Viaggio all'Eden. Da Milano a Kathmandu
 8858127714, 9788858127711

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i Robinson / Letture

© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione luglio 2017

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Edizione 5 6

Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022 La mappa è di Maurizio Sacchi

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2771-1

Emanuele Giordana

Viaggio all’Eden Da Milano a Kathmandu

Editori Laterza

ai miei figli Malvina e Giovanni, luce dei miei occhi, e al mio cane Fanny

You who are on the road Must have a code that you can live by And so become yourself Because the past is just a good-bye. Teach your children well, Their father’s hell did slowly go by, And feed them on your dreams The one they picks, the one you’ll know by. Don’t you ever ask them why, If they told you, you will cry, So just look at them and sigh And know they love you. Crosby, Stills, Nash & Young, Teach Your Children, 1971

Indice

Prologo

XIII

Quarant’anni prima, p. XIII - Quarant’anni dopo, p. XIX

Prima parte

Il grande viaggio 1. Direct Orient

5

2. Alla periferia del Viaggio

12

3. La Porta d’Oriente

20

4. L’epopea di Chicken Street

27

5. Khyber Pass

35

Digressione obbligatoria: la guerra afgana

43

6. Nella Terra dei puri

46

7. India 1

55

8. India 2

61

9. India 3

67

10. L’arrivo nell’Eden

73

Seconda parte

Strade collaterali, tra scoperta e turismo A oriente: il Sud-Est asiatico

81

A oriente: isole nella corrente

90

XI

A occidente: il tè nel deserto marocchino

96

Ancora più a occidente: sogno americano

101

Epilogo

107

Glossario

113

Prologo

Lord, I was born a ramblin’ man, / Tryin’ to make a livin’ and doin’ the best I can. / And when it’s time for leavin’, / I hope you’ll understand, / That I was born a ramblin’ man The Allman Brothers Band, Ramblin’ Man, 1973

Quarant’anni prima Per noi che sognavamo di prendere il Direct Orient dalla Centrale di Milano, l’ultimo ritrovo prima di partire in quelle estati un po’ torride e di spasmodica attesa per il grande viaggio era una bocciofila sulla Martesana, fiumiciattolo maleodorante non lontano dalla stazione, dove pensionati comunisti e giovani fricchettoni pasteggiavano con ossobuco e barbera dell’Oltrepò per 500 lire. A qualche centinaio di metri, gli effluvi della cannabis condivano le serate all’Abanella, un cinema di terza visione – quando le sale, come i treni, avevano una gerarchia di classe – rilevato da un amante del genere sex, drug & rock ’n’ roll e dove, oltre a Il laureato e Woodstock, si proiettava anche Cavalieri selvaggi con Omar Sharif e Jack Palance. Quel grande film sull’Afghanistan di John Frankenheimer, che i critici cinematografici avevano snobbato, alimentava l’epopea del Viaggio all’Eden, come era stata chiamata la prima guida per freak sulla via che da Istanbul portava a Kathmandu. E non c’era molto altro come viatico letterario. Sì, anche Allen Ginsberg, allora molto gettonato, era stato in India, ma alla fine ci passavamo di mano soprattutto XIII

un altro classico dell’epoca, pura operazione furbescamente commerciale ma non priva di seduzione: quel raccontone letterariamente scadente ma altrettanto avvincente di Charles Duchaussois, junkie francese che aveva fatto il giro del mondo con un ago infilato nel braccio. Il suo Flash. Katmandu il grande viaggio descriveva l’Old Gulhane di Istanbul e raccontava di sordidi buchi del bazar di Bombay per fumatori d’oppio, di santoni, contrabbandieri, guru e ashram dove poter allargare la coscienza a colpi di mantra e di manali, l’hascisc nero e profumato delle valli del Nord dell’India. Insomma, la partenza si preparava così: amuchina e antibiotici per i più paranoici, pile e lamette da barba per i previdenti, Sulla strada di Kerouac o Siddharta di Hesse per i più raffinati, Autobiografia di uno yogi di Paramhansa Yogananda per gli spiritualisti. Inseguiti dagli anatemi di quelli che «no compagni, non si può andar via e mollare la lotta di classe», ci rodeva – sotto la pergola della Bocciofila Martesana – il tarlo della strada e non ci scalfiva quel refrain di Giorgio Gaber che cantava di una generazione che scappava «in India e in Turchia» fingendo di essere sana. Eravamo malati, come no. Bruciati dalla passione per quel treno che partiva dalla Stazione Centrale e proveniva da Parigi diretto a Istanbul, dove immigrati turchi accaldati di ritorno a casa esibivano i gilet e le coppole d’ordinanza mentre si attraversava la Jugoslavia di Tito fino alla Porta d’Oro aperta sull’Oriente. Traversata la prima frontiera, i ritrovi all’occidentale cui eravamo abituati (dal piccolissimo bar Erika di zona Loreto al mitico Jamaica, già troppo caro all’epoca per le nostre tasche) scomparivano di colpo. C’era qualche locale a Belgrado dove potevi bere acquavite e un ultimo espresso, ma già trionfava il caffè serbo, che in Grecia è caffè greco e in Turchia caffè finalmente turco. E quando ormai avevi passato anche l’ultimo confine alcolico bagnato di retsina e demestika ghiacciati, restava la birra turca, ma si affacciava anche un primo stupore per quello splendido tè servito in bicchieri stretti stretti con la pancia sporgente e l’orlo striato da una collanina d’oro, XIV

trascinati ai tavolini all’aperto di Sultan Ahmet su un vassoio rotondo di metallo martellato. Sempre affannati a cercare il posto più economico – per mangiare e dormire, attività primigenie ed essenziali del genere umano – si finiva nei grandi stanzoni degli ostelli della Sublime Porta che, ai meno abbienti, offrivano i tetti, più per risparmiare qualche lira turca che per sfuggire all’afa distesa sul Bosforo. La mattina al Pudding Shop, luogo deputato allo scambio di informazioni sul prossimo pullman, era un’occasione per ingollare yogurt e pasticceria ottomana grassa e zuccherina, ammantata di miele e pinoli e di cui avevi già avuto qualche sentore nei Balcani. Oggi il Pudding è un ritrovo alla moda con le foto degli anni Settanta alle pareti, locale senz’anima affacciato sulla fluorescente rivisitazione modernista del grande parco di Sultan Ahmet e dei suoi gioielli architettonici. L’Iran, ancora terra dello scià, era un passaggio veloce. Una notte all’Amir Kabir per i più fortunati e sennò il campeggio di Mashhad prima del confine afgano. Ed era qualche chilometro più a est, alla frontiera di Tayyebad, il vero inizio del viaggio. Era a Kabul, la città di cui avevamo distillato ogni sapore nei racconti degli amici, il luogo dove esplodeva l’epopea dei ruggenti Settanta on the road. I freak erano così numerosi che si era creata una vera e propria colonia il cui santuario era Chicken Street, che oggi è l’ombra di sé stessa ancorché, per qualche anno, la municipalità cittadina l’avesse onorata dell’unica insegna turistica che ho visto in quella città sulla linea del fronte che la guerra ha inghiottito da decenni. Quelli con più soldi stavano al Peace e lo chiamavi così perché se dicevi «Peace Hotel» voleva dire che eri un novellino. La giornata rituale comprendeva la pipa ad acqua, un giro alla posta, la pipa ad acqua, una visitina alla moschea, la pipa ad acqua e il ristorante. Se avevi soldi ci scappava anche una seduta al Marco Polo, locale di lusso dove la cucina serviva il solito qabili palao (che solo anni dopo capimmo che non XV

significa «riso di Kabul»), ma anche un vino d’uva che forse non era granché ma poteva farti evocare le colline dell’Astigiano o i poemi del persiano Omar Kayyam. Anche gli afgani, che sono in prevalenza di lingua iranica, conoscono bene la sua poesia mentre noi, lo ammetto, cercavamo il sapore di casa in quel liquido senza retrogusto, tratto da un frutto ottimo per l’uva sultanina ma difficile – a quelle latitudini – da vinificare (pur se la tradizione della vigna e del vino era antichissima). Nel percorso verso la posta, il luogo sacro per un vero viaggiatore prima dell’avvento degli internet café, del roaming o di WhatsApp (ricevevi la corrispondenza al Poste Restante, che sarebbe il P.O. Box inglese e il nostro Fermoposta, ma che ovunque si declinava in francese), c’era la possibilità di un frullato di mele o di carote, unica chance vitaminica in un paese dominato da riso e montone e dove pomodori e insalata erano a tuo rischio e pericolo. Meloni sì, quelli di Kunduz, dolci e bianchi, promessa di frescura nelle estati torride e polverose della capitale afgana. Eppoi, già, la pipa ad acqua, un marchingegno per proiettare la sintesi estrema dell’hascisc più rinomato del pianeta direttamente nel cervello, se a farti «sballare» non aveva già provveduto quel paesaggio di fieri cavalieri avvolti – estate e inverno – in una leggerissima coperta di lana, il patu, sotto un turbante da cui parte una striscia di cotone svolazzante come una cometa di luce che ha anche il pregio di riparare la gola dalla polvere. Sul passo Khyber avevi giusto il tempo di ragionare sul fatto che tra l’Afghanistan e il Pakistan esisteva una sorta di terra di nessuno dove comandavano pastori barbuti col fucile in spalla e un cappelletto di lana rotondo che avremmo rivisto anni dopo sulla testa dei mujahedin. Ripensando alle immagini di quei viaggi col senno di poi, abbiamo capito in seguito cosa fossero e sono le aree tribali pachistane e perché i guerrieri di Allah – ieri come oggi – sparavano a Jalalabad ma dormivano a Peshawar e perché anche adesso quella frontiera XVI

porosa è attraversata senza passaporto dai pashtun – talebani e non – che oltreconfine si chiamano pathan, patani. A Peshawar, che era ancora un paesone marcato dall’urbanistica del Cantonment britannico – il cuore militar-coloniale disegnato dagli architetti di Sua Maestà – e non la città disordinata e molto pashtun-patana di adesso, c’era il primo impatto con la geografia umana del subcontinente indiano perché, e lo capivi dopo, la spartizione dell’India del 1947 aveva diviso a metà la regione del Punjab e dunque, di qua e di là della frontiera indo-pachistana, la gente era più o meno la medesima. Comprese le mucche che pascolavano tra gli scoli dei bazar anche nell’islamico Pakistan, salvo che qui finivano in stufato, di là al tempio. A Peshawar potevi stare in un alberghetto famoso perché affacciato sull’acquitrino formato dai residui del cambio dell’olio di un’enorme officina meccanica per camion dipinti con colori sgargianti. Quel rumore assordante già alle prime luci del giorno era capace di spezzare ogni poesia ma non certo la litania imprecante di ogni meccanico che si rispetti quando una vite non gira. E c’era anche un antico e fatiscente palazzo mogul dove ai prezzi delle stanze corrispondeva anche l’ubicazione in elevazione della stanza. Ma al contrario: pagavi bene e stavi al primo piano, ombreggiato e ventilato. Meno rupie e salivi a quello superiore. E, infine, se quattrini non ne avevi proprio, passavi la giornata su un terrazzo liquefatto, in stanzette che erano bugigattoli in lamiera caldi come forni. Erano per lo più abitati da junkie all’ultimo stadio, dimenticati dalle ambasciate e inseguiti senza fortuna dai parenti, per i quali il futuro più prossimo era una sostanza grigiastra derivata dallo sbriciolamento di pastiglie di morfina della Merck, fabbrica tedesca di stupefacenti legali venduti spesso illegalmente. La vulgata raccontava che Peshawar fosse diventata, vai a sapere come, il deposito di infinite scorte di morfina a far data dalla seconda guerra mondiale. Costavano nulla e quei ragazzi finivano il loro viaggio esotico cercandosi le vene nel caldo poco mansueto della terrazza del National. XVII

Che ne ricordava un’altra, qualche migliaio di chilometri più a est: quella del Crown Hotel. Alla fine di Chandni Chowk, nella vecchia Delhi, il Crown aveva la stessa struttura verticale del National. E la stessa fauna. Viaggiatori scandinavi dalle gote rosse e i capelli d’un biondo quasi bianco, junkie francesi che imitavano Duchaussois, sfilacciati britannici dall’aria spiritata che ti raccontavano di questo o quel guru, spacciatori napoletani col passaporto contraffatto, signorini milanesi con kurta e pijama (mediati dal costume locale) su cui, col calar dei primi freddi, esibivano maglioncini di cachemire («made in England» però, anche se la lana veniva dall’India). Nuova Delhi, come tutte le città meta di viaggiatori, aveva le sue gerarchie anche nella colonia dei viaggiatori dell’Eden e non era solo una questione di prezzo. Ancora qualche anno fa, dal mio alberghetto di Paharganji mi sono avventurato per Chandni Chowk: è lontana dalla luccicante Connaught Place ed è maledettamente sporca come deve essere sempre stata. Ma camminare lungo quella strada, dal Forte Rosso sino alla moschea di Fatehpuri, era ed è un viaggio attraverso tutto l’immaginario indiano: ciabattini musulmani, mendicanti indù, un tempio sikh davanti a un grande fallo shivaita, ricche signore del centro con sari dorati in cerca di braccialetti di vetro, grassi punjabi con capelli unti di gel scarrozzati da paria ansimanti su risciò laccati di rosso, austeri santoni seminudi, vacche sacre accompagnate da topi forse meno nobili ma non meno a loro agio. Adesso, ovviamente, sono spuntati anche negozi di high tech ben ingrassati dall’olio di friggitorie di finissimi puri o di polpette di patate. È una magia, se vi piace, che nemmeno la Shining India del miracolo economico è riuscita a intaccare. Ma l’appuntamento vero era a Kathmandu, dove la colonizzazione hippy aveva ribattezzato una strada «Freak Street», che ancora c’è. Oggi però è un buon posto per contattare e intervistare giovani maoisti ormai integrati nel primo paese XVIII

al mondo, dopo la Cina, dove un partito ispiratosi a Mao ha messo mano alla Costituzione. Allora era il ritrovo di giovani maoisti occidentali disintegrati, che invece che nella Repubblica popolare cinese erano approdati nel regno dei sovrani Gyanendra del Nepal, conservatori e latifondisti. Lì finiva la grande epopea, che si risolveva in un biglietto dell’Air India prepagato da casa. O in un ritorno con epatite, pidocchi e un corpo spaventosamente smagrito a dispetto di un’overdose di sensazioni che ti riempivano l’anima, appena raffreddata dal gelo che intanto era sceso su Kabul, in Anatolia o lungo l’autostrada degli studenti costruita da Tito. È che poi quel grande calore dell’anima andava di nuovo riscaldato. Alla Martesana e all’Abanella, sognando il prossimo viaggio. Chi non era ancora partito, abbeverandosi ai racconti che si facevano sogno e desiderio, risparmiava sull’aperitivo per comprare la prima tratta del viaggio all’Eden sino a Istanbul. L’estate prossima. Forse... Quarant’anni dopo Cosa ci muovesse, allora, alla volta dell’Eden non saprei dire: una specie di febbre il cui batterio originario – covato sottopelle dall’epopea dei grandi viaggiatori – veniva forse da lontano o era magari appena nato, si sarebbe detto allora, con i pidocchi che allignavano nelle nostre folte capigliature. Quella febbre era il sintomo di una malattia che attraversava tutta l’Europa e l’intero mondo occidentale che, dagli anni Sessanta in avanti, aveva cominciato a fremere, scalpitare, ribellarsi. E se ci sembrava giusto ribellarsi («Ribellarsi è giusto!», aveva scritto il presidente Mao nel suo Libretto rosso), ci sembrava anche giusto liberarci di tutti quegli orpelli (li chiamavamo allora marxianamente «sovrastrutture») che potevano frenare il nostro desiderio rivoluzionario di cambiare il mondo: famiglia, matrimonio, fabbrica e sacrestia. Era il 1968 quando mi affacciai, forse ancora coi pantaloni corti, alla prima classe del ginnasio del liceo Carducci di XIX

Milano. Ero un po’ tonto e ancora imbesuito dalle tradizioni della borghesia illuminata lombarda, alla quale la mia famiglia apparteneva: le prime ragazze le avevo conosciute alle «lezioni di ballo», appuntamenti che al sabato, sotto l’occhio vigile di mamme, sorelle e fratelli maggiori, consentivano il contatto furtivo con l’altra metà del cielo attraverso avvicinamenti fisici impacciati e alla debita distanza. Il resto era studiare e aspettare le vacanze oppure passeggiare per i negozi del centro aspirando a quel paio di mocassini o a quell’impermeabile. Il ’68, esploso in tutta la sua potenza negli anni Settanta, fu uno schiaffo, salutare e poderoso, che mi spalancò – oltre all’universo della politica – tutto ciò che una famiglia protettiva ancorché progressista non avrebbe potuto rivelarmi né tanto meno consentirmi. Smisi di studiare, cominciai a guardare le ragazze con meno timore, iniziai a leggere i classici del marxismo e a «bigiare» le ore di lezione per andare al bar di fronte o al parco Lambro a parlare di politica. Ma la politica non era abbastanza. La liberazione che prometteva era la liberazione dalle catene della schiavitù operaia di cui noi avevamo solo la percezione. Nei primi anni Settanta, però, arrivavano anche altre suggestioni: le rivolte americane, i figli dei fiori, i provos olandesi, gli hippy e, naturalmente, le droghe, i cui santoni spiegavano come fossero una via per allargare la coscienza, per guardarsi dentro, per liberare il mondo non solo dalle catene della fabbrica, ma da quelle che ci imprigionano nella vita quotidiana. Perché ognuno potesse risvegliarsi e, finalmente, liberarsi dal proprio ego. Contemporaneamente si faceva strada la grande suggestione delle filosofie indiane, cammini di liberazione che richiedevano un viaggio a oriente. Il mio, il nostro viaggio all’Eden, fu forse figlio di tutto ciò. Andiamo. Decine di estati dopo è stato il mio lavoro a riportarmi su quella rotta. E la guerra è stata quasi sempre il motivo di frettolose partenze e di nuove meraviglie, in un paesaggio umano e geografico a volte rimasto immutato, altre volte completamente cambiato quando non stravolto o scomparso. XX

Per ritrovare la strada, il filo capace di legare i percorsi di allora a quelli attuali, ho messo dunque assieme gli appunti della mia memoria – e la fascinazione un po’ orientalistica e ingenua che avevamo allora – con gli obblighi del resoconto giornalistico, che non dovrebbe cedere né a fascinazioni né a ingenuità. Mi sono aiutato con gli articoli scritti in questi anni ma soprattutto con un meticoloso libretto di viaggio – resuscitato un giorno per magia da un vecchio baule – in cui avevo annotato nomi, indirizzi, orari degli autobus e prezzi. Ne è venuto fuori un viaggio all’Eden contaminato dai ricordi di allora e dalla rivisitazione odierna, cui ho aggiunto «code» che portavano su altre rotte: Sri Lanka e Indonesia, quella che chiamavamo Indocina. A occidente, il Marocco. E ancora più a occidente (o più a oriente, se è vero che la geografia è solo un punto di vista) nelle Americhe. In alcuni di questi luoghi sono stato da ventenne e da ultracinquantenne. In alcuni, invece, non ero mai stato. In altri ancora non sono più tornato. In altri, devo ancora andare... A differenza del mio primo viaggio all’Eden, in quelli che sono seguiti, un po’ perché avevo cambiato città un po’ perché il mio lavoro mi aveva sprovincializzato, ho perso quel tratto di milanesità (ben raccontata nel documentario di Felice Pesoli Prima che la vita cambi noi) che forse il lettore di Bologna, di Enna o di Fermo può trovare insopportabile. I milanesi avevano – e ancora hanno – alcuni tratti adorabili, altri insopportabili, un po’ come tutti gli altri italiani per altro, figli orgogliosi delle loro tradizioni comunali che sono il tratto meraviglioso (se uno pensa alla cucina) e al contempo spaventoso (se uno pensa ai razzisti di casa) del nostro paese. I milanesi sono gran gente (Milan l’è un gran Milan), ma vi guardano sempre il colletto della camicia e se le scarpe sono lucide e di marca. Vicino alla città italiana europea per eccellenza, nella capitale morale – dove si sa rubare con maggior maestria che altrove –, sono tornato oltre quarant’anni dopo per approdare nella mia vecchia casa a Crema che si chiama Ca’ delle mosche, anche se persino le mosche sono state ucXXI

cise da eccesso di diserbanti. A Milano vado raramente e in effetti è il distacco della campagna che mi ha permesso di rimettere ordine nei miei ricordi e di farne un viaggio a ritroso, sospeso tra presente e passato, consapevolezza e incoscienza, stupore e soprattutto curiosità: una qualità, o un difetto, che non ho perso. Questi racconti – che in forma assai più ridotta e a puntate sono in parte usciti sul quotidiano «il manifesto» – sono un omaggio a tutti quelli che fecero quel viaggio, a quanti si limitarono a sognarlo, a chi non lo fece mai e a chi oggi ancora percorre quelle rotte. In altro modo, con altri mezzi. Si dice del resto che il viaggio all’Eden degli anni Settanta non fosse che il viaggio a ritroso che gli australiani facevano dall’Oceania all’Europa in cerca delle proprie antiche radici. Noi lo facevamo cercando chissà cosa e sapendo, come hanno detto persino gli 883, che la meta di un viaggio è in realtà il viaggio in sé. Vorrei ringraziare gli amici che fecero con me quel viaggio o lo sognarono e i tanti – Guido Corradi, Davide Del Boca, Enrico Alberti, Roberto Casetti, Giuliano Battiston, Guido Cornale, Egidio Crotti, Giovanni Camilleri, Maurizio Sacchi, Aurelio D’Angelo che non è più tra noi – per le fotografie che illustrano questo testo e per aver riempito i tanti buchi della memoria. E poi vorrei dedicare queste pagine anche al proprietario di una piccola residenza di Kabul – l’Ahmadshai Hotel di Sharenaw – dove ho passato un mese di passione e di fasto nel 1974, insieme ad alcuni amici. L’ho invano cercato nei miei tanti viaggi nell’Afghanistan stravolto dai talebani, dai mujahedin, dalla Nato, dalle nuove colonie occidentali che i capelli non li portano più a coda ma ben rasati sull’orlo di candidi colletti. Si chiamava Ali e aveva allora più o meno vent’anni. Mi spiegò che noi eravamo gli araldi di una plastic life, destinata a favorire una sana contaminazione tra genti diverse. Non so se avesse ragione, ma era una bella idea. Io, poi, sono tornato a casa. Lui, quarant’anni dopo, non so che fine abbia fatto. Che Allah il misericordioso si prenda cura di lui. XXII

Viaggio all’Eden Da Milano a Kathmandu

I

Il grande viaggio

1

Direct Orient A Milano il Magenta, il «baretto» di Sant’Eustorgio, l’Erika, la Bocciofila Martesana. Con capatine a Roma, suk italiano. Preparativi culturali, libri e cinema di periferia guardando Woodstock e Cavalieri selvaggi. La politica, i primi spinelli e la mistica del viaggio in Oriente.

Questa è la tua prima luna che vedi fuori di casa [...] / e, mentre dormi sul prato, [...] / tu vedi passare una macchina verde della Polizia / non ti vedono neanche / li senti andar via / capisci di colpo che il loro discorso è diverso dal tuo. Claudio Rocchi, La tua prima luna, 1970

«Come in Afghan shop my friend... cheap price for you... Come in Afghan shop...» In origine fu Luca detto «Paglia». Prima con una Volkswagen Maggiolino, poi con mezzi di fortuna, aveva raggiunto Kabul via terra facendo all’inverso la stessa strada che gli australiani battevano da anni verso l’Europa. Sì, perché erano stati i giovani australiani a iniziare un grande viaggio che attraversava l’Asia per raggiungere le loro antiche origini europee, con un percorso che prevedeva tappe e lentezza verso le radici delle famiglie d’origine. Negli anni Settanta, invece, quel percorso à rebours iniziarono a farlo gli inglesi, i francesi, gli italiani. Luca era stato uno dei primi del nostro giro e, già ormai agli studi superiori (studiava, si fa per dire, geografia a Parigi), veniva all’uscita del Carducci, liceo milanese fuori dalla cerchia dei Navigli (il che gli dava, come Classico, un’aura proletaria di periferia), a esibire magliette ricamate, pipette, scatoline argentate comprate nel bazar della capitale afgana: «Come in Afghan shop my friend... cheap price for you...». Quella cantilena ammaliava noi giovani liceali disposti e 5

predisposti a sognare la trasformazione delle nostre vite di militanti a tutto tondo in qualcosa che andasse oltre la Resistenza, la lotta per il diritto allo studio, le manifestazioni per il Vietnam. Restavamo confusi da quegli stracci colorati, dagli stemmi della famiglia reale, dal richiamo di strade polverose che andavano verso oriente. La meta però non era Canberra. Era Kathmandu. La febbre del viaggio era cresciuta in tempo reale. Fabrizio tornava da Wight, dove il neonato Festival del rock era stato sospeso nel 1970 dopo solo tre edizioni, Marco andava e veniva da Amsterdam, Paglia e Adriano raccontavano di Istanbul, la Porta d’Oro, prima tappa del Viaggio all’Eden, che era poi il titolo della prima guida dedicata e curata da Marco Amante e Luigi Buffarini Guidi, uscita nel ’73. Contagiati da quella febbre, si passava dal sogno alla partenza. I preparativi correvano lungo una sorta di filo rosso che si dipanava in città: nei licei, nei primi corsi all’università, nel servizio notturno alla posta che, all’epoca, assumeva precari per tre mesi, pagava un discreto stipendio e forniva la prima vera base di massa del tesoretto necessario per partire. I ritrovi serali andavano per quartiere. Noi di zona Loreto ci trovavamo in un baretto che forse non arrivava a 15 metri quadri. Per aumentarne lo spazio vitale il Gino, padre padrone del bar Erika di via Montepulciano, vagamente claudicante e dotato di una moralità gesuitica ma anche di una flessibilità libertaria ante litteram, si serviva di una botola sotto il bancone dove teneva i liquori. Magari stavi ordinando uno «spruzzato» (bianco secco con bitter e seltz, versione milanese dello spritz) e quello improvvisamente spariva nella botola per riemergerne con una bottiglia di Campari, una Vecchia Romagna e un richiamo alla marmaglia: «Maledeti capeloni...». Era veneto il Gino e dunque – all’opposto dei sardi – disdegnava le doppie, ma in compenso ci conosceva uno per uno e, seppur raramente, dispensava buoni consigli: «Con quella roba farai una brutta fine...». Alludeva all’eroina il Gino, la polvere grigiastra che iniziava a circolare. Sugli 6

spinelli era tollerante, ma andavano fumati girato l’angolo. Il bar doveva restare pulito. I bar erano i luoghi dove scambiarsi indirizzi, consigli, strade più o meno percorribili. A una cert’ora ci muovevamo per andare dal ritrovo di quartiere a quello cittadino più in voga al momento: il Magenta, vicino alla Stazione Nord, che serviva panini con pancetta sino a tarda notte ed era frequentato dai «grandi» – gli universitari –, soprattutto del Movimento studentesco. Il «baretto» di Sant’Eustorgio, dietro piazza Vetra a Porta Ticinese, che aveva poi preso il sopravvento grazie al vasto spazio antistante e ai prezzi contenuti. Non così lo storico Giamaica di Brera, caro per le nostre tasche come il Tombon de San Marc: ci avresti lasciato troppo dei risparmi che servivano al grande viaggio. A Sant’Eustorgio ci trovavi quelli del liceo Manzoni o del Berchet, i più arrabbiati degli istituti tecnici, le prime bande infagottate nei giubbotti di pelle anche a fine luglio. Il bar era un luogo di aggregazione sociale dove ai discorsi sul calcio si era sostituita l’organizzazione di picchetti e presidi o dove ci scambiavamo dritte per comprare il fumo migliore o su quella trattoria che praticava prezzi popolari e il cui vino non era veleno. E poi, con l’arrivo dell’estate, i primi racconti: i posti dove andare a dormire ad Atene, i prezzi del Magic Bus da Istanbul a Delhi, le dritte sui privilegi neocoloniali che resistevano nella beata incoscienza della Guerra Fredda. In India, ad esempio, i bianchi di qualsiasi nazionalità avevano diritto a posti riservati su tutti i treni a lunga percorrenza. Non c’era nemmeno da fare la fila, ma dovevi saperlo altrimenti ti toccava, come a tutti, un viaggio in cui lottare per stendere le gambe o appoggiare le chiappe su un sedile. Quel paese, a sentirselo raccontare, non sembrava diverso da quello che Kipling aveva fatto attraversare al suo Kim durante il «Grande Gioco», la guerra più o meno guerreggiata che, nell’Ottocento, aveva opposto la Russia alla monarchia britannica per il controllo dell’India e dell’Asia centrale. La voglia del viaggio, nella seconda metà degli anni Settan7

ta, era diventata un contagio febbrile, irrefrenabile e trasversale. In Oriente ci andavano il fricchettone o l’hippy (c’era una distinzione tutta politica tra i due soggetti), il «katanga» della Statale (appellativo conquistato sul campo menando i poliziotti ai cortei), quelli di Lotta Continua ma anche i più seriosi militanti di Avanguardia Operaia, «quelli del manifesto» ma anche un tipo che si era nominato «anarco-sioux», riflessione nobile e autoreferenziale nell’evoluzione di un movimento così variegato in cui avevano trovato posto persino i nazi-maoisti. Anche quelli in qualche modo finiti sulla rotta d’Oriente. La febbre si curava con dosi massicce di informazioni più o meno virtuali: le prime edizioni di Hermann Hesse, I Ching – testo sacro cinese di divinazione –, i classici della beat generation dove ancora non sapevi se vagolare per Milano ti facesse assomigliare ai protagonisti di I sotterranei o se la spasmodica attesa della partenza non ricordasse i preparativi di Sulla strada, due romanzi di Jack Kerouac che erano pane quotidiano, trascorsa l’epoca della lettura obbligata di Marx e Lenin. Musica a tutto volume nelle serate a casa di amici, scambi di vinili e, più avanti, delle prime cassette. I film di culto in qualche cinemino di terza visione (le classi sociali si riflettevano anche sul grande schermo, ma nel contempo a prezzi popolari per tutte le tasche), nei nobili cinema d’essai o in sale corsare come il Nobel o, dietro la Stazione Centrale, il mitico Abanella. Visto che all’epoca al cinema si poteva fumare, alate circonvoluzioni di denso fumo aromatico avvolgevano pellicole passate alla storia come Woodstock, meno noti lungometraggi del nuovo cinema americano (Punto zero, road movie del ’71 di Richard Sarafian), per non parlare della più mitica tra le mitiche pellicole dell’epoca: Cavalieri selvaggi di John Frankenheimer, girato in Afghanistan nel ’72, meta intermedia – e intanto virtuale – del viaggio all’Eden. Dell’Afghanistan sapevamo poco. Ignoravamo che il viaggio all’Eden, il cui obiettivo finale era la valle di Kathmandu in Nepal, avrebbe compreso una sosta in questo paese sospeso su un abisso imminente che ancora perdura. 8

La febbre, il contagio, la peste si diffondeva intanto a macchia d’olio. Arrivata a Varese si incuneava a Genova, risaliva verso Cremona, si alimentava dei racconti di abili napoletani che contraffacevano i biglietti del treno con copie di una matrice da 100 lire trasformata in 10.000, si spandeva nella capitale dove si arricchiva di nuovi racconti. Quando noi milanesi «scendevamo» a Roma, che allora ci sembrava un immenso, affascinante suk, se paragonata alla statica geometria funzionalista di Milano, passavamo ore nella romanissima Campo de’ Fiori, dove oggi nemmeno più la Vineria è rimasta proprietà di un autoctono e dove – mi dicono – le mazzette comprano lo spazio pubblico per allungare sedie e tavolini sul selciato. Sorseggiando oggi una birra dal Nolano, l’unico locale dove il cliente ha a disposizione una «mazzetta» di altro tipo, quella dei giornali, che comprende ancora «il manifesto», da quell’epoca sembra passato un secolo. In effetti erano quarant’anni fa. C’è ancora a Milano la Bocciofila Martesana, ritrovo per anziani eletto a domicilio dei sognatori dell’Eden. Resiste il bar del Pino in via Cerva, ora ristorante elegante gestito dai figli che hanno però conservato quel fascino d’antan. E più o meno gli stessi prezzi. Non quelli della Martesana, dove il pasto completo veniva 500 lire e dove il conto mentale era quanto ti era rimasto per prendere il Direct Orient da Parigi, via Milano, sino a Istanbul. Già Orient Express dal 1883, il suo ultimo viaggio con quel nome ormai letterario si era compiuto nel maggio del ’77. Esiste ancora il bar Magenta, esiste il Jamaica – che per un certo periodo si scriveva Giamaica –, è scomparso l’Erika. Prima si è trasferito nell’angolo di fronte, lasciando il posto a un negozio di abbigliamento; alla fine è stato ceduto. Oggi, a sostituire la funzione aggregativa dei bar – a Milano e altrove – esistono i centri sociali, oppure gli appuntamenti con gli aperitivi «mangia e bevi» di cocktail e stuzzichini o ancora i wine bar, che hanno scelto un nome inglese per sostituire il termine «osteria». A Milano resiste il bar Basso, il luogo de9

putato all’aperitivo, oggi come allora, per la mano felice dei suoi barman: Campari shakerato, Bellini, Negroni sbagliato e via discorrendo, sino all’invasione della caipirinha o di altre miscele esotiche. A metà tra il bar proletario e il night, gli anni Settanta avevano visto nascere, crescere e poi passare di mano il primo locale della sinistra alcolica. Si chiamava Punto Rosso ed era stato aperto da quattro giovinastri i cui nomi, da soli, erano un programma: l’Ocio (contrazione di Ho Chi Minh), Spratt, il Carletto e il conte Balbo, «erikesi» doc e ben ammanigliati con tutta la sinistra extraparlamentare. Tanto ammanigliati da far paura anche alla mala milanese, che già non era più quella dei Turatello ma voleva comunque metter le mani su tutto ciò che si muoveva dopo le nove. Una sera i balordi chiedono il pizzo e i quattro gli fanno capire che questa roba «non la paghiamo». I balordi danno un appuntamento per far valere il loro rispetto e i quattro fanno un paio di telefonate. Così all’appuntamento si presenta buona parte del servizio d’ordine di Lotta Continua e il clan del Casoretto, circolo politico «menatosto» di zona Loreto, più alcuni di Rosso o di Potere Operaio – PotOp in gergo. Inutile dire che era tutta gente dell’Erika. Solidarietà trasversale. I balordi vedono la truppa, capiscono l’antifona e girano i tacchi. Vittoria: il Punto Rosso è zona franca. Già Raro Folk Club, il Punto, che era ufficialmente un circolo Endas (Ente di Azione Sociale), aveva raggiunto il suo apice in un solo anno con 4.500 tesserati (la tessera era imposta dall’Endas, che così tanti soci di un club non ne aveva visti mai). Ballo che dura una sola stagione. Il locale passa di mano. Diventa Chicote (come l’omologo di Madrid) e poi Ciucaté («ubriacone»). Tre dei quattro soci fondatori si ritirano, l’Ocio si ingrandisce e apre con altri un Punto Rossodiscoteca, tendone che annuncia anche a sinistra la Milano da bere, ballabile e meno militante. Nascono locali a bizzeffe, ma per ritrovare quell’atmosfera c’è forse ancora un posto che la trasmette, in via Castel Morrone: La Belle Aurore, con 10

gli inossidabili Adele e Fiorenzo in cucina e al bancone. I due, ex del Teatro Officina, luogo storico della Milano anni Settanta, tengono in vita oltre al locale anche quel che resta di una gloriosa stagione. Che Fiorenzo, se conquistate la sua simpatia (il che può non essere facilissimo), potrebbe rinverdire tra un prosecco e un vodka martini. Intanto il viaggio all’Eden era per molti già cominciato. Prima coi pionieri della fine degli anni Sessanta (come i primi «capelloni» accampatisi su indicazione della rivista «Mondo Beat» alla periferia di Milano, che il «Corsera» aveva ribattezzato «Barbonia City»), poi con quelli, come Paglia, dei primi Settanta. Mentre iniziava la stagione dei raduni rock organizzati da «Re Nudo» e Radio Popolare – già Radio Milano Centrale – invadeva l’etere delle emittenti libere in FM. Stava per cominciare l’esodo di massa. Un primo nucleo era partito per Matala, nell’isola di Creta, dove potevi dormire nelle grotte sulla spiaggia e iniziare a sognare la strada verso la Porta d’Oro. Era il 1971 e la Milano da bere, il riflusso, i socialisti, i fasti nefasti degli anni Ottanta erano di là da venire. Sacco in spalla e autostop sull’autostrada fino a Bari e poi nave per Igoumenitsa, oppure Direct Orient da Milano a Istanbul via Sofia. L’arte del viaggiare, su cui ognuno ha da dire la sua, iniziava di prima mattina con gli esami alle spalle e il bagliore dell’Asia sullo sfondo del Pirellone. Buon viaggio.

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Alla periferia del Viaggio I dintorni del grande viaggio: la Jugoslavia di Tito e l’isola di Mljet, Matala e la Grecia, il viaggio verso Istanbul. Treno, autobus, nave, autostop. Il ponte di Mostar ricostruito, la Grecia e le regole del default. In viaggio tra caffè, dittature, letture ignorate.

Maybe I’ll go to Amsterdam / Or maybe I’ll go to Rome / And rent me a grand piano and put some flowers ’round my room / But let’s not talk about fare-thee-wells now / The night is a starry dome / and they’re playin’ that scratchy rock and roll / beneath the Matala Moon. Joni Mitchell, Carey, 1971

Scendiamo dall’aereo questa volta, non più dal traghetto Brindisi-Igoumenitsa, e Atene non sembra davvero più la stessa. E non per via dei cortei che assediano il palazzo del governo, l’aumento dei mendicanti, i titoli dei giornali che strillano di default, troika, disoccupazione o delle atrocità di Alba Dorata. Atene non è più la stessa di quarant’anni fa quando, prima tappa verso l’India, era una meta obbligata per l’adepto del viaggio all’Eden, il mitico tragitto che menava a Kathmandu. Quarant’anni fa la Grecia era ancora in mano alla dittatura anacronistica dei colonnelli, che avevano dimissionato il re ed eretto uno Stato di polizia durato otto anni. Era un paese povero e sottomesso ma incredibilmente accogliente, come se i greci vedessero in quelle frotte di giovani col sacco in spalla una sorta di riscatto possibile: l’annuncio che l’Europa non si era dimenticata di loro. Paese agricolo e incontaminato, intriso di una civiltà antica e fortemente ospitale, aveva il suo grande bazar ad Atene, città di servizi, sporca e caotica. Tutto fuorché affascinante, se 12

si escludeva il Partenone, meta obbligata persino per chi considerava la Grecia solo un luogo di passaggio. I vialoni erano invariabilmente attraversati da lunghi striscioni con la scritta «Viva il 21 aprile», che si riferiva all’aprile del 1967, quando i militari avevano creato la «dittatura dei colonnelli», che loro chiamavano asetticamente «Giunta». Li osservavamo, quegli striscioni, durante le lunghe attese aspettando un passaggio in «stop», sgranocchiando il rosario dei nomi di paesotti che dovevamo attraversare per arrivare sino in Turchia: Kavala, Komotini, Alexandrupoli. Succhiavamo cetrioli e pomodori e stavamo scoprendo cos’era lo yogurt che da lì in avanti ci avrebbe stregato con quel sapore che, dai Balcani in poi, stupiva i nostri palati abituati a quelle creme industriali dolcificate che mammetta ci obbligava a sorbire. E che dire del caffè greco? «Ένα καφε μητρίό παρακαλώ» (Ena kafe metrio parakaló) era la prima locuzione da imparare. In quelle estati torride il metrio (caffè zuccherato) era servito con un bicchier d’acqua ghiacciata che era una delizia, accompagnato da una Karelia, la marca di sigarette ovalizzate che costava meno. I nostri primi incontri con l’«orientalismo». La regola del metrio vale anche oggi e però, crisi o non crisi, Atene è assai più affascinante del suo recente passato. È sull’orlo dell’abisso – forse – ma esibisce ricchezza e pulizia. Sulla grande strada che da Syntagma porta a Plaka, l’aria fredda dei condizionatori invade una via pedonale dove ammiccano le grandi firme della moda a prezzi accessibili: resiste solo qualche negozio di sandali a ricordare un passato artigianale ed esotico che va scomparendo ma la cui atmosfera si continua a respirare al Pireo, il grande, suggestivo porto del Sud Europa, sospeso tra Occidente e Oriente Medio. Levantina nello sguardo, occidentale nel midollo, la Grecia era e resta una nazione che aveva già inventato tutto: ricchezza e povertà, schiavitù e rivolta, democrazia e dittatura, pace e guerra. Dunque passerà anche questa, sembrano dire i greci, abili nell’arte della conversazione, da quella forbita e raffinata sino alla chiacchiera inutile e fine a sé stessa della taverna. 13

Medesimo sapore nei ristorantini disseminati nel quartiere ai piedi dell’Acropoli: frotte di turisti spulciano compulsivamente le guide, tracannano birrette, divorano insalate di pomodori, feta e cetrioli, salsa di olive e di uova di pesce. Come la madeleine di Proust, a noi deve per forza toccare l’intramontabile greek salad con retsina Kourtaki, tappo corona e un sapore rimasto immutato nel tempo, che prevede a fine pasto il denso e aromatico caffè con acqua ghiacciata a fianco. In effetti era con lo yogurt e il caffè che cominciava la scoperta della diversità del mondo nel viaggio all’Eden. Al di là della frontiera greca si chiamava caffè turco. Ma appena prima, in Jugoslavia, dove era perfettamente identico a quello greco o turco, guai a chiamarlo in quel modo. E adesso, dopo il disastro della guerra che ha dissolto la Federazione, ognuno ha il suo: bosanski, se lo bevi a Sarajevo, serbski se lo ordini a Belgrado. Il kava di Mostar, dove il ponte è stato ricostruito e dove anche il centro storico ha adesso l’aspetto di un museo, si beve in croato e fa parte delle tante variazioni del nuovo «turismo di guerra». È un’utile lezione vedere quelle macerie riassettate. E ragionare decifrando la declinazione etnica del caffè. In effetti Grecia, Jugoslavia e, subito dopo, la Porta d’Oro della magica Istanbul, città turca con nome greco (εiς την πόλiη, eis ten polin), erano gli antipasti del grande viaggio a Kathmandu. Avevi finalmente passato la frontiera e tutto era già alle spalle: famiglia, amori avvizziti, esami di maturità o di riparazione, riunioni estenuanti del collettivo e, per chi l’aveva, l’ossessione di pagare l’affitto durante un’assenza che si prevedeva di lunga durata. C’era gente di tutti i tipi: chi era partito per quindici giorni, chi per un mese, chi invece si apprestava al grande viaggio e dunque in agenda di mesi ne aveva cinque o sei. Chi «non posso, quest’anno, compagni, c’è il rischio di un golpe...» (che Junio Valerio Borghese tentò davvero). Chi, investito dai moralismi, si sentiva colpevolmente fuggiasco «in India e in Turchia – cantava Giorgio Gaber – fingendo di essere sano». 14

C’era anche chi, invece, era partito per sempre, buttando nel cestino la cartolina con cui ti chiamavano a fare il soldato. Allora non era troppo complicato. Potevi varcare il confine jugoslavo con la sola carta di identità pur se al ritorno, per quelle bizzarrie della burocrazia diplomatica, l’Italia voleva vedere il passaporto anche se ti aveva fatto uscire senza, cosa che ti obbligava a rientrare via Austria. Ma se tornare non volevi, il tam tam segnalava che a Istanbul un passaporto si poteva rimediare. Forse anche ad Atene. E sennò qualcosa di meglio si sarebbe potuto trovare a Kabul o a Delhi. Vendere un passaporto poteva fruttare 50 dollari e dunque più lontano andavi, maggiore era l’offerta visto che, aumentando il numero di quelli rimasti senza soldi, il preziosissimo libretto diventava un’ottima risorsa. Per venditore e compratore. Quello italiano era molto ambito. Si vendeva bene, si comprava meglio. In Grecia per far soldi c’era un altro sistema: dare il sangue a Salonicco. Ma era una pratica che di solito si faceva al ritorno quando, per la verità, più che la grana del tuo zero positivo ti allettava la bistecca regolarmente pagata a fine prelievo. In Grecia, nonostante i colonnelli, c’era tolleranza per l’allegra comitiva della rotta indiana ma non era così nei paesi del socialismo reale. Lasciando stare l’Albania, dove alla frontiera ti tagliavano i capelli, sorvolando sulla Bulgaria, che era solo una fermata del Direct Orient, anche in Jugoslavia non c’era troppo da scherzare. Tito non amava molto questi zazzeruti figli dei fiori, ancorché «compagni» che pur avevano per la Jugoslavia un rispetto ormai non più tributato all’Urss, con cui Josip Broz Tito aveva «strappato» come l’Albania di Henver Hoxa e la Romania di Nicolae Ceaușescu. Belgrado temeva forse il contagio libertario che già potevi percepire nell’isola di Mljet, davanti a Dubrovnik, la città veneziana di abbacinante marmo bianco da cui un piccolo traghetto ti proiettava nel primo paradiso oltreconfine. Mljet (Meleda) era ed è un parco naturale rimasto incontaminato proprio grazie a Josip Broz: forse croato, chissà se sloveno, 15

pare addirittura di origine italiana, Tito aveva mantenuto un inviolabile riserbo sui suoi natali, conoscendo la pasta di cui son fatti gli slavi del Sud, cui qualche agitatore riesce sempre ad appiccare il sacro fuoco della purezza etnico-religiosa. Per non sbagliare aveva eletto una serie di residenze private nei luoghi geograficamente (ed etnicamente) più diversi del paese, tra cui Mljet. In questo piccolo paradiso dell’Adriatico è vietata la pesca e l’uso del motore, almeno lungo quella teoria di laghi salati che, uno dentro l’altro, sono avvolti dall’isola in un abbraccio dal sapore di rosmarino selvatico e macchia mediterranea. C’era un campeggio dove si faceva tappa e che accoglieva anche i primi timidi frikkettoni jugoslavi. Facevi amicizia con questi aitanti giovani serbi, croati, macedoni o bosniaci che, solo vent’anni dopo, la guerra nata dalla dissoluzione della Repubblica federale avrebbe trasformato in vittime o, chissà, in carnefici. Non parlavano se non qualche parola di inglese e quelli di Belgrado se la tiravano rispetto agli altri. Ma erano, nonostante le regole ferree del socialismo reale, più avanti di noi in tanti comportamenti. Facevano l’amore senza troppi problemi ed erano, quei ragazzi, più distanti dai loro pope di quanto non lo fossimo noi dai nostri curati. C’era la bella Zara, coi lunghi capelli rossi e l’aria raffinata della capitale, e alcuni ragazzotti di Sarajevo, impacciati e mal vestiti. Che fine avranno fatto? Purtroppo il sogno di un viaggio all’Eden restava per loro un’utopia quasi senza speranze, così come erano rarefatte quelle di avere un passaporto. Noi invece eravamo pronti per il grande balzo che, al momento, era solo sogno, racconti altrui o letture. Per quanto fossimo politicizzati e coscienti della lotta di classe e dell’internazionalismo proletario, eravamo allora abbastanza ignoranti su quel che ci circondava. Attraversavamo un mondo di dittature e regimi spesso brutali su cui ci soffermavamo poco e con scarsa curiosità. Col senno di poi mi so16

no chiesto perché. Guardavamo altrove, avanti. La politica, come militanza stretta, ci andava appunto stretta ed eravamo diventati forse meno attenti a quelle che per noi erano solo le periferie del nostro viaggio. Ci interessava solo quello, ma per quanto leggessimo avidamente tutto ciò che il mercato ci offriva, ignoravamo gran parte delle avventure raccontate su quel percorso da decine di viaggiatori e scrittori poco o nulla tradotti, quindi sconosciuti. E non solo penne come quella di Chatwin, poi diventato un’icona del viaggio in Oriente, ma anche grandi osservatori e scrittori come lo svizzero Nicolas Bouvier, che nel 1953 si era imbarcato su una Topolino Fiat (oggi avreste paura ad andare con quell’auto da Milano a Bergamo!) per raggiungere lo Sri Lanka attraversando India e Afghanistan e, ovviamente, anche i Balcani. Bouvier, scrittore, fotografo e giornalista, aveva una teoria del viaggio opposta a quella che aveva guidato il lavoro dell’assai più noto reporter polacco Kapuściński. Tanto quest’ultimo studiava prima di partire per avere già in mano qualche chiave di lettura, quanto Bouvier faceva l’opposto: teorizzava la tabula rasa che andava riempita di impressioni, note, scatti, taccuini. Solo dopo, a casa, digerito il viaggio con la complicità del tempo e della distanza, colmava i vuoti, aggiustava il tiro, comparava notizie e impressioni. Istintivamente ho sempre seguito questa strada e allora Bouvier ci sarebbe piaciuto. Non era l’unico: ignoravamo ad esempio che quel viaggio pazzesco, attraverso il passo Khyber o le pianure dell’Anatolia, lo avevano fatto altri due svizzeri, anzi svizzere. E negli anni Trenta! Ella Maillart, cui proprio Bouvier aveva chiesto consiglio, partì con Annemarie Schwarzenbach a bordo di una Ford V8, lasciando poi del suo viaggio all’Eden il resoconto di una discesa agli inferi, percorso più interiore che geografico, come riferisce il titolo del suo La via crudele. Due donne in viaggio dall’Europa a Kabul. Per fugarne i timori di neofita, Ella aveva detto a Nicolas: «In qualsiasi luogo vivono gli uomini, può vivere un viaggiatore». Del resto anche Cartier-Bresson 17

la pensava così: «Non viaggiavo, vivevo nel paese». Senza saperlo seguivamo le indicazioni di quei maestri. Mljet era una tappa per chi aveva scelto di attraversare la Jugoslavia per arrivare in Turchia e si era affidato a traghetti o ferrovie locali. Altrimenti il Direct Orient aveva comunque prezzi accessibili. Il viaggio era lungo e apparentemente faticoso, un buon viatico per quel che ti aspettava in Pakistan, in India o anche in Turchia. Il vecchio taccuino del 1974 recita: Milano-Istanbul 21.000 lire. Traghetti? Dubrovnik-Ancona 9.000. 30 dinari invece (a 45 lire per dinaro) da Dubrovnik a Mljet. E ancora 25 dollari da Belgrado a Istanbul (forse in bus?). Altre notarelle: JUGOSLAVIA NO VISA. 5 dollari invece per quello bulgaro: 3.000 lire. Matala era un’altra delle tappe alla periferia del viaggio all’Eden. Col tempo è diventata una delle mete turistiche più importanti di Creta ma all’epoca era frequentata da una vasta colonia di hippy e frikkettoni che, almeno in parte e se la polizia non ti sloggiava, dormiva nelle grotte rupestri di antichissima, epica memoria, affacciate sulla spiaggia. In quel consesso libertario e internazionale, dove incontravi gli abitanti della comune danese di Christiania (Fristaden Christiania), svizzeri senza orologio di Neuchâtel, mistici irlandesi ispirati di ritorno dall’India o giovani liceali in partenza per l’Oriente, si respirava l’aria magica della terra di nessuno e si aspiravano le prime canne. E uno dei guru di quel disomogeneo consesso in rapido movimento era un italiano alto due metri e sopra i cento chili che si faceva chiamare Giasone. Vestiva come i pastori cretesi – che ancora usavano gli abiti tipici isolani –, calzava sandali e, effettivamente, faceva il pecoraio. Ma al suo imponente arrivo, per partecipare a qualche prolungata fumata collettiva, calava un rispettoso silenzio e Giasone dispensava qualche perla di saggezza, lui che aveva lasciato la civiltà per il silenzio delle montagne cretesi. Lo ritrovammo anni dopo a Milano in cerca di eroina, a un passo 18

dal collasso cardiocircolatorio che se lo portò via. Anche il viaggio all’Eden aveva i suoi martiri. Dal porto principale di Creta, Heraklion, si poteva, via Pireo, raggiungere Istanbul con un viaggio di due giorni e mezzo che favoriva amori marittimi, amicizie imperiture, condivisione di pomodori. Altrimenti c’era la strada che da Salonicco, via Kavala, arrivava al confine turco in quella fetta di Grecia dove vivono turcofoni poco visibili e che annunciava, alla nostra beata ignoranza, la complessità delle frontiere e la spietatezza del righello della storia che taglia in due popoli, culture, a volte persino campi e abitazioni. Più in là avremmo visto anche di peggio.

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La Porta d’Oriente Turchia e Iran: i tempi del golpe a Istanbul e quelli dello scià a Teheran. L’Iran di Khomeini e gli oppiomani nascosti. Alberghi, ostelli e deserti. Istanbul ieri e oggi a piazza Taksim. Mashhad, la città sacra degli sciiti alle porte dell’Afghanistan. Merda di cavallo al posto del fumo. Erdogan il califfo.

Se ci fosse un occhio nel settimo cielo, uno Sguardo Celeste [...] allora dovrebbe sorvegliare Istanbul a lungo, prima di riuscire a comprendere chi fa cosa dietro le porte chiuse e chi, se c’è, ha detto cose profane. Elif Shafak, La bastarda di Istanbul, 2007

Come aprire gli occhi dentro un sogno. Eccola che appare alle prime luci dell’alba, tra la nebbia fine del mattino che evapora leggera. Istanbul la magica, Costantinopoli la bella, Bisanzio la grandiosa, la sublime, la Porta d’Oro seduta a occidente e con lo sguardo aperto a oriente. Dietro, alle spalle, la frontiera greca e l’ultimo baluardo dell’Occidente che si infrange su una bandiera con la mezza luna. Il profumo d’oltreconfine ti ha già investito e il primo minareto, nella città di Edirne che l’autobus per Istanbul ha appena attraversato, promette il sogno che sta per avverarsi. Ai primi abbagli del nuovo sole, tra una nebbia estiva e calda che fatica a diradarsi, appaiono le lunghe braccia al cielo delle moschee della Sublime Porta, il primo vero passaggio a est, la prima vera tappa esotica del viaggio all’Eden, il percorso che migliaia di giovani adolescenti e non intraprendevano per scoprire sé stessi, la cultura di un altro continente e tutta la possibile gamma di droghe che si incontrava lungo quel cammino. Il viaggio, anche allucinogeno, iniziava effettivamente a 20

Istanbul, la capitale degli ottomani, la sede del Sultano, il luogo dove i Giovani Turchi avevano pensato la Turchia moderna. La città da cui Mustafa Kemal Atatürk aveva, negli anni Venti, lanciato la sua sfida all’Asia e all’Europa, promettendo ai suoi ordine, ricchezza e modernità, levando il velo alle donne e il fez agli uomini e ammiccando alle dittature occidentali di Roma e Berlino che affascinavano l’Asia per essere soprattutto antibritanniche. Istanbul era il primo vero bazar del grande viaggio. E non solo per quello splendido mercato coperto che oggi ancora, non meno di ieri, ha conservato intatto il fascino di un labirinto di spezie, profumi e tappeti. A Istanbul trovavi il passaporto che poteva servirti, la compagnia di frikkettoni che con il Magic Bus ti portava per modica cifra a Kabul, il passaggio su un Ford Transit, un pulmino Volkswagen, una dodoche (la mitica due cavalli Citroën), una Fiat 850. Oppure il biglietto del treno che ti portava fino a Erzurum, terra di curdi e di violenze nascoste, da cui guadagnare, dopo la lunga traversata anatolica, la frontiera iraniana (il libretto di appunti di quell’epoca dice 10 dollari da Istanbul a Teheran). A Istanbul si comprava (e vendeva) di tutto: sacchi a pelo e scarpe da ginnastica smerciati a due lire da chi era rimasto senza soldi, passaporti rubati, stecche lisce di hascisc verde essiccato, pasticche di ogni tipo in farmacie ammiccanti. Una teoria infinita di taxisti arrotondava lo stipendio scarrozzandoti a Tophane o Taksim, illuminando la notte con clacson assordanti e scaricandoti dallo spacciatore di fiducia. L’ebrezza saliva e i ritrovi erano gli stessi raccontati da un film di Alan Parker del 1978, Fuga di mezzanotte: storia vera di un giovane americano ai ferri per un chilo di «fumo» intercettato all’aeroporto, proprio nei favolosi Settanta. All’epoca la Turchia era un susseguirsi di golpe militari. Anche gli uomini in divisa turchi, come i colonnelli greci (ma ad Ankara erano generali), chiudevano un occhio sul mercato che ogni giorno si consumava davanti alla Moschea Blu, al Pudding Shop (oggi ancora aperto, con foto 21

di quell’epoca alle pareti), nelle viuzze a pochi metri dalla mirabile basilica bizantina della Divina Sapienza (poi moschea e infine museo di Ayasofya) o sopra l’enorme cisterna sotterranea costruita da Giustiniano nel 532. Chiudevano un occhio, ma fino a un certo punto, e se cascavi nella rete erano guai. Potevi corrompere il poliziotto che, presumibilmente, era d’accordo con lo spacciatore, ma se girava male finivi dentro e le pene erano severissime. A volte invece si trattava semplicemente di «pacchi», come per quella coppia marchigiana cui avevano venduto un chilo di sterco di cavallo. Hai voglia a fumare quell’intruglio di paglia verdognola dal gusto inequivocabile di stalla... Oggi la piazza Taksim, all’epoca ritrovo esclusivo per ricconi e turisti con la T maiuscola e il portafoglio rigonfio, è lo specchio delle contraddizioni della Turchia di Erdogan. Il suo partito ha obbligato i militari a farsi da parte e nel contempo è riuscito a realizzare il sogno che Atatürk aveva cominciato, sperando di fare del suo paese una Germania asiatica coniugata a un risveglio panturco. Ma il prezzo da pagare per il modernismo liberista di Erdogan è stato l’abbandono della laicità, una prerogativa della Repubblica turca costruita dall’occhiuto Mustafa Kemal sulle rovine dell’Impero ottomano. Poi Erdogan ci ha preso gusto e anche quella democrazia già claudicante è diventata una dittatura, sotto il pugno di ferro del nuovo sultano. L’effetto recente, non ancora ben compreso da noi osservatori, che nonostante una assidua frequentazione continuiamo a non capire le profonde trasformazioni di questo paese, è stato un’ennesima primavera mediorientale (i turchi non sono arabi) in cui una gioventù progressista e persino ecologista ha dato – ma solo per poco – scacco a un uomo che ha finito per fare la figura del satrapo e che l’ha duramente repressa. Chissà se tutto ciò si sarebbe potuto evitare se la poco lungimirante visione europea avesse fatto uno sforzo per includere la Turchia nell’Unione, rinunciando alla retorica delle radici cristiane e accettando un dato 22

di fatto, se è vero che i turchi che vivono tra le nostre genti si contano a milioni. E da anni. All’epoca i turchi che tornavano dalla Germania sul Direct Orient in compagnia di giovani liceali torinesi, universitari di Glasgow, studenti di Lucerna, assomigliavano agli ultimi italiani che tornavano dal Belgio o dalla Francia dove ancora, a noi «terroni d’Europa», ci chiamavano rital, piaf, macaroni. Annunciavano – quei turchi che rientravano in patria per le ferie – che dopo i Balcani e la Grecia, baluardi occidentali, saresti arrivato alla Sublime Porta, il vero ponte, sospeso su due mari, tra Est e Ovest, tra l’alba annunciata del risveglio asiatico (che avremmo conosciuto trent’anni dopo) e il tramonto europeo (in cui siamo immersi adesso fino al midollo). Allora non avresti detto che Istanbul, a quarant’anni di distanza, assomiglia, in certi quartieri, più a Vienna che ad Aleppo (col suo splendido mercato coperto oggi distrutto dal conflitto in corso) ma nemmeno che Erdogan avrebbe fatto una guerra esagerata a birra e raki, il distillato nazionale, cui ha opposto di recente l’uso ben più islamico dell’ayran, lo yogurt salato e diluito che è tra l’altro una vera delizia. Le due cose per altro si sposano divinamente nella tradizione gastronomica di una grande cucina, dominata da una delle migliori miscele di tè del mondo, servita in sottili bicchierini panciuti orlati da un filo dorato. A Istanbul c’era chi già si era arenato con una siringa in un braccio o chi si era fatto fregare tutti i suoi averi da un abile cambiavalute di piazza. Altrimenti in città ci restavi trequattro giorni, visitavi due moschee, compravi una stecca di fumo a prezzi esorbitanti, pascolavi tra l’Old Gulhane – un alberghetto che ora è un ristorante di lusso – e il Balikesir – l’ostello con camerate pulciose per diversamente abbienti – se non avevi scelto di dormire, a metà prezzo e per sconfiggere la calura, sul tetto di una pensione. Per partire si prendeva un traghetto sul Bosforo che ti portava a Üsküdar, la parte orientale della città sull’altra sponda, e via col treno verso oriente, dove ti aspettava l’Iran dello scià Reza Palhevi. 23

Teheran aveva pochi alberghi deputati al percorso del viaggio all’Eden (uno in particolare, l’Amir Kabir). E a Teheran non ti fermavi proprio. Niente o quasi da fumare, una polizia efficiente e incorruttibile, una città caotica e poco affascinante, sospesa tra l’antico che andava scomparendo e la modernità voluta dai Palhevi che si erano scontrati coi mullah ed erano scesi a patti con alcune delle Sette Sorelle (del petrolio). Ci stavi sì e no due giorni a Teheran, poi via verso Mashhad, capitale del Razavi Khorasan, città sacra e santuario di Ali, ottavo imam dello sciismo duodecimano, ma, soprattutto, rampa di lancio per l’Afghanistan di cui già avevi assorbito fascino e atmosfera nei racconti di chi tornava verso casa. Ma a starci qualche giorno di più nella capitale scoprivi una realtà che non potevi certo decifrare in due giorni. Lo scià era laico e modernista ma governava con un pugno di ferro che non conosceva guanti di velluto e assomigliava al maglio di Istanbul o di Atene, se non peggio. Ahmad, ad esempio, fratello di un nostro coetaneo, aveva scoperto, dopo vent’anni di onorato servizio nella macchina amministrativa dello Stato, che in realtà lavorava per la Savak, la terribile polizia segreta dello scià per cui spiavano sessantamila agenti più qualche migliaio di inconsapevoli funzionari pubblici. No, povero Ahmad, le liste di nomi che meticolosamente ordinava non erano quelle di chi non aveva pagato la bolletta della luce ma di chi andava spiato, guardato a vista, perseguito, torturato, ucciso. Quando la cosa gli venne rivelata Ahmad entrò in uno stato di depressione che curava fumando oppio da mane a sera. A casa sua scoprimmo che in realtà a Teheran il mercato clandestino degli oppiacei era fiorentissimo (e ancora oggi ci sono circa due milioni di oppiomani, quasi il 3% degli iraniani): i vecchi tossicodipendenti «certificati» avevano una specie di tessera annonaria che consentiva loro l’acquisto contingentato dell’alcaloide, ma parallelamente ce n’era per tutti. Se sapevi come ungere, nessuno avrebbe detto nulla e la tua vita sarebbe andata avanti tranquilla consentendoti 24

di reprimere il tuo dramma personale, quale che fosse, nel fondo dell’anima. La pipa ad oppio di Ahmad era una boccia rotonda di ceramica lavorata con un buco centrale accanto al quale si appoggiava una pasta essiccata di tariok, oppio dal colore ambrato e, a volte, di qualità sopraffina come il cosiddetto «senatore». Fumava ampie volute Ahmad da quella lunga canna infilata nella ceramica e come lui mille altri. Gli stessi che qualche anno più tardi, pur di liberarsi dello scià e di una modernità imposta col terrore, accettarono di buon grado l’arrivo di Khomeini. Persino gli studenti di sinistra, come Edin, il fratello di Ahmad, esultavano per l’ayatollah esiliato a Parigi. Ma poi scoprirono che anche la Savak si era fatta islamica. Un giorno Ahmad fu prelevato proprio dai nuovi guardiani della fede che, spulciando registri simili a quelli che lui aveva preparato per anni, avevano scoperto il suo vecchio lavoro. Sparì. Come tanti che così pagavano la loro adesione al movimento comunista o le simpatie per la stagione di Mossadeq – che aveva nazionalizzato la Anglo-Iranian Oil Company nel 1951 –, soffocata dai Palhevi con l’aiuto dei servizi americani e britannici. Non tornò a casa mai più. Difficilmente entravamo in profondità nelle cose dei paesi che attraversavamo, una riflessione venuta col senno di poi. Quell’allegra comitiva di viaggiatori, che per i motivi più svariati aveva lasciato Dublino o Catania, Parigi o Casale Cremasco, si interrogava poco sulla realtà sociale e politica di Turchia, Iran o Afghanistan. Liquidavamo i regimi come «dittature» e non applicavamo a quelle realtà la stessa meditata ricerca che avevamo fatto nei nostri paesi d’origine per capire i diritti dei lavoratori o il modo di evitare le ingiustizie sociali. In questo riflettevamo forse l’incapacità occidentale di capire un continente studiato, con le lenti deformanti di una cultura «orientalistica», come un asettico formicaio. In più eravamo abbagliati dal mito del viaggio all’Eden: più attratti dai vicoli delle periferie che dai monumenti del 25

centro, da contadini analfabeti anziché da intellettuali in grado di spiegarci cosa vedevamo, da occasionali compagni di viaggio che ci raccontavano semmai della vita ad Amsterdam o a Oslo, il che restituiva un senso di appartenenza collettiva che alla fine, nonostante il rispetto e la curiosità per l’Asia, ci trincerava inevitabilmente nella truppa variegata degli occidentali. Attenti e rispettosi, con meno sussiego e più simpatici forse dei turisti tradizionali, ma beatamente ignoranti e felicemente vittime di un fascino avvolgente che finalmente ti permetteva di perderti altrove, via dalla pazza folla delle città grigie e borghesi che ci eravamo lasciati alle spalle. Coraggio, una visitina al tempio di Mashhad e poi via verso l’orizzonte afgano.

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L’epopea di Chicken Street Afghanistan mon amour: la frontiera con l’Eden. L’inizio del viaggio a Herat. Alberghi a Sharenaw. Viaggio a Kandahar. La Bamyan dei Budda. L’infelicità della guerra: mujahedin, russi, talebani. Americani, inglesi, francesi e italiani, questa volta in divisa.

«Brezza cos’hai fatto alla chioma del mio amore?» / «Hai scompigliato la pace del mio cuore / Piange l’uccello del cuore al ricordo della terra natia / Piange questo bulbul separato dal suo giardino». Rukh al-Din Lahori con Shah Shuja, a Lahore, 1813 circa

La notte, a quelle latitudini, arriva velocemente. Avevamo appena lasciato il posto di frontiera iraniano di Tayyebad ed eravamo entrati in Afghanistan mentre le luci del giorno si andavano affievolendo. Il passaggio del confine non era stato indolore ma sapevamo che la vera frontiera del viaggio all’Eden, la mitica strada che portava dall’Europa sino all’India e a Kathmandu, era finalmente qui. Qui dove il grande altipiano del Khorasan persiano si perde nei deserti dell’Afghanistan, un luogo, un nome che con l’andar del viaggio – nelle storie raccolte a Istanbul o Teheran – stava diventando qualcosa di più di una semplice tappa. Alla frontiera iraniana la polizia dello scià imponeva, a chi andava o veniva, un passaggio obbligato in un corridoio degli orrori: batterie scoperchiate, scatole di conserva squarciate, gomme rivoltate come calzini, cruscotti smontati, tubetti di dentifricio svuotati. Mentre ti avventuravi nella terra di nessuno tra le due frontiere, quel passaggio obbligato nel museo della punizione divina ti dava un avvertimento chiaro: stavi entrando nel paese patria, tra l’altro, dell’«afgano nero», l’hascisc più ricercato del pianeta. 27

Lasciavi la Persia del Trono del Pavone, con le sue lugubri promesse penitenziarie e i suoi agenti azzimati dalle divise luccicanti, e arrivavi al posto di frontiera della République d’Afghanistan: allora il francese era la lingua di una monarchia che, appena un anno prima, nel 1973, era diventata repubblica con un golpe bianco dei suoi parenti, mentre il re Zaher Shah era in vacanza a Capri. Il doganiere era un omino con una giacca occidentale doppiopetto troppo lunga su larghi calzoni dal cavallo basso, quelli della shalwar kameez. È la divisa di ogni afgano o patano, cucita con larghi pantaloni stretti alla caviglia, con sopra una lunga tunica a sua volta ingentilita da un gilet (waskat) e sormontata da un turbante con un lungo svolazzo di cotone che scende lungo le spalle. Ma il doganiere, riconoscibile per una patacca semidorata con la scritta «Douane», svolazzi non ne aveva. Con un timbro inchiostrato in una melassa bluastra che lasciava ampie macchie sul passaporto, timbrava il visto che ti era costato 5 dollari in qualche consolato. Tutto bene all’entrata, ma la sorpresa arrivava semmai all’uscita dal paese, quando dovevi pagare senza preavviso 100 afghani (1.200 lire, una fortuna, visto che con metà di quella cifra potevi coprire in taxi 30 o 40 chilometri, percorso che altrimenti valeva in bus 3 afghani, 36 lire)! Ma le sorprese vere dovevano ancora arrivare. Per cominciare, l’acquisto dei primi dieci grammi di afgano: li vendeva sempre il doganiere. Nel piccolo libriccino riesumato in qualche vecchio baule non c’è traccia del prezzo del fumo (tra 1 e 6 afghani al grammo), ma le note dicono che il viaggio dalla frontiera sino a Herat valeva 1 dollaro: un viaggio in realtà senza prezzo. Dopo qualche chilometro il minibus carico di stranieri zazzeruti e completamente fumati si arrestava in una ciakana, una taverna dove si beve il tè, si può dormire e mangiare sdraiati su tappeti pulciosi ma altrettanto ricchi di fascino, odori e geometrie colorate approntate da abili tessitori. Completamente stravolti dalla potenza dell’afgano nero, i giovani viaggiatori vedevano entrare uomini scesi da cam28

melli battriani a una sola gobba e avvolti in tabarri – il patu, coperta di finissima lana dell’Hindukush –, fieri pastori delle montagne, abili commercianti della pianura, chapandaz dal prezioso cavallo arabo che ti proiettavano in una sorta di medioevo islamico, dove regole antiche come massicci dirupi e vigili come guardiani occhiuti di una tradizione millenaria sembravano – complice l’ambiente e l’hascisc – aver costruito a tua misura la magia di una notte stellata perduta nei grandi spazi dell’Oriente che finalmente si era fatto realtà. Altro che scimmiottamenti di un’altra cultura, altro che divise in stile germanico, altro che modernità più o meno digerita: dopo l’Iran dello scià – dove l’impronta della modernità sapeva di esportazione forzata di un modello del tutto estraneo –, l’Afghanistan era una favola perfetta dove ti era consentito immergerti fino al midollo. Dovevi solo rispettare le sue regole scandite dall’adhan, la chiamata alla preghiera cinque volte al giorno. O dal pashtunwali, le norme rigorose della tradizione. Regole ferree. Una notte, un povero fricchettone di qualche città europea, in nome del leggendario codice d’onore dei pashtun che prevede non si possa negare l’ospitalità a chi la chiede, nemmeno se si tratta di un assassino, viene accolto di buon grado in una famiglia cui domanda riparo. Ma il povero giovinastro si sveglia nella notte per la sete e, nel buio, sbaglia stanza entrando in quella delle donne, oggetto di un desiderio irrivelabile e negate alla vista altrui dai dettami della purdah (letteralmente: tenda). Punizione: la morte. Rapida come era stata la grazia con cui era stato accettato e ospitato. Circondati da queste storie o leggende, avvolti nei fumi magici dell’afgano nero, completamente affascinati dalle stelle luccicanti del deserto, si arrivava infine a Herat, città magica e sprofondata nel buio, dove le automobili erano una rarità e lungo i grandi viali alberati, che ancora oggi le fanno da cornice, uomini a cavallo intabarrati e piccoli calessi sgangherati percorrevano la grande strada centrale su cui si affacciavano case basse e i primi alberghetti allestiti con maestria e 29

senso del commercio dagli abitanti di questa città millenaria, contesa dai persiani, dai russi, dagli inglesi e oggetto di mille battaglie. Oggi a Kabul o a Herat si arriva in aereo. Si può ancora fare quella strada ma l’ossessione della guerra o dei sequestri fa sì che il viaggiatore sia costretto ad aspettare l’ingresso nel sogno orientale non più a Mashhad ma a Dubai o ad Abu Dhabi, città ad aria condizionata (come Terzani battezzò Singapore nel suo Un indovino mi disse), senza calore umano e in compenso intorpidite da un clima torrido, umido, arrogante e impietoso come la gente del Golfo. L’aeroporto civile della capitale e quello della provincia occidentale – dal 2003 posta sotto controllo italiano – condividono la pista con panciuti aerei militari, grigi come il fumo delle bombe e anonimi come il colore della guerra. C’è poco fascino, se non per gli amanti di elmetti e gagliardetti, nel discendere una scaletta che approda su una terra ostile e polverosa che ospita città militarizzate in piena evoluzione e ormai quasi irriconoscibili. I bulldozer della famiglia Karzai, speculatori di Ankara o Dubai, ostinati ingegneri della sicurezza delle ambasciate, hanno ricoperto la capitale di cemento. Durante l’ultimo conflitto – ancora in corso – i soldi della guerra avevano fatto dell’afghani una moneta così forte che conveniva convertirla per comprare ovunque – fuorché in Afghanistan – merci che in Iran, Pakistan e Tagikistan costavano la metà. Facevano eccezione le noci di Baghlan o il melone di Kunduz, famoso per la succosa dolcezza, tra i pochi doni agricoli sopravvissuti: per il resto quasi tutto, dai pomodori alle uova, veniva e viene dai vicini. La bolla speculativa dell’economia di guerra – dall’edilizia alle commesse per gli scarponi dell’esercito – è però durata sino a quando i soldati americani e della Nato sono rimasti padroni del campo, arrivando a contare 150.000 militari e altre decine di migliaia di contractor: con la loro presenza, accanto a una popolazione di diplomatici, umanitari e spioni, sono stati una potente macchina per far girare i soldi. 30

Adesso che gran parte dei soldati se ne sono andati con la fine, nel 2014, della missione Isaf, lasciando soltanto qualche migliaio di uomini a guardia del bidone, la bolla si è sgonfiata. E in un mercato del lavoro ormai asfittico, dove i soldi facili sono finiti e si affacciano ogni anno 400.000 nuovi soggetti in cerca di occupazione, forse scenderà anche il prezzo di noci e meloni tanto quanto è scesa la speranza che la guerra, perfida matrigna, un giorno smetta di abbracciare questo paese. Girando per la città vecchia, alle porte di quella che negli anni Settanta era Sharenaw (città nuova), cerchiamo l’insegna di Chicken Street, la via dei freak, degli alberghetti a poco, dei ristorantini con cucina sincretica metà East (qabili palao) metà West (meatball, vegetable cutlet, french potato), un sincretismo culinario che si doveva all’abilità creativa degli afgani. L’insegna, che qualche solerte funzionario aveva messo all’inizio dell’ex «vasca» dei freak – ora molto simile a un’edizione locale di via dei Coronari, strada degli antiquari romani –, è sparita. E anche la via, ancora luogo di commercianti abili ad attrarre i turisti con l’offerta di un tè o mostrando qualche pezzo raro nella penombra delle botteghe, non è più la stessa. Ogni sei mesi si è aggiunto un palazzo e, in questa strada di casette basse e negozietti accoglienti, si incunea un centro commerciale o si materializza una vetrina che assomiglia a quelle kitsch di Dubai. All’epoca Sharenaw era il quartiere degli hippy: piccoli o grandi alberghi con giardini interni nascosti da alte mura – come ogni casa afgana tradizionale – celavano gli ospiti e le loro pipe ad acqua. La folta comunità internazionale, solo apparentemente protetta dalle varie legazioni diplomatiche che già non ne potevano più di questa marea di attiraguai squattrinati, aveva fatto nascere professioni: chi falsificava passaporti o chi, come Paolino da Genova, chiamiamolo così, viveva – renitente alla leva – scucendo e ricucendo borse di cuoio di cammello perché il piccolo trafficante di turno potesse introdurre nel doppio fondo il suo mezzo chilo di «nero». Molti correvano il rischio alla frontiera iraniana sulla strada del ritorno mentre 31

altri se la giocavano su quella indiana perché, oltre il confine del paese di Gandhi, che pur produce ottimo hascisc nella valle di Manali, c’erano buone plusvalenze per chi portava nell’Unione l’afgano nero di Mazar-e-Sharif. Dunque Paolino faceva le borse, il tal altro smerciava passaporti, l’altro ancora li falsificava, Alighiero Boetti – pittore italiano di qualche fama – si era trasferito a Kabul per aprirci un hotel. Si stazionava nei cortili scambiandosi informazioni sui viaggi vicini (Paghman, i Budda di Bamyan, i laghi di Band-e-Amir) o lontani, come nel Kafiristan, dove si arrivava solo a piedi e dove afgani di antica discendenza occidentale, figli impuri delle orde di Alessandro, praticavano ancora l’animismo nonostante l’islamizzazione forzata e fabbricavano enormi statue lignee oggi esposte nel museo della capitale. Gli afgani erano allora molto tolleranti: bastava non infrangere le loro regole. Per il resto andavano bene anche gli short delle ragazze, i capelli lunghi dei maschietti, e l’eccesso di hascisc – il cui consumo locale era comunque rilevante e tradizionale – al riparo degli alberghetti. Tolleranti lo sono ancora, nonostante dopo quella truppa pacifica e pacifista ne abbiano viste di ogni provenienza e colore: russi, americani e, naturalmente, talebani. Questi ultimi scelsero Kandahar come loro capitale, una città che l’allegra comitiva tendeva a bypassare proprio per quell’eccesso di zelo religioso che fece poi da culla al movimento del mullah Omar. Tornati a Kandahar molti anni dopo, quando l’emirato talebano era in ascesa, quello zelo era diventato opprimente e insopportabile agli afgani stessi, costretti a portare la barba lunga e ad assistere a decapitazioni o linciaggi nello stadio locale. Ma da che governavano i barbuti, ci raccontò un ingegnere della città, la pace, benché armata, era tornata a Kandahar e in buona parte del paese. Fu il segreto della riuscita del mullah Omar prima che anche la sua stella, offuscata da quella di Osama bin Laden, iniziasse a declinare costringendolo, dice una cronaca che forse è un po’ favola anche quella, a scappare verso il Pakistan su una motoretta. Dove qualche 32

anno dopo, nell’estate del 2015 o qualche tempo prima, doveva morire spaccando un movimento che la sua figura carismatica aveva tenuto assieme per vent’anni. Gli afgani sono poeti. Lo erano e lo restano ancora oggi. L’usignolo (bulbul) è un protagonista assoluto nei romanzi, nelle poesie e persino nei serial televisivi. Ne sa qualcosa Parwin Mushthal, attrice afgana di una serie televisiva intitolata appunto Bulbul e a cui gli islamisti hanno ucciso il marito per punirla. Per le donne è dura in questo paese e lo era ovviamente anche negli anni Settanta. Eppure noi allora, pur essendo accompagnati da fervide femministe che «il corpo è mio e lo gestisco io», tenevamo in poco conto quella condizione di assoluta esclusione della figura femminile dal consesso sociale. Relativismo culturale? Facevamo anche poca attenzione agli usignoli. Nella casa che per alcuni anni abbiamo affittato a Kabul durante la guerra, sulle pendici di De Afghanan, il quartiere forse più antico della capitale, lo sguardo si perde fuori dalla finestra. Si vedono le vette dell’Hindukush che circondano la città e i tetti delle case che in parte ancora sono fatti col sistema tradizionale: un miscuglio di fango e paglia che riveste gli ampi terrazzi e accompagna le balze degli edifici ammantati da un intonaco giallastro che ne segue le curve, come se fosse stato lavorato con le mani, anziché con la cazzuola. Siamo fortunati. Vediamo ancora una Kabul in via di rapida estinzione. Ancora, ma solo in parte, simile a quella città di soli 400.000 abitanti (oggi sono quattro milioni) che conoscemmo quarant’anni fa. Adesso che è iniziata cilleh-e-qurd, la seconda parte dell’inverno, il sole e il risveglio della natura cominciano a spandersi nei bagh, nei giardini ahimè sempre più rari in una città che ogni giorno costruisce palazzi nuovi e di dubbio gusto. Cilleh-e qalon, la prima parte dell’inverno, inizia invece col nostro solstizio del 21 dicembre e arriva in sostanza fino a fine gennaio. Dura 40 giorni come la fase successiva, cilleh-e-qurd, che segna la transizione di altri 40 giorni e che 33

ci porterà fuori dal freddo secco dell’inverno. Da inguaribile romantico, lo ammetto, continuo a inseguire i segni del passato e dell’impossibile, che è anche, forse, un modo per fingere che la guerra sia lontana e che, anche a Kabul, si possa vivere una vita normale: osservando il volo degli uccelli, spiando le gemme sui rami, indovinando suoni e bisbigli di una natura quotidianamente calpestata. Per la verità a Kabul l’usignolo non l’ho mai sentito cantare. C’è anche chi mi dice che non è una specie avicola che predilige l’Afghanistan. Forse è solo di passo. Si vedono soltanto resistentissimi passeri, merli audaci e impavide tortorelle. Si vedono volteggiare nei gul bagh, i giardini di rose di Kabul che una volta si accompagnavano a grandi vigneti che ne orlavano i contorni quando si schiacciava l’uva per farne vino e qualche amante, perso nel profumo delle rose, avrà forse cercato – ieri come oggi – di imitare quell’incredibile gorgheggio musicale per chiedere al suo amato usignolo di far ritorno da lui. Fosse allora una fanciulla di Kunduz, una nomade nelle montagne del Badakhshan o una donna dagli occhi profondi che vive adesso in una città affacciata sull’Adriatico, in una soleggiata isola delle Cicladi o in una fredda capitale del Nord Europa.

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Khyber Pass Vivere a Kabul, la sarabanda degli expat e il circo internazionale. Kandahar e Jalalabad. In viaggio nella terra dei pathan. Sul valico maledetto. Il villaggio dove si fabbricano le armi, nuova meta turistico-giornalistica. Nomadi di oggi e di ieri.

Au crépuscule, je suis descendu moteur coupé vers la plaine cuivrée, / piquetée de grands arbres pipal / et de petits forts rouges qui entourent Peshawar, / et vers ce faux été poussiéreux et doux / qui règne en décembre sur le bassin de l’Indus. Nicolas Bouvier, L’œil du voyageur, 2008

Cosa ci affascinava tanto dell’Afghanistan? Quando con qualche sodale ricordavamo il viaggio all’Eden, che da Milano ci aveva portato a Kathmandu attraversando tutte le sfumature geopolitiche dell’Asia, ci chiedevamo cosa ci potesse mai essere in un paese senza mare, coperto di montagne e deserti rocciosi, con paesaggi mozzafiato ma nemmeno un albero sotto cui riposare o un prato verde (entrambi vere rarità) con cui rinfrescare almeno la vista. La risposta arrivò quando fu il lavoro di reporter a ricondurre il viaggiatore nel paese di re Amanullah, il riformatore che negli anni Venti aveva fatto come Atatürk e levato il velo a sua moglie e che, anche per questo, era stato esiliato in Italia da mullah e conservatori. Come era accaduto, cinquant’anni dopo, a Zaher Shah, monarca meno riformatore e amante della bella vita che teneva un pezzo di Kabul a palude per cacciarci le anatre e che un golpe repubblicano, ordito in famiglia, aveva lui pure esiliato nel Belpaese. Ma non era per quello che avevamo l’Afghanistan nel cuo35

re. Pur vessato da dieci anni di conflitto coi sovietici, oltre un lustro di guerra civile tra mujahedin, il pugno di ferro dei talebani, l’Afghanistan conservava il suo mistero che è poi la sua gente: fiera, orgogliosa e ospitale ma soprattutto dotata di un enorme, esilarante, prepotente senso dell’umorismo. La guerra può ucciderti ma non riesce a seccare la tua anima in questa fetta di mondo. Una battuta, un buffo paragone, un’allusione a mezza bocca e una bella risata. Nonostante tutto, gli afgani ridevano, ridono ancora. Di te, del mondo, di sé stessi. Tornare in Afghanistan nel 2000, un anno prima della guerra americana, era stato ovviamente uno choc. Il conflitto coi russi e poi tra mujahedin aveva spolpato un paese già magro di risorse e manufatti. I fili di rame della luce erano stati rubati da pali di legno che come scheletri essiccati piantonavano inutilmente strade in cui ogni segno di asfalto era scomparso sotto la pressione delle piene o della siccità. Gli uomini in turbante nero piantonavano strade e città e, all’ingresso nel paese, si rigiravano il tuo passaporto nelle mani cercando di leggere un alfabeto a loro ignoto, da destra a sinistra o da sotto in su. Quegli uomini ignoranti ma armati fino ai denti, che facevano la fila all’unico telefono esistente alle poste di Kandahar e mangiavano il loro palao seduti sul kalashnikov, erano però solo una parte di quel disastrato paese. Gli altri, la maggioranza, tolleravano e sopportavano come sempre, anche perché il mullah Omar – tagliando le mani ai ladri e decapitando i nemici – aveva imposto un ordine del terrore che aveva messo però fine a una guerra per bande e a un lungo conflitto. Le donne, che erano sempre state ombre nella tradizione afgana, adesso erano fantasmi silenziosi cui era negato uscir di casa da sole e ticchettare coi tacchi – ormai vietati – su quel che restava dell’asfalto cittadino. Kandahar la bigotta era la nuova capitale. I segni della guerra, in quella metropoli provinciale fatta di fango e paglia, non si vedevano già più, ma la tensione era alta. Guai a sgarrare. La truppa della fede non conosceva pietà. 36

Dieci anni e una nuova guerra dopo, la capitale è di nuovo Kabul, la città in cui il mogul Babur, conquistatore dell’India, aveva voluto essere seppellito a cielo aperto per vedere quel magnifico campo stellato reso sempre nitido, nonostante la polvere onnipresente, dai 1.800 metri di altitudine della città. I vigneti che circondavano la cinquecentesca Kabul di Babur sono spariti e nemmeno ci sono più i piedi di vite che ornavano i tanti giardini minacciati dal cemento di questa città che, nel viaggio all’Eden, veniva pronunciata in modo diverso a seconda della provenienza: Kabùl, da un italiano o da un francese, Kàbul da un americano, Kòbul da un afgano. Ora quel nome si declina anche in lettone, rumeno, albanese e in tutte le lingue dell’invincibile armata della Nato che, forte di 150.000 soldati, questa guerra l’ha persa e ora ha fatto le valige con le pive nel sacco. Oggi come ieri gli afgani hanno tollerato e sopportato: ieri i nostri capelli lunghi, oggi le divise. Ieri le ragazze col crine sciolto, oggi i locali dove si beve alcool e si fa finta di essere altrove. Lo stesso era avvenuto oltre un secolo prima, nel 1840, quando i britannici avevano invaso il paese nella prima guerra anglo-afgana. Furono cacciati e gli andò peggio che ai russi e agli americani: la loro armata di ventimila uomini venne decimata mentre tentavano di raggiungere il passo Khyber per tornare in India. Ai tempi dei fricchettoni, per far finta di essere altrove, andavamo al ristorante Marco Polo, dove si serviva un vino efficace soprattutto per il grado alcolico e che proveniva da un’azienda impiantata da un italiano. Sempre per far finta di essere altrove, il lungo inverno della guerra suggeriva adesso l’Atmosphere – dieci dollari per una birra –, aperto da un francese e divenuto per anni il ritrovo degli expat, gli espatriati, gli eredi in un certo senso dell’allegra banda del viaggio all’Eden. Anche questi giovani funzionari occidentali cercano il fumo afgano senza dare nell’occhio, approfittano della penuria di vita sociale per fare sesso e, i più arditi, vagolano 37

per Chicken Street, la vietta delle cianfrusaglie, in cerca di un buon affare. A un certo punto erano arrivati a tremila unità (escludendo i militari) e, sotto l’occhio benevolo della Ue e delle legazioni che una volta mettevano alla porta gli hippy, si divertivano con feste pantagrueliche dove si beveva gin tonic e puro malto. Il Campari lo potevi trovare all’ambasciata italiana. Gli afgani erano raramente invitati («tu capisci, quelli non bevono...»). Jalalabad è una città che se l’è sempre cavata bene. Sta lì, sulla frontiera con il Pakistan, distesa in una piana soffocata in estate da un caldo torrido prototropicale, che consente alle banane e ai manghi di proliferare. Cresce bene anche l’olivo, lavorato con macchinari italiani ma senza che il prodotto (alla lunga un extravergine assai costoso) sia mai decollato se non sulle tavole degli ambasciatori. Sta bene adesso Jalalabad, stava bene durante talebani e mujahedin, stava bene anche durante il viaggio all’Eden. In una città di frontiera si mangia sempre, si compra e si vende, ci si perde nel gran bazar sotto le montagne che annunciano l’unico passaggio a nord-est: il Khyber Pass, il valico più denso di immaginario che esista al mondo. Ieri, oggi, e oltre un secolo fa, quando le truppe di Sua Maestà britannica, che avevano invaso l’Afghanistan dall’India, lo attraversarono a ritroso, con più cadaveri che uomini sani. Spezzate e spiazzate da una resistenza selvaggia nelle pianure e fiaccate dai montanari che abitano tra la fine dell’Hindukush e i monti Suleiman, sul confine con il Pakistan, la Terra dei puri. Allora, il passaggio dal Khyber Pass era un’avventura rivelatrice. Lasciata Jalalabad con un piccolo autobus, ci si inerpicava per l’erta strada che passa tra gole così alte da farti capire come sia possibile diventare un bersaglio facile anche quando sei in movimento. Al di là e al di qua del passo c’era – e c’è – una terra di nessuno (che nella parte pachistana prosegue per chilometri attraverso la cosiddetta tribal belt, l’area tribale) nella quale non incontravi l’ombra di un poliziotto o di un militare, afgano o pachistano che fosse. Pecore semmai. 38

O uomini col tipico pakol (il berretto che indossava Massud, il leone del Panjshir, circolare, di lana arrotolata, come certi nostri copricapi rinascimentali). Camminavano tranquilli tenendo in spalla un fucile dal manico lavorato. Una volta arrivato al passo, dove c’era la frontiera, apparivano finalmente i pachistani che, oltre a metterti il timbro sul passaporto, offrivano, in linea coi tempi, anche varie amenità goderecce: cocaina sintetica, morfina, hascisc di dubbia qualità. Lasciata la frontiera, le divise nere o kaki dei Frontier Corps sparivano di nuovo. Eri nella terra dei patani o pathan, ossia degli stessi uomini che in Afghanistan si chiamano pashtun. La frontiera che l’anonimo righello di sir Mortimer Durand aveva disegnato per 2.640 chilometri nel 1893 non era solo il confine – sempre contestato – tra il Raj britannico e l’indomito Afghanistan indipendente, ma un prezioso cuscinetto tra i domini della regina d’Inghilterra e le voluttà dello zar di tutte le Russie. Era lo specchio della maledetta indifferenza della geopolitica nel decidere chi sta di qui e chi di là: che importava allora che la frontiera tagliasse in due le popolazioni pashtun della montagna? Che creasse la frizione permanente che ancora grava su quei confini? Si pensò che bastasse – e dopo qualche guerra i britannici scelsero questa opzione – che queste genti tagliate a metà e che vivevano in quella fetta di mondo che nel 1947 sarebbe diventata Pakistan, godessero di larga autonomia. Così fu, così è. Nessuno metteva e mette il becco negli affari delle aree tribali. Affari? Sì, di ogni tipo: raccolta di essenze psicotrope, raffinazione di morfina ed eroina, acquisto e vendita di giovani fanciulle, costruzione e commercio di armi da fuoco, attività in cui i pathan sono ferratissimi. Anche perché il Pakistan investe in queste zone del paese meno risorse che altrove. A Darra Adam Khel le fabbriche di armi sono lungo la strada principale. A Roma, Milano, Kabul o Amman, le boutique del centro vendono prodotti di lusso o, ormai, le stesse firme che fanno di via Montenapoleone una copia di Bond 39

Street e viceversa. Ma a Darra non ci sono vestitini colorati o bigiotteria. A Darra si riproduce in mille declinazioni il mitra inventato dall’ingegner Michail Kalašnikov e si fanno copie perfette della Beretta. Per provarli basta andare in strada e sparare in aria. Per esplosivo, jeep e carri armati, ci vuole invece una visita guidata che, ai tempi del viaggio all’Eden, non si faceva di certo. È un posto che riscuote successo e curiosità presso un nuovo genere di turisti, armati di taccuino: i giornalisti. Per dirla tutta, piaceva ai giornalisti. Oggi, nell’anno di grazia 2017, l’Afghanistan, dove la guerra infinita miete più vittime che in passato, è caduto nel medesimo oblio che lo accompagnava nei mitici anni Settanta. Nessuno sapeva dov’era l’Afghanistan e se guardavi il De Agostini, il mitico annuario con la rilegatura bordò (bordeaux se preferite), l’atlante geografico ti spiegava che il suo primo prodotto di esportazione verso l’Italia era la magnesia. Quella che da bambini usavamo come purga e che dunque proveniva dal paese famoso per la «kabulite», una coltellata intestinale che rischiava di farti fare il viaggio all’Eden piegato in due in qualche maleodorante pertugio dedicato alla meno nobile delle funzioni umane. Anche il Pakistan era, nel nostro immaginario, un nonpaese. Come la Turchia o l’Iran, la Terra dei puri era solo un luogo di passaggio che aveva però i suoi estimatori. Alcuni infatti avevano scelto i territori del Nord dove vivono animisti e infedeli – i kafir – o dove sopravvivono gli Hunza, il popolo che non si ammala e che solo dopo gli anni Settanta, con l’avvento della modernità (e della minerale in bottiglia), ha iniziato ad aver bisogno del dottore. Tanti studi sugli Hunza non sono arrivati a capo né della loro mitica salute né del perché a un certo momento siano arrivate le malattie (la causa pare fosse da attribuire all’inquinamento, si disse). Forse le grandi vallate dello Swat, che guardano verso la Cina, sono la spiegazione più semplice. Quella vista uccideva anche i nostri microbi urbani impestati di deprimente modernità. O almeno così ci piaceva credere. 40

Vecchi e nuovi nomadi (per scelta economica – nel caso della transumanza –, per scelta obbligata – nel caso dei migranti in fuga dalla guerra – o per scelta logistica – nel caso dei viaggiatori) sono sempre stati i grandi o gli umili protagonisti dell’attraversamento di questa frontiera, forse la più porosa del pianeta. Ma se i viaggiatori occidentali hanno soprattutto raccontato sé stessi e il fascino del Khyber Pass, i pastori non si raccontano e sono ancor meno raccontati di quanto non lo siano profughi e sfollati, obbligati a un nomadismo senza futuro dalle contingenze belliche. I pastori nomadi attraversano da secoli una frontiera che è per loro essenzialmente geografica. I nomadi «moderni» – i viaggiatori – sono invece stati attratti dall’idea di un passaggio culturale, molto mitizzato, tra due mondi. Della migrazione dei nomadi afgani che attraversano stagionalmente il confine non si conosce molto, come poco si sa della loro storia e persino delle loro origini. Tanto meno dell’estrema fluidità con cui un gruppo può passare da una vita nomade a una seminomade o addirittura sedentaria, per poi riprendere nuovamente la strada. In Afghanistan i nomadi vengono denominati kuchi, un termine che indica soprattutto (ma non solo) i transumanti pashtun perché, in effetti, la maggior parte delle comunità nomadi o seminomadi sono pashtun, pur se vi sono gruppi, benché minori, di origine beluci, araba, turcmena e così via. Il nomadismo è prevalentemente legato alle esigenze del pascolo e per molti kuchi le pianure al di là dei Suleiman erano una meta importante: non solo per la ricerca di pascoli ma per commerciare il surplus (bestiame, carne, lana, capelli, pelli, frutta ma anche prodotti dell’artigianato, come i tappeti, scambiati per sale, tè, zucchero, abiti, ferro e, in tempi recenti, cherosene). Largamente tollerati dai britannici – che quando potevano tassavano le carovane – i nomadi hanno visto complicarsi le cose con le frizioni di frontiera tra Pakistan e Afghanistan, sia per la questione del «Pashtunistan» (il sogno di una terra patana indipendente), sia per la necessità più recente di 41

controllare il flusso transfrontaliero, specie se non passa da valichi stradali. Alle difficoltà di attraversare la frontiera – passaggio garantito dalla conoscenza del terreno e dalla rete delle parentele – si è aggiunto il problema della sicurezza (guerra, mine, bombardamenti) e la ricerca di lavori sedentari in Afghanistan: elementi che hanno ridotto sempre di più – dagli anni Sessanta del secolo scorso – il flusso tra le due frontiere, tanto che oggi la transumanza transfrontaliera, fortemente scoraggiata, è ormai un fenomeno residuale in quel milione e mezzo di nomadi kuchi (2,5 milioni in totale), di cui oggi si registrano soprattutto le contese con vecchi e nuovi proprietari terrieri sull’utilizzo dei pascoli afgani. Noi allora li vedevamo passare, come accade ancora oggi, in lunghe carovane di uomini e bestiame e le donne, sorprendentemente, col viso scoperto. Una tradizione che nemmeno i talebani si sono sognati di contrastare.

Digressione obbligatoria: la guerra afgana

Babe, baby, baby, I’m gonna leave you. / I said baby, you know I’m gonna leave you. / I’ll leave you when the summertime / Leave you when the summer comes a rollin’ / Leave you when the summer comes along. [...] / I know, I know / I know I never never never never never gonna leave you babe / But I got to go away from this place. Anne Bredon, Babe I’m Gonna Leave You, fine anni Cinquanta circa

Quando ascoltavamo Babe I’m Gonna Leave You, una canzone che nel ’62 aveva inciso anche Joan Baez ma che noi avevamo conosciuto dai Led Zeppelin, pensavamo fossero rime d’amore. Era invece una lucida e sofferta canzone contro la guerra in cui il protagonista lasciava la sua bella non perché ne aveva trovata un’altra, ma perché doveva andare a combattere. La guerra, la dannata guerra, alla fine c’entra sempre, anche se allora valeva il refrain che la Guerra Fredda era un piatto senza cadaveri attaccati. Se l’Afghanistan era stato una nostra grande passione dal fascino inaspettato, l’avevamo attraversato senza sospettare che quell’infelice paese, sempre al crocevia di grandi appetiti regionali, stava per precipitare da uno dei suoi rari momenti di pace nell’orrido incubo di un conflitto che, iniziato strisciando alla fine degli anni Settanta con l’invasione sovietica, dura ancora oggi. Un libro come 43

questo, leggero come fu il viaggio all’Eden, non può fare a meno di soffermarsi su quel baratro: non basta raccontare che gli expat di oggi non sono come quelli di allora e che noi fummo invasori pacifici e curiosi e quelli odierni invasori tout court. L’Afghanistan, e va ricordato anche qui, è il manifesto di un fallimento. Un fallimento ancor più bruciante perché l’invasione ci fu venduta – e così l’abbiamo comprata – come la cura necessaria per combattere l’oscurantismo e il medioevo talebano che velava le donne e le relegava in casa. Oggi che anche l’ultima illusione è caduta (si è appena saputo che Karzai truccò le cifre, mentre tutti chiudevano un occhio, e che gli studenti afgani non sono undici milioni ma solo sei) si può ben ammettere – e anche i militari più saggi lo fanno – che la missione militare è stata un disastro. Il problema è che continua e anzi ci si sta preparando ad accrescere di nuovo i numeri della nostra presenza militare. Col nuovo governo bifronte di Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, gli americani – i veri artefici di questa guerra cui noi europei abbiamo retto la coda – hanno stretto un accordo che consente loro l’utilizzo di una decina di basi militari. Il corollario di questo accordo implica una presenza militare di almeno diecimila uomini. Che dunque sono là per sorvegliare le basi e non certo per dare una mano all’esercito afgano. Qualche volta lo fanno: con raid aerei per lo più segreti, con l’uso di droni assassini o, com’è stato rivelato, con la tortura dei prigionieri. Metodi oscurantisti e medievali. I biechi talebani hanno detto sin dall’inizio che il loro non è un jihad per imporre anche a noi il verbo del profeta, ma una guerra di liberazione dall’invasore. Se dunque noi ce ne andassimo dal paese non solo favoriremmo un negoziato (e nulla ci vieterebbe di continuare ad appoggiare il governo attuale pagando lo stipendio ai soldati), ma taglieremmo le gambe anche a chi specula, oltre a noi, su quel conflitto: pachistani, in primis, ma anche indiani, iraniani, cinesi, russi... Non basta un capitoletto in un libretto di memorie a met44

tere a posto i conti con la propria coscienza e con quella collettiva. Ma questa è una digressione obbligata per il fatto che anche noi, come italiani, abbiamo una parte e dunque una responsabilità in questa guerra. Una guerra in cui abbiamo speso per la macchina militare tra 7 e 10 volte quello che abbiamo investito in cooperazione civile, in un paese la cui economia, drogata dalla guerra, ha conosciuto un boom fittizio ora scoppiato come una bolla di sapone. A far girare i soldi ora ci pensano le bombe, come quella da 11 tonnellate di esplosivo testata dagli americani il 13 aprile 2017 in un distretto orientale del paese. Non ho rimpianti per ciò che ho fatto a Kabul nei favolosi anni Settanta e negli anni a seguire. Ma ho sempre la sensazione, adesso, di non aver gridato abbastanza. Andarcene da quella sporca guerra sarebbe forse l’unico modo per farla finire. Perché la gente ritorni ai laghi sopra Bamyan, al vivace mercato di Kabul, a guardar le rose nel Bagh-e-Babur, a rimirare le montagne di Mazar. Quanto ai talebani, loro stessi sanno che ormai vincere la guerra è impossibile tanto quanto per il governo. Un negoziato che dia loro il riconoscimento di partito politico non li priverà del verbo deobandi – un’interpretazione rigorista dell’islam diffusa in questa fetta di mondo – ma farà loro depositare il kalashnikov. L’evoluzione di una società ormai contaminata da altre culture – l’unico effetto positivo della guerra – farà il resto. E gli afgani smetteranno di morire. Ora possiamo riprendere il nostro racconto che ci aveva lasciati al Khyber Pass...

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Nella Terra dei puri In Pakistan. Il primo tè col latte a Peshawar, capitale di ogni droga, cittadina divenuta metropoli. La mitica Quetta e Lahore, la perla dell’Islam. Sognando l’India alla frontiera con la doganiera dagli occhi di ghiaccio.

Credo che dovremmo tenere a mente questo come ideale, e comprenderete che, nel corso del tempo, gli indù cesseranno di essere indù e i musulmani di essere musulmani. Non in senso religioso, perché si tratta della fede personale di ciascun individuo, ma in senso politico di cittadini dello Stato. Voi siete liberi. Liberi di andare nei vostri templi, nelle vostre moschee o in qualunque altro luogo di culto in questo Stato del Pakistan. Potrete appartenere a qualsiasi religione, casta o credo: questo non ha nulla a che fare con gli affari dello Stato. Muhammad Ali Jinnah, discorso alla prima Assemblea costituente del Pakistan indipendente, 11 agosto 1947

L’uomo sta in piedi accanto a un pentolone dove bolle il latte e prende da un samovar molto rudimentale un tazzone di tè. Lo mescola col latte e poi, con un movimento rapidissimo delle mani e un volteggio stupefacente delle braccia, miscela il suo composto, che ha appena fatto bollire, rovesciandolo dall’alto in basso in un altro bicchierone. Non perde una goccia di quel sacro liquido che da nero, miscelato al latte, è diventato di un color cammello pallido prima di esser versato nelle tazze. Benvenuti nel subcontinente indiano. La patria del tè al latte. Un paese è anche i suoi sapori. In Grecia c’è l’inconfondibile feta e in Turchia, oltre al kawa, c’è un tè nero e robusto che tiene svegli come un caffè. In Iran c’è il dug o l’ab-gusht 46

e in Afghanistan il qabili palao, un riso molto simile a quello iraniano ma con carote e frutta secca oltre all’onnipresente montone accompagnato dal cai sabz, tè verde senza teina. In Pakistan? Che sapore ha Peshawar, la prima città pachistana, abitata ormai prevalentemente da patani e pashtun? Se lo chiedevi a uno di quei ragazzi pieni di voglia di viaggiare che negli anni Settanta attraversavano l’Asia per andare a spiarsi nell’anima nella valle di Kathmandu o alla ricerca di un guru indiano che spiegasse loro quel che a scuola non si insegna, la risposta non avrebbe potuto essere che «tè»: tè al latte. Eri appena sceso dal pullman che dall’Afghanistan, attraverso il mitico passo Khyber, ti aveva depositato a Peshawar, che arrivava il primo inevitabile cai. All’epoca le categorie di assetati erano di due tipi: quelli che bevevano cold drink – Coca-Cola e 7Up estratte da secchi di acqua ghiacciata – e per un attimo di abbacinato refrigerio pagavano poi il prezzo di prepotenti sudate. E quelli più tranquilli, più «baba», si sarebbe detto, che bevevano tè. Tè nero e forte a Istanbul, verde a Kabul, col latte da Peshawar sino allo Sri Lanka, la Lacrima dell’Oceano Indiano, o nei locali tamil della Malaysia. Poiché la maggior parte del nostro giovane popolo nomade il viaggio all’Eden lo faceva di solito nelle vacanze estive (la stagione più torrida in Asia e la peggiore per visitarla), la battaglia col caldo non finiva mai. I viaggiatori da un pezzo, però, sapevano che solo il tè caldo ripristina le necessità idriche senza aggiungere nuova sete. Ed eccoci al tè al latte, invenzione eminentemente britannica e diffusa in tutte le ex colonie. A Londra lo versano col colino, nelle Indie lo preparano miscelando tè e latte con quel rapido e affascinante movimento del braccio e lo fanno ribollire. Zuccherato... Se si potesse decifrare la potenza coloniale attraverso il tè, si potrebbe dire che solo alcuni paesi, seppur sotto influenza britannica, colonie non furono mai: provate a chiedere tè al latte in Iran o in Afghanistan. Vi guardano come un marziano. Il Pakistan non è India ma Peshawar, città accaldata e 47

apparentemente indolente, era allora un’anticipazione netta della grande India delle pianure. E non solo per il sapore del tè al latte. Per l’odore dello sterco di vacca o di cavallo ad esempio, o per i tanti del Punjab – la provincia ricca e più popolosa – che allora l’abitavano. Affascinati dall’odore e dal sapore delle cose – che si mescola a quegli effluvi di benzina mal raffinata che aleggiano nelle città asiatiche o a quel prepotente profumo di spezie e incenso – mettevamo allora in fila i pezzi di ricordi che si andavano affastellando nel grande viaggio che ormai era entrato nel vivo. Dopo il cibo venivano altri generi di conforto e confronto: le Drina jugoslave, ad esempio, col loro sapore di tabacco macedone (oggi hanno il pacchetto con la scritta in tre lingue – serbo, croato e bosniaco –, anche se le sigarette non hanno appartenenza etnica e «Drina» si scrive allo stesso modo), e poi quelle sigarettine fini fini che si acquistavano in Iran, dopo un passaggio obbligato per le Ikinci e le Birinci, le «nazionali» turche, temibili quanto le nostre Sax o le Napoleon Bleu (le Enneblù o Nazionali semplici, d’antan, a 180 lire al pacchetto: non potevano aumentare perché erano inserite nel «paniere» dei prezzi calmierati). In Afghanistan, invece, sigarette di produzione locale non ce n’erano. Già allora i pachistani comandavano fette di mercato e avevano imposto le K2, sigarette con l’Himalaya sul pacchetto. Le «svapore» non erano solo un vizio, per altro diffusissimo, ma un’esigenza imprescindibile per arrotolare una canna, riempire una pipa ad acqua, rollare uno spinello, una tra le attività precipue della banda dell’Eden. Peshawar però riservava altre sorprese. E il primo vero incontro con le droghe pesanti, non così diffuse a Kabul. Il Rainbow Hotel e il National erano le stazioni di sosta obbligate. Dal Rainbow partivano le corriere per Pindi (Rawalpindi) o Lahore, ma era affacciato su una palude d’olio di macchina proveniente da un’officina dove ogni mattina si produceva febbrile lavoro e altrettanto baccano. Il National costava forse un po’ meno ed era decisamente messo male 48

ma in compenso era silenzioso. Il viaggiatore che ci torna qualche decennio dopo lo trova ancora in servizio e si accorge, cosa che allora gli era totalmente sfuggita, che dietro quell’aria fatiscente, i muri sporchi e il cortile che rimbomba di schiamazzi, l’edificio è un meraviglioso palazzo di epoca mogul che ha perso il suo smalto ma, a una seconda occhiata, non certo il suo fascino. Ma il vero fascino del National era altro. Un fascino perverso. Il Pakistan non era solo terra di produzione di oppio e di hascisc – di un verde scuro e intenso ma considerato di serie B rispetto all’afgano o al manali – ma aveva enormi scorte di morfina prodotta dalla casa farmaceutica Merck, che aveva iniziato a commercializzarla nel 1827 dopo che nel 1804, a Paderborn in Germania, Friedrich Sertürner aveva scoperto le doti, salvifiche e terribili, di quel primo alcaloide isolato ed estratto dal papavero. Chissà se per via della vicinanza al luogo di produzione primaria, chissà per quale giro di cargo o di stoccaggi, Peshawar pullulava di pillole di morfina della Merck al punto che queste erano volgarmente chiamate «peshawar». Il loro prezzo era irrisorio e il prodotto di primissima qualità, per non dire della possibilità di poterlo comprare in farmacia da un medico in camice bianco. Contrariamente all’hascisc, di cui ci si può liberare senza grandi difficoltà da un giorno all’altro, e a differenza del «papà» – l’oppio –, la cui dipendenza arriva lentamente, le peshawar non lasciavano scampo. Diluite in un cucchiaio con acqua distillata – quando andava bene – e risucchiate dall’ago di una siringa attraverso il filtro di una K2, le dannate peshawar penetravano nel corpo e nella mente di chi aveva ceduto alla tentazione. Trascinandolo, il più delle volte, nell’inferno di una vita da junkie: chi vive con la «scimmia sulla schiena», sempre pronta a tirargli la giacca per una dose – come scrive nel libro omonimo un esperto in materia come William Burroughs. Molti ragazzi, finiti nelle grinfie delle peshawar e che, nella capitale della morfina, si erano illusi di poter andare avanti 49

a lungo per via del prezzo popolare, arrivavano a rimanere presto senza una rupia e senza un tetto. Il National provvedeva allora, con pelosa solidarietà, a procurare loro dei torridi miniloculi di lamiera installati sul tetto dell’edificio. Questi sgangherati ragazzotti, smagriti dallo stupefacente e da una dieta imposta dalle ristrettezze finanziarie, sbarcavano il lunario con piccoli lavoretti illegali, primo tra i quali lo smercio delle peshawar da cui ricavare la dose quotidiana. Le ambasciate nella lontana Islamabad li ignoravano e le famiglie spesso ne avevano perse le tracce. Erano mendicanti che conservavano comunque una loro dignità – con un piccolo waskat ricamato, una collanina, un foulard – e che si salvavano da poliziotti e criminali sia perché non avevano più dollari, sia perché erano bianchi. Vegetavano al National aspettando che il sole calasse, lasciando respirare le loro gabbie di metallo, prigioni da cui uscivano per bere un tè, succhiare uno yogurt, spillare qualche rupia al primo che passava. Il viaggio a Peshawar era dunque anche il primo incontro col lato oscuro delle sostanze più o meno stupefacenti che, da Istanbul a Kathmandu, costellavano la Via dell’Eden e sembravano rimandare a quei versi di Allen Ginsberg, il poeta della strada e della beat generation, che aveva ammonito sul rischio di perdersi in qualche fetido buco indiano con un ago nel braccio. Il suo poema più famoso – Urlo, pubblicato in Italia all’interno di Jukebox all’idrogeno, curato da Fernanda Pivano – cominciava così, come se anche lui avesse visto quelle stanze al National: Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate, nude e isteriche trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga [rabbiosa hipster dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte, che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte ad acqua fredda fluttuando nelle cime delle città, contemplando jazz 50

che mostravano il cervello al Cielo sotto la Elevated e vedevano angeli Maomettani illuminati barcollanti su tetti [di casermette che si accucciavano in mutande in stanze non sbarbate bruciando denaro nella spazzatura...

Stanzette appunto. Ma i soldi da bruciare nella spazzatura eran finiti da un pezzo. Peshawar è ancora una città dove le droghe si trovano senza difficoltà ma oggi è molto altro. Ospita forse quasi la metà di quei tre milioni e mezzo di afgani rifugiatisi qui dopo l’invasione russa ed è cresciuta a dismisura negli anni della guerra, grazie a un profluvio di denari che, da Riad o da Washington, piovevano sulla resistenza dei mujahedin che la avevano eletta loro sede legale e organizzativa. A Peshawar è vissuto Osama bin Laden, Sylvester Stallone ci ha girato i film di Rambo, hanno aperto uffici agenzie dell’Onu, Ong e spioni, mentre la periferia si allargava con decine di campi profughi. La capitale dell’allora provincia della Frontiera del Nord-Ovest, la città nata attorno al Cantonment britannico, che all’epoca era una sonnolenta cittadina di provincia, è oggi una metropoli che arriva a quasi due milioni di abitanti. La capitale dell’attuale provincia di Khyber Pakhtunkhwa e della tribal belt con le sue sette agenzie che formano le Federally Administered Tribal Areas è al contempo diventata un posto pericoloso. Anche i talebani locali (Tehrek-e-Taliban Pakistan o Ttp) la considerano la loro capitale. Vive lì Rahimullah Yusufzai, una delle icone del giornalismo nazionale, anziano e flemmatico pashtun, come rivela il suo cognome (lo stesso della ben più nota Malala). Ha intervistato più di una volta Osama bin Laden e una dozzina di volte il mullah Omar, ma non ha nulla della spocchia che potreste immaginarvi da un personaggio così. Recentemente gli abbiamo chiesto qual è il posto più pericoloso dove vivere in Pakistan: se le aree tribali, la montagna, la zona di Khyber... «Peshawar», ci ha candidamente risposto. 51

La palma della città più pericolosa Peshawar però l’ha sottratta a Karachi, città natale di Benazir Bhutto e teatro di una guerra civile a bassa intensità tra autoctoni della provincia del Sindh e mohajir, eredi di coloro che nel ’47 si spostarono nel neonato Pakistan dall’India, in una delle migrazioni di massa più numerose e atroci della storia. Poco più a occidente, a sud verso l’Iran, c’è la città di Quetta, che ha la fama di essere il quartier generale politico dei talebani afgani. Durante il viaggio all’Eden, chi era stato a Quetta godeva di grande rispetto per un’avventura fuori dalla rotta classica che prevedeva, dopo l’attraversamento dell’Afghanistan, il tragitto da Peshawar a Lahore (11 rupie, ossia 1 dollaro, in terza classe), ultima caldissima tappa prima dell’arrivo nell’agognata India. Lahore viene considerata con Istanbul una delle perle dell’islam. Ha monumenti mogul affascinanti, belle moschee ed edifici lasciati dagli inglesi che avevano un debole per questa città punjabi, affascinante e torrida nei mesi estivi, che offriva numerose sistemazioni con ventilatore al soffitto, ma anche una folla di curiosi che esibivano un ricorrente ritornello: «Hallò mistér, which country you belong?», seguito da un’inevitabile domanda destinata a rimanere senza risposta, «What’s your purpose in the life?». La cosa infastidiva per l’eccesso di zelo ma forse anche perché, almeno noi italiani, l’inglese lo parlavamo assai peggio di loro. La frontiera era a un passo. A una cert’ora chiudeva – e chiude – con cerimonie militari dalle due parti che esibivano picchetti e alzabandiera con cui ogni paese sottolineava la sua identità nata dalle ceneri del Raj. I doganieri dell’Unione Indiana che ci aspettavano sulla striscia di confine di Wagah la sapevano lunga. Cercavano due cose: rupie indiane comprate al black market di Lahore e, naturalmente, l’afgano nero di qualche improvvisato spacciatore internazionale. Erano tutti accorti ma una donna in particolare, diventata famosissima in quel suo elegante sari che le dava un tocco di regalità, ti 52

fissava con occhi di ghiaccio insostenibili. Non c’era bisogno di fare domande, se avevi qualcosa sbragavi subito. Ma, fosse un etto o fosse un chilo, la legge non era uguale per tutti. Chi finiva in galera ad Amritsar anche per sei mesi, chi, un’ora dopo, era già fuori. Alleggerito delle rupie e anche di qualche dollaro del tesoretto necessario per arrivare a Kathmandu e ritorno. Il Pakistan è un paese difficile e non privo di fascino. Oggi la guerra afgana gli si è trasferita in casa, tradotta in urdu – la lingua nazionale – dai talebani pachistani del Ttp, assai più feroci dei cugini afgani e come loro fedeli alla corrente deobandi, declinata con una selvaggia violenza che non ha eguali in Afghanistan. Alcuni fra loro hanno aderito allo Stato Islamico, altri tengono stretti legami con Al Qaeda o i gruppi radicali settari che ammazzano sciiti e sufi o agiscono in Kashmir contro le forze di sicurezza indiane. Nato da un’assurda alchimia di nazionalismo identitario che era anche un modo di difendersi dallo strapotere degli indù in India, il Pakistan doveva essere, nell’immaginario del suo fondatore, Ali Jinnah, un paese musulmano ma uno Stato laico. Adesso che il Pakistan viene giudicato uno Stato fallito, un paese con l’atomica e la fabbrica del terrorismo asiatico, ci si dimentica la sua difficoltà con un vicino, sicuramente più democratico, ma non meno bellicista e altrettanto nuclearizzato. Quanto ai suoi governi, una lunga teoria di colpi di Stato militari ha consegnato questo paese alla protezione di una casta che controlla, oltre alla Difesa, l’economia del paese. Questa stagione oggi sembra in parte alle spalle e ormai da anni a Islamabad siede un governo in abiti civili, anche se la diseguaglianza sociale si è tramandata di mano in mano al di là degli abiti e i militari restano molto potenti. Ma quando si viaggiava in quelle contrade, negli anni Settanta, i militari erano ancor più saldamente al comando. Il più potente e feroce tra loro, il generale Zia ul-Haq, fece impiccare nel 1979 Zulfikar Ali Bhutto, il padre di Benazir, accusandolo di omi53

cidio ma in realtà perché era un laico filosocialista che aveva messo in piedi un vasto programma di nazionalizzazioni. Quando per la prima volta passammo quella frontiera, sulle banconote – la carta che racconta le sorti delle nazioni – campeggiava la testa di Ali Jinnah che tutti, dittatori, generali o borghesi, hanno conservato. Così è avvenuto anche in India, con il volto smagrito di Gandhi. Contrariamente a Iran, Afghanistan o Nepal – dove chi era al comando passava di diritto sulla carta moneta di Stato –, Pakistan e India restavano legati a quel 17 agosto, quando la perla dell’Impero venne divisa in due. Anzi in tre, perché la follia della geometria geopolitica britannica aveva fatto del Pakistan un mostro a due teste: il Pakistan occidentale, tappa intermedia del viaggio all’Eden, e il Pakistan orientale, oggi Bangladesh. Un luogo vessato da alluvioni e povertà, dove nessuno di noi voleva andare.

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India 1 La lista del Golden Temple di Amritsar. Tappa a Delhi. In viaggio verso Benares e la città maledetta di Ayodhya, dove alligna lo scontro tra musulmani e indù. L’amore al tempo dei fricchettoni.

There’s nothing you can do that can’t be done. / Nothing you can sing that can’t be sung. / Nothing you can say, but you can learn / How to play the game / It’s easy. / Nothing you can make that can’t be made. / No one you can save that can’t be saved. / Nothing you can do, but you can learn / How to be you in time / It’s easy. / All you need is love, all you need is love, / All you need is love, love. / Love is all you need. The Beatles, All You Need Is Love, 1967

Il viaggio all’Eden era anche un viaggio nell’amore. Non solo nel «peace and love» degli slogan recitati scimmiottando il pacifismo americano, ma un viaggio, anche, nell’amore carnale, bilaterale, singolo o collettivo, che si consumava con più facilità lungo quella strada che menava a Kathmandu e che era piena di curiosità, passione e una gran voglia di fare l’amore in tutte le lingue del mondo. Il sesso per altro te l’eri dimenticato dalla Jugoslavia in poi, per via che l’attraversamento dei paesi musulmani imponeva ai maschietti un certo riserbo, per non dire la cancellazione totale dell’universo femminile. Già in Turchia, paese laico ma ancora molto tradizionalista, come ha dimostrato l’ascesa di Erdogan, dovevi stare all’erta. E così in Iran, benché lo scià avesse lasciato libera la circolazione delle minigonne nella capitale: cominciavi a vedere sempre di più quei foulard che davano comunque un’aria dimessa 55

alle donne, categoria umana che era stata relegata in un altro pianeta. In Afghanistan, poi, l’altra metà del cielo non esisteva proprio. Benché ci si ostini a guardare ammirati certe foto della Kabul anni Settanta, con qualche giovane universitaria a viso scoperto, fuori dagli uffici pubblici bastava la griglia opaca del chadri – o burqa – portato dal 95% delle donne a farti capire che quel mondo era da dimenticare. L’arrivo nelle Indie cambiava un po’ le cose, ma non troppo. Nel subcontinente indiano il viso delle donne era alla portata di tutti benché, musulmane o indù, un lembo del sari salisse a coprire i loro lunghi capelli corvini, simbolo universale di peccato. Nella patria del Kamasutra, dei templi con bassorilievi erotici e dove Shiva si era scelto come immagine augurale un enorme fallo, il sesso era, almeno pubblicamente, ancora un tabù. Non lo era grazie a Dio nell’allegra comitiva viaggiante. La favola delle due belle B., sorelle milanesi che avevan fatto perdere il sonno a tribù di viaggiatori, si susseguiva nei racconti di viaggio in cui il sacro (la filosofia induista, l’inganno del mondo reale e la promessa di riscatto del messaggio di Gautama, sia che uno seguisse la strada del Piccolo o del Grande Veicolo o quella dei maestri tibetani) si mescolava al profano (bei ragazzotti e belle figliole, l’ultimo ricordo di tortelli con ricotta e spinaci, il penultimo bicchiere di vino, il rosso Campari soda o la qualità dell’afgano nero, del pachistano verde, del nepalese blu...). Questi giovani viaggiatori, che ormai avevano sulle spalle, chi più chi meno, già due o tre mesi di viaggio e che col procedere del percorso verso Kathmandu andavano cambiando fisionomia (vestendo rigorosamente con kurta e pijama, l’abito tradizionale indiano), amavano ed erano amati, distruggevano coppie e ne ricostruivano altre destinate a durare lo spazio tra una città e l’altra, tentavano avventure collettive o si rifugiavano in masturbazioni notturne solitarie, sollecitate da tutti quei capelli al vento che, al contrario delle donne indiane, la tribù femminile dell’Eden non risparmiava a nes56

suno. Tanto meno ai locali, sui quali non sappiamo (ma immaginiamo) l’effetto che potessero fare. L’arrivo in India in effetti segnava una trasformazione. Se eri arrivato sin lì avevi passato il punto di non ritorno. In questo paese enorme e affascinante, dove la ruota del tempo sembra girare con ritmi propri e dove religione e magia permeano anche il più laico degli abitanti dell’Unione, la tua vita cambiava. Via i vestiti di casa, addio ai ricordi del tuo paese d’origine. Ti sentivi altro, fortunatamente diverso e finalmente arrivato alle porte dell’Eden, del tutto differenti da come le avevi immaginate. La prima botta era il Tempio d’Oro di Amritsar, terra dei sikh, estesa tribù del Punjab che sfoggia un orientalissimo turbante, braccialetti e spadini che non possono mai essere levati, capelli raccolti a crocchia che non vanno mai tagliati, barba (arrotolata al mento) e giganteschi baffi a manubrio che dovevano aver fatto l’invidia dei funzionari di Sua Maestà britannica, che in India avevano stazionato per tre secoli. L’impronta britannica resta forte in quel benedetto paese che pure mantiene, ancora oggi in tempi di omogeneizzazione globalizzata, un’identità così prepotente che ti chiedi quanto l’India semmai non abbia influenzato i britannici che, quando la persero, compresero finalmente che senza la sua perla più bella l’Impero non sarebbe mai più stato lo stesso. Anzi, non sarebbe stato più. Amritsar era un luogo magico e accogliente (al Golden Temple o Tempio d’Oro, la San Pietro sikh, potevi dormire e mangiare gratis), ma anche una terribile stazione del viaggio all’Eden per coloro che avevano passato la frontiera con una scorta di afgano nero da rivendere a tola (12 grammi) in India, dove il fumo di Mazar-e-Sharif era – specialmente nella ricca e affollata costa di Goa sotto Bombay – considerato una vera sciccheria. Ad Amritsar, dunque, trovavi anche appesa una lista dei prigionieri occidentali in attesa di riscatto dalle galere locali. Chi poteva, andava a far visita, a lasciare qualche rupia e a... baciare in bocca gli sfortunati. Il bacio in bocca in realtà era l’unico modo per passare al prigioniero qualche 57

grammo di fumo, magra ma dolce consolazione nelle lunghe giornate di attesa. Quel passaggio di consegne era in effetti possibile grazie ai facili costumi per cui noi occidentali eravamo noti. I poliziotti non sospettavano e si trasformavano semmai da guardiani in guardoni. Dopo la tappa sikh il viaggio proseguiva per New Delhi, una città enorme e non priva di fascino, dove l’allegra carovana aveva trovato rifugio soprattutto in due zone della città. A Paharganji, a due passi dalla centralissima Connaught Place, e, ancora prima, a Old Delhi, la città vecchia dominata dalla Jama Masjid e dal Forte Rosso, entrambi d’impronta mogul, la dinastia musulmana che aveva retto l’India prima di quella inglese. Delhi, come Istanbul, come Kabul, poteva essere una sosta di due-tre giorni, una più lunga permanenza di una settimana ma anche una fogna eterna, di cui racconteremo più avanti. Altrimenti era il luogo deputato ad almeno tre grandi direttrici: a sud verso Bombay e Goa, per coloro che avrebbero svernato sulle spiagge occidentali della piccola ex enclave portoghese. A est verso Benares, città sacra e tappa intermedia prima di arrivare a Kathmandu. O verso nord, dove una deviazione dalla rotta classica ti portava verso le aree di popolazione tibetana: a Leh, capoluogo del Ladakh, o a Dharamsala, domicilio eletto dai rifugiati esiliatisi col Dalai Lama per sfuggire all’occupazione cinese del Tibet, il vessato Tetto del mondo conquistato dai soldati han di Mao. Un viaggio nella compassione, la via maestra insegnata dai monaci con l’abito amaranto e zafferano. Benares è una città che non si può descrivere. Va vista e basta. Almeno una volta nella vita. C’è tutto e il contrario di tutto: la santità, l’orrore, la pietà e la violenza, l’accettazione della vita e la marcatura stretta di un’appartenenza religiosa o etnica. Senza contare una turba di mercanti, faccendieri e perdigiorno che cercano di scucire, oggi come allora, una rupia dalla vostra saccoccia. Ma quel paesaggio sui ghat, i grandi basamenti di cemento gettati sul Gange come enormi gradini deputati a rendere grazie agli dei, non si può raccontare 58

e nemmeno fotografare o filmare. Va vissuto, passeggiando tra quelle folle di pellegrini in cui, finalmente, ci si confonde e ci si perde. Oggi come ieri e con la sensazione che sarà così anche domani. Che il tempo, in questa città sacra, ha perso la sua dimensione, una sensazione diffusa tra i viaggiatori dell’Eden ma che permane intatta a Benares. Ma attenzione, non sempre tutto fila come da manuale. Per purificarsi, dice la sacra legge che ti vorrebbe liberare dall’ingannevole ciclo vitale del samsara, l’acqua del Gange bisogna berla, farla roteare nella bocca, lasciare che si impadronisca del tuo corpo. A molti però fruttò un’incredibile diarrea che in alcuni casi, benché la leggenda dicesse che il Gange fosse così zozzo che nessun virus o microbo avesse la possibilità di sopravviverci, poteva trasformarsi in tifo. Con questa sensazione tornammo a Benares, detta anche Banaras o Varanasi, molti anni dopo. L’antica moschea che domina il primo dei ghat della città era adesso un perimetro circondato da filo spinato. Nella città dei santi, dei guru, dei sadhu che dedicano la loro vita a meditare, vestiti solo di uno straccio in compagnia di un bastone a tridente, si era verificato un inferno, una guerra tra integralisti indù e musulmani – che in gran numero vivono in quella città –, senza che gli dei si fossero mossi a pietà e avessero impedito che la gente gettasse benzina dalle finestre, si armasse di bastoni e lance, trafiggesse residenti forse il giorno prima salutati con affetto o con disprezzo. L’India era ed è anche questo. Lo sapeva Gandhi, il guru induista che digiunava per riconciliare i fratelli delle due grandi religioni. Lo sapeva Bacha Khan, il leader pacifista e musulmano pashtun detto il «Gandhi della frontiera». E lo sapeva Londra, che aveva sfruttato il «comunalismo» come fanno i governanti attuali – dall’India alla Bosnia, dall’Africa all’Italia –, per i quali la rivalità tra comunità è sempre una risorsa. Molto spesso violenta. Dopo aver a fatica digerito e tollerato l’enorme e onnipresente truppa di chi vorrebbe venderti qualsiasi cosa, da un sari ricamato a sua sorella (uno degli aspetti sempre più 59

deteriori della macchina turistica in questa città), decidemmo di andare alle radici di quell’odio. E noleggiammo una macchina per raggiungere Ayodhya, una delle sette città sacre dell’India, dove una moschea era stata distrutta un decennio prima, nel 1992, in nome di un supposto, preesistente tempio indù. Il viaggio – su una vecchia Ambassador dagli interni di cuoio, ultimo lascito dell’industria automobilistica britannica – si svolse sulla Grand Trunk Road (Gtr), la camionabile che attraversa tutta l’Asia da Chittagong a Kabul e che collegava Londra a Calcutta, strada che mezzi animali o grandi tir solcano ormai da millenni. Benché dal viaggio all’Eden fossero passati diversi decenni, quel tragitto in macchina fu rivelatore. Nonostante l’India sia oggi una superpotenza mondiale – tra le grandi leader della meccanica in Asia e dell’acciaio nel mondo –, produca software, servizi e cervelli, dominando parte del mercato internazionale, sulla Gtr il tempo si era come fermato: carretti con cavallo, gente in bicicletta, famigliole a piedi. La Shining India della propaganda governativa dell’epoca (al comando c’era il Bharatiya Janata Party, partito nazionalista che è poi tornato al potere ancora nel 2014), sulla Gtr era solo un sogno. L’India profonda sembrava rimasta il mistero che avevamo visto quarant’anni prima.

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India 2 Il sogno dei profughi tibetani. A Dharamsala, città di cani, scimmie e rifugiati. L’«Oceano di saggezza» e gli accordi tra Pechino e Delhi. Santi e santoni a Rishikesh. Ritorno alla capitale. A Chandni Chowk nell’inferno del Crown Hotel: scimmie sui tetti e sulla schiena.

What am I doing in this place? / Why does the doctor have no face? / Oh, I can’t crawl across the floor / Ah, can’t you see, Sister Morphine, / I’m trying to score / Well it just goes to show / Things are not what they seem / Please, Sister Morphine, turn my nightmares into dreams. Rolling Stones, Sister Morphine, 1969

Una delle mete laterali che si potevano scegliere da Delhi prima di avventurarsi nel viaggio verso Kathmandu era un paesino himalayano che si chiama McLeod Ganj, in onore di sir Donald Friell McLeod, un funzionario del Raj britannico famoso per la sua filantropia. È un sobborgo di Dharamsala, cittadina dell’Himachal Pradesh indiano che non fa 20.000 abitanti e che è la sede del governo tibetano in esilio. A McLeod invece risiede il quattordicesimo Dalai Lama. Ci si poteva andare benissimo da Amritsar, magari con un breve passaggio da Chandigarh – la città utopica di Le Corbusier –, altrimenti da Delhi, crocevia delle varie spedizioni nella Grande Madre India. A Delhi si prendeva un treno sino a Pathankot, dove un altro convoglio overnight per il Nord si muoveva lungo chiassose stazioni punjabi, attraversate dai rituali richiami dei venditori di tè al cardamomo servito (allora) in piccole tazze di creta, accompagnato da dolcetti di latte o pastelle fritte, accovacciate in larghe foglie ricurve e cucite 61

con filo vegetale (oggi l’ecologica ferramenta è stata sostituita da sacchettini di plastica azzurra). Da lì, attraverso un paesaggio che si snoda tra campi sempre più verdi circondati da foreste e vallate, si saliva in autobus sino a Dharamsala e, infine, al piccolo paesino di McLeod Ganj dove, in un’urbanistica disomogenea e improvvisata, si affastellano, ora come allora, i dettagli di un piccolo Tibet ricostruito in modo raffazzonato e miscelato all’architettura tipica delle cittadine indiane. La chiamano la Piccola Lhasa (nomignolo che vale anche per Leh, la capitale del Ladakh). La giornata tipo prevedeva qualche localino dove fare colazione, un giro attorno ai batacchi del tempio e una guerra costante con le scimmie che popolano i dintorni della cittadina e contro cui di notte si scatenano battaglioni di cani che non sono meno pericolosi. I più coscienziosi andavano alla Library, i più colti compravano e divoravano opere scelte di Tenzin Gyatso stampate malamente, molti altri approfittavano di un ambulatorio gratuito dove ti tastavano il polso per decidere quale pasticcio di erbe consigliarti. Rimedi che funzionavano anche se la diagnosi avveniva – per noi – in modo bizzarro: tastando il polso e determinando quindi cosa bloccasse il flusso di energia. O assaggiando l’urina, metodo infallibile ma che richiedeva una visita privata a pagamento. L’atmosfera era pervasa da una sorta di santità, o almeno così ci sembrava, ritmata dai mantra che uscivano dagli stomaci dei monaci, presenza costante e affascinante per noi giovani occidentali che avevamo barattato la civiltà dei consumi degli uomini «a una dimensione» – come l’aveva chiamata Herbert Marcuse – per incontrare la complessa e multiforme spiritualità del buddismo tibetano, che appariva davvero una via di salvezza dell’anima e che meglio si coniugava col nostro spirito laico e libertario rispetto al rigido schematismo islamico o alla ricca e troppo complessa – e squisitamente razzista – visione del mondo degli indù. In effetti molto del richiamo del messaggio spirituale del Dalai Lama, contrariamente alle mille forme di proselitismo che alimentavano gli ashram in62

diani (i luoghi di purificazione che avevamo imparato a conoscere dai Beatles), sembrava accettabile anche a chi pensava che la religione fosse l’oppio dei popoli e diffidava in genere delle tonache di qualsiasi colore fossero. Sopratutto a McLeod capimmo cosa significava «compassione», perché il Dalai Lama viene chiamato «Oceano di saggezza» e perché lui e la sua gente si rifugiarono in India nel 1959. Delhi, all’epoca, alleata dell’Urss e fieramente anticinese, accolse Tenzin Gyatso più per calcolo politico che per compassione, salvo poi scaricarlo. Come avviene in questi anni, con i due colossi asiatici che si sono riappacificati grazie ai primi accordi sulle frontiere e mettendo in un cantuccio la «questione tibetana», come si è visto nel 2008 quando Lhasa ha tentato forse la sua ultima ribellione. Un canto del cigno oscurato in tv dalle Olimpiadi. Gli ashram, luoghi di meditazione, erano di solito riservati alla truppa meno pragmatica e più spirituale del viaggio all’Eden. A coloro che avevano preso una sbornia trascendentale dopo anni di lotte nei quartieri delle loro città, dove la pratica sociale e la ragion politica avevano trionfato, anche troppo, sulle passioni del cuore e dell’anima. Tanti erano andati in cerca di Babaji, il maestro che non ha ombra, o di qualche altro santone che sistemava i suoi adepti nell’ashram personale, che spesso finiva per assomigliare a un bed & breakfast con servizio spirituale. Esperienze che si sono andate trasformando, in certi casi, in un nuovo tassello da aggiungere alle mete di un turismo di massa sempre meno fricchettone e che ha trasformato anche l’India profonda in un dépliant della Franco Rosso o dei Viaggi dell’Elefante. Altri si accontentavano delle perle di saggezza che, sotto un ampio baniano dalle radici che, come intestini, escono dalla terra, calavano centellinate dalla bocca di qualche sadhu seminudo di Rishikesh che, tra un chilum e l’altro (il minicamino di creta in cui fumare la ganja indiana), suggeriva il viaggio interiore che ognuno doveva fare seguendo le sue inclinazioni e le antiche prescrizioni della millenaria tradi63

zione indù. Altri ancora si accontentavano solo della ganja o dell’oppio statale che veniva venduto, fino a non molti anni fa, in piccoli baracchini sulla strada con tanto di timbro governativo. Era il male minore, visto che tanti loro fratelli si erano persi con la raffinazione del frutto oleoso del papavero: la morfina e, in seguito, l’eroina. La morfina in India aveva due capitali: Benares e Delhi. Per estremo paradosso, la città dei santoni (che come abbiamo visto nascondeva anche terribili tensioni tra comunità religiose) era la patria di questa polvere dal colore rosa che si trovava con facilità e senza bisogno di far troppe domande. Bastava all’epoca andare in una nota e «stellata» farmacia del centro. A Delhi non era più difficile e anche la capitale aveva il suo National Hotel, l’albergo dei disperati all’ultimo stadio che già avevamo incontrato a Peshawar. Il Crown Hotel, che di coronato ha solo il nome, esiste ancora. Si trova alla fine di Chandni Chowk, la via più trafficata del mondo che, nel cuore della vecchia Delhi, si snoda dal Forte Rosso sino a una piccola moschea attraverso un paesaggio umano che la Shining India non è riuscita a intaccare. In fondo al lungo viale – affollato di commercianti di ogni tipo, vacche sacre al pascolo, intere famiglie a passeggio, mendicanti con ogni sorta di guai ben esibiti, fedeli di ogni religione in cerca del proprio tempio – si svolta a sinistra e, prima di imboccare una piccola stradina, si salgono le scale di un albergo che ha fatto epoca. Allora al Crown, come al National di Peshawar, i più reietti – quelli cioè rimasti senza una rupia – riparavano in piccoli stambugi sul terrazzo, dove il caldo tropicale di Delhi trasformava le loro cellette di lamiera in roventi inferni che solo la timida frescura notturna estiva riusciva in parte a lenire. In inverno si moriva di freddo. Al Crown c’erano frotte di junkie di ogni tipo, razza, paese. Soprattutto uomini, che passavano la giornata a bollire su un fornelletto le siringhe di vetro in cui aspiravano la «morfa» liquefatta in un cucchiaino. Dopo la «pera» stramazzavano sul letto completamente paonazzi 64

per la botta di un «flash», il colpo dello stantuffo nella vena, che aveva un effetto «a spillo», come se mille piccoli aghi ti pungessero in ogni parte del corpo. La polizia tollerava e solo ogni tanto decideva perquisizioni generali, avvertendo forse prima il proprietario dell’albergo che magari poteva così disfarsi di qualche ospite ormai non più solvente. La morfina indiana, come la Merck di Peshawar, fu l’anticamera dell’arrivo dell’eroina, la cui raffinazione più complessa impiegò qualche anno prima di raggiungere – più tardi che in Occidente, dove arrivava dal Sud-Est asiatico – anche l’India. Oggi anche questo fiorente mercato è cambiato. Il re incontrastato della piazza è l’Afghanistan, dove astuti trafficanti, con l’avallo dei talebani, di qualche «signore della terra» o del governo, hanno impiantato laboratori in grado di raffinare eroina a prezzi stracciati. La produzione di oppio ha superato quella di Pakistan e India e soprattutto della Birmania, arrivando a coprire il 90% del mercato. La guerra ha alimentato il commercio di un prodotto che crea larghi margini di guadagno e che, in parte, finanzia guerriglia, signorotti locali e funzionari corrotti. L’eroina afgana arriva sino a casa nostra o nelle strade di Mosca ma adesso è merce comune anche in quelle di Kabul, dove è sempre più facile vedere giovani tossicomani. Quando la polizia li arresta, se non vanno in galera, c’è l’ospedale psichiatrico. La cooperazione internazionale si è dimenticata di questi disperati, anche loro figli dell’ultima guerra afgana, fatta eccezione per qualche sporadica attività di assistenza. Se il viaggio all’Eden prevedeva, sulla rotta classica, una fermata a Delhi e una a Benares, le deviazioni erano all’ordine del giorno. Chi andava ad Agra a vedere il Taj Mahal, il mausoleo che Shah Jahan dedicò alla sua favorita Mumtaz Mahal, morta prematuramente, chi a Sarnath, dove Siddhārtha Gautama fece la sua prima predicazione, chi scendeva in Kerala, chi guadagnava l’Orissa, chi tentava – allora invano – di raggiungere le isole Andamane, chiuse agli stranieri per motivi militari e oggi nuovo ricettacolo del turismo indiano. 65

Poi c’era lo Sri Lanka oppure le isole Maldive. Ma qui ci siamo già sganciati dalla rotta solenne che portava in Nepal e riprenderemo il tema più avanti. Il treno per Benares (800 km) partiva alle 20.10 dalla stazione di Old Delhi. Da lì, al costo di 15 rupie (2 dollari), si proseguiva per Raxaul (350 km), ultima stazione prima della frontiera nepalese. Pur essendo, rispetto ai nostri fratelli indiani, assai più ricchi, come studenti avevamo diritto a una riduzione del 50%. Il vecchio libretto di appunti sentenzia: «Fare le riduzioni la mattina per la sera». Il grande viaggio stava arrivando al capolinea.

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India 3 Quarant’anni dopo. Lo scempio di Goa. La scogliera di Varkala. Menù alla russa e niente peperoncino. I lasciti della geometria britannica.

I’ve come so far / From where I’ve began / It’s the sound of the waves / The breeze on my skin / Wish that I could be back / Back in my home land singing / thi thi thara thi thi thai / thi thai thaka thai thai thom. Vidya Iyer, Kuttanadan Punjayile (english remix), 2016

Dopo quell’ultimo viaggio ad Ayodhya, altri dieci anni dopo, sono tornato in India ancora una volta. Non sarà l’ultima. Non ero mai stato a Goa e nemmeno a Varkala: la prima è una lunga teoria di spiagge infinite dove l’Eden conosceva una deviazione invernale che aveva il suo rituale principale nelle feste al chiarore della luna piena e in una sorta di Natale superfreak per chi svernava nella Grande Madre, a diecimila chilometri da casa. Varkala invece era diventata la meta alternativa quando Goa si era ormai «sputtanata». Mi incuriosiva, anche se temevo una delusione. Quelle magiche spiagge nel cui entroterra svernavano i capelloni, condividendo casette in legno o alberghetti improvvisati, sono adesso una lunga, infinita teoria di residenze per tutte le tasche. Frequentata soprattutto da turisti russi e collegata con charter internazionali che da Mosca portano frotte di nuova classe media che cercano relax, corsi di yoga o semplicemente un posto al sole per contrastare il generale inverno che comanda le gelide lande dell’ex Unione Sovietica, Goa è ormai una delle peggiori colonie del turi67

smo internazionale. Inquinamento, nessuna magia, brutture architettoniche e menù in cirillico. I ristoranti affacciati sul mare esibiscono piatti indiani... non piccanti. Nella terra del peperoncino oggi, a Goa, dovete chiederlo a parte. E vi portano una salsa piccante made in Usa, pessima come la casa madre che la produce. Di magico a Goa c’è solo la sua capitale che, ancora oggi, merita un viaggio: Panaji, città cristiana costruita dai portoghesi che gli indiani mandarono a casa solo nel 1961 dopo più di quattro secoli, è ancora un luogo affascinante che si perde in un dedalo di viuzze dalla marcata architettura coloniale. Piena di locali tipici che servono vino, birra e piatti che mescolano la cucina lusitana a quella indiana, ha anche il merito di essere solo un luogo di passaggio verso le spiagge. Cosa che la rende ancora un luogo vivibile e rilassante. Comunque, quando sul finire del secolo scorso Goa era ormai già diventata il ricettacolo infinito di turbe di viaggiatori che ne avevano infestato e infettato spiagge e baracche, l’attenzione del vecchio freak in cerca di un po’ di pace aveva iniziato a volgersi più a sud. Lontano dal clamore di Goa, dal richiamo di Mumbai (all’epoca Bombay) e dalla ricerca sempre più faticosa di un alloggio che non fosse la brutta copia di una degradata Riccione tropicale. Gli occhi si fissarono sul Kerala, già noto per le backwaters, canali d’acqua dolce contaminati dal mare in un reticolo di vegetazione lussureggiante, solcati con battelli da passeggio per tutte le tasche. Due furono le prime mete: Kovalam Beach e, un po’ più a nord, Varkala. Arrivato a Varkala, il primo viaggiatore dovette rimanere estasiato: la città – che conta oggi circa 40.000 abitanti – è a un tiro di schioppo da una costa dominata da scogliere di una formazione geologica antichissima a picco sul mare, nera come il carbone e rossa come l’argilla. Intorno templi e moschee e, sotto il dirupo, spiagge infinite e incontaminate per chilometri. Piccolo sogno tropicale a budget ridotto, sembrava il buen retiro speciale per chi fuggiva gli ozii di Goa per 68

cercare un po’ di pace. Ora potete scordare tutto ciò benché la Lonely Planet – un tempo Bibbia del viaggiatore a budget, oggi viatico per impiegati del catasto (un modo di dire che non deve offendere il settore) – la definisca «un luogo magnifico per fermarsi a guardare le giornate trasformarsi in settimane». Forse è un ricordo di dieci o quindici anni fa. Centinaia di alberghi, guest house, casette per tutte le borse (da 1.000 a 10.000 rupie e oltre), ristoranti con offerta di ogni bevanda (a prezzi contenuti) e una sorta di cucina addomesticata per palati delicati e generalmente di qualità medio-bassa. Pesce fresco spesso mal cucinato, curry sbiaditi, cucina locale appiattita sul gusto di europei, israeliani (alcuni anni fa la colonia preminente), russi, indiani facoltosi e così via. Persino qualche caso di prostituzione. Decine di ospedali e centri ayurvedici che sono in sostanza beauty farm. Da questo posto senz’anima (almeno a ridosso della scogliera lungo la quale si sviluppa l’offerta turistica) gli dei sembrano essere scappati. Fa tenerezza la coppietta che osserva il tramonto nella posizione del loto in cerca di benedizione. È che Shiva e Parvati non abitano più qui. È il turismo, bellezza! Per essere onesti, abbiamo visto di molto peggio. Certo, nell’alta stagione (gennaio-marzo) sciamano decine di centinaia di turisti dall’aeroporto internazionale di Trivandrum e se chiedi loro cosa sono venuti a fare in India, rispondono: «Mica siam venuti in India; per Varkala siamo venuti». Ma per ora, che piaccia o meno la loro concentrazione, l’impatto non è dei peggiori, salvo che per la magica scogliera: a ridosso di quella massa corallina, già minacciata dal mare da una parte e dall’erosione monsonica dall’altra, preme una cementificazione contenuta ma pur sempre selvaggia. Quanto durerà? L’impressione a Varkala è che la scogliera stia irrimediabilmente franando. Il mare la erode e la cementificazione della costa, che apparentemente sembra contenerne la spinta, non appare come la soluzione migliore. La pressione sulla scogliera è forte e ogni anno un pezzo se ne va in mare, a pochi metri dall’ultima costruzione in cemento armato. 69

Il turismo, più o meno distruttivo, più o meno consapevole, è del resto una risorsa di cui l’India non può fare a meno. E la fortuna del Kerala è che c’è molta acqua, se è vero che un turista ne consuma almeno otto volte più di un locale. Insomma, per ora il saldo sembra forse positivo (posto che è una località da cui siamo fuggiti dopo una notte, ma questa è un’altra storia), ma il futuro appare incerto. Quel che è invece certo è che non è un posto da viaggiatori ma una normale località turistica da relax. Niente di male, se siete stanchi e accaldati o se l’intenzione è fare un pieno di massaggi sentendo il fragore del mare, con una birretta ghiacciata magari al bordo di una piscina. Non è certo per moralismo che Varkala non ci è piaciuta. L’eterna diatriba resta quella tra il turista e il viaggiatore che, nel fondo dell’animo, ha sempre l’idea che sta andando alla scoperta di qualcosa. Non diremo di «genuino», termine di per sé imperfetto, e neppure di «nuovo», ma di qualcosa. Qualcosa di non ancora visto (almeno da noi). Spesso quel qualcosa è solo una sensazione o una breve conversazione con il proprietario di un piccolo locale dove si prepara il tè. A Kappil, cinque chilometri più a nord di Varkala, questa sensazione è ancora possibile: su questa nuova, ultima frontiera ci sono guest house a prezzi più che accessibili, inframezzate da spiaggia e palmeti, piccoli templi e moschee, minute frazioni dove ferma l’autobus e si può mangiare qualcosa della cucina locale. Finalmente piccante! L’India è un grande paese e non basteranno Varkala o Goa a distruggere una cultura millenaria e contraddittoria passata attraverso mille regni, la grande dominazione mogul, la presenza britannica che, alla fine, ne disegnò i moderni confini facendo della perla dell’Impero (22 lingue ufficialmente riconosciute) due paesi dalla bizzarra alchimia geografica. Nel giorno dell’indipendenza – e praticamente senza un preavviso preciso – sir Cyril Radcliffe, a capo della Border Commission, rese noti i confini che facevano nascere dal parto gemellare del Raj l’Unione Indiana e il Pakistan, a sua volta diviso in occidentale e orientale. Quel 17 agosto del 1947 non 70

segnava solo la fine di un impero politico e commerciale durato tre secoli, e cominciato con i primi viaggi a oriente della East India Company, iniziati appena dopo la sua nascita il 31 dicembre del 1600. Segnava anche l’inizio di uno dei maggiori esodi della storia, che fece cambiare villaggio o città a 14 milioni di persone e che doveva chiudersi con un bilancio di circa 2 milioni di morti. E le ceneri del Raj britannico e le sue geometrie confinarie dovevano continuare a produrre, e ancora producono, migrazioni e guerre. Nel 1971 il Pakistan orientale si staccò, con l’appoggio militare indiano, dal Pakistan occidentale creando il Bangladesh, mentre tra Islamabad e Delhi si andavano consumando le guerre per il controllo del Kashmir, dove un raja indù, in un territorio a maggioranza musulmana, aveva scelto l’India. Sul fronte occidentale (per non parlare dei contenziosi con Nepal, Cina o Birmania) la Corona aveva anche lasciato in eredità il confine segnato alla fine dell’Ottocento da Mortimer Durand, che aveva diviso, secondo un tracciato deciso solo dagli inglesi, la frontiera con l’Afghanistan. Quel confine, nato dalla penna di un burocrate, è ancora oggi l’alveo di una tensione infinita e un non luogo che divide in due la comunità dei pashtun. La nascita di India e Pakistan lasciava intanto irrisolto il destino di milioni di musulmani rimasti in India che ancora oggi sono cittadini uguali agli altri per la Costituzione ma «indesiderati» dalle frange dell’induismo radicale fedele al verbo dell’Hindutva, l’ideologia del nazionalismo induista. Non di meno, non è sbagliato definire l’India la più grande democrazia del mondo: esiste una libera stampa, elezioni parlamentari, rappresentanza politica e diritto di sciopero (nell’autunno del 2016, benché la notizia sia passata del tutto inosservata, l’India ha conosciuto uno sciopero nazionale con circa 150 milioni di partecipanti...). È dunque un grande paese di cui noi allora percepimmo solo una parte, qualche dettaglio e una fascinazione orientalistica che, dietro l’ubriacatura per gli ashram e la mistica, ci impediva di vederne le grandi contraddizioni anche se, evidentemente, l’India non 71

faceva che metterci tutti i giorni sotto gli occhi la grande povertà della sua gente. Oggi i segni del cambiamento sono evidenti. E non solo per lo sviluppo dell’economia, ancora lontana per altro dall’aver dissipato le grandi disparità sociali (assai meno evidenti però che in Pakistan). In questo paese vitale, dove ogni giorno si sveglia oltre un miliardo di esseri umani lungo due fusi orari e 2.500 chilometri da Amritsar al Manipur, oggi si beve prevalentemente acqua filtrata, dalle strade sono spariti storpi o poliomielitici ed è diminuito il numero di famiglie che non hanno un tetto sopra la testa. In tutto ciò il turismo ha una parte importante e si deve anche a quello, anche al degrado di Varkala e Goa, se l’India non è più la stessa. Persino quel che ci appare nero è a volte solo una tonalità del grigio.

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L’arrivo nell’Eden La città degli hippy e dei maoisti. Ragazzi di strada. Viaggio alle nevi perenni. La fine del sogno e il villaggio diventa metropoli.

I sit beside the dark / Beneath the mire / Cold grey dusty day / The morning lake / Drinks up the sky / Katmandu I’ll soon be seeing you / And your strange bewildering time / Will hold me down / Chop me some broken wood / We’ll start a fire / White warm light the dawn / And help me see / Old Satan’s tree / Katmandu I’ll soon be touching you / And your strange bewildering time / Will hold me down / Pass me my hat and coat / Lock up the cabin / Slow night treat me right / until I go / Be nice to know / Katmandu I’ll soon be seeing you / And your strange bewildering time / Will keep me home. Cat Stevens, Katmandu, 1970

Il viaggio all’Eden era per antonomasia il viaggio in India. Ma a volte ci chiedevamo se non fosse semmai il percorso che, attraverso l’India, portava a Kathmandu, nel piccolo regno himalayano del Nepal che fa da cuscinetto tra il mondo indiano, quello tibetano e la Cina. In effetti la città nepalese era l’ultima stazione del viaggio eppure nessuno dei paesi attraversati aveva il fascino, la forza, la complessità dell’India, un continente più che una nazione. Kathmandu però, città-palazzo di una monarchia fortemente tradizionalista quanto restia al cambiamento, aveva un fascino a sé del tutto particolare in un paese di rara bellezza naturalistica, dove la mano dell’uomo aveva plasmato piccoli villaggi che sembravano usciti da una favola 73

e non aveva ancora fatto irrimediabili danni ambientali. Infine quel popolo di artigiani industriosi aveva costruito una capitale che, anticipando il mondo sinotibetano e miscelandolo con la cultura indù, era una mescolanza di stili che avevano alimentato una qualità architettonica e artistica di estrema raffinatezza e di rara bellezza. Inoltre, come abbiamo detto, il Nepal, Stato cuscinetto tra l’Impero di Mezzo e la grande Unione Indiana, aveva ospitato un discreto segmento di popolazione tibetana e ne aveva raccolto e assimilato pezzi di tradizione nel substrato prevalentemente indiano di questo piccolo regno fuori dal mondo (la maggioranza dei nepalesi è induista). Il Nepal godeva del suo status privilegiato di cuscinetto geopolitico e ne approfittava per restare fermo nel tempo, con tutto quel che ne consegue: una staticità che ne aveva preservato le bellezze naturali e architettoniche tanto quanto la longevità di una monarchia assoluta e autoreferenziale, in una condizione sociale di estrema povertà. Con una cornice di splendidi palazzi a pagoda che sembravano statue immutabili e segnavano il passaggio dal mondo sudorientale a quello dell’Estremo Oriente. L’arrivo alla nostra Shangri-La, quel luogo immaginario raccontato negli anni Trenta da James Hilton nel suo Orizzonte perduto, avveniva in autobus, con vecchi Tata indiani scalcinati o semplicemente su camion che avevano rudimentali sedili assemblati nel cassone. Ancora buio, si inerpicavano da Birganji sino alla capitale, dove si arrivava al mattino presto. Scendendo dal valico affacciato sulla verdissima valle di Kathmandu, si vedevano emergere nella fine nebbia mattutina i contorni stilizzati dei grandi templi di Durbar Square che, con grande sorpresa, esibivano i profili di costruzioni a pagoda che in diecimila chilometri di strada non avevamo mai visto. Oggi questo colpo d’occhio è impossibile. La piccola città che faceva qualche centinaio di migliaia di anime è un centro urbano smisurato che arriva a due milioni di abitanti, ingigantito non solo dallo sviluppo demografico ma anche dall’insicurezza di oltre due lustri di guerra civile. Unico vero centro urbano del Nepal, Kathmandu ha accolto frotte di pro74

fughi in fuga dalle campagne, dove al flagello di alluvioni e valanghe si era aggiunta l’incertezza connaturata al conflitto che un partito maoista sui generis ha condotto sino alla vittoria contro un’inossidabile monarchia durata 240 anni (e abolita nel 2008). Monarchia che era giunta ormai al suo ultimo atto, tra congiure di palazzo e inutili resistenze al cambiamento. Il pianeta del viaggio all’Eden aveva ovviamente eletto domicilio nella parte più bella della città, ossia il centro storico di Durbar Square, dove era rapidamente nata una vera e propria congregazione di hotelier che avevano colonizzato un’intera via popolata di lodge e ristorantini e che era stata ribattezzata «Freak Street», nome che oggi porta ancora. La maggior parte dei viaggiatori stazionava qui, assaporando torte di cioccolato e crema impreziosite, su richiesta, di un’aggiunta di hascisc, componente non solo gastronomica che si trovava con grande facilità. I più freak tra i freak, quelli che già allora «mica si può abitare in città», sceglievano invece i dintorni del tempio di Swayambhu, che distava una manciata di minuti dal centro, lungo una strada che attraversa un piccolo Gange nel quale venivano gettati i resti dei cadaveri abbrustoliti sulle pile mortuarie rituali. La zona era popolata di scimmie dispettose, scarsamente educate e più abili di un borseggiatore, che hanno conservato la tradizione di abitare colà. Per alcuni Kathmandu era davvero la fine del viaggio. Questo paese di elfi (i nepalesi sono di statura piuttosto bassa e quasi tutti portavano e portano un piccolo fez floscio di stoffa – il dhaka topi – che dà loro l’aria di minuti, affascinanti gnomi) era l’ultima tappa e già bisognava fare i conti per il rientro. I più fortunati avevano un biglietto da Delhi verso casa, la maggior parte però doveva fare il percorso a ritroso. Non era sempre facilissimo. Uno di loro, uno scozzese un po’ sprovveduto, una mattina si accorse che il suo passaporto era sparito. Rovina, disastro, sciagura. Ottenerne uno nuovo poteva essere un problema e molto spesso l’ambasciata ti rilasciava al più un foglio di viaggio, che però comprendeva 75

solo un tragitto via terra ben definito. Addio avventura. Il passaporto riemerse una sera nel racconto di un italiano che, anch’egli senza libretto perché scappato dall’Italia per evitare la leva, lo aveva magicamente sottratto allo scozzese durante una febbricitante diarrea del poveretto. La vicenda suscitò un gran vespaio: le regole non scritte del freak imponevano che si chiudesse un occhio sulle faccende illegali, ma le stesse regole dicevano che agli amici di viaggio non si sottrae nemmeno uno spillo. Il passaporto tornò allo scozzese e l’italiano si incamminò senza carte verso il confine indiano, a rischio di finire in gabbia. Una storia che ci ha tormentato per anni e che era lo specchio della realtà a duplice-triplice binario che vivevamo, in una comunità che regole non ne aveva ma che non mancava di allinearsi a qualche atavico principio etico. Il Nepal, paese di nevi perenni, imponeva anche un faticoso trekking. Non farlo significava essere davvero poco «in» e dunque era necessario partire per Pokhara, amena località affacciata su un quieto laghetto ai piedi dell’Annapurna, per poi accingersi alla camminata rituale che prevedeva, per i più ricchi, la guida di uno sherpa, un selvatico montanaro locale che dava il ritmo e portava i bagagli. Lui a piedi nudi, noialtri con scarponi magari rimediati al locale bazar. Pokhara divenne poi un’area di influenza maoista anche se i guerriglieri, che non avevano nessuna intenzione di danneggiare i turisti, si tenevano a distanza dalla piccola cittadina cresciuta nel tempo a dismisura e trasformatasi, con l’avvento della guerra, in una cittadella fortificata con sempre meno fascino e sempre più turisti da viaggio organizzato. La storia del movimento maoista meriterebbe ben più che poche righe ma allora non c’era traccia della benché minima propensione alla ribellione. Il re usciva da palazzo coi suoi macchinoni e si pavoneggiava in un paese tanto bello quanto povero, misero e ignorante. I nepalesi vivevano come schiavi moderni senza che noi, ammaliati dalla magia di Shangri-La, ce ne rendessimo conto. Cosa avrebbero detto contadini e protomaoisti nepalesi nel sapere che, soprattutto noi italiani, eravamo «compagni»? Meglio forse che non lo abbiano saputo. 76

La geopolitica del resto faceva il suo cinico e inesorabile percorso: i maoisti sono stati sostenuti dagli indiani, la più ampia democrazia parlamentare del mondo. Davano fastidio invece ai cinesi che ormai avevano gettato alle ortiche il Libretto rosso del Grande Timoniere e gli preferivano i manuali sull’imprenditoria privata. Che voleva, pensavano a Pechino, quel gruppo di montanari agguerriti guidati dal mitico Prachanda? Rompere il difficile equilibrio dello Stato cuscinetto? Di geopolitica allora capivamo poco ma ovviamente non eravamo poi così ciechi. Semmai distratti. Non abbastanza da non accorgerci che Kathmandu, come nessun altro posto sin qui visitato, pullulava di bambini che vivevano in strada: piccoli straccioni con un perenne moccio al naso, sporchi all’inverosimile e sempre in cerca di qualche rupia. Ma l’India, che ci aveva vaccinato con una dose incommensurabile di storpi, poliomielitici, lebbrosi e mutilati, ci aveva reso un po’ cinici. Anche perché se appena cedevi, magari invitando a cena un ragazzino, ne arrivavano a frotte e quello ti si attaccava ai vestiti senza mollarti se non sull’uscio dell’albergo. Nella magica Shangri-La, ultima tappa del viaggio all’Eden, la miseria umana – la loro e la nostra – mostrava la sua faccia cruda anche al viaggiatore più navigato. I volti di quei bambini senza famiglia accompagnavano i nostri incubi notturni e molto probabilmente, e con maggior successo, quelli dei giovani maoisti che nel 1996 abbracciarono la lotta armata. E alla fine presero il potere, arrivando a imporre l’abolizione della monarchia rappresentata allora dall’ultimo re Gyanendra Bir Bikram Shah Dev: nel dicembre del 2007 il Parlamento del Nepal approvò la trasformazione del regno in repubblica, cosa che di fatto avvenne il 28 maggio 2008. Dall’ottobre del 2015 a capo dello Stato c’è una donna. Comunista. Ha 57 anni, si chiama Bidhya Devi Bhandari e ha un curriculum di tutto rispetto, dove spiccano le battaglie in difesa delle donne in una società dominata dai maschi e dalle caste alte che dettano ancora – anche se forse sempre meno – la legge non scritta della tradizione. La spensierata vita della banda dell’Eden oggi non è più 77

possibile a Kathmandu. I piccoli villaggi di Patan e Bhadgaon, la cui distanza dal centro si copriva con una gita su una bicicletta cinese, sono oggi parte integrante di una città che va perdendo la sua identità. Qualche anno fa un nepalese che deve amare molto il suo paese è andato in giro per discariche a recuperare tutte le porte e le finestre di legno che ha trovato: intarsi pregiatissimi che abbellivano i palazzi ma anche i piccoli tuguri del centro e che la speculazione edilizia aveva sfrattato, facendone legna da ardere. La modernità, con tutto il bene e tutto il male che la accompagna, aveva sostituito le antiche travi di legno himalayano con pilastrini di cemento armato. Quel nepalese ne ha fatto un albergo di lusso che riecheggia l’antico splendore dei palazzi che ora si possono vedere solo a Durbar Square, soffocati da un mare di cemento – ma anche di fogne e di acqua in casa – che avanza inesorabile. Se siete stati a Kathmandu negli anni Settanta, fate a meno di tornarci. Nessun posto è forse cambiato così tanto. Nessuna magia si è forse dissolta così rapidamente. Ormai era il tempo dei saluti e forse anche noi dovremmo reciprocamente congedarci. A Kathmandu finiva il viaggio all’Eden e cominciava la strada del ritorno, che pullulava di questue alle ambasciate, di imploranti telegrammi a casa per avere due lire, di inesorabili, estenuanti attese alle poste centrali dove al Poste Restante, lo sportello al quale, in tutte le città del mondo, era possibile farsi spedire una lettera, il funzionario di turno, che ormai ti conosceva, crollava il capo per dirti che anche oggi non era arrivato un bel nulla. Non tutti però tornavano a casa. Il viaggio all’Eden aveva ovviamente un’appendice, anzi più di una. Verso oriente si apriva infatti un altro universo la cui prima tappa era la Thailandia. Da lì ci si poteva perdere in un’infinità di mondi: nell’ex Indocina francese, nella Malaysia di Salgari, nell’Indonesia dalle mille isole. Alcuni di noi si imbarcarono per quell’avventura, ultima puntata verso un nuovo paradiso. Ma ad aspettarci, nel 1974, c’era anche un inferno, l’inferno della guerra del Vietnam che aveva contagiato tutto il Sud-Est asiatico. Inevitabilmente fece ammalare anche noi. 78

II

Strade collaterali, tra scoperta e turismo

A oriente: il Sud-Est asiatico Al Malesia Hotel di Bangkok: puttane, militari americani, eroina e l’ombra del Vietnam. Nella terra del Pathet Lao. L’ultima fumeria di Penang. Soggiorno a Hanoi, punta di diamante del capitalismo asiatico.

Well, I’m so tired of crying / But I’m out on the road again / I’m on the road again / Well, I’m so tired of crying / But I’m out on the road again / I’m on the road again. Canned Heat, On The Road Again, 1967

Il viaggio a est era necessario farlo in aereo. Se la memoria non fa difetto, il biglietto che da Calcutta ti portava a Bangkok valeva circa 70 dollari: una cifra iperbolica nel portafoglio del viaggio all’Eden o, meglio, della sua digressione estremorientale nelle terre del Sud-Est asiatico al di là del Golfo del Bengala. Calcutta, oggi Kolkata, allora era ancora una città nella tenebra dello sfruttamento più orrendo e palese dell’uomo sull’uomo. Si arrivava alla Howrah Junction Railway Station, la più antica e più grande stazione delle ferrovie indiane che collegava, durante la colonizzazione, la capitale dell’India amministrata dalla Compagnia delle Indie al resto della perla del Raj. Ci si arrivava su un treno che aveva ancora i vagoni di terza classe (poi aboliti mettendo la sigla 2a su quelli di 3a) e da lì un risciò ti portava nell’alberghetto, segnalato da qualche globetrotter. Ma i risciò di Calcutta avevano due peculiarità: la prima era che erano trainati da uomini in carne (poca) e ossa, come in quelle immagini ottocentesche della Cina imperiale. La seconda era che il conduttore non era il proprietario, come in molti altri casi sparsi per il continente; 81

la differenza è che ne diventavi consapevole appena montato sul mezzo. Il primo autista infatti, dopo aver contrattato il prezzo, faceva pochi metri e si arrestava sotto l’immenso ponte di Howrah (che in realtà dal 1965 si chiama Rabindra Setu), un’enorme propaggine d’acciaio che corre lungo 457 metri per 82 di altezza sulle acque sacre del Gange, che sotto i suoi ponti ospita un’umanità reietta e infinita, tra cui anche chi è in attesa di prendere a noleggio un risciò. Avvenuto lo scambio, il nuovo uomo-cavallo correva (dico correva, non camminava) attraversando la città. E se a un incrocio la frenata lo faceva arrivare troppo in là sulla linea immaginaria decisa dal vigile, questi gli affibbiava una frustata con una lunga canna di bambù, il flessibile e apparentemente leggero legno delle Asie che, una volta essiccato, diventa duro come una stanga di marmo. Leggo sul web che nel 2015, nonostante leggi, decreti e bandi, ve n’erano ancora di questi poveri motori umani, che in origine provenivano in gran parte dal poverissimo Stato del Bihar. Qualche giorno dopo eravamo imbarcati su un comodo aereo della Thai International, la compagnia di bandiera della Thailandia, famosa allora come la Compagnia dell’orchidea, simbolo nazionale, il cui pregio era una raffinatissima accoglienza e un pasto che prevedeva vino in bottiglia e liquori, benché il volo avesse una durata minima. Che delizia! Tutt’altra cosa rispetto ai voli low cost attuali, dove si viaggia stretti come acciughe, un panino costa come il biglietto e le regole sul bagaglio sono un’ossessione quasi poliziesca. Allora, che il terrorismo non aveva ancora fatto la sua comparsa globalizzata, prendere l’aereo era un lusso così apprezzato dallo scalcagnato viaggiatore giunto fino alle Porte della Percezione da compensare l’asettica e anonima freddezza degli aeroporti che consentono di attraversare continenti nello spazio di poche ore, incuranti delle mille diversità del pianeta e riempiendo l’aria di deiezioni inquinanti. Centellinavamo quel Bordeaux come fossimo stati a un festival del gusto e, con sorpresa e gioia, potevamo ordinarne un altro senza che 82

la bellissima hostess azzerasse il suo candido sorriso. Stavamo raggiungendo Bangkok, Krung Thep, la città degli dei o, se si preferisce il suo nome completo: La città degli angeli, la grande città, la città eterna gioiello, la città inespugnabile del Dio Indra, la grande capitale del mondo dotata di gemme preziose, la città felice, ricca di un Palazzo Reale enorme che ricorda la dimora celeste dove regna il Dio Reincarnato, la città data da Indra e costruita da Vishnukam. Il posto dove andare era noto: nel 1974 il Malesia Hotel di Bangkok costava solo un dollaro e mezzo a notte ed era una sorta di bordello a cielo aperto per militari stellestrisce in libera uscita. In apparenza però aveva il lusso di un quattro stelle, una piscina notevole e camere ammobiliate all’americana, spaziose e pulite. Per quella cifra non avevamo mai visto nulla del genere nei sei mesi che avevano accompagnato il nostro viaggio all’Eden, del quale la Thailandia era una costola non obbligatoria, una stazione della nostra via crucis non prevista dal canone. Al Malesia, dove i frikkettoni venivano indirizzati da chi prima di loro aveva fatto la deviazione per il Sud-Est asiatico, l’erba – avvoltolata come prosciutto su un grissino nei lunghi thai stick – si vendeva al quarto piano. L’eroina anche. Al bar della reception stazionavano minute prostitute locali che aspettavano il soldatino di turno e forse si divertivano quando la polizia faceva irruzione e pizzicava qualche straniero troppo «fatto» ma lasciava in pace le meretrici autorizzate dalla cittàbordello. Per il sesso tutti i piaceri erano consentiti e legali, ma per il fumo o altro erano previste pene severissime. Lentamente avevamo capito tre cose della Thailandia: la prima era che si trattava inequivocabilmente di una retrovia della guerra in Vietnam; la seconda, che il conflitto aveva fatto della prostituzione un business gigantesco; la terza, che i militari americani chiudevano volentieri un occhio se, per evitare la diserzione, il sergente Smith o il soldato Brown facevano un tiro di «bianca» o spinellavano tra le braccia di una ragazza pam-pam, termine inequivocabile per indicare il su-e-giù a pagamento. A Bangkok c’erano bordelli ovun83

que: bar equivoci, case chiuse aperte sulla strada, loculi in cui una decina di ragazze erano esposte con un numero sulla camicetta. Non indicavi il loro nome, chiamavi il numero come al lotto. Con un traffico caotico, ristoranti e ristorantini di cucina raffinatissima, mercati della frutta ondeggianti sul fiume, Bangkok non era priva di fascino ma era troppo lontana dalla magia del viaggio all’Eden. Bisognava andare oltre, perdersi altrove, ritrovare quella spiritualità tipica dell’Asia che a Bangkok sembrava schiacciata da un flusso di dollari e di modernità a poco prezzo. Involgarita non tanto dal sesso a pagamento ma da tutto quello che c’era dietro e che intuivi accanto a quel sorriso sempre disponibile di probabili minorenni strappate a qualche villaggio. Con la prostituzione avevamo già fatto i conti ma a Bangkok era così manifesta che non potevi fare a meno di notarla. A Bombay il quartiere delle prostitute era il medesimo dove fiorivano le fumerie d’oppio e le passeggiatrici non passeggiavano ma stavano recluse in gabbie che si aprivano all’esibizione di dollari o rupie. In Nepal non avresti mai detto che ce ne fossero ma in realtà, anni dopo, capii che quel business infinito sulla pelle delle donne aveva un suo santuario anche nelle alate valli di Shangri-La. Nel 2004, in un viaggio organizzato dalla Ong italiana Aidos, retta dalla femminista della primissima ora Daniela Colombo, me ne ero reso conto. Nel mio reportage per «il manifesto» avevo scritto: Proprio nei villaggi dell’interno infatti, le mafie nepalesi e indiane hanno organizzato negli ultimi anni un lucrosissimo commercio. Quello degli esseri umani, possibilmente di sesso femminile e all’occorrenza minori. Secondo stime ufficiali sono almeno 12mila i minorenni che ogni anno entrano in questo lucroso mercato che esporta all’estero manodopera sessuale a basso costo o piccoli schiavi per le faccende domestiche in qualche ricca famiglia indiana o del Golfo. Maiti Nepal, l’organizzazione non governativa più nota nel Paese e che lavora nel campo del recupero di chi riesce a sgusciare dalle strette maglie della mafia del traffico umano, ha fatto i suoi conti. Bishwo Ram Khadka, il portavoce dell’associazione, 84

ritiene che «ogni mese almeno venti ragazze escano attraverso circa 26 transiti di frontiera con l’India, il che fa 520 ogni mese, oltre seimila in un anno. Nella sola India pensiamo che ci siano tra le 150 e le 300mila ragazze nepalesi che vengono prostituite nei bordelli di città come Bombay, Puna, Surat o Delhi».

A Bangkok quel commercio non lo dovevi proprio cercare: era lì sotto gli occhi di tutti e con il timbro del suo monarchico governo modernista. Il turismo sessuale, che allora cominciava a germogliare, era uno dei tanti regali offerti dalla guerra, come ci saremmo resi conto appena qualche giorno dopo sulla strada per il Laos. La prossima destinazione infatti era Vientiane, capitale del Laos, percorso che si copriva con treni e autobus non sempre sincronizzati. Su quella strada ci toccò così un’altra manifestazione della stretta relazione che la guerra aveva coi territori che le funzionavano da anticamera o retrovia. Vicino a Udon Thani, ormai a un passo dalla frontiera col Laos sul Mekong, ci capitò di dormire davanti a una base americana. Sdraiati all’aperto su una stuoia, aspettando l’autobus, sorseggiammo Mekong, il whisky thailandese che si comprava per pochi baht. Di fronte alla base, alla nostra destra, c’era una casetta a due o tre piani con le finestre chiuse. Verso mezzanotte – o forse all’alba – alla base suonò la libera uscita di un turno e frotte di marines, tanto rapati quanto noi eravamo zazzeruti, si riversarono fuori alla spicciolata. Nello stesso istante, le finestre della casetta, che doveva essere stata costruita come annesso della base, si aprivano, mostrando una pletora di bellezze locali che, con fischi e richiami, indicavano al marine la strada – davvero poca – per trasformare l’incubo della guerra in un sogno d’amore. Il conflitto vietnamita era una sorta di contagio così esteso e profondo che andava ben oltre quel che leggevamo sui giornali a proposito della Strada di Ho Chi Minh (che riforniva la guerriglia al Sud), dei bombardamenti segreti in Cambogia (di cui allora si sapeva pochissimo) o della situazione nel 85

Laos, dove la guerra era in corso anche se, proprio in quello spicchio di vigilia del 1975 – quando gli americani lasciarono il Vietnam –, nella capitale laotiana regnava una calma sospesa: silenziosi come ombre si fronteggiavano i Pathet Lao, la guerriglia comunista, e le truppe fedeli a Suvanna Fuma il cui fratellastro, Suvanna Fong, stava invece coi «rossi». Vientiane aveva una sua magia postcoloniale: nel centro della città le indicazioni dei compagni di viaggio avevano segnalato il Lido Hotel, albergo fatto tutto di legno e bambù, completamente degradato rispetto al fasto che aveva dovuto conoscere ai tempi dell’Indocina francese. In Laos l’inflazione galoppava così veloce che la carta moneta sembrava quella della Repubblica di Weimar e il resto al ristorante te lo davano cavando una cariolata di biglietti di banca da un pentolone. La doppia al Lido costava un dollaro (1.200 kip) e per una cifra di poco superiore potevi accomodarti in un ristorante francese lì vicino dove, meraviglia delle meraviglie, potevi permetterti per 1.000-1.500 kip una bottiglia di Chablis della Borgogna che l’iperinflazione aveva reso abbordabile. C’erano altri vizi disponibili nella corrotta Vientiane e tutti attorno al Lido. Le fumerie stavano a due passi, tra un grande stupa e il Morning Market, e consentivano anche agli stranieri di assaporare l’oppio del Triangolo d’Oro in lunghe pipe di bambù nel cui fornello un anziano e magrissimo dispensatore infilava la piccola miscela estratta dal papavero. Quanto all’erba, diffusissima come in Thailandia, non era difficile reperirla. A Luang Prabang, l’antica capitale, la vendevano al mercato praticamente a fascine. La cosa avrebbe fatto inorridire i monopolisti che adesso stanno mettendo le loro mani grassocce e unte sul processo di liberalizzazione della cannabis, una pianta che per crescere ha solo bisogno di sole e che richiede persino poca acqua. Luang Prabang era un villaggione sul fiume che offriva uno spettacolo fantastico, non solo naturale ma soprattutto umano, quando dalla montagna scendevano a far la spesa le famiglie Lao montanare completamente vestite di nero. 86

Fraternizzammo coi Pathet Lao, chiacchierammo con qualche monaco progressista, cercammo di capire cosa stava succedendo. Non se ne parlava di avvicinarsi all’ambasciata americana, inaccessibile come una Fortezza Bastiani. A quella sovietica, in compenso, erano felici di accogliervi. Il diplomatico di turno ci spiegò il motivo di tanta disponibilità: «Questi sono paesi indipendenti e ora stanno decidendo che strada prendere. Noi stiamo a guardare ma siamo una nazione amica. Se ci chiedono una mano...». Il suo sorriso nel sospendere la frase indicava che le cose stavano andando per il verso giusto. Mancava una manciata di mesi all’epilogo di una guerra infinita e noi c’eravamo in mezzo, senza rendercene nemmeno troppo conto. Per la gente del Sud-Est fu una vera tragedia che aveva soprattutto due nomi: napalm e Agente arancio, con cui i B52 «defogliavano» le foreste per scacciarne la guerriglia. Agli americani costò denaro, vite umane e soprattutto la faccia. Perdere la faccia in Asia è la cosa più terribile che possa accadere. Lo avevamo capito nei mesi che avevamo passato nel continente percorrendolo tutto a piedi, con mezzi di fortuna, treni affollati, autobus zeppi di umanità e galline. Nonostante la propensione alle droghe e una certa riluttanza ignorante delle mete abituali dei turisti (niente musei o mostre da visitare), eravamo stati in mezzo alla gente e avevamo vissuto molto spesso come loro: mangiato le stesse cose, condiviso un’ospitalità inusuale, imparato a conoscere le regole profonde della tradizione e della convivenza. Molti di noi si erano ammalati di ameba o di epatite e qualcuno ci aveva anche lasciato la pelle, oppure si era perso entrando con leggerezza nel mondo degli stupefacenti senza far caso al rischio della dipendenza da cui ci si difendeva col ritornello «Smetto quando voglio». Noi invece avevamo fortunatamente dato retta a quel saggio cinese di Penang, in Malaysia, che gestiva una delle ultime fumerie di un paese dove per un grammo di eroina potevi prendere trent’anni di galera e per un chilo la condanna a morte: «L’oppio fa male? Ma no, anzi, è un toccasana per i 87

problemi intestinali». In effetti arresta la diarrea e lenisce il dolore e solo un lungo abuso può dare una dipendenza da cui non si torna indietro. A morfina ed eroina basta invece meno di una settimana perché la scimmia sulla schiena inizi insistentemente a bussare. Trenta o quarant’anni dopo, l’appendice orientale del viaggio all’Eden è una zona del mondo dove i cambiamenti sono più evidenti. L’Indonesia è diventata a poco a poco un paese più equo che ha cancellato una delle dittature più longeve della storia. La Malaysia continua la sua difficile navigazione in una nazione dove convivono tre comunità (malesi, cinesi, indiani) e dove si è trovato un equilibrio tra le spinte radicali dell’islam e il suo messaggio egualitario. Una ricetta che andrebbe studiata più in profondità. L’ex Indocina francese, il delta del conflitto che si svolgeva attorno al grande fiume Mekong e lungo lo stretto intestino vietnamita coinvolgendo tre paesi, è oggi un’area dove i giovani non si ricordano nemmeno più della guerra degli anni Settanta. Gli americani sono tornati ma per fare affari e rifarsi la faccia e il Vietnam, paese spazzato dal napalm e distrutto da decenni di conflitto (prima coi francesi, poi con gli Usa), è una delle punte dello sviluppo del Sud-Est asiatico. Hanoi è una città splendida e raffinata, le spiagge sono ancora poco affollate e i prezzi accessibili, la gente è aperta e disponibile, il cibo una meraviglia. Producono anche un vino locale e ottima birra. Allora tornammo a casa col fiato sul collo di un conflitto che avevamo percepito nel Sud-Est e che ci aveva spiegato come anche la Guerra Fredda avesse le sue guerre calde, messe in opera per interposto paese, cancrena che si diffondeva oltreconfine e che stava passando a contagiare l’Afghanistan. In compenso avevamo anche approfittato dell’equilibrio, in realtà incerto, che la Guerra Fredda aveva garantito in gran parte dell’Asia che comunque le sue guerre le combatteva anche senza aiuti esterni (basti pensare a India e Pakistan). Stavamo tornando a casa, dannazione. Fu un volo dell’Aeroflot per Parigi via Mosca a riportarci nel Belpaese. Fu una scelta 88

dettata dall’economicità dei voli sovietici ma anche dal desiderio di avere ancora uno spicchio del nostro viaggio all’Eden. Una vodka nel ristorante dell’hotel in cui facemmo scalo, e un piccolo kir nella Ville Lumière, quell’edizione francese del bianco spruzzato (o dello spritz) con cui avevamo iniziato a progettare il viaggio all’Eden a Milano mettendo nel vino, al posto del succo di ribes, l’italico Campari. Il kir ufficiale si prepara con otto-nove parti di vino bianco e una di Cassis, liquore dolce tratto appunto dal ribes (il kir royale vuole invece lo champagne). Abbastanza per coltivare il sogno di una nuova partenza. Non importa se all’Eden o no. Altre mete infatti, tutte figlie di quel viaggio all’Eden, erano deviazioni interessanti e alla scoperta di nuovi mondi. Proveremo a percorrere anche queste, ormai lontani dalla Grand Trunk Road. Ma conservandone per sempre il fascino nel cuore.

A oriente: isole nella corrente Sumba, Sumbawa, Madura. Le Maldive. La scoperta dell’Indonesia. Una lacrima nel tè a Sri Lanka. Viaggio a Jaffna.

Mare delle Andamane / Mare di Celebes / Mare dell’avventura mare mari del Sud / Sumba Sumbawa Madura Kai Mangole Morotai / Muna Kendari Wowoni Engano Pekalongan / L’ho seguita di bocca in bocca da Flores a Kabahena / Mataram Sumbawa l’ho seguita di vela in vela / Quando giunsi ad Almahera era partita la notte stessa / Su di una nave contrabbandiera verso Puerto Princessa / È sicuro che certi viaggi sono viaggi senza ritorno / Tra questa giungla che si getta in mare al Tropico del Capricorno / Cerchi Aurora trovi il vento trovi il mare cerchi ancora / Perché qualcuno da qualche parte in qualche porto ha visto Aurora. Lu Colombo, Aurora, 1984

Andamane, Nicobare e Laccadive erano il sogno insulare del viaggio all’Eden. Ma erano luoghi sigillati cui era vietato l’accesso. Così il sogno del mare trasparente, barriere coralline e spiagge incontaminate («sotto il pavé spiagge infinite», recitava uno dei tanti slogan del maggio francese) andava cercato altrove. Potremmo dire che quegli agognati paradisi erano tre: le Maldive e Sri Lanka a sud del subcontinente indiano. E l’Indonesia, il paese delle tredicimila isole che gli indonesiani chiamano tanah air kita, la «nostra terra d’acque». Sulle Maldive non c’è molto da dire: isole piccole e fragili minacciate dall’innalzamento dei mari, che sono ormai un paradiso forse perduto. Sommerso, oltre che dalle acque, da turismo 90

e spazzatura. Allora erano già troppo care per le nostre tasche. L’Indonesia è un mondo a parte, un pianeta con migliaia di specie vegetali, un paio di centinaia di lingue, dozzine di comunità diversissime tra loro, dai giavanesi ai papua, dai sumatrani ai molucchesi. Per quanto vessata da frotte di turisti di ogni provenienza, l’Indonesia è un paese potente e dunque più difficile da corrompere. Dopo la longevissima dittatura di Suharto, mi sembra un luogo sempre più consapevole dei tranelli dello sviluppo: basta pensare alla battaglia per l’acqua pubblica di Giacarta o alla capacità di conservare una tradizione aperta nei confronti della diversità, che spinge gli indonesiani ad accettare la non sempre facile convivenza di popoli tanto diversi in uno stesso paese. Ovviamente sarebbe stupido dimenticare che è stato anche un luogo di massacri e che negli anni Sessanta, quando Suharto prese il potere, il suo Orde Baru, il «Nuovo Ordine», nacque su una strage di comunisti o supposti tali il cui bilancio, forse per difetto, è di 4-500.000 morti in pochi mesi. Memoria con la quale il paese non ha ancora fatto i conti. Ma la grande Indonesia è in grado di digerire molte cose e forse anche per lei si sta avvicinando il tempo di fare i conti col passato. Ho viaggiato l’Indonesia in lungo e in largo. Prima con un compagno di viaggio che era anche mio compagno di studi dall’epoca del liceo Carducci a Milano e con cui, tra l’altro, avevo fatto il mio primo viaggio all’Eden. In seguito vi sono tornato in una sorta di magico viaggio di nozze con la madre dei miei due figli. Fu un viaggio durante l’inverno italico che laggiù ci aveva fatto apprezzare, oltre alla cucina, agli usi e ai costumi, anche il piacere di quelle piogge effimere che durano dieci minuti e lasciano il posto a un sole splendente che asciuga tutto in altrettanti minuti. Viaggiammo su barche di pescatori, in autobus sgarrupati, con taxi improbabili, su piroghe dal precario equilibrio. E ci amammo nelle stanze di un kraton – la copia di un piccolo palazzo reale – che una ricca famiglia di Solo aveva ristrutturato per turisti esigenti ma 91

poco danarosi. Ci sono tornato ancora da giornalista. Prima e dopo Suharto e sempre con visto turistico, che la diffidenza verso i reporter è sempre una costante. Un viaggio in Indonesia, un vero e proprio Eden soprattutto dal punto di vista naturalistico, meriterebbe un racconto a sé. Mi limito a dire due cose: gente sempre sorridente e una lingua facilissima da imparare. Se avete un dubbio su quella meta, fugatelo. E partite. Sri Lanka era nota all’epoca dell’Eden per la spiaggia di Hikkaduwa, 120 chilometri a sud della capitale Colombo. Non la visitai ai tempi ma posso immaginarmi che fosse un paradiso, cosa che lo Sri Lanka non mi è sembrato più. Il turismo qui ha fatto davvero la sua parte. È un’isola tutto sommato piccola e dunque fragile. Sospendo il giudizio per timore di esagerare, non avendoci viaggiato quarant’anni fa. Racconterò allora solo di un posto dove di turisti non ce ne sono proprio e dove, fino a qualche tempo fa, non si poteva andare. Il Nord, la terra dei tamil. La terra della guerra. Prendo così, un paio di anni fa, il treno notturno che collega Colombo a Jaffna, la capitale del Nord. Il treno si ferma nel cuore della notte in una piccola stazioncina senza nome. È arrivato al confine della regione tamil di Vanni: comprende quattro distretti che, con la penisola di Jaffna, formano la terra tamil. Salgono i militari, fucile spianato, giovanissima età, quasi nessuna parola di inglese. Chiedono il passi per poter varcare la frontiera immaginaria tra lo Sri Lanka a maggioranza singalese e l’area dove risiede la minoranza tamil, in gran parte induista. È una comunità venuta dall’India del Sud secoli fa, non meno dei singalesi, maggioranza nel paese e buddisti, che ci arrivarono un po’ prima. Quanto agli autoctoni, hanno fatto la fine di tutti gli indigeni. Ma io il passi (poi abolito) non ce l’ho. Gentilmente ma fermamente mi fanno scendere dal treno. La notte è umida e fresca ma non c’è nemmeno un po’ di luna a rischiarare un paesaggio così buio che nemmeno le mostrine dei soldati hanno la possibilità di brillare. Nella stazione non c’è anima 92

viva oltre le divise verdi. E nonostante due giovani reclute di sesso femminile che ridacchiano tra loro stemperando la tensione, un brivido gelato mi corre lungo la schiena. Questa è terra di esecuzioni sommarie. La cosa poi si risolve. Ho un visto turistico e da Colombo arriva il nulla osta che mi permette di abbandonare il posto di blocco, un assembramento di caserme sul confine. Prendo un passaggio da una macchina di tamil della diaspora, anche loro senza passi. La carreggiabile A9 verso la penisola di Jaffna corre tra due ampi margini di terra aggrediti dalla foresta e del tutto incolti, interrotti da qualche grossa fattoria che sembra appena impiantata. «Lo è – dice l’autista –, sono terreni confiscati e alienati a singalesi mandati qua per ripopolare un’area che è stata svuotata di noi tamil. Le case lungo la strada sono state distrutte, la gente cacciata. E i terreni passati ai militari in congedo. Per loro c’è acqua, pozzi, sementi. Per noi persino l’obbligo di non celebrare i nostri morti». Torna quel brivido lungo la schiena. Gelato e affilato come la lama di una baionetta. La rivolta dei tamil, latente da secoli, comincia nel 1983, quando si afferma un nuovo gruppo secessionista, armato e organizzato: le Tigri per la liberazione della patria tamil (Ltte) che chiede uno Stato separato da Colombo, il Tamil Eelam nel Nord dello Sri Lanka, su quasi un terzo della terra della Lacrima dell’Oceano Indiano. La campagna militare dura 26 anni e finisce, con una strage, nel maggio del 2009. L’offensiva si svolge in concomitanza con l’assedio di Gaza – l’operazione nota come «Piombo fuso» –, che oscura totalmente questo conflitto secondario, con pochi testimoni e migliaia di morti. L’Onu pubblica sulla vicenda due rapporti ma poi rinvia tutto alla Commissione per i diritti umani di Ginevra. Le bocce dell’impunità restano ferme. Nel Nord le tracce di quella strage sono scomparse. Persino i cimiteri, i tuilum illam (case del sonno), sono stati rasi al suolo. Alla distruzione sistematica della memoria si accompagna un programma di colonizzazione che ha molti precedenti nella 93

storia: dall’Asia centrale sovietica all’Indonesia, dall’Afghanistan alle Americhe. La guerra contro l’Ltte finirà tra l’ottobre del 2008 e il maggio del 2009, con una manovra a tenaglia costellata di bombardamenti sulle no fly zone negoziate con l’Onu, in cui si concentrano – in un’area grande come Central Park a New York – oltre 300.000 persone. Strette in una morsa che racchiude tigri, residenti locali e sfollati. L’esercito chiude la morsa e stritola l’enclave. Il resto è silenzio. Una memoria cancellata. Quanti morti? Almeno 40.000 «scomparsi» secondo i resoconti dell’Onu, ma molti di più stando al vescovo di Mannar, Joseph Rayappu, un uomo noto per la franchezza con cui parla. «Quarantamila morti? No – allarga le braccia il primate –, le vittime furono di più, molte di più. Le cifre sono qua, minuziosamente lette e rilette, confrontando i dati ufficiali delle statistiche prima di quel dannato periodo. E parlano chiaro: la differenza tra chi abitava in quelle aree prima e chi ci viveva dopo, con l’aggiunta degli sfollati che vi si erano ritrovati, dà ben altra cifra, precisa alla singola unità: 146.679. Scomparsi – conclude – ma con nome e cognome. Tra loro vi sono i mariti di 89.000 vedove. Il resto sono bambini, giovani ragazze, anziani... Alcuni dei sopravvissuti sono qui, in una casa di riposo al di là del muro. I primi sessanta li andai a prendere io stesso». La Lacrima dell’Oceano Indiano è un luogo pieno di lacrime. Che non si possono nemmeno piangere. Mannar e Jaffna ormai alle spalle, torno in terra singalese. Il baracchino lungo la strada apre alle sei del mattino. La gente passa per le frittelle e un tè nero o col latte. Ma è una piccola delusione il tè che si beve nella grande isola: il prodotto che, con la bellezza delle sue coste, ha reso noto lo Sri Lanka è solo una cattiva imitazione di quello che, con un ampio gesto del braccio, viene miscelato al latte da una tazza all’altra nei cay shop indiani da Peshawar a Calcutta. È scadente persino a Kandy, la capitale del tè, una cittadina di 100.000 abitanti arrampicata su colline di un verde intenso e affacciata su un lago. Ci si arriva in treno o con qualche autobus mal in arnese dove la costante di ogni fermata è una tazza di oro nero. Sì, 94

perché Kandy è famosa per due cose: un dente del Budda, conservato con religiosa attenzione in un enorme palazzo sul lago, e il tè. Un tempo era anche un buen retiro, prima che il turismo di massa, impennatosi dopo la fine della guerra civile nel 2009, portasse orde di viaggiatori e il relativo lavorio di ruspe e betoniere. Oggi, un albergo con vista lago – nella parte alta della città – è un hotel con vista albergo: uno davanti all’altro, con una gara a quale sarà più alto. Il tè oggi si coltiva su quasi 200.000 ettari: la qualità per l’estero è famosa e lo Sri Lanka è tra i primi produttori ed esportatori del pianeta. Circa un milione di persone lavorano nell’industria del tè, un capitolo torbido della storia passata e recente di questo paese. Non è difficile accorgersene, passeggiando in collina, dove non è infrequente incontrare chi il tè lo raccoglie, soprattutto donne e quasi tutte tamil, che i piantatori «importarono» dall’India per creare una colonia di coltivatori estranea alla popolazione locale, singalese e riluttante. Gli abiti sono sfilacciati ma eleganti. E il sorriso di queste signore di raffinata bellezza è incoraggiante ma spesso manca una fila di denti. Oggi non sono più le schiave che furono ai tempi in cui si cominciò a coltivare e un trattato ha riportato in India molte famiglie. Ma altre non se ne sono volute andare. Semmai hanno preferito restare – finalmente – con un documento di identità riconosciuto da Colombo. Restare come cittadini srilankesi che ormai avevano qui le proprie radici. Con salari minimi e nella scala più bassa della forza lavoro locale, le donne del tè (quasi l’80% del settore) vivono coi famigliari in baracche allineate con abitazioni di una o due stanze. Storia poco raccontata. Fino al 2015 lo Sri Lanka era uno Stato di polizia. I giornalisti non erano i benvenuti per via della guerra con le Tigri tamil del Nord. Men che meno i sindacalisti. Le cose stanno lentamente cambiando e forse stanno migliorando. Ma il mio tè a Sri Lanka resta amaro. C’è una lacrima nella tazza anche sulle dolci colline di Kandy.

A occidente: il tè nel deserto marocchino L’incanto di Chefchaouen. Il mercato di Marrakesh. Un re «illuminato» e una società civile che scalpita.

Looking at the world / Through the sunset in your eyes / Trying to make the train / Through clear Moroccan skies / Ducks and pigs and chickens call / Animal carpet wall to wall / American ladies five foot tall in blue. / Sweeping cobwebs from the edges of my mind [...] / Would you know we’re riding / On the Marrakesh Express / Would you know we’re riding / On the Marrakesh Express / All on board that train. Crosby, Stills & Nash, Marrakesh Express, 1969

Sole, mare, montagne e deserto. Tè zuccheratissimo alla menta. Questo ricordavo del Marocco. Ma adesso l’aereo scende leggero in mezzo a un mare di nuvole. L’aria è frizzante e umida. C’è una pioggia infinita che batte dal Rif – le montagne del Nord – fino a Tangeri, un nome che evoca una nuova porta su un nuovo continente: l’Africa. Non vengo in Marocco da quasi quarant’anni e non ne ho un bel ricordo. C’eravamo arrivati dalla Spagna, un po’ in treno un po’ in autostop, con una ragazza con la quale consumavamo una passione travolgente e con cui avevamo deciso di prendere la strada che menava a occidente, o meglio a quell’Oriente d’Occidente che è il Maghreb e, soprattutto, il Marocco. Ma fummo sfortunati: era agosto e c’era il Ramadan, il mese del digiuno che rende i fedeli del profeta maledettamente nervosi. Non si mangiava, non si beveva, non si fumava. 96

Inoltre la mia ragazza – che più occidentale non si poteva – era oggetto di continue attenzioni maschili, rese ancor più antipatiche dal fatto che i marocchini mi prendevano per un connazionale che, dopo aver «beccato» la fidanzatina europea, fingeva di essere straniero. Quando dissi loro che ero italiano, mi riempirono di male parole pensando che simulassi. Non di meno attraversammo tutto il paese fino a quel mercato di Marrakesh che sembra un quadro dei pittori orientalisti del nostro Ottocento e che invece, nonostante il turismo che già allora era evidentemente presente, è ancora la rappresentazione di sé stesso. Banchi di olive di ogni tipo, uva, arance e limoni e soprattutto datteri: di prima, seconda, terza scelta giù giù fino a quelli schiacciati e già quasi fermentati. Ma eravamo stanchi e non trovavamo pace. Non avevamo nemmeno abbastanza soldi e tempo per andare nell’Atlante o raggiungere le spiagge del Sud. Alla fine scappammo, inseguiti dagli sguardi ironici dei giovani marocchini che mi avevano preso per un traditore. Finimmo le nostre vacanze a Carboneras, una spiaggia spagnola nemmeno tanto carina dove trovammo una grotta – versione sfigata di quelle di Matala – che ci permise di sfuggire al caldo delle città andaluse e soprattutto alle frotte di turisti che si accalcavano negli antichi palazzi islamici che sono la perla della Spagna del Sud. Altro che viaggio all’Eden. Un viaggio all’inferno, premonizione che qualcosa stava rapidamente cambiando. La Spagna, sulla sua costa mediterranea, era già una devastazione di cemento e anche la mitica Ibiza era ormai una teoria di discoteche e baretti. Il Marocco, allora ancora tra le terre incognite se non per gli amanti del deserto, si apprestava a diventarlo. «Lezione appresa», come dicono gli anglosassoni e i documenti delle Ong: mai viaggiare d’agosto. Se già lo sapevamo, ecco adesso la certezza. Aspetta che passi ferragosto, amico mio, e il mondo ti sembrerà migliore. Torno quattro decenni dopo e mi riconcilio subito con questo splendido, magico paese con molte contraddizioni e 97

grandi e piccoli accoglienti alberghi colorati con un delizioso cortile interno. Da Tangeri, in mezzo a un turbinio di cantieri e lavori pubblici, arriviamo nella notte a Chefchaouen e l’incanto di una delle più belle medine del Mediterraneo ci avvolge in un sogno notturno. Abbiamo perso i bagagli a Barcellona e dunque la ricerca di calzini e camicie ci obbliga a un tour notturno non progettato che ci trascina sulle magiche pendenze della medina blu per cui questa città del Nord è famosa e patrimonio dell’umanità. Tornato in Italia, un’amica toscana mi dirà che solo quindici anni fa, alla fine dei Novanta, questo posto era tanto zozzo quanto pericoloso. Ci facevano tour dalla Spagna con auto munite di doppio fondo per caricarle di hascisc o di kif – la marijuana marocchina –, non senza correre il rischio di essere truffati e derubati dagli stessi trafficanti. Non c’è che dire, il salto in avanti è impressionante e non credo valga la pena di fare esercizi di nostalgia. Sono qui per lavoro. L’occasione è un convegno di apicoltori del Mediterraneo. Partecipano a un progetto europeo ideato dagli apicoltori umbri e dal Fondo per la cooperazione decentrata locale della regione di san Francesco. Mi hanno contattato per documentare questo bizzarro ma davvero stupefacente lavoro: creare reti di apicoltori che vanno dai territori francesi alla Palestina, dal Libano al Marocco, dall’Italia alla Tunisia. Ci sono apicoltori da tutti questi posti e ricercatori che studiano il ruolo insostituibile delle api nell’ecosistema, nella capacità di far ripartire le terre dopo gli incendi o di combattere la desertificazione, di proteggere la biodiversità, di segnalarci il degrado e l’inquinamento che queste insostituibili bestiole pagano a caro prezzo. Il forum di questi ingegneri del miele si tiene qui, in questa splendida città e in un’epoca dell’anno (è novembre) che non è stagione di turismo (oltre 40.000 presenze in un paese che nel 2014 ne ha registrate dieci milioni, con un giro d’affari di 5,3 miliardi di euro!). Non è nemmeno tempo di Ramadan: assaporo questa gentilezza berbero-araba, mi delizio nei ristoranti col cous cous, mi rimpinzo di olive, odori e sguardi. Vedo questo 98

mondo completamente cambiato con tutte le sue diversità miscelate in un cocktail di contraddizioni sociali che, qualche anno fa, hanno fatto esplodere enormi proteste di piazza e obbligato il re, un re considerato «illuminato» e soprattutto percepito in Occidente come moderato e baluardo sicuro contro il terrorismo, a fare riforme importanti, anche se la sua polizia e un apparato di sicurezza a maglia strettissima hanno impedito alla rivoluzione marocchina di raggiungere i suoi obiettivi. Primo fra tutti, ridimensionare il ruolo del monarca pronipote del profeta. Il Movimento 20 febbraio – come è stato chiamato – si connota per «una pluralità inedita di appartenenze politiche e religiose – scrivono Sara Borrillo e Christian Elia in un bel saggio uscito nel volume collettivo Rivoluzioni violate, pubblicato dalle Edizioni dell’Asino nel 2016 –, dalle gioventù dei partiti di sinistra ai movimenti marxisti leninisti, dagli ecologisti alle femministe, dagli studenti ai sindacalisti, passando per indipendenti e islamisti...»; il fronte delle proteste, però, «così come l’opinione pubblica interna e internazionale, restano spiazzati di fronte alla velocità con la quale il regime ha saputo mobilitarsi per rispondere alle pressioni popolari, senza perdere il controllo dell’apparato repressivo e offrendo comunque un segnale di cambiamento». Chissà se quel turista giapponese se ne accorge, penso mentre leggo. Siamo – io e lui – in mezzo a una parte di quelle che sono state chiamate «primavere arabe», secondo la nostra «declinazione stagionale orientalistica», come l’ha definita con saggio cinismo la ricercatrice italiana Marina Calculli. Primavere poi declassate ad «autunni» e infine a «inverni». Era il suo modo di dire che di questi movimenti capiamo poco e che incasellarli nelle nostre categorie non serve a molto. Ne sono sempre più convinto: pensiamo che i videotelefoni ci abbiano omogeneizzato ma proprio non riusciamo a capire cosa spinge un giovane algerino, giordano, indonesiano ad aderire al Califfato promesso di Al Baghdadi. Ignoriamo tutto di questo mondo e non riusciamo a capire cosa vi sta 99

bollendo dentro. Se non avessi viaggiato tanto anch’io sarei più rigido. E sarei a posto con la mia coscienza, come tanti colleghi che si accontentano delle analisi di qualche think tank per lo più anglosassone, perché ormai tutto si svolge in inglese anche se a questa lingua, come accade per tutti gli idiomi del mondo, alcuni termini sono del tutto estranei (non esiste ad esempio la parola «territorio», almeno non nel senso in cui la intendiamo noi). In compenso la globalizzazione linguistica ha importato nell’italiano termini nuovi che non hanno una traduzione possibile (come rock ’n’ roll) e altri che ce l’avrebbero ma cui preferiamo il colonialismo linguistico dell’inglese: implementare, schedulare, salvarsi una data, più bello di sempre... In mezzo a queste riflessioni, forse noiose per il lettore, forse inutili per chi le ha già fatte, forse superficiali per chi studia i fenomeni della cosiddetta modernità e postmodernità, resto affascinato dalla medina come uno scolaretto alla prima gita fuori porta. Anzi, come quella prima volta che partimmo per quel viaggio all’Eden 2 di cui il Marocco era un’appendice occidentale e successiva che gettava luce su un altro mondo non meno affascinante di quello che ci aveva portato a Kathmandu. Ma questa è un’altra storia e, forse, una prossima puntata.

Ancora più a occidente: sogno americano Greyhound coast to coast. La pista del Nord e quella del Sud. La Panamericana. Droghe e lotta armata. Allucinogeni e allucinati. Scuola di illegalità. Rimpatrio alla portoghese.

Well Mack the Finger said to Louie the King / I got forty red, white and blue shoestrings / And a thousand telephones that don’t ring / Do you know where I can get ride of these things / And Louie the King said let me think for a minute son / And he said yes I think it can be easily done / Just take everything down to Highway 61. Bob Dylan, Higway 61 Revisited, 1965 Me gusta como tu mueves la cintura, / me gusta como lo haces con dulzura. / ¿Qué es lo que pasa? / que me tienes inspirado / estas bailando conmigo / todo el mundo esta mirando. / Vamos, vamos, vamos, vamos mami no pares / pero sacúdete, muévete, repítelo otra vez, ¡Fuera! Ismael Rivera, Sacúdeme, 1973

A quelli di noi cui andava stretto persino il viaggio all’Eden, si apriva anche un’altra pista. Anzi due. A occidente. Il viaggio negli States e poi giù fino in Messico e da lì, attraverso il Centroamerica, lungo la Panamericana, nella lunga discesa che percorreva le Ande, attraversava la selva e la montagna, raggiungeva il deserto del Perù, risaliva in Bolivia, si allungava fino al Brasile. Era un altro viaggio, naturalmente, ma lo spirito non era per niente diverso. Chi aveva soldi comprava una macchina a New York e correva giù fino a Frisco, Sognando la California come il gruppo italiano dei Dik Dik aveva 101

tradotto California Dreamin’, cantata dai Mamas and Papas (The Mamas & The Papas) o dai Beach Boys. Ma la maggior parte di noi denari ne aveva meno e aveva fretta di raggiungere i posti da uno o due dollari al giorno (cominciarono allora ad uscire volumi col titolo South America on... dollars a day, con cifre da due, dieci, venticinque dollari al giorno, quindi per tutte le tasche). Poiché il viaggio negli Usa era competitivo sul prezzo, si sceglieva di cominciare nel Nordamerica ma poi, una volta guadagnata la Grande Mela, si saliva su un Greyhound, l’inconfondibile pullman col levriero che attraversa ancora l’America coast to coast. Negli anni Settanta, il volo da Lussemburgo a New York costava appena 100 dollari e con altri 500 si poteva star via per mesi. Gli Stati Uniti – la cui cultura underground era all’origine dei grandi movimenti degli anni Sessanta-Settanta, poi declinati in chiave nazionale – erano dunque una tappa veloce per gli squattrinati abituati ai prezzi indiani e nepalesi. Il fascino del rock, della letteratura beat, dei santoni dell’hippismo restava confinato in un tributo ideale – andare a Lowell dov’era nato Jack Kerouac o vedere un concerto di Frank Zappa – e venivamo trascinati inevitabilmente verso el Sur, che già attraeva centinaia di giovani nordamericani col sacco in spalla. L’America del Nord dunque si poteva attraversare in dieci giorni, confidando in una nottata in una riserva naturale o in qualche ostello a San Francisco per riposare le ossa, per raggiungere infine il confine messicano. Il Messico non era ancora stato sequestrato dalle narcomafie ma era saldamente occupato dalla mafia politica del Partido Revolucionario Institucional, che di rivoluzionario aveva solo il nome ma in compenso è riuscito a stare al potere oltre settant’anni. Laggiù, sorseggiando birra Tecate in lattina o Carta Blanca in bottiglia, ascoltando le frequenze di Radio Mundo, fumando marijuana e andando in cerca del peyote, il cactus magico degli Huicholes, ci ammaestravamo con i libri di Carlos Castaneda, peruviano naturalizzato statunitense che ci aveva affascinato con gli insegnamenti di Don Juan, 102

personaggio forse di fantasia che gli aveva fatto partorire 12 libri tradotti in 17 lingue, che pare abbiano venduto 8 milioni di copie. La sua «via Yaqui alla Conoscenza» (A scuola dallo stregone, 1968) era un’iniziazione allo sciamanesimo mesoamericano che andava a braccetto con la mistica che ci aveva stregato in Oriente. Con le informazioni che correvano lungo la Panamericana si poteva attraversare la parte meridionale del continente in tanti modi: mezzi pubblici scalcinati, autostop – che andava alla grande – e persino treni merci frequentati da poveracci locali e da banditi che aspettavano il prossimo gonzo da derubare. Molte delle informazioni richieste riguardavano le droghe, le chiavi per aprire le Porte della Percezione e che nelle Americhe non erano meno presenti che in Asia. Con quei viatici scendevamo fino alla bellissima Colombia in cerca di funghi allucinogeni e di quella che forse era la miglior marijuana del mondo, giù fino alla Quito coloniale e verso le Ande peruviane, sulle tracce del cactus San Pedro, che come il peyote contiene mescalina. Oppure verso l’Amazzonia in cerca della ayahuasca, la «liana degli spiriti dei morti», i cui viaggi allucinati necessitavano di un curandero, ossia una guida spirituale che fosse in grado di estrarti dalla paranoia in cui quell’infuso di radici poteva trascinarti. Infine, come tacere della cocaina, e non certo quella in foglie masticata dagli indigeni delle Ande? La mafia colombiana con le sue alleanze trasversali ne aveva già fatto un lucroso commercio che partiva dalle raffinerie clandestine sparse a macchia di leopardo nella foresta e che controllava coi suoi eserciti di manovali comprati a poco prezzo nei barrios marginali delle grandi città o con accordi con la guerriglia che, soprattutto in Colombia, controllava intere regioni e amministrava città, tasse, arruolamenti e naturalmente coltivazioni. La rivoluzione era l’altra grande attrattiva di un continente dove gli scritti di Camillo Torres e Che Guevara avevano abbeverato i nostri sogni di giovani ribelli cui già sembrava che la revolución cubana avesse tradito gli ideali originari. 103

A quell’epoca il Nicaragua era ancora sotto il tallone dei Somoza, la Colombia era una fucina della guerra di guerriglia e in Bolivia la dittatura di Hugo Banzer aveva fatto fuori una decina di anni prima il mitico Ernesto Guevara, detto «Che» per quell’intercalare comune tra i porteños, gli argentini di Buenos Aires. Infine a quel periodo risale anche il colpo di Stato in Cile, che aveva assassinato Allende, fatto sparire centinaia di persone e scritto la parola «fine» sulla via pacifica del socialismo nel Cono Sur. In Sudamerica c’era tutto e il contrario di tutto: la rivoluzione cubana e i forse inevitabili compromessi con l’Unione Sovietica, i movimenti maoisti, la lotta armata, partiti populisti, truppe rivoluzionarie col fucile in spalla e militari e paramilitari assassini assoldati spesso dai cartelli della droga capaci di allearsi ora con gli uni ora con gli altri, sfruttando l’estesissimo odio del Sud per il Nordamerica, odio cui noi sfuggivamo proprio perché non eravamo yankee. Abimael Guzmán aveva da poco fondato Sendero Luminoso. Il viaggio poteva finire in Perù o in Brasile. Poteva finire bene o male a seconda dell’attività illegale intrapresa. Come e forse più che nel viaggio all’Eden, il Sudamerica era in effetti una vera scuola di illegalità: traffico di stupefacenti, dollari falsi oppure perdita o furto fasullo di travelers cheques, «assegni turistici» assicurati che, dopo aver intascato l’equivalente mostrando la denuncia (vera) di furto o smarrimento (falsi), venivano poi incassati appena passata la più vicina frontiera, nella prima banca dove avrebbero saputo forse solo un mese dopo di aver pagato una seconda volta cheque già rimborsati. Poteva finire bene anche con un altro sistema scoperto per caso e che, per noi italiani, si era poi dimostrato per anni un ottimo modo di tornare a casa come «portoghesi» a carico dello Stato. Come in India qualcuno aveva scoperto lo sportello ferroviario «per soli bianchi», noi avevamo saputo che le ambasciate italiane in Sudamerica potevano offrire un servizio di rimpatrio gratuito via nave ai connazionali emigranti cui 104

l’indigenza non consentiva di pagare il biglietto. Chi dunque arrivava in Brasile senza ormai più una lira in tasca, andava a batter cassa al consolato di San Paolo o di Rio piangendo in sette lingue e mostrando le foto dei parenti e le tasche bucate. I diplomatici, che non avevano ancora conosciuto le orde di questuanti che affollavano le varie legazioni sulla rotta dell’Eden, compilavano il formulario di rimpatrio fino al porto di Genova con annesso biglietto ferroviario fino alla città natale. Senza Patria né Dio, sfruttavamo cinicamente l’antica miseria dei nostri migranti che all’inizio del secolo avevano raggiunto il Nuovo Mondo con alterne fortune. Eravamo stati a scuola nell’Eden e stavamo già pensando a come tornarci. Discoli, certamente, e sempre in compagnia di cattivi maestri. Avremmo importato a casa salsa e merengue sudamericani, canti rivoluzionari, frasi gergali imparate nel Salvador o in Colombia, cocaina e maria. E avremmo esibito un’altra sequela di tacche sul passaporto che, tra l’altro, nelle Americhe di visti non c’era bisogno. Fatta eccezione per gli Stati Uniti che, per rilasciare il nulla osta d’ingresso, pretendevano che tu sottoscrivessi di non esser mai stato comunista. Beffare gli yankee con una menzogna burocratica era una delle nostre più grandi soddisfazioni. Su quelle strade ripetevamo come un mantra la frase con cui Jack Kerouac aveva terminato Sulla strada, uno dei nostri testi sacri, e ci figuravamo di ripetere l’epopea dei vagabondi americani che suonavano i loro blues sui vagoni merci che attraversavano il continente: Così in America quando il sole va giù e io siedo sul vecchio diroccato molo sul fiume a guardare i lunghi, lunghissimi cieli sopra il New Jersey e avverto tutta quella terra nuda che si svolge in un’unica incredibile enorme massa fino alla Costa Occidentale, e tutta quella strada che va, tutta la gente che sogna nell’immensità di essa, e so che nello Iowa a quell’ora i bambini stanno certo piangendo nella terra in cui lasciano piangere i bambini, e che stanotte usciranno le stelle, e non sapete che Dio è l’Orsa Maggiore?, e la stella della sera deve star tramontando e spargendo il suo fioco scintillio 105

sulla prateria, il che arriva proprio prima della notte completa che benedice la terra, oscura i fiumi, avvolge i picchi e rimbocca le ultime spiagge, e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventare vecchi, allora penso a Dean Moriarty, penso persino al vecchio Dean Moriarty, il padre che mai trovammo, penso a Dean Moriarty.

Credo che la maniera migliore di chiudere questo racconto sia prendere in prestito la nostalgica e un po’ amara chiusura letteraria di una delle nostre bibbie. La bibbia di questo padre che mai trovammo e che ci aveva ispirato dall’Eden indiano all’Inferno americano.

Epilogo

Al nord del tempio di Kasuga / sulla collina delle giovani erbe / mi avvicinavo sempre di più a loro / quasi per istinto / sagome dolci lungo i muri / bandiere tenui più sotto il sole / passa un treno o era un temporale / sì, forse lo era. / Ma lei chinava il capo poco / per salutare in strada / tutti quelli colpiti da stupore. / Da lì si rifletteva chiara / in una tazza scura / in una stanza più sicura ma no. / Non voglio esser solo / non voglio esser solo / non voglio esser solo mai. Eugenio Finardi, Le ragazze di Osaka, 1983

Non arrivammo mai fino in Giappone e anche la Cina, seppur «vicina» – come si diceva allora –, restava una meta troppo lontana. E, come il Giappone o la Corea, molto costosa. Dopo l’Oriente, vennero i viaggi nel continente americano – dagli States al Sudamerica –, mentre l’Europa continuava a conservare le sue mete più antiche: Londra, Parigi, Atene e Amsterdam su tutte. Ma i tempi stavano cambiando e anche i viaggi diventavano un’altra cosa. Già negli anni Ottanta il viaggio all’Eden era ormai un ricordo, mortificato dall’arrivo in Iran di Khomeini o a Kabul degli sciuravi – termine spregiativo con cui gli afgani chiamavano l’invasore sovietico. Dal 1979 in poi quel tranquillo passaggio a est che negli anni Settanta, a parte qualche guaietto alla frontiera indiana, era un percorso in discesa, non si poteva praticamente fare più. E 109

i prezzi cominciavano a lievitare. Ci voleva l’aereo per bypassare le zone di conflitto che l’apparente pace della Guerra Fredda regalava qui e là nei vari continenti. E per il viaggio all’Eden non bastavano più quel paio di centinaia di dollari che consentivano a chiunque di coprire ventimila chilometri coi mezzi pubblici locali. Ma cosa fu davvero il viaggio all’Eden? Cosa eravamo noi, protagonisti inconsapevoli di un’epopea in cui ognuno percorreva la sua strada e, come ha ricordato Luigi Buffarini Guidi in La lunga strada per Kathmandu, seguito ideale della sua fortunata guida Viaggio all’Eden, ognuno si faceva il suo trip, parola inglese che significa «viaggio» in senso lato: a piedi, in macchina o con qualche mezzo psicotropo? C’era chi era salito sul Direct Orient cercando sé stesso e chi un amico partito prima di lui; chi inseguiva un altro dio o una nuova dimensione spirituale; chi restava «comunque un compagno, cazzo», e chi invece si abbandonava ai sentieri dell’io, che il suo personale non era già più politico. Chi perché quel viaggio bisognava farlo, chi perché aveva sentito delle peshawar, chi dei kafir dell’Afghanistan e del Pakistan che bevono vino, dei kuchi delle pianure che non velano le loro donne, degli Hunza che non conoscono la malattia sui torrenti gelati dell’Himalaya. Chi semplicemente perché viaggiare è bello e, citazione ormai trita e ritrita, non è la meta quel che conta ma il percorso per raggiungerla (anche se non ci arrivi). C’erano musicisti, ingegneri, monaci, sballati, operai, bravi compagni e compagni che sbagliano, femministe e gay, tossici e puritani, schizzinosi e pidocchiosi, persino nazi-maoisti o anarco-sioux. Ci consumavamo in discussioni sul dove, come, quando, perché, con chi. Sui chilometri macinati e sui visti accumulati sul passaporto, «bollini» del nostro supermarket di vagabondi. Ma cosa siamo stati veramente? Fuor di dubbio, fummo un pezzo di quell’avanguardia giovanile che sconvolse il mondo tra gli anni Sessanta e Settanta. Fuor di dubbio, di quell’avanguardia fummo la frangia più anarchica e liberta110

ria. Ma, alla fine della fiera, fummo anche l’avanguardia del turismo di massa e – proprio noi che viaggiavamo con consapevolezza, anticipando di trent’anni il turismo sostenibile ecofriendly – fummo anche gli araldi di una globalizzazione della valigia, nel frattempo divenuta trolley. Quel vasto movimento di arrivi e partenze è senz’altro una risorsa ineludibile per tanti paesi, ma è stato ed è – come un po’ abbiamo raccontato – anche il segno della loro rovina, della fine di un sogno tropicale. Non tanto nel senso «orientalistico» del termine, che anzi quel fascino postcoloniale andava davvero ridimensionato, quanto per il fatto che il turismo di massa, ancor più del turismo d’élite, beve ettolitri d’acqua, consuma energia d’ogni tipo, distrugge paesaggi, saccheggia foreste, feste e rituali, tramutandoli in pièce teatrali poco originali e di dubbio gusto, ad uso e consumo dell’ultimo telefonino con videocamera. Poca roba? Nicchia? No, se si guarda alle dimensioni del fenomeno. Nel 2013 le Nazioni Unite consideravano il turismo «la più ampia industria mondiale e quella in più rapida ascesa». Quell’industria – uscita abbastanza indenne dalla grande crisi globale di questi ultimi anni – aveva generato nel 2011 circa il 5% del Pil mondiale e tra il 6 e il 7% dei nuovi posti di lavoro. Gli arrivi dei turisti internazionali nel mondo erano 25 milioni nel 1950 e 435 nel 1990. Nel 2000 erano saliti a 675 milioni e nel 2010, dieci anni dopo, erano arrivati a 940 milioni. Nel 2012 superavano il miliardo e nei primi nove mesi del 2016 avevano totalizzato lo stesso bilancio del 2010, avviandosi per la fine dell’anno a superare ancora di gran lunga il miliardo. Le proiezioni ci dicono che nel 2020 gli arrivi dei turisti internazionali saranno a quota 1,6 miliardi. Quanto vale in tutto ciò il turismo sostenibile e consapevole? Poco, ancora troppo poco: percentuali per adesso senza zeri sul totale delle presenze. Cresce lentamente quel modo di muoversi che distingue il turista tout court da quello ecofriendly. Ma il viaggiatore dell’Eden, più o meno consapevole, più o meno ambientalista quando il movimento green 111

era ancora in fasce, non era comunque un turista. Era, appunto, un viaggiatore. Perché un viaggio è un viaggio e una gita turistica, con le sue tappe ordinate, le prenotazioni in tasca e quel ristorantino di cui ho letto su TripAdvisor, è un’altra cosa. Viaggiare, oggi come allora, resta una lezione fondamentale nella vita, anche se quell’Eden non c’è più ma ce ne sono mille altri, magari a due passi da casa. Viaggiare, specie a vent’anni, è forse il miglior corso di laurea che si possa seguire, il master che racconta un altro modo di percorrere il pianeta. Meticciandosi, come si dice oggi. Imbastardendosi, come si sarebbe detto allora. Sprovincializzandosi anche se si viene da Parigi, da Londra o da Roma. Questo, ed è ovviamente solo una personalissima opinione, abbiamo fatto con quel viaggio. E sprovincializzarsi vuol dire ridimensionare quel concetto così altisonante che abbiamo della nostra cultura e dell’idea di fondo che, tutto sommato, noi – noi europei soprattutto – sappiamo già come va a finire e gli «altri», quelli in via di sviluppo, devono soltanto ripercorrere le nostre tappe. Un percorso che, ovviamente, dobbiamo insegnargli noi. E che comunque lo facessero con calma, così che quegli esotici luoghi possano restare abbastanza economici da permetterci, nuovi coloni, di continuare a farci le vacanze. Cosa fummo? Curiosi, e in parte anche consapevoli. Facemmo quel viaggio – il nostro master postlaurea – con rispetto, anche se ne traemmo tutte le meraviglie che la strada – qualunque strada – regala e che certo può continuare a regalare. Ieri e quarant’anni dopo.

Glossario

Ab-gusht: piatto popolare iraniano di patate, carne, ceci e pomodoro pestati assieme nel mortaio. Adhan: chiamata alla preghiera nel mondo islamico. Afghani: la moneta afgana. Ashram: luogo di meditazione e formazione spirituale. Ayahuasca: in lingua quechua, «liana degli spiriti dei morti»; conosciuta anche come yage, è un infuso che dà un potente effetto visionario. Ayran: bevanda turco-altaica a base di yogurt. In Iran dug. Barrio: quartiere. Bharatiya Janata Party: Partito Popolare dell’India, organizzazione fortemente identitaria, nazionalista e legata ai movimenti dell’Hindutva, l’ideologia nazionalista indù. L’attuale primo ministro indiano Narendra Modi appartiene a questo partito. Spesso citato con la sigla Bjp. Burqa: vedi chadri. Buzkashi: gioco nazionale afgano a squadre ma giocato dai chapandaz durante la corsa per la conquista del cadavere di un animale, anche individualmente, da ogni singolo cavaliere senza esclusione di colpi. Cantonment: la zona militare britannica nelle città del subcontinente indiano. Chadri: velo a mantello integrale diffuso in Afghanistan e in alcune zone del Pakistan e dell’India. La donna vede solo attraverso una griglia all’altezza degli occhi. Chapandaz: vedi Buzkashi. Chilum, chilom: pipa in creta o altri materiali, impugnata in una mano e ricoperta dall’altra a pugno chiuso. Ciakana: luogo di sosta per bere il tè. «Osteria» orientale dove spesso si può anche mangiare. Comunalismo: dall’inglese communalism, termine che si riferisce a movimenti e teorie imperniati su un’identità costruita prevalentemente sull’appartenenza religiosa ed etnica. Cous cous: piatto del Maghreb a base di granelli di semola, da cuocere al vapore, accompagnati da carne, pesce e verdure. Curandero: stregone, guida.

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Deobandi: corrente religiosa dell’islam sunnita diffusa nel subcontinente indiano e in Afghanistan. Il principale centro è il seminario della città di Deoband, in India, nello Stato dell’Uttar Pradesh. Dhaka: cappello (topi) tipico nepalese. Expat: espatriato, straniero residente. Freak: stravagante, strano, fuori dagli schemi, mostro. Frik, frikkettone, fricchettone: vedi Freak. Ganja: marijuana indiana leggera che si fuma nel chilum. Guru: maestro, guida spirituale. Han: la comunità etnica maggioritaria in Cina. Isaf: International Security Assistance Force, missione Nato di sostegno al nuovo governo dell’Afghanistan dopo il rovesciamento dell’Emirato islamico dell’Afghanistan talebano nel 2001. È durata 13 anni ed è terminata nel 2014. La missione attuale, ridotta nel numero, si chiama Resolute Support. Junkie: tossicomane, eroinomane. Kafir: infedele. Kawa: caffè. Kif: marijuana spezzettata che in Marocco si fuma in pipette dal lungo cannello. Kurta: camicia indiana senza collo. Merengue: ballo sudamericano. Metrio: caffè greco dolce. Mohajir: termine di origine araba che designa gli immigrati in Pakistan dopo la Partition. Mujahedin: combattente del jihad, guerra contro i nemici di Dio, ma anche, più semplicemente, combattente per la propria patria. Pakol: berretto di lana circolare, tipico dei tagichi o dei pashtun di montagna. Palao, pulau: riso ricoperto d’acqua e cotto in una pentola sigillata. Partition: la divisione del Raj britannico nel 1947 in India e Pakistan. Pashtun Pathan: la comunità affine per lingua e tradizioni divisa dalla Durand Line alla fine dell’Ottocento. La frontiera voluta dagli inglesi tagliò in due un mondo omogeneo, dividendolo tra Afghanistan (pashtun) e Pakistan (pathan), nel quale era nato il sogno di un «Pashtunistan» indipendente. Pashtunwali: codice tradizionale pashtun. Pathan, patano: vedi Pashtun Pathan. Patu: coperta di lana dell’Himalaya; tabarro. Peshawar: città pachistana della provincia orientale. Termine con cui erano indicate le pastiglie di morfina. Peyote: cactacea psicotropa diffusa nel Nord del Messico. Pijama: pantalone largo che si porta sotto la kurta, diffuso in India. Purdah: la regola che vieta agli uomini la vista delle donne; letteralmente: tenda. Puri: pastelle finissime di farina fritte nell’olio.

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Qabili palao: piatto nazionale afgano con diverse variazioni. A base di riso, carote e frutta secca, spesso con aggiunta di montone. Risciò: dall’inglese rickshaw, bicicletta con due posti diffusissima in India e in via di sparizione in diversi paesi asiatici. A Calcutta era trainata da uomini a piedi come nell’antica Cina. Ora è riapparsa – elettrica – anche in Italia. Sadhu: asceti vagabondi che non possiedono nulla e vivono dell’altrui compassione. Salsa: ballo sudamericano. Samsara: il ciclo di vita, morte e rinascita. Una ruota permeata di sofferenza e dolore. Sari: abito classico delle donne indiane e pachistane. Shalwar kameez: il classico abito degli afgani e dei pachistani. Sherpa: guida, portatore nepalese. Shining India: la scintillante India della propaganda nazionalista quando il Bjp era al potere. Stupa: reliquiario buddista. Sufismo: diffusissima corrente ascetica e mistica dell’islam, malvista da neotradizionalisti e integralisti. Tariok: oppio. Tribal belt: cintura tribale; in Pakistan, le sette agenzie pashtun sul confine afgano-pachistano. Ttp: Tehrek-e-Taliban Pakistan, cartello dei talebani pachistani. Waskat: gilet afgano, dall’inglese waistcoat. O viceversa? Il gilet è diffusissimo in tutta l’Asia, dalla Turchia all’India; ma il suo vero regno è l’Afghanistan, dove è un capo d’abbigliamento ineludibile. Yankee: soprannome per gli americani del Nord, con una connotazione ironica e molto più spesso spregiativa. In origine fu usato dagli inglesi come appellativo degli abitanti della Nuova Inghilterra; in seguito, durante la guerra di secessione americana, se ne appropriarono i Sudisti che chiamavano yankees i nemici Nordisti.

1. Davanti al liceo Carducci, Milano, anni Settanta [foto dell’autore]

2. Parco Lambro, Milano, anni Settanta [foto di Aurelio D’Angelo]

3. Parco dell’Uccellina (Toscana), anni Settanta [foto di Davide Del Boca]

4. Campagna piacentina, anni Ottanta [foto di Davide Del Boca]

5. Matala (Creta), 1971 [foto di Enrico Alberti]

6. Terrazza del Crown Hotel, Old Delhi (India), 1974 [foto di Guido Corradi]

7. Moschea Blu, Istanbul (Turchia), 1974 [foto di Roberto Casetti]

8. Treno Delhi-Benares, 1974 [foto di Davide Del Boca]

9. Kathmandu (Nepal), 1974 [foto di Davide Del Boca]

10. Kathmandu (Nepal), 1974 [foto di Guido Corradi]

11. Gran Bazar, Kabul (Afghanistan), 2010 [foto di Giuliano Battiston]