Virgilio. Etica poetica politica
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Frontespizio
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Indice
Premessa
1 – Le Georgiche ed il nuovo cittadino del mondo
II – Metapaesaggio e Metapoesia nelle laudes della 2a georgica di Virgilio
1. Dal paesaggio al metapaesaggio delle laudes Italiae
2. Le lodi della vita agreste, metapoesia ed altro
III – L'assurda pretesa di Orfeo: tethnãsin oi thanòntes
IV – La dea e l'eroe: l'Eneide, poema del decorum
V – Percorsi poetici del paesaggio nell'Eneide
VI – La gloria negata: Deifobo, 'bello clarus' (Verg. Aen. VI 494 ss.)
VII – Dark Visibility: Lavinia nell'Eneide
VIII – Il Poeta e il Politico. Virgilio e il potere
1. Poesia bucolica e confisca dei dulcia arva
2. Le Georgiche: dalla paura al trionfo
3. L'epillio didascalico
4. Poesia e ideologia nell'Eneide
Indice dei luoghi citati
Indice degli autori moderni
Quarta di copertina

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Forme materiali e ideologie del mondo antico 43 Collana diretta da Enrico Flores

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Crescenzo Formicola

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Virgilio Etica Poetica Politica

Liguori Editore

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II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: ————————————————————————————————————————— 19 18 17 16 15 14 13 12 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

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IX

Premessa

1

I.

Le Georgiche ed il nuovo cittadino del mondo

25

II.

Metapaesaggio e Metapoesia nelle laudes della 2a georgica di Virgilio

49

III.

L’assurda pretesa di Orfeo: teqn©sin oƒ qanÒntej

59

IV.

La dea e l’eroe: l’Eneide, poema del decorum

85

V.

Percorsi poetici del paesaggio nell’Eneide

111

VI.

La gloria negata: Deifobo, ‘bello clarus’ (Verg. Aen. VI 494 ss.)

141

VII. Dark Visibility: Lavinia nell’Eneide

161

VIII. Il Poeta e il Politico. Virgilio e il potere

185

Indice dei luoghi citati

197

Indice degli autori moderni

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PREMESSA

L’idea di riunire le mie ricerche virgiliane di questi ultimi anni è venuta ad Enrico Flores prima che a me, e gli sono grato per avermelo proposto e per avermi offerto la collocazione editoriale in “Forme materiali e ideologie del mondo antico”. Con il Virgilio che mi accingo a dare alle stampe continua un percorso esegetico iniziato ormai molti anni fa. Nei Temi virgiliani (Napoli 2002) avevo già raccolto alcuni saggi pubblicati tra il 1985 ed il 2002. Ora propongo al lettore otto studi, cinque dei quali nella stesura originaria, fatta eccezione per qualche aggiornamento bibliografico e qualche rinuncia dettata da ragioni di spazio: Le Georgiche e il nuovo cittadino del mondo è il saggio introduttivo al volume che contiene la mia traduzione integrale delle Georgiche con brevi note di Commento (Napoli 2011, pp. 13-33); Metapaesaggio e Metapoesia nelle laudes della 2a georgica di Virgilio è apparso in “Vichiana” s. IV, 13, 2011, pp. 194-215; Percorsi poetici del paesaggio nell’Eneide fu pubblicato in «Societas studiorum per S. D’Elia», a c. di U. Criscuolo. Pubbl. del Dip.to di Fil. Class. “F. Arnaldi”, Univ. Napoli “Federico II”, Napoli 2004, pp. 221-45; Dark Visibility: Lavinia nell’Eneide è in “BSL” 36, 2006, pp. 32-50; Il Poeta e il Politico: Virgilio e il potere è apparso nel n. LX 1-2 del “GIF” 2008, pp. 65-89. Altri due saggi, L’assurda pretesa di Orfeo: teqn©sin oƒ qanÒntej, e La dea e l’eroe: l’Eneide, poema del decorum, riprendono i nuclei concettuali originarî di due volumetti, il primo su Giunone nell’Eneide (L’Eneide di Giunone, una divinità in progress), il secondo sull’episodio di Orfeo nella 4a georgica [Da Orfeo a Lavinia (Virgilio: Morte Vita Storia)], editi a Napoli tra il 2005 ed il 2008, con gli ovvi larghi rimaneggiamenti ed i prevedibili adeguamenti di excerpta. Ringrazio gli editori per la concessione della ristampa. La gloria negata: Deifobo, ‘bello clarus’ (Aen. VI 494 ss.), infine, è in corso di stampa sul “GIF” 2012.

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x

PREMESSA

Il titolo del volume, che unifica nel nome del Poeta tre dei principali filoni sui quali si è concentrata, da sempre, la critica virgiliana, e che hanno polarizzato anche il mio impegno esegetico, suggerisce la chiave di lettura dei vari studi proposti, a diverso titolo sempre ugualmente attraversati dal principale interesse intorno al quale ha ruotato la mia ricerca: la crescente coscienza del ruolo paideutico, in campo politico e sociale, ricoperto dall’autore di Georgiche ed Eneide, e, quindi, la funzione morale impressa ai messaggi contenuti nell’opera didascalica e nell’epos, con una auctoritas non inferiore a quella esercitata da Ottaviano nelle sue responsabilità di governance, all’indomani di Azio. Il poema didascalico ed il poema epico sono la sede in cui il Mantovano ha potuto manifestare in maniera decisiva, grazie alla progressiva maturazione degli eventi e dei tempi, idee ed ideali, che, come è ampiamente noto e come è largamente testimoniato negli studi qui presentati, sono stati interpretati in modo assai controverso, soprattutto sotto la spinta di una ideologizzazione del lavoro ermeneutico che ha inquinato l’impegno filologico imprigionandolo in assurdi anacronismi e stravolgendolo nelle sue intrinseche caratteristiche. La forma poetica, infine, che modella l’impegno civile di Virgilio nella composizione delle Georgiche e dell’Eneide, rimane campo d’indagine evidentemente ineludibile per meglio comprendere il messaggio stesso: lo studio della componente artistica, che ha ispirato e guidato la scrittura, rendendo il prodotto letterario unico ed irripetibile, integra e completa l’analisi dei contenuti.

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I.

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LE GEORGICHE ED IL NUOVO CITTADINO DEL MONDO neglectis urenda filix innascitur agris Hor. serm. I 3,37

La porta dell’Arcadia si andava ormai chiudendo, e lasciava fuori l’uomo-poeta alla ricerca di nuovi sentieri del vivere, di nuove vie del poetare. Per Cornelio, l’ultimo improbabile ospite del ‘riparo’ bucolico, quella porta non si era mai veramente aperta, perché nemmeno mai si era veramente chiusa quella della vita elegiaca, che sarebbe pur finita ma non per l’intercessione virgiliana: per il cantore di Licoride le opzioni esistenziali ed artistiche, al di là delle amplificazioni e delle esasperazioni letterarie previste dal gšnoj, erano già avvenute, né sarebbero cambiate sotto l’impulso centrifugo di un fragile tentativo già post-bucolico. Per Virgilio è diverso. Formule ormai desuete e stanche, già incapaci di invocare faggi ombrosi, un tempo validamente abilitati a proteggere Titiro e Mopso, Menalca e Licida e Meri, hanno recitato l’addio alle capellae perché è arrivato Hesperus. Titiro ora è Melibeo. Lo stesso poeta-pastore disdegna antro e avena, si interroga alla ricerca di un canto nuovo, sempre libero e liberatorio, questa volta non solo per sé, o per sé ed il suo isolato interlocutore in un serrato andamento amebeo, ma per un pubblico solo apparentemente ristretto e specifico, invece vasto ed eterogeneo, un carmen non fictum1, senza ambages e longa exorsa (geo. II 45-46), un canto paideutico per destinatari che ascoltino ed imparino. Il praeceptor delle Georgiche parla al civis Romanus che nella trasfigurazione letteraria veste i panni dell’agricola; egli si rivolge anche all’uomo nel quale ha riposto la sua fiducia, e dal quale 1

Cf. Hor. ars 240, ex noto fictum carmen sequar; Ennod. Laus 3, fictum lepido nitore carmen.

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VIRGILIO

in qualche modo ha ricevuto il mandato poetico: la direttrice poetica seguìta rivela, senza equivoci, anche una scelta politica, una scelta di campo, che non cambierà più nel corso del variegato itinerario compiuto dalla storia di Roma nel complesso passaggio dalla repubblica al principato augusteo. È mutata la prospettiva: non è più il giovane cisalpino a rivolgere al potente di turno, Asinio Pollione, Alfeno Varo o Cornelio Gallo, la richiesta di benevole intercessioni; è l’uomo politico ora ad esprimere indirettamente richieste, anche pressanti ed ineludibili, a chi, come Virgilio, era già in un rapporto di amicizia, a chi, come Orazio, lo diventa nonostante ‘errori’ di gioventù, a chi, come gli elegiaci, ha il coraggio ma anche la possibilità oggettiva di opporre un rifiuto dettato da una scelta di vita e di poesia. È cambiato il contesto: la Cisalpina ferita dal dolore antico dei molti Melibei e dal più recente dei molti Titiri è storia che appartiene comunque al passato; ora la dolce Partenope accoglie e nutre il cantore del rus, la cui identità non si traveste nel mascheramento di questo o quel pastore, ma si palesa nella sua autenticità storica per invocare apertamente il suo patronus, Mecenate, al quale, forse, mancava il gusto per il potere, ma non la capacità di organizzare il consenso; a lui Virgilio georgico consacra tutti i quattro proemi. Ora è venuto il tempo nuovo; anche per Virgilio c’è il risveglio da un’aurea aetas, destinata a finire, come finì, ed il poeta indica all’umanità i modi e gli strumenti per affrontare l’età di Giove, nella quale la scoperta di un umanesimo vitale di iniziative e di realizzazioni delle arti e dei mestieri abilita al raggiungimento di grandi risultati, anche individuali e legati alle capacità del singolo. L’età dell’oro precludeva all’uomo il gusto del privato (“tutto era in comune”, I 127), lasciava sconosciuta la proprietà privata, e, quindi, la soddisfazione di realizzare da sé per sé: se non insorge il desiderio di questo impegno, è poi vano rivolgere lo sguardo alla ricchezza accumulata da un altro; così facendo, solo mangiando ghiande si potrà placar la fame (I 157-58). Invece il lavoro gravoso soddisfa i bisogni pressanti nella durezza di stare al mondo, labor omnia vicit / improbus2 et duris urgens in rebus egestas (I 145-46); la spietata ostilità opposta dalle forze contrarie, siano esse l’avidità delle oche, le gru dello Strimone, la foglia amara della cicoria, l’ombra (I 119-20), siano esse masse enormi d’acqua precipitanti dal cielo, tenta di dissipare il lavoro degli uomini e degli animali. Ma l’uomo è razza dura, da sempre, da quando nel mondo le pietre scagliate da Deucalione presero le sue fattezze, razza 2

Durus labor a II 412.

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LE GEORGICHE ED IL NUOVO CITTADINO DEL MONDO

3

capace di lavorare, se necessario, anche di notte, quando meglio si mietono gli aridi prati grazie al ‘morbido’ umore (I 63). L’uomo è però anche un essere limitato – la variabile, che avvicenda nel rendimento umano resistenza a cedimento, è vincolata alle diversificazioni dettate dalle esigenze descrittive –: in lui si insinua anche la paura, fugge lui e fuggono gli animali, mentre la destra dello stesso Giove vibra fulmini coruschi (I 321 ss.). Quanto diversa la giornata arcadica, sulla quale si poggiano le ombre del vespro, che già sottraggono i Meri e i Licida all’ozio nei campi per relegarli nell’ozio domestico. L’agricola è invece pervaso dalla voglia di agire, dal bisogno di applicare alla terra il suo impegno aiutandosi con gli arnesi, il vomere, l’aratro, i triboli, le treggie, i rastrelli, di imparare a leggere la natura, a preveder le piogge, quando il sole si nasconde nella nube, o quando Aurora si leverà pallida lasciando il croceo letto di Titone; eppure il fato sovrasta tutto e tutto può distruggere; la tenacia dell’uomo, la vis humana, il suo impegno possono limitare i danni o finanche ripristinare l’ordine sconvolto. L’uso degli arnesi non sostituisce la fatica dell’uomo, la perfeziona: in incumbere aratris (I 213) si avverte lo sforzo umano trasmesso all’aratro; anche gli alberi hanno bisogno di una cura incessante: scilicet3 omnibus ést laùboùr ím-pen-dén-dus (II 61): l’incisione femminile del 5° trocheo alla fine del quadrisillabo su cui poggia il pirrichio 3° proclitico, labor, ferma il ritmo sulla forma gerundiva, come sillabata. Se la semina avviene prima del tempo, la risposta negativa della natura è avvertita come un gesto proditorio (I 225-26), ma a tradire veramente è stato l’uomo: un fondamentale insegnamento Virgilio impartisce sostenendo che tutto va fatto a suo tempo: “molti cominciarono prima del tramonto di Maia: si attendevano mèsse ed ebbero invece inutile avena.”. Anche questo precetto, naturalmente, la cui profonda valenza oltrepassa i limiti del profilo tecnico agricolo, conservato dal piano superficiale, si proietta verso significati che vanno filtrati con la consapevolezza della plusvalenza del messaggio. L’agricola virgiliano, avarus, ‘desideroso di avere’, e destinato a ricevere dalla terra che risponde ai suoi voti (I 47-48), non incarna la figura simbolica dell’uomo che eleva a legge di vita la morale del vivere del poco; né, d’altra parte, la rappresentazione dell’uomo che si impegna e che esercita la cura habendi contrasta con il precetto moralistico che incoraggia la non necessità di accumulo di ricchezze; 3

L’avv. sottolinea l’ovvietà dell’affermazione.

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VIRGILIO

semplicemente, per Virgilio esiste il luogo deputato al lancio dello slogan del contentus vivere parvo, efficace per combattere l’immoralità dell’egoismo e della gratuita prevaricazione, consumata all’insegna di un presunta legittimità dell’esercizio del potere; ma esiste anche il luogo della celebrazione del guadagno raggiunto con la dura fatica, che diventa valido e sano motore per il conseguimento, onesto e legittimo, di quel fine. A tal riguardo è particolarmente interessante la breve digressione inserita nel IV libro su una figura veramente eccezionale, il cui operato ha del miracoloso; presentandocela, Virgilio vuole sorprendere, risvegliare la meraviglia del lettore, e lo fa proponendo un modello di vita ‘incredibile’, che, nonostante tutto, non riesce a risultare favolistico, utopico, per quanto straordinario appaia, sulla cui attendibilità il poeta impegna, sia pur manieristicamente, la sua parola consolidata dalla testimonianza autoptica: memini vidisse (caso assolutamente isolato nella gestione dell’excursus). Questo pur brevissimo excursus diventa un manifesto importante della ‘filosofia’ che presiede le Georgiche, della disciplina esistenziale e comportamentale su cui si fonda il messaggio del poeta impegnato sul piano civile. Ora, nemmeno il senex Corycius, proprietario di uno sciame numeroso e abbondante di miele spumeggiante, proprietario di alberi carichi di frutti prodotti due volte l’anno, si accontenta del poco. Il celeberrimo excursus4 è legato ad una consolidata tradizione letteraria, che comporta un primo confronto, ravvicinato nel tempo e nella materia, con Varrone che in de re rust. III 16,10-11 parla dei due fratres Veianii, che si erano arricchiti facendo ben fruttare, con l’orticultura e l’apicultura5, un modesto campicello (non sane maior iugero uno) ereditato dal padre. Ma la dottrina letteraria consentiva a Virgilio di attingere ad altri modelli che provenivano dalla cultura greca. Il Thomas6, ad es., pensa alla poesia di Fileta che ha influenzato la figura di Licida nel VII Idillio teocriteo (cf. vv. 39-40); così come, a sua volta, Virgilio influenzerà, forse più concretamente, Longo Sofista nel tratteggio della figura di Fileta del Dafni e Cloe (II 3,2). `O presbÚthj racconta ai 4 Già da tempo la critica virgiliana ha riconosciuto negli excursus luoghi di riflessione e di invito alla riflessione, a cui il poeta riserva il suo messaggio ideologico, che lascia scoprire la matrice esiodea e lucreziana; l’ispirazione ellenistica in questo caso ne resta fuori. L’excursus è introdotto da alcuni versi (IV 116 ss.) in cui il poeta dice che se avesse spazio canterebbe i giardini, ma lascia ad altri questo argomento. 5 A. La Penna, Corycius Senex, in “Enciclopedia Virgiliana”, vol. I, Roma 1984, p. 903, ravvisa la novità dell’accostamento delle due attività, orticoltura e apicoltura. 6 Cf. R.F. Thomas, The Old Man revisited. Memory, Reference and Genre in Virg., Georg. 4, 116-48, “MD” 29, 1992, pp. 35-70 (cf. spec. p. 53).

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LE GEORGICHE ED IL NUOVO CITTADINO DEL MONDO

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giovani che incontra di possedere un orto che produce in ogni periodo dell’anno i fiori tipici di stagione7, e aggiunge che, prescindendo dal recinto che lo delimita, sembrerebbe un ¥lsoj, un boschetto sacro: lì egli aveva visto Eros e con lui aveva a lungo conversato. L’autore greco piega in senso erotico il messaggio virgiliano. Ma, quel che più conta, Longo Sofista ammanta di un alone divino, e, quindi, di superiorità rispetto all’umano e al terreno, l’orto di Fileta; e proprio questo intento di idealizzazione egli eredita ben interpretando l’ipotesto virgiliano in cui il poeta latino sta descrivendo un mondo che valica i confini del terreno e dell’umano. La riconosciuta letterarietà dell’episodio, non limitata alla sola influenza varroniana, come si è detto, riduce l’ipotesi di esperienza diretta del poeta, ma la pur lodevole strategia analitica di risalire alle fonti resta insufficiente per l’esegesi dell’excursus se non si cerchi di spiegarne le ragioni all’interno del IV delle Georgiche, il libro delle api. Che la tenacia del senex evochi quella delle api e dell’apicultore si rivela spiegazione piuttosto semplicistica e quindi banale. Il Biotti8, allineandosi, almeno in parte, alle conclusioni di A. La Penna, giustifica la presentazione del vecchio coricio nella sublimazione del concetto di libertà fondata sull’autarkeia. Lo scopo dell’apicultore è, infatti, per La Penna9 l’acquisizione della libertà fondata sull’autarkeia (il vecchio non deve comprar nulla, non ha bisogno dell’aiuto di nessuno), un principio filosofico che affonda le sue radici in una tradizione pre-ellenistica, risalendo al pensiero esiodeo e alla figura dell’aÙtourgÒj, “il contadino di Beozia”. D’altra parte, che le ragioni profonde che hanno ispirato Virgilio debbano essere ricercate in una polemica contro il latifondo appare francamente esagerato, oltre che fuorviante, e, comunque, rimane questa una motivazione estranea al mondo delle api. Il vecchio concentra nelle sue miracolose attività agricole un patrimonio sapienziale regolato da un codice di comportamento, che, trasportato al di fuori del contesto georgico (e va trasportato), estende le sue pertinenze a tutte le sfere dell’agire. L’appartenenza alla vecchia generazione è tutt’altro che una condizione ostacolante per l’aÙtourgÒj Corycius. L’eccezionalità dei risultati che egli riesce a conseguire ne esalta la esemplarità ma ne pregiudica la imitabilità: il suo operato 7 “In primavera rose, gigli, giacinti e viole dei due tipi; d’estate papaveri, peruggini, pomi di ogni sorta: ora, in autunno, uva, fichi, melagrane e verdi mirti” (trad. R. Di Virgilio, Longo Sofista. Dafni e Cloe, a c. di R.D.V., Milano 1991). 8 Virgilio. Georgiche. Libro IV, Commento a cura di A. Biotti, Bologna 1994, p. 123. 9 Cf. art. cit., p. 61.

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VIRGILIO

non vale ad incoraggiare i giovani che non si avvicinino alla campagna, perché un rus relictum10 è, per natura, un rus improduttivo. L’autarkeia del senex nulla chiede alla comunità, il vecchio agisce da solo, e per questo è al di fuori della storia; non so se si identifichi con l’agricola del makarismÒj: fortunatus et ille deos qui novit agrestis (II 493), come vuole il La Penna11, o se, forse, non gli sia addirittura superiore. Ora, se la lezione, che nelle intenzioni autoriali si voleva che si traesse dall’episodio, è racchiusa nella positività dell’autarkeia, ebbene, risulta che il modello di vita del senex è vistosamente alternativo al modello delle api; proprio questa distanza tra i due b…oi spingeva il La Penna ad ammettere nella loro inconciliabilità una contraddizione virgiliana; ma Virgilio non assolutizza il registro del saper vivere in un’unica formula. Quella del senex è solo una delle vie, anche la più difficilmente percorribile, la più elevata, inarrivabile perché estrema, ma non per questo non degna di essere proposta, almeno come esempio di ideale aspirazione suprema. Il sapiens è colui che realizza in pieno un credo filosofico; non tutti gli adepti sapranno adeguare il loro comportamento al grado massimo di ‘saggezza’. Una approfondita lettura dell’episodio induce, comunque, a considerare che l’attenzione non è richiamata tanto sul lavoro del vecchio, che compie poche operazioni rurali, premens, revertens / nocte domum, tondebat, distulit: il vecchio interra, torna a casa di notte, rade, ordina in filari; ma, soprattutto, egli eguaglia le ricchezze regali (aequabat), grava di cibi il desco (onerabat), per primo coglie i frutti (carpere), beffa il ritardo dell’estate (increpitans), ammassa sciami di api (abundare), raccoglie miele (cogere), dispone di molti frutti (tenebat); la ricchezza del padrone è estesa al suo platano, che, anzi, mostra la sua disponibilità dispensando ombra ai bevitori: è l’unico tocco, questo, che sembrerebbe stanare il vecchio dal suo ‘dorato’ isolamento, e rapportarlo socialmente stabilendone una comunicazione interindividuale. Nell’episodio del senex, come si vede, Virgilio è piuttosto impegnato a presentare il miracolo di un campicello sterile eppure rigoglioso che risponde con i suoi prodotti alle solerti sollecitazioni dell’uomo, ma questo labor del senex rimane in penombra, mentre emerge vieppiù il godimento dei benefìci. Sembra, negli esiti, un’età dell’oro, anche se

10 Sul significato del termine concordo con quanto scrive A. La Penna, Senex Corycius, in “Atti del Convegno sul Bimillenario delle Georgiche”, Napoli 17-19 dic. 1975, Napoli 1977, p. 59, n. 19. 11 Ibid., p. 47.

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LE GEORGICHE ED IL NUOVO CITTADINO DEL MONDO

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‘contaminata’, per così dire, dalla mano operosa dell’uomo. In evidenza sono, in ogni caso, i prodotti della terra più che il lavoro del produttore, il rigoglio dell’orto e del giardino più che l’operosità dell’orticultore e del giardiniere. Accanto ai frutti e agli ortaggi c’è, infatti, anche gran presenza di fiori, che non solo hanno una funzione ornamentale, ma una ragione effettiva di utilità. L’episodio non vuole essere una esemplificazione del motivo filosofico del contentus vivere parvo, presente in altri luoghi (geo. II 412-13, exiguum [rus] colito; II 472, exiguo … adsueta iuventus). A quel motivo non riconduce nemmeno l’assoluta autonomia del vecchio coricio, sufficiente a se stesso, ma operante col fine di raggiungere ricchezza di frutti, di fiori, di ortaggi, proprio secondo i dettami esiodei: ™x œrgwn d’¥ndrej polÚmhloi (op. 308)12. Ma è intrinseco nella concezione antica dell’agricoltura il senso dell’agiatezza che essa procura: nel Cato maior (par. 56) Cicerone aveva scritto che l’agricoltura è salutare all’umanità saturitate copiaque omnium quae ad victum hominum ... pertinent. Non inganni il dato dell’esiguità e della qualità scadente del terreno, che non si presterebbe alla viticultura, al lavoro dei giovenchi, al gregge, nonostante Taranto fosse famosa nell’antichità per le pecore, ed avesse clima mite, assolutamente ignara delle ghiacciate invernali di cui invece parla Virgilio (geo. II 197-98). Se il senex riesce a raggiungere, e lavora per raggiungere l’abundantia, e non quod satis sibi sit, è difficile sostenere che l’exemplum dell’excursus serva a leggere l’offerta al cittadino di una terra sterile come invito ad accontentarsi del poco. Virgilio esibisce un quadro scarsamente credibile; il pubblico dei lettori sa che il poeta sta offrendo l’immagine di un mondo non veritiero, in cui iperbolico è il rendimento ottenuto da una terra veramente improduttiva, mentre credibile rimane la figura del contadino anziano che offre generose prestazioni. Nel de senectute (par. 51) Cicerone fa dire a Catone che le voluptates agricolarum, tutt’altro che ostacolate dalla vecchiezza, ad sapientis vitam proxume videntur accedere. Ora, il mondo delle Georgiche è conforme alle leggi naturali, è regolato da cicli naturali di lavoro e di produttività. Perché Virgilio propone questa forte deviazione mirando a destare meraviglia? Il vecchio di Corico raggiunge uno sviluppo di immagine che va al di là di quello dello stesso Aristeo13, che diventa pure un eroe culturale, 12 Cf. A. Cozzo, Lavoro ed arricchimento negli “Erga” di Esiodo, “Studi Storici” 26, 1985, pp. 373-88. 13 Christine Perkell, On the Corycian Gardener of Vergil’s Fourth ‘Georgic’, “TAPhA” 111, 1981, pp. 167-77, è orientata a vedere nell’abilità del vecchio un possibile confronto con Orfeo e con Virgilio stesso.

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VIRGILIO

ma solo grazie all’indispensabile aiuto divino della madre Cirene, e, prima ancora, del vate Proteo, che, in fondo, oltretutto, ne condanna l’operato (magna luis commissa). Il codice di comportamento del vecchio è inimitabile, ogni sua azione è perfetta, p©san ... pr©xin tele…an aÙtoà ernai, come si legge in SVF III 557 Arnim: è autarkeia estrema, autarkeia ideale, capacità di “procurarsi da sé le cose che contribuiscono a raggiungere una vita felice” (SVF III 276); egli si sente un re come si sentiva Melibeo prima dell’esproprio (buc. 1,69), come Properzio (II 16,28), anch’egli prima dell’esproprio della puella da parte del praetor. Non a caso in SVF III 619 si legge che i filosofi stoici attribuiscono al saggio, tra l’altro, il regno e la ricchezza (che consiste soprattutto nella consapevolezza della autosufficienza), e sostengono che egli è grande perché dÚnatai ™fikne‹sqai tîn kat¦ proa…resin Ôntwn aÙtîÄ kaˆ prokeimšnwn (“può raggiungere tutto ciò che vuole e che si è prefisso di raggiungere”). Il senex Corycius è simbolo della sapientia14, simbolo, è vero, di una utopia, però ugualmente necessaria in sede pedagogica. E solo un vecchio può realizzarla, non contaminato da bisogni effimeri, come quello dell’eros, e non vincolato da legami familiari; il senex lanq£nei bièsaj, non è animato, come invece le api, da spirito di solidarietà e di collaborazione, incarna la figura del saggio solitario. Nel suo impegno didascalico Virgilio ha ritenuto, dunque, di dedicare uno spazio, ristretto ma densissimo, alla rappresentazione di un uomo che ha realizzato l’ideale georgico, consistente nel raggiungimento del massimo rendimento in condizioni ambientali di minima collaboratività, praticamente di autentica improduttività. Grazie al suo eccezionale attivismo quest’uomo è capace addirittura di dominare la natura, di rimproverarle le manchevolezze, di correggerne gli errori, di dimostrare come essa possa essere piegata con la forza della tenacia umana a rispondere alle richieste sane dell’agricoltore; la natura è fatta per dare, l’uomo per saper ricevere quello che la natura concede quando le si sa chiedere. Così interpretata la figura del senex Corycius diventa simbolo del sistema ideologico complessivo delle Georgiche, e quindi, tenendo conto della sua esemplarità, diventa simbolo dell’organizzazione comportamentale del vivere. Egli supera tutte le esemplificazioni, che fondandosi sull’analogia risulteranno parziali, per dare forma all’ideale, al modello della somma perfezione. Un labor improbus attende tutti, il poeta, i cittadini cui si rivolge, la società della rinascente Roma per compiere una grandiosa azione 14

Cf. L. Nosarti, Studi sulle Georgiche di Virgilio, Padova 19962, p. 115.

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civile: son necessari l’incoraggiamento, la ‘collaborazione’ ai livelli alti della politica e del governo della Città di colui al quale con entusiasmo l’autore delle Georgiche rivolge l’invito solenne: votis iam nunc adsuesce vocari (geo. I 42). L’impegno letterario è strettamente collegato al dovere politico del vincitore nella coscienza del poeta, che colloca quel trionfale imperativo come sfrag…j del proemio della prima georgica, composta, questa, ben prima che il contenuto di quell’espressione potesse essere anche solo uno speranzoso auspicio: ignaros … viae mecum miseratus agrestis / ingredere et votis iam nunc adsuesce vocari, “con me solidale verso i concittadini ignari della via / con me vieni, e ora e sempre sarai con preghiere invocato” (I 41-42), ma ispirato, quello, dalla realtà dei fatti, se è vero, come legittimamente si ritiene, che esso sia stato scritto in seguito ai fatti del 31-30. Il poeta delle Georgiche coniuga il lavoro con la preghiera; a I 338 ss. leggiamo il solenne invito all’agricola, alla fine dell’inverno, quando già comincia ad avvertirsi la serenità della primavera, a venerar gli dèi e a fare grandi offerte durante la festa in onore di Cerere. Alla preghiera, che è affidamento di sé alla benevolenza del dio, è associata la fiducia nelle proprie capacità e nell’azione feconda del Sole, che non inganna, e che anzi sa essere profeta di trame, di ciechi tumulti e di guerre. Così il pensiero slitta dalla materia tecnica del lavoro agricolo alla bruta realtà di un evento storico estremamente drammatico, quando i congiurati assassinarono Cesare (I 466 ss.). Il Sole partecipò della sofferenza di Roma, il suo capo si ricoprì di oscura ruggine, ed il mondo, macchiatosi di un gravissimo atto di empietà, temette che su di sé fosse caduta un’intramontabile notte. Ormai la sensibilità del poeta augusteo è completamente assorbita dal ricordo e dalla rievocazione degli eventi prodigiosi che seguirono a quel gesto che avrebbe contribuito a cambiare la storia; qui il discepolo agricola è innanzitutto o forse solo ormai civis Romanus; non c’è in questi versi, così numerosi e conclusivi del libro, nulla di georgico se non un paesaggio, peraltro spettrale, che occupa la scena solo in quanto teatro di uno spettacolo surreale, in cui l’innaturalità dell’evento politico si riflette nell’innaturalità della fenomenologia della natura: una serie di impossibilia che spiegano la reazione sofferta delle Alpi e dei boschi, delle bestie e di Eridano, dei lupi, e che si estrinsecano in sangue sprizzante dai pozzi, in folgori sfavillanti cadute dal cielo e in comete funeste. La guerra distrugge l’agricoltura, simbolo di ogni sana attività di ogni cittadino italico e di ogni società umana, la fa dimenticare; la dimentica anche il poeta didascalico, troppo assorbi-

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to dalle brutture del conflitto, costretto dalla sua stessa coscienza a riciclarsi come poeta della guerra rievocata. Tutto gridava vendetta: l’Emazia, ancora una volta l’Emazia, si nutrì di sangue romano, ma da Filippi giunse la rivalsa ed indicò al mondo il nuovo faro. I campi, i campi dell’Italia, furono spettatori di scontri, essi conservarono la memoria degli eventi, essi sostituirono la loro funzione di scena della agri cultura in scenario del cruentum bellum; tornando al ruolo originario e naturale la nuova generazione rievocherà smarrita ciò che una assai casuale operazione archeologica le consentirà di riportare alla luce: il ricordo del passato si è fermato in un giavellotto smangiato da ronchiosa ruggine e in un elmo vacante, in un insieme di ossa gigantesche abbandonate nel terreno e coperte da strati di terra e di eventi. Quel terreno diventa testimone di un’altra fase del tempo e della storia, sulla quale si regge la realtà attuale: Filippi aveva gettato le basi di una nuova realtà politica, che apriva il nuovo corso. Il giovane che aveva punito i traditori di Cesare è ormai l’uomo che merita sostegno e consenso, merita che gli dèi ne ascoltino le preghiere; bisogna onorare il Cesare e tributare il degno onore agli aratri ricurvi; le falci non siano più rigide spade; l’attività agricola non sia più sostituita da quella bellica, in suolo italico. L’efferatezza della guerra ha interrotto il lavoro dei campi ed ha smesso l’aratro per la spada, forse espiando l’originale vitium laomedonteo e i tanti volti del crimine (tam multae scelerum facies, I 506). La campagna ha confuso lecito ed illecito, spade fratricide e lavoro della terra. La stessa sensibile fantasia del poeta non sa e non vuole disgiungere i due mondi, pur così opposti: si pianti la vite in collina o in pianura, la si pianti fitta o in filari, sarà bene che ogni viottolo corrisponda trasversalmente, alla perfezione; non sarà difficile se si pensa a quello che accade in una grande battaglia, quando una legione, schierata in campo aperto, ha disposto le coorti, ed i ranghi sono allineati, e qua e là il teatro di battaglia è investito da un balenìo fluttuante di bronzi, in attesa dello scontro, gestito da un sempre incerto Marte (II 274 ss.). E quando il fuoco si nasconde sotto la corteccia e poi attacca i tronchi e, inerpicandosi su nel fogliame, manda un forte crepitìo al cielo, avanzando infine vincitore tra le alte cime ed avvolgendo l’intera boscaglia (II 303 ss.), ancora l’ispirazione poetica interseca piani poetici eterogenei grazie a spontanee sovrapposizioni di immagini e di mondi. Del resto, quale differenza tra alberi, minacciati dal fuoco, e uomini, che vanno incontro alla morte gloriosa nello scontro aperto, potrebbe ammettere un poeta che scrive che animos tollent sata (II

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350), quando lieve nel mezzo vi si incuneerà un alito? Senti già qui il poeta che avrebbe cantato, in dissolvenza, la progressiva evanescenza dell’incrollabilità dell’eroe epico, alle parole della regina innamorata, nella vigorosa resistenza della quercia alle raffiche alpine di Borea (Aen. IV 441 ss.). All’ispirazione epica nella rappresentazione della battaglia è spinto il poeta dello scontro tra i due tori, nel III libro, cui farò accenno in seguito. L’analogia fissata da Varrone in de re r. III 16,30 tra i rumori prodotti dalle api ed il fragore dei soldati quando avviano la marcia proietta la fantasia del Mantovano alla descrizione di una vera e propria battaglia per il primato del rex; una descrizione alla quale non manca nemmeno la canonica similitudine, che soddisfa il sistema di attese del lettore avvertito: le api raggomitolate in grappoli ricordano la fitta grandine nell’aria e le piogge di tante ghiande dal leccio abbacchiato. Il secondo libro si apre con un’espressione (“Fin qui coltivazione dei campi e astri celesti”) che potrebbe apparire incoerente con l’epilogo del libro precedente dove dal v. 463 al v. 514, per ben 52 versi, il canto didascalico ha taciuto, senza mai più riaffiorare. Il sole, scandendo l’alternanza del giorno e della notte, inviando segnali mai ingannevoli e sempre ammonitori di verità, garantisce all’uomo, anche attraverso il cambiamento dei suoi colori, l’annuncio sincero delle minacce di Austro piovoso o la serenità delle nubi sospinte dal vento. Ebbene, il Sole con i suoi segnali seppe essere profeta di trame sinistre e di guerre, quando la sua luce fu offuscata – come ho prima ricordato – dal pensiero doloroso dell’uccisione di Cesare e, perciò, del pericolo per Roma, un evento epocale, sì, ma avvenuto ben almeno sette anni prima dell’inizio della composizione del I libro delle Georgiche, e prima anche dell’inizio della composizione delle Bucoliche, ispirate proprio da un anelito di evasione da quella realtà; e a quella realtà, ora, il poeta sembra tornato per avviare una dolorosa ma anche gloriosa lettura della storia. Le perduranti gravi condizioni politiche e sociali mantenevano vivo il ricordo di quella tragedia, e forse minavano anche la possibilità di rendere operativi sul suolo italico quei precetti che il poeta andava fornendo ai cittadini, agli Italici, che – si dedicassero all’agricoltura o ad altre attività nel campo del labor – dovevano, nei suoi auspici, a tutto attendere tranne che all’uso delle armi per una guerra fratricida: la guerra distrugge il labor dell’uomo, che è viatico di progresso, al quale Giove ne ha inderogabilmente chiamato l’impegno. Ma il poeta ammonitore del dramma della guerra, della guerra civile poi!, faticosa-

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mente e coraggiosamente riprende il suo cammino didascalico, avviandosi ad affrontare il secondo impegno, che lo vedrà precettore della coltivazione dell’uva e dei “boscosi virgulti” e della ‘prole’ dell’ulivo che cresce lentamente. Questa volta la materia tecnica tematizzata nel libro è annunciata quasi subito, da v. 9, dopo una breve invocatio al padre Lenèo, che il poeta invita con lui a vendemmiare. La ripresa del ciclo didascalico, dopo la tetra descrizione dell’apocalittica reazione della natura alla morte del “monarca”, è il segnale della necessità di andare oltre la guerra, oltre gli antagonismi e i giochi di potere, verso la ricostruzione attraverso il lavoro, e cioè attraverso l’osservanza del dovere. Ormai il giovane, nel quale molti hanno risposto le speranze, di pace e di riscatto, proprie e della propria patria, ha portato la guerra fuori dell’Italia, con l’aiuto degli dèi patri, di Romolo, di Vesta; Cesare soccorre le generazioni presenti e miete grandi trionfi. Egli muove guerra all’Eufrate, alla Germania; ormai è irrefrenabile, come quando l’auriga è trascinato dai cavalli ed il cocchio già più non avverte le briglie. Il primo canto georgico si chiudeva nel segno di un condottiero che ha riscattato Roma dall’ignominia delle Idi di marzo, ha ricevuto l’investitura dagli dèi e restituisce forte nel mondo il nome e la potenza dell’Urbe e dell’Italia, cui spetta il dominio totale sulla storia degli uomini. Questo primato appartiene all’Italia che emerge su tutto il mondo, con le sue contrade, i suoi paesaggi, i suoi pregi; la densa presentazione delle bellezze dell’Italia è gestita con la tecnica del confronto, anzi del ‘cedat-Motiv’: tutti i paesi del mondo devono inchinarsi dinanzi all’Italia, le selve dei Medi, il Gange, l’Ermo, Battra ed il paese degli Indi e la Pancaia, e di ciascuna di queste terre pur vengono celebrate le ricchezze, di territorio e di giacimenti e di prodotti; la Colchide, allora celeberrima per la fertilità della terra, rappresentava un ottimo elemento di confronto; per evocarla Virgilio ripercorre la favola del vello d’oro conquistato da Giasone che aggiogò due tori spiranti fiamme e seminò i denti del drago che custodiva il vello; da quei denti spuntarono uomini armati che aggredirono l’eroe che li fece perire gettando tra loro una pietra. La ripresa di questo mito sembra richiamare, all’incontrario, nel rispetto della tecnica della Umkehrung, lo scenario che chiude il primo libro: lì giavellotti scavati dall’agricola, qui denti di drago seminati dall’eroe; lì sembianze di soldati uccisi, qui uomini armati guizzanti per uccidere l’eroe. L’Italia non è terra di mostri come la Colchide, nel suo terreno cresce la feracità delle biade, da esso si raccoglie il succo

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dell’uva massica; l’Italia è presidio di ulivi e floridi armenti. Virgilio non canta la terra cantata da Apollonio, egli canta gli arvorum ingenia (II 177), cui associa la fortuna degli agricolae quando abbiano coscienza della loro ricchezza, non futile come quella che aleggia nei palazzi sontuosi dove vi sono stipiti screziati di bella tartaruga e si vedono vesti ricamate d’oro e bronzi di Efira, ma vivida di placida quiete, priva di inganni, vissuta all’aperto, nell’ossequio verso i padri e gli dèi, dove risiedeva un tempo Giustizia prima di abbandonar la Terra. Felice chi ha potuto conoscere le rerum causae, rimuovendo ataviche paure provenienti da un fatum inexorabile e dal fragore dell’avido Acheronte; felice anche chi ha potuto conoscere gli dèi della campagna: i confini di questa o quella scuola filosofica sono travalicati nella individuazione di uno standard di benessere e di utilità che si materializza non tanto in ciò cui si deve aspirare, quanto in ciò che va scongiurato: la guerra. La agri cultura è il grande simbolo dell’esistenza, della vita che regola il mondo, i cicli, i gesti, il reiterarsi dell’essere nel miracolo della nascita, come quando a primavera Etere, padre onnipotente, col suo grande corpo discende nel grembo della sposa feconda, mentre nei boschi echeggia il canto degli uccelli e tiepide soffiano le aure di Zefiro, e i germogli si concedono sicuri ai raggi del nuovo sole (II 325 ss.): come quando nacque il mondo! Non sarà casuale che la parte didascalica vera e propria del poema, dopo il lungo prologo (vv. 1-43), si apra con un’immagine della primavera, che, secondo la proverbiale visione degli antichi, fu l’inizio di tutto; col suo radioso simbolo dell’apertura al rigoglio della vita, al lavoro, degli animali (“il toro affondi l’aratro”) e degli arnesi (“il vomere, logorato dal solco, luccichi”). La figura dell’uomo comparirà solo successivamente: a lui il poeta si rivolge perché usi la ragione necessaria ad imparare; imparare l’andamento dei venti ed il ‘variabile costume del cielo’, le tipologie agriculturali, la natura dei luoghi e la loro possibile produttività. Ricorda Virgilio come molti prodotti arrivino a Roma dall’estero: il lettore del tempo sa bene che si tratta di tributi dovuti da popolazioni sottomesse, e che, quindi, si sta benedicendo la superiorità politica e militare di Roma e dell’Italia, che assicura innanzitutto un benessere economico e sociale; ricordarlo in un momento di grande difficoltà e di trepidazione per una situazione di politica interna molto confusa suona come un monito a non commettere il grave errore di incrinare uno strapotere mondiale che comprometterebbe l’intero assetto politico. Che i proprietari agricoli, a causa delle guerre di conquista, con arruolamenti sempre più vasti, con le distribuzioni delle terre ai veterani

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(che non sempre riuscivano a trasformarsi in piccoli proprietari attivi ed efficienti), subissero un dissanguamento è una innegabile verità, ma nondimeno è insostenibile che Virgilio scegliesse il motivo georgico per ragioni esclusivamente collegate a questa congiuntura sociale: la pratica agriculturale custodiva una forte sollecitazione per chi volesse risvegliare l’impegno dell’uomo richiamandolo alla fatica fisica, perché essa risultava, in tempo di pace, la più rappresentativa. Il ritorno alla terra è ritorno al lavoro, ma anche al culto della vita semplice, all’esercizio delle virtù romane e alla pratica della religione tradizionale di Roma e dell’Italia. Quindi nella nuova opera si fondono amore del lavoro e della natura; rivalutazione dell’Italia, restaurazione dei valori morali e religiosi nazionali più antichi15, in un quadro politico particolarmente difficile. Nel 38 a.C. la crisi è generale, sia all’interno che all’estero: l’estrema incertezza dell’apparato statuale repubblicano minato da tempo, da un lato, le minacce dei Parti a Oriente, dei Germani a nord dall’altro, destabilizzano l’opinione pubblica e accentuano quello sconvolgimento dei valori morali che già da qualche tempo aveva incrinato la società ed i suoi costumi. Virgilio attribuisce ad Ottaviano, forse già dall’inizio della composizione del poema, una funzione soteriologica: ad Azio, finalmente (e dopo Azio sono scritti probabilmente il 1° proemio e forse anche il 3°) si sarebbe compiuto il lungo processo storico. La agri cultura è una scelta di vita, elevata a simbolo ed emblema di tutte le scelte di vita; il poeta elenca una serie di b…oi per esaltare, in una crescente ed incalzante (alii, hic, alius, hic, hunc, alio) Priamel 16 (II 503 ss.), la vita del contadino che smuove la terra con l’aratro ricurvo, ed offre la sua fatica di un intero anno alla patria e ai piccoli nipoti: è la palestra della campagna che indurisce i corpi degli uomini, corpora … agresti … praedura palaestra (II 531), secondo il principio consacrato dal tempus actum, di cui si tesse ancora una volta la laudatio, e che sembra presiedere qualunque rito, come l’uccisione del caprone sull’altare di Bacco e la messa in scena dei ludi antichi, veteres ludi (II 380-81). È al contadino che il poeta indica quel che deve fare e quel che gli è vietato fare, in una sequenza serrata di imperativi negativi (cf. vv. 298-302 della seconda georgica). Le parole di apertura del III libro, Te quoque, magna Pales eqs., con quella congiunzione, quoque, esaltata dall’enfasi prosodico-metrica 15 La tradizione ellenistica e Lucrezio con proemi e digressioni suggerivano la possibilità di uscire dalla stretta trattazione tecnica. 16 Cf. W.H. Race, The Classical Priamel from Homer to Boethius, Leiden Brill 1982.

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del pirrichio che completa col monosillabo iniziale la dieresi prima, suggeriscono l’ipotesi dell’incipit di un canto aggiuntivo, della riapertura di un progetto poetico considerato già concluso con i composti libri primo e secondo; così, anche la doppia invocazione, alla divinità di Pales e di Apollo, che indicano la pastorizia, mentre nel primo libro l’apostrofe invocativa era rivolta solo a Cerere, nel secondo solo a Bacco, segna una linea di demarcazione rispetto alle modalità precedentemente adottate. Virgilio, probabilmente, riteneva esaurita l’esperienza didascalica dopo la trattazione de arboribus; d’altronde, la materia specificamente georgica era quella trattata appunto nei primi due libri, segetes ed arbores (più diffusamente le viti). Lo stesso proemio del III libro, un ‘proemio al mezzo’17, presenta caratteristiche nuove rispetto ai due proemi precedenti, poiché si impone all’attenzione del lettore non tanto come parte introduttiva di una tematica poetica (i contenuti, liquidati nei vv. 1-2) quanto di un programma poetico (l’ispirazione e la forma, su cui ci si dilunga da v. 3 a v. 48), nel quale è il poeta stesso a dichiarare l’intenzione di affrontare temi completamente nuovi, mai affrontati, e, quindi, temi diversi anche da quelli che erano stati svolti nei primi due libri, sebbene il tema degli animali ed il tema delle api siano contigui a quelli delle segetes e delle arbores, e ancora non rappresentino l’oggetto del canto che il poeta ha in mente: ardentis pugnas Caesaris, per trasmetterne il nomen tot per annos (III 46-47), e sebbene siano portatori di strategie compositive e di habitus poetici a volte straordinariamente vicini alla Stimmung epica dell’Eneide. E, forse, anche la stessa Eneide, nei suoi effettivi esiti, non rifletteva pienamente l’ufficialità del disegno virgiliano, adombrato nel III proemio georgico, che sembrava piuttosto mirare alla celebrazione diretta di Ottaviano Augusto, e non ad una epopea filtrata dalla leggenda. Virgilio, quindi, si convince di rinviare la realizzazione del progetto epico, e di riprendere il poema georgico integrandolo con lo svolgimento di materie affini; in questo modo avrebbe creato degli spazi letterari che gli avrebbero consentito di portare a compimento quel progetto paideutico che aveva ispirato la composizione dei primi due libri: dubbio non v’è che la condanna dell’eros come furor, la descrizione della peste nel Norico, il motivo dell’incalzante minaccia della morte offrivano un’opportunità, che non si sarebbe potuta cogliere altrove, per richiamare l’attenzione degli uomini sulla necessità di 17

Cf. G.B. Conte, I proemi al mezzo, in Id., Virgilio, il genere e i suoi confini, Milano 1984, pp. 121-33 (spec. pp. 123-25).

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autosorvegliarsi dinanzi alle negative sollecitazioni presenti nell’essere e nell’esistere, e sulla maledetta gratuità con la quale a volte la natura offende il lavoro dell’uomo, cioè sulla caducità della vita animale (e umana), sulla precarietà intrinseca alla condizione del vivere. Tutto ciò, con altri mezzi espressivi ed altra tecnica poetica, Virgilio avrebbe detto anche nell’Eneide, ma ora, frenato, sia pur temporaneamente, dagli haud mollia iussa di Mecenate, un tempo dal Cinzio (cf. buc. 6,4 ss.), dice in una poesia che deve conservare ancora la species di poesia della did£xij. È veramente difficile ammettere che Virgilio abbia impiegato, senza interruzioni, dieci anni per comporre poco meno di 2200 versi. La lunga gestazione delle Georgiche in un periodo così carico di mutamenti politici riflette evidentemente quei cambiamenti che rimangono registrati nell’opera, ed è tutt’altro che certo che i vari passaggi storici attraversati nel periodo di composizione si susseguano in un ordine rigidamente diacronico. Virgilio ha lavorato ai primi due libri in una fase davvero convulsa, a tratti altamente drammatica della politica e della storia di Roma, lanciando ai Romani il messaggio della necessità di svolgere nel labor il loro ruolo di cives. Egli ha continuato ad evocare passaggi delicatissimi delle vicende politiche anche quando la storia di Roma aveva ormai superato fasi particolarmente critiche, proprio con lo scopo paideutico di mantenere vivo il ricordo della altissima tragicità di certe situazioni, dalle quali era stato Ottaviano a liberare il popolo, il nome di Roma e l’impero; da esse si poteva e si doveva cogliere l’esemplarità di una condotta politica, si poteva e si doveva trarre ammonimento per un “mai più”. L’ultimo libro delle Georgiche offre una prova pratica della concezione del lavoro; il poeta smette il suo impegno didascalico affidando alla descrizione dell’organizzatissima vita delle api e della esemplare giornata del vecchio coricio il cómpito di illustrare, par excellence, al lettore non più sul piano teorico, la prassi del labor e l’eccezionalità dei suoi esiti. I primi due libri hanno indicato all’uomo come compiere un lavoro per la cura dei campi e degli alberi. Il terzo libro, che parla di cavalli, capre, cani, il soggetto operante ed obbediente ai praecepta è meno inerte di quelli dei primi due libri, deve essere sì gestito dall’uomo ma acquisisce anche un certo ruolo e gode di una certa iniziativa; anzi, emerge la denuncia autoriale dell’assoluta impotenza dell’uomo dinanzi all’oscurità di certi eventi, in cui il protagonismo dell’animale si esprime, drammaticamente e paradossalmente, proprio nell’affrontare la morte da solo e nel non poterla evitare a causa della failure dell’uo-

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mo. Accade così anche in battaglia. È, del resto, oltremodo significativo che nel 3° proemio il poeta dichiari la necessità di imboccare la strada che lo innalzi da terra; vuole anche lui andare vincitore sulla bocca degli uomini, anche lui celebrare un trionfo come lo celebra Ottaviano; il trionfo del poeta deriva dalla vittoria conseguita con il tenace impegno di rieducatore e restauratore di una cultura politica e civile fondata sulla compostezza morale e la coscienza del limite. Nella composizione dei libri III e IV sembra che Virgilio, in misura molto più forte e complessa di quanto abbia fatto nei primi due libri, ricorra ad un doppio livello di scrittura, sì, insomma, che sussistano nel suo messaggio two voices, ma non quelle di harvardiana impostazione: la voce georgica, o neo-georgica, e la voce epica, o pre-epica. Virgilio assume su di sé un ruolo collaborativo con gli impegni politici e governativi di Ottaviano, un ruolo che si estrinseca in quello del maestro del vivere, in educatore dell’uomo nuovo, del nuovo cittadino, che è cittadino del mondo. Il poeta trova il modo, parlando del tempo della figliatura per le vacche, di fare un’amara considerazione sulla fugacità della giovinezza: optima quae dies miseris mortalibus aevi / prima fugit (III 66-67); a v. 284 avrebbe esclamato, non sorpreso, ma eroicamente sconsolato: fugit inreparabile tempus; a IV 147-48 sarà costretto a dichiarare, a chiusura dell’episodio del senex Corycius, che spatiis exclusus iniquis non può andare oltre e lascia ad altri l’impegno letterario dell’orticultura: nell’apparente inopportunità della collocazione di queste, e tante altre riflessioni che toccano la condizione umana, dobbiamo cogliere il senso profondo del poema, nel quale è la materia tecnica a diventare una sorta di pretesto per esprimere un modo di leggere la realtà, che sembra unificarsi, pur nelle sue plurime manifestazioni, in una coinvolgente umanizzazione, e di indicare delle direttive esistenziali. Proprio questi intercalari, con i quali il poeta avverte di dover richiamare l’attenzione sul tema della sua opera, tradiscono l’effettiva strategia della sua poesia didascalica, priva di reali pretese di disciplinata obbedienza alla tecnica agriculturale, che rimane sempre e solo un pretesto, un’occasione per esprimere riflessioni inerenti all’art du vivre, secondo le esigenze espresse dai tempi, se si pensa che anche Orazio mirava allo stesso scopo, pur percorrendo forme poetiche, sì, alternative, ma di non minore incidenza pedagogica. Si avverte in quelle parole di Virgilio un bisogno di affrettarsi, quasi che l’impulso della poesia epica non reggesse più l’attesa imposta, quell’impulso che, come abbiamo visto, in un certo senso, minacciava di rompere

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gli argini, e, se si lasciava frenare, era grazie alla compensazione del gioco della metafora e dell’allusione. Allo stesso modo il poeta didascalico, consigliando di tener lontano il bue o il cavallo dai caeci stimuli amoris per irrobustirne le forze, dedica tre versi (III 215-17) per ricordare gli effetti deleteri sul maschio prodotti dalla femina che con le sue dulces inlecebrae incendia la vista e fa dimenticare il bosco erboso (come non pensare al ‘futuro’ dramma di Didone!). I due tori si preparano allo scontro per il possesso della formosa iuvenca della Sila, descritto come un duello tra due eroi epici (III 224-41; come non pensare al duello tra Enea e Turno!). Lo slogan finale, celeberrimo, amor omnibus idem (v. 244), identifica tutti gli esseri della natura, uomini, animali, specie marine, uccelli: è qui la novità del messaggio, nella personalizzazione del significato profondo del dato tecnico, che, di per sé, è assolutamente scontato, e cioè nella rielaborazione ‘filosofica’ della nozione, che acquisisce un senso, non nel contesto della scienza zoologica, ma in un adeguato inquadramento all’interno del sistema di idee del poema. L’armentarius Afer (III 344 ss.) tutto porta con sé, tetto, lari ed armi, il cane di Amicle e la faretra di Creta: il lettore, che è innanzitutto civis Romanus, coglie la finezza del gusto puramente alessandrino nel ricorso ad epiteti esornativi kat’™xoc»n, che però non si disperdono nella vacuità della citazione dotta perché servono ad esaltare con maggior enfasi l’illustrans, il soldato romano che acer in armis divora la strada (viam carpit) e si erge schierato contro il nemico: è lui che Virgilio ha nella mente, ma il poeta ha ribaltato i termini del gioco analogico, facendo stavolta dell’abituale illustrandum invece il primo termine di confronto. Il terzo libro si segnala anche per la spettralità di certi scenari, come quella dell’inverno scitico (vv. 349 ss.) e della peste del Norico (vv. 474 ss.). Come sempre, la sensibilità di Virgilio è attratta dalla condizione spesso soccombente degli animali, perché essi spesso sono in una condizione di debolezza e di assoggettamento; su di essi l’uomo si è abituato ad esercitare il potere della forza, anzi della violenza. I cervi della Scizia trascinano a fatica col petto l’ammasso di neve che si para loro dinanzi, ostacolandone la sopravvivenza, perché così facendo quelli si espongono al facile massacro dei cacciatori che li trafiggono addirittura da vicino; il poeta contrappone all’acuto bramito delle bestiole condannate dal clima e dalla natura il grido compiaciuto dei bracconieri (gens effrena virum, v. 382) dalla stessa natura favoriti; questi poi sotto la terra profonda secura otia agunt (vv. 376-77), mentre quei cervi, destinati dall’istinto naturale alla fuga e al colpo

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alle spalle, son condannati a guardare negli occhi i loro assassini, innaturalmente. La descrizione del flagello della peste nel Norico occupa uno spazio considerevole della terza georgica, sia per l’estensione (circa duecento versi, circa un terzo del libro), sia perché con questo quadro si chiude il libro18. Già in un altro caso, in questo terzo libro, il poeta si è attardato (vv. 209-83, settantacinque versi) su un excursus, quello sull’eros degli armenti e sui suoi effetti funesti; poi, pur captus amore di questo o quel tema sugli armenti, dichiara di non potersi dilungare (vv. 284-85, già richiamati) e di dover ormai rivolgere l’attenzione ad altro tema, i lanigeri greges e le hirtae capellae. È evidentemente inevitabile accostare gli scenari dell’orrore della peste del Norico alla rappresentazione della peste di Atene che chiude il poema lucreziano, ma le motivazioni che hanno spinto i due grandissimi poeti a tali raccapriccianti rappresentazioni sono, a mio avviso, profondamente diverse, per la diversità sostanziale del messaggio che con le loro opere hanno inteso lanciare al pubblico romano. Lucrezio parla al discepolo che, a conclusione della lunga lezione di filosofia epicurea, è chiamato a verificare il livello di atarassia che è riuscito a raggiungere, la capacità di controllare le emozioni, anche dinanzi alle descrizioni più macabre; ovvero, qualora non si voglia accedere ad una tale esegesi, Lucrezio rappresenta, in ogni caso, uno scenario estremo di morte, di dolore e di sofferenza di fronte al quale è almeno difficile per l’uomo, che è tenuto a misurare le proprie paure, sostenere l’assunto che la morte sia non essere, o accedere a questa definizione di q£natoj rimuovendo il dolore che proviene dalla sofferenza fisica propria e altrui. Il sistema di idee delle Georgiche virgiliane è molto diverso; in questo terzo libro protagonista è l’animale, visto sub specie hominis, e di volta in volta, soprattutto, asservito alle esigenze dell’uomo, che lo cura per ottenerne comunque un rendimento ottimale, o lo offende obnubilato dall’egoismo, o addirittura ne pretende l’abbattimento gratuito, spesso consumato con inaudita crudeltà. La bestia è un essere soggetto all’uomo, ma è soggetto anche all’incapacità di gestire razionalmente la sua natura, l’eros, per es., un tema sul quale, come s’è visto, il poeta ha speso molti versi. Dinanzi alla malattia Virgilio ha voluto cantare la sconfitta della scienza, impersonata dai maestri, il Filliride Chirone e l’Amitaonio Melampo; la sconfitta della zootecnia che non sortisce 18

Alla maniera lucreziana Virgilio assegna al singolo libro una sua autonomia con un proemio di apertura ed una digressione in chiusura.

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effetti positivi cambiando pascoli e ricorrendo ai mezzi di sempre; la sconfitta delle pratiche religiose; la sconfitta degli indovini che non sanno dar responsi. Su tutti, sulle forze della razionalità come su quelle del sentimento, come su quelle esoteriche della pratiche apotropaiche, domina la pallida Tisifone che Morbos agit ante Metumque (v. 552). In questo senso egli si segnala come fortemente antitetico alle posizioni lucreziane, si impone come il poeta che riflette sulla Sofferenza, sulla Malattia, sulla Paura, condizioni del corpo e dello spirito che non possono essere respinte, anzi sono tanto vere che egli, nel pieno della rappresentazione, inorridendo dinanzi a quel dolore angoscioso, avverte l’esigenza di augurare quel male ai nemici: dí melióra piís erróremque hóstibus íllum! (v. 513): la sonorità del verso è caratterizzata dai tempi forti che cadono sulle sillabe in i e in o. La breve ma intensa descrizione della morìa delle api provocata dall’afta epizootica nel IV libro suggerisce a Virgilio un altro poeticissimo squarcio sulla fenomenologia della morte, ma stavolta il poeta è proiettato verso un rinnovato canto di ritorno alla vita attraverso la rappresentazione della bugonia, che permise per la prima volta ad Aristeo, e da quel momento a tutta l’umanità, di riavere un altro sciame di api, una volta andato completamente distrutto quello che possedeva, lui inventore dell’apicultura. A differenza di tutti gli altri scenari di morte, quest’ultimo presenta una evoluzione diversa e si inscrive in una sorta di diverso genere. Ancora una volta un excursus, seguìto e collegato a due fabulae, di cui si dirà di qui a poco. Un’altra occasione descrittiva del paesaggio è offerta all’inizio del l. IV (vv. 8-32), dove il poeta avverte della necessità di cercare per le api una sede opportuna, un luogo dove stare, sedes statioque. Dev’essere un luogo in cui alcuni elementi devono essere assenti, come i venti, le pecore ed i capretti, la giovenca ed i ramarri, le meropi ed altri uccelli e Procne; altri, invece, presenti, come limpide fonti e stagni verdi di muschio ed ‘un rio tenue fuggiasco tra le erbe’, una palma o un grande oleastro. Intorno, continua Virgilio, ci siano verdi cassie e serpilli odorosi, santoreggia e viole; le api han bisogno di un luogo disegnato da una natura vegetale, da cui stiano lontani, invece, venti e animali, che, in questo caso, diventano elementi di disturbo: i venti non consentono di portare a casa il foraggio; pecore e capretti insultano i fiori, la giovenca smuove la rugiada e calpesta le erbette nascenti; per i ramarri dal dorso rugoso, le meropi ed altri uccelli le api sono dolce esca ai nidi spietati, nidis immitibus. Come è strana la natura!, e come è vero che tutto è relativo: i nidi degli uccelli, spesso

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LE GEORGICHE ED IL NUOVO CITTADINO DEL MONDO

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rappresentati, con trasporto emotivo, come piccoli esseri implumi, indifesi ed esposti agli attacchi dei crudeli cacciatori, sono in genere simbolo di fragilità e di delicatezza; ora diventano immites, in una sorta di sintagma ossimorico. Il quarto libro, diversamente dagli altri in cui il poeta crea molte occasioni didascaliche, nelle quali è appunto impegnato nel did£skein, mostra le api all’opera, quasi una dimostrazione pratica degli insegnamenti impartiti nei libri veramente didascalici. Virgilio mostra una sincera ammirazione per l’organizzazione delle api, all’interno della cui società ravvisa ammirato una disciplinata distribuzione di compiti ed una comunanza di intenti. Le api avevano nutrito Giove nell’antro ditteo, ed il re del cielo le avrebbe ampiamente ricompensate attribuendo loro particolari qualità naturali. La similitudine delle api con i Ciclopi – si parva licet componere magnis (IV 176) –, che forse nasconde il gusto quasi capriccioso del lusus, è dettata dall’intenzione di rimuovere, dalla nozione che di queste creature minuscole si ha, l’idea associata di intrinseca debolezza, inferiorità e fragilità in cui le relegano le loro modestissime dimensioni, eguagliandole, attraverso il paradossale confronto, agli esseri che nell’immaginario collettivo hanno per eccellenza le forme più smisurate. Il poeta si diletta in questo gioco dei contrasti, grazie al quale avviene per questa analogia delle api con i Ciclopi quel che avviene per il citato mito di Giove, il re degli uomini e degli dèi, che nella caverna cretese era stato nutrito grazie al miele prodotto dalle api. Le api diventano piccoli grandi esseri, degni dell’attenzione di Giove, degni del confronto con i Ciclopi, degni dell’interessamento del poeta che ha dedicato loro un’intera georgica, non esclusa, all’interno di questa, quella parte cospicua riservata all’inserto mitologico, comunque connesso sul piano narratologico, contenutistico ed ideologico. Le api sono importanti perché producono il miele, così necessario ad una umanità che ancora non conosce altre forme di dolcificazione, ma importante, soprattutto nel rispetto del punto di vista del poeta, è la loro organizzazione di vita, il fervore del loro impegno nello svolgimento del prezioso lavoro. Ora a Virgilio interessa sottolineare l’unità nella operosità, labor omnibus unus (v. 184); altrove, come si è visto per l’episodio del senex di Corico, il poeta è attratto invece dalla solitudine di chi opera, una solitudine che rimarca un individualismo che serve a giustificare la straordinarietà dell’azione. A seconda delle esigenze del suo messaggio, Virgilio costruisce questo o quell’exemplum, e credo che già solo questo basti a sottrarlo alle varie categorizzazioni ideologiche in cui si è ritenuto di rinchiuderlo, secondo parametri assolutamente

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anacronistici e antistorici. Virgilio punta sulla comunanza degli intenti e dei compiti, ma afferma anche il profondo rispetto verso il rex (ai tempi di Virgilio, come si sa, non si aveva cognizione dell’ape regina), un rispetto superiore a quello che i rispettivi popoli portano verso il re egizio, o lidio o parto o medo. I versi dedicati alla descrizione del re, delle sue funzioni, delle sue doti inevitabilmente innescano un rinvio del pensiero alla figura di Ottaviano, e, per certi tratti, per antitesi, a colui che Cleopatra ha ridotto all’ignominioso ruolo di nemico di lui e di Roma, Antonio. Quando il poeta accenna al fuco che inoperoso siede alla mensa altrui (v. 244), non è difficile supporre che intendesse orientare il pensiero del lettore/ascoltatore al soggiorno di Antonio alla corte della regina egizia. Ed il risanamento operato dalle api dopo il saccheggio è parallelo alla ricostruzione a Roma di templi ed edifici avviata da Augusto dopo la prolungata bufera delle guerre civili, un programma di recupero architettonico, soprattutto per l’edilizia religiosa, del quale il princeps andò particolarmente fiero come dimostra la prolungata rievocazione da lui fatta nelle Res gestae. Virgilio chiude il poema georgico con la favola di Aristeo da lui collegata alla favola di Orfeo, ricorrendo ad una strategia compositiva che, comportando l’inserimento di una parte idillica all’interno del genere didascalico, ne sconvolge la tradizionale forma dei contenuti: è l’ultima digressione, con la quale si chiude praticamente il libro, se si escludono gli otto versi finali, che rappresentano la sfrag…j, questa, sì, istituzionalizzata dalle regole del genere. Si sa con quanto acume la critica si sia esercitata nel tentativo di impostare un’equilibrata interpretazione sull’inserimento di queste due fabulae nel poema georgico, a proposito delle quali le testimonianze serviane intervengono a complicare i termini della questione19; qui basti ribadire che Virgilio ha inserito l’epillio nel suo poema didascalico con un intento molto importante, col quale, evidentemente, egli sente di poter raggiungere quella vittoria di cui parla nel proemio, una vittoria che lo pone sullo stesso piano di Ottaviano vincitore e signore del mondo. Virgilio avoca a sé il ruolo di educatore, o rieducatore, di un popolo destinato a 19 Ne dò notizia e discuto la questione in Da Orfeo a Lavinia, Napoli 2008, pp. 21 ss. È tutt’altro che improbabile una diversa datazione della pubblicazione delle Georgiche, e, addirittura, è ipotizzabile una doppia redazione, lasciando salva, comunque, la notizia donatiana della lettura dei quattro libri al cospetto di Ottaviano ad Atella nel 29 a.C. (“Georgica reverso post Actiacam victoriam Augusto atque Atellae reficiendarum faucium causa commoranti per continuum quadriduum legit, suscipiente Maecenate legendi vicem quotiens interpellaretur ipse vocis offensione. pronuntiabat autem cum suavitate, cum lenociniis miris”, §§ 27-28).

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LE GEORGICHE ED IL NUOVO CITTADINO DEL MONDO

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dominare il mondo: ebbene, questo popolo deve imparare, attraverso l’improbus labor, che gli obiettivi, anche i più duri, sono sempre raggiungibili puntando sulla tenacia e sull’impegno costanti, mai cedendo all’abbattimento fisico e morale nonostante gli insulti della storia; il popolo di Roma ha dovuto opporre una grave resistenza alle sollecitazioni negative ed ingiuste venute dall’esterno; questa è la strada da seguire per conseguire definitivamente la vittoria. Ancora una volta siamo agli antipodi col verbo lucreziano. Il Cittadino di Roma deve imparare ad essere “Cittadino dell’età di Giove”, deve acquisire la convinzione delle sue infinite capacità: glielo ha insegnato Virgilio nelle Georgiche, ma, nel contempo, il Cittadino di Roma e l’Uomo che ha stabilizzato l’impero con una Pax finalmente raggiunta devono conoscere anche i limiti del loro strapotere, come avrebbe dovuto conoscerli Orfeo, che ha commesso un peccato grave di presunzione pensando di poter piegare gli dèi inferi che invece non perdonano perché non possono perdonare. Orfeo ha sbagliato nella richiesta, ha sbagliato nella presunzione, ed ha sbagliato nella convinzione che gli dèi di sotterra derogassero dall’ordine naturale delle cose e degli esseri. Ora le Georgiche si possono considerare concluse, ora, dopo il monito severo realizzato con un exemplum mitologico forte, quale doveva essere per scuotere coscienze falsate da una presunzione di una onnipotenza che invece non esiste. Si potrà realizzare l’aÙt£rkeia, che corrisponde all’atarassia epicurea e all’imperturbabilità stoica, si potrà professare il rifiuto delle ricchezze e del lusso, nel rispetto del credo epicureo e stoico, si potrà parlare di api che lavorano tutto il giorno per tornare a casa a notte inoltrata, e si potrà dire, con La Penna20, che il lavoro diventa arte, che quella delle api è una laboriosità gioiosa, ma, innanzitutto bisogna saper riconoscere i limiti umani ed imporsi di mai valicarli; bisogna che l’uomo rispetti i limiti imposti dalla natura, e, allo stesso modo, bisogna curare i campi per non essere costretti a bruciare la felce, come recita il motto oraziano riportato in epigrafe.

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Cf. art.cit., p. 52.

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II.

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METAPAESAGGIO E METAPOESIA NELLE LAUDES DELLA 2A GEORGICA DI VIRGILIO

1. Dal paesaggio al metapaesaggio delle laudes Italiae At nos hinc alii sitientes ibimus Afros, pars Scythiam, et rapidum cretae veniemus Oaxen, et penitus toto divisos orbe Britannos1.

65

A questa battuta, carica già di nostalgia e di disincanto, del povero Melibeo, che perde la patria, immensa nei suoi ideali, le sue cose, modeste ma bastevoli, nelle quali si esaurisce la ragione stessa della vita, eppure ricca, è affidata la rassegnazione all’esilio pronunciata dal pastore sfortunato nel suo dialogo con Titiro nella prima ecloga virgiliana. Il mondo che egli è costretto a lasciare è semplice, un pascolo invaso da fangosi giunchi, pietre e paludi, e rigoglioso allo stesso tempo, tra i ruscelli di sempre, cari perché familiari, le fonti sacre e l’ombrosa frescura. L’Africa assetata, o la Scizia, o l’argilloso Oasse2, o la Britannia staccata dal ‘mondo’ attendono il fuoriuscito; non importa che si tratti del nord del mondo o del sud, è una terra ‘altra’, un paesaggio drammatico irrimediabilmente estraneo alla sensibilità di chi non troverà luogo al mondo dove possa esistenzialisticamente collocarsi, in piena autoscienza e autostima, come si situava nei suoi 1 Trad.: “Noi altri invece, via!, nell’Africa assetata / o in Scizia o sulle acque argillose dell’Oasse / o in Britannia, staccata dal resto del mondo” (buc. 1,64-66). 2 Sulla inesistenza geografica di questo fiume, citato con sottile ironia nei confronti del “naïve, ignorant shepherd”, cf. S. Hatzikosta, Non-existent rivers and geographical “adynata”. Verg. ecl. 1.64-66 (65-67), “Mus.Phil.Lond.” 8, 1987, pp. 121-33.

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VIRGILIO

regna, quel misero tugurio con un tetto fatto di zolle d’erba. La Patria, soprattutto quella della propria anima, è la Patria, il luogo cui si affida il proprio patrimonio sentimentale e ideologico, il luogo nel quale si riverbera la propria identità. Recentemente Franz Witek, a sua volta, ha stabilito un vincolo ancora più stretto tra personaggio ed ambiente bucolico quando ha affermato che il pastore fortunato, diversamente da Melibeo, rimane nel suo Paesaggio-Patria, Heimatlandschaft3. Carl Pietzcker4, forse addirittura più suggestivamente, scriveva quasi cinquant’anni fa che la vita di Titiro è il suo “essere nel paesaggio” (Sein in der Landschaft). La collocazione all’interno del paesaggio garantisce al personaggio, vorrei aggiungere, esistenza poetica, e, nello stesso tempo, il paesaggio si connota arcadicamente – e quindi poeticamente – perché è un Tityrus ad inscriversi al suo interno. Tutto ciò non vale più, appunto, per Melibeo. Ebbene, riprendendo uno spunto suggerito proprio da Witek5, si potrebbe dire, lato sensu e comunque su molto diverse basi, che un più o meno analogo procedimento di contrastività, che nella bucolica insiste tra terra prediletta e terra lontana, Virgilio segua tra la presentazione di paesaggi stranieri, con le loro caratteristiche positive ma anche negative, e la celebrazione entusiastica delle italiche bellezze naturali nelle laudes Italiae della seconda georgica. Il tema del paesaggio nelle Georgiche è particolarmente complesso perché molteplici ne sono le finalità poetiche: esso implica sempre significati e prospettive che vanno oltre i limiti della pura descrizione6. Il paesaggio è praticamente l’habitat permanente delle Georgiche: la presenza del quadro paesaggistico è quasi costante. “If the Georgics has to be assigned to a genre, it is Descriptive Poetry”, diceva Lancelot Patrick Wilkinson7. È chiaro che un paesaggio che funga da sfondo a sé stante, o un paesaggio fantastico tout court, non è congruo col codice imposto dal genere al Virgilio georgico, né può corrispondere in alcun modo alle strategie di significato fissate dal poeta stesso per

3

Cf. F. Witek, Vergils Landschaften. Versuch einer Typologie literarischer Landschaft, Spudasmata 111, Hildesheim 2006, p. 41. 4 Die Landschaft in Vergils Bukolika, Diss. Freiburg 1965, p. 7. 5 Cf. Witek, Vergils Landschaften, cit., pp. 69 ss. 6 Cf. al riguardo, ad es., F. Serpa, s.v. ‘paesaggio’, in “Enc. Virg.”, vol. III, Roma 1987, p. 921. A questo lavoro rinvio anche per le definizioni di paesaggio e di natura, per le canoniche distinzioni di paesaggio spirituale e di simbolismo collegato al paesaggio. 7 Cf. The Georgics of Virgil. A critical survey, Cambridge 1969, p. 4; un’ampia carrellata di esempi in P. Connor, The ‘Georgics’ as Description: Aspects and Qualification, “Ramus” 7.2, 8, 1979, pp. 34-58.

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METAPAESAGGIO E METAPOESIA NELLE LAUDES DELLA 2A GEORGICA DI VIRGILIO

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la sua opera didascalica8. L’esistenza di un pubblico cui è rivolto il messaggio-precetto fa sì che il discorso non sia mai autoreferenziale, come quasi sempre è, invece, nelle Bucoliche; la descrittività ed il registro didascalico prevedono un destinatario plurimo, il popolo romano, e la descrizione del paesaggio risente spesso di questo importante presupposto programmatico. Certamente ne risente nelle digressioni laudative del II libro, sulle quali intendo qui fermare l’attenzione: in esse la rappresentazione dell’ambiente risponde a variegate istanze, innanzitutto ideologiche e poetologiche, perché presuppongono una riflessione, che diventa coscienza poetica creativa, sulla storia di un popolo, e sul destino di un potere mondiale che ha vissuto il rischio di un traumatico crollo9. Gli studi virgiliani, da sempre, ma da un cinquantennio in particolare la letteratura critica d’oltre Oceano pongono – come è ben noto – un’accesa discussione sugli orientamenti politici di Virgilio; questo tipo di dibattito si è concentrato anche sul tema del paesaggio delle Georgiche, trascinato, infatti, su un terreno prevalentemente ideologico. La querelle è fondata su un intramontabile dualismo ermeneutico, alimentata da una supposta ambiguità di Virgilio, il cui messaggio anche nel poema didascalico è stato letto, infatti, in chiave pessimistica o ottimistica10. Un esempio eloquente della doppia lettura di un brano, a seconda che ci si lasci guidare dall’ammissione di una visione pessimistica o ottimistica di Virgilio, è offerto dalla 8 Osservazioni interessanti al riguardo sul paesaggio della Sila di geo. III 219 ss. si leggono in M. Geymonat, Paesaggio drammatico ed esperienza biografica nella Sila virgiliana, “Storia e Cultura del Mezzogiorno”. Studi in memoria di Umberto Caldora, Roma-Cosenza 1978, pp. 9-20. 9 Per le Georgiche l’impostazione politologica è molto più congruente, e molto più è stata studiata, di quanto si sia fatto, e si dovesse fare per l’Eneide. Agli aspetti squisitamente descrittivi (reali o letterari, per cui cf. M. Gorrichon, Évolution de l’art du paysage chez Virgile des Bucoliques à l’Énéide, in Caesarodunum II 1968, pp. 197-202, e, più di recente, M. Geymonat, Immagini letterarie e reali del paesaggio di montagna in Virgilio, “Philologus” 144, 2000, pp. 81-89), comunque, è rivolta l’attenzione di alcuni contributi, come quelli riservati al Naturgefühl e al Landschaftgefühl: penso, ad es., a E. Bernert, Naturgefühl 1 (historisch-gesellschaftlich), “RE” 16,2, 1935, coll. 1811-63, e a I. von Lorentz, Naturgefühl 2 (Kunst), “RE” 16, 2, 1935, coll. 1863-85; a T.J. Haaroff, Virgil’s Garden of Flowers and his Philosophy of Nature, “G&R” n.s. 5, 1958, pp. 67-82; a G. Pasquali, Orazio lirico, con Introd., Indici ..., a c. di A. La Penna, 1a rist. Firenze 1966, pp. 521-53; a E. Paratore, Virgilio, Firenze 19613, pp. 248 ss.; J. Pigeaud, Nature, culture et poésie dans les ‘Georgiques’ de Virgile, in ‘Commentationes philologicae’ en honor del P. Julio Campos, “Helmantica” 28, 1977, pp. 431-73; F. Serpa, L’idea di natura nelle Georgiche, Trieste 1983; Gabriella Senis e H.F. Bauzá, s.v. ‘natura’, in “Enc. Virg.” vol. III, Roma 1987, pp. 666-68. 10 Cf. R. Cramer, Vergils Welsicht. Optimismus und Pessimismus in Vergils Georgica, Berlin 1998.

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celebre vituperatio vitis dei vv. 455-57 della seconda georgica11, per i quali l’interpretazione vulgata è l’allusione polemica all’inclinazione di Antonio alla ubriachezza12, che, segnalata già da Cicerone13, diventa per il triumviro Ottaviano un potente strumento di delegittimazione morale dell’avversario:

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Bacchus et ad culpam causas dedit; ille furentes Centauros leto domuit, Rhoecumque Pholumque et magno Hylaeum Lapithis cratere minantem14.

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Ebbene, vari studiosi hanno ravvisato in questi versi l’amarezza del poeta per i risvolti negativi della coltivazione dei vigneti; per loro Virgilio tesserebbe le laudes di un mondo destinato ad essere sconvolto da contraddizioni: l’uomo si impegna a coltivar la vite, ma il prodotto del suo impegno provoca anche delitti, come la violenza distruttiva che coinvolse Lapiti e Centauri. Bisogna riconoscere che la schematizzazione espressa in questo dualismo, a prescindere dai risultati, ha promosso un notevole sviluppo di proposte esegetiche, accumulatesi, ma non solo, sulle laudationes

11 Non va oltre la lettera del testo virgiliano il commento di R.F. Thomas, Virgil. Georgics, vol. I, Books I-II, ed. by R.F.T., Cambridge University Press, Cambridge 1988, pp. 243-44; non diversamente R.A.B. Mynors, Virgil. Georgics, ed. with a Commentary by R.A.B.M., Oxford 1990, vol. I, pp. 161-62, che si limita ad illustrare il mito dei Centauri e dei Lapiti. Sulle allusioni politiche si sofferma, invece, F. della Corte, Le Georgiche di Virgilio, commentate e tradotte da F.d.C., vol. I, Genova 1986, p. 145. 12 Cf. G. Marasco, Marco Antonio “Nuovo Dioniso” e il De sua ebrietate, “Latomus” 51, 1992, pp. 538-48: il trattatello era un panegirico dell’ubriachezza e la rivendicazione della notevole capacità di bere del triumviro (cf. al riguardo la testimonianza di Plin. nat. hist. XIV 148). A tal proposito sono noti i vari giudizi espressi dagli antichi su un episodio di cui si legge diffusamente in Plut. Alex. LII 1, sullo scontro tra Clito, che apparteneva alla vecchia guardia e preferiva la politica di Filippo a quella del figlio, e Alessandro stesso, il quale, indispettito da questa contrarietà (siamo nell’estate-autunno del 328), al secondo tentativo uccise l’avversario pentendosene subito dopo al punto di cercar poi il suicidio. Giustino (XII 6,2) dice “inter ebrios”; Curzio Rufo VIII 1,22 e 28 riconosce entrambi ebbri ed incapaci di autocontrollo; Sen. epist. X 83,19, ricordando la morte di Clito, sentenzia: omne vitium ebrietas et incendit et detegit, obstantiam malis conatibus verecundiam removet; cf. su questo episodio C. Dognini, Il re non ha bisogno di perdono: il caso di Alessandro e Clito, in Responsabilità, perdono e vendetta nel mondo antico, a c. di Marta Sordi, Milano 1998, pp. 145-56. Sulla tendenza di Antonio all’ubriachezza esistono numerose testimonianze, che ne fanno una ipostasi dionisiaca: il triumviro nel 41 si presentava alla popolazione efesina come “nuovo Dioniso” (Plut. Ant. 24,4); e ancora, nel 38 (cf. Dio XLVIII 39,2) si fa chiamare “Dioniso”; nel 34 si fa chiamare il ‘novus Liber’ (cf. Vell. II 82,4; Plut. Ant. 50,6; Dio IL 40-42); ma la denominazione amò conservare sino alla morte (cf. Plut. Ant. 75,4-6). 13 Cf. Phil. 2,42. 14 Trad.: “Bacco provocò anche delitti; egli i furenti / Centauri domò con la morte, Reco e Folo / e Ileo che minacciava i Lapiti col gran cratere”.

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METAPAESAGGIO E METAPOESIA NELLE LAUDES DELLA 2A GEORGICA DI VIRGILIO

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della seconda georgica. Questo stesso mio contributo, in cui l’analisi è focalizzata, soprattutto, proprio sulle laudes Italiae, sulle laudes veris e sulle laudes vitae rusticae15, entra nella dinamica di quel discorso e di quella impostazione. I tre excursus contengono elementi molto interessanti per delineare uno degli aspetti più emergenti, e studiati, della complessa16 strategia della descrizione del paesaggio virgiliano nel poema georgico: prospettiva poetologica e impostazione soggettiva, empatetica o simpatetica. Virgilio disegna taluni paesaggi sulla base di esperienze autoptiche, spesso, però, rimodellate dai modi della poesia: il paesaggio è un pezzo poetico, non è, o non è sempre una riproduzione fotografica, perché è soggetto al filtro ideologico dell’autore. Alcuni anni fa Richard Jenkyns17 sostenne che nelle Georgiche il paesaggio gioca un decisivo ruolo patriottico18, e che “it is through an appreciation of history and man’s achievement that we come to see the landscape fully; it is through seeing the landscape that we appreciate our national history and achievement”19. L’ammissione di interferenze, anzi di incidenze anche forti, della rappresentazione paesaggistica nel tessuto ideologico della poesia ha segnato nella storia degli studi virgiliani, e non solo, un percorso critico tutt’altro che trascurabile. Che quell’incidenza abbia un peso determinante o decisivo per l’esegesi, che attraverso la descrizione paesaggistica il poeta abbia voluto dare voce alla sua entusiastica ispirazione nazionalistica o ad un suo tacito e/o mascherato dissenso, velato di sentimento nostalgico, tutto questo è materia di discussione: senza dubbio il punto di vista di Jenkyns è risultato abnorme alme-

15 In un contributo molto stimolante, sul quale tornerò, qui, infra, Leah Kronenberg, The Poet’s Fiction: Virgil’s Praise of the Farmer, Philosopher, and Poet at the End of Georgics 2, “HSCPh” 100, 2000, pp. 341-42, n. 2, a proposito della “Praise of Country Life” di geo. II 458-540, riporta un corposo elenco bibliografico di adepti a questo e a quello ‘schieramento’. In ben altro ambito storico-geografico si collocano, per fare un isolato esempio, le parole di V.A. Sirago, La Sila nell’ispirazione virgiliana, “Il Calabrese” n.s. II 1, 1948, p. 1: “nelle Laudes egli [Virgilio] fissa concretamente il suo stato d’animo fondamentale di fronte alla grandezza e felicità dell’Italia”. 16 È appena il caso di ricordare che E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, tr. it., Firenze 1992, p. 215, nella sezione riservata al paesaggio virgiliano, avverte: “Le immagini della natura contenute nelle Georgiche richiederebbero una analisi alla quale dobbiamo qui rinunciare”. 17 Cf. R. Jenkyns, Virgil’s Experience: Nature and History; Times, Names, and Places, Oxford, Oxford Univ. Press 1998, p. 398. 18 Sull’aspetto patriottico cf. anche A. Salvatore, Scienza e poesia in Roma. Varrone e Virgilio, Napoli 1979, pp. 94 ss. 19 Ibid., p. 364.

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no ad un suo recensore20, che rappresenta però una intera scuola di pensiero. A proposito della similitudine del pater Aeneas col pater Appenninus di Aen. XII 703, “the most prominent feature of the Italian landscape”, ricordo che F. Cairns21 scriveva poi che Virgilio “is giving particularly explicit expression to one of the recurrent themes of the Aeneid, the Italianization of Aeneas”: un modo di vincolare un motivo poetico alla visione nazionalistica22 che domina l’epos virgiliano. La rappresentazione paesaggistica dell’Eneide23, comunque, è strutturata in modo diverso rispetto a quanto il poeta fa nelle Georgiche, dove la natura stessa, soggetto del paesaggio, ora è antagonista dell’uomo, ora è co-protagonista, apportando sia danni alla coltivazione, e agli agricolae, sia benefìci. Virgilio non omette mai di mostrare la coesistenza di male e bene, e di indicare nella ricerca del bene, che è sempre faticosa, il senso del suo insegnamento. Nell’Eneide l’ambiente è ritratto con l’occhio del personaggio o dell’autore e risente della soggettività dell’uno o dell’altro. Le descrizioni di cui intendo occuparmi sono piuttosto metapaesaggi, scenari naturalistici e strutture urbane che si rivelano solo un pretesto per considerazioni altre. Quando il poeta, in geo. II 45-46, dice che la sua poesia non aspira alla comprensione universale, che il suo nemmeno è un canto di fantasia, e, anzi, mira alla concretezza della materia trattata, non hic te carmine ficto ... / tenebo, egli giustifica la sua opzione per il poema georgico. L’espressione, car20

Cf. Daniel M. Hooley in “BMCR” 1999.10.16. Geography and Nationalism in the Aeneid, “LCM” 2, 1977, 109-16 (cf. p. 109). Cf. anche M. Geymonat, Immagini letterarie e reali del paesaggio di montagna in Virgilio, cit., pp. 87-88. 22 Già nella letteratura critica dei primi anni del secolo scorso la descrizione paesaggistica virgiliana appariva vincolata a motivazioni patriottiche. C. Knapp, The love of nature in Vergil, “Class. Weekly” 8, 1920, p. 58, scriveva: “He [Vergil] depicted the scenes for their own intrinsic charm, but that charm was heightened by the warm glow of his patriotism”, ribadendo quanto si legge in due scritti di Sir Archibald Geikie, Landscape in History and other Essays, London 1905 (passim), e The love of nature among the Romans during the later decades of the Republic and the first century of the Empire, London 1912, pp. 62-63 e 66-70. 23 Alcuni anni orsono mi occupai del paesaggio epico virgiliano in Percorsi poetici del paesaggio nell’Eneide, in C. Formicola, Temi virgiliani, Napoli 2002, pp. 103-40 (= “Societas studiorum per S. D’Elia”, a c. di U. Criscuolo, Pubbl. del Dip.to di Filol. Class. “F. Arnaldi”, Univ. di Napoli “Federico II”, n° 24, Napoli 2004, pp. 221-45). L’idealizzazione e la liricizzazione di alcuni paesaggi dell’Eneide non esime il filologo da considerazioni che, al di là di ogni letterarietà, mettano in risalto l’aspetto storico-nazionale (nell’Eneide piuttosto intrinseco anche se non istituzionale), come fa H.-D. Reeker, Die Landschaft in der Aeneis, Diss. Hildesheim 1971 (passim), e come io stesso rilevavo nello sviluppo di svariate considerazioni [cf. qui pp. 85 ss.]. 21

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men fictum, diventa perspicua nel suo autentico significato solo se opportunamente contestualizzata: parlando proprio a Mecenate, il poeta dichiara l’intenzione di scrivere un carme che non prescinde dalle istanze che il potente ministro persegue, un carme che serve alla causa politica, e risponde alle esigenze di chi in qualche modo chiedeva all’intellettuale, senza cogenti forzature, il suo contributo di adesione al progetto politico24. Che Virgilio risponda nella piena conservazione delle proprie libere idee, e che le sue finalità didascaliche tendano a raggiungere lo stesso princeps, è, in ogni caso, altro argomento. Per Virgilio la causa politica non si serve scrivendo un poema che semplicisticamente reincoraggi la agri cultura, per così dire sic et simpliciter. Egli imposta sub specie praecepti la pratica agriculturale ben consapevole che essa possa essere ottima palestra per una riflessione sulla politica, sulla storia, sul mistero della vita umana, sui limiti che le forze umane impongono agli uomini: corpora ... agresti nudant praedura palaestra, II 531, col fine ultimo di ripristinare la sana mentalità contadina in un mondo che ha bisogno di essere riformato con gli strumenti di un recupero antropologico, pur adeguatamente aggiornato. Il paesaggio, che talvolta è pretesto di enunciato didascalico, opportunamente filtrato, si rivela pretesto per indagini esistenziali, per considerazioni etiche, per analisi politiche. Alla fine del I libro delle Georgiche il paesaggio è strumento della memoria storica; la trasfigurazione dello scavo georgico dell’agricola in scavo archeologico è geniale: il ‘reperto’ è un’orrida traccia del tremendo passato (vv. 493-97): scilicet et tempus veniet, cum finibus illis agricola incurvo terram molitus aratro exesa inveniet scabra robigine pila aut gravibus rastris galeas pulsabit inanis grandiaque effossis mirabitur ossa sepulcris25.

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Il v. 494, agricola incurvo terram molitus aratro, sarà ripreso, leggermente ma significativamente variato, a II 513, agricola incurvo terram dimovit aratro, un caso rarissimo di intratestualità nelle Georgiche26: 24 Tornerò su questo punto infra, a proposito della figura del sapiens, alla fine del l. II delle Georgiche (felix qui ..., vv. 490 ss.). 25 Trad.: “E certo, tempo verrà che in quei campi / l’agricoltore, arando la terra col ricurvo aratro, / giavellotti smangiati da ronchiosa ruggine troverà / o coi pesanti rastri menerà su elmi vacanti / e si stupirà alla vista di smisurate ossa nei sepolcri senza copertura”. 26 A. Barchiesi, Lettura del secondo libro delle Georgiche, in Lecturae Vergilianae, a c. di

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nell’epilogo del l. I il poeta ritrae una campagna che è stata teatro di guerre, e l’archeologia dello scavo ha riportato alla luce le drammatiche realtà di anni addietro, i segni della battaglia sanguinosa, dell’ennesimo massacro fratricida. La terra ‘scavata a fatica’ dall’aratro scopre teschi rintanati in elmi arrugginiti, anziché offrire i propri frutti; nel l. II, con quello stesso aratro ricurvo il contadino, partecipe della storia, smuove la terra per sostenere la patria e i piccoli nipoti. Il rus svolge finalmente la sua naturale funzione, e sembra che non ci siano soluzioni di continuità tra aurea aetas e attualità autoriale; la mortificante mistificazione del rus, che custodisce vestigia di guerra, invece, segnala fasi di appannamento della storia, stagioni di tragica crisi. I due paesaggi si oppongono: la campagna dell’epilogo del I libro subisce uno straniamento nel suo intrinseco sconvolgimento, snaturandosi: da terreno da coltivare per dare vita si deforma in campo di battaglia, dove le vite, invece, si spezzano27. La natura deve essere modellata dall’azione dell’uomo, ma essa può sempre imponderabilmente insorgere; non dimentichiamo che il Virgilio georgico è il futuro Virgilio eneadico che canterà l’ingiustificabilità della storia, provata da eventi irrazionali, immotivati eppure distruttivi, eppure ‘necessari’. Epperò, non sempre l’azione distruttiva è inevitabile; lo è senz’altro incautis pastoribus che non badino che mai si piantino tronchi d’ulivo selvatico accanto al vigneto; il dato tecnico ispira uno squarcio di grande efficacia e di notevole forza poetica (II 303-11): ... ignis, qui furtim pingui primum sub cortice tectus robora comprendit, frondesque elapsus in altas 305 ingentem caelo sonitum dedit; inde secutus per ramos victor perque alta cacumina regnat et totum involvit flammis nemus et ruit atram ad caelum picea crassus caligine nubem, praesertim si tempestas a vertice silvis 310 incubuit glomeratque ferens incendia ventis28. M. Gigante, vol. II, Napoli 1982, pp. 41-86 (cf. p. 70), sottolinea come il finale della seconda georgica richiami “vistosamente” l’excursus sul dilagante scontro civile che chiude la prima. 27 Su questo epilogo del I libro si leggano le ulteriori considerazioni che ho più sotto riportato. 28 Trad.: “... un fuoco / che, furtivo, prima si copre sotto la pingue corteccia / poi attacca i tronchi, e inerpicandosi su nel fogliame, / manda un forte crepitìo al cielo; poi avanza / vincitore di ramo in ramo e regna tra le alte cime, /ed involve di fiamme la boscaglia tutta e

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Il linguaggio militare29, molto presente nelle Georgiche, spesso può servire proprio a stabilire la connessione che il poeta stesso, nella sua coscienza, crea tra res rustica e politica, ideologia, amor di patria. Virgilio sceglie il poema georgico perché trova nell’opera del suo inventor le ragioni ispirative e la spinta oggettiva che sono alla base dei suoi stessi intendimenti e delle sue stesse esigenze: indicare un modus vivendi rispettoso dei princìpi morali. Il motivo della aurea aetas è una costante della poesia virgiliana30. La connessa rappresentazione paesaggistica, che in parte, ma solo in parte, risponde ai canoni della descrizione del locus amoenus, è al poeta suggerita nelle Georgiche (II 136-76) dalla reale visione ammirata dei siti italici; si impone, quindi, a mio avviso, un ribaltamento del punto di vista: non è una immagine teorica ed astratta di un paesaggio paradisiaco, ereditato dalla tradizione letteraria, a dettare a Virgilio parole per una entusiastica descrizione dell’Italia; piuttosto, la visione diretta degli incanti naturali dell’Italia offre al vate l’occasione, spirituale ed artistica, di dipingere un paesaggio di un’età dell’oro, e di ispirargli l’evocazione della Saturnia tellus. Quando parla delle terre straniere Virgilio parla anche dei cittadini, quelli del suo tempo, dagli Arabi ai Geloni, dagli Indi ai Sabei, dagli Etiopi ai Seri ai Medi; per l’Italia del suo tempo il poeta sente di doversi limitare a descriverne le bellezze ambientali, i siti geografici, le meraviglie naturali, o anche a celebrare, sia pur solo citandoli, gli eroi che ne hanno fatto la storia, dai Decii, ai Marii, ai grandi Camilli,

rigurgita nera / al cielo una nube, grasso della caligine della pece, / specie se una tormenta dall’alto sulle selve / s’abbatte, e il vento agglomera gli incendi e li trascina”. 29 Sul codice linguistico tratto dal sermo militaris cui Virgilio sovente si attiene nel poema didascalico cf. Maria Carilli, Aspetti lessicali dell’umanizzazione di elementi naturali nelle Georgiche: la terminologia del “labor” e del “bellum”, “CCC” 7, 1986, 171-84 (spec. 173 ss.); Ead., L’umanizzazione della natura nelle ‘Georgiche’: metafore del corpo umano, in ‘Mosaico’. Studi in onore di U. Albini, a cura di Simonetta Feraboli, Genova 1993, pp. 61-67; ma si vedano già le considerazioni di A. Salvatore, Scienza e poesia in Roma. Varrone e Virgilio, Napoli 1979 (passim); Id., Ancora su Georgiche di Virgilio e “de re rustica” di Varrone, in Letterature comparate. Problemi e metodo. Studi in onore di E. Paratore, vol. I, Bologna 1981, pp. 441-44; Id., Realtà e fantasia poetica in Virgilio bucolico e georgico, “Riscontri” 4, 1982, pp. 32-33. Aya Betensky, The farmer’s Battles, in Virgil’s Ascraean Song. Ramus Essays on the ‘Georgics’, ed. by A.J. Boyle, Melbourne 1979, pp. 108-119 (= Ramus 8), ritiene che Virgilio ricorra al linguaggio tecnico della guerra a sostegno del concetto di utile insito nell’attività dell’agricola, in questo senso contigua a quella del miles; la Carilli, art. cit. 1986, p. 177, considera l’interpretazione corretta ma giustamente la trova parziale. 30 Sui rapporti di collegamento delle descrizioni dell’età dell’oro nelle tre opere virgiliane cf. J.J.L. Smolenaars, Labour in the Golden Age, a Unifying Theme in Vergil’s Poems, “Mnemosyne” 40, 1987, pp. 391-405.

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agli Scipiadi. La rappresentazione del lago Lucrino associata alla costruzione nel 37 a.C. del portus Iulius, che collegava al mare lo stesso lago di Lucrino ed il lago d’Averno, con una massiccia opera di deforestazione, insieme con la celebrazione del Cesare che ha allontanato gli Indi dai colli romani, sono i punti di più concreto collegamento della descrizione poetica alla attualità31. (Si avverte il silenzio sulla lunga fase della crisi della repubblica). Parole altrettanto esaltanti non si possono usare per la grande massa degli uomini, delle popolazioni italiche, infangate da una crisi di valori profonda e lacerante. Esse devono imparare ad onorare con il loro comportamento la bellezza dei luoghi d’Italia, ad esserne degne, e per riacquisire questa dignità ognuno deve diventare agricola del mos; il rus da coltivare è il mos maiorum, l’etica dei padri. Non siamo più alla rappresentazione dell’età dell’oro proiettata in un agognato futuro con finalità soteriologiche: i tempi della composizione della sesta ecloga32 son ormai lontani; e nemmeno l’età dell’oro può più essere concepita come la conseguenza del lavoro umano condotto nel rispetto della giustizia, come in Esiodo, e come La Penna33 vede nelle Georgiche; Virgilio indica agli uomini un’Italia tanto splendida da ispirargli un’identità aurea, ma è l’Italia dei mari, dei fiumi e dei laghi, l’Italia delle magiche stagioni, del magnifico paesaggio, purtroppo non l’Italia degli uomini e delle contrapposizioni politiche. Il paesaggio reale34 è già da età dell’oro, è esso stesso che illumina la fantasia del poeta suggerendole il ‘paradiso’ della aurea aetas: è l’uomo che deve adeguarsi; il popolo diventi un popolo da età dell’oro. La realtà dà forma al mito. Penso agli stupendi 31

Sull’episodio del disboscamento alla ricerca del ramoscello d’oro cf. le mie osservazioni in Temi virgiliani, cit., p. 126 ss.; contro le idee ecologiste ante litteram di Virgilio si sarebbe espresso Strabone (V 4,5 [C 244]), e, al riguardo, cf. P. Fedeli, Nos et flumina inficimus (Plin. nat. 18,3). Uomo, Acque, Paesaggio nella letteratura di Roma antica, in Uomo Acqua e Paesaggio, ‘Atti’ dell’incontro di studio sul tema Irregimentazione delle acque e trasformazione del paesaggio antico, S. Maria Capua Vetere – 22-23 novembre 1996, SUN Fac. Lettere e Filosofia, Roma 1997, p. 328, e Id., La natura violata. Ecologia e mondo romano, Palermo 1990, pp. 75-76. 32 Cf. A. La Penna, Esiodo nella cultura e nella poesia di Virgilio, in Hésiode et son influence, Fondation Hardt, Entretiens 7, Vandoeuvres-Genève 1960, 213-52 e la Discussion alle pp. 253-70 (cf. anche la ristampa con alcune aggiunte nel vol. miscellaneo curato da G. Arrighetti, Esiodo. Letture critiche, Milano 1975, pp. 214-41), p. 225. 33 Ibid. 34 Quando Christine G. Perkell, The Poet’s Truth. A Study of the Poet in Virgil’s Georgic, Berkeley, Los Angeles, Oxford 1989, p. 136, sostiene che l’età dell’oro esiste perché esiste la sua poesia, fa un’affermazione di per sé condivisibile; ma quando la studiosa aggiunge che nelle Georgiche si indica un modello ma si mostra anche la sua irrealizzabilità (p. 138), si immette su un sentiero esegetico per me non condivisibile.

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versi 323-4535 del II libro dove si tessono lodi della primavera36 con squarci paesaggistici veramente estasianti. I mirabilia di Roma e dell’Italia vengono confrontati dai grandi poeti della fine del I a.C. con le attrattive di Grecia ed Oriente, ma il motivo è topico in età augustea37, e non si tratta di semplici esercitazioni su tema scolastico38: la strategia della Priamel è commisurata per ciascun autore alla sua Weltanschauung e finalizzata al sistema di idee della sua opera. Forse è Properzio il più vicino al disegno virgiliano, anche nell’organizzazione della materia: l’elegiaco in III 2239 ricorda a Tullo, che ha a lungo soggiornato all’estero ammirando le terre straniere, di tornare in Italia, la sua genitrice: omnia Romanae cedent miracula terrae: / natura hic posuit quidquid ubique fuit, vv. 1718, perché è in queste terre che egli deve aspirare al raggiungimento dell’honos gentis, è qui che deve trovare clientela per il suo lavoro di amministrazione della giustizia, qui il senso della famiglia e l’amore coniugale: prossimo all’allineamento della sua ispirazione poetica alle esigenze del regime, sì, ma innanzitutto sensibile alla necessità della sopravvivenza morale di Roma, Properzio indica nei valori della dignità, personale e familiare, della giustizia, dell’amore coniugale, i capisaldi della rinascita. Oltre alle terre straniere sopra citate, tornando a Virgilio, il poeta elogia la Colchide, allora celeberrima per la fertilità del rus; per evocarla egli ripercorre la favola del vello d’oro conquistato da Giasone che aggiogò i due tori spiranti fiamme e seminò i denti del drago alla cui custodia il vello era affidato; da quei denti spuntarono uomini armati che aggredirono l’eroe che li fece perire gettando tra loro una pietra. La ripresa di questo mito sembra richiamare, all’incontrario, 35

Sulle laudes veris cf., qui, infra. Esiodo ne tratta ai vv. 564-81 degli Erga. 37 Cf., ad es., anche, tra gli altri, Varr. de re r. I 2; Vitruv. VII 1,11; ma anche, successivamente, Plin. III 39; 37,21; Dion. Hal. I 36. 38 In III 7,26 Quintiliano accenna, tra l’altro, alla laudatio delle città, delle opere pubbliche e dei luoghi. 39 Sui rapporti di questa elegia properziana e le laudes di Virgilio equilibrate osservazioni sul non-antagonismo properziano in P. Fedeli, Properzio. Il Libro Terzo delle Elegie, Bari 1985, pp. 627 ss., che rinvia a U.J. Kocher, Properz III 22. Übersetzung, Kommentar, Diss. Zürich 1974, pp. 94-95, e a M.C.J. Putnam, Propertius 3.22: Tullus’ Return, “ICS” 2, 1977, pp. 240-54: il confronto a distanza tra Properzio e Virgilio, su cui Putnam insiste, è innegabile, ma che si tratti di un vero e proprio scontro di idee, come il Putnam vuole, può essere discutibile: i due diversi gšnh poetici e le due diverse visioni della vita segnano le intrinseche, ‘naturali’ differenze, che difficilmente si può ritenere, oggi ormai, siano state differenze ideologiche. Laudes Italiae si leggono anche, come si sa, in Varr. de re rust. I 2,3-8. 36

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nel rispetto della tecnica della Umkehrung, lo scenario, prima evocato, che chiude il primo libro: lì giavellotti scavati dall’agricola, qui denti di drago seminati dall’eroe; lì sembianze di soldati uccisi, qui uomini armati guizzanti per uccidere l’eroe. C’è, però, un mutamento di stato d’animo tra i due pezzi, come prima dicevo: nel I il disseppellimento del reperto, documento della guerra che distrugge l’agricoltura, distrae l’uomo dal lavoro, e distrae il poeta georgico costretto per un momento a riciclarsi poeta della guerra rievocata; i campi avevano sostituito la loro funzione di scena della agri cultura in scenario del bellum cruentum. Quell’ager, su cui dovrebbe crescere il prodotto della terra, ora, scavato, ospita un giavellotto smangiato da ronchiosa ruggine e un elmo vacante, un insieme di ossa gigantesche, vestigia dello scontro di Filippi, che avrebbe aperto il nuovo corso; ora è tempo di onorare il Cesare ma anche di onorare gli aratri ricurvi; le falci non siano più rigide spade. Quella campagna che ha confuso lecito e illecito, spade fratricide e lavoro della terra, torni ad essere se stessa, terra sulla quale l’uomo si incurva con il ricurvo aratro. L’invito di Properzio a Tullo è, analogamente, quello di tornare nella sua Italia per riacquisire l’habitus etico-comportamentale connesso alla civiltà italica ed al patrimonio di valori su cui essa si fonda, o deve fondarsi. Nel settimo carme oraziano del I libro40, in cui il paesaggio ideale proposto è quello di Tivoli con le cascate dell’Aniene, il bosco sacro a Tiburno, i frutteti bagnati dai ruscelli41, invece, in mancanza del termine di confronto, sembra prevalere il motivo metaletterario: il poeta, che ama cantare l’amena bellezza di Tivoli, si contrappone ai poeti che elogeranno Rodi, Mitilene, Efeso, e tante altre città straniere. Virgilio organizza la forma dei contenuti delle laudes Italiae premettendo alla parte specificamente eulogica un ampio catalogo (vv. 114-35) di luoghi e di popolazioni estere, che detengono l’esclusiva mondiale per la coltivazione di determinati tipi di alberi e piante. Il Sed neque che apre il v. 136 e la sequenza nec ... atque ... non ... neque, per i successivi 4 esametri, evidenziano il ricorso alla tecnica del ‘cedat-Motiv’. Il confronto del territorio italico con quelli stranieri, come si è detto, è costruito con la tecnica del contrasto: i loca italici (non ... nec) non 40 Cf. vv. 10-14: Me nec tam patiens Lacedaemon / nec tam Larisae percussit campus opimae / quam domus Albuneae resonantis / et praeceps Anio ac Tiburni lucus et uda / mobilibus pomaria rivis. 41 Cf. P. Fedeli, Nos et flumina inficimus (Plin. nat. 18,3). Uomo, Acque, Paesaggio nella letteratura di Roma antica, cit., pp. 317-30 (spec. 318-19).

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sono paragonabili ad altri; la citazione dei paesaggi esotici avviene nella loro referenzialità mitologica (denti di drago, mèsse di combattenti, elmi, frecce); i campi italici si segnalano per caratteristiche agriculturali: grasse biade e umore massico, ulivi e floridi armenti. Virgilio gioca la contrapposizione42 anche sul piano mitologico e fiabesco, lasciando che confliggano tra loro miti cupi, come quello dei denti di drago, con allusione alla vicenda degli Argonauti43 e alla Colchide infestata di orrendi combattenti nati da quei denti, per offuscare i pregi delle terre straniere, opposti a credenze positive consacrate da una religiosa ritualità, come quella del lavacro degli armenti nelle acque sbiancanti del Clitumno prima del sacrificio all’altare del trionfo. Con il ricorso al mito queste realtà sono trasferite sul piano poetico, ed il loro straniamento, potenziato dalla mitologia e dalla leggenda, le trasforma in strumento argomentativo della “verità poetica”. Anzi, Virgilio, lasciandosi guidare dalla memoria poetica esiodea, esalta superlativamente le realtà ambientali del suo tempo contaminandole con la leggendarietà di età mitiche, quando decanta la straordinaria feracità della fauna e l’eccezionale fecondità della frutticultura di certe terre italiche, dove realmente due volte l’anno son pregne le bestie, due volte maturano i frutti sugli alberi (II 150, bis gravidae pecudes, bis pomis utilis arbos). In Op. 172-73 il cantore di Ascra aveva fantasticato che agli Ôlbioi ¼rwej, nell’età da loro denominata, melihdša karpÕn / trˆj œteoj q£llonta fšrei ze…dwroj ¥roura (“tre volte all’anno la terra feconda porta frutti fiorenti, dolci di miele”). Ancora una volta Virgilio proietta la realtà nel mondo del mito. Il quadro si completa con la citazione di città, rocche, mari, laghi44, e ricchezza di giacimenti, e ricchezza di giovani ardimentosi e di razze di eroi, i Marsi, i Liguri, i Volsci, i Decii, i Marii, i Camilli, gli Scipiadi, temps jadis, per arrivare al grandissimo Cesare, cui ci si rivolge col du-Stil, e alle sue vittorie in Asia e sull’Indo ‘codardo’. Questa è la Saturnia tellus45 (v. 173), per la quale il 42 Nella rappresentazione di questo paesaggio nazionale ci sono incursioni di elementi tipici di paesaggi foranei, citati solo per negarne le caratteristiche negative in Italia, una sorta di descrizione per contrarium. 43 Cf. Ap. Rh. III 1278-407. 44 Per la rappresentazione del locus amoenus in un arco temporale vastissimo, che abbraccia la tradizione poetica greca e latina lunga otto secoli, cf. G. Schönbeck, Der Locus amoenus von Homer bis Horaz, Diss. Köln 1964. 45 Patricia A. Johnston, Vergil’s Agricultural Golden Age: A Study of the Georgics, Leiden Brill 1980 (Mnemosyne 8), p. 69, dopo aver ricordato la percezione antica della necessità dell’agricoltura, e del ruolo di essa come base della società civilizzata, osserva come questi due motivi si fondessero nella concezione di Virgilio, quando il poeta collega l’agricoltura all’età dell’oro definendo quest’ultima ‘agricultural’. La Saturnia Tellus è la terra un tempo

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poeta si è deciso ad accostarsi alla poesia didascalica inaugurata dal poeta di Ascra, l’Esiodo delle Opere e i Giorni 46. In nome della terra saturnia Virgilio si addentra in virtù e ingegno d’antico pregio (II 174), inaugurando in Roma la trattazione georgica in poesia (Ascraeum ... cano Romana per oppida carmen, v. 176). In un recente contributo sulle laudes Italiae S. Harrison47 ha sostenuto che Virgilio con le laudationes della Media e dell’Oriente intendesse evocare la gloriosa carriera militare e politica di Alessandro Magno e la produzione poetica48 a lui inneggiante, e, nel contempo, esaltare, subliminalmente, una competizione tra Alessandro ed Ottaviano, sul piano della virtus militare e politica, e, sul piano letterario, anzi metaletterario, tra sé stesso ed i vati di Alessandro, tanto più che quei territori erano stati, di recente, teatro di eventi assai impegnativi per la politica romana, se si pensa ai pericoli corsi e soprattutto alle vittorie conseguite da Ottaviano tra il 31 ed il 29 a.C.49. Non credo si possa dubitare del fatto che l’accento posto sulla superiorità del paesaggio italico su quello orientale miri a ricordare la vittoria sull’Oriente antoniano. La tesi di Harrison merita qualche considerazione50: l’imitatio Alexandri condizionò notevolmente, come si sa, l’ambiente romano, in modo direi alquanto bizzarro, perché essa riguardò tutti e due i triumviri rivali51. Antonio, che aveva operato una opzione orientalistica, ritenne di poter attrarre alla propria causa le clientele orientali, trovando nell’imitatio Alexandri un formidabile strumento di propaganda52; vissuta nell’età dell’oro, e suscettibile di rivivere quella aetas con l’attività agriculturale. 46 È ben noto che ormai i debiti contratti da Virgilio nei confronti del poeta di Ascra sono tutti rinvenibili nell’esauriente raccolta di loci similes dell’apparato della pur datata editio maior di A. Rzach, Hesiodi Carmina, rec. A. R., Leipzig 1902. 47 Cf. S. Harrison, Laudes Italiae (Georgics 2.136-175): Virgil as a Caesarian Hesiod, in G. Urso (ed.), Patria diversis gentibus una?, Atti Conv. Intern. Cividale del Friuli, 20-22 sett. 2007, Pisa 2008, 231-42. 48 Ibid., p. 235: con haec loca, v. 140, il poeta alluderebbe non solo ai siti geografici ma anche ai passi letterari dedicati all’epopea alessandrina (più correttamente noi diciamo ‘loci’). 49 A questo proposito Harrison (ibid., p. 239) conia il sintagma Caesarian Hesiod per un Virgilio animato da impegno politico e spirito nazionalista. Di diverso avviso, senza dubbio, quei filologi come D.O. Ross, Vergil’s Elements. Physics and Poetry in the Georgics, Princeton 1987, pp. 115-19, che, sotto la spinta della teoria delle ‘two voices’, si sentono autorizzati a vedere in Virgilio il paladino della resistenza mascherata. 50 Cf. Giovannella Cresci Marrone, Ecumene Augustea, Roma 1993; particolarmente pertinente il primo capitolo, Il modello della conquista, pp. 15-51. 51 Per quest’ultimo cf., soprattutto, D. Kienast, Augustus und Alexander, “Gymnasium” 76, 1969, 430-56. 52 Cf. Dorothea Michel, Alexander als Vorbild für Pompeius, Caesar und Marcus Antonius, Bruxelles 1967, pp. 109-32.

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addirittura diede al figlio gemellare il nome di Alexander, come testimonia Plutarco, Ant. 36,5. L’uso della filoalexandreia fu interpretato in modo tanto elastico che la morte di Antonio avrebbe poi favorito il passaggio, temporaneo53, ad Ottaviano dello sfruttamento del mito di Alessandro54, un Ottaviano, che, quindi, non si faceva scrupolo di un titulus, che in fondo ‘lasciava il tempo che trovava’. Meno convincente appare la supposta intenzione virgiliana di ricorrere alle Georgiche per ritagliarsi uno spazio poetico concorrenziale con cantori epici alessandrini sul terreno di un ™gkèmion poetico per il proprio ‘eroe’; il concetto di metapoesia nelle Georgiche, oltre a conservare il suo significato istituzionale, si arricchisce di nuove connotazioni: esso consiste anche, a mio avviso, nell’implicita interpretazione autoriale del significato del messaggio poetico cui si riconosce la titolarità nel ruolo paideutico mirante a ricostruire la figura del civis Romanus, cioè di energia creatrice di una figura nuova di civitas all’interno di un ‘paesaggio’ che dalla affascinata ammirazione della realtà dell’ambiente inventi la leggenda dell’età dell’oro: metapoetica è l’espressione dell’opzionale affidamento al poema georgico dello svolgimento di questo compito letterario e civile. Le Georgiche, infine, non sono la sede dell’epica encomiastica. Diversamente, la Kronenberg55, ribadendo tra l’altro quanto aveva già sostenuto Eleanor Leach56, osserva che la figura dell’agricola alla fine della seconda georgica non è figura reale ma creazione letteraria; per la studiosa Virgilio vede nella natura il dominio insopprimibile della violenza e della ferocia, giustificate dalla propaganda; il poeta crea degli impossibilia dando origine all’innaturale57: la finzione del poeta è parallela alla finzione e all’effetto del cultus dell’agricola. Per

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Il caso di Cornelio Gallo e la idiosincrasia manifestata dal senato nei confronti di una gestione autocratica dell’Egitto convinsero Ottaviano ad abbandonare la strategia della filoalexandreia: quando Livio (IX 18,3-5; 17, 16) parla di inferiorità dei Macedoni rispetto ai Romani ed evidenzia aspetti negativi in Alessandro ereditati da Antonio, lo storico si allinea all’orientamento ottavianeo di abbandonare la memoria di Alessandro. 54 Suet. Aug. 18, 1 informa dell’omaggio reso dal vincitore di Azio alla sepoltura di Alessandro come segno della continuità tra i due cosmocratori. 55 Cf. Leah Kronenberg, The Poet’s Fiction: Virgil’s Praise of the Farmer, Philosopher, and Poet at the End of Georgics 2, cit., pp. 341-60. 56 Cf. Eleanor Winsor Leach, Georgics 2 and the Poem, “Arethusa” 14, 1981, 35-48 (cf. p. 45); cf., poi, Ead., The Rhetoric of Space. Literary and Artistic Representations of Landscape in Republican and Augustan Rome, Princeton Univ. Press 1988. D.O. Ross, Virgil’s Elements. Physics and Poetry in the Georgics, Princeton Univ. Press, Princeton 1987, p. 129, scrive che gli insegnamenti impartiti da Virgilio sono menzogne. 57 Era stato questo già il punto di vista di Ross, Virgil’s Elements, cit., p. 109.

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la Kronenberg nelle Georgiche i tentativi compiuti dall’uomo di controllare la natura sono destinati al fallimento, e, anzi, producono solo nuova violenza; Virgilio tenterebbe una ricostruzione del mondo in via poetica, “but his poem offers no solutions or consolations”58. Già Christine G. Perkell59 aveva scritto che il poema georgico privilegia misteri, non soluzioni, complessità ed ambiguità, non certezze.

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2. Le lodi della vita agreste, metapoesia ed altro Una serie di laudationes chiudono, come si sa, il l. II delle Georgiche60. Con questa ampia sezione, di 83 versi, il poeta, come per il I libro, abbandona la trattazione didascalica per proporre una sequenza di excursus61, arricchiti da descrizioni paesaggistiche, in cui la contrapposizione di b…oi è giocata sulla contrapposizione di paesaggi, Landschaft urbana vs Landschaft rustica, attraversati, come per le laudes Italiae, da evidenti dichiarazioni metaletterarie. Ai palazzi sontuosi della città i cui proprietari sono legati alla ricchezza materiale e al potere, che comporta la mistificazione62, è contrapposta la sorte invidiabile dell’agricola vincolato alla consapevolezza del proprio status, lungi da armi e dissensi, procul discordibus armis, v. 459 (serpeggia il motivo bucolico delle confische), argomento che con la tecnica della Ringkomposition sarà ripreso alla fine del libro (a cui ho già fatto cenno), quando si parla delle spade crepitanti sulle dure incudini: duris crepitare incudibus ensis, v. 540. Subito dopo il poeta si augura di poter ricevere dalle Muse l’ispirazione per cantare de rerum natura (come già nella 6a bucolica), temi astronomici, cosmologici, geografici, ma, ove non vi riuscisse, impossibilitato dal ‘frigido sangue che avvolge l’ispirazione’63, egli auspica di poter cantare i campi e le correnti ir58

Cf. p. 360. Cf. The Poet’s Truth, cit., p. 172. 60 I vv. 458-540 raccolgono varie digressioni celebrative: lodi della vita campestre e dell’agricola (458-74); lodi del poeta cantore delle vie del cielo o dei campi (vv. 475-89); lodi del filosofo (vv. 490-92); lodi dell’uomo che vive nascostamente e in aÙt£rkeia con le divinità agresti (493-502); Priamel con supremazia del contadino e della vita sana, di lui e della sua famiglia: la vita degli antichi Sabini, Remo ed il fratello [laudatio temporis acti], in un tempo in cui non ancora si era udito il crepitio delle spade poste sulle incudini dure (vv. 503-40). 61 Rimando, per una visione d’insieme, senz’altro alla voce Georgiche. 4. Le digressioni, curata da F. della Corte, in “Enc. Virg.” Vol. II, Roma 1985, pp. 678-86. 62 La tintura della lana bianca con porpora fenicia ed il mescolamento dell’olivo da unzione alla cannella che viene dall’India sanno di condannata contaminazione. 63 V. 484; si noti il non casuale riferimento empedocleo; Virgilio si accorge di non poter 59

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rigue delle valli, insomma le gioie della campagna: è un omaggio ad Esiodo, che aveva invece saputo coniugare cosmogonia e agri cultura, e a Lucrezio, al quale si riconosce, nell’ambito della poesia latina, il ruolo di poeta didascalico par excellence, e, nella materia da lui trattata, il massimo risultato poetico nella gestibilità artistica di contenuti tecnici. Ma, soprattutto, Esiodo e Lucrezio avevano trovato risposte ‘tecniche’ a fenomeni che per Virgilio rimangono, comunque, inspiegabili. Si dichiara il poeta inglorius a v. 48664, non tanto perché non si senta al livello di Esiodo e di Lucrezio, quanto perché non sente di poter fornire, indispensabilmente, risposte più soddisfacenti di quelle fornite dai predecessori. Potrebbe apparir strano che il poeta dichiari questa sua adesione al tema georgico post eventum, per così dire, a chiusura di ben due libri de re rustica; ma, a ben vedere, si tratta di una ri-conversione, cioè di una riconferma delle opzioni originarie. Virgilio, come il suo Gallo nella 10a bucolica, ha immaginato di poter tentare sentieri poetici nuovi, ma ben presto, accortosi della loro impercorribilità, subentra in lui il ripensamento: rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes, / flumina amem silvasque (vv. 485-86); Cornelio aveva pronunciato la battuta della nuova opzione letteraria, la poesia bucolica, ibo et Chalcidico ..., ma ben presto il dio che non sa medicare le follie dell’eros lo avrebbe inchiodato alla condanna alla poesia elegiaca: iam neque Hamadriades rursus nec carmina nobis / ipsa placent (ecl. 10,62-63). La presentazione di paesaggi greci, soggetti a idealizzazione, dal fiume tessalo Spercheo65, al monte lacone Taigeto, al monte Emo evocatore del canto di Orfeo66, ma soprattutto ricordato a I 492, dove appare insanguinato, spettacolarizza contenuti di un possibile paesaggio di una possibile poesia bucolica, dalla quale il vecchio Titiro-Virgilio ha ormai preso le distanze: o qui me gelidis convallibus Haemi 67 / sistat, v. seguire in tutto Esiodo che era stato capace di cantare quella materia, in Theog. 116-32. 64 Virgilio non vuole dimostrarsi superiore, anzi confessa la sua inferiorità rispetto al maestro Lucrezio. Comunque, l’agg. è privo di intenzioni di auto-deminutio; viene in mente l’inglorius che Tacito, ann. IV 32,2, nobis in arto et inglorius labor, attribuisce al suo impegno storiografico. 65 A. Barchiesi, Lettura del II libro delle Georgiche, cit., p. 58, n. 20, considera giustamente ‘acrobazie’ talune spiegazioni tendenti a collegare la selezione di queste località ad eventi storici, come quelle di F. Muecke, Poetic self-consciousness in Georgic II, in A.J. Boyle (ed.), Virgil’s Ascrean Song. Ramus Essays on the Georgics, Berwick 1979, p. 106, relativamente allo Spercheo. 66 Cf. Hor. carm. I 12,6. 67 Utile la rassegna dei montes in Virgilio di F.V. Munera, La montaña en la obra de Virgilio, “Helmantica” 39, 1988, pp. 153-73 (per l’Emo cf. p. 163).

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488, come aveva già fatto Cornelio a ecl. 10,33, o quam molliter ossa quiescant; 43, hic ipso tecum consumerer aevo. Il tacito diniego della poesia bucolica proietta il cantore georgico nuovamente nella laudatio non del philosophus ma della poesia filosofica68, di Esiodo e di Arato e di Lucrezio: felix qui potuit …, prima di riconoscere, finalmente, ancora una volta, la validità anche della poesia agreste, dalla quale non si è mai veramente allontanato (geo. II 493-94):

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fortunatus et ille deos qui novit agrestis Panaque Silvanumque senem Nymphasque sorores,

ma è fortunato l’agricola, ora visto nella sua pietas, che gli consente di conoscere gli dei agrestes, citati anche nella bucolica di Gallo, un agricola che nel disinteresse per le ricchezze e nella lontananza dal mondo delle guerre si identifica nel pastor bucolicus. S’intravvede, qui, il vecchio coricio, nel suo aureo isolamento, la figura del saggio, epicureo o non epicureo, che comunque lanq£nei bièsaj, indifferente alla caducità dei regna (stranieri), alla potenza delle res Romanae, ignaro della realtà della ricchezza e della realtà della povertà69. Collocato in un contesto cittadino, Virgilio, essendo ormai troppo tardi per re-imprigionare il mondo cittadino nel mondo contadino, deve necessariamente allargare i confini del mondo georgico per adeguarlo all’esperienza urbana, nella quale si riconosce egli stesso con la sua esperienza umana, e quindi anche politica. Egli rappresenta da poeta, e dall’esterno, un mondo georgico, che paesaggisticamente, e solo paesaggisticamente, rievoca il mondo bucolico. Perché non è il mondo georgico in sé che egli intende vivere o far vivere, ma ciò che esso ha rappresentato nella storia della tradizione poetica, da Esiodo ad Arato, in termini di patrimonio etico-comportamentale. Per la Kronenberg70 le figure del poeta, del filosofo e del contadino sono metafore dell’umana ribellione contro le leggi di natura, una ribellione che contribuisce alla violenza e all’inganno. L’espressione di geo. III 549,

68 Come osserva il La Penna, Esiodo nella cultura e nella poesia di Virgilio, cit., p. 240, in questo momento a Virgilio interessa non l’aspetto scientifico, ma la ricerca della vita contemplativa. 69 Il motivo, come è noto, sarà ripreso da Tibullo a I 1,77-78, ego composito securus acervo / despiciam dites despiciamque famem. Ben diversamente Esiodo scrive che col lavoro gli uomini diventano ricchi e opimi di greggi (Op. 308); ricorda l’arricchimento che deriva dal lavoro dei campi (vv. 312-13); dichiara vergogna per i poveri, ardire per i ricchi (v. 319). 70 Cf. The Poet’s Fiction: Virgil’s Praise of the Farmer, Philosopher, and Poet at the End of Georgics 2, cit., p. 360.

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quaesitaeque nocent artes, che la studiosa dà in epigrafe al suo articolo, dice che tutto quello che l’uomo ha fatto è inutile, anzi i rimedi tanto ricercati fanno male. Il quadro è davvero desolante! Una confessione sui limiti delle possibilità umane è certamente virgiliana (il limite è un punto fermo della Weltanschauung delle Georgiche71); ma vien di chiedersi se la rappresentazione dello sfacelo dello spirito possa essere virgiliana, ed augustea, se sfacelo possa aver confessato il poeta del labor omnia vincit, se potesse essere questo il messaggio che Virgilio recitava al cospetto di Mecenate e di Ottaviano ad Atella; e ancora, quali allora fossero le sue effettive, e sia pur ideali, aspettative. A fronte di questa immagine di agricola, il poeta presenta un nutrito elenco di b…oi (vv. 503-12), tutti distanti dalle dinamiche esistenziali del contadino, che con la fatica svolta tutto l’anno, stagione per stagione, sagoma la sua esistenza, serena; in questo contesto, la tranquillitas risiede per il poeta nel rimanere al di fuori delle logiche della guerra e dell’arrivismo; il tutto a favore della famiglia, nella quale si incarnano gli ideali del pudor e della religiosità (e si pensa alla festa di Cerere del l. I e, quindi, al l. II come chiusura di un ciclo), e il principio di vita rinforzato dalla agrestis palaestra. Proprio questi valori garantirono la crescita della Roma delle origini, di Romolo e Remo e dei re etruschi, facendo di Roma rerum pulcherrima, ‘la più bella realtà’ (v. 534); e così prima dell’età di Giove e dell’età del bronzo, nell’età di Saturno: è la laudatio temporis acti già presente anche nelle lodi dell’Italia. Tutto ciò, dice Virgilio, avveniva quando ancora non s’era udito il crepitìo delle armi, quando la guerra era qualcosa di sconosciuto. A questo punto ci si è chiesti se Virgilio non scadesse nell’utopia, e addirittura nella contraddittorietà, perché la grandezza di Roma è passata, e come!, attraverso la politica delle conquiste. Il quadro qui presentato sembrerebbe inconciliabile con la teodicea del l. I (vv. 118-59) e con le vittorie cui prima (vv. 497-98) aveva alluso. A. Barchiesi pensa che Virgilio rispecchi quelle contraddizioni dell’epoca, “e, pur cercando di proporre alla società un modello tutto ideologico di salvezza e di risanamento morale, non dimentica di rivelarcene la crisi profonda.”72. Ma, quando Virgilio dice che così Roma divenne possente, fa riferimento ad una vita condotta tra pastorizia ed agricol71 Mi permetto di rinviare al mio saggio L’epillio ‘didascalico’: Aristeo, Orfeo, la superba illusione nella IVa georgica, in Da Orfeo a Lavinia, Napoli 2008, pp. 11-90 (soprattutto 83 ss.). 72 Cf. Virgilio. Georgiche. Introd. di G.B. Conte, testo, trad. e note a c. di A. Barchiesi, Milano 1980, p. 164.

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tura, non ad una vita senza guerre (un nome per tutti, Cincinnato!); e, quando dice che non si era udito squillo di trombe, allude all’età di Saturno; i Romani delle origini vivevano come nell’età di Saturno, ma poi ebbero bisogno delle armi per primeggiare. Anche ora devono intervenire le armi, ma quelle che riconsegnino definitivamente l’impero alla pace e alla prosperità73 della Saturnia tellus. Allora sarà di nuovo aurea aetas! L’idea della aurea aetas non è un rifugio nostalgico nel quale si comprime una ‘romantica’ retrospezione; essa, piuttosto, incoraggia il processo proiettivo verso il prossimo futuro della mondiale Roma augustea. Virgilio, come ho già avuto modo di dire74, sente di affiancare Ottaviano in quest’opera di risanamento, e, in questo senso, anche Ottaviano diventa un discipulus del poeta75; ma son ben lungi, con un’affermazione del genere, dall’intenzione di innescare quella sorta di automatismo logico (o ideologico) che faccia esplodere la tensione del tema del pessimismo o dell’ottimismo76, della partecipe propaganda o della critica al regime. Ai vv. 483-90 Virgilio inneggia alla poesia lucreziana77: felice78 (ecco il motivo dell’Ôlboj, il makarismÒj) chi conosce le causae rerum, ma l’inarrivabilità di quella poesia convince il Virgilio georgico a dedicarsi al canto di fiumi e boschi; e fortunato, comunque, chi conosce gli dèi della campagna (qui la poesia diventa metapoesia), quegli dèi che risultavano estranei alla filosofia di Lucrezio. Qui Virgilio cerca 73 F. Klingner, Virgil. Bucolica, Georgica, Aeneis, Zürich und Stuttgart 1967, pp. 232-42, affermava, addirittura, che sia il caso di parlare di Golden Main più che di Golden Age; pensiamo che, opportunamente interpretati, uno slogan non escluda necessariamente l’altro. 74 Cf. Il Poeta e il Politico. Virgilio e il potere, “GIF” 60, 2008, pp. 79 ss. 75 È questo uno dei principali argomenti sviluppati da C. Nappa, Reading after Actium: Vergil’s Georgics, Octavian, and Rome, Ann Arbor 2005 (passim). 76 L’ambiguità tra eulogia e critica, peraltro estensibile a tutte e tre le opere, è materia di approfondimento nel lavoro di Monica Gale, Virgil on the Nature of Things. The Georgics, Lucretius and the Didactic Tradition, Cambridge, Cambridge University Press 2000, che vede le ragioni di quell’ambiguità anche come risultante del complesso uso delle fonti da parte di Virgilio. Di “unresolvable oppositions or tensions” aveva parlato anche la Perkell, The Poet’s Truth, cit., p. 17. Che l’età dell’oro non possa esistere né ora né mai è una di quelle affermazioni della Perkell più estreme, che spinge il recensore (Ph. Hardie in “JRS” 81, 1991, p. 204) a scrivere che quella visione “threatens to become the new transatlantic ortodoxy of Ross and Thomas”. 77 I richiami lessicali, regolarmente registrati dai commentatori, lo dimostrano ampiamente. 78 Fortunato e felice colui che [...] lavora senza colpa verso gli immortali, interpreta gli uccelli ed evita le trasgressioni: t£wn eÙda…mwn te kaˆ Ôlbioj Öj si legge a v. 826 degli Erga di Esiodo (fortunate ... felix): il confronto stringente fu per la prima volta segnalato da La Penna, Esiodo nella cultura e nella poesia di Virgilio, cit., p. 244.

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l’alternativa alla per lui insoddisfacente ¢pon…a. La vita del contadino non tende alla liberazione dagli affanni. La campagna è piuttosto il luogo ideale dove ritrovare e riportare in città quei valori alla città sfuggiti. Se riconosciamo che le Georgiche sono portatrici di precetti e valori universali, e le laudes lo testimoniano concretamente, non possiamo delimitare entro i confini della campagna il campo di azione del destinatario; l’audience non può recepire il messaggio che solo l’allontanamento dalla Città assicuri pace e benessere: l’esaltazione della vita di campagna diventa un blandum carmen, un canto carezzevole mirante alla riconquista da parte dei cittadini di quel patrimonio di mores che consentirà loro di vivere la stessa secura quies che si vive tra i laghi e la fresca Tempe (II 467-71): at secura quies et nescia fallere vita, dives opum variarum, at latis otia fundis, speluncae vivique lacus et frigida Tempe mugitusque boum mollesque sub arbore somni non absunt ...79

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Per ora solo lì ci sono i giovani capaci di sopportar fatica e avvezzi al poco, solo lì si compiono sacrifici agli dèi e si celebra la sacralità dei padri. La scontatissima letterarietà di questo squarcio paesaggistico80 ci lascia intendere che l’Empfindung del poeta non si realizza rispetto al contesto concretamente ambientale, ma che è referenzialmente orientata a modelli di vita solo in quel contesto riconoscibili. La stessa ripresa sintattica81 di II 461-74 da Lucr. II 22-34, e la qualificazione iniziale procul discordibus armis, esemplata su Hor. epod. 2,1, beatus ille qui procul negotiis, dimostrano la valenza metaletteraria nel discorso virgiliano, che scende su un terreno tematico e su una esperienza testuale già praticati ma per dare forme nuove ed alternative ad immagini appartenenti ad altri generi letterari. Le Georgiche insegnano la collocabilità della vita all’interno di un sistema ordinato, non vanno alla ricerca della realizzazione della ¹suc…a come aspirazione finale di un vivere nascostamente a tutti i costi, dal poeta del labor improbus e della societas apium mai predicato. 79 Trad.: “ma c’è placida quiete ed una vita ignara d’inganni, / ricca di tanti beni, ma riposo nei vasti campi si gode, / antri e laghi naturali e la fresca Tempe, / muggiti di buoi e morbidi sonni sotto un albero / non mancano”. 80 Cf., ad es., la datata ma valida (soprattutto per la raccolta di dati) Dissertazione di H. Kier, De laudibus vitae rusticae, Marburg 1933. 81 Rilevata da Barchiesi, Lettura del II libro delle Georgiche, cit., p. 71.

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La metapoesia delle Georgiche e del paesaggio georgico consiste nel ricorrere al paesaggio quando, attraverso lo strumento poetico, si vuole esprimere una verità che è per ora solo poetica, pur derivando dalla lettura della realtà. Alcuni paesaggi sono letterari, altri hanno corrispondenze col reale ma solo parzialmente: nella rappresentazione del paesaggio desolato della peste del Norico del III libro Virgilio inserisce elementi estranei alle sue fonti letterarie non solo, ma che nemmeno rispondono al vero dal punto di vista scientifico82. La peste è simbolo della precarietà della condizione del vivere, della disgregazione dell’essere, della fragilità delle umane conoscenze mediche, della resa dei grandi maestri, il Filliride Chirone e l’Amitaonio Melampo: la sconfitta della zootecnia che invano cambia i pascoli; la sconfitta delle pratiche religiose; la sconfitta degli indovini. Su tutti, sulle forze della razionalità come su quelle del sentimento, come su quelle esoteriche delle pratiche apotropaiche domina Tisifone pallida che Morbos agit ante Metumque (v. 522). Virgilio si piega sulla Sofferenza, sulla Malattia, sulla Paura, quotidiana testimonianza della presenza di forze che denunciano la debolezza del corpo e dello spirito. In altri casi il poeta inventa fenomeni inesistenti o amplifica sino alla incredibilità altri racconti (come i parafenomeni seguiti alla morte di Cesare); penso anche all’inverno nella Scizia e alla fine delle bestie intrappolate nella neve83. Quando le cause dei fenomeni sono sconosciute Virgilio ricorre al mito, alla maniera ellenistica: la verità del mito è la verità della poesia84, che però auspica inveramenti nella realtà, e proprio in vista di questo obiettivo si esprime ed opera; essa è, cioè, la verità della speranza concreta, anche se vi sono innumerevoli occasioni che mettono a nudo la fragilità dell’uomo, la limitatezza delle sue conoscenze. Quando il Mantovano lascia sospesa la spiegazione di un fenomeno, dandone molte, come, ad es., a I 84 ss.85, egli dimostra 82 E. Flintoff, The Noric Cattle Plague, “QUCC” 42, 1983, pp. 85-111, ha dimostrato, sulla base di quanto si legge in manuali di veterinaria, l’attendibilità scientifica di molti aspetti della patologia presentata da Virgilio, ma ha anche ammesso una serie di adynata, una commistione di precisione e di vaghezza, insomma, che non inficiano l’intero impianto del quadro sintomatologico offerto dal poeta. 83 Ad analogia di tono con la digressione della peste del Norico pensa giustamente A. La Penna, Esiodo nella cultura e nella poesia di Virgilio, cit., p. 227. 84 A questa affermazione, che, isolata com’è, denuncia il pessimismo virgiliano, si ferma Christine G. Perkell, The Poet’s Truth, cit., p. 139. 85 A differenza di Lucrezio che offre una serie di spiegazioni possibili e poi una sola ne considera giusta, e di Epicuro, che ritiene tutte possibili le spiegazioni, ma dice anche che se si esce dai limiti della scienza della natura, si scade nel mito (§ 87 della Lettera a Pitocle).

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METAPAESAGGIO E METAPOESIA NELLE LAUDES DELLA 2A GEORGICA DI VIRGILIO

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che non c’è ‘la’ spiegazione, e che, perciò, quello è lo spazio che può ritagliarsi la poesia, penetrando il mondo del mito, proponendosi come voce enunciante un mito. In questa impostazione è una delle giustificazioni della composizione di un Lehrgedicht georgico nella seconda metà del I sec. a.C. Virgilio conta di pervenire alla verità poetica attraverso la lettura del paesaggio, che offre, così, una interpretazione della realtà capace di inviare i segnali al poeta perché questi possa trarne i dati necessari innanzitutto a completare la sua conoscenza, e, quindi, ad estendere la materia del suo insegnamento agli agricolae. Il paesaggio è il luogo in cui maggiormente la didassi si fa poesia; in Virgilio c’è la poesia dell’animo e la poesia del luogo; il paesaggio è la sede e la materia della poesia del luogo; la rappresentazione del paesaggio consente al poeta di esprimersi al di fuori dei limiti imposti dal genere; il metapaesaggio è la poesia dell’animo. La vita rustica cantata nelle Georgiche di Virgilio è una simbolica Lebenswahl 86, l’agri cultura è il grande simbolo dell’esistenza, della vita che regola il mondo, i cicli, i gesti, il reiterarsi dell’essere nel miracolo della nascita, come quando a primavera Etere, padre onnipotente, col suo grande corpo discende nel grembo di Terra, la sposa feconda, mentre le terre si gonfiano e cercano il seme che le rigeneri, mentre nei boschi frondosi echeggia il canto degli uccelli e tiepide soffiano le aure di Zefiro, e i germogli si concedono sicuri ai raggi del nuovo sole (II 325 ss.), come si legge nelle lodi della primavera87: come quando nacque il mondo! Se è vero, ed è vero, quel che scrive von Albrecht88, che “Virgilio rimane poeta anche quando riflette”, non c’è da stupirsi che noi, uomini del nostro tempo, possiamo cercare, oggi, nel suo messaggio il Vorbild per la nostra rinascita.

86 È sotto questo profilo che intenderei leggere l’affermazione di M. von Albrecht, Vergil. Bucolica, Georgica, Aeneis. Eine Einführung. Heidelberger Studienhefte zur Altertumsswissenschafts, Heidelberg 2006, p. 70, quando sostiene che la poesia guida la collettività sotto l’ispirazione della convinzione ideologica della restaurazione dell’agricoltura condivisa dal potere politico come mezzo per garantire il mantenimento della pax. 87 L. Landolfi, Virgilio, Lucrezio e le laudes veris, “QUCC, 20, 1985, 91-109, fissa una netta differenza di messaggi tra la funzione della primavera nel de rerum natura di Lucrezio e le lodi della primavera del II libro delle Georgiche: “il referente non è più rappresentato dal vitalismo dirompente della natura, bensì dalla convinzione della lineare continuità ideale dell’età delle origini con il presente” (p. 108). 88 Cf. M. von Albrecht, Ritrovare Virgilio, tr. it., Mantova 2010, p. 39.

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III.

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L’ASSURDA PRETESA DI ORFEO: TEQNASIN OI QANONTES

La figura di Orfeo appartiene, nell’immaginario mitologico degli antichi, a quella schiera di eroi che cronologicamente precedono gli eroi dell’epica omerica; insieme con Giasone partecipò all’impresa degli Argonauti. Nel poema di Apollonio Rodio, che gli dedica una vibrante e solenne laudatio in sede proemiale, I 23-24, il mitico cantore è impegnato in una descrizione cosmogonica realizzata con la sua musica (I 496 ss.). Primus inventor della poesia e della lirica Orfeo è un eroe culturale, un aspetto, questo, che lo associa ad Aristeo. La discesa agli inferi di Orfeo per riprendere Euridice affonda le sue radici mitografiche in Ermesianatte, che in un’elegia della raccolta che prende il nome dalla donna da lui amata, Leonzio (fr. 7,1-14 Powell, ap. Athen. 13.71), ci racconta della vittoriosa discesa1 di Orfeo nell’Ade per riportare Agriope, “dal volto selvaggio”2 (o Argiope, “dal volto luminoso”3), una donna alla quale non sembra legato da sentimenti affettivi. Nell’episodio virgiliano di Orfeo del IV libro delle Georgiche ci sono spunti che farebbero effettivamente pensare all’elegia erotica in senso stretto, ed ufficiale nella sua ortodossia, se il pianto del poeta-amante per la perdita dell’amata fosse dovuto all’allontanamento della puella come opzione esistenziale, e sociale, della stessa puella,

1 Ad una vittoriosa discesa di Orfeo nell’Ade, che, dunque, riporta i ‘morti’ sulla terra, fa cenno Isocrate a XI 8. 2 Cf. Athen. 597b. 3 Lo stesso nome della madre del cantore Tamiri: cf. Apoll. Myth. 1,3,3. Sul secondo nome di Euridice cf. J. Heurgon, Orphée et Eurydice avant Virgile, “Mel. d’Arch. et d’Hist.” 49, 1932, pp. 6-60 (cf., in particolare, pp. 13-15).

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non come conseguenza di un atto insano da lui stesso compiuto. Ed Orfeo compie l’atto insano non per una debolezza del momento4, né per una debolezza che avrebbe potuto non colpire un altro qualsiasi personaggio che si fosse trovato nella sua situazione; ritraendo l’atto di voltarsi indietro nella fase di risalita dagli inferi alla luce della vita il poeta ha voluto dimostrare che la richiesta agli dèi di resurrezione di Euridice è solo un’assurda resistenza alla legge della Morte (qui è l’insania), e gli dèi inferi, che ora rappresentano l’ordine naturale, gli hanno contestato l’insensatezza della domanda facendogliela pesare come una colpa, e, come una colpa, sanzionata con la follia e la morte per mano delle donne dei Ciconi: sbranato dalle Baccanti, Orfeo subisce la stessa sorte che Dioniso infligge al sacrilego Penteo (Eur. Bacch. 1122 ss.5); giova ricordare che anche Penteo, il sovrano di Tebe, oppone resistenza al culto di Dioniso che lo punisce (ma si tratta solo di una suggestione). L’atto umanissimo di Orfeo del respicere ristabilisce l’ordine universale di Thanatos. In Aen. VII 770-73, Tum pater omnipotens, aliquem indignatus ab umbris mortalem infernis ad lumina surgere vitae, ipse repertorem medicinae talis et artis fulmine Phoebigenam Stygias detrusit ad undas,

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Virgilio, presentandoci il re degli dèi che punisce fulminandolo Asclepio/Esculapio, il figlio di Apollo che apprese da Chirone l’arte della medicina, ma che apprese anche l’arte di resuscitare i morti6, proprio grazie alla quale resuscitò Ippolito, condanna un atto di resurrezione dei morti proponendolo come assolutamente contrario alla volontà di Giove, che interpretava quell’arte come serio motivo di grave sconvolgimento dell’ordine naturale. Il re degli dèi, come leggiamo nel VI libro 4 Il sentimento che Marie Desport, L’incantation virgilienne. Virgile et Orphée, Bordeaux 1952, p. 150, considera la condizione psicologica totalizzante di Orfeo (così anche P.V. Cova, Arte allusiva in Georg. IV 471-84, “BollStLat” 3, 1973, p. 281), è indubbiamente una componente fondamentale nella vicenda raccontata da Virgilio, ma condensare e liquidare nella negatività del sentimento il significato profondo dell’episodio allontanerebbe irrimediabilmente l’episodio stesso dal contesto poetico, e di idee, che lo ospita. 5 Colpisce nel testo euripideo, dopo la rappresentazione veramente raccapricciante dello sbranamento di Penteo, un particolare non meno macabro ma che vede protagonista il capo mozzato del figlio, che la madre Agave infilza col tirso e va portando, durante l’orgia delle Baccanti, sul monte Citerone, convinta che quella sia la testa di un leone montano (vv. 1139 ss.). 6 Svariate sono le fonti, da Hes. fr. 123 Rzach a Hymn. Hom. 16,1 ss., da Pind. Pyth. 3,1-58 ad Apoll. Rh. IV 616 ss., ad Apoll. Bibl. III 10,3, Diod. Sic. IV 71,1, Pausan. II 26,3-7, Hygin. fab. 202.

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L’ASSURDA PRETESA DI ORFEO: TEQNASIN OI QANONTES

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dell’Eneide, a pochi concesse di tornare superas ad auras dopo essere stati nel mondo di Dite – come dice la Sibilla –, pochi, o perché amati dal giusto Giove (aequos ... / Iuppiter, vv. 129-30) o perché, in quanto figli di numi, un’ardens virtus (v. 130) elevò alle stelle; ad es. Orfeo, che poté richiamare i Mani della propria sposa, potuit manis arcessere coniugis Orpheus, v. 119; Polluce, che divise l’immortalità con Castore; Teseo, cui fu concesso l’ingresso nell’Averno; e il grande Alcide, che dagli Inferi trasse alla superficie terrestre Cerbero (vv. 121-23). E Virgilio torna sul tema delle katab£seij più tardi, ai vv. 390 ss., dove Caronte, scorgendo Enea e la Sibilla, ricorda di non aver ricevuto di buon grado l’Alcide, Teseo e Piritoo7, nonostante fossero di stirpe divina e viribus invicti. Seneca, che in svariate occasioni nelle tragedie riprende il tema del mitico cantore, in Herc. fur. 569-91 si sofferma sulla catabasi di Orfeo solo apparentemente vincente, e poi canta di Ercole, ma per dimostrare che né la forza del canto né la forza fisica sono strumenti che assicurino il successo: è necessaria l’autocoscienza, la filosofica accettazione del destino. L’episodio di Orfeo rappresenta un verticale ridimensionamento8 da parte del poeta latino di un personaggio mitologico e mitico che sembrava dover andare con le sue capacità oltre i confini dell’umano, che sembrava dover domare, e dominare perciò, la natura ed anche la volontà degli dèi di sotterra; la richiesta di Orfeo a Proserpina è interpretata dalla divinità avernale come un gesto di intollerabile supponenza, un atto di Ûbrij, che la regina degli Inferi condanna, ed insieme con lei il pius Virgilio. Proserpina, che appartiene ai Manes che non sanno perdonare, non poteva cedere alla richiesta di Orfeo, snaturandosi, come Gallo, nella 10a ecloga, non avrebbe mai potuto convertirsi ad un b…oj boukolikÒj e ad una poesia arcadica, perché anche quel dio (Amore) – che riconosciamo nella natura stessa e nell’identità poetica di Gallo – non sa usar clemenza verso i mali degli uomini (cf. v. 61). Se gli dèi di sotterra si fossero piegati alla dolcezza delle melodie di Orfeo, come vi si piegavano gli animali, le piante, i fiumi, le montagne, il poeta avrebbe trattato il mondo degli dèi alla stessa stregua del mondo naturale, e questo è lontano dalla sensibilità 7 Cf. anche lo sdegno del sovrano avernale in Stat. Theb. VIII 21-79. Al v. 123 Plutone cede alle preghiere di Anfiarao. 8 Credo che Virgilio abbia fatto tesoro di quel revisionismo in senso razionalistico operato sul patrimonio mitologico, e anche sulla figura, di natura sciamanica secondo la più antica tradizione, di Orfeo, dalla massiccia ellenizzazione della cultura: su questa linea è M.L. West, I poemi orfici, trad. it. a c. di Marisa Tortorelli Ghidini, Napoli 1993, p. 18.

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profondamente religiosa, romanamente religiosa di Virgilio. Né è il caso di parlare di offesa della divinità infernale, come vorrebbe, invece, la test. 65 (p. 19 Kern) che registra la chiosa di Myth. Vat. I 76, in cui tra l’altro si legge: “Deinde ut est dura amantium perseverantia, O. [Orpheus] timens ne non inesset pollicitis Ditis fides, respexit et irritum fecit suum laborem”: Orfeo si sarebbe girato non per l’ardore di guardare in viso Euridice, ma perché preoccupato da una sospetta inaffidabilità delle promesse di Dite. La presunzione più grave per Orfeo è stata quella di pensare di poter ottenere il perdono da chi per statuto non sa perdonare, non può, non deve.

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*** La fusione nell’epillio del mito di Orfeo con quello di Aristeo è, come si sa, inedita. Dal punto di vista della impostazione della narrazione, emerge, dopo il lunghissimo discorso di Proteo, la rapidità con la quale Cirene liquida la sofferenza di Orfeo: essa non fa parte della storia della bugonia (la ‘pratica’ che neutralizza la sciagura della improvvisa ed irrimediabile perdita di un intero sciame di api, e permette di riaverlo), se non di scorcio; sul piano tecnico riveste molto scarsa importanza; si integra solo come motivazione della perdita delle api per Aristeo. Nel fatto che le ninfe Napèe sarebbero state placate facilmente, nel fatto che ad Aristeo sarebbe bastato offrire ad Orfeo papaveri letei e sacrificargli una pecora nera, venerare Euridice col sacrificio di una vitella, ecco, in tutto questo si cela un importante messaggio, il messaggio che tutto può essere dimenticato, e tutto può essere risolto quando è in gioco il beneficio dell’umanità. Trovo piuttosto rilevante che Cirene consigli l’offerta dei ‘papaveri letei’ (Lethaea papavera, v. 5459): i papaveri portano l’oblìo, l»qh; e non meno indicativa è l’offerta della ‘pecora nera’ (nigram ... ovem, v. 546), il colore proprio dei morti: le inferiae offerte da Aristeo in onore di Orfeo mirano a dare finalmente pace all’amante cantore; il dono funebre di Aristeo interviene a porre fine alla collera di Orfeo, visto nella nuova ed eterna dimensione di essere-nella-morte. La sofferenza del giovane amante sfortunato è placata da chi aveva provocato la morte di Euridice e sua. Con la buona riuscita del rito bugonico Virgilio implicitamente annuncia la raggiunta pace di Orfeo ed Euridice. 9 Il Richter nel Comm., p. 404, rimanda a I 78, Lethaeo perfuso papavera somno, e spiega: ‘der “lethäische Mohn” [...] fügt sich hier sinnvoll ein: Orpheus soll vergessen’; sì, Orfeo deve dimenticare, e non l’amore per Euridice, ma la superba illusione.

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L’ASSURDA PRETESA DI ORFEO: TEQNASIN OI QANONTES

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Il poeta ha così trovato un collegamento del ripristino del patrimonio di api per Aristeo con il raggiungimento della pace dei due sposi sfortunati attraverso la preghiera, che ha prodotto, contestualmente, un beneficio ad Aristeo (e a partire da lui all’umanità) e ad Orfeo.

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*** I due distinti ed inconciliabili interventi, di Proteo e di Cirene, che sono gli autori di due opposte letture degli eventi, rappresentano in realtà due diversi modi di gestire la narrazione e di fornirne il significato di fondo: il vate submarino mira al riconoscimento della colpa e all’individuazione delle principali vittime di quella colpa; la ninfa-madre punta direttamente, piuttosto, alla modalità da seguire per rimediare alla punizione inflitta al figlio e ristabilirne, unilateralmente, ed ‘egoisticamente’, la condizione originaria di benessere. Con la storia della morte di Euridice, e del dolore, della sconfitta e della morte di Orfeo, sembra che il poeta voglia ricordare ai suoi lettori che la sentenza labor omnia vicit (geo. I 145), che egli stesso ha loro insegnato e che potrebbe innescare un meccanismo di onnipotenza umana, non deve far perdere di vista, invece, soprattutto che omnia vincit Q£natoj et nos cedamus Qan£twÄ: Morte vince tutti i poteri umani, anche quelli che appaiano i più eccezionali, e l’uomo deve sapersi piegare a questa disciplina insita nel suo stesso essere. È ad Euridice che Virgilio affida l’espressione diretta del dolore attraverso il lamento; la sventurata fanciulla sperimenta su se stessa l’irreversibilità della morte. Il destino reclama la giovane sposa, fata vocant (v. 496): la follia di Orfeo è stata quella di credere, di presumere che la donna potesse tornare alla vita, e di farlo credere a lei; gli dèi infernali gli rinfacciano questa presunzione attraverso le parole della stessa Euridice: quis et me ... miseram et te perdidit Orpheu, / quis tantus furor?, vv. 494-95, in cui è preconizzata la morte anche dello stesso Orfeo (et te): forse l’amore dei due aveva bisogno del gesto di Orfeo, che si rivela risolutore per il loro immediato ed eterno ricongiungimento (questa, in sostanza, l’interpretatio Ovidiana); in fondo Orfeo cerca la via che lo conduca alla morte, l’unica che gli consente di stare accanto alla sua Euridice. Quello che appare un furor si rivela, in fondo, un progetto di assoluta lucidità10. Il dramma di Orfeo 10

Al furor come incapacità di vivere la relazione coniugale, “en dehors de la lune de miel” da parte di Orfeo ed Euridice, coppia fallimentare, incapace di stabilire un rapporto

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è riportato per dimostrare drammaticamente il conto, in termini di dolore e di sofferenza, che si deve pagare per realizzare questa bugonia, questa rinascita. Egli non addebita alla propria amentia l’accaduto, ma – come in realtà è – all’inganno di Dite (“l’inganno dei doni / di Dite lamentava”, v. 520): percepisce come un inganno la falsa promessa.

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*** Il filologo deve cercare nell’epillio, organizzato ex nihilo, un significato capace di coinvolgere l’intero poema. G.B. Conte punta sulla rappresentazione di Orfeo nella sua qualità di amante-poeta, che fa determinate scelte poetiche11, per cantare l’amore, il dolore del distacco, la perdita della sua donna, “una poesia fatta di vicende e note personali, di passione infelice”, insomma un ™rotikÕn p£qhma. Ma ad un’identificazione poetica di questo tipo, cioè ortodossamente erotico-elegiaca, si perviene quando si registrino motivazioni diverse nel lamento poetico, se si vuole, più rappresentative e caratterizzanti, riconoscibili nel comportamento della dura e spesso levis puella che gioca il ruolo della domina: il canto dell’amore elegiaco per antonomasia, dal punto di vista delle prerogative strettamente connesse al gšnoj coltivato da Gallo, e, quindi, qui eventualmente rievocabile, non è costituito dalla semplice Klage per la morte della donna amata12 (alla maniera, ad es., del canto funebre di Calvo per la morte di Quintilia), ma piuttosto dalla Klage che denunciava la sofferenza della trasgressione del foedus da parte della puella. Il canto e la musica di Orfeo che riesce ad incantare le divinità infernali risultano vincenti (il loro incantamento suggella più drammaticamente la sua prossima sconfitta): si potrebbe parlare di un uso estensivo della werbende Dichtung? Se Euridice non è persona elegiaca, nemmeno la divinità avernale può giocare il ruolo di destinataria di un blandi carminis obsequium. coniugale a distanza, pensa in uno studio improntato all’antropologia sociale (si insiste sulla purezza delle api, sulla loro ridotta attività sessuale, sulla loro funzione, simbolistica, di introdurre il sentimento del pudore tra gli uomini), M. Detienne, Orphée au miel, “QUUC” 12, 1971, pp. 7-21 (cf. spec. p. 18). 11 Cf. Virgilio. L’epica del sentimento, Torino 2002 (20072), p. 82. 12 Catullo, in una fase di svolta poetica, dichiarava di voler velare il suo canto del lutto per la morte del fratello (così intendo il tegam, che conservo nel testo, a v. 12; cf. il mio Il pomo della concordia (Cat. 65, Callimaco e l’elegia latina), in Elegiaca, Napoli 2003, pp. 9-38 (sulla scelta editoriale cf. p. 11 e n. 9).

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Quando Orfeo piange con se stesso è già stato sconfitto, ha già perso la prova che, parallelamente, ma su ben altro terreno, Aristeo ha vinto. Orfeo piange la verità infrangibile della irreversibilità della morte, che lo riconduce alla dimensione umana, sottraendolo alla falsa autocoscienza di immortalità ed onnipotenza (superba illusione!). Perciò non si riesce a condividere il pensiero di quanti attribuiscono la sconfitta di Orfeo alla sua passione amorosa, come, ad es., il Campbell, il quale sostiene che “Orpheus [...] fails in Georgic 4 to realize that power [il potere garantito dall’efficacia poetica, esaltata nelle Bucoliche] because of the furor of sexual love”13. Dovremmo, allora, pensare che se Orfeo non si fosse girato avrebbe riavuto Euridice; era pensabile in età augustea, da Virgilio, che stava componendo contemporaneamente un poema sulla ‘impossibile giustificazione della storia’, o, comunque, sulla ineluttabilità della morte che spesso colpisce giovani vite, proprio in ordine soprattutto a certi esiti che appaiono inspiegabili sul piano umano, che fosse possibile il pieno recupero alla vita di un essere umano già morto? Semmai, possiamo dire che l’atto di superbia di Orfeo è all’origine viziato da un profondissimo amore, e questo lo rende già meno ‘peccatore’, lo riporta in assoluto alla dimensione umana, e ce lo fa amare senza riserve (senza riserve dovette amarlo, per questo, Virgilio, che ne fece un martire). Virgilio procede ad una riattualizzazione e risemantizzazione del mito di Orfeo, che se prima era l’archetipo del potere sovrumano, taumaturgico della poesia e basta, ora è anche l’esempio, eloquente, a maggior ragione significativo esempio dei limiti delle possibilità umane, cui è interdetta la salvazione dalla morte. La morte si conserva, deve conservarsi all’interno di un senso teleologico della natura e della storia, in un ordinamento provvidenziale, nel quale l’uomo deve saper riconoscere il limite invalicabile della fine. Il canto, la sua forza e la sua efficacia avevano fatto credere ad Orfeo di tutto potere, anche di aver ragione della morte, ma Q£natoj ha messo il cantore tracio nella condizione di rientrare in se stesso per trovare all’interno di sé la debolezza congenita, propria della sua natura umana, di compiere un atto che non avrebbe potuto non compiere, in quanto uomo, inabilitato ad ottenere, a qualsiasi titolo, la resurrezione di un altro essere uma-

13 Cf. J.S. Campbell, Initiation and the Role of Aristaeus in ‘Georgics’ Four, “Ramus” 11, 1982, p. 113. Parlare di sexual love appare, poi, veramente eccessivo, se non fuor di luogo, per una storia d’amore come quella di Orfeo ed Euridice, così pura come è pura e scevra di sensualità la vita delle api: cf. l’art. di M. Detienne prima citato.

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VIRGILIO

no. Teqn©sin oƒ qanÒntej, come dice Admeto ad Eracle in Eur. Alc. 541. Virgilio ha scelto quel mito, optando per la versione perdente, proprio per denunciare l’impossibilità della resurrezione, e la verità del limite umano. Le divinità infernali cedono dinanzi al canto immortale di Orfeo, ma non potendo cedere a quella richiesta di resurrezione, lo giocano sul piano umano, chiamandolo ad una prova che egli non avrebbe superato perché per quella prova egli metteva in campo la sua umanità, che doveva manifestarsi (e si manifestava sotto forma di impazienza, di incapacità di dominio delle proprie pulsioni), non la sua arte canora. Capovolgendo la prospettiva, si può dire che Orfeo, anzi l’umanità di Orfeo ristabilisce l’ordine naturale ed universale che sancisce l’irreversibilità della morte. Virgilio canta che gli dèi inferi, i Manes non sanno perdonare, ma intanto avevano concesso che Euridice tornasse alla vita. In realtà è l’empatheia del poeta che lo spinge a dire che gli dèi non sanno perdonare; il suo razionalismo lo porta a decretare la morte di Orfeo. Virgilio si mostra poeta molto dolente, che canta l’inesorabilità della morte, sempre, ad esempio anche quando è provocata da cause oggettive rispetto a chi la subisce; anzi, egli denuncia l’ingiustizia della privazione della persona più cara, che comporterà la fine anche del sopravvissuto, e il successo di chi ha commesso la colpa, di chi ha causato quella perdita. Nella sua simbologia Aristeo non figura come personaggio direttamente responsabile, sia pure involontario, della morte di Euridice, anche se il poeta fornisce al lettore tutti gli elementi utili ad incriminarlo. Virgilio, in fondo, è attento, nello stesso tempo, a nascondere la sua colpevolezza14, come si è detto, o, quanto meno ad attenuarne la gravità; il lettore dimentica, o non tiene conto del fatto che Aristeo si è invaghito di Euridice, pur essendo sposato con Autonoe, figlia di Cadmo, che gli ha dato il figlio Attèone. Il canto15 della stessa ninfa Climene (vv. 345 ss.), la moglie di Fetonte, la quale è accanto a Cirene insieme alle altre ninfe, che rievoca, a partire dal Caos, dalle origini del mondo, da sempre cioè, amori di dèi con donne mortali (è la materia 14 Anche l’Atlante del IV e soprattutto dell’VIII libro dell’Eneide (vv. 136-40), dove il gigante è genitore di Elettra e di Maia, è personaggio assolutamente riabilitato, spogliato della tradizionale e celebre offesa nei confronti degli dèi; per la questione rinvio al mio Allusione e simbolismo in Virgilio (Aen. IV 143 ss.; 246 ss.), “Vichiana” 18, 1989, pp. 27296 (ora in Temi virgiliani, Napoli 2002, pp. 59-90 [cf. pp. 75 ss.]). 15 In Omero, Od. IV 266 ss., il canto di Demodoco.

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L’ASSURDA PRETESA DI ORFEO: TEQNASIN OI QANONTES

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del Catalogo delle donne, attribuito ad Esiodo), è un’evidente manovra attenuativa della colpa di Aristeo, sulla cui gravità si sarebbe espresso Proteo, con la sua severa denuncia: magna luis commissa, v. 454; ma a sua volta l’avrebbe minimizzata la stessa Cirene dopo aver ascoltato le rivelazioni del vate riferitegli dal figlio. Climene e Cirene incarnano e sintetizzano l’Umanità, la Storia, che pretendono la positività e la reddidività del progresso; poco importa se esso passi attraverso il sacrificio di una innocente e di un miserabilis16. Ma il poeta, che si piega a questa ferrea legge, non sa fare a meno, in ogni caso, di soffermarsi a riflettere. Il compito assegnato al personaggio Aristeo è quello di riuscire con l’aiuto di forze superiori ad approdare ad inventa importantissimi per tutti gli uomini. Con l’episodio di Aristeo, che nasce come segnale di sfacelo da risanare, si attinge il grado estremo del successo in campo agricolo e in campo, più vastamente, umano, si tocca il massimo livello che le possibilità umane possano raggiungere: produrre i presupposti dai quali scaturisca un processo rigenerativo, possibile, però, perché si tratta di fenomeni insiti in natura; quando si volesse andare oltre si ricadrebbe nella non-positività. L’oltre è impossibile. L’uomo è avvertito, è avvertito soprattutto chi ora è all’apice del potere, in Italia e nel mondo. Orfeo incarna la vanità del tentativo di andare al di là dell’umano, e in questo tentativo Virgilio ce lo mostra solitario; Orfeo non chiede l’aiuto degli dèi, crede di conquistarli con i soli suoi mezzi, i soliti (pone gli dèi sullo stesso piano di tutti i mondi naturali che il suo canto ha ridotto in suo potere): quis tantus furor?!

16 L’epiteto ha terminologicamente un valore tecnico (cf. Dafni in buc. 5,22, complexa sui corpus miserabile nati, / ... mater), ed è programmatico per Orfeo (cf. v. 454), per il quale ha lo stesso valore che ha moritura per Didone, epiteto conferito alla regina sidonia anche quando non si fa riferimento all’imminenza della morte.

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IV.

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LA DEA E L’EROE: L’ENEIDE, POEMA DEL DECORUM

Tra le divinità emergenti nell’Eneide Giunone e Venere1 svolgono un ruolo che incide profondamente sugli sviluppi della vicenda: le due dèe, che, nel poema, rappresentano le due opposte polarità dell’Olimpo, intervengono sempre ai confini con la limitatezza delle forze degli uomini, prestano energie ulteriori che travalicano i limiti umani, per cui gli stessi uomini godano di una capacità di azione per natura a loro non appartenente, ma di volta in volta temporaneamente straordinaria; ma, soprattutto, impiegano le loro forze a contrastare l’una i propositi dell’altra. Virgilio, raccogliendo dalla poesia a lui precedente, l’epica di Nevio e di Ennio che aveva cantato le romane gesta anticartaginesi, l’eredità di un atteggiamento ostile di Giunone2, comunque già presente nel testo iliadico, è confortato proprio dall’autorità di quei predecessori, soprattutto dell’autore degli Annales, quando immette nel circuito del testo la ‘conversione’ della moglie di Giove che accetta di accordare il suo favore ad una potenza prima avversata3. Trovare 1 Su Venere cf. A. La Penna, I volti di Venere nell’Eneide, in Arma virumque ... Studi di poesia e storiografia in onore di Luca Canali, a c. di E. Lelli, Roma 2002, pp. 97-107. 2 Così anche G. Lieberg, La dea Giunone nell’Eneide di Virgilio, “A&R” n.s. V 11, 1966, p. 162 e n. 111; meno probabile considero la ricompattata amicizia, di cui parla lo studioso, ai tempi della prima guerra punica; un mutamento del comportamento ostile di Giunone già in Nevio mi sembra tesi poco sostenibile, anche perché l’autore del bellum Poenicum scrive alla vigilia del secondo conflitto. La riconciliazione di Giunone potrebbe essere presunta in Nevio solo ove si volesse pensare che il poeta annunci la trasformazione dell’ira della dea in favor a titolo augurale ed incoraggiante per i Romani che si apprestavano a sostenere la guerra decisiva; ma è ipotesi scarsamente sostenibile, priva com’è di qualunque appiglio testuale. 3 Cf. Servio ad Aen. I 281 ‘CONSILIA IN MELIVS REFERET quia bello Punico secundo, ut ait

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l’ostilità di Giunone, divinità cartaginese di spicco nelle opere dei due poeti arcaici4 che cantarono i primi due conflitti punici, è abbastanza naturale; l’Eneide canta proprio la preistoria della nascitura potenza che avrebbe combattuto, sconfitto e distrutto appunto la città fenicia, protetta da Tanit/Iuno. Il recupero della vicenda di Giunone dagli Annales dell’illustre predecessore assume, inoltre, anche un importante significato beneaugurale; il lettore romano, dotto dell’epos di Ennio, trova fisiologica l’avversione della divinità, e di Giunone in particolare, ma conosce anche la suscettibilità degli orientamenti antiromani della dea. Virgilio si assume il compito di illustrare l’adesione originaria di Giunone al pantheon romano e l’inizio del culto della dea Giunone a Roma, a partire dalle origini della sua civiltà, in tempi, quindi, molto anteriori a quelli dell’effettiva fondazione dell’Urbe; entra quindi nel campo della leggenda. Evidentemente, il processo avviene sulla base di un doppio binario, quello della tradizione letteraria e quello della realtà politico-sociale-religiosa del tempo del poeta. Il racconto dei propositi e dell’operato di Giunone e di Venere fa delle due divinità dei personaggi: l’autore ne rispetta la dimensione divina, ma nello stesso tempo si arroga, deve arrogarsi, il diritto di gestirne pensiero e azione sulla scena. Sin dalle prime battute Giunone è divinità ‘straniera’, protettrice di Cartagine, quella potenza politica, cioè, con una forza navale di antica tradizione, che aveva segnato un momento storico di grandissima rilevanza nel percorso compiuto dal popolo romano verso la conquista del mondo. Ugualmente chiaro appare, d’altro canto, che l’azione compiuta da Enea e dai profughi troiani, nel viaggio dalla Ennius, placata Iuno coepit favere Romanis’, una chiosa che ispirò all’Ilberg addirittura la ricostruzione di un esametro enniano: Romanis Iuno coepit placata favere. Servio vede, credo giustamente, Giunone dopo la 2a guerra punica, non a conclusione dell’Eneide. A che cosa vuole alludere Virgilio a I 281? Non penso solo alla fine delle ostilità di Giunone al termine del poema, e, quindi, alla accettazione della fondazione della nuova città in territorio latino, anche perché la citazione dei Romani, gens togata e rerum domini, proietta il discorso molto in avanti. Cf. anche il fr. 445 Skutsch (= 491 Vahl. = 55 Flores), in cui Ennio scrive optima caelicolum, Saturnia, magna dearum, un verso col quale il poeta si riferisce alla ritrovata armonia di Giunone con Giove. 4 Giunone è avvertita come divinità straniera ancora nell’ode II 1 di Orazio in cui coopera alla vendetta di Giugurta: victorum nepotes / rettulit inferias Iugurthae (vv. 27-28), un omaggio, da parte della dea al Numida, che ribalta l’ipotesi della evocatio voluta da E. Fraenkel, Orazio, trad. it., Roma 1993, p. 328; contra A. La Penna, Orazio. Le opere. Antologia, a c. di A.L.P., Firenze 19682, p. 275. Ma, secondo l’ideologia augustea, va assimilata al pantheon romano, integrata in un sistema religioso politeistico comprensivo di divinità di varia provenienza, in linea con quella visione imperialistica che regola la politica del princeps, che, fondendo potere imperiale e istituto religioso, imprimeva al processo di restaurazione un timbro decisamente politicizzato.

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Troade alla Sicilia e dalla Sicilia al Lazio, e poi nella “guerra di conquista” del Lazio, è sotto la protezione di Venere che riceve da Giove, depositario ed esecutore del fatum, ampie assicurazioni sul successo finale dell’impresa. Il pubblico dei lettori è chiamato a questa complicità con il poeta, con il suo protagonista, con il popolo troiano, con la causa troiano-romana, contro l’offensiva di una divinità che l’audience già annovera nella solenne triade capitolina; il poeta farà in modo che quella simpatia che attraversa l’intero poema per la parte troiana sia estesa alla parte avversa, in seguito al volgere degli eventi, e, quindi, con la fusione con le popolazioni italiche dopo la guerra, anzi dopo il duello. L’unificazione dei due popoli è già frutto della volontà di Giunone, che ha accettato quell’integrazione perché, rassicurata da Giove, sa che il processo di maturazione civile, morale e religiosa dei profughi della Troade è compiuto. Intanto, non suoneranno al lettore romano sinistre le parole di Giove5 quando annuncerà il ritorno sulla scena di Giunone in occasione della seconda guerra punica, perché quel ‘futuro’ è già passato, appartiene storicamente al passato e letterariamente al futuro remoto della testualità degli Annales. Il vaticinio di Giove getta un ponte tra l’opera virgiliana e quella di Ennio (come tra l’opera virgiliana e quella di Silio6), giustifica e legittima la rinnovata avversione di Giunone nei confronti dei Romani, che si leggeva nel poema epico enniano. La doppia riconciliazione di Giunone con i Romani corrisponde a due fasi epocali della storia di Roma, quando nasceva il prototipo dell’Urbe e quando l’Urbe usciva vittoriosa da una crisi che avrebbe potuto cambiare le sorti del Mediterraneo e della storia dell’Occidente. Siccome Virgilio vive e scrive in un periodo che ha visto un’altra fase epocale della storia di Roma, è il caso di chiedersi se ci sia e quale sia la ‘funzione’ di Giunone nello scontro tra Ottaviano ed Antonio, tra Occidente e Oriente, conclusosi nelle acque di Azio, uno scontro nel quale ancora una volta era in gioco la ubicazione geografica del centro della politica internazionale, questa volta non Roma o Cartagine, bensì Roma o l’Egitto. Insomma, il momento cruciale del conflitto tra i due signori della guerra e possibili padroni assoluti della terra, con tutte le implicazioni che esso comportava, evocava ai Romani il drammatico bivio storico nel quale i loro antenati si erano trovati ai 5 Adveniet iustum pugnae […] tempus, / cum fera Carthago Romanis arcibus olim / exitium magnum atque Alpes immittet apertas (Aen. X 11-13). 6 Rimando, a tal proposito, alle considerazioni finali espresse in questo saggio.

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tempi delle vittorie annibaliche, e, andando a ritroso, il processo di occidentalizzazione del nucleo originario tracio7. Con lo scontro di Azio – credo – la potenza romana realizza in modo supremo la volontà di Giunone; si ribalta la situazione, perché finalmente quell’Oriente osteggiato da sempre dalla dea, e, nel caso specifico, proprio quell’Oriente lussurioso e scostumato, diventa il nemico estremo di Roma. La guerra aziaca non può che essere benedetta da Giunone, che vede in essa la circostanza storica suprema per scongiurare per sempre l’eventualità dell’insediamento di una potenza allotria in sostituzione della centralità di Roma: sit Romana potens Itala virtute propago (Aen. XII 827). La rinnovata identità dei vecchi esuli da Troia si completa, nell’immaginario poetico, in questa prova definitiva – anche se non necessaria, o utile solo alla soddisfazione di una pur assente Giunone – di occidentalizzazione, che segna il distacco con le origini tracie, e medio-orientali, del regno di Lavinio. Uno dei motivi dominanti nell’Eneide è l’ira della dea, personaggio capace di generare ulteriorità di eventi e di azioni, secondo la norma dello stile epico, e adatto, quindi, a favorire lo sviluppo narrativo; ma all’interno della vicenda narrata il ruolo, per quanto incidente con gravi e molteplici interferenze, è inidoneo a produrre risultati definitivi, rispondenti alle iniziali e perduranti aspirazioni della sposa di Giove; la funzione di quella dea, infatti, è limitata a provocare un rallentamento nell’attuazione dell’ineluttabile epilogo sancito dal destino. Giunone ha saputo che le predilette rocche, per volere del fato (audierat8 […] sic volvere Parcas, I 22), saranno un giorno abbattute dall’invincibile popolo disceso da Enea. Il pensiero della dea, collocata nel contesto mitico delle pre-origini di Roma, è, dunque, subito proiettato in ambito storico, con riferimento netto alle guerre puniche. L’inizio della sua azione nell’Eneide coincide con l’inizio, italico, di quel lungo 7 È il caso di ricordare che la maledizione pronunciata da Didone e la profezia dell’avvento di Annibale sono stati visti come prodromi della storia di Cleopatra, erede di Didone, a cui si collega Giunone. 8 Servio ad Aen. I 20 spiega: “AVDIERAT a Iove aut a Fatis […] et perite ‘audierat’; in Ennio enim inducitur Iuppiter promittens Romanis excidium Carthaginis”; il Danielino fornisce una spiegazione più possibilista per la dea: ‘AVDIERAT] bene audierat quasi de incertis rebus, ut et timeret et speraret omnia pro sua voluntate posse mutari’. La prospettiva cronologica vieterebbe di dar credito all’esegesi serviana; la spiegazione del Danielino lascia alla dea un margine d’azione. In realtà il poeta potrebbe aver inteso di proposito lasciare nel vago la notizia, come fa con quel fertur di v. 15. Dubito che volesse alludere in modo diretto al modello enniano, anche se non poteva non averlo nella sua memoria. Il margine di azione lasciato alla dea, che vive nella speranza che non si avveri quanto aveva sentito dire, garantisce quella continuità di vita di cui al suo esordio il poema ha bisogno.

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processo che porterà i profughi troiani a fondare il nuovo regno nel Lazio ed i loro discendenti a diventare i signori del Mediterraneo, i due eventi che, nell’immaginario leggendario e nella realtà storica, hanno segnato il destino della civiltà romana nel mondo. Due eventi che tornano prepotentemente alla memoria e che sono di incoraggiamento nella cruciale fase storica che l’Urbe sta attraversando nella attualità del poeta. In antitesi all’azione demolitrice della dea, il protagonista, pur ripetutamente informato dei favori del fato, si mostra ignaro e incerto9, sempre alla faticosa ricerca della realizzazione della dimensione definitiva di sé, e del compimento del suo ufficio. La missione di Enea ha finalità ultime troppo spostate in avanti perché egli possa comprenderle nella loro completezza nell’ambito dei suoi confini temporali e mentali: a lui è assegnato un compito che gli fa vivere il presente in modo quasi meccanico ed indotto, obbligato, per le proiezioni nel futuro cui il suo operato deve mirare. Questa è la figura del nuovo eroe epico delineata nel poema virgiliano, l’eroe che lotta e soffre mai solo per sé e per i suoi ideali delimitati dai confini del tempo, o per un fine che passi per il suo punto di vista, per il suo vaglio, o di cui possa godere nella sua sfera esperienziale; è l’eroe che getta le basi per la formazione di un mondo che egli non conoscerà; e proprio a questo mondo sconosciuto e forse per il protagonista solo lontanamente calcolabile è continuamente orientato l’occhio del lettore, al quale la formazione del regno nel Lazio è offerta come evento futuro, e, nello stesso tempo, come fatto pregresso, come premessa, cioè, della gloriosa attualità. Questa proiezione verso il futuro, che si delinea sin dall’inizio, con l’anticipazione dello scontro romanocartaginese, è una condizione costante del poema, attraversato dalla religione della provvidenzialità, che nella sua intrinseca tensione verso il di là da venire lascia in secondo piano quella che sembrerebbe essere l’attualità dei fatti, non per bruciare il presente della narrazione ma per funzionalizzarlo, nella dinamica storica, al presente autoriale. Nell’accorato appello che Venere rivolge a Giove, ad un certo punto la dea esclama: Certe hinc Romanos olim volventibus annis, / hinc fore ductores revocato a sanguine Teucri, / qui mare, qui terras omnis dicione 9 Questo status, di conoscenza assoluta iniziale, diluita poi in una gradualità di progressive acquisizioni parziali, è tipico di alcuni personaggi fondamentali dell’Eneide, appartenenti sia alla sfera divina che umana (per es., Venere, Enea stesso), e ha la funzione di informare preventivamente il lettore della sovrintendenza del fatum, i cui disegni nel corso del racconto sfuggono, per volontà del poeta, ai protagonisti e allo stesso pubblico destinatario.

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tenerent, / pollicitus10. La dea, riportando il pensiero dell’onnipotente padre, parla di “sangue rinnovato” di Teucro e di “condottieri romani”; non sorprenderà vedere condensata in queste poche parole quella transizione pretesa alla fine della vicenda da Giunone, la cui azione il lettore scopre gradualmente mirante al raggiungimento degli stessi fini perseguiti da Giove e da Venere: si ricompatta, in modo ora visibile, la volontà di Giunone con la volontà del Fato. Né poteva essere altrimenti! L’epos virgiliano accompagna l’itinerario di un popolo che dalla leggenda si affaccia alla storia, insegnando a quella profuga gente e alla sua guida la dimensione della Romanitas, misurata soprattutto in termini di rigore morale, di fede nella parola, nella promessa, di disciplina del pensiero. Enea non potrà mai capire le ragioni dell’avversità di Giunone, né il poeta potrà mai proporlo in una riflessione profonda capace di produrre una lettura consapevole della storia; né, d’altro canto, sporadiche umane lamentele basterebbero a smentire questo status: si sente vittima con la sua gente (gens immerita, III 1-2) di un destino avverso, ma non abbandona mai la missione. Il suo compito è solo quello di avviare il processo della civiltà romana e di traghettarlo dalla mitologia verso la storia. Nemmeno le guerre puniche cui accenna sbiaditamente Giove stesso costituiranno un definitivo finito; anche il canto epico di Ennio è soggetto ad una provvisorietà11, che registra un’esperienza sia pur importante, anzi decisiva per il prosieguo del cammino storico; la plurisecolare parentesi del transeunte si chiude nel presente autoriale, è qui che comincia la ‘religione’ dell’eternità, l’eternità dell’Urbe, ma anche questa, ammonisce il poeta, va opportunamente gestita e salvaguardata da un comportamento che si garantisca l’appoggio perpetuo di un disegno provvidenziale non offeso dall’errore dell’uomo. Traspare chiara dal poema virgiliano l’ideologia della universale onnipotenza percepita nella realtà romana post-aziaca, 10 Cf. I 234-37: “Mi avevi promesso che, nel volger degli anni, sarebbe venuto un tempo in cui dal sangue rinnovato di Teucro sarebbero venuti un giorno condottieri Romani a dominare mare e terra”. 11 Forse è proprio sul terreno dei contenuti che Virgilio in un certo senso si inserisce in quella tendenza, propria dell’età di Augusto, a cogliere il tramonto dell’esperienza poetica enniana, che Properzio (III 3), Orazio (epist. I 19,7; II 1, 50 ss.), Ovidio (trist. II 423-24) sottolineano specialmente sotto il profilo delle formalità letterarie; cf., al riguardo, Giovanna Garbarino, Pater Ennius: L’epica arcaica in età augustea, in Il passato degli antichi, Atti del Convegno, Napoli, 1-2 ottobre 2001, a c. di Flaviana Ficca, Napoli 2004, pp. 203-32. La studiosa conclude: “Al volgere di un’altra generazione, l’epigrammatico giudizio di Quintiliano [I.O. X 1,88] suona […] come la constatazione e la consacrazione dell’uscita del venerabile poeta arcaico dal circolo della cultura contemporanea” (p. 232).

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ma il livello sapienziale raggiunto dal poeta lo mette in condizione di cogliere, al di là degli entusiasmi, sia pur giustificati e legittimi, al di là del contingente cioè, il gravame delle condizioni che si sono dovute accettare per completare il disegno che Enea ha con la sua missione perseguíto. Il poeta ha imparato a dispensare quegli ammonimenti che derivano dalla convinzione che la pax Augusta è un bene da tutelare con grande saggezza: in questo senso il princeps è anch’egli, come era avvenuto alle prime origini per Enea, il nuovo eroe. Ma il poema virgiliano, con il suo respiro universale, ha bisogno di uscire da quella provvisorietà con l’anticipazione del futuro contenuto nell’ ‘inno’ della grandiosità dell’Urbe dell’età pre-augustea ed augustea, l’‘inno’ cantato prima da Anchise, poi da Evandro, infine dallo scudo ‘narrante’ forgiato da Vulcano, lo scudo che, proteggendo il corpo di Enea, permetterà che le effigie su di esso istoriate diventino storia. Il destinatario di quell’inno non è Enea, che, infatti, ascolta senza reazioni e in silenzio, forse accumulando entusiasmo ma in silenzio, come sempre accade quando riceve vaticini, anche a medio termine: il suo è un ruolo operativo, non meditativo. Il destinatario è il fruitore del poema, dell’opera letteraria che si trasforma essa stessa in vaticinio per i cives Romani, perché abbiano compiuta consapevolezza di sé ripercorrendo le linee del grandioso processo di cui essi vivono la fase terminale, portatrice di stabilità ed onnipotenza. Il testo che Virgilio propone loro è la più severa ed autorevole condanna dell’incanto e del delirio che l’ingannevole Oriente aveva saputo seminare nei grandi uomini della repubblica e del nascente principato. Era già tutto “scritto”, ma Virgilio ha potuto “leggere” al suo pubblico quella scrittura dopo che tutto si è compiuto. Virgilio è il poeta che canta il suo presente proponendolo come necessità storica. Il compito di Giunone è stato quello di chiudere definitivamente i rapporti tra il mitico passato troiano e lo “storico” presente laziale, cioè di occidentalizzare l’ideologia del racconto della storia delle origini, liberandolo dalle scorie residuali di un mondo che non c’è più, che non doveva esserci più e di cui, nella fase pre-aziaca del dibattito politico ed aziaca dello scontro militare, si era corso il pericolo di una rinascita egemonica. L’avallo di Giunone alla fondazione del regno di Roma, prima, alla vittoria sull’esercito annibalico, poi, è la garanzia divina della validità del potere di Roma e l’omologazione della sua supremazia nel mondo. Nell’epos virgiliano la Iuno romana accoglie in sé l’eredità della Hera omerica, che nell’Iliade aveva avversato Paride ed i Troiani vanamente assistiti da Afrodite; l’epica augustea, inoltre, riabilita

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’Afrod…th/Venus, perché, recuperando la tradizione omerica12 ed esiodea13 che la voleva madre del capostipite Enea, protettrice di Paride e dei Troiani, le consente di riscattare, con la fondazione in territorio latino della novella Troia, la sconfitta della vecchia Ilio, così giustificando, storicamente, il crollo di quella città con la nascita di una potenza imperitura (unde … / … altae moenia Romae14). ‘Costretta’ da Giove alla redenzione, adnuit15 his Iuno et mentem laetata retorsit, / interea excedit caelo nubemque reliquit16: uscirà di scena senza battute e con una definita condizione interiore: laetata, e la sua assenza agli eventi finali lascia intendere il compimento della sua funzione e l’esaurirsi del suo ruolo di personaggio nella celebrazione di una definitiva riconciliazione con la storia. A questa ricomposizione della contesa tra dèi corrisponde, per contrarium, il duello sulla terra: il codice guerresco, ma anche il groviglio di ideali e di sentimenti insanabilmente opposti, non potevano ammettere una uguale conclusione tra gli uomini, per i quali il fato onnipotente mette in palio una pax macchiata dal sangue di uno dei due contendenti. Iuno laetata è, nell’epilogo olimpico della vicenda17, ormai personaggio di altro profilo, con un registro rinnovato rispetto a quello di sempre, che può ancora resistere nel circuito epico dell’Eneide appena il tempo di abbandonare la nube e di allontanarsi dal cielo, abbandonando quel ruolo di personaggio che si è esaurito. La centralità della figura crudele ed implacabile della dea è significativamente annunciata dalla richiesta che il poeta rivolge nell’invocatio alla Musa, di rinnovargli la memoria (poetica) delle ragioni di questa

12 Cf., e. g., Il. II 820; V 248, 312-13; XX 209 (ai vv. 307-08 il discorso di Poseidone Enosictono si conclude con la profezia che “la forza di Enea regnerà sui Troiani e i figli dei figli e le generazioni a venire”). 13 Cf. Theog. 1008-10, “Citerea dalle belle corone generò Enea, / unita all’eroe Anchise nell’amore desiderato, / sulle cime di Ida dai molti anfratti, selvoso” (trad. G. Arrighetti); cf. anche Hymn. Hom. 5,196 ss. 14 Cf. Aen. I 6-7. 15 Ricorda l’adnuit di IV 128, con cui Venere accetta la proposta di conubium per Didone avanzata dalla stessa Giunone. 16 Cf. XII 841-42; la collocazione cronologica più antica, in area latina, della mutata disposizione di Giunone verso i “Romani” è proprio quella virgiliana; Ennio la fa risalire ai tempi della 2a guerra punica (cf. Servio ad Aen. I 281); Orazio (carm. III 3, 17 ss.) all’assunzione nell’Olimpo di Romolo-Quirino. 17 L’evoluzione che porta Giunone dal sentimento di ostilità alla riconciliazione è definita da P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, p. 27, “[…] une des données capitales de la religion de l’Énéide”; cf. anche W. Kühn, Götterszenen bei Vergil, Heidelberg 1971, p. 165; V. Buchheit, Junos Wandel zum Guten. Verg. I 279-82, “Gymnasium” 81, 1974, pp. 498-503; Agathe Thornton, The Living Universe. Gods and Men in Virgil’s Aeneid, Leiden 1977, pp. 144 s., 152 ss.

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ira (Musa, mihi causas memora, I 8), egli stesso smarrito dall’enormità dell’ira dei celesti18, ed è incapace di sottrarsi al simpatetico stupore per la saevitia della dea19, che può apparire, o, forse, sottilmente ne è preliminare giudizio censorio. Virgilio da un lato traccia, già nel proemio, una linea di continuità narrativa con il testo iliadico e con il testo odisseico (anzi, con quest’ultimo stabilisce anche un indicativo parallelismo cronologico20), ma dall’altro da subito sposta sull’universo femminile le responsabilità prime della messa in moto dell’azione scenica, che nell’Iliade e nell’Odissea sono invece affidate rispettivamente ad Apollo21 e a Poseidone. L’attenzione è concentrata immediatamente sulla femminilità della regina degli dèi ancora gravemente turbata dal ricordo22 di eventi che ne castigavano la vanità di donna e l’orgoglio di moglie: il giudizio di un mortale che aveva preferito alla sua bellezza quella di un’altra dea (manet alta mente repostum / iudicium Paridis spretaeque iniuria formae, vv. 26-27); il tradimento di Giove che si era unito ad Elettra generando Dardano; l’affronto della sostituzione di Ebe, figlia avuta da Giove, con Ganimede, amasio del marito23. La rievocazione, in una sede così privilegiata come quella proemiale, di questa fem18 Tantaene animis caelestibus irae? (I 11): la stessa meraviglia coglie Giove, il repertor hominum rerumque, quando sorridendo si rivolge a Giunone ed osserva: irarum tantos volvis sub pectore fluctus (XII 831). 19 Saevae Iunonis (v. 4): l’aggettivo in qualche modo ricalca l’oÙlomšnhn di Il. I 2, ma la Stimmung è assolutamente diversa. 20 Enea compie il suo viaggio contemporaneamente al nÒstoj di Odisseo. Il poeta ne dà chiaro segnale quando fa dire ad Achemenide, personaggio da lui creato, privo di precedente vita testuale, Tertia iam lunae se cornua lumine complent / cum vitam in silvis inter deserta ferarum / lustra domosque traho vastosque ab rupe Cyclopas / prospicio […] (III 64548): son trascorsi tre mesi da quando è stato abbandonato da Ulisse e dai suoi compagni (l’episodio di Achemenide è esemplato su Apoll. Rh. II 1093 ss., in cui i figli di Frisso guidano gli Argonauti verso la Colchide). Virgilio, peraltro, allontanandosi dalla tradizione presente negli annalisti, organizzò in sette anni la durata degli errores di Enea, quanti sono gli anni delle peregrinazioni di Odisseo. Sul significato ugualmente attivo di infelix (“dannoso, nefasto”) riferito ad Ulisse, prima da Achemenide (v. 613), poi da Virgilio (v. 691), cf. C. Baschera, L’Ulisse di Achemenide (Aen. 3, 613 e 691), “BollStLat” 33, 2003, pp. 492-96. Lo studioso non condivide l’interpretazione passiva, ‘indecore’ (“quum sit Ulixes hostis Aeneae”) o ‘non indecore’ (“quoniam eadem erroribus et periculis patiebatur Aeneas”), fornita rispettivamente da Anneo Cornuto ed Emilio Aspro negli Schol. Veron. ad Aen. III 691. 21 Nell’Iliade l’ira di Achille è, in realtà, conseguenza dell’ira di Apollo, il figlio di Latona e di Zeus, offeso dai maltrattamenti da parte dell’Atride Agamennone nei confronti del sacerdote Crise, che rivendicava la liberazione di sua figlia. 22 Cf. I 4, memorem Iunonis ob iram; 23, veteris … memor Saturnia belli. 23 Il Danielino allarga la chiosa serviana a I 28, ‘remota Hebe, Iunonis filia’, introducendo la ragione sessuale: ‘ergo irascitur Iuno quod non ob hoc tantum raptus sit, ut pocula ministraret, sed quod ideo violatus sit’.

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minilità ferita, offre un’ulteriore chiave di lettura dell’epica virgiliana, alla quale sembra estendersi, in un complesso gioco trasfigurante, la mai spenta condanna dell’amore-passione che aveva travolto Coridone, Damone e Gallo; neutralizzato la vittoria del toro nella Sila; reso folle Orfeo; quella amentia che di qui a non molto avrebbe ucciso Didone. La signora dell’Olimpo, in fondo, maschera con il velo dell’eterno riscatto il lamento di Arianna (64,63 ss.), ripetuto ancora da Didone stessa (IV 586 ss.), per la quale il documentatissimo Virgilio sapeva, studiando le varie versioni provenienti dalla tradizione, della possibile associazione con le divinità femminili fra loro simili presenti nelle religioni fenicia e cartaginese24, e tra queste compare senz’altro Tanit25. L’ulteriore collegamento, poi, con l’attualità del poeta è indicato da lui stesso con gli strumenti di una allusiva intratestualità: a Didone pallida morte futura (IV 644) è associata Cleopatra pallentem morte futura (VIII 709). La regina degli dèi non si trascina mai alla rassegnazione, come succede alla mortale regina tiria, che non potrà che demandare ad altri la consumazione della vendetta; nei momenti in cui affiora la consapevolezza della inevitabilità del destino positivo di Enea, riemerge anche la forza della maestosa Saturnia26, nella quale la mortificazione della “donna” lascia spazio all’esercizio del potere divino, che a lei, sì, consente di organizzare una nemesi, ancorché dagli effetti non definitivi. È anche la presenza del fatum che sovrasta pure le divinità a svelarne, in fondo, le debolezze, che le rende a tratti creature dai contorni umani. D’altronde, divinità che entrano così serratamente in complicità con le vicende umane non possono che essere ritratte sub specie hominum, con tutte quelle caratteristiche di relatività, provocate soprattutto dai sentimenti (sono ¢nqropopaqšntej perché sono perso24 Il nome Elissa avrebbe la sua etimologia in ’el-’issa, “dio-donna” o un riferimento a ’ela, “dea” secondo A.M. Honeyman, Varia Punica, “AJPh” 68, 1947, p. 78; cf. poi M.C. Astour, Hellenosemitica. An Ethnic and Cultural Study in West Semitic Impact on Mycenaean Greece, Leyden 1967, p. 273; P. Cintas, Manuel d’archéologie punique, vol. I, Histoire et archéologie comparée. Chronologie des temps archaïques de Carthage et des villes phéniciennes de l’Ouest, Paris 1970, p. 12; Paola Bono – M. Vittoria Tessitore, Il mito di Didone. Avventure di una regina tra secoli e culture, Milano 1998, p. 10. 25 Cf. F. della Corte, La Iuno-Astarte virgiliana, in “Atti I Congr. Stud. Fenici”, vol. III, Roma 1983, pp. 651-60; Paola Bono – Vittoria Tessitore, Il mito di Didone, cit., p. 11. In Polibio VII 9 Annibale sancisce l’accordo con Filippo V di Macedonia nel 215 a.C. con un giuramento in cui tra le varie divinità evocate c’è Hera (™nant…on DiÕj kaˆ “Hraj ...): il testo riproduce, ma in traduzione, la lettera del trattato pronunciato dal Punico, per il quale ZeÚj era Baal Samem o Baal Hammon e ad “Hra corrispondeva Astarte o Tanit. 26 L.A. Mac Kay, Saturnia Iuno, “G&R” 3, 1956, pp. 59-60, rileva che il poeta dà questo epiteto alla dea soprattutto nella seconda esade, in cui ella più tenacemente difende le tradizioni della Saturnia tellus.

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LA DEA E L’EROE: L’ENEIDE, POEMA DEL DECORUM

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naggi, come in Omero27 e in Ennio), che sono proprie degli uomini28. In un nuovo contesto politico, in cui si afferma, in via definitiva, un nuovo ordine di valori che si lascia per sempre alle spalle il groviglio rovinoso delle guerre civili, e che tende, naturalmente, a cancellare la memoria dello scontro armato, della violenza militare, l’eroismo assume un volto nuovo: non è più l’eroismo guerriero dei prodi achei o l’eroismo psicologico dell’astuto Odisseo; ormai avanza la stagione della pietas, dell’ordine, della disciplina, del decorum. Dopo lo scontro tra la ‘verità’ delle armi vittoriose e la ‘falsità’ dell’amor, tra la ragione e la passione (regnorum immemores turpique cupidine captos, IV 194), si afferma la vittoria dell’uomo sulla donna, sulla sessualità della donna, che ha messo in crisi il processo della storia29. “Nel macrocosmo epico, la tensione fondamentale è tra il destino di Roma e il desiderio sessuale. Nei valori che informano i due poli della contraddizione, è tra lo stato e le esigenze private”30. La regina deum costringe, a causa del suo numen laesum31, il pius Aeneas, il vir insignis pietate, tale anche per questo, a sopportare – inconsapevole ed incolpevole – molte disavventure32. La notizia della predilezione per Cartagine33 da parte di Giunone è riportata da Virgilio come dato non personalmente acquisito, bensì come oggetto di una diceria, fertur, o, meglio, come dato raccolto dalla tradizione, dominata dal poema enniano. Il poeta augusteo sembra prendere le distanze da un culto religioso in cui una divinità della triade capitolina avrebbe in tempi molto lontani preferito a Roma e ai Romani altre città e altri popoli. Le conclusioni della vicenda eneadica avrebbero favorito la rimozione di questo atteggiamento della dea. La Iuno cui fa qui riferimento 27 È ben chiaro che sussistono delle forti differenze nella caratteriologia degli dèi tra Omero e Virgilio, nel quale le divinità, comunque, conservano una dignità che nel poeta greco spesso subisce gravi degradazioni. 28 Questa affermazione non inficia ciò che giustamente scrive A.M. Battegazzore, v. deus, in “Enc. Virg.” II, Roma 1985, p. 33, “Gli dei virgiliani, paragonati a quelli omerici, acquistano in dignitas, ma perdono in potentia”. 29 Cf. Bono – Tessitore, Il mito di Didone, cit., pp. 26-27. 30 Cf. L.S. Robinson, Monstrous Regiment. The Lady Knight in Sixteenth Century Epic, New York-London 1985, p. 13: devo il suggerimento bibliografico a Bono – Tessitore, Il mito di Didone, cit., p. 28. 31 Cf. L.L. Louisides, Il numen laesum nell’Eneide di Virgilio, “Platon” 11, 1959, pp. 63-82. 32 Sulla tecnica dell’intervento aggressivo di Giunone cf. R. Lesueur, L’Énéide de Virgile. Étude sur la composition rythmique d’une épopée, Toulouse 1975, pp. 48 ss. 33 Secondo una diceria da Virgilio riportata: quam Iuno fertur … / coluisse, I 15; Conington-Nettleship, vol. II, pp. 5-6, annotano: “The Astarte of Phoenicians is identified, in the loose way common among the ancients, with Juno”).

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il poeta non è nemmeno la Hera omerica, ma la Tanit cartaginese34. Virgilio ripropone, sulla base di una consolidata tradizione poetica35, una poligenetica, polimorfa divinità universale36, che godeva di culto in Oriente e in Occidente, alla quale il pantheon romano non poteva rinunciare, e della quale tanto meno poteva ammettere l’ostilità; anzi questa divinità avrebbe subìto proprio nel poema virgiliano un processo che l’avrebbe portata alla totale romanizzazione passando attraverso la sottomissione al volere di Giove e del destino. Il raggiungimento, da parte dei profughi troiani, della terra italica e dei lidi di Lavinio (quelli che saranno i lidi di Lavinio), il crollo del disegno egemonico di Cartagine, evento epocale della storia di Roma, la sconfitta del programma di Giunone sono frutto della volontà del fatum. Il poeta augusteo si sente continuatore della narrazione epico-storica arcaica, ma sente anche di doversi sostituire a Nevio e ad Ennio come vate delle origini. Il lettore è chiamato a rievocare la memoria poetica dei gloriosi 34 Cf. D.C. Feeney, The Gods in Epic. Poets and Critics of the Classical Tradition, Oxford 1991, p. 131. 35 Celeberrimi i due esametri enniani (240-41 Skutsch = 62-63 Vahl.2 = 263-64 Flores), Iuno Vesta Minerva Ceres Diana Venus Mars / Mercurius Iovis Neptunus Volcanus Apollo, un pezzo che farebbe pensare ad un esercizio di esibizionismo tecnico; in occasione della gravità della situazione dopo le disfatte inflitte ai Romani in Italia da Annibale nel 217, si procedette a riti propiziatori con un lectisternium di tre giorni (cf. Liv. XXII 10,9), il banchetto offerto alle dodici grandi divinità del pantheon greco-romano, ormai fortemente sedimentato nel sentimento religioso italico: cf. il comm. di D. Tomasco in Quinto Ennio. Annali (libri I.VIII), commentari a c. di E. Flores, P. Esposito, G. Jackson, D. Tomasco, vol. II, Napoli 2002, pp. 244-45. 36 L’iscrizione punico-etrusca trovata su tavoletta a Pyrgi, presso Cerveteri, risalente al 500 a.C. (cf. V.J. Georgiev, L’iscrizione etrusca della seconda laminetta di bronzo di Pyrgi, “Studi micenei ed egeo-anatolici” 9, 1967, pp. 43-46, e F. della Corte, Giunone come personaggio e come dea, “A&R” 28, 1983, p. 25), sembrerebbe collegare Uni, la versione etrusca di Iuno, con Astarte, che è un aspetto della Tanit cartaginese: cf. D.C. Feeney, The Gods in Epic, cit., p 116 e n. 93. Come attesta Livio (XXVIII 46,16), Annibale passò l’estate accanto al tempio di Giunone Lacinia (la descrizione è a XXIV 3,3 ss.), dove collocò un altare con una enorme iscrizione in caratteri cartaginesi e greci; all’indebita asportazione di una colonna d’oro da quel tempio da parte di un Annibale poi pentito a séguito dell’apparizione in sogno a lui della stessa dea, parla Cic. in de div. I 48, riferendone la fonte in Celio Antipatro. Come Annibale, così anche i Romani, nel corso delle varie fasi critiche del conflitto punico, usarono venerazione verso Giunone: cf. Liv. XXI 62,8 (si parla di un dono alla dea di quaranta libbre d’oro e di una statua di bronzo sull’Aventino); XXII 1,17-18 (si accenna a doni di argento a Giunone e di un sacrificio di vittime adulte a Giunone Sospita a Lanuvio); XXVII 37,7-15 (lo storico ricorda il dono di un piatto d’oro alla dea da parte delle matrone, la dedicazione di una cerimonia sacrificale, e l’intonazione di un carme in onore di Iuno regina); si veda, al riguardo R. Bloch, Héra, Uni, Junon en Italie centrale, “Compt. Rend. Acad. Inscr.” 1972, pp. 384-96 (cf. p. 394). Non escluderei che le varie preghiere ed i riti propiziatori in onore di Giunone consigliati dai vaticinanti ad Enea riflettano, nel testo poetico virgiliano, le cerimonie storicamente testimoniate da Livio.

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Annales, e a maggior ragione del Bellum Poenicum, e a rettificarne in parte il racconto delle origini con un nuovo racconto, capace di una memoria storica più ampia e soprattutto aggiornata all’attualità, con la quale si può finalmente dire quel che ad Ennio non era concesso, che la Roma delle origini divine, la Roma del pius Aeneas, il figlio di Venere, di cui si consacra, definitivamente37, il ruolo di progenitore della gens Iulia, sarebbe diventata non, semplicemente, padrona del Mediterraneo ma caput mundi. Giove, nel concilio degli dèi, all’inizio del l. X, vv. 12-13, farà, sì, riferimento (adveniet … tempus) alle future drammatiche ed incerte fasi della 2a guerra punica, ma soprattutto, in I 282, può vaticinare all’ansiosa figlia l’avvento dei Romani, rerum domini et gens togata38. La predizione degli sviluppi successivi è affidata ai vaticini di Anchise, che può mostrare ad Enea gli eidola dei grandi che verranno. *** Il libro III, il libro della ricerca, non è solo il libro della ricerca della rotta verso l’Italia, è anche il libro dell’inizio della ricerca della nuova dimensione spirituale e ‘politica’ di un popolo in necessaria, storica evoluzione, che comporta un percorso esistenziale, sotto certi aspetti autonomo e di consapevole assunzione di epocali responsabilità. Enea ed i suoi Troiani allargano le loro cognizioni, acquisiscono nuove ed indispensabili prospettive, che li allontanano dalle caratteristiche della loro ‘nazionalità’ originaria, alla quale abdicano39, imparano, sia pur con lenta gradualità, l’obbligo di osservare rispetto e venerazione per la Giunone italica, senza per questo rinnegare il patrimonio religioso dei loro Penati che custodiscono gelosamente e che trasportano da Troia verso la nuova sede: Feror exul in altum / cum […] penatibus et Magnis dis (III 11-12). In nome della pietas verso questi dèi Enea agisce per avviare il cammino glorioso di Roma. I “grandi dèi” dell’antica Ilio sono gli stessi dèi italici; sono, del resto, gli stessi Penati di Troia, essi per primi, a predire ad un Enea giacen37 Già Cesare, che portava un anello con l’incisione di un’immagine di Venere armata, ed usava il nome della dea in occasione delle sue più importanti e difficili campagne militari, affermava di essere parente dei re Albani attraverso Iulo (cf. Dio XLIII 43,2-3). 38 La separazione, il distanziamento di queste due verità, ed il ‘disordine cronologico’ con cui vengono date rispondono solo ad esigenze di tipo narrativo. 39 Cf. Hor. carm. III 3, 37-39, Dum longus inter saeviat Ilion / Romamque pontus, qualibet exsules / in parte regnanto beati (“Purché tra Ilio e Roma infuri largo tratto di mare, gli esuli regnino beati in qualunque parte della terra.”).

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te ed addormentato che proprio loro innalzeranno alle stelle i futuri nipoti, e a dare dominio alla città (III 158-59): la lezione sulla nuova civiltà – perché nuova è – che Enea si appresta a creare proviene all’eroe proprio dai rappresentanti del suo patrimonio religioso, che sentono il rinnovamento dentro di sé. In queste parole è depositata la grande verità: esse segnano il superamento definitivo della dimensione troiana di Enea e della sua storia, anzi suggellano la prova che Troia è sepolta per sempre, e, nel contempo, che il sacrificio della vecchia e gloriosa città è stata la condizione per la nascita della nuova città, nella quale si condensano le volontà degli stessi dèi, che dovevano essere opposte in due diverse circostanze ‘storiche’ (caduta di Ilio e nascita del nuovo regno), e che ora trovano il definitivo punto di convergenza. Quegli stessi dèi che Venere ha mostrato ad Enea, nel momento della solenne rivelazione, impegnati a distruggere Troia con fulmini e fiamme (II 610 ss.), la vogliono risorta sub alia specie. I Troiani, invasori e conquistatori, integrano il loro pantheon con la pietà religiosa delle popolazioni italiche, e così non smarriscono la loro identità di fede, chiamata, però, alla realizzazione di altri ideali. Hanno dovuto semplicemente “espiare”, come un peccato originale, le colpe che avevano provocato il risentimento degli dèi, quegli stessi dèi che ora li favoriscono nel progetto fondativo della nuova Città, nascente a séguito di un realizzato itinerario catartico. Se i Penati fossero rimasti a Troia, e fossero stati della sola Troia, insomma, se non fossero stati assorbiti nel generale processo di romanizzazione, non sarebbero stati, essi, proprio essi, al fianco di Ottaviano nella battaglia di Azio: Hinc Augustus agens Italos […] / cum […] penatibus et Magnis dis (VIII 678-79; la ripresa della clausola di III 12, tutt’altro che formulare, è molto significativa): Enea ha portato con sé quei penati e grandi dèi perché un giorno assistessero il princeps nella battaglia suprema. Il pantheon troiano è il pantheon che l’originario popolo romano-italico ha ereditato proprio da Troia. *** I continui richiami di Eleno (III 433-34), espressi con la retorica delle apparenti ipotetiche (si qua est Heleno prudentia, vati / siqua fides, animum si veris implet Apollo, e cioè si verum est ut verum est; il si liturgico col valore di quod), alla veridicità assoluta di quanto dice, e all’urgenza di rivolger preghiere a Giunone, sottolineano l’assoluta

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necessità di rispettare le sue prescrizioni40. Il vate, assolutamente sicuro della propria arte divinatoria, garantita dall’assistenza diretta di Apollo, è consapevole di dover ricorrere ad espressioni di garanzia perché conosce la scarsa fiducia che l’eroe nutre nei confronti di una dea che non appartiene (non appartiene ancora) a pieno titolo a quel gruppo di divinità exorabiles cui la sua cultura religiosa suggerisce di affidarsi. Del resto, la reazione dell’eroe a queste raccomandazioni non è di immediato assecondamento; la sua mente è presa dal pensiero di penetrare nel Lazio e di unificare Ausonia ed Epiro. Enea, infatti, andandosene dice che quando penetrerà, intraro, nel Tevere e nelle campagne vicine al Tevere (III 500), e vedrà, cernam, le mura assegnate alla sua gente, “uniremo”, unam faciemus (il passaggio dalla 1a sing. alla 1a plur. non passa inosservato), la terra Ausonia (Esperia) con l’Epiro: maneat nostros ea cura nepotes (v. 505): parla un Enea improvvisamente ispirato, e perciò in grado di citare, per effetto del ricordo, momentaneo, della profezia di Creusa, il nome del Tevere? 41; il linguaggio è quello oracolare della sposa smarrita (et terram Hesperiam venies, ubi Lydius arva / inter opima virum leni fluit agmine Thybris, II 781-82). La reazione di Enea alla predizione di Creusa è del tutto conforme a quella seguìta alle profezie che riceverà successivamente (da Celeno, da Eleno, dalla Sibilla, da Anchise, dal dio Tiberino). Il pius Aeneas né ha dimenticato né disattende i monita di Eleno (III 543-4742): […] Tum numina sancta precamur Palladis armisonae, quae prima accepit ovantis, et capita ante aras Phrygio velamur amictu, praeceptisque Heleni, dederat quae maxima, rite Iunoni Argivae iussos adolemus honores.

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40 Viviane Mellinghoff-Bourgerie, Les incertitudes de Virgile. Contributions épicuriennes à la théologie de l’Énéide, Coll. Latomus 210, Bruxelles 1990, p. 38, scrive, invece, che il suggerimento che Eleno rivolge ad Enea di far voti innanzitutto a Giunone è preceduto da espressioni “où le scepticisme touche au paradoxe”. 41 Heinze, La tecnica epica di Virgilio, trad. it., Bologna 1996, p. 143, n. 7, parla di ‘svista’. 42 “E noi preghiamo il nume / di Pallade, sonante d’armi, che per prima ci accolse festanti, / e davanti agli altari ci copriamo il capo con un velo frigio; / poi secondo i precetti da Èleno dettati come massimi, / per rito accendiamo i fuochi in onore di Giunone argiva” (trad. M. Ramous, Virgilio. Eneide, introd. di G.B. Conte, comm. di G. Baldo, Venezia 1998).

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Le parole del profeta erano state inequivocabili nella loro perentorietà: eppure i Troiani ed Enea seguono nelle preghiere rivolte agli dèi una gerarchia: innanzitutto elevano lodi di ringraziamento a Pallade, sul cui aiuto prima di tutti essi ritengono di aver potuto contare43: è questa la dea “nazionale” adorata con paramenti nazionali, Phrygio … amictu, anche se nella notte stabilita dal destino aveva partecipato con gli altri dèi alla distruzione della città; è questa la divinità che con Nettuno e Venere, come appare sullo scudo di Enea, impugna le armi al fianco di Ottaviano nella battaglia di Azio (VIII 699-700). Poi, praeceptis Heleni (altrimenti non lo avrebbero fatto), accendono i fuochi per Giunone, alla quale è aggiunto l’epiteto di ‘argiva’, che non sembra exornans; fuochi e riti non profondamente sentiti ma ugualmente osservati perché iussi. In quale circostanza Enea ed i Troiani si sono rivolti spontaneamente nella preghiera a Giunone? Non è forse vero che la dea è entrata nelle loro preghiere solo quando è stato loro imposto nei vaticini che hanno ricevuto? Quando, durante l’ultima notte di Troia, accortosi di aver smarrito Creusa, torna sui suoi passi, Enea rivede la rocca e le case di Priamo, e, già nei portici vuoti, Iunonis asylo, Fenice e lo spietato Ulisse, custodi scelti, fanno la guardia alla preda (II 760-63): è l’unico luogo in cui si parli di un tempio di Giunone a Troia, “un tempio inviolabile”, che diventa nell’orrore della vicenda “rifugio”, ¥sulon, ma non per proteggere i Troiani44. Ugualmente, ormai in territorio laziale, nella drammatica situazione di guerra totale Enea, l’eroe laomedonzio45 (VIII 18), vive una pesante inquietudine ed un grande smarrimento interiore. È ormai notte, quando il sonno avvolge le stanche creature. Gli appare con le sembianze di un vecchio il dio Tiberino emerso dalle acque del fiume tra le fronde di pioppo. Lo rincuora (ne absiste), gli dice che 43 In V 704-05 Naute, vecchio compagno di Enea, è indicato come l’unico ammaestrato da Pallade Tritonia e divenuto insigne multa arte. 44 Donato chiosa: “quod posuit […] ‘Iunonis asylo’, sic accipere possumus, ut inimica Iuno laetaretur ante oculos suos esse proposita quae Graecorum victoriam testarentur”. 45 Il Paratore, Virgilio. Eneide, ll. VII-VIII, vol. IV, Milano 1981, p. 147, osserva che la forma Laomedontius, a differenza della forma Laomedonteus nella quale permane un senso di biasimo, conserva l’orgoglio gentilizio. Essendo Enea discendente di Assaraco (I 284), e non di Laomedonte, è forse ragionevole pensare che, in questo caso, l’evocazione di Priamo, lui, sì, figlio di Laomedonte, si spieghi col fatto che ora Enea, per la prima volta, si trova in una situazione parallela, e, nello stesso tempo, opposta a quella nella quale si era trovato il re Priamo, quella di dover affrontare e gestire una guerra, ma stavolta il Troiano svolge il ruolo di invasore. Laomedontiades sono definiti i Troiani a III 248, votati alla frode e alla violenza, perché il padre di Priamo per ben due volte non aveva corrisposto il compenso pattuito per servigi ricevuti, prima ad Apollo e Poseidone, poi ad Eracle.

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troverà la alba sus46, della quale gli aveva già parlato Eleno; lo avverte che il suo è un vaticinio sicuro (haud incerta cano47, v. 49): prima di svelarsi il dio ricorda al natus dea di rivolgere preghiere a Giunone e di placarne l’ira e le minacce con suppliche ed offerte (vv. 59-61. Anche qui (supplicibus supera votis, v. 61) un forte richiamo alla raccomandazione di Eleno (supplicibus supera donis, III 439), quasi lo stesso emistichio!48: la ripresa potrebbe essere un segnale lanciato dal poeta per consentire il collegamento tra i due luoghi, che, allora, non rappresenterebbero la prova di una svista dell’autore, ma, anzi, di un voluto richiamo, con lo scopo di leggere nella profezia di Tiberino una rincuorante conferma. Al risveglio Enea, trovata la scrofa bianca (vv. 84-85), sacrifica a Giunone: quam pius Aeneas tibi enim, tibi, maxima Iuno, mactat sacra ferens et cum grege sistit ad aram.

La consumazione del sacrificio, che nel rituale tradizionale italico veniva compiuto in tutte le calende dalla regina sacrorum49, e che qui si ripete (cf. III 546-47) in un sommesso avvio della nuova esperienza di vita e di storia, non ha di per sé nessun trasporto religiosamente emotivo, privo di una diretta apostrofe dell’eroe alla dea; sembra un procedimento meccanico rispondente più alle raccomandazioni del vaticinante che non ad un atto di profondo e sentito ossequio verso la divinità50. Virgilio interviene con la sua pietas e si rivolge, lui e 46 L’incidente per cui i profughi mangiano le tavole ed il ritrovamento della scrofa bianca, scrive C. Bailey, Religion in Virgil, Oxford 1935, p. 13, “have all the marks of the primitive omen”. È stata riconosciuta, in questa predizione di Tiberino, un’aporia in quanto la profezia relativa al ritrovamento della scrofa bianca e dei trenta porcellini nel III libro è attribuita ad Eleno (cf. supra), ma, forse, le parole di Tiberino potrebbero essere interpretate come una conferma di quanto già detto da Eleno, e, anzi, un ampliamento della profezia stessa, che, ora, si arricchisce di particolari prima assenti: i trenta porcellini, aggiunge il dio Tiberino, sono il simbolo dei trent’anni che passeranno prima che Iulo fondi la città di Alba; rinvio, comunque, per una discussione dettagliata del problema a G. D’Anna, Ancora sul problema della composizione dell’Eneide, Roma 1963, cit., pp. 60-66. 47 Cf. Prop. IV 1,75, certa feram: l’indovino Horos presenta al poeta le sue credenziali; il testo dell’elegiaco fa meglio apprezzare la funzione persuasiva della litote nel luogo dell’Eneide. Virgilio collega le parole di questo vate alle parole del vate Eleno nel l. III, vv. 389-93 (VIII 43-45 = III 390-92). 48 È noto il valore di senso che spesso assume la ripetizione lessicale in Virgilio. 49 Cf. Dumézil, La religione romana arcaica, trad. it., Milano 1977 (Paris 19742), p. 163. 50 Viviane Mellinghoff-Bourgerie, Les incertitudes de Virgile, cit., p. 119, osserva: “[...] Il semble que, dans certaines situations, Virgile ait voulu, de parti-pris, montrer son héros insensible au merveilleux, comme s’il y avait là une interprétation trop simple de la réalité”.

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non Enea, direttamente alla dea, maxima Iuno, compensando con la sua devozione il distacco dell’atto liturgico compiuto sulla scena dal Troiano indotto da suggerimenti estranei, privo di slanci personali e non accompagnato da rituali preces. L’estrema asciuttezza del testo fa avvertire l’assenza di quelle reazioni che il prodigio avrebbe meritato ed il cerimoniale avrebbe preteso. Il rispetto di Enea verso la divinità è ancora avvolto dalla formalità, è ben distante dal trasporto accorato col quale invocherà la Saturnia coniunx a XII 178-79 nell’imminenza del duello supremo. La sensibilità religiosa spinge il poeta ad inserirsi nel circuito narrativo interrompendone la impersonale oggettività, e a rivelarsi partecipe di quell’atto di omaggio reso alla dea sovrana, verso la quale l’uomo dell’età augustea nutre devozione maggiore rispetto a quella manifestata dal pius Aeneas sacrificante. Virgilio vuole richiamare l’attenzione della dea sulla eccezionalità del gesto liturgico compiuto da Enea: tibi … tibi (“a te, sì, a te”). È un messaggio di incondizionata sottomissione agli dèi, ai quali, anche quando mostrino avversità, si deve rispetto. Qui Virgilio veramente travalica il suo tempo: in lui rimane la coscienza del mistero che avvolge un destino avverso rendendolo incomprensibile, ma su queste incertezze prevalgono le ragioni incrollabili della fede che sanno vedere oltre il presente. La Giunone crudele e spietata esce dai contorni ristretti del personaggio che agisce sulla scena per essere solo aerea entità divina, maxima Iuno, che impone al grande eroe ma pur sempre semplice mortale di mettersi alla prova, di saggiare la sua “fede” in un atto estremo, l’omaggio alla divinità in assoluto, anche se questa non appartiene al suo pantheon. La pietas di Enea consiste anche nella rinuncia a capire le ragioni di un’avversione divina, anzi nell’ammissione di una incapacità di capire, in un divieto di giudicare, in una silente volontà mai esaurita di sperare in un mutamento del segno negativo. Nel l. XI, vv. 108 ss., nel discorso che tiene agli ambasciatori della città latina venuti a chiedere la tregua, Enea affermerà che è stato il re a tradire; egli avrebbe voluto concedere pace ai vivi e ai morti. Solo al lettore sono dal poeta rivelate l’innocenza di Latino e la colpevolezza di Giunone che ha fomentato la guerra. Enea era stato, sì, vagamente informato nei vaticini ricevuti della ostilità della dea, ma si tratta di acquisizioni accantonate, scavalcate, come cancellate: lo dimostra la sistematica assenza di ogni forma, sia pur sommessa, di addebito a lei delle ingiustizie subìte. La fermezza con la quale persegue il compimento della sua missione lo pone al di sopra di qualunque impedimento, e per questo il lettore accorda

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LA DEA E L’EROE: L’ENEIDE, POEMA DEL DECORUM

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considerazione e deferenza ad un personaggio che ha consegnato, con tutta la sua convinzione, l’esistenza al volere superiore.

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*** Nel concilio degli dèi del l. X alle parole rassegnate del discorso di Venere subentrano immediate quelle veementi51 di una Giunone acta furore gravi (vv. 63-95). È un discorso senza apostrofi; diversamente da Venere che chiama continuamente in causa la rivale ma parlando al padre, Giunone affronta la sua antagonista direttamente col du-Stil; ancora una volta esso si apre con un tuffo immediato in medias res. La forza persuasiva della ÍÁsij poggia su espedienti retorici codificati nei trattati: dalla remotio criminis52 alla relatio criminis53 (¢ntšgklhma, “controaccusa”, è il termine usato da Ermogene54). Il gravis furor che anima la ÍÁsij di Giunone è traducibile nello stupore del poeta che si interroga sulle ingiustizie della vita, sulle iniquità che sono alla base della formazione di un grande impero. Qui il riferimento all’attualità doveva essere colto da Augusto, che riconosceva nelle parole della regina degli dèi la coscienza del dissenso nei confronti di un potere materializzato e nutrito del sangue di innocenti: non si dimentichi che il princeps nelle Res Gestae, come si è già detto, si sentiva chiamato ad una giustificazione del suo operato. Il discorso, dal punto di vista della coerenza narrativa, in parte è incongruente con la realtà testuale, ma, dal punto di vista del poeta, in parte è anche riabilitativo della regina dell’Olimpo. La dea chiede, tra l’altro, perché Venere la costringa a rompere un profondo silenzio e ad esprimere apertamente il suo segreto dolore: alta silentia … / rumpere; l’espressione prepara l’esplosione dei pensieri che di qui a poco la dea pronuncerà con la forza di un vulcano: rumpere silentia è iunctura inaugurata da Lucrezio, taciturna silentia rumpi di IV 583, e ripresa già da Hor. ep. 5,85, ma la presenza del part. agg. obductum ed il doppio riferimento di alta, grammaticale a silentia, logico a dolorem, così come doppio è il riferimento di obductum stesso, mostrano una accuratezza formale tesa ad

51 Situazione, stato d’animo e tono espressivo sono quelli della ‘veneranda sposa di Zeus’ a Il. XXI 481 ss. 52 Cf. Rhet. ad Her. 1,24; Cic. de inv. 1,11,15; 2,71,86; i Greci, come avverte Quintiliano a VII 4,14 (ma cf. dal § 13), la chiamano met£stasij. 53 O translatio, come dice Quintiliano, ibid. 54 Stas. 6,45 pp. 72-73 Rabe. La dicitura greca è citata da Quint. VII 4,8-9.

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VIRGILIO

arricchire la funzione letteraria del nesso preesistente55: il verbo ha una notevole forza espressiva legata al linguaggio militare ed evoca la potenza eruttiva dei vulcani (cf. OLD, s.v. 4 e 5). Il poeta sottopone al destinatario una duplice possibile lettura degli avvenimenti ripresi da due opposti punti di vista. La dea ha rappresentato il simbolo dell’insidia che penetra in tutti i processi storici, che anzi traggono spesso giovamento da essa per rettificare situazioni e decontaminarsi da elementi spuri in un itinerario di purificazione. “Without her [Iuno], after all, there would not have been a Rome, but only another Troy”56. La verità è che tutte le contraddizioni della storia, il cui significato sfugge ad ogni razionalità, e ad ogni potenza umana e divina (così Virgilio ha svincolato anche l’Olimpo da ogni primigenia responsabilità sugli accadimenti), si ricongiungono e si sciolgono nel volere del fato. Nessuno può sapere perché le cose vanno in un certo modo, nemmeno il re degli dèi sa dare, si pone il problema di dare una spiegazione che rimuova il dubbio e risponda in modo soddisfacente alla domanda: perché il male nella storia? Virgilio, e, dopo di lui, Seneca non trovano (come non le aveva trovate la schiera dei pensatori dell’ “antico” stoicismo) concrete risposte alle sollecitazioni che urgono dentro di loro, e non riescono a concretizzare nel pensiero e nelle parole una filosofia della storia. Le parole di Giove, piuttosto, giustificano, anzi autorizzano il prossimo comportamento cruento di Enea, che dal volere divino viene dispensato da quell’atteggiamento di pietas verso gli uomini che ha finora osservato, incompatibile con l’assetto della vicenda. E in questo nuovo habitus il figlio di Venere si congederà: furiis57 accensus et ira / terribilis (XII 946-47) e fervidus, “senza pietà”58, affonda il ferro nel petto di Turno. Quando ormai è imminente il duello finale, sul quale le parti in conflitto hanno convenuto, Enea effonde una intensa preghiera, al Sole e alla Terra, al padre onnipotente e alla Saturnia coniunx, all’inclito Marte, alle fonti e ai fiumi e a tutte le divinità del cielo e del 55 L’espressione r. s. avrebbe avuto una discreta fortuna: cf., ad es., Ov. met. I 208; XI 598; Curt. IX 2,30; Val. Fl. III 509; Apul. met. X 3; e le varianti con taciturnitas (Tac. ann. I 74,4); con morae (Verg. Aen. IV 569; IX 13; Ov. met. XV 583; Sen. Med. 54: Plin. il Giov. ep. V 10 (11),2; Val. Fl. IV 627). 56 Cf. D.C. Feeney, The Gods in Epic, cit., p. 151. 57 Cf. furit a X 545 e furens a X 604, sempre riferiti ad Enea, che si ricollegano a furor iraque mentem / praecipitat di II 316-17, in un assai diverso contesto. 58 Così rende, a mio avviso penetrando sino in fondo la verità del termine, Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1967.

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LA DEA E L’EROE: L’ENEIDE, POEMA DEL DECORUM

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mare. L’eroe auspica che Giunone finalmente sia melior (iam melior, iam, diva, precor: la ripetizione di iam indica che per troppo tempo è stata ostile, v. 179); mostra di essere a conoscenza dell’avversità finora consumata a suo danno, ma confida in un cambiamento di orientamento. Iuno […] mentem retorsit (v. 841): questa laconica espressione, inseguita per tutto il poema, segna la conclusione della vicenda per l’integrazione della dea nel preordinato ambito ‘storico’. Il personaggio ha esaurito quell’energia che lo teneva in vita. L’ultimo intervento di Venere, conforme al suo personaggio di dea-madre, consiste nello sradicamento dell’asta di Enea che, conficcata nella profonda radice dal falso auriga Metisco, l’eroe non era riuscito ad estrarre, vv. 786-87: la dea esce di scena con indignatio (indignata, v. 78659), con un’azione concreta e risolutiva, che le ridona tutta l’austerità e la superbia che convengono alla madre del conquistatore. Col ritiro di Giunone non ci saranno più margini di azione per lei, e, perciò, anche per lei si esaurisce il ruolo di personaggio. Giunone ha avuto, all’interno dello schema narrativo dell’Eneide, una funzione finché è stata impegnata a combattere contro i Troiani, ad ostacolarli, a lottare, insomma, contro il destino per esaurirsi e dissolversi, ma, nello stesso tempo, ha tenuto in piedi una trama, che, senza il suo operato, non avrebbe avuto la sua vita. Ma anche Giunone ha ottenuto la sua vittoria, che Troia scomparisse per sempre senza lasciare tracce negative della sua storia, di cui la dea ha tenacemente ricordato le peccaminose manifestazioni che la riguardavano. Troia lascia il posto a Roma, di cui la regina delle dee ora tesse le lodi: Sit Latium, sint Albani per saecula reges, / sit Romana potens Itala virtute propago; occidit, occideritque sinas cum nomine Troia (vv. 826-28). Senza dubbio Virgilio, cui premeva chiudere il poema con una ricomposizione dello scontro tra la regina dell’Olimpo e la nascente potenza romana, ha rielaborato al meglio il motivo della ostilità di Giunone, elevandolo a tema costitutivo del suo poema, che di esso si è nutrito per la sua espansione ed il suo stesso sviluppo. La dea non ha potuto fermare l’avanzata e l’arrivo dei profughi nel Lazio, ma ha preteso ed ottenuto la loro occidentalizzazione. L’epilogo della vicenda ha sancito la scissione netta del profilo politico dell’azione di Giunone dal profilo religioso. La Giunone laetata che si allontana è la dea che accetta l’affermazione mondiale della potenza romana; è, 59

Ugualmente indignata, come ho già segnalato, è la vita di Turno che con un gemito fugge tra le ombre (v. 952).

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VIRGILIO

dunque, una dea già post-enniana, o, se si vuole, una dea che è già oltre il ruolo protettivo verso la potenza punica, che – come aveva sentito dire – sarebbe stata travolta dal volere delle Parche (cf. I 22). Le parole con le quali Giove ammetteva che ci sarebbe stato un tempo in cui Giunone sarebbe tornata in campo per uno scontro questa volta più incerto (X 11 ss.), si spiegano col tentativo, naufragato, da parte sua di evitare la guerra laurentina, e con l’intento di spostare su altri scenari l’offerta alla sorella-sposa di una chance di rivincita. L’onnipotente trasferisce la ripresa delle ostilità su altro piano temporale, apparentemente estraneo al contesto eneadico, quando il nemico cartaginese varcherà le Alpi, portando magnum exitium; ma l’Eneide non è solo il canto della vittoria di Enea col consenso di Giunone, ma anche la glorificazione della Roma augustea (che presuppone la sconfitta del Punico), che è implicita palinodia del secondo consenso accordato da Giunone, come aveva cantato il vecchio Ennio60. Ma credo che Virgilio, nella sua visione storica, intenda scavalcare il suo predecessore. Per il Giove virgiliano rientra nei voleri del fato la nascita del nuovo regno, ma a quel fato sfugge, nella trasfigurazione letteraria, la certezza della sopravvivenza di Roma nello scontro epocale con la potenza cartaginese, dove la vittoria dei Romani sarà il frutto di uno sforzo soprattutto umano; la vittoria romana sulle truppe annibaliche, e i successivi gloriosi successi delle legioni romane devono uscire dai contorni di una trasfigurazione poetica, nella quale può trovare spazio solo la leggenda. Giove indica il trapasso dal mito alla storia, dal determinismo epico alla storicizzazione degli eventi. Virgilio, superando la posizione enniana che ammetteva ancora un placet divino al glorioso esito della guerra annibalica, pone la storia di Roma al di fuori di qualsiasi implicazione mitologica ed olimpica. Nell’Eneide ha voluto dimostrare che la pur positiva interferenza degli dèi nella vicenda umana non risparmia agli uomini, che risulteranno vincenti, debolezze, frustrazioni, sofferenze, dolori, lutti; Virgilio ha lasciato alle sue creature la responsabilità delle loro azioni e delle loro opzioni, e, nello stesso tempo, ha conservato accanto ad essa la congruità delle interferenze divine, che con gli uomini a vario titolo hanno collaborato nella realizzazione del destino. L’autonomia dell’azione vincente di Enea, la sua ¢riste…a, non è minata dal privilegio divino che ne garantisse il successo. Virgilio ha voluto cantare, dunque, l’origine divina del regno di Augusto, ma ha anche 60

Cf. lo scolio serviano ad Aen. I 281, qui citato a n. 3.

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LA DEA E L’EROE: L’ENEIDE, POEMA DEL DECORUM

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offerto indicazioni per una lettura umanistica della successiva storia di Roma. Lo sviluppo del poema costituisce esso stesso una forma di espiazione per i Troiani – lo ripeto – che dovevano purificarsi di antiche colpe. Enea impara la Romanitas, come dice il Robinson61. Gli sconvolgimenti prodotti dalla fase finale della guerra hanno cambiato uomini e dèi; abbiamo assistito a mutamenti paragonabili a quelli già riscontrati nel corso del soggiorno libico del IV libro che, per buona parte, si può definire il libro dell’oblio; ma stavolta non si tratta di mutamenti temporanei bensì di definitive rimodulazioni. La Venere che accetta l’eliminazione di Enea a patto che si salvi Ascanio mostra tutta la sua affettuosa premura di nonna sensibilizzata dalla sopravvivenza del più giovane; Giunone che si piega, finalmente, al volere di Giove e del fato, è già in un’altra dimensione; Giove così pronto nelle decisioni è altro dal re degli dèi che ha sempre mostrato distacco per la vicenda; Enea ha assunto connotati che rendono irriconoscibile l’icona della pietas dell’eroe, che abbiamo seguito nel viaggio e nella sua funzione di guida di un popolo naufrago ed ora conquistatore; il suo è un ritorno al ruolo svolto in ambito iliadico, che il poeta ammette purché provvisorio. V. Di Benedetto62 ha acutamente visto nell’esortazione finale del re dei Rutuli a mettere da parte l’odio un riferimento agli odia per antonomasia dell’Eneide, quelli di Giunone, che li riversava proprio su Enea. Lo studioso, notando inoltre che ulterius compare nel poema ancora solo nell’espressione finale di Giove che impone a Giunone di non nutrire altro odio e di por fine alla sua inutile azione per volgere a sua favore le sorti del conflitto, ulterius temptare veto (XII 806), osserva il sottile collegamento tra Turno e Giove accomunati dalla stessa esortazione. La sua conclusione è che “nella parte finale del poema Virgilio voleva collegare Turno all’ideologia di base del poema e al progetto politico che ad essa si rapportava”, e quindi che “[…] Turno si legittima come compartecipante, insieme con Enea, al disegno di un ordine politico nuovo” (pp. 163-64). L’estensione di questa opzione di Turno alla attualità storica del poeta, allo scontro cioè che aveva visti impegnati Antonio ed Ottaviano, incoraggia a pensare – a mio avviso – che Virgilio (e, forse, buona parte dell’opinione pubblica ro61

Cf. Monstrous Regiment, cit., pp. 22 s. Cf. Pathos e ideologia nel finale dell’Eneide, “RFIC” 124, 1996, pp. 149-75 (cf. pp. 162 ss.). 62

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VIRGILIO

mana) si fosse augurata una conclusione incruenta, almeno per i due generali in campo e per molti soldati romani, in nome di un ideale di ritrovata unità ‘nazionale’ contro la vera nemica della patria, Cleopatra, e che, quindi, Virgilio avesse scongiurato, almeno nella logica della sede letteraria, sia pur a-posteriori, quest’altra guerra fratricida, un evento che di per sé lo aveva sempre particolarmente angustiato (en quo Discordia cives / produxit miseros, buc. 1,71-72), e continuava a farlo ora, quando si pensi che l’espressione è ripetuta, con qualche variante, a XII 583, Exoritur trepidos inter discordia cives, ed è notevole che i cives in questo caso siano i sudditi di Latino, che il poeta non sente come stranieri. E ancora con rammarico Enea ordina ai suoi di appiccare il fuoco sui miseri cives a XI 119; con i dovuti distinguo rientra in questo catalogo l’occorrenza di XI 360 in cui con subdole intenzioni, ma travestite in autentiche e sincere, Drance rimprovera Turno di essere la causa dei pericoli cui sono esposti i miseri cives. Miseri cives: è da questo stesso punto di vista che personaggi delle due opposte parti guardano alla sorte sciagurata di un popolo destinato a convivere e a confondersi in una nuova gens. Lo stesso Enea testatur […] deos […] se ad proelia cogi (XII 581). In Dione L 26,3 si legge, nel ricostruito discorso tenuto da Ottaviano ai suoi soldati, l’insistenza a non considerare Antonio nemico del popolo romano: “Non gli ho fatto guerra soprattutto perché pensavo che non dovevano essere trattati alla stessa maniera Cleopatra e Antonio63. Quella donna è certamente una nostra nemica […]; Antonio invece è un nostro concittadino.”64. Enea avrebbe anche risparmiato Turno, come avrebbe probabilmente fatto Ottaviano con Antonio, ma il re dei Rutuli in fondo si era già dato la morte da solo indossando il balteo di Pallante, come se la sarebbe data Antonio preferendo diventare “un qualsiasi suonatore di cembalo di Canobo” (Dio L 27,2). Giunone, come ho già detto, ha rappresentato per i Romani il simbolo degli ostacoli che ogni processo storico comporta. Ella ha in molte occasioni avversato la stirpe di Enea, ha seminato prove ardue col superamento delle quali essi hanno fortificato la loro dimensione esistenziale e morale, e soprattutto si sono costruiti, dopo la disfatta di Ilio e l’amara esperienza di profughi, la coscienza del grande popolo

63 Ma non v’è dubbio che nella lotta tra i due il contrasto religioso divenne decisivo: cf. al riguardo M.A. Levi, Augusto e il suo tempo, Milano 1994, pp. 395 ss. 64 Trad. G. Norcio, Cassio Dione. Storia romana (libri XLVIII-LI), vol. IV, Milano 1996.

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LA DEA E L’EROE: L’ENEIDE, POEMA DEL DECORUM

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glorioso e vincitore, cancellando il ricordo di un popolo assediato, sconfitto ed esule. Il culto di Giunone era vivissimo presso Latini ed Etruschi, mentre per i Romani ella ha sempre costituito motivo di apprensione. Ancora in tarda età augustea Ovidio, dopo aver in met. XIV 592-93 ripercorso l’itinerario letterario enniano e virgiliano della riconciliazione della dea, che il Sulmonese rievoca cantando il consenso della dea all’elevazione di Enea a dio indigete65, ai vv. 781-82 torna sull’antiromanità di Giunone che aiuta i Sabini a far strage dei nemici, aprendo le porte66 che Romolo, il figlio di Ilia, aveva provveduto a tener ben serrate: i Sabini erano colpevoli di aver reiterato il reato di Paride. L’episodio stesso, narrato da Livio a XXX 20,6, del massacro di molti soldati di stirpe italica avvenuto nel tempio di Giunone Lacinia, fino a quel giorno inviolato, perché si erano rifiutati di seguire Annibale in Africa, assume un significato importante sull’impatto che poteva avere sul pubblico dei lettori un tale messaggio di una Giunone avversa perché sempre attenta al rispetto del codice etico, un messaggio evidentemente ancora proponibile perché rivolto ad un destinatario aperto alla sua ricettività. Per quanto i critici abbiano condannato la supposta stravaganza di Silio Italico che nei suoi Punica, al tramonto del I sec. d.C., ripropone la massiccia ingerenza degli dèi negli eventi storici, sono d’accordo con il Feeney67 nel prendere le distanze da questa posizione, almeno nella sua perentorietà. Anzi, credo che il poeta epico di età flavia, raccogliendo l’eredità virgiliana, fornisca la chiave di lettura del ruolo della dea così come è stato concepito in ambito letterario, e, dunque, non solo virgiliano: l’intervento di Giunone è regolato da automatismi che scattano ogni qual volta Roma ha attraversato un periodo di declino ed ha avuto bisogno di una forza capace di ridestare l’orgoglio della sana Romanitas mortificata dal crollo dei ‘valori’. Vorrei aggiungere che, se Virgilio aveva vissuto un’epoca nella quale, almeno nei suoi auspici, la funzione educatrice di Giunone poteva essere assolta, nonostante tutte le difficoltà oggettive di correggere una ormai radicata deviazione dei costumi, soprattutto grazie alla politica augustea, 65

Coniunx regia […] / […] placato […] adnuit ore: l’allusione al testo virgiliano è garantita anche dalla ripresa lessicale. 66 Cf. anche fast. I 265-66: Et iam [Tatius] contigerat portam, Saturnia cuius / dempserat oppositas invidiosa seras, luogo ispirato da Verg. Aen. VII 620-22, tum regina deum caelo delapsa morantis / impulit ipsa manu portas, et cardine verso / Belli ferratos rumpit Saturnia postis. 67 Cf. D.C. Feeney, The Gods in Epic, cit., p. 302 e n. 203.

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VIRGILIO

i tempi in cui vive Silio sono assai diversi, e quella Iuno che in Aen. XII 841 si allontana l a e t a t a dalle assicurazioni di Giove sulla decontaminazione di scostumatezze residuali dei profughi troiani, che avrebbe comportato innanzitutto supremo honos68 per lei, la Iuno siliana superas […] sedes t u r b a t a revisit (XVII 604), confidando nella profezia di Autonoe, la sacerdotessa di Cuma, che predice al giovane Scipione la ripresa della guerra per gli accordi intercorsi tra Annibale e Filippo di Macedonia, ma, soprattutto, predice il futuro di guerre che insanguineranno l’Italia sino allo scontro tra Cesare e Pompeo. Un evento ricordato già da Virgilio (VI 826 ss.); il poeta augusteo, però, lo colora di un trionfalismo romano incapace di accendere l’animo di quel poeta che, negli ultimi anni della sua vita, scriveva un poema epico sotto l’imperatore Tito, e che aveva le sue ragioni per rimanere scosso dalle parole minacciose di Annibale protetto di Giunone e forse da lui avvertite come maledettamente attuali, o come una sfida eternamente incombente (XVII 613-15): “[…] resident hostes mihi satque superque, ut me Dardaniae matres atque Itala tellus dum vivam, exspectent nec pacem pectore norint.”

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Proprio della privazione di questo honos si era lamentata Giunone a I 49.

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PERCORSI POETICI DEL PAESAGGIO NELL’ENEIDE

Con la maturazione umana ed artistica Virgilio affina il senso della realtà, e sviluppa un’osservazione sempre più attenta e allargata dell’ambiente. L’ambiente è il movente della descrizione, descrizione di ‘paesaggio’, che abbraccia una molteplicità di circostanze figurative, per lo più naturalistiche, da cui un autore mostra di essere attratto, anche per pochi dettagli1 rapidamente proposti, reali o trasfigurati, nel momento in cui le ragioni diegetiche esigano il corredo delle coordinate spazio-temporali, con l’indicazione del ‘dove’ e del ‘quando’. Lo svolgimento prevalentemente esterno dell’azione moltiplica nell’epos le occasioni paesaggistiche: nel potenziale espressivo dello statuto narrativo del testo epico si inserisce una retorica del paesaggio. Nell’Eneide, anzi, talora quelle occasioni hanno funzione di senso aggiuntivo e integrativo, ben al di qua del futuro virtuosismo descrittivo ovidiano. I cento ambasciatori inviati a chiedere la pace, non appena il giorno rischiara di luce le terre, giunti presso le mura della città di Latino, scorgono torri ed alte case, fanciulli nel fiore degli anni esercitarsi con cavalli archi lance, gareggiare nella corsa (VII 160-65): l’elemento ambientale, nel quale è perfettamente inscritto quello umano, traccia un breve quadretto di vita pacifica di un popolo desto, orgoglioso e potente: turris ac tecta Latinorum / ardua2 (il rejet, l’agg. ed il verso iper1

A III 220-21, ad es., lo sguardo di Enea e dei compagni, giunti nel porto delle Strofadi, cade innanzitutto su un piccolo paesaggio, disegnato da floridi armenti di buoi tra i campi ed un gregge di capre tra l’erba; a V 287-89, dopo la regata, Enea raggiunge una valle erbosa, cinta da tutti i lati dal bosco; a VIII 597-99, Tarconte ed i Tirreni tenevano il campo non lontano da un ampio bosco che nigra abiete abbracciava la vallata. 2 Per il testo latino seguo l’ed. paraviana di M. Geymonat, Torino 1973 [cf. ora P. Vergili Maronis Opera, edita anno MCMLXXIII iterum recensuit M. Geymonat, Roma 2008].

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VIRGILIO

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metro marcano questo aspetto) riverberano, agli occhi degli ambasciatori, l’imponenza di un popolo. Con pochi tratti d’un micropaesaggio urbano3 soggettivizzato (cernebant4) Virgilio da una parte ha lanciato un segnale forte sulle difficoltà che i Troiani avrebbero incontrato sul territorio del Lazio, dall’altra ha esaltato la sede destinata a diventare il centro primigenio del futuro impero mondiale5. Una strategia denotativa parallela è nella prima presentazione della nascente città di Didone, dove il colle (plurimus) sovrasta la città e dall’alto (desuper) domina le rocche, i Tirii s’affannano nella costruzione con tanto ardore da pareggiare l’operosità delle api (I 419 ss.): è la città dalla quale un giorno exorietur aliquis ultor. Topograf…a6, topoqes…a e Íopograf…a nella loro rigida e cano3 Seguirà subito dopo, per marcare ulteriormente il segnale, la presentazione minuziosa del palazzo di Pico (augustum, ingens centum sublime columnis, v. 170), descritto da Virgilio come un tempio (tali intus templo divom, del resto si legge a v. 192), anticipazione del tempio Capitolino di Giove, l’uno e l’altro fulcro della religione di Stato: è questa l’interpretazione, acuta e degna di attenzione, di V.J. Rosivach, Latinus’ Genealogy and the Palace of Picus (Aeneid 7.45-9, 170-91), “CQ” 30, 1980, pp. 140-52 (cf. p. 149). Ebbene, paesaggistica può anche essere la descrizione di questo “interno”, gestita con analoghi parametri espressivi ed analoghe intenzioni artistiche. È sorprendente la corrispondenza, nei modi e nei tempi narrativi (i particolari sono distribuiti in vari momenti) tra la raffigurazione ambientale del mondo ultraterreno nel l. VI e questa descrizione del palazzo di Pico, o della reggia di Didone nei libri I e IV. Un altro piccolo ma denso paesaggio urbano Virgilio rappresenta a V 755-61, illustrando i contorni della città che Enea assegna ad Aceste. 4 Virgilio eredita questa particolarità da Apollonio Rodio: cf., ad es., III 158-66: ad Eros, lungo la vorticosa discesa dall’Olimpo, ga‹a feršsbioj ... / fa…neto. 5 È stato H.-D. Reeker, Die Landschaft in der Aeneis, Diss. Hildesheim 1971, pp. 125-27, lo studioso più attento a mettere in risalto come Virgilio tenesse in gran conto, al di là di ogni letterarietà, l’aspetto storico-nazionale, ma si veda anche F. della Corte, La mappa dell’Eneide, Firenze 19852 [cf. ora anche F. Witek, Vergils Landschaften. Versuch einer Typologie literarischer Landschaft, Zürich-New York 2006, in cui lo studioso fonde la nozione di patria con quella di paesaggio: Heimatlandschaft; cf. anche la mia rec. in “BollStLat” 37, 2007, pp. 717-19]. 6 Interessante, ed utile per diversi fini, l’articolo di Dolores Peduto, Analisi sintagmatica degli elementi etno-toponomastici in Virgilio, “Aion” 13, 1991, pp. 99-106, in cui la studiosa accenna al lavoro di inventario, da lei portato avanti, dei lemmi etno-toponomastici anche delle opere virgiliane, con rilievo dei vari tipi di struttura sintagmatica che accompagnano la citazione dei luoghi e dei popoli. A III 551-58, ad es., Virgilio cita varie località ed insiste sull’immagine dei marosi che si infrangono sugli scogli; ai vv. 688-708 elenca rapidamente una serie fitta di località della Sicilia, avvistate da Enea durante la navigazione accelerata dal vento di nord: su questo catalogo cf. F. della Corte, La mappa dell’Eneide, cit., pp. 76-77; su questo primo viaggio della flotta di Enea in Sicilia e sul secondo narrato nel V libro cf. G. Monaco, La Sicilia nell’Eneide, in Atti del Convegmo mondiale scientifico di studi su Virgilio, Mantova-Roma-Napoli 19-24 settembre 1981, vol. II, Milano 1984, pp. 274-82. A VII 623 ss. è elencata una serie di città dell’Ausonia ormai infiammata dal conflitto, sulle quali cf. W. Warde Fowler, Virgil’s Gathering of the Clans, Oxford 1916, p. 41, e B. Rehm, Das geografische Bild des alten Italiens in Vergils Aeneis, Leipzig 1932, pp. 24 ss. Talvolta si tratta di secche citazioni accompagnate da isolate annotazioni: VIII

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PERCORSI POETICI DEL PAESAGGIO NELL’ENEIDE

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nica osservanza sono le opportunità istituzionali per l’immissione nel testo della nota paesistica7. Ma esistono spaccati, finora sotto questo aspetto sottovalutati o disconosciuti, degni di rientrare nella tipologia descrittiva del paesaggio. E questo per Virgilio, notoriamente sensibile per ragioni umane8 e culturali alla fenomenologia naturale, risulta tanto più vero nell’Eneide, in cui le esigenze espositive e le circostanze descrittive sono evidentemente cambiate e si sono nel loro ampliamento variegate. L’autore del poema georgico9, già malinconico più che speranzoso cantore delle aspirazioni e degli aneliti di una pax campestre10, aveva una innata propensione verso l’osservazione e l’amore per la natura, ed un’indubbia capacità di cogliere quella tendenza 417: Lipari, isola ardua di rocce fumanti (nei vv. successivi si descrivono gli antri etnei, sede delle fucine dei Ciclopi e dimora di Vulcano); VIII 478 s.: la città di Agilla (oggi Cerveteri), fondata su un’antica rupe. 7 Il termine è adoperato da Cicerone in Att. XV 16a, … haec Íopograf…a ripulae videtur habitura celerem satietatem (in riferimento alla villa di Tusculo). È il caso, ad es., di XI 849-53, in cui si dice che sotto un alto monte sorgeva su un terrapieno protetto da un elce ombroso il sepolcro di Dercenno. 8 Sul concetto di ‘paesaggio spirituale’ ha insistito, per gli aspetti psicologistici, B. Snell, L’Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale, in Id., La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it., Torino 19632, pp. 387-418; per i risvolti sentimentalistici, G. Jachmann, Die dichterische Technik in Vergils Bukolika, “Neue Jahrb. klass. Alter.” 49, 1992, pp. 10120; cf. già Id., L’Arcadia come paesaggio bucolico, “Maia” 5, 1952, pp. 161-74; infine, per una interpretazione comunque orientata all’antirealismo, F. Klingner, Römische Geisteswelt, Wiesbaden 19522 (München 19614), pp. 155-76; 177-214. Queste posizioni critiche sono state respinte da E.A. Schmidt, Arkadien: Abendland und Antike, “Antike und Abendland” 21, 1975, pp. 36-57. Utilissima la messa a punto fatta da F. Serpa, s.v. “paesaggio” in “Enc. Virg.” III, Roma 1987, p. 922. Più recentemente H.F. Bauzá, Il paesaggio simbolico delle Bucoliche, in Atti del Convegno mondiale scientifico di studi su Virgilio, cit., I, pp. 195-204, senza generalizzare, parla di ‘paesaggio spirituale’, in cui è possibile rilevare una partecipazione diretta del poeta alla vicenda (Bauzá parla di prospettiva mistica per alcune descrizioni paesaggistiche nella V bucolica), e in cui il paesaggio può rappresentare semplicemente uno sfondo, o, anche, invece, un simbolo (cf. pp. 197, 201; sull’elevazione del paesaggio bucolico a ‘intensa figura simbolica’ cf. già Serpa, v. cit., p. 924): una chiave di lettura che lo studioso estende (cf. p. 199) ad Aen. VI 125 ss. Si veda anche D. Gagliardi, Il paesaggio siciliano delle Bucoliche e l’Arcadia, “CCC” 3, 1982-83, pp. 183-89 (cf. p. 184). È il caso di ricordare, en passant, le parole di L. Nosarti, Studi sulle Georgiche di Virgilio, Padova 19962, p. 243: “L’Italia è idealizzata fino a diventare prototipo del locus amoenus per eccellenza”. 9 Tra i molti contributi sul Naturgefühl (che non è necessariamente un Landschaftsgefühl) nelle Georgiche segnalo G. Pasquali, Orazio lirico, con introduzione, indici ed appendice di aggiornamento bibliografico a cura di A. La Penna, 1a rist., Firenze 1966, pp. 521-53; G. Cupaiuolo sen., Il sentimento della natura nella poesia virgiliana, in Annuario R. Liceo-ginn. Umberto I, Palermo 1929-30; E. Paratore, Virgilio, Firenze 19613, pp. 248 ss.; F. Serpa, L’idea di natura nelle Georgiche, Trieste 1983; H.F. Bauzá, s.v. “natura”, in “Enc. Virg.” III, Roma 1987, p. 668 (cf. anche la nota bibliografica). 10 Sugli sviluppi nella resa artistica del paesaggio nell’itinerario poetico virgiliano cf. M. Gorrichon, Évolution de l’art du paysage chez Virgile des Bucoliques à l’Énéide, “Caesarodunum” 2, 1968, pp. 197-202.

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nelle aspettative culturali della latinità, e specialmente del suo tempo, come si può ricavare dalla poesia di Orazio, di Tibullo, di Ovidio. Ad una sorta di pax campestre, sia pur forzata dagli eventi, pensa Virgilio quando rievoca la scelta di vita operata da Metabo, che, in fuga per salvare la figlia, trascorse la sua esistenza sui monti deserti, dove tra cespugli e tane inospitali nutriva Camilla col latte che sgorgava dalle mammelle di cavalle selvatiche (XI 570 ss.). E altrettanto bucolico è il tratto in cui si dice che Camilla potrebbe volare sugli steli di una messe non falciata senza spezzare nella corsa le spighe (VII 808-09, Illa vel intactae segetis per summa volaret / gramina nec teneras cursu laesisset aristas)11; la nota marinara complementare: l’agilità permetterebbe all’eroina di varcare di slancio il mare senza bagnarsi i veloci piedi (810-11; associativa anche l’immagine del procedere ‘volando’), è una conferma del privilegio accordato dal poeta alla presentazione dello scenario naturale. Il modello omerico (Il. XX 227-28) è superato dall’automemoria poetica nella ripresa del troppo connotante aristas di buc. 1,69, e nell’aggiunta tutta virgiliana dell’agg. teneras, assente nel testo greco. Quando afferma che Virgilio nell’Eneide è, come Apollonio Rodio, meno incline alla rappresentazione paesaggistica di quanto fosse avvenuto nelle due precedenti opere, R. Heinze12 persegue un’idea volutamente restrittiva di “paesaggio”, limitandone i confini alla descrizione ampia. Ma, in realtà, il genere epico, offrendo una molteplicità di spunti, pretende, come già si è detto, un diverso approccio con il paesaggio, che vi appare, infatti, in circostanze diverse e più frequenti rispetto al mondo bucolico e georgico (in cui lo squarcio naturalistico è pressoché l’unico, ed intrinseco, elemento di sfondo13), e che è tutt’altro che autonomo, in quanto esso ha, ora, funzioni strettamente collegate e dipendenti da un sistema narrativo ben altrimenti dinamico: il poema epico sviluppa avvenimenti, non rappresenta situazioni14. Il paesaggio non interrompe il tempo narrativo; delinea, cioè, 11

Da un quadro bucolico sembra uscire lo stesso pastor Polyphemus, che avanza nei campi con un tronco di pino, accompagnato dalle lanigere pecore (III 657-60). 12 R. Heinze, La tecnica epica di Virgilio, trad. it., Bologna 1996, p. 287, menziona solo tre descrizioni paesaggistiche di ‘ampio respiro’ nell’Eneide: il porto sulla costa libica (I 159 ss.), l’Etna (III 571 ss.), la voragine della valle di Ansanto (VII 563 ss.), luoghi che esaminerò distintamente, in base alle loro peculiari tematiche. 13 Comunque già sottoposto a forme espressive proprie del genere epico, come la similitudine: si veda, in questo senso, ad es., buc. 8,85 ss.; geo. III 196 ss. 14 L’osservazione è di Snell, L’Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale, cit., p. 397 (il capitolo, sopra citato, ricco di acutissime considerazioni, a prescindere dalle discusse

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una situazione ambientale perché all’interno di essa si sta espandendo una vicenda, della quale talvolta, anzi, gli elementi naturali addirittura partecipano con ‘azioni’ coinfluenti con quelle degli uomini: in XII 744-45 Turno è circondato, così dai Troiani (Teucri inclusere) come dalla conformazione del territorio: hinc vasta palus, hinc ardua moenia cingunt15. In VIII 91 ss. si verifica addirittura una Umkehrung, perché gli elementi naturali si trasformano in soggetti di osservazione dello scenario che si para loro dinanzi (labitur uncta vadis abies; mirantur et undae / miratur nemus ... / scuta virum ...)16. La personalissima sensibilità all’antropomorfismo della natura animale e vegetale, fattore distintivo di tutta la poesia di Virgilio, popola l’Eneide, attraverso lo strumento analogico, di animali che aggrediscono ed uccidono, soffrono e muoiono17, di fiumi18 che scorrono e distruggono, di montagne che si ergono minacciose, di alberi, non inerti, che resistono alla furia dei venti, o che, colpiti, sono abbattuti, di piante dolenti e di fiori recisi19. Non a caso Quintiliano20 al Virgilio di Aen. VIII 728, Pontem indignatus Araxes, pensava per illustrare la audace, anzi arrischiata sublimitas che si realizza cum rebus sensu carentibus actum quendam et animos damus. La stretta connessione tra la narrazione

conclusioni sul significato generale delle Bucoliche, è stato di fondamentale importanza per gli sviluppi dello studio del paesaggio nella prima opera virgiliana). 15 L’anafora di hinc, il ricorso ad aggettivi tipici della caratterizzazione di elementi ambientali, la posizione simmetrica di qualificanti e qualificati sono tutti accorgimenti che segnalano la particolare cura nel riportare questo pur rapido flash. 16 Immagini affini in buc. 6,37, [ut] novum terrae stupeant lucescere solem, e in geo. II 8082, in cui l’albero vede (miratast) su di sé nuove fronde e nuovi frutti innestati. 17 Balza alla memoria l’immagine tenera dell’incauta cerva trafitta dal pastore nei boschi di Creta: fugge tra le balze con la freccia mortale infissa nel fianco; non diversamente vaga delirante per la città la misera Didone (IV 68-73). 18 Cf. L. Canali, Virgilio: l’eros freddo, in Id., I volti di eros, Roma 1984, pp. 73-84 (Mari e fiumi). 19 Celeberrima la catulliana similitudine del giovane Eurialo che colpito reclina il capo sulla spalla come un fiore purpureo che reciso dall’aratro langue nella morte, o come i papaveri che si piegano sullo stelo appesantiti dalla pioggia (IX 433-37). Solo una citazione in Gigliola Maggiulli, Amore e morte nella simbologia floreale, “Maia” 41, 1989, pp. 185-97 (cf. p. 193, n. 37). Dissentirei dalla Maggiulli, che in “Enc. Virg.”, II, Roma 1985, s.v. “fiore”, p. 530, scrive che “[...] il f. dell’Eneide non ha funzione paesaggistica: esso [...] serve a un più efficace ritratto del personaggio”: non di rado la funzione del paesaggio sembra proprio quella di meglio caratterizzare il personaggio. F.E. Brenk, ‘Purpureos spargam flores’: A Greek Motif in the Aeneid, “CQ” 40, 1990, pp. 218-23, osserva, tra l’altro, che Virgilio aggiunge la nota cromatica, assente nel modello catulliano, con allusione al sangue di Eurialo (it cruor). Un analogo gioco di colori è possibile riscontrare a XII 67-69, in cui il volto rosso di Lavinia è paragonato all’effetto prodotto dai candidi gigli confusi con le rose [cf. ora, qui, il saggio su Lavinia]. 20 Cf. VIII 6,11.

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dell’episodio e la nota paesaggistica spiega come spesso questa sia piuttosto circoscritta, limitata a quelle poche pennellate, ma sempre intense e suggestive, necessarie al racconto in ragione del quale sono state immesse nel testo21. Lo studio del paesaggio, tutt’altro che isolabile, non può prescindere dal sentimento della natura e dalla stessa concezione della vita e della storia che permeano di sé l’epos virgiliano. Nelle letterature classiche il paesaggio non si eleva ad autonomo gšnoj codificato negli schemi, nelle strutture e nelle modalità, ma certamente, e non solo per la sua frequente presenza, vi ha acquisito una tale valenza, che vanno metodicamente verificate la sopravvivenza o la scomparsa di alcune costanti, e va segnalato l’ingresso di nuovi elementi. È possibile individuare nell’epos virgiliano una serie di categorie (alcune sono riconoscibili già nei pochi esempi riportati). Paesistiche sono le note che si riferiscono al dato cronologico-temporale, il momento della giornata in cui si svolge (o sta per svolgersi) o si interrompe l’azione; quelle in cui il personaggio è descritto in similitudine con una creatura del mondo animale o vegetale ritratta nel suo dinamico vivere all’interno del suo habitat; quelle riguardanti loca geograficamente definiti. Ma, soprattutto, poiché gli sfondi e gli ambienti sono evidentemente più complessi ed articolati, il paesaggio esce dai limiti agricolo-rurale-campestri, per estendersi al mondo marino e ultraterreno. Paesaggio marino e paesaggio campestre sono addirittura complementari a VII 718-22: le popolazioni italiche che si scontrano con le armate troiane proiettano la fantasia del poeta ai flutti che si rovesciano sul mare libico, quando Orione irrompe nei marosi, ovvero alle spighe nella piana dell’Ermo o nei biondi campi della Licia quando maturano al nuovo sole. I paesaggi dell’Eneide, se pure in alcuni casi risultano idealizzati e suggeriti da una vena lirica, non sono dettati da astratti estetismi (non lo erano già nemmeno nelle Ecloghe, in cui si avverte la tendenza a fondere descrizione e testualità22), ma rimangono ancorati allo svol21

Penso, ad es., a questo ‘fotogramma’: et galea Euryalum sublustri noctis in umbra / prodidit immemorem radiisque adversa refulsit di IX 373-74: la penombra notturna investe, rischiarata dai raggi della luna, l’elmo dell’immemore Eurialo. Il fattore ambientale, descritto con la terminologia del “linguaggio paesaggistico”, è la causa della morte dell’incauto giovane eroe. 22 Su questa linea di pensiero si attesta anche Gagliardi, Il paesaggio siciliano delle Bucoliche e l’Arcadia, cit., che scrive: “Se vi è atmosfera lirica [nelle Bucoliche], in definitiva, è d’un lirismo che non altera le linee della visione” (p. 189). E penso, ad es., alla quinta bucolica, in cui le descrizioni paesistiche travalicano i confini decorativi per proiettarsi in una prospettiva mistica.

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gimento narrativo e funzionali ad un intreccio più energico e vitale, e, per quanto non pochi siano di stampo letterario, si inseriscono decisamente nella trama o come veri e propri agenti di essa, o come supporti metaforici o analogici23 per una più penetrante illustrazione del segmento narrativo stesso24. Del tutto assorbito nel contesto bellico è il bozzetto rappresentato a XI 511-16, in cui Camilla avverte Turno di aver saputo dagli esploratori che Enea ha ormai valicato un crinale e si avvicina alla città dai dirupi solitari dei monti, mentre lei gli prepara un agguato nel bosco all’altezza della curva di un sentiero. Virgilio è sempre vigile ad evitare che l’azione ne subisca un arresto: c’è sempre una specularità con la specificità del personaggio25 o della vicenda. Lasciato il porto di Gaeta (cf. infra), la flotta di Enea ben presto raggiunge la costa del promontorio Circeo26 (l. VII): Proxima Circaeae raduntur litora terrae, dives inaccessos ubi Solis filia lucos adsiduo resonat cantu tectisque superbis urit odoratam nocturna in lumina cedrum arguto tenuis percurrens pectine telas. Hinc exaudiri gemitus iraeque leonum vincla resonantum et sera sub nocte rudentum,

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È il caso, ad es., rispettivamente di XI 601-02, tum late ferreus hastis / horret ager campique armis sublimibus ardent: l’elevarsi di un numero incredibile di aste troiane sul campo suggerisce al poeta l’ardita metafora dell’ager ferreus, rinforzata dall’immagine successiva dei campi che si accendono delle armi levate in alto; e di VII 528-30 (variazione sul tema), in cui il levarsi di spade risplendenti nei loro bronzi investiti dal sole ricorda al poeta uno scenario marino in progress: i flutti cominciano a biancheggiare a fior d’acqua, il mare si gonfia, le onde si innalzano dagli abissi sino alle stelle. 24 Su questo punto cf. Heinze, La tecnica epica di Virgilio, cit., p. 428. Appare evidente la stretta connessione, ad es., a XI 316 ss. (Est anticus ager ...: l’attacco è tipico della descrizione topografica epica): Latino propone che sia ceduto ai Teucri un antico territorio nelle vicinanze del fiume etrusco, seminato e lavorato col vomere da Aurunci e Rutuli; le fasce di terra più selvatiche sono destinate al pascolo; c’è una foresta di pini: l’insistenza sui particolari della conformazione del territorio serve a sottolineare la bontà della proposta di Latino, che cederebbe al desiderio dei Troiani di stanziarsi in quella zona, dove troverebbero quanto è necessario per vivere. A XI 901-05 un anonimo paesaggio boscoso assorbe il carattere dinamico della scena: Turno, alle disastrose notizie portate da Acca, abbandona i colli occupati, lascia gli aspri boschi (deserit obsessos collis, nemora aspera linquit: si notino l’asindeto, il chiasmo, la collocazione polare delle voci verbali); Enea penetra nelle gole incustodite, supera il giogo ed esce dalla selva ombrosa (saltus ingressus apertos / exsuperatque iugum silvaque evadit opaca: con l’uso della subordinata e con lo stringente polisindeto si contrappongono alla furia dell’azione e all’agitazione dello stato d’animo di Turno la determinazione e la risolutezza dell’eroe troiano). 25 Cf. Heinze, La tecnica epica di Virgilio, cit., p. 429; J. Gìslason, Die Naturschilderungen und Naturgleichnisse in Vergils Aeneis, Diss. Emsdetten 1937, pp. 18-48. 26 La probabile conoscenza autoscopica e lo svincolo dalla tradizione letteraria greca consentono una connotazione più realistica, direi storica, dei paesaggi italici.

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saetigerique sues atque in praesepibus ursi saevire ac formae magnorum ululare luporum, quos hominum ex facie dea saeva potentibus herbis induerat Circe in voltus ac terga ferarum.

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È una rappresentazione topografica piuttosto complessa e vasta. Boschi inaccessi, profumo di cedro bruciato (ma per allontanare i serpenti: cf. geo. III 414-15); una fauna non variopinta né leggiadra, rabbiosi leoni che ringhiano e ruggiscono nella notte profonda; infieriscono orsi e irsuti cinghiali, mostruosi lupi ululano. Sull’elemento vegetale prevale quello animale: è la sede della saeva Circe, che sventurati uomini aveva mutato in orrende fiere. I Troiani non si fermano su questi litora dira: la memoria poetica virgiliana li dispensa dalla terribile esperienza dei compagni dell’Odisseo omerico. La navigazione prosegue; si placano i venti, ormai rosseggia l’aurora: Atque hic Aeneas ingentem ex aequore lucum prospicit. Hunc inter fluvio Tiberinus amoeno27 verticibus rapidis et multa flavos harena in mare prorumpit; variae circumque supraque adsuetae ripis volucres et fluminis alveo aethera mulcebant cantu lucoque volabant. Flectere iter sociis terraeque advertere proras imperat et laetus fluvio succedit opaco.

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A breve distanza, dunque, si affaccia un altro squarcio topografico (il paesaggio tiberino), decisamente diverso, che risente, nel tono idillico, dell’atmosfera e dei modi espressivi delle Bucoliche28. Introdotto dalla breve annotazione dell’ora del giorno, positiva nella positività dell’insieme, questo paesaggio è interiorizzato nel punto di vista di Enea. Aeneas ... / prospicit un bosco immenso attraversato da un biondo fiume (personificato col dio Tiberino) che scorre ridente con rapidi vortici versandosi nel mare; uccelli variopinti, svolazzando da ogni parte, addolciscono l’aria con il loro cinguettio. L’amenità del fiume e la dolcezza dell’aria, tutt’altro che statici attributi, sono rilievi provenienti dalle dirette sensazioni dell’eroe, che subito convinto a fermarvisi si addentra nell’ombrosa corrente del Tevere. Insomma, la generale amenità del quadro riflette armonicamente lo stato d’animo 27 Cf. in “Enc. Virg.”, I, Roma 1984, pp. 141-42, la voce “amoenus” (agg. che, in Virgilio, compare solo nell’Eneide) curata da A. Pennacini. 28 Cf. Rossana Mugellesi, Paesaggi latini, Firenze 1975, p. 45. Si ricordi che i poeti ellenistici prediligono la bonaccia alla rappresentazione del mare tempestoso.

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del protagonista. Il poeta ha innanzitutto creato un contrasto con il precedente paesaggio circeo; in secondo luogo, l’approdo29 sulla terra tanto sospirata meritava una narrazione di questo tipo; infine – e forse è la motivazione più influente –, va ricordato che si stanno delineando i caratteri ambientali del territorio che sarà il centro dell’impero30. È addirittura arricchito con la nota variopinta degli uccelletti che cantano all’aria il modello apolloniano del paesaggio del Fasi in II 1264 ss.31, un fiume che in Orph., Arg. 84 è definito ™rannÒj: qui c’è la mano del poeta idillico, ma la pacatezza e la funzionalità della vena artistica evita stonature. Virgilio ha preferito il poeta ellenistico ad Omero; in Od. XIII 102 ss. lo squarcio paesistico, non ‘visto’ da Odisseo che dorme, è scarno: un ulivo, un antro oscuro ma amabile32. Le descrizioni di tempeste marine, di antica tradizione epica, concentrate naturalmente nella prima esade, aprono un ampio orizzonte nella tematica del paesaggio virgiliano. Eolo istigato da Giunone percuote la cavità del monte ed i venti spazzano la terra, investono il mare sconvolgendolo dagli abissi. Lo stridore delle sartie fa eco all’urlo degli uomini. Le nubi improvvisamente anneriscono cielo e giorno e ponto nox incubat atra (I 81-91): intonuere poli et crebris micat ignibus aether praesentemque viris intentant omnia mortem33.

La nave che trasporta i Lici ed il fedele Oronte colerà a picco: si è pensato che Virgilio alludesse alla guerra con Sesto Pompeo, quando la flotta di Ottaviano fu danneggiata da una tempesta. L’eventuale 29

Sullo sbarco di Enea sulle sponde del Tevere e le versioni fornite al riguardo dalla tradizione letteraria precedente e successiva a Virgilio cf. della Corte, La mappa dell’Eneide, cit., pp. 121 ss., e la bibliografia ivi citata. 30 Si veda quanto su osservato a proposito di VII 160-65. Questo abbellimento del paesaggio è stato oggetto di ampie discussioni da parte dei filologi; Heriette Boas, Vergil’s Arrival in Latium, Amsterdam 1938, p. 61, ritiene che qui l’influsso alessandrino sia particolarmente sentito; per la dossografia cf. E. Paratore, Virgilio. Eneide (libri VII-VIII), a cura di E.P., trad. di L. Canali, vol. IV, Milano-Verona 1981, pp. 128-29. 31 Cf., a tal proposito, le osservazioni di della Corte, La mappa dell’Eneide, cit., p. 139. 32 ’Ep»raton, forse ripreso dal virgiliano amoeno (cf. anche V 734, VI 638 [infra], VII 30). Sulla etimologia da ™r£w per il gr. e da amo per il lat. (così Varr. ap. Isid. Or. 14, 8, 33, ma “la dérivation est obscure” dicono A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 19854, s.v., p. 29) cf. Pennacini, “Enc. Virg.”, v. cit., p. 141. 33 “Non dimentichiamo che la morte in mare era particolarmente aborrita dagli antichi poiché privava le vittime del rito funebre”, osserva opportunamente A. Camps, Lettura del primo libro dell’Eneide, in Lecturae Vergilianae, a cura di M. Gigante, vol. III, Napoli 1983, p. 21.

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riferimento a fatti di attualità, quando sia anche ammissibile in una visione interpretativa generale del poema, non potrebbe da solo giustificare, qui, l’estensione dell’œkfrasij, che, peraltro, non è limitata ai versi sopra citati, ma ha uno sviluppo sia nel racconto delle conseguenze della tempesta sulle navi e sugli uomini (vv. 102 ss.), sia dei provvedimenti presi successivamente (vv. 157 ss.). Questa tempesta, la cui descrizione si accresce poco dopo di altri particolari: la raffica di tramontana, i flutti che si ergono alle stelle, la massa d’acqua che investe Enea, uomini che vedono il fondo per le aperte voragini, altri che ribollono nel turbine della sabbia, condizionerà i movimenti dell’eroe, che, ora, proprio a seguito di essa, ha trovato riparo sui lidi di Cartagine, prima tappa ‘narrativa’ della sua ‘odissea’34. Dopo il ritorno della calma ecco un altro paesaggio, il porto libico. Il corrispondente omerico35 appare più di maniera che di sostanza, e passa in second’ordine rispetto ai riscontri con geo. IV 418-21, non solo per la ripetizione del v. 420 ad Aen. I 161 con la sola variante di cogitur in frangitur. È il caso di riportare il testo latino: est in secessu longo locus: insula portum efficit obiectu laterum, quibus omnis ab alto frangitur inque sinus scindit sese unda reductos. Hinc atque hinc vastae rupes geminique minantur in caelum scopuli, quorum sub vertice late aequora tuta silent; tum silvis scaena coruscis desuper horrentique atrum nemus imminet umbra. Fronte sub adversa scopulis pendentibus antrum: intus aquae dulces vivoque sedilia saxo, Nympharum domus. Hic fessas non vincula navis ulla tenent, unco non alligat ancora morsu36.

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G. Puccioni, Il paesaggio virgiliano, in Id., Saggi virgiliani, Bologna 1985, p. 163 (già in “RCCM” [Misc. di studi in memoria di M. Barchiesi, Roma 1977, pp. 645-62]), invece commenta: “[...] in questo passo scialbo le notazioni sono staccate e non hanno alla base un sentimento univoco che colleghi e travolga le varie impressioni”. 35 Cf. Od. XIII 96-112 (ma cf. anche Od. X 87 ss. e, pur se solo per qualche spunto, Il. V 87 ss.), ben 17 versi contro gli 11 di Virgilio: su questo confronto insistono A. Cartault, L’art de Virgile dans l’Énéide, Paris 1926, pp. 103 ss., e, più recentemente, V. Cristóbal, Tempestates épicas, “Cuad. Invest. Filol.” 14, 1988, pp. 125-48. 36 Tipica descrizione di locus horridus, per cui cf. Mugellesi, Paesaggi latini, cit., pp. 12-13, che vi affianca la descrizione della gola boscosa attraversata da un angusto sentiero a XI 522-25. Estenderei fino a 531: in questi sei versi è tratteggiato, con dovizia di particolari, il pianoro in cui si nasconde Turno, che ci riporta all’angustia del secessus di Enea nel l. I. Già A. La Penna, Virgilio e la crisi del mondo antico, in Virgilio. Tutte le opere, trad. di E. Cetrangolo, Firenze 1966, p. XC, contrapponeva al senso della vastità spaziale presente nel l. I il senso della ristrettezza nel l. IX.

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PERCORSI POETICI DEL PAESAGGIO NELL’ENEIDE

L’immagine iniziale del secessus37, indicativa di un luogo sicuro, è antitetica rispetto allo scompiglio nel quale le navi troiane erano state coinvolte; si sottolineano contorni contrappositivi rispetto alla precedente descrizione: la drammatica dinamicità del quadro della tempesta lascia ora spazio ad un paesaggio statico, appena smosso dal lento rifluire delle onde nelle remote baie: alla unda dehiscens di v. 106 si oppongono l’unda che in ... sinus scindit sese ... reductos di v. 161, e le aquae dulces di v. 167; l’ingens a vertice pontus, minaccioso e mortale, contrasta con le vastae rupes e i gemini scopuli, che per la loro imponenza minantur in caelum; si direbbe che questa minaccia sia rivolta verso chi osi attentare a quel riparo, che ricorda la tutissima statio nautis dell’antro di Proteo del IV delle Georgiche; ora gli aequora tuta silent (v. 164), mentre a v. 86 i venti vastos volvunt ad litora fluctus; lo scenario si arricchisce di un paesaggio boscoso: in alto alberi maestosi (che pareggiano le già citate rupi imponenti) tra le cui fronde si intravvede lo scintillio dei raggi, in basso ombre compatte, che evocano ambientazioni bucoliche, e si contrappongono alle funeste oscurità della procella marina: Eripiunt subito nubes caelumque diemque / Teucrorum ex oculis. Tutto mira a rappresentare in modo trasversale il rinnovato stato d’animo dei naufraghi, finalmente al sicuro e rinfrancati nello spirito: sale tabentis artus in litore ponunt (v. 173): ponunt, che chiude la scena, è in antitesi con incubuere che apriva la descrizione della tempesta (v. 84). Domina il silenzio, degli elementi, dei luoghi e degli uomini, contro il fragore dei marosi, il frastuono delle navi squassate, il clamore dei naviganti. A vv. 533-36 del l. III è descritta la conformazione naturale di un altro porto38: Portus ab Euroo fluctu curvatus in arcum; obiectae salsa spumant aspargine cautes, ipse latet; gemino demittunt bracchia muro turriti scopuli refugitque ab litore templum.

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37 Non escluderei una valenza in senso stoico (il luogo appartato, il ritiro del saggio), quale il termine assumerà in modo esplicito nell’epist. 51 di Seneca. 38 Il della Corte, La mappa dell’Eneide, cit., pp. 70 ss., lo ha identificato con l’attuale Porto Badisco, sulla costa salentina. Sulla stessa linea descrittiva dei porti si attestano luoghi in cui si presentano situazioni di bonaccia: cf., ad ed., V 763-64 e 821-26, due brani collegati da richiami lessicali interni. Altro paesaggio marino calmo è all’inizio del l. VII: Enea riprende la navigazione dal porto di Gaeta. Il breve notturno, vv. 8-9, Adspirant aurae in noctem nec candida cursus / luna negat, splendet tremulo sub limine pontus, è caratterizzato dalla presenza della ‘candida’ luce lunare che fa risplendere il mare.

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VIRGILIO

Ai Troiani che vi approdano dopo una navigazione stavolta tranquilla39 appaiono il porto40 e il tempio di Minerva stagliato sulla rocca. Nota emergente e nuova è proprio questa compresenza di profano (il porto, delimitato e protetto dalle torri rocciose) e di sacro (il tempio, che sembra allontanarsi dal lido), assimilati nell’immagine del riparo: ipse latet – refugit ab litore. Il coinvolgimento dell’elemento religioso è sottolineato dal duplice atto di preghiera, di Anchise in vista dell’approdo, dei Troiani che onorano Pallade e Giunone argiva. Meno drammatica rispetto a quella di I 88 ss. è la descrizione della tempesta che investe la flotta troiana prima dell’arrivo alle Strofadi (III 199-20441), uno scenario di sconvolgimento del mare a causa dei venti, di sollevazione dei flutti, di nembi che offuscano il giorno, di notte che copre il cielo di cieca caligine. I vv. 192-93, Postquam altum tenuere rates nec iam amplius ullae / apparent terrae, caelum undique et undique pontus, sono ripresi con qualche variante con ut pelagus tenuere ... ulla / occurrit tellus maria ... caelum di V 8-9, mentre il v. 195, noctem hiememque ferens et inhorruit unda tenebras, è riprodotto verbum de verbo a v. 11 nella descrizione della tempesta che sorprende le navi di Enea non appena han preso il largo dalle coste libiche. Come nel III libro, anche nel V il primo a prendere la parola è un Palinuro incerto e pessimista, anche qui la flotta avrebbe raggiunto comunque un porto. Le evidenti affinità tra i due contesti, contenutistiche e lessicali, mirano a sottolineare, nella analogia situazionale, la ripetitività del pericolo grave e del suo superamento, che suggerisce al poeta una strategia espressiva fondata su una parziale formularità. Accanto all’inquadratura complessiva della grande tempesta Virgilio propone, talvolta, l’osservazione di singoli particolari: delle navi, uno scoglio, una rupe: su di essi si abbattono gli effetti dello sconvolgimento marino. In uno dei colloqui che Didone tiene ad Anna la regina spinge la sorella a tentare di convincere Enea a trattenersi a Cartagine per tutto l’inverno, dum pelago desaevit hiemps et aquosus Orion, / quassataeque rates, dum non tractabile caelum (IV 52-53). È 39 Così come Odisseo ed i suoi uomini che, dopo essere stati cacciati dalla casa di Eolo, toccano “l’altissima rocca di Lamo, Telepilo Lestrigonia” descritta da Omero in Od. X 87 ss.; o come lo stesso Odisseo quando raggiunge il porto sacro a Forchis, nell’isola di Itaca, in Od. XIII 96 ss., luogo già citato a confronto per I 159 ss. 40 Sugli aspetti simbolistici di questo brano cf. le attente osservazioni di O. Bianco, Portus curvatus in arcum (Virgilio, Aen. 3,533), in Filologia e forme letterarie. Studi offerti a F. della Corte, vol. II, Urbino 1987, pp. 423-26. 41 I precedenti omerici sono Od. XII 403-06 e XIV 301-04, ma si veda anche Apoll. Rh. IV 1237 ss.

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una visione interiorizzata negli auspici della regina che restringe il suo campo visivo e mentale alle navi di Enea. E in V 124-28 l’obiettivo è puntato sullo scoglio (meta nella regata42) che si erge di fronte al lido, spesso battuto dai flutti in tempesta quando il maestrale nasconde le stelle, mentre nella bonaccia emerge silenzioso e su di esso si posano gli smerghi amanti del sole. La ‘sorte’ che qui è dello scoglio in VII 586 ss. è della rupe, che quando i flutti vi si infrangono, mentre intorno latrano i marosi, si mantiene salda; alla sua base fremono scogli e massi bianchi di spuma e l’alga rifluisce sbattuta sui fianchi: allo stesso modo non si piega l’animo del re Latino, pur ormai rassegnato all’rreparabile. Lo scenario marino cattura la vena artistica del poeta che finanche estende la metaforizzazione del linguaggio di Latino (che confessa: “... ferimur ... procella ... nam mihi parta quies, omnisque in limine portus funere felici spolior”, vv. 594-99) al proprio commento: “rerum ... reliquit habenas”. E ancora, a XI 297-99, i saxa riescono a trattenere le rapide di un fiume, nei gorghi sbarrati risuona uno strepito e le rive vicine fremono al muggir delle onde: non diversamente i volti turbati degli Ausonidi, dopo il discorso di Venulo, sono percorsi da un fremito discorde. Proprio sulla rappresentazione paesaggistica è fondata l’intratestualità tra due ‘frammenti’ narrativi nel l. IV. Ai vv. 208-10 uno Iarba rammaricato dalle notizie provenienti da Tiro, rivolto in preghiera a Giove, si chiede se sia vano per gli uomini temerlo quando provoca terribili piogge, cum fulmina torques / ... caecique in nubibus ignes / terrificant animos et inania murmura miscent: il brevissimo squarcio procelloso va collegato con l’altrettanto breve descrizione della pioggia galeotta dei vv. 160 ss.: misceri murmure (v. 160) è echeggiato, nelle parole di Iarba, da murmura miscent (v. 210): è quel commixta grandine nimbus, che ha favorito il conubium (anche per questo lessema se ne osservi la specularità tra v. 168 e v. 213) di Enea con Didone nella grotta, e di cui Iarba ha avuto notizia, che induce le parole del figlio di Ammone. Di tutt’altro timbro è la tempesta descritta ai vv. 693-96 del l. V, che Giove invia per spegnere il pauroso incendio alle navi appiccato dalle donne; tempesta positiva, della quale il poeta rappresenta funzionalmente quasi solo la gran massa d’acqua, che serve a spegnere 42 Per un’analisi attenta ed approfondita di tutto il passo, dal punto di vista lessicale ed interpretativo in generale, cf. F. Capponi, Appunti sulla tecnica virgiliana del ‘contrasto’ (Aen. V), “GIF” 40, 1988, pp. 77-85 (cf. pp. 77-81).

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VIRGILIO

le fiamme (effusis imbribus – turbidus imber aqua, vv. 693 e 696); l’annotazione tonitru ... tremescunt / ardua terrarum et campi vale soltanto ad allargare appena la visuale dalle navi allo sfondo per oggettivare l’evento temporalesco, distanziandolo dalla ripresa di primo piano. L’ambientazione boschiva è presente nell’Eneide non meno di quella marina: a IX 85-87 si parla del bosco della Berecynt(h)ia Mater, ricco di pini, neri abeti e fusti d’acero43; con il legno di questi alberi era stata costruita la flotta di Enea. Un altro piccolo catalogo di alberi si legge a XI 135-38: Troiani e Latini si accordano per una tregua di dodici giorni, nel corso dei quali si recano nei boschi e nelle balze: abbattono frassini, pini, querce, cedri, orni. Un significato presumibilmente simbolico avvolge la rappresentazione del bosco nel quale si è nascosto Eurialo (IX 381 ss.): un’ampia selva, irta di cespugli (dumis horrida44) e di neri elci (ilice nigra45), piena di rovi, definita fallax a v. 392 (cf. anche fraude loci et noctis, v. 397), un locus horridus, fa presagire la triste svolta della vicenda. Le descrizioni del lancio dell’asta da parte di Enea nel duello finale con Turno e della reazione dei Rutuli alla caduta del loro re ferito segnano momenti di grande tensione e necessitano di forte vena tragica: Virgilio non pensa che al fragore dei fulmini in XII 921-23, all’eco che si irradia lunga fin nelle profondità dei boschi ai vv. 928-29. Una visione ‘universale’ emerge dai vv. 101 ss. del libro X, in cui diretta è la partecipazione degli elementi naturali agli eventi: [...] (eo dicente deum domus alta silescit et tremefacta solo tellus, silet arduus aether, tum Zephyri posuere, premit placida aequora pontus).

Il silenzio che cala, alle parole di Giove, sull’alta dimora degli dèi e sulla volta celeste si estende, in senso diametralmente opposto, alla terra che trema e tace: tremefacta solo, ‘tremante dal fondo’ (come tremefacta sono i pectora in II 228, e come tremefacta è l’ornus in II 629); cessano di soffiare gli zefiri, il mare si placa spianando placide le sue distese. Lo scenario marino, non a caso proposto per ultimo, muta del tutto rispetto alle minacce di tempesta metaforizzata nella similitudine ai vv. 96 ss.: 43 Sulla nomenclatura scientifica di questa e di tutte le piante citate in tutte le opere del Mantovano cf. il pregevole lavoro di Gigliola Maggiulli, Incipiant silvae cum primum surgere. Mondo vegetale e nomenclatura della flora in Virgilio, Roma 1995. 44 Cf. già VIII 348, horrida dumis. 45 Cf. la stessa espressione a buc. 6,54 (ilice sub nigra).

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fremebant caelicolae ........................ ceu flumina prima cum deprensa fremunt silvis et caeca volutant murmura venturos nautis prodentia ventos.

L’immagine, qui riportata nel passo precedente, della tempesta sventata dall’intervento del padre degli dèi, che col suo discorso placa i rumoreggianti celesti e tutti i tre mondi della natura, riflette una effettiva fenomenologia naturale e soprannaturale; ma essa va interpretata come risvolto poetico di una finissima strategia narrativa, grazie alla quale i segnali della reale imminente tempesta marina non vivono la loro realtà naturale, ma, attraverso lo strumento della similitudine (ceu ... / cum), risultano assorbiti dal gioco della metafora. Dopo i discorsi contrapposti di Venere e di Giunone al concilio degli dèi, manifestanti disparità di pareri, le divinità fremevano come fremono i soffi mormoranti tra l’intrico dei rami dei boschi, annunciatori del levarsi del vento. Si rivela una partecipazione della natura agli eventi ed un allineamento di essa alle condizioni imposte dal soprannaturale. Il ferimento di un cervo46, così amorevolmente curato da Silvia, da parte di Ascanio irrita la pestifera Aletto, che tacitis latet aspera silvis, e lancia ai pastori il segnale di guerra col suo corno ricurvo (l. VII): [...] protinus omne contremuit nemus et silvae insonuere profundae; audiit et Triviae longe lacus, audiit amnis sulpurea Nar albus aqua fontesque Velini, et trepidae matres pressere ad pectora natos.

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Il pezzo, anch’esso esempio della partecipazione della natura agli eventi47, in cui Virgilio con molta evidenza indulge alla toponomastica, 46 Bellissima e partecipativa la resa poetica del quadretto che incornicia la vita di questo cervo (vv. 483-92), “di eccezionale bellezza con corna imponenti”, introdotto con formula epica (cervus erat), sul quale Virgilio si dilunga. Ha ragione il La Penna, Virgilio e la crisi del mondo antico, cit., p. LXXXVI, ad osservare (contro la visione esclusivamente bucolica dello Heyne) che ci troviamo di fronte ad un “paesaggio ameno, ma non privo di una sua lenta maestà”. 47 Rientrano in questo schema tematico anche altri luoghi; si vedano, ad es., VIII 23940, impulsu quo maximus intonat aether, / dissultant ripae refluitque exterritus amnis: l’urto al suolo della rupe aguzza divelta da Ercole provoca il rimbombo dell’immenso cielo (cf. IX 540-41, tum pondere turris / procubuit subito et caelum tonat omne fragore), il sussulto rimbalzante delle rive ed il rifluire timoroso del fiume. In tutto l’episodio mitico di Ercole e Caco, rievocato con grande realismo, Virgilio ci presenta un paesaggio rozzo in linea con la primitività degli eroi che lo animano e che sono mossi da una forza ancestrale ed irrazionale: cf. F.V. Munera, La montaña en la opra de Virgilio, “Helmantica” 39, 1988,

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VIRGILIO

è piuttosto ricercato sotto il profilo descrittivo: a v. 515 la compresenza del generico nemus e del più specifico silvae sottolinea l’attenzione al particolare; i vari componenti sono riferiti con la singolarità di essere corredati in modo alternato di un termine di richiamo e di referenza che è l’aggettivo; infine, la reazione che il ferimento provoca sugli elementi del mondo vegetale produce a sua volta un effetto sull’elemento umano, che Virgilio rappresenta con la sua finissima sensibilità nella visione delle madri che stringono al seno i loro figlioletti. Il breve ma intenso tratteggio ci riporta alla memoria l’innocente ed indifeso cervo colpito dall’esultanza di una grande gloria che prende il giovane rampollo troiano: c’è un rapporto contrappositivo tra l’immagine del cervo matris ab ubere raptum (v. 484) e quella delle matres che pressere ad pectora natos, e di convergenza tra quest’ultima espressione e quella di v. 490: Ille manum (scil. erilium) patiens (il cervo docile alle carezze dei padroni). L’immagine delle matres è strettamente collegata al contesto con quella coordinata, ad inizio di esametro dopo breve pausa di senso, che le aggancia decisamente agli enti prima citati: la loro trepidazione (si noti l’assonanza trepidae matres, v. 518) rievoca anche nei suoni48 il tremito di paura e di stupore del bosco (contremuit, v. 515). I due brani, X 833-36 e XI 5-11, sono accomunati da una strana associazione: un elemento della natura vegetale, il tronco di un imprecisato albero in un caso, il tronco di una quercia nell’altro, entra in connessione narrativa con una componente prettamente guerresca (ed epica), le armi di Mezenzio prima ferito poi ucciso. Nel primo brano Mezenzio sulla riva del Tevere, appoggiato al tronco di un albero, blocca il flusso del sangue che scorre dalle ferite; in disparte (procul) il suo elmo pende dai rami e sul prato giacciono le pesanti armi; alla degradazione che snatura la figura ‘aulica’ dell’eroe corrisponde altrettanto capovolgimento dell’immagine dell’elemento vegetale. Il libro XI, che si apre con l’indicazione temporale (“l’Aurora, sorgendo, abban-

pp. 169-70. Penso a V 141 ss.: lo squillo di tromba che dà inizio alla regata squarcia il cielo, il batter dei remi imprime solchi al mare, infindunt sulcos, e lo fa tutto aprire, totum ... dehiscit: il linguaggio è agricolo; e poi, vv. 148-50, grida ed applausi investono tutto il bosco, il lido gonfia le voci, i colli, percossi (pulsati), echeggiano le voci gonfiate dalla baia. A VII 676-77 Camillo e Cora raggiungono la prima schiera come due Centauri al cui passaggio si apre l’immensa foresta e cadono fragorosamente gli arbusti. È il caso di ricordare ancora XII 444-45, in cui al dilagar della folla la pianura si offusca di polvere e la terra trema (tremit ... tellus) sconvolta dal rombo dei passi. 48 La Penna, Virgilio e la crisi del mondo antico, cit., p. XCIII, scrive: “L’unica immagine disegnata è quella, banale, del corno ricurvo [v. 513]: il resto è tutta vastità spaziale e musica”.

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donava l’Oceano”), ci presenta una scena che prende spunto da Il. X 458-68, in cui Odisseo sottrae le spoglie all’ucciso Dolone49, le offre ad Atena e poi le pone su un tamerisco facendovi un segnale ben visibile che non sfuggisse al ritorno suo e dei suoi (cf. vv. 526 ss.) durante la notte: Enea scioglie voti agli dèi e poi erge su di un poggio una quercia (qÁken ¢n¦ mur…khn ~ constituit tumulo, ad inizio d’esametro entrambe le espressioni, isometriche), a cui taglia tutti i rami (summ£ryaj dónakaj ... t' ... Ôzouj ~ decisis ramis) e che riveste delle fulgide armi di Mezenzio ucciso in duello; la descrizione è dettagliata quanto quella omerica, ma insiste su particolari che evidenziano che si tratta di armi di guerriero ucciso: l’eroe troiano vi pone i pennacchi che grondano sangue (immagine evocata invece da Il. XXII 369, aƒmatóenta), le aste spezzate, la corazza colpita e forata in molti punti, a sinistra lo scudo di bronzo, al collo del tronco appende la spada eburnea. L’atto compiuto da Odisseo, come ho già detto, ha la dichiarata funzione di segnale utile a riconoscere il luogo nel buio della ‘nera notte veloce’; l’atto compiuto da Enea, invece, non ha séguito. Questo scenario ha suggerito al Danielino una giusta annotazione: “de trunco arboris humanam figuram fecit”, che ci aiuta a comprendere le ragioni di questo atto e a spiegarci i motivi di una descrizione così particolareggiata sulla quale Virgilio addirittura si attarda in ben sette versi. Enea lo privilegia rispetto alla sepoltura dei compagni, perché il rito della quercia è un rito sacro di ringraziamento a Marte (e al dio Tevere, cui la quercia è sacra), magnus bellipotens, al quale Enea dedica il tropaeum (v. 7), il tropaeum che Mezenzio aveva promesso a Lauso (X 774 ss.) quando affrontava Enea nel primo duello: ... Voveo praedonis corpore raptis / indutum spoliis ipsum te, Lause, tropaeum / Aeneae. Mezenzio aveva promesso al figlio di rivestirlo delle armi di Enea, ed ora Enea riveste delle armi di Mezenzio una quercia (fulgentia ... induit arma: non può sfuggire il ricorso allo stesso verbo, che nel passo iniziale del l. XI produce un effetto straniante) cui sono stati tagliati i rami, come all’eroe erano state sottratte le armi. Insieme erano entrati nella lotta padre e figlio (Primus init bellum ... / ... Mezentius ... Filius huic iuxta Lausus, VII 647-49), insieme ne escono sconfitti ed uccisi. L’intreccio di elemento vegetale ed elemento umano appare così evidente nell’analisi di questo episodio, ricco di allusioni intratestuali, che consentono di valutare la sensibilissima percezione virgiliana del naturale: un breve squarcio, in 49

Per questo singolo segmento narrativo cf. anche Il. XXII 367-69, a proposito della morte di Ettore.

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VIRGILIO

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cui il paesaggio è appena accennato ma svolge una funzione fondamentale nell’espressione del messaggio, e mostra di rientrare anch’esso a pieno titolo nella dinamica spirituale del poema. Le descrizioni virgiliane delle montagne sono piuttosto tipicizzate. A IV 151-59 alti monti ed impervi covi, capre selvatiche e cervi disegnano una natura selvaggia, nella quale si inscrive una scena di caccia a cui partecipa il giovane Ascanio che corre col suo destriero sperando di incontrare cinghiali e leoni50. La descrizione di Atlante51 di IV 126 ss., dinanzi al quale Virgilio mostra il suo stupore, è avvolta nella leggenda. Più realistico è lo spettacolo dell’eruzione dell’Etna di III 571-7752: ... sed horrificis iuxta tonat Aetna ruinis interdumque atram prorumpit ad aethera nubem turbine fumantem piceo et candente favilla attollitque globos flammarum et sidera lambit; interdum scopulos avolsaque viscera montis erigit eructans liquefactaque saxa sub auras cum gemitu glomerat fundoque exaestuat imo.

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L’avversativa iniziale preannuncia la differenza tra la pacatezza del porto e lo scenario invece offerto dal vulcano, in cui dominano i movimenti verso l’alto (ruinis; prorumpit ad aethera; attollit ... globos flammarum; scopulos ... / erigit) e verso il basso (fundo exaestuat imo), gli spaventosi fragori (tonat; cum gemitu), i terribili fuochi (candente favilla; globos flammarum; liquefacta ... saxa; exaestuat). Le nubi oscurano il cielo ed una notte senza fine vela di nebbie la luna (obscuro ... nubila caelo, / et lunam in nimbo nox intempesta tenebat, vv. 586-87). È una descrizione senza precedenti: Virgilio ha potuto trarre dai modelli greci solo il particolare della scarsa visibilità, e forse è tutt’altro che casuale che l’abbia trovato nella narrazione omerica dell’approdo all’isola delle capre, la terra dei giganteschi Ciclopi, in Od. IX 142 ss. (oÙdû sel»nh / oÙranÒqen proÜfaine, vv. 144-45), o nella narrazione apolloniana, quando Linceo credette di vedere Eracle (altra figura gi50 “Una delle scene più ariose e spaziose”, dice La Penna, Virgilio e la crisi ..., cit., p. XCV, in cui, aggiunge, il senso della spazialità si unisce a quello “del movimento rapido, libero, gioioso della caccia”. 51 Si vedano anche gli ulteriori elementi di commento ai vv. 481-82, ubi maximus Atlans / axem umero torquet stellis ardentibus aptum. Per un’interpretazione simbolistica della figura di Atlante rinvio al mio Allusione e simbolismo in Virgilio (Aen. IV 143 ss.; 246 ss.), “Vichiana” 18, 1989, pp. 272-96. 52 Il passo va integrato con III 554 ss. e collegato con Lucr. I 717 ss., geo. I 471 ss.

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PERCORSI POETICI DEL PAESAGGIO NELL’ENEIDE

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gantesca), come chi all’inizio del mese lunare vede o crede di vedere la luna coperta di nembi, éj t…j te nšwÄ ™nˆ ½mati m»nhn / À ‡den À ™dÒkhsen ™pollÚousan „dšsqai (IV 1479-80); anche se lessicalmente dipende da Enn., ann. 102 Vahl.2 (= 33 Skutsch = 35 Flores), cum superum lumen nox intempesta teneret. In tre distinti momenti della Iliuperside le scene di devastazione acquisiscono maggiore visività dal differimento allo scenario marino e silvano. Enea balza dal sonno risvegliato dai clamori e raggiunge il tetto da dove vede la città sconvolta; non diversamente, alimentato dai venti furiosi il fuoco divora le messi o dai monti un torrente devasta campi, piantagioni, il lavoro dei buoi, e trascina alberi divelti (vv. 304-08); i Greci irrompono nella casa di Priamo come un fiume vorticoso che, uscito dagli argini, dilagando invade la campagna e trascina per la piana stalle e armenti (vv. 496-99); Troia sprofonda tra le fiamme come un vecchio frassino che i boscaioli si sforzano di abbattere a colpi di scure: tremano le foglie e incurva la cima ad ogni colpo, poi, vinto dalle ferite, geme e, infine, sradicato, precipita rovinoso (vv. 624-31). Molti paesaggi virgiliani, tutt’altro che realistici53, possono risentire di convenzionalità, risultare libreschi, talora addirittura scontatamente fiabeschi. E. R. Curtius, nel cap. X della sua opera fondamentale54 dedicato al ‘paesaggio ideale’, cita, dell’Eneide, due soli esempi: il primo è quello descritto a VI 179 ss.55. Appresa la notizia della morte di Miseno dalla Sibilla che pone come condizione per la discesa agli Inferi la sepoltura del compagno ed il ritrovamento del ramo d’oro56, 53

Talvolta volutamente errati ed ingannevoli nella descrizione. Sulla non corrispondenza con la realtà, ad es., dell’espressione rapidum Cretae ... Oaxen di buc. 1,65 cf. S. Hatzikosta, Non-existent Rivers and geographical “Adynata”, “Mus. Phil. Lond.” 7, 1987, pp. 121-33, che attribuisce l’‘errore’ intenzionale sulla realtà idrografica all’ironia usata da Virgilio per sottolineare l’incultura di Melibeo, ‘a naïve, ignorant shepherd’ (p. 128). 54 Cf. Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it., Firenze 1992, pp. 207-26. 55 Sui confronti con Enn. ann. 187-91 Vahl.2 (= 175-79 Skutsch = 188-92 Flores), già individuato questo da Macr. VI 2, 27, ed Il. XXIII 114 ss. cf. G.B. Pighi, De libro Aeneidos VI quae est catabasis Aeneae, Romae 1967, p. 108. R. Schilling, Tradition et innovation dans le chant VI de l’Énéide, in Homenaje a Virgilio, en el bimilenario de sua muerte, a cura di H.F. Bauzá, Buenos Aires 1982, pp. 129-42, ha osservato che Virgilio non sceglie come apertura del pellegrinaggio oltretombale di Enea una fomula magica, ma un simbolo vegetale. Sul paesaggio in tutta la prima parte del l. VI cf. J.J.C. Smolenaars, Landschapen poezie Vergilius Aeneis 6.1-242, “Lampas” 32, 1999, pp. 179-97. 56 Il rifulgere di questo ramo ispira a Virgilio una stupenda similitudine di stampo paesaggistico: “Quale d’inverno il vischio nei boschi / di nova fronda si veste che in altro albero ha il seme / e i lisci tronchi circonda di gialle sue bacche, / tale su l’ìlice nera sembrava dell’oro la fronda, così crepitava al vento lieve la làmina” (trad. E. Cetrangolo,

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VIRGILIO

l’eroe troiano ed i compagni fanno a gara a costruire l’alta pira. Si recano in un bosco antichissimo, immenso (v. 186), ed abbattono pini e elci, frassini, querce ed orni57:

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Itur in antiquam silvam, stabula alta ferarum; procumbunt piceae, sonat icta securibus ilex fraxineaeque trabes, cuneis et fissile robur scinditur, advolvont ingentis montibus ornos.

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L’avvicendamento simmetrico di forme plur. e sing. (piceae, ilex, fraxineae ... trabes, robur, ornos) allarga e restringe alternatamente il campo visivo di questa silva, prima profondo rifugio di fiere ora stanate. L’azione, compatta e caparbia, di Enea e dei compagni ‘offende’ questo habitat snaturandolo; eppure non era stata autorizzata dalla Sibilla che aveva ordinato di cercare a fondo con lo sguardo, alte vestiga oculis (v. 145), il ramo d’oro, che obscuris claudunt convallibus umbrae (v. 139). Per quanto lo scempio compiuto agevoli la ricerca, Enea ha comunque avuto bisogno dell’aiuto delle due colombe inviategli da Venere. La sconfitta del bosco, avallata dal tacito assenso del soprannaturale, è forse ispirata a Virgilio dai lontani ricordi della deforestazione cui aveva assistito da giovane, quando la necessità di creare o di allargare le radure per le coltivazioni agricole aveva profondamente trasformato il paesaggio58. Ne aveva cantato già nelle Georgiche (II 207 ss.), e l’immagine implicita dello stanamento delle fiere, qui nell’Eneide, è dettata dall’analoga visione georgica degli uccelli cui è stata distrutta l’antica dimora (ibid., v. 209). Dopo la vista della riva dell’Acheronte che ispira, in uno scenario stupendo e delicatissimo, la similitudine delle foglie59 cadenti e degli uccelli migranti per il freddo invernale (vv. 310-12), dopo la vista dei sentieri appartati, coperti dalla murtea silva, riservati ai morti d’amore (vv. 441 ss.), e dopo la vista del Tartaro (che bis patet in praeceps tantum tenditque sub umbras / quantus ad aetherium caeli suspectus Olympum60, vv. Virgilio. Tutte le opere, cit.). 57 Uno scenario analogo è a XI 135-38. 58 Condivido il pensiero espresso da F. della Corte, Il faggio di Titiro, “Vichiana” III s., 2, 1991, pp. 123-43 (cf. pp. 142-43). 59 Sulla controversa fonte diretta di questa similitudine si veda il ragguaglio della questione in Maggiulli, in “Enc. Virg.” II, cit. Sul modello omerico (Il. II 467-68) e virgiliano stesso (geo. IV 471-77) si sofferma Arm. Salvatore, Elementi di originalità nelle similitudini virgiliane, in Filologia e forme letterarie, cit., II, pp. 457-79 (cf. pp. 465-68; ora in Id., Virgilio, Napoli 1997, pp. 113-36). 60 Ricordo en passant che Virgilio non offre mai una descrizione fisica della dimora

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PERCORSI POETICI DEL PAESAGGIO NELL’ENEIDE

578-79), Enea si asperge il corpo con l’acqua e appende sulla soglia il ramo d’oro (vv. 638 ss.):

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devenere locos laetos et amoena virecta fortunatorum nemorum sedisque beatas. Largior hic campos aether et lumine vestit purpureo, solemque suum, sua sidera norunt.

Comincia la rappresentazione dei Campi Elisi, subito connotati nell’ampia spazialità e nell’abbagliante luminosità; i dati descrittivi emergono di volta in volta61. In questo luogo passimque soluti / per campum pascuntur equi (v. 651); Museo, al quale la Sibilla chiede dove sia Anchise, dirà tra l’altro: ... lucis habitamus opacis / riparumque toris et prata recentia rivis (vv. 673-74), e poi mostrerà loro campos ... nitentis (v. 677); Anchise è penitus convalle virenti (v. 679): l’assemblamento di questi elementi sparsi, e di altri ancora, configura la scenografia del locus amoenus62: Enea vede nella valle remota del Lete un bosco isolato, virgulti, un fiume, genti e popoli63 come api64 che si posano sui fiori nei prati (vv. 703-09): in valle reducta seclusum nemus et virgulta sonantia silvae Lethaeumque domos placidas qui praenatat amnem. Hunc circum innumerae gentes populique volabant: ac celuti in pratis ubi apes aestate serena floribus insidunt variis et candida circum lilia funduntur, strepit omnis murmure campus.

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Questi luoghi, definiti da Anchise laeta arva (v. 744), sono l’antitesi della grotta della Sibilla rappresentata ai vv. 237 ss.65. Per allargare degli dèi. 61 Un analogo andamento narrativo coinvolge la descrizione dei luoghi (è interessante, qui, la descrizione di ambienti anche interni) di un Lazio arcaico durante la passeggiata ‘archeologica’ che Enea compie sotto la guida di Evandro nel l. VIII (la grotta di Caco, e l’impresa di Ercole, con ampi squarci paesaggistici, la rupe Tarpea, il Campidoglio), in ossequio alla laudatio temporis acti di stampo prettamente augusteo (cf., per es., Tib. II 5, 23 ss.; Prop. IV 1). 62 Su questa tematica cf. G. Schönbeck, Der locus amoenus von Homer bis Horaz, Diss. Köln 1964 e A. Pennacini, Amore e canto nel locus amoenus, Torino 1967. 63 Non è una reduplicazione oratoria: con gentes si indica la comunanza delle origini, con populi l’aggregazione per leggi ed istituzioni. 64 Il paragone anime-api si trova in Soph. fr. 879 Radt (bombe‹ dû nekrîn smÁnoj œrceta… t’¥nw), citato da Porfirio, perˆ toà tîn Numfîn ¥ntrou 18 (ma si veda anche 19): cf. Laura Simonini, Porfirio. L’antro delle ninfe, testo gr., introd., trad. e comm. a cura di L. S., Milano 1986, pp. 168 ss. 65 Spelunca alta fuit vastoque immani hiatu, / scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris,

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VIRGILIO

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l’orizzonte visivo di questi luoghi incantevoli Virgilio ricorre anche alla funzione dilatativa della similitudine. Enea e la Sibilla, accompagnati da Anchise, escono da una delle due porte del Sonno66, non quella di corno, donde possono uscire le verae umbrae, ma quella di candido avorio. La descrizione della valle d’Ansanto (VII 563-71), carica di intensi effetti fonici (allitterazioni, onomatopee) e ritmici (quasi tutti gli esametri sono scanditi da pentemimere ed eftemimere), costituisce un’appendice del mondo dell’aldilà, e un’anticipazione del paesaggio laziale sviluppato nel libro seguente. Terminato il suo cómpito, la terribile Furia Aletto libera dall’incubo cielo e terra, e torna nella sua sede67: Est locus Italiae medio sub montibus altis, nobilis et fama multis memoratus in oris, Ampsancti valles: densis hunc frondibus atrum urguet utrimque latus nemoris medioque fragosus dat sonitum saxis et torto vertice torrens. Hic specus horrendum et saevi spiracula Ditis monstrantur, ruptoque ingens Acheronte vorago pestiferas aperit fauces, quis condita Erinys, invisum numen, terras caelumque levabat.

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L’attacco, come a I 159, tipicamente introduttivo dell’œkfrasij topografica, rievoca la descrizione dell’alta spelunca della Sibilla; il poeta sottolinea la celebrità di questa valle, situata ai piedi dell’Appennino: sullo sfondo una chiostra di colli boscosi anneriti dalla fitta vegetazione, attraversata dalla furiosa corrente del fiume che fragoroso rotola pietrame. Lì si apre lo spiraglio del funesto Dite, e la voragine immensa, inondata dal prorompente Acheronte, inarca pestifere fauci: locus horridus! che preannuncia dall’esterno le terribili sedi infernali nelle quali l’Erinni torna ad inabissarsi. L’ampio quadro perfeziona la descrizione della natura di questo personaggio, foggiato dal suo habitat nella agghiacciante mostruosità. Lo scarto dimensionale tra / quam super haud ullae poterant impune volantes / tendere iter pinnis: talis sese halitus atris / faucibus effundens supera ad convexa ferebat; e ancora: In medio ramos annosaque bracchia pandit / ulmus opaca (vv. 282-83). 66 È l’ultimo tocco di un paesaggio perpetuo. L’attacco del passo, Sunt geminae Somni portae, è ripreso, con la necessaria variante, a VII 607, Sunt geminae Belli portae, un richiamo intratestuale che potrebbe essere carico di importanti valenze allusive (non è questo il luogo per discuterne). 67 Per le corrispondenze con l’antro di Caco (VIII 241-46), per la letterarietà della descrizione, per l’eventuale identificazione topografica cf. Paratore, Virgilio. Eneide (libri VII-VIII), cit., IV, p. 197.

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PERCORSI POETICI DEL PAESAGGIO NELL’ENEIDE

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l’essenza di Aletto e quella degli dèi, dai quali è stata richiamata, è sottolineato da Virgilio con il supporto topografico: la Furia lascia i supera ardua, una sede che non le compete, e torna, levandosi nell’aria tra lo stridore di serpenti, al Cocito, allontanata dalla figlia di Saturno: “Cede locis” (v. 559). Un dettaglio caratterizzante del personaggio68 in azione o di un passaggio della vicenda ispira nella poesia epica uno stilema tipico del suo statuto, la similitudine, spesso costruita su una condensata nota paesistica. Essa contiene un elemento illustrativo, talvolta un laconico commento, per veicolare adeguatamente la fantasia del lettore. In Virgilio, come in Apollonio, la similitudine può contenere anche segmenti aggiuntivi o allusivi69 della stessa narrazione autentica, a differenza del ruolo deviante svolto in Omero. Piuttosto frequente è l’inquadramento di Turno e di Enea in similitudine a sfondo paesaggistico, e, in due casi70, congiuntamente: alla convergenza fisica dei due personaggi, nella scena finale del duello, corrisponde una convergenza narrativa attraverso il paesaggio. Quando 68 Solo raramente uno dei due termini della similitudine non è costituito da figura umana: cf., ad es., V 84-89 (un serpente e l’arcobaleno, in un contesto prodigioso). 69 A IX 710-14 il paragone della caduta di Bizia con il crollo di un pilone sulle rive del Po è preparato ai vv. 677-82 dall’analogia di Pandaro e Bizia con le torri. Sugli aspetti topografici dei luoghi in cui i due eroi svolgono le loro operazioni cf. F. della Corte, Commento topografico al IX dell’Eneide, in Vergiliana. Recherches sur Virgile publiées par H. Bardon et R. Verdière, Leiden 1971, pp. 137-57 (cf. pp. 155-56) [= Opuscula III, Genova 1972, pp. 121-41]. Per quanto riguarda il sito padano citato da Virgilio, esso è giustamente considerato reminiscenza del paesaggio della Bassa Padana da F. della Corte, Il paesaggio mantovano di Virgilio, in Atti e memorie n.s. 53, Acc. Naz. Scien. Lett. ed Arti, Mantova 1985, pp. 41-56 (cf. p. 51) [= Opuscula X, Genova 1987, pp. 25-40]. 70 Cf. XII 749-55, in cui Enea è assimilato al segugio, Turno al cervo (cf. V. Di Benedetto, I paragoni del cervo e del sogno nel XII dell’Eneide, “RFIC” 124, 1996, pp. 290-99); l’analogia di Turno col macigno di XII 684-92 va associata a quella di Enea che per possanza è simile al monte Athos, all’Erice o al padre Appennino, che, superbo delle sue cime nevose, si staglia nel cielo (caso raro in cui Virgilio mostra simpatia per la neve: si parla del pater Appenninus; si vedano al riguardo le osservazioni di A. Traina, Virgilio. L’utopia e la storia. Il libro XII dell’Eneide, Torino 1997, p. 165). Giusta l’annotazione serviana: “comparatio ipsa futurum ostendit eventum, simul notandum quod, sicut supra in proelio, ita nunc etiam in comparatione praefertur Aeneas: nam Turnum parti comparat montis, montibus exaequat Aenean”. Aggiungerei che l’immagine del rotolamento di Turno previene quella del lancio vano e debole proprio di un macigno (XII 896 ss.) e poi quella della sua caduta provocata dall’asta scagliata da Enea nel corso del duello (incidit ... / ... ad terram, vv. 926-27). Su questo luogo cf. Munera, La montaña..., cit., pp. 165-66 e 168. La similitudine di Enea con monti della Grecia e dell’Italia dimostra che “Virgilio siente viva admiración por la montaña [...], abierto a toda clase de sensaciones y atisbos, propios de un espíritu que vibra ante los espectáculos dela naturaleza” (ibid.); cf. anche M. Geymonat, Immagini letterarie e reali del paesaggio di montagna in Virgilio, “Philologus” 144, 2000, pp. 81-89 (cf. pp. 87-88).

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VIRGILIO

Enea entra in conflittualità con il re dei Rutuli, si infittiscono per lui le similitudini paesaggistiche71. A Turno, che saggia le difese avversarie e divampa d’ira, è riservata, in un contesto in cui altri eroi vengono citati senza attribuzioni, la similitudine col Gange silenzioso ma gonfio e col Nilo limaccioso (IX 28-32): la descrizione del paesaggio in similitudine diventa funzione della rappresentazione epica del personaggio che poco dopo, ai vv. 5966, in un crescendo, è assimilato ad un lupo nell’ovile72. L’animale73 è l’elemento di confronto più frequente per il Rutulo. L’annuncio dell’inizio (aurora, alba) o della fine (notte) del giorno offre alla poesia epica, sin dalla più antica tradizione74, un’ulteriore occasione per istantanei spunti paesistici, che Virgilio sottrae alla piatta formularità omerica, gestendone la contestualizzazione secondo le modalità fin qui individuate per altre ‘incursioni’ ambientali, non esclusa la similitudine. La duplice funzione strutturale di questi schemi, di chiusura e di avvio di settori narrativi, ne fissa il rapporto col prima e/o col dopo, per cui essi diventano una sorta di nesso logico-sintattico, espresso in modo molto variato. 71 A X 270-75, ad es., l’elmo di Enea è paragonato alle comete; a X 803-10 l’eroe è assimilato ad un temporale; a XII 451-58 ad un nembo. Nella prima esade spicca la celeberrima similitudine di IV 441-49, in cui l’irremovibilità di Enea è confrontata con la resistenza della quercia smossa dai venti. 72 Viola G. Stephens, Like a Wolf on the Fold: Animal Imagery in Vergil, “Illin. Class. Stud.” 15, 1990, pp. 107-30, pone l’attenzione sulla corrispondenza tra uomo e animale, che a seconda della debolezza o forza sono soggetti alla sconfitta o alla vittoria. Ad un lupo è ancora paragonato Turno a IX 59-66; ad un’aquila o ancora ad un lupo, nello stesso libro, ai vv. 559-66. È utile consultare la voce “animali” redatta per l’“Enc. Virg.” da Silvana Rocca, vol. I, Roma 1984, pp. 173-76, ma cf. già Ead., Etologia virgiliana, Genova 1983, spec. pp. 147 ss. 73 Cf. XI 493 ss. (il cavallo), XII 715-24 (il toro). Per altre similitudini con animali, paesaggisticamente contestualizzati, cf. ancora, ad es., V 594-95 (i giovani Teucri e i delfini), VII 698-702 (i soldati italici e i cigni), IX 549-55 (Elenore e la fiera), X 264-66 (i Dardani e le gru); X 707-16 (Mezenzio ed il cinghiale), XI 456 ss. (i Dardani e le gru o i cigni), XI 718-24 (Camilla e lo sparviero), XII 473-80 (Giuturna e la rondine nera). Su quest’ultima analogia cf. K.V. Hartigan, He rose like a Lion. Animal Similes in Homer and Virgil, “Acta Ant. Scient. Hung.” 21, 1973, pp. 223-44 (cf. pp. 242-43); cf. anche M. Bettini, Turno e la rondine nera, “QUCC” 59, 1988, pp. 7-24 (soprattutto se entra in casa, la rondine è segno di morte). Sulla commistione di tratto paesaggistico realizzato con la presenza di animali in contesti prodigiosi cf., ad es., anche VII 64-67 (le api; ma si vedano anche i vv. successivi, in cui viene descritta Albunea, per la cui identificazione cf. della Corte, La mappa dell’Eneide, cit., pp. 188-89), VIII 81-83 (la scrofa; ma si vedano anche i vv. successivi in cui viene descritto in modo molto lirico un mare tranquillo) e XII 247-56 (l’aquila). Incisive anche le similitudini con agenti atmosferici. 74 Il mondo classico considerava impoetica l’indicazione dell’ora del giorno. Per una rassegna ragionata di questo segmento tematico nella poesia latina cf. H. Bardon, L’Aurore et le crépuscule, “REL” 24, 1946, pp. 82-115.

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PERCORSI POETICI DEL PAESAGGIO NELL’ENEIDE

La notte è spesso indicata con l’apparizione della luna75 o con l’insorgere del sonno. Sono momenti nei quali, per lo più, i protagonisti si abbandonano alla placida quies. Il contrasto quiete (sonno)ansia (veglia) è un topos che dalla più antica tradizione epica subisce una graduale dilatazione sino a Virgilio. In Omero esso oppone un personaggio ad una pluralità di altri personaggi, o un personaggio ad un altro: in Il. II 1-4 l’agitazione toglie a Zeus il sonno nel quale sprofondano invece gli altri dèi; in Il. X 1-4 Agamennone non trova il molle sonno dal quale sono avvolti gli altri capi; in Od. XV 4-8 il contrarium è tra l’insonne Telemaco ed il figlio di Nestore “vinto dal sonno soave”, il motivo è sempre svolto in modo scarno ed espresso con prevedibile ancorché parziale formularità. In Theocr. 2,33-34 (Gallavotti, Romae 19552; 38-39 Gow, Oxford 1988) Simeta sconsolata per il tradimento del suo uomo esclama: “tace il mare, tacciono i venti, ma non tace la mia pena nel cuore”. Apollonio Rodio (III 74450) sposta l’attenzione dal mare e dai venti per concentrarla piuttosto su agenti umani: naviganti, viandanti, guardiani, persino una madre che ha perso i figli sono colti dal sonno notturno, e con loro il cane non guaisce nel silenzio delle tenebre, “ma il sonno soave non prende Medea”; il poeta epico ellenistico mostra la chiara intenzione di indulgere sul motivo insistendo soprattutto su una pluralità di figure umane. Virgilio, infine, presenta uno scenario affollato, invece, di immagini tratte dal mondo della natura nella sua totalità, con particolare predilezione per l’elemento animale, e, per la prima volta, inserisce l’elemento vegetale (IV 522-28): Nox erat et placidum carpebant fessa soporem corpora per terras silvaeque et saeva quierant aequora, cum medio volvuntur sidera lapsu, cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres, quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis rura tenent, somno positae sub nocte silenti. [lenibant curas et corda oblita laborum].

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L’attacco è epico-tragico, come l’incipit del XV epodo oraziano. Domina il silenzio; i corpi si rilassano: il generico corpora riassume la folta presenza umana delle Argonautiche greche; boschi e mare (ripresa 75 Interessante, anche per le implicazioni simbolistiche e psicanalitiche, M. Owen Lee, Per nubila lunam: The Moon in Virgil’s Aeneid, “Vergilius” 34, 1988, pp. 9-14. Segnalo anche M. Gigante, Virgilio e le stelle, in Scritti classici e cristiani offerti a Francesco Corsaro, Catania 1994, pp. 319-25.

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VIRGILIO

teocritea76) son quieti; le stelle a metà del corso; il campo è silente; greggi ed uccelli, di acqua e di terra, riposano. In contrapposizione lo stato d’animo agitato di Didone (v. 529): At non infelix animi Phoenissa (scil. quiescit) < Apoll. Rh. III 751, `All¦ m£l’ oÙ M»deian ™pˆ glukerÕj l£ben Ûpnoj: emerge l’angoscia profonda della regina, isolata nella generale quiete che cala su tutte le creature di un microcosmo significativamente idealizzato in locus amoenus. La storia si ripete, e questa volta più drammaticamente; infatti, già ai vv. 80-81, ubi ... lumen ... o b s c u r a vicissim / luna premit suadentque cadentia sidera somnos, alla quiete generale ed anonima è contrapposto lo stato di agitazione interiore di Didone (annunciato dal segnale lessematico obscura, che torna a v. 461), che tormentata abbandona il letto per avviarsi ad abbandonare la vita.

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Ma cf. anche Simon. fr. 13 Diehl: Danae invita il bimbo, il mare, l’immensa sventura a dormire: eÏde bršfoj, eØdštw dû pÒntoj, eØdštw /’ ¥mhtron kakÒn.

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VI.

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LA GLORIA NEGATA: DEIFOBO, ‘BELLO CLARUS’ (VERG. AEN. VI 494 SS.)

Oltre il vestibolo del regno dei morti, sede dei Mali e dei Mostri, che la mitologia aveva orrendamente personificato, giacciono sulla riva dell’Acheronte le anime degli insepolti, ancora vincolate al terreno e perciò soggette alla dimensione del tempo, in attesa, secondo la “credenza generale dell’antichità”1, che trascorrano quei cent’anni2 che le separano dal possibile traghettamento sui rauca fluenta; tra quelle anime un posto di rilievo, scenico e narrativo, è assegnato a Palinuro3. Nudo giacente su una spiaggia ignota, dunque insepolto all’insaputa di tutti, la scoperta della sua scomparsa chiude il l. V dell’Eneide. Enea erroneamente riteneva che fosse vivo; l’incontro nell’Ade con il Troiano4 riserverà allo sfortunato nocchiero la garanzia, da parte del1

Cf. F. Cumont, Lux perpetua, Paris 1949, p. 306. Cf. Aen. VI 327-30; il Danielino osservava che cento erano i legitimi anni di vita, esauriti i quali l’anima può pervenire alla condizione di purificazione per tornare, quindi, alla reincarnazione; al riguardo si veda Plat. resp. 10, 615, come ricordava E. Norden, P. Vergilius Maro.“Aeneis” Buch VI, Stuttgart 19574 (19263), pp. 10-11. 3 Su questo personaggio cf. G. Laudizi, Palinuro (Verg. Aen. V 827 ss.; VI 337 ss.), “Maia” 40, 1988, pp. 65-67, secondo il quale la sconfitta di Palinuro diventa “il simbolo della solitudine dell’uomo”, del suo isolamento davanti alla parte oscura dell’ignoto; un giudizio condiviso da A. Setaioli, Palinuro: genesi di un personaggio poetico, “BollStLat” 27, 1997, pp. 56-81 (poi in Id., Si tantus amor … Studi virgiliani, Bologna 1998, pp. 75-104, da cui cito: cf. p. 99); cf. anche Gabriela Cretia, La triple initiation d’Énée, “Stud. Clas.” 28-30, 1992-94, pp. 39-47. Questa esegesi, oltretutto, ha il merito di svincolare l’incontro ultraterreno da implicazioni che coinvolgano la condizione spirituale e/o psicologica di Enea: l’episodio di Palinuro non agisce in nessun senso, e tanto meno catarticamente, sullo sviluppo della interiorità della guida dei Troiani, e non ne condiziona i gesti. 4 Enea incontrerà poi Didone e quindi Deifobo, secondo una progressione cronologica inversa: dagli eventi più recenti a quelli più lontani, come sottolineava già R.S. Conway, The structure of Aen. VI, in ‘Essays … presented to W. Ridgeway’, Cambridge 1913, p. 16. Gli incontri ripercorrono il segmento diegetico tracciato dall’autore dell’XI libro dell’Odissea, 2

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VIRGILIO

l’eroe, di una degna inumazione, gesto estremo di pietà dei finitimi che espieranno le sue ossa ed innalzeranno un tumulo: la storia avrebbe gratificato il suo operato con l’assegnazione del toponimo (aeternum … locus Palinuri nomen habebit, VI 381). Un rito che non può essere compiuto personalmente da Enea, inabilitato a tornare indietro, per quanto Palinuro stesso gliene avesse fatta accorata richiesta (vv. 362 ss.): la missione del pius dux impone una tensione in avanti che non consente deroghe5: ogni pensiero dell’eroe troiano, ogni sua azione, ogni sua esperienza, pratica o psicologica, devono essere finalizzati al cómpito affidatogli dagli dèi e dal destino. L’episodio di Palinuro riempie, nell’economia complessiva del poema, una lacuna diegetica, è il completamento di un segmento narrativo, e garantisce un’importante rassicurazione al personaggio che acquisisce la certezza della prossima sepoltura. Trasportati sulla riva opposta del fiume infernale e addormentato Cerbero con una focaccia, Enea e la Sibilla raggiungono il limbo6 che ospita cinque schiere di anime: le prime quattro sono affollate di infanti, di innocenti vittime di una ingiusta condanna a morte, di suicidi pentiti, di morti per amore nascosti nei lugentes campi tra selve di mirto: curae non ipsa in morte relinquont, v. 444, e non abbandonano la stessa Didone7. Il mondo dei morti è, istituzionalmente, per i morti il mondo del finito terreno, del passato dell’essere, il mondo di coloro per i quali il tempo della vita si è ad un certo punto fermato, ma non deve esso accreditarsi, per Enea, come il mondo del ricordo, e tanto

in cui Odisseo, disceso nell’Ade per conoscere il proprio futuro da Tiresia, incontra prima Elpenore (~ Palinuro), poi Aiace (~ Didone), infine Agamennone (~ Deifobo). L’incontro preliminare con Elpenore, come dice A. La Penna, Deifobo ed Enea (Verg. Aen. VI 494547), “RCCM” 20, 1978 [Miscellanea di Studi in memoria di M. Barchiesi], p. 993, si spiega col fatto che Elpenore ancora non ha attraversato lo Stige. 5 La sepoltura di Miseno, insieme col ritrovamento del ramo d’oro, non è stato un gesto rivolto al passato ma un necessario rito che consentirà ad Enea di procedere verso il futuro, di nuovo uscendo all’aria superna dopo la visita nei luoghi oltretombali (vv. 152 e 160 ss.). 6 La rappresentazione del mondo dell’aldilà doveva strutturarsi in varie sezioni, divise innanzitutto tra il mondo del male e il mondo del bene: Tartaro e Campi Elisi, ma Virgilio trova il modo di creare altri settori minori, di presenza temporanea o eterna ma alternativa a quei due aspetti contrastanti; immagina questo limbo in cui trovano spazio taluni particolari personaggi. Cf. R. Merkelbach, Eine orphische Unterweltsbeschreibung auf Papyrus, “MH” 8, 1951, pp. 1-11; A. Vogliano, Prolegomena I, Roma 1952, pp. 100-06; M. Treu, Die neue ‘orphische’ Unterweltsbeschreibung und Vergil, “Hermes” 82, 1954, pp. 24-25; A. Setaioli, s.v. inferi, in “Enc. Virg.” II, Roma 1985, spec. pp. 958 e 961. 7 Delle prime tre categorie non sono citati personaggi perché esse non rappresentano tipologie umane presenti nell’Eneide.

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LA GLORIA NEGATA: DEIFOBO, ‘BELLO CLARUS’ (VERG. AEN. VI 494 SS.)

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meno della rievocazione catartica, come invece voleva K. Reckford8 che, in una visione che si potrebbe definire dantesca, considerò la catabasi di Enea uno “psychological journey”. “Enea è ora pronto a riprendere il cammino della speranza”: con un linguaggio cristianoromantico il Laudizi, commentando l’invito finale di Deifobo, mostra di incanalarsi in quello stesso solco di pensiero9. Enea è sceso nell’Ade – si sa, glielo aveva suggerito Eleno indirizzandolo alla Sibilla (III 441 ss.), glielo aveva chiesto Anchise venutogli in sogno – per conoscere il futuro che proprio lui, il vecchio padre, gli avrebbe svelato (V 735-36). Se Virgilio, nel corso della discesa agli inferi di Enea, avesse dato voce solo ad un Anchise che preannuncia il futuro, avrebbe offerto un’idea deviante e deviata dell’aldilà; anche sotto il profilo diegetico, era necessario l’attraversamento di uno spazio tra l’ingresso nel mondo dell’aldilà ed i Campi Elisi, e per soddisfare questa esigenza della narrazione (la parte cosiddetta mitologica) il poeta può disporre del modello omerico. Tutti i personaggi incontrati da Enea appartengono evidentemente al passato – non avrebbe potuto essere altrimenti data la natura del luogo –, ed illustrano, con modalità comunicazionali di volta in volta diverse, all’eroe ed al lettore i termini del loro ultimo passato, non corrispondenti alle cognizioni dell’eroe, precedentemente esternate, che, quindi, rispetto alle testimonianze dei diretti interessati si rivelano false. Finalmente, nella zona estrema, negli ultima arva, ha sede l’ultima delle cinque schiere, quella dei guerrieri che hanno trovato celebrità nella guerra, i bello clari; essi si distinguono da coloro che patendo ferite morirono ob patriam pugnando (v. 660), e perciò meritarono le sedi beate: a questi spetta il godimento dell’Elisio10. Solo anime appartenenti alle due ultime categorie guadagnano gli onori della citazione: Fedra e Procri, Erifile11, Evadne e Pasifae,

8

Cf. Helen in Aeneid 2 and 6, “Vergilius” 14, 1981, p. 93. Cf. Enea e Deifobo nell’Ade (Verg. “Aen.” 6,494-547), “Orpheus” 13,2, 1992, p. 259. 10 F. Cumont, Lux perpetua, cit., pp. 308, 332-33, ha dimostrato che tra le due categorie ci sono due concezioni di diversa provenienza. Lo studioso ricorda che nella Tetrabiblos di Tolomeo sono associate tre delle quattro classi di biaioq£natoi (term. tecn. del linguaggio astrologico) che si incontrano in Virgilio: guerrieri, suicidi, vittime delle donne (p. 310). Setaioli, nella citata voce inferi, p. 957, parla di “palese incongruenza”, che, a mio avviso, può valere per i tanti guerrieri troiani citati, ma non per Deifobo, per le ragioni che esporrò in seguito. 11 Queste prime tre donne compaiono nel catalogo dei personaggi femminili incontrati da Odisseo in Od. XI 321-27. 9

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VIRGILIO

Laodamia e Ceneo12 (comes et iuvenis quondam, nunc femina, v. 448)13, infine Didone, cui viene riservato un risalto che più che essere degno del suo rango regale (v. 450), è consono al ruolo che il personaggio ricopre all’interno della trama diegetica e del peso assunto nella griglia poetica: inter quas Phoenissa recens a volnere Dido / errabat14. Tutte queste donne15 portano con sé, oltre la vita terrena, la condizione di sofferenza interiore (v. 444): tutte erano morte per amore, e tutte, pur se per ragioni e modalità diverse, erano state vittime dell’amore16. Erifile (v. 445) addirittura ostenta le ferite che le ha inferto il figlio crudele. Fu uccisa dal figlio Alcmeone17 che la puniva per aver svelato a Polinice, dalla cui collana di Armonia era stata sedotta, dove fosse nascosto il marito Amfiarao, provocandone la morte durante la spedizione dei Sette contro Tebe18. In realtà Erifile, sotto certi aspetti, potrebbe apparire la meno degna di compianto, eppure Virgilio riserva soltanto a lei un’espressione di rammarico per la sua fine, crudelis nati monstrantem volnera (v. 446), e solo lei è definita maesta: il poeta preferisce vedere in lei la donna che aveva, sì, tradito, ma sotto 12 Su questa complessa figura cf. Grace Starry West, Caeneus and Dido, “TAPhA” 110, 1980, pp. 315-24. 13 Non sono tutti personaggi del ciclo troiano, perché Virgilio sta rappresentando una umanità universale. 14 Credo che meriti particolare attenzione la riflessione di T.S. Eliot, What Is a Classic?, London 1945, quando scriveva che “Dido’s behaviour appears almost as a projection of Aeneas’ own conscience; this […] is the way in which Aeneas’ conscience would exspect Dido to behave to him.” (p. 20): l’osservazione avrebbe incontrato la piena condivisione di J. Tatum, Allusion and Interpretation in Aeneid 6.440-76, “AJPh” 105, 1984, pp. 434 s.; più recentemente l’ha ripresa Licinia Ricottilli, Gesto e parola nell’Eneide, Bologna 2000, p. 106. Virgilio però, a mio avviso, ribadisce qui il sacrificio costante compiuto da Enea, che, per rispettare e soddisfare il volere del fato, forza continuamente la sua interiorità sino, in alcuni casi, e quello dell’allontanamento da Tiro è uno di essi, ad annullarla. Quello di Enea al cospetto dell’ombra di Didone non è rimorso nella coscienza di una colpa commessa, ma desiderio, inappagato, di far comprendere la ‘necessità’ dell’ossequio verso il volere del fatum; la storia di Enea-guida, e dell’Italia, però, è assolutamente estranea alla Phoenissa Dido, non le appartiene, non le appartenne. A Didone è appartenuto piuttosto l’effetto, nel suo caso negativo, di quel destino cui Enea è vincolato. Enea-uomo è un’altra dimensione del personaggio. 15 Tutti personaggi femminili; E. Norden, P. Vergilius Maro. “Aeneis” Buch VI, cit., p. 248, congetturava che appartenessero ad un catalogo ellenistico di eroine nell’Ade. 16 È possibile reperire le storie drammatiche di queste eroine proprio nei testi nei quali ce le aspetteremmo: le tragedie di Euripide, le elegie di Properzio, le Metamorfosi di Ovidio. 17 La storia di Erifile ha elementi comuni con quella di Deifobo. Acutamente A. La Penna, La collana di Armonia e il bàlteo di Pallante. Una nota su Virgilio e Accio, “Maia” 54, 2002, pp. 259-62, trova consonanze con l’esito del duello finale tra Enea e Turno. 18 Fonti e testimonianze: Diod. IV 65,5 ss.; Ps.-Apollod. III 60 ss.; 86; Schol. Od. XI 326; Schol. Pind. Nem. 9,30; 35; Hyg. fab. 73; Stat. Theb. IV 187 ss.

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la spinta di un amore intenso, un po’ come Didone stessa, un po’ come Scilla. In Od. XI 326 Odisseo racconta d’aver visto stuger»n t' 'ErifÚlhn19, l’ “odiosa” Erifile, lo stesso epiteto riservato ad Elena che nell’opera di Virgilio provoca la morte di Deifobo: sono esempi di alessandrine Umkehrungen, indotte dal diverso punto di vista con cui quelle storie vengono proposte. Con quel maesta Virgilio prende le distanze dal giudizio omerico20 e da altre testimonianze contemporanee: penso alla paradigmaticità negativa cui Properzio la innalza, insieme con Creusa, la nuova moglie di Giasone, per indicare a Cinzia le gravi conseguenze cui può andare incontro la donna con la sua infedeltà (II 16, 29-30; cf. anche III 13,57-58). Ma Virgilio unifica nella sorte di tutte queste donne la sua empatheia per Didone, che sembra, pertanto, riassumere in sé il pathos di tutte quelle eroine, di cui diventa simbolo. Per il poeta il racconto della storia di Didone ed Enea, come interrotto nel l. IV, merita il coronamento con una conclusione (né questa avrebbe potuto avere altro scenario) che riscattasse in qualche modo l’onta della donna abbandonata, lasciandole l’ultima ‘parola’, anzi affidandole l’arma della punizione consumata con lo sprezzante silenzio, che, però, è anche il segnale di un eros che ha inciso profondamente nell’animo, lasciando tracce di sé oltre la vita21. Anche Deifobo22, il fratello ad Ettore più caro23, è l’ultimo di un catalogo24, in cui appaiono i tebani Tideo, Partenopeo, Adrasto, poi i dardanidi Glauco, Tersiloco, Medonte, i tre figli di Antenore, di Polibete e di Ideo; poi i capi dei Danai e le schiere di Agamennone che, alla vista di Enea, tremarono di gran sgomento. In quest’“altro

19 Servio ad l. sospetta che Virgilio avesse scambiato nel testo greco stuger»n con stugn»n, ma l’esattezza dell’agg. è confermata dal giudizio espresso da Omero al v. successivo. 20 Cf. Paola Venini, s.v. Erifile in “Enc. Virg.”, vol. II, Roma 1985, p. 366. 21 La Ricottilli, Gesto e parola nell’Eneide, cit., p. 108, scrive che “si verifica una vittoria interna di Didone e la storia si ricapitola all’indietro sino a ritornare alla situazione precedente all’arrivo di Enea, cioè al legame di Didone col marito Sicheo.”. Una ricapitolazione reattiva che maschera la delusione amorosa innescata dalla ‘fuga’ di Enea. 22 Si veda la voce Deifobo in “Enc. Virg.”, vol. II, Roma 1985, pp. 15-16, curata da D. Romano. 23 Cf. Il. XXII 226 ss.; 233 s. 24 Questo catalogo ricorda quello cantato dal messaggero nei Persiani di Eschilo, dove si citano morti di entrambe le parti e si riporta il punto di vista dei Persiani morti a Salamina; si fa riferimento ai luoghi dove morirono e/o furono sepolti. Sull’argomento si leggano le fini osservazioni di Mary Ebbott, The List of the War Dead in Aeschylus’ Persians, “HSClPh” 100, 2000, pp. 83-96.

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episodio di spicco”, come lo definisce A. La Penna25, Enea, convinto della morte del compagno, invece ancora vivo (con Palinuro era avvenuto il contrario: variazioni autoriali sul tema!), dice di aver innalzato un tumulo sul lido reteo26 deponendo armi e nome in memoria di chi moriva dopo aver aspramente combattuto, di aver invocato tre volte il suo nome27, ma questa convinzione stride fortemente con la realtà: l’eroe è maledettamente sfigurato28; a differenza di Erifile, si vergogna di sé: forse per aver subìto quei maltrattamenti fisici lasciandosi sorprendere nel sonno, e forse anche per altre ragioni: egli conosceva i rimproveri che Ettore aveva espresso nei confronti di Paride per aver sposato Elena29. La ÍÁsij di Enea si apre sulla sensazione di sconcertante sorpresa che invade l’eroe, il cui ricordo del prode cugino è sconvolto dallo strazio della vista di un corpo martoriato dalle armi: Deiphobe armipotens30 … / quis tam crudelis optavit sumere poenas? / cui tantum de te licuit?31 Sulla location del tumulo innalzato da Enea non esiste alcuna tradizione letteraria, né poteva esistere perché il rito che egli dice di aver compiuto è privo di effettivo riscontro nella ‘realtà’ già alla coscien25 Cf. L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio, Roma-Bari 2005, p. 343. 26 Su questa localizzazione ferma particolarmente l’attenzione Pamela Bleisch in un saggio molto denso di stimolanti intuizioni, The Empty Tomb at Rhoeteum: Deiphobus and the Problem of the Past in Aeneid 6.494-547, “Class. Ant.” 18, 1999, 186-226. 27 Per la ritualità cf. Od. IX 65. 28 Sufficientemente nota, e citata, è la sorprendente somiglianza tra il mascalismÒj di Deifobo e quello rappresentato nel cosiddetto papiro di Bologna scritto nel III-IV sec. d.C. (vd. l’ediz. di Merkelbach cit. qui a n. 6): A. Setaioli, Il l. VI dell’Eneide, in Cultura e lingue classiche 3, a c. di B. Amata, Roma 1993, p, 329, sostiene di poter riconoscere nel papiro una precisa impronta ebraica; le concordanze con la rappresentazione virgiliana sono da ricondurre ad una fonte comune, che il papiro avrebbe adottato in senso ebraico, Virgilio in senso romano. Dello stesso Setaioli cf. già Nuove osservazioni sulla “descrizione oltretombale” nel papiro di Bologna, “SIFC” 42, 1970, pp. 179-224. 29 Cf. Il. III 38 ss.; le espressioni di scherno sono qui appresso riportate. 30 Dopo gli studi di A. Cordier, Études sur le vocabulaire dans l’“Énéide”. Contribution à une histoire de la langue épique de Livius Andronicus à Virgile, Paris 1939 (vd. p. 256), e di T. Lindner, Lateinische Komposita. Ein Glossar, vornehmlich zum Wortschatz der Dichtersprache, Innsbruck 1996 (vd. pp. 27-28), cf. su questo agg. da ultima Sonja Caterina Calzascia, I composti nominali con participio presente al secondo membro nell’Eneide, “BollStLat” 39, 2009, pp. 125-27. Non può essere sottovalutato che nel Deiphobus di Accio (260 Dangel) l’agg. qualifica la dea Minerva nella dedica achea del cavallo: Minervae donum armipotenti abeuntes Danai dicant (il verso è citato da ServDan ad Aen. II 17; sulla corr. della lez. tràdita armipotentes cf. l’ediz. della Dangel, p. 159, n. 36). 31 Tutti o quasi tutti i commentatori del l. VI dell’Eneide e dell’episodio di Deifobo in particolare registrano la matrice enniana (69-71 Jocelyn) dell’espressione di stupore pronunciata da Enea in questa circostanza, come in occasione dell’apparizione in sogno di Ettore del l. II (vv. 281-86).

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za mitografica di Virgilio, che torna sull’argomento per ristabilire la ‘verità’. Anche la stretta amicizia tra Enea e Deifobo, che emerge dall’episodio del l. VI, è, come scrive il Clausen32, un’invenzione di Virgilio, che rivede la tradizione e, alludendo al tradimento di Elena, ristabilisce il decorum narrativo con la creazione di un’occasione di riacquisizione della dignità attraverso la pietas altrui (di Enea)33. Più recentemente Pamela Bleisch ha insistito sul fatto che il poeta, o innovando o riprendendo una fonte a noi ignota, miri a collegare, allusivamente e non per semplice imitatio da Omero, la tradizione sepolcrale di Aiace a quella di Deifobo, anche su suggerimento di Pausania, che in V 22.2 propone una serie di ‘vite parallele’ selezionate tra mondo barbaro e mondo greco: Ulisse ed Eleno sono accomunati dalla fama di essere nei rispettivi eserciti i più intelligenti; dell’antico rancore tra Alessandro e Menelao si parla in Il. III 324 ss.; dello scontro diretto tra Enea e Diomede si legge in Il. V 297 ss.; 432 ss.; della associabilità di Deifobo ad Aiace34, t^ Telamînoj A‡anti Dh…foboj, manca un preciso riferimento testuale e, quindi, una precisa motivazione, ma è agevole supporre che essa sia dovuta al fatto che entrambi fossero stati disonorati da una morte ignominiosa che precludeva loro la fine eroica35. Ora, l’osservazione presente nello scolio serviano ad Aen. VI 505, ‘RHOETEO IN LITORE ubi erat asylum Aiacis’36, che il lido reteo, appunto, evochi il luogo di tumulazione di un grande eroe greco, Aiace Telamonio, ha molto influenzato l’analisi condotta dalla Bleisch: Aiace è vittima di Odisseo, Deifobo è vittima di Elena; “Deiphobus and Telamonian Ajax both illustrate the death of virtue, the negation of heroic glory.”37. Ma quanti sono vittime di quanti!: che una storia influenzi l’altra non è automatico, né il commentatore deve pretenderne acriticamente il collegamento. La studiosa, inoltre, ricordando che in Strab. XIII 1,30 si legge che nella città di `Ro…teion vi era una statua di Aiace, trasferita da Antonio in Egitto in dono a Cleopatra e poi restituita da Ottaviano ai legittimi proprietari, vincola all’attualità storico-politica il presunto collegamento Deifobo/Aiace, che Virgilio 32 Cf. W. Clausen, Virgil’s Aeneid: Decorum, Allusion and Ideology, München 2002, p. 116, n. 5. 33 Cf. ibid., pp. 114 ss. 34 Cf. Bleisch, The Empty Tomb at Rhoeteum, cit., p. 196. Di Aiace cf. anche Od. XI 543-67. 35 Come si legge nell’Argumentum di Iliup. Bern. (cf. Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, I, ed. A. Bernabé, Leipzig 1987-96). 36 Cf. anche Plin. V 124-25 e Strab. XIII 1,30. 37 Così la Bleisch, The Empty Tomb at Rhoeteum, cit., p. 197.

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avrebbe creato ex nihilo con la notizia della sepoltura del figlio di Priamo da parte di Enea presso il litus Rhoeteum38. Ma, se così fosse, oltretutto, la retractatio della versione ‘eroica’ nel l. VI inquinerebbe, in un certo senso, la presunta allusione, evidentemente di ispirazione encomiastica, al gesto politico compiuto da Ottaviano; e se l’allusione fosse polemica, ‘a second voice’, ‘a further voice’ per intenderci, lo sarebbe troppo vistosamente. La ripresa puntuale dello stesso sintagma da Catull. 65,7 e l’echeggiamento ancora da Catull. 65 (confectum cura, v. 1) di confectum curis del v. 520, ci fanno propendere per una letterarietà della citazione fondata su un automatismo toponomastico: il lido reteo rappresenta l’antonomasia di Troia. Senza dubbio l’auctoritas di Servio, già supportata dalla citata testimonianza di Pausania, ha favorito e forse imposto alla critica una proiezione del personaggio di Aiace sul Deifobo virgiliano. Laniatus corpore toto, il Priamide, e come tale il detentore ufficiale dell’eredità del comando a Troia, ha paura, come han paura i capi greci (i Troiani gli si avvicinano, i capi dei Danai e le falangi di Agamennone lo rifuggono). La gestione di questo personaggio è per il poeta un work in progress: inizialmente condannato sotto il profilo epico, vengono poi offerti al lettore elementi idonei ad una sua riabilitazione, mai però piena e definitiva – come si vedrà –, coincidente con la condanna, questa volta ultima nell’Eneide, di Elena. Palinuro, Didone e Deifobo sono personaggi che non appartengono strettamente al passato personale di Enea ma, a vari livelli, al passato al quale appartiene anche il vissuto di Enea. All’esperienza privata di Enea è legata effettivamente solo Didone. L’avventura di Palinuro e la sorte di Deifobo rientrano rispettivamente nell’esperienza del viaggio di un popolo in diaspora e nella storia drammatica di un’intera città che crolla. Né, d’altra parte, il futuro di Roma, che sarà da Anchise presentato ad Enea, è il “futuro di Enea” (questo futuro è presentato al lettore che è civis Romanus, e che lo vive come presente), ma è la realtà, sincronicamente compattata, di moltissime generazioni a lui successive. Enea, del resto, nulla dicendo alle rivelazioni di Deifobo (reazioni significative non sarebbero state gestite con l’aposiopesi), mostra un naturale distacco dalla sostanza di quanto gli è stato svelato. L’incontro col protagonista vivente consente alle umbrae una vita scenica, perché esse possano così vivere un’esperienza nella quale siano abilitate ad usare ancora la “parola” dei vivi, com38

Ibid., p. 195.

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prensibile ai vivi, al di qua della fissità dell’eterno. A questa brevissima appendice di sopravvivenza sui generis non rinuncia nemmeno l’istintualità di Didone che, ricorrendo a strumenti comunicazionali altri dalla parola, esprime sdegno con lo sguardo torvo, gli occhi fissi a terra, il nascondimento nel bosco ombroso (467 ss.) dove raggiunge il marito Sicheo39. La presenza di Enea permette, pur in un mondo di morti, il recupero, effimero, della dimensione del tempo e di modalità che appartengono solo ai viventi40. La loro comparsa sulla scena non è, come spesso si è ripetuto da Otis41 in poi, rievocazione di un passato, con effetto catartico per Enea42, o, comunque,

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La regina cartaginese compie nell’aldilà quel che in vita fa Elena, stando al testo odisseico, ricongiungendosi in patria al marito Menelao. 40 Quando la Sibilla solleciterà Enea invitandolo a chiudere il discorso con Deifobo, sarà Deifobo stesso a risponderle: ‘ne saevi’: capisce che la Sibilla si riferiva a lui, come già osservava J. Hubaux, Deiphobe et la Sibylle. Virgile, Énéide, VI, 494 sqq., “Ant. Class.” 8, 1939, p. 99. 41 B. Otis, Virgil: A Study in Civilized Poetry, Oxford 1963, p. 297, ritiene che l’episodio di Deifobo abbia insegnato ad Enea a guardare avanti anziché indietro, dopo, comunque, un’ampia ed ‘educativa’ panoramica retrospettiva. Su questa linea si è attestata quasi tutta la letteratura critica. Al passato pensa, infatti, anche R.D. Williams, The sixth book of the Aeneid, in Oxford Readings in Vergil’s Aeneid, ed. by S.J. Harrison, Oxford 1990, pp. 191207 (cf. soprattutto p. 198), il quale afferma che Palinuro rappresenta il viaggio, Didone il soggiorno africano e Deifobo gli eventi dell’ultima notte di Troia: una lettura che diventa accettabile, quando lo studioso aggiunge che “his [scil. of Deiphobus] last words as he says farewell to Aeneas take us forward to the future” (ibid.). D. Quint, Epic and Empire. Politics and Generic Form from Virgil to Milton, Princeton 1993, pp. 64-65, ancora sostiene che la prima esade eneadica “may be read as a gradual exorcism of the past”. Anch’io credo al processo di purificazione dei Troiani non consistente però nella rilettura del loro passato ma nell’agire del loro presente in vista del futuro laziale, un processo verso la ‘romanizzazione’. Pamela Bleisch, The Empty Tomb at Rhoeteum, cit., p. 188, associa nella rivisitazione del passato Virgilio ad Enea. Più recentemente G. Scafoglio, Il confronto di Enea col passato. Palinuro, Didone, Deifobo nell’Ade virgiliano, “Antike und Abendland” 49, 2003, pp. 80-89, scrive che nel momento in cui Didone rifiuta di incrociare lo sguardo di Enea, questi “si libera del peso del passato” (p. 83), ma bisogna chiedersi se il comportamento della regina possa determinare una liberazione o piuttosto un aggravamento del rimorso. Già L.A. MacKay, Three Levels of Meaning in Aeneid VI, “TAPhA” 86, 1955, p. 184, leggeva nell’esperienza del l. VI un sogno purificatorio di Enea. P. Kragelund, Dream and Prediction in the “Aeneid”, Copenhagen 1976, K. Büchner, Virgilio, trad. it., Brescia 1963, p. 450, e Th. M. Falkner, Hector and Deiphobus: an Interpretation of Aeneid 6.494-547, “The Class. Bull.” 57, 1981, pp. 33-36, si pongono sulla stessa linea. S. D’Elia, Lettura del sesto libro dell’Eneide, in Lecturae Vergilianae, a c. di M. Gigante, vol. III, Napoli 1983, p. 225, addirittura scrive: “Nei tre incontri Enea ha rivissuto il passato, lo ha risofferto come ancora vivo in lui, e rivivendolo ha perduto ogni tensione verso il futuro”: la rievocazione degli orrori della guerra iliaca è materia esaurita, anche per il profilo psicologico di Enea, nel racconto del II libro. Ancora G. Scafoglio, L’episodio di Deifobo nell’Ade virgiliano, “Hermes” 132, 2004, 167-85, scrive che “la narrazione virgiliana si configura […] come un’esperienza introspettiva, in cui Enea ripercorre a ritroso il proprio passato, dal più recente al più lontano” (p. 182). 42 Ho cercato di dimostrare altrove (L’Eneide di Giunone: una divinità in progress, Na-

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su di lui influente; è, invece, per l’esperienza dell’eroe, un presente assolutamente eccezionale, come eccezionale è la deroga del defunto dal suo status43. Enea ‘vive’, in tempo reale, per la prima volta, la rivelazione di Palinuro e di Deifobo, e ‘vive’ la reazione definitiva di Didone, che, nell’ambito della sua storia con la Phoenissa Dido, è un evento nuovo, non rievocato. Il passato di questi personaggi, quello da loro stessi narrato, è per Enea, e soprattutto per il lettore, oggetto di nuova e corretta cognizione in tempo reale rispetto al momento in cui quella cognizione avviene. Essi stessi, a loro volta, vivono un presente, rubato ad una dimensione atemporale, nel loro incontro con Enea, e questo surplus, molto sui generis, di vita consiste nel rievocare un passato (essi, sì, rievocano, e possono solo rievocare); oggettivano con la parola il passato: dicono ora quel che fu allora. E invece, ancora R.D. Williams scrive che Virgilio presenta “an experience which is essentially personal to Aeneas himself, and above everything an integral part of the development of Aeneas’ character and resolution” 44. *** Charles Fuqua45 trent’anni fa vedeva un parallelismo tra l’apparizione in sogno di Ettore ad Enea (per lui un altro simbolo della caduta di Troia), di Sicheo a Didone (I 353 ss., nel racconto rievocativo di Venere ad Enea46) e, infine, di Deifobo ancora ad Enea nell’Ade47. Lo studioso considerava le tre scene fortemente collegate e tese ad illustrare “the hold of the past and traditional ideals upon Aeneas”48, e pensava che le mutilazioni di Ettore, Sicheo e Deifobo49 trascendono poli 2005, pp. 37-38, ma cf. passim) che la purificazione di Enea e dei profughi tende alla progressiva ‘romanizzazione’ e si realizza con l’evento estremo della guerra laurentina. 43 Il racconto del viaggio, da parte di Odisseo è un flash-back, con interruzioni ed interventi dei Feaci; in Virgilio è in tempo reale; è un racconto sincronico. 44 Cf. The Sixth Book of the Aeneid, cit., p. 195. Anche per la Bleisch, The Empty Tomb at Rhoeteum, cit., p. 189, la conclusione dell’episodio di Deifobo non ha permesso ad Enea di seppellire il passato e di riconciliarsi con i morti, mentre Deifobo si riconcilierebbe con “his isolation and obliteration”; Enea è incapace di oltrepassare il ponte del passato. 45 Cf. Hector, Sychaeus and Deiphobus: Three Mutilated Figures in Aeneid 1-6, “CPh” 77, 1982, pp. 235-40. 46 Sul solo confronto tra la scena del I e del II libro si intrattiene P. Kragelund, Dream and Prediction in the “Aeneid”, cit., pp. 21-22. 47 Il confronto, piuttosto stringente, tra la scena di Ettore e quella di Deifobo risale a E. Norden, P. Vergilius Maro. “Aeneis” Buch VI, cit., pp. 500-03. 48 Cf. Hector, Sychaeus and Deiphobus, cit., p. 237. 49 Per l’uccisione di Deifobo dopo Virgilio cf. Sen. Ag. 748-49; Q. Smirn. XIII 354-73;

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il codice epico tradizionale50, ma l’episodio di Agamennone nell’oltretomba odisseico, che si mostra all’Itacese in condizioni non meno raccapriccianti, sembra annullare questa interpretazione. L’accostamento ad Ettore è favorito dalla stessa letteratura antica: in Il. XXII 224 ss. Atena, che ha convinto Zeus a determinare finalmente la morte di Ettore, prende le sembianze di Deifobo (v. 227: Dh#fÒbwÄ ™#ku‹a dšmaj kaˆ ¢teirša fwn»n); quando Ettore gli chiede l’asta lunga e si accorge che quello non gli è vicino, comprende che la dea gli ha teso l’inganno e che, pertanto, è giunta la sua ora. Risente di tale contiguità Orazio che in carm. IV 9, 21 ss. cita insieme Ettore e Deifobo in un passo molto interessante51: non ferox Hector vel acer Deiphobus graves excepit ictus pro pudicis coniugibus puerisque primus.52

Quando Deifobo parla di egregia coniunx (in stridente contrasto con l’espressione scelta da Agamennone in Od. XI 410, oÙlomšnh ¥locoj), di fidus53 ensis, quando usa l’espressione dulcis et alta quies placidaeque simillima morti (v. 522, che ricalca Od. XIII 80, qan£twÄ ¥gcista ™oikèj), il patronimico Aeolides per Ulisse anziché Laerziade (un bastardo!, come figlio di Sisifo, a sua volta figlio di Eolo), ricorre, con tutta evidenza, ad un linguaggio sarcastico54, raccolto dallo stesso Orazio che attribuisce alla moglie di Deifobo addirittura una pudicitia che è davvero difficile riconoscerle. Dunque, al lettore antico risultava chiaro che l’episodio di Deifobo conteneva elementi che si prestavaTryphiod. 622-23; Hyg. 240. Cf. anche Aeschyl. Choef. 439-43; Sophocl. El. 444-46. Si veda R. Wagner, s.v. Deïphobus in “R E” IV 2, Stuttgart 1901, coll. 204-06. 50 Cf. Fuqua, Hector, Sychaeus and Deiphobus, cit., p. 239. 51 Cf. O. Carbonero, De Deiphobi atque Europe apud Horatium, “Latinitas” 40, 1992, pp. 300-03. 52 “Non il fiero Ettore o l’aspro Deífobo / subirono per primi gravi colpi / per difendere la sposa casta e i figli” (trad. di C. Carena, in Orazio. Tutte le poesie, a c. di P. Fedeli, Torino 2009). 53 L’uso del sintagma con senso proprio a VII 640, fido ... accingitur ense, rende ancor più stridente il sarcasmo: l’Ausonia s’accende, e ognuno s’appresta ad armarsi e ritempra patrios fornacibus ensis (v. 636). 54 Ad un sarcasmo alludente al komos pensa J.C. Yardley, Menelaus amans: Vergil Aen. VI 525-6, “Emerita” 49, 1981, 65-66; lo studioso nota che Deifobo vede Menelao come un admissus amans e se stesso come ‘cuckolded uir’, situazione tipica dell’elegia romana augustea, con Umkehrung ellenistica: è la puella a dare un munus anziché riceverlo. Rimane da dimostrare la compatibilità della presunta intenzione sarcastica di Virgilio, non quella accertata di Deifobo, con la drammaticità della scena.

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VIRGILIO

no ad una doppia lettura, còlta già da Orazio55. L’ode, indirizzata a Marco Lollio, scritta probabilmente poco dopo il 1656, l’anno della clades Lolliana, è un inno alla poesia dispensatrice di gloria e di immortalità, capace di sottrarre all’anonimato. Credo che la citazione, ironica, di Deifobo (acer ricorda un po’ l’armipotens virgiliano) serva a lanciare un messaggio piuttosto stigmatizzante per Deifobo, perché, se la poesia consegna all’eternità una figura come lui (ai vv. 13-16 si parla di Elena), sarebbe grave torto se Orazio non scrivesse un carme per consegnare per sempre Lollio alla memoria dei posteri. Il Venosino opera un’interpretatio del testo virgiliano, caricandone la valenza sarcastica: goffamente sono associati nel ruolo di marito e di padre Deifobo ed Ettore, ma la dignità di Andromaca non è commisurabile alla ‘fama’ di Elena, né esiste tradizione mitologica che parli di Deifobo padre premuroso: l’accostamento, per antithesin, serve a penalizzare ulteriormente Deifobo. È stata proprio l’ombra di Ettore a decretare, indirettamente – s’intende – la morte di Deifobo, negandosi in sogno al fratello ed apparendo invece al figlio di Anchise, riconosciuto come autentico suo successore ed erede delle sorti troiane, e della loro sopravvivenza. Come dice Baldo57, il destino di Deifobo è segnato dalla incompiutezza, incompiutezza “necessaria”, direi, che permette la compiutezza del destino di Enea. Ettore è quell’Ettore che aveva nell’Iliade (III 39 ss., già ricordati) rivolto a Paride epiteti davvero riprovevoli (DÚspari, e|doj ¥riste, gunaimainšj, ºperopeut£58), confermati ancora, allusivamente, da Virgilio attraverso le parole di Amata a VII 363-64 (at non sic Phrygius penetrat Lacedaemona pastor / Ledaeamque Helenam Troianas vexit ad urbes?), e che non poteva giudicare positivamente l’atto analogo compiuto da Deifobo. Deifobo conferma l’immagine di inaffidabilità morale dei Troiani più volte emersa nell’Eneide, vigorosamente combattuta da Giunone59. *** 55 Cf. Carbonero, De Deiphobi atque Europe apud Horatium, cit., p. 302: “Nullo modo ergo peccare Horatius sibi videbatur ironiam quandam de fabulosis illis personis adhibendo, in quibus iam Vergilius ironice cavillatus ultro erat.”. 56 Di questo avviso sono da ultimi Elisa Romano, Q. Orazio Flacco. Le opere, I, tomo II, Roma 1991, p. 894; P. Fedeli, Orazio. Tutte le poesie, a c. di P. F. ..., cit., p. 785. 57 Cf. nel Commento a Virgilio. Eneide, trad. di M. Ramous, introd. di G.B. Conte, comm. di G. Baldo, Venezia 1998, p. 714. 58 “Maledetto, bellimbusto, donnaiuolo, seduttore”, trad. Rosa Calzecchi Onesti. 59 Cf. il mio L’Eneide di Giunone (una divinità in progress), cit., passim.

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LA GLORIA NEGATA: DEIFOBO, ‘BELLO CLARUS’ (VERG. AEN. VI 494 SS.)

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Il nodo esegetico dell’episodio di Deifobo, come ha giustamente sottolineato il La Penna60, è nell’individuazione delle ragioni che Virgilio ha inteso presentare del fenomeno dell’esclusione dalla gloria. Fusi per moenia Teucri / conticuere; sopor fessos complectitur artus, aveva riferito Enea a II 252-53: la situazione era generale, non c’era bisogno di creare una storia ad hoc, ad es. quella di Deifobo, per proporla come “microcosm of the fall of Troy”61, né una storia di tradimento al femminile potrebbe mai essere elevata a simbolo della caduta di Troia. Le ragioni dell’episodio di Deifobo sono inerenti alla individualità del personaggio, sono, per così dire, private. Si impone una serie di quesiti: perché Ettore va in sogno ad Enea, così ridestandolo e salvandolo da una morte senza gloria e da ogni tentativo di autodifesa, e non a Deifobo62?; perché, cioè, non ridestando Deifobo, e quindi lasciandolo nell’inerzia del sonno, ne decreta, appunto, praticamente la fine, sottraendogli un protagonismo, legittimato dal rapporto parentale col casato regnante? Inoltre, Virgilio avrebbe potuto optare per la tesi gloriosa corrispondente ad una non meglio precisata fama63 pervenuta ad Enea, attribuendogli una morte eroica (questa la testimonianza del Troiano), ed invece inscena un processo di revisione che risulta infamante per lo stesso figlio di Priamo, per Elena, ed anche per Menelao. Perché, e sulla base di quali eventi pregressi, Enea ha potuto formulare un giudizio così positivo, sul piano eroico, sul conto di Deifobo? Nell’Iliade sono assai frequenti i casi in cui Ettore ed Enea son impegnati insieme in azioni gloriose, ed appaiono legati da grande amicizia. Che Enea sarebbe stato la guida dei Troiani e che avrebbe dato luogo alla prosecuzione di quel popolo era una ‘verità depositata’, nota solo alle divinità: in Il. XX 293 in una importante ÍÁsij ai numi immortali Poseidone Enosíctono, vedendo l’approssimarsi del duello tra Enea ed Achille, rivolge un accorato appello per allontanare il figlio d’Anchise dal teatro delle operazioni, certo che questi avrebbe avuto la peggio; il dio, quel Poseidone/Nettuno che nelle acque di Sicilia salverà la flotta troiana dal naufragio definitivo, tra l’altro, dice: “destino per lui è salvarsi, / perché non isterilita, non cancellata perisca la stirpe / di Dardano […]. Ora 60

Cf. Deifobo ed Enea (Aen. VI 494-547) ..., cit., pp. 987-1006 (spec. p. 1002). Così Th. M. Falkner, Hector and Deiphobus: an Interpretation of Aeneid 6.494-547, “Class. Bull.” 57, 1981, p. 35; G. Laudizi, Enea e Deifobo nell’Ade ..., cit., p. 254, vede in Deifobo la “personificazione della distrutta Troia”. 62 In Tzetzes Posthom. 158, 353 ss. Deifobo succede a Ettore come capo dei Troiani. 63 La tesi omerica offerta nel canto di Demodoco in Od. VIII (cf. infra). 61

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VIRGILIO

la potenza d’Enea sarà signora dei Troiani / e i figli dei figli e quelli che dopo verranno” (vv. 302-08). Tutto ciò sfugge, evidentemente, alla coscienza di Enea, che accetterà di far da guida alla diaspora dei Troiani solo quando glielo imporrà la madre Venere (II 619: Eripe, nate, fugam, finemque impone labori): è questa la più autentica investitura attribuita ad Enea, e la più convincente esortazione a lasciare Troia, non quella di Ettore, gemitus ducens (Heu fuge, nate dea, teque his … eripe flammis […] Sacra suosque tibi commendat Troia penatis: / hos cape fatorum comites, his moenia quaere / magna pererrato statues quae denique ponto, II 289-95): imperativi, infatti, disattesi, ma dettati dalla conoscenza della verità che presto emergerà e prevarrà. Non è casuale l’apostrofe nate dea (II 289), il titolo che con maggiore autorevolezza convalida il conferimento ad Enea del ruolo di organizzatore della fuga e di capo del nuovo corso della storia troiana, anche se la consegna delle bende, della potente Vesta e del fuoco eterno (vv. 296-97) è piuttosto il segno di un simbolismo iconografico, legato all’esperienza onirica che l’eroe sta vivendo, che non un gesto di effettiva actio: la veridicità del sogno troverà riscontro nelle parole di Panto, che con lo stesso gemito di Ettore gli conferma il dramma (gemitu, v. 323). Ma, ‘attraversare il mare per fondare mura più grandi’ (cf. II 295): Enea ancora non può capire il senso di queste parole, per ora troppo premature. Nemmeno l’esortazione di Creusa, comunque successiva, e la sua predizione (“giungerai alla terra d’Esperia”, II 781) possono essere del tutto perspicue alla coscienza di chi deve cambiare il suo destino e correggere un habitus mentale (qui prevale il potere dell’autore con le direttive ‘inedite’ impresse ad un epos che si rinnova) che lo vorrebbe pronto a cadere per la patria sul campo di battaglia: il pianto di Enea ed il tentativo, vano, di abbracciare l’icona della moglie sono gesti di rassegnato commiato (“così si consumò la notte”, sic … consumpta nocte, II 795), non tentativi di forzare una realtà, già non differibile nella mente dell’eroe, che, del resto, aveva ormai intrapreso la via della fuga: Enea non è Orfeo! Alla rivelazione di Ettore, anzi, segue il risveglio brusco del figlio di Venere che, prendendo atto della drammatica realtà a partire dal crollo della casa di Deifobo e di Ucalegonte, ancora pensa di organizzare una difesa. Non è casuale che Enea, appena ridestato, veda innanzitutto crollare la casa di Deifobo, il legittimo assegnatario del comando delle operazioni a Troia e dell’organizzazione di un’eventuale fuga dei sopravvissuti dalla città. Enea, pronipote di Assaraco, appartiene ad un ramo laterale della casa regnante di Troia, e non sarebbe preposto a

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LA GLORIA NEGATA: DEIFOBO, ‘BELLO CLARUS’ (VERG. AEN. VI 494 SS.)

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quel nobilissimo cómpito, preceduto, gerarchicamente, da Deifobo appunto. A Deifobo, appunto, Enea dichiarerà, nella ÍÁsij recitata nell’Ade, di aver innalzato un tumulo sul lido reteo con nome ed armi, insomma di aver compiuto per lui un rito sacro degno dell’eroe bello clarus morto, stando alla fama, ob patriam pugnando, dopo aver compiuto ampia strage di Pelasgi. Ma le cose erano andate diversamente, molto diversamente. Enea, dunque, può accettare di far da guida ai Troiani perché sa della morte di Deifobo, il diretto erede, evento che lo pone in prima fila per assumere legittimamente il comando. Dinanzi ad una serie di versioni offertegli dalla tradizione sulla morte di Deifobo, Virgilio intende ristabilire la sua verità e nello stesso tempo, accedendo alla tesi del tradimento di Elena, attenuare la gravità dell’offesa della dignitas eroica del personaggio, oltraggiata dal comportamento della Lacena. La dimensione eroica tradizionale64 (degna di una aristia, per intenderci) della morte di Deifobo, nell’Eneide affidata, come si è detto, alle sole convinzioni di Enea basate su una non meglio definita fama: mihi fama suprema / nocte tulit fessum vasta te caede Pelasgum / procubuisse super confusae stragis acervom (vv. 502-04), è una falsa verità; senza la precisazione del protagonista il lettore avrebbe saputo soltanto che la casa di Deifobo crollava insieme con quella di Ucalegonte avvolta dalle fiamme, come egli aveva narrato a Didone nel racconto della Ilioupersis (II 310-12); ma, in realtà, non era stato quel crollo a causare la morte di Deifobo. Il racconto di Deifobo è un autentico coup de théâtre, dal quale il poeta poteva ben attendersi la sorpresa del lettore che nel suo bagaglio culturale serbava un’altra versione della morte di questo figlio di Priamo. Demodoco nell’VIII dell’Odissea canta, infatti,

64

Eventi pregressi potrebbero essere individuati solo nell’Iliade (o in tragedie a noi ignote), dove però l’eroismo di Deifobo, a ben vedere, è, per così dire, ordinario, non sempre di indubbia limpidezza: la sua presenza è costante nella descrizione della battaglia presso le navi del l. XIII, che però è tutt’altro che un’aristìa per lui: vi appare, anzi, abbastanza incerto nelle decisioni e nell’azione, fino ad uscirne addirittura ferito; a XIII 758-60 Ettore lo cerca ¢n¦ prom£couj diz»menoj (“girando tra i primi campioni”) ma non lo trova, come non lo trova vicino, contro le sue aspettative: Dh#fobon g£r œgwg’ ™f£mhn ¼rwa pare‹nai (“credevo d’aver accanto il forte Deifobo”, XXII 298), quando lo cerca per avere un’asta lunga da usare contro Achille (vv. 294-95); ancora nel l. XXII Atena assume le sembianze proprio di Deifobo per ingannare Ettore e spingerlo al duello con il Pelide. Pochissimi i luoghi in cui Deifobo è figura degna: “simile ai numi”, qeoeid»j è definito a XII 94, oltre il giudizio di Ettore su citato; ma assai severo è il giudizio del padre Priamo a XXIV 249 ss., che, in occasione della morte di Ettore, ingiuria i figli e tra essi Deifobo, definendoli kak¦ tškna (“cattivi figli”), kathfÒnej (“poltroni”) (v. 253). L’Iliade per Deifobo si chiude con tali pessimi appellativi.

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VIRGILIO

lo scontro di Deifobo davanti alla sua casa con Odisseo ed il divino Menelao nel quale l’eroe troiano rimase sconfitto dopo asperrimo combattimento, e la veridicità del racconto è garantita dalla presenza dell’Itacese (vv. 516 ss.):

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¥llon d’¥llV ¥eide pÒlin kera#zšmen a„p»n, aÙt¦r 'OdussÁa protˆ dèmata Dh#fÒboio b»menai, ºät’ ”Arha, sÝn ¢ntiqšJ Menel£J. ke‹qi d¾ a„nÒtaton pÒlemon f£to tolm»santa nikÁsai kaˆ œpeita di¦ meg£qumon ’Aq»nhn.65

520

È questa la più antica attestazione letteraria della morte di Deifobo, una vita spezzata non dal tradimento di Elena, ma, comunque, a seguito di un combattimento impari, in cui due guerrieri, assistiti da Atena, ingaggiano la lotta contro un nemico isolato. Nel corso delle rievocazioni fatte da Elena e Menelao all’ospite Telemaco (IV 240 ss.) l’Atride, rivolgendosi alla moglie, aveva già ricordato che nell’ultima notte di Troia Deifobo, simile agli dèi, la seguiva dappresso, v. 276, ka… toi […] ›spet’ „oÚsý. Virgilio, dunque, scarta questa versione dei fatti, risalente alla pur autorevole fonte omerica, come scarta la soluzione dei poemi ciclici, secondo la quale è Deifobo a succedere ad Ettore, non Enea66. Si pone un problema di Quellenforschung: nella versione della morte di Deifobo creata da Virgilio o, comunque, a noi non altrimenti nota, diventa fondamentale l’inganno di Elena della quale si recupera la colpevolezza67, esclusa nel l. II da Venere68. Virgilio ha rifunzionalizzato il dato fornito dalla tradizione omerica del matrimonio, voluto da Priamo, di Deifobo con Elena, a favore della scelta di Enea come guida dei Troiani transfughi. Questo matrimonio rappresentava il crimen69 65 “Cantava il saccheggio qua e là dell’alta città, / poi l’arrivo di Odisseo davanti alla casa di Deifobo, / sembrava Ares, e con lui Menelao divino; / e narrava che là, in orrenda lotta impegnato, / di nuovo aveva vinto, grazie ad Atena magnanima.” (trad. Rosa Calzecchi Onesti). 66 Tzetzes Posthom. 158; 353 ss. (cf. anche schol. Od. 8,517 [per Hor. carm. IV 9,22 cf. supra]) e Q. Smirneo Posthom. IX 143 ss.; 210 ss.; XI 339 ss. accedono, come si sa, a questa versione. 67 Secondo il prevalente giudizio dei tragici greci Elena va condannata perché ha provocato molte morti: si vedano Aeschyl. Ag. 742 ss.; Eurip. Androm. 103 ss.; Iphig. Taur. 8; Iphig. in Aul. 762 ss.; Elena è un’Erinni: Aeschyl. Ag. 749; Eurip. Or. 1388 ss.; cf. poi, sul versante latino, anche Ennio sc. 71 V2 = 49 Joc. 68 Cf. vv. 601 ss.; già in Od. IV 276 ss. si legge un concreto avvio del processo riabilitativo, in un contesto in cui la vecchia coppia è già serenamente ricomposta. 69 Cf. Bleisch, The Empty Tomb at Rhoeteum, cit., p. 191.

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LA GLORIA NEGATA: DEIFOBO, ‘BELLO CLARUS’ (VERG. AEN. VI 494 SS.)

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che sottraeva a Deifobo ogni diritto di successione. Il parallelismo tra Elena e Clitennestra, e l’alternanza di giudizi sulla moglie di Agamennone di cui si legge nella tragedia greca, come l’alternanza di giudizi sulla stessa Elena, potrebbero aver spinto Virgilio a soffermarsi più volte, nel corso del poema, per rivedere il giudizio sulla Lacaena. In Eschilo Clitennestra è un’adultera assassina70, mentre in Euripide e in Pausania l’uxoricida ottiene delle attenuanti: una sorta di femminismo ante litteram sembrerebbe risemantizzare, riconcettualizzare la violenza di questa donna e giustificarla per l’intollerabile infelicità; Clitennestra sembrerebbe ribellarsi alla violenza del potere maschile: non si dimentichi che Agamennone le aveva ucciso il primo marito ed il figlio da questo avuto (IA 1148-52), e questo è già sufficiente, in ogni caso, ad escludere un’uguaglianza tra il passato di Agamennone e quello di Deifobo, anche se per l’episodio del l. VI Virgilio ha contratto pesanti debiti nei confronti di Od. XI 387 ss. Deifobo è un uomo escluso dalla gloria; come Didone, in un certo senso come Palinuro. In questo settore del mondo dei morti Virgilio colloca figure che rappresentano il defunto come un vinto, non tanto e non solo perché definitivamente privato della vita, ma soprattutto, perché, per effetto di quella perdita, condannato all’interdizione di quelle funzioni che potessero riabilitarlo, a qualsiasi livello, interdizione che varia a seconda dell’esperienza particolare al centro della quale egli si è trovato. A Deifobo è stata tolta la gloria perché ha sposato Elena – e a Virgilio interessa che emerga questa verità –. Enea avrebbe saputo staccarsi da Didone, sia pure con l’aiuto ‘iussivo’ di Mercurio/Giove: a lui era concessa la forza d’animo di abbandonare la bella regina. Il destino che ha segnato il secondo figlio di Priamo lo colloca nella posizione di accettazione di una condizione subalterna, ed egli, il prode fratello di Ettore, deve accettare che sia stato affidato ad altri “il miglior futuro”. Si è parlato di investitura per Enea da parte di Deifobo. Ebbene: era necessaria una nuova investitura per il pius dux dopo quelle di Venere e di Ettore, e prima, subito prima di quella di Anchise? Inoltre, può un uomo privato della gloria essere il titolare del conferimento di un incarico così elevato? Deifobo ha perso le prerogative e i poteri che sono propri del guerriero valoroso. Pensare che anche Deifobo investa Enea del grave compito significa porlo sullo stesso piano di

70

Su Agamennone tradito da Clitennestra cf. Od. XI 385 ss.

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VIRGILIO

Ettore, di Venere e di Anchise71. Deifobo rimane l’eroe che ha reiterato la colpa di Paride non rinunciando all’offerta di Priamo che, come si legge in uno scolio ad Il. XXIV 251, gli aveva concesso Elena dopo la morte di Paride72, in un momento in cui avrebbe potuto compiere un atto capace di riscattare un crimen che al fratello nell’Iliade viene violentemente contestato da Ettore; una colpa grave nel codice epico tradizionale. L’atteggiamento di Virgilio di fronte a questa colpa è determinato dalla convinzione che il personaggio è soggetto alla perdita della gloria epica, ma anche – e questo è l’elemento nuovo – che egli può accedere alla possibilità di essere compreso. Questa comprensione Virgilio realizza nella condanna del personaggio femminile che ha agevolato l’atto proditorio nei confronti del suo secondo marito, al quale toglie non la possibilità di salvarsi, ma di combattere e di morire gloriosamente, confermandosi nel ruolo di traditrice (due volte verso Menelao, una volta verso Deifobo). Anche le modalità della vendetta di Menelao, in fin dei conti, rientrano in questo piano di degradazione del profilo eroico, configurando un atto privo di gloria, che Virgilio motiva con la violenza di un eros ferito dal tradimento, e che ricorda la mÁnij di Achille colpito dallo stesso furore, sia pur per ragioni diverse. Dando voce a Deifobo, per la narrazione del fatto, e, dunque, offrendogli la possibilità di presentare il fatto solo dal suo punto di vista, il poeta affida al personaggio, che ha tradìto l’œqoj, la confessione palese di un tradimento della fides coniugale. Questa attenuazione del klšoj tradizionale non poteva diventare protagonista della scena eneadica, ma è stata introdotta dal poeta come opzione narrativa possibile, eventualità testuale ammissibile, pensabile risvolto diegetico, per quanto la sua destinazione al dissolvimento potesse essere scontata. Anche per questo Deifobo è personaggio che non può addirittura sopravvivere al suo ruolo, ma ha almeno potuto trovare spazio in un epos nuovo. Il riferimento a Deifobo nell’Eneide non poteva essere liquidato con la scarna e fugace notizia del crollo tra le fiamme della sua casa, proprio subito dopo l’apparizione in sogno di Ettore; il ruolo che il personaggio eredita dalla tradizione iliadica, di legittimo erede al trono del padre, pretendeva uno sviluppo testuale significativo, che il poeta

71

Ad una nuova investitura pensava il La Penna, Deifobo ed Enea, cit., p. 1000. Della morte di Paride si ha notizia in Apollod. bibl. III 12, “Paride fu colpito da Filottete con le frecce avvelenate di Eracle, e andò da Enone sull’Ida. Ma la sposa, memore dell’offesa ricevuta, rifiutò di curarlo”. Cf. anche Tzetzes ad Lyc. 168. 72

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LA GLORIA NEGATA: DEIFOBO, ‘BELLO CLARUS’ (VERG. AEN. VI 494 SS.)

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latino sa ben strumentalizzare conferendogli un risvolto paideutico di assoluta importanza, con significative implicazioni di tipo politico anche perché profondamente etico. Ad Elena è imposta la necessità scenica di confermarsi nel ruolo di personaggio ingannevole e traditore, di reiterare la sua colpa.

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*** La citazione di Paride nell’Eneide è quasi sempre legata al tema omerico della “sposa rapita/sposa contesa73”: egli è il troiano che ha commesso adulterio provocando una guerra74. La ricomposizione della coppia Menelao-Elena sancisce il ritorno alla situazione precedente allo scoppio della guerra, suggellato dalla vittoria argiva sui Troiani. A condannare Deifobo non è Enea, che anzi aveva innalzato al Priamide un tumulo; a condannarlo è la storia determinata dal Fatum, la forza giudicante al di sopra delle parti, deputata a valutare le colpe a prescindere dalle ideologie. La colpa di Deifobo non è pari a quella commessa da Polimestore nell’Ecuba di Euripide, e nemmeno analoga è la pena: questi non paga il misfatto con la vita, ma è ugualmente colpito da guna‹kej; Deifobo è investito dall’inganno di una donna. Polimestore ha ferito il cuore di una madre, uccidendole il figlio; Deifobo ha reiterato il ferimento dell’orgoglio del re miceneo; come magnificamente scrive L. Canali, è lo “scialbo erede della lussuria di Paride e della aggressività di Menelao”75. Esistono vari livelli e stadi imitativi. L’episodio di Agamennone e in minima parte quello di Aiace, nell’Odissea, sono ipotesti accertati dell’episodio di Deifobo, ma ne esistono altri: ho motivo di pensare che su Virgilio influisca la memoria letteraria del citato personaggio di Polimestore dell’Ecuba euripidea, costituendone, preliminarmente, il modello per la configurazione del sentimento (almeno iniziale) che è alla base dell’incontro tra visitante e visitato nel mondo dell’aldilà. Virgilio ha sottolineato l’amicizia e l’affetto che lega i due cugini, Enea e Deifobo. A v. 1114 di questa tragedia euripidea Polimestore si rivolge ad Agamennone (quell’Agamennone sfigurato nella nškuia omerica) con l’apostrofe ’W f…ltat'[e], “o amico carissimo”, corrisposto poco dopo 73 74 75

Cf. il mio Dark visibility, Lavinia nell’Eneide, “BollStLat” 36, 2006, pp. 32-50. Cf. II 602; IV 215; VII 321. Cf. I volti di Eros, Roma 1984, p. 121.

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VIRGILIO

(v. 1127) dall’Atride con O}toj, “amico”: mi sembra molto probabile che questo modo espressivo ispiri le due apostrofi usate da Virgilio che scrive te, amice a v. 507, a conclusione del discorso di Enea a Deifobo, e tibi, amice, a v. 509, ad inizio della risposta del defunto all’eroe. Ai vv. 1116-19 Agamennone stupito chiede al re tracio: PolumÁstor ð dÚsthne, t…j s’¢pèlesen; t…j Ômm’œqhke tuflÕn aƒm£xaj kÒraj, pa‹d£j te toÚsd'œkteinen; ’H mšgan cÒlon soˆ kaˆ tšknoisin e|cen Óstij Ãn ¥ra.76

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E Polimestore risponde (vv. 1120-21): `Ek£bh me sÝn gunaixˆn a„cmalwt…sin ¢pèles' – oÙk ¢pèles’, ¢ll¦ meizÒnwj.77;

poi spiega le modalità dell’aggressione (vv. 1155 s.): ¥llai dû k£maka QrVk…an qeèmenai gumnÒn m’œqhkan diptÚcou stol…smatoj78,

dopo aver sconsolatamente commentato (vv. 1095 ss.): Guna‹kej êles£n me, guna‹kej a„cmalwt…dej: dein¦ dein¦ pepÒnqamen.79

Avvicinando Deifobo a Polimestore, o meglio, lasciandosi raggiungere dalla memoria poetica dell’episodio di Polimestore, il poeta latino ha anche espresso una latente condanna del suo personaggio, una condanna che sfugge ad Enea. Deifobo si è macchiato di una colpa: la stessa di Paride80; questa colpa lo inscrive nel ruolo 76 “O sventurato Polimestore, chi ti ha rovinato così? Sei cieco, grondano sangue le tue pupille, chi ha ucciso questi figli? Chiunque sia stato, doveva nutrire un odio enorme contro di te e contro i figli.”. La trad. di tutti i passi dell’Ecuba proposti è di U. Albini, Euripide, Ecuba – Elettra, Milano 19893. 77 “Ecuba e le prigioniere mi hanno rovinato. No, non rovinato, ma di più”. 78 “E alcune, come per osservare le armi tracie, mi tolsero le due lance che impugnavo”. 79 “Delle donne mi hanno assassinato, delle schiave: terribili mali patiamo”. 80 Nella 5a eroide ovidiana, vv. 93 s., Enone condanna il comportamento di Paride e di Deifobo: Enone scrive a suo marito Paride dal quale è stata abbandonata per Elena: “se [Elena] sia da restituire ai Greci, chiedilo a tuo fratello Ettore ... o a Deifobo”; la moglie rifiutata a proposito del rapimento pronuncia la grave condanna morale sulla base dell’etica romana: causa pudenda tua est, v. 98.

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della stirpe troiana, portatrice di quei disvalori da cancellare e non esportabili nel nuovo regno promesso. Come avrebbe potuto un tale personaggio rappresentare degnamente il lontano antenato del moralizzatore Augusto? Non lo sa Enea (lui stesso soggetto a questo processo di trasformazione e purificazione), ma lo capisce il lettore colto attraverso il confronto con Polimestore. Lo sa anche Ettore che non avrebbe mai potuto avallare una candidatura di Deifobo, che pure era il fratello ereditariamente più degno, a guida dei Troiani. Il mascalismÒj è tradizionalmente consumato contro il traditore: si pensa alla stessa fine subìta dal ‘traditore’ Melanzio in Od. XX 474 ss.: “[…] naso e orecchi troncarono col bronzo spietato, / le vergogne strapparono, che sanguinanti le divorassero i cani, piedi e mani tagliarono con cuore infuriato”81: la colpa di Elena è dalla furia vendicatrice completamente riversata sull’adultero82. La letterarietà con la quale è gestito il personaggio di Deifobo consente al poeta di acquisire al testo questo plusvalore semantico: il mascalismÒj porta con sé il marchio del tradimento. Virgilio contamina l’episodio odisseico di Agamennone con un episodio tratto dall’Ecuba di Euripide, in cui il tragico greco aveva a sua volta già utilizzato lo stesso testo omerico; insomma il poeta latino non solo utilizza il testo omerico, per presentare il mascalismÒj di Deifobo, ma si serve anche del testo euripideo nato, peraltro, da una risemantizzazione dello stesso testo omerico. Il ruolo di vittima ricoperto nel testo omerico da Agamennone (l’ospite che gli fa visita è Odisseo), nel testo del tragico è ribaltato: Agamennone è l’ospite e Polimestore, l’uccisore di Polidoro, è la vittima, quel Polidoro giustamente evocato da La Penna83 come vittima accostabile a Deifobo. Insomma, anche qui Virgilio opera quell’intricata contaminazione di fonti che costituisce uno dei perni della sua tecnica compositiva e delle sue strategie narrative.

81 Trad. di Rosa Calzecchi Onesti. Il mascalismÒj di Deifobo non prevede il taglio delle gambe (citato, invece, insieme con quello delle orecchie, del naso e delle braccia da Ditti Cretese V 12, e i vv. riportati di Od. XX ne sono la testimonianza più autorevole) che non avrebbe permesso al defunto di avanzare, come invece la situazione pretende, perché la missione di Enea in questo caso è quella di andare da Anchise, non di soffermarsi a parlare con le anime del vestibolo. 82 Cf. Bleisch, The Empty Tomb at Rhoeteum, cit., p. 211. Ad una contaminazione dell’episodio di Agamennone del l. XI dell’Odissea con questo di Melanzio crede Dulce Estefania, El Deífobo virgiliano, cit., pp. 13-15; un accenno già in G. Highet, The speeches in Vergil’s Aeneid, Princeton 1972, pp. 174 ss. 83 Cf. Deifobo ed Enea, cit., p. 1001.

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VIRGILIO

Virgilio ricorre ad espressioni tratte dalla ricostruzione della morte di Polidoro e dalla consumazione della vendetta da parte della madre del giovane attraverso il testo del modello tragico. Il ri-uso del linguaggio è un modo per rievocare in maniera indiretta il ricordo di Polidoro, al centro del toccante episodio del III libro. Il poeta, ricorrendo a strumenti letterari, rende un omaggio personale alla figura del giovane innocente barbaramente ucciso. Il contesto del modello euripideo è molto diverso da quello virgiliano: ad essere straziata dalla furia vendicatrice è una madre cui hanno ucciso il figlio. Il punto di vista dichiaratamente maschilista contenuto nell’epilogo della lunga ÍÁsij di Polimestore che inveisce contro le donne, “una genìa così perfida non l’albergano né l’oceano né la terra: chi ha a che fare con loro, se ne accorge”84 (vv. 1181-82), è sopraffatto dall’arbitrato di Agamennone che condanna la condotta del re tracio, e Virgilio, non insensibile a questa revisione etico-antropologica, la propone al suo lettore. L’individuazione di questo ipotesto consente di ricostruire, come accennavo, un aspetto della tecnica compositiva di Virgilio, che sfrutta di una stessa fonte elementi sapienzialmente riutilizzati per destinazioni narrative diverse. La valenza concettuale dell’“episodio di Polimestore”, se così possiamo chiamarlo, è quella del ‘tradimento’, tradimento perpetrato e tradimento subìto, come nel caso di Deifobo (tradìto da Elena e traditore nei confronti di Menelao), come nel caso di Didone (‘tradìta’ da Enea e traditrice della memoria di Sicheo). Non è un caso che il Mantovano, componendo il grido di Didone nel celeberrimo monologo che precede il suicidio (IV 592 ss.): non arma expedient totaque ex urbe sequentur diripientque rates alii navalibus? ite, ferte citi flammas, date tela, impellite remos! Quid loquor? …,

si sia ricordato delle parole del re della Tracia, che, dopo l’aggressione con colpi di fibbia che trafiggono i suoi occhi che si aggrumano di sangue, smarrito ed infuriato insieme, esclama (vv. 1056-57): ”Wmoi ™gè, p´ bî, p´ stî, p´ kšlsw;85

84 Giudizio severamente misogino ispirato dalla ÍÁsij di Agamennone in Od. XI 43334, 456. 85 “E ora ? Da che parte vado, dove mi fermo, dove finirò?”.

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e poi aggiunge (vv. 1088-91; 1094):

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A„a‹, „ë QrÇkhj logcofÒron œnoplon eÜippon ”Arei k£tocon gšnoj. `Ië 'Akaio…, „ë 'Atre‹dvi: [...] KlÚei tij À oÙdeˆj ¢rkšsei; t… mšllete;86

Il tentativo di avvicinare Deifobo ad Ettore, suggerito dalla forte intertestualità tra l’episodio del l. II e questo del l. VI (e registrato da molti commentatori) dovuta piuttosto alla citata fonte comune (Enn. frr. 69-71 Jocelyn), naufraga sul piano della sostanza epica: Deifobo, nella sua natura di uomo che si confronta col codice epico, è piuttosto assimilabile ad Agamennone, ucciso dalla moglie, sorella di Elena, e a Polimestore87. Dell’importanza di ciò a cui è stato chiamato, Enea va cogliendo il senso con gradualità; certamente ne aveva avuta maggiore contezza quando Eleno gli diceva con assoluta chiarezza che in Ausonia egli avrebbe fondato la città (III 387), dopo aver percorso i laghi avernali. Appena dopo l’incontro con Deifobo Enea incontrerà il padre Anchise che gli svelerà il destino: te tua fata docebo (v. 759; la figura etimologica scarica su Enea tutta la responsabilità della missione): son queste le parole che consacrano nella coscienza di Enea l’assegnazione della missione, cui si piega lo stesso Deifobo, “Enea mancato”88. *** In un mio contributo del 199289 individuavo nell’episodio di Deifobo del VI libro l’ultimo elemento di una forma dei contenuti presente nell’episodio di Elena, che dal l. II si estende sino al l.VI: esso

86 “A me, soldati di Tracia, a me lancieri, cavalieri, gente d’armi! A me, Achei, Atridi […] Non mi sente nessuno? Non arriva nessuno? Cosa aspettate?”. 87 L’ignominia di Deifobo resta per La Penna, Deifobo ed Enea, cit., pp. 1001-02, più forte di quella di Agamennone, perché lo esclude dalla gloria, valore centrale nell’Eneide. 88 Dulce Estefania, El Deifobo virgiliano, “Est. Clás.” 132, 2007, p. 23 (ma cf. anche p. 25), pensa invece che Enea prende coscienza del suo nuovo destino dalle parole finali di Deifobo; se così fosse, oltretutto, non risulterebbe attenuato il ruolo che ricoprirà Anchise di qui a poco? 89 Modelli greci e stilemi virgiliani nell’episodio di Elena (Aen. II 567-88), in “Studi in onore di Armando Salvatore”, Napoli 1992, pp. 72 ss. (ora in Id., Temi virgiliani, Napoli 2002, pp. 31-58).

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VIRGILIO

– argomentavo allora – costituisce il quarto ed ultimo momento di una struttura narrativa fissa90, all’interno della quale il personaggio perdente (Enea) osserva una scena che lo irrita, è preso da un moto d’ira che si trasforma in afflizione e rancore, infine invoca gli dèi per impetrarne il castigo del personaggio che con la sua azione ha procurato il danno. Si tratta di una forma dei contenuti consueta nell’Eneide: si pensa al monologo interiore di Didone quando si accorge che in nessun modo potrà trattenere Enea a Tiro; si pensa ai due monologhi di Giunone, del I e del VII libro91. Ma Enea è esentato dall’osservanza dell’ultimo punto: egli non avrebbe mai potuto pronunciare questa maledizione. La caduta di Troia significherà per lui l’inizio di un’avventura che approderà alla fondazione del nuovo regno imperituro; se non fosse caduta Troia, non avrebbe avuto inizio il nuovo corso della storia. Il completamento della forma dei contenuti con l’espletamento del quarto punto deve essere affidato, pertanto, ad altro personaggio, che, inoltre, decreta la definitiva condanna di Elena: questo personaggio è Deifobo, cui è affidato il compito di informare il lettore delle azioni successive di Elena e della propria sorte finale, e di consumare la vendetta nella richiesta agli dèi del castigo (Di, talia Grais / instaurate, pio si poenas ore reposco, VI 529-30). *** L’episodio di Deifobo si rivela una sorta di centro di smistamento e polo di competenza di vari raggi narrativi, per i suoi collegamenti con altri episodi precedenti e successivi: per l’intersecazione col racconto di Enea nel l. II e con l’episodio di Elena, come ora abbiamo visto; per il rinnovato significato del klšoj, che introduce all’interno del proprio registro, e quindi all’interno del registro dell’epos, una imprescindibile valenza etica; infine, per l’episodio della morte di Turno (cf. infra). Virgilio tende ad offrire un quadro che illustri la molteplicità degli aspetti della verità, e pertanto dà voce a più personaggi in grado, di volta in volta, di esibire l’autenticità del vero che hanno personalmente vissuto, spesso correggendo false convinzioni di altri personaggi, che 90 Su questa impostazione esegetica rimando, naturalmente, a G.B. Conte, L’episodio di Elena nel secondo libro dell’Eneide. Modelli strutturali e critica dell’autenticità, in Virgilio. Il genere e i suoi confini, cit., pp. 114 ss. 91 Commento i due passi, collegandoli alla Klage di Didone di IV 590 ss. per analogia di forma dei contenuti, in L’Eneide di Giunone, una divinità in progress, cit., pp. 105-19.

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lo stesso autore aveva proposto. Queste errate convinzioni, in genere, obbediscono alle norme dell’epica tradizionale, che pretendono, ad es., la celebrazione della morte gloriosa, ma Virgilio, innovativamente, crea l’occasione per smentire con la verità dell’effettivo reale la falsa verità della convenzione letteraria. L’episodio di Deifobo innanzitutto ha relativizzato il racconto di Enea, che si rivela inesatto, perché fondato non su testimonianze autoptiche ma su una precaria trasmissione aurale, per la parte concernente l’epilogo dell’esistenza del figlio di Priamo. Il personaggio si riconosce privo di quell’honos che Enea gli aveva attribuito, ammettendo di essere un escluso dalla gloria. Questa storia denuncia un’assenza di klšoj non sostituito, però, dalla timwr…a, la vendetta sulla base del sentimento erotico, a difesa della dignità maritale, ma da un desiderio di vendetta bellica, su tutti i Greci. Se Ulisse si conferma nel suo cliché di uomo astuto, Menelao si perde nella soggettività dell’odio nei confronti di una individualità che lo ha colpito nei suoi sentimenti maritali (è qui, piuttosto, che si ravvisa, almeno come iniziale motivo scatenante, la timwr…a), e quindi personali; e questo segna un livello di degradazione dal registro epico, assente in Omero che parla di aspro combattimento. Deifobo, ancorato, egli sì, al passato, chiede la vendetta contro i Grai, una realtà etnica e politica ormai distante dalla nuova storia, che aveva ragione di essere pensata letterariamente finché era in piedi Ilio. La ÍÁsij di Deifobo, allora, è una esternazione della autocoscienza poetica di Virgilio che ha riscritto una versione dei fatti e della realtà che riflettesse la sua ‘religione’ del dovere e dell’etica, con la sua censura del reiterato adulterio, che reiterava ed aggravava quelle che erano state le ragioni di una guerra. Invasori che colgono nel sonno gli invasi. Nel caso di Deifobo la resa poetica è gestita dall’affidamento della percezione dei fatti e del racconto di essi alla vittima, che da sola ricostruisce le fasi della sua uccisione pur essendo nel pieno del sonno92. Ma la ÍÁsij di Deifobo rientra in una categoria compositiva e narrativa assai particolare nell’epica, che avvalora la nostra esegesi, secondo la quale, tra l’altro, nell’episodio la presenza di Enea è veramente marginale rispetto al messaggio che riguarda sostanzialmente la sola condotta di Deifobo. Con l’intervento della Sibilla il narratore ricompatta l’unità del testo 92

Torna alla mente il modo in cui i compagni di Odisseo colpiscono Polifemo in Od. IX 382 ss.; il gigante è ugualmente immerso nel sonno per il troppo vino.

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VIRGILIO

che ritrova la sua compatibilità epica, ma solo perché quella deroga, apparentemente interrotta, aveva in realtà esaurito tutte le sue ragioni, e poteva, quindi chiudersi. Un confronto tra l’episodio di Deifobo e l’episodio della morte di Turno suggerisce qualche considerazione associativa. G.B. Conte93 ha osservato, con la consueta acutezza, a proposito del duello di Mezenzio con Enea, che “è il vinto […] che parla per ultimo e si fa così, con le sue parole, soggetto attivo e interprete della propria morte (10, 833-908)”. Per quanto diverse siano le modalità, soprattutto quelle ambientali, poiché non si tratta di un duello, anche a Deifobo è, in un certo senso, accordato questo privilegio eccezionale. Ora, al pari di Deifobo, c’è un altro personaggio che viene escluso da tutto: è Turno, appunto, escluso dagli affetti familiari, dall’amor per Lavinia, soprattutto escluso dal potere; ma, come sembra, anche, in qualche modo, dalla gloria: in quell’ “et me seu corpus spoliatum lumine mavis / redde meis” (XII 935-36) c’è forse un umanissimo tentativo di aver salva la vita94, che, se giustificherà la successiva titubanza di Enea, esplicita soprattutto il crollo dell’ardore cavalleresco del re dei Rutuli. Turno, comunque, a differenza di Mezenzio, non “interpreta” la propria morte; la interpreta, invece, Deifobo, anzi, è il poeta ad interpretarla per lui: mai discorso diretto fu più efficacemente testimone dell’autocoscienza poetica. L’interpretazione della morte di Turno è affidata ad un codice etico-sentimentale che rende insopportabile alla coscienza di Enea la sopravvivenza dell’assassino di Pallante che aveva infamato la memoria del giovane vestendone il balteo. *** La ricostruzione di Enea/Virgilio glorifica Deifobo e non accusa Elena, la ricostruzione di Deifobo/Virgilio castiga Deifobo e condanna Elena. Nessuno avrebbe potuto raccontare ad Enea, ed al lettore, la morte di Deifobo se non lui stesso; anzi, nemmeno lui, ucciso nel profondo del sonno, impossibilitato a vedere ciò che accadeva nel suo talamo, avrebbe potuto farlo. Il testo non dice se Elena assistesse al 93 Cf. Il paradosso virgiliano in Id., Virgilio. L’epica del sentimento, Torino 2002, p. 122 (cf. anche la 2a ediz., ibid. 2006), ma cf. già Verso una nuova esegesi virgiliana. Revisioni e propositi, in Id., in Il genere e i suoi confini, Torino, p. 143. 94 La trad. di E. Cetrangolo (Firenze 1966), “e rendimi a lui, ai miei, / vivo, o il mio corpo se vuoi senza vita”, rende in modo esplicito, e a mio avviso efficace, l’allontanamento dal codice epico.

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massacro, ma, se anche fosse, la Tindaride non avrebbe avuto nessun titolo e nessun ruolo per farlo perché, portata via da Menelao sulle navi, è collocata ormai fuori del contesto eneadico95. Deifobo ricostruisce, si può presumere congetturalmente, le fasi che precedono la sua morte; interpreta, a-posteriori, gli eventi che hanno prodotto la sua fine. Egli deve raccontare perché deve, per il lettore, giustificare, paradossalmente, il destino che gli ha sottratto la gloria: aveva ‘peccato’ e perciò doveva essere punito con l’esclusione dalla gloria, bello clarus per i meriti acquisiti nella guerra d’Ilio, ma non morto ob patriam pugnando: è qui la soluzione dell’ossimoro logico del titolo di questo lavoro, ispirato dalla collocazione oltretombale. Come Paride. Paride, poco prima del crollo di Troia, era stato ferito da Filottete con una freccia avvelenata di Eracle, per cui, poco dignitosamente, ritornò sull’Ida dalla moglie Enone che lo respinse. Sarebbe morto di quella ferita fra atroci spasimi. Queste debolezze umane sono respinte anche dalla novella humanitas del new deal del poema eroico virgiliano in età augustea. Deifobo accetta che sia Enea la guida, c’è da parte sua la convinta cessione di un diritto da sé ad Enea, non una investitura per Enea96, ma accettazione di non potere essere investito lui di quel ruolo; anche Turno accetta di non essere lui il marito dell’amata Lavinia (tua est Lavinia coniunx, XII 937) – eppure quest’ammissione non è certo definibile una (ennesima) investitura per Enea. Virgilio omette le parole con le quali Enea presumibilmente informa Deifobo del suo viaggio nel Lazio e della missione italica con un generico hac vice sermonum, ma è evidente che nel non-detto poetico c’è la risposta di Enea alla domanda di Deifobo sulle ragioni della sua venuta; ora finalmente Deifobo sa che la sua Troia continuerà altrove la sua storia rinnovata, grazie ad Enea che guida i superstiti: la celeberrima battuta finale, “I decus, i, nostrum: melioribus utere fatis97” (v. 546), è il riconoscimento 95 La vediamo serenamente riconciliata col marito in Od. IV 304 s.: ’Atre#dhj dû kaqeàde mucîÄ dÒmou Øyelo‹o, / p¦r d' `Elšnh tanÚpeploj ™lšxato, d‹a gunaikîn. 96 G. Scafoglio, L’episodio di Deifobo, cit., p. 185, ammette che quella di Deifobo “non è una vera investitura”; sostiene, però, che essa è una rievocazione dell’investitura precedente [quella di Ettore nel l. II] […] ed un’anticipazione di quella successiva, che sarà impartita all’eroe dal padre nei Campi Elisi”. Ma non si coglie quale sarebbe lo scopo di questo collegamento, al di là di quello adombrato dallo studioso, secondo il quale l’episodio sarebbe un momento di sutura “tra due punti salienti del poema”. Con la predizione Anchise accende l’animo di Enea famae venientis amore, ma le parole del padre più ascoltate sono quelle miranti a spiegare il modo di evitare o sopportare tutti i rischi del prossimo conflitto che Enea dovrà sostenere in Laurento. 97 Renderei così: “Va’, nostro prestigio, va’; il destino ha preferito te”.

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VIRGILIO

da parte di chi, nel rispetto delle gerarchie, avrebbe dovuto occupare il posto di Enea, ma che ne ha perduto il diritto a favore di un altro eroe a cui arride una sorte migliore, garantita dalla protezione di Venere, dal volere di Giove, dai disegni del Fatum: queste forze hanno evitato ad Enea, che ha sacrificato, ad es., l’amore per Didone, gli errori commessi da Deifobo. Il figlio del re Priamo, che avrebbe dovuto godere del diritto di successione dopo la morte di Ettore (e di Priamo stesso), sta accettando l’abdicazione che il destino gli ha imposto98, ed ora riprende la ‘sua’ via, che non può che essere opposta a quella di Enea (vestigia torsit, v. 547). La risposta di Deifobo al rimprovero della Sibilla, discedam, explebo numerum reddarque tenebris, nella quale il La Penna ha ravvisato “l’annullamento dell’eroe come individuo”99, è anche il recupero, mesto, della dimensione di q£natoj da parte di chi è giunto al compimento della vita e che ha strappato un lembo del tempo che appartiene al b…oj. Il potere politico, e familiare, del padre ha voluto che commettesse anche lui il crimen di suo fratello Paride, e per questa indegnità gli è imposta una morte ignominiosa; ma anche a lui Virgilio concede il diritto dell’ultima parola, perché, come è avvenuto per Palinuro e per Didone, riscattasse il mancato klšoj con una giustificazione onorevole, sotto il profilo cavalleresco, non etico, della propria fine, ristabilendo, con una inconsapevole confessione, la verità che egli stesso aveva ricostruito ed aveva permesso di conoscere. Meminisse necesse est (v. 514), la necessità della memoria: Deifobo ristabilisce la verità, “la verità del poeta”, s’intende, la condanna per sempre di Elena, ma anche di se stesso: chi aveva accettato di unirsi alla donna straniera100, accettava anche l’esclusione dall’eredità politica e dal rango cavalleresco (come Paride, il cui ruolo, dopo l’uccisione di Achille, si satura in sostanza nel gesto del rapimento, e la cui presenza sulla scena si perde nella solitudine di un monte, dove patisce l’abbandono di tutti), accettava l’autodistruzione. Il poeta onnisciente obbedisce, nell’ottica dell’epica, alle necessità del suo poema, al rispetto della primarietà del suo protagonista, che si impone per le sue origini divine, agli imperativi dell’etica romana. Tutto è vincolato alla necessità storica: si rasenta certo determinismo fatalistico nell’Eneide, 98 A. La Penna, Deifobo ed Enea, cit., p. 1004, scrive che l’augurio rivolto ad Enea di andare avanti rientra ne “la religione della massa anonima che si annulla davanti al suo capo carismatico e a lui affida pienamente il destino della comunità”. A queste tesi sembra accedere anche D. Romano, s.v. Deifobo, in “Enc. Virg.”, cit., p. 16. 99 Cf. Deifobo ed Enea, cit., p. 1003. 100 La tentazione di ipotizzare un’allusione ad Antonio e Cleopatra esiste.

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e non si sbaglia a dirlo, ma in molti casi, come questo di negazione della gloria, la giustificazione c’è, ed è sacrosanta, perché è storica e profondamente assorbita dalla coscienza etica del poeta.

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VII.

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DARK VISIBILITY: LAVINIA NELL’ENEIDE

I vv. 64-66 del XII libro dell’Eneide cantano la vistosa esternazione emotiva e psicosomatica di Lavinia, che ha ascoltato le due eroiche e drammatiche Í»seij di Turno a Latino, intervallate dalla risposta del re, e la disperata ÍÁsij di Amata al Rutulo. Il silenzio del quarto personaggio in scena, la fanciulla che, esclusa dal circuito comunicativo della parola, reagisce a quel serrato parlare solo con pianto e rossore, emerge in modo ancor più marcato: è questo il luogo del poema in cui Lavinia gode di maggiore visibilità1. Le intenzioni manifestate da Turno di battersi in duello con Enea, la certezza dei promessi suoceri2 di una débacle per l’ardimentoso giovane ruotano attorno ad un meccanismo psicologico fondato sull’idea del suicidio: a Latino convinto che Turno va incontro ad una sicura morte fa eco Amata, molto più distante, rispetto al marito, dal volere del destino (e dal necessario corso della storia), che annuncia espliciti propositi di autosoppressione. La morte della madre e la caduta del promesso sposo isoleranno ancor più l’eroica scelta per la vita che il poeta ha disposto per la taciturna regia filia, cui spetta il peso della dotalis regia.

1 Lavinia appare in primo piano a VII 71-78, nella scena del prodigio; a XI 477-80 stretta alla madre sale al tempio di Pallade; a XII 604-06 si strappa i capelli e si graffia le rosee guance (un epiteto riservato a figure divine: Venere, Aurora, Iride, Febo, e, tra i mortali, solo a lei) alla notizia del suicidio della madre per impiccagione; su quest’ultimo episodio cf. J.-L. Voisin, Le suicide d’Amata, “REL” 17, 1979, pp. 254-66, che fa risalire il gesto estremo della regina dei Laurenti alle più antiche leggende di Roma. 2 L’ampio spazio riservato da Virgilio ai sentimenti parentali è del tutto assente nell’omologo omerico in cui Alessandro decide di sfidare Menelao in duello.

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VIRGILIO

Accepit vocem lacrimis Lavinia3 matris flagrantis perfusa genas, cui plurimus ignem subiecit rubor et calefacta4 per ora cucurrit.

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(“Accolse Lavinia la voce della madre di lacrime / le gote ardenti invasa; fuoco aggiunse / il rossore e le corse per tutto il viso cocente”).

La manifestazione esteriore dello stato d’animo di Lavinia è sollecitata, come sembra, dalla parole materne, o, meglio, è alla vox matris (di dissuasione per Turno a combattere e del personale proposito suicida che non la condanni a vedere in Enea il genero) che scatta la reazione, forse però già stimolata dalle parole di Latino, e di Turno, eppure frenata da una disciplinata discrezione. Il motivo poetico, non ideologico, del pudico silenzio della vergine, del suo pianto e del suo rossore rispetto a sollecitazioni esterne, sembra ispirato da un passo di Apollonio Rodio, III 673 ss., in cui Medea alla domanda della sorella Calciope che perplessa le vedeva gli occhi inondati di lacrime5 così reagisce: “e le guance di lei arrossirono. Voleva rispondere / ma la trattenne a lungo il pudore di vergine” (vv. 681-82)6: [...] tÁj d’ ™rÚqhne par»ia: d¾n dš min a„dÒj parqen…h katšruken ¢me…yasqai memau‹an.

Accepít vocém lacrimís: si avvertono passività7 del soggetto ricevente e invasività del soggetto agente; il ritmo distingue nettamente queste prime tre parole grazie alla coincidenza delle sillabe finali con i tempi

3

È questo l’unico caso di presenza sulla scena in cui il nome di Lavinia non è accompagnato da alcun epiteto. 4 Soccorre il ricordo di Apoll. Rh. III 963, qermÕn dû parh…daj ei‘len œreuqoj, “un caldo rossore le invase le guance”, come rende G. Paduano, Milano 19882 (il fenomeno si verifica all’apparizione di Giasone a Medea). R-J- Edgeworth, The colors of the Aeneid, New York 1992, p. 182, stila una lista di tutti i luoghi della letteratura latina in cui compare il rossore, e definisce questo del l. XII “very likely the most beautiful color passage in the Aeneid” (p. 32). 5 ”Osse d£krusin (cf. lacrimis) pefurmšna (cf. perfusa). Associazione di pianto e rossore si trova anche in Theocr. 14, 22-23 e 31-32, in un contesto non privo di lusus. 6 Cf. Paduano, trad. cit. 7 Il senso è quello di sumere, nella doppia valenza, propria di audire, e traslata di perferre; è come se la vox di Amata ferisse Lavinia; si vedano, del resto, i numerosi esempi del nesso accipere volnus citati in ThlL I 305, 74 ss.; la ripresa della iunctura, da parte di Val. Max. IV 3, 6, pro monstro eam vocem accepit (“giudicò mostruoso tale precetto”) e di Quint. IX 2, 31, urbes etiam populique vocem accipiunt [de proswpoi…v] (“anche le città e i popoli ricevono la parola”), avrebbe completamente snaturato l’accezione semantica impressavi da Virgilio.

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forti (una coincidenza che comporta tutte e tre le incisioni principali). Il suono ripetuto del gruppo -ce- in accepit vocem, l’allitterazione lacrimis Lavinia, la rima, non desinenziale, tra parola in eftemimere e parola in clausola son segnali di un’accorta cura della forma che asseconda la solennità del momento. È evidente la somiglianza tra questi tre versi e i vv. 388b-90 del l. VIII8:

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ille repente accepit solitam flammam notusque medullas intravit calor et labefacta per ossa cucurrit, non secus atque olim ... (“Egli d’un tratto / accolse la fiamma di sempre e noto nelle midolla / penetrò il calore e attraversò le ossa illanguidite, / non diversamente di quando ...”).

La raffigurazione dell’amore adulterino di Marte e Venere di Lucr. I 33 ss.9 ha ispirato Virgilio per la rappresentazione dell’intimità dell’amore coniugale tra la stessa Venere e Vulcano: tra il luogo dell’VIII libro ed il luogo del XII non c’è, invece, altrettanta consonanza tematica; risalta piuttosto in XII il riuso dell’iniziale accepit con lo stesso valore semantico del passo del l. VIII dove il senso della passività ha un’evidente spiegazione di tipo erotico. Inoltre, l’organizzazione sintattica nelle due terzine presenta significativi elementi comuni: accepit iniziale + acc., agg. del sogg. e acc. in clausola seguìti, in enjambement, dal vb. e dal sostantivo sogg., quindi la sequenza della similitudine (vv. 67 ss. vv. 391 ss.) con la presentazione dell’illustrans, infine l’elemento più vistoso: la puntualissima ricorsività prosodica, metrica e metrico-verbale, con parziale ricorsività lessicale e forte assonanza, tra XII 66 e VIII 390. Non credo ci possano essere dubbi sulla priorità compositiva di VIII rispetto a XII: il linguaggio si adatta perfettamente ad un contesto erotico. Questo non significa che anche in XII sia d’obbligo sottendere quel tipo di contesto10, o solo quello, a meno 8 I riferimenti a Il. XIV 294-96 e 315 s. (ma cf. fino a 353), riportati da G.N. Knauer, Die Aeneis und Homer, Göttingen 1964, p. 404, inerenti all’incontro tra Zeus ed Hera, restano piuttosto labili. 9 È il famoso passo: in gremium qui [Mavors] saepe tuum se / reicit aeterno devictus vulnere amoris, / atque ita suspiciens tereti cervice reposta / pascit amore avidos inhians in te, dea, visus, / eque tuo pendet resupini spiritus ore. 10 Di svelamento della genesi affettiva parla A. Traina nella stesura della voce Turno in “Enc. Virg.”, vol. V*, Roma 1990, p. 331, ribadendo quanto aveva già sostenuto nella rec. di Ph. Heuzé, L’image du corps dans l’oeuvre de Virgile, Rome 1985, pp. 489 e 502, pubblicata in “RFIC” 116, 1988, pp. 85-90 (cf. p. 89), contrario a quella interpretazione, come almeno perplesso rimane F. Giancotti, Lettura del XII libro dell’Eneide, in Lecturae

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VIRGILIO

che non vogliamo pensare che in un momento di così grave tensione provocato dalla prospettiva del suicidio della madre, la filia familias trovasse lo spazio psicologico ed emozionale per farsi travolgere da un inondante pensiero amoroso. Piuttosto, l’intratestualità ci permette di rilevare la grande capacità virgiliana di adattare a contesti anche diversissimi, quali possono essere quelli idilliaci e quelli drammatici, esiti poetici similari. Virgilio dimostra che è possibile andare oltre gli ambiti imposti da un genere o da un microgenere, dimostra che l’inter-intratestualità può ben sopravvivere all’allusività senza presumerla e senza dipenderne. Non ritengo, infatti, che il sermo usato a XII fosse una soluzione di ripiego, semmai anche provvisoria, soggetta a futura (e mancata) revisione: si tratta di una riscrittura, di una nuova vita vissuta da un testo una volta immesso in un tessuto testuale di diversa natura. Virgilio gestisce l’aspetto tecnico della propria poesia proprio come gestisce la poesia dei suoi modelli, sia greci che latini. Le manifestazioni reattive di sentimenti e sensazioni diverse, diversissime, possono essere analoghe. Ma il Mantovano, riproponendo il suo stesso testo in un altro contesto, ha volutamente conferito al testo originario, di per sé dotato di assoluta chiarezza ed inequivocità per la rinomanza dei protagonisti e della loro storia, una nota di enigmaticità legata all’incognita psicologica e caratteriale del nuovo referente. È qui la vera originalità del pezzo, la novità del suo messaggio, nella sua indecifrabilità, nella sua non-leggibilità attraverso il confronto col testo di prima mano. I vv. 64-66 del XII non sono registrati nelle Listen der Homerzitate di G. N. Knauer11, dove, invece, compaiono i successivi vv. 67-69, che contengono l’unica similitudine cui sia associato il personaggio della giovane figlia di Latino e di Amata: Indum sanguineo veluti violaverit ostro si quis ebur aut mixta12 rubent13 ubi liliaù multaˉ Vergilianae, a cura di M. Gigante, vol. III, L’Eneide, Napoli 1983, pp. 445 s.; il Traina ribadisce la sua interpretazione in L’utopia e la storia. Il l. XII dell’Eneide, Torino 1997, ad l., sostenendo che ignem di v. 65 “implica la metafora topica di ‘fiamma d’amore’ [...]. Così indirettamente Virgilio suggerisce la natura dei sentimenti di Lavinia”. Su questa esegesi cf. ancora qui, infra. 11 Lo studioso, però, non dimentica il vago richiamo a Briseide e alla sua rassegnazione in Il. I 348 e XIX 282-85, e a Penelope: cf. Die Aeneis und Homer, cit., rispettivamente pp. 605-06 e pp. 340, 343. 12 Cf. ancora Apoll. Rh. III 297-98, ¢pal¦j dû metetrwp©to parei¦j / ™j clÒon, ¥llot’ œreuqoj, “le morbide guance diventavano pallide e rosse” (Paduano, trad. cit.): su questo confronto si soffermano W.R. Johnson, Darkness visible: A Study of Vergil’s Aeneid, Berkeley 1976, p. 164, n. 55, e R.O.A.M. Lyne, Lavinia’s Blush: Vergil, Aeneid 12.64-70, “G&R” 30,1, 1983, pp. 59-60. 13 Compresenza all’interno dello stesso microcontesto di rubor e rubeo è già in geo. I

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albaù rosaˉ: talis virgo dabat ore colores14.

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(“Come indo avorio da sanguigna porpora violato / o bianchi gigli tinti tra molte rose di rosso: / tali colori della vergine esprimeva il volto”).

Espressiva ai vv. 68-69, in enjambement, la sequenza liliaù multaˉ / albaù rosaˉ, dove le contiguità lessicali non rispecchiano coerenze semantiche e sintattiche, e dove il chiasmo realizzato con i nomi dei fiori e con gli aggettivi che li qualificano rende anche nel profilo versificatorio il senso dell’intreccio che determina la confusione dei colori. L’evidente richiamo allitterativo ora cucurrit ~ ore colores è motivo di ulteriore collegamento tra illustrandum ed illustrans formanti le due ‘terzine’ i cui esametri finali si echeggiano nelle clausole. La tecnica analogica esalta i risvolti cromatici di quegli effetti reattivi: per questa similitudine, come si sa già da Servio15, Virgilio ha tenuto presenti i vv. 141-45 del IV dell’Iliade16, in cui all’effetto cromatico di contrasto, tra il candore degli arti ed il rossore del sangue che tinge cosce, gambe e caviglie di Menelao colpito dal teucro Pandaro, Omero applica un “Come quando meonia o caria donna / tinge d’ostro un avorio, onde fregiarne / di superbo destriero le mascelle” (trad. V. Monti). Il poeta latino sostituisce significativamente nell’illustrandum l’immagine del

430-31, at si virgineum suffuderit ore ruborem, / ventus erit: vento semper rubet aurea Phoebe; nel più ampio contesto si osserva che con le notazioni coloristiche sono indicati fenomeni atmosferici, come appressarsi della pioggia e arrivo del vento. Si veda la voce ruber, con utili indicazioni bibliografiche, curata da Elena Giannarelli in “Enc. Virg.”, IV, Roma 1988, pp. 589-92. 14 È singolare che questa commistione del rosso e del bianco compaia nel discorso di Latino a Turno all’inizio del l. XII, vv. 35-36: recalent nostro Thybrina fluenta / sanguine adhuc campique ingentes ossibus albent. Sul valore simbolico di questi colori cf. P.L. Thomas, Red and white: a Roman color symbol, “RhM” 22, 1979, pp. 310-16. 15 Cf. lo scolio ad Aen. XII 67: ‘VIOLAVERIT] Homeri comparatio, unde et ‘violaverit’ transtulit: ille enim ait mi»ný [Il. IV 141]; cf. anche Macr. V 12,4. 16 Ha approfondito l’analisi dell’imitazione omerica G. Danek, Purpur und Elfenbein (Verg. Aen. 12,64-69 und Hom. Il. 4,141-147), “WS” 110, 1997, pp. 91-104: Turno cumulerebbe su di sé le funzioni di Paride e di Ettore, ed Enea quelle di Menelao ed Achille; il duello, con l’assegnazione della donna contesa (Elena/Lavinia), segnerebbe la fine delle ostilità cui si oppongono Pandaro ed Amata; la morte dell’eroe epico negativo, Turno, determinerebbe l’inevitabile conclusione della vicenda. Lo studioso, con tali parallelismi di ruoli, ipotizza una dipendenza virgiliana dal testo omerico non solo di tipo formale ma addirittura contenutistica; è ben nota, invece, l’abituale estraneità della compagine narrativa del testo prelevato rispetto a quella del nuovo testo; cf. al riguardo M. Wigodsky, Vergil and early Latin Poetry, Wiesbaden 1972, p. 12. Si deve anche ammettere il ripetersi di certe situazioni e condizioni, ma ciò non autorizza a caricare di ‘senso effettivo’, di valenze semantiche recondite il fenomeno, che risponde quasi sempre solo a meccaniche strategie compositive.

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VIRGILIO

sangue con quella del fuoco: la ferita prodotta dalla freccia è simile alle ferite inferte dalle parole che pervadono l’animo come il fuoco del rossore inonda il viso. Violaverit (v. 67), che rende in modo assai più intenso l’immagine che nel testo omerico con mi»ný di v. 141 (e mi£nqhn di v. 146) è, al confronto, senza dubbio tenue, ripropone il senso dell’aggressività implicitamente presente in accepit, per la passività insita in questo tipo di accoglimento. Nella similitudine si apprezza la contaminazione di due idee: l’una della violenza (violaverit17), nella quale è rilevante il recupero dal modello omerico dell’immagine del sangue (sanguineo); l’altra della complicità (mixta), in cui la presenza della rosa stempera in un’atmosfera quasi bucolica la sinistra visione della precedente. Poiché, come è noto, nelle similitudini virgiliane spesso il quadro dell’illustrandum si completa proprio con elementi presenti solo nell’illustrans, è lecito integrare la prima parte con spunti prelevati dalla seconda. Lavinia è, cioè, investita dalla violenza prodotta da un sovrapporsi di voci, come la porpora inonda l’avorio, il candore del giglio trascolora nel rossore della rosa, dove l’immagine della violenza che un colore esercita su un altro è contaminata con quella della mutualità di un colore che si confonde con un altro. Questa degradazione del pathos attenua quella violenza sino ad assorbirla, per cui alle lacrime, figlie della violenza, si aggiunge sulle gote di Lavinia il rossore, inequivocabile segnale della a„dèj. La commistione dei colores metaforizza i passaggi dello stato d’animo della fanciulla, il cui turbamento è determinato da sensazioni diverse ma adiacenti, dšoj e a„dèj, timore e pudore, quelle provate da Medea quando aveva pensato di ingannare il padre per favorire nella gara l’uomo di cui era follemente innamorata (così fornendo l’ascoltato suggerimento a Scilla, figlia di Niso, della Ciris dell’Appendix Vergiliana): T¾n dš min a}qij / a„dèj te stugerÒn te dšoj l£be mounwqe‹san (Arg. III 741-42). Ma le motivazioni profonde che fanno scattare i meccanismi psicologici di quelle sensazioni, riconoscibilissime in Medea, nel caso di Lavinia restano e devono restare oscure. Il mancato riscontro omerico in quella rapida e misteriosa caratterizzazione non può essere evidentemente decisivo in nessun senso, 17 Secondo il Lyne, Lavinia’s Blush, cit., pp. 58 s., violo indica la ferita d’amore; per W. Kirkpatrick Lacey, curatore della voce Lavinia per l’“Enc. Virg.”, III, Roma 1987, pp. 147-49 (cf. p. 148), in cui sembra condividere l’interpretazione del Lyne, la parola suggerisce “forse anche la consapevolezza di L.[avinia] di stare per perdere la verginità”: una consapevolezza che Lavinia aveva – credo – già maturato e che difficilmente poteva emergere in questo drammaticissimo momento dell’episodio.

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ma si rivela atteggiamento artistico di qualche rilevanza, e spinge ad un allargamento del campo di ricerca a quei modelli che sappiamo collaterali e non estranei all’Eneide: si può presumere che Virgilio, per la creazione di questa intensa e delicata immagine poetica, senza dubbio drammatica, si sia accostato a testi portatori di quell’ispirazione tragica che spesso permea il suo epos: mi riferisco alla più ‘moderna’ epica ellenistica, più sensibile all’espressione degli umani sentimenti, e alla profonda riflessività della tragedia greca. Nella rappresentazione di Lavinia di XII 64-69 ci sono spunti che rinviano alla Medea apolloniana simbolo di fanciulla innamorata, ma anche alla Ifigenia18 e alla Polissena19 euripidee, dell’ultimo scorcio del V sec. a.C., simboli di fanciulle destinate al sacrificio. Come non accostare la dolente eroina di Laurento oculos deiecta decoros, che in compagnia della madre si reca al tempio di Pallade (XI 480), alla dolente figlia di Agamennone e„j gÁn d'™re…sas' Ômma, che convocata dalla madre esce fuori della tenda (I.A. 1123)! Lavinia è nell’Eneide il personaggio femminile più sfumato e anche più dolente, perché destinato ad assorbire nel flusso della vita, e quindi nella perdurante coscienza, sofferenze20 che in altre donne trovano finalmente sbocco in forme di sottrazione alla dimensione terrena alternative alla autodistruzione (Creusa21), o in un circuito variato di vita capace di offrire la tregua dopo la pena (Andromaca), o, infine, nella nettezza della opzione suicida (Didone, Amata). “Lavinia è una figura scialba, quasi inconsistente; [...] è senza vita. [...] Ugualmente scialba e convenzionale nel compianto per la madre morta (XII 605 s.)”. “Lavinia is a paradox. She is indisputably a key figure in the Aeneid”. In queste due opposte affermazioni, di A. La 18 L’argomento, già presente nei Cypria (p. 104 Allen), è cantato anche da Eschilo nell’Agamennone (vv. 184 ss.), dove la giovane viene uccisa. 19 Mi riferisco, evidentemente, alla giovanissima figlia di Priamo e di Ecuba, condannata al sacrificio (cf. Eur. Hec. 220 ss.) consumato in memoria di Achille; di qui sarebbe sorta la leggenda che l’eroe acheo da vivo ne fosse innamorato: su questo risvolto mitologico cf., ad es., Hyg. fab. 110. Nel teatro euripideo ci sono altre figure giovanili che affrontano la morte (Macaria, Meneceo, oltre le due sopra menzionate), ma solo il sacrificio di Ifigenia risulta il motivo portante ed il tema centrale della tragedia. 20 G. Polara, Virgilio: “Romanticismo” e tristezza nel poeta dell’età augustea, 2° cap. del vol. Potere e contropotere nell’antica Roma, Roma 1986, pp. 35-37, considera Lavinia, a confronto con Creusa e con Didone, la figura ‘più triste’ (p. 46). 21 Rapita numine divom come la Ifigenia euripidea, il cui corpo scompare nel nulla. Il corpo di Ifigenia scompare nel nulla, vivendo “ormai fra gli dèi”, come Agamennone annuncia a Clitemestra: su questa rielaborazione del finale, che nella versione originale, ricostruibile col fr. 857 N.2, due versi e mezzo tramandati da Eliano (nat. an. 7. 39), prevedeva la sostituzione della fanciulla con una cerva ad opera di Artemide, cf. F. Jouan, Euripide. Iphigénie à Aulis, “B L”, Paris 1983, pp. 26-28.

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Penna22 e di F. Cairns23, entrambe probabilmente amplificate, ciascuna per proprio conto, sotto la spinta di uno spirito critico nei confronti di chi la pensa in modo diverso, si può sintetizzare il profondo divario che separa il giudizio degli studiosi su questo personaggio che Virgilio ha voluto rappresentare in modo veramente sfuggente. La deminutio di questa figura femminile risale a R. Heinze il quale aveva sostenuto che “Lavinia deve interessare al lettore non come personaggio ma semplicemente come colei che in quanto figlia di Latino porterà in dote il regno”24. Per l’insigne studioso Lavinia è una di quelle figure che nel poema svolgono solo un ruolo informativo per il lettore, come avviene, ad es., per Caieta a VII 1 ss. Lavinia è certamente nell’Eneide il personaggio femminile più proiettato nel futuro, un futuro sopravvivente ai tempi narrati nel poema stesso, e, come tale, ‘storicamente’ rilevante. Il suo ruolo di filia 25 (nata/gnata/virgo), che è quello effettivamente svolto nell’opera, è costantemente direzionato verso il futuro di coniunx, regia coniunx 26. Ella, invero, è uno di quei personaggi ai quali la sensibilità dell’autore, per delicatezza, discrezione, fragilità e profonda interiorità, è più vicina. È difficile pensare che la tenera sensibilità virgiliana potesse trascurare una meditazione ed un invito

22

Cf. Virgilio e la crisi del mondo antico, in Virgilio. Tutte le opere, versione, introd. e note di E. Cetrangolo, Firenze 19672, p. LXIII. Lo studioso conferma il giudizio in L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio, Bari 2005, p. 397 (già in Il potere, il destino, gli eroi. Introduzione all’Eneide, in Virgilio. Eneide, Introd. di A. La Penna, trad. e note di R. Scarcia, vol. I, Milano 2002, p. 196), e critica la “lungaggine” di Cairns (vd., qui, n. seguente) sull’argomento. 23 Cf. Virgil’s Augustan Epic, Cambridge 1989, p. 151. Il Cairns dedica un intero capitolo, il 7°, Lavinia and the Lyric Tradition (pp. 151-76), alla figura di Lavinia, discutendo tutti i luoghi in cui di lei si parla o a lei si accenna. Forse eccessivo l’accanimento col quale lo studioso mira a rinvenire nella lirica greca precedenti letterari utili a spiegare il rossore della fanciulla. 24 Cf. R. Heinze, La tecnica epica di Virgilio, trad. it. a cura di V. Citti, Bologna 1996, p. 495. 25 In questo ruolo è ritratta accanto al padre o alla madre: cf. VII 52, dove Lavinia, filia, è la fanciulla da marito; a VII 71 ss. Lavinia virgo (attestato in Catone, Orig. fr. 11; per altre attestazioni, annalistiche, cf. Richard in OGR 16, 5 [cf. comm. al l. VII dell’Eneide di N. Horsfall, Leiden-Boston-Köln 2000, pp. 80-81]), accanto al padre, è al centro di un prodigio (analogo a quello di Iulo in II 679 ss.); a VII 252 ss. l’attenzione del re è tutta concentrata sul conubium natae; e poco dopo (vv. 268 ss.) ad Ilioneo egli affida l’ambasceria per Enea: la figlia (nata) secondo l’oracolo sposerà l’uomo venuto externis ab oris; a XI 356 (discorso di Drance a Latino) Lavinia è sempre gnata da destinare all’egregius gener. A VII 387 Amata, fingendosi invasata dal nume di Bacco, nasconde la figlia (nata) tra i boschi frondosi. Si rivolge al dio e considera solo lui degno della virgo (v. 389), che per lui impugna i flessibili tirsi e lo onora danzando e a lui consacrata scioglie la sua chioma. 26 È Lavinia coniunx anche per la stessa Giunone, che nella celebre ÍÁsij di VII 293 ss. ammette l’ineluttabilità del destino che vuole Lavinia sposa dell’‘odiato’ Enea (v. 314).

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alla meditazione sul difficile destino di questa giovane donna, che diventerà – in una realtà extratestuale rispetto all’Eneide – la sposa del Troiano conquistatore, ma che all’interno del tessuto narrativo eneadico ha un autentico spessore tragico. Ed è addirittura automatico che quelle prospettive così drammatiche muovano innanzitutto il pianto in una giovane creatura sulla quale si addensano minacce di privazione di ogni difesa familiare contro l’accanimento del destino. Anche se si voglia prescindere dall’importanza del personaggio, sempreché ciò sia possibile, sul piano esegetico, comunque, non v’è dubbio che il grande interesse da esso destato è dovuto al rossore che accende il suo volto. Nelle poche decine di versi che precedono quel pianto e quel rossore è delineata nella sua interezza la condizione di questa fanciulla e tracciato il suo destino: dovrà abbandonare il fidanzato, sposare proprio l’uomo che glielo ucciderà, che provocherà peraltro il suicidio della madre e siederà sul trono che ora è del padre. La fragile Lavinia apprende d’un colpo, e definitivamente, dai membri della sua famiglia di essere la vittima di un sacrificio che coinvolgerà lei sul piano spirituale e privato, su quello fisico la famiglia stessa, e su quello politico la patria. Dunque, Turno, visti i Latini fiaccati dalle avversità della guerra, accrescendo la sua ira, inplacabilis ardet (v. 3)27, e dichiara al re la determinazione ad affrontare in singolar tenzone il Teucro desertor Asiae (v. 15)28, una connotazione negativa dell’avversario che serve a mettere in cattiva luce il “rivale”, rivale anche in amore, agli occhi della presente Lavinia. L’eroe rutulo è assimilato ad un leone, e in questa similitudine il linguaggio scelto dal poeta è quello del pathos erotico vissuto da Didone; confrontiamo i vv. 5-8 dell’ultimo libro: saucius ille gravi venantum volnere pectus tum demum movet arma leo gaudetque comantis excutiens cervice toros fixumque latronis inpavidus frangit telum et fremit ore cruento

5

con i vv. 1-5 del quarto:

27 Cf. anche accenso, v. 9, ardentem, v. 55; per il senso erotico di ardeo cf. Verg. buc. 2,1, Formosum pastor Corydon ardebat Alexin (col commento di W. Clausen, Oxford 1994, p. 64). 28 Cf. il successivo nube … / feminea di vv. 52-53, nella risposta a Latino, e semivir Phryx di v. 99.

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VIRGILIO

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At regina gravi iamdudum saucia cura volnus alit venis et caeco carpitur igni […] […] haerent infixi pectore voltus […] nec […] membris dat cura quietem.

5

Saucius … gravi … volnere pectus / … / … fixum, un sermo unilateralmente connotante, ancorato alla smania d’amore per eccellenza nell’Eneide, e l’immagine della furia ruggente fanno seriamente pensare ad una assimiliazione parziale di Turno con Didone. Ebbene, quel quae mentem insania mutat? a chiusura del v. 37, a sua volta, pronunciato dal vecchio re quando riflette sulla abnormità pensata, quella di mettersi contro il destino, e sull’assurdità di quella guerra29 contro i Teucri che avrebbe comunque accolti come alleati, dopo la morte di Turno, sovrappone anche questo personaggio a Didone che usa le stesse parole nel 2° emistichio di IV 595. E anche Amata (At regina, v. 54 … moritura, v. 5530), infine, è detentrice di un ruolo narrativo e di una conseguente titolarità letteraria per certi versi comparabili con quelli di Didone. Virgilio, insomma, scompone su Turno, su Latino e su Amata quel registro lessicale della sofferenza e della collera, che ha caratterizzato la poesia del libro della regina cartaginese, cui sembrava riservato. Ora, tutto il discorso di Turno a Latino è in funzione di Lavinia, anzi ha come effettiva destinataria Lavinia; congredior (“mi batto”), coriambo finale di periodo metrico, in rejet (v. 13), cui segue forte pausa di senso e quindi di ritmo con accentuata tritemimere, è una delle battute ad effetto a cui forse egli tiene di più. Il re dei Rutuli è l’uomo più interessato all’epilogo della vicenda che comporta per lui l’eventuale perdita della donna intorno alla quale ha costruito l’idea del suo futuro. Infatti, il suo discorso a Latino si conclude con una drammatica alternativa: o egli manderà al Tartaro il Teucro e vendicherà l’offesa arrecata a tutti, aut habeat victos, cedat Lavinia coniunx, una battuta ispirata dal disprezzo e avvolta da un’aura di voluta vaghezza: non è espresso il soggetto di habeat (si tratta, si sa, di Aeneas, presente, 29

Latino, che nella versione liviana (I 2) resta ucciso combattendo con Enea contro Turno. Virgilio lo fa uscire dal palazzo per far concessioni ad Enea e per fissare la singolar tenzone tra Turno ed il Troiano; il poeta preferisce conservare Latino alla causa romana, sì che egli rimanga quell’elemento di congiunzione tra popolazioni indigene e profughi venuti dall’est. 30 Sui rapporti, anche testuali dei rispettivi contesti, tra Amata e Didone cf. A. La Penna, Amata e Didone, “Maia” 19, 1967, pp. 309-18.

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sì, nella prop. precedente, però all’acc.); per victos bisognerà intendere nos o vos? (Turno, cioè, pensa o non pensa di sopravvivere al duello, pur eventualmente sconfitto?); sintatticamente nudo quel cedat31 (sogg., Lavinia, mutato32 rispetto a quello del coordinato habeat): con dat. sottinteso? O, piuttosto, come credo, usato absolute col significato di “desistere, abbandonare ogni resistenza”?: Turno, dal suo punto di vista, ritiene che Lavinia stia intimamente confliggendo nella speranza di “non dover cedere”. Le argomentazioni di Turno associano la causa comune della patria alla sua sorte personale di pretendente alla mano di Lavinia33. Latino (vv. 19-46), sedato corde34, tenta di dissuaderlo, ed anche le sue argomentazioni vanno nella direzione del futuro personale, sentimentale dell’ardimentoso Rutulo: sunt aliae innuptae Latio et Laurentibus arvis, / nec genus indecores (vv. 24-25). Il re dichiara che ben sapeva di non poter unire in matrimonio sua figlia con nessuno dei pretendenti, perché – si sottintende – il destino era ed è che sposi lo ‘straniero’35, ma aggiunge che fattori, tutti sentimentali, e tutt’altro che razionali, lo hanno indotto (victus) a coinvolgersi in una guerra che già sapeva perduta: l’amor per Turno, il cognatus sanguis36 che lega il 31 Turno tardivamente, e comunque nemmeno in via definitiva, condivide l’orientamento già iniziale che Latino aveva dato alla vicenda: a XI 320 s., come annota il Danielino, il re aveva detto Haec omnis regio … / cedat amicitiae Teucrorum … Il Nettleship, ad l., richiama III 297, et patrio Andromachen iterum cessisse marito, e intende cedat in matrimonium. 32 Nel testo di riferimento dell’Iliade (III 71-72) l’organizzazione sintattica risulta sicuramente più piana e regolare, né c’è quel cambiamento di soggetto riscontrato nel testo latino: ÐppÒteroj dš ke nik»sý kre…sswn te gšnhtai, / kt»maq’ ˜lën e} p£nta guna‹k£ te o‰kad’ ¢g»sqw (“chi dei due vincerà e risulterà migliore, prenda per sé tutti i beni e si porti a casa la donna”). 33 La prospettiva di sposare Lavinia è, direi, ossessiva nel giovane rutulo: a IX 136 ss. egli è determinato ad annientare la razza scellerata che gli strappa la sposa; a X 649, al fantasma di Enea che fugge Turno grida: “Quo fugis, Aenea? thalamos ne desere pactos”; a XI 440, alla fine della lunga risposta a Drance, che gli aveva rinfacciato la dotalis regia (v. 369), la regia coniunx (v. 371), l’eroe dichiara di consacrare la sua vita a Latino, suo suocero. 34 Evidente è la contrapposizione a turbidus detto di Turno a v. 10. 35 Cf. VII 96 ss.: il padre Fauno aveva presagito a Latino il futuro della figlia (“Ne pete conubiis natam sociare Latinis, / o mea progenies, thalamis neu crede paratis; / externi venient generi, qui sanguine nostrum / nomen in astra ferant quorumque ab stirpe nepotes / omnia sub pedibus, qua Sol utrumque recurrens / aspicit Oceanum, vertique regique videbunt.”); Latino non aveva trattenuto in cuor suo questi moniti, e la Fama (v. 104) già li aveva divulgati per le città d’Ausonia. Amata ostinatamente replicherà al consorte: “Exulibusne datur ducenda Lavinia Teucris, / o genitor, nec te miseret gnataeque tuique? / Nec matris miseret, quam primo Aquilone relinquet / perfidus alta petens abducta virgine praedo ? / … / Si gener externa petitur de gente Latinis / … / omnem equidem sceptris terra quae libera nostris / dissidet, externam reor et sic dicere divos.” (VII 359-70). 36 Lavinia ed il re dei Rutuli erano cugini, poiché Venilia, la madre di Turno, era la sorella di Amata.

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VIRGILIO

giovane a Lavinia, le lacrimae della mesta Amata37. Ma Turno, sapendo di essere ascoltato da Lavinia e a lei indirettamente rivolgendosi, recupera per sé un ruolo consono al registro epico. A questo punto interviene Amata che, sconvolta dal rischio del duello, tra le lacrime cerca di placare l’ardente genero, e manifesta intenzioni suicide per non sopravvivere ad Enea. Quindi l’attenzione descrittiva è fissa sulla fanciulla (vv. 64-69, su riportati), e su Turno (vv. 70-71): Illum turbat amor figitque in virgine vultus; ardet in arma magis paucisque adfatur Amatam.

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(“L’amore lo turba e legge nell’animo della vergine, / cresce l’ardore alle armi e in breve dice ad Amata”).

Illum, v. 70, riferito al lontano Turne del v. 62, in luogo dell’espresso nome dell’eroe, non deve apparire inopportuno, e tanto meno può essere indicatore di particolari significanze. In realtà, la scena di Lavinia, che riempie, con la similitudine, i sei versi che dividono la ÍÁsij di Amata da questa reazione di Turno, non occupa un effettivo spazio drammatico e cronologico, ma solo diegetico. Fine del discorso di Amata, reazione di Lavinia e reazione di Turno sono momenti vissuti in assoluta contemporaneità. Virgilio elude l’espressione palese di un’opzione scenica personale, che sarebbe definitiva e priverebbe il testo di una gestibilità esegetica ab externo; offre, dunque, della reazione di Lavinia una lettura, anch’essa sfumata, e comunque parziale, quella di Turno che, prima che dalle parole di Amata, è turbato dall’amore e dalla vista della fanciulla, di cui fissa lo sguardo, e ancor più arde di combattere: il comportamento della giovane ha l’esito di annullare definitivamente un eventuale effetto scoraggiante delle parole accorate dei due reali; esso è causativo della maturata e definitiva decisione di affrontare il duello, una decisione già da tempo invocata dalle matres Latinae (ipsum armis ipsumque iubent decernere ferro, XI 218), e pretesa dalle sprezzanti accuse di Drance (Scilicet ut Turno contingat regia coniunx, / … / sternantur campis, vv. 371-73). Ma proprio quella decisione era stata più volte rinviata, forse addirittura elusa: se Turno promette di andare in duello, ciò avviene solo perché questa gli par essere la pre37 Il discorso di Latino, anche se mosso da amor – come si è detto –, e dalla consapevolezza del fato, è contrario al codice eroico, molto diverso dal discorso di Priamo a Paride o a Ettore nell’Iliade.

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tesa dei Teucri e la volontà degli alleati (Quod si me solum Teucri in certamina poscunt / idque placet, vv. 434-35); ma poi, dando disposizioni tattiche e strategiche a vari capi italici, li coinvolge in un programma bellico (vv. 463 ss.); e se ancora sembra prepararsi per lo scontro diretto (Cingitur ipse furens certatim in proelia Turnus, v. 486), poi invece esprime gratitudine a Camilla per il suo eroico intervento (vv. 508 ss.). Sarà una Camilla morente ad affidare ad Acca la raccomandazione che Turno entri in azione (succedat pugnae, v. 826), ma, nel prosieguo della narrazione, vediamo che Turno ancora si attarda in silvis, ed in silvis è raggiunto dalla notizia della disfatta dei Volsci e della morte dell’eroina (vv. 896 ss.). Virgilio, sotto il profilo letterario, ha trovato nel rossore le risposte della fanciulla alle gravissime sollecitazioni provenienti dalle parole dei genitori e del promesso sposo, ma deve interdire al lettore un’interpretazione univoca di quella manifestazione esteriore. Lavinia può godere solo di una dark visibility38; l’ombra esegetica in cui è avvolto il rossore scenico è garanzia per la futura prima matrona, prototipo della nobile signora romana. Lavinia non può parlare: indicherebbe un unico ed incontrovertibile senso della sua presenza sulla scena e del suo comportamento, ed è proprio questo che Virgilio vuole evitare, ma il poeta sente anche di dover animare, a questo punto, il suo personaggio perché non appaia in una incomprensibile immobilità, un simulacro privo di slancio e di vita, di vita interiore. Il comportamento complessivo di Lavinia può avere, nel testo, solo una spiegazione che derivi da un parziale punto di vista (nulla si dice dell’effetto su Amata e su Latino, nemmeno del solo pianto di Lavinia), ed è quello di Turno, che sembra l’unico destinatario del rossore-messaggio, non l’unico spettatore di quel rossore, che il geniale artificio del poeta propone al suo pubblico, dal quale, comunque, istintivamente, sarebbero emersi punti di vista alternativi a quello di Turno. Al lettore è lasciato il compito di rilevare che nel testo, se spiegazione sussiste, questa è quella di Turno, e quindi di registrare la parzialità del giudizio, e di spostare su questo giudizio l’esegesi e la domanda: corrisponde al 38

Lo spunto ossimorico ha origini poetiche; darkness visible è una splendida iunctura di John Milton prima che il pre-titolo del libro di W.R. Johnson sull’Eneide, qui citato alla n. 12, che riporta in epigrafe il contesto miltoniano; ne ho capovolto i termini, perché la visibilità di Lavinia, pur potenziata dalla forza dei colori, poggia comunque su una oscurità interpretativa. Condivido, però, nella sostanza l’orientamento espresso dallo studioso nel citato volume, soprattutto pp. 56-57, sulla necessità di interpretare il rossore di Lavinia guardandolo dal punto di vista di Turno.

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VIRGILIO

vero quanto Turno leggeva sul volto di Lavinia? Ma al lettore è fatto anche l’obbligo di rinunciare a sovrapporre altri orientamenti interpretativi univoci nel momento stesso in cui è spinto a congetturarne molti. Ebbene, il giudizio di Turno fatalmente non è del tutto chiaro, conserva ambiguità e vaghezza, ma sicuramente va nel senso erotico come il sermo suggerisce. Alle pur drammaticissime parole di Amata Turno è spinto a rivolgere lo sguardo verso Lavinia (mai le parla direttamente), di cui legge, dal suo punto di vista, i moti dell’animo: figit in virgine vultus (questa è la realtà del testo virgiliano): la scruta all’interno e vi legge quel che il suo amore sa leggervi39; interpretando quel rossore è sconvolto da un turbamento erotico. Afferrerà la lancia per abbattere il semivir Phryx (v. 99; la connotazione sessuale ha il suo peso), dal crine ricciuto e madido di mirra: son parole dettate da una scottante gelosia40. Se pensassimo che la reazione di Lavinia sia dovuta solo al dolore della paventata morte di Turno, nei confronti del quale manifesterebbe amore anche in questa circostanza41, o che la fanciulla sia presa dall’amore di Turno per lei42, o, addirittura, dall’emozione generata dal pensiero di sposare Enea43, faremmo torto all’amore filiale di una

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Il nesso è riproposto da Ovidio a met. X 601, vultu ... in virgine fixo (Ippomene fissa lo sguardo sulla bellissima Atalanta), e, con lieve variazione, a fast. IV 317-18, voltus in imagine divae / figit. Julia T. Dyson, Lilies and violence: Lavinia’s Blush in the Song of Orpheus, “CPh” 94, 1999, pp. 281-88, pensa che il Sulmonese, riprendendo la iunctura virgiliana, intendesse collegare la figura di Ippomene a Turno, e che quindi facesse una lettura in senso erotico del testo eneadico. Il nesso vultus/-um figere è presente, di tutta la latinità, solo nei due luoghi citati, ma il Mantovano aveva già scritto, a XI 507, Turnus ad haec oculos horrenda in virgine fixus, in riferimento a Camilla, la spavalda vergine sulla quale Turno fissa il suo sguardo. Che in Darete 27 (ed. Bate, Frankfurt a M., Bern, London 1987) si legga [Achilles] Polyxenam contemplatur, figit animum può essere di qualche interesse. Se è vero che Darete nel V-VI sec. traduce col de excidio Troiae historia una storia pre-omerica della guerra di Troia, Virgilio potrebbe aver tratto l’idea del figere come indagine dell’interiorità proprio dall’antico testo greco, in un contesto in cui si parla di Polissena, rispetto alla quale abbiamo riscontrato punti di convergenza col personaggio di Lavinia nell’Eneide. 40 A duello terminato dirà ad Enea, a conclusione di una drammatica e toccante ÍÁsij, che Lavinia è sua (v. 937); l’eroe troiano aveva già parlato del socer Latinus nella preghiera dei vv. 176 ss. (cf. v. 195). 41 Cf. Lyne, Lavinia’s Blush, cit., pp. 58-60; per lo studioso il rossore sarebbe la manifestazione esterna provocata dal reciproco sentimento che lega Lavinia a Turno, tesi che F. Cairns, Virgil’s Augustan Epic, cit., p. 153, n. 10, trova ‘fanciful’. 42 Così C.J. Putnam, The Poetry of the Aeneid, Cambridge (Mass.) 1965, p. 159: “Lavinia’s blush, prompted by Amata’s speech, is caused by Turnus’ love for her”. B. Otis, Virgil: A Study in Civilized Poetry, Oxford 1964, p. 367, parla di ‘mutual passion’. 43 Di questo avviso, per esempio, Ruth W. Todd, Lavinia blushed, “Vergilius” 26, 1980, pp. 27-33 (“she [Lavinia] blushed at the idea of generum Aenean,”, p. 30); un accenno già in K. Quinn, Virgil’s Aeneid: A Critical Description, London 1968, p. 256, n. 2.

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puella giustamente definita exemplum per eccellenza di filia matris, filia familias, e futura matrona, perché ella posporrebbe, o, di più, cancellerebbe dalla sua coscienza la prospettiva, non remota, della morte della madre44. Il rossore al volto potrebbe essere il segnale di un turbamento dovuto a pudore o a rabbia e, comunque, indica uno sconvolgimento interiore45. Questo rossore e questa vampa di calore ci riportano alla memoria “lo splendido volto arrossito” di Medea (Apoll. Rh. III 725), il volto di Arianna (Catull. 64, 86 ss.), che, non appena vide Teseo (cf. anche 65, 24; gli esempi catulliani fanno evidentemente pensare al sentimento d’amore), concepì la fiamma d’amore e tutta ne arse nelle fibre più profonde46. Lavinia sente, senz’altro, su di sé il peso di una enorme responsabilità, pur in una scontata indeterminatezza dovuta alla sua immaturità di fanciulla; capisce di essere l’oggetto principale della contesa, la causa, indiretta, della possibile morte della madre, sa che andrà sposa a Turno o ad Enea. Virgilio non dice e nulla lascia chiaramente trapelare sulle impressioni della fanciulla di unirsi in matrimonio all’uno o all’altro, ma, soprattutto, non dice di un dissenso di Lavinia all’idea di sposare Enea. Non avrebbe potuto farlo. Non ha bisogno neppure delle parole di Ifigenia per motivare il suo pianto (Eur. IA 1214-15): “[...] Nàn dû t¢p' ™moà sof£, d£krua paršxw: taàta g¦r duna…meq’ ¥n.” (“Ora invece userò le lacrime, la sola arte che posseggo”).

Lavinia forse patisce una dissociazione interna, perché – e questo si può dire senza la riserva del forse – non può sottrarsi al disegno provvidenziale del divino (nemmeno può apparire che volentieri si sottrarrebbe), e, nel contempo, obbedisce al dominio coerente delle 44 G. Polara, op. cit., p. 48, tende a sovrapporre i due motivi: “in realtà Lavinia arrossisce perché sa che le sue lacrime non sono solo per la madre, ma anche per Turno [...], per il quale aveva cominciato a nutrire affetto”. 45 R. Onians, Le origini del pensiero europeo, trad. it., Milano 1998, pp. 173 ss., fa esplicito riferimento al testo virgiliano, spiegando il rossore di Lavinia come manifestazione di un moto di vergogna, ma anche di rabbia, perché sente che i genitori tentano di allontanare da Turno il desiderio di sposarla. La natura erotica del rubor trova un simbolo significativo nel “dolce rossore”, glukerÕn œreuqoj, che colorisce le guance di Eros in Apoll. Rh. III 121-22. Servio a v. 66, invece, annota: ‘IGNEM SVBIECIT RVBOR] [...] movebatur autem. Intellegens se esse tantorum causam malorum, sicut supra ipse “causa mali tanti, oculos deiecta decoros” ’. 46 Un vago sentore è nell’Iliade, VIII 459, qaÚmazen d’ ’OdusÁa ™n ofqalmo‹sin Ðrîsa.

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VIRGILIO

ragioni della storia, che la vogliono moglie di Enea. Il Pudor, uno dei valori più emergenti su cui aveva puntato l’opera di moralizzazione di Augusto contro le gravi deiezioni dilaganti, rimane la disposizione spirituale più leggibile del comportamento di Lavinia; la a„dèj è elemento centrale dell’Ifigenia in Aulide di Euripide, che affida al Coro il motto solenne: “il pudore è saggezza”, tÒ te g¦r a„de‹sqai sof…a47 (v. 563); ed estremamente attuale doveva apparire al poeta augusteo il grido di protesta che ancora dal Coro si leva, nello stasimo seguente (vv. 1089-97), contro il disastroso crollo dei valori48: “Qual potere serba ormai / il volto del Pudore e della Virtù? / Regna empietà / aborrita e negletta è la virtù, / Licenza prevale sulle leggi / né più fra gli uomini / vige la gara al comun bene intesa / per scongiurare l’ira degli dei”49. Lavinia è la storia; in lei continua la compostezza di Creusa, in lei rivive quella rinuncia di sé di cui Creusa50 è diventata icona: le parole profetiche della sposa troiana di Enea, Illic res laetae regnumque et regia coniunx / parta tibi 51: lacrimas dilectae pelle Creusae, a II 78384, dettate da una dimensione ormai extraterrena, suonano come una sorta di passaggio di consegne. Lavinia è personaggio che si dà, si consegna al disegno del fato; non vi si oppone come Didone, che aveva fondato sulla passione, e sul calcolo, il suo progetto di vita (di donna e di regina) accanto all’eroe troiano. Lavinia è personaggio senza contorni e senza trascorsi: è la proiezione nel futuro; non appartiene a Turno e nemmeno alla madre, soprattutto non appartiene

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Seguo l’ediz. delle Belles Lettres, già citata, di F. Jouan, Paris 1983. Il Jouan, Euripide. Iphigénie à Aulis, cit., p. 144, cita, tra le altre, la datata ma ancora valida interpretazione di H. Weil, Sept Tragédies d’Euripide, Paris 1879, ad l., secondo la quale la denuncia del Coro rifletterebbe l’inquietudine del poeta dinanzi alla demoralizzazione della Grecia alla fine della guerra del Peloponneso. Sul motivo della scomparsa dell’a„dèj dal mondo cf. già Hes. Op. 197 ss.; Theogn. 292 e 647 s. 49 Trad. di F. Ferrari, Euripide. Ifigenia in Aulide. Ifigenia in Tauride, introd., trad. e note di F.F., Milano 1988. 50 Per i rapporti testuali tra Creusa e l’Euridice del IV delle Georgiche e le antitesi fondamentali tra i due personaggi cf. la voce Creusa curata da J. Heurgon in “Enc. Virg.”, I, Roma 1984, pp. 931-32 e Id., Un exemple peu connu de la “retractatio” virgilienne, “REL” 9, 1931, pp. 258-68. 51 In VI 93-94 l’argomento è materia della Sibilla che preannuncia ad Enea: Causa mali tanti coniunx iterum hospita Teucris / externique iterum thalami (cf. Il. XX 116). Ai vv. 76466 dello stesso libro esso è oggetto di profezia da parte di Anchise che predice ad Enea la nascita di Silvio: Quem tibi longaevo serum Lavinia coniunx / educet silvis regem regnumque parentem, / unde genus Longa nostrum dominabitur Alba. Nell’ambito del noto monologo interiore del l. VII Giunone ammette che è destino che Enea sposi Lavinia (vv. 313-14): Non dabitur regnis, esto, prohibere Latinis / atque immota manet fatis Lavinia coniunx. 48

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al presente. Per ora può essere solo un volto piangente ed inintellegibilmente arrossito. Se ragioni di disciplina negano la parola a Lavinia, il suo cuore non può non concedersi libero sfogo di esprimersi attraverso queste forme di comunicazione alternative. Il rossore è il segnale della insopprimibilità della comunicazione, della impossibilità di non far corrispondere ai grovigli interiori una reazione esterna. Per Lavinia non sussiste nessuna collateralità comunicativa che le solleciti la parola: nessun personaggio è abilitato a rivolgersi a lei direttamente. Ella è nella condizione di non poter dir nulla; non potrebbe dichiarare amore a Turno, lei che sarà sposa di Enea, non potrebbe dichiarare amore per Enea, che nemmeno conosce, lei promessa a Turno; può solo osservare, sentire, mai esternare il suo pensiero; il suo effettivo bagaglio sentimentale, la qualità della sua vita coniugale52, che comunque non sono materia virgiliana, appartengono ad un ambito extratestuale, che esorbita dai tempi raccontati nel poema. Lavinia non sembra avere bebiwmšnon, sembra venire dal nulla, anche perché nulla sappiamo dei suoi pensieri, ed ha motivo di essere solo con l’ingresso nel circuito storico della pre-romanizzazione del regno latino. Quelle di Lavinia e di Turno saranno, nella sostanza, nozze fallite; e credo che Virgilio, tingendo il rossore sul volto di Lavinia che ha appena appreso, tra l’altro, delle concrete probabilità di non sposare Turno, si sia ricordato di una battuta pronunciata in Aulide da Ifigenia per una circostanza simile: “Mi fanno arrossire le fallite nozze” con Achille (IA 1342): TÕ dustucšj moi tîn g£mwn a„dî fšrei. L’oggettivo parallelismo della difficoltà di realizzare una promessa di matrimonio, comune alla condizione di Ifigenia come di Lavinia, ha offerto al poeta un aiuto per il reperimento di un modo di stare della fanciulla sulla scena, che comunque fosse portatore di una qualche espressione interiore, e facesse uscire il personaggio-Lavinia al di fuori di uno scomodo

52 J.O. de Graft-Hanson, Creusa, Dido, Lavinia and Aeneas, “Mus. Afr.” 5, 1976, pp. 65-72, osserva che, mentre con Creusa l’eroe troiano è sempre se stesso nella sua dimensione umana, nel rapporto con Didone le sue azioni rispondono piuttosto al volere degli dèi; “with Lavinia, these latter constraints become all important and so overriding as to efface completely whatever remains of the humanity of the hero” (p. 71). Una radicale automatizzazione del personaggio di Enea nell’epilogo del poema, con graduale ed inarrestata deprivazione della sua dimensione umana, mi sembra operazione pericolosa; gli sviluppi narrativi successivi al duello sono estranei al disegno fissato da Virgilio per la sua Eneide; ciò non cancella, è evidente, la difficoltà del rapporto della coppia reale, soprattutto nella sua fase iniziale, ipotizzabile solo dalle nostre inverificabili supposizioni, peraltro, che fossimo propensi a fare.

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VIRGILIO

amorfismo, senza, nello stesso tempo, impegnarla nella copertura di un ruolo scenico che la connotasse in maniera netta. Virgilio, cui la tradizione letteraria greca e latina non offriva in questo caso prototipi 53, mai come in questo caso ha dovuto creare un personaggio il cui carattere fosse indefinibile o solo congetturalmente definibile. Un giudizio su di lei il lettore antico lo dà per quello che lei dovrà essere, molto meno per quello che letterariamente è. La parte che il poeta le ha assegnato salva la dimensione privata di Lavinia, che con quel rossore eleva, nell’immaginario collettivo, il valore della castità a valore fondamentale della futura regina di un regno che poi diventerà il regno di Roma – valore privilegiato dalla mentalità romana. Il parallelismo che ritengo di aver individuato tra Lavinia ed Ifigenia è sorretto anche da una similarità nella forma dei contenuti che regola le due vicende: il personaggio ‘sacrificato’ è figlia del capo di un popolo, che per la salvezza della sua gente si era mostrato pronto a cederla; la vittima non si oppone al sacrificio54 al quale si oppone il promesso sposo che per questo affronta il rischio della morte. Il riconoscimento di questo importante aspetto strutturale, che associa ed unifica i due personaggi femminili nel segno di un rituale sacrificale di consolidata tradizione, è per me elemento di prova ulteriore delle radici ispirative che hanno, almeno parzialmente, suggerito a Virgilio uno spunto per la creazione di un personaggio non-finito, un personaggio che si prepara ad essere tale ma solo in un ambito extra-testuale rispetto al poema che pur lo sta ospitando in questa fase di formazione. La storia di Enea e di Lavinia, finché rimane entro i confini dell’Eneide, è sempre e solo una storia annunciata; gli sviluppi di questa materia sono affidati dal poeta ad eventuali altre testualità. Lavinia si converte alla causa troiano-romana, assorbendo il destino di Enea55, pur senza averne le medesime prerogative: la umanissima e vulnerabilissima Amata non è la diva parens che premurosa soccorre 53 Dorothea C. Woodworth, Lavinia: an interpretation, “TAPhA” 61, 1930, pp. 175-94, lo cercò nella realtà storica, pensando che Lavinia riflettesse Livia. Un accenno in questo senso già in D.L. Drew, The allegory of the Aeneid, Oxford 1927, pp. 84 s., ma l’allegoria, stigmatizzata da La Penna 2005, cit., risale ai primi dell’Ottocento e si deve, come il La Penna ricorda, a J. Dunlop. 54 Emanuela Masaracchia, Il sacrificio nell’Ifigenia in Aulide, “QUCC” 14, 1983, pp. 4377, osserva: “L’atto sacrificale era considerato il necessario presupposto di ogni azione che implicasse un mutamento” (cf. pp. 47-48). 55 H.J. Tschiedel, Lavinias Erröten (Vergil Aen. XII 64-69), in “Studia classica Johanni Tarditi oblata”, a cura di L. Belloni, G. Milanese, Antonietta Porro, Milano 1995, pp. 285-97, investe Lavinia del dono della pietas: “Vergil hat mit diser Zeichnung Lavinias dem sich trotz aller Widerstände in der pietas bewährenden” (p. 296).

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il figlio in difficoltà. Lavinia costruisce da sola il suo status di donna “romana”, pur ancora adolescente, ma già immensa; sublimazione augustea di donna che risveglia il mos maiorum, sintesi di ispirazione tragica ed epica, erede della compostezza di Euridice, capace di riconvertire il suo destino in una vita gloriosa, nella gloriosa storia di Roma; ella va oltre anche la coincidenza di morte per sé e gloria per la patria, presente nel lamento lirico di Ifigenia (vv. 1279-335), che è sola perché è stata abbandonata dal padre; e questo abbandono equivale ad una “esclusione dal mondo dei vivi”56. Lavinia trae klšoj dall’offerta del proprio corpo ad Enea e alla causa troiano-romana, per la continuazione della stirpe57: Ifigenia, la cui adesione al sacrificio è motivata dalla a„dèj, e finalizzata all’acquisizione del klšoj attraverso l’offerta del prioprio corpo alla patria (cf. vv. 1375 ss.), non è Polissena che, alla fine, si offre spontaneamente alla morte per acquisire ™leuqer…a: “[...] ¢f…hm' Ñmm£twn ™leÚqeron / fšggoj tÒd’, “Aidý prostiqe‹s' ™mÕn dšmaj”, “È libero lo sguardo dei miei occhi, ora: il mio corpo, lo dedico all’Ade.” (Eur. Hec. 367-68). Lavinia, a sua volta, trarrà klšoj dalla cessione del proprio corpo ad Enea, e dalla consacrazione della sua vita alla causa troiano-romana, che sono la storia, per la nascita del nuovo popolo, immortale. È qui il superamento della sua tristezza. Ma la fanciulla non arrossisce per ciò di cui può solo vagamente rendersi conto: non possiamo spiegarci il suo turbamento con motivazioni che vanno al di là delle capacità razionali e dei confini emozionali di un’adolescente, che si trova a fare i conti con una situazione molto più grande di lei. Noi possiamo solo tener conto, per concludere, del fatto che è con Lavinia che la vicenda eneadica, sia pur in prospettiva, veramente esce dal mito per ricomporsi nella concretezza della storia.

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Cf. al riguardo Masaracchia, Il sacrificio nell’Ifigenia in Aulide, cit., p. 63. Si veda la già citata profezia di Anchise ad Enea nel l. VI: Silvius, Albanum nomen, tua postuma proles, / quem tibi longaevo serum Lavinia coniunx / educet silvis (vv. 763-65), dove, finalmente, nell’ambito del poema, la regia coniunx profetizzata da Creusa esce dall’anonimato. 57

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VIII.

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IL POETA E IL POLITICO. VIRGILIO E IL POTERE

1. Poesia bucolica e confisca dei dulcia arva “Nei campi scompiglio dappertutto”1: Melibeo non sa vedere che male e dolore in ogni dove, ma nemmeno sa nutrire invidia2 per chi ha potuto avere una sorte diversa; piuttosto è colto dallo stupore che all’interno di quell’inferno qualcuno continui o torni a godere la vita di sempre. “Deus haec otia fecit”. “Ma dimmi, com’è questo dio?”3, che ha compiuto l’incredibile miracolo. Titiro, piccolo come un flessibile viburno tra alti cipressi, l’aveva conosciuto nella Città imperiosa4, alta come un cipresso tra flessibili viburni, la mitica Roma, spinto da aneliti di libertà, il riscatto dalla schiavitù sociale e lo svincolo dal servitium d’amore, e per quel ‘mito’ aveva imparato a far fumare ogni mese gli altari5. Meri e Licida rievocano frammenti

1

Cf. buc. 1,11-12, undique totis / usque adeo turbatur agris. Su questo aspetto insiste M. Gigante, Lettura della prima bucolica, in Lecturae Vergilianae, a c. di M. Gigante, vol. I, Napoli 1981, p. 37. 3 Quello delle Bucoliche è un mondo in cui i referenti politici di Virgilio sono soprattutto personaggi come Asinio Pollione e Alfeno Varo, che si avvicendarono al governatorato della Gallia Cisalpina. Con Varo c’era stato un periodo di condiscepolato alla scuola di Sirone; Asinio Pollione, cui sono dedicate la Quarta e l’Ottava (Pollione vi è elogiato come vincitore sui popoli della Dalmazia), aveva mediato per il raggiungimento della pace tra Ottaviano ed Antonio nel foedus Brundisinum, consolidata dalle nozze del triumviro con Ottavia, sorella di Ottaviano; Alfeno Varo aveva una sensibilità, umana e poetica, piuttosto diversa da quella di Pollione e di Virgilio stesso. 4 L’assegnazione delle terre padane ai veterani toccò ad Ottaviano dopo la perdita del controllo della Gallia da parte degli Antoniani a séguito della sconfitta di Perugia e la morte di Caleno. 5 L’adozione di Gaio Ottavio da parte del divus Iulius Caesar aveva esteso al giovane i diritti divini del padre, del quale il giovane ereditava nome e patrimonio. Proprio per la notizia dell’uccisione di Cesare pervenutagli, dopo lo sbarco in Calabria, con una lettera 2

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di canto bucolico, forse disiecta membra di una poesia di Menalca6: su di lui si è abbattuta la dannazione della confisca; essi, scampati alla morte, son rimasti lì, forse nella speranza di riavere quel che si vede negato anche Melibeo, sconfitto dalla storia nelle idee e negli ideali. Speranza forse non vana: il sogno spezzato di Menalca si ricompone nella continuazione del canto, che scivola nelle melodie di Titiro. Titiro, però, indotto da Pollione7, ora affida alla scrittura un autentico programma poetico inaugurando l’Arcadia8, palingenesi di vita pensiero azione; miracolo dello svolgimento della vita nella poesia9. Nelle note del canto si disvela la realtà filtrata dal sogno; l’augurio è che la poesia, poesia di ‘verità’, crei l’età dell’oro (buc. 4,53-59)10; il sogno della pace assaporata grazie alla poesia, tanto più accarezzato nell’ora tragica della catastrofe. E pur già s’apre uno spiraglio di colori e di speranza: molli paulatim flavescet campus arista ...11, e s’affaccia un’ambizione: O mihi tum longae maneat pars ultima vitae, / spiritus et quantum sat erit tua dicere facta12. È il tempo dei proponimenti di un

di sua madre, Azia, preoccupatissima per l’incolumità del figlio, Ottavio si decise a far ritorno a Roma. 6 È questa, com’è noto, ipotesi antica, risalente almeno a F. Skutsch e a F. Leo, pur accolta da molti commentatori, ma ancora recentemente respinta da A. La Penna, L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio, Roma-Bari 2005, p. 41. 7 Cf. buc. 8,11-13, a te principium, tibi desinet: accipe iussis / carmina coepta tuis, atque hanc sine tempora circum / inter victrices hederam tibi serpere lauros. 8 Un’interpretazione di questo tipo prevede che la Nona sia stata composta anteriormente alla Prima; di questo avviso è ancora uno degli ultimi commentatori, W. Clausen, A Commentary on Vergil Eclogues, Oxford 1994, p. 266. Per una sintetica ma esaustiva panoramica dossografica cf. A. Ronconi, Lettura della nona bucolica, in Lecturae Vergilianae, a c. di M. Gigante, vol. I, Napoli 1981, pp. 321-25. Se il deus della prima bucolica, peraltro, è Ottaviano, come ammettono in genere gli esegeti, tuttavia non è impensabile che, pur sotto questa protezione, la sorte di Virgilio come possessore di un podere nella Cisalpina non fosse ad un certo punto cambiata in senso negativo, quando la situazione era evoluta in modo che non ci fossero più margini di protezione per il poeta come per altri possessori dell’agro mantovano. 9 Fu innanzi tutti E.A. Schmidt, Arkadien: Abendland und Antike, in Bukolische Leidenschaft oder über antike Hirtenpoesie, Frankfurt 1987, pp. 239-64, a scardinare l’impostazione di B. Snell, L’Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale, in Id., La cultura greca, trad. it., Torino 1963, pp. 387-419, secondo il quale le Bucoliche sarebbero state una poesia panegiristica di un’ ‘Arcadia’ collocata nell’età dell’oro. Lo Schmidt lanciava, allora, per la prima raccolta virgiliana, lo slogan della Dichtung der Dichtung. 10 Cf. L. Nicastri, Per una iniziazione a Virgilio, Salerno 2006, pp. 173 s. 11 Cf. buc. 4,28 ss.; la suggestione cromatica è confermata dall’immagine e contrario presentata in Aen. VIII 326-27, dove si parla della fine dell’età dell’oro: deterior donec paulatim ac decolor aetas / et belli rabies et amor successit habendi. 12 Cf. buc. 4,53-54. L’espressione virgiliana riporta al catulliano multa parata manent in longa aetate Catulle, / ex hoc ingrato gaudia amore tibi (75,5-6), di cui sono evidenti le riprese lessicali.

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cantore che preannuncia un programma poetico, coincidente con la realizzazione della speranza di pace13, chiunque sia il puer; è anche il tempo della realizzazione dei trionfi dei vari personaggi dell’entourage antoniano o ottavianeo, Pollione prima, Alfeno Varo poi, antoniano l’uno (ma poi neutrale), ottavianeo l’altro come Cornelio Gallo, non governatore quest’ultimo, ma solo praepositus alle tassazioni e a Varo stesso subordinato14. A questa alternanza di figure corrisponde l’alterno destino di Virgilio, pur alla fine costretto a lasciare il suo agro mantovano e a trasferirsi a Napoli, dove avrebbe trascorso il resto dell’esistenza tranne brevi parentesi romane o brindisino-tarantine15. Ma il periodo successivo alla caduta di Perugia è soprattutto il tempo di più concreti progetti per un giovane colto ed intelligente, che in qualità di pronipote del grande Cesare e da questo nominato figlio adottivo è proiettato sulla scena politica sotto i migliori auspicî. Il resto toccava a lui, e a lui toccò, pur con alterne vicende e alterni esiti. Destinatario di quella pesantissima eredità Gaio Ottavio aspirava ad entrare nella storia come il dominatore del mondo e, secondo la norma che regola le adozioni, si faceva chiamare Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Sulle orme del padre adottivo che dopo Farsalo, Tapso e Munda era rimasto il solo padrone dello Stato, Ottaviano, dopo Perugia, Filippi, Modena (un successo soprattutto antoniano questo, in verità), Nauloco e soprattutto Azio, in progressione liberava il campo dagli ultimi pericolosi residui del passato per imporsi finalmente come incontrastato signore del mondo romanizzato. Dicere facta ...; tristia condere bella: la promessa di un poema epico16 per celebrare le imprese del puer o per cantare le laudes di un valoroso condottiero è il prezzo che un poeta deve pagare per tentare di salvare il patrimonio familiare, a prescindere dal fatto che quel proponimento naufraghi poi in una recusatio. Quel progetto avrebbe costituito l’effettivo itinerario artistico di un poeta che avverte l’esigenza di levare un inno all’uomo 13 La pace bucolica conserva incrollabili vagheggiamenti nella memoria del poeta, che la ritaglia sulle abitudini quotidiane di Evandro: Evandrum ex humili tecto lux suscitat alma / et matutini volucrum sub culmine cantus (Aen. VIII 455-56), un re che ha optato per la semplicità contro lo sfarzo, una scelta di vita cantata dai poeti augustei, come Properzio. 14 Nessuno di loro in definitiva riuscì concretamente ad evitare la confisca di terreni a Virgilio. 15 Sulla complessa questione della periodizzazione delle Bucoliche e della biografia virgiliana si veda preliminarmente l’ottima messa a punto di F. della Corte in “Enc. Virg.” V**, Roma 1991, pp. 2-97. 16 Non perdiamo di vista, naturalmente, la recusatio di 6,3 ss., da cui risulterebbe che il poeta si stesse dedicando alla composizione di un epos per Varo, tristia condere bella, appunto, e che avesse interrotto il progetto per i rimproveri del Cinzio.

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della speranza, sentendo l’epocalità della fase storica che comporterà la drastica innovazione dell’assetto politico-statuale di Roma, nell’auspicio che essa corrisponda alle sue aspettative di vera pace e di fattiva ricomposizione della crisi. Ma questi tempi per ora non sono maturi né per il poeta né per il politico.

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2. Le Georgiche: dalla paura al trionfo La scrittura solenne, cui Virgilio ha già due volte rinunciato per ordini ‘superiori’, è ancora rinviata, preceduta com’è dall’ispirazione di un poema didascalico, dove circola un’ideologia assai meno confusa perché più adulta, sostenuta da una visione più ampia della vita, dell’uomo e del civis, spettatori di un periodo decisivo della storia dell’Italia e del mondo. Il procedimento è graduale, la poesia accompagna il progredire convulso di una lunga strategia militare e politica, segnata da eventi comunque sempre traumatici, a cominciare dall’inizio di tutto, le Idi di marzo. Il canto dei prodigia seguiti alla morte di Cesare, come si sa, chiude solennemente la prima georgica, dedicata a Mecenate, il nuovo ispiratore, e sviluppata con gli invocati auspicî di Ottaviano, che conceda al poeta facilis cursus ed assecondi ed approvi audacia coepta, e, di lui complice nella considerazione dell’ignoranza degli uomini e del loro bisogno di aiuto, impari la coscienza di un nume pronto a ricevere i vota degli agricolae e degli uomini: non avranno più a ripetersi i drammi di Menalca e di Melibeo, e ormai l’impegno di quei pastores, assai meno poetae e assai più agricolae, si carica di nuove e ben più pesanti competenze. Ottaviano è ormai l’opzione politico-ideologica ufficiale di Virgilio. Parallelo all’accresciuto ufficio dei nuovi operatori del durus ager è il dovere del poeta che si chiama ad una funzione di più largo respiro. E si capisce subito che si tratta di un otium letterario assai diverso da quello che consentiva a Titiro di adagiarsi all’ombra di un faggio per pensare un canto agreste sulla tenue avena. Per Virgilio cambiano le ragioni ispirative e cambiano le finalità del suo impegno di intellettuale. L’assassinio in senato, la beffarda sconfitta di Antonio a Modena, il massacro di Perugia, la definitiva condanna del cesaricidio a Filippi (nell’Emazia già teatro dello scontro di Farsàlo): questi impulsi e questi insulti della storia, nella stagione bucolica respinti dalla resistenza del Geist sostenuto dalla Poesia dispensatrice di autárkeia, ora emergono prepotentemente nella memoria del poeta, ed esplodono in una drammatica rievocazione. Il crimine consumato

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sul dittatore sconvolge gli uomini ma anche gli elementi naturali, assaliti dai fantasmi dell’assurdo, ed alimenta altri conflitti che mietono altre morti17. Di quegli eventi non si cancellerà la memoria storica; anzi, un giorno l’agricoltore affondando nel terreno l’aratro ricurvo disseppellirà residuati bellici, e riporterà alla luce, e alla luce delle coscienze, i macabri segni di antiche battaglie, giavellotti consunti dalla ruggine, elmi vuoti e ossa di giganteschi guerrieri logorate dal tempo. Quest’indugio sulla perpetuazione del ricordo associato al lavoro del contadino è una soluzione poetica geniale: proprio all’agricola, nel quale si deve identificare l’operoso e produttivo cittadino18 del ritrovato ordine sociale, che è il vero destinatario dell’opera letteraria, è affidato il cómpito culturale dello scavo ‘archeologico’. Ma, all’avvio della composizione, sofferenza e instabilità, le stesse di alcuni anni prima, son tutt’altro che finite. Tot bella per orbem / tam multae scelerum facies di geo. I 505-06, consolidato dall’aggravante della ‘irreligiosità’ degli eventi in saevit toto Mars impius orbe di sei versi dopo, riporta alla memoria lo stupore angoscioso di Melibeo: undique totis / usque adeo turbatur agris, ma ora si avverte lo sconcerto per lo spaventoso sconfinamento del disastro della guerra, a fronte del limite ristretto dell’agro mantovano-cremonese dello sfortunato pastore. Virgilio sceglie il percorso del poema didascalico ispirandosi ad Esiodo, ma anche tesaurizzando l’esperienza aratea, nicandrea (e callimachea19), e, soprattutto, lucreziana20. A questa forma poetica ricorre per dare espressione alla sua visione aggiornata della storia, e per dare voce alle sue aspettative fiduciose nell’uomo che va consolidando la sua posizione anche nella definizione dei suoi propositi. Virgilio interseca l’amicizia per Ottaviano con il rispetto deferente verso l’uomo della 17

Cf. geo. I 509-11. Se effettivamente le Georgiche fossero destinate solo agli agricoltori, il propagandismo avrebbe avuto gambe assai corte, e lo stesso significato politico del poema ne uscirebbe seriamente ridimensionato. 19 È appena il caso di ricordare che la trattatistica ha una matrice comunque alessandrina. Sull’influenza della poesia del Cirenaico (2° Inno e fr. 118 degli Aitia) sul terzo proemio, ad., cf. R.F. Thomas, Callimachus, the victoria Berenices and Roman Poetry, “CQ” 33, 1983, pp 92-113, ora in Vergil’s Georgics, ed. by Katharina Volk, “Oxford Readings in Classical Studies”, Oxford Univ. Press, 2008, pp. 189-224. Si sa che l’ispirazione callimachea era stata messa in dubbio da altri studiosi che pensano piuttosto ad una imitatio di matrice pindarica: cf. al riguardo L.P. Wilkinson, Pindar and the Proem of the Third Georgic, in W. Wimmel (ed.), Forschungen zur römischen Literatur, “Festschrift zum 60. Geburstag von Karl Büchner”, Wiesbaden 1970, pp. 286-90 [cf. Volk (ed.), Vergil’s Georgics, cit., pp. 182-88]. 20 Su queste matrici culturali cf. F. Klingner, Virgil, in L’influence grecque sur la poésie latine de Catulle à Ovide, negli “Entretiens de la Fond. Hardt”, 2, Genève 1953, pp. 140-48. 18

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speranza, che deve fare la Storia. Forse in nessun momento storico, di tanta, trepidante incertezza, c’è stata più profonda e convinta sintonia tra il politico e l’intellettuale; una sintonia che ossimoricamente definirei dissociata, perché nel progetto del politico c’è la tendenza all’acquisizione piena del potere, concentrato nella propria persona21, mentre in quella strategia politico-militare di proporzioni mondiali l’intellettuale vede piuttosto lo strumento per la realizzazione della pace, da lui sempre vagheggiata ed ora vicina al compimento. Quando, nel primo proemio georgico, concludendo le sue invocationes, in cui ha già richiamato dique deaeque omnes, chiede a Caesar 22 con una lunga preghiera che conceda facilis cursus, come s’è detto, e lo consacra dio in terra: votis iam nunc adsuesce vocari, Virgilio mostra di aver operato la sua scelta politica, di aver optato per Ottaviano, di aver identificato in lui l’uomo del futuro di Roma. Egli comincia sin da ora a sperare che il ‘vecchio’ sodale prevalga su Antonio, su Lepido e su Sesto Pompeo. La battaglia di Nauloco e l’interruzione della magistratura ordinaria per il terzo triumviro si faranno attendere sino al 36. I vv. 498-514 del l. I sono molto significativi per comprendere lo stato d’animo del poeta ed il suo forte affidamento alla positività dell’operato di Ottaviano23. Sono invocati gli dèi patri, Romolo, Vesta perché non impediscano al iuvenis di venire in soccorso della generazione sconvolta. Sembra di trovare qui, esplicitamente espresse, le parole, prima solo immaginate, della preghiera fortunata che Titiro aveva rivolto allo stesso iuvenis, perché gli restituisse il campicello espropriato. E, d’altra parte, il collegamento dello stato di grave crisi, in cui versa lo stato romano, con i Laomedonteae ... periuria Troiae (vv. 501-02) suona come anticipazione di uno dei motivi portanti dell’Eneide, in cui Didone recrimina sui Laomedonteae ... periuria gentis (IV 542), gli spergiuri della razza laomedontea, da Giunone considerata inquinante della stirpe italica24. Non sarà un caso che il poeta abbia invocato l’assistenza delle divinità 21 Una necessità derivata anche e soprattutto dallo stato di guerra praticamente perenne nel quale Roma in quella fase si trovava, che autorizzò la pratica della prorogatio imperii: su questo punto cf. M.A. Levi, Ideologia e propaganda nel potere augusteo, in “Atti Conv. mon. scient. di st. su Virgilio, Mantova-Roma-Napoli 19-24 sett. 1981”, vol. II, Milano 1984, p.307. 22 Risulta particolarmente curato sul piano retoricio tutto il pezzo (vv. 22-42), in cui la frequenza del ‘tu’ (in vario poliptoto e fig. etimologica) è veramente alta: nove occorrenze! Ottaviano è salutato come il salvatore ed il protettore del mondo, il signore dei mari. A lui sono riservati il privilegio e l’onore del catasterismo. 23 Cf. soprattutto vv. 500 e 503-05. 24 Cf. anche Hor. carm. III 3,21-22 e C. Formicola, L’Eneide di Giunone (una divinità in progress), Napoli 2005, pp. 29-31.

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del Latium vetus, riportando il ricordo ai sani e gloriosi albori di Roma. Inoltre, il riferimento all’aratrum, parola tematica, cui non si tributa più il dignus honos (vv. 506-07), collega il motivo politico e sociale a quello rurale e a quello poetico: l’impegno bellico allontana il civis Romanus dalla campagna e dal labor delle primitive origini; alla campagna, simbolicamente rappresentativa di un mondo di sanità morale e di rigore civile, il poeta cerca di ricondurlo, e questo sarà possibile solo se Ottaviano non sarà ostacolato: everso iuvenem succurrere saeclo / ne prohibete! (vv. 500-01): si avverte la presenza di un’impossibile coesistenza, che va risolta a favore di uno dei contendenti, e soprattutto è evidente che il poeta ormai si è schierato, con tutti i rischi personali che quell’opzione comporta. Se l’azione di Ottaviano, negli auspicî di Virgilio, dev’essere di beneficio per tutti gli uomini, e se Virgilio rende paralleli, ai vv. 40-42, l’onere militare e la responsabilità politica di Ottaviano da un lato, l’impegno letterario suo nei confronti degli agricoltori dall’altro, è chiaro che gli agricoltori diventino l’emblema dell’intera società; quella parte di umanità che lavora la terra, la rappresenta tutta. E nell’ambito ecfrastico delle laudes Italiae del II libro l’inno alla terra di saturno, magna parens frugum, ... magna virum (vv. 173 s.), associato alla citazione di Ottaviano (vv. 170-72), maximus Caesar, vincitore extremis Asiae ... in oris e capace di tener lontani dalle rocche romane l’Indo imbelle, accanto ai Decii, i Marii, i Camilli, gli Scipiadi, rende ulteriore lustro all’uno e agli altri. Sul motivo del parallelismo e della cooperazione politico-letteraria, a riprova che si tratta di un elemento di sicuro prestigio per se stesso come per Ottaviano, Virgilio insiste, ed è molto significativa la sua enfatica collocazione alla fine del IV libro come epilogo dell’intera fatica georgica (vv. 559-62): Haec super arvorum cultu pecorumque canebam et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum fulminat Euphraten bello victorque volentis per populos dat iura viamque adfectat Olympo.

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(“Campi coltivati, armenti, alberi: ecco il mio canto; il fulmine di Cesare Magno intanto s’abbatte guerriero sul profondo Eufrate e vince; egli impone leggi ai popoli chini e s’incammina verso l’Olimpo”).

Mentre il poeta è in un ignobile25 otium, Cesare il Grande conclude 25

L’aggettivo non ha, qui, connotazione negativa (cf. ThlL VII1 298,73 ss.-299,1 ss.); ignobile otium significa ‘impegno letterario mai visto, sconosciuto’, per cui cf., e.g., Verg.

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la campagna del 30 con la vittoria sull’Eufrate, nella regione orientale tra Siria e regno dei Parti26; Virgilio affida alla sfrag…j la segnalazione della contiguità della propria fatica letteraria e di quella politico-militare di Ottaviano; si sente associato al princeps come fautore della nuova Roma imperiale; si pone su un livello paritario con Ottaviano: concreta azione delle armi ed effettualità pratica delle leggi da un lato, dall’altro ricostruzione dell’anima di un popolo, del suo senso morale e della sua disciplina spirituale, un compito nuovo per la poesia, ignobile otium27. Virgilio offre il suo contributo etico e pedagogico ad una coscienza popolare e nazionale da risanare28. E quando nell’ultimo proemio al suo patronus Mecenate annuncia il tema del quarto canto, un tenuis labor, il poeta – e lo diciamo alla luce dell’epilogo – contrappone la tenuitas del suo impegno letterario alla duritia del labor di Ottaviano, ma nello stesso tempo pretende che gli venga accreditata non minore gloria, non tenuis gloria, perché aspira a vedere riconosciuto nella sua poesia un atto di fattiva collaborazione, capace di fornire all’impegno civile un’efficacia non inferiore all’onere del politico, la cui funzione è quella di governare sulle genti del mondo29. Non è passato nemmeno un quindicennio da quello speranzoso viaggio a Roma, ed il piccolo Titiro ha acquisito una coscienza civile di prim’ordine nella grandiosa Urbe. Subito dopo Azio Ottaviano appare veramente l’uomo nuovo che la storia di Roma attendeva ormai da troppi decenni: il vincitore è

Aen. VII 776 (Serv. ad l.: ‘non vilis, sed ignotus’); Gratt. 443 (alias ignobile monstrum); non è riconoscibile, del resto, connotazione negativa nemmeno nella palmare imitatio di Ausonio che in Mos. 392 ss. scrive tempus erit, cum me studiis ignobilis oti / mulcentem curas seniique aprica foventem / materiae commendet honos. Virgilio valuta la qualità della propria azione poetica non inferiore all’impegno politico e militare di Ottaviano. Il Mynors nel suo Commentary, Oxford 1990, p. 324, collega l’espressione a buc. 1,6, haec otia fecit e a geo. II 486, flumina amem silvasque inglorius (a quest’ultimo rimandava già W. Richter, Vergil. Georgica, herausgegeben und erklärt von W.R., München 1957, p. 407). Monica R. Gale, Poetry and backward glance in Virgil’s Georgics and Aeneid, “TAPhA” 133, 2003, pp. 32345, vede contrapposta la figura attiva di Augusto forward-looking, alla figura invece isolata, inattiva e backward-looking (come Orfeo!) del poeta (cf. p. 336, nelle Conclusions); ma è proprio nell’otium del poeta che dobbiamo individuare il suo impegno civile; e tanto meno si può dire che questo otium sia praticato dal poeta solo in tempo di pace. È francamente difficile credere, infine, che Virgilio dichiarasse ‘non nobile’, ‘di poco conto’, l’impegno al quale così pressantemente lo aveva esortato Mecenate. 26 Cf. Dio LI 18. 27 Sul significato sociale dell’otium cf. J.M. André, L’otium dans la vie morale et intellectuelle romaine des origines à l’epoque augustinienne, Paris 1966, pp. 500 ss. 28 Su questa linea si è recentemente attestato anche S. Vassallo (romanziere che ha indagato nella vita di alcuni poeti ‘per carpire il segreto della poesia’), Lacrime delle cose e onnipotenza della fama, in Id., Amore lontano, Torino 2005, p, 48. 29 Cf. Aen. VI 851-52.

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sempre il compagno di gioventù di un Poeta che conserva ammirazione per lui ma che ha anche saputo imparare la Reverence verso ciò che egli rappresenta, il principato del mondo, dinanzi al quale si inchinano le generazioni più anziane e le fasce più giovani delle popolazioni dell’Italia, dell’Europa, dell’Africa, dell’Asia. Già nel terzo proemio Virgilio si trasforma in compiaciuto30 cerimoniere dei trionfi (dalmatico, aziaco, alessandrino, vv. 22 ss.) del vincitore ad un anno da Azio, quando si celebrano i giochi, o, più tardi, quando si celebra la dedicazione del tempio di Apollo sul Palatino. Annuncia nuovamente la composizione di un poema epico storico31, con sostanziali elementi ispirativi di sostanziale diversità rispetto al testo che poi effettivamente avrebbe scritto: una recusatio alla rovescia, questa volta: il poeta non rifiuta di scrivere il poema epico, ma anzi dichiara solennemente la sua adesione a quel tipo di poesia. Intanto, però, egli continua le Georgiche assecondando gli haud mollia iussa di Mecenate32, che lo distoglie dal proposito di dedicarsi immediatamente all’epos, ripetendo, ora, il rimprovero che nella sesta bucolica fu del Cinzio, quando il poeta avrebbe voluto cantare reges et proelia, ed Apollo lo piegò al deductum carmen (vv. 2-3). È probabile che la pubblicazione del II libro chiudesse o sospendesse33 l’esperienza didascalica, ripresa e conclusa per ‘ordine’ di Mecenate. I tempi non erano maturi per cantare una vittoria che ancora non c’era stata. Certo, il terzo proemio appare come un annuncio prefatorio a sé, e, nello stesso tempo, dà l’idea di un’aggiunta: te quoque, magna Pales, et te memorande canemus / pastor ab Amphryso, vos, silvae amnesque Lycaei: l’esclusione dalle opzioni ispirative di vecchi temi mitologici (Euristeo, Busiride, Ila, Delo, Ippodamia, Pelope) presuppone impegno nella ricerca di nuovi contenuti poetici suggeriti da nuove Stimmungen. Il poeta, allora, si incoraggia e si esorta con le parole di Mecenate: en age segnis / rumpe moras (III 42-43): c’è stato un intervallum tra composizione della seconda georgica ed inizio della terza, forse in concomitanza con l’evolversi di eventi politici ancora così incerti, un intervallum in cui Virgilio avrebbe effettivamente messo 30

Iam nunc sollemnis ducere pompas / ad delubra iuvat caesosque videre iuvencos. Virgilio va ben oltre i confini di un epos sulle imprese di Ottaviano, che avrebbe, oltretutto, avuto, quello sì, un sapore troppo marcatamente cortigiano. 32 Nella stagione poetica precedente erano stati rispettivamente Pollione (accipere iussis / carmina coepta tuis, buc. 8,11-12) e Varo (non iniussa cano, buc. 6,9) ad esprimere le pressanti richieste. 33 Il sommario dell’opera sintetizzato in I 1-4, dove si citano le quattro tematiche contenute nei quattro libri, fa pensare ad una sospensione, ma si può anche ipotizzare che Virgilio avrebbe potuto sospendere per non più ritornarci. 31

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mano ad una bozza di epos storico inneggiante ad Ottaviano. Questo (e non solo il lavoro di rifinitura che egli stesso aveva paragonato all’orsa che lambisce i suoi nati secondo la testimonianza di VSD 2234) spiegherebbe anche i tempi obiettivamente dilatati per la composizione di un poema come le Georgiche di non eccessive dimensioni. Ma quando nel 33 Ottaviano espelle i due consoli, allontana un terzo dei senatori perché di fede antoniana (atti che, dopo la parentesi cesariana, non avrebbero turbato più di tanto senato ed opinione pubblica), dichiara guerra all’Egitto e a Cleopatra (un mascheramento del reale antagonismo che è quello antoniano35), il dibattito politico appare più vicino alla sua naturale conclusione che è quella dello scontro armato: crescono le speranze ma crescono anche le paure. A completamento del vecchio progetto georgico, poi ben presto, mox tamen, Virgilio si appresterà a cantare l’ardore delle armi e l’antica origine di Cesare (arma virumque …). Si avverte, nel contempo, nell’entusiasmo della scrittura che quel che si attendeva è arrivato, la vittoria del grandissimo Cesare. Il poeta sente accresciuto il proprio ruolo parallelamente all’accresciuto ruolo di Ottaviano; Ottaviano ispira l’intensità e l’elevatezza del labor letterario, che si adegua di volta in volta alla misura del successo politico e militare dell’uomo politico: temptanda via est, qua me quoque possim / tollere humo victorque virum volitare per ora, “devo incamminarmi su una strada per la quale anche io mi sollevi da terra e vincitore voli sulle bocche degli uomini” (III 8-9). E, come leggiamo poco dopo ai vv. 17-18, Virgilio si sente vincitore con la porpora tiria: illi [Caesari] victor ego et Tyrio conspectus in ostro / centum quadriiugos agitabo ad flumina currus. Victor è il termine-chiave che risuonerà alla fine dell’opera riferito ad Ottaviano in una sorta di tecnica circolare che collega la chiusa del IV (cf. v. 56136) all’inizio del III, cioè tutta la seconda parte del poema, la composizione della quale iniziò senz’altro prima della vittoria di Azio e senz’altro si concluse dopo quello scon-

34

Cf. anche Gell. XVII 10,2. R. Cristofoli, Antonio e Cleopatra nell’Eneide e nell’Elegia di Properzio, in I personaggi dell’Elegia di Properzio, “Atti del Convegno Intern., Assisi 26-28 maggio 2006”, a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2008, pp. 196-97, invece, tende a riconoscere una valorizzazione da parte di Virgilio delle imprese orientali di Antonio (per cui cf. anche Dio 49,32,1-2); ma è molto significativo che nella descrizione degli schieramenti ad Azio il Mantovano sottolinei come con Cesare ci fossero gli Italici, il senato ed il popolo, i Penati e i grandi dèi, mentre Antonio è schierato con barbari e armate di diversa foggia, seguìto (nefas) dalla sposa egizia (VIII 678 ss.). 36 Colpisce la stessa movenza victorque seguìto da parola con iniziale allitterante (volentis). 35

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tro decisivo, come si evince dal doppio registro contenuto nel terzo proemio e nel quarto epilogo. O, come è più presumibile, Virgilio scrisse proemio ed epilogo in tempi assai vicini all’approssimarsi e al compiersi di quell’evento epocale37.

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3. L’epillio didascalico L’intera seconda sezione della quarta georgica ha giustamente attirato l’attenzione degli esegeti che ormai concordano sulla necessità di valutarne l’ospitabilità all’interno del sistema di idee del poema didascalico virgiliano. Il celeberrimo epillio di Aristeo ed Orfeo38 sollecita, a mio avviso, una riflessione finale che non solo riconosca quei vincoli ma travalichi anche i confini ristretti della materia georgica, e potenzi il poema di più larga attitudine, abilitandolo a luogo titolarizzato ad una meditazione complessiva, all’esposizione di una filosofia e teologia della storia, fondata sull’analisi dei possibili risvolti negativi del trionfo del progresso celebrato nelle Georgiche, perché una rinascente auspicata età dell’oro, ora fondata però sull’improbus labor, sì, consolida la coscienza di energie e di potenzialità, ma certamente non col fine di stimolare presunzioni di onnipotenza. Nell’epillio ‘didascalico’, dove i personaggi sono e restano simulacra di verità, si concentra un profondo significato simbolico; la nostra memoria poetica è proiettata su un altro scenario ultraterreno dove, sullo sfondo della leggendarietà di vicende storicamente non consistenti, pertinenti le pre-origini di Roma, Anchise in una lunga ÍÁsij indica ad Enea eidola di figure che avrebbero fatto la storia della Roma monarchica, repubblicana ed imperiale; cosicché i simboli siano la dimensione ancora incorporea della futura incarnazione dei protagonisti della storia della civiltà dell’Occidente. Non diversamente, dalla bocca di Proteo e di Cirene come da quella di Anchise escono parole di verità che attraverso lo strumento dell’etiologia39 e del vaticinio educano il lettore. 37 Si è pensato che Virgilio, in quella esibizione di primato, gareggi con gli altri poeti, ma è vero anche che egli si sente il primus (III 10), capace di dare lustro a Mantova, e quindi si considera a priori superiore agli altri. Egli è primus come lo è Ottaviano. 38 Riprendo qui alcune osservazioni contenute nel mio saggio L’epillio ‘didascalico’: Aristeo, Orfeo e la superba illusione nella 4a georgica, inserito nel volume Da Orfeo a Lavinia (Virgilio: Morte Vita Storia), Napoli 2008, pp. 11- 119. 39 Il dio marino si limita a spiegare ad Aristeo le cause della morìa delle api, non pronuncia nessuna profezia, né indica alcuna soluzione al pastor Arcadius.

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La storia della morte di Euridice, e del dolore di Orfeo, agganciata alla descrizione della pratica bugonica e alle origini di questa, assurge a simbolo della sofferenza di quella minoranza di umanità che subisce un insulto dalla storia a favore di una massa che ne acquisisce vantaggio. Essa è costruita su un duplice punto di vista: l’uso del procedimento narrativo all’interno di una inteleiatura statutariamente descrittiva ammette il concorso di una pluralità di voci, ciascuna delle quali sostituisce, di volta in volta la sola voce parlante del poeta descrittore; e questo rappresenta già una sostanziale eccezione dalla regola. Cirene, la madre di colui che sia pur involontariamente ha provocato la morte di Euridice, è l’emblema della laboriosità volitiva dell’universo georgico virgiliano; alla sua parola è affidata la deminutio di quella morte; la ninfa liquida la possibilità per il figlio di placare il dolore di Orfeo con una modesta offerta votiva; ella punta direttamente, piuttosto, sulle modalità da seguire per rimediare alla punizione subìta dal figlio, e ristabilire, unilateralmente, ed ‘egoisticamente’, lo status quo ante della sola parte offendente, il recupero cioè del perduto sciame di api, tralasciando le ragioni della parte lesa; c’è senso pratico nella sua disponibilità a beneficio totale della pur innegabile colpevolezza del figlio, che il testo deve far passare per perdonabile perché Aristeo, eroe civilizzatore, rappresenta l’umanità, con le sue irrevocabili e non disattendibili esigenze. La gestione narratologica dell’episodio di Orfeo apparentemente esibito come inerte, accessorio corollario della storia di Aristeo non tragga in inganno: dal racconto di questa vicenda traspare il simpatetico punto di vista autoriale, riconoscibile, a mio avviso, nel linguaggio invece censorio di Proteo che condanna l’inseguimento di Aristeo: magna luis commissa. Il dramma di Orfeo ha suggerito al poeta una sorta di confronto che finisce con l’avere stretta compatibilità con la sostanza tecnica del libro e del poema; esso è assolutamente riducibile alla sensibilità di Virgilio che ricorda al lettore, in questo particolare e cruciale contesto, il tema della morte. Euridice è la vittima immolata al sacrificio che consentirà, in ultima analisi, il recupero delle api. Fa parte della schiera cui appartengono Didone e già Ifigenia, e Polissena, cui apparterrà, con altre caratteristiche, Lavinia40. La solida consapevolezza delle possibilità umane presente nelle Georgiche, fondata su un energico pragmatismo, che raggiunge la sua

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Mi si consenta di rinviare al mio Dark visibility: Lavinia nell’Eneide, “BollStLat” 36, 2006, pp. 32-50, ora in C. Formicola, Da Orfeo a Lavinia, cit., pp. 121-43.

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¢km» nell’operato del senex Corycius41, serba in sé il rischio di favorire una visione di labor e vita troppo supponente, un atteggiamento da Übermensch che nell’agguerrito umanesimo del poema è in continuo agguato, e del pericolo del quale il poeta didascalico, sempre vigile alla riflessione esistenziale, mai distruttivamente pessimistica, sempre costruttivamente ottimistica, ha il dovere di avvertire. La disperazione ha spinto Aristeo, tristis e multa querens42, a cercare; egli ha cercato e ha trovato la soluzione nella richiesta di aiuto, e l’ha trovata solo grazie al senso pratico della madre-ninfa, in un gesto di pietas, che lo salva e lo gratifica nonostante la colpa. Virgilio si prepara e prepara il lettore ad affrontare la tematica del vivere umano, oltre i confini, ormai ristretti, del labor rusticus, un vivere condizionato dalla volontà provvidenziale degli dèi; con la sua sapientia già da ora, ben prima della composizione dell’Eneide, riporta entro i limiti della liceità terrena le pretese del civis Romanus, e di chi lo rappresenta in Italia e nel mondo. Con questo epillio, scritto a ridosso della battaglia d’Azio, quando di essa e dei precedenti bella italici (Perusinum, Mutinense) è ancora vivo il ricordo dei sanguinosissimi massacri, il poeta ha voluto sottolineare il prezzo altissimo che talvolta per la buona riuscita di un’impresa, soprattutto di un’impresa epocale, l’umanità è costretta a pagare43. Euridice è il simbolo universale della necessità del sacrificio nel compimento della storia, Orfeo è il simbolo universale della proiezione sull’uomo della irreversibilità del disegno divino, il simbolo del necessario insuccesso dell’uomo, anche dell’uomo di eccelse, eccezionali capacità, di fermare la morte, di mutarla in vita. Orfeo aveva ritagliato su di sé un’idea personale di onnipotenza, compiendo un atto di Ûbrij; 41 La tenacia è stata l’arma vincente, ma perché la battaglia (dell’uomo con l’inclemenza del terreno) poteva prevedere un esito felice. E però non è stata la religiosità l’arma vincente del senex, ma il labor. W.R. Johnson, A secret Garden: Georgics 4.116-48, in Vergil, Philodemus an the Augustans, Austin, Univ. of Texas, 2004, pp. 75-83, sostiene che il giardino del senex è un quadro di ataraxia, in cui il vecchio vive per se stesso, rifuggendo e dimenticando. Attraverso questo episodio il cisalpino Virgilio dice sì alla romanizzazione dell’Italia, ma, coerentemente con la sua visione ‘harvardiana’, il Johnson presume che la parte più profonda del poeta la rifiuta. 42 Cf. geo. IV 319-20. 43 Col pieno avallo della volontà degli dèi: la vittoria ottavianea di Azio, cioè della parte occidentale contro la civiltà orientale, è parallela (non diversamente da quanto avviene per la vicenda eneadica, in cui il conflitto latino-troiano si chiude dopo il corrispondente conflitto olimpico) alla teomachia descritta ai vv. 698 ss. del l. VIII dell’Eneide (su questa battaglia tra dèi cf., da ultimo, A. La Penna, Selezione e organizzazione nelle due rassegne storiche dell’Eneide, in A. Casanova – P. Desideri, Evento, racconto, scrittura nell’antichità classica, “Atti Conv. Intern. St., Firenze 25-26 novembre 2002”, Firenze 2003, pp. 14363, spec. 144.

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ora la sua coscienza è sottoposta ad una prova che ridimensiona le sue possibilità. Orfeo è il nuovo eroe nella storia del mitologema del cantore per eccellenza, il cantore sommo ma comunque perdente dinanzi all’ineluttabilità del volere degli dèi inferi, dinanzi alla inesorabilità di Thanatos; come Enea, il nuovo eroe del nuovo epos, che non celebra la virtù guerriera ma realizza con l’avallo divino il compimento di un sovrumano disegno; come Augusto, il nuovo eroe del nuovo corso storico mondiale44, fondato su un rinnovato patrimonio valoriale. Se poi la poeticamente agognata età dell’oro, ammesso che Virgilio vi abbia mai veramente e realisticamente creduto, non arriva o la nuova realtà non ha contorni quale egli aveva sognato, questo è altro discorso, perché la trasfigurazione letteraria allontanava quell’età dall’effettiva realtà per un inevitabile scarto45, ma non per questo il Mantovano si sente autorizzato alla recriminazione. La proiettabilità dell’episodio mitologico sull’attualità storica favorisce una lettura simbolistica dell’epillio, alla quale ci si sente incoraggiati nonostante le critiche, spesso molto giustificate, a questo tipo di impostazione esegetica. La spaventosa dissoluzione della società romana è allegorizzata con gli strumenti della letteratura nell’annientamento dello sciame delle api. Aristeo, inseguitore ed assassino di Euridice, ma anche inventor della bugonia, incarna la doppia immagine di un ruler ‘negativo’, Antonio, e di un ruler ‘positivo’, Ottaviano46. In questo 44

Nell’ampio panorama degli studi virgiliani sembra avanzare in tempi recenti un new Augustanism, contro le tesi di ambiguità del messaggio che emergono dalle analisi degli studiosi che fanno riferimento alla Scuola di Harvard, e non solo, come dice R.F. Thomas, che giustamente fa osservare che da molte Università si leva il grido di un Virgilio “dalla doppia voce”. Limitatamente alle Georgiche centrale è l’art. di M.C.J. Putnam, Italian Virgil and the Idea of Rome, in L.L. Orlin (ed.), Janus: Essays in Ancient and Modern Studies, Ann Arbor, Univ. of Michigan 1975, pp. 171-99, inserito nei cit. Readings curati dalla Volk, pp. 138-60. Vorrei ricordare che un lontano precursore delle idee degli “Harvardiani” fu Sant’Agostino (cf. L. Nicastri, Per un’iniziazione …, cit., pp. 311 ss.), che, tra l’altro, in serm. 105,7,9 (ediz. NBA, I Discorsi, Roma 1969, vol. XXI 2) prendeva posizione sull’interpretazione di geo. II 498, res Romanae perituraque regna, nel senso della caducità di tutti i regna ed anche di quello romano; Nicastri esclude che Virgilio potesse riferire regna al dominio mondiale di Roma. Del resto Agostino era troppo nettamente orientato sul piano ideologico e spirituale per ammettere l’“eternità” del potere di Roma imperiale. 45 Si pensa anche, ad es., alla distanza che avvertiva il Catullo del c. 64 tra il presente e l’età in cui “gli dèi avevano l’abitudine di visitare personalmente le case”, ma è chiaro che il Veronese viveva una diversa realtà politica, in cui le dimensioni della crisi sociale e morale avevano raggiunto livelli massimi, né si profilava alcuna concreta soluzione capace di rimuovere le cause che armano le mani dei fratelli contro i fratelli. 46 Ho riscontrato un analogo confronto in N. Holzberg, Virgilio, trad. it., Bologna 2008, p. 166: “[…] dietro la figura del contadino Aristeo si può riconoscere anche quella del princeps, e leggere allegoricamente nella lotta di Aristeo contro Proteo sia la battaglia di Ottaviano contro i suoi nemici, sia il suo sforzo per la riorganizzazione del ‘cosmo’ terreno”.

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modo Virgilio rappresenta poeticamente l’iniziale temporaneo sdoppiamento del potere politico, apparentemente coeso, che ha rischiato di scardinare l’unità nazionale ed imperiale; ma poi scompone quella duplicità di figure, che riflettono, invece, due momenti contemporanei e non l’uno all’altro riducibili, per spezzarne finalmente l’impossibile (e comunque momentanea) coesistenza al fine di celebrare nella pietas le ragioni della vittoria del princeps e, quindi, la stabilità politica di Roma. Anche in Orfeo si realizza l’unità di due entità morali contrapposte: la parte positiva, che si identifica nell’amore e nel canto rigeneratore, precede la parte negativa rappresentata dalla superba illusione che comporta morte degli altri e di sé. Le Georgiche si chiudono con un episodio drammatico; alcuni studiosi hanno voluto puntare, per l’epilogo, sul successo nella riacquisizione delle api; ma il vero epilogo è nell’invito ad una presa di coscienza, da parte di chi aveva perduto il senso della misura dell’uomo e dell’umano, del principio della irreversibilità della morte dell’uomo, che si contrappone alla reversibilità, dalla catastrofe alla rinascita, di un soggetto collettivamente inteso, la società delle api/la società romana, al di sopra della quale o a difesa della quale devono dominare pietas e metriÒthj. Questo episodio drammatico vuole essere interpretato, dunque, anche come un monito per chi regge le sorti del mondo che si va ricostruendo. In questo senso le Georgiche anticipano quei suggerimenti, espressi con un linguaggio discreto, quasi cifrato, che Virgilio fornisce nell’Eneide ad un attento ed intelligente Ottaviano Augusto; sono pagine che dettano una nuova sapientia politica, che si regge sulla convinzione che i risultati politici acquisiti hanno un fondamento di provvidenzialità, risalente all’intervento divino, e che essi hanno però anche bisogno di essere alla divinità consacrati con un comportamento degno e rispettoso della pietas e del mos maiorum. Per Virgilio la pax Augusta è solo l’inizio di un nuovo processo storico che deve saper vedere sotto altra prospettiva anche l’attività governativa, pena lo sgretolamento del nuovo assetto statuale ed istituzionale, vulnerabile certamente, col rischio di una ricaduta nella crisi umana sociale politica. Tutto ciò andava detto al pubblico romano dei lettori perché Ottaviano sentisse all’indomani di Azio, quando questi è e sa di essere diventato il capo veramente indiscusso di Roma e dell’impero, ed è pienamente consapevole di avere la pesantissima responsabilità di rimuovere per sempre lo spettro di una nuova crisi. Una presunzione di onnipotenza, pur umanamente possibile, sprofonderebbe il nuovo principe nel ‘crimen’ di Orfeo.

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L’ideologia di Virgilio, o, meglio, la sua lettura ‘filosofica’ della storia umana e politica si va perfezionando nelle varie fasi della sua esistenza identificabili nei diversi momenti di un percorso poetico compiuto parallelamente all’ascesa di Ottaviano fino alla sua definitiva affermazione. Se è vero che la commozione del poeta dinanzi alla sofferenza dei suoi personaggi si sviluppa nella condivisione del dolore universale, se è vero che egli condanna e giustifica47 Aristeo come condanna e giustifica Orfeo, che piange Lauso48 come piange Pallante49, come in fondo si commuove anche per Turno50; ebbene, se è vero tutto questo, è difficile attribuirgli una presa di posizione ideologica acriticamente unilaterale ed univoca, che lo collochi da una parte contro un’altra senza una profonda convinzione della scelta; egli appoggia chi dà prova di superare le barriere e gli steccati, chi dice e mostra di operare per risolvere le contrapposizioni attuando un programma mirante alla grandezza e alla centralità di Roma, perché solo per questo dominio passano la sicurezza dell’Urbe, la pace nel mondo. Virgilio ebbe la fortuna che proprio quel giovane Gaio Ottavio col quale aveva stretto amicizia quand’era ragazzo sarebbe diventato l’insuperabile princeps dell’impero. Il rapporto di sodalità è conservato nonostante tutto, anche dopo l’esperienza bucolica51, quando Ottaviano ancora non è l’effettivo unico referente nel panorama della politica italica e mondiale; è un uomo nel quale sono 47

A proposito dell’Eneide, ma il pensiero è già estensibile al poema georgico, scriveva S. D’Elia, Virgilio e Augusto, in Virgilio e gli Augustei, a cura di M. Gigante, Napoli 1990, p. 44: “Che giustificazione può avere la necessità di tante morti e di tanta sofferenza dell’uomo per un poeta che ha steso anche sull’al di là l’ombra di una tristezza immensa? La risposta è dura, ma senza equivoci. La razionalità storica e cosmica si realizza soltanto secondo una legge inesorabile di dolore e di morte”. 48 Cf. X 825 ss., “Quid tibi nunc, miserande puer, pro laudibus istis, / quid pius Aeneas tanta dabit indole dignum? …”: è il compianto di Enea, l’uccisore del povero giovinetto, cui il poeta affida la sua personale commozione; ma cf. già X 823-24, ingemuit graviter miserans dextramque tetendit / et mentem patriae subiit pietatis imago: il poeta presta all’eroe troiano parole e sentimenti personali. 49 Cf. soprattutto X 507-08, O dolor atque decus magnum rediture parenti, / haec te prima dies bello dedit, haec eadem aufert!. 50 Cf. XII 940-41, et iam iamque magis cunctantem flectere sermo / coeperat, anche se prevarranno le ragioni sacrosante della vendetta. 51 G.W. Bowersock, A Date in the Eighth Eclogue, “HSPh” 75, 1971, pp. 73-80, sostenne che la dedica ai vv. 6-13 dell’ottava bucolica non è a Pollione ma ad Ottaviano, e che la citazione storica è riferibile alla guerra nell’Illirico databile intorno al 35: la questione non ha mai trovato una soluzione definitiva o largamente condivisa, ma nemmeno esplicitamente controbattuta è la tesi di Bowersock, anzi sostenuta recentemente da R.R. Nauta, Panegyric in Virgil’s Bucolics, in M. Fantuzzi, T.D. Papanghelis, Brill’s Companion to Greek and Latin Pastoral, Leiden 2006, pp. 301-32; contra, cf., e.g., P. Thibodeau The addressee of Vergil’s Eighth Eclogue, “CQ” 56, 2006, pp. 618-23.

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riposte molte speranze per la realizzazione di un programma che miri ad eliminare le ragioni della crisi della repubblica sia pure con la nascita di un soggetto politico non più repubblicano (per quanto la generazione di Virgilio avesse un’idea già sufficientemente aggiornata della repubblica): Virgilio nelle Bucoliche canta la sofferenza di un pastor vittima di un atto espropriativo, ma si astiene dal condannare il provvedimento in sé in termini ideologici; sulla gravità di quel comando e sulla sofferenza ch’esso comporta la Poesia trasfiguratrice ha la forza di prevalere.

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4. Poesia e ideologia nell’Eneide Dallo stupore per lo sconvolgimento che agita gli agelli dell’agro mantovano, alla lucida angoscia per l’inevitabilità della morte e la vanità di superbe illusioni, alla riflessione universale sulla morte, sulla vita, sulla storia: sono questi i passaggi di un polifonico pessimismo stoico che attraversa tutte le opere virgiliane52. Il poeta assegna una funzione pedagogica alla sua poesia, immettendovi le istanze del suo tempo e i valori di cui vagheggia la realizzazione all’interno della sua società. La struttura narrativa dell’epos virgiliano si basa sullo scontro permanente tra il destino, punto di vista assoluto, conosciutissimo eppure sempre suscettibile di rivelazioni, ed il sentimento avverso di un personaggio che sembra avere un punto di vista opposto; il peso di questa novità nell’epos, minacciato nella sua stessa sopravvivenza per la possibile deriva nel gšnoj tragico, ma nondimeno legittimato entro confini codificabili per quanto dilatati, è genialmente sostenuto dal fatto che il ruolo ‘antagonista’ è ricoperto da una divinità primaria, addirittura appartenente alla triade capitolina: la determinazione tenacemente antitroiana di Giunone53 attiva i meccanismi dell’intera vicenda, dalla tempesta scoppiata nelle acque di Drepano alla guerra laurentina fino alla soglia del duello fatale, che privatizza54 il conflitto 52 Va da sé che nelle Bucoliche questo pessimismo si misura con un energico epicureismo, vissuto con molto riadattamento. 53 Nell’Iliade non c’è traccia di questo tipo di impostazione; nell’Odissea il contrasto all’impresa di Odisseo da parte di Poseidone non è vissuto come un oltraggio al destino; anche nelle Argonautiche di Apollonio Rodio la tempesta suscitata da Era che respinge a nord gli Argonauti non ha nulla di fatale. 54 Traggo questa immagine da G. Paduano, La nascita dell’eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale, Milano 2008, p. 187. Non mi sento però di condividere in pieno che nell’Eneide prevarrebbe la concezione di una guerra “come prevaricazione

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riducendolo a questione personale tra due rivali per superare l’insostenibile impasse dello scontro civile. All’interno di questi due fondamentali eventi, poi, si articolano plurime volontà che differenziano tra loro i personaggi, umani e divini. La dialettica sussistente tra queste due diverse volontà vitalizza la narrazione, nella quale realtà e verità sembrano scomporsi per le scelte dei singoli, adesioni, dissensi, giudizi, sentimenti, che talvolta provocano ambiguità di sensi, soprattutto lì dove non sa, o non può, imporsi una drastica univocità. Il trionfo del fatum scopre la debolezza congenita dei punti di vista alternativi, di Didone, di Mezenzio, di Amata, di Giuturna, di Turno, regolarmente demoliti. La sconfitta di singoli punti di vista, che fa emergere singoli drammi, comporta un commento doloroso del poeta simpatetico con la sorte dei vinti, e dei vincitori spesso comunque dolenti. Didone non sa riconoscere le ragioni religiose e quindi politiche imposte ad Enea dal destino, e perciò scrive la sua condanna, facendo esplodere dentro di sé lo scontro tra humanitas e pietas-fatum55. L’amore di padre ferito dalla spada del giustiziere del figlio trasforma l’eroe Mezenzio in un ‘suicida’. Amata non sa accettare l’ingiustizia della storia. Perfino il re Latino, pur illuminato dalla oracolare conoscenza della Verità, stenta ad aderire al destino del nuovo ordine, mentale, epico, antropologico, culturale; a quella Verità, e alla parola data in nome di essa56, volta inizialmente le spalle impugnando arma impia; anche lui, come la regina di Cartagine, è assalito dallo stupore, lo stesso stupore di lei, espresso con le stesse parole di lei: quae mentem insania mutat?57. Eppure il poeta gli concede il tempo e il giudizio di cedere all’assurda resistenza al destino: dopo aver controbattuto le ragioni dell’illogica guerra, il caecum consilium, il re (VII 599-600) nec plura locutus saepsit se tectis rerumque reliquit habenas.

600

Virgilio rappresenta con una stupenda similitudine, d’ambientazione marina, la fermezza dello stato d’animo di Latino attraversato da un ai danni dei più deboli” (ibid.): in realtà la guerra laurentina è lo strumento estremo cui ricorre Giunone per ritardare il compimento del fato. 55 L’indisponibilità al cambiamento, anzi la rigidità del registro che il personaggio si autoimpone, o alla quale non sa o non può sottrarsi, o non vuole perché decide di ripristinarla come retaggio di una vecchia disciplina etica ed epica, solo per poco disattesa, sono le condizioni che preventivamente lo configurano come destinato ad esaurirsi ben entro i limiti del testo. 56 Cf. VII 259 ss. 57 Cf. IV 595 e XII 37.

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violento sconvolgimento (VII 586-90):

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ille velut pelago rupes immota resistit ut pelagi rupes magno veniente fragore, quae sese multis circum latrantibus undis mole tenet; scopuli nequiquam et spumea circum saxa fremunt laterique inlisa refunditur alga.

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La condizione di elezione riservata a Latino, reso partecipe della volontà del destino, cui intimamente s’adegua dissociandosi dalle richieste di guerra della folla dei pastori, e così sopravvivendo nel circuito testuale, è sancita dal ricorso a una modalità espressiva collegante il re italico all’uomo del fato, il capo troiano: la similitudine che rappresenta Latino è funzionalmente ispirata, con le opportune varianti, dalla similitudine (d’ambientazione rupestre) che esalta la fermezza di Enea di fronte alle parole pur destabilizzanti di Anna messaggera dei fletus della sorella regina (IV 441 ss.): ac velut annoso validam cum robore quercum Alpini Boreae nunc hinc nunc flatibus illinc eruere inter se certant … ipsa haeret scopulis et quantum vertice ad auras aetherias, tantum radicem in Tartara tendit: haud secus … mens immota manet …

445

Il poeta è il vero e unico depositario della realtà narrata, di cui conosce le origini e di cui preconosce gli epiloghi, che nella loro risoluzione cronologica estrema coincidono, nel caso di Virgilio, con la sua attualità; nella profondità delle sue convinzioni religiose egli legge la volontà del destino, di cui il suo protagonista è interprete; ed interprete del Fatum forse Virgilio considerò anche lo stesso Augusto58. L’intervento autoriale59, che porta sulla scena il polimorfi58 Condivido questa suggestione di L. Canali, Virgilio [della Collana Come leggere], Milano 2007, pp. 73 s. R. Heinze con queste parole (col corsivo intendo rimarcare il concetto) concludeva la sua monografia sull’Eneide: “Virgilio raffigura la preistoria di Roma e in essa l’ideale del presente di Roma; egli non ha sognato o inventato o imitato questo ideale, ma l’ha sperimentato e conquistato personalmente; è per questo che esso continua tuttora ad apparirci vitale nel suo poema” (La tecnica epica di Virgilio, trad. it., Bologna 1996, p. 526). 59 Sulle “diverse voci” che “si contendono la ‘verità’ del testo” cf. G.B. Conte, Il paradosso virgiliano. Un’epica drammatica e sentimentale, in Id., Virgilio. L’epica del sentimento, Torino 2002 (20072), pp. 91 ss. [= Virgilio. Eneide, trad. di M. Ramous, introd. di G.B. Conte, comm. di G. Baldo, Venezia 1998, pp. 9-55]. Si veda inoltre Sarah Spence, Varium et Mutabile: Voices of Authority in Aeneid IV, in Reading Vergil’s Aeneid. An interpretative

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VIRGILIO

smo della realtà parcellizzata dalle esperienze dei singoli personaggi, sembrerebbe scompaginare l’unità del poema. In realtà la vera lineaguida e l’autentica unità d’ispirazione sono nella presa di coscienza della sofferenza universale, e non nell’opzione per una causa o per un’altra, per uno o per un altro schieramento. Intendiamoci, Virgilio non è estraneo all’interesse politico, che è filoaugusteo60 (da un certo momento in poi in via definitiva), ma voler individuare nell’Eneide confini politico-ideologici ed in questi esaurire i significati dell’opera vuol dire rimanere molto al di qua degli orizzonti in essa indicati61. D’altra parte, che Ottaviano presumesse di gestire Virgilio e di farlo per soli fini propagandistici sarebbe francamente banale pensarlo, per la statura del politico e per la autorevole individualità del poeta. Lo scoperto collegamento tra Enea, l’uomo del destino delle origini pre-romane, ed Augusto, l’uomo della storia attuale, ha da sempre agevolato dell’Eneide una lettura ideologica, che ha vissuto, a seconda delle fedi politiche, fasi alterne; l’esegesi si è in sostanza sdoppiata in un Virgilio sicuramente engagé o, non dirò in un Virgilio apertamente antiaugusteo, ma in un poeta dalle two voices sì62. Il punto focale della Guide, Oklaoma Series in Class. Culture, by Christine Perkell, Oklaoma Univ. Press 1999, pp. 80-95. 60 G. Polara, Le Georgiche nell’età di Ottaviano, in Prime Giornate Virgiliane, a cura di A.V. Nazzaro, S. Giorgio del Sannio 2008, pp. 15-45, è del parere che le Georgiche abbiano saputo “puntare […] ad una rifondazione del sapere (e della saggezza) come chiave per la conquista di una libertà dal potere e dalla sua eventuale arroganza” (la citaz. è tratta dalle pp. 37-38). A. La Penna, Virgilio e la crisi del mondo antico, in Virgilio. Tutte le opere, trad. di E. Cetrangolo, Firenze 1967, p. LXXXXIV, invece, ammetteva che “In Virgilio l’adesione al regime augusteo non è né insincera né superficiale”, e, comunque, ammoniva contro interpretazioni esclusivamente “augustee” dell’Eneide: è chiaro che esiste un Virgilio ‘privato’, che esprime la sua visione del mondo e del dramma umano, l’uomo di tutti i tempi, prima, molto prima di Augusto, e dopo, molto dopo di lui, ma non è un uomo segnato dalla failure inflittagli da un regime. Dello stesso La Penna cf. ora anche il cap. XVIII, L’“Eneide” come poema augusteo, in Id., L’impossibile giustificazione, cit., pp. 270 ss., dove sono ribaditi gli orientamenti di quarant’anni fa. 61 È soprattutto questo che non ci consente di aderire all’impostazione esegetica della Harvard School come del New Augustanism, in qualche modo delimitativi entrambi. Gli orientamenti harvardiani, dirò, hanno conosciuto una significativa dilatazione; si sono estesi, per esempio, alla poesia elegiaca: penso al vol. di Carol U. Merriam, Love and Propaganda: Augustan Venus and the Latin Love Elegists, “Coll. Latomus” 300, Bruxelles 2006 (cf. la mia rec. in “BollStLat” 37, 2007, pp. 283-90); il tema del Symposium Cumanum, organizzato dalla Vergilian Society, tenutosi a Cuma (Bacoli) dal 17 al 20 giugno 2009, ha proposto un ripensamento di quell’impostazione esegetica: “Poetry or Propaganda: what was Vergil’s purpose in writing the Aeneid?”. L’interrogativa prudentemente lascia aperta la questione. 62 Mi riferisco allo storico articolo di A. Parry, The two voices of Vergil’s Aeneid, “Arion” 2, 1963, pp. 66-80. Trovo molto equilibrata l’affermazione di L. Canali, Virgilio, cit., p. 62, a proposito della posizione di Virgilio nei confronti del regime: “un accettabile punto

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IL POETA E IL POLITICO. VIRGILIO E IL POTERE

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questione è certamente nell’interpretazione del ruolo dell’eroe troiano. R. Heinze63, come si sa, sosteneva la tesi dell’evoluzione di Enea, che progredirebbe lentamente verso una forma nuova di eroe epico64; B. Otis65, a sua volta, vedeva nel viaggio oltretombale l’occasione per la catarsi dell’eroe troiano, ormai perciò abilitato a compiere la missione con spirito consapevolmente stoico. Per G.B. Conte66 Enea risponde a un doppio statuto letterario, rappresentando un punto di vista oggettivo, coincidente con ‘la volontà del Fato di cui è portatore’ (Enea protagonista), interrotto, di volta in volta, dallo spazio occupato dal punto di vista soggettivo (Enea personaggio). Il riconoscimento di un destino cui ciascun personaggio è legato e lo spazio comunque concesso alle ragioni di ciascuno permettono il superamento di un’eventuale contrapposizione tra un poeta “ideologo del potere” e un poeta indipendente, “creatore assoluto, con la sovranità della sua arte”: così il Conte67 va oltre la teoria delle ‘due voci’. Ora, Enea è messo talvolta nelle condizioni di derogare dal suo ruolo di eletto perché proprio in quelle occasioni esibisca le prove più dolorose della sua pietas, che consiste nell’abbandono immediato della condizione, mentale psicologica sentimentale, sulla quale aveva evidentemente costruito il suo equilibrio interiore. Enea, come prescelto dal Fato, è un soggetto pre-definito; alla sua coscienza si affaccia attraverso la quotidiana esperienza, di pensiero e di azione, sempre più concreta la portata della sua missione. Per fare un solo esempio: il poeta non affida mai al suo eroe una battuta di esplicito amore per Didone, con la quale pur convive more uxorio; allontanandosi da lei per ordine diretto di Giove, egli obbedisce prontamente al volere degli dèi, cioè al fatum, ma, nello stesso tempo, vive con sensibile partecipazione il dramma della regina di cui sa di ferire il grande amore (395-96): d’incontro tra ispirazione del poeta e presumibile desiderio del principe”; un’affermazione che svincola decisamente il poeta da atteggiamenti di cortigianeria tout court, o di cortigianeria esteriore e di interiore insofferenza. 63 La tecnica epica di Virgilio, cit., pp. 310 ss. 64 Si leggano le riserve di G.B. Conte, Saggio di interpretazione dell’“Eneide”. Ideologia e forma del contenuto, in Id., Virgilio. Il genere e i suoi confini, Milano 1984, pp. 87-88 e n. 28, e la bibliografia al riguardo dallo studioso citata. 65 Cf. Virgil: A Study on civilized Poetry, Oxford 19662 (rist.), p. 283 (“interim conscience”). Lo studioso non accetta che la devozione di Enea verso gli dèi sia un ‘mere product of fate’ (p. 307), e non crede ad una graduale maturazione del carattere dell’eroe; piuttosto ritiene decisivo l’intervento di Anchise nel l. VI per l’acquisizione piena e definitiva della pietas da parte di Enea (p. 308). 66 Cf. Saggio di interpretazione, cit., p. 89. 67 Ibid., p. 95.

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VIRGILIO

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multa gemens magnoque animum labefactus amore iussa tamen divum exsequitur classemque revisit.

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Non c’è soluzione di continuità, mentale e spirituale, tra la coscienza, in fondo incontaminabile, della suprema missione e l’umano rincrescimento per un abbandono di cui l’eroe non sente una personale responsabilità. (Anche la drammatica sofferenza del distacco da Creusa, ad es., si era di colpo stemperata nel rispetto del fato, esprimendosi quella volta nel silenzio, fortemente contrastante con la smania di ritrovare la sposa, manifestata sino a poco prima della surreale epifania di lei). Ogni narratore è autore innanzi tutto di sé, in quanto in qualche modo si colloca all’interno della trama narrativa, anche se questa pretendesse di essere impersonale, fosse anche solo per essere lui spettatore unico della storia nel momento in cui ne costruisce la trama; ma Virgilio, si sa, con la sua partecipazione commossa va oltre i limiti fissati dalla tradizione del codice prescelto. Questa Empfindung lo dispone, dinanzi al lettore, come un personaggio ulteriormente complesso da interpretare, al di là dell’interpretazione dovuta alla sua opera e al suo messaggio, perché, quando l’uomo, il poeta, il civis esprime giudizi, nell’esegeta scatta l’automatismo di misurarne la compatibilità o l’incompatibilità con l’ideologia ufficiale. In taluni giudizi è palese l’allusione alla linea politica ed ideologica ufficiale, affidata ad una garbata polemica, o, forse, ad un pacato, saggio ammonimento, in taluni altri c’è una trionfale dichiarazione di condivisione. Le parole di Giunone a X 74 ss.68 sono assai importanti a questo proposito: la dea retoricamente si interroga ed interroga la rivale Venere sulla legittimità della ingiustificabile ingiustizia; nel senso di quelle drammatiche domande, che denunciano la imposta convalida dell’assurdo, il poeta mostra di identificare i propri convincimenti, che, però, piuttosto che essere una polemica contro Augusto, sono critici nei confronti delle pretese e delle svolte della storia. Lo stesso Giove, che ora si proclama rex omnibus idem, si affida al destino sulle sorti della guerra69: fata viam invenient (X 113). La qualificazione della guerra, bellum nefandum, espressa da Enea a XII 572, ripete il giudizio autoriale di VIII 583, infandum … bellum / … poscunt, nel momento cruciale di transizione 68

Ne ho trattato estesamente in L’Eneide di Giunone, cit., pp. 131 ss. A. Setaioli, Le doute chez Virgile, “Cuadern. de filología clásica. Estudios latinos” 25, 2005, pp. 27-47, sottolinea, tra l’altro, che nell’Eneide non ci sono toni trionfalistici, e anzi domina la mortificazione della ragione di molti. 69

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IL POETA E IL POLITICO. VIRGILIO E IL POTERE

dalla possibile/impossibile pace al conflitto. Non dimentichiamo che l’Enea prescelto dal Fato è innanzitutto l’Enea prescelto dal Poeta, il quale deve arrogarsi il diritto di porsi al di sopra del Fato (ma solo per dimostrarne l’assoluta onnipotenza), e sceglie di elevare l’azione ultima di Enea al di sopra delle azioni di tutti i personaggi, riflettenti singoli punti di vista, che, compreso quello di Giunone, sono altrettanti commenti autoriali dello svolgimento del destino, letture, segnate dalla parzialità, dell’andamento della storia, che procede prescindendo dalle perplessità che il suo stesso sviluppo può ingenerare nell’audience, ma prima ancora nello stesso poeta70. Su Enea convergono due forze apparentemente (o, meglio, inizialmente) contrarie e apparentemente non uguali: Fato e volontà di Giunone. Enea non sarebbe mai diventato personaggio senza l’ira di Giunone, e mai avrebbe visto la luce il poema, la cui ispirazione è originata proprio da quell’ira celeste (I 8-11): Musa, mihi causas memora, quo numine laeso quidve dolens regina deum tot volvere casus insignem pietate virum, tot adire labores impulerit.

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Nel protagonista s’incarna la Grande Verità, a lui stesso però tanto nota quanto evanescente, e perciò alla sua coscienza gradualmente svelantesi, verità di volta in volta esperita nel momento in cui effettivamente è vissuta. Quando dice a Didone che il destino vuole che egli fondi il nuovo regno e che, se avesse potuto godere di un’autonomia, avrebbe rifondato il suo passato71, costruito il suo futuro sul ripristino del passato (IV 340-44), Enea esibisce la piena coscienza di non poter rifiutare il protagonismo nel poema, rinnegare la poesia di sé, la poesia 70 Cf. Canali, Virgilio, cit., p. 70, che vede compresenti nell’Eneide il ‘poema della romanità’ ma anche l’ ‘epicedio dei vinti’; e ancora (ibid.): “sarebbe eccessivo affermare un contrasto […] fra ideologia augustea e poetica virgiliana, ma anche impossibile negare un ruotare centrifugo di profili umani intorno all’asse della glorificazione della gens Iulia e della missione di Roma, un avanzare di figure dallo splendore della gloria e delle decisioni divine, nell’ombra dolorosa della condizione di mortali”. Su basi ben più profondamente catastrofiche, come si sa, W.R. Johnson, Darkness visible. A Study of Vergil’s Aeneid, Berkeley-Los Angeles 1976, esponente di spicco dell’esistenzialismo pessimistico americano di ambientazione harvardiana, leggeva nell’Eneide una lamentosa recriminazione per la disastrosa condizione della vita dell’uomo. Un giudizio equilibrato, che sa riconoscere anche i meriti del lavoro del Johnson, si legge nella lucida rassegna sulla lettura ‘politica’ dell’opera virgiliana approntata da F. Serpa, Il punto su: Virgilio, Roma-Bari 1987, pp. 76-93. 71 Il tramonto definitivo della città nella notte tragica è sancito dalle parole di Panto: “Fuimus Troes, fuit Ilium et ingens / gloria Teucrorum”, II 325-26.

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VIRGILIO

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su di sé: in quelle parole Virgilio fissa la legittimità della sua poesia, la necessità fatale del suo epos, che pretende di elevare Enea a rango eroico; Virgilio sancisce il suo ruolo civile. Enea non può commettere lo stesso errore di Orfeo che fallisce nel suo respectus. Quando riceve dalla madre le armi di Vulcano72 con lo scudo ‘narrante’, l’eroe raggiunge la certezza del personale successo; quello scudo con la descrizione della battaglia d’Azio (671 ss.), il non enarrabile textum, è il futuro della Roma augustea; la necessità della nascita della Città garantisce successo ad Enea73 e gloria al suo cantore (VIII 729-31): Talia per clipeum Volcani, dona parentis, miratur rerumque ignarus74 imagine gaudet attollens umero famamque et fata nepotum.

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Come Enea succedit oneri (II 723) del vecchio padre, così Virgilio, Virgilio per Enea, si carica della responsabilità di annunciare al mondo la gloria e i fati della stirpe: è ripetuta ora quella presunzione di paritarietà tra funzione politica e funzione letteraria, di cui ho già detto a proposito delle Georgiche. Quando Enea, alla vista del balteo di Pallante, e solo allora, vibra il colpo decisivo contro Turno, mostra una remora che non appartiene al codice cavalleresco, e Virgilio appone al racconto la sfrag…j della sua originale ed irripetibile esperienza di poeta epico con la creazione di un nuovo statuto antropologico. La Verzögerung che sceneggia l’uccisione rinviata del Rutulo (Aeneas … dextram … repressit) promuove la riflessione: ad uccidere Turno è … Pallante. L’Eneide si chiude con la consumazione di una vendetta, quella di una mors immatura, la morte ‘ingiusta’ di un giovane, nel quale oltre al figlio di Evandro riconosce il lettore anche Lauso ed Eurialo e Niso, e tutti quelli sui quali pallida Tisiphone saevit75, e ricorda Polite, caduto a Troia, ante ora parentum76, e tutti quelli per i quali, anche lì, nessuno potrebbe lacrimis aequare labores77: le guerre son tutte uguali!

72

Cf. VIII 612 ss. L’eroe troiano a XI 24 ss. riconosce nel suolo italico la nuova patria, “Ite – ait –, egregias animas, quae sanguine nobis / hanc patriam peperere suo, decorate supremis / muneribus …”; regna nostra l’eroe dice commosso al defunto Pallante ai vv. 43-44. 74 Enea non sa e non può capire; apprezza l’ornamento dello scudo, imagine gaudet. 75 Cf. Aen. X 761. 76 Cf. Aen. II 531. 77 Cf. Aen. II 362. 73

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INDICE DEI LUOGHI CITATI

ACCIO Fr. 260 Dangel: 116.

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AGOSTINO Serm. 105, 7, 9: 174. APOLLODORO Myth. 1, 3, 3: 49; 3, 10, 3: 50; 3, 12: 128; 3, 60 ss.: 114. APOLLONIO RODIO Arg. I 23-24: 49; I 496 ss.: 49. II 1093 ss.: 67; II 1264 ss.: 93. III 12122: 155; III 158-66: 86; III 297-98: 144; III 673 ss.: 142; III 681-82: 142; III 725: 155; III 741-42: 146; III 744-50: 109; III 751: 109; III 963: 142; III 1278-407: 37. IV 616 ss.: 50; IV 1237: 96; IV 1479-80: 103. APULEIO Met. X 3: 78. ATENEO 597b: 49. AUSONIO Mos. 392 ss.: 168. CALLIMACO Aitia fr. 118 Pf.: 165. Hymn. II: 165. CATONE Orig. fr. 11: 148. CATULLO c. 64, 63 ss.: 68; 64, 86 ss.: 155. 65, 7: 118; 65, 12: 54; 65, 24: 155. 75, 5-6: 162.

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INDICE DEI LUOGHI CITATI

CICERONE Att. XV 16a: 87. Cato 51: 7; 56: 7. De div. I 48: 70. De inv. 1, 11, 15: 77. 2, 71, 86: 77. Phil. 2, 42: 28. CURZIO RUFO Hist. Alex. VIII 1, 22: 28. VIII 1, 28: 28. IX 2, 30: 78.

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CYPRIA p. 104 Allen: 147. DARETE De excidio Troiae hist. 27: 154. DIODORO SICULO Bibl. IV 65, 5 ss.: 114; IV 71,1: 50. DIONE CASSIO XLIII 43, 2-3: 71. XLVIII 39, 2: 28. IL 342, 1-2: 170; IL 40-42: 28. L 26, 3: 82; L 27, 2: 82. LI 18: 168. DIONIGI DI ALICARNASSO Antiquit. I 36: 35. DITTI CRETESE V 12: 131. DONATO Vita Vergilii 22: 170; 27-28: 22. ELIANO Nat. an. 7, 39 [TGF fr. 857 N2] : 147. ENNIO Ann. 33 Skutsch (= 35 Flores): 103; 187-91 Skutsch (= 188-92 Flores): 103; fr. 240-41 Skutsch (= 263-64 Flores): 70; 445 Skutsch (= 55 Flores): 60. Scen. 49 Joc.: 126; 69-71 Joc.: 116, 133.

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INDICE DEI LUOGHI CITATI

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ENNODIO Laus 3: 1. EPICURO Epist. ad Pyth. 87: 46. ERMESIANATTE Leont. fr. 7, 1-14 Powell, ap. Athen. 13,71: 49.

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ERMOGENE Stas. 6, 45 pp. 72-73 Rabe: 77. ESCHILO Ag.184 ss.: 147; 742 ss.: 126; 749: 126. Choef. 439-43: 121. ESIODO Fr. 123 Rzach: 50. Op. 172-73: 37; 197 ss.: 156; 308: 7, 42; 312-13: 42; 319: 42; 564-81: 35; 826: 44. Theog. 116-32: 40; 1008-10: 66. EURIPIDE Alc. 541: 56. Androm. 103 ss.: 126. Bacch. 1122 ss.: 50; 1139 ss.: 50. Hec. 220 ss.: 147; 367-68: 159; 1056-57: 132; 1088-91: 133; 1089-97: 156; 1094: 133; 1095 ss.: 130; 1114: 129; 1116-19: 130; 1120-21: 130; 1127: 130; 1155 s.: 130; 1181-82: 132; 1214-15: 155. Iphig. in Aul. 563: 156; 762 ss.: 126; 1123: 147; 1148-52: 127; 1279335: 159; 1342: 157; 1375 ss.: 159. Iphig. in Taur. 8: 126. Or. 1388 ss.: 126. GELLIO XVII 10, 2: 170. GIUSTINO Epit. XII 6,2: 28.

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INDICE DEI LUOGHI CITATI

GRATTIO Cyn. 443: 168. IGINO fab. 73: 114; 110: 147, 202: 50; 240: 121. INNI OMERICI 5, 196 ss.: 66; 16, 1 ss.: 50.

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ISIDORO Or. 14, 8, 33: 93. ISOCRATE XI 8: 49. LIVIO I 2: 150. IX 17, 16: 39; IX 18, 3-5: 39. XXI 62,8: 70. XXII 1, 17-18: 70. XXII 10, 9: 70. XXIV 3, 3 ss.: 70. XXVII 37, 7-15: 70. XXVIII 46,16: 70. XXX 20, 6: 83. LONGO SOFISTA Daphnis et Chloe II 3,2: 4. LUCREZIO I 33 ss.: 143; I 717: 102. II 22-34: 45. IV 583: 77. MACROBIO V 12, 4: 145. VI 2, 27: 103. MYTH. VAT. I 76 [test. 65, p. 19 Kern]: 52. OGR 16, 5: 148. OMERO Il. I 2: 67; 348: 144. II 1-4: 109; II 467-68: 104; II 820: 66. III 38 ss.: 116; III 39 ss.: 122; III 71-72: 151; III 324 ss.: 117. IV 141: 145, 146; IV 141-45: 145; IV 141-47: 145; IV 146: 146. V 87 ss.: 94; V 248: 66; V 297 ss.: 117; V 312-13: 66; V 432 ss.: 117. VIII 459: 155; X 1-4: 109; X

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INDICE DEI LUOGHI CITATI

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458-68: 101. XII 94: 125. XIII 758-60: 125. XIX 282-85: 144. XX 116: 156; XX 209: 66; XX 227-28: 88; XX 293: 123; XX 302-08: 124; XX 307-08: 66; XX 367-69: 101. XXI 481 ss.: 77. XXII 224 ss.: 121; XXII 226: 115; XXII 227: 121; XXII 233: 115; XXII 294-95: 125; XXII 298: 125; XXII 369: 101. XXIII 114 ss.: 103. XXIV 249: 125; XXIV 251: 128; XXIV 253: 125. Od. IV 240 ss.: 126; IV 266 ss.: 56. IV 276: 126; 276 ss.: 126; 304 s.: 137. VIII 516 ss.: 125 s.. IX 65: 116; IX 142 ss.: 103; 382 ss.: 135. X 87 ss.: 94, 96. XI 321-27: 113; XI 326: 115; XI 385 ss.: 127; XI 387 ss.: 127; XI 410: 121; XI 433-34: 132; XI 456: 132; XI 543-67: 117. XII 403-06: 96. XIII 80: 121; XIII 96-112: 94, 96; XIII 102 ss.: 93. XIV 294-96: 143; XIV 301-04: 96; XIV 315-53: 143. XV 4-8: 109. XX 474 ss.: 131. ORAZIO Ars 240: 1. Carm. I 7, 10-14: 36; I 12, 6: 41. II 1, 27-28: 60. III 3, 21-22: 166; III 3, 37-39: 71. IV 9, 13-16: 122; IV 9, 21 ss.: 121; IV 9, 22: 126. Epist. I 19, 7: 64; II 1, 50 ss.: 64. Epod. 2, 1: 45. 5, 85: 77. 15: 109. Serm. I 3,37: 1. ORFEO Arg. 84: 93. OVIDIO Fast. I 265-66: 83. IV 317-18: 154. Her. 5, 93 s.: 130. Met. I 208: 78. X 601: 154. XI 598: 78. XV 583: 78; XV 592-93: 83; XV 781-82: 83. Trist. II 423-24: 64. PAUSANIA II 26, 3-7: 50. V 22, 2: 117. PINDARO Pyth. 3, 1-58: 50. PLINIO Nat. Hist. III 37, 21: 35; III 39: 35. XIV 148: 28. XVIII 3: 34-36.

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INDICE DEI LUOGHI CITATI

PLINIO IL GIOVANE Epist. V 10 (11), 2: 78. PLUTARCO Alex. LII 1: 28 Ant. 24, 4: 28; 36, 5: 39; 50, 6: 28; 75, 4-6: 28. POLIBIO VII 9: 68.

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PORFIRIO Perˆ toà tîn Numfîn ¥ntrou 18-19: 105. PROPERZIO II 16, 28: 8; II 16, 29-30: 115. III 3: 64; III 13, 57-58: 115; III 22, 1718: 35. IV 1: 105; IV 1, 75: 75. QUINTILIANO I.O. III 7, 26: 35. VII 4, 8-9: 77; VII 4, 13: 77; VII 4, 14: 77. VIII 6,11: 89. IX 2, 31: 142. X 1, 88: 64. QUINTO SMIRNEO IX 143 ss.: 126; IX 210 ss: 126. XI 339 ss.: 126. XIII 354-73: 120. RHETOR. 1, 24: 77.

AD

HERENN.

SCHOL. AD ODYS. VIII 517: 126. XI 326: 114. SCHOL. PIND. Nem. 9, 30: 114; 9, 35: 114. SCHOL. VERON. ad Aen. III 691: 67. SENECA Ag. 748-49: 120. Epist. X 83,19: 28; 51: 95. Herc. fur. 569-91: 51.

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INDICE DEI LUOGHI CITATI

191

Med. 54: 78. SERVIO ad Aen. I 20: 62; I 28: 67; I 281: 59 s., 66, 80. VI 445: 115. VII 776: 168. XII 66: 155; XII 67: 145. SERVIO DAN. ad Aen. I 20: 62; I 28: 67; ad Aen. II 17: 116; ad Aen. XI 11: 101.

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SILIO ITALICO Pun. XVII 604: 84; XVII 613-15: 84. SIMONIDE Fr. 13 Diehl: 109. SOFOCLE fr. 879 Radt: 105. El. 444-46: 121. STAZIO Theb. IV 187 ss.: 114. VIII 21-79: 51; VIII 123: 51. STRABONE V 4, 5 [C 244]: 34; XIII 1, 30: 117. SVETONIO Aug. 18, 1: 39. SVF (ed. Von Arnim) III 276: 8; III 557: 8; III 619: 8. TACITO Ann. I 74, 4: 78. IV 32, 2: 41. TEOCRITO Id. 2, 33-34: 109. 7, 39-40: 4. 14, 22-23: 142; 14, 31-32: 142. TEOGNIDE 292: 156; 647 s.: 156.

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192

INDICE DEI LUOGHI CITATI

TIBULLO I 1, 77-78: 42. II 5, 23 ss.: 105. TRIFIODORO 'Il…ou ¤lwsij 622-23: 121. TZETZES Ad Lyc. 168: 128. Posthom. 158: 123; 353 ss.: 123.

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VALERIO FLACCO III 509: 78; IV 627: 78. VALERIO MASSIMO IV 3, 6: 142. VARRONE ap. Isid. Or. 14, 8, 33: 93. De re rust. I 2: 35; I 2, 3-8: 35. III 16,10-11: 4; III 16, 30: 11. VELLEIO PATERCOLO Hist. Rom. II 82,4: 28. VIRGILIO Aen. I 4: 67; 6-7: 66; 8: 67; 8-11: 183; 11: 67; 15: 62, 69; 22: 62, 80; 23: 67; 26-27: 67; 28: 67; 49: 84; 81-91: 93; 84: 95; 86: 95; 88 ss.: 96; 102 ss.: 94; 106: 95; 157 ss.: 94; 159: 106; 159 ss.: 88; 159-69: 94 s.; 161: 94, 95; 164: 95; 167: 95; 173: 95; 195: 96; 234-37: 63 s.; 281: 60; 282: 71; 284: 74; 353 ss.: 120; 419 ss.: 86. II 228: 98; 252-53: 123; 281-86: 116; 289: 124; 289-95: 124; 295: 124; 296-97: 124; 304-08: 103; 310-12: 125; 316: 78; 323: 124; 325-26: 183; 362: 184; 496-99: 103; 531: 184; 567-88: 133; 601 ss.: 126; 602: 129; 619: 124; 610 ss: 72; 624-31: 103; 629: 98; 679 ss.: 148; 723: 184; 760-63: 74; 781: 124; 781-82: 73; 783-84: 156; 795: 124. III 11-12: 71; 12: 72; 158-59: 72; 192-93: 96; 199-204: 96; 220-21: 85; 248: 74; 297: 151; 387: 133; 389-93: 75; 390-92: 75; 433-34: 72 s.; 439: 75; 441 ss.: 113; 500: 73; 505: 73; 533-36: 95 s.; 543-47: 73 s.; 546-47: 75; 551-58: 86; 554 ss.; 102; 571 ss.: 88; 571-77: 102; 58687: 102; 613: 67; 645-48: 67; 657-60: 88; 688-708: 86; 691: 67.

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INDICE DEI LUOGHI CITATI

193

IV 1-5: 149 s.; 13: 150; 52-53: 96; 54: 150; 55: 150; 68-73: 89; 8081: 109; 126 ss.: 102; 128: 66; 143 ss.: 56; 151-59: 102; 160 ss.: 97; 168: 97; 194: 69; 208-10: 97; 210: 97; 213: 97; 215: 129; 246 ss.: 56; 340-44: 183; 395-96: 181 s.; 441 ss.: 11, 179; 441-49: 108; 461: 109; 481-82: 102; 522-28: 109 s.; 529: 109; 542: 166; 569: 78; 586 ss.: 68; 590 ss.: 134; 592 ss.: 132; 595: 150, 178; 644: 68. V 8-9: 96; 11: 96; 84-89: 107; 124-28: 97; 141 ss.: 100; 148-50: 100; 287-89: 85; 594-95: 108; 693-96: 97 s.; 704-05: 74; 734: 93; 735-36: 113; 755-61: 86; 763-64: 95; 821-26: 95; 827 ss.: 111. VI 1-242: 103; 93-94: 156; 119: 51; 121-23: 51; 125 ss.: 87; 129-30: 51; 139: 104; 145: 104; 179 ss.: 103 s.; 152: 112; 160 ss.: 112; 186: 104; 310-12: 104; 237 ss.: 106; 282-83: 106; 310-12: 104; 327-30: 111; 337 ss.: 111; 362 ss.: 112; 381: 112; 390 ss.: 51; 440-76: 114; 441 ss.: 105; 444: 112, 114; 445: 114; 446: 114; 448: 114; 467 ss.: 119; 494-547: 113, 123; 500-02: 116; 502-04: 125; 505: 117; 520: 118; 522: 121; 525-26: 121; 529-30: 134; 546: 137 s.; 578-79: 105; 638: 93; 638 ss.: 105; 651: 105; 660: 113; 673-74: 105; 677: 105; 679: 105; 703-09: 105 s.; 744: 106; 759: 133; 763-65: 159; 764-66: 156; 826: 84; 851-52: 168. VII 1 ss.: 148; 8-9: 95; 10-20: 91 s.; 29-36: 92; 30: 93; 52: 148; 71 ss.: 148; 64-67: 108; 71-78: 141; 96 ss.: 151; 104: 151; 160-65: 85 s.; 93; 170: 86; 252 ss.: 148; 259 ss.: 178; 268 ss.: 148; 293 ss.: 148; 313-14: 156; 314: 148; 321: 129; 359-70: 151; 363-64: 122; 387: 148; 389: 148; 390: 143; 484: 100; 490: 100; 513: 100; 514: 138; 514-18: 99 s.; 515: 100; 518: 100; 528-30: 91; 547: 138; 559: 107; 563 ss.: 88; 563-71: 106 s.; 586 ss.: 97; 586-90: 179; 594-99: 97; 599-600: 178; 607: 106; 620-22: 83; 623 ss.: 86; 640: 121; 647-49: 101; 67677: 100; 698-702: 108; 718-22: 90; 770-73: 50; 776: 167 s.; 808-09: 88; 810-11: 88. VIII 18: 74; 43-45: 75; 49: 75: 59-61: 75; 61: 75; 81-83: 108; 84-85: 75; 91 ss.: 89; 136-40: 56; 239-40: 99; 241-46: 106; 326-27: 162; 348: 98; 388b-90: 143; 391 ss.: 143; 417: 86 s.; 455-56: 162; 478 s.: 87; 583: 182; 597-99: 85; 612 ss.: 184; 671 ss.: 184; 678-79: 72; 678 ss.: 170; 698 ss.: 173; 699-700: 74; 709: 68; 728: 89 s.; 729-31: 184. IX 11-13: 61; 11 ss.: 80; 12-13: 71; 13: 78; 28-32: 108; 59-66: 108; 59-66: 108; 85-87: 98; 136 ss.: 151; 373-74: 90; 381 ss.: 98; 392: 98; 397: 98; 433-37: 89; 540-41: 99 s.; 545: 78; 549-55: 108; 559-66: 107; 604: 78; 677-82: 107; 710-14: 107. X 63-95: 77; 74 ss.: 182; 96 ss.: 99; 101 ss.: 98; 113: 182; 264-66: 108; 270-75: 108; 507-08: 176; 649: 151; 707-16: 108; 761: 184;

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194

INDICE DEI LUOGHI CITATI

774 ss.: 101; 803-10: 108; 823-24: 176; 825 ss.: 176; 833-36: 100 s.; 833-908: 136. XI 5-11: 100 s.; 7: 101; 24 ss.: 184; 43-44: 184; 119: 82; 135-38: 98, 104; 218: 152; 297-99: 97; 316 ss.: 91; 320 ss.: 151; 356: 148; 360: 82; 369: 151; 371: 151; 371-73: 152; 434-35: 152; 440: 151; 456 ss.: 108; 463 ss.: 152; 477-80: 141; 480: 147, 155; 486: 152; 493 ss.: 108; 507: 154, 508 ss.: 152; 511-16: 91; 522-25: 94; 526-31: 94 s.; 526 s.: 101; 570 ss.: 88; 601-02: 91; 718-24: 108; 826: 152; 849-53: 87; 896 ss.: 152; 901-05: 91. XII 3: 149; 5-8: 149; 9: 149; 10: 151; 15: 149; 17: 150; 19-46: 151; 24-25: 151; 35-36: 145; 37: 150, 178; 52-53: 149; 55: 149; 62: 152; 64-66: 141 ss.; 64-69: 145, 147, 152, 158; 66: 143; 67: 146; 67-69: 89, 143, 144 s.; 68-69: 145; 604-06: 70: 152; 70-71: 152; 99: 149, 154; 176 ss.: 154; 178-79: 76; 195: 154; 247-56: 108; 444-45: 100; 451-58: 108; 473-80: 108; 572: 182; 581: 82; 583: 82; 605 s.: 141; 147; 684-92: 107; 703: 30; 715-24: 108; 744-45: 89; 749-55: 107; 786-87: 79; 806: 81; 826-28: 79; 827: 62; 831: 67; 841: 79, 84; 84142: 66; 896 ss.: 107; 921-23: 98; 928-29: 98; 935-36: 136; 937: 137, 154; 940-41: 176; 946-47: 78; 952: 79. Buc. 1, 6: 161, 168; 1, 11-12: 161; 1, 64-66: 25 s.; 1, 65: 103; 1, 69: 8, 88; 1, 71-72: 82. 2, 1: 149. 4, 28 ss.: 162; 4, 53-54: 162; 4, 53-59: 162. 5, 22: 57. 6, 2-3: 169; 6, 3 ss.: 162; 6, 4 ss.: 16; 6, 9: 169; 6, 37: 89; 6, 54: 98. 8, 11-12: 169; 8, 11-13: 162; 8, 85 ss.: 88. 10, 33: 42; 10, 43: 42; 10, 61: 51; 10, 62-63: 41. Geo. I 1-4: 169; 1-43: 13; 22-42: 166; 40-42: 167; 41-42: 9; 42: 9, 166; 47-48: 3; 63: 3; 78: 52; 84 ss.: 46; 118-59: 43; 119-20: 2; 127: 2; 145: 53; 145-46: 2; 157-58: 2; 213: 3; 225-26: 3; 321 ss.: 3; 338 ss.: 9; 430-31: 144 s.; 459: 40; 463-514: 11; 466 ss.: 9; 471 ss.: 102; 492: 41; 493-97: 31 s.; 494: 31; 498-514: 166; 500-01: 167; 501-02: 166; 505-06: 165; 506: 10; 506-07: 167; 509-11: 165. II 1: 11; 9: 12; 45-46: 1, 30-31; 61: 3; 80-82: 89; 136-76: 33, 38; 140: 38; 150: 37; 170-72: 167; 173: 37 s.; 173 s.: 167; 174: 38; 176: 38; 177: 13; 197-98: 7; 207 ss.: 104; 209: 104; 274 ss.: 10; 298-302: 14; 303 ss.: 10; 303-11: 32 s.; 324-25: 34 s.; 325: 13; 325 ss.: 47; 350: 10-11; 380-81: 14; 412: 2; 412-13: 7; 455-57: 28; 458-74: 40; 458-540: 40; 461-74: 45; 467-71: 45; 472: 7; 475-89: 40; 483-90: 44 s.; 484: 40; 485-86: 41; 486: 168; 488: 41; 490 ss.: 31; 490-92: 40; 493: 6; 493-94: 42; 493-502: 40; 497-98: 43; 503 ss.: 14; 503-12: 43; 503-40: 40; 513: 31; 531: 14, 31; 534: 43; 540: 40. III 1: 14 s.; 1-2: 15, 169; 3-48: 8-9: 170; 10: 171; 15; 22 ss.: 169;

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INDICE DEI LUOGHI CITATI

195

17-18: 170; 42-43: 169; 46-47: 15; 66-67: 17; 196 ss.: 88; 209-83: 19; 219 ss.: 27; 215-17: 18; 224-41: 18; 244: 18; 284: 17; 284-85: 19; 344 ss.: 18; 249 ss.: 18; 376-77: 18; 382: 18; 414-15: 92; 474 ss.: 18; 513: 20; 522: 46; 549: 42 s.; 552: 20; IV 8-32: 20; 116-48: 4, 173; 147-48: 17; 176: 21; 184: 21; 244: 22; 319-20: 173; 345 ss.: 56; 418-21: 94; 420: 94; 454: 57, 172; 471-77: 104; 471-84: 50; 494-95: 53; 496: 53; 520: 53; 545: 52; 546: 52; 559-62: 167; 561: 170.

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VITRUVIO De archit. VII 1, 11: 35.

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INDICE DEGLI AUTORI MODERNI

Albini U. 33, 130. Albrecht (von) M. 47. Allen Th.W. 147. Amata B. 116. André J.M. 168. Arnaldi F. IX. Arnim (von) H.F.A. 8 Arrighetti G. 34, 66. Astour M.C. 68. Bailey C. 75. Baldo G. 73, 122, 179. Barchiesi A. 31-32, 41, 43, 45. Barchiesi M. 94, 112. Bardon H. 107, 108. Baschera C. 67. Bate A.K. 154. Battegazzore A.M. 69. Bauzá H.F. 27, 87, 103. Belloni L. 158. Bernabé A. 117. Bernert E. 27. Betensky Aya 33. Bettini M. 108. Bianco O. 96. Biotti A. 5. Bleisch Pamela 116, 117 s., 119, 120, 126, 131. Bloch R. 70. Boas Heriette 93. Bono Paola 68, 69. Boyancé P. 66. Boyle A.J. 33, 41. Bowersock G.W. 176. Brenk F.E. 89. Buchheit V. 66. Büchner K. 119, 165. Cairns F. 30, 148, 154. Caldora U. 27.

Calzascia Sonja Caterina 116. Calzecchi Onesti Rosa 78, 122, 126, 131. Campbell J.S. 55. Campos P. J. 27. Camps A. 93 Canali L. 59, 89, 93, 129, 179, 180 s., 183. Capponi F. 97. Carbonero O. 121, 122. Carena C. 121. Carilli Maria 33. Cartault A. 94. Casanova A. 173. Cetrangolo E. 94, 104, 136, 148, 180. Cintas P. 68. Citti V. 148. Clausen W. 117, 149, 162. Conington J. 69. Connor P. 26. Conte G.B. 15, 43, 54, 73, 12, 134, 136, 179, 181. Conway R.S. 111. Cordier A. 116. Corsaro F. 109. Cova P.V. 50. Cozzo A. 7. Cramer R. 27. Cresci Marrone Giovannella 38. Cretia Gabriela 111. Criscuolo U. IX, 30. Cristóbal V. 94. Cristofoli R. 170. Cumont F. 111, 113. Cupaiuolo G. sen., 87. Curtius E.R. 29, 103. Danek G. 145. Dangel J. 116. D’Anna G. 75.

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198

INDICE DEGLI AUTORI MODERNI

de Graft-Hanson J.O. 157. D’Elia S. IX, 30, 119, 176. della Corte F. 28, 40, 68, 70, 86, 93, 95, 96, 104, 107, 108, 163. Desideri P. 173. Desport Marie 50. Detienne M. 54, 55. Di Benedetto V. 81 s., 107. Di Virgilio R. 5. Dognini C. 28. Drew D.L. 158. Dumézil G. 75. Dunlop J. 158. Dyson Julia T. 154.

Haaroff T.J. 27. Harrison S. J. 38-39, 119. Hartigan K.V. 108. Hatzikosta S. 25, 103. Heinze R. 73, 88, 91, 148, 179, 181. Heurgon J. 49, 156. Heuzé Ph. 143. Heyne Ch.G. 99. Highet G. 131. Holzberg N. 174. Honeyman A.M. 68. Hooley D.M. 30. Horsfall N. 148. Hubaux J. 119.

Ebbott Mary 115. Edgeworth R.J. 142. Eliot T.S. 114. Ernout A. 93. Esposito P. 70. Estefania Dulce 131, 133.

Ilberg H. 60.

Falkner Th.M. 119, 123. Fantuzzi M. 176. Fedeli P. 34, 35, 36, 121, 122. Feeney D.C. 70, 78, 83. Feraboli Simonetta 33. Ferrari F. 156. Ficca Flaviana 64. Flintoff E. 46. Flores E. IX, 60, 70, 103. Formicola C. 22, 30, 34, 43, 44, 54, 56, 86, 102, 119 s., 122, 129, 133, 134, 166, 171, 172, 180, 182. Fraenkel E. 60. Fuqua C. 120 s. Gagliardi D. 87, 90. Gale Monica R. 44, 168. Garbarino Giovanna 64. Geikie A. 30. Georgiev V.J. 70. Geymonat M. 27, 30, 85, 108. Giancotti F. 143-44. Giannarelli Elena 145. Gigante M. 32, 93, 109, 119, 144, 161, 162, 176. Gìslason J. 91. Gorrichon M. 27, 87.

Jachmann G. 87. Jackson G. 70. Jenkyns R. 29. Jocelyn H.D. 116. Johnson W.R. 144, 173, 183. Johnston Patricia A. 37 s. Jouan F. 147, 156. Kienast D. 38. Kier H. 45. Klingner F. 44, 87, 165. Knapp C. 30. Knauer G.N. 143, 144. Kocher U.J. 35. Kragelund P. 119, 120. Kronenberg Leah 29, 39, 42-43. Kühn W. 66. Lacey Kirkpatrick W. 146. Landolfi L. 47. La Penna A. 4, 5, 6, 23, 27, 34, 42, 44, 46, 59, 60, 87, 94 s., 99, 100 s., 102, 112, 114, 116, 123, 128, 131, 133, 138, 148, 150, 158, 162, 173, 180. Laudizi G. 111, 113, 123. Leach Eleanor Winsor 39. Lelli E. 59. Leo F. 162. Lesueur R. 69. Levi M.A. 82, 166. Lieberg G. 59.

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INDICE DEGLI AUTORI MODERNI

Lindner T. 116. Lorenz (von) I. 27. Louisides L.L. 69. Lyne R.O.A.M. 144, 146, 154.

Polara G. 147, 155, 180. Porro Antonietta 158. Puccioni G. 94. Putnam M.C.J. 35, 154, 174.

Mac Kay L.A. 68, 119. Maggiulli Gigliola 89, 98, 104. Marasco G. 28. Masaracchia Emanuela 158, 159. Meillet A. 93. Mellinghoff-Bourgerie Viviane 73, 75. Merkelbach R. 112, 116. Merriam Carol U. 180. Michel Dorothea 38. Milanese G. 158. Milton J. 153. Monaco G. 86. Monti V. 145. Muecke F. 41. Mugellesi Rossana 92, 94. Munera F.V. 41, 100, 107 s. Mynors R.A.B., 28, 168.

Quinn K. 154. Quint D. 119.

Nappa C. 44. Nauta R.R. 176. Nazzaro A.V. 180. Nettleship H. 69, 151. Nicastri L. 162, 174. Norcio G. 82. Norden E. 111, 114, 120. Nosarti L. 8, 87. Onians R. 155. Orlin L.L. 174. Otis B. 119, 154, 181. Owen Lee M. 109. Paduano G. 142, 144, 177 s. Papanghelis T.D. 176. Paratore E. 27, 33, 74, 87, 93, 106. Parry A. 180. Pasquali G. 27, 87. Peduto Dolores 86. Pennacini A. 92, 93, 105. Perkell Christine G. 7, 34, 40, 44, 46, 180. Pietzcker C. 26. Pigeaud J. 27. Pighi G.B. 103

199

Rabe H. 77. Race W.H. 14. Radt S. 105. Ramous M. 73, 122, 179. Reckford K. 113. Reeker H.-D. 30, 86. Rehm B. 86. Richard J.-C. 148. Richter W. 52, 168. Ricottilli Licinia 114, 115. Ridgeway W. 111. Robinson L.S. 69. Robinson T. 81. Rocca Silvana 108. Romano D. 115, 138. Romano Elisa 122. Ronconi A. 162. Rosivach V.J. 86. Ross D.O. 38, 39, 44. Rzach A. 38, 50. Salvatore Arm. 29, 33, 104, 133. Santini C. 170. Santucci F. 170. Scafoglio G. 119, 137. Scarcia R. 148. Schilling R. 103. Schmidt E.A. 87, 162. Schönbeck G. 37, 105. Senis Gabriella 27. Serpa F. 26, 27, 87, 183. Setaioli A. 111, 112, 116, 182. Simonini Laura 105. Sirago V.A. 29. Skutsch F. 162. Skutsch O. 60, 70, 103 Smolenaars J.J.L. 33, 103. Snell B. 87, 88, 162. Sordi Marta 28. Spence Sarah 179 s. Stephens Viola G. 108.

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200

INDICE DEGLI AUTORI MODERNI

Tarditi G. 158. Tatum J. 114. Tessitore M. Vittoria 68, 69. Thibodeau P. 176. Thomas P.L. 145. Thomas R.F. 4, 28, 44, 165, 174. Thornton Agathe 66. Todd Ruth W. 154. Tomasco D. 70. Tortorelli Ghidini Marisa 51. Traina A. 107, 143, 144. Treu M. 112. Tschiedel H.J. 158.

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Urso G. 38. Vahlen J. 60, 70, 103. Vassallo S. 168. Venini Paola 115.

Verdière R. 107. Vogliano A. 112. Voisin J.-L. 141. Volk Katharina 165, 174. Yardley J.C. 121. Wagner R. 121. Warde Fowler W. 86. Weil H. 156. West M.L. 51. West Starry Grace 114. Wigodsky M. 145. Wilkinson L.P. 26, 165. Williams R.D. 119, 120. Wimmel W. 165. Witek F. 25, 86. Woodworth Dorothea C. 158.

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Forme materiali e ideologie del mondo antico

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Collana diretta da Enrico Flores

1. 2. 3. 4. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 20. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40.

AA.VV., L’ideologia della città AA.VV., Aristotele e la crisi della politica D. Musti, Polibio e l’imperialismo romano E. Flores, Latinità arcaica e produzione linguistica A. De Vivo, Tacito e Claudio. Storia e codificazione letteraria D. Page, Racconti popolari nell’Odissea D. Lanza, Lingua e discorso nell’Atene delle professioni G. Melillo, Economia e giurisprudenza a Roma. Contributo al lessico economico dei giuristi romani V. Citti, Tragedia e lotta di classe in Grecia O. Longo, Tecniche della comunicazione nella Grecia antica G. Cerri, Legislazione orale e tragedia greca N. Zorzetti, La pretesta e il teatro latino arcaico Marxismo, mondo antico e terzo mondo (inchiesta a cura di E. Flores) L. Canfora, La Germania di Tacito da Engels al nazismo V. Di Benedetto, A. Lami, Filologia e marxismo. Contro le mistificazioni L. Braccesi, Epigrafia e storiografia (interpretazioni augustee) E. Flores, Il sistema non riformabile. La pseudosenofontea «Costituzione degli Ateniesi» e l’Atene periclea G. Chiarini, Lessing e Plauto G. Rispoli, L’artista sapiente. Per una storia della fantasia A.C. Cassio, Commedia e partecipazione. La «Pace» di Aristofane L. Spina, Il cittadino alla tribuna. Diritto e libertà di parola nell’Atene democratica G.F. Gianotti, ‘Romanzo’ e ideologia. Studi sulle «Metamorfosi» di Apuleio P. Cosenza, Logica formale e antiformalismo (Da Aristotele a Descartes) O. Longo, Le forme della predazione. Cacciatori e pescatori della Grecia antica ´ E. Flores, Synesis. Studi su forme del pensiero storico e politico greco e romano G. Casertano, L’eterna malattia del discorso. Quattro studi su Platone N. Horsfall, Virgilio: l’epopea in alambicco E. Flores, La Camena, l’epos e la storia. Studi sulla cultura latina arcaica Quinto Ennio, Annali. Libri I-VIII, vol. I, a cura di E. Flores Quinto Ennio, Annali (Libri I-VIII), Commentari, vol. II, a cura di E. Flores, P. Esposito, G. Jackson, D. Tomasco Quinto Ennio, Annali. Libri IX-XVIII, vol. III, a cura di E. Flores Quinto Ennio, Annali (Libri IX-XVIII), Commentari, vol. IV, a cura di E. Flores, P. Esposito, G. Jackson, M. Paladini, M. Salvatore, D. Tomasco C. Miralles, La luce del dolore. Aspetti della poesia di Sofocle, a cura di M.C. Angioni, P. Novelli Quinto Ennio, Annali. Frammenti di collocazione incerta. Commentari, vol. V, a cura di G. Jackson, D. Tomasco E. Flores, Liui Andronici Odusia. Introduzione, edizione critica e versione italiana M. Paladini, Lucrezio e l’epicureismo tra Riforma e Controriforma

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41. 42.

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43. 44.

E. Flores, Cn. Naeui Bellum Poenicum. Introduzione, edizione critica e versione italiana Decimo Giunio Giovenale, Satira III, Traduzione e commento a cura di S. M. Manzella C. Formicola, Virgilio: etica, poetica, politica E. Flores, Il testo anglo-tedesco di Manilio e Lucrezio

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