 448c), che si oppone alla scienza (episteme) (Repubblica, III, 409b). Per A ristote­

Ciò che esiste nella realtà, opposto alla potenza (dynamis), che esiste solo come possibile (dynaton). Dal verbo energo: agisco, lavoro; anch’esso è composto da ergon / έργον, il lavoro, e da en, in.

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energeia

energeia

\L energeia all’mizio è la forza, l’energia, l’opera­ re; poi, metafisicamente, l’azione che, operando sull’essere in potenza, realizza ciò che era solo possibile. Infine, ancora in senso metafisico, è l’essere stesso realizzato. «L’atto» scrive Aristotele «consiste nell’esistere in realtà» (Metafisica, Θ, 6). Egli fornisce come esempio Ermes, che è potenza nel legno, e realtà nella statua. L’atto è in rapporto alla potenza ciò che la forma {eidos) è in rapporto alla materia (hyle). Paradossalm ente, l’atto, poiché è il reale, è anteriore alla potenza; esso viene prima: a) in quanto nozione ed essenza (la casa si tro ­ va prim a nella m ente dell’architetto per poter essere costruita); b) cronologicamente, nel senso che esiste sempre un essere in atto della stessa specie, p ri­ ma di un essere in potenza; c) sostanzialmente: se si risale da effetto a cau­ sa, troviamo una sostanza prim a preesistente; d) in sé: gli atti eterni, che non hanno nulla di potenziale, sono antecedenti a tutto ciò che è tem porale e corruttibile. L’anima (ossia, in realtà, la vita) è l’atto del corpo. Per esprimere questo concetto Aristotele impiega il termine entelecheia / έντελέχεια, che in un certo senso è il superlativo di energeia {LiAnima, II, 2). Questi gradi nell’atto sono l’occasione, per Aristo­ tele, per distinguere l’atto primario e l’atto secon­ dario. L’atto primario è l’anima, in quanto essa ani­

ma il corpo, l’atto secondario, più completo, è l’a­ nima in quanto esercita le sue funzioni attraverso il corpo {ibid.). Vi è un’altra relatività dell’atto nella sua progressività: l’atto può essere intero, come quello dell’anima nel corpo, o essere parziale e dunque soggetto ad aumentare. L’intelligenza è ignorante prima di ogni sapere, ma è potenzial­ mente scienza: la più piccola acquisizione la fa pas­ sare all’atto, ma a un atto molto parziale, sicché la potenza resta grande; a poco a poco, l’atto crescerà e la potenza diminuirà {Metafisica, Θ, 78; ILAnima, II, 5). Si giunge a concepire un essere incapace di ogni potenza, essendo in atto da sé, per natura e eternamente; è l’Atto puro, o più esattamente l’At­ to in essere {energeia ousa / ενέργεια ούσα), o an­ che l’Atto per sé {energeia kath’hauten / ενέργεια καθαυτήν), che si identifica con Dio {Metafisica, Λ, 7). Nella sensazione e nella contemplazione, Ari­ stotele sviluppa una teoria finalistica fondata sulla perfezione rappresentata dall’atto: da un lato l’at­ to dei sensi raggiunge la perfezione quando in­ contra il migliore dei suoi oggetti, procurando co­ sì il più grande piacere sensoriale {Etica Nicomachea, X, IV, 6); dall’altro, l’atto dell’intelletto (la theoria) raggiunge la sua perfezione quando per­ viene al suo più perfetto oggetto, procurando così la vera felicità (ivi, X, VII, 1). Questa dottrina non si accorda con quella secondo cui «l’atto per ec­ cellenza è il movimento» {Metafisica, Θ, 3) poiché l’atto per sé è anche il primo M otore immobile;

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epekeina

enkrateia Aristotele tenta di conciliare le cose ne 11Anima (III, 7), definendo il movimento un atto incom­ piuto, imperfetto {ateles / άτελής), in opposizione all’atto assoluto (haplos / άπλώς , avverbio). Plotino ha dedicato un trattato (abbastanza breve) ai termini In potenza e in atto (II, V). Q ui mostra che gli intellegibili (noeta / νοητά) sono eternamente in atto, poiché non partecipano in nulla della materia che è la potenza. Proclo, in un modo tutto aristotelico, afferma che un essere passa dalla potenza all’atto per l’azione di un esse­ re in atto (Teologia, 77).

enkrateia (he) / εγκράτεια (ή), il dominio di sé. Termine specificamente stoico (Epitteto, M a­ nuale, X).

entelecheia (he) / εντελέχεια (ή), l’entelecheia; latino: actus.

do quest’ultima come potenza attiva (Θ, I; e Γ, 4, 1007b). Vi è qui dunque u n ’equivalenza tra energeia e entelecheia. N e LIAnima (II, 1, 5), concepisce l’anima co­ me l’entelecheia prim a (prote / πρώτη) di un corpo, ossia il suo atto imm ediato e definitivo, nel quale non dim ora alcuna potenza passiva. Plotino, nel suo trattato su Ilimmortalità dett’anima (IV, V ili, 8), riprende la definizione di Ari­ stotele: l’anima è la forma {eidos) di un corpo natu­ rale, organizzato, che possiede la vita in potenza.

epagoge (he) / επαγωγή (ή), l’induzione. Logica. Ragionamento che va dal singolare al ge­ nerale. Lo studio dell’induzione è sviluppato da Aristotele negli Analitici prim i (II, 23).

epekeina / επέκεινα, al di là, avverbio e p re ­ posizione.

L’atto (energeia) nella sua compiutezza. Com posto da telos / τέλος, che significa il “fi­ ne”, il term ine indica una certa perfezione. In Aristotele, che ne inaugura l’impiego, assume tuttavia due significati: a) è sinonimo di ener­ geia·, b) è perfezione delVenergeia. N el libro Θ della Metafisica, Aristotele oppo­ ne la potenza (dynamis) all’entelecheia, definen-

Indica la trascendenza assoluta: « Il Bene è al di là dell’Essere {ousia / ούσία) (Platone, R e­ pubblica, VI, 509b). « L’U no è al di là di tutte le cose, e dell’Intelletto» (Plotino, V, III, 13); «al di là dell’Essere» (VI, II, 3). «Ciò che è al di là dell’Essere {ousia) è anche al di là del pensie­ ro» {to noein / τό voetv) (ivi, V, VI, 6). «Per ve-

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episteme

eph’hemin dere ciò che è al di là dell’intelligibile, occorre accantonare tu tti gli intellegibili» (ivi, V, V, 6).

La scienza, conoscenza dell’universale. Secondo le differenze del pensiero metafisico, l’oggetto della scienza varia: l’universale è o una realtà trascendente all’intelligenza, oppure un concetto nell’intelligenza. Per Platone, la scienza ha come oggetto il Mon-

do intelligibile, le Essenze (—> eidos) che sono le realtà vere {Fedro, 247d), ciò che esiste in sé {Fe­ done, 75d), l’Essere {Teeteto, 186d, Filebo, 58a), o anche gli Esseri {Teeteto, 187b; Filebo, 62a). Per Aristotele «la scienza è il concetto dell’u ­ niversale e del necessario» {Etica Nicomachea, VI, VI, 1). «Essa ha come oggetto ciò che esiste necessariamente e perciò è eterno» (ivi, VI, III, 2). Tuttavia, quest’assoluto non si raggiunge im ­ mediatam ente attraverso l’intuizione, ma tram i­ te l’induzione o il sillogismo. Così, «la scienza è una disposizione che perm ette la dimostrazio­ ne» (ivi, VI, III, 4). E il caso di approfondire le dottrine di questi due grandi pensatori. Platone oppone la scienza all’opinione {—> doxa). L una ha come oggetto il M ondo intelligi­ bile, l’altra il m ondo sensibile. O anche: la scien­ za raggiunge l’essere assoluto, m entre l’opinione raggiunge quello relativo {Repubblica, 479c480a). O anche: la scienza ci fa conoscere i P rin ­ cipi (archai —> arche) nella loro realtà, m entre l’opinione non ci dà che la loro immagine. Si passa dall’una all’altra tram ite u n ’ascensione mentale, la dialettica {—>dialektike). Aristotele colloca la scienza in un sistema di co­ noscenze. Nella Metafisica (A, 1, 980a-982a), que­ ste sono, in ordine ascendente: sensazione, espe­ rienza, arte, scienza, sapienza. Si coglie con diffi­ coltà la differenza tra queste ultime due, poiché la sapienza è definita come una certa scienza che ha

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eph’hemin (ta) / έφημϊν (τά), ciò che è in no­ stro potere. Locuzione stoica che indica la lim itazione della libertà: «Ciò che è in nostro potere è l’opinione (hypolesis), la tendenza (orexis), l ’inclinazione (ekklisis)» (M anuale, I, 1). Il contrario è «ciò che non è in nostro potere» ta ouk. eph’hem in /

τά ούκ έφ’ ήμίν.

epieikeia (he) / έπ ιείκ εια (ή), l’equità. Giusta applicazione agli individui di una legge a loro oscura (Aristotele, Etica Nicomachea, V, X,

1- 8 ) .

episteme (he) / έπιστήμη (ή), la scienza; latino: scientia.

epithymia

eristikos

come oggetto le cause e i principi, mentre più avan­ ti (a, 3) la scienza è definita come la conoscenza del­ le cause prime e dei principi. Nell’Etica Nicomachea (VI, III, 1) le conoscenze sono: arte, scienza, saggezza, sapienza, intelletto; la sapienza compren­ de scienza e intelletto. Tuttavia, poiché i principi giungono a diversificarsi, la scienza è presto impie­ gata al plurale; Aristotele distingue dalla filosofia prima, o teologia, la scienza matematica e quella fi­ sica (Metafisica, E, 1; K, 4); e poiché la Natura com­ porta dei principi, la fisica sarà definita come «scienza della Natura» (Fisica, 1 ,19).

(.Repubblica, IX, 571a-580c). Aristotele colloca il desiderio tra le passioni n arete. Ognuno dei nostri desideri anela al proprio og­ getto specifico (ivi, IV, 437e). L’uom o tirannico è l’uomo del desiderio (epithymetikos / ε π ι­ θυμητικός) che non sa governare le proprie pas­ sioni e dà allo stato il governo più disastroso 78

Più esattamente: la sospensione del giudizio. M etodo osservato dai filosofi della scuola scetti­ ca di Pirrone che, considerando che tutto è sog­ getto a dubbio, non pronunciavano giudizi su nulla, e intendevano ottenere in questo m odo Yataraxia, o tranquillità dell’animo (Sesto E m pi­ rico, Ipotiposi, I, 13-17).

eristikos / έριστικός, eristico. La parola significa «che inerisce alla disputa». L’eristica era, fin dal IV secolo a.C., u n ’arte del­ la discussione, per trionfare sull’avversario sen­ za preoccuparsi della verità; solo l’abilità del79

eros

eros

M oto che spinge l’anima verso un oggetto, l’a­ more è considerato, secondo gli autori, o come passione, a causa del suo carattere irrazionale, o come una divina attrazione per la Bellezza. Plotino, nel suo trattato Sull’amore (Peri erotos / Π ερί έρωτος), che è il V della III Enneade, in­ troduce subito la domanda: «L’amore è un dio, un demone, o una passione dell’anima?». Esso è tu tt’e tre le cose, ed è il motivo per cui il concet­ to è piuttosto marginale nella filosofia. Eros è un dio della mitologia, creatore e ispiratore della passione amorosa, poi un personaggio divino minore soprannom inato Cupido, incaricato di infiammare il cuore degli uomini. Per gli stoici, eros non ha personalità: è una passione (—> pathos), più precisamente un desiderio (—> epithymia) che essi definiscono come «il deside­ rio di unirsi con qualcuno a causa della sua bel­ lezza» (D.L., VII, 113). Parm enide (fr. 13) richiama incidentalmente Eros, ma si tratta solo di un ammiccamento po e­ tico alla mitologia. Bisogna aspettare Platone

per avere una grandiosa filosofia dell’amore, coerente con il suo sistema. L’anima umana, ca­ duta dal m ondo intelligibile in un corpo {Fedro, 245-249), prova durante il suo esilio terrestre la nostalgia del paradiso perduto. E Veros, di cui il Simposio ci perm ette di cogliere la natura tram i­ te u n ’allegoria, la nascita di Eros, il cui padre è Espediente (Poros / Πόρος) e la m adre Indigen­ za (Penia / Π ενία); deprivato come la madre, Eros aspira all’opulenza del padre {Simposio, 203c-d): l ’amore è pertanto innanzitutto una tendenza. Ma è anche uno stato emotivo, mania / μανία, quando incontra nella bellezza terrestre il ricordo di quella celeste {Fedro, 250a). Tutta­ via, l’oggetto dell’amore non è la bellezza, ma la fecondità nella bellezza {Simposio, 206b): la bel­ lezza non è che l’occasione per far sorgere l’a­ m ore fecondo {Fedro, 250). Platone ha cura di precisare come la bellezza, e dunque la fecon­ dità, siano duplici, «riguardo al corpo e all’anima». E perciò vi sono due tipi di amore: l’amore volgare {pandemos eros / πάνδημος έρως), che è attratto dalla bellezza del corpo e ha solo fecon­ dità corporea, e l’amore celeste {ouranios eros / ουράνιος έρως), che è attratto dall’anima e ha una fecondità spirituale {Simposio, 180d). «Il perverso è l’amante volgare [...] che ama il cor­ po piuttosto che l’anima» (ivi, 183d ). Il vero amante attraversa sei gradi d ’affezione, che lo portano sino all’apice della conoscenza, o filoso­ fia: amore per un bel corpo, amore per la bellez­

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l’argomentare era presa in considerazione. E u ­ clide, allievo di Socrate, fondò a Megara una scuola detta eristica, che Platone frequentò in gioventù.

eros (ho) / έρως (ό), l’amore; latino: desiderium, libido, amor, cupiditas.

eudaimonia

eudaimonia

Form ata da daimon / δαίμων, lo spirito, e da eu / εύ, bene, la parola indica lo stato di piacere stabile in cui si trova l’anima. La felicità è l’obiettivo della sapienza. Il sa­ piente è pertanto eudaimon / ευδαίμων, felice. La filosofia degli inizi, in età ionica, è volta verso il mondo, verso l’oggetto: il suo obiettivo è il sa­ pere. E così che inizia la Metafisica di Aristotele: «Tutti gli uomini, per natura, desiderano sapere {eidenai / είδέναι)». I pitagorici, sotto l’influsso della religione orfica, uniscono al sapere la sal­

vezza personale; in seguito Socrate condanna la curiosità oggettiva per sostituirvi la cura dell’in­ teriorità (Senofonte, Detti memorabili, I, I, 1116; Platone, Apologia di Socrate, 20c-23c). I due autori che realizzano i grandi sistemi filosofici, Platone e Aristotele, sono eredi di entram be le correnti, e nella loro visione com prendono sia la metafisica sia la morale. Ma, dopo di loro, i filo­ sofi considerano la filosofia speculativa come una semplice aggiunta alla saggezza, il cui obiet­ tivo è la scoperta della felicità. I versi aurei, attribuiti a Pitagora, insegnano come, per condurre una vita felice, basti ap­ prendere semplicemente quanto ha importanza per noi (w. 30-31), formula vaga che significa la nostra perfezione personale. Ma, secondo Eraclide Pontico, Pitagora affermava che la felicità risiede nella contemplazione della perfezione dei num eri (Clemente d ’Alessandria, Stromata, II, XXI, 3), citazione che sembra molto parziale. Archita di Taranto, uno dei suoi più eminenti discepoli, scrisse un trattato D ell’uomo buono e felice, ove la felicità è associata alla morale. N el­ lo stesso periodo, l’idea della felicità compare anche in Dem ocrito (Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, II, VII). Sarà poi il sofista Antifone che in tono di scherno rim provererà a Socrate come la filosofia non porti la felicità; a quest’obiezio­ ne Socrate risponderà che questa non risiede nella ricchezza, né negli onori (Senofonte, Detti memorabili, I, IV, 2-10). In seguito Aristippo di

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za fisica in generale, amore per la bellezza spiri­ tuale, amore per la bellezza morale (per le rego­ le di comportam ento), amore per la bellezza della conoscenza, amore per la Bellezza assolu­ ta, o Essenza della Bellezza (Simposio, 210-211). Il trattato Sull’amore di Plotino non è che un lungo e difficile com m ento di Platone, nel qua­ le egli complica le relazioni tra l ’anima e la Bel­ lezza assoluta. Lo stesso vale per dell’anima in­ fiammata d ’amore nell’ultima Enneade (VI, VII, 34-35). Più avanti (VI, V ili, 15), egli attri­ buisce al Bene, Principio degli esseri e causa di se stesso, l ’Amore supremo: «Il Bene è a un tem po l’Am ato (erasmion / έράσμιον), l’Amore e l ’amore di se stesso».

eudaimonia (he) / ευδαιμονία (ή), la felicità; latino: felicitas, beatitudo.

eudaimonia

eudaimonia

Cirene colloca la felicità nella libertà, situazione estranea sia alla schiavitù sia al potere politico (ivi, II, I, 11). Nella Repubblica (IV, 420b) Platone esprime un’opinione sia democratica sia dirigista della felicità: lo Stato non ha come funzione quella di assicurare la felicità di pochi cittadini privilegia­ ti, ma deve renderli felici tutti, ognuno nel posto che gli è stato riservato. I libri dal IV aU’V III i impegnano a cercare il bene, nel suo splendore metafisico e nella sua applicazione politica; è so­ lo nel libro IX (576c) che egli associa la virtù al­ la felicità {arete kai eudaimonia). E poiché la virtù ha u n ’essenza sovrannaturale, gli dei stessi sono felici (Simposio, 195a). È Aristotele colui che definisce più rigorosa­ mente il concetto di felicità. L'Etica Nicomachea, ben più che un trattato di morale, è un manuale della felicità: tutti gli uomini cercano la felicità, che è il Bene supremo, e non la troveranno che nella perfetta virtù (I, IV). Si perviene alla famo­ sa definizione secondo la quale la felicità è il frut­ to dell’attività più perfetta dell’intelletto umano quando possiede il suo oggetto più elevato (X, VII, 1). Ora, la facoltà più perfetta è la parte ra­ zionale dell’anima, fonte della virtù dianoetica (—» arete); e il suo oggetto più elevato sono i prin­ cipi primi (—» psyche); la felicità risiede quindi nella contemplazione (theoria) dei più sublimi concetti. A maggior ragione Dio, Principio primo

che contempla se stesso (—> noesis) è nella più perfetta beatitudine (Metafisica, Λ, 7, 1072b). Epicuro colloca la felicità nella soddisfazione dei bisogni naturali e necessari (Lettera a Meneceo, D.L., X, 127). Il saggio, che è un essere feli­ ce e incorruttibile, non ha più così preoccupa­ zioni (Massime, 1). Epicuro, del resto, impiega frequentem ente come sinonimi di eudaimonia e di eudaimon i term ini makariotes / μακαριότης e makarios / μακάριος. E così che «il piacere (bedone) è l’inizio e la fine della vita beata» (D.L., X, 128) e che un dio è un essere immortale e beato (makarios) (ivi, X, 123). Anche per gli stoici il bene dell’uom o si trova nell’eudaimonia·. essa pervade l’uomo, che di­ versamente dall’epicureo, non ha più alcun de­ siderio (Epitteto, Dissertazioni, IV, XXIV, 1617), che resta indifferente agli eventi (Epitteto, Manuale, 8; M arco Aurelio, XI, 16). È questo del resto il fine dell’uom o, poiché «Dio ha crea­ to tutti gli uomini per la felicità» (Epitteto, Dis­ sertazioni, III, XXIV, 2). Sesto Empirico, con gli scettici, afferma che la felicità è impossibile; infatti, secondo gli epicu­ rei e gli stoici, essa nasce dall’assenza di tu rb a ­ m ento (ataraxia); ora, questi filosofi sono alla perm anente ricerca della felicità e questo è fon­ te di turbam ento, cosicché non la raggiungono mai (Contro i dogmatici, IV, 110-11). Plotino ha dedicato un trattatello alla felicità (Peri eudaimonias, I, IV). La felicità consiste nel-

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euthymia

la vita (zoe / ζωή). E siccome vi è una gerarchia di felicità, la felicità completa è quella dell’uomo, che possiede la vita vegetativa, sensitiva e intel­ lettiva, e la felicità più perfetta è quella dell’uo­ mo che impiega al meglio la vita intellettiva.

euthymia (he) / ευθυμία (ή), il benessere. Dem ocrito poneva il bene supremo nel benesse­ re (D.L., IX, 45). Secondo Seneca, questo è un altro nom e dato dagli stoici all’ataraxia {De tranquillitate animi, II).

G

genesis (he) / γένεσις (ή), la generazione. La nascita, la venuta all’essere. Il prim o libro della Bibbia (in ebraico bé réchit) si chiama in greco Genesis, nascita del mondo. In italiano: ha Genesi. La generazione è uno dei due cambiamenti fon­ damentali, che riguardano la sostanza stessa: la generazione, che fa apparire una nuova sostan­ za, e la corruzione (phthora), che la distrugge. Gli altri cambiamenti, sono cambiamenti nella sostanza, che resta se stessa —> kinesis. Platone affronta la coppia generazione-corru­ zione nel Parmenide (136b-c), in un insieme di rapporti che com prendono rassomiglianza e dis­ somiglianza, movimento e riposo, Essere e n o n ­ essere. Nel Fedone (71 a-c) cerca di dimostrare come la generazione si produca a partire dal contrario attraverso il suo contrario. E Aristotele colui che accorda la più grande im portanza a questa coppia metafisica, consacrandole un’ope­ ra: Peri geneseos kai phthoras / Π ερί γενέσεω ς καί φθοράς. Nelle Categorie (XIV), enumera sei tipi di movimento, tra cui generazione e corru-

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genos

genos zione, e inoltre l’alterazione (alloiosis), l’aum en­ to, la diminuzione e il cambiamento locale (mo­ vimento). Nella Fisica (I, 7), m ostra come la ge­ nerazione abbia due cause: il soggetto (o sub­ strato), hypokeimenon, e la forma, morphe. Sesto Em pirico è l’autore di un famoso sofi­ sma che stabilisce come la generazione sia un mito: «Socrate è nato quando non era o quando era; se diciamo che Socrate è nato quando era, egli è nato due volte; se diciamo che è nato quando non era, egli era e non era contem pora­ neamente». Pertanto la generazione è inintelligi­ bile (Ipotiposi, III, 16).

genos (to) / γένος (τό), il genere; latino: genus\ plurale gene (ta) / γένη (τά). Dal verbo gignomai / γίγνομαι, nasco, divengo, esisto. Un prim o significato di genos è la razza, il genere nel senso di genere umano. Un secondo significato, filosofico, designa uno stesso genere di esseri. Il termine, poco definito, comprende in ogni ca­ so o un gruppo di esseri umani uniti dal sangue e dalla funzione: «la razza degli dei» (Platone, Fedo­ ne, 43b); o un insieme di esseri: Platone contrappo­ ne due generi di produzione, quelle della natura, che si possono dire divine e quelle dell’arte umana {Sofista, 256e); oppure (e giungiamo alla filosofia) un’essenza (metafisica) o un genere (logica).

Nel Fimeo (39e-40a), Platone distingue quattro specie di viventi: quella degli dei, quella degli uc­ celli, quella dei pesci, quella dei viventi terrestri; nella Repubblica (V, 477c-e), tratta invece dei ge­ neri di facoltà mentali (dynameis). Più seria è la distinzione dei cinque generi supremi nel Sofista (254b-256d), in senso sia metafisico sia logico: l’Essere (—> on), il riposo (—» stasis), il movimen­ to (—> kinesis), lo stesso (—» auto) e l’altro (—» heteron); Platone designa del resto questi diversi ge­ neri anche con la parola eidos (essenza e specie). Aristotele dedica un cenno alla parola genos nel suo piccolo vocabolario filosofico (Metafisi­ ca, Δ, 28), in cui assegna alla parola tutti i signifi­ cati correnti: razza, specie, essenza. Nelle Cate­ gorie (V), pone il term ine nella parte dedicata al­ la sostanza {ousia), poiché distingue la sostanza prima (prote), che è l’individuo; e la sostanza se­ condaria (deutera), che è l’essenza, genere o spe­ cie (eidos); ora, la specie è sottoposta al genere (il genere è comune alle specie) e così essa è prossi­ ma (ma seconda) alla sostanza prima. Nella Fisi­ ca (I, 6), egli fa della sostanza stessa un genere dell’essere {genos tou ontos). Nei Topici (I, 4-5), Aristotele pone il genere tra i predicabili, ossia gli oggetti su cui verte il ragionamento, con la definizione {horos), il proprio (idion) e l’acciden­ te {symbebekos)\ e definisce il genere «Un attri­ buto che appartiene per essenza a diverse cose, nello specifico diverse». Plotino ha scritto tre trattati sui generi del89

genos

gnothi sauton

l’Essere: Perigenon / Π ερί γενών (VI, I, II, III). Il primo è una critica minuziosa delle dieci cate­ gorie di Aristotele, che sono scartate come gene­ ri; il secondo è un’analisi dei cinque generi su­ prem i di Platone, che vengono adottati; il terzo è u n ’applicazione delle categorie al m ondo sen­ sibile, dove neppure qui trovano grazia. Porfirio ha pubblicato un famoso opuscolo intitolato Isagoge (eisagoge / εισαγωγή), ossia Introduzione alle Categorie di Aristotele. Questi cinque «predicabili» sono il genere, la specie, la differenza, il proprio, l’accidente —> kategoria. Le specie (eide) sono subordinate ai generi, pur avendo delle differenze tra loro; così, una defi­ nizione (horismos) è data dal genere e dalla dif­ ferenza specifica. In m odo più sottile, essa deve ricorrere alla catalogazione dei generi e delle specie; si tratta dell’albero di Porfirio, con il se­ guente esempio: Sostanza (= genere supremo) => corpo => cor­ po animato => animale => animale razionale => uom o (specie specialissima) => Socrate (indivi­ duo). Tra il genere suprem o e l’individuo, possiamo chiamare ogni concetto specie, in quanto conte­ nuto nel genere superiore, e genere, in quanto contenente la specie inferiore. Sesto Em pirico è arrivato a fare delle acroba­ zie eristiche al fine di contestare le nozioni di ge­ nere e di specie (Ipotiposi, II, X X ).

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gnosis (he) / γνώσις (ή), la conoscenza. Platone oppone la conoscenza all’ignoranza (,agnosia / άγνωσία) e all’opinione (doxa) (Re­ pubblica,, V, 479d-480q).

gnothi sauton / γνώθι σαυτόν, «conosci te stesso». Form ula attribuita per la prim a volta da Antistene a Talete (D.L., I, 40). Secondo Dem etrio F a­ lerno, l’autore sarebbe Chilone Lacedem one (Mullach, fr. 3). La si trova anche in Pittaco (Sentenze, 16). Socrate la vide scritta sul fronto­ ne del tempio di Apollo a Delfi (Senofonte, Det­ ti memorabili, IV, II, 24). Si veda E pitteto (Dis­ sertazioni, I, XVIII, 179.

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harmonia

Η

haplous / άπλούς, semplice; neutro: haploun. Si dice di una sostanza semplice, in opposizione a una com posta (Aristotele, Metafisica, E, 4). L’avverbio haplos / απλώς è talora impiegato nel senso di assolutamente. «Ciò che non è {to me esti / το μή εστι) assolutamente» (Platone, Par­ menide, 163c).

harmonia (he) / αρμονία (ή), l’armonia; latino: harmonia. La qualità di ordine e di organizzazione ineren­ te al cosmo. Troviamo questo term ine già usato abbon­ dantem ente dai pitagorici. Per essi, l’insieme degli esseri è stabilito in base all’armonia (D.L.,VIII, 33; Ippolito, Confutazione di tutte le eresie, I, II, 13); i rapporti tra i num eri costitui­ scono delle armonie (Aezio, I, II); l’anima um a­ na è un’arm onia (Filolao, fr. 13; M acrobio, So­ gno di Scipione, I, XIV, 19); la giustizia è u n ’ar­ monia dell’anima (A teneo, IX, 54), come la virtù in generale (D.L., V ili, 33). 92

Eraclito professa l’armonia dei contrari (frr. 8 e 10), ma si tratta di u n ’arm onia nascosta (fr. 54). Così anche per Nicomaco (.Aritmetica, II): «L’arm onia è universalm ente l’accordo dei con­ trari». Allo stesso m odo, per Platone, il m ondo è un insieme arm onioso (Epinomide, 99le) ordinato dal D em iurgo (Timeo, 5 6c). M a soprattutto la virtù è u n ’arm onia deH’anima (Lachesi, 188d; Timeo, 90d) e la giustizia è l ’arm onia delle virtù (Repubblica, IV, 443); la vita politica è frutto di u n ’arm onia tra governanti e governati (ivi, IV, 43Oc). Q uanto alla musica, questa deve sforzarsi di im itare l’arm onia divina (Timeo, 80b). Gli stoici hanno impiegato, per designare l’arm onia del m ondo, un notevole num ero di si­ nonimi: diacosmesis / διακόσμησις (D.L., VII, 158); symphonia / συμφωνία (Epitteto, Disser­ tazioni, I, XII, 16); diataxis / διά τα ξις (ivi, XII, 17); sympatheia / συμπάθεια (ivi, XIV, 1); episyndesis / έπισ ύνδεσ ις (Marco Aurelio, VI, 38); syndesis / σ ύνδεσ ις (ivi, VII, 9); henosis kai taxis / ένω σις κ α ι τάξις, unione e ordine (ivi, VI, 10). Così è anche per Plotino. Il m ondo, questo «vivente unico» è in simpatia (sympathes / συμ­ παθής) con se stesso; o anche si trova in accordo (symphronos / σύμφρωνος) con se stesso. Esso è ordine: taxis / τάξις (IV, IV, 35).

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hedone

hautos hautos / αυτός, se stesso. Riflessivo di —> autos / αύτός.

hedone (he) / ήδονή (ή), il piacere; latino: voluptas. Il termine com prende tutte le sfumature del pia­ cere sensibile e del piacere psichico. Deriva dal­ la radice hed-, che si trova nel verbo hedomai / ηδομαι, gioire, in hedys / ήδύς, piacevole; e in hedymos / ηδυμος, con lo stesso significato. Gli autori greci pongono il piacere tra le pas­ sioni (pathe / πάθη, singolare pathos), ossia gli stati subiti, non voluti; è pertanto opposto all’a­ zione. Q uesto nel genere. Specificamente, gli an­ tichi discutono della natura del piacere. I cire­ naici, il cui maestro era Aristippo, dicono che es­ so è discontinuo e frammentario; questo perché essi si attengono al piacere del corpo (D.L., II, 87); ma Epicuro protesta: una simile concezione è indegna di un filosofo; il vero piacere è conti­ nuo; è quanto dichiara, tra l’altro, in un fram ­ mento di una lettera indirizzata ad Anassarco, e conservato da Plutarco: «Raccomando i piaceri stabili e non le virtù vuote, futili e disordinate» (Usener, Epicurea, fr. 116). Q uanto a Platone, egli manifesta del piacere una concezione negati­ va, facendone lo stato che segue al dolore (Fedo­ ne, 60b). Epicuro va nella stessa direzione quan­ 94

do insegna che il piacere consiste nell’eliminare il dolore (Lettera a Meneceo, D.L., X, 128). «Q uando diciamo che il piacere è il bene supre­ mo, stiamo parlando dell’assenza di dolore fisico e di turbam ento morale» (ivi, X, 131).4 Al di fuori della sua natura, il piacere ha posto ai filosofi greci due problemi. a) Classificazione. La più semplice è ovvia­ m ente quella che suddivide i piaceri tra corporei e spirituali. Diversamente dai cirenaici, che non amm ettono che i piaceri del corpo, Epicuro af­ ferma l’esistenza di entram be le specie (D.L., X, 136). Platone distingue tre tipi di piaceri, fonda­ ti sulle tre parti dell’anima: vegetativa (l’appeti­ to, epithymia / έπιθυμία), senso-motoria (il cuo­ re, thymos / θυμός), intellettiva (la scienza, mathesis / μάθησις). Vi trovano piacere tre tipi diversi di uomo: il prim o nel mangiare, nel bere e nel danaro; il secondo nel dominio e nella re­ putazione; il terzo nella filosofia e nella verità (Repubblica, IX, 580d-583a). Sono soprattutto gli stoici che si sono im pe­ gnati in una classificazione dei piaceri. Diogene Laerzio (VII, 114-115) ci fornisce una lista di quattro tipi: la gioia maligna, il diletto (piacere sensoriale), il divertim ento, il rilassamento. Ci­ cerone vi aggiunge la vanità (Tusculanes disputa4 «Epicuro poneva la felicità nel fatto di non avere né fa­ me, né sete, né freddo» (Clemente d’Alessandria, Strema­ ta, II, XXI, 1).

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hedone

hedone

tiones, IV, IX, 20). Precisiamo che Cicerone tra ­ duce il greco hedone con il latino laetitia (la gioia), poiché il piacere è per gli stoici una di­ sposizione puram ente interiore. b) Valore morale. Si contrappongono di solito due atteggiamenti: l’edonismo, che fa del piace­ re il fine delle azioni e la fonte della felicità, e l’ascetismo o rigorismo, dottrina che lo proscri­ ve dalla vita come incom patibile con la virtù. Il prim o atteggiamento è in realtà m olto sfumato. Solo Aristippo professa un edonism o brutale: Senofonte ce lo m ostra, fedele alla sua concezio­ ne, «che spinge la sregolatezza fino all’eccesso» sia nel cibo sia nella lubricità (D etti memorabili, II, 1,1). Ma D em ocrito insegna che non si deve praticare ogni piacere: dobbiam o scegliere solo quelli che si accordano con l’onestà (Stobeo, Florilegio, V, 77). Per Epicuro le fonti sono con­ traddittorie. Gli epicurei, scrive Cicerone, «ar­ rossiscono per le parole di Epicuro secondo le quali egli afferma di non conoscere alcun bene che non faccia parte dei piaceri dei sensi e delle voluttà impudiche» (De natura deorum, I, 40). Timocrate, citato da Diogene Laerzio (X, 6-7), racconta che Epicuro vomitava due volte al giorno per quanto si rimpinzava e frequentava prostitute. Ma lo stesso Epicuro dichiara: «Q uando diciamo che il piacere è il Sommo Be­ ne, non parliamo delle voluttà dei dissoluti, né delle gioie della carne [...] Una vita felice è im ­ possibile senza saggezza, onestà e giustizia»

(D.L., X, 131-140). E Lattanzio: «Epicuro pone il Sommo Bene nel piacere dell’anima» (Divine Istituzioni, III, 7). La teoria platonica del piacere, nella sua com ­ piutezza, è espressa nel Filebo. Nel Fedone, a p ­ pena rientrato dal suo soggiorno a Taranto pres­ so la scuola pitagorica, Platone fa professione di una virtù rigorista, secondo la quale l’anima non deve avere né unione né commercio con il corpo (67a). In seguito stabilisce che, se il piacere non è il Bene, gioca un certo ruolo nella virtù, dopo la misura (metron / μέτρον) e l’intelligenza (nous) (Filebo, 66a-67a). Il piacere trova così una sua collocazione positiva (44a-46a). A sua volta, Ari­ stotele, superando quelle dottrine che fanno del piacere il Sommo Bene alcune, il male altre, cer­ ca di dimostrare che esso è sempre legato a qual­ che bene, sensibile o spirituale, e sviluppa la sua teoria finalistica: ogni atto raggiunge la sua p er­ fezione quando incontra il migliore degli oggetti, e produce così un piacere proporzionato a que­ sta perfezione; così il più perfetto dei piaceri è quello dell’attività più elevata dell’uomo quando incontra il suo oggetto; il migliore dei piaceri è quello dunque della contemplazione intellettua­ le (Etica Nicomachea, X, IV-V). Per gli stoici, piacere e dolore non sono in n o ­ stro potere poiché ci colpiscono nostro malgra­ do; dunque non sono un male, perché male e b e ­ ne provengono da noi, ma lo divengono se diamo loro il nostro assenso (Epitteto, Dissertazioni, III,

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hen

hegemonikon

Q uesto term ine è il neutro dell’aggettivo num e­ rale heis / ε ις (femminile mia / μία). Sostantiva­

to, può avere due significati: l’Unico, la Realtà che si appropria dell’essere e non ne tollera al­ tra; il Tutto {pan, holon), la Realtà che raccoglie tutto in sé. Per Aristotele la parola hen avrebbe quattro significati: il continuo, l’unità forma, l’unità in­ dividuo, l’unità universalità {Metafisica, I, 1). Troviamo infatti in questa quaterna, quattro no­ zioni: - il continuo: nozione geometrica (l’unità del­ la linea si oppone alla discontinuità del num e­ ro); - l’unità-forma: nozione biologica (l’organi­ smo) o cosmologica (il m ondo). Un insieme soli­ dale retto da leggi: la physis; - l’unità-individuo: nozione aritmetica (l’u ­ nità è il principio del num ero, che resta se stessa all’interno del num ero p u r moltiplicandosi); - l’unità universalità: nozione veramente filo­ sofica, anche se è la nozione scientifica per ec­ cellenza (universalità dei concetti, dei rapporti, delle leggi). Questi significati hanno peraltro tutti e quat­ tro una valenza filosofica: - Il continuo corrisponde all’Uno nel senso di Unico, che non ammette né duplicazione né frammentazione (Parm enide). - L’Uno-form a è l’unità unificante, che riassu­ me il diverso (Eraclito, gli stoici). Logicamente, è il genere che com prende le specie. - L’unità-individuo è l’individuale che si o p ­

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XXIV, 20; M arco Aurelio, V ili, 51; Cicerone, De finibus honorum et malorum, III, 13; Tusculanes disputationes, II, XXV, 61). Cleante, Crisippo e Dionigi di Eraclea hanno scritto un trattato Sul piacere. Locuzione: hedones kratei (ηδονής κράτει, trionfo del piacere) (Periandro, Sentenze, 13; Pittaco, Sentenze, 21).

hegemonikon (to) / ηγεμονικόν (τό), l’egemonico. Termine specificamente stoico: la presenza in noi della N atura universale che guida le nostre azioni (Marco Aurelio, IX, 26).

hekon / έκών, volontariamente, di sua sponta­ nea volontà. «N on possiamo che subire involontariam ente u n ’ingiustizia» (Aristotele, Etica Nicomachea, V, IX, 8).

hekousios / έκούσιος, volontario.

hen (to) / ε ν (τό), l’Uno; latino: Unum.

ben

ben

pone al generale: l’unità che si oppone quantita­ tivamente alla molteplicità e qualitativamente alla diversità. E soprattutto il Prim o esistente che genera gli altri (Pitagora, Plotino). - L’uno universale è il trascendentale (nel sen­ so scolastico) : la presenza dell’Essere in tutti gli esseri, e che perm ette loro di essere. Il significato filosofico della parola si è poi evoluto nel corso dei secoli. 1) Significato cosmico. Per gli ionici, l’Uno è l’elemento prim o del m ondo, che in effetti riu­ nisce i due significati originari: all’inizio l’unico come m ateria plenaria; poi il Tutto, uscito da es­ sa. È così che M useo,5 autore più o m eno m iti­ co, scrive che tutto nasce dall’Uno {ex henos) e ritorna all’Uno (D.L., fr. 39). Allo stesso modo Talete dichiara che il m ondo è uno (Aezio, II, I, 2), Anassagora afferma che il m ondo è uno e in­ divisibile (fr. 8), Eraclito, più interessato alla sa­ pienza che alla scienza, sostiene che questa sa­ pienza consiste nel riconoscere che il Tutto è uno (fr. 50) e che è legge obbedire alla volontà dell’Uno (fr. 33). Em pedocle, che segue le orme degli ionici, dice più o m eno le stesse cose di Museo: l’Uno nasce dal molteplice e il m oltepli­ ce dall’Uno (fr. 26, 8-9). Aristotele sanzione le diverse fonti: secondo alcuni, spiega, tutto sa­ 5 Benché ritenuto ateniese, fu molto influenzato dal pensiero ionico, fatto che lo colloca in un’epoca più tarda di quella sostenuta dalla leggenda che ne fa un contempo­ raneo di Orfeo.

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rebbe uscito dall’U no (ek tou henos)·, e cita Anassimandro, Anassagora ed Em pedocle {Fisi­ ca, I, 4); altrove sottolinea come per il tale l’Uno sia l’Amicizia, per un altro l’Aria, per un altro ancora addirittura l’Indeterm inato {Metafisica, I, 2). Si tratta di Em pedocle, Anassimene e Anassimandro. Dal canto suo Senofonte, richia­ m ando il disinteresse di Socrate per quest’ordi­ ne di problem i, afferma: «Alcuni insegnano che l’Essere è uno, altri che è una molteplicità incal­ colabile» {Detti memorabili, I, I, 14). 2) Significato metafisico. Com pare con Pitago­ ra. Per questi, la M onade {Monas), Dio, il Bene e l’Uno sono termini interscambiabili (Aezio, I, VII, 18). Così è anche per i suoi discepoli m eta­ fisici. «Archita e Filolao chiamano indifferente­ m ente l’U no M onade e la M onade Uno» (Teone di Smirne, Nozioni matematiche, XX, 19). Se­ condo Filolao esiste «un Reggitore e M aestro di tutte le cose, che è Dio e l’Uno» (Filone d ’Alessandria, Sull’eternità del mondo, 23). Con Parmenide, l’Uno non è più il Principio, l’origine degli esseri, ma l’Unico, l’Essere che non ne tollera altri. Parmenide era certamente un ita­ lico, perché insegnava a Elea, ma come Pitagora, il maestro di Crotone e M etaponto, che era nati­ vo di Samo, anch’egli era nato nella Ionia, a Focea, nel 540, cinque anni prima della fondazione di Elea da parte dei focesi. Il suo ragionamento era semplice: essendo l’Essere eternamente lo stesso, perfetto e immutabile, non può essere 101

hen

hen

Principio, poiché il fatto di donare l’essere ad altri gli toglierebbe la totalità dell’Essere. Questo Uno è puramente intelligibile, poiché solo la via della ragione può trovarlo m entre i sensi non conosco­ no che il molteplice (frr. II, VI, 4; V ili, 20); uno dei suoi caratteri è la continuità, del tutto metafi­ sica, il che significa che in esso non vi sono frattu­ re che introdurrebbero l’imperfezione e la molte­ plicità (fr. V ili, 5-6). Questa dottrina è condivisa da Melisso: se l’Essere non fosse Uno, sarebbe li­ mitato (Simplicio, Fisica, 110,5; Il cielo, 555,14). Il caso di Senofane è più complesso: collocato cronologicamente tra Pitagora e Parm enide, lo si dà come discepolo del prim o e m aestro del se­ condo, cosa che bisogna prendere in senso lato. L’Uno che egli identifica con Dio è interam ente spirituale; ma è trascendente o imm anente al m ondo? Ciò che definisce l’Uno è semplicemente il solo essere spirituale, o il Tutto la cui anima è Dio? —> theos / θεός, Dio. 3) Dopo Socrate. Platone, che sosteneva l’esi­ stenza del molteplice, ammette volentieri che l’Essere sia l’Uno, con la differenza che l’Uno di Parmenide è l’Unico, m entre quello di Platone è l’Universale, che costituisce l’unità dell’Uno e del molteplice. È la posizione sostenuta con m ol­ ta sottigliezza nel Parmenide, nel quale Platone, dimostrando come la Realtà assoluta e originaria risieda nelle Essenze eterne (—> eidos) prova per assurdo l’inconsistenza della tesi parmenidea. Aristotele, secondo il suo costume abituale, co­ 102

mincia con l’istruire il processo dei suoi prede­ cessori, innanzitutto nella Fisica (I, 2-5), pur sot­ tolineando come l’esame del problema metafisico dell’Uno non sia di competenza della scienza fisi­ ca (I, 2, 184b); poi nella Metafisica (A, 3, 5, 8). Qui dedica al concetto dell’Uno una lunga anno­ tazione (Metafisica, Δ, 6): l’uno è detto sia per ac­ cidente (kata symhehekos)·. Corisco e musico non sono che uno; sia per essenza (kath’hauto, «in sé»); vi sono così diversi tipi di uno: il continuo nel corpo, l’unità fisica (l’acqua, il vino), l’indivi­ sibilità sostanziale (una cosa definita come tale). Poi ricordando che l’Uno e l’Essere (—>on) sono identici e i più universali di tutti i predicati, A ri­ stotele constata come né l’uno né l’altro siano delle sostanze (—» ousia) (ivi, Z, 16); e dopo aver esaminato i diversi significati dell’Uno, conside­ ra l’opposizione dell’Uno e del molteplice (polla / πολλά, neutro plurale di πολύς, numerosi), del­ l’indivisibile e del divisibile, dello stesso e dell’al­ tro, del simile e del dissimile (ivi, I, 3-6). Trovia­ mo queste dissertazioni nel libro N, capp. 1-6. Gli stoici non impiegano abitualmente il term i­ ne hen·, gli preferiscono pan, il Tutto. M arco A u­ relio scrive incidentalmente che «Uno (heis) è il m ondo costituito dal Tutto, uno il Dio che pene­ tra il Tutto, una la sostanza, una la legge, una la ragione comune, una la verità» (VII, 9). E Plotino che, riprendendo il principio pita­ gorico, assegna all’Uno tutta la sua importanza metafisica. Vi dedica gli ultimi tre trattati della 103

heteros

holon

VI Enneade,6 Sul Bene, Sulla libertà e Sulla vo­ lontà dell’Uno, Sul Bene o sull’Uno, e il primo della V Enneade, Le tre prime ipostasi. L’Uno è la prima ipostasi, Principio primo, D io eterno e perfetto; è pensiero di se stesso, libero volere benché possa solo ciò che partecipa della sua perfezione. «L’Uno è perfetto perché non cerca nulla, non possiede nulla, e non ha bisogno di nulla. Essendo perfetto trabocca, e la sovrab­ bondanza crea qualcos’altro» (V, II, 1). Ma l’U ­ no non ha alcuna determinazione, poiché non è alcuna delle realtà che traggono da lui l’esisten­ za; è qui che risiede la sua assoluta trascendenza, che lo rende ineffabile. L’ipostasi che ne procede immediatamente è l’Intelletto (nous). Proclo segue Plotino: tutti gli esseri procedono dall’Uno, e l’Uno è identico al Bene (Teologia pla­ tonica, 1-13).

heteros / έτερος, altro; latino: alter. Diversamente da allos / άλλος (latino: alius), che indica un altro tra molti, heteros indica l’altro tra due. Nel Sofista (256d-258c) Platone fonda resi­ stenza di un non-essere positivo, dimostrando che è l’altro dello stesso (autos), ossia dell’Essere. Ari­ 6 È Porfirio, nella sua edizione dell’opera di Plotino, che ha attribuito a questi trattati gli ultimi tre posti (52,53,54); in realtà cronologicamente erano così collocati 38, 39 e 9.

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stotele insiste sull’alterità specifica, più esattamen­ te «l’altro secondo la specie»: to heteron to eidei / το έτερον τω ειδει; si dice che due cose hanno questo carattere appartengono a due specie all’in­ terno dello stesso genere (Metafisica, I, 8; Δ, 10).

hexis (he) / έξις (ή), la disposizione, lo stato, il modo d’essere. C oncetto vago, che com prende soprattutto la disposizione, o capacità abituale di produrre delle azioni; tra queste bisogna distinguere in m odo particolare la virtù (arete) {Etica Nicomachea, II, VI, 15) e la scienza (episteme) (ivi, VI, III, 2-4). Epitteto vi associa la facoltà: dynamis (Dissertazioni, II, X V III, 1).

holon (to) / ολον (xó), l’Universo; latino: Uni­ versum. L’insieme, la totalità —> pan, kosmos. Aristotele dedica un cenno a questo term ine nel libro Δ della Metafisica (n. 26). L’holon è ciò che fa l’unità {ben) delle cose. E ciò in due m o­ di diversi: o queste cose hanno già u n ’unità, e il tu tto è allora come il genere per le specie; op­ pure esse non hanno u n ’unità ed è il loro riunir­ si che form a un tutto, come nell’organismo umano. 105

homoiosis

horismos

Pitagora, secondo Eraclide Lem bo, avrebbe composto un trattato Dell’universo·. Veri tou holou (D.L., V ili, 7). Platone impiega incidental­ m ente il termine, sia nel senso di Universo fisico (Liside, 214b), sia per indicare l’unione dell’ani­ ma e del corpo (Alcibiade, I, 13 Oa), sia in senso metafisico (Repubblica, VI, 486a), sia in senso aritmetico (Teeteto, 204b). Il term ine è im piegato costantem ente dagli stoici per designare l ’insiem e di tu tte le cose, il T utto al di fuori del quale nulla p u ò essere. Zenone di Cizio aveva scritto u n ’opera (an ­ data perd u ta) in tito lata Veri tou holou (D.L., V II, 143). L’uom o, secondo M arco A urelio, è una p a rte del Tutto: meros tou holou (X, 6). Plotino impiega il term ine in senso cosm olo­ gico: Yhoulon è un imm enso Vivente: holon zoon / δλον ζωον (II, I, 3).

homoiosis (he) / όμοίωσις (ή), l’assimilazione, la conformazione; latino: assimilatio.

migliare a Dioniso straziato dai Titani, immagi­ ne del sacrificio di sé. N on ci si meraviglierà di trovare qui Pitagora, che era un adepto dell’orfismo. Secondo questo maestro «la filosofia è u n ’assimilazione a Dio: homeosis theou (Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, VI, 3; Plutarco, Della superstizione, 9; Giamblico, Vita di Vitagora, 86). Platone, che fu per molti anni allievo dei pitagorici, adotta a sua volta questo insegnamento; l’anima del resto è, a priori, simile alle Essenze (eide), principio eter­ no e perfetto; essa è quindi come queste divina, immortale, intelligente, indissolubile (Fedone, 80a); è la sua caduta che, provocando l’unione con un corpo, la priva di queste prerogative; so­ lo ritornando a questo principio, grazie alla dia­ lettica, essa si muove «verso ciò che gli è simile»: eis to homeon (ivi, 8 la). E l’evasione (phyge) da questo m ondo; «e l’evasione è l ’assimilazione a Dio» (Teeteto, 176b). Plotino a sua volta m ostra come l’anima divenga simile a Dio tram ite la virtù (I, II, 2-3), grazie al Bene e alla Bellezza (I, VI, 3-9).

Azione del divenire simile, conform e a un m o­ dello. L’aggettivo homoios (arcaico: homos) significa simile; il verbo homoio / ópottò significa rendere simile; il suffisso -sis / -σις indica l’azione. Q u e­ sta nozione si è imposta sotto l’influsso dell’orfismo, i cui discepoli dovevano sforzarsi di rasso-

Metafisica. La definizione corrisponde alla quid­ dità (to ti en einai) (Metafisica, Z, 4, 10, 12). Logi­ ca. La definizione di un essere si fa attraverso le

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horismos (ho) / ορισμός (ό), horos (ho) / όρος (ό), la definizione.

hyle

horme sue cause (Aristotele, Analitici secondi, II, 9). È un predicabile; essa esprime l’essenza di un sog­ getto (Aristotele, Topici, 1,5).

horme (he) / ορμή (ή), l’inclinazione. Per Epitteto, essa è in nostro potere (eph’hemin / έφ’ ήμίν) (M anuale, I, 1; Dissertazioni, I, I, 1).

considerata al di fuori della sua forma; la m ate­ ria successiva {eschate / έσχατη) è quella della singola realtà unita alla sua form a (Aristotele, Metafisica, H , 6). Altra opposizione: la materia sensibile (aisthete / αισθητή) e la materia intelli­ gibile {noete / νοητή), per esempio quella degli esseri matematici (ivi, Z, 10).

Derivato: hylikos / υλικός: materiale. La sostanza indeterm inata comune ai corpi; un albero, un mobile, un bastone, hanno come materia comune il legno. L’astrazione arriva a immaginare una m ateria indifferenziata, che non è né legno, né pietra, né metallo, ma una realtà sensibile di cui sono fatte tutte le cose. Hyle significava originariam ente il legno, in tutti i significati del termine: albero, foresta, le­ gna da ardere o da costruzione. I filosofi adotta­ rono il termine per designare la materia che, a causa del suo carattere indifferenziato, non ave­ va denominazione. La materia da un lato si o p ­ pone all’Intelletto (nous), che è la realtà imm ate­ riale per eccellenza; dall’altro alla forma {eidos, morphe), che è l’atto metafisico esercitato sulla materia per differenziarla. La m ateria prim a (prote hyle / πρώτη ϋλη) è la materia in generale,

I prim i pensatori ionici non impiegarono la pa­ rola hyle, che per loro era ancora troppo univer­ sale; ma per trovare all’origine del m ondo una materia unica, privilegiarono ora l’acqua, ora l’aria, ora il fuoco come Principio (—> arche) materiale del mondo. Con Anassimandro, il se­ condo capo della scuola di Mileto, si compie tuttavia un progresso, in quanto egli propone come principio di tutte le cose Γindeterminato {apeiron / άπειρον), che è un altro nom e della materia. L’impiego di hyle, se prestiam o fede ad Aezio (I, XXIV, 3 ) e allo Pseudo Plutarco {Epitome, I, 24), inizia con Pitagora, che affermava che la materia, essendo inerte {pathete / παθητή), è sottoposta alla corruzione {phthora). Diogene Laerzio (II, 6) afferma che Anassagora «è il pri­ mo che aggiunge l’Intelligenza {nous) alla m ate­ ria». Platone disconosce questo termine, ma Aristote­ le lo usa frequentemente. La materia è natura {physis): essa è soggetto (hypokeimene) universale del movimento {kinesis) e del cambiamento {metabole)

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hyle (he) / ύλη (ή), la materia; latino: materia.

hyle

hypostasis

(Fisica, II, 1, 193a). Essa è Essere in potenza, che deve passare all’atto tramite la forma (eidos) (Me­ tafisica, Η , 1) e divenire così sostanza (ivi, H , 2). Essa è del resto, in un certo qual modo, sostanza (iousia), poiché rimane se stessa attraverso i cam­ biamenti (ivi, H, 1); la sostanza può essere presa con tre significati: come materia, come forma e come composto (DAnima, II, 2). La materia è causa (aitia)\ infatti «chiamiamo causa, in un pri­ mo significato, la materia immanente di cui la co­ sa è fatta» (Metafisica, Δ, 2); si può perfino defi­ nirla causa prima (ivi, H , 4); essa è in ogni caso una delle quattro cause delle cose sensibili (Fisica, II, 3 , 193b, 195a; 7, 198b). Si può infine assegnar­ le il nome di principio: arche / αρχή (ivi, I, 7, 190b). Per gli stoici, la sostanza di tutti gli esseri è la materia prima (prote hyle) (D.L., VII, 150). Plotino ha dedicato un trattato alle Due materie (II, IV). D a un lato è la materia intelligibile (noera / νοερά), che è divina (theia / θεία) ed eterna (aidios / άίδιος); dall’altro la materia sensibile (aisthete / αισθητή), che non possiede queste qua­ lità. Ciascuna è indeterminata (apeiros / άπειρος) (II, IV, 7, 14, 15). Essa è dunque privazione (steresis / στέρησις) e in quanto privazione è non-essere (ouk on / ούκ òv); Plotino riprende questi ter­ mini anche altrove: la materia, in quanto substrato (hypokeimenon) corporeo, è non essere (me einai / μή είναι) e impassibile (apathes / απαθής) (III, VI, 7). Così, essa è il male (to kakon / το κακόν) (I,

Equivalente di sostanza o di persona. Termine proprio della filosofia di Plotino. Le tre iposta­ si, che sono i Principi di ogni realtà, procedo­ no l ’una dall’altra: sono l ’Uno (—» hen), l ’Intel­ letto (—>nous) e l’Anim a (—>psyche) (Enneadi, V ,I).

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Ili

V ili, 7-11). Altrove (II, V, 2), Plotino considera la materia come essere in potenza (dynamis).

hypokeimenon (to) / υποκείμενον (τό), il sog­ getto, il substrato; latino: subiectum, suppositum (significato logico). La sostanza in quanto soggetto, ossia substrato degli accidenti. D a hypokeisthai, stare sotto —> ousia. Troviamo già questo term ine nel trattato Dei principi (Peri archon) di Archita (la cui au­ tenticità è peraltro contestata).

hypolepsis (he) / ΰπόληψις (ή), l’opinione. «La credenza (pistis) è un’opinione» (Aristotele, Topici, IV, 5). «Ciò che è in nostro potere è l’opi­ nione» (Epitteto, Manuale, 1 ,1; XX, XXXI). «Tut­ to è opinione» (Marco Aurelio, II, 15; XII, 22).

hypostasis (he) / ύπόστασις (ή), l’ipostasi.

hypothesis hypothesis (he) / ύπόθεσις (ή), l’ipotesi. Per Platone, il m etodo dialettico rifiuta succes­ sivamente tutte le ipotesi per elevarsi sino al principio (Repubblica, VII, 533c). Per A ristote­ le, è la premessa del sillogismo dimostrativo {Analitici secondi, 1,1).

I

idea (he) / ιδέα (ή), l’idea, sinonimo ristretto di —> eidos.

idion (to) / Ιδιον (τό), quel che è proprio. Logica. «Ciò che, senza esprimere l’essenziale dell’essenza del soggetto, tuttavia non appartie­ ne che a lui.» Per esempio, per un uomo saper leggere e scrivere (Aristotele, Topici, 1,5). Uno dei cinque predicabili (kategoroumena) per Ari­ stotele e per Porfirio (Isagoge, XII).

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kakon

κ

Al maschile kakos (ho) / κακός (ó), il cattivo, colui che commette il male. Kakon è l’aggettivo neutro sostantivato di kakos, malvagio, cattivo. Designa il male in ge­ nerale, ma più precisam ente il male morale, quello commesso dall’uomo. Il problema del male (generale o morale) non suscita da subito una riflessione da parte dei filo­

sofi. Il male non è un problema, o per lo m eno è uno scandalo, ma trova solo una spiegazione uffi­ ciale, quella della mitologia, trasmessa dai poeti: Teognide, Eschilo, Sofocle piangono l’infelicità umana inchinandosi dinnanzi ai decreti irrevoca­ bili della divinità. Grazie all’orfismo, la dottrina dell’immortalità dell’anima è adottata da Ferecide, Pitagora e dai loro discepoli (—> psyche), of­ frendo così una vita ulteriore felice dopo una vita infelice. M a solo il saggio può ottenerla, perché egli persegue il bene (agathon). A partire da que­ ste discussioni, la riflessione filosofica tenta di ri­ spondere a diversi interrogativi: il male ricevuto dall’uomo è gratuito, estraneo alla sua responsa­ bilità? Il male che fa è colpevole? Che cosa può dissuadere l’uomo dal commettere il male? Pitagora cerca di accordare la teologia e la m o­ rale, affermando sia la bontà della divinità sia la re­ sponsabilità dell’uomo: il Destino non invia del male agli uomini per bene, ma solo ai colpevoli che non possono che prendersela con se stessi (Versi aurei, 17-20,24-58; Giambico, Vita di Pitagora, 21, 8; Ierocle di Alessandria, Commentario al Carme aureo di Pitagora, 11, Aulo Gelilo, N otti attiche, VI, 2); Socrate, se si presta fede a Platone nel Pro­ tagora (345d-e), professa l’irresponsabilità di colui che è artefice del male; la sua azione è spiegabile solo tramite l’ignoranza: «Coloro che fanno il male (kaka) lo fanno loro malgrado», e anche (Gorgia, 361b): «Nessuno è volontariamente ingiusto». Tuttavia, non vi è alcuna eco di questa affermazio-

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kalon (to) / καλόν (τό), la bellezza. N eutro sostantivato di kalos, bello. Platone chiede al filosofo di elevarsi fino alla Bellezza in sé (auto to kalon, Repubblica, V, 476b); è Eros a guidarci (Simposio, 206e, 210a-212c). Plotino ha redatto un trattato Sulla Bellezza (I, VI), nel quale tratta in successione della bellezza dei cor­ pi, della Bellezza delle anime e della Bellezza eterna, che egli ci m ostrerà poi come identica al­ l’Intelletto (nous) (V, V ili, 3) e all’Essere (V, V ili, 9). Altra forma: kallos (to) / κάλλος (τό).

kakon (to) / κακόν (τό), il male; latino: malum\ plurale kaka (ta) / κακά (τά).

kakon

kategoria

ne in Senofonte, per quanto fosse uno zelante di­ scepolo di Socrate. Platone, che personalmente adotta la dottrina contraria, ci mostra come le ani­ me colpevoli vengano condannate dalla Giustizia divina (Fedone, 108b-c); ma egli non impiega il termine kakon. D ’altro canto, i pitagorici attribui­ scono l’esistenza del male al mondo sensibile, che essi chiamano l’incompiuto (apeiron) (Aristotele, Etica Nicomachea, II, VI, 14). Epicuro concorda con la teoria del Protagora quando afferma che nessuno sceglie il male, poiché tutti sono attirati dal bene (Sentenza n. 16). Per gli stoici, il male non esiste oggettivamente: poiché la Natura universale è perfetta, non c’è spazio per il male (Epitteto, Ma­ nuale, XXVII; Marco Aurelio, VI, 1; Cicerone, De natura deorum, II, 14). Soggettivamente, il male è un’apparenza (Epitteto, Manuale, 1,5; V); per Crisippo, sono gli uomini a essere colpevoli dei propri mali rifiutando di servirsi della loro ragione (Aulo Gellio, Notti attiche, VI, 2); per Marco Aurelio, il male in un certo modo esiste, ma ci è inviato dalla Provvidenza per esercitare le nostre virtù (IV, 49; V ili, 46). È la stessa opinione dell’accademico Bione di Boristene: «Il male consiste nel non saper sopportare il male» (D.L., IV, 48). Plotino svilup­ pa la teoria del male nel trattato Sull’origine dei mali (I, V ili). Il male è assenza di Bene: ora, è la materia a essere del tutto deficitaria di Bene, dun­ que il male è nella materia. Nell’uomo, è il corpo, in quanto partecipa della materia, ad essere per l’a­ nima l’origine del male. Così «noi non siamo all’o­ 116

rigine dei nostri mali [...] il male esiste prima di noi, possiede l’uomo suo malgrado» (Vili, 5).

katalepsis (he) / κατάληψις (ή), la comprensione. Per alcuni stoici (Crisippo, Antipatro, Apollodoro) questa rappresentazione evidente è il solo criterio di verità (D.L., VII, 54).

kataphasis (he) / κατάφασις (ή), l’affermazione. Logica. Proposizione affermativa: «dichiarazio­ ne che una cosa si rapporta a u n ’altra» (Aristo­ tele, Dell’interpretazione, VI).

kategorema (to) / κατηγόρημα (τό), il predicato. Termine della logica: ciò che si afferma di un soggetto. Nella proposizione (apophansis) «So­ crate è un uomo», uomo è il predicato (Aristote­ le, Categorie, IV).

kategoria (he) / κατηγορία (ή), la categoria; plurale kategoriai-, latino: praedicamentum, p lu ­ rale praedicamenta. Una delle modalità dell’essere, una maniera di essere dell’essere. Deriva dal verbo kategoreo, af117

kategoria

kategoria

fermo. Originariamente termine giuridico: kategoreo significa accusare, denunciare; la categoria è pertanto u n ’accusa: Aristotele ne fa un termine filosofico che sviluppa nelle Categorie, trattato giovanile di natura logica, divenuto poi il prim o libro dell 'Organon nel Corpus aristotelicum. Le categorie sono le nozioni più generali della filosofia (punto di vista logico, interno al soggetto pensante), sotto le quali si possono raggruppare gli oggetti della conoscenza (punto di vista m eta­ fisico, esterno al soggetto pensante). La categoria è dunque il risultato di uno sforzo della ragione teso a unificare in un concetto universale (astrat­ to) i molteplici aspetti del reale (concreto). Il primo sistema delle categorie fu stabilito da Aristotele e ripreso da Porfirio. In seguito Kant (“Analitica trascendentale” della Ragion pura), poi Hegel (Logica) stabilirono un proprio siste­ ma delle categorie. Ma, prima deH’impiego di questo term ine, possiamo ritenere che i cinque G eneri suprem i (—>genos), in Platone, costitui­ scano un insieme di categorie (Sofista, 247-259). Le categorie di Aristotele vogliono essere una lista esaustiva dei generi più generali dell’essere, nozioni irriducibili tra loro e irriducibili all’E s­ sere universale. In realtà, queste dieci categorie si riducono a due: la sostanza (ousia, l’essere in sé) e l’accidente (symbebekos, l’essere nelle sue modalità esteriori). I nove accidenti sono le spe­ cie di uno stesso genere; il loro elenco non è esaustivo e fu del resto aspram ente criticato da 118

Plotino nei prim i tre trattati della VI Enneade, Sui prim i generi dell’essere. C a t e g o r ie

di

A r is t o t e l e

greco 1. sostanza 2. qualità 3. quantità 4. relazione 5. agire 6. partire 7. luogo 8. tem po 9. avere 10. posizione

ousia / ουσία poion / ποιον poson / πόσον pros ti / πρός τι poiein / π οιεΐν paschein / πάσχειν pou / ποΰ potè / πότε echein / έχ ε ιν cheisthai / χ εϊσ θ α ι

latino substantia qualitas quantitas relatio actio passio ubi tempus habitus situs

Nel III secolo d.C., Porfirio, neopitagorico, discepolo di Plotino e curatore delle Enneadi, tentò di rinnovare il sistema delle categorie nel suo Isagoge / Εισαγωγή, ossia «introduzione» alle Categorie di Aristotele. L’opera fu tradotta in latino da Boezio. Le nozioni questa volta so­ no ridotte a cinque, esclusivamente logiche7 che 7 Nei Topici (I, 5), Aristotele, dopo aver richiamato le dieci categorie, enumera come predicabili, cioè capaci di essere attribuiti a un soggetto, la definizione, il proprio, il genere e l’accidente. Come prima categoria rimpiazza la sostanza con l’essenza, ti esti / τί έστί.

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kategoroumenon

katholou

egli chiama voci (phonai) e che in realtà sono dei predicabili (kategoroumena). -

genere genos / γένος genus specie eidos / είδος species differenza heteroion / έτεροίον differentia proprio idion / 'ίδιον proprium accidente symbebekos / συμβεβηκός accidens

kath’hekaston / καθ έκαστον, l’individuale. L’opposto di katholou, l’universale (Aristotele, Όeli’interpretazione, VII; Metafisica, Z, 10, 13).

katholou (to) / καθόλου (τό), l’universale, il ge­ nerale; latino: universum.

Da katharos, puro. Metodo di distacco progressi­ vo dai sensi per vivere secondo il pensiero. Era già l’obiettivo degli orfici, adottato dai pitagorici; Em ­ pedocle scrisse un libro sulle Turificazioni (katharmoi), nel quale riporta testualmente un verso di Pi­ tagora (Versi aurei, 71). Per Platone la katharsis è un lungo esercizio di ascesi per liberarsi dal corpo, esigenza propria della filosofia (Fedone, (sic).

Q uesta parola è un avverbio, usato in senso so­ stantivato da Aristotele. Deriva da —» holon, l’u ­ niverso. E una contrazione di kata holou (geniti­ vo): «quanto all’universo», «riferendosi al tu t­ to». E opposto a to kath’hekaston / τό καθ έκ α ­ στον, il singolare. Nel trattato Dell’interpretazione Aristotele precisa questi termini. «Definisco universale ciò la cui la natura è di essere affermato da diversi soggetti, e singolare ciò che non può esserlo. Ad esempio, uomo è una parola universale, e Callias una parola individuale» (VII). Aristotele rende a Socrate l ’onore di aver per prim o impiegato la nozione di universale (katholou) (Metafisica, M, 4). Egli ritorna su questo argomento nella Metafisica (Z, 10 e 13), dove dimostra come l’universale non sia una so­ stanza. Solo gli individui sono sostanze: il tal uo­ mo, il tal cavallo. M a l’universale (l’uomo, il ca­ vallo) non può essere che un predicato: «Socra­ te è un uomo». «La sostanza di un individuo gli è propria e non appartiene a nessun altro; l’uni-

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121

kategoroumenon (to) / κατηγορούμενον (τό), il predicabile. Classe di concetti su cui si fonda il ragionam en­ to. Nei Topici (I, 4-5), Aristotele designa come predicabili: la definizione (horos), il genere (ge­ nos), il proprio (idion) e l’accidente (symbe­ bekos). Nell’Iwgogé’ (Porfirio) ne indica cinque —> kategoria, genos.

katharsis (he) / κάθαρσις (ή), la purificazione.

kenon

kenon

versale, invece, è qualcosa di com une.» Si giun­ ge così all’universale, come oggetto della scien­ za: gli individui non hanno né definizione, né di­ mostrazione; non sono altro che oggetto di opi­ nione; è invece perm anente ciò che appartiene a un genere definito; solo questo è quindi oggetto di scienza (Z, 15, 1039b).

kenon (to) / κενόν (τό), il vuoto; latino: va­ cuimi. N eutro sostantivato dell’aggettivo kenos / κ ε ­ νός, vuoto. Frattura nella continuità della m ateria (punto di vista fisico) o nella pienezza dell’Essere (pun­ to di vista metafisico). Il vuoto è considerato dai greci in due m odi diversi: o come fattore d ’imperfezione, che m et­ te in discussione la totalità e la perfezione del reale (scuola eleatica); o come fattore di arm o­ nia, che perm ette la differenziazione, la com ple­ m entarietà e il movimento dei diversi elementi del reale. Riguardo al problem a dell’esistenza del vuoto interno al m ondo sensibile vi sono due risposte: esso esiste (gli atomisti: Leucippo, Democrito, Epicuro); esso non esiste (Parm eni­ de, Platone, Aristotele). Per i pitagorici il vuoto è esterno al kosmos-, infatti, essendo questo un grande Vivente, ha bi­ sogno di respirare, e compie questa funzione 122

grazie al vuoto che lo avvolge (Aezio, II, IX, 1; Pseudo Plutarco, Epitome, II, 9; Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, I, XVIII, 4). P er essi, il vuoto è anche interno al num ero, poiché separa le unità (Aristotele, Fisica, IV, 6). Per Parm enide e i suoi discepoli, il vuoto è impossibile, poiché è un non-essere e, per definizione, il non-essere non esiste (—» on); «il vuoto» dice Zenone «non esiste» (D.L., IX, 29). Dal punto di vista cosmi­ co, Melisso riassume con una bella form ula que­ sta posizione: «Nulla è vuoto poiché il vuoto è nulla»: «keneon%estin ouden, to gar keneon ouden estin / κενεόν έσ τίν ούδεν, τό γάρ κενεόν ούδέν έστίν (Aristotele, Fisica, IV, 6; Simplicio, Fisica, III, 18). Contro gli eleati si ergono gli atomisti (Leucippo, Dem ocrito) per i quali il vuoto è necessario alla composizione della ma­ teria: è il luogo in cui si spostano e si incontrano gli atomi (Aristotele, Fisica, I, 5; IV, 6; Nascita e morte, I, 8; Metafisica, A, 14; Γ, 5 ecc.; Teofrasto, Sul fuoco, 55-56). Platone esclude il vuoto con u n ’affermazione drastica: «Il vuoto non esi­ ste» {Timeo, 79b-c). Aristotele impiega spesso il term ine kenon per m enzionare le dottrine di Parm enide, Leucippo, Democrito. Egli affronta il problem a nel libro IV della Fisica (6-9) e con­ clude, come Platone, che il vuoto non esiste, ciò che riteniamo tale è in realtà un corpo molto te-8 8 Dorico al posto di kenon, dialetto attico, che diverrà in seguito greco comune.

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kinesis

kinoun

nue (Il cielo, I, 9). Epicuro, discepolo di D em o­ crito, insegna l’esistenza necessaria del vuoto (Lettera a Erodoto, D.L., 40-46, 67).

kinesis (he) / κίνησις (ή), il movimento, il cam­ biamento; latino: motus.

kineton (to) / κινητόν (τό) e kinoumenon / κινούμενον (τό), il mobile, l’essere mosso; latino: mobile.

kinoun (to) / κινοϋν (τό), il motore, l’essere che muove; latino: movens. Questi quattro term ini derivano dal verbo kino / κινώ (= κινέω), muovo; kineton ne è l’aggettivo verbale, kinoumenon il participio passivo e k i­ noun il participio attivo (neutro). La parola kine­ sis, che ha come significato originario “movi­ m ento”, con Platone assume il significato metafi­ sico di “cam biam ento”, e in seguito mantiene i due significati. I traduttori, basandosi sul latino, usano lo stesso term ine per entram bi i significati. Aristotele si sforza di distinguere le diverse specie di movimento, ma non è in accordo con se stesso nei vari testi. Nelle Categorie (XIV), dove dedica un cenno al movimento, che qui in­ tende come cambiam ento, ne conta sei: 124

-

la generazione: genesis / γένεσ ις la corruzione: phthora / φθορά la crescita: auxesis / αύξησις la diminuzione: phthisis / φθίσις l’alterazione: alloiosis / άλλοίωσις il cambiam ento locale: phora / φορά.

Nell 'Anim a (I, 3) se ne contano solo quattro, e appaiono soppressi la crescita e la diminuzione. Infine, nella Fisica (V, 1-2), egli opera una nuova classificazione in base a quattro categorie: so­ stanza, quantità, qualità, luogo; e distingue da una parte il movimento che tocca la sostanza (ousia), di ordine metafisico (generazione e cor­ ruzione), e che preferisce chiamare cam biam en­ to (metabolé)·, e altri tre tipi di movim ento che sono più specificamente fisici: - secondo la qualità: alterazione, alloiosis - secondo la quantità: crescita e diminuzione - secondo il luogo: la traslazione, phora. In realtà, occorre ridurre il movimento a due grandi forme: il movimento propriamente detto, fisico; e il cambiamento, modificazione metafisica. • Significato fisico, a) Meccanico: l’ordine del m ondo. Filolao distingue due tipi di esseri: quelli che sono eternam ente imm utabili, e quelli che sono eternam ente in m utam ento, questi ultimi sottoposti al principio del movi­ m ento, che si effettua eternam ente secondo una rivoluzione circolare. I prim i sono i motori 125

kinoun

kinoun

dei secondi (Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, XX, 2). Platone constata che non esiste m obile senza m otore, né m otore senza m obile (Timeo, 57c); ma utilizza una term inologia dif­ ferente da quella che verrà poi adottata da A ri­ stotele, e che diverrà quella classica; qui, il m o­ bile è kinesomenon / κινησόμενον e il m otore kineson / κινήσον. Aristotele si sofferma am ­ piam ente nella Fisica sui problem i del m ovi­ mento. Nel libro III fornisce una definizione: «Il movim ento è il passaggio all’atto (entelecheta) di ciò che è allo stato di potenza (dynam is)» (III, 1, 201a); in un altro m odo, esso è «l’atto del m otore su un mobile» (ivi, III, 2-3). N el libro V ili si lancia nell’analisi del m ovi­ m ento e vi trova cinque elementi: ciò che m uo­ ve all’origine, il prim o m otore (to kinoun proton / το Ktvoùv πρώτον); il m obile (kimoumenon), il tem po nel quale si compie il m ovim en­ to; il term ine iniziale (l’«a partire da cui»: ex ou / έξ ού) e il term ine finale («ciò verso cui»: eis ho / είς ó) (V, 1). Epicuro utilizza am piam ente il term ine kinesis, soprattutto nel tentativo di spiegare il m ovim ento della terra e degli altri astri (D.L., X, 106, 111, 113, 115...). Plotino ha dedicato un trattato al M ovim ento circolare (II, II), che è il m ovim ento sia delle realtà sensibili sia dell’anima che li anima. b) Biologico. Nell 'Anima (III, 9-10) Aristotele analizza la facoltà motoria, in particolare l’azione dell’anima sensitiva sul movimento del corpo.

• Significato metafisico. Sem bra proprio che sia questo il significato che Pitagora dava a k i­ nesis quando la definiva «una differenza o una dissimiglianza nella m ateria in quanto m ate­ ria» (Aezio, I, X X III, 1); egli del resto com ­ prendeva il m ovim ento nella categoria dell’incom piuto (apeiron) e dunque dell’im perfezio­ ne, diversam ente dal riposo, che appartiene a quella del com piuto o perfetto (Aristotele, Metafisica, I, 5). P latone riprende questi due principi nel Sofista (254-255b), per farne due dei cinque «generi suprem i» che perm ettono di afferm are che vi è un non-essere (alterità) che si oppone all’Essere. Egli afferma l ’im ­ m ortalità dell’anim a m ostrando come questa sia autom otoria (autokineton / αύτοκίνητον). A ristotele ritorna nella Metafisica sull’analisi del m ovim ento. Q ui riprende la definizione del m ovim ento com e attuazione della potenza (K, 9) ma poi preferisce, per parlare dei cam ­ biam enti che si operano nei corpi, im piegare il term ine metabole (K, 11). • Esistenza del movimento. Sesto Em pirico riassume le varie dottrine in poche parole: le persone comuni e qualche filosofo affermano questa esistenza. Parm enide, Melisso e alcuni al­ tri la negano. Gli scettici affermano che una di queste posizioni non è più vera dell’altra (Ipotiposi, III, X, 65).

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krisis

koinonia

koinonia (h e )/ κοινωνία (ή), la comunità, la so­ cietà. Platone associa questo term ine a quello di città (polis) (Repubblica, II, 3, 37 lb). Aristotele ne di­ stingue due, la famiglia e la città, entram be tese al bene comune (Politica, 1,1, 1).

koinos / κοινός, comune; latino: communis. Al femminile ha originato il latino coma·, la cena, il pasto comune.

kosmos (ho) / κόσμος (ó), il mondo; latino: mundus. Il m ondo, insieme di realtà che cadono sotto i nostri sensi (—» pan, holon). Originariamente, il sostantivo kosmos era un termine astratto, che significava ordine, armonia, saggia organizzazione. Fu Pitagora, si dice, che, constatando l’ordine e l’armonia del Tutto, gli diede il nome di kosmos, che è rimasto, ma che in seguito mantenne un significato filosofico, a uso degli specialisti. Nei D etti memorabili (I, I, 10), Socrate dichiara di non cercare di sapere «come è nato quello che i filosofi chiamano il kosmos». Tuttavia ritroviamo il termine già in Talete (D.L., I, 35) a detta di Diogene Laerzio; ma è probabile che ne sostituisse un altro, come pan 128

0 holon. Appare in Diogene d ’Apollonia (fr. 2), ma probabilm ente con il significato di ordine, in Eraclito (frr. 30, 75, 121), in M arco Aurelio (II, 4; VII, 9), in Epicuro (Lettera a Erodoto, D.L., X, 45), che preferisce pan, in Erm ete Trismegisto (Poimandres). In Platone troviamo u n ’opposizione sistemati­ ca tra due mondi: il m ondo sensibile (aisthetos / αισθητός) e il m ondo intelligibile (noetos / νοη­ τός). Egli non ama abitualmente tuttavia attribui­ re a quest’ultimo la denominazione di kosmos, preferendogli quella di topos / τόπος, il luogo (Repubblica, VI, 509d). Lo stesso in Plotino (III, III, 2, V, V, 4; IX, 13 ecc.). Platone definisce il ko­ smos «un vivente visibile che avvolge tutti i viven­ ti visibili, un dio sensibile formato a somiglianza del dio intelligibile, molto grande, molto buono, molto bello e molto perfetto» (Timeo, 92c). Aristotele impiega di rado il termine, prefe­ rendogli holon. Ma giustappone (Fisica, V ili, 2) 1 term ini di: - megas kosmos / μέγας κόσμος: il m acroco­ smo, cioè l’universo; - mikros kosmos / μικρός κόσμος: il m icroco­ smo, cioè l’organismo.

krisis (he) / κρίσις (ή), il giudizio. Elemento essenziale al ragionamento, si enuncia tram ite la proposizione (apophansis), ed è stu129

kyriotaton diato specificamente da Aristotele Dell’interpre­ tazione.

L

kyriotaton (to) / κυριοτατόν (τό), il Sommo Bene. logos (to) / λόγος (ό), la ragione; latino: ratio. Sinonimo di ariston nella Politico, di Aristotele La ragione, facoltà intellettiva dell’uomo, consi­ derata come suo carattere specifico, e tutte le forme della sua attività. Il prim o significato di logos (dal verbo legein / λέγειν, parlare) è parola, linguaggio. O ra, il lin­ guaggio è espressione del pensiero. Il capitolo IV del trattato aristotelico D ell’interpretazione parla del discorso: logos. In realtà, la parola lo­ gos possiede un significato pieno di sfumature, che possiamo suddividere in: - la facoltà m entale superiore, sinonimo d ’in ­ telligenza concettuale e raziocinante (—> nous). - il ragionamento; - il concetto.

( 1 , 1 , 1 ).

• Facoltà. Questo significato è usato fin dalle ori­ gini. Pitagora suddivide l’anima umana in due parti: una è dotata di ragione, l’altra ne è priva. La prim a è incorruttibile (Aezio, IV, IV, 1; V, 10, 1). Stessa distinzione in Aristotele {Etica Nicomachea, VI, I, 5), che spiega che è il logos che cono­ sce l’universale (katholou), oggetto della scienza {Fisica, I, 5). Platone divide l’anima in tre parti, 130

131

logos

lype

ossia in tre facoltà fondamentali: la ragione {lo­ gos), il cuore, la sensibilità (Repubblica, IV, 439a4 4 le). Altra allusione nel Timeo (89d-e), in cui si afferma che il logos è la parte migliore, e che deve dirigere le altre; è questa la parte che soprawiverà dopo la nostra m orte (Fedone, 66e). Per Eraclito il logos è essenzialmente la ragione universale, una sorta di anima del mondo; vi è un Logos che governa l’universo (fr. 72), eterno e in­ comprensibile (fr. 1): la sapienza consiste nel conformarvisi (fr. 50) grazie alla ragione che è in nostro potere (fr. 115), e che abbiamo in comune (fr. 2). La dottrina degli stoici è la stessa, anche se più elaborata; la Natura universale è Ragione o, per meglio dire, la ragione è il principio immanente e direttivo della Natura (D.L., V ili, 88; Cicerone, De natura deorum, II, 5; Marco Aurelio, VI, 5); e la fi­ losofia consiste nel mantenere retta la propria ra­ gione in armonia con la Ragione universale (Epitteto, Dissertazioni, IV, V ili, 12). Anche Plotino ama invocare una Ragione universale (Logos tou pantos / Λόγος του πόντος) (II, III, 13; III, III, 1). • Ragionamento. Melisso chiama maggiore un argomento {logos) che gli sembra convincente (Simplicio, Il cielo, 558). Platone invoca un argo­ m ento {logos) in favore della vita eterna {Fedone, 63a), Aristotele per l’esistenza del luogo (Fisica, IV, 1) o per i contrari (Fisica, I, 3), o anche per la natura del movimento {ILAnim a, I, 3 ) ecc. • Concetto, nozione. Significato frequente in Aristotele. Egli form ula la nozione di anima

{DAnima, III, 3), dell’agire e del patire {Fisica, III, 3), della sostanza {Metafisica, A, 3), della na­ tura delle differenze {Metafisica, H , 2) e defini­ sce ciò che è una falsa nozione {pseudos logos) {Metafisica, A, 29). Q uesto significato diviene molteplice nei Topici. Talora in Plotino vi è nel­ l’Intelletto «un logos dell’occhio e un logos del­ la mano» (V, IX, 7).

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Derivati: - logikos, che appartiene alla ragione, logica. Le opere di logica di Aristotele non hanno que­ sto titolo, che appare più tardi con questo signi­ ficato preciso, probabilm ente con gli stoici. Al neutro, logikon, l’anima razionale (Aezio, Su Pi­ tagora, IV, V, 10); - logismos: il ragionamento; - logistikon·. che riguarda il grado inferiore della ragione (in Aristotele) (—> arete).

lype (he) / λύπη (ή), il dispiacere, la tristezza. Una delle quattro principali passioni {pathos) per gli stoici (D.L., VII, 111) «Fuggi la tristez­ za!» (Periandro, Sentenze, 56).

metabole

Μ

mathesis (he) / μάθησις (ή), lo studio.

makariotes (he) / μακαριότης (ή), la felicità, la beatitudine.

Senofonte sostiene che Socrate incoraggiava i suoi allievi allo studio (D etti memorabili, IV, I, 3). Platone traccia un program m a di studi per la formazione della gioventù (Leggi, 804b-c). F o r­ ma verbale, to mathein / xò μαθεΐν (Epitteto, Dissertazioni, II, IX, 13).

Sinonimo di —> eudaimonia. me on / μή óv, il non-essere; latino: nihil, nihilum. mania (he) / μανία (ή), il delirio. Per Platone è un dono divino che trasporta le anime verso le Realtà eterne. Nel M enone (98clOOb) dà nom e alla profezia, alla divinazione, al­ la poesia, alla direzione carismatica dello Stato. Nel Vedrò (244a-251a) è la profezia, la preghiera la poesia e l’amore (eros).

mathema (to) / μάθημα (τό), il sapere.

Termine inaugurato da Parm enide, e in seguito confrontato da Gorgia, Platone e Aristotele con la nozione di essere —» on / òv. Troviamo anche ouk on / ούκ òv.

metabole (he) / μεταβολή (ή), il cambiamento; latino: mutatio.

Program m a degli insegnam enti (Platone, R e­ pubblica, VII, 534e). Platone esalta il sapere che conduce alla Bellezza (Simposio, 2 Ile ). Al p lu ­ rale, mathemata o mathematica, la m atematica (Aristotele, Fisica, II, 2, 79; III, 4; Metafisica, M, 3).

In origine, termine non filosofico. Dalla radice ballo / βάλλω, lancio, getto; metaballo / μετα­ βάλλω, sposto, trasformo; metabole è un cam­ biam ento, una trasformazione. In filosofia, la metabole distingue l’essere sen­ sibile, destinato al cambiamento, dall’essere in­ telligibile, perpetuam ente lo stesso. Nella fisio­ logia m oderna il metabolismo è l’insieme di tra ­ sformazioni energetiche dell’organismo.

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135

methexis

metaphisica

Eraclito constata come non sia possibile toccare due volte lo stesso corpo a causa del cambiamen­ to (fr. 91). Platone impiega questa parola solo in­ cidentalmente; Aristotele, invece, compone un vero trattato sul cambiamento (Metafisica, Z, 7-9). Il cambiamento è di due tipi: da un lato la genera­ zione {genesis) e la corruzione (phthora), che sono la venuta all’essere e l’uscita dall’essere; dall’altro il movimento (—> kinesis), che comprende a sua volta tre sottospecie: la crescita (auxesis) e la dimi­ nuzione (phtisis), l’alterazione (alloiosis) e infine la traslazione (phora). Aristotele riprende rapida­ mente l’analisi del fenomeno nel libro K (11-12). Non vi è cambiamento negli esseri celesti [Il cielo, I, 9). Gli stoici non si soffermano molto su questo tema; Marco Aurelio parla solo della trasforma­ zione personale: la morte trasformerà il mio essere in una parte dell’universo (V, 13; IX, 35).

metaphisica (ta) / μεταφυσικά (τά), la metafìsi­ ca; plurale neutro di metaphysikos; latino: metaphysica. Il term ine non è mai usato dagli autori greci, poiché proviene dal filosofo arabo Averroè (XII secolo). E la contrazione di meta ta physica / με­ τά τά φυσικά, «ciò che viene dopo la Fisica»9 (di 9 Anche physica / φυσικά è un aggettivo plurale neutro, sottinteso «i libri».

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Aristotele), denominazione data da Andronico di Rodi nel I secolo a.C. alle varie opere di filo­ sofia prim a di Aristotele, nella prim a edizione del Corpus aristotelicum, o insieme delle opere che ci sono rimaste di Aristotele tra le m olte an­ date perdute.

metaxy (to) / μεταξύ (τό), il mezzo, l’interme­ dio; latino: medium. Avverbio sostantivato sinonimo di meson / μέ­ σον. Platone assegna al term ine un significato m e­ tafisico: tutto ciò che è interm edio tra l’Essere e il non-essere, ed è oggetto d ’opinione [doxa) CRepubblica, V, 477a-479d); Aristotele gli dà un senso logico: non esiste un term ine medio tra i contraddittori (Metafisica, Γ, 7).

methexis (he) / μέθεξις (ή), la partecipazione. Usualmente il termine ha un significato pratico: si partecipa a una guerra, a un banchetto, si rice­ ve la propria parte di eredità. Deriva dal verbo echein / έχειν, avere, e dalla preposizione meta / μετά, con. Assume un significato metafisico con Platone. Secondo questo significato metafisico, il m on­ do sensibile partecipa del M ondo intelligibile in 137

mimema

monas

quanto ne è l’effetto e la copia: le Essenze (eide), che sono le Realtà perfette, assolute ed eterne, sono infatti la causa (aitia) e il modello (paradeigma) di ciò che è sensibile, im perfetto, relati­ vo e tem porale (—> eikon).

mneme (he) / μνήμη (ή), la memoria.

La fonte dell’esistenza degli esseri temporali, per Platone, è la methexis. «Non conosco altri modi di pervenire all’essere, per ogni essere, se non partecipare di ogni Essenza propria di quella da­ ta idea di cui partecipa» (Fedone, lOlc). Il M on­ do intelligibile, fondam ento di tutto il reale, è servito come modello per il Demiurgo per creare un altro m ondo che avesse la sua stessa essenza (Timeo, 28a-b). Plotino riprende questo termine e questo significato restando fedele a Platone (III, VI, 11, 12, 14; VI, IV, 12-13). Troviamo già il verbo metechein in Diogene di Apollonia (fr. 39), che assicura che ogni cosa partecipa dell’a­ ria (aer), il prim o Principio (arche). Attenzione: si partecipa a qualcosa portando il proprio contributo e si partecipa di qualcosa ri­ cevendo la propria parte. O ccorre dunque dire che il m ondo sensibile partecipa del m ondo intellegibile.

monas (he) / μονός (ή), la monade; genitivo monados-, latino: unitas.

mimema (to) / μίμημα (τό), l’immagine -> eikon.

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È la facoltà di apprendere (Aristotele, M etafisi­ ca, A, 19). Sinonimo: mnemosyne.

L’unità aritmetica. In metafisica, l’Uno, Princi­ pio primo. La radice mon- si trova innanzitutto in monos / μόνος, solo, unico. Un derivato tardo è il term ine monismo, la dottrina secondo la quale non esiste che una sola Realtà. Il termine, nel suo significato metafisico, è specificamente pitagorico. Compare, incidental­ mente, in Platone, Plotino e Proclo. La m onade pitagorica è da un lato, in aritmologia, l’unità da cui procede il num ero (compare nel Trattato di aritmetica di Aristosseno) e, in metafisica, il Principio da cui derivano tutte le altre realtà (D.L., V ili, 25). Essa è sia Dio sia il Bene (Aezio, I, VII, 18). La M onade perfetta è definita peras / πέρας, il com piuto, il determ ina­ to, essa genera la diade dyas / δυάς che, in quan­ to derivata, è l’incom piuto e l’indeterm inato, fonte di errore e di male (D.L., V ili, 25; Aezio, I, V ili, 18; Aristotele, Metafisica, I, 5). Trovia­ mo questa nozione di M onade origine e Princi­ pio degli esseri anche in Proclo (Teologia, 21). 139

morphe morphe (he) / μορφή (ή), la forma.

N

Sinonimo ristretto di eidos. Termine impiegato soprattutto da Aristotele in senso metafisico: «La sostanza è composta di materia e di forma» (.Metafisica, H , 3; Fisica, I, 9, II, 1). M a la form u­ la hyle + morphe non è esclusiva: troviamo anche hyle + eidos (Fisica, X, II, 2; L!Anima, III, 2 ecc.). Per Archita la forma (morphe) è «la causa del­ l’Essere», e la sostanza (ousia) è il substrato che riceve la forma (Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, 1 ,35).

noesis (he) / νόησις (ή), il pensiero; latino: intellectus.

mythos (ο) / μύθος (ό), il mito. Narrazione religiosa ricca di immagini trasm es­ sa attraverso una tradizione anonima. Socrate, nella sua prigione, affermava che occorre «ri­ correre ai miti e non ai ragionamenti» (Fedone, 61b). Da distinguere dall’allegoria, il cui autore è un individuo conosciuto («la caverna» in Pla­ tone —» spelaion).

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Il term ine designa in modo più preciso la ragio­ ne intuitiva, quella che contem pla direttam ente l’intelligibile, il noeton / νοητόν. Prima del sistema platonico, il term ine desi­ gnava il pensiero in generale. In Parm enide (fr. 2) è quello dell’Essere e del non-essere; nel m ate­ rialismo di Diogene di Apollonia è l ’intelligenza in generale alimentata dall’aria che respiriamo. La noesis assume un suo preciso significato nel­ la Repubblica di Platone. Essa costituisce il se­ condo stadio della scienza, ossia il vertice della conoscenza al quale perviene il sapiente al ter­ mine della dialettica (—> dialektike) (Repub­ blica, 509d-51 le; 534a). Il term ine acquista tutta la sua importanza con Aristotele, che fa della noesis l’atto stesso per il quale Dio è Dio. Infatti, l ’intelligenza inous) dell’Essere eterno, che è il Bene in sé, perfettam ente desiderabile, può essere in atto solo incontrando il proprio specifico oggetto; ora, quest’oggetto è necessariamente se stesso, 141

nomos

nomos

ed è questa noesis, pensiero perfetto, che pensa se stesso; atto intellettivo puro, è l’esistenza stes­ sa di Dio (Metafisica, A, 7, 1072 a-b). Dio è così Pensiero di Pensiero (noesis noeseos / νόησις νοήσεως, ivi, Λ, 9 , 1074b). Troviamo ancora il term ine in Plotino, ma in­ cidentalm ente come molti altri. Così anche in Ermete Trismegisto (IX) che attua un confronto tra noesis e aisthesis.

nomos (ho) / νόμος (ό), la legge; latino: lex. La legge, iniziativa dell’uomo, si oppone alla na­ tura. Infatti, per gli autori greci la legge non è l’effetto di una causa universale e necessaria dei fenomeni naturali, m a quella di una regola so­ ciale posta dai governanti. Tuttavia, diversi autori affermano che prim a delle leggi dello Stato, che sono più o m eno con­ venzionali, ci sono leggi non scritte (agraphoi nomoi / άγραφοι νόμοι) che sono eterne, e che devono servire come riferimento alla volontà umana. E il caso di Socrate, nei D etti memorabi­ li di Senofonte (IV, 4). Sono queste leggi che in ­ vocava l’Antigone di Sofocle contro le decisioni di Creonte (V, 453-455) e che vengono accenna­ te da Aristotele nella Politica (VI, 5). L’opposizione tra natura e legge com pare nel sofista Antifonte, che accusa la legge di im pri­ gionare la natura (Gernet, fr. 4) ed è esposta in 142

modo più approfondito da Aristotele nell’Etica Nicomachea (V, 7). Q ui egli distingue due tipi di diritto: il diritto naturale (physicon / φυσικόν) è «quello che, in ogni luogo, ha lo stesso potere e non dipende dall’opinione», diversamente dal diritto legale (nomikon / νομικόν), che dipende dallo Stato. Nella Retorica (I, X, 1), egli defini­ sce la legge scritta particolare (idios / ίδιος) e quella non scritta comune (koinos / κοινός). Troviamo già questa nozione di legge non scritta nel trattato pitagorico Della legge e della giusti­ zia, attribuito ad Archita. Il dossografo G iovan­ ni Stobeo (V secolo d.C.) ne ha conservato alcu­ ni passi: «Alle leggi dei malvagi e degli atei si oppongono le leggi non scritte degli dèi [...] O c­ corre che la legge sia conforme alla natura». Per natura qui occorre intendere non la natura sen­ sibile, l’universo, m a la natura umana, che è in­ variabile. Q uest’opera sarebbe così la prim a a porre i fondam enti della legge naturale, inten­ dendo questo term ine in senso sia morale sia politico. Un pitagorico contem poraneo, Ocello Lucano, avrebbe scritto un trattato Della legge, Peri nomo / Π ερί νόμω.10 Altri due antichi pitagorici, Zaleuco e Carondas, celebrati da D iodoro e da Aristosseno, han­ no scritto un 'Introduzione alle Leggi / Prooimia 10 Per nomou / νόμου; genitivo dorico, dialetto nel qua­ le scrivevano i primi pitagorici.

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nous

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nomon, per la costituzione delle loro città in M agna Grecia. Ma il più celebre trattato sulle Leggi, in dieci libri, fu scritto da Platone duran­ te la vecchiaia. Aristotele considera le leggi co­ me delle precisazioni della costituzione; le defi­ nisce: «Le regole che stabiliscono come i magi­ strati debbano governare» (Politica, IV, I, 9-10). Queste nozioni di legge naturale e legge divi­ na sono negate dai sofisti, per i quali ogni legge è arbitraria e non ha come fine che l’utilità. E la tesi esposta da Ippia nei D etti memorabili (IV, IV, 4), da C allide nel Gorgia (482), da Trasima­ co nella Repubblica (II, 358e-359b). E più tardi dagli scettici: Pirrone, Timone, Enesidemo (D.L., IX, 101). Demofilo impiega il term ine nomos theios, legge divina (Sim ilitudini, 29, in Stobeo, Antologia, II, 28). Locuzione: nomo peithou / νόμω πείθου: os­ serva la legge! (Pitacco, Sentenze, 15; Sosiade, Precetti, 2; in Stobeo, Antologia, III, 809).

pensiero. Il linguaggio filosofico ricorre a diver­ si derivati: noesis / νόησις, la ragione contem plativa (—>); noeros / νοερός, intellettivo; noema / νόημα, il pensiero, term ine arcaico usato da Parmenide; noeton / νόητον, ciò che è pensato. Platone e Plotino lo usano al plurale: noeta / νόητα; noein (verbo) / νοειν, l’atto del pensare. Lo si trova in Parm enide, Platone, Aristotele, Plotino; ennoia / έννοια, il pensiero (intellettuale). Usato da Platone e da Epitteto; dianoia / διάνοια, conoscenza discorsiva (—>); epinoia / έπίνοια , il pensiero per Pitagora; eunoia / εύνοια, la benevolenza per Aristotele; pronoia / πρόνοια, la Provvidenza divina, spe­ cificamente per gli stoici; hyponoia / υπόνοια, la congettura per Marco Aurelio; agnoia / άγνοια, l’ignoranza.

Il termine ha due livelli di significato: - sostanza; - facoltà mentale. Q uesta forma, usuale presso i filosofi classici, è la contrazione di no-os (νόος), che ritroviamo nel dialetto ionico, e dove la radice no indica il

Troviamo il termine nous impiegato fin dalle ori­ gini in senso sia metafisico sia psicologico. Dioge­ ne Laerzio (I, 35) cita un aforisma di Talete: «Di tutti gli esseri [...] il più rapido è l’Intelligenza (νους), poiché corre dappertutto». La parola può essere intesa nei due sensi. Allo stesso modo Pita­ gora impiega di volta in volta i due significati. «La Monade» dice «che è Dio e Bene, è l’Intelletto stesso» (Aezio, I, VII, 18). Si tratta dunque di una realtà sostanziale. M a altrove: «La nostra anima è

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nous (ho) / νους (ò), l’intelletto, l’intelligenza; latino: spiritus, intellectus.Il

nous

nous

formata dalla tetrade, ossia: l’intelligenza {nous), la scienza, l’opinione, la sensazione» (ivi, I, III, 8). Q ui si tratta proprio di una facoltà mentale. È Anassagora che assegna al nous tutta la sua importanza metafisica. Egli pone, come eterne, due realtà, l’una materiale, il caos (apeiron), l’altra spirituale, l’Intelligenza {nous). Il Nous quale p o ­ tenza attiva organizza il caos, potenza passiva, e crea il m ondo (D.L., II, 6). Così PIndeterminato è potenza {dynamis / δύναμις) (Aristotele, Metafisi­ ca, Γ, 4) mentre l’Intelligenza è atto {energeia / ένέργεια) (ivi, A, 6). «L’Intelligenza» scrive Anas­ sagora «è eterno (fr. 14), autonoma {autokrates / αύτοκρατής), esiste separatamente (μόνος) e non è mescolata a nulla» (fr. 12; Aristotele, Metafisica, A, 8). È l’Intelligenza che procede alla separazio­ ne degli elementi mescolati (fr. 13), così «essa è il Principio primo di tutte le cose», è «la causa della bellezza e dell’ordine» (Aristotele, IdAnima, I, 2). Eraclito tratta il nous come una facoltà m enta­ le: «Coloro che parlano con intelletto» (fr. 114); «l’erudizione non è segno di intelletto» (fr. 40). Allo stesso m odo Parmenide impiega il nous nel senso del pensiero (fr.,XVI) ed Em pedocle come intelligenza (fr. II, 8; fr. Ili, 13). E anche Platone: «L’uomo di senno» {Fedone, 62e); la Realtà tra ­ scendente è conoscibile attraverso la sola intelli­ genza spirituale, no (dativo). Aristotele assegna successivamente al nous i due significati. Significato psicologico nell’Anima, in cui porta un nuovo elemento. Egli spiega la co­

noscenza tramite una doppia intelligenza: da un lato, l’intelletto passivo {pathetikos / παθητικός), detto a volte, in base al latino, «intelletto pazien­ te» che è «come una tavoletta per scrivere sulla quale nulla sia stato ancora scritto» (III, 4); dal­ l’altro, l’intelletto attivo {poietikos / πονηττκός), detto talora «agente», «principio causale» che produce la conoscenza, che scrive sulla tavoletta. Ora, mentre l’intelletto passivo è corruttibile, as­ sociato alla decadenza del corpo, l’intelletto attivo è «separato», slegato dal corpo; «è senza mesco­ lanza, impassibile» e così «immortale ed eterno» (III, 5). Il significato metafisico compare nella M e­ tafisica: Dio è l’Intelligenza stessa; è dunque lo Spirito, realtà prima e perfetta; il Nous appare qui come la più divina delle realtà; è l’Atto stesso del pensare {Metafisica, A, 9) (—» noesis). Aristotele oppone inoltre l’intelletto speculativo {nous dianoetikos o noetikos), che si applica agli oggetti mentali, all’intelletto pratico {nous praktikos), che si applica alle realtà sensibili {L’Anima, III, 7). Plotino segue Aristotele. Da una parte psicolo­ gicamente: «Vi è da un lato l’intelletto raziocinan­ te {logizomenos), e dall’altro quello che possiede i principi del ragionamento. Questa facoltà di ra­ gionare non necessita di un organo corporeo [...] essa è separata e non mescolata con il corpo» (V, I, 10). Dall’altra parte metafisicamente, il posto del Nous è abbastanza relativo: esso è la seconda delle ipostasi che costituiscono la realtà prima. La prima ipostasi, Principio assoluto e primo, è l’U-

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nyn no (ben) o il Bene (agathon)·, la seconda è l’Intel­ letto, o Nous, che ne procede necessariamente dall’eternità; per quanto secondo, questo Nous possiede un insieme di attributi che ne fanno un assoluto: è il luogo delle Essenze platoniche, l’In ­ telligenza in atto di Aristotele, la Bellezza eterna, l’Essere, la Potenza creatrice (V, 1 ,5-7, 10; II; III, 1- 12; IV, 2; VI, 4; V ili, 3, 5; IX, 3-9; I, V ili, 2). L’uomo, attraverso il proprio intelletto, partecipa del Nous assoluto; in questo modo è immortale. È l’intelletto lo strumento della contemplazione del­ le Idee, gli Intelligibili (noeta), che perm ette al­ l’uomo di accedere alla verità (V, 1 ,11; III, 3,5-8). Quindi esso è l’essenza dell’uomo: «ciò che è pro­ prio dell’uomo, è la vita secondo l’intelletto»: bios kata ton noun / βίος κατά τον νοΰν (I, IV, 4,10). M arco Aurelio si spinge più lontano e assicu­ ra che: «La m ente di ognuno di noi è un dio» (XII, 26). Per Proclo, l’Intelletto è molteplice; non vi è solo l’Intelletto, che procede dall’Uno, ma degli spiriti (noi / voi), che partecipano dell’Uno. Ogni intelletto è divino, atto, che pensa se stes­ so, sostanziale, indivisibile, generatore di idee (Teologia, 160-183).

o

oikonomia (he) / οικονομία (ή), l’economia do­ mestica. Politica. L’arte dei tre rapporti che esistono in seno alla famiglia, e si ripetono nello Stato: il rapporto dispotico (despotike), tra padrone e schiavo, il rapporto coniugale (gamike) e il ra p ­ porto di paternità (teknopoietike) (Aristotele, Politica, I, III, 2).

oikos (ho) / οίκος (ό), la famiglia. In Aristotele, immagine e origine dello Stato (Politica, I, II).

oligarchia (he) / ολιγαρχία (ή), l’oligarchia.

Letteralmente: «l’adesso». «L’istante è la conti­ nuità del tem po, perché connette il passato al futuro» (Aristotele, Fisica, IV, 13).

Governo fondato sulla ricchezza (Platone, R e­ pubblica, 550c-553a). L’uom o oligarchico è gui­ dato dalla cupidigia e dalla pusillanimità (Plato­ ne, Repubblica, 553c-555b). Aristotele distingue quattro tipi di oligarchia: per censo, per coopta­ zione, ereditaria, dinastica (Politica, IV, V, 1-2).

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nyn (to) / νϋν (τό), l’istante.

on

on on (to) / óv (τό), l’essere; latino (tardo): ens\u plurale onta. Participio presente neutro sostantivato del ver­ bo einai / είνα ι, essere (prima persona singola­ re, eimi / είμ ί, io sono). Traduzione letterale: l’ente, l’essere che è. L’ontologia (termine creato nel XV II secolo da Clauberg) è la parte della metafisica che stu­ dia l’essere come nozione universale (da ontos / οντος, genitivo di on). Duplice significato, a) L’essere singolare, l’esi­ stente. b) L’atto di essere, il fatto d ’essere, e da qui l’essere in generale, considerato astrattamente, che può divenire, per Platone, l’Essere in sé, l’Essenza dell’Essere, Realtà intelligibile. Aristotele opera delle distinzioni più sottili: a) essere per accidente (kata symbebekos / κατά συμβεβηκός), che si esprime tram ite il predica­ to, l’uom o è musicista; ed essere per sé (,kath’hauto / κ α θ’ αυτό), che si esprime tram ite il soggetto (-» autos). b) L’essere come vero, per affermazione dell’esistenza (l’essere è qui il con­ trario del non-essere: me on / μή òv). c) Essere in atto (entelecheia / έντελέχεια ): vedente = che vede ora tali oggetti, ed essere in potenza (dyna-1 11 II verbo esse (essere) in latino non ha participio; on era dunque intraducibile. È nel Medioevo che fu ritrovato un lontano participio presente, utilizzato da pochi autori. Ma si continuò ancora spesso a tradurre il participio on con l’infi­ nito esse·, agens sequitur esse = l’agire proviene dall’essere.

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m ei / δυνάμει, dativo): vedente = capace di ve­ dere gli oggetti (Metafisica, Δ, 7, E, 2-4, K, 8-9). E con Parm enide che inizia la filosofia del­ l’Essere, con l’uso sistematico della parola on. Prim a di lui, la si trova talvolta usata in senso concreto, gli esseri (Filolao, in Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, I, 21). N ell’antichità si attri­ buivano ad Archita due opere di fattura più tar­ da: un trattato Dei Principi (Peri archon / Π ερί αρχών), e un trattato Dell'Essere (Peri ontos / Π ερί οντος) in cui la parola on è impiegata cor­ rentem ente nel significato dell’essere in genera­ le; la maggior parte dei critici, a causa di questo vocabolario, negano l’autenticità di questi tra t­ tati; ma non bisogna dimenticare che Archita (430 ca -360 ca a.C.), se è un pitagorico, è di due generazioni più giovane di Parm enide (prima m età del V secolo ca a.C.), e che quindi ha co­ nosciuto la sua opera; inoltre, egli usa il dialetto dorico diffuso nella M agna G recia: ta eonta / τα έόντα invece di ta onta (Stobeo, Eclogae physi­ cae et ethicae, I, 35 e II, 2). Del resto Socrate, contem poraneo di Archita, conosce bene la dottrina degli eleati e usa il loro vocabolario: «Costoro» constata «credono che l’essere (to on) sia unico (ben / εν)» (Senofonte, D etti m e­ morabili, I, I, 14). Euclide di M egara, discepolo di Socrate, identifica il non-essere con il male, poiché l’Essere è il Bene; Gorgia, altro contem ­ poraneo di Archita, gioca con on e me-on in un puro stile eleatico. Q ui e là cambia del resto la 151

on

on terminologia, adottando einai invece di on nel suo famoso proclam a nichilistico riportato da Aristotele: «Nulla (ouden) esiste (ouk einai)·, se qualcosa esiste, è inconoscibile (agnoston / άγνωστον); se esiste ed è conoscibile, non può manifestarsi agli altri». (Su Melisso, Senofane e Gorgia, v. Sesto Em pirico, Contro i dogmatici, I, 65-87.) In effetti l’opera di Gorgia, Sul non-essere e sulla natura, che non ci è pervenuta, è una rispo­ sta a Parmenide, o più precisam ente alla sua o n ­ tologia assolutistica. Q uesta parte da un duplice assioma irrefutabile: l’Essere è e il non-essere non è. D unque non vi è che un solo Essere (l’U ­ no); infatti, se ve ne fosse un secondo (come nel­ la diade —> dyas di Pitagora), sarebbe il non-Essere, ossia il nulla. D a qui la perfezione dell’E s­ sere: «L’Essere è increato e im perituro, poiché è perfetto, immutabile ed eterno». «L’Essere non è neppure indivisibile, poiché è tutto identico a se stesso» (fr. V ili, 3-5, 22). Troviamo la stessa dottrina in Melisso, con l’argom ento tratto dal cambiamento: «Se l ’Essere (eon / έόν) cambias­ se, ciò che è perirebbe e ciò che non è (ouk eon / ούκ έόν) apparirebbe» (fr. V ili, 6). Contro la dottrina degli eleati si erge l’atomismo di Leucippo e Dem ocrito, che «considerano come ele­ m enti il pieno e il vuoto, chiamandoli rispettiva­ m ente l’Essere e il non-essere» (Aristotele, M e­ tafisica, A, 4). Ed è ancora contro la dottrina dell’Essere di

Parm enide che Platone reagisce nel Parmenide e nel Sofista, ma in un m odo del tutto diverso da Gorgia. Nel primo dialogo sostiene che l’Essere veritiero è l’Essenza (eidos / είδος), che è m olte­ plice, e divide l’Essere, che è pertanto l’Univer­ sale, insieme uno e molteplice (162a-b ecc.). Nel secondo dialogo m ostra come, a partire dal m o­ m ento in cui vi è pluralità nell’Essere, ogni esse­ re è al contempo essere e non-essere, essere in quanto partecipa dell’Essere, non-essere in quanto partecipa del non-Essere (240b-258c); la sorte dell’ontologia, gettata in un vicolo cieco da Parm enide che negava il principio di alterità in nome del principio di identità, si risolve con Pla­ tone. Questi coglie l’occasione per fondare i cin­ que generi supremi (eide megista / είδη μέγιστα) delle Essenze eterne: l’Essere (to on), il riposo, il movimento, lo stesso e l’altro (—> genos). Già nel Fedone (78c-d), Platone aveva m ostrato che «in ogni cosa, ciò che è (ho esti / ò έστι) sempre, os­ sia il suo essere (to on), è l’Essenza unica che è in sé e per sé» (auto kath’hauto) (—>autos). P er Aristotele, la filosofia prim a (he prote philosophia / ή πρώτη φιλοσοφία), ciò che chiamia­ mo metafisica, è la scienza dell’Essere in quanto Essere (to on he on / τό òv η òv (Metafisica, Γ, 1; E, 1; K, 3), ovvero essa non studia questo o quel genere di esseri, ma l’Essere in quanto universa­ le (katholou). Infatti «tutto ciò che è, è detto es­ sere in virtù di qualcosa di unico e di comune, benché in molteplici significati» (ivi, K, 3).

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orexis

ousia

Per Plotino, l’Essere che merita davvero que­ sto nome è l’essere veramente essere (on ontos on / òv όντως òv) (III, VI, 6), che esiste solo nel m ondo intelligibile (IV, III, 5), ed è al contem po l’oggetto del proprio pensiero (V, V, 1). Ciò av­ vicina Plotino ad Aristotele (—>nous).

orexis (he) / δρεξις (ή), la tendenza. Per Aristotele uno dei tre elementi della cono­ scenza umana, con la sensazione (aisthesis) e il pensiero (nous). Si esprime tram ite due m ovi­ menti opposti: la ricerca (dioxis) e la fuga (phyge) (Etica Nicomachea, VI, II). Per Epitteto, fa parte di ciò che è «in nostro potere»: eph’emin / έφ’ ήμίν (Manuale, I, 1).

ouranos (ho) / ουρανός (ό), il cielo. Significato abituale, l’universo. «Il cielo intero, o m ondo» (Platone, Timeo, 28b). Aristotele re­ dige un trattato intitolato II cielo (Peri ouranou), per dim ostrare come l’universo (pan) sia perfet­ to (teleion) (I, 1). Derivato: ouranios / ουράνιος, celeste. «L’a­ m ore celeste: eros ouranios» (Platone, Simposio, 206c).

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ousia (he) / ουσία (ή), la sostanza, l’essere, l’essenza; latino: substantia. Ousia è un sostantivo che deriva da ousa, parti­ cipio femminile del verbo einai / είναι: essere. Il neutro è on / òv, l’ente, l’essere. L'ousia signi­ fica dunque ciò che è, ciò che esiste davvero al di fuori del nostro pensiero. Il term ine è usato anche da autori non filosofi con il significato di avere (il bene, la ricchezza, la fortuna), cosa che può sem brare paradossale, ma che non lo è affatto: per l’uom o comune ciò che ha realtà e consistenza è ciò che possediamo di utile e redditizio. I filosofi usano specificam ente ousia in due significati: la realtà, ossia l’essere in quanto esistente, e l’essenza, ossia la natura di questo essere. Troviamo il term ine in Eraclito, quando di­ chiara che la sostanza delle cose è sottoposta al cambiamento: metabole (fr. 91). E con Platone che la parola si afferma in filo­ sofia; egli le conferisce diversi significati, in p a r­ ticolare l’Essere: nel Teeteto (185c) troviamo ou­ sia e me einai / μή είν α ι = essere e non essere, ma sempre nello spirito del prim o significato, e soprattutto: • l’Essenza eterna (altrimenti eidos / είδος), la Realtà metafisica trascendente al m ondo sensibi­ le. Qui sostanza ed essenza designano lo stesso Essere. «Occorre porre per ogni realtà (assoluta, ousia) l’esistenza per se stessa (kath’hauten)» 155

ousia

ousia

(.Parmenide, 133 c). «La realtà veramente esisten­ te {ousia ontos ousa / ουσία όντως ούσα) è senza colore, figura né tatto, e può essere contemplata solo dall’Intelligenza inoiis), guida dell’anima» (Fedro, 247c). «Q uando parlo di Grandezza, Sa­ lute, Forza [...] si tratta della Realtà (ousia)» (Fe­ done, 65d). Il termine qui designa nettam ente sia la sostanza sia l’Essenza eterna. Stesso significato quando Platone assegna alla ragione superiore (.noesis) il compito di elevarsi sino all 'ousia (Re­ pubblica, VII, 523a); • l’essenza delle cose, la loro natura. Gli uom i­ ni abitualm ente ignorano l’essenza (ousia) di ogni cosa (Fedro, 237 c). Le realtà conoscibili traggono dal Bene (agathon) l’essere e l’essenza: einai kai ousia (Repubblica, VI, 509b). Nel libro II della Repubblica (359a), Platone tenta di defi­ nire «la natura della giustizia» (ousia dikaiosynes). È Aristotele che ha trattato in m odo sistematico la nozione di ousia come sostanza, secondo tre piani: logico, fisico, metafisico. • Logica. Inizialmente con un approccio nega­ tivo: «La sostanza, nel significato più fondamentale, è ciò che non è né affermato di un sog­ getto, né in un soggetto» (Categorie, V, 2a). Il che vuol dire che essa non è un predicato (in «la neve è bianca», bianca non può essere sostanti­ vo), e che essa non può appartenere a una realtà come carattere proprio, non può avere esistenza

come m odalità di un altro essere. Poi vi è un ap­ proccio positivo: Vousia è il soggetto logico, ciò di cui il resto è affermato (Categorie, V, 4b). Da qui una prim a conclusione: la sostanza è la pri­ ma categoria dell’essere (Metafisica, Z, 1). • Fisica. Poiché Vousia è soggetto, essa è con­ creta; e il prim o soggetto concreto che l’espe­ rienza offre è il soggetto sensibile, che appartie­ ne alla natura, e che è oggetto della scienza fisi­ ca. La materia stessa dev’essere considerata co­ me sostanza universale (Metafisica, Η , 1, 8; Λ, 2; Generazione e corruzione, I, 49). È nella sostan­ za fisica che si opera il cambiam ento (Fisica, I, 4); è con la sostanza che si spiegano la genera­ zione e la corruzione (ivi, 7 ). D a qui la teoria ilemorfica: ogni sostanza fisica è com posta di m a­ teria (hyle / ϋλη) e di forma (morphe / μορφή). • Metafisica. La metafisica, o filosofia prim a (Aristotele ignora il term ine metafisica), è la scienza della sostanza (Metafisica, Γ, 2; B, 2; Z, 1; Δ, 8). La sostanza, dice Aristotele, può esse­ re considerata da quattro punti di vista: la quiddità (to ti en einai I τό τί ήν είνα ι), ossia la cosa è «per sé», detto altrim enti non per qual­ cuna delle qualità che la riguardano, ma per la sua realtà: u n ’esistenza indipendente; l ’univer­ sale (katholou) e il genere (genos), poiché que­ st’essenza è simile in tu tti gli esseri che am m et­ tono la stessa definizione; infine il substrato, o soggetto (hypokeimenon / υποκείμενον) (ivi, Z, 4). Q uesta nozione si avvicina a quella di

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ousia

quiddità; infatti, se la sostanza è indipendente dalle sue qualità e, restando sem pre ciò che è, non cambia, essa è la sede, il soggetto delle qualità (gli accidenti, symbebekota) e del cam ­ biam ento. La sostanza individuale, che sola possiede la quiddità, è la vera ousia-, si può tu t­ tavia attribuire alle essenze universali e ai gene­ ri la denom inazione di sostanze seconde {Cate­ gorie, V). Gli stoici amm ettono che vi sia una sostanza universale {he ousia ton holion, M arco Aurelio, VI, 1), ma non tentano di definire questa nozio­ ne; non vi sono sostanze individuali, poiché ogni essere è un fram m ento unico del Tutto. Plotino impiega il term ine ousia negli stessi si­ gnificati di Platone, cioè in prim o luogo come l’Essere, la Realtà. «E nel M ondo intelligibile che si situa la vera Realtà: he alethe ousia» (IV, I, 1). «La vera sapienza è l’Essere, ousia (V, V ili, 5). «Ciò che noi chiamiamo Realtà {ousia), nel significato originario, non è l’om bra dell’Essere, ma l’Essere stesso» (V, VI, 6). E in secondo luo­ go l’essenza delle cose. L’anima «prende tutto quello che ha dalla propria essenza» (VI, II, 6). «O gnuno è, per il corpo, allontanato dalla p ro ­ pria essenza; ma per l’anima, ne partecipa» (VI, V ili, 11). «Nelle nostre ricerche sull’essenza dell’anima...» (V, II, 1). Tuttavia, Plotino si rammenta di Aristotele quando evoca la sostanza come com posta di fo r­ ma {eidos) e di materia {hyle) (VI, I, 3, III, 3). 158

P

pan (to) / παν (τό), il tutto; latino: omnia. L’insieme delle realtà sensibili, l’universo —> holon, kosmos. Gram m aticalm ente pan è dapprim a un aggetti­ vo indefinito neutro (latino omne), il cui m a­ schile è pas / πας. In seguito il neutro è sostanti­ vato per designare una totalità. Il termine non è usato molto spesso dai filoso­ fi, anche se lo si trova fin dalle origini. Archita di Taranto avrebbe composto un trattato Del Tutto {Peri tou pantos / Π ερί του παντός). Pan appare occasionalmente in Eraclito (fr. 50), Archelao (D.L., II, 17), Parm enide (ivi, V ili, 22, 48), M e­ lisso (ivi, VII, 1). Socrate, secondo Senofonte, usava il termine al plurale {ta panta / τα πάντα) per richiamare questa nozione impiegata dai suoi predecessori {Detti memorabili, I, I, 11); Platone lo evita, al punto che pan non compare nell’erudito Lessico platonico di É duard des Places. Lo si trova, tuttavia, nel Timeo (28b-40b), quando Platone presenta la terra come fissata sull’asse che attraversa il Tutto, e si dom anda se vi sia qualche differenza di significato tra l’insie­ 159

pathos

paradeigma

me (to holon) e il Tutto. Aristotele lo adotta ne II cielo per designare l’universo. Pan è anche il ter­ mine di cui si serve Epicuro nella sua lettera a Erodoto (D.L., X, 39-41). È Plotino che vi fa per lo più ricorso, per quanto sempre in m odo parsi­ monioso, in particolare nella I Enneade, al fine di opporre il M ondo intelligibile, che è il Tutto ve­ ritiero, al m ondo visibile, che non è altro che l’immagine di questo Tutto (VI, V, 2).

paradeigma (to) / παράδειγμα (τό), il Modello; latino: exemplar. I paradeigmata sono, in Platone, le Essenze eter­ ne, in quanto sono i modelli sui quali sono giun­ te all’essere le realtà sensibili. La parola è composta dalla radice deik-, che ritroviamo nel verbo deiknunaì / δεικνύναι, m ostrare (prima persona singolare, deiknum i), e dalla preposizione para, che indica u n ’origine, un punto di partenza. Il paradigma è ciò che si manifesta dall’alto. Nel Timeo (28a-b) si assiste alla formazione del m ondo sensibile. Il Demiurgo plasma la m a­ teria originaria con gli occhi fissi sul Paradigma, ossia sul M ondo intelligibile. Vi sono tre tipi di essere: il M odello «intelligibile e immutabile», la copia (mimema / μίμημα), visibile e soggetta al nascere, e il loro interm ediario, l’insieme dei quattro elementi: acqua, fuoco, aria, terra, sem ­ 160

pre in divenire e in m utam ento (Timeo, 48e49b). Nella Repubblica (V, 472d-c) Platone ci of­ fre un modello di Stato perfetto, di cui l’uom o politico deve realizzare la copia. Aristotele impiega il term ine solo per richia­ m are e criticare la teoria platonica (Metafisica, M, 5). Plotino invece lo adotta, ma cerca più in alto la causalità: l’Artefice del m ondo sensibile è lo stesso del M ondo intelligibile (II, IX, 5). Altrove, però, lo stesso Plotino fa dell’Intelletto (Nous) sia la causa sia il m odello del m ondo sensibile (III, II, 1). Per l’anima um ana vi sono anche modelli di vita spirituale (III, IV, 5), poi­ ché le virtù sono come modelli nell’Intelletto (I,

11, 7 ) . Sinonimo: archetypos. Essenzialmente usato da Plotino: è in Dio che si trovano i modelli del­ le virtù da praticare (I, II, 2). Altrove il termine raddoppia quello di paradigma. «L’Intelletto è l’archetipo e il paradigma di questo m ondo»

(IH, n , i ) .

pathos (to) / πάθος (τό), la passione; latino: passio, affectio, perturbatio-, plurale: pathe (ta) / πάθη (τά). Q uesto term ine possiede due significati: • Metafisico·, è il contrario dell’azione o, più precisamente, non soggetto che pratica l’azione, ma oggetto che la riceve. 161

pathos

pathos

• Psicologico: è il fatto di subire, di essere co­ stretto e spinto da una forza interiore che sfugge alla volontà. E d è per questo che pathos significa anche sofferenza, dolore, disperazione; il term i­ ne pathe / πάθη (qui femminile singolare) riveste unicamente questo significato. La radice greca path- si ritrova in latino, dove assume lo stesso significato; l’infinito pati vuol dire sia soffrire, provare sofferenza sia perm et­ tere, consentire. Passio (più tardo) da un lato ha un significato di sentimento intenso e penoso, dall’altro di lunga sofferenza fisica: la passione del gioco, la Passione di Cristo, dei martiri. Composto: apathes / απαθής, impassibile, che non è capace di sofferenza. Aristotele contrappone azione e passione fin dal trattato Categorie, ma le definisce tram ite degli infiniti sostantivati: to poiein / xò π ο ιειν e to paschein / xò πάσχεχν, l’agire e il patire (IX e X). Nella Metafisica (Δ, 21) pathos si traduce con affezione, ossia qualità, stato in cui si trova una sostanza. Per gli stoici, che hanno studiato a fondo la psicologia della passione, essa è la cattiva in­ fluenza della sensibilità sulla ragione. Crisippo la definisce «m oto irrazionale dell’anima» (Arnim, Pragmenta veterum Stoicorum, III, 113); Zenone, «un m oto irrazionale (alogos / άλογος) e contrario alla natura» (para physin / παρά φύσιν). Il fatto di essere un m oto (kinesis / κίνησις) la differenzia dagli altri stati d ’animo, la 162

malattia e il vizio che sono affezioni continue, m entre la passione è occasionale (Zenone, in D.L., VII, 110; Cicerone, Tusculanes disputationes, IV, X III, 30). Due problem i posti dalla passione. • Classificazione. Nel Pimeo (69d) Platone enumera incidentalm ente cinque passioni prin­ cipali: piacere, dispiacere, audacia, timore, spe­ ranza. Nella Retorica Aristotele consacra dodici capitoli del libro II a questo tema: uno alle pas­ sioni in generale, undici alle principali: collera, mitezza, amore e odio, timore, vergogna, bene­ volenza, pietà, indignazione, invidia, emulazio­ ne. Gli stoici si sono impegnati a razionalizzare questo esercizio, nei loro molteplici trattati inti­ tolati Le passioni, dovuti in particolare a Zeno­ ne, Crisippo, Aristone, Siero, Ecatone, Erillo (D.L., VII, 110). La lista classica sembra quella di Zenone e di Ecatone (D.L., VII, 110), e p ro ­ babilm ente di Aristone, che si autodefiniva un tetracordo (Clemente d ’Alessandria, Stromata, II, XX, 108); il dispiacere (lype / λύπη), il tim o­ re (phobos / φόβος), il piacere (hedone / ηδονή), il desiderio (epithymia / έπιθυμία). • Valore morale. Poiché l’uom o è definito dalla ragione, e la passione è contraria alla ragione, la passione si rivela contro natura ed è legittimamente immorale. Sono in particolare gli stoici che si sono concentrati su questo aspetto. Ma le pas­ sioni vengono dall’esterno, dal m ondo sensibile, e 163

phantasia

peras

in quanto tali non sono in mio potere; esse diven­ tano condannabili solo quando io ho dato loro il mio assenso (Epitteto, Dissertazioni, III, XXIV, 20-24; IV, I, 82, 85 ecc.; Cicerone, Tuscolanes disputationes, II, XXV, 61; III, XXIX, 72 ecc.).

peras (to) / πέρας (τό), la fine, il termine, la compiutezza. Essere che è metafisicamente com piuto, perfet­ to (il suo negativo —> apeiron).

phainomenon (to) / φαινόμενον (τό), l’appa­ renza; latino: species; plurale phainomena-, . Quel che appare della realtà. Al plurale, talora, significa gli eventi. Participio neutro sostantivato del verbo phainestai (prima persona singolare: phainomai): a p ­ parire. È dunque solo quello che i sensi cono­ scono della cosa. La nozione abituale indica u n ’insufficienza (l’apparenza non ci fa conosce­ re la realtà) o anche u n ’illusione (l’apparenza tradisce la realtà).

«cose apparenti, e non esseri dotati di realtà» {Repubblica, X, 596e); il loro autore non cono­ sce nulla dell’essere, ma solo l’apparenza (ivi, X, 60lb). Aristotele inizia andarlo in senso scienti­ fico: i fenomeni delle sfere, del sole e della luna {Metafisica, A, 8, 1073b). E lo stesso senso in cui 10 usa anche Epicuro nella sua Epistola a Pitocle, 11 cui obiettivo è di «far conoscere i fenomeni del cielo» (D.L., X, 84-126). Q uanto a Sesto Em pirico, sforzandosi di definire lo scetticismo che egli professa, scrive: «È la facoltà di o ppor­ re i fenomeni ai concetti in tutti i m odi possibi­ li» {Ipotiposi, 1 ,5).

phantasia (he) / φαντασία (ή), l’immagina­ zione.

L’impiego del termine risulta raro fino ad A ri­ stotele. Lo si trova una volta in Anassagora: «Le apparenze sono il volto dell’invisibile» (fr. 2 la), e qualche volta in Platone: le opere d ’arte sono

Facoltà dell’anima um ana di creare immagini immanenti. La radice phan, che deriva anch’essa da phao, la luce, indica l’apparenza. La si trova nel verbo phainein / φαίνειν: far apparire (futuro, phano) e nel suo passivo phainesthai / φαίνεσθαι (pri­ ma persona singolare, phainomai), apparire. Participio neutro, phainomenon / φαινόμενον, l’apparenza, il fenomeno. La phantasia è, in un prim o significato, u n ’apparenza o u n ’immagine, ossia u n ’apparizione o un simulacro di realtà. Platone impiega incidentalm ente questo ter­ mine, o nel senso di apparenza (Dio è semplice

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phantasia

philia

e non c’inganna servendosi di simulacri, Repub­ blica, II, 382c), o nel senso di facoltà immagina­ tiva (immaginazione e sensazione sono la stessa cosa, Teeteto, 152c). Aristotele la considera es­ senzialmente come una facoltà ne L'Anima (III, 3), insistendo sul fatto che è diversa dalla sensa­ zione (aisthesis) e dal pensiero (dianoia)·, essa è «m ovimento nato dalla sensazione». Per E picu­ ro, la phantasia è sempre vera (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 203). Gli stoici im pie­ gano il term ine phantasia in un duplice signifi­ cato. Da un lato essa è l’apparenza (ingannevo­ le) che si oppone al fenom eno (phainom enon), che è il fatto norm ale (Epitteto, Manuale, I, 5). In questo, la disgrazia è pura apparenza, poiché è un giudizio di valore che diamo su un fatto reale. D all’altro, phantasia assume il significato più ampio di rappresentazione; se la fonte delle passioni (pathe / πάθη) non è in mio potere, ciò che è in mio potere, grazie alla ragione, è l’uso (ichresis) delle rappresentazioni (Epitteto, Dis­ sertazioni, III, XXIV, 69; III, 1; II, 42). La n o ­ stra ragione deve dare il proprio assenso solo a una rappresentazione comprensiva (phantasia kataleptike), ossia chiara ed evidente (ivi, III, V ili, 3; D.L., VII, 54). Invece gli scettici (Pirro­ ne, Timone, Enesidemo) dichiarano che non vi è differenza tra rappresentazione e fenomeno, poiché scambiamo sempre l’una per l’altro (D.L., IX, 107). Plotino definisce la phantasia·.

L’amicizia è considerata dai filosofi greci una virtù, o per lo meno, come scrive Aristotele, «es­ sa è accompagnata dalla virtù» (Etica Nicomachea, V ili, I, 1). Essi considerano il term ine nel senso stretto di affezione reciproca, m entre la philia possiede un significato ben più ampio. L’amicizia come legame privilegiato è già cele­ brata da Pitagora, per il quale essa è u n ’ugua­ glianza, isotes / ισότης (Giamblico, Vita di Pita­ gora, 162) e «l’amico è un altro me stesso» (Pseudo Plutarco, Vita di Omero, 151); Pitagora si sarebbe anche spinto ad affermare che l’ami­ cizia è «il fine di ogni virtù» (Proclo, Commen­ tario all’Alcibiade primo, 109c). Q ueste defini­ zioni fanno parte della teoria generale dell’ar­ monia, che unisce le parti nell’universo, le fa­ coltà mentali nell’anima e le virtù nel sapiente. Platone impiega di rado philia, per esempio nel Fedro (213 le) quando parla dell’uom o che m e­ rita la nostra amicizia. E Aristotele che studia la philia con maggior interesse e ampiezza, nel libro V ili dell’Etica

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«L’urto ricevuto dalla parte irrazionale dell’ani­ ma da parte di un oggetto esterno» (I, V ili, 15).

philia (he) / φιλία (ή), l’amicizia; latino: amicitia. Legame affettivo tra due esseri umani. Deriva dal verbo philo / φιλώ, amo.

philia

philosophia

Nicomachea, che costituisce un vero trattato sul­ l’amicizia. Questa, per essere veritiera, deve ri­ spondere a tre criteri: la m utua benevolenza, la volontà del bene, la manifestazione esteriore dei sentimenti (II, 4). L’amicizia perfetta è quella dei buoni che si assomigliano per la virtù (III, 6). Epicuro stima che ogni amicizia sia desidera­ bile, ma inizia per utilità (Massime capitali, 23). Gli stoici, che considerano ogni sentimento bia­ simevole perché contrario alla ragione, ritengo­ no tuttavia che l’amicizia sia una delle virtù più elevate e indispensabili; E pitteto insiste precisam ente sul fatto che essa è propria solo del sag­ gio: infatti, siccome l’amicizia richiede d ’amare l’altro per se stesso e per un com une bene spiri­ tuale, essa è impraticabile per colui che è inco­ stante e sottomesso alle passioni (Dissertazioni, II, XXII, 3-7). Em pedocle, secondo Aristotele, spiegava il movimento del m ondo tram ite l’Amicizia (phi­ lia) e l’O dio (neikos), che uniscono e dividono gli elementi del m ondo, provocando di volta in volta l’uno e il molteplice (Fisica, V ili, 1; A, 4). O ra, il poem a Sulla natura di Em pedocle, rico­ stituito da Diels, non ricorre al term ine philia, ma al suo sinonimo philotes / φίλότης, che ha un significato più forte (frr. XVII, 7, 20; XIX; XX, 2, 8; XXVI, 5; XXXV, 4, 13). Invece impiega una volta la forma philie / φνλίη (fr. XVIII).

philosophia (he) / φιλοσοφία (ή), la filosofia; latino: philosophia.

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Amore per la sapienza. L’inventore del termine filosofia, ci dice Dio­ gene Laerzio, fu Pitagora. Egli pensava che nes­ sun uomo potesse dirsi sapiente, e che la sapien­ za fosse il privilegio degli dei. Pertanto, preferiva definirsi filosofo, ossia «amante della sapienza» (Intr. 12; Lattanzio, Istituzioni divine, III, 2; Ci­ cerone, Tuscolanes disputationes, V, 8-9; Agosti­ no, La città di Dio, V ili, 2). Paradossalmente, questa stessa modestia lo fece considerare un sa­ piente; Ione di Chio cantava che egli aveva supe­ rato tutti gli altri per sapienza (D.L., I, 120). Per Platone il filosofo è «colui che ama contem­ plare la verità» (Repubblica, V, 475e) e che, grazie a questo amore, è capace di raggiungere l’Essere immutabile (Repubblica, VI, 484b). In questo mo­ do acquisisce la totalità dell’intelligenza delle cose divine e umane (ivi, 486a, 490a-b). Ma, per prati­ carla, occorre essere morti al m ondo sensibile (Fe­ done, 64c-67e). A questa dottrina intellettuale e mistica, nella Repubblica egli aggiunge una dottri­ na politica: il filosofo è l’unico uom o atto a gover­ nare lo Stato, poiché lui solo, contemplando le Es­ senze eterne, è capace di modellare la città terrena sull’idea di Giustizia (VI, 501 b-c). Aristotele professa una nozione simile: la filoso­ fia è «la scienza della verità»: episteme tes aletheias / επιστήμη της άληθείας (Metafisica, A, 1, 953b).

philotes

phtora

Ma l’oggetto di questa scienza non è la realtà tra­ scendente delle Essenze, che Aristotele non rico­ nosce: si tratta dunque di una verità interna all’intelligenza umana. Tuttavia, poiché la filosofia mira a raggiungere la scienza che è qualcosa di divino, essa è la più invidiabile delle attività (Metafisica, A, 2, 983a). Aristotele aveva scritto un trattato Della filosofia (Peri philosophias), in tre libri, di cui ci restano trentadue frammenti.

philotes (he) / φιλότης (ή), l’affezione, l’amore, l’amicizia. Termine usato da Em pedocle al posto di philia.

phobos (ο) / φόβος (ό), la paura.

li, 21); il pensiero per Eraclito (fr. 2); l’intelligenza divina per Socrate (Senofonte, D etti me­ morabili, I, V, 17); il puro pensiero per Platone {Fedone, 68b, 79d ecc.); il discernim ento morale («la prudenza») per Aristotele (Etica Nicomachea; VI, V; Politica, IV, IV, 11).

phtisis (he) / φθίσις (ή), la diminuzione. Una delle forme del cambiam ento (Aristotele, Categorie, XIV) (—» kinesis).

phtora (he) / φθωρά (ή), la corruzione; latino: corruptio.

Parola dai significati diversi: la sapienza per Biante (D.L., I, 88) e Cleobulo (.Massime capita­

Distruzione di una sostanza sensibile. Aristotele ne parla nel suo trattato Sulla generazione e la corruzione, Peri geneseos kai phthoras / Π ερί γενέσεω ς κ α ί φθωράς. Pitagora insegnava che la materia (hyle) è sottoposta alla corruzione (Aezio, I, XXIV, 3). Aggettivo derivato, phthartos / φθαρτός: cor­ rotto, distrutto, corruttibile, distruttibile. «Una sostanza deve essere necessariamente eterna o corruttibile» (Aristotele, Metafisica, 3). «Gli es­ seri eterni sono anteriori agli esseri corruttibili» (ivi, Θ, 8). L’intelletto passibile è corruttibile (Aristotele, E Anim a, III, 5). Aristotele applica

n i.)

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Lina delle quattro passioni principali per gli stoici (D.L., VII, 112) (-> pathos).

phora (he) / φορά (ή), il movimento locale (Ari­ stotele, Categorie, XIV) (—» kinesis).

phronesis (he) / φρόνησις (ή), l’intelligenza.

physis

physis

questa nozione anche alla politica: la distruzione di un potere (Politica, V, X, 38) (—> aphthartos).

physis (he) / φύσις (ή), la Natura; latino: natura.

- la sostanza (ousia / ούσία) degli esseri n atu ­ rali. Conclusione: la natura, nel suo principale si­ gnificato originario, è la sostanza degli esseri che hanno in sé il principio del loro movimento.

Il sostantivo physis deriva dal verbo phyo / φύω, che significa faccio crescere, faccio nascere e, nella forma media phyomai / φύομαι, spingo, cresco, nasco. La natura si manifesta come una potenza autonom a che possiede, comunica e o r­ ganizza la vita. Abbiamo due significati. • Natura universale. Se il m ondo è, m aterial­ mente, un Tutto, un insieme, la N atura si p re­ senta, formalmente, come l’O rdine del m ondo, come la legge che regola i fenomeni e l’anima che vivifica il corpo. • La natura intima di ciascuno. L’essenza. Nel suo lessico filosofico (Metafisica, Δ, 4), Aristotele cercare di trovare una definizione della physis. E per questo, secondo il suo m eto­ do abituale, passa in rassegna i diversi signifi­ cati: - la generazione (genesis / γένεσις) degli esse­ ri dotati di crescita. Q uesto è il significato eti­ mologico; - la causa interna della crescita, la legge im ­ manente alla vita; - la materia prim a degli esseri (il bronzo, il le­ gno);

• Natura universale. L’uso del term ine è antico nella storia della filosofia. Le prim e opere che esponevano il sistema del m ondo furono dei trattati Sulla Natura (Peri physeos / Π ερί φύσεως). Così avrebbero scritto Talete, Ferecide di Siro (Sulla Natura e gli dei) e diversi mem bri della scuola pitagorica (Brontino, Alcmeone, Milone, Filolao), Senofane, Parm enide, Zenone di Elea, Em pedocle e Anassagora. Per Pitagora, la N atura era più che il m ondo sensibile, poiché Porfirio spiega come questa contenesse, oltre a questo m ondo e agli uomini che la abitano, gli dei immortali [Vita di Pitagora, 48). La stessa cosa vale p er Platone. Egli condan­ na i suoi predecessori «che hanno fatto delle ri­ cerche sulla Natura», per aver prodotto delle dottrine empie; essi hanno infatti chiamato N a­ tura la Tetrade dei quattro elementi: terra, ac­ qua, aria, fuoco, facendo di questi le prim e qua­ lità di tutte le cose, senza preoccuparsi dell’ani­ ma spirituale (Leggi, X, 891b-d). Così egli riuni­ sce sotto il concetto di physis tutti gli esseri, m a­ teriali e spirituali, prodotti da una potenza origi­ naria. Nel Fedro (270c), egli fa della N atura la Legge spirituale che regge l’universo.

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173

physis

physis

Aristotele consacra alla physis tu tto il secondo libro della Fisica, poiché questa è «la scienza della natura». Essa ha come oggetto gli esseri in movimento (kinoumena / κινούμενα), dove in­ vece la metafisica ha come oggetto le cause e i principi immutabili («immobili») da cui gli esse­ ri naturali traggono la propria origine. Per gli stoici, la N atura è il Tutto e l’assoluto. Il m ondo è «un unico vivente, com posto da una sola sostanza e da una sola anima» (Marco A u­ relio, IV, 40) e l’ordine che lo governa è la N a­ tura. In tal m odo, la natura regge in eterno il Tutto tram ite delle leggi razionali necessarie e perfette. Essa è dunque divina (D.L., VII, 89, 135, 147). Epicuro aveva com posto un trattato Sulla natura che non è giunto fino a noi. Coglie tuttavia altre occasioni per tesserne l’elogio: es­ sa è im m ortale e beata, sede dell’ordine e del­ l’unità (Lettera a Erodoto, in D.L., X, 79). Tra i desideri, gli uni sono naturali (al maschile sin­ golare physikos) e necessari, altri naturali e non necessari, altri né naturali né necessari; sono i prim i che portano al vero piacere, fonte di feli­ cità (Lettera a Meneceo, in D.L., X, 149). Per Plotino la N atura è la form a dell’Universo; essa è così un’anima, non l’anima del m ondo, ma un ’anima seconda p rodotta dalla prima, che possiede sensazioni e intelligenza (III, V ili, 24). «Una natura unica {mia) riunisce tutti gli es­ seri: è un grande dio» (V, V, 3). La locuzione kata physin / κατά φύσιν (accu­

sativo), conform em ente alla N atura, è molto usata dagli stoici, ma anche dal peripatetico Critolao (Clemente d ’Alessandria, Stromata, II, XXI, 129). • Il carattere intimo e permanente di un essere·. la sua natura, universale o individuale. Filolao parla della natura del num ero, che è «maestra di conoscenza» (Stobeo, Eclogae pshysicae et ethicae, Introduzione). Giamblico riferi­ sce come i primi pitagorici fossero coscienti del­ l’importanza della loro natura ( Vita di Pitagora, 175). Diogene di Apollonia constata come cia­ scuno dei quattro elementi sia diverso dagli altri per via della propria natura (fr. 2); Eraclito affer­ ma che i giorni hanno tutti la stessa natura (fr. 106). Socrate, ci dice Senofonte, non discuteva della natura dell’universo (physis ton panton, ge­ nitivo plurale di Lo pan) (D etti memorabili, I, I, 10). Platone usa diffusamente questo significato: egli evoca la natura dell’uomo {Leggi, XI, 923b, 93 le; IX, 874e), la natura dell’anima {Repubbli­ ca, X, 61 lb , 612a), la natura del filosofo (ivi, III, 4 lOb), la natura del Bene {Filebo, 32d), della giu­ stizia {Repubblica, III, 358e), della Bellezza eter­ na (ivi, V, 476b). Aristotele m ostra come, nella Natura, ogni realtà possiede attributi che costi­ tuiscono la sua natura: quella del fuoco è di ele­ varsi verso l’alto; così è anche per ogni singolo oggetto: la natura del letto è il legno, la natura della statua è il bronzo {Fisica, II, 1). Per natura {physei / φύσει, dativo), gli animali sono dotati

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poiesis

pistis

di sensazione (Metafisica, A, 1, 980a). Per natu­ ra, l’uomo è un animale politico (Politica, I, II, 9; Etica Nicomachea, I, VII, 6). Per natura, gli uo­ mini nascono liberi o schiavi (Politica, I, V, 11). P er gli stoici la N atura è al contem po la mia propria natura; infatti, da un lato la legge del­ la m ia propria natura consiste nel restare in­ corporata nel Tutto; dall’altro, ho ricevuto co­ me possesso esclusivo una natura in cui trio n ­ fa la ragione, che vuole la sottom issione delle singole parti al Tutto e del sensibile all’intelli­ gibile. Così, la felicità consiste nel «fare ciò che esige la natura dell’uom o» (M arco A ure­ lio, V ili, 1, 5). E questa arm onia delle due n a ­ ture che costituisce l’ideale dello stoico: se­ condo C risippo «la nostra natura consiste nel vivere secondo la natura, la nostra e quella dell’universo» (D.L., V II, 88). Al pari degli stoici, E picuro riconosce che il fine dell’uom o è di essere conform e alla propria natura (D.L., X, 129), m a in una form a del tu tto diversa, poiché questo fine è il piacere.

pistis (he) / πίστις (ή), la fede. Per Platone la conoscenza degli oggetti sensibi­ li, uno degli stadi della dialettica (Repubblica, VI, 51 le, VII, 534a). Altrove, convinzione spon­ tanea (Aristotele, Topici, IV, 4,5).

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poiesis (he) / ποίησις (ή), la fabbricazione, l’at­ tività operativa, la poesia; latino: ars, operatio, poesis. L’attività transitiva dell’uom o sulle cose (oppo­ sta all’azione immanente). La radice poi indica il fare. La si ritrova in: - poio / Trottò (infinito poiein / π ο ιε ίv): fare; - poiema (lo) / ποίημα (τό): l’opera, il poema; - poietes (ho) / ποιητής (ó): il fabbricante, l’autore, il poeta; - poietikos / ποιητικός: produttivo, operativo. Poiesis può significare: • l’azione in generale. «Coloro che compiono delle azioni lo fanno in vista di un bene» (Gor­ gia, 468b). Aristotele fa del to poiein (l’agire) e del to paschein (il patire) due categorie opposte {Categorie, IX; Generazione., I, 2, 6-9). «N essu­ na delle azioni che hanno un term ine è essa stes­ sa un fine» {Metafisica, Θ, 6); • l’operazione, la fabbricazione, opposta all’a­ zione immanente. Aristotele prim a ci mostra che la riflessione presiede alla praxis e alla poie­ sis {Etica Nicomachea, VI, II, 4-5), poi insiste per segnalarle come due attività distinte (ivi, VI, IV 5); • la poesia. Il poeta è un «facitore» di versi. O ccorre distinguere, nell’opera poetica, due elementi inseparabili nella pratica, ma del tutto diversi riguardo alla loro natura: il verso e la musica. Q uando Platone, nella Repubblica (III, 177

poson

poion

377a, 381c; X, 599b-603b), condanna la poesia (poiesis), è il testo che attacca, poiché gli rim ­ provera di essere u n ’imitazione, un fantasma; quando, nel Fedone (60c-61c), loda la poesia di Socrate, impiega il term ine mousike / μουσική; in questo caso egli ammira l’ispirazione. A risto­ tele ha scritto una Poetica (Poietike / Π οιη ­ τική), sottointeso techne / τέχνη = arte; è u n ’ar­ te poetica.

poion (to) / ποιόν (τό), la qualità, aggettivo neutro sostantivato. Ciò che qualifica una sostanza. Una delle dieci categorie di Aristotele. Nelle Categorie (V ili), egli include lo stato (hexis) a cui aggiunge: l’atti­ tudine, l’affezione, la figura, la contrarietà.

polis (he) / πόλις (ή), la città.

politela (he) / πολιτεία (ή), lo Stato, la repub­ blica, la costituzione. Platone nella Repubblica e nelle Leggi, e Aristo­ tele nella Politica si propongono di stabilire qual è il migliore governo della Città (polis). Per Pla­ tone uno solo è quello giusto e buono, l’aristo­ crazia; altri quattro sono invece sfavorevoli alla città: la timocrazia, l’oligarchia, la democrazia e la tirannia che si generano m utualm ente (Re­ pubblica, V ili; IX, 571a-580c). Aristotele studia la politia, la democrazia, l’ari­ stocrazia, la monarchia e la tirannide (Politica, IV). Politia è il term ine usato da Aristotele per desi­ gnare il governo ideale, che è la sintesi della ric­ chezza e della libertà, della democrazia e dell’o­ ligarchia (Politica, IV, VIII-IX).

poson (to) / ποσόν (τό), la quantità, la grandez­ za, aggettivo neutro sostantivato.

Com unità urbana alla quale occorre dare una costituzione, che sarà la politela; lo stesso term i­ ne polis può significare Stato, poiché ogni città greca costituiva anche uno Stato (Platone, R e­ pubblica, III, 343d; Leggi, II, 667a; VI, 766d; Aristotele, Politica, I, I, 1).

Una delle dieci categorie di Aristotele. D ue ti­ pologie: la quantità discontinua (il num ero, il discorso) e la quantità continua (la linea, la su­ perficie, il volume, il tem po, il luogo, il movi­ mento) (Categorie, VI; Metafisica, Δ, 13).

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praxis

proairesis

praxis (he) / πράξις (ή), l’azione; latino: actio. L’attività imm anente di un soggetto (opposta al­ l’azione transitiva che si esercita su un oggetto) (—> poiesis).

te (—> techne). Nella Politica (I, IV, 1-4), Aristo­ tele distingue lo strum ento, che serve alla pro ­ duzione (poietikon) e la proprietà, fonte dell’a­ zione (praktikon)·, - metafisicamente, l ’agire (prattein), opposto al subire (paschein) (-» pathos, Aristotele, Cate­ gorie, IX).

Praxis risulta dalla contrazione di prag-sis, dove è la radice prag che indica l’azione. La si ritrova in pragma (to) / πράγμα (τό), l’occupazione, l’affa­ re, praktikos / πρακτικός, attivo. All’intelletto speculativo (nous noetikos o dianoetikos), Ari­ stotele oppone l’intelletto attivo (nous praktikos) (L!Anima, III, 7) - > nous. Prattein / πράττειν: agire (solo in dialetto attico; negli altri: prassein). Sostantivato to prattein·. l’agire. Praxis può significare: - ogni attività umana: «Parlare è u n ’azione» (Cratilo, 387c) «Nessuna delle azioni (ton praxeon) che hanno un term ine è essa stessa un fine» Aristotele (Metafisica, Θ, 6) «Il principio dell’azione è la libera scelta» Aristotele (Etica Nicomachea, VI, 4); - l’azione opposta alla parola (Gorgia, 450d); - l’azione morale. «Per quel che riguarda le azioni, la opinione vera non è né m eno buona, né meno utile della scienza» (Menone, 98c); - l’azione opposta alla speculazione: Aristote­ le distingue la riflessione (dianoia) teorica e l’a­ zione pratica (Etica Nicomachea, VI, 3); - l’azione opposta all’attività fabbricatrice (poiesis)·, è così che la morale si distingue dall’ar­

Facoltà di scegliere liberamente. Com posto da airein, prendere, e dalla prepo­ sizione prò, in avanti. Aristotele sottolinea come questa facoltà sia più elevata e più specifica del­ la semplice volontà (boulesis). Essa si esercita soprattutto nell’ordine morale (Etica Nicoma­ chea, III, II, 1-2) La proairesis si manifesta, secondo Aristotele, at­ traverso le seguenti caratteristiche: esige la delibe­ razione, si esercita quindi su ciò che dipende da noi, non considera i fini ma i mezzi. Così l’uomo è il principio dei propri atti (ivi, III, III). Questa nozio­ ne di atto evidenzia inoltre come questa facoltà sia propria della virtù etica, che si manifesta nell’azio­ ne, e non nella virtù dianoetica, che ha come eserci­ zio proprio la contemplazione (—> arete). Questa dottrina è stata ripresa da Alessandro di Afrodisia (Del destino, XX). La proairesis assume anche per gli stoici un’importanza capitale. «Il bene dell’uo-

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proairesis (he) / προαίρεσις (ή), la libera scel­ ta; latino: liberum arbitrium.

pros ti

prolepsis mo» dice Epitteto «si situa nel libero arbitrio, e an­ che il suo male. Tutto il resto non è niente per noi» {Dissertazioni, I, XXV, 1). Ora, il determinismo stoico fa sì che tutti gli eventi siano stabiliti una vol­ ta per tutte: la libera scelta consiste allora nel volere liberamente ciò che è inevitabile (ivi, I, XVIII, 8, 17, II, XXIII, 42; Manuale, XXX, LUI, I; Marco Aurelio, III, 6; V, 20; V ili, 56). Plotino attribuisce all’universo (pan) una libera volontà, che è la som­ ma delle singole volontà (IV, IV, 35).

prolepsis (he) / πρόληψις (ή), la prenozione (nozione innata). Per gli stoici verte essenzialmente sul bene e sul male (Epitteto, Dissertazioni, II, XI, 3). Per E pi­ curo, con la sensazione (aisthesis) e la passione {pathos), è uno dei tre criteri della verità (D.L., X, 31).

pronoia (he) / πρόνοια (ή), la provvidenza; lati­ no: providentia. Dal significato originario di preveggenza, previ­ sione, il term ine assume in seguito il significato di Provvidenza divina, che prevede le nostre azioni e dà loro il suo aiuto. La parola è composta dalla radice no, la stessa di nous (= no-os), l’intelletto; e dalla preposizione 182

prò, davanti, in avanti, che troviamo in altre parole di origine greca quali problema, prodromo, prole­ gomeni, profeta. Per Socrate, gli stoici e Plotino, essendo la divinità al di là del tempo, essa conosce in anticipo i nostri pensieri e le nostre azioni. Socrate trattava come folli coloro che negavano l’azione della Provvidenza negli eventi (Senofon­ te, Detti memorabili, I, I, 9); egli sviluppa in segui­ to questo tema per dimostrare come gli dei abbia­ no ordinato la natura affinché provveda ai nostri bisogni (ivi, IV, 3-179). Tre capitoli delle Disserta­ zioni di Epitteto (I, VI; I, XVI; III, XVII) sono consacrati alla Provvidenza; altrove egli afferma che la prima cosa che un filosofo deve sapere è che vi è un Dio che esercita la propria Provvidenza sul­ l’universo (II, XIV, 11). Plotino, a sua volta, contro la dottrina del caso cara agli epicurei, si sforza di dimostrare in due trattati (III, II e III, III), che esi­ ste una Provvidenza universale e una provvidenza individuale per ognuno di noi. Lo stesso Sesto Empirico afferma la certezza di una Provvidenza divina (Ipotiposi, III, III, 2). Alessandro di Afrodi­ sia, nel suo trattato Del destino (XVIII), si fa difen­ sore della Provvidenza degli dei.

pros ti / πρός τι, la relazione (esattamente, «re­ lativamente a qualche cosa»). Una delle dieci categorie di Aristotele. G li esse­ ri relativi dipendono da altri o si riferiscono a 183

psyche

prote philosophia

essi (Categorie, VII); esempi: il doppio in rap ­ porto alla metà, il conoscibile alla conoscenza, il sensibile alla sensazione (Metafìsica, Δ, 15).

prote philosophia (he) / πρώτη φιλοσοφία (ή), la filosofìa prima. Termine con cui Aristotele chiama tu tto ciò che noi denominiamo metafisica.

psyche (he) / ψυχή (ή), l’anima; latino: anima. Principio, di natura o vitale, o spirituale, o più abitualmente di entram be, che anima il corpo. Q uesto corpo può essere l’universo; l’anima è allora l’anima del m ondo: psyche tou kosmou / ψυχή του κόσμου, o tou pantos / του παντός. L’anima sembra esclusivamente vitale in n u ­ merosi frammenti di Eraclito, in cui egli dice che essa nasce dall’acqua (frr. 36, 77) o che si dissecca (fr. 122). Ma leggiamo altrove che essa contiene il Logos, ossia la ragione universale (fr. 45). Troviamo entram bi gli aspetti anche in Marco Aurelio: da un lato egli afferma che Lam­ ina è spirituale (noera / νοερά), e dall’altro che essa è una parte della Sostanza universale (XII, 30,32). In realtà, l’anima um ana per i principali auto­ ri è composta di diverse parti: Luna materiale e 184

mortale, fonte della conoscenza sensibile, l’altra spirituale e immortale, fonte della conoscenza intellettuale. «Pitagora e Platone» scrive Aezio «pensano che l’anima sia divisa in due parti, Lu­ na dotata di ragione, l’altra priva di ragione» (IV, IV, 1). E aggiunge più avanti che l’anima ra ­ gionevole è incorruttibile, m entre l’altra è cor­ ruttibile (ivi, IV, VII, 5). La realtà è del resto meno semplice. Alessan­ dro Poliistore (D.L., V ili, 30) ci insegna che «secondo Pitagora, l’anima um ana si divide in tre parti», alle quali egli assegna del resto dei nom i fantasiosi.12 Ma poiché egli aggiunge che solo la prim a è immortale, è meglio riferirsi di nuovo ad Aezio, il quale precisa che più esatta­ mente, l’anima pitagorica è triplice, essendo la parte priva di ragione com posta da una sotto­ parte affettiva (thym ikon / θυμικόν) e da una sottoparte sensitiva (epithymetikon / έπιθυμητικόν). M a allora è meglio parlare di facoltà mentali. Troviamo la stessa teoria in Platone. Nel Ti­ meo (69c) egli ci m ostra il Dem iurgo m entre for­ ma per l’uomo due anime: Luna dotata di un principio immortale, e destinata a separarsi dal corpo, l’altra m ortale per anim are il corpo. Tut­ tavia, nella Repubblica (IV, 439a-441c), Platone divide l’anima in tre parti; ma procede anch’egli a partire da una divisione bipartita: il principio 12 Intelletto (nous), pensiero (phren), cuore (thymos). 185

psyche

psyche

razionale (logos / λόγος) e il principio irraziona­ le (alogon / άλογον); quest’ultimo però si sdop­ pia in cuore (thymos), che ha la sua sede nel p et­ to e presiede alla vita relazionale, e sensibilità (iepithymia), che ha la propria sede nel ventre e presiede alla vita vegetativa. Platone farà in se­ guito (Repubblica, IX, 580c-583a) corrisponde­ re queste tre parti dell’anima alle classi sociali: il popolo, governato dalla sensibilità; i guerrieri dalla forza, i governanti dalla ragione. Aristotele adotta lo schema bipartito (Etica Nicomachea, VI, I): l’anima um ana com prende da un lato u n ’anima dotata di ragione, dall’altro u n ’anima priva di ragione. Ne L’Anim a, egli sdoppia l ’anima irrazionale. Infatti, egli defini­ sce l’anima «ciò attraverso cui viviamo, perce­ piamo, pensiamo» (IdAnima, II, 2, 414a). Tre funzioni che possono com petere solo a tre ani­ me diverse: u n ’anima vegetativa, che l’uom o condivide con i vegetali e gli animali; un’anima sensitiva e motoria, che condivide solo con gli animali; u n ’anima intellettiva, quella che cono­ sce e capisce, che è «il luogo delle idee» (L’A n i­ ma, III, 4) e che solo l’uom o possiede. Plotino constata come l’anima sia al contempo una e molteplice (IV, II, 2). Se si parla delle parti dell’anima (mere, singolare meros), è in un senso puram ente analogico, e senza somiglianza con le diverse parti del corpo (IV, III, 2). Non si può nemmeno affermare che l’anima sia nel corpo, poiché essa non è estesa (IV, III, 20). Dopo questa 186

premessa, Plotino segue i suoi predecessori; l’ani­ ma è triplice: vegetativa, permette al corpo di nu­ trirsi e crescere; sensoriale e appetitiva, gli per­ mette l’immaginazione e la vita di relazione; razio­ nale, «essa non ha alcun commercio con il corpo» ed è la sede della conoscenza superiore (IV, III, 23), così possiamo dire dell’anima umana che essa è di fatto di natura intelligibile e divina (IV, II, 1). La filosofia dell’anima ha dato luogo, nell’an­ tichità, a cinque grandi temi. • Le facoltà dell’anima. La nozione di facoltà (dynamis / δύναμις), di ordine psicologico, è del resto dipendente da quella di parte (meros'), che è di ordine metafisico, ma ne accentua le divi­ sioni. Per Pitagora, per il quale la realtà è sotto il segno divino della Tetrade,13 (tetraktus / τετρακτύς), le facoltà sono quattro: ragione contem ­ plativa (nous), ragione raziocinante (episteme), opinione (doxa), sensazione (aisthesis). Ma, secondo Aresa Lucano,14 citato da Sto13 Per i pitagorici il principio della Tetrade regge la realtà: vi sono quattro tipi di spiriti (gli dei, i demoni, gli eroi gloriosi, le anime umane), quattro elementi che forma­ no il mondo sensibile, quattro misure che definiscono i corpi (punto, linea, superficie, volume), quattro stagioni, quattro età della vita, quattro virtù cardinali (che ripren­ derà Platone). La Decade aritmetica non è nient altro che la Tetrade, poiché la somma delle prime quattro cifre (l’u ­ nità, il primo pari, il primo dispari, il primo quadrato) è uguale a dieci. 14 Era il quinto successore di Pitagora alla testa della scuola di Crotone (Giamblico, Vita di Pitagora, 266).

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beo (Eclogae pshysicae et ethicae, I, 2), l’anima um ana per Pitagora com prende tre facoltà: l ’in­ telligenza (nous), il cuore (thymos) e la sensibi­ lità (epithymia). Platone lo segue da vicino; le due grandi divisioni dell’anima, razionale e irra­ zionale, sono all’origine di due facoltà: la scien­ za (episteme) e l’opinione (doxa); a sua volta la scienza com porta due gradi: la ragione intuitiva (.noesis / νόησις), che contem pla le Essenze, o principi eterni; e la ragione discorsiva (dianoia / διάνοια), che ha come oggetto le nozioni astrat­ te e i concetti matematici; anche l’opinione com porta due gradi: la congettura (eikasia / εικασ ία ), che ha come oggetto le immagini del reale sensibile; e la fede {pistis / πίστις), che ha come oggetto le stesse realtà sensibili. Aristotele ha descritto diverse scale delle fa­ coltà mentali. N ell’Etica Nicomachea (VI, II) fornisce tre elementi necessari per la ricerca della verità, dal basso verso l’alto: la tendenza Corexis / όρεξις), la cui duplice funzione consi­ ste nella ricerca dell’utile e nella fuga da ciò che è nocivo; la sensazione (aisthesis) necessaria al­ l’esperienza; il pensiero {nous), che ha come funzione l’affermare e il negare. Più avanti (VI, III, 1) egli enum era le cinque specie di attività che hanno la propria origine nell’anima: l’arte (techne / τέχνη), disposizione razionale alla fabbricazione; la scienza {episteme), disposi­ zione razionale alla dim ostrazione; la saggezza {phronesis / φρόνησις), o facoltà razionale rivol­

ta all’azione; l’intelletto {nous) o facoltà di co­ noscere i principi; la sapienza {sophia), o perfe­ zione nei diversi generi di conoscenza. La lista cambia leggermente all’inizio della Metafisica (A, 1), dove la prudenza è sostituita dall’espe­ rienza {empeiria / έμπειρία), conoscenza del­ l’individuale ottenuta tram ite la sensazione e la memoria. Gli stoici considerano tre facoltà mentali: l’at­ trazione {orexis) con il suo negativo la repulsio­ ne {ekklisis / έκκλισις), m oto dell’anima positi­ vo o negativo riguardo alle cose sensibili; l’incli­ nazione {horme / όρμή) con il suo negativo, l’av­ versione {aphorme / αφορμή) o m oto dell’anima positivo o negativo riguardo ai valori; l’assenso {sunkatathesis / συγκατάθεσις), o adesione inti­ ma ai m oti conformi alla N atura (Epitteto, Ma­ nuale, I, 1, XXI, 4; XLVIII, 3; Dissertazioni, III, II, 3; III, XXII, 43; II, XIV, 22; IV, I, 69-73; M arco Aurelio, V ili, 28; Cicerone, De officiis, 28; De finibus, III, 7; hucullus, 12). Secondo Diogene Laerzio (VII, 110), gli stoici accordano aH’anima otto facoltà: i cinque sensi (il che ridu­ ce le prim e cinque a una sola, la sensazione), la parola, la ragione {dianoia), e il potere di gene­ rare {gennetikon / γεννητικόν), che non è pro ­ priam ente mentale. • I rapporti tra l’anima e il corpo. Sono diffici­ li da stabilire, poiché anche l’anima unica si compone di una parte essenzialmente spirituale, che non ha legami con il corpo, e di una parte

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essenzialmente vitale, che necessariamente ani­ ma il corpo. Così, per i pitagorici e per Platone; quando si afferma che l’anima è incatenata al corpo, e che ne patisce violenza, si tratta esclusi­ vamente dell’anima spirituale, poiché l’altra compie il proprio fine. E il famoso gioco di p a ­ role pitagorico soma, sema / σώμα, σήμα, «il corpo è una tomba» ripreso da Platone (Gorgia, 493a), che vale evidentem ente per la prim a ani­ ma, e non p er la seconda. Q uando Archita affer­ ma che l’anima è autonom a (fr. 3 c), è chiara­ m ente di questa che parla. Q uando Platone scri­ ve che l’anima è a immagine delle Essenze eter­ ne, che è immortale, intelligibile e indissolubile (Fedone, 80b); quando ce la mostra, nei legami con il corpo, incollata, ostacolata, inchiodata (ivi, 82e, 67d, 65a, 83c), quando definisce la m orte attraverso la separazione dell’anima dal corpo (ivi, 64c), è sempre e solo dell’anima spi­ rituale che si parla; quanto all’altra, essa m uore con il corpo. Allo stesso modo Aristotele afferma che l’ani­ ma ha bisogno del corpo per subire le sensazio­ ni e le passioni; qui si tratta dunque deU’anima vitale. Q uando infatti, correggendosi, egli con­ stata che ciò che è proprio dell’anima è il pensa­ re, si tratta allora dell’altra; ed è quindi in riferi­ m ento a quest’ultima che può affermare: «Se esiste una funzione o u n ’affezione dell’anima che gli sia propria [conforme alla sua natura], essa potrà avere u n ’esistenza separata dal cor­

po» (L’Anim a, I, 1). Più avanti (II, 1), distingue le parti dell’anima inseparabili dal corpo, e quelle che sono separabili. Così, il sapiente che si dedica alla vita contemplativa attraverso que­ sta ragione estranea al corpo è perfettam ente autonom o, è un essere divino (Etica Nicomachea, X, VII, 4; IX, IV, 4). • Origine e destino dell’anima. Per i pitagorici l’anima (spirituale) è un fram mento dell’anima universale che anima la N atura (Cicerone, De natura deorum, I, 11).16 Per Eraclito, secondo u n ’ottica del tutto materialista, l’anima nasce dall’acqua (frr. 12,36). Per Platone, è il D em iur­ go, dio creatore, o meglio Artigiano divino, che ha plasmato le anime (Timeo, 41e-42a). A risto­ tele ci dice, senza dare altre spiegazioni, che l’a­ nima dianoetica, cioè spirituale, «proviene dal­ l’esterno» (Generazione degli animali, 736b). Per gli stoici, l ’anima è un fram m ento dell’ani­ ma del m ondo, «un soffio posto in noi dalla N a­ tura alla nostra nascita» (D.L., VII, 156); e poi­ ché il M ondo è Dio, «le nostre anime sono stret­ tam ente unite a Dio come sue parti e fram m en­ ti» (Epitteto, Dissertazioni, I, XIV, 6). Secondo il materialismo di Epicuro, l’anima umana è un corpo molto sottile, fattore di sensibilità, che compare contemporaneamente al corpo e si di­

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16 Possiamo citare anche Eraclide Pontico (IV secolo a.C.): «Siamo giunti in questa vita da un’altra vita e da un’al­ tra natura» (Cicerone, Tusculanes disputationes, V, 9).

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sgrega alla sua morte (D.L., X, 63-65). Plotino pone l’interrogativo: «Poiché gli esseri intelligibi­ li sono separati (dal corpo), come entra l’anima nel corpo?». E dà una risposta contorta, che pos­ siamo riassumere così: è l’anima ipostatica che, nella sua tendenza a produrre un ordine confor­ me a quello che essa contempla nel Nous, p rodu­ ce nel corpo umano un’emanazione di se stessa il­ luminata dall’intelligenza (IV, VII, 13). Che cosa accade all’anima spirituale alla m or­ te del corpo? Per Ferecide, l’anima è immortale (Lattanzio, Istituzioni divine, VII, 7); ma noi ignoriamo che cosa ne facesse all’uscita dal cor­ po. P er i pitagorici, l’anima sopravvive al corpo a causa della propria incorruttibilità; incontria­ mo qui due dottrine differenti. Per la prima, più metafisica, essa ritorna al kosmos, dove con­ durrà una vita incorporea; per la seconda, trib u ­ taria dell’orfismo, essa passa in un altro corpo e inizia un ciclo infinito di trasmigrazioni (D.L., V ili, 14; Ippolito, Contro le eresie, I, prol.; G io ­ vanni Crisostomo, Omelia per San Giovanni, II, 3). Ancora una volta Platone si dimostra fedele discepolo dei pitagorici, ma stabilisce la sorte dell’anima in base al sistema morale: l’anima che si sia completam ente purificata in questa vita at­ traverso l’esercizio della katharsis torna al m on­ do intelligibile da cui proviene (fed o n e , 80d, 8la; Timeo, 69c). Se essa non si è sufficientem ente purificata, obbedisce alle leggi della tra ­ smigrazione: per i virtuosi che non hanno p rati­

cato la filosofia, reincarnazione nei corpi di gen­ te onesta, o anche di formiche o api; per i mal­ vagi nei corpi di sparvieri, lupi, nibbi (Fedone, 81e-82b). Q ui possiamo constatare la confusio­ ne di Platone tra i due tipi di anima: come può l’anima spirituale, la sola che sfugge alla morte, dimorare in corpi di animale? Aristotele sviluppa riguardo alla vita ultrater­ rena due affermazioni inconciliabili: da un lato l’anima dianoetica, l’intelletto, poiché è im m or­ tale e indipendente dal corpo, sussiste dopo la m orte (E A n im a , III, 430a); dall’altro, non vi è per l’anima accesso alla beatitudine eterna: «La m orte è il limite al di là del quale non vi è più né bene né male» {Etica Nicomachea, III, VI, 6). Per gli stoici, l’anima individuale, uscita dall’a­ nima universale, vi ritorna alla m orte del corpo: l’una e l’altra si dissolvono nel Tutto (Marco Aurelio, IV, 14; V, 13). Plotino adotta la dottri­ na di Platone: «Dove va l’anima quando esce dal corpo? [...] Essa dunque se ne va (nel M on­ do intelligibile) [...] a m eno che non prenda un altro corpo» (IV, III, 24). • L’Anim a del mondo. E un concetto universa­ le nell’antichità. «Pitagora credeva che vi fosse un’anima contenuta tutta intera nella N atura [...] di cui le nostre anime non sono che dei frammen­ ti» (Cicerone, De natura deorum, I, 11). È in ra­ gione del governo interno di quest’anima che Filolao attribuisce l’eternità al m ondo (Stobeo, Eclogae pshysicae et ethicae, XX, 2). Lo Pseudo

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Timeo, neopitagorico, avrebbe redatto un Tratta­ to dell’anima del mondo. Nel suo materialismo, Diogene di Apollonia la identifica con l’aria (fr. 3). Platone ci mostra il Demiurgo mentre crea l’a­ nima del mondo, che costituisce il cielo circolare; essa del resto precede il corpo del mondo, che avvolge, penetra, e nel quale introduce l’armonia (Timeo, 34b-36e). «Essa è invisibile ma, essendo partecipe del calcolo e dell’armonia, essa è la più bella delle realtà generate dal migliore degli esse­ ri intelligibili» (ivi, 37a). Per gli stoici, l’universo razionale è retto da u n ’anima immortale (D.L., VII, 136; Marco Aurelio, VI, 14; V ili, 7). Plotino non produce alcun trattato su una realtà così im ­ portante; ma essa pervade l’intera sua opera. Egli le assegna del resto nomi diversi: psyche kosmou / ψυχή κόσμου (I, II, 1), psyche holou / ψυχή όλου (II, II, 2), psychepantos / ψυχή πόντος (IV, IV, 10, 13 ), psyche pasa17 / ψυχή πάσα (III, IX, 3 ). Inoltre la considera una copia dell’anima in sé (autopsyche) che risiede nell’Intelletto (Nous) (V, IX, 14). • Idanima ipostasi. E un concetto specifico di Plotino. Q uest’anima non è l’anima del mondo: Realtà spirituale assoluta, essa procede dal Nous, è la seconda ipostasi, e si colloca così m e­ tafisicamente tra questo Intelletto assoluto e la materia, tra il M ondo intelligibile e il m ondo sensibile. È di questa che partecipa l’anima um ana (V, I; IV, V, VI; III, IV ecc.).17

R

rhetorike (he) / ρητορική (ή), la retorica. Platone vi consacra il Gorgia·, arte del discorso (450c), della persuasione (453a), essa non è p ro ­ priam ente u n ’arte (462b-c), ma è per l’anima ciò che la cucina è per il corpo (463 d). Aristotele ha redatto una Retorica, definendola «il potere (dynamis) di considerare in ogni argom ento ciò che è adatto a indurre persuasione» (I, II, 1).

17 Femminile dell’aggettivo pas, il cui neutro è pan.

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schema (to) / σχήμα (τό), la figura. In logica, designa le diverse figure del sillogismo (Aristotele, Analitici primi, I, 23-24).

skeptikos (ho) / σκεπτικός (ό), lo scettico. Aggettivo: scettico, che dubita; sostantivo: lo scettico, m em bro di una scuola filosofica, fon­ data da Pirrone di Elide (365-275 a.C.) e che ba­ sava il suo sistema sul dubbio. Lo scetticismo, sistema degli scettici, è un ter­ mine che risale al X V III secolo. Ma il sistema stesso, e la scuola che lo adottò, si costituirono nel IV secolo a.C.: gli adepti si autodefinivano skeptikoi, partigiani del dubbio, più esattam en­ te del dubbio assoluto e universale, in opposi­ zione ai dogmatici, che professavano la certezza della verità. Q uesta denominazione deriva dal verbo skeptomai, dal significato abbastanza am­ pio, considerare, esaminare, riflettere, e deriva anch’esso da skopo, che ha lo stesso significato. Tra i sostantivi composti: episkopos, il guardia­ no, più tardi il vescovo. 196

«I filosofi scettici» scrive Diogene Laerzio (IX, 74) «avevano il costume di distruggere le dottrine delle altre scuole senza fondarne alcu­ na.» In tal modo impiegavano le risorse della ra­ gione per negare il potere della ragione. Sembra che Pirrone non abbia scritto nulla e che si sia li­ m itato a trasm ettere le sue teorie ai suoi disce­ poli, tra cui i più celebri furono Timone (Sulle immagini, Sulle sensazioni) ed Enesidem o {Su Pirrone, Contro la saggezza). D i queste opere ci restano solo dei frammenti. Invece, possediamo ancora l’opera di uno degli ultimi adepti, Sesto Empirico, che espone in m odo sistematico du­ rante il III secolo d.C. la dottrina di questa scuola in due grandi opere: Contro i matematici, ossia coloro che insegnano (—> mathema), in un­ dici libri; e le Ipotiposi o Schizzi pirroniani, poi­ ché Yhypotyposis è un’immagine, uno schizzo, una descrizione. Si tratta di u n ’abile esposizione dell’insegnamento di Pirrone e dei suoi discepo­ li, oltre che un apporto im portante per la cono­ scenza di tutte quelle dottrine che egli definisce dogmatiche, e che tenta di demolire.

soma (to) / σώμα (τό), il corpo; plurale semata (ta) / σώματα (τα) latino: corpus, plurale corpora. La realtà sensibile ito aistheton) opposta alla realtà intelligibile {to noeton). 197

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soma

Distinguere il corpo umano (normalmente al singolare), il corpo del m ondo (considerato nel suo Tutto) e il corpo del m ondo sensibile (nor­ malmente al plurale). Tra questi, i corpi semplici (hapla / άπλά), che sono primi {proto), e i corpi composti (syntheta o m ikta), che sono secondi. • A l singolare, a) Il corpo umano. I pitagorici hanno costruito tutta u n ’antropologia sui rap ­ porti deH’anima con il corpo. L’anima è indipendente dal corpo perché è autonom a (Archi­ ta, fr. 3c); se essa si trova in questo m ondo unita al corpo, «è per punizione di alcune colpe» (Filolao, fr. 23d); tuttavia, «l’anima ama il suo cor­ po, perché senza di esso non potrebbe sentire» (Id., fr. 23a). Ma, poiché quest’unione è contro natura, il corpo è per l’anima una tom ba (Plato­ ne, Gorgia, 493a); così, il filosofo è colui che, at­ traverso l’esercizio spirituale, giunge a sfuggire al suo corpo (Pitagora, Versi aurei, 70). Stessa dottrina in Platone; è con violenza che l’anima è attaccata al corpo (Fedone 81e; Timeo, 44a); es­ sa è legata (Fedone, 82c), incatenata (ivi, 83b), incollata (ivi, 82e), inchiodata (ivi, 83c). La filo­ sofia consiste nello sciogliere l’anima dal corpo (ivi, 67d; 82d; 83a-b); la m orte è, infine, la sepa­ razione {apallage / απαλλαγή) dell’anima dal corpo (ivi, 64c); allora, l’anima del filosofo, libe­ rata dal corpo «se ne va verso ciò che è divino» (ivi, 8 la). Stessa filiazione per la trasmigrazione delle anime, secondo Pitagora: «l’anima passa

da un corpo all’altro in base a leggi definite» (Ippolito, Philosophoumena, I, Prol.). Platone attribuisce questa dottrina a « u n ’antica tradizio­ ne» (Fedone, 70c), che egli adotta (ivi, 81e-82b). Per Aristotele il corpo form a con l’anima u n ’unica sostanza; l’anima è allora l ’entelechia (entelecheia) del corpo {LAnima, III, 1); così, «l’anima non è separabile dal corpo» {ibid.), poiché è per esso «causa e principio», aitia kai arche. P er Epicuro la saggezza è nel piacere, che consiste per il corpo nel non soffrire e per l’ani­ ma nel non essere turbata {Lettera a Meneceo, in D.L., X, 131). Per il materialismo stoico l’anima è un corpo (Sesto Empirico, Contro i matemati­ ci, VII, 38). Plotino ha scritto un trattato su La discesa delVanima nel corpo (IV, V ili), che inizia con que­ sta frase: «Spesso mi sveglio a me stesso fuggen­ do dal mio corpo». Egli adotta la trasmigrazione (VI, IV, 15). b) Il corpo del mondo. Per Melisso, «se l’Uno esi­ ste, non ha corpo» (Simplicio, Fisica, 109). Per Pla­ tone il mondo è un corpo che u n ’anima penetra in­ teramente {Timeo, 34b, 36c). Per gli stoici l’Univer­ so è un grande corpo (Sesto Empirico, Contro i ma­ tematici, V ili, 10). «E corpo dell’Universo, dice Plotino, ha azioni e passioni» (VI, V, 10). • A l plurale. Platone chiama corpi i quattro elementi tradizionali, fuoco, terra, acqua, aria {Timeo, 53c-e), Aristotele definisce un corpo «ciò che è lim itato da una superficie» (Fisica,

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III, 5, 204b). Più avanti (V ili, 9), distingue due tipi di corpi: i corpi prim i (prota / πρώτα), che sono indivisibili (atoma / άτομα), e quelli che sono originati dalla loro composizione. In N a­ scita e morte, egli difende la tesi secondo la qua­ le i corpi non sono divisibili aH’infinito (II) e m ostra che è nei corpi che interviene l’altera­ zione (alloiosis) (IV), come del resto l’aumento e la diminuzione (V). N e L’A nim a (II, 1) distin­ gue tra i corpi naturali (o primi) quelli che pos­ siedono la vita e quelli che non ce l’hanno. Ne Il cielo presenta i corpi come parti dell’universo (I, 1), poiché tutti questi corpi naturali sono mobili (I, 2); e riprende la duplice nozione di corpo semplice (haploun / άπλοΰν) e di corpo com posto (syntheton / σύνθετον) (I, 5). Stessa distinzione in E picuro (Epistola a Erodoto, D.L., VII, 141). P er Plotino, i corpi tratti dalla m ateria tram ite u n ’operazione formale sono d e­ finiti, m a senza vita né intelligenza (II, IV, 5).

Il sapiente (sophos) è l’uomo che si dedica a una ricerca individuale sui misteri del m ondo e sulla propria condotta. Pare che all’origine del p en ­ siero greco, esistesse un piccolissimo num ero di questo tipo di uomini, poiché le generazioni successive ne catalogarono sette esemplari.

Sophos / σοφός all’inizio significava abile ed era un semplice qualificativo, passò poi a so­ stantivo, e acquisì un significato intellettuale in cui si associavano il sapere e la celebrità. Troviamo il term ine sophia in Anassagora: in uno dei frammenti (21b), egli stima che la supe­ riorità dell’uomo sull’animale derivi dall’uso della sapienza e della tecnica. Eraclito impiega le parole sapiente e sapienza in senso intellettua­ le: la sapienza consiste «nel conoscere il Pensie­ ro che governa il Tutto» (fr. 41), e dunque nell’am m ettere l’unità del Tutto (fr. 50). Con So­ crate, il term ine sophia assume un significato molto preciso: è il sapere acquisito tram ite l’e ­ sperienza, opposto al sapere libresco (Senofon­ te, D etti memorabili, III, 4-5). Con Platone, la sapienza diviene la virtù p ro ­ pria della ragione, che destina a dirigere lo Stato (Repubblica, 586-587, 589-592). Con Aristotele, «La sapienza è una scienza che ha come oggetto certe cause e certi principi» (Metafisica, A, 1, 982a). Si tratta di una nozione superlativa: il sa­ piente è colui che, da un lato possiede un sapere più vasto degli altri, e dall’altro è capace di cono­ scere cose difficilmente accessibili all’uom o (M e­ tafisica, A, 2). Così «ciò che i greci chiamano sa­ pienza è quello che vi è di più elevato per l’insie­ me delle scienze» (Etica Nicomachea, X, VII, 2). Con le scuole ellenistiche si torna a una con­ cezione più pratica. P er Epicuro «il sapiente non teme la morte, la vita per lui non è un far-

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sophia (he) / σοφία (ή), la sapienza; latino: sapientia.

sophistes

sophistes

dello, né considera che sia un male smettere di vivere» (D.L., X, 126). Per gli stoici, il sapiente, ideale deU’umanità, è l’uom o libero dalle passio­ ni, insensibile alla gloria, al piacere, al dolore: egli è divino (D.L., VII, 117, 119). Plotino ri­ prende la nozione aristotelica: la sapienza consi­ ste «nella contemplazione degli esseri che pos­ siede Flntelletto» (I, II, 6). In realtà, i famosi sette Sapienti del primo pen­ siero greco furono undici, poiché alla prima lista tradizionale furono aggiunti altri nomi. I sette ori­ ginali sono: Talete di Mileto, Solone di Atene, Chilone di Sparta, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, Cleobulo di Lindo, Periandro di Corinto (D.L., 22-100). Altri vi aggiungono Anacarsi lo Scita, Misone di Chene, Epimenide il cretese, Ferecide di Siro, che sarebbe stato il maestro di Pita­ gora. Ermippo ne enumera addirittura diciassette, «di cui ciascuno ne sceglie poi sette di sua prefe­ renza» (D.L., I, 42). Egli nomina anche, oltre ai precedenti, Acusilao, Leofanto, Aristodemo, Pita­ gora, Laso di E m ione, Anassagora e Misone.

Q uesto term ine, derivato da sophos, il sapiente, designa anch’esso in origine un uom o abile. Ma, diversamente da sapiente che assumerà un signi­ ficato elogiativo, il term ine sofista assumerà nel

corso del V secolo un significato peggiorativo, a causa degli abusi dei pensatori che porteranno questo nome: Gorgia, Protagora, Ippia, P rodi­ co, Trasimaco, Polo, Eutidemo. Prim a di Platone, sophistes significava spesso sophos (Timone di Fliunte, Siili, 1). Fino al V secolo il sofista di professione era in G recia un uom o di grande onorabilità. Egli faceva parte della vita pubblica e costituiva un elemento particolarm ente apprezzato della cultura popo­ lare. Inizialmente non era che un oratore: si re­ cava nei centri di pellegrinaggio i giorni di festa e recitava dinnanzi al pubblico dei brani di elo­ quenza sui più diversi soggetti. Poi divenne in­ segnante di retorica, e si proponeva di insegna­ re l’arte della parola. Infine, siccome quest’arte è propria di coloro che vogliono difendere una causa, avvocati e soprattutto politici, il sofista si fece m aestro di trucchi: l’educazione che fornì non fu più estetica, ma utilitaristica; l’atteggia­ m ento e le ricette per riuscire negli affari p u b ­ blici. O ra, un discorso subordinato al successo non è più guidato dalle leggi della verità, ma da quel­ le dell’interesse. Sofista diviene così sinonimo di arrivista: relativista riguardo ai fini, senza alcu­ no scrupolo riguardo ai mezzi, astuto nell’argo­ mentazione. Platone attaccò apertam ente la corporazione. Nel suo dialogo denom inato, appunto, il Sofista, cercando di definire questa sorta di ciarlatano

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sophistes (ho) / σοφιστής (ό), il sofista; latino: sophista.

spelaion

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intellettuale, egli ci offre una serie di ritratti p it­ toreschi e poco ameni, come «il sofista è un cac­ ciatore interessato di giovani ricchi» (223a, b). «Il sofista è un fabbricante di sapere che ven­ de personalmente la propria mercanzia» (224c, 23 ld). Più didattico che polemico, Aristotele ordinò in un trattato, per confutarli, i tipi di ragiona­ m enti impiegati dai sofisti. Sarà questa la m ate­ ria dell’ultimo libro dell’Organon, Sophistikoi elenchoi (Σοφιστικοί έλεγχοι).

sophrosyne (he) / σωφροσύνη (ή), la temperan­ za; latino: temperantia. Virtù che consiste nel regolare i desideri e le pas­ sioni. Derivato da sophron / σώφρων, saggio, p ru ­ dente, assennato, il term ine indica una certa ar­ te di dirigere la propria condotta. Senofonte, richiam ando il com portam ento di Socrate, impiega il term ine nel senso di sapienza {Detti memorabili, I, II, 21): quando evoca la temperanza, impiega quello di enkrateia / έγκράτεια (ivi, IV, V, 1-2). Platone intende per sophrosyne la temperanza; ne fa una delle quat­ tro principali virtù, quella che regola Yepithymia, ossia il desiderio {Repubblica, IX, 591c-d) (—>arete). Aristotele la riprende in questo stes­ so senso; essa è il giusto mezzo tra l’insensibilità 204

e il vizio {Etica Nicomachea, II, VII, 3). In segui­ to ne parla più diffusamente quando fa l’elenco delle virtù (ivi, III, X-XII; Etica Eudemea, II, II, VI, I; Grande etica, II, IV-VI). Essa è ancora, per Zenone di Cizio, una delle quattro virtù principali (Plutarco, Sulle contraddizioni degli stoici, VII; D.L., VII, 92). Nel suo trattato Sul­ l’amore {Peri erotos), Plotino assegna due livelli alla iop/?roiy«é,-temperanza: quello che regola la pratica dell’amore fisico atto alla riproduzione, e quello che regola l’ammirazione estetica per i bei corpi (III, V, 1).

spelaion (to) / σπήλαιον (τό), la caverna; latino: spelunca. Allegoria forgiata da Platone all’inizio del libro V II della Repubblica (514a-518b) per raffigu­ rare la condizione um ana e il com pito del filo­ sofo. La caverna raffigura il m ondo sensibile, luo ­ go dei corpi in cui si sono incarnate le anim e in seguito alla loro caduta dal m ondo intelligibile. La penom bra in cui sono imm ersi è quella del­ la conoscenza oscura, da cui riusciranno a libe­ rarsi solo grazie alla purificazione (katharsis) e alla dialettica {dialektike), per ottenere la co­ noscenza intelligibile, rappresentata dalla luce del sole. 205

spelaion

stasis

Possiam o riassumere così l’allegoria della ca­ verna: Allegoria

Significato

Gli uomini, dalla nascita, sono incatenati in una di­ mora sotterranea.

Gli uomini sono, dopo la loro incarnazione, immersi nella penom bra del corpo.

Delle realtà esterne alle quali voltano le spalle, conoscono solo la proiezione delle om­ bre sulla parete.

Essi conoscono le vere Realtà eterne solo attraver­ so il mondo sensibile, om­ bra del mondo reale (doxa).

Il prigioniero liberato è in­ capace di muoversi nel mondo reale; è abbagliato e non riesce a distinguere i veri oggetti.

La liberazione dell’anima è difficile e dolorosa: ai pri­ mi livelli della katharsis, non si possono conoscere le Essenze.

I prigionieri trascinati fuo­ ri si rivoltano preferendo far ritorno nella caverna.

A causa di questa difficoltà, la maggior parte degli uo­ mini rifiuta la filosofia.

Se vogliono davvero vede­ re il mondo superiore, oc­ corre che procedano siste­ maticamente guardando ini­ zialmente le ombre degli uomini e le loro immagini nell’acqua, e poi gli oggetti stessi. In seguito vedranno durante la notte la luna e le stelle, e alla fine il sole.

Se desiderano davvero pervenirvi, occorre che passino attraverso la dia­ lettica: all’inizio la conget­ tura (eikasia), poi la perce­ zione (pistis), in seguito la conoscenza delle Essenze (■eide), infine quella del Be­ ne stesso (Agathon).

Allora capiranno che è il so­ le che governa il mondo sen­ sibile, e che esso era la causa delle ombre sulla parete.

Allora, il filosofo vede co­ me il Bene sia la causa del­ le Essenze, come pure del mondo sensibile.

Colui che, abituato alla vi­ sta del sole, ritorna alla caverna, ne ha gli occhi feriti. Tuttavia vi ritorna per compassione dei suoi an­ tichi compagni.

Il filosofo non prova altro che indifferenza per il mon­ do sensibile e i suoi piaceri, non vi trova che fastidio e dolore. Tuttavia egli si me­ scola con gli uomini per portar loro la verità

Ma costoro si beffano del suo smarrimento, e rifiu­ tano di seguirlo in alto. Provano anche dell’odio per lui e cercano di ucci­ derlo.

Ma questi non riconosco­ no la sua santità e rifiutano la conversione. Preferisco­ no sbarazzarsene definiti­ vamente, come avvenne nel caso di Socrate.

stasis (he) / στάσις (ή), il riposo. Deriva dal verbo histem i / 'ίστημι, m etto, pon­ go. Q uesto termine indica l’immobilità, la per­ manenza, la continuità. E l’opposto di —» kinesis, il movimento. Metafisicamente, stasis segna la perm anenza di ciò che è eterno, al contrario del cam biam en­ to proprio di ciò che è temporale. N on è però l’unico term ine che i filosofi oppongono a kinesis. Troviamo: - nei pitagorici, to eremoun / το ηρεμούν18 (Aristotele, Metafisica, A, 5); - in Parmenide, xyneches / ξυνεχές (arcaico) e akineton / ακίνητον (fr. VII, 25, 26); 18 Dal verbo eremo / ηρεμώ, sono tranquillo. Troviamo il termine anche in Platone (Sofista, 248e).

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steresis

- in Aristotele, akineton (Fisica, V, 1-2), syneches / σ υνεχές (ivi, VI, 1) ed eremia / ηρεμία (ivi, V ili, 3, 8). Nel Sofista (248d-252a; 254b-255b), Platone fa del riposo e del movimento due essenze generiche che, essendo opposte l’una all’altra, stabiliscono l’esistenza di un non-essere per l’alterità. Il riposo (inizialmente akineton, poi stasis) è proprio pre­ sentato qui come il carattere degli esseri privi di cambiamento. Plotino (VI, III, 27) propone di de­ finire diversamente gli esseri senza cambiamento, assegnando il nome di stasis agli esseri intelligibili e di eremia agli esseri sensibili. Altrove (III, VII, 2) attribuisce il riposo all’eternità {aion / αίών) e il movimento al tempo (chronos / χρόνος).

la privazione, opposta al possesso (hexis), è uno dei modi dell’opposizione (Aristotele, Categorie, X).

stoicheia (ta) / στοιχεία (τά), gli elementi; lati­ no: elementa.

Termine introdotto da Aristotele. Uno dei tre prin­ cipi (—> arche) degli esseri naturali, con la materia (hyle) e la forma (morphe) (Fisica, I, 7, 190b); essa è l’essenza dell’indeterminato (to aoriston / rò άόριστον) (ivi, III, 2); il riposo (eremia) è la privazione di movimento (Vili, 8). Per riassumere «la privazione si dà quando un essere manca di uno degli attributi che gli sarebbe naturale possedere» (Metafisica, Δ, 22). Adottata da Plotino: il male è la privazione di bene (I, V ili, 11). La materia è privazione (II, IV, 13), il non-essere è privazione (II, IV, 14). In logica

I com ponenti semplici del m ondo sensibile. Plurale del neutro to stoicheion (τό σ τοιχεΐον), raram ente impiegato da solo, poiché il reale si presenta come una coabitazione degli elem enti semplici che lo com pongono. Aristotele defini­ sce l’elemento: «Un prim o com ponente di un essere, che gli resta im m anente, e che è esso stesso indivisibile in altre specie» (Metafisica, A, 3). Nella storia del pensiero greco gli elementi primi del m ondo si presentano invariabilmente come quattro: l’acqua, to hydor (τό ϋδωρ); l’aria, ho aer (ó òop); la terra, he ge (ή γη); il fuoco, topyr (xò πΰρ). Q uesta quadrilogia, apparsa con Pitagora, è adottata da Platone, che la trasm ette ad A risto­ tele, del quale sono tributari da un lato i pensa­ tori latini (con Cicerone in testa), dall’altro i pensatori medievali, prim a musulmani, poi cri­ stiani. A causa dell’autorità di Tommaso d ’Aquino, questa teoria continua a sussistere fedel­ mente sino alla fine del X V III secolo. O ccorre­ ranno i lavori di Lavoisier (1743-1794), poi di Dalton (1766-1844) per pervenire a una defini­

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steresis (he) / στέρησις (ή), la privazione; lati­ no: privatio.

stoicheia

stoicheia

zione e a una nom enclatura dei corpi semplici che compongono l’universo. La teoria dei quattro elementi è certam ente di derivazione egizia. In un inno ritrovato nel tem ­ pio di E1 Khargheh, e rivolto alla Divinità uni­ versale, si canta: «Tu sei la terra, tu sei il fuoco, tu sei l’acqua, tu sei l’aria». Pitagora, che aveva soggiornato a Eliopoli d ’Egitto, la insegna a Crotone (D.L., V ili, 25). La teoria fu in seguito adottatta dai suoi discepoli, in particolare Filolao (fr. 6) e Senofane (IX, 18). Eraclito assegna u n ’evoluzione ciclica ai quattro elementi: «La vita del fuoco nasce dalla m orte della terra; la vi­ ta dell’aria nasce dalla m orte del fuoco; la vita dell’acqua nasce dalla m orte dell’aria; la terra nasce dalla m orte dell’acqua» (fr. 76). Per E m ­ pedocle, i quattro elementi nascono da u n ’Unità prima, l’U no (Hen / έν), senza che di quest’ulti­ mo venga precisata la natura: «Dall’Uno sorge il molteplice: il fuoco, l’acqua, la terra e l’aria» (XVII, 18). Q uando D em ocrito spiega come gli atomi indifferenziati (apeira / άπειρα), traspor­ tati da un vortice, diedero origine a quattro cor­ pi, egli nom ina il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra (D.L., IX, 44). Platone fa propria questa eredità. Certo, iro­ nizza a proposito di coloro che a volte fondono gli esseri molteplici in uno e fanno uscire l’uno dal molteplice, a volte dividono il reale in ele­ m enti considerando ciò pure chiacchiere {Sofi­ sta, 252b); ma altrove parla seriamente degli

Inoltre, gli stessi elementi servono alla costitu­ zione specifica dei corpi geometrici: la terra per il cubo, il fuoco per la piramide, l’acqua per l’i­ cosaedro, l’aria per l’ottaedro (55d-56b). Tutta­ via, nelle Leggi (X, 891c-d), Platone chiede al suo discepolo di fare molta attenzione alla rela­ tività dei quattro elementi: essi non sono primi nell’universo, poiché l’anima li precede. Aristotele nel libro Δ, 3 della Metafisica, che rappresenta il suo lessico filosofico, dedica un cenno al term ine stoicheion. Egli ricorda (Meta­ fisica, A, 3) che Em pedocle enumerava come elementi «i quattro corpi semplici». Ma poi al­ larga l’attribuzione del termine: in Leucippo e Dem ocrito gli elementi sono il pieno e il vuoto, in Pitagora il Pari e il Dispari (A, 5). Nel suo trattato II cielo, Aristotele aggiunge un quinto

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«elementi dell’universo» (Timeo, 48b; Politica, 278d). Nel Filebo (29a), si accontenta di affer­ mare che l’universo risulta dalla composizione di quattro corpi: fuoco, acqua, aria, terra. Ma nel Timeo, oltre a ripetere più volte quest’affer­ mazione (42a, 46d, 48b, 51a, 53c, 55e), si ab­ bandona a un eccesso di fantasia; per costituire il m ondo, il Dem iurgo prese inizialmente il fuo­ co e la terra; ma per unirli, ebbe bisogno dell’a­ ria e dell’acqua; e Platone arriva a stabilire delle proporzioni (32b): fuoco _ aria

aria _ acqua acqua terra

syllogismos

symbebekos

elemento, l’etere (αιθήρ), elemento del cielo e degli astri. Egli dedica il libro II del Sulla gene­ razione alla critica della concezione degli ele­ menti nei suoi predecessori. Gli stoici adottano i quattro elementi, la cui riunione «forma una sostanza priva di qualità che è la materia. Il fuoco è caldo, l’acqua è um i­ da, l’aria è fredda, la terra è secca» (D.L., VII, 137). I presocratici ionici, anteriori a Pitagora, che non erano tributari dell’Egitto ma della Mesopotam ia e della Fenicia, pongono all’origine del m ondo un elem ento unico, che è un principio [arche). M aterno, autore del IV secolo d.C., tenta di trovare, ma senza successo, l’origine dei quattro elem enti presso i diversi popoli d ’Oriente: l ’acqua presso gli egiziani, la terra presso i frigi, l’aria presso gli assiri, il fuoco presso i persiani [De errore profanarum religionum, I, 4). Altro significato di stoicheion·. la sillaba, ele­ m ento della parola e dell’eloquio, suono indivi­ sibile, quello che noi ora chiamiamo un fonem a (Aristotele, Poetica, XX).

Analitici prim i (I) e più brevem ente nei Topici ( I , 1 ).

symbebekos (to) / συμβεβηκός (τό), l’acciden­ te; latino: accidens. La sostanza è ciò che esiste in sé, senza aver bi­ sogno di altro se non di se stessa per esistere. L’accidente è ciò che esiste nella sostanza, senza poterne essere separato. In «una mela verde», la mela, sostanza, resta mela quando cambia colo­ re; il verde, accidente, non può esserne separa­ to: quando scompare, modifica la qualità della mela, m a senza cambiare la sua realtà.

Logica. È il tipo stesso del ragionamento ded u t­ tivo, di cui Aristotele definisce le regole negli

Deriva dal verbo symbaino / συμβαίνω, arrivo, sopraggiungo, ta symhanta / τα συμβάντα, gli eventi. Il termine fu introdotto in filosofia da Aristotele, che ne fa una supercategoria; le cate­ gorie infatti com prendono la sostanza e nove ac­ cidenti (—» kategoria). In seguito il termine è en­ trato nella logica. Porfirio lo definisce: «Ciò che accade e scompare senza provocare la distruzio­ ne della sostanza». N e distingue due tipi: o se­ parabile dalla sostanza (dormire), o inseparabile (il colore nero del corvo) (Isagoge, XII). Nella Metafisica (Δ, 30) Aristotele definisce l ’accidente: «Ciò che appartiene a un essere, e può venire affermato con verità di questo esse­ re, ma non è né necessario, né costante». N otia­

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syllogismos (ho) / συλλογισμός (ò), il sillogi­ smo.

symbebekos

mo come quest’ultima precisazione restringa la definizione, poiché, per Porfirio, un accidente può essere inseparabile dalla sostanza; più avan­ ti (E, 2), Aristotele oppone l’Essere preso asso­ lutamente (haplos), che è oggetto di scienza, e l’essere per accidente {kata symbebekos), che sfugge alla scienza; infatti, le sostanze dimorano sempre nello stesso stato, e sono dunque esseri necessari, inoltre l’accidente è imprevedibile, la sua causa è il caso (tyche / τύχη) (ivi, E, 3). Stes­ sa analisi più avanti (K, 8). Allo stesso modo nel­ la Fisica (II, 5), i fatti accidentali hanno come causa il caso. Nei Topici (II, 1) Aristotele mostra come sia difficile non includere l’accidente tra le proposizioni universali. Plotino oppone la sostanza, che è l’essere preso assolutamente {haplos), e l’accidente, che è essere per partecipazione (metalepsis) e in un significato secondo (deuteros) (VI, III, 6). Dal punto di vista logico, Porfirio definisce l’accidente: «Ciò che non è né genere, né differenza, né specie, né pro ­ prio (—>kategoria), ma che è tuttavia sempre sus­ sistente in un soggetto» (Isagoge, XIII).

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T

techne (he) / τέχνη (ή), l’arte; latino: ars. L’attività um ana che, invece di piegarsi alle leggi della N atura, perm ette all’uom o di agire secon­ do la propria natura. Tuttavia la parola techne traduce due tipi mol­ to diversi di attività. • La trasformazione della natura per ricavar­ ne u n ’opera: è ciò che noi chiamiamo le belle ar­ ti. Qui, pur essendo opposta alla N atura, l’arte è un’imitazione della Natura: sarà questa la teoria classica che prevarrà fino all’epoca romantica. È questo l’argomento su cui si basa Platone per condannare l’arte: pittura e poesia non fanno che imitare senza poter creare, sono arti d ’illu­ sione {Repubblica, X, 602c-604a). Così è anche per Aristotele. Da un lato, egli oppone l’arte alla Natura; vi sono due tipi di es­ seri: quelli che sono per natura {physei / φύσει), gli animali, le piante e i corpi semplici; e quelli che sono prodotti dall’arte {apo technes / άπό τέχνης) (ivi, II, 1, 192b). Dall’altro lato, egli de­ finisce l’arte come u n ’imitazione della Natura: he techne mimeitai ten physin / ή τέχνη μιμείται την φύσιν {Fisica, II, 2, 194a). 215

techne

techne

• L’applicazione di una conoscenza generale a singoli casi. Per Platone, la virtù è l’unione della scienza (episteme) e dell’arte {Ione, 532c-e; Prota­ gora, 357b-c); il mestiere è l’applicazione di una conoscenza generale a dei casi concreti: così è per il pilota e il medico {Repubblica, I, 341d-342e). Per Aristotele «l’arte nasce quando un unico giu­ dizio universale, applicabile a tutti i casi simili, si forma da una moltitudine di nozioni acquisite tramite l’esperienza» {Metafisica, A, 1, 98la). In effetti, presso entram bi questi due grandi autori che ci hanno trasmesso una filosofia del­ l’arte, troviamo alcune teorie che sono tipica­ mente loro. Platone oppone l’arte all’ispirazione. L’arte è inferiore alla N atura, poiché non ne è che l’im i­ tazione; e la N atura è inferiore alle Essenze eter­ ne, poiché essa non ne è che la copia. La poesia, così come la troviamo in O m ero ed Esiodo, è dunque priva di valore metafisico, ed è inoltre menzognera, dunque senza valore morale; si può affermare la stessa cosa delle pitture e degli arazzi che riproducono le favole dei poeti {Re­ pubblica, II, 376e-378c). Per contro, Ione, quan­ do disserta su Om ero, non è tributario dell’arte, ma di una facoltà divina, theia dynamis / θ εία δύναμίς {Ione, 533d); e Socrate nella sua p ri­ gione com pone un poem a per obbedire a un ordine divino {Fedone, 61a-b). Nella Repubbli­ ca, l’arte si duplica: si distingue quella dell’ar­ tigiano (arte della fabbricazione, poietousa /

ποιήτουσα)19 e quella dell’artista (arte dell’im i­ tazione, mimesomene / μιμησομένη). Così, il pittore che dipinge un letto è inferiore all’ebani­ sta che lo fabbrica, perché l’ebanista produce una realtà sensibile, che è la copia dell’Idea eter­ na del Letto, m entre il pittore imita solo la realtà sensibile {Repubblica, X, 595b-597a): non rea­ lizza che un’immagine deH’immagine, «un’imi­ tazione dell’apparenza»: mimesis phantasmatos / μίμησις φαντάσματος (598b). Aristotele a sua volta distingue: a) arte ed esperienza {empeiria)·. «L’esperienza è conoscenza dell’individuale, l’arte dell’univer­ sale» {Metafisica, A, 1 ,5 8 la); b) arte e scienza (—> episteme). L’arte è l’ap ­ plicazione dell’universale all’individuale {ibid.); c) l’azione (—» praxis) e la fabbricazione (—> poiesis). L’arte appartiene a questa seconda ca­ tegoria: essa è «la disposizione, accompagnata dalla ragione {meta logon / μετά λόγου), alla fab­ bricazione» {Etica Nicomachea, VI, IV, 3); d) arte d ’uso {chromene / χρωμένη)20 della materia e arte di fabbricazione {poietike) della materia {Fisica, II, 2, 194b). Distinzione che d e­ riva dal punto b e c: vi è alla fine, come accade in Platone, un’arte di abilità (il medico) e un’a r­ te di trasformazione della m ateria (l’artigiano).

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19 Techne è di genere femminile. 20 Questo participio non deriva da chrozo, colorare, tin ­ gere, ma da chraomai, servirsi di, utilizzare.

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telos (to) / τέλος (τό), la fine, il fine. Significato usuale, il term ine, il compimento. Si­ gnificato filosofico, la causa finale (—> aitia). «La natura è fine» (Aristotele, Fisica, II, 2). Deriva­ to: teleios / τέλειος, perfetto, compiuto.

thanatos (ho) / θάνατος (ό), la morte. «La m orte [...] è la separazione dell’anima dal corpo» (Platone, Fedone, 64c). «La m orte non è niente per noi» (Epicuro, Lettera a Meneceo, D.L., X, 124). «La m orte non è un male; ma l’o ­ pinione che la m orte sia un male, questo è il m a­ le» (Epitteto, Manuale, V).

theion (to) / θειον (τό), la Divinità, il Divino theos.

θεωρητός, contempiabile; il sostantivo theatron / θέατρον, lo spettacolo, il teatro, e theorema / θεώρημα, lo spettacolo, l’oggetto di studio. Theoria acquisisce il suo significato filosofico a partire da Platone, che non l’utilizza molto, qualche volta, soprattutto nella Repubblica (VI, 486a; VII, 517d), in alternativa a —>noesis, che ha lo stesso significato. Assume tutta la sua im ­ portanza con Aristotele, che fa della theoria la contemplazione dei Principi primi, come atti­ vità della parte razionale dell’anima (Etica Nicomachea, X, VII, 1) (—> eudaimonia). Allo stesso m odo attraverso la theoria l’uom o di Stato ottie­ ne la scienza politica (Politica, IV, I, 3-4). Il ter­ mine si ritrova nella Metafisica, dove ci viene ri­ cordato che la scienza dei principi prim i e delle cause prim e è teoretica (A, 2, 982b; Λ, 1, 1069a). Plotino ha redatto un trattato Sulla na­ tura e sulla contemplazione dell’Uno (III, V ili), ove m ostra come tutte le azioni tendano alla contemplazione.

theoria (he) / θεωρία (ή), la contemplazione; latino: contemplatio. Atto della facoltà più elevata deH’intelletto per conoscere l'intelligibile. La radice thè- / θε indica una conoscenza vo­ lontaria e sostenuta. La si ritrova nel verbo theomai / θεώμαι, contemplare, e theoro / θεώρω, stesso significato; nell’aggettivo theoretikos / θεωρητικός, contemplativo, e theoretos / 218

theos (ho) / θεός (ό), Dio, il dio; latino: deus·, plurale theoi (oi) / θεοί (ot). Theion (to) / θειον (τό), il divino, la divinità. Essere sovrannaturale venerato dalla religione, passato in seguito alla filosofia per spiegare sia l’ordine della natura, sia il corso degli eventi, sia il destino deH’umanità. 219

theos

theos

È difficile distinguere, tra gli autori greci, il monoteismo dal politeismo. I soli che affermano l’esistenza di un Dio unico, prim o, assoluto e spirituale sono Pitagora, Aristotele e Proclo. Tuttavia, Pitagora e Aristotele contem plano an­ che degli esseri secondari di natura divina, che sono degli dei. Anassagora pone u n ’Intelligenza prim a ordinatrice (Nous), ma nessun fram m en­ to o testimonianza ci dicono che si tratti di Dio. Platone dà alla divinità diversi volti; Plotino af­ ferma certo che l’Uno è Dio, ma anche Hypertheos, dunque Dio superiore al di là del Nous, che procede da lui e ne condivide in qual­ che modo la divinità; egli contempla anche gli dei secondari come del resto Porfirio e Giamblico. Troviamo altri term ini per designare le divi­ nità secondarie: daimon {ho) / δαίμων (ò), demiourgos {ho) / δημιουργός (ò), lo spirito crea­ tore; e per il divino in generale, theion. • Dio {ho theos). La dossografia di Talete ci la­ scia perplessi, riguardo alla sua teologia. «Di tutti gli esseri» dice «il più antico è Dio, poiché è ingenerato» (D.L., I, 35). Ma che cos’è questo Dio? Un intelletto ordinatore, probabilm ente, poiché a detta di Cicerone è una mens che fa uscire tutte le cose dall’acqua {De natura deorum, I, 10); e la Divinità {to theion), è «un essere senza inizio né fine» (D.L., I, 36). Ma Aezio (I, VII, 11) afferma che è l’intelligenza del m ondo, il che ci conduce al panteismo. Il m ondo è pieno di spiriti: daimones (D.L., I, 27); ma lungi dal­

l’essere impersonali, gli dei non solo osservano le azioni degli uomini, m a anche i loro pensieri (ivi, I, 36). E vero che, come presso i babilonesi, di cui Talete è tributario, gli dei e i demoni sono probabilm ente degli spiriti differenti. In Diogene di Apollonia il panteism o è evi­ dente: Dio possiede l’onnipotenza e l’onnipre­ senza, ma è identico all’aria (fr. 5). Troviamo una simile identificazione in Anassimene (Cice­ rone, De natura deorum, I, 10). Lo stesso accade in Eraclito, dove però assume un aspetto spiri­ tuale: egli è il Logos (la Ragione che penetra la sostanza del Tutto) (Aezio, I, XXVIII, 1). Noi stessi, se pensiam o e conosciamo, è per la parte­ cipazione del Logos (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 134). Q uesto Logos è esplicita­ m ente identificato con Dio (fr. 31) e definito co­ m e dio (fr. 50). Per Pitagora «Dio è intelletto, Nous» (Aezio, I, III, 8). Egli è identico all’U no e al Bene (ivi, VII, 17). E oggetto di preghiera; e ci si può an­ che unire a lui, poiché questo è il risultato della filosofia (Giamblico, Vita di Pitagora, 175, 137), il cui prim o precetto è quello di «seguire Dio» (Stobeo, Eclogae pshysicae et ethicae, VI, 3). Filolao afferma che vi è un Reggitore e m aestro di tutte le cose; è Dio, Uno, eternam ente esistente, immutabile, immobile, identico a se stesso, dif­ ferente dal resto» (Filone d ’Alessandria, Crea­ zione del mondo, 23). P er Archita, vi sono tre principi: Dio, che è il form atore e il m otore del­

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l’universo; la sostanza, che ne è la materia e la causa, e la forma, che è l’azione di Dio sulla so­ stanza (Stobeo, Eclogae pshysicae et ethicae, I, 35). E Dio che inscrive la ragione nell’uom o (Giamblico, Protettico, 4, in un testo tratto dal trattato Sulla sapienza di Archita). Em pedocle, tributario dei pitagorici, schernisce l’antropo­ morfismo teologico: «Dio non ha corpo [...] Egli è unicam ente un intelletto venerabile, di una potenza ineffabile, il cui pensiero attraversa l’universo {Lepurificazioni, 134). Prim a di A rchita ed Em pedocle, il caso di Senofane è del tutto tipico del carattere indeci­ so che i filosofi italici accordano alla Divinità. Clemente d ’Alessandria (Strem ata, V, XIV, 109) afferma che Senofane di Colofone insegna che «Dio è unico e incorporeo». E cita questi due versi: Vi è un Dio unico, il più grande tra gli dei e gli uomini, che non assomiglia ai mortali né per il corpo, né per il pensiero.

Altri due versi avevano fatto parte dello stesso poema; uno è citato da Sesto Em pirico (Contro i matematici, IX, 144), da Diogene Laerzio (IX, 19) e dallo Pseudo Plutarco (Eusebio di Cesa­ rea, Preparazione evangelica, I, 23): Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero intende.

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L’altro è riportato da Simplicio (Commentario alla Fisica di Aristotele, fr. 6): Senza sforzo muove tutte le cose con il pensiero della mente.

Teismo o panteismo? «Senofane» scrive Aristo­ tele «assicura che l’Uno è Dio» (Metafisica, A, 5). Q uesto Dio unico governa il m ondo dall’in­ terno o dall’alto della sua trascendenza? Lo si è interpretato in entram bi i modi senza chiudere il dibattito. Ma Timone lo scettico si pronuncia in favore della trascendenza: «Senofane ha im ­ maginato un Dio lontano dagli uomini [...] im ­ mutabile, intelligenza e intelletto» (Sesto E m pi­ rico, Ipotiposi, I, X X X III, 224). Socrate ci pone lo stesso problem a. Secondo Senofonte (D etti memorabili, I, IV, 13-18), egli insegnava che Dio non solo ha dato al corpo um ano u n ’ammirevo­ le conformazione, ma che gli ha anche concesso l’anima più perfetta. Tuttavia, un p o ’ più avanti, egli chiama questo stesso Dio «l’intelligenza (phronesis) che è nell’universo»; poi ne parla al neutro, è la Divinità (to theion). Platone si muove nella stessa incertezza. Nel li­ bro II della Repubblica (379a-c), parla di Dio al singolare, e ne parla come di una persona: egli è buono, non è l’artefice dei mali. Inoltre, è assolu­ tamente perfetto, e incapace di ingannarci (381bc; Teeteto, 176b-c). Ora, nel libro IV delle Leggi (716c), Platone scrive che Dio dev’essere «la mi223

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thèos sura di tutte le cose». E l’Ateniese, un po’ prima, afferma che «Dio detiene, in base all’antico det­ to, l’inizio, la fine e il mezzo di tutti gli esseri». Che cos’è questo antico detto? È un verso di un poema orfico21 che mette in scena Zeus, il quale ricrea l’universo, creato una prima volta da Fanete e come architetto dell’universo compie il p ro ­ prio lavoro con misura. Questo Dio è dunque quello del Timeo (29a-3 lb ), il Demiurgo, che non è uno spirito assoluto, poiché fabbrica il m ondo grazie a due principi preesistenti: una materia informe e un Modello eterno (paradigma). Aristotele, nel libro Λ della Metafisica, confe­ risce a Dio la natura più grandiosa e al contem ­ po più rigorosa che sia stata mai definita dall’i­ nizio della storia della filosofia. Egli è il Princi­ pio assoluto, M otore (kinoun ) immobile, so­ stanza eterna, e Atto puro (energeia ousa). Egli è il Bene in sé e il Desiderabile in sé, causa finale e necessaria, Pensiero (noesis) che pensa se stesso, beatitudine perfetta (VII, 1072a-b, IX). O ra, in questa solitudine spirituale, egli ignora l’univer­ so che muove e l’uom o di cui è il Fine. Contrariam ente ad Aristotele, gli stoici p ro ­ fessano un panteism o assoluto. L’universo, es­ sendo una Realtà razionale, perfetta e necessa­ ria, è Dio. Dio è «la retta ragione diffusa per ogni dove» e «intimam ente mescolata con la 21 Poema riprodotto da Kern nel suo Orphicorum fragmenta, Berlino 1922, p. 168.

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N atura» (D.L., VII, 88, 147). Per Crisippo, Antipatro, Posidonio, Dio è «una forza intelligente e divina diffusa nel m ondo» (Cicerone, De divinatione, I, 14). P er M arco Aurelio (V ili, 9) egli è «l’unità che risulta dall’insieme». Per Plotino, Dio è l’Uno e il Bene, che costitui­ scono sotto uno stesso nome la prima ipostasi. Egli è dunque la trascendenza assoluta, essendo al di là dell’essere (hyperontos, VI, V ili, 14; epekeina ontos, V, I, 10; V, V, 6), e al di là dell’intelligibile (III, VII, 2); egli è l’Unico, al di là di tutto quello che sono gli esseri, e, in quanto sovrabbondante, non ha bisogno di nient’altro oltre a sé (V, I, 6-7). Ma nello stesso tempo, egli è in assoluto tutto ciò che sono gli esseri che produce. Egli è Volontà (VI, V ili, 21) e Volontà di Essere (VI, V ili, 16); è il Pensiero {noesis), e Pensiero di se stesso (VI, VII, 37); egli è Amore e Amore di sé (VI, V ili, 15). Co­ sì il nostro destino è quello di renderci simili a lui (1,2-3). Per Ermete Trismegisto, Dio è il primo In ­ telletto, Padre di tutti gli esseri, che è Vita e Luce {Poimandres, I, 12), ma in modo assolutamente dissimile da tutto quello che produce (ivi, II, 14). • Gli dei {boi theoi). Il politeismo è parallelo al monoteismo, e spesso negli stessi autori. Intendiam o per m ono­ teismo la proclamazione di un Dio assoluto e ori­ ginario, prim o Principio, che dona l’esistenza ad altri personaggi divini, o semplicemente la cui natura non si oppone a quest’esistenza. Si tratta, di solito, di dèi completamente spirituali, come 225

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quelli di Talete, che vedono i nostri pensieri (D.L., I, 36). Ferecide avrebbe scritto un’opera Sulla natura e sugli dei (D.L., 1 ,116). Anassiman­ dro, a detta di Cicerone (De natura deorum, I, 10) sosteneva che gli dei nascono e muoiono. Diverse testimonianze mostrano l’esistenza, pres­ so i pitagorici, di dèi che dovrebbero conciliare la religione e la metafisica. Il primo dei Versi aurei di Pitagora inizia con queste parole: «Innanzitutto, onora gli dei immortali». Giamblico, dopo aver ri­ cordato che i pitagorici manifestavano devozione verso Dio, dichiara che, secondo loro, gli uomini devono cercare il Bene presso gli dei (Vita di Pita­ gora, 175,137); questi dei, del resto, sono innocenti riguardo ai nostri mali (ivi, 218). Archita dichiara che, dopo gli dei, le nostre anime sono quanto vi è di più divino (Giamblico, Silloge delle dottrine pita­ goriche, 4). In realtà, per Pitagora e i suoi discepoli, se gli dei sono immortali, non sono però eterni: essi sono creature del Dio supremo (Ierocle, Commento ai Versi aurei di Pitagora, 1). Con questo Dio, i di­ versi ordini di spiriti formano quattro gradi metafi­ sici: al più alto gli dei immortali che abitano gli astri, poi gli eroi gloriosi (anime umane rese immortali) che abitano l’etere, infine i demoni che abitano la terra (Porfirio, Vita di Pitagora, 38; Aristosseno, in Giamblico, Vita di Pitagora, 99; Ierocle, Commento ai Versi aurei di Pitagora, 3). Vi è qui un’influenza molto netta della gerarchia caldea degli dei: Pitago­ ra aveva vissuto diversi anni a Babilonia. Empedocle invoca i decreti degli dei (fr. 115, 1).

Socrate chiedeva agli dei che cosa doveva fare (Se­ nofonte, Detti memorabili, I, I, 6). Platone segue in un certo senso Pitagora distinguendo gli dei del Mondo intelligibile, unitamente ai quali vivono gli eletti, e quelli della terra, protettori degli uomini (Pedone, 81a, 63b, 62d). Nel Timeo (40a-b), fa degli dei del cielo delle creature del Demiurgo, aggiun­ gendo che questi dei sono le stelle. Platone arriva a conferire la divinità al sole e alla luna (Leggi, VII, 821b-c, 822a, Repubblica, VI, 508a). Per Aristotele, le sostanze prime sono degli dei (Metafisica, A, 8, 1074b), che sono degli esseri immortali e beati (D.L., X, 123). Per gli stoici «è la volontà degli dei che regge il mondo» (Cicerone, De finibus bonorum et malorum, III, 19); «è la provvidenza degli dei» che lo organizza (Cicerone, De natura deorum, II, 30) e veglia sui mortali (Marco Aurelio, VII, 70). E anche una missione provvidenziale quella che Ploti­ no assegna agli dei (Π, IX, 9; III, II, 9). Per gli scet­ tici (ed è questa una delle loro rare affermazioni), «gli dei esistono, e noi li veneriamo» (Sesto Empiri­ co, Ipotiposi, III, II, 9). Per Proclo, ogni dio è un’enade (henas / ένας, genitivo henados), ossia un’U ­ nità perfetta, supervitale, superintellettuale, che esercita un’attività universale (Teologia, 113-133). Alcuni pensatori, colpiti dalla grossolanità del­ la religione popolare, negano l’esistenza degli dei. Si tratta in particolare di Evemero, Prodico,22

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22 Per quest’ultimo, testimonianze più ampie in Filode­ mo, Sulla pietà, IX, 7.

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thymos

Diagora di Melo, Crizia, Teodoro, Bione di Boristene. Q uanto a Protagora, egli affermava di non sapere se gli dei esistessero o no (Sesto Empirico, Contro ifisici, I, 17,50-57). • Il Divino, la Divinità (to theion). Q uest’aggettivo neutro sostantivato è molto più vago di theos, di cui non possiede in partico­ lare l’aspetto personale. I pitagorici m ostrano della pietas verso il Divino (Giamblico, Vita di Pitagora, 175). Talete definiva la Divinità «un essere senza inizio né fine» (D.L., I, 36). Eracli­ to pensa che le leggi umane siano state lasciate in retaggio dalla Divinità (fr. 114). Socrate inse­ gna che la Divinità vede tutto e sente tutto (Se­ nofonte, D etti memorabili, I, IV, 18). Epicuro proclama che la Divinità è un essere immortale e beato (D.L., X, 123), intendendo con ciò la per­ sona che possiede la divinità. Platone conferisce u n ’im portanza del tutto particolare al Divino, «ciò che è bello, sapiente e buono» {Fedro, 246e), «ciò che è eternam ente simile a se stesso» {Politica, 269d). Troviamo due gradi in questa categoria: l’anima umana, «fatta per vivere in compagnia di ciò che è divi­ no» {Fedone, 80b); e il M ondo intelligibile, divi­ no per essenza, che perm ette agli dei di essere divini e alle anime di divenire divine {Fedro, 249c, Repubblica, VI, 509b). Infatti, il filosofo, uom o della contemplazione del Divino {Sofista, 254b), ha anch’egli diritto all’appellativo di divi­ no {Repubblica, VI, 500c-d). Aristotele fa del

Cielo (ouranos) un essere divino, theion, per quanto si tratti di un corpo, ma esso è ingenera­ to e incorruttibile {Il cielo, I, 3), e questa è la se­ de di tutta la Divinità, to theion pan (ivi, I, 9).

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Locuzioni: - kata theon zen / κατά θεόν ζην, vivere se­ condo Dio (Sesto il Pitagorico, Sentenze, 11). - hepou theo / έπου θεω , segui Dio! (Pitago­ ra, in Stobeo, Eclogae pshysicae et ethicae, VI, 3 ; Sosiade, Precetti dei sette Saggi, 1).

thesis (he) / θέσις (ή), la tesi. Logica. «La tesi è un pensiero paradossale soste­ nuto da qualche celebre filosofo» che pone un problem a da risolvere (Aristotele, Topici, I, 11).

thymos (ho) / θυμός (ό), il cuore; latino: appetitus. Q uesto term ine vago racchiude l’affettività sot­ to diverse forme: sentimento, um ore, passione, fervore, collera. Secondo la traslitterazione usuale, la radice gre­ ca θυμ diventa in latino thym-. Lo stesso term ine diventa in francese thymus e in italiano timo, che in anatomia designa un organo linfoide si-

thymos

topos

tuato vicino al cuore; è quindi in m odo del tutto organico che in questo caso è stata sfruttata l’e­ timologia. In campo psicologico, il term ine ti­ ntici designa l’umore: uno schizotimico è un in­ troverso, un ciclotimico è un individuo dall’u ­ more mutevole. Per Pitagora (secondo Alessandro Poliistore, D.L., V ili, 30), l ’anima um ana possiede tre li­ velli: nous, phren, thym os; quest’ultim o sem bra essere proprio il luogo delle tendenze infra-intellettuali. Invece, è il sentim ento che Eraclito indica con questo term ine, quando afferma che è difficile lottare contro il proprio cuore (fr. 85). Platone divide, anch’egli, l ’anima in tre parti: Γepithymia, il thymos e il logos. Il thymos, parte centrale, ha la sua sede nel petto, e p re ­ siede alla vita di relazione; esso è la facoltà del coraggio (andreia): virtù specifica dei guerrieri che regola l’impulsività (Repubblica, IX, 580c583a). N el Timeo (69d), il thymos è la passione incontrollata, sorda agli avvertim enti salutari. N eli’Etica Eudemea, Aristotele concepisce il thymos tra le passioni, ma in questo caso oc­ corre tradurlo con collera (questa passione si chiama orge / οργή noWEtica Nicomachea e nella Grande etica). R iprendendo la teoria platonica, Plotino rile­ va come la parte irrazionale dell’anim a (to alogon) sia divisa in due: il desiderio (epithym ia) e il cuore (thym os); ed egli assegna come sede a quest’ultim o il cuore anatomico: kardia (IV, IV,

28). Troviamo l’aggettivo neutro sostantivato to thym ikon / xò θυμικόν con lo stesso signifi­ cato. P er Pitagora, spiega Aezio (IV, IV, 1), la parte dell’anima priva di ragione si divideva in due: il thym ikon e Vepithymetikon, anima sen­ sitiva.

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timokratia (he) / τιμοκρατία (ή), la timocrazia. Per Platone, governo dell’onore (Repubblica, V ili, 545a-548d), che si segnala per il lusso e la prosperità; nell’uom o timocratico, l’anima in­ termedia (thymos) dom ina la ragione: è un ira­ scibile e un violento (ivi, 548d-550c).

topos (ho) / τόπος (ò), il luogo. L’opera di Aristotele i Topici (Τοπικά) è consa­ crata all’uso dei «luoghi» comuni della discus­ sione, con lo scopo di rendere l’ascoltatore (e il lettore) capace di prevalere in un confronto dia­ lettico. Il luogo è trattato più approfonditam en­ te nel suo significato cosmologico nella Fisica (IV, 1-9). Gli scettici chiamano figure «i modi che portano alla sospensione del giudizio» (Se­ sto Em pirico, Ipotiposi, I, 36).

to ti en einai

to ti en einai / το τί ήν είναι, la quiddità, l’es­ senza. Letteralmente: «ciò in cui vi era un essere», for­ mula aristotelica per designare ciò che entra nel­ la definizione di un essere (Metafisica, A, 3; Δ, 6; Z, 4-6, 10; Η , 1; Fisica, II, 1). Altre formule: to ti esti / tò τί έστί: «ciò che è qualcosa» (ivi, II, 7) ti esti (Topici, I, 9; Fisica, II, 1).

tyche (he) / τύχη (ή), il caso. Nella mitologia, la fortuna, sorte inviata dagli dei. Aristotele considera il caso come la causa di fatti eccezionali, accidentali e finalizzati (Fisica, II, 4). Per Plotino esso interviene nei fatti deri­ vati e molteplici (IV, V ili, 5).

tyrannis (he) / τυραννίς (ή), la tirannia. Governo della violenza, generato dagli eccessi della democrazia (Platone, Repubblica, VII, 562a-569c). L’uom o tirannico è colui che m ette la forza al servizio dell’ingiustizia (ivi, 57 la580c). Per Aristotele questo governo si confon­ de con quello della m onarchia assoluta (Politica, IV, X).

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L e s s ic o ita lia n o -g re c o

A accidente affezione affermazione alterazione amicizia amore anima apparenza appetito aristocrazia armonia arte artigiano assimilazione assolutamente atomo atto aumento azione

symbebekos philotes, pathos kataphasis alloiosis philia, philotes eros psyche phainomenon thymos aristokratia harmonia techne demiourgos homoiosis haplos (—>haplous) atomos energeia, entelecheia auxesis praxis

B bellezza bene benessere

kalon agathon (Sommo Bene ariston, kyriotaton) euthymia 235

Il vocabolario greco della filosofia

C cambiamento capacità capo caso categoria causa caverna cielo città compiutezza comprensione comune congettura conoscenza contemplazione contraddizione contrarietà contrario coraggio corpo corruzione costituzione creatore creazione credenza cuore

metabole, kinesis dynamis archon tyche kategoria aitia spelaion ouranos polis peras, telos katalepsis koinos eikasia gnosis theoria antiphasis enantiosis enantios andreia soma phtora politela demiourgos poiesis pistis thymos

D deduzione definizione deliberazione

Lessico italiano-greco

delirio democrazia desiderio diade dialettica differenza diminuzione dimostrazione dio distruzione divinità dossografia

mania demokratia epithymia dyas dialektike diaphora phtisis apodeixis theos phtora theion doxagraphia

E economia egli stesso elementi equità eristico esperienza essenza eternam ente eterno

oikonomia autos stoicheia epieikeia eristikos empeiria eidos, idea, ousia, to ti en einai aei aidios, aionios (senza inizio agenetos)

—> syllogismos horismos houle 236

237

Lessico italiano-greco

Il vocabolario greco della filosofia F fabbricazione facoltà famiglia felicità figura filosofia fine forma

poiesis, techne —» dynamis oikos eudaimonia, makariotes schema philosophia telos, peras eidos, morphe

G generazione genere giustizia governante governo

genesis genos dikaiosyne, dike archon politeia

incorporeo incorruttibile individuale induzione ingiustizia intelletto intelligenza intermedio involontariamente involontario ipostasi ipotesi istante

asomatos (—» asomaton) aphthartos kath’hekaston epagoge adikia nous nous, phronesis metaxy akon akousios hypostasis hypothesis nyn

L legge libertà luogo

nomos eleutheria, proairesis topos

I M immaginazione immagine immobile (senza cambiamento) immortale immortalità impassibile inclinazione

phantasia eikon, mimema akinetos athanatos athanasia apathes horme 238

male materia memoria mito mobile modello

kakon hyle mneme mythos kineton archetypos, paradeigma 239

Il vocabolario greco della filosofia m odo d ’essere m onade m ondo m orte m otore movimento

hexis monas kosmos, holon thanatos kinoun kinesis, phora

N nascita natura necessità negazione non-essere num ero

genesis physis ananke apophasis me on arithmos

pensiero piacere possibile potenza predicabile predicato prenozione principio privazione proposizione provvidenza purificazione

noesis, phronesis (di­ scorsivo dianoia) hedone dynaton dynamis kategoroumenon kategorema prolepsis arche steresis apophansis (geometrica diagramma) pronoia katharsis

Q

ο oligarchia opinione opposizione opposto

Lessico italiano-greco

oligarchia doxa, dogma, hypolepsis antithesis antikeimenos

qualità quantità quiddità

poion poson to ti en einai

R P partecipazione passione paura

methexis pathos phobos 240

ragione relazione reminiscenza retorica riposo

logos pros ti anamnesis rhetorike stasis 241

Il vocabolario greco della filosofia

s sapienza sapere (sost.) sapere(verbo) scettico scienza sé semplice sensazione sillogismo sofista sospensione (del giudizio) sostanza sovranità specie spirito Stato studio

sophia mathema eidenai {—> eudaimonia) skeptikos episteme autos haplous aisthesis syllogismos sophistes epoche ousia, hypokeimenon basileia eidos daimon politela mathesis

Lessico italiano-greco

tranquillità tristezza tutto

ataraxia lype pan

U universale universo uno uomo

katholou holon, pan ben anthropos

V verità vero virtù volontà volontariamente volontario

aletheia alethes avete boulesis, proairesis hekon hekousios

T temperanza tem po tendenza termine tesi timocrazia tirannia

sophrosyne chronos orexis peras thesis timokratia tyrannis 242

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Vocabolario greco della filosofia / a cura di Ivan Gobry. - [Milano] : Bruno M ondadori, [2004]. 256 p.; 17 cm. - (Testi e pretesti). Tit. orig.: Le vocabulaire grec de la philosophie. ISBN 88-424-9181-0. 1. Filosofia - Terminologia greca - Dizionari I. Gobry, Ivan 103 Scheda catalografica a cura di CAeB, Milano.

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Stampato per conto della casa editrice presso lalitotipo, Settimo Milanese, Milano, Italia.

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