Vittorini. Da Robinson a Gulliver
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celebrativa.

Raffaele Crovi ...E un vero e proprio colpo d’ala, un piccolo saggio in piena regola, che rivela le sue doti interpretative, e ci fa presentire le novità contenute nei capitoli dedicati alla vita e alle opere di Vittorini... Massimo Grillo:

Raffaele Crovi, scrittore italiano tra i

maggiori del nostro tempo (Paderno —

- Dugnano, Milano 1934). Hainiziato con ==> e lte poetiche e ha pubblicato anch racco

“romanzi. L'ultimo suo saggio, «Il lungo viaggio di Vittorini» (1998), mostrper a intero la profonda conoscen vittoriniana dello scrittore milanes

Massimo Grillo, scrittore e giornalista nato a Livorno nel 1935, = soprattutto per il libro «I Sicilia» (1993), che rappresenta oggi —

l’opera di riferimento per tutti glistudiosi

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Anselmo Madeddu

VITTORINI da Robinson a Gulliver Prefazione

RAFFAELE CROVI Appendice

Massimo GRILLO

EDIZIONI DELL’À RIETE

ISBN 88-7267-020-9

Proprietà artistica e letteraria riservata

© 1997-1998 EDIZIONI DELL’ARIETE s.a.s. Via Damone, 4 - 96100 SIRACUSA Prima edizione: aprile 1997 Seconda edizione: giugno 1998

Printed in Italy

Nella nota biobibliografica che chiude la mia biografia critica Il lungo viaggio di Vittorini ho dichiarato: «Senza le ricerche di Alba Andreini, Edoardo Esposito, Giovanni Falaschi, Gian Carlo Ferretti, Massimo Grillo, Lorenzo Greco, Giovanna Gronda, Anselmo Madeddu, Carlo Minoia, Anna

Panicali, Sergio Pautasso,.Raffaella Rodondi e Marina Zancan questo libro non avrebbe patuto essere scritto». Il primo capitolo di Vittorini, da Robinson a Gulliver di Anselmo Madeddu, che è un puntuale racconto biografico, fornisce infatti un ricco, e in buona parte inedito, materiale documentario sugli anni siciliani di Vittorini e sul rapporto Vittorini-Sicilia (con particolare rilievo circa «l’immagine di Siracusa nelle pagine di Elio Vittorini»). La monografia di Madeddu ha un bel titolo che inquadra con proprietà e intelligenza l’itinerario vittoriniano: e di questo itinerario Madeddu indaga in modo personale anche le tracce creative, letterarie; lo fa, riscontrando opinioni critiche a cui era stato dato poco rilievo (vedi, ad esempio, quella del francese Albert Beguin) e contrapponendo con precisione le critiche dei saggisti e le autocritiche vittoriniane. Nella seconda parte del volume, i giudizi di Madeddu non sempre coincidono con i miei (io, per esempio, ritengo che Sardegna come un'infanzia sia opera di perfetta tessitura stilistica e che Erica e i suoi fratelli e La Garibaldina siano due allegorie socio-antropologiche di musicale ironia); credo che la differenza di giudizio dipenda dal fatto che Madeddu tende ad individuare (e a privilegiare) in Vittorini l’andante drammatico; certo le sue analisi sono

«oneste» e «libere», ma personalmente ritengo non si possa definire «naturalistico» un romanzo di grande modernità strutturale come Il garofano rosso. In compenso Madeddu propone notizie puntuali e non ancora registrate sulle riduzioni cinematografiche delle opere di Vittorini e, soprattutto, nel terzo capitolo della sua opera, utilizzando testimonianze poco conosciute, tesse un ritratto esistenziale e culturale dello scrittore siracusano di indubbio interesse e particolarmente nuovo là dove documenta il dialogo di Vittorini con la «cultura cristiana».

Infine, in Vittorini, da Robinson a Gulliver colpisce la consonanza della passione morale (etico-civile) dello scrittore e del suo esegeta; passione morale messa in scena con discrezione, senza retorica celebrativa. Raffaele Crovi

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A. Madeddu —VITTORINI

Questa mia prefazione è quasi superflua, avendone già scritta una intrigante ed esauriente lo stesso Anselmo Madeddu con la sua «Nota introduttiva». Altro che un’«avvertenza per il lettore»! È un vero e proprio colpo d’ala, un piccolo saggio in piena regola, che rivela le sue doti interpretative, e ci fa presentire le novità contenute nei capitoli dedicati alla vita e alle opere di Vittorini, nonché alla rassegna della bibliografia critica e delle principali testimonianze sull'uomo. Egli ci dà, infatti, d'un sol colpo un’immagine dinamica e pluridimensionale dello scrittore, del resto già anticipata dal titolo di questo volume. Ce la presenta cioè strettamente legata da una parte al suo sempre più intenso coinvolgimento con la storia travagliata del suo tempo, ed agli inevitabili contraccolpi subiti, capaci, in ultimo, di fiaccare anche un animo ardente, vitale e appassionato come il suo, dall’altra al suo crescente impegno civile e protagonismo culturale, in lotta contro ogni accademia e struttura autoritaria letteraria e politica, e spinto agli esiti più alti dalla sua irresistibile vocazione lirico-narrativa, fino a quando non si affievolirono le sue speranze di rinnovamento sociale e la sua fede nella «parola» come strumento conoscitivo e di liberazione. Da «Robinson» a «Gulliver», infatti, e cioè — come scrive Madeddu — da

chi (come il settecentesco protagonista della sua prima memorabile lettura) «si prodiga con fede a ricostruire il mondo» e chi (come il medico del misantropo Swift, che doveva dare il nome all’ultimo progetto di rivista), «nel cercare di

conoscere quella parte del mondo che gli sembra nuova, [...] la riscopre vecchia». Il punto di partenza, quindi, e il punto di arrivo di un «lungo viaggio conoscitivo», ma anche un itinerario obbligato per chi, come lui, amando in-

tensamente la vita e quindi perseguendo la propria e altrui felicità, ha riposto una eccessiva fiducia nei poteri della cultura. Per poter inseguire, infatti, soprattutto a livello simbolico-fantastico, il sogno di una umanità rigenerata, di una società migliore, ha dovuto camminare su un terreno utopistico e quindi minato, ma non con questo del tutto astratto e velleitario, per il forte risalto dei valori umani espressi, e quindi per la loro capacità di lasciare delle tracce fe-

conde nelle coscienze. Non vi è stata mai, comunque, una resa da parte sua. Fino all’ultimo, in-

fatti, anche nel suo dignitoso silenzio di narratore, Vittorini — ci dice sempre Madeddu — «penserà» e «farà» da scrittore. Ed effettivamente, all’interno del-

M. Grillo - PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

L;

la sua ultima attività, che rimarrà prodigiosa per le sue iniziative editoriali, per lo sforzo esercitato nello scoprire nuovi talenti e per adeguare i mezzi espressivi della letteratura contemporanea alle mutate condizioni storiche, influenzate soprattutto dall’avvento della civiltà industriale, egli, di fatto, si adopererà per rilanciare la letteratura stessa, per riproporla come una delle esigenze essenziali dell’uomo, e forse coverà nell'intimo la speranza, se non l’illusione, di con-

tinuare ad agire per interposta persona e con più vasta risonanza e durata (dalla collana «I gettoni» alla rivista internazionale «Gulliver», vista in un’altra ottica).

La storia quindi di una affascinante figura, che entrata giovanissima e quasi di prepotenza nel mondo politico-letterario, e sempre sfuggendo a qualsiasi tipo di condizionamento e di omologazione, aveva saputo coniugare per quasi tutta la sua vita, un forte e rigoroso spirito critico, provocatorio, una continua azione di riceréa e di intervento sul piano culturale, propria di chi crede nella responsabilità sociale dell’intellettuale, con delle grandi attitudini narrative,

volte a tradurre sul piano della fantasia e quindi della universalità il suo attrito con la storia, la sua visione del mondo e i suoi progetti di liberazione. Naturalmente Madeddu ci dice queste e tante altre cose in questo breve saggio introduttivo e nei capitoli che seguono, scritti tutti con scioltezza ed eleganza, ed anche con notevole vivacità immaginativa. Egli quindi ci persuade quando ci parla dello «strato di Sicilia sommerso» nel mondo espressivo e immaginario di Vittorini, sconosciuto ancora a molti, e dei temi più importanti della sua narrativa, dal «viaggio» come «conquista di libertà e dignità umana», come percorso consacrato dalla scrittura, diretto a «conoscere uomini e cose» e a «ricercare le radici più autentiche del proprio esistere», all’«infanzia» continuamente vagheggiata come «stato di felicità naturale, primitivo e puro» e come «ritorno alle madri»; dalla denuncia del fossato di offesa che divide gli uomini, alla proclamazione dei «nuovi doveri, non i soliti». Con l’utopia del mito di Robinson che, come una vera e propria «forma concettuale», attraversa sotto infinite spoglie tutta l’opera di Vittorini, almeno fino a quando — sostiene Madeddu — non viene offuscata dal contromito di Gulliver. Ed è altrettanto persuasivo quando ci parla delle ricerche formali di Vittorini, che lo condussero non solo a frantumare ogni convenzione espressiva, ma, come accadde ad esempio con Consersazione in Sicilia, a inventare uno stile ca-

pace di svolgere il ruolo di «vera struttura interpretativa del mondo». E subito dopo averci dimostrato, al termine della Nota, la grande attualità dello scrittore, nonostante che la sua opera sembri «totalmente calata nella in-

terpretazione della realtà a lui contemporanea», Madeddu ci introduce, attraverso il capitolo dedicato alla vita, in un’altra delle grosse novità del suo libro, pur preannunciata nell’Introduzione: lo spaccato siciliano (ed in particolare siracusano) della prima giovinezza di Vittorini, venuto alla luce attraverso studi e testimonianze recenti (tra cui quella preziosa della sorella), arricchiti da alcune sue particolari ricerche. Si scopre così, attraverso l’intreccio di storia privata e pubblica (dal 1909 al 1929, anno dell’abbandono definitivo dell’Isola),

il retroscena della più nota e divulgata immagine e storia dello scrittore, e con esso il fertilissimo humus di gran parte della sua narrativa. La famiglia, le amicizie, gli amori, le letture, le prime esperienze politiche e letterarie (dall’esor-

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A. Madeddu — VITTORINI

dio malapartiano all’approdo europeo di «Solaria»), l’apprendistato, quindi, sociale e culturale del giovane siracusano, prima del grande balzo verso la noto-

rietà, ecco quanto ci racconta l’autore, e tutto questo all’interno di una Sicilia

da una parte favolosa, mitica, ricca di suggestioni, di influenze anche segrete,

ancestrali, di valori umani e culturali, dall'altra attraversata da grandi fermenti sociali, divisioni, sofferenze, lotte di classe, rivendicazioni ed illusioni, con la prima guerra mondiale e l'avvento e consolidamento del fascismo che generai no gli sconvolgimenti più forti. Con la stessa voglia di approfondimento e di chiarezza l’autore ci guida a conoscere la parte rimanente della vita di Vittorini, ‘e la strettamente legata produzione letteraria e saggistica, come pure le sue famose battaglie culturali, e, naturalmente, subito dopo, quello che la critica nel tempo e fino ad oggi ha detto di lui. A noi non resta che lasciare al lettore il piacere di scoprire tutto ciò a poco a poco, di gustare la ricca antologia di brani e detti memorabili dello scrittore intercalati tra le righe, segnalando però la cura con cui l’autore ha letto le opere di Vittorini, dandoci di esse delle lucide e penetranti sintesi, nella convinzione che in esse sia «racchiusa la sua vera biografia». ‘Devo solo aggiungere che quest’opera, scritta da Madeddu per il Trentesimo anniversario della morte dello scrittore siciliano, ci sembra sostenuta dalla

stessa forte motivazione che lo animò dieci anni fa, quando, per il Ventesimo, appena laureato, pubblicò sulla rivista «Provincia di Siracusa» il suo primo articolo su di lui, intitolato: Elio Vittorini: un intellettuale inquietante del nostro secolo, suscitando in molti una forte impressione. Eppure, in questo lungo arco di tempo, nelle ore lasciate libere dalla professione, ha rivolto verso altre dire-

zioni i suoi mai sopiti interessi storico-letterari, pubblicando più che pregevoli lavori scientifici e saggi biografici. Segno questo non solo del perdurare della sua ammirazione nei confronti dello scrittore siciliano, ma anche del perenne fascino che questi esercita su chiunque lo avvicini, anche solo per saggiarne lo stile, a dispetto di una congiura di silenzio che si voglia organizzare contro di lui. Come ha scritto, infatti, Zancan, «la pagina in Vittorini è sempre quella pagina e tutte le altre possibili pagine... Ogni sua pagina costringe chi legge a mettere in gioco ogni volta tutto». Un intellettuale, quindi, davvero inquietante, come lo aveva definito Madeddu nel 1986. Massimo Grillo

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NOTA INTRODUTTIVA «Io non ho mai aspirato “ai” libri, aspiro “al” libro; scrivo perché credo in “una” verità da dire; e se torno a scrivere non è

perché mi accorga di “altre” verità che si possano aggiungere, e dire “in più”, dire “inoltre”, ma perché qualcosa che continua a mutare nella verità mi sembra esigere che non si smetta mai di ricominciare a dirla...». (Elio Vittorini)

... PRESENTIRE UN’EPOCA E DARLE IL SUO MITO

Se dovessimo provare ad immaginare la straordinaria avventura umana ed intellettuale di uno scrittore che, lasciatasi dietro un’antica e re-

mota terra «...ammonticchiata, di nespoli e tegole», avesse finito col permeare di sé e della sua opera un trentennio cruciale della vita culturale del nostro Paese, partecipando sempre in posizioni di vertice alle più esaltanti battaglie politico-culturali di questo secolo, fino ad identificare nel suo stile di vita e di scrittore i caratteri paradigmatici di un’epoca intera, i contorni sfumati ed incerti della immaginazione, finirebbero inevitabilmente col lasciare il posto ai colori espressionistici del «Politecnico» o alle pagine esemplari di Conversazione... e allo scrittore che era in essi: Elio Vittorini. Di lui il suo grande «rivale» Cesare Pavese scrisse: «In fondo Vittorini è stato la voce (anticipata, questo è il grande) del periodo clandestino — amori nudi e vitali, astratti furori che s’incarnano, tutti in missione eroica.

Ha presentito l'epoca e le ha dato il suo mito».

du —-VITTORINI A. Maded

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Nella storia della nostra letteratura contemporanea pochi scrittori sono riusciti a conferire alla propria opera una valenza così emblematica, da finire col diventarne il simbolo stesso, il passaggio obbligato. «Forse altri, — ha scritto Pautasso — avranno ottenuto risultati meno con-

traddittori o sbagliato scrittore con un’opera l'affermazione di «una della storia stessa pur riche».

meno, ma pensiamo che sia difficile trovare un altro tutta tesa, come quella vittoriniana, alla scoperta e alverità» e dove il ritmo della pagina pare scandire quello con tutto il suo carico di simboli e di situazioni allego-

Narratore originalissimo, critico acuto e sensibile, traduttore di talen-

to, giornalista elegante, geniale organizzatore di cultura, talent-scout generoso e instancabile, promotore e anticipatore di vere e proprie correnti ideologiche e di gusto, Vittorini è stato la personalità letteraria più incidente e vivace della cultura italiana di questo secolo, ed ha incarnato nel nostro Paese il mito più alto dell’intellettuale moderno, aperto a ogni contributo culturale europeo e d’oltre oceano. Tra le sue opere si contano alcuni dei risultati poeticamente più imprevedibili e vivi della storia letteraria contemporanea. Con Conwversazione in Sicilia diede una svolta alla nostra letteratura, con «Americana» la sprovincializzò, col «Politecnico» e col «Menabò» la animò, coi «Get-

toni» la rinnovò, con Uomini e No inaugurò la stagione neorealista del dopoguerra, con gli ultimi scritti anticipò la neoavanguardia. Oggi è assai arduo scrivere la storia della letteratura contemporanea italiana prescindendo da Elio Vittorini. Troppo profondo fu in essa il peso della sua opera, la quale finì col segnare una svolta in molti settori della vita culturale del Paese. Secondo Mario Luzi «a un uomo così lontano dalla soddisfazione e dal la rassegnazione si presentavano necessariamente due possibili destini: essere il capro espiatorio della cultura nazionale o esserne il leader». E Vittorini

finì con l’esserne entrambe le cose. Polemista di razza, raffinatissimo letterato, Vittorini fu al centro delle

più clamorose e stimolanti battaglie culturali del nostro Paese. Scrittore inquieto ed inquietante fu destinato a scuotere spesso le coscienze dei contemporanei. Perseguitato prima dal regime fascista, scontratosi poi col dogmatismo di Togliatti e del partito comunista, schieratosi, nella guerra, dalla parte della sua «Umanità offesa», Vittorini teorizzò una «cultura non più consolatoria», ma «arteriosa», a «tensione razionale» e autonoma dal-

l’interesse politico e partitico. Egli possedette una fede cieca nella cultura, o meglio nella possibilità che aveva la letteratura di intervenire

nella vita degli uomini e trasformarla. La sua era un’irrinunciabile ne- .

cessità di credere nell'uomo, nella sua libertà, nella sua felicità, nel suo

NOTA INTRODUTTIVA

Di

riscatto, dimostrandosi in tal senso una autentica bandiera di libertà, di

onestà intellettuale, ma soprattutto di coraggio. Fu per questo definito «scrittore giovanissimo». «Vittorini è uno scrittore giovane... — scriveva Carlo Bo — giovane di una età che è eterna e spontanea scoperta di risorse, che si affida piuttosto ai suggerimenti di un istinto felice». Scrittore agile, dal pensiero guizzante, Vittorini è stato l’uomo che più di ogni altro ha tentato di strappare la cultura italiana all'accademia e alla retorica. La sua pagina è sempre quella pagina e tutte le altre possibili pagine. Ed ogni pagina costringe chi la legge a rimettere in gioco ogni volta tutto. «Fare il pieno, della vita», Questo era il motto di uno scrittore per il quale vita e‘Tetteratura erano come vasi comunicanti. Nessun autore è mai riuscito come ha fatto lui ad interpretare così profondamente il sentimento di un’epoca ed a farci leggere i suoi tempi così chiaramente. Forse proprio per questo oggi è assai arduo cristallizzare in un sinte-

tico giudizio critico l’opera di Vittorini, riconducendola ad una precisa corrente letteraria. In passato lo si è definito padre del neorealismo italiano. Ma in realtà il neorealismo, che probabilmente esistette più nel cinema che nella carta stampata, fu per lui, così vocato alla scrittura lirica, un credo politico piuttosto che una prassi letteraria. La verità è che ancor oggi Vittorini continua a rappresentare un unicum nel panorama

letterario italiano. L'intera opera vittoriniana sembra sfuggire con moto anguillare a qualsiasi tentativo di immobilizzazione, di classificazione, tanto vasta e prismatica si mostrò la sua complessa attività intellettuale; nella quale non è possibile, né tantomeno giova alla comprensione della sua opera, scindere il momento del narratore, da quello — per utilizzare un termine abusato — dell’organizzatore di cultura. Compito principale di queste pagine sarà, dunque, quello di far rivivere in un’esposizione sintetica, ma esauriente, l'esemplare avventura

umana ed intellettuale dello scrittore, attraverso una dettagliata ricostruzione biografica ed un’attenta lettura delle sue opere, nelle quali soltanto è racchiusa la sua vera biografia. Si è voluto dare, inoltre, particolare ri-

salto ad un preciso ambito di ricerca troppo spesso trascurato ed intorno al quale soltanto i recenti lavori di alcuni studiosi, tra i quali Giovanna Finocchiaro Chimirri e soprattutto Massimo Grillo, hanno finito con l’apportare un contributo davvero decisivo: gli anni della sua prima formazione in Sicilia, del suo apprendistato sociale e culturale, le sue prime amicizie, le sue letture, i fermenti sociali e politici che attraver-

sarono la sua Siracusa negli anni che lo videro ragazzo «furiosamente vitale», avido di letture e di conoscenze.

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A. Madeddu - VITTORINI

Cenni biografici ed esame «verticale» delle opere ordinate cronologicamente, saranno preceduti però, già in sede di nota introduttiva, da alcuni brevi appunti sui temi e sullo stile, attraverso una lettura «trasversale» delle sue opere al fine di recuperare un’altra rete di riferimenti che meglio faccia intuire l’unità della ricerca letteraria di Vittorini. Dopo una veloce rassegna della bibliografia critica e di alcune testimonianze sull’uomo, il libro si concluderà con un «profilo psicologico» curato da Massimo Grillo. Nel raccontare Vittorini, infine, si è voluto lasciar spazio a molte sue

citazioni, col duplice intento di non privare queste pagine del fascino della testimonianza diretta ed allo stesso tempo per ricreare, saltando da un corsivo all’altro, una sorta di «antologia tra le righe» di cosiddetti brani scelti o di detti memorabili dello scrittore. Non c’è miglior modo, per far entrare il lettore direttamente nel laboratorio del narratore, che quello di lasciare quanto più spesso la parola all'autore, far sì che questi si racconti, e che il lettore ne assapori direttamente le immagini, le atmosfere, il fiato più vero, la musica che vi scorre dentro. Magari sforzandosi, provocatoriamente, di imitarne a tratti lo stile, se necessario. Scrivere di uno scrittore come se stesse scri-

vendo lo scrittore stesso. E con l’umiltà di sperare che possa prender corpo, così, più che il mondo di chi parla, ...quello di chi è parlato.

LE ORIGINI: ...«UNO STRATO DI SICILIA SOMMERSO»

I temi più importanti della narrativa di Vittorini appartengono ad una letteratura allegorica, di grande animazione drammaturgica, e respirano in un’aria di stupore metafisico e di magia, che è comune a molti siciliani, specie a quelli nati ad oriente del Salso. Secondo Vincenzo Consolo in un’immaginaria geografia letteraria dell’isola, divisa tra la Sicilia di Vittorini e quella di Sciascia, tra la Sicilia «lombarda» d’oriente e quella araba d’occidente, in quest'ultima opera «un tipo di letteratura storicistica, più logica, più comunicativa, meno impegnata con la forma, [....] mentre in quella orientale, prevalendo maggiormente il sentimento della natura, invale la propensione di scrittori e artisti verso il carattere stilistico lirico, com'è nel caso di Vittorini...»‘9.

Un Vittorini per metà sofistico e per metà poetico, lo definì Pavese. Come dire metà Gorgia e metà Teocrito. Connotati che gli arrivavano

attraverso tramiti ereditari di sangue e di cielo dagli antichi padri della sua greca Siracusa. Eppure, i legami di Vittorini con la sua terra non sono stati, in pas-

NOTA INTRODUTTIVA

i06,

sato oggetto di studi importanti. I segreti della sua complessa e singolare educazione letteraria e sentimentale negli ambienti della sua città sono rimasti a lungo terreno inesplorato. Tuttii trattati di letteratura italiana fanno «nascere» Vittorini da «Solaria» e dal suo arrivo a Firenze nel 1930. Ma a quell’epoca Vittorini aveva già ventidue anni,... ventidue anni «d'infanzia e di Sicilia» sulle spalle. Ed in fondo «...nessuno scrittore è mai comparso armato di tutto punto come Atena dalla testa di Zeus,

neppure Elio Vittorini». Del suo nascere a Siracusa, del suo viverci dentro fino ai suoi vent’anni Vittorini si portò dietro tanto, tantissimo quasi come uno «...strato

di Sicilia sommerso» dentro di sé. ri

SERE?

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LA FORMA MITICA: ...IL VIAGGIO COME PROCESSO CONOSCITIVO

«Sono diventato uno scrittore senza avere mai sognato di diventarlo e senza praticamente aver conosciuto l'ambizione di diventarlo. Se avessi avuto i mezzi per viaggiare sempre, credo che non avrei ancora scritto un rigo»(DT).

In queste emblematiche parole di Vittorini c’è tutto il significato del più profondo ed importante tra i temi della narrativa vittoriniana: il «Viaggio». Viaggiare èuna conquista di libertà, di dignità umana. È il

mito di Ulisse, di quello dantesco. È sete di sapere, di conoscere uomini e cose. Ma soprattutto... viaggiare è scrivere! Scrivere della storia degli uomini. Ricercare le radici più autentiche del proprio esistere. Scrivere significa progettare il viaggio simbolico di un lungo percorso conoscitivo. E viaggiareè il processo altrettanto simbolico dell'atto stesso di scrivere. Nei romanzi di Vittorini viaggiano tutti. Uomini, don-

ne, ragazzi. Tutti viaggiano. E tutti sembrano cercare qualcosa: il Silvestro di Conversazione..., lo zio Agrippa de Le donne di Messina, Leonilde de La garibaldina, i pastori de Le città del mondo. Secondo Italo Calvino l’intera narrativa vittoriniana può essere raccolta in tre fondamentali aspetti: il «Viaggio» (la sua forma mitica), il «Dialogo» (la sua forma stilistica), e l’«Utopia» (la sua forma concettuale).

Il viaggio è dunque la forma mitica per eccellenza di tutte le tematiche della narrativa vittoriniana. E le tematiche sembrano costituire le sfaccettature diverse dell’atto stesso, e unico, del viaggiare. Vittorini viaggia alla ricerca di sé nel Garofano rosso e alla ricerca della primitiva naturalità del mondo in Sardegna come un’infanzia. Ma viaggia anche ver-

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A. Madeddu- VITTORINI

so le origini e verso la verità in Conversazione..., o verso la morte nel

Sempione... e addirittura verso l’utopia nelle Città del mondo. Vittorini viaggia nello spazio (da Milano a Siracusa), nel tempo (dal presente all'infanzia) e nello spessore della propria coscienza (verso l’acquisizione di consapevolezza). Ogni suo scritto narrativo è la rappresen-

tazione di un lungo viaggio di liberazione, sociale e psicologica, che, at-

traverso effetti musicali e visivi assolutamente originali, si estrinseca in

una serie di eventi che finiscono col trasformarsi in vere e proprie mutazioni antropologiche e linguistiche.

Vittorini, figlio di un poeta ferroviere, ha fatto del «treno», e del

mondo un po’ nomade e picaresco che si porta dietro, il simbolo stesso del viaggiare, la metafora della sua operazione conoscitiva del mondo. «...Potei ricordare me e il treno in un rapporto speciale come di dialogo, come se avessi parlato con lui, e un momento mi sentii come se cercassi di

ricordarmi le cose che lui mi aveva detto, come se pensassi al mondo nel modo che avevo appreso, in quei nostri colloqui, da lui...»(CS).

I TEMI: ...TRA INFANZIA, MONDO OFFESO... ED ALTRI DOVERI

Ma lungo i binari della narrativa vittoriniana corre, strettamente collegato alla forma mitica del viaggio, un tema fondamentale, che è quello

dell'infanzia. Un’infanzia intesa come stato di felicità naturale, primitivo e puro. Già nel racconto La mia guerra la trasfigurazione mitica dell'infanzia è rivestita di una luce fantastica di avventura. Ed il tema diventa addirittura centrale in Sardegna come un’infanzia, dove l’immagine dell’isola si sostituisce all'immagine stessa dell’infanzia intesa come pienezza di adesione e di identificazione nelle ragioni più autentiche della vita, proprio così come gli appare il mondo nella primitiva naturalità della terra di Sardegna. Ma dove il tema dell’infanzia trova il suo pieno sviluppo è in Conversazione... Qui il ritorno all’infanzia non è visto come evasione dalla realtà, ma come percorso conoscitivo della realtà, delle ragioni più profonde del vivere, ricerca di quella età in cui i rapporti tra l’uomo e il

mondo sono più autentici, al fine di recuperare attraverso gli occhi di quella età l’unico, vero rapporto con gli uomini e la terra. In questo libro, più che in qualsiasi altro, prendono vita i due grandi sentimenti che respirano nascosti nella narrativa vittoriniana, il sentimento del nostos e il sentimento della koinè: il primo che riporta ad Ulisse ed il secondo che riconduce ad Omero. Ma là dove il mito del-

NOTA INTRODUTTIVA

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l'infanzia trova la sua massima rappresentazione è soprattutto in questa

idea del nostos, del viaggio, del movimento, del ritorno alla terra delle

madri, dove poter attingere, come Anteo, la forza per riprendere i cam-

mini interrotti dalla storia.

Il ritorno all’infanzia, infatti, è soprattutto un ritorno alle madri e alla

madre terra. Secondo un’interpretazione simbolico-psicanalitica bachelardiana è proprio questa concezione bachofeniana di un originario as-

setto matriarcale, discendente dalla mitologia ctonia delle dee madri, che

sta alla base dell’archetipo femminile di donna madre che domina tutta la narrativa vittoriniana e che trova nella «Concezione» di Conversazione... il suo prototipo* universale. Il tema detinfanzia, tuttavia, va pian piano spegnendosi nelle opere successive, con l’affievolirsi dell'entusiasmo e della fede nell'ultimo Vittorini, fino ad assumere le sfumature ironiche e paradossali presenti ne Le città del mondo. L'altro tema fondamentale della narrativa vittoriniana, che si contrappone in un rapporto dialettico a quello dell’infanzia, intesa come stato di felicità primigenia dell’uomo, è il tema del «male», del «mondo offeso», strettamente collegato a quello del confronto tra «offesi» e «offensori», tra «uomini» e «non uomini». Il tema emerge chiaramente già in Erica... Ma è sempre in Conversazione... che assurge ai toni più alti e solenni. «Il mondo è grande e bello — afferma l’uomo Ezechiele — ma è mol to offeso». E la sofferenza finisce col fare l’uomo più uomo. «...È più uomo un malato, un affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame». La denuncia contro le offese arrecate al mondo è più esplicita in Uomini e no, dove gli oppressori finiscono per acquisire precisi connotati storici. Ma nelle opere successive il grido di protesta per il mondo offeso ritorna ad assumere dimensioni universali ed astratte. A proposito del tema degli offesi e degli offensori, Vittorini fu accusato dalla critica marxista ortodossa di avere una visione astorica del fascismo, al di fuori di ogni dialettica di lotta di classe. Ma l’errore fondamentale di tale concezione della letteratura consiste nel fatto che il giudizio critico di un’opera d’arte non può rimanere vincolato al semplice aspetto contenutistico e ideologico. In letteratura ciò che conta non è tanto il «cosa» viene scritto quanto piuttosto il «come». Il valore conoscitivo dell’opera letteraria passa attraverso l’organizzazione formale del testo e, dunque, attraverso la sua resa stilistica.

Vittorini frantuma ogni convenzione linguistica, scompone la realtà, si reinventa uno stile di grande portata demistificante che finisce coi diventare la vera struttura interpretativa del mondo ed attraverso il quale arriva a leggere al di là della piatta realtà che appare, riuscendo ad av-

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A. Madeddu - VITTORINI

vicinarsi all’intima essenza del vero più di quanto non fosse riuscito agli stessi epidermici realisti. In tal modo la denuncia storica in Conversazione... è piena e perfettamente compiuta, molto più di quanto non riesca ad esserlo in un’opera più scopertamente «antifascista» come avrebbe dovuto essere Uomini e no. Ed al contempo, il grido di denuncia in Conversazione... si dilata magistralmente in una dimensione amplissima, universale.

Ma se il mondo è diviso tra «bene» e «male», tra «stato d’infanzia»

e «umanità offesa», l’uomo ha il dovere morale di essere più uomo: ... «Un uomo fiero è un Gran Lombardo e pensa ad altri doveri, quando è un uomo». Ecco spuntare così il terzo grande tema della narrativa vittoriniana: quello della lotta per la difesa dei diritti dell’uomo. Lotta che nelle pagine di Vittorini è magistralmente rappresentata nel mito del «Gran Lombardo» e nella sua battaglia per «...altri doveri». Nella propria narrativa Vittorini ha affidato lo sviluppo dei temi più cari ai dialoghi di alcuni personaggi indimenticabili che, come prototipi universali del genere umano, sembrano di volta in volta replicarsi, anche se con nomi diversi, in tutte le sue opere: gli offensori («Coi Baffi», «Senza Baffi»...), gli offesi (il «Nonno elefante», «Muso di fumo»...), il prototipo di padre (il biondino, ferroviere, che recita Macbeth), il prototipo di donna («Concezione», la «Garibaldina», la «Signora delle Madonie», «Zobeide»...).

Ma il più celebre di essi è proprio il «Gran Lombardo» di Conwversazione..., l’uomo che segna la svolta nel viaggio del protagonista Silvestro. Il Gran Lombardo ha un’altra statura rispetto ai comuni, e non solo fisica. Non è soltanto «...un siciliano, grande, un lombardo o normanno [...] autentico, aperto, e alto, e con gli occhi azzurri». Ha anche una sta-

tura morale. «...Credo che l’uomo sia maturo per altro — sostiene — ...per nuovi, per altri doveri. E per questo che si sente, io credo, la mancanza di altri doveri, altre cose, da compiere... Cose da fare per la nostra coscienza in un senso Nuovo...».

LA FORMA CONCETTUALE:

...L’UTOPIA ED IL MITO DI ROBINSON

Quali sono, dunque, questi «...altri doveri»? Innanzitutto il dovere di cercare la felicità dell'uomo, e dunque il dovere di ricominciare, di rifar partire la storia, di rifondare la vita, ponendo le basi per la ricostruzione di un mondo più giusto, fondato sul rispetto delle dignità umane. La vecchia cultura, erede di una saggezza millenaria non era riuscita ad evitare le offese contro il mondo. Dovere primario degli intellettuali,

NOTA INTRODUTTIVA

de

dunque, era quello di rifondare la cultura, di far sì che questa potesse incidere sull'uomo e sulla sua felicità. Temi e forma concettuale, come

vedremo, hanno radici profonde in Vittorini ed affondano le proprie origini già nel ragazzo quattordicenne che frequentava gli ambienti anarchici siracusani e le letture di Stirner, Bakunin, Kropotkin, Proudhon.

Ecco così delinearsi un altro grande mito della narrativa vittoriniana, presente fin dai suoi ricordi d'infanzia: quello di Robinson, il memorabile libro dei suoi dodici anni, letto in una stazione di Sicilia, come

ricorda lo stesso Vittorini, «sotto un ciuffo di canne», e che gli «fece grande impressione».

Il settecentesco eroe di Defoe rappresenta esso stesso, in un certo senso, una sorti mito anarchico ante litteram. Robinson aveva lasciato la

vecchia e stanca Europa ed era naufragato in un’isola deserta. Ma in quell’isola per lui era di nuovo il mondo. E Robinson trovò la forza di rifondare la vita, di ricostruire il suo mondo e di recuperare con questo un rapporto più autentico, più pieno,

più profondo.

Il mito di Robinson rappresenta l’utopia, ed è la forma concettuale che domina tutta l’opera di Vittorini, sia quella di narratore, sia quella di organizzatore culturale. C'è Robinson negli sbandati de Le Donne di Messina che dopo il naufragio della guerra ricostruiscono in un angolo remoto dell'Appennino un mondo nuovo. C'è Robinson ne Le Città del mondo, dove ogni città cercata e vagheggiata è una millenaria isola robinsoniana proiettata nel futuro. C'è Robinson dietro il mito dei «Padri Pellegrini» d'America che provenendo stanchi e delusi dalla vecchia Europa trovano la forza di ricostruire una nuova grande civiltà oltre lAtlantico. C'è Robinson dietro l’operazione culturale di scoperta della letteratura americana, giovane e nuova, nata dalle ceneri della vecchia let-

teratura europea. C'è Robinson dietro la sua battaglia per la ricostruzione di una nuova cultura operata attraverso il «Politecnico», i «Gettoni» e il «Menabò». Ma c'è Robinson persino nella sua stessa origine culturale di autodidatta che, lungi dall’essergli stata di impedimento, divenne invece la sua vera forza, visto che, svincolato dagli aridi schemi precostituiti di un regolare curriculum di studi, Vittorini, come un Robinson

della cultura, fu libero di costruire da sé il proprio sapere. C'è Robinson dentro tutta l’attività culturale di Vittorini, completamente tesa alla ri-

fondazione di se stessa. Ma c’è soprattutto Robinson nella ricerca ansiosa della felicità dell’uomo che rimane il punto unificatore di tutta l’opera vittoriniana.

18

A. Madeddu -VITTORINI LA FORMA STILISTICA: ... DIALOGO LIRICO ED EREDITÀ OMERICHE

Si è tanto detto e scritto circa la presunta dipendenza dello stile vittoriniano dai modelli americani che tradusse, ed in particolare dai grandi maestri del Novecento. In realtà più che Faulkner ed Hemingway sono proprio i padri, Melville ed Hawthorne, ad essere più presenti nella narrativa vittoriniana: l’uno per il forte senso dell’epopea e per la metafora del viaggio inteso come ricerca delle radici umane, l’altro per i temi del male, della colpa, del dolore dell’uomo. Ma si pensi anche al mito del viaggio legato all’esaltazione vitalistica della «naturalità» presente in Lawrence e ai temi del riscatto umano nel simbolismo lirico di racconti come The Man Who Died, e più ancora — si pensi — al simbolismo mitico e visionario di «Unclay» dell'inglese Powys, che proprio Vittorini aveva tradotto nel ’39 col titolo de Il mietitore di Dodder. Ma si tratta soprattutto di parentele tematiche, non certo stilistiche. Come scrisse Pavese, Vittorini non li imita, ...ma quasi «li cerca», come

per una sorta di affinità elettiva, proprio perché gli sono più congeniali. Ed in tal senso, uno degli errori più grossolani nei quali è spesso caduta parte della critica è stato quello di rintracciare in un minore come Saroyan il modello occulto di Vittorini. Un Saroyan in realtà letteralmente riscritto e reinventato stilisticamente nella traduzione vittoriniana. Un Saroyan totalmente riscattato sul piano della sintassi, che rimane la vera grande rivoluzione stilistica dello scrittore siracusano. Se un’opera come Conversazione in Sicilia ancor oggi rimane, come fa osservare Sanguineti, «...l’unico testo esemplare» lasciatoci dalla generazione dei padri, il segreto è soprattutto nella straordinaria architettura compositiva della sua pagina. La vera innovazione nella ricerca narrativa di Vittorini non è da ricercare nel lessico, come è accaduto, ad esempio per scrittori esuberan-

ti come Gadda. Da questo punto di vista Vittorini appare piuttosto uno scrittore povero, rivolto al passato, troppo legato ad una prosa di derivazione rondesca, magari appena filtrata attraverso la lezione della poesia ermetica di un Quasimodo o di un Montale 0, come giustamente sostiene Pautasso, attraverso il «saggismo» di un maestro come Cecchi. In realtà il terreno su cui Vittorini concentra tutta la sua ricerca sti-

listica è quello della sintassi. Il punto unificatore nella pagina di Vittorini è il ritmo. Nel suo periodo tutto è in funzione del ritmo. Si pensi alla sua costante ricerca di una musica nascosta tra le righe, all’analogia vittoriniana «letteratura-melodramma», all’invenzione di una punteg-

giatura che piuttosto che assolvere a funzioni logico-sintattiche sembra

assumere compiti di scansione ritmica, così come il solfeggio in un pen-

NOTA INTRODUTTIVA

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tagramma. Oppure si pensi ancora al ricorso a volte quasi ossessivo della ripetizione, o all’uso frequentissimo della congiunzione «e» come per dare movimento alla frase, o all’espediente di introdurre nei momenti topici —proprio come il ritornello in una canzone — quelle interrogazioni che colorano spesso d’ingenuità i suoi personaggi, con quel loro continuo interrogarsi ed interrogare, quasi che non sapessero o che non capissero, ma che allo stesso tempo li rendono solenni, antichi, profetici.

È l'incanto del «dialogato» vittoriniano, quel dialogato cheè la forma stilistica fondamentale della narrativa di Vittorini. Come ha fatto notare giustamente Maria Corti, nei dialoghi dei suoi personaggi lo scrittore ha trasferito per la prima volta tutti i caratteri della prosa lirica della nostra miglivfé tradizione: un andamento ciclico, iterativo, fondato su sequenze parallele anaforiche e su ogni altra figura retorica di una sintassi paratattica, spezzettata, a segmenti, nella quale le parole chiave cui è affidato il messaggio finiscono con l’assumere un limpido effetto musicale. Così facendo Vittorini ha reinventato il dialogo, svuotandolo della funzione discorsiva, realistica che la tradizione gli aveva affidato e riempiendolo di una funzione lirica del tutto nuova. Vittorini si era, dunque, creato lo strumento linguistico più adatto per poter fare interagire il livello stilistico con quello tematico: lirico evocativo il primo, mitico simbolico il secondo. Ed era così riuscito nell’intento di trasferire la realtà su di un piano più alto che la rende mitica, universale: una «quarta dimensione». Già Albert Beguin aveva fatto notare come in tutto questo ci fosse più Sicilia, di quanta America continuassero ad attribuirvi i lettori più sprovveduti. C'è, nella vita dei popoli mediterranei, nelle isole, una sorta di raffigurazione spontanea dell’esistenza quotidiana, che ha sempre fatto di queste terre dei piccoli teatri del mondo, popolati di personaggi simbolo, che hanno gesti e parole solenni, rivestiti di ampiezza e di significati profondi, ineluttabilmente allegorici. La prosa di Vittorini sembra riassumere l'eredità di antichi popoli omerici, di una lunga tradizione orale che, dopo tanto tempo, è riuscita a prendere stile. I dialoghi dei personaggi di Conversazione... spesso sembrano rappresentare la trasposizione appena italianizzata del secolare dialetto siciliano col quale conversavano i contadini e i marinai di Siracusa, con tut-

to il fascino dell’antica cultura popolare che era in essi. Basti pensare all'utilizzo esclusivamente fonetico della punteggiatura quasi a dare accentuazione, tono, senso alla parola, o alla preminenza data ai sostanti-

vi sui verbi, oppure al frequente ricorso della struttura latina, od ancora all'importanza del complemento, posto all’inizio della frase come cosa da far risaltare, quasi a tradire l'abitudine dei siciliani di arrivar subito

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A. Madeddu — VITTORINI

allo scopo del discorso, a colorire di solennità il loro oracolare conversare. È illuminante Debenedetti quando paragona la frase di Vittorini ad una sorta di linea spezzata, ai lati di un poligono che si infrangono sui vertici e che nel farsi opposizione «sembrano inventarsi una nuova naturalezza a dispetto della naturalezza più vulgata». Una scrittura ellittica, una sorta di sintassi a spirale con quel periodare lungo, quasi da litania, che finisce col dare proprio un tono oracolare alle cose dette e nel quale le cose non dette finiscono con l’assumere un’importanza maggiore di quelle stesse dette. Uno strumento linguistico nuovissimo, sperimentale, percorso da profonde allusività polifoniche. Eppure uno strumento perfetto, che sembrava davvero fatto apposta per scrivere quella sorta di romanzo poema del «...Mondo offeso» che è Conversazione in Sicilia, con tutto quel suo carico di miti e di simboli che si porta dentro. È proprio in questo viaggio attraverso la lingua che bisogna riconoscere la più audace avventura intellettuale di Vittorini.

LA RICERCA:... OLTRE GULLIVER, L'UMILTÀ DI SCRIVERE

Partendo da esordi rondeschi e malapartiani, Vittorini, attraverso la

svolta fondamentale di Scarico di coscienza (1929) era giunto a Solaria e a Piccola Borghesia (1931). Ben presto però il suo incontro con la «storia» lo avrebbe allontanato dal terreno dell’analisi psicologica e sarebbero giunti Sardegna come un'infanzia (1932) e Garofano rosso (1934). Ma

sarebbe stato soltanto l’intimo travaglio dell’intellettuale davanti al dramma della guerra e delle sue offese al Mondo a far maturare in Vittorini l’uomo e lo scrittore che si celano dietro Conversazione in Sicilia (1941). Opera che resta il suo vero capolavoro, nei confronti del quale tutti gli altri suoi romanzi, precedenti e successivi, rappresentano tappe di avvicinamento e di progressivo depotenziamento. Il conflitto interiore nel Vittorini scrittore, infatti, comincia nel dopoguerra, e soprattutto con Uomini e no (1945), quando i mali del mon-

do offeso assumono connotati storici più netti e la denuncia contro il fascismo si leva più alta e più esplicita. Eppure, in quel preciso momento, di fronte alla mutata realtà storica, lo scrittore finisce col ritrovarsi tra

le mani uno strumento linguistico metaforico, simbolico del tutto inadatto per quell’operazione conoscitiva che della realtà doveva fare la let-

teratura. Mentre l’idea astratta del fascismo aveva una sua chiara funzione nell'impianto allegorico di Conversazione..., in un libro come Uomini e no,

NOTA INTRODUTTIVA

ra|

basato su una sequenza quasi cinematografica delle immagini, quell’idea della storia era del tutto ingiustificata. Il dramma esterno della guerra era diventato il dramma interno della scrittura. Scrittura che Vittorini non riesce più a riscattare sul piano

dello stile. Il conflitto tra l’esigenza di rappresentare la realtà, la storia, la società che va mutando, e la tendenza all’astrazione, alla trasfigurazione lirica, simbolica connaturata al suo modo di essere narratore, sa-

rebbe ad un mento pio, è

poi scoppiato più intenso nelle opere successive, fino a portarlo paradossale e clamoroso... silenzio. La volontà di un approfondisociologico, ereditata dall'esperienza di «Politecnico», ad esemassai palese nel Sempione... (1947), ma finisce col mettere a nudo

la sua capacitàdi aggiornamento culturale e tematico ed insieme ad essa la sua incapacità di rinnovamento stilistico, di mediare simbolicamen-

te la realtà. Difficoltà che emergono ancor più chiaramente in un romanzo dal progetto ambizioso e di grande respiro come le Donne di Messina (1949). Vittorini amava i libri brevi, intensi. Il romanzo, tanto più se lungo, non

gli era congeniale. Gli mancava il «fiato narrativo», quella dote di fondo e di durata che, in realtà, non aveva mai posseduto. La sua naturale

espressività lirica, intensa, breve, tendente all’astrazione, si era sempre scontrata con le leggi interne del romanzo, fatto di una sua logica, di una sua sequenza funzionale. E la crisi della sua scrittura finì con l’esaltare le sue qualità di lirico ed insieme i suoi limiti di romanziere. La prova più concreta di quanto detto è che il suo romanzo postumo, Le città del mondo (1952), sul piano squisitamente lirico rappresen-

ta forse il suo vero capolavoro, ma non riesce a realizzare quell’operazione conoscitiva del mondo che fa di Conversazione... la sua opera sti-

listicamente più compiuta. Ed alla crisi stilistica subentra di pari passo quella concettuale. Nei suoi ultimi romanzi i temi più cari a Vittorini continuano a sopravvivere, ma, come nel caso de La Garibaldina (1956), finiscono con l’assumere

le sfumature grottesche ed ironiche di un autore ormai disilluso, quasi distaccato, disincantato.

Distacco e disincanto che sono chiarissimi nella seconda redazione de Le donne di Messina (1964), dove all’utopia ed al grande messaggio

di speranza che proviene dal «villaggio robinsoniano» dell’edizione del 49 subentra, dopo quindici anni, la cocente disillusione di una realtà in cui la «nuova storia» muore sul nascere e tutto è tornato tremendamente ...normale! Negli ultimi anni della sua vita Vittorini lavorò, senza successo, alla redazione di una rivista internazionale, a tre lingue, cui, come per in-

20)

A. Madeddu-— VITTORINI

consapevole presagio, diede per nome «Gulliver». La parabola di Lemuel

Gulliver, medico settecentesco, innamorato del viaggio, che naufraga in

un'isola di gente bizzarra dove gradatamente è costretto a guardare nel la sua vera luce l’umanità, è anche la parabola di un uomo che, giunto nella società ideale degli Houyhnhnms (i cavalli pensanti che vivono secondo «ragione e natura») prova immediato disgusto per i loro abietti schiavi, gli Yahoos, prima di accorgersi che essi sono in tutto simili... agli uomini. E così, l’eroe del misantropo Jonathan Swift, diventa sì la metafora della cultura scientifica, del viaggio conoscitivo, dell'incontro con popoli nuovi e diversi, ma, al contrario di Robinson, non si prodiga con fede a ricostruire il mondo, bensì cerca di conoscere quella parte di esso che gli sembra nuova, e nel far questo la riscopre vecchia. Gulliver è il medico, è la scienza, è il viaggio, è l’incontro coi popoli,

ma è soprattutto ...il distacco, la disillusione. Gulliver è un Robinson disincantato, con qualche anno in più e con qualche speranza in meno. Robinson e Gulliver segnano i poli entro cui si situa la parabola umana ed artistica di Vittorini: la sua prima memorabile lettura e il suo ultimo progetto di rivista, la sua prima scoperta ed il suo ultimo fallimento, il punto di partenza ed il punto di arrivo del suo lungo viaggio conoscitivo. La parabola di uno scrittore che sul finire dei suoi anni sembrava aver perso quella cieca fiducia nella parola che lo aveva da sempre accompagnato. Eppure nonostante questa crisi di scrittura Vittorini restò uno scrit-

tore. Sbagliano coloro i quali tendono a scindere il Vittorini narratore dal Vittorini organizzatore di cultura (dal cui profondo ed inestricabile intreccio nasce il grande fascino dell’intellettuale). Vittorini anche quando smise di fare romanzi restò uno scrittore. Spostò solamente il suo raggio d'interesse su quello della ricerca, della scienza. Ma sempre da scrittore. Pensando da scrittore. E con fare da scrittore. Quando le mutate condizioni storiche e l'avvento della civiltà industriale, avevano finito col rendere arcaici i mezzi espressivi della narrativa contemporanea,

incapaci di trasformarsi

in un autentico

strumen-

to di penetrazione gnoseologica della realtà, Vittorini si spinse sempre

di più verso un'azione di ricerca, di indirizzo e d'intervento sul piano culturale: «Il Politecnico» (1945-47), «I Gettoni» (1951-58), «Il Menabò»

(1959-66), «Le due tensioni» (1966), lo stesso fallito progetto del «Gulliver» (1964) furono i momenti più significativi di questa sua ricerca e segnarono le tappe di un profondo rinnovamento nella letteratura italiana dal dopoguerra in poi. Tappe che rappresentarono l’epilogo di quelle cinque «ragioni» di scrivere con le quali Vittorini definì, in Diario in

pubblico (1957) le fasi creative della sua attività: la ragione letteraria (29-

NOTA INTRODUTTIVA

25

36), quella antifascista (37-45), quella culturale (45-47), quella civile (48-56), e quella conoscitiva (dopo il 56). Fino a Conwersazione... il mondo per Vittorini era stato Sicilia ma era stato anche Europa. E i millenni passati e quelli da venire. Ed il tutto di ogni cosa, visto insieme, dall’olistica natura della sua coscienza.

Siracusa e Milano segnarono per Vittorini i confini della geografia antropologica e culturale della sua opera: l’estinto regno del mito, dell’antica infanzia dell’uomo, da un lato, e l'utopia tecnocratica del progetto di città futura, dall’altro. Siracusa e Milano come mito e utopia, come passato e futuro dell’uomo, come confronto tra natura e storia. Ma quando Vittorinî si accorse delle «Due tensioni» che attraversavano la meàteria creativa del mondo, ...quello suo, di mondo, si spaccò. La sua coscienza di scrittore fu travolta, finì col frantumarsi in una visione dicotomica della realtà, dove scienza e letteratura erano ormai

troppo distanti e dove il passato era ormai troppo passato rispetto ai tempi, mentre il presente aveva reso sterile il suo strumento narrativo, svuo-

tandolo di ogni potere interpretativo. Vittorini tacque. Con un sottile e provocatorio gioco ossimorico ri-

spose con l’eloquenza del silenzio. E si dimostrò grandissimo. Come il suo «Nonno elefante», si mise dignitosamente da parte. Si dedicò alla ricerca ed alla scoperta di giovani scrittori. «Io penso che sia molta umiltà essere scrittore» scrisse in Uomini e No. «Siamo di fronte al trionfo dell’umiltà di uno scrittore — ha affermato giustamente Pautasso — che ha capito, per sé e per gli altri, come la letteratura sia innanzitutto ricerca; e soprattutto che nessun risultato letterario è mai conseguito definitivamente perché la vita stessa, la realtà, la storia non sono mai definitive» ®.

PERCHÉ VITTORINI: ...IL MESSAGGIO DENTRO LA BOTTIGLIA

Di Vittorini, ormai, si è scritto tanto. Eppure, nonostante da più parti

la sua opera sia stata definita eccessivamente datata, troppo legata alle contingenze storiche del suo tempo, di Vittorini si continua a scrivere ancora tanto. Perché mai — ci si chiede allora — continuare ad occuparsi di un autore la cui opera è totalmente calata nell’interpretazione della realtà a lui contemporanea. A rispondere a questa domanda ci pensò per la verità lo stesso Vittorini:

«Vi sono autori del passato che restano validi e di utile lettura anche al

momento in cui viviamo; ma bisogna che siano stati profondamente contem-

du — VITTORINI A. Maded

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poranei, in quello che dicevano, al momento in cui lo dicevano. La lettera-

tura è già così poca cosa. A che può servire se non sa rivelare, attraverso le

»(DT). sue stesse forme, di che specie di mondo siamo contemporanei?

È stato detto che ai tempi di Vittorini c’era stata la guerra, c’era stata la dittatura, c’era stata la soppressione della libertà e delle dignità umane. Ed allora le sue pagine, come per incanto, si erano animate degli echi di «astratti furori», delle voci di «Gran Lombardo», tutti tesi ad indicare «altri doveri». Dentro gli scritti suoi e dei suoi contemporanei vibrava una tensione morale ed intellettuale altissima, che oggi manca.

Oggi, per fortuna, nel nostro Paese non c’è la guerra, ...sembra che non ci sia dittatura, dicono che la libertà sia garantita e con essa i diritti umani. E la vita scorre in una sonnolenta «quiete». Insomma, oggi sembra davvero che non ci sia proprio nulla per cui valga la pena di scrivere.;.1

Eppure anche adesso vien lo stesso di chiedersi «di che specie di mondo siamo contemporanei». E nel provare a darci delle risposte finiamo col sorprenderci nel leggere i nostri tempi, nell’accorgerci dei nuovi inquietanti «furori» che sembrano attraversare, anch'essi più o meno «astratti», l’esistenza delle nostre generazioni, o della «quiete nella non speranza» che sembra leggersi negli occhi dei più giovani, o ancora del disagio di vivere che, pur affondando le sue radici in una realtà storica e sociologica diversa, sembra accomunare tante coscienze di oggi ai «Nonni elefanti», ai «Silvestro», ai «Ventura», agli «Enne due» di ieri. Ed allora vien da chiedersi se sia proprio vero che ci sia bisogno della guerra o del fascismo ...per poter fare gli scrittori. E viene da pensare a Fortini, e alle sue parole, quando qualche tempo fa scriveva che l’attualità dell’opera di Vittorini è ancor oggi chiaramente leggibile nella «...disperazione dei più giovani e anche di alcuni di noi meno giovani», perché, in fondo, la situazione del vittoriniano Enne due è la stessa «... alla quale la società è ritornata a ridurre non pochi fra noi: quella delle due pistole nel

la stanza, dell’ordigno di morte». Ciò che irritava Vittorini più di ogni altra cosa era la «quiete nella non speranza» in cui si adagiava la gente, il conformismo imperante dovunque. Per questo immaginò un viaggio alle origini, un ritorno alle cose essenziali, un lungo discorso intorno agli eterni ed elementari problemi dell’uomo: la ragione prima del suo essere sulla terra, e l’amore e la mor-

te, la giustizia e l’ingiustizia, l'offesa e la speranza. Quando tra qualche generazione non esisteranno più né i fascisti, né

gli antifascisti, quello che rimarrà di Vittorini sarà il linguaggio eterno ed universale del puro valore letterario della sua opera. Da qui l’attua-

NOTA INTRODUTTIVA

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lità di un autore intramontabile come Vittorini col suo «...messaggio dentro la bottiglia» e l'universalità senza spazio e senza tempo dei miti che vivono nelle sue opere migliori «...capaci — come scrive Maria Corti — di farci partecipare insieme al contenuto del reale e al suo risvolto magico, al commensurabile e all’incommensurabile del nostro vivere», Il vero limite della civiltà letteraria dei consumi e dell'immagine che ci vive addosso è che oggi manchiamo assolutamente di tensione morale ed intellettuale. La più grande lezione che può venirci da Vittorini e dall’attualità del suo messaggio nei nostri giorni, forse, è proprio questa tensione, questa

voce da «Gran Lombardo», ...questa stagione degli «altri doveri», senza i quali la lettèratura diventa spesso un vuoto pretesto, scade nella maniera, si trasforma nello specchio inutile delle vanità. «...Del resto immagino che tutti i manoscritti vengano trovati in una bottiglia. ..»(CS), scriveva Vittorini. Ma soltanto la fede che questa bottiglia, anche dopo tremende tempeste, possa raggiungere un’altra spiaggia, in un’altra terra, popolata da altri uomini, può giustificare ...l’azzardo di scrivere. Un azzardo che dall’incanto della scoperta di un Robinson, letto nei suoi dodici anni all'ombra dei canneti di Sicilia, aveva portato Vittorini a viaggiare lontano, lontanissimo, fino a valicare le remote e tempestose Colonne d’Ercole della «Ragione Conoscitiva», e a naufragare, come Gulliver, nella terra del disincanto. Anselmo Madeddu

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A. Madeddu - VITTORINI

NOTE ALL’INTRODUZIONE E. Vittorini, prefazione al Garofano rosso, Milano, Mondadori, 1948. (*) C. Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi 1968, pp. 346-347. S. Pautasso, Guida a Vittorini, Rizzoli, Milano 1977, pi 43. M. Luzi, Immagine di Elio Vittorini, in «Il Ponte» luglio-agosto 1973. C. Bo, Note su Vittorini, in «Nuovi studi», Vallecchi, Firenze 1949, p. 157. G. Bonina, Conversazione con Vincenzo Consolo: quelle due Sicilie..., in «Cinquant’anni di vita raccontata: 1945-1995», inserto del quotidiano «La Sicilia», Vol.

II, pp. 108-120. Demetrio Vittorini, dalla prefazione all'edizione postuma de Il Brigantino del Papa, Rizzoli 1985. Demetrio Vittorini, figlio di Elio, è nato a Gorizia nel 1934, e oggi vive e insegna a Lugano. Ha studiato al liceo classico «Gargallo» di Siracusa. Laureatosi a Milano e a Londra, ha insegnato al Trinity college di Dublino e all’Università del Galles. È stato professore in visita all’Università di California e ordinario in quella di Stellenbosch. È autore di saggi, articoli e di numerose traduzioni dall’inglese (Shakespeare, Conrad, v.s. Naipaud) e dal russo (Puskin, Tolstoj). S. Pautasso, op. cit., p. 212.

F. Fortini, Rileggendo Uomini e No..., in «Il Ponte», luglio-agosto 1973. M. Corti, prefazione a Opere Narrative di Vittorini, «I Meridiani», Mondadori, Mi-

lano:1975; p. LX.

Per via del frequente ricorso a citazioni vittoriniane nel testo, si è preferito ricorrere alle seguenti abbreviazioni: Scarico di Coscienza (SC), Piccola Borghesia (PB), Il Garofano rosso (GR), Prefazione al Garofano rosso (PGR), Sardegna come un’infanzia (SCI), Conversazione in Sicilia (CS), Uomini e no (UN), Il Sempione strizza l’occhio al Frejus (SF), Le donne di Messina (DM), Della mia vita fino ad oggi raccontata ai miei lettori stranieri (DMV), Lettera a Togliatti (LT), Erica e i suoi fratelli (EF), La garibaldina (G), Le città del mondo (CM), Diario in pubblico (DP), Le due tensioni (DT).

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EAT

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I LASVITAÀ GLI ANNI SICILIANI (1908-1930)

«Siracusa è una città di marinai e di contadini costruita su un isolotto che un lungo ponte congiunge alla Sicilia. Io vi sono nato il 23 luglio 1908 in una casa da cui ho visto naufragare, quando avevo sette anni, un piroscafo carico di Cinesi. C'erano bastioni a picco sugli scogli dietro la casa e da una parte, un centinaio di metri più in là, il piazzale dove i contadini del rione, tornando la sera dal lavoro dei campi, lasciavano a stanghe per aria i loro carretti»(DMV).

Così Elio Vittorini ricorda i suoi natali aretusei nella casa di nonno Sgandurra alla Mastrarua (allora Via Gelone) ad un passo dal bastione a picco sugli scogli di San Giovannello e dal piazzale Cesare Battisti. «... lo avevo amato zie, nella mia infanzia, avevo adorato, da piccolissimo, il nonno. [...] Ah, la casa del nonno! Là sì, che ero stato felice! C°era-

no alti balconi bianchi su una via dove passavano galoppi di carozze e, dietro, un sistema di tetti a ringhiera dai quali si scopriva a poco a poco una misteriosa lontananza marina. [...] C'era mio nonno con la barba bianca e bionda, alto come un normanno e con gli occhi azzurri, e che parlava con soavità da tempi antichi delle sue guerre in pianure d'oriente. [...] E c'era una stan za enorme con le stuoie di paglia alle finestre, piena di parenti, la sera, e di cocomero rosso in grandi fette per i tavoli. [...] Era come una gran fiera la casa del nonno...»(GR).

Nella narrativa vittoriniana ci sono dei prototipi universali, dei per-

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A. Madeddu — VITTORINI

sonaggi straordinari e immortali entrati ormai nella storia della letteratura italiana. La figura del nonno Sgandurra ispirò ad Elio Vittorini uno

di questi, il mitico «Gran Lombardo» di Conversazione in Sicilia. E ancora più evidenti sono gli influssi determinati dalla forte personalità di babbo Sebastiano, letteratissimo autodidatta, nella genesi di altri importanti personaggi vittoriniani: il poeta ferroviere dagli occhi azzurri di Uomini

e No, il capostazione tenore che recita il Macbeth in Conversazione in Sicilia, il padre autoritario ed ex socialista del Garofano rosso: «...Rilessi la lettera, e riconobbi mio padre, il suo volto, la sua voce, i suoi occhi azzurri e il suo modo di fare, mi ritrovai un momento ragazzo ad ap-

plaudirlo mentre lui recitava il Macbeth in una sala d’aspetto d’una piccola stazione pei ferrovieri di tutta la linea da San Cataldo a Racalmuto. Riconobbi lui e ch’ero stato bambino, e pensai Sicilia, montagne in essa...»(CS). Non furono comunque soltanto papà Sebastiano e nonno Sgandurra ad ispirare i personaggi di Elio. E tutta la narrativa vittoriniana che trova il suo fertile humus nei personaggi e nella Siracusa degli anni Venti, la città in cui visse e si formò il giovane Vittorini, la città che gli ha dato di più e alla quale egli deve quasi tutto, personaggi, sensazioni, panorami, clima, emozioni, atmosfere. È indispensabile, dunque, esplora-

re, sia pure brevemente, la gioventù siracusana di Elio Vittorini ter meglio comprendere la sua opera. «Elio Vittorini — scrive a posito G. Finocchiaro Chimirri — nasce adulto e maturo al mondo suoi lettori. Ma era stato un giovane autore. Al di là delle possibili

per potal prolargo dei agnizio-

ni, c'è un territorio vittoriniano che resta tuttora misconosciuto e pertanto tutto

da indagare: è il territorio di Elio ragazzo a Siracusa. Nell’immaginario di molti che abitano fuori dalla Sicilia, Siracusa vive attraverso le pagine che Elio Vit torini ha consegnato ai suoi romanzi, disegnandone una realtà della vita, un sentimento del tempo, una trasparenza d’affetti, che trascendono, in virtù dell’artificio letterario, la realtà concreta del luogo. È una Siracusa letterariamente inventata. Così come trasfigurati dall’invenzione artistica sono i luoghi che i grandi scrittori ci restituiscono nei loro libri. Siracusa, però, è il luogo reale in cui Elio Vittorini nacque e formò il nucleo forte della sua personalità». Soffermiamoci dunque su questa gioventù siracusana, prendendo soprattutto a riferimento quella che giustamente viene riconosciuta come l’opera fondamentale sulla conoscenza di questo primo periodo della vita di Elio: I Vittorini di Sicilia di Massimo Grillo.

IL «GRAN LOMBARDO», LO ZIO SCULTORE E LA «LEGGENDA» DEL POETA FERROVIERE.

La mattina del 2 febbraio del 1899 nell’austera penombra della Cat-

1. LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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tedrale di Ortigia un'insolita animazione turbò la soporosa celebrazione dei riti della candelora. Per la pastorale della quaresima l’arcivescovo si apprestava a commemorare l’esempio cristiano di San Bassiano‘. Il fremito dell’organo aveva spento ogni cicaleccio e le calde note dell’«Ecce sacerdos magnus» avevano invaso, lente e solenni, le doriche navate del

tempio, togliendo a tutti il respiro, quando, subito dopo la benedizione delle candele, un seminarista non ancora sedicenne salì sul presbiterio per ricevere direttamente dall'arcivescovo il suo cero. Il giovane si inchinò dinanzi a Monsignor Fiorenza, ma per tutta risposta si vide afferrare una ciocca dei suoi lunghi capelli biondi e si sentì rimproverare: «Giovanotto*uesti non sono capelli da chierico!». La sua reazione fu immediata e imprevedibile. Il giovane si spogliò della bianca cotta che indossava, la scaraventò a terra e fuggì nella «campagna di sole» di Piazza Duomo, ridendo e piangendo‘. Il giovane che con questo «gran rifiuto» aveva, voltato le spalle a oltre cinque lunghi anni di Seminario si chiamava Sebastiano Vittorini. Era nato alla Maestranza, nel 1883, nel palazzo Bufardeci, da Vincen-

za Midolo e da Vincenzo Vittorini. Il cinquantenne babbo Vincenzo era nato dall'amore di una giovane siracusana con un Colonnello di Finanza originario di Bologna e inviato dal Governo Borbonico a Siracusa in-

torno alla metà dell'Ottocento. Dopo aver fatto diversi lavori Vincenzo era riuscito a diventare, non senza grossi sacrifici, il gestore di un «Caffè» all'angolo fra Via Maestranza e il vicolo della Chiesa dei Santi Coronati. Grande fu la delusione dei genitori quando Sebastiano manifestò loro il proposito di «abbandonare» la presunta vocazione sacerdotale e di preferire alla clausura il mare aperto e i fantastici viaggi che poteva offrirgli suo zio Francesco Midolo, commerciante e armatore di velieri. Quella mattina di aprile di fine Ottocento, in cui Sebastiano salì sul brigantino dello zio, il porto di Ortigia sembrava un enorme calderone

di piombo fuso che ribolliva per chissà quale fuoco. Ma il mare era per Sebastiano «mago tremendo ora, ora soave,/ sì fascinoso, sempre di poesia fermento» e il mito dell'avventura ulissea lo affascinava quando vedeva entrare nel porto, attraverso le «Colonne d'Ercole» del Castello Maniace e del Plemmyrio, panciuti legni a vele spiegate, reduci da terre lontane con addosso i segni confusi di capricciose piogge, di vagabondi fortunali, ma soprattutto con un carico di storie e di avventure nelle quali perdersi dolcemente, dinanzi al bicchiere di moscato nel quale marinai, commercianti e pescatori affogavano i propri affanni al tavolo risto-

ratore di una fumante osteria del porto nel tempo scandito dai racconti. Cipro, Smirne e altre terre dal fascino orientale avevano infervorato la fantasia di Sebastiano, ma in settembre durante la rotta di ritorno

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A. Madeddu - VITTORINI

verso Siracusa, giunti al largo di Malta, un tremendo fortunale mise a

dura prova il brigantino di zio Midolo e soprattutto lo stomaco di Sebastiano. L'epilogo della vicenda fu amaro per il giovanotto, una volta

sbarcato sano e salvo a Siracusa. «Ritorna ai tuoi libri — gli disse con affetto paterno lo zio Midolo —, perché non sei adatto a fare il marinaio». Il mito del viaggio rimase tuttavia caro all’irrequieto Sebastiano, che momentaneamente si iscrisse all'Istituto Tecnico «Archimede», l’unica

scuola media superiore esistente allora a Siracusa insieme al Liceo Gargallo e all'Istituto d’Arte. Sebastiano avrebbe voluto fare l'insegnante e frequentò il biennio di Magistero all’Università di Catania, ma l’amore per Lucia Sgandurra e la necessità immediata di un lavoro lo costrinse ad abbandonare gli studi. Vinse un concorso alle Ferrovie dello Stato e intraprese una carriera più consona al suo spirito di «viaggiatore».

Lucia apparteneva ad una antica famiglia siracusana, quella degli Sgandurra, che affondava le sue radici nel mito e nell’epopea di un antico guerriero medievale, «Iskander»‘®, da cui derivò oltre al nome stes-

so della famiglia, quello dell’operaio protagonista di Giochi di ragazzi, il romanzo incompiuto che continuava le vicende del Garofano rosso. La madre di Lucia si chiamava Angela Orefice, il padre, Salvatore.

Era la terza di cinque figli: Antonino (nato nel 1873) insigne botanico ed avvocato affermatosi poi a Genova‘”, Giuseppina (nata nel 1876) rimasta nubile, la stessa Lucia (nata nel 1879), Pasquale (nato nel 1882) celebre scultore trapiantatosi a Firenze‘ ed infine Maria (nata nel 1886)

sposata Imperlini a Benevento. Il capofamiglia, Don Salvatore, era un barbiere assai popolare allora in città, ed all'occorrenza anche un coraggioso cerusico. Alto, biondo e con gli occhi azzurri come un antico normanno, fu lui il «Gran Lombar-

do» di Conversazione in Sicilia. In politica nonno Salvatore era un repubblicano, ma mostrava forti simpatie per un certo socialismo patriottico. Un giorno dell’anno 1906 lo scrittore Edmondo De Amicis, in soggiorno a Siracusa, passando per la Mastrarua entrò nel suo negozio, lo conobbe, ne rimase affascinato e scrisse di «...non aver mai incontrato nel-

la sua vita un barbiere così colto». Don Salvatore ebbe un ruolo impor-

tante nella formazione dei suoi figli. Lucia Sgandurra conobbe Sebastiano Vittorini grazie all’amicizia tra questi e suo fratello Pasquale. Compiuti i primi studi presso il vicino Ginnasio «Gargallo», Pasquale Sgandurra si era iscritto alla Scuola d’Arte di Siracusa, che frequentò dal 1897 al 1900. La scuola d'Arte aretusea, rara scuola modello nella Sicilia di quel tempo, suscitò allora le at-

tenzioni di Camillo Boito, che le dedicò nel 1902 un lusinghiero arti-

colo sul periodico «Arte decorativa e industriale» 19.

1. LA VITA — Gli amni siciliani (1908-1930)

Si

«Oggetto d'interesse della rivista — scrive a tal proposito Giovanna Finocchiaro Chimirri — erano state generalmente scuole dell'ordine superiore; l’attenzione focalizzata per la prima volta sulla piccola scuola è motivata dal gusto fresco e dalla qualità dimostrati nei lavori espressi dagli studenti siracusani»),

Fondata già nel 1883 e diretta dal 1891 da illustri docenti della scuola di Torino, centro propulsivo, allora, del movimento modernista, la Scuo-

la d'Arte di Siracusa in meno di un decennio aveva conquistato posizioni di primo piano nel panorama culturale nazionale, balzando così agli onori della cronaca. Dalle notizie su insegnanti e allievi della Scuola si apprende che lo Sgandurra fu uno degli allievi migliori. Del resto l’ambiente artistice. siracusano dell’epoca si mostrava molto prolifico e stimolante. Basti ricordare che alla stessa scuola si era formato il grande pittore siracusano Francesco Trombadori?, uno dei maggiori protagonisti a Roma del rinnovamento dell’arte italiana del Novecento. E lo stesso Sgandurra si affermò poi a Firenze tra i più apprezzati scultori del nostro secolo. Una volta diplomatosi ed ottenuta l’abilitazione all'insegnamento, Pasquale Sgandurra cominciò a lavorare presso la Scuola che lo vide prima studente. Dal 1900 fu professore di plastica presso la Scuola d’Arte di Siracusa e saltuariamente insegnante supplente di disegno presso la Scuola Tecnica «Archimede». In quegli anni Pasquale Sgandurra aveva a disposizione un’aula della Scuola d'Arte che utilizzava come laboratorio e come cenacolo d’arte e di cultura, ritrovo di alcuni giovani artisti siracusani, fra i quali i pittori Adorno e Majorca e l’incisore Alfonso Ricca. A questa affiatata comitiva si aggregò nel 1903 Sebastiano Vittorini, giovane poeta assai sensibile al fascino dell’arte plastica. Accomunati dalle stesse aspirazioni e dagli stessi interessi culturali e politici, tra i due nacque una profonda amicizia. Uomo schivo e di poche parole, di carattere volitivo, anticonformista, dotato di un’eleganza vagamente dannunziana e dongiovannesca, libero nel vestire come nel comportamento secondo certi modelli d’oltralpe, Pasquale Sgandurra, da vero esteta della vita, esercitava un autenti-

co fascino sul giovane amico Sebastiano, il quale poi in alcuni suoi scritti avrebbe ricordato quei tempi ed in particolare la loro comune frequentazione della «Leone di Caprera», una società sportiva di Siracusa dove si faceva scherma, lotta greco-romana ed esercizi agli anelli e alle sbar-

re. Sebastiano Vittorini cominciò così a frequentare la casa degli Sgandurra alla Mastrarua, e lì conobbe Lucia.

A. Madeddu - VITTORINI

Sp

Il 15 giugno 1907 nella Chiesa di San Pietro al Carmine Sebastiano e Lucia si unirono in matrimonio‘! Sebastiano, singolare miscuglio di poeta e ferroviere, anticonformista e perseguitato dal Regime, fu anche un tenore di talento ed un attore, fondò a Siracusa la filodrammatica «Alfieri», simpatizzò in politi ca per i socialisti di Eduardo Di Giovanni e scrisse parecchio, arrivan-

do persino a dirigere il «Bollettino delle Rappresentazioni Classiche di Si-

racusa»l!4.

Intanto, ad un anno dalle nozze, la sera del 23 luglio 1908 nella casa

degli Sgandurra al numero 140 della Mastrarua di Ortigia, Lucia diede alla luce un bel maschietto, sulla cui scelta del nome la cultura classica

del babbo finì con l’avere un peso decisivo. Gli fu dato infatti il nome greco della stella più luminosa, il sole. Si chiamò Elio. Mai scelta fu più profetica. Quella lontana sera d’estate alla Mastrarua la giovane Lucia «inconsapevolmente» aveva dato i natali ad uno dei più grandi scrittori del nostro secolo, uno scrittore nelle cui pagine la straordinaria figura del babbo poeta-ferroviere sarebbe rivissuta per sempre come in una leggenda.

IL «TRENO» DELLA MASTRARUA:

...SCICLI, TERRANOVA, DiriLLo, BUTERA, SIRACUSA (1908-21)

La Mastrarua, scrisse Vincenzo Consolo, è «...la più luminosa, la più barocca, la più favolosa delle vie di Siracusa». Dimessa e aristocratica, semplice ed insieme misteriosa come la gente che un tempo la popolava, la Mastrarua rappresentava l’essenza stessa di Ortigia, una sorta di microscopico universo dentro l’isola. Era animata dal suo variopinto po-

polo di baroni e pescatori, di professionisti ed artigiani. Era decorata dal suo miscuglio di case modeste e di palazzi aristocratici, di chiese barocche e di cortili spagnoli. Era ravvivata dal suo chiassoso mercato e dal caratteristico gergo dei suoi venditori ambulanti. Era profumata dal suo mare schiumoso ed inconfondibile per quell’inebriante odore di alghe e per quella polvere d’acqua marina che si sprigionava dallo schiantarsi delle onde contro la sottostante scogliera, avvolgendo tutto, gabbiani impauriti e medievali palazzi, in un’atmosfera fiabesca. Era insomma la Mastrarua, la più siracusana delle vie di Siracusa. In questa antica e fascinosa strada sorge una piccola casa di candido intonaco sul cui portale una lapide ricorda ai frettolosi passanti che fra quelle mura nacque nel 1908 lo scrittore Elio Vittorini. Quella stessa casa da cui partì il «treno» del suo straordinario viaggio letterario ed intellettuale.

1.LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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«Mio padre era ferroviere e noi si abitava nella casa di Siracusa, con la famiglia di mia madre, solo quando lui prendeva le ferie. Per il resto si stava in piccole stazioni ferroviarie con reti metalliche alle finestre e il deserto intorno» (DMV).

Così Elio Vittorini ricorda i primi anni della sua infanzia siciliana. Anni difficili contrassegnati sempre dal «viaggio», da un continuo peregrinare fisico, ma anche

intellettuale.

La prima stazione ferroviaria cui fu destinato suo padre Sebastiano fu quella di Sant'Agata di Militello. Ma la febbre malarica che contrasse sua madre costrinse i Vittorini a chiedere il trasferimento per Siracusa, che fu ottenuto nel 1910 dopo una breve permanenza a Catania. Il 3 febbraio del "1910 nacque, sempre a Siracusa, il secondogenito Ugo. Nel 1911 Sebastiano Vittorini fu trasferito a Scicli, dove il 22 novem-

bre del 1912 nacque Jole. Poi nel 1914 un nuovo trasferimento, questa volta a Gela (allora Terranova di Sicilia) dove il 6 gennaio del 1916

nacque Aldo, l’ultimo dei quattro. A Gela Elio avrebbe dovuto cominciare a frequentare la scuola pubblica, ma per via degli impegni del padre, conseguenti allo scoppio della guerra, i Vittorini preferirono condurre il giovane Elio a Siracusa presso la casa del nonno Salvatore Sgandurra, affidandolo per gli studi ad una maestra amica di Lucia, una certa signora Bardieri, proprietaria di un grosso mulino che sorgeva in prossimità del Teatro greco(!9. Il ricordo di questi anni trascorsi a Siracusa, in casa del nonno, per

studiare privatamente emerge chiaro in un passo del racconto «La mia guerra», tratto da Piccola Borghesia: «Sette anni: come mai non andavo ancora a scuola? Nonno e zii, per amore di tenermi con loro, avevano persuaso mio padre, sembra, a farmi studiare privatamente. Babbo, impiegato nelle Ferrovie, e perciò costretto a vivere in certe stazioncine di campagna verso Calabria e Sicilia 0 non so dove, lasciò che io continuassi ad esser viziato, sei o sette mesi per anno, nella casa di quei mercanti, com’egli chiamava, quando giungevano le loro lettere, i nostri parenti goriziani» (PB).

Il racconto ambientato tra il 1915 ed il 1918 volutamente a Gorizia (città dove Vittorini avrebbe soggiornato soltanto dodici anni dopo tra il 1927 ed il 1928), in realtà rievoca gli ambienti e le atmosfere della

sua infanzia siciliana, e cela dietro i «parenti goriziani» la famiglia siracusana degli Sgandurra: la cugina Angelina ha ispirato il personaggio di «Emilietta», mentre sotto le spoglie di «Boris» sembra celarsi il fratello Ugo.

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A. Madeddu - VITTORINI

A Siracusa Elio trascorse due anni, dall'autunno del 1915 al giugno del 1917. Anni contrassegnati dalle sue prime avide letture. Più tardi in un celebre brano di Conversazione in Sicilia Vittorini avrebbe ricordato così questo periodo: «Avevo letto le Mille e una notte e tanti libri là, di vecchi viaggi, a sette e otto e nove anni, e la Sicilia era anche questo là, Mille e una notte e vecchi paesi, alberi, case, gente di vecchissimi tempi attraverso i libri. Poi avevo dimenticato nella mia vita d'uomo, ma lo avevo in me, e potevo ricordare,

ritrovare. Beato chi ha da ritrovare. È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. E doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia. Persia a sette anni, Australia a otto, Canada a nove, Messico a dieci, e gli ebrei della Bibbia con la torre di Babilonia e Davide nell'inverno dei sei anni, califfi e sultane [...] in una Terranova, una Siracusa, mentre ogni notte il treno porta via soldati per una grande

guerra che è tutte le guerre. Io ebbi questa fortuna di leggere molto nella mia infanzia. ..»(CS). Concluso il biennio di scuola primaria a Siracusa, Elio ritornò a vivere presso i genitori a Terranova, dove per due anni, dall'autunno del 1917 all’estate del 1919, fu iscritto alla locale Scuola Tecnica. Nel gennaio del 1919, intanto, Sebastiano Vittorini fu nominato

Capostazione di terza e fu trasferito a Dirillo, tra Acate e Vittoria. Era un latifondo con malaria dappertutto. Di giorno Elio ed Ugo si recavano col treno a Terranova per proseguire gli studi tecnici. Di sera tornavano al casolare di Dirillo «con reti metalliche alle finestre e il deserto intorno». Il pericolo sempre incombente della malaria, convinse i Vitto-

rini a separarsi dai figli e a ricondurre nuovamente Elio presso il nonno Sgandurra a Siracusa dove, dall’autunno del 1919 fu iscritto al terzo anno della Scuola Tecnica «Archimede». A Siracusa Elio, che allora aveva undici anni, accompagnava spesso il nonno cerusico nelle visite ai pazienti dei quartieri popolari di Orti-

gia. Il ricordo di quelle visite e di quella costante frequentazione della

malattia e della sofferenza umana sarebbe poi rivissuto nella trasfigurazione letteraria del famoso episodio del «giro delle iniezioni» di Conver-

sazione in Sicilia.

Intanto papà Sebastiano, dalla primavera del 1920 era stato trasferito a Butera, in provincia di Caltanissetta. Elio, a scuola terminata, lo

raggiunse nell’estate dello stesso anno per trascorrervi le ferie. E fu pro-

1. LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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prio a Butera, durante quel breve soggiorno estivo, che Vittorini, allora dodicenné, s'imbattè nella lettura del libro che lo avrebbe segnato per tutto il resto della sua vita: «In una di queste stazioni io ho letto sotto un ciuffo di canne il primo li bro che mi fece grande impressione. Era una riduzione per bambini del Robinson Crusoe che recava disegnata sulla copertina la figura di Robinson chino a esaminare sulla sabbia dell’isola deserta l’orma del piede di un altro uomo»(DMV).

«...fu quello il primo libro che mi colpì profondamente: come una pietrata che mi fosse rimasta in-testa; e che continuò a colpirmi anche più tardi, quando potei-leggerlo, alcuni vanni dopo, in una traduzione integrale, e poi quando potei leggerlo, ormai adulto, nell'originale inglese». Alla fine dell’estate del 1920 Elio ritornò a Siracusa presso il nonno Sgandurra per riprendere gli studi. Avendo già completato il triennio di Scuola Tecnica presso l’Istituto «Archimede», Elio avrebbe voluto frequentare il Ginnasio Liceo «Gargallo». Ma l’unico sbocco della maturità classica erano gli studi universitari, troppo onerosi per papà Vitto-

rini. E questi, contro la volontà del figlio, iscrisse Elio al primo anno della Sezione Ragioneria dell’Istituto Tecnico «Alessandro Rizza» di Sira-

cusa. La scelta del padre si rivelò infelice, perché nell’anno scolastico 1920-21 il giovane Elio, portato più per le materie letterarie che per quelle tecniche, fu bocciato. «Ho avuto un minimo di scuole: cinque amni della primaria, poi tre di scuola tecnica. Mio padre voleva fare di me un ragioniere. [...] Ma non sono riuscito a prenderne il diploma, ne ho ripetuto due volte la prima classe, due volte la seconda classe, erano studi che non mi andavano, e a diciassette anni li ho interrotti definitivamente» (DMV).

Alla fine dell'estate del 1921, intanto papà Sebastiano ottenne l’atteso trasferimento a Siracusa, lasciando definitivamente Butera.

«Fu in questo luogo, a mio parere, — ricorda Jole Vittorini, a proposito di Butera, — che Elio dovette maturare qualche tema di «Conversazione in Sicilia». La miseria, i disagi e la «fame nera» di quella gente nel cuore della Sicilia le ricordo anch'io, benché a quei tempi fossi ancora una bimba. Eravamo tutti ammalati di febbre malarica, malattia molto diffusa allora. Anche Rosa Quasimodo, la futura moglie di Elio, prese la malaria a Valsavoia vicino Lentini, altra zona assai nota per la malaria.

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A. Madeddu -VITTORINI

Il ritorno del babbo a Siracusa nel 1921 rappresentò per tutti noi una liberazione» 08).

PARTITI E BATTAGLIE POLITICHE NELLA PROVINCIA PIÙ ROSSA DELL'ISOLA (1919-22)

Siracusa e la sua provincia, intanto, venivano attraversate in quegli

anni da intensi fermenti politici, i cui riflessi sarebbero poi emersi chiaramente nell’opera di Vittorini, oltre che nella sua singolare formazione politica e culturale. Le elezioni del dopoguerra (novembre 1919) avevano fatto registrare nel Siracusano la vittoria dei social-riformisti di Eduardo Di Giovanni e dei demo-liberali di Enrico Giaracà”. Ma il verbo socialista cominciava a prendere sempre più piede specie nel proletariato delle roccaforti di Lentini e Carlentini, dove Filadelfo Castro si era posto alla guida del movimento contadino‘. Negli stessi anni si erano verificate, inoltre,

imponenti occupazioni delle terre (un cui accenno affiora nel racconto Memorie autunnali: Tempo di guerra). Nell'autunno del 1920, intanto, le elezioni amministrative in provincia di Siracusa fecero registrare un autentico trionfo delle sinistre con i

24 seggi conquistati dai social-riformisti e con i 14 ottenuti dai socialisti sul totale dei 50 seggi dell'intera circoscrizione. La provincia di Siracusa fu, per questo, definita «la più rossa della Sicilia». Nel capoluogo c’era stata la grande affermazione dei riformisti di Di

Giovanni, mentre in provincia l’intensa opera di propaganda elettorale svolta dal sindaco Filadelfo Castro e dall’oratrice Maria Giudice! aveva fatto di Lentini la «Repubblica Bolscevica» di Sicilia. Una «certa opera di penetrazione» era stata svolta anche da «piccoli gruppi anarchici, conviventi con i socialisti nelle organizzazioni sindacali a Modica, Lentini e Siracusa». Il grande successo dei socialisti, favorito

in parte da alcuni errori tattici dei partiti borghesi, aveva dato vita ad una diffusa «atmosfera rivoluzionaria» in tutta l'isola ed in modo particolare nel Siracusano. La reazione antisocialista però non tardò ad arrivare. A Roma, il 7 aprile del 1921 Giolitti sciolse anticipatamente le camere, convinto di poter fronteggiare l'avanzata dei «nemici dello Stato liberale» (socialisti, comunisti e popolari) assorbendo nel suo schieramento di centro destra la fronda fascista. I Fasci, la cui sezione siracusana era già stata fondata nel 1920, basarono spesso il loro successo sull'impiego della violenza e, come ricor-

da Miccichè, in Sicilia colpirono soprattutto la provincia rossa di Sira-

1.LA VITA — Gli anni siciliani (1908-1930)



cusa, vista allora come quella a più alto rischio. Il 5 maggio 1921 una bomba fu fatta esplodere a Priolo sul treno che conduceva il sindaco socialista di Lentini Castro ed il prefetto di Siracusa Santangelo. Dieci giorni dopo un giovane fu ucciso a Siracusa nel corso di uno scontro tra opposte fazioni politiche, mentre altri atti criminosi si verificarono in provincia ad opera dei Fasci‘), L'esito delle elezioni del 15 maggio si rivelarono disastrose per le sinistre, che nel Siracusano persero di colpo tutte le posizioni conquistate alle precedenti amministrative. I Fasci, che si erano organizzati in par-

tito dal novembre del 1921, si erano rafforzati molto a Siracusa e in tutta

la provincia, tranne che*a Lentini, dove i contadini avevano avuto ancora il coraggio‘di occupaté un feudo di 3600 ettari tra il settembre e l'ottobre del 1921. L’anno successivo, tuttavia, il sindaco Castro con

un pretesto venne arrestato. Negli scontri succeduti al comizio di Maria Giudice in favore del Castro si contarono «4 morti e 50 feriti. Ben 17 lavoratori furono arrestati con la Giudice, che rimase in carcere fino all’anno seguente insieme al Castro»). Il sindaco riformista di Siracusa Eduardo Di Giovanni‘ ruppe la sua vigile attesa e fece la sua scelta di campo definitiva riavvicinandosi ai socialisti. In una serie di articoli apparsi tra il giugno e l’ottobre del 1922 sul suo giornale «La Riscossa», Di Giovanni definì i fascisti «reazione sfrenata e feroce», «teppa», ecc., individuando in essi i tutori dei più meschini interessi della borghesia. Nell’aprile dell’anno seguente l’amministrazione social-riformista del comune di Siracusa, osteggiata dal Prefetto e dai fascisti, sarebbe stata

costretta a dimettersi.

L'INCONTRO con ALFREDO Mezio (1922)

Gli atti di violenza scatenatisi nella provincia rossa non erano ancora terminati dopo le elezioni politiche del ’21. Alcuni tafferugli nell’ottobre del ’22 erano scoppiati anche tra gli studenti del «Rizza». A quei tafferugli dovette partecipare lo stesso Elio Vittorini, allora quattordicenne, che li rievocò più tardi nella trasfigurazione letteraria del Garofano

TOSSO: «...Passò un questurino. Regia-guardia una volta, mi era noto pei nostri

studenteschi tafferugli del *22: gli avevo tirato un pomodoro alla faccia uno di quei giorni...»(GR).

Ma la protesta degli studenti del «Rizza» diede a Vittorini l’occasio-

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A. Madeddu - VITTORINI

ne di fare una delle più importanti amicizie della sua gioventù, quella con Alfredo Mezio, poi divenuto anch'egli noto scrittore e giornalista a Roma?., Questi era nato a Solarino, un paese vicino Siracusa. Proveniente da

un'antica ed un tempo agiata famiglia, caduta in disgrazia, Mezio, rimasto

presto orfano, viveva in una modesta pensione di via Maestranza, pres-

so il palazzo Bufardeci, gestito da una certa signora Murè. Giovane irrequieto e spavaldo, dotato di una vasta cultura per la sua età, Mezio frequentava i circoli comunisti della città. I ritrovi abituali per i suoi incontri col giovane Elio erano la libreria «Tinè» in via Roma ed il «Bar Minerva» all’angolo tra la via omonima e la via Roma, oltre al «Caffè dell’Unione» di via Maestranza, frequentato per lo più dagli adulti. Vittorini nell’anno scolastico 1922-23 era iscritto al secondo anno dell’Istituto tecnico per Ragionieri «Alessandro Rizza». L'istituto aveva sede in via Minerva, accanto alla Biblioteca Alagoniana, nei locali che un tempo ospitarono l’antico Seminario.

Frequentava allora, lo stesso Istituto, una giovane studentessa. Abitava in fondo a via Roma nei pressi di piazza San Giuseppe, era figlia di un colonnello, ed era molto bella. Il giovane Elio se ne sarebbe innamorato perdutamente, tanto da immortalarla, come si vedrà, nella sua

opera‘). Tra gli insegnanti del «Rizza» figuravano allora personaggi di spicco della cultura siracusana, tra i quali il poeta Paolo Riol%, il sacerdote

Francesco Caffo8%, il professor Giovanni Naro9! ed il giurista Gaetano Navarra Crimi®2. Il docente di lettere di Elio Vittorini fu il professor Rosario Verde, uomo di profonda cultura. Ma il ruolo più importante nella formazione del giovane Vittorini fu quello svolto dall’insegnante di inglese, Eva Ballariano. Palermitana, ancora molto giovane, bionda e quasi evanescente, la Ballariano era fi-

glia di un generale, ma, in contrasto con la vita borghese della sua famiglia, aveva conosciuto a Palermo il leader anarchico siciliano Paolo Schicchi, abbracciandone gli ideali, già prima di andare a vivere da sola a Siracusa, città assegnatale come sua prima sede d’insegnamento.

I PRIMI CONTATTI CON GLI AMBIENTI ANARCHICI (1922-23)

L'anarchismo a Siracusa aveva cominciato a mettere piede subito dopo la guerra. La forte presenza socialista nella provincia rossa, la circolazione dei libri della piccola biblioteca di Emanuele Maieli, vecchio anarchico da poco rimpatriato dal Brasile, e i giornali anarchici inviati

1.LA VITA - Gli amni siciliani (1908-1930)

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agli amici dal pittore siracusano Francesco Cappuccio, trapiantatosi a Firenze, avevano favorito il diffondersi dell’ideologia anarchica nel capoluogo aretuseo89). A Siracusa nel 1922 operavano due gruppi di anarchici: i «Figli dell'Etna», che si ispiravano all’anarchismo di tipo individualista di Paolo Schicchi, ed il gruppo «Bakunin», che si rifaceva invece ad un anarchismo più moderno e più collegato alle vicende del mondo operaio secondo le idee propugnate dal leader storico italiano Errico Malatesta. Organizzatore del primo gruppo a Siracusa era Salvatore Di Mauro), detto «Totò», studente diciottenne dell’Istituto per Ragionieri «Alessandro Rizza». Animatore indiscusso del secondo gruppo era invece Alfonso Failla, alloraSSperaio sedicenne, che poi sarebbe divenuto leader degli anarchici italiani e direttore della rivista «Umanità Nuova». Failla aveva una bottega di seggiolaio in via Diana, quasi di fronte al Tempio di Apollo. La sua bottega era diventata il luogo privilegiato di incontri e discussioni politiche. Nel dicembre del ’22 le abitazioni di questi due giovani anarchici furono perquisite dalla polizia. Al suo arrivo a Siracusa la Ballariano prese inizialmente contatti col Di Mauro, ma su presto conobbe il Failla entrando a far parte del gruppo «Bakunin»9. Alfonso Failla rivestiva anche l’incarico di bibliotecario della Biblioteca Popolare «Mario Rapisardi» presso la sede del partito socialista siracusano. Attraverso quell’incarico il Failla era riuscito a prendere contatti col Malatesta, facendo circolare a Siracusa la più importante rivista anarchica, «Umanità Nuova». Dal 1922, e per due anni, prese a collaborare inoltre al periodico «Il seme anarchico», stam-

pato dall’amico lentinese Francesco Martinez”. Il teorico del gruppo «Bakunin» di Siracusa era, però, Umberto Consiglio®9, ragioniere ventitreenne assai colto. Tra questi e la Ballariano nacque un’intensa amicizia. Ma del gruppo facevano parte anche i fratelli Burgio, Francesco” e Giuseppe‘, marittimi e fabbri meccanici, ed alcuni studenti del «Rizza»: Archimede Grasso, Salvatore Amenta, Lu-

ciano Miceli e Michele Gallo. Gli incontri segreti di questo gruppo di anarchici avvenivano fuori Ortigia, nelle Latomie, le antiche cave di

pietra utilizzate come prigioni dai tiranni siracusani dell’epoca greca.

L'AMICIZIA CON L’ANARCHICO ALFONSO FAILLA:

..L'’INCONTRO CON «BAKUNIN» (1922)

Quando fece amicizia con Eva Ballariano, sua professoressa d’inglese, Elio Vittorini aveva già conosciuto Failla ed il gruppo «Bakunin». Era

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A. Madeddu — VITTORINI

stato l’inseparabile amico Alfredo Mezio, il quale aveva già frequentato

Alfonso Failla presso la libreria «Tinè», a favorire l'amicizia tra il gio vane anarchico ed Elio Vittorini. È a questi «operai siracusani», a Failla, ai fratelli Burgio, che Vittori-

ni si riferiva quando, qualche anno dopo avrebbe scritto: «Io rido di chi riduce il problema della cultura popolare a un problema unicamente di semplificazione, se penso a come l'ho visto risolto, avendo tredici, quindici, sedici anni, dal gruppo di giovani operai siracusani con i quali mi scambiavo libri e gusti. Noi non esitavamo davanti a nessuna difficoltà di lettura. Prendevamo, ad esempio, «La Scienza Nuova» del Vico e se alla prima lettura non comprendevamo nulla, leggevamo una seconda volta e comprendevamo qualcosa, leggevamo una terza e comprendevamo di più... E quei miei compagni di studi trovavano il tempo di far questo dopo otto ore ogni giorno di lavoro manuale»(LT).

Alfonso Failla prestò a Vittorini molti libri della Biblioteca «Rapisardi», che allora dirigeva presso la sede dei socialisti. Secondo una precisa testimonianza dello stesso Failla siamo in grado di conoscere i libri che l’allora quattordicenne Elio Vittorini cominciò a leggere in quella biblioteca. Sembra infatti che Vittorini avesse trovato e molto apprezzato, in quella Biblioteca, I pescatori d'Islanda di Pierre Loti, romanzo di vita bretone imperniato sul tema del «viaggio». Tema che diverrà presto centrale nell'opera di Vittorini. Altre opere che lo scrittore mostrò poi di amare e che conobbe nella Biblioteca di Failla furono quelle di Michele Amari. Della letteratura anarchica non gli sfuggirono il Fra contadini di Malatesta, gli articoli di «Umanità Nuova» e le opere dei padri, Proudhon, Bakunin e Kropoktin. Non erano presenti in quella Biblioteca, invece, le opere di Max Stirner (osteggiato dai seguaci di Bakunin), e quelle di Marx ed Engels. Lo stesso Vittorini, molti anni dopo, nella famosa «Lettera a Togliatti» avrebbe confermato che ai tempi della sua «euforia di autodidatta, i testi di Marx non si trovavano già più nel mondo dei libri, almeno a Siracusa».

Ma in cosa consisteva quel pensiero anarchico che tanto aveva affascinato il giovane Vittorini? È utile a questo punto soffermarvisi con maggior attenzione. L'individuo è alla base del pensiero anarchico: l’io assoluto, l’individuo in lotta con l’alienazione sociale, politica e morale. Da questa matrice comune di stampo socialista e proudhoniana, che affonda le sue

radici nell’hegelismo, presero vita le due grandi correnti di pensiero anar-

1. LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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chico: quella individualista e «atomista» che faceva capo al pensiero di Stirner e quella socialista e «solidarista» che partendo da Bakunin giungeva fino ai suoi seguaci, Kropoktin e Malatesta. Un brano di Malatesta ci aiuta a capire l’essenza dell’anarchismo bakuniniano, la sua differenza dall’individualismo puro stirneriano, ma

soprattutto ci fa capire quanto sia stata fondamentale la lezione anarchica nella formazione dell’ideologia vittoriniana. Scriveva Malatesta sul primo numero di «Umanità Nuova»: «Vogliamo distruggere quell’ordinamento sociale in cui gli uomini, in lot ta tra loro, si sfruttano e si opprimono, o tendono a sfruttarsi e ad opprimer si l’un l’altro, per arrivare alla costituzione di una nuova società in cui ciascuno, nella=s@lidarietà e nell'amore con tutti gli altri uomini, trovi completa

libertà [...]. Se per avventura vi fossero di quelli che, pur dicendosi anarchici, si disinteressassero della generalità e vogliono la loro libertà ed il loro perfezionamento individuale senza curarsi del benessere, della libertà e dell’elevazione morale

e materiale degli altri, oppure di quelli che credono di poter arrivare alla libertà per mezzo dell'autorità, ebbene, noi non possiamo impedir loro di chiamarsi come vogliono, ma diciamo che il loro non è il nostro anarchismo».

I riflessi di questo pensiero nell’opera di Vittorini sono evidentissimi. Si pensi innanzitutto all’ideologia vittoriniana del «mondo offeso», di quel mondo diviso tra oppressi ed oppressori, ed alla forte connotazione utopistica del suo pensiero. Si pensi anche alla centralità del concetto di «libertà» in Vittorini ed alla sua fede cieca nel riscatto, in una

rifondazione del mondo che passa però (ecco la componente anarchica) attraverso l’individuo, cioè attraverso la rifondazione dell’uomo, della

vita: l'essere più uomo. Si pensi al mito di Robinson che in Vittorini sembra assumere le caratteristiche di un mito anarchico ante litteram. Eppure (ecco la variante bakuniniana) il riscatto e la libertà vanno cer-

cate guardando non solo a quelle proprie, ma a quelle di tutti. Si pensi alla tendenza anarchico utopistica che emerge da opere come Le donne di Messina, imperniate sul mito di un Robinson collettivo. In Conversazione in Sicilia l’uomo Ezechiele diceva che «tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso». Il concetto risulta ancora più chiaro in una lettera che Elio Vittorini avrebbe poi inviato molti anni dopo al fratello Ugo: «Io il liberalismo lo intendo in senso attivo, di conquista, di progresso, di realizzazione, e non in senso passivo, di difesa, di stasi, di conservazione.

Tanto che definirei gli anarchici dei massimalisti liberali... E tu non parlarmi

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A. Madeddu -VITTORINI

di “Conversazione in Sicilia” come di un libro comunista perché allora mi arrabbio sul serio e ti prego di dirmi dove mai gli oppressi del mio libro (0 dei miei libri) aspirano a diventare degli oppressori allo scopo di realizzare la libertà propria. Io, in effetti, non aspiro alla libertà se aspiro alla “mia” libertà anziché a quella “altrui”, ivi compresa quella degli “imbecilli”. Perché solo la libertà dell'altro è garanzia della mia, e quella dell’imbecille è garanzia di quella, diciamo, del “genio” [...]. Libertà è solo quella in cui tutto il possibile (il potenziale) dell’uomo trova la condizione psicologica e materiale per andare avanti ed adempiersi e realizzarsi e produrre altro possibile e altro potenziale »(42),

È interessante, inoltre, notare come ci sia una chiara incompatibilità tra l’anarchismo (specie di stampo bakuniniano), basato su una visione utopistica della storia, ed il marxismo, fondato invece su di una concezione più scientifica della storia stessa. L'ideologia anarchica, infatti, affondava le sue radici nella cultura socialista e antiautoritaria antecedente al «Manifesto del Partito Comunista». Incompatibilità, del resto,

già emersa nella polemica tra Bakunin e Marx, e persino nella netta presa di posizione di Malatesta contro il «tiranno» Lenin e la prevista involuzione autoritaria della Rivoluzione d’Ottobre. «Sono questi — osserva con estrema acutezza Massimo Grillo — alcuni

aspetti di un contrasto di fondo tra anarchismo e marxismo, il quale ci aiuta în parte a capire perché Elio Vittorini farà oggetto di studio il secondo solo negli anni Trenta senza mai giungere ad aderire ad esso ideologicamente, nonché a cogliere i forti segni che il primo lasciò nella sua cultura, nonostante certe scelte apparentemente divergenti. E la formazione di questa particolare “cultura” non avvenne in pochi mesi, ma in almeno due-tre anni di frequenta zione di amici anarchici...»‘43).

L'AMICIZIA CON L’ANARCHICO Totò DI MAURO:

...L’INCONTRO CON «STIRNER» (1923)

Una svolta decisiva nella formazione anarchica del giovane Vittorini fu l'amicizia che lo stesso strinse alla fine dell'estate del ’23 con l’altro leader siracusano dell’anarchismo, Totò Di Mauro. Questi era il fon-

datore de «I Figli dell'Etna», il secondo gruppo anarchico della città che, in contrapposizione ai ragazzi del «Bakunin», si rifaceva all’individualismo atomistico stirneriano. E fu proprio il Di Mauro a regalare ad Elio i libri dell’anarchico individualista Renzo Novatore e soprattutto quelli di Max Stirner che mancavano nella Biblioteca del Failla, ed in par-

1. LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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ticolare il suo capolavoro: L'Unico e la sua proprietà. Il libro, che si conserva ancor oggi nella Biblioteca di Sebastiano Vittorini in Siracusa, presenta una data ed una firma: «Ottobre 1923 ...il figlio dell'Etna». La lettura di Stirner lasciò un gran segno nel quindicenne Elio. Se ne accorse anche il padre Sebastiano, che molti anni dopo in una sua poesia inedita del 1969 intitolata «Cuore e ragione» scrisse: «...Io me ne avvidi quando Max Stirner ti prese,/ e «L'Unico» ne divoravi./ Ti convincea sua logica, tu ancor quindicenne, / di oppressi sociale rivolta/ doversi a lor opera stessa...»‘49), Stirner è uno dei più oscuri, astrusi spesso anche contraddittori pensatori dell'ottocento. Il stio è sovente un linguaggio aforistico, cifrato, pregno di un«@#rattere profetico e demistificante (è suggestivo il confronto col tono oracolare e leggendario di alcuni personaggi vittoriniani). Il pensiero di Stirner, secondo qualche critico, affonda lontanissime le sue radici fin nella sofistica greca (si pensi, a tal proposito, a quel ragionare un po’ «sofistico» di Vittorini, già evidenziato molto sottilmente da Pavese). Ma non c’è dubbio che la sua matrice più immediata è la sinistra hegeliana. Dall’hegelismo deriva in Stirner un assoluto solipsismo ed egoismo, su cui il filosofo tedesco fonda la sua concezione anarchica, tesa a re-

spingere ogni forma di società organizzata e ad ammettere soltanto un’associazione di egoisti, un individualismo puro, atomistico. Una concezio-

ne, come si è detto, agli antipodi dell’anarchismo solidaristico e socialista di Bakunin. Ma non fu certamente questo l’aspetto di Stirner che affascinò Vittorini, il quale anzi si era già attestato su posizioni bakuniniane. In altri termini, non fu il suo concetto di «società» ad attrarlo,

bensì quello di «uomo». «Liberare la vita». Questo era il messaggio centrale della concezione dell’«uomo» in Stirner, che tanto attrasse il giovane Vittorini. L'uomo secondo Stirner doveva essere «il proprietario di se stesso», vivere «con animo libero» eternamente giovane e realizzare una autentica «appropria zione del mondo». Concetti vicinissimi a quella unione tra uomo e na-

tura e a quella accettazione totale, gioiosa ed eroica della vita che sarebbero state poi di Nietzsche (autore presente, insieme a Schopenauer, nelle Biblioteca di Sebastiano Vittorini e nelle letture del giovane Elio). Un breve scritto dello stesso Totò Di Mauro ci aiuta a capire meglio il concetto di «uomo» secondo il ritratto ideale dell’individualista stirneriano:

«...Ama la vita e la forza. Intende la gioia del viver giocondo e riconosce senz'altro che ha per scopo la sua felicità. Non è asceta e la mortificazione della came gli ripugna [...]. Comunica con la natura, con le sue energie sti-

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A. Madeddu - VITTORINI

molatrici degli istinti e dei pensieri. Non è né giovane né vecchio, ha l’età che sente. [...] Non impone ma non vuole che gli venga imposto [...] è assetato di nuove esperienze e di sempre più fresche sensazioni. ..»9. Come si può notare, si tratta di concetti vicinissimi alla idea del«Uomo» che di lì a poco avrebbe maturato lo stesso Vittorini, defini to da Dominique Fernandez il creatore dello «stile moderno della parola Uomo»? Si pensi alla concezione di «uomo» che emerge in opere come Conversazione in Sicilia, o in altre come Uomini e No dove il tema è an-

ticipato già nello stesso titolo. Ma si pensi anche ai motti celebri vittoriniani, quel suo voler «fare il pieno della vita», la sua teoria del legame tra vita e arte come tra due «vasi comunicanti», quella sua frenetica ed entusiastica accettazione della vita che Carlo Bo definì brillantemente «il furore di vivere», quella sua felicità di rifondare la vita e di riappropriarsi del mondo, che poi si sarebbero estrinsecati nei suoi celebri miti del Robinson e dell’infanzia. Dentro la sua singolare formazione anarchica Vittorini sembra aver fuso l’anarchismo socialista di Bakunin con la parte migliore di Stirner (che invece faceva paura alla maggioranza).

«...Fatene quel che volete [...] — scriveva Stirner a proposito dei suoi pensieri — Ne ricaverete forse solo dolore, guerra e morte, pochissimi ne avranno gioia! »48),

Volendo ricorrere ad una schematica ma efficace semplificazione, nel suo particolare anarchismo Vittorini sembra aver preso da Bakunin il concetto di «Società» e da Stirner quello di «Uomo». Ed è davvero sorprendente constatare come in questi primi incontri siracusani con la cultura anarchica, sia quella di stampo solidaristico, sia quella di tipo individualistico, c'è già tutto Vittorini. Ci sono, cioè, le radici più profonde di tutta la sua opera narrativa ed intellettuale, almeno dal punto di vista tematico e concettuale: ci sono i temi più frequenti della sua forma mitica (l’«infanzia», il «mondo offeso» e gli «altri doveri»), ci sono quelli della sua forma concettuale (l’«utopia», il mito di

«Robinson»), c'è persino quel certo tono oracolare, profetico delle sue pagine migliori, quel suo ragionar sofistico. C'è tutto il pensiero vittoriniano in nuce.

In altri termini, fatta eccezione per la sua forma stili-

stica, che avrebbe maturato più in là dopo anni di assidue letture e di

paziente ricerca linguistica, l'ideologia di Vittorini è già tutta in queste radici anarchiche. E a queste radici sarebbe ritornato anche più in là negli anni dopo la breve, ed apparentemente contraddittoria, parentesi malapartiana.

1. LA VITA — Gli amni siciliani (1908-1930)

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Quando Vittorini avrebbe incontrato Proust, la poesia, la cultura eu-

ropea, gli americani, ... Vittorini sarebbe nato per tutti. In realtà Vittorini era già nato in quelle prime letture, in quegli incontri, in quelle prime amicizie, in quegli ambienti di provincia che lo videro, ragazzo «furiosamente» vitale, aggirarsi tra le biblioteche ed i circoli culturali e politici della sua città.

L'OCCUPAZIONE DEL LICEO «GARGALLO» E L’«EsILIO» DI BENEVENTO (1923-24)

+, sa

Alla fine di gennaio del 1923 si era verificato un fatto molto importante nella vita del giovane-Elio Vittorini. La riforma scolastica proposta dal ministro Gentile aveva suscitato molte reazioni nel Paese. A Siracusa la protesta studentesca fu condotta soprattutto dagli allievi dell’Istituto «Rizza», la scuola frequentata da Elio. Ecco come un cronista dell’epoca ci ha tramandato i fatti attraverso un articolo pubblicato sul quotidiano «Il Corriere di Sicilia» il 1° febbraio 1923: «...I giorni 30 e 31 furono i più turbolenti del mese, al punto da far sembrare che una piccola rivoluzione stile bolscevico fosse scoppiata in città. Gli studenti secondari della nostra città hanno continuato a scioperare per protesta contro il progetto Gentile che annienta quasi ogni probabilità nelle promozioni senza esami. Gli studenti dell’Istituto Tecnico, anziché presentarsi alle

iii RANE iii 0 ci

Pci atti

Meat

lezioni, hanno bloccato i locali del Liceo-Ginnasio, barricandone l’entrata, per

impedire alle scolaresche di accedervi. Il diversivo tattico non è dispiaciuto ai liceali, i quali si sono recati all'Istituto Tecnico, sbarrandone il portone...».

Nes e eel

Si era trattato, dunque, di una vera e propria occupazione. In un suc-

cessivo articolo del «Corriere di Sicilia» pubblicato sull’edizione del 4 febbraio, l’attento cronista dell’epoca racconta così l’amaro epilogo della vicenda: «...Sappiamo che il Ministro della Pubblica Istruzione, in seguito alle comunicazioni fattegli da questo prefetto [...] ha ordinato a queste autorità scolastiche di procedere nei rapporti del solo Istituto Tecnico all'accertamento delle responsabilità disciplinari e alle conseguenti punizioni [...]. Il consiglio dei Professori di questo Istituto Tecnico [...] ha severamente punito parecchi studenti che sarebbero i maggiori responsabili dell’innocente sciopero proclamato negli ultimi giorni dello scorso mese [...]. Due giovani sono stati puniti rispettivamente con 30 giorni di sospensione e con... [illegibile, n.d.r.]. Un altro con 65 giorni...».

Quel giovane del quale l’ignaro cronista aveva riferito la punizione

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A. Madeddu - VITTORINI

esemplare di 65 giorni di sospensione ...era proprio il quindicenne Elio Vittorini!

Accanto a lui nella «bravata» c'erano gli amici di sempre: Alfredo Mezio, Totò Di Mauro, i fratelli Peres, Archimede Grasso, Turiddu

Amenta e tutti gli altri. Ecco come, da dietro le quinte, racconta gli stessi fatti la sorella Jole Vittorini: «...Tutto cominciò con l'occupazione del Liceo Classico «Tommaso Gargallo». In quei tempi in via Vittorio Veneto (allora via Geione o «Mastrarua») viveva ancora il nonno Sgandurra con la zia Peppina [...]. Per raggiungere il suo Istituto, quando non si coricava dal nonno alla

«Mastrarua», Elio partiva presto la mattina dalla nostra abitazione alla Stazione Centrale, passava il Ponte Vecchio di Ortigia fra le sirene dei pescherecci e l’acre odore delle alghe marine e imboccava la via Vittorio Veneto,

ancora umida di brezza mattutina, passando davanti la casa del nonno Sgandurra. Giunto alla piazzetta sul mare, presso le «Orsoline», faceva il primo tratto di via Mirabella e svoltava a sinistra per via Gargallo. Passava sotto le finestre del Liceo Classico e raggiungeva la elegante via Maestranza. Da lì in un attimo era a Piazza Archimede, il salottino della città, e infine in via

Roma, il «Corso» frequentato dai borghesi. La via Roma faceva angolo con la via Minerva. Lì sorgeva il Bar Minerva, il caffè frequentato da mio fratello. Pochi metri più in là in via Minerva c’era l’Istituto di Ragioneria [...].

Una mattina passando davanti al Liceo Gargallo durante il suo abituale percorso si sentì chiamare da una finestra: «Vittorini dove vai? Oggi c’è sciopero e non si va a scuola». Lo invitarono a salire [...]. Accettò l'invito, salì e organizzò con altri amici l'occupazione del Liceo per

«solidarietà» con gli studenti del «Gargallo». Elio, riconosciuto, fu condotto dal Preside del Liceo Classico, Morale. Questi voleva sapere a tutti i costi i

nomi degli alunni che avevano occupato la scuola. Elio rispose di non conoscerli, cercando la scusa che apparteneva a un altro Istituto [...]. Naturalmente gli amici che furono beneficiati dal silenzio di Elio, lo considerarono un eroe. Persino i suoi stessi professori lo ammiravano...»49.

Ma l’eroismo non bastò davanti al Collegio dei Professori, ed il giovane Elio, nonostante avessero preso le sue difese la professoressa Bal-

lariano, i professori Verde e Naro e lo stesso Preside Urso dell’Istituto Tecnico, fu sospeso per 65 giorni da tutte le scuole del Regno. Come

conseguenza di ciò Elio Vittorini fu rimandato a settembre in tutte le materie.

La collerica reazione dell’autoritario papà Sebastiano non tardò ad arrivare. Non c’erano soldi in famiglia per pagare delle lezioni private. Ma Elio rassicurò tutti. Promise di prepararsi da solo e di superare gli

1. LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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esami. E fu di parola, perché agli esami di riparazione fu promosso in terza. Tuttavia in seguito all'entrata in vigore della riforma Gentile, l’Istituto Tecnico per Ragionieri di Siracusa dovette chiudere cinque classi su nove. Ne venne fuori una sorta di iscrizione a numero chiuso che finì col penalizzare tutti gli studenti che avevano ottenuto la promozione con gli esami di riparazione. E tra questi, anche Elio Vittorini. Per questo motivo nel novembre del 1923 fu mandato a studiare a Benevento presso la zia Maria Sgandurra Imperlini, dove, grazie all’interessamento dei parenti, ebbe la possibilità di iscriversi al locale Istituto Tecnico. Ma la riforma Gentile aveva cancellato, tra le materie d’insegnamento deliTecnico, le uniche due che Vittorini aveva mostrato di

amare, l'Italiano e la Storia. E così Elio prese a marinare la scuola anche a Benevento e non superò l’anno scolastico. Manifestò anzi il desiderio di arruolarsi in aeronautica. Dalla città campana mantenne, invece,

fitte corrispondenze epistolari con gli amici di Siracusa, ed in particolare con Alfredo Mezio e con la sua ex professoressa d’inglese Eva Ballariano. Dopo l’infruttuosa parentesi beneventana nel giugno del 1924 Elio rientrò a Siracusa, non prima di aver fatto sosta, durante il viaggio di ritorno, a Palermo, per incontrare proprio la Ballariano. Tutti i fatti finora narrati, le sue amicizie, le sue letture, i suoi primi

amori, le sue imprese studentesche sarebbero presto rivissute per sempre nella trasfigurazione letteraria di uno dei maggiori capolavori della letteratura italiana della prima metà del secolo: Il Garofano rosso.

LA CITTÀ DEL ... «GAROFANO Rosso» (1922-24)

«La passeggiata alla Marina era quanto di meglio offrisse Siracusa all’inizio del secolo. Era il nostro salotto elegante, dove si ascoltava una dolce orchestrina viennese o la banda cittadina; dove i giovani innamorati si scambiavano sguardi intensi di desiderio e fiori di bianco e profumatissimo gelsomino. E mentre i più avventurosi sognavano d’imbarcasi sugli yachts allineati lungo la marina, i più pigri preferivano il pettegolezzo di provincia, allungati sulle

poltroncine dei caffè» 99. Così Jole Vittorini ricorda la Siracusa degli anni Venti, la città che ospitò l'educazione politico-letteraria del giovane Elio Vittorini e che fece da scenario, come si è detto, al suo primo grande romanzo: Il Garofano rosso. È interessante, a questo punto, soffermarsi sui fatti reali e sugli uomini che furono dietro le vicende ed i personaggi di questo at-

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A. Madeddu -VITTORINI

fascinante romanzo definito da Fortini «una delle poche autentiche narrazioni degli anni Trenta». Dietro il giovane protagonista del romanzo, Alessio Mainardi, non è difficile scorgere i tratti dell’adolescente Elio Vittorini, mentre nell’amico del protagonista, Tarquinio Masseo, sono presenti molti aspetti del carattere di Alfredo Mezio, l’inseparabile amico siracusano di Elio: «Tarquinio Masseo era un ragazzo di diciott’anni, che per una complessa vicenda di bocciature non aveva preso a tempo la licenza ginnasiale e ora si preparava da esterno per quella del Liceo. In pensione c’era per questo [...]. Quando noi tornavamo, di luglio, ai nostri paesi, soltanto lui, come non avesse parenti, restava a godersi l’estate della città, coi bagni, le orchestrine a mare, e i varietà all’aperto [...].

L'avevo conosciuto una sera del ’22 nella bottega di un fabbro-tipografo dove si stampava un giornaletto di scolari [...]. La cava, la chiamavamo [...]. E cava non era soltanto la bottega, ma quell'ora speciale di buio e di lumi accesi, tutti quei vicoli là presso, su quell'ora, pieni di scalpiti misteriosi di cavalli, e tutte le cose che avevamo da dirci, là dentro, rosicchiando castagne

secche [...]. Era quello che avevamo in comune»(GR). Il riferimento ai paesi, presso cui tornava il protagonista in estate, è alle stazioncine (Butera, Dirillo, Terranova) dove, fino al 1921, torna-

va il giovane Elio nei periodi estivi per ricongiungersi ai genitori, quando lasciava la scuola e l’abitazione del nonno Sgandurra a Siracusa (nonno mitico del quale è stata già riportata precedentemente la descrizione fattane da Elio nel Garofano Rosso). Il giovane che, invece, restava a godersi l'estate della città era proprio Alfredo Mezio, che a scuola terminata, ormai orfano, non rientra-

va al suo paese (Solarino), ma restava a godersi l’estate siracusana presso la pensione per studenti della signora Murè. Elio aveva conosciuto Alfredo proprio una sera del ’22 («...fu la sera del 31 ottobre nella bottega del fabbro-tipografo...», scrive Vittorini in un altro passo del Garofano rosso).

La «bottega del fabbro-tipografo», detta anche la «cava», era la bottega di seggiolaio dell'amico anarchico Alfonso Failla, che sorgeva in via

Diana di fronte al Tempio di Apollo, e che era divenuta in quegli anni il ritrovo preferito per tutti gli incontri politici e culturali del gruppo. Altri elementi, tuttavia, concorrono nella scelta delle definizioni usate da Vittorini. Il termine «cava», ad esempio sembra un riferimento alle antiche cave di pietra, le greche Latomie, dove gli anarchici siracusani si riunivano per gli incontri più segreti. Mentre il termine «fabbro-tipografo»

1. LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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sembra alludere alla presenza in quegli incontri dei fratelli Burgio (che erano appunto fabbri). Assai chiari sono anche i riferimenti alla studentessa, figlia di un colonnello, («Giovanna» nel romanzo) della quale il giovane Elio si era perdutamente innamorato in quegli anni: «Era figlia di colonnello. Mi parve bellissima, sebbene portasse un cappellino che le nascondeva metà della faccia. [...] Mi guardò quando la raggiunsi e nient’affatto era rossa come avevo supposto. Era tranquilla e sorridente. Vidi che aveva gli occhi chiari, fieramente grigi nel viso di bruna» (GR). Ma il romanzo è ricco di altri riferimenti reali. Dietro il personaggio della signorai «Rosmunda Formica» e la sua «pensione di studenti» si celano, ad esempio, la signora Elvira Murè e la sua pensioncina di Palazzo Bufardeci in via Maestranza. E così l'insegnante d’inglese Eva Ballariano diventa la professoressa «Sempresei», il professor Caffo, insegnante di lettere, diventa «padre Caffaro», papà Sebastiano è «la Morale», lo zio Ninì Sgandurra è lo «Zio Costantino», appassionato di botanica, e tutti i suoi amici diventano personaggi del romanzo: «Pelagrua», «Rana», l’«Anziano», «Capuleto», «Manuele», «Mazzarino».

I riferimenti più precisi sono però quelli riguardanti i fatti realmente accaduti in quegli anni. Primo tra tutti la «storica» occupazione del Liceo «Gargallo», che Vittorini, con l’artificio letterario, spostò di un

anno avanti (giugno 1924) attribuendola ad altri motivi (la protesta degli studenti fascisti contro le commemorazioni di Matteotti) e cucendosi addosso i panni di uno studente liceale di famiglia borghese: «Ora abbiamo scioperato a scuola. I professori avevano commemorato Matteotti ieri all’ Università, e noi per protesta si fa sciopero di tutte le scuole. Avremo adunata alle quattro, oggi. Ma non è come prima quando percorrevamo urlando la Parasanghea con bandiera nera alla testa, e andavamo all’assalto dell'Istituto Tecnico perché quei «lacedemoni» dell'Istituto non erano mai buoni di resistere al richiamo della campana e bisognava farli uscire dopo [...]. Ma Tarquinio ha ribattuto che va bene, ma che occorreva avere una

giornata di sciopero totale di tutti gli scolari, provvedimenti contro quei pochi che avevano ho esposto, in Consiglio Segreto, la mia idea; carsi dentro, e tener duro... “Stile bolscevico”

per evitare che si prendessero scioperato fino allora. E allora occupare tutte le scuole, barridice il Pelagrua...»(GR).

Per l'occupazione del Liceo i giovani studenti, col viso coperto da fazzoletti per non farsi riconoscere, ricorrono ad uno stratagemma. Tarquinio, spacciandosi per Padre Caffaro si fa aprire la porta della scuola

A. Madeddu — VITTORINI

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dalla moglie del bidello, «Lombrico» (il bidello che nella realtà scoprì il giovane Elio denunciandolo al Preside): «Tarquinio spinge, entriamo tutti e richiudiamo, sprangando. La vecchia salta, chiama aiuto, accorre il marito Lombrico con la cinghia dei pantaloni

in una mamo e comincia a lottare. Nella ressa mi si scioglie il fazzoletto. “Ah, lei?” dice il povero diavolo. “Lo sentivo all'odore ch'era una cosa dei ragazzi. Siete tutti di qui? Ma che volete? Questa si chiama aggressio-

Me

ne

“No, egregio” gli dice duro Tarquinio. “Questo è lo sciopero. E silenzio su Mainardi, inteso?”. “Va bene” dice l’uomo intascando un biglietto da dieci lire...»(GR).

Ma la frittata era ormai fatta. «Lombrico» avrebbe parlato: «...Pazienza; tanto pensavo già che mi sarei arruolato aviatore [...]. Del

resto, dico, anche se parla... Non potevo sperare d’esser promosso quest'anno [...]. Bocciato per bocciato, tanto vale una punizione vi pare? Io credo di sì. E “La Morale” crepi nel suo brodo [...]. I professori mi hanno sospeso fino a chiusura delle scuole. Solo questo. Vuol dire che hanno fifa di “Bandiera Nera”... Ma si capisce che perderò l’anno» (GR).

I riferimenti autobiografici sono estremamente chiari: nella sospensione ricevuta, nella volontà di arruolarsi in aviazione e persino nella scelta del suo nome di battaglia, «Bandiera nera», che non sta ad indi-

care soltanto il vessillo fascista ma anche e soprattutto la testata di una rivista anarchica che l’amico Totò Di Mauro andava pubblicando in quegli anni. Prevalentemente anarchica, infatti, è l’ideologia che sottende all’in-

tero romanzo: una rivolta antiborghese. Anarchici sono i discorsi sull’amore di «Zobeida», la misteriosa donna dalla quale Alessio viene «iniziato» nella sua educazione sentimentale e politica, dietro il cui intrigante rapporto sembra celarsi per certi versi quello tra il giovane Elio e la sua professoressa d’inglese Eva Ballariano (che papà Sebastiano definiva «diavolo in gonnella»). Ma non sono solo fatti e personaggi a trovare precisi riscontri nella realtà siracusana di quegli anni. Anche i riferimenti topografici, infatti, sono assai chiari: il «Caffè Pascoli e Giglio» è il Bar Minerva frequentato dai giovani studenti, la «Parasanghea» è la via Roma, il «corso» dei borghesi, il «Ponto Eusino» è piazza Duomo. E la stessa «Città della montagna rosa» è la definizione data alla mai nominata Siracusa, il cui porto è delimitato ad occidente proprio dal profilo dei monti Climiti, inconfondibilmente tinti di rosa durante i celebrati tramonti siracusani.

1.LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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Concludiamo, dunque, questo viaggio dentro il Il Garofano rosso rileggendo uno degli scorci più suggestivi che di quegli anni e della sua città ci ha consegnato Elio Vittorini:

«In fondo alla via di Giovanna appariva, velata di lontananza, la montagna rosa, non so se di sabbia o di roccia, della vecchia città. Là era mare,

presto sarebbero cominciati i bagni, sulla spiaggia appiè di quella montagna; i bagni e il vaporino che andava e veniva fischiando attraverso il porto...»(GR).

LE NUOVE ELEZIONI POLITICHE E L'ASCESA DEL FASCISMO (1924-25)

Nel 1924.il Governo aveva sciolto le camere ed indetto nuove ele zioni. A Siracusa il leader storico dei conservatori Enrico Giaracà, già avversario di Di Giovanni, aveva dichiarato ufficialmente di appoggiare alle elezioni il segretario provinciale del Partito Nazionale Fascista, l'avvocato Leone Leone. Le forze di sinistra, invece, non erano riuscite

a formare un fronte unico. Il sistema maggioritario della Legge Acerbo assegnava al partito che avesse raggiunto il 25% dei suffragi un premio di maggioranza dei due terzi. Ancora una volta la vigilia delle elezioni vide un clima politico incandescente. Il Circolo del Progresso di via Maestranza, legato a Di Giovanni fu distrutto, mentre a carico del professor Giuseppe Agnello! intellettuale di spicco del fronte antifascista fu decretato il bando per via della pubblicazione di un suo polemico opuscoletto («Il carnevale politico siracusano»). Le elezioni del 6 aprile segnarono un autentico trionfo per le destre. I festeggiamenti del PNF furono spostati al maggio dello stesso anno, quando Mussolini, accompagnato dal ministro dell’Econo-

mia Nazionale, lo scienziato Orso Mario Corbino (siracusano di Augusta), fece visita a Siracusa per assistere alle rappresentazioni classiche. Nell’estate dello stesso anno, un altro fatto gravissimo avrebbe, inoltre,

funestato il Paese: l'assassinio di Giacomo Matteotti segretario dei Socialisti. A Siracusa, intanto, la polizia aveva accentuato il suo controllo sul-

le forze antifasciste della città, ed in particolare sui gruppi anarchici guidati da Alfonso Failla e i fratelli Burgio. Nel marzo del ’25, a seguito di un conflitto a fuoco con alcuni soldati, Failla e i due Burgio furono raggiunti da un mandato di cattura e dovettero rendersi latitanti. Poterono rientrare a Siracusa solo in seguito all’amnistia concessa nell’ottobre dello stesso anno. Ma nel ’26 Failla avrebbe lasciato Siracusa per Taranto e l’altro anarchico Umberto Consiglio si sarebbe rifugiato in esilio a Parigi, vivendo con l’attività di calzolaio.

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A. Madeddu —VITTORINI

Era questo l’infuocato clima politico che trovò Elio Vittorini al suo ritorno da Benevento. Nell’anno scolastico 1924-25 Elio fu iscritto al terzo Ragioneria, ma ancora una volta con risultati poco incoraggianti.

Erano studi che non gli si confacevano, quelli di ragioniere, e prima dell'estate del ’25 li abbandonò definitivamente.

L'AMICIZIA CON GIOVANNI CALENDOLI: ...L’'«INCONTRO» COI FRANCESI (1925-26)

Dopo le prime frenetiche letture di Stirner, Bakunin, Proudhon e dei filosofi anarchici, Elio Vittorini si diede ai classici europei, specialmente francesi, della narrativa e della poesia. In una sua breve nota autobiografica, poi pubblicata nel ’49, Vittorini raccontava: «Imparato il francese io avevo già letti Proust e Gide, leggevo la N.R.F., e leggevo Joyce in traduzione francese, leggevo Kafka in traduzione francese» (DMV). Da una testimonianza di Enrico Falqui, pubblicata nel giugno del 1927, secondo la quale Vittorini «...oggi lo vediamo sguerciarsi sulle fitte pagine di Marcel Proust [...] avendone già digerito l’interminabile opera [...] avendo i libri che possedeva, in prevalenza di moderni autori francesi, finito, mesi addietro, col procurargli noia e disgusto...» siamo oggi in grado di collocare ad un periodo antecedente al 1927 gli anni delle sue letture «francesi»: presumibilmente tra il 1925 ed il ’26. Un'altra testimonianza di Giansiro Ferrata («...ricordavano Clartè letta

da giovinetti milanesi o ragazzi siracusani...») sembra alludere chiaramente, nelle parole «ragazzi siracusani», al giovane Elio e agli amici del suo gruppo‘). A questo punto, dunque, è necessario rispondere a due domande. Innanzitutto, chi erano questi «ragazzi siracusani» che facevano importanti letture «francesi»? Ed inoltre, come aveva fatto il giovane Vittorini a fare

tali decisive letture vivendo in una città come Siracusa, apparentemente tagliata fuori dalle grandi correnti culturali europee e dalla circolazione di libri e idee? Nel 1925 Elio Vittorini era diventato amico di Giovanni Calendoli99, un quattordicenne molto dotato intellettualmente, che allora fre-

quentava la quinta ginnasiale. Calendoli, che sarebbe poi diventato uno dei maggiori critici teatrali d’Italia (fondatore e direttore dell’Istituto di Storia del Teatro all’Università di Padova), abitava allora in via Logo-

teta, nel quartiere della Giudecca di Ortigia. Suo papà Saverio faceva l’oculista ed avendo sposato una francese dell’Alta Savoia, i viaggi in

1.LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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Francia per la famiglia Calendoli erano un’abitudine. Nella Pasqua del 1926 Giovanni, allora quindicenne, si era recato a Parigi. Quando tornò a Siracusa aveva con sé un pacco pieno di libri e riviste. Ma soprat-

tutto vi erano alcuni numeri della «Nouvelle Revue Francaise» (cui poi si abbonò) e alcuni volumi della Recherche di Proust, della cui opera, allora, non era ancora stata completata la pubblicazione. I libri, manco a dirlo, finirono subito nelle mani di Elio,

Mezio, Calendoli e Vittorini formarono così un gruppo affiatatissimo. Il Bar Minerva fu la loro sede prediletta e la lettura dei «Francesi» il loro passatempo preferito. In un lontano e marginale angolo di Sicilia, dunque, alcuni «ragazzi siracusani», forse insieme a dei «giovinetti milanesi»

e a pochi altri in Italia, come ricorda Ferrata, leggevano in lingua straniera opere-fondamentali e spesso ancora inedite nel nostro Paese: oltre a Proust e Gide, anche i simbolisti francesi, Malraux, Rimbaud, Mallarmè, Fernandez, la rivista «Clartè», Alain Fournier, Rivière, Valèry,

Crèmieux e altri autori della «Nouvelle Revue Frangaise». Quanto abbiano pesato queste letture sulla formazione di Elio Vittorini è assai evidente. Basti pensare proprio agli scrittori della N.R.F, a Valery Larbaud e alla sua tecnica del «dialogo pensato» di «Amants, hereux amants», o a «Le grand Meaulnes» di Alain Fournier e alle opere di Cocteau e Radiguet nelle quali risultano centrali temi come l’esaltazione della vita e la celebrazione della carica evocativa dell’infanzia. Temi che diverrano centrali anche nella narrativa vittoriniana.

LA SCOPERTA DEI «CLASSICI» PRESSO LA BIBLIOTECA ALAGONIANA (1926-27)

Secondo una testimonianza dello stesso Calendoli, questi un giorno disse all'amico Elio che sarebbe stato difficile per un autodidatta come lui, privo di studi classici, poter diventare scrittore. Parole tremende per il giovane Elio, che reagì allo sconforto lanciando una sfida agli amici: «Leggerò tre libri al giorno» 09. Vittorini fu di parola, e come novello Alfieri cominciò a passare giornate intere di «studio matto e disperatissimo» rinchiuso tra le mura della Biblioteca Alagoniana, l'antica biblioteca arcivescovile fondata nel Settecento, che allora aveva sede in via Minerva, proprio accanto all’Istituto Tecnico «Rizza». Cosa avesse letto in quella biblioteca è difficile sapere. In parte, tuttavia, una mano d’aiuto ce la danno lo stesso Vittorini ed Enrico Falqui.

Quest'ultimo nel già citato articolo di presentazione dell’esordiente

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A. Madeddu -VITTORINI

Elio Vittorini sulla rubrica «Vivaio» della «Fiera Letteraria», nel giugno 1927 scriveva che Vittorini dopo aver letto i francesi «...pensò di liberarsene e oggimai trascorre le sue giornate nella Biblioteca Arcivescovile, rapito dietro le grazie dell’elegantissima prosa magalottiana...». Lo stesso Falqui fa i nomi di altri autori: «...può sembrare che il Vittorini abbia meditato a lungo i romanzetti satirici di Voltaire...» e «...debba essersi compiaciuto della gioconda, onesta e ardirò di dire santa compagnia del virtuoso e sano Messer Francesco Guicciardini». E in un altro passo aggiunge: «...Indi fu la volta della filosofia. Addentò fieramente Kant, Hegel, sino a ridursi all'osso con James e Bergson...»?. Ma decisiva appare soprattutto una testimonianza dello stesso Vittorini. Questi, scrivendo nel 1929 una nota sul suo romanzo (poi rifiutato) Il brigantino del Papa, e volendo prendere le distanze dalle sue originarie tendenze «strapaesane», per giustificare il proprio giovanile errore attribuisce la responsabilità di quelle prime scelte alla sua «...educazione letteraria, fattasi tutta tra i Lasca, i Berni, i Cellini, i Tassoni, i Voltaire, i Casti e i Casanova...». E nel citare autori burleschi e realisti ricor-

da anche Rabelais. Queste letture, secondo Vittorini, avevano preceduto il suo incontro

con Malaparte, e lo avevano, per così dire, inclinato a raccoglierne il verbo.

L'INCONTRO CON CURZIO MALAPARTE:

...L’ABBAGLIO (1926-27)

L'evento che segnò l’ingresso ufficiale del giovane Vittorini negli ambienti letterari del Paese fu il suo incontro con l’allora affermato scrittore Curzio Malaparte. Ma l’incontro con Malaparte segnò anche l’inizio di una breve fase apparentemente contraddittoria della sua vita artistico politica: il passaggio, seppur temporaneo, da un originario anarchismo socialista ad un ambiguo fascismo di sinistra. Vittorini stesso, qualche anno dopo l'avrebbe definito un abbaglio. Cerchiamo di comprenderne i motivi ritornando alle vicende del tempo. In quegli anni Curzio Malaparte era uno dei più famosi scrittori d’Italia e rappresentava la migliore penna del Regime Fascista. Nel Natale del 1925 Giovanni Calendoli, reduce da uno dei suoi soggiorni francesi, aveva acquistato e portato con sé a Siracusa un libro di Malaparte: Italia Barbara. Negli stessi anni Alfredo Mezio si era abbonato alla rivista malapartiana «La Conquista dello Stato». In questo modo Elio Vittorini cominciò ad avvicinarsi alla lettura di Malaparte, che rappresentava allora una sorta di mito per i più giovani.

1. LA VITA — Gli anni siciliani (1908-1930)

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L'adolescente Elio Vittorini attraversava allora una gravissima crisi d'identità, che era poi la crisi d’identità di un’intera generazione di giovani. Una crisi d’identità ed un’ambiguità politica che avrebbe poi contribuito tantissimo all'affermazione del fascismo tra le nuove generazioni. Elio aveva fallito negli studi e si era ritirato da scuola. Non trovava lavoro. Le sue amicizie con anarchici «sbandati» gli avevano procurato persino qualche noia con la polizia. Era ritenuto dal padre la «pecora nera» della famiglia. E l’unica vera vocazione che sentiva era quella letteraria. Aveva diciassette anni e il suo sogno di riscatto era ormai uno solo: diventare scrittore. Un giorno Vittorini si decise a scrivere una lettera a Malaparte. Era il febbraio del 1926. Questi, con viva sorpresa dello stesso Vittorini, ap-

prezzò moltesta sua lettera € lo invitò a Roma per conoscerlo. Per potersi recare a Roma Elio disse in famiglia di volersi arruolare in aeronautica. La visita medica, infatti, si faceva proprio nella capitale. «Elio — racconta la sorella Jole — arrivò a Roma dopo ventiquattro ore di viaggio; in pantaloncini corti e camicia ormai diventata nera come le sue

gambe e il suo viso per la fuliggine del treno. Curzio Malaparte non lo conosceva; fu Elio a chiamarlo tra la folla. — Tu sei Elio Vittorini? Ma ti avevo immaginato un professore con tanto

di barba —. Malaparte non poteva credere ai suoi occhi. Si trovava di fronte un ragazzo di diciassette anni. Nacque così la loro amicizia. Elio, però, dovette recarsi in caserma e sottoporsi ad un’accurata visita. Risultò idoneo e, quindi,

avrebbe dovuto firmare il fermo di volontariato, ma si rifiutò di firmare. Disse che non poteva rimanere perché lo aspettava a casa una madre ammalata e disperata di saperlo pilota. Gli diedero quindici giorni di prigione a pane e acqua; poteva ricevere solo la visita di un parente che gli portava sigarette e giornali. Dopo aver scontata la pena, ritornò a Siracusa, felice di aver ottenuto ciò che desiderava: l’incontro con Curzio Malaparte»‘ 59. La prima lettera recuperata del carteggio tra Vittorini e Malaparte porta la data del 9 aprile 1926, ma fa riferimento ad una corrispondenza epistolare già esistente e ad una «amicizia cordiale e intima» già stretta con Enrico Falqui su suggerimento dello stesso Malaparte®?. Da allora il carteggio diventò sempre più fitto. Fu Malaparte, con la sua xenofobia «strapaesana» a consigliare Vittorini di preferire la lettura di Guicciardini e dei classici italiani piuttosto che quella dei nuovi poeti francesi. In queste prime lettere si avverte per intero la grande speranza riposta dal giovane Vittorini sullo scrittore affermato per uscir «fuori

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A. Madeddu — VITTORINI

di viltà» e non esser più di peso alla famiglia: «Pensi, caro Malaparte, quale anima persa io sarei se la fiducia in Lei mi dovesse mancare e se dovessi tornare a tutta discrezione di una fantastica fortuna, la quale, campata in aria, bene si sa quanto è maligna [...]. La prima vilissima zavorra sono proprio io nella mia casa»‘9. Intanto il 15 dicembre del 1926 Malaparte pubblicò sulla sua rivista «La conquista dello Stato» quella prima lettera vittoriniana, che tanto lo aveva impressionato, col titolo di «Lettera a Vossignoria»: era l’esordio ufficiale del diciottenne Elio Vittorini. Altri tre suoi articoli di carattere ideologico-politico raccolti sotto il titolo di «Sermone dell’ordinarietà» gli furono pubblicati sulla stessa rivista nei mesi successivi. Quindi fu la volta del primo racconto, Il ritratto di Re Giampiero, che gli venne pubblicato il 12 giugno 1927 sulla «Fiera Letteraria», di cui era redattore capo lo stesso Malaparte. La pubblicazione del racconto venne accompagnata nella rubrica «Vivaio» dalla dettagliata presentazione ai lettori del diciannovenne esordiente Elio Vittorini da parte di Falqui: era il suo debutto ufficiale di narratore. Per la prima volta si inziava a parlare in giro di Elio Vittorini. Cominciarono così le sue collaborazioni a numerosi quotidiani nazionali: «Il resto del Carlino», «La Stampa» di Torino, «Il Mattino» di Na-

poli, «La conquista dello Stato», «Pegaso», «Pan», «Il Lavoro» di Genova, ed altri ancora.

Sono scritti di chiaro gusto «strapaesano» e stilisticamente improntati alla lezione classicheggiante della «Ronda», nei quali l'influsso di Malaparte è più che evidente. Ma spesso sono scritti dettati dalla necessità di sbarcare il lunario, utili solo in funzione di quella critica presa di coscienza che di lì a poco, proprio grazie all'esperienza di quelle prime prove, Vittorini avrebbe maturato, fino a prenderne definitivamente le distanze. Negli anni Trenta Vittorini avrebbe maturato un radicale antifascismo reagendo persino con rabbiosa vergogna al ricordo dei suoi esordi fascisti. E sarebbe stato lo stesso Vittorini a spiegare ai lettori, nella «Prefazione» all'edizione del ’48 del Garofano Rosso, le radici antiche di quel disorientamento storico e politico di cui furono vittime negli anni Venti i giovani della sua generazione. Quegli stessi giovani che avevano riempito le pagine del Garofano rosso: «C'è in loro [Alessio Mainardi e i ragazzi del romanzo, n.d.r.], verso il

mondo costituito, una diffidenza che li accomuna e un atteggiamento di rivolta non preciso ma costante per cui sono portati a credersi rivoluzionari e sono

pronti a simpatizzare con qualunque movimento politico appaia loro rivolu-

1.LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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zionario. Hanno sentito parlare di socialismo, di comunismo, e vedono intanto

il fascismo [...]. Ne sanno quanto basta per pensare che ogni mutamento rivoluzionario del mondo debba avvenire in senso socialista [...]. Così le ragioni confessate per le quali aderiscono-al fascismo e fanno chiasso dentro il fascismo derivano, nella maggioranza, dall'idea che il fascismo non possa non avere un contenuto socialista. Ne nasce in loro [...] una condizione di ambivalenza. Essi sono disposti al socialismo e al fascismo nello stesso tempo. E l’ambivalenza del loro animo favorisce, naturalmente, l'affermazione italiana del fascismo»(PGR).

Questo fu l’abbaglio in cui caddero Vittorini e molti giovani della sua generazione:

È

«Quandozandavo a Firenze — ha raccontato Romano Bilenchi a proposito di Vittorini — mi recavo a trovarlo a casa. Ci confidavamo le impressioni riportate nelle nostre letture, le nostre preoccupazioni, le nostre delusioni: invano ambedue avevamo sperato che il fascismo avrebbe potuto essere una rivoluzione antiborghese, una nuova forma di socialismo».

UN’INSOLITA FUGA D'AMORE TRA BINARI E POESIE: I QUASIMODO E I VITTORINI (1927)

Dal 1924, intanto, si era stabilita a Siracusa la famiglia del poeta Salvatore Quasimodo, futuro premio Nobel per la letteratura, il quale «per civetteria di scrittore, — come scrisse Gilberto Finzi — ma più ancora per confermare in questo modo abbastanza ingenuo un suo tipico mito (quello di essere un siculo-greco) affermava sempre di essere nato a Siracusa» ‘92. In realtà Quasimodo era nato nel 1901 a Modica, allora in provincia di Siracusa, durante uno dei frequenti trasferimenti del padre ferroviere, ma scrisse sempre di essere nato a Siracusa, città adottiva che amò sempre e che in alcuni bellissimi versi definì «Città d’isola sommersa nel mio cuore»). Per un singolare destino il padre di Salvatore Quasimodo era capostazione di Siracusa e la sua famiglia abitava proprio accanto a quella di Sebastiano Vittorini, l’altro capostazione della città. Elio conobbe così Rosa, sorella di Salvatore.

«Papà aveva avuto una nuova promozione — ricorda Rosa Quasimodo — e di conseguenza un trasferimento da Licata a Siracusa. Per me fu la felicità. Licata era un paese triste. [...] Siracusa mi apparve bellissima. Feci molte amicizie, ricordo nelle sere d'estate le passeggiate alla Marina e alla Fonte Aretusa con le mie amiche Basteri.

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A. Madeddu -VITTORINI

Le gite a piedi [...] e le visite ai monumenti archeologici più lontani. I bagni si facevano alla Spiaggia del Sacramento nello specchio di mare di fronte al porto; per andarci si prendeva un vaporetto, come a Venezia per andare al Lido. [...] Abitava alla stazione con la famiglia un altro capostazione, Sebastiano Vittorini, e si fece amicizia. [...] Così lo conobbi (Elio)»®.

Elio Vittorini nell'estate del 24 era appena rientrato da Benevento. Aveva già dimenticato «Giovanna». Elio e Rosa si conobbero in casa Vittorini durante una recita di poesie scritte da papà Sebastiano. Abitavano in alloggi vicini, dinanzi ai binari della Stazione Ferroviaria di Siracusa. Tra i due nacque un amore intenso, ma anche assai contrastato da papà Gaetano Quasimodo, che non gradiva per la figlia uno sposo «vivace» e «intelligente» ma ancora disoccupato come il giovane Elio. E per i due, dopo tre anni, non rimase altra scelta che la classica «fuga d’amore». Era il 1927: «Una notte di agosto, mi aspettava sulla tettoia della stazione. — ricorda la Quasimodo — Attraversai tutte le finestre degli altri appartamenti, ed entrai in casa sua. Con la complicità di suo fratello Ugo fuggimmo con una carrozza verso un alberghetto fuori città. Ma non ci diedero alloggio. Io spaventatissima volevo tornare a casa, ma albeggiava: fu impossibile. Passammo le ore che restavano sugli scalini del teatro greco, allora non recintato. Si vedeva la stazione e la finestra della camera dei miei genitori. Piangevo pensando a quello che sarebbe successo quando non mi avrebbero trovata. Appena fu mattino, Elio andò a chiamare un suo amico (Franco Zammit) che venne con

la sua macchina e ci portò a Lentini dove alloggiammo in una specie di trattoria con camere. Per i miei, il colpo fu veramente duro. Mio fratello Ettore venne a prenderci il pomeriggio e riportarci a Siracusa». Il matrimonio riparatore fu celebrato nella Chiesa di San Paolo, dinanzi al Tempio di Apollo, il 10 settembre 1927, alla presenza di pochi familiari. Caso davvero singolare quello di Elio Vittorini e Salvatore Quasimodo, due grandi della letteratura italiana del Novecento che il destino

aveva accomunato nelle origini, nei percorsi e persino nella parentela.

IL SOGGIORNO A GORIZIA E IL RITORNO A SIRACUSA (1928)

Dopo il matrimonio, alla fine di settembre del 1927, Vittorini si tra-

sferì a Gorizia, dove il fratello di Rosa Quasimodo gli aveva procurato un posto di lavoro in un’impresa di costruzioni stradali. Lì si fermò quin-

1. LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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dici mesi. Nella città friulana lo scrittore lavorò alla costruzione di un ponte, episodio che lasciò un gran segno nella sua vita: «Nel 1927 — scrisse in seguito Vittorini — partecipavo alla costruzione

di un ponte che ha fatto epoca in me come nella mia prima infanzia la lettura del Robinson. Costruire un ponte non è lo stesso di costruire un tavolo 0 di costruire una casa. Se si comincia non si può più sospendere i lavori fino

a completamento, almeno per quanto riguarda i piloni. Vi sono dei cassoni di cemento che bisogna far penetrare nel letto del fiume, scavandogli sotto la fossa e pompandone fuori l’acqua dall'interno. Se viene a piovere bisogna fare più svelti della pioggia sia a scavare che a pompare. E allora si lavora di giorno o di notte senza darsi più il cambio, senza pensare più che si lavora per guadagnarsi il pane, e pensando invece a vincere, a spuntarla. Questo fece epoca 'in me»(DMV). A Gorizia Vittorini continuò le sue collaborazioni coi giornali e scrisse Il brigantino del Papa, romanzo che presto rifiutò e nascose in un cassetto. Elio si fermò a Gorizia fino a tutto il 1928. Poi, in seguito al delinearsi di una nuova prospettiva d’impiego nella sua città, ai primi di gennaio del 1929 Elio fece ritorno a Siracusa. Trovò lavoro come economo presso il Consorzio Antitubercolare che aveva sede nei locali della Prefettura. Gli ambienti burocratizzati e provinciali del suo ufficio in Prefettura gli diedero lo spunto per la polemica antiborghese sviluppata nei tre racconti della cosiddetta «suite di Adolfo» o silloge della Prefettura (Quindici minuti di ritardo, Raffiche in Prefettura e Educazione di Adolfo), che sarebbero poi confluiti in Piccola Borghesia. Ritratti impietosi di personaggi reali e di ambienti d’ufficio del microcosmo borghese conosciuto in Sicilia, ma rappresentati nell’artificio letterario a Gorizia. L'educazione di Adolfo piacque molto al cognato Salvatore Quasimodo che così scrisse in una lettera indirizzata a Elio Vittorini nel marzo dell’anno successivo: «Nell “Educazione di Adolfo” si respira a pieni polmoni l’aria del grande scrittore. Ora che l'avvicinamento del nostro spirito trascende anche i limiti di parentela posso parlarti senza che si possa pensare all’adulazione. Cerca di pubblicare presto intero il racconto e non ti lasciar coglier dalla pigrizia. Senza dubbio farà più rumore degli “indifferenti” del famigerato Moravia. I tuoi personaggi sono pieni di sangue, vitali, si staccano così decisa-

mente da far pensare alla plastica michelangiolesca. [...] La nostra letteratura ignorava codesti abissi. La tua precocità rattrista, ma è così discesa in

profondità che fa pensare al miracolo. La tua analisi per quanto minuta è sciol ta; quella di Svevo di fronte ad essa è pachidermica, sa di macchina, di truc-

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du — VITTORINI A. Maded

co. Questo volevo dirti per quanto disordinatamente. Lavora in perfetta serenità. Tu ci darai certamente quello che da te ci si aspetta. ..»‘9..

LA FREQUENTAZIONE DEI CENACOLI CULTURALI pi PaoLo Rio E DI ANGELO MALTESE (1929)

Negli anni Venti la vita culturale di Siracusa, pur condizionata dai limiti dell’inevitabile provincialismo di periferia, era attraversata da una certa vivacità. È di per sé assai singolare il fatto che una cittadina che allora contava meno di trentamila abitanti avesse dato i natali a molti protagonisti della vita culturale ed artistica del Paese, come il critico Gaetano Trombatore, la scrittrice Laura Di Falco, l'attore Salvo Rando-

ne, gli scienziati Giovanni Malfitano e Antonino Lo Surdo, il pittore Francesco Trombadori, gli stessi Giuseppe Agnello, Pasquale Sgandurtas Già dal 1917 Liliaco Zante (al secolo Peppino Incastrone) con la collaborazione dell’allora sedicenne Salvatore Quasimodo e dell’altro poeta siracusano Delio Illogiari (pseudonimo di Salvatore Bozzanca) aveva fondato a Siracusa la «Vampa Letteraria», una rivista importante che poté vantare, fra le tante, le firme di Bontempelli, Curcio, Marinetti e soprattutto Tristan Tzara, fondatore del «Dadaismo» a Parigi).

Nel corso degli anni Venti furono stampate a Siracusa una quindicina di riviste locali, tra le quali assunse una certa importanza «L’'Azzurro» di Alfredo Musso, che ospitò articoli di Filippo Tommaso Marinetti.

Due erano tra il ’26 ed il ’29 i cenacoli di cultura più importanti in città: quello creato dal professor Paolo Rio, poeta e giornalista, già insegnante dell'Istituto «Rizza» e animatore della stessa rivista «L’Azzurro», e la galleria d’arte «La Fontanina» realizzata da un finissimo fotografo, Angelo Maltese, nel cortile di Palazzo Vermexio in piazza Duomo. Nel febbraio del 1927 la «Revue Mederne illustrée des Arts et de la Vie» di Parigi aveva recensito una sua personale di fotografie. Ma Angelo Maltese, oltre che fotografo era anche poeta, pittore, autore di racconti

e recensioni‘), Il suo cenacolo d’arte e di cultura divenne il ritrovo dei maggiori artisti e intellettuali della provincia siracusana: Vitaliano Brancati, Enzo Assenza, Sebastiano Aglianò, Corrado Sofia, Enrico Cardile, oltre ai già citati Salvatore Quasimodo, Francesco Trombadori, Giuseppe Agnello, ed altri ancora. Già dalla fine del 1926 (con la sola pausa del soggiorno a Gorizia)

1.LA VITA - Gli anni siciliani (1908-1930)

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Elio Vittorini aveva cominciato a frequentare i due circoli insieme ad Alfredo Mezio, Giovanni Calendoli e alla sua nuova cerchia di amici: Franco Zammit, Carlo Italia, Giovanni Belfiore, Emanuele Giaracà,

Goffredo Rizza. Nel febbraio del 1929 Vittorini pubblicò due articoli su «L’Azzurro» di Paolo Rio: «Calepino letterario» e «Stagione Natìa». E altri articoli continuò a scrivere sui maggiori giornali del Paese. Nello stesso anno riprese a scrivere Il brigantino del Papa, Il ballo dei Lagrange ed in collaborazione con Falqui Vita di Pizzo-di-ferro detto Italo Balbo e l’Antologia degli scrit tori nuovi. Intanto tramite Mezio conobbe il direttore di «Solaria», Al-

berto Carocci. Risale a quell’anno il tentativo di fondare un’importante rivista a Siracusa, propsis-insieme al suo amico Mezio. La rivista avrebbe dovuto avere per titolo «Il Sollevato» e presentarsi come complementare a «Solaria». Vittorini e Mezio chiesero la collaborazione di tutti gli amici, compreso Carocci e quelli di «Solaria». Ma il progetto si arenò e la rivista non fu stampata. intanto, Vittorini negli ultimi suoi scritti mostrò di prendere sempre di più le distanze dal suo primo maestro Malaparte. E così, finalmente, giunse il momento della svolta: nell'ottobre del 1929 pubblicò sull’«Italia Letteraria» un polemico e rivoluzionario articolo, «Scarico di Coscienza». ...L'effetto fu peggio che un terremoto. «L'articolo fece scandalo — scrisse poi lo stesso Vittorini —, fu segnalato anche all’estero, e mi procurò una serie di attacchi da parte della stampa fascista» (DMV). Nei giovanissimi amici siracusani di Vittorini era ormai viva la sensazione di stare al fianco di un talento nascente della letteratura italiana, già conteso e apprezzato dovunque e pronto a spiccare il fatidico salto di qualità. E nel contempo era presente in essi la consapevolezza di non poter stare più al passo dell'amico e del compagno di scuola di un tempo. È estremamente indicativo, per comprendere questo diffuso stato d'animo, leggere quello che scriveva Alfredo Mezio sull’amico più caro nel secondo numero de «L'Azzurro» pubblicato a Siracusa nel 1929, dove si afferma con orgoglio che «...è nata e va mettendo foglie, felicemente, la sua fortuna di scrittore». Ma a tal proposito, è assai interessante, tuttavia, rileggere un illuminato e profetico articolo dell’allora giovanissimo Elio Vittorini, che nel 1929 da Siracusa scrisse una breve recensione sull’«Italia Letteraria» riguardante l’opera di suo zio Pasquale Sgandurra, già trapiantato a Firenze.

A. Madeddu -VITTORINI

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Il notevole interesse suscitato dal brano vittoriniano deriva dal fatto che già allora l’autore rimproverava ai propri concittadini l’indifferenza e la grave mancanza di riconoscenza verso un artista che aveva da poco donato alla sua città il «Crocifisso» copia del celebre bronzo di Montreal, ed al contempo la consapevolezza di dover subire lo stesso destino d’oblio dello zio nel momento in cui egli stesso si sarebbe dovuto allontanare dalla sua Siracusa per affermarsi come scrittore al Nord. «Penso — scriveva Vittorini — che un cauto omaggio, da qui, allo Sgandurra è dovuto. Nella sua partenza di avanti guerra da questa testa di ponte a una piazza fiorentina, partenza allora favolosa e ricca di promesse, c’è l’esordio, il principio di tutte le partenze che faremo noi stessi, poco a poco, verso l’alta Italia. E la pronta dimenticanza in cui è stato soppresso il suo nome quaggiù, dopo le prime glorie cittadine, ci può anche dare il carattere della fatalità di questa provincia dove anche noi scompariremo, nel ricordo dei nostri amici, dei nostri circoli, delle nostre affettuose brigate...»D.

In queste straordinarie parole c’è tutta la voglia di affermazione di un giovane e promettente scrittore siciliano ancora ventunenne e nello stes-

so tempo la coscienza quasi profetica di essere destinato a grandi cose e nel contempo alla dimenticanza tra i suoi stessi concittadini. Alla fine di quello stesso anno Elio Vittorini ventiduenne avrebbe lasciato per sempre Siracusa e avrebbe cominciato da Firenze la sua straordinaria carriera letteraria, così come

«profeticamente»

sto rarissimo documento.

iebi

aveva annunciato

in que-

«Scarico di coscienza», infatti, gli era costato la collaborazione alla

«Stampa», che aveva rappresentato fino ad allora la sua maggior fonte di guadagno. Malaparte, direttore del giornale, aveva finito col cedere alle pressanti proteste del fascismo torinese contro il «francesizzante, l’europeista Vittorini».

Trovatosi senza risorse il giovane scrittore alla fine di dicembre del 1929 lasciò definitivamente Siracusa e, su invito dei suoi amici solariani, si trasferì a Firenze. Ebbe 600 lire al mese come redattore di «Sola-

ria» (a una parte di questo stipendio provvedevano, in segreto, alcuni amici, tra cui Montale), ed una cifra pressapoco equivalente gli rendeva un lavoro notturno di correttore di bozze presso il quotidiano «La Nazione». Andò a vivere inizialmente a casa dello zio Pasquale Sgandurra, lo scultore. Da quell’esordio solariano del 1930 i comuni testi di Storia della Letteratura fanno cominciare ufficialmente la carriera letteraria di Elio Vittorini, dimenticando a torto che lo scrittore siciliano era giunto a Firenze

1. LA VITA - Gli amni siciliani (1908-1930)

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ventiduenne e già maturo, dopo aver compiuto la sua singolare formazione di autodidatta nella vivace Siracusa degli anni Venti. Per uno scrittore precocissimo come Vittorini, quello siciliano fu più che un imprinting.

L'IMMAGINE DI SIRACUSA NELLE PAGINE DI ELIO VITTORINI

Elio Vittorini, nonostante la «fuga» dalla natìa Sicilia, amò profondamente la sua città: a Siracusa è ambientato il Garofano Rosso, siracusano è il protagonista di Conversazione in Sicilia, «Siracusa» è il nome della protagonista femminile de Le donne di Messina, di Siracusa parla Vittorini in, quasi tutti i suoi romanzi e spesso anche negli interventi

pubblici. Scopriamo, dunque, l’immagine vittoriniana della città, di questa Siracusa letterariamente inventata e al contempo reale ed ispiratrice di poesia, rileggendo alcuni celebri brani delle sue opere. Uno dei più belli e famosi è senza dubbio l’incipit del Garofano rosso: «Aspettavamo la campana del secondo orario, tra undici e mezzogiorno, pigramente raccolti, sbadigliando, intorno ai tavolini del caffè Pascoli e Giglio, ch'era il caffè nostro, del Ginnasio-Liceo, sull’angolo di quella strada, anch'essa nostra, con la via principale della città, dai borghesi detta Corso e da noi Parasanghea. I più fortunati mandavano giù l’una dietro l’altra granite di mandorla, la più buona cosa da mandar giù ch'io ricordi della mia infanzia. I piccoli delle classi ginnasiali si rincorrevano da marciapiede a marciapiede, urlando, fin sullo sbocco di Piazza del Duomo che chiamavano Ponto Eusino, e là subito le loro urla selvagge risuonavano più larghe e cantanti quasi come su una aperta campagna. Là era, difatti, una campagna di sole: Piazza Duomo; amplissima nel suo asfalto ancora fresco, con le sue palazzine rosse settecentesche a semicerchio e la gradinata del Duomo dal sommo della quale si scorgeva oltre tetti e tetti una striscia abbagliante di mare canuto». Un'altra descrizione di Siracusa ci viene dal primo Vittorini de «L’Azzurro» che così, nel saggio Stagione natìa, ricordava ancora ventenne la sua città:

«Cortili e vicoli, ronchi anzi secondo il termine municipale, che qui rifanno la popolare topografia delle città adriatiche in laguna, susseguendosi in fughe precipitose di calli, e in brevi respiri di campielli. Profonde fenditure, angusti spazi, tagliati nella pietra, essi non vedono un filo di verde se non nei vasi de’ fiori delle finestre e si chiudono tutti con un’invariabile striscia di mare. Noi che qui siamo nati e un po’ cresciuti, che ne portiamo ricordo e desiderio e ne coltiviamo la nostalgia, noi, dico, celebriamo l’ingrata esistenza mitigata

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A. Madeddu — VITTORINI

dalla natura. Ché la gran parte dell’anno, il sole, luce e calore, vi è di eccel-

lentissima fattura, mai secco dell’arsura, anzi umido, tiepido e pregno di brezze

oltremarine».

Quindi Vittorini ci restituisce, nelle stesse pagine, una suggestiva

immagine natalizia della Siracusa degli anni Venti: «Nelle sere prossime a Natale, una vecchia consuetudine cede ai pescatori la piazza maggiore. Allora, accesi i lumi, Siracusa diventa una strana Pescheria, fa buon sangue, mette umore marinaresco e compra, compra pe-

sce di ogni sorta dallo spada all’anguilla, dalle triglie alle aragoste. Per giunta, quelle sere, ti sembra vedere dovunque uomini in pipa e la cinquantenaria fontana che in pietra da scoglio illustra deità e cavalli di mare (la fontana di Diana in Piazza Archimede, n.d.r.), piglia, coperta dal gran vocìo, un frastuono di fontana romanesca. E l’ultima sera, quando le pompe municipali, dopo la vendita, allagano lo spiazzo, la domestica veglia ha un sapore favoloso di biblica mensa e di re Magi in viaggio». Ma a cose e fatti di Siracusa Vittorini accenna in ogni suo racconto

o romanzo: «Ricordo d’essermi svegliato per una intera estate nel paese più bello del mondo. Fu al principio della mia esistenza...» («Bambino che si sveglia»). «...un cavallo nero e senza testa come quello dell'altra mia infanzia di Siracusa...» (La mia guerra). «...E il pubblico di Atene che mi occorrerebbe. O quello del teatro greco di Siracusa...» (Le città del Mondo).

«...aveva potuto leggere, poco più di un mese prima, anche la descrizione della morte di Agamennone al Teatro Greco di Siracusa...» («La Garibaldina»).

«...€ il piccolo vecchio [...] che è stato veduto in treno tra Siracusa e Milano, Siracusa e Venezia, Siracusa e Torino, già trentasei volte finora ...» (Le donne di Messina). Ed a proposito di quest’ultimo romanzo è estremamente

significati-

vo il fatto che Vittorini avesse deciso di chiamare la protagonista femminile col nome di «Siracusa»: «...Nel villaggio la ragazza è chiamata Siracusa, e io ho già dichiarato che

siamo, lo zio Agrippa e tutti noi, delle parti di Siracusa. Dunque può davvero accadere, in questa storia, che un vecchio padre ritrovi la figlia scappata di casa, e che mio zio Agrippa finisca di andare avanti e indietro, che anche

lui si fermi, che abbia anche lui, alla fine, una vita di «riunione», come lui dice, in seno a una Nuova Siracusa [.....].

1. LA VITA - Gli ammi siciliani (1908-1930)

65

Gli è venuto all'orecchio di una ragazza di lassù che si chiama Siracusa. Lo ha letto in un giornale... Siracusa è il capoluogo della provincia nella quale lui è nato. La sua città, in altri termini. E che una ragazza si chiami come la sua città deve avere un significato. Perché si chiama Siracusa? «Si vede che sarà di Siracusa», gli risponde Carlo.

«Marameo! » lo zio Agrippa esclama. Un siracusano chiamerà una figlia come Santa Lucia, che è la patrona della città, ma mai potrebbe venirgli in mente di chiamarla come la città stessa. Non è mai accaduto e non può accadere. O dovrebbe essere un siracusano andato in America. «E lei sarà figlia», dice Carlo, «di qualche siracusano andato in America». Ma mio zio dice che nessuna figlia di siracusano, anche se nata in America, si comporterebbe con gli uomini in modo da farsi mettere in berlina da un giornale [...]. «Non wolete vedere», continua mio zio, «perché si chiama Siracusa?». [...] Allora si è limitato a chiedere se la ragazza fosse quella che chiamavano Siracusa. «Precisamente», gli ha risposto Carlo. «La stessa della quale volevate che m'informassi». E lo ha messo a parte di quanto ha saputo. Ch'era di Siracusa proprio...». E concludiamo con un brano tratto da Conversazione in Sicilia il più importante dei romanzi vittoriniani. Il protagonista Silvestro sta per

scendere dal treno proveniente da Milano: «...E dietro la curva della campagna di roccia apparve, contro il mare, la roccia del Duomo di Siracusa. — Eccoci a Siracusa, — io dissi. [...] E io sce-

si a Siracusa, il posto dov’ero nato e di dove quindici anni prima ero partito

Feel: E fui a Siracusa. Ma che avrei fatto a Siracusa? Perché ero venuto a Siracusa? Perché avevo preso il biglietto proprio per Siracusa e non per altrove? Certo mi era stato indifferente per dove prenderlo. E certo, essere a Siracusa 0 altrove, mi era indifferente. Era per me lo stesso. Ero in Sicilia. Visitavo la Sicilia. E potevo anche risalire in treno e tornare a casa. Ma avevo conosciuto l'Uomo dalle arance, Coi Baffi e Senza Baffi, il Gran Lombardo, il catanese, il piccolo vecchio dalla voce di fuscello secco, il giovane ma-

larico avvolto nello scialle, e mi parve che non mi era forse indifferente esse re a Siracusa o altrove».

E considerato il peso che l’immagine della sua città ebbe nelle proprie opere narrative, probabilmente non dovette essere certo «indifferente» per Vittorini l’essere nato e cresciuto «a Siracusa o altrove».

A. Madeddu - VITTORINI

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GLI ANNI FIORENTINI (1930-1938)

«Un giorno — ricorda Vittorini — ero scappato di casa con un biglietto valido per tutta la rete ferroviaria italiana e con cinquanta lire in tasca. Di giorno visitavo le città, di notte (per non pagare l'albergo) viaggiavo. Furono tre fughe in quattro anni, e non saprei dire se partissi ogni volta per tornare indietro. E certo finiva sempre che tornavo. Partivo per vedere il mondo. Ma una quarta volta non tornai» (DMV).

Elio Vittorini, già ventiduenne, lasciò Siracusa alla fine del 1929. «Sognava di vivere a Firenze - racconta Rosa Quasimodo —. E partì per Firenze a metà dicembre 1929. Aveva già molti amici e parecchie collaborazioni; pensò di poter realizzare il suo sogno [...]. A Firenze ci restammo. Era il 1930»072),

In una lettera di grande valore documentario datata 6 gennaio 1930 ed inviata da Firenze a Siracusa, Vittorini, pur lasciando trapelare qua e là qualche nota nostalgica, esprime alla moglie tutta la sua volontà di non tornare più indietro: «...La mia sofferenza è fatta esclusivamente della tua lontananza. Io non soffro di nulla d'altro. [...] Ma ci vuoi tu, ci vuoi tu... Ci vuole il mio bambino... la mia famiglia... Non importa la casa adesso... La casa verrà dopo... Tornare? No non torno... vieni starai bene anche tu... Anche tu sei

intelligente e qui potrai esser felice fra tante persone che ti conosceranno, fra tanti amici... Ci si adatterà, vedrai.

[...] A Firenze fa sempre bel tempo. Nei giorni scorsi si è avuta un po’ di nebbia. Ma oggi la giornata è meravigliosa, né più né meno come a Siracusa quando tu te ne stavi alla finestra, d’inverno, sotto il sole, sui primi di

gennaio ed io sentivo la felicità di poterti vedere...»0®. Sono anni di grande fervore creativo e di grandi amicizie.

«Dormimmo per un po’ nello studio dello zio di Elio, Pasquale Sgandurra, scultore [...]. — ricorda ancora Rosa Quasimodo — Elio collaborava alla rivista “Solaria” e per mezzo di Bruno Fallaci, marito di Gianna Manzini,

fu assunto come correttore di bozze al giornale “La Nazione”. La sera gli amici si riunivano alle Giubbe Rosse, il caffè frequentato da tanti letterati: Euge-

nio Montale, Alessandro Bonsanti, Alberto Carocci, Arturo Loria, Vieri Namnetti, Raffaello Franchi, e tanti altri che non abitavano a Firenze, ma che spesso ci venivano: Carlo Bo, Tommaso Landolfi, Giovanni Comisso, Car-

1.LA VITA - Gli ammi fiorentini (1930-1938)

67

lo Emilio Gadda, Gianfranco Contini, Alberto Consiglio, oltre a pittori quali De Chirico, De Pisis, Casorati. Veniva anche mio fratello Totò, che Elio ave-

va presentato ai solariani. Quando Totò andava in montagna per lavori, portava con sé Elio e accadeva spesso. Discutevano e discutevano [....]. Oltre che alle Giubbe Rosse, ci si riuniva in casa della “Mosca”, nomi-

gnolo della signora Marangoni, moglie di Matteo, che era amica di tutti i letterati di quegli anni. Abitava da lei Montale; lì conobbi Enrico Pea, Umberto Sbarbaro, Aldo Palazzeschi, Carlo Levi e tanti altri» 9.

Vittorini si lega di grande amicizia soprattutto ad Eugenio Montale. Con l’aiuto dell’operaio-tipografo Alessandro Chiari de «La Nazione», Vittorini impara l'inglese, esperienza fondamentale per le sue traduzioni future della letteratura americana: «...Sbrigavo il mio lavoro in una gabbia di vetro posta al centro della sala dei linotipisti, e questo era piuttosto male per la mia salute: facevo turno di notte, dalle ore 21,30 alle 5,30 del mattino, e questo era pure male per la

mia salute, ma ebbi la fortuna di stringere amicizia con un vecchio operaio che era stato all’estero e conosceva l'inglese... Il mio amico che conosceva l’inglese accondiscese a insegnarmi l'inglese. E fu in un modo molto speciale che cominciammo. Fu sul testo del Robinson Crusoe, leggendo e traducendo parola per parola, scrivendo sopra ogni parola inglese la corrispondente parola italiana. Poi continuai da solo un po’ come un sordomuto»(DMV).

Intanto se i Solariani rappresentavano per il regime qualcosa di preoccupante, Vittorini lo diventava più di ogni altro. «Vittorini — racconta Ferrata — si attirava da tempo rancori, “benevole” ammonizioni, sospetti veramente intensi e profetici. [...] Poco più che ventenne, era già molto conosciuto nel giro intellettuale. [...] Narratore ancora

ai primi passi, critico pieno di qualità ben chiare, Vittorini risultava il più dotato tra quei giovani compagni di strada [...]. Un bel tipo di ragazzo genialoide con una strana poeticità ed eleganza nell’esprimersi [...]. I tibografi della «Nazione» dove aveva corretto bozze nei primi mesi dopo il suo arrivo, avevano contribuito a dargli una fama locale di persona straordinaria. [...] Si formò così una specie di corrente «vittoriniana» a livelli molto vari, tra i giovani o i meno giovani che verso il 1932 cominciavano a trovare ogni settimana

sul «Bargello» gli articoli di questo singolarissimo critico e Polemista»!.

Nel 1930 Vittorini, già affermato, invita a Firenze il cognato Quasimodo, ancora poco conosciuto, e lo presenta ai solariani.

68

A. Madeddu - VITTORINI

Nel 1931 pubblica il volume Piccola Borghesia, una raccolta di otto racconti in cui le suggestioni del decadentismo europeo, di Proust, ma soprattutto di Svevo, maturate attraverso l’esperienza solariana, sono assai evidenti. Nel 1932, intanto, «La Fiera letteraria» organizza una crociera in

Sardegna e bandisce un premio di L. 5.000 al «miglior diario di viaggio». La giuria composta da Grazia Deledda ed altre notevoli autorità assegna il premio ex-aequo a Virgilio Lilli e a Elio Vittorini. Da quel diario sa| rebbe nato Sardegna come un'infanzia.

Nel 1933 Vittorini collabora con l’Ambrosiano di Milano, inizia a

pubblicare su «Solaria» a puntate Il Garofano rosso e pubblica presso Mondadori la sua prima traduzione, Il purosangue di Lawrence. Nel 1934 abbandona l’attività di correttore di bozze a causa di una intossicazione da piombo e si guadagna da vivere solo con le sue traduzioni:

«Una malattia per intossicazione di piombo, seguita da complicanze polmonari, mi costringeva intanto a lasciare la tipografia, ma avevo nelle mani un nuovo mestiere e vissi di traduzioni fino al 1941»(DMV).

Il Garofano rosso, intanto, non piace alle autorità fasciste che sequestrano la rivista «Solaria» sulla quale veniva pubblicato a puntate. Inizia a scrivere Erica e i suoi fratelli, ma lo interrompe per le gravi vicende della guerra di Spagna nel 1936, mentre insieme a Pratolini tenta di raggiungere gli antifascisti che difendevano la «Repubblica» in Spagna. Per un suo articolo col quale invitava coraggiosamente i fascisti spagnoli a ribellarsi a Franco in nome della libertà, viene espulso dal Partito fascista, viene minacciato di confino e perde il posto di giornalista in tutti i quotidiani su cui scriveva. Per vivere deve riprendere a tradurre opere dall’inglese (attività momentaneamente interrotta per via delle vicen-

de spagnole). Intanto nel settembre del 1937 comincia a scrivere Conwersazione in Sicilia il grande romanzo lirico ritenuto unanimemente il suo capolavoro. Nel 1938 raccoglie denaro a favore dei fuoriusciti spagnoli. Ma, per via delle «continue angherie» subite dai fascisti fiorentini si trasferisce a Milano, dove trova lavoro presso la casa editrice Bompiani.

GLI ANNI MILANESI (1938-1966)

A Milano collabora al fianco di Ernesto Treccani a «Corrente».

1.LA VITA - Gli anni milanesi (1938-1966)

69

Nel capoluogo lombardo comincia a frequentare con assiduità cinque amici letterati, fra i quali soprattutto il cognato Quasimodo e Giansiro Ferrata: «...vedo con piacere — scriveva a Silvio Guarnieri — solo Giansiro e

Gadda: abitiamo vicino e la sera spesso facciamo una passeggiata in tre. Qual

che volta vedo Quasimodo; qualche altra volta vedo Sandro Penna, 0 Sergio Solmi. Questi cinque e non altri, tra i letterati milanesi, sono anche creature

umane». Nel 1939 con l’amico Ferrata pubblica presso Mondadori il saggio storico La tragica vicenda di Carlo III (ovvero Sangue a Parma). Ma sono sempre le numerosissime traduzioni che gli danno da vivere. Nel 1941.paibblica a Firenize e a Milano Conversazione in Sicilia e nel 1942 cura per Bompiani la celebre antologia Americana, una raccolta di tutte le sue traduzioni dall’inglese che la censura fascista aveva privato però di tutti i suoi corsivi. Nello stesso anno pubblica Teatro spagnolo, una raccolta di sue traduzioni da testi spagnoli, traduce Nozze di sangue di Garcia Lorca, dirige la collana «Corona» per Bompiani, cura uno studio su Musulmani in Sicilia di Michele Amari, porta a termine una monografia su Renato Guttuso e si reca a Weimar al convegno dell'unione degli scrittori europei. Nel 1943 pubblica per la Sansoni il Teatro di Shakespeare. Intanto era già scoppiata la seconda guerra mondiale. La moglie Rosa Quasimodo era sfollata in Umbria coi figli Giusto e Demetrio. Vittorini rimane a Milano dove prende contatti col partito comunista clandestino e con i partigiani.

Nel giugno del 1943 torna a Siracusa dove prende nuovi contatti col comitato siracusano per la resistenza guidato dal professore Giuseppe Agnello. Prima di allora era tornato solo due volte a Siracusa in seguito a chiamate del Distretto Militare. Per l’attività antifascista condotta al fianco di Pajetta, Ingrao, Di Benedetto ed altri, Vittorini poi viene arrestato dai badogliani il 26 luglio e rinchiuso per tutta l’estate nelle carceri di San Vittore, mentre Milano è devastata dalle bombe: «Ero in casa di Elio Vittorini — ricorda Pietro Ingrao — Avevamo cominciato a scrivere, quando entrarono i Carabinieri. Arrestarono Di Benedetto,

Vittorini e Ferrata, individuati come coloro che avevano affittato l’auto e i microfoni per il comizio di Porta Venezia». In questi tristissimi giorni di prigionia e di massacri gli è vicina, Ginetta Varisco, la donna che in seguito sarebbe divenuta sua seconda

70

A. Madeddu - VITTORINI

moglie. Liberato dopo circa un mese, diventa il capo della stampa clandestina durante tutta la resistenza e dirige il numero unico del «Parti giano».

Legato da grande amicizia ad Eugenio Curiel, partecipa alla fondazio-

ne del Fronte della Gioventù, scrive racconti sulla resistenza, progetta

la creazione di un Fronte di Cultura, organizza lo sciopero di Firenze,

torna a Milano e si rifugia sulle colline del varesotto, dove scrive Uo-

mini e No, capolavoro insuperato della letteratura italiana sulla resisten1a) Già da tempo Vittorini era ricercato dai fascisti. Come ricorda Rosa

Quasimodo nelle sue drammatiche «memorie», Mussolini aveva dato

l’ordine di «sparare a vista a Vittorini»'9. Lo scrittore siciliano ricorderà, in seguito di aver usato solo la penna e il cervello nella sua lotta antifascista, essendosi sempre rifiutato di usare le armi. Ripresa l’attività clandestina a Milano, Vittorini apprende che il suo carissimo amico Eugenio Curiel era stato assassinato. Ma ormai i partigiani avevano vinto. Era la liberazione. Da due anni ormai la famiglia di Elio, a Siracusa, non riceveva sue notizie. In una lettera del 24 giugno 1945 Vittorini rassicura i suoi:

«Immagino che avete saputo da Ugo della mia attività politica, del mio arresto nell'estate del 1943, e della necessità in cui mi sono trovato di fare vita illegale durante l'occupazione tedesca. Aggiungerò che lavoravo per il Partito Comunista già qualche anno prima del 1943, e che quando in giugno venni a trovarvi avevo una missione da svolgere di cui non vi dissi nulla per non procurarvi delle preoccupazioni [...].

Tuttavia, tutti i diciotto mesi dell'occupazione tedesca sono stato sempre bene, grazie a una famiglia di amici che mi ha dato la più affettuosa e cara delle ospitalità. Questa è la famiglia della mia compagna che spero possa presto diventare anche formalmente mia moglie» («Gli anni del Politecnico»). Dopo il 25 aprile dirige per qualche mese la redazione milanese de «L'Unità». Poi passa alla direzione di «Milano sera» e infine fonda (e dirige dal °45 al 47) il celebre «Politecnico», la rivista letteraria più importante nella storia recente della cultura italiana. Sulle pagine della sua rivista Vittorini apre il dibattito sul ruolo della «nuova cultura non più consolatoria» e dà inizio alla clamorosa polemica con Palmiro Togliatti, che lo condusse tre anni dopo all’altrettanto clamoroso abbandono del PCI; vicende, come ricorda Leone Piccioni, con-

dotte sempre con estrema signorilità da quel fine letterato che era Vittorini, specie se confrontate all’assoluta mancanza di stile con la quale lo salutò in tono canzonatorio Togliatti attraverso quel suo famoso quan-

1. LA VITA - Gli anni milanesi (1938-1966)

VA

to rozzo articolo («Vittorini se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato»). Già durante

la Resistenza Vittorini aveva cominciato a frequentare il gruppo di intellettuali cattolici fondato da Davide Maria Turoldo e da Camillo De Piaz presso la libreria «Corsia de’ Servi». Nel 1947, intanto, Vittorini pubblica Il Sempione strizza l'occhio al Frejus. Nel 1948 Mondadori dà alle stampe quel Garofano rosso che la censura fascista aveva stroncato quindici anni prima. Nel 1949 Vittorini pubblica Le donne di Messina, cura per Einaudi l’edizione illustrata del Decameron e dell’Orlando furioso, e comincia a scrivere La Garibaldina. Nello stesso anno si reca a Siracusa e poi per tre volte a Parigi al fine di curare l’edizione in lingua francese di Uomini e No e per stringere amicizia con Claude Roy e Dyonis Moscolo. Quindi partecipa a Wroclaw al primestorigresso mondiale degli intellettuali per la pace. Durante questo congresso, fra la sorpresa generale, Vittorini si urta violentemente con la ufficialità letteraria e culturale sovietica. E sempre nello stesso anno legge a Ginevra la sua celebre relazione «L’artiste doit-il s'engager?», con la quale riprende la vecchia polemica col PCI e rivendica il primato dell’arte sulla politica, l'autonomia della cultura dal giogo degli interessi partitici. Sempre nel 1949 Conversazione in Sicilia esce in Inghilterra con una prefazione di Stephen Spender e in America con una stupenda presentazione di Ernest Hemingway.

Lo scrittore americano, che considerava Vittorini «...uno dei migliori veramente, tra i nuovi scrittori italiani...», nel novembre del ’48 si era pro-

fondamente irritato per le accuse di incoerenza politica che Mario Praz aveva rivolto in un suo articolo a Vittorini, e si era offerto provocatoriamente di fare la prefazione per l’edizione americana di Conversazione

in Sicilia. In una lettera indirizzata all'editore americano Laughlin il 15 dicembre 1948 Vittorini scrive: «Io non voglio insistere con Hemingway per la prefazione. Ha offerto lui, ma non voglio approfittare ed essere indiscreto. Se farà, bene! Se non farà, bene lo stesso, e per me resta un grande amico lo stesso. Voglio la sua amicizia più della prefazione. Gliel’ho anche scritto, e l’ho pregato di non considerarsi legato dalla sua promessa...». Hemingway, però, la promessa la mantenne davvero, contribuendo profondamente alla sempre più crescente fama internazionale dello scrittore siracusano.

Vittorini, intanto, continua a mantenere rapporti con la cultura francese, svizzera, inglese, americana, e intorno al 1950 torna a Siracusa dai

suoi cari insieme ad Alberto Cavallari (poi direttore del «Corriere del-

72

A. Madeddu — VITTORINI

la Sera») e Giovanni Pirelli. Percorre quindi in lungo e in largo la Si-

cilia per curare l’edizione fotografica di Conversazione..., e ritorna a Milano. Nello stesso anno di comune accordo con Rosa Quasimodo divorzia a San Marino per vivere con Ginetta Varisco. Quindi torna a Parigi da Marguerite Duras. Rientrato in Italia ha un vivace scambio di idee con Pratolini sul PCI e con Moravia intorno a Hemingway.

Nel 1951 torna altre due volte a Parigi e in seguito, con un suo articolo sulla «Stampa» («Le vie degli ex comunisti») provoca la suddetta «feroce» risposta di Togliatti su «Rinascita» («Vittorini se n'è ghiuto»). Nello stesso anno inizia a dirigere per Einaudi la collana «I Gettoni».

Nel 1952 inizia a scrivere Le città del mondo (rimasta incompiuta) e torna ancora una volta a Parigi. Nel 1953 si cimenta anche in una esperienza cinematografica: interpreta la parte del Principe di Verona nel film

«Giulietta e Romeo» del regista Renato Castellani. Nel 1954 torna in estate a Siracusa con Ginetta Varisco e con i suoi amici intellettuali francesi. Intanto un gravissimo lutto lo colpisce nel 1955, quando muore giovanissimo per un tumore suo figlio Giusto, promettente uomo di cinema. Nel 1956 pubblica in un volume unico i due romanzi Erica e i suoi fratelli e La Garibaldina. Quindi torna nuovamente a Siracusa con lo scrittore Carlo Bo, con Leone Piccioni ed alcuni amici francesi. Infine

si reca in Jugoslavia dove apprende la notizia dell'occupazione sovietica dell'Ungheria e ne viene profondamente sconvolto. Nel 1957 pubblica Diario in pubblico, rifiuta clamorosamente di pubblicare il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa nei suoi «Gettoni» e scrive sul giornale transalpino «France Observateur» un lungo articolo sui rapporti fra la cultura francese e quella italiana. Nel 1958 raggiunge nuovamente i suoi amici francesi a Parigi. Nel 1959 fonda con Italo Calvino la rivista letteraria «Il Menabò» e quindi torna a Siracusa con Ginetta Varisco, il fratello Ugo, il regista Risi e il produttore Mortara per girare gli esterni de Le città del mondo (ma il film sarà realizzato per la televisione solo nel 1975 dopo la sua morte). La Trattoria «Fratelli Bandiera» e l’Osteria «Pilluccio» alla Graziella di Ortigia, furono quell’estate i ritrovi abituali di Vittorini e dei suoi amicil??),

Nel 1960 Elio Vittorini, intanto, viene eletto alle comunali di Mi-

lano nelle liste del PSI ma si dimette ben presto dichiarando di sentirsi più utile alla collettività come scrittore che come politico. Pubblica la Storia di Guttuso. Nel 1961 esce l’edizione francese di Diario in pubblico. Il suo articolo su «Industria e letteratura» pubblicato sul n. 4 del «Menabò» suscita un vespaio di polemiche. Comincia un nuovo roman-

1. LA VITA - Gli anni milanesi (1938-1966)

73

zo (Il manoscritto di Populonia) che resta incompiuto. Nel 1962 è nominato membro della giuria del «Prix international des èditeurs, Formen-

tor», e dirige per Mondadori la collana «Medusa». Nel 1963 presso il fratello Ugo a Livorno ha il primo attacco della malattia tumorale ed è urgentemente operato a Milano. Nel 1964 dirige per Mondadori la collana «Nuovi scrittori stranieri», porta a termine la seconda redazione de Le donne di Messina e progetta il «Gulliver» la rivista internazionale di respiro europeo redatta in tre lingue (italiano, francese e tedesco). Nel 1965 dirige per Mondado-

ri la collana «Nuovo Politecnico», continua a stringere rapporti con la cultura internazionale, coi letterati americani, francesi, tedeschi, ingle-

si e suscita vimaci polemiche è calorosi consensi coi suoi inquietanti interventi. Le sue opere, intanto, cominciano ad essere tradotte e conosciute in tutto il mondo. Ma un nuovo attacco della malattia lo colpisce in estate. Ormai sente vicina la fine ed esprime l’ultimo desiderio: sposare Ginetta. Appena il giorno dopo il matrimonio Elio Vittorini muore nella sua abitazione di Viale Gorizia 22 a Milano, sul «Naviglio». Aveva 57 anni. Era il 12 febbraio del 1966. Le sue spoglie, dapprima custodite al Monumentale di Milano, furono poi traslate al cimitero di Concorezzo, vicino a Monza, nella Cripta

dei Varisco.

di:

A. Madeddu — VITTORINI

NOTE AL CAPITOLO PRIMO

)

(a

G. Finocchiaro Chimirri, Il sorriso di Aretusa: Elio Vittorini ragazzo siracusano, Ed.

CUECM, 1988, pp. 15-18. L'episodio ènarrato da Massimo Grillo nel libro I Vittorini di Sicilia, Camunia, Milano 1993. Un cenno si trova anche su: O. Garana, I Vescovi di Siracusa, Siracusa

1969, p. 249. S. Vittorini, Purgatorio, vv. 100-108 in «Poemetto a Lucia». J. Vittorini, Mio fratello Elio, Ed. Ombra, Siracusa 1989, p. 11.

S. Vittorini, Emancipazione, vv. 385-386 in «Poemetto a Lucia». Crollalanza, Dizionario blasonico delle famiglie italiane. Antonio Sgandurra (Siracusa 1873 - Genova 1955), detto Ninì, fratello maggiore di Pasquale, si laureò in legge a Catania, andò a lavorare presso lo studio legale di Alceste Cassone a Siracusa, ma nel 1905 si trapiantò a Genova dove svolse una brillante carriera di avvocato, balzando anche agli onori delle cronache nazionali all’inizio degli anni Trenta per aver sostenuto con successo una complessa causa giudiziaria. Fu anche docente di botanica, la sua vera passione, scrisse un originale «Atlante della flora siracusana» che riscosse le ammirate parole di Giovanni Verga, e ricevette persino un invito dall'Università di Munchen a percorrere, per conto della stessa, l'Asia Minore al fine di illustrarne la flora locale. Pubblicò quindi due libri: Avventure di un botanico, ed. Intelisano, Catania 1937, e L’anima delle piante, ed. Apuana, Genova 1941. Scrisse anche un romanzo ambientato a Siracusa, Natale di passione, ed. A.I.E., Genova 1923. Sebastiano Vittorini gli dedicò un articolo in «La Voce di Siracusa» anno II, n. 1, Siracusa 16-1-1955, p. 2.

Pasquale Sgandurra (Siracusa 1882 - Firenze 1956), scultore di gran talento, espresse il meglio di sé nella scultura di argomento religioso. Formatosi alla «Scuola d’Arte» di Siracusa e poi all'Accademia di Firenze, fu docente presso la stessa Accademia delle Belle Arti a Firenze ed assunse un ruolo di primo piano nella vita culturale ed artistica del capoluogo toscano. Suoi capolavori assoluti sono il «Cristo in Croce» ed i «Quattro Evangelisti» della Cattedrale di Montreal in Canada, Paese dove il suo nome è più popolare che in Italia. Ma sono degni di nota anche il Gruppo della «Pietà» nella Chiesa di Santa Croce in Firenze ed il monumento al . «Vescovo Carabelli» nella Cattedrale di Siracusa. J. Vittorini, op. cit., Siracusa 1989, p. 23. L'articolo si legge ora in appendice a «Un modello di decorazione liberty. La Scuola d’arte applicata all’industria di Siracusa negli anni 1883-1914», catalogo a cura di Anna Maria Damigella, De Luca editore, Roma 1983, pp. 90-91.

G. Finocchiaro Chimirri, op. cit., p. 41. F. Trombadori (Siracusa 1886 - Roma 1961), pittore italiano tra i maggiori del Novecento, aderì inizialmente al «Divisionismo», per poi passare dopo gli anni Venti ad una fase «neopurista» ed alla successiva adesione ai movimenti dei «Valori plastici» e del «Novecento italiano», accanto a De Pisis, Morandi, Carrà e De Chirico. Un carteggio epistolare fra Trombadori e Pasquale Sgandurra è tuttora custodito da Jole Vittorini. 13) L. Meilach, Sebastiano Vittorini, padre di Elio, tesi di laurea, Università di Catania,

NOTE AL CAPITOLO PRIMO

15

a. acc. 1986, p. 32.

14) Sebastiano Vittorini (Siracusa 1883 - ivi 1972), padre di Elio, notevole figura di

intellettuale nella Siracusa dell’epoca, pubblicò molti versi ed alcuni importanti saggi. Di grande rilievo la novella verista Turidda, ed. Tamburo, Siracusa 1921; la

raccolta di versi Epicedio, ed. Gazzetta di Siracusa, 1911; il saggio Eschilo, ed. Tam-

buro, Siracusa 1921. Tra i suoi numerosi interventi giornalistici notevoli quelli sulle Rappresentazioni Classiche al Teatro Greco di Siracusa ed il saggio Primo incontro col latifondo in Sicilia, sul «Politecnico» del 15-12-45. Molte sue opere sono tuttora raccolte inedite negli archivi di casa Vittorini a Siracusa. Un elenco completo della sua intensa attività culturale si trova in Lucia Meilach, op. cit., a. acc. 1986 e in Massimo Grillo, op. cit., Camunia, 1993.

15) V. Consolo, Siracusa, patria d’ognuno, in «Siracusa, una città quattro fotografi», Artestudio, Siracusa 1989.

16) M. Grillo,.efi*.cit., p. 65 17 E. Vittorini, Uomini e isole (a cura di P. Raimondi), Mursia, Milano 1974, p. V. 18 TIE J. Vittorini, Vittorini mio fratello, in «Provincia di Siracusa», a. V, n. 2, pp. 48-52 19) G. C. Marino, Partiti e lotta di classe in Sicilia da Orlando a Mussolini, De Donato, Bari 1976. 20) G. Miccichè, Dopoguerra e fascismo in Sicilia, Editori Riuniti, Roma 1976. 2) Maria Giudice nata a Godeville (Pavia) nel 1881 da famiglia di origine siracusana, fu insegnante elementare e poi giornalista. Diresse a Torino «Il grido del popolo», subì arresti e condanne e svolse attività politica a favore dei socialisti in Puglia e in Sicilia, ed in particolare nel Catanese e nel Siracusano. Grande oratrice, contribuì col sindaco Castro a dar vita alla cosiddetta «Repubblica Bolscevica» di Lentini.

22) G. Miccichè, La Sicilia orientale dall’occupazione delle terre al fascismo (1912-22), in «Movimento operaio e socialista», 1970, n. 1, p. 11.

23) «Giornale dell'Isola», Catania 17-5-1921.

24)

G. Miccichè, La Sicilia orientale dall'occupazione delle terre al fascismo (1912-22), in

. «Movimento operaio e socialista», 1970, n. 4, p. 243.

25) Idem, p. 249. 26) Eduardo Di Giovanni (Siracusa 1875 - ivi 1975), eminente uomo politico, socialista, protagonista della storia democratica del Paese. Leader incontrastato dei social riformisti e sindaco di Siracusa, dopo le elezioni politiche del 1924, con l’avvento del fascismo, fu costretto a tornare alla sua professione di avvocato. Nel 1943

assunse l’incarico di Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per la Provincia di Siracusa. Eletto nel ’46 deputato dell'Assemblea Costituente, fu tra i 75 della Commissione nominata per la formazione della Costituzione della Repubblica. Senatore nella prima legislatura repubblicana (1948-53), Sottosegretario di Stato all’Industria e al Commercio (1949-51), membro dell'Assemblea del Consiglio d'Europa di Strasburgo (1951-54).

27) Alfredo Mezio (Solarino 1908 - Roma 1978), scrittore, giornalista e critico d’arte, trapiantatosi a Roma, fu redattore del «Tevere», del «Piccolo» e, dal 1949 al 1961, del «Mondo» di Pannunzio. Nel 1957 pubblicò il volume Tesori d’arte a

Roma, Ed. Grimaldi. Giornalista televisivo, negli anni Sessanta intervistò il poeta Ungaretti per la RAI. La sua scelta di aderire fino in fondo al regime fascista lo allontanò progressivamente dall’amicizia con Elio Vittorini. 28) M. Grillo, op. cit., p. 165. 29) Paolo Rio, giornalista e poeta ha pubblicato: Sgorbi e scarabocchi, Siracusa 1911,

76

A. Madeddu - VITTORINI

Umile vena, Zara 1919, La reazione al secentismo nell’opera satirica di Salvator Rosa,

Siracusa 1923, Pei viali del sogno, Catania 1935. 30) Francesco Caffo, ricordato nel Garofano rosso col nome di «padre Caffaro», curò la pubblicazione del IV volume dell’opera omnia di Tommaso Gargallo, Memorie patrie e prose minori, Siracusa-Firenze 1925. 3) Giovanni Naro scrisse liriche, commedie, novelle, traduzioni da Eschilo e da Euripide ed un incompleto «Dizionario universale della lingua italiana». La sua fama maggiore si deve però ai suoi studi sulla fabbricazione della carta papiro. 32) Gaetano Navarra Crimi, giurista insigne, pubblicò alcuni articoli su «Rivoluzione Liberale», la rivista fondata da Gobetti.

33) G. Cerrito, Anarchismo in Sicilia, in «Volontà», nn. 1-2-3, Napoli, 1-7-55. Salvatore Di Mauro (Priolo 1904 - Siracusa 1946) fondatore e leader del gruppo anarchico «Figli dell'Etna» di Siracusa, negli anni Venti subì diversi fermi di polizia. Poi, abbandonò le sue scelte giovanili ed aderì all'ideologia del Regime. 35) Alfonso Failla (Siracusa 30-7-1906 - Carrara 1986), fu tra i maggiori protagonisti

34)

del movimento anarchico italiano del Novecento. Fece il mestiere di seggiolaio, diresse il locale gruppo «Bakunin» e la Biblioteca «Rapisardi» della Sezione Socialista. Iniziò il quattordicenne Elio Vittorini alla fede anarchica. Perseguitato dalla polizia per il suo acceso antifascismo, nel 1931 fu mandato al confino nell’isola di Ponza per cinque anni. Fu arrestato per atti di insurbodinazione e rinchiuso nel carcere di Poggio Reale a Napoli. Nel ’37 fu trasferito nelle carceri delle isole Tremiti. Scontato il carcere, nel 1939 potè tornare a Siracusa, ma l’anno dopo venne nuovamente mandato al confino nell'isola di Ventotene insieme all’amico anarchico siracusano Francesco Burgio. Al confino di Ventotene ebbe la grande sorpresa di trovarvi le prime rarissime copie di Conversazione in Sicilia dell'amico d’infanzia Elio Vittorini, del quale aveva da tempo perso le tracce. Nel ’43 fu trasferito nel campo di concentramento di Renicci d’Anghiari (Arezzo). Riuscito a fuggire prese parte attiva nella Resistenza, operando in Lombardia, Liguria e Toscana. Alla fine della guerra tornò qualche tempo in Sicilia. Poi si trasferì a Roma e dal 1949 a Carrara. Lì fu tra i protagonisti della riorganizzazione del movimento anarchico italiano, arrivando anche a dirigere a lungo l’organo ufficiale del movi-

mento, la rivista «Umanità Nuova». Riallacciò ben presto l’antica amicizia con Vittorini. Morì lasciandosi dietro uno straordinario alone di leggenda. I suoi scritti sono stati raccolti recentemente da Paolo Finzi ne Insuscettibile di ravvedimento, Ed. La Fiaccola, Ragusa, 1993. 36) M. Grillo, op. cit., p. 176. ST) G. Cerrito, op. cit.

38) Umberto Consiglio (Siracusa 1899 - Bologna 1964), intellettuale di spicco del gruppo «Bakunin» di Siracusa, nel 1926 dovette fuggire dalla Sicilia e rifugiarsi a Parigi. Nel settembre del 1936 si spostò in Spagna, ed in particolare a Barcellona, per combattere al fianco del popolo spagnolo contro il fascismo di Franco. Alla fine della guerra tornò in Francia. Poi, in seguito all'occupazione tedesca, partecipò alla Resistenza, ma, arrestato, fu deportato nei campi di concentramento

di Dakau.

Tornato in libertà alla fine della guerra, potè rimpatriare a Siracusa, collaborando con Alfonso Failla a numerosi giornali anarchici.

39) Francesco Burgio (Siracusa 1902 - ivi ?), marittimo e fabbro meccanico, anarchi-

co del gruppo «Bakunin», rimase a Siracusa collezionando ben otto arresti. Poi nel

1940 fu inviato al confino di Ventotene insieme all'amico Alfonso Failla. Condotto nel campo di concentramento di Ranicci d’Anghiari, riuscì a fuggire e lottò nella

NOTE AL CAPITOLO PRIMO

dol

Resistenza. Alla fine della guerra ritornò nella sua città.

40) Giuseppe Burgio (Siracusa 1897 - Genova ?), fratello di Francesco e, come lui, anarchico, marittimo e fabbro meccanico, subì diversi arresti nella sua città. Poi

nel 1931 fuggì in Tunisia e chiese asilo politico alle autorità francesi. Nel 1933 si trasferì in Francia, a Marsiglia, Parigi ed in altre città. Quindi passò in Spagna per lottare contro il fascismo di Franco insieme ad un gruppo di giovani siracusani, tra i quali Umberto Consiglio, Luciano Miceli (ex compagno di scuola di Vittorini),

Natale Vella, Giuseppe Politi. Di lui Failla ha raccontato la grande commozione che lo prese quando, alla fine della sua vita in un ospedale di Genova, seppe che l’amico dell'adolescenza, Elio Vittorini, era diventato un grande scrittore ed ave-

va innalzato nelle sue pagine uno dei maggiori monumenti all’antifascismo. M. Grillo, op.cit., p. 182. E. Vittorini, Lettera al fratello Ugo, in «Gli anni del Politecnico», Livorno, 1951,

pp. 383-384. N M. Grillo, efi*cit., p. 183. Renzo Novatore, pseudonimo di Renzo Ferrari, anarchico individualista ucciso in

un conflitto a fuoco con i Carabinieri nel novembre del 1922. La poesia «Cuore e ragione» di Sebastiano Vittorini è stata ritrovata e pubblicata da M. Grillo, op. cit., p. 216. L'originale è presso Jole Vittorini a Siracusa. S. Di Mauro, Appendice a Verso il nulla creatore, in Massimo Grillo, op.cit., pp. 228-229. Dominique Fernandez, Il romanzo italiano e la crisi della coscienza moderna, Milano, Lerici 1960. Max Stirner, L'Unico e la sua proprietà, Lipsia 1845, in «Gli anarchici», a cura di Gian Maria Bravo, vol. I, UTET, Torino 1971. J. Vittorini, op. cit. J. Vittorini, op. cit., Siracusa 1989.

31) Giuseppe Agnello (Canicattini Bagni 1888 - Siracusa 1976) archeologo e storico dell’arte, fu professore di archeologia cristiana nell'Università di Catania. Intellettuale antifascista e perseguitato dal Regime fu la voce ufficiale del dissenso e poi -l’animatore principe della cultura siracusana del dopoguerra. Tra i suoi capolavori il saggio L'Architettura sveva in Sicilia, 1935. «La sua opera in ogni campo fu sempre ispirata ad un cattolicesimo senza riserve» (Dizionario Biografico degli Italia ni dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani).

54) E. Falqui, Elio Vittorini, in «La Fiera letteraria», 12-6-1927. 53) Giansiro Ferrata, Parigi, Firenze, la divaricazione, in «Paragone» ottobre 1965, n. 188, a. XVI.

54)

Giovanni Calendoli (Siracusa 1911), critico teatrale e cinematografico tra i mag-

giori del nostro Paese, dopo aver frequentato il gruppo di Elio Vittorini a Siracusa, aderendo al movimento culturale del futurismo, si è trasferito

a Roma dove si

è laureato in Legge. Docente di Diritto Pubblico presso l’Università di Perugia, ha poi esordito nel campo della critica cinematografica e teatrale, curando una rubrica della «Fiera Letteraria» e dirigendo la rivista «Scenario». Ha scritto testi di teatro tra cui Incontro col destino, Zona grigia e Indiziato. Ha diretto il Piccolo di Pa-

lermo ed ha scritto diversi saggi critici: «L'attore. Storia di un’arte», «Il film come metamorfosi», «Luigi Pirandello», «Materiali per una storia del cinema italiano», «La suggestione del grottesco», «Il teatro di Rosso di San Secondo», «Il teatro di Filippo Tommaso Marinetti. Docente di Storia della Scenografia nel Centro Sperimentale di Cinematografia, ha poi fondato e diretto l’Istituto di Storia del Tea-

18

A. Madeddu — VITTORINI

tro e dello Spettacolo presso l’Università di Padova. Oggi è in pensione e vive a Roma.

55) M. Grillo, op. cit., p. 276. 56) Idem, p. 279-280.

57) 58) 59) 60) 61) 62) 63)

64)

E. Falqui, op.cit. J. Vittorini, op. cit., Siracusa, 1989, pp. 44-45. E. Vittorini, Undici lettere a Curzio Malaparte, p. 78. Idem, p. 78. R. Bilenchi, Vittorini a Firenze, in «Il Ponte», luglio/agosto 1973. G. Finzi, Invito alla lettura di Quasimodo, Ed. Mursia, 1976, p. 27. S. Quasimodo, Nell'antica luce delle maree, in «Oboe sommerso». R. Quasimodo, Tra Quasimodo e Vittorini, Ed. Lunarionuovo, 1984, pp. 37-40.

65) Idem, pp. 41-42. 66) Idem, p. 73.

67)

A. Madeddu, La peste del sonno, Edizioni dell’Ariete, Siracusa 1993.

68) A. Madeddu, E. Vittorini: un intellettuale inquietante del nostro secolo, in «Provincia di Siracusa», n. 2, 1986.

69) T. Callari, La Fontanina di Angelo Maltese, in «Provincia di Siracusa», n. 1, 1985. 70) A. Mezio, Corsivo su Vittorini, in «L’Azzurro», n. 2, Siracusa 3-2-1929. 11) E. Vittorini Lo scultore Sgandurra, in «L'Italia Letteraria», 24-11-1929. Nell’arti(94) 73)

74) (5) 76)

77)

colo, che il ventunenne Vittorini invia da Siracusa alla sede milanese del giornale, si sofferma sull’opera dello zio scultore. R. Quasimodo, op. cit., p. 45. Idem, pp. 88-89. Idem, pp. 45-49. G. Ferrata, nota introduttiva a Il Garofano rosso, Mondadori, Milano 1976, pp. 8-9. R. Quasimodo, op.cit., p. 56. Testimonianza resa all’autore da Jole Vittorini.

* «dn?

Za LE OPERE GLI ANNI DELL’APPRENDISTATO «Il brigantino del Papa» e... dintorni (1926-1928)

«Preistoria» vittoriniana potrebbe definirsi a buon diritto l'esordio letterario di Vittorini. Fino a qualche anno fa, infatti, molto poco si sapeva della sua primogenitura, anche con la complicità dello stesso autore, che ha fatto di tutto per occultare questi esordi, quasi «imbrogliando le carte» e accentuando gli aspetti leggendari della sua avventura intellettuale: l’importanza data alla sua prima lettura del Robinson all’ombra dei canneti di Sicilia, o delle Mille e una notte lette «in una Terra-

nova, una Siracusa...», o ancora la costruzione di un ponte «...che fece epoca in me», e così via.

Ma di certo Vittorini non nacque direttamente «adulto» al grande pubblico. Anche lui dovette conoscere il suo periodo di apprendistato durante il quale educò i suoi gusti e il suo stile fino alla svolta letteraria rappresentata da «Scarico di coscienza». Il primo Vittorini, pubblicato nel 1973 da Anna Panicali®, ha avuto il merito di smitizzare, per la prima volta, questi leggendari inizi vittoriniani, per riportarli sul terreno reale dei testi. E la lettura dei primi in-

terventi di Vittorini, per lo più di carattere politico, apparsi nel 1927 sotto il titolo de Il Sermone dell’ordinarietà sulla rivista «La Conquista dello Stato» di Curzio Malaparte, delinea chiaramente i suoi inizi malapartiani da un lato e rondeschi dall’altro. Decisamente malapartiani e «strapaesani» sono le tematiche dei suoi primi articoli, che rivelano la trasformazione reazionaria e fascisteggiante del suo primitivo fervore politico in senso anarchico conosciuto nella natìa Siracusa. Sono scritti che

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A. Madeddu —VITTORINI

esaltano la natura provinciale dell’italiano, l’uomo «ordinario», l’italiano del popolo non corrotto dalle mollezze decadenti in aperto contrasto con le innaturali (almeno per il primo Vittorini) tendenze europeistiche «stracittadine». Assolutamente improntata alla lezione purista e virtuosistica de «La Ronda» di Bacchelli e Cardarelli appare, invece, il manierismo elegante ed accademico della sua prima prosa così pregna degli echi delle letture classiche (che, sebbene da autodidatta, non gli mancarono mai negli anni trascorsi a Siracusa). Il più celebre tra i primi racconti di Vittorini, il Ritratto di Re Giampiero scritto proprio a Siracusa e pubblicato nel giugno del 1927 sulla «Fiera letteraria», sembra rappresentare la trasposizione letteraria dei temi cari a «Strapaese». Fino ad allora il prototipo tradizionale del letterato era coinciso perlopiù con la figura dell’intellettuale agiato privo di impellenti necessità economiche e del tutto libero di dedicarsi con diletto all’attività letteraria. Vittorini stava proprio agli antipodi di quel modello. Autodidatta, proveniente dal ceto piccolo-borghese, iniziò a scrivere ...per vivere. E probabilmente hanno ragione i critici quando affermano che quel prolifico Vittorini diciottenne che andava riempiendo dei suoi articoli i maggiori giornali del regime stava lontano un miglio dal grande autore di Conversazione..., perché quegli scritti furono dettati solo dall’esigenza di sbarcare il lunario. E tuttavia, furono scritti importanti nella sua

formazione, nella misura in cui servirono proprio a prenderne le distanze, a «scaricare» la sua coscienza ed a maturare i suoi nuovi percorsi letterari.

Ma un contributo decisivo alla conoscenza della «preistoria» vittoriniana è stato apportato da Sergio Pautasso, che nel 1985 ha curato per

i tipi della Rizzoli l'edizione del primo vero romanzo di Vittorini, quel Brigantino del Papa, rimasto manoscritto inedito per 57 anni, che lo scrittore siciliano ha fatto di tutto per dimenticare e ...far dimenticare‘. Gli influssi rondeschi nel romanzo di Vittorini (Bacchelli e Baldini)

sono assai evidenti, così come, in egual misura sono molto chiare le suggestioni strapaesane nel carattere un po’ guascone dei personaggi e nel linguaggio «selvaggio» del suo libro. Vittorini, appena sposato ed oppresso da impellenti necessità economiche, inviò il Brigantino... a Falqui nel febbraio del 1928, affinché lo

facesse leggere a Malaparte.

«Dammi notizie della faccia che farà Malaparte, e spiattellami tutta la malaventura, se ve n'è, senza ritegno o pietà. Se il “Brigantino” fa cilecca, sono un uomo morto. Se il “Brigantino” si arrangia mi metto a scrivere un libro di 500 pagine in due volumi, di cui ho la trama in testa, e mi punge»9).

2. LE OPERE — Gli anni dell’apprendistato

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Il Brigantino... fece cilecca. E fu la sua fortuna! E lo stesso Vittorini che, più tardi, ci racconta l’inizio del suo distacco

da Malaparte: «...Era il 1927. Mandai un raccontino a un giornale che me lo pubblicò. Direttore del giornale era lo scrittore Malaparte col quale entrai in corri spondenza e che mi incoraggiò a continuare. Scrissi fino al 1929 su giornali diretti da lui. Ma la tendenza letteraria cosidetta barbara o strapaesana che lui sosteneva e che lo faceva passare agli occhi dei superficiali per un ultrafascista mi riusciva angusta...» (DMV). Nel 1929, nella nota al terzo capitolo dell’ultimo rifacimento del libro, Vittorini confessa di avere una «natura, che è del tutto introspettiva»,

e quindi assat*distante dal carattere guasconesco del protagonista del Brigantino, Sebastian Fregoso, e molto vicina invece alla natura esistenziale dei personaggi di Proust e Svevo, alla cui lezione sembra avvicinarsi sempre di più. E nello stesso tempo, lo scrittore cerca di giustificarsi, spiegando le sue effimere simpatie strapaesane con le antiche radici della sua prima educazione letteraria fatta delle letture classiche dei poeti burleschi e realisti. «Sono passati appena due anni — scrive Pautasso — dalla prima stesura, e già Vittorini vede il Brigantino come un testo che non gli appartiene più. Ma sono anni importanti. Vittorini sembra aver fatto in questo periodo un bagno purificatore che lo libera dalle scorie più ingombranti del carattere “selvaggio” e di “strapaese”, dagli eccessi di xenofobia, e lo consegna mondo a “Solaria”. Lo “scarico di coscienza” è avvenuto». Eppure — continua Pautasso — questo primo romanzo di Vittorini si ri-

vela più significativo di quanto si possa immaginare perché costituisce il vero terreno di scontro fra il primo Vittorini malapartiano e strapaesano e il Vittorini successivo di “Scarico di coscienza” e di “Solaria”. Un terreno, tra l’altro, che è letterario e non politico, come spesso si è invece sottolineato basan-

dosi soltanto sulla conoscenza della sua attività pubblicistica. Vittorini ha lasciato un disegno preciso della sua opera, in base al quale la produzione narrativa giovanile confluisce in “Piccola Borghesia” e sul piano critico inizia con “Scarico di coscienza”. [...] “Il Brigantino del Papa”, pur con tutto il suo carattere di esercizio giovanile, anzi, proprio per questo, colma un vuoto altrimenti inesplicabile nella storia di Vittorini, ci fa capire la portata di quello scritto capitale che è “Scarico di Coscienza” non solo in rapporto alla situazione culturale di quel momento ma, soprattutto, al suo lavoro di scrittore allora in fieri».

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A. Madeddu -VITTORINI LA SVOLTA Da «Scarico di coscienza» a «Piccola borghesia» (1929-1931)

Si è già detto dell'importante ruolo svolto, nella formazione del giovane Vittorini, dagli ambienti culturali siracusani del suo tempo, ed in particolare dalle amicizie con Alfredo Mezio, Alfonso Failla, Totò Di

Mauro e, soprattutto, con Giovanni Calendoli, che già dal 1925, reduce dai suoi soggiorni parigini, portava a Vittorini le riviste della «Nouvelle Revue Francaise» ed i testi (ancora inediti ‘in Italia) di Proust e dei grandi narratori europei. L’influsso proustiano segnò una piccola rivoluzione formativa ed espressiva in Vittorini, che nell'ottobre del 1929 portò a termine a Siracusa la prima grande sintesi delle sue nuove posizioni non solo ideologiche, quanto e soprattutto critico-letterarie, prendendo le distanze da Malaparte ed aprendosi alle nuove tendenze europeistiche. «Mi pareva che la letteratura italiana non potesse vivere isolata dalle grandi correnti letterarie europee e un giorno del 1929 pubblicai sul settimanale “L'Italia letteraria” un articolo in cui accusavo di provincialismo la cultura italiana e sostenevo la necessità di scrivere in senso europeo» (DMV).

Quell’articolo di cui parla Vittorini era, appunto, Scarico di coscienza, la piccola opera capitale che segnò la svolta del giovane Vittorini e che non mancò di suscitare vivacissime reazioni negli ambienti culturali del Paese, conferendo una notorietà nazionale all’allora ventunenne scrittore siracusano. In questo storico scritto Vittorini nega coraggiosamente la funzione

di maestri attuali che la critica della vecchia guardia aveva attribuito a Carducci, a Pascoli, a Croce e ai vociani. Definisce il futurismo «infe-

riore e mediocre già dalla nascita, forse del tutto privo d'intelligenza, certo di validità intellettuale». Considera Verga con simpatia, giudicando però troppo «lontani, diversi» dai suoi i motivi cari alle nuove generazioni. Reputa, invece, un valido «fondamento della lingua, del gusto e dell’intelligenza: l’Ottocento di Leopardi e di Stendhal», dentro una «grande tradizione europea», rimasta purtroppo estranea nell'epoca contemporanea alla cultura italiaoi

«...Ci siamo sorpresi [...] nella più stretta parentela con Proust, con Gide, col pensiero europeo. E inutile tacerlo o dissimularlo. Proust è il nostro maestro più genuino. [...] E non siamo proustiani come non siamo rondeschi. Non siamo nemmeno gidiani; non siamo né scolari di Joyce, né accoliti della

2LE OPERE =La svolta

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N.R.F. Laura che respiriamo è di scambio e di rispondenze. Contemporanea mente lEuropa e Leopardi sono serviti alla nostra educazione letteraria»(SC).

Quindi Vittorini indica come buon esempio nella letteratura italiana contemporanea Svevo e i solariani, pur riconoscendo il suo vecchio debito verso «La Ronda». E conclude con la netta convinzione di aver dato voce non solo ai suoi pensieri, ma a quelli di un’intera nuova gio-

vanissima generazione di scrittori italiani: «E questo, ritengo, come da me, poteva esser detto da chiunque oggi abbia nome in lista fra i giovani o i giovanissimi scrittori italiani di prosa e poesia» (SC).

4 ABS

PE

I riflessi di questo radicale mutamento di gusto appaiono subito nel suo primo lavoro narrativo successivo allo Scarico..., il romanzo incompiuto Il ballo dei Lagrange, che Vittorini comincia a scrivere a Siracusa e che pubblica su riviste e giornali tra l'ottobre del 1929 ed il marzo del 1930. Il racconto si distanzia parecchio dai precedenti (Il ritratto di Re Giampiero e Il Brigantino del Papa). Le vecchie affinità strapaesane sono del tutto abbandonate, mentre assai evidenti sono le suggestioni proustiane. E il preludio a Piccola Borghesia. Dalla fine di dicembre del 1929 Vittorini è a Firenze e frequenta il circolo di «Solaria». Ed è a Firenze che pubblica Piccola Borghesia nel 1931. I tratti caratteristici dell'atmosfera europeizzante di «Solaria» vi sono evidentissimi: la mancanza di ogni volontà di avvincere il lettore con l’aspetto esteriore delle vicende, la continua ricerca dell’introspezione psicologica, la scelta di personaggi piccolo borghesi colti in un momento «qualsiasi» della loro esistenza. Sono racconti dove, come nella migliore tradizione proustiana, ...«non succede niente», e tutta l’attenzione del lettore è rivolta alle sensazioni, ai sentimenti, alle impressioni, al lento fluire della coscienza, resi con la tecnica del rallentamento

ed attraverso un linguaggio ricchissimo di immagini e di metafore. Modulazioni attraenti, tra l'umorismo e la comicità vengono rese con vera maestria da Vittorini nella satira del mondo burocratico della cosiddetta «trilogia di Adolfo», i tre racconti aventi per protagonista l’impiegato piccolo borghese Adolfo Marsanich e per sfondo gli ambienti di un ufficio della Prefettura e del suo microcosmo provinciale. Racconti che, seppur riferiti alla città di Gorizia, sembrano celare la trasposizione letteraria delle esperienze quotidiane maturate da Vittorini durante il suo impiego alla Prefettura di Siracusa nel 1929, mettendo in risalto

il contrasto tra l’umoroso pathos di Adolfo e la piatta realtà della vita

d'ufficio.

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A. Madeddu -VITTORINI

Ma il capolavoro della raccolta è il racconto, in parte autobiografico, La mia guerra, una sorta di rievocazione della grande guerra rivisita ta nell’avventurosa prospettiva in cui era apparsa agli occhi di un bambino di sette anni, quanti ne aveva Vittorini al momento del primo grande evento bellico. Un bambino, una generazione, ai quali la guerra era tragicamente giunta come una... fantastica avventura:

«Avevo perduto la coscienza di essere un ragazzo... Mi sentivo una guerra io stesso, qualcosa come una pianta di ortiche o una nuvola di cannone.[...]

— Che cos'è una cannonata? — mi chiedevo. E mi pareva dovesse balzarne fuori un cavallo, dopo lo scoppio, un cavallo nero e senza testa come quello dell’altra mia infanzia di Siracusa...»(PB). Rispetto alla precedente produzione narrativa Piccola Borghesia è un’opera del tutto nuova nella sua capacità di mettere a frutto le più recenti esperienze narrative europee. La tendenza alla trasfigurazione mi-

tica, a quella ricerca di una scrittura lirica, allegorica presente in Conversazione... trae le sue più lontane origini proprio nello sforzo di trasformazione della realtà operato nella scrittura barocca e fantastica di Piccola Borghesia. Tuttavia, nei confronti dei successivi lavori narrativi, Piccola Borghesia

resta comunque un’opera isolata nell'universo vittoriniano. Lo scrittore, infatti, avrebbe ben presto abbandonato il terreno dell’analisi psico-

logica per affrontare i problemi della storia. L'anno dopo Vittorini avrebbe scritto Sardegna come un'infanzia, e quindi Il Garofano rosso ed Erica e i suoi fratelli, allontanandosi progressivamente dai temi e dai gusti di Piccola Borghesia. Ma sarebbe stato solo il dramma della guerra di Spagna, l’intimo travaglio dell’intellettuale davanti al mondo offeso ed in ultima analisi la scoperta di un radicale e profondo antifascismo a provocare in Vittorini la sua maturazione di uomo e di scrittore. Ed il risultato sarà altissimo...: Conversazione in Sicilia!

«SARDEGNA COME UN'INFANZIA»

(1932)

Sardegna come un'infanzia nacque come «diario di viaggio» di una crociera in terra sarda organizzata da «La Fiera Letteraria» nel 1932. L’opera fu pubblicata con l’originario titolo di Viaggio in Sardegna solo nel 1936 (il titolo definitivo risale alla redazione del 1952), insieme alla prosa lirica Nei Morlacchi (esperimento poetico minore, tra rondismo, surrealismo ed ermetismo).

2. LE OPERE - Sardegna come un'infanzia (1932)

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In questo libro-diario, nel quale gli influssi gidiani delle «Nourritures terrestres» sono abbastanza evidenti, paesaggi, uomini, percorsi si fon-

dono in un'immagine globale di mondo-isola, primitivamente felice e selvaggio, lontano, evocato tra sogno e realtà, proprio come l’infanzia ‘ perduta di ogni uomo: «E io capisco questo: che Sardegna per me è finita, non l’avrò più mai, che è passata per sempre nel tempo della mia esistenza»(SCI). I miti dell’«infanzia», col suo fascino arcaico e naturale, e del «viag-

gio», inteso come tramite per il recupero di una dimensione umana, miti così cari alla narrativa vitteriniana, appaiono per la prima volta in questo suo lavorasE con essi quei suoi stupori dinanzi al mondo ed alle sue avventurose scoperte, non disgiunti da quella tendenza alla trasfigurazione lirica ed allegorica di Conversazione.... Ma rispetto a quest’ultima, esito maturo e cristallino del suo incontro con la storia, con la «Ragio-

ne antifascista», Sardegna come un’infanzia rimane al di fuori... della «storia», resta relegata negli ambiti della ricerca di un nuovo percorso stilistico fine a se stesso o, per meglio dire, alla «Ragione letteraria». Inoltre, personaggi e paesaggi della Sardegna tendono anch/essi a farsi miti, ma sono portatori di ideali esteriori di vita naturale e primitiva,

senza riuscire a diventare qualcos'altro. Qualcosa di più... Di più ricco e di più profondo, come accadde per Conversazione... L'andamento altalenante tra la cronaca-giornalistica e le generalizza

zioni speculative, tra la realtà e il mito finiscono col rendere poco convincente il libro, specie sul piano storico e sociologico. Tuttavia, l’opera rappresenta un passaggio importante nella maturazione dell’autore ed una tappa fondamentale verso le scelte stilistiche di Conversazione...

«IL GAROFANO ROSSO» (1933-35)

Il Garofano rosso fu scritto fra il 1933 e il 1935 a Firenze. Romanzo di chiaro sapore naturalistico, Il Garofano..., insieme ad Erica ed i suoi

fratelli (1936) rappresentò dal punto di vista stilistico una pausa in quell’iter narrativo che da Sardegna come un'infanzia stava portando Vittorini al lirismo di Conversazione... Il libro, riconducibile ai dettami del

«roman d’aventure» di Rivière, secondo il quale «l'avventura è la forma dell’opera piuttosto che la sua materia», finì col non piacere allo stesso Vittorini. Lo squilibrio tra l'intenzione romanzesca e la naturale disposizione lirica del linguaggio di Vittorini segna probabilmente il limite del Garofano... e svela chiaramente le difficoltà appalesate dallo scrittore

u - VITTORINI A. Madedd

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negli approcci coi romanzi,

o comunque coi libri non brevi. I meriti in-

discutibili del Garofano rosso stanno, dunque, altrove. E soprattutto nel suo valore documentario. Vediamo di capirne meglio il perché.

Il romanzo fu pubblicato a puntate sulla rivista «Solaria» dal ’33 al

°36, ma Vittorini ebbe subito noie con la censura fascista fiorentina, che

alterò molte pagine del libro. Il «supplizio» durò fino al '36 quando Solaria fu ritirata in seguito alla comparsa della sesta puntata. «Fu = scrisse il Ferrata — uno tra gli episodi allora più noti nelle pubbliche relazioni fascismo-letteratura»‘9. Vittorini fu costretto a modificare diverse parti del suo scritto prima di inviarlo a Mondadori. Tuttavia il competente ministero, dopo aver esaminato il lavoro, tenendolo in sospeso dal ’36 al ’38 decise, infine per il no. Il dattiloscritto, rimasto negli archivi della Mondadori per più di dieci anni, sopravvisse agli incendi e alle devastazioni della guerra e nel 1948 la casa editrice milanese ne propose a Vittorini la pubblicazione. Lo scrittore siciliano fu inizialmente contrario all’idea di Mondadori, almeno per due motivi. Innanzitutto perché non lo interessava più questo libro che considerava «malato» anche per via dei soffocanti tagli cui fu sottoposto dalla censura (l’originale era stato perduto e Vittorini non si sentiva di riscrivere il romanzo al di fuori del contesto storico in cui era nato). E in secondo luogo perché dopo tredici anni non lo riteneva più «suo» 0 quanto meno attuale, poiché aveva ormai maturato una sua con-

cezione «lirica» della narrativa (aveva già scritto Conwersazione... e Il Sempione...) ormai lontana dai canoni di quel «romanzo naturalistico» che era stato Il Garofano rosso. Vittorini però in seguito si decise a farlo pubblicare, perché nonostante tutto rimaneva pur sempre un valido documento di quegli anni difficili. «...È come se fosse stato scritto impersonalmente da tutti coloro che hanno avuto 0 conosciuto 0 comunque sfiorato la mia stessa esperienza — scriveva nella prefazione del ’48 Vittorini —, vale a dire è un documento, e io farei maggior violenza a non lasciarlo pubblicare di quanto Mondadori non sembri ne faccia a me col suo diritto contrattuale di pubblicarlo» (PGR).

Il garofano rosso è dunque un romanzo di chiaro sapore naturalistico.

«Non si può immaginare che cosa sarebbe diventato il romanzo senza gli interventi del funzionario fiorentino e le loro ripercussioni nello scrittore. Nonostante i pregi del “Garofano rosso” anche nel più stretto senso letterario, credo sia giusto andargli incontro come ad un’opera che non è maturata per intero» !?.

2. LE OPERE- Il Garofano rosso (1933-35)

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Il romanzo è ambientato nella Siracusa degli anni Venti, città facilmente riconoscibile nel libro, ma mai nominata. Il protagonista Alessio Mainardi è un giovane sedicenne rappresentante della borghesia siciliana e la vicenda è una sorta di educazione sentimentale e politica del protagonista.

Per chi conosce Siracusa, non è tanto difficile intravedere nei luo-

ghi descritti sulle pagine del Garofano Rosso gli ambienti reali della città. Ma altrettanto reali sono molti personaggi e molte vicende narrate nel romanzo:

la vicenda tormentata dell’adolescenza di «Alessio», del-

la sua amicizia col violento e cinico «Tarquinio», dei suoi amori con la bellissima «Giovanna» e in seguito con la misteriosa e affascinante «Zobeida» (per upa.lettura dietro-le quinte del Garofano... si rimanda al capitolo precedente). Il conteso garofano rosso, dono di una studentessa liceale, è il pretesto per un dibattito che si scatena fra un gruppo di giovani «furiosamente vitali». Erano i tempi del delitto Matteotti, ed allora persino un garofano rosso portato innocentemente all’occhiello per pegno d’amore, poteva venire interpretato come simbolo eversivo.

Alessio incarna il giovane squadrista fascista che interpreta il fascismo come movimento rivoluzionario (un po’ come gli eversivi piccoloborghesi dai quali appunto il fascismo era nato): «...Tutta questa gazzarra, in cui i comunisti massoni e liberali si ritrova-

no unanimi sotto un vessillo da Esercito della Salvezza, rivela la mentalità piccolo-borghese e niente affatto rivoluzionaria dei vecchi partiti italiani. E per il fascismo è un bene, ve lo dico io. Il fascismo, che credevate reazionario,

ne uscirà rivoluzionario davvero e antiborghese...»(GR). C'era nei ragazzi di allora un senso di inquietudine e di ribellione, un disorientamento storico che li portava a simpatizzare con qualunque movimento rivoluzionario. Essi, spiegava in seguito Vittorini, avevano sentito parlare di socialismo, avevano sentito parlare di comunismo, e

intanto vedevano il fascismo. E così finivano con l’essere disposti al socialismo e al fascismo nello stesso tempo. Fu proprio l’ambivalenza del loro animo, secondo lo scrittore siciliano, che favorì l’affermazione ita-

liana del fascismo. Da qui la grande utilità del libro come opera corale e soprattutto come documento di quell'epoca e di quella disorientata generazione. Il romanzo, quindi, pur non piacendo allo stesso Vittorini, divenne uno dei

capolavori della letteratura italiana contemporanea. Fortini lo definì «una delle poche autentiche narrazioni degli anni Trenta»®. Schivazappa per la RAI ne trasse uno sceneggiato televisivo nel 1978,

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A. Madeddu- VITTORINI

e il regista Luigi Faccini due anni prima ne ricavò un film, interamente girato a Siracusa.

Di questo romanzo Gianna Manzini (che si disse grata a llictonidi per aver fatto «ritrovare un po’ del nostro tempo perduto») scrisse: «Hailfascino dei libri della prima giovinezza, quando il talento èuna specie di follia, e vivere è come viaggiare in incognito con se stessi».

«CONVERSAZIONE IN SICILIA» (1941)

Quando Vittorini negli anni 1937-38 scrisse Conversazione in Sicilia (pubblicata prima a puntate su «Letteratura» e poi in volume nel ’41) non era ancora trentenne. Le condizioni storiche erano mutate: il bambino siciliano de La mia guerra era cresciuto. Era diventato l’Alessio del Garofano... Quell’Alessio che si era illuso coi suoi ideali rivoluzionari antiborghesi ed ora era maturato, era diventato «Silvestro», il protagonista di Conwersazione..., aveva scoperto la vera maschera del regime, aveva assistito impotente al sangue e ai massacri della guerra di Spagna alimentata anche dagli aiuti fascisti e nazisti. Un senso di imminente tragedia incombe come una nube cupa sull’Europa (siamo alle soglie della guerra). Il tono allora diventa più grave, più solenne. In questo clima nasce Conversazione in Sicilia, che buona parte della critica considera oggi uno dei massimi capolavori della letteratura europea del Novecento. Conwersazione in Sicilia fu stampato a Firenze nel 1941 (solo 350 copie) e, ben presto esaurito, fu ristampato altre tre volte a Milano fra il 1941 e il 1942. Il libro ebbe un successo inaspettato e preoccupante per le autorità. Quando poi un quotidiano belga lo recensì definendolo «un grande romanzo antifascista», la censura fascista che in un primo momento aveva sottovalutato le enormi potenzialità di questo sibillino ed enigmatico romanzo, lo sequestrò. Da allora Conversazione in Sicilia fu stampa-

to clandestinamente in Svizzera in lingua francese e tedesca. «Il suo libro — scrisse Falaschi del romanzo di Vittorini — è sempre apparso difficile e oscuro, tanto che non è mai stato molto letto pur essendo uno dei migliori del nostro Novecento; si può anzi dire che manca nel bagaglio della cultura media italiana, e anche in quello di molti laureati»9.

Perché questo linguaggio oscuro, difficile, ora fra l’evangelico e il profetico, ora fra l’allegorico e il lirico? Innanzitutto c'è un motivo di ordine pratico-politico: la necessità, da

parte di Vittorini, di farsi capire senza dichiarare troppo esplicitamente

2.LE OPERE - Conversazione in Sicilia (1941)

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il suo pensiero per sfuggire alla censura fascista, una sorta di messaggio in codice. Inoltre c'è anche un motivo di ordine letterario: l'adesione ad un linguaggio ermetico, anche per gli influssi degli scrittori americani, in contrapposizione a quello retorico e altisonante del regime. Infine c’è un terzo motivo, che in seguito diventerà il caposaldo della sua nuova concezione della narrativa e che tanto avrebbe influito sulla letteratura italiana contemporanea: l’analogia narrativa-melodramma. Di cosa si tratta? Vittorini stesso in seguito ebbe a raccontare che as-

sistendo alla «Traviata» di Verdi si accorse che la musica nel melodramma aveva la funzione di elevare le cose che vengono dette a verità universali. Ebbene, secondo lo scrittore siciliano nella narrativa bisognava sperimentare un; linguaggio, che elevasse le cose dette a verità univer-

sali, proprio come accadeva per la musica con il melodramma: «E in ogni uomo - scriveva Vittorini — di attendersi che forse la parola, una parola, possa trasformare lasostanza di una cosa. È nello scrittore di crederlo con assiduità e fermezza. E ormai nel nostro mestiere, nel nostro compito. E fede in una magia: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; 0 che un avverbio possa superare il segreto che si è sottratto ad ogni indagine». Il compito proprio di un linguaggio poetico è, dunque, quello ...«di conoscere e di lavorare per conoscere quanto, della verità non si arriva a conoscere col linguaggio dei concetti» (PGR). Così nacque il suo originalissimo linguaggio di Conwersazione in Sicilia, uno degli esiti più vivi e imprevedibili della nostra letteratura. I personaggi di Conversazione... non hanno cognomi anagrafici, ma

sono realtà universali, categorie dell’essere umano: i due sbirri «Coi Baffi» e «Senza Baffi», il «Gran Lombardo», «l’uomo delle arance», «il vec-

chio dalla voce di fuscello secco». E la sua Sicilia è solo per caso «Sicilia», perché è il «mondo intero», è la trasfigurazione lirica, esistenziale

del dolore del «genere umano offeso». I fatti contingenti descritti nel romanzo diventano verità universali, cosmiche.

Il libro si apre con un inizio che è divenuto ormai celebre: «Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori, astratti, non eroici, non

vivi; furori in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un'ora, due ore, e stavo con loro senza dire una

parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi

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entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in ‘ me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. [...] Ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe» (CS). Alcuni anni dopo Geno Pampaloni commentò questo magistrale «inizio» con parole memorabili: I «Come suonò in Italia, questa pagina! E difficile rileggerla anche oggi senza commozione e senza gratitudine. Forse nessuno scrittore italiano, dopo il Foscolo, aveva interpretato con tanta eloquenza la coscienza inquieta dei propri

contemporanei »(!1). Il romanzo, dunque, nasce nei giorni della guerra di Spagna. Dal luglio del ’36 le notizie provenienti da Madrid, da Barcellona, dall’Andalusia riempiono le pagine dei giornali del Nord e sono pagine «squillanti» di massacri, di distruzioni. «Alla Germania nazista e militarista, all'Italia bellicosa e fascista, all’ Eu-

ropa immobile e ottimista in attesa della nuova guerra, in un'atmosfera allucinata di lotte, di vittorie e di conquiste, Vittorini oppone un’oscura, remota, silenziosa Sicilia»). Il protagonista Silvestro (ovvero Vittorini) in preda ad «astratti furori per il genere umano perduto», svuotato dalla gioia di vivere in una Milano dove «giornali squillanti» non annunciavano altro che «massacri», decide di fuggire dalla metropoli, dal «dolore del mondo»

(trasfi-

gurazione esistenziale dei massacri spagnoli) per ritornare in quella sorta di mitico paradiso perduto che è la sua terra, Siracusa, la Sicilia, dove aveva lasciato i sereni ricordi dell’infanzia. Sul treno per Siracusa conosce i suoi compagni di viaggio: gli sbirri «Coi Baffi» e «Senza Baffi», il povero «uomo delle arance» che scende a Messina, il «piccolo vecchio dalla voce di fuscello secco», il «catanese» sanguigno, il «giovane malarico» di Lentini (zona tristemente famosa per la malaria in quegli anni), il «Gran Lombardo» di Nicosia.

E la Sicilia intera rappresentata nei suoi archetipi più caratterizzan-

ti, dal «Gran Lombardo» che incarna il più classico dei modelli di sici-

2. LE OPERE — Conversazione in Sicilia (1941)

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liano forte, fiero, conscio dei «nuovi doveri», al «giovane malarico» simbolo della malattia e quindi del dolore e della sofferenza della Sicilia stessa. L'indifferenza di Silvestro comincia a dileguarsi grazie al dialogo col quintetto del treno.

I primi approcci con ta tanti anni prima per vivere, di svegliarsi dal traprendere un viaggio

la gente di Sicilia, e con la gente, abbandonail Nord, fa scattare in Silvestro la voglia di ritorpore angoscioso dal quale proveniva e di inallegorico all’interno della Sicilia, alla ricerca

della madre (che abitava a Neve, sulle montagne), alla ricerca dei motivi di quel «dolore del mondo», alla ricerca delle radici e delle ragioni

d’essere. a Inizia, dunque, la seconda parte del libro. La prima era quella che affrontava il tema dell’angoscia dell’uomo e dei nuovi doveri da compiere, questa invece è la parte dedicata ai dialoghi con la madre, la più ricca di ricordi infantili e rappresenta allegoricamente la riappropriazione del proprio passato, la felicità della vita libera. Questi dialoghi, che con ritmo cadenzato si snodano apparentemente sconnessi, carichi di allusioni, sono spesso la traduzione appena italianizzata dei dialoghi siciliani. Silvestro ricorda il padre artista e il nonno anche lui «Gran Lombardo». Nella terza parte Silvestro, insieme alla madre «Concezione», con-

tinua il viaggio nel centro mitico della Sicilia, dove incontra i poveri, i malati, la gente che soffre. I due protagonisti scendono nel buio di grotte dove abitano le famiglie degli ammalati, personaggi invisibili, dei quali Silvestro percepisce solo le parole, sussurrate in quegli antri bui come in un allucinante mondo dantesco: è la scoperta tragica e simbolica della malattia e della morte nella parabola della vita dell’uomo. La quarta parte è la più audace, perché è quella che si occupa dei rimedi politici per combattere «l’offesa dell'umanità». Silvestro, lasciata la madre, continua da solo il viaggio e incontra l’»arrotino» che si lamenta perché «non esistono coltelli e forbici in questo paese!» (decifrando il «codice», «questo paese» è l’Italia, e i «coltelli» e le «forbici» indicano la volontà di ribellione).

E continuando nel suo allegorico viaggio dentro la Sicilia (e dentro la sua stessa coscienza) Silvestro giunge «nel cuore puro della Sicilia»: lì in una angusta stanzetta c'è un «sellaio», l’«uomo Ezechiele» (nome biblico), un profetico e misterioso personaggio, una vecchia figura di gran saggio che gli svela la sua sibillina verità: «...Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso, tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso...»(CS).

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A. Madeddu -VITTORINI

Ai tre amici si aggiunge un altro mitico ed enigmatico personaggio

«Porfirio il panniere», possessore di «mezzo paio di forbici» (troppo poco perché cambi «qualcosa», chiara allusione politica), ma depositario dell'’«acqua viva» (la cultura) la sola che può combattere l’«offesa degli uomini». L’«arrotino», l’«uomo Ezechiele» e «Porfirio» si recano però nella

vecchia osteria del «nano Colombo» per annegare le loro sofferenze nel «vino», nel subdolo vino che inganna le genti lasciando tutto come pri-

ma (la cultura consolatoria).

Silvestro, dunque, è costretto a continuare il simbolico viaggio da solo, e si arriva così alla quinta e ultima parte: la visita al cimitero. Silvestro, come gli antichi eroi greci, scende negli Inferi, nel regno dei morti, come ultimo e definitivo atto catartico:

«...Era notte sulla Sicilia e la calma terra; l’offeso mondo era coperto di oscurità, gli uomini avevano lumi accanto, chiusi con loro nelle stanze, e i morti, tutti gli uccisi, si erano alzati a sedere nelle tombe, meditavano. Io pensai, e la grande notte fu in me notte su notte...»(CS).

Il finale del libro è avvolto da un alone di magico surrealismo. Silvestro incontra tutti i morti della storia, quelli morti in guerra ed esaltati dalla letteratura retorica, e declamatoria, e per questo ancor più offesi. E parla soprattutto con uno di essi fino a quando, ed ecco il colpo di scena finale, si accorge che quell’ombra di soldato morto non è altri che suo fratello Liborio, ucciso prematuramente in guerra. La madre di Liborio per la cultura ufficiale non è una povera disgraziata straziata dal dolore, ma è una «donna fortunata».

Per suo figlio, per i figli di tante madri, sono stati usati aggettivi altisonanti (gloriosi, eroici) sono state innalzate statue di bronzo, e tutto

in nome della logica assurda dell’uomo che deve sopraffare l’altro uomo. Il mondo è allora ancora più offeso «...in ogni parola stampata, in ogni parola pronunciata, in ogni millimetro di bronzo innalzato», e rimarrà offeso «fin quando Shakespeare (la poesia, n.d.r.) non mette in versi il tutto di loro»: ecco il ruolo della letteratura per Vittorini. Lo scrittore ha un dovere morale, un compito altissimo nei confronti di questo «mondo offeso». Il romanzo finisce col ritorno dal cimitero di Silvestro, seguito da un corteo di piccoli siciliani sconosciuti, e con l’ultima visita alla madre prima di partire per il Nord: «...Questa fu la mia conversazione in Sicilia, durata tre giorni e le notti relative, finita com'era cominciata...» (CS).

E nell’epilogo Vittorini conclude:

2.LE OPERE ciConwersazione in Sicilia (1941)

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«...Ad evitare equivoci o fraintendimenti avverto che, come il protagonista di questa conversazione non è autobiografico, così la Sicilia che lo inquadra e accompagna è solo per avventura Sicilia; solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela. Del resto immagino che tutti i manoscritti vengano trovati in una bottiglia» (CS).

Così terminava questo capolavoro della letteratura contemporanea. Due sembrano i filoni conduttori del romanzo: il mito quasi rousseauiano del ritorno alla natura e l’altro del «genere umano offeso». Lo schema narrativo di Conwersazione in Sicilia è quello del viaggio. L’originalità sta però nel fatto che quello compiuto da Silvestro è un viaggio sì, ma eapovolto. Silvestro non va dall’infanzia alla maturità, ma da questa all’infanzia, all’innocenza, dalla storia e dalla società alla na-

tura; la sua Sicilia è quasi un ritorno ai primordiali archetipi dell’esistenza. Il mito di Robinson Crusoe fu sempre caro a Vittorini, soltanto che in Conversazione... il mito è capovolto: non dall’isola primordiale e abbandonata alla civiltà come Robinson, ma da questa all’isola. Il ritorno all’infanzia, alla natura primitiva di Vittorini si distingue, però dai simili temi pavesiani e verghiani. Silvestro compie una sorta di viaggio metafisico a ritroso nel ventre della madre per rinascere una seconda volta. Il protagonista infatti scende «in perfetto buio nel cuore puro della Sicilia» nella casa dell’«uomo Ezechiele» come ripercorrendo un itinerario dalla luce alle tenebre del ventre dell'antica madre, per trovarvi l'innocenza primordiale di un mondo di natura non ancora offeso, e prendere consapevolezza delle ragioni dell’essere («il cuore dell'infanzia, siciliano e di tutto il mondo»). Silvestro è l’eroe classico, omerico, un «ulis-

side» che scende nell’Ade e che compie un dantesco e allegorico viaggio purificatore, l'eroe che muore e resuscita, che entra nel ventre della balena come Jona e ne esce dopo i tre simbolici giorni di Conversazione..., e lì nel cuore buio della Sicilia prende piena consapevolezza della «offesa del mondo» e dei «doveri dell’uomo». Ma qual è allora il pensiero di Vittorini-Silvestro? Secondo lo scrittore il mondo è di per sé bello e potrebbe essere abitato felicemente dagli uomini. Tuttavia è offeso perché i più forti (quelli che detengono il potere) sopraffanno i più deboli. Quindi il conflitto non è fra la «Storia» e la «Natura» come accade nel mito del «buon selvaggio» di Rousseau, bensì all’interno della «Storia» stessa, della «società»: è un conflitto tra

«offesi» e «offensori». Passiamo così al secondo tema conduttore del romanzo: dopo quello del «viaggio capovolto», del Robinson alla rovescia, quello dell’«umanità offesa». Scriveva Vittorini:

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A. Madeddu -VITTORINI

«...Ma forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è ge-

nere umano. Un uomo ride e un altro piange. Tutti e due sono uomini; anche quello che ride è stato malato, è malato; eppure egli ride perché l’altro piange. Non ogni uomo è uomo allora. Uno perseguita e uno è perseguitato; e il genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame». Ma poi concludeva che «...ognuno è malato una volta, nel mezzo della sua vita, e conosce quest'estraneo che è il male, ‘dentro di lui, e l'impotenza sua con quest'estraneo: allora può comprendere il proprio simile» (UN). Ecco la denuncia vittoriniana del «mondo offeso», dove un uomo è

tanto più uomo quanto più soffre. I temi degli «uomini» e dei «non uomini», e dei «doveri» dello scrittore e della letteratura dinanzi all'uomo,

coi quali si chiude il romanzo, aprono la strada all’opera successiva: Uomini e No, scritta durante la resistenza.

Una considerazione, tuttavia, emerge dalla natura lirica e «universalizzante» di Conversazione... Il Silvestro preso da «astratti furori», che

fugge dai dolori del mondo (la guerra di Spagna) per trovare riparo nella mitica Sicilia, scopre sui volti della sua gente i segni della sofferenza, quasi che fossero il riflesso di quel diffuso «dolore del mondo» da cui voleva fuggire. E capisce solo allora che il dolore sotto una forma (la guerra di Spagna) o un’altra (le tristi condizioni di vita in Sicilia) è un male oscuro e universale, e la «sicilianità» diventa una categoria universale dell'essere, perché ogni suo tema sembra dilatarsi in una dimensione cosmica. La Sicilia allora diventa il mondo intero, «...è solo per avventura Sicilia: solo perché il nome Sicilia mi suona meglio di Persia o di Venezuela...». E conclude il romanzo lanciando questo suo messaggio cifrato ai mari del mondo «dentro una bottiglia». Sembra quasi il presagio della tragedia imminente. Di lì a qualche anno sarebbero scoppiate le ultime gravi «offese» per l’uomo: si chiamavano seconda guerra mondiale, Hyroshima, Nagasaky. Conversazione in Sicilia, autentico capolavoro della letteratura europea del nostro secolo, che Giaime Pintor definì «il più importante forse che ci sia venuto nelle nostre mani»0, fu tradotto in tutte le lingue e fu apprezzato in tutto il mondo, suscitando un vastissimo interesse nelle culture anche diverse dalla nostra, specie in America, dove fu presentato con una caldissima prefazione di Ernest Hemingway. Vittorini stesso, severissimo come era solito fare con se stesso, lo de-

finì l’unico libro che valesse la pena di salvare tra i suoi scritti, poiché possedeva le tre caratteristiche essenziali che lo scrittore siracusano ri-

2. LE OPERE — Americana e il mito dell’ America (1942)

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cercava in ogni buon libro: «carica informativa», «tensione oggettivistica», «novità formale». Di questo stupendo romanzo Sanguineti, che lo ha Sa nel la chiave di una anticipazione della «neoavanguardia», ha scritto: «...È l’unico testo esemplare che la generazione dei padri ha lasciato come I aperta, alla nostra generazione letteraria! »09.

Richiesto di un giudizio sulla letteratura europea, e in particolare italiana, un giorno, il grande scrittore americano William Faulkner, premio Nobel per la letteratura nel 1949, ebbe a scrivere: «Per la letteratura italiana posso dire solo che apprezzo molto Elio Vitto rini e il suo “Conversazione in Sicilia”. È stato Hemingway, che ne ha scrit-

to una presentazione per l'America, a farmelo conoscere. Apprezzo molto il libro e lo scrittore che è in esso».

«AMERICANA» E IL MITO DELL’AMERICA (1942)

Conwersazione in Sicilia, appena uscito, sfuggì ai veti della censura. Dopo la seconda edizione, però, gli stessi giornali che in un primo momento avevano lodato il libro, cominciarono ad attaccarlo sulle prime pagine e Vittorini ebbe parecchie noie con le autorità fasciste: «Un giorno dell'autunno 1942 mi arrivò un telegramma. Era un ordine di presentarmi alla federazione fascista di Milano per comunicazioni urgenti. Ricevuto dal segretario federale mi sentii chiamare canaglia per tre quarti d'ora. Era per il libro. Mi fu detto che sarei stato espulso dal fascio come punizione per aver scritto un libro simile. Arrivato il mio turno di parlare, risposi che non mi si poteva espellere dal partito per il semplice fatto che non vi ero iscritto. Il federale cadde dalle nuvole. Ma non ero impiegato da qualche parte? Non riusciva a credere che qualcuno in Italia non fosse iscritto al partito. Riuscii a convincerlo che non ero iscritto pur senza dirgli di essere stato espulso già nel ’36. E lui cambiò completamente modo di comportarsi. Disse che, stando così le cose, non sapeva che farmi. Si scusò anzi, proprio così, si scusò, e potei tornarmene a casa»(DMV).

Negli stessi anni, tuttavia, l’intellettuale siciliano aveva avuto altri

problemi con la censura fascista per via della sua antologia Americana, opera che avrebbe segnato una svolta nei gusti della nostra giovane narrativa. Vediamo come andarono i fatti. Vittorini aveva imparato l’inglese in un modo del tutto originale grazie ad un collega correttore di bozze presso «La Nazione» di Firenze. Nel 1933 aveva portato a termine la sua prima traduzione, Il purosangue di

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A. Madeddu -VITTORINI

Lawrence. Abbandonato il posto di correttore nel 1934 a causa di una intossicazione da piombo, e persa ogni collaborazione a tutti i giornali per via di un suo temerario articolo contro gli aiuti militari italiani in Spagna (articolo che nel ’36 gli costò l'espulsione dal P.N.F e la minaccia di confino), Vittorini per vivere fu costretto a cambiare mestiere e si mise a fare il traduttore. Questa sua nuova attività coincise con uno

dei suoi più grandi interessi, quello per la letteratura americana contem-

poranea. Quello dell'America era per Vittorini il mito di una terra gio-

vane e vigorosa, il mito dei Padri Pellegrini che, abbandonato il «mondo offeso» della vecchia Europa vanno alla scoperta di nuove terre e alla rifondazione di una nuova società e di una nuova cultura. La cultura europea infatti non era riuscita ad evitare all'uomo le guerre, il dolore,

l’«offesa». «...Sembra che i Padri Pellegrini — scrive Vittorini in Diario in pubbli co — fossero venuti dall’Europa pieni di delusione e stanchezza: per finire, non per cominciare. Delusi del mondo non volevano più il mondo; solo astratti furori li agitavano, l’idea della grazia, l’idea del peccato, i pregiudizi feroci del dualismo calvinista. E non avevano più la forza di affermarli nelle vecchie città delle lotte religiose; fuggivano come se non vi credessero, come se vi rinun-

ciassero. Ma lì, su quelle coste coperte di alberi dal legno duro, era di nuovo il mondo: lo videro e furono di nuovo nel mondo, accettando, poi anche ringraziandolo, e dalla stanchezza passarono via via alla baldanza, alla fede...». Bisognava ricominciare tutto d’accapo, tagliare il ponte col passato e ricostruire una nuova cultura. Ritornano in Vittorini i miti robinsoniani. I vecchi Padri Pellegrini d'America, come novelli Robinson avevano ricominciato da zero la loro storia. Quella americana era insomma la vecchia cultura europea che moriva e che rinasceva (proprio come il Silvestro di Conversazione...) più vera, più autentica, più vitale. Non

importava, poi, se la storia americana avesse riprodotto le solite «offese» del vecchio mondo. Era importante l’esempio, la dimostrazione che la storia poteva ricominciare. L'America era la terra giovane, sanguigna

e i suoi scrittori liberi dai condizionamenti della vecchia cultura europea seppero perfettamente incarnare, secondo Vittorini, questo mito del-

la cultura nuova, giovane: «...In questa specie di letteratura universale ad una lingua sola, ch'è ia letteratura americana di oggi, — scrive Vittorini nella sua “notizia su Saroyan” — si trova ad essere americano proprio chi non ha in sé il passato particolare dell'America, la terra d'America, e più è libero da precedenti storici locali, e più, insomma, è aperto con la mente alla civiltà comune degli uo-

2. LE OPERE — Americana e il mito dell'America (1942)

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mini: uno magari arrivato di fresco dal vecchio mondo e che abbia il suo carico di vecchio mondo sulle spalle ma lo porti come un carico di spezie, di aromi, non di pregiudizi feroci. America significherà per lui uno stadio della civiltà umana, egli l’accetterà come tale, e sarà americano in tal senso, puro,

nuovo, senza nulla in sé di quanto dell'America è già morto e puzza. Sarà americano al cento per cento». Vittorini tradusse le opere di Lawrence, Faulkner, Saroyan, Caldwel,

Allan Poe, Powys, Steinbeck, De Foe, Hemingway ed ebbe l’enorme merito di far conoscere all'Italia la grande letteratura americana. Lo scrittore siciliano preparò per conto della Casa Editrice Bompiani la celebre antologia Americana, destinata a fare epoca un po’ come tutte le iniziative di Vittorini. La pubblicazione dell’opera (già pronta nel ’41) fu sospesa dal Ministro della Cultura fascista e fu permessa solo nel 1942 a patto che Bompiani eliminasse i commenti critici di Elio Vittorini che accompagnavano tutte le traduzioni dell’antologia. Nel ’43 addirittura l’opera fu sequestrata. Solo nel 1968 Bompiani poté ripubblicarla con gli originali corsivi di Vittorini. Seguiamo le traversie di questa celebre antologia vittoriniana attraverso il carteggio epistolare fra l’Editore Bompiani e il Ministro della Cultura fascista Pavolini. Il 30 novembre 1940 Bompiani scriveva al Ministro Pavolini: «Eccellenza, mi viene ora comunicato il vostro divieto per ragioni di indole generale alla diffusione dell’ Antologia Americana, e purtroppo quando, nella imminenza delle feste e nella consapevole fiducia di una prevista approvazione, abbiamo stampato i tre quarti dell’opera». Il ministro Pavolini rispondeva così a Bompiani il 7 gennaio 1941: «Caro Bompiani rispondo con ritardo alla vostra lettera anche perché ho nel frattempo veduto Elio Vittorini, col quale m'intrattenni lungamente circa l’Antologia Americana. Egli me ne consegnò anzi le bozze quasi complete che ho esaminate con molto interesse. L’opera è assai pregevole per il criterio della scelta e dell’informazione e per tutta la presentazione. Resto però del mio parere e cioè che l’uscita, in questo momento, dell’antologia americana non sia

opportuna. Gli Stati Uniti sono potenzialmente nostri nemici. Inoltre l’Antologia non farebbe che rinfocolare la ventata di eccessivo entusiasmo per l’ultima letteratura americana: moda che sono risoluto a non incoraggiare, ...Vit

torini può riferirvi come io sia anche per altra via disposto a venirVi incontro».

Rispondeva Bompiani il 6 febbraio 1941: «Aspetto, dunque, di avere il nulla osta in un secondo tempo: spero, come deste modo di sperare a Vittorini». Il 30 marzo 1942 Pavolini decise di scendere a compromesso con Bompiani. Concedeva il nulla osta a patto che venissero eliminati i cor-

A. Madeddu - VITTORINI

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sivi di Vittorini: «Caro Bompiani, la prefazione di Emilio Cecchi è eccellente e potrebbe far sì che il permesso di pubblicazione all’Antologia di narratori americani venisse senz'altro accordato: mi appare indispensabile che il volume sia rivisto. In particolare, occorre che siano tolti tutti i corsivi che precedono ciascun gruppo di narrazioni e che, oltre ad essere inopportuni nel momento attuale e criticamente discutibili e unilaterali, contraddicono in pieno all'impostazione che al volume dà la prefazione». Così l’opera fu pubblicata nel ’42 orfana dei corsivi vittoriniani. Tuttavia le cose precipitarono quando una nota del Gabinetto del 26 giugno 1942 affermava anacronisticamente: «Proprio nei giorni dei massacri di Grosseto, di Sardegna e di Sicilia, l'editore Bompiani mette sfacciatamente fuori un mattonissimo intitolato “Americana”, antologia di scarso valore con prefazione di un accademico e traduzione di Vittorini; antologia condotta sui modelli dell’ebreo Lewis». E il Ministro concludeva: «Ho dato disposizione per un rigoroso catenaccio e per il ritiro dalla circolazione dei volumi su indicati».

Americana fu ristampata solo nel 1968, e stavolta con i corsivi vittoriniani. Elio Vittorini con la sua antologia finì con l’indicare la stra-

da a gran parte della nuova cultura italiana di quei tempi, e le sue traduzioni ebbero un fascino straordinario sui giovani. Fascino che andò al di là della semplice conoscenza dell’autore americano. Lo stesso Vittorini parecchi anni dopo spiegò in una intervista i motivi del grande suc-

cesso di Americana: «Non ho avuto un'influenza sui giovani per quello che ho tradotto, ma per “il modo in cui ho tradotto” ». E più tardi, nella sua nota Del tradurre, pubblicata sulla «Fiera lette-

raria» del 9 giugno 1956, aggiunse: «...Se dall’assillo di riprodurre il movimento creativo dell'autore non nasce un movimento creativo che sia proprio del traduttore l’opera tradotta non riuscirà a vivere come fosse originale [...] è preferibile una traduzione infedele e viva a una fedele e morta». Con queste parole Vittorini sembra rispondere ad uno dei quesiti più interessanti suscitati dalla pubblicazione di Americana: la sua fedeltà di traduttore e la sua dipendenza da alcuni modelli americani, tra i quali soprattutto Saroyan. Che ci sia una stretta parentela tra il Vittorini di Conversazione in Sicilia e il Saroyan di Che ve ne sembra dell'America? non pare possano esserci dubbi. Il problema è capire quanto abbia preso Vittorini da Saroyan o quanto piuttosto ci abbia guadagnato un minore come Saroyan

nel setaccio stilistico attraverso cui ce lo ha consegnato la traduzione vittoriniana. Probabilmente ha ragione Leone Piccioni quando conclu-

2. LE OPERE — Uomini e no (1945)

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de che è stato proprio Vittorini a rifare stilisticamente Saroyan nel tra-

durlo!9. E dello stesso avviso sono Carlo Bol!” e Albert Beguin0!9).

Ma forse si avvicina ancor più.al vero una testimonianza tramanda-

taci da Pavese nel suo epistolario: «...L'imitazione tecnica degli americani non esiste, l'apparente influsso subito da Vittorini è più che altro un ritrovamento, tant'è vero che confluiscono nella Conversazione torrenti da tutt'altra polla, come il simbolismo di Powys (Mietitore di Dodder, ed.Mondadori), l'annotazione di Lawrence, ecc. Vittorini insomma ha tradotto diversi scrittori in cui si ritrovava, e poi succede che scrivendo sembra li imiti. No, è lui che li ha cercati per affinità eletti va...» 09).

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Ed ancora più esplicito appare Pavese a proposito del confronto Saroyan-Vittorini: «...Non ho niente da obiettare a Saroyan, che anch'io apprezzo. Può darsi abbia detto che è un primitivo, ma soprattutto ho detto che Vittorini è un’altra cosa — poetico e sofistico — mentre Saroyan è giornalistico e direttamente umano...»l9), Per quei tempi, la politica di sprovincializzazione della vecchia tia cultura italiana, intrapresa coraggiosamente da Vittorini con spregiudicate aperture verso l’Europa e verso le nuove frontiere cane, fu una vera e propria rivoluzione letteraria. Quelle traduzioni erano molto belle, forse anche troppo belle sere fedeli. E tuttavia, erano tori della nuova generazione ad aver imparato a scrivere piuttosto le traduzioni degli

e stanle sue ameri-

per esbelle al punto che sono servite a tanti scritper imparare a scrivere. Sono stati in molti imitando non tanto gli americani, quanto americani che ci ha dato Vittorini.

«UOMINI E NO» (1945)

Fra il 1942 e il 1943 Vittorini dirige per Bompiani la collana «Corona», uno tra i principali strumenti di quel tempo per il rinnovamento culturale. Partecipa inoltre alla «stampa clandestina», dirige il numero unico del «Partigiano», e il 26 luglio 1943 viene arrestato a causa di un suo temerario comizio. Qualche mese prima era tornato a Siracusa, dove aveva preso contatti col Comitato di Liberazione siracusano di cui faceva parte tra gli altri il professore Giuseppe Agnello. Quindi era ripartito per Milano. Lo scrittore siciliano dovette quindi rifugiarsi nei dintorni di Varese. Dopo l’8 settembre ebbe funzioni importanti nella Re-

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sistenza, a fianco di Eugenio Curiel in modo particolare. Da questa esperienza partigiana vissuta attivamente e in prima persona nacque Uomi-

ni e No, ritenuto giustamente il capolavoro della letteratura della Resistenza Italiana. Il romanzo fu scritto in gran parte nell'ultimo anno della guerra, tra la primavera e l’autunno del 1944 e fu completato nell’inverno del ’45 durante le pause consentitegli dalla sua attività clandestina a Milano in soccorso degli amici. Vittorini consegnò il manoscritto a Bompiani ap-

pena l’indomani del 25 aprile. Il volume uscì prestissimo, a giugno, ed

ebbe un successo straordinario di pubblico. Ai lettori Uomini e No parlava di vicende ancora intensamente recenti e vissute personalmente da parecchi italiani. Uguale fortuna, invece, non ebbe il libro presso buona parte della critica che accusò Vittorini di avere guardato più all’uomo in senso astratto e alla sua dignità simbolicamente «offesa» che all’analisi concreta e storica del fascismo e della dialettica delle lotte di classe. «Nel ’43 — scriveva Marina Zancan di Vittorini — la partecipazione come militante comunista alla lotta di resistenza, gli aveva direttamente e violentemente scomposto la propria immagine di intellettuale e gli aveva aperto la contraddizione tra il se stesso militante-politico e il se stesso intellettuale»). Il problema del dualismo fra il politico e l’artista che più tardi lo avrebbe portato alla clamorosa rottura con Togliatti e i comunisti, Vittorini lo aveva già anticipato nella sua nota a Uomini e No, quando scriveva: «Non perché sono, come tutti sanno, un militante comunista si deve cre-

dere che questo sia un libro comunista. Cercare in arte il progresso dell’umanità è tutt'altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale». Ma passiamo ad esaminare adesso i contenuti del romanzo. Il giovane liceale siracusano Alessio del Garofano..., maturatosi poi nel Silvestro di Conwersazione..., ha ora preso coscienza della storia, e della ne-

cessità di lottare, e diventa «Enne 2», l’intellettuale siciliano emigrato al Nord protagonista di Uomini e No. Il Silvestro di Conversazione... era sceso tre giorni nel «cuore buio della Sicilia» dove aveva preso coscienza, col suo viaggio surreale, delle «offese del mondo» e dei rimedi. Enne 2 è adesso colui che continua la storia, colui che mette in pratica le esperienze di Silvestro.

«Enne 2 va molto al di là di Silvestro: porta nella prassi quelle rivelazioni, le confronta con l’azione, con la vita, immergendosi ora a fondo nella prassi e nell’azione»l2.

2. LE OPERE- Il Politecnico

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Enne 2 con la sua Berta partecipa alla resistenza, lotta accanto agli «offesi», agli «uomini», e lotta contro gli «offensori», i «non uomini»

(il «capitano Clemm», «Cane Nero»). In questo romanzo l’«offesa del mondo» è chiarita storicamente ancor meglio che nel precedente. La denuncia di Vittorini stavolta è aperta, solenne, altissima davanti ai mor-

ti «massacrati» di Largo Augusto: «Chi aveva colpito non poteva colpire più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra don-

na: questo era il modo migliore di colpire l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove aveva l’infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov'era più uomo»(UN). ate

e‘

AI disperato protagonista Enne 2 non rimaneva allora che resistere: «...vedere un uomo perdersi, altri e altri perdersi, non poterli aiutare, e tuttavia non perdersi, resistere. Questo forse era il punto. Che si potesse resistere come se si dovesse resistere sempre, e non ci dovesse esservi mai altro

che resistere»(UN). In Uomini e No ritorna il motivo quasi evangelico del «genere umano offeso», più umano proprio perché sofferente e offeso. Vittorini, tuttavia, abbandona momentaneamente il suo modello melodrammatico di

narrazione per sperimentare un tipo di scrittura «filmica» di stampo neorealista (...ma non troppo). Il racconto dei fatti è affidato al dialogo, il grado di presenza narrativa è ridotto all’essenziale e il racconto consiste quasi esclusivamente di scene. La verità nel romanzo vittorinia-

no è raggiunta solo attraverso una lunga e problematica ricerca che si articola laboriosamente in un tormentato linguaggio socratico di domande e risposte come in un «racconto scenico».

Uomini e No inaugurò, così, nel ’45 la letteratura italiana del dopoguerra. Il regista Felice Orsini nel 1980 ne trasse la trama del film dall'omonimo titolo, che fu brillantemente interpretato da Flavio Bucci nel ruolo del mitico Enne 2.

IL «POLITECNICO» La battaglia per una nuova cultura e la polemica con Togliatti

(1945-47)

Subito dopo la «Liberazione» Vittorini divenne il Redattore capo de «L'Unità» e quindi diresse «Milano Sera». Ma l’evento più importante di quegli anni fu la fondazione del «Politecnico», la rivista che più di ogni altra incise nel dibattito culturale italiano del dopoguerra. «Poli-

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tecnico» uscì per un totale di 39 numeri dal 29 settembre 1945 al dicembre 1947. Fondatore e direttore fu, appunto, Elio Vittorini, che nella

scelta del titolo volle richiamarsi alla tradizione illuministica milanese di Carlo Cattaneo. Gli intellettuali del primo dopoguerra, della ricostruzione, si interrogarono sui motivi del fallimento della vecchia cultura e sulla conseguente tragedia della guerra appena conclusa. La polemica divampò soprattutto sul concetto di «impegno», di «engangement», e un po’ tutti (cattolici, marxisti, liberal-socialisti) cominciarono a sognare un nuovo mo-

dello di scrittore, del tutto legato alla sua gente, divulgatore di verità morali e sociali, al fine di non ricadere più negli errori passati e quindi negli «orrori» della guerra. «La polemica per una letteratura impegnata — scrive Giuseppe Petronio

— si svolse sulle pagine delle tante riviste che allora nacquero, e la maggior parte delle quali ebbero vita breve; di esse è necessario ricordare, per il peso che ha avuto sulla nostra cultura, “Politecnico”, fondata a Milano nel settembre del ’45 da Elio Vittorini. “Politecnico” fu pur nella sua vita breve, l’anima della battaglia per “una nuova cultura”, che intendeva strappare il letterato dalla sua torre d’avorio tradizionale conducendolo su terreni che fino ad allora aveva evitati facendo tutt'uno del suo “impegno” di artista e di quello di uomo. Vittorini, però, intendeva combattere questa battaglia in piena libertà da vincoli di partito, e presto entrò in polemica con i dirigenti del Partito comunista italiano, sforzandosi di distinguere tra politica e cultura e cercando di far coincidere il compito del “rivoluzionario” con il lavoro dell'artista».

Cerchiamo dunque di focalizzare i temi principali della questione «Politecnico», un’altra delle iniziative destinate a far discutere a lungo

e a suscitare polemiche accese, come nella migliore tradizione vittoriniana. I motivi che esamineremo sono essenzialmente due. La battaglia per una «nuova cultura» e la polemica con Togliatti e con i dirigenti del

PGE Riguardo alla prima il pensiero di Vittorini era abbastanza lineare. La cultura della vecchia Europa, che affondava le sue radici antiche nel pensiero greco, romano e cristiano, anche se si era prefissa come fine la felicità dell’uomo, non era riuscita di fatto ad evitare il nazismo, il fascismo, lo sterminio razziale, l’odio antisemitico, le persecuzioni, i mas-

sacri, il conflitto mondiale. E questo perché aveva agito solo sugli intelletti degli uomini e non sulla prassi, sulla loro vita. L’«intellettuale nuovo» secondo Vittorini deve, dunque, effettuare un taglio col passato e creare una «nuova cultura»: «...non più una cultura che consoli nelle sof-

2. LE OPERE -IlPolitecnico

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ferenze — scrisse —, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini». In un famosissimo articolo sul suo «Politecnico» l’intellettuale siciliano affermava: «Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno 0 qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto. I morti, se li contiamo, sono

più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita. Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta

è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava la inviolabilità loro. Questa “cosa” voglio subito dixla; non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medievale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo, ecc. Dubito che un paladino di que-

sta cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini». Questa è la principale accusa che lo scrittore siciliano faceva alla cultura dei padri. Poi, per dimostrare la sua fiducia (nonostante tutto) sulle possibilità di una «cultura nuova» che possa incidere sul destino dell’uomo, aggiungeva: «È qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli uomini? Io lo nego». Da questa negazione nasceva la speranza della «nuova cultura non più consolatoria nelle sofferenze», come quella passata, ma attiva, che «protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini». Il tema dell’abbandono della «vecchia cultura» e della ricerca della «nuova cultura», che

Vittorini adesso teorizzava splendidamente sulle pagine del suo «Politecnico», era emersa già nelle opere precedenti: nell’allegoria del Silvestro di Conversazione... che moriva simbolicamente (la «vecchia cultura») per rinascere «nuovo» dopo tre giorni, quello stesso Silvestro che rifiutava l’ingannevole «vino» (la «vecchia cultura consolatoria») per accettare l’«acqua viva» di Porfirio (la «nuova cultura»); era già nel mito dei

Padri Pellegrini d'America, novelli Robinsons, e della «nuova» letteratura americana, l’unica che si possa definire pienamente moderna fin dalla nascita. Più tardi, tuttavia, sulle pagine del «Politecnico» sarebbe sorta la celebre polemica con Togliatti, il quale avrebbe voluto vedere nella let-

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teratura uno strumento al servizio del partito e nell’intellettuale siciliano il rappresentante più prestigioso dell’intellighentia letteraria del Partito comunista italiano. «Quando il Politecnico è sorto — scriveva Togliatti sulla rivista di Vit-

torini — l'abbiamo tutti salutato con gioia. Il suo programma ci sembrava adeguato a quella necessità di rinnovamento della cultura italiana che sentiamo in modo così vivo. Ma ad un certo punto — continuava il segretario del PCI — ci è parso che le promesse non venissero mantenute. L'indirizzo annunciato non veniva seguito con coerenza, veniva anzi sostituito, a poco a poco, da

qualcosa di diverso».

Vittorini rispose a Togliatti di rifiutarsi di «suonare il piffero per la rivoluzione», distinguendo la cultura dalla politica e rivendicando l’autonomia della letteratura in quanto portatrice del prezioso valore della libertà. La sua lunga lettera di risposta a Togliatti pubblicata sul «Politecnico» suscitò un enorme clamore, e servì a chiarire la posizione vittoriniana sulla questione «politica e cultura». Vittorini esordiva spiegando la sua originalissima posizione di comunista un po’ particolare: «Caro Togliatti, non potrei nemmeno cominciare senza parlarti del modo un po’ speciale in cui sono comunista. Io non mi sono iscritto al Partito co-

munista italiano per motivi ideologici. Io sono esattamente l'opposto di quello che in Italia s'intende per “uomo di cultura”. Io non ho studi universitari. Non ho nemmeno studi liceali. Potrei quasi dire che non ho affatto studi. Non so il greco. Non so il latino. Entrambi i miei nonni erano operai, e mio padre, ferroviere. Quello che io so 0 credo di sapere l’ho imparato da solo nel mondo vizioso in cui si impara da solo. E pur non rifiutando di appartenere alla cultura, e di militare ormai nella cultura, di avere doveri culturali, non

è proprio come professionista di “cultura” che scrivo in “Politecnico”, e non è come professionista di cultura che mi sono iscritto al nostro Partito. Non avevo letto una sola opera di Marx. Ai tempi della mia euforia di autodidatta i testi di Marx non si trovavano più nel mondo dei libri, almeno a Siracusa. Dunque io non aderii ad una filosofia iscrivendomi al nostro Partito. Aderii a una lotta e a degli uomini. Non fu perché fossi culturalmente marxista. Dopo il 25 aprile io ho cominciato a studiare i testi marxisti; ma mi guarderei bene dal dichiararmi per questo un marxista. lo ora trovo nel marxismo una fonte di ricchezza culturale, che mi arricchisce. Vi trovo vita per il mio cervello: propriamente dell’ “acqua viva” nel senso che è scritto sull’Evangelo di Giovanni; qualche volta, qua e là, anche dell’acqua morta»(LT).

Chiarita la sua particolare posizione nell’ambito delle sinistre Vit-

2. LE OPERE - Il Politecnico

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torini comincia a trattare del problema «politica e cultura», prendendo le distanze da Togliatti e dal Partito comunista: «Ora io non voglio dire che politica e cultura siano perfettamente distinte e che il terreno dell'una sia da considerarsi chiuso all'attività dell'altra, e viceversa. Cercherò più avanti di mostrare come invece, le due attività mi sem-

brino strettamente legate. Ma certo sono due attività, non una attività sola. Politica si chiamerà la cultura che, per agire si adegua di continuo al li vello della maturità delle masse, e segna anche il passo con esse, si ferma con esse come accade che con esse esploda. Continuerà invece a chiamarsi cultura la cultura che, non impegnandosi in nessuna forma di azione diretta saprà andare avanti sulla strada della ricerca. Ma se tutta la cultura diventa politica, e si ferma su tutta la linea, e non vi è più ricerca da nessuna parte, addio. Da che cosa riceverà la politica l'avvio alla ripresa se la cultura è ferma?

Io non ho mai inteso dire che l’uomo politico non debba interferire in questioni di cultura. Io ho inteso dire ch'egli deve guardarsi dall’interferirvi con criterio politico, per finalità di contingenza politica, attraverso argomenti 0 mezzi politici, e pressione politica, e intimidazione politica. Ma in quanto uomo anche di cultura, anche di ricerca, egli non può non partecipare alle battaglie culturali. Solo che deve farlo sul piano della cultura stessa e con criterio cul turale. bra questo ch'io mi sono opposto e mi oppongo: questa inclinazione a

portare sul campo culturale, travestite da giudizi culturali, delle ostilità politiche e delle considerazioni d’uso politico. Servirsi di una menzogna culturale equivale a servirsi d’un atto di forza, e si traduce in oscurantismo»(LT).

L'ultimo riferimento di Vittorini era rivolto al comunista Alicata che aveva criticato lo scrittore americano Hemingway confondendo le personali ostilità politiche con la cultura. L’intellettuale siracusano, una volta distinti i compiti della politica e della cultura passa a definire il ruolo dello scrittore e del rivoluzionario: «Che cosa significa, per uno scrittore, essere “rivoluzionario”? Nella mia dimestichezza con taluni compagni politici ho potuto notare ch’essi inclinano a riconoscerci la qualità di “rivoluzionari” nella misura in cui noi “suoniamo il piffero” intorno ai problemi rivoluzionari posti dalla politica; cioè nella misura in cui prendiamo problemi dalla politica e li traduciamo in “bel canto”: con parole, con immagini, con figure. Ma questo, a mio giudizio, è tutt’altro che rivoluzionario, è anzi un modo arcadico d'essere scrittore. Rivoluzio-

nario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo, che egli soltanto sa scorgere e ch'è proprio di lui scrittore rivoluzionario por-

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re, e porre accanto alle esigenze che pone la politica, porre in più delle esigenze che pone la politica» (LT).

Il dissidio fra Togliatti e Vittorini divenne presto insanabile, e nel 1951 l’intellettuale siciliano abbandonò il Partito comunista. Palmiro Togliatti salutò sarcasticamente l’uscita di Vittorini con un polemico e irriverente articolo apparso su «Rinascita» (Sett.-Ott. 1951) e intitola to “Vittorini se n'è ghiuto, e soli ci ha lasciato!”, articolo che «persino nel titolo sarcastico e nell’accentuazione dialettale, ostenta il disprezzo per il terrone che Vittorini era, ai suoi occhi! »4. Scriveva Togliatti: «Vittorini? Sì, era stato accanto con noi come tanti

altri. L'iscrizione al partito, dice, non l’ha mai voluta fare. Almeno ci spiegasse perché, per questo quando oggi dichiara di non essere più con noi, la cosa ci sembra priva di rilievo. Era venuto con noi, dice, perché credeva che fossimo liberali: invece siamo comunisti. Ma perché non farselo spiegare prima? ».

L’allontanamento di Vittorini dal Partito comunista si nota già nelle lettere inviate ai suoi amici scrittori. Nel 1949 l’intellettuale siracusano confessava ad Hemingway: «Per me comunismo significava sviluppo delle libertà democratiche. E accettavo di essere coi comunisti per la stima di quanti ne avevo conosciuti sot-

to l'oppressione e nella lotta contro l'oppressione. Dopo le polemiche avute con loro, polemiche nelle quali hanno dimostrato di non saper vedere nelle questioni culturali e artistiche più in là del loro naso, non posso dire se continuerei ad accettare di essere considerato un comunista anche oggi. Sono, vale a dire, un non-comunista agli occhi dei comunisti e un comunista agli occhi dei noncomunisti e anticomunisti: un bel pasticcio». In una lettera a Robert Penn Warren, però, Vittorini aggiunge di «...non voler portare più acqua al mulino senza scrupoli della stampa comunista». E infine confessa a Vasco Pratolini: «Vuoi che te la dica tutta? Io mi sono persuaso che, al punto attuale della condizione umana da una parte e della mentalità comunista dall’altra, l'ascesa al potere del Partito comunista non costituirebbe una liberazione per nessuno in nessun paese d'Europa».

«Nel volgere di pochi anni, dunque, Vittorini ha consumato la storia delle proprie esperienze accanto ai comunisti, dove aveva scelto di porsi per le ragioni derivanti da un solidarismo umanitario con il «mondo offeso» e dove era stato invece sopraffatto dalla ragion di Partito»).

...Il tempo ha finito col dare ragione, ancora una volta a Vittorini.

2. LE OPERE - IlPolitecnico

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Nel 1990, a quarant'anni di distanza dallo storico dissidio, la segreteria

politica dell’ex Partito Comunista Italiano ha riconosciuto i suoi gravi errori, proponendo una profonda revisione storiografica: «La rottura del PCI con Elio Vittorini — secondo Umberto Ranieri — fu frutto del prevalere, almeno per una fase nella vita del partito, di una concezione inaccettabile del rapporto tra politica e cultura». Rivalutare Vittorini significa per Ranieri «...rintracciare un filone culturale critico e antistalini sta che ha operato nella storia del PCI, si può dire fin dalla sua fondazione, e che ha contribuito, tra mille difficoltà, a dare al PCI i caratteri di grande

partito democratico e di massa, del tutto originale nel comunismo internazionale» 09, 3 a: Il tardivo «mea culpa» dell'ex PCI non ha mancato di suscitare numerose polemiche. Significativa quella di Sebastiano Addamo: «Sento dire che il PCI o chi per esso, intende prospettare una rivalutazione di Vittorini, se non una vera e propria riabilitazione. In verità Vittorini non ha bisogno né dell'una né dell'altra. Semmai, è il

medesimo PCI che dovrebbe rivedere se stesso e la propria opera, attraverso Vittorini. [...] La prima volta che incontrai Leonardo Sciascia, questi mi disse che si era allontanato dal PCI dopo l’uscita di Vittorini. Io impiegai qualche anno di più. Tanti altri che ho conosciuto, hanno fatto la medesima esperienza. Togliatti non si rese conto che non era un problema di dirigenti, quello di politica e cul tura, bensì il mito sul quale stava scommettendo la cultura italiana. Perciò l’avventura di “Politecnico” e il suo fallimento, va annoverata tra le grandi occasioni mancate della vita politica italiana»? I corretti rapporti fra Politica e Cultura e il dibattito per una «nuova cultura non più consolatoria» furono i due temi per i quali Vittorini si battè maggiormente nel suo giornale. E ogni spregiudicato intervento dello scrittore non mancava mai di suscitare accese discussioni negli ambienti culturali italiani. Questo fu «Politecnico». Nessuna rivista ebbe un peso così profondo sulla cultura italiana del Novecento, come quello che ebbe la rivista fondata e diretta da Elio Vittorini.

«Punto unificatore di questa vasta eterogenea congerie di materiale informativo, divulgativo e creativo è Vittorini, la cui presenza culturale si avverte in ogni pagina e articolo del giornale, nei commenti nei raccordi, nelle didascalie. È Vittorini»8). Vittorini ha espresso sul piano culturale le esigenze di una cultura

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militante non legata strutturalmente ai partiti. La molteplicità dei suoi interessi, la sua vivacità e il suo carisma lo designavano naturalmente

come il massimo esponente della rivoluzione culturale degli anni a venire.

«IL SEMPIONE STRIZZA L'OCCHIO AL FREJUS» (1947)

Negli anni del «Politecnico» Vittorini scrisse Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, un romanzo eseguito in breve tempo con «pieno piacere»

e con «abbandono perfetto alle cose da dire». L’intellettuale siciliano lo ritenne per qualche tempo il suo più bel romanzo, anche se la critica continuò quasi unanimamente ad indicare in Conversazione... il capolavoro vittoriniano. Ed in effetti col Sempione... c'è un ritorno ai moduli narrativi di Conversazione... Non più la scrittura «filmica» e vagamente neorealistica di Uomini e no, ma di nuovo quel linguaggio ermetico, allegorico, lirico che aveva contraddistinto Conversazione... Per la seconda volta Vittorini gioca tutto il suo romanzo su di una fittissima rete di simboli. Non più la freddezza documentaria dei neorealisti, ma la narrativa-melodrammatica vittoriniana che enuclea elementi mitici, verità uni-

versali, da fatti particolari. E ancora una volta i personaggi non hanno cognomi anagrafici. La trama è semplice e molto bella. Il taciturno e vecchissimo «nonno-elefante», uomo dal corpo gigantesco e dotato in gioventù di una forza straordinaria (aveva partecipato ai lavori del Sempione e del Frejus) è il centro mitico di una famiglia poverissima che vive nel parco alle porte di Milano, isolata in un quasi primordiale stato di natura dentro un magnifico boschetto circondato però (ecco il contrasto) dalle industrie milanesi, dai tram, dall’autostrada, dai rumori, dalla civiltà consumistica insomma. La «madre» della fami-

glia (figlia del «nonno-elefante») donna saggia ed energica strettamente imparentata con la figura della «madre» di Conwersazione..., è l’altra importante protagonista del racconto. La famiglia è ancora una volta un’'«isola robinsoniana» inglobata nel moderno, nella falsità consumistica; un’«isola» nella quale sopravvivono valori umani che al di fuori del «boschetto» non esistono più. Un giorno arriva in questa casa-isola un giovane operaio malato di tisi, «Muso di fumo». Questi, durante il pranzo, racconta che gli elefanti sono gli animali più saggi e più dignitosi della terra, perché quando sentono la morte vicina, quando si scoprono di peso ai loro simili, si allontanano dal gruppo e vanno a morire solitari in misteriosi e lontani cimiteri segreti:

2. LE OPERE - Le donne di Messina (1949 e 1964)

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«Non è la morte che viene, come la gente dice. Siamo noi che ci andiamo. Quando abbiamo trovato il poco che potevamo trovare, allora è finita. Non vi è più nulla che ci dica qualcosa. L'aria che respiriamo non ci dice più nulla, e qualunque sia la nostra età, possiamo pensare che siamo già morti. Altrimenti saremmo morti e stolti insieme» (SF).

Le parole di «Muso di fumo», che sarebbe morto di lì a poco, colpirono particolarmente il vecchio «nonno-elefante». L'indomani i familiari non lo trovarono più a casa. Aveva sentito anche lui il richiamo dei saggi elefanti? Era l’eroe vittoriniano, l’uomo del «mondo offeso» che, umi-

liato, decide di sparire come gli elefanti anziani e inutili? «Il Sempione è, dunque, una stupenda favola aperta a un finale equivoco in cui si realizza un magico equilibrio fra l'atmosfera irreale e allusiva dei dialoghi, la carica mitica ed emblematica di personaggi e gesti, e la precisione dei riferimenti geografici e sociali. ...Sono pagine dense di suggestioni in cui ogni elemento diventa incredibilmente capace di risvegliare nel lettore echi emotivi che si intrecciano e si alimentano a vicenda, richiamando alla mente

analogie con la poesia palpabile, ma allo stesso tempo indefinibile, di alcuni film di Chaplin» 09).

Per i protagonisti del Sempione... la guerra aveva creato un’«isola» nel cuore della storia (le misere condizioni di vita della famiglia nel cuore della civiltà consumistica di Milano).

Lo stesso Vittorini, tuttavia, suggeriva che la morale di questo stupendo romanzo non è da ricercarsi nelle vicende, ma «...nel carattere dei personaggi, cioè nel “fermo” di loro e non nei fatti a cui essi partecipano o in quello che fanno. Discorso sulla morte avrei potuto chiamare il libretto. O al contrario: sull'importanza di vivere. Perché no?».

L’opera, altamente suggestiva ma anche difficilmente interpretabile, è stata scarsamente studiata. Negli anni Settanta la RAI ne ha tratto un breve sceneggiato interpretato magistralmente dall’attore Alberto Lupo nei panni di «Muso di fumo». Vittorini aveva progettato un seguito per questo romanzo, «Il barbiere

di Carlo Marx, realizzato solo per poche pagine, che iniziava coi vecchi protagonisti alla ricerca del «nonno-elefante». L'opera rimase incompiuta.

«LE DONNE DI MESSINA» (1949 e 1964)

Come già si disse, a Vittorini fu sempre caro un vecchio mito sette-

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A. Madeddu- VITTORINI

centesco, quello di Robinson, l’uomo che intraprende un lungo viaggio per conoscere il mondo, e che, per via di un naufragio, finisce in un'isola

deserta dove deve ricominciare tutto da zero. Cancellato il mondo ci-

vile alle sue spalle, perso tutto il suo bagaglio, Robinson comincia a ricostruire per riottenere il dominio sulla natura e l’ascesa verso la nuova civiltà. Questo tema, seppur capovolto, fu già presente in Vittorini col Silvestro di Conwersazione..., e quindi col mito vittoriniano della nuova cultura americana (i Padri Pellegrini che abbandonano la vecchia Europa per costruire un nuovo mondo oltre l'Atlantico), con la battaglia sul «Politecnico» per una «cultura nuova non più consolatoria» che doveva ricominciare da zero, sulle ceneri della vecchia cultura europea che non aveva saputo evitare la tragedia della guerra, con lo stesso Sempione... dove una famiglia diventa l’isola robinsoniana della ricostruzione dopo la frattura della guerra. Tuttavia, il romanzo che più di ogni altro incarnò il mito robinsoniano di Vittorini fu Le donne di Messina, la storia di un gruppo di superstiti scampati ai massacri della guerra che, dopo aver perso tutto, i beni, le case, gli affetti, si riuniscono e alla fine di un lungo viaggio si fermano nel cuore dell'Appennino, ricostruiscono faticosamente un nuovo villaggio, che rappresenta insieme la speranza di una nuova civiltà, di una nuova morale di una nuova cultura risorta dalle devastazioni della guerra. Non più a un singolo Robinson, ma a un gruppo di Robinson, — a un «Robinson collettivo» è affidata la trama del romanzo. Vittorini non fu mai soddisfatto di questo lavoro, lo sentiva ancora vincolato alla vecchia cultura che voleva combattere. Per questo motivo modificò più volte il suo racconto. Pubblicato a puntate sulla «Rassegna Letteraria» dal febbraio del ’47 al settembre del ’48 col titolo di Lo Zio Agrippa passa in treno, il romanzo fu rivisto e ridotto dall’autore, che lo pubblicò in volume nel 1949 col titolo definitivo di Le donne di

Messina. Per suo espresso desiderio il libro non fu più pubblicato fino al 1964, quando Vittorini lo modificò ancora, alla luce della nuova situazione socio-politica, e dei nuovi orientamenti delle sue idee. Fra l’edizione del ’49 e quella del ’64 qualcosa era cambiato in Vittorini. Per comprendere cosa fosse questo «qualcosa» occorre soffermarsi sulla diversità delle due edizioni. Esaminiamo la trama della redazione del ’49. Appena terminata la guerra in Italia viaggiano tutti: chi va al nord, chi va al sud e tutti nella speranza di ritrovare i propri cari, di riallacciare rapporti, contatti bruscamente interrotti dall'evento bellico. Fra

questi c'è lo Zio Agrippa, un siracusano che viaggia ogni giorno sui treni Siracusa-Milano, Siracusa-Torino, Siracusa-Venezia, per cercare la pro-

2. LE OPERE - Le donne di Messina (1949 e 1964)

LIO

pria figlia scomparsa. Da questi italiani «viaggianti» una sera d’estate si separa un gruppo di persone (il loro camion si è bloccato). I loro nomi sono ancora una volta simbolici: «Fischio», «Spine», «Fazzoletto rosso», «Scarmigliata», «Faccia cattiva», «Unghia nera», «Toma», «Turchino», «donne di Messina», «donne di Siracusa». I due protagonisti sono «Ventura», un ex-fascista ormai «redento»

che guida il gruppo alla ricostruzione, e la sua donna, il cui nome è «Siracusa». Durante il loro inquieto viaggio (elemento costante dei romanzi vittoriniani) questi novelli Robinson giungono nel cuore dell'Appennino lungo la «linea gotica» in un villaggio abbandonato e quasi del tutto distrutto dalla guerra. Vi si fermano, accendono un falò e da lì comincia la loro stofîà di ricostruzione. Sotto la guida di «Ventura» nasce un «nuovo villaggio»: si tolgono le mine dalla terra, si semina il grano, si costruiscono i primi alloggi. Poi viene il gelo dell’inverno, la neve ricopre i campi, nascono i primi contrasti tra i protagonisti, alcuni fuggono

verso le comodità delle città, altri rimangono nel villaggio sulla montagna. Quindi viene l'estate, a luglio si raccolgono i primi frutti della semina e l’opera di ricostruzione avviata da Ventura sembra far intravedere esiti felici. Ma ad un certo momento giunge al villaggio un losco e perfido personaggio «Carlo il Calvo», che col suo fare subdolo mette in crisi l’armonia del villaggio (è il male che si insinua allegoricamente), e denuncia «Ventura» come ex-fascista ed ex-ufficiale dell'esercito di Salò. I «cacciatori» (ex-partigiani ancora armati) vengono a cercarlo. A questo punto scoppia il dramma. «Ventura», per paura di essere giudicato dalla sua donna, uccide «Siracusa» e infine, anziché fuggire, si consegna ai «cacciatori» per essere fucilato. Questa la trama della redazione originaria del ’49. Quali sono, dunque, i significati di questa grandiosa allegoria della storia? Questo gruppo eterogeneo di uomini, donne, bambini che viaggia alla ricerca di una mitica terra promessa, di un luogo dove poter risarcire le offese subite dalla storia, si ferma nel punto più devastato e più offeso del mondo, nel cuore degli Appennini. La storia offre loro una nuova chance: ricominciare! La differenza col Robinson è che su di loro non è passato il naufragio, bensì... una vera apocalisse. I terreni non sono coltivabili perché pieni di mine. Anche la natura violentata dall'uomo è adesso loro ostile. Bisogna ricominciare «radicalmente» da zero, ricostruire tutto, dalle cose più elementari per vivere, fino ai rapporti umani, alle istituzioni. È la grandiosa allegoria della storia che riparte nella speranza di un mondo più giusto. Il mondo delle offese e della violenza (la ci-

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A. Madeddu — VITTORINI

viltà industriale delle città attorno a questo isolato villaggio appenninico,

diretta erede della «vecchia storia»), incarnato dalla perfida e astuta figura di «Carlo il Calvo», circonda e insidia, però, questa comunità di

sopravvissuti, questa «nuova storia» che sta nascendo piena di speranze nel cuore offeso dell'Appennino. La «vecchia storia» cerca di riassorbire la «nuova storia» del villaggio, di riportare tutto alla normalità, come prima, cancellando ogni speranza. La «vecchia storia» cerca di riprendere il potere, di restaurare il vecchio mondo fondato sull’offesa e lo fa subdolamente perché per raggiungere lo scopo si serve delle stesse forze che avevano un tempo lottato contro la «vecchia storia»: Carlo il Calvo infatti per distruggere l’unità del villaggio (facendo uccidere il loro capo spirituale «Ventura») si serve proprio degli ex-partigiani, i «cacciatori» del tutto assorbiti ormai nei meccanismi della «vecchia civiltà»,

della «vecchia storia». Il romanzo finisce nel dramma. «Ventura» per paura del giudizio di «Siracusa», uccide la sua donna (esito della violenza che gli è rimasta

dentro, dal proprio passato di gerarca fascista, nonostante il suo pentimento e la sua lotta per ricreare la «storia nuova» del villaggio). Quindi «Ventura» capisce che l’unico modo per salvare il villaggio e la speranza per una «storia nuova», è quello di sacrificarsi, di consegnarsi ai

«cacciatori» per essere fucilato. Solo così avrebbe potuto fornire un grandioso esempio ai suoi amici del villaggio, un esempio dal quale i sopravvissuti avrebbero potuto trarre la forza per continuare. La morte di «Ventura» diventava la salvezza dell'unione del villaggio, e la «storia nuova» poteva continuare. «Ventura», ex fascista poi pentito e primo benefattore del villaggio rappresenta allegoricamente la vecchia cultura che, pur redenta, non può liberarsi completamente dal suo passato e deve morire, deve sacrificarsi se si vuole che nasca la «nuova cultura». Ma «Ven-

tura» è anche l’intellettuale che deve sacrificare il proprio passato, la propria storia (deve uccidere «Siracusa»). «Ventura» è lo stesso Vittorini, con la metafora della sua vita: quel Vittorini che dopo questo romanzo si sarebbe immolato al «silenzio», si sarebbe messo da parte come il mitico «nonno-elefante», si sarebbe dedicato alla scoperta dei giovani, della «nuova cultura».

Ritorna il tema tanto caro a Vittorini della «vecchia cultura consolatoria» e della «nuova cultura» trattato sulle pagine del «Politecnico». Il romanzo dell’edizione del ’49 finisce dunque nella speranza. Speranza che viene a mancare del tutto nella nuova redazione del 1964. Che cosa era cambiato in Vittorini? Fra la redazione del 1949 e del 1964 c’erano state di mezzo per Vittorini le polemiche con Togliatti, l'allontanamento dal PCI, l’imborghe-

2. LE OPERE - Le donne di Messina (1949 e 1964)

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simento di alcune forze politiche, l'avvento dell’anonima èra industriale e neo-capitalistica, consumistica, l'invasione dell'Ungheria, la fine dell’illusione di un riscatto etico, il ritorno alla normalità, alle struttu-

re del vecchio «mondo offeso», e l’uomo non aveva imparato nulla dalla storia, dalla tragedia dell’evento bellico. Si era passati nell'arco di pochi anni dalla grande speranza alla cocente disillusione. Nella nuova redazione del ’64 il finale del romanzo è mutato. Stavolta Carlo il Calvo insinua subdolamente fra la gente del villaggio i germi della società industrializzata, le comodità della città, e parla loro di «efficienza», di «reddito economico», di «sviluppo sociale». I giovani del villaggio cominciano l’esodo verso la città anonima e alienante, falsamente comoda e attraente. Ora gli abitanti del villaggio sono inve stiti dalle allegotie del benessere economico: «Hanno luci al neon. Hanno scritte luminose. Hanno negozi. Uno di ali-

menti ch'è anche panetteria. Uno di merceria. Una drogheria. E tutti con scritte luminose E il bar, il locale ch’era più una mescita di campagna che veramente un bar, ha una scritta che dice Gelati Motta. C’è inoltre un flipper. Poi c'è un gran rombo di musica che esce ad ondate dal petto d’organo del juke-box del bar o del juke-box dell'Enel» (DM64).

Insomma, non c’è più nessuna traccia di quella «nuova storia» che era sorta sul nulla della guerra e l’ex-villaggio «robinsoniano» di sopravvissuti si è anonimamente uniformato come ogni altra città italiana, è stato assorbito dagli ingranaggi, dai meccanismi subdoli del sistema e Carlo il Calvo ha vinto, la storia di sempre ha vinto, quella basata sull’offesa dell’uomo. «Ventura» non uccide più «Siracusa», non è più l’«eroe» che si sacrifica in nome del villaggio consegnandosi ai «cacciatori», ma adesso è solo «il marito di Siracusa», che si nasconde, si mime-

tizza, è l’«antieroe», è un po’ il simbolo stesso della crisi che attraversa la letteratura contemporanea all'indomani degli entusiastici fermenti dell'immediato dopoguerra. Tutto è tornato normale! Sia nel Sempione... del ’47, sia nelle Donne di Messina del ’49 la guerra aveva creato un'isola nel cuore della storia (la famiglia del «nonnoelefante» nel parco alla periferia industrializzata di Milano, e il villag-

gio di «Ventura» e «Siracusa» nel cuore degli Appennini). Ma quest’isola era rimasta incontaminata, pura. Dopo quindici anni, nelle Donne di Messina del ’64, l’«Isola» si è perfettamente integrata con le strutture neocapitalistiche della città, dalla quale non si differenzia più (l’avvento dell’era industriale su quella contadina era stata importante, in Vittorini, nelle scelte della nuova redazione del ’64).

L’allegoria sta chiaramente ad «indicare anche in questo modo la chiu-

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A. Madeddu — VITTORINI

sura del mito dei paesi comunisti come portatori della nuova storia, e, al con-

trario, non altro che imitazioni minori e inefficienti del tipo di storia che il neo-

: 1,30 : li e perfettamente anche ini Italia». attua ormai : compiutamente capitalismo

I «cacciatori» (gli ex partigiani) nel romanzo del ’64 si erano perfettamente integrati nel sistema, sebbene fossero comunisti,

e cominciarono

perfino ad aggredire gli uomini del villaggio della «nuova storia» («...A furia di parlar tronfio accadde che in tutta tranquillità ridiventarono aggressivi...»). La «politica» si era ridotta alla piccola cronaca quotidiana dei comizi, delle manifestazioni, delle riunioni, degli scioperi, e non era più il tentativo di capovolgere davvero la storia e farla ricominciare.

«ERICA E I SUOI FRATELLI - LA GARIBALDINA»

(1956)

I due racconti pubblicati in un unico volume nel 1956, Erica e i suoi fratelli e La Garibaldina erano stati scritti in realtà parecchi anni prima. Erica... fu eseguita fra il gennaio e il luglio del 1936. Lo stesso Vittorini in una lettera indirizzata ad Alberto Moravia spiegava i motivi che lo indussero ad interrompere il racconto: «Io invidio gli scrittori che hanno la capacità di restare interessati al proprio lavoro pur mentre infuriano pestilenze e guerre... Noi ora abbiamo un mucchio di opere proprio grazie a una capacità simile; e io la invidio molto in chi la possiede, la considero una qualità che può render grande uno scrittore, e la raccomando ai giovani, ma non la posseggo. Un grosso evento pubblico può distrarmi, purtroppo, e provocare un mutamento d’interessi nel mio lavoro come né più né meno una mia sventura (0 ventura) personale. Così

lo scoppio della guerra civile di Spagna, nel luglio del 1936, mi rese d’un tratto indifferente agli sviluppi della storia cui avevo lavorato per sei mesi di fila. [...] Quando ricominciai a scrivere, verso settembre del '37, non fu per riprendere “Erica”. Fu per mettere giù la prima pagina di “Conversazione”. E scrivere la “Conversazione in Sicilia” mi portò più che mai lontano da “Eri»

CAMIIDA

Secondo una sua felice definizione «vita» e «letteratura» erano in Vittorini come «due vasi comunicanti», e il suo fu sempre uno scrivere «a piena vita». Ciò lo portò spesso a interrompere parecchi romanzi ogni

volta che un nuovo improvviso evento storico (in questo caso la guerra di Spagna) gli suggeriva nuovi interessi. Il vivere continuamente di presente gli faceva frequentemente esaurire la carica della quale nutriva i suoi vecchi romanzi, per accendergli altri interessi in una inarresta-

2. LE OPERE - I gettoni (1951-58)

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bile e inquieta tensione intellettuale. Vittorini abbandonò per sempre la stesura di Erica..., né tentò mai più di riprenderla: «Il modo cui mi sono abituato a raccontare da “Conversazione...” in poi — scriveva Vittorini a Moravia — non è esattamente lo stesso in cui questa storia è raccontata. Oggi io sono abituato a riferire sui sentimenti e i pensieri

dei personaggi solo attraverso le loro manifestazioni esterne... Non mi riesce più naturale di scrivere che tal personaggio “sentì” la tal cosa o che «pensò» la tal cosa. Mi riuscirebbe artificioso»..

Erica e i suoi fratelli, romanzo interrotto, ripercorreva le orme della narrativa naturalistica come Il Garofano rosso e gran parte dei lavori di Vittorini antetfri al 1937, ovvero alla stesura di Conversazione in Sici-

lia. La storia di «Erica» (personaggio reale conosciuto da Vittorini a Gorizia), una ragazzina di 14 anni abbandonata dai genitori e costretta a prostituirsi per dar da vivere a sé e ai suoi due fratellini più piccoli, risente di una lontana parentela con la vecchia narrativa verghiana ed è ancora assai lontana dagli esiti originalissimi delle opere successive al 1937. Per certi aspetti, il racconto, intriso di naturalismo, sembra segnare

un passo indietro, verso i modi stilistici ed i temi di Piccola Borghesia, sia per il frequente indugiare all’analisi psicologica, sia per il ricorso a un linguaggio ricco di immagini, seppure meno barocco. La Garibaldina invece fu scritto nel 1950 subito dopo la prima stesura de Le donne di Messina. Ritornano, dunque, i modi stilistici di Conversazione..., e con essi i suoi miti e soprattutto il «viaggio», col suo sot-

tofondo di Sicilia «primitiva» tutto intorno. Ritornano, così, a fischiaire i «treni» vittoriniani, che già furono di Silvestro e di Zio Agrippa. i

Leonilde (la «Garibaldina») è un’anziana baronessa dal carattere forte

e deciso che attraversa la Sicilia e che incarna alla perfezione la classica figura della donna vittoriniana (da «Zobeida», a «Concezione», alla

«figlia del nonno-elefante»). Tutti i temi della narrativa vittoriniana sono, dunque, riproposti, ma in chiave decisamente ironica. Ritorna il fantasma di una Sicilia immutata ed immutabile, coi suoi problemi di sempre, le disparità sociali, i pregiudizi, la miseria. E tuttavia sono pagine, intrise di venature grottesche e di colore, che non riescono mai a raggiungere i toni drammatici di Conversazione...

«I GETTONI» (1951-1958) Il ruolo di talent scout ed il coraggioso rifiuto del «Gattopardo»

La rivista «Politecnico» fra i suoi tanti meriti ebbe anche quello di

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A. Madeddu - VITTORINI

dare l'opportunità a tanti giovani scrittori di farsi conoscere dal pubblico. Il progetto vittoriniano di una «nuova cultura» passava anche attraverso questa prospettiva. La collana «I Gettoni» ideata e diretta da Elio Vittorini per la casa editrice Einaudi colmava un po’ la lacuna provocata dalla chiusura di «Politecnico». Vittorini scoprì parecchi giovani scrittori, poi diventati famosi, leggendo e selezionando i loro dattiloscritti, aiutandoli, incoraggiandoli e presentandoli al grande pubblico nella collana «I Gettoni», a volte mettendovi anche le mani per importanti rifacimenti. Quella che fu definita «la celebre facoltà di talent scout di Vittorini» (Gronda) favorì quindi un ulteriore arricchimento della vita let-

teraria italiana e il suo rinnovamento. «Uno scrittore — scrisse Lalla Romano — non deve ringraziare nessuno.

A meno che, al posto di un qualsiasi bravo rifacitore, non ci sia, come c'è stato un tempo, un nome come quello di Vittorini, che ha aiutato molte persone a diventare scrittori. ‘“Il sergente nella neve” di Rigoni Stern, per esempio, è quasi tutto un suo rifacimento. Ma lui era uno scrittore ed insegnava

agli altri ad esserlo, correggendo, suggerendo, tagliando. Era uno scrittore-pedagogo: non un correttore. Oggi uomini come Vittorini, incaricati di seguire

gli autori nelle case editrici, non ce ne sono più»8”. Con i propri «Gettoni» Vittorini lanciò gran parte dei giovani scrit-

tori italiani del dopoguerra, tra i quali Calvino, Sciascia, Tobino, Cassola, Arpino, Fenoglio, Guerra, Rigoni Stern, Bonaviri, Romano e altri

ancora. «Ciò che colpisce nei risvolti, riletti ora a distanza di anni, dopo che mol ti giudizi che vi sono contenuti (negativi, positivi, perplessi) sono stati confermati dagli esiti successivi, è, più ancora dell’acutezza dell’intuizione critica, la sua straordinaria sincerità e onestà intellettuale».

Vittorini distingueva la letteratura in due categorie: la «letteratura . venosa» e la «letteratura arteriosa». La prima era quella retorica, vuota, asfittica, la seconda era quella viva, ricca di ossigeno, innovatrice. I

libri degni della pubblicazione sui «Gettoni» dovevano appartenere alla seconda categoria: «Due — scriveva Vittorini — sono in effetti imotivi per cui un manoscritto

può diventare un gettone: o la sua innocenza, e cioè la sua validità documentaria; oppure la sua forza, anche artificiosa, o bizzarra, ma comunque crea-

tiva, che l’autore dimostri di possedere attraverso le sue pagine».

2. LE OPERE - Igettoni (1951-58)

9g)

L'episodio più clamoroso avvenne quando Vittorini respinse Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, visto dall’intellettuale siracusano come epigono del realismo ottocentesco di estrazione francese e, dunque, in aperto contrasto con la sua battaglia di rinnovamento della cultura italiana. La lettera inviata al Tomasi rivela per intero il grande rispetto per l’autore e per l’opera, ma al contempo il coraggio e il rigore della propria onestà intellettuale davanti alla scelta di coerenza che la battaglia per una «nuova cultura», non più consolatoria, gli imponeva, anche a costo dell’altissimo prezzo che un tal rifiuto avrebbe comportato. «Egregio Tomasi, — scriveva Vittorini — il suo Gattopardo l’ho letto davvero con interesse e attenzione. Anche se come modi, tono, linguaggio e im-

postazione narrativa può apparire piuttosto vecchiotto, da fine Ottocento, il suo è un libro molto serio e onesto, dove sincerità e impegno riescono a toccare il segno in momenti di acuta analisi psicologica. [...]. Tuttavia, devo dirle la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti, e io credo che questo squilibrio sia dovuto ai due interessi, saggistico (storia, sociologia, eccetera...) e narrativo, che si incontrano e scon-

trano nel libro con prevalenza, in gran parte, del primo sul secondo. Voglio dire che, seguendo passo passo il filo della storia di don Fabrizio Salina, il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto di un’'epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell'epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell'epoca. Il linguaggio, più che le scene e le situazioni mi pare riveli meglio, qua e là, il prevalente interesse saggistico-sociologico del romanzo [...]. Queste, in definitiva, sono le mie impressioni di lettore e gliele comunico pensando che, in qualche modo, potrebbero anche interessarle».. Tuttavia Vittorini, che non era certamente uno sprovveduto, colse le immense potenzialità d’intrattenimento del romanzo e lo consigliò alla Mondadori, della quale era in quel tempo consulente editoriale. Il rifiuto del Gattopardo, infatti, fu limitato ai soli «Gettoni», coerentemente con

il progetto di letteratura che quella collana allora esprimeva in Italia. Un appunto inedito inviato da Vittorini a Mondadori e pubblicato recentemente su «Linea d'ombra» da Edoardo Esposito fa luce definitivamente sul luogo comune del «rifiuto», smascherando quella che è stata giustamente definita una leggenda editoriale. Oltre a «I Gettoni», Vittorini diresse le collane «Pantheon» (’40) e «Corona» ("42) presso Bompiani, «Quaderni della Medusa» (’62) e «Medusa degli stranieri» (’64) presso Mondadori, «Nuovo Politecnico» (’65)

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A. Madeddu— VITTORINI

presso Einaudi. Tradusse, inoltre, opere dall'inglese e dal francese facendo

conoscere la letteratura americana, il teatro spagnolo e le poesie di Garcia Lorca, avviando così una politica di sprovincializzazione della cultura italiana e conferendo alla nostra letteratura contemporanea un respiro davvero europeo. Dal 1951 al 1958 Vittorini fece pubblicare sui suoi «Gettoni» 58 libri e presentò al pubblico 49 giovani autori, rinnovando anche in questo modo la narrativa del paese e confermandosi il più incisivo organizzatore di cultura del suo tempo.

«DIARIO IN PUBBLICO» (1957) Nel 1957 Vittorini pubblicava presso Bompiani Diario in pubblico una raccolta organica dei suoi maggiori scritti di natura letteraria e politica, che suscitò presto nuove polemiche e che fu ristampata nel 1961 con una nuova appendice a Parigi dall’editore francese Gallimard. Vittorini definì questo suo nuovo lavoro il «libro in cui ho raccontato, attraverso scritti di una lunga serie di anni, la vicenda non privata delle mie partecipazioni culturali e politiche». Il novanta per cento del libro ospitava materiale già edito: saggi, pagine narrative sparse in giornali e riviste, interviste radiofoniche, interventi critici che Vittorini, come in una sorta di «antologizzazione» di sé stesso, aveva pazientemente selezionato, tra i tanti comparsi dal 1929 al 1956, affinché potessero «completarsi l’un l’altro, lungo il filo delle date, sino

a trovare una loro ragione d'insieme e una loro unità». Il libro è suddiviso in quattro parti, ordinate secondo criterio cronologico e contraddistinte da quattro differenti titoli che alludono chiaramente all’interesse predominante coltivato dall’autore negli anni indicati: «La ragione letteraria» (1929-1936), «La ragione antifascista» (19371945), «La ragione culturale» (1945-1947), «La ragione civile» (1948-

1956). Nella prima parte Vittorini cerca di consegnare ai lettori quell’immagine di lui più strettamente legata agli autori e agli artisti che hanno finito con l’educare il suo gusto giovanile di scrittore. Nelle altre parti del libro prevalgono invece gli interventi di carattere politico, attraverso i quali emerge chiaramente un quadro impietoso della crisi vissuta dagli intellettuali del suo tempo, un ritratto fedele e drammatico del travaglio dell'intera nostra cultura e società. Maturato e realizzato dopo un lungo periodo di silenzio, negli anni della grande crisi di Vittorini susseguente alla morte del figlio Giusto

2. LE OPERE — Il Menabò (1959-1967)

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(1955) e all’invasione dell'Ungheria (1956), Diario in pubblico, secondo

Salinari, rappresenta «lo specchio del travaglio profondo subito dalla cultura italiana negli ultimi trent'anni guardati attraverso un obiettivo di prim'ordine. [...] Esce confermata la statura di Vittorini come uomo di cultura e la sua funzione determinante di lievito nella letteratura contemporanea»®3. Diario in pubblico vide la luce nel 1957 per i tipi della Bompiani. Nel 1961 Gallimard lo pubblicò a Parigi con una appendice contenente gli scritti relativi agli anni 1957-60. Dopo la scomparsa di Vittorini, Bompiani curò una nuova ristampa del libro con un’ulteriore appendice relativa agli anni 1960-61, ribattezzata «La ragione conoscitiva», in sintonia con i nuovi*interessi verso la sperimentazione e la ricerca che Vittorini manifestò nei suoi scritti degli anni Sessanta sul «Menabò».

«IL MENABÒ» (1959-1967)

L'evento più importante di questi anni è la nascita del «Menabò», rivista fondata e diretta dal 1959 da Elio Vittorini e Italo Calvino presso l’editore Einaudi. «Vorremmo riuscire a trovare — scriveva Vittorini — (0 a provocare) dei testi che sapessero rinnovare il rapporto con la storia e ripristinare insieme

uno con la natura: dei testi capaci anche di ricordare che il primo dovere degli uomini è di essere felici. (Questo non per se stessi, naturalmente. Ma nella storia e di fronte ad essa, di fronte al genere cui apparteniamo. Come il sole, per esempio, ha il dovere di splendere e produrre calore. Mica è per sé, nel risultato. È per gli altri). Se poi non riusciremo a trovarne, di testi in questo senso, avremo almeno documentato l'impossibilità attuale di averne». Il «Menabò» ha sia i caratteri della rivista, sia quelli della collana, è insomma «Politecnico» e «I Gettoni» insieme. La rivista si articola su tre livelli. Innanzitutto la pubblicazione di testi di letteratura creativa (poesia, narrativa, teatro) che, come per «I Gettoni», Vittorini correda

di note e seleziona fra gli autori giovani per favorirli e incoraggiarli grazie al suo noto ruolo di «talent-scout». In secondo luogo la pubblicazione delle discussioni, dei dibattiti, delle lettere e di tutto il lavoro che sta a

monte della rivista per coinvolgere i lettori nel ruolo di «operatori scientifici». E infine il maggiore spazio all’analisi teorica, perché rispetto a «Politecnico», il «Menabò» non è rivolto alla divulgazione, ma al pubblico specialistico. Nel primo numero, uscito nel ’59, Vittorini condu-

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A. Madeddu — VITTORINI

ce un’analisi spietata della crisi che attraversava la letteratura italiana del tempo. Negli altri numeri presenta giovani scrittori e si occupa della parte teorica e in particolare di problemi linguistici ed epistemologici «Parlato e metafora». Nei numeri 4 e 5 Vittorini solleva un’altra delle sue ormai celebri polemiche soffermandosi sul rapporto «Letteratura-Industria».

Ma dove la rivista acquista un respiro internazionale è nel 7° numero (1964) quando Vittorini progettava la nascita del «Gulliver», una nuova rivista redatta in tre lingue (italiano, francese e tedesco) che servis-

se come punto di partenza per la cooperazione della cultura europea. In tal senso, Vittorini aveva già preso contatti con gli editori Einaudi di Torino, Julliard di Parigi, Suhrkamp di Francoforte. «Noi — scriveva Vittorini — suggeriamo se non altro in quale direzione, in quale combinazione, si potrebbe oggi svolgere un lavoro comune tra scrittori di più paesi». Quello di creare una rivista cosmopolita a carattere internazionale era sempre stato il sogno dell’intellettuale siracusano, che dopo aver imparato da autodidatta e in modo del tutto originale l’inglese, il francese, lo spagnolo e in parte il tedesco, e dopo essere divenuto uno dei punti di riferimento più prestigiosi tra gli intellettuali della cultura internazionale, voleva portare a compimento quel suo progetto di sprovincializzazione della letteratura italiana già avviato con Americana e «Politecni-

co». Il numero 9 della rivista viene dedicato interamente alla letteratura tedesca. Ma il 12 febbraio 1966 Elio Vittorini muore nella sua abitazione di Milano stroncato prematuramente da un male incurabile. L’ultimo numero del «Menabò», il 10, Italo Calvino lo dedicò interamente

al suo grande amico e maestro siciliano. Ancora una volta Vittorini aveva dato vita ad una delle iniziative culturali più interessanti degli anni °60, grazie al «suo calore, la sua forza di coesione, il disinteresse che resterà

leggendario» (Vittorio Sereni).

«LE DUE TENSIONI» (saggio postumo — 1967)

Negli anni ’60 (durante l’esperienza del «Menabò») Vittorini andava elaborando una generale sintesi delle sue originalissime teorie sulla letteratura, sul linguaggio e sui problemi loro connessi. Nel 1967, ad un

2. LE OPERE —Le due tensioni

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anno dalla scomparsa, tutti i suoi appunti, le carte manoscritte del fondo vittoriniano e le pagine dattiloscritte venivano raccolte da Dante Isella e pubblicate in un volume dal titolo Le due tensioni. Si trattava di uno zibaldone di appunti e di idee che, per la sua natura di opera incompiuta e frammentaria, nonché per le tesi sostenute non mancò di scatenare al contempo plausi e polemiche violente. L'argomento centrale è quello della letteratura. «Ma non è solo la letteratura l'oggetto della riflessione wittoriniana: lettere scientifiche, sociologiche, economico-politiche ampliano la cerchia dei suoi interessi e li diramano in più direzioni in una perlustrazione ricca di scoperte e di sorprese di cui questo li-

bro bellissimo costituisce la mappa». La domanda di fondo comunque resta la stessa:-«@he ‘cos'è la letteratura?». Vittorini in passato ne aveva dato già significative definizioni: dalla equazione Letteratura-Melodramma di Conversazione... (la musica sta al melodramma come il «linguaggio poetico» sta alla natrativa), alla definizione di «letteratura arteriosa» e «letteratura venosa», dalla concezione

di una «letteratura non più consolatoria» alla teorizzazione dell'autonomia dell’arte dalla politica. Negli ultimi anni della sua vita Vittorini va elaborando la sua definitiva teoria sulla letteratura. Teoria che egli suole definire delle «due tensioni». Nel rapporto tra letteratura e realtà, osservava Vittorini, sono operanti due «tensioni»: quella «razionale» che innova perché riesce ad adeguarsi alle mutate condizioni della realtà (il progresso scientifico), e quella «espressivo-affettiva» che nello stesso tempo consuma e rende naturale, istintivo e affettivo ciò che la «tensione razionale» ha già innovato. La cultura scientifica è sostenuta in pratica dalla «tensione raziona-

le» (quella che innova adeguandosi al progresso), mentre nella cultura umanistica opera essenzialmente la «tensione espressivo-affettiva» (quel la che rende naturale, familiare l'innovazione già avvenuta). Tuttavia non dovrebbe esistere una contrapposizione fra cultura scientifica e cultura umanistica:

«In realtà — scriveva, infatti, Vittorini — la cultura è sempre basata sulla scienza. Quella antica era unita sulle basi della scienza antica. La scissione

è avvenuta col nascere di una nuova scienza, col metodo sperimentale di Galilei. L'attuale contrapposizione tra cultura umanistica e cultura scientifica è uno pseudo concetto. In realtà la vera contrapposizione è tra una cultura vecchio-scientifica e una cultura nuovo-scientifica» (DT).

Nell’età classica, in pratica, il livello della scienza era pari a quello della letteratura, quindi cultura scientifica e cultura umanistica coincidevano, anzi era tutta cultura scientifica per le conoscenze di quei tempi.

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A. Madeddu — VITTORINI

Quando poi la scienza è progredita (dopo Galilei) senza il successivo e

naturale adeguamento della letteratura, il rapporto si è scisso ed è nato

il dualismo fra cultura umanistica (la vecchia cultura scientifica) e cul-

tura scientifica (la nuova cultura scientifica). Dopo una attenta analisi Vittorini (ecco la grande accusa) conclude che è dalla metà dell’Otto-

cento che la letteratura europea manca di «tensione razionale», continuando a far riferimento al sistema settecentesco, perché non ha rico-

nosciuto che «le invenzioni tecniche portano a innovazioni strutturali equivalenti a rivoluzioni». Così non avendo fatto propria la realtà mutata dalle innovazioni tecnico-scientifiche degli ultimi tempi, la cultura umanistica ha creato una profonda frattura fra se stessa e la cultura scientifica. Per quest'ultima, secondo Vittorini, bisognava dunque lottare. La critica parlò subito di «neo-illuminismo vittoriniano».. Per quanto riguardava la narrativa Vittorini, infine, distingueva due modi possibili di narrare le cose: la narrativa dove l’io oggettivante è il soggetto di una «costruzione oggettiva» e quella dove l’io è il costruttore di una «costruzione congetturante» dell’oggettività. Nel primo caso c’è «un io che vuole assoggettarci alla sua visione (data come unica possibile) », e que-

sto avvenne nel realismo borghese. Nel secondo caso «l’io costruttore — scriveva Vittorini — si dà per parte non privilegiata del mondo oggettivo che solo sperimentalmente si pone fuori di esso, in un punto d’ Archimede operatorio».

Quello che deve interessare il narratore infatti, continuava l’intellettuale siracusano, «non è una mimesi della realtà ma una utilizzazione della

realtà che possa rendere immediatamente, subito, e costituire subito, per le forze storiche, un'arma, uno strumento di trasformazione. Ma costruzione

dell'oggetto deve essere in sé e per sé costruzione di tutta intera l’idea della realtà». Una definizione, come si vede, che prende le distanze dal neoreali-

smo, che spiega il linguaggio narrativo simbolico di Conversazione... e di altri suoi capolavori, e che in un certo senzo anticipa le nuove tematiche delle neoavanguardie.

«LE CITTÀ DEL MONDO»

(romanzo postumo — 1969)

Partendo da esperienze realistiche — Piccola Borghesia, Sardegna come un'infanzia, Garofano rosso, Erica e i suoi fratelli — Vittorini era approdato ad una narrativa poetica altamente allegorica: Conversazione in Sicilia, Uomini e no (in parte), Il Sempione strizza l'occhio al Frejus, Le donne di Messina e La Garibaldina, ne sono l’esempio evidente.

2. LE OPERE -Le città del mondo

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L'epilogo naturale di tutto l’iter artistico vittoriniano è Le città del mondo, un romanzo postumo e incompiuto che, proprio perché raccoglie come in un «gran finale» tutte le tematiche più care, sembra rappresentare oggi il testamento letterario e spirituale di Elio Vittorini. L'opera, il cui titolo originario era I diritti dell’uomo, fu iniziata nel 1952 in seguito ad una visita ai territori inondati del Polesine (come si legge in una lettera indirizzata a Dionys Moscolo), ma fu interrotta nel 1955 per un gravissimo evento: la prematura morte del figlio Giusto. Il lutto, l'invasione dell'Ungheria del ’56 ed altri tristi avvenimenti sortirono notevoli mutamenti nell’animo di Vittorini, che quando riprese a lavorare dal ’57 al ’59 articolò l’opera in tre storie distinte, dalle quali ricavò due romanzi per via della sua scarsa simpatia verso i romanzi lunghi, «pieni di tessuto connettivo». Di uno solo, tuttavia, Vittorini, portò

a termine la sceneggiatura, che poi fu utilizzata dal regista Nelo Risi per un film della RAI nel 1975. Vittorini, come spesso accadde nella sua vita, non era contento dei due romanzi e confessò di non averli ancora bruciati solo «per vigliaccheria». Nel 1961 addirittura sospese insoddisfatto l’opera e ne chiuse a chiave gli scritti, incompiuti, nel suo cassetto. Fu Ginetta Varisco che salvò dalle fiamme il manoscritto. Rimasto inedito per parecchi anni (nonostante le insistenti richieste di pubblicazione rivoltegli dagli amici) il romanzo di Vittorini fu pubblicato dopo la sua morte da Camerano

(nel 1969) in unico volume suddiviso in tre

parti: la prima contenente già le tre storie, la seconda articolata in «capitoli non numerati» riguardanti storie vecchie e nuove, la terza composta soltanto di «frammenti». Le città del mondo sono le città della Sicilia: «...una Sicilia — scriveva lo stesso Vittorini — in cui i paesi e le città, per il continuo spostarsi dei personaggi che sono pastori e contadini, venditori ambulanti e camionisti, zolfatari e campieri, sono come vie, piazze angoli di una medesima città, e nello stesso tempo è come se questa Sicilia racchiudesse entro i suoi confini l'universo, poiché tutto ciò che nel libro viene citato come estraneo all'isola è ancora come se fosse Sicilia». Il mito robinsoniano del «viaggio» che era cominciato dal singolo Silvestro di Conversazione..., per poi allargarsi alla famiglia del Sempione..., e allargarsi sempre di più al villaggio delle Donne di Messina, qui si dilata, diventa cosmico: come in un immenso presepio dal sapore biblico, qui è tutta la Sicilia che viaggia, che si muove avanti indietro alla ricerca della «città ideale» in questa surreale atmosfera da «gran finale». «Viaggio», «conversazione» e «utopia», i tre temi cari all’«umanesimo

vittoriniano» sono presenti dunque in quest’ultima grande opera.

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A. Madeddu — VITTORINI

La prima storia del libro è l’unica portata a termine compiutamente da Vittorini e narra delle vicende parallele di «Rosario» e «Nardo» e dei loro rispettivi padri («Il Pastore» e «Matteo»). La seconda storia tratta dei vagabondaggi della anziana meretrice «Odeida» e della giovane amica «Rea Silvia». La terza infine si occupa dei giovani sposi «Gioacchino» e «Michela» in viaggio di nozze e di fuga. Anche in quest'opera i nomi sono spesso simbolici come nel caso della profetica e misteriosa Signora delle Madonie. E anche in quest'opera sembrano rivivere tutti i personaggi del mondo vittoriniano, come la «Garibaldina» che adesso è diventata la «Signora delle Madonie». Le tre storie, nei primi cinque capitoli, partono insieme, per poi dividersi e svilupparsi alternativamente con una tecnica di montaggio nella quale si frantuma l’unità della trama, del tempo e dello spazio, e attraverso la quale i personaggi vengono coinvolti da un vorticoso movimento di diaspora che rievoca il sapore delle meravigliose vicende ariostesche dell’Orlando Furioso (non è privo di significato il fatto che in quegli stessi anni Vittorini aveva portato a termine una edizione critica dell’opera di Ariosto). Così Paolo Orvieto traccia la mappa dei viaggi dei personaggi: «La linea del viaggio percorso da Rosario e il padre (Scicli-deserto dell’altipiano dell’Irminio-Contessa Entellina-Ragusa-Monte di Chiaromonte Gulfi-Mirabella Imbaccari-Aidone-Agira) forma con la linea percorsa da Nardo e il padre (Contessa -Entellina-Nicosia-Troina Sperlinga-Nicosia-Valle di Salso-Agira) una retta che interseca perpendicolarmente la Sicilia da Nord a Sud. Un'altra retta che interseca la prima nel comune punto d'incontro (Agira, appros-

simativamente al centro dell’intera regione) attraversa da levante a ponente la Sicilia: da levante prende l’aire “La donna del carrubbo”, da ponente Gioacchino e Michela»85)., L'intrecciarsi delle storie dei vari protagonisti, in un’atmosfera onirica e fantastica, si configura proprio nell’incrocio geografico appena osservato. «Storia, dunque, di una terra, svolta con accentuata arsi corale; nella qua-

le su una piattaforma narrativa si innesta, come in una favola la ricostruzione di un mondo arcano e numinoso, intatto e incolpevole. ...Una terra mito,

insomma, adatta perché vi fosse ambientata una vicenda di genere cosmogonico: una storia senza tempo perché include tutti i tempi. ...Come in uno schermo ingannevole e cangiante, il profilo di misteriose, se pur reali, città appare a due pastori di pecore, un padre e un figlio, così come accade, contemporaneamente, ad altri personaggi, che vagano anch'essi, forse riconoscendo e fuggendo ciascuno il proprio destino per ricercarne un altro più segreto

2. LE OPERE - Le città del mondo

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e inafferrabile. Si sovrappongono, in successione ininterrotta, monti e cambagne, piazze e strade, come immagini di un’unica città: quella in cui l’autore ha concentrato, con un'ardita operazione inventiva, il volto dell’univer-

so, piccola particella e spazio immenso, dilatato sino ai confini dell’inaccessibile e pure raccolto nel cuore della terra siciliana»®9. Il tema centrale del romanzo, ancora una volta, si configura nel ritorno ad un mondo di natura arcaico e primitivo alla ricerca di una fe-

licità perduta, in un’interpretazione addirittura religiosa dell’esistenza umana (si pensi, per quanto riguarda la poesia, al tema quasimodiano di una Sicilia vista come mitico eden). La ricerca irrequieta della «città» perfetta, e quindi-della giustizia, della dignità, della solidarietà fraterna sa allo stesso tempo di biblico e di illuministico, e sembra ricordare l’«utopia» campanelliana della Città del Sole. Il romanzo, tuttavia, non piacque a Vittorini che proprio in quegli anni andava elaborando la nuova teoria delle «Due Tensioni» e che vedeva nel suo ultimo lavoro il frutto della «Tensione affettiva» più che di quella «razionale». Il suo romanzo, dunque, non poteva sapergli se non di «vecchio», ed il suo desiderio era quello di rivolgere la sua narrativa alla realtà moderna, al mondo industriale e della città, non già al mondo contadino siciliano di cui aveva fatto senza volerlo una sublime celebrazione ne Le città del mondo. Negli ultimi anni della sua vita Vittorini aveva scritto un celebre articolo sul «Menabò», «Letteratura e Industria», ed aveva inserito i temi della nuova civiltà industriale nella

seconda redazione de Le donne di Messina. La verità è che la «Tensione razionale» prevalse solo nel Vittorini saggista, critico e giornalista, mentre nel Vittorini narratore finì col pre-

valere sempre la «Tensione affettiva». La sua irresistibile vocazione lirica lo portò a trasfigurare il dato reale e particolare nel simbolo, nell’allegoria, nel mito universale. Ma fu proprio questa vocazione lirica che ci consegnò le più belle pagine della narrativa vittoriniana (da Conversazione... in poi); come allo stesso modo fu la sua «tensione razionale»

che ci consegnò le più belle pagine della saggistica vittoriniana. Le sue «due tensioni» finirono per «spaccare» il personaggio stesso, sempre inquieto e perennemente volto al «viaggio», alla ricerca, ad una operosa tensione intellettuale. Le sue enormi ed innate potenzialità di grandissimo narratore furono paradossalmente soffocate dalle sue stesse straordinarie capacità raziondli. E più di una volta Vittorini tentò di bruciare lavori che poi la critica considerò nel suo genere dei capolavori. «L'edizione postuma de “Le città del mondo” — scriveva Giovanna Gronda — ha trovato una critica sorpresa dall’intensità di un romanzo così ostina-

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A. Madeddu -VITTORINI

tamente rifiutato dal proprio autore»9?. Geno Pampaloni inoltre sosteneva che «le prime cento pagine sono davvero molto belle, le più belle che lo scrittore ci abbia lasciato». E Ines Scaramucci affermava: «una serie di pagine (le prime cento) che, a ragione, sono state giudicate le più belle della nostra letteratura contemporanea»89.

L’ELOQUENZA DI UN... DIGNITOSO SILENZIO

Negli ultimi quindici anni Vittorini smise quasi completamente di scrivere romanzi e si dedicò all’organizzazione della cultura per scoprire, lanciare nuovi talenti e per far spazio ai giovani. I conflitti interni, generati dalle sue paradossali «tensioni», la crisi della narrativa contemporanea, le disillusioni storiche lo condussero alla scelta più sofferta e difficile ma anche più onesta. Fra la prospettiva di facili guadagni con la pubblicazione di nuovi libri e la scelta di un dignitoso e simbolico silenzio, Vittorini dall’alto del suo «leggendario disinteresse» scelse la seconda soluzione, fece come il protagonista di un suo romanzo, il «Nonno Elefante»: si mise da parte. Per tutta la cultura italiana ciò rappresentò a lungo un mistero. Un giorno, però, un giornalista lo andò a trovare nella sua abitazione milanese chiedendogli i motivi di tale «clamoroso» silenzio: «Perché taccio da tanto tempo? — rispose Vittorini allargando le braccia — Perché non posso rassegnarmi a pubblicare delle cose arcaiche, delle opere che potrebbero semmai soddisfare la mia volontà, ma che non mi giustificherebbero agli occhi dei miei contemporanei. È l’uomo che m'interessa. La sua felicità. Se noi scrittori non sappiamo portare il nostro contributo a questa felicità vuol dire che il nostro lavoro non ha senso, è inutile». Sono parole di un’onestà intellettuale straordinaria, che delineano ancora di più la sua grande statura morale. Di lì a qualche tempo, come «Muso di fumo» dopo il suo discorso sulla morte, Vittorini avrebbe concluso i suoi giorni. «Il suo silenzio — scrisse Enzo Golino — provocò la falsa coscienza collettiva a riflettere in quello specchio eloquente i propri limiti, le proprie impotenze, la propria mancanza di coraggio morale».

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NOTE AL CAPITOLO SECONDO

A. Panicali, Il primo Vittorini, Celuc, Milano 1973. E. Vittorini, Il brigantino del Papa, a cura di Sergio Pautasso, Rizzoli, Milano, 1985.

.Idem, p. XII. Idem, p. XIV-XVIII.

J. Rivière, Le roman d’aventure, in «Nouvelles ètudes», Gallimard, Parigi 1947. G. Ferrata, prefazione a Il Garofano rosso, Mondadori, Milano 1976. Idem. F. Fortini, Un garofano tra due poetiche, in «Fiera letteraria», 4-7-1948. G. Manzini, Hgdrofano rosso, in «Illustrazione Italiana», 12-12-1948. G. Falaschi, prefazione a Conversazione in Sicilia, p. V, Einaudi, Torino 1975. G. Pampaloni, I nomi e le lagrime di Elio Vittorini, in «Il Ponte», n. 12, dicembre 1950, pp. 1531-1541. G. Gronda, Per conoscere Vittorini, Mondadori, Milano 1979.

G. Pintor, L’allegoria del sentimento, in «Sangue d’Europa», Einaudi, Torino 1975, pp. 95-98. E. Sanguineti, introduzione a Conversazione in Sicilia, Einaudi, Torino 1967. Tutte le citazioni di questo carteggio sono tratte da A.C.S., «Min. Cultura Popolare», Busta 27, Fascicolo 403, Ed. Bompiani Valentino. Un’esauriente raccolta è

stata curata da Giuliano Manacorda, Come fu pubblicata Americana, in «Atti del Convegno Nazionale di Studi su Elio Vittorini», Siracusa 12-13 febbraio 1976, Ed. Greco, pp. 63-68. I

L. Piccioni, Coerenza di Vittorini, in «Sui contemporanei», Fabbri, Milano 1953. C. Bo, Impegno ed evoluzione della narrativa vittoriniana, in «La fiera letteraria», 2910-1950. A. Beguin, Deux romans de Vittorini, in «Temoignage chrètien», Ginevra 14-071950. C. Pavese, Lettere 1945-1950, Einaudi, Torino 1966 p. 7. C. Pavese, Lettere 1924-1944, Einaudi, Torino p. 662. M. Zancan, Elio Vittorini: da il Politecnico a il Menabò, in «Atti del Convegno...», op. cit, pp. 225-253. G. B. Squarotti, Natura e storia nell'opera di Vittorini, in «Atti del Convegno...», op. cit., pp. 15-45. G. Petronio, L'attività letteraria in Italia, 1970. P. M. Sipala, Aggiornamenti critici su Elio Vittorini, in «Atti del Convegno Nazio-

nale di Studi su Elio Vittorini», Siracusa 12-13 febbraio 1976, Ed. Greco, pp. 255264. Idem. ) E ora rivalutiamo Tasca e Vittorini, intervista

24.5.1990. —

a Umberto Ranieri su «Repubblica»

S. Addamo, È tardi compagni, su «La Sicilia» 12-6-1990. G. Gronda, op. cit. C. Minoia, introduzione a Il Sempione..., Einaudi, Torino 1980. G. B. Squarotti, op. cit.

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A. Madeddu - VITTORINI

31) E. Ferri, Scrivi, che ti riscrivo meglio: Vittorini correggeva Pasolini, ma i Vittorini oggi dove sono?, in «Corriere della Sera», 12-7-1987.

32) G. Gronda, op. cit. 353) C. Salinari, La questione del realismo, Parenti, Firenze 1960.

34)

G. Gronda, op. cit.

35) P. Orvieto, Padri e figli nel romanzo postumo di Elio Vittorini, in «Paragone», agosto 1971, p. 258. 36) R. Sgroi, Le città del mondo: Vittorini tra realismo e utopia, in «Atti del Convegno...», op. cit., pp. 97-102.

37) G. Gronda, op. cit.

38) G. Pampaloni, in «Corriere della Sera», 21-9-1969. 39) I. Scaramucci, La ricerca umana di Vittorini, in «Atti del Convegno...», Siracusa 12-13 febbraio 1976, op. cit., pp. 103-118.

40)

G. Grieco, Elio Vittorini, in «Grazia», Mondadori, Milano 27-11-1960.

41) E. Golino, Vittorini: l’uomo di qualità, in «Tempo presente», p. 44, 2-2-1966.

sie a:

» LO SCRITTORE E L’UOMO IL GIUDIZIO DELLA CRITICA

È difficile compiere una rassegna esauriente della bibliografia concernente l’ormai vastissima critica vittoriniana. Tuttavia è utile accenna-

re, sia pure brevemente, alle ipotesi interpretative più interessanti. Gli esordi di Vittorini non suscitarono immediatamente un grande interesse nella critica, visto il carattere sperimentale della sua opera e le nette distanze prese nei confronti della tradizione letteraria del Pae-

se. I saggisti legati all’estetica crociana del tempo restarono quasi indifferenti davanti ai suoi primi libri, con la sola eccezione di Pietro Pan-

crazi, il quale tuttavia non riuscì ad andare al di là di un’interpretazione piuttosto esteriore dell’opera, senza alcun tentativo di studio analitico interno al narrato vittoriniano. E nemmeno la prospettiva interpretativa avanzata dai saggisti legati agli ambienti degli «Ermetici» come Oreste Macrì ed altri sembrano essere giunti a risultati convincenti per l'eccessivo e limitativo voler puntare al solo aspetto ermetico del lirismo vittoriniano. Senz'altro più acuti e profondi si sono rivelati, invece, i saggisti legati agli ambienti solariani come Giansiro Ferrata e soprattutto Sergio Solmi® che già nel 1931 aveva ben delineato alcuni capisaldi della tecnica narrativa di Vittorini. Una vera e propria svolta negli orientamenti critici dominanti si ha subito dopo il secondo conflitto mondiale. La guerra aveva costituito il vaglio per la nostra cultura, e varie ed intense reazioni avevano finito con l’assalire l’estetica ufficiale di matrice crociana, di fronte alle cre-

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A. Madeddu — VITTORINI

scenti esigenze di uno storicismo integrale. Diventò preminente nel critico la valutazione dell’aspetto ideologico, politico, dell’opera letteraria. In tal senso, i critici marxisti del dopoguerra, e tra questi soprattutto

Salinari e Trombatore®, diedero valutazioni negative dell’opera vittoriniana.

Vittorini fu accusato dalla critica marxista ortodossa di un’interpretazione astorica del fascismo e di un eccessivo «idealismo» nel momento in cui guardava ai suoi «uomini offesi» colti al di fuori di qualsiasi dialettistica marxista di lotta di classe, quasi che questa «umanità offesa» di Vittorini coincidesse coi «beati» dell’Evangelo di San Giovanni nel «Discorso della Montagna di Cristo». Ha ragione, però, Pautasso‘9 quando scrive che «l'equivoco è quello di voler chiedere ad ogni costo un messaggio allo scrittore e di far dipendere la riuscita o meno di un’opera dalla portata di questo messaggio, mentre dovrebbe essere evidente che un’opera è valida [...] sul piano dell’innovazione stilistica». Ed ancora più esplicito sul tema è Giuseppe Bonaviri, che sottolinea il primato della funzione narrativa su quella ideologica: «...Se Vittorini si salva letterariamente non è perché fu antifascista. Fra due, tre generazioni la gente non sarà più né fascista né antifascista, così come noi oggi non ci interessiamo più né di Bismarck né di Metternich. [...] La funzione dello scrittore è quella di narrare». Su posizioni non distanti da quelle dei critici marxisti si è attestato anche il giudizio di Alberto Asor Rosa‘, di Enzo Siciliano!” e di Giuliano Manacorda‘!%. Assai interessante si presenta l’opera di Sebastiano Addamo che col suo saggio «Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea»!!! valuta il peso avuto dallo scrittore siracusano nel dopoguerra. E sebbene negli ultimi tempi si sia verificato un certo «...prendere le distanze da Vittorini», secondo Addamo,

«...tuttavia Vittorini continua a costi-

tuire un passaggio obbligato. Vi si va ad impattare», perché in fondo è lo scrittore «...che in qualche modo ha avuto in sorte di segnare il tempo della cultura per almeno un ventennio»!!2. Una rivalutazione del Vittorini narratore viene operata invece dalla seconda generazione di critici marxisti non ortodossi, ma più propria-

mente sperimentali, come Armanda Guiducci0, che ha evidenziato

l'importanza di Vittorini sul problema dei rapporti arte-politica, e Franco Fortini‘, che ha messo l’accento soprattutto sul valore culturale della sua opera, riservando qualche critica più che al Vittorini narratore al Vittorini uomo di cultura per la sua incapacità di aver assunto per intero il compito di ripensamento delle ideologie rivoluzionarie sulle pa-

gine del «Politecnico».

3. LO SCRITTORE E L’UOMO - Il giudizio della critica

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Dello stesso avviso è Sandro Briosi‘!9, secondo il quale la contraddizione tra aspirazione a verità assolute e desiderio di partecipare alla storia, già emerse nel Vittorini narratore, torna a galla anche nell’ultimo Vittorini del «Menabò» e de Le due tensioni, vale a dire nel critico, nel

teorico della «nuova cultura». Una rivisitazione della letteratura come straordinario strumento d’af fermazione dei principi di civiltà, più che ideologici, è stata operata negli ‘| stessi anni dal critico francese Dominique Fernandez9, secondo il quale «Vittorini ha creato lo stile moderno della parola “uomo”, e ha adempiuto alle due condizioni necessarie di sgonfiare questa parola di tutta la retorica e il romanticismo, e di farla esattamente coincidere con il suo contenuto; e pure con un intento più sottile, di conservare alla parola il suo significato più elementare di qualità umana, di realtà umana pura e irrefutabile». Su posizioni analoghe si attesta il pensiero di Albert Beguin, critico svizzero di estrazione cattolica, il quale, nella sua opera più importante e famosa L’àme romantique et le réve!!” sottolinea il profondo significato dato alla dignità umana in tutta l’opera vittoriniana ed esalta la componente mediterranea presente in Vittorini quasi come si trattasse di una categoria etnica.

«Elio Vittorini - scriveva Beguin - non è soltanto il miglior romanziere italiano che ci abbia rivelato il dopoguerra. Egli è uno degli scrittori più originali, il più realmente creativo della letteratura europea contemporanea. [...] Da lì [dai narratori americani], potevano venire certi elementi molto rico-

noscibili del suo stile e della sua tecnica di romanziere, ma egli li usava in modo diverso di quanto non facessero gli imitatori francesi di Faulkner e di Hemingway. Egli aggiungeva quella sicurezza delle forme estetiche e quella ricchezza di sfumature nell’evocazione dei personaggi, che non poteva non derivargli dalle sue origini siciliane. ... Attraverso il passare del tempo le generazioni trasmettono dopo secoli una saggezza insostituibile. [...] Di colpo si è introdotti in un'atmosfera di leggenda e, come leggendo “Conversazione...”, è impossibile non ricordare che per la Sicilia Vittorini è l’erede lontano dei popoli omerici...». Il concetto della cultura mediterranea ed omerica del siciliano di Siracusa Vittorini, inoltre, è ancor più focalizzata in un altro intervento di Beguin:

«L'uomo d’antica cultura mediterranea che è Vittorini, in cui sopravvive qualcosa dell’immaginazione omerica, possedeva uno stile, vale a dire un ordine e un canto che nei suoi maestri stranieri non era che una sorta d'arma

pesante e brutale. ...Vittorini arrivava a sconvolgere come loro l'ordine del

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A. Madeddu — VITTORINI

tempo e dello spazio, ma per far apparire un ordine segreto, più luminoso, alto, propriamente poetico»09). Ma sull’intima struttura sintattica della narrativa vittoriniana sono davvero illuminanti le intuizioni di Giacomo Debenedetti!!?: «Se con la frase deve congiungere due punti, A e B, Vittorini non percorre quasi mai la geodetica, la via più breve, il segmento di retta, per poi magari arricchirlo, come altri fa, di increspature, nodi, inflessioni e chiaroscuri. Egli disegna invece una spezzata, alcuni lati di un poligono, che si infrangono sui vertici, fanno opposizione a ogni inerzia ed automatismo, sembrano inventarsi una nuova naturalezza a dispetto della naturalezza più vulgata, obbligano a constatare la dura, attiva, resistenza della parola. E nell’incatenarsi delle frasi, Vittorini evita, come per partito preso, le sostituzioni pronominali e le altre risorse sintattiche inventate in tempi meno innocenti per snellire e accelerare il discorso: preferisce ripetere la cosa, le cose, come se tardamente parlasse ad un ascoltatore tardo, lui così agile. È uno degli incanti del suo ritmo, che continuamente replica le proprie sagome, senza mai obbedire a un cursus. Lo scatto intuitivo che ha generato la visione pare sottoposto a un sistema di frenaggio, a un dispositivo di chiuse, che non inceppano quel tragitto a linee spezzate, pur lasciando il tempo di scorgerne le sagome nude».

In tempi più recenti l’introduzione di metodologie strutturalistiche e formalistiche ha finito col favorire una sempre più profonda lettura della prosa vittoriniana.

Secondo Giorgio Bàrberi Squarotti, in letteratura è lo stile e non l'ideologia, che rappresenta la «struttura interpretativa» del mondo. E da questo punto di vista Conversazione in Sicilia rappresenta per il critico un autentico capolavoro della letteratura del Novecento, perché in'esso la «capacità conoscitiva» dell’ideologia vittoriniana del «mondo offeso» è piena e profonda e «la protesta è presente e attiva e ...assume così il duplice aspetto di un grido storico che le dà concretezza e forza, e di una visione generale dello stato delle cose che ne allarga le prospettive a dimensioni amplissime». Lo stesso discorso non può farsi, secondo Bàrberi Squarotti, per i romanzi successivi dove «lo stile vittoriniano si è fatto esclusiva-

mente maniera». Altrettanto interessanti si presentano le prospettive interpretative

basate sullo studio psicoanalitico della scrittura, con tutta la sua rete di simboli e di immagini. A questa metodologia è ispirato il saggio di Franca Bianconi Bernardi‘! che, sulle orme del critico francese Gaston Ba-

chelard, ha portato alla luce modalità e percorsi sintattico lessicali at-

3. LO SCRITTORE E L’UOMO - Il giudizio della critica

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traverso i quali si organizza il testo vittoriniano attorno alle «immagini della materia», studiandone gli intimi significati attraverso una ricerca psico-analitica di segni e simboli. L'archetipo del «ritorno al ventre materno» nel viaggio del Silvestro di Conversazione... è uno degli esempi più noti dello schema mitico in cui si muove il mondo narrativo di Vittorini.

Uno studio parallelo e complementare a quello della Bianconi Bernardi è il saggio di Guido Guglielmi Storia non è storicismo? nel quale la portata demistificante dello stile così poco «realistico» di Vittorini, grazie all'operazione di frantumazione delle comuni convenzioni linguistiche e della piatta realtà che appare, finisce con l’assumere un valore politico e conosgitivo molto più profondo e, dunque, più «reale» degli stessi neorealisti. Anticipando tendenze neoavanguardistiche, Vittorini per Guglielmi interviene sui segni, rompe l'universo della comunicazione sociale, progetta una realtà diversa: «La scelta di significati, in termini linguistici, immotivati, in termini culturali non precostituiti, mentre rivela un orientamento lirico, pone un'istanza realistica».

Letteratura intesa come «Progettazione»‘? è la chiave di lettura proposta da Italo Calvino, secondo il quale l’opera vittoriniana «...tende a muoversi dalla profezia al progetto, senza che la sua forza visionaria e alle gorica si perda», col riconoscere all’esperienza e all’immaginazione il sicuro primato sull’assolutizzazione ontologica. «Ogni romanzo di Vittorini - per Calvino - ha come forma mitica quella del viaggio, come forma stilistica quella del dialogo, come forma concettuale quella dell'utopia». E su questi tre temi cardine Calvino imposta tutta la sua rilettura dell’opera vittoriniana‘*. Coraggio, generosità ed impegno civile del Vittorini scrittore sono invece gli aspetti sottolineati da Silvio Guarnieri, per il quale tutta l’opera dell’intellettuale siracusano si è articolata sulla «...volontà di essere scrittore assolutamente presente nel suo tempo, determinante nel suo tempo e con i mezzi dello scrittore, incidendo nella storia proprio in quanto scrittore, senza rinunciare, senza abdicare mi-

nimamente a quello che deve essere il compito dello scrittore». Un bilancio sul peso che ha continuato ad avere negli anni sulla nostra cultura il Vittorini critico e narratore è stato condotto da Franco Fortini. E sull’ampia presenza dell’opera vittoriniana nella nostra letteratura contemporanea si sofferma anche Giovanna Gronda‘, secondo la quale «Vittorini è un caso esemplare della ricerca, nella cultura italiana, di superare la separatezza del lavoro intellettuale, senza rinunciare alla specificità della produzione artistica». In tempi più recenti si sono occupati di particolari aspetti dell’opera

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A. Madeddu - VITTORINI

vittoriniana molti autori. Antonio Di Grado ha evidenziato lo stretto legame tra forma ed utopia nel Vittorini di Conversazione... e del Sempione...2), Maria Corti ha definito Vittorini inventore del dialogo lirico ed ha indicato ne Le città del mondo il vero capolavoro dello scrittore. Leone Piccioni ha studiato soprattutto i rapporti tra Vittorini e gli americani, evidenziando la reinvenzione stilistica operata da Vittorini,

soprattutto nei confronti di Saroyanl. Di un’attenta rilettura della posizione politica radical-utopistica di Vittorini nel dopoguerra si è occupato Geno Pampaloni‘. Andrea Bisicchia ha studiato il Vittorini teorico della «Ragione conoscitiva»!. Non sembra, invece, che abbia subito alcun ridimensionamento il

Vittorini traduttore degli americani dalla pubblicazione del libro di Giuseppe Mercenaro (Una amica di Montale. Vita di Lucia Rodocanachi), che rivela il ruolo di traduttrice-ombra della Rodocanachi, senza tuttavia

scalfire di un solo millimetro il valore e la portata dell’operazione culturale condotta da Vittorini con l’Antologia Americana9?. Per quanto riguarda gli studi sul primo Vittorini, infine, è doveroso citare i lavori di Anna Panicali e Giovanna Finocchiaro Chimirri®*,

che col suo Sorriso di Aretusa ha esplorato il terreno ancora in gran parte vergine del giovane «Vittorini ragazzo siracusano». Ma sullo stesso argomento, davvero fondamentale si è rivelato recentemente il lavoro di Massimo Grillo, I Vittorini di Sicilia99, dove attra-

verso un ampio affresco della vita siciliana, ed in particolare siracusana, negli anni compresi -tra il 1900 ed il 1930, lo scrittore livornese ha delineato in modo esemplare l’apprendistato sociale e culturale del ragazzo Vittorini, con le sue letture, le sue amicizie, il suo vissuto, portando

alla luce l’insospettata matrice autobiografica di tutta l’opera narrativa vittoriniana.

LE TESTIMONIANZE SULL'UOMO ...Il furore di vivere

In un autore dove vita e letteratura erano, per sua stessa ammissione, come vasi comunicanti, è difficile scindere l’uomo dallo scrittore.

Secondo Silvio Guarnieri, infatti, per Vittorini «il compito dello scrit-

tore coincise con quello dell’uomo, non si differenziava da quello dell’uomo nel suo più alto significato e valore, e doveva quindi in sé accogliere quello di ogni uomo, riassumerlo, renderlo esplicito, rappresentare quindi nel suo mo-

3.LO SCRITTORE E L’UOMO - Le testimonianze

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mento, nel suo tempo ciò a cui gli uomini, la società aspiravano, ciò che intendevano esprimere di più generoso, di più coraggioso»9. Proprio per questo strettissimo intreccio tra lo scrittore e l’uomo è

molto utile operare una rilettura delle sue opere attraverso le testimonianze dirette tramandateci sull’uomo Vittorini dalle persone che più gli furono vicine. Una prima testimonianza sul ragazzo siracusano quattordicenne ci

è stata lasciata dall'amico anarchico Alfonso Failla: «Quando nel 1922 in Italia ebbe inizio la dittatura fascista, a Siracusa la resistenza più decisa ed intransigente andò costituendosi intorno ai gruppi anarchici locali. [...Jekm-uno di questi gruppi avemmo con noi il quattordicenne Elio Vittorini. Frequentava allora l’Istituto Tecnico siracusano in cui un agguer-

rito gruppo di giovani anarchici, Archimede Grasso, Turiddu Amenta, Michele Gallo, Luciano Miceli, alcune allieve della compagna Eva Ballariano che vi insegnava inglese, ed altri, svolgevano intensa attività ideologica anarchica insieme a una decisa agitazione antifascista [...]. Siccome nel mio lavoro di artigiano seggiolaio godevo molta libertà la mia bottega era ritrovo dei compagni a tutte le ore ed Elio veniva sovente, era parco di parole, profondo nei concetti. Avevamo una ben fornita e varia biblioteca che circolava tra i compagni e fuori. Talvolta Elio scriveva a matita sulle prime pagine bianche dei libri. C'erano tra noi compagni di valore intellettuale... Tutti compresero che Elio era una promessa. Ma soprattutto i compagni contadini ed operai sentivano amore fraterno sincero e spontaneo per

Elio perché lo vedevano semplice come loro nell’atteggiamento, perché leggevano nei suoi occhi luminosi la sincerità di una promessa. Elio Vittorini sentiva la vita degli umili ed i loro ideali già da allora, nella Sicilia nativa, i suoi

stessi ideali. Peppino Burgio, fabbro meccanico, fuoriuscito e combattente contro Franco in Spagna, in fine alla vita in un ospedale di Genova mi chiese: «di Elio, chi si ’nni fici?» (come si era comportato?). Quando lo informai che era diventato scrittore, che era rimasto “nostro” nella lotta contro tutti gli oppressori, che aveva lottato nella resistenza, non poté reprimere un moto di intima commozione»).

Un ricordo di Elio studente quindicenne, genialoide e ribelle, all’Istituto Tecnico è stato tramandato dal suo compagno di classe, e di banco, Salvatore Peres:

«Elio si dimostrò subito brillantissimo nelle materie letterarie, per innata attitudine e vocazione, evidentemente ereditaria. Tali sue capacità ed il suo carattere, gli permettevano spontaneamente, in occasione dei temi in classe,

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A. Madeddu -VITTORINI

di svolgere rapidamente quello suo, quello mio e di qualche altro compagno vicino di banco, adoperando uno stile diversamente appropriato, da non destare sospetti nel professore. Ciò faceva per puro sentimento di amicizia, affettuosità ed altruismo! La mattina, prima di entrare in classe, ci soffermavamo nei gradini della Cattedrale (antico Tempio di Minerva) per fare l’ultimo ripasso delle lezioni. Ma spesso preferivamo ascoltare Elio, che fin d'allora scriveva in versi [...]. « ...Elio leggeva parecchio; si era formato una cultura vasta; incontrandoci spesso alla Villetta Aretusa, seduti vicino alla statua di Archimede, mi

raccontava con entusiasmo molti argomenti che più l'avevano colpito. ...Normalmente calmo e riflessivo; talvolta allegro e divertente, tale altra chiuso e taciturno, immerso nei suoi pensieri: la sua mente era una fucina in continua attività!

Sin da piccolo era un profondo osservatore, di vivace fantasia, non disgiunta da senso pratico e critico. Queste innate qualità, che lo dovevano fare assurgere alla fama di apprezzato scrittore, erano visibili sin da allora, imponendolo all’ammirazione e stima di tutti [...]. Alla fine dell'aprile 1923 si fece a Siracusa lo sciopero di protesta avverso la riforma Gentile, che fu capeggiato proprio da Elio, mio fratello, io e pochi altri compagni di classe; sciopero che sfociò nell’occupazione del Liceo classico Gargallo. Data la gravità del fatto, la nostra classe venne messa sotto inchiesta dal Provveditore agli studi ed il nostro Preside Urso venne incaricato di indagare sui nomi dei responsabili. Ma Elio, con gesto deciso ed altruistico si alzò subito e dichiarò di fronte a tutta la classe, di essere stato lui il solo organizzatore responsabile, suscitando profonda meraviglia nel bravo preside, che tanto lo stimava e che gli dovette notificare il provvedimento disciplinare adotta to dai superiori: sospensione da tutte le scuole del Regno per la durata di 65 giorni» 98), Un suggestivo ricordo di Elio, delle sue letture e dei suoi primi amori a Siracusa nel 1925, ci viene da Rosa Quasimodo, sorella del poeta pre-

mio Nobel Salvatore e sua prima moglie: «...Cominciai a sentire parlare di Elio che era stato mandato dai genitori a Benevento perché era un ragazzo irrequieto e ribelle. Si era fatto espellere dalla scuola di Siracusa per poco rendimento negli studi ed era stato chiamato in questura per via di un amico anarchico, Alfonso Failla, che frequentava. A Benevento avrebbe dovuto studiare, ma non faceva progressi, aveva tentato di arruolarsi in Aeronautica, ma non seppe adattarsi, e dopo pochi giorni tornò a casa. Così lo conobbi. Era un giovane estroso, ricco di fermenti, che faceva letture importanti. Ci scambiammo spesso dei libri. Sentii subito

3. LO SCRITTORE E L'UOMO - Le testimonianze

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che era scrittore nato, da piccole cose acquistai fiducia nelle sue possibilità Aveva un grande amico col quale stava molto insieme: Alfredo Mezio. ...Ci frequentavamo, io gli parlavo di mio fratello poeta, lui delle sue aspirazioni. Ci si incontrava spesso in casa sua dove il padre organizzava recite di proprie poesie, o letture di drammi che ad Elio non piacevano; ma erano

le occasioni per vederci. Una sera a casa sua, mi voltai a guardarlo, sentivo il suo sguardo intenso su di me, e mi accorsi improvvisamente che era bello, bellissimo, i capelli

dorati e gli occhi a mandorla. ...L'amore nacque in me». Le sue prime «fughe» di diciottenne da Siracusa a Roma per incontrare Curzio Malaparte ed Enrico Falqui, ci sono narrate dallo stesso Falqui:

«...Di Elio Vittorini vorremmo saper descrivere i primi incontri in anni lontani, quando, giunto a Roma dalla Sicilia di prima mattina, con l'aspetto quasi di fuggiasco, scarruffato e spiegazzato, ma ilare negli occhi pungenti, col solo bagaglio di una borsa da studente, correva a bussare alla porta di casa nostra. ..Vorremmo saper descrivere la volta che più fuggiasco che mai si presentò in compagnia della sua donna [...], l'aveva rapita o giù di lì» 49). L'ultimo ricordo di Vittorini a Siracusa ci è tramandato nel 1929 proprio da Alfredo Mezio. Si tratta di una testimonianza importante, che ci dà l’esatta misura della consapevolezza dei grandi destini letterari cui già da allora sembrava destinato Vittorini agli occhi increduli dei suoi compagni di strada.

«Vittorini una volta preso l’aire, tira avanti ad occhi chiusi e arrancando a grandi giornate che pare abbia imparato da Gambalesta. Lungo e asciutto come un albero di nave, si muove con larghezza dentro il cappottino acquistato alla Rinascente, che agli incroci delle strade, se l’addenta il vento, gli sbatte sulla schiena e fischia gonfiandosi come una camicia da notte. Chi è che lo conosce di persona sa, d’altra parte, tutti i pericoli di una andatura esagerata, e perciò schiva ogni volta l'occasione di de al braccio per il timore di perdere strada e farsi inevitabilmente trascinare col passo d'uno a cui abbia a dato in testa qualche bicchiere in DI [...] È nata e va mettendo foglie, felicemente, la sua fortuna di scrittore»4!).

Poco dopo Vittorini avrebbe lasciato per sempre la Sicilia. Sul suo arrivo a Firenzeè assai interessante la testimonianza del carissimo amico Giansiro Ferrata:

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A. Madeddu — VITTORINI

«...Noi solariani residenti a Firenze conoscemmo Vittorini per la prima volta nell'inverno 1929-30, durante un suo breve soggiorno nella città. Da

Siracusa dov'era nato poco più di vent'anni prima, stava tornando con la moglie e col piccolo Giusto a Gorizia [...]. Era magrissimo, alto e con qualcosa di orientale nel volto, nonostante i lineamenti di tipo classico, in verità molto belli...» «...Un’aria da calzoni corti — aggiunge Ferrata in un altro resoconto — l'avere un figlio, l'impasto franco-siciliano delle sue prime conversazioni lasciarono quando fu scomparso una collettiva incertezza tra sogno e realtà»). Il fascino di questo «bel tipo di ragazzo genialoide con una strana poeti cità ed eleganza nell’esprimersi», come lo definì Ferrata, è presente anche in alcuni versi dai toni onirici di Vittorio Sereni: «... Viene uno, con modi e accenti di truppa da sbarco. ...Oracolare ironico gentile sento che sta per sparire. ..»49. AI di là dei rapporti d’amicizia e di cameratismo, Sereni nei «modi e accenti di truppa da sbarco» sembra alludere alla febbrilità di Vittorini, a quel suo carattere inquieto, frettoloso, apparentemente svagato, eppure pronto ad afferrare ogni cosa. Pronto persino a sparire, incline alla fuga, alla continua ed inquieta ricerca, al viaggio. Ironico, e dunque distaccato, gentile, quindi affabile, morbido nel parlare, eppure oracolare, profetico, sempre pronto a trasformare un viaggio in un'avventura e una narrazione in una leggenda. Un altro ritratto del giovane Vittorini appena giunto a Firenze è stato delineato da Romano Bilenchi: «Conobbi Elio Vittorini a Firenze sul finire del 1930. Quel giorno mi ero recato a trovare Alessandro Bonsanti che conoscevo da qualche mese. Era inverno [...]. A pochi passi dal Bottegone, dove il vento, come spesso accade in quel luogo, ci spingeva quasi alla corsa, fummo superati da un giovane un po’ più alto di me, stretto in un cappottuccio grigio di stoffa diagonale, con la faccia affondata in una sciarpa di lana chiara. Portava un basco turchino. Camminava in fretta guardando il selciato. Bonsanti lo chiamò: “Elio”. Il giovanotto si voltò bruscamente e ci attese. Bonsanti me lo presentò: “Elio Vittorini”. Per metterci un po’ al riparo dal vento voltammo l’angolo di via Martelli. Dopo aver scambiato con Elio e con me qualche altra parola, Bonsanti se ne andò. Rimasi solo con Vittorini. Attratti da una subitanea reciproca simpatia decidemmo di andare a cena insieme. In principio egli mi parlò con un impeto quasi aggressivo, come volesse sfo-

3. LO SCRITTORE E L’UOMO - Le testimonianze

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garsi con me. ...Poi la sua voce divenne flebile, gentile, carezzevole. Lo sentivo sincero nelle parole e nello sguardo sempre leggibile...»(49). I primi contrasti con la moglie ed il suo progressivo legame con Ginetta Varisco sono raccontati dalla stessa Rosa Quasimodo:

. Intanto Ferrata gli aveva fatto conoscere la moglie del commediografo Cesare Vico Lodovici, una signora che abitava a Milano e si chiamava Ginetta. Era molto ricca, si diceva, con un temperamento forte [...]. Cominciai a soffrire di gelosia. “Elio è mio, Elio èmio” sentii gridare la Ginetta un giorno che si giocava alle piastre. ul dire, mio compagno di giuoco. Mi turbai molto, quasi per un presagio 45è-

[...] Ricominciò a parlare di lasciare Firenze per Milano: per il suo lavoro sarebbe stato un vantaggio, diceva. Questa volta non mi opposi [...], così alla fine del ’38 ci stabilimmo a Milano. Ma fu una sciagura. Ripreso dal vecchio amore, divenne triste e inquieto. L'assiduità, gli incontri giornalieri con la Ginetta divennero penosi [...].

lo scrissi a Ginetta, tutto era chiaro fra noi, lei mi giurò in una sua lettera che sarebbe scomparsa dalla vita di Elio. Intanto tornai a Milano, ed Elio mi rassicurò, disse che voleva cercare di capire, restando solo, cosa c’era den-

tro di lui. Il vecchio trucco femminile di ingelosirlo per farlo ritornare non servì. Capii che per me era perduto...»‘9. Dal 1938, intanto, Vittorini si era trasferito a Milano. Come ricorda Leone Piccioni, in pochi anni lo scrittore siciliano, ormai famoso, era diventato un vero e proprio mito per i più giovani: «...Cos'era Vittorini

per noi? Uno dei punti di riferimento di maggior coraggio, di apertura più piena, di poetica visione presente più intuitiva e forte». Ecco come lo ricorda

durante il suo primo incontro nell’immediato dopoguerra: «...L’avevo visto passare da Firenze, appena liberata, seguito da un codazzo di produttori culturali, alto slanciato simpatico, e mi ero reso subito conto del suo fascino personale...» Quindi racconta del suo primo colloquio: «...parlando per ore di tante cose, e lui con l'aspetto che aveva, insieme soave e capace di furia, di dire

di sé il meno che potesse, schivo, in atteggiamento di potere anche sempre sbagliarsi, ma con vibrante fede, non volendo mai offendere l'eventuale sentimento dell'altro; ascoltandoti invece, anche se tu eri più giovane, e con niente alle

spalle, con premura...»°.

Le parole di Franco Fortini riescono chiaramente a darci un’idea dell’importanza assunta in quegli anni da uomini come Vittorini:

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A. Madeddu - VITTORINI

«Gli uomini delle parole, gli scrittori, furono investiti da una incredibile responsabilità pubblica. [...] Uomini come Vittorini... e, in misura minore, molti altri, si trovarono ad avere un'autorità morale che nessuno scrittore ave-

va più avuto dai tempi del bardo della democrazia o del poeta soldato». In un suo noto articolo Carlo Bo individuò il segreto del fascino di Vittorini uomo e scrittore nel suo leggendario «furore di vivere». Ecco come ricorda l’amico e l’amore per la sua terra in occasione di un comune viaggio in Sicilia negli anni cinquanta: «Vittorini colpiva, affascinava al primo incontro e sapeva trovare immediatamente un rapporto di fiducia con il suo interlocutore. [...] Ebbi la ventura di fare un viaggio con lui e con Leone Piccioni nei primi anni Cinquanta in automobile da Palermo a Messina via Trapani, Siracusa e sento ancora le sue parole d'amore, rivedo la sua esaltazione anche per i paesi più dimenticati della sua bellissima terra. Era davvero un Don Chisciotte che rincorreva nel passato, la sua storia, i genitori, la piccola stazione ferroviaria, gli anni di Siracusa e poi tutto quello che era venuto dopo e ne aveva fatto uno scrittore fuori della regola, un poeta che credeva nella vita, nel mito della vita» 99.

Agli anni milanesi si riconduce il ricordo attento e dettagliato di Raffaele Crovi: «Conobbi Elio Vittorini nel 1953. Avevo 19 anni. Ero arrivato a Milano da Reggio Emilia. Vivevo in un pensionato universitario. [...] Dovevo rac-

cogliere le risposte di Vittorini a un questionario sull’impegno politico-sociale degli intellettuali. ...Curioso e rabdomantico Vittorini trasformò l’incontro in una intervista:

indagò sul mio disadattamento provinciale a Milano, sul mio disadattamento di cristiano in tempi di autoritarismo pacelliano, sul mio disadattamento di utopista dossettiano in tempi di attivismo fanfaniano. In una sua breve auto-

biografia del 1949, che allora io non conoscevo, Vittorini aveva raccontato che la sua prima emozione di lettore l'aveva provata di fronte ad una edizione del Robinson Crusoe con disegnata sulla copertina la figura di Robinson chino ad esaminare sulla sabbia dell’isola deserta l’orma del piede di un altro uomo. Nel nostro primo incontro avvertii che Vittorini indagava sulle mie orme: io ero per lui un Venerdì da coinvolgere in esperienze di conoscenza e convivenza. [...] Vittorini aveva un insaziabile appetito di esperimenti e di esperienze. Puntava “a fare il pieno della vita” ogni giorno; l'indagine sugli eventi, i progetti, i linguaggi era la sua prima scrittura.

[...] Risultano esemplari ancora oggi la sua vitalità conoscitiva, il suo an-

3. LO SCRITTORE E L’UOMO - Le testimonianze

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ticonformismo culturale, il suo antischematismo ideologico. L’esuberanza di Vittorini non fu, tuttavia, un’esuberanza esistenziale alla Jack London (come

le sue fughe da casa tra i 13-15 anni potevano far presagire), ma un'esuberanza intellettuale alla Diderot; fu una sorta di neoilluminismo [...].

Vittorini, che era povero, era molto generoso: per difendere la propria povertà (che considerava una libertà) scartò tutta la vita le occasioni di carriera, di successo mondano e di potere politico»).

Nel suo racconto Crovi svela alcuni particolari curiosi del Vittorini uomo: la sua passione per la musica classica e per il jazz, quella per la cinepresa e per le gite in bicicletta, quella per la guida dell’automobile. Un aspetto poco noto del Vitconni uomo è quello della passione avuta per i fumetti, ed in particolare per Charlie Brown, l’anticonformista

per eccellenza. Fu proprio Vittorini, «il grande amico di ogni novità e di ogni anticonformismo», come lo definì Oreste Del Buono, ad inaugurare il battesimo italiano di questo singolare personaggio provenuto dall'America. Ecco

cosa scrisse a tal proposito Umberto Eco: «Per fortuna, a un uomo alieno dalla retorica come Vittorini, nessuno penserà di erigere un monumento. Ma se, per pura e paradossale ipotesi dovesse succedere, io raffigurerei su quel monumento tutti i personaggi di Vittorini, il Gran Lombardo di “Conversazione in Sicilia”, e il nonno elefante de “Il Sempione strizza l’occhio al Frèjus”, che aveva costruito anche le Piramidi, il partigiano di “Uomini e no”, Erica e la Garibaldina... E poi raffigurerei i grandi scrittori che egli ci ha fatto conoscere, e i giovani scrittori che egli aveva “inventato”... Ma in un angolo — e credo che non sarei irrispettoso — raffigurerei anche Charlie Brown [...]: in modo che fosse ricordato da tutti coloro che ha amato»). Agli stessi anni milanesi si riconduce il ricordo minuzioso e illuminante della scrittrice jugoslava Carmen Milacic’, che dello scrittore siracusano ha tradotto quasi tutto nel suo Paese: «..«Parlare oggi di Elio Vittorini non significa solo parlare di un uomo di cultura, di idee, di uno scrittore, ma significa molto di più. Parlare di Vittorini vuol dire parlare del senso più profondo della vita umana, del rapporto uomo-mondo, della funzione dell’opera d’arte come l’immagine più sublime della vita stessa. E questi sono problemi eterni, sono del vostro Paese, come

lo sono del nostro e del mondo intero. Vittorini era molto generoso con tutti, specie con gli amici. [...] Non è sempre il caso che la personalità, che l'animo dell’uomo corrispondano perfettamente alla propria opera artistica. L'uomo e l'artista Vittorini sono iden-

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A. Madeddu -VITTORINI

tici. Come uomo e come scrittore Vittorini fu molto sensibile, anche se diffondeva attorno alla sua persona un certo senso di freddezza. [...] Ma Vittorini aveva bisogno di essere circondato dalle voci umane, dai rumori della vita: “il rumore fa compagnia”, diceva spesso; ma in compagnia sapeva assentarsi, perdersi in pensieri [...]. Vittorini è stato sempre profondamente estasiato dall'aspetto bello, fresco, felice, giovane della vita. Il suo volto allora diventava raggiante, gli occhi più grandi, più luminosi. Sempre inquieto, sempre in moto, sempre con quel richiamo al mitico Robinson. Ancora a cinquant'anni sapeva essere felice in un modo meraviglioso, commovente [...]. Nelle definizioni critiche che correvano su Vittorini sono due le costanti che gli erano attribuite: appunto, la vitalità e la liricità. Due cose, poi, esprimevano specialmente la giovinezza e la vitalità: gli occhi grandi, vivaci, e le mani, morbide, parlanti. ...E non è riuscito mai a congedarsi dalla sua giovinezza, l’aveva identificata alla vita stessa. Le sue capacità di lavoro erano grandi. La mattina verso le otto e trenta

scendeva in cucina a prendere una minestra siciliana, e poi si ritirava nello studio a scrivere o studiare fino alle 13,30 perché a quell'ora si mangiava. Il pranzo e la cena in casa Vittorini erano sempre una piccola festa, e non si sapeva mai quanti sarebbero stati a tavola, specialmente la sera. Finito il pranzo, Elio usciva a prendere i giornali e li leggeva fino alle ultime pagine, steso sul divano del bellissimo soggiorno. Alle sedici andava da Mondadori a lavo-

rare fino alle venti. Qualche minuto prima delle 20,30 rientrava. È stato sempre puntualissimo. La sera spesse volte rientrava con qualche amico invitato a cena. Già durante la cena entravano altri amici e si conversava fino a notte tarda. Quelle erano le ore più riposanti, più liete per Elio. Gli piaceva molto la compagnia. A letto leggeva fino alle due del mattino...»3. La casa di Vittorini era diventata in quegli anni uno dei più importanti ritrovi letterari del Paese. La frequentavano Eugenio Montale, Italo Calvino, Vittorio Sereni, Carlo Bo, Leone Piccioni, Giansiro Ferrata,

Danilo Dolci, Elsa De Giorgi, Giangiacomo Feltrinelli, Giulio Einaudi, Raffaele Crovi, Sergio Solmi, Lalla Romano, Silvio Guarnieri ed altri

ancora. Un interessante profilo di Vittorini all’inizio degli anni sessanta, colto nell’intima quiete della sua elegante ma austera abitazione milanese di Viale Gorizia (dove, lasciata la casa di via Canova, si era trasferito nel 1955 insieme alla sua seconda moglie Ginetta Varisco), ma anche nel-

la pubblica inquietudine del suo inspiegabile silenzio di narratore, è stato abilmente condotto, in una sua intervista, da Giuseppe Grieco: «Elio Vittorini non è un conversatore tranquillo. Parla a scatti, muoven-

3. LO SCRITTORE E L’UOMO - Le testimonianze

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dosi per lo studio, e accompagna le parole con significativi gesti delle mani. I suoi occhi chiari mandano lampi, le labbra si schiudono spesso al sorriso. E poi di colpo tace, si affaccia alla finestra, guarda il Nawiglio coi suoi barconi. Lo studio è una stanza pressoché nuda, non molto ampia, isolata dal resto della casa. Per buona parteè occupata da un grosso tavolo, sul cui ripiano è distesa una vivacissima coperta spagnola. Lungo una parete c’è un leggìo a due scomparti, su uno dei quali poggia una macchina da scrivere portatile. Vittorini ama spesso scrivere in piedi, dice che questa posizione gli consente di essere più libero nei propri movimenti, di non sentirsi legato. Non sempre però adopera la macchina, che gli serve soprattutto per ricopiare, rifacendoli ancorasuna volta, i suoi già tartassatissimi manoscritti. “Ho la nausea della narrativa”, dice. “Dobbiamo cercare strade nuove, metterci alla pari con la musica e la pittura, che hanno saputo rompere definitivamente con le potere del passato”. [...] Stando così le cose, molti oggi si domandano: “Che fa Vittorini? Perché tace?”. Gli abbiamo posto anche noi la domanda, ed egli ha allargato le braccia e ci ha detto: “Perché taccio da tanto tempo? Perché non posso rassegnarmi a pubblicare delle cose arcaiche [...]”. Ma nei suoi occhi chiari, mentre parlava, ci è sembrato di scorgere un’om-

bra. Forse, senza dirselo, Vittorini aspetta semplicemente di ritrovare la felicità creativa di Conversazione in Sicilia. O forse è soltanto diventato troppo severo con se stesso? -